Carlo Villa
Pensieri panici
Dello stesso autore Agrità Sotto la cresta dell’onda Quel pallido Gary Cooper Caro, dolce nessuno Dripping Impronte L’ospite sgradito Pieni a perdere Keatoniana
Carlo Villa
pensieri panici
SocietĂ
Editrice Fiorentina
© 2012 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it blog www.seflog.net/blog facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account www.twitter.com/sefeditrice isbn 978-88-6032-226-5 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Le opinioni espresse nel presente volume non rispecchiano necessariamente quelle dell’Editore
L’infinito è una questione di scrittura. L’universo esiste solo sulla carta. (Paul Valéry, Monsieur Test) È la formazione e non la forma ciò che fa il mistero. (Gaston Bachelard)
Se lo stile mostra i propri pensieri scrivendoli, solo questi potranno vedere la fine d’ogni loro conflitto, nell’esprimerlo. E m’è sempre apparsa esemplare l’affermazione di Montherland su Saint-Simon, autore ignorato ancora oggi dai più, quando descrive la sua opera, non meno monumentale di quella d’un Proust – che del resto l’idolatrava – per averla voluta affidare solo a un avvenire improbabile, guardando sempre oltre alla propria malasorte letteraria. L’autore dei “Mémoires”, infatti, benché vissuto da duca sotto ben tre Luigi, sapeva già che nulla di ciò che andava scrivendo gli sarebbe stato non solo apprezzato, ma neppure pubblicato in vita; rappresentando la cosa un fatto d’una tale grandiosità morale da situarlo anche per questo fuori da ogni tempo, incredulo sulla sua stessa immortalità, quasi non potesse riguardarlo. Un’aspra considerazione che mi si è riaffacciata lucida in mente, trovandomi costretto nella sala d’aspetto dell’Ospedale da qualche tempo privilegiato oltreché per la puntualità e la pulizia dei suoi servizi, anche per le metodiche e il personale che ve le espleta, rispetto alle calche indecenti e i campionari umani che angustiano invece i nosocomi precedentemente frequentati, dispersivi e inattendibili anche sulle risultanze cliniche. Senza citare i percorsi tortuosi da intraprendervi nel mettersi nelle condizioni di subirli. Ma anche stavolta mi sono dovuto ricredere, il cardiologo di turno presentatosi con oltre un’ora di ritardo sull’orario previsto, costringendomi ad assistere senza scampo nel frattempo al teatrino sconnesso degli inferociti pazienti: mai attributo ancora una volta fu tanto appropriato. Questo cappello deprecativo inaugura bene questi “Pensieri panici”, quale argomento in carattere su un così tormentato destino, in quanto, sopraggiunto finalmente il cardiologo, con ironia malcelata, all’unisono del resto con l’infermiere allo sbaraglio anche lui per le ore supplementari di servizio, l’ho apostrofato: “Stavamo in pensiero”, accusando una sistolica schizzatami a 170, considerata l’attesa e l’impatto sconcertante:
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essendomi stato imposto un ricovero immediato dal sapore tutto vendicativo, condito da tali pregiudiziali minacciose da non poter neppure controbattere, trovandomi steso sul lettino con gli elettrodi ancora piantati nel petto. Quale plasticità irriguardosa ha il nostro cervello, quando le circostanze estreme sia costretto a subirle privo di difese. E preso per buono il consiglio perentorio, m’avvio alla volta dell’accettazione, considerando quanto nel lavoro che svolgo m’avveda gemellato alle sfortune subìte da Saint-Simon: che in vita almeno non poche soddisfazioni mondane s’era tolto; senza contare il cospicuo corredo patrimoniale. Il ricovero m’è stato imposto a ciel sereno e ciò che ho appena iniziato dovrò dunque lasciarlo per chissà quanto tempo, turbandomi inoltre la mancanza d’amici e di familiari disponibili a un qualche conforto discorsivo: che almeno non mancano al protagonista del racconto “Sette piani”, da Buzzati ambientato in una casa di cura dai capziosi decorsi ultimativi. Un soggiorno sgradevole da patire indifeso tra compagni di stanza abbarbicati a tv e cellulari in capannelli incresciosi su campionati canzonettistici e sportivi paralizzanti. Ed aspettandomi il peggio anche sotto il profilo della prognosi, mi riaffiora prepotente la tentazione vissuta sempre sotto pelle di disciplinarla a mio favore una simile sorte avversa, meditando una volontaria cessazione definitiva: convinto che, anche declinassi il ricovero per dedicarmi alla nuova