De Renuntiatione. Scritture di mari(lyn)ologia

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angeloscipioni

UNGARETTIANA

derenuntiatione scritturedimari(lyn)ologia

SocietĂ

Editrice Fiorentina



ungarettiana 15

collana di poesia, traduzioni e saggi diretta da Paolo Valesio e Alessandro Polcri

«Ungarettiana» si interessa a un’esperienza di poesia che sappia fare convivere un forte senso della situazione italiana con una significativa apertura internazionale. Nel repertorio della collana rientrano libri monolingui in italiano, libri bifronti (tradotti in italiano) e saggi. Siamo convinti che la poesia sia in prima istanza ricerca di linguaggio e linguaggio della ricerca. Ma quello che noi in ultima analisi cerchiamo non è, come spesso accade di trovare nella lirica contemporanea, un eccesso di esistenza al ribasso, spesso ridotta a catalogo di fatti insignificanti narrati con una lingua scolorita; è, semmai, una nuova e accresciuta quantità di vita e di pensiero. Lo stile sarà la forma di quella quantità e sarà a volte semplice, a volte – perché no? – complesso e seletto. Ma saranno i poeti che sceglieremo a condurci là dove ancora non sappiamo di voler andare.



Angelo Scipioni

De renuntiatione Scritture di mari(lyn)ologia prefazione di

Guido Monti

SocietĂ

Editrice Fiorentina


© 2019 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn 978-88-6032-516-7 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata In copertina Madonna con Bambino tra due Angeli, affresco quattrocentesco nella lunetta all’ingresso della chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta (sec. XI ) a Rosciolo de’ Marsi, tra i cieli e le montagne della Marsica occidentale, in Abruzzo (per gentile concessione della Parrocchia di Santa Maria delle Grazie di Rosciolo, nella cara persona del parroco don Vincenzo Angeloni).


prefazione

Angelo Scipioni dopo alcune pubblicazioni su importanti riviste come «Nuovi argomenti», «Italian Poetry Review», «In forma di parole», esordisce qui con la sua prima raccolta poetica dal titolo De Renuntiatione e lo fa non da poeta in erba ma da uomo d’esperienza, di natura fine e variegata, sicuro anche della sua direzione stilistica. Alla primissima lettura, ci si troverà forse spiazzati innanzi ad una scrittura formalmente compatta, senza soluzione di continuità, dove a dar momenti di respiro, soccorrono solo segni interlineari tra flussi di parole che innescano però continue storie-sequenze le une dietro le altre. Trame che si chiamano a raccolta, si rincorrono. Il libro sembra una scatola cinese che sì, può essere scomposto nelle variegate vite che dentro vi si svolgono ma poi solo ricomponendolo in unità, se ne capisce il tratto fondativo, che è quello di produrre visioni che toccano e scuotono, perché sempre partono da quella parola appunto chiamata esperienza, dall’etimo latino esperire, cioè sperimentare: «così con la – schiena – dritta sulla punta / della rossa – sediolina la tua – bambina / passa senza – fretta su tre – dita indice medio / anulare l’antica – limetta di – Marilyn alle / spalle del – padre seduto in una – pura / luce rinascimentale al – tavolo – della cucina a / scrivere – poemi sacre – scritture nel / cerchio di una – limpida – dura emicrania / come san – girolamo incassato – nel buco / dell’aureola a – lucidare – latino […]».

