Vino al cibo, viceversa… e non solo
Sette Università scommettono sul Consorzio per la Tutela del Lievito Madre da Rinfresco
Le cronache dal 7° Cateringross Food Summit
Giuseppe Portanova e Silvia Sacchi
Fare ristorazione
Vino al cibo, viceversa… e non solo
Sette Università scommettono sul Consorzio per la Tutela del Lievito Madre da Rinfresco
Le cronache dal 7° Cateringross Food Summit
Fare ristorazione
SOLO IL CUORE
DEL CHICCO DI GRANO.
Le nostre farine tradizionali, ottenute attraverso una macinazione gentile e progressiva, garantiscono prestazioni costanti e qualità superiore in ogni preparazione. Da sempre dedichiamo attenzione all’eccellenza, selezionando solo le parti migliori del chicco di grano per offrire farine che soddisfino i più elevati standard della pizzeria professionale.
le5stagioni.it
Mario Benhur Tondini
presidente Edizioni Catering srl
Imprenditore nel settore della distribuzione alimentare, gestisce con il fratello Oscar l’azienda di famiglia a Cavriana (MN), dove ha svolto anche l’incarico di sindaco.
Le competenze maturate sul piano professionale e su quello amministrativo lo hanno portato alla convinzione che il principio della condivisione sia la miglior modalità di crescita. Molte sue iniziative, anche all’interno del gruppo Cateringross (che detiene la titolarità della casa editrice), di cui è consigliere d’amministrazione, vanno in questa direzione. A questo affianca una forte sensibilità per ogni azione che dia valore al suo territorio.
benhurtondini@salaecucina.it
Marina Caccialanza
Redazione
Milanese, un passato come traduttrice, da diversi anni giornalista e redattrice per riviste del settore alimentare rivolte al mondo dell’artigianato e all’industria, in particolare nel campo della ristorazione, del dettaglio specializzato e della ricerca. Contribuisce alla realizzazione di importanti libri di comunicazione gastronomica in Italia e all’estero diretti ai professionisti e ai consumatori. Collabora con le redazioni di sala&cucina, Ecod e Trenta Editore.
Luigi Franchi
Direttore responsabile
Prima fotografo di cibo e territori, poi comunicatore, autore di numerosi libri di enogastronomia e di turismo enogastronomico. e infine giornalista di enogastronomia. Tra le sue principali pubblicazioni, scritte e/o coordinate: La prima edizione della Guida al turismo del vino in Italia, per conto del Movimento Turismo del Vino, (1997), I parchi e il turismo enogastronomico (2004), Il marketing delle Strade del Vino edizioni Agra – Rai Eri (2005), Atlante Alimentare Piacentino, con Valentina Bernardelli (2007), “cuo chi, due anime in cucina”, con Alessandra Locatelli, GL.Editore (2009), Dalle Terre Traverse al Po, GL.Editore (2010), ideatore e coautore dei Maestri del lievito madre, Edizioni Catering (2014), coautore della guida online dedicata alla ristorazione Meglio Prenotare, Edizioni Catering, Le interviste (2018) editore Mediavalue. Co-direttore di Food & Book, festival nazionale di editoria enogastronomica luigifranchi@salaecucina.it
marina.caccialanza@salaecucina.it
Giulia Zampieri
Redazione
Ricorda con esattezza il profumo del primo pane preparato all’età di sette anni.
Forse il suo primo traguardo e, soprattutto, l’inizio di una grande passione: per le cose semplici, per la genuinità, per gli alimenti che crescono e prendono forma. Dopo la Laurea in Scienze Gastronomiche, la specializzazione in comunicazione enogastronomica, e un periodo di alternanza nelle cucine, ha chiara la missione: scrivere per comunicare. Come? Utilizzando gli strumenti di oggi e la curiosità di sempre. Gionalista pubblicista, collabora anche con la guida di Identità Golose.
giuliazampieri@salaecucina.it
Simona Vitali
Redazione
Laureata in filosofia, ha lavorato nella comunicazione e organizzazione di grandi eventi a Parma. Ha ricevuto una prima inconsapevole educazione al gusto per il cibo grazie all’ indimenticato oste dell’Osteria della Stazione di Felino (PR), il nonno materno Massimino. Con gli studi umanistici è poi arrivata una seconda, consapevole, educazione al gusto per l’utilizzo delle parole secondo il loro significato. Poi sono seguiti un corso di Alta Formazione alla scuola Holden e un master in Filosofia del cibo e del vino. Della ristorazione l’affascina il pensiero e la componente umana. Della formazione di settore segue movimenti ed evoluzioni.
s.vitali@salaecucina.it
Gabriele Adani
Grafico
Modenese, appassionato di arte figurativa, fotografia e linguaggi di comunicazione visiva.
Nel 1992 inizia il suo percorso professionale presso una casa editrice. Lavora poi in uno studio grafico e fonda una piccola agenzia di comunicazione in cui ricopre il ruolo di direttore creativo per 18 anni. Viaggiatore, utilizza i frequenti viaggi a Londra e nel Sud Est asiatico per arricchire il suo bagaglio culturale e placare la sua innata curiosità per le altre culture.
Dal 2019 lavora in proprio, occupandosi di fotografia, grafica e consulenze nel campo della comunicazione.
grafica@salaecucina.it
7 LA LETTERA APERTA
Una riflessione sui cibi del futuro | Luigi Franchi
9 L'EDITORIALE
Il ruolo del distributore | Benhur Tondini
10 IL CONFRONTO
Giuseppe Portanova e Silvia Sacchi | Luigi Franchi
15 I CUOCHI
NIC Campione del Mondo e la Settimana della Cucina Italiana nel Mondo | Rocco Cristiano Pozzulo
17 LA NEUROVENDITA
Arriva il Natale, alza la dopamina dei clienti | Lorenzo Dornetti
19 L'ETICA
La parola sostenibilità tra mode, imposizioni e qualcuno che (forse) ci crede veramente | Francesco Parrotta
21 L’OLIO AL CENTRO
L’olivigno a tavola e in cucina. Un nuovo genere gastronomico | Luigi Caricato
23 LA DIGITAL TRANSFORMATION
Il ruolo dell’intelligenza artificiale | Claudia Ferrero
24 LA RIFLESSIONE
VIno al cibo, viceversa… e non solo | Giulia Zampieri
28 LA RICERCA
Sette Università scommettono sul Consorzio per la Tutela del Lievito Madre da Rinfresco | Simona Vitali
33 GLI EVENTI
Le cronache dal 7° Cateringross Food Summit | Guido Parri
44 DOGUSTO
Il riso DoGusto | Guido Parri
44 LE CONTAMINAZIONI
Soul Food- La cucina dell’anima | Federico Panetta
46 LA STORIA
Il pranzo di nozze di Madame Bovary | Alessia Cipolla
50 L'ANALISI
Una ricerca di Circana mette in evidenza il rapporto tra ristorazione e retail | Luigi Franchi
54 IL VINO
Corte Bravi | Giulia Zampieri
56 GLI EVENTI
Una città da gustare | Guido Parri
58 GLI EVENTI
Fassa Coop Ingross: una visione moderna del mercato che produce risultati importanti | Guido Parri
61 GLI EVENTI
DoGusto ha esordito a Bolzano, alla fiera Hotel | Guido Parri
64 LE GUIDE
Giancarlo Perbellini, Tre meritatissime Stelle Michelin | Luigi Franchi
68 AMODO LA RETE DEI RISTORANTI ETICI
Botteghe Antiche | Giulia Zampieri
70 LA PIZZERIA
Black & White, sempre e per tutti | Marina Caccialanza
72 LA PRODUZIONE
Fatti di un’altra pasta | Marina Caccialanza
74 LA PRODUZIONE
L’arte di essere sia carne sia pesce | Marina Caccialanza
76 LA PRODUZIONE
Orogel, un alleato in cucina | Marina Caccialanza
78 GLI EVENTI
Il brand DoGusto si presenta anche ai ristoratori Campani | Guido Parri
80 I LIBRI
Nutrire il pianeta - SantoPalato | Luigi Franchi
81 LA PRODUZIONE
La battuta al coltello | Guido Parri
N° 84 novembre 2024
EDITORE
Edizioni Catering srl Via Margotti, 8 40033 Casalecchio di Reno (BO) Tel. 051 751087 – Fax 051 751011 info@salaecucina.it - www.salaecucina.it
PRESIDENTE
Benhur Mario Tondini benhurtondini@salaecucina.it
DIRETTORE RESPONSABILE
Luigi Franchi luigifranchi@salaecucina.it
COLLABORATORI ESTERNI
Luigi Caricato, Alessia Cipolla, Bruno Damini, Lorenzo Dornetti, Ferdinando Giannone, Rocco Pozzulo, Claudia Ferrero, Elena Monteverdi, Federico Panetta, Guido Parri.
FOTOGRAFIE
Mattia Gianfelici, Archivio sala&cucina, depositphoto.com
* L’editore è a disposizione per eventuali crediti fotografici di cui si ignora la fonte
RIVISTA PARTNER di AMODO
PUBBLICITÀ
Tel. 331 6872138 marketing@salaecucina.it www.salaecucina.it
PROGETTO GRAFICO
Gabriele Adani - www.gabrieleadani.it
STAMPA
EDIPRIMA s.r.l. – www.ediprimacataloghi.com
TIRATURA E DISTRIBUZIONE – 28.900 copie
Ristoranti, trattorie e pizzerie 20.700 – Bar, pub e birrerie 4.000 – Hotel 3.100 – Grossisti e distributori f&b 1.100
Costo copia mensile: 4,00 euro abbonamento annuo 40,00 euro Per abbonarsi: info@salaecucina.it
Luigi Franchi direttore responsabile
“La cucina è un dialogo continuo tra un’eredità e la realtà del momento”, questa affermazione di Alain Ducasse, lo chef più famoso al mondo, con 18 stelle Michelin, mi consente di fare una riflessione sul nostro modo di mangiare e sul ruolo che i cuochi avranno nel prossimo futuro.
Per anni, dal Rinascimento al giorno d’oggi, gli ingredienti nelle cucine di casa degli italiani erano quelli importati dalla scoperta delle Americhe. Quella è stata l’ultima vera rivoluzione gastronomica fino ad oggi.
Alcuni ingredienti che arrivarono in Europa ci misero decine di anni prima di venire considerati commestibili: basti pensare al pomodoro.
Poi si trasformarono nella cosiddetta tradizione gastronomica italiana.
Da allora ad oggi sono cambiate le ricette, si è passati da una cucina che tendeva all’agrodolce a quella attuale, ma i prodotti della terra sono rimasti, più o meno, inalterati.
Adesso, invece, da quel 15 maggio 1997, data in cui è entrato in vigore il regolamento comunitario 258/1997 sui nuovi prodotti alimentari, cambierà il nostro modello alimentare.
Come per il pomodoro, forse ci vorranno anni, decine di anni, ma emergenza climatica, salvaguardia delle risorse della terra, bio-tecnologia, abitudini alimentari che non coinvolgono più di tanto le giovani generazioni (nessuno di loro perde la testa per una lasagna squisita), sono destinate ad incidere fortemente sui gusti, sulle scelte, sulle decisioni di produttori e di consumatori (parola che ritengo orribile ma c’è).
Un dialogo continuo tra un’eredità e la realtà del momento sarà il mantra per i cuochi, per gli anni a venire, perché, se l’ultima rivoluzione alimentare, quella par-
tita dal Rinascimento, si è svolta nelle case popolari e nei palazzi nobiliari, la prossima vedrà i cuochi come protagonisti principali. A loro, lo si vede già adesso, è demandato il compito di definire i gusti delle persone. Si mangia fuori sempre più spesso, le case, nelle metropoli, vengono costruite senza lo spazio per la cucina, le tendenze alimentari, come quella più attuale e, per certi aspetti, dirompente, ossia il consumo vegetale vengono determinate fin dall’inizio dai cuochi, dai ristoratori.
Questo è il futuro di questa professione: un futuro ormai prossimo che impone un’attenzione al benessere, alla salute, e questo significa nuove conoscenze, nuova e rinnovata formazione. Significa approcciare a nuovi alimenti che, forse, ancora non esistono ma che arriveranno sulle tavole, evitando atteggiamenti ‘talebani’. Significa evitare scelte, come quella del governo italiano sulla proibizione della carne coltivata, che sanno di elettoralismo e basta. Scrivere, nel provvedimento, che in Italia “è vietata la carne coltivata al fine di tutelare non solo la salute umana ma anche il patrimonio agroalimentare nazionale”, vuol dire andare conto l’evoluzione, mettere un veto alla ricerca e scontrarsi con le prossime direttive comunitarie.
È necessario lasciare la libera scelta!
È così che si salvaguarda la ragione e la capacità delle persone di guardare avanti.
Tutto il sapore della carne in prelibate bontà
Il recentissimo Cateringross Food Summit, di cui si parla in un ampio articolo all’interno della rivista, mi impone di tornare su un argomento che ho già trattato ma che diventa sempre più contingente: il ruolo del distributore all’interno della filiera dei consumi fuoricasa.
Chi è il distributore? È quella figura che alcuni chiamano ancora grossista. Se abbiamo deciso di modificarne il nome è per dare a questi fondamentali professionisti della filiera una maggiore dignità.
Ma non è sufficiente un cambio di nome! È, invece, importante tracciarne sinteticamente il ruolo.
Cosa fa, oggi, un distributore?
Parte da un magazzino ordinato, dove gli aspetti tecnologici e logistici giocano un ruolo fondamentale. Avere in magazzino una media di seimila referenze alimentari necessita, obbligatoriamente, di avere un gestionale super-efficiente, in grado di indicare posizione delle merci, quantità al momento, prossime scadenze indicate in etichetta. Questo per prevenire gli eventuali scarti di prodotti alimentari.
Poi serve una rete vendita, composta da agenti a cui viene assegnata una zona. Anche in questo caso, sono cambiate le cose. Fino a pochi anni fa l’agente di vendita andava dal ristoratore e dallo chef per prendere l’ordine settimanale. Oggi un bravo agente deve conoscere il menu di quel ristorante, rispettare i tempi che gli dedica il cliente, avere una profonda conoscenza dei prodotti che tratta per essere di supporto allo chef o al ristoratore.
Infine la logistica. Ogni distributore è dotato di mezzi per consegnare la merce e, se un tempo, le consegne erano una o due volte alla settimana, adesso si gioca tutto sul filo della consegna oggi per domani, quando non oggi per oggi.
L’autista cosa deve sapere? Che non può consegnare in orari in cui il ristorante è pieno di gente, che deve
Benhur Tondini presidente sala&cucina
benhurtondini@salaecucina.it
rispettare la catena del freddo, che non deve scaricare la merce in maniera indistinta.
Inoltre il distributore comincia ad essere considerato anche come consulente del ristoratore, indicando le novità di prodotto che consentano alla cucina di lavorare meglio.
Infine deve saper svolgere molto bene il ruolo di tramite tra il produttore e il ristoratore.
Come vedete, gioca un ruolo fondamentale nella crescita del ristorante suo cliente; è sempre disponibile, anche per la consegna di una confezione di uova che, improvvisamente, manca, giusto come esempio. Non dimentichiamoci poi che è un anello fondamentale della catena agroalimentare; non produce, ma è colui che con la propria struttura organizzata promuove e distribuisce le eccellenze agroalimentari e le tipicità locali del territorio Italiano.
Allora perché è un mestiere ancora così poco valorizzato? Le risposte potrebbero essere le più disparate ma non è quello che ci interessa sapere e vi sto parlando come un distributore presente da anni sul mercato. Quello che ci interessa è come diventare riconosciuti, sia con leggi ad hoc per il settore sia cominciando a dare valore, noi stessi, a quello che facciamo, cancellando il pensiero di essere quelli da chiamare nel momento del bisogno o dell’emergenza.
Per farlo, per avere riconoscenza e valore dobbiamo innanzitutto avere la consapevolezza che da soli si va veloci ma non si va lontano. Il Cateringross Food Summit è stata la dimostrazione che far parte di un gruppo si ottiene maggiore attenzione. Allora valorizziamo questa nostra appartenenza!
Urbino è nota come ‘la città ideale’ del Rinascimento, rappresentata in un dipinto famosissimo attribuito a Piero della Francesca, grazie al mecenatismo del suo signore – Federico di Montefeltro - che la fece costruire nel ‘400. È anche la città che ha dato i natali a Raffaello Sanzio e, oggi, è un luogo di serenità dall’alto dei suoi 451 metri sul livello del mare, quell’Adriatico che si può vedere nelle giornate più luminose.
È qui che incontriamo Giuseppe Portanova e sua moglie, Silvia Sacchi. Due ragazzi che hanno fatto una scelta decisamente contro-corrente: quella di aprire un piccolo ristorante di una ventina di coperti lasciandone un altro che faceva numeri molto più importanti. Il perché ce lo spiegano in questa intervista che comincia con la storia professionale di Giuseppe Portanova.
Giuseppe iniziamo dalla tua storia…
“Il mio nuovo mondo inizia nel 2011, dopo aver frequentato la scuola d’arte. Per mantenermi durante gli studi, a cominciare dai 14 anni, andavo a fare il cameriere in un locale – Il Cortegiano – che esiste tuttora: 110 coperti, la parte bar, ambienti enormi. Nel 2011, appunto, il proprietario decise di vendere il locale e, con il mio socio di allora, decidemmo di fare la scelta un po’ folle di acquistare la licenza. Un po’ folle perché io non sapevo nulla di cucina. Mio fratello Oris che lavorava al Cotidie con Bruno Barbieri a Londra mi disse se ero impazzito! Il primo mese andavo prestissimo a casa della titolare per imparare le sue ricette, alle 10 aprivamo il ristorante e cercavamo di fare la nostra parte. Così per un mese finché mio fratello mi chiamò a Londra per uno stage, aprendomi un universo. Ho capito quanto sia indiscutibile la figura del grande chef ma ancora di più ho potuto scoprire l’importanza dei ragazzi che stanno dietro allo chef. Lavorare con una brigata di ragazzi italiani dove il napoletano ti insegna a pulire il pesce, il ligure ti spiega il pesto più buono, il toscano ti fa vedere la cottura della carne perfetta, ti fa capire quanto sia straordinario quel mondo. Lì ho agito come una spugna, chiedendo l’impossibile, ho imparato tantissimo ma avevo ancora tanto da assimilare per diventare esperto. Una volta a casa spendevo metà dello stipendio che guadagnavo andando per ristoranti; è un esercizio fondamentale! Andammo avanti così per una decina d’anni, con un discreto successo ma sentivo che mancava qualcosa al mio modo di intendere il ristorante”.
Quel qualcosa, immagino, che ti ha spinto a passare da un locale di centinaia di coperti a un piccolo ristorante boutique. È così? “Esattamente! A gennaio 2021 abbiamo deciso, con Silvia mia moglie, di iniziare i lavori in questo posto. Perché questa scelta? Mi mancava l’idea del dialogo con l’ospite che in un locale grandissimo non era possibile; di associare la cucina all’emozione. Quella stessa che provavo da piccolo di fronte al profumo dell’arrosto cucinato in casa dai miei nonni. L’idea di avere qualcosa da condividere con Silvia. Abbiamo fatto questa scelta nel periodo peggiore, quello della pandemia Covid, ma allo stesso tempo, è stata la nostra piccola fortuna per il fatto che, consegnando nelle case degli urbinati, ci siamo fatti conoscere per il momento in cui avremmo aperto”.
Parliamo della tua cucina: come la definisci? Bisogna per forza cercare l’ingrediente che stupisca o si può trovare anche nella semplicità e nella tradizione questa materia prima?
