L'esperienza del nulla

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Carlo Villa

SocietĂ

Editrice Fiorentina

L’esperienza del nulla


Dello stesso autore Agrità Sotto la cresta dell’onda Quel pallido Gary Cooper Caro, dolce nessuno Dripping Impronte L’ospite sgradito Pieni a perdere Keatoniana Pensieri panici L’incontro delle parallele A pensarci bene


Carlo Villa

l’esperienza del nulla

SocietĂ

Editrice Fiorentina


© 2015 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-355-2 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Le opinioni espresse nel presente volume non rispecchiano necessariamente quelle dell’Editore


L’esperienza inganna quasi sempre e contro di essa è difficile il consiglio.

Ed eccoci di conseguenza ancora di carta. Di quei rotoli destinati alla tappezzeria, poniamo. Un piego madornale e avvolgente perché si plachi un poco l’offenderci che brucia. E se la diga della scrittura tiene, è già qualcosa. In fin dei conti a vivere in modo diverso sono già in tanti; anche se non è molto invidiabile una protesi del genere. Contano più i gesti o le parole? I primi si disperdono subito e spesso non vengono neppure pensati; le seconde, se si ha modo di fermarle, di gesti possono radunarne anche parecchi e ogni volta nuovi, soltanto a saperle rileggere. Sembrerebbe dunque un sacrificio plausibile non vivere, salvo che sulla carta. Almeno quando, avuti i gesti più fiduciosi e indifesi in echi creduti monumentali anche per le persone che ce li suscitavano, godendoseli, queste ci hanno poi malignamente disilluso fin dal principio, costringendoci a questa lugubre protesi contro natura d’una scrittura elucubrativa d’inutile ripiego fallimentare. Se solo li si potesse avere indietro ancora vivi e condensati com’erano gli idilli malriposti! Ed eccolo allora il percorso contrario e di riappacificazione pari a un vizio solitario, per mantenerci almeno fedeli alla perdita di quella fiducia non rinnovabile che, uccidendoci nell’identità, ce li ha miseramente uccisi, scoraggiandoci ogni riavvicinamento, peggiore degli stessi danni subìti. L’esperienza, dice Confucio, è una lanterna appesa dietro alla schiena, che rischiara il solo cammino percorso; e da anni tarato irrimediabilmente più nell’animo che nell’ormai irrecuperabile corpo, dovessi proiettarmeli davvero i miei trascorsi come li ho sofferti, emergerebbero sì e no delle sparute scintille disperse in una desolazione di commentari svaniti nel nulla, per come non sono stati letti e ancor meno notiziati, data una società letteraria che non ha più una cuccia giusta per i suoi ben pochi superstiti segni.


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Ecco perché, all’idea di raccontarmi ancora mi si spegne ogni voglia, data una così persistente violenza e un’infruttuosità tanto irrimedia subìte costantemente. Ma cosa fare altrimenti d’una così prepotente funzione dello scrivere? Si tratta proprio d’un’esperienza del nulla. E anche quest’altra puntata d’un decorso divenuto ultimativo per la stessa salute, m’è venuto spontaneo nominarlo così il suo tragitto, fin da fanciullo maturato tra le macerie più insidiose e in questa ultima stagione inclemente ad ogni possibile felicità, appena annusata mi vedo subito costretto in una mesta pista inimmaginabile, date le partenze e un così tanto lavoro finito nel nulla. Pietro Citati ricordava di recente (Corriere 25.2.2014) che gli italiani non amano leggere gli epistolari, fossero pure quelli di Leopardi e Manzoni, consigliandoci comunque quello diviso dall’oceano, ma unito dalla passione scambievole, intercorso tra due dei poeti americani più singolari del secolo scorso: Elisabeth Bishop (1911-1979) e Robert Lowell (1917-1977), ora per Adelphi col titolo quanto mai drammatico nella sua consequenzialità comprovata: “Scrivere lettere è sempre pericoloso”. Potendolo ben dire anch’io, le non poche finora affidate alle bizze postali rimaste irrimediabilmente prive d’una risposta. Non perché fossero azzardate e inopportune, ma al contrario sincere e coinvolgenti; stupito nel leggere invece di quanti assai più fortunati, da Cardarelli con Aleramo, Lytton e Virginia Woolf, abbiano potuto riversarvi intere vite, appagando coi lettori, anche se stessi. Non dico che la mia salute, per quanto fattasi paradossale, possa affratellarmi alla mania depressiva d’un Lowell, che fu curato approssimativamente col litio: sostanza allora appena individuata di qualche sperimentale sollievo terapeutico. Ma almeno lui non era mai stato altrettanto avvilito editorialmente ed ebbe piacevoli ondate d’entusiasmo nel carteggio con la Bishop, assai più spregiudicata di lui, afflitto da una persistente lotta col suo puritanesimo protestante, tetro e punitivo, fino all’amnesia più ottusa, a causa di sensi di colpa torpidamente baudelairiani. Mentre per quanto mi riguarda da troppi decenni non ho ricevuto riscontri adeguati, non solo professionalmente, ma nel privato, ridotto a rimpiangere me stesso per tanta ingenuità sperperata. Ma per uscire da un simile canale da spurgo, manco da altre droghe che non sia la sola scrittura d’una resa espressiva tale da restare trascurata proprio per questo da parte di chi dovrebbe per mestiere esaltarla.


