n.0
dic nov -18 0 2
21st A
iew of V oint P nt ere diff
Ri-tornare Umani? Corpi, confini e identità nell'era digitale
ellini,
, Ross Bazin ir Reno
egli rno d Il rito 0 '8 Anni i tino d Il des Tate n Sharo
ovel: hic N man p a r G rs es Fo Charl W TEOF okyo New T K :R Story ae Cinem hain c Block
l ler e i o Mül futuro c r a M l ato de Merc n ne co sazio no r e v n Co rdi io Gia Vittor rocca lità ba a i r e phy La s n Mur di Rya
ede di f rico ri
ia cch
a chi
Le cose vecchie diventano nuove
P
er una curiosa coincidenza la scrittura di questo editoriale corrisponde alla visione, quasi invisibile, alla Mostra di Venezia 75, del documentario di Ron Mann, Carmine Street Guitar. Mi sarebbe piaciuto non “parlare di cinema” in questo articolo, ci sto provando da anni in effetti, come una forma di auto-liberazione impossibile…, tuttavia questo piccolo grande film sembra raccontarci, così come la foto qui a fianco, quasi in maniera ottusamente didascalica, una parte del “senso” di questa rivista. “La musica…” — dice a un certo punto il chitarrista Marc Ribot — “…tutti conoscono come si fanno i dischi, i concerti, ma quasi nessuno sa come si costruiscono gli strumenti”. E gli strumenti di cui parla il film sono le magnifiche chitarre costruite a mano da Rick Kelly, questo straordinario artigiano che sta tenendo in vita, con una vera opera di “resistenza analogica”, lo strumento musicale come materia viva, corpo sensibile nella mani di altri corpi sensibili… Che sta succedendo? Sono arrivato ad Internet nel lontano 1995, troppo “solo” all’epoca per poter fare una rivista online (accadrà dal 1998 e poi dal 2000 quotidianamente), ho trasformato il Corso di Critica Cinematografica, passo alla volta, da un luogo per imparare a “Scrivere su Internet” a un vero e proprio corso di “Critica Digitale”, ho smaterializzato (quasi) tutti i miei film, lanciato una collana di e-book, insomma sono stato per lunghi anni non un “fanatico” (detesto i fanatismi) ma, con umiltà, un “cultore” della materia digitale, di Internet e delle nuove forme di comunicazione “orizzontale”… e oggi cosa faccio? Un editoriale per una nuova (Vecchia? Nuovissima?) rivista cartacea. Sto forse abiurando? La questione è complessa, e tutto l’ultimo insopportabile (come sempre, quando ci parla “troppo” di noi…) film di Olivier Assayas, Double Vies (o Non-Fiction?), nella sua sfrontata doppiezza, già nel titolo, sembra raccontarci proprio questo drammatico bivio epocale nel quale siamo giunti. Analogici o Digitali? Facciamo una resistenza attiva (o passiva) alla smaterializzazione degli oggetti e delle nostre vite, come il combattivo Rick Kelly, o ci lasciamo catturare fino in fondo da “ciò che vuole la tecnologia”, abbracciando l’idea di un mondo dove ogni relazione passi attraverso la cifra del bit? Sembrano due mondi lontanissimi, separati, che non si parlano. Ecco, SentieriSelvaggi21st vuole proprio cercare di sconfinare, in un viaggio continuo di andata e ritorno, questo contemporaneo “Muro di Berlino”, cercando di far dialogare il corpo con le infinite possibilità del digitale, di allargamento della conoscenza, dei rapporti e delle relazioni verso un modo più giusto e vivibile per tutti, riuscendo contemporaneamente a raccontare le storie analogiche di “corpi che costruiscono altri corpi”, di oggetti e memorie della nostalgia che rivivono nelle nuove generazioni che hanno come bisogno di riscoprire il “piacere dell’oggetto” e della materia. Siamo un meraviglioso paradosso, come del resto lo è il Cinema, oggi, oltre 120 anni dopo la sua comparsa. Dentro un mondo streaming che si connette con il mondo vintage, SentieriSelvaggi21st proverà a rileggere il presente con gli strumenti del passato, il passato con quelli del futuro, il futuro con quelli del presente. Oppure mescoleremo tutto in un fantastico caos della visione. Ri-partire dalla fisicità atomica dell’oggetto culturale, dal piacere del tatto nell’epoca del touch-screen, riscoprire il piacere del testo e della lettura finalmente fuori dagli schermi che, oggi, governano la nostra vita quotidiana. Essere analogici e digitali, scegliere il proprio spazio-tempo e sfruttare al massimo le possibilità delle connessioni di oggi. Leggere con tutto il tempo necessario ma, se proprio non ce la fate a staccarvi dal dispositivo, connettervi alle nostre aperture digitali nella Rete…. Insomma, proviamo a ripartire da ciò che siamo, ovvero da quello che, come esseri umani, ci piace fare. Ecco di cosa è fatta questa rivista, delle nostre pratiche quotidiane, delle nostre letture, visioni, ascolti, viaggi, e tutte le altre esperienze di vita. Alla fine, anche questa Tag Cloud (le parole più utilizzate di questo n.0), vede il film (e lo schermo, il cinema) al centro del nostro mondo. Ma solo “attraverso” l’Essere Umano. Che è quello che vorremmo riscoprire, nelle sue clamorose mutazioni di questo XXI Secolo. Sempre con il nostro, speriamo inconfondibile, Different Point of View. Buone letture e, sosteneteci!
Aperture
Tempi
Cover story
Out from the Past
03
22
Editoriale
Archivio Storie del Cinema
Le cose vecchie diventano nuove
06 Breve guida introduttiva a Sentieri Selvaggi 21st
08 IlluminAzioni Capri Revolution
12 Ri - tornare umani?
Lo spirito del cinema alle sue orgini:
corpi, confini e identità nell'era digitale
André Bazin incontra Roberto Rossellini e Jean Renoir parlando di televisione
Vintage Back to the Future
L'utopia orizzontale Il virus di Montag
Il ritorno degli Anni '80
Space X Falcon 9 Maniac
38 Graphic Novel The End of The Fucking World
30
Cosa ci rende speciali?
Altre narrazioni
Charles Forsman TEOFW: la serie TV
34 Biografie Il destino di Sharon Tate
Cover
Sentieri Selvaggi Redazione: Via Carlo Botta 19, 00184, Roma
Detroit: Become Human, videogame sviluppato da David Cage. Sono le scelte del giocatore a svelare se l'avatar è umano o androide. La macchina impara dall'utente attivo, ma chi è davvero il figlio e chi la madre della partita?
Telefono: 06.96049768 Email: redazione@sentieriselvaggi.info Website: www.sentieriselvaggi.it Info: info@sentieriselvaggi.it Bimestrale di cinema e tutto il resto... Numero 0 novembre - dicembre 2018 in attesa di autorizzazione Stampato presso: Futura Grafica 70 s.r.l. Via Anicio Paolino 21, 00178 Roma Ottobre 2018
04
Spazi
Long Form Stories
Tempi
Open Space
No - Future
46
58
Traiettorie urbane
Site Map
Le tracce metropolitane di RK
Riattraversamenti testuali: Board Game Legacy per scrittori - Far Cry 5
52
95 74
60
Traiettorie urbane
Mercati
Il Performing Media Storytelling
Marco MĂźller e il mercato del futuro
54
68
(neo) Realismo
Tracce digitali
Cinema e Forme-di-vita
Cinema, Entertainment e Blockchain
Rubriche
Conversazioni Vittorio Giardino Il disegno della memoria
Il Corpo Espanso #A colpo d'occhio #La règle du jeu #OM #Language Design #Sensibilia #Sesto senso
86
#(In)Versi
Storie Ryan Murphy
Credits Direttore responsabile:
Federico Chiacchiari
Supervisione editoriale:
Simone Emiliani
Direzione editoriale:
Aldo Spiniello e Carlo Valeri
Redazione: Alice Catucci, Leonardo Lardieri, Pietro Masciullo, Demetrio Salvi, Sergio Sozzo Progettazione e realizzazione grafica:
Autori del numero:
Yvonne Bindi, Federico Bo, Daniele Dottorini, Charles Forman, Annarita Guidi, Carlo Infante, Antonio Mastrogiacomo, Fabiana Proietti, Guglielmo Siniscalchi, Shadow
Promozione:
Andrea De Bartolis (project manager), Paula Frederick (social e ufficio stampa)
Brunella De Cola
05
Breve guida introduttiva a Sentieri Selvaggi 21st Manuale di istruzioni per SS21st. Solo per questo n.0 forniremo una piccola mappa, delle tracce di orientamento per capire dove vanno i sentieri selvaggi del nuovo millennio… Abbiamo un corpo multiforme, fatto di Aree, Sezioni, Rubriche e… Connessioni digitali.
21st
Bene. Se stai leggendo queste righe vuol dire che hai tra le mani la nostra nuova rivista e che sei solo all’inizio di questa avventura che abbiamo chiamato SentieriSelvaggi21st. Dall’indice e dal look avrai subito notato che abbiamo cambiato parecchie cose rispetto al precedente SSmagazine e che questa è una rivista di cinema pensata in modo un po’ diverso. Del resto la storia di Sentieri selvaggi, sin dal 1988, è sempre stata una storia di cambiamenti e piccole rivoluzioni. Le sfide ci piacciono e proprio non ce la facciamo a rimanere fermi. Procediamo insieme passo passo. Sfogliando queste cento e passa pagine troverai articoli e interviste che parlano di film, serie tv, comics, architettura, fotografia, critica, festival, nuovi linguaggi e nuove tecnologie.
Lo speciale è seguito da un’intera macro-sezione, TEMPI/OUT FROM THE PAST, dedicata alla storia del cinema. Non vogliamo raccontarla in modo convenzionale. Il nostro obiettivo è concentrarci volta per volta su materiale d’archivio che magari non hai mai letto, biografie di personaggi entrati nell’immaginario collettivo, riletture e riscoperte di poetiche, movimenti cinematografici, oppure oggetti che nel XX secolo sono diventati moda e che oggi fanno parte di quel ricorrente e sofisticato magma che chiamiamo “vintage”.
La prima parte è quella che, probabilmente, conosci meglio. La nostre APERTURE sono dedicate alle immagini (“Illuminazioni”) e ad approfondimenti quasi sempre anticipati nella copertina del numero (“Cover Story”). Sono un po’ come gli speciali del “vecchio” magazine, per intenderci, e in questa occasione abbiamo scelto un tema che oggi sentiamo in modo particolare: il rapporto tra essere umano e tecnologia. Hai visto, su Netflix, Anon di Andrew Niccol? È un film che parla proprio di questo, come molti altri titoli interessanti che abbiamo incontrato in questi ultimi anni.
ALTRE NARRAZIONI visive è uno spazio che dedichiamo a opere e generi alternativi alle produzioni cinematografiche. Come ad esempio il fumetto, le illustrazioni, le narrazioni fotografiche, ecc…. Nel numero che hai tra le mani parliamo e pubblichiamo alcune tavole originali di The End of the Fucking World, una graphic novel di Charles Forsman da cui è stata tratta una serie televisiva trasmessa su Netflix.
06
In SPAZI/OPEN SPACE racconteremo in modo trasversale le Traiettorie Urbane, le metropoli, i paesaggi, il mondo dell’underground, la complessità dei luoghi che abitiamo, fotografiamo e filmiamo, nonché le nuove modalità espressive del reale. In queste pagine potrai imbatterti in personaggi come RK, fotografo, DJ e designer giapponese che qui abbiamo intervistato. Ma sei liberissimo di perderti anche nello spazio in cui riflettiamo su tutte le possibili congiunzioni tra vita e documentario, oppure, prossimamente, perderti anche dentro le nuove visioni della “Realtà Aumentata” o della “Realtà Virtuale”.
TEMPI/NO-FUTURE è invece la parte in cui ci confrontiamo con gli schermi, i prodotti, le connessioni del mondo che viviamo e di quello che verrà, tra globalizzazione, mercati e le dinamiche della Rete. Spesso, come in questo caso, ci sarà una sitemap dedicata a videogame e una serie di focus dedicati ai sistemi di produzione e distribuzione del cinema di oggi, come ad esempio quella cinese, che grazie a Marco Müller raccontiamo nei dettagli proprio in questo numero. Vogliamo dare spazio allo streaming e al digitale. E se non sai bene cos’è il Blockchain possiamo scoprirlo insieme in questo numero, perché questa SentieriSelvaggi21st vuole essere una scoperta delle Tracce Digitali non soltanto per te che la leggi, ma anche per noi che la scriviamo.
