n.27 4/201
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EDITORIALE
Come fossimo esploratori
CUORE SELVAGGIO CIVILTÀ PERDUTA
It boy - elogio di Jerry Lewis Sindrome di Stendhal Ti accadrà perché era nel tuo destino Arcana La regola del gioco James Gray - Blood Ties Don't go! I riflessi contemporanei di Z
SOMMARIO
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Sepoltura celeste Genesi e apocalisse Il migliore dei futuri possibili? Radicale libero
FACES - FACE/OFF
Il volto di Kyle MacLachlan
INTERVISTE
Out of the Past - Gian Luca Farinelli Il cinema è un tiranno - Miguel Gomes
RUBRICHE
Radio Raheem Shadows
n.27 4/2017
Sentieri selvaggi magazine
n.27 - 4/2017
Come fossimo esploratori
Direttore responsabile Federico Chiacchiari
di carlo valeri
Direzione editoriale Aldo Spiniello e Carlo Valeri Redazione Simone Emiliani, Sergio Sozzo, Leonardo Lardieri, Pietro Masciullo Segretaria di redazione Elena Caterina Hanno collaborato Emanuele Di Porto, Luca Marchetti, Martina Ponziani, Roberto Silvestri Progetto Grafico Giorgio Ascenzi Redazione Via Carlo Botta 19, 00184 Roma. Tel. +39 06.96049768 Mail redazione e amministrazione redazione@sentieriselvaggi.info info@sentieriselvaggi.it Supplemento a www.sentieriselvaggi.it Registrazione del tribunale di Roma n.110/98 del 20/03/1998 (edizione cartacea) n.317/05 del 12/08/2005 (edizione on-line)
Provate a immaginare una lavagna bianca con delle parole: passato, futuro, mondo, scoperta, sogno, utopia, viaggio. Ognuna di queste parole potremmo cerchiarla e farla diventare un’isola, uno spazio in cui un’idea si concretizza a poco a poco prendendo in prestito immagini di film o serie Tv. Proviamo ora a unire queste isole con delle frecce, che creino connessioni, ma anche direzioni, tragitti. L’isola del “passato” va verso quella del “futuro” e viceversa. Il “viaggio” si lega all’ “utopia” e il “sogno” diventa “mondo”. Ecco, a volte quelle frecce siamo un po’ noi, che attraverso la critica cerchiamo di rimettere insieme i pezzi, di muoverci incessantemente verso qualcosa… o qualcuno. Andiamo avanti. Torniamo indietro. E a volte, anche quando crediamo di rimanere nello stesso punto, ci sbagliamo. Siamo dei piccoli esploratori che utilizzano la passione per le immagini e per le storie per compiere strambi viaggi. Del resto ogni numero non è forse la scoperta di un nuovo mondo e il compimento di un (falso) movimento? A modo nostro siamo davvero
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di da scoprire o sentieri da attraversare. On the road. Ma come ogni esploratore che si rispetti sarebbe impossibile mettersi in viaggio senza avere una bussola, un punto di riferimento che ci indichi dov’è il nord, dov’è il sud… dov’è la bellezza e, ovviamente, dov’è la disperazione. Per noi questa bussola non poteva che essere un corpo, celebre quanto inclassificabile. E ormai, purtroppo, ineluttabilmente perduto. Eppure, con poco, Jerry Lewis ci ha insegnato tutto. Non soltanto a morire dal ridere, ma anche a guardare, a leggere, a resistere al Tempo. La sua esistenza è stata una detonazione nel secolo breve. Una piccola grande apocalypse now. Negli ultimi tempi ci eravamo persino un po’ scordati di lui. Se anche ci eravamo minimamente assopiti, la sua scomparsa ci aiuterà a svegliarci e rimetterci in moto. Verso la civiltà perduta. La civiltà di Jerry?
tutti condannati a dover scoprire la propria città Z, l’approdo finale dei desideri e delle domande che ci poniamo scrivendo e… viaggiando. Lo fa ossessivamente il protagonista dell’ultimo, straordinario, film di James Gray. Civiltà perduta è il testo su cui ognuno di noi sperava di scrivere un giorno ed è il cuore di queste pagine concepite tra il disorientamento e l’apocalisse – eh già, quello spettro nucleare che ha tenuto il mondo con il fiato sospeso per alcune settimane si è improvvisamente connesso con alcune importanti, recenti produzioni, come Twin Peaks o il terzo capitolo de Il pianeta delle scimmie. Per la NASA questa è stata l’estate più calda degli ultimi 137 anni. Forse anche la più folle, aggiungiamo. Non è un caso allora che sia venuto fuori un magazine febbricitante, molto “tropicale”. Una buona idea sarebbe quella di leggerlo in viaggio. Immaginando mon-
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It Boy
Jerry Lewis di roberto silvestri
Riprendiamo da ilciottasilvestri un omaggio al genio esplosivo di uno dei più grandi autori/attori della storia del cinema
The it boy è morto pochi giorni fa a Las Vegas. Che strano posto aveva scelto per vivere, il Nevada dei casinò e del super sfruttamento del lavoro “giocoso”. Lewis negli ultimi anni di vita, forse, voleva dimostrare di non aver paura di lottare, nella società dello spettacolo, proprio al fronte, contro il suo cuore più splendente e mafioso. Anche se non poteva più fare, da decenni, il suo cinema, Jerry Lewis è stato sulla scena sempre, fino all’ultimo respiro. La prima immagine che viene in mente, infatti, pensando a Lewis è la sequenza del gangster gigantesco che, nel camerino del Copacabana Club, gli spiaccica in bocca un sigaro finto cubano e vero dominicano verde. Gli attori, i cantanti, i ballerini, gli acrobati, i clown, bisogna controllarli. E non solo per pagarli meno. Sono bombe
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JERRY LEWIS
elogio di
CUORE SELVAGGIO
atomiche d’immensa potenza distruttiva, se non stanno in riga. Ribellarsi è giusto scriveva Mao. E Jerry è stato la sua guardia rossa più fedele. Indisciplinati di tutto il mondo unitevi! Se la disciplina è quella imposta dalla guerra fredda e dalla paura atomica, dalla cacciata di Chaplin il rosso il 6 settembre 1952, dai processi a Henry Miller, Lenny Bruce e Allan Ginsberg per oscenità, dal razzismo e dal sessismo come valori chic e dal bene privatizzato che schiaccia il bene comune, studiamola, conosciamola, seduciamola, proprio come faceva Warhol con i gioielli della società dei consumi, questa disciplina dei corpi, e poi colpiamola a morte. Con il rock’n’roll. I teddy boys. Le riot girls. La controcultura. Le droghe che dilatano la coscienza. Con il cinema cool e hard di Lewis giovane, in coppia con Dean, e di Lewis solitario, regista adulto nei due decenni 70 e 80. Già. Non è più tempo di guardie rosse proprio da quando Jerry Lewis è stato espulso dai set che decostruivano e criticavano tutto quel che Hollywood produceva. Con l’arma della risata che seppellisce. Della risata che allungata troppo (come solo Lewis, come un Tarkowski picchiatello, sapeva fare) diventava emozione acida, indigesta, quasi esiziale. La parodia fa ridere, ma la satira fa infuriare e può uccidere. Prima si ride sopra un po’ poi ci si incazza a lungo. È roba serissima la satira. Godard lo diceva. Solo Lewis fa cinema rivoluzionario negli States. Prima di scegliere Las Vegas pargolo ebreo del New Jersey, nello spettacolo fin da cucciolo, Lewis aveva vissuto, con la sua moglie italiana, di tradizionalissimi valori, a San Diego. La rottura coniugale avvenne dopo Le folli notti del dottor Jerryll, quando Lewis prese in giro Dean Martin e sua moglie trovò quel fatto e quel Buddy Love sciupafemmine, profondamente immorali. E siccome la moglie controllava i suoi script e consigliava tagli e finish (fino ad allora con intuito impeccabile) i due si lasciarono: “Ogni suo consiglio mi è stato prezioso”. Ma Le folli notti sarà il suo film che incasserà di più, 30 milioni di dollari. Il mondo cambiava. Il Vietnam avrebbe capovolto vita e storia, comportamenti e nevrosi. Molte disgrazie familiari e fisiche lo avrebbero allontanato dai set. E dal trionfale decennio Reagan/Bush che già anticipava l’orrore Trump. Non un osso di Jerry Lewis era intatto, nella tomba. Si dava completamente alla gente. Aveva sposato la lezione di Groucho Marx. Un suo vicino di casa a San Diego incontrato sul treno negli anni settanta mi disse: “che magnifica persona è Jerry Lewis!” Si riferiva alle sue innumerevoli attività benefiche? Non solo. Ma i cronisti ignoranti, i critici saccenti e gli intellettuali snob della
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JERRY LEWIS Le folli notti del dottor Jerryll
Manhattan bene che lui non mancava di mangiar vivi costruirono l’immagine mediaticamente inaffondabile del guitto che si dà arie colte, del parvenù autonominatosi maestro del pensiero, capace di sedurre solo la rive droite e la rive gauche per aver insegnato all’università della California come essere un total filmmaker. Tra gli allievi Lucas e Spielberg che, come lui, sono un po’ scomparsi dai propri film. Pensate a una cosa tipo Ferrara che “impone”, grazie a troppi media compiacenti, il luogo comune di Benigni trasformatosi da buffo comico in presuntuoso, insopportabile, saccente, e perfino buonista “nemico del popolo”. I metodi zdanoviani sono quelli della modernità liberista, si sa. Eppure. Lewis era “tra i dieci uomini più sexy d’America” nella classifica erotica privata di Marilyn Monroe. E da allora molti critici invidiosi e molti uomini tromboni cominciarono a odiare lui (“perché prende in giro e sfutta commercialmente gli handicappati”) e i suoi film (futili, sciocchi, noiosi, ripetitivi). Maurizio Liverani, mio compagno di classe alla terza C del liceo Augusto di Roma, intelligente più che secchione, oggi si direbbe un moderato vincente e moderno, non capiva l’entusiasmo per un cinema così stupidino, “alla ciccio e franco”. Futile. Al liceo non si insegnava Lacan. Futile. Parola latina che ha a che fare con la fuoriuscita di liquido dal vaso, spiegò Lacan in un corso. Uscire fuori dal vaso, verso la libertà, è possibile. Era il messaggio che i bravi della classe non volevano proprio capire. La gerarchia vigente gli dava ragione. La meritocrazia è stata il nemico pubblico n.1 di Jerry. Il semplice autista della ricca bimba ereditiera sconfiggerà, perché anima bella, in I sette magnifici Jerry tutti i suoi zii presuntuosi: il gangster professionista, il capitano di vascello avventuroso, il pilota d’aereo eccentrico, il clown cinico, il fotografo alla moda, il detective astuto... Ci sono due categorie di cineasti, scriveva il sommo critico francese Bernard Eisenschitz. Quelli sani come un pesce, vere forze della natura, come Hawks o Walsh
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CUORE SELVAGGIO
e quelli i cui film nascono nella febbre, come Jean Vigo e Nicholas Ray. Boris Barnet e Jerry Lewis appartengo invece a tutte e due le categorie. Peccato che i film diretti da Lewis nel periodo di “notte dell’anima” li possiamo solo immaginare. Sarebbero stati belli e feroci come quelli di Stuart Rosenberg, John Frankenheimer, Billy Wilder e come quelli di Arthur Penn, che era stato un suo assistente alla regia, e il motivo per cui non si sono fatti e che Jerry Lewis non avrebbe tollerato neanche un minimo compromesso, cosa che invece... Negli ultimi anni si sono ripetute le manifestazioni di risarcimento artistico, in tutto il mondo. Non solo parigi. Venezia, grazie a Marco Müller e a Giulia D’Agnolo Vallan, il Moma, e Vienna, in occasione di una retrospettiva molto ampia abbiamo scritto, nel 2013, questo articolo. “Cento minuti di risate e divertimento sono già di per sé un messaggio” (Jerry Lewis – Scusi dov’è il set) Tutti a Vienna dal 18 ottobre al 24 novembre 2013. L’occasione è speciale, una retrospettiva – sottotitoli tedeschi – dedicata dalla Viennale a Jerry Lewis, l’unico artista americano che piace soprattutto ai critici marxistien francesi (che sono i migliori). Vedremo oltre 30 lungometraggi, produzioni televisive e una serie di documentari. Grazie a Hans Hurch, il direttore della Viennale. A Truffaut, Godard, Robert Benayoun, Noel Simpsolo, Serge Daney, Giuseppe Turroni, Ungari&Aprà, etc... non sfuggiva la profondità e la efficacia artistica di ogni sua gag… erano gli studiosi che hanno sempre contrattaccato le opinioni della critica più conformista e addormentata. Odiato infatti ancora da gran parte della critica statunitense mainstream, nonostante una carriera di successo cinematografica, televisiva, teatrale e musicale, in coppia e da single, come attore, come fenomeno e come regista, mai un insuccesso, mai un
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Sotto: L'idolo delle donne
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JERRY LEWIS
flop, da Bell Boy a Telethon, cose che nell’ America per bene contano quasi come un giudizio di dio, eppure Jerry Lewis, nato in New Jersey 87 anni fa, dovrebbe essere invece disprezzato o almeno frainteso o incompreso, soprattutto dalla cultura europea, spesso spassosamente trombona. Anche perché il comico si vanta da sempre di essere un operaio, un fabbro dell’intrattenimento estremamente particolare, specializzato nel “far scemenze”. Si può essere auteur anche in questo ambito futile. Questione di stile, aroma, dettagli, “mondo” unico. Lo afferma lui stesso delle sue performance, anche se non in senso dispregiativo (e aggiunge: “non c’è niente di più drammatico, infatti, della comicità”). Sempre dalla parte del torto, degli “ultimi”, dei diseredati, degli idioti, dei bambini, degli infelici, dei travestiti tristi, dei Keaton, dei distrofici muscolari di Telethon, delle minoranze, dei perdenti, degli spettatori-massa, dei diversamente abili... Perché? Avete mai visto un ricco che fa il comico? Impossibile. La comicità è per i poveracci, per gli ebrei, per i neri d’America e oggi per gli arabi e per i palestinesi (Elia Souleiman)… Nella tradizione teatrale popolare araba la coppia formata dallo stolto buono e dall’amico finto erudito è millenaria. Ciccio e Franco, Gianni e Pinotto e Jerry & Dean ne sono impeccabili eredi. Forse perché il principio della comicità, ciò che fa ridere, e molto, è l’uomo drammaticamente inguaiato che butta palle di neve contro il ricco col cilindro. Il più piccolo contro il più grosso… “Quando recito ho sempre nove anni e a quell’età è possibile ferire, ma non si raggiunge mai la bassezza morale”. C’è violenza e violenza, come cerca di spiegarci molto più rozzamente perfino Romanzo di una strage (Marco Tullio Giordana fa la parodia di Rumor-Restivo alla caccia di Valpreda). Noi siamo per la violenza più efficace, quella dei comici, vero teatro della crudeltà.
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”Come quando W.C. Fields spaventa a morte l’odioso ragazzino in banca: “Ti strozzerei con le mie stesse mani, se tu avessi il collo pulito”. O come Clifton Webb, quando, con un gesto di eccelso charme didattico, rovescia la tazza piena di fiocchi d’avena al pargoletto che ha “in cura” o Chaplin quando pesta il piede malato di un passante con la gotta (The Cure, 1917) e fa precipitare da una collina un uomo con la carrozzella, o prende a pedate la signora grassa dopo aver dato da mangiare al cagnolino di lei il suo ultimo pezzo di sandwich… E tutto Stan Laurel. Che prima di lavorare con Oliver Hardy fu plasmato nella band di Charlot. E restano i punti di riferimento artistici di Jerry. Ma Jerry è un Chaplin o un Laurel – che erano “molto più duttili degli altri perché si occupavano sia di cose serie che di sciocchezze” – nato nell’epoca del flipper e dei teddy boys e cresciuto durante la fine della Hollywood classica, quando si assiste al ricambio generazionale dello studio system e al reclutamento di attori a basso costo post-maccartisti, di quella chiamata alla "Sempre dalla parte del torto, degli “ultimi”, leva per le guerre in Corea e nel nord dei diseredati, degli idioti, dei bambini, de- est asiatico; svezzato nella coloratissima gli infelici, dei travestiti tristi, dei Keaton, dei e sorprendente, buffa e luccicante cultura distrofici muscolari di Telethon, delle mino- pop. E che trova nello “sguardo sconfitto” ranze, dei perdenti, degli spettatori-massa, una bellezza e luccicanza speciale, e in technicolor fiammeggiante degno di Ardei diversamente abili..." thur Freed. La potenza costituente di un mondo a venire “altro”, capace di rovesciare le gerarchie e non irridere chi è schiacciato ma di ridere con lui, essere contemporaneamente lo “schlemiel” e lo “schlimazel”: chi rovescia la coca cola e i pop corn perché inetto e chi se li ritrova addosso perché sfigato. E che pratica – negli anni ruggenti degli hippies, di Led Zeppelin e del Black Panther Party – la soggettività desiderante, obiettivo: un mondo capace “di non reprimere ciò che ti fa venire la pelle d’oca, i sogni, le stelle cadenti, i desideri, i soldi nella fontana, le utopie”. E tutto questo a forza di risate a crepapelle, di ruzzoloni clowneschi da spaccare la schiena – bomba atomica d’immensa potenza spirituale – che hanno modificato davvero in meglio i rapporti di forze tra i prepotenti e gli indignados. Nascondendo sempre il messaggio, però, l’osservazione a carattere sociale. Ma prestandosi, qualche volta, a un feroce gioco di allusioni, prima durante e dopo la gag. Per esempio. L’egualitarismo sul set. Con un capovolgimento sottolineato (anche troppo comicamente) dell’assetto gerarchico della troupe e dei modi di produzione. Alberto Grifi imparerà. È celebre la presenza negli studi dove si girava un film di Lewis di una tribunetta per far assistere ai bambini alcune riprese; e di un tavolo con 150 tazze da caffè, ciascuna “personalizzata” con i nomi di battesimo di tutti i componenti tecnico-artisticioperai dei film.
