Atti convegno: Di chi sono le politiche giovanili?

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Introduzione al progetto “Di chi sono le politiche giovanili?”

La cooperativa sociale Il Sestante si occupa di politiche sociali, di progettazione, attivazione e gestione di processi sociali. Il principale ambito di lavoro è costituito dalle politiche giovanili e di comunità, secondo un approccio che promuove la partecipazione attiva, la cittadinanza dei singoli e dei gruppi e della comunità, lo sviluppo di empowerment. Il Sestante opera in questo senso da vent’anni, e più precisamente dal marzo del 1989. Il progetto “Di chi sono le politiche giovanili?”, concretizzatosi in un workshop, svoltosi a Caerano San Marco nell’ ottobre del 2009 e di cui questo volume riporta gli atti, parte probabilmente da lì, dal marzo del 1989.

I vent’anni trascorsi nel territorio della provincia di Treviso e in quelle limitrofe a sperimentare, costruire, elaborare e gestire progetti di politiche giovanili, in partnership con enti locali, Ulss, altre cooperative, associazioni, hanno segnato la cooperativa, spingendola ad aumentare le proprie competenze, a svilupparle, ad aprire riflessioni meta-progettuali, sulle metodologie, sul senso e le finalità, sulle potenzialità e i limiti del lavoro sociale. Tutto ciò in un territorio particolare, analizzato da studiosi di diversa estrazione e competenza, ma per lo più valutato secondo parametri politico-economici, urbanistici, al limite turistici, solo raramente secondo la lente delle politiche sociali, del welfare, che è 5


mutato e continua a mutare. I vent’anni del Sestante fanno perciò nascere l’idea ai soci e lavoratori della cooperativa stessa: far diventare questo traguardo temporale un elemento generativo di riflessione. Misurarsi solo con i risultati fin qui raggiunti sarebbe stato autocelebrativo e inutile rispetto ai territori, ai giovani e alle politiche giovanili: quindi la volontà è diventata quella di fare il punto sulle buone prassi ed esperienze importanti fin qui maturate nei territori coinvolti, perché fossero un elemento da condividere con i giovani e i responsabili politici e tecnici, in un sistema articolato che permettesse di immaginare contenuti e metodi del futuro delle politiche giovanili, contribuendo ad una riflessione già in atto a livello regionale, nazionale e comunitario. Da questa idea prende corpo il progetto: diventa un progetto finanziato a livello comunitario, dall’Agenzia Nazionale per i Giovani, attraverso il programma europeo Gioventù in Azione, azione 5.1. Diventa anche una scommessa importante per la cooperativa, perché si tratta di un progetto articolato, ma concreto nell’incontro con il territorio; un progetto di cui la cooperativa è titolare, assumendo così soggettività e visibilità nel territorio, parlando in prima persona. Il progetto, in sintesi, ha in sé un’idea: far incontrare e confrontare giovani, politici e tecnici sul tema delle politiche 6

giovanili. Aprire ad un confronto tra chi decide, chi ha le competenze, chi è in balìa tra il ruolo di cittadino partecipe e quello di destinatario-utente. Il progetto prevede un percorso, che parte a marzo del 2009 facendo il punto sulle politiche giovanili presenti nel territorio, passa attraverso la costituzione di un gruppo di lavoro capace di pensare, ragionare e progettare un momento di confronto, che avviene, a conclusione del progetto, il 15, 16 e 17 ottobre 2009, e si concretizza in un workshop, dal titolo “Di chi sono le politiche giovanili?” Le preoccupazioni iniziali erano molte, anche di carattere metodologico. La prima riguardava i giovani, e più precisamente il loro potenziale interesse in un progetto che voleva aprire loro un importante spazio di confronto, ma con il rischio che fosse “neutro”, privo di territorialità, di ricadute concrete sul proprio ambito di vita. A questo dubbio abbiamo avuto ampia ed esaustiva risposta durante il workshop, visto il livello altissimo del contributo dei giovani; la seconda preoccupazione era legata alla necessaria fluidità che il gruppo doveva avere: essendo rivolto ad un potenziale bacino di utenza molto ampio, dovevamo prevedere che il gruppo fosse in continua evoluzione, in termini di numeri, ma anche di idee, di opinioni, e che allo stesso tempo chiunque potesse entrare capendo il contesto in cui si stava inserendo. Altrimenti si sarebbe corso il


rischio di escludere chiunque non fosse stato coinvolto fin dall’inizio. Abbiamo scelto di lavorare mantenendo una struttura a “fisarmonica”: ogni tema, dibattuto durante un incontro, veniva concluso durante lo stesso, e tutto era riportato nei verbali. In sostanza, ogni incontro era a sé stante, bastava a sé stesso, aveva un inizio e una fine, cosicché chiunque entrasse nel gruppo durante l’incontro successivo non si sentiva spaesato, trovava subito il filo del discorso, acquisiva da subito diritto di cittadinanza nel progetto. Infine, non eravamo sicuri di poter interessare tecnici e politici, quasi che il nostro fosse un tentativo velleitario: anche questo dubbio è stato fugato durante il workshop. L’idea ci è piaciuta. Ci è sembrata buona, anche e soprattutto visti i risultati, visto il workshop, respirato il clima di quei 3 giorni. Ci ha fatto venire voglia di avere altre idee, ma la stessa voglia è venuta anche ai giovani, a molti politici, ad alcuni tecnici. E questo è sicuramente un risultato inatteso, e positivo.

Mirko Pizzolato, coordinatore del progetto Andrea Pozzobon, presidente de Il Sestante

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Politiche giovanili: dai territori dell’agire alle consapevolezze pedagogiche Intervento introduttivo della cooperativa Il Sestante curato da Andrea Conficoni, Elena Zanatta, Riccardo Mastromonaco, Andrea Pozzobon.

Proporre una riflessione sul cammino di questi vent’anni come percorso di crescita della cooperativa Il Sestante significa addentrarsi in un terreno impegnativo, fertile e insidioso allo stesso tempo. È un terreno fertile perché riappropriarsi della propria storia, connettere tasselli che fin qui costituivano memoria di una piccola parte dei soci e dei lavoratori, è una scelta che fa della narrazione un tesoro inestimabile e dell’ascolto uno strumento straordinario di formazione, umana e professionale. È altresì un terreno insidioso perché il carattere celebrativo può contaminare l’analisi di un percorso di crescita e maturazione

operativa che, per essere generativo, deve costruirsi in maniera critica, attenta, non banalizzante. Per un socio e lavoratore come me, che fa parte della cooperativa Il Sestante solamente da quattro anni, questo intervento è stato un momento importante di approfondimento e ricerca, condiviso con altre persone (Elena Zanatta, Riccardo Mastromonaco, Andrea Pozzobon e Gianni Troncon), che deve molto a riflessioni di equipe e di ambito. Vi chiedo così un ascolto paziente e aperto. I riferimenti specifici, a volte espressione di progetti operativi più o meno datati, a volte approfondimenti anche teorici, sono 9


tutti messi alla vostra e nostra attenzione perché ci appaiono come focus meritevoli, per valenza storica, sociologica o per valore pedagogico e politico, del nostro operare nel territorio come all’interno della nostra stessa organizzazione. Tracciare dunque una lettura delle politiche giovanili costruite fin qui, sia attraverso conquiste generative che per faticose sconfitte, significa, in questa occasione, approfondire l’impatto che il nostro operare, il nostro restare tra giovani e comunità, ha avuto dal punto di vista sia progettuale che organizzativo. In questo slancio vogliamo proporre altresì suggestioni e riflessioni che contribuiscano al lavoro di questo workshop, evento importante perché promuove contaminazioni, confronti che non possono far altro che arricchire e potenziare il nostro lavoro sociale, nostro come di pertinenza di giovani, tecnici, operatori e politici e, perché no, cittadini. Questo contributo si sviluppa quindi su una linea immaginaria, non priva di curve, di avanti e indietro, che collegherà la definizione degli obiettivi progettuali, le metodologie di lavoro, lo spettro degli attori coinvolti nell’arco di un periodo storico comunque importante. Percorreremo questa linea di ri10

flessione per tracciare un quadro di riferimento sul nostro agire nel lavoro sociale con i giovani, che possa contribuire alla crescita di consapevolezza di come agiamo e di dove andiamo, non solo come singola cooperativa ma come ventaglio di espressioni di politiche giovanili. L’inizio: dal focus del rischio a quello delle relazioni. I primi progetti si sono mossi su uno sfondo particolare: l’intervento di politiche giovanili si definiva come prevenzione al disagio, come intervento incentrato sulla riduzione dei fattori di rischio, che potevano portare soprattutto all’uso e abuso di sostanze. Come ci ricordano Croce e Vassura (2008), questa centratura rispetto ai giovani aveva il peccato originale di definirsi associando ai giovani il problema, l’emergenza, il rischio. I primi interventi si sono appoggiati, dunque, sull’equazione giovani - disagio: un’equazione che impediva di collocare l’operare tra i giovani come scoperta e ricerca di una diversità e di una pluralità di fondo. Un’equazione che causava uno sguardo indifferenziato, incapace di avvicinarsi ed operare nei territori in prospettiva critica e di ricerca sui caratteri storici, culturali, socio-economici che disegnano le interazioni tra


individui e gruppi e tra questi e il contesto di appartenenza. La possibilità di stare in strada, di ragionare a livello di equipe e gruppi di discussione non solo locali ma anche regionali, ha permesso però di fiutare nuovi approcci alla “questione giovanile”. Se inizialmente gli obiettivi che andavano a guidare gli interventi di educativa di strada nei quartieri popolari di Treviso, o in alcuni comuni limitrofi come Villorba, si definivano attorno alla ricerca dei fattori di rischio e nel loro successivo contenimento, lo sguardo si spingeva poi sulla relazione tra giovani (a rischio) e la comunità, intesa come quartiere, come paese, frazione. Si opera così un cambio di prospettiva non indifferente, fondamentale per quella che poi sembra definirsi sempre più come un criterio condiviso: il lavoro di strada si costruisce e giustifica non come approccio per capire i fattori di rischio ma come terreno operativo per collocare questi stessi fattori di rischio nella relazione tra giovani e adulti all’interno di una comunità. È un’apertura importante al lavoro sociale in ottica relazionale: i giovani, seppur ancora in balìa di una cultura che ne faceva più degli oggetti che dei soggetti di intervento (vedi politiche dell’affi-

liazione – Colleoni 2006), venivano collocati all’interno di relazioni, e attraverso queste prendevano corpo gli interventi. Gli obiettivi progettuali si raggiungevano costruendo relazioni, non cercando di cambiare le persone, i giovani, ma le loro possibilità di interazione all’interno della comunità e con il mondo adulto. Pensandolo vent’anni fa, tutto questo non appare affatto scontato. Si è lavorato molto, tra sperimentazioni e tentativi, per andare a: ● definire e collocare il senso del proprio intervento nel territorio come operatori di strada; ● definire il proprio ruolo all’interno di progetti comunque sperimentali, sia ai propri occhi sia in rapporto ai giovani e adulti che si incontrano. ● costruire ex-novo e adattare strumenti e metodologie operative efficaci. ● definire le competenze necessarie da mettere in campo. Si compone così, anno dopo anno, un quadro operativo che cerca di costruire le politiche giovanili come promozione di contesti e vissuti relazionali generativi, tra giovani e operatori, tra giovani e adulti. Questo ha fatto crescere i progetti sia attraverso l’emersione delle 11


rappresentazioni che gli adulti avevano del mondo giovanile e del proprio mondo e, viceversa, per i giovani rispetto al mondo adulto, sia attraverso il ragionamento a livello politico e tecnico sui bisogni che emergevano dal lavoro di strada, come dalle prime sperimentazioni di centri aggregativi e di sviluppo di attività, come per mezzo di uno stare nella comunità ed incontrare diversi opinion leader. Seppure in alcuni ambiti ci fosse consapevolezza che i bisogni primari da affrontare nelle politiche giovanili si mostravano soprattutto come relazionali, nella dialettica che si instaurava tra rappresentazioni reciproche di giovani e adulti, si è lavorato molto su bisogni secondari di protagonismo e messa in gioco dei giovani. Da un lato, dunque, si rafforzano una lettura e una valorizzazione differente dei giovani, con un cambio di piano che scalfisce fortemente l’associazione giovani e disagio per guardare a loro più come risorsa che come problema (vedi L.29/88). Dall’altro ci si specializza maggiormente nella predisposizione di politiche ed interventi che potenziano i “servizi” per i giovani, si specializzano gli ambiti di intervento soprattutto nelle azioni legate al tempo libero e alla creatività (vedi politiche dei servizi, ot12

tica del problem solving a matrice medico-sanitaria, Colleoni 2006) con la promozione da un lato di gruppi di interesse anche altamente performativi, dall’altro di una rete tra i soggetti maggiormente coinvolti nella “questione giovanile”. Quest’ultimo aspetto si appoggiava comunque su un dato di fondo: la disponibilità da parte del mondo adulto di affrontare, anche conflittualmente, una relazione generazionale con i giovani. Via via con gli anni – seguendo una deriva culturale che partiva dall’indebolimento delle dinamiche comunitarie solidaristiche che caratterizzavano il tessuto sociale – si arriva abbastanza velocemente a dinamiche di de-responsabilizzazione, di delega, sull’onda di un rapporto sempre più individualizzato con il contesto (vedi Bauman 2001). Qui si sono costruite e legittimate modalità di lavoro sociale con i giovani sempre più specializzate e specializzanti: se “i giovani hanno comunque il diritto di scelta e di azione, (...) sono gli adulti, con la loro razionalità tecnica a trovare posto e risposta alle attese delle nuove generazioni” (Colleoni 2006). C’è qui forse un movimento particolare che ci deve far riflettere molto, sia come attori del privato sociale che come attori del pub-


blico: il bisogno di collocarsi nelle politiche giovanili – quella ricerca di senso e di posizione operativa e professionale di cui si parlava prima – ha spinto e facilitato una specializzazione delle organizzazioni e dei servizi, che ha “costruito relazioni privilegiate con alcune categorie di adolescenti e giovani” (idem). Sotto la chiave della definizione dei bisogni e degli approcci e strumenti di lavoro, questo fatto pone un nodo pedagogico fondamentale: come possiamo mantenere costante l’attenzione sulla dialettica tra giovani e contesto (comunità) nella definizione delle varie progettualità? La domanda non è banale se si considera questa dialettica non più sotto la prospettiva di alcune specifiche questioni come il tempo libero, ma come costante espressione della relazione individui-gruppi-contesto (Lewin) che coinvolge i giovani intesi come identità nascenti (Colleoni, Arendt – natalità), che attraversano varie fasi, chiamate anche transizioni di vita. Hannah Arendt ci indica qualcosa di importante. L’uomo è immerso nell’universo come essere plurale, in un’identità che si apre per formarsi e definirsi. La ricerca dell’affermazione della soggettività porta l’uomo a creare uno spazio

comune, che pulsa nelle relazioni. “Non l’uomo, ma gli uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra.” Se la pluralità è il presupposto e, nello stesso tempo, il senso dell’agire, “la realizzazione dell’identità umana ne è forse il risultato più vistoso”. È, infatti, l’agire che rende possibile la rivelazione del chi dell’attore, che – per definizione – apparendo agli altri manifesta la sua identità nella sua differenza. Si agisce nel mondo, in uno spazio plurale; nelle diverse forme dell’agire il soggetto si rivela. In questo agire possiamo ancora recuperare due parti che ci possono aiutare a dare sostanza ad un lavoro sulle relazioni: la prima, l’inizio, che è opera dell’agente, e la seconda, il compimento, che è ad opera di molti. È proprio nella pluralità che l’azione ha il suo compimento perché si significa nel giudizio, nel significato che gli viene attribuito. Considerando le persone, non solo i giovani, sotto questa prospettiva, possiamo concepire ciò che la Arendt definisce come natalità: con la parola e l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo secondo inserimento è come una seconda nascita, per la quale si entra in uno “spazio comune” in cui ci si esperisce come 13


“essere in comune” . Il tentativo della Arendt si disegna come ricerca di uscita dall’estraneità dell’individuo in una società di massa, verso un mondo che veda gli uomini guardare alla realtà tenendo conto del punto di vista degli altri. Prendere parola e agire, intese come forme di seconda nascita, ci richiamano le parole di Paulo Freire dove si legittimano l’agire educativo e pedagogico come forme di “liberazione”, di conquista di cittadinanza… La relazione con l’alterità (e l’espressione dell’alterità) è l’elemento sostanziale del vivere il territorio. C’è tutto un intreccio di azioni individuali e collettive, che si disegnano come relazioni tra attori / soggetti sociali. Un lavoro che si inserisce nella legittimazione dello spazio pubblico, dello spazio comune dove si discute, condivide, socializza il significato e il giudizio sulle proprie e altrui azioni. L’auspicio è che questa consapevolezza della nostra affermazione attraverso la relazione produca fiducia. “Fiducia intesa come fides, affidamento: io mi fido di te, tu di me e so che possiamo decidere insieme le cose per risolvere un problema. È un fatto di coesione e di ripresa dei rapporti sociali fra tutti noi. Rispetto reciproco fra tutti gli attori 14

che insieme concorrono alla cura di un bene comune” (Arena, Firenze 2009) Continuiamo a seguire questa chiave di lettura relazionale. Considerare relazionalmente i soggetti delle politiche giovanili e in generale di quelle sociali, significa avvicinarsi ai territori, ai contesti operativi consapevoli che si entra e agisce in un sistema di relazioni. Per inquadrare maggiormente dobbiamo fare una piccola astrazione. Kurt Lewin si affida ad intuizioni legate alla fisica moderna per cercare di studiare i e agire nei sistemi e gruppi sociali: il comportamento dei soggetti, e la possibilità di lavorare con essi alla ricerca di un cambiamento in positivo, è funzione dell’interazione tra la persona e l’ambiente. Lewin arriva così a rappresentare le relazioni dinamiche come un campo di forze che agiscono su un sistema di soggetti. Ci si avvicina così al territorio, al contesto operativo – da quello di una comunità locale a quello che si disegna attorno ad una classe scolastica – come ad un sistema di forze che definisce spazi di movimento, opportunità, vincoli, bisogni di ogni soggetto; queste forze si attivano nella relazione tra attori e tra questi e l’ambiente .


Questa consapevolezza ci guida nella quotidianità operativa: non possiamo entrare in relazione con i soggetti senza sentire la necessità di valutare e considerare il contesto, le forze che si esprimono, il sistema di relazioni che ne è la base e la struttura. Se dunque il bisogno si crea nella relazione tra individui e gruppi, tra essi e l’ambiente, il contesto sociale, le progettualità devono aprirsi su questi orizzonti. I territori di azione delle politiche giovanili si ampliano e qui gli esempi possono essere molti. I centri aggregativi devono essere riconsiderati da spazi “occupazionali”, “di controllo” esercitato attraverso varie attività a spazi dove la relazione educativa lavora nella dialettica tempo libero-tempo di lavoro, nei processi di sviluppo della propria identità e di sperimentazione della propria appartenenza sociale e cittadinanza. Va da sé l’importanza di connettere lo spazio aggregativo all’interno di una rete comunitaria, significandolo alla luce delle forze e tensioni che essa produce. Per portare un secondo esempio possiamo guardare alle classi scolastiche come un sistema complesso che richiede di essere coinvolto e promosso nell’attivazione dei progetti: entrare in classe con un progetto significa negoziare e defi-

nire insieme a studenti, insegnanti, genitori, dirigenza le aspettative e le azioni di cambiamento. L’esperienza in questo senso quasi decennale dei percorsi scolastici ci ha insegnato a considerare questa tipologia di interventi all’interno dell’ampia progettualità delle politiche giovanili e di comunità. Gli incontri in classe vanno concertati e progettati coinvolgendo la dirigenza scolastica, gli insegnanti per una condivisione degli obiettivi e degli strumenti; vanno altresì presentati e valutati nella relazione con genitori e studenti, che vanno coinvolti anche nella definizione di un contratto di fiducia reciproca con gli operatori. Altrimenti si cade in interventi spot, inefficaci e incapaci di incidere e promuovere cambiamento. Proseguendo, la chiave relazionale ci pone anche la domanda fondamentale: “Chi abbiamo davanti?” che è l’altra faccia della domanda guida di questo percorso: “Di chi sono le politiche giovanili?” La strada da fare è ancora tanta, e come sentiremo, gli stimoli e le esortazioni che arrivano dai giovani coinvolti in questo percorso, saranno densi e – molte volte – spiazzanti. Credo fermamente che alcune suggestioni ci evidenzieranno le distanze che ancora 15


dobbiamo colmare per lavorare consapevoli che i giovani sono soggetti e non oggetti, attori e non elementi scenografici. “Vasi da riempire, da modellare, soggetti a rischio, piccoli adulti” sono alcune delle definizioni che – lavorando – abbiamo legittimato o convalidato. Fa parte del percorso di maturazione storica delle politiche giovanili. Lo slancio in avanti viene dato dal considerare gli adolescenti e i giovani come identità nascenti, che esprimono “elementi di fragilità, incertezza, rigidità, incoerenza, instabilità” come anche “elementi di energia, capacità, potenzialità, interesse, comprensione e azione nel reale” (Colleoni 2006). Come persone che crescono, ci pongono “domande di aiuto e accompagnamento ma anche esigenze di essere lasciati liberi di mettersi alla prova negli eventi della vita”; sono domande di identificazione e dipendenza, di autonomia, di orientamento e socializzazione, di opportunità di praticare “lotte per il riconoscimento” (idem). Ritengo significativo – e lo dico con umile orgoglio – sentire di condividere con molti colleghi l’intenzione pedagogica di “allestire condizioni che rendano possibile alle nuove generazioni di esprimere dimensioni identitarie, anche parziali, balbettanti, tem16

poranee” ma che sono reali sperimentazioni di cittadinanza, di confronto e riconoscimento con altri soggetti della comunità. La dignità che si riconosce ai giovani contribuisce al rafforzamento del piano su cui poggia la relazione educativa, di accompagnamento e orientamento, di supporto e confronto. In questi tre giorni si può concretizzare un aspetto significativo delle politiche giovanili che sentiamo più nostre, come orizzonte e come stimolo: il compimento “di occasioni e percorsi all’interno dei quali persone, gruppi e organizzazioni si incontrano, si ri-conoscono, apprendono ad interagire a dialogare”, tentando “qualche passo insieme, attorno a esperienze concrete, reali, pregnanti, non attorno a tesi astratte, generali, teoriche”. (Colleoni 2006) In sintesi, significa disegnare le politiche giovanili non più su target specifici ma affiancando adolescenti-giovani in un contesto di vita, inseriti in passaggi di crescita e di richiesta di cittadinanza. Dal punto di vista metodologico questi apprendimenti, queste consapevolezze (ancora da condividere appieno), hanno significato molto in termini di crescita di competenze, di sistematizzazione di prassi e strumenti, di valutazio-


ne rispetto agli obiettivi da definire a monte. La chiave relazionale ci richiama fortemente ad un intervento da promuovere in termini di processo. Le testimonianze raccolte, come i ragionamenti meta-progettuali all’interno delle equipe, ci esprimono un passaggio storico che si sta concretizzando sempre più come necessità consapevole: lo spostamento da un lavoro per progetti ad un lavoro per processi. Fino al ‘95-’96 la logica dei gruppi di interesse caratterizzava molto le nostre politiche giovanili: interi progetti giovani potevano significarsi lavorando su specifici interessi e obiettivi, a volte raccolti a scala individuale o indotti da approcci e percezioni più superficiali. Alcuni stimoli esterni, come la richiesta della Regione, di finanziare attraverso la L. 29 progetti di comunità, oppure l’incontro con formatori come Branca, Croce, Martini, altri impulsi interni, come l’entrata di lavoratori e lavoratrici con una formazione particolare, hanno spinto vari territori, varie equipe a ragionare e sperimentarsi fortemente in chiave comunitaria. La cultura operativa si è così via via contaminata; l’approccio alla comunità pone un accento di processo alle politiche giovanili. Questo movimento ha

significato l’apprendimento, l’affinamento e la sperimentazione di approcci e strumenti particolari, specifici, propri dello sviluppo di comunità e della ricerca-azione. È un gioco al rialzo che ci richiede competenze e abilità specifiche, condizioni e vincoli operativi più significativi; è un cammino che però alza il livello di riconoscimento della realtà e dei “terreni” di sviluppo delle politiche giovanili. La crescita ci ha portato all’utilizzo di approcci e metodi che mirano a favorire lo sviluppo dell’interazione individuo-gruppo-comunità, l’influenzamento reciproco tra soggetti diversi, tra generazioni, la presa di decisione in piccoli e grandi gruppi, la condivisione di percorsi e fasi di vita. Approcci, metodi e strumenti questi che legittimano le politiche giovanili come progettualità per fare della pluralità non solo uno stato ontologico, ma l’espressione stessa della realtà e del vissuto dei soggetti presenti nel territorio comunità. La ricerca-azione si legittima, ove possibile, come paradigma, operativo ed educativo, fondamentale. Si basa sull’identificazione e legittimazione degli attori, sull’esplicitazione delle relazioni di potere esistenti, sull’investigazione delle contraddizioni con gli attori e sulla diffusione 17


dei risultati affinché vengano usati come base per il cambiamento. La ricerca-azione permette un approccio che non prescinde dalla complessità territoriale e dei campi di forze attivi e parte dal presupposto che “nessuno educa nessuno, e neppure se stesso: gli uomini si educano in comunione, passando attraverso il mondo” (Freire 2002). Lavorare per processi ci porta a considerare sia gli operatori sia i giovani e adulti coinvolti come soggetti immersi in relazioni di potere che possono cambiare. Confrontarsi, attivarsi, riconoscersi all’interno di processi, promuove la scoperta e la conseguente speranza di percorsi di cambiamento possibili, che delineano significati precisi in termini di empowerment. Ecco un altro importante paradigma, pedagogicamente fondamentale, che sembra agire, tra alti e bassi, come filo conduttore in vari progetti: la teoria dell’empowerment, che lavora sulle dimensioni delle competenze, delle condizioni e dei processi che fanno interagire competenze e condizioni. Giocoforza diventa questo la consapevolezza generale che sembra legittimarsi in tutto questo percorrere storia, nodi critici, sviluppi generativi delle politiche giovanili e delle progettualità 18

che cerchiamo di proporre, promuovere, attivare. “Un approccio ispirato all’empowerment tende allo sviluppo di risorse, al rafforzamento dei sistemi naturali di aiuto e alla creazione di opportunità per processi decisionali partecipativi. Il punto centrale consiste nello sviluppare i punti di forza e nel promuovere la salute, piuttosto che nel fissarsi sui problemi e concentrarsi sui fattori di rischio” (Zimmerman 1999). Le progettualità si definiscono allora come promozione di contesti ove si riesce ad esprimere la propria opinione, ci si confronta in gruppo e collettivamente sulla percezione dei problemi, si prendono delle decisioni; questo aumenta il livello di empowerment di singoli, gruppi e comunità, accrescendo il senso di cittadinanza e le reali possibilità di amministrazione condivisa e di sussidiarietà promozionale (Pozzobon e Baccichetto, 2008). Fare lavoro di comunità ci fa agire, quindi, su una scala di processi partecipativi che deve essere chiara, per non banalizzare il significato stesso di partecipazione: si va da un livello minimo che consiste nell’accesso all’informazione ad un livello massimo che consiste nell’intervenire per influenzare la direzione e la costruzione degli interventi (Branca 2007).


Ma se c’è stato un movimento di maturazione e sviluppo delle politiche giovanili come significato a cui tendere, passando dall’animazione e dal coinvolgimento alla partecipazione (Branca 1996), esso riguarda anche la Cooperativa come organizzazione. Brevemente, ma ci sembra importante portare alcune riflessioni che riguardano l’identità di una cooperativa come la nostra, nel suo agire nel territorio e al suo interno. La crescita delle consapevolezze (in termini di direzioni decise e di nodi generativi) stimolate dalla prospettiva relazionale, dall’azione in termini di processo, dai soggetti come identità nascenti, dall’utilizzo di strumenti dialogici, ci ha trasformati e ci richiede altre importanti trasformazioni. Azione al suo interno. La competenza nel lavoro sociale nel territorio, essendo il risultato di un processo fortemente a carattere culturale, si costruisce sia nelle relazioni con l’esterno, sia in quelle con il proprio interno, la propria soggettività. L’efficacia del proprio agire territoriale richiede fortemente la consapevolezza che la parte agita implica una coerenza nella cultura del soggetto agente: in parole povere, se si intende agire in modo partecipativo con i soggetti del territorio, la compe-

tenza per questo agire parte dal proprio essere organizzazione partecipata e partecipante. L’identità della cooperativa come sistema relazionale e organizzativo ci pone di fronte all’altra sfida necessaria, quella dei processi interni: se la prospettiva dell’agire territoriale è lo sviluppo di comunità, la competenza richiesta alla cooperativa è quella nel promuovere processi empowering (che producono empowerment). In questo senso, come organizzazione, il nostro soggetto Cooperativa ricerca, anche con fatica e resistenze, di: 1. fornire alle persone al suo interno occasioni per sviluppare competenze e senso di controllo implicando “strutture e procedure di natura orizzontale e non gerarchica, […] [permettendo] ai membri di essere coinvolti nelle decisioni e condividere le responsabilità, incoraggiandone la partecipazione in tutti gli aspetti organizzativi”; 2. facilitare processi di consapevolezza critica mobilitando risorse al suo interno; 3. creare spazi di partecipazione nei quali i suoi membri possano lavorare insieme per “prendere decisioni e proporre obiettivi per l’organizzazione”, facilitando l’apprendimento, lo sviluppo e la messa in pratica delle loro capacità e competenze.

