Sentieriselvaggimagazine n.18

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Il futuro è ritornato Non si esce vivi dagli anni '80



SOMMARIO 4

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L'esodo

CUORE SELVAGGIO 12 19 23 32 38 43

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EDITORIALE

Pixels. Arcade Movies Alle origini della contemporaneità. Ritorno agli anni '80 Visita alla fiera mondiale mondiale del 2014 Nostalgia, mon amour Il fattore Wow Improvvisazioni Lo sguardo commissionato Anni '80. Un lungo decennio di immagini

CUORE SELVAGGIO ORNETTE COLEMAN

Ornette Vs. Evil Dead Il linguaggio dell'altro. Jacques Derrida intervista Ornette Coleman

CANNES 68 Fuochi fatui

FACES

95 Colin Farrell - The Gambler 102 Claudio Caligari - Finché c'è pellicola God Bless Cimino


n.18 3/2015

magazine

Il futuro è ritornato

L'esodo di aldo spiniello

Non si esce vivi dagli anni '80

Sentieri selvaggi magazine

n.18 - 3/2015 Bimestrale di cinema e tutto il resto... Direttore responsabile Federico Chiacchiari Direttore editoriale Aldo Spiniello Redazione Simone Emiliani, Carlo Valeri, Sergio Sozzo, Leonardo Lardieri, Pietro Masciullo Segretaria di redazione Elena Caterina Hanno collaborato a questo numero Giacomo Calzoni, Giovanna Canta, Luca Marchetti, Fabiana Proietti, Guglielmo Siniscalchi Progetto Grafico Giorgio Ascenzi Redazione Via Carlo Botta 19, 00184 Roma. Tel. +39 06.96049768 Mail redazione e amministrazione redazione@sentieriselvaggi.info info@sentieriselvaggi.it Supplemento a www.sentieriselvaggi.it Registrazione del tribunale di Roma n.110/98 del 20/03/1998 (edizione cartacea) n.317/05 del 12/08/2005 (edizione on-line)

È difficile dire dove sia il cinema in questa infuocata estate del 2015, anno limite del Ritorno al futuro. Forse, più che sugli schermi, è altrove, per le strade, nelle città in affanno o in quelle che celebrano i loro fasti messi in expo, nelle file davanti ai bancomat, negli eurogruppi parlamentari, nelle partenze intelligenti e quelle da bollino rosso, nei caronte e negli acheronte, tra i barconi di immigrati e le vittime di un clima impazzito... Ognuno può andarselo a cercare dove gli pare, trovare il suo momento, nei tuffi di Tania Cagnotto o nella motocicletta di Varoufakis che se ne va verso il mare, neanche fosse Rusty il selvaggio. Forse il cinema è nelle serie Tv, come molti di noi dicono da tempo. Di sicuro è in Piazza Grande a Locarno, almeno a leggere gli articoli dei nostri inviati. Ma i festival sono (quasi) sempre un'altra cosa... Magari è solo un problema di definizioni, problema che ci portiamo appresso ben volentieri. Ma alla fine resta una domanda, cosa accade in sala, lì dove teoricamente passa la voce ufficiale del padrone? Tomorrowland, Jurassic World, Mad Max... i maggiori blockbuster di questi ultimi mesi sembrano restituirci l'idea di un cinema come parco dei divertimenti, un luna park futuristico/fantascientifico, innalzato magari su una terra desolata, allo sbaraglio dopo l'apocalisse della realtà e dell'immaginario. Quasi a rimarcare tutta la distanza che passa tra lo spettacolo, le sue infinite e meravigliose propaggini, e un mondo disastrato. E ovviamente a tracciare il solco tra il Cinema, quello maiuscolo, e tutto il resto. Quello di oggi sembra davvero un cinema da expo, per restare sull'attualità, qualcosa da esporre in vetrina: l'effetto tecnologico, gli sguardi turistici (e in questo senso i film italiani da film commission sono un esempio "perfetto"). Fatte, ovviamente, le debite distin-

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gati di un vecchio immaginario, magari anni '80, quello che sta alle radici della contemporaneità, per citare il nostro direttore. E qui sta l'altra pista inquieta di questo numero del magazine. L'ipotesi che il passato sia più presente che mai, con i suoi segni, le sue tracce, le sue idee, i residui e le storture. Più capace di raccontare il mondo e di immaginare il futuro, di quanto non siano i discorsi attuali, fatta esclusione per gli spiriti più inquieti, gli sguardi corsari, gli incubi obliqui alla dottor (Claudio) Caligari. Se solo poco tempo fa pensavamo che i film fossero lo specchio più lucido della crisi, quelli di oggi, almeno nel mainstream, sembrano non reggere più la prova del mondo. È una specie di inversione temporale alla Cimino, per cui i bei giorni andati sono più vivi di quelli in corso... Magari è solo nostalgia. Ma i nomi che affollano la nostra anima vengono da un altro tempo, intramontabile: Caligari, Cimino, Pacman, Zemeckis, Roddy Piper, Ornette Coleman... La permanenza dell'effimero.

zioni. Perché tra lo splendore pirotecnico di Mad Max, la sua furia ribelle e la sua capacità di ridisegnare le geografie delle immagini e del set, e gli altri titoli, passa un abisso. Anzi, è proprio Mad Max a porre in maniera politica questo conflitto tra la sacralità spettacolare della facciata e il deserto inquieto che sta alle spalle, davanti, dietro, al lato, dappertutto. Fatto sta che c'è sempre, in ogni film, un momento in cui la facciata mostra tutte le sue orribili crepe, fino a crollare, a implodere o esplodere, come la FIFA di Blatter, la Roma bastarda dei mercanti. La tecnica cede e lo spettacolo mostra le corde, quelle dietro al palco. Ma cosa resta? La carne concreta, la materia delle cose? Probabilmente solo altre strutture, finzioni narrative, come in un gioco di scatole cinesi... Oppure soltanto brandelli di immagini che mangiano il reale, come nell'invasione aliena di Pixels, quest'altra sgangherata sortita sandleriana che sembra, però, intuire alla perfezione cosa siamo diventati. I figli rinne-

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Il futuro è ritornato


CUORE SELVAGGIO

PIXELS

Arcade movies

di Chris Columbus

di aldo spiniello

Sembra davvero il manifesto definitivo del cinema di Adam Sandler. La vendetta degli idioti, di questi incredibili perditempo, gli unici capaci di salvare il mondo dalla macchina che lo sta divorando

Forse è solo un caso. Del resto qui, come spesso accade quando c’è di mezzo Adam Sandler, non sembra che si vada troppo per il sottile. Ma il fatto che proprio Donkey Kong sia il gioco decisivo ha un valore simbolico non indifferente. Ben al di là delle pure e semplici implicazioni narrative, con la rivincita di Brenner

impegnato a superare il “suo” trauma adolescenziale, dopo la sconfitta al campionato del mondo 1982 di videogame arcade. Il punto è che l’eroe di Donkey Kong è il mitico Jumpman, che poi sarebbe passato alla storia come Mario, il grande baffone con cappello e salopette. Nient’altro che un carpentiere (poi idrau-

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tempi delle sortite distruttive di Jake ed Elwood Blues (Brothers), che nella loro “missione per conto di Dio” facevano impazzire gli ingranaggi di mezz’America. Ma negli ultimi anni questa rivincita degli idioti ha la valenza di una dichiarazione programmatica e politica: da Todd Phillips a Seth Rogen ed Evan Goldberg, passando per i Farrelly, attraverso le infinite diramazioni della Apatow Factory… Senza voler stare a contare gli esempi ad est, da Kitano a Hong Kong. La commedia riscopre con lucidità disarmante la propria vocazione, quell’essere la terra di confine del mainstream, il luogo di ripensamento dei suoi valori dominanti, il corto circuito ingestibile degli schemi di funzionamento. Quanto in questo assalto armato conta l’esperienza di Adam Sandler? Probabilmente è centrale, come andiamo ripetendo da anni, a ogni nuova sortita, anche la più sgangherata e “imperdonabile”. Certo in Pixels la mano di Chris Columbus si fa sentire. Fino al suggello impre-

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CUORE SELVAGGIO

lico, per una sorta di scalata sociale all’interno del mondo operaio), impegnato a salvare la fidanzata Pauline e a incarnare l’eroismo quotidiano della working class. Una chiara scelta “proletaria” nella definizione dello statuto eroico. Con implicita una promessa di riscatto. Un riposizionamento più che una rivoluzione, forse. Ma comunque non siamo troppo lontani dall’iperbole avventurosa di Brenner. Un semplice installatore di videogiochi e apparecchiature elettroniche, il genio fallito, il nerd perfetto e sfigato, alla testa di un gruppo di soggetti improbabili, il paranoico Ludlow Lamonsoff e l’infido “Fire Blaster” Eddie Plant. Saranno loro a guidare la resistenza all’invasione aliena, in barba agli eserciti, ai generali, agli alti funzionari, agli strateghi della guerra totale. Il mondo salvato dagli idioti. E, quindi, implicitamente, un mondo messo a soqquadro, beffardamente alla rovescia rispetto ai dettami maggioritari di una meritocrazia ancor più idiota. È una delle costanti del demenziale, dai


CUORE SELVAGGIO visto e divertito di una firma autocitazionista, con Brenner che dice “Gandalf ed Harry Potter allo stesso tavolo”. E perciò questo, tra i titoli dell’ultimo periodo sandleriano, è certamente il film più compatto ed esportabile, lontano dalla cialtroneria distruttiva di Jack e Jill, Indovina perché ti odio, The Cobbler. Dallo stesso indifferente cazzeggio di Un weekend da bamboccioni. Solo per restare agli ultimi tempi, siamo più dalle parti di Coraci che di Dennis Dugan, complice di vituperio autogestito. Un’avventura per tutta la famiglia, come direbbe un’ottima guida Tv, che trae spunto da un corto di successo di alcuni fa, firmato da Patrick Jean e che cavalca la nostalgia degli anni ’80, dell’epoca pionieristica dell’informatica “a casa”, delle sale giochi e degli arcade games. Galaga, Centipede, Space Invaders, Pac Man, Donkey Kong: lo scontro si sposta sul piano di un immaginario “che fu” adolescenziale, ma che ormai ha il sapore di cuoio del vintage più spinto. Eppure Sandler è in quest’immaginario che si muove da sempre, specialmente negli ultimi anni, popolati dai che cavolo stai dicendo Willis, da icone sexy dei

tempi andati, dagli Shaquille O’Neal e i John McEnroe, da Vanilla Ice a Martha Stewart. In una cavalcata che arriva fino ai giorni nostri, fino ai muscoli divini di Serena Williams. In questo calderone finisce tutto, un po’ come accade per Seth MacFarlane. Eppur tutto è sfiorato da un senso di tenerezza che mozza il fiato, ben oltre l’apparente indifferenza goliardica, il sorriso crudele, la battuta greve. Se davvero Sandler è il peggior attore del mondo, lo è perché il cinema non è un puro e semplice lavoro. Tanto meno un’arte. È una famiglia da ricompattare, da tener in vita costi quel costi, da difendere anche in tutte le sue esagerazioni e insensatezze, i suoi sprechi colossali e gli artifici più beceri.

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re ad ubriacarsi e a maledire (cioè a dir male) degli dei e degli uomini. Con passione e amore, con gli amici, gli amanti e… Perché, alla fine, prima o poi, saranno i perditempo, questi maledetti idioti, a salvare la terra da quella macchina che lo sta divorando.

Interpreti: Adam Sandler, Kevin James, Michelle Monaghan, Josh Gad, Peter Dinklage, Matt Lintz, Brian Cox, Dan Aykroyd Distribuzione: Warner Bros. Durata: 105’ Origine: USA, 2015

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CUORE SELVAGGIO

Sandler fa cinema da home video, esattamente come fosse un gioco da Atari, da Commodore o da Nintendo, da usare a piacimento, nelle mattinate con gli amici stravaccati in poltrona o nelle sere in famiglia. E in questo senso, Pixels sembra davvero il suo manifesto definitivo. Perché da un lato sembra rievocare certo cinema che fu, quello di War Games e de La donna esplosiva, ma va oltre. Mostra la chiarissima percezione di una pixelizzazione universale, ormai compiuta nel passaggio dalla bidimensionalità arcade al trionfo del 3D. Ormai non riguarda più solo il momento del gioco o del calcolo progettuale. L’invasione riguarda tutto, il lavoro, i rapporti umani, il nostro stesso stare al mondo. E allora bisognerebbe ritornare a perdere tempo, ai contatti di carne e ai bug di sistema, a studiare gli schemi e poi a fallirli. Bisognerebbe continuare nel cazzeggio, nei pomeriggi buttati a giocare, nei week end da bamboccioni… Bisognerebbe torna-


CUORE SELVAGGIO

Alle origini della contemporaneità Ritorno agli anni '80, ricordando Roddy Piper di federico chiacchiari

Forse è proprio l'istrionico, folle, esibizionista wrestler, morto lo scorso 31 luglio, a rappresentare la fine "simbolica" degli Anni Ottanta, questo decennio ancora terribilmente presente nell'immaginario e nella storia contemporanea

Forse gli Anni Ottanta, il decennio con la “coda lunga” infinita che arriva dritto dritto ai nostri giorni, sono “simbolicamente” finiti con la scomparsa di Roddy Piper. Istrionico, folle, esibizionista, provocatorio e divertentissimo wrestler, nella sua Golden Age, Piper, scomparso lo scorso 31 luglio a soli 61 anni, ha interpretato una quarantina di film, per lo più sconosciuti ai cinefili, ma di cui almeno uno è rimasto nella storia del cinema degli Anni Ottanta: They Live (Essi vivono) di John Carpenter. Perché gli Anni Ottanta sono ancora terribilmente presenti – mentre Pixels, sconclusionata commedia della banda di Adam Sandler, esce per celebrarne una sorta di mitologia dell’immaginario, proprio nell’anno del trentennale di un altro film cult

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CUORE SELVAGGIO come Ritorno al futuro di Zemeckis – ancora oggi, trenta anni dopo? La risposta potrebbe essere terribilmente semplice e dannatamente complessa. Semplice perché questo decennio ha segnato, con il suo kitsch, il liberismo economico, l’edonismo e la rinnovata “spensieratezza” culturale dopo due decenni di lotte, impegno e cambiamenti epocali, una sorta di valico oltre il concetto stesso di modernità (non è un caso che il concetto di post-moderno esploda proprio all’epoca), portandosi dietro idee, immagini, innovazioni tecnologiche e derive sociali che arrivano a determinare come siamo (diventati) oggi. Da un lato il ritorno della “centralità del corpo” (Sentieri selvaggi dei primi anni ci fece un numero intero, sulla mutazione), tutta la cultura (e l’economia) del wellness nasce in quegli anni, con il cinema che tornava a rappresentare l’erotismo dei corpi, anche se spostando l’asse d’attenzione, forse per la prima volta (almeno dai tempi del William Holden di Picnic e del Marlon Brando di Un tram che si chiama desiderio), su quello maschile, assai più che quello femminile. Quali corpi ricordiamo di quegli anni, al cinema? Femminili: Jennifer Beals in Flashdance, Kim Basinger in Nove settimane e mezzo (mentre esplodono invece quelli musicali come Madonna, che trasferisce il sexappeal femminile dal cinema ai videoclip di MTV, sparati giorno e notte nelle camere degli adolescenti).

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CUORE SELVAGGIO

Maschili a non finire: Harrison Ford (Blade Runner, Indiana Jones), Sylvester Stallone (Rambo, Rocky), Arnold Schwarzenegger (Conan, Terminator), Mickey Rourke (ancora 9 settimane e mezzo, Rumble Fish, L’anno del dragone, Johnny il bello), William Hurt (Brivido caldo, Il grande freddo, Stati di allucinazione), Kevin Costner (Fandango, Silverado, Senza via di scampo, L’uomo dei sogni), e potremmo proseguire ancora a lungo, per fermarci al doppio Jeremy Irons di Inseparabili di Cronenberg. Il corpo maschile diviene l’oggetto erotico del decennio, la carne disperata, rimessa in moto dalla decomposizione del maschio degli Anni Settanta (rivoluzione femminista, Ciao Maschio di Ferreri). Ma mentre lo schermo si riempie di corpi martoriati e riposizionati nel doppiogioco dell’eros/thanatos (Brian De Palma ne "Gli anni Ottanta sono gli anni della definiha fatto un marchio di fabbrica in quegli anni), gli anni Ottanta sono gli anni della tiva Rivincita dei Nerds, attraverso l'esplosiodefinitiva “Rivincita dei Nerds”, per citare ne degli oggetti tecnologici" il film di Jeff Kanew del 1984, attraverso l’esplosione degli oggetti tecnologici che diventeranno sempre più parte della vita quotidiana delle persone, anticipando il “corpo tecnologico connesso” di oggi. La musica diventa portatile (il walkman), il telefono si avvia ad esserlo, i computer pure, acquistando una centralità sempre maggiore, il cinema diventa “Home Video”, i videogiochi pop nascono proprio allora assumendo il controllo del corpo/console (e il Cyberpunk che esplode in quegli anni è la rappresentazione letteraria di una trasformazione ormai inevitabile). In poche parole: i Nerd si avviano a dominare il mondo. Da un lato la “prima categoria”, “per la stragrande maggioranza composta

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CUORE SELVAGGIO da soggetti di sesso maschile, che comprende individui che esprimono il proprio intellettualismo in modo quasi meccanico, e la cui inettitudine sociale ha qualcosa di altrettanto meccanico”; dall’altro la “seconda categoria”, “costituita in egual misura da maschi e femmine. Si tratta di individui che vengono definiti nerd perché socialmente ai margini”. Sono definizioni di Benjamin Nugent, tratte dal suo libro Storia naturale del nerd. Con gli Anni Ottanta, con l’era delle tecnologia diffusa, il mondo si avvia a passare nelle mani dei Bill Gates, degli Steve Jobs, degli Steven Spielberg, gli “sfigati con gli occhiali”, che troveranno la massima espressione negli “anni zero” del 2000 con David Zuckerberg, immortalato in corso d’opera nel magnifico Social Network di David Fincher. Ma se gli Anni '50 di Ritorno al futuro rappresentavano la nascita (o meglio l’affermazione globale) dell’American Way of Life, che dopo essere stata messa in crisi nei due decenni successivi, ritrovava nel corpo cinematografico del Presidente americano Ronald Reagan una sua rinnovata volontà di affermarsi come “visione del mondo” (culturale, politica, economica), gli Anni Ottanta di Pixels ne tracciano una sorta di visione “nostalgica”, gli ultimi anni che l’umanità avrebbe vissuto prima di Internet e della comunicazione diffusa dei cellulari. Quasi un “paradiso perduto”, dove quelli che un tempo erano denigrati come i luoghi dell’alienazione giovanile (le sale dei giochi elettronici), visti dal punto di osservazione del 2015, rappresentano quasi un meraviglioso luogo di ritrovo, di comunicazione, messo di fronte al videogioco individuale diffuso sui vari terminali personali e portatili di oggi. Insomma oggi il ragazzino si aliena giocando da solo a casa, prima almeno aveva un luogo dove farlo con gli amici...