LONG-FORM STORIES è una sezione composta da uno o due articoli particolarmente estesi. Sono testi che richiedono un tempo di lettura più ampio rispetto al resto, necessario per approfondire e scoprire personaggi vecchi e nuovi, ma anche per dare spazio a inchieste o tematiche attuali. Se sei un appassionato di fumetto italiano qui potrai scoprire la visione e l’opera di Vittorio Giardino nelle nostre Conversazioni. Mentre se hai amato una serie televisiva a caso tra Glee, American Horror Story, Feud, Pose e molte altre ancora di certo sarai felice di leggere le pagine che, nelle Storie, abbiamo dedicato a quel geniaccio di Ryan Murphy.
La coda finale di SentieriSelvaggi21st è dedicata a un’altra novità rispetto al passato: le RUBRICHE personalizzate. Per il momento sono sette e le abbiamo pensate affinché avessero un sapore diverso l’una dall’altra. Se le mettiamo insieme possiamo immaginarle come un unico “corpo espanso”, ricco di diversi punti di vista e costantemente ricettivo agli innumerevoli impulsi sensoriali dei nostri tempi.
Ah, un’ultimissima cosa! Il fatto che abbiamo deciso di misurarci con un progetto cartaceo non significa certo che abbiamo dimenticato di vivere in un mondo digitalizzato, dove la lettura si interfaccia costantemente con la multimedialità. In diverse pagine troverai questi crittogrammi che si chiamano Codici Qr. Conterranno collegamenti internet a video, immagini, articoli, compilation musicali. Per vedere questi contenuti sarà sufficiente avvicinare il tuo smartphone al codice a barre con una qualsiasi App Qr.Reader. Buona lettura ma, soprattutto, buon viaggio e… buon XXI secolo
07
Illum inazio ni Ci son o
imma
gini c he do si fiss po ave ano n rle vis el nos te tro in consc E div i o . entan o pen narra s i e ri, zioni, Dent possib ro e f ilitĂ . uori g li sche rmi.
Corpi nudi che succhiano energia. La rivoluzione è un laboratorio imperfetto, che si contempla da lontano. E Capri Revolution di Mario Martone è un film che, forse, capiremo davvero tra qualche anno.
La nostra testa di spettatori/utenti è come l’archivio di un computer? Quanti mondi virtuali e vite virtuali dobbiamo attraversare per “guarire”? Le domande di Maniac di Cary Fukunaga...
12
Incontri ravvicinati Space X Falcon 9... ma Spielberg non c’entra, questa è l'ultima impresa di Elon Musk. Il razzo attraversa i cieli della California del sud e produce effetti visivi strabilianti.
13
di f
r e v o C or y St
Cosa ci rende speciali?
rico ede chia iari cch
Come umani ci siamo continuamente trasformati (e con noi il mondo) attraverso la tecnologia. Ri-tornare umani non significa dunque immaginarsi un mondo pre-tecnologico, ma immaginare e vivere un mondo in cui le Intelligenze Artificiali siano in armonia con gli esseri umani. E gli esseri umani sappiano guarire dalla presbiopia emozionale di questi anni‌
Clive Owen sul set di "Anon" di A. Niccol
“E’ davvero analogica!” (da ANON, di Andrew Niccol)
Q
ualche storico sostiene che il XXI secolo è iniziato con l’abbattimento delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. È una lettura, molto geopolitica, molto di immaginario storico-politico. Il nuovo secolo inizia come il ‘900, con una Guerra. Tuttavia se invece vogliamo, sempre metaforicamente, individuare l’inizio del “nuovo millennio”, utilizzando delle coordinate un po’ più “antropologiche”, ovvero attraverso momenti che hanno cambiato profondamente l’essere umano, propenderei per un’altra data: 9 gennaio 2007. Con la presentazione del primo iPhone da parte di Steve Jobs, entriamo veramente nel “nuovo mondo”. Come ha scritto Kevin Kelly “L’era dei computer è cominciata quando si sono fusi con i telefoni ”. Nel giro di un decennio questo strumento “leggero” ha trasformato la “macchina computer”, quella pesante, statica anche se portatile, che per utilizzarla dovevi trovarti uno spazio fisico, una scrivania, una tastiera, un mouse, insomma che aveva bisogno di fermarsi, in un oggetto di fatto “indossabile”, che in poco tempo ha sostituito decine e decine di altri strumenti tecnologici che usavamo. Ma che soprattutto vive con noi, è sempre con noi. Possiamo uscire senza ombrello ma non senza lo smartphone (dal quale prendiamo le info sul tempo, peraltro…). Oggi siamo in miliardi a possedere (o essere posseduti?) questo computer portatile, e le nostre vite quotidiane sono scandite continuamente dal nostro interfacciarci con lo schermo. Gli schermi, peraltro, sono dappertutto, e già ci guardano. Sarebbe da studiare se, nella storia dell’umanità, sia mai accaduto che in così pochi anni una tecnologia si diffondesse tra le persone e ne modificasse in maniera così sensibile i comportamenti, le pratiche individuali e sociali. Forse ci troviamo di fronte a un’eccezione. Prima c’era il computer (che tuttavia ci ha messo decenni per inserirsi nelle vite quotidiane) poi arrivò Internet (che pure ha dovuto attendere il suo tempo per diventare indispensabile), ma solo con la miniaturizzazione del computer,
la sua connessione continua alla rete, il suo “travestimento” da telefono (strumento che in sé usiamo sempre meno), e la sua portabilità ci troviamo di fronte a uno strumento che, radicalmente, ha cambiato il nostro modo di vivere. “Il nostro mondo è plasmato da dispositivi e modi di pensare digitali, e una delle principali conseguenze di questa situazione è che proiettiamo l’inflessibilità del tempo digitale su di noi. Attraverso gli smartphone il nostro universo è sempre acceso, “tintinna” continuamente” ha scritto Douglas Rushkoff nel suo “Presente continuo. Quando tutto accade ora” (Codice Edizioni, 2014). Ecco, siamo sempre accesi. E lo siamo anche per gli altri. Che non distinguono più tra il nostro essere corporeo e il nostro essere digitale. “Anche se possiamo essere fisicamente in un posto solo, i nostri io digitali si trovano su ogni dispositivo, piattaforma o rete grazie alle identità virtuali. Gli individui e i programmi che “abitano” questi luoghi trattano i nostri profili digitali come se avessero a che fare con l’originale”. (D. Rushkoff). Insomma abbiamo copie di noi stessi che comunicano con copie di altri esseri umani. Sembra uno scenario da film di fantascienza del ‘900, dove le macchine (o gli alieni) si impossessavano del pianeta e dominavano sugli umani. Nella impre-
13
La tecnologia è come il tempo (atmosferico), un caos (quasi) imprevedibile. Possiamo individuarne delle traiettorie, delle linee orientative, tutt’al più possiamo prevedere nei tempi (cronologici) brevi. Ma non possiamo sapere che tempo farà e che tecnologie useremo nel 2028, fra dieci anni
vedibile realtà del secondo decennio del XXI secolo ci troviamo di fronte a uno scenario assolutamente imprevedibile. È come se il futuro fosse scomparso, annichilito da quello che Rishkoff ha definito lo “shock del presente”, aggiungendo che “Nell’era digitale il tempo non è più lineare, ma etereo e associativo. Il passato non è una sequenza temporale che sta dietro di noi, ma è disperso in mezzo a un mare di informazione. Come una sorta di “inconscio digitale”, i dati grezzi rimangono nell’oblio, fino a quando non saranno raggiunti da un programma in futuro”. Ora che anche l’inconscio è diventato digitale (quanto del nostro passato ricordiamo attraverso strumenti digitali?), possiamo “liberarci” dal Secolo della Psicanalisi e, finalmente, approdare a nuove forme di spiritualità e ridefinizioni dell’IO? Sono domande un po’ folli, scritte in un pomeriggio d’agosto meravigliosamente funestato da quei temporali estivi che tanto adoravo da bambino. Già, perché li adoravo? Forse perché mettevano
in crisi la stabilità del tempo estivo, quelle lunghe infinite giornate calde dell’infanzia e dell’adolescenza, che i temporali invece destabilizzavano, creando un nuovo ordine sociale e comportamentale. Ecco, la tecnologia è come il tempo (atmosferico), un caos (quasi) imprevedibile. Possiamo individuarne delle traiettorie, delle linee orientative, tutt’al più possiamo prevedere nei tempi (cronologici) brevi. Ma non possiamo sapere che tempo farà e che tecnologie useremo nel 2028, fra dieci anni. Eccoci dunque in un mondo che, nel giro di soli dieci anni, ci ha trasformato in un “popolo degli schermi”. Guardiamo schermi dalla mattina alla sera, al bar, al ristorante, in banca, dovunque. Leggiamo come non abbiamo mai fatto in passato, ma la maggior parte di quello che leggiamo proviene da schermi digitali. In pochi anni siamo cambiati. Antropologicamente trasformati dagli schermi e dai computer che “indossiamo” (quasi, ma presto in realtà). A questo dispositivo abbiamo poi scelto di aggiungere (forme di transizione delle società degli schermi) anche la comunicazione globale/individuale dei Social Network. Anche qui nel giro di pochi anni abbiamo creato una comunicazione immediata globale, dove tutti siamo connessi e dialoghiamo in continuazione con altri distanti da noi, a volta tanto distanti altre volte appena accanto a noi. Il “mondo globale”, con
tutte le sue storie, idee, accadimenti, è letteralmente penetrato nelle nostre vite, e il nostro “doppio digitale” (come fossimo dentro quel meraviglio doppio mondo virtuale che era Second Life, di cui conservo quella straordinaria reliquia che è la guida ufficiale cartacea pubblicata da l’Espresso nel 2007) si connette in continuazione con eventi, disastri, notizie vere e false, e tutta la nostra giornata è diventata un insieme di continui flussi di pixel, di connessioni con le persone che amiamo o con sconosciuti, di emozioni di secondo e terzo grado, che proviamo per eventi e persone che sono fisicamente distanti da noi (e a volte non ci accorgiamo di quella persona a noi vicina, non siamo in grado di leggerne la fragilità, la sofferenza nascosta, diventando esseri emotivamente presbiti, troppo presi nell’occuparci dell’intero mondo per essere anche in grado di vivere quello a “noi circostante”). Il mondo è diventato piccolo, siamo dappertutto con gli strumenti digitali e i mezzi di comunicazione ci possono portare in poche ore da ogni parte del globo. Ma di questo mondo ci stiamo caricando addosso ogni azione, ogni evento, ogni “attimo globale”. Ogni catastrofe diventa patrimonio di tutti e siccome il mondo è pieno di catastrofi siamo continuamente immersi in questa “era del disastro” che fa tanto sembrare ormai arrivato quell’Incidente del futuro di cui parlava Paul Virilio nell’ormai lontano 2002.