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Sentiamo che stiamo crescendo intendendo “la partecipazione come motore dell’organizzazione [ridando] dignità ai soggetti, ridefinendo via via e collettivamente: 1) le intenzioni politico-pedagogiche della cooperativa; 2) il tipo di leadership che la cooperativa intende assumere nel rapporto con la comunità locale e, più in generale, con la società; 3) i processi che permettono l’integrazione e la soddisfazione dei bisogni dei membri della cooperativa; 4) i processi che garantiscono ai membri l’effettivo esercizio del potere di controllo e lo sviluppo del senso di proprietà collettivo (ownership) del sistema” . È un movimento faticoso, ambizioso che cerca di rafforzare l’organizzazione interna nella dialettica tra organi di governo sociale (coordinamento politico) e di governo gestionale (coordinamento operativo). È così importante constatare che c’è un nutrito numero di lavoratori, soci e non soci, che stanno in cooperativa stimolandola ad essere struttura relazionale e organizzativa che si esprime anche nella promozione, circolazione e avvicendamento di leadership. Significa che, al suo interno, la cooperativa come organizzazione, da alcuni anni vive e sperimenta pro20

cessi di vita sociale che facilitano l’espressione delle persone, la loro crescita professionale, arrivando a promuovere l’emersione di figure che riescono a porsi nei confronti dei colleghi lavoratori e dei soci in genere come figure leader, rappresentative, trainanti: questo loro ruolo può essere speso sia a livello di gestione operativa dei progetti come nella figura del coordinatore o consulente di progetto, sia a livello di gestione politica della cooperativa stessa con nuove figure che si assumono ruoli amministrativi. Nell’azione al suo esterno la cooperativa sta incominciando, infine, ad esprimere e maturare queste due grandi consapevolezze: 1. la necessità di operare per costruire partnership che si aprono nella dimensione territoriale del lavoro di comunità, dove si agisce con soggetti differenti, nelle asimmetrie di potere, investendo sulla partecipazione attiva dei cittadini. Si guarda al passaggio da un approccio narcisistico, che lavora unicamente al rafforzamento del proprio spazio di azione, ad uno che si pone a favore di una maggiore consapevolezza della complessità, in cui tessere in modo “disinteressato alleanze costruttive, non semplificatrici, in una logica di rigenerazione del legame


sociale” nei territori. In questa logica, se ci riteniamo soggetti delle politiche giovanili la relazione che ci lega al territorio e ai suoi normali committenti ci trasforma da erogatori di servizi a partner delle Amministrazioni Locali e delle comunità, co-imprenditori nella costruzione e promozione di percorsi partecipativi. 2. In secondo luogo, il ruolo di soggetto territoriale, agente nel campo di forze che si esprime nei territori di intervento. Questo sentire ci deve muovere sempre più come soggetti mossi da una motivazione etica, teleologica e politica, che agisce con un’idea di società/comunità a cui tendere attraverso i processi promossi. Si recuperano molte delle dimensioni pedagogiche evocate fin qui, che guardano al “soggetto attivo, all’empowerment, al senso di appartenenza, alla reciprocità, alla solidarietà, alla sussidiarietà, alla coesione sociale, alla responsabilità individuale e collettiva nei confronti del bene comune, al senso del potere, alla capacitazione, all’aumento del controllo sulla propria vita, alla capacità di soluzione collaborativa dei problemi e di negoziazione con gli altri soggetti, alla cooperazione. (Pozzobon 2009) Per concludere, sentiamo di poter dire con forza che lavorare nelle

politiche giovanili con un approccio di comunità, incentrato nello sviluppo di empowerment e processi partecipativi, sia l’aspetto che rende il nostro lavoro generativo e soprattutto rispettoso delle persone con cui lavoriamo.

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“Giovani, destinatari o attori?” Di chi sono le politiche giovanili? L’intervento che segue è stato scritto dal gruppo dei giovani che ha partecipato a questo progetto. È il frutto di un lavoro collettivo, durato diversi mesi, che ha portato i giovani a confrontarsi sul significato di politiche giovanili, a partire dalle diverse loro esperienze di vita, per poi ragionare sul futuro delle politiche giovanili. Il testo finale è frutto del lavoro di un gruppo più ristretto, parte del quale ha relazionato durante il workshop. L’intervento è stato preparato da Giacomo Girotto, Roberta Rossi, Laura Scomparin, Irene Spricigo, Stefano Volpato.

Cosa significa parlare di politiche giovanili oggi? Più in generale, come intendiamo la “cosa pubblica”, che di politiche giovanili si occupa, oggi? Su che basi comuni provare a discutere di queste tematiche in un workshop che coinvolge tre ruoli diversi come politici, tecnici e giovani? Trovarsi a discutere di politiche giovanili presuppone la necessità di un passo avanti rispetto alla realtà esistente. La speranza è che, interagendo e discutendo tra di loro, i tre attori principali delle politiche giovanili – giovani, tecnici, politici – possano arrivare ad una rivalutazione per delle strategie ed azioni diverse, nuove, maggior24

mente efficaci. Ma rispetto a quali obiettivi queste politiche devono essere efficaci? Chi ha il compito e le competenze per stabilirli? Se le politiche giovanili, come più in generale la cosa pubblica sono da intendersi come un “noi” che coinvolge da protagonisti politici, tecnici e giovani, tutti hanno il pieno di titolo di partecipare alla discussione. E’ da superare l’idea delle politiche giovanili come serie di servizi erogati da un fornitore ad un giovanecliente, a favore di politiche giovanili intese come atteggiamento comune e diffuso di un sistema che considera importante lo sviluppo delle potenzialità dei giova-


ni come individui e cittadini. Da qui anche deriva la necessità di aprire le politiche giovanili ad una trasversalità tematica che fin’ora non è stata pienamente condivisa e raggiunta: oltre alla rivalutazione della scuola e del tempo libero, o meglio tempo non strutturato, due classici temi da politiche giovanili, occorre aprire una discussione anche su temi quali la costruzione di una propria autonomia ed indipendenza (che vede nel giovane individuo-cittadino un ruolo attivo) determinati, per esempio, dall’inserimento lavorativo o dall’avere una casa. Si tratta di agire delle politiche giovanili non solo come serie di misure, provvedimenti positivi o negativi, ma come un paio di “occhiali”, coi quali guardare i diversi aspetti nei quali la vita dei giovani è coinvolta. E’ utile quindi rimettere in discussione il ruolo pubblico da un punto di vista tecnico e politico, la consapevolezza dei suoi obiettivi e fini. Altrettanto utile è una maggiore consapevolezza da parte di chi sono i destinatari delle politiche giovanili, i giovani appunto. Questi tre giorni offrono l’occasione per un esperimento che – auspichiamo – diventi regola: provare a mettere in gioco le posizioni di ciascuno, per provare

a discutere in modo nuovo e costruttivo di politiche giovanili. Se si ritiene che l’approccio più corretto per la rivalutazione debba passare per un “noi” collettivo che coinvolge tutti e tre i soggetti – giovani, politici, tecnici – è fondamentale che anche ai giovani siano affidati, e che al contempo essi si prendano, le possibilità e gli strumenti per partecipare attivamente ad una discussione. Un problema specifico è ancora l’emersione dei bisogni - che presuppone necessariamente il riconoscimento e la legittimazione - cui le politiche giovanili devono rispondere, ma non è solo questo che si deve tenere in considerazione: uscire dallo schema di politiche giovanili come erogazione di servizi non passa solamente per un aggiornamento di spunti, idee, soluzioni. Certamente, l’estensione dei modelli positivi che già esistono e sono applicati con successo – insomma, guardare al vicino se ha l’erba più verde - è una buona cosa. Ma di sicuro implementare un catalogo di soluzioni pre-definite, pre-confezionate in una sorta di aggiornamento di software non è la soluzione definitiva ed esauriente alle questioni sopra poste. Infatti un’operazione simile non uscirebbe da una logica tradizionale di pubblico-impresa che finisce per trasformare il giovane in 25


cliente. Questo tipo di rapporto impresa-cliente si basa essenzialmente su una condivisione di fini: l’impresa ha fini propri che in una certa misura possono coincidere o meno con quelli del cliente ed in base a questo “do ut des” si misura il successo. Il concetto di impresa in questo senso tradizionale non può essere adeguato all’ambito delle politiche giovanili. Se si vuole infatti parlare di uno sviluppo di autonomia, indipendenza da parte dei giovani verso una cittadinanza pienamente attiva, partecipe, intraprendente – ricordiamo che oggi questo percorso si snoda per un giovane attraverso scuola, tempo libero/non strutturato, lavoro e casa – non si può considerare un giovane come un cliente. I giovani non possono e non devono essere considerati come clienti di politiche giovanili, perché esse riguardano aspetti del vivere quotidiano rispetto ai quali non ci può sentire altro che protagonisti: questo è il ruolo dei giovani in politiche giovanili realmente innovative e maggiormente rispondenti al mondo in cui viviamo. Ciò che segue è un’analisi delle politiche giovanili da un punto di vista nuovo, quello dei giovani che le vivono, o magari non le vivono affatto. Con tutti i limiti che ciò comporta, si è ritenuto 26

utile da parte degli attuali destinatari - potenziali attori - di politiche giovanili tentare un analisi ed un ripensamento della propria posizione in relazione alle politiche giovanili, rilevandone i punti critici e le possibilità di miglioramento. Consci del fatto che individuare e circoscrivere i problemi che affliggono le politiche giovanili, ed ancora oltre, trovare delle soluzioni a questi problemi è un compito difficile, che sarebbe vano pensare di esaurire in questa sede, autonomamente. Su questa convinzione si fonda la validità del workshop “Di chi sono le politiche giovanili?”. Solo dall’interazione tra tutti gli attori di politiche giovanili – anche i potenziali attori – potranno emergere idee concrete ed efficaci per delle nuove politiche. Giovani, tecnici e politici devono imparare a parlarsi: è una strada da seguire per un reale, effettivo ed efficace rinnovamento. Il lavoro di analisi sullo stato attuale delle politiche giovanili si è articolato su quattro grandi macroaree: la scuola e più in generale la formazione, l’attività lavorativa, l’autonomia abitativa ed il tempo non-strutturato. Quanto segue è frutto di un lavoro di un gruppo abbastanza variegato di giovani dai 16 ai 30 anni, provenienti da buona parte del territorio del-


la provincia di Treviso e Padova. Questo lavoro si è concretizzato in una serie di incontri volti ad aprire una discussione tra giovani sullo stato attuale delle politiche giovanili al giorno d’oggi, quali dal nostro punto di vista i punti critici o positivi, quali le possibili strategie da adottare per puntare a politiche migliori e maggiormente condivise.

Di chi è la scuola? In un workshop dedicato alle politiche giovanili generalmente non ci si aspetterebbe di discutere temi quali la scuola ed il lavoro, perché non è ancora pienamente condiviso da tutto il mondo politico e tecnico il fatto che questi siano argomenti da inserire in quello che è il significato canonico di politiche giovanili. Tuttavia pensiamo che tali politiche per essere maggiormente efficaci e complete non possano prescindere dall’occuparsi di tali problemi. La mancanza di trasversalità è, anzi, una delle problematicità strategiche delle politiche giovanili, come di tutta la politica in generale. Uno di temi cruciali emersi durante gli incontri del gruppo di lavoro è quello della scuola, percepito da molti giovani ma anche dalle istituzioni ad esso preposte (visto il continuo susseguirsi di ri-

forme e controriforme) come un nodo problematico. L’Istituzione scuola è di indiscutibile importanza nel mondo dei giovani. Poter contare su di una preparazione di qualità e su di un ambiente formativo adeguato è ciò ogni studente desidera. Investire sul metodo educativo a tutti i livelli della sua applicazione, su insegnanti costantemente aggiornati e formati anche nell’interazione con le nuove generazioni appare a questo proposito un argomento di forte attualità. È infatti innegabile il fatto che il gap generazionale creatosi sia sempre maggiore: i cambiamenti avvengono velocemente ed è importante evolvere anche sul piano della formazione, dell’informazione e sullo sviluppo e la conoscenza dei mezzi per “saper evolvere”. Risulta però cruciale instaurare una comunicazione interattiva su questi temi, in quanto si avverte che spesso gli studenti, i diretti interessati, non sono interpellati nelle scelte che li riguardano, o forse i metodi utilizzati non trovano riscontro rispetto alle esigenze avvertite. Se il progetto formativo della scuola non prevede a nessun livello la possibilità di partecipazione dello studente, l’ascolto del suo giudizio sull’istruzione che sta ricevendo, allora le mille riforme, 27


contro-riforme, ri-riforme in base a cosa vengono adottate? Ed ancora, per quale motivo si pretende che esse vengano accettate passivamente sempre e comunque dal mondo studentesco? Fondamentale è quindi l’apertura delle istituzioni al dialogo con gli studenti. Tale apertura non deve essere uno specchietto per le allodole, ma deve corrispondere anche alla disponibilità a liberare le risorse economiche necessarie affinché i cambiamenti siano sostanziali e non si riducano a stravolgimenti di questioni puramente formali, che non hanno altro effetto che mettere in ulteriore difficoltà chi poi deve applicare tali misure, siano studenti o insegnanti: ne abbiamo un chiaro esempio nella gestione contemporanea di ormai tre ordinamenti correnti da parte di quasi tutti gli atenei italiani, ciascuno con proprie regole e strutture da mantenere in vita e gestire. Oltre ai problemi che affliggono la scuola e che tutti conosciamo -strutture inadeguate, preparazione degli insegnanti, costo dei libri, dei trasporti, degli strumenti e degli alloggi- va messa sul banco degli imputati la concezione odierna di scuola, dando un respiro più ampio alla discussione. Il frutto di tale discussione si può riassumere in due punti, che identificano due 28

problemi a livello strutturale. In primo luogo troppo spesso il mondo della scuola si estrania (o viene estraniato) completamente dalla realtà delle esigenze del paese. In un momento buio per l’economia, come quello che stiamo attraversando, è fondamentale che le istituzioni facciano in modo che la scuola interagisca in modo più stretto con la realtà sociale ed economica, in modo che essa, specialmente nel settore della ricerca, possa fornire strumenti e soluzioni valide ai problemi del paese o cogliere spunti nuovi di sviluppo e di crescita. Una formazione “massificata”, ma di qualità e di alto livello, è sicuramente una marcia in più per la vita economica ma anche sociale di un paese e di una comunità. In secondo luogo si riscontra un problema che non è nemmeno mai in conto nelle varie riforme, circolari e riunioni, e che è sembrato opportuno ed efficace esprimere sotto forma di domande: di chi è la scuola? Quale scuola può esistere senza studenti? E quale tipo di risultati ha avuto, ha e continuerà sempre ad avere una politica scolastica che non vede a nessun livello del suo sviluppo, dalla nascita all’attuazione, la partecipazione degli studenti stessi? Siamo convinti che processi decisionali maggiormente parte-


cipativi, in cui siano coinvolti istituzioni, studenti e attori della realtà sociale ed economica, contribuirebbero a creare una scuola più a misura di studente e maggiormente qualificante.

Di chi è il lavoro? Queste considerazioni ci guidano in modo diretto ad un’altra questione che si vuole in questa sede trattare: quella del lavoro. Si ha quasi l’impressione che in quest’ambito ognuno sia fautore del proprio destino, in quanto tutto ciò che concerne la professione costituisce una questione prettamente personale. Ma parlare di lavoro e delle difficoltà che riguardano un giovane in questo ambito, come ad esempio il difficilmente praticabile percorso in entrata o la scarsità di sicurezze dovuta all’alto grado di flessibilità sempre più richiesto, vuol dire a tutti gli effetti parlare dell’esigenza di maggiori garanzie rispetto al proprio futuro. Se riconosciamo che il lavoro costituisce forse il primo punto per la costruzione di una propria autonomia da parte di un giovane, non è possibile non discuterne parlando di politiche giovanili. Potenziare il sistema dell’orientamento lavorativo, offrendo

occasioni di tirocini e stage effettivamente formativi e professionalizzanti, si configura come una prospettiva auspicabile per ritrovare il valore di una preparazione efficace al mondo del lavoro ed avvalersi quindi di un bagaglio spendibile. L’utilità di un sistema così configurato ed effettivamente funzionante sarebbe duplice, in quanto anche imprese ed enti pubblici potrebbero trarne vantaggio innalzando notevolmente la qualità della preparazione del loro capitale umano. Poter contare su figure di riferimento che fungano da garanti sul piano dell’esperienza formativa è a nostro parere un requisito imprescindibile. Ad oggi sono già presenti figure simili: tuttavia, per esperienza diretta, possiamo dire che questo sistema di garanzia non è sufficientemente efficace e che strumenti quali lo stage o il lavoro precario troppo spesso vengono utilizzati dalle imprese più per ridurre i costi che non come strumento utile per la formazione del personale. Per questo è necessaria una maggiore presenza da parte dei cosiddetti tutor di stage, il cui ruolo non si può esaurire con il colloquio iniziale ed una firma, come purtroppo spesso si è riscontrato. Una maggiore attenzione va inoltre dedicata ai giovani aspiranti 29


imprenditori. Siamo convinti che per un paese che sta attraversando una crisi e che arranca nella competizione internazionale con le nuove potenze economiche, l’unico strumento per uscire vincitori sia quello di valorizzare nuove idee, non solo intese come innovazioni tecniche, ma anche come nuovi modi di fare impresa. Ci chiediamo: da chi possono venire queste idee se non dai giovani? Chi può avere il coraggio di cambiare un modo di fare impresa che, escludendo alcune eccellenze, si dimostra sempre più spesso inadeguato al contesto internazionale in cui, volenti o nolenti, ci troviamo a competere? Crediamo che sarebbe un atteggiamento miope da parte della politica quello di continuare a mantenere un sistema dove per un giovane aspirante imprenditore sono presenti barriere d’ogni tipo, dagli ordini professionali che limitano la concorrenza, ad una burocrazia soffocante dove spesso i giovani rimangono invischiati. Per non parlare poi della difficoltà a reperire i mezzi di finanziamento necessari all’avviamento. Concludendo, non chiediamo l’elemosina a nessuno, ma bensì un sistema dove il lavoro dipendente sia tutelato ed in cui sia possibile, per un giovane che lo desi30

deri, provare a fare impresa. Poi, in un caso e nell’altro, il mercato farà la sua selezione, com’è un paese liberale come il nostro. La parola liberale però, non può e non deve servire da alibi all’autorità pubblica per lavarsene le mani, perchè ha il fondamentale ruolo di garantire parità di opportunità, la salvaguardia dei diritti dei giovani che si accostano ad un percorso di lavoro dipendente e la riduzione delle barriere che ostacolano l’avvio di nuove imprese. Dal nostro punto di vista, infatti, il liberalismo senza pari opportunità è svuotato del suo più profondo significato.

Di chi è la casa? La possibilità di uscire di casa per andare a vivere da soli è un altro dei passaggi che conduce al raggiungimento di una propria autonomia. Siamo testimoni di come attualmente riuscire a mantenere le spese di una casa propria sia troppo spesso improponibile. Contando sullo stipendio medio di un neoassunto, le possibilità di “arrivare a fine mese” sfumano letteralmente. Per non parlare dell’impossibilità da parte di giovani con un contratto di lavoro precario, ormai prassi da parte di molte imprese per i primi anni di assunzione, di accedere alle fonti


di finanziamento messe a disposizione dagli istituti di credito, quali ad esempio i mutui, e quindi la preclusione ad ogni investimento economico a lungo termine. La prospettiva di incentivare l’indipendenza dalla casa natale, mediante sussidi o prestiti agevolati sembra una strada indispensabile per dare la possibilità ad una generazione di giovani cittadini di poter contare sulla sicurezza di un certo grado d’autonomia dalle proprie famiglie. Esperienze sperimentali sono state introdotte nei contesti urbani di alcune città, come ad esempio il progetto di convivenza tra studenti ed anziani in alcune palazzine del bresciano. Si trattava di giovani studenti universitari a cui sono stati applicati affitti particolarmente bassi entro palazzine in cui risiedevano anche persone anziane. Ai ragazzi veniva chiesto, in cambio dell’agevolazione, di aiutare gli anziani residenti nel condominio qualora ne avessero bisogno e di sincerarsi periodicamente sulle loro condizioni di salute. Viene così incentivata una forma di cittadinanza attiva dove lo scambio generazionale funge da possibilità per fruire di importanti vantaggi, come quello di vivere soli e di agevolazioni rispetto a costi spesso proibitivi.

Riuscire ad avere una casa, per giovani coppie e in particolare per giovani famiglie, si rivela una questione sempre più difficile… se non impossibile, da non considerare solo e semplicemente nel suo aspetto economico. A questo infatti si aggiunge il tentativo di conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita: prendersi cura dei propri figli, della casa, senza contare eventuali attenzioni richieste da genitori anziani, rappresentano qualcosa da cui difficilmente si può prescindere e che senz’altro assorbe notevoli quantità ed energie. Contare su un sistema di interventi che possano efficacemente non solo tamponare, ma configurarsi come validi sostegni , è quanto di minimo si possa ambire per una vita dignitosa. Inchieste recenti ci parlano di un “ascensore sociale bloccato”, di un paese che assiste ad una paresi della mobilità sociale: dai dati tratti da un’indagine che coinvolge giovani ventenni, risulta che un giovane su cinque sostiene che il proprio stato sociale è peggiorato rispetto la famiglia di origine. Non si può non riconoscere in questa situazione l’effetto di un sistema che purtroppo tende direttamente ed indirettamente a disincentivare il raggiungimento di un grado di autonomia sia per quanto concerne i giovani, sia per 31


quanto riguarda le giovani famiglie. Alcune proposte di cui recentemente si sente parlare suscitano a questo proposito grande interesse: l’affitto d’emancipazione, ad esempio, che si rifà all’esperienza condotta in Spagna con “la renta de empancipaciòn”. Con tale provvedimento si andrebbe ad integrare il reddito mensile dei giovani d’età compresala tra i 22 e i 30 anni , che hanno lasciato la casa dei genitori e i cui redditi annui non superano i 23 mila euro lordi. Parallelamente a tale sussidio si farebbe corrispondere una forte agevolazione fiscale per proprietari che affittano a giovani al di sotto dei 35 anni. Un’altra proposta fa riferimento alle giovani famiglie con figli al di sotto dei 6 anni: dare loro la possibilità di cumulare l’affitto di emancipazione e la possibilità di farsi rimborsare le spese di baby sitting. Si potrebbe inoltre pensare di predisporre agevolazioni sulla tassazione dei primi stipendi di giovani mamme lavoratrici. Ci si serve in questa sede di tali citazioni semplicemente per soffermarsi su un punto fondamentale: dimostrare come non sempre siano necessarie abnormi quantità di risorse per realizzare ed attuare misure volte a rendere una situa32

zione più favorevole alla costruzione del proprio futuro da parte dei giovani. Serve una connessione tra la condivisione dei bisogni e le possibilità di risposta attuabili, per arrivare a soluzioni efficaci, senza inefficaci dispersioni di denaro ed energie.

Di chi è il tempo libero? Ma, prima di tutto… chi ha deciso di definirlo soltanto “tempo libero”? Il termine rischia di esser fuorviante, trasmettendo l’idea che il tempo non occupato da studio, lavoro o attività sportive sia del tempo sprecato, perso, inutile, sciocchezze insomma. Si ha la sensazione che tale espressione sia più incline ad un concetto di residualità: il tempo che rimane dopo la scuola, dopo il lavoro, dopo lo sport. Non è così: riteniamo fondamentale una grande e profonda rivalutazione di quegli spazi e di quei momenti che un giovane ma il discorso vale agevolmente per tutte le età - dedica alla propria crescita, in maniera consapevole e indipendente. Le offerte in questo ambito esistono, ma, partendo da presupposti e convinzioni erronee, rischiano spesso di essere poco apprezzate a partecipate, dando l’impressione che il mondo giovanile sia un mondo apatico, passivo, privo di


idee ed interessi. Di nuovo, non è così. Queste convinzioni non fanno che ampliare e inasprire le situazioni di disagio. Occorre, ribadiamo, un cambiamento nell’ottica di queste iniziative. Non bastano poche attività standardizzate, pre-ordinate, pensate a tavolino per i giovani - che spesso si concentrano nei centri più grandi o attenti, lasciando vuoti pericolosi nei piccoli centri e nelle periferie e rendendo inevitabile la migrazione dei giovani verso zone più attrezzate – bensì reali possibilità di fare a disposizione dei giovani. Strumenti che consentano a loro stessi di far emergere esigenze, passioni, interessi e trasformarli in nuove attività, organizzate e gestite autonomamente. È necessario che le amministrazioni locali, il mondo politico, i tecnici che di questo si occupano si rendano conto che i giovani possono e vogliono gestire se stessi, senza essere costantemente controllati e indirizzati nelle loro attività. Per farlo, però, hanno bisogno di conoscere, capire, imparare come è possibile - all’interno di un sistema politico e burocratico che non li vede mai partecipi - mettere in pratica idee e progetti che andranno a beneficio di tutta la comunità, oltre che del loro sviluppo personale come individui e cittadini.

E’ possibile iniziare un processo di rinnovamento concreto, partecipato che finalmente riesca a presupporre che un giovane sia cittadino e persona, come qualunque altro all’interno della propria comunità? Che non sia sempre considerato come pezzo, dipendente, di famiglia, scuola, gruppi parrocchiali, di volontariato, società sportive… Partiamo da questo concetto: non più tempo libero, ma tempo non strutturato. Tempo utile per la crescita e lo sviluppo della persona, del cittadino, momenti di educazione diversi da quella formale ma ugualmente indispensabile.

Conclusione Dall’analisi sopra esposta emerge chiaramente la necessità di un profondo rinnovamento delle politiche giovanili: rinnovamento che non può passare solo per l’elaborazione di soluzioni nuove ma anche, ed in modo altrettanto fondamentale, per un modo nuovo di elaborare soluzioni. Per questo motivo è auspicabile che l’apporto di ognuno non venga interpretato, o peggio, “bollato” semplicemente come critico in senso distruttivo. Soprattutto il lavoro di preparazione e l’apporto dei giovani, la loro stessa pre33


senza alla discussione, non vuole e non deve essere semplicemente considerata scomoda, semplificata in pars destruens. Se abbiamo tutti deciso di partecipare, si auspica sia per provare a costruire qualcosa assieme, in veste di naturale pars costruens, non per smontare ogni buon proposito o critica. Ci si aspetta lo stesso atteggiamento da tecnici e politici, nel discutere di politiche giovanili (ma anche di politiche di qualsiasi altro tipo): si deve essere disposti a negoziare e a condividere anche con i giovani un discorso su di una loro valutazione e rivalutazione, una spinta per un rinnovamento. In fin dei conti, non si può non riconoscere un ruolo da protagonisti ai giovani, parlando di politiche giovanili: in qualche modo essi devono, per loro stessa natura di vivere in prima persona il momento unico dell’“essere giovani”, prendere parte attivamente alla discussione, alla costruzione ed attuazione. Occorre quindi che la posizione dei giovani all’interno del dibattito venga pienamente legittimata: una legittimazione che non si fonda sul fatto che essi sono più adatti di tecnici o politici a parlare di politiche giovanili, perché appunto “giovani”, ma bensì sul fatto che come tecnici e politici, come qualunque cittadino, essi devono essere considerati cittadini a ti34

tolo pieno, con le loro necessità, capacità, diritti. Anzi, spingendosi oltre: il discorso sulle politiche giovanili oggi andrebbe allargato a fasce sempre più ampie di cittadini, a vario titolo, appunto perché le politiche giovanili ormai vedono il loro orizzonte allargarsi sempre di più in modo trasversale a moltissimi altri settori: l’economia, l’urbanistica, la sociologia... Alla luce di queste ultime considerazioni, sembra opportuno riprendere e sottolineare tre aspetti che costituiscono dal nostro punto di vista delle problematicità evidenti nelle politiche giovanili. La particolarità di questi aspetti è che in qualche modo attraversano trasversalmente tutte le macroaree che in cui abbiamo dovuto scomporre le politiche giovanili cercando di farne un’analisi: scuola, tempo non-strutturato, casa e lavoro. Oltre a questo, essi sono stati fortemente sentiti in diverse fasi da tutti i partecipanti al gruppo di lavoro. Per prima cosa, è emersa la trasversalità di un dato strutturale: ai giovani manca la possibilità di incidere in modo effettivo sull’offerta esistente, in tema di politiche giovanili. Mancano tutta una serie di condizioni per cui un giovane possa agire con un sufficiente grado di autonomia: strumenti per decodificare e decostruire l’offerta


esistente, risorse per costruire in modo autonomo, personale ed attivo il proprio percorso. Gli ostacoli possono essere i più diversi, e non va fatto l’errore di far coincidere questi con un’eventuale carenza di risorse economiche, cui spesso istituzioni ad ogni livello (enti locali, università o privati) imputa a torto la scarsa disponibilità a discutere anche semplici prassi operative, procedure che possono essere di impedimento all’effettiva partecipazione dei giovani: una macchina burocratica non sempre chiara ed efficiente diventa uno scoglio complesso per chi è alle prime armi (per antonomasia un giovane lo è) o magari ancora non ha un’idea precisa di ciò che può ottenere e di cosa vuole. Troppo di rado viene concesso ascolto e spazio di azione concreta nelle fasi di costruzione dell’offerta sia a livello pubblico, che ad oggi è il piano più strutturato dell’offerta ai giovani – si pensi ad esempio ad un Progetto Giovani – sai a livello privato, non strutturato. Tutto questo a scapito del successo dell’offerta stessa, poco condivisa e quindi probabilmente poco compresa, anche nei suoi aspetti di positività. In tre parole, si parla di strumenti, risorse, potere. Un qualsiasi discorso su risorse e strumen-

ti comporta infatti la verifica di quello che è l’effettivo potere che ogni cittadino ha - o non ha - ed in questo caso particolare quello di un giovane cittadino. “Potere” che non è da intendersi come rivendicazione di tipo lobbistico. Dal punto di vista di tecnici e politici, non si tratta di eliminare una classe dirigente e sostituirne una nuova, anche perché non avremmo garanzie sulla sua maggiore o minore capacità. Si tratta probabilmente di modificare un modo di fare politica e specificatamente di pensare ed attuare politiche giovanili: cambiare dei presupposti, delle strategie, dei modus operandi per non ritrovarsi da qui a due generazioni allo stesso stallo di incomunicabilità tra chi decide, progetta ed attua e chi subisce questo iter, al fine di migliorare l’iter stesso nel rispetto reciproco dei ruoli di tutti i portatori di interesse. Ecco allora che si chiarisce il tipo di richiesta di potere prima esplicitata ed il secondo dei tre aspetti di problematicità prima accennati. “Potere” va inteso come mezzo per, da una parte, migliorare le politiche giovanili tramite un coinvolgimento diretto dei giovani, dall’altra, cogliere il massimo dalle energie che una comunità dedica ai suoi cittadini, in modo particolare da quelli under 30. 35


