Una voce nell’ombra
Era il sette aprile dell’anno 1952. Fin dall’inizio del mese i rovesci si erano susseguiti impetuosi uno dopo l’altro senza mai permettere alle nubi di aprirsi almeno quel tanto da mostrare una minuscola briciola di cielo azzurro. Quel pomeriggio però la pioggia sembrava già un ricordo lontano da come il sole era tornato a inondare di luce abbagliante le strade di Richmond. L’aria luminosa non stava perdendo tempo nel vestire a festa tutto quanto.
Subito dopo l’ora di pranzo Zacharie si era perciò incamminato con la saccoccia a tracolla dove teneva riposta la sua pedana da girovago lustrascarpe. La pedana, robusta e ben stabile, già da sola molto pesante, aveva un vano da potersi aprire e chiudere con uno sportello a scorrere, che conteneva i tre tipi di vernici da scarpe, di colore nero, marrone e anche bianco, poi delle spazzole e alcuni stracci morbidi. Il ragazzo non aveva una meta ben precisa; voleva conquistare una postazione ideale girando qua e là liberamente, quasi con spirito di avventura, senza progettare niente. Non si era ancora abituato a portare tutto quel peso addosso e quando infine trovava da fermarsi si sentiva immancabilmente sollevato. Quel pomeriggio doveva recuperare lo scarso lavoro dei giorni passati a causa del maltempo e provava soddisfazione nell’aver trovato da fermarsi lungo Main Street, nelle vicinanze di un bel negozio di ortolano e non lontano dalla stazione ferroviaria che portava lo stesso nome di quella strada. Zacharie
11 Capitolo priMo ~ 1 ~
non aveva una postazione fissa e gli uomini che si fermavano da lui per farsi lucidare le scarpe dovevano accontentarsi di appoggiare prima un piede e poi l’altro sulla pedana di legno stando appoggiati con la schiena alla parete del caseggiato che si trovava alle loro spalle. Ai più questo non piaceva, ma Zacharie non poteva portare con sé anche una sedia. La sedia era riservata a chi disponeva di un posto fisso e lui non riusciva neppure a immaginare se mai un giorno sarebbe arrivato ad averlo. E poi aveva iniziato quel lavoro da pochissimo tempo. Ancora infatti non sapeva neppure bene come guardarsi intorno. La sua mamma, la signora Suzanne, gli gridava continuamente che doveva considerarsi fortunato se a stento era riuscita a comprargli la licenza per poter esercitare in città quel lavoro risaputo assai redditizio, anche se estremamente servile, e si sentiva in dovere di guadagnare più soldi possibile durante la giornata, oltre che per paura di ricevere altrimenti un paio di schiaffi.
E intanto il pomeriggio si stava rivelando assai fruttuoso. Grazie alla strada ancora bagnata e sporca, tanti uomini si erano fermati a farsi lucidare le scarpe e lui si era impegnato a far bene più di altre volte il suo lavoro nella speranza di ricevere buone mance. Sapeva di essere bravo, anche se quel lavoro non lo entusiasmava per niente, al contrario degli altri giovani lustrascarpe, tutti ragazzi neri come lui, che invece ne andavano fieri, stando a quello che sentiva dire.
Le strade erano ancora bagnate e sporche di terra arrivata chissà da dove, perciò non si era meravigliato di aver dovuto pulire scarpe sudice di fango una dietro l’altra. Ad ogni uomo che si era fermato aveva applicato sulle scarpe una piccola quantità di sapone da sella di cavallo per portare via lo sporco. Dopo aver rimosso il sapone con una spazzola che aveva inzuppato d’acqua alla fontanella lì vicino, aveva steso con un’altra spazzola del lucido da scarpe. Terminata questa operazione aveva applicato un nuovo strato di lucido con un dito sul quale si era sputato più volte, per arrivare infine a usare uno straccio morbido in veloci movimenti circolari, autentici
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piccoli vortici in frenetica successione uno dopo l’altro. In questa fase era risaputo che il lustrascarpe doveva entrare in conversazione con l’uomo che gli stava davanti. Era quello il momento di «far parlare il cencio», così veniva detto, e a Zacharie non era rimasto difficile intavolare un dialogo con i suoi clienti. Infine, dopo aver portato le scarpe al massimo della lucentezza, non aveva mancato di dare il tocco finale lucidando anche i tacchi e il bordo esterno delle suola.
Quanti uomini si erano fermati! Non ne aveva visti così tanti da quando aveva iniziato a lavorare, cioè da appena venti giorni. Si era immaginato che tutti quegli uomini stessero transitando di lì soprattutto per raggiungere la stazione per partire con un treno. Uomini ben vestiti, col cappello pregiato, tutti immancabilmente col giornale in mano, che evidentemente amavano mostrarsi con le scarpe ben pulite e lucide.