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Purtroppo delle mie lettere non ho mai fatto delle veline. Neppure all’avvento dei pc, non avendone mai posseduto uno; né ho potuto avvalermi di file; anche in considerazione, tralasciando pure i difetti visivi, delle fatali invasioni di campo dovute a verifiche tecniche, aggiornamenti, virus. Se l’importante è cercare, incuranti che si trovi e che cosa eventualmente, la lettera è sempre stata abile nell’introdurre nella pratica ogni tipo di teoria, in un profondo intreccio pensile tra la letteratura e la vita. Massime restandolo le cosiddette lettere d’amore, dal carattere generalmente regressivo nel procedere cronologicamente in un rito che trasforma anche l’istinto più naturale in un esito retrivo. Ogni circostanza di vita che abbia un ritmo più o meno felice, qui viene rimodellato sotto l’influsso dello scambio periodico che s’avvalga d’un complice operatore postale, resosi oggi del tutto irreperibile, con le più tragiche conseguenze, devastando ogni Prufrock che si fosse innamorato di Dioniso. Tanto per utilizzare una definizione cara allo stesso Lowell nella corrispondenza tenuta con la Bishop, sopravvissutagli attraverso un delirium tremens da alcolizzata. Ed erano tempi in cui una semplice vacanza postale d’un giorno sarebbe stata impensabile, mentre oggi anche si trattasse di plichi giudiziari e fiscali il recapito presenta una periodicità imprevedibile e avvilente. “Ti stringerei fino a farti urlare”, scriveva Ian Fleming da perfetto Bond alla Edith Morpurgo, giovane ebrea austriaca conosciuta a Vienna. Ed ora quelle lettere dai discendenti della donna sono state vendute per 50.000 sterline, aprendo uno squarcio inedito sul talento letterario dello scrittore che ha rivoluzionato la spy story, inserendo una buona dose di glamour, eleganza e sesso negli ingredienti classici del genere. “Attenta a te”, ammonisce Fleming la sua amante. “Mi sento come un bambino di fronte a una maliziosa governante che ho sempre chiamata Morpurgo e vivrai come tale nei miei ricordi per quante sconcezze tu possa fare”. Fleming diventò famoso ed ebbe altre relazioni tempestose. La Morpurgo si sposò nel 1939 e morì cinque anni dopo insieme al marito e alla figlia ad Auschwitz. Qualcuno potrebbe oggi scandalizzarsi a un carteggio del genere? Il mio sempre stato unidirezionale, non avendo mai ricevuto che gelidi silenzi, o esiti pedanti. Ne trarrò degli esempi dopo aver riportato quelli esaltanti di Joyce con Nora nella prima decade del secolo passato: “Sono