puntata di questo diario ancora una volta sgradito fin dal suo stesso titolo a critica e distribuzione, non ne trarrei diverso vantaggio, rispetto a quello che il duca de Rouvroy ricevette in vita nell’analizzare la degenazione della monarchia francese con i suoi “Mémoires”: i miei colpiti da una iattura anche più grande, ancora in vita avendo avuto sì l’opportunità di pubblicarli, ma con identica invisibilità e malasorte. Si teme più di ogni altra cosa d’essere toccati dall’ignoto: eufemismo gentile utilizzato spesso per non evocare la morte. Vorremmo sempre vedere ciò che si protende dietro di noi, per conoscerlo e qualificarlo, evitando d’essere toccati da ciò che ci è estraneo. Di notte poi, sopravvenendo le tenebre, questo timore può crescere fino al panico, frutto dell’immaginazione. Neppure i vestiti garantiscono allora sufficiente sicurezza, lasciandosi facilmente penetrare fino alla carne nuda più indifesa: figurarsi trattandosi d’un ricovero tanto ingiuntivo, e trovandomici già dove generalmente vengono declinate le estreme istanze del vivere. Tutte le distanze sono istituite dal timore d’essere raggiunti dall’ignoto e ci si chiude nelle case credendovisi relativamente al sicuro. Ma
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la paura nel mio caso nasce dall’imprevisto, dall’improvviso e dall’inatteso obbligo di contenuto ancora incerto, configurato ad artiglio che si protende per prendere e per strappare. Ciò che m’ha scioccato è stata l’ingiunzione repentina, per la quale sono stato individuato e prescelto, trovandomi con la mente ancora al di fuori da un simile frangente. E per quanto vicinissimo agli altri, ora nell’osservarli è come appartenessi già a un circuito diverso nel quale sia stato ormai individuato per essere consegnato a un Moloch fatto di lame e di spine protuberanti. Strappato dalle rassicuranti trincee d’un’illusione fin troppo a lungo frequentata dietro a un tavolo, eccomi oramai giocattolo prossimo alla risoluzione dell’elastico attorcigliato a ultimativo propellente, questo cardiologo figurandomelo fra i più impazienti e meno scrupolosi nei suoi giudizi spicciativi. Le sue visite hanno sempre qualcosa d’affrettato al limite della malagrazia e dell’approssimazione, e sopraggiunge con un suo ritmo iperteso e volitivo nel prendere di petto sì il male, ma non per debellarlo. Ha bisogno di strafare, collocando a ricovero quanti più pazienti durante la giornata, nel petto configurandoseli come un imponente serbatoio nutritivo. Quante più possibili dosi del mondo circostante clinicamente da catalogare: il mio caso ennesimo vetrino ancora da chiarire, per avvantaggiarsi d’una collezione riconducibile a un palinsesto mentale scisso da ogni dettato deontologico. L’importante per lui sono le carte collocate e saperle riposte da qualche parte nel suo secretaire, nei suoi voluminosi notes, nei suoi schedari mostruosi ingolfati di fitte trame, indirizzi e annotazioni particolari, senza mai una vacanza, o un così fitto patrimonio gli finirebbe vanificato, avendo giurato più che a un Ippocrate, a un trionfo della medicina alla Jouvet. Abile nell’avvantaggiarsi anche coi farmaci e con gli omaggi, con studiato accanimento incetta e colleziona doppi e tripli turni, bravissimo nel doppiare ogni massimale previsto nei bilanci ASL, per una collettività in definitiva tutta sua, i suoi pazienti in gestione per appagare un’impazienza mai definitiva. Conduce Natali per ricevere televisori e cassette di liquori in confezioni vertiginose, senza contare le minutaglie pervenutegli dai suoi ammalati riuniti in una riconoscenza costipata. Nelle adiacenze delle Pasque e del suo nome poi, la portinaia facendo la spola col suo appartamento ricolmo d’approvvigionamenti al punto da poterci aprire uno spaccio. Ma a lui è sempre parso doveroso essere al centro di una così diversificata attenzione e vi si aggira saggiandone il tiro attraverso tutte le