Il sole doveva essere vicino al tramonto quando un giovane uomo dall’aria briosa gli si avvicinò sorridendo tra sé, mentre le insegne dei negozi si stavano tutte magicamente illuminando. Quell’uomo non aveva tra le mani il solito giornale, bensì un piccolo mazzo di fiori colorati ben confezionato. Zacharie non conosceva quei fiori e comunque non lo interessavano. La sua attenzione più che altro era rapita dal nastrino rosso che scendeva fluente sopra i suoi occhi in doppia serpentina. Era un uomo che aveva già le scarpe pulite e non gli costò tanta fatica fargliele diventare lucide come uno specchio. Era un innamorato che si stava recando a un appuntamento galante, ne aveva visti altri tre o quattro e sapeva riconoscerli subito dal loro sguardo incerto e da quel lieve ma luminoso sorriso disegnato sulle labbra. Grassi o magri, alti o bassi di statura che fossero, pareva stranamente che si assomigliassero tutti e di solito erano quelli che gli lasciavano mance più ricche. Era con questi uomini che Zacharie si trovava in perfetta sintonia. Il lavoro gli diventava piacevole. Lucidando le loro scarpe provava anche la sensazione di pettinare i loro capelli con la brillantina più pregiata, di sistemare nel miglior modo il nodo della loro cravatta e di usare una spazzola per pulire
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le loro giacche. Per questi uomini egli non era solo un semplice lustrascarpe che faceva il suo lavoro stando inginocchiato ai loro piedi, ma soprattutto una specie di portafortuna. In quel momento diventava il simpatico folletto che poteva donare loro l’ultimo tocco di grazia prima del sospirato incontro d’amore, tanto atteso con bramosia. Era facile valutare come nelle loro menti in ogni angolo infinito fossero collocate a iosa romantiche immagini, sature di bei colori.
I segreti per essere bravo nel suo lavoro erano stati rivelati a Zacharie, fin da quando era solo un bambino, dal vecchio lustrascarpe Jacob, che abitava nel quartiere di Fulton, il quale nel corso degli ultimi due decenni aveva raggiunto il posto fisso e ambito all’interno della stazione ferroviaria. Jacob non era più di questo mondo da oltre un anno ma Zacharie ricordava sempre i suoi insegnamenti. Da lui aveva imparato che per essere un buon lustrascarpe bisognava immedesimarsi nelle vesti di psicoanalista per leggere nella mente dell’uomo di fronte a lui, al momento di far parlare il cencio, così da poter intavolare un minimo di ruffiana conversazione, mostrandosi ogni volta allegro e contento, altrimenti il cliente non sarebbe tornato. Zacharie sapeva essere gentile e cordiale mentre lavorava, non gli costava farlo perché la bontà faceva parte della sua natura, però tante manifestazioni teatrali avrebbe voluto evitarle volentieri. Ogni lavoro comportava l’osservanza di certe regole, gli era stato spiegato, e per fare il lustrascarpe sapeva di doversi comportare in un certo modo, di doversi calare in un ruolo ben preciso. E aveva sempre usato tutto l’impegno possibile. Quello che però non riusciva a fare in alcun modo era ballare e cantare. Tutti gli altri lustrascarpe lo facevano con spontaneità. La maggior parte degli uomini si fermavano volentieri da un lustrascarpe che mostrava il suo talento di ballerino esibendosi dinoccolato sul tratto di marciapiede dove si era trovato un posto, e poi anche sentirlo cantare mentre si impegnava a lustrare le scarpe.
C’erano stati un paio di giorni durante i quali sembrava che nessun uomo avesse voglia di fermarsi a far lucidare le
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scarpe e Zacharie, per attirare l’attenzione, aveva provato a ballare sul bordo del marciapiede improvvisando movimenti convulsi con le membra e la testa, ma sentendosi goffo e ridicolo aveva interrotto subito quelle esibizioni, fino a decidere di non riprovarsi mai più. Se un cliente gli chiedeva di cantare qualcosa se la cavava dando dei leggeri colpi di tosse e facendo la voce roca inventava di avere il mal di gola.
Alcuni uomini gli avevano già detto apertamente che non sarebbero tornati da lui per farsi lucidare le scarpe, proprio perché non aveva né ballato né cantato!
A Zacharie non importava. Preferiva mostrarsi per come era, senza dover usare comportamenti che non gli appartenevano. A lui piaceva sorridere ai suoi clienti, anziché ballare e cantare. Aveva capito subito che il suo bel sorriso, così semplice e naturale, aveva il potere di incantare tutti perché ogni volta era ricambiato. C’erano uomini che si accorgevano di lui fin da lontano. Uomini che ritornavano proprio da lui per avere delle scarpe belle lucide.
“Ho il sorriso contagioso” pensava di tanto in tanto “proprio come lo sbadiglio”.
Così fece davanti a quell’uomo col mazzolino di fiori in mano.
«Ho fatto un buon lavoro signore!» disse rimanendo inginocchiato, limitandosi solo ad alzare in alto la testa. «Con le scarpe così tirate a lucido e i bei fiori che hai comprato avrai buona fortuna signore!».
L’uomo ribatté appena le palpebre e diede distrattamente un’occhiata alle scarpe, poi gli sorrise apertamente e mostrando gli occhi dallo sguardo trasognato mise una mano in tasca per prendere il portafogli.
Zacharie si tolse di testa il cappellino, che portava sempre voltato all’indietro, e lo tese appena in avanti. Di solito era considerata regolare una tariffa di quindici centesimi per una prestazione come quella. A volte qualcuno gliene lasciava venti ed eccezionalmente qualcosa di più. Riconoscendo al volo una moneta da cinquanta centesimi scivolare da quel-
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la mano ben curata si mostrò dapprima meravigliato e poi, sorridendo nuovamente, non poté fare a meno di scattare in piedi.