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il tuo bambino e devi essere severa con me, piccola madre. Puniscimi quanto vuoi… Vorrei che tu mi picchiassi, frustassi perfino, sulla carne nuda, forte, molto forte”. Peccato che le risposte di lei siano sparite, proverebbero un’intesa invidiabile, oltreché il deposito delle ossessioni dell’autore di “Ulisse” che oggi chiameremmo sexting, praticato attraverso l’armamentario tecnologico degli sms, delle chat e dei selfie. L’obiettivo è sempre lo stesso: scaricare una tensione erotica e insieme far continuare a vibrare un legame, avendo fatto questo stesso gioco anche Elsa Morante e Luchino Visconti, quando sapeva che nel letto accanto a lei dormiva, o fingeva di dormire, Moravia. E giocavano così anche Dominique Strauss-Kahn e Marcela Iacub, la quale con scarsa eleganza si servirà poi di tale corrispondenza per scrivere “Belle et Bête”. Così come il padre di Lord Alfred Douglas userà le lettere inviate a Bosie per denunciare Oscar Wilde, farlo processare e condannare al carcere di Reading. Anche se del tutto caste, traboccanti solo di labbra rosse come petali di rosa, da fare l’effetto d’un innocuo cinguettio pretecnologico. Scriveva Virginia Woolf allusivamente all’amata Vita Sackville-West: “Vieni e ti dirò tutti i milioni, miliardi di pensieri che mi girano in testa, che scompaiono alla luce del giorno e riappaiono solo di notte”. Mentre per descrivere il suo desiderio alla fidanzata Milena, Kafka passa attraverso un sogno in cui i loro corpi bruciano e lui li colpisce col cappotto per spegnerli, temendo che quei colpi lo attizzassero piuttosto il fuoco divampato. Esplicito invece Flaubert nelle sue lettere a Louise Colet, resocontandola del suo viaggio sul Nilo con l’amico Maxime du Camp: “L’ho succhiato con accanimento; il suo corpo era coperto di sudore, era stanco per aver danzato, aveva freddo, dopo aver passato la notte in sconfinate intensità sognanti”. Mentre sono feroci e sentimentali le espressioni usate da Charles Bukowski, restando tutto se stesso nello scrivere a Linda King quello che vorrebbe farle in ogni parte del corpo. Si scrivono lettere simili quali luoghi della conoscenza e l’hanno fatto Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, Henry Miller e Anïs Nin, Lou Andreas-Salomé e Rainer Maria Rilke, Marina Cvetaeva e Boris Pasternak, come v’interpellassero il mondo. Non era tanto garbato in amore neppure Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, che su un quadernetto tutto fiorellini e ghirlande, regalatogli nel


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1896 dalla promessa sposa Livia Veneziani, annotava: “Com’è bella la violenza in amore e come mi piace quella posizione che tu sfuggi. Perché non ne vuoi sapere e mi tocca farti prepotenze? Ti sento più che mai mia preda e il bacio ha per me il sapore d’un morso”. Per quanto mi riguarda, non avendo mai trovato un interlocutore adeguato a una simile carica, costretto a mortificarla senza rimedio per una mancanza di spirito fino al ridicolo, sempre più convinto che le lettere d’amore dovrebbero essere anonime, come fossero dirette alla sensualità del mondo con generosità disinteressata. Lo segnala anche EricEmmanuel Schmitt, l’autore del fortunato “La giostra del piacere”, sorta d’enciclopedia sulle diverse forme dell’eros, dai sogni alle fantasie più esplicite, monde da ogni ipocrisia. Infatti a firmarla una lettera d’amore si finisce per chiedere sempre qualcosa in cambio, mentre il vero amore dovrebbe manifestarsi come dono di sé all’altro senza porre condizioni. Per questo quasi sempre risulta impossibile. Al contrario della sessualità che vive sullo scambio. Apposta i due termini non vanno mai d’accordo e si continua l’ingaggio nel tentativo di farli collimare. Chi legge una lettera d’amore dovrebbe lasciarsi guidare, libero di completare la scena con le sue fantasie ed esperienze, bisogni e aspirazioni, entrando nell’antro meraviglioso della letteratura: sola libertà possibile nella desolazione che ci affligge di favole aliene alla vita più schietta, appena vi si nasce. Imbavagliàti e recàti al guinzaglio fino all’ultimo giorno in un’apologia della dipendenza più nera, figurarsi poi quando, com’è sempre stato nel caso mio, anche in tempi remoti, col servizio postale ancora di qualche efficienza, ai miei fiduciosi piccioni viaggiatori non abbia mai ricevuto risposta appena allineata e consenziente. Gli esempi da citare affollandomisi infiniti e inspiegabili nelle cocenti delusioni. Il più grottesco riguardando un campione neppure così sgargiante da giustificare un simile sussiego. Sdegnoso e gretto per paniche inadeguatezze, essendosi presentato a distanza di decenni in vizze miserie fisiche e vezzi stucchevoli, avendole confidato un sogno particolarmente coinvolgente, avuto proprio a causa di questo suo riproporsi, nonostante avesse un piede già nella fossa, da stizzosa vecchina essendosi risentita senza spirito né temperamento, evidentemente mai vissuti, non dico con me, ma neppure con se stessa, da quando, finita la guerra, l’avevo invitata per una sola volta al cinema, neppure sfiorandola durante quel “Duello al sole” di Vidor, in cui l’assai più impetuoso Gregory Peck trascina invece la


