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LA LOMBARDIA E LENO NEL RISORGIMENTO Conferenza del prof. FILIPPO RONCHI 17 marzo 2011 ore 10,30 -Teatro Comunale La Lombardia fu- insieme al Piemonte- il centro propulsore del Risorgimento. C’è da chiedersi a quali motivi debba farsi risalire questa centralità. E’ su tale aspetto che intendo soffermarmi. Bisognerà dunque risalire alle vicende che avevano interessato la regione dal 1815. Le province lombarde, dopo la fine dell’ età napoleonica, erano andate a costituire la metà del cosiddetto Regno Lombardo-Veneto , privo in realtà di qualsiasi autonomia, al di là di qualche orpello decorativo, perché saldamente integrato nell’ Impero Austriaco. Tanto che la carica di vicerè fu tenuta dal 1818 al 1848 dal fratello dell’ imperatore d’ Austria e si ridusse a compiti puramente formali. Anche i vari enti locali (ad esempio le Congregazioni centrali di Milano e Venezia e quelle provinciali) non avevano alcun diritto di iniziativa, ma potevano soltanto rappresentare all’ imperatore “i bisogni, i desideri e le preghiere della Nazione”. Un qualche margine di manovra lo avevano i comuni, fermo restando sempre, però, che nelle città il podestà indicato dalle congregazioni municipali doveva essere poi nominato dal governo imperiale. Insomma la dipendenza dall’ Austria era particolarmente pesante e come tale fu sentita dai borghesi e dai nobili, oltre che dalla popolazione artigiana ed operaia urbana. La mancanza di un’ effettiva autonomia amministrativa e la presenza di un esercito di occupazione composto prevalentemente da soldati slavi, austriaci ed ungheresi , mentre i coscritti lombardi venivano inviati a prestar servizio quasi sempre sui confini orientali dell’ Impero con la Russia e la Turchia, diedero la sensazione di un dominio straniero molto più forte di quanto l’ avevano data le repubbliche giacobine e successivamente il regno italico rispetto alla Francia. Non contribuì insomma a rasserenare gli animi la presenza sul territorio di circa 35.000 uomini dell’ esercito imperiale, che arrivarono a ben 80.000 alla vigilia dei moti del 1848.
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Inoltre furono particolarmente gravosi il tributo finanziario ed il sistema doganale ai quali il Lombardo- Veneto fu sottoposto. Il governo austriaco tenne sempre segreti i bilanci del Lombardo – Veneto. Tuttavia il sospetto che il paese fosse gravemente sfruttato dal punto di vista fiscale si diffuse subito largamente. Ricerche storiche accurate, condotte agli inizi del Novecento, dimostrarono in effetti che, mentre il bilancio generale della monarchia asburgica era stato sempre in deficit fino al 1860, il bilancio del Lombardo- Veneto si era chiuso ogni anno con avanzi netti molto notevoli. Ma- e qui stava il problema- il fisco austriaco assorbiva circa i due terzi dei cospicui avanzi annuali lombardo- veneti, che andavano così a diminuire sensibilmente il deficit cronico dell’ intera monarchia senza avvantaggiare in alcun modo il Lombardo – Veneto stesso. Fu quindi particolarmente odiosa la segretezza di cui il governo di Vienna circondò la sua gestione finanziaria. Nel campo doganale, inoltre, l’ Austria introdusse il cosiddetto “sistema proibitivo”, consistente in una molteplicità di dazi, non solo sull’ importazione, ma anche sull’ esportazione e sul transito delle merci, che ebbero soprattutto una funzione fiscale. Tutti questi dazi restarono sempre in vigore, intralciando non poco i commerci lombardi soprattutto con le altre parti d’ Italia. Eppure, malgrado una situazione tanto sfavorevole, l’ economia e la società lombarde avevano in se stesse risorse che le permisero di svilupparsi grandemente nei trentaquattro anni di pace ininterrotta goduta dal paese dopo il 1814. In Lombardia, infatti, le trasformazioni in senso capitalistico dell’ agricoltura, estesesi poi all’ industria, avevano determinato uno sviluppo della borghesia più notevole che nelle altre regioni d’ Italia. L’ economia lombarda, grazie alla forte esportazione di seta greggia verso i mercati di Londra e dell’ Europa centro-settentrionale e grazie all’ intraprendenza di alcuni elementi dell’ aristocrazia e della borghesia, era notevolmente più progredita di quella di tutti gli altri Stati italiani ed aveva stretti legami con tutti i più avanzati Paesi d’ Europa. La rete stradale, estesa e migliorata sia dai Francesi nel periodo napoleonico sia dal governo austriaco negli anni della Restaurazione, rimase per molto tempo la migliore d’ Italia.
