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Politiche giovanili

Workshop 15-18 aprile 2009 Firenze

Intervento del prof. Gregorio Arena1

Cittadinanza attiva 18/04/09 Firenze

1. Registrazione non rivista dall’autore.


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Buongiorno a tutti. Ringrazio molto per la presentazione. Devo dire che questa cosa del libriccino trovato in libreria per caso mi ha colpito molto. È la tipica cosa che ogni autore si augura che avvenga. I libri sono un po’ come i figli: ad un certo punto se ne vanno per conto loro e tu non sai chi incontrano. Speri che facciano dei buoni incontri e, in questo caso, è stato così. Anche se in quel libriccino avevo messo nell’introduzione una mail dove dicevo all’eventuale lettore che, se aveva voglia di scrivermi qualcosa, poteva farlo lì. Qualcuno l’ha fatto. C’era quest’idea di rimanere in contatto con i lettori. Quindi scoprirne uno in carne ed ossa e poi così impegnato è stato un piacere. Sono io che vi ringrazio perché, come sempre in questi casi, si impara. Mi auguro ci sia tempo, dopo la mia relazione, per una discussione. Quindi cercherò di non andare oltre il tempo che mi è stato dato. Io insegno diritto amministrativo a Trento da trentacinque anni e il taglio con cui affronto lo studio dell’amministrazione è il rapporto fra amministrazione pubblica e i cittadini. E in più, diciamo, che studio l’amministrazione dalla parte dei cittadini. Quindi, l’obiettivo è il riconoscimento

dei cittadini da parte dell’amministrazione e cambiare la posizione dei

cittadini. Un detto americano dice “C’è chi vede gli alberi e che vede la foresta”. Quello che penso che possa esservi utile oggi è portarvi su un albero molto alto per vedere il sistema amministrativo nel suo insieme e dargli il senso e la profondità del cambiamento. Questa è una cosa che chi lavora dentro un’amministrazione e all’interno di questa relazione fra cittadini e amministrazione non percepisce (anche perché i cambiamenti dentro le amministrazioni sono molto lenti). Ho usato in un’altra occasione la metafora del ghiacciaio. Se voi state sopra un ghiacciaio non percepite il movimento dei ghiacciaio che sta scivolando verso valle, ma se puntate un picchetto e tornate uno o due anni dopo, vedrete che quel picchetto si è spostato. Ecco le amministrazioni pubbliche cambiano, e sull’arco di trentacinque anni, uno può vedere i cambiamenti, ma chi ci vive dentro, chi ha rapporti con le amministrazioni, non se ne rende conto. Allora, senza annoiarvi con ricostruzioni storiche, andremo per grandi appuntamenti. Tutto comincia nel 1861 col Regno D’Italia. La cosa interessante è che l’amministrazione pubblica viene usata consapevolmente, dalla classe dirigente dell’epoca, per tenere insieme il paese. Il problema era che questa nuova nazione, che si era formata, era circondata da stati ostili, molti dei quali erano ostili che non volevano l’unità nazionale. E c’erano delle spinte centrifughe molto forti: quelle che a scuola ci hanno insegnato essere ad esempio il brigantaggio meridionale. In realtà erano forme di resistenza verso quella che veniva vissuta come un’annessione forzata. Quindi per controllare queste