La domanda di potere formulata dal nostro gruppo di lavoro è una domanda di partecipazione. In filigrana a tutto quanto stiamo dicendo, questo è il bisogno che si manifesta in modo forte da parte dei giovani: una volontà ma anche necessità di partecipazione, per poter contare su di una presenza attiva, vera e tangibile, circa le scelte che riguardano sé stessi ed il mondo da cui si è circondati. “Partecipazione” come essere “parte di un’azione”, essere dentro alle questioni ed alle decisioni che di fatto determinano il contesto in cui viviamo, per essere realmente dentro al contesto stesso, come ogni cittadino ha il diritto di sentirsi rispetto al paese in cui vive, alla comunità di cui fa parte. I giovani sono oggetto di politiche particolari, come tutti riconoscono essere necessario; questo non esclude il fatto che essi debbano essere considerati, ad ogni età, cittadini a pieno titolo. A questo punto si pone con chiarezza anche il terzo dei tre aspetti problematici con cui si è aperta questa conclusione. Si tratta di un portato culturale che tutti ereditiamo e che innegabilmente tende a marginalizzare i giovani come problema, più che come una risorsa, o che limita le politiche giovanili ad attività ricreative (la sala prove, il concertino…). A 36

differenza di quanto avveniva un tempo - va ribadito - quando le politiche giovanili erano pensate soltanto a dare risposta alle problematiche del mondo giovanile, negli ultimi anni stiamo assistendo al tentativo di coinvolgere tutti gli aspetti della vita quotidiana dei giovani-cittadini, ognuno dei quali è essenziale a una crescita armonica e serena nella comunità. Le politiche giovanili sempre di più hanno a che fare con l’idea di trasversalità e si intrecciano in modo forte con le comunità locali in cui vivono ed agiscono i giovani, per questo vanno viste come “un paio di occhiali” con cui analizzare le politiche pubbliche, le strategie e le azioni. Le tre macroaree di cui abbiamo parlato in precedenza e che abbiamo analizzato, in modo tutt’altro che esauriente, sono state valutate, osservate, proprio attraverso questa lente. Non si può tuttavia dire che questo sia un traguardo pienamente raggiunto e condiviso, ne sono tristi e tangibili esempi diversi assessorati che ancora sono intitolati alle problematiche giovanili. A dimostrazione del fatto che modificare, adeguare, modernizzare le strutture politico-amministrative e l’ottica di base dei responsabili, tecnici e politici, delle politiche giovanili – e con queste di tutta la politica in genere – richiede un notevole


impegno da parte di tutti i portatori di interesse in questo ambito, giovani compresi. L’ostacolo costituito da un portato culturale che ancora caratterizza un certo modo di fare politiche giovanili ed anche politica più in generale è emerso più volte nelle riflessioni del gruppo di lavoro. Per di più, è emerso in tutte le macro-aree nelle quali abbiamo scomposto l’argomento: pregiudizi e stereotipi secondo i quali i giovani sono svogliati, apatici, non hanno voglia di far niente, evitano di impegnarsi, non hanno alcuna capacità o competenza. Va ribadito con forza, ancora una volta: se vogliamo provare modi nuovi di fare politiche giovanili affinché esse siano davvero rispondenti ai bisogni sempre più trasversali di giovani finalmente considerati cittadini, dobbiamo accettare questi limitanti stereotipi nella stessa misura in cui li accetteremmo nei confronti di un qualsiasi altro cittadino, adulto, vecchio, lavoratore, studente, pensionato, imprenditore, dipendente. Ci vuole coraggio e fiducia reciproca, perché le politiche giovanili non possono essere una serie di freni, sanzioni, soluzioni approssimative calate dall’alto per evitare gli istinti distruttivi e autolesionisti del mondo giovanile. Pensiamo che le politiche giovani-

li siano molto di più. Vorremmo quindi concludere in un’ottica di concretezza, riprendendo quanto precedentemente detto sull’idea di politiche giovanili come erogazione di servizi su di un modello impresa-cliente, per cercare di descrivere sinteticamente quali sono le nostre aspettative su delle nuove idee a proposito di politiche giovanili. Se la metafora economica prima citata di un’erogazione di servizi sul modello di impresa-cliente non va bene, la sfida potrebbe essere aprire ad una nuovo tipo di imprenditorialità: rinnovare le politiche giovanili intendendole come cessione di responsabilità, come possibilità di iniziativa, di autonomia di gestione; come possibilità, infine, di decentramento. Una ricetta per ricucire una scollatura tra chi si occupa di politiche giovanili e coloro ai quali queste sono indirizzate, che permette in parte di superare alcuni ostacoli che caratterizzano trasversalmente la difficoltà di un’effettiva partecipazione dei giovani alla definizione, costruzione, verifica delle politiche giovanili in collaborazione con gli altri protagonisti. Vanno perseguiti e cercati modi, idee, soluzioni al fine di far emergere i bisogni ma anche stimolare e cogliere le capacità 37


autonome di risposta a questi bisogni, in sinergia con quanto sono preposti a fare tecnici e politici. Sinergia che si può costruire con disponibilità da parte di tutti i soggetti interessati cioè politici, giovani e tecnici a mettersi su di uno stesso piano: in questo senso sono fondamentali impegno, ascolto, apertura mentale, confronto, l’aiuto reciproco, lo scambio di informazioni tra tutte le realtà che si occupano di politiche giovanili e soprattutto la capacità di sperimentare, innovare, essere creativi.

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Dibattito seguito agli interventi

PUBBLICO 1: Partirei dalla fine dell’intervento del gruppo di lavoro dei ragazzi, premettendo che mi è piaciuto molto. Dicevate che ai giovani non è data possibilità di incidere e per arrivare a ciò sarebbe necessario possedere degli strumenti e delle risorse…o comunque un potere. Mi chiedevo se riguardo agli strumenti siete in grado di darmi delle informazioni più specifiche a proposito.

Parma e stiamo pensando da un po’ di tempo anche noi a come fare per attivarci in questa direzione, ma oltre alle riflessioni la cosa più difficile da fare ci sembra quella di lavorare sul sostegno...è molto più semplice invece dedicarsi alla creatività o all’arte. Sono anche queste chiaramente forme di imprenditorialità, ma mi piacerebbe avere da voi qualche idea anche in altre direzioni.

PUBBLICO 2: Per me è stata molto interessante la parte in cui facevate un discorso sull’imprenditorialità… perché non mi sembra che sia mai uscito in maniera così forte. Io vengo dal comune di

STEFANO VOLPATO: Vorrei provare a rispondere alla prima domande. Quando ci siamo trovati, durante i nostri incontri, abbiamo affrontato la questione degli strumenti, e in particolare 39


quello dei bandi di finanziamento. Ci siamo resi conto che questi di solito sono poco comprensibili e quindi difficilmente accessibili. Un’idea quindi potrebbe essere quella di rendere i bandi accessibili anche a chi non ne ha esperienza. Credo che facilitare l’accesso a queste opportunità potrebbe essere utile ai giovani ma non solo, anche ad esempio a un imprenditore, che magari vuole sviluppare un’idea all’interno della sua azienda, ma che non ha dimestichezza con il linguaggio complesso con cui si formalizzano questi bandi. GIACOMO GIROTTO: Proverò a rispondere alla domanda legata al “come riuscire a far emergere l’imprenditorialità dei giovani”, poiché riguarda la parte che ho sviluppato io nella nostra relazione. Come ho detto precedentemente, credo non si debba fare nulla di nuovo, ma piuttosto cercare di abbattere le barriere che sono ormai vecchie. Non credo che il problema sia come far emergere l’imprenditorialità, io conosco infatti molti giovani che hanno delle idee innovative sia sui modi di fare impresa che in concezioni tecnologiche. Dicevo quindi che non è necessario creare degli strumenti nuovi ma piuttosto abbattere tutto ciò che ostacola l’imprenditoria; ad esempioor40

dini professionali, questione che mi sta particolarmente a cuore. Io ancora oggi stento a capire quale sia l’utilità di questa barriera. A certificare la preparazionedei liberi professionisti, dovrebbe essere l’autorità pubblica, eliminando in questo modo tutti gli aspetti negativi degli ordini professionali. Altro problema di cui secondo me dovrebbe farsi carico la Pubblica Amministrazione, è il rendere più agevole l’accesso ai finanziamenti, che permettono uno sviluppo ad esempio di un’impresa. Io sono ancora un economista in erba, quindi non saprei ancora indicare quali potrebbero essere le strategie per arrivare a realizzare questo. Volevo fare un esempio su quanto l’interazione tra mondo del lavoro e mondo della scuola possa portare dei vantaggi e dei benefici al mondo dell’impresa: mi è venuto in mente guardando qui davanti a me il pc dell’”HP” che significa “Hewlett - Packard”, una delle maggiori multinazionali di strumenti tecnologici. La Hewlett - Packard è stata fondata da due studenti universitari ai quali un professore diede due cose molto importanti: fiducia e uno spazio dove poter realizzare le loro idee. Da due ragazzi e una stanzone dell’università è nato il seme di quella che oggi è la Silicon Valley.


Tutto questo per dirvi che, a volte, non servono risorse astronomiche o grandi capitali per far partire un’idea. Apro quindi un capitolo su una realtà spesso dimenticate, quella dei ricercatori, che difficilmente lo fanno per i sodi, ma che lo fanno per passione, in primis. ANDREA CONFICONI: Mi viene il mente che la chiave non è tanto quella di trovare strumenti innovativi, quanto piuttosto di provare a cambiare prospettiva. Prima, confrontandomi con una collega, mi raccontava di un grosso personaggio degli Stati Uniti, il cui figlio aveva ideato un progettino per amplificare la chitarra. Questo ragazzo è poi andato in banca per chiedere un finanziamento e l’istituto finanziario non gli ha chiesto di chi fosse il figlio o quali garanzie potesse offrire, ma rispose che avrebbero fatto valutare il progetto da alcuni loro tecnici di fiducia, che avrebbero quindi stimato la bontà e l’innovatività dell’idea. Anche se la banca non avesse poi finanziato il progetto, avrebbe dimostrato di voler comunque dare una possibilità a un’idea scaturita da un giovane. Questo è il punto innovativo a cui guardare. Qui entrano in gioco anche altre parti sociali, ad esempio le banche.

GIACOMO GIROTTO: E’ molto interessante quello che dice Andrea, poiché è riuscito a tradurre in parole quello che io non sono riuscito a dire, ossia attribuire anche un valore economico alle idee creative. PUBBLICO 3: Buona sera, io volevo puntualizzare il concetto sulla fiducia, soprattutto per quanto riguarda l’imprenditorialità giovanile. Io sto provando a diventare un giovane imprenditore, passando per bandi europei, finanziamenti vari e burocrazie incomprensibili…e quello che mi è saltato all’occhio da questa esperienza è la mancanza di fiducia dei possibili finanziatori nei confronti dei giovani imprenditori e della loro creatività, mancanza di fiducia forse dovuta a pessime esperienze di chi si è approfittato o non ha saputo mettere a frutto possibilità e finaziamenti. Se dovessi focalizzare un argomento interessante proporrei quello dei giovani e agricoltura. Io sono convinto che l’economia ripartirà nel momento in cui si dedicherà attenzione all’energia rinnovabile e alle nuove fonti energetiche e quando la politica deciderà di occuparsi di questi problemi. Lavorando nell’agricoltura, vedo un declassamento della categoria e un progressivo abbandono del41


le campagne, ma anche dell’imprenditoria legata alle campagne. Evidentemetne troppe sono le pressioni politiche ed economiche che impediscono o rallentano lo svilupparsi di forme di energia alternative a quelle tradizionali (non rinnovabili). PUBBLICO 4: Provo a fare il politico provocatorio... mi pare ci sia la necessità da parte dei giovani di confrontarsi con i politici e io come politico vi porto una provocazione. Tutto quello che avete detto questa sera è molto interessante, però c’è un problema di fondo... le nuove generazioni non sono in grado di prendersi le proprie responsabilità in situazioni come come la possibilità di accedere ad un mutuo o ad un finanziamento. Spesso davanti a ciò vi tirate indietro. Quando vi viene richiesto di diventare responsabili di uno spazio e di firmare per garantire la vostra responsabilità, vi sottraete a questo compito. Ne deduciamo come politici che c’è questo problema e non riusciamo a farvi prendere le vostre responsabilità. PUBBLICO 5: Una cosa che mi colpisce quando si parla di un confronto generazionale in cui un gruppo (giovani) deve progressivamente entrare in un altro (adul42

ti), l’unico tempo verbale che sento usare è quello del condizionale e nell’aria aleggia sempre l’idea che sia compito dei politici trovare delle soluzioni. Mi chiedo però come scardinare dal basso questo meccanismo, ossia come far si che si rompa questa convinzione che manchi la fiducia reciproca. Come costruire con i giovani un approccio che cambi la prospettiva dominante? Come secondo voi è possibile dal basso creare questa sorta di fiducia che facilita poi l’emergere dell’imprenditorialità? Sappiamo tutti che negoziare con un istituto di credito e acquistare questa fiducia è davvero difficile per un giovane. Che interesse hanno un’associazione di categoria o una banca a dare un finanziamento e a creare un rapporto di fiducia se poi non ne ricavano un vantaggio economico? IRENE SPRICIGO: Cogliendo lo stimolo dell’ultimo intervento vorrei cercare di spiegare com’è possibile mettere assieme il bisogno di venire incontro alle esigenze dei giovani e nello stesso tempo che le istituzioni ne traggano vantaggio. Per questo vorrei portare lo stesso esempio che ho citato prima….si tratta di quel progetto sperimentale portato avanti nel comune di Brescia. A nostro parere è un buon esempio di come si


possano mettere assieme e coniugare due diverse esigenze. Il progetto prevedeva la possibilità di mettere una serie di appartamenti in affitto a disposizione dei giovani ad un prezzo particolarmente vantaggioso. I giovani, con un costo sostenibile, potevano quindi studiare o lavorare, abitando vicino alle sedi e facendo un’esperienza fuori casa. Tutto questo in cambio, da parte del giovane beneficiario, di una sorta di impegno solidale nei confronti dei vicini di casa, bisognosi o anziani. Cioè i giovani si impegnavano a un vicinato solidale, di aiuto, di sostegno. Secondo noi questo può essere un valido compromesso che potrebbe diventare un esempio per altri. Inoltre mette assieme due cose: da una parte il giovane ha l’opportunità di uscire di casa e fare un’esperienza, dall’altro lo Stato non si deve più occupare di procurare, ad esempio, l’assistenza domiciliare agli anziani bisognosi. Le vie percorribili esistono…basterebbe innanzitutto trovare il modo di comunicarci queste esigenze. GIACOMO GIROTTO: Io vorrei invece provare a rispondere alla domanda/provocazione del politico. quando sosteneva che se ai giovani vengono date delle opportunità, nel momento in cui vengono

chiamati ad assumersi realmente delle responsabilità, quegli stessi giovani tendono a tirarsi indietro. Questo è sicuramente un problema reale, ma credo che la risposta sia nel percorso della partecipazione. Molto spesso abbiamo riscontrato che quello che viene offerto dalle amministrazioni in ambito di politiche giovanili corrisponde a degli stereotipi, sono pacchetti preconfezionati, non creati in base ai bisogni emersi. Io immagino, invece, un sistema virtuoso, in cui ad un livello precedente alla semplice offerta del pacchetto, si interpella il giovane e gli si chiede di che cosa ha realmente bisogno. E’ un sistema di condivisione di obiettivi che a mio parere ha una probabilità maggiore di avere successo, anche se sono consapevole che un margine di fallimento esiste lo stesso. A me viene un mente un esempio che scaturisce da un’esperienza vissuta con Stefano. Un paio d’anni fa abbiamo riunito in una palestra tutti quelli che, a diverso livello, facevano arte nel comune di Istrana (TV); si sono trovati assieme quindi i gruppi musicali che fanno musica propria, artisti visivi ecc..e abbiamo creato un’iniziativa interessante. Ciò dimostra che certe iniziative, anche se richiedono molto impegno, possono avere successo, la stessa iniziativa di oggi ne è un 43


esempio: arrivare qui con un discorso da fare, con dei messaggi da portare, non è stato facile, ha richiesto un lavoro di confronto e di organizzazione delle idee piuttosto lungo e che si è incastrato con mille altri impegni che ciascuno di noi ha. E’ la motivazione il motore di certe iniziative, per cui io credo che, se l’offerta è coerente con un processo che viene prima dell’offerta stessa, si ha un’alta probabilità che i giovani non si tirino indietro quando poi è l’ora di assumersi le proprie responsabilità. STEFANO VOLPATO: Riprendo il discorso iniziato da Riccardo (cfr. pubblico 3) sulla fiducia. Le provocazioni che sono state fatte sono legittime, ma non credo che sia questo il piano in cui possiamo dare delle soluzioni, in ambito di politiche giovanili. Tutti siamo consapevoli che non solo i giovani possono sbagliare, ma sbagliano realmente, ma sbagliano anche gli adulti. Prendiamo l’esempio della politica urbanistica del comune in cui vivo. Se guardiamo a come sono stati costruiti gli edifici negli ultimi quindici anni a Istrana, ci rendiamo conto che per accettare dei simili errori ci vuole veramente un altissimo grado di tolleranza. A mio avviso il cambiamento di rotta ci deve essere a livello lo44

cale, ma anche e soprattutto a tutti gli altri livelli: politico, sociale, relazionale e non ci si può aspettare che a cambiare sia sempre e solo “l’altro”. Il coltello dalla parte del manico però non ce l’abbiamo noi, possiamo cercare di provocare ma non abbiamo noi il potere. GIACOMO GIROTTO: Aggiungo solo due cose. La prima è legata a questo ultimo intervento fatto da Stefano ed è che noi giovani, per riuscire a scardinare dal basso, dobbiamo mostrare quello che siamo capaci di fare. Ritorno sull’iniziativa che ho portato ad esempio: io penso che qualsiasi politico, che sia digiuno di arte, ma che vede che un’iniziativa organizzata da un ragazzo di vent’anni ha l’esito che vi ho illustrato prima, non può non prendere atto del valore e della competenza. Penso perciò che qualsiasi politico dovrebbe essere stimolato a dare fiducia ai giovani di fronte ai risultati ottenuti. La seconda cosa importante che vorrei rilevare è la questione sollevata dall’intervento di Riccardo sulla fiducia data ai giovani che intraprendono la strada dell’imprenditoria in ambito agricolo. Da quando siamo entrati nella comunità europea, l’agricoltura, che è sempre stata un settore trainante nell’economia nazionale, ha


perso un po’ del suo potere; trovo però che riscoprire l’agricoltura, anche in un paese che sa e può vivere di altro, sia veramente importante. Valorizzare le tradizioni e i prodotti tipici, la salvaguardia ambientale… in tutto questo l’autorità pubblica potrebbe avere un ruolo di primo piano, ad esempio quello di scardinare certi monopoli agricoli che ostacolano il libero mercato e quindi la giovane impresa. PUBBLICO 6: Vorrei fare anch’io delle riflessioni, anche se mi sono perso il vostro intervento iniziale e magari dirò alcune cose che avete già affrontato nella prima parte. Io da parecchi anno lavoro nell’abito delle politiche giovanili e ho quindi spesso a che fare con i politici, i tecnici e i giovani, e ho rilevato questo: all’interno di questi progetti si fanno tantissime cose, a volte, lo dico anche provocatoriamente, si mette in discussione il nostro lavoro di operatori, il nostro tentare di fare da educatori. Ho riscontrato nei giovani una grande difficoltà a sapersi organizzare e a organizzare le proprie idee, mancando quindi di una rappresentanza che si ponga in grado di dialogare con la parte politica e tecnica. A mio parere però non si stanno prendendo in considerazione delle linee strate-

giche comuni per andare incontro alla parte politica. Semplicemente l’organizzazione dei numeri, essere in tanti, ben organizzati e credibili offre una chance che attualmente secondo me è piuttosto debole. Tanti assessori sono illuminati e quindi attivano di proprio delle iniziative, altri purtroppo hanno bisogno di essere stimolati. Vorrei sapere da voi, se per caso ci avete pensato, se avete delle idee a proposito, sul come mettere in rete certe idee e condividerle con gli altri giovani. Rispetto alle iniziative, la regione ha messo in piede tante iniziative e attività in cui i giovani sono protagonisti, come ad esempio il Forum per i giovani, anche se mi pare che non abbia funzionato benissimo. A fronte di questi esempi, immagino però che ci siano molti altri gruppetti di giovani che singolarmente stanno facendo le vostre stesse riflessioni, e quindi chiedo: come mettervi in contatto in rete tra di voi? Come fare in modo che tutti questi ragionamenti vengano valorizzati da enti che non siano sempre e solo le amministrazioni comunali? Le amministrazioni comunali sono certamente le più vicine, l’interlocutore primo, ma a livello di potere nel cambiare le cose forse sono un po’ deboli, mentre bisognerebbe arrivare a farsi sentire ad altri livelli politici. 45


PUBBLICO 7: La mia domanda era simile a quella di Cristian (cfr. pubblico 6); anch’io sono un operatore delle politiche giovanili, mi chiamo Benedetta e lavoro per la cooperativa Il Sestante.Volevo chiedervi questo: voi oggi siete qui e parlate perché avete condiviso alcune riflessioni, avete fatto un percorso di condivisione e di esperienza assieme, ma di solito, nella vostra esperienza, quando vi trovate a fare delle richieste o avete un’opportunità e sentite di volerla cogliere, dovendo quindi interfacciarvi con amministrazioni pubbliche o enti, avete l’impressione di parlare per voi o di essere in qualche modo rappresentativi di un gruppo, di una categoria di giovani? STEFANO VOLPATO: La domanda di Benedetta pone una questione di consapevolezza. Per quanto mi riguarda è stato così: io da quando sono entrato in questo progetto ho fatto un percorso e metà delle cose che ho detto non sono farina del mio sacco; io da solo non ci sarei mai arrivato, se non grazie ad un insieme di stimoli e di idee che mi sono arrivate parlando con gli altri e probabilmente la stessa cosa è successa ad altri. Io, ad uno dei primi incontri cui ho partecipato, ho chiesto un po’ stupito da quando in qua po46

litiche giovanili significasse anche parlare del lavoro, io ero completamente fuori da quest’ottica. Mi rendo conto che siamo veramente lontani dal condividere dei pensieri, dall’essere un gruppo consapevole di avere in comune certi interessi e di impegnarsi per portare avanti delle istanze collettive. Ritengo perciò che una politica come quella che si vede spesso in tv, fatta di consenso, di facili promesse, di compiacenza, è alla base di questi problemi che nel nostro piccolo riscontriamo:“Ho dei problemi? È tuo compito, politico di turno, cercare il modo di risolverli”. Forse siamo un po’ disabituati a farci carico dei nostri stessi problemi, anche se percorsi come quello che abbiamo fatto noi sono molto utili per aumentare il livello di consapevolezza, d’altra parte devo dire che tua domanda, Christian, non saprei dare una risposta... PUBBLICO 8: L’ho fatta apposta…il mio obiettivo era quello di provocare una riflessione sul fatto che dobbiamo stare attenti a non entrare in una logica di autoreferenzialità... Attenzione: non sto parlando di voi in questo preciso contesto, va benissimo che ci attiviamo, che facciamo dei ragionamenti e ne condividiamo i passaggi; mi collego alle riflessioni


di stamattina: si diceva che è cruciale il passaggio che trasforma un mio problema in un bisogno di tanti, pubblico, e diventa problema di tutti e io, amministrazione, lo devo inserire nella mia agenda politica: la difficoltà è arrivare a sentire la condivisione e far si che la mia agenda metta in atto strategie d’azione atte ad affrontare le situazioni. Trasferendo questa riflessione su di voi giovani, il ragionamento resta identico, perché c’è il rischio che le cose rimangano così come sono solo perché non arrivano al posto giusto dove potrebbero essere affrontate. IRENE SPRICIGO: A proposito di questo mi piacerebbe che parlasse Fabio, uno dei ragazzi che ha condiviso con noi il percorso e che aveva proprio portato al gruppo questa esigenza di connessione, facendo anche delle proposte. FABIO PASA: Vi sentivo parlare prima di movimento dal basso e secondo me, nella mia “ignoranza”, è il punto centrale. La struttura politica in cui ci troviamo secondo me è piuttosto ristretta, ossia la cerchia di quelli che hanno in mano i cordoni della borsa, se vogliamo usare un metafora, è davvero piccola, dà difficilmente accesso ad altri. Quello che avevamo proposto durante le nostre

riflessioni era di creare una sorta di assemblea permanente, simile a questa, che non si esaurisca però in poche giornate, ma che abbia stabilità e durata nel tempo, cosicché i giovani possano portare le loro istanze e trovare accoglimento e condivisione. Una proposta del genere, se fatta bene, potrebbe avere una eco importante e diventare un punto di riferimento importante a livello territoriale, non solo per i giovani che hanno un “luogo” in cui trovarsi, ma anche per gli stessi politici, che avrebbero un osservatorio specializzato e costantemente aggiornato a cui fare riferimento. In questo modo si potrebbe anche passare dal piano teorico di questa sera al piano pratico, al quale ancora fatichiamo ad accedere: la gestione di questo spazio o spazi simili potrebbe fare ben sperare. GIACOMO GIROTTO: Vorrei fare una riflessione molto personale su di un argomento proposto poco fa, cioè perché noi giovani non riusciamo ad essere in tanti quando dobbiamo portare avanti delle idee. Parto dalla considerazione che rispetto agli anni ‘70, quando i movimenti giovanili e studenteschi erano molti attivi, questo è un momento molto diverso. Noi partiamo da una situazione economica florida, siamo 47


cresciuti in un periodo di “vacche grasse”. Penso che la congiuntura economica in cui ci troviamo potrà portare ad una situazione drammatica, al punto da muovere effettivamente la gente a cercare delle soluzioni, dei veri momenti di aggregazione… Si potrà fare qualcosa quando la gravità della situazione arriverà ad essere percepita realmente, ma finché questo non si avverte o lo si sente in maniera tiepida, non sarà possibile il movimento di massa. CHAIRMAN: lascio spazio per qualche altra riflessione, anche perché sento che da parte dei tecnici c’è una certa “fame” nel confrontarsi con voi, e gli interventi che stanno arrivando, compresi gli interrogativi posti, denotano che c’è da parte dei tecnici un forte desiderio di sapere. Sono assolutamente stupito, in termini positivi, di quanto sia forte il desiderio di confronto con voi. PUBBLICO 9: Mi interesserebbe sapere chi siete (rivolto ai giovani n.d.r.), da dove venite e che tipo di processo avete fatto per arrivare in questi mesi a fare questo percorso. STEFANO VOLPATO: Rispetto alla mia personale esperienza, io sono andato ad una giornata che 48

il Sestante ha organizzato a marzo, nel comune di Paese (TV), quando è stato presentato questo progetto. Da allora, pur non avendo ben chiaro che cosa si dovesse fare, abbiamo iniziato a trovarci ogni due/tre settimane, e poi sempre più di frequente in prossimità del convegno. Su invito degli operatori sono stati coinvolti altri giovani. Il gruppo ha avuto una struttura aperta fin dall’inizio, a volte eravamo in venti, altre volte in quindici, altre ancora meno, e non sempre con le stesse persone, quindi anche la modalità è stata sempre quella di fare un verbale ad ogni incontro e di farlo circolare in modo che tutti sapessero più o meno di che cosa si era discusso, anche se ci era persi qualche puntata. Abbiamo iniziato a ragionare in maniera molto generale su che cosa fossero le politiche giovanili ed è venuto poi naturale scomporre il tema in aree: casa, scuola, lavoro e tempo libero… Per quanto riguarda il tema della partecipazione, ci siamo poi soffermati in due distinti momenti, a volte anche con difficoltà perché non riuscivamo a venirne a capo. Pian piano è emersa la struttura di questo workshop, alla quale hanno contribuito anche gli operatori, ma che abbiamo condiviso davvero punto per punto. La fatica più grande è stata quella di provare a


tenere il livello della riflessione su un piano alto, teorico, senza però perdersi in astrattismi, e riconducendo quindi ad una certa concretezza. CHAIRMAN: Mi inserisco per una precisazione di tipo metodologico; in realtà si è chiesto ai ragazzi di ragionare in un piano che fosse di “meta-struttura”: le riflessioni che loro stavano facendo non avrebbero avuto e non avranno probabilmente nell’immediato una ricaduta pratica, non incideranno probabilmente subito rispetto ai propri contesti territoriali. Questa non è cosa da poco, perché probabilmente le politiche giovanili tendono invece a lavorare in modo da avere una ricaduta immediata, sul “qui ed ora”. Noi siamo convinti che abbiano messo in atto un processo di vera educazione nel senso più profondo del termine. Non siamo un comune, siamo una cooperativa, e non abbiamo un luogo fisico permanente su cui operare; tuttavia, questo approccio metodologico è diventato un punto di forza che ha permesso ai ragazzi di rimanere al di fuori dell’obbligo del fare, mantenendo un livello alto di ragionamento. L’altro aspetto: posto che non era facile per i ragazzi venire costantemente a tutti gli incontri, abbiamo preferito mantenere una

struttura del gruppo “a fisarmonica”: ogni incontro valeva di per sé, ossia i temi e le decisioni si aprivano e si chiudeva nel corso della stessa serata. Questa modalità ha permesso a tutti di esserci secondo le proprie disponibilità, senza perdere tappe cruciali. E’ improprio definirli “unico gruppo di lavoro”, perchè mi pare più esatto sottolineare la molteplicità di gruppi che si sono creati man mano durante il percorso. Il verbale ha permesso di socializzare le decisioni prese e non disperdere i contenuti. Letto a posteriori questo approccio metodologico è stato fondamentale e vincente, se si fosse costituito un unico gruppo, inevitabilmente si sarebbe impoverito e avrebbe perso pezzi per strada. Infine credo ci sia stato un piano di forte e chiara negoziazione iniziale: noi abbiamo esplicitato fin dall’inizio che cosa volevamo da loro, anche se c’è stata la necessità in corso d’opera di ridefinire alcuni punti. L’intervento di oggi, ad esempio, e molte altre cose del workshop, sono stati definiti in itinere. Ma ciò che è importante sottolineare è che quella negoziazione iniziale ha permesso estrema chiarezza da entrambe le parti, grande onestà nei rapporti, cioè partecipazione reale, trasparenza e potere di tutte le parti in causa.

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Le politiche giovanili dal punto di vista sociologico, giuridico, economico e urbanistico Gli interventi degli esperti: Vando Borghi (Università di Bologna), Fabio Giglioni (Università “La Sapienza” di Roma), Adriano Marangon (architetto), Paolo Zabeo (coordinatore ufficio studi CGIA di Mestre).