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Milano fu quindi congiunta con servizi postali e di diligenze rapidi per l’ epoca alla Francia, alla Svizzera, alla Germania e all’ Austria , mentre non altrettanto buone furono le sue comunicazioni con l’ Italia centrale e meridionale. La Lombardia potè quindi partecipare alla vita economica e culturale dell’ Europa in modo più intenso e continuo di tutto il resto d’ Italia. Tutto questo fece sentire i suoi effetti particolarmente a Milano fin dai primi anni della Restaurazione e contribuì non poco, prima che il governo austriaco intervenisse con gravi provvedimenti repressivi, a far sì che la cultura milanese conservasse la posizione di avanguardia che aveva avuto nell’ età rivoluzionaria e in quella napoleonica. Tutto questo fermento si scontrava, ovviamente,con la resistenza che ogni idea di autonomia per il Lombardo-Veneto trovava nell’ alta burocrazia viennese, in particolare nella “Cancelleria aulica riunita” (ministero dell’ Interno) e nel ministero delle Finanze. L’ Austria si rivelò una monarchia burocratico – militare, governata dall’ elemento tedesco. D’ altra parte, quanto più in Italia si rafforzava il sentimento nazionale, tanto più difficile diveniva la collaborazione dei ceti colti con i dominatori stranieri. Fallì perciò completamente l’ iniziale tentativo austriaco di svolgere in Lombardia una politica culturale che potesse rafforzare il dominio politico – militare. Di fronte allo sviluppo del movimento romantico – liberale ed alla sua rivista, Il Conciliatore, il governo austriaco si ridusse a combattere con l’ arma della censura e poi della pura repressione poliziesca. Il conte Luigi Porro Lambertenghi (che fu anche il finanziatore della rivista) ed il conte Federico Confalonieri (che ne fu uno degli animatori), con i loro tentativi di rinnovare l’ industria tessile attraverso l’ utilizzazione di nuove macchine, di introdurre a Milano l’ illuminazione a gas e sul Po la navigazione a vapore, con la loro attività per far sorgere le scuole popolari di mutuo insegnamento erano evidentemente guardati con preoccupazione dalle autorità imperiali. Gli uomini del Conciliatore ricercavano inoltre nel medioevo le origini ed il primo sviluppo della nazione italiana, nello sforzo di individuare una continuità storica con l’ Italia moderna. Non c’ era dunque soltanto una idealizzazione nostalgica di quell’ epoca; l’ interessamento per il
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medioevo aveva uno scopo culturale- politico essenzialmente nazionale, implicava il ricordo di fatti, di idee, di problemi e di istituzioni più familiari agli Italiani di media istruzione di quanto non fossero i ricordi della cultura classica. Esisteva infatti tra l’ Italia moderna e quella del medioevo una continuità linguistica, letteraria e religiosa. Il persistente municipalismo rendeva gradita la rievocazione delle glorie comunali, testimoniate da palazzi, cattedrali, opere d’ arte d’ ogni specie; non poche grandi famiglie dell’ età medioevale c’ erano ancora; il patriottismo cittadino poteva facilmente, attraverso l’ esaltazione e la trasfigurazione in senso nazionale di fatti come la Lega Lombarda, divenire un mezzo per suscitare sentimenti politici attuali. Fu un grande merito degli uomini del Conciliatore aver dato una energica spinta nella direzione dell’ apertura della cultura italiana alle esigenze di quel pubblico in grado di leggere e di interessarsi ai problemi culturali che si era molto accresciuto dalla Rivoluzione francese in poi. Il movimento liberale nazionale ebbe dunque nel Conciliatore la sua prima manifestazione, ma fu soppresso dopo appena un anno e mezzo di vita dalla censura. Dinanzi alla chiusura mostrata dal governo austriaco, anche in Lombardia si diffusero quindi tra gli aristocratici ed i borghesi più aperti al cambiamento le società segrete, sia la Federazione (di origine piemontese)- che poneva al centro del suo programma l’ indipendenza e la creazione di una monarchia costituzionale estesa a tutta l’ Italia settentrionale e guidata da un principe di casa Savoia- sia la Carboneria, altrettanto decisamente ostile all’ Austria. La polizia intervenne però tempestivamente ed arrestò nel 1820 alcuni aderenti alla Carboneria, tra cui Silvio Pellico, un poeta e letterato già collaboratore del Conciliatore . Seguirono nel 1820-21 gli arresti per cospirazione di Confalonieri e di duecento indiziati; un’ altra azione repressiva colpì contemporaneamente decine di liberali bresciani. Si tennero processi clamorosi, che si conclusero con numerose condanne a morte, commutate nel carcere a vita. Alcuni prigionieri morirono nella dura fortezza dello Spielberg (come il bresciano Silvio Moretti), altri uscirono provati dalla lunga detenzione: Pellico fu graziato nel 1830,
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Confalonieri nel 1836. Con la vasta azione repressiva del 1818-1824 l’ Austria riuscì a scompaginare e a disperdere il movimento liberale patriottico lombardo e ad annientarne il gruppo dirigente. Tuttavia la storia del Risorgimento in Lombardia non finì, perché altri uomini dovevano prendere il posto dei vecchi leader, non più in grado di assumere funzioni politiche di primo piano, nella direzione del movimento patriottico lombardo. L’ attività del gruppo romantico – liberale venne così continuata con nuove impostazioni culturali. Neppure scomparve la rete delle società segrete, ma per molti anni non vi furono più in Lombardia cospirazioni e congiure. Il governo austriaco potè stare per lungo tempo tranquillo, ma solo relativamente tranquillo. Perché il contrasto di interessi tra la Lombardia e l’ Impero asburgico cresceva di pari passo con il progredire dell’ economia della regione e non poteva non inserirsi nella lotta nazionale dell’ Italia contro l’ Austria e anzi stimolarla fortemente. In questo senso si può affermare che il grande sviluppo economico-sociale della Lombardia ebbe una funzione decisiva nel movimento che portò alla Rivoluzione del 1848 e in tutto lo sviluppo successivo del Risorgimento.