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E difatti le parole che la dispiegano, assumono rilievo, margine abissale mai essendo ancelle di vuote astrazioni. Chiariamo allora che davvero il nome del poeta, Angelo, può essere apostrofato col diminutivo, Angelino, come lo stesso autore in biografia si definisce, alla stregua di quei pittori e maestri di bottega: «dominichino pinturicchio – guercino etc. impuri / spiriti per un – quarto intellettuali per tre – quarti figliol prodighi – porcai» quasi ad indicare il magico miscuglio di cognizioni culturali ed esistenziali con cui crebbe. Abitante per tanti anni di quel luogo interno, quasi segreto, dell’Italia appenninica centro-meridionale chiamato Marsica, Scipioni ne assorbe i tratti sorgivi di mistica introspezione, sublime silenzio della viandanza ma anche di fede nella ricerca della vita laddove essa più palpita: nello spazio dell’umiltà e dell’ardore. Dunque il viandante Angelino con i sandali del mistico, ci riporta in questa raccolta, tutta la poesia che si è fatta in lui da decenni e che era lì rigo per rigo nella sua testa, aspettava solo d’essere svolta in lettere. E queste lettere sono rivoltose, lo intuiamo, contro il pensiero occidentale costituitosi strato a strato nei millenni, i cliché della scrittura oramai fermi sui gusti delle masse che devono essere ammansite, non risvegliate: «ascolta – bene o / lettore – che sfogli tutti / i venerdì in – punta d’occhiali / i travel – magazines dei / quotidiani nella tua – quete / errabonda di un est-est est fuori / porta con una – pergola una / chiesuola un – calice di Montepulciano – […] / […] – ascolta / lettore se è – questo / che vuoi non – troverai in / nessun bedecker – nessun gambero / rosso nessun – barbanera quello / che sto per – dirti […]». E lo scuotimento sensoriale difatti, è proprio di questa parola tanto che il profluvio di scrittura che fa fitta la pagina, quasi una scrittura automatica senza mar-

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gini, si sarebbe detto in un altro secolo, in verità contiene e nasconde sottotraccia, i nuclei di tutta l’esperienza dell’uomo errante. Il mistico Scipioni che alle pendici del monte Velino ricostruisce la sua viandanza e quella dolorosa dei suoi conterranei migranti per lavoro, sembra farla rivivere nella pagina come dentro uno specchio linguistico che tutto riflette e trascende, le nuvole, le rocce, i belati campestri ma anche gli occhi imperturbabili della madonna sacra dipinta a fresco nella lunetta che sormonta la porta d’ingresso della pieve romanica: «c’è qui / tutto quello che un – viandante un / neodante può – desiderare un / fontanile – dalla lunga / rettilinea – vasca a / specchio di una fiamminga / miniatura di – nubi / così minuziosa e – pura / che il loro plein-air la loro / ariosa – fuga in / caduta sembra – il versamento / di un filo – di latte / fresco – dal becco / di una brocca nella – clausura / di un interno – di vermeer». Ebbene il poeta migra dopo tanta vita di spirito, dalla Marsica a Roma, nel quartiere del Quadraro con la sua compagna Antonella che ci dice essere per lui con un richiamo quasi dantesco: «lassù in – cima a tutto –», ed anche qui il luogo lo mette alla prova, respira il sogno d’una cosa come avrebbe detto Pasolini. Il quartiere del Quadraro col suo antifascismo connaturato, è il simbolo del sacrificio di molti per le libertà, sempre in bilico, di tutti: «– borgata ribelle / medaglia d’oro – al merito – civile per la strenua / resistenza al – nazifascismo nido – di vespe la / chiamavano i – tedeschi che ci – giravano al / largo» e tra le righe molto capiamo della sua simbologia quasi rappresa, strisciante, nelle strade, nei bar, nei luoghi di ritrovo, che molto ci parla di un’etica della solidarietà da risfogliare con attenzione ancora e soprattutto oggi. E si può certo immaginare in questa vita d’uomo quanto conti, ed abbia contato

