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Carlo Villa
trettanta imperturbabilità d’un Buster Keaton. Per Villa la letteratura è sempre stata l’evidente dimostrazione che la sola vita all’uomo non può bastare; e la configurazione delle parole gli è sempre balenata sotto gli occhi in un lusso di serici tessuti dalle più vivaci sfumature, che affollano questo, quanto i numerosi altri suoi titoli: forse proprio per tanta loro scomodità lasciati derelitti senza alcuno scrupolo. Villa nel suo laboratorio, privo com’è di forza contrattuale e d’ogni presidio di scambio, è pago solo di quanto Michel Butor, nell’accoglierlo alla Gallimard, sentenziò: “La sua scrittura è armonica, nessuna pagina è inutile”. Carlo Villa esordisce in poesia con l’avallo di Sinisgalli e Pasolini ed è nei Coralli Einaudi coi romanzi “La nausea media”, “Deposito celeste”, “I sensi lunghi”, “L’isola in bottiglia”; inaugura la collanina bianca di poesia con “Siamo esseri antichi”, ed è in quella di Munari con “Le tre stanze”. Con gli Editori Riuniti pubblica il romanzo “Muore il padrone”, con De Agostini “Morte per lucro”, con Feltrinelli “Pan di patata”, mentre Guanda con “La maestà delle finte”, e Scheiwiller con “L’ora di Mefistofele” accolgono le sue ultime raccolte poetiche. Per la Società Editrice Fiorentina edita “Agrità”, “Sotto la cresta dell’onda”, “Quel pallido Gary Cooper”, “Caro, dolce nessuno”, “Dripping”, “Impronte”, “L’ospite sgradito” e “Pieni a perdere”. Per la Rai e la Radiotelevisione Svizzera ha collaborato a lungo con originali radiofonici e televisivi. In “Lector in tabula” raccoglie una scelta di quanto nel tempo ha prodotto come critico presso quotidiani e periodici in anni ancora fruttuosi per la letteratura. (carlovilla@altervista.org; dike.ver@alice.it) In copertina collage dell'autore
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In questa nuova puntata d’un giornale alla Eluard, com’ebbe ad esprimersi Giovanni Raboni parlando della scrittura di Carlo Villa, gli intenti e i contenuti appaiono fin troppo chiari ad apertura di pagina, e sulla scrittura responsabile e l’editoria che difficilmente l’affianca, nel libro valga la citazione di Sciascia: amarissima, quanto calzante parlando di Villa, che più resta attivo nell’essere fedele a se stesso, più dalla critica, ancorché militante, inspiegabilmente viene abbandonato e precluso ad almeno due generazioni, oramai: “Preferisco perdere i lettori che ingannarli”, recita infatti l’esergo di questa sua “Keatoniana”. La scrittura di Carlo Villa, qui più che mai, si rivela esplosione verbale sull’attualità che ci avvilisce, instancabile nell’analizzarne disperatamente i tessuti con impietosa padronanza istologica; fiduciosa fino al delirio che una simile intransigenza della parola valga ad essenziale valvola espurgativa nel riscattare l’individuo dai troppi assedi debilitanti: purché venga letta. Indicando altrimenti qualcosa anche peggiore, quest’ostracismo a dir poco bizzarro, che perdura da troppo tempo, e in modo così serrato da essere sospetto, da quando dalle redazioni e dai repertori critici sono scomparsi i Calvino, Milano, Giuliani, Garboli e la Corti: solo a citarne alcuni fra quanti Villa invece l’apprezzarono, consigliandolo a lettori che ancora oggi, più che mai, avrebbero bisogno di avvicinarsi a una scrittura d’impareggiabile fiducia nella poesia: a dirla col risvolto di Vittorini all’esordio di Carlo Villa all’Einaudi. Conscio di ciò, l’autore di “Keatoniana” continua il suo solitario gioco al massacro, sapendosi irrimediabilmente senza speranza nell’aggiornarlo impenitente; in questi suoi ultimi sprazzi ottuagenari, offeso dalla concezione “imperialista” delle vendite e delle classifiche, circa l’intelligenza umana che gravita nelle banlieu della letteratura: ottimista com’è nel suo procedere senza cedimenti in senso contrario: avvalendosi per questo del “visus” d’al-
Dello stesso autore Agrità Sotto la cresta dell’onda Quel pallido Gary Cooper Caro, dolce nessuno Dripping Impronte L’ospite sgradito Pieni a perdere
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© 2011 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it blog www.seflog.net/blog facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account www.twitter.com/sefeditrice isbn 978-88-6032-188-6 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata
La vita o la si vive o la si scrive (Stendhal: “Journal”) Vivir desviviendo (Américo Castro) Preferisco perdere i lettori che ingannarli (Leonardo Sciascia: “A futura memoria”)
Arrivato a finire il “Pieni a perdere”, resto per alcuni giorni attonito, incapace di ricominciare una nuova pagina, convinto che il malinteso si ripeterà anche stavolta attraverso una scrittura a quanto pare fatta solo per dirmelo senza rimedio che non l’avrà mai un pubblico. Mancandole il filtro necessario d’una valutazione, resta inconcussa, marcendo incomunicata, indescritta, irrappresentata nel silenzio senza nome d’una disattenzione inconfessabile, appunto perché malintesa. E lo sforzo compiuto, collaborativo del niente, vagheggia a vuoto e non potrà mai essere, nonostante il suo pieno diritto d’esistere. Come fuggire da tanta feroce condanna? Ed eccomi attonito, senza più sufficienti anticorpi, accusare malori feroci. Non si fugge da una verifica così profondamente bloccata. Pure converrà che resista fino alla fine naturale, data una condizione tanto innaturale; e apprensivo, nel riprendere il foglio capace di illudermi ancora una volta, riprincipio a credere che l’assurdo prima o poi si stanchi di consistere. Se la speranza è l’ultima dose a morire, convinto d’averne appagato il lutto, il guasto percorso per quanto mi sarà ancora immodificabile? Allo scoccare esatto dei cent’anni dalla nascita di Arrigo Benedetti, m’esplode un raffreddore come mai in questi ultimi anni; e quel che più m’angustia, senza un apparente motivo scatenante: a meno di non prendere in considerazione un abbassarsi degli anticorpi per la svogliatezza che m’è presa nell’accingermi ancora su queste pagine, giacchè personalmente il pignolo, scrupolosissimo direttore di tante significative testate post-belliche, non l’ho conosciuto che di sfuggita, nell’anno o poco più, in cui diresse il già languente Paese Sera: cui collaboravo da tempo; e allora perché identifico il malanno con il fatto che nel ‘64 il mio esordio narrativo, per quanto autorevolmente segnalato da Vittorini, al premio Prato finì per cadere dinanzi al “Passo dei longobardi”: vent’anni di storia lucchese, narrata da Benedetti, che in quei luoghi aveva un
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suo rifugio? E già un mese prima m’era successo qualcosa d’analogo col Formentor, bruciatomi dall’allora fascinosa Gisele Elsner coi suoi “Nani giganti”, che alla fine prevalse nonostante l’appassionata difesa di Butor e di Calvino prodigata al mio libro: contro ogni regolamento l’editore tedesco avendo fatto circolare con le foto appetitose di lei, anche la stessa candidata tra le quinte della competizione. Non minore carta negativa anche il fatto che l’anno prima, con “l’età del malessere” della fortemente sostenuta Maraini, l’Italia s’era già guadagnata la palma internazionale degli editori patrocinanti il premio: pari a sei milioni, che a quei tempi m’avrebbero permesso di lasciare l’infame rapporto comunale, con ben altre soddisfazioni economiche e professionali. Soprattutto in considerazione di quanto per lo scrivere responsabile, di lì a poco sarebbe accaduto nell’editoria. Una coincidenza non poco esplosiva questo raffreddore che m’ha tenuto sveglio per più notti, senza farmi connettere neppure durante il giorno, con la gola di cartavetrata e in fiamme da non poter respirare, il naso a fontana senza rimedio né freno, su queste righe da strizzarmici gli occhi in lacrimazioni diffuse. A interpolare se stessi nella propria materia, non credo si possa considerare un plagio. I tempi dei diversi dettati cambiano forma nel tempo, e un motivo individuato calzante, reciso da quell’argomento può spuntare invenzioni anche in segmenti distanti, arricchendoli d’un imprevisto, pur restando pasta di ieri, rinnovando lo scatto del percorso. Non c’è scrittore, fatti salvi i cosiddetti romanzieri, che non accarezzi un affresco di tutto il proprio attivo in una summa a Bibbia di se stesso: coagulo d’una vita riconducibile a uno stile, che il lettore percepisce a colpo d’occhio. Emendato d’ogni errore creativo e fatta terra bruciata di quanto può essere stato imperfetto, allora si staglia per lui un terso e sano scheletro di se stesso, polito e scarnificato d’ogni brandello marcescibile. Se è vero, come ricorda Heidegger, che nessuno può morire al nostro posto, il succo d’ogni progetto individuale risiede in un nucleo attraversato da tutti gli accidenti sofferti nell’esistere, a incoraggiamento concentrico di quanto altrimenti non avrebbe avuto monumento. Altro non si può proprio fare nel comporre, che trasporre se stessi rossinianamente: il pesarese trasportando pezzi e arie di opera in opera, non di rado limitandosi a dare lo schema di certe sue melodie, ammettendo implicitamente che gli interpreti vi aggiungano a piacimento del loro. In realtà in quasi tutte le sue partiture sono presenti materiali tratti da lavori preesistenti. Comunque mai ripresi di sana pianta, ma in varia misura rielaborati. Se è