“Sto facendo lo stesso percorso di mio fratello Oris. Lui è un purista
della tradizione ma altrettanto è partito da lì per cercare nuove tecniche. Quando ho aperto in carta avevo qualche piatto particolare ma il resto era tradizione allo stato puro: un picio con ragù di cortile, i bucatini cacio e pepe che avevo chiamato ricordo d’infanzia. Vedevo, comunque, che i piatti particolari funzionavano di più. Non saprei, oggi, dare un nome preciso alla mia cucina ma di certo so che territorio e origine restano al centro, con uno sguardo al futuro che vuol dire sostenibilità, prima di ogni altra cosa, alla tecnica che ci aiuta ad essere credibili perché poter estrarre un vegetale senza rovinarne le proprietà vuol dire parlare del grande aiuto che la tecnologia può dare a noi cuochi. Uso tantissimi prodotti del mio territorio ma non dimentico che Urbino è la culla del Rinascimento e quel periodo ci ha insegnato a rompere gli schemi; qui siamo in mezzo tra mare e montagna e la mia cucina è una combinazione tra questi due elementi: la terra e il mare. Non faccio una cucina per moda ma perché la vivo; ogni mestiere deve far parlare di sé e l’unico modo per raccontarmi sono i miei piatti. Quando andiamo in vacanza, che sia una meta esotica oppure una località italiana fuori dalla mia regione, i nostri ospiti più assidui sanno che, al ritorno, troveranno in alcuni piatti il racconto di quell’esperienza. Dopo una vacanza in Thailandia c’era in carta il menu Porthainova, con un khao soy, una zuppa a base di crostacei e curry con i maccheroncini di Campofilone. Chiaro però che ci sono mostri sacri che non tocco: la parmigiana è la parmigiana, la lasagna pure. Non parlarmi mai di lasagna scomposta!”
C’è sempre un dietro le quinte in un ristorante e, spesso, riguarda i rapporti con il personale: come li gestisci?
“La confidenza fa perdere la riverenza. Questa è la frase più diffusa nel sistema inventato da Escoffier ma io non la sento per niente mia. Non riesco a non preoccuparmi della vita delle persone che lavorano con me molte ore al giorno, non riesco a non instaurare un rapporto più amicale. Ho preso molte botte sui denti per questo mio modo d’essere ma insisto. Continuerò ad essere così. Io penso che tutti i ragazzi che fanno parte del Portanova facciano parte del nostro progetto. In cucina con me c’è Luca, un ragazzo di Bertinoro che è venuto a vivere a Urbino per lavorare qui. In sala c’è Ivan che è con noi da quando abbiamo aperto, siamo amici da sempre e, con lui, ho rotto la regola di non mischiare mai lavoro e amicizia ed è stata una grande fortuna. Ci lascerà tra un po’ perché va a vivere a Tenerife e ci mancherà tantissimo. Andremo a cercare qualcuno per la sala ma che abbia davvero voglia di fare questo lavoro. Da parte nostra, nei colloqui, diamo sempre, concretamente, l’idea di essere una garanzia per il loro futuro. Ho avuto la fortuna di avere dei titolari così e voglio riprodurre quello che è capitato a me. Non ho mai avuto un giorno di ritardo nello stipendio nella mia vita e voglio che sia sempre così, non è pensabile che il mio personale debba subire i miei eventuali problemi. Non esiste che le persone debbano chiedere lo stipendio, è una cosa infame. Lo stipendio deve arrivare sempre e in modo puntuale”.
Come reagisce Urbino, città d’arte per eccellenza, alla tua proposta di ristorazione? Sono più i turisti o gli urbinati gli ospiti del Portanova?
“A Urbino, per anni, ha avuto una ristorazione mordi e fuggi. Si veniva a Urbino per la città, l’arte, la cultura ma non per dare valore al cibo, anche se questa è una ter-
ra ricchissima di materie prime straordinarie. Quando abbiamo aperto nessuno credeva che, con questa nuova proposta, avremmo superato i sei mesi. Invece dobbiamo prima di tutto ringraziare gli urbinati che ci hanno spronato e incentivato. Nel periodo invernale lavoriamo tantissimo con gli urbinati e arrivano anche ospiti da Riccione, San Marino, Pesaro. D’estate, invece, il 70% della clientela è il turista straniero. Amazing è la parola che sentiamo di più in sala”.
Tua moglie Silvia è fondamentale. Così l’hai definita in un nostro precedente incontro. Spiegami perché?
“Perché è una maledetta spronatrice! Ti faccio un esempio: cambio del menu a ogni stagione. Per me è il periodo più intenso, proviamo e riproviamo ogni piatto fino a definire la carta. Una volta deciso per me è fatta, mi rilasso. Dopo due giorni Silvia torna con una nuova idea. Lei è un laboratorio di idee, una punta di diamante della sala del Portanova. Lei studia ogni dettaglio della sala, mentre siamo in giro sulle nostre colline blocca l’auto solo perché ha visto in lontananza un cespuglio di fiori che starebbero bene sui tavoli. Ha una passione smodata per le cose belle, solo per la propria soddisfazione che contagia i nostri ospiti”.
Non ci resta che chiederlo a lei. Silvia, della sala ti piace più il dialogo con gli ospiti o la preparazione degli spazi?
“Domanda facile! Il contatto con le persone è la risposta, perché è uno scambio continuo di pensieri, di idee. Ti racconto un episodio successo proprio oggi a pranzo. È venuta una signora che frequentava, molti anni fa, questo stesso luogo che, al tempo, era l’Osteria dell’Adelina. L’Adelina, mi ha raccontato la signora,
era famosa per i suoi biscotti all’anice che teneva custoditi in un bastone di legno. Era una cosa che non sapevo e che mi ha subito fatto venire un’idea che vedrai realizzata la prossima volta che verrai. Questo lavoro mi è sempre piaciuto, mentre studiavo giurisprudenza ho fatto un’esperienza scuola-lavoro in un bar. Quell’esperienza mi ha fatto capire che non sarei mai stata un avvocato, pur laureandomi, ma avrei lavorato in una sala di ristorate. Cosa che poi ho sempre fatto. Mi piace dire che è stata la sala a scegliermi e non il contrario. Al Portanova ho raggiunto la mia massima espressione perché è una cosa mia e di Giuseppe, è la nostra vera casa. Qui accogliamo gli ospiti mettendo su ogni tavolo un diverso biglietto di benvenuto che ricavo dalla mia altra grande passione: la lettura. Quella stessa che mi ha portato ad aderire all’iniziativa della Biblioteca per la cura di sé: si tratta di una rete di locali pubblici a Urbino che mette a disposizione dei propri ospiti libri che possono portarsi via e, una volta letti, riportarli in uno di questi locali”.
Torniamo a Giuseppe con un’altra domanda: hai ambizioni di stella Michelin o di punteggi alti nelle guide? Come giudichi il loro ruolo attuale?
“Quando abbiamo aperto il pensiero era solo uno: facciamo un ristorante come piace a noi, da ospiti del ristorante e da titolari. Non avevamo in mente di raggiungere le guide. Dopo un anno ci arriva il riconoscimento della Michelin e ricordo perfettamente l’emozione di quel giorno. Ci siamo resi conto che c’è un organismo di controllo che può avvalorare il valore più importante: quello che ti viene riconosciuto dai tuoi ospiti. Ti direi una bugia se affermassi che non mi impegno per questo. Mi serve per tutelarmi, sono ambizioso e mi piacerebbe giocare in serie A. È quindi ovvio che ne sarei felice. Farsi conoscere è sempre difficile e la presenza in guida è un tramite ancora importante, soprattutto per la clientela straniera”.
Sei il presidente dell’associazione Ristoratori Città di Urbino: quale importanza ha l’associazionismo in questo settore?
“Fare il presidente di un’associazione di ristoratori è un’impresa difficile perché, purtroppo, si guarda ancora tanto al singolo interesse. Però voglio farlo, credo molto nella condivisione, nel confronto. Sto cercando di creare una progettualità per la ristorazione urbinate, far capire che siamo tutti sulla stessa barca e non dobbiamo affondarla. A Urbino, nel raggio di poche decine di metri ci sono cucine per tutti i gusti e per tutte le tasche, dobbiamo semplicemente farci conoscere di più e meglio. Solo l’associazionismo può aiutarci in questa impresa”.
Quale futuro per la ristorazione in Italia? Cosa si do-
vrebbe cambiare se è necessario?
“Si deve cambiare. È indispensabile. Partiamo dai due fattori fondamentali, di cui si parla da tempo: personale e materia prima. Ma aggiungo una parola in più: atteggiamento. Infatti negli ultimi anni ho visto nascere tantissime realtà, con molti soldi da investire ma con pochissima identità. La domanda che mi faccio è: qual è l’idea? Dov’è l’anima di questi posti? Ho visto nascere bellissimi locali dove entri, mangi bene ma non ti lasciano niente, potrei essere a Urbino come a Dubai. Non mi raccontano niente. Essere a Urbino vuol dire far parte dell’arte e della cultura di quel luogo. Da noi usiamo le ceramiche di Urbino come piatti perché rappresentano il territorio. Vorrei una ristorazione credibile, con una propria identità. Vorrei che ogni persona che lavora nel ristorante conoscesse il luogo dove si trova, le sue materie prime, la sua bellezza naturale e artistica per poterla raccontare agli ospiti che vogliono ascoltare. Un’ultima considerazione: i ristoranti grandi saranno destinati a chiudere, perché non ci sarà abbastanza personale. Dobbiamo quindi cambiare atteggiamento in generale se vogliamo andare avanti”.
Portanova ristorante in Urbino
Ormai ne siamo convinti: la celebrazione della cucina italiana nel mondo, intesa come “festa”, potrebbe tranquillamente essere estesa a tutti i giorni dell’anno. Ed in effetti, in parte è già così! Capita sempre più spesso, infatti, che le nostre tradizioni gastronomiche facciano notizia, di quelle news belle, positive, accattivanti, che ti fanno venire voglia di visitare il nostro Paese anche per il cibo, che accompagnato all’arte, alla cultura, al paesaggio e alla tipica accoglienza italica, crea un cocktail davvero irresistibile. E così avviene nel mondo che col cibo si identifica lo stile stesso dell’Italia (oltre, naturalmente, ad altri settori fondamentali, come la moda o il design…), anche in contesti non turistici, come ad esempio nel mondo delle gare e delle competizioni.
Quest’anno, infatti, abbiamo affrontato la Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, edizione 2024, non soltanto con un numero imponente di esponenti della Federazione Italiana Cuochi che ci hanno rappresentato in tutti i continenti: ben 100 Chef, dall’America all’Asia, dall’Europa all’Oceania, in giro tra ambasciate e consolati a gestire cene ed eventi dedicati alla nostra tradizione culinaria; ma l’abbiamo vissuta anche con un orgoglio in più: quello di avere visto la nostra Nazionale Italiana Cuochi trionfare sul tetto del mondo all’ultima edizione del Global Chefs Challenge, svoltosi nelle scorse settimane a Singapore, in concomitanza con il Congresso Mondiale della Worldchefs, di cui Federcuochi è orgogliosamente componente essenziale per peso internazionale. In tale contesto, infatti, la NIC ha reso un grandissimo onore all’Italia, conquistando tre medaglie d’oro, una per ciascuna categoria prevista nella prestigiosa com-
Rocco Cristiano Pozzulo Presidente nazionale FIC
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petizione, e tre posti Assoluti sul podio: il Primo posto assoluto per la categoria Pastry, il Secondo per la categoria Chef Challenge (cucina senior) e il Terzo per la categoria Young (cucina junior). Guidati dal general manager, Gianluca Tomasi, e dal team coach, Pierluca Ardito, i nostri Campioni sono: Luca Bnà e Mattia Silvio Sabatini, per la Pastry Chefs Challenge: ORO e PRIMO POSTO ASSOLUTO; Giuseppe De Vincenzo e Andrea Serale, per Chefs Challenge (senior), ORO E SECONDO POSTO ASSOLUTO; Francesco Locorotondo, per la Young Chefs Challenge: ORO E TERZO POSTO ASSOLUTO.
Si è trattato e si tratta di un grande gioco di squadra, quello che perseguiamo da sempre, che vede impegnata tutta la Federazione Italiana Cuochi con accanto, a prezioso supporto, le nostre aziende partner. Un gioco di squadra che porta a risultati concreti, brillanti e prestigiosi come questi titoli mondiali e che si ripercuotono certamente e positivamente su tutto il settore dell’agroalimentare italiano e, ne siamo certi, per gran parte dell’anno, come abbiamo sostenuto ad apertura di questa nostra riflessione.
Ambiziosi risultati, che giungono grazie al lavoro e ai sacrifici di giovani talentuosi, i nostri concorrenti guidati da due professionisti di esperienza e lungo corso, e con alle spalle una Dirigenza solida, che li segue e li sostiene. E i recenti incontri avvenuti con alcuni esponenti istituzionali, come i ministri Antonio Tajani (Esteri) e Francesco Lollobrigida (Agricoltura), testimoniano che anche le Istituzioni sono ormai consapevoli di quanto peso abbia il comparto della cucina nel nostro Paese per rappresentare al meglio lo “stile italiano”.
Lorenzo Dornetti ceo Neurovendita
Arrivano le feste. Un momento fondamentale per il mondo del food & beverage. Ci sono pranzi che coinvolgono intere famiglie. Le aziende organizzano momenti conviviali con i propri collaboratori e collaboratrici. Gruppi di amici festeggiano insieme. Si tratta di un momento importante. Per questo voglio condividere un principio chiave della Neurovendita applicabile al mondo della ristorazione.
Parto da una premessa. Cos’è la felicità? I filosofi scriverebbero trattati. I poeti pagine ricche di pensieri in rima. Per un neuroscienziato prestato al business come me, la felicità è un picco di dopamina. È riduttivo, ma biologicamente reale. Le sensazioni di gioia, spensieratezza, entusiasmo, relax sono fortemente legate alla presenza nelle aree limbiche, “il cuore del cervello”, di questo neurotrasmettitore. Per il cervello, più dopamina, significa più gioia. Le esperienze enogastronomiche in sé alzano la dopamina, per questo le persone amano uscire a pranzo e a cena. I ristoranti sono dei luoghi ad alto impatto dopaminergico, anche se non lo sanno!
Tutti noi vogliamo clienti felici nei nostri locali, che parlino bene di noi. Il segreto è alzare il più possibile la dopamina. Per farlo, oltre a quello che mettiamo nel piatto, abbiamo altre tecniche per fornire un picco di dopamina ai nostri clienti. Sono tre:
1) Fai scartare. Una mole immensa di studi scientifici dimostrano che per il cervello l’atto di scartare “qualcosa” aumenta la dopamina. Il picco avviene quando il cervello apre la confezione dell’oggetto. L’atto di togliere la carta ed il fiocco stimola la sostanza alla base della felicità. Come possiamo applicarla al mondo della ristorazione? Ci sono molti modi. Il minimo comune denominatore deve essere far scartare “qualcosa” al cliente. Ad esempio, si può iniziare il pasto con un regalo da scarta-
re, o presentare il menù all’interno di una busta sigillata da aprire. Alla fine del pasto, si può offrire un dono per creare un ricordo memorabile. In definitiva, far sì che i clienti siano coinvolti nel processo di “scartamento” è una strada diretta verso la felicità.
2) Sorprendi. Il fattore sorpresa scatena una cascata di dopamina. Ad esempio, aggiungere “piatti segreti” nel menù alza la dopamina. Prepara una voce tra le tue proposte per le feste che può essere ordinata solo chiedendo a chi è in sala di rivelarla, è un ottimo escamotage. Questo effetto sorpresa aumenta la curiosità. Un altro modo di alzare la dopamina nel sistema limbico dei clienti è donare delle portate inattese. Servire un piccolo antipasto o pre-dessert fuori menù, come gesto di ospitalità, alza la dopamina. È fondamentale che il personale di sala si ricordi di comunicare ai clienti che si tratta di una sorpresa per le feste, un regalo di Natale, un dono per un fantastico inizio di 2025, gratuito per i clienti.
3) Coinvolgi. Far interagire i clienti direttamente nell’esperienza del pasto è una strategia potente per stimolare dopamina. Ad esempio, servire i piatti coperti da una cloche che il cliente può sollevare da solo, stimola la dopamina. L’atto di “scoprire” il contenuto stimola un senso di partecipazione attiva. Completare il piatto al tavolo, dando al cliente l’opportunità di vedere il tocco finale, come grattugiare il tartufo, completare con una salsa o decorare un dolce con un topping. Non solo coinvolge, ma fa sentire il cliente presente e parte del processo che crea il piatto.
Il segreto per le feste è aumentare la dopamina. La dopamina è felicità. La felicità è propensione alla spesa e referenze positive. Come fare? Fai scartare. Usa l’effetto sorpresa. Coinvolgi.
Francesco Parrotta Avvocato specializzato in diritto penale alimentare
Non si è mai verificato nel mondo imprenditoriale, un fenomeno come quello che sta prendendo sempre più piede nell’ultimo periodo. Mi riferisco, in particolare, alla volontà di avere il “bollino” di sostenibilità per la propria impresa. Naturalmente, come tutti i nuovi fenomeni commerciali, si è diffusa un‘inevitabile confusione nel mercato, spesso innescata ed alimentata dall’improvvisazione di alcuni consulenti. Ebbene sì, anche un argomento serio come quello del virtuosismo imprenditoriale, che merita una reale premialità da parte della società, è stato abusato. Le aziende sono quotidianamente prese d’assalto e assillate da consulenti che propongono chiavi in mano, il “pacchetto sostenibilità,” confondendo purtroppo le idee all’imprenditore circa il reale ruolo che gioca l’impostazione sostenibile in azienda.
Ottenere la certificazione di azienda sostenibile è un impegno serio da parte di chi è investito del ruolo di amministratore, perché spetta a queste figure aziendali valutare con attenzione i consulenti competenti e capaci. La sostenibilità è un argomento che comprende non solo argomenti legati al rispetto per l’ambiente, ma anche una serie di tematiche legate al modo in cui si amministra una società e, in particolare, la normativa ad essa relativa presidia tutte le questioni che espongono la stessa società a rischi che ne possano compromettere la legalità delle condotte.
È chiaro che i governi nazionali, non potendo da soli impegnarsi per rendere più virtuose le imprese, si sono uniti ed hanno creato un piano internazionale comune di approccio al rispetto dell’ambiente e della legalità, in prospettiva di un abbattimento entro un determinato periodo di emissioni di sostanze velenose. L’agenda ONU 2030 per lo sviluppo Sostenibile, infatti, è uno strumento che detta le regole e gli obiettivi da raggiungere per la
riduzione delle emissioni di CO2 nell’atmosfera.
Credo che a nulla valga lo sforzo del legislatore europeo di normare la sostenibilità delle imprese e dei governi nazionali di incentivare le imprese a mettere in pratica le misure dettate da tale regolamentazione, se in alcuni (spesso molti) imprenditori non c’è la sentita consapevolezza di dover implementare ed applicare norme interne che portano effettivamente ad un miglioramento dell’ambiente e della vita lavorativa.
L’industria agroalimentare ha iniziato ad utilizzare sui propri packaging la parola “sostenibile”, e i primi ad aver capito il vero significato di tale parola sono gli azionisti e le banche. Questi due ultimi soggetti sono particolarmente attenti ad una reale transizione sostenibile da parte delle società, in quanto un effettivo rating di sostenibilità comporta una significativa affidabilità nei mercati. Seguendo l’esempio degli azionisti e delle banche, tutte le imprese dovrebbero impostare la propria azienda a beneficio della sostenibilità e, in particolare, l’industria agroalimentare dovrebbe promuovere una definitiva cultura della gestione sostenibile, favorendo anche la diffusione delle migliori pratiche in tutta la filiera che coinvolge sia fornitori che i clienti stessi. Di pari passo a tali sforzi, i governi nazionali dovrebbero, a loro volta, incentivare le imprese ad intraprendere una politica votata alla sostenibilità, non solo prevedendo pene restrittive o sanzionatorie per i trasgressori, ma anche con seri programmi di incentivi economici alle imprese più virtuose.