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Sotto: Ragazzo tuttofare Nella pagina seguente: Il mattatore di Hollywood
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E l’ossessione del “lavoro”, analizzato nel celebre saggio di Dana Polan Working Hard, Hardly working (2002), che ripercorre un po’ tutti i personaggi-lavoratori “nel presente” dei film diretti da Lewis stesso o da Tashlin: The Bellboy, The Nutty Professor, The Errand Boy e cioè l’impiegato d’albergo, l’insegnante, il cartellonista, e poi ancora il porta mazze da golf, il pilota d’aerei, il clown, il fotografo, il disegnatore a fumetti, il gangster, il detective, il disoccupato che diventa factotum, il porta cani d’hotel, il cameriere, il postino, l’infermiere, l’autista… A differenza di Scorsese o Eastwood, Lewis non predilige l’affondo storico di profondità o l’analisi del passato attraverso i suoi protagonisti più illustri (Scusi dov’è il fronte, stravagante satira dell’hitlerismo, e l’invisibile – fino al 2025 – The Day the Clown Cried sui campi di sterminio nazisti, a parte). Ma affronta sempre il presente del lavoro alienato degli umili e lo scontro tra avidità e arroganza dei padroni e corpo indocile a qualunque disciplina e ritmica obbligatoria da stupefacente scienziato della lotta. La prova? Un uso strepitoso della la tecnica dello “slow burn”, del lento esplodere della rivolta, dal dentro al fuori, o almeno di un moto di indignazione furibonda, nel suo personaggio, rispetto alla situazione di sfruttamento subita sempre meno indocilmente. What if? diceva Danny De Vito insegnante di sceneggiatura del film di Todd Solondz The Wiener Dog (2015). E aveva davanti (fuori campo) le immagini delle metamorfosi di quell’attore comico straordinario chiamato Jerry Lewis. Ovvio che i suoi allievi lo prendessero in giro. Sono invece più di 50 i gradi intermedi di passaggio tra un cuore colpito e un corpo che reagisce al sopruso esistenziale, alla disciplina della famiglia e alla sorveglianza del biopotere. Jerry, che di Michel Foucault è l’involontaria, istintiva, mascotte, li interpreta tutti. E quando il volto supera, in tecnica, ogni variazione Guinness (Alec),
CUORE SELVAGGIO arriva il corpo a contorcersi distorcersi, allungarsi, trovare la posa innaturale che solo decenni di avanguardia figurativa e di cartoonist disneyani e eretici hanno immaginato possibili. E quando il corpo non basta ecco il paesaggio intero a reagire, commuoversi, infuriarsi: a jerrylewisarsi. E così tutto il reparto di elettrodomestici esplode. E il set dello Studio cinematografico. E lo studio del maestro di musica. E la stanza d’ospedale, paziente totalmente ingessato compreso.... E poi. Il coautore della sceneggiatura di Jumping Jacks* (1952), in Italia Il caporale Sam, il sesto film di Dean Martin & Jerry Lewis, è Robert Lees, un black listed. E un altro scrittore comunista Alfred Lewis Lewitt, collaborò con Jerry Davis, il battutista di Jerry Lewis a Las Vegas negli anni più bui dello spettacolo Usa quando, come si evince da molti sketches lewisiani, la mafia ormai poteva mettere le sue manacce sporche sull’affare show business, per tenere più bassi possibili i salari dei performer, perché i sindacati di classe erano stati sconfitti definitivamente, e non senza colpe strategiche dei loro leader come Sorrel, dopo lo sciopero Warner del 1947. Inoltre. Se la scatenatissima “it girl” degli anni dieci e venti aveva modificato per sempre l’identità della donna americana (e non solo), scaraventandone il corpo fuori dal puritanesimo vittoriano e sciogliendola da ogni legaccio e da ogni “busto”, materiale e immateriale, che ne impedivano i movimenti liberi e autonomi, la stessa sublime cosa avvenne nel secondo dopoguerra, e oltre, anche per il maschietto, wasp o
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JERRY LEWIS
meno, grazie soprattutto alle performance comiche eccezionalmente, irresistibilmente divertenti ed “en travestì” di questa grande icona pop, di una “Clara Bow dai capelli a zero”, di quel pericoloso ventenne longilineo di Newark, suffragetta incontenibile, e sosia di Carmen Miranda, che utilizzò il night club, la radio, la televisione, il cinema, un partner eccezionalmente usato e adorato, il comics, il musical e la canzonetta per compiere un’operazione di iconoclastia iconofila radicale, sofisticata, colta e complessa, anticipando la rivoluzione copernicana dei transistor, degli “acidi lisergici” (The Nutty Professor) e del sesso polifunzionale. Prima della controcultura, del “camp”, di Timothy Leary e di Elvis c’era solo Jerry a dilatare la coscienza e a svitare i corpi slegandoli da ogni comportamento “automatico” e dogmatico. Senza di lui avremmo difficoltà a comprendere l’America traumatizzata dalla morte di F.D.Roosevelt e che passa, in un continuum horror, da Truman a Nixon, dalla Corea alla Cambogia al Cile, dalla bomba atomica fatta esplodere per sadismo geopolitico sul Giappone già sconfitto ai due Kennedy, Malcolm X e Martin Luther King assassinati, dal maccartismo a Jules Feiffer, dal Borsalino obbligatorio per tutti alla fine definitiva del “cappello da uomo” e forse perfino del “maschio” come lo conoscevamo dall’antica Roma… Buon lettore di Adorno e Horckheimer, e ben prima di Barthes, Jerry Lewis ha messo a soqquadro tutti i miti consumistici californiani decostruendoli con furia catastrofica e apocalittica, non senza deviazioni feticistiche e concessioni alla qualità del design, dall’automobile dalle lunghe ali al frigorifero panciuto e color pastello, dal football alla piscina, da Hollywood al materasso d’acqua, dagli astronauti al baseball, dalle carte di credito al drive-in, dal mall al cocktail bar, dal boeing al country&western, alla televisione a colori e alla cosmesi estrema. Che l’uomo “‘più sexy di Hollywood” (Marilyn Monroe) sia anche stato – finché è riuscito a girare e mostrare i suoi film a tutti – il cineasta “più rivoluzionario d’America” (Jean Luc Godard), e non solo per l’uso sperimentale delle tecnologie d’avanguardia come il nagra e il monitor tv sul set, non fa che traghettare una stessa definizione bifronte (il rivoluzionario festivo e sexy) che ben si addice a Lewis, attore, total filmmaker e intellettuale mai riconciliato, dagli anni 50, quando si covava negli Stati Uniti la rivolta, dei costumi, dei linguaggi, delle forme estetiche e dei valori, agli anni 60, quando i tumulti totali divamparono davvero ovunque e furono così devastanti da ben meritare la repressione più svitata e picchiatella: prigione e morte ai most wanted, la devastazione sociale per tutti i ceti deboli, la fine del welfare, dell’assistenza, dell’istruzione, della televisione e della sanità pubblica, l’orrore dei ghetti e degli slums, la
CUORE SELVAGGIO
droga pesante capillarmente introdotta per ordini superiori… Un paesaggio difficile da percorrere per chi era abituato alla delizia, seppur apartheid, dei burbs infiocchettati. E invece. Il Vietnam, l’orrore di una invasione ingiusta, esito però di quasi cento anni di massacri, sfruttamenti e crimini interni, e il “Vietnam domestico”, quando il crash razziale divenne il campo di battaglia per una soluzione finale capace di ottimizzare i profitti delle ipercompany. Lewis rispetto a quel mondo cambiato, fin dagli anni 80, da Reagan e Bush sr., ha compiuto un tragitto di esodo e di fuga. Dal 1965 al 1978 ha sofferto di dipendenza da psicofarmaci dopo una frattura alla spina dorsale e anche per tragedie familiari legate alla morte di un figlio in guerra (sud est asiatico appunto). Come Jesse Owens 30, 40 anni dopo l’alloro di Berlino certo non si muoveva più agile e “tagliente”, pesce nell’acqua, come allora. A Lewis piaceva molto una gag di Harpo Marx, che sta appoggiato a un edificio di dieci piani. “Che fai lo tieni su?” gli dice il poliziotto. Harpo annuisce. Il poliziotto dice: “Togliti di lì”, Harpo se ne va e l’edificio crolla. È vero. È l’ America che fa crollare i suoi stessi edifici e monumenti più giganteschi… Tutta la carriera di Jerry Lewis è il racconto dell’autodistruzione catastrofica di questa America. * Jumping Jack è il salto a gambe aperte che si fa quando si fa ginnastica, in particolare durante la naja.
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CIVILTÀ PERDUTA
CUORE SELVAGGIO
The Lost City Of Z di James Gray
Sindrome di Stendhal
di sergio sozzo
Gray soffre di sindrome di Stendhal nei confronti del cinema, ha le traveggole al cospetto del luogo del classico come dimensione aperta, dentro cui precipitare ossessivamente
“Non è uno di noi, ma non è nemmeno dei loro: che ne facciamo di lui?”, si chiede il capo indio al cospetto dell’esploratore Fawcett, forse il personaggio tra tutti quelli dipinti da James Gray nella sua manciata di film che più abissalmente esplicita il problema centrale del desiderio di appartenenza alla base della poetica del cineasta – se si potesse essere
un indiano, subito pronto, esordiva Kafka: se si potesse esserlo, diventare cittadino di Z pur proveniendo da A, allora che fine farebbero le tue radici, le tracce che ti sei lasciato dietro, ad aspettarti? Vanishing Act. Appartenenza, per forza di cose, vuol dire sangue del proprio sangue, paternità: sì, esatto, un altro grande film di padri, figli e fratelli, di dedizione e
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rivisitare il desiderio che ti tiene sveglio di notte, tornare ancora e ancora (a Manderley) a quella visione originaria e purissima. Trasformare il cinema e il luogo del classico in una dimensione dentro cui precipitare ciclicamente come al cospetto di una parete dipinta e preda di un attacco di sindrome di Stendhal. Ecco, James Gray soffre con ogni evidenza di sindrome di Stendhal nei confronti del cinema, e quando hai una malattia, perdere i sensi e la coscienza non diventa più un istante straordinario, da raccontare con i toni epici e gonfi dell’intrattenimento di genere seppur virato d’autorialità, ma le
straordinaria, la spedizione fino alla fine del mondo, quello che importa è poter
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CIVILTÀ PERDUTA
di scelte d’amore. Gray mette l’avventura tra parentesi, andando incontro all’ambizione disumana di inquadrare l’infilmabile, mapparlo, disegnarne i contorni precisi e la strada, perché più dell’ossessione per l’impresa
CUORE SELVAGGIO traveggole entrano a far parte della tua quotidianità, elementi dell’ordine delle cose. Il miracolo più grande di Civiltà perduta, già accennato nel precedente The Immigrant che racchiudeva tutta la storia di New York vista da sotto un ponticello anonimo di Central Park, è questa andatura stranissima, questo racconto sospeso di un’irrequietezza con cui fare i conti per tutta una vita: non un eroe titanico che compie un’impresa straordinaria, ma un padre di famiglia (“ho moglie e figli”, non fa che ripetere Fawcett alla sua squadra, davanti ai pericoli della giungla) che crede nell’esercizio ritornante della propria missione, un viaggio in Amazzonia e poi un altro, e poi un altro ancora, e in mezzo la guerra, la trincea, il fronte. Sienna Miller, personaggio abbacinante di moglie e madre, non si sorprende più di tanto quando suo figlio dichiara la decisione di seguire il padre per un’ultima spedizione alla ricerca della città d’oro narrata dai conquistadores: capisce subito che si tratta di un vincolo di famiglia, sacro e inviolabile, impossibile da spezzare. Non siamo destinati a morire, afferma Fawcett, ed è una possessione che finisce
per investire tutte le persone che ama, come gli è stato predetto da una cartomante durante la guerra, in una delle sequenze-chiave, che svelano come per Gray il sogno, il miraggio siano totalmente interiori. La città non può essere visualizzata neanche dal cinema, sullo schermo non appare mai se non intra-
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la possibilità di mille montaggi alternativi, director’s cut con scene diverse, tagliate aggiunte o allungate…). Con l’intento lucidissimo di riaffermare “siamo già stati qui”, qualcuno ci è già passato. Amare il cinema di James Gray significa perciò condividere con lui e con i suoi personaggi la luce incommensurabile e indescrivibile che ti colpisce ogni volta che ti rendi di nuovo conto che l’entrata per un giro alla ricerca della Città di Z è sempre aperta, ancora lì, davanti (e dentro) ai nostri occhi. Farsi divorare dal sogno, per essere liberati dalla condanna.
Interpreti: Charlie Hunnam, Robert Pattinson, Sienna Miller, Tom Holland, Angus Macfayden Distribuzione: Eagle Pictures Durata: 141' Origine: USA, 2016
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CIVILTÀ PERDUTA
vista alle spalle del protagonista e della fattucchiera, e poi nello specchio in cui si perde la donna amata, portale d’entrata per la versione leggendaria della Storia, quella che appartiene a suo marito e alla sua famiglia, nell’ennesimo finale di fantasmi, nuovamente da mozzare il fiato nella precisa tradizione dell’autore. Le armi e le potenzialità del cinema allora per Gray sopravvivono davvero come interruzione, digressione, lato oscuro della luna (matter of fact it’s all dark), isola non trovata ma bella pù di tutte, che aumenta familiarità e riconoscibilità proprio rimettendo in circolo canoni, immaginari, stili e riferimenti (d’accordo Coppola, ma l’apertura è innegabilmente ciminiana, e in ogni caso la cocciutaggine del progetto, totalmente impossibile da veicolare sul mercato, ancora una volta accomuna Gray a questi due autori-suicida di film che non sembrano volersi mai chiudere, assumere una forma definitiva: anche di Civiltà perduta percepisci in ogni istante
CUORE SELVAGGIO
Ti accadrà perché era nel tuo destino
di emanuele di porto
Percy Fawcett non appartiene più a niente perché un mito perduto lo ha infettato. James Gray non si adatta al cinema contemporaneo e il tempo gli ha precluso quell'età aurea a cui era destinato
Qualunque cosa ti dovesse accadere, ti accadrà perché era nel tuo destino. L’adattamento del romanzo The Lost City of Z era tra le mani di James Gray sin dal 2009 e questo è un indizio rilevante di come l’ossessione sia non solo il centro tematico del suo ultimo film ma sia il suo vero brodo primordiale. L’orizzonte hollywoodiano non è più quello di qualche decennio fa e i registi non possono più permettersi di inseguire dei progetti titanici con i soldi degli altri. Il freno con
cui l’industria ha arginato le personalità più folli ed esuberanti per salvare sé stessa non è necessariamente un male. Tuttavia, James Gray è uno dei pochi nomi per cui sarebbe legittimo esprimere una qualche forma di rimpianto per questa età dell’oro dei cineasti. I suoi film avrebbero sicuramente bruciato dei budget faraonici ma avrebbero sacrificato l’ansia dell’incasso in nome dell’immortalità del cinema. Il progetto complessivo di The Lost City
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CIVILTÀ PERDUTA
of Z non lascia dubbi sul fatto che il regista sia a sua volta alla ricerca di un’idea arcadica del cinema e che questa indagine non si ponga limiti di prezzo personale. L’opera letteraria di David Grann cercava di rendere giustizia all’esploratore britannico Percy Fawcett. La sua inesauribile passione per la foresta amazzonica è solo uno dei motivi per cui James Gray ha speso tutto questo tempo a cercare di dedicargli un film. L’eroe del film ha condotto una vita su piani differenti e ognuno di essi coincide con i valori che il regista di Brooklyn ha portato avanti nella sua carriera. La loro coabitazione in un solo personaggio gli ha offerto una sintesi capace di esprimerli tutti insieme. The Lost City of Z presenta una storia che non trascura nessuno strato della sua identità e mette sullo stesso livello i suoi doveri e il suo destino. I suoi compiti di patriota e di padre di famiglia devono convivere con una vocazione omerica contro la quale non potrebbe combattere
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nemmeno se volesse. La conflittualità dei blood ties e della predestinazione non possono trovare una soluzione pacifica nel ritorno a casa che spesso chiude le grandi favole morali hollywoodiane. Il viaggio nella giungla primitiva sudamericana e quello nell’inferno tecnologico della grande guerra si concludono con una quiete familiare. Tuttavia, l’eroe finisce sempre per abbandonare i suoi cari malvolentieri ma con la consapevolezza di non poter fare altrimenti. Nello stes-
so tempo, i legami di comunità che sono sempre stati molto forti nel suo cinema allargano le loro proporzioni. Le enclavi ebreo-russe di Little Odessa diventano intere nazioni in trincea, società geografiche e bande di avventurieri. Lo spirito
"La storia del gruppo di uomini civilizzati che attraversa un fiume fatale non è un semplice omaggio di facciata ad Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Semmai, la volontà di James Gray è quella di confrontarsi con la stessa sfida e di utilizzare gli stessi mezzi" di autodifesa della ritualità si estende ai clan dei selvaggi che mostrano un’indefinibile specificità. Gli indios sembrano tutti uguali per chi viene da un altro mondo e a malapena li considera degli esseri umani. Eppure, fanno la guerra
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tra di loro perché anche loro si sentono diversi su una sconosciuta scala tribale. Percy Fawcett non appartiene più a nessun insieme perché la febbre di un mito perduto lo ha contaminato. Parallelamente, James Gray non si adatta a nessuna categoria del cinema contemporaneo e per limiti anagrafici non può appartenere al cinema per cui era votato. La storia del gruppo di uomini civilizzati che attraversa un fiume fatale non è un semplice omaggio di facciata ad Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Semmai, la volontà di James Gray è quella di confrontarsi con la stessa sfi-
da e di utilizzare gli stessi mezzi. Il suo film non vuole soltanto celebrare i grandi classici ma vuole forgiarsi a tutti i costi attraverso una prova di iniziazione ad armi pari. The Lost City of Z deve fare i conti con un sistema che non permette più ad una crew di perdere la ragione nella lavorazione di un film. Eppure, il regista restituisce sullo schermo uno dei più convinti tentativi recenti di andarci vicino. Non è un caso che una star come Brad Pitt abbia rinunciato dopo aver promosso il copione e che un altro nome forte come Benedict Cumberbatch lo abbia abbandonato poco prima di iniziare a girare. James Gray non deve essere considerato un nostalgico ma sarebbe giusto iniziare a valutarlo un cineasta d’altri tempi. The Lost City of Z dimostra la sua volontà di non arrendersi ad un cinema che è diventato troppo facile e non chiede più a nessuno di giocarsi tutto per seguire il suo richiamo.