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vero, come afferma Eliot, che i poeti immaturi imitano, e i maturi rubano, bisogna aggiungere che i cattivi deformano ciò che prendono, mentre i buoni lo trasformano in qualcosa di migliore e comunque diverso. Apposta Montale non considerava Rossini uomo scrupoloso, ma esteta. Nel giorno in cui inizio con un fastidio finora sconosciuto questa nuova puntata dell’agenda, senza ancora conoscerne neppure il titolo, mi si accavallano alcune cadenze che in altri tempi non avrei mai preso in considerazione. E mi si sono acuite in una sorta di tabellina di tutti i numeri acrobatici d’una vita, a ben vedere fatta soprattutto di povere cifre, anche dove gravassero ricordi di sostanza diversa. È il giorno della memoria, e un barbuto Daniele Della Seta in un programma in carattere, parla della scuola elementare Umberto I, da me frequentata nelle cinque classi, ora diventata centro associativo sull’Olocausto. Riaffiorandomi le dolenze per gli scomparsi compagni a causa delle leggi razziali del ’37, invio una testimonianza partecipativa. Passano due settimane e ricevo la telefonata del padre, Maurizio, alunno in quella stessa scuola anche lui, che poi avrei ritrovato al liceo Visconti. Mi trattiene quasi per un’ora al telefono, parlandomi d’un suo libro di documenti sulla Shoah, dal quale ha avuto soddisfacenti ritorni anche economici, accolto in varie parti del mondo; e lasciandolo parlare per come si dimostra compiaciuto, intanto considero senza darglielo a vedere, quanto un’intera vita dedicata allo scrivere anche sull’argomento, m’abbia invece così poco consolato. La ferita particolarmente amara in questi ultimi anni, senza mai un risvolto munifico. Nell’84 Chering Cross Road” di Jones, almeno alla fine l’affettuosa corrispondente riuscirà ad approdare alla cara bottega, sia pure per riscontrarla vuota e disadorna d’un qualsiasi volto, a me succedendo neppure questo per i troppi amici tutti dispersi nel nulla, a dimostrazione di quanto tali non lo siano mai stati per davvero. Quanta disperante ingenuità fin dai quei miei primi diari, su ciò che poi mi sarebbe stato un girotondo sintattico di compleanni e di ricorrenze distanziati senza rimedio, in un’attonita solitudine peggiore di una deformità. Uwe Johnson afferma che si scrive un diario quando le relazioni con l’ambiente sono ridotte o impedite; quando insomma non c’è più nessuno col quale si possa ancora parlare, ma solo persone di cui diffidare; e allora quello che non si può più dire, lo si annota, in una sorta di vendetta, pur di far trionfare la propria versione, che ormai non interessa più nessuno. La si ferma sulla carta una volta per tutte proprio per questo,
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e al posto d’una parola impossibile, subentra la scrittura resa plausibile almeno per se stessa. Quante volte l’ho praticato nel tempo questo disperato bisogno di sapere come mai mi si sia sempre rivoltato tutto contro; ma per quanto ne abbia scritto e descritto le congiunture, nessuno me ne ha dato risultato. Così la scrittura ho continuato a praticarla una puntata dopo l’altra, nel tentativo di farvi i conti almeno con me stesso, in una sorta di legittima difesa. Ma non c’è stato verso: anche così non uno m’ha risposto mai a tono; o m’ha recato perlomeno un segno d’averlo letto ciò che pure non poteva non averlo interessato, l’avesse fatto, considerate le diagnosi contenute sulla lettura e le possibilità dei lettori, in relazione a una critica d’un precipitato sociale anche peggiore di quanto non appaia realmente, sconfinando nei risvolti ultimi d’una pratica irrimediabilmente servile. Vi ho sempre condotto interrogatori perversi con me stesso sul diario; e se fino agli anni ’50 erano di commento alle affastellate letture e