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Luca Degl’Innocenti
«Al suon di questa cetra» Luca Degl’Innocenti
erché mai, se un poeta del Rinascimento dice «leggi quel che scrivo» crediamo che faccia sul serio, ma se dice «ascolta quel che canto» pensiamo a una figura retorica? Forse perché a quel tempo la circolazione scritta della poesia era normale e quella orale invece no? O forse perché sembra così a noi oggi, che i testi di allora li leggiamo soltanto ma non li ascoltiamo ormai più? Questo libro mostra che di solito la risposta giusta è la seconda. Partendo dal caso dell’Altissimo, celebre canterino improvvisatore, e arrivando a quello di Machiavelli, riscoperto improvvisatore anch’egli, vi si incontrano strada facendo umili cantimpanca e grandi editori, autori cavallereschi e artisti inventori, illustri letterati e oscuri ciarlatani, tutti accomunati dalla pratica orale della poesia. Una poesia “orale” non certo perché estranea alla scrittura, con la quale anzi dialoga fittamente, ma perché diffusa e goduta comunemente attraverso voci, suoni, musiche e presenze. Le analisi testuali, le ricerche iconografiche, le indagini biografiche e le scoperte bibliografiche che si alternano in queste pagine rivelano che questo era il caso di gran parte della poesia narrativa, lirica e morale del Rinascimento, e che per molti poeti del tempo cantare «al suon di questa cetra» non era affatto una finzione retorica, ma un modo reale di fare poesia.
Ricerche sulla poesia orale del Rinascimento
Luca Degl’Innocenti ha lavorato finora alle Università di Firenze e di Leeds, partecipando a progetti di ricerca nazionali ed europei grazie ai quali si è potuto occupare di letteratura cavalleresca, poesia orale, edizioni illustrate, iconografia mitologica, comunicazione popolare e di autori come l’Altissimo, Ariosto, Aretino, Boiardo, Dolce, Machiavelli e Pulci, oltreché di pittori come il Beccafumi e l’Allori. Ha pubblicato e curato diversi saggi e volumi in tema di oralità, e sta ultimando una monografia a quattro mani sui cantastorie.
€ 16,00
«Al suon di questa cetra»
studi 21
Luca Degl’Innocenti
«Al suon di questa cetra» Ricerche sulla poesia orale del Rinascimento
Società
Editrice Fiorentina
© 2016 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-397-2 issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Referenze iconografiche Le figure 1 e 3 sono pubblicate per gentile concessione della Fondazione Giorgio Cini, Venezia (fig. 1: Foan Tes 855; fig. 3: Foan Tes 838). Le figure 2 e 5 sono pubblicate su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo / Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. È vietata ogni ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo. La figura 4 proviene dal Metropolitan Museum of Art (Harris Brisbane Dick Fund, 1925, 25.30.22), immagine di pubblico dominio, sul sito <www.netmuseum.org>. La figura 6 proviene dalla Universitätsbibliothek der LMU München (0014/W 4 Techn. 128), digitalizzazione di pubblico dominio.
Indice
7 Prefazione
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1. Testi a stampa e performance (sull’Altissimo, Leonardo, Aretino, lo Zoppino e qualche altro canterino)
35 2. Verba manent. Ancora sulla trascrizione dell’oralità nei cantari dell’Altissimo 36 1. La «prassi» delle «reportationes», e quella di conservarle 39 2. La «malafede» dell’Altissimo 41 3. È il gesto che conta: la deissi extralinguistica 43 4. Una «topica» molto atipica, e un «lapsus» senza «lusus» 46 5. Oralità, scrittura e improvvisazione 51 6. I riusi di repertorio: furbizia di improvvisatore o pigrizia di scrittore? 57 7. «Verba manent». Nuovi indizi di trascrizioni dal vivo
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3. Il poeta, la viola e l’incanto. Per l’iconografia del canterino nel primo Cinquecento
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4. Paladini e canterini. Sull’oralità nella tradizione cavalleresca italiana
101 5. Machiavelli canterino? 102 1. Ruscelli e Domenichi: un dittico su Machiavelli improvvisatore 114 2. Tessere sparse di un mosaico: Machiavelli poeta fra autori latini, musici, araldi, banditori e canterini 129 3. Motti, facezie e novelle: Machiavelli «omo piacevole» e «facondo dicitore»