Dentro questo “nuovo mondo”, in cui alcuni sono direttamente nati, mentre i più grandi sono “catapultati”, ci ritroviamo in un universo di paradossi continuo. I confini spariscono per comunicazioni, merci, ecc, mentre improvvisamente ridiventano importanti per (alcuni) esseri umani. Proprio mentre possiamo mettere in pratica in tempi rapidi la propensione allo spostamento degli esseri umani, ci ritraiamo impauriti, immaginando un “Mondo Svizzera” protetto e chiuso, dove chi vi abita ha tutte le ricchezze e le possibilità del mondo (come di muoversi liberamente per il globo) ma solo pochi eletti possono accedervi. È la società del “non accesso”, l’esatto contrario di quanto predicava Jeremy Rifkin nel 2000. Oggi che possiamo vivere e goderci il mondo senza dover necessariamente “possedere” qualcosa, ecco che degli esseri umani impauriti si rinchiudono nel loro mondo/condominio, nell’illusione di scacciare ogni forma di diversità e fastidio (malattie, povertà, idee), come se il “nostro mondo” fosse perfetto e da difendere da continue minacce esterne (i troll russi, gli emigranti, le merci straniere a basso costo, l’economia digitale o peggio ancora quella della condivisione…). Ed ecco che il mondo si trasforma politicamente in un paradosso ibrido. E se apparentemente lo scontro viene raccontato come tra progressisti e conservatori (o sinistra e destra, immaginando ancora le categorie degli ultimi due se"Penso mas não existo" sui muri di Lisbona
Illustrazione di Josan Gonzalez
coli come funzionali al racconto di oggi), quello che vediamo, con Kevin Kelly, “è tutto un flusso di forme nuove che scaturiscono da uno scomodo rimescolamento di forme più vecchie”. Kelly nel suo fondamentale libro L’inevitabile (Il Saggiatore, 2017, sui cui torneremo sicuramente), descrive questo processo attuale come uno “Scontro culturale tra il Popolo del Libro e il popolo dello schermo”. I primi, il Popolo del libro “vivono attraverso il libro, attraverso l’autorità proveniente dagli autori. Il fondamento risiede nei testi”. La cultura degli schermi invece “è un mondo di flussi costanti, di infiniti assaggi musicali, tagli frettolosi e di idee incomplete. La verità non è trasmessa dagli autori o dalle autorità ma viene assemblata in tempo reale, pezzo per pezzo, dallo stesso pubblico. (…) Il popolo del libro preferisce le soluzioni fornite dalla legge mentre quello dello schermo individua la tecnologia come soluzione di tutti i problemi. La verità è che siamo in una fase di transizione le persone moderne vivono il conflitto tra queste due modalità”. Sì, siamo nel pieno di questo conflitto e, francamente, non esiste una verità o una strada unica da scegliere. Possiamo solo convivere dentro questo conflitto, facendo proprie le caratteristiche migliori di ognuno di questi
mondi. Libro e schermi possono convivere, ma sarà un processo complesso, per nulla scontato. Per il momento (ma per quanto ancora?) gli esseri umani e le emozioni che provano non possono ancora “essere copiati” e, come dice Kelly “le uniche cose veramente di valore sono quelle che non possono essere copiate”. Da questa meravigliosa e contaminata realtà dell’essere umano dobbiamo ripartire. Come umani ci siamo continuamente trasformati (e con noi il mondo) attraverso la tecnologia. Ri-tornare umani non significa dunque immaginarsi un mondo pre-tecnologico, ma immaginare e vivere un mondo in cui le Intelligenze Artificiali siano in armonia con gli esseri umani, per una sempre migliore qualità della vita. Concludo con questo brano di Kelly, Ora che anche l’inconscio è diventato digitale, possiamo “liberarci” dal Secolo della Psicanalisi e, finalmente, approdare a nuove forme di spiritualità e ridefinizioni dell’IO?
15
molto illuminante: “Negli ultimi sessant’anni mentre il progresso meccanico si occupava di riprodurre comportamenti e capacità che abbiamo sempre considerato unicamente umani, abbiamo dovuto cambiare anche quello che ritenevamo ci distinguesse dal resto. Ogni volta che inventeremo una specie di IA saremo costretti a rinunciare a un’abilità presunta unicamente umana, e ognuna di queste rinunce sarà triste e dolorosa. Non saremo più le uniche menti in grado di giocare a scacchi, di far volare un aereo, di produrre musica o di scoprire una legge matematica. Passeremo i prossimi tre decenni, ma forse anche il prossimo secolo, in una continua crisi di identità, domandandoci incessantemente a cosa servono gli esseri umani. Se non siamo gli unici a essere artefici di strumenti, o artisti, o dotati di una morale etica, allora cosa ci rende speciali? La somma ironia è che i benefici più significativi che saranno apportati da un’IA funzionale e quotidiana non saranno l’aumento di produttività, un’economia di abbondanza o un nuovo modo di fare scienza (malgrado tutto ciò si verificherà comunque). Il beneficio più grande sarà che le IA ci aiuteranno a definire l’umanità. Abbiamo bisogno che le IA ci dicano chi siamo.”
BIOGRAFIE
di gui rita nna di a
Dall’alba al tramonto degli Anni Sessanta. Il destino di Sharon Tate A quasi cinquant’anni dalla sua morte, ripercorriamo la breve vita di Sharon Tate - modella, attrice, moglie di Roman Polanski - e ne viviamo ancora una volta l’impatto sull’immaginario cinematografico e non solo
G
li anniversari, di solito, fanno tornare attuali i miti del passato. Eppure ce ne sono alcuni talmente fulgidi e immortali che nemmeno hanno bisogno delle ricorrenze, in quanto scolpiti nell’immaginario e in una memoria collettiva cristallizzata nel tempo, parente stretta di una eternità simbolica e culturale. Anche se tra un anno saranno cinquant’anni dalla sua morte e ne uscirà una rivisitazione firmata Quentin Tarantino (Once upon a Time in Hollywood, programmato per il 9 agosto 2019), Sharon Tate è sempre stata dentro al XX secolo. Le sono bastati pochi anni. E ricostruire la sua vita significa trovarsi di fronte a fatti che evocano facilmente l’idea di sincronicità, ma che allo stesso tempo non sembrano altro che crudeli coincidenze. Sharon Marie Tate nasce a Dallas il 24 gennaio 1943. Spesso, il primo elemento connesso a questa città che richiamiamo dalla memoria è l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, che avviene vent’anni più tardi, dopo il sorgere degli anni '60. Suo fratello, il senatore Robert Francis Kennedy, viene invece ucciso nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1968. Quella sera Sharon Tate è a cena con lui e alcuni amici in una villa di Malibu. Robert F. Kennedy muore proprio dopo quell’incontro, all’Ambassador Hotel — come racconterà, con misurata empatia, Emilio Estevez in Bobby (2006). Neanche una settimana dopo, Rosemary’s baby di Roman Polanski esce negli Stati Uniti. Negli anni Sessanta, tra i canyon della California, le pratiche violente di diversi culti “satanisti” sembrano fare da contraltare all’intero clima culturale — colori, idee, arte, valori. A quanto pare fino a lambire (per finire a ribaltarne e sovvertirne le regole) i party a Hollywood, in cui gli ospiti indossano vestiti bianchi e celebrano per gioco finti riti. La cifra dell’infanzia di Sharon Tate è lo spostamento. Il padre è un ufficiale delle forze armate statunitensi e lavora per i servizi segreti, una carriera che corona in Vietnam. Sharon, la prima di tre sorelle, lo segue dunque nei suoi frequenti cambi di sede, che includono Washington, El Paso, e Vicenza, dove nel 1961 si diploma (e viene eletta reginetta) alla scuola americana.
Aveva vinto il suo primo concorso di bellezza — il primo di tanti — a pochi mesi di età. A Verona, nello stesso anno, partecipa come comparsa a Barabba, pellicola italo-statunitense il cui assistente di produzione è un poco più che trentenne Carlo Pedersoli (il futuro Bud Spencer). Conosce Richard Beymer, che la incoraggia a fare l’attrice. Rientrata con la famiglia a San Pedro, California nel 1962, inizia a lavorare come modella e per la pubblicità. Almeno agli inizi, la diciannovenne Sharon è solita raggiungere gli studi cinematografici in autostop, e si preoccupa di convincere il padre che, a Hollywood, lei è assolutamente al sicuro. Ci riesce. Suo agente e mentore è Martin Ransohoff, che la blinda con un contratto di sette anni. Partecipa alle serie TV Mister Ed (Il mulo parlante, 1958-1966), The man from U.N.C.L.E. (1964-68) e The Beverly Hillbillies (1962-71), e al film The americanization of Emily (Tempo di guerra, tempo d’amore, 1964). Nel 1965 fa un provino per The Sound of Music (Tutti insieme appassionatamente), ma il ruolo va a Charmian Carr. La prima pellicola in cui Sharon Tate ha un ruolo di rilievo parla di una setta e di omicidi rituali. Uscito nel 1966, The Eye of the Devil (Cerimonia per un delitto) è un horror diretto da J. Lee Thompson e interpretato, tra gli altri, da David Niven e Deborah Kerr. È questo film che viene citato dal giornalista Dick Kleiner, nel racconto della storia — confidatagli da Sharon Tate — di una visione che la donna avrebbe avuto, nel 1966, a casa di Jay Sebring, hair stylist di culto a Hollywood e suo compagno. Una persona — forse lei, forse Sebring — legata alle scale, con la gola tagliata. Nel 1967 esce nelle sale La valle delle bambole (The Valley of Dolls), diretto da Mark Robson. Sharon Tate è Jennifer, una delle protagoniste, che arriva a New York in cerca di successo, e che finirà per uccidersi. È un altro ruolo importante e un successo, che le porta una nomination ai Golden Globe come astro nascente. Sharon Tate è a questo punto un’iconica onda lunga che scavalcherà il confine del millennio — il suo look in The Valley of Dolls ritornerà sulle passerelle contemporanee,
35
BIOGRAFIE
Dell’omicidio dell’attrice, avvenuto il 9 agosto 1969 a Bel Air per mano della setta guidata da Charles Manson, tanto si è scritto (oltre 400 libri), fin quasi a oscurare la sua vita, sintetizzare e far coincidere la sua esistenza con la sua fine. “Dammi due settimane per partorire e poi uccidimi”. Questa il suo stile influenzerà molti anni dopo Madonna e Drew Barfrase è stata rivolta da Sharon Tate ai suoi assassini. Polanski rymore; è testimonial per la pubblicità Coppertone e la Barchiederà espressamente ai giornalisti che seguono il caso se bie Malibu è ispirata al suo personaggio in Don’t make waves si siano preoccupati di raccontare anche quanto Sharon fosse (Piano, piano non t’agitare!, 1967, con Tony Curtis e Claudia buona e vulnerabile (“Era così autentica, non contaminata dal Cardinale). Per tutti, è la nuova Marylin. successo” dice di lei George Harrison). Una donna che, in una È nello stesso anno che l’attrice incontra Roman Polanski situazione estrema, sembra mettersi nei panni di chi ha deciper The Fearless Vampire Killers (Per favore, non mordermi sul so arbitrariamente di porre fine alla sua vita, e non chiede di collo!, 1967). In questo film — che genera un impatto di non essere risparmiata, ma solo di poter dare alla luce suo figlio. poco conto sull’immaginario erotico dell’epoca e oltre — Sharon Viene da chiedersi se, nell’aura che avvolge oggi Roman PoTate interpreta la figlia di un locandiere che, ferita da un morso, lanski — una sensazione tangibile di potenza controllata che lo diventa un vampiro. È una pellicola che rimanda alle atmosfere precede di quindici metri — non sia rimasta agganciata almeno horror della casa di produzione Hammer con ampie venature una parte di Sharon Tate, come l’abbraccio della donna, unica di humor nero. Dietro le gag emerge un sentimento di tragica parte visibile del suo corpo nella prima di copertina del libro di ineluttabilità che sembra già un indizio sul destino che unirà la Christopher Sandford “Polanski: a biography” (2007). donna e il regista polacco. Quella sera, a differenza di Jay Sebring e altre tre persoL’incontro con Polanski è infatti come uno strappo. Un ne uccise, Steve McQueen si imbatte — nelle paevento che sembra creare, nella vita di Sharon role della moglie Neile Adams — in una “chiTate, un “prima” e un “dopo”. Sharon Tate ckie” e cambia programma, disertando la spiega così la fine della sua precedente reserata nella casa di Cielo Drive. Dopo lazione con Jay Sebring: “Prima di inconquel 9 agosto, il mondo e Hollywood trare Roman credevo di essere innamoDell’omicidio dell’attrice, cambieranno per sempre. Il padre rata di Jay […] ma la verità è che non avvenuto il 9 agosto 1969, di Sharon Tate, sotto copertura da andavo bene per Jay. Non sono ortanto si è scritto hippie, indaga per alcuni mesi sulla ganizzata, sono troppo superficiale: (oltre 400 libri), fin quasi sua morte. La madre diventa una Jay ha bisogno di una moglie e io, a pioniera leader dell’allora nascente ventitré anni, non sono pronta per a oscurare la sua vita, movimento per i diritti delle vittime la vita coniugale. Devo ancora impasintetizzare e far coincidere di crimini, e favorirà l’introduzione rare a vivere e Roman sta cercando di la sua esistenza delle loro dichiarazioni nei processi e insegnarmelo”. Quasi una sincera — e con la sua fine nei procedimenti sulla libertà condizioforse eccessiva — assunzione di responnale. sabilità, una sorta di riflessione sui propri I giorni immediatamente precedenti Wolimiti, e un riservato cenno alla portata del odstock, l’omicidio di Sharon Tate invade le prime cambiamento che irrompe nella sua vita attraverpagine. L’insensatezza dell’evento sciocca l’immaginaso il regista. Dopo un periodo trascorso insieme a Lonrio, fino al punto di sovrapposizione tra la sua morte e la fine dra, Roman e Sharon si sposano nella stessa città, nel gennaio dei solari anni '60. Una fine pesantemente segnata, poco più del 1968. Polanski racconta che si è innamorato di lei “proprio di un anno prima, anche dall’assassinio di Martin Luther King. all’inizio [delle riprese], quando giravamo sulle Dolomiti”: ave“L’uomo era andato sulla Luna, il progresso tecnologico ci vano preso LSD e ascoltato musica. E aggiunge: “Non eravamo aveva fatto sentire più intelligenti, e gli omicidi ci sconvolsero, destinati a un futuro insieme, non è durata molto”. anche perché avvenuti in un posto tranquillo e agiato” commenNel 1968, Sharon Tate recita nella commedia The Wrecking ta Polanski a proposito di questo “turning point” in cui sembra Crew (Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm), diretta da tramontare tutto. Tutto quanto aveva fatto di quel decennio un Phil Karlson. La pellicola segna il debutto di Chuck Norris, e il momento la cui presa sulla realtà e sull’immaginario sembra personaggio interpretato da Sharon Tate, Freya Carlson, ispieternamente viva. Lo shock confluisce nella vulgata simbolica rerà quello di Felicity Shagwell in Austin Powers — La spia che “hippiekiller”, che non può oscurare quella che è una palese ci provava (1999). Successivamente ottiene il ruolo di protagocontraddizione — l’assassino, più che il frutto malato, è il neminista in 12+1 (Una su 13), con Orson Welles, Vittorio Gassman co numero uno della controcultura. e Vittorio De Sica, che uscirà nel 1969. I corpi di Sharon Tate e suo figlio sono sepolti a Culver City, L’ultimo libro letto da Sharon Tate — che non teneva un California. La casa in cui viveva è stata demolita nel 1994. diario — è “Tess of the d’Urbervilles”, pubblicato dallo scrittore “My whole life has been decided by fate. I’ve never planned britannico Thomas Hardy nel 1891 (in Italia nel 1904). Lo conanything that’s happened to me (La mia vita è stata interamente siglia a Polanski, che nel 1979 ne farà Tess, un film dedicato a decisa dal destino. Non ho programmato niente di ciò che mi è lei. La protagonista, Nastassja Kinsky, vincerà il Golden Globe successo)”. come astro nascente.