Luigi Caricato oleologo
Innanzitutto, cos’è un olivigno? Chiarisco subito: è un neologismo coniato da me. Ogni tanto, si sa, il linguaggio va rinnovato e ampliato. È un’operazione necessaria per connotare meglio qualcosa di già acquisito ma non ancora definito in modo esauriente e minuzioso. Con il termine “olivigno” si indica la varietà di olivo, ovverosia la cultivar. Il termine “varietà” è generico e riguarda qualsiasi pianta coltivata. “Cultivar” deriva invece dalle parole culti(vated) e var(iety) e serve appunto a indicare una «varietà coltivata». Perché tutta questa premessa? Per far capire che attraverso il linguaggio cambia anche il nostro atteggiamento e il nostro modo di porci. Assegnare un nome specifico e ben definito equivale ad attribuire un segno di distinzione, oltre che una reputazione ben diversa e più importante alla pianta dell’olivo. Ora, da qui, il passaggio all’olio è consequenziale. Ed ecco che gli oli mono-varietali, altrimenti detti mono-cultivar, entrano in scena in cucina con un ruolo di primo piano e ora con il nuovo nome, più appropriato, di oli mono-olivigni. Suona forse strano? A tutto ci si abitua, ma ciò che conta è esordire con un nuovo approccio e intraprendere un nuovo genere gastronomico, creando una cucina ad hoc proprio a partire dai differenti olivigni. Un dettagliato esame chimico-fisico e sensoriale degli oli dimostra che ciascun olio ricavato da uno specifico olivigno ha peculiarità proprie, uniche e distintive, da cui derivano impieghi differenti che possono dar luogo a molteplici e differenti applicazioni, sia a crudo, sia in cottura. Vi assicuro che un olio mono-olivigno Taggiasca non ha nulla a che fare con un mono-olivigno Coratina, due espressioni perfettamente agli antipodi. E lo stesso vale per gli oltre 500 olivigni presenti negli oliveti italiani. Tanti nomi, tante identità: Ogliarola, Frantoio, Leccino, Casaliva, Nocellara, e l’elenco può continuare senza sosta. Pensate a ciò che
avviene nell’atto di impiegare gli oli valorizzandone le singolarità olfattive, gustative e aromatiche in relazione ai vari ingredienti. Si crea un nuovo genere gastronomico attraverso una cucina attenta ai particolari, ed è quel che peraltro ci vuole per rinnovare l’approccio nelle cucine professionali, consapevoli anche del fatto che non soltanto nei confronti degli oli, ma anche con altri ingredienti analoghi (per es. gli aceti), vi sono vistose e irrisolte lacune. Interpretare ogni singolo olio e utilizzarlo nel modo più congeniale è l’obiettivo per raggiungere obiettivi alti. Non è necessario che si giunga a risultati eclatanti, perché il fine è immaginare soluzioni, sperimentare, provare, verificare le risposte da parte dei propri clienti. Con lo chef Giuseppe Capano - maestro di cucina senza ristorante, e perciò studioso libero dalla gestione di una impresa, impegnato in prima persona nella ricerca sulle materie prime in relazione ai vari alimenti e ai vari metodi di cottura - ho in corso un progetto ambizioso, che può anche fallire, per carità, ma che sicuramente aprirà un sentiero nuovo, andando oltre l’abitudine di versare l’olio a caso, purché svolga la sua funzione. Cosa ha a che fare, dunque, e cosa implica, questa nuova parola, olivigno, con l’impiego dell’olio a tavola e in cucina? Io credo che comporti qualcosa di molto importante e di grande utilità per chi crede nel ricorso alla fantasia e alla creatività applicata alle varie preparazioni alimentari. C’è inoltre da osservare che l’utilizzo degli oli finora è avvenuto solo per via intuitiva, o per consuetudine. E se si organizzasse un gruppo di studio che coinvolgesse chef, oleologi, tecnologi alimentari, biochimici e analisti sensoriali per ricavare nuovi approcci con l’olio? A me sembra una buona idea. Non ha senso fermarsi alle evidenze già acquisite. Non vi pare?
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Il contesto globale in cui operano oggi le imprese può essere descritto come fragile, ansioso, non lineare e incomprensibile, un quadro definito con l’acronimo BANI (Brittle, Anxious, Nonlinear, Incomprehensible).
Questo nuovo scenario impone sfide inedite per la gestione dei talenti, particolarmente evidenti con la crescente difficoltà nel trattenere il personale e con fenomeni come le grandi dimissioni.
L’incompatibilità tra i valori aziendali tradizionali e le aspettative dei dipendenti di oggi è diventata sempre più palese, soprattutto quando i lavoratori, in particolare quelli delle nuove generazioni, mostrano un’attenzione crescente verso il loro benessere psicologico e fisico, spesso considerato persino più importante della retribuzione e dei benefici economici.
Molte aziende hanno tentato così di aumentare il numero di annunci di lavoro e di colloqui nella speranza di coprire i vuoti, ma questa strategia non affronta la vera radice della questione.
Il framework BANI suggerisce invece un approccio più resiliente e flessibile per gestire il proprio staff. Data la complessità e l’imprevedibilità dei cambiamenti in corso, non si può più fare affidamento su approcci tradizionali.
Analisi recenti mostrano un quadro preoccupante: l’88% delle organizzazioni afferma di avere difficoltà nell’assumere nuovo personale, e più della metà dei candidati decide di rifiutare l’offerta o di abbandonare il processo di selezione. Non solo, ma il 42% dei nuovi assunti cambia lavoro entro i primi 12 mesi, evidenziando un alto livello di insoddisfazione. Questi dati suggeriscono che la maggior parte dei lavoratori non sente un forte legame con la propria azienda o un chiaro scopo nel proprio ruolo. Solo il 5% dei dipendenti italiani si dichiara pienamente soddisfatto, coinvolto emotivamente nel proprio lavoro e impegnato con l’organizzazione per cui lavora.
Per affrontare queste sfide, le aziende devono andare ol-
Claudia Ferrero
Digital Strategist & Evangelist
tre la semplice offerta di posti di lavoro stabili e ben pagati. Devono piuttosto concentrarsi sullo sviluppo del “purpose”, ovvero un senso di scopo, che permetta ai dipendenti di sentirsi parte di qualcosa di più grande. Un modo per farlo è coinvolgere i lavoratori in iniziative che abbiano un impatto positivo sull’ambiente e sulla società. In questo modo, le persone possono vedere il proprio lavoro non solo come una fonte di reddito, ma come un’opportunità per contribuire al miglioramento del mondo che li circonda.
L’adozione dell’intelligenza artificiale può inoltre rappresentare un’opportunità significativa per migliorare il benessere dei dipendenti, se utilizzata nel modo corretto. Tuttavia, è importante evitare il rischio di delegare completamente le capacità cognitive all’AI. L’intelligenza artificiale deve essere vista come uno strumento che potenzia le capacità umane, piuttosto che sostituirle. Questo è essenziale per prevenire fenomeni di de-skilling, ovvero la perdita di competenze, e per mantenere il vantaggio competitivo delle aziende.
Investire nella formazione dei lavoratori è essenziale per ridurre questo gap. Infatti, il 62% dei lavoratori italiani dichiara di voler seguire un corso di formazione sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale generativa (GenAI), vedendola come un’opportunità per migliorare le proprie competenze e per intraprendere nuovi percorsi professionali. Inoltre, molti vedono l’AI come uno strumento che potrebbe non solo migliorare la qualità del lavoro, ma anche ridurre le ore lavorative mantenendo inalterato lo stipendio.
In sintesi, le aziende devono affrontare le sfide poste dal mondo BANI adottando un approccio inclusivo, sostenibile e orientato al benessere delle persone.
L’intelligenza artificiale, se utilizzata correttamente, può essere un alleato prezioso per migliorare la qualità della vita lavorativa, rendendo il cambiamento tecnologico non solo gestibile, ma anche positivo per i lavoratori e per le organizzazioni.
LA RIFLESSIONE
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A fine cena, sul bancone dietro al nostro tavolo, sostavano sei bottiglie, all’incirca una per commensale. Da Montagne de Reims a la Styria, da la Côte de Beaune alla Toscana, dall’Etna alle colline moreniche della Franciacorta: la serata si era snodata tra vitigni, stili e terroir molto diversi. Si era assaggiato alla cieca, in autonomia, senza particolari consultazioni con il personale di sala. Non c’era una trama di sottofondo e nessuno si era preoccupato del fatto che le bottiglie potessero funzionare con i piatti in carta, non avendo nemmeno ben chiaro quali cibi avrebbero fatto capolino. Cito questo episodio perché oggi, tra tanti appassionati, enofili e pure tra i professionisti, a volte funziona proprio così: si sceglie cosa bere, perché la voce vino è preponderante, e si bada meno al pairing. Meno forzature, più beva. E se il vino è buono, e il cibo anche, non ci sono molte altre considerazioni da fare, sento dire
Mi trovo mediamente d’accordo, e la cena in questione è scivolata via in modo sontuoso, ma non è questo il punto. C’è da interrogarsi su come stia cambiando da un lato la presenza del vino al ristorante, dall’altro il dialogo tra il cibo e il vino, tenendo conto che il pubblico è eterogeneo e la fetta degli addetti ai lavori è stretta rispetto alla moltitudine di clienti che ogni giorno popolano i ristoranti italiani. E, non da ultimo, che in questa partita stanno entrando anche attori diversi.
Il tema dell’abbinamento cibo-vino gode di moltissime infiltrazioni di pensiero: c’è chi si affida alle indicazioni accademiche, chi le ritiene obsolete, chi le utilizza solo in parte e a seconda della circostanza. Di tutti i pareri che ho raccolto, però, trovo quello di Ciro Fontanesi, coordinatore dell’ ALMA Wine Academy, estremamente autorevole e condivisibile: “Non si può essere moderni se non si conosce il classico. L’approccio tecnico è sempre il punto di partenza, anche per chi intende evolvere un metodo o metterlo in discussione”.
Per l’abbinamento ci si può affidare ai dettami più noti. Cito, per diffusione, concordanza e contrapposizione. Oppure si può costruire un proprio stile. Ciò che conta è che tutto si erga su competenze solide e aggiornate. Non è così scontato: l’approssimazione, la fretta, talvolta l’incapacità critica, non stanno risparmiando il mondo del vino, anzi, e sicuramente inficiano anche sull’appagamento dell’ospite. Aggiunge a tal proposito Fontanesi:
“Al momento c’è molta improvvisazione nel settore. Per sviluppare un pensiero personale, riconoscibile e saper consigliare il cliente sull’abbinamento e in generale sulle bevande, sono indispensabili lo studio, l’assaggio, l’investimento personale. E sicuramente il sapersi mettere in discussione, pratica poco diffusa nel comparto della sommellierie. Il tutto tenendo conto della curiosità e della fiducia che l’ospite ripone sulla persona che lo accompagna”.
L’altro grande tema, dunque, ancor prima di parlare di combinazioni eno-gastronomiche e buone prassi, è quello dell’ascolto.
“L’incapacità di leggere i bisogni e le preferenze di chi è seduto a tavola è l’altro nodo stretto della ristorazione contemporanea. Siamo sempre meno abituati a dialoghi reali e sempre più condizionati da scambi virtuali. Per chi svolge il mestiere di sala diventa sempre più difficile leggere, interpretare e capire il cliente. Ma è un’abilità cruciale che serve anche quando si tratta di consigliare il vino o gestire il pairing. È importante sondare il terreno e cogliere le attitudini, il grado di conoscenza, le preferenze”.
Costruire un percorso aperto
Al netto di quanto detto finora, cosa è bene auspicarsi da una cena in cui il cliente non si vuole affidare al caso o a individuali ispirazioni, e desidera invece seguire un tracciato più ragionato? Meglio orientarlo verso la bottiglia o il percorso di abbinamento?
Dipende. In merito alla degustazione abbinata ci affidiamo ancora alle parole di Ciro Fontanesi: “Sostengo che il pairing non debba essere costruito a tavolino ma che sia un lavoro sartoriale, da compiere in relazione a molteplici fattori. Il punto focale è che le pietanze non vanno ‘bilanciate’ o smussate come si sente spesso dire in giro. Vanno esaltate attraverso l’abbinamento. Il rispetto del tema del piatto è la prima regola. L’altra è padroneggiare il percorso prestando attenzione al ritmo: alternare le texture e i colori, l’intensità, prevedere delle pause, dei momenti di ‘rilassatezza’ sensoriale e delle parentesi di assaggio in cui prevalgono sentori più marcati. È un lavoro di fino e umano, che va scritto e ridefinito ogni volta”.
Suggestioni sensoriali e cambiamenti
In merito agli aspetti puramente sensoriali dell’abbinamento cibo-vino possiamo affermare che oggi, tra nuovi ingredienti e nuove flessioni culinarie, le
carte si siano scombinate, e non di poco. Basta scorrere i menu che circolano nei ristoranti con una cucina contemporanea ed è evidente che compaiano sempre meno quadri organolettici classici. Difficile incontrare una da lièvre à la royale, per intenderci.
Le variazioni, le aggiunte, l’incursione di spezie, salse, sementi, estrazioni, sono all’ordine del giorno.
Stefania Pompele, specialista in Analisi Sensoriale, fa il punto.
“È sempre più ricorrente incontrare sapori sferzanti. Nelle cucine moderne c’è ormai da anni una grande inclinazione verso l’acidità e talvolta anche verso l’amaro. Si sono diffuse alcune tecniche, come le fermentazioni, proprio per favorire l’esaltazione di precise note gustative. In alcune circostanze, parlo per esperienza personale e comunque da appassionata di enologia, credo si possa fare anche a meno del vino. In certi percorsi sembra che il cibo non abbia bisogno di ulteriore complessità”.
C’è da stimolare la riflessione in chi cucina, naturalmente, e in chi guida la sala, anche in termini di opportunità di vendita. Ma ci sono anche altre strade che si possono valutare.
“Prendiamo il sapore più difficile da addomesticare: l’amaro. È molto più diffuso rispetto al passato e trova
sicuramente più affinità con cocktail e infusi. L’abbinamento dell’amaro al vino è una delle pratiche più difficili ma guardando alle alternative si possono individuare proposte convincenti”.
Ce ne ha parlato anche lo stesso Ciro Fontanesi.
“Se nelle cucine abbiamo visto grandi evoluzioni e stravolgimenti, nel mondo delle bevande non si è registrata altrettanta innovazione in questi anni. Con gli alunni dei miei corsi parto proprio da qui, ossia dal considerare tutte le opportunità di abbinamento, quindi dal prendersi cura di una carta delle bevande e non di una carta esclusivamente orientata al vino. Significa includere tanti altri prodotti, come birre, cocktail, ma anche tè e bevande alcol free in genere. Oggi c’è bisogno di dare spazio e soprattutto variazioni: non prevedere bevande senz’alcol è una mancanza nei confronti del cliente perché la domanda c’è ed è in crescita”.
Naturalmente, anche qui, bisogna farsi trovare pronti all’appuntamento. È necessario veicolare informazioni precise e pensare ad abbinamenti efficaci, funzionali al godimento del cliente.
È
Fatta eccezione per i ristoranti in cui la cucina tradizionale è solida e pressoché immutata, in tante altre
insegne i cambiamenti interessano sia la cucina in senso stretto sia la sequenza di assaggio. Come dicevamo prima sono mutati i piatti - per sostanza, intensità, esoticità, spaziature, affumicature - ma è cambiato anche il modo in cui le portate giungono a tavola. In alcuni locali si rispetta ancora l’ordine di servizio, in altri i piatti arrivano insieme e con ritmi non definiti. Sarà anche in questo caso buona regola proporre un vino o una bevanda che possa dialogare con più pietanze, sia che il cliente chieda la bottiglia, sia che si affidi al personale per uno o più calici. Elargire consigli non deve mai assumere toni saccenti ma, piuttosto, rivelarsi un’occasione per rendere l’esperienza più completa e felice.
Un’ultimissima considerazione, questa volta personale, sul vino a tavola.
È sempre un piacere incontrare vini che emozionano, che fanno ballare il naso, il palato e non solo. Ci sono bottiglie che non smetteresti mai di bere o che ordineresti ogni volta che compaiono nella carta o sugli scaffali. Ma trovare un’armonia perfetta tra il cibo e il vino genera un piacere unico e duraturo. Ha più le sembianze di una danza che di un ‘pairing’, potremmo cambiargli il nome Non dimentichiamoci di dargli valore!
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Il lievito madre da rinfresco è un impasto - prevalentemente di farina e acqua, fatto fermentare spontaneamente e portato a maturazione con rinfreschi, a cadenza regolare, di farina e acquache consente di realizzare prodotti lievitati piccoli e grandi, dolci e salati.
Non è un segreto che il decidere di produrre lievito madre da rinfresco in prima persona rappresenti per l’artigiano una scelta più impegnativa del ricorrere a farine già bilanciate piuttosto che a starter kit che richiedono solo di essere impastati per ottenere il prodotto.
Scelte lecite, entrambe, a volte anche equiparabili nei risultati, ma che presentano le loro differenze, come si coglierà nel prosieguo dell'articolo.
Diversamente, perché mai - verrebbe da chiedersi - c’è chi si ostina a rimanere ancorato al lavorio che comporta la produzione e cura del Lievito Madre da rinfresco? Chi glielo fa fare?
E perché, addirittura, si è creato un Consorzio per la Tutela del Lievito Madre da Rinfresco, che ha ottenuto non solo il benestare ma la disponibilità ad un contributo attivo di ben sette Università impegnate da anni nella ricerca, con 10 accademici, a comporre il Comitato di Sorveglianza del Consorzio stesso?
Tutti i vantaggi del lievito madre da rinfresco
Al prof. Marco Gobbetti, presidente del Comitato di Sorveglianza del Consorzio per la Tutela del Lievito Madre da Rinfresco, preside della Facoltà di Scienze e Tecnologie della Libera Università di Bolzano, dove è anche ordinario di Microbiologia Agraria, tra i massimi esperti a livello internazionale di Microbiologia degli Alimenti che, dopo un trentennio di studi in materia di biotecnologia dei prodotti lievitati da forno, ha contribuito a creare una rete scientifica non solo nazionale ma internazionale, chiediamo perché abbia deciso di entrare anche nel merito di questo progetto:
“ A parere mio in Italia – chiarisce il prof. Gobbetti- è sempre mancato un movimento, un’azione di coordinamento fra coloro che credono fortemente in questa che io chiamo biotecnologia del lievito madre. Se in Francia, Spagna, Olanda, Austria e, se non erro, anche in Slovacchia c’è una legislazione in merito, in Italia, dove siamo maestri, dove abbiamo la maggiore biodiversità di lievito madre, non c’è una legislazione.
Per questo mi sono detto che avrei dovuto dare il mio contributo all’iniziativa coraggiosa di questo consorzio, che si vuole porre anche come strumento per difendere una professionalità, una tradizione
ma soprattutto vuole far capire, in senso più ampio, che non ci sono motivi per cui non utilizzare il lievito madre da rinfresco, tanti sono i benefici che questo comporta, come abbiamo spiegato in molti anni di ricerca. A partire dal fatto che si ottengono prodotti dolciari ma anche salati che dal punto di vista sensoriale sono più buoni di quelli realizzati con altri metodi, che sono più lungamente conservabili, hanno molteplici vantaggi nutrizionali e di assoluto valore, quali una più elevata biodisponibilità di minerali per la nutrizione umana, una maggiore digeribilità, una riduzione dell’indice glicemico e di altri fattori antinutrizionali presenti in diverse tipologie di farine.
Compito di un ricercatore è rendere fruibili, tangibili, i propri risultati, come nel caso specifico di questa modalità di produzione tradizionale. Questo consorzio rappresenta una forma appassionata e organizzata che porterà vantaggio a tutti, anche a noi scienziati, per veicolare nella maniera più strutturata i nostri studi nella realtà solida”.
Con quali criteri scegliamo un grande lievitato come il panettone?
È importante ribadire che il lievito madre da rinfresco prodotto dall’artigiano è unico così come lo è chi lo produce (vi è una grande biodiversità del lievito madre da rinfresco) e questo consente di creare prodotti altrettanto unici, con un profilo organolettico e sensoriale (tra profumi, note aromatiche e consistenze) irripetibili, tanto per cominciare dalle prime evidenze.
Proviamo a pensare al panettone, il grande lievitato per eccellenza di questo periodo alle porte del Natale, e alla frenesia che ogni anno, in modo crescente, ci prende nell’inseguire principalmente gusti stravaganti ma più ancora, nomi, firme, senza preoccuparci di capire, ad esempio, con che tipo di lievito siano stati prodotti e senza sapere di tutte le caratteristiche - solo positive - che il lievito madre da rinfresco conferisce al prodotto (a parte quelle organolettiche che i nostri sensi percepiscono subito, anche quelle nutrizionali evidenziate da tanti anni di ricerca). Per chi ha una certa concezione del cibo vale la pena chiedere, informarsi e provare a capire le differenze. Un esercizio che ci toglie ben presto dalla posizione di riempirci la bocca solo di parole.