Borghesia ed aristocrazia
lombarde costituivano ormai una classe sola. I commercianti, gli industriali, i professionisti più ricchi erano in generale anche proprietari terrieri; i nobili erano molto spesso interessati ad iniziative commerciali, bancarie ed industriali. Forte era però il rancore nei loro confronti del proletariato agricolo, poiché i contadini - legati ad un’ impostazione tipica dell’ Antico Regime- vedevano nell’ imperatore un protettore contro le richieste dei loro padroni nobili e borghesi. Nelle città esistevano invece, specialmente a Milano e a Brescia, gruppi notevoli di artigiani e di salariati delle manifatture dai sentimenti patriottici. Le condizioni di vita per essi erano assai dure. Le giornate lavorative arrivavano perfino a sedici – diciassette ore nei periodi di maggiore attività nelle fabbriche, i cui locali erano angusti ed antigienici; la prevenzione delle malattie e degli infortuni quasi nulla, mentre lo sfruttamento del lavoro dei bambini e delle donne aveva assunto già intorno agli anni Quaranta aspetti molto gravi, così da richiamare l’ attenzione degli intellettuali liberali e
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delle stesse autorità governative, che emanarono un regolamento per disciplinare il lavoro minorile. Tanto per dare un’ idea, il decreto vietava di impiegare nelle manifatture bambini al di sotto dei nove anni, vietava di far lavorare più di dieci ore al giorno i minori di dodici anni e per più di dodici ore i ragazzi dai dodici ai quattordici anni, proibendo altresì di infliggergli pene corporali e limitando il lavoro notturno … Viste queste condizioni di vita, il proletariato urbano fece sentire il suo peso in modo diretto e indiretto nella Rivoluzione del 1848 – 1849. Fu in questo contesto che emerse la figura del milanese Carlo Cattaneo, personalità fra le più suggestive dell’ intero Ottocento. Storico ed economista, attento ai valori della scienza e della tecnica, convinto della funzione propulsiva della borghesia e del capitalismo, rigorosamente laico, Cattaneo era un “riformista” progressista, che insisteva sulla “paziente accettazione” di modificazioni lente e graduali, scandite da riforme innovatrici ma sensate. Egli respingeva quindi il rivoluzionarismo misticheggiante di Mazzini. Tra il 1839 ed il 1844 diresse Il Politecnico, rivista che affrontò una straordinaria quantità di problemi, utilizzando tutta la gamma delle scienze applicate: dagli studi economici e sociali, alle applicazioni pratiche della fisica e della matematica, ai più moderni studi in campo agrario e tecnologico. I collaboratori della rivista provenivano da svariate aree disciplinari. Di particolare rilievo fu la presenza degli ingegneri. In Lombardia essi rappresentavano la parte più cospicua degli intellettuali legati ai fermenti innovativi che stavano nascendo in numerosi campi dell’ attività produttiva.
La visione della storia e della politica che
Cattaneo svilupperà nel federalismo repubblicano dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848 – 1849, si legava da un lato ad una visione cosmopolitica, dall’ altro ad una profonda conoscenza dei problemi della Lombardia. Lo sviluppo economico e civile della Lombardia, infatti, aveva per lui un valore esemplare per tutta l’ Italia. Così, assai notevole fu l’ influenza esercitata dai periodici milanesi (non solo Il Politecnico, ma anche gli Annali
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Universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio) sulla borghesia e sull’ aristocrazia colte dell’ intera Penisola, soprattutto per quello che si riferiva allo studio dei problemi concreti e all’ informazione sui progressi economici, scientifici e tecnici del mondo contemporaneo. Cattaneo e gli intellettuali che attorno a lui si erano raccolti cercarono fino al 1848 di stimolare un’ azione riformistica del governo austriaco nei confronti del Lombardo – Veneto. Nel frattempo, il movimento patriottico metteva sempre più forti radici nella borghesia, nell’ aristocrazia ed aveva assunto, grazie anche all’ opera di letterati quali Alessandro Manzoni, un carattere cattolico – liberale. La generale spinta in avanti dell’ economia rafforzava grandemente queste classi sociali, che tendevano ad imporre una linea politica