36
“Prima di incontrare Roman credevo di essere innamorata di Jay […] ma la verità è che non andavo bene per Jay. Non sono organizzata, sono troppo superficiale: Jay ha bisogno di una moglie e io, a ventitré anni, non sono pronta per la vita coniugale. Devo ancora imparare a vivere e Roman sta cercando di insegnarmelo”
TRAIETTORIE URBANE
Grattacieli e ombrelli, palazzi, ristoranti fumosi e le strade affollate di Tokyo, sono alcuni dei soggetti preferiti di questo giovane artista, fotografo, graphic designer, DJ. Dai primi scatti con l'iPhone, alle attuali produzioni con le reflex, un ritratto e un'intervista esclusiva di Sentieri Selvaggi
G
li scatti del fotografo giapponese RK catturano subito la nostra attenzione per i colori accesi e definiti, così perfetti da essere irreali, allucinati come in un videogioco o in un qualche film su un futuro distopico. Non c’è angoscia, neanche quando prevale il rosso o quando i contorni umani svaniscono, laSciando spazio solo ai palazzi e alle insegne delle multinazionali. Oltre alla nitidezza dei contorni e delle tonalità, veniamo catturati nell’immediato dai protagonisti delle foto. Quali sono i veri soggetti delle foto di RK? Elemento umano ed elemento urbano convivono nell’accumulo di luci ma a prevalere è sicuramente la città, una flora variopinta e inarrestabile, un rampicante che cresce a dismisura e ingloba l’essere umano nel suo corpo. Se si clicca sulla voce Portrait del sito di RK si troveranno pochissimi primi piani, perché come i volti immortalati, anche i palazzi, i ristoranti fumosi e le strade affollate non sono meno gremiti di storie da raccontare. Grattacieli e ombrelli sovrastano e nascondono i volti. I giornali incorniciano gli edicolanti giapponesi di cui rimangono, mimetizzati, solo i volti sorridenti. Cliccando sulla voce Nature le palme si stagliano alte in cielo ma sempre affiancate dai lampioni, e fra i rami dei ciliegi in fiore si intravedono le strade di asfalto. RK inizia a muovere i primi passi nel mondo della fotografia cinque anni fa, rubando immagini di Tokio con il suo iPhone, strumento onnipresente e comodo, perfetto per correre insieme a chi corre ma anche per rimanere invisibili in attesa dell’istante giusto. “Penso poco alla composizione fotografica, mi concentro esclusivamente sul momento e sulla storia di quel momento. Posso aspettare ore in un posto solo per uno scatto. Sono sempre stato affascinato dagli istanti di Tokyo.” racconta RK in un’intervista alla rivista MyModernMet. Dall’iPhone il fotografo passa ad una reflex digitale, cattura meglio le luci della città e il brulichio della metropoli sempre viva, pur se bloccata in uno scatto apparentemente privo di movimento. La metropoli è infatti frenetica, il tempo passa e lo è sempre di più. Le storie che immaginavano il futuro non l’hanno sempre raffigurata così? “Com’è il Giappone adesso? Io voglio che le persone nel mondo conoscano la cultura unica del Giappone. Per questo
ce c
RK
di a li
di
atu cci
Le tracce metropolitane
fotografo le strade”. Che non si cerchi più nella tradizione, perché ora la cultura è nelle strade della città che non si spegne mai, in cui non è mai notte per davvero. Perché nelle foto di RK non c’è mai buio. In questa condivisione della capitale giapponese, i social media hanno un ruolo fondamentale. Il fotografo pur avendo abbandonato l’Iphone si fa conoscere come tutti soprattutto su Instagram e fa viaggiare (e ci fa viaggiare) il suo sguardo su Tokio. L’artista restituisce con l’obiettivo una visione ovviamente oggettiva ma soprattutto intima. Le fotografie attraversano il mondo alla velocità di un tocco sul touch screen e il fotografo giapponese ci rivela la pienezza di quelle strade così lontane, e solo per noi cerca gli angoli nascosti della città, i luoghi più caratteristici in cui la parola tradizionale acquista un senso nuovo, ricco e contaminato. Tanti input e vie di fuga, lo sguardo parte dal centro ma si perde molto prima di arrivare ai margini, troppe le scritte, troppe le luci e gli schermi. Gli esseri umani sono spesso ridotti al minimo e messi in disparte, non più al centro (da un bel pezzo ormai). Ma non c’è pessimismo, lo sguardo è curioso e divertito, perché nel fotografare le tracce urbane RK le fa risuonare di una musica quasi gioiosa. Queste tracce si silenziano mai? Lo fanno quando l’umano prende per un attimo il sopravvento, ossia quando il fotografo si distacca dalla metropoli come un supereroe. RK si allontana dalla folla e sale su un grattacielo, la città è giù in basso, sotto i piedi del fotografo centrali nello scatto. Oppure si distanzia ancora di più, la capitale è solo una valle lontana, le finestre dei grattacieli piccoli puntini luminosi. Il mare urbano si placa per un po’ e solo nel riavvicinamento al caos tornerà ad essere frenetico e ricco di spunti da catturare.
47
TRAIETTORIE URBANE
"Mi piace la città e basta…" Intervista a RK Fotografo, graphic designer e DJ giapponese, RK ci risponde dalla città in cui vive, Tokyo, fonte di ispirazione fortissima per il suo immaginario visivo. Nel 2013 RK è diventato fotografo ufficiale dell’AFE, ATHLETICS FAR EAST, una crew di corridori di Tokyo, di cui tuttora fa parte. È lì che tutto ha inizio. Infatti diventa subito noto come iPhone Photographer, perché fotografa e modifica i suoi scatti usando esclusivamente l’iPhone. Presto inizia a farsi conoscere spedendo le sue fotografie a mostre e aziende. Col tempo passa a una DSLR (reflex digitale) e si specializza in foto di moda, ritratti e foto di architettura. Quasi sempre prevale lo scenario della città.
L
a città, anche quando è semplice sfondo, è sempre importante nelle tue foto. Cosa ti attrae degli spazi urbani? Devo dire che non ci ho mai pensato, mi piace la città e basta. Mi piacciono le belle cose direi. Com’è iniziata la tua carriera? Sono un membro del team di corsa di Tokyo. Quando mi sono unito alla squadra il fondatore mi ha chiesto di fare delle foto ai membri del team durante la corsa. Ecco perché ho iniziato a scattare foto, ecco perché sono diventato un fotografo. L’uso dell’iPhone quindi ti era congeniale perché ti serviva a scattare velocemente e facilmente? Sì, ho iniziato molto presto a scattare con una DSLR ma inizialmente per quel tipo di lavoro l’iPhone era perfetto perché dovevo scattare mentre correvo. L’iPhone riesce a regalarti ottimi scatti ed è sicuramente meno pesante di una macchina fotografica e quindi molto più comodo per correre. Quali sono i pro e i contro dell’iPhone rispetto alla macchina fotografica? Beh l’iPhone segue meglio l’intuizione, appena vedi qualcosa che vuoi bloccare è più immediato. Però le foto dell’iPhone non sono adatte alla stampa perché il numero dei pixel è ridotto mentre con la DSLR oltre a ottenere foto più belle e di qualità maggiore, puoi
TRAIETTORIE URBANE
anche stampare perché il numero di pixel è più alto. Al contempo con l’Iphone sai fin da subito come saranno le tue foto con le modifiche, perché le puoi effettuare con quello stesso strumento, mentre con la DSLR non puoi vederle subito. Sei molto attivo su Instagram. Cosa pensi del ruolo dei social media nella promozione del lavoro? Credo fermamente che non ci sia niente di meglio dei social media per promuovere me stesso e per farmi conoscere in qualsiasi parte del mondo. Sei anche DJ, le tue tracce sono reperibili su SoundCloud. C’è una connessione fra la tua musica e le foto che fai? No, non c’è una connessione specifica. Amo moltissimo sia fare musica che fotografare. Forse è questa la connessione. È evidente che nei tuoi scatti c’è qualcosa di molto filmico, qualcosa che rimanda alle atmosfere dell’animazione manga per esempio. Hai dei riferimenti cinematografici? Mi piacciono moltissimo i film, ne avrò visti più di 200, e sicuramente mi hanno sempre ispirato tantissimo. È molto difficile menzionarne alcuni specifici. Ad esempio per quelli di animazione direi Akira. Mentre per i gangster movie, che adoro, direi Ryŭji di Tôru Kawashima.
50
MERCATI r e l l ü M ia r o t c s r u a d Con M erta dell’in p e s o e c s n i c a l a al c fi a r og t a m e cin to merca per il à t i n rt u /oppo blemi o r p ler i c o Mül Dodi econd s a m e RA del cin NSU A CE L e r a g ir SA I me a g a d ’ ES 1. Co m e n i c ere el strani meri d u E n T I O U 2. delle Q I A NA adossi r ca a P ITA L E 3. og rafi N nemat i AZIO c G a l E a s EL G e la 4. D A MI N E R TO o ST V EN 5. L ome E c a m cine 6. Il A LE A V IR M a E ST E M N Cinem R-SY A 7. CI T S Wave lo w e e r a N s iet ome u A Sov 8. C T TI V E P S ICO ETRO U BBL P TE L 9. R I con N EN o A t r o M p R r ap R A PE 10. Il T TU E T I K CH A al 4 11. A R COL I L L lla PE 12. Da
ra e a di ser l do gi o s p i n s oz iell zo o
a cu
Il Mercato del Futuro
Abbiamo incontrato Marco Müller, per farci raccontare il progetto del Pingyao International Film Festival, fondato e diretto nella cittadina cinese insieme a Jia Zhang-ke e giunto alla sua seconda edizione. Un’occasione per tracciare, con la guida del più inafferrabile degli organizzatori culturali contemporanei, un vademecum su come muoversi sul mercato cinese tra protezionismo e aperture, innovazione e meccanismi di difesa statale. Nella convinzione che, parafrasando Lévi-Strauss, “ci siano delle situazioni in Asia orientale che ci dicono quale potrebbe essere il nostro futuro di europei occidentali tra 20 anni”. Ecco tutto quello che ci ha svelato
1. Come aggirare LA CENSURA
L’
attuale incarnazione del FIRST, festival internazionale di cinema indipendente al confine col Tibet, è da più di dieci anni la manifestazione clandestina cinematografica più visibile e frequentata di tutta la Cina, non a caso lontana dal centro in modo da poter essere meno controllata. Loro aggirano con intelligenza il problema del visto di censura per i film in programmazione, evitando di chiederlo in maniera vincolante ma facendo comunque vedere le opere soltanto al comitato di censura provinciale. Il punto è che la versione del film che passa al FIRST è unica. Nessun produttore avrà mai il coraggio di mostrarla al di fuori e quando l’opera arriva in sala un anno dopo è puntualmente massacrata dalla censura. Ma un festival serve proprio a far circolare sul mercato internazionale i registi che non passano la censura: per questo a Pingyao ci
siamo inventati queste proiezioni solo per l’industry, un laboratorio di work in progress per film che non hanno convinto la censura e che presentiamo dunque in versione non definitiva, dove invitiamo i grossi compratori e i direttori di festival stranieri. Poi ci sono sempre i casi come Wang Bing: se non cerchi in maniera ossessiva una visibilità importante a livello locale, vieni lasciato tranquillo. Mrs Fang, che ha vinto Locarno lo scorso anno, adesso va al festival di Shanghai: è la prima volta in una quindicina d’anni che un film di Wang Bing partecipa a un festival cinese, anche se la versione è più corta di quella presentata a Locarno.