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occasioni e i presidi possibili per accrescerne lo stivaggio, in scambievoli ragioni di lucro legate alle più sottili validità commerciali. Né dopo la sala operatoria, fino alle prime ore pomeridiane, la sua giornata può considerarsi finita, perché consumato un magrissimo pasto nei recessi più bui e maleodoranti delle corsie, continua a tenere a bada e a perlustrare ambulatori di fortuna e day-hospital, solo a notte inoltrata tornando finalmente a casa, dove consuma la cena con una moglie tutta di facciata. Salvo chiamate notturne né rare né meno ambite, chiudendosi quindi nello studio a scartabellare un così vasto scibile di sua esclusiva pertinenza, sfogliando “Mondo medico”, “Fenarete” e “La scienza e l’uomo”, tutte riviste del ramo: viatico per succulente collaborazioni e satisfattivi convegni che si reggono sui capitali delle industrie farmaceutiche, quanto spesso integrati dai non meno generosi contributi dello Stato, distolti dalla ricerca effettiva, con storni di bilancio effettuati attraverso decreti detti mille proroghe, stralciando gli stanziamenti previsti per la salute pubblica sempre più in miseria. Conta i soldi in notti senza fine mentre la moglie-burattina dorme, sognando d’avere per coniuge un Rockfeller e un Mubarak, reso celebre dalle mille nipoti mai avute, perché suo marito non si sarebbe mai fermato nell’aggiungere i più numerosi zeri a quanti già conteggiati sfruttando una politica da rapina. Che cosa spinge una persona ad accumulare cifre per ogni mortale difficili da concepire? I soldi non sono mai abbastanza – qui sta l’ingorgo – per chi già ne ha. Sembra un paradosso, ma non è così, il soldo chiamando disperatamente il soldo. Quando Kessel riuscì a raggiungere un milione di capitale, invariabilmente si chiese: perché non due? Una cosa che aiuta a spiegare le tangenti, quanto le truffe organizzate dai Madoff e dai Tanzi, favoriti da più d’una casta diffusa appositamente allo scopo. Il livello dell’insoddisfazione e dell’ingordigia aumenta con l’aumentare della ricchezza; che se non dà la felicità, sottolinea una battuta inventata da chi ha soldi di dubbia provenienza, affratella aspirando a dei padroni afflitti da altrettanta cinica patologia. Quale diametrale abisso dalla figura d’un Bollea, scomparso a 97 anni, dopo essere stato un pioniere degli studi sull’infanzia nell’età evolutiva. Un uomo profondamente impegnato nelle grandi battaglie per i diritti civili, che affermava instancabilmente: “Se vuoi aiutare un bambino, devi sostenerne la famiglia”. Me lo ricordo, negli oltre vent’anni in cui sono stato responsabile dell’assistenza nella capitale, curvo sullo scrittoio dell’Istituto di neu-
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ropsichiatria infantile, dagli anni ’60 nella sede romana di via dei Sabelli, ad ogni conflitto cognitivo uscendosene sconsolato: “Perché si attacca la mistica delle madri, quando l’etologia dimostra che fa parte delle specie viventi. Sappiamo che solo la madre naturale è in grado di captare i segnali del figlio dandogli un significato. È lei che inizia il neonato alle sue capacità e che crea la mente dell’uomo”. Di queste asserzioni grondano i suoi libri più noti: “Le madri non sbagliano mai” e “Genitori grandi maestri di felicità”, ambedue per la Feltrinelli. Su dove si siano rintanate queste mamme perfette, è un altro discorso; le sue erano dichiarazioni di principio di qualche validità dinanzi all’odierna inversione d’ogni soglia fisiologica nel voler comunque concepire, pretendendolo quale placebo a stolida terapia antinvecchiamento. Bollea era sempre infastidito dalla normalità bistrattata che non facesse notizia. Era convinto che battersi contro i guasti della natura e occuparsi del benessere dei bambini fossero attività molto simili tra di loro; e m’è tornato alla mente questo saggio folletto all’ingiunzione d’un ricovero da subire senza discutere, minacciato altrimenti da eventi fatali: come ne sopporterò l’impatto? E trovandomi in questo impegno commemorativo, come non ricordare l’amico Basilio Reale, psichiatra anche lui, più giovane di me di tre anni, insieme con Miccini, Majorino e Isgrò, in quella “Linea d’una ricerca poetica”, apparsa nel 1963 sul Menabò einaudiano n. 6. Reale aveva esordito con Schwarz nel 1956 con le poesie “Forse il mare”. Cui seguirono nello stesso ‘56 “Le quotidiane abitudini”. Ed è del 1963 “La vita attiva”, compresa nella rivista diretta da Calvino e Vittorini. Un accostamento a Bollea non peregrino, non solo perché analista anche lui, ma per l’altrettanta sensibilità civile. Presente del resto anche in Isgrò, particolarmente attivo di lì a poco in operine esilaranti come “L’età della ginnastica” e “L’avventurosa vita di Emilio Isgrò”. Per non parlare della più nota attività riferita alle sue parole cancellate. Scriveva Raffaele Crovi delle nostre poesie apparse sulla rivista citata, tra le altre cose: “…possono essere collocati con attenzioni e dubbi diversi per ciascuno, in un’intima prospettiva tecnologica di funzionalità progressiva Villa e Reale; nelle loro poesie si configura una specie umana che manifestando necessità corporali, si dispone a virtù in un’esistenza attiva di quotidiane abitudini, che soggiacciono a un certo automatismo e subiscono una certa intimidazione dal mondo organizzato della civiltà di massa, che esorcizzano fissandone la pretestuosità attraverso quell’au-