«Grazie signore! Sei molto buono! Forse non merito i tuoi cinquanta centesimi. Non ho neppure ballato e cantato come fanno tutti gli altri!».
L’uomo rimise il portafogli in tasca e dopo aver guardato velocemente l’orologio lo salutò.
«Hai fatto molto di più» gli disse allontanandosi.
Zacharie lo seguì con lo sguardo e quando ritenne che fosse abbastanza lontano mise i cinquanta centesimi nella piccola borsetta di cuoio leggero che portava a tracolla nascosta sotto la giacca e dopo aver nuovamente sistemato il suo cappellino voltato all’indietro sulla testa ripose la pedana nella saccoccia e s’incamminò soddisfatto.
“Per oggi basta così” pensò guardandosi distrattamente intorno. Passando però di fronte al negozio di ortolano si fermò di colpo, attratto dalle composizioni di frutta esposte in vetrina con gusto raffinato. Con la coda dell’occhio gli era sembrato di aver visto dell’uva e non poté fare a meno di avvicinarsi al vetro… Non si era sbagliato… In un largo canestro appoggiato sopra una piccola botte c’erano tanti grappoli di uva nera dai chicchi molto grossi. Non gli sembrava vero; non ricordava di aver mai visto l’uva nel mese di aprile, e poi quella era così bella… doveva anche essere molto buona… Quanta altra frutta era esposta dintorno, tutta bella, indubbiamente assai gustosa, ma Zacharie non vedeva che l’uva. Gli era capitato appena di assaggiarla in vita sua, e solo d’autunno, quando sua madre aveva la possibilità di prenderne un po’ dalla cucina del ristorante dove lavorava. Avvicinandosi ancora appoggiò una mano e la fronte sul vetro sospirando di poterne mangiare un grappolo intero.
“Potrei comprarne un po’… Io lavoro come mia madre e mia sorella e quelli che ho nella borsa di cuoio sono soldi che ho guadagnato lustrando le scarpe alla gente. Perché quando la sera torno a casa devo sempre rovesciarli tutti quanti sulla
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tavola sotto gli occhi della mamma che li prende e li mette di corsa nel suo cassetto? Se lasciassi qualche spicciolo nelle tasche dei pantaloni per usarli come voglio non ci sarebbe mica niente di strano… e poi forse non se ne accorgerebbe neppure!”.
Una voce d’uomo, possente e minacciosa, lo fece sussultare.
«Mi stai sporcando la vetrina! Vattene via!».
Zacharie fece un salto all’indietro spaventato e sgranando gli occhi fissò il proprietario del negozio che era balzato sul marciapiede con fare iracondo. Era un uomo giovane dalla barba molto lunga che gli ricadeva divisa in due ciuffi ispidi e affusolati sull’impeccabile camicia bianca strizzata in un attillato gilet nero. Aveva due ciocche di capelli simili alle molle dei materassi che gli scendevano davanti agli orecchi e portava sul naso dei piccoli occhiali rotondi. Il ragazzo riconobbe che era ebreo, sicuramente uno dei tanti commercianti della comunità proveniente dall’Europa orientale che si era insediata a Richmond per gestire negozi di ogni genere proprio in quel quartiere e per incrementare i loro affari nella zona del mercato.
Passato quell’attimo di spavento, Zacharie gli sorrise.
«Mi dispiace signore. Ho visto l’uva e mi sono avvicinato incuriosito. Non l’avevo mai vista in questa stagione… Riguardo alla vetrina, non mi pare di averla sporcata signore…» gli rispose rivelando inevitabilmente la sua erre moscia.
L’uomo si acchiappò con le mani da una parte e dall’altra ai bordi alti del gilet e spingendo in avanti lo stomaco lo guardò severamente.
«Perché mi parli con questo strano accento? Vuoi forse prendermi in giro?».
Zacharie si strinse nelle spalle.
«Questo è il mio modo di parlare, signore, la mia famiglia…».
«Oh, non farmi perdere tempo ad ascoltare chissà cosa! Vuoi sapere dell’uva? Per noi non è certo un problema far-
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la arrivare dal Cile!» gli disse con tono ambizioso. «E non venirmi a dire che non hai sporcato la vetrina! Sei o non sei un lustrascarpe che usa il sistema del “lustro a sputo”? Affacciandomi alla vetrina ho visto più volte come lavori!».
Zacharie indietreggiò ancora ma non scappò.
«Io faccio un perfetto “lustro a sputo” signore, nessuno si lamenta; è così che si fa questo mestiere signore».
L’uomo aggrottò più che poté le sopracciglia.
«Hai toccato la mia vetrina con le mani dove ti sei sputato sopra! Anche se non si vede niente l’hai per forza sporcato il vetro. Vai, vai per piacere! Non farmi arrabbiare. E se torni in questa strada non metterti così vicino al mio negozio come hai fatto oggi. Questo pomeriggio ho voluto essere buono e ti ho lasciato stare, ma dopo quello che hai fatto ho capito di aver sbagliato».