CHAIRMAN: Sono Mirko Pizzolato e sono il Coordinatore del progetto “Di chi sono le politiche giovanili?” Nella giornata di ieri abbiamo iniziato un lavoro di confronto che ha coinvolto soprattutto tecnici e operatori del privato sociale, abbiamo poi proseguito nel pomeriggio con una relazione che ha dato una prospettiva pedagogica delle politiche giovanili. Si tratta di una approccio che noi come cooperativa cerchiamo di portare avanti, nei nostri ambiti di lavoro. C’è stato poi un interessante momento in cui tre ragazzi hanno presentato il loro punto di vista. Qualcuno forse si aspettava qual50

cosa di molto semplice, in realtà i ragazzi ci hanno stupito poichè hanno toccato in maniera straordinaria alcuni importanti aspetti. A questo punto il desiderio è quindi quello di creare un confronto tra diverse posizioni e visioni, tra giovani, politici e tecnici. Ieri abbiamo approfondito quelle che sono le politiche giovanili per i giovani stessi, cioè quelle che come ci hanno detto con i loro interventi- li coinvolgono in quanto cittadini. Oggi ascolteremo quattro esperti che interverranno su quattro materie specifiche. Abbiamo Vando Borghi, ricercatore presso l’Università di Bologna, sociologo che si è occupato mol-


to dei temi delle politiche sociali e il titolo della sua relazione, così come del laboratorio che seguirà è Giovani in transizione, tra vulnerabilità e capacitazione. Il secondo relatore è un giurista: Fabio Giglioni, ricercatore presso l’Università di Roma, lavora con “Labsus”, portale che si occupa di sussidiarietà; poi sarà la volta di Adriano Marangon, architetto che si occupa soprattutto di pianificazione urbana: proverà ad inquadrare le tematiche delle politiche giovanili dal punto di vista urbanistico, approccio sicuramente atipico rispetto a quanto siamo abituati a pensare. La sua relazione e il laboratorio si intitolano Spazi preoccupati. Infine Paolo Zabeo, che si occupa di economia, ed è coordinatore del Centro Studi della CGIA di Mestre: il suo punto di vista permetterà di centrare alcune tematiche legate al fare impresa. VANDO BORGHI: Io ho cercato di riflettere sullo scenario nel quale i giovani si trovano. Per capire lo scenario contemporaneo, sia su scala planetaria che su quella locale, è necessario partire da un tema preciso, quello della disuguaglianza. La scorsa settimana in Emilia Romagna, ero a una piattaforma per il sindacato degli anziani, e in quella sede, nonstante il target di età fosse molto diverso da quello

di cui ci occupiamo in questi giorni, hanno fatto delle riflessioni interessanti sia per il mondo degli aziani che dei giovani. Queste riflessioni riguardavano temi comuni quali quelli legati alla città, alla vivibilità, ai servizi e ai trasporti, ma anche temi legati alle politiche in riferimento alle disuguaglianze e alla vulnerabilità, aspetto che proverò poi a spiegare meglio. Il dibattito che per anni si è sviluppato all’interno delle scienze sociali, oggi dedica gran parte delle sue riflessioni al concetto di disuguaglianza. Un altro punto che sento di dover precisare è quello legato al target di cui ci stiamo occupando, ossia i giovani. Una categoria che anagraficamente non è ben delineata nè esiste di per sè...esistono piuttosto delle persone, che per un certo periodo di vita si trovano a vivere le stesse o alcune delle problematiche legate all’età, in maniera differente. Si va quindi su livelli di vulnerabilità differenziati, che portano ad aspettative diversificate. Quindi più che andare su “i giovani” ho provato a creare una prospettiva di approccio all’argomento che potesse guardare alla condizione giovanile come ad un “indicatore di tendenza”, cioè a una sorta di pre-esemplificazione di un futuro che ci aspetta. Rispetto a queste tendenze sottoli51


neo i numerosi fattori transizionali quali indicatori di tendenza. Se questo è lo scenario prospettico la conclusione è che le “politiche sociali” non possono solo imparare a proteggere, pur essendo un aspetto importante, ma anche promuovere quelle capacità che possono essere definite capabilities. Cosa vuol dire guardare il mondo attraverso le lenti della disuguaglianza? E’ importante considerare che le disuguaglianze possono essere varie a seconda dalla prospettiva o dall’aspetto valutato. Mi preme dire che le disuguaglianze esistono, ma non sono solo economiche, nonostante il loro peso consistente. Però noi possiamo vedere come il mondo assume forme diverse a seconda delle lenti che indossiamo. Nel sito www.worldmapper.org, c’è la possibilità di guardare il mondo attraverso la lente dell’aspetto che vogliamo analizzare. Nelle mappe sul sito non troviamo la forma del mondo così come siamo abituati a vederla, ma i rapporti tra i paesi sono stati ricalcolati tenendo presente ogni volta un aspetto diverso; in questo caso se vogliamo dipingere una cartina del mondo considerando quanti vivono con più di 200 $, queste persone mediamente stanno sulla parte più “cicciona” della slide mentre alcune zone scompaiono totalmente 52

dalla faccia della terra; anche l’Italia in realtà è abbastanza “cicciona”. Zone come l’Africa o l’India sono davvero prosciugate. Cambiando i parametri attraverso cui dipingiamo il territorio si creano altre mappe. Un parametro è, per esempio, la questione del lavoro minorile e nello specifico dei paesi nei quali esiste lo sfruttamento per il lavoro dei bambini. Se partiamo dalla dimensione delle disuguaglianze di tipo economico, l’Italia presenta un quadro piuttosto preoccupante: il reddito pro-capite è aumentato vertiginosamente e velocemente, ma lo sono altrettanto le disparità economiche. Un aspetto di disuguaglianza su cui vi voglio portare a riflettere è la dimensione formativa. Se ci soffermiamo sulla condizione dell’Italia per quanto riguarda la mortalità formativa, ossia quanti decidono di sospendere la frequenza scolastica, vediamo che, rispetto al resto dell’Europa, la media di mortalità è piuttosto alta, considerando anche che è la sintesi tra una condizione meridionale in cui questo dato è molto più alto. Un altro aspetto particolarmente preoccupante è quello della formazione permanente: dal 2004 le persone che partecipano all’educazione permanente, ossia ad un costante aggiornamento, sono in Italia, mediamente molto al di


sotto della tendenza europea. L’assunzione della prospettiva della vulnerabilità ci spinge a guardare ai processi di evoluzione sociale cercando di non limitarci solamente a guardare la dimensione economica. La vulnerabilità è la risultante di numerosi fattori, lo deduciamo da diversi fenomeni che hanno visto anche l’Italia come protagonista, come altri paesi cosiddetti avanzati, e riguarda la categoria dei lavoratori poveri. Sembra una contraddizione in termini definire i lavoratori come “poveri” poiché il lavoro, di per sé rappresenta -e ha sempre rappresentato- una delle condizioni che permettono di uscire da uno stato di povertà. Il fenomeno dei “working poors”, ossia dei lavoratori poveri, è emblematico per far capire che il lavoro non è una condizione sufficiente per garantire di essere preservati dalla vulnerabilità. Altro fenomeno su cui bisogna soffermarsi è che risulta impossibile fare una distinzione netta tra ciò che è lavoro e ciò che non lo è, poichè il continuum tra ciò che significa essere occupato e non esserlo si è molto allungato. In mezzo c’è una zona grigia, una fase temporalmente molto variabile in cui esistono delle forme di para-occupazione o occupazione temporanea. Sono tutti quei lavori occasionali che un ragazzo in-

traprende per sostenersi negli studi, occupazioni che da sole, però, non permettono di garantire un reddito sufficiente all’autonomia. Un’altra zona grigia, così come la definisce l’ISTAT, è quella che racchiude tutte quelle persone che, soprattutto nel meridione, di fatto non risultano più negli elenchi della disoccupazione perchè dopo aver lavorato regolarmente per un certo periodo, hanno smesso, ad esempio, per dedicarsi alla cura della casa e della famiglia e che quindi sono potenzialmente “disoccupate” ma non formalmente riconosciute. Per essere disoccupato ci devono essere dei criteri non esclusivamente legati alla presenza/assenza di lavoro. La vulnerabilità, come abbiamo visto, si esprime attraverso una combinazione di fattori, un altro dei quali è la famiglia. Fino a pochi anni fa elemento di sostegno e punto di riferimento per i giovani, ora la rete famigliare si va progressivamente saturando, usurando sempre di più e questa frattura del tessuto sociale si va ad aggiungere agli altri fattori culturali, personali che contribuiscono a favorire il rischio alla vulnerabilità. I giovani non possono essere inquadrati come una categoria sociale unica, oggettiva, ma è più sensato definirli un indicatore prospettico del futuro che ci at53


tende, ossia di come potrebbe essere il mondo di qui a qualche anno. Orientare le politiche giovanili sull’indicatore di tendenza che abbiamo fin qui a disposizione, significa sostanzialmente affermare che il rischio sociale non è legato al fenomeno economico in sé e per sé ma che è l’esito di combinazioni di fattori che possono creare problemi e difficoltà anche in condizioni “normali”. Nello specifico contesto della realtà giovanile, infatti, pesano in maniera determinante le condizioni transizionali. Lo schema del ciclo di vita delle persone cambia nel tempo e soprattutto per i giovani quello schema che consisteva in una prima fase di istruzione, una seconda, relativamente breve, di apprendistato e una terza di lavoro vero e proprio, completata da una quarta generalmente dedita al riposo e all’anzianità, questo schema oggi appare inutilizzabile. Le condizioni transizionali si moltiplicano perchè sono sempre più le persone in una fase di attraversamento dalla formazione al lavoro, dal lavoro all’aggiornamento, passando magari per momenti di precariato lavorativo o per pause dovute a scelte familiari. Queste trasformazioni radicali dei meccanismi di vita e della struttu54

ra di vita divengono determinanti per capire che tipo di struttura delle politiche giovanili dobbiamo costruire, che tipo di strumenti dobbiamo dare per sostenere queste transizioni e per far sì che queste transizioni non si traducano in trappole permanenti o porte di ingresso alla stanza della vulnerabilità. In una città come Modena, mi è capitato di parlare con persone che si sono perse nel passaggio dalla scuola media alla scuola superiore e mi sono reso conto che non esistono processi che verifichino se il ragazzo stia o meno all’interno del circuito scolastico e che magari strutturino dei percorsi alternativi che gli permettano di non “perdersi”. Questo solitamente non accade perché non esiste un “qualcuno” che svolga questa funzione, cosa che dovrebbe essere dei presidi ma di solito hanno molte altre cose da fare di più urgenti, i servizi sociali dicono che non è di loro competenza..questa è una cosa insomma che pare non voglia fare nessuno. Se queste sono le condizioni sociali che vincolano gli scenari che abbiamo di fronte a noi, le Politiche non possono essere esclusivamente di riparazione o di protezione, non devono limitarsi esclusivamente a fare un intervento “ex post”. Parlare come fanno tutti di “Politiche di Attivazione” è molto facile,


molto più difficile è invece realizzarle e metterle in pratica. E’ tanto complicato che io in Italia non ne conosco, e vedendo invece come funziona in altri territori all’estero, in particolare nelle politiche di cooperazione internazionale, risulta evidente che la sensibilità è ben diversa. Ci sono in Italia delle persone di buona volontà, enti no-profit, servizi sociali...bravi e generosi che lavorano dentro un’ottica di attivazione, ma se dovessi comparare misure di attivazione con quelle riportate dai miei colleghi sul piano internazionale, dovrei usare misure che sono più familiari agli storici che agli operatori del sociale, quali strumenti del reddito minimo d’inserimento. Il mantra di questi contesti di riflessione è quello di “costituire politiche di attivazione”, poiché le politiche passive non bastano più. Il rischio è che anche laddove queste politiche si attuano, le si facciano in maniera riduttiva, ossia si limitino solo ad alcuni aspetti, con effetti secondari negativi, come la de-responsabilizzazione collettiva: “Se vuoi ottenere qualcosa datti da fare, magari ti do anche qualche soldino in più ma poi te ne assumi totalmente la responsabilità dell’esito; inoltre ti do se mi dimostri di essere in grado di portare avanti l’impegno preso”.

Questa è un’interpretazione piuttosto discutibile del concetto di attivazione. C’è poi un’applicazione praticoprocedurale, anche se il termine che uso è piuttosto brutto, porto l’esempio del reddito minimo d’inserimento in Italia: questo ha funzionato per alcuni aspetti nel dare delle garanzie di base, ma ha fallito laddove è stato usato come una misura vecchio stampo, ossia come una politica di re-distribuzione a pioggia dei residui. Per me tutte queste non sono politiche di attivazione: l’attivazione o è reciproca o non è. L’attivazione esce direttamente dall’ambito delle cooperative sociali. Io per diversi anni ho lavorato in una cooperativa che si occupava di ragazzini vivaci e ho visto che fare attivazione significava mettersi in moto reciprocamente: l’azione degli operatori doveva permettere ai bambini di percepirsi non come votati al fallimento, ma come persone dotate di risorse spendibili. Per fare questa cosa i primi ad attivarci eravamo proprio noi operatori. L’attivazione scattava se c’era una disponibilità reciproca a mettersi in discussione. Il messaggio invece che passa spesso, quando si parla di attivazione è quello del “datti da fare”. Gli studi più recenti hanno dimostrato che nelle politiche dell’attivazione quello 55


che funziona di più è la così detta “Street level bureaucracy”, ossia la politica di attivazione della strada, dove i bisogni dei cittadini vengono direttamente “colti” dal territorio, dalla strada appunto. C’è un bellissimo libro su questo argomento in cui vengono messe a confronto tutte le figure che fanno politiche di attivazione sulla strada: gli insegnanti, i poliziotti, gli assistenti sociali, gli animatori e gli educatori...tutti coloro che hanno un contatto diretto con i cittadini che esprimono dei bisogni. Questo dimostra chiaramente che è in strada che si crea o non si crea attivazione. Una precisazione: il fatto che ci siano dei servizi e qualcuno che vi fa riferimento, non dà la garanzia che sia innescata una politica di attivazione. E’ lo scambio costante e reciproco tra questi due partner ciò che garantisce una politica di attivazione. Il cittadino deve essere in grado di esprimere la sua “voice”: negoziare ed essere un interlocutore ascoltato, non solamente saper dire ciò che gli serve o meno, secondo il tipico comportamento del consumatore. Il cittadino deve poter dire la sua opinione, portare le sue esigenze, in modo che il servizio le raccolga e, se serve, che modifichi il servizio stesso. Qual è quindi lo spazio nel quale operano le Politiche? 56

La prima condizione è quella della “capacità”: le Politiche dovrebbero avere il compito di aumentare le capacità e di migliorare i funzionamenti. Un conto è saper usare uno strumento, un altro è usarlo: possedere l’abilità non è l’unica condizione di poterla mettere in pratica, sono necessarie altri fattori, la sicurezza, ad esempio. La Politiche, comprese quelle giovanili, sono quelle che agiscono sui fattori di conversione, quali il funzionamento e le capacità. CHAIRMAN: Grazie mille a Vando Borghi e passo immediatamente la parola al secondo relatore: Fabio Giglioni, che guarderà la questione da un punto di vista giuridico. GIGLIONI: Adesso dobbiamo fare uno sforzo e cambiare gli occhiali che abbiamo utilizzato fin’ora per guardare il tema delle politiche giovanili da un punto di vista giuridico. Se la prospettiva è questa, dobbiamo assumere come punto di riferimento quelle norme che hanno come oggetto la condizione giovanile. Innanzitutto è bene chiarire che l’unico punto di riferimento giuridico per la condizione giovanile è la condizione anagrafica. Se osserviamo la condizione giovanile dal punto di vista normativo possiamo ritrova-


re tre categorie di norme: ● le norme che impongono limiti e divieti; ● le norme che assumono i giovani come utenti; ● le norme che favoriscono azioni e progetti promossi dai giovani. Vediamo nel dettaglio queste categorie: la prima si limita a disporre sulle condizioni limitanti diritti che sono potenzialmente nella capacità e nell’esercizio dei giovani. Nel nostro ordinamento giuridico una persona, dal momento in cui nasce, è già dotata di capacità giuridica, ma ha una limitata di possibilità agire: per compiere atti vincolanti nei confronti di terzi deve attendere il compimento del diciottesimo anno. Prima può farlo solo in presenza di tutori, di procuratori e cioè con terza persona in ausilio. Un giovane può partecipare alla vita politica anche da minorenne, ma acquisisce diritto di voto solo al compimento del diciottesimo anno. Ci sono divieti che attengono ad altro tipo, ad esempio quello del consumo di alcolici in alcuni centri urbani, oppure divieti rivolti a terzi, ad esempio rivolti a commercianti di alcolici e tabacchi, i quali non possono vendere i loro prodotti ai minori. Questa categoria di norme scaturisce dal presupposto che i giovani abbiano un’età insufficiente per

assumere impegni di responsabilità sociale. Per questo motivo, l’ordinamento limita loro la possibilità di scegliere e di agire. Questo tipo di norme disegnano un modello in cui libertà e autorità sono dimensioni contrapposte. La variante è un modello abbastanza classico di contrapposizione tra autorità pubblica e cittadini; la cosa interessante, soprattutto per quanto riguarda i divieti che attengono ai minori, è che questa limitazione della libertà non è solo a tutela degli interessi generali ed estranei, ma degli stessi beneficiari di un servizio, quindi dei giovani stessi. Vediamo ora la seconda categoria: le norme che considerano i giovani come fruitori. In genere queste norme si limitano a individuare i bisogni di certe categorie di soggetti e predispone tutta una serie di servizi e di interventi. Visto che ci occupiamo di attività giovanili, il servizio per eccellenza è quello dell’istruzione, ma agevolazioni per i giovani sono riscontrabili anche nella partecipazione alle spese sanitarie per il Sistema Sanitario Nazionale o nelle politiche rivolte alle famiglie adottive, che accolgono minori rimasti senza i genitori naturali. Questo modello vuole individuare quei bisogni che l’ordinamento giuridico ritiene meritevoli di essere soddisfat57


ti e si assume in prima persona il compito di strutturare un sistema che permetta di regolarli e rispondervi. Alcuni di questi interventi sono rivolti a tutti, indistintamente, in altri casi c’è bisogno di un filtro preventivo che permetta di individuare a chi sia necessario un intervento normativo. Questo è il modello classico del Welfare State: i Poteri Pubblici assumono una funzione attiva nell’individuare e soddisfare i bisogni. Nella terza categoria di norme troviamo quelle che promuovono politiche proattive, nelle quali i giovani assumono un ruolo attivo. In questo caso le istituzioni si limitano a creare dei network tra società civile e giovani. Il Servizio Civile, per esempio, è in qualche modo un esperimento di questo tipo, in cui le Istituzioni pubbliche selezionano progetti meritevoli di essere sostenuti e volontari che si rendono disponibili a realizzarli. Tra questi due soggetti c’è una terza figura, la Pubblica Amministrazione che “norma” e predispone un rapporto lavorativo. Queste iniziative da parte delle Istituzioni possono essere promosse in modo eterogeneo, ad esempio dando anche dei sostegni di carattere economico. Qual’è la finalità di questo terzo modello? È quella di consentire 58

ai giovani di esprimere le proprie capacità, potenzialità e talenti per perseguire determinate azioni che le Istituzioni ritengono meritevoli di essere sostenute. E’ questo un modello che segue il principio di “sussidiarietà”: bisogni e azioni sono direttamente messi in evidenza dai destinatari dell’intervento, in altre parole, i giovani sono sia i destinatari dell’intervento sia coloro che lo realizzano praticamente, divengono parte attiva curandone tutte le fasi di realizzazione. Continuo nel raffronto tra questi tre modelli di norme, assumendo il punto di vista delle relazioni. Tutti questo modelli prevedono, da un lato, i cittadini e, dall’altro, un’autorità pubblica, ma cambiano le relazioni tra di essi. Nella prima categoria di norme esiste una contrapposizione tra autorità e libertà, poichè si ritiene che la libertà lasciata ai soggetti privati non necessariamente potrebbe produrre un interesse generale per la collettività, quindi l’autorità, contrapponendosi alla soggettività, diviene garante del benessere generale. Nel secondo caso la relazione si traduce in una forma di sostegno tra autorità e privati, in cui la prima individua e soddisfa i bisogni dei secondi. I cittadini diventano quindi dei beneficiari di interven-


to. Il terzo modello, quello della sussidiarietà, è l’esempio invece di un processo di cooperazione, in cui due soggetti contraggono un’alleanza per la realizzazione di azioni e progetti che soddisfano interessi anche di portata generale e collettiva. Proviamo ora a leggere questi modelli sotto la prospettiva dei bisogni. Nel primo modello autorità/libertà, il bisogno non viene nemmeno preso in considerazione: la norma esprime un pregiudizio, individua il bisogno e ne pone il limite poiché ritiene che grazie anche a quella limitazione si possa realizzare la soddisfazione del bisogno. Nel secondo modello, quello del welfare state, il bisogno è rilevato sul campo, ma è etero-derminato, ossia sono le autorità pubbliche che lo individuano. Nel terzo modello, quello della sussidiarietà, i bisogni sono autoderminati: quei cittadini che esprimono un bisogno sono gli stessi che si attivano e realizzano progetti atti a soddisfarlo. Proseguiamo esaminando i tre modelli dalla prospettiva degli interessi generali. Nel primo caso è la norma stessa che individua l’interesse generale

e che si impone autoritativamente ai soggetti privati. Nel secondo caso -del welfare state-, gli interessi privati sono individuati dalla pubblica amministrazione che filtra i bisogni, anche in relazione alle disponibilità economiche e decide, secondo la propria scala di priorità, quali meritano di essere soddisfatti. Nel terzo caso -modello di sussidiarietà- l’interesse generale è condiviso tra i soggetti promotori dell’azione e la pubblica amministrazione. Prendiamo ora in considerazione i tre modelli in rapporto al potere pubblico. Nel primo modello, il potere è di tipo autoritativo: vengono posti limiti, divieti e sanzioni. Nel secondo caso, l’esercizio del potere avviene a monte, nel momento in cui preventivamente seleziona quali cittadini debbano essere beneficiari di un intervento o di un servizio. Nel modello della sussidiarietà il potere non c’è, perchè per promuovere quelle azioni non c’è bisogno del potere ma della comunicazione, per attivare processi di convincimento comune in modo che si sviluppino processi generativi. Esaminiamo ora i tre modelli a partire da una nuova ottica, quella della responsabilità dei giovani. Nel primo caso la norma definisce ciò che è lecito e ciò che non 59


lo è: la responsabilità dei giovani è totalmente assente. Nel secondo caso, quello del welfare state, la responsabilità esiste, ma viene limitata all’osservanza di alcuni obblighi e nell’espletare alcuni compiti. Nel terzo modello la responsabilità dei giovani è invece molto forte, poiché essi si assumono la responsabilità dell’esito delle proprie azioni e degli obiettivi concordati con le Istituzioni pubbliche. Tra i modelli fin qui presentati credo che il terzo, quello della sussidiarietà, sia il più interessante, poiché prevede che i giovani non siano solamente dei soggetti da tutelare o soddisfare nei loro bisogni, ma anche dei soggetti in grado di rispondere ai bisogni collettivi, e quindi soggetti portatori di risorse. Questo modello, sia pure sporadicamente, sia pure in maniera non diffusa, si realizza da diversi anni in contesti locali, ma ultimamente sta assumendo un interesse molto più ampio. Ad esempio la Comunità Europea cerca di promuovere azioni in cui i giovani siano protagonisti in una logica di sussidiarietà. Il Servizio Volontario Europeo, i progetti Erasmus all’interno degli scambi culturali universitari, sono servizi che rientrano in quest’ottica. In Italia, inoltre, esiste da alcuni anni un ministe60

ro senza portafolio sulle politiche giovanili. Anche dal punto organizzativo stiamo assistendo ad un progressivo interessamento nei confronti delle politiche giovanili. La cosa più interessante è che possiamo definire il modello della sussidiarietà con questo appellativo in virtù del fatto che, con modifica costituzionale del 2001, è stato modificato l’art. 18 della Costituzione, al comma 1. In quella norma, che riguarda la sussidiarietà orizzontale, si legge che Stato, Regioni, Province, Comuni favoriscono le autonome iniziative dei cittadini, singoli o associati, nella realizzazione di azioni volte a beneficio della comunità. E’proprio questo approccio proattivo che consente ai giovani di agire in maniera sussidiaria: questa norma afferma che ogni qual volta i cittadini si attivano per promuovere un interesse generale, le istituzioni sono obbligate a favorire la realizzazione di tali proposte. Questo è un elemento giuridico estremamente importante, poiché, pur esistendo delle sperimentazioni prima della modifica dell’ordinamento, ora la nuova norma crea un elemento di contesto nuovo e la relazione non è più esclusivamente di un potere che concede e di un beneficiario che riceve. Grazie a questa norma anche i cittadini hanno il diritto


di occuparsi della “cosa pubblica” e le Istituzioni hanno l’obbligo di garantire che il cittadino si esprima liberamente. Vorrei ora soffermarmi sul tema della cittadinanza, collegata ad esempio ai diritti politici. Sono Cittadino se riesco ad esercitare il mio diritto di voto per determinare l’indirizzo politico del mio paese. Questa è un’idea di cittadinanza molto burocratica. Si può anche intendere la cittadinanza come l’essere parte di una comunità che ha diritto di usufruire di servizi. Questa è una cittadinanza di carattere sociale. Il modello di sussidiarietà, però, implica una diversa idea di cittadinanza, poiché ai cittadini viene riconosciuto un ruolo importante, pur non avendo formali cariche istituzionali o pubbliche. Il valore di questo modello e il suo significato lo si comprende, per esempio, se si pensa a tutti quei giovani che cittadini italiani lo saranno molto tardi o addirittura mai, come ad esempio gli immigrati; la possibilità, per loro, di avere un’incidenza, pur non essendo giuridicamente riconosciuti, ha un forte impatto sociale. Possiamo dire quindi che la norma della sussidiarietà permette il riconoscimento degli stranieri e una loro integrazione senza discriminazione di razza o provenienza politica.