Ecco quindi i perché della nascita, nel 2022, del Consorzio di Tutela del Lievito Madre da Rinfresco , per forte volontà di Anna Sartori, responsabile del laboratorio e del settore di ricerca e sviluppo dell’omonima pasticceria di Erba, mai sazia di conoscenza e ora anche presidente del consorzio stesso sorto appunto“ con l’intento - come lei ci spiega - di tutelare l’artigianalità (e le competenze) di chi produce il lievito madre da rinfresco e la qualità dei suoi prodotti e di fare chiarezza ai consumatori, che sappiano le differenze per essere capaci di scelte consapevoli. Comunicare la verità! È uno dei 10 valori che svettano nella carta dei valori su cui si fonda il consorzio, a cui attenersi rigorosamente. Valori che qui si vuole che abbiano ancora un peso.
L’apporto di sette Università al Consorzio del Lievito Madre da rinfresco
“Formarsi e informare” diventa ben presto l’imperativo del consorzio, e qui entrano in gioco le sette Università, coinvolte nel Comitato di sorveglianza: Libera Università di Bolzano, Università degli Studi La Sapienza di Roma, Università degli Studi di Milano, Università di Napoli Federico II, Università degli Studi di Sassari, Università Cattolica del Sacro Cuore, Università di Parma.
Una coalizione di non piccola portata e che, oltre al ruolo istituzionale di sorvegliare e presiedere al corretto uso del lievito madre nel rispetto dei valori stilati, vuole essere un supporto tecnico allo sviluppo professionale dei consorziati.
Le due recenti giornate di “informazione”, tenutesi presso la Sapienza di Roma, hanno portato buone notizie a partire dalla possibilità di perfezionare le tecniche di rinfresco (modalità di propagazione) del lievito madre da rinfresco per migliorarne la stabilità (considerata l’imprevedibilità di questo complesso metodo di trasformazione artigianale), ma anche la possibilità di impiegare la fermentazione nel trattamento di diversi sottoprodotti alimentari, come crusca e germe di grano, nella ricettazione di prodotti da forno a maggiore valore nutrizionale. Interessantissima pure la possibilità di definire il profilo del lievito di ogni singolo consorziato, valutandone caratteristiche e stabilità per migliorane le prestazioni. Non ultimo, fra altre importanti comunicazioni, il
progetto di redigere un manuale tecnico sulla pasta madre, con un taglio scientifico ma destinato ad un pubblico professionale.
Gli aderenti al Consorzio di Tutela del Lievito Madre da Rinfresco tengono molto ad essere riconosciuti anche come produttori di lievito. Chi sta facendo lo stesso percorso di salvaguardia di questo metodo di trasformazione artigianale e desidera entrare nel Consorzio non deve fare altro che inoltrare domanda di ammissione alla segreteria dello stesso, cui farà seguito una visita aziendale ad opera di un organismo terzo - tramite la presa di visione del lievito, della sua gestione e documentazione relativa - che dovrà decretare se certificare l’azienda, consentendone l’accesso al Consorzio. “ Nel tempo - ci spiega Anna Sartori, che è un’inesauribile vulcano di idee ma innanzitutto donna ponderata e dalla schiena dritta - l’intenzione è di aggiungere ulteriori step, con la certificazione del prodotto e poi delle competenze e infine - potente messaggio- certificazione delle informazioni.
Il bollino sul Panettone e, in generale, sui lievitati con lievito madre da rinfresco prodotti dai consorziati
I prodotti ritenuti idonei, vale a dire verificati e approvati dall’ente terzo già nel corso dell’audit al momento dell’ammissione, in quanto realizzati con una delle diverse tecniche di rinfresco (vale a dire: legato,
in acqua, libero, liquido), presentano il bollino sulla scatola (Qr code, numero identificativo e rimando al sito del Consorzio). Il bollino identifica il prodotto sul mercato
Chi intende andare alla ricerca del panettone col bollino del Consorzio di Tutela del Lievito Madre da Rinfresco può rivolgersi ai professionisti, consorziati, che indichiamo di seguito.
Intanto può essere utile l’esercizio di iniziare a chiedere, fare domande, quando si valuta di acquistare o
si acquista un panettone. Per sapere. Si scopriranno così altri artigiani che lavorano a testa bassa con lo stesso faticoso metodo ma che, semplicemente, non lo comunicano adeguatamente.
E, lo ripetiamo, non si vuole bandire nessun metodo di produzione del panettone. Ci mancherebbe!
L’informarci però è l’esercizio in cui siamo carenti. Questo scritto non è altro che un omaggio ad un lavoro certosino, che è una minoranza a portare avanti e che, anche a nostro avviso, va salvaguardato!
BACILIERI SRL Marchirolo (VA)
CORSINI IVO SNC DI CORSINI IVO Alto Reno Terme (BO)
D&G PATISSERIE SAS DI DIANIN DENIS Selvazzano Dentro (PD)
DOLCIARTE S.A.S. DI CARMEN VECCHIONE Avellino (AV)
GUSTO MADRE SNC DI FABIO CIRIACI & C ALBA (CN)
LA PASTICCERIA DI DIANA L. E C. SNC
PAN DELL'ORSO DI GINO DI MASSO & C SNC
DI MASSO S.R.L.
PANIFICIO FOLLADOR DI ANTONIO FOLLADOR
Pordenone (PN)
Scanno (AQ)
Pordenone (PN)
PASTICCERIA CAFFÈ NUOVO MONDO DI PAOLO SACCHETTI SNC Prato (PO)
PASTICCERIA LORENZETTI SRL
PASTICCERIA MAZZALI E SPEZIALI SRL
PEPE MASTRO DOLCIERE
SAL DE RISO COSTA D'AMALFI SRL
SAPORÉ
Lupatoto (VR)
Governolo (MN)
Sant’Egidio del Monte Albino(SA)
Tramonti (SA)
San Martino Buon Albergo (VE)
SARTORI SRL Prato (PO)
GIAMBERLANO Pavullo nel Frignano (MO)
IL FORNO DI LIVIO MALAVASI
BIBENDUM SRL
Soliera (MO)
Pistoia (PT)
MILBRUT SRL Naro (AG)
I MAESTRI DEL GUSTO SRL Fano (PU)
I COMELLI AGRITURISMO S.S.
PREGIATA FORNERIA DELLE SORELLE LENTI SNC
OLIVIERI 1882 SRL
MARITANI DI MARITANI SANDRO & PAOLO E C S.A.S
PANIFICIO PASTICCERIA IL FORNO DI SCIALINO CATIA E RIZZO ALESSANDRO SNC
Nimis (UD)
Grottaglie (TA)
Arzignano (VI)
Staranzano (GO)
Tarcento (UD)
LA DAMA DOLCE SRL Roma (RM)
GABBIANO SRL Pompei (NA)
ENOSTERIA LIPEN SRL
Canonica di Triuggio (MB)
INFERMENTUM SRL Stallavenalugo (VR)
DAMA SRL - PANIFICIO DA MARINO
Pordenone (PN)
PASTICCERIA BATTISTINI Parma (PR)
BAR PASTICCERIA CANASTA DI ERCOLES MARCO E LUIGI S.N.C. Cattolica (RN)
PANIFICIO SPIGA D'ORO Barrafranca (EN)
PASTICCERIA MIMOSA S.A.S.
MASSIMILIANO PRETE SRL
MARRA PANE PASTICCERIA PAUSE E DELIZIE DI MARRA
ALESSANDRO E CARMEN SNC
Tolentino (MC)
Saluzzo (CN)
Cantù (CO)
Autore: Guido Parri
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Foto: Mattia Gianfelici
“Dobbiamo diventare selezionatori di materie prime!”
Forse sta in questa frase che Andrea Marchi ha fatto al termine del suo intervento al meeting del 7°
Cateringross Food Summit la scommessa più importante per il futuro della distribuzione nei consumi fuori casa, un comparto che incide per 30 miliardi di euro sul totale dei 100 miliardi di euro che rappresentano il valore della ristorazione in Italia.
Guardando a questo evento biennale – Cateringross Food Summit – dove oltre 900 operatori professionali – tra produttori alimentari e distributori – si sono confrontati sulle nuove proposte alimentari per la ristorazione non sembra neppure pensabile che il ruolo del distributore sia ancora quello meno conosciuto e considerato tra tutti gli attori della filiera.
Un evento a numero chiuso in cui, per un giorno intero, al Palacongressi di Rimini, un centinaio di aziende dell’agroalimentare italiano e internazionale di tutti i settori produttivi – grocery, salumi, latticini, carne, ittico, servizi logistici – si sono presentate alle 40 aziende di distribuzione aderenti al gruppo
Cateringross, con tutta la loro forza vendita, circa 600 tra capiarea e agenti. Numeri che, in un solo giorno, hanno generato oltre 7.200 occasioni di confronto e di business
Alcuni feedback dopo l’evento
“Vi scrivo in seguito ai racconti entusiasti dei miei colleghi Domenico e Adriano, che hanno condiviso l’esperienza del Summit Cateringross con grande apprezzamento. Mi hanno descritto un evento organizzato con cura, arricchito da un ambiente carico di energie positive e di un potenziale da sviluppare ulteriormente”, questa è la responsabile marketing di Caseificio Artigiana, azienda vincitrice nell’ultima edizione di Italian Cheese Awards, Grazia D’Ambruoso.
“È stato un piacere partecipare al Food summit, direi che è andata bene e nulla da dire all’organizzazione. Un’occasione unica per piccole medie aziende, mi riferisco sia ai soci che ai produttori, per creare vie alternative ai soliti canali, tutti insieme possiamo fare a meno dei colossi ed uscirne vincenti”, Andrea Columbro, titolare dell’omonimo pastificio.
“È stata una manifestazione di grande valore, che ha messo in evidenza non solo l’ottima organizzazione, ma anche il livello di professionalità e dedizione che il team organizzativo ha dimostrato. Abbiamo ricevuto diversi feedback dai soci, e siamo lieti di comunicarvi che si sono dimostrati particolarmente interessati ai temi trattati e
alle opportunità che l’evento ha offerto. Questo è un chiaro segnale del successo della manifestazione e della sua rilevanza”. Matteo Bellotto e Michael Allari di Mantova Diesel, un’azienda della logistica presente all’evento.
“Grazie mille a voi per aver organizzato questo 7° Cateringross Food Summit. È stato un piacere partecipare e vedere quanto il gruppo Cateringross stia lavorando per portare sul mercato nuove idee e opportunità. L’evento è stato un’ottima occasione per conoscere nuove realtà e rafforzare le relazioni esistenti. Apprezziamo molto anche la vostra apertura nel voler migliorare continuamente per rendere questo Summit sempre più interessante”, Alessandra Solci ed Edith Godstner di Goldsteig, azienda tedesca di latticini e formaggi.
“Voglio complimentarmi con te e tutto il tuo team per l’ottimo lavoro svolto. L’organizzazione è stata impeccabile e l’atmosfera molto piacevole, sicuramente un’edizione di grande successo. Anche da parte di Fassa Coop Ingross, posso confermare la soddisfazione per l’evento e per i risultati ottenuti. Visitare, nel nostro caso, oltre 30 stand di fornitori è stata un’opportunità preziosa che ci ha permesso di scoprire nuove soluzioni e di ampliare la nostra rete di contatti”, Matteo Battisti, responsabile commerciale di Fassa Coop Ingross, associata a Cateringross
Già dalle otto del mattino le aziende espositrici si sono presentate ai cancelli del Palacongressi per mettere a posto gli ultimi dettagli. Chi, come Graziadei, per accendere il forno per cuocere i suoi strepitosi strudel; chi, come Pasta Armando, per sistemare gli scaffali con le confezioni che, da lì a poco, si sarebbero aperte per le
degustazioni; oppure chi, come Molino Spadoni, per attendere l’arrivo di Renato Bosco, il famoso pizzaiolo veronese che è loro testimonial e che ha deliziato, per tutta la giornata, gli ospiti con le sue pizze crunch.
Ma questi sono solo esempi di come tutte le 100 aziende presenti ci tenessero ad accogliere i visitatori nel migliore dei modi.
La sala espositiva è stata pensata per consentire a tutti una visuale completa di chi esponeva; aperta, larga, bella e percorribile in tutti i modi possibili. Quella è stata la vera novità, apprezzata da tutti, di questa edizione.
Al centro della sala un grande spazio era dedicato al nuovo brand DoGusto, con tutti i prodotti, circa 200, che fanno parte del brand.
I soci di Cateringross hanno avuto così modo di conoscere in maniera anche visiva le eccellenze che racchiude il brand.
Alle nove si è aperta la manifestazione e, per ore, si sono susseguiti confronti, degustazioni, presentazioni di novità per il mercato del fuoricasa.
“Grazie a voi per l’organizzazione perfetta. Speriamo di far fruttare i contatti e di concretizzare l’interesse emerso durante gli incontri. È uscito, dal mio punto di vista, uno spunto interessante dal convegno del pomeriggio: il tema delle attese dei clienti ristoratori rispetto alle proposte delle aziende produttrici. I ristoratori si aspettano proposte innovative e in linea con i loro menù. Vorrei far fare dal marketing una Soluzione Menù x le carni con le due tipologie di nostri sali: Fiocchi e Fior di sale” ci ha scritto Eva Gallana, responsabile commerciale di Compagnia Italiana Sali.
Questa sua riflessione ci consente di raccontare la seconda parte della giornata: il meeting formativo a cui hanno partecipato tutti, espositori e visitatori.
Moderato da Luigi Franchi, direttore responsabile di sala&cucina, il meeting ha visto sul palco Andrea Marchi, presidente di Cateringross, Federico Villani, vicepresidente di Edizioni Catering srl che è l’editore di sala&cucina, e Lorenzo Dornetti, ceo di Neurovendita. “Oggi è stata una giornata molto intensa ma altrettanto bella e produttiva.
Vedere il dialogo che c’era in sala è stato molto piacevole ed è la dimostrazione plastica del buon rapporto che c’è tra industria e distribuzione quando i protagonisti si riconoscono nella strategia di un gruppo – Cateringross – che vuole investire, anche in termini di modernità e condivisione, nel mercato. Oltre agli espositori presenti, che ringrazio a nome di tutto il gruppo, questo Food Summit è stato l’occasione per presentare ufficialmente il nuovo brand DoGusto a cui abbiamo lavorato alacremente per buona parte di quest’anno. L’idea di un nuovo brand ha cambiato anche l’approccio dei venditori, dei capiarea e delle aziende socie di Cateringross e questo lo posso testimoniare direttamente grazie agli incontri che sto facendo nelle loro sedi dove la forza vendita sta esprimendo un entusiasmo contagioso verso questo brand” ha esordito Andrea Marchi che ha poi illustrato l’indagine condotta sui tremila clienti del gruppo evidenziando come sia cambiata la ristorazione dopo la ripresa post-Covid e come il distributore si deve adeguare velocemente a questo cambiamento.
“Il ristoratore oggi vuole proposte in linea con la sua idea di cucina, vuole qualità e non prezzo basso; ha bisogno, non avendo più il tempo per andare in giro a scoprire, che le aziende produttrici, attraverso noi distributori, rispondano alle sue esigenze. – ha spiegato Andrea Marchi – È per questo che noi dobbiamo cambiare fac-
cia diventando, al posto suo, dei selezionatori di materie prime, conquistando la sua fiducia, conoscendo il menu del suo ristorante. È un impegno che possiamo prenderci solo se c’è dialogo tra tutti gli attori della filiera – aziende produttrici, distributori, ristoratori – e oggi abbiamo dimostrato che questo percorso è possibile. Ma lo è se i distributori si associano, come abbiamo fatto noi da quarant’anni a questa parte, se diventano soggetti solidi dal punto di vista finanziario, logistico, organizzativo e Cateringross ha tutte queste cose. Abbiamo un fatturato consolidato di oltre 700 milioni di euro, le nostre aziende sono tutte assicurate, sono apprezzate e stimate sul territorio in cui operano. La stessa partecipazione a questo evento da parte delle aziende produttrici, italiane e internazionali, ne testimonia la forte presenza sul mercato. Dobbiamo solo adeguare il modello alle nuove esigenze e ci stiamo riuscendo”.
“C’è un particolare che contraddistingue Cateringross rispetto a tutti i suoi concorrenti: il magazine sala&cucina, un magazine che ha avuto la visione e la forza di non essere house-organ del gruppo ma che si è ritagliato uno spazio di autorevolezza indiscussa nel mondo della ristorazione e di tutta la filiera horeca” ha affermato Lu-
igi Franchi, prima di dare la parola a Federico villani, da pochissimi mesi vice-presidente della casa editrice.
“Il prossimo anno sala&cucina entrerà nel decimo anno di vita – ha affermato Federico Villani – e questo è un traguardo che ci riempie di orgoglio perché non è facile realizzare un progetto editoriale che non ha mai avuto bisogno di finanziamento da parte della casa madre – Cateringross – e che, al contrario, ha solo portato beneficio al gruppo”.
Poi è stata la volta di Luigi Franchi che ha raccontato l’attività della redazione di sala&cucina, presentando tutta la squadra, evidenziando i numeri della rivista e del sito: 94.584 operatori professionali della ristorazione ricevono ogni mese la rivista, in formato cartaceo e digitale; 2.540 sono i visitatori unici che ogni giorno vanno sul sito di sala&cucina; 35.600 sono i follower dei social.
Il momento delle premiazioni è stato un’esplosione di applausi dalla platea.
Sono stati sei i riconoscimenti assegnati:
• All’azienda GP Food per l’elevato grado di fedeltà in acquisto e numero di referenze dei prodotti a marchio con il gruppo Cateringross
• All’azienda Nigro Catering per l’elevato grado di fedeltà in acquisto e numero di referenze con il gruppo Cateringross
• All’azienda Di Cosmo Group per la più strutturata scuola di cucina tra i soci aderenti al gruppo Cateringross
• All’azienda Marchi spa per il miglior utilizzo del magazine sala&cucina per i propri clienti.
• Due ultimi riconoscimenti riguardano i rapporti di filiera, non solo in termini economici ma di confronto e ascolto. Il primo va a Demetra per il fatturato e
AGUGIARO & FIGNA
ALBAGNULOT
ANDREA CONTICELLI
ASIAGO FOOD
BALDI
BASSO SEBASTIANO
BERNARDINI GASTONE
BONDUELLE
BRASMAR
CARNIMEX
CARTIERE CARRARA
CASEIFICIO MORO
CENTRO CARNI COMPANY
CGM SURGELATI
CLAI
COFACE
COLLINA TOSCANA
COMPAGNIA ITALIANA SALI SPA
CONSERVE ITALIA
CONTITAL
CUKI PROFESSIONAL
DANISH CROWN
DAWN MEATS
DE MATTEIS
DEBIC
DEMETRA
DEVELEY
DI VITA
DISCEFA
EUROPESCA
EUROVO
F.LLI DE CECCO
FB BERTON
FORMEC BIFFI
FORNO ITALIA
GE
GENERAL FRUIT
GLOBALIMAR
GOLDSTEIG
GRANTERRE
GRAZIADEI SURGELATI
GRECI
IBERCONSA
ICAB FIAMMANTE
ICEWER
IL PESTO DI PRA
ITALCHIMICA
KOCH
L'ARTIGIANA
LA MARCHESA
LA MOLISANA
LA NEF
LA TORRE E TINO PROSCIUTTI
MANTOVA DIESEL
MARTELLI
MARTINI ALIMENTARE
MERANO SPECK
MOLINO DELLAGIOVANNA
MOLINO PIVETTI
MOLINO SPADONI
la condivisione degli obiettivi di mercato con il gruppo Cateringross.
• L’altro è andato, dopo un sondaggio effettuato nei giorni scorsi tra le aziende che espongono a questa edizione di Cateringross Food Summit, all’azienda Marchi spa da parte dei fornitori presenti all’evento per la forte capacità di condivisione di strategie e obiettivi di mercato.