Zacharie trattenne il respiro e si morse le labbra. Di umiliazioni ne subiva tante, eppure non si abituava mai, ma prima di andarsene in silenzio non poté fare a meno di sorridere. Quell’uomo allora si stupì e rimanendo a bocca aperta lo seguì con lo sguardo lasciando ricadere in basso le braccia, come se per qualche misteriosa ragione le forze lo avessero abbandonato per un attimo.
Camminando a testa bassa Zacharie non pensava più all’uva che aveva visto in quella bella vetrina. Improvvisamente erano emersi nella sua mente tanti pensieri sui quali non riusciva mai a riflettere nel modo giusto. Non si sentiva capace di farlo. Li considerava pensieri da adulto e ancora adulto lui non era.
“Qualcuno dovrebbe aiutarmi a capire; la confusione che sento in testa mi fa stare male… ma nessuno si fermerà mai ad ascoltarmi…”.
Dopo aver camminato per nemmeno cinquanta metri al primo incrocio girò l’angolo desideroso di uscire da quella strada, quando tre ragazzi neri con qualche anno più di lui e assai più alti, anche loro lustrascarpe con la saccoccia a tracolla, gli si piazzarono davanti sorridendo ambiguamente.
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«Ehi, francesino, ti è andata bene a metterti vicino a quell’ortolano! Il padrone di quel negozio è l’uomo più burbero della città! Strano che non ti abbia tirato una secchiata d’acqua!».
Zacharie non riuscì a sorridere e si meravigliò per questo. Quei tre ragazzi, che ricordava avere incontrato velocemente altre volte, e con i quali aveva scambiato sì e no solo un saluto, lo avevano turbato perché si stavano mostrando ostili. Forse si trattava di una di quelle dimostrazioni che in ogni ambiente lavorativo vogliono far capire chi conta di più e chi di meno, chi ha in mano la situazione e chi no e doveva perciò stare molto attento…
«Ho cominciato da poco… Ancora non conosco bene la città… Ma… come mai mi hai chiamato francesino?».
I tre ragazzi si misero a ridere.
«Perché, non sei francese? Non lo farai apposta a pronunciare l’erre in quel modo! Sapessi che effetto fa! Sembri una femminuccia! Comunque non c’è da meravigliarsi se non sai di essere chiamato francesino; non cerchi di fare combriccola con nessuno, ti fai solo gli affari tuoi e per forza non sai niente di quello che viene detto in giro!».
Zacharie prese fiato e riuscì finalmente a sorridere.
«La mia famiglia proviene dalle Isole Mauritius e in casa parliamo in francese, non c’è niente di strano… Ascoltate, siamo dei ragazzi che fanno lo stesso lavoro, possiamo essere amici».
Uno dei tre smise di sorridere e gli andò di fronte a muso duro.
«Amici? Tu sei così strano… Non sei come noi! Non sai ballare e nemmeno cantare. Ti abbiamo visto!».
«Lo so, non mi riesce, ma col tempo potrò imparare e…».
«Imparare? Noi non lo abbiamo mica imparato! Certe cose la gente come noi ce l’ha nel sangue, eppure dovresti saperlo!».
Zacharie cominciò a sentire il cuore battergli forte nel petto e si appoggiò alla parete della casa.
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Anche gli altri due ragazzi gli si fecero praticamente addosso.
«Non ti piace la nostra compagnia? Perché non sei mai venuto a cercare noi e tutti gli altri per fare combriccola? Ti potremmo anche far fumare, abbiamo tante di quelle sigarette!».
Zacharie si schiarì la voce e inutilmente cercò di parlare senza usare l’erre moscia.
«Io… ho cominciato da poco, sono alle prime armi e per adesso sono concentrato a prendere pratica nel fare questo lavoro. Voglio ingranare bene, in modo che i clienti vadano via soddisfatti… Tra un po’ di tempo, quando mi sarò ambientato, riuscirò a trovare lo spazio anche per stare in compagnia. Credetemi, sono ancora disorientato».
«Ambientarti? Intendi dire nel lavoro? Ma tu non hai la stoffa del lustrascarpe! Lo dovresti capire da solo! Hai appena detto che non riesci a ballare e cantare per i clienti, e questo fa parte del lavoro. E poi… quanti anni hai?».
Zacharie avrebbe voluto scappare ma si sentiva inchiodato alla parete della casa.
«Ho dodici anni compiuti da poco… E per quanto riguarda il lavoro alla fine quello che conta è fare le scarpe belle lucide e questo lo so fare benissimo. Il mio maestro è stato il vecchio Jacob, che aveva il posto fisso alla stazione. Avrete certo sentito parlare di lui!».
Tutti e tre i ragazzi risero allora in coro.
«Certo che ci ricordiamo del vecchio Jacob! Quell’avaro! Ha fatto un sacco di soldi in vita sua e invece di goderseli si è sempre vestito di stracci per comprare la casa ai figli! E… non venirci a dire che hai davvero dodici anni! Sembri un bambino!».
Zacharie trovò la forza di parlare ancora.
«Siamo solo dei ragazzi, dei miseri lustrascarpe, cerchiamo di andare d’accordo per piacere. Che vi succede? Io non vi ho mica fatto niente».
Uno dei tre a un tratto lo afferrò per il colletto della giacca.