134 4. Canterini a Venezia: Niccolò Machiavelli, Giovanni Manenti, il lotto, la Mandragola e qualche altra «compositione» 141 5. La «voce viva» e la «ribeca»: poesia, musica e amici improvvisatori nelle lettere familiari 146 6. Tornando a leggere (e ad ascoltare) i testi: una proposta per la «Serenata»
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Indice dei nomi
Prefazione
Perché mai, se un poeta del Rinascimento dice «leggi quel che scrivo» crediamo che faccia sul serio, ma se dice «ascolta quel che canto» pensiamo a una figura retorica? Forse perché nel Quattro e Cinquecento la circolazione scritta della poesia era normale e quella orale invece no? O forse perché sembra così a noi oggi, che in effetti i testi di allora li leggiamo soltanto ma non li ascoltiamo più? Questo libro aiuta a capire perché la risposta giusta è la seconda, rielaborando e riunendo insieme i risultati finora più importanti di una ricerca non ancora maggiorenne, ma ormai quasi adolescente: una ricerca sulla poesia orale del Rinascimento italiano che è cominciata in effetti per caso, anche per via del fatto che quand’è cominciata non sembrava neppure possibile. Al tempo in cui Riccardo Bruscagli mi suggerì infatti, nel tardo 2004, di dare un occhio anche ai Reali dell’Altissimo, stavamo riflettendo sulla tesi di dottorato che avevo messo in cantiere all’Università di Firenze, fino ad allora dedicata agli effetti del fattore Gutenberg sul genere cavalleresco in Italia. L’intenzione di quel progetto era di unire la mia passione per le storie di Boiardo e colleghi, cresciuta a contatto con Bruscagli, col mio pallino per la storia del libro e la filologia dei testi a stampa, scoperto grazie ai corsi di Neil Harris, e con l’entusiasmo con cui seguivo le indagini che il mio “fratello maggiore” Marco Villoresi stava conducendo sulle interazioni fra l’arte dei rimatori canterini e il mercato del libro a stampa nel tardo Quattro e primo Cinquecento. Di oralità, però, a quei tempi non si parlava ancora. O meglio, se ne parlava anche tanto, ma solo specificando «simulata», o premettendogli un accorto «finzione di»: era l’oralità dell’Orlando innamorato e poi del Furioso, sublimazione delle tecniche dei cantimpanca reali, ed era l’oralità “letterarizzata” dei cantari del Quattrocento che, benché fossero composti dagli stessi cantimpanca che i cantari li recitavano anche in pubblico, noi italianisti si imparavano a leggere, per monito di alcuni grandi maestri, come testi scritti immaginando
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sì una performance, ma solo per convenzione di genere, perché fino a prova contraria erano «ormai» indipendenti da essa. Per l’Altissimo le prove contrarie, come avrei scoperto poi, non mancavano. Ma lì per lì il suo Primo libro de’ Reali veniva in mente come esempio di passaggio dalla prosa all’ottava rima concomitante col passaggio dall’età dei manoscritti a quella dei libri a stampa – come esempio, cioè, di sintonia tra le forme elaborate dalla tradizione canterina e quelle preferite dal nuovo mercato editoriale in quanto più gradite ai lettori: non la prosa dei romanzi divisi in capitoli, ma le ottave dei poemi divisi in canti. Si sapeva, sì, certo, che l’ottava rima aveva prosperato soprattutto perché cantabile e recitabile, e anzi perché era quotidianamente cantata e recitata nelle piazze e nei palazzi di tutta Italia. Sembrava però naturale pensare che all’epoca della loro riproducibilità meccanica i testi circolassero ormai soprattutto, se non proprio soltanto, come libri da leggere e non più come suoni da ascoltare – quasi che una cosa escludesse l’altra; quasi che con l’avvento del torchio la poesia orale fosse morta sul colpo, cioè, o insomma fosse ormai troppo moribonda per importare ancora; e quasi che i canterini avessero smesso di girare per le piazze, e si fossero tutt’al più riciclati come collaboratori editoriali, mettendo le loro transferable skills al servizio dei tipografi golosi di versioni in ottava rima. Dell’Altissimo, in particolare, si sapeva che probabilmente i suoi cantari li aveva davvero recitati a Firenze in un anno imprecisato tra l’epoca del Magnifico e quella di Machiavelli. A suo dire, anzi, li aveva addirittura improvvisati. Alcuni grandi della scuola storica avevano anche esaminato un po’ la faccenda. Ma in fin dei conti la notizia, archiviata, era