MORGANTE
NEWFOOD
NOVAFUNGHI
OLEIFICIO COPPINI ANGELO
OLEIFICIO ZUCCHI
OLIO SALVO
OLITALIA
OROGEL
PAN SURGELATI
PASTA IRIS COLUMBRO
PEREZ DE SEVILLA
PETER PAN
PROSCIUTTIFICIO SAN FRANCE-
SCO
RISO NUVOLA
SALUMIFICIO AURORA
SALUMIFICIO COATI
SALUMIFICIO SIMONINI
SALVATI
STACCHIOTTI
SURGITAL
TONNIES FLEISCH ITALIA SRL
UNIGRA
UNILEVER FOOD SOLUTIONS
URBANI TARTUFI
VALCOLATTE
WELL ALIMENTARE
WOFCO
ZARPELLON
L’intervento di Lorenzo Dornetti, ceo di Neurovendita
Una presenza consolidata quella di Lorenzo Dornetti, ceo di Neurovendita, ai meeting di Cateringross. I suoi consigli sono preziosi per la forza vendita del gruppo. Due anni fa la sua riflessione si era basata sull’attenzione: “Le cose da non fare mentre siete da un cliente. Evitare di rispondere al cellulare, anche
solo per dire che richiamate, al cliente dovete dare la massima attenzione; prestare attenzione agli algoritmi aumentano solamente le nostre frustrazioni. Rimandate di 24 ore le risposte quando siete arrabbiati: il 78% delle persone si pente dopo aver mandato una mail mentre era arrabbiato. Leggete, leggete, leggete: leggere alza la quantità media di beta, ovvero le onde cerebrali della performance. E voi avete per le mani uno strumento importante che vi aiuta nelle vostre performance. Si chiama sala&cucina!”
Nel suo intervento ha ripreso il tema dell’attenzione ma spostandolo sul cliente chef: “Chi fa quel mestiere vive 14 ore al giorno in una cucina, non ha nessuno con cui confrontarsi. Prestare attenzione a lui come persona è quindi estremamente importante, parlare con lui non di ordini da raccogliere ma interessarsi della sua vita, delle sue idee, in maniera sincera, signi-
fica conquistare la sua fiducia, elemento fondamentale per agevolare il vostro lavoro. Anche il venditore è, solitamente, una persona sola ed è per questo che vi esorto al confronto, alla condivisione degli obiettivi. Non fate mai tutto da soli perché è indispensabile il gioco di squadra e voi avete la grande opportunità di far parte della grande squadra di Cateringross. Guardatevi, siete tanti, siete dei bravissimi professionisti”.
La giornata si è poi chiusa in bellezza al Grand Hotel di Rimini, con una cena straordinaria preparata dallo chef Claudio Di Bernardo 700 persone sedute a tavola, servite in meno di due ore, e una band – HBH Band –che poi ha fatto ballare e cantare fino all’una del mattino. Il rock and roll era quello che ci voleva dopo una giornata così: perché è una musica che unisce!
una selezione esclusiva
Disponibile nella stagiunatura 20 mesi o 30 mesi. Chiedilo al tuo fornitore Cateringross
Autore: Guido Parri
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Il riso, scriveva Auguste Escoffier, “non fa perdere tempo e non produce scarti e la sua versatilità è così ampia che si potrebbe variare nel menu per 365 giorni all’anno”.
Quale messaggio potrebbe essere più chiaro di quello del padre della cucina moderna?
Utilizzato moltissimo nella cucina contemporanea dove viene esaltato e sperimentato in continuazione ma anche parte integrante di una tradizione culinaria antica, dapprima nelle regioni del nord Italia poi diffusasi in tutta la penisola, basti pensare agli arancini e ai sartù.
Per questi motivi il riso non poteva mancare nelle referenze del brand DoGusto, con una particolarità: l’azienda che lo fornisce ha scelto per DoGusto delle selezioni che riducono lo scarto, per chicchi rotti, a meno dell’1%. Sono cinque le tipologie di riso che compongono l’offerta di DoGusto: Carnaroli, Arborio, Baldo, Vialone Nano e Nero Integrale.
Riso Carnaroli
Detto anche “Re dei Risi”, il riso della varietà Carnaroli appartiene alla classe del riso superfino. Il suo granello è grande, consistente e resistente alla cottura perché ricco di amilosio. Deve la sua origine all’incontro tra il Vialone ed il Lencino favorito dal risicoltore paullese Angelo De Vecchi e da un suo collaboratore (nominato Carnaroli), nel 1945. Il Riso Carnaroli della selezione DoGusto proviene da un’azienda mantovana specializzata nella lavorazione del riso, da sempre attenta a valorizzare le peculiarità di ciascuna varietà puntando sulla genuinità e veridicità del prodotto. I chicchi di riso Carnaroli vengono accuratamente selezionati attraverso strumenti in grado di misurare esattamente la qualità del riso, supportati dall’insostituibile esperienza dell’uomo. È particolarmente adatto all’utilizzo professionale: grazie alla sua elevata capacità di assorbire i condimenti e all’ottima resistenza alla cottura (presenta maggiori quantità di amilosio rispetto alle altre varietà) è particolarmente indicato per le cotture lente, in particolare per i risotti.
Riso Arborio
Il nome Arborio è legato al comune del vercellese
in cui questa varietà è stata selezionata dall’agronomo Domenico Marchetti. I chicchi di riso Arborio vengono accuratamente selezionati attraverso strumenti in grado di misurare esattamente la qualità del riso, supportati dall’insostituibile esperienza dell’uomo. È una varietà di riso che tende ad aumentare molto di volume durante la cottura perché assorbe facilmente l’acqua. È ideale per la preparazione di risotti ed è apprezzato dai professionisti di cucina per la capacità di conservare un’anima piuttosto al dente, mentre la superficie esterna cede amido rendendolo un ottimo ingrediente di minestre e salse.
Riso Baldo
Il Riso Baldo è stato per molto tempo utilizzato da pochi professionisti. Eppure questa varietà non è così recente: nasce nel 1977, dall’incrocio tra la varietà Arborio e la Stirpe 136. Oggi, grazie alla sua versatilità, sta prendendo piede in varie aree del Paese.
Ma perché bisognerebbe introdurre questo prodotto nella dispensa del proprio ristorante? Nella fattispecie la varietà Baldo si distingue per la sua una buona capacità di assorbimento degli ingredienti e per la struttura compatta e resistente. È capace di ottime performance in cucina, motivo per cui oggi viene sempre più adottato anche nella ristorazione. Può essere utilizzato per la preparazione di timballi, creme, arancini e molte altre ricette. Per la sua conformazione e la sua struttura chimico-fisica è particolarmente indicato per il risotto; per avere un ottimo risultato in questa preparazione è necessaria un’attenta tostatura del riso. Si presta anche alla cottura al vapore o pilaf.
Per molti chef il Vialone Nano è considerato una delle migliori varietà di riso al mondo, grazie alle sue qualità organolettiche, la sua versatilità e resistenza alla cottura. I chicchi di riso Vialone Nano vengono accuratamente selezionati attraverso strumenti in grado di misurare esattamente la qualità del riso, supportati dall’insostituibile esperienza dell’uomo. Sono di grandezza media e sono connotati da una sezione tondeggiante, dente pronunciato e testa tozza. Si tratta di un riso particolarmente adatto per risotti sgranati, da impiegare in cucina tenendo conto della sua elevata capacità di assorbire i condimenti.
È il riso nero italiano, nato dall’ incrocio tra una varietà di riso tipica della Pianura Padana e una varietà asiatica di riso nero. Il suo nome ci suggerisce il collegamento con la dea della bellezza e riporta ai tempi in cui si attribuivano a questo riso proprietà afrodisiache. Il suo colore è determinato dalla presenza di
molecole polifenoliche e degli antociani, che svolgono un’azione antiossidante e antitumorale. Profumato e gustoso, il Riso Nero Integrale della selezione DoGusto è ideale per chi vuole proporre una cucina sana e gustosa; ottimo per comporre insalate di riso in abbinamento a vegetali di stagione.
Autore: Federico Panetta
Come un evento tragico come la tratta degli schiavi ha dato origine ad un tipo di cucina tra i più celebrati oltreoceano.
Il soul food, con piatti iconici come pollo fritto, Mac and cheese e cornbread, è ormai sinonimo di comfort food made in USA, grazie ai suoi sapori decisi, ricchi e spesso associati a un’idea di godimento alimentare. Tuttavia, questa cucina ha radici molto profonde e dolorose, che affondano nel buio periodo della schiavitù nel sud-est degli Stati Uniti. L’origine del soul food è il frutto della resilienza e dell’ingegno degli schiavi africani che, giunti in America dalle nazioni della costa occidentale del continente, seppero trasformare la loro minima disponibilità di cibo in ricette gustose e di sostanza, sufficientemente caloriche per riuscire a sopravvivere nonostante gli enormi sforzi a loro richiesti. La loro eredità ha contribuito a definire non solo la cucina afro-americana ma, più in generale, quella degli Stati Uniti tutti. La schiavitù negli Stati Uniti d’America fu un’istituzione legale durata oltre un secolo, formalizzata prima dell’indipendenza americana nel 1776 e proseguita fino al 1865, quando fu abolita dal XIII Emendamento. Gli africani ridotti in schiavitù erano portati nelle colonie per lavorare come servitori domestici o raccoglitori nelle piantagioni. A seconda del ruolo, ricevevano trattamenti e alimenti differenti: i domestici avevano accesso a cibi più vari e nutrienti, mentre i raccoglitori dovevano accontentarsi di razioni minime e scarti, chiamati “juba”, un termine che in diverse lingue africane significa “piccoli pezzi”. Le scarse risorse alimentari venivano integrate con ciò che gli schiavi riuscivano a procurarsi tramite caccia, pesca o piccoli orti che i padroni concedevano loro di coltivare. In molti credono erroneamente che il soul food sia semplicemente la cucina del sud degli Stati Uniti, ma questa è una definizione imprecisa. Infatti, mentre la cucina del Sud include una grande varietà di tipi di cucina, il soul food è solo una parte all’interno di questo panorama. A differenza di altri stili culinari tradizionali del Sud, che si basano su ingredienti di alta qualità e carni pregiate, il soul food rimane ancora oggi lo specchio delle disponibilità alimentari degli africani di allora, tra cui figurano i tagli di
carne meno nobili come zampe, orecchie e interiora, che gli schiavi sapevano rendere gustosi grazie alle tecniche tramandate loro dagli antenati africani.
Il soul food è, in fondo, esattamente questo: l’incontro tra le tradizioni culinarie dell’Africa occidentale, come quelle del Benin (uno degli snodi più importanti della tratta) e i prodotti disponibili nelle colonie americane. Gli ingredienti tipici della dieta africana vennero adattati o sostituiti con altri simili: ad esempio, l’igname, tubero africano, fu rimpiazzato dalla patata dolce, più accessibile in America. Altri prodotti iconici invece riuscirono ad arrivare anche nel nuovo mondo, per vie traverse. Si narra che molte donne africane, durante il viaggio verso l’America, non sapendo dove fossero dirette si misero a nascondere tra le fibre dei loro cappelli vari semi di cereali e legumi, sperando di piantarli una volta giunte a destinazione, ovunque fossero state portate. Tra questi i fagioli dall’occhio, alcune varietà di riso e il miglio.
Se però esiste un ingrediente principe del soul food, questo è senza dubbio l’okra, il baccello di una pianta originaria dell’Africa orientale, che arrivò in America già nel 1679, in Virginia. Oltre a essere usata nelle zuppe come addensante, è infatti l’ingrediente fondamentale per realizzare il gumbo, l’okra ancora oggi viene spesso consumata fritta. Altri ingredienti irrinunciabili sono il mais e la melassa, ingredienti principali della razione che i padroni concedevano agli schiavi una volta a settimana.
Tra le particolarità del soul food spicca l’introduzione del gusto dolce nei piatti salati, una novità per la cucina americana, che fino ad allora lo riservava quasi esclusivamente ai dessert. Piatti come il cornbread o la salsa barbecue hanno portato in tavola un equilibrio inedito tra sapori. Quest’ultima in particolare venne creata per dare sapore ai tagli di carne poco pregiati. L’influenza afroamericana è evidente anche nei capisaldi della cultura americana odierna, come il barbecue, la cui tradizione, originata dai nativi americani, si è arricchita con tecniche africane. Durante il periodo della schiavitù, infatti, i proprietari bianchi lasciavano il lavoro laborioso di grigliare la carne proprio agli schiavi, che quindi furono in grado di affinarne le tecniche e farle proprie. Questi sapori e tecniche si sono poi diffusi e radicati nella cucina americana grazie al diffondersi delle comunità nere in tutto il paese, in quella che viene ricordata come la Grande Migrazione.
Tra il 1910 e il 1970 circa sette milioni di afroamericani migrarono dagli stati del sud verso quelli del nord, mid-west e ovest. I motivi che spinsero queste persone a lasciare i propri luoghi di appartenenza in favore delle città industriali del nord sono legati alla ricerca di lavoro e alla volontà di dare una migliore istruzione ai propri figli, ma soprattutto alla segregazione razziale. Questo spostamento portò alla diffusione del soul food
nelle aree urbane, mantenendo viva la connessione con il Sud.
Gli inizi della migrazione furono anche il periodo in cui la cucina afroamericana sentì il bisogno di definirsi, e così il primo uso del termine “soul food” apparve nelle memorie di Thomas L. Johnson, un ex schiavo delle piantagioni. Il termine divenne poi popolare negli anni Sessanta, quando il movimento Black Power promosse l’identità culturale afroamericana. Per la verità la parola “soul” non era del tutto estranea alla cultura nera, si era infatti già affermata per descrivere altri aspetti della cultura afro-americana, come la musica, diventando simbolo di appartenenza e orgoglio.
Durante il movimento per i diritti civili, i ristoranti di soul food divennero luoghi di incontro per leader e attivisti come Martin Luther King e Malcolm X, e da altri leader del movimento Black Power, che vi si riunivano per pianificare strategie di difesa in risposta alle leggi Jim Crow, nate per segregare i neri dai bianchi, imponendo una divisione nei servizi pubblici, nelle scuole e perfino nei ristoranti.
Tra i ristoranti simbolo della comunità vi fu il Sylvia’s di Harlem, aperto da Sylvia Woods nel 1962. Sylvia, nota come la “regina del soul food”, trasformò il suo locale in un punto di riferimento per afroamericani, contribuendo a diffondere la cultura del soul food a livello internazionale.
Oggi la cucina Soul viene celebrata in tutto il paese durante il Juneteenth, la festa indetta per l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti. In questa occasione, le famiglie afroamericane si riuniscono per preparare tutti i piatti tradizionali che gli ricordano i propri antenati che, nonostante le grandi sofferenze, diedero vita ad una delle cucine più gustose mai create.
Oggi celebrità e chef afroamericani hanno elevato questa cucina, facendola conoscere in tutto il mondo e aggiungendo innovazione al fine di valorizzare ancora di più le radici africane e afroamericane di questa straordinaria eredità. Il soul food è così diventato più di un topo di cucina: è un modo di tramandare storie, di ricordare le difficoltà e di celebrare la resilienza di un popolo.
Autrice: Alessia Cipolla
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Il celebre romanzo di Flaubert racconta la distanza inconciliabile tra i sogni romantici di una ingenua ragazza e la vita reale nella provincia della Francia di metà Ottocento. Mentre le tavole apparecchiate osservano, silenti, il suo lento e inesorabile scivolare nel baratro.
Nato a Rouen da padre medico e famiglia borghese, Gustave Flaubert (Rouen 1821- Croisset 1880) era solitario, introverso, malinconico, ma anche presuntuoso, rissoso e pieno di sé, poco incline allo studio ma molto alla storia e alla letteratura.
Si trasferì a Parigi per studiare giurisprudenza, senza molto convincimento né impegno. A seguito di un attacco epilettico abbandonò gli studi e nel 1844 si ritirò nella piccola proprietà familiare di Croisset, dove abitò fino alla morte e scrisse tutti i suoi successi tra i quali: “L’educazione sentimentale” (184345), “Salammbô “(1862) e il suo testo più noto, “Madame Bovary” (1856), pubblicato a puntate sulla “Revue de Paris”, provocando uno scandalo e un processo contro la morale pubblica che si concluse con un’assoluzione.
Già nel 1846, la morte del padre e dell’amata sorella Caroline, lo aveva portato a una depressione profonda ma, nonostante ciò, ebbe una vita piena, numerose relazioni con donne affascinanti e fece molti viaggi tra Medio Oriente, Grecia e Italia, frequentando assiduamente i salotti intellettuali pagini.
Gustave Flaubert di Eugène Giraud 1856- Château de Versailles
Perennemente insoddisfatto del suo lavoro, alla ricerca continua della “parola giusta” che potesse descrivere con efficacia una sensazione, un personaggio o un ambiente dei suoi romanzi, correggeva e riscriveva i testi in un lavoro estenuante e tormentato: era il suo maggior obiettivo assicurare una ricostruzione analitica della verità, lontana dal sentimentalismo romantico, a favore di un atteggiamento scientifico e impersonale. In questo fu un raccordo tra la fine del Romanticismo e l’inizio del Naturalismo della seconda metà dell’Ottocento.
Attraverso le sue pagine si ha uno spaccato implacabile della vita sociale a Parigi e della provincia francese tra la fine della Monarchia di Luglio, la Rivoluzione del 1848 e l’inizio della Seconda Repubblica: non a caso, Madame Bovary, basato su un fatto di cronaca realmente accaduto, ha come sottotitolo “Costumi di provincia”.
La trama del romanzo è nota: Emma, una giovane graziosa che vive nella provincia francese, figlia di un mezzadro benestante e orfana di madre, ben educata in un convento di città, dopo l’infelice matrimonio con Charles, un medico di campagna, semplice e vedovo, sogna di evadere dalla sua vita opprimente intrecciando due relazioni extraconiugali, illusorie e deludenti, e facendo debiti per qualche piccolo lusso. Tutto questo la schiaccerà, portandola al suicidio.
In realtà la figura di Emma si presta a più letture: incarna, certamente, le miserie borghesi di una monotona vita
coniugale di provincia ma è anche una storia fatta di ingenuità, di fragilità e di continue delusioni dovute alla distanza inconciliabile tra fantasia e realtà, tra un mondo interiore a caccia di passione e amore e la meschinità della vita di provincia. Tutt’attorno, il silenzio indifferente di personaggi sordi a tanto disagio.
In Madame Bovary il cibo condiviso e la sua presenza a tavola sembrano andare di pari passo con la caduta di Emma verso l’abisso: il suo banchetto di nozze, simbolicamente, è la cronaca di un fallimento annunciato. La giovane sposa avrebbe desiderato un banchetto se non proprio sontuoso, per lo meno elegante, magari a mezzanotte, con le fiaccole romanticamente accese, ma nulla di ciò che si era immaginata, accadde. I soli quarantatrè invitati, grezzi e provenienti dai villaggi vicini, si erano ripuliti, visibilmente, proprio per l’occasione e anche il suo vestito da sposa non era come nei suoi sogni: “un po’ troppo lungo, sfiorava il sentiero; di tanto in tanto ella si fermava, lo tirava su e delicatamente, con le mani guantate, toglieva le pagliuzze e gli aghi dei cardi”.
Poco raffinato era il menu e “agreste” l’allestimento del banchetto nella fattoria del padre: “La tavola era apparecchiata sotto la tettoia dei carri. C’erano quattro lombate di bue, sei fricassee di pollo, un umido di vitello, tre cosciotti arrosto, e, nel mezzo, un bel maialino di latte allo spiedo, circondato da quattro salsicciotti all’acetosella”. Non un fine centrotavola, certamente. La tavola era priva di decorazioni: “Negli angoli troneggiavano le bottiglie di acquavite e il sidro dolce, imbottigliato, premeva con la sua spuma densa contro i turaccioli. Tutti i bicchieri
erano già stati riempiti di vino fino all’orlo”. La crema di gelatina, poi, gialla e vanigliata, con il nome degli sposi inciso ad arabesco, tremolava a ogni movimento, esattamente come il futuro di Emma e Charles. Ma il dessert doveva ancora arrivare.
La torta nunziale di Emma
Era una torta verticale a più piani, un “pièce montée”, ossia un “pezzo assemblato”, tipica dei matrimoni e così descritta da Flaubert: “Era venuto un pasticciere di Yvetot per occuparsi delle torte e dei torroni. Questi si era dato un gran da fare, non essendo conosciuto nel paese, e al dolce servì personalmente una torta decorata che strappò grida di meraviglia. La base era costituita da un cartone quadrato azzurro, raffigurante un tempio con portici, colonnati, statuette di stucco disposte tutto intorno in nicchie costellate di stelle di carta dorata; al secondo ripiano v’era un torrione di pasta di savoiardi circondato da minute fortificazioni di angelica, mandorle, uva passa, spicchi d’arancia; infine sulla piattaforma superiore, costituita da un prato verde con rocce e laghi di marmellata ove navigavano barchette di gusci di nocciole, un Amorino si dondolava su un’altalena di cioccolata i cui pali di sostegno terminavano con due boccioli di rose fresche poste lì sopra a guisa di pomoli”.