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Arcana
di aldo spiniello
Si viaggia per realizzare il movimento, e non per arrivare in un punto Z che vale solo come termine utopico. La città non è perduta nella misura in cui si continua a cercarla, ravvivandone il mito
Il libro di David Grann, alla base di Civiltà perduta, ripercorre la storia vera di Percy Fawcett e dei suoi viaggi in Mato Grosso, alla ricerca dell’ultima grande città sepolta. La terza “fatale” spedizione, in compagnia del figlio Jack, è del 1925. Più o meno gli anni in cui Schoedsack e Cooper si spingevano ai confini del mondo, tra le popolazioni nomadi delle montagne iraniane o nei villaggi del Siam, per girare i loro documentari “drama” ad uso e consumo del pubblico “borghese” americano. Prima de Le quattro piume e di King Kong… Del viraggio definitivo del reale verso l’avventura e il fantastico. Ja-
mes Gray sembra stare proprio qui, nel punto di congiunzione. Tra l’adesione e la deriva. Ritrova certe dimensioni del cinema anni ’20, quello per cui il mondo era ancora vergine e sterminati erano i campi di conquista delle immagini. E le coniuga con l’ossessione di quel cinema “epico” degli anni ’70, come giustamente detto, da Herzog a Coppola a Cimino. Dove il limite si era spostato, non so bene se più lontano o più vicino. Del resto quell’incipit con la caccia al cervo, subito seguita dalla festa con il valzer, vale come due citazioni, che in pochi minuti portano da Il cacciatore a I cancelli del
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In basso, foto piccola Grass, A Nation's Battle for Life
personali e linee non consequenziali. Perché per Gray, che mette finalmente a fuoco e supera tutta la questione che sembra affliggere il cinema americano di oggi, il classico non è un impossibile e rimpianto punto d’approdo, da inseguire nella forma o nella forza di creare immaginario. Non è un problema di replicabilità; semmai di tenuta economica. Tanto è vero che Gray, nel momento stesso in cui decide di riproporne le fattezze, si accolla inevitabilmente tutti i rischi e accetta l’ineluttabilità del fallimento. Ma sa benissimo che la perfezione del cinema di una volta è solo un’illusione creata a posteriori, mentre, in concreto, agivano, dentro e fuori, forze opposte, tensioni sotterranee che si componevano
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cielo. Prima che il film si perda poi nelle giungle apocalittiche e nei furori di Dio. Civiltà perduta è quindi un libero attraversamento della storia del cinema, dal “classico” alla “modernità”, condotto sul labile crinale che sta tra gli stili e i generi, secondo dinamiche e percorsi del tutto
CUORE SELVAGGIO in equilibrio sempre precario. Il cinema già appartiene alle forme d’espressione del contemporaneo, ne ha già introiettato i problemi e le questioni. Magari con più consapevolezza nella dimensione del racconto e con più lentezza in quella della rappresentazione. Ma tant’è… Gray sa, inoltre, che il fallimento è iscritto nella storia del cinema sin dalle origini, come eventualità economica e come certezza ontologica rispetto al mondo e alla vita. Quel che cambia oggi, semmai, è la capacità produttiva di assumersene il rischio, di andare oltre le mode. E questa è una delle questioni centrali di Civiltà perduta, che esemplifica, nello scontro tra Fawcett e James Murray, due atteggiamenti opposti: l’ansia dell’avventura, del viaggio come istinto ancor prima che scoperta e contatto, e d’altro canto il turismo, cioè la versione commerciale dell’idea colonialista di adattare il mondo a un sistema domestico o addomesticato. Da che parte sia Gray, non serve ribadirlo. Neppure da che parte sia il presente.
Ecco, Civiltà perduta recupera quel gusto per l’esotismo tipico della cultura occidentale dell’età coloniale, fino ai primi decenni del ‘900. Quello sguardo su civiltà misteriose, lontane, il fascino per l’esplorazione, la scoperta geografica, la mappatura dei mondi e dei popoli remoti, con i loro riti e le loro usanze. E riporta a galla tutta una tradizione letteraria che sembrava negli ultimi anni seppellita, da Jack London a Jules Verne, da Kipling a Hemingway, fino alle memorie e ai diari dei grandi esploratori. Da un lato il positivismo della conoscenza, dall’altro la letteratura e il romanticismo della sfida. La tassonomia della scienza che cataloga ed etichetta e, quindi, normalizza le cose. E il mistero che aspetta al di là delle colonne d’Ercole. Due tensioni che stanno all’origine di tutto e che valgono ancora una volta a fare del film un viaggio nel tempo radicale, ben oltre la semplice storia del cinema. Se c’è un’ossessione in Gray, gravita sempre intorno a questo conflitto tra
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razione profonda. Era un dubbio o una condanna del destino. Qui si parla ancora di destino, ma come una specie di impulso primario, una spinta originaria. I protagonisti, più che avere una psicologia, sembrano tutti essere incarnazioni di queste spinte e figure di un’idea. Quando Fawcett dice alla moglie che il viaggio non è roba da donne, non fa altro che riaffermare la posizione archetipica dei ruoli. Ulisse e Penelope. La donna compie l’altro lato del viaggio, cioè l’attesa. Mentre l’uomo va in mare. Senza alcuna motivazione, se non l’istinto. E difatti, una volta compiuto il passaggio all’età adulta, anche Jack Fawcett seguirà il padre… Con Civiltà perduta, Gray esce dalla tragedia per tentare un’ultima volta la via dell’epica. Con una magnifica ostinazione fuori tempo. Perché il mondo non ammette più eroi, come diceva Aldrich.
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due desideri o bisogni: l’appartenenza e l’erranza. Tra l’istituzionalizzazione delle forme e la fuga, il cambiamento, l’esilio. La famiglia, le radici, e poi, all’opposto, l’altrove, in cui la vita si apre al rischio e alla possibilità. Del resto la figura fondamentale del suo cinema è il fuoricampo. Ciò che sta fuori quadro, o è nascosto all’interno, non concesso alla nostra visione precaria, perché coperto oppure avvolto dalla densità di quel nero che ha una consistenza plastica senza eguali, uno spessore viscoso, un’oscura proprietà assorbente. Civiltà perduta porta al culmine questa tensione al fuoricampo, dell’immagine eccentrica, eclissando proprio la città perduta, l’oggetto e il motivo della ricerca. Ma questo conflitto finora si era sempre inverato nei personaggi di Gray in termini tragici, come una scissione, una lace-
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E proprio la dimensione epica è andata perduta, cancellata dall’economia dei saperi e delle forme. La possibilità di un racconto eroico, corale, in cui connettere l’individuale al cosmico, il particolare all’ideale… In questo il film è sommamente ciminiano: sogna di far convivere in un battito il piccolo e il grande, di riempire di dettagli il quadro, per proiettarsi poi al di fuori di esso. Dove forse “c’è l’unica vera arte”. Se il viaggio è la struttura narrativa per eccellenza, ancestrale ancor prima che classica, James Gray la pone come traiettoria definitiva del suo cinema. Ma in senso più ideale che reale. È un fine più che un mezzo. Si viaggia per realizzare il movimento, espressione dello slancio vitale, e non per arrivare in un punto Z che vale solo come termine utopico di una tensione continua, inestinguibile. Perché la città non è perduta nella misura in cui si continua a cercarla, ravvivandone il mito. Ed è raggiungibile solo dopo
aver attraversato gli infiniti percorsi del sogno o del desiderio, è una proiezione che sta oltre lo specchio, nel riflesso deformato e fantastico del reale. O meglio ancora è, letteralmente, qualcosa che si proietta, fuori quadro, fuori forma, fuori testo. Sembra ancora di ritrovare Beuys, in un’assurda coincidenza berlinese. Non l’opera, che è infinita, sfinita, ma il processo all’opera, la ricerca di una strada di libertà e autodeterminazione, l’energia creativa che va dalla terra al cielo per il tramite dell’uomo. E magari non è un caso che nel film di Gray ci siano maghi, sciamani, tutti quegli stregoni che conoscono i passaggi segreti per le altre dimensioni. Il cinema degli uomini, come l’arte degli uomini, serve a questo. A tracciare i passaggi, ad aprire i varchi nella foresta, portali che connettano finalmente l’interiore del desiderio alle forme della sua espressione, i mondi reali alle utopie sognate. Servono a dare un’altra possibilità agli uomini.
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di simone emiliani
Se James Gray non fosse statunitense forse sarebbe francese. La dissolvenza incrociata tra il suo, nuovo, folgorante, film e il cinema di Jean Renoir
Se James Gray non fosse statunitense forse sarebbe francese. Anzi, si è alimentato di quell’umanesimo da Front Populaire, delle sperimentazioni di quel “cinema liquido” sottolineato da Paul Virilio quando parlava di The Abyss di James Cameron. L’acqua permea Civiltà perduta, lo rende instabile e galleggiante anche nel fuori-campo. Ma anche come elemento di creazione. Nella visione e nello sguardo dell’esploratore Percy Fawcett, nella nascita di nuovi figli segnati dall’ellisse temporale, nel sogno di una nuova città
dell’Amazzonia. Tre viaggi, più la Prima guerra mondiale. In un terreno spesso scivoloso, fangoso. In un viaggio che diventa delirio come Ron Howard di Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick. Se James Gray non fosse statunitense forse sarebbe francese. Avrebbe ricreato lì un’altra carriera, non guardando la Nouvelle vague ma quel cinema a cavallo tra il muto e il sonoro. E, prima di tutti, probabilmernte Jean Renoir. Si perché Civiltà perduta sembra avere una derivazione pittorica. Con i riflessi dell’acqua di
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La regola del gioco
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Une partie de campagne e i rumori del bosco che celebrano quella sensorialità uditiva di Renoir. Con ogni inquadratura – e già era successo in tutto il suo cinema e soprattutto con I padroni della notte, Two Lovers e C’era una volta a New York – che potrebbe avere la base di un quadro che dà l’illusione di animarsi attraverso il movimento cinematografico. Oppure è il nostro sguardo che la fa muovere e la rende fluttuante. Ipnosi della retina dove le immagini sembrano scorrere anche troppo velocemente. E quelle del cinema di Gray possono sovrapporsi, come dissolvenze incrociate, con quello di Renoir. Con la battuta della caccia al cervo che può essere sovrapposta a quella di La regola del gioco. I combattimenti della guerra con La grande illusione. Di abbracci mélo. Quello del padre al figlio in ospedale. Questa terra è mia. Non quella da difendere ma quella nuova da scoprire, da ricercare. Come quei nuovi sogni che Renoir immortalava nella na-
tura, nell’acqua del fiume. Mentre Gray s’inoltra negli abissi più nascosti. C’è la profondità nelle dissolvenze, nei ralenti. Gli artifici ora necessari, di un cinema che comunque permea lo schermo ancora con la densità della sua materia, cosa che avviene dal primo film del regista statunitense, Little Odessa. E che in Civiltà perduta diventa magnificamente superato, proprio come l’ultimo Renoir. Gli oggetti, la terra, l’acqua hanno sempre una vita propria. La rappresentatività teatrale è un’altra, ennesima soluzione. Ma la scena non è l’inquadratura. C’è ancora tutto un mondo nascosto. Che può essere rivelato oppure no. Oppure scoperto nuovamente. Perché la stessa immagine, rivista, può far riemergere altri dettagli, soffermare l’attenzione su altri oggetti o azioni. E Gray, come Renoir, potrebbe sfondare lo schermo da un momento all’altro e portare dall'altra parte, lì dentro. La vie est à nous.
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James Gray Blood Ties
a cura di simone emiliani
Un percorso nella carriera del regista newyorkese, tra notizie, dati, foto, dichiarazioni. Dal 1994 a oggi, sei film straordinari
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Little Odessa Id. (1994)
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Primo film di Gray realizzato a 25 anni. Al centro, la famiglia Shapira, che vive nel quartiere di Little Odessa, a Brooklyn (New York) con Joshua, killer di professione, che ritorna a casa con il compito di uccidere un gioielliere. Il padre gli impedisce di mettere piede in casa, la madre è morente e il fratello minore stravede per lui. Film a basso budget, che vede tra i protagonisti Tim Roth, Maximilian Schell, Edward Furlong e Vanessa Redgrave, che per questo ruolo ha vinto al 51° Festival di Venezia (dove ha ricevuto anche il Leone d’argento – Premio speciale per la regia) la Coppa Volpi come miglior attrice non protagonista.
“Ho letto il maggior numero di articoli sull’argomento che ho potuto trovare in ogni giornale. Poi ho girato per Brighton Beach per molti mesi e incontrato diverse persone. Del soggetto ne ho parlato alla polizia di New York. Non ho mai cercato di fare un film sulla mafia russa ebrea in quanto tale ma spero che la descrizione di questo ambiente sia la più precisa possibile”.
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“Sono incapace di scrivere un film senza ascoltare la musica. Per The Yards ho subito pensato all’opera. L’ho immaginato in termini di atti, di movimenti del finale. E mi sono messo ad ascoltare delle opere, come quelle di Verdi e Puccini. Sono così intense, così piene di emozioni che mi hanno ispirato sia per l’insieme della storia che per i singoli dettagli”. “Prima di iniziare le riprese di The Yards ho fatto vedere a tutta la troupe Fronte del porto di Elia Kazan e Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, due drammi di cui volevo ritrovare l’onestà e la sincerità”.
The Yards Id. (2000)
La famiglia e l’ambientazione newyorkese (Queens, Bronx, New Jersey) sono ancora al centro del secondo lungometraggio del regista, realizzato a sei anni da Little Odessa e presentato in concorso al 53° Festival di Cannes. Leo Handler (Mark Wahlberg) torna a casa dopo essere uscito di prigione e, grazie allo zio Frank (James Caan) che è una persona molto influente, trova lavoro come macchinista. Ma presto si trova nei guai. Basato su un fatto realmente accaduto di corruzione a metà degli anni Ottanta che ha coinvolto anche il padre del regista, negli Stati Uniti è stato un flop.
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I padroni della notte We Own the Night (2007)
Dopo sette anni, il regista realizza il suo terzo lungometraggio e ritorna in concorso al Festival di Cannes. Ambientato a New York alla fine degli anni ’80, il film ha per protagonista il gestore di un locale notturno, che fa affari con la mafia russa ma deve nascondere le proprie origini familiari: padre e fratello, infatti, sono poliziotti. Il cineasta torna a collaborare con Mark Wahlberg e Joaquin Phoenix (che diventerà il suo protagonista ricorrente), che sono anche tra i produttori del film. Un concentrato di azione poliziesca (l’inseguimento sotto la pioggia e quello finale) che rimanda al cinema degli anni Settanta, tra Don Siegel e William Friedkin. Tra i protagonisti ci sono anche Robert Duvall (per il suo ruolo era inizialmente previsto Christopher Walken) ed Eva Mendes. “L’idea di fare un film sulla polizia di New York è venuta leggendo il New York Times. Lì c’era la foto dei funerali di un poliziotto ucciso in servizio. Si vedevano degli uomini, in lacrime, affranti per la morte del loro collega. Questo scatto mi ha dato un’emozione intensa. Ho capito allora che mi interessava realizzare questo film sotto una prospettiva più emozionale. Volevo ritrovarci quello che ho provato io guardando questa foto (…) Se fate parte della polizia di New York, il semplice fatto di sopravvivere fa di voi un eroe”.
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Two Lovers
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Id. (2008)
Finalmente James Gray sembra aver preso il ritmo. A stretto giro da I padroni della notte, torna a Cannes con un film solo in apparenza diverso, una storia d'amore impossibile, che racconta ancora di vite incapaci di adattarsi, di famiglie che soffocano, di sogni di libertà e utopie di desiderio. Ancora una volta protagonista è Joaquin Phoenix. Insieme a lui Gwyneth Paltrow, Vinessa Shaw e Isabella Rossellini, nel ruolo della madre.