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il rapporto con la compagna, tanto che ecco la nuova direzione di vita: New York. La peregrinazione del poeta comincia ad assumere i tratti di un destino, egli segue i passi lavorativi della compagna ma dalle pagine questo seguire non sembra un inseguire ma un costruire grado grado, i movimenti della propria identità; tanto che la mistica che lo muove, intesa come religio incarnata nell’esperienza e non persa nella dottrina, quel suo nucleo fondativo sbocciato nella Marsica, non lo lascerà più, anzi si rafforzerà sempre anche dentro il luogo del capitalismo più avanzato: «piedi o voi – innominati / gabrieli – messaggeri di un / ignoto – vangelo che vi fa / andare – sulle logore alucce / di cuoio – delle cinghie con cui legate – i sandali alle / caviglie prima – di inabissarvi / dal limpido – dolore dei cieli giù / nelle scale della / subway coi – vostri auricolari la / cup di starbucks (piccola / tiepida – ora del vostro / olocausto – mattinale) giù / dove vengono – e vanno i / vagoni sbattendo – le porte». Qui davvero quella scrittura generata dal ventre dei monti d’Abruzzo, accoglie dentro di sé un altro ritmo, quello della metropoli dove gli uomini vivono da secoli per scambiare e consumare beni; ecco allora che Scipioni a New York si mette alla finestra: «[…] con – in mano / l’utensile di un – inglese – troglodita […]» ma sappiamo che talvolta per taluni spiriti alti, non occorre ben parlare la lingua del paese d’accoglienza ma solo invece solo sentire gli spazi circostanti e riferire in scrittura. E di questa esperienza, credo, vi siano talune nitide diapositive, che il libro ci consegna, come per esempio il camminare strascinato dei sandali: «[…] sul cemento / dei marciapiedi – sulle buie / fessure – delle fogne identate / dalle marce – pepite delle foglie / dei parchi – di Manhattan […]» o quella più complessa della morte del matematico Tho-

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mas Otway che il poeta sa fermare in righe davvero toccanti in una sorta di epochè sospesa nel tempo del puro spirito: «caro tom / con la tua – morte (una – terribile morte / sul lavoro sei – caduto come un – operaio / di melfi di – pomigliano – scricchiolando sulla / punta del tuo – sorriso – […] / […])». Proprio da quel tragico punto, parte il poema su Thomas per poi risalire all’indietro, alla sua identità di uomo di finissima sensibilità ed altissima cultura che nei dialoghi con Antonella sua collega, apriva fasci di luce che si riverberavano poi nella vita di ognuno anche di Francesca Autum per esempio, figlia della coppia italiana. E questo forse che leggiamo, non è già pensiero mistico, fuori dai confini, che si allarga e ripudia i miseri muri famigliari che molti alzano egoisticamente e vilmente per paura dell’altro? In queste pagine, tutto gioca con tutto; le identità dei terzi, in questo caso di Thomas, sempre si affacciano a segnare indelebilmente quelle dei cari dello scrittore che umilmente e tenacemente, registra tutto ciò con parole di rara luminosità: «va’ – dunque tom ti – prego […]valle / incontro come – tre giorni prima – di morire / andasti – incontro a mia – figlia francesca e / chino su di lei – luminoso di un – candore / che già ti annebbiava – sulle punte la canizie / gentile già – smerigliato – doplero nei primi / lucori – della sera le – sussurrasti con / dolcezza un – complimento […]». Ecco Angelo Scipioni così vicino ai grandi mistici di un altro tempo come Francesco ma anche a quelli anonimi della sua terra come Rocco Beltrame, Pietro del Morrone, titola questo libro De Renuntiatione, richiamando l’attenzione sulla scelta più radicale ed incredibile che si sia avuta ad inizio di questo nuovo secolo, quella di Benedetto XVI che rinuncia appunto al soglio pontificio ed anche ad esser il portatore di quella tradi-