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passionale Jenifer Jones in ben più fitte foie esclusive e infuocati deliri: significativa l’agghiacciata permalosità di costei dopo così tanti anni di sospensioni ridicole, almeno da parte mia nutrite di sola immaginazione. Felice d’essermi liberato d’una così penosa inconcludenza devitalizzante, vorrei tanto che un tramonto simile accadesse anche per quella manciata delle altre emozioni provate nel tempo ancora vive in imbastiture scrittorie, per quanto rancide, tenute ancora a mente in meditazioni dolciastre e in sviliti sciroppi conservativi. Un “Duello al sole” davvero deprecabile, dopo così distanti decenni scaduto in un cortocircuito insospettabile. E a questo punto, potendomisi chiedere quale sia stato un sogno così indisponente da provocare un simile sussulto, nonostante le tante aspettative credute comuni, non avendo alcuna resistenza a riferirlo, ne gradirei un responso obiettivo: “Hai mai giocato a tennis? So così poco di te, somigliando le nostre mai onorate coincidenze, da poterle paragonare al decorso d’una malattia da decubito e nel sogno, avendoci sempre giocato fin da ragazzo, già in calzoncini mi trovavo ancora una volta crucciato per il fatto che a giocare si dovesse essere in due, com’è per l’amore, il compagno, per quanto preventivamente d’accordo, non arrivava e nell’attesa indugiavo come fossi tu la mia compagna di gioco, che senza indugio finivo per prenderti nelle elasticità semoventi riposte sotto la gonnellina plissettata da torneo, in un palleggio d’allenamento, con dei servizi ad effetto e in un’interminabile rimessa, come fossero campane a martello in rintocchi distesi in una continuità di set a punching ball, con degli esiti a dir poco strepitosi”. E dell’imprevista reazione che n’è seguita, che ne dite? “La tua lettera m’ha dato un grandissimo dispiacere. Non ho potere sui tuoi sogni, ma la descrizione m’è caduta addosso come una violazione del mio modo di essere e sia pure in maniera virtuale, della mia integrità fisica. Una vera offesa. Non ho altro da aggiungere ora e in futuro”. Un sogno davvero riepilogativo, fino a concluderle amaramente tutte le volte che già in calzoncini, non solo sui campi da gioco l’abbia atteso davvero il compagno inadempiente. Vengono chiamate scelte estreme. Ma non sono certo quelle dei cosiddetti sportivi, considerati tali solo da chi di sport non ne abbia mai praticato uno; né una qualsiasi fonte di vita, ben più estrema d’ogni azzardo emotivo. E considerate le sequenze già trascorse, tutte fallimentari, come stupirsi a questo punto se non ho più un trasporto d’amore, depresso per mancanza di carburante all’impatto fisico, divenuti premi-