“Tra le mie fonti d’ispirazione del film ci sono Le notti bianche di Dostoevskij che parla di un uomo che sviluppa un amore platonico e una vera ossessione nei confronti di una donna incontrata per strada. Ho trovato questo romanzo molto emozionante. Questa persona soffre evidentemente di disturbi psicologici, ma la storia si concentra soprattutto sul suo rapporto con l’amore (…) È spesso difficile parlare seriamente dell’amore; in generale i film che affrontano questa passione sono delle commedie sentimentali perché è uno stato che ci appare talvolta un po’ assurdo. Molto spesso ci innamoriamo di un sogno o un’ossessione. E questo mi ha dato la spinta per scrivere una storia sull’amore, ma da un punto di vista che mi appariva come più personale”.
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C'era una volta a New York The Immigrant (2013)
“Nel 1923 mio nonno e mia nonna sono arrivati negli Stati Uniti passando per Ellis Island. Ho sentito molti aneddoti su questo luogo che mi hanno ossessionato a lungo. Ci sono stato per la prima volta nel 1988, prima del restauro dell’isola. Tutto era rimasto intatto. È stata una visione incredibile”.
Discutibile titolo italiano di The Immigrant e quarta partecipazione in concorso al Festival di Cannes su cinque film realizzati. Ambientato nel 1921, segue le vicende di Ewa (Marion Cotillard), separata dalla sorella all’arrivo negli Stati Uniti. Cade nelle grinfie del malvagio Bruno (Joaquin Phoenix) che la costringe a prostituirsi e vede nell’incontro con il mago Orlando (Jeremy Renner), l’unica possibilità di salvezza. Quarta collaborazione del regista con Joaquin Phoenix. Si tratta del primo film del regista che si svolge nel passato ed è la prima volta che la protagonista è una donna. Con il direttore della fotografia Darius Khondji, il regista ha lavorato molto sull’immagine e sul colore, ispirandosi anche ai dipinti di George Bellows ed Everett Shinn, due pittori vissuti a New York all’inizio del XX° secolo.
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“Elia Kazan ha dovuto ricostruire Ellis Island per Il ribelle dell’Anatolia così come Francis Ford Coppola per Il Padrino - Parte II. Non avevano potuto quindi girare sui luoghi veri. Io ho invece avuto un’occasione unica e ho cercato di essere il più fedele possibile alla realtà storica”.
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Civiltà perduta The Lost City of Z (2016)
La storia vera dell’esploratore Percy Fawcett, che all’inizio del secolo scorso si convince che in Amazzonia ci sia un’antica civiltà perduta e che poi porterà con lui anche il figlio nella terza e ultima spedizione. Tratto dal romanzo Z – La città perduta di David Grann, ha come protagonisti Charlie Hunnam, Robert Pattinson e Sienna Miller. Nel progetto originario, il protagonista sarebbe dovuto essere inizialmente Brad Pitt (che resta comunque come produttore) e poi Benedict Cumberbatch che ha lasciato pochi giorni prima delle riprese per girare Doctor Strange. Ha chiuso il 54° New York Film Festival ed è stato presentato fuori concorso alla Berlinale del 2017. È il film più costoso di James Gray. Il budget si aggira attorno ai 30 milioni di dollari, circa 13 volte di più di Little Odessa. Sembra che esista una copia di lavoro che dura 4h e 15 minuti. “Oltre ad essere in disaccordo con la comunità scientifica e l’esercito britannico, Percy Fawcett è anche un uomo in contraddizione con se stesso, ambizioso ufficiale che non apprezza di vedersi affidare una missione in apparenza oscura, padre di famiglia devoto e patriota diventato un grande avventuriero e soldato meticoloso e pragmatico che crede segretamente e in modo quasi spirituale all’esistenza della città perduta di Z”.
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Don't go!
Z
di pietro masciullo
“Non andare” avrebbe detto Francis Coppola a James Gray. Ma il gesto filmico di Apocalypse Now “respira ancora” come “esempio ultimo”, spingendo ogni figlio a tentare l’impresa liminale di un mitico padre I regard Francis Ford Coppola as a national treasure. “There is no art without risk” he has said, and it’s all we can do to hope that we follow this courageous ideal. I might well go to the jungle to make a movie soon, and I’ve often joked that given the difficulties of such an enterprise, any advice from Mr. Coppola likely would be a simple “don’t go”. But in truth, this is a dumb joke, because no one is more inspiring and encouraging in both word and deed. There are many pretenders. Francis Ford Coppola went out and did it. He gave us a work that lives and breathes still, its vitality an enduring force. And whenever we question our own reach, we need only look to this magnificent movie, in all its untidy and coruscating beauty, as the ultimate example. James Gray su Apocalypse Now, «Rolling Stone», 11 Agosto 2014
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I riflessi contemporanei di
CUORE SELVAGGIO “Non andare” avrebbe detto Francis Coppola a James Gray. Ma “non andare” è un consiglio che non può esser preso alla lettera, proprio perché il gesto filmico di Apocalypse Now “respira ancora” come “esempio ultimo”, spingendo ogni figlio a tentare l’impresa liminale di un mitico padre. Scusate la divagazione un po’ romantica, ma questo non è esattamente il soggetto di Civiltà perduta? Un padre che parte per la giungla e crea un’opera titanica e imperfetta entrando nel mito; poi un figlio che molti anni dopo vuole emularlo nonostante l’epoca e il panorama mediale siano evidentemente mutati. E lo fa per un’unica ragione: vale ancora la pena tendere verso Z. Ecco allora, dov’è esattamente questa città? Andiamo con ordine: il film di James Gray inizia con la soggettiva del piccolo Jack mentre guarda suo padre (il colonnello Percy Fawcett) cacciare “ciminianamente” un cervo e abbatterlo con “un colpo solo”. Già dalla prima inquadratura del film, pertanto, noi spettatori assumiamo la soggettiva di un figlio come sguardo sul mondo (probabilmente la prospettiva giusta per comprendere appieno l’intero corpus filmico di James Gray). Percy e i suoi compagni iniziano da qui il viaggio nella giungla dominato dall’ossessione per l’avventura, mentre Jack se ne resta in Europa nutrendosi solo di racconti e costruendo la propria soggettività proprio sulla nascita di quel mito. Il fuori campo che confina Jack per buona parte del film, allora, è anche il luogo dello spettatore novecentesco: all’ombra della storia, nel buio di una sala, a bramare di desiderio tra sogno e realtà, immaginando grandi avventure all’uscita nel mondo. Uno strategico posizionamento che in Gray non diventa mai presa di posizione nostalgica o di retroguardia, bensì atto politico nei confronti degli sguardi-social sempre più desoggettivati che colorano la nostra quotidianità nel XXI secolo. La domanda è ostinatamente sempre la stessa: dove guardare? Il nostro mondo è a fuoco dobbiamo cercare altrove il modo di domare le fiamme. Beh, che frase straordinariamente contemporanea per un campione del classicismo. Insomma se non è più tempo di Apocalissi o Cacciatori su grande schermo, si deve
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comunque partire alla ricerca di singoli sguardi da riconquistare “altrove”, tra le fiamme, alla ricerca di “altri” modi di reiterare il sogno. Scoprire e poi riscoprire Z diventa l’unico punto di contatto tra Percy e Jack, tra Coppola e Gray, tra due generazioni e tra due punti di vista sul mondo. Jack (come James…) non può far altro che partire, mentre suo padre Percy (come Francis…) non può che consigliargli letteralmente: “don’t go!”. Ma è tutto già scritto nel destino come la madre Nina sa bene: la giungla li attende da sempre, perché solo nei confini (im)percettibili del visibile si possono domare le fiamme di ogni presente. Jack parte. E come un novello Sherlock Jr. entra keatoniamente nel grande schermo che guarda/sogna sin dalla prima soggettiva del nostro film. Entra nel mito, sì, ma “l’opera non c’è più” gli dice Percy: lo spettacolo nella giungla ha lasciato il posto solo a brulle macerie che devono diventare racconto per poter sopravvivere… e Jack ridiventa spettatore. Percorrendo le orme del padre in un mondo che ha perso la vocazione all’esplorazione e all’epica del viaggio. C’è qualcosa in più però: nel 1924 (ultimo viaggio di Percy e primo viaggio di Jack) esiste ormai una macchina fotografica leggera che media il viaggio del ragazzo e può rendere una differente testimonianza rispetto al padre. Nuovi montaggi si affacciano
CUORE SELVAGGIO all’orizzonte per Jack, nuove possibilità di ricreare il mito. Mito più Immagini: siamo arrivati anche noi alle porte di Z. Un luogo immaginario e atemporale che non diventa mai feticcio cinefilo da contemplare in astratto – i riferimenti a Coppola e Cimino non sono mai serigrafie pop, ma ideali sopravvivenze di un gesto filmico che si rinnova nella profonda differenza –, bensì spazio ignoto da preservare “whenever we question our own reach…” ci dice Gray. Lo sguardo va semplicemente riconsegnato alle potenze di un visibile dove albergano tutti i miti, un’origine in divenire delle immagini che (ancora oggi) ci riconnetta al nostro mondo sentimentale. Ecco dove guardare. Ti voglio bene, ti voglio bene. Nel finale dei Padroni della notte come alle porte della Civiltà perdura sono solo le persone nude e pure che emergono. Non più schermate, non più mediate. Z resta nuovamente visibile solo al di qua dell’oceano, in quello schermo/specchio fugacemente attraversato da una spettatrice/madre che ne intravede le forze mitopoietiche irradiarsi come un riflesso. James Gray sfida ogni black mirror del 2017 per ridare luce allo specchio, ritrovando le originarie potenze di Z nei nostri occhi affabulati. Quella stessa Z che David Lynch fa detonare nell’episodio 8 di Twin Peaks, con l’immaginario popolare del secolo breve che resiste e si smarca dalla polverizzazione atomica. Ecco che nella giungla dell’immagine contemporanea – della quale Gray, a dispetto di chi lo liquida come un cieco nostalgico, è perfettamente conscio – l’occhio di un figlio spettatore diventa ancora una volta il “cuore” di ogni discorso. Perché solo quel desiderio fanciullo di creare e poi conquistare una privata città perduta (“Helloooooo!!!”, di nuovo Twin Peaks…), farà sopravvivere un’idea di spettacolo pubblico che travalichi il tempo e i media contingenti. Si parte ancora e nonostante tutto… basta solo crederci.
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Sepoltura celeste di sergio sozzo
Da Atomica Bionda di David Leitch allo scomodo Nemesi di Walter Hill, film già condannato all'invisibilità qui in Italia. Un confronto incrociato Jhator L’LAPD tiene sotto controllo uno stalker che ultimamente sta minacciando Ellen Page in maniera particolarmente efferata con messaggi su Instagram in cui promette di ammazzarla, una volta che avrà tra le sue mani questa “bugiarda canadese”. Per tutto il 2016, Page è andata in giro per il mondo ad incontrare le comunità LGBTQ e scoprire come se la passano con razzismo e integrazione in posti come la Giamaica, il Giappone e il Brasile, per la bella serie di documentari Tv Gaycation, prodotta da Spike Jonze. Se fossimo in un film di Walter Hill, invece di chiamare la polizia di Los Angeles, Ellen si sarebbe già trasformata in un angelo della vendetta lesbian alla ricerca del tipo che ha fatto l’incauta mossa di dichiarare pubblicamente che l’avrebbe uccisa. Ma Nemesi, l’ultimo di Hill, è un film talmente scomodo che festival e distribuzioni
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CIVILTÀ PERDUTA continuano a scansarlo, quasi a sperare di non averci mai voluto avere a che fare neanche per un minuto, una proiezione di mezzanotte o un’uscita in sala d’estate. In patria The Assignment è stato massacrato un po’ da tutti, e in effetti il tono ridanciano con cui Hill se la sghignazza dietro gli inserti da graphic novel e le sparatorie alla hongkonghese del film sembra nascondere una feroce presa in giro di certo progressismo dem. Una sorta di anti-Sense8 che porta alle estreme conseguenze l’approccio openminded sulla gender fluidity mentre moltiplica e affastella le cornici e i codici narrativi (l’interrogatorio, la confessione via webcam, i flashback, i frammenti di violenza impazzita…), davvero quasi ad accogliere la sfida delle Wachowski per immetterla sui binari old school del precedente Bullet to the Head (a quando un crossover tra Sly/Jimmy Bobo e Michelle Rodriguez/Tomboy?). Non so perché la storia di Ellen Page mi abbia fatto tornare in mente questo remake smascherato di Johnny il bello con Rodriguez nel ruolo del killer Frank Kitchen che lo scienziato pazzo Sigourney Weaver rende chirurgicamente donna per vendetta, e della sua scia di sangue per incontrare la responsabile di questa mutazione imposta. Probabilmente ha a che vedere con gli effetti pubblici di exploit di questo tipo, il pazzo ossessionato da Page che le scrive su Instagram, e le reazioni social di indi-
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gnazione e fastidio davanti a come Hill “banalizzi” la questione del gender switch. Growing up in public with your pants down: la sepoltura celeste tibetana consiste nel dare il corpo scuoiato del defunto in pasto agli avvoltoi (l’ho imparato perché è il titolo e l’ispirazione dell’ultimo mastodontico album degli Zu, Jhator). Nel momento in cui lo spirito abbandona il corpo, le umane spoglie possono generosamente essere donate alla natura per contribuire al ciclo della vita – per Pupillo e soci è probabilmente una maniera di proseguire il discorso “in opposizione al punto di vista occidentale” intrapreso con il precedente, clamoroso Goodnight Civilization, ma per noi è una spinta per tornare alla domanda chiave di Nemesi: il corpo è ancora il centro di queste storie, di queste pratiche, o è soltanto un accessorio? Der Kommissar Per esempio: Atomica Bionda di David Leitch (tratto, manco a dirlo, da una graphic novel) tenta di fondare interamente il proprio fascino sulle prodezze fisico-balistiche dei mirabolanti stunt ripresi con la prevedibile verosimiglianza dell’esperto in materia (Leitch, com’è noto, ha fatto il cascatore per una vita) in pianosequenza arzigogolati da coreografia “pesante” (la nostra eroina è tutto tranne che infallibile, l’aspetto più inedito è probabilmente la sua fatica, la sua vulnerabilità durante i corpo a corpo, la fragilità del respiro affannato e la poca grazia con cui spacca gli oggetti addosso ai cattivi come risoluzione finale…). Per Charlize Theron si tratta del terzo ruolo di fila nel campo di gioco dei maschietti, dopo Fury Road e Fast and Furious 8 (dove fronteggiava proprio Michelle Rodriguez), e anche stavolta a me viene solo da pensare alle sue vicende biografiche, come quando davanti a Immortan Joe, prima di strappargli via il respiratore gli urlava in faccia “Ti ricordi di me!?!”. In ogni caso, Atomica Bionda fa di tutto per nascondere il suo interesse primario per il corpo di Charlize quasi come se se ne vergognasse, “vestendolo” di una vicenda stracolma di incroci e personaggi di spie e agenti doppiogiochisti in giro per questa Berlino due giorni prima della caduta del Muro che è più che altro un mood, un look, una playlist di hit teutoniche (da Bowie a 99 Luftballons, va senza dire – mentre Nemesi ribatte con uno score di Giorgio Moroder). Proprio come Walter Hill disperde il racconto in decine di rivoli minori, ma qui con il risultato opposto, quello di seppellire l’epidermide sotto i mille strati del giochetto formale, dell’effetto vintage da blockbuster turistico al quale non va mai di dichiarare la propria anima di film di Cynthia Rothrock (…la prima atomica bionda) con budget almeno quintuplicato (anche stavolta, Soderbergh è già stato qui…).
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CIVILTÀ PERDUTA In mezzo a questa confusione di intenti però, Sofia Boutella si conferma visione suadente di difficile se non impossibile categorizzazione, come la sua Mummia nel film di Kurtzman: la ballerina francoalgerina è la spia lesbica che intreccia una storia d’amore con Theron in Atomica Bionda, e nonostante si tratti di un purissimo segno di ammiccamento nei confronti della tendenza attuale hollywoodiana, Boutella regala al suo ruolo un’ambiguità molto potente, che sorpassa la partita di attrazione e bugie tra agenti segreti – davvero, la giovane Sofia avrebbe potuto interpretare il/la protagonista di Nemesi, e su corpi come il suo si fonda probabilmente la resistenza non allineata e trasversale, spigolosa e sfuggente, senza appartenenza e senza patria, ma ancora strenuamente possibile all’interno della narrazione dominante. Human Nature La traiettoria di Sofia Boutella era già particolarmente illuminante ai tempi del videoclip girato da Wayne Isham nel 2011 per Hollywood Tonight di Michael Jackson. Sofia interpreta il classico ruolo della ragazza che arriva a Los Angeles inseguendo le luci della ribalta: è una grande fan di Jackson, si inginocchia e piange sulla stella dedicata all’artista sulla Walk of Fame. Nell’attesa di essere scritturata sbarca il lunario lavorando come cameriera e go go dancer, e nel frattempo si allena senza
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posa. Il trionfo arriva con una sorta di flash mob di fronte al celebre Pantages Theater, all’angolo tra Hollywood Boulevard e Vine Street, in cui Boutella si trasforma in un fantasma di Michael Jackson che attraversa le strade del quartiere per rimettere in scena i suoi passi di danza più celebri davanti al teatro. Incarnando in sé l’ombra rinata della figura dai contorni più sfumati di tutta la storia della musica black in un atto potenziato di crossdressing (da cosa e verso cosa?), il corpo e i movimenti della ballerina amplificano la moltitudine di definizioni e di sensi possibili nella mutazione tra carne e immagine. Sulla ridefinizione dell’umano si basava d’altra parte tutta l’arte e la messinscena pubblica dello stesso Michael Jackson, e l’indicazione reiterata (ricordate Moonwalker?) che la prossima tappa evolutiva sarebbe dovuta partire dal decentrare la prospettiva focalizzata su ciò che consideriamo “uomo” (un po’ quello che ci continuano a dire i Transformers, e infatti un gigantesco Autobot è l’ultima metamorfosi di Jackson nel folle film di Moonwalker). È la paura più grande del colonnello McCullough nel terzo Pianeta delle Scimmie di Matt Reeves, il primo personaggio NoVax del contemporaneo: il suo barricarsi con il suo esercito nel rifugio fortificato è un tentativo estremo e folle di evitare che la razza umana venga a contatto con la contaminazione, con il virus dell’ibridazione. Ma gli esseri più evoluti sono quelli che sanno mutare, e ad una gigantesca valanga di neve hai maggiori probabilità di sopravvivere se sei in grado di arrampicarti fino alla cima degli alberi. Guardando negli occhi il suo nemico Cesare, Woody Harrelson/McCullough esplicita con precisione gli stessi timori dei baluardi delle posizioni di chi rifiuta ogni trasformazione, di chi preferisce non ricalcolare mai le proprie definizioni: “Ci sostituirete”. L’altro ci mangerà, ma per donare il nostro corpo ad un nuovo ciclo vitale, inedito, inaspettato: d’altra parte, chi può davvero affermare a che sesso appartiene Andy Serkis?