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«Siamo già in tanti, tu sei di troppo in questa città! Come ti è saltata in testa l’idea di venire a rubare il lavoro a noialtri?
E poi ci sei antipatico. Sempre tutto perbenino, tranquillo, sorridente…».
Zacharie sgranò gli occhi.
«Io ho in mente di avervi visti appena… Sembra invece che voi mi conosciate così bene…».
«Ti abbiamo tenuto d’occhio, pivellino! Allora hai capito? Tu sei di troppo! È bene che da domani tu non torni più a girare per le strade per fare il lustrascarpe, a meno che…».
Zacharie rimase col fiato sospeso.
«A meno che… Cosa significa?».
Uno dei ragazzi lo afferrò per i capelli per fargli alzare la testa.
«A meno che, se tu vuoi proprio esercitarlo questo lavoro, quando arrivi alla sera lasci a noi una parte dei tuoi soldini. Prendere o lasciare. Se farai il bravo nessuno ti darà fastidio e t’insegneremo anche a ballare e cantare!».
Zacharie si spaventò.
«Sarebbe come rubarmi dei soldi, e poi se non porto a casa un buon guadagno la mia mamma si arrabbierà! È così severa con me!».
I tre ragazzi cominciarono a ridere sguaiatamente.
«Oh! Hai anche paura della tua cara mammina! Ebbene, non dovrai averne. Hai capito? Quando arriva sera svuoti un po’ le tasche a noi! Che problemi ci sono? Non hai detto di essere bravo? Ti metti a lavorare sodo e dopo averci dato qualcosa porterai lo stesso tanti soldi anche a casa».
Di colpo il suono di un fischietto spezzò l’aria e i tre ragazzi si scostarono di scatto da Zacharie.
Due poliziotti si stavano avvicinando a passo svelto, un bianco e un nero, ambedue grassottelli da apparire insaccati nelle loro uniformi.
«Ragazzi, che succede? Intanto mostrateci le vostre licenze!».
Zacharie si appoggiò con tutte le sue forze alla parete del caseggiato e vide i tre ragazzi sparire alla velocità di un razzo,
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diramandosi uno a destra, uno a sinistra, l’altro nel vicolo di fronte.
I due poliziotti non seppero fare altro che girare su se stessi per tornare infine a rivolgere i loro occhi su Zacharie, che stava tirando fuori il foglio della sua licenza dalla tasca interna della giacca.
«Ecco la mia licenza signori agenti».
I due uomini diedero solo una veloce occhiata a quel foglio.
«Sì, sei a posto. Gli altri tre evidentemente non ce l’hanno. Li conosci? Ti stavano infastidendo, lo abbiamo capito. Come mai?».
Zacharie abbassò lo sguardo. Aveva paura di ricevere delle brutte ritorsioni da quei tre ragazzi se avesse detto la verità.
«Mi stavano solo prendendo in giro per la mia erre moscia».
I due poliziotti si scambiarono un veloce sguardo.
«Non devi proteggerli, altrimenti non la smetteranno mai con i loro soprusi. Certamente ti stavano minacciando, non negarlo. Volevano dei soldi, sicuramente, e inoltre sono degli abusivi. Sai dirci i loro nomi?».
Zacharie abbassò anche la testa. Si sentiva più indifeso di un topolino.
«No signori agenti, è la verità. Non so chi siano. Ve l’ho detto, mi prendevano in giro e facevano i prepotenti come purtroppo si usa fare con gli ultimi arrivati».
Il poliziotto nero scosse la testa nervosamente.
«Anche tu sei uno che non vuol parlare! Non devi aver paura! Davvero non li conosci?».
«Ma è vero che non li conosco!».
Una voce richiamò l’attenzione di tutti quanti. Un lustrascarpe che poteva avere circa quindici anni, un ragazzo altissimo, era apparso sull’angolo della strada.
«Anch’io tempo fa ho avuto a che fare con loro, ma neppure io conosco i loro nomi».
I due poliziotti non persero tempo:
«Tu hai la licenza?».
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Il ragazzo aveva già il foglio in mano.
«Sapevo che me l’avreste chiesta. Ecco qua… Quei tre, come tanti altri ce ne sono, fanno già parte della piccola malavita. Di sera frequentano il Social Club vicino al porto dove si scatenano risse una dietro l’altra. Credo che escano abitualmente col coltello in tasca e che facciano parte dell’organizzazione che vende la marijuana ai ragazzi. Si azzardano anche a frequentare la zona tra Broad Street e Duvall Street dove sembra sempre carnevale da come i marciapiedi sono affollati».
Uno dei poliziotti diede un’occhiata alla licenza e gliela riconsegnò.
«Sei a posto. Dimmi, come fai a sapere tutte queste cose?».
Il ragazzo sorrise meravigliato.
«Chi è che non conosce queste cose? Voi piuttosto, signori agenti, davvero non ne sapete niente?».
«Le tue insinuazioni sono inopportune! Cosa credi, che ce ne stiamo con le mani in mano? Non sai quello che rischiamo con le ronde nel rione di Jackson Ward! Non sappiamo più cosa fare: aggressioni, donne stuprate, rapinatori agili più delle scimmie! E adesso? Non siamo forse intervenuti? Non lo stiamo facendo il nostro dovere? Piuttosto, hai detto di avere avuto a che fare con loro. Dunque?».
