Graziella Priulla - Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo

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Collana

Lo scellino

Le parole delle donne e degli uomini contro la discriminazione e la violenza di genere. «Poiché c’è dietro la testa un posticino non più grande di una moneta da uno scellino, che non riusciamo mai a vedere da soli». (Virginia Woolf)


L’uomo è l’unico animale che arrossisce, ma è l’unico ad averne bisogno. (Mark Twain)


Graziella Priulla

Parole tossiche Cronache di ordinario sessismo


© 2014 Settenove edizioni Parole Tossiche. Cronache di ordinario sessismo di Graziella Priulla Progetto grafico di Tommaso Monaldi Settenove edizioni via don Minzoni, 44/E 61043 Cagli (PU) www.settenove.it Isbn 9788890860577 Stampato per conto di Settenove edizioni presso Geca Industrie Grafiche di San Giuliano Milanese (MI) nel mese di luglio 2014. L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli sia stato possibile comunicare, per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto. Tutti i diritti sono riservati, nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma e da qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, né fotocopiata, registrata o trattata da sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni senza il consenso scritto dell’editore. I trasgressori saranno perseguiti secondo le leggi vigenti in materia.


Sommario

7

L’inverno del nostro scontento

15

Il fascino discreto del conformismo

37

Il piĂš inattuale dei sentimenti

45

Sdoganamenti: la vittoria del trucido

65

Parole come armi

75

Nei dintorni del sesso

95

Incontri mancati

107

Il coso: quello che sfonda

121

La cosa: quella che accoglie

129

Sesso al lavoro

147

Diverso da chi?

163

Strumenti nuovi per vecchie prepotenze

173

Andare per un’altra strada



L’inverno del nostro scontento

Per capire questi tempi grigi e cattivi può essere utile interrogarci sugli automatismi verbali, cercare occasioni per riflettere sulle responsabilità pubbliche e private che abbiamo quando scegliamo certe locuzioni anziché altre. Ragionare sulle parole non significa coltivare speculazioni astratte: esse sono i sintomi, non le malattie, ma un medico deve pur leggere i sintomi, per curare le malattie. Travolti dall’utilitarismo spicciolo spesso ci limitiamo a pensare che la lingua sia solo un repertorio convenzionale di segni, dimenticando che è anche enérgeia, attività: codice di scambio, certo, ma anche processo che impercettibilmente e progressivamente struttura la nostra visione del mondo e la posizione che vi occupiamo. Che cosa significa comunicare? Una definizione che mi piace è: dischiudere uno spazio comune di relazione tra gli interlocutori. Si tratta di una prassi di responsabilità e di riconoscimento reciproco, di una prospettiva che


rifiuta l’idea del mondo come giungla e l’individualismo come chiave dell’etica. Ascoltare, capire, dialogare, mediare: l’arte della comunicazione è complessa e non si riduce a mere emissioni verbali. Se da una parte la lingua descrive, dall’altra pre-scrive e soprattutto pre-forma, ovvero determina. Delimita il possibile e lo costruisce, esprime gerarchie e le costruisce. Le parole non sono strumenti inerti, ma definiscono l’orizzonte nel quale viviamo: noi siamo le parole che usiamo, la lingua ci fa dire le parole cui la società l’ha abituata. Può essere usata per rispettare o per disumanizzare e per stimolare comportamenti, civili o incivili: bisogna prestarvi attenzione perché è il mezzo privilegiato attraverso cui costruiamo i significati. Una costruzione condivisa da altri che, se non è socialmente delegittimata, sarà imitata. Una società in cui si possa insultare o denigrare un essere umano senza essere giudicati male è a rischio di barbarie e testimonia un fallimento delle agenzie regolative. In Italia esiste, e negli ultimi decenni abbiamo permesso che diventasse forte, una cultura razzista, omofoba, sessista, che amplifica i borborigmi della pancia del paese, che nessuna political correctness riesce a debellare. Affermare che la violenza verbale è culturalmente legittimata non equivale a sostenere che la violenza rappresentata scateni tout court la violenza reale; significa suggerire che essa circola nelle rappresentazioni, scavalca i confini tra potenziale e attuale, si sedimenta negli schemi percettivi, tanto più pericolosi quanto meno visibili. Fra la violenza verbale e il suo sviluppo in quella fisica dovrebbe stare il rigetto sociale, e con esso sia le leggi che da tale rigetto sono motivate, sia la riprovazione esplicita nei contatti quotidiani. Ogni produzione di senso si svolge in un contesto. Del linguaggio non fanno parte soltanto le strutture fone-