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CUORE SELVAGGIO Questo almeno secondo la vulgata dominante benpensante. In realtà quegli anni, superficiali e rozzi, individualisti e corrotti, non sono poi stati così semplici. E qui veniamo a un’altra possibile lettura, dove la complessità che viviamo oggi sembra prendere luce proprio in quegli anni. Dove le ideologie sembrano finire (la fine della Guerra Fredda, il Muro di Berlino che cade), e dove la tecnologia sembra ipotizzare una ricchezza e disponibilità sempre maggiori. Sono gli anni della progressiva “americanizzazione” dell’Italia, grazie anche alla diffusione delle Tv commerciali, e finalmente la generazione oggi 40/50enne si poté “nutrire”, quasi in tempo reale, di tutte le meraviglie ludiche provenienti da oltre oceano (musica, videoclip, telefilm, soap, film). L’Italia che visse gli anni dal 1982 (quando la nazionale divenne campione del mondo subito dopo lo scandalo delle scommesse nel calcio), al 1992 di Tangentopoli (attenti a sottovalutare la Serie Tv, non impeccabile forse narrativamente ma molto precisa nel catturare l’emozione di quell’anno), era un Paese che visse una “grande illusione”, quella fornita dall’immaginario berlusconiano di un mondo dove tutti potevano – finalmente – consumare di tutto, mixato con quello politico craxiano, decisionista e liberista, che permetteva a milioni di italiani di vivere bene, spendere e persino investire qualcosa e risparmiare in Titoli di Stato. Poi scoprimmo Tangentopoli e il mastodontico Debito Pubblico e fu

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CUORE SELVAGGIO

la fine dell’età dell’innocenza (o della menzogna). Questo sogno di un'Italia Americana crollò con l’interrogatorio di Mario Chiesa e con le stragi di Capaci e di Via D’Amelio. No, non eravamo l’America, ma sempre la vecchia Italia conservatrice degli stragisti e delle mafie. E così mentre negli Stati Uniti (e poi in Asia e nel resto del mondo) i Nerd prendevano il potere, e aziende come Google, Apple, Amazon, Facebook, Twitter dominano oggi il mercato globale, da noi il potere finì nelle mani di uomini poco galanti, ancorati al mondo televisivo degli Anni Ottanta, che hanno di fatto fermato il nostro Paese per almeno un ventennio. E oggi per un Arduino che vince all’estero (già con polemiche) migliaia di aziende faticano persino ad usare Internet come strumento per fare comunicazione e business. Ma torniamo a Roddy Piper, il John Nada di Essi vivono. È davvero un signor “nessuno”, un corpaccione ingombrante che si aggira tra gli slum della città. Ma è lì che cova la “resistenza”, pochi ma combattivi esseri umani che si sono dotati di “occhiali speciali” (incredibilmente uguali a quelli di Jack ed Elwood Blues, The Blues Brothers) che permettono di “vedere oltre” la superficie delle cose. Il mondo è in mano a degli pseudo yuppies (gli arrivisti manager di borsa di quegli anni), che in realtà altri non sono che degli alieni che stanno conquistando il mondo attraverso


CUORE SELVAGGIO una comunicazione fatta di messaggi subliminali. E per farlo capire al suo “compagno” di colore Frank Armitage, John dovrà costringerlo ad indossare quegli occhiali, ma solo dopo una memorabile, fordiana scazzottata, piccolo grande omaggio all’Uomo tranquillo con John Wayne e Victor Mc Laglen. Piper era in gran forma in quegli anni, ne aveva solo 34, prima che diverse malattie ne minassero il corpo (basti confrontare le sue immagini degli anni Ottanta con quelle di solo dieci anni dopo) ma non la vitalità e la voglia di provocare, che continuò sui palcoscenici della World Wrestling Federation. Non è stato né il più forte né il più spettacolare dei lottatori di questo assurdo sport del wrestling (celebrato degnamente poi solo nel 2008 da The Wrestler di Darren Aronofsky con Mickey Rourke, che vinse a Venezia), ma sicuramente il più caotico e confusionario, divertente e provocatorio, e fu, come disse il suo collega Rick Flair, "il più dotato intrattenitore nella storia del wrestling". Il 2015, “anno del futuro” per gli anni Ottanta dello zemeckisiano Ritorno al Futuro, sembra riportarci, tra nostalgia e new marketing, piuttosto al passato. Restauri, edizioni in 4k, film come Pixels che ne celebrano una sorta di elegia: tutto sembra riportarci agli anni Ottanta. Non se ne può più uscire, almeno da vivi… Poi guardo ai film della stagione e, indovinate in che anni è ambientato il film più bello dell’anno, ovvero Mountains May Depart di Jia Zhang-ke? Negli stessi anni in cui si muovevano i primi True Detective… Gli Anni Novanta… Forse è il caso prima o poi di ripartire da lì. O di andare ancora più avanti e provare a reimmaginare un mondo in cui il futuro non è più solo… il presente.

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di isaac asimov

Un celebre testo di Isaac Asimov, apparso sul New York Times del 16 agosto 1964, dopo una visita alla Fiera Mondiale di quell'anno. Traduzione di Ernesto Pavese

La Fiera Mondiale di New York del 1964 è dedicata alla “Pace mediante la comprensione”. L’avvenire, almeno secondo la prospettiva della fiera, sarà meraviglioso. La direzione verso cui l’uomo si sta muovendo è vista con vivace speranza, e in nessun luogo più che nel padiglione della General Electric, che mostra i progressi degli apparecchi elettrici e i cambiamenti che hanno portato nella vita di tutti i giorni. Mi è piaciuto enormemente e l’unica cosa che mi sia dispiaciuta è che non abbiano esteso gli scenari al futuro. Come sarà la vita, diciamo, nel 2014, a 50 anni da adesso? Che aspetto avrà la Fiera Mondiale del 2014? Non lo so, ma posso provare a immaginarlo. Un pensiero che mi viene in mente è che gli uomini continueranno ad allontanarsi dalla natura al fine di creare un ambiente che si adatti meglio a loro. Entro il 2014, pannelli elettroluminescenti saranno di uso comune. Soffitti e pareti splenderanno in modo soffuso, e in una

varietà di colori che cambierà con la semplice pressione di un pulsante. Le finestre, quando presenti, saranno polarizzate per bloccare la luce intensa del sole. I gradi di opacità del vetro potranno anche essere congegnati per alterarsi automaticamente a seconda dell’intensità della luce che li colpisce. I gadget continueranno a esonerare l’uomo da lavori noiosi. Le cucine saranno progettate per preparare “autopasti”, sebbene abbia il sospetto che, anche nel 2014, sarà comunque consigliabile avere un piccolo angolo dove i pasti più particolari possano essere preparati a mano. I robot non saranno né comuni né molto validi nel 2014, ma esisteranno. L’esposizione della I.B.M. alla fiera attuale non ha robot ma è dedicata ai computer, che sono esibiti in tutta la loro strabiliante complessità, in particolare nella funzione della traduzione dal russo all’inglese. Fra 50 anni saranno proprio simili computer, molto miniaturizzati, a servire come “cervelli” per i robot. La General Electric, alla Fiera Mondiale

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CUORE SELVAGGIO

Visita alla fiera mondiale del 2014


CUORE SELVAGGIO del 2014, mostrerà film 3D sui suoi “Robot del Futuro”. Gli elettrodomestici del 2014 non saranno alimentati da cavi ma da batterie a lunga durata funzionanti a radioisotopi. Gli isotopi non saranno costosi poiché saranno prodotti di scarto delle centrali a fissione nucleare che, nel 2014, soddisferanno ben oltre la metà del fabbisogno energetico dell’umanità. Vaste centrali di energia solare saranno inoltre in funzione in un gran numero di aree desertiche e semidesertiche. Un’esposizione alla fiera del 2014 mostrerà modelli di centrali energetiche nello spazio, che assorbiranno i raggi solari per mezzo di enormi dispositivi parabolici di messa a fuoco e irradieranno sulla Terra l’energia così raccolta. Nel 2014 ci sarà una crescente enfasi sui mezzi di trasporto che entrano il meno possibile in contatto con la superficie stradale. Ci saranno aeromobili, ovviamente, ma anche gli spostamenti a

terra saranno sempre più sospesi in aria, a trenta o sessanta centimetri dal suolo: grazie a quattro getti di aria compressa, i veicoli non entreranno più in contatto con superfici solide né liquide. Dotati di “cervelli robotici”, questi veicoli potranno inoltre essere impostati per destinazioni precise, e vi procederanno senza interferenza da parte dei riflessi lenti di un conducente umano. Le comunicazioni diventeranno vistasuono e si potrà sia vedere che sentire la persona con la quale si sta telefonando. Lo schermo potrà essere usato non solo per vedere la persona che si chiama, ma anche per esaminare documenti e fotografie e leggere brani di libri. Grazie a satelliti sincroni, fluttuanti nello spazio, sarà possibile chiamare qualsiasi luogo sulla Terra. Per quanto riguarda la televisione, schermi a muro avranno rimpiazzato il tradizionale apparecchio; ma faranno la loro comparsa dei cubi trasparenti che,

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ruotando lentamente, permetteranno una visione tridimensionale. Si potrebbe procedere all’infinito con questa felice estrapolazione, ma non è tutto roseo. Gli abitanti della Terra sono adesso circa 3 miliardi, e raddoppiano ogni 40 anni. Nel 2014, il crescente uso di dispositivi meccanici per la sostituzione di cuori e reni, e per la riparazione di arterie e nervi, avrà ridotto il tasso di mortalità e alzato le aspettative di vita, in alcune parti del mondo, fino all’età di 85 anni. La popolazione mondiale sarà di 6,5 miliardi di persone, e quella degli Stati Uniti di 350 milioni (contro i 191 milioni attuali). La pressione demografica costringerà a una crescente penetrazione nelle aree desertiche e polari; avrà inoltre inizio la colonizzazione delle piattaforme continentali: abitazioni subacquee per gli appassionati di sport acquatici e, in un futuro più lontano (come verrà mostrato alla Fiera Mondiale del 2014), anche intere città edificate negli abissi marini. L’agricoltura tradizionale terrà il passo con grande difficoltà e ci saranno “fattorie” che si concentreranno sui più efficienti micro-organismi. Prodotti a base di lievito e alghe trattate saranno disponibili in una gran varietà di sapori. Sebbene la tecnologia continuerà a progredire, non tutta la popolazione mondiale ne beneficerà appieno. Una porzione più ampia rispetto a quella di oggi ne sarà privata e, anche se vivrà materialmente meglio di adesso, rimarrà più indietro della parte più progredita. La situazione sarà aggravata dall’avanzamento dell’automazione. Nel mondo del 2014 rimarranno ben pochi lavori abituali che non potranno essere eseguiti

meglio da una macchina che da un essere umano. L’umanità sarà quindi diventata, in gran parte, una razza di guardiani di macchine. Le scuole dovranno essere orientate in questa direzione. Non saranno solo le tecniche di insegnamento a progredire, ma cambieranno anche gli argomenti. A tutti gli studenti di scuola superiore saranno insegnati i fondamenti della tecnologia dei computer e l’aritmetica binaria. L’umanità soffrirà fortemente della malattia della noia, un disturbo che si diffonde in modo sempre più ampio ogni anno e cresce di intensità. Questo avrà gravi conseguenze mentali, emotive e sociologiche, e oserei affermare che nel 2014 la psichiatria diverrà di gran lunga la più importante specialità medica. I pochi fortunati che potranno essere coinvolti in lavori creativi di qualsiasi tipo costituiranno la vera élite dell’umanità, poiché solo loro faranno di più che servire una macchina. In verità, la più cupa previsione che posso fare a proposito del 2014 è che in una società dal tempo libero forzato, la parola più gloriosa del vocabolario sarà diventata lavoro!

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Perché ci piace Ritorno al futuro di carlo valeri

Il film di Zemeckis compie trent'anni e quindi deve fare i conti con la sua età. Cosa vuol dire ancora oggi, per noi e per gli spettatori del 2015, l'esperienza di Ritorno al futuro?

Ritorno al futuro compie trent’anni. E sembrano persino troppi. Nella vita di una persona avere trent’anni significa concludere definitivamente il percorso di maturazione della giovinezza per approdare all’età adulta. È l’ultimo capolinea di un viaggio di sola andata che attraversa il tempo e trasforma il ragazzo in uomo, e presumibilmente in compagno, marito, forse padre. Raggiungere i trent’anni e oltre significa diventare come Matt Johnson nell’ultimo capitolo di Un mercoledì da leoni: l’eroe di un mondo perduto, pronto a lasciare il testimone della gloria e dell’amicizia alle generazioni successive per mettere la testa a posto. Con il suo anniversario il film di Zemeckis deve quindi innanzitutto accettare e accettarsi in quanto opera adulta. È allora un destino strano quello di queste grandi operazioni ludiche degli anni ’80 – qualche mese fa era stato il turno di Ghostbusters di Ivan Reitman – film diventati cult quasi controvoglia, nati come operazioni commerciali di puro impatto spettacolare, ma non prive, soprattutto nel caso della trilogia di Zemeckis, di geniali riflessioni su storia e immaginario collettivo. A distanza di decadi questi film si scoprono oggetti di pregevole antiquariato, amati non tanto e non solo per la loro modernità potenziale, quanto soprattutto per la carica malinconica che imprimono nella memoria privata del singolo spettatore. Questo discorso ci porta subito a evidenziare un paio di paradossi. Il primo è pu-

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CUORE SELVAGGIO

Nostalgia, mon amour!


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ramente industriale e riguarda tanto il film di Zemeckis quanto quello di Reitman. Se una delle condizioni per costruire un culto attorno a un’opera cinematografica è quasi sempre stata la lenta rivalutazione anno dopo anno in risposta a una precedente incomprensione da parte del grande pubblico o della critica, questo non può certo valere per Ritorno al futuro e Ghostbusters che, alla loro uscita in sala tra l’84 e l’85, si qualificarono subito per lo straordinario successo di pubblico. Furono blockbuster straordinari che non a caso alimentarono un vero e proprio franchising fatto di sequel, citazioni e cartoni animati. Pertanto avere nostalgia di questi film significa in un certo qual modo rimpiangere un brand, oggetti (i VHS con cui venivano consumati?) e feticci. In questo senso l’operazione Pixels è estremamente lucida e mette in gioco il videogame soprattutto come proiezione vivente dei nostri desideri vintage, piuttosto che come esigenza drammaturgica genuinamente contemporanea. Si dovrebbe parlare e scrivere di Pixels e della riedizione dei film citati persino senza bisogno alcuno di andarli veramente a (ri)vedere, in quanto il fulcro del rilancio consiste soprattutto in un sentimento extradiegetico che poco o nulla ha a che vedere con i modelli di riferimento. Ricercare e rivedere un film come Ritorno al futuro ad esempio significa soprattutto voler alimentare il ricordo di una “prima volta” al cinema, del primo colpo di fulmine cinefilo e indolore, consumato in un’età fanciulla attraverso occhi di spettatori inclini allo stupore e alla magia del racconto per immagini. Tutto sommato parliamo di un qualcosa che è molto vicino alla regressione infantile. Forse una forma di esorcismo nei confronti del (cinema del) presente. In altre parole oggi ci piace ricordare e celebrare un film come quello di Robert Zemeckis più per fare bene a noi stessi che per attendere a un urgente bisogno di recupero filologico.

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CUORE SELVAGGIO Questo viaggio dentro di noi è figlio di un’inclinazione nostalgica che solitamente è condivisa da ogni spettatore, ma che contemporaneamente segue traiettorie intime molto individualiste. Ognuno ha una sequenza del cuore o un ricordo esatto della “prima” (e in tempi di home video anche seconda, terza, etc.) visione che lo identifica rispetto alla massa. Nel caso di Ritorno al futuro questa componente soggettiva appare ancor più profonda proprio perché la storia del film – e più in generale della trilogia tutta – è estremamente astratta e a-temporale. E questo ci porta direttamente al secondo paradosso: questo è un film molto meno legato al suo tempo di tante altre operazioni coeve. Molti riconducono il culto di Ritorno al futuro a un più generale recupero del look e dell’immaginario degli anni ’80 ma questa è una semplificazione che dimentica un aspetto fondamentale: il film di Zemeckis per almeno 2/3 è ambientato nel 1955. Racconta l’accidentale viaggio nel tempo di Marty McFly che dal 1985 si ritrova indietro di trent’anni (ancora loro!) e così costretto ad adattarsi a una società completamente diversa, con architetture, abitudini, vestiti e musiche differenti. Il ragazzo conosce addirittura i giovani genitori, un incontro che rischia di mettere a repentaglio la futura unione degli stessi al punto che la breve permanenza di Marty nel ’55 dovrà assolvere a una doppia missione: ritornare nel 1985 grazie all’amico scienziato Doc e contribuire in ogni modo a far scoppiare la scintilla amorosa tra l’imbranato padre e la madre durante il ballo di fine anno. Il cuore emotivo del film sono gli anni ’50, che appaiono ingenui, rassicuranti, ma anche sottilmente reazionari (erano pur sempre gli anni del maccartismo!). Il fenomeno di culto che ruota intorno a Ritorno al futuro è interessante perché vo-

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lente o nolente agisce su una doppia proiezione nostalgica ascrivibile a differenti generazioni: se i fan che oggi hanno tra i 30 e i 40 anni sono legati all’atmosfera ottantesca abbozzata nel prologo e nell’epilogo, è altrettanto vero che il pubblico adulto che nel 1985 andò al cinema ha deciso di amarlo soprattutto per il modo nostalgico e affettuoso con cui veniva raccontata la sua America, quella dei ’50. L’escamotage del viaggio nel tempo permette così di comunicare con tante diverse fasce di spettatori, creando una fidelizzazione profonda e complessa. Ma forse c’è ancora dell’altro. Nel suo breve volume Il tempo senza età Marc Augé individua due tipi di nostalgie diverse. La prima è quella del passato che abbiamo vissuto. La seconda è quella del passato che avremmo voluto vivere ma non ci siamo riusciti. Questa seconda nostalgia è quella che qui ci interessa e che in un modo o nell’altro è parte integrante del viaggio nel tempo di Zemeckis. Augé scrive che questa è la nostalgia che “non solo vuole tornare indietro nel tempo, ma vorrebbe anche cambiare la storia”. Siamo nella famosa sfera del “se”: se in quel momento del passato avessi fatto quella cosa, oggi sarei un’altra persona. Ebbene in fin dei conti Ritorno al futuro parla proprio di questo: della possibilità di rimettere a posto le cose e, persino, di cambiare l’immagine di un’intera famiglia. All’inizio del film Marty viene sgridato dal preside che gli ricorda: “I McFly non hanno mai significato niente nella storia di Hill Valley”. Il giovane gli risponde che “la storia cambierà”. Succede sul serio. Il suo viaggio nel 1955 modificherà il continuum spazio-temporale, Marty incontrerà il padre che grazie a lui troverà il coraggio di picchiare il nemico Biff e riscrivere la storia dei McFly. Forse è per questo che ancora oggi amiamo Ritorno al futuro: continuare a coltivare questa strana e meravigliosa idea di poter cambiare la Storia.