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nenti quelli chimici, costantemente subiti dall’insorgere del morbo demolitorio fin dentro alla radice primaria della libido. Dormendo da solo poi, se non sono certo felice, finisco per essere anche frustrato. Per quanto l’assenza di sesso sia sempre preferibile a quello deludente. Del resto prima di rinunciarvi non m’ero certo illuso d’averla una vita sessuale felice. Ero semplicemente cieco di fronte alla sua puntuale infelicità delusoria e insidiosa a carattere progressivo, aspirando fin da allora il mio corpo alla disincantata tranquillità e al candore della neve. Una sorta di estasi ben più particolare mi proveniva infatti dal piacere dello scrivere, espressione affatto meccanica per riscoprire, una volta al tavolo, un desiderio davvero autentico, in quanto eloquente per appagamento differito e contatto continuato. Nulla è così ordinario come fare l’amore con millanterie ed espedienti. Si è sempre dei pessimi bugiardi nell’ingannarsi a vicenda pieni di contraddizioni impiegate per salvarci da cosa direbbe altrimenti la gente. Rinunciando, mi sono sgravato da tutta una messinscena, imparando moltissimo dal mio corpo attraverso l’arte dello scrivere e sul potere di essere meglio, conducendo una vita globalmente infelice. È un piacere enorme, Cummings l’aveva già tratteggiato nell’unico suo titolo in prosa. Siamo molto di più, com’è la poesia, nell’immaginarlo fluttuante, anziché adoperarlo il corpo. Che sia una scelta estrema, non per questo è meno rispettabile non avere più bisogno di nessuno, se non d’una penna, con i tempi che corrono rende liberi su ogni versante. Massime quello editoriale. Eppure ho consumato gli anni nella loro interezza a fantasticare amicizie e affetti, senza mai realizzarne che sogni: giusto questi rimasti indelebili, filtrati come sono stati attraverso una penna appositamente conserviera. Se sono durati molto poco, non avendo fatto nulla perché proseguissero oltre un loro racconto, questo m’è sempre stata occasione per riflessioni perdute; ipoteche per scongiurare un destino di solitudine certa e d’un seminato scontato. Riflessioni dal vero per non finire come un cane di nessuno. In un frangente alimentato dall’espediente letterario invece avviene lo scarto necessario a rendere vivo qualsiasi fallimento. Anche nel famoso romanzo di Gonciarov, Oblomov, più volte letto ed apprezzato anche nella suggestiva interpretazione che ne dette Bonacelli, l’inerzia del protagonista riguarda non solo le donne, ma con esse tutto il resto, data l’indifferenza incontrata tra il proprio essere e ciò che


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gli sarebbe stato più giusto ottenere leggendo le lettere dal nostro fronte, divenute romanzo popolare d’un’intera nazione, coltivate nel fango di trincee concimate dalle bombe e irrigate dal freddo e dalla paura, com’è stato drammaticamente testimoniato da Depero, Ungaretti, Gadda e Wittgenstein, che ne scrisse, cambiandovi mestiere: “Il mio scopo è impegnarmi a passare da una simile assurdità mascherata a quella palese, delle cose di cui non si sappia parlare, molto meglio tacere”. Impegnatesi a parlarne le madrine di guerra del calibro di Gertrude Stein. Nessuno ucciderà mai l’intento epistolare, checché ne scriva lo Stanley del “Dead of the letter” (Cultural Sociology 2015). Un’amabile pazienza per chi s’è scoperto malato, che alla fine resta una capziosa occasione per riviversi ogni cosa nella testa senza alcun rimpianto, disfacendosi con essa in un pegno prosciugato. Vorrà dire che convoglierò tutto quanto non abbia avuto e mai potrò più avere d’ora in avanti in resoconti sempre meno aderenti al vero, se stamani per esempio, mi ci sono anche dovuto alzare, perché non defluisse nel nulla e si perdesse magari in un sogno successivo. Saranno state circa le tre, dato che non sono ancora le 3,30 ora che ne ho riportato l’essenza ed ho già fatto colazione, dopo essere stato per alcuni minuti ancora nel letto del tutto imbambolato per questa scena subìta nitida e netta, con l’estro mantenutosi rigido e pulsante. D’altra parte sono già più notti che mi perplige questo succedaneo aspetto, avvampato a cera persa, incerto se placarlo in un intrattenimento alzo venti, non osando al tempo stesso disperdere l’estasi, dolendomi in un tutt’uno con l’impaccio, nel sogno essendomisi manifestato chiarissimo il volto d’una personcina minuta, come la Little Anne dei fumetti, compiaciuta nel coinvolgimento con scosse perentorie e rivoli evidenti, per quanto soltanto onirico l’incontro; proseguito poi su una grande piattaforma, tipo tavola da stiro gigantesca, o lastra per le litografie, bruzzolosa e più alta d’una persona normale, tenuta sospesa da operatori in camice bianco, mossa come lenzuolo in fragorosi schiocchi nel vento, riproducendosi in alacri stampate tra l’astratto e il figurativo, con imprevedibili miei interventi rapidi, sempre nel sogno dai chiari riferimenti femminili per attributi madornali irti e sganciati oltre la lastra sempre in ebollizione per tagli e fenditure alla Fontana ed escrescenze tipiche, in traslucidi blop, come di dentifricio compresso e violentemente stappato fuori dal tubo, disseminando fiotti in giro d’indubbia fattura spartita in due, riempiendo gradatamente un’intera stanza, trasformata