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di carlo valeri
Distruzione e nascita di nuovi e vecchi mondi, movimenti contrari e paralleli tra passato e futuro attraversano le immagini, le utopie, i modelli cinematografici e seriali contemporanei
Come imparare ad amare la bomba Nell’ormai famigerata ottava puntata della terza stagione di Twin Peaks, David Lynch inserisce inaspettatamente il flashback in bianco e nero datato 1945 di un’esplosione nucleare nel deserto del New Mexico. L’atomica distrugge il paesaggio ma ri-fonda l’immagine e lo sguardo del cineasta (e dello spettatore) penetra dentro le fiamme, i vapori e gli atomi della bomba, creando di fatto il momento visionario più sorprendente ed estremo che si sia visto in televisione negli ultimi anni. Per Lynch il fungo atomico diventa sintesi di un immaginario americano profondamente novecentesco e oggi tornato terribilmente di moda – come diavolo poteva sapere l’autore diVelluto
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CIVILTÀ PERDUTA
Genesi e Apocalisse
CUORE SELVAGGIO
blu durante le riprese di uno, due anni fa, della crisi nordcoreana e della minaccia in questi giorni sempre più drammaticamente concreta di una guerra nucleare tra Washington e Pyongyang? Ora, l’apocalisse nel deserto rappresentata da Lynch non ha solo una funzione cinefila-culturale – con tutta una serie di rimandi ai film, al fumetto e alla serialità horror degli anni 50 – ma anche più immediatamente filosofica. La bomba genera il Male – o almeno così sembrerebbe - ma senza una vera e propria valenza etica o umanistica. Non vediamo nessun uomo premere il bottone per lanciare la bomba. Tutto avviene in una dimensione “extraterrestre” ed eminentemente simbolica. L’esplosione nucleare distrugge e crea. La morale non esiste. E non esiste giusto o sbagliato. Come sempre in Lynch in un solo nucleo convergono però la luce e il buio. Il Bene e il Male. L’ottica sembra quasi quella taoista dello ying e dello yang con la bomba che ne diventa incarnazione metafisica e figurativa. La bomba uccide, la bomba fa nascere. Il fungo è l’embrione che feconda la terra e dà origine a Twin Peaks. Per creare una nuova idea di mondo bisogna annientare la precedente. Ma in certi casi i due mondi possono coesistere. Come in Lynch appunto. E come in James Gray. Doppio movimento Civiltà perduta è un magnifico film bipolare. Ma andiamo con ordine. Come spesso avviene nell’opera del regista newyorkese, classico e moderno convergono in una forma compiuta, che si astrae da sola creando un proprio tempo e un proprio spazio.
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CIVILTÀ PERDUTA
Un’idea di mondo che parte dal passato per proiettarsi verso il futuro. Chiaramente questo equilibrio è alla base di molte contraddizioni del cinema postmoderno, che fa del rimasticamento del già conosciuto per mezzo di “nuove” forme (tecnologiche, narrative, ecc.) la spina dorsale di un immaginario inesorabilmente citazionista – tutto Tarantino, ma per certi versi anche Nolan, alcuni film dei fratelli Coen e poi serie Tv come Strangers Things. Il punto di rottura qui è che James Gray solo molto superficialmente può esser considerato un autore postmoderno. La tensione emotiva e spirituale della sua poetica ha riscontri sia nel cinema classico sia in quello moderno, senza che tra i due mondi vi sia alcun patto "James Gray solo molto superficialmente post(modernista). Ciò avviene in primo può esser considerato un autore postmoder- luogo perché a Gray interessa l’anima della sue immagini e delle sue storie e no. La tensione emotiva e spirituale della non la loro metrica o la loro spendibilità. sua poetica ha riscontri sia nel cinema classi- Questo spiega i problemi produttivi e dico sia in quello moderno" stributivi che Gray continua a incontrare a ogni film che realizza, come anche il numero esiguo di titoli che compongono la sua filmografia. Per quanto derivativo possa essere, ogni film per Gray rappresenta una tappa della vita prima ancora che una tappa nella storia del cinema. Questa onestà autoriale comporta però inevitabilmente, soprattutto negli ultimi film, una curiosa instabilità concettuale (non morale, che invece è estremamente evidente). C’è uno slittamento quasi simultaneo tra vecchio e nuovo che nel recente Civiltà
CUORE SELVAGGIO perduta si fa emblematico e molto affascinante. Il protagonista Percy Fawcett fa tre viaggi verso il nuovo mondo. È un esploratore ossessionato dalla scoperta dell’altro, della ricerca di un altrove, verso il mistero e l’utopia del sogno. Fawcett è un anticonformista del suo tempo. A differenza dei suoi compatrioti crede nella dignità umana dei selvaggi e nell’esistenza di nuovi mondi. In lui però c’è anche uno slittamento all’indietro. È ossessionato dall’esistenza della città perduta di Z, un luogo lontano nel tempo dove una civiltà evoluta ha dato origine a tutto. Il personaggio fa quindi un doppio movimento contrario, verso il futuro e verso il passato. Cerca ed esplora un nuovo mondo per trovare e scoprire quello più vecchio, il punto più lontano della civiltà. Aggiunge nuovi luoghi alla cartografia novecentesca del Sudamerica ma non quello delle origini del mondo e della Storia. Anche qui genesi e apocalisse convergono, in una dimensione però meno simbolica che in Twin Peaks, quasi tutta mentale e intimista. Alla fine del film Fawcett e il figlio nel loro ultimo viaggio trovano la loro apocalisse e allo stesso tempo producono la genesi definitiva del Mito. Tramandano l’ossessione per la città di Z da qui all’eternità. La città esiste perché loro due spariscono, diventando fantasmi nella giungla… come Z appunto. Il sacrificio di Cesare Nel terzo capitolo del Pianeta delle scimmie avviene quasi lo stesso passaggio, anche se i fantasmi e l’utopia del sogno lasciano il posto alla concretezza del sacrificio. Cesare è un leader che non crede nel Mito come Fawcett. Cesare, semplicemente, crea il Mito. Lui non esplora, costruisce. Essendo una scimmia cresciuta tra gli uomini, capace di parlare la loro lingua, ha in mente un mondo antropomorfo. Quindi la sua non è una rivoluzione completa, ma una modernizzazione attuata su un modello sociale già costituito (la civiltà umana). Anche qui vecchio e nuovo slittano uno sull’altro. Cesare conduce la sua tribù di scimmie persino al di là della giungla di Gray, verso una sorta di terra promessa dove far nascere una nuova società. Un nuovo mondo/ pianeta. E in una azzardata commistione religiosa tra Antico e Nuovo Testamento il film di Matt Reeves si conclude addirittura con la morte cristologica del protagonista. Le scimmie celebreranno il loro Dio, come fecero gli uomini prima di loro. La Genesi dopo l’Apocalisse. E l’Apocalisse dopo la Genesi.
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di federico chiacchiari
Zigzagate sul futuro che è il passato e il passato che è il futuro
“Esiste ancora per te il sense of wonder? Io trovo sia finito con Zagor” dall’intervista di Lo Sgargabonzi ai Dustyeye
Chissà se esiste ancora, davvero, il tempo. O meglio il “senso del tempo”. Un secolo e oltre di relatività e teorie quantistiche e altrettanto di narrazioni cinematografiche hanno disorientato il senso della nostra “continuità”, quella percezione comune che ci ha sempre permesso di distinguere con una certa (illusoria?) convinzione il concetto di passato da quello di futuro. Ancora l’immaginario collettivo del secondo novecento ci restituiva una Storia fatta di luci, costumi, mode, che caratterizzavano i decenni del XX secolo. Fino a qualche
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CIVILTÀ PERDUTA
Il migliore dei futuri possibili?
CUORE SELVAGGIO
References to 70-80’s movies in Stranger Things from Ulysse Thevenon on Vimeo
decennio fa potevamo vedere un filmato, o guardare una foto, e con una buona probabilità potevamo individuare l’epoca, il passato appunto, nelle fotografie dei nostri padri e dei nostri nonni. Poi a un certo punto è arrivato il punk, con il suo collage e cut-up culturale, e improvvisamente tutto poteva essere “riciclato” e usato con un segno diverso. Il passato e il presente si mescolavano arbitrariamente in un mix di stili, tutto sotto l’egida culturale del “no-future”. Sono passati 40 anni da allora e, forse, solo ancora negli anni ’80 riusciamo a individuare degli stili “riconoscibili” come passato (ma proprio allora Robert Zemeckis ci aveva giocato follemente con il trittico di Ritorno al futuro), perché dopo di allora ci vuole un ottimo decodificatore culturale per orientarsi tra le mille sottoculture (mainstream, antagoniste o finte antagoniste), tutte frutto di mixaggi culturali continui e sempre più sofisticati, al punto che per un ragazzo di oggi alcune produzioni (Stranger Things?) rappresentano sul serio una sorta di nuovo “alfabeto” di riferimento, per capire (ma si capisce sul serio?) da dove si arriva nel racconto del presente. Ma in fondo questo continuo rubare in andata e ritorno dal passato al futuro è qualcosa che probabilmente appartiene all’esperienza dell’uomo moderno, e in tal senso la storia di Civiltà perduta di James Gray (uno dei momenti più emotivamente coinvolgenti della stagione) è proprio
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CIVILTÀ PERDUTA quella di un uomo che, nel pieno dell’idea di Progresso della Rivoluzione Industriale tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, nel ricevere l’incarico di scoprire per colonizzare nuovi territori per un grande “futuro” occidentale, si ritrova ammaliato dal meraviglioso passato della “civiltà perduta” di cui ritrova dei segni di incredibile ricchezza e modernità. E mentre il mondo va ad autodistruggere il concetto di Progresso dentro la sanguinosa Grande Guerra, all’esploratore non resterà che coinvolgere anche il figlio (il tema della famiglia tanto caro a Gray) per ripartire per la sua ricerca infinita, fino a letteralmente sparire nel “nuovo mondo”... E mentre il tempo della narrazione, dai primi meravigliosi flashback dei noir degli anni quaranta, si attorciglia sempre di più su se stesso dentro meccanismi temporali complessi se non addirittura ossessivi (la serie di 13 Reasons Why, con l’iconografia del passato – le cassette, la musica – come arma culturale per raccontare una storia che si regge solo ed esclusivamente sul passato – per non parlare di The Affair…), nei cicli di fantascienza, anch’essi post-moderni in una serialità coatta, il ciclo dell’evoluzione dell’uomo viene capovolto, e la speranza in The War, il pianeta delle scimmie, non è più affidata agli uomini (persi tra le armi e i vaccini…) ma alle nostre future evoluzioni di scimmie 2.0… Siamo nel pieno di un’epoca che degli stili culturali ha ormai fatto un infinito “ritorno al futuro” e solo la liturgia trascendentale di David Lynch ci può riportare, ontologicamente, all’origine di questa “follia umana”. E non a caso la puntata più incredibile e forse la visione più accecante di questo 2017, la ormai mitica n.8 della Terza Stagione di Twin Peaks, prenda spunto proprio da quella prima esplosione nucleare, luglio 1945, momento in cui simbolicamente l’uomo ha messo su un pazzesco dispositivo di autoannientamento globale, frenato dalla paura della Guerra Fredda, mentre la macchina infernale del capitalismo globale produceva in tempi un po’ piu lunghi la
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CUORE SELVAGGIO stessa autodistruzione con il processo del Global Warming. Dove sta il passato, dove sta il futuro nella narrazione lynchiana? Tutta la serie è un contenitore folle di “dispositivi riproduttori di fantasmi” (cit. Alessandro Cappabianca), e la successione cronologica degli eventi sembra apparente, come fossimo finiti tutti noi spettatori nella Loggia Nera in cui è rinchiuso l’agente Cooper, corpo frammentato che esplode/implode nei suoi doppi narrativi. Fuori dalle ipercontrollate linee temporali parallele e diverse del Nolan di Dunkirk, Lynch rilancia una visione dove il tempo sembra essere una sorta di stato d’animo filosofico, un “mondo perduto” dal quale si proviene o verso il quale si è proiettati, sorta di magnifico “quadro pittorico”, nel quale annichilirsi in un’infinita e reiterata Sindrome di Stendhal. E allora in questo “mondo perduto” – mentre i primi robot iniziano a comunicare tra di loro in un linguaggio sconosciuto – che appare ogni giorno diretto verso un baratro inevitabile, non ci resta, forse, che affidarci ai “messaggi provenienti dal futuro” (come accadeva in quel meraviglioso film di John Carpenter che era Il signore del male/ Prince of Darkness), come queste fantastiche targhe apparse sui muri di Roma, opera “passatista/futurista”(? ) di DustyEye che illustrano qua e là questo articolo… Il migliore dei futuri possibili, già, forse veniamo tutti da lì a chiedere, come in Terminator, dove abbiamo sbagliato e potevamo fermarci…
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di aldo spiniello
Cosa fare, come fare, perché fare? Appunti sconnessi per una riflessione a venire
Appunti per una riflessione a venire “Abitare è essere ovunque a casa propria”, come dice sempre Ugo La Pietra, l’architetto radicale che predica la riappropriazione della città, titolo programmatico di un fantastico, irriverente film saggio del ‘77. Quarant’anni fa, tempo di lotte e di bombe... Quarant’anni fa, proprio come la prima edizione dell’Estate Romana voluta da Renato Nicolini, altro architetto radicale che ridisegna lo spazio a partire dall’immaginazione, che incide nel concreto con le armi dell’effimero e dell’immateriale, modificando il modo di pensare e abitare la città e, perciò, inevitabilmente, il territorio... La Pietra è uno strano personaggio, che si fa la barba davanti alla vetrina di un negozio, attraversa gli spazi vuoti della Triennale di Milano con l’inesauribile spinta propulsiva della sua ironia, trasforma i paletti e le catene, gli interventi pubblici per la città di Milano, in oggetti di uso quotidiano, pratica concreta di un design povero, immediato, autarchico. Intervento che non differisce nella sostanza dalla scabra, immediata sapienza gestuale del cristiano che monta la sua baracca di legno nei campi della periferia, traccia i solchi del suo orto e buca una latta per farne un innaffiatoio. “Recupero e reinvenzione”... Ogni cosa può mutare senso e destinazione, è questione di energia creativa e di lavoro. E se ogni cosa può cambiare, anche i luoghi si trasformano a ciascun microintervento, per un’azione qualsiasi, pur se non destinata a lasciare tracce immediate ed evidenti. La creatività è un’idea che si fa atto concreto, passaggio dall’immateriale al materiale, o è un automatismo della pratica? Che intervallo c’è tra la mente e il braccio? Sofismi, poco importa. Quel che importa, sembrerà strano, è che i margini di libertà d’intervento e di creatività sono più ampi nel caos della periferia, nello spazio non istituzionalizzato, “dove il sistema è meno efficiente”. Altrove, al centro, lì dove tutto è già strutturato intorno a reti di comunicazione marcatamente orientate, a un sistema di connessioni, di rapporti economici e di
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CIVILTÀ PERDUTA
Radicale libero
CUORE SELVAGGIO
La riappropriazione della città
potere netti, la rapprioprazione della città ha bisogno di scosse più decise e decisive, di provocazioni più spiazzanti, di immaginazioni più audaci. Forse persino incomprensibili nello stretto periodo... Si potrebbe dire, per tornare al cinema che ci è più caro oggi, che solo nella giungla amazzonica è possibile andare alla ricerca di Z, di una lost city, di una civiltà che è perduta, si badi bene, non per coloro che hanno la forza di immaginarla, sognarla, rincorrerla, ma solo per coloro che si sono rassegnati all’idea della scomparsa, per chi si è assuefatto al grigiore indistinto di una realtà che non offre più spiragli di scoperta e invenzione. E magari non è un caso che oggi si parla di recupero del territorio lungo il solco delle tradizioni, della riscoperta dell’aree interne, di terre di mezzo, meridioni d’oriente, sponz e calanchi, di paseologie, di strategie per sopperire alla scomparsa, allo spopolamento. È un’ostinata resistenza contro la modernità o una nuova tendenza supportata dalle forme di comunicazione – quanto più si accorciano le distanze, tanto più si allarga l’area dello spazio (di nuovo) abitabile –? È una moda che predica vocazioni turistiche a bassa impatto e a respiro corto, un fuoco di paglia che illumina per un po’ terre abbandonate ai fantasmi o il primo atto di un più vasto movimento progettuale? Un semplice ritorno a origini mitiche o un’esperienza capace di “modificare il territorio” e di raccontare una nuova storia?