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Lo spazio del blockbuster contemporaneo di pietro masciullo

Da Jurassic World a Mad Max - Fury Road, da Tomorrowland a Terminator Genisys passando per la fanciullesca sala giochi di Pixels, proviamo a interrogare il blockbuster contemporaneo alla ricerca di uno spazio ideale che il Cinema sembra aver perso

«La Compagnia ha autorizzato modificazioni genetiche per aumentare il fattore “Wow”» «Ma sono Dinosauri! Sono già Wow!»

Nell’anno delle tante celebrazioni per il quarantennale de Lo Squalo di Steven Spielberg – primo film nella storia ad aver guadagnato più di 100 milioni di dollari e produzione seminale per la futura concezione distributiva del blockbuster contemporaneo – non può non far riflettere l’omaggio esplicito e reiterato contenuto nell’ultimo Jurassic World. A inizio film il terribile squalo bianco che ha letteralmente forgiato le paure e l’immaginario popolare anni ‘70 e ’80, diventa nel 2015 la minuscola esca

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Il fattore Wow


CUORE SELVAGGIO messa a posta in bella mostra per far uscire dall’acqua un enorme e affamato Monosauro. Lo show del pasto, prima attrazione del Parco, scatena gli applausi del “nuovo” pubblico distratto da iPhone e realtà virtuali varie. Jurassic World è veramente un testo lucidissimo in tal senso: il nuovo parco Dinosauri nato dalle ceneri di quello un po’ pionieristico del 1993 non può continuare a proporre sempre le stesse “attrazioni” (come dice letteralmente la bella Bryce Dallas Howard), serve una mutazione genetica per tornare a sentire la magica parolina “Wow!”. Ovviamente le conseguenze di un nuovo corpo clonato/programmato/mutato, il potentissimo Indominus Rex, non si conoscono a fondo… ma val la pena rischiare per lo Spettacolo! Ecco: pensandoci bene il destino del nostro amato Cinema non è poi così differente da quello di uno dei suoi “mostri” analogici più famosi, lo squalo spielberghiano, ora ironicamente ridotto a far da “esca” per effetti speciali ben più sofisticati e attrattivi. E allora giù con i discorsi teorici che stanno animando l’interessantissimo dibattito attuale: il cinema perde progressivamente il suo spazio, la sala, frammentando e “rilocando” la fruizione in una miriade di schermi casalinghi e metropolitani. Una tendenza che crea fatalmente indistinzione critica e spettatoriale nella percezione dei nuovi testi: siamo tutti esaltati, me compreso, da True Detective o The Knick, serie Tv di clamorosa lucidità, ma probabilmente viste sul grande schermo (di un Festival) o sullo schermo portatile di un PC (in streaming). Insomma, ma di che immagini stiamo parlando? Proviamo allora a interrogare il blockbuster contemporaneo, l’unico ancora fermamente interfacciato a un pubblico di riferimento, sempre alla ricerca di uno spazio ideale che lo presupponga ancora. Perché il cinema “Occhio del Novecento”, non più occhio del duemila, è di per sé dispositivo che tende oggi a sopravvivere nell’indistinzione mediale: da Avatar di Cameron a Jupiter Ascending dei Wachowski, da Gravity di Cuarón a Interstellar di Nolan, da Prometheus di Scott a Tomorrowland di Bird, sembra che questo spazio ideale sia ormai confinato nello spazio profondo, da raggiungere in un rito di passaggio che presuppone trasmigrazioni corporee o poderosi flussi incrociati di memoria. Parto da un aneddoto personale allora. Ho visto tardi Jurassic World, circa un mese

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dopo l’uscita in sala, forse anche incuriosito dall’incredibile successo di pubblico che le cronache dei box office aggiornano periodicamente. Ebbene a pochi istanti dall’inizio del film, poco prima che venisse inquadrato l’imponente “nuovo parco” – molto più evoluto di quello del vecchio nonno Richard Attenborough nel 1993 – il giovane regista Colin Trevorrow sente il bisogno di un link memoriale che bilanci tutti questi incontrollati mutamenti (bio)estetici: parte la storica traccia sonora di John Williams, Welcome to Jurassic Park, e dopo pochi secondi mi colpisce al cuore. Avevo 14 anni nel 1993, mi ricordo perfettamente lo stupore incredulo nel vedere quel film sul grande schermo con i dinosauri “che sembravano veri!” nei discorsi con i miei amici seduti nella villetta del paese. Un film spartiacque che segnò il salto di paradigma dal postmoderno anni ’80 dei nostalgici ritorni al futuro a quello anni ‘90 ormai proiettato nella creazione in “pixel” di nuovi pionieristici corpi clonati. Ecco: questa sensazione di calda appartenenza a un mondo, a una memoria comune che mi comprende, testimonia ancora la vita dell’unica immagine-inmovimento che può vantare una lunga Storia alle spalle. L’unica immagine-inmovimento odierna che può connettersi a un solido passato declinando tempi e spazi non solo allo stretto presente. Se mi chiedo allora il perché dell’enorme suc-


CUORE SELVAGGIO cesso del film di Trevorrow, terzo incasso della storia del cinema superando di netto i Marvel Movie e attestandosi dietro i due colossi di Cameron (Avatar e Titanic), la risposta sta probabilmente in quell’incredibile capacità di Spielberg (deus ex machina e produttore del film) di essere costantemente attratto da ogni nuova prospettiva tecnica (tutti gli Indominus Rex su piazza) difendendo però la Memoria del Cinema (il cavallo muybridgiano di War Horse) come imprescindibile condizione per l’esperienza di quell’immagine (le sublimi atmosfere hitchcockiane de Gli Uccelli, la diapositiva di The Animal World di Irwin Allen, sino al T-rex del ‘93 che sconfigge l’Indominus odierno). Connettere un pubblico a una memoria comune, cercare di ricreare un immaginario per poi operare qualsiasi fiducioso salto di paradigma verso “nuove immagini”, è il solo modo di tentare la costruzione di una tomorrowland del cinema che continui a farci sentire nel giusto spazio. Quel qualcosa di indefinibile posto “tra Houdini e Edison”, come direbbe il sublime Oz di Sam Raimi, che raggiunge pienamente anche l’ultimo Mad Max. George Miller crea un concerto visivo travolgente che essicca sino all’osso gli archetipi classici fordiani (la carovana di Ombre Rosse con le minoranze “rigettate”, il viaggio verso un Eden idealizzato, il ritorno alla civiltà passando per le fury road selvagge) e piega ogni nuovo orizzonte digitale agli umori primi del cinema: il buio e la luce, la fotogenia epsteiniana e l’attrazione mélièsiana, il corpo performante di Buster Keaton e l’immagine-azione di Griffith. Max è l’unico a sapere già dall’inizio che la ricerca dell’Eden, dello spazio ideale, è un miraggio nel deserto. Si può sperare solo in una redenzione dello spazio esistente (e dell’immagine che lo configura) convincendo la regina Furiosa a tornare indietro e lottare nel deserto come Ethan Edwards (in un finale fotocopia dell’altro caposaldo fordiano, Sentieri Selvaggi) espiando i propri peccati fuori dalla civiltà. Lo spazio ideale ridiventa il prodotto di un viaggio, di un incontro e di un desiderio. Pixels, quindi. Sembra decisamente strana l’irruzione di Adam Sandler con la sua

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strafottente disillusione (qui un po’ meno radicale del solito) a sciogliere tutti questi discorsi chiamando in causa l’infantile immaginario nerd anni ‘80. Pac Man e Donkey Kong, le sale giochi e i pomeriggi con gli amici, le timidezze con le ragazze riscattate salvando il mondo con una monetina da 25 centesimi prima di “tornare a casa”. Ecco: qui forse si centra il punto. Insomma la costruzione di una città ideale (il Luna Park di Jurassic, la Cittadella di Max, la Tomorrowland di Clooney o la sala giochi di Sandler) deve rimanere altro da noi. Deve avere un suo “Tempo” che scandisca un’alterità e un incontro, creando dialettica e nuovo immaginario prima di farci “tornare a casa” a sognare. E non si tratta (solo) di nostalgia del cinema qui: quest’alterità rispetto all’immagine e rispetto alla tecnica che nel Novecento ha fatto la fortuna del medium-arte-di-massa per eccellenza, oggi "Il cinema che (soprav)vive anche in sala è è clamorosamente messa in dubbio dalla proliferazione degli schermi “a portata di invece quello che tenta disperatamente di mano” e dei social network diventati la creare mondi altri" nostra identità immediatamente percepibile. Ma quando Terminator diventa la nostra Genisys, con la rete di Skynet a controllare il nostro Tempo, il tutto diventa fatalmente anestetico e il fiacco film di Alan Taylor ne è la prova più eloquente. Il cinema che (soprav)vive anche in sala è invece quello che tenta disperatamente di creare mondi altri (straordinariamente digitali) segnando comunque una feritile distanza tra noi e l’immagine, tra noi e l’apparatur tecnica, tra noi e il Dinosauro clonato, tra noi e la città ideale. Un investimento estetico che possa redimere l’immagine proprio come fa Mad Max. Del resto il cuore pulsante di Jurassic World resta ancora oggi lo stupore fanciullo davanti all’inatteso, la famosa “Spielberg Face”: il carrello a stringere sui volti di piccoli attori che rimangono a bocca aperta guardando l’attrazione del vecchio dinosauro(cinema) sopravvissuto anche all’urto del nuovo Indominus Rex. “Wow!”.


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Improvvisazioni di leonardo lardieri

L’improvvisazione è la celebrazione dell’attimo, avrebbe tuonato Ornette Coleman. Dobbiamo concentrarci sul presente, il che implica una liberazione del peso del passato e dal timore dell’avvenire. Si potrebbe osare a dire che l’improvvisazione è la nostra felicità. Èuna trasformazione del mondo e di noi stessi

“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto” (Jorge Luis Borges, L’artefice). La vita di ogni giorno ci presenta tante opportunità per gli esercizi di improvvisazione; purtroppo, abbiamo difficoltà a vedere e a cogliere queste opportunità. E quindi bisogna trasformare il nostro éthos filosofico, il nostro éthos quotidiano; dobbiamo rendere presenti le possibilità di una modifica continua del già

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CUORE SELVAGGIO noto, dobbiamo, tramite l’improvvisazione, ridare vita a ogni momento della nostra breve esistenza. L’improvvisazione è la celebrazione dell’attimo, avrebbe tuonato Ornette Coleman. Dobbiamo concentrarci sul presente, il che implica una liberazione del peso del passato e dal timore dell’avvenire: il presente è l’unico momento in qui possiamo agire. La concentrazione sul presente è dunque un’esigenza dell’azione. Si potrebbe osare a dire che l’improvvisazione è la nostra felicità. Tomorrowland - Il mondo di domani è quindi tanto simile a quello di ieri, al di là del concetto di comunità pianificata. È l’expo, il luna park che deflagra l’improvvisazione. È tutto ciò che oggi, nel presente “parallelo” vogliamo avere ed essere. L’improvvisazione è una trasformazione del mondo e di noi stessi. È il “reale” mondo di domani. Improvvisare è appunto un esercizio di pensiero se riteniamo che il pensiero sia la libertà rispetto a quello che si fa, il movimento con cui ci si distacca da quello che si fa, lo si costituisce come oggetto e lo si pensa come problema. Tomorrowland, tutto sembra essere, tranne che un problema. È piuttosto una ricerca di libertà in un luogo di chiusura ermetica priva di forze. Affinché possiamo evitare il “sogno vuoto della libertà” (Michel Foucault), occorre mettersi alla prova della realtà e dell’attualità, per afferrare i punti in cui il cambiamento è possibile e auspicabile e, al tempo stesso, per determinare la forma precisa da dare a questo cambiamento. Questa prova sperimentale non può avvenire in un posto qualsiasi, dappertutto,

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ovvero da nessuna parte; è una sperimentazione concreta localizzata all’interno della nostra prospettiva storica. E Tomorrowland manca propria di prospettiva storica, come d’altronde tutti gli “expo” di questo mondo, di quella prospettiva che cerca le opportunità per una modifica aperta e mai definita del già noto. Al luna park in fondo cerchi sempre la stessa giostra, gira e rigira, come un bambino sei ossessionato sempre dalla stessa “ronde” e dalle grandi dimensioni, citando Carlo Valeri dal suo pezzo su Jurassic World, altro mega baraccone di superfici ed essenze. Ecco appunto le dimensioni, è tutto un problema di dimensioni. Jurassic World è proprio l’esaltazione delle dimensioni, altra fondamentale ritorno attrattivo contemporaneo. La ragione della popolarità dei grandi spazi circoscritti risiede non tanto in una reale rinascita nelle arti cinematografiche bensì nel fatto che le esperienze spaziali “giurassiche” offrono un momento di espansione emotiva. È praticamente come sentirsi attratti da una fenomenale opera architettonica, dalla propria immaginabilità di una città, non come una serie di spazi delimitati, ma da un’esperienza concreta che ha luogo attraverso le nostre interazioni sensoriali e di memoria con percorsi, margini, quartieri, raccordi e punti di riferimento. Jurassic World (non certo un film memorabile) ci fa fare esperienza delle qualità emotive dello spazio e ci fa sentire lo spazio attraverso i nostri corpi (è più cameroniano in questo senso). Queste esperienze sembrano andare oltre la specificità delle culture nazionali e fanno appello a una comune esperienza psicologica come a un collante di una cultura globalizzata. Paradossalmente esprime fiducia nelle questioni scottanti per le società odierne: le conseguenze delle nuove tecnologie, la costruzione sociale dei corpi, le differenze culturali, la difficoltà nel raggiungere un senso di comunità a ogni scala. Per tutte queste preoccupazioni, la risposta di Jurassic World è rassicurante. È la tentazione del muro che ci divora. Nella penombra mediatica della contemporaneità, infatti, si moltiplicano confini

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Masdar City, la fantascientifica città degli Emirati Arabi, progettata da Norman Foster

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spontanei, che rappresentano il lato oscuro del multiculturalismo. Confini rifiutati, e poi riedificati: crollati, e in seguito riproposti. Favoriscono il sovrapporsi degli orizzonti cognitivi e delle pratiche quotidiane. Le città mondiali raccolgono tutta l’evoluzione della storia. Ogni antitesi è superata, con un impulso verso l’infinito. Il mondo tende sempre più a diventare un’unica città. È un vasto landscape (ancora una volta giurassico, terra del domani) che si espande in ogni direzione, orizzontalmente e verticalmente, tra grattacieli e autostrade, centri commerciali e multisale cinematografiche. Siamo nella moderna “generic city”, liberata dalla camicia di forza della coerenza. È senza storia, abbastanza grande per tutti. Accoglie il primordiale e il futuristico. Il tempio del free style. È tutto ciò che rimane di quello che era una città. Non ha bisogno di manutenzione. Se diviene troppo piccola, si espande. Se diventa vecchia, si autodistrugge. Una parte di essa è fatta di scorrimenti: di uomini, si merci, di mezzi. Un’altra parte è fatta di forme fisse (bar, negozi, uffici, scale mobili, elevatori, ascensori), che tendono a ricondurre i flussi alla stasi. Una sintassi spezzata dalla moltitudine, che è dispersione, linee di fuga, disubbidienza, divergenza. La città contemporanea somiglia a un film hollywoodiano sulla Bibbia, perché la città è un po’ come la vita, è innanzitutto un tessuto di repliche. I cambiamenti sono solo trucchi. Le simmetrie vengono negate, per essere riproposte, poi, sotto abiti diversi. È sempre il medesimo che si ripete, in un eterno ritorno. Un adesso che si prolunga senza fine, un’improvvisazione che s’infrange nel muro sinfonico del refrain. Eduardo Galeano sul calcio ha scritto “involontariamente” parole prossime alla preistoria del movimento umano, che contrappone gli arti più legati alla memoria animale, agli arti specializzati della civiltà. “La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall’allegria di giocare per giocare. In questo mondo di fine secolo, il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende. E a nessuno porta guadagno quella follia che rende l’uomo bambino per un attimo, lo fa giocare come gioca il bambino con il palloncino o come gioca il gatto col gomitolo di lana: ballerino che danza con una palla leggera come il palloncino che se ne va per l’aria e come il gomitolo che rotola, giocando senza sapere di giocare, senza motivo, senza orologio e senza giudice. Il gioco si è trasformato in spettacolo (e scommesse), con molti protagonisti e pochi spettatori, calcio da guardare, e lo spettacolo


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si è trasformato in uno degli affari più lucrosi del mondo, che non si organizza per giocare ma per impedire che si giochi. La tecnocrazia dello sport professionistico ha imposto un calcio di pura velocità e molta forza che rinuncia all’allegria, che atrofizza la fantasia (l’improvvisazione) e proibisce il coraggio. Per fortuna appare ancora sui campi di gioco, sia pure molto di rado, qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere tutta la squadra avversaria, l’arbitro e il pubblico delle tribune, per il puro piacere del corpo che si lancia verso l’avventura proibita della libertà”.