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forme di resistenza interna si adottò il modello francese: fortemente centralizzato e fondato sulle prefetture. I prefetti controllavano tutto il paese. Non è un caso che Giolitti prima e Mussolini poi, fossero entrambi, al tempo stesso, capi del Governo e ministri degli interni. Il vero potere era l’amministrazione. Il prefetto e il questore controllavano tutto. Pensate che Mussolini ogni mattina riceveva bollettini dalle questure dove veniva a conoscenza di tutto ciò che accadeva nel territorio. Quindi l’amministrazione fu usata consapevolmente come macchina di controllo. Non che non ci fossero alternative: pensate, ad esempio a Cattaneo e al suo federalismo. C’erano delle possibili ipotesi diverse, ma fu scelta la realizzazione di un’amministrazione gerarchica, dura, centrata, che teneva insieme cento città e tante excapitali. L’altro aspetto fondamentale è che l’amministrazione aveva una funzione nel costruire le basi per lo sviluppo di questo nuovo paese senza strutture. Quindi le infrastrutture. I migliori ingegneri, nella II metà dell’800 e nei primi anni del ‘900, lavoravano dentro il ministero dei lavori pubblici. Non era come oggi che tutto veniva appaltato, erano dentro, progettavano dentro, tanto che in quegli anni è stato costruito tantissimo. Interessante, sotto un altro punto di vista , è che in quegli anni, l’amministrazione contribuì all’emancipazione femminile. Furono introdotte nuove tecnologie, quali il telegrafo e il telefono, e per qualche ragione furono considerate tipiche occupazioni femminili. Quindi, per la prima volta, migliaia di ragazze e di donne uscivano di casa per il proprio lavoro diventando il primo passo di un percorso di emancipazione. Tenete conto che solo il suffragio maschile è stato introdotto nel 1911. Venendo a oggi, l’amministrazione con cui abbiamo a che fare proviene da questa amministrazione, che appartiene al paradigma bipolare. In cosa consiste questo paradigma? I paradigmi scientifici sono degli schemi teorici che non vengono messi in discussione normalmente da chi li applica. Un fisico, quando entra in laboratorio al mattino, non si pone la questione se la teoria della relatività sia corretta o meno. La applica. I paradigmi scientifici sono dei grandi schemi teorici che orientano il modo di pensare, studiare, lavorare di tutti coloro che li accettano. Tutti diamo così per scontato che l’amministrazione pubblica debba essere organizzata secondo questo paradigma bipolare. Perché bipolare? Come dice Sabino Cassese, perché formato su due poli, fra loro in conflitto e non dialoganti e che sono – da un parte – il polo del pubblico, dell’amministrazione, e – dall’altra – il polo dei soggetti privati. Perché sono asimmetrici fra loro? Perché se l’amministrazione pubblica ha il monopolio dell’interesse pubblico, è ovvio che sovrasti l’interesse privato. Tutti diamo per scontato che gli interesse pubblici siano superiori a quelli

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privati. Tenete conto che questa grande operazione intellettuale comporta il fatto che la decisione di che cosa sia interesse pubblico spetta al legislatore. È questo il paradigma che noi continuiamo inconsapevolmente a usare ancora oggi. Da un lato è molto potente perché continua a permeare di sé le amministrazioni anche quando, nella II metà del ‘900 (quindi anche dopo la II guerra mondiale), cominciano a diventare amministrazioni di prestazione, cioè che forniscono servizi. Nel II dopoguerra, in Italia, come in altri paesi, si espande lo Stato sociale fondato sul riconoscimento dei diritti sociali di cittadinanza. Tutto questo comporta la nascita di nuove amministrazioni che non usano più solo il potere nel rapporto col cittadini, ma esercitano una prestazione che deve soddisfare il loro interessi. Ma continua a permanere il paradigma bipolare. Credo sarà capitato anche a voi, quando accedete ad un servizio, di essere trattati non come qualcuno il cui diritto deve essere soddisfatto, ma come qualcuno che è in una posizione di subordinazione rispetto all’amministrazione stessa. Il paradigma bipolare è un paradigma molto forte, che anche se sta andando in crisi, è comunque una parte insostituibile del sistema amministrativo. Non stiamo parlando di una sostituzione del paradigma,ma di un suo cambiamento con un altro paradigma di cui vi dirò fra poco. Guardate che tutte le amministrazioni rispecchiano le società di cui sono al servizio, nel bene e nel male. Cosa rispecchia l’amministrazione italiana? Ad esempio, rispecchia una caratteristica molto positiva, che è il pluralismo. La società italiana è una società che - grazie anche alla Costituzione del ’48- è densa e ricchissima di formazioni sociali. La qualità di ricchezza che la società italiana è in grado di esprimere nelle sue varie articolazioni è enorme. Ciò comporta essenzialmente che l’amministrazione debba rispecchiare questo per rispondere alle esigenze di questi soggetti. E questo significa che l’amministrazione italiana sia molto difficile da coordinare perché se andate a vedere le strutture, le funzioni e le procedure organizzative vi accorgerete che c’è una grande confusione dovuta anche al fatto che nell’amministrazione e nella politica non viene applicato quel principio per cui “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, ma nell’amministrazione invece tutto si aggiunge e nulla si elimina. Si tende sempre a creare nuovi uffici, non si elimina mai quello che c’è prima. Il risultato è che l’amministrazione assomiglia così ad un edificio a cui, nel corso dei secoli, sono stati aggiunti sopraelevazioni, aperti corridoi….così chi ci lavora sa bene che ci si lavora male. Finendo con questa parte, tenete conto che l’Italia era fondata sul paradigma bipolare dalla II metà dell’800 fino ai primi anni del ‘900 e nel ventennio fascista. Comunque ricordiamoci anche che rispecchia anche il rapporto che c’era politicamente fra regime e