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ben presto in una tetra sacrestia, per armadi, cassettiere scure, pedane e spessi tappeti. Severa ma anche sala per delle mostre con delle stampe antiche in gara coi miei impulsi. Tanto più grande è l’amore deluso, tanto meno occorrono parole, dato un sangue che irrora a cuore mezzo per ciò che sia ancora facile dire. “Sguazzare nel magico mondo di Matteo Renzi”, dice Marco Travaglio “è impresa faticosa e noiosa, ma istruttiva. Catalogare i suoi annunci, promesse, impegni, imperativi, scadenze, ultimatum, slogan, parole d’ordine, slide, twitter, hashtag, post, persino sms, è un modo come un altro per studiare l’Italia e gli Italiani a partire dal 2014. Dopo le mille balle blu berlusconiane, siamo tutti in una comunità di recupero per disintossicarci con terapia omeopatica: drogati da quattro lustri di patacche e bufale, rischiamo la crisi se ce le tolgono di colpo. Renzi è il metadone, l’oppioide che surroga sostanze psicotrope più forti e previene l’astinenza se ha annunziato basta annunci, annunciandone di nuovi. Intanto polizia, esercito, marina, forestale, medici e vigili del fuoco, sono tutti contro il blocco degli stipendi pubblici fino al 2020, annunciando il primo sciopero in divisa della storia repubblicana. “I soldi non ci sono”, e in un clima di tombola a morte gli 80 euro di nessuna utilità promozionale non solo per l’economia, ma per lo stesso governo, intanto hanno reso la deflazione ancora più stagnante, incombendo le lacrime pensionistiche della Fornero scongelate da una Consulta che avrebbe ben potuto indirizzarle a ridurre il debito pubblico, non avesse voluto colpire proprio il governo. Benché Draghi declami che i tassi sono stati ridotti a zero, negando sconti ai politici, le finte riforme incrementano le spese e le eterne Province sono sempre lì per un Pd e un Fi che vi si spartiscono i posti come sempre: rinnovatisi tutti e 64 gli enti locali costituiti da otto città metropolitane affatto votate dai cittadini, escluse le liste civiche per mortificare gli irriducibili grillini. Il gigantesco debito pubblico non fa che intrufolarsi nelle tasche degli italiani, salvo un parassitismo di esentati a vario titolo e sprezzo che campano sulle spalle dei più. Un brigantaggio incentivato dalla politica di scambio, in cambio d’un consenso più che altro penitenziale. Nessun governo ha voglia né forza d’assumersi responsabilità produttive e il privilegio viene spacciato per diritto. Chi lavora sostiene sistemi parassitari concentrici divenuti pozzi senza fondo, perché possano durare per sempre attraverso migliaia di società partecipate, consorzi ed enti bislacchi,