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Lo sguardo commissionato Ovvero "i resti" del cinema italiano di guglielmo siniscalchi

I film promossi dalle Film Commission stanno cambiando le forme della produzione cinematografica italiana, modificando i rapporti tra sguardi, corpi e paesaggi

Un volume di un po’ di anni fa intitolato Un approccio ecologico alla percezione visiva [1979] dello psicologo americano James J. Gibson ha rivoluzionato le teorie della percezione del mondo esterno da parte del soggetto: non sono solo i nostri occhi e la nostra mente ad elaborare e conoscere l’ambiente che ci circonda, ma lo spazio, i luoghi, gli oggetti e le cose hanno un ruolo “attivo”, ci inviano dei veri e propri “inviti” – l’autore icasticamente parla di affordance… – sul modo in cui noi possiamo utilizzare, plasmare e costruire le geografie che attraversiamo e popoliamo. Nonostante i

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CUORE SELVAGGIO tanti esempi cinematografici che affollano le pagine di Gibson, i possibili, anche se non espliciti, rinvii alle teorie filmiche del realismo fenomenologico di Bazin, Agel e Aifreé – grandi ispiratori di forme visive colpevolmente dimenticati dall’attuale dibattito “accademico” italiano… –, la “psicologia ecologica” di Gibson sembrerebbe non aver molto da dire per comprendere le attuali derive cinematografiche del nostro paese. Così non è, in realtà. Perché l’approccio di Gibson si rivela illuminante per comprendere una verità cinematografica essenziale: non “un’immagine giusta, ma giusto un’immagine” è tale se mostra un legame profondo, ma sarebbe meglio dire necessario, fra l’occhio e il paesaggio, fra il set e la macchina da presa, l’urgenza di filmare un corpo in quel determinato spazio, in una posa “incorniciata” proprio da quel particolare sfondo, seguendo le curvature che ogni singolo muscolo facciale ”riceve” dai visi incontrati, da altri corpi appena sfiorati, dai movimenti dello sguardo. Il cinema, quello vero, nasce sempre dall’incontro fra un corpo ed uno spazio – reale, immaginario, mentale, virtuale poco importa… –, dagli “inviti” reciproci (le affordances di Gibson appunto…) che si scambiano occhio e paesaggio, visioni ed emozioni. La “conoscenza” che disvela un’immagine filmica è proprio la relazione fra un corpo e uno spazio (fosse anche solo quello “ritagliato” dall’inquadratura…) proprio come afferma l’epistemologia “ecologica” di Gibson. Una relazione che, ampliando e “forzando” il discorso dello studioso americano, si distende in una duplice direzione: nel primo verso è il paesaggio, con le sue infinite possibilità narrative e le sue molteplici e continue trasformazioni, ad invitare l’occhio del regista e il corpo dell’attore. Gli studios hollywoodiani, il cinema di “genere” sem-

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pre pronto a reinventare gli stessi set per un numero infinito di storie da raccontare, ma anche gli anni “d’oro” di Cinecittà, con epoche e scenari di cartapesta in continuo divenire, si rivelano casi paradigmatici per seguire le traiettorie che partono da uno spazio e “colpiscono” la retina del regista. In un senso simile seppur opposto, anche i documentari nascono dall’esigenza di raccontare un luogo ben preciso, una “forma di vita”, tessendo una ragnatela di sguardi che lega i corpi alle cose. L’altra direzione segue il percorso inverso: potremmo, in maniera davvero semplicistica, identificarla con il cinema d’autore dove la mente del regista si lascia “invitare” dall’ambiente per poi riplasmarlo secondo suggestioni personali, forme interiori, visioni “politiche” e pulsioni intime. È chiaro che le due direzioni non sono nette e definite: tantissimi gli incroci, le false piste ed i detour che si

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CUORE SELVAGGIO aprono lungo le vie principali, i ponti ed i cortocircuiti che ibridano continuamente le ripetizioni del “genere” e le differenze d’autore, le grandi produzioni hollywoodiane e gli squarci di cinema indipendente. A ben guardare, però, l’urgenza di legare sguardo e paesaggio, corpi e spazio, segna indistintamente ogni inquadratura “giusta”, poco importa se di “taglio” documentaristico” o di puro intrattenimento, offrendo allo spettatore momenti di puro cinema. Se poi a questo aggiungiamo che le nuove tecnologie digitali hanno notevolmente “alleggerito” il bagaglio del cineasta, vediamo che il rapporto corpo/spazio diviene ancora più versatile, sempre teso, almeno idealmente, ad “ascoltare” le affordances di un ambiente che sembra suggerire continuamente nuovi sguardi, possibili rivisitazioni visive, "La relazione puramente filmico-visiva di metamorfosi di corpi e desideri. Ecco perché, in quest’ottica, può appaaffordance risulta inevitabilmente comprorire addirittura paradossale l’idea di anmessa da vocazioni turistiche" corare un progetto cinematografico ad un territorio esclusivamente per esigenze produttive che spesso prescindono dalla relazione puramente visiva fra occhio/corpo e spazio. Eppure le Film Commission italiane, agenzie sparse sul territorio nazionale a livello locale o regionale con il preciso compito di attrarre produzioni cinematografiche in un determinato territorio, mirano proprio a creare una relazione “forte” fra l’ambiente e la macchina da presa. Con un dettaglio non da poco, però: la relazione non scaturisce immediatamente dalle affordances che lo spazio offre ad occhi e corpi, ma è “mediata” da altri interessi, dalla esigenza di “valorizzare” attraverso le immagini paesaggi locali, dalla possibilità per le case di produzione ed i registi di ottenere assistenza e finanziamento in cambio di una visibilità territoriale che le sequenze di un film possono offrire. La relazione puramente filmico-visiva di affordance, di mutuo invito, risulta inevitabilmente compromessa da vocazioni turistiche, da finalità di sviluppo economico-imprenditoriale del territorio, dalla capacità che ancora il cinema possiede di divenire un forte catalizza-

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tore e diffusore di desideri commerciali. Ad andare in frantumi è proprio l’interazione corpo/spazio: la libertà dell’autore di lasciarsi attraversare dai sussulti di improbabili geografie o la necessità del cineasta di rimodellare la materia del set finiscono per naufragare in una serie di protocolli e vincoli di produzione dove il film è, anche e soprattutto, una realtà economica utile ad “esporre”, a promuovere, a vendere a spettatori/consumatori non più corpi – con tutto ciò che questo termine ancora significa per il cinema moderno… – ma spazi e cose ridotti a merce di scambio visiva. Il rischio è confezionare prodotti filmici sempre più piatti ed “omologati” – Pasolini non è lontano… –, oggetti incapaci di disperdersi perché sempre perfettamente riorientati da questo sguardo “commissariato”, dalla possibilità economica e non dalla necessità artistica. Non è un caso allora che uno dei film (?) più felicemente “disturbante” dal punto di visto sensoriale e percettivo di questi ultimi anni sia stato girato in Puglia, regione dove opera una delle Film Commission meglio organizzate e più efficienti a livello nazionale, rovesciando la logica produttiva dei localismi e del cinema come veduta turistica: I resti di Bisanzio di Carlo Michele Schirinzi, film anarchico ed “autarchico” da qualsiasi sguardo “commissionato”, è proprio un’opera gibsoniana, il disperato e necessario naufragio di un corpo dentro un paesaggio che è placenta necessaria; che “nutre” ed “invita” costantemente lo spettatore/attore/regista ad un pellegrinaggio che è tappa esistenziale e mai giro turistico; che, partendo proprio dalla relazione fra il corpo e lo spazio, scompagina continuamente il nostro modo di sentire e “partecipare” alle cose accarezzate e penetrate dalla videocamera. Un urlo contro il nuovo “conformismo” del paesaggio senza occhi, della visione come spettacolo, del cinema italiano come depliant per turisti…

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Un (lungo) decennio di immagini a cura di luca marchetti

Una cronologia molto "parziale" e una galleria fotografica dal 1980 al 1992

8 DICEMBRE Muore John Lennon, ucciso sotto casa, a New York, da uno squilibrato venticinquenne, Mark Chapman

1980

18 MAGGIO – Muore suicida, a soli 23 anni, Ian Curtis, leader dei Joy Division 22 MAGGIO – Viene pubblicato in Giappone il videogioco Pacman 1 GIUGNO – Da Atlanta inizia le trasmissioni la CNN 19 LUGLIO – Iniziano le olimpiadi di Mosca, boicottate da 65 nazioni guidate dagli USA

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Anni '80


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17 DICEMBRE 1980 Esce in Francia Il tempo delle mele di Claude Pinoteau, il successo del film contribuì alla diffusione del Walkman (diffuso commercialmente dal 1 luglio 1979)

1981 13 MAGGIO – Attentato a Giovanni Paolo II 13 GIUGNO – Muore, dopo ore di agonia riprese da un’ininterrotta diretta tv, Alfredino Rampi

20 GENNAIO Entra in carica come Presidente degli Stati Uniti il repubblicano Ronald Reagan. Attore di secondo piano negli anni '40 e '50, il 40esimo Presidente resterà in carica fino al 1989, segnando un intero decennio

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5 MARZO Muore per un’overdose John Belushi, a soli trentatre anni

1982

2 APRILE – Inizia la guerra delle Falkland tra Argentina e Regno Unito 1 OTTOBRE – In Giappone è messo in commercio il primo Cd, 52nd Street di Billy Joel 22 OTTOBRE – Esce Rambo di Ted Kotcheff con Sylvester Stallone

11 LUGLIO L’Italia diventa campione del mondo di calcio sconfiggendo la Germania 3 a 1. È la terza volta nella storia

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25 MAGGIO Con Il ritorno dello Jedi, diretto da Richard Marquand, si conclude la prima fortunata trilogia di Guerre Stellari di George Lucas.

1983 17 GIUGNO – Viene arrestato il presentatore tv Enzo Tortora 22 GIUGNO– Scompare in circostanze misteriose Emanuela Orlandi SETTEMBRE/OTTOBRE – Viene messo in commercio il Motorola DynaTAC 8000X, il primo telefono cellulare

12 NOVEMBRE Esce negli Stati Uniti il singolo Thriller di Michael Jackson, diventando il disco più venduto della storia. Il celeberrimo video fu girato da John Landis

Video

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22 GENNAIO La Apple presenta il primo Macintosh

1984 30 MARZO – Muore Gaëtan Dugas, il paziente zero del virus Aids 6 GIUGNO – Nasce il videogioco Tetris 7 GIUGNO – Muore Enrico Berlinguer LUGLIO – Vengono ritrovate delle statue attribuite da esperti a Modigliani, ma è una burla di tre ragazzi livornesi 26 OTTOBRE – Arnold Schwarzenegger è Terminator per John Cameron 12 NOVEMBRE – Esce Like a Virgin, l’album di esordio di Madonna 2 DICEMBRE – Disastro chimico di Bhopal, in India

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CUORE SELVAGGIO

8 GIUGNO Esce negli Stati Uniti Ghostbusters di Ivan Reitman

21 DICEMBRE Esce nei cinema Non ci resta che piangere della coppia Troisi & Benigni

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CUORE SELVAGGIO

11 MARZO Mikhail Gorbačëv è nominato segretario del PCUS

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29 MAGGIO – La tragedia dell’Heysel durante la Finale di Coppa dei Campioni Juventus - Liverpool 3 LUGLIO – Esce nei cinema Ritorno al futuro di Robert Zemeckis 13 LUGLIO – In contemporanea a Londra e Philadelphia si tiene il concerto del Live Aid SETTEMBRE – Steve Jobs si dimette da ogni incarico all’interno della Apple, dopo dissidi con il consiglio d’amministrazione 18 NOVEMBRE – Compare la prima striscia del fumetto Calvin e Hobbes 20 NOVEMBRE – Viene rilasciata la prima versione di Microsoft Windows 1.0 ed ebbe scarsissimo successo

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CUORE SELVAGGIO

9 FEBBRAIO La cometa di Halley

1986 26 APRILE – L’incidente nucleare di Chernobyl 16 MAGGIO – Esce Top Gun di Tony Scott

22 GIUGNO Maradona segna prima di mano e poi con un gol considerato trai i più belli della storia del calcio, contro l’Inghilterra durante i quarti di finale dei Mondiali Messico 86. L’Argentina successivamente si laureerà campione del Mondo

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26 SETTEMBRE Esce il primo numero di Dylan Dog

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CUORE SELVAGGIO

30 GIUGNO Viene pubblicato l’album True Blue di Madonna


CUORE SELVAGGIO

1987 9 MARZO – Viene pubblicato Joshua Tree degli U2 23 MARZO – Va in onda la prima puntata di Beautiful 28 MAGGIO – Un piccolo aereo da turismo pilotato dallo studente Mathias Rust atterra indisturbato nella Piazza Rossa di Mosca 19 OTTOBRE – È il lunedi nero delle borse mondiali con il Down Jones che perde 508 punti

23 ottobre Esce al cinema L’Ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci. L'anno successivo il film vincerà nove Oscar

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1 APRILE Nasce Sentieri selvaggi!

CUORE SELVAGGIO

1988 4 GIUGNO – Viene approvata la Legge Mammì sul controllo delle emittenti televisive 25 GIUGNO – L’Olanda di Van Basten e Gullit vince i Campionati Europei 14 AGOSTO – Muore Enzo Ferrari 4 NOVEMBRE – Esce Essi vivono di John Carpenter

22 GIUGNO Esce Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Zemeckis

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CUORE SELVAGGIO

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9 NOVEMBRE Cade il muro di Berlino

1989 13 18 15 17

MARZO – Nasce il World Wide Web APRILE – Cominciano le proteste di piazza Tienanmen LUGLIO – Concerto dei Pink Floyd a piazza San Marco a Venezia NOVEMBRE Va in onda il primo episodio de I Simpson

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CUORE SELVAGGIO

1990 8 Luglio – Finiscono i Mondiali di Italia 90 con la vittoria della Germania Ovest 22 novembre – Margaret Thatcher si dimette da Primo Ministro 11 dicembre – Si conclude il Maxi Processo contro Cosa Nostra

11 FEBBRAIO Viene liberato Nelson Mandela

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CUORE SELVAGGIO

9 GENNAIO Viene trasmessa in Italia, su Canale 5, la prima puntata di Twin Peaks, la serie ideata da David Lynch

1991 17 GENNAIO – Inizia la guerra del Golfo 1 FEBBRAIO – In Sudafrica finisce l’apartheid 17 MARZO – Maradona viene trovato positivo alla cocaina 19 AGOSTO – Fine dell’URSS con un tentativo di colpo di stato anti-comunista

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CUORE SELVAGGIO

17 FEBBRAIO Viene arrestato a Milano il socialista Mario Chiesa: è l'inizio dell'inchiesta Tangentopoli

1992 29 APRILE – Inizia la sommossa di Los Angeles contro la polizia 23 MAGGIO – Strage di Capaci, muore Giovanni Falcone 19 LUGLIO – Strage di Via D’Amelio, muore Paolo Borsellino 3 NOVEMBRE – Viene eletto Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton 7 AGOSTO Esce nei cinema Gli Spietati, di Clint Eastwood

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ORNETTE COLEMAN

Ornette vs. Evil Dead di sergio sozzo

Ornette Coleman è morto l'11 giugno 2015, a 85 anni. E la sua scomparsa sembra un altro segno dell'apocalisse prossima ventura. Un viaggio nei bagliori e nelle oscurità di questa estate 2015

Guilty, my mind won’t leave me alone I’ve got a bad mind, I’ve got a bad bone Guilty as charged Don’t do that? Don’t do what Oh you’re such a reckless child Do you remember when you were a baby? Do you have a jury? Yeah Do you have a verdict? Guilty as charged Lou Reed & Ornette Coleman

Intro La prima volta che mi sono reso conto che il free jazz fa la rivoluzione e non è quel sottofondo polveroso per i bicchieri di vino rosso a lume di candela che trovi negli scaffaloni degli autogrill, è stato un pomeriggio d'estate dei miei 13 anni. Tutte le porte e le finestre spalancate per l'afa salentina lasciavano che il volume prepotente con cui costringevo i miei ad ascoltare A Love Supreme, appena scoperto in allegato ad un settimanale in edicola, riempisse anche l'aria del giardino dietro casa. Entra in scena un parente a cui riservavo un odio rabbioso di pura opposizione preadolescenziale (in un pranzo di famiglia di qualche giorno prima aveva mostrato un forte disappunto per la mia maglietta dell'Esercito Zapatista e per il mio entusiasmo nei confronti delle attività dei centri sociali dei paesi affianco), mia madre lo fa accomodare in giardino proprio mentre Coltrane sta assaltando la sua ancia in pieno trasporto mistico sul finale ascensionale di Aknowledgements, e l'uomo urla rivolto verso la finestra della mia stanza di farla finita con quell'insostenibile frastuono. Ma come, penso mentre la gloria dell'amore supremo che surclassa la boria piccoloborghese mi illumina il volto di un sentimento di rivalsa incommensurabile, il jazz non è “roba da adulti”? Avrei capito un'intimazione a troncare le casse dello stereo davanti alle distorsioni

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ORNETTE COLEMAN scomposte della musicassetta dei Nirvana che mi aveva doppiato mio cugino, ma, a quanto sapessi, ognuno al di sopra dei 30 anni ha un album di “jazz” in macchina. Forse Coltrane apparteneva a un'altra categoria, lo scoprii di lì a poco con le orecchie che mi sanguinavano per i suoni di Interstellar Space o Live in Seattle. Erano quelli gli anni fulgidi che tutti abbiamo conosciuto, anni in cui ogni film visto, ogni libro scoperto, ogni canzone di cui ti innamoravi contribuisce a rendere sempre più precise le coordinate della mappa con cui disegni il tuo posto su questa landa sventurata. Difese e contrattacchi. Il mio rituale privato passava da una raccolta di Charlie Parker presa in viaggio-studio a Dublino a Mingus Oh Yeah fino a Live at the Regal di BB King scovato invece sempre in edicola. Ornette Coleman e Don Cherry piombarono a braccetto a spiegarmi il jazz elettrico proprio nel momento in cui non riuscivo davvero a capire roba come Bitches Brew e tutto il Miles on the corner: di Don e di Ornette potevo fidarmi perché erano gli eroi di Lou Reed, e Lou è stato per quasi vent'anni tutto quello in cui ho creduto. Ricordo come fosse ieri la prima volta che ho messo su Science Fiction, e quanto mi abbia fatto paura (pure oggi provo una certa angoscia anche solo ad adocchiarne la copertina). Science Fiction è un disco dell'orrore, le voci e gli strumenti amplificati sembrano prigionieri in celle sparse in altrettante dimensioni

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differenti e lontane anni luce tra di loro, li ascoltiamo lanciare urla e guaiti aggrappati alle sbarre nella speranza che le eco possano raggiungere qualcuno là fuori, e che la disperazione nei gemiti e nei rantoli sia dunque talmente forte da riuscire a farsi sentire: una definizione di harmolodics, come la chiamava Ornette (basterebbe un assaggio della terrificante title track...). E a me l'orrore non solo piaceva da impazzire (chi non ha paura delle vibrazioni nere di White Light/White Heat?), ma soprattutto mi sembrava l'arma più efficace per spiegare a quelli come il mio parente atterrito da Trane che avevo tutte le intenzioni di tenerli il più possibile lontani dalla mia cameretta. È una storia che racconto spesso: ad un certo punto l'intera comunità del mio paese natale reputò seriamente pericoloso il mio circoletto di ragazzetti appassionati di horror e le riunioni in cui tenevamo conciliabolo nei saloni delle nostre case per scambiarci Dylan Dog e libri di Stephen King in edizione economica: madri e nonne intervenivano nel corso di proiezioni di classici di Carpenter e Craven dopo una soffiata avuta dall'edicolante (la cattedrale laica dell'intellettuale!) sulle nostre ricerche delle collane di vhs più sanguinolente, e staccavano la spina del videoregistratore su ordinanza del parroco che minacciava di far saltare le cresime, manco fossimo a West Memphis. Il buio dietro di me: la zia del mio amico Dario fingeva puntualmente di alzare la cornetta e comporre il numero di tutte le nostre famiglie per avvisare i genitori che ci eravamo ricascati con “un film volgare”, dietro di lei si scatenava un putiferio di risa di scherno e strafottenti incitamenti di sfida. La nostra piccola rivolta da salotto con il centrotavola del corredo. All'epoca non potevo capirlo, ma c'era davvero qualcosa di guasconescamente comune tra la musica che mi sforzavo di comprendere a casa, di nascosto dai miei amici e dalle loro compilation di Albertino, e la gioia e la passione condivisa che scaturiva luminosissima da quelle pellicole splatter, dall'intento sodale tra Romero, Raimi, Landis, Dante e gli altri di traslare l'american nightmare in forme nuove, definizioni volatili e arcaiche insieme, soprattutto nell'esercizio di incanalare tutte queste tensioni nella pratica anche artigianale, manuale (del set, della sala da registrazione): quello che ho sempre amato del cinema di genere e della musica nera è che quest'a-