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società e che è riuscito a permeare anche l’Italia della II metà del ‘900 fino alla metà degli anni ’50. Perché? Vedete, vi dicevo che le amministrazioni cambiano, cambiano lentamente, ma ogni tanto ci sono delle fratture. Ogni tanto ci sono dei momenti di passaggio forte per poi far riprendere il processo lentamente. Ora la cosa interessante è che normalmente, da quello che possiamo vedere dalla storia del nostro paese, le fratture di tipo politico non corrispondono alle fratture nell’amministrazione. Vi faccio un esempio: quando è caduto il fascismo, e si è passati dalla monarchia alla Repubblica, di fatto il sistema amministrativo è rimasto lo stesso. Sono rimaste le stesse identiche leggi, l’organizzazione è rimasta la stessa, i ministeri lo stesso. Magari rinominandoli da ministero della guerra a ministero della difesa, così per pudicizia. E le persone sono rimaste le stesse. Certo, ci sarà stata l’epurazione per qualche dirigente compromesso, ma l’Italia, nel passaggio da regime democratico a regime totalitario non è cambiata molto. L’amministrazione è un elemento di continuità: mentre tutto il resto cambia. Crollano i regimi ma l’amministrazione rimane. Consente comunque di andare all’anagrafe e chiedere un certificato, il funzionamento dell’ordine pubblico, consente il fatto che la società rimanga di fatto una società governata. Ci sono due cose interessanti di due paesi che, in anni recenti, mostrano come possano essere diretti gli effetti. Pensate a quando in Persia è crollato il regime dello scià di Persia e arrivarono gli ayatollah. Successe esattamente la stessa cosa che in Italia. Rimase la stessa amministrazione, passando in blocco al servizio degli ayatollah. Pensate invece a quello che è successo con la guerra di Bush in Iraq. Gli americani hanno commesso questo errore clamoroso, che poi hanno ammesso anche loro, di smantellare tutto l’apparato amministrativo. Con il risultato che da un giorno all’altro l’intero paese si è ritrovato senza strutture amministrative, senza nessuno che dicesse cosa si potesse fare e quando si potesse fare. Gli uffici non funzionavano, migliaia di funzionari e dirigenti pubblici si sono ritrovati disorientati, senza un lavoro né uno stipendio. Questo per dirvi come l’amministrazione sia un grandissimo fattore di continuità, ma anche un grande fattore di conservazione. Il che fa capire come sia difficile cambiare l’amministrazione. È un corpaccione pesante che resiste nella lunga durata. Però ci sono state in Italia delle grandi fratture che non corrispondono a fratture politiche: la prima nel 1970, la seconda nel 1990 e l’ultima nel 2001 di cui tratteremo qui. Brevemente cosa è successo. 1970: vengono istituite le regioni a statuto ordinario. Erano previste dalla Costituzione, ma non venivano istituite per motivi che non sto qui a elencare. Noi dobbiamo capire, in termini sistemici, cosa significhi questo: ciò significa che i poteri pubblici vengono dislocati dal centro verso i sistemi locali. È