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zione bimillenaria che esso incarna. Le ragioni di questa scelta rimarranno oscure, al di là della pubblicistica corrente, ma Scipioni vuole forse suggerirci prendendo spunto da questo evento, che forse solo compiendo un gesto così radicale, de renuntiatione, anche nei confronti degli strumenti letterari oramai abrasi dal tempo e dalle età lunghe e stratificate del pensiero occidentale, si può rifondare il pensare dell’uomo tout court. Occorre un nuovo tempo estetico oltre che etico della scrittura, anche se in tanti nel secolo precedente hanno cercato di attuarlo, ed il poeta questo tempo nuovo lo ha voluto esemplarmente abbozzare in questo scritto. Qui la dimensione dell’esperienza e dell’urgenza del dire, genera variegate immagini di felicità, dolore, mestizia, strazio che non riflettono più solo un mero accadimento ma si fondono, ecco forse la grazia non so se del mistico o del poeta in attesa della nuova rivoluzione, coi tempi dello spirito, che sono i tempi fluttuanti di ieri, di oggi e di domani: «allora la storia – dei Marsi è una – preistoria o post / istoria di radicale – obiezione alla – storia obiettori / tutti i santi – patroni e le sante – […] / […] obiettori / i pastori (riguardati – come ladri e – malfatttori in/tutte le culture – […] / […] obiettori / gli eremiti gli – spirituali i – celestiniani obiettori / i briganti – di cartore obiettori i partigiani […]». E il libro allora eccolo apparire come un affresco che ha quei colori chiari ed oscuri dell’origine del pensiero immessi in una parola sciolta da qualsiasi laccio moralizzatore e pacificatore e forse è già questa una rivoluzione, una piccola rivoluzione prodotta da Angelo Scipioni in De renuntiatione. Guido Monti

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vegna medusa, sì ’l farem di smalto

Se andate a New York, a Manhattan, e una mattina vi incamminate per la 181st St. in direzione ovest, lì, tra Inwood e Washington Heights, nel lembo nord dell’isola, non lontano dal finisterre che, lassù, separa l’Hudson dall’Harlem East River ai piedi dell’Indian Road Café, della sua casa dei doganieri (da lì l’isola si apre come un taglio di Fontana nella tela, una ferita, una piaga che le acque richiudono più giù, riunendo le partite spume ai piedi della Statua della Libertà, vicino alle brezze incolori di Ellis Island, alle ombre stigie delle sue huddled masses yearning to breath free) (Manhattan è tutta lì, in un fazzoletto di strade come nelle linee del palmo il vetro affusolato di una birra bevuta a piena gola, tra un estremo rigurgito di schiuma sulla bocca del collo e il luccichìo di una bolla che ripullula sul fondo, nel culo verdazzurro della bottiglia); se dunque una mattina, pien di sonno per il jet lag o il morso del grigio lupo dell’età, vi mettete in cammino da Amsterdam Ave. o St. Nicholas verso le acque dell’Hudson, sacre ai nativi Algonchini, dopo un po’ arriverete, in fondo a una china aperta sulle numinose Palisades del New Jersey, a un ponte di ferro, uno stretto camminamento pedonale, un budello avvolto da una fitta grata di metallo come un bunker o una trincea scarpata da un giro di filo spinato; da lì, in cinque minuti, giù per un ripido stradello, vi troverete sulla riva del fiume, ai piedi di un faretto rosso, il Jeffrey’s Hook