ORNETTE COLEMAN nima profondamente sovversiva la senti dapprincipio proprio nella consapevolezza dei materiali, nella coscienza degli strumenti, percepibile davvero come spazio fisico della creazione, edificio tangibile dell'evento. La Casa 2 è ad esempio uno dei 4-5 piÚ grandi film di tutti i tempi nell'istante in cui Raimi, Tapert, Campbell fanno trasmigrare sullo schermo l'esperienza stesVideo sa delle riprese, le invenzioni formali e meccaniche fatte in casa, nel tentativo di catturare proprio la febbrile pulsione dell'attraversamento, la nascita mistica di un universo-organismo che vibra e rimbomba di aperture verso mondi fantastici; un'incarnazione del celebre motto di Joe Zawinul e dei suoi Weather Report, soprattutto nella lunga sezione con il solo Ash in scena contro la possessione degli oggetti: we always solo, and we never solo. Tema Meno di un anno fa è comparsa, un po' all'improvviso e stranamente in sordina, una nuova registrazione del sax di Ornette Coleman, del tutto inaspettata: delle sessions del 2009 con i giovani Jordan

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McLean e Amir Ziv, poi pesantemente alterate dai due, rieditate in studio con l'aggiunta delle parti di pianoforte, e pubblicate con il nome di New Vocabulary. Un disco strano, gli interventi elettronici di McLean e gli assoli di Coleman (alcuni dei quali ancora clamorosi e riconoscibilissimi) sembrano non trovare quasi mai l'intesa giusta, meglio va decisamente alla batteria di Ziv. C'è da fare un bel salto, concettuale più che generazionale: lo stesso che vediamo fare a Bruce Campbell nel primo trailer di Ash vs. Evil Dead, imminente serie Tv basata sulla trilogia de La Casa, presentata recentemente al Comic-Con di San Diego. L'acciaccato commesso del reparto ferramenta si libra in aria per agganciare al volo il suo moncherino all'iconica sega elettrica con cui decapita i mostri venuti dal mondo dei morti, in questa ripresa delle sue avventure dopo la parentesi medievale de L'armata delle tenebre, ancora a firma di Sam e Ivan Raimi con Rob Tapert. Il trailer fa un effetto strano come la tromba amplificata di McLean sui nastri di New Vocabulary: la serie affianca ad Ash/Campbell due nuovi personaggi giovani, Pablo Simon Bolivar (descritto come “il Sancho Panza di Ash”) e la scettica, altezzosa Kelly, che gli daranno man forte nei rinnovati scontri senza esclusione di teste esplose e corpi sventrati con divertitissimo gusto per il gore grottesco. La domanda, com'è chiaro, non è tanto come reagiranno le nuove generazioni davanti all'operazione vintage di recupero e aggiornamento a tinte pop del materiale di culto (in fin dei conti è solo una delle tante negli ultimi anni, vedi anche per l'appunto l'attuale Pixels), ma come reagiremo noi, che il Necronomicon Ex-Mortis lo cercavamo sul serio tra le bancarelle di libri sul corso, c'era chi credeva che davvero io ne possedessi una copia (era invece solo A volte ritornano edizione I Miti Mondadori) e veniva a chiedermela citofonandomi a casa innescando nei pomeriggi assolati i sospetti del quartiere. Che tipo di bisogno soddisfa un prodotto come l'adattamento seriale di Evil Dead? Che cosa può


ORNETTE COLEMAN raccontare agli spettatori dell'inerme toponomastica supereroistica che regna oramai sui box office dell'universo, che sono film a cui non interessa neanche dei cattivi, visioni che non aiutano in alcuna maniera a formare e indirizzare, identificare l'entità del nemico? Insegnerà loro come fronteggiare le forze del male del perbenismo individualista da villetta in quartiere residenziale, come quegli squartamenti della pellicola e dello spartito lo insegnarono a noi? Fuor di metafora, i legali di Ornette non tardano a farsi sentire per la triste vicenda di New Vocabulary: l'album è stato completato senza l'autorizzazione di Coleman, che aveva giusto invitato a casa i due artisti per degli incontri musicali. Non era nei patti che quanto suonato in quelle occasioni venisse registrato, manipolato in studio con delle sovraincisioni, e dato alle stampe. In sostanza, il leggendario jazzista misconosce per intero quanto possiamo ascoltare su New Vocabulary, anche se McLean continua a sostenere che tutti i musicisti coinvolti fossero a conoscenza che quelle erano in tutto e per tutto sedute di registrazione. Finisce così, per forza di cose, con uno scollamento che la divinizzazione ultraterrena di Ornette Coleman certifica come insanabile: in un altro trailer di un film della prossima stagione, Creed, l'ennesimo commovente ritorno di Rocky Balboa, il vero esempio e modello di moralità della nostra adolescenza, è preparato dalla rimessa in circolo di una serie di richiami ad elementi fortemente caratterizzati della saga del pugile di Philadelphia, ma stavolta declinati in agganci espliciti con la cultura black, hip hop e linguaggio da strada. Dal retroterra del nostro working class hero, lo “Stallone italiano”, all'identità BAM del figlio di Apollo, cambia lo slang ma non l'universo-periferia di riferimento: nonostante la regia dell'opaco Ryan Coogler, con la supervisione di Sly, che da anni cerca di intercettare i cuori della nuova comunità nera (la sua vecchia idea di film sulla faida 2Pac/Notorious), è un progetto che potrebbe funzionare. Di sicuro, è già così un'intuizione gigantescamente più attuale, urgente e

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politica di qualunque sortita recente del nostro cinema “di genere”.

Ecco. Vivere a Roma non è mai stato così difficile negli ultimi dieci anni come in quest'ultimo periodo. La città è scossa costantemente da squarci violenti di distruzione, gli ennesimi roghi purulenti della sua apocalisse millenaria, nemmeno per Ash sarebbe una passeggiata venire a capo di questa army of darkness capitolina. Forse la copertina di Science Fiction di Ornette mi mette così tanta paura in questi giorni proprio perché mi sembra in tutto e per tutto una cartolina da Roma, giubileo 2015. Dio solo sa se questa umanità derelitta e condannata che si aggira sotto il colosseo non avrebbe bisogno di manifesti di coesione spirituale e radicale, dunque profondamente militante, come furono opere di protesta violenta quali We Insist! Freedom Now Suite, Ascension, Spiritual Unity, forse addirittura anche A Tribute to Jack Johnson. Mi sembra l'urgenza morale ed estetica più pressante per un'arte della contemporaneità, la lezione più profonda, visce-

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Solo


ORNETTE COLEMAN rale e potente di quelle avanguardie, quando alla Notte dei morti viventi di Romero faceva virtualmente eco Song for Che della Liberation Music Orchestra suonata da Ornette nel '69 alla New York University sul live Crisis. Mi guardo intorno e dalle nostre parti un assalto del genere alle istanze del disastro quotidiano le trovo solo ne I resti di Bisanzio di Carlo Schirinzi e forse in Roma Termini di Pampaloni, che non a caso sono due visitazioni innanzitutto spaziali, “soniche”. I luoghi della disubbidienza hanno infatti pareti tirate su con l'eversione dei linguaggi, è questo che buona parte delle esperienze antagoniste imperdonabilmente ostacolate a Roma finge di non saper cogliere, pena l'allontanamento del pubblico facile dell'impegno distratto, dell'interesse sociale da aperitivo (ricordo ad esempio l'esaltazione molotov di una performance degli Ex & Brass Unbound con Ken Vandemark e Mats Gustafsson qualche anno fa al Brancaleone, che solo a ripensarci ora...): a noi non ce ne frega un cazzo del Cinema Palazzo, urlano le scritte più recenti sulle mura di San Lorenzo, sfottendo la struttura occupata al centro del quartiere popolare per antonomasia della Capitale. Proprio nella sala grande del Cinema Palazzo per tutto l'inverno i folli organizzatori della rassegna Circuiterie hanno fatto scontrare i feedback assordanti e le dissonanze spaventose di campioni dell'improvvisazione più guerrigliera, con apparizioni di pesi massimi internazionali come Z'ev e Geoff Leigh (il live di quest'ultimo con l'ensemble K-Mundi è andato in onda su Battiti). La serata finale è stata incendiata da una jam collettiva tenuta in piedi dai Gronge X in puro stile Manuale di improvvisazione per giovani socialisti (ospiti Marco Colonna, Ermanno Baron, Adriano Lanzi): mentre ne venivo travolto percepivo come assolutamente necessaria tutta quella frammentazione, il caos provocatorio della forma, l'astrazione devastante post-tutto, ogni cosa mi pareva una capsula di presente, mandata in frantumi. Poi però tornato su via dei Volsci l'evidenza incontrovertibile che alla popolazione di quelle strade così terza madre sul serio di tutto questo magma elettrico di soccorso radio “non gliene frega un cazzo”, e allora a chi era destinato quel buco nero scavato da Circuiterie proprio lì in piazza, quale distanza e isolamento volontario (e fuori, fuori la peste) raccontano i nostri tempi (per chi sono pensate in altre parole queste 20000 battute che non riesco

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ORNETTE COLEMAN a chiudere da giorni)? Il senso di tutto è in quella stazione Piramide con i lavori in corso che per Ferrara diventa la città del futuro di Pasolini, ma mi pare che il problema nelle sale italiche se lo stiano ponendo giusto due capolavori come Il giovane favoloso e Belluscone, tacendo della compagine nostrana a Cannes che però da questo punto di vista è davvero un'esemplificazione emblematica dell'incapacità di esserci, endemica e – addirittura! – riaffermata con orgoglio, del nostro cinema mai nato (ovviamente gli exploit “civili” di cineasti onesti come Luchetti, Vicari, Sollima jr ecc non entrerebbero nel discorso neanche tra parentesi). Rudra, il dio della morte e della tempesta, danza su Roma che brucia, come cantano gli Zu nella mia hit personale dell'anno, ed è probabile che Ornette Coleman avrebbe da dire al riguardo parole simili a quelle con cui il loro grandissimo bassista Massimo Pupillo presentava l'ultimo EP Goodnight Civilization: “abbiamo creduto ad una narrazione del mondo di cui sono sempre più evidenti le crepe e la mancanza di fondamenta. Questa narrazione per noi è diventata l'unica pensabile mentre, in realtà, è solo una delle tante possibili. Una crisi sistemica come quella che stiamo vivendo non verrà risolta dallo stesso tipo di pensiero che l'ha causata. E in tutto questo non c'è solo della sacrosanta rabbia o sgomento, ma il bisogno profondo di connettersi alle modalità più antiche della mente, che hanno funzionato per centinaia di migliaia di anni prima che ci autoesiliassimo in una sola zona del nostro cervello.” Sembra un film di

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Sam Raimi, eh? Coda Ornette Coleman è morto l'11 giugno 2015, a 85 anni. I suoi album a cavallo tra gli anni '50 e i '60 come The Shape of Jazz to Come, Change of the Century e Free Jazz hanno contribuito in misura fondamentale e decisiva ad un movimento che ha ridefinito radicalmente e completamente gli orizzonti dell'arte del Novecento. Come se non bastasse, Ornette ci ha lasciato quantomeno anche gli esperimenti elettrici con la formazione dei Prime Time, e le contaminazioni con le strumentazioni marocchine dei maestri musicisti di Jajouka (a tal proposito Dancing in Your Head del 1976 è un buon punto di partenza accessibile per affrontare il corpus colemaniano). In più, il sassofonista ha fatto in tempo a regalarci di sicuro il più bel disco del nuovo millennio, Sound Grammar del 2006 col doppio contrabbasso, Greg Cohen al pizzicato e Tony Falanga all'archetto: non credo esista null'altro registrato dal 2000 a oggi di bellezza così struggentemente pura. E però non c'è da temere, il suono dei nostri tempi lo portano avanti alcuni meravigliosi guerrieri come Sam Eastmond e Nikki Franklin che a febbraio scorso hanno dato alle stampe un disco magnifico e pressante a nome Spike Orchestra, Ghetto, in cui partendo da Varsavia 1943 dicono tutto quello che c'è da dire sulle mura dei padroni di casa, i debiti degli ospiti, i confini invalicabili e i cancelli della legge del nostro dispaccio quotidiano. Un po' come l'ultimo fondamentale feuilleton immaginario di Wu Ming, il portentoso L'armata dei sonnambuli che è proprio esempio puntuale di forma libera esplosa sull'oggi, forse ancora l'arma giusta con cui continuare la battaglia contro i mostri là fuori.

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Jacques Derrida intervista Ornette Coleman Riproponiamo una conversazione tra Jacques Derrida e Ornette Coleman, apparsa su Les Inrockuptibles n. 115 (20 agosto - 2 settembre 1997), avvenuta prima e durante i tre concerti di Coleman al Festival di La Villette, nei pressi di Parigi. Un incontro eccezionale, in cui il filosofo francese e il grande sassofonista discutono riguardo alle idee di composizione, improvvisazione, linguaggio e razzismo. L'intervista è apparsa anche su Alias lo scorso anno. La nostra traduzione è a cura di Giovanna Canta Jacques Derrida: Quest’anno a New York presenterà un programma dal titolo Civilization. Che rapporto ha con la musica? Ornette Coleman: Cerco di esprimere un concetto in base al quale è possibile tradurre una certa cosa in un’altra. Credo che il suono abbia una relazione molto più democratica con l’informazione, perché non è necessario l’alfabeto per capire la musica. Quest’anno, a New York, sto mettendo a punto un progetto con la Filarmonica e il mio primo quartetto (senza Don Cherry), oltre ad altri gruppi. Sono alla ricerca del concetto in base al

quale il suono si rinnova ogni qual volta viene espresso. Ricopre il ruolo di compositore o quello di musicista in questo caso? In qualità di compositore la gente spesso mi dice: “Suonerai pezzi che hai già suonato o del nuovo materiale?”... Non risponde mai a queste domande, vero? Quando suoni dei pezzi che hai già registrato la maggior parte dei musicisti pensa di essere stata assunta per mantenere viva quella musica. E la maggior parte dei

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Il linguaggio dell'altro


ORNETTE COLEMAN musicisti non ci mette troppo entusiasmo nel suonare gli stessi pezzi ripetutamente. Ecco perché preferisco scrivere musica che non hanno mai suonato prima. Vuole sorprenderli. Sì, voglio stimolarli invece di chiedere loro semplicemente di accompagnarmi di fronte a un pubblico. Trovo però che sia una cosa molto difficile da fare: i musicisti jazz sono probabilmente le uniche persone per le quali un compositore non è un individuo particolarmente interessante, considerando che preferiscono distruggere ciò che un compositore scrive o dice. Quando dice che il suono è più “democratico”, in che modo concilia questa idea con il fatto di essere un compositore? Scrive comunque la musica in forma codificata. Nel 1972 ho scritto una sinfonia dal titolo Skies of America. Si è trattato di un evento tragico per me, perché non avevo un rapporto troppo positivo con la scena musicale. Ad esempio, quando suonavo free jazz, la maggior parte della gente pensava che mi limitassi a prendere il

sassofono e suonassi qualsiasi cosa mi passasse per la la mente, senza seguire nessuna regola. Inutile dire che non era vero. E lei ricusa costantemente questo tipo di “accuse”. Sì. La gente pensa dal di fuori che si tratti di una forma di straordinaria libertà. Io credo che sia invece una limitazione. Perciò ci sono voluti 20 anni, ma oggi ho un pezzo che verrà eseguito dall’Orchesta Sinfonica di New York e dal suo direttore. L’altro giorno, quando ho incontrato alcuni membri della Filarmonica, mi hanno detto: “Sa, la persona che si occupa delle partiture ha bisogno di vederle”. Mi sono risentito. È come se lei mi avesse scritto una lettera e qualcuno avesse dovuto leggerla per confermare che non contenesse niente che potesse irritarmi. In questo caso volevano assicurarsi che la Filarmonica non venisse “offesa”. Poi hanno continuato dicendo: “L’unica cosa che vogliamo sapere è se ci sia un punto da qualche parte, una parola da un’altra”. La loro richiesta non aveva nulla a che fare con la musica o il suono, se non

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con i simboli. La musica che scrivo da trent’anni, però, e che io chiamo armolodia, è come un linguaggio di cui plasmiamo le nostre parole personali, con un’idea precisa di ciò che vogliamo che queste parole significhino per la gente. E tutti i suoi collaboratori condividono la sua concezione di musica? In genere comincio componendo qualcosa che i miei collaboratori possano analizzare, la suoniamo insieme e poi consegno loro le partiture. Alle prove successive chiedo loro di farmi vedere il risultato della loro analisi. Poi si prosegue da lì. Seguo questo iter con i miei musicisti e i miei studenti. Credo fermamente che chiunque cerchi di esprimere se stesso a parole, nella poesia, in qualunque forma, possa prendere il mio libro di armolodia e comporre in base ad esso, con la stessa passione e gli stessi elementi. Nel preparare questi progetti per New York, prima scrive la musica da

solo e poi chiede ai partecipanti di leggerla, per avere la loro approvazione o anche per far sì che trasformino la scrittura iniziale? Per la Filarmonica dovevo scrivere le parti per ogni strumento, fotocopiarle, poi incontrare la persona responsabile delle partiture. Ma con i gruppi jazz io compongo e distribuisco le parti ai musicisti durante le prove. Ciò che è davvero scioccante nella musica improvvisata è che, a dispetto del suo nome, la maggior parte dei musicisti usa una trama come base dell’improvvisazione. Ho appena finito di registrare un CD con un musicista europeo, Joachim Kühn e la musica che ho scritto per suonare con lui, che abbiamo registrato nell’agosto 1996, ha due caratteristiche: è totalmente improvvisata, ma allo stesso tempo segue le leggi e le regole della struttura europea. Ciononostante, quando la si ascolta, risulta del tutto improvvisata. Prima il musicista legge la struttura