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CIVILTÀ PERDUTA La grande occasione, di Ugo La Pietra
Non lo so. Mi sto perdendo. Questo, secondo le intenzioni iniziali, avrebbe dovuto essere un articolo su un’estate romana possibile e impossibile. Una specie di programma su una manifestazione da fare, l’appunto per un intervento concreto o il progetto di un’utopia irrealizzabile. “Io la farei a Mogadiscio, sarebbe esplosivo”, mi scriveva in un messaggio un noto amico, sensibile alla questione. È giusto. Ma il punto – almeno per ora – non è Roma, non sono le tensioni di una città attraversata dal conflitto e strozzata da sclerosi avvilenti. Il punto su cui mi areno è un altro ed è, forse, qualcosa che riguarda più una crisi personale: cosa fare, come fare, perché fare... E poi il virtuale integra o disintegra il reale, dove sta la vita nella distanza che separa la solitudine dalla bacheca di facebook? Abitare è essere ovunque a casa propria, ma se non si vive nessun posto come casa propria, come luogo “esclusivo”, allora non si può abitare, si è degli sfollati, dei senza tetto, dei profughi? O magari questo è il presupposto necessario a una visione radicale, cioè tesa a piantare nuove radici, che si muovano più in orizzontale, più in superficie che in profondità, secondo la velocità inarrestabile dei rampicanti... Quando Ugo La Pietra espone il progetto del videocomunicatore (1972), sistema di “comunicazione condivisa” pre-internet, non sta solo anticipando, a modo suo, quanto stiamo vivendo, ma va oltre, in una direzione progettuale a lungo termine. Quando prevede la “materializzazione” delle immagini personali, proiettate, bombardate quasi, su grandi schermi posti a ogni angolo della città, racconta esattamente l’orizzontalità diffusa nella produzione di immagini che è il dato di fatto di oggi, ma ipotizza anche una strategia di intervento urbano, vuole che quest’orizzontalità si faccia ar-
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CUORE SELVAGGIO
Al lato: il videocomunicatore
chitettura, intervenga nello spazio concreto rimettendone in discussione la fisionomia. Forse oggi, si farebbe un’estate veramente romana riproiettando all’infinito, dappertutto, le migliaia di immagini pensate o girate da ognuno, da chi condivide in un modo o nell’altro, nella tranquillità o nella disperazione, lo spazio della città, modificandone giorno dopo giorno i contorni e le traiettorie. In fondo, credo ancora che il cinema sia una forma estrema di progettualità, almeno quando prende in carico la sua vocazione, quello di lavorare sullo scarto tra il reale e l’utopia. E, dunque, quando accetta di misurarsi con il mondo e la vita che ancora lo attraversa. Quella che resta oltre le gabbie, i formalismi vuoti, le note a margine, i distinguo, gli eterni commenti, le rigidità mortifere dei custodi cimiteriali, dei piani regolatori comunali, delle commissioni ministeriali e mafiose. Penso ancora a Ermanno Olmi che raccontava la Milano del 1983, una capitale della cultura, per smembrarne a poco a poco tutte le immagini istituzionali e restituircene altre più scomode, più caotiche, ma infinitamente più vere e più vitali. E oggi fa altrettanto, con la stessa ostinazione radicale, nascondendo appena il suo sguardo
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CIVILTÀ PERDUTA Durante l'estate
dietro l’immagine di repertorio. Vedete, sono uno di voi. E perciò abito qui, tra voi, immagino la città come il luogo di un rapporto reale, da costruire e riformulare ogni giorno. Per Olmi lo spazio ha sempre una sua nettezza, una sua evidenza, è fatta di segni tangibili, concreti come la Torre Velasca dei BBPR che si staglia, quasi minacciosa, nel fantastico Durante l’estate. Epperò su questa realtà materiale l’immaginazione compie sempre un lavoro di spiazzamento e riappropriazione, come la poesia del personaggio di Renato Paracchi che racconta un’altra città, disegna altri rapporti, sovverte i dati sociali sparigliando le classi, i meriti, i titoli di nobiltà assegnati finalmente secondo le virtù del cuore e gli incanti del desiderio. Ecco, esiste una dittatura del dato reale, del racconto ufficiale, che è paragonabile ai limiti di cui parla La Pietra, quelli imposti alla creatività dallo spazio istituzionalizzato, centrale e centrato. E che ha bisogno di forzature coraggiose, di deviazioni magiche, di riscatti d’amore e intuizioni di desiderio, come fanno Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che in Sicilian Ghost Story compiono il sacrilegio di ridisegnare la Storia, incorrendo nello stigma dei troppi depositari della morale, che sono solo gli stanchi guardiani dello stato di cose. “Oggi c’è internet, ci sono i social network, nuove forme che possono far soffiare improvvisamente il vento della libertà in Tunisia, in Egitto, in Libia… ma che insieme generano altri monopoli e altri conformismi… La linea d’ombra che le separa è molto sottile… Bisogna continuamente interrompere, spezzare le proprie solitarie sedute telematiche, uscire per le città, incontrare persone reali…” (Renato Nicolini)
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Hello-oooooooooh!
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RADIO RAHEEM #4
L’improvviso solo di batteria che squarcia l’abituale essenzialità della forma di Time Out, il nuovo lavoro breve di Francesco Clerici in esposizione al Palazzo Reale di Milano all’interno della mostra dedicata a Giancarlo Vitali (in cartellone fino al prossimo 24 settembre), è un’indicazione accattivante nonché un intervento inedito sulla composizione dell’esperienza audiovisiva come siamo soliti riconoscerla dal regista del Gesto delle mani. Cosa spinge Clerici a far risuonare il groove delle percussioni in chiusura di questo piccolo documentario sullo studio-laboratorio e sulla routine creativa di Vitali, tra i fumi del lago e delle sigarette? Il regista si concede anche l’apertura inaspettata della voce over con confessioni sparse dell’artista, il quale si lamenta di non riuscire più a raggiungere “lo scatto del centometrista” con la facilità della sua stagione più giovane, e dunque il ritmo di batteria sottolinea nel finale proprio l’istante in cui Vitali parte per uno sprint inaspettato, ritrova la concentrazione nell’incrocio preciso delle traiettorie degli sguardi dei suoi ritratti precedenti appesi alle pareti, che sembrano guardarlo fisso mentre lui, in fervore compositivo, ci guarda in macchina. Anche stavolta, il dispositivo l’ha avuta vinta contro la corrente tumultuosa della distrazione: l’intuizione più straordinaria del nuovo lavoro di Francesco è infatti proprio l’accostamento tra il procedimento artistico di Vitali, e le lunghe ore che l’uomo passa a scrollare la home dei social network sul suo tablet. L’attrezzo tecnologico ha la stessa forma e misura delle tavolette nere che l’artista prepara e incide per le sue opere, e viene posta nella identica posizione d’intervento sul tavolo da lavoro: nel suo ostinato distrarsi, Vitali sembra aver sostituito l’impulso creativo con l’abbandonarsi alla deriva virtuale. Che abisso a guardare dentro quella superficie nera,
RUBRICHE
di sergio sozzo
RUBRICHE in quello schermo su cui “ti permetti di correggere le cose che ti sembrano troppo vicine al vero”, come dichiara l’artista stesso. Questa sostituzione nell’oggetto del proprio intervento manuale, concettuale e artistico, è forse la scintilla rivelatoria che permette ancora allo “scatto del centometrista” di rivelarsi, alla batteria di Mattia Pontremoli di dare inizio alla danza. Ribaltare la distrazione come forma di resistenza al reale: il Dougie Jones della terza stagione di Twin Peaks si comporta come se il nostro piano di realtà non lo interessasse in maniera alcuna, e allo stesso tempo sembra vivere in una chat del web, in uno dei tanti messenger con cui comunichiamo quotidianamente. Si esprime infatti in pratica “recitando” delle emoji, i gesti e le espressioni con cui comunica gioia, dolore, e i più basici bisogni fisici (fame, dover andare in bagno…) somigliano pazzescamente a gif o “adesivi” che potremmo utilizzare per dirci le stesse cose via chat, a partire dall’iconico pollice in su. L’andamento
imbambolato, con cui ripete strascicata l’ultima frase che gli viene rivolta in un dialogo o in una domanda, lo ritroviamo nei tentativi, spesso a vuoto, che ognuno di noi fa di intavolare una discussione con qualcuno che in contemporanea è perso nel proprio smartphone: ovvero, il prototipo più preciso di Dougie che mi possa venire in mente. Eppure, questo Cooper addormentato è il personaggio più illuminato di tutta la stagione, in grado di vedere segni che sfuggono a tutti gli altri, compreso il Gordon Cole dell’FBI interpretato dallo stesso Lynch. Ci vuole della bella concentrazione per essere distratti, sembrano dirci queste esperienze artistiche (la lastra nera di Vitali non è d’altra parte un purissimo oggetto da universo lynchiano?). Ci ripensavo qualche sera fa di fronte alla tromba di Rob Mazurek, che alla Casa del Jazz di Roma ha battagliato per un concerto intero col moog e i suoni delle radiazioni solari raccolti e manipolati da Greg Burk (Solar Sound si chiama l’esaltante progetto, perfetto con-
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RUBRICHE
traltare all’esplosione sensoriale dell’episodio 8 di Twin Peaks 3, per restare in chiave di “genesi di universi”). Se volesse, Mazurek potrebbe esibirsi in meravigliosi “scatti da centometrista” con la sua cornetta, come quelli che gli sentiamo fare soprattutto nelle sue formazioni big band d’ispirazione orchestrale brasiliana (le irrinunciabili São Paulo Underground e Exploding Star Orchestra – ancora un richiamo all’episodio 8!). E invece preferisce sempre più spesso contorcere il suono del proprio strumento attraverso una stratificazione di filtri, riverberi, effetti, echi e loop (provare per credere le sue ultime due sortite Clean Feed, Chants and Corners e Rome, oppure il meraviglioso Alien Flower Sutra con Emmett Kelly, uscito lo scorso anno per International Anthem). Mi viene in mente un utente che anni fa su di un forum di musica confessava di non essere riuscito a capire un concerto di Miles di fine ’80 in Italia, in cui il trombettista si era limitato a “passeggiare sul palco smozzicando due-tre note qua e là per pochi istanti ogni tanto” (che sia stata la prima ispirazione del Kyle MacLachlan “jazzato” di questa Twin Peaks?). Mazurek è uno di quei personaggi che mi sembrano svelare il mistero del contemporaneo rinunciando a qualsiasi tentativo di dichiararlo, e Astral Cube, la jam particolarmente ispirata e caotica incisa con il collettivo di Austin (tra cui terroristi del rumore come il sassofonista Jonathan Horne e il chitarrista Steve Jansen) che per l’occasione ha preso il nome di Black Cube Marriage, fuori per El Paraiso Records, è forse la più esplosiva tra le sue affollatissime uscite del 2017 (che credo si aggirino già quasi intorno alla decina), anche quando ti fa giusto venire voglia di
riprendere in mano il primo Miles elettrico. E poi, già dal titolo, sta bene sia con Lynch che con i quadretti neri di Vitali. Quella sera di luglio alla Casa del Jazz, d’altra parte, in pieno accordo con il suo cipiglio da brutto ceffo di Chicago, Mazurek non ha emesso alcuna parola dalla bocca, se non una serie di acuti tribali subito passati attraverso la caverna rimbombante del procedimento elettronico (Astral Cube è pieno di roba del genere): con Dougie si capirebbero a meraviglia. E quando pensate che il drone da selva sonora stia ad un passo dal distrarvi dal tessuto musicale sbrindellato, ecco che la tromba di Mazurek compare lì perentoria a squillarvi hello-ooooooooh! RADIO RAHEEM Passeggiate profane con lo stereo in spalla per i suoni che si sentono là fuori, con l'Amore in una mano e l'Odio nell'altra: music is not the sound you hear, music is the people themselves. Segui RADIO RAHEEM su Spotify: https://open.spotify.com/user/radioraheem_ss
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il volto di
Kyle MacLachlan
di luca marchetti
All’inizio de La teoria della sirena, l’undicesimo episodio della sesta stagione della fortunata serie How met your mother, il gruppo di amici capitanato dall’insopportabile Ted si ritrova, da copione collaudato della sit com, a chiacchierare davanti a un cartoccio di cibo cinese. L’argomento della conversazione è il motivo del perché il Capitano, marito di una delle tante fiamme del protagonista e interpretato da Kyle MacLachlan,
sia così inspiegabilmente inquietante. La risposta è presto detta. Sottolineato da dimostrazioni fisiche costruite su una gigantografia del suo ritratto frontale, il motivo del respingente terrore che turba le vuote chiacchiere di questo gruppo di rassicuranti giovani newyorkesi è situato nel compromesso ambiguo del suo volto, dove il sorriso accomodante e accogliente da uomo di successo deve sposarsi con degli occhi crudeli da sociopatico.
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FACES
Quella dell'attore è una faccia che, nelle sue rughe, custodisce il paternalismo più mediocre e inoffensivo e le sue atroci derive, le sue sporche pulsioni, i suoi terribili misteri
FACES
Kyle MacLachlan in How Met Your Mother
Ecco svelato l’arcano: ancora una volta il motivo che rende “osceno” ai borghesi e vuoti eroi di questa storiella americana, fatti da lineamenti burrosi ed espressioni scontate, è l’incapacità di sostenere il confronto con una faccia che, nelle sue rughe, custodisce, allo stesso tempo, il paternalismo più mediocre e inoffensivo e le sue atroci derive, le sue sporche pulsioni, i suoi terribili misteri. È questa la differenza sostanziale: mentre i protagonisti di HMYM hanno svenduto le proprie bellezze inoffensive a narrazioni tradizionali, il volto di MacLachlan è diventato, in televisione, il marchio del Disturbante, rappresentato alle volte dall’ambiguo agente FBI, dall’avvocato truffaldino o dal politico-capitalista ambizioso. Sono passati decenni da quando David Foster Wallace, in uno dei suoi tanti, sublimi, sfoggi di lucida e gratuita crudeltà, etichettava MacLachlan come un “nerd dalla faccia di patata”. L’attore, pur non avendo trasformato la sua “assurda fisionomia” in un marchio di fabbrica (troppo banale per diventare un divo belloccio
alla Clooney, troppo pulito per essere un affascinante freak alla Walken), ha saputo attraversare, meglio di molti altri, la televisione degli ultimi venti anni. Il percorso coerente di Kyle lo ha visto passare da padre-fondatore della serialità (attore affermato, abbracciò con sfida il piccolo schermo ben prima della moda interpretativa odierna) a figura chiave, bislacca e confusionaria, della televisione mainstream di oggi, specie quella fatta da prodotti rivolti al pubblico femminile della classe media. La sua continua presenza fuori posto nell’immaginario visivo statunitense, villain Marvel o marito benestante in Sex and The City/Desperate Housewife non è importante, è l’evidente traguardo “autoriale” di un interprete che ha saputo cavalcare quell’ambiguo equilibrio fisiognomico che, agli inizi degli anni 80, conquistò David Lynch. Chissà se il regista di Una storia vera sorride pensando che l’incontro con il suo alter-ego preferito è avvenuto nel modo più tradizionale possibile, in una storia che sembra uscita fuori dagli aneddoti ci-
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Velluto Blu Foto grande: Dune
ancora troppo giovane, nei panni del messianico eroe Paul Atreides fu un chiaro esempio di miscasting (eppure, attore appena ventenne ma dalla sorprendente padronanza recitativa, Kyle nei provini dimostrò un carisma e una conoscenza del testo originale di Frank Herbert talmente impressionante da convincere perfino Dino De Laurentiis) ma “l’errore” di Dune, nato dalla cornice più mainstream possibile, ha generato uno dei più forti cortocircuiti cinematografici. Un famoso scrittore scrisse che ogni autore è nato per raccontare una sola storia. Parafrasando impunemente la bella massima ci sentiamo di dire che anche Kyle MacLachlan è nato solo per raccontare la storia di David Lynch. Il regista vide nel ragazzo qualcosa di sé, della
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FACES
nefili degli anni cinquanta. La pachidermica produzione di Dune cerca una giovane star a cui affidare il kolossal. Dopo centinaia di provini, di video visionati e di file interminabili di aspiranti attori, ecco scoccare il colpo di fulmine tra regista e interprete. Probabilmente come notato da David Foster Wallace, nel famoso articolo da cui è presa la citazione del nerd e della patata, la scelta di MacLachlan,
FACES
Welcome to the Rileys
sua infanzia, di quel legname e di quei boscaioli per lui, da sempre, immagine radicata di un’America superficialmente felice e ottusamente topica. Da Velluto Blu in poi, David usa Kyle e Kyle ritrova David, in un gioco delle parti che, ballando sulla superficie incrina le maschere
e i veli dell’apparenza. Sappiamo bene che tra le tante, troppe, riflessioni e interpretazioni del cinema di Lynch quella della “rottura dell’ipocrita superficie della società americana” sia quella più immediata e scontata. Eppure gli sguardi attraverso le crepe di quel benessere fatto da villini a schiera, prati appena falciati e fette di apple pie, il ritrovarsi di fronte all’abisso dell’otherside mantengono sempre una forza destabilizzante spropositata. L’altro lato accarezzato in Velluto Blu, immaginato nelle prime stagioni di Twin Peaks e, finalmente, ammirato nel revival di questi giorni, si conferma la realtà inconscia e disgustosa che freme sotto tutto il nostro vissuto, che cerchiamo di nascondere con le nostre bugie e con le nostre abitudini. Quel mondo sommerso che, risorgendo sul volto del Capitano MacLachlan, terrorizzava gli inutili amici di How Met Your Mother e che, nel triplo volto dell’attore nel nuovo Twin Peaks, trova, alla maniera degli indiani Yakama, il definitivo totem-portale.