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come se quella coperta pesante, che era stata imposta ad un paese pieno di storie e tradizioni locali − imposta nel 1861 per i motivi che vi ho elencato − come se venisse tolta facendo riemergere quelle storie e quelle tradizioni locali. Inizia quel lungo processo di regionalizzazione, che è tutt’ora in corso e che in qualche modo è culminato con la Riforma del Titolo V della Costituzione. È come se l’Italia delle cento città e delle mille tradizioni, dialetti, tipi di pane, formaggi e vini cominciasse a essere riconosciuta istituzionalmente. Il generale De Gaulle diceva che la Francia era un paese difficile da governare perché ha 750 tipi di formaggi. Noi ne abbiamo più del doppio! E infatti siamo un paese difficile da governare. 1990: a legge 214 sul procedimento amministrativo. Una legge importantissima perché apre le prime crepe nel paradigma bipolare in quanto riconosce ai privati il diritto di partecipare al processo decisionale politico. Lo chiamiamo amministrativo, ma è un processo decisionale politico. Si comincia a pensare a un privato che può partecipare al procedimento amministrativo ed è come se si dicesse al cittadino “portami le tue memorie, le tue informazioni, i tuoi punti di vista per affrontare un problema e insieme arriviamo alla conclusione”. Tanto è vero che poi questa legge, art. 111, prevedeva la possibilità di non emanare il procedimento, ma di raggiungere un accordo. È la prima crepa del paradigma bipolare in cui l’amministrazione sembra cominciare a rendersi conto che, di fronte a sé, non ha più solo degli utenti, ma degli interlocutori che sono sostanzialmente sullo stesso piano. È vero

che

la

decisione

è

dell’amministrazione,

è

vero

che

la

responsabilità

è

dell’amministrazione, ma è comunque una decisione, una responsabilità che in qualche modo vengono condivise. 2001. Riforma del Titolo V della Costituzione e introduzione dell’articolo 118 del principio di sussidiarietà. In quell’articolo voi avete la sussidiarietà nella sua duplice accezione: verticale e orizzontale. Nel I comma la sussidiarietà nella sua accezione verticale, nell’u.c. la sua accezioni orizzontale o circolare. L’u.c. è così importante perché quelle poche righe furono introdotte con l’idea di dare un po’ di soldi al Terzo Settore (ed è stato detto esplicitamente da una persona presente all’epoca in Parlamento). Detto in altri termini, il legislatore costituzionale non era probabilmente consapevole di quello che stava facendo, ma interpretate alla luce di quello che vi ho illustrato, mi è sembrato ovvio che quello tre righe dell’u.c. andassero molto oltre a quello per cui erano state scritte. E perché ? Velocizzo: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Allora notate innanzitutto il fatto che l’elenco dei poteri pubblici

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dell’art.118 u.c., che devono favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, è esattamente la Repubblica. Nell’art.114 della Costituzione troviamo lo stesso elenco. Ha un significato semantico molto forte: la Repubblica deve favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini quando questi sono nell’interesse generale. Perché queste tre righe, nell’ottica di cui sto parlandoquindi i miei occhi- hanno messo in crisi il paradigma bipolare? Nel 1997 avevo scritto un saggio, Introduzione all’amministrazione condivisa, e avevo inventato questa formula per dire che sotto i nostri occhi stava succedendo che l’amministrazione − pur fondata sul paradigma bipolare − chiedeva più spesso la collaborazione di privati cittadini per azioni di interesse generale. Facevo l’esempio della raccolta differenziata dei rifiuti in cui è assolutamente evidente che senza una collaborazione spontanea e intelligente dei cittadini il potere non serve a niente. È un classico caso questo in cui l’amministrazione ha bisogno dell’aiuto dei cittadini e chiede aiuto. Ecco, in questo caso, avete l’altra metà della mela dell’art.118.4: nella I metà della mela avete l’amministrazione condivisa su sollecitazione dell’amministrazione, nella II metà della mela avete l’amministrazione condivisa su offerta dei cittadini. Responsabilmente e autonomamente si attivano, si mettono in moto per risolvere un problema di interesse generale. Allora qui ci sono alcuni componenti da sottolineare. Innanzitutto cittadini attivi. Qualcuno un giorno mi ha detto che i cittadini dovrebbero essere attivi per definizione, ma come vedremo ci sono varie modalità di cittadinanza. Non è detto per forza che un cittadini sia per definizione attivo. Ci sono anche i cittadini parassiti, cittadini che non contribuiscono alla comunità in cui vivono: prendono, ma non danno nulla. I cittadini attivi sono invece quelli del 118.4. Cittadini che escono dal guscio e che di fronte ad un problema della comunità si chiedono: che cosa posso fare io, da solo o con altri, per risolvere questo problema? I processi di partecipazione sono processi in cui non si delega. I cittadini attivi non delegano, sono persone che nel quotidiano decidono di fare qualche cosa direttamente e non pensano “ Ci penseranno gli altri, che sono pagati per farlo”. È vero, nel paradigma bipolare ci sono persone pagate per farlo, ma ciò non significa che possiamo lavarcene le mani. E qui torneremo su questo discorso di rispecchiare la società. I cittadini attivi che cosa fanno? Guardate, il termine interesse generale è un termine complicato da gestire perché molto astratto. Provate allora a sostituirlo con “ si prendono cura dei beni comuni”. Cosa sono i beni comuni? Sono quei beni che, noi diciamo come un mantra, se arricchiti arricchiscono tutti, se impoveriti impoveriscono tutti. L’aria, l’acqua, l’ambiente, ma anche beni immateriali come la legalità ad esempio. Sono beni, attenzione,