Il ragazzo guardò Zacharie.
«Immagino che con lui abbiano realmente voluto fare solo i prepotenti. Guardate anche voi com’è piccolo, e poi ha l’erre moscia… Due caratteristiche ideali per essere schernito! Da me invece a suo tempo avrebbero preteso una parte del mio guadagno a fine giornata, ma intervenne mio padre, che farebbe paura al campione del mondo dei pesi massimi e che il giorno seguente, quando a fine pomeriggio si presentarono davanti a me, saltò fuori da dietro l’angolo e li massacrò a suon di pugni e bastonate, tanto che da allora in poi mi hanno sempre evitato».
«Tuo padre non aveva alcun diritto di farsi giustizia da solo! Avresti dovuto denunciarli e saremmo intervenuti noi».
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Il ragazzo chiuse la bocca e si finse intimorito.
«Mi dispiace. Chiedo scusa a nome di mio padre signori agenti. Se ci sarà una prossima volta seguirò il vostro consiglio».
I poliziotti si morsero le labbra nervosamente.
«Hai parlato anche troppo e sarà bene che te ne vada» disse uno di loro. «Anche tu ragazzo» proseguì rivolgendosi a Zacharie «che aspetti ad andare a casa? Sei davvero piccolo! Non lo vedi che il giorno se n’è già andato? E se vuoi un consiglio non tornare mai più in questa zona. Qui in fondo a Main Street c’è il peggio del peggio. Locali malfamati, gentaglia a giro lungo le strade, tante possibilità di incontrare situazioni pericolose. Rimani nelle vicinanze di casa tua, almeno fino a che non sarai abbastanza cresciuto. Dove abiti?».
Zacharie si voltò prima a destra e poi a sinistra.
«Io abito nella zona di Chimborazo Boulevard. Sono arrivato fin qui girando a destra e a sinistra un po’ a caso… Ora torno indietro e cerco di ritrovare la strada».
Il ragazzo alto e magro gli mise una mano sulla spalla e guardò i poliziotti.
«Vedo che non ha le idee chiare. State tranquilli, almeno nelle vicinanze di casa sua lo riaccompagno io».
Il poliziotto nero gli sorrise lievemente.
«Bravo, ci fidiamo di te» disse facendo un cenno di saluto, poi, insieme all’altro, s’incamminò per tornare in Main Street.
Il ragazzo li seguì con lo sguardo e poi invitò Zacharie a mettersi a suo fianco.
«Andiamo, anch’io ho voglia di tornare a casa. Ti accompagno fino a un certo punto e poi è giusto che ti arrangi da solo. Allora? Anche tu da quei tre hai avuto delle minacce per estorcerti dei soldi, non è vero?».
«Beh, sì… non lo so perché ho avuto timore a dirlo. Comunque per fortuna è finita così e da domani cercherò di non arrivare fin quaggiù».
«E anche di non fare così tardi. Tra un po’ sarà buio e quando fa buio per uno come te è meglio trovarsi già in casa».
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«Cercherò di stare attento da ora in poi. Ho avuto così tanto lavoro che il tempo è volato via insieme alla luce del giorno. Ti ringrazio per esserti offerto di accompagnarmi. Non appena capisco che posso orientarmi da solo te lo dico. Come ti chiami? Anche tu non sei ancora riuscito ad avere un posto fisso con la sedia?».
Il ragazzo lo guardò storcendo la bocca.
«Mi chiamo Victor, e tu?».
«Zacharie».
«E abiti a Chimborazo Boulevard… Che strano, non è un quartiere per gente come noi… Hai anche una bella casa?».
«No, la mia casa non è certo bella. Abito in un appartamento al primo piano di una vecchia palazzina, con la porta d’ingresso di lato al caseggiato, alla quale si arriva salendo delle strette scale esterne. Sul retro c’è un piazzale di cemento, tutto recintato. Non ci si può andare ed è sudicio da far paura. È un tappeto di ferraglie rugginose mischiate a foglie ed erba rimaste lì a marcire. Sembra che prima ci fosse una cisterna per l’acqua che poi è crollata».
«Ho capito… Zacharie, hai cominciato da poco tempo il lavoro di lustrascarpe? Non ti ho mai visto girare per le strade».
«Sì, da poco tempo, da nemmeno venti giorni».
«Da nemmeno venti giorni? Perbacco! Dunque ancora non avrai imparato un modo tutto tuo di ballare per attirare clienti».
«Oh, no di certo… Forse non lo imparerò mai perché provo imbarazzo a divincolarmi sul marciapiede alla vista di tutti».
Victor rise.
«Questa è buona! E il cencio lo sai far parlare?».
Zacharie allora gli rispose con decisione.
«Sì, riesco sempre a fare conversazioni con i clienti. Mi riesce senza sforzo, spontaneamente».
Victor scosse la testa.
«Meno male, ma è troppo poco… Beh, ne avrai da passare prima di avere un posto fisso! Io dovrei averlo entro la fine
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del mese, nelle vicinanze del porto, accanto alla tabaccheria, all’interno della quale i proprietari custodiranno in qualche angolo tutto il mio arsenale da lavoro, compresa la sedia, così la smetterò di portarmi sempre tutto questo peso addosso. Sarà una pacchia!».