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tomatismo. Si legga in Reale: “In ufficio… nascosto – dalle carte, a lungo – ti ho pensato- liberamente”; in Villa: “Una vita comune perciò – con del tempo davanti però”. Questa poesia né rifiuta l’ordine delle cose né lo utilizza. Non fa pronunciamenti contenutistici, non sviluppa riserve liriche: è insieme contenutistica e lirica nella sua discorsiva immediatezza che s’incrina appena di retorica per un’eco del volontarismo protestatario neorealista”. Concludo il ricordo affettuoso di buon auspicio per il ricovero che m’è stato appena imposto, con i versi di Reale compresi in “La vita attiva”: “Vivere di lavoro e di pensieri / com’è dell’uomo attivo, / chiedermi ogni giorno previdente: / che farò per migliorare? / Aggiungi a ciò l’orgogliosa coscienza di vivere / una vita, piccola se vuoi, / nell’ingranaggio che muove la città./ È lecito che dubiti la sera / che un amico racconta i suoi digiuni, / è umano che non creda alla sua faccia: / prima di fidarsi / conviene diffidare. // Verificate ore e settimane / confermo per il sessantatre / in tutto il primo tratto / la metropolitana in atto”. Eppure non è il primo ricovero che subisco. Ma gli altri erano contingenti a qualcosa d’immediato da tamponare. Stavolta, stando bene, perché strapparmi dallo stazionamento quotidiano dello scrittoio, che per quanto penoso, almeno è soggetto a cadenze che io solo posso controllare. Già dalla scheda clinica d’apertura poi, questo rivangare trascorsi familiari, accudito con automatismo distaccato da un personale in divisa di nessuna differenza con quella d’una caserma o d’una prigionia. C’è poi la mortificazione qui per un fosco segregarmi contro ogni evidenza, in un anonimato che cozza contro il mio bisogno di considerazione, divenutomi cruciale, non avendone da troppo tempo alcun briciolo. Mi trovo in una camera a due letti, le singole qui non ci sono, per quanto l’abbia richiesta, e al solito le invasioni, per quanto previste, s’affastellano inverosimili, rendendo il mio isolamento beffardo anche più penoso e pesante; su qualsiasi cosa possa e voglia fare, sovrasta inoltre i luoghi un panorama piovoso al di là d’una parete tutta vetri, ed è già qualcosa questo tavolincino al quale mi sono avvinghiato subito da naufrago e che vorrò mantenere occupato per quanto mi sarà possibile, quale bara d’un Ismaele in balia di me stesso, sperando di poterne disporre per quanto privo d’un diritto individuale. Lo controllo con garbo e attenzione contratta, tramite appositi strumenti che mi sono recato appresso: un quaderno, una penna, qualche libro e dei giornali arretrati da consultare. Ma qui vige purtroppo una continua invasione di visitatori come temevo chiassosi, aggrappati a pe-
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stiferi cellulari e alle manopole della tv, che gestiscono di continuo come fossero delle incorporate protesi: come fanno gli animali con le loro deiezioni, per segnalare di continuo un loro arrogante percorso e il conseguente territorio con avidità madornale: quale guinzaglio ininterrotto per i cani. E la popolazione aliena s’accresce invasiva, aumentandomi anche un imprevisto fastidio a quanto allestito di baluardo nell’arco d’una giornata nonostante le rassicurazioni dell’infermiera, che stima la cosa del tutto normale. Come posso raccogliermi con questo sferragliare e sbattere di porte, lasciate costantemente aperte su altre porte col moltiplicarsi delle visite, e le invasioni acustiche provenienti dal corridoio e dagli apparecchi cercapersone costantemente accesi sullo sciocchezzaio più demente? Vediamo di fare buon viso, solo ad averne ancora uno appena adatto ad affrontarlo un simile stato di cose; eppure dovrei ringraziarlo il medico curante, avendomi costretto a un tale impatto, secondo lui per prevenirmi