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che essendo a disposizione di tutti, possono anche essere depredati. Ma chi decide che cos’è nell’interesse generale? Come è possibile che dei cittadini qualsiasi escano dal paradigma bipolare in cui è il legislatore che decide che cos’è interesse generale e l’amministrazione applica le leggi? Questo passaggio è cruciale. Se rimaniamo in questo schema, non ne usciamo. Ma se uno dice “Signori, è molto semplice: stabilire quali sono i beni comuni è alla portata di tutti. Di chiunque. Non c’è bisogno di essere un deputato o un laureato in giurisprudenza. Chiunque è capace e può farlo. Prendersene cura è compito dei cittadini attivi. Paradossalmente se voi lo facevate nel 2001 potevate essere imputati per eccesso di cittadinanza. Non è mio questo slogan, è di Cittadinanza attiva (di cui sono stati presidente). Capite che dal punto di vista del diritto amministrativo è una novità dirompente. Fra l’altro consta di tutto un impianto bisecolare di norme pensando ad un’amministrazione come soggetto che sicura dell’interesse pubblico. Quindi è tutto da costruire questo diritto amministrativo parallelo perché in parte possiamo usare i materiali del vecchi edificio- come fecero i Barberini a Roma per costruire i loro palazzi con le pietre delle rovine romane- e in parte dobbiamo invece costruire edifici nuovi perché è proprio un paradigma nuovo. È come guardare il mondo in un altro modo: non più in verticale, ma in orizzontale. Non più in conflitto, ma nella collaborazione. Non c’è più il segreto che separa amministrazione e cittadini, ma c’è la circolazione dell’informazione. Cambia tutto. Ad un certo punto è la cura, la manutenzione dei beni comuni. Brevissimamente in questo: guardate che il problema dei beni comuni è un problema che interessa tutti perché noi italiani siamo relativamente più ricchi in quanto a beni privati, ma siamo poverissimi in quanto a qualità dei beni comuni. Lo dico in poche parole: a parità di condizioni generali di contesto e di reddito, una famiglia italiana è più povera di una famiglia francese o tedesca perché la qualità dei beni comuni che questa famiglia dispone è inferiore, soprattutto in certe parti del paese. La questione dei beni comuni interessa quindi l’80% degli italiani e, per esempio, lanciare un piano di manutenzione civica del beni comuni in tutta Italia sarebbe una cosa che avrebbe effetti enormi per la qualità di vita dei cittadini in termini di partecipazione. Cose concrete e piccole. Tante piccole iniziative di tutti gli 8000 comuni italiani potrebbero fare la differenza. E la cosa importante è che oggi la Costituzione prevede tutto questo e lo riconosce. Non è quindi esternalizzazione

dei

servizi,

appalto,

un

trasferimento

di

funzioni

dall’amministrazione ai cittadini. Non è un ritrarsi dei poteri pubblici in alcuni modo e che non possono interpretare la sussidiarietà come un alibi di deresponsabilizzazione delle sue