Zacharie gli sorrise.
«Una bella fortuna! Hai trovato delle persone molto buone!».
Victor si strinse nelle spalle.
«I gestori sono neri, amici della mia famiglia. Mio padre lavora alla manifattura del tabacco e per questo anni indietro si sono conosciuti. Bisogna darci una mano tra noi altrimenti chi ci guarda? A parte qualche eccezione noi neri siamo sempre quelli che rimangono dietro l’ultima ruota del carro. Anche questo nostro mestiere saprai già che siamo solo noi neri a farlo. Figurati se un bianco si abbasserebbe mai a mettersi inginocchiato davanti a un uomo per lucidargli le scarpe!».
Zacharie s’incupì.
«Neppure io vorrei farlo, ma non avrei saputo fare altro. In seguito sarei tanto contento di poter fare qualche lavoro diverso, qualcosa di più dignitoso. Immagino che anche tu…».
Victor lo interruppe.
«Anch’io? No di certo! Il lustrascarpe è un lavoro che rende bene. No, non ci penso nemmeno! Nessun altro lavoro potrebbe farmi guadagnare così tanto!».
Zacharie sospirò.
«Questo è vero. Mi ha insegnato a fare il lustrascarpe il vecchio Jacob, lo avrai sentito rammentare. Lui aveva guadagnato tanti soldi, ma proprio tanti!».
Victor si stupì.
«Il vecchio Jacob? Mi rammento bene di lui, abitava come me nella zona di Fulton, il quartiere di noi neri. Quando è morto si sono contesi a coltellate il suo posto alla stazione. Sarebbe il massimo lavorare lì!».
Zacharie si era recato alcune volte a trovare il vecchio Jacob alla stazione e gli era sempre venuto un grosso nodo in
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gola nel vederlo lavorare. I suoi clienti stavano seduti su una bella sedia simile a un trono posta su una pedana abbastanza alta, per cui l’atteggiamento servile di stare inginocchiato di fronte per lucidare le scarpe appariva per forza molto accentuato. Una volta lo aveva paragonato a uno schiavo che leccava i piedi del suo padrone, ma non aveva mai osato dirglielo.
«Per me sarebbe una grande umiliazione lavorare in quel modo. Preferisco rimanere sui marciapiedi delle strade».
Victor rallentò il passo per guardarlo negli occhi.
«Ho capito cosa c’è alla base di tutto… tu non sei fatto per fare il lustrascarpe! Davanti ai soldi devi mettere da parte l’orgoglio! Il nostro è un lavoro meschino ma redditizio! Per noi neri è normale fare la parte del servo, si sa che è così, ma se poi non hai mai il portafoglio vuoto ci ridi sopra!».
Zacharie proseguì a camminare abbassando la testa e Victor sospirò.
«Ho capito, sei ancora un po’ selvatico, ma presto ti abituerai alle condizioni a cui bene o male dobbiamo sottometterci. Dimmi un po’, se tu abiti presso Chimborazo Boulevard come hai fatto a conoscere il vecchio Jacob?».
Zacharie si rattristò.
«Noi siamo cattolici. Andavamo alla Messa nella Cappella dei Marinai, vicino al molo. La cappella è frequentata per la maggior parte dagli immigrati irlandesi che lavorano nelle fabbriche di tabacco della zona est della città e i neri non sono bene accetti, così la mia mamma mi lasciava fuori ad aspettare. Il vecchio Jacob una volta, passando da lì, si è avvicinato incuriosito nel vedermi tutto da solo appoggiato alla parete per rimanere il più possibile sotto tetto nel tentativo di ripararmi dalla pioggia. Mi ha protetto col suo ombrello e siamo diventati amici. Sono stato tante volte a trovarlo a casa sua e lui mi ha insegnato piano piano a diventare un bravo lustrascarpe… Mi manca il vecchio Jacob, mi piaceva tanto parlare con lui».
Victor si fermò mostrandosi incredulo.
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«La tua mamma ti lasciava fuori? E lei con gli altri della famiglia perché potevano partecipare alla liturgia se davvero alla Cappella dei Marinai i neri non sono graditi? Forse la domenica mattina si verniciavano il viso e le mani di bianco? Ma cosa mi stai raccontando?».
Zacharie s’imbarazzò e gli rispose voltandosi da un’altra parte.
«Non hanno bisogno di verniciarsi, loro non sono neri, ma bianchi. Sono nero solo io. E poi… quella cosa è finita da tre o quattro anni. Adesso quando loro vanno alla Messa io resto sempre a casa. Non sono più un bambino piccolo e posso farlo. Tanto che ci vado a fare? E poi l’ho capito… Noi neri non siamo graditi, è vero, ma non esiste nessun severo divieto contro di noi e se volessi potrei anche entrare. È la mia mamma che preferisce che io rimanga fuori, che non vuole essere vista con me accanto, così restando a casa la faccio contenta. I miei genitori sono arrivati qui in Virginia dalle isole Mauritius per cercare fortuna nel 1938 e avevano già mia sorella Alphonsine, di appena quattro anni. Erano “creoli”, discendenti dei coloni francesi. Volevano fuggire dai problemi dovuti al sovraffollamento. Il lavoro non c’era per tutti, il clima era avverso e inoltre la gente non riusciva a vivere pacificamente a causa del gran miscuglio di culture e religioni che si era andato a creare col tempo».