“un festival serve proprio a far circolare sul mercato internazionale i registi che non passano la censura”
MERCATI
2. I numeri del Cinema d’ESSAI
O
pere come l’ultimo Dead Souls di Wang Bing, della durata di otto ore, vivono in un circuito alternativo, che è quello delle gallerie d’arte, delle esibizioni, delle mostre: e qui arriviamo alla questione della partenza del circuito di sale d’essai in Cina, che è la spinta grazie a cui nasce il festival che facciamo con Jia Zhang-ke. Sembrava che il governo, forse per regalarsi un alibi di lusso, avesse intenzione di costruire ex novo, o di rinnovare, delle sale mono-schermo di 3-400 spettatori nelle grandi città per un pubblico giovanile-studentesco. Questo poi non è successo e si sono messe insieme 6 società di distribuzione, compresa quella di Jia Zhang-ke, che hanno continuato a battersi per tenere alto l’orizzonte di proposte, anche perché operazioni come quella di distribuire, con due
anni di ritardo rispetto a Hong Kong, Manchester by the Sea hanno dimostrato che numericamente il popolo cinefilo è enorme in Cina. La Cineteca di Pechino in questo contesto è l’ago di bilancia necessario per mettere insieme i pezzi dispersi del patrimonio storico, se non fosse che il lavoro dei suoi giovani e bravi programmatori deve passare poi dai capi che non vengono dall’ambiente della cultura ma dal commercio e dalla finanza di Stato. Lo stesso Jia andando in tournée con Mountains May Depart si è reso conto che mettendo insieme questo tipo di spettatori si potrebbe arrivare a una cifra intorno ai 40 milioni, che sembra enorme per l’Italia ma che in Cina è giusto una goccia nel mare magno della disaffezione nei confronti delle sale.
3. Paradossi delle QUOTE straniere
A
Cannes le riviste professionali di cinema fanno sempre il punto su come va il mercato cinese. I distributori francesi sono puntualmente contenti di dichiarare che almeno 6 film francesi sono rientrati nelle famose quote destinate ai titoli stranieri in Cina, che di solito non superano mai le 40 unità e a cui se ne aggiungono altre 10 per i film d’essai. Ma cosa sono effettivamente questi 6 film francesi? A parte uno o due titoli d’animazione, si tratta di film di lingua inglese distribuiti dai gruppi che posseggono – come nel caso dell’EuropaCorp di Besson – la maggioranza delle azioni di una società francese, quindi opere di un regista anglo-americano con attore anglo-americano, oppure, ed è il caso di Canal+, da gruppi che hanno una forte presenza a Pechino. Ma il paradosso è che i film francesi, compresi quelli d’animazione, girati e pensati in lingua francese, in Cina escono doppiati in inglese: tutto il cinema che entra nelle quote viene di norma doppiato in lingua inglese per la semplicissima ragione che altrimenti nessuno va a vedere un film francese, se non sembra un film americano. E il doppiaggio in inglese viene curato dai distributori cinesi! L’esempio più interessante nell’ottica di queste dinamiche del mercato è un lavoro prodotto dal regista kazako-russo Timur Bekmambetov che, forte delle sue esperienze hollywoodiane, e del fatto che in Russia rimane un produttore di film “di cassetta”, aveva pensato a un film russo per il mercato cinese, che si chiama On – drakon (I am Dragon, diretto da Indar Dzhendubaev nel 2015), un fantasy sulla storia d’amore tra una principessa e un uomo-drago. I distributori cinesi erano però dubbiosi, il film non sembrava interessante. Quando On - drakon esce in Russia, immediatamente viene piratato sul web russo, gli hacker cinesi lo riprendono e raggiunge in meno di due
settimane qualcosa come un milione e mezzo di contatti, con tutti i sottotitoli tradotti da google translate. Bekmambetov a questo punto torna da uno dei sei grossi gruppi dell’alleanza del cinema d’essai, così si chiama, e li convince che il film può essere distribuito in Cina, a patto che venga chiuso il torrent dov’era possibile recuperarlo online. Ed esce doppiato! Alla prima a Pechino era abbastanza imbarazzante che la delegazione russa non avesse neanche un interprete e fosse costretta a esprimersi in inglese e a guardare il film in inglese, nulla poteva ricordare che la produzione non fosse americana, anche perché Timur puoi veicolarlo come il regista di Wanted, con Angelina Jolie, e tutto il resto. E I am Dragon ha fatto alla fine una quindicina di milioni di dollari.
“I film francesi, girati e pensati in lingua francese, in Cina escono doppiati in inglese: tutto il cinema che entra nelle quote viene di norma doppiato in lingua inglese per la semplicissima ragione che altrimenti nessuno va a vedere un film francese, se non sembra un film americano”
62
Marco Müller Attualmente direttore artistico del Pingyao Crouching Tiger Hidden Dragon International Film Festival, Müller è tra le figure principali che hanno permesso ai festival europei di rinnovare le proprie formule e di scoprire le cinematografie orientali contemporanee, sin dalla sua rassegna “Ombre Elettriche” di Torino nei primi Anni ’80 fino alle varie direzioni assunte negli anni di manifestazioni come Pesaro, Locarno, Rotterdam, e soprattutto della Mostra di Venezia (dal 2004 al 2011) e della Festa di Roma (dal 2012 al 2014). È anche produttore cinematografico, a cui dobbiamo titoli come Moloch e Il sole di Sokurov, Tropical Malady di Apichatpong Weerasethakul, No Man’s Land di Denis Tanovic.
4.
DELEGAZIONE ITALIANA (che ruolo gioca l’Italia)
I
film italiani non hanno ancora diritto di cittadinanza in Cina perché non si è mai riusciti a capire su quali titoli poter scommettere, e abbiamo perso l’occasione di puntare sul mix di supereroi e neorealismo di Lo chiamavano Jeeg Robot. In linea generale le opere mandate in selezione sono troppo piccole e hanno una cifra autoriale che al momento non funziona per costruire un rapporto da zero. Fa eccezione Song’e Napule dei Manetti che dopo essere stato presentato a Roma è andato al Festival di Pechino. Proprio per questo motivo lo scorso anno a Pingyao abbiamo voluto in rappresentanza italiana L’ora legale
e Ammore e malavita. L’obiettivo era convincere gruppi di spettatori in partenza scettici, e bisogna dire che Ficarra e Picone da una parte e Marco e Antonio Manetti dall’altra, sono stati bravissimi a sedurre questo pubblico, si sono seduti in sala e addirittura i Manetti hanno ricevuto una standing ovation, hanno condotto il pubblico a cantare insieme a loro, si sono fatti una foto collettiva… e ora nella piccola città provinciale di Pingyao non esiste ristorante che non abbia una foto con Marco e Antonio Manetti! Da qualche parte devi pur cominciare…
5. Lo STREAMING e la sala cinematografica
T
utte le società di vendita spagnole, dalle più grandi a quelle più piccole, al Marché hanno venduto l’intero loro listino al primo o al secondo giorno di Cannes. Questo perché un thrilleraccio catalano del 2016, The invisible guest (Contratiempo, di Oriol Paulo), ha fatto un autentico botto in Cina: è stato pagato una cosa tipo 70.000 dollari e ne ha incassati 15 milioni. E così le piattaforme V.O.D. (Video on Demand, ndr.) si sono fiondate sui listini di cinema di genere spagnolo. Funziona così, ma nel mondo della finanza sanno tutti che tra un anno, o un anno e mezzo, le piattaforme diranno “basta, avete comprato decine di migliaia di film con dei diritti di permanenza online a quindici anni, ma noi possiamo assorbirne soltanto una parte”.
D’altra parte, sul V.O.D. la censura è molto più tosta, in confronto a un film che si vede a un festival e sparisce dopo tre proiezioni. In Cina la vita in sala di un film che non sia un blockbuster è difficile. Ci sono moltissimi spettatori passivi, che accettano che i loro appuntamenti con il cinema siano decisi da esperti di marketing, i quali a loro volta consultano indagini di mercato. Un film meno accessibile, di non immediata fruizione, quanto mai potrà rimanere in cartellone? Un paio di settimane al massimo, per non parlare di quelle opere che vengono indicate con un’espressione che significa, letteralmente, “titoli che hanno ballato un giorno solo”. Parliamo di film che vengono smontati nella stessa data dell’uscita, subito dopo che i primi spettacoli sono andati a vuoto.
63
L’aspetto più sorprendente è che molti dei distributori non si interessano a quello che può accadere ai film nei festival, o a quanto questi titoli possano essere diffusi grazie ai festival in una maniera alternativa. Lo scorso anno a Pingyao vennero a ritirare dei premi alcuni distributori, che però disertarono le proiezioni dei loro film. In qualche modo per loro era quasi meglio non sapere se l’opera poteva funzionare o meno. Non c’è dubbio che Jia Zhang-ke rimane il punto di riferimento per il popolo cinefilo. L’unico lavoro che possiamo fare è quello di dire ai distributori che noi per un film proponiamo un lavoro “fatto a mano” prima, durante e, se possibile, anche dopo. Insistiamo perché, insieme a questi distributori, su qualcuna delle grandi piattaforme cinesi come Youku o Tencent, si crei l’etichetta Jia Zhang-ke/Pingyao in modo che almeno i film siano visibili, nella misura del possibile tutti insieme, e che siano riconoscibili e dunque attirino un po’ più di curiosità. Il problema è capire sempre quanti di questi film riescano effettivamente, anche dopo essere stati modificati, a passare il vaglio della censura: lo scarto di accettazione tra la proiezione effimera a un festival e la fruizione online per dieci o quindici anni è enorme.
“Nel mondo della finanza sanno tutti che tra un anno, o un anno e mezzo, le piattaforme diranno: basta, avete comprato decine di migliaia di film con dei diritti di permanenza online a quindici anni, ma noi possiamo assorbirne soltanto una parte”
6. Il cinema come EVENTO
L
a gente che compra il biglietto corrisponde a un ceto ben preciso. Nei piccoli centri di campagna o di provincia gli unici film non di lingua cinese che arrivano sono soltanto le grandi produzioni americane. Per spiegarvi chi è il pubblico delle grandi città vale l’esempio dell’ultimo film di Ang Lee, Billy Lynn – Un giorno da eroe. Soltanto negli Stati Uniti e in Cina il film è uscito nel formato “giusto”, il 4K 3D a 120 fotogrammi al secondo, e il biglietto aveva il costo di 40 dollari americani, ma nonostante questo bisognava prenotarlo tre giorni prima. Andare a vederlo nell’unica sala in cui veniva proiettato nel formato “del futuro” era diventato uno status symbol. Certo è difficile credere che chi ha fatto
quella spesa fosse più interessato all’esperienza fisica della visione quanto al semplice fatto di poterlo raccontare agli amici. Molte di queste cose succedono quindi all’interno di un circuito che tocca una fascia molto ristretta, la Cina dei nuovi ricchi o dei nuovi ceti medi affluenti. Ad esempio Long Day’s Journey into Night di Bi Gan ha la parte in 3D per non finire confinato nell’ambito dei film “difficili”. Un prodotto che ha un frammento in 3D esce nelle sale più belle, quelle con lo schermo silver coated, e il pubblico va a vedere qualunque cosa che sia in 3D e abbia un’idea di spettacolarità. Se guardiamo al dittico che è il campione d’incassi di tutti i tempi in Cina, Wolf Warrior di Wu Jing, passato in Italia al Far East, capiamo come si fa a inventare un blockbuster cinese che però sia assolutamente interno ai meccanismi di ufficialità. È un sistema che permette alle diverse società partecipate dallo Stato di dire che ci sono una serie di biglietti scontati disponibili per quel determinato film e spingere il pubblico a sceglierlo “contro” gli altri. Il funzionamento delle multisale è simile a quello hollywoodiano, il film è in tre-quattro schermi e schiaccia tutti gli altri. Long Day’s Journey into Night di Bi Gan
7.