Se vediamo le politiche giovanili dal punto di vista giuridico abbiamo quindi in sintesi tre modelli, ma di questi tre è evidente che solo l’ultimo, quello della sussidiarietà, è quello che punta sulle potenzialità dei giovani e sui destinatari delle stesse politiche come fattore positivo di integrazione e quindi anche di cittadinanza. CHAIRMAN: Cambiamo completamente materia, con l’architetto Adriano Marangon. ADRIANO MARANGON: Prefiggendomi l’obiettivo di mettere in relazione le politiche giovanili con gli aspetti legati all’urbanistica e al governo del territorio, vi propongo qualche riflessione libera riferita più ad un senso generale di rapporto tra la comunità sociale in senso ampio (consideriamo i giovani non come categoria chiusa ad un aspetto solo anagrafico) ed il luogo in cui vive. Da qui il titolo della comunicazione: “Luogo e Società”. In questo senso si riprende il titolo di una rivista “Spazio e Società” diretta da Giancarlo De Carlo tra il 1979 e il 1997 che trattava temi legati al rapporto tra la città, gli ambiti di vita sociale e l’urbanistica: temi teorizzati e studiati con evidenza negli anni ’60 e ’70. Ho intitolato questa riflessione 61


“Luogo e Società” per necessità di contestualizzazione. Luogo come ambito spaziale definito da una comunità; sovrapposizione di spazio ed esperienza, che trasforma ambiti spaziali in luoghi appunto, vissuti da soggetti dove si stratificano esperienze, contatti, contrasti, percezioni, relazioni; spazio dell’esperienza che fa riferimento ad una dimensione fisica e sociale. Ma qual è il ruolo dell’urbanistica come disciplina del governare i rapporti tra società e luogo in cui esplica il proprio vivere? E’ sufficiente osservare, nelle definizioni proposte da illustri architetti/urbanisti, come il concetto di urbanistica si sia modificato nel corso del tempo. Nel 1966 (Enciclopedia Universale dell’Arte) Giovanni Astengo definiva l’urbanistica “la scienza che studia i fenomeni urbani in tutti i loro aspetti avendo come proprio fine la pianificazione del loro sviluppo storico, sia attraverso l’interpretazione, il riordinamento, il risanamento, l’adattamento funzionale di aggregati urbani già esistenti e la disciplina della loro crescita, sia attraverso l’eventuale progettazione di nuovi aggregati, sia infine attraverso la riforma e l’organizzazione ex novo dei sistemi di raccordo degli aggregati tra loro e con l’ambiente naturale”. Nel 1969, nel Dizionario Enci62

clopedico d’Architettura e Urbanistica, Ludovico Quaroni definiva l’urbanistica la “disciplina che studia il fenomeno urbano nella sua completa interezza, onde fornire su di esso dati conoscitivi interessanti i singoli suoi aspetti e le reciproche loro interrelazioni, perché possano eventualmente venire utilizzati per meglio orientare le molte azioni di carattere politico, legislativo, amministrativo e tecnologico che continuamente vengono a modificare la realtà di un territorio”. Nelle definizioni vorrei sottolineare alcuni termini per indicare una sorta di evoluzione della disciplina. Astengo parla di urbanistica in legame diretto con la città storica e l’ambiente naturale: riordinamento e risanamento sono prevalenti. Quaroni considera l’urbanistica come materia complessa che ha a che fare con il governo, affidato all’azione politico-amministrativa, delle interrelazioni tra elementi urbani. Nel 2003, un architetto contemporaneo olandese di rilievo, Rem Koolhaas (nel 2000 è insignito del Pritzker Architecture Prize: uno dei maggiori riconoscimenti di livello mondiale) scrive: “Sono convinto che l’urbanistica così come la si pensa oggi non abbia alcun senso: i sistemi di governo e di controllo dei fenomeni che


essa presuppone non esistono più. (…) Il quadro intellettuale, il vocabolario, i valori e i più intimi riferimenti delle nostre professioni sono molto antichi, spesso bimillenari. Il che li rende inadatti (…) E’ in questa direzione che vanno appunto i miei sforzi. Nel senso di capire questa rottura, questo cambiamento della condizione urbana”. In tempi recenti, dopo che per anni ci si è illusi di poter regolare e controllare il disegno della città attraverso norme, regolamenti, prescrizioni, ecc. si registra un sostanziale fallimento della disciplina urbanistica. Koolhaas lo registra con particolare lucidità. La situazione italiana è ancora peggiore. Il disegno del nostro ambiente di vita, sia esso costruito o spaziale, è stato deciso e determinato dalla categoria dei costruttori. Il paesaggio (paesaggio come totalità dello spazio e cioè come sommatoria di pieni, di vuoti e della loro interrelazione) contemporaneo è il risultato di azioni che hanno più a che fare con le leggi dell’economia che con quelle del vivere bene. Il fallimento forse ha a che fare con una eccessiva semplificazione dei modi di agire e di rispondere alle esigenze della comunità pubblica. La complessità sociale, il cambiamento del mondo del

lavoro, il mutamento della composizione famigliare classica, la multietnicità crescente, sono tutti fattori ai quali non si è data una adeguata rispondenza in termini di politica urbanistica soprattutto per gli aspetti pubblici. Sembra quasi che la città (intesa come sistema spaziale organizzato per la vita in comune) non sia più una necessità. La città non è soggettiva, realizzata per singole autonomie, ma oggettiva e razionalmente organizzata. Ora questa definizione, questo modo di concepire lo spazio comune, si sta dissolvendo. E’ la metropoli / città infinita / città diffusa con le sue forme di desocializzazione a dissolvere lo schema della città classica, la sua storia e di conseguenza i suoi legami sociali: chiesa, fabbrica, piazza non sono più i poli centripeti che tengono tutto assieme come un organismo.La città ha perso il suo centro a favore di una periferia generalizzata, si sono dissolti i confini fra l’una e l’altra, il centro non ha più la supremazia ma per tutto ciò si sono aperti degli scenari di nuove opportunità che per primi sono stati individuati proprio dai giovani. In questo senso il sistema metropoli diventa un valore. La metropoli è l’ambito privilegiato dell’interazione socializzante in quanto molto più simile e vicina alla rete 63


(web) che alla città storica di cui sopra si è fatto riferimento. Interessante in questo senso è il concetto di “sociazione” (proposto da Georg Simmel) come forma di interazione che tende a mettere in contatto ambienti sociali diversi e a ridurre le distanze fra loro esistenti. L’entrare in contatto con altre cerchie sociali, permette di assumere altre informazioni e di “ammorbidire” le rigidezze mentali a favore di nuove attività e nuove esperienze. E questo fa bene perché apre e spinge verso una dimensione attiva piuttosto che contemplativa o attendista. Questo dovrebbe considerare l’urbanistica contemporanea nel ragionare sulla mutazione del paesaggio tutto. Alcune veloci considerazioni in questo senso: • si dovrebbe eliminare la contraddizione contenuta nell’espressione “controllo del territorio”. Se consideriamo il territorio in una fase di mutazione, non possiamo accostare al termine di mutazione la parola controllo: con la mutazione si interagisce, non si va in contrasto; • si consideri il ruolo e l’importanza dello spazio vuoto. Il vuoto svolge una funzione di equilibrio dinamico tra forze che si attraggono o si respingono. Il vuoto consente connessioni, relazioni, cesu64

re, avvicinamenti, allontanamenti ma senza forzature: i processi non vanno mai imposti, ma favoriti. Facendo un esempio concreto: la posizione, la forma, i materiali di una semplice panchina pubblica sono importanti per determinare il più ragionevole equilibrio (in termini socializzanti) di uno spazio pubblico; • se le relazioni sono un valore, è fondamentale considerare la casualità e il caos come elementi di valutazione importanti; • considerare l’importanza dell’equilibrio fra il concetto di appartenenza e quello di autonomia, evitando il rischio di comunità troppo chiuse (vedi: J. G. Ballard, Un gioco da bambini, Baldini & Castoldi, 1999). E’ all’interno di queste considerazioni che dovrebbero trovare spazi di discussione l’ambito, istituzionale e non, delle politiche giovanili. …Ma quali sono le opportunità? Facendo brevemente riferimento al quadro normativo, la legge regionale 11/04 “Norme per il governo del territorio” (nella quale vengono definiti gli strumenti urbanistici, le regole e i livelli di pianificazione), introduce all’interno dell’iter del processo di elaborazione delle strategie di sviluppo urbano comunale e sovracomunale, il coinvolgimento delle comunità


sociali locali. L’art.5 prevede una fase di “concertazione e partecipazione” ed in particolare al secondo comma così recita: “L’amministrazione (…) assicura, altresì, il confronto con le associazioni economiche e sociali portatrici di rilevanti interessi sul territorio e di interessi diffusi, nonché con i gestori di servizi pubblici e di uso pubblico invitandoli a concorrere alla definizione degli obiettivi e delle scelte strategiche individuate dagli strumenti di pianificazione.” Alcune amministrazioni pubbliche hanno comunque utilizzato il processo partecipativo per progetti di interesse pubblico. Le politiche giovanili possono e devono considerare il processo partecipativo come momento fondamentale per l’espressione delle proprie esigenze e la rivendicazione delle proprie aspettative. L’urbanistica della partecipazione non è una novità, e per l’Italia non sempre ha prodotto risultati buoni, con alcune eccezioni. Ricordo la vicenda degli operai delle acciaierie di Terni che all’inizio degli anni ’70 sono stati coinvolti nella programmazione e progettazione del quartiere Matteotti per imposizione del progettista stesso, l’architetto Giancarlo De Carlo: fu creato uno staff interdisciplinare, organizzata una lunga serie di incontri preliminari per rac-

cogliere dati, allestita una mostra documentaria su casi edilizi esemplari, avviato un processo partecipativo con discussioni accese non solo sull’architettura ma anche sui ruoli, sulle libertà e sui compiti reciproci. Alcune soluzioni progettuali vennero decise e disegnate nel corso degli incontri pubblici. L’intento dell’urbanistica della partecipazione è di perseguire il miglior progetto possibile, ma questo dipende dal grado di consapevolezza di ciascuno rispetto ai temi complessi (non certo esaustivi) discussi prima. Credo che, visto come sono andate le cose fino ad oggi, non ci siano né norme né regole che possano garantire risposte e risultati (in termini di scelte urbanistiche e realizzazioni concrete) per le politiche giovanili. Dipende da noi tutti, dai nostri atteggiamenti sociali, dalla nostra storia culturale, dalla nostra determinazione. Ognuno faccia la propria parte. In questo senso concludo con una citazione/metafora di Borges che mi sembra chiarificatrice per quanto fin qui detto: “Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di provincia, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e 65


di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di idee traccia l’immagine del suo volto”. CHAIRMAN: Passiamo ora all’ultimo contributo. Guardiamo ai giovani da un punto di vista economico, produttivo, del lavoro. Paolo Zabeo. PAOLO ZABEO: Mi aggancerò a quanto è stato detto per non perdere le sollecitazioni interessanti che sono state fatte, ma stravolgerò un po’ la prospettiva e soprattutto la scaletta che mi ero fatto affrontando il problema delle politiche giovanili più da un punto di vista politico, mentre arriverò a parlarne in termini economici solo in ultima analisi, nella parte conclusiva del mio intervento. Credo che riuscirò a trovare un filo conduttore anche se il mio discorso non procederà in modo lineare. Mentre ascoltavo i miei colleghi riflettevo su quali politiche giovanili uno stato moderno dovrebbe promuovere. Non sono un esperto, ma mi sono chiesto, ad esempio, per quanto riguarda le politiche per la casa, ci sono delle misure che vanno messe in atto per dare un vantaggio ai giovani? Credo di si, perchè lo vediamo quotidianamente, in questi ultimi anni uno dei problemi dei 66

giovani è proprio quello di metter su famiglia, acquistare una casa, andare in affitto. E’ un paese un po’ strano il nostro, pieno di contraddizioni, che solo in Italia sono così evidenti. L’ottanta per cento della popolazione è proprietario dell’abitazione in cui vive, e questo fatto condiziona moltissimo la dimensione del lavoro, frenando ad esempio la mobilità lavorativa. Certo, il problema della casa riguarda i giovani ma, poichè l’età media di quando si mette al mondo il primo figlio si è notevolmente alzata, accomuna altre categorie e fasce di età, non solo quella dei giovani. L’Italia ha il tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti d’Europa, ma paradossalmente ha anche una bassa occupazione tra gli over 55 e questo dato è in contraddizione con il luogo comune che lasciar andare in pensione i “vecchi” permette di far posto nel mondo del lavoro ai giovani. Purtroppo questo non è stato, non si è verificato quel processo di ricambio che ci si sarebbe aspettato. Gli aiuti alle persono bisognose riguardano i giovani? Io credo di si...le statistiche ci dicono che il tasso di indigenza dei minori in Italia è più alto di quello degli over 65, solo la Gran Bretagna ci batte in questo. Se io considero questi elementi e


guardo che cosa ha fatto il paese per cercare di affrontare queste problematiche, mi rendo conto che siamo andati in tutt’altra direzione. Noi abbiamo una spesa pubblica che è nella media europea e cioè circa il 25% del PIL, però fortemente sbilanciato in favore delle pensioni, cioè destiniamo una quota generosa al pagamento delle pensioni, circa i 2/3 della previdenza sociale, mentre per quanto riguarda le politiche della casa, la maternità, la disoccupazione, le famiglie bisognose, spendiamo poco o nulla. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che il nostro paese, nei decenni scorsi ha fatto una scelta ben precisa di sostenere alcune fasce sociali e di penalizzarne altre. In questa prospettiva la scelta di garantire un buon sistema pensionistico è stato anche un ammortizzatore sociale, negli anni ‘70/80, quando hanno iniziato a chiudere le grandi aziende che davano da vivere a migliaia di persone (mi viene in mente la Olivetti); si è deciso di fare dei pre-pensionamenti, a 45/50 anni per favorire il ricambio. Oggi questo non è più possibile, nella gestione delle aziende c’è tutto un sistema di vincoli che non ci permettono di attivare delle misure riequilibrative. Sono convinto che un tasso di natalità quasi prossimo allo 0 sia

il risultato di questo tipo di scelte politiche. Il nostro paese ha scelto di tutelare il lavoratore dipendente, tra i 50/60 anni, impiegato prevalentemente nel settore del “pubblico”, meglio se con una serie di ammortizzatori sociali...così si sono penalizzati tutti gli altri. Quando il welfare è tarato sulla fascia che crea opinione pubblica, che in qualche modo ha il potere di dare il consenso e di confermare i mandati politici, è ovvio che si cerca di mantenere un posto di governo, piuttosto che andare in contro alle esigenze dei cittadini, e nel nostro caso dei ragazzi e la loro precarietà lavorativa attuale si rifletterà nel prossimo futuro su quella previdenziale. Restiamo sulla precarietà: se in momenti di solidità dell’economia globale è tutto sommato sopportabile, l’instabilità lavorativa in periodi di crisi diventa un grosso problema. A perdere il lavoro sono stati prevalentemente coloro che non avevano un contratto stabile, i cosidetti precari, i co.co.pro, intere categorie di persone prive di qualsiasi ammortizzatore sociale. Tuttavia lo scenario non è esattamente come ci viene prospettato dai media: sembra che tutti i giovani vivano nella precarietà, ma da analisi dell’ Eurostat sullo stato lavorativo dei giovani italiani risul67


ta che solo il 13 % degli occupati ha un contratto a termine, ossia instabile. In Germania il 14 %, in Gran Bretagna il 34%, in Francia il 13,4%. Poi se andiamo a vedere il range giovanile che va dai 15 ai 24 anni, i dati si modificano: in Italia l’atipicità è oltre il 40%, in Germania scende verso il 36,6%, in Francia è verso il 60%. Il problema esiste, ma dobbiamo anche confrontarlo con le altre realtà europee, per ridimensionarlo. Vi porto un esempio: proprio ieri sera sono stato invitato come ospite ad un convegno organizzato dalle ACLI, di Martellago (VE), insieme a me c’erano un sindacalista della CGIL e un manager della San Benedetto, azienda multinazionale di Scorzè (VE), e anche in quella sede è si è discusso della precarietà dei giovani. Una cosa mi ha fatto riflettere: quando se ne parla, sembra sempre che la precarietà sia figlia di questi anni, ma le forme contrattuali introdotte dal ‘96 in poi hanno solamente reso più evidenti situazioni di precarietà che già c’erano, solo che prima erano sotto altre forme come la formazione-lavoro e l’apprendistato. Oggi esistono altre tipi di contratti temporanei che comunque permettono di legalizzare delle forme di lavoro, anche se non stabili, mentre una volta esisteva solo il lavoro nero come alternativa, 68

quindi anche se sembra un paradosso, oggi i giovani hanno sempre un minimo di garanzia che prima non avevano. Come dicevo prima, questo è un paese un po’ strano, con poca memoria storica e la tendenza a ingigantire le questioni senza affrontarle. Mi riferisco ancora una volta ai dati: oltre il 70 % dei precari ha un titolo di licenza media o al massimo superiore, mentre siamo sempre portati a pensare che la precarietà sia un problema dei laureati. C’è un’altra questione che fa di questo paese un caso straordinario dal punto di vista delle imprese: il 98 % delle aziende in Italia ha meno di venti dipendenti. Due terzi degli occupati, escluso il pubblico impiego, lavora in queste mini aziende; circa il 50% del valore aggiunto, escluso il pubblico impiego, proviene da queste piccole imprese. Quando vanno in crisi le grandi aziende (come Benetton, Fiat, ecc) la risonanza mediatica è enorme, ma delle piccole imprese non si parla quasi mai, se non come aziende sfruttatrici, che evadono le tasse, che truffano lo Stato. Qualcuno ci dice: “Scusate, perchè si fa così fatica a incrociare domanda e offerta di lavoro?... Perché ci sono molti laureati che rimangono precari per molti anni?...” Se lo scenario delle aziende è per la stragrande maggioran-


za composto di pochissimi dipendenti e la formazione dei laureati è in facoltà che non si prestano ad essere impiegate in queste tipologie aziendali, è ovvio che non c’è incontro. Il problema è che queste aziende sono troppo piccole e questi laureati che non hanno una formazione adeguata per mettersi nel mercato. Io non credo che il problema sia della dimensione delle aziende, ma credo si debba aprire una riflessione sulla scuola e sulla formazione dell’università. Io mi fermo qui senza la pretesa di aver esaurito tutte le questioni, ma spero comunque di avervi trasmesso degli spunti di riflessione su cui aprire la discussione.

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I laboratori Quello che segue è il resoconto dei quattro laboratori, svoltisi in due sessioni, e della discussione che ne è emersa in assemblea plenaria. I risultati dei laboratori tengono conto del racconto fatto dai partecipanti, ma anche del resoconto dei facilitatori del Sestante, che hanno affiancato i quattro esperti nella conduzione dei laboratori stessi. Per il laboratorio n.1, “Giovani in transizione, tra vulnerabilita’ e capacitazione”, il facilitatore è Lucia di Palma, per il laboratorio n.2, “Sussidiarietà e giovani”, il facilitatore è Benedetta Talon, per il terzo “Spazi Pre-Occupati” è Giovanna Bandiera, mentre per il numero 4,“Giovani e lavoro”, il facilitatore è Christian Pozzebon.

CHAIRMAN: Ora condivideremo i risultati dei laboratori, per poi aprire un dibattito e un confronto sugli stimoli che ci verranno offerti. Dopo di che, verso la fine del pomeriggio, avremo l’intervento di Adele Tinaburri, rappresentante dell’Agenzia Nazionale per i Giovani. Questa sera invece durante la cena creeremo una situazione un po’ nuova, che abbiamo chiamato “Speaker corner”: durante la cena a buffet ci sarà la possibilità di proporre dei temi liberi, che verranno poi discussi a seconda dell’interesse 70

personale,…sarà un momento di condivisione libera e “leggera”. Partiamo dal primo laboratorio, quello che vedeva il contributo di Vando Borghi, e il cui ruolo di facilitatore era a carico di Lucia Di Palma.


Laboratorio 1 “Giovani in transizione, tra vulnerabilita’ e capacitazione” DI PALMA: Il primo punto che

abbiamo esplorato è stato il concetto di politica contrapposto a quello di società civile. La discussione è partita dalla provocazione sollevata dai ragazzi sulla scarsa presenza della componente politica oggi al workshop, quindi abbiamo analizzato il sentimento di sfiducia rispetto alla politica e il suo autoalimentarsi. Oggi al termine politica si attribuisce un’accezione negativa, in contrapposizione alla società civile, connotata positivamente. Da questo confronto sembra evidente che bisognerebbe andare oltre la dicotomia verso un’interazione delle due dimensioni della società. Se vogliamo entrare in termini metodologici, noi tecnici che cosa possiamo effettivamente fare o attivare, per ridurre questa contrapposizione? Il tecnico può restituire la responsabilità politica ai politici e nello stesso tempo lavorare affinché gli operatori sociali rivalutino il senso e il valore stesso della politica. Noi tecnici abbiamo, nella quotidianità lavorativa, il duplice ruolo di incidere sulla cultura del cittadino rispetto all’istituzione e su quella dell’istituzione verso il

cittadino. Continuando sempre su questo ragionamento ci siamo detti che è importante il passaggio dall’individuo al gruppo, dobbiamo, cioè, pensare al soggetto come parte della collettività e alle richieste dei cittadini come espressione di tale collettività. Al contrario le stesse istanze perdono valore se restano solo sul piano individuale. Siamo infine giunti a due domande aperte sul tema: “Come provare ad affrontare questa situazione? Dalle provocazioni emerse si sente un incremento nella voglia di cambiare questa situazione?” Ragionando su come sbloccare questa contrapposizione tra politica e società civile, abbiamo affrontato il tema della scuola, poiché ci è sembrata un’agenzia importante parlando di politiche giovanili. Rispetto a questo è emersa la necessità di mettere in discussione il ruolo dei tecnici in relazione a quello degli insegnanti: se permettiamo che all’insegnante spetti solo il compito di trasmettere competenze o contenuti, non contribuiremo a cambiare il loro atteggiamento in relazione ai ragazzi e alle loro richieste. 71


PARTECIPANTE 1: A proposito di questo riporto un esempio molto bello lasciatoci da Vando Borghi, su come sia possibile cambiare l’ottica prospettica per affrontare i problemi. In un centro per l’impiego finlandese, durante un colloquio per tracciare il profilo professionale, alla domanda: “Qual è la tua aspirazione…che cosa vuoi fare?”, il candidato ha risposto che il suo sogno era fare la Parigi-Dakar. In quel contesto, una simile risposta poteva sembrare senza senso, ma l’operatore che teneva il colloquio ha preso sul serio la risposta e ne ha fatto un punto di forza del ragazzo poichè aveva capito la sua “capacità di aspirare”, come l’ha definita Vando Borghi. Anzichè svalutare questa aspirazione, l’operatore ha approfondito quanto la motivazione fosse forte in questo soggetto e se avesse requisiti e motivazioni tali da soddisfarla. Questo esempio dimostra che il ruolo dell’operatore è stato quello di valorizzare il soggetto, di portarlo a sviluppare l’idea che lui aveva tracciato e non di bloccarlo brutalmente. DI PALMA: L’altro concetto che abbiamo approfondito nel laboratorio è stato quello di vulnerabilità, come insieme di fattori che, combinati assieme, creano una condizione di svantaggio, di fragilità e di inadeguatezza. Non 72

solo le ristrettezze economiche ma, ad esempio, la combinazione del il grado d’istruzione, la qualità della vita e le relazioni. Noi ci siamo chiesti se questo concetto di vulnerabilità non ci dovesse costringere a incrementare i servizi assistenziali, aumentando proporzionalmente la fatica e i costi. Ci siamo poi tranquillizzati poiché abbiamo condiviso che non è tanto necessario aumentare i servizi, quanto migliorare il coordinamento e l’integrazione delle politiche dei servizi, migliorando le connessioni tra quelli esistenti. Siamo poi passati al concetto di partecipazione, intesa come capacità di voice, come processo di partecipazione e di preparazione di condizioni che la favoriscano, perchè non possiamo partire dall’idea che la partecipazione esista di per sé, a priori. Vi riporto, a questo proposito, un esempio semplicissimo fatto dai ragazzi, di come si trovino spiazzati quando devono gestire autonomamente un’assemblea di classe, mentre normalmente sono abituati a vivere un atteggiamento fortemente etero-regolato (lezioni frontali). Davanti all’autonomia si rendono conto di essere privi delle competenze necessarie per gestirla. Abbiamo anche visto che tanto più si favorisce la partecipazione, quanto più questa aumenta e si raffor-


za, quindi è una sorta di “allenamento” che si deve mettere in atto. L’ultimo concetto che volevamo sottolineare riguarda il sognare le condizioni che favoriscano la presenza attiva del cittadino all’interno della sua comunità. Se questa “capacità di sognare” non viene implementata, non si potranno neppure attivare quei meccanismi virtuosi di cittadinanza attiva di cui si parlava in mattinata. Un ultimo flash sulla necessità di connettere i saperi diversi, ossia la possibilità di mettere a confronto figure con diversa formazione, esperti che provengono da ambiti culturali differenti che assieme si “contaminano” e producono idee innovative: il rischio è che nella tensione verso una specificità delle discipline si perdano invece i preziosi contatti con la realtà, multidimensione del cittadino, che è nello stesso tempo genitore, o studente o lavoratore e che vive sé stesso come sintesi di molte dimensioni. Le discipline dovrebbero essere in grado di fare un’operazione di sintesi e d’integrazione. L’ultima domanda aperta che lascio a voi è: “Gli spazi dove il dibattito e il confronto anche tra figure differenti dove sono? Oltre a oggi e dopo questo convegno… che cosa succederà?”

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Laboratorio 2 “Sussidiarieta’ e giovani” TALON: Obiettivo del laboratorio era individuare alcuni aspetti significativi rispetto al tema “giovani e sussidiarietà” nell’ambito delle politiche giovanili. I partecipanti erano giovani, tecnici (educatori e funzionari) e amministratori ed hanno lavorato in piccoli gruppi. Nella prima parte, partendo dalle sollecitazioni date dall’esperto, i partecipanti, giovani, tecnici e amministratori si sono chiesti quali sono i punti di forza e di debolezza delle politiche giovanili rispetto al tema “Giovani e sussidiarietà”? Gli aspetti emersi dai piccoli gruppi sono stati poi presentati agli altri. Dalla discussione che è scaturita abbiamo cercato di definire le priorità che i partecipanti hanno sentito, rispetto alla tematica proposta. Punti di debolezza emersi dai lavori in piccolo gruppo: ● gli amministratori non hanno un orario di ricevimento adeguato agli orari dei giovani; ● problema culturale: i giovani sono poco abituati a mettersi in gioco, a capire che possono incidere; ● le amministrazioni faticano ad 74

individuare i bisogni dei giovani; ● gli adulti danno delle opportunità ai giovani, ma non le rinforzano; ● bandi per finanziare le iniziative giovanili esistono, ma sono complessi e difficilmente accessibili da parte dei giovani; ● si percepisce una “visibilità strumentale” da parte delle amministrazioni e un dubbio: al centro ci sono i bisogni del cittadino o gli interessi dell’amministrazione? ● la relazione fra amministratori e giovani è ancora spuria, risulta difficile porsi nell’ottica dei giovani; inoltre esiste una difficoltà nell’intermediazione fra giovani e amministratori e l’educatore fatica a mediare fra i due attori; ● esiste un rischio di manipolazione da parte delle amministrazioni: “ascolto i tuoi bisogni, ma poi decido io”, come una sorta di ansia di controllare strumenti, spazi, accesso alle risorse; ● manca la possibilità di controllo dei risultati da parte dei giovani; ● prevale l’idea del fare, poco spazio dedicato all’analisi dei bisogni; ● manca la “cultura della sussidiarietà” (prevale l’individualismo); ● i progetti giovani faticano a concepirsi su tematiche generali


rispetto ai giovani; ● non ci sono forme chiare per regolamentare la sussidiarietà fra amministrazioni e cittadini/giovani; ● la sussidiarietà a volte viena concepita dalle amministrazioni come attesa di “proposte”, ma quale ruolo favoriscono in senso attivo? ● come immaginare innovazione attraverso la sussidiarietà? ● la sussidiarietà coinvolge il tema del potere. Punti di forza emersi dai lavori in piccolo gruppo: ● gli educatori delle politiche giovanili diffondono il principio della sussidiarietà, nella relazione fra giovani e amministratori; ● gli investimenti per i giovani permettono di creare nuove reti di condivisione fra giovani; favoriscono un nuovo pensiero; facilitano una nuova relazione fra giovani e amministratori; ● la sussidiarietà permette di attivare competenze nei giovani (capacitazione); ● grazie alla sussidiarietà, dall’interesse personale si passa ad un piano di interesse collettivo; ● la sussidiarietà crea educazione alla partecipazione nei confronti dei giovani e favorisce il sentirsi in grado di incidere nelle scelte; ● la sussidiarietà migliora l’inse-

rimento dei giovani nel tessuto sociale; ● la sussidiarietà comporta l’accesso al potere; ● le politiche giovanili, concepite come processo, facilitano capacitazione, competenze, responsabilità; ● le politiche giovanili sono trasversali a diverse aree (casa, lavoro, tempo libero…); ● la sussidiarietà legittima l’essere cittadini. Conclusioni. Il gruppo individua alcuni elementi prioritari rispetto al tema della sussidiarietà nelle politiche giovanili, elementi che rappresentano la fase di sintesi e conclusione del laboratorio e che vogliamo consegnare alla tavola rotonda di domani mattina: • la sussidiarietà come strumento di governo per gli amministratori, per i funzionari e i tecnici, per i cittadini; • la sussidiarietà come policy (politica pubblica): con il significato di stare e fare insieme e di obbligo di legge per l’ente locale; • la sussidiarietà è centrata sull’efficacia e non sull’efficienza: ha un alto potere di “produttività” (impatto economico); • trasmettere la cultura della sussidiarietà a tutti i soggetti coinvolti (amministratori, dirigenti, dipen75


denti, fino ai tecnici e ai cittadini); • i giovani chiedono strumenti e condizioni per l’applicabilità della sussidiarietà: da soli non hanno la possibilità, non conoscono gli strumenti, non sanno a chi chiedere.

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Laboratorio 3 “Spazi pre-occupati” BANDIERA: Noi abbiamo cercato di concentrarci sui nodi critici che mettevano in relazione i giovani con la pianificazione urbana degli spazi. Il nostro cartellone di sintesi in questo apparirà certamente più confuso di quello che abbiamo visto fare nei laboratori precedenti. Pur muovendo da diversi spunti di riflessione, ci siamo resi conto che tutto girava attorno ad un unico nodo fondamentale e condiviso da tutti: la marginalità e la settorialità delle politiche giovanili anche in termini urbanistici e spaziali. Per arrivare ad una connessione tra le politiche per i giovani e l’urbanistica dobbiamo, da un lato, ampliare il raggio di osservazione, occupandoci anche di molte altre dimensioni e non solo quelle del tempo libero, dall’altro lato essere consapevoli che la marginalità si riflette anche sulla disposizione spaziale dei “luoghi” per i giovani e dei giovani, notando come le stesse scelte urbanistiche relegano ai margini gli spazi giovanili. Basti solo pensare a dove di solito sono collocati, se ci sono, i centri giovani, le scuole, le palestre. L’urbanistica è quindi la cartina di tornasole della marginalità e fornisce, nello stesso tem-

po, la possibilità di entrare nella pianificazione degli spazi. In una prima fase sono emerse ulteriori considerazioni, tra le quali sono state individuate le priorità. Queste le nostre prime considerazioni: • vi è poca interazione tra vertice e base nelle scelte urbanistiche, separazione tra chi fa e chi vive gli spazi; • ci sono esperienze di partecipazione nel costruire un piano urbanistico? I PAT sono uno strumento reale? Ci sono strumenti validi per avviare processi corretti? • oltre al problema dello sviluppo del nuovo, vi è l’incuria nella sistemazione, risanamento, valorizzazione del “vecchio”; • gli spazi spesso non sono a dimensione dei giovani, non favoriscono la socialità, non sono spazi informali d’incontro, anzi più spesso condizionano negativamente, sono “etichettati” come ghetti; • ci sono molti spazi pubblici che sono di “nessuno” e spazi privati “in difesa”, fortini chiusi agli altri; • è importante creare degli spazi “predisposti a” e non troppo predefiniti (esempio: meglio panchine o sedie spostabili che fisse) e 77


che siano in relazione ai reali bisogni, alle dinamiche dei luoghi. C’è bisogno di creare senso di appartenenza agli spazi; • il problema è come rendere consapevoli che lo spazio pubblico è un bene comune; • bisognerebbe rendere più visibile e centrale il lavoro che si fa con i bambini e i giovani. Le conclusioni a cui il laboratorio è giunto, in termini di priorità, sono le seguenti: • un nodo che riteniamo importante è la connessione tra i vari assessorati; •importante è anche individuare come favorire la “voce” dei giovani che usano gli spazi; • altro aspetto è quello della cultura, che probabilmente è davvero latitante, rispetto a quanto i giovani sanno o sono coinvolti nel processo di formazione che li vede possibili protagonisti dei propri spazi locali. E’ importante quindi lavorare sul valore del Bene Pubblico; • notiamo anche come la stessa interdisciplinarietà che chiediamo ai politici la sentiamo anche noi educatori e quindi ci sembra importante inserirci all’interno di questa contaminazione per riflettere anche sui nostri ambiti professionali e compiti educativi.