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Light (è la little red lighthouse di un famoso raccontino di Hildegarde Swift, illustrato da Lynd Ward, un classico, qui, della letteratura per bambini), sotto la gigantesca campata grigia del George Washington Bridge, lanciata per aria come un lazo alle piatte alture boschive del New Jersey, sull’altra riva; bordeggiando a sinistra, in piano, le acque del fiume, dopo un miglio circa, lì, davanti a voi, appena sotto il livello dei campi da tennis, dei prati, delle panchine di sosta per lo stanco viator, nella stretta battigia tra l’Hudson River Greenway e i brevi, ritornanti risciacqui dell’onda sullo shoreline che corre obliquo al suo vanishing point downtown (naturalmente il luogo, come tutti i luoghi, è raggiungibile anche per altra via. Atlas Obscura ad esempio suggerisce questo viaggio, da sud: «From downtown, take the 1 train (red line) to 157th St. Walk one block north to 158th and turn left. Go all the way to the end and under the Hudson Pkwy to the Greenway. Turn right (north) and walk along the river for a while. Paths there diverge only to come back together, so at forks you can take any path»[il corsivo è mio]); sullo sfondo di una paginata di nuvole lunghe, sottili, sfocate ai bordi dalla luce, tra cielo e acque come in un quadro olandese del Seicento (New York, si sa, nasce New Amsterdam ai tempi di Vermeer e della sua visione di Delft) vi apparirà, scurita dal controluce, una strana visione, qualcosa, a prima vista, come una folla di uccelli preistorici, albatri, cormorani coperti di bitume, coi becchi, gli sterni che guardano il velo ovocita del mare, come a volte si vedono, sulla spiaggia, in doppia o tripla fila, i gabbiani guardare all’acqua, immobili nel vento diritto che viene dal largo e retrocede sulla riva le maremme, le acque dei canali, delle fogne; poi, guardando un po’ meglio, un po’ più da vicino le piccole teste ovoidi, i torsi,

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la stazione eretta, gli uccelli appariranno ciò che sono, umane creature, uomini o ominidi di un’evoluzione parallela, staccatasi un giorno dal mainstream dell’homo sapiens e inabissatasi per riemergere come un fiume carsico lì, sul fianco di Manhattan. Si tratta in effetti di sculture di pietra, che ha composto con le mani (e continua tuttora a comporre senza stancarsi né lamentarsi delle ingiurie dei vandali, assai più che delle bore), semplicemente mettendo l’uno sull’altro gli scisti, i quarzi, i graniti deposti sulla riva dalle acque, un giovane albanese di 33 anni dagli occhi biondi, le guance cotte dal sole, alto, robusto, pacato come un legionario illirico a riposo nel suo piccolo fundus, un veterano che con gioia ha deposto il diritto romano della daga per la pace asimmetrica, non dialettica della pietra. Uliks Gryka non è uno scultore, né un professionista dell’arte. In Italia, dove è vissuto dall’età di sedici anni, ha studiato scienze politiche a Milano. A New York, dove vive, ha conseguito un master in diritto internazionale e ha fatto per anni il cameriere prima di licenziarsi, nel 2017, dal diritto romano, dalla feroce giurisprudenza dei suoi capitali per sollevare pietre dall’acqua. Un giorno, guardando Uliks al lavoro mentre, le sneakers nell’acqua, assemblava con dolcezza in perfetto equilibrio i pesanti blocchi di pietra, senza cemento, in bilico l’uno sull’altro spesso su un unico punto, il solo possibile alla natalità di quella pietrosa fioritura umana, uomini, donne, bambini con, davanti a tutti, sempre, the high priestess (così la chiama lui) giunti lì, di fronte al mare, come tartarughe o istraeliti, alla spossessata beltà petrina dello spirito (di qui la loro assoluta immobilità); guardando, dicevo, quegli irraggiungibili fratelli mag-