tiche, morfologiche, sintattiche, lessicali, testuali: un ruolo importante è giocato dai registri della comunicazione, il cui numero è illimitato. Nei registri – parola tratta dalla terminologia musicale – si estrinseca la varietà dei linguaggi: il loro impiego dipende dal tipo di rapporto che esiste tra emittente e destinatario e dal tipo di occasione sociale in cui si svolge la comunicazione. La pragmatica parla di registro aulico, colto, medio, colloquiale, familiare e popolare. Il principale parametro di differenziazione è il grado di formalità della situazione, per cui – attraverso una scala – si contrappongono i registri alti, formali, a quelli bassi, informali. La formalità è codificata dalle norme sociali più o meno esplicite che regolano le interazioni: vale per le parole e vale per i comportamenti (presentarsi a scuola in mutande o mettersi le dita nel naso a tavola non è un’offesa alla pudicizia, ma a quel rispetto verso l’altro che anche le forme esprimono e tutelano). Chiacchierare al bar, tenere una lezione all’università, fare un’arringa in tribunale o telefonare alla fidanzata sono attività che richiedono messe in opera differenti delle possibilità offerte dalla lingua. Ci si esprime diversamente non solo scrivendo o parlando, ma parlando a scuola o all’osteria, in un incontro d’amore o in una riunione di condominio, rivolgendosi a un superiore o a un compagno, a un vecchio o a un bambino. Cambiano le scelte lessicali: vocaboli diversi possono avere significato simile ma appartenere a registri diversi. I dialettismi danno spessore e sapore alla lingua quotidiana ma sono inopportuni nelle situazioni ufficiali. Cambia la sintassi: il passato remoto ad esempio si usa ormai solo nei registri alti; nel parlato comune purtroppo l’indicativo tende a sostituire il congiuntivo («credo che sei»), il presente sostituisce il futuro («domani vado»); «gli» per «a lei» è tollerato nel registro colloquiale.


A teatro si può ridere della battuta volgare di un comico; se ripetiamo la stessa battuta in un altro contesto e in altre vesti le cose cambiano. Il registro è condizionato dalle intenzioni dei partecipanti alla comunicazione oltre che dalla loro competenza comunicativa. La stessa espressione può essere destinata a infastidire o a far sorridere, a provocare o a stimolare. I motivi delle varianze sono numerosi: a volte hanno lo scopo di richiamare l’attenzione; altre volte l’intenzione è quella provocatoria di trasgredire, o quella aggressiva di prevaricare, di umiliare; in altri casi, più innocenti (si pensi al baby talk, il linguaggio bambinesco), si cerca invece di mettersi sullo stesso piano dell’interlocutore. Queste sono scelte che possono avere ragioni psicologiche e/o culturali ma che sono comunque soggette a limiti, all’interno di un campo che la società ha costruito e che sovrasta e ingloba il soggetto che parla. Il rispetto dei registri è un atto di cortesia che rende più umani i rapporti, oltre a essere una dimostrazione di intelligenza (l’intelligenza, anche tra gli animali, è per definizione la capacità di adeguarsi all’ambiente e alle circostanze). Chi non sa o non vuole usare i registri appropriati crea situazioni d’imbarazzo, può ferire od offendere. Come tutte le cose umane, la lingua evolve e muta, ma questo non comporta necessariamente che si corrompa. I linguisti annotano che da qualche decennio è avvenuto un capovolgimento: mentre in passato l’italiano era deficitario negli ambiti informali, ora è carente per gli usi formali. In questa lingua semplificata trionfa l’informalità indifferenziata anche nella comunicazione non familiare; ciò potrebbe essere il segno di un’avvenuta democratizzazione, ma spesso assume i connotati di una neopovertà, non più economica ma espressiva e culturale. Un tipo di povertà che si avvita su se stesso, perché chi ne è portatore


è inconsapevole della deprivazione di cui soffre; è impossibile far emergere un problema se non lo si riconosce e se non si possiedono strumenti per individuarlo. È lo spettro della regressione culturale. Non è detto che un passaggio d’epoca sia glorioso né che sia dignitoso: lo dimostrano i frammenti che cerco di cucire in questo lavoro, spigolati dalle cronache recenti del nostro paese. Anch’essi spiegano l’Italia e il suo declino. C’è un vento di violenza nell’aria e circolano sentimenti feroci: il linguaggio lo segnala. Magari ipocrita, il «politicamente corretto» discendeva dall’intenzione virtuosa di far convivere le diversità, di diffondere tolleranza. Per questo – non certo per considerazioni lessicali – le destre populiste, interessate a suscitare fobie sociali, lo odiano. L’idea che le istituzioni si debbano aprire alle peggiori pratiche della quotidianità per essere più vicine al popolo è povera e inefficace. C’è bisogno piuttosto di consapevolezza della complessità del mondo. Credo poco alle virtù del parlare francamente: molto spesso ciò vuol dire affidarsi alle abitudini più facili, alla pigrizia mentale, alla fiacchezza delle espressioni banali. Italo Calvino, Una pietra sopra Qualcosa sul piano civile è cambiato. Fare le corna in un consesso internazionale non è da considerare reato, non è un attentato alla morale, ma neppure simpatico folklore: è un atto culturalmente regressivo. Possiamo immaginare nel 1946 Alcide De Gasperi alla Conferenza di pace di Parigi che – mentre dice: «Sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me» – fa le corna? Il leaderismo finto-plebeo congiunto al voyeurismo