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che hanno condotto il paese alla perdita d’ogni dignità in quanto i sacrifici non sono parificati per tutti, ma evitati da chi manovra il pubblico dolo, con vitalizi pirata. Centotrenta anni fa Ettore Socci già denunciava la feroce corruzione dei privilegi goduti dalla casta politica. Mazziniano, a vent’anni aveva fatto il garibaldino a Porta Pia. Nemico di Crispi, intimo di Carducci e di Cavallotti, Socci fu una figura integerrima e deputato nel 1892 nel collegio di Grosseto, s’inserì nel filone del romanzo parlamentare con De Roberto e Matilde Serao, palesando la vera natura della classe politica post unitaria, traditrice delle gloriose speranze risorgimentali, grondante affarismo, trasformismo e gattopardismo nel difendere i propri privilegi bipartisan, senza alcuna possibilità di redenzione. Scuola, Giustizia e sblocca-Italia, il big bang di Renzi procede a rate, rinviando tutte le misure, sapendolo benissimo che mancano i soldi e non avendo tempo per leggere disegni di legge e decreti per le molteplici incombenze che assomma in campo nazionale e oltreconfine: non ultime le secchiate fredde e i coni gelati: tanto per restare in carattere sul clima economico generale, mentre il reo titolare di ben tre gradi di giudizio detta la linea al governo, prescrivendo nessuna alleanza con Alfano, quale non ultima postilla d’un patto del Nazareno, che non finisce di sorprendere, pari a un elefante in una fabbrica di porcell…ate. C’è da stupirsi se in un clima tanto screanzato e madornale rifioriscono mummie alla Karloff, nominate e riviste quali Casini, Fini e Bertinotti: quest’ultimo addirittura peggio del primo, in quanto discetta senza neppure un pudore minimo: “Sono anche liberale e il papa è un profeta. Resto comunista, ma vedo la nostra sconfitta storica ed ora bisogna mescolarsi. Non mi perdonano la crisi di Prodi e sono stato un sindacalista che ha passato la vita a firmare accordi anche brutti”. La nazione ringrazia per simili disgraziate disonestà ree confesse, ma non dome. Trecentomila firme scandiscono un intervento che risulterà del tutto inutile per una Costituzione minacciata nei suoi gangli vitali, attraverso l’unica testata che di nome e di fatto quotidianamente ha preso a cuore la questione con Celentano, incalzato da Travaglio, dopo un cerchio al Grillo, e un apostrofo alla botte renziana, quale dittatura democratica. Povero Pasolini di Abel Ferrara, un film-bomba che non ha fatto boom nel raccontarci “L’ultima notte a Warlock” del poeta, interpretato con pregnanza anche fisica da un Dafoe, doppiato da Gifuni. Ma filmare


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la poesia non è impresa da Davoli, che diavolo! Essendovi stata fraintesa anche la generosità de “Le forze in campo”, per usare un titolo di Cordelli, riferibile alla gabbia rissosa gonfia di insidie e di vanità frustrate d’un Pd con un Bersani in apnea, Veltroni ustionato dal suo “Cinema Paradiso” e un Cuperlo che in una carrellata stizzosa percorre se stesso in un tappeto rosso di vergogne partendo da Gramsci, buzzicando Occhetto e salvando in angolo il torvo D’Alema, roso dall’ultimo affronto per l’isolamento sub coop Concordia, dopo il vis à vis con Renzusconi. Un Cuperlo dei trentotto giorni che neppure Napoleone all’Elba, deciso comunque a restare in lizza in quanto extra ecclesiam nulla salus. D’Alema dal canto suo non meno scottato anche per la Mogherini agli Esteri della UE, sputando fiele più altero che mai, borbottando contro il movimentista Matteo, ras d’ogni seggio occupabile, non lasciando neppure quello della segreteria, per la quale la spesa già ammonta a un milione e trecentomila euro a salire. Per fortuna Berlusconi conferma i patti, ma teniamoci pronti per le urne, avendo da ventriloquo fatto ritirare dalla lizza Csm Catricalà, dettando Amato anche sul Colle; su quello Vaticano, a pranzo con quel segretario di Stato e il presidente della Conferenza episcopale Bagnasco: nonostante gli sgraziati, numerosi infortuni in Rete, stillanti selfie di Grande Bruttezza per un Matteo-mostro che strabuzza gli occhi, infradiciato da sconnesse secchiate gelide e gelaterie chigiane, sguaiatissimo nei rovesci non solo più soltanto economici, ma d’un tennis dopolavoristico di desolanti rimesse. Sul palcoscenico dell’esibizionismo più squallido e della più Grande Volgarità, l’Italia se non è la prima in classifica, è sicuramente tra le meglio piazzate in fatto di piazzate coatte. Ma ormai la gente alle volgarità non solo non ci fa più caso, ma ne sentirebbe la mancanza, essendosi anestetizzata alla violenza, alla perfidia alla cattiveria e alle peggiori crudeltà e bassezze da voyeurismo catafratto in un compiacimento puntigliosamente esistenziale. Com’è stata possibile una tale mancanza di civismo e d’educazione, sgraziata fino allo schifo, nel subire chilometri di tatuaggi mentali ambosessi d’un’indisponenza trasversale, da superare i più inquietanti piercing. Non esiste più il bello, ma neppure la sua idea potenziale, la sguaiatezza fattasi equivoca e rutilante, d’una pedanteria accattona esibita come uno status simbol nobiliare. Si rilegga per averne un repertorio fra i tanti possibili, l’humus degli incipit più inquietanti contenuti nell’amarissimo “Basta poco per sentirsi soli”, della rimpianta Grazia Cherchi, dell’abissale ormai 1991. Non più ristampato, anche l’editoria precipitata nelle peste peggiori.