un infarto. Come se a succedermi adesso o fra due, tre, cinque anni, la cosa possa influire poi più di tanto: lo stress d’un simile ricovero ritenuto essenziale, minacciandomene uno anche più travolgente. E approssimandosi la notte, cosa farò fino a domani, la luce artificiale da ore già accesa, abbacinante rifrangendosi sul foglio, togliendomi le poche forze agli occhi, già come zolfanelli gravidi di fuoco. Quello che patisco di più ora è l’ansia che circola tra chi saluta e torna a salutare, chiamando e richiamando inutilmente a voce stentorea, in un vasto stato di cose farraginoso che mi fa tornare alla mente gli strazi d’un ufficio subito per tanti anni, chino su quaderni analoghi, solo per non vedere anche allora in faccia gli importuni e tenere a distanza gli assedianti. La medesima pena asfissiante da centellinare ancora senza scampo per delle ore interminabili, non dipese affatto dal mio esserci. E mi chiedo solo quanto potrò resistere, non potendosi prevedere né il come, né il quando mi sarà possibile uscire dal marasma. Quante notti senza sogni che non siano penosi; quante ore da passare ancora interminabili, rattratto su questi fogli, alle spalle una folla che per quanto prevista, non potrò mai smaltire, ossessiva su chiacchiere senza rimedio in moltiplicazioni di interrogativi cretini: anche i copiosi giornali che mi sono recato appresso, non potendoli leggere più di tanto, fin dalle 17 mancandomi il terreno adatto e lo spazio di riferimento a sostegno, con questa luce lagunare, che l’inforchi o meno gli occhiali. Perché dunque continuare a prevenirla tanta sterile salute, il nocciolo di tanta disperazione in un elenco alla Gomorra-Fazio appena letto in
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un resoconto sul Sole 24 ore, tra le altre cose propugnate per valide ed essenziali all’ “Ultimo sorso di birra”, comprendenti mozzarelle di bufala e canzonette spacciate per essenziali alla vita, insieme a “poetici” goal d’un impasticcato Maradona? E piombata la notte oltre i vetri divisori, per tenermi ancora occupato vado avanti, ripassandomi ciò che m’offrono ancora i provvidenziali giornali, apprendendovi un’Africa sovvertita fra rais in fuga alla buon’ora da tutta la fascia mediterranea. Saltano quindi fuori decine di miliardi ammassati; e s’apre di conseguenza la caccia a codesti capitali derubati, cui ben pochi avranno accesso legittimo; e non sarà certo il popolo che ne è stato spogliato sotto gli occhi degli altri Stati sempre distratti circa i diritti del giusto. Nel migliore dei casi andranno ai governi sopravvenuti, non meno arroganti nell’accrescerli a proprio esclusivo uso e vantaggio. Anche in Afghanistan del resto è finita così, dove, a quanto pare i nostri soldati hanno pagato tangenti ai talebani per non essere disturbati, e sono stati accumulati patrimoni umani da parte di un po’ tutti i contingenti di “pace”, incrementandoli con ambigue questioni, nessuno volendo compromettercisi da solo con gli USA: sorta di Chiesa liberatutti in un’abbuffata fuori sede, come successe col colonialismo, quanto con la Crimea, a depredare i mamelucchi: islamici non a caso anche loro, nel lasciarsi dietro cipriote spine rigogliose fino ad oggi per intestini, ininterrotti furori. E procedendo nel leggere, apprendo che ora tutti bloccano i soldi di Gheddafi, ma l’Italia no. Con l’imbarazzo del governo per le quote bancarie in Unicredit e Finmeccanica. La Libia infatti detiene oltre il 10% delle azioni della prima banca italiana. A parte lo storico sbarco nel capitale della Fiat, prevalendo una prudenza attendista da parte nostra che favorisce sicuramente le mafie degli industriali al seguito, per i patti più sordidi: tutti da rivedere in vista di secessioni fatali tra Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. Del resto Gheddafi è diventato Re dei re sospintovi anche dalle escort di Silvio: lo rivela l’ex capo del protocollo libico, insieme all’informazione ch’è di lì che proviene l’allocuzione bunga bunga, scintilla sonante a tutto il capovolgimento africano, qualora il Califfo non cedesse. Purché il vento della rivoluzione non finisca per rafforzare Teheran, tramite le infiltrazioni sciite. Ma, tornando alla mia segregazione ospedaliera, quali scelte da condurre per uscirne quanto prima, in quest’ultimo tratto d’una vita, dove ogni giorno sembra non mi basti più a provvederla: spirale aurea che