La costruzione aveva alla base, quindi, un tempio simbolo dell’amore familiare, mentre al piano superiore, più che un castello, aveva un mastio medioevale le cui fortificazioni erano “piccole”, abbastanza scarne per i quarantatré invitati, ma poste a difesa della solidità del matrimonio; il terzo strato rappresentava un mondo idilliaco con il romantico lago e il prato che prefiguravano una vita senza asperità, “verde” come la speranza ma di edibile, anche qui, c’era ben poco. Era una torta fatta solo per essere ammirata e non gustata, una rappresentazione premonitrice di ciò che sarebbe stato: una misera illusione.
Dopo il matrimonio, Emma provò a soffocare la propria infelicità e il ribrezzo per Charles, senza riuscirvi. Non era l’angelo del focolare o la depositaria dei valori conservatori della società borghese. Rimase delusa anche dalla maternità. Non cucinava, servizio destinato a una governante di casa e, spesso, non mangiava: a tratti anoressica, rifiutava di nutrire il proprio corpo e di assaporare la vita che la circondava, per la quale provava disgusto, bevendo tè o aceto.
Avrebbe desiderato piatti raffinati, che accendessero la sua curiosità e la sua vitalità ma i silenziosi pranzi tra gli sposi erano a base di zuppa, vitello all’acetosella, bollito e porridge, testimoni del grigiore della sua vita coniugale e della nausea che si estendeva su tutta
la sua esistenza: “Ma avveniva soprattutto durante i pasti […]; in questa stanzetta del pianterreno, con la stufa che fuma, la porta che stride , i muri grondanti, i selci bagnati, tutta l’amarezza della sua esistenza gli sembrava servita nel piatto e, nel fumo della farinata, saliva dal fondo dell’anima come altri sbuffi di debolezza”.
L’invito al ballo al castello di Vaubyessard le fece assaporare, solo per una sera, un sogno abbagliante di fuga dalla sua noiosa vita verso un’esistenza nobile e romantica, preludio inconsapevole della misera fine: “Entrando, Emma si sentì investita da una folata calda, nella quale si mescolavano i profumi dei fiori, della bella biancheria, delle carni cucinate e dei tartufi. Le candele dei candelabri si specchiavano come fiammelle allungate nelle campane d’argento, i cristalli sfaccettati, velati da un vapore opaco, si rimandavano pallidi raggi di luce lungo la tavola per tutta la lunghezza della quale erano disposti in linea diritta mazzolini di fiori, e, nei piatti decorati con una larga bordura, i tovaglioli piegati a forma di mitra avevano fra le due pieghe un panino ovale. Le zampe rosse dei gamberi sporgevano dall’orlo dei piatti; sul musco posto dentro cestini traforati grossi frutti erano disposti in bell’ordine: dalle quaglie ancora sotto le loro piume si levavano volute di fumo.” E ancora: “Venne servito lo champagne ghiacciato. A Emma corse un fremito sulla pelle quando ne sentì il gelo sulle labbra. Non aveva mai visto le melagrane né assaggiato l’ananasso. Anche lo zucchero le sembrò più fine e più bianco di com’era abituata a vederlo”.
Al suo rientro a casa, il giorno dopo, l’attendeva una zuppa di cipolle.
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L'ANALISI
Autore: Luigi Franchi
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Sono sempre meno definiti i confini tra ristorazione e retail. Questa è la sintesi di una delle ultime indagini condotte da Circana, società di consulenza leader nella gestione e interpretazione della complessità del comportamento del consumatore. Infatti, secondo i dati CREST di Circana, i consumatori europei, nell’ultimo anno, hanno speso 888 miliardi di euro in cibo e bevande e il 37% di questa spesa è stata destinata a ristoranti e supermercati per prodotti relativi al consumo immediato. Per consumo immediato si intende cibi e bevande acquistati per essere consumati subito e che non richiedono quindi ulteriori preparazioni: pasti pronti e snack come panini, insalate, cibi caldi e bevande acquistati presso bar, ristoranti ma anche supermercati. È interessante notare che i segmenti non commerciali della ristorazione stanno guadagnando quota di mercato, trasformando il panorama competitivo poiché i consumatori cercano sempre più opzioni pronte al consumo non solo nei punti vendita tradizionali della ristorazione.
retail ridefinisce il consumo immediato
La ricerca di Circana mostra come i pasti pronti acquistati presso i retail - che spaziano da insalate e panini confezionati a pasti caldi come lasagne, paella e pollo arrosto - un tempo considerati un’opzione secondaria, stanno diventando concorrenti di bar e ristoranti.
Nella ristorazione questo cambiamento fa crescere canali alternativi, inclusi i supermercati, mentre bar e ristoranti tradizionali stanno perdendo terreno. Questo accade soprattutto dal post-pandemia, cioè da quando la prossimità e l’accesso veloce al cibo sono divenuti fattori chiave alla base del comportamento dei consumatori. La ristorazione commerciale ha visto la propria quota di mercato scendere dal 79% nel 2021 al 77% alla fine di giugno 2024, mentre i canali non commerciali come il retail hanno registrato una crescita, passando dal 21% al 23% nello stesso periodo.
Edurne Uranga, VP di Foodservice Europe di Circana, spiega che: “I consumatori non sono più legati alle categorie tradizionali. Prendono decisioni basate sull’accessibilità, sul valore e sull’esperienza a prescindere che provengano da un ristorante a servizio veloce (QSR) o dallo scaffale di pasti pronti di un supermercato”.
Opportunità per il retail e gli operatori del foodservice
In Europa la crescente domanda di opzioni Ready to Eat offre significative opportunità sia per i retailer che per i marchi della ristorazione. I retailer stanno traendo beneficio da questa tendenza espandendo la loro offerta di pasti freschi e pronti. Allo stesso tempo, le catene della ristorazione stanno esplorando nuovi modi per coinvolgere i clienti, incluse collaborazioni con retailer e lo sviluppo di proprie linee di prodotti Ready to Eat.
Partendo dai confini sempre meno delineati tra i settori, la competizione per la spesa dei consumatori si
è intensificata. Uranga prosegue: “I ristoranti quick service, come McDonald’s, Burger King, Subway e O’Tacos, sono in una feroce competizione non solo tra loro, ma anche con i marchi della grande distribuzione organizzata.
Questi giganti del retail stanno diventando rivali formidabili, offrendo pasti convenienti che sfidano la ristorazione veloce tradizionale. È una battaglia per conquistare il palato del consumatore, dove entrambi i settori si contendono l’attenzione dei clienti affamati in cerca di accessibilità, varietà e valore”. Questo cambiamento evidenzia la necessità, per le aziende di entrambi i settori, di innovare e rispondere alle preferenze dei consumatori in evoluzione.
Negli ultimi sette anni, il consumo fuori casa presso il canale retail è aumentato costantemente nella maggior parte dei paesi europei. I dati di giugno 2024, indicano la Francia con la percentuale più alta di spesa dei consumatori in questo canale pari al 6,8%, con una crescita del +17,5%. Il Regno Unito segue da vicino con una quota del 6,6%, mentre la Germania è al 5,8%, la Spagna al 4,2% e l’Italia al 3,5%.
Con lo sfumare dei confini tra ristorazione e retail, i rivenditori stanno cercando di catturare le opportunità di consumo immediato, mentre bar e ristoranti stanno puntando al consumo domestico, un mercato tradizionalmente dominato dal retail. Per raggiungere questo obiettivo, i ristoranti stanno espandendo le loro offerte includendo takeaway, drive-thru e possibilità di consegna. Questo permette loro di essere una scelta, non solo quando i consumatori mangiano in loco, ma anche quando consumano a casa.
Queste opzioni - takeaway, drive-thru e consegnarappresentano ora il 43% della spesa totale nel settore foodservice, equivalendo a un aumento di 6 punti percentuali rispetto ai livelli pre-COVID.
Autrice: Giulia Zampieri
Qual è l’unico senso che rimane defilato mentre si degusta un vino?
Se siete assidui frequentatori delle degustazioni o se ogni giorno aprite bottiglie per i vostri clienti non dovreste fermarvi nemmeno un secondo a pensare: è l’udito. Aprite ora una bottiglia con la scusa di volerci fare caso. Probabilmente a questo punto inizierete a prestare attenzione ai suoni che accompagnano quel momento: il tappo che scocca, il vino che sgorga nel bicchiere, la bollicina che sale più o meno agilmente rinfrancando la bevuta. Si generano dei suoni veri, rassicuranti, spesso accompagnati dalla curiosità di scoprire cosa si cela dentro a quella bottiglia.
“Parlando di vino, però, c’è anche un altro tipo di ascolto” ci dice Andrea Brunelli, produttore di San’Ambrogio di Valpolicella (nella parte occidentale della Valpolicella Classica) che conduce la sua azienda, Corte Bravi, con il fratello Ivano. Sono loro i protagonisti di questa puntata della rubrica.
Il motto dei fratelli Brunelli è aver ascolto, cura e rispetto. Parole semplici ma potenti, di cui ci si può riempire in abbondanza, come insegna la comunicazione contemporanea. La questione è però essere in grado di ottemperarle.
“L’ascolto ha un ruolo importante nella nostra azienda ma anche nella vita che sta al di fuori dell’ambito lavorativo. Ed è proprio lì, probabilmente, che risiede il cardine della nostra attività. Faccio un passo indietro per raccontarti come è cambiata la nostra azienda in questi tredici anni” inizia così Andrea, che non risparmia mai modi gentili anche quando lo si va a trovare in cantina.
“Corte Bravi nasce nel 2011. Io ed Ivano siamo legati, per familiarità, alla passione di fare il vino. Abbiamo sempre pensato che per svolgere questo mestiere ci fosse bisogno di prendersi delle responsabilità, di aver cura dell’uva e del territorio in cui abitiamo. È proprio ragionando su questi termini nel 2015 abbiamo intrapreso il
percorso di certificazione biologica. Ci siamo resi conto che le nostre famiglie e i nostri figli sarebbero cresciuti tra i vigneti che coltiviamo e questo ci ha dato ancora più stimolo ed entusiasmo nel salvaguardare la nostra terra. Così hai capito perché nelle nostre etichette è messa in evidenza una coccinella, simbolo della lotta biologica e della biodiversità”
Gli appezzamenti di Corte Bravi sembrano comporre un piccolo anfiteatro naturale, composto da vigneti, ulivi e qualche albero da frutto. Il tutto è adagiato su un terreno calcareo-argilloso, con un ottimo drenaggio. Mentre la cornice, gli spalti dell’anfiteatro, per intenderci, presentano un caratteristico tufo giallo. Tra un filare e l’altro compaiono solo distese d’erba e fiori di stagione. È un campo gioioso, in salute, quello su cui si muovono Andrea e Ivano.
“Per noi avere cura e rispetto significa prima di tutto eliminare del tutto l’utilizzo di pesticidi in campo, e poi utilizzare solo acqua piovana e avvalerci di energie rinnovabili. Ma soprattutto ai nostri vigneti non chiediamo nulla di più di ciò che le viti possono darci. Siamo convinti che dare ascolto significhi capire la natura e non sottometterla, non forzarla mai. Questo genera piacere e benessere anche in noi, nelle nostre vite”. Poco dopo esce spontanea la frase, in controtendenza rispetto a chi parla solo di annate: “Personalmente la soddisfazione più grande che traggo da questo lavoro è passeggiare tra i vigneti e accompagnare chi ci viene a farci visita”.
La scelta del vino conviviale
Le precise scelte in campo sono affiancate da scelte altrettanto mirate in cantina. Il tutto rispettando un proposito che rende Corte Bravi un’azienda singolare in Valpolicella.
“La nostra idea è quella di produrre vini comprensibili e conviviali, ma anche autentici e sinceri, a partire dalle uve tipiche di questa zona, ossia Rondinella, Corvina, Corvinone, Molinara e Oseleta. Perseguiamo l’idea di vini dalla beva facile, come quelli che si era soliti consumare in questa zona prima che il trend della Valpolicella prendesse strade precise, con l’exploit del Ripasso e dell’Amarone. Con piacere constatiamo che queste scelte vengono comprese e apprezzate sia dal mercato nazionale che internazionale, su cui siamo presenti soprattutto nel canale Horeca”.
Come sempre non ci soffermeremo su ciascuna etichetta (questo lavoro lo lasciamo a voi e alla vostra curiosità di
conoscere e scoprire il produttore!) ma è importante sottolineare una scelta dei fratelli Brunelli: nobilitare il più possibile il Valpolicella, un vino considerato dai più ‘di ingresso’ ma in realtà, se ben lavorato, capace di gratificazioni enormi. Ed è proprio il Valpolicella ad esprimere al meglio la vocazione del territorio, secondo Andrea e Ivano, più che la capacità evolutiva dell’uva lavorata in appassimento per produrre l’Amarone.
Da Corte Bravi seguono una linea dritta e armonica, ma non si risparmiano nemmeno ponderate esplorazioni.
“Per noi la fermentazione è in ogni caso spontanea, sui propri lieviti indigeni, senza l’uso di additivi di sintesi, con bassi solfiti o esenti. I vini vengono messi in bottiglia non filtrati. E questi sono i punti inamovibili. Poi in questi anni ci siamo anche concessi dei test. Per esempio il Corvinone in purezza, rosato e frizzante, nato dalla rifermentazione in bottiglia. Con le uve Corvina invece abbiamo testato l’affinamento in anfora; non per diletto o per moda, sia chiaro, ma perché sembra predisposto ad esiti speciali. È il nostro Scatto”.
La voce della musica
Parlavamo di ascolto, un po’ filosofeggiando nelle righe iniziali, giusto?
C’è un altro tipo di ascolto da cui non si può esimersi quando si incontrano Andrea e Ivano. E lo si capisce dopo aver messo piede nella saletta di degustazione, dove oltre a bottiglie e foto rappresentative troneggia anche un gira dischi e tantissima buona musica da degustare.
“La mia passione per la musica, in particolare per il rock, la devo a mia moglie Fabiana” ci confessa Andrea.
“Ho sempre trovato una connessione tra queste due mondi. Sono affascinato dal fatto che un vino, come un brano, siano unici e possano accompagnare un momento speciale, irripetibile, della nostra vita. La musica è anche lo strumento con cui cerco di spiegare i nostri vini ad alcuni clienti, o persone di passaggio, specie quando non sono del settore e vengono solo per il piacere di scoprire e avvicinarsi alla nostra azienda. Quando c’è un’arte di mezzo spesso si creano delle connessioni, il linguaggio diventa più facile e comprensibile. Tutto si armonizza”.
Se volete avere un primo assaggio, pardon un primo ascolto, e divertirvi, andate a questa pagina del loro sito (https://www.cortebravi.com/i-nostri-vini/) o, meglio ancora, prendete la rotta per San’Ambrogio di Valpolicella!
Autore: Guido Parri
L’ottava edizione di Una città da gustare, un’iniziativa culturale ideata da Paolo Pagnoni per affrontare i temi della ristorazione dell’ospitalità, ha visto la partecipazione di sala&cucina come media-partner e l’intervento del direttore responsabile del magazine, Luigi Franchi, a una sessione del ricco programma, per parlare di ristorazione solidale e dignità del lavoro in questo settore. È stata l’occasione per presentare Amodo, la rete dei ristoranti etici, ideata proprio da sala&cucina nel 2021.
A condurre il confronto il giornalista Alfredo Antonaros che ha chiesto a Luigi Franchi come è nata l’idea di Amodo.
“Quando eravamo nel pieno della pandemia, con i miei colleghi della redazione, abbiamo avvertito la necessità di fare chiarezza sul mondo della ristorazione. – racconta Luigi Franchi - Non avevamo più certezze, nessuno era in grado di prevedere il futuro in quei mesi, però sapevamo che la ristorazione stava cambiando diventando un vero e proprio fenomeno sociale. Infatti, non appena finì il periodo pandemico, le persone scelsero i luoghi della ristorazione come i primi per ricostruire un tessuto relazionale. Da quel momento quel bisogno non si è più fermato. Si doveva, a quel punto, evidenziare quei ristoranti che non avevano timore di raccontarsi anche dietro le quinte, nelle loro cucine, nel rapporto tra titolari e dipendenti; si dovevano mettere in risalto gli aspetti, non solo di una buona cucina, legati alla cura che si ha degli ambienti, dell’accoglienza, di un corretto rapporto con i fornitori perché le persone sapessero dove tutto, in quel ristorante, funzionava correttamente, eticamente. Da qui la nascita di un decalogo a cui, i ristoranti aderenti ad Amodo, si riconoscono, e da parte nostra, la promozione di quei locali. Vogliamo che Amodo diventi un vero e proprio movimento culturale per la ristorazione”.
Dopo l’intervento del direttore di sala&cucina, la parola è andata a: Paolo Teverini, chef dell’omonimo ristorante di Bagno di Romagna, Enrico Cerioni, del ristorante La Lanterna di Fano, Mario Di Remigio, del ristorante Polo pasta e pizza di Pesaro, Giuseppe Portanova, dell’omonimo ristorante di Urbino, Luciano Cecchini, vicepresidente di Federalberghi Marche, Lucio Pompili del Symposium di Cartoceto.
Una città da gustare ha ideato un calendario estremamente interessante che ha visto anche un convegno sulla riforma scolastica degli istituti alberghieri dove si sono confrontati molti dirigenti e professori degli istituti marchigiani. E anche la presentazione-conversazione, sempre a cura di Alfredo Antonaros con l’autore, del libro di Paolo Tebaldi, The Washington tales. I racconti di Vasinto. Di straordinario interesse sono stati gli incontri tra Antonaros, presidente del comitato scientifico di Una città da gustare, e il professore nonché biologo marino, Corrado Piccinetti, sul pesce del Mar Adriatico e sul brodetto di pesce alla Fanese, a cui hanno partecipato gli studenti del corso di cucina dell’istituto alberghiero.
“È stata una bella edizione – ha commentato Paolo Pagnoni – che ci sprona ad andare avanti. Una città da gustare è una piccola manifestazione, rispetto ad altre che hanno visibilità internazionale, ma il nostro obiettivo è parlare al territorio, coinvolgere i ragazzi delle scuole, dare loro gli strumenti per capire quale sarà il loro futuro nell’ambito della ristorazione e dell’ospitalità”.
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Autore: Guido Parri
Un Open Day per presentare l’ampliamento del magazzino si trasforma in un’esperienza memorabile
L’appuntamento era nell’aria già da tempo ma prima si doveva chiudere la stagione per i ristoranti e gli hotel serviti da Fassa Coop Ingross. Anche questo dà il segno della serietà di questa azienda che non poteva lasciare, neppure per un minuto, soli i propri clienti.
Poi è arrivato il fatidico giorno – il 25 ottobre 2024 - e, agli occhi di un pubblico numerosissimo, si è svelato non solo un ampliamento di un magazzino ma un nuovo modello lavorativo e professionale che un’adeguata logistica impone.
“Manteniamo l’impegno di Fassa Coop Ingross verso una crescita sostenibile – ha dichiarato il presidente Norbert Bernard - a favore della comunità locale. Il progetto, nato nel 2019, è volto a rafforzare l’offerta della cooperativa per una clientela diversificata, che comprende piccoli negozi di paese e grandi strutture di hotellerie della Val di Fassa. È un progetto che rappresenta un nuovo punto di partenza per la nostra cooperativa, rispondendo alle esigenze di un territorio con forte vocazione turistica.”
Il direttore di Fassa Coop, Luca Giongo, ha invece messo l’accento sull’importanza di un investimento rilevante in termini economici: “Parliamo di 5 milioni di euro, con 3,5 milioni destinati a ditte locali, per un ampliamento del magazzino da 2.400 a 4.000 metri quadrati. Questo ha portato a una crescita del 40% nelle vendite e a un aumento dell’occupazione, che oggi conta 35 dipendenti fissi e 50 stagionali. La soddisfazione maggiore arriva dai nostri clienti e dal personale, che è la linfa vitale della nostra azienda”.
Un’affermazione, quest’ultima, che ha avuto pronta risposta dalle decine di clienti, albergatori e ristoratori, presenti; il trait d’union delle loro parole è riassumibile così: “Abbiamo vissuto la passione che ciascuno di voi mette nel proprio lavoro, grazie di avercela trasmessa.”