nuova, la quale tuttavia continuava a scontrarsi con l’ ostilità dell’ Austria, contraria a a qualsiasi sganciamento, anche solo parziale, del Lombardo – Veneto dalla monarchia asburgica e ad un suo inserimento in una lega doganale italiana con gli altri principali Stati della Penisola (Regno di Sardegna, Stato della Chiesa, Granducato di Toscana, Regno delle Due Sicilie). Allo stesso modo, il governo di Vienna si rifiutava ostinatamente di consentire il collegamento della ferrovia Milano – Venezia con la rete ferroviaria piemontese, cioè di collegare Milano con Torino e soprattutto con Genova, il cui porto costituiva il vero polmone economico della Lombardia, poiché attraverso di esso passava la maggior parte dei suoi traffici, quelli cioè con i Paesi mediterranei e con l’ Inghilterra. La separazione politica, doganale, ferroviaria ostacolava il commercio internazionale lombardo e determinava pesanti rincari di tutte le merci importate dall’ estero. Eppure il governo austriaco volle che la rete ferroviaria lombardo – veneta avesse essenzialmente un carattere locale e restasse staccata anche dalla rete ferroviaria del resto dell’ Impero. Cattaneo condusse, a quel punto, una critica radicale nei confronti delle istituzioni conservatrici ed arretrate. Inoltre la libertà era per lui un valore universale ed assoluto, in nome del quale avrebbe giustificato anche l’ insurrezione rivoluzionaria, purché fosse nata dal e con il popolo. Così fu a capo del “Comitato di Guerra” (formato
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tutto da repubblicani) che diresse l’ insurrezione antiaustriaca delle Cinque Giornate di Milano nel 1848. Gli avvenimenti italiani furono infatti bruscamente accelerati in quell’ anno dal generale sconvolgimento europeo e le Cinque Giornate costituirono uno dei maggiori episodi della storia risorgimentale italiana del XIX secolo oltre che dei moti liberal-nazionali europei del 48-49. Esse testimoniarono dell'efficacia dell'iniziativa popolare che, guidata da uomini consapevoli, poteva rivelarsi in grado di influenzare le decisioni dello stesso Re di Sardegna Carlo Alberto . Egli infatti intervenne contro l’ Austria nel timore della nascita di una repubblica a Milano e in sostegno della nobiltà locale, che vedeva favorevolmente l’ annessione della Lombardia al Piemonte, dove i nobili erano trattati meglio di quanto non lo fossero dall’ Austria, perché avevano le immunità tributarie e monopolizzavano le cariche pubbliche. Dopo la liberazione di Milano e l’ entrata dell’ esercito sabaudo in territorio lombardo , i primi provvedimenti del governo provvisorio andarono incontro alle richieste della borghesia urbana: furono aboliti i dazi interni e fu concluso un accordo con il governo piemontese per un libero accesso al porto di Genova. E sempre in linea con la sua principale preoccupazione, cioè quella di evitare prima di tutto il “pericolo repubblicano”, Carlo Alberto nella fase finale della Prima guerra d’ Indipendenza, quando l’ esercito sabaudo era ormai in ritirata in seguito alle decisiva sconfitta subita a Custoza , evitò di impegnarsi nella difesa di Milano, dove fortissima era ancora la presenza dei mazziniani. A caratterizzazione decisamente repubblicana furono nel 1849 anche le Dieci Giornate di Brescia, che resistette disperatamente agli Austriaci prima di cedere, in occasione della breve e catastrofica ripresa del conflitto da parte dei Savoia. Nel decennio successivo, il reazionario governo austriaco gravò pesantemente sulla Lombardia, sottoposta ad una specie di dittatura militare, impersonata dal Maresciallo Radetzky e da una sorta di giunta di generali fidati. Si verificò, anche a causa di una politica fiscale punitiva, una profonda crisi economica. Nelle campagne imperversò una
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spaventosa repressione contro i contadini che, viste le disperate condizioni di vita, si erano spesso dati al banditismo, soprattutto nelle province di Brescia e di Mantova. La cosiddetta Commissione Militare d’ Este, tra il 1859 ed il 1854, comminò ben 238 condanne a morte contro contadini accusati di furti, saccheggi, nonché di reati politici. Sfumava così il mito degli Austriaci buoni protettori delle classi più umili contro le prepotenze delle classi possidenti.