CINEMA VIRALE (strategie social dentro e fuori gli schermi)
Q
uando Still Life è uscito nelle sale in Cina allo stesso momento del film di Zhang Yimou La città proibita, il film di Jia è stato per forza di cose condannato a passare solo nelle proiezioni mattutine, perché pomeriggio e sera i cinema programmavano il kolossal di Zhang. A quel punto Jia è stato bravissimo, era un’epoca diversa, quella in cui la pirateria dvd era ancora diffusissima, i dvd pirata li trovavi in drogheria, e Jia ha fatto un accordo con la Warner per impedire che ci fossero in giro le versioni pirata di Still Life. Così facendo hanno venduto un milione di dvd ufficiali del film, che era allora una cifra importante per l’home video legale. Un regista ostinato che vuole difendere la sua idea di cinema si deve inventare ogni
volta metodi diversi per fare esistere il film e diffonderlo: per Mountains May Depart Jia è riuscito a fare più di dieci milioni perché andava a difendere l’opera in tutte le città più grandi e anche in provincia, creando un evento itinerante che ha lanciato il film. È così che questi titoli sono riusciti a entrare nella memoria collettiva. Pensiamo anche alla forza di Jia Zhang-ke sui social network cinesi, che non sono necessariamente come i nostri Facebook o Instagram. Quello che lui utilizza è un po’ simile: foto più quattro righe, ed ecco ogni suo post di norma raggiunge 500.000 like. Nel caso di alcune notizie che riguardavano Pingyao siamo arrivati a sfiorare il milione.
L’ambasciatrice del PYFF è una delle celebrità cinesi con il maggior seguito (nel 2013 Forbes la incorona al primo posto della sua China Celebrity List), vista in Occidente in X-Men – Giorni di un futuro passato di Bryan Singer e al fianco di Jackie Chan in Skiptrace – Missione Hong Kong di Renny Harlin. Nominata agli Hong Kong Film Awards per la sua interpretazione in Bodyguards and Assassins di Benny Chan, Fan Bingbing è l’attrice prediletta della regista Li Yu, che l’ha diretta quattro volte, e di Feng Xiaogang che la porta a vincere, per la sua interpretazione in I am not Madame Bovary, il premio per la miglior interpretazione femminile al Festival di San Sebastian del 2016.
8. Come usare lo STAR - SYSTEM
J
ia Zhang-ke per il festival è riuscito a creare un rapporto con una delle superdive asiatiche, Fan BingBing. L’ha conosciuta a San Sebastian quando lei ha vinto per la sua interpretazione in I am not Madame Bovary di Feng Xiaogang. Fan è stata una delle nostre ambasciatrici lo scorso anno. Ha una vera sensibilità per il cinema ed è alla ricerca di una nuova immagine sulla stampa internazionale. Quest’anno a Cannes ha visto Ash is Purest White e ha scritto per i social network cinesi la sua prima recensione, proprio quella del film di Jia. L’intenzione che abbiamo è quindi di andare a parlare con i divi che hanno la sensibilità giusta per accompagnare questa nostra scommessa e difenderla. Il festival ha dovuto operare una serie di aggiustamenti progressivi, perché a una strategia intelligente di distribuzione alternativa dei film passati a Pingyao abbiamo dovuto sostituire il lavoro abituale con quei distributori che comprano per ragioni extra-cinematografiche. Questo perché molti distributori appartengono a dei grossi gruppi quotati in borsa, quindi tornare da un festival e dire “noi abbiamo in listino il film che ha vinto il primo premio, oppure il film più grosso, quello con gli attori che hanno vinto Oscar e altri premi negli ultimi anni”, gli regala quella frazione di millesimo della quotazione in borsa che gli vale la posta in gioco.
Fan BingBing
Jia Zhang-ke Forse il nome più importante della cosiddetta “sesta generazione” di cineasti cinesi, Jia Zhang-ke ha fondato e dirige il Festival di Pingyao insieme a Müller. Legato sentimentalmente alla musa dei suoi film, l’attrice Zhao Tao, il regista e produttore ha vinto il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia del 2006 per Still Life, e la Palma alla migliore sceneggiatura a Cannes nel 2013 per Il tocco del peccato. Altri suoi titoli da ricordare sono Pickpocket, Platform, Unknown Pleasures, The World, Al di là delle montagne, insieme ai suoi documentari Dong, Useless (vincitore di Orizzonti a Venezia 2007), 24 city, I wish I knew. Il suo ultimo film, Ash is the purest white, è passato in concorso a Cannes 2018.
9. “Per Mountains May Depart Jia è riuscito a fare più di dieci milioni perché andava a difendere l’opera in tutte le città più grandi e anche in provincia, creando un evento itinerante che ha lanciato il film”
L’
RETROSPETTIVA Soviet New Wave Cinema
anno scorso la retrospettiva su Melville è servita a far capire perché ci chiamiamo Crouching Tiger Hidden Dragon, ovvero una proposta a cavallo tra la rivendicazione di un’autorialità dentro il cinema di genere e una linea più consueta di autori cinesi e internazionali. Quest’anno, insieme ad Alena Shumakova siamo andati a parlare con la Cineteca di Mosca per ottenere che riuscissero a restaurare per noi le 10 principali opere prime del cinema sovietico Anni 60/70, per riuscire a trovare una linea di discorso che potesse essere subito accettabile e creare delle eco e dei riverberi costanti: dentro un contesto che potrebbe essere simile a quello cinese sono state possibili tutte queste esperienze, non necessariamente solo Il primo maestro di Konchalovsky. È così che è nata la retrospettiva “The Young Guard – Soviet New Wave Cinema from the 60’s and 70’s”.
10. Il rapporto con IL PUBBLICO
L
a volontà politica delle autorità cantonali era quella di riportare il pubblico locale, la gente del posto in questa meravigliosa e ridente città antica, patrimonio dell’umanità dell’UNESCO che è una meta che i turisti girano in mezza giornata e poi vanno via. La scommessa era coinvolgere tutta la provincia dello Shanxi, che è più popolosa dell’Italia intera, a passare più tempo in un luogo bello. Una scommessa che all’inizio non doveva fare paura a nessuno, con 45 film nuovi più le retrospettive. Per ogni film straniero doveva esser presente un
film cinese, quindi 22 e 22. Subito i media hanno riconosciuto il nostro come un festival con una grande qualità di selezione e capace di portare avanti un discorso diverso. Noi non vogliamo fare come Toronto o Shangai che programmano 3-400 film in nove giorni. A noi interessa creare visibilità per alcune opere ed evitare di ragionare sulla quantità. Vogliamo fare un lavoro vero, avere presenti tutti i registi per dibattiti che lo scorso anno hanno più volte superato i 40 minuti di durata. A volte il pubblico proseguiva a parlare con gli autori anche fuori dal cinema.
66
11.
ARCHITETTURA PERMANENTE (Intervento sul territorio)
A
bbiamo costruito questa sorta di macchia su un tessuto urbano perfettamente preservato, nonostante già esistesse una fabbrica di motori diesel che era stata potenziata proprio per contribuire a iniziare a cancellare il “vecchio”. Dimostrare che in Cina potrebbero esistere dei parchi di industria culturale in grado di funzionare tutto l’anno: questa è la scommessa nonostante la città universitaria più vicina sia a un’ora di treno. Una sorta di festival permanente che sarebbe possibile a Shangai e Pechino ma che in realtà succede solo nelle sale di Bill Kong, il produttore di Ang Lee e Zhang Yimou. Bill ha un circuito chiamato Broadway Cinematheque di cui la sala più importante è la MOMA a Pechino. È l’unico che sistematicamente sfrutta una delle possibilità alternative al sistema delle quote, un cavillo che si chiama letteralmente “chiedere un’autorizzazione per una proiezione singola”, all’interno di un programma che prova ad avere una sua logica nella ricerca delle esperienze cinefile internazionali. La programmatrice della sala d’essai del Moma di Pechino è bravissima, sono lì ad esempio che si possono vedere in Cina i film di Christian Petzold.
“Esiste ancora in Asia la possibilità di mantenere acceso un sistema che consente ai film di rimanere nella memoria, consultabili sui nuovi media, e insieme di ricordare che bisogna al contempo difendere lo splendore della pellicola”
12. Dalla PELLICOLA al 4K
E
siste ancora in Asia la possibilità di mantenere acceso un sistema che consente ai film di rimanere nella memoria, consultabili sui nuovi media, e insieme di ricordare che bisogna al contempo difendere lo splendore della pellicola. Non c’è possibilità di andare avanti se non si insiste su questo, nel cinema cinese sono ormai in pochissimi a girare in pellicola. In questo senso uno degli alleati è Johnnie To, che ha pensato ad una bella proposta sulla necessità del ritorno di sensibilizzazione alla pellicola anche nella diffusione nelle sale. Con lui abbiamo fatto vedere Il buono il brutto il cattivo, uno dei suoi film preferiti, durante una Masterclass, in una doppia proiezione sia nel restauro 4K che in una buona copia in technicolor. I ventenni hanno provato un fastidio fisico rispetto al cinemascope anamorfico, qualcosa che li aveva respinti, e invece il 4K era abbastanza levigato per non disturbarli. Se Jia Zhang-ke riuscirà a far nascere presto nella sua Fenyang una sorta di piccolo Sundance, questo andrà sicuramente di pari passo con la volontà di iniziare a lavorare ad alcuni restauri in 4K di film fondamentali del patrimonio cinese.
e h c i Rubr
iacer aggi, p
i
i, sens
o il cor p ntato e v i , d panse che è sensi più es i e e r r d p o o c m il i se irint sorial uel lab Ovvero rie sen ro a q o t t n t e ie i d a erto, itato a tro tr zio ap ”, lim a, den a t o s s p s e u r i o n he ne olo ch to è u iocatt quel c Ques un “g eglio d m a con e O o. escola i, com uman li. e si m i sens a a h c u e t , r , a i o ev rp inem tattili o al co fare c oli e sul ensiam t p t le n f he svic o i r Ma n ra?), c u ssici. o che t p la it r c r o i c c s es o un e sen e com cinqu iniam ma gin m mma g ’i i l o , o t i ( s gine ional Piutto imma nvenz on co come n a i r . n u o t su isione scrit della v ichi la i t n a r i io p l s che oria le illu i sens mici hi nel eandr uovi a anneg e h nei m c hi e n enso? c s o c , o e v v t m i setti li. ri, d rmat rigina dei fo edatto o o un orsi o e, di r n sest c r u m e r o i p f m e, le ioni e enso? Abbia nsens rifless è un s oso no o per oesia n n i p n g i a la t r r E a g ne sto ve ccomp to que i, ci a g In t ut g a elv più. tieri S o…in di Sen n sens u i d a icerc A lla r