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INTERVISTE
Out of the Past Conversazione con Gian Luca Farinelli di simone emiliani
In occasione della 31° edizione di Il Cinema Ritrovato, che si è svolto a Bologna dal 24 giugno al 2 luglio, abbiamo parlato con il suo creatore, Gian Luca Farinelli, uno dei maggiori esperti internazionali di restauro di tutto il mondo, ideatore e creatore del festival dal 1986 e Direttore della Cineteca di Bologna dal 2000. Oltre che del programma del festival, abbiamo parlato di come affrontare il restauro in futuro con il digitale, dei
costi, dell’attività di distribuzione in sala. Inizierei a parlare della 31° edizione de Il Cinema Ritrovato. È un festival che hai creato nel 1986. Mi puoi parlare di come è nato e si è sviluppato? È nato anche casualmente. La Cineteca di Bologna aveva ereditato un evento storico che si svolgeva a Porretta, il Festival del Cinema Libero che era stato un momento di grande importanza all’inizio degli anni
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FARINELLI
Sessanta, perché rappresentava una sorta di contro-Venezia. Era stato creato prima di Pesaro poi è entrato in crisi. Allora è stata presa la decisione di trasferirsi a Bologna. Si era discusso molto su come doveva diventare questo festival e che cos’era il cinema libero. Prima aveva mostrato la Nouvelle Vague nel mondo. Ma ormai, all’inizio degli anni Ottanta, la Nouvelle Vague era al pari del mainstream. Così piacque l’idea che proponemmo io e Nicola Mazzanti. Il cinema libero, quello veramente invisibile, apparteneva al passato. Divenne rapidamente un festival delle Cineteche, con film della storia del cinema. E poi, con
programmi sempre più complessi, era anche un festival che mostrava la Storia, quella del ‘900. Alla metà degli anni ’90 il festival ha cambiato data. Da fine dicembre è passato a fine giugno. Con la possibilità di fare le proiezioni serali in Piazza Maggiore. Questo cambiamento ha trasformato l’evento, che era di nicchia e per specialisti, in un festival per il grande pubblico. Quindi è diventato un luogo per specialisti dove ogni anno si ritrovano tutti i cinéphiles del mondo. Però ora ha anche un pubblico enorme. In una settimana arriva ad avere circa centomila spettatori. All’inizio degli anni Duemila si apre poi l’orizzonte del digitale. Con la
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INTERVISTE
In basso il manifesto di Man from Plains e Una vedova allegra... ma non troppo
possibilità, per chi detiene grandi archivi, di digitalizzarli e renderli disponibili. Così questa attività, che fino a quel momento era stata appannaggio delle cineteche, diventa interessante per gli “aventi diritto” del mondo. Quindi parte una nuova stagione di grandi restauri che vengono fatti non solo dalle cineteche ma anche, per esempio, dalla Universal, la Sony o la Warner. E questo fa sì che l’operazione di restauro e conservazione del patrimonio cominci a riguardare una platea sempre più ampia. Che è composta anche da giovani che vengono a Bologna per conoscere il passato del cinema, come è non possibile fare altrimenti. Perché è vero che oggi, attraverso le diverse piattaforme, ci sono molteplici possibilità per farlo. Quando avevamo iniziato nel 1986 la prima rassegna che facemmo era su Fritz Lang. E all’epoca era molto compli-
cato trovare i film. Oggi sul web invece la sua filmografia c’è tutta o quasi. A Bologna però i film si vedono nelle migliori condizioni possibili. Quindi è un’occasione unica per vedere le copie restaurate, in 35 mm. Con le presentazioni di grandi critici e dei protagonisti dei film. Gli appassionati vengono da tutti i continenti (Estremo Oriente, Sud America, Nord America, Europa) e in quella settimana Bologna diventa il paradiso dei cinefili. Lo abbiamo già accennato, ma mi interessa sapere soprattutto il riscontro da parte delle giovani generazioni. Devo ammettere che ho pensato: “Questo è un festival che si esaurirà perché il pubblico dei cinéphiles non ci sarà più per raggiunti limiti di età”. Negli ultimi cinque anni invece si è invertita la tendenza e la maggioranza del pubblico
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FARINELLI
è giovane. Ci sono circa una ventina di università di tutto il mondo che portano i loro studenti. Poi ci sono anche ragazzi che vengono per conto proprio. Che magari l’anno prima avevano partecipato a un corso universitario e poi si sono innamorati del festival. Il Cinema Ritrovato è diventato anche un luogo di incontro. Penso che oggi sia il festival più internazionale che c’è in Italia.
no provare il gusto e il piacere di vedere un film su uno schermo assieme ad altri bambini ed altre persone.
Tra l’altro c’è anche una sezione del festival che si chiama “Kids & Young” che guarda verso il futuro con la partecipazione attiva degli studenti che realizzano materiali promozionali, intervistano i protagonisti, girano clip… Si c’è proprio una specifica attenzione verso un pubblico di giovani che vuole misurarsi con il cinema, anche come professione. Come hai sottolineato, c’è proprio una sezione “kids”. Perché li vogliamo prendere proprio da piccoli. Con l’idea che, seppur giovanissimi, posso-
Perché è stata scelto Robert Mitchum per il manifesto di quest’anno? Intanto quest’anno è il centenario della sua nascita. Poi resta un attore unico. Forse prima di lui si possono ricordare attori come Bogart, così indipendenti, la cui biografia corrisponde in maniera così perfetta al personaggio che portano sullo schermo. Dopo di lui forse i più grandi sono stati James Dean, Marlon Brando. Ma la cosa unica di Robert Mitchum è che in lui non c’è nulla di costruito. Lui era proprio così. Uno straordinario interprete, un eroe testardo, sensibile, sconfit-
"La cosa unica di Robert Mitchum è che in lui non c’è nulla di costruito. Lui era proprio così. Uno straordinario interprete, un eroe testardo, sensibile, sconfitto, generoso, intrattabile"
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INTERVISTE In basso: Audrey Hepburn - Gigi
to, generoso, intrattabile. Che comunque non segue mai un interesse, ma sempre la sua stella, la sua anima. Resta un attore grandioso di quella nuova sensibilità che si stava creando nel dopoguerra. Restano memorabili le sue frasi dopo essere stato convocato dalla commissione per le attività antiamericane dove ha il coraggio di rivolgersi a loro dicendogli: “Signori, ve l’ho detto, non ho altro da dire. Se volete chiamatemi”. Pochi altri suoi colleghi sono riusciti a fare altrettanto. Quindi ci piaceva raccontare questo attore che è forse grande per noi ma magari per i giovani è sconosciuto. E abbiamo trovato questa immagine che ci sembra che corrisponda molto a Il Cinema Ritrovato. Con il dettaglio sugli occhi. Intravediamo chi è. E svelare delle immagini che ci sembrano oscure è proprio nella filosofia del nostro festival. In questo senso l’edizione di quest’anno è proprio piena di sconosciuti. A partire da Samuel Khachikian che fino ad ora non è mai stato visto fuori dall’Iran. È stato il primo regista ad avere il suo nome prima dei titoli di testa. Era armeno, quindi straniero in patria ed è stato il primo cineasta di genere (realizzava thriller e horror) nell’Iran dello Scià. Fuori dal proprio paese il suo cinema non si poteva vedere soprattutto dopo la Rivoluzione. C’è anche il caso di Colette, personalità della letteratura francese ed europea. Noi la osserviamo non solo attraverso i film tratti dalle sue opere, ma soprattutto quelli che lei ha amato. È stata infatti un critico cinematografico molto acuto. La sezione dedicata a lei è anche uno sguardo sui primi 50 anni della storia del cinema, partendo da Musidora e Mae West e arrivando ad Audrey Hepburn che
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FARINELLI Frou Frou, di Augusto Genina
ha il suo primo successo interpretando a teatro proprio Gigi di Colette. Questo per dire che, anche quando abbiamo un personaggio conosciuto come quello di Colette, cerchiamo comunque di prenderlo da un punto di vista non banale. E tutte le venti sezioni del festival sono il frutto di ricerche di mesi, se non di anni. Un’altra cosa unica o comunque molto rara de Il Cinema Ritrovato è che molte delle rassegne che vengono fatte qui, poi vengono replicate a livello internazionale. È successo, per esempio, con quella dedicata alla Universal che ha restaurato opere importanti. Per tutti noi, negli anni Trenta, era la casa di produzione che faceva i film dei mostri. In realtà all’epoca rappresentava il centro delle novità dove lavoravano i registi più interessanti. Al di là di Dracula, Frankenstein e della mummia, c’era un corpo di opere formidabili. L’anno scorso abbiamo fatto una prima
sezione e quest’anno ce ne sarà una seconda. Perché i film erano così tanti e interessanti che ci dispiaceva metterli in programma solo un anno. E poi questa retrospettiva ha fatto il giro del mondo. E su Augusto Genina, regista cosmopolita? Genina è un altro degli “ormai” sconosciuti. Abbiamo chiesto a un archivio di darci accesso a un film e ci hanno risposto: “No, perché la copia non ce l’abbiamo restaurata. Del resto noi ci occupiamo soltanto dei grandi registi italiani”. Che è una risposta abbastanza scontata nel senso che Genina non rientra tra i più importanti cineasti del nostro paese. Visto oggi, è invece un autore assoluto.Ha lavorato con Francesca Bertini, Pina Menichelli, Louise Brooks, Jean Gabin. Poi nel suo ultimo film (Frou-Frou del 1955), tra i tanti interpreti ci sono Gino Cervi e
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INTERVISTE
Louis de Funès. Insomma, un signor regista che ha attraversato il cinema europeo e che ha lavorato in Germania e in Francia con grande successo. Che ha vinto il Festival di Venezia quattro volte. È vero che in tre occasioni erano gli anni del fascismo. Ma è un cineasta che non è proprio così banale. E, rivisti oggi, i suoi film sono tutti di grande fattura. È un Howard Hawks che però non ha avuto la fortuna di lavorare ad Hollywood. Aggiungo che, oltre a tutto questo, ci sarà la parte muta con gli accompagnamenti
credo che questa combinazione rappresenta un vero shock estetico.
"La storia del cinema è piena di zone d’ombra. Perché, inevitabilmente, a seconda dei periodi, emergono alcune figure piuttosto che altre"
In generale… In realtà la storia del cinema è piena di zone d’ombra. Perché, inevitabilmente, a seconda dei periodi, emergono alcune figure piuttosto che altre. Penso poi che anche all’interno dell’opera di un singolo, ci siano lì delle parti oscure. Del resto il cinema ha una storia molto lunga, di 123 anni. Che, certo, paragonati alla storia dell’arte, non sono niente. Però è un periodo piuttosto ampio. Una questione importante è sicuramente quella geografica. La storia che noi abbiamo in mente si riferisce essenzialmente all’Occidente, in particolar modo quella europea e hollywoodiana. In realtà, soprattutto dagli anni Trenta, il cinema è mondiale. Tutti producono film. E negli ultimi anni anche Il Cinema Ritrovato ha cercato di allargare lo sguardo. Quest’anno, per esempio, abbiamo il Giappone, il Messico, l’Estremo Oriente, l’Africa. Questo proprio per cercare di dare un quadro che non si riferisca soltanto all’Europa e ad Hollywood. L’altra questione riguarda i primi vent’anni della storia del cinema. Siccome i film sono muti e spesso sono dei cortometraggi, sono difficili da programmare. E
musicali. Ci saranno una decina di pianisti provenienti da tutto il mondo e che sono degli specialisti. Poi, in occasione delle proiezioni serali, ci saranno delle grandi orchestre. Volevo segnalare anche la serata avanguardie dove, in onore di Fantozzi, mostreremo La corrazzata Potemkin restaurato con orchestra e che sarà aperta dal prologo de La roue, che è un film “impossibile” di Abel Gance, realizzato prima del Napoleon (è del 1923). Durava 8 ore, è in corso di restauro, che sarà concluso nel 2019. Quest’anno mostriamo quindi i 20 minuti del prologo. Cocteau, quando lo vide, disse: “Come la storia della pittura è cambiata da Picasso in poi, così la visione di La roue cambia la nostra idea di cinema perché è una combinazione assoluta di spettacolo totale tra immagini, schermo, musica”. Tra il film di Gance e quello di Ejzenstejn c’è una distanza di appena due anni. E
Quali sono secondo te le aree più scoperte della storia del cinema? Quali film sono più difficili da recuperare? Sto pensando ad alcuni registi espressionisti come Lupu Pick o Paul Leni. Oppure anche alcuni titoli del cinema italiano di Alessandrini e Gallone. Lo dici rispetto al nostro programma o in generale?
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In basso: La roue, di Abel Gance
persa memoria. Ti sei laureato con una tesi sul restauro cinematografico, sei Direttore della Cineteca di Bologna dal 2000. Hai visto quindi anche un’evoluzione in questi anni. Mi risulta che dal 1992 siano state restaurate 1500 pellicole. È giusto? Sì. Penso però che in futuro si potrebbe porre il problema del restauro del digitale. Penso soprattutto al cinema filippino. Mi chiedo quindi, tra circa 30/40 anni, che tipo di lavoro bisognerà fare...
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FARINELLI
richiedono a volte l’intervento dei musicisti. Quindi possono essere costosi. Quella parte di storia del cinema, che tra l’altro è straordinariamente interessante perché sono i primi anni nei quali si definisce un linguaggio e un modo di raccontare (non essendoci la parola tutto è diverso), è poco nota. Poi c’è un altro elemento che riguarda le mode. Ricordo che nella seconda metà degli anni Settanta, anche grazie a un film come Il conformista, ci fu una riscoperta degli anni Trenta. Per esempio il cinema italiano di quel decennio era visibile anche in televisione. Da allora è completamente dimenticato. E quindi, per esempio, di Camerini, Blasetti e Alessandrini, oggi si è effettivamente
INTERVISTE Questo è un tema molto rilevante. Dopo tanti anni (è dal 1983 che lavoro alla Cineteca di Bologna), mi sono convinto che bisogna fare una netta distinzione tra l’attività di conservazione e quella di restauro. La prima ha un desiderio di eternità. Cioè, si cerca di conservare al meglio affinché i materiali possano restare per sempre. Il restauro invece non è eterno. A Bologna, per esempio, da quando sono nato ad oggi, ho visto restaurare per ben tre volte la facciata della chiesa più importante della mia città che è San Petronio. Nelle arti maggiori non è mai, quindi, un’attività eterna ma “a tempo”. Perché, man mano che avanza, anche il restauro subisce dei danni ed è necessario intervenire nuovamente. Questa cosa, nel restauro cinematografico, è stata molto evidente. Nella nostra storia de Il Cinema Ritrovato abbiamo mostrato tre
volte la versione restaurata di Metropolis. In versioni diverse, le migliori che c’erano in quel momento. Perché, nell’arco di 20/25 anni, sono stati ritrovati vari materiali. E, nel frattempo, le tecnologie sono avanzate. Quindi, quello che non è stato possibile fare dieci anni prima, lo è diventato successivamente. Ma questo è anche un limite. Perché vuol dire che anche le tecnologie appartengono al tempo in cui sono state create. Se vedo un restauro di dieci anni fa, vedo la tecnologia di quel periodo. Il restauro non è mai trasparente e porta sempre un segno di un’epoca che non è più la nostra. Questo fa sì che questo lavoro, che è importantissimo perché restituisce un film del passato al pubblico di oggi, sia un po’ come la tela di Penelope. Quindi, che abbia costantemente bisogno di nuovi interventi. E veniamo al punto della tua domanda. Fino
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In basso: La corazzata Potemkin Nella pagina precedente: Metropolis
Una curiosità. Quanto costa in media il restauro di una pellicola? Ci sono diverse variabili: la lunghezza,
la complessità, i materiali di partenza. E anche i materiali di arrivo, che sono solo digitali o c’è un ritorno su pellicola. Per cui il range è veramente enorme. Ti posso dire che può variare tra i 10.000 e i 300.000 euro. Dipende da quello che si può e si deve fare. Volevo ora soffermarmi sulla vostra distribuzione dei film in sala. Recentemente è uscito Manhattan e tra gli altri titoli ci sono stati La grande illusione, Rocco e i suoi fratelli, l’edizione di I pugni in tasca di Bellocchio mostrata in occasione del 50° anniversario dall’uscita al Festival di Locarno. E ancora, molto Rossellini. Come risponde il pubblico? Sì, siamo ormai arrivati alla quarta stagione. E i dati del pubblico vanno da un minimo di 4.000 spettatori a un massimo di 20.000. È un range molto buono
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FARINELLI
a quando c’è stata la pellicola, c’era un orizzonte che dava una certa sicurezza. Oggi, che la conservazione si fa sui dati digitali, i rischi sono enormi perché non abbiamo nessuna certezza sulla loro tenuta. Per questa ragione, tutti gli archivi digitali del mondo e le majors continuano a conservare i film in pellicola. Questo è possibile per i film più importanti, per gli ”aventi diritto“ più ricchi. Però è chiaro che per il cinema indipendente di paesi come le Filippine, questo sarà sempre di più un problema molto grave in prospettiva. Come risolverlo? Non c’è una soluzione automatica. Gli archivi hanno in corso una battaglia che è durissima, da cui dipende il futuro della memoria del cinema più indipendente.