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di base, poi vi aggiunge il suo tocco personale. Sì, l’idea è che due o tre persone possono avere una conversazione con i suoni, senza tentare di dominarli o guidarli. Quello che intendo è che bisogna essere… intelligenti, sì, credo sia questa la parola. Penso che nella musica improvvisata i musicisti cerchino di ricostruire un puzzle emozionale o intellettuale. Quale che esso sia, è un puzzle nel quale sono gli strumenti a indicarne il tono. È principalmente il piano che è servito in tutte le epoche come struttura portante nella musica, ma non è più indispensabile e, infatti, l’aspetto commerciale della musica è molto incerto. La musica commerciale non è necessariamente più accessi-

bile, ma è senza dubbio limitata. Quando comincia le prove, è già tutto pronto e scritto o lascia spazio all’imprevisto? Supponiamo di stare suonando e che lei senta qualcosa che pensa possa essere migliorato. A quel punto potrebbe dirmi: “Dovreste provare questo”. Per me la musica non ha nessun leader. Che cosa pensa del rapporto tra l’evento preciso costituito da un concerto e la musica già scritta o improvvisata? Crede che la musica scritta impedisca a quell’evento di realizzarsi? No. Non so se sia vero per il linguaggio, ma nel jazz si può prendere un pezzo mol-

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Forse converrà con me sul fatto che il concetto stesso di improvvisazione è simile a quello della lettura, dato che ciò che spesso intendiamo come improvvisazione è sì la creazione di qualcosa di nuovo, ma al contempo qualcosa che non esclude la struttura già scritta che la rende possibile. Questo è vero. Non sono un “esperto di Ornette Coleman”, ma se traduco quello che fa lei in un dominio che conosco meglio, quello della lingua scritta, l’evento unico che è prodotto una sola volta è ciononostante ripetuto nella sua stessa struttura. Ecco che esiste una ripetizione nel lavoro che è intrinseca alla creazione iniziale (cosa che compromette o complica il concetto di improvvisazione). La ripetizione esiste già nell’improvvisazione: ecco perché, quando le persone cercano di intrappolarla tra l’improvvisazione e la scrittura, si sbagliano. La ripetizione è naturale quanto il fatto che la Terra gira. Crede che la sua musica e il modo in cui la gente si comporta possa o debba cambiare le cose, ad esempio a livello politico o di rapporti tra i sessi? Il suo ruolo di artista e compositore

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to vecchio e creare una nuova versione. Ciò che è entusiasmante è la memoria che viene riportata a galla nel presente. Credo che quello di cui parla, cioè la metamorfosi di una forma che si trasforma in altre forme, sia qualcosa che sarebbe giusto accadesse, ma che considero davvero raro.

può o dovrebbe avere un effetto sullo stato delle cose? No, non credo, ma penso che molte persone abbiano già sperimentato la cosa prima di me e se comincio a lamentarmi mi dicono: “Perché ti lamenti? Non siamo cambiati per questa persona che ammiriamo più di te, quindi perché dovremmo farlo per te?” In poche parole non credo proprio, ecco. Ero al sud quando le minoranze erano oppresse e mi identificai con loro attraverso la musica. Ero in Texas, cominciai a suonare il sassofono e a guadagnare per mantenere la mia famiglia suonando alla radio. Un giorno entrai in un posto pieno di scommettitori e prostitute. C’era gente che discuteva e vidi una donna venire accoltellata, allorché decisi che dovevo andare via da lì. Dissi a mia madre che non volevo più fare musica perché non facevo altro che aggiungermi a quel dolore. Rispose: “Che ti è mai preso, vuoi che qualcuno ti paghi per la tua anima?” Non ci avevo pensato e quando mi disse queste parole, mi sentii come battezzato una secon-

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da volta. Sua madre era molto razionale. Sì, era una donna intelligente. Sin da quel giorno ho cercato di trovare un modo per evitare di sentirmi in colpa per il fatto che facessi qualcosa che altra gente non faceva. Ci è riuscito? Non lo so, ma quando il bebop cominciò ad emergere, lo vidi come una via d’uscita. È un tipo di musica strumentale che non è legata a una scena in particolare, che può esistere in un contesto più normale. Dovunque suonassi il blues c’erano tantissime persone senza lavoro che non facevano nient’altro che scommettere il proprio denaro. Allora scelsi il bebop, che si stava sviluppando principalmente a New York e mi dissi che dovevo andare lì. Avevo solo 17 anni, me ne andai di casa e mi diressi a sud. Prima di Los Angeles? Sì. Avevo i capelli lunghi come i Beatles; parliamo dell’inizio degli anni ’50. Quindi mi diressi a sud. La polizia e la gente di colore mi picchiava, non gli piacevo, avevo un aspetto troppo bizzarro. Mi riempirono la faccia di pugni e fecero a pezzi il mio sassofono. Fu un duro colpo. In più, ero insieme a un gruppo che suonava quello che chiamiamo “musica per fiati da menestrelli” e io provai a fare bebop, facevo progressi e fui assunto. Ero a New Orleans, stavo per incontrare una famiglia molto religiosa e cominciai a suonare in una chiesa “consacrata” (quando ero piccolo suonavo sempre in chiesa). Da quando mia madre mi disse quelle parole cercai una musica che

potessi suonare senza sentirmi in colpa per qualcosa. Ad oggi, non l’ho ancora trovata. Quando arrivò a New York da giovanissimo, aveva già un sentore di quello che avrebbe scoperto musicalmente, l’armolodia, o si tratta di qualcosa che avvenne molto dopo? No, perché quando sono arrivato a New York sono stato trattato né più né meno come qualcuno del sud che non conosceva la musica, che non sapeva leggere o scrivere, ma non ho mai provato a protestare. Poi decisi che avrei cercato di sviluppare la mia concezione personale, senza l’aiuto di nessuno. Affittai la Town Hall il 21 dicembre 1962. Mi costò 600 dollari, assunsi un gruppo rhythm and blues, un gruppo classico e un trio. La sera del concerto ci fu una tempesta di neve, lo sciopero di un quotidiano, lo sciopero di certo personale medico e lo sciopero della metro e le sole persone che vennero furono quelle che dovettero lasciare l’albergo e raggiunsero la Town Hall. Avevo chiesto a qualcuno di registrare il mio concerto e quel qualcuno si suicidò, ma qualcuno altro lo registrò al posto suo, fondò la propria casa discografica e non lo vidi mai più. Tutto questo mi fece capire nuovamente che ciò che avevo fatto aveva la stessa ragione per la quale dissi a mia madre che non volevo suonare più laggiù. Ovviamente lo stato delle cose dal punto di vista tecnologico, finanziario, sociale e criminale era ben peggiore di quello che c’era al sud. Bussavo a porte che rimanevano chiuse. Qual è stato l’impatto di suo figlio sul suo lavoro? Ha a che fare con l’uso

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delle nuove tecnologie nella sua musica? Da quando Denardo è il mio manager, ho capito quanto semplice sia la tecnologia e ne ho compreso il significato. Ha avvertito l’introduzione della tecnologia come una trasformazione violenta del suo progetto oppure è stato facile accoglierla? Da un altro punto di vista, il suo progetto newyorchese sulle culture ha qualcosa a che fare con ciò che chiamano globalizzazione? Credo che ci sia qualcosa di vero in entrambe le cose; è per questo che ci si può chiedere se siano esistiti “uomini bianchi primitivi”: la tecnologia sembra rappresentare solo la parola “bianco”, non l’u-

guaglianza totale. Diffida del concetto di globalizzazione e credo che lei abbia ragione. Quando si parla di musica, si contano forse una mezza dozzina di compositori inventori. Quando si parla di tecnologia gli inventori di cui ho sentito più parlare sono indiani di Calcutta e Bombay. Esistono molti scienziati indiani e cinesi. Le loro invenzioni sono come inversioni delle idee degli inventori europei o americani, ma la parola “inventore” ha acquistato un senso di dominazione razziale che è più importante dell’invenzione (cosa che trovo triste, perché è equivalente a una sorta di propaganda). Come può sradicare questa “monar-

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chia”? Per esempio forse associando le sue creazioni personali alla musica indiana e cinese, in questo progetto di New York? Quello che intendo è che le differenze tra uomo e donna o tra razze sono connesse all’educazione e all’intelligenza della sopravvivenza. Essendo io nero, nonché discendente di schiavi, non ho idea di quale fosse la mia lingua delle origini. Se fossimo qui per parlare di me, ma non è questo il caso, le direi che, in

maniera diversa ma analoga, vale lo stesso per me. Sono nato in una famiglia di ebrei algerini che parlavano francese, ma quella non era realmente la loro lingua delle origini. Ho scritto un piccolo libro su questo argomento e in un certo qual modo mi trovo sempre a parlare quello che chiamo il “monolinguismo dell’altro”. Non ho nessun contato con la mia lingua delle origini o piuttosto con quella dei miei supposti avi. Si chiede mai se la lingua che parla ora

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interferisca con i suoi pensieri? Può la lingua delle origini influenzare i propri pensieri? È un’enigma per me. Non posso saperlo. So che qualcosa parla attraverso di me, un linguaggio che non comprendo, che a volte traduco più o meno facilmente nel mio di “linguaggio”. Sono ovviamente un intellettuale francese, insegno in scuole dove si parla il francese, ma ho l’impressione che qualcosa mi costringa a fare qualcosa per la lingua francese… Sa, nel mio caso, negli Stati Uniti, chiamano l’inglese parlato dai neri “Ebanico”: possono usare un’espressione che significa altro rispetto all’inglese corrente. La comunità nera ha sempre usato un linguaggio significante. Quando arrivai in California, per la prima volta mi trovai in un posto dove i bianchi non mi dicevano che non potevo sedermi da qualche parte. Qualcuno cominciò a farmi un sacco di domande e io non riuscivo a capirlo, quindi decisi di vedere uno psichiatra per scoprire se lo capivo. Mi prescrisse del valium. Presi il valium e lo gettai nel gabinetto. Non sapevo sempre dove mi trovavo, quindi andai in una biblioteca e cercai tutti i libri possibili e immaginabili

sul cervello umano e li lessi tutti. Dicevano che il cervello è solo una conversazione. Non dicevano su che cosa, ma ciò mi fece capire che il pensare e il sapere non dipendono solo dal luogo d’origine. Capisco sempre di più col passare del tempo che quello che chiamiamo cervello umano, inteso come capire ed esistere, non è la stessa cosa del cervello umano che ci rende quello che siamo. Questa è da sempre una condanna: conosciamo noi stessi in base a quello in cui crediamo. Ovviamente nel suo caso ciò assume una connotazione tragica, ma è un concetto universale: conosciamo o siamo convinti di sapere quello che siamo attraverso le storie che ci vengono raccontate. Il fatto è che abbiamo esattamente la stessa età, siamo nati lo stesso anno. Quando ero giovane, durante la guerra, non raggiunsi mai la Francia prima dei 19 anni. Vivevo in Algeria a quel tempo e nel 1940 fui espulso da scuola perché ero ebreo, come risultato delle leggi razziali, senza sapere nemmeno che cosa fosse successo. Capii solo molto dopo, attraverso storie che mi dissero chi ero, in un certo qual modo. E anche

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è una parola, è un’azione. Considerando che non è stata attuata, non ha senso parlarne.

per quanto riguarda sua madre, sappiamo chi è e che è fatta in un certo modo solo grazie alla narrazione. Ho cercato di indovinare in quale periodo si era trovato durante il soggiorno a New York e Los Angeles: prima che i diritti civili fossero garantiti ai neri. La prima volta che andai negli Stati Uniti, nel 1956, c’erano dappertutto scritte del tipo “riservato ai bianchi” e ricordo quanto brutale fosse. Ha provato tutto questo sulla sua pelle? Sì. Ad ogni modo, quello che mi piace di Parigi è il fatto che non si possa essere snob e razzisti allo stesso tempo, perché non funzionerebbe. Parigi è l’unica città che conosco dove il razzismo non esiste mai in tua presenza, ma è qualcosa di cui senti parlare. Ciò non significa che il razzismo non esiste, ma che si è obbligati a nasconderlo il più possibile. Quale strategia è alla base della sua scelta musicale per Parigi? Per me essere un innovatore non significa essere più intelligente, più ricco. Non

Capisco che preferisce il fare al parlare. Ma cosa fa con le parole? Qual è il rapporto tra la musica che fa e le sue parole o quelle che la gente cerca di imporre su quello che fa? Il problema della scelta del titolo, ad esempio, qual è la sua concezione a riguardo? Una delle mie nipoti è morta a febbraio di quest’anno e sono andato al suo funerale. Quando l’ho vista nella bara, qualcuno le aveva messo un paio di occhiali. Volevo chiamare uno dei miei pezzi She was sleeping, dead, and wearing glasses in her coffin. Poi ho cambiato idea e l’ho chiamato Blind Date. Quel titolo si è imposto su di lei? Cercavo di comprendere il fatto che qualcuno avesse messo degli occhiali a una donna morta… Avevo un’idea vaga di quello che significasse, ma è molto difficile capire il lato femminile della vita, considerando che non ha nulla a che fare con quello maschile. Crede che la sua scrittura musicale abbia una connessione importante con il suo rapporto con le donne? Prima di diventare un musicista famoso, quando lavoravo in un grande magazzino, un giorno, durante la pausa pranzo, sono passato davanti a una galleria dove qualcuno aveva dipinto una ricca signora bianca che aveva proprio tutto quello che si potesse desiderare nella vita: aveva l’espressione più solitaria del mondo. Non mi ero mai dovuto confrontare con una tale solitudine prima e quando tornai

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a casa scrissi un pezzo che ho chiamato Lonely Woman. Quindi la scelta di un titolo non fu scelta di parole, ma un riferimento a quest’esperienza? Le faccio queste domande sul linguaggio, sulle parole, perché per prepararmi al nostro incontro ho ascoltato la sua musica e letto quello che gli specialisti hanno scritto su di lei. La notte scorsa ho letto un articolo che era in effetti la presentazione di una conferenza tenuta da un mio amico, Rodolphe Burger, un musicista che fa parte di un gruppo musicale chiamato Kat Onoma. L’articolo (e la conferenza) è stato costruito sulla base delle sue dichiarazioni. Per analizzare il modo in cui formula la sua musica, il mio amico è partito dalle sue dichiarazioni, delle quali la prima era la seguente: “Per ragioni a me sconosciute sono convinto che, prima di diventare musica, la musica era solo una parola”. Ricorda di averlo detto? No.

stesse dichiarazioni? Rappresentano qualcosa di importante per lei? Mi interessa maggiormente avere un rapporto umano con lei, piuttosto che uno musicale. Voglio vedere se sono in grado di esprimermi a parole, con suoni che hanno a che fare con un rapporto umano. Allo stesso tempo, vorrei poter parlare del rapporto tra due talenti, tra due modi di fare. Per me il rapporto umano è molto più bello, perché permette di guadagnare la libertà che si desidera, per noi stessi e per gli altri.

Come considera o interpreta le sue

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Fuochi fatui

A molti è sembrata un'edizione deludente. A noi no. Contradditoria magari, tra attese deluse e folgorazioni straordinarie. E comunque Cannes rimane sempre lì, con i suoi pregi e i suoi difetti. Il racconto dei nostri inviati

Le montagne e la memoria Si è visto poco il mare a Cannes 2015. Più un cinema di terra che d’acqua, anche di quella terra densa, che diventa pastosa materia ne Il racconto dei racconti di Garrone o invece traballante in Mia madre. Dove però nel film di Moretti si sedimentano tutti i segni di un proprio passao. Ecco, la memoria, traccia che ha attraversato molti film di un concorso non indimenticabile. Da quella dell’Olocausto, sotto una soggettività ipnotica

che chiude lo sguardo e deforma ciò che si ha davanti in un movimento impazzito, proprio per non entrare in collisione con la tragedia, in Son of Saul di László Nemes. Ma anche il mélo di tutta una vita dello straordinario Mountains May Depart di Jia Zhang-ke, oggi uno dei cinque migliori cineasti che ci sono sulla terra, tre passaggi temporali in tre formati che possono essere anche tre singoli film diversi. Una mutazione in un mélo dove l’aria prevale e si mangia invece gli spazi interni, come accade invece nel genere.