A tenere viva la resistenza fu allora (dato che la maggior parte dei nobili e
borghesi liberali aveva seguito Carlo Alberto in Piemonte) l’ organizzazione mazziniana, che riuscì a muoversi con abilità in un ambiente oppressivamente sorvegliato dalla polizia, fino a riuscire a mettere in piedi un cosiddetto “Comitato Centrale Lombardo”, che teneva collegati i vari nuclei mazziniani di ogni città della regione che accettavano di operare alle sue dipendenze. A fianco di questa organizzazione mazziniana vera e propria, si formò anche un’ altra organizzazione repubblicana di artigiani (tintori, tipografi, orefici, sarti) e di operai (soprattutto muratori e taglialegna), che- sebbene strutturata autonomamente, agiva d’ intesa con i capi mazziniani. Ma nel 1852 la casuale scoperta di documenti compromettenti trovati in casa di un uomo sospettato di reati comuni, portarono la polizia austriaca, a partire dall’ interrogatorio di quest’ ultimo, sulle tracce dell’ intera organizzazione del mazzinianesimo lombardo; i suoi maggiori capi furono impiccati sugli spalti del forte di Belfiore, presso Mantova, mentre più di un centinaio di altri mazziniani venivano incarcerati. Mazzini decise allora di scatenare un’ insurrezione repubblicana prima che la borghesia lombarda, ancora di sentimenti democratici, abbandonasse la sua diffidenza verso il Regno di Sardegna. L’ insurrezione scoppiò effettivamente a Milano il 6 febbraio 1853. I rivoltosi però (artigiani e operai), male armati, senza alcun appoggio, furono facilmente domati dalle truppe austriache, che, dopo un primo momento di sbandamento, ricevettero rinforzi da fuori città. L’ insurrezione si spense prima dell’ alba del giorno successivo. Seguirono centinaia di arresti e quindici impiccagioni immediate. Questo rapido fallimento del moto ingenerò nella borghesia lombarda una totale sfiducia
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nei metodi di lotta adottati da Mazzini, orientandola definitivamente verso una collaborazione con i Piemontesi in attesa di una guerra risolutiva contro l’ Austria. E’ inutile qui soffermarsi sullo svolgimento della decisiva Seconda Guerra d’ Indipendenza, in quanto a tutti è nota l’ importanza fondamentale delle battaglie che si svolsero sul territorio lombardo, da Magenta a Solferino. Il crollo militare austriaco in Lombardia - sancito dall’ ingresso trionfale di Napoleone III e Vittorio Emanuele II a Milano l’ 8 giugno 1859, provocò infatti la caduta dell’ influenza austriaca in tutta la Penisola. L’ anno successivo, la partecipazione di ben 435 lombardi alla Spedizione dei Mille, sarà il suggello della tensione unitaria che animava ormai i giovani della regione. E’ in questo quadro generale che possiamo collocare le vicende di Leno nel Risorgimento. All’ epoca la provincia di Brescia era divisa in quattordici distretti amministrativi fra i quali, appunto, quello di Leno classificato come V Distretto politico e giudiziario, composto di undici comuni. Soltanto Leno e Manerbio avevano Consiglio e uffici propri. Fiesse, Gambara, Gottolengo, Isorella, Pavone e Pralboino avevano unicamente il Consiglio. Cigole, Milzanello e Porzano erano dotati di convocato. Nella prima metà dell’ Ottocento la popolazione di Leno si aggirava sui quattromila abitanti, di cui non più di trecento venivano classificati come “borghesi”, ossia commercianti ed artigiani. Il primo censimento dell’ Italia unita, nel 1861, la fisserà a 4.817 cittadini. Sia durante la Prima sia durante la Seconda Guerra d’ Indipendenza , i Lenesi dovettero assistere al passaggio delle truppe imperiali in ritirata da Milano verso il Mincio. Nel 1848 l’ armata asburgica- in ripiegamento dopo le Cinque Giornate di Milano - sfilò tra la sorda ostilità della gente silenziosa per le strade, che- in attesa della prossima liberazione- aveva sbarrato case, chiuso negozi, alberghi e vedeva sloggiare senza rimpianto gli stranieri. Per la verità vi fu una polemica tra lo scrittore romantico bresciano Costanzo Ferrari ed i liberali che avevano diretto il movimento patriottico nel V Distretto. Il primo accusò infatti , nell’ opuscolo Gli ultimi