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giori, ho pensato a Dante, come spesso mi capita nella mia ossessione che sempre da lui parte e a lui ritorna girando su se stessa come il vento del Qoèlet. C’è un punto nella Commedia in cui il viaggio dantesco diventa un sentiero interrotto, quando, davanti alla città di Dite, il poeta indietreggia e copre il viso con le mani per non esporsi alla vista pietrificante di Medusa. Per un momento, un brevissimo istante (se non…) la partita resta aperta. Poi finisce come finisce. Sparita Medusa al tocco della verghetta dell’Angelo sulla porta, Dante può sciogliere il viso e rimettersi sicuramente in cammino dietro al suo dolce duca, segnore e maestro, cioè dietro a se stesso, al suo sé gelosamente protetto a quattro mani (le sue, di Dante, e di Virgilio) dalla terribile spoliazione di Medusa, dalla sua annientante kenosis nella nudità della pietra. Chiamato, ai piedi di Medusa, all’atto supremo della renuntiatio alla metafisica di se stesso, Dante indietreggia, non osa buttarsi via, farsi portare ad occhi bendati all’invibrante cuore di pietra in fondo alla metrica del suo (del nostro) cuore di carne. Lì, a mio avviso, è il turning point del viaggio dantesco, l’incipit apocrifo, all’altezza del IX canto, della Commedia in quanto atto linguistico totale, messo in moto, lì, sulla riva dello Stige, dalla preliminare convalida di sé, al cospetto di Medusa, come ente linguistico, attante della piena solvibilità del reale nella lingua, nel suo logos trionfante… Ma, lasciati gli alti spaldi di Dite, Medusa non è uscita di scena: da secoli ha quieta dimora tra le roverelle di una romita valletta appenninica, nella Marsica, in Abruzzo, come Antigone quando, esule da Tebe, giunse e ristette nei boschi di Colono.

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Assisa sull’architrave della porta di una chiesetta di montagna (una badiola romanica divenuta nel tempo cella di eremiti e poi ospizio alle pecore e alle capre dei pastori di Rosciolo), tra due angeli adoranti e un gesubambino (le fedeli Megera, Aletto e Tesifone di un tempo), cinta la fronte fin sulle sopracciglia dal bordo di un doppio velo turchino, come una contadina albanese o una giovinetta muslim afgana, yemenita, fissa da lì le pupille corvine (due ineludibili, sibillini puncta barthesiani come i due neri puntini di Sanguineti alla fine dei suoi versi o i puntolini di un morso di vipera) nelle pupille di quanti, giunti lassù a quel finisterre non segnato da alcuna mappa, osano levare gli occhi all’architrave della porta – e li pietrifica con la semplice, in-significante virtù del suo orare, di un pregare cioè che è puro guardare (orare, come si sa, vale in greco guardare e in latino pregare) – li pietrifica: li fa di granito, di quarzo, di calcare come le umane creature che, sulla riva dell’Hudson, guardano l’acqua nello scurore di un controluce mattinale, puri niente nel loro non essere nella lingua, annientati nel niente beatifico del dio eickhartiano dei grandi solitari della montagna abruzzese, disertori di Roma imperiale, fraticelli spirituali, celestiniani, pastori, briganti, partigiani – tutti in vario modo radicali obiettori, tutti in vario modo umili geometri, scalpellini, marmorari dell’aniconica architettura della pietra nuda del Velino, della Maiella coi loro tholoi, i muretti a secco, la loro grammatica antivitruviana (da Giovanni, Paolo, Costanza, Vittoriano santi protettori dei villaggi marsicani a Pietro del Morrone a Ignazio Silone, da Berardo Viola a Romolo Liberale, da Laura Di Pietro a Gaetano Tantalo, Augusto Orlandi, Rocco Beltrame, partigiano e geometra dell’humilitas figlio di Aldo poeta della fotografia antagonista).

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Questo più o meno è ciò che ho immaginato (giacché, come ci ha insegnato Leopardi, «nulla si sa, tutto si immagina») sia accaduto al pontefice Benedetto XVI quando, l’11 agosto 2011, si è recato pellegrino in visita strettamente privata alla chiesa di S. Maria in Valle Porclaneta e, lassù, al termine della mulattiera che sale da Rosciolo, nello spazio liminale del rustico arcone d’ingresso, ha levato gli occhi all’architrave della porta (diu constitit, si legge nella lapide murata nel pronao a ricordo della visita). Alcuni mesi dopo un testo latino (lingua umanistica per eccellenza, il latino è non a caso la lingua papale – dei pontificali, delle costituzioni dogmatiche, delle encicliche) annunciava la renuntiatio del papa e quindi del poeta – poeta in quanto, appunto, ponti-fex, facitore di ponte, geniere di una ponti-ficale fede nella parola: una parola amata, ruminata, pregata, cantata con confidente felicità linguistica (si pensi agli Oremus della messa, al loro luminoso giro armonico mai in-concludente, mai in-adempiente). Un gesto, quello di Benedetto, che a distanza di anni resta a mio avviso francamente e-norme (cioè, alla lettera, abnorme); un gesto che, ad onta dei fiumi d’inchiostro versati, non ha ancora svelato, io credo, nemmeno il lembo del mantello che lo avvolge, e continua da allora ad interrogare i cuori, a chiedere un supplemento di meditazione, a un altro livello, più alto. È a questo livello che ambisce a collocarsi questo libretto, che, nella sua evidente disssipazione, a pezzi e bocconi, schegge, lacerti paraletterari di una disonorata, impresentabile letteratura, nasce tutto, compattamente, da questa meditazione, attorno al testo centrale, eponimo, De renuntiatione, il quale, lo si è ormai capito,