d’analisi alle emozioni dettate dalla poesia, al fine di capirne le cerniere plausibili, molte pagine mi venivano dettate dalla musica che ascoltavo a pedali d’avviamento d’uno scrivere, che a rileggerlo, ancora oggi non saprei se sarebbe piaciuto più agli interpreti e agli esecutori, che agli autori dei pezzi ascoltati: gli uni o gli altri si fossero solo potuti esprimere allo scopo. Ci si può rileggere sul diario anche dopo anni, restando stupiti: davvero ho potuto dire questo! Il diario, infatti, è la costruzione di una grande, disutile illusione, e recensisce se stesso in un sempre scontento accaduto, sviluppando il suo autore senza per questo modificarlo, o diverrebbe il diario di un altro. Nel diario non c’è mai una persona differente; guai a esservi diverso, come può succedere in un romanzo; è un saggio dove i suoi presupposti restano per sempre l’identità di chi lo scrive, potendo costui mutare opinioni su tutto; mai su se stesso però, o diverrebbe diario d’altri. Solo così resta un progetto educativo, il suo autore mantenendosi partner-crudele, prosciolto da qualsiasi indennizzo. Ho sempre scritto diari, incontrandovi pensieri un istante prima del tutto estranei, non stupendomene per niente; o a rileggermi sarei stato ben altro anch’io, insieme alle parole utilizzate per dirlo; e non ho mai avuto la debolezza di volerli pubblicare; tranne che in questi ultimi anni, costringendomi a farlo una sorta di commiato, per lasciare una traccia sul terreno d’una coltura che pure m’ha visto affaccendato nel subire una cultura sfattasi intanto senza rimedio. Ed ecco allora perché non mi sono mai stati accettati, né commissionati da nessun editore, di quanti pure abbia contribuito al fatturato.
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E non mi resta che significarne il delirio, quale quietanza da esibire alla cassa d’una cicatrizzazione postuma, senz’altro appello che quello dovuto a un’improbabile espiazione. Se solo le cose sospette fossero vere, e l’anima potesse governarsi per alfabeti, quante parole circolerebbero di meno ad apertura di bocca, con non poco refrigerio per le orecchie che le subiscono come altrettante frustate. Quante volte nell’ascoltarle negli asfissianti tormentoni zeppi di come dire, devo dire, diciamo, in qualche modo, assolutamente sì, pari nella loro sterilità solo alle sfacciataggini politiche che le accompagnano, mi sono ridotto a meditare sulla laconicità d’un Buster Keaton, così tersa e superiore nell’essenzialità d’un lessico esclusivamente gestuale, riducendosi al grottesco solo si fosse azzardato a parlare. Quanti fortilizi d’inerzia circolano nei repertori della parola esibita per non dire fino alla nausea mai niente, imponendola col massimo arbitrio come fosse merce scaduta in collane d’indecorosi pancotti, profluviando a ripetizione cascami a tutto campo, quali: maxi-esodo, serpentone, partenze intelligenti, il generale inverno, la morsa del gelo, la canicola estiva, il tutto esaurito; per sconfortare le calamità naturali, farcendo le polveri sottili con le povere vittime dei terremoti, quasi sempre di se stesse, per colline frananti su greti erosi tramite malte di sabbia prive di tondino, la carpenteria del ferro non entrando mai negli sconci da sanare, date le periodicità elettorali. Se solo si potessero cauterizzare queste trappole linguistiche, giornali e tv diverrebbero muti quanto un Buster Keaton. In un divertente scritto di Jarry avviene una grande battaglia tra il segno più e quello meno; non ricordo a quale risultato sia giunto l’autore dell’«Ubu roi» proponendocela, tanto più la fiaba avvolta com’è d’una sua impareggiabile aura patafisica: fatto sta che più passa il tempo, più questa disfatta verbale si fa inarginabile, se anche un Pippo Delbono, “attore stimatissimo all’estero”, si spande in attimini vezzosi come un sol uomo alla melassa. Converrà dunque rassegnarsi, costretti ad assistere alla disfatta delle somme in favore di quanto ci venga invece spudoratamente sottratto, in forme sempre più squallide, quasi si trattasse d’un assurdo del tutto inarginabile, in cui ciò che conta è fare gli indiani, accontentandosi che il discorso dell’uomo politico continui a fungersi acuto, perché arzillo resti sempre il vecchietto, inviolata la coltre di neve, brillante l’operazione PS, delicato l’intervento chirurgico: specie se il luminare opera ascoltando i Rolling Stone.