ingu anso, l p s e o p
teamLab Borderless - Mori building Digital Art Museum
# A colpo d'occhio Tie break, o del duello.
M
entre scrivo queste righe scorrono in diretta le immagini della semifinale di Wimbledon, Nadal-Djokovic. Se ci si concentra sul découpage della regia in diretta dell’evento, colpisce la ritualità dei cambi di punto macchina, i passaggi dal totale (dall’alto) del campo ai primi piani dei singoli giocatori, dai volti degli spettatori a quelli dell’arbitro o degli assistenti di campo. Piani fissi o lievi recadrage a seguire i movimenti (anch’essi rituali) dei giocatori. Stacchi continui, variabili. Unica eccezione: lo scambio lungo, seguito sempre dall’alto, in modo da far vedere tutto il campo, i due giocatori e il movimento della palla. La memoria corre ad altri momenti, altre partite, altre scritture. Wimbledon, 1980: la finale storica tra Borg e McEnroe, il lunghissimo tie-break del quarto set, vinto da McEnroe per 18 a 16. La BBC, che trasmetteva l’evento inaugura di fatto questa varietà di piani, gli stacchi continui, il cambio istmatico di piani. La struttura dell’evento tramutato in immagine-movimento segue da allora
queste regole (come in fondo avviene in ogni sport – dalla prevalenza del piano sequenza nel basket, al passaggio repentino da campo lungo a dettaglio nel calcio). Tennis come cinema o, meglio, il cinema come sopravvivenza, modello generatore e trasformatore di tante immagini. Al match storico dedica alcune pagine vivissime Serge Daney, nel suo l’Amateur de tennis. Libro straordinario, dove la passione per il tennis di Daney si mescola abilmente con lo sguardo del critico, la capacità di vedere nel gioco un’idea e una forma del mondo, come nel cinema. Questa finale, scrive Daney, ci ha procurato tutte le emozioni del tennis, dalla noia all’entusiasmo, dall’angoscia all’ammirazione. IIl tie-break risolutivo, il duello decisivo diventa, agli occhi del grande critico francese, l’immagine di un tempo che si dilata, di un volere e non volere al contempo che la partita abbia una fine. È in questo prolungamento potenzialmente indefinito del tempo che sta una delle particolarità del tennis, che appunto non ha un tempo definito, in cui il montaggio non lavora per chiudere il
96
di Daniele Dottorini suo senso, ma per prolungarne il ritmo, il movimento. È uno scarto radicale dal punto di vista del tempo, che fa sì che la scelta di Janus Metz, regista di Borg vs. McEnroe, film appunto incentrato sulla leggendaria finale, scelga un montaggio che sottrae la visibilità della partita allo spettatore, preferendo un viaggio fatto di flashback, di solitudini, di silenzi dei due giocatori (soprattutto del campione svedese). Nel film, l’attenzione mimetica nella ricostruzione di corpi e ambienti – i due attori che replicano pedissequamente i minimi gesti e tic dei due giocatori – non copre l’assenza del campo e del gioco, frammentati in inquadrature brevissime, che si pongono in totale contrapposizione alla regia della BBC, elogiata tra l’altro da Daney. Nel film di Metz tutto è composto da un montaggio sicuramente raffinato, ma che evidentemente ha l’unico scopo di spostare altrove lo sguardo, verso le ossessioni private di due campioni. Il match, che comunque ha uno spazio notevole nell’economia del film, è visibile soprattutto attraverso le tracce che lascia negli sguardi e nei volti degli spettatori, come dei due giocatori. Seguendo fino in fondo questo scarto si può allora riconoscere proprio nella ripresa della partita “reale” una forma sperimentale di cinema dal vivo. Un cinema appunto “aperto”, dove in gioco sta la possibilità di prolungare all’infinito il duello, anziché spingere verso la sua risoluzione; in questo senso la finale di Wimbledon è più vicina a I duellanti di Ridley Scott che al film di Metz: proprio perché i duellanti non fanno altro che ripetere all’infinito il loro gesto, mostrando che è il duello a dare il senso, non tanto la vittoria o la sconfitta. È solo così, parafrasando Daney, che due Idee del tennis (e perché no, del cinema) si possono mostrare nella loro contrapposizione assoluta, nella bellezza di un duello puro, di un cinema (che potrebbe essere) senza fine.
# C
La règle du jeu
armelo Bene amava il genio, disprezzava il talento. Il talento è cosa fisiologica, un dato di fatto che non impegna, che non prevede nessuno sforzo. I talentuosi agiscono di puro istinto e, prima o dopo, sbagliano, falliscono miseramente: della loro forza poco o nulla sanno. Il genio impone un continuo tradimento: ci si gioca contro. È necessario alterare quelle che sono le proprie percezioni, le direzioni immediate del senso, le strade facili del sentire. Essere geniali impone vivere profondamente dei sensi di colpa per ciò che non bisognerebbe mai fare: mettersi in gioco completamente, strapparsi la maschera, buttarla via. Se pensiamo al cinema, si riduce paurosamente il numero di quelli che possiamo ascrivere a questa categoria. Lavorare col proprio inconscio significa far funzionare particolarmente bene il proprio conscio. È necessario partire da qui, dalla definizione di genio, per declinare un tema tanto arbitrario quanto inutile, che, comunque, voglia definire quelle che sono le nuove regole di un gioco molto fattivo, tremendamente operativo, che riguardi il fare cinema. È angosciante la presenza di questa domanda che tenterebbe di stabilire chi dovrebbe fare cinema. Qua ci limiteremo a tracciare i percorsi di chi fa cinema. Tenendo ben presente che ci troviamo sul bordo di una falda, una linea di demarcazione che segna il confine tra le pratiche del passato e le possibili strategie da utilizzare nel futuro. Il passato gode, qui da noi, di un paesaggio tranquillo, ormai assestato, composto sostanzialmente da due forze capaci di garantire la fattibilità di un cinema realizzato grazie ai soldi di papà, e la gestione di contatti utili, definiti anche dalla presenza di enti quali il Centro Sperimentale di Cinematografia che meritava, a sua volta, strategie utili per i pochi posti messi a disposizione. La domanda di partenza mira a stabilire quali sono i meccanismi capaci di garantire il sostegno alla sopravvivenza: quale film devo fare affinché io possa sopravvivere per generare altro cinema,
altri film. Utilizzo, qui, una parola odiosa: “di regime”, utile a definire lo spazio scandaloso che mette assieme necessità individuali (voglio girare un film, raccontare una storia) e dinamiche sociali (deve esserci un pubblico disposto ad ascoltarmi e a garantirmi, col suo obolo, la sopravvivenza: in ogni modo l’artista è un saltimbanco e, questo termine, garantisce l’estirpazione di ambiti semantici che accrescerebbero la portata del fare: il poeta, qui, non è un vate ma, al limite, una porta d’accesso, una realtà capace di mettere in comunicazione mondi diversi). Al di fuori di questa dinamica commerciale non esiste vera arte: il termine si contamina di realtà onanistiche, individuali, che si pongono al di là di una vera e propria dinamica di scambio: il delirio insensato mortifica e altera definitivamente la realtà sciamanica necessaria a definire l’arte quale pratica funzionale a farci digerire - inutilmente - la morte. Immerso in un mercato instabile, l’autore ne gestisce o ne paga le conseguenze. Il pubblico che, per un certo numero di anni, ha accettato la presenza di un cinema intellettualizzato, tendenzialmente incapace di riflettere su se stesso era, da un lato, obbligato a quel cinema in quanto subiva il fascino della sala cinematografica al di là dell’oggetto esibito (il film), dall’altro era sostenuto da un dibattito culturale abbastanza chiaro che lo rendeva spettatore di una realtà politica i cui riferimenti non lasciavano dubbi. Una storia infausta, che ha generato scuole di adepti incapaci di generare cinema, desiderosi solo di godere di un’indiscriminata condivisione d’un’intelligenza che era comunità - certo cinema del contemporaneo tenta di gestire questo territorio ed è, questo, un progetto mostruoso le cui derive sono sotto gli occhi di tutti. Questa eventualità che legava il cinema come spazio, come struttura, a un pubblico capace di stupirsi al solo spegnersi delle luci della sala, è venuta, naturalmente, meno. Non si può più contare su questo automatismo. Il cinema dei
97
di Demetrio Salvi figli di papà fa i conti con una generazione di filmmaker che ha a disposizione territori più instabili e meno vincolati, generati dai cambiamenti del tecnologico, alterati da possibilità immediate di comunicare, di diffondere, di far circolare le proprie storie, i propri racconti, gli eventuali deliri. Il cinema s’imparenta alla letteratura: per fare un film basta volerlo. O poco più. Posso girare un film e mostrarlo a un pubblico indefinito. Apparentemente indefinito. Potenzialmente, posso far circolare il mio film come uno scrittore può far circolare ciò che scrive, liberamente. I social danno questa possibilità che è, contemporaneamente, reale e illusoria. Accedere al mondo del web apre e, contemporaneamente, chiude. Non conoscerne le regole risulta dannoso e frustrante. I miei lettori essendo indefiniti finiscono per disperdersi. Il lettore implicito, quello che io creo, il mio interlocutore privilegiato, non è sparito, sta là. Sono tenuto a tenerlo in considerazione. Ma, questa volta, è immerso in un magma che non è quello cartaceo: ha sviluppato, suo malgrado, nuove necessità, nuove esigenze, nuove aspettative, nuovi desideri. L’errore sarebbe quello di considerarlo uguale a quello che, normalmente, va in libreria, compra un libro. Il lettore e lo spettatore cambiano. Sono realtà naturalmente mutevoli: devo prevedere questa mutazione. Utilizzare YouTube quale piattaforma simile a una casa di distribuzione diventa atto insulso, erroneo. YouTube e Facebook trasformano tutti i lettori, tutti gli spettatori. Lo spazio, in questo caso, diventa osceno. Perde la sua necessità di rito, si riduce a atto simbolico. Voglio ridere. O voglio stupirmi. O voglio inorridire. È il grado zero delle emozioni che declina un tempo rapido, giustificato dalla gran massa di realizzatori che mi permettono di godere dello spazio breve del godimento appunto (il cumshot, versione estrema degli highlights). Riconoscere questo meccanismo è il punto di partenza per brevettare una strategia funzionale al fare cinema. Ma questo non è che l’inizio.
#
M
di Sergio Sozzo
Anti - Evento
U
na delle battute fulminanti con cui Judah Friedlander stende la platea dei suoi spettacoli di stand up (raccolti su Netflix in uno special imprescindibile dal titolo America is the greatest country in the United States) è quella data in risposta al malcapitato tipo che dal pubblico dichiara di occuparsi di “organizzazione di eventi”: “detta così sembrerebbe che tu faccia il terrorista”, lo secca Friedlander. Evento è una delle parole maggiormente tirata in ballo nella ridefinizione continua che facciamo delle nostre esperienze di esseri umani del contemporaneo, e uno dei motivi per cui adoro certe chiamate a raccolta del popolo dei carbonari dell’avanguardia è proprio per la loro natura disinnescante di anti-evento. L’ultimo sabato di maggio 2018 l’Auditorium Parco della Musica è assediato dai fan degli Artic Monkeys ma nella sala in fondo alla struttura romana uno sparuto gruppo di trepidanti appassionati alle 18 in punto si stringe attorno all’esibizione di Anthony Braxton: l’austero sassofonista è alla soglia dei 73 anni, e l’orario pomeridiano si addice meglio non solo all’età quanto alla natura della performance, che ha quasi più il sapore tagliente di certo spigoloso accademismo europeo che il fuoco sacro del free jazz. Se è un evento, di fatto è di definizione difficile, per l’appunto, se non impossibile: lo ZIM Sextet che accompagna Braxton (con due arpe e un basso tuba) segue la conduction del grande maestro in parallelo a quella del suo braccio destro, il cornettista Taylor Ho Bynum, in un’ora di assoluta dissoluzione del suono in componenti puramente spaziali, una dimensione quantica che tiene insieme
le note prodotte dalle dita dei musicisti con i rumori creati dai pugni sul legno e dai panni strofinati sulle corde. Abituare l’orecchio (e il sistema nervoso) a sfide di questo tipo produce sistematicamente delle epifanie che per me, l’ho scritto spesso, equivalgono in potenza a quelle procurate dalle vertigini del cinema più anti-narrativo (intendendo con questo Wiseman come Michael Bay…). Quel sabato, quando lo scoppiettio della plastica delle bottigliette d’acqua degli spettatori in sala sembrava integrarsi con l’esibizione di Braxton, non riuscivo a staccare la concentrazione dai mugugni, dai gorgheggi e dalle mezze arie intonate da questa voce profonda che si percepiva sotto l’impasto sonoro. Una voce! Ma chi stava addirittura cantando qualcosa? Nascosto dall’imponenza della tuba e delle arpe, il giovane fisarmonicista Adam Matlock infondeva i suoni di un fondamentale elemento umano. Ecco, nel bel mezzo dell’affanno con cui cerchiamo di capire le pieghe delle cose, quelli come Matlock serafici attraversano il flusso surfando sulla cresta dei dati: l’ultimo album dell’asso della fisarmonica fa parte dei suoi esperimenti ambient che trasformano lo strumento in una macchina da droni stratificati, e si chiama Dawn on Nebular Horizon. Questo tipo di uscite, Adam è solito firmarle con lo pseudonimo G. Zarapanecko, e questa in particolare la presenta così: Reflections on the isolation, scale, and paranoia of deep space travel. Quando decide di usare la voce, Matlock non si limita solo ai versi che smozzica durante i concerti di Braxton, ma ha una prolifica attività cantautoriale sotto il nickname di An Historic, interessante tentativo di
98
tenere insieme cabaret e songwriting alternativo tra Frusciante e John Cale (date una chance a An Historic Live, del 2012). Ma il suo risultato più preciso rimane Lungfiddle, non a caso firmato per una volta come Adam Matlock, una raccolta per sola fisarmonica registrata lungo l’arco di un anno (2014-15) che l’artista definisce come “il tentativo di mettere insieme un linguaggio personale da improvvisatore, e di impararlo a parlare fluentemente invece di recitare a memoria il frasario. Le versioni non sono definitive, ma rappresentano una serie di risposte ragionevolmente sicure alle domande poste da queste composizioni”. È tutto qui, il motivo per cui queste pratiche rivestono al giorno d’oggi un’importanza ancora probabilmente maggiore alla carica di rottura originaria, che magari si è invece un po’ sbiadita: proprio per via dell’ossessivo focalizzarsi sulla registrazione e sulla testimonianza del processo, sulla traccia temporanea di un percorso in mutamento continuo, che diventa più importante del risultato finale, irraggiungibile e aleatorio. Ancora una canzone su di una scala tradizionale, e ancora una composizione espansa di tappeti sonori che una fisarmonica neanche sa di poter produrre, e poi in giro con Anthony Braxton. Quanta produzione culturale si è resettata oggi su meccanismi simili, che le nicchie musicali hanno intuito con decenni d’anticipo. Se prima l’attività di questi instancabili esploratori sonici era appannaggio solo dei più coriacei cercatori di tesori nascosti, oggi ti basta una connessione per accedervi, raggiungerli, seguire le tappe, trasformare ogni clic sull’icona play in un piccolo evento mentale per un solo ascoltatore.