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Laboratorio 4 “I giovani ed il lavoro” POZZEBON: Vorrei chiamare qui con me Anna, Tobia e Giacomo, partecipanti al laboratorio. Prima di iniziare voglio fare una premessa, poi lascio la parola ai ragazzi: questo laboratorio si è in qualche modo un po’ autogestito, in termini di conduzione. La tematica non era neanche semplicissima, ma mi pare che comunque le riflessioni e risultati siano interessanti. Le visioni dei partecipanti sono state volutamente mantenute separate, in modo da valorizzare quelle dei politici, dei tecnici e dei ragazzi e per suscitare quindi un maggiore confronto. Il gruppo si configurava come eterogeneo, ossia con rappresentanti di tutte e tre le categorie. Lascio quindi a voi la parola. ANNA – PARTECIPANTE 1: Quello che è emerso da parte della rappresentanza politica presente nel gruppo è che forse è importante considerare quanto i giovani stanno “bene”, ossia il loro benessere, che può quindi diventare una risorsa. Benessere non significa solo eliminare il disagio, ma pensare in forma più ampia. Nei servizi infatti ci sono delle figure preposte per occuparsi del

disagio in senso stretto, mentre mancano dei servizi volti a promuovere l’agio. A questo proposito non ci sembra così banale nè scontato, partire dalle occasioni di confronto per arrivare ad esplicitare le situazioni. La presenza, nel nostro gruppo, di assessori molto giovani credo sia stata una grande opportunità, anche per loro, che hanno modo di portare nella loro esperienza politica l’essere giovani e quindi essere vicini alle problematiche in discussione. Non paga lasciare agli altri il compito di risolvere i problemi nè demandare il lavoro senza sentirsi direttamente coinvolti. Altro aspetto considerato è la responsabilità che rappresenta l’istituzione e le buone pratiche in politica. TOBIA – PARTECIPANTE 2: Abbiamo avuto un po’ di difficoltà nel rimanere circoscritti all’ambito economico, quindi durante la fase dei gruppi abbiamo cercato di focalizzare un po’ di più quello che volevamo sintetizzare da questi due giorni, sentivamo insomma la necessità di fare una sorta di sintesi di tutte le riflessioni che sono state fatte da più par79


ti. Rispetto alla definizione stessa di politiche giovanili, abbiamo sentito che era più corretto ampliarne il significato definendole “politiche della cittadinanza”, per distinguerle da quelle che potevano essere solamente politiche dei servizi… sentivamo invece che adottando un termine più ampio si includevano anche le varie fasi di transizione e di evoluzione che abbiamo in questi giorni preso in considerazione come parte fondante delle politiche giovanili. Abbiamo poi cercato di definire il nostro ruolo di operatori/educatori, sentendo che il nostro compito si avvicina a quello di un facilitatore di relazioni sociali e non a quello di un operatore di uno specifico servizio. GIACOMO-PARTECIPANTE 3: Abbiamo voluto in un certo senso abbandonare l’ottica che è stata adottata fin’ora, di tipo macro, tornando invece ad una dimensione più specifica. Il primo punto che abbiamo affrontato riguarda il riconoscimento di iniziative portate avanti da gruppi informali. Una ragazza di Caerano ci ha spiegato che se non si è un’associazione, una cooperativa o una persona giuridica, non si ha la possibilità di avere le autorizzazioni e gli eventuali finanziamenti per realizzare dei progetti, mentre se sono ideati da gruppi informali 80

non è detto che siano meno validi di quelli proposti da un ente o da un’associazione. Faccio un’altra considerazione rispetto a questo primo punto, legata proprio a voi “operatori del sociale”: io non riesco a capire perché gli operatori debbano essere organizzati in cooperative, che poi vengono assunte dalle amministrazioni con un dispendio di soldi pubblici e svolgendo poi dei servizi pubblici, quando magari, se foste assunti direttamente dai comuni, la spesa e lo spreco sarebbe inferiore. Vedo queste cooperative come un intermediario in più che sottrae risorse che si disperdono. Un’altra considerazione riguarda i Progetti Giovani come servizi a tutto tondo: ci rendiamo conto che persone estranee al mondo dei Progetti Giovani, ad esempio gli imprenditori, non conoscono le potenzialità, anche dal punto di vista del lavoro, di questi progetti. Queste strutture offrono spesso dei servizi che vanno oltre lo stretto scopo aggregativo; a esempio la bacheca che espone le offerte di lavoro, che è secondo me un’iniziativa molto utile che andrebbe ampliata e sviluppata. Negli ultimi anni abbiamo visto un proliferare di agenzie per l’impiego interinale, io ritengo che questo servizio offerto da loro potrebbe essere assolto ad esem-


pio dagli stessi Progetti Giovani, in modo che un servizio pubblico possa fare da interfaccia e da collegamento tra il mondo giovanile e quello del lavoro. Io credo che il sistema liberale debba essere supportato da una base di servizi pubblici a garanzia di alcune condizioni di base uguali per tutti. POZZEBON: Vi proponiamo quanto, in sintesi, è emerso nel laboratorio, suddiviso per categoria di partecipante. GIOVANI 1.Necessario il riconoscimento di iniziative promosse da gruppi informali. 2.Progetti Giovani come servizio a tutto tondo, che si occupano di più materie, non solo tempo libero. TECNICI 1.Politiche giovanili come politiche di cittadinanza e accompagnamento nelle fasi di transizione 2.Ruolo dell’operatore come facilitatore di relazioni e di reti sociali. AMMINISTRATORI 1.Confronto/Partecipazione/ Cittadinanza attiva/Comunanza d’intenti (assessori/giovani)/Critica positiva 2.Fiducia nelle istituzioni/Re-

sponsabilità delle istituzioni/Buone pratiche politiche. CHAIRMAN: Abbiamo ora un po’ di tempo, per aprire la discussione al pubblico, anche rispetto alle proposte, riflessioni idee che sono venute fuori dal lavoro dei laboratori. PUBBLICO 1: Parlo da socio di una cooperativa sociale e anche da consigliere di amministrazione. Innanzitutto penso che sia stata una bella esperienza, molto coinvolgente, quella di confrontarci alla pari con i giovani. Vorrei poi rispondere a Giacomo: mi sembra che stiate facendo presente a noi operatori che siamo un po’ chiusi nel tenere il “copyright” della promozione sociale. Sembra quasi che ci “accusiate” di tenerci “strette” certe cose per venderle ai comuni, come se questo fosse il nostro lavoro. D’altro canto sento che abbiamo una finalità promozionale nel territorio, per questo forse dovremmo iniziare a condividere un po’ di più le nostre strategie operative, confrontarci magari rispetto alle conoscenze maturate in questi anni. PUBBLICO 2: Io non sarei intervenuto se non ci fosse stata la provocazione di Giacomo. Sono Andrea Pozzobon, presidente del81


la cooperativa “Il Sestante”. Dico due motivi per cui non sarei d’accodo con l’ipotesi che le cooperative non esistessero più e che i comuni incaricassero direttamente gli operatori. Primo motivo è che se non ci fosse stata la nostra cooperativa sarebbe mancata una forte esperienza di imprenditoria giovanile: di fatto, quando la cooperativa è nata, i fondatori avevano 26, 28, 30 anni, io stesso ho iniziato che ne avevo 24. Inoltre credo che la relazione e la dialettica tra privato e pubblico sia molto più profonda e ricca per la comunità, nel senso che il ruolo del pubblico ha una gestione diversa dal privato e si crea quindi un interessante processo di stimolazione reciproca. Però la provocazione che ha fatto Giacomo è comunque interessante perché è in fondo uno dei temi su cui abbiamo dibattuto a lungo, gettando le fondamenta della cooperativa. Gli educatori volevano che enti pubblici li assumessero in pianta stabile e questo sembrava un riconoscimento di valore…la realtà è che questa dinamicità a mio parere è un arricchimento. PUBBLICO 3: Sono consigliere delegato delle politiche giovanili per il comune di Montebelluna. Rispetto a quello che dicevi tu, Giacomo, della possibilità di attri82

buire al Progetto Giovani il compito di fare da intermediazione tra il lavoro e i giovani, abbiamo appurato proprio stamattina, durante un altro convegno presso il comune di Vicenza, che questa cosa non è fattibile. Infatti per aver promosso un’intermediazione lavorativa il Progetto Giovani è incorso in una sanzione, per non aver pagato una sorta di diritto rispetto all’azienda per la quale aveva mediato. Bisogna perciò stare davvero attenti quando si attivano certe iniziative. Mi riallaccio a quello che diceva Andrea: trovo che sia più utile che ad occuparsi di certi incarichi siano delle cooperative, piuttosto che dei singoli educatori incaricati, perché se per ipotesi come amministratore incarico sei educatori e l’amministrazione successiva non vuole continuare il processo attivato dagli operatori e li licenzia, nel giro di un attimo sei persone rimangono improvvisamente senza lavoro. E’ vero che in un caso simile, anche la cooperativa perderebbe l’appalto, ma in una logica d’impresa probabilmente la perdita non si riverserebbe pesantemente su poche persone, ma porterebbe a una riorganizzazione della struttura per dare lavoro a quelli che sono rimasti senza. C’è poi il discorso, legato alla formazione e all’aggiornamento che una cooperati-


va garantisce non solo nell’abito delle politiche giovanili, ma anche di quelle familiari. Infine parlo anche della flessibilità che ha un operatore di cooperativa garantisce, cosa che probabilmente manca a un dipendente comunale, che non vediamo facilmente lavorare il sabato mattina o pomeriggio o anche la domenica, così come durante le serate, quando magari è più facile trovare i giovani e lavorare con loro. PUBBLICO 4: Probabilmente la discussione del nostro laboratorio può dare una risposta al titolo del workshop: “Di chi sono le politiche giovanili?” Probabilmente di nessuno, perché le politiche giovanili non dovrebbero esistere come ambito specifico, nel senso che categorizzare pare sempre più riduttivo. Ha senso forse invece pensare alle politiche in cui la comunità si prende cura del proprio futuro, anche di persone che a diverse età si trovano in un momento di difficoltà, e non solo a 20, a 30, ma anche a 50 anni, piuttosto che limitarci a pensare che attraverso le politiche giovanili noi combattiamo la transizione verso il mondo adulto di una sola categoria. PUBBLICO 5: Probabilmente Giacomo si riferiva prima al fatto che un ambito pubblico può ga-

rantire una continuità, che in una cooperativa c’è e non c’è. PUBBLICO 6: E’ molto importante quello che è appena stato detto: la continuità è importante in questi processi perché mentre i dipendenti di una cooperativa possono essere trasferiti, il dipendente pubblico che gestisce i servizi per i giovani in un comune rimane per un periodo di tempo più costante e quindi riesce più facilmente a radicarsi nel territorio. PUBBLICO 5: Riflettevo prima rispetto anche alla presenza dei giovani e mi chiedevo come mai nonostante ci siano stati anche in questo progetto molti giovani che hanno partecipato al percorso adesso non ci sono, e forse l’idea lanciata prima di un’assemblea permanente dei giovani non sarebbe male. Il progetto che i tecnici o i politici hanno ideato può essere produttivo solo se troverà una continuità nel tempo, anziché rimanere un’esperienza isolata. Senza considerare che i giovani vanno e vengono e la possibilità di mantenere un gruppo stabile di riferimento permetterebbe continuità progettuale e di idee. PUBBLICO 7: Volevo contraddire in parte Giacomo, poichè penso che la pluralità di contributi 83


che può portare una cooperativa i cui dipendenti hanno conosciuto realtà differenti è una ricchezza insostituibile che amplia scenari e visioni. Poi c’era un’altra cosa che mi premeva dire: nel laboratorio con Vando Borghi, il sociologo, abbiamo parlato diffusamente di partecipazione. Ieri, durante la discussione dopo l’intervento che abbiamo fatto noi ragazzi, ho colto che, in filigrana a tutto il discorso che abbiamo fatto, c’era proprio questa domanda di partecipazione. Oggi la nostra aspettativa era quella di arrivare ad avere se non delle risposte, almeno qualche certezza in più, ma mi sono reso conto che la questione è molto, molto complessa e non è riducibile alle riflessioni che abbiamo fatto noi ieri. Soprattutto quello che ho notato è stata la grande disponibilità da parte dei tecnici di mettersi al nostro pari per provare a confrontarsi, mi ha molto deluso invece il fatto che non ci fosse la possibilità sostanziale di confrontarsi con qualche politico, pertanto la grande accusa che abbiamo rivolto ai politici è di essere assenti, quando si parla di politiche giovanili. Sono un po’ deluso da questo e credo che lo porterò domani mattina alla tavola rotonda, anche se esco da questo workshop con una maggiore consapevolezza riguardo 84

a queste tematiche, consapevolezza che sicuramente che non avevo quando sono entrato.


Il programma Gioventù in Azione Intervento di Adele Tinaburri - Agenzia Nazionale per i Giovani

Sono Adele Tinaburri e insieme alla mia collega Sabrina Tallarino rappresento l’Agenzia. Siamo volute venire a vedere come si stava svolgendo questo progetto, che ci è sembrato interessante soprattutto per i contenuti e per la modalità di realizzazione, che per noi è assolutamente nuova, così destrutturata. Il Sestante ci ha invitate a venire a queste giornate anche per presentare il programma Gioventù in Azione. Vi volevo riportare gli esiti della chiacchierata che ho avuto prima con Mirko Pizzolato, il coordinatore, sull’andamento del progetto e abbiamo capito che è stato molto appassionante il modo in

cui è stato condotto e il processo di costruzione. Una cosa che ci aveva già raccontato Mirko e che salta agli occhi, sia ora che nelle sessioni precedenti, è che questa è una sala competente. Anche gli interventi dei partecipanti mi sembrano comunque pertinenti e competenti. Motore di Gioventù in azione è proprio una metodologia attiva che permetta l’acquisizione di competenze partendo dal diretto contatto con i protagonisti. Quando dico sala competente intendo quindi un gruppo che è in grado di promuovere dei ragionamenti, di fare riflessioni adottando uno stesso piano linguistico, motivo per cui mi verrebbe 85


quindi da dire che gli esperti siete voi, poiché sentendovi parlare si capisce che sapete quello che dite. Gioventù in Azione Gioventù in Azione è un programma comunitario di mobilità di gruppo e individuale, di implementazione di progetti a carattere locale che si rivolge specificatamente ad una fascia d’età, quella che va dai 13 ai 30 anni. E’ inoltre uno strumento per l’implementazione del Libro Bianco sulla Gioventù e la Cooperazione Europea nel settore della Gioventù. Il Libro Bianco è un documento che è stato il risultato di una discussione sulla condizione giovanile avvenuta nel 2002. Possiamo quindi definirlo lo strumento operativo per la realizzazione delle iniziative progettuali locali, la parte economica che sovvenziona i progetti. Chi può partecipare? • Giovani tra i 13 e i 30 anni, residenti in uno dei paesi del Programma. • Enti pubblici locali. • Altri attori del settore dell’educazione dei giovani e non formale. Il programma è aperto a tutti i giovani, indipendentemente dal loro livello d’istruzione o background sociale e culturale; non sono richiesti quindi prerequisiti d’ingresso, così come suc86

cede ad esempio per altri progetti comunitari come l’Erasmus. Il budget è di 885 milioni di euro per il periodo di tempo tra il 2007 e il 2013. Le azioni sono: • Gioventù per l’Europa: scambi, iniziative per i giovani, progetti di partecipazione alla vita democratica; • sostegno alla cooperazione politica, misure per il dialogo tra i giovani e i responsabili delle politiche per i giovani; •Servizio Volontario Europeo; •Gioventù nel mondo: cooperazione con i paesi limitrofi e con altri paesi partner; • sistemi di sostegno ai giovani, formazione, informazione, innovazione. La Commissione Europea richiede che i partecipanti al progetto non appartengano solamente ad una categoria ma che ci sia una pluralità di esperienze. Il programma Gioventù in Azione offre la possibilità di muoversi in Europa, costruire la cosiddetta “Cittadinanza Europea”, che si batte per i diritti umani, per promuovere i valori ecc… Per quanto riguarda l’implementazione dei progetti locali il programma permette: • di realizzare un progetto nella propria comunità (importo di circa 8000 euro) (azione 1.2);


• di scambiare le esperienze anche a livello europeo; • di promuovere i giovani e la democrazia (azione 1.3); •di organizzare incontri tra giovani e responsabili delle politiche per la gioventù, iniziativa nella quale rientra questo progetto della cooperativa Il Sestante (azione 5.1). All’interno dell’Azione 1.3 rientrano iniziative anche molto semplici di democrazia partecipativa, come ad esempio quella di organizzare una simulazione di consiglio comunale, nella quale i giovani “provano” che cosa vuol dire “fare politica”. Lo specifico di questo vostro progetto/workshop sta nel dare molto rilievo alla parte pedagogica, oltre che favorire un coinvolgimento della parte politica in un’ottica di confronto e di scambio. La differenza con l’Azione 1.3 è che questa si sviluppa in maniera più semplice e concreta. Noi abbiamo anche finanziato progetti che già esistevano ad esempio di cittadinanza attiva e di progettazione partecipata. La cosa interessante è che in questo vostro progetto la parte giovanile è stata direttamente partecipe anche alla parte economica, ossia presumo che nella progettazione siano stati coinvolti nella decisione di come stanziare e di come

disporre delle risorse economiche. Le priorità permanenti di Gioventù in Azione sono: • cittadinanza europea; • partecipazione dei giovani; • diversità culturale; • inclusione dei giovani con minori opportunità. Gli obiettivi principali sono: • cittadinanza attiva; • solidarietà e tolleranza tra i giovani; • comprensione reciproca; • qualità dei sistemi di sostegno per le attività. Una grande sfida che il programma vuole affrontare è quella legata al linguaggio, alla mediazione tra linguaggi differenti. Adattare il linguaggio alla cultura giovanile non significa avvicinarsi in maniera semplicistica, ma in termini di vicinanza emotiva, che mette in gioco competenze non facili da acquisire. L’essere alla pari significa considerare i giovani come interlocutori esperti e testimoni della propria esperienza. Poi è importante che ci siano persone come Mirko, come Alberto... e altri educatori che fanno da tramite. PUBBLICO 8: Volevo sapere se esistono, nella vostra esperienza, altri progetti che in qualche modo assomigliano a quello che stiamo facendo… 87


TINABURRI:Volete sapere quanto siete bravi! A dire la verità non ci sono esperienze simili o di questo livello. Qualcuno lamentava l’assenza dei politici, ma noi, nella nostra esperienza, abbiamo constatato che il politico di turno viene in queste occasioni solo a fare presenza a scopi “promozionali”, ma non ha la capacità di porsi realmente a confronto sullo stesso piano, mettendosi anche in discussione. Direi che l’unica esperienza assimilabile alla vostra è in Piemonte, ma si tratta di un progetto ventennale di costruzione di reti.

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Lo “Speaker Corner”

Dopo una giornata intensa e impegnativa come quella del venerdì, che ha visto l’intervento degli esperti nel corso della mattinata e il lavoro dei quattro laboratori nel pomeriggio, per concludere con l’intervento delle rappresentanti dell’Agenzia Nazionale Giovani, si è ritenuto necessario prevedere una serata che coniugasse l’esigenza di confronto ulteriore tra i partecipanti in modo più distensivo. Ci siamo quindi immaginati una situazione che partisse dalla cena e potesse poi proseguire ad oltranza, situazione grazie alla quale, attorno ai tavoli del buffet, si creassero dei “capannelli di discussione” estremamente flessibili, in cui i

partecipanti potessero liberamente contribuire alla discussione. Ogni capannello avrebbe avuto un tema predominante, senza però precludere cambiamenti di tema o digressioni, permettendo in ogni momento ai partecipanti di cambiare gruppo. Gli obiettivi di questa modalità di confronto erano principalmente quelli di: • permettere di riprendere alcune tematiche o sollecitazioni arrivate dal lavoro delle due giornate seminariali. • favorire un confronto libero tra partecipanti senza vincolare la discussione ad un metodo di lavoro preimpostato, garantendo la mas89


sima fluidità della discussione. • permettere ai partecipanti di parlare di temi “diversi” da quelli emersi nei laboratori ma sentiti con forza. • stimolare delle discussioni che potessero mettere assieme una profondità delle riflessioni con la leggerezza della cena, non gravando ulteriormente su una giornata di studio di per sé impegnativa. • dare cittadinanza a una dimensione, quella dell’informalità, che esiste e viene cercata in tutte le situazioni seminariali, ma rispetto alla quale i partecipanti non possono dedicare spazi specifici, e viene limitata al “corridoio”. Metodo Nella cartellina consegnata a ciascun partecipante è stato predisposto un foglio nel quale era possibile esprimere liberamente un argomento/tema, da proporre durante lo Speaker Corner. Il promotore del tema avrebbe poi avuto il solo compito di dare il via alla discussione, presentando il tema stesso all’uditorio, per poi incontrarsi con tutti coloro che liberamente si sarebbero detti interessati alla discussione, formando un capannello. Al termine dei laboratori del venerdì sono stati raccolti i temi proposti e nel corso della cena i partecipanti hanno avuto modo 90

di leggerli, prima esposti in un cartellone e poi presentati sinteticamente da una sorta di “pulpito” dallo stesso promotore. Dopo che tutti i temi sono stati esposti, attorno ai vari argomenti si sono spontaneamente raccolti i capannelli e i partecipanti hanno avviato la discussione, favorita anche dal contesto molto informale della cena a buffet. I temi principali che sono stati proposti e discussi: ●“assessori e politici: perché tutti li criticano ma pochi si assumono l’impegno di farlo”; ● “il supporto familiare e della comunità alle esigenze dei giovani di fare volontariato”; ● “l’abito fa il monaco? essere o apparire nell’ottica dell’identità di genere”; ● “l’onda e i movimenti culturali e sociali degli anni 60/70. Esperienze estemporanee?”. Conclusioni Tra i partecipanti si è respirata un’atmosfera febbrile, di intensa comunicazione, ma nello stesso tempo animata dalla tipica levità di chi si sente libero di dire quello che realmente pensa senza temere critiche o limitazioni alle personali posizioni. L’idea che si voleva creare ha trovato la sua massima realizzazione, pur non nascondendo che tale proposta si configura-


va inizialmente come un azzardo, visto che si discostava dai classici metodi di discussione guidata proposti nei seminari. L’intensa e prolungata partecipazione allo Speaker Corner ha dimostrato l’effettiva “urgenza” di spazi di discussione, che esulano dai contesti formalmente strutturati. È stata, per i partecipanti al workshop, la conferma del bisogno di confronto tra giovani, tecnici e politici. Infine ha dato uno spunto interessante ai tecnici, sotto il profilo della metodologia: lo Speaker Corner fa interagire un livello di discussione importante, anche sotto il profilo contenutistico, normalmente dedicato a setting formativi o seminariali, con la dinamica dell’aggregazione informale, abitualmente invece centrata su elementi di leggerezza, quando non di evasione. Si tratta perciò di un setting abbastanza inusuale, che offre alcuni elementi di riflessione importanti, soprattutto alla luce della grande partecipazione che si è concretizzata: tutti i giovani hanno preso parte alla discussione, intervenendo spesso e in modo talvolta accorato, aprendo discussioni e portando punti di vista anche non prevedibili, mentre nei setting più formali capita che la partecipazione sia attiva e partecipe, ma più controllata. 91


Tavola rotonda conclusiva Il workshop si è concluso con una animata tavola rotonda alla quale erano presenti tecnici, politici e giovani. Le amministrazioni locali erano rappresentate da Romano Astolfo, Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Motta di Livenza; Chiara Tullio, Assessore a Cultura, Turismo, Biblioteca comunale, Politiche giovanili, Comunicazione istituzionale, Relazioni con il pubblico e con il CTA, Associazioni di volontariato e di promozione sociale del comune di Roncade; Marco Trevisan, Assessore alle Politiche giovanili, Associazioni culturali, Cultura del Comune di Trebaseleghe; Loris Poloni, referente Politico dell’Area Montebellunese e consigliere comunale delegato alle Politiche Giovanili e di Comunità del Comune di Montebelluna. I tecnici presenti alla tavola rotonda erano Daniele Lando, assistente sociale e responsabile d’area del comune di Crespano del Grappa e Andrea Pozzobon, educatore e presidente della cooperativa sociale Il Sestante. I giovani presenti, in rappresentanza dei giovani partecipanti al progetto, erano Laura Scomparin e Stefano Volpato.

MIRKO PIZZOLATO - CHAIRMAN: Per iniziare la rielaborazine e la discussione vi propongo una chiave interpretativa: abbiamo discusso sull’accesso al potere e sui meccanismi che favoriscono o meno la partecipazione dei giovani… Quel che resta ancora del tutto irrisolto è che la partecipazione sembra essere una questione di “fortuna”: ossia se un ragazzo è nel territorio giusto, nel posto giusto allora è fortunato, altrimenti sarà sempre tagliato fuori. Dai racconti e dalle testimonianze viste in questi giorni, sembra quasi che la fortuna dipenda strettamente dalla geografia dei territori, da come sono geograficamente organizzati. Alcuni 92

territori, alcuni comuni investono nella partecipazione, altri non lo fanno, determinando macchie di leopardo della partecipazione, isole felici. A questa domanda probabilmente una risposta va data e va affrontata anche la questione del “come” non rischiare che il mio essere oggi nell’sola felice, tra cinque anni mi porti a non esserlo più e quindi sia di nuovo escluso dai territori “fertili”. E’ questa la tematica che dobbiamo cercare di affrontare, poiché non può essere che la “partecipazione” sia in primo luogo un fatto di fortuna, così come pensare a politiche di welfare basate sulla fortuna appare piuttosto difficile


da accettare. In secondo luogo vi chiederei di concentrarvi su due temi: uno di metodo, ossia come è possibile effettivamente agire questa partecipazione? Sono già emerse alcune proposte, ad esempio “che i ragazzi entrino a fare politica, che mettano piede nella stanza dei bottoni”, ma esistono delle condizioni perché queste situazioni favorevoli siano create? È sufficiente un assessore “attento”? Vi chiedo, poi, una riflessione sul “contenuto”. Qualcosa è già stato tracciato rispetto al metodo: in Veneto esiste già da parecchio tempo ormai una legge, la l.29/88, a favore del protagonismo giovanile, che parla chiaramente di trasversalità. Come arriviamo alla trasversalità nelle politiche giovanili? Il rischio è che l’assessore alle politiche giovanili, nel fare il passaggio alla trasversalità, perda di concretezza. La domanda allora potrebbe essere: “Come possiamo indossare gli occhiali delle politiche giovanili mentre ci occupiamo degli altri aspetti della politica? E come concretamente si attua la trasversalità?” Chiedo però di cercare la maggiore concretezza possibile, cerchiamo cioè di uscire oggi da qui con delle idee che da domani possiamo cercare di realizzare. LORIS POLONI: Un dato veloce per iniziare, rivolto sia ai tecni-

ci che ai giovani presenti in sala: chiedo quanti di voi hanno partecipato ad una commissione consigliare delle politiche giovanili. Non vedo nessuna mano alzata e parto da questo per dire che nonostante voi siate qui, interessati al tema, non sapete che esistono le commissioni per le politiche giovanili. Non è detto tra l’altro che esistano in tutti i comuni, ma dove siano presenti è importante partecipare. Vi porto un esempio: noi a Montebelluna abbiamo approvato le linee programmatiche del Progetto Giovani in un consiglio comunale in cui erano presenti tanti giovani e tutti hanno votato a favore; se non ci fosse stata questa massiccia presenza dei ragazzi, magari ci sarebbe stata una minore accettazione delle proposte. Una presenza più costante dei giovani alle commissioni consigliari per le politiche giovanili potrebbe essere uno stimolo che invita alla partecipazione. La commissione si sta occupando in questa fase di definire in modo specifico che cosa debba fare l’assessore alle politiche giovanili, quale sia il suo mandato, per il motivo che se un giorno dovesse mancare l’assessore, o si verificasse un avvicendamento politico, rimarrebbe comunque chiaro il suo incarico e i compiti. Questo definisce non solo le caratteristi93


che o i compiti dell’assessore di competenza, ma permette che i consiglieri comunali, sia di maggioranza che di minoranza, siano garanti di questo processo, svincolati dai personalismi o dalle caratteristiche proprie della persona che ricopre temporaneamente quel ruolo. Un altro esempio è il progetto promosso dal comune di Montebelluna nell’ambito del programma Gioventù in AzioneAzione 5.1, “Giovani e politici negoziano il futuro”. In questo caso la commissione del progetto può intervenire di fronte al rischio di scarsità di fondi o di scelte politiche diverse da parte della nuova giunta. Gli strumenti per dare continuità ci sono, l’importante è saperli utilizzare al meglio. Serve però un impegno e una presenza costante dei giovani e dei tecnici, senza i quali sarebbe stato impossibile intraprendere questo percorso di riflessione. Lo stesso discorso lo possiamo fare ragionando sulla creazione di aree di comuni. Le aree hanno anche una funzione economica: molti bandi sono costituiti appositamente per lavorare su reti territoriali e quindi permettono il finanziamento a patto che i territori creino reti tra di loro. E’ vero che alcuni finanziamenti sono raggiungibili solo lavorando per aree, ma la sensibilità e la pre94

parazione dell’assessore competente possono individuare i canali da aprire per riuscire ad ottenere i finanziamenti giusti. E’ estremamente importante anche avere dei tecnici competenti che sanno compilare i bandi e quindi sanno come arrivare ai fondi. Porto ancora l’esempio di Montebelluna: abbiamo ottenuto 200.000 euro per il Piano Locale Giovani, che sono stati messi a bilancio da parte del comune, perché il ministero aveva previsto un impegno di finanziamento. Altri comuni, non sentendosi sufficientemente garantiti dall’impegno ministeriale, hanno rifiutato di procedere e hanno perso il finanziamento. Questo dimostra che, se c’è un dirigente competente che sa come fare, assumendosi le sue responsabilità, si riescono a ottenere fondi e finanziamenti anche ingenti. MIRKO PIZZOLATO: Riassumendo: una strategia potrebbe essere quella di coinvolgere maggioranza e minoranza, a garanzia della continuità progettuale. Ciò permetterebbe la costruzione di un progetto condiviso e nello stesso tempo permanente. LAURA SCOMPARIN: Un appunto: non è la stessa cosa chiedere ai giovani di attivarsi e metterli in condizione di sapere che questo