rimasta inerte, e il dato di fatto più in vista restava la natura scritta – stampata, nientemeno – del suo testo, un testo indistinguibile, se guardato da lontano, da tante altre narrazioni in ottava rima pubblicate in Italia in quel torno di decenni. È bastato però guardarlo da vicino, sempre più da vicino, il suo Primo libro de’ Reali, per accorgersi della presenza di tanti dettagli insoliti – alcuni evidenti, altri più nascosti – che rimandano coerenti a un contesto di comunicazione orale concreto e reale, storicamente e filologicamente accertabile. Scoprire che questa dimensione si poteva ancora esplorare, e che esplorandola si potevano chiarire molte cose interessanti non solo per la storia del genere cavalleresco, ma anche per la storia della poesia italiana in generale (inclusi i rapporti tra canterini ed editori cui volevo inizialmente dedicarmi) ebbe un’unica conseguenza possibile: cambiato argomento alle mie ricerche di dottorato, smisi di indagare come e quanto la stampa avesse cominciato a interagire, tra Quattro e Cinquecento, coi modi di raccontare le storie cavalleresche e mi misi a esaminare un testo che mostra quanto e come l’oralità avesse continuato a farlo ben dentro quel periodo e oltre. Ne è nata una tesi di dottorato sul Primo libro de’ Reali dell’Altissimo che poi è diventata un libro, uscito nel 2008. Questo libro che esce ora, nel 2016, fa il punto sugli sviluppi che il discorso iniziato allora ha nel frattempo avuto modo di generare, in parte ficcando lo sguardo più a fondo in verticale, per osservare meglio nei testi dell’Altissimo
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certi aspetti e certi fenomeni che meritavano ulteriore attenzione, e in parte (e soprattutto) allargando lo sguardo tutt’attorno in orizzontale, per accorgersi che, una volta abituata la vista agli aspetti caratteristici del suo profilo e delle sue opere, bilicati in acrobatico equilibrio tra scrittura e oralità, si può diventare capaci di guardare altri autori e altre opere del Rinascimento italiano in un’ottica diversa, vedendo cose che finora ci erano oscure o che non riuscivamo a mettere a fuoco per bene. Il primo capitolo fa un po’ entrambe queste cose, e perciò m’è parso funger bene da apertura. Da un lato, riassume i fatti essenziali emersi dalla ricerca sull’Altissimo e aggiunge alcune nuove notizie sul conto del canterino – che si scopre esser stato anche artista – e delle sue opere – la cui circolazione si conferma incanalata a stretti giri concentrici su un doppio circuito orale e a stampa. Dall’altro lato, i parallelismi che alcuni dei suoi tratti salienti impostano con altre figure del suo tempo – editori come lo Zoppino, scrittori come l’Aretino (e Niccolò degli Agostini) e anche artisti come Leonardo da Vinci – accomunate da interessi, attività e capacità legate alla performance e all’improvvisazione poetica, cominciano a spostare il nostro angolo d’osservazione quel tanto che basta ad aprire squarci rivelatori sull’incredibile normalità del caso Altissimo. Originariamente pubblicato in inglese, quel primo capitolo è frutto di una stagione particolarmente feconda per gli studi (miei e altrui) sulla cultura orale nell’Italia della prima età moderna e sui suoi rapporti con la cultura scritta a mano e a stampa: la stagione stimolata dal progetto Italian Voices, che ha riunito per quattro anni all’Università di Leeds sotto la guida di Brian Richardson una squadra variegata e affiatata di italianisti e di storici impegnati su vari fronti (dalla predicazione religiosa all’informazione protogiornalistica, dalla diplomazia al teatro, e dalla poesia lirica di corte a quella storica e narrativa di piazza), e ha catalizzato con seminari, conferenze, numeri monografici e raccolte di saggi le ricerche di un’ampia comunità di studiosi europei e nordamericani, specialisti di varie discipline. Far parte della squadra di Italian Voices dal 2012 al 2015 mi ha perciò permesso non solo di proseguire e di approfondire le mie ricerche ma anche di stabilire, o rinsaldare, rapporti con colleghi abituati a guardare gli stessi personaggi, gli stessi testi e gli stessi contesti da punti di vista diversi e complementari a quelli di uno studioso di letteratura: musicologi, storici del teatro e dello spettacolo, storici culturali, sociali