L’ampliamento, oggetto dell’inaugurazione, ha ulteriormente potenziato le capacità di Fassa Coop Ingross – il comparto dedicato all’horeca della Famiglia Coope-
rativa Val di Fassa, aderente al gruppo Cateringross, il primo consorzio cooperativo italiano di distributori nel canale dei consumi fuori casa - una realtà che oggi gestisce un magazzino di 4000mq di superficie, oltre 300 fornitori, più di 600 clienti, 14 milioni di euro di acquisti annuali, una movimentazione di merci che supera il milione di chilogrammi. Ogni anno vengono effettuati 6.000 ordini a fornitori e gestiti 32.000 consegne, destinate inevitabilmente ad aumentare. Tra le novità introdotte, nuovi software gestionali e soluzioni per il risparmio energetico, tra cui un sistema di raffreddamento a CO₂ e pannelli fotovoltaici che coprono un terzo del fabbisogno energetico dell’intero centro.
Un insieme di soluzioni che cambiano anche la percezione del ruolo del distributore, non più un semplice raccogli-ordini bensì un consulente per gli chef e i ristoratori, in grado di proporre sempre nuove referenze di prodotto, di cogliere i bisogni del cliente conoscendo a fondo il mercato, non solo locale.
Autore: Guido Parri
La 48ª edizione di Hotel, la fiera che Bolzano dedica ogni ottobre a hôtellerie e ristorazione giunta alla 48° edizione, si è chiusa con oltre 19.000 visitatori. Con i suoi oltre 400 espositori e un ricco calendario di appuntamenti, la manifestazione ha avuto il suo filo conduttore in ospitalità e soluzioni ricettive, sostenibilità ambientale e ristorazione, insieme a soluzioni di design e architettoniche all’avanguardia.
“Siamo molto soddisfatti dall’andamento di questa ultima edizione di Hotel, in cui abbiamo registrato un ottimo e alto livello qualitativo di presenze, così come di partecipazione di espositori di qualità provenienti da tutta Italia e non solo. Il nostro obiettivo, infatti, non è tanto aumentare i numeri di pubblico, ma continuare ad accrescere la qualità dei visitatori specializzati” spiega Thomas Mur, Direttore di Fiera Bolzano
Nel contesto di Hotel spiccava la proposta di Foppa taste supporter che ha colto l’occasione per festeggiare i primi 60 anni di attività. All’ingresso della fiera campeggiava, infatti, una Fiat 600 d’epoca con cui il nonno di Peter Foppa aveva iniziato l’attività di grossista vendendo uova.
Di tempo ne è trascorso ma non invano se pensiamo che oggi Foppa taste supporter è uno dei distributori d’eccellenza nell’horeca, con una struttura impostata interamente sulla sostenibilità, non solo ambientale ma anche economica e sociale.
“Per questa manifestazione – ha dichiarato Peter Foppa – ho dato un’indicazione precisa ai miei agenti: quella di intercettare tutti gli hotel e ristoranti che si dichiarano sostenibili perché non possiamo far altro che diventare loro principali partner. Infatti noi la sostenibilità l’applichiamo già da diverso tempo. Da quattro anni siamo membri di TurnToZero (ex Climate Neutrality Alliance 2025) e svolgiamo il nostro lavoro in modo neutrale al 100% per il clima. Dagli anni ‘80, utilizziamo camion con diverse zone di temperatura e consegnamo il cibo con un solo camion ad alberghi, ristoranti, bar, negozi, ma anche a case di riposo e mense in tutte le valli e su tutte le montagne dell’Alto Adige. Queste decisioni sono state probabilmente le più sostenibili poiché ci hanno consentito di evitare viaggi inutili e di poter inviare i nostri camion a destinazione sempre a pieno carico.”.
“Del resto le parole mostrano come una persona vorrebbe essere. – ha spiegato Peter Foppa – Le azioni mostrano chi è realmente”.
Lo spazio espositivo di Foppa taste supporter era caratterizzato dal nuovo brand DoGusto, un insieme di prodotti alimentari d’eccellenza per alzare il livello della proposta del distributore verso i propri clienti della ristorazione. Un brand che è dato in esclusiva alle 40 aziende facenti parte del gruppo Cateringross, il primo gruppo cooperativo di distribuzione nel canale horeca, a cui Foppa taste supporter è associata.
“Si tratta di un nuovo brand che abbiamo deciso di lanciare perché c’è bisogno di innovazione nelle proposte che un distributore deve fare ai propri clienti ristoratori. – ha commentato Peter Foppa – E avere l’esclusiva per tutto l’Alto Adige è un vantaggio competitivo importante. Le prime reazioni, raccolte in fiera, sono molto positive”.
Autore: Luigi Franchi
Per una volta, finalmente, non ci sono atteggiamenti sciovinisti da parte di noi italiani verso le scelte della guida Michelin, in questa edizione 2025 presentata al Teatro Pavarotti Freni di Modena il 5 novembre.
Sarebbe anche ora, visto che la Michelin non è solo francese ma dimostra, anno dopo anno, che ha una precisa visione di quello che succede nel mondo riguardo alla ristorazione.
Lo stesso direttore internazionale della guida - Gwendal Poullennec – lo ha ribadito nel suo intervento introduttivo, parlando del nostro Paese: “La cucina italiana è quella che influenza maggiormente la scena gastronomica mondiale”.
Parole che trovano riscontro proprio nelle scelte della guida 2025, la settantesima uscita in Italia. Marco Do, direttore comunicazione Michelin Italia lo ha ricordato ripercorrendo sinteticamente una storia iniziata nel 1956 e chiamando sul palco il patron della più antica stella Michelin italiana che detiene dal 1959, cioè dal primo anno in cui vennero assegnate le stelle: Roberto Bottero di Clinica Gastronomica
Arnaldo di Rubiera (RE).
La sorpresa di questa edizione è l’assegnazione che porta a quattordici i ristoranti Tre Stelle Michelin in Italia. Una scelta che non si può che condividere appieno: Giancarlo Perbellini e il 12 Apostoli di Verona.
“Ho cominciato qui, ai 12 Apostoli, avevo 14 anni e frequentavo la scuola alberghiera. – ha detto, commosso, lo chef veronese – Mi sembrava, ogni mattina, di entrare nel tempio della cucina italiana, un po’ timoroso. Un anno fa ho fatto la scelta di diventarne proprietario e questo riconoscimento è l’emozione più forte che potesse capitarmi”.
Giancarlo Perbellini è uno chef che ha dato molto all’affermazione della ristorazione nel nostro Paese; ha formato tantissimi ragazzi e ragazze che ora sono bravi chef; ha fatto cultura vera; ha generato economia vera. Non poteva esserci modo migliore per la Michelin di celebrare il 70° anniversario della guida italiana.
Anche i 33 nuovi stellati, le 11 nuove stelle verdi, i due nuovi bistellati e i premi speciali quest’anno hanno rispecchiato, con estrema attenzione, la crescita della ristorazione in Italia. Ecco i loro nomi:
Una nuova stella Michelin a:
• Grow Restaurant di Albiate (Mb)
• Ristorante Cetaria di Baronissi (Sa)
• Volta del Fuenti by Michele De Blasio a Vietri sul Mare (Sa)
• Ancòra Cesenatico di Forlì Cesena
• Equilibrio di Dolcedo (Im)
• Cannavacciuolo Le Cattedrali di Asti
• Dissapore di Carovigno (Bs)
• Serrae Villa di Fiesole (Fi)
• Contrada di Castelnuovo Berardenga (Si)
• Saporium a Chiusdino (Si)
• Alto Ristorante di Fiorano Modenese (Mo)
• O me o il mare di Gragnano (Na)
• Don Alfonso 1890 di Sant’Agata Sui Due Golfi (Na)
• Il Circolino di Monza (Mb)
• Olmo a Cornaredo (MI)
• Cucina Cereda a Ponte San Pietro (Bg)
• Moebius a Milano
• Acqua di Olgiate Olona (Va)
• Sine by Di Pinto a Milano
• Cannavacciuolo Laqua by The Lake di Pettenasco (No)
• Locanda de’ Banchieri a Fosdinovo (Ms)
• Grual di Pinzolo (Tn)
• Abbruzzino Oltre di Lamezia Terme (Cz)
• Marotta di Squille (Ce)
• Ristorante del Lago di Bagno di Romagna (Fc)
• Iris Ristorante di Verona
• Locanda Mammì di Agnone (Is)
• Palays Royal Restaurant, Venezia
• Casa Leali di Puegnago sul Garda (Bs)
• Achilli al Parlamento di Roma
• Vineria Modì di Taormina (Me)
• Tancredi di Sirmione (Bs)
• Al Gatto Verde di Modena
Due nuove stelle Michelin a:
• Villa Elena di Bergamo
• Campo del Drago di Montalcino (Si)
11 nuove stelle verdi Michelin a:
• Villa Maiella di Guardiagrele (Ch)
• Prezioso di Merano (Bz)
• Artifex di Brennero (Bz)
• Don Alfonso 1890 di Sant’Agata sui Due Golfi (Na)
• Al Gatto Verde di Modena
• Ronchi Rò di Dollegna del Collio (Go)
• Agriturismo Ferdy di Lenna (Bg)
• Il Tiglio di Montemonaco (Ap)
• Locanda La Raia di Gavi (Al)
• Il Cappero di Isola di Vulcano (Me)
• Bistrot di Forte dei Marmi (Lu)
I premi speciali a:
• Sommelier Award (Consorzio Franciacorta) - Oscar Mazzoleni, Al Carroponte (Bg)
• Service Award (Intrecci) – Vanessa Melis, Pascucci al Porticciolo di Fiumicino (Roma)
• Young Chef Award – Matteo Vergine, Grow Restaurant di Albiate (Mb)
• Mentor Chef Award (BlancPain Italia) – Antonino Cannavacciuolo di Villa Crespi, Orta San Giulio (No)
A cui si aggiunge un nuovo premio – Passion Dessert –voluto da Mulino Dellagiovanna che va a:
• Ristorante Riva Numana (An)
• All’Enoteca di Canale (Cn)
• Il Visibilio di Castelnuovo Berardenga (Si)
• Re Santi e Leoni di Nola (Na)
• Inkiostro di Parma
• Agli Amici Dopolavoro di Venezia
• Coltivare di La Morra (Cn)
Per avere tutte le informazioni sui 393 ristoranti stellati italiani 2025 è disponibile la guida ovviamente ma anche l’app Guida Michelin che si può scaricare gratuitamente e fa accedere a più di 21.000 ristoranti e hotel nel mondo
Perbellini
Autrice: Giulia Zampieri
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Che volto ha e avrà la ristorazione italiana?
È un quesito che si pongono in tanti, talvolta sconfinando su argomentazioni molto lontane dalle nostre radici e delle variopinte culture che caratterizzano il nostro Paese. Basta scorrere i menu di alcuni locali per capire che a volte le evoluzioni e le novità sono ragionate, altre invece sono per puro diletto e quindi destinate a svanire.
Poi c’è chi lavora silenziosamente, a contatto con la terra, con gli usi e i costumi locali, e nel proprio locale dà esempio di metodi virtuosi, sani, che funzionano e generano benessere. Lì, in quelle attività, chi è al timone naviga con alberi saldi: la conoscenza, prima di tutto, e poi il rispetto per materie, ambiente e persone.
A questo modo non si può non associare il nome di Stefano D’Onghia, cuoco e patron di Botteghe Antiche a Putignano
La comprensibilità
Stefano D’Onghia ha coltivato per anni la sua passione lontano dai fornelli professionali, ma la vocazione per la cucina lo porta ben presto a cambiare vita, portandolo alla Scuola Internazionale di Cucina ALMA, diretta da Gualtiero Marchesi, nella quale si diploma nel luglio del 2007 ed effettua uno stage al fianco di Marchesi stesso. Poi continua in diversi ristoranti ma con un desiderio che ben presto si realizza: tornare nella sua Putignano per dare vita alla sua osteria, Botteghe Antiche.
“Innovare? Qui non sentiamo il bisogno di innovare. Siamo convinti che nella sottrazione vi sia il vero valore aggiunto per affrontare la contemporaneità. Nel fare ristorazione non dobbiamo aggiungere ma piuttosto compiere un passettino indietro, rimettendo al centro la comprensibilità e la semplicità”
Un’idea chiara, che tradotta significa dare pieno valore alle tradizioni quanto alle materie prime
“Per noi rispettare il cibo significa affidarci a prodotti di cui conosciamo l’origine, acquistati da micro produttori locali o raccolti dal nostro orto. Sono pratiche che conduciamo da sempre, sin da quando abbiamo aperto, perché era per noi naturale fare così. Un’attitudine sposata prima che certi termini diventassero di moda”
Da Botteghe Antiche, che si raggiunge percorrendo strade piene di piccole botteghe artigiane, si respira aria di casa. A centro della sala è collocata la cucina a vista che rende l’atmosfera calda e conviviale. Ma soprattutto c’è accoglienza vera, verso chi ci lavora e verso i clienti.
“Per noi il rispetto deve risiedere in ogni cosa” ci dice Stefano.
“Crediamo che per fare questo lavoro al meglio ci vogliano i giusti momenti di riposo, pertanto cerchiamo di garantire due giorni e mezzo di stacco per tutti, oltre che l’ascolto dei bisogni dei nostri collaboratori. A volte, anche non intenzionalmente, si rischia di perdere il filo nella gestione dei rapporti umani. Un’attività è complessa e non sempre si riesce ad essere impeccabili. Proprio per scongiurare questo problema… mettiamo in cima alle nostre priorità il rapporto con le persone!”.
L’altra grandissima attenzione riguarda gli ospiti, qualunque sia la loro provenienza.
“Siamo una piccola realtà ai margini di una zona altamente frequentata dai turisti. Siamo una sorta di finestra per coloro che cercano un spazio tranquillo, lento. Un terzo, forse anche di più, della nostra clientela non è locale. A loro con orgoglio raccontiamo la nostra terra, cercando di trasferire sicurezza e identità territoriale, come se fosse una missione vera e propria”.
Come già accennato Stefano sin da quando ha inaugurato l’attività persegue certi valori, che combaciano
con quelli di Amodo, la rete dei ristoranti etici.
“Sostenibilità ed etica sono parole vuote se non gli si dà corrispondenza concreta. Posso stilare una lista di azioni che conduciamo quotidianamente in modo silenzioso, ma in cui crediamo fermamente. La prima, come già accennato, è la flessibilità degli orari. La seconda: la fornitura elettrica acquistata da chi lavora con fonti rinnovabili. Poi, il prediligere sempre il rapporto con le realtà territoriali più vicine dando linfa all’economia di zona. Ancora: la narrazione attenta, e soprattutto corrispondente al vero, di ciò che scegliamo e serviamo. Non abbiamo bisogno di dirlo, abbiamo bisogno di farlo!”.
Ci accodiamo al pensiero di Stefano: oggi stiamo velocemente svuotando di significato i termini etica e sostenibilità. Il rischio è che siano parole gettate al vento; meri strumenti di marketing e comunicazione. Non conta quanto e se vengono nominate, conta quanto aderenza vi sia a queste due potentissime e indispensabili parole.
scopri Osteria
Botteghe Antiche su Amodo, la rete dei ristoranti etici
Osteria Botteghe Antiche
Piazza Plebiscito, 8 70017 Putignano (BA)
Tel. 080 491 1813
www.bottegheantiche.com
Autrice: Marina Caccialanza
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Una locanda, ma anche un ristorante, una pizzeria e un bistrot accogliente.
Black & White a Sondrio è il luogo perfetto per la pausa che cerchi, a tutte le ore
Qualsiasi cosa cerchi, al Black & White di Sondrio la trovi. Perché il locale offre ogni tipo di accoglienza, dalle 7 del mattino fino alle 3 di notte, ininterrottamente, per soddisfare le esigenze che nel corso della giornata si presentano a chi frequenta il luogo.
E a frequentarlo, per il 70%, sono i clienti locali perché da oltre trent’anni è un punto di riferimento.
Lo spiega con chiarezza il patron Stefano Carnazzola: “Ci troviamo alle porte della città e siamo ristorante, bistrot e pizzeria, albergo con 4 suite al piano superiore e tabaccheria incorporata. Cominciamo alle sette del mattino con le colazioni e terminiamo alle 3 di notte quando gli ultimi clienti chiudono il cerchio con il bicchiere della staffa. Ma durante questo periodo offriamo servizio non stop e se alle 10 del mattino o alle 4 del pomeriggio il cliente ci chiede un piatto di pizzoccheri o di sciatt alla valtellinese siamo pronti ad accontentarlo”.
Cucina sempre aperta, dunque e, soprattutto, apertura totale a qualsiasi richiesta perché l’accoglienza
per Stefano Carnazzola è una prova e un’esibizione di professionalità. Ed è proprio questo che contraddistingue il Black & White.
“La disponibilità ad accontentare il cliente è il nostro punto di forza – afferma Carnazzola – ed è frutto di impegno e organizzazione. Il nostro mestiere non è facile, e non può essere risultato di improvvisazione, occorre metodo e capacità di intercettare i desiderata degli ospiti, saperli anticipare e soddisfare con efficienza”.
I clienti sono prevalentemente gente del posto, che conosce da sempre il locale e ne sa apprezzare l’ospitalità, ma il 30% sono turisti e per loro bisogna saper conservare quel pizzico di tipicità che attrae, l’originalità della cucina tipica e dell’atmosfera della valle. Per questo il menù è ampio e articolato e offre dai semplici panini alla pizza, dai primi tipici valtellinesi o tradizionali italiani ai secondi di carne o di pesce alle grigliate, una cantina ben fornita, cocktail e perfino tè e infusi perché dall’alba a notte fonda sono tante le necessità degli ospiti.
La pizzeria è un classico, è molto richiesta e non può mancare, e Stefano Carnazzola ne è orgogliosamente artefice. “Per molti anni mi sono occupato di persona della lavorazione degli impasti; oggi ho delegato ma l’impronta è quella che ho studiato e messo a punto con un lungo lavoro di ricerca. La nostra pizza è classica, non ho mai voluto seguire tendenze innovative, però ho scelto di realizzare un impasto a lunga lievitazione ottenuto con lievito madre, maturato almeno seigiorni fino a 10 giorni quando raggiunge il top. È una mia ricetta, frutto di lungo studio e prove, ed è un impasto unico che oggi ci dà grandi soddisfazioni ed è molto apprezzato. Utilizzo la farina Rossa classica di 5 Stagioni perché è quella che nel tempo mi ha offerto la migliore resa, il resto lo ha fatto l’esperienza. Ho dato l’impronta al lavoro e controllo accuratamente che si svolga come programmato. Del resto è questo che deve fare il titolare di un’attività di ristorazione: se vuoi che il lavoro venga fatto bene, devi saperlo impostare e tenerlo sotto controllo”. Un impegno costante e produttivo, benché gravoso, che è il segreto del successo. “Il cliente – afferma Carnazzola – non deve accorgersi di eventuali sfumature o cambiamenti, né nella struttura né nel ristorante. Per il cliente tutto deve essere sempre uguale perché, quando torna, si aspetta di trovare lo stesso prodotto e la stessa qualità. Su questo non transigo e sono molto attento; seguo e controllo personalmente i miei ragazzi”. Una filosofia che premia la professionalità in un settore che negli ultimi anni ha subito grandi cambiamenti ed evoluzioni e che Stefano Carnazzola descrive come diversificato: “La ristorazione è cambiata nel senso che è aumentata e differita. La gente mangia meno ma mangia meglio: dove prima si ordinava un menù completo dall’antipasto al dolce, oggi si sceglie uno o due piatti, però devono essere di grande qualità. Oggi nessuno cerca più l’abbondanza bensì la qualità e noi dobbiamo saperla
garantire. Per questo è importante avere un progetto e una visione chiara di quello che è il nostro mestiere: la concorrenza è pressante, può influire sul prezzo ma non sulla reputazione, dobbiamo essere preparati a valutare ogni situazione con prontezza. Il mio cliente torna perché gli offro un servizio su misura, ho sempre un occhio di riguardo per le sue esigenze, e la mia proposta è di qualità: i miei fornitori sono sempre gli stessi perché negli anni si è stabilito un rapporto di fiducia basato sul valore del servizio. Perché il buon cibo non basta: ci vuole attenzione, bisogna conoscere il mestiere, occorrono flessibilità e competenza. Pochi centesimi non fanno la differenza, il servizio sì”.
Black & White s.r.l.
Via Vanoni, 101 A/B 23100 Sondrio (SO) tel. 0342/213027
JALABITE
Dal 1986, CGM unisce la tradizione gastronomica italiana all'esplorazione delle tecnologie alimentari del freddo. La nostra missione è la stessa di 38 anni fa: aiutare i professionisti dell'HoReCa e della GDO nella sfida di deliziare i palati più esigenti con prodotti surgelati pratici e di qualità.
Nel piatto, qualità. Nel menù, scelta.
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Tre amici, non al bar, come dice la canzone, ma al ristorante e, invece di voler cambiare il mondo, con in testa l’idea più concreta di costruire un’impresa nel mondo del food, un mondo che conoscono bene e nel quale si sono distinti
www.itrechef.it
I Tre Chef sono Walter, Fulvio e Diego, hanno diversa età e diversi percorsi professionali ma le loro strade sono tutte partite dallo stesso luogo: la cucina stellata del Cascinale nuovo di Isola d’Asti.
E così, Walter Ferretto, Fulvio Siccardi e Diego Pattarino, chef con una buona reputazione riconosciuta anche dalle Michelin star che si sono aggiudicati nel tempo, hanno deciso di intraprendere la produzione di pasta ripiena, una pietanza da sempre preparata e cucinata nei loro ristoranti e per la quale ricevevano consenso dai clienti e lusinghiere critiche dagli specialisti.
“Quando abbiamo iniziato a pensarci ci siamo posti una domanda: ma c’è bisogno di un’altra azienda che produca ravioli? – raccontano i nostri protagonisti - e visto che oltre a cucinare, nei rari momenti di pausa, anche noi frequentiamo i ristoranti, ci siamo risposti che di un’altra azienda che faccia ravioli non c’era sicuramente bisogno ma di un prodotto eccellente sì. Abbiamo dedicato mesi a mettere a punto le ricette e fatto prove in cottura e ci siamo convinti che per realizzare il prodotto che avevamo in mente dovevamo percorrere la strada del gelo che ci consentiva di non dover ricorrere a conservanti, addensanti, additivi che ne avrebbero alterato il gusto. Così sono nati i nostri ravioli, con l’intento di non cedere a manipolazioni opportunistiche ma di realizzare un prodotto di alta qualità, con una pasta realizzata con una miscela di farine selezionate in partnership con Molino Signetti, formata dal 60% di grano tenero e dal 40% di grano duro,
per ottenere la giusta elasticità e consistenza con un tempo di cottura ridotto e un’ottima tenuta”.
Una gamma completa, dai classici della cucina interpretati ai gusti innovativi
Anche per il ripieno si segue la stessa linea con l’esclusione di ogni tipo di additivo, l’utilizzo ridottissimo di pan grattato, senza addensanti come la farina di soia, e con sola fibra vegetale che non apporta calorie ed è insapore, per ottenere una piacevole cremosità e scioglievolezza oltre alla certezza di salubrità.
La scelta, poi, delle materie prime cade opportunamente su quelle italiane, ad esclusione del gambero argentino, come le sceglierebbe uno chef stellato, con un approccio etico, attraverso produttori selezionati.
Le uova, per esempio, provengono da un produttore che garantisce l’allevamento a terra e vengono lavorate con una quasi assoluta prevalenza di tuorlo e pochissimo albume, con un dosaggio che rende la pasta consistente e giustamente elastica.
La gamma di prodotti è davvero ampia, dal Quadrifoglio delle Langhe al tartufo, la cui forma è un marchio registrato, al Raviolo gobbo alla piemontese, a quello alla Norma o al Pesto di basilico solo per citare alcuni appartenenti alla tradizione. L’innovazione ha ampio spazio, con soluzioni di gusto inusuali ma avvincenti come nel caso del Quadro con maiale BBQ, del Quadrato d’anatra con cavolo verza e foie-gras, del classico Cacio e pepe rivisto
con l’aggiunta di piselli, della Mezzaluna con polpo, pomodoro e capperi o del Quadrato di pollo e riso speziato Una cosa ci tengono a precisare i 3 chef: “Siamo direttamente impegnati in azienda a garantire la filiera e a sperimentare gusti nuovi, con la presunzione che, dopo diversi decenni di professione di chef, abbiamo la capacità critica di proporre alla nostra clientela solo quello che ha convinto noi stessi”. Una particolarità che distingue la loro produzione oltre la qualità.
E dunque, alla domanda “perché la nostra pasta dovrebbe essere acquistata?” La risposta non può che essere “perché sarà la migliore”.
E così, a marzo del 2019 nasce la società Albagnulot col brand I Tre Chef e un payoff distintivo “fatti di un’altra pasta”.
Senza saperlo hanno costruito il loro “perché” intorno al primo principio del marketing mix: fai un prodotto simply better, semplicemente migliore.
Quei tre amici in cucina hanno da sempre le mani in pasta, sanno lavorare il prodotto ma sono anche giudici severi, abituati a servire una clientela esigente in locali stellati e quindi nessuna sorpresa se per tirar fuori il prodotto migliore impiegano mesi fra la selezione delle
materie prime, la scelta dei ripieni per i ravioli, le prove su prove di consistenza, di cottura, di conservazione, di gusto. Prodotti che nel settore si definiscono premium e che vengono subito apprezzati dai clienti anche e soprattutto in degustazioni cieche, per la serie: se l’assaggi t’innamori.
Il progetto risponde alla nuova e sempre più sentita esigenza degli operatori del settore di qualificare la propria offerta proponendo una selezione di paste artigianali in grado di soddisfare i consumatori più esigenti.
La ricerca delle migliori materie prime italiane, la selezione degli ingredienti e la cura del dettaglio costituiscono un valore aggiunto.
Attraverso le proprie ricette I Tre Chef propongono nuove combinazioni di gusto. La tradizione incontra il futuro, senza perdere l’autenticità e la genuinità dei sapori di una volta e il laboratorio artigianale diventa il luogo ideale in cui sperimentare e ricercare nuove soluzioni espressive.
Semola di grano duro, farina e uova sono gli ingredienti base; arte, creatività e innovazione sono gli strumenti con cui dare forma alle idee per portare in tavola una nuova pasta d’autore: autentica, originale, innovativa. Made in ltaly.
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Autrice: Marina Caccialanza
Se essere né carne né pesce è il peggiore dei difetti, essere entrambi è il pregio per eccellenza. La Bernardini Gastone, infatti, ha saputo raggiungere livelli di eccellenza in campi apparentemente così diversi www.bernardinigastone.it
Bernardini Gastone è il nome legato, da ormai 150 anni, alla più alta norcineria. L’azienda ha fatto dell’arte della lavorazione e della conservazione delle carni più pregiate e della selvaggina un vero e proprio credo. La capacità di mantenere intatti certi sapori e di trasportarli sulla tavola del buongustaio è, infatti, un’arte da apprendere, coltivare, tramandare di generazione in generazione. Un’arte che parte dalla selezione delle materie prime, scelte e controllate, lavorate da personale altamente qualificato e capace di rispettare i modi e i tempi della lavorazione artigianale tradizionale. L’utilizzo, poi, dei progressi della tecnologia e la creatività di chi ha solide basi in materia spostano verso l’alto i confini del meglio.
e accontentare anche i palati più fini, quelli in grado di cogliere al volo ogni eventuale imperfezione. Come nella lavorazione delle carni di cinghiale, di cervo, di alce, di daino o di capriolo, carni dai sapori forti e antichi. O come in quelle, meno impegnative e più allineate, di manzo, di cavallo, di suino, di capra. O, ancora, le carni bianche, alle quali far esprimere tutta la loro delicatezza.
Alla Bernardini lavorano le carni pregiate di cinghiale, cervo, alce, daino e capriolo, cavallo e capra. L’organizzazione che hanno saputo mettere in atto è un esempio da seguire per la capacità di stare al passo con i tempi, essere in grado di operare in laboratori all’avanguardia e di muoversi seguendo i più funzionali criteri della logistica per giungere ogni volta puntuale al traguardo prefissato: quello di eccellere sempre nella conservazione delle carni più impegnative
Ebbene sì, perché l’azienda raggiunge l’eccellenza anche nella lavorazione del tonno, del pescespada, del marlin e del polpo. Bernardini Gastone è stata capace di intraprendere nuove strade, o meglio rotte visto che l’hanno condotta, una volta raggiunta l’eccellenza con la carne e i menu di terra, anche in mare, dimostrando che essere carne e pesce è un sinonimo di straordinaria capacità imprenditoriale. Con tonno, spada, marlin affumicato e polpo, proposti dall’azienda toscana seguendo la consueta trafila qualitativa: ricerca delle materie prime pregiate, grande attenzione alla lavorazione, consegne impeccabili e veloci. Sottoposte a meticolose selezioni, le materie prime ittiche provengono dai migliori allevamenti e sono sottoposte a rigorosi controlli sia in termini di qualità che di sicurezza:
sistemi di certificazione e controllo; l’abbattimento effettuato con tecniche che ne conservano intatte le proprietà nutrizionali e conservare il pesce in modo ottimale durante i vari passaggi della lavorazione; salagione e aromatizzazione; marinatura e affumicatura.
Per il mondo della ristorazione, in continua evoluzione, Bernardini Gastone ha sviluppato un’ampia linea di prodotti a base di salmone.
L’azienda seleziona i salmoni più pregiati e di alta qualità, provenienti dalle limpide e fredde acque dei fiordi norvegesi, inconfondibili per le loro carni rosa, dolci e prelibate che, lavorate meticolosamente secondo la tradizione, vengono salate a secco e con una lenta affumicatura con legno di faggio: Salmone Norvegese, Salmone delle Isole Faroe e Scozzese, anche nelle tipologie di razza Sokeye e Red King.
Anni di esperienza consentono di eseguire lavorazioni frutto di tecniche custodite gelosamente e tramandate negli anni da esperti artigiani che lavorano da sempre con grande passione e dedizione.
Ogni fase della lavorazione viene eseguita a mano con scrupolosa attenzione per garantire una massima qualità e prodotti finiti di grande appetising.
La linea Salmone prevede numerose modalità di taglio e confezionamento, dalle baffe intere con pelle alla praticità del preaffettato, dal blister alla busta, a parti-
re da 100 g fino a 1 kg e anche in preziosa confezione scatola regalo.
Ogni fase della lavorazione viene eseguita a mano e preserva il valore della materia prima, pregiata, proveniente dai migliori allevamenti e sottoposta a controlli rigidi e accurati.
Bernardini Gastone conferma, una volta di più, che per chi ha fatto dell’eccellenza la propria filosofia aziendale, la terra e il mare sono solamente due differenti modi di esprimere la qualità.
La qualità di chi è sia carne, sia pesce.
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Autrice: Marina Caccialanza
Pronte in pochi minuti, le verdure surgelate Orogel sono un alleato irrinunciabile per i professionisti della ristorazione, per preparare più velocemente qualsiasi ricetta a base di verdure
www.orogel.it
Orogel Food Service è la divisione di Orogel nata per essere ogni giorno a fianco dei professionisti della ristorazione con un prodotto buono, fresco e sempre pronto. Tutti i vegetali Orogel vengono coltivati dai 1.600 soci agricoltori a cielo aperto, in modo naturalmente sostenibile e rispettando il calendario agronomico, nei territori più vocati per ogni coltura, così da offrire la migliore varietà di prodotti. I vegetali vengono raccolti all’esatto punto di maturazione e surgelati entro poche ore, conservando in modo naturale il loro bouquet perfetto di sapori, aromi e qualità nutritive tutto l’anno. Pronte in pochi minuti, le verdure surgelate Orogel sono un alleato irrinunciabile per i professionisti della ristorazione, per preparare più velocemente qualsiasi ricetta a base di verdure. Garantendo un prezioso risparmio di tempo, un maggiore controllo del food cost e degli sprechi
Una garanzia per i professionisti della ristorazione.
Le verdure Orogel sono un vero e proprio jolly per qualsiasi cucina per organizzare una linea salata
completa, dall’antipasto al secondo piatto, compresi i finger food per l’aperitivo e i piatti unici, sempre più richiesti in pausa pranzo. Proposte preziose per soddisfare tutte le esigenze dei clienti: dai vegetali tal quali ai prodotti mixati, è ampia anche la gamma di prodotti Orogel adatti alla clientela intollerante al glutine. Sono senza glutine tutte le referenze vegetali tal quali (ovvero non ricettate), come piselli, spinaci, carciofi, asparagi, ecc.. perché naturalmente privi di glutine e quindi sicuri per chi è intollerante al glutine. Ma non solo. Con i prodotti vegan e gluten free Orogel Food Service non perde di vista nemmeno il gusto.
Polpettine Proteiche al Pomodoro: il Plant Based secondo Orogel
Per conquistare e fidelizzare i propri clienti c’è bisogno di rimanere sempre al passo con i tempi e offrire piatti, soluzioni e ricette non solo in linea con i trend del momento, ma anche sfiziosi, buoni e attenti al benessere. Il trend della cucina vegetariana è uno di quelli che non si fermano e che continuano nel solco dell’innovazione e della ricerca.
Dopo aver lanciato la linea dei burger vegetali, con formati per diverse occasioni di consumo e abbinamenti dai più classici di verdure a quelli più saporiti con verdure e scamorza, Orogel Food Service propone ai ristoratori le Polpettine Proteiche al Pomodoro a base 100% vegetale e gluten free e con 15 g di proteine per 100 g di prodotto, dal gusto deciso e dalle note speziate di origano, Ideali per tutti i momenti di consumo.
Le Polpettine Proteiche si preparano in soli 9 minuti in forno ventilato, rimanendo croccanti all’esterno e compatte all’interno. Il loro formato le rende ideali per tantissime proposte: tradizionali, vegetariane, vegane e gluten free:
Polpettine in umido con verdure: un secondo gustoso da servire per il pranzo; Polpettine con misticanza di verdure e crostini di pane: un’alternativa a una classica insalata; Polpettine con panzanella: perfetta come piatto freddo per buffet o pause pranzo take away; Polpettine con purè di patate: una proposta più tradizionale, ideale anche per i più piccoli.
Pokè Vegano e Gluten Free con riso Basmati, Verdure e Polpettine Proteiche
Le Polpettine Proteiche sono perfette anche per sfiziosi finger food proteici: una piccola novità da proporre ai clienti sempre più attenti a scegliere salute e benessere anche al momento dell’aperitivo o dello snack veloce.
Misto Sapori Antichi con Cavolo Nero
Un mix di verdure perfetto per la stagione Autunno-Inverno
Fonte naturale di fibre, a basso contenuto calorico e senza grassi, questa referenza si aggiunge alla linea Benessere di Orogel Food Service. Il Misto Sapori Antichi con Cavolo Nero è infatti un mix distintivo e ben equilibrato composto da cavolo nero, patate, cavolo verza e cipolla, perfetto per la stagione più fredda e ideale per ogni tipo di clientela.
Particolarmente indicato per la ristorazione tradizionale, questo mix, grazie alle diverse pezzature e alle varie tipologie degli ingredienti, è un’ottima base ideale per un gustoso contorno a piatti tradizionali di carne e pesce, ma può diventare anche una ricca farcitura per rustici, torte salate e primi piatti gustosi.
Autore: Guido Parri
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Presso la scuola di cucina AD Horeca Campania si è tenuta una masterclass con i salimi e i formaggi
DoGusto
Una giornata intensa quella che si è svolta lunedì 18 novembre presso la scuola di cucina AD Horeca Campania dove sono convenuti un nutrito gruppo di ristoratori e pizzaioli della regione per partecipare a una degustazione di abbinamento cibo e vino con i vini Valdo e Magredi abbinati a una selezione di salumi e formaggi del nuovo brand DoGusto che sta interessando tutta la penisola.
DoGusto è il nuovo brand trattato in esclusiva dalle 41 aziende di distribuzione horeca aderenti al gruppo Cateringross e, in Campania, l’azienda Di Cosmo Group ha organizzato presso la sua scuola di cucina AD Horeca Campania la giornata formativa.
Dopo la degustazione dei vini Valdo e Magredi si è tenuta una masterclass condotta da Benedetto Colantuono, famoso maestro di lama per i prosciutti ed esperto nel comparto salumi e formaggi.
La sua lezione è servita a presentare il tagliere dei salumi e quello dei formaggi DoGusto, con il relativo food-cost per il locale, ristorante o pizzeria. I prodotti hanno riscosso testimonianze molto positive per la varietà e la bontà qualitativa; infatti, sotto il brand DoGusto, sono racchiusi i principali prodotti DOP e IGP, oltre ad altre straordinarie produzioni artigianali come la Delicotta, l’Occhio di Puglia, l’Ambra di Talamello.
“Per realizzare il catalogo DoGusto, che contiene, al momento, circa 200 referenze composte da salumi, latticini, pasta, olio, salse e creme, prodotti ittici affumicati, prodotti vegetali, abbiamo lavorato in stretta collaborazione con alcuni consorzi, con gli chef Maestri di cucina della FIC-Federazione Italiana Cuochi, siamo andai sui territori per scegliere il meglio. – ha affermato, nel corso della masterclass, Massimo Murador, buyer di Cateringross – Abbiamo fatto queste scelte per venire incontro ai bisogni della ristorazione e degli chef che hanno sempre meno tempo da dedicare alla scoperta. E per dimostrare che anche il ruolo del distributore sta cambiando, diventado sempre più un consulente per la ristorazione”.
Autore: Luigi Franchi
Questo è un libro maestoso! Per come è stato costruito: l’autore, George Steinmetz, ha trascorso dieci anni in giro per tutto il mondo a documentare, con le foto, la storia, l’economia, la società che ruota attorno al cibo. Per i contenuti: fotografie bellissime che, in alcuni casi, creano un contrasto pazzesco con le storie che rappresentano; contenuti didascalici che ti danno una prospettiva globale che fa riflettere molto su ciò che consumiamo ogni giorno a cifre a volte iperboliche, mentre chi raccoglie quelle materie prime conduce, in molti casi, una vita medievale.
“Un’opera d’arte mozzafiato”, così la definisce Michael Pollan nella prefazione e mai descrizione fu più puntuale. Basti pensare alla foto di pagina 108, quella di una flotta di piroghe che affolla il porto di Nouadhibou, in Mauritania; circa 4000 imbarcazioni dedite alla pesca del polpo, ora sovra-sfruttata al punto che il governo ha deciso di chiuderla per due mesi all’anno creando lo spettacolo che offre quell’immagine. Un libro che parla della nostra capacità di nutrirci che, però, sta alterando il pianeta e sta segnando una divisione sociale molto netta. Un libro che, attraverso la straordinaria bellezza delle sue immagini, fa riflettere a lungo.
SantoPalato
Sarah Ciccolini
Giunti editore
191 pagine
19,90 euro
www.giunti.it
George Steinmetz, Joel K. Bourne jr.
Apogeo Editore
256 pagine
49 euro
www.apogeonline.com
A Sarah Cicolini, cuoca abruzzese trapiantata a Roma e titolare di SantoPalato, l’idea di scrivere un libro, per di più autobiografico, non ce l’aveva neppure nell’anticamera del cervello. Questo lo apprendiamo dalla prefazione di Francesco Seminara che si era raccomandato di voler essere lui a scriverne la prefazione ricevendo, come risposta: “Ma quale libro, Francè, i libri li scrivono gli scrittori, io faccio da mangiare”. Così va il mondo, non sappiamo chi l’abbia convinta ma ha fatto un’ottima azione perché ci permette di conoscere più da vicino una persona che, tramite la sua cucina, delizia il palato di tanti e tramite questo libro, oltre a regalarci ricette sfiziosissime, ci racconta la storia di una donna piena di umanità e, al contempo, libera, energica, coraggiosa. Bellissima è la parte in cui racconta il suo primo approccio con Roma: “Mi sentivo come un pulcino che si affaccia al mondo… posso andare? La risposta dei miei genitori fu affermativa perché la loro principale preoccupazione era che io realizzassi i miei sogni. Che fossi felice”.
Un sogno che si è realizzato nel 2017 quando Sarah aprì SantoPalato per raccontare qualcosa – con i piatti, con la scelta di vini, con l’impostazione del servizio – che andasse oltre al cibo. Questo racconto ