LA MIA VOCE FUORI DAL CORO INTERVISTA A PASQUALE “SQUAZ” TODISCO a cura di Guglielmo Nigro
Nelle giornate di lunedì 21 e 28 settembre 2015 ho incontrato Pasquale “Squaz” Todisco a casa sua. Avevo in mente da tempo di condurre con lui una lunga intervista, che ripercorresse tutta la sua carriera di fumettista. Ci siamo quindi presi tutto il tempo, abbiamo sorseggiato delle tisane alla cannella, e ci siamo dedicati a una delle facoltà che piacciono di più all'essere umano, il racconto. In questo caso, il racconto di un pezzo di vita, quella di Squaz, ha seguito cronologicamente la pubblicazione dei suoi lavori, ma ci ha offerto anche l'opportunità di aprirci a diverse considerazioni sul ricordo, sul fumetto, sulla società e la creatività. Per queste ragioni, sono convinto che leggere per intero questa lunga intervista possa essere interessante per conoscere meglio un autore originale, che ha ancora molto da raccontare, e che forse deve ancora riservarci il meglio della sua produzione negli anni a venire.
Squaz (Pasquale Todisco) è fumettista e illustratore nato a Taranto nel 1970, ha collaborato con alcune delle maggiori riviste italiane (XL di Repubblica, Frigidaire, Rolling Stone, Inguine Ma(h(gazine, Il Male, Linus, Internazionale, La Lettura). Ha realizzato disegni e copertine per Feltrinelli, Yoox.com e Cohn&Wolfe, e per vari musicisti tra i quali Tsigoti, Daniele Sepe e Caparezza. E’ autore di graphic-novels come “Pandemonio” (su testi di Gianluca Morozzi), “Minus Habens”, “Dimmi La Verità” “Macchina Suprema” (in collaborazione con Gianluca Costantini e Armin Barducci, su testi di Giovanni Barbieri) e “L’Eredità”. Il suo ultimo libro è “Tutte Le Ossessioni di Victor” su testi di Davide Calì. Con il collettivo DUMMY ha pubblicato il volume a fumetti “Le 5 Fasi”.
GLI INIZI Comincerei dall'inizio. Come ti sei avvicinato al disegno e alla narrazione per immagini? Che studi hai fatto? Avevi qualche familiare che già si esprimeva in questo ambito? Non ho avuto nessun esempio in famiglia. Una famiglia normale, di insegnanti che lavoravano nella scuola pubblica. Mi sono avvicinato ai fumetti da lettore. Con cosa? Mah, i primissimi sono stati i supereroi Marvel, tramite un cugino che ne aveva la casa piena. Quindi periodo Corno? Si, gli Eterni di Kirby, sono stati tra le primissime cose. Anche se a quel tempo Kirby non mi piaceva molto e l'ho recuperato dopo. Gli preferivo Romita che aveva un segno più rassicurante. Che fesso che ero! Poi l'Uomo Ragno, Capitan America, tutto il mondo Marvel… e ancora, tramite l'Editoriale Corno, Alan Ford. Che è stato l'incursione nel grottesco. Quindi Magnus? Certo, Magnus. Anche se ho iniziato che Magnus non disegnava più Alan Ford. Alle matite c'era già Piffarerio, che però riprendeva gli stilemi di Magnus. Poi, a ritroso ho ripreso gli “originali”. Sto tralasciando Topolino. Ma i fumetti che mi hanno fatto venire voglia di disegnare sono stati i supereroi. E anche Lucky Luke del quale ho ritrovato di recente i vecchi volumi con i segni delle tavole ricalcate. Le ricalcavo proprio con la carta copiativa. Perché hai iniziato a disegnare? Come hai trovato il gusto di studiare e sperimentare? Ma io l'avevo anche un po’ perso il gusto di disegnare fumetti. Forse perché ci sono stati anni in cui non ne ho più letti. C’erano i cartoni animati in televisione e io guardavo (e disegnavo) quelli. Dai 15 ai 18 anni poi non ne leggevo proprio più. Ero diventato quasi troppo grande per i supereroi e non trovavo qualcosa che fosse adatto alle mie necessità.
C'è un libro di Linda Berry (Picture This), un'artista americana, che ha realizzato un lavoro molto artistico dove ripercorre i motivi per cui i bambini smettono di disegnare. Lei sostiene concettualmente che da piccoli tutti i bambini hanno voglia di disegnare, poi ci sono tutta una serie di motivi, soprattutto di tipo educativo, che ti portano a smettere di disegnare. Per esempio mi hai fatto venire in mente che Linda rappresenta ironicamente il ricordo di sua madre che la sgridava quando si metteva a colorare le figure. Quindi la mia domanda è, perché non hai smesso di disegnare? Anzi hai ricominciato a farlo? Io ho smesso più che altro di leggerli, e quindi di nutrirmi. Credo che il passaggio per cui dal disegno del bambino sia diventato qualcos'altro sia dovuto al fatto che ho avuto sempre dei riscontri di apprezzamento sia in famiglia che fuori, per esempio tra i compagni di scuola. Avevo lo status del bravissimo disegnatore e questo rinforzava la mia identità. Cosa che sta succedendo anche con mio figlio, peraltro.
Ho visto delle cose che hai pubblicato in coppia con tuo figlio. (Ride) Quello è più bravo di me! Io sono stato incoraggiato in quel senso. Non erano più cose da bambino, e mi sembrava una cosa importante che sapevo fare solo io.
Allora dove vivevi? A Taranto. Ho vissuto lì fino ai 18 anni. E che tipo di clima culturale ed educativo c'era allora a Taranto? Taranto era ed è una città di tipo industriale, alcuni dicono a vocazione industriale, ma in realtà lo dicono quelli che l'industria ce l'hanno messa. La vocazione non l'ha mai avuta (ride). Era una città che aveva conosciuto in tempi relativamente recenti il benessere economico perché tutti lavoravano. Ovviamente era monotematico, perché lavoravano tutti o all'ex Italsider ora Ilva, o alla Marina Militare, sia come militari che come civili. Era una città monoculturale da quel punto di vista. Che io ricordi, di spazi artistici non ce n'erano. Non ce n'era la necessità perché tutti si preoccupavano di dover comprare la lavatrice. E dei tuoi compagni che ricordi hai? Non lo so, io ricordo che andavamo a casa uno dell'altro a giocare. In genere, sono ricordi felici. Ma ricordo anche di bambini che non avevano proprio nulla. Io ero un privilegiato rispetto a loro. Facevo parte di una famiglia media, di insegnanti, benestanti e con degli strumenti culturali in più. A volte andavo a casa di compagni che avevano un solo giocattolo e si facevano bastare quello che avevano. Oppure avevano situazioni familiari pesanti, insomma. Mi ricordo il padre di un bambino che mi terrorizzava. Sembrava una persona violenta, mi incuteva paura. Mi confrontavo con mondi diversi da quelli di casa mia. Poi tornavo a casa e tiravo un sospiro di sollievo. Qui da noi, oggi, vedo più omogeneità. O siamo diventati tutti poveracci allo stesso modo oppure siamo tutti un po' benestanti. Quando hai ripreso a disegnare fumetti? A che età? Verso i 18 anni. Avevo smesso di leggere, come dicevo. Quindi mi dedicavo più al disegno che alla narrazione. E cosa disegnavi in quel periodo? Fino agli 11/12 anni io copiavo proprio Magnus. I nasi, i trattini, le orecchie. I vezzi. Le dita tutte della stessa misura, l'indice uguale al medio. Ma anche Topolino. Copiavo tutti perché stavo assimilando. Sono stato uno di quelli che ha mandato la lettera a Topolino con il disegno. E l'ho anche citato tempo fa perché proprio mentre stavo facendo uno di questi disegni ci fu il terremoto dell'Irpinia del 1981. Disegnavo Topolino quando iniziò a tremare il lampadario. Noi vivevamo al settimo piano e i palazzi sembravano dei metronomi. Avevo appunto 11 anni. Quindi Topolino me lo sono portato avanti un bel po'. Hai sempre avuto interesse solo per i fumetti, o anche per altre forme di disegno? No, sempre legato ai fumetti. L'imprinting è stato quello lì. Non nutrendomi più di fumetti tra i 14 e i 17 anni avevo perso lo stimolo a raccontare per immagini. Mi limitavo a disegnare e basta. Il tratto era sempre fumettistico. A volte, disegnavo le statue e quello che vedevo in giro. Avevo sempre qualcosa con cui disegnare. È sempre stata la mia forma di autogratificazione. Ti ricordi le prime storie che hai realizzato? Sì, le abbiamo anche messe su internet con Marta Cerizzi sul blog da lei curato, Ciucci, che ha pubblicato i disegni dell'infanzia di molti fumettisti (http://ciucci.blogspot.it/2008/10/squaz.html). Parodie dei supereroi esistenti in storie umoristiche. Avevo nove anni. C'era l'Uomo Bagno contro Bulk, che poi spillavo e vendevo a mia madre. Avevo già tracciato la strada dell'autoproduzione (ride). Riprendevo un'idea che già la Marvel faceva, con le parodie di poche pagine. Poi ho ricominciato a leggere fumetti con Pazienza, a 18 anni. Era già il 1988. Mi sembra che Pazienza fosse già morto. Ho recuperato Pazienza e lì mi è tornata la voglia di raccontare per immagini.
E hai copiato anche Pazienza? Eh, a voglia. A riuscirci! (ride) Che cosa è rimasto di quelle matrici? Di Magnus mi sembra evidente l'influenza, nella linea pulita, nella ricerca fortemente iconica del tratto, soprattutto quando era costretto a semplificare e correre per rispettare le consegne. Mi sembra tu sia interessato più a un tratto iconico che decorativo. Sì, e più passa il tempo e più mi interessa l'essenziale che il bel disegno. Voglio raccontare con meno segni. In quale momento hai pensato di poter fare davvero l'autore di fumetti? Tardi, perché non avevo nulla da raccontare, prima. Il fumetto ha bisogno di storie e personaggi. A me non venivano in mente. Quindi ho fatto una scuola di illustrazione per vendere i miei disegni e le mie illustrazioni. A 18 sono venuto a Milano per fare l'Istituto Europeo del Design e sono rimasto a Milano da allora. È stata una scelta appoggiata dai miei genitori che mi hanno pagato il corso e la trasferta. Ho fatto tre dei quattro anni previsti. L'ultimo anno era legato più a come costruire un portfolio e relazionarsi agli editori e ho deciso di non farlo, che avrei potuto imparare da me. Avevo bisogno di imparare le tecniche. E ho fatto l'investimento per costruirmi una professione soprattutto nell'ambito dell'illustrazione. I miei primi anni alla fine della scuola sono stati da illustratore. Ho lavorato per la San Paolo editore, per un semestrale che si chiamava il Millimetro. Facevo le illustrazioni a corredo degli articoli. Poi collaborai per un'altra rivista milanese, tipo rivista di strada, distribuita in modo gratuito. Si parlava di tutto. Focalizzata sulla città di Milano (Milano Magazine).
Che stile avevi allora? Usavo gli ecoline, i colori ad acqua. Pasticciavo con i pennelli. Stavo cercando uno stile. Non ricordo a cosa guardassi in quel periodo, credo a Folon. Nel tempo ho fatto cose sempre pi첫 raffinate e commerciali. Non mi riconosceresti per nulla. Quel lavoro mi ha portato poi a definire uno stile che mi ha permesso di lavorare per il Diario della Settimana di Enrico Deaglio.
Illustrazione professionale con ecoline
Come hai avuto il contatto con Deaglio? Sono andato a Roma, ho presentato il mio book, come ci insegnavano a scuola. Ho lavorato con il Diario per qualche anno. Poi con ditte che avevano bisogno di brochure. Tra l'altro, Paolo Interdonato (http://sparidinchiosto.com) lavorava per una di queste. Lui ha scoperto tempo dopo che i disegni che trovava sulle brochure erano i miei (ride). Poi sono entrato in contatto con il mondo del fumetto. I primi contatti quindi quali sono stati? Autori o editori?
Autori. Gli editori li ho conosciuto tardi. Il primo con cui sono entrato in contatto è stato Alessandro Staffa (Alepop), incontrato a una festa di Legambiente dove entrambi facevamo i volontari. In provincia di Livorno. Conobbi poi Diavù. Insieme stavano facendo la rivista Katzivary. Così ho conosciuto la scena underground di Milano, quindi Marco Teatro e Stefano Vandalo e compagnia bella, con i quali è stato realizzato l'Happening Underground nei vari centri sociali, per approdare infine al Leoncavallo. Nel frattempo io non avevo ancora pubblicato un solo fumetto. E siamo nel 1993, mi sembra. Quasi contemporaneamente avevo iniziato a fare i miei primi racconti brevi con Interzona, la fanzine di Torino. Il primissimo fumetto uscì però con Schizzo del CFAP (Centro Fumetto Andrea Pazienza). Interzona ha iniziato a pubblicarmi regolarmente ma ero irriconoscibile. Adesso sto guardando Entertainment che raccoglie le tue prime storie e vedo uno stile già riconoscibile. Sì, quella raccolta contiene le prime storie che hanno segnato il mio cambiamento di stile. Ma non sono le prime in assoluto. Entertainment è uscito nel 2005. Sono storie che hai realizzato appositamente per il volume? Illustrazione per l'Happening Underground No, le avevo già realizzate in precedenza, ma di poco. La collana al Leoncavallo di Milano per cui è uscito Entertainment che si chiamava Nonzi faceva numeri tematici di collettivi di fumettisti ed era curata da Valerio Bindi e Alessio Spataro. Una storia era già uscita in un numero di Nonzi. Io avevo realizzato altre storie per futuri numeri che però non uscirono mai. Quindi il tuo stile nasce intorno al 2003, 2004? E cosa ti ha portato a questa definizione, che in parte è visibile ancora oggi? Penso a un certo modo di usare la prospettiva, i baloon ricercati, il segno molto pulito... All'epoca quelli che mi piacevano come disegno erano Charles Burns e Stephane Blanquet. Dei quali però non mi interessava più di tanto riprendere le tematiche. Non cercavo il delirio, ma qualcosa di più fermo e controllato. Alcune cose forse le ho riprese da Igort, Carpinteri e dal gruppo Valvoline. In ogni caso ero stufo dell'indeterminatezza del mio tratto e ho fatto scelte chiare. L'influenza di Charles Burns è sempre molto forte. É un fantasma da cui cerco di liberarmi ogni volta, certo. E cosa ti ha colpito così tanto di lui? Visto che la definizione del tuo stile è nato intorno ai codici visivi di Burns, per certi versi? Quando ho visto Burns ho pensato che stava facendo proprio quello che avrei voluto io. All'inizio io l'ho ripreso completamente. Utilizzavo il suo segno ma raccontavo storie diverse. Avevo però una sensibilità diversa. Quando leggi Burns spesso sembrano fatte da un robot. Sono fredde, come se il fattore umano fosse stato rimosso. Mi ricorda un po' Martin, come freddezza, come distanza tra i personaggi e il lettore. Sì, in parte è così. Non credo sia del tutto vero che non si crei empatia con il lettore. Ma è un processo ambiguo. Sì, mi sembra ci sia una sorta di ambivalenza. Toccano da un punto di vista anche simbolico delle parti di noi disturbanti al punto che devi prenderne le distanza. Quindi o sono troppo forti o troppo fredde. Poi credo che Burns usi un'essenzialità che fatica a trasmettere un altro stile o altre forme, magari più decorative. Forse sì. Ma a me interessava poco la freddezza. Le mie storie erano per lo più gioiose. Nonostante un segno così pulito e forte. Mi interessava l'ordine, la pulizia e che le storie arrivassero in modo molto dritto. Cosa che non mi è riuscita all'inizio. Perché tendenzialmente io divagherei continuamente. Ci sto lavorando ancora tutti i giorni. Charles Burns
Nella costruzione del tuo stile, mi sono però perso un passaggio. Quando hai iniziato a trovare le idee per raccontare qualcosa di tuo? Avevo bisogno che qualcuno mi trovasse un tema su cui lavorare, come nella rivista Nonzi. Era un bell'esercizio, per superare l'incubo del foglio bianco. Credo ci siano due strade. Quella in cui le persone non hanno ancora un proprio stile definito o un disegno maturo ma hanno molte storie da raccontare... O il processo inverso. SÏ, io nasco come disegnatore prima ancora che come narratore.
IL PRIMO LIBRO, IL PRIMO SUCCESSO E quindi l'incontro con Gianluca Morozzi per Pandemonio com'è nato? È stato un incontro combinato (ride). Siamo nel 2006. Ho lavorato a Pandemonio per 5 mesi. Pochissimo rispetto ai miei standard. Il libro me lo permetteva. Avevo scelto impaginazione libera, splash page, disegno sintetico. Magari non c'entra nulla, ma a riguardarlo adesso con te mi viene in mente Città di Vetro di David Mazzucchelli. Ah, quello ce l'ho avuto sempre in mente. Uno dei miei libri preferiti. E ce l'avevo proprio in mente per questo libro qua. Torniamo all'incontro con Morozzi. All'epoca la Fernandel per cui è stato pubblicato Pandemonio aveva creato una collana di libri a fumetti che ha realizzato un po ’ d i c o se . Gianluca Costantini, James Kotchalka, Phoebe Gleckner. E siccome l'art director della collana era Costantini, ha voluto contattare me per avviare una collaborazione con Morozzi che era uno degli autori di punta di Fernandel. Volevano inaugurare la nuova collana con un nome di richiamo (il nome di Morozzi, cioè!).
E come avete lavorato? Benissimo, i nostri scambi sono stati brevi e proficui. Lui mi ha dato i testi definitivi, che erano dei racconti brevi nella forma in cui sono stati pubblicati anche alla fine del libro. Io li ho illustrati. Erano racconti che aveva nel cassetto Una pagina di City of Glass di Mazzucchelli e Karasik e da tempo avrebbe voluto farli trasporre a fumetti. Ha creato un filo conduttore, un pretesto, che è quello del condominio all’interno del quale si svolgono varie storie e me li ha lasciati da fare. Io volevo fare una cosa deragliante, lui mi ha detto ok. E io gli ho detto, “ci penso io” (ride). Ho anche proposto il titolo e via. Tutto è filato via velocemente. Gli ho solo chiesto in una particolare sequenza di trasformare un racconto in forma di dialoghi, anziché di racconto in prima persona. Qui è già presente una tua caratteristica che torna in altri tuoi lavori, come l'ultimo che hai fatto con Davide Calì, Tutte le Ossessioni di Victor, dove anche qui si parte da racconti. E come sai Tutte le Ossessioni di Victor nasce anche un po’ da Pandemonio perché Calì mi ha coinvolto proprio per quello. In ogni caso ritorna questa impostazione che è spesso più di tipo letteraria che fumettistica. In Pandemonio utilizzi i balloon ma in chiave di flusso di coscienza, o stratagemma per sviluppare la narrazione, ma non sono dialoghi veri e propri. Insomma hai un trattamento dei dialoghi e della costruzione della narrazione che è poco costruita come normalmente avviene in un fumetto, che sfrutta la “recitazione” e la messa in scena di personaggi che dialogano tra loro mentre si svolge la vicenda. Tra l'altro, a proposito di quello che si diceva prima sulla narrazione calda o fredda, questo è un modo di raccontare che tende a “raffreddare”, perché ti sposta su un piano più intellettuale, rende la narrazione più statica, ecc. Come mai queste scelte? Non lo so. Può darsi che in questo giochi il fatto che sia nato come disegnatore prima che come storyteller. Tutto quello che c'è da imparare su montaggio, costruzione dei dialoghi e così via li ho imparati mano a mano e li sto imparando ancora adesso. Fino a quel momento, l’aspetto della recitazione dei personaggi non mi interessava proprio, ad esempio. Cercavo altro. Probabilmente, solo con L’Eredità che è l'ultimo libro da me realizzato in ordine di tempo sono arrivato invece a confrontarmi con quello che è il fumetto vero e proprio. E forse neanche fino in fondo.
È un approdo, quindi? L’Eredità? No, non credo. Non ancora. All’epoca di Pandemonio poi cercavo ispirazione da altre forme, dalla pittura alla musica. Probabilmente, più di quanto faccia adesso, non lo so. In Pandemonio per esempio oltre a Città di Vetro ho tratto molta ispirazione dalla musica. In particolare, ricordo, pensavo a Bill Laswell. Avevo insomma spesso riferimenti extrafumettistici. Che non è detto che fossero poi evidenti nel mio lavoro, ma c’erano. Mi accompagnavano.
Qual è la difficoltà di raccontare con immagini e dialoghi? Intanto la qualità del dialogo. Chi fa lo sceneggiatore sa che è difficile fare in modo che le due cose si sostengano a vicenda. Riuscire a fare in modo che i dialoghi siano freschi, che non appesantiscano troppo il disegno, che abbiano anche il giusto spazio grafico. Sono cose su cui passerei ore e ore. Su L'Eredità ci ho lavorato moltissimo. I dialoghi hanno avuto numerose revisioni, limature e riscritture da parte mia. All'epoca di Pandemonio invece ero molto più impostato sull'immagine. In Pandemonio c'è una buona capacità di raccontare in sequenza, ma meno quella di costruzione di una vera sceneggiatura. È vero, anche se io ho ricevuto dei racconti. Non ho voluto farne una trasposizione, ma una fusione efficace con il disegno, rispettando completamente il testo originale. Da qui l'espediente per esempio dei balloons che vengono utilizzati in modo improprio, perché non contengono dialoghi veri e propri ma svolgono la funzione più grafica che narrativa di portare avanti il racconto? È un balloon simulato, “posticcio”. Sì, forse è così. Ma il balloon è posticcio per natura, a pensarci. E come è stato recepito Pandemonio quando è uscito? Molto bene. Critiche molto positive. Premio Micheluzzi al Napoli Comicon che non mi aspettavo proprio. Quindi lì ti sei illuso di diventare una superstar del fumetto? Sì, iniziavo a regalare champagne (ride)! Però no, mi sembrò un ottimo inizio, visto che era il mio primo vero lavoro lungo.
Ti va di tornare a Città di Vetro, per un attimo? Anche qui siamo di fronte a una trasposizione di un romanzo, scritto da Paul Auster, realizzata da David Mazzucchelli e Paul Karasic. C'è un trattamento di codice importantissimo che per certi versi migliora la fonte originale. Come ha influenzato il tuo lavoro su Pandemonio? Le immagini e le sequenze sono scollegate dal testo, non sono didascaliche. Sono piuttosto sequenze che trattano il tema e lo controbilanciano. È proprio come se Mazzucchelli amplificasse il significato del testo, che tra l'altro è tutta una grande riflessione sul linguaggio. È una moltiplicazione di significati. Sì, è un lavoro molto efficace. Espandere il significato del testo con il disegno è proprio quello che ho cercato di fare. Un approccio formalistico, per certi versi. Intendendo un approccio nel quale la forma del disegno, delle tavole e l'utilizzo dei segni è curato al punto da moltiplicare il senso di quello che si sta leggendo. Com'è che sei diventato un formalista (ridiamo)? Che è un tuo punto di forza e, a volte, può diventare una debolezza! Squaz premiato al Comicon di Napoli, in questa foto accanto a Miguel Angel Martin
Non lo so. È un gioco intellettuale, che può in effetti cadere nell'intellettualismo. Non sei l'unico che me lo dice. Rischio di non essere capito o di emozionare poco. È vero. D'altra parte la mia reazione per superare questo rischio è stata quella di andare verso il nonsense. Se non mi capite faccio cose che non si capiscono. Come in Dimmi la verità. È forse il tuo libro più complesso. Sì, se cerchi di trovarci un contenuto. Altrimenti è un lungo viaggio in diversi temi. C'è dentro di tutto, le barzellette, racconti d'infanzia. Anche se è la forma meno canonica di narrazione che hai esplorato Assolutamente, io lì ho improvvisato giorno per giorno.
LA FILASTROCCA PER ADULTI DI MINUS HABENS Pandemonio ha avuto la forza di partire da una storia costruita da un narratore. Tu avevi gli strumenti per raccontare ma un po' ti mancava il cosa. Quindi hai valorizzato questa opportunità. Il formalismo a volte nasconde un vuoto dal punto di vista dei contenuti. La grande attenzione alla forma a volte nasconde la mancanza di idee di fondo. Quindi mi interessa capire come sei passato da un libro come Pandemonio a Minus Habens, ovvero a una tua storia lunga? Mi fai delle domande difficili. Io non so dire da dove nascano le storie. Fatto sta che, a un certo punto, la storia mi è “arrivata”. Certo, ma cosa è scattato dentro di te? Cosa ha portato alla necessità di raccontare una tua storia lunga? Questo passaggio è interessante, per capire come ci hai lavorato. Io avevo la necessità di trovare una storia mia, dopo Pandemonio. Avevo dimostrato di saper raccontare con le immagini ma non ancora come autore completo. Quindi ho provato con Minus Habens, che è nato da un disegnino del personaggio, Romeo, accanto al quale avevo iniziato a scrivere delle rime. Doveva essere una cosa di poche pagine. Poi mi è venuta voglia di ampliarla sempre di più, e ho pensato di poter sfruttare questa opportunità. All'inizio poteva essere una cosa per bambini, molto semplice. Ma poi mi è cresciuta tra le mani e si è trasformata in una storia forte. In questo caso il testo è venuto molto prima dei disegni. Ho terminato prima tutta la filastrocca, perché la parte facile era la parte visiva, per così dire. Anche tutta la narrazione è uscita mano a mano. Non era stata tracciata prima.
Quindi questo è un po' un tuo metodo di lavoro, che ritorna anche in Dimmi la Verità, per esempio. Evidentemente sì, ma non è un metodo che mi sento di propagandare (ride). Però la trovo una maniera organica di lavorare. Che poi puoi risistemare nel tempo. Finora non ho mai realizzato prima un soggetto e poi uno storyboard ecc. Tutto questo rivela che in qualche modo sono diviso. Da un lato cerco il formalismo e l'ordine, ma dall'altra parte sono molto guidato dall'improvvisazione. Che però richiede molta preparazione. Si, se pensiamo per esempio all'improvvisazione jazzistica. Esatto, pensavo proprio a questo. Puoi fare l'improvvisatore se hai molta tecnica. Anche se io tutta questa tecnica devo ancora dimostrare a me stesso di averla! (ride) Quindi per certi versi mi sembra di aver fatto il passo più lungo della gamba. Se lo rifacessi oggi sicuramente sarei più efficace. Lo rifarei perché è un approccio che mi entusiasma. Però se avessi seguito una logica di sviluppo e di maturazione avrei aspettato. Anche nel rapporto con i lettori. Perché forse ho chiesto molto a loro e ho cambiato così tante volte approccio che è difficile essere riconosciuto. Capitalizzo poco, diciamo così. Ne parlavo anche con Paolo Bacilieri diversi anni fa. Aveva fatto molti libri diversi, anche folli, e non era ancora abbastanza riconosciuto dai lettori. Se ogni volta cambi, rischi molto, vista anche la situazione economica in cui ci troviamo.
UN SALTO IN AVANTI ALL'ULTIMO PREMIO Senti, è notizia di oggi il premio al Treviso Comic Book Festival come miglior sceneggiatura a Davide Calì per Tutte le ossessioni di Victor, che è il libro di cui hai fatto tutta la parte grafica (per la cronaca, vittoria ex-equo con Roberto Recchioni per Dylan Dog). Intanto, era stato candidato il libro? Come funziona? Il libro era nelle selezioni. Fanno delle selezioni e tra i pochi titoli rimasti scelgono i vincitori.
Premiazione a Treviso
A microfono spento dicevamo che è un po' particolare il fatto che sia stato scelto come migliore sceneggiatura il lavoro di Davide che in realtà non nasce come una sceneggiatura vera e propria.
Si tratta di una successione di racconti, scritti in forma di monologo, che poi tu hai a tutti gli effetti rielaborato utilizzando il fumetto e il disegno. Ci ho ballato intorno (ride). Quello che mi interessava capire con te è come si muovono questi concetti, ovvero riconoscere un premio a qualcosa che è tutt'altro, in realtà, come origine. È come se non venisse tenuto presente il tuo lavoro di sceneggiatura. Esatto. Questo credo che sia un limite. Nel senso che certe categorie sono applicabili a certi tipi di fumetti e ad altri no. Se parliamo di Bonelli è molto più semplice fare una distinzione di questo tipo, perché c'è già di partenza una distinzione tra chi sceneggia e chi disegna. E poi perché le sceneggiature sono molto dettagliate Si. Qui invece c'era la massima libertà di interpretazione, anche nella caratterizzazione dei personaggi. Non ho avuto alcun tipo di indicazione. Non avevi descrizioni a priori, contestualizzazioni dei personaggi, … No, tutto quello che avevo era il testo. Quello che c'era nel testo era quello da cui sono partito.
In senso tecnico, quindi, non esisteva una sceneggiatura? È stato tutto un lavoro che hai realizzato tu? Avrebbe avuto più senso che come sceneggiatura veniste premiati insieme, quindi? Da un punto di vista strettamente fumettistico, sì. È difficile però dividere in modo netto dov'è l'apporto di uno e dov'è l'apporto dell'altro. Già il fatto che in copertina ci sia Davide Calì, Squaz, viene interpretato normalmente come uno ha fatto una cosa e uno ha fatto l'altra. Non voglio sembrare troppo polemico. Ma mi interessa capire questo ragionamento sulle categorie, anche perché credo che ti riguardi molto come autore. Dicevo, secondo te alla base c'è una mancanza di conoscenza di come è nato questo progetto, oppure è semplicemente dare per scontato che chi ha fatto i testi abbia fatto tutto il lavoro di sceneggiatura? Ma non escludo che ci siano tutte e due gli elementi. Io non so esattamente chi ha stabilito le nomination e come si è sviluppato il tutto. Però le premiazioni seguono anche altre logiche che non considerano strettamente la qualità o il linguaggio del fumetto. Cioè? Nel senso che si cerca di tenere un certo equilibrio tra diversi prodotti editoriali.
Una questione per certi versi “politica”? In un certo senso, ma succedono anche inconsciamente, queste cose. Da un punto di vista simbolico, quindi, guardato in chiave “politica”, il tuo lavoro accanto a quello di Recchioni che cosa può significare per quello che è il mercato editoriale? Intanto è importante contestualizzare rispetto al festival in cui avvengono le scelte. Quello di Treviso è un festival abbastanza giovane che sta iniziando adesso ad avere una sua identità, in modo da valorizzare gli autori. Loro sono sempre stati attenti al fumetto per certi versi più artistico. In questo senso sorprende quasi di più che abbiano dato un premio a Dylan Dog piuttosto che al nostro lavoro. È un festival giovane, che tiene l'attenzione verso il fumetto diverso da quello seriale. O forse è un sintomo che certe barriere sono ormai un po' saltate. Nel senso che mi sembra che la famosa diatriba tra fumetto di autore e popolare sta ormai cedendo anche nella mentalità degli addetti ai lavori. Anche il fatto che Recchioni stia chiamando per gli speciali di Dylan Dog tutti autori che non hanno niente a che vedere col fumetto seriale la dice lunga. E come mai tu non hai ancora in cantiere una storia di Dylan Dog? Non è che devo averla io in cantiere. Non me l'hanno ancora chiesta (ride). Ma avresti qualche interesse a lavorare su un personaggio come Dylan Dog? C'è qualche personaggio di casa Bonelli su cui ti piacerebbe lavorare? Beh Dylan Dog su tutti. È quello su cui mi sentirei più vicino, per forza di cose. È ancora oggi un personaggio atipico del panorama Bonelli.
Entrando un po' più nel merito di Tutte le ossessioni di Victor, avevamo parlato di Pandemonio, che ha una nascita molto simile a quest'ultimo lavoro. Uno scrittore ti fa avere un testo in forma di racconto. E tu a partire dalla parola scritta realizzi tutto il resto. Il processo è simile. Il metodo di lavoro che hai utilizzato è stato simile o l'esperienza ti ha fatto muovere diversamente? Come metodo di lavoro è come una versione aggiornata di Pandemonio. Per quanto riguarda le scelte, a partire dal colore che non c'era in Pandemonio, e altre di tipo grafico, sono legate al tipo di testo che mi è arrivato. Davide rispetto a Gianluca ha uno stile di scrittura differente, quindi ritornano nel trattamento grafico. La prosa e le tematiche di Davide sono più leggere. Quindi ho cercato di dare sostanza a questa leggerezza, per dar loro vita, nel rispetto della sua intenzione. Che lavoro hai fatto nel suddividere il testo sui disegni? Lo hai fatto mentre disegnavi, o hai creato una suddivisione prima e poi ha iniziato a lavorarci graficamente? La sfida sta proprio nel trovare il ritmo giusto tra immagine, disegno e il flusso di coscienza del protagonista. E questo caratterizza molto l'accento del libro. Quando abbiamo presentato il vostro lavoro alle Officine Libra di Monza abbiamo detto che i racconti funzionano anche da soli, letti ad alta voce. E abbiamo fatto questo esperimento e funzionava. Col disegno invece cambiano molti aspetti. Il ritmo, l'accento che viene dato a certe parti in cui mi soffermo di più e altre in cui vado via più veloce. Sì, sono le scelte registiche.
Questa è sceneggiatura. Non so, io dico che è regia. Ne modifica il senso. Il mio lavoro è stato di interpretarlo. Tornando alla tua domanda ho cercato di restituire il ritmo del racconto per come ho letto io i racconti di Davide. Cercavo di mettere l'accento sulle parti che erano secondo me più da valorizzare. Per esempio all'inizio del racconto a pagina 41, realizzi una vignetta unica che dà molto più spazio al testo. Io una cosa che ho dovuto correggere strada facendo è che mi sono accorto che usavo troppo le didascalie. E ho quindi introdotto il balloon. Anche per offrire una lettura più piacevole. Perché mettere solo le didascalie oltre ad avvicinarsi troppo all'illustrazione annoia anche di più. E poi si inserisce meglio graficamente. Sì. Invece nella produzione realizzavo un racconto alla volta e glielo mandavo quando era terminato.
Hai mai avuto considerazioni in merito, ti ha mai chiesto di modificare qualcosa? No, gli sono sempre piaciuti al primo colpo. Ha sempre visto la versione definitiva dei racconti. Si, ho deciso io poi di lavorarci diversamente, per esempio sul discorso didascalie. Se guardi questo racconto, “Le Crepes”, è stato uno dei primi che ho realizzato e non ci sono balloons. L'ho tenuta perché comunque mi sembrava che funzionasse. Poi man mano che ho continuato il lavoro ho modificato l'approccio. Tu lavori molto sui simboli. Per esempio guardando pagina 72 e 73, ci sono una serie di disegni fortemente iconici. Per esempio le silhouette in alto a pagina 72. O il bambino che sta iniziando a nuotare. Che ricerca fai su questi elementi? Mi piace molto la sintesi. Hanno un gusto molto grafico questi simboli. Volendo sintetizzare molto il tratto, ho cercato di dare il “massimo con il minimo”. Fai qualche tipo di ricerca o ti vengono spontaneamente queste scelte? Di solito, spontaneamente. È qualcosa che hai accumulato nel tempo. Si, è un gusto che ho. Però per esempio il piatto a pagina 77 da dove salta fuori? È la storia in cui rompe per sbaglio uno dei piatti della credenza. È un esempio di quel tipo di piatti che uno potrebbe conservare nella dispensa. Ma hai fatto qualche tipo di ricerca iconica o hai pescato dalla tua memoria? Beh, lì ho fatto una ricerca in internet. Anche per le credenze e le sedie. Osservo, ricerco e poi adatto a mio modo. Anche nella pagina degli insetti ho fatto la stessa cosa (pagine 80-81). Davide li cita con il nome scientifico e sono andato a cercarli. Ci sono poi dei giochi visivi. Per esempio le labbra del bambino che saranno poi quelle che mangiano gli insetti.
Fai un lavoro di concettualizzazione, quindi? Diciamo che mi piace molto giocare. Non sempre sono cose indispensabili alla narrazione. Lo faccio perché sono stimolanti per me.
L'approccio visivo è molto diverso da quello di Pandemonio. Sì, è molto più pop, più pulito, meno “Burns”.
Ti rappresenta di più, oggi? No, diciamo che è una sintesi di quello che mi interessava tre anni fa, quando ho iniziato a realizzarlo. È stato l'ultimo pubblicato ma nel mezzo ho realizzato L'Eredità. Victor aveva subito una battuta d'arresto perché non trovavamo un editore interessato. Nel frattempo sono andato avanti con l'altro progetto e finito quello si è sbloccato anche Tutte le ossessioni di Victor.
È stato pubblicato da Diàbolo Edizioni, che è una casa editrice piuttosto giovane. Sì, è una casa editrice nata in Spagna di cui esiste da poco anche la parte italiana, diciamo. Come è avvenuto questo incontro? Davide ha spedito un normalissimo pdf via email e hanno risposto positivamente. E il lavoro di promozione e sviluppo del progetto come avviene? Che lavoro fa la casa editrice? Intanto in questo caso loro si sono trovati il lavoro fatto e finito. Il loro intervento editoriale è avvenuto solo a lavoro finito. Hanno solo revisionato e stampato il libro. Ma non sono entrati nel merito delle scelte grafiche o narrative. E poi cosa succede a un libro come questo, dopo che è stato stampato? Per Victor ci sono in ballo ancora presentazioni, mostre. Attualmente le mie tavole sono in mostra a Treviso. Abbiamo in cantiere un'altra mostra con delle sorprese, con altri giri di presentazione. Vedremo. Ma quindi la scelta di Treviso di esporre le tue tavole come è avvenuta? È nata dalla decisione del festival con l'editore. Non so esattamente chi l'abbia proposta per primo. Però penso che loro avessero un interesse per il libro visto che lo avevano tra le nomination. Quindi il fatto di non aver vinto il premio ma che ci fossero le mie tavole esposte è stato comunque un bel riconoscimento. E infatti le mie considerazioni precedenti sulla sceneggiatura erano più una riflessione tecnica che altro. Io questo premio l'ho interpretato comunque come un premio a entrambi. Calì lavora tanto in Francia. Lavora tanto. Punto. (ride) Esiste un'edizione francese? Si. La Diàbolo l'ha pubblicato contemporaneamente in tre paesi. Francia, Spagna e Italia.
E come sta andando negli altri paesi? Al momento, sappiamo che abbiamo esaurito la metà delle tirature di tutte e tre i paesi. Dalla critica, in Spagna abbiamo avuto molti riscontri, alcuni molto lusinghieri, oppure alcuni con considerazioni critiche, chi ha trovato la prima parte più interessante della seconda, ecc. Ma nel complesso sembra che incontri il loro gusto. I francesi non si sono minimamente espressi. Credo che per il gusto francese sia difficile che venga apprezzato. Ma per il tipo di tratto che hai o per le tematiche? Penso più graficamente. Non è un tipo di segno che è molto apprezzato in Francia. Tra l'altro avevo già avuto questa esperienza francese con una piccola casa editrice che si chiamava La Boite d’Aluminium alla quale avevo venduto Entertainment con l’aggiunta di altre storie brevi, una nuova copertina e un nuovo titolo Belli Dentro. Racconti brevi con tematiche aggressive. E ai francesi non era piaciuto per nulla. Uno aveva scritto “io non capisco questo umorismo”. Non l'avevano minimamente apprezzato. Da quanto ho capito, credo abbiano difficoltà ad accogliere anche le raccolte di racconti brevi. Oppure sono solo io che non gli piaccio! Tutte le ossessioni di Victor e quella versione di Entertainment sono gli unici tuoi lavori pubblicati all'estero? Si. E gli altri libri non li hai mai proposti all'estero? Finora no. Per concludere su Tutte le ossessioni di Victor, ci racconti come hai lavorato sul colore? Io sul colore ci ho lavorato tanto con l'illustrazione. Inoltre i racconti per XL erano a colori. Durante la lavorazione di Pandemonio lavoravo su Rolling Stones e su XL contemporaneamente. Erano rivali e tenevo i piedi in due scarpe!! (ride) Ed erano a colori. Per Tutte le ossessioni di Victor volevo un colore e delle immagini molto pulite, quindi ho usato un colore grafico, in digitale. Che poi, i fumetti li ho quasi sempre colorati in digitale… Avevi qualche riferimento in testa? No. Non ti saprei dire. Volevo un approccio molto pop, ma non trovo un autore che lo rappresenti meglio. Cosa intendi per colore pop? Una colorazione molto sintetica, piatta. Però con tonalità molto calde. Un uso artificiale dei colori mantenendo l'omogeneità tra un racconto e l'altro, anche perché il libro era già molto frammentario.
IDENTITÀ, SUCCESSO, RICERCA Torniamo indietro a Minus Habens, del 2009, che è il tuo primo libro a fumetti completo. Che si tratti di fumetto potremmo parlarne! Perché? Mi sembra che ci sia una narrazione fumettistica. Almeno una forma tecnica di disegno sequenziale. Si ma se non vedi un personaggio con il balloon che esce dalla bocca c'è chi storce il naso. Anche la sequenzialità e il tratto ci sono. Si, seguendo la storia solo guardando il disegno riesci comunque a ritrovare un senso compiuto, un movimento, una narrazione vera e propria. Sì, si coglie il senso generale.
Ricordiamo la forma di Minus Habens. Abbiamo l'illustrazione sulla pagina di destra, e su quella di sinistra, racchiusa da un grosso balloon, c'è la narrazione in forma di poesia. Per certi versi ricorda quei vecchi fumetti a inizio del secolo scorso con il fumetto e la narrazione in rima. Però lì il testo era sotto. Qui invece ho fatto una scelta che volevo che si avvicinasse al film muto.
Sì, racconta bene come è andata. In origine doveva essere un libro di 20 pagine per bambini. Man mano che scrivevo mi venivano in mente situazioni e personaggi difficili da gestire per un bambino. Quindi mi sono deciso a fare una favola per adulti. È stato come un fiume che scorre e che si sviluppa progressivamente. Un modo di lavorare che non mi era capitato in precedenza.
C'era anche la sfida di raccontare qualcosa di tuo in forma più lunga e compiuta, per certi versi. Sì, perché fino ad allora come autore mi ero misurato solo col racconto breve. Era la mia prima prova lunga. La storia è stata costruita così perché immaginavo il film muto nel quale hai la didascalia che interrompe le sequenze visive. Poiché non era possibile riprodurlo su carta in modo efficace, l'ho impostato come se ci fosse a sinistra la colonna sonora e a destra la pellicola con le immagini. Il trattamento e i temi mi fanno venire in mente Frank, di Jim Woodring, lo hai presente? Ho presente Woodring. Sì. Woodring è molto più surreale nei codici, ma certi trattamenti della narrazione, con un continuo gioco al rialzo sempre più grottesco mi fanno accostare questo lavoro ai suoi. Ma mi sembra di capire che non è stato un tuo riferimento. No. Dal punto di vista narrativo certamente no. Dal punto di vista grafico mi piace molto. Anche se l’accostamento non mi dispiace per niente. Il mio obiettivo allora come oggi è quello di... io mi considero ancora underground... non so se a torto o a ragione. Ma cosa intendi? Cosa vuol dire? In cosa ti identifichi? Ma per il fatto che gli autori underground possano parlare di tutto, siano svincolati da logiche commerciali, e anche graficamente potevano permettersi tutto. Ma esiste oggi come oggi qualcosa come un movimento, un gruppo underground? Frank di Jim Woodring Non mi pare. Mi sento parte del gruppo dei Dummy. Siamo tutti fumettisti. Abbiamo delle affinità di testa. Ma siamo tutti autori indipendenti. O comunque, con un forte legame con il fumetto indipendente. I Dummy, ricordiamo, siete tu, Akab, … Officina Infernale, Ausonia, Tiziano Angri, Alberto Ponticelli, e adesso ci sono anche Marco Galli e Dario Panzeri. Ma state lavorando a qualcosa in questo momento tutti quanti insieme? Tutti insieme no. È difficile da gestire. Ma ci teniamo in contatto. Ci teniamo d'occhio e condividiamo tante cose. È come un bar. Tra l'altro mi viene in mente che di Marco Galli è uscito adesso un nuovo libro che è molto bello. Anche di Tiziano Angri, tutti e due per Coconino. Entrambi molto interessanti. Dicevo comunque che a me interessa l'underground, ma un underground “pulito”, nel senso che cerco un contrasto come quello di Martin, che parla di tematiche molto pesanti con un tratto molto freddo e distaccato. Mi piacciono queste scelte. Piuttosto che sottolineare con il tratto la “sporcizia” di contenuto. Valorizzi molto l'aspetto simbolico. E puoi colpire ancora di più l'immaginario del lettore. Sì, crei un contrasto che ti spiazza. Per esempio, in Tutte le ossessioni di Victor il tuo modo di lavorare sulla forma dà in qualche modo spessore, permette di entrare un po' di più in profondità nella leggerezza del racconto di Calì. Mentre forse in Minus Habens c'è un contrasto tra la leggerezza musicale della filastrocca e l'ironia potente del disegno. Anche umoristico. In Minus Habens è un continuo gioco di contrasti tra i temi molto forti e la forma che tende ad alleggerire e dissacrare. Dal punto di vista concettuale è il lavoro più riuscito secondo me. È anche la tua prima collaborazione con Silvana Ghersetti, che prosegue tuttora, visto che anche L'Eredità, il tuo ultimo libro, è stato pubblicato con lei. Parlaci di questa collaborazione. Intanto perché nessuno era davvero interessato a questo libro. Quelli a cui l'ho fatto vedere mi hanno detto è molto bello ma non rientra nella nostra linea editoriale. Silvana era perfetta, invece, perché cerca sempre autori diciamo “particolari”.
Con i cerini dentro alla taschina in quarta di copertina. Di chi è stata l'idea? Di Silvana. Si. È una scelta narrativa, interattiva. Fanno parte della storia. Sono identici a quelli disegnati nella storia.
Il design dei cerini di Minus Habens
Che riscontro ha avuto questo libro? Dal punto di vista della critica, molto positivo. Dal punto di vista delle vendite invece, non è ancora stata esaurita la prima tiratura. È stato percepito come una cosa temeraria. Ricordo una recensione su Internazionale di Francesco Boille, che usava questo aggettivo. Editorialmente era una cosa rischiosa, in effetti. Una favola per adulti a fumetti, in rima. Non andava nella direzione in cui si muoveva il fumetto in quegli anni. Si stava affermando il formato graphic novel. Forse è con L'Eredità che ti sei avvicinato a un'idea più tradizionale di graphic novel, dove c'è una storia con inizio, svolgimento e fine. Con un approccio più tradizionale nella trattazione dei dialoghi e che si conchiude in quello che noi abbiamo normalmente in mente come forma di libro a fumetti. Gli altri sono molto divergenti. In questo potremmo comprendere il tuo concetto di approccio underground. Si. Però voglio dire che non ho intenzioni rivoluzionarie rispetto al fumetto. Non ho questa pretesa. E qual è, allora? Visto che le scelte che hai fatto sono anche anti-commerciali per certi versi. Beh, io spero che questi siano i fumetti commerciali del domani. Quindi è un'idea molto rivoluzionaria! Ti contraddici! (risate) No io mi considero più eccentrico che rivoluzionario. Sto ai margini, mi muovo nelle cose che non vengono normalmente esplorate. Però il centro per me esiste. Esiste un cuore del fumetto. In che senso? Nel senso che il graphic novel, o il fumetto seriale, o tutte le declinazioni commerciali del fumetto non le vedo come cose da abbattere, semplicemente trovo limitante il fatto che siano considerate come uniche possibilità. Io invece trovo interessante riflettere su quante altre ce ne possono essere intorno a questo centro. Sì, anche se poi riflettendo sulle graphic novel che hanno venduto di più in Italia, e a chi ha venduto davvero molto con esse... chi abbiamo? Gipi? Poi Zerocalcare (che è un successo di vendite assolutamente unico nel mondo del fumetto italiano)? Che hanno un modo di trattare il fumetto davvero diverso l'uno dall'altro. Se vuoi Zerocalcare ha un approccio così informale che si avvicina poco a un certo concetto di graphic novel. Sono categorie labili che lasciano il tempo che trovano. Pandemonio è stato premiato come miglior graphic novel. Che gli andavo a dire alla giuria, guardate che non è una graphic novel, è una raccolta?! È un esperimento narrativo. Non graphic novel. Ha codici molto diversi! Infatti. Da un lato ti distanzi dalla forma delle graphic novel che vendono di più oggi, dall'altro in questo mondo ci sono idee molto diversificate. E quindi tu dove ti collochi? E questo è il punto. Io non credo si debba avere una collocazione precisa. Ma per il pubblico? Il pubblico che ti legge e ti vuole ritrovare, dove ti colloca? Io finora questo problema non me lo sono posto. Almeno fino a L'Eredità e Tutte le Ossesioni di Victor non mi sono mai posto il problema di avere un pubblico o una riconoscibilità.
Poi ci sono anche altri autori che non si pongono questo problema ma poi incontrano i gusti del grande pubblico. Immagino che Gipi stesso quando ha realizzato i suoi primi lavori inseguisse soprattutto una sua esigenza di esprimersi. E poi il suo stile è arrivato a molte persone. Non so dirti quale sia questa chiave. E diventare riconoscibili. Forse il fatto di avere una voce unica, come Gipi, che riconosci in qualunque cosa lui faccia. La sua voce la riconosci ovunque. Anche quando parla ha questa potenza. E io questo non ce l'ho. Ma non mi sono mai posto questo problema. Non sono neppure in sintonia con me stesso. Però, parlavamo prima del mercato francese, e lì c'è un autore come Manu Larcenet che in questo momento è uno dei più bravi. È uno di successo eppure ogni suo lavoro ha un approccio, uno stile e una voce completamente diversi l'uno dall'altro. Ma, senti, lui sta esplorando ma ha una voce potente. Forse la mia voce non è così forte. Io sono nato come disegnatore e quindi la mia voce la devo ancora trovare, probabilmente. Però devo dire che Larcenet su Blast dà l'impressione di essersi seduto un giorno e aver detto, oggi faccio il mio capolavoro (questa battuta è di Akab). Sì, ma anche perché è molto potente anche sul piano concettuale. Sembra che abbia deciso di mettere a frutto tutto quanto esplorato fino a quel punto. Tu questa sensazione non l'hai ancora avuta rispetto ai tuoi lavori? No, finora no. Non so nemmeno se mi interessa. Lo stesso Gipi lo aveva detto di Una storia, dicendo che aveva voluto fin da subito che il suo nuovo libro fosse “monumentale”. Io no. Ognuno si crea delle aspettative rispetto al proprio lavoro. Io salto un po’ di palo in frasca. Stavo riflettendo sul fatto che ti eri confrontato con Igort a proposito di Tutte le ossessioni di Victor, per Coconino. E qual è stato il suo riscontro? A lui era piaciuto in generale il progetto. Gli aveva scritto Davide. I disegni gli erano piaciuti. Però il trattamento che avevo fatto non si muoveva nella direzione scelta da Coconino. In che senso? Ne faceva un discorso sull'aspetto del linguaggio del fumetto. Troppe didascalie e poco fumetto. E poi probabilmente la sua natura frammentaria che non ha il respiro dei libri Coconino. In pratica, gli era parso più legato all’illustrazione che al fumetto. Forse sì. Ma pensando ai suoi ultimi lavori, come i Diari Ucraini e Giapponesi sembra un po' una contraddizione. Però nei suoi libri c’è un respiro che forse qui manca. Volontariamente, però manca. Al di là delle scelte tecniche sull’uso dei balloons o meno, percepisci subito che c’è un’affinità con la forma romanzo.
IMPROVVISAZIONE, ESPRESSIONE, VERITÀ Arriviamo adesso a Dimmi la verità. Che è un altro libro molto particolare, con un'ulteriore evoluzione del tuo approccio e che ha una nascita molto particolare. Nasce da una proposta della galleria MioMao di Perugia. Avevano iniziato a raccogliere tavole di autori ai quali erano interessati, come Bacilieri, Andrea Bruno, Marco Corona, e altri, ad alcuni di questi hanno commissionato dei libri che dovevano essere di natura ibrida. Una storia ma anche una sorta di catalogo per una mostra. Fecero un libro con Bacilieri. E poi proseguirono con altri autori. Con me volevano che io realizzassi un libro pensato esclusivamente per loro. Mentre Bacilieri per esempio aveva trovato un filo conduttore per unire materiali diversi, a me chiesero di fare un lavoro più strutturato. In un periodo in cui non avevo un'idea in testa. Anche perché avevo appena finito Minus Habens e loro avevano una certa fretta. Quindi a un certo punto ho pensato a una specie di diario e altre ipotesi ma nessuna mi convinceva. Alla fine ho deciso di improvvisare. Ho fatto un libro improvvisato, sviluppandolo tavola per tavola. Avevo delle idee tematiche, ma non sapevo che strada avrebbero preso. E nonostante quei punti fermi ho tolto o aggiunto altre cose, per dare un ritmo efficace, per dargli una coerenza finale. Da lettore posso dire che Dimmi la verità è quello che tra i tuoi lavori mi è piaciuto di più. Anche se forse è il meno immediato. Mi è piaciuto molto come hai affrontato la tematica della genitorialità. E adesso stavo riflettendo un po' sui temi che legano i tuoi diversi lavori. Sicuramente il tema dei legami familiari, c'è anche in uno dei racconti di Entertainment, quallo del ragazzino che vince la partita di pallone... insomma c'è il tema del legame con l'infanzia e con la famiglia. In Dimmi la verità lo tratti in modi piuttosto forte. Per esempio l'aspetto su cui rifletto come padre del rapporto tra le aspettative di come voglio che i miei figli crescano e la realtà dei fatti di crescere e svilupparsi autonomamente.
Ma intanto ci sono vari livelli di lettura per quel libro. E mi hai fatto venire in mente che uno dei motivi per cui ero a corto di idee era anche per il fatto che ero papà da poco ed ero del tutto immerso in un tipo di vita che non avevo mai vissuto fino allora. Tu hai già creato e te ne devi prendere cura quotidianamente. Ti assorbe completamente. Quindi la mia scelta fu indotta anche da quello. Comunque mi ero dato il tema della verità perché volevo mettermi in relazione a tanti fumetti autobiografici che imperversavano in quel periodo, che erano diventati anche di maniera, e in realtà erano per me il massimo della truffa. Come la maggior parte dell'autobiografia in letteratura. Perché è comunque materiale che scegli tu, che decidi tu di collegare, e il ricordo non è mai affidabile.
Non ha un valore di verità in senso assoluto, ma più di testimonianza, forse. Testimonianza, però se rimaniamo in ambito narrativo vedevo che certe cose venivano accolte come se si trattasse veramente della vita di quella persona, anche nelle domande che uno faceva. Io mi dicevo, renditi conto che se uno ne scrive c'è dietro un trattamento. Sembrava che quelle cose ti entrassero in casa così com'erano avvenute realmente. Ma in realtà è un artificio letterario. Forse il principale degli artifici. Anche perché ci possiamo chiedere perché la tua vita dovrebbe essere più interessante di quella di miliardi di altre persone. Si. Quindi era una forma di provocazione? Sì. Mi viene da dire che per ogni libro ho questo approccio. Per come sono fatto io gioco un po' di rimessa. Cerco una forma di guerriglia in cui ti punzecchio di fianco, piuttosto che combattere la battaglia frontale. Quindi invece di fare il tuo romanzo autobiografico... … Rompo i coglioni a quelli che lo fanno. (ride) Con un approccio metanarrativo, potremmo dire. Sì anche. In Dimmi la verità, c'è.
A partire dall'introduzione. “L'intro, l'intro, c'è pure l'intro,” che introduce poi la vera e propria introduzione di Caparezza. Quindi la chiave del libro è mettere in discussione la presunta verità dell'autobiografia. Si. Detta così suona un po' pomposa. E assumiti le tue responsabilità! (Ride) Io punzecchio, non affronto le cose direttamente. Comunque, il ruolo dell'artista non è quello di assumersi responsabilità, è quello di stimolare gli altri. Quindi che cazzo volete!? (ride) Questo mi ricorda la parodia di Bertinotti di Guzzanti Si, noi siamo all'opposizione perché sorvegliamo il potere. “Noi siamo la sinistra, vogliamo divertirci, stavamo per andare a votare la legge di stabilità, poi è uscita l'idea del cinema!” (ridiamo) Come hai lavorato su questa idea di punzecchiare le autobiografie? Ho utilizzato dei temi familiari di finzione. C'è la storia di me e mio figlio che andiamo a Roma per mettere la mano nella bocca della verità. Parliamo della madre. Ecc. Per il resto sono schegge di temi, come a fare zapping in televisione, affrontando ogni volta il tema della verità. Con un incontro di boxe, entrando nella camera di un reality, della nascita.
Raccontaci dell'immagine del seno gigante che esce dall'utero della donna che sta partorendo il secondo figlio. Da dove è uscita questa cosa? Non lo so. Cercavo un umorismo un po' alla Monty Python. Quel tipo di humor dissacrante. Era una trovata umoristica di puro nonsense. Ci sono barzellette. Storielle divertenti. C'è la stanza del Grande Fratello, dove si pretende che questa finzione sia la verità, ma non può essere visto che c'è una telecamera nascosta da qualche parte.
In questa tavola invece citi Gianni De Luca (Romeo e Giulietta, ed. Black Velvet)? Sì, mi è stato già detto. Ma io non lo avevo minimamente presente fino ad allora. L'ho apprezzato moltissimo successivamente. In realtà qui più che a lui stavo pensando a Mike Allred, che è un fumettista americano che fa anche lui questo tipo di operazioni con Madman. Però anche il vestito e l'ambientazione sembra richiamare De Luca. Si, è vero. Può essere l'inconscio collettivo. Può essere. Spieghiamola così. Però no, io pensavo proprio a Mike Allred. Io l'ho visto da lui. È una tecnica che è stata poi utilizzata da vari autori. Steranko, Miller. Qui inganna la messa in scena che ricorda propriamente De Luca. Me lo fecero notare a Bologna, a BilBOlbul, dove era appena stato ristampato un libro di De Luca da Black Velvet.
Dal punto di vista del tratto, che ricerca hai fatto per Dimmi la verità? Minus Habens era più pulito, rispetto a La tavola di Dimmi la verità che ricorda De Luca questo. Sì, in Minus Habens mi ero molto più contenuto. Dovevo sviluppare la storia, rimanere coerente con la storia. Volevo essere molto grafico e pulito. Non volevo nessuna deviazione. In Dimmi la verità invece è una deviazione dall'inizio alla fine. Per quanto riguarda la commissione del lavoro, quindi, che cosa ne è poi uscito? È uscita la mostra da MioMao, la pubblicazione del libro e poco altro. Una presentazione a BilBOlbul, e poi è sparito nel nulla. Per quello dico che è il mio bambino sfortunato. Anche se poi ogni tanto arriva qualcuno che mi dice che è il libro che gli è piaciuto di più. Quindi è anche il libro che finora ha avuto meno riscontri? Sì. Non è difficile capire il perché. Però è stato anche promosso poco? Si. Ero molto impegnato con i bimbi. Era appena nata la mia seconda bimba. Non mi sarei mosso neanche a cannonate. Perché ero preso dai miei problemi familiari.
Ma oggi come oggi, a distanza di 5 anni dalla sua pubblicazione, secondo te, per un libro come questo, ha senso pensare a come riproporlo, a come dargli nuova vita? Il nostro mercato del fumetto lavora solo sulle novità? Non ci sono più prospettive sul medio/lungo termine? Sì. Anche le novità durano sempre meno. Però un libro come questo potrebbe essere interessante riscoprirlo. Si potrebbero fare approfondimenti, anche solo sul tema dell'autobiografia. Tu non ti senti promotore del tuo lavoro, di queste cose? Guarda, ormai bisogna essere anche quello. Bisogna essere disegnatori, grafici, scrittori, promotori di sé stessi, un po' cabarettisti e anche giornalisti. Scriviti anche gli articoli da solo. Per la Francia potresti scrivere due o tre recensioni su Tutte le ossessioni di Victor. Con degli pseudonimi. (ride) Però quello che avevo da dire l'ho detto lì, nel libro. Ho sempre preferito concentrarmi sull'aspetto creativo. La tavola di Gianni De Luca dal suo Romeo e Giulietta
Sì. Diciamo che per un libro come Dimmi la verità, che a me piace molto, hai lì un patrimonio di copie e di concetti che sono fermi. Sì, ma continuano ad andare in giro per le fiere. Certo, però lo guardo, lo sfoglio, se va bene. Poi mi concentro su quello di cui si parla oggi, e di quello di cui si parla domani. Quindi, o mi ha colpito talmente tanto il tuo lavoro che voglio fare il completista e recupero anche i tuoi vecchi lavori, che per fortuna non sono moltissimi, oppure rischia di rimanere nascosto. Finché non diventerai strafamoso e quindi ci sarà la corsa ai tuoi vecchi libri (risate).
LE CINQUE FASI E IL GRUPPO DEI DUMMY Parliamo de Le cinque fasi. Lavoro realizzato con il gruppo dei Dummy. Alberto Ponticelli è stato il promotore inziale di questo lavoro. Ha avuto l'idea portante, ci ha raccolti e poi abbiamo iniziato a confrontarci su internet. Non avevamo neppure una grande confidenza. Dal punto di vista professionale eravamo tutti molto distanti allora. Quello che vi accomuna è la voce molto personale e decisa, eppure molto eterogenea. Ha scelto tutti Alberto? In parte sì. Un legame era stato lo Shok Studio. All'inizio dovevano essere Alberto, Ausonia, Akab e Michele Salvador. L'idea di coinvolgere me è stata successiva. Michele è sparito, Ausonia ha deciso di voler fare solo la parte grafica e di non disegnare a fumetti. Hanno quindi cercato altre collaborazioni. È venuto fuori Officina Infernale e poi me. Per ultimo Tiziano Angri. L'idea di fondo del libro è trattare le cinque fasi del lutto con cinque voci e autori diversi. Come avete lavorato poi sul trattamento per dargli coerenza e un filo conduttore. Noi sapevamo già che Ausonia avrebbe dato continuità trattando il tutto come un viaggio in treno, e che ogni storia era la fermata a una stazione diversa. L'idea del viaggio da una stazione all'altra. Che riprende l'idea del lutto come viaggio interiore. Certo. Però era anche un escamotage narrativo per giustificare la diversità di stile e di voci. Abbiamo deciso di usare un unico personaggio, N., con lo stesso nome ma con facce diverse in ogni storia. Ognuno ha trattato il tema come voleva.
La scelta delle fasi chi l'ha decisa? Le abbiamo decise insieme. Ognuno ha dato la sua preferenza. Sulla depressione Akab era quello che aveva più esperienza di tutti. (risate). Non c'è stata partita. Ha detto, questa è mia. Ciao. Anche Officina Infernale sulla rabbia era ovvio. Quindi le più difficili sono state il patteggiamento (la mia) e l'accettazione (di Tiziano Angri). Come hai lavorato sul patteggiamento? Scendere a patti. È forse quella più ambigua. C'è la presa di coscienza del problema però non la definitiva realizzazione. Continui quindi a fregare te stesso. Cosa in cui tra l'altro mi riconosco piuttosto bene (risate). Mi riconosco. Quindi ho detto questa mi assomiglia abbastanza. In realtà non ti saprei spiegare. Perché la mia non è neanche una storia. La storia non è l'aspetto cruciale del tutto. Lo è di più l'aspetto grafico, l'atmosfera. Forse per tutti i racconti è lo stesso. Solo Akab credo abbia trovato più coerenza tra parte visiva e racconto. Ma anche lì non ha raccontato una storia. Ha raccontato un vissuto. Io ho pensato di fare una cosa molto destrutturata, per associazioni di idee. C'è un personaggio che ha perso tutto, il lavoro, la donna, la vista. Copertina de Le cinque fasi Facendo l'architetto la sua carriera è finita. Metaforicamente perde la capacità di progettare il futuro. Quindi nella storia il personaggio tenta un'ultima carta prima di lasciar andare tutto e passare attraverso la depressione e cerca di progettare un grosso progetto da cieco. Il patteggiamento è un po' quella fase in cui cerchi di superare il lutto senza però esserti concesso la tristezza, il riconoscimento del dolore che ne consegue. È comunque una compensazione, una fuga. Ma prima o poi la tristezza arriva e quindi è un tentativo fallimentare. Esatto. La cosa più rilevante di questo libro è certamente la parte visiva. Anche per come è stato concepito nel formato. Un prodotto di qualità, di grande formato, con carta patinata. Una scelta anche rischiosa, se vogliamo, in termini di investimento e di vendita. Ogni copia costava sui 30 euro. È un libro che è andato quasi esaurito. Ne avete voi alcune copie ma l'editore l'ha esaurito. Anche questo libro, quindi, muore lì? Non dovrebbe rimanere in stampa? Sì. Ci sono sicuramente molte richieste. Le copie che abbiamo noi e che portiamo alle varie presentazioni vengono spesso richieste. Ci confrontiamo come collettivo con aspettative e desideri diversi. Alcuni tra noi dicono basta, il libro è finito, ha completato il suo ciclo, ha esaurito la sua funzione. Io invece vorrei tentare una ripubblicazione. Anche in altro formato, volendo. Si, anche se rischia di snaturare il progetto. Ma noi siamo in sei e ognuno ha la propria idea. Finora comunque i pochi tentativi fatti non hanno trovato editori interessati in Italia. Potrebbe essere interessante provare all'estero. Infatti. Io lo vedo come un prodotto che funzionerebbe molto negli Stati Uniti. Anche se è fin troppo artistico forse. Ci sono nicchie di mercato molto aperte a questo tipo di prodotti. È il mondo di Bill Sienkiewicz, di Dave MaKean, di tanti artisti che hanno sperimentato in una direzione simile a quella di Le cinque fasi. Se pensiamo poi agli stili di Akab e Ponticelli, di Officina Infernale. Certo. Potrebbe essere una strada da percorrere. Andrebbe studiata la forma editoriale. Potrebbe essere pubblicato anche in albetti...
In ogni caso, questo mi offre la possibilità di tornare sul tema delle edizioni estere dei tuoi libri. Credo che oggi come oggi se lavori su un libro solo per il mercato italiano restringi infinitamente l'area dei possibili lettori. È una strada impervia, certo. Mentre sempre di più si lavora per edizioni anche in altri paesi. Tutte le ossessioni di Victor in questo senso è corretto, perché pubblicato contemporaneamente in tre paesi. Tu non hai mai provato a proporre gli altri tuoi lavori all'estero? No. Non ci ho mai provato seriamente. Ci sono dei limiti in alcuni titoli che sono evidenti. Per esempio Minus Habens con la filastrocca in rima richiede una traduzione ad hoc ed è difficile da piazzare. È difficile per il mercato italiano proporre un libro in rima, figuriamoci per quello estero. Si. Dimmi la verità non lo so. Percorre una strada di una sperimentazione che non vedo da nessuna parte. Potrebbe essere un problema in altri mercati editoriali.
Però, io conosco piuttosto bene la realtà editoriale statunitense. Nell'ambito indipendente, sia per gli aspetti visivi, dove come dicevamo è forte il richiamo a Burns, sia per le tematiche che tu affronti, e penso anche a Pandemonio, io vedo che potrebbero esserci delle possibilità. Per certi versi più che per quello francese.
Sì, questo è vero. Il problema è quello di dover far tutto tu. Io sono già abbastanza pigro di mio. Mi focalizzo sul progetto che sto facendo e poi mi aspetto che sia la casa editrice a dover fare il resto. Con Victor questo è avvenuto e ne sono felice. E probabilmente in futuro ragionerò ancora in questo modo per i prossimi libri. Anche Victor è un libro che vedrei bene per il mercato statunitense. Forse. Davide mi aveva obiettato che gli americani secondo lui sono molto fissati sulla rimozione del sesso. Lo vedono ancora come un argomento tabù. Non nell'ambito delle produzioni indipendenti. In quel settore ci sono tantissimi fumetti che trattano quelle tematiche e che hanno trovato il loro spazio. Vedremo. Forse L'Eredità, con gli italo americani potrebbe funzionare. (ride) Esatto, potresti organizzare un bel tour a Little Italy. Puoi venderlo ai banchetti delle strade preparando quelle pietanze! (ridiamo) Mi viene da aggiungere che come sensibilità sei molto vicino al fumetto statunitense. Sì in effetti io mi sono in qualche modo formato leggendo e studiando il fumetto statunitense o italiano che guardavano all'America come Magnus. Ecco, credo che sarebbe bello provarci e se mai dirsi, ok, non è andata, piuttosto che non provarci a priori.
L'EREDITÀ COME NUOVO PUNTO DI PARTENZA Dopo Le cinque fasi è uscito nello stesso anno Macchina suprema (2011). Pubblicato dalla Giuda Edizioni di Gianluca Costantini, con i disegni di Costantini, tuoi e di Armin Barducci e i testi di Giovanni Barbieri. Anche questo libro ha una genesi particolare. Si, Gianluca aveva iniziato a lavorare al libro all'inizio del 2000, a partire dalla sceneggiatura di Barbieri. È stato prodotto un terzo di quel lavoro che era stato pubblicato a puntate su Inguine Mahgazine. Poi la rivista chiuse, lui aveva cambiato segno e ricerca, era diventato molto più asciutto. Ha abbandonato la fase decorativa e lisergica. Si trovava però per le mani una sceneggiatura pronta, un terzo del libro già disegnato. Quindi decise di far completare il libro ad altri due artisti. Io ho realizzato il secondo capitolo e Armin il terzo. Tra l'altro senza vedere cosa stava facendo l'altro. La sceneggiatura di Giovanni era particolare. Avevamo la storia e i dialoghi, ma non avevamo altre indicazioni. Come definiresti le tematiche di Macchina suprema? Quando ho letto la sceneggiatura ho pensato a una serie tv anni '60 in bianco e nero, tipo la Freccia Nera. Strano, perché io ne ho una visione molto diversa. Tu avevi già visto il lavoro di Gianluca? Sì, le avevo viste, ma era difficile seguire la storia da quelle tavole. Le parole sembrano quasi decorazioni al disegno. Quindi io la storia non la conoscevo affatto. A me è sembrata una grande storia sul tema della dipendenza emotiva, collegata poi a una visione esoterica della realtà. Dove in effetti queste caratteristiche emergono soprattutto nel lavoro di Costantini, attraverso la sua imponente architettura narrativa. Nel vostro lavoro la storia diventa più tradizionale, e permette di capire meglio quello che è stato narrato prima. Qui hai usato uno stile con molto tratteggio, cosa che di solito non fai. Come mai? Il fatto che l'abbia interpretata come una storia antica, ho anticato il tratto, in qualche modo. Ho pensato alle stampe popolari, con una grande ricchezza di tratteggi.
È un altro passaggio di lavoro dove hai disegnato a partire da una storia già data, senza un confronto diretto con lo sceneggiatore. È un po' un tuo tratto caratteristico. Anche quando lavori con uno sceneggiatore, lavori da solo lo stesso! (risate) Sì, e credo che mi scelgano anche per questo. Perché c'è fiducia rispetto al mio trattamento. Che riscontri ha avuto questo libro? È sparito quasi subito nel dimenticatoio. Purtroppo. È un lavoro che ti piace ancora oggi? Lo vedo come una deviazione dal mio percorso artistico. Ma ogni lavoro lo vedo nello stesso modo. Non so neppure quale sia la mia strada maestra. Credo che sia ancora un bel libro, che ha ancora cose da dire. La storia di Barbieri è molto solida, affascinante, fluida. Sembra un fumetto di avventura esoterico. È molto originale. Poi c'è stata una pausa di un paio di anni. In quegli anni in realtà inizio a collaborare con Action 30, il collettivo multimediale dove c'è Giuseppe Palumbo a fare fumetti che mi ha coinvolto nella performance. È uno spettacolo teatrale sulla figura di Basaglia con attori in scena e i disegni realizzati dal vivo che creavano strati con i video che andavano su schermo, musica dal vivo e due attori. Siamo stati spesso in Belgio, a Bruxelles, a Liegi. Come mai a Bruxelles? Perché c'è un'associazione che realizza il Festival de La Libertè dove fanno teatro, cinema, dibattiti, ecc. E noi siamo stati inseriti nel cartellone perché avevano prodotto loro lo spettacolo, con il patrocinio di un'altra associazione locale che si occupa di igiene mentale. Bene. Adesso veniamo al 2014, con la pubblicazione di l'Eredità. L'ultimo libro che hai realizzato. Sì. L'Eredità l'ho fatto in mezzo al lavoro di Victor. Mi ha portato via un anno circa di lavoro, non particolarmente intenso. L'Eredità segna un passaggio importante nel trattamento della sceneggiatura, perché c'è un uso più diretto dei dialoghi e della recitazione dei personaggi. Inoltre riprendi una tematica autobiografica, quasi in contrasto con quanto ci siamo detti per Dimmi la verità. Come ci hai lavorato? L'autobiografia è un pretesto. Ho cercato di creare un archetipo del rapporto madre-figlio. In particolare quando un figlio si allontana da casa per lavorare altrove. E quindi metti in scena il contrasto tra una cultura folkloristica, tipicamente del sud, e un altro universo. L'universo di chi va via di casa da giovane e non si riconosce più in quelle origini, perché ha fatto e vissuto altre cose. C'è il contrasto tra un figlio anche molto scettico, che non ha lavoro, ha debiti, minacciato dagli strozzini, e una mamma che vorrebbe trasmettergli la sua eredità che lui vede come un tornare indietro. Mi interessa molto l'uso che fai delle maschere. Ogni personaggio ha sul viso una maschera. Sì, volevo sottolineare da subito il distanziamento dall'autobiografia tradizionale. Puoi vederci lì dentro me e mia mamma, ma con la maschera è evidente che vorrei renderli dei personaggi da commedia napoletana. Quanto questa scelta è anche legata al tuo divertimento nel disegnare? Io mi diverto molto a disegnare le maschere. Tra l'altro quella di Pulcinella è un tormentone. Se mi devo rappresentare lo faccio così. Su Pandemonio mi ero rappresentato così. Su XL ho fatto una storia in cui parlo di un mio amico, e c'è la maschera.
Le altre maschere cosa sono? Sono delle specie di Pierrot. Mi sono ispirato a delle spillette che avevo fatto in quel modo. La storia è scandita dalle portate. Abbiamo gli antipasti, i primi, i secondi e contorni, dolci e liquori. Illustrate da te in stile molto tradizionale, ci sono le vere ricette di famiglia. Come le hai recuperate? Sono quelle di mia madre. Ha il suo ricettario. Cose segrete, di famiglia. A ogni ricetta c'è poi magari collegata una storia familiare, che collega le generazioni. Il cibo caratterizza molto la propria cultura di origine. Sì, e poi mi interessava molto il rapporto tra cibo e narrazione. Ogni ricetta porta con sé il racconto di quella specifica famiglia. Sono una sorta di passaparola tra i fornelli. Volevo usare le ricette come altro tipo di narrazione e metterlo a fumetti. Come metti insieme il fatto che l'eredità con cui si confronta il protagonista è di tipo molto ingombrante con quella del cibo. Anche quest'ultima è una cosa di cui si sente eccessivamente investito, o secondo te col cibo è più facile far passare il legame con la propria appartenenza del passato? Il problema del personaggio è che non riconosce l'eredità come una sua reale eredità. Lui non gli dà valore. Le maschere de L'eredità
È come se avesse perso le radici. E quindi il cibo per come lo hai trattato è un modo per il personaggio per ritrovare quelle radici? O è solo un pretesto narrativo? Io volevo rappresentare il fatto che nel momento in cui la famigerata crisi economica ha messo tutti con le spalle al muro, magari può essere utile fare un passo indietro per vedere le cose con un occhio diverso, e trovare soluzioni più efficaci. La madre fa quindi questo tentativo di dono. Il cibo è condivisione. È questo che il personaggio rifiuta. Oltre all'apparato religioso e folkloristico che gli sembra inaccettabile. È anche un libro più immediato degli altri, come linguaggio? Sì. il mercato del fumetto è cambiato molto. E così l'idea di sperimentazione. Ci sono ormai pochi che fanno fumetto di sperimentazione (omissis). Per cui io ho cercato di trovare un'idea che fosse piacevole per me e avesse qualche chance in più verso il lettori. Un passaggio, quindi nella tua carriera, visto che fino al libro precedente questo problema non te lo eri posto? Si. E questo solo per mere questioni di vendita, o anche perché vuoi parlare a più persone? Ma sì, per entrambe le ragioni. Forse ho iniziato anche a guardarmi intorno, vedere tanti che raccolgono un po' i frutti di anni di lavoro e tu no. E allora mi sono detto forse è bene che inizi a raccogliere qualcosa in più anche io. Mi viene l'esempio di Iggy Pop, quando il punk ha iniziato a fare tanti soldi, lui è arrivato, ha iniziato a riproporre se stesso per dire, guardate che voi venite da qui. Ora mi ripiglio quello che era mio. E non tanto per competizione. Per un motivo personale. Non riguarda tanto il confronto con gli altri. E quindi ho deciso di essere un po' più accessibile, pur facendo un lavoro eccentrico. Ha una collocazione comunque non scontata. Ho quindi cercato di salvare capra e cavoli. (risate) Senti, una volta ne avevamo parlato personalmente in occasione di una tua presentazione. Io ho spesso avuto l'impressione che ci sia una sorta di autodifesa nel voler veramente arrivare al cuore di quella che potrebbe essere la tua voce. Le tue sperimentazioni a volte sembra che siano una divagazione per sfuggire un po' a quello che veramente sei e vorresti esprimere. Fai anche una ricerca molto intellettualistica. Prendi distanza da molte forme consolidate e tradizionali. Nell'insieme, guardare tutto ciò da una particolare prospettiva, può sembrare un allontanarsi dal cuore di quello che senti. È comunque una modalità che mi rappresenta molto! Ecco. Da lettore è come se ogni volta mi sfuggissi. Se non volessi entrare in sintonia ed empatia pienamente con la tua voce. E ogni volta, davanti a un tuo lavoro, penso, OK ci siamo, adesso Squaz fai il salto successivo, arriva dove davvero vuoi. Al cuore. È una provocazione un po' che ti faccio.
Ah, qui siamo tra provocatori! (ride) Io mi sono chiesto spesso qual è il cuore della faccenda. Il racconto? Mettersi a nudo pienamente? Ma dove sta scritto che in un fumetto devi metterti davvero a nudo? E qual è diciamo, il modo di fare fumetti nel quale qualcuno davvero si realizza? Io penso che questo sia frutto della mia reazione a qualcosa che c'è, e di cui riconosco l'esistenza. Per questo mi considero eccentrico, più che rivoluzionario. Per me il modo di fare fumetti per così dire “standard”, la graphic novel, che è vero che raccoglie di tutto, però è una brutta bestia. Qualcosa in cui non so se ci voglio entrare. È un modo di fare fumetto, e parlo di linguaggio non di lettori, che ho sempre trovato un po' una forzatura. Ma già solo il fatto del libro lungo a fumetti lo trovo poco connaturato all'idea di fumetto. Per me il fumetto è sintesi, e dovrebbe essere sintetico anche nel numero di pagine. Averlo allungato tanto vuol dire anche aver riconosciuto la superiorità della letteratura sulle immagini. Ma magari cambio idea tra mezz’ora.
Sì. Dipende molto dai contenuti. È chiaro che se pensi a un fumetto che ha avuto molta fortuna negli USA come Blankets di Craig Thomson... Che io ho odiato... … è un fumetto che poteva essere raccontato con la metà delle pagine. Per altri lavori il numero di tavole appare persino poco rispetto a quello che il tema poteva richiedere. Mi viene in mente l'ultimo lavoro di Tiziano Angri (L'unica voce, ed. Coconino) dove quando arrivi all'ultima tavola ti sorprendi e pensi, ma come, me lo chiudi qui, così? Tanto per usare due estremi. Sì, ma non credo che questo abbia a che fare strettamente con il fumetto. Anche in letteratura hai il Circolo Pickwick o Dostoviesky... Infatti. Perché in fondo credo che il punto non sia questo. Non è solo un ragionamento sulla forma, ma sui contenuti. Per me invece è un fatto di linguaggio. Il fumetto per me dovrebbe essere in forma breve. E su questo ti seguo. Ma quello dove io ti trovo un po' sfuggente, non è tanto sulla forma che usi, ma sui contenuti. È come se divagassi. Mi chiedo, ma qual è il tuo punto di vista reale sulle cose di cui ci parli? Ma tu ti fai questa domanda sui Monty Python, per esempio?
Si, ma io non ti collegherei ai Monty Python. Perché loro hanno una capacità di ironizzare senza tralasciare il loro punto di vista sulle cose. Le loro posizioni arrivano molto chiaramente. A volte è come se tu non prendessi posizione su certi contenuti. Ma io non lo so. Credevo di sì. In Dimmi la verità in vari punti mi sembra di farlo. Anche in Minus Habens. Ecco, citi un buon esempio. In Dimmi la verità prendi posizione ma nel modo meno diretto possibile. Dove chiedi sempre molto al lettore. Ma questo è buono! Certo, ma io non sto dicendo che stai facendo male. Non sto dicendo che stai sbagliando. Dico solo che c'è il rischio di un'eccessiva distanza tra quello che è poi il tuo pensiero e quello che arriva al lettore. Se tu al lettore chiedi troppo, rischi che lui non abbia il tempo, la voglia e la forza per arrivarci. L'Eredità invece credo abbia più equilibrio tra quello che hai in mente e quello che arriva al lettore. L'Eredità e Minus Habens sono quelli che vengono più incontro a chi mi legge. Io non mi sono mai posto il problema di essere sfuggente. Anche perché la mia ricerca è il tentativo di spiazzarti. Come il prestigiatore che cerca di sorprenderti. Per questo ci sono sicuramente dei rischi. Non avevo considerato quello che stai dicendo tu. Il rischio forse è quello di stufare, perché ti aspetti sempre la sorpresa. Oppure per paradosso viene quasi da dire, OK, smettila di giocare, raccontami una storia vera! Ho capito quello che dici tu. Ma mi chiedo perché devo smettere di giocare? Il gioco non è una cosa che ha un valore? Sì, a meno che il gioco non sia un divagare intorno alle cose. Capisci? Questo è il rischio che io ci vedo. Gira intorno alle cose, ma non arriva al cuore della questione. Non ci ho mai pensato in questi termini. Io non voglio arrivare a nessun cuore. Io non ho nessuna visione da difendere.
Non intendo difendere. O proporre. E comunque oggi si tratta anche di difendere. Quindi hai qualcosa da difendere? Certo che sì. Ma non voglio essere portavoce di qualcosa. Non attraverso le mie opere. Io vedo che fai un'operazione che è intellettualmente forte. Hai una posizione da difendere chiara: non essere scontato, essere stimolante, chiedere al lettore di metterci il suo, che è un aspetto genetico del fumetto. Ci vedo questo progetto di sfida intellettuale. Forse manca la parte più viscerale, emozionale. Che comunque fa parte del nostro mondo. E che quindi potrebbe rivelare un'altra parte importante del tuo modo di vedere o sentire le cose. Non so se ho una risposta da dare. È anche carattere. D'altra parte mi considero una persona molto razionale, ma come tu ben sai, più sei razionale più hai un inconscio che ti minaccia. Ma infatti, per esempio, il tuo modo di utilizzare i simboli parla molto alla dimensione inconscia. È come se alla fine accedessi a quella dimensione, primaria, energetica, non attraverso la narrazione in sé, ma attraverso i simboli che usi. Io cerco di contenerli, i simboli. Avevo letto una volta una cosa interessante, dove si diceva che il pericolo maggiore per un artista è quello di ritrovarsi a secco, senza più demoni. Ma anche l'altro estremo ti mangia, puoi essere divorato dall'inconscio. Quindi io li tengo sotto sorveglianza speciale, i simboli. Stavo studiando i tarocchi di Salvador Dalì, che è stato tangenziale al surrealismo. Un lavoro che lui ha fatto su commissione, per prendere un sacco di soldi. Anche se il lavoro è molto interessante. E pensavo che al di là del fatto che lo stile sia diverso dai surrealisti, hai qualcosa che si avvicina a quel modo di pensare la narrazione e l'arte. Tra l'altro con questo concetto che Breton esprimeva nel manifesto del surrealismo: non è più un problema di trovare codici che fanno accedere all'inconscio al conscio. L'arte non è più la manifestazione dell'inconscio nel conscio, ma il contrario. È l'affermazione dell'inconscio sul conscio. I tuoi lavori mi ricordano molto questo processo. Io con il surreale in effetti vado a nozze.
I tarocchi universali di Salvador Dalì
E mi chiedo se oggi come oggi non sia un eccesso di presa di distanza dalla realtà. No, io dico di no. Anche perché sono fresco di lettura di questo libro di Miguel Brieva (Eris Edizioni), che si chiama Cosa mi sta accadendo, è una sorta di diario, dove il protagonista giorno per giorno si ritrova ad accedere a una dimensione sempre più surreale. È un'escalation così. E la quarta di copertina recita qualcosa tipo, “Nel momento in cui non c'è più niente da fare, l'unica cosa possibile è squarciare il velo della realtà e accedere a questo tesoro nascosto”. Concordo. Che è un po' anche il cuore di un certo tipo di ricerca esoterica. Lui ne fa anche un discorso politico, sul capitale. Tu dici che gioco, ma in realtà per me è anche un discorso sul capitale. Perché se io ci entro dentro finisco in meccanismi che temo che non mi appartengono più. Ecco, questo timore arriva chiaramente al lettore. Noi siamo parte di un sistema capitalistico. Esserne fuori è difficile. Appunto. E torniamo al fatto di essere eccentrico. È un po' una forma per preservarmi.
A conclusione dell'intervista, Squaz ci ha offerto alcune tavole inedite di un lavoro al momento non ancora completato dal titolo La marcia. Lo ringrazio personalmente, per la disponibilità e le piacevoli chiacchiere.
Guglielmo Nigro (Milano, 1975) Studia e racconta di fumetti dall'inizio del nuovo millennio. Laureato in psicologia, musicista e musicoterapeuta. ricercatore nell'ambito dei simboli, della meditazione e dei codici dell'inconscio. Dal 2004 inizia a collaborare stabilmente con LoSpazioBianco.it. Negli anni, ha accumulato strati sovrapposti di letture, interessi e impressioni che hanno sempre avuto le vignette come filo conduttore. E' stato l'ideatore della 24 Hour Italy Comics, che ha visto la luce per la prima volta nel 2005, dopo appassionanti discussioni in redazione e approfondimenti con Nat Gertler (allora collaboratore di Scott McCloud per l'organizzatore del 24 Hour Comics Day). Nel 2008 realizza per Coniglio Editore il libro Lezioni di fumetto: Roberto Diso. Ha collaborato stabilmente con il noto critico statunitense Harry Naybors per il blog di critica in italiano harrydice (http://harrydice.blogspot.com) che riscosse molto successo tra gli addetti ai lavori e gli appassionati di fumetto. Oggi scrive regolarmente su un altro blog, ^Sigh^Comics! (http://sighcomics.blogspot.com).