e della comunicazione, storici dell’arte, bibliografi, nonché esperti delle culture e letterature primo moderne di altri paesi europei. Con tutti costoro, che non inizio neanche a nominare per non dimenticare nessuno, è accaduto più volte di accorgersi che davvero, al di là di ogni retorica sull’interdisciplinarità, unire le nostre diverse prospettive sulla civiltà del Rinascimento italiano è il modo più efficace per inquadrare l’effimera dimensione dell’oralità, che tutti in teoria sappiamo cruciale ma che a tutti in pratica sfugge, limitati come siamo dalla natura non orale dei materiali su cui lavoriamo, siano essi testi letterari, documenti d’archivio, libri, dipinti e disegni, spartiti e strumenti o
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manufatti d’altro tipo. Due soli nomi non posso non fare. Il primo è quello di Massimo Rospocher, gemello diverso negli anni di Leeds, durante i quali abbiamo deciso di unire le nostre cassette degli attrezzi – la sua di storico e la mia di italianista – per studiare meglio insieme quei poliedrici cantastorie che da tempo appassionano entrambi, e sui quali abbiamo organizzato tavole rotonde, sessioni di convegni, numeri speciali multidisciplinari e plurinazionali, e scritto introduzioni e articoli a quattro mani, e una monografia che fra pochi mesi uscirà. Gli storici – ho constatato in più occasioni – hanno molte meno difficoltà degli italianisti a prendere atto del gran brusio di voci che risuonava nell’Italia del Rinascimento e a integrarlo nella loro visione. Negli ultimi anni, tuttavia, anche non pochi italianisti si sono dimostrati molto aperti alle nuove ricerche e scoperte in tema di oralità, e pronti a rivedere alla loro luce gli atteggiamenti ereditati e le opinioni ricevute che da tempo condizionano il nostro modo di raccontarci la cultura di quell’epoca: quello di Marco Villoresi, fra gli altri, è allora il secondo nome che non posso non fare, perché, forte della sua autorevolezza di studioso di canterini come scrittori, è stato bello averlo ben presto al mio fianco in più di una battaglia sui canterini (e sui poeti del Rinascimento in generale) come performer. Resta vero, però, che fra tutti gli specialisti siamo proprio noi italianisti e filologi quelli che più di tutti faticano: abituati come siamo a leggere tutto il giorno in gran silenzio testi scritti, dobbiamo far violenza alla nostra stessa natura (o perlomeno al nostro habitus) per riuscire a pensare che tante opere letterarie del passato siano state in origine anche (e in primo luogo, a volte) qualcosa di diverso da testi scritti per esser letti in silenzio. Molti colleghi ancora reagiscono con resistenza, diffidenza, disinteresse a ogni discorso che contenga la parola “oralità”, come se davvero si potesse sperare di capire i processi culturali di un’epoca senza tener conto di uno dei modi più importanti di produzione e trasmissione della cultura in quell’epoca. Il secondo capitolo deriva appunto da un supplemento di indagine sui testi dell’Altissimo occasionato da una reazione al mio libro del 2008 improntata non certo al disinteresse, ma senz’altro alla diffidenza. Al mio lettore, Nicola Morato, sembrava importante soprattutto evidenziare quello che il Primo libro de’ Reali ha in comune coi cantari letterarizzati, e che perciò potrebbe anche spiegarsi come finzione di oralità (inevitabilmente, poiché il fittizio imita il reale), e minimizzare quello che comune non lo è affatto, e che perciò credo si possa spiegare solo come oralità genuina: quei fenomeni troppo inconsueti per essere convenzionali, o troppo grezzi per essere simulati che Morato invece si sforza di ridurre «più o meno» a categorie più docili, oppure tralascia e basta. Distanziato dall’occasione specifica con alcune scorciature e qualche breve paragrafo nuovo di raccordo (e giusto un paio di addenda in nota, giacché Morato replicò), ripropongo qui quell’intervento per due ragioni principali. La prima, perché ricapitola quello che di più strettamente attinente ai problemi dell’oralità e dell’improvvisazione era emerso dalle mie ricerche sull’Altissimo (poiché il libro sui Reali si occupava anche d’altro) e serve perciò a fissare il