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Una storia da villeggiatura la chiama il Nobel Fo, sempre più scatenato contro il Matteo errante e la baldracca caimanizzata non si sa per quanti milioni: cinque, sei, sette? Incassati con i soliti sistemi illegali con i quali viene ingannato l’erario in ulteriori patti illeciti vigenti fra quanti ci governano, subdolamente negati. Tramati in summit incogniti, del pari che quelli sulle riforme sempre evitate, rinviandole dolosamente. Fra i due compari, Stanlio e Ollio, vengono scambiati cortesemente crediti da stragista, gratificandosene in ritorsioni “Tanto qui devi tornare”, come da vecchia scuola Dc, mai chiusa per ferie né soggetta ad alcun esame finale. L’homo renzianus campisce ogni luogo, gratificandovisi come in un grande reality zeppo di parole e manie invasive sulla vita degli italiani, al punto che tutti lo imitano, spendendolo alla grande e mappandolo in un penoso nuovo conformismo da pizza e Coca Cola servita a Palazzo Chigi twittando dilaganti low profile, quali simboli di potere in attesa della crescita economica che non verrà, seminando l’immaginario. Specchio delle sue stesse brame, da gran capo indiano, Renzi conquista le copertine pop, ipnotizza gli intellettuali perdigiorno e questuanti, riscuotendo anche in Europa nebulose nomine in effimere commissioni; affiancandolo in viaggi e missioni istituzionali, i mille volti d’una Boschi hostess, cuoca, atleta e ministra multitasking, molto seguita dai fotografi, che ne fanno un presepe mobile, sciorinato in immaginette bizzarre nelle sue evoluzioni da Zelig, documentandone con dovizia i colli di pelliccia alla Crudelia e certe scarpette alla giaguara in interminabili tacchi 15, accompagnandovi adottandi bambini congolesi. Ma con ironia, segnala Zanuttini e ribadisce Maltese: gufi come tanti, ma privi d’ogni chance ravveditrice, dinanzi a così tanti boiardi, notabili, speculatori finanziari e manager bancarottieri con le tasche piene d’aziende sfasciate, senz’altra via d’uscita che una politica trucida, finché non scoppi una rivolta sociale e una guerra intestina salutari. S’ode a sinistra più d’uno squillo di tromba sul carro di Matteo, ma a destra è una fuga di scorni, ormai in Fi tutti partecipano al gioco massacrante della successione, mentre crescono scissionisti e ribelli, a questo punto trasversali al patto con Renzi. E calano i fedelissimi nella piazza che in passato fu il quartier generale d’Andreotti. Rischia di diventare un mausoleo funebre per delle baruffe regionali atticciate in campetti di provincia, arbitra una Francesca Pascale, quale Evita invadente, non essendoci poi molto da festeggiare.


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