è possibile e come. Ci sono giovani nel nostro comune che non sanno neanche che esiste il Centro Giovani, figurarsi se arrivano a immaginare che esiste una commissione alla quale possono partecipare. Secondo me anche questo dovrebbe fare l’amministrazione: aiutare i giovani a sapere che esistono anche queste realtà politiche e amministrative. LORIS POLONI: Scusa, ma su questo punto mi sento di dover rispondere immediatamente: non condivido assolutamente queste puntualizzazioni. Se io come cittadino, anche come padre di famiglia ho un bisogno, una necessità…porto un esempio: ho bisogno di sapere se mio figlio può avere o meno gratis i pannolini perché mi servono, posso stare là ad aspettare che qualcuno me li porti? Oppure mi do da fare per trovare le informazioni? Non devo fare altro che accendere il computer, entrare nel sito del mio comune e andare sotto la voce “Servizi per il Cittadino”… lì trovo tutto quello che mi serve, le informazioni necessarie per capire se posso o meno avere le agevolazioni di cui ho bisogno. STEFANO VOLPATO: Giustissimo quello che sta dicendo Poloni, però bisogna anche aggiungere

che forse il consiglio comunale attuerebbe cambiamenti in modo più veloce o efficace se chi partecipa come uditore potesse anche parlare. Se il cittadino potesse avere la parola, potesse esprimere il suo dissenso e le sue opinioni, potrebbe rendere quell’occasione veramente uno scambio costruttivo e produttivo. Un secondo aspetto che è legato a quello che diceva Laura: è vero che ci vuole impegno e motivazione da parte dei giovani per raccogliere le informazioni e per interessarsi, ma quando si leggono i comunicati che spiegano i punti all’ordine del giorno dei consigli comunali, si scopre che sono veramente incomprensibili per chiunque cerchi di capirne qualcosa, anche per uno che ha studiato. Questa cosa dei giovani che dovrebbero informarsi di più è verissima, ma allo stesso modo ci sono moltissimi adulti che non sanno e non vogliono fare altrettanto, che sono disinformati e che poi si lamentano e basta. LORIS POLONI: Certo, confermo assolutamente questa tua osservazione. PIZZOLATO: Per cercare di riassumere mi sembrava che la questione fosse posta da voi su due livelli; mi sembrava che Laura 95


tematizzasse rispetto alla circolazione delle informazioni mentre tu Stefano rispetto al linguaggio attraverso il quale queste informazioni vengono diffuse. E’ allora un problema di linguaggio? STEFANO VOLPATO: E’ sicuramente anche un problema di linguaggio che, se modificato, permetterebbe anche una riduzione di distanza tra amministrazione e cittadini. Non possiamo certo pretendere che tutti gli adulti siano super informati… e non lo possiamo pretendere neppure dai giovani… ma possiamo cercare di fare leva sulle risorse: se la partecipazione è un risultato, cerchiamo di allargare il coinvolgimento dei cittadini alla vita pubblica. ANDREA POZZOBON: Io sono d’accordo con quello che dici tu, però io non vorrei che questo facesse dimenticare il problema che mi pare avesse sollevato prima Laura, il problema, se ho capito bene, è che, pur lavorando sulla partecipazione, la consapevolezza dei propri bisogni non è sempre chiara e, quindi, sia con i giovani che con gli adulti è importante lavorare per uscire da quel “senso di solitudine”, che fa pensare che da soli non si arriva da nessuna parte e non si riesce a realizzare nulla. Per quanto poco, io se fac96

cio da solo, resto comunque solo. La connessione tra giovani e altri giovani, giovani e parti politiche e con la stessa comunità locale è fondamentale a mio parere, perché esiste anche un problema di “marginalità”, ossia di una fetta della popolazione che per esserci ha bisogno di essere stimolata e non è sempre facile capire qual è la chiave giusta per arrivare a queste persone. Tutti come cittadini, e in particolare quelli che hanno un ruolo istituzionale hanno il dovere di stimolare, di andare a scovare quei cittadini poco attenti, poco sensibili o demotivati nel sentirsi parte attiva della propria comunità. CHIARA TULLIO: Io concordo con quanto dice Laura, ma non nel momento in cui definisce come sede di confronto il consiglio comunale, poiché quello è in momento formalizzato e istituzionale, poco adatto allo scopo. Ci dovrebbe essere invece un momento antecedente al consiglio comunale, in cui i cittadini, nel nostro caso i giovani, hanno modo e occasione di informarsi e di discutere. Ovviamente io faccio riferimento all’esperienza del mio comune ma ci sono anche altri esempi ed esperienze di cui potrei parlare. Sono decisamente d’accordo sul fatto che i giovani


non si interessano, così come gli anziani del resto, ma c’è un modo statico di fare politica che si è radicato nel tempo. Probabilmente è il momento di individuare dei modi nuovi di fare politica o che comunque siano più attinenti alla società di oggi, in continua evoluzione. Lo sforzo deve essere secondo me quello di provare anche se non è detto che si ottengano subito dei risultati o un successo. Mi viene in mente un esempio del mio comune, il “Parlamentino Rosa”, ion cui molte donne si incontrano e discutono dei problemi che sentono propri, incontrandosi una volta al mese. Noi amministratrici in queste occasioni abbiamo modo di raccogliere i bisogni e di riportarli poi in giunta. Tra le varie tematiche affrontate si è discusso della scuola, dei tagli della sanità, è un momento di discussione alla pari, senza livelli di gerarchia o di potere che permette di sperimentare un modo di fare comunicazione più semplice e trasparente e nello stesso tempo di raccogliere ciò che viene elaborato portandolo poi al piano politico. Sono d’accordo invece sul fatto che la partecipazione al consiglio comunale sia poco stimolante, in primo luogo perché gli uditori non hanno potere di parola, in secondo luogo perché le stesse comunicazioni sono poco stimo-

lanti e chiare. Uno sforzo da parte dell’amministrazione di creare delle modalità che si avvicinino al cittadino ci deve essere, a mio avviso. Quindi in sintesi le mie proposte riguardano la creazione di luoghi di confronto e di spazi trasversali, in cui s’incontrano più “categorie” di persone (ad esempio un centro giovani che aggreghi anche le famiglie o gli anziani). Penso anche che un buon modo per sviluppare il protagonismo delle persone sia l’ autogestione degli spazi. DANIELE LANDO: Rispetto alle tre domande/stimolo, parto dall’ultima per poi procedere a ritroso. Rispetto alla trasversalità credo che la distanza sia davvero tanta e non facilmente colmabile, sia sul piano organizzativo che su quello culturale. Sono consapevole però che di strada se n’è fatta tanta, da Bassanini a Brunetta, lo sforzo di cambiamento c’è stato e anche piuttosto evidente, anche se non significa che siamo andati in meglio: in questo preciso momento in cui si fa un gran parlare di fannulloni, ora più che mai nessuno si permetterà di rischiare di fare qualcosa di diverso, “da fannullone”… ci vorrebbe una vera rivoluzione in questo senso. Sulla partecipazione vedo che proposte ce ne sono tante: per esempio rispetto all’individuazione di buone 97


prassi; in questo rientra il problema di come stimolare le persone a sentirsi protagonisti della vita pubblica. E’ importante trovare il modo di fare una comunicazione chiara, strutturata e costante nel tempo: forse non aiuterà tutti e non raggiungerà la totalità della popolazione, ma questo non significa che si debba modificare il consiglio comunale, poiché si tratta di un organo normato da uno statuto che non può essere cambiato a proprio piacimento. Essere presenti al consiglio comunale significa informarsi, non “partecipare”, che è invece ben altra cosa, mentre per i politici può essere fortemente gratificante avere un ampio pubblico ai consigli comunali. Se i giovani fossero già maturi e responsabili non servirebbe neanche star qui a parlarne e invece noi siamo consapevoli che se siamo qui a parlare di politiche giovanili è forse perché i ragazzi hanno ancora bisogno di qualcuno che li aiuti a crescere e ad accompagnarli alla maturità. Concordo con quanto detto da Poloni prima, sul fatto che molto dipende dalla presenza di assessori compententi e capaci di creare reti di supporto anche con i comuni limitrofi. Chiudo riferendomi al piano metodologico: potrebbe essere utile guardare alle 98

politiche giovanili in un’ottica diversa, che non si limiti al mantenimento degli Informagiovani. Ampliare il ragionamento ad altri spazi progettuali eviterà il rischio di escludere dalle riflessioni tutte quelle problematiche citate prima: dall’uscita di casa al diritto allo studio. MIRKO PIZZOLATO: Mi sembra funzionale provare a fissare alcuni punti prima di procedere. Innanzitutto pare che la marginalità delle politiche giovanili comporti dei limiti al processo di cambiamento, d’altra parte è evidente che quanto più saranno nodali i temi affrontati dalle politiche giovanili, tanto più il concetto di trasversalità verrà a consolidarsi. Inoltre, più le politiche giovanili saranno centrate su temi come l’autonomia abitativa o il lavoro, tanto più rinunciarvi diventerà difficile. PUBBLICO 1: A me era piaciuto molto il discorso che avevano fatto Loris Poloni e Daniele Lando. Secondo me il nocciolo della questione rispetto alla partecipazione dei giovani alla vita politica è quello di come vengono pubblicizzati questi eventi: se ad esempio ci si limita ai manifesti sui bar, questi sono davvero incomprensibili, ma se non mi informo oppure mi lamento di come funziona l’ammi-


nistrazione di turno e poi non faccio nulla per cercare di cambiare le cose... posso arrogarmi il diritto di lamentarmi? Ossia, è lecito lamentarsi se poi non s’intende esporsi in prima persona per migliorare le cose? Secondo me, non bisogna per forza diventare politici attivi per essere cittadini attivi che contribuiscono alla crescita e al benessere del proprio paese, ma è sufficiente anche essere curiosi e interessati. ROMANO ASTOLFO: Velocemente sulle tre domande e poi due riflessioni. Parto anch’io dall’ultima e poi risalgo: per far evolvere e tutelare il principio di trasversalità è necessario porgli maggiore attenzione, farlo maggiormente riconoscere. Ricordiamo ci però che stiamo parlando di realtà variegate e diversissime tra loro sia in termini geografici che numerici: Montebelluna conta circa 30.000 abitanti, mentre piccoli comuni come Cessalto di abitanti ne ha 3.000 circa. In questi contesti specifici parlare di trasversalità nelle politiche giovanili che si occupano di autonomia abitativa mi pare piuttosto difficile. Ecco che quindi la trasversalità e i suoi limiti vanno declinati a seconda delle caratteristiche locali e dal contesto, nonché dagli enti sovraordinati che spesso stanno

al vertice. Ci sono questioni che permettono modalità e approcci simili, altre che invece non sono praticabili. Non esistono quindi situazioni uniche trasportabili tout-court, ma dobbiamo capire il “qui ed ora”. Su come agire la partecipazione, spendo solo due parole a favore dei tecnici: proprio perché stiamo accompagnando questi giovani nel processo di transizione, è necessario che ci sia in mezzo qualcuno che media, che sia in grado di prendere le istanze positive che arrivano dai giovani ma che sappia anche veicolarle correttamente nei confronti della pubblica amministrazione. Io ho l’esempio di un progetto giovani in cui dei ragazzi appartenenti alla parte politica “di sinistra” hanno lavorato benissimo con un sindaco “leghista”. Passatemi queste categorizzazioni perché sono utili per capire come non sono le etichette politiche spesso che fanno la qualità del lavoro, quanto piuttosto la condivisione di obiettivi e di idee. L’operatore ha mediato, non tanto rispetto alle etichette politiche, ma piuttosto su quello che c’era da fare. L’altra cosa che mi riporta alla prima domanda è la questione della fortuna, circa l’essere nel posto giusto o in quello sbagliato. Io penso che non sia pienamente corretto mettere sullo stesso piano 99


i giovani e le istituzioni: le istituzioni hanno una responsabilità in più, rispetto ai ragazzi, cioè poter o meno mettere in moto un processo. E’ chiaro che questo aumenta il rischio della macchia di leopardo, poiché potrei trovare chi intende impegnarsi e chi no, ma significa saper dare fiducia ai ragazzi, per potersi guadagnare la credibilità. I giovani in questo devono quindi trovare qualcuno che dia loro fiducia, e quindi un’opportunità, ma nello stesso tempo i ragazzi devono sapersela giocare bene, dimostrando che si è in grado di gestire la situazione. Temo che una grossa fetta di responsabilità la detenga ancora la parte politica, e dico “temo” perché di esempi fallimentari in questo senso ne ho visti. Da questo punto di vista penso che manchino i partiti, che in passato veicolavano questo tipo di formazine ai giovani. Mi chiedo se dobbiamo quindi ritornare al passato o cercare invece di produrre nuovi modelli di formazione. Fermo restando che, anche se siamo in una democrazia partecipativa, non possiamo sovvertire regole come la presenza dei cittadini al consiglio comunale, altrimenti si va verso l’assemblearismo, che spinge alla semplificazione. Detto questo, molte altre cose si posson fare: lavorare in rete ad esempio, è un buon modo e di 100

esempi in questo territorio ne abbiamo. Penso alla gestione di certi servizi sociali da parte dell’ULSS, o il laboratorio scuola/volontariato. Ci sono ambiti in cui il lavoro di rete è ancora difficoltoso, mi riferisco ad esempio alla scuola o a quello dell’associazionismo sportivo. Forse voi giovani qui presenti dovreste farvi un po’carico di quelli che non ci sono. La provincia mi pare che ci abbia provato, costituendo la “Consulta del Giovani”, ma non mi pare che l’esito sia soddisfacente e corrisposta dalle amministrazioni comunali. Chiudo con una battuta e una proposta; prima si ragionava sulle luminarie natalizie e sul loro costo che potrebbe essere investito in altro, ma perché non iniziamo a pensare di alimentarle con pannelli fotovoltaici? Nessuno ci perderebbe, nè in soldi nè in decorazioni e magari con il risparmio che creiamo andiamo a finanziare le politiche giovanili. Andando al di là della battuta, se pensiamo che la logica comune è quella che per guadagnarci io devo sottrarre necessariamente qualcosa a qualcun altro, cerchiamo di sovvertire questo modo di pensare, generando modalità che portino soddisfazione e vantaggio reciproco. MARCO TREVISAN: Su queste tematiche concordo con i colleghi


amministratori che l’intervento del pubblico in consiglio comunale non sarebbe semplice perché è già difficile gestire l’assemblea di soli politici, figurarsi se dobbiamo considerare anche il pubblico parlante, diventerebbe ingestibile. Io porto però l’esempio di Trebaseleghe (PD), in cui esiste il consiglio comunale aperto per i giovani, in cui 1 o 2 volte all’anno i giovani, che sono invitati a partecipare, possono intervenire. Rispetto alla semplificazione delle informazioni, io ad esempio ho proposto di porre insieme alle diciture tecniche una “traduzione”semplificata dei punti del giorno. Il tema della trasversalità secondo me sarà fondamentale. Prima, sentendo tutti vari interventi mi veniva in mente una cosa: in tutti i comuni c’è un assessorato alle politiche giovanili e c’è un ministero della gioventù a livello nazionale, ma non esiste ancora un ministero per la terza età, questo dimostra che una sensibilità in più si è radicata a livello politico. Riguardo alla macchia di leopardo spero che con questa legge-bozza (legge regionale 17, ndr), si dia un input affinché le politiche siano condivise a livello di zone e anche le province e le regioni individuino delle strategie comuni. Lo stesso dovrebbe valere nel momento

in cui si decide di erogare un finanziamento, perchè segua dei criteri di maggiore collegialità e di servizio di area. MIRKO PIZZOLATO: Vorrei concludere chiedendo ai ragazzi di rispondere ad una domanda: giovedì pomeriggio, nel vostro intervento, avete lanciato delle provocazioni che pensavate potessero essere sviluppate in queste giornate di discussione. Ora è importante che voi ci diciate se sentite che queste risposte sono state date o se abbiamo alzato troppo il livello delle aspettative e dobbiamo fare un passo indietro per riprendere. STEFANO VOLPATO: Mi sembra chiaro, alla fine di questa mattinata che solo dall’interazione tra i tre soggetti, giovani, politici e tecnici, può nascere qualcosa. Io sono sono soddisfatto della disponibilità manifestata dai politici presenti al tavolo, nel mettersi in gioco e del risultato complessivo di questa mattina. Credo anche che non avremmo potuto pretendere di più nel giro di quattro ore di lavoro. Ora, quando usciremo di qua, si vedrà se cambierà qualcosa effettivamente oppure se tutto rimarrà ad una pura discussione di convegno. Questa seconda ipotesi comporterà sicuramente da parte mia l’acquisizione di 101


qualche strumento conoscitivo in più, una maggiore consapevolezza e magari il tentativo di relazionare direttamente con le parti politiche del mio comune. Non può e non deve però fermarsi a questo, ma dobbiamo portare avanti le idee e il dibattito, forzando anche quelle che potrebbero essere le indicazioni della normativa, esistente o futura. Si è costituito in vista di questo workshop un gruppo di giovani da varie parti della provincia che ha lavorato per quattro mesi solo per il workshop... quindi vorrei provare a rispondere alle tre domande che ha fatto Mirko. Questo è il modo per superare le macchie di leopardo: trovarsi ad un livello di riflessione che sia anche più alto dei semplici problemi sul piano locale, perché magari il piccolo comune potrebbe non avere in sé le forze per agire un cambiamento, ma se la riflessione è su un piano alto, non legato alle specifiche realtà, allora si possono portare dei contributi che sono utili a tutti. Potrebbe addirittura essere questo un evento permanente, che si ripete magari annualmente e con funzione di controllo, verifica e monitoraggio della situazione delle politiche giovanili. Provare a lavorare assieme sul lungo periodo potrebbe permettere di lavorare anche sui problemi concreti. La 102

terza questione, quello della trasversalità, è stata pienamente condivisa. A questo punto però mi chiedo se sia necessario un riconoscimento formale da parte delle istituzioni per ottenere, come giovani, maggiore credibilità.


Brevi note sui relatori del Workshop

Fabio Giglioni: dal 2002 è ricercatore di Diritto amministrativo presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza” e dal 2004 è stato affidatario di corsi di insegnamento in Diritto amministrativo presso la sede di Roma e Pomezia della Facoltà di Scienze politiche, acquisendo pertanto il titolo di professore aggregato. Nell’anno accademico 2008-2009 ha conseguito l’affidamento di Diritto sanitario nell’ambito dell’insegnamento multidisciplinare Diritto ed economia sanitaria. Ha svolto attività di consulenza e incarichi di studi e ricerca presso enti pubblici di ricerca (MIPA), ministeri (LAVORO E POLITICHE SOCIA-

LI), presidenza del consiglio dei ministri (UNAR), autorità amministrative nazionali (COGIS), scuole di formazione per pubbliche amministrazioni (FORMEZ), regioni ed enti locali. Dal 2006 cura la sezione giurisprudenza della rivista online Labsus (www. labsus.org) in materia di sussidiarietà orizzontale. È autore del volume L’accesso al mercato nei servizi di interesse generale. Una prospettiva per riconsiderare liberalizzazioni e servizi pubblici (2008) e ha curato, insieme a Riccardo Acciai, il volume Poteri pubblici e laicità delle istituzioni (2008). Nel 2006 ha pubblicato gli esiti di una ricerca commissionata dal Ministero del lavoro e 103


delle politiche sociali in materia di accreditamento nei servizi socioassistenziali. Adriano Marangon: si occupa di pianificazione urbana, progettazione architettonica, architettura del paesaggio con un’attenzione particolare alle fasi che compongono il processo progettuale nella sua relazione con la dimensione sociale.Nel 2001 apre lo studio Made Associati, con Michela De Poli con cui partecipa a conferenze, mostre, seminari e workshop ricevendo premi e segnalazioni in numerosi concorsi nazionali ed internazionali. Visiting professor in Università italiane e straniere.

dell’organizzazione e Organizzazione e impresa presso la Facoltà di Scienze Politiche di Bologna e ha pubblicato Vulnerabilità, inclusione sociale e lavoro. Mercato e società introduzione alla sociologia economica (con MauroMagatti) e Riconoscere il lavoro (con Tindara Addabbo). Gruppo di lavoro del Sestante che ha contribuito alla stesura dell'intervento introduttivo

Paolo Zabeo: dal 2002 è il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA di Mestre che da oltre 15 anni ha costituito un gruppo di ricercatori che si occupano delle problematiche delle piccole e micro imprese.

Andrea Conficoni: educatore professionale, dottorato in "Uomo e Ambiente". Lavora dal 2005 al Sestante come educatore e formatore in progetti Giovani e di Comunità, con particolare attenzione a processi partecipativi tra gruppi e istituzioni, sviluppo di comunità ed empowerment, formazione alla genitorialità e gestione delle dinamiche di classe. E' referente per l'Ambito delle Politiche Giovanili.

Vando Borghi: ricercatore presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna, è segretario del Centro Internazionale di Studi Sociologici sui Problemi del Lavoro (C.I.Do.S.Pe.L.), e segretario redazionale della rivista Sociologia del Lavoro. E’ membro dell’Active Social Policy European Network. Insegna Sociologia

Elena Zanatta: educatrice professionale, specializzazione in Counseling Sistemico Relazionale. Al Sestante dal 1998 come educatrice, formatrice e counsellor nel mondo della scuola e in vari progetti giovani, di comunità e per le pari opportunità, con attenzione a processi partecipativi tra gruppi e istituzioni, formazio-

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ne alla genitorialità, al lavoro di gruppo, gestione delle dinamiche del gruppo classe sia con gli insegnanti che con gli studenti. Riccardo Mastromonaco: educatore e operatore di strada. Socio fondatore del Sestante è coordinatore di vari Progetti Giovani e di Comunità, con particolare esperienza in processi partecipativi, lavoro di rete ed educativa di strada. E' parte del Direttivo di Ambito Politiche Giovanili e responsabile del Sistema di Gestione della Qualità per le progettualità esterne. Andrea Pozzobon: educatore professionale. Lavora dal 1992 nella cooperativa Il Sestante - di cui è l'attuale Presidente - come formatore e coordinatore del Progetto giovani e di Comunità e del Progetto Politiche Famigliari di Montebelluna (TV). E' esperto in politiche giovanili, famigliari e di comunità, con particolare esperienza in processi partecipativi tra gruppi e istituzioni, sviluppo di comunità ed empowerment, politiche per la famiglia e la genitorialità.

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APPENDICE I materiali che seguono riguardano la sessione del giovedì mattina, a tutti gli effetti un “aspettando il workshop”, dedicato ai tecnici, del pubblico, del privato sociale. La sessione del giovedì mattina, intitolata “Welfare mix, Welfare community”, ha visto una prima introduzione al tema e poi la presentazione di 3 esperienze significative sotto il profilo della sussidiarietà e del welfare community. I documenti che seguono sono le slides proposte e, in due casi, le relazioni presentate.

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Welfare mix, welfare community Quelle che seguono sono le slides presentate come introduzione ai lavori. Si tratta di una cornice teorica sull’evoluzione dal welfare state al welfare community. Il lavoro e la presentazione sono a cura di Mirko Pizzolato, educatore della cooperativa Il Sestante e coordinatore del progetto “Di chi sono le politiche giovanili?�

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Progetto Consulta Giovanile dell’Alta Padovana Est Quelle che seguono sono le slides presentate per relazionare sulla prima delle tre esperienze: si tratta del progetto Consulta Giovanile dell’Alta Padovana Est. Il lavoro e la presentazione sono a cura di Chiara Bragagnolo, educatrice della cooperativa Il Sestante ed operatrice del progetto stesso.

Cos’è una Consulta Giovanile? L’esempio di Trebaseleghe… La Consulta Giovanile è un organo consultivo del Consiglio Comunale che presenta proposte di deliberazioni inerenti le tematiche giovanili i ili e dà un parere - non vincolante, vincolante anche se obbligatorio – su tutti gli argomenti affrontati dal Consiglio Comunale che riguardano i giovani.

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Le Consulte come esempio di welfare community Protagonismo come mobilitazione bilit i e messa in i gioco delle risorse del territorio, in un’ottica negoziale i l tra i varii soggetti della comunità che contribuiscono a definire e realizzare il welfare SUSSIDIARIETÀ ORIZZONTALE

I giovani delle Consulte: • non solo fruitori delle Politiche Giovanili, ma nemmeno solo esecutori. • Costruttori di reti sul territorio (anche sovracomunale) e non solo l interfaccia i t f i ttra l’Amministrazione e i giovani. giovani

Le Consulte come esempio di welfare community Consulte come PROSUMERS (produttori, distributori e consumatori)) di servizi di welfare

• I giovani presenti come soggetto collettivo, collettivo in relazione con altri soggetti della comunità, d ll’id dall’ideazione i alla ll progettazione e realizzazione delle azioni di politica giovanile. • Circorlarità del fare per sé e per gli altri allo stesso tempo. tempo

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Le Consulte come esempio di welfare community • Legittimazione Perché una Consulta e non un g gruppo pp informale?

• Riconoscimento • Dialogo strutturato e diretto tra giovani e decision makers

•L’operatore come facilitatore di processi e non come erogatore di servizi. •Non è mai autoreferenziale: non esiste il ruolo “operatore di politiche giovanili” al di là dei gruppi di giovani o adulti con cui questo va ad interfacciarsi. 116


I limiti li iti • Identità committente-controparte • Disponibilità della comunità nel riconoscere i giovani come soggetti negoziali • La Consulta, come organo istituzionale, perde il potere di realizzare azioni

di chi sono quindi le politiche giovanili in Alta l Padovana d Est? Sono funzione sociale diffusa (dell’operatore (dell operatore, dei giovani, giovani dei politici politici, dei servizi, della comunità,…) non una strategia t t i politica liti o operativa ti che h q q qualcun altro attua e qualcuno fruisce.

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PROGETTO PARI OPPORTUNITA’ DI ASOLO Donne – politica – territorio: percorso di formazione alle pratiche e ai linguaggi della politica Quella che segue è la relazione sul progetto Pari Opportunità di Asolo. Il lavoro e la presentazione sono a cura di Andrea Capovilla, assistente sociale del comune di Asolo.

L’Amministrazione Comunale di Asolo, riconoscendo l’attuale l’importanza delle tematiche legate alle Pari Opportunità, ha partecipato ad un bando della Regione Veneto, ottenendo un finanziamento, per promuovere nel territorio un progetto rivolto alle donne della comunità, sui temi della partecipazione politica. Il progetto, sin dalla sua ideazione, rispecchia e aderisce ai principi della sussidiarietà e del welfare di comunità in quanto ri-mette al centro il cittadino come oggetto e soggetto di welfare. Il progetto è partito all’inizio del 2009, momento in cui alcune 118

donne attive nel territorio hanno iniziato a ragionare di politiche di pari opportunità, di cittadinanza politica al femminile. La prima fase del progetto è stata proprio la condivisione tra e con queste donne del territorio degli obiettivi e dei presupposti del progetto. Successivamente, le donne che hanno scelto di partecipare attivamente alla realizzazione del progetto, hanno lavorato insieme, accompagnate dai tecnici, al fine di creare un gruppo che si impegnasse a proporre nel territorio un percorso formativo rivolto alle donne. Per arrivare alla realizzazione del percorso, il gruppo di donne ha


percorso varie tappe e ha mosso i primi passi nella relazione tra le persone, creando così i presupporti sia per sviluppare ownership rispetto al progetto, ma anche per consolidare il gruppo, passando così dal lavoro in gruppo, al lavoro di gruppo. Tale processo è avvenuto innanzitutto valorizzando le esperienze individuali, condividendole, creando la sommatoria di differenze di esperienze, visioni, punti di vista. Con una maggiore consapevolezza, il gruppo ha portato agli operatori una serie di bisogni, interessi e istanze in quanto donne di uno specifico territorio. Si è trattato di una fase importante, che ha collegato il gruppo al proprio territorio, e ha aggregato bisogni individuali, li ha sintetizzati in bisogni di gruppo, connessi però strettamente al contesto territoriale. Questa, in un’ottica sussidiaria, è la fase che ha permesso di rendere questo un gruppo unico, e non più solo un gruppo di donne. È evidentemente un passaggio fondamentale, senza il quale parlare di sussidiarietà diventa fuori luogo: la sussidiarietà prevede necessariamente una lettura del contesto, per determinare bisogni a cui i cittadini, in base al principio dell’amministrazione condivisa, vorranno provare a rispondere. I bisogni sono quelli di

un gruppo composto da donne in un territorio specifico, Asolo, in un momento specifico. Gli operatori quindi hanno sostenuto e facilitato il gruppo nella realizzazione di un percorso formativo che rispondesse ai bisogni e agli interessi che le donne avevano fatto emergere. In corso d’opera è nata l’esigenza di realizzare un percorso formativo rivolto a tutta la comunità, anche nella sua componente maschile, in quanto anch’essa potenziale portatrice di cultura di parità. Quindi il gruppo di donne, che nel frattempo si è nominato “Donne in cerchio”, ha pianificato tre azioni ben distinte: 1. la realizzazione di due serate pubbliche, una volta a dipingere la situazione femminile attuale, e una sulla partecipazione delle donne asolane alla vita pubblica, politica e lavorativa; 2. un percorso formativo sull’identità rivolto a sole donne ; 3. una mostra per rappresentare la storia e il percorso di emancipazione che le donne hanno affrontato fino a ad oggi in questo specifico territorio. A prescindere dai risultati che avrà questo progetto (che è ancora in corso), possiamo già, ad oggi, evidenziare non solo la qualità dei contenuti proposti 119


dal programma, ma anche il coinvolgimento e l’investimento che un gruppo di donne sta offrendo a sé stesse e alla propria comunità. Questo aspetto, e molti altri, sono legati e veicolati dai presupposti di fondo su cui si basa questo progetto: una concezione globale dell’uomo e della società, intesa sia come individuo che come legame relazionale. Questa visione antropologica evidenzia la centralità della persona nella sua globalità, non solo come portatrice di bisogni ed esigenze, ma anche come fulcro dell’azione e della relazione. Nel progetto Pari Opportunità di Asolo, la donna non è spettatrice e fruitrice di un percorso formativo organizzato e predisposto dall’amministrazione e dai suoi operatori; le donne stesse, accompagnate e supportate dagli strumenti dei tecnici, attivamente agiscono nel territorio le loro riflessioni attraverso l’organizzazione del “loro” programma sulle Pari Opportunità. D’altra parte, questo non è nemmeno solo un esempio di partecipazione: se il gruppo rispondesse a bisogni propri, con strumenti di partecipazione significativima rivolti al solo gruppo, potremmo parlare di partecipazione, di empowerment, sia individuale che di gruppo, ma non di sussidiarietà. 120

Invece è possibile pensare in questa’ottica, perché i bisogni emersi, ma soprattutto le azioni implementate, mirano a un processo più ampio, offrono spazi a tutte le donne del territorio, ma anche agli uomini, in virtù di una interpretazione collettiva e relazionale delle pari opportunità, dello stesso principio di cittadinanza. Questa visione dell’individuo, per di più in un progetto sulle Pari Opportunità, permette alle persone di vivere ed essere comunità; ed in questo modo l’Amministrazione Comunale non solo mette in moto delle azioni vicine al cittadino, ma offre al cittadino gli strumenti perché sia esso stesso l’agente. La valenza della sussidiarietà è ancor più evidente in quei progetti che, come quelli sulle Pari Opportunità, hanno come obiettivo il cambiamento di visioni e prospettive sul medio e lungo periodo. Sappiamo quanto siano lenti e difficili i cambiamenti culturali e di pensiero, soprattutto per quelle attitudini legate alla quotidianità e che sono fisse in noi, sedimentate culturalmente. Tuttavia, concepire il cittadino stesso come attore di cambiamento ne costituisce la svolta e delinea la strada che esprime la possibilità di cambiamento.