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punto di partenza dei capitoli successivi. La seconda, perché approfondisce (in verticale, come dicevo sopra) i fenomeni più interessanti già osservati – deissi extralinguistica, appuntamenti col pubblico legati alle feste di un biennio precisabile con esattezza, negazione di aver mai detto cose che invece in effetti si leggono qualche pagina addietro, riutilizzo di lunghi pezzi di repertorio, vuoti di memoria in diretta – e soprattutto ne analizza uno nuovo: la presenza, in alcuni dei brani di repertorio riciclati, di varianti d’autore incongrue in quel contesto, scherzi giocati dalla memoria del performer sotto pressione durante lo spettacolo. Sono tutti fenomeni, sia i vecchi che i nuovi, la cui conservazione in un testo a stampa si può spiegare soltanto, come si vedrà, con la trascrizione di quel testo dal vivo, durante gli spettacoli del canterino. Anche il terzo capitolo si incarica di inquadrare il performer durante lo spettacolo e di mostrare quanto fosse stretta la connessione reciproca tra performance e testo a stampa; ma lo fa in modo molto diverso, non solo perché allarga lo sguardo di nuovo in orizzontale ma anche perché non guarda più soltanto alle parole. Frutto di un’altra mia passione non proprio da italianista puro, quella per la cultura visuale, questo saggio si ferma infatti stavolta a chiedere informazioni sulla poesia orale del tempo non tanto ai testi superstiti (delle opere letterarie e dei documenti sul loro contesto) quanto alle immagini che illustravano i libri di poesia del Quattro e del Cinquecento, e che ci mettono non di rado davanti agli occhi il ritratto di una civiltà in cui la figura del poeta – di ogni poeta, dai classici latini ai buffoni veneziani – era immaginata normalmente, giacché così era vista quotidianamente, come quella di un cantante che suona una viola. Collocato in mezzo al libro, è un capitolo che ha il vantaggio accessorio di fungere anche da inserto illustrato. Il quarto capitolo procede nell’espansione della ricerca verso orizzonti più ampi di quelli strettamente assegnati ai cantimpanca, ritornando alla mia passione prima (in realtà mai sopita) per i poemi cavallereschi, con lo scopo di capire quanto quello dell’Altissimo sia un caso eccezionale o quanto possa rivelarsi invece utile per ripensare i paradigmi con cui di norma interpretiamo le forme e la storia di questo genere letterario. La questione da chiarire, in particolare, è se la recitazione e il canto di un testo cavalleresco (e perfino la sua “improvvisazione”) fossero un evento secondario – se non proprio raro o eccezionale – nel tardo Quattro e primo Cinquecento o se non fossero al contrario ancora il modo più consono e consueto di raccontare e farsi raccontare le storie cavalleresche. Si tratta in primo luogo di chiedersi quante somiglianze ci siano fra il profilo dell’Altissimo e quello degli altri poeti cavallereschi attivi in quei decenni, verificando per quanti di loro (ivi inclusi i maggiori come Pulci, Boiardo e Ariosto) fosse normale attendersi che i loro canti si cantassero davvero, perché avevano contatti diretti e regolari con le performance canterine, o anche perché erano essi stessi – come accade molto più spesso di quanto si creda – dei provetti performers. In secondo luogo, si tratta di analizzare i testi stessi per misurarne le somiglianze e le differenze rispetto a quelli che il Primo libro de’ Reali ci attesta essere stati i tratti tipici dei cantari cavallereschi
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davvero recitati in piazza: è un filone di indagine che per il momento ho soltanto abbozzato, ma sul quale tornerò molto presto, giacché i primi risultati sono molto promettenti. Nel quinto capitolo, ho voluto invece intanto raccogliere la sfida di accertare se anche un autore come Machiavelli possa essere ritratto nelle vesti di canterino senza alcuna forzatura, e anzi con piena naturalezza. Mi rendo ben conto che l’idea che uno scrittore – o meglio: che un autore che abbiamo imparato, magari fin da ragazzi, a immaginarci solo come uno scrittore – fosse anche un cantante e un suonatore di lira, di viola, di cetra o di ribeca è alquanto ostica da metabolizzare anche quando si tratti di personaggi che un po’ compromessi con l’oralità (non foss’altro che simulata) lo erano di sicuro, come gli autori cavallereschi. Nel caso di Machiavelli, a maggior