televisivo ha forgiato una rozza mitologia della spontaneità, per cui l’abolizione dei freni inibitori si fa passare per rivincita degli umili o per rifiuto del perbenismo: sbandierata nei comizi, ostentata nei talk show, sgangherata fino all’impudicizia nei reality, questa vantata spontaneità ha riempito le nostre orecchie di parolacce e le nostre teste di luoghi comuni. Non tutti si accorgono che essa lascia inalterati i ghetti creati dalle vicende sociali e che la volgarità compiaciuta della propria arroganza condanna alla mediocrità e alla subalternità. Che a forza di sciatteria generalizzata e di sottovalutazione del rispetto, dell’attenzione, della precisione e della cura, questo paese ha finito per avere un pessimo paesaggio, dei pessimi professionisti, una pessima politica. La congruità dei contenuti, la sensatezza dei pensieri, la logica degli interventi non trovano più consenso e lasciano il campo all’esibizione di potenza, alla violenza della retorica, alla prosopopea, al protagonismo e a una buona dose di disprezzo dell’avversario, il tutto camuffato da «passionalità». Mentre ci abituiamo allo stravolgimento e all’uso feroce del linguaggio il nostro palato si fa più insensibile e la nostra soglia di disagio si abbassa. Alla fine sopporteremo di tutto. È accaduto in questi vent’anni, con un’azione continua e dunque impercettibile. A forza di dosi quotidiane di fobie sociali, siamo già assuefatti/e? Anche le persone più educate rischiano di diventare scortesi, rinunciando alla ricerca di una comunicazione pacifica.1 Il contrario di assuefazione è reazione. Ci mancate, parole buone. Tornate a dirci chi siamo e come siamo! Un lessico attento non può risolvere un problema ma permet1. Cfr. G. Turnaturi, Signore e signori d’Italia. Una storia delle buone maniere, Milano, Feltrinelli, 2011.


te alla società civile di accordarsi su cosa sia accettabile e cosa no, e fornisce strumenti per individuare le contraddizioni. Nel 1988 è nato a Tokyo il Movimento mondiale per la gentilezza, che promuove l’attenzione verso il prossimo; ha celebrato il suo più recente congresso a Singapore e ha una sezione italiana visitabile nel sito Gentilezza.org. Verso queste iniziative si potrà essere scettici, accusarle di buonismo, ma il fatto stesso che qualcuno abbia sentito l’esigenza di creare un movimento simile merita una riflessione. Le abitudini cortesi semplificano la vita, gratificano, distribuiscono minimi segnali di quel riconoscimento di cui tutti abbiamo bisogno: perché dovremmo privarcene? Non è solo una faccenda di educazione formale: è un problema politico, di frustrazione individuale e di anomia sociale. Anche la conversazione «noncurante» – così chiamata perché si riferisce alla routine di un mondo dato per scontato – non ha alcuna innocenza, perché più di quella preparata svela ciò che è dentro ciascuno di noi, il nostro livello di accettazione delle regole di una, magari scherzosa ma solidale, convivenza. È soprattutto attraverso innumerevoli interazioni inavvertite che i bambini acquisiscono, soprattutto per imitazione, le competenze riguardo a quando parlare e quando tacere, e riguardo a che cosa dire, a chi, quando, dove, in che modo. La maleducazione può esser messa in conto, purché non diventi regola. La retorica del «così fan tutti» non può essere una scusante ma un’aggravante, è la soglia di una nuova inciviltà, anche se proviene da fonti insospettabili. La forza del numero non rassicura ma turba: è proprio attraverso processi simili che la corruzione sistematica diventa «debolezza umana comprensibile», i ladri diventano «birbantelli», gli scandali «scherzetti allegri».


La volgaritĂ vende piĂš del buon gusto, va incontro alle richieste del mercato: sennonchĂŠ quel mercato siamo noi, il nostro paese, i nostri figli.


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