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il magnifico Desplechin di Trois souvenirs de ma jeunesse. La Nouvelle Vague non sembra finire mai. Per qualche critico italiano avanguardista è un limite, per altri è una necessità. Le lettere, gli sguardi in macchina, le declinazioni amorose dove il cuore palpita forte e i battiti si sentono dentro la nostra testa. Il cinema di Desplechin non ha età, non ha tempo. Come per Jia, il tempo cinematografico è sfasato rispetto a quello reale e anche a quello emotivo. Troppe vite dentro un film. Che non bastano mai. (Simone Emiliani) Tra parentesi (Aperta parentesi). Ma quante volte Zhao Tao balla sulle note di Go West? Quella meravigliosa danza-di-vita all’inizio di Mountains May Depart – capolavoro immenso, da digerire con calma, facendo una lunga e silenziosa passeggiata sulla rumorosa Croisette – segna il pun-

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Sotto il segno di una nostalgia dirompente, uno Strange Days che torna indietro al Capodanno del 2000, un viaggio madre-figlio che è solo un frammento ma che Jia dilata perché non vorresti che finisse mai. La stessa memoria di un Paese lasciato, nel film vincitore della Palma d’Oro, Dheepan, dove le zone di guerra dello Sri Lanka vanno in una banlieue parigina, con l’allucinazione di Audiard che stavolta sembra premere di meno sull’acceleratore, ma, ogni volta che lo fa, lascia tutto il segno. Dove la vita simulata (padre-madre-figlia) deve cercare quel passato che non c’è, dove formare quei ricordi artificiali che comunque prendono forma. Senza le istantanee fotografiche del bellissimo Peter Weir di Green Card, ma con l’impressione che ogni volta l’immagine cerchi di sfuggire da quello che inquadra la macchina da presa. Come se tutto Cannes avesse preso velocità. Tutto troppo rapido. Ma che può ripassare più volte all’infinito. Come


CANNES 68 to più alto della mia seconda esperienza cannense. C’è stato un problema, però, durante la proiezione stampa. I sottotitoli in francese non partivano correttamente, allora il film è stato stoppato dopo 10 minuti per poi ricominciare dall’inizio… a ballare: di nuovo Zhao Tao mi travolge nel suo Go West, quella sensazione mi rimane impressa sino alla fine, quando la sua danza diventa molto più malinconica e carica di inesprimibili bagagli sentimentali. C’è tanta, troppa vita in quei balli che ritornano (in)volontariamente. Vita che si impone all’immagine, come le coreografie del mondo/simulacro di The World o gli innamoramenti nascosti di Platform, le digressioni surreali di Still Life o gli sguardi nel vuoto di I Wish I Knew, tutto in un film qui-e-ora, tutto per dire che anche le montagne possono essere spostate. Dal cinema. Basta il sublime ballo di Jia Zhang-ke a mascherare un Concorso più “normale” (forse un tantino deludente) rispetto agli scorsi anni? Forse sì, almeno per me. Tanto i battiti di cuore ci sono stati co-

munque nelle sezioni collaterali: la follia lucidissima di Miguel Gomes con le sue notti portoghesi, l’aerea cinefila di Desplechin con i suoi tre souvenir, le derive anarchiche di Miike nelle sue apocalissi, lo stordente coraggio di Minervini tra Texas e Louisiana e ovviamente il purissimo Spettacolo classico-e-avanguardista del Mad Max di Miller. Del concorso rimane la stordente esperienza di Saul Fia (sul quale, devo ammetterlo, non ho ancora maturato un giudizio, perché il film smuove nodi etici ed estetici che hanno bisogno di tanto tempo

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e re-visioni per poter essere metabolizzati e “criticati”); il chirurgico occhio politico di Denis Villeneuve e del suo sottovalutatissimo Sicario; il rigore formale e morale del Maestro Hou Hsiao-hsien e infine lo sguardo sopravvissuto di Yasujiro Ozu che balena in alcune stupende inquadrature di Our Little Sister di Kore-eda. Sul dibattito, ormai sfiancante, riservato alla spedizione italiana si sono sprecate sin troppe parole: allora meglio parlare di Lievito Madre di Fulvio Risuleo e della sua bella vittoria con un cortometraggio che va “visto” e “condiviso” anche in Italia. Cannes, poi, è anche tutto il resto. Certo. Feste, glamour, mercato, ecc… ma dietro quella facciata d’istituzionale etichetta a volte qualcosa sfugge, si smarca un istante, e un’umanissima sensazione si impone a tutto il resto: la sincera e austera commozione di Nanni Moretti che quasi imbarazzato “sfila” in passerella per un film così intimo e personale come Mia


CANNES 68 Madre. Tutto quel vissuto in prima persona che intasa (e forse blocca) il suo film, lo si percepisce in maniera cristallina su un tappeto rosso raramente così composto e sincero. Io ero sul balcone della sala stampa in quel momento, a guardare dall’alto i fotografi che urlavano a squarciagola i nomi di Moretti, Turturro e Buy. Unico tappeto rosso che ho deciso di seguire interamente, dedicato a un autore che (confesso) per me è sempre stato molto importante. Quell’umanità viva e non filtrata che ho percepito anche da lontano resta uno dei momenti più intensi della mia Cannes. (Chiusa parentesi). Il ballo di Zao Thao e il pudore di Moretti sono le due parentesi in cui voglio racchiudere questa (comunque) bella edizione numero 68. Perché tutto il resto, i film e le illuminazioni, le battaglie redazionali e quelle personali, sono racchiuse nelle sentite parole che anche quest’anno abbiamo con impegno cercato di scrivere. (Pietro Masciullo)

l'immagine e quando funziona bene sotto la superficie trova i segni del passato e al contempo il punto di partenza per il futuro: noi, il nostro sguardo. Lo dice con lucidità pazzesca il film più urgente e politico (dicevamo...) dell'ultima Cannes, Comoara del rumeno Porumboiu, in Un certain regard. Il tempo è un punto fermo, quello che puoi segnare al centro della mappa del tesoro. Lo sa bene il nostro amico Fulvio Risuleo: dei suoi lavori è sempre difficile registrare il “quando” in cui sono ambientati, infatti. Gli interni di Lievito Madre e di Varicella, quest'ultimo premiato come miglior cortometrag-

Metal detector Il cinema è un metal detector, scansiona

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gio della Semaine de la Critique 2015, galleggiano in una sospensione pulviscolare a metà tra la foto di famiglia ingiallita e il candore del ricordo visitato un'ultima volta prima che svanisca nel bianco. Lo strepitoso Reportage Bizarre addirittura lascia allo spettatore/utente

la possibilità di deciderlo e alterarlo da sé, il tempo di questa storia parigina di fantascienza noir da riordinare a piacere, infestata di apparizioni e inserti che piacerebbero a Carax. Ma l'ultimo Varicella, la “cosa” italiana più bella sulla Croisette, è visione fondamentale per capire Cannes 68 per due motivi. Il primo è che, in questa indecisione temporale, Risuleo stavolta inserisce un raddoppio vertiginoso: alla finestra che illumina il cucinotto in cui si svolge tutto il dramma a due che costituisce l'ossatura del corto, il giovane cineasta replica con l'onnipresenza del dispositivo mobile, unico fuoricampo possibile di un'impostazione registica che decide di evitare fin quando può gli interventi del classico rimpallo campo/controcampo. Per affrontare un tema pluridibattuto sulle bacheche dei social, come i fanatismi e gli arcaicismi della questione “vaccini”/”malattie esantematiche”, Risuleo sottotraccia racconta di un'ossessione tecnologica centrale in buona parte delle visioni cannensi, dal capolavoro di Jia Zhang-ke in concorso, al formidabile film Pixar fuori competizione, fino alla seduta di ipnosi al neon di

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Apichatpong di nuovo in Un certain regard. Mentre il personaggio di Edoardo Pesce in Varicella sente montare la rabbia nei confronti dell'idea insana della moglie, sotto alla partitura minacciosa per archi e voci di Virginia Quaranta percepisce non meno incalzanti i bip delle notifiche dello smartphone della donna – lo stesso display da cui lei gli mostrerà una terribile galleria fotografica di effetti della varicella sugli adulti. La luce entra da un'unica vetrata in casa, ma in realtà la scena è piena di finestre, di aperture, come il tablet in compagnia del quale fa colazione il piccolo Carlo. Per una volta l'abisso di Risuleo è al presente, anche se la sorpresa finale riguarda un colpo di scena del passato. E il futuro è un controcampo, o un fuoricampo? Ecco l'altro interrogativo cruciale di Cannes 2015. Sulla potenza del fuoricampo si giocano gli incubi di Sicario e Dheepan (due film che

forse si somigliano parecchio, nonostante le apparenze), e ovviamente a vette irraggiungibili al di sopra di tutti ci ragiona il saggio teorico di Hou Hsiao-hsien. Intorno al controcampo come fantasma inafferrabile d'amore e morte Kurosawa e Desplechin costruiscono i loro bellissimi film, al fianco dei manierismi malati ma affascinanti di Haynes e Van Sant. A tenere insieme fuoricampo, controcampo e tutte le dimensioni spaziotemporali dell'uomo, l'istante più decisivo di un'opera che si rivelerà centrale per almeno i prossimi 15 anni, Mad Max Fury Road, quando George Miller decide di riavvolgere il film e far tornare indietro i suoi personaggi dal posto da cui sono partiti. Tom Hardy indica la direzione, la compagnia di donne si volta a guardare dietro di sé, il portentoso stacco di montaggio fa sì che girando il capo gli occhi di tutti gli attori incrocino l'ottica della mdp, nel-

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lo sguardo in macchina più esplosivo e carico di senso del cinema contemporaneo: siamo qui dietro, sì. Dietro di voi. (Sergio Sozzo) Preferisco però quel tipo di... Ora e sempre, Greed... Comoara, l'ultimo straordinario Porumboiu, sembrerebbe l'ennesima parabola sull'anima rapace dell'uomo. Il tesoro nascosto in giardino, la follia dell'impresa, la rabbia stupida di Adrian, il vecin del pacatissimo Costi. Tutto lascerebbe immaginare l'apertura di una voragine oscura, un abisso proprio al centro di quel buco scavato per tutto un giorno e tutta una notte. Come in Vegas di Naderi. Ma a Porumboiu poco importa il buio. Anzi, per lui l'umanità è ancora capace di azioni solari, di uno scarto, di rinunciare alla tentazione dell'argent per il brivido creativo della favola, per il gusto di un sorriso, di un gioco da bambini (e chissà se gli uomini di domani ne saranno ancora in grado).

Una consapevole e gioiosa strafottenza nei confronti delle regole del danaro, che assomiglia alla più grande libertà possibile. Ed è forse qui la differenza tra il sud e il nord del mondo, dell'Europa, è su questo che si misura la distanza di latitudini tra Berlino e Bucarest o Atene. Non c'è altra economia, se non quella dei mezzi: pochi tagli di inquadratura, nessun effetto, il minimo del linguaggio. Ma non si tratta di un'austerity punitiva, semmai di un lucido ritorno all'esplosività dell'essenziale, della volontà di sfrondare lo stile di ogni orpello inutile, per liberare tutti i sensi e i sentimenti dell'immagine. E si tratta un po' della stessa economia di Apichatpong Weerasethakul, che incrocia nel quotidiano le visioni del suo cimitero di splendore, e incontra il fantastico solo a partire dall'evidenza del dato reale. La stessa economia di Hou Hsiao-hsien, "il maestro", che cristallizza il wuxia e l'azione, come fosse una gemma, un diamante incastonato nell'attesa, nell'indistinto di tutto ciò che non riusciamo a vedere e

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capire, ma solo a "sentire"... Siamo davvero in un cinema opposto a quello di Garrone e Sorrentino, quello dell'immagine gonfiata e smorta. Opposto, forse, anche a quello di Villeneuve, il cui sicario è troppo concentrato sulle traiettorie dell'azione, o a quello, fin troppo bello, di Todd Haynes, in cui la perfezione delle forme e il vezzo della citazione poggia su una troppo fredda strategia di calcolo. Per loro, l'economia è comunque funzione. Non ha mai il volto umano di una nuova gestione delle risorse e una redistribuzione delle priorità. Ciò per cui lottano i ribelli di Mad Max. The Grapes of Wrath... la ribellione è sempre Furiosa. E nella sua forma più libera, pura, incandescente ed emozionante è sempre gratuita: non punta a pagare né a farsi ripagare. Monta di rabbia folle, come Dheepan che fa a pezzi (di machete) il

suo passato e il suo presente maledetto (e sarà forse anche ambiguamente retorico, ma ce ne fossero di Audiard...). O si prende gioco delle "regole di sicurezza", come l'A-Team di de Aranoa, che reinventa la vita quotidiana ai margini dell'inferno. Insomma, il cinema migliore visto a Cannes 68 ha una valenza politica e morale, prima ancora che teorica o, addirittura,

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estetica. Nella misura in cui ridefinisce la gerarchia dei valori e gli orizzonti delle strategie. Nella misura in cui stabilisce un primato del sentimento e della sua libera espressione sulle forme, le traiettorie narrative, i canoni del linguaggio autoriale. È il cuore, prima di ogni altra cosa, a impadronirsi delle storie e del tempo, siano le mille e una notte di Gomes o i trois souvenirs de ma jeunesse di Desplechin. Gonfia le immagini, fino a farle deragliare oltre i margini, gli equilibri, le cautele del rigore. Desplechin eccede, ma non ha bisogno di trucchi, di muscolarità visionarie. Gli bastano le passioni, i loro capogiri e movimenti incontrollati, per spezzare i limiti della struttura. Il cuore si smarca dall'autorità, esattamente come accade per la splendida Shu Qi, l'assassina di Hou Hsiao-hsien. E allora non è un caso che la più grande emozione venga da Mountains May Depart di Jia Zhang-ke. Altri souvenirs de jeunesse che si proiettano nel presente e nel futuro. Cinema "vissuto" in prima persona, inventato a partire dalla propria storia, anche contro di essa, contro l'immagine

di sé, il proprio statuto d'autore. Perché è sempre la vita il punto, l'origine e il fine di ogni ricerca, di ogni dubbio, di ogni lacrima e amore. Sì, forse Cannes quest'anno non è stata all'altezza di tutte le promesse. Ma sempre per l'antico vizio di considerare i "nomi" come fossero cose, oggetti dai confini certi, dalle entità materiali stabili... e quindi si vedono crollare i Trier, le Kawase e si vive una specie di tradimento. Eppure il festival resta lì, ha l'antipatia di un'istituzione e il fascino di un porto di mare. E produce da sé, come per parto naturale, i suoi lampi di bellezza... Un po' come il torvo proprietario del bar La Terrasse, ritrovo di contrabbandieri e brutti ceffi, a cui del festival poco importa, anzi... L'amico continua a trattarci male, nonostante da anni sia il nostro rifugio segreto. Ma ormai è un gioco. E così, quando lo salutiamo e gli diamo appuntamento all'anno prossimo, non può che risponderci con un sorriso diabolico "nous sommes ici, les gars". È una certezza che non avremmo mai sognato. (Aldo Spiniello)

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di fabiana proietti

Corpo anomalo nel panorama hollywoodiano, Farrell è un interprete strano, poco strutturato, che più che recitare ha bisogno di entrare nella pelle dei suoi personaggi, di viverli. Un'anteprima della prossima pubblicazione di Sentieri selvaggi su True Detective 2

"Ci siamo." "Già..." "Escono i distintivi, spuntano le pistole, si procede agli arresti. È il nostro lavoro." "Allora?" "Allora... le identità inventate e quelle vere si scontrano in un attimo. Sei pronto questa volta?" Sonny Crockett e Rico Tubbs Miami Vice, di Micheal Mann

Da Sonny Crockett a Ray Velcoro, da un poliziotto sotto copertura a uno sbirro sbandato e compromesso, Colin Farrell ha dimostrato negli anni una particolare empatia verso personaggi doppi, moralmente ambigui o scopertamente peccatori, infondendovi una carica di malinconia troppo forte perché attribuibile a un processo mimetico attoriale. Se fosse così, Farrell sarebbe il più grande attore del mondo. Anche se per un po', negli anni successivi al suo primo ruolo importante, il soldato Bozz in

Tigerland di Joel Schumacher, il mondo ha dato l'impressione di crederlo. Fisico scattante e faccia diversa dagli standard hollywoodiani dei primi Duemila, a metà tra il bravo ragazzo dai lineamenti piacenti e la canaglia dei bassifondi, si conquista parti e copertine, entrando appieno negli ingranaggi dell'industria senza farsi mancare procedural drama come Sotto corte marziale o thriller di pura suspense come In linea con l'assassino, né l'occasione di lavorare con grandi nomi come Spielberg, Stone

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Colin Farrell The Gambler


FACES o Malick. In questa prima fase ricopre ancora il ruolo dell'eroe, del personaggio positivo, mentre da antagonista è comunque inserito nel Sistema e quindi esecutore dell'ordine sociale. Eppure, come intuiva Francesco Ruggeri nella sua analisi del 2003, Colin Farrell era già un corpo anomalo nel panorama hollywoodiano, attratto dai propri personaggi per via di un dettaglio che sembra sfuggire alle innocue maglie del plot o alla visione banalmente rassicurante del regista. Lavorare in controtendenza rispetto alla sceneggiatura, ritagliandosi quasi un film personale all'interno dell'affresco generale, inizia però a rivelarsi un compito sempre più difficile e rischioso, che non sempre gli riesce. Iniziano a piovere copioni sbagliati, scelte azzardate, mentre l'identità vera prende sempre più spazio su quelle inventate e la vita di Colin diventa un film ben più interessante di quelli realizzati per il grande schermo. Dai flirt con le dive del periodo – per tutte valga una Britney Spears sull'orlo del baratro, ma ancora ufficialmente ninfetta del pop mondiale – alle voci sempre

più insistenti che lo vogliono alcolizzato o drogato, al sextape messo in circolo dalla playmate Nicole Narain, la metà degli anni Duemila vede sprofondare le sue quotazioni come interprete, la sua vita andare in pezzi (andrà in rehab nel 2006) ma allo stesso tempo regala all'attore il ruolo che – assieme al Ray Velcoro scritto da Nic Pizzolatto – è ancora il

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come la fuga in motoscafo a La Havana sta al corpo dell'opera. Intermezzi, interstizi in cui Mann libera nell'immagine l'intimità dei suoi protagonisti e che trovano compimento nelle scelte decisive che sono chiamati a fare. Nell'ultima straordinaria sequenza dell'addio a Isabella – parallela al risveglio della compagna di Tubbs, in questo movimento incessante che pare davvero seguire quello dell'oceano verso l'orizzonte da cui è attratto lo sguardo dei personaggi – c'è già in Sonny molto di questo ultimo, incredibile Ray Velcoro, che ci ha fatto innamorare di nuovo del Farrell attore. Come se Pizzolatto avesse in testa proprio l'infiltrato di Mann nella scrittura del suo detective dannato e immalinconito. Un anno dopo, il doppio è ancora in agguato. Non più con se stesso, nella

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migliore della sua ricca ma altalenante filmografia. Michael Mann lo sceglie come Sonny Crockett per il remake cinematografico della serie cult Miami Vice, nel ruolo che fu di Don Johnson, accanto a Jamie Foxx nei panni di Ricardo Tubbs. La Miami di Mann è una distesa di cielo e mare verso i quali Farrell posa costantemente lo sguardo, concedendosi questi attimi sospesi che stanno al suo personaggio


FACES coesistenza di Bene e Male in unico corpo, ma faccia a faccia con l'immagine rovesciata di sé offerta dal fratello Ewan McGregor nel fiacco Cassandra's Dream di Woody Allen. Qui Farrell torna a fare il suo gioco, a ritagliarsi un film a parte che in effetti spicca malgrado la pellicola costituisca uno dei peggiori risultati dell'Allen maturo che, perso dietro a tesi da dimostrare, usa i personaggi come mere pedine. Tutti, eccetto Colin. Che non si piega come il collega McGregor a essere il funzionale vettore del plot, ma dà vita a un ritratto a sé stante di questo ragazzotto incapace di resistere al brivido del gioco o al richiamo dell'alcol. Ma allo stesso tempo così puro che gli è impossibile derubricare l'omicidio a espediente per far carriera. Il suo ruolo, sulla pagina quasi da spalla, si ribalta attraverso una performance che fa del vizio un modo di agganciare il pubblico, di essergli vicino nella sua imperfezione. E proprio quando smette di giocare in preda al senso di colpa, Ewan McGregor lo esorta a conti-

nuare, a seguire la propria natura: "Terry, you're a gambler". Anche Farrell è uno scommettitore, un amante del rischio. Un interprete strano, poco strutturato, che più che recitare ha bisogno di entrare nella pelle dei suoi personaggi, di viverli o fare in modo che siano loro a vivere in lui, nelle sue disgrazie, nelle pene che sembra portarsi dietro. Quando questa empatia non scatta, Farrell è un attore irrilevante. Dal troppo patinato adattamento di Chiedi alla polvere, alle poco convincenti sortite nella commedia – dove tocca il parossismo in Horrible Bosses, irridendo la sua stessa maschera pubblica – all'improbabile vampiro del remake della commedia horror Fright Night, si abbandona a copioni alimentari di cui sembra il primo detrattore. Eppure, eccolo trasformarsi quando il soggetto tocca qualcuna delle sue corde più profonde. Come Pride and Glory, solido police movie di Gavin O'Connor, dove ritorna a vestire il distintivo, con-