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dalla renuntiatio del pontifice trae direttamente spunto e materia. Nell’anamnesi di questo gesto sulle orme del papa pellegrino nella Valle Porclaneta (anamnesis che è anche inevitabilmente ars poetica, citazione in giudizio della filo-logia, del suo amore umanistico – umanante, umanizzante… – per la parola) il lettore potrà, se vorrà, ravvisare la montuosa, elusiva mulattiera di una dislocazione, una spoliazione, una radicale alienazione da sé verso cui è invitato a incamminarsi allo stesso modo il papa-poeta che è in noi, piccolo crisostomo seduto sugli orrori della storia a covare le sue uova d’oro, pago di conguagliare allo stesso grado, per così dire, le catastrofi dell’ominazione con la “catastrofe della lingua” che è, o sarebbe, come è noto, la poesia, il suo lungo ohm ombelicale (dica, se può, se sa, tutto è grazia, e poi muoia, come il giovane curato di Bernanos).

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indice

7 Prefazione di Guido Monti 13 Vegna Medusa, sì ’l farem di smalto

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[al mio ramo del lago di como]

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De renuntiatione

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Xenia post scripta

(Appendix) 169

con totale disprezzo

181

[da quest’ultimo strapuntino]

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All shall be well, and all shall be well

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Nota biobibliografica

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Note e traduzioni


ungarettiana 1. Emma Pretti, I giorni chiamati nemici, pp. 84, 2010 2. Vera Lucia de Oliveira, La carne quando è sola, pp. 72, 2011 3. Leopoldo María Panero, Ianus Pravo, Senz’arma che dia carne all’«imperium», pp. 92, 2011 4. Patrizia Santi, Frammenti, periferici, pp. 56, 2013 5. Alberto Bertoni, Traversate, pp. 152, 2014 6. Marco Sonzogni, Ci vuole un fiore, pp. 72, 2014 7. Mario Moroni, Recitare le ceneri, pp. 96, 2015 8. Antonio Barolini. Cronistoria di un’anima, Atti dei Convegni di New York e di Vicenza nel centenario della nascita, a cura di Teodolinda Barolini, pp. xxx+342, 2015 9. Antonio Bux, Kevlar, pp. 144, 2016 10. Mauro Roversi Monaco, Mauritania, pp. 108, 2016 11. Attraversare le parole. La poesia nella Svizzera italiana: dialoghi e letture, a cura di Tania Collani e Martina Della Casa, pp. xx-156, 2017 12. Michele Marullo Tarcaniota, Poesie d’amore, testo latino a fronte, a cura di Pietro Rapezzi, pp. 148, 2017 13. Corrado Paina, Largo Italia, pp. 92, 2018 14. Mallarmé. Versi e Prose. Traduzione italiana di F.T. Marinetti, seconda stesura inedita, a cura di Giuseppe Gazzola, pp. 164, 2018 15. Angelo Scipioni, De renuntiatione. Scritture di mari(lyn)ologia, prefazione di Guido Monti, pp. 208, 2019


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