Victor riprese a camminare lentamente non riuscendo a trovare chiarezza nei pensieri che gli si erano scatenati in testa.
«Loro sono bianchi e tu sei nero… Ora capisco. Oltre che ai fedeli irlandesi della Cappella dei Marinai non eri gradito neppure in famiglia, ci vuole poco a capirlo. Dunque i tuoi genitori e tua sorella avevano la sfrontatezza di partecipare alla Messa e lasciarti fuori da solo ad aspettarli! Sarai stato anche piccolo, per diamine!».
Zacharie si passò nervosamente la lingua sulle labbra. Ormai aveva voglia di raccontare tutto a quel ragazzo che fino a poco prima non aveva mai visto.
«Solo mia madre e Alphonsine. Mio padre se ne andò da casa poco dopo la mia nascita. L’ho visto solo qualche volta
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rimanendo in lontananza quando s’incontra con mia sorella. A me non si avvicina mai e non mi vuole nemmeno parlare».
Victor aggrottò la fronte e poi sorrise tristemente.
«Ho capito. Adesso ho capito. Non è una bella storia la tua. Certamente non ti avranno adottato… Però a volte accadono cose strane, perciò… per caso ti hanno adottato?».
Zacharie spalancò gli occhi per la meraviglia. Nessuno gli aveva mai fatto una simile domanda.
«Adottato? No… Victor, ascolta, l’uomo che se ne è andato di casa quando io sono nato non era di certo mio padre. Alla piccola scuola che ho frequentato, le suore mi hanno sempre detto che probabilmente in famiglia c’è stato un antenato nero, e che lui è stato cattivo ad andarsene via, ma ora i miei occhi cominciano ad aprirsi, forse anche perché i ragazzini che abitano nel mio quartiere e anche gli amici di scuola mi hanno malignamente fatto più volte battute pesanti sul motivo per cui io sono nato nero, facendomi diventare tanto triste e pensieroso».
Victor sospirò.
«Beh, non mi meraviglio, ma forse ti ho fatto parlare anche troppo. Continuiamo il cammino finché me lo dici tu e se ci rivediamo durante il nostro girovagare facciamo qualche altra chiacchierata. Comunque già che ci siamo ti vorrei dare un consiglio di lavoro. Visto che sei di famiglia cattolica, perché non ti fai qualche bella postazione vicino alle chiese in questa settimana?».
Zacharie lo guardò con stupore.
«Che intendi dire?».
«Perbacco, oggi inizia la Settimana Santa. Domenica sarà il giorno di Pasqua! In questi giorni ci sono tante celebrazioni, sai quanta gente potrebbe fermarsi a farsi lucidare le scarpe per non fare brutta figura in chiesa?».
Zacharie fece una smorfia con la bocca e abbassò lo sguardo.
«Non lo ricordavo».
Victor scosse la testa e riprese a guardare davanti a sé.
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«Devi isolarti molto con i tuoi pensieri. Che oggi è il Lunedì Santo lo so anch’io che sono di religione protestante, ma ora andiamo, dai, allunghiamo il passo».
Zacharie quasi non lo aveva ascoltato, pensando ancora a quello che era stato detto in precedenza. Lo sapeva di non avere una bella storia, ma nessuno gli aveva mai spiegato con franchezza la sua situazione. Assurdamente aveva sperato che proprio Victor potesse aiutarlo a trovare un aperto chiarimento, ma non fu così. Pareva che Victor avesse preferito rifugiarsi dietro un silenzio perfetto invece di continuare a dialogare. Dopo aver camminato per almeno trecento metri accanto a lui, udendo solo il rumore dei loro passi mischiato ai tanti suoni della città, lo richiamò girando la testa in alto per poterlo guardare in viso.
«Victor, da qui posso andare da solo, stai tranquillo. Se non avremo modo d’incontrarci per le strade verrò a trovarti a fine mese alla tabaccheria del molo, quando avrai iniziato ad avere la postazione fissa».
Victor gli tirò un’amichevole pacca sulla spalla. «D’accordo. A presto Zacharie, mi ha fatto piacere conoscerti».
Zacharie gli sorrise e proseguì a camminare speditamente, ormai sicuro di non sbagliare tragitto.
Alphonsine si tirò indietro dalla finestra e andò ad appoggiarsi accanto alla porta. Era nervosa. Incrociando le braccia guardò sua madre.
«Zacharie ancora non torna, ed è già buio».
Sua madre, Suzanne, si stupì per le sue parole e dopo aver terminato di versare nel tegame le abbondanti porzioni di carne arrostita che aveva preso al ristorante tra gli avanzi della giornata precedente, riprese a sistemare la tavola per la cena.
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indiCe 5 Prefazione di Rosanna Maestrelli 7 Nota dell’autore Una voce nell’ombra 11 Capitolo primo 38 Capitolo secondo 65 Capitolo terzo 144 Capitolo quarto 170 Capitolo quinto 242 Capitolo sesto