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funzioni. È, invece, un aggiungere risorse. Sono nuove risorse di intelligenza di idee, di relazioni, di tempo messi a disposizione dai cittadini, non per l’amministrazione pubblica, ma per se stessi. Tenete conto che ci sono tanti esempi così in Italia. Penso ad esempio al vigili del fuoco volontari. Tutto l’arco alpino ha pompieri volontari. Vi siete mai domandati perché? Ma per un motivo molto semplice. Se vivete in una valle montana lo capite subito. Se va a fuoco una casa- che tra l’altro sono una accanto all’altra- va a fuoco tutto il paese. In queste situazioni qui, l’unica cosa che si poteva fare era spegnere l’incendio senza aspettare l’arrivo dei pompieri da Bolzano, Trento o Innsbruck. E i vicini che imparavano a spegnere il fuoco gradualmente diventarono pompieri volontari. Ed è la stessa cosa che ha accompagnato la costruzione degli Stati Uniti. Quando parlo ai miei amici di sussidiarietà, loro non capiscono perché per loro è naturale. Quando arrivavano le navi dall’Europa e poi procedeva verso l’interno fermandosi nel mezzo del nulla, non è che potevano aspettare il poliziotto o l’insegnante mandati da Washington. E quindi per loro era normale che i beni comuni e l’interesse pubblico fossero qualcosa di cui tutti si occupavano. Se non lo facevano loro, chi lo faceva al posto loro? Lo sceriffo non era un funzionario pubblico, ma veniva pagato dalla comunità per difendere la comunità. La maestra era pagata dai genitori dei bambini a cui insegnava e non era una dipendete del ministero della pubblica istruzione. Quindi la nascita degli Stati Uniti è molto rivelatrice del fatto che l’interesse pubblico non è necessariamente l’interesse dello Stato. In Africa e in America Latina questo modello di autogoverno dal basso è molto più comprensibile di quanto non lo sia per noi europei. Noi, per troppo tempo, siamo stati abituati a pensare che c’è qualcuno sopra di noi che decide al posto nostro. Ma la verità è che quelli sono i nostri problemi e non dell’amministrazione. Quindi quando noi facciamo qualcosa per curare i beni comuni non facciamo un favore all’amministrazione, ma facciamo un favore a noi stessi. Allora, dicevo che l’amministrazione condivisa è il modello adatto alla società attuale italiana che è molto più complessa rispetto alla società del paradigma bipolare. Arriviamo allora al tema cruciale di come cambia il modo di essere cittadini. Ci sono tre tipi di cittadinanza: la cittadinanza legale, la cittadinanza comunitaria, la cittadinanza universale. La prima, quella legale, è quella di cui ognuno gode in quanto gode cittadini di uno Stato. È il riconoscimento di appartenenza ad una comunità. La seconda, quella comunitaria, si acquista attraverso quella nazionale. L’ultima, quella universale, è legiferata dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani. Tutte le persone che arrivano in un nuovo paese devono godere di tutti i diritti che sono inerenti alla condizione di cittadino, senza il vincolo

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della nazionalità, compreso il voto. In Italia abbiamo 500.000 giovani sotto i 18 anni che non sono cittadini italiani perché l’Italia non da’ il diritto automaticamente alla cittadinanza. Andate

a

vedere

il

sito

di

questa

seconda

generazione

dovrebbe

essere

www.secondegenerazioni.it − che è nata in Italia e si sente italiana, ma non è riconosciuta giuridicamente. Questo è un punto cruciale per l’integrazione. Sono i nuovi italiani, che sono già integrati formalmente. Dobbiamo fare ogni sforzo necessario per sostenerli. Fortunatamente il Presidente Napolitano ha ben presente questo problema di qualità della vita. Ma il punto è che i cittadini attivi possono essere chiunque e, a mio avviso, la cittadinanza non può essere negata ad un immigrato. Se un gruppo di giovani immigrati e giovani italiani volessero prendersi cura di un bene comune perché mai si dovrebbe loro negare un sostegno?Solo perché nel 118.4 è scritto cittadini? Non sono forse più cittadini questi che gli evasori fiscali? Quindi la cittadinanza attiva, intesa come realizzazione del principio di sussidiarietà e la cura dei beni comuni, è qualcosa alla portata di tutti. Vengo a come questo possa essere applicato ai giovani, anche se non è il mio campo. Quello che posso fare è darvi degli strumenti di analisi. Qual è il punto fondamentale dell’amministrazione condivisa? Si amministra con i cittadini e non per, in sintesi. Nel paradigma bipolare si amministra per i cittadini, che vengono considerati utenti. I cittadini rispettano le leggi, le regole dei vivere civile, non gli si chiede altro. È uno dei modi di essere cittadini. Ma il fatto è che la società italiana, e non solo, è diventata estremamente complessa con una quantità di informazioni ed esigenze da gestire, che sarebbe impensabile che le amministrazioni si facessero carico di tutti i sessanta milioni di italiani. Il paradigma bipolare andava bene nell’800. Nella società attuale pensare di essere cittadini non attivi, cioè pensare di vivere la cittadinanza come ospiti non ha senso. Uso sempre quest’immagine. È come se andando a cena a casa di un amico e vedessi una macchia sul soffitto non mi preoccupassi di questa cosa. È ovvio che gli chiederei cosa è successo, qual è il problema, se vuole una mano. Ecco, la maggioranza degli italiani vive come se un problema fosse sempre il problema di qualcun altro. Bisognerebbe fare in modo che tutti ci sentissimo proprietari di questo Paese. Tutto questo ha una valenza di carattere democratico enorme, ma non è questa la sede per approfondirlo. Io qui ho evidenziato molto gli aspetti pratici della cittadinanza attiva. Pensate a cosa significhi questa novità, riconosciuta dalla Costituzione, in un paese in cui non c’è l’addestramento politico (la militanza, il partito..) e in cui non si è più abituati a discutere e a prendere le decisioni in tanti. Pensare a cittadini che si mobilitano e che si prendono cura di