ragione, quell’idea rischia di sembrarci semplicemente assurda, anche perché, studiatissimo com’è, se fosse stato un canterino ci aspetteremmo di saperlo ormai da un pezzo. Eppure assurda non lo è. Naturalmente, è un’idea che non nasce dal nulla, bensì dalla riscoperta di un paio di aneddoti che lo ritraggono non solo nell’atto di recitar versi cantando e suonando, ma addirittura di comporli all’improvviso. Ripercorrendo con occhi nuovi e curiosi le sue opere in versi, il suo epistolario, i ritratti dei contemporanei, le sue frequentazioni pubbliche e private e qualche episodio non ben chiarito della sua biografia, ho avuto poi la ventura di mettere insieme una serie di indizi e di prove tali da lasciare ben pochi dubbi sul fatto che, se non proprio un canterino di piazza, Machiavelli fu certo un poeta performer e un intrattenitore di gran talento. E poco importa se finora non ce ne eravamo accorti. Anzi, importa. Se mi sembra sensato e utile riunire e riconnettere questi saggi in un volume, in effetti, è non solo perché a rileggerli tutti insieme essi disegnano un percorso che può valer la pena di seguire in quanto tale, ma anche perché lungo quel percorso si incontrano piccoli e grandi ostacoli che ogni volta ci avvertono di quante piccole e grandi credenze sia necessario rivedere se si vuole ricostruire su basi oggettive la storia della poesia orale nel Rinascimento e della poesia del Rinascimento in generale. La nostra tradizione di studi ha dato infatti per scontato molte cose riguardo ai rapporti tra poesia e oralità (la voce, il canto, la musica, la performance, l’improvvisazione) che ci impediscono di vedere chiaramente dei fatti in fin dei conti chiarissimi. Ha dato per scontato, in generale, che ogni riferimento alla produzione, diffusione e fruizione orale della poesia sia da intendere, fino a prova contraria, come fittizio, simulato, convenzionale, artificiale, retorico, metonimico, metaforico, illusionistico, illusorio, falsato e falsificato per i motivi più vari. Per questo, tanti fatti alquanto chiari non ci appaiono più tali, e ci sembra invece normale, ad esempio, dichiarare che la trascrizione dei cantari dal vivo è un’ipotesi «inverosimile» da cui si è ormai «sgombrato il campo» benché ci siano varie prove di segno opposto; oppure non ci si accorge quanto sia assurdo studiare i poeti ciechi celebrati per il loro canto come se fossero dei comuni scrittori; o si trova problematico pensare che un grande editore del Cinquecento fosse
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anche, e del tutto naturalmente, un grande cantimpanca (e così smerciasse meglio i suoi libri); oppure ancora si arriva a dare per scontato che se un poeta di corte racconta alla sua protettrice la propria carriera di rimatore all’improvviso si stia per forza inventando tutto, come se lei non dovesse conoscerlo meglio di noi; o infine, come nel caso di Machiavelli, se capita che un autore componga un poemetto fitto di richiami all’amata perché ascolti il suo canto e si affacci a guardare, e lo intitoli giustappunto Serenata, ecco che a tutti viene spontaneo di parlare di una «epistola in versi». Quel che questo libro vorrebbe contribuire a fare, allora, è (ri)abituarci a interpretare la letteratura, la cultura e la civiltà del Rinascimento tenendo conto del semplice fatto che molti poeti – tanto gli Altissimi quanto i Machiavelli – cantavano davvero i loro versi (anche all’improvviso), e suonavano davvero le loro cetre. Cantare «al suon di questa cetra» (l’emistichio è dell’Altissimo, ma va bene per chiunque, ovviamente) non era solo una finzione retorica, ma era un modo reale di fare poesia.
A moltissime persone questo libro deve molti dei suoi pregi, se ne ha, e nessuno dei suoi difetti, che si devono solo a me. A tutte sono grato sinceramente, e lo sanno, ma ringraziarle qui singolarmente sarebbe lungo e tedioso per tutti: per fortuna, mi esimono almeno in parte dal farlo i ringraziamenti contenuti volta a volta nelle note dei diversi capitoli. Qui allora mi è caro poter ringraziare la sola Laura Riccò, che da molti anni segue con attenzione le mie ricerche e mi dispensa molti saggi consigli, e che tanto saggiamente ha insistito perché il presente libro si facesse, e tanto generosamente lo ha reso possibile. Grazie, Professoressa.