Si parla di sussidiarietà verticale quando i bisogni dei cittadini sono soddisfatti dall’azione degli enti amministrativi pubblici, e di sussidiarietà orizzontale quando tali bisogni sono soddisfatti dai cittadini stessi: crediamo che il progetto Pari Opportunità di Asolo costituisca un mix di questi livelli, in quanto l’Amministrazione Comunale è vicina al cittadino, sostiene il processo descritto con risorse proprie, senza dare una risposta diretta ai bisogni emersi, ma fornendone puntualmente gli strumenti perché il cittadino stesso possa darne risposta.

che possa quindi autonomamente diventare rappresentante della cultura di parità, sia per l’amministrazione che per il territorio.

Il gruppo promotore “Donne in cerchio” è, dal nostro punto di vista, la risultante di due elementi intimamente collegati ai principi di sussidiarietà e welfare community: il primo è l’aggregazione sociale, ovvero l’insieme delle persone in relazione tra loro che possono agire liberamente senza che l’istituzione debba sostituirsi ad esse nello svolgimento delle loro attività; il secondo è l’autonomia che gruppi di cittadini possono acquisire nel saper fornire risposta ai bisogni della comunità. Le “Donne in cerchio” in questo senso potranno, nel loro futuro prossimo, sostenere la comunità e l’Amministrazione nella creazione di un Organismo di Parità Comunale 121


Progetto Politiche Famigliari della città di Montebelluna Quella che segue è la relazione sul progetto Politiche Famigliari di Montebelluna. Il lavoro e la presentazione sono a cura di Maria Rosa Franceschini, dirigente del comune di Montebelluna.

La famiglia è una risorsa: è capace di attivarsi, creare reti con altre famiglie, con la comunità e promuovere solidarietà sociale su base famigliare. Con questa consapevolezza, nel 2004, l’amministrazione comunale e le famiglie di Montebelluna hanno avviato il Progetto Politiche Famigliari come percorso che permettesse alle famiglie di essere protagoniste nella comunità, esprimere i propri bisogni, condividere i problemi, proporre e realizzare insieme le soluzioni per giungere al benessere della persona e della comunità attraverso l’attuazione del principio di sussidiarietà, o di welfare community. 122

In tal senso sussidiarietà significa passare da una concezione di cittadinanza basata sulla relazione verticale amministratori – amministrati (i primi soggetti del bene pubblico, i secondi oggetti delle decisioni dei primi), ad una relazione di amministrazione condivisa, in cui i soggetti pubblici e privati perseguono insieme il bene comune, riconoscendo e sviluppando insieme le risorse e le capacità disponibili. Inevitabilmente in questa concezione di amministrazione pubblica condivisa le politiche attivate sono più efficaci, perché sono direttamente progettate e pensate dai cittadini con gli amministratori, su bisogni


che i cittadini, singoli o in gruppi, hanno fatto emergere. Si sviluppa in tal senso welfare community, nel senso più pieno del termine, perché è la comunità stessa che è capace, sostenuta con strumenti appositi dai tecnici e da scelte e decisioni coerenti dai politici, di implementare politiche sociali efficaci e rispondenti ai bisogni. Il Progetto Politiche Famigliari è basato su un approccio di ricercaazione: si tratta di un approccio di lavoro con la comunità che mira al cambiamento sociale attraverso la partecipazione attiva dei soggetti coinvolti. Si articola in tre fasi: l’azione per conoscere, nella quale si identificano insieme i problemi/ bisogni; l’azione per progettare, nella quale emergono e si strutturano le ipotesi di azione; l’azione per cambiare, nella quale si attua l’intervento. Le tre fasi sono circolari e si nutrono a vicenda: in tal senso la conoscenza è azione e l’azione produce altra conoscenza. Questo progetto nasce nel 2004 con l’obiettivo di promuovere una cultura della relazione, dei legami sociali e solidali. Ciò significa considerare la famiglia come risorsa in grado di attivarsi, di co-attivarsi e di attivarsi-per, di associarsi con altre famiglie, di relazionarsi con la comunità. Il primo passo, l’azione per conoscere, è stato il contatto con

alcune famiglie “sensibili” del territorio e l’attivazione, con il loro aiuto, di 15 gruppi focus volti a individuare i principali ostacoli al raggiungimento del benessere della famiglia a Montebelluna. In una successiva assemblea si sono individuati i 7 principali ostacoli e sono nati i primi 7 gruppi di lavoro. Le priorità emerse sono state: 1. il problema della viabilità; 2. la mancanza di un servizio di sostegno psicologico a chi ha un anziano, malato o disabile in casa; 3. la mancanza di un servizio di sostegno psicologico alle coppie che vivono un momento di difficoltà e una formazione ai valori nella coppia; 4. la mancanza di una politica per la casa in chiave famigliare; 5. l’esigenza di sviluppare reti di relazioni tra famiglie, amicali e di vicinato come sostegno alla genitorialità e nelle situazioni di emergenza-bosogno; 6. la necessità di potenziamento dei servizi per la prima infanzia; 7. la mancanza di un sistema di agevolazioni economiche alla famiglia. I 7 gruppi si sono costituiti con l’obiettivo di trasformare l’ostacolo specifico in possibili azioni in grado di superarlo (azione per progettare). Tutto il lavoro e 123


in particolare le ipotesi di azione sono state presentate nel primo convegno (2005) “la famiglia protagonista” alla cittadinanza e alla giunta comunale, in un clima di forte coinvolgimento e partecipazione delle famiglie protagoniste del progetto. Da questo momento i gruppi hanno iniziato a realizzare le principali azioni individuate (azione per cambiare) con l’attenzione a coinvolgere altre famiglie. Questo modello di percorso utilizzato nella parte iniziale del processo è stato utilizzato successivamente anche per la nascita di altri gruppi (gruppo seconda infanzia, gruppo caro libro e gruppo stili alternativi). La maggior parte dei gruppi nati nel 2005 sono ancora attivi; altri hanno attuato alcune azioni e poi hanno concluso il loro percorso; altri sono nati successivamente. I gruppi di famiglie si trovano periodicamente in assemblea per condividere e definire la strategia di lavoro generale. Mensilmente i rappresentanti di ognuno dei gruppi di famiglie si incontrano nel Gruppo di Coordinamento per l’accompagnamento del progetto. Le famiglie del progetto, inoltre, da circa un anno hanno iniziato a un percorso verso la costituzione di un Forum comunale delle famiglie. La prima tappa è stata 124

quella di individuare una famiglia responsabile quale rappresentante e punto di riferimento per tutte le famiglie del progetto: attraverso un questionario più di 40 famiglie hanno contribuito a definire ruolo, funzione e tipo di impegno della famiglia responsabile e nel maggio del 2009, durante l’Assemblea delle Famiglie, è stata eletta la famiglia responsabile. Nell’arco del 2010 l’obiettivo è la costituzione formale del Forum comunale delle famiglie. La famiglia responsabile, oltre a condurre il Gruppo di Coordinamento, partecipa ad un gruppo di “regia” progettuale composto anche dall’assessore alle Politiche Famigliari, dal dirigente e dai tecnici comunali, dagli operatori del progetto. Le principali azioni fin qui realizzate nell’ambito del Progetto Politiche Famigliari sono: 1. tessera parcheggio bebè – tessera per il parcheggio gratuito (per 1 h e 30’) per le famiglie dei nuovi nati, fino al primo anno di età; 2. detrazione ICI – detrazione di 103 € a famiglia per le famiglie con due o più figli a carico entro i 21 anni di età; 3. realizzazione di percorsi di formazione al matrimonio civile e alla vita di coppia; 4. convenzione tra amministrazione comunale e gruppo viabilità – gestione in comune di 25.000


€ per l’abbattimento di barriere architettoniche; 5. apertura di uno spazio “incontrafamiglie” – aperto alle famiglie e gestito dalle stesse; 6. attivazione di un sito internet sul Progetto Politiche Famigliari; 7. riduzione dei costi, dal secondo figlio in poi – riduzione costi di trasporto scolastico, mensa scolastica, ecc.; 8. attivazione della rete famigliecomune-scuole – implementazione del progetto “caro libro” per il riutilizzo dei libri della scuola media con l’obiettivo di far risparmiare le famiglie (risparmio del 50% sui costi di copertina) e di raggiungere con gli studenti obiettivi educativo-ecologici; 9. attivazione di 5 “punti bebè” – locali pubblici o privati dove i genitori possano in situazione di bisogno cambiare o allattare il bambino; 10. attivazione di un gruppo di acquisto di materiale di cancelleria; 11. apertura di uno spazio d’incontro per famiglie con bambini da 0 a 6 anni, chiamato “Dire Fare Giocare”; 12. un percorso formativo per le famiglie su come prendere decisioni in gruppo e sulla gestione dei rapporti gruppi e istituzioni; 13. avvio di un percorso per la realizzazione di un Forum citta-

dino per le famiglie.

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Oltre il workshop: suggestioni e riflessioni nell’ambito delle Politiche Giovanili della cooperativa Il Sestante Gli interventi di seguito riportati sono avvenuti in un’assemblea dei soci della cooperativa sociale Il Sestante, titolare del progetto “Di chi sono le politiche giovanili?”. Si tratta di una discussione centrata sulle politiche giovanili, su come sono agite dalla cooperativa e nel territorio, su quale futuro abbiano o possano avere. Riteniamo utile pubblicare questo intervento, che riguarda l’intero progetto citato, ma che si è concretizzato nel mese di settembre 2009, perché ci sembra porti ulteriori punti di vista, ulteriori analisi. Gli interventi sono stati fatti da diversi soci lavoratori che conoscono e operano nel campo delle politiche giovanili, con ruoli operativi o di coordinamento. Il lavoro che i soci lavoratori della cooperativa hanno iniziato con questa discussione proseguirà in ulteriori riflessioni, anche tenendo conto di quanto emerso durante il workshop. Da questi momenti nascono le innovazioni, da queste analisi scaturiscono idee, contaminazioni, progettualità. M.P.: Una riflessione emersa riguarda il tema della trasversalità delle politiche giovanili. Noi finora abbiamo lavorato sulle politiche giovanili principalmente all’interno del tempo libero e della formazione parallela all’interno della scuola. Da un po’ di tempo si sta aprendo una riflessione attorno ad una progettualità diversa; è una richiesta forte da parte dei ragazzi, che un po’ ci ha colpito, e riguarda il concetto di “trasversalità”. L’idea centrale è che, in futuro, nelle Amministrazioni Comunali, ma anche Provinciali o Regionali, le politiche giovanili non abbiano un assessorato apposito, ma siano 126

una sorta di “tema”, comune e trasversale a tutti gli assessorati. Chi fa urbanistica non può dirsi estraneo a politiche che riguardano i giovani, così come chi si occupa di bilancio. In tutto questo il tema delle trasversalità diventa centrale. E’ una prospettiva che a noi, come cooperativa, pone degli interrogativi importanti, poiché da una parte ci chiede di aprire a prospettive diverse, dall’altra anche a una formazione, in quanto operatori, diversa. Se pensiamo alle nostre competenze, ci possiamo ritenere “formati ed esperti” rispetto alla pedagogia, rispetto alla scuola, rispetto alla conduzione di processi


partecipativi e di cittadinanza, ma per quanto concerne “l’urbanistica” (per fare un esempio) siamo certamente meno preparati. Inoltre ci si pone dinanzi la prospettiva di abbracciare nuovi approcci, di sperimentare nuove modalità di lavoro e magari prospettive differenti da quelle normalmente intraprese. Se ci riferiamo ad un’esperienza recente, ad esempio il PLG (Piano Locale Giovani), ci rendiamo conto che abbiamo dovuto sperimentare modalità e approcci per noi innovativi, in particolare per gli attori coinvolti. M.E.: Una cosa che mi veniva in mente, in termine di prospettive, modalità, approcci… un problema con cui stiamo impattando fortemente in questo contesto, anche in relazione al PLG, è la questione del potere negoziale dei giovani. Quando si va a trattare con un soggetto economico o sociale, qual è il potere e la forza negoziale che hanno i giovani? Ci rendiamo conto che su molti aspetti la forza negoziale iniziale che questi hanno è davvero molto bassa. Il fatto stesso di trovarsi di fronte ad una rappresentanza della popolazione giovanile limitata, li pone ad essere poco credibili o comunque scarsamente considerati di fronte al potere istituzio-

nale. Sarebbe invece interessante poter capire come sviluppare un lavoro che sostenga e promuova questo tipo di incontri, come rafforzare il potere negoziale. Parallelamente, un altro aspetto centrale: capire come promuovere la relazione con quegli adulti che possono fungere da riferimento (pensiamo ad esempio a quelli che hanno funzione pubblica in ambito economico o di bilancio delle risorse). Se noi ci guardiamo un po’ attorno, possiamo ben vedere come ci sia un’esperienza strutturata su questo campo, anche se per quanto ci riguarda il terreno appare invece piuttosto inesplorato. Si tratterebbe quindi di intraprendere un campo sperimentale che metta in gioco nuove risorse ma anche e soprattutto diverse opportunità finora poco considerate. Una seconda riflessione riguarda gli strumenti: noi sappiamo operare sui processi relativi ai gruppi ma riveliamo delle debolezze sul rapporto tra gruppi e comunità, dobbiamo perciò come soggetti sperimentare ancora tanto. A.P.: A mio parere un’altra dimensione fondamentale è la relazione con la comunità territoriale, sia con i soggetti adulti, come è gia stato detto, ma anche e soprattutto con i ragazzi. A me pare 127


che come cooperativa non abbiamo ancora acquisito in maniera forte delle competenze rispetto ai processi valutativi del lavoro che si fa con i giovani, ossia il riuscire ad acquisire degli strumenti validi e degli indicatori di verifica oggettivi che ci permettano di stabilire quanto il lavoro con i giovani sia efficace nel territorio o quanto piuttosto le azioni che i giovani fanno rimangano circoscritte al loro contesto, senza incidere sensibilmente sulla struttura e sul tessuto sociale. Io ritengo che questo sia un grosso problema, anche vedendo il paragone con l’ambito delle politiche familiari, poiché ritengo che le energie da investire nel settore politiche giovanili siano enormi, rispetto all’impatto che possono avere invece sul resto della comunità i progetti promossi dagli adulti. La realtà è che la comunità degli adulti conta, mentre quella dei giovani molto meno. Quindi a mio parere è fondamentale uscire, non solo dal concetto di trasversalità tra i diversi assessorati e soggetti, ma far sì che ci sia una relazione continua nel lavoro di relazione tra i giovani e tutti gli altri soggetti della comunità. Per me questa è una cosa molto significativa e a dire la verità, anche cogliendo uno spunto di ri128

flessione dagli studi di psicologia sociale, pedagogia sociale e psicologia di comunità, in tutti questi contesti, i giovani si trovano spesso al margine delle riflessioni teoriche. Un ulteriore ostacolo riguarda la scarsa rappresentatività che i giovani hanno rispetto alle istanze che essi portano e da ciò deriva anche il loro basso potere contrattuale; bisognerebbe trovare dei sistemi per coinvolgere e per agevolare la partecipazione. In questa direzione è importante ragionare in termini di rappresentanza e rappresentatività. E’ interessante il potere che i giovani possono acquisire, costituendosi come soggetto collettivo riconosciuto, in particolare, dalle amministrazioni comunali. Anche rispetto alle politiche familiari ci si è resi conto che, quando un gruppo resta informale, non acquista il potere negoziale, mentre è evidente il riconoscimento che potrebbe avere se formalizzato in associazione o ente. C.P.: Anche ammesso che non aggiungo nulla di nuovo, vorrei rafforzare il concetto che tutto quello che stiamo dicendo privo di un forte avvallo politico, non porta a nulla. Sento che i politici, mai come adesso in questo periodo storico, hanno bisogno


di un sostegno contenutistico, pedagogico, ma anche più leggero. Abbiamo tanti politici che hanno magari buone intenzioni ma pochi strumenti a disposizione o scarse risorse, anche di tipo economico. In questo forse sento che noi potremmo essere per loro uno strumento prezioso, dovremmo quindi tentare di immaginarci qualcosa a sostegno del ruolo di questi politici, poichè nelle nostre piccole esperienze abbiamo compreso che al di là di come vengono impiegate le risorse o si decide di finanziare un progetto X piuttosto che un’iniziativa Y, quel che è importante è il processo che porta alla costruzione di certi percorsi. Sento che lavorare con i politici è sempre più strategico e per arrivare a questo è essenziale, anche come cooperativa, negoziare con queste amministrazioni, usando strumenti diversi a quelli che siamo soliti usare. Bisogna pensare che l’unico modello è quello di costruzione di partnership con amministrazioni locali. Le politiche sociali, se erano viste 10 anni fa come l’ultima ruota del carro, oggi sono addirittura sotto il carro, se consideriamo i capitoli di spesa che vengono loro solitamente riservati, ma nonostante ciò c’è ancora voglia di lavorare e di mettersi in discussione.

Quello che suscita alcune perplessità è che anche dove ci sono situazioni in cui c’è la necessità di continuare a lavorare, ma la mancanza di una partnership -relazionale, di strategie, di modelli e di processi- è forte, ebbene, queste situazioni non funzionano, né possono funzionare. M.P.: Per molti assessori, non è sufficiente la contrattazione classica, in cui la parte politica esterna i propri bisogni, le proprie priorità, e sulla base di ciò costruiamo un progetto credibile. Nel momento in cui l’assessore chiede che sia dimostrato con dati “empirici” che ciò che abbiamo costruito dà effettivamente i risultati attesi, sento che in questo siamo piuttosto deboli. Forse dobbiamo pensare ad altre modalità di valutazione, che ci permettano di capire se stiamo lavorando nella maniera corretta e se il nostro lavoro è realmente rispondente ai bisogni espressi. Se ci chiedono di dimostrare che un centro aggregativo funziona, probabilmente ci è facile costruire degli strumenti di verifica e monitoraggio; dati numerici di affluenza, attività realizzate…ma quando parliamo di trasversalità, di politiche che attraversano i settori giuridici, urbanistici, forse si parla per qualcuno di aria fritta. 129


B.T.: Stavo riflettendo su una questione di tipo metodologico agganciandomi alla teoria dell’empowerment. Per sviluppare empowerment sono necessari tre fattori: sviluppare le competenze, individuare le condizioni affinché queste competenze si realizzino e creare il processo, attraverso il quale competenze e condizioni si intrecciano. Ripensando velocemente ai progetti che noi promuoviamo in questi anni, mi sembra che questo possa essere un buon filo conduttore sia per le comunità in senso macro, sia nei progetti in cui lavoriamo a livello micro, oserei dire anche a livello di counselling. Quello che dobbiamo cercare assieme è il trovare un filo conduttore che ci permetta di lavorare su entrambi i livelli e in tutte le fasi di vita dei ragazzi. Lo stesso vale appunto con i ragazzi: per portarli ad essere in grado di avanzare delle istanze o delle proposte bisogna aiutarli nell’acquisire delle competenze fin dai 12/13 anni, in un percorso di crescita personale e di progressiva autonomia. Una prospettiva interessante è quella di trovare un filo conduttore rispetto a tutti i progetti che si occupano di politiche giovanili, che a volte ci sembrano molto diversi. Progetti che apparentemente ci sembrano distanti e diversi come 130

ad esempio gestire uno spazio d’ascolto o proporre un processo nella comunità, probabilmente hanno dei punti di convergenza che si traducono in una metodologia comune, in strumenti di empowerment condivisibili. L’ottica proposta mi pare il modo più funzionale per mettere assieme anche diversi tipi di approcci che spesso vengono utilizzati nella strutturazione dei progetti; da quella Sistemica, Cognitiva, Familiare, Transazionale…ecc M.Z.: Riflettendo ora rispetto a tutto ciò che è stato detto fin qui, rilevo un problema a mio parere piuttosto importante, che non so se definire un limite, un ostacolo o piuttosto un pregio nel lavoro con i ragazzi e cioè il “camaleontismo” dei progetti. Mi rendo conto che spesso i progetti assumono la forma dei ragazzi che incontriamo nei territori, come se in qualche maniera gli venissero cuciti addosso e in alcune situazioni questa cosa è facilitante, in altre ostacolante. Cerco di specificare meglio: se in un territorio le istanze dei ragazzi non sono ancora chiare ci sarà necessariamente una prima fase di emersione dei bisogni e il progetto assumerà progressivamente una forma a seconda di ciò che il territorio esprime e si aspetta, se in-


vece l’assessore o il referente tecnico decide a priori di aprire uno spazio aggregativo, indipendentemente dalle istanze portate avanti dal territorio, l’esito progettuale sarà inevitabilmente diverso. Magari più semplice nella sua definizione e chiaro nell’esecuzione. In tutto ciò l’educatore può essere lui stesso un “camaleonte”, da quello che anima il centro aggregativo a quello che fa l’edu-counsellor, a quello che organizza eventi. Il nostro centro dov’è? O meglio, esiste un centro? Se in una comunità si sviluppa un processo di gruppi di interesse con venti giovani, che a loro volta provengono da un bacino di mille, mi chiedo se il processo avviato con quei venti sia effettivamente rispondente ai bisogni reali della popolazione dei giovani o solo di quelli che sposano la nostra metodologia operativa. Paradossalmente oltre quei venti ragazzi ce ne sono magari altri cinquanta che potrebbero aver bisogno di un setting uno-a-uno, ma che in quel contesto il nostro approccio non ci permette di intercettare e quindi di cogliere come bisogno. In questo caso la scelta è di tipo politico, tecnico? Le diversità ci sono, ma quali strumenti possediamo per cogliere e per rispondere a tali diversità?

M.S.: Una delle principali difficoltà, ma che diventa anche un grosso punto a favore della cooperativa è quella di coprire le distanze siderali tra il mondo dei ragazzi e la percezione del mondo che ha la controparte, i politici, i tecnici… grossolanamente il mondo degli adulti. Potremmo definire la cooperativa come una sorta di cerniera tra due realtà, quella dei ragazzi che sento veramente parte di una nuova generazione, che respira l’era della globalizzazione, e quella degli adulti che per la maggior parte vivono questo concetto più come un assunto teorico che reale. Le modalità comunicative proprie dei ragazzi, digitali nativi, diventano strane e spesso estranee alla comunità adulta, con la quale si crea inevitabilmente un parallelismo di piani che s’incontrano con estrema difficoltà. Chiave di questa difficoltà è proprio la modalità comunicativa. Il lavoro teorico che a mio parere va fatto, è quello di favorire questo processo di consapevolizzazione in entrambi i piani e in particolare di sostenere i ragazzi nella presa di coscienza che questa nuova epoca determina e genera diversità. Già in questa consapevolezza si riduce la distanza. L’altra riflessione è che spesso la valutazione dei progetti, dei processi e dei risultati raggiunti, hanno la cifra delle am131


ministrazioni che li devono finanziare e quindi devono rispondere a delle aspettative che non sono sempre quelle dei ragazzi. Un ultimo elemento di difficoltà che vorrei sottolineare è quello dei tempi: percepisco i tempi della politica come tempi lunghi, che si esprimono nell’arco dei 5 anni, 10 anni, i tempi dei mandati istituzionali, invece vedo i ragazzi che sono produttivi in tempi molto più rapidi: 6 mesi, un anno al massimo, quello cioè che dedicano alla realizzazione di un’idea. Poi magari partono, cambiano città, vanno a studiare lontano e quindi i loro bisogni si trasformano. Prima si diceva che i gruppi informali hanno meno potere contrattuale, eppure io colgo in questa informalità il potere di essere produttivi ed efficienti. A.C.: Quanto detto da Benedetta sull’empowerment può salvarci dal rischio di essere camaleontici, per esempio la crescita dei progetti, delle competenze e dei gruppi può avere dei tempi di attivazione piuttosto rapidi, è il tempo dei servizi, quelli delle istituzioni che devono magari approvare un progetto, formalizzare un incarico, accettare un percorso, ad essere estremamente lento e farraginoso. Le istanze si bloccano a questo livello e forse il compito della 132

cooperativa potrebbe proprio essere quello di agire su queste reti. Ancora, quanto possiamo noi lavorare per favorire la stessa costruzione di reti tra comuni, servizi? Secondo me qualcosa di significativo è già emerso proprio da quei territori in cui si è creata una mentalità di rete progettuale, in alcuni casi anche innovativa. Noi come cooperativa lavoriamo per una connessione territoriale o ci limitiamo a lavorare per rispondere ad interessi specifici in un comune, magari limitandoci territorialmente? Per riprendere un concetto espresso in precedenza, ci limitiamo a processi di empowerment mirati o investiamo in processi ad ampio spettro? C.B. : Per dare una risposta alla tua domanda, spesso questo lavoro di rete lo facciamo, ma senza un mandato chiaro e spesso lo facciamo anche gratis, perché non siamo ufficialmente riconosciuti come ruolo e non è detto che dobbiamo effettivamente assumerlo. A.P. : Quello che state dicendo in fondo implicitamente viene comunque fatto anche in un incarico di educatore domiciliare, ma lo stesso operatore di comunità mette la sua posizione, il suo essere nel ruolo che riveste e quindi di fatto porta la sua visione nel


lavoro che svolge. La domanda è a questo punto: la nostra visione del mondo c’è e la mettiamo quotidianamente nel lavoro... ma c’è una visione del mondo collettiva? A livello di cooperativa come possiamo tradurla in intenzionalità pedagogica? In questi anni stiamo andando in questa direzione? M.E.: A volte ci troviamo in un’ambiguità operativa, come educatori di comunità, quando non sappiamo bene come rispondere alle richieste del territorio. Quando ci chiedono di attivare uno spazio aggregativo, implicitamente ci chiedono anche di fare un lavoro di cultura operativa e progettuale, di formazione legata al senso di quello che stiamo facendo. Se come cooperativa abbiamo perseverato in tutti questi anni proponendo un modello di operare nel sociale mantenendo una linea discostata dalla semplice erogazione di servizi, così come invece è stato per molte altre cooperative, è perché forse abbiamo saputo cogliere questi bisogni del territorio permettendoci anche di essere riconosciuti per la qualità del servizio svolto. Si tratta di capire e di condividere tra di noi quanto siamo coscienti e consapevoli di questo. Noi siamo certamente erogatori di servizi, ma siamo anche portatori di una cul-

tura di sistemi sociali diversa da quella di altri. E’ necessario quindi avere una visione più organica del nostro ruolo come cooperativa. A.B.: Mi pare che ci stiamo discostando dalla domanda iniziale; stiamo cercando di rispondere a come la Cooperativa può farsi portatrice delle istanze dei giovani e fare da tramite verso le parti sociali che si dovrebbero poi occupare di politiche giovanili. In questa negoziazione ci siamo anche noi con la nostra esigenza di mantenere il ruolo lavorativo, variabile che non va trascurata perché non ci permette di essere disinteressati rispetto al fatto di saper veicolare o meno le istanze. Questa consapevolezza a livello politico è bassa e il nostro potere di cambiamento è altrettanto debole, ma sento che in questa spirale l’unico nostro spiraglio potrebbe essere quello di proporre in autonomia dei percorsi culturali, finanziati da noi, quindi indipendenti da qualsiasi committenza. V.B.: Marco (M.E. ndr) ha in parte risposto all’idea di cooperativa, mi chiedo se uno degli ostacoli sia il fattore economico, non ancora citato, ma che fa parte del processo di empower133


ment. In fondo se nel momento storico in cui ci troviamo si riesce a mala a pena a garantire le forme assistenziali di base, mi chiedo come sia possibile produrre e sostenere, soprattutto economicamente, progetti in tutti quei settori che esulano dai bisogni di base. Un comune che deve stabilire come stanziare i suoi fondi (pochi), deciderà di erogarli in quei servizi che ricadono visibilmente sull’elettorato che poi lo riconfermerà, non di certo verso quel target (giovani o adolescenti) dai quali non otterrà consensi formali (voti). In questo pare vincente la strategia della cooperativa di investire sulla ricerca di risorse alternative (ufficio bandi), per accedere a risorse che dal territorio difficilmente possono arrivare. Il messaggio inoltre potrebbe arrivare agli stessi giovani che possono essere resi partecipi di opportunità (finanziamenti) a cui attingere per portare avanti idee non altrimenti realizzabili. E’ un buon modo per mantenere in vita tutta una serie di modalità operative in cui noi crediamo, nell’attesa che magari passi questo infelice periodo di austerità o che le stesse amministrazioni avviino localmente le trasformazioni culturali che auspichiamo. L.d.P.: A mio parere manca un aspetto importante, che è la fetta 134

degli adulti che dovrebbero valutare la bontà o meno dei progetti, e qui chiamo in causa i genitori, che dovrebbero essere dei testimoni privilegiati nel dire se e quanto a loro parere un’iniziativa, un centro giovani o altro giovi o meno ai loro figli. Ci sono dei soggetti adulti che andrebbero coinvolti dalla fase di progettazione ma anche di realizzazione e di verifica. Altro aspetto su cui riflettere è l’ambito scuola: “Vogliamo semplicemente “vendere” pacchetti o sviluppare empowerment?” Infine la comunità, con cui solitamente lavoriamo, taglia fuori alcune categorie importanti con le quali non riusciamo a creare partnership e, a causa di ciò, spesso indeboliamo gli stessi progetti sui quali impegniamo gran parte delle nostre energie (ad esempio lo Sportello Casa con 40 richieste e 3 assegnazioni, perché non abbiamo i contatti con le imprese edili). Dobbiamo pensare le comunità come soggetti più ampi. Torniamo perciò alla trasversalità, al tema del coinvolgere soggetti solitamente percepiti come estranei alle politiche giovanili.


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Introduzione Politiche giovanili: dai territori dell’agire alle consapevolezze pedagogiche “Giovani, destinatari o attori?” Di chi sono le politiche giovanili? Dibattito seguito agli interventi

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Le politiche giovanili dal punto di vista sociologico giuridico, economico e urbanistico 50 I laboratori 70 Laboratorio 1 “Giovani in transizione, tra vulnerabilita’ e capacitazione” 71 Laboratorio 2 “Sussidiarieta’ e giovani” 74 Laboratorio 3 “Spazi pre-occupati” 77 Laboratorio 4 “I giovani ed il lavoro” 79 Il programma Gioventù in Azione 85 Lo “Speaker Corner” 89 Tavola rotonda conclusiva 92 Brevi note sui relatori del Workshop 103 Appendice Welfare mix, welfare community Progetto Consulta Giovanile dell’Alta Padovana Est Progetto Pari Opportunita’ di Asolo Progetto Politiche Famigliari della città di Montebelluna

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Oltre il workshop: suggestioni e riflessioni nell’ambito delle Politiche Giovanili della cooperativa Il Sestante 126 Sommario

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