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un bene comune, tutto questo è democrazia. Allora questo vale anche per i giovani. Le politiche giovanili non possono essere ispirate al paradigma bipolare a mio avviso. Quindi devono essere politiche pensate con i giovani, altrimenti non ha senso parlarne. Quali sono allora i valori di un’amministrazione condivisa che hanno una forte valenza, forse ancora più forte per i giovani? L’autonomia innanzitutto, ci tornerò. La responsabilità: i cittadini attivi sono persone autonome e responsabili. Questo va detto perché in Italia per troppo tempo di autonomia collegandola alla responsabilità. Se c’è libertà di scelta c’è la responsabilità delle scelte che una persona fai. Nella Costituzione il termine responsabilità c’è solo in un accezione negativa. Credo allora sia necessario riportare la responsabilità alla sua accezione originaria (dal latino respondere, chi risponde alle proprie azioni). In inglese ci sono due termini: responsibility e accountability. Bisogna tornare all’account. Solidarietà: i cittadini attivi sono decisamente cittadini solidali. Una persona non si prende cura dei beni comuni se non è ispirata dalla solidarietà. Fiducia. E Dio sa se ce n’è bisogno. Fiducia intesa come fides, affidamento: io mi fido di te, tu di me e so che possiamo decidere insieme le cose per risolvere un problema. È un fatto di coesione e di ripresa dei rapporti sociali fra tutti noi. Rispetto reciproco fra tutti gli attori che insieme concorrono alla cura di un bene comune. Torno all’autonomia e con questo concludo. L’autonomia nella Costituzione c’è, non tanto quella dell’art. 5 (autonomia locale). Quella di cui parlo è quella dell’art.3, II comma, che recita “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Che cos’è quel pieno sviluppo della persona se non la piena autonomia della persona? Essere autonomi significa essenzialmente poter scegliere e prendersi le responsabilità delle scelte fatte. Martin Luther King disse una volta che la sua vita non sarebbe stata inutile se fosse riuscito a rendere una persona autonoma. E credo che lui intendesse autonomia in questo senso. Autonomia come capacità di scelta. Allora io penso oggi che la povertà peggiore che noi possiamo incontrare sia la povertà di scelta. Il fatto che ci siano milioni di persone, soprattutto donne, le quali non possono scegliere perché costrette da vincoli familiari, problemi economici perché non si pensa che una persona possa scegliere il proprio destino. Questo non è solo uno spreco di risorse quanto mai indicibile, ma è quanto più ci sia di profondamente ingiusto per una persona. Dobbiamo tener presente la dignità della persona umana e la sua centralità. Il fatto che l’irripetibilità della persona umana non

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possa trovare compimento per vincoli imposti è una cosa che chiede vendetta. Ecco, da questo punto di vista l’autonomia deve essere il cuore nel processo politico. Questo per i giovani è centrale. Sono i giovani in quella fase centrale della vita in cui decidono cosa fare del proprio progetto di vita. Se c’è qualcuno che ha di fronte il problema dell’autonomia intesa come libertà di scelta sono i giovani. Fare politiche per i giovani senza tener conto che sono loro in quella fase di realizzazione dei propri progetti di vita, non ha senso se non lo si fa con loro. È in questo senso che il modello dell’amministrazione condivisa è adatto per la collaborazione con i cittadini, per rendere non solo loro, ma soprattutto i giovani, autonomi.

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