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tenere dal padre l'informazione che cerca. Ma al tempo stesso, incredibilmente, sa trovare redenzione in un finale in cui si offre al linciaggio dei suoi nemici con un ultimo slancio romantico verso la sua donna: "Dille che l'amo", grida al cognato Norton prima di scomparire di scena sotto i colpi della folla inferocita. Essere abietto capace di gesti turpi e padre, marito amorevole, il cui ultimo pensiero va alla famiglia, Jimmy è l'altro antieroe racchiuso in Ray Velcoro. Un corpo a cui O'Connor affida l'animalità istintiva che pervade il suo film, un corpo che incassa i colpi, che dà e prende pacche sulla spalla, che fa squadra, a differenza del riflessivo e solitario Norton. Ma solitario Colin lo diventerà col suo detective di Vinci, dopo essere stato il pescatore alcolizzato di Ondine di Neil Jordan, altro padre allontanato dalla pro-

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tendendosi la scena con Noah Emmerich ed Edward Norton. Neanche a dirlo, il suo Jimmy Egan è la mela marcia di un intero distretto e di una famiglia di poliziotti guidata dal patriarca Jon Voight. Se a Norton spetta un ruolo silenzioso e sofferto, Farrell si mangia la seconda metà del film con un'escalation di violenza e degradazione che trova l'acme nella sequenza in cui minaccia di ustionare un neonato col ferro da stiro pur di ot-


FACES pria figlia, e il criminale Valka di The Way Back, che dopo la fuga disperata decide di non superare il confine, abbandonandosi al proprio destino nella terra natia. Con questa galleria di personaggi alle spalle, concedendosi sempre più spesso

incursioni nel cinema d'autore europeo, quasi deluso dalla macchina hollywoodiana, Farrell approda alla serie HBO, il cui creatore, Nic Pizzolatto, sembra avere una particolare predilezione per attori al cui talento il cinema non sembra aver reso giustizia. E pare tratteggiare i suoi protagonisti prefigurando già il volto dell interprete che gli darà vita, le sue doti, i suoi vezzi, o forse anche e soprattutto le sue debolezze. È stato cosi per Matthew McConaughey, rinato nella pelle di Rust Cohle; sta accadendo la stessa cosa a Vince Vaughn, altro spettrale gigante nei panni di Frank Semyon, che si porta addosso mezzo secolo di gangster movie. Con Velcoro, Farrell dovrebbe mettere a tacere le critiche piovutegli addosso negli anni, di "recitare solo con le sopracciglia", di essere monocorde e inespressivo. Divorato da un segreto che gli distrugge la vita, già nei primi episodi Velcoro appare un corpo morente, dal destino già segnato, tanto che, quando Pizzolatto sembra farlo perire sotto i proiettili al termine di

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Night Will Find You, si ha l'impressione che lo stesso Ray voglia introdursi in quella casa sperando di trovarvi la morte. Velcoro è in effetti un fantasma condannato a muoversi inquieto nella mappatura di strade aggrovigliate su loro stesse, senza via di uscita. Quelle stesse strade su cui si dissolve la radiografia delle sue viscere logorate da alcol e droga, raffinata rappresentazione di un male ormai introiettato. Come per gli altri suoi migliori personaggi, Farrell riesce a infondergli un'umanità capace di resistere di fronte a ogni peccato, a ogni scorrettezza. Quella che gli riconosce l'anima affine Ani Bezzerides, suo doppio (ancora uno...) rovesciato: "Non sei un uomo cattivo" gli dice al termine di Black Maps and Motels Rooms, in una sequenza che esplicita la sottotrama mélo fra i due, portata avanti in modo impercettibile nell'arco della stagione. E che si conclude, con queste mani che si toccano in cerca di calore umano e comprensione, in una sorta di ieratica Pietà ribassata ai non-luoghi del noir. Nell'arco degli otto episodi di True Detective, Velcoro è l'ultimo grande corpo tragico messo in scena da Colin Farrell.

Cade e si rialza, sembra perdere tutto – la famiglia, suo figlio, la stessa certezza di aver sacrificato tutto questo per un atto di giustizia – ma continua a scommettere, alzando ogni volta la posta in gioco. He is a gambler.

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Claudio Caligari Finché c'è pellicola

di giacomo calzioni

Ci sentiamo quasi in colpa a parlare di Caligari, ora che non c'è più. Due soli film, un terzo terminato in extremis: storie dure, crude, liberissime, ma anche lezioni di vita e di umiltà

Ci si sente quasi in colpa a parlare di Claudio Caligari, ora che è troppo tardi. Nonostante il suo cinema lo abbiamo sempre amato, difeso, eretto a esempio da seguire per chiunque guardi a quest’arte come a una lotta continua contro il tempo e la vita. Avremmo voluto fare ancora di più, ma non ne avremo

la possibilità: Caligari è morto lasciandoci diversi progetti mai realizzati, alcuni documentari, due lungometraggi più un terzo, Non essere cattivo, finito appena in tempo, e che sarà presentato alla prossima Mostra di Venezia. Chissà quanti saranno disposti a difenderlo, ora che la sua scomparsa è ormai acqua passata

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(la tossicodipendenza e la criminalità), ma soprattutto da un approccio al cinema che ci sembra più che altro una lezione di vita e di umiltà. Perché Caligari era un uomo che non amava stare al centro dei riflettori, lasciando che fossero i suoi film a raccontare quelle vite e quei mondi che lui era in grado di mettere in scena con sorprendente realismo e trasporto:

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e non fa più notizia per nessuno, in un mondo in cui la celebrazione dei morti si è trasformata in autocelebrazione del proprio ego e la politica del coccodrillo garantisce visibilità a non finire. Senza nessun intento polemico, ma Caligari è la conferma – l’ennesima, e purtroppo non l’ultima – che i registi che amiamo vanno celebrati da vivi, e non quando ormai non c’è più nulla da fare. Finché c’è pellicola, insomma, parafrasando il bellissimo ricordo lasciato dall’amico Valerio Mastandrea ("Se c'è un aldilà sono fottuto", dice Claudio. “No, se c'è pellicola non sei fottuto per niente”). Due film soltanto, dicevamo: Amore tossico e L’odore della notte, realizzati in epoche lontanissime e diverse tra loro, il primo nel 1983 e il secondo nel 1998. Due opere accomunate non soltanto dalla scelta di tematiche crude e scomode


FACES perché raccontavano personaggi e situazioni che lui conosceva fin troppo bene, quelli della periferia romana, delle borgate, della povertà e della droga. Amore tossico rimane ad oggi la sua opera più famosa, perché non cessa di trasmette-

re quel disagio autentico (nei confronti della vita, degli altri, della società) che dopo trent’anni è ancora un pugno nello stomaco. Un film che nasce e si muove intorno a un’ombra, un fantasma, una presenza: quella di Pier Paolo Pasolini, massacrato nei pressi di quel Lido di Ostia dinanzi al quale si svolgono molte sequenze, e i cui ragazzi di vita ritornano nelle disperate gesta quotidiane di Cesare, Michela, Enzo, Roberto, Debora, Teresa, Loredana e Capellone. Molti di loro interpretavano se stessi, e molti di loro oggi non ci sono più, rimarcando con forza che, davvero, questo è ormai un cinema fatto di fantasmi. Impensabile, se paragonato alle produzioni attuali, anche perché la sua autenticità si misurava nel rifiuto a voler piacere a tutti i costi. Non era un cinema perfetto, né aveva la pretesa di esserlo: lontano dai generi, dalle esigenze commerciali e anche dalle pretese autoriali, Amore tossico era il grido disperato di un mondo relegato ai margini, un mondo filtrato attraverso gli occhi e il cuore di chi aveva visto e toccato con mano quei ragazzi portati via da una siringa sul braccio.

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attraverso un sottobosco criminale indecifrabile perché libero da qualsiasi psicologia o incasellamento, del quale alla fine non rimarrà nulla. Del cinema di Caligari invece rimarrà tantissimo, nonostante la scarsa prolificità. Rimarrà la forza, il coraggio, la tenacia di un cineasta controcorrente che non è mai sceso a compromessi. E un ultimo film, Non essere cattivo, che al momento di scrivere non abbiamo ancora visto, e che moriamo dalla voglia di farlo.

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E perfetto non lo era neppure L’odore della notte, quel ritorno inatteso a quindici anni di distanza, libera trasposizione del romanzo Le notti di arancia meccanica di Dido Sacchettoni, a sua volta ispirato a una storia vera. Un noir atipico, senza regole, troppo libero e selvaggio per andare incontro a un adeguato riscontro critico. Eppure, anche qui, ogni sbavatura diventava la manifestazione di una necessità quasi fisica, quella di urlare attraverso la pellicola tutto il disagio di un cinema che non accettava di essere messo da parte. L’odore della notte è un film che non ci sta, non si arrende; corre costantemente e non si ferma mai, cercando disperatamente di mettere a fuoco un personaggio (il protagonista, interpretato da Valerio Mastandrea) e le sue attività criminali nel buio delle notti romane. Uno dei film più scorsesiani mai realizzati (e non solamente per alcune citazioni esplicite, da Taxi Driver a Quei bravi ragazzi), una cavalcata serratissima


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God Bless Michael Cimino di aldo spiniello

Locarno lo omaggia con il Pardo d'Onore. Ma nessun premio, per quanto giusto, riuscirà a riportarlo a casa, a un cinema che non esiste più, se non nei sogni

Il Signore disse: “ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. L’altro giorno rivedevo L’anno del dragone, il film su cui, senza dubbio, mi son più consumato gli occhi. E per la prima volta mi sono soffermato su una cosa a cui non avevo mai prestato molta attenzio-

ne. Stanley White, questo incredibile Mickey Rourke con i capelli d’argento, entra in scena di spalle, come un intruso che irrompe nell’inquadratura e la squarcia. Il finale, invece, si blocca sul suo volto infangato, sui capelli scombinati, su quella andatura strascicata dopo il rischio del linciaggio. Un’inquadratura congelata sul suo mezzo sorriso, lo sguardo ancora triste, ma intenerito, quasi sollevato. È un po’ il contrario di ciò che accade all’inizio e alla fine di Sentieri selvaggi – probabilmente il film su cui Cimino più si

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al cuore così violento e spaventoso, concreto e tangibile, da non poter esser solo immaginazione, racconto, parentesi. No. La linea di confine tra il dentro e il fuori è saltata. Al punto che potremmo rovesciare completamente il discorso e immaginare tutto il percorso di White come un avvento, una venuta al mondo, a noi che lo attendiamo in un altro spazio, finalmente libero dalla colpa e dall’ossessione. Ma è vero? Ma poi che eroe è un poliziotto insopportabile, violento e razzista, che mette tutti nei guai, finisce nel fango ed esce con le ossa rotte? Mi ricordo di una visione collettiva anni fa, a casa di

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sarà consumato gli occhi. L’eroe entra e si “allontana” da noi. E poi quando esce, lo vediamo riavvicinarsi. Finalmente riconoscibile, finalmente nostro. A rigor di logica, dunque, noi siamo fuori dal set, dall’inquadratura, fuori dal cinema. E il film è una parentesi, un distacco. Qualcosa a cui non apparteniamo e che non ci appartiene, oltre la concretezza delle nostre esperienze. Al limite è qualcosa che possiamo solo spiare, intravedere da lontano, come una pausa nel tempo, un tuffo in un’altra dimensione. Fantascienza, già. Cinema d’evasione… Eppure L’anno del dragone è ogni volta un colpo


FACES amici, e una ragazza disgustata, che non riusciva a percepire lo scarto (che ancora c’è, magari) tra il quotidiano e le immagini, insisteva: “è una persona orribile”. Io mi incazzavo, per me era sempre stato il massimo. Ma compivo anch’io la stessa forzatura: la vita, i film... Tutto è contradditorio e strano in Cimino, eppure… eppure da tempo mi sembra l’apoteosi di tutto ciò che desidero, penso e immagino sul cinema. Al punto che oggi, 38 luglio, data impossibile, mi ritrovo, mio malgrado, a scriverne e vorrei spaccare la tastiera, fino a far uscire il sangue dalle dita. Cimino… certo la sua vita è un mistero, a cominciare dalle versioni sulla data di nascita: 1943, 1952, o più verosimilmente 3 febbraio 1939 come sembra dire l’anagrafe. I racconti sulla famiglia “indifferente”, il padre che guidava le bande musicali e la madre che disegnava vestiti. E poi la gioventù irrequieta, gli studi di architettura, la pubblicità, il cinema, il trionfo de Il cacciatore, il silenzio stampa dopo il disastro del 1980, l’im-

penetrabilità della vita privata, i segreti sulle operazioni di chirurgia estetica, sul corpo in perenne trasformazione, inafferrabile come i film senza director’s cut. E poi i tanti bocconi amari, i progetti nel cassetto, le sceneggiature e le promesse, Delitto e castigo, La condizione umana. Fino alle lacrime, commoventi, dinanzi al pubblico di Venezia tre anni fa, dopo la proiezione de I cancelli del cielo. Cimino è l’autore più inafferrabile del cinema degli ultimi quarant’anni. Eppure il più devastante e il più disastrato, il più antico e il più avveniristico. Probabilmente una persona insopportabile, egocentrica, pretenziosa, come dicono in molti. E mi viene in mente, a tal proposito, il racconto di Willem Dafoe, sbattuto fuori set di Heaven’s Gate, in cui figurava da comparsa, per una risata fuori posto. Un sognatore folle e megalomane, come quel Ludwig che tanto piaceva a Luchino Visconti, uno dei riferimenti più diretti, citati e amati. O magari solo un grande creatore di forme, talmente ossessionato dal mito della perfezione, da esserne

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per questo che, a differenza di Coppola, è incapace di adeguarsi ai tempi che cambiano, alle trasformazioni tecniche, di immaginare “la leggerezza” come un’opportunità, la povertà come un’opzione. Non sembra esserci la teoria in Cimino. Non si avverte mai la pressione di un ragionamento intellettuale sul linguaggio, sul mezzo. Anzi… la grammatica è addirittura essenziale nella sua adesione mainstream: campo, fuoricampo, controcampo, montaggio, personaggio e ambiente, singolo e società. Tutto come da norma. Eppure tutto è fuori canone, fuori misura. A cominciare dal racconto, che si dilata e si contrae senza sosta, come fosse musica, come se seguisse il ritmo delle partiture di David Mansfield, delle sue ballate e cavatine. Proprio come nella resa dei conti de L’anno del dragone, con Joey Tai che scappa via e poi torna indietro. Ed ecco allora i tempi morti, le scene che non vanno da nessuna parte, i

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mangiato vivo. Ecco, se davvero c’è un “problema Cimino”, è proprio in questo peso insostenibile del mito. Da un lato l’America, coi suoi sogni irraggiungibili di libertà, opportunità e condivisione, terra promessa in cui i destini dell’individuo e della comunità coincidono. Dall’altro il Cinema, quello degli apparati produttivi imponenti, quello della storia gloriosa e maledetta di Hollywood, quello dei grandi autori e delle grandi forme, dei Ford e dei Vidor. Per Cimino non esiste altro. Ed è forse


FACES balli interminabili, le fughe in Thailandia e le corse in calesse. “Heaven’s Gate è un film assurdo”, diceva Assayas con una punta di livore critico, “in qualsiasi versione lo si guardi, non funziona mai”. E per me, che non ho mai avuto l’ambizione di funzionare, ecco un altro motivo d’amore incondizionato… Il fatto è che, sotto il peso del mito, Cimino arriva a scontrarsi con l’utopia stessa del cinema. Per questo i suoi film toccano, con un’evidenza tragica irraggiungibile, la questione fondamentale: cioè quella dei rapporti tra la creazione e il creato, tra il set e la realtà. L’inquadratura come “porzione di mondo”, la pratica filmica come avventura da pionieri, ambizione di conquista, di dominio e controllo… Cimino lotta con lo spazio. Si sa, è stato detto. Lotta per filmare tutto il filmabile, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande: il dettaglio di una goccia di vino su un vestito bianco e una battaglia riflessa nello specchio d’acqua, nuvole che attraversano il paesaggio e masse in movimento. In un solo film, in una sola

scena si passa dal gigantismo al minimalismo. La Storia e l’amore, il Vietnam e gli amici, la Giustizia e la gelosia, Tachicardia e bradicardia. Quando fa fatica, interviene con la retorica (la nostra stessa retorica…). E spinge l’inquadratura fino

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colpevole, il primo immigrato clandestino in un cinema sempre più straniero. E nessun premio, per quanto giusto, riuscirà a riportarlo a casa. Non è che sia morto il mito, come vogliono in tanti. Si è spento il sogno. Resta solo la sua nostalgia. E la speranza folle che tutto possa prendere di nuovo forma.

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ai suoi limiti naturali e anche oltre, là dove si intuisce la possibilità di una terza dimensione. Ma arriva sempre il punto in cui lo sguardo deve arrestarsi. Lo schermo fa una curva e il mondo si piega sulla linea dell’orizzonte. È il punto in cui le idee si confondono e in cui i ragionamenti cedono, in cui la concretezza realistica della prassi si trasforma in artificio fantastico, il vero in inverosimile. L’emozione forza le dimensioni, le flette. Non ci sono argini, direzioni certe, percorsi di entrata e di uscita. È come se fossimo nell’appartamento di Tracy Tzu, invaso da ogni lato dai cinesi della gang. Anzi l’interno diventa il luogo del pericolo, il covo dei banditi di Ore disperate. Non c’è riparo, casa sicura. Bisogna uscire per entrare e viceversa. E non c’è più distinzione tra l’apoteosi e il fallimento, tra il prima e il dopo. I flashback sono più veri del presente. “Dimmi, James, ricordi i bei giorni andati? – Ogni giorno che passa, sempre di più”. Crolla la Torre di Babele e Cimino, l’architetto, si muove nel caos delle lingue, tra i suoi pellegrini polacchi, russi, ebrei scacciati dalla terra del Signore, tra i suoi antenati italoamericani siciliani, tra i nativi malati di tumore. E lui è il primo




Grexit o Grexpo? Jean-Luc Godard nel 2010 disertò il Festival di Cannes per un problema di tipo greco… spettri antichi per la democrazia contemporanea: l’histoire(s) du cinéma, verità 24 volte al secondo, è un po’ come un bambino che avrebbe potuto imparare qualcosa di diverso. E intanto, “Straniero, annuncia ai danubioeuropei che noi giacciamo qui, obbedienti ai loro soldi” (Epigramma di Simonide per le Termopoli, scritta da Nanos Valaoritis)

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