# Language DESIGN
Come leggiamo SECNODO UN PFROSSEORE DLEL’UNVIESRITÁ DI CMABRDIGE, NON IMORPTA IN CHE ORIDNE APAPAINO LE LETETRE IN UNA PAOLRA, L’UINCA CSOA IMNORPTATE È CHE LA PIMRA E L’ULIMTA LETETRA SINAO NEL PTOSO GITUSO. Se nonostante gli spostamenti delle lettere, riusciamo comunque a leggere rapidamente il testo è perché la lettura non è un processo lineare. Non leggiamo tutte le lettere di ogni parola e nemmeno tutte le parole di una frase, perché non è economico e non ne abbiamo bisogno. Gli occhi effettuano dei movimenti rapidi e discontinui, compiono dei salti verticali e orizzontali e solo in alcuni istanti avviene la fissazione, cioè il momento durante il quale il lettore capisce e trae informazioni dal testo. In genere all’inizio di ogni capoverso è dedicata un’attenzione particolare che scema man mano che si va avanti nel testo a meno che non ci siano punti di attrazione come grassetti, punteggiatura, corsivi. La lettura è un processo predittivo e costruttivo: dalla sequenza di parole che abbiamo sotto gli occhi, il nostro cervello trae informazioni per prevedere le parole che seguiranno e ne anticipa il significato, e mentre lo fa tiene presente il contesto in cui si inserisce ciò che sta leggendo. Per queste ragioni siamo portati a riconoscere e leggere parole sensate anche se l’ordine delle lettere al loro interno è sbagliato, ed è sempre per questo che abbiamo difficoltà a scovare i refusi quando rileggiamo i testi che abbiamo digitato. Non siamo fatti per leggere Maryanne Wolf, neuroscienziata statunitense, nel suo libro Proust e il calamaro storia e scienza del cervello che legge, ci spiega che il nostro cervello non era fatto per leggere. Non c’è nessun organo, nessuna zona dedicata alla lettura, come ad esempio ce l’abbiamo per la vi-
ha mai letto. Una volta che il cervello inizia a leggere cambia per sempre e quando ha imparato non smette più.
di Yvonne Bindi
sione e la parola. Ed è per questo che per parlare ci basta stare immersi tra persone che parlano e in un paio di anni impariamo, mentre per leggere, come per scrivere, ci dobbiamo esercitare tantissimo, addirittura studiando le lettere una a una. Se nessuno ci insegnasse, non riusciremmo a far nostri quei simboli come riusciamo a fare fluidamente con i suoni. Per imparare a leggere il cervello prende e riorganizza strumenti della visione e della parola e li rimodella per il nuovo compito che non gli appartiene. Spiega Maryanne Wolf: “All’origine dell’attitudine del cervello ad imparare a leggere c’è la sua proteiforme capacità di creare nuovi collegamenti tra strutture e circuiti originariamente predisposti ad altri, più basilari processi celebrali con un più lungo curriculum evolutivo, come la vista e la lingua parlata. Oggi sappiamo che gruppi di neuroni creano tra loro nuovi collegamenti e vie nervose ogni volta che acquistiamo una capacità […]Grazie a questo tipo di progetto noi veniamo al mondo programmati per modificare ciò che abbiamo ricevuto dalla natura, e per poter andare oltre. […]È probabile che il cervello che legge abbia sfruttato vie neuronali preesistenti, progettate in origine non solo per la visione, ma anche per collegare la vista a funzioni concettuali linguistiche: per esempio, collegando il rapido riconoscimento di una forma con la rapida inferenza che essa fa presagire un pericolo; o collegando un attrezzo riconosciuto, un predatore o un nemico al recupero di una parola dalla memoria.” Ed infine un parallelo illuminante: “Proprio come la lettura riflette la capacità del cervello di superare l’organizzazione originaria delle strutture, essa riflette anche la capacità del lettore di superare ciò che è dato dal testo e dall’autore” collegandolo ai propri pensieri e alle proprie immagini mentali. Per questo un cervello che legge è molto diverso da un cervello che non
99
QU3570 M355AGG10 53RV3 4 PR0V4R3 CH3 LA N057R4 M3N73 PUÓ F4R3 GR4ND1 C053! 4LL’1N1Z10 53MBR4 D1FF1C1L3 M@ P1Ú V41 4V4N7T1 71Ú L4 TU4 M3NT3 L3GG3 4U70M471C4M3#T3. Forma e posizione dei numeri, insieme con la distribuzione del testo e degli spazi bianchi, ci invitano a trattarli come fossero lettere. Per leggere il messaggio di sopra utilizziamo gli stessi criteri che avremmo applicato a un qualsiasi testo, perché vi riconosciamo una configurazione che ci è familiare. Per questo non vediamo solo una serie di numeri e lettere accostate, ma percepiamo delle parole, come avviene anche nell’esempio che segue.
Anche nelle forme di quest’opera dell’artista Dario Carmentano, la nostra mente non fa fatica a riconoscere la configurazione che corrisponde alla parola Italia, nonostante nessuno degli oggetti usati sia una lettera. Sto leggendo una parola o sto guardando un’immagine? Probabilmente sto leggendo un’immagine, perché dopo aver stabilito che raffigura la parola Italia, posso approfondire la lettura fino ad arrivare a capire il significato dell’opera e del perché l’artista abbia scelto proprio degli utensili e in parte mutilati. Diciamo leggere la mano, leggere le carte, leggere i fondi di caffè, diciamo te lo leggo negli occhi: queste espressioni ci ricordano come leggere voglia dire andare al di là di ciò che semplicemente vediamo, vuol dire attribuire significati o ricavarli da ciò che percepiamo. (Dal libro “Language Design”, Apogeo Editore)
#
SENSIBILIA
di Guglielmo Siniscalchi
La carne e il nulla. Sguardi, Giudizio e paradossi del cooking show
S
i taglia, si affetta, si scortica, si asportano pelli e interiora, arti e pezzi di carni: poi si prepara, si tenta di mettere ordine e decorare l’opera d’arte in attesa del giudizio finale. Non siamo tra le pieghe di un film horror Anni ’80, Tobe Hooper e George Romero sono lontani anni luce, non ci troviamo neanche fra gli spazi angusti e ipermoderni di serie tv ispirate alle gesta di serial killer o sette sacrificali: più semplicemente stiamo assistendo a uno degli spettacoli visivi più seguiti in questi ultimi anni sul piccolo schermo, ovvero i reality culinari (i cooking show o show cooking che dir si voglia, capitanati dal formato Masterchef ovviamente…), strane gare che attraggono inesorabilmente gli occhi dello spettatore coinvolgendo aspiranti cuochi di ogni età - ricordiamo che fra le declinazioni più seguite c’è quella “junior” dedicata ai più piccoli… - e una giura di “master chef” pronti a emettere giudizi spesso feroci e umilianti sulla qualità delle portate offerte dai concorrenti. Dagli Stati Uniti al Canada, passando per la Francia e l’Italia, questo format televisivo non conosce crisi né flessioni di audience: si cucinano carni e pesci, ci si sfida a suon di torte e decorazioni improbabili, si allestiscono in pochi minuti autentiche scenografie del piatto o, molto spesso, piccole catastrofi dell’occhio e del gusto. Lo spettacolo si ripete, incessante e ossessivo, quasi maniacale nella sua ritualità, format dopo format, puntata dopo puntata, senza mostrare la corda, appassionando e convincendo un pubblico rapito da competizioni che odorano di sudore e sangue, di spezie prelibate, verdure e frattaglie sapientemente “catturate” dall’occhio delle video camere.
Forse per spiegare il successo irrefrenabile di questi contenitori visivi basterebbe ricorrere a categorie filosofiche e antropologiche come la passione per la ritualità e la “messa in scena” di un sacrificio – animale o vegetale poco importa…; oppure, come spesso recitano gli spot di questi programmi, la possibilità del grande sogno americano, il plain man che diviene improvvisamente grande chef realizzando ambizioni finora impensabili. Eppure, queste curiose gare nascondono anche altre suggestioni forse in grado di illuminare alcuni aspetti più oscuri del legame tra sguardo, gusto e facoltà del giudizio. Perché poi, a ben guardare, l’essenza della sfida riposa proprio nel momento del giudizio, del verdetto o della “sentenza inappellabile” formulata da una giuria di esperti. Tutto si costruisce in funzione di questa manciata di minuti, di poche parole che decretano chi resta e chi esce dalla competizione, il dentro e il fuori nello/dallo schermo, la visibilità o la condanna all’invisibilità. Il rituale del cibo è solo pretesto, ben presto le tecniche di preparazione e confezione (il cosiddetto “impiattamento”…) dei piatti cede il passo a un altro rito, ben più inquietante: la “messa in scena” del Giudizio, la materializzazione della Legge, di chi decide definitivamente della sorte di qualcun altro con una semplice parola. Ecco allora che ogni concorrente si prostra dinanzi a una “sacra” trinità di giudici pronti a correggere, educare, disciplinare, includere ed escludere i propri devoti. Il numero “mistico” del Tre può nascondere preti, medici (o i più moderni psicologi…), taumaturghi, insegnanti, o, appunto, giudici: tutte figure che hanno segnato indelebilmente la cultura occi-
100
dentale con l’esercizio della loro facoltà di Giudizio, con la Legge del Padre, del “Master” appunto – anche nel senso indicato dall’omonimo film di Paul Thomas Anderson… - che rende sempre il nostro sguardo mancante e dunque “desiderante”.
Ma ecco il paradosso. Qui la legge del giudizio e del desiderio brama il nulla, un virtuale visivo dove i sensi sono inevitabilmente anestetizzati e affidati solo alla parola del giurato: lo spettatore non può esercitare in alcun modo il gusto, non tocca, non assaggia e non odora; si affida completamente al giudizio di uno sguardo passivo che può solo ammirare la messa in scena di un rito, senza mai esserne davvero parte. È curioso che una sfida culinaria riservi allo spettatore solo il gusto dell’occhio, producendo un piacere differito e indiretto: noi assaggiamo e giudichiamo “in nome di”, attraverso una triade di Master, delegando il gusto alla scelta altrui. Ecco perché i vari Masterchef sono format segnati da una sottile e raffinata pornografia di carni e vegetali morti, da un’arte del giudizio che precipita antichi riti e dinamiche nel vuoto di un rituale dove i sensi primordiali di ogni esperienza umana (il gusto, l’olfatto, il tatto…) sono semplicemente ricondotti a una visione senza contenuto, a un’esperienza senza mondo. Una passione per il nulla che, forse, è la vera chiave del successo di ogni cooking show che si rispetti.
Per festeggiare i nostri 30 anni, ci siamo regalati l'ennesima mission impossible della nostra storia. Siamo nuovamente una rivista cartacea! Ci è sempre piaciuto andare controcorrente e oggi ci sembra proprio urgente editare una rivista di carta quando tutto il mondo dell'editoria pare andare nella direzione opposta. Per chi si abbona ci saranno diversi omaggi, tra prodotti vecchi, nuovi e persino inediti, realizzati da Sentieri Selvaggi. Dal QR Code qui a fianco potrai andare alla nostra pagina web, dove troverai tutti i modi per provare una rinnovata esperienza di lettura.