INTERVISTE anche se si mette a confronto col sistema francese dove c’è un sostegno rilevante per il cinema del passato. Abbiamo sperimentato che il lavoro che fa la sala è molto importante. In alcune di queste abbiamo dei dati straordinari. Sono quelle che hanno un rapporto con il pubblico e che sanno promuovere l’evento e la particolarità di certe proiezioni. Meno la sala è in grado di fare questo lavoro e meno pubblico si riesce ad attrarre. Al momento stiamo lavorando con una cinquantina di sale italiane e siamo abbastanza soddisfatti. I film normalmente escono il lunedì e il martedì e spesso diventano il miglior incasso cittadino. Credo che oggi, in questa fase di cambiamento molto forte, sia essenziale la capacità della sala di porsi rispetto a un suo pubblico come un centro permanente di proposta culturale. Chi riesce a fare questo lavoro, ottiene dei risultati molto interessanti sul cinema del passato. Ci sono delle anticipazioni per la prossima stagione? Due te le posso dare perché sono parti integranti del festival. A novembre ci
sarà il centenario della Rivoluzione russa e quindi non potevamo non fare La corrazzata Potemkin. L’altro invece riguarda l’opera di Jean Vigo, recuperata per conto della Gaumont, composta da un lungometraggio, un mediometraggio e due corti. E quindi, L’Atalante. E lo spezzone di questo film, per merito di una delle operazioni più geniali alla Duchamp della cultura italiana cioè il lavoro che ha fatto Ghezzi con la sigla di “Fuori orario” con il tuffo ad occhi aperti di Julien che cerca sua moglie e che la vede sposa sott’acqua con sotto la musica di Patti Smith, è probabilmente una delle immagini del cinema del passato più note nella mente degli italiani. Questo è stato un restauro importante. Perché restituisce molto della fragilità di quel film che è pieno delle intuizioni del cinema successivo. Ci sembrava quindi logico riportarlo nelle sale italiane. Alcune di queste non faranno solo L’Atalante ma anche un “piccolo festival Jean Vigo” con gli altri film. Volevo ora passare al vostro lavoro con la famiglia Chaplin e il restauro dell’opera integrale di Buster Keaton.
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Le catene della colpa
Un’ultima curiosità. Ho trovato una tua classifica della top ten del cinema italiano dove avevi inserito Ladri di biciclette, Germania anno zero, Senso, La grande guerra, Il posto, Mamma Roma, Il caso Mattei, Amarcord, Il conformista e C’era una volta in America. In una top ten internazionale chi metteresti? È un po’ dura. Posso farti una top tendei film del festival. Allora ci metto Il laureato perché quest’anno sono i 50 anni e facciamo la proiezione in piazza. Sarà un momento sublime. Poi ci metto sicuramente La corrazzata Potemkin e L’Atalante. Inoltre Giungla d’asfalto, Johnny Guitar, Blow-up, Out of the Past (Le catene della colpa), Trouble in Paradise (Mancia competente), un muto, Kean e Prix de beauté (Miss Europa).
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FARINELLI
Il lavoro con la famiglia Chaplin prosegue. È stato enorme. Abbiamo restaurato tutti i film in 35mm poi è arrivato il digitale e quindi è stato infinito. Però è stato fatto moltissimo. Anche con il restauro di tutti i suoi cortometraggi che erano poi la parte fondamentale della sua filmografia, ma fino a quel momento non era disponibile in versioni accettabili. Quindi abbiamo veramente ricostruito il corpus di quello che è probabilmente il più grande autore della storia del cinema. Fatto Chaplin non potevamo non fare Buster Keaton. E ci sembrava quasi ingiusto non farlo visto che non ha, come Chaplin, una famiglia che se ne occupa. Lì abbiamo ancora due anni di lavoro per restaurare tutti i suoi 20 film. Però siamo già piuttosto avanti.
INTERVISTE
il cinema è un tiranno Conversazione con Miguel Gomes
a cura di aldo spiniello, sergio sozzo, martina ponziani
Abbiamo incontrato Miguel Gomes lo scorso dicembre ad Avellino, al 41esimo Laceno d'Oro, il festival di cui è stato uno degli ospiti d'onore. Un po' come lo avevamo immaginato, un uomo silenzioso, sornione, ma dall'ironia tagliente, contagiosa. Che non ama prendersi e prendere le cose troppo sul serio. Non è stato semplicissimo indurlo ad aprirsi, ma tra un bicchiere di vino e l'altro, abbiamo
stabilito un contatto con lui, con le sue idee sul cinema, le storie, la musica, il mondo... Per la traduzione dal portoghese ringraziamo Francesca Cerbini. Nei tuoi film c’è sempre la sensazione che si possa fare cinema come un gioco con le cose, come se qualsiasi spunto possa diventare una traccia per costruire una storia, far nascere
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In basso: Pre Evolution Soccer’s One-Minute Dance After a Golden Goal in the Master League e foto grande, Gomes in una scena di Arabian Nights
più do it yourself di così… Con Arabian Nights però in qualche modo tu fai davvero un musical, come quella sorta di Woodstock che vediamo nel terzo episodio, in cui giochi a ricreare un mondo incantato ma mescolandolo con influenze hippie, da figli dei fiori. Oppure i Ramones in Tabu, Lionel Ritchie sempre in Arabian Nights, o la musica che accompagna le scene sulle contesta-
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GOMES
una visione. Pensiamo a Pre Evolution Soccer’s One-Minute Dance After a Golden Goal in the Master League, il tuo corto girato con la Playstation, ad esempio… Sì è vero, si può approfittare di qualsiasi cosa ma forse quella volta ho esagerato! È stata una richiesta esplicita del festival di Rotterdam, quella di fare film che durassero solo un minuto, e dopo aver fatto One-Minute Dance ho capito che non farò mai più opere così corte. Per riequilibrare ne ho girato uno di sei ore! Se però c’è una cosa che mi piace molto nel cinema è il genere musical, e per sopperire alla voglia di farne uno come si facevano negli USA negli anni ’50-’60 ho preso proprio questo videogioco con l’idea di impiegarlo per realizzare un brevissimo musical fatto in casa:
INTERVISTE
Arabian Nights
zioni in Portogallo, che sembra quasi una voce narrante… Ci sembra che la musica sia uno strumento che tu utilizzi per decontestualizzare e portare la realtà verso quella dimensione incantata propria del tuo cinema… La musica è importante nella vita e per questa ragione è importante anche nel cinema. Perché quello che è importante nel cinema deve essere importante anche nella vita. La musica è un’arte molto fisica che dà la possibilità di cambiare la nostra percezione delle cose nel momento in cui la ascoltiamo. Forse sono un DJ mancato. Quella sui moti portoghesi è una canzone sudamericana che all’interno del film appare in diverse versioni, e quella a cui ti riferisci è la versione messicana. Vista la lunghezza del film, ho avuto la possibilità di inserire diverse versioni di una sola canzone. E questa scelta credo che abbia molto a che vedere con il film: un elemento che si ripete, che nella sostanza è uguale, ma ha una forma diversa, che si trasforma. Ed è come dire che non c’è un solo modo di intendere una determinata realtà ma ci sono molti punti di vista. Come la comunità di Bagdad che citi: nel terzo episodio di Arabian
Nights ci sono due comunità utopiche, quella degli uomini che può esistere solo al cinema, e quella degli uccelli che cantano che invece esiste nella realtà. Ora però vi svelo la verità su quella canzone: l’attrice che interpreta Scheherazade è molto brava a cantare. L’ho scelta quando ancora non c’era una sceneggiatura, non sapevo cosa avrebbe fatto tranne che avrebbe cantato. Le ho proposto varie canzoni e lei ha scelto questa. Da lì ho cominciato a farle interpretare diverse versioni perché avevo l’impressione che le avrei utilizzate tutte all’interno del film. È interessante questo aspetto delle varie versioni e il fatto che non ci fosse una sceneggiatura precisa. Perché Arabian Nights potrebbe essere visto proprio come uno lavoro sul narrare, uno studio sulle modalità e le strutture del racconto, sulle traiettorie narrative, su come intrecciarle. E questa ci sembra una delle chiavi del tuo cinema… Il mio è un tentativo di liberare lo spettatore dalla tirannia del cinema. Certo, il cinema è un tiranno molto più simpatico di Stalin e Hitler. Rimane un tiranno però,
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In basso e nella pagina seguente: Tabu
di dire: ma io ci credo? C’è quindi una profonda differenza tra dare la possibilità di credere ed imporre al film il proprio punto di vista. Questa funzione è per me la chiave della libertà dello spettatore. Ovviamente c’è la possibilità che lo spettatore dica: questa è una grande cazzata, non ci credo. La sottigliezza è proprio di permettere allo spettatore di dire: io ci sto dentro a questo film, voglio investire emozionalmente in quello che vedo. Questa capacità di rendere il cinema comprensibile nelle sue trame la associo al momento dell’infanzia in cui ci raccontano delle storie che sono assurde, sono irreali ma a cui crediamo totalmente. Quindi il cinema diventa una sorta di macchina del tempo che ci fa tornare ad essere in grado di sentire quelle storie. Il cinema esiste perché noi crediamo che esista, non perché esiste veramente. Particolarmente in Tabu, ma in realtà
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GOMES
nel senso che la relazione che lo spettatore ha con il cinema può essere molto passiva. E quindi non mi interessa solo raccontare ma anche poter raccontare il modo di raccontare. Per far sì che lo spettatore si liberi dalla tirannia. Perché un film in genere ti dice: qui devi piangere, qui devi ridere. E lo spettatore ha soltanto due opzioni: quella di rimanere a guardare o quella di andare via dalla sala. L’idea è di dare allo spettatore più opzioni: decidere per esempio se una scena fa ridere o fa piangere... ognuno prenderà la sua strada. E quindi una scena è una tragedia o una commedia? Quando il cinema non rappresenta una realtà di finzione ma in qualche modo è esposto nel suo modo di essere artificiale, quando è possibile vedere le trame della sua realizzazione, è a questo punto che lo spettatore recupera la possibilità di decidere se vuole credere o non vuole credere. E quindi gli si dà la possibilità
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In basso: Qualcosa di travolgente
in tutti i tuoi film, ragioni sempre sul presente ma c’è anche una costante fascinazione e maledizione del passato che torna. Tabu parte proprio dal presente poi torna nel passato per dar senso a quello che sta accadendo. Ed anche in Arabian Nights c’è tra la cornice favolistica e il resto delle storie un continuo andirivieni tra il passato ed il presente come a sottolineare una malinconia per un passato che non c’è più. Forse è per questo motivo che i tuoi film sono sempre pieni di spettatori interni, c’è sempre un momento in cui vediamo qualcuno ascoltare la storia. È come se fossero le storie ad inseguirci, ad inseguire i personaggi, come l’inizio di Arabian Nights in cui scappi letteralmente dal film. La storia è quindi una gabbia, in qualche modo? La storia è un pretesto che il cinema utilizza per mostrare persone, luoghi, rituali, ti fa ascoltare musica, tutto questo è solo un pretesto. Mi piace avere personaggi
musicisti, perché è un’opportunità di mettere musica nei film. Ci sono delle cose che a me piacciono indipendentemente dalla storia e dall’urgenza e le voglio mettere all’interno dei miei film. Le voglio condividere con il pubblico. Questa è la cosa magnifica del cinema: anche se è un’esperienza collettiva ognuno la vive con il suo modo di sentire, quindi ci
" La storia è un pretesto che il cinema utilizza per mostrare persone, luoghi, rituali" sono persone che piangono, altre che si distraggono. Nell’ultima parte di Arabian Nights, che è l’ultima di sei ore, Scheherazade coglie qualcosa di importante su di sé. Capisce che una bella storia può essere raccontata da chiunque, non deve essere necessariamente trattarsi di una persona che abbia avuto una vita interessante. Ognuno di noi può avere una buonissima storia da raccontare, anche se è una persona umile ci può raccontare qualcosa che ci sorprende. Anche il can-
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Foto piccola: Redemption
detto “sociale” e io la voglio evitare. La delicatezza e la violenza di quelle scene mi ha permesso di raccontare questa trasformazione sociale in modo originale e senza pregiudizi. Ho avuto la sensazione che questi uomini mettessero gli uccelli nelle gabbie, ma che loro stessi fossero a loro volta ingabbiati nella città. Abbiamo due prospettive che si contrappongono nelle scene degli uccelli: una parte che può risultare poetica, e un’altra che può apparire più violenta e che può lasciare inquieti perché si vedono comunque uomini che catturano uccelli. Se ci soffermiamo sulle persone, che sono comunque persone socialmente emarginate, a cui non sembra importare di questa loro marginalità, le vediamo dedicarsi ad una attività totalmente inaspettata. Si rompono dunque i nostri preconcetti su queste persone: sono forse
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to degli uccelli è una grandissima storia da raccontare. Per me il canto degli uccelli dell’ultima sezione di Arabian Nights è stato un modo per raccontare la città e la sua trasformazione soprattutto nelle sue parti più marginali, periferiche. È stato un modo per raccontare questi luoghi in maniera non demagogica, evitando di orientare lo spettatore già verso un giudizio. Questa è una cosa che succede molto frequentemente nel cinema cosid-
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In basso: Qualcosa di travolgente
Arabian Nights
dei poeti o degli alienati? Lo spettatore si trova perciò a dover scegliere tra i due punti di vista. Ci sembra un discorso chiaramente politico. Sfuggire al mercato, alla definizione industriale delle cose. L’unica rivolta possibile a questa situazione è la deriva, lasciar perdere il senso condizionato. I tuoi film raccontano l’incapacità di raccontare la storia in maniera canonica, e la bellezza del perdersi come atto militante… I film sono il risultato di come sono fatti. E per perdersi una persona non deve programmare di perdersi. È il tipo di scontro che c’è in Redemption: lo spettatore crede che a raccontare siano personaggi inesistenti, invece poi si scopre che sono figure politiche celebri. Prima ancora di scoprire chi siano i personaggi lo spettatore si immagina una storia attraverso quelle parole che confluiscono poi nella sorpresa finale. È scioccante ma credo che la redenzione non sia dei personaggi politici presi in causa ma piuttosto dello spettatore. Il cinema ha proprio la capa-
cità di ricreare il mondo a sua immagine. Questa specie di conflitto che si viene a creare tra quello che lo spettatore crede e quello che poi realizza non annulla il processo anteriore. Non so se dopo aver visto questo film Berlusconi possa risultare più o meno simpatico. La cosa interessante è che al cinema questo processo è possibile. Oppure, per Aquele Querido Mes de Agosto, ad esempio, la deriva è stata il motore del film, soprattutto quando è arrivato il produttore che mi ha detto che non avevo i soldi per fare quello che volevo. Mi ha detto di aspettare un anno mentre cercava i fondi e nel frattempo mi ha suggerito di scrivere un’altra sceneggiatura in modo di abbassare un po’ il budget. Mi sono depresso per giorni poi ho avuto un’idea. Ho chiesto una cinepresa ed una piccolissima equipe di cinque persone. Filmando, ho scoperto quello che sarebbe stato il film. Il posto in cui è ambientato è proprio dove andavo sempre da piccolo al mare per tutta l’estate: tutto ciò che è nel film sono cose che esistono e sono reali. I soldi che avevo
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In basso: Qualcosa di travolgente
GOMES Aquele Querido Mes de Agosto
di sopravvivere alla crisi è stata la crisi.
erano pochi ed avrei voluto girare di più. Con le scene che ho girato quell’estate ho poi costruito la nuova sceneggiatura. I film è costituito quindi da due parti: la prima parla di un regista che cerca i suoi personaggi, nella seconda parte tutto ciò che si è visto nella prima diventa un film. Quindi le persone che si vedono nella prima parte diventano attori nella seconda. I giochi, i rituali, la caccia del cinghiale, tutti questi avvenimenti popolari che sono filmati nella prima parte e sono reali come una sorta di documentario si trasformano poi in fiction. Il mio modo
La prima parte ha fatto quindi d’archivio da riutilizzare nella seconda metà. Quindi il cinema è una cosa folle in cui le immagini significano una cosa per noi ma potenzialmente significano mille altre cose. Sono riutilizzabili in mille altri modi tanto che si rischia di perdersi in questo mondo immaginario. Nelle Mille e una notte Scheherazade racconta delle storie per non morire. A che punto di questo gioco si torna alla vita? Con il cinema si torna alla vita perché è l’unica cosa che ci tocca realmente? Si torna alla vita quando si accendono le luci. Comunque il cinema è cinema, la vita è la vita. Ma per quanto possa essere artificioso il cinema, deve avere sempre un legame con la vita.
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SHADOWS
sentirsi vivo
Strana cosa sentirsi vivo solamente nel rischio di un perenne ritardo.
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L'entroterra degli occhi E poi arriva uno sguardo, un urlo in cui il mondo si scuce, ti guarda da dentro e non ti riconosce. Allora senti che non c’è accordo con nessuno. Dunque: esci per incontrare un albero, innamorati del mondo, ma non farne una storia, un vanto. E sappi che la miseria ti salva. E sappi che sei salvo quando si svela la tua pochezza. Pensa alla fortuna di non essere capito, pensa che c’è un punto in cui tutto si rompe. Non evitarlo mai quel punto, da lì puoi uscire dalla prigione in cui ti mette ogni volere, la prigione del benessere o del dispiacere… … Io sono la parte invisibile del mio sguardo, l’entroterra dei miei occhi. (Franco Arminio, poeta del meridione d’oriente)
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