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cinque giorni della schiavitù bresciana, la popolazione della Bassa di un atteggiamento troppo remissivo nei confronti dell’ esercito austriaco che attraversava il territorio. Gli altriin particolare l’ avvocato Cesare Beccalossi- scrissero in difesa dei cosiddetti “Terrazzani di Leno” un lungo memoriale, in cui dimostrarono che una resistenza armata sarebbe stata impossibile e controproducente da un punto di vista militare, data la evidente disparità delle forze in campo, ed avrebbe condotto anzi ad un inutile massacro. Diversa invece fu la situazione nel 1859. Inizialmente- nella prima metà di giugno- il paese vide passare reggimenti e battaglioni dell’ esercito austriaco sconfitto a Magenta, compreso lo Stato Maggiore del comandante in capo maresciallo Giulay , che requisirono ingenti quantità di grano, fieno, legna, avena, riso, cavalli, buoi, carri. Quasi l’ intero esercito di trentamila uomini si accampò nelle campagne circostanti, lasciando una scia di devastazione che pesò per vario tempo sull’ economia della zona. Ma all’ indomani della battaglia di Solferino del 24 giugno, Leno fu tra i paesi della Bassa che più si distinsero nell’ opera di soccorso dei feriti. La chiesetta di San Michele, la caserma della gendarmeria, l’ ospedale si riempirono di soldati di entrambi gli schieramenti colpiti dalle pallottole e dalla mitraglia. Anche i privati ne accolsero un buon numero. Molti tuttavia morirono nei due mesi successivi e trovarono sepoltura proprio a Leno. I Lenesi prestarono servizio con mezzo proprio (cavalli con carretto, carri con buoi) per il trasporto dei feriti o per accompagnare fino a Brescia gli ammalati. Solenni onorificenze furono concesse quindi dall’ imperatore Napoleone III a coloro che si erano prodigati nell’ opera di soccorso. Fra di essi si era distinto Carlo Dossi, romantico e di idee liberali, per molti anni sindaco di Leno, che nel 1842 aveva dato vita al locale ospedale investendovi propri capitali insieme a quelli messi a disposizione da enti pubblici e privati. Il nome di Carlo Dossi ci permette di introdurre il discorso sulle famiglie che emersero nel periodo risorgimentale a Leno, distinguendosi per l’ impegno attivo negli avvenimenti politici del
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periodo, e che lasciarono anche un buon ricordo grazie alla loro beneficenza. Una di esse fu appunto la Dossi, che annoverò Alessandro, Antonio ed il già citato Carlo. La famiglia era di provenienza bresciana, arricchitasi con il commercio. Partecipò al movimento patriottico sin dai tempi della Repubblica Cisalpina. Proprio nel 1798, soppressa dopo dieci secoli dal nuovo governo rivoluzionario la Badia benedettina di Leno, l’ avvocato Alessandro Dossi, già nel Governo Provvisorio durante la rivoluzione giacobina bresciana nel 1797-1798 in qualità di Commissario dei viveri, poté acquistare a prezzo quasi irrisorio il vasto ma cadente monastero ed il vasto latifondo ad esso unito. Riuscito a fuggire dinanzi alla controffensiva degli Austro-Russi nel 1799, fu in seguito membro attivissimo della Repubblica Cisalpina. Nel 1800 ebbe l’ incarico di riorganizzare la magistratura bresciana, divenne socio dell’ Ateneo di Brescia e aderì alla Loggia Massonica Amalia Augusta. Poi, dopo la caduta di Napoleone, nell’ età della Restaurazione- ritiratosi a Lenosi dedicò alla sistemazione ed al miglioramento delle sue terre. Ma non dimenticò la politica ed entrò a far parte della rete cospirativa dei liberali bresciani di cui ho parlato all’ inizio, intrattenendo rapporti molto stretti con i fratelli Ugoni e con Giacinto Mompiani, che pure aveva una villa a Leno. Su questa strada lo seguì uno dei figli, Antonio . Entrambi furono arrestati in seguito alla retata degli anni Venti che portò allo scompaginamento della società segreta dei Federati, di cui ho parlato all’ inizio. Ambedue si lasciarono andare a molte imprudenti rivelazioni. Ma mentre l’ avvocato Alessandro, già vecchio di 64 anni, fu assolto per mancanza di prove e morì nel 1827, il figlio Antonio fu invece condannato alla pena di morte, poi commutata a tre anni di carcere duro nella fortezza di Lubiana . Scontata la pena e tornato a Leno, visse per alcuni anni lontano dalla politica dedicandosi all’ amministrazione delle sue terre, ma già nel 1830 la polizia notava il suo sospetto interessamento per gli avvenimenti europei. Partecipò nel 1848 alla insurrezione popolare bresciana contro gli Austriaci rappresentando la provincia di Brescia presso il Governo provvisorio di Lombardia, ma al loro ritorno dovette emigrare in Piemonte per
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alcuni anni. Da Torino, nel 1849, inviò a sue spese ben sei corrieri per avvisare i suoi concittadini della sconfitta di Novara , al fine di evitare l’ insurrezione di Brescia che a quel punto non avrebbe potuto non risolversi in una tragedia. Ma tutto fu inutile. Dopo le Dieci Giornate scrisse una lettera al governo sardo a favore della città. Rientrato nuovamente a Leno in seguito ad un’ amnistia promulgata dall’ imperatore Francesco Giuseppe, morì nel febbraio 1859, facendo in tempo a ricevere segretamente l’ annuncio, dallo stesso Cavour, della conclusione dell’ alleanza tra la Francia ed il Piemonte e dello scoppio imminente della guerra contro l’ Austria. La leggenda narra che, ormai stanco e provato, fosse morto non riuscendo a reggere l’ emozione di queste novità. Fu socio onorario dell’ Ateneo di Brescia, come già lo era stato il padre, ed investì le sue ricchezze con iniziative economiche che andarono a beneficio del paese. Il già ricordato fratello minore Carlo continuò la tradizione familiare nel modo che ho descritto. Un altro capo del movimento patriottico lenese nel 1848 – 49 fu Cesare Beccalossi, di cui ho parlato in riferimento al suo memoriale in difesa dei suoi concittadini. Emigrato anche lui a Torino nel 1857, nel 1860 fu proclamato primo deputato del Collegio di Leno al Parlamento dell’ Italia unita. Lenese di nascita fu infine Gian Maria Bravo, appartenente ad un’ altra delle più eminenti famiglie del paese, discepolo di Zanardelli a Brescia, poi studente all’ università di Vienna. Compose subito un’ opera in sei volumi
sulla “Storia del Diritto italiano”- destinata a
rimanere un classico per più di cento anni. Perciò, sebbene assai giovane, fu designato a ventotto anni, nel 1857, dal ministro austriaco Von Thun, primo docente di Storia del Diritto all’ Università di Pavia , dopo aver rifiutato l’ offerta iniziale di insegnarvi Storia del Diritto germanico. Lì continuò ad operare fino al 1860, anno della sua prematura scomparsa, come professore di Storia del Diritto feudale e istituzioni e leggi patrie antiche. Con la fine della Seconda Guerra d’ Indipendenza, la Lombardia veniva annessa al Regno di Sardegna. Il 18 febbraio 1861 si inaugurava a Torino il primo Parlamento italiano ed il
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17 marzo Vittorio Emanuele II di Savoia veniva proclamato re dell’ Italia unita. A Leno, due giorni dopo, si teneva una grande festa con concerti della banda musicale, sfilata della Guardia Nazionale “in bell’ ordine e perfetta tenuta”, un breve discorso patriottico e religioso del reverendo don Enrico Bosetti, che augurò al nuovo sovrano “anni felici e lontani”, ripetuti fuochi di fila, un generoso rinfresco, grande partecipazione. La stampa locale scrisse che Leno avrebbe ricordato quell’ evento “come il più bello dei suoi giorni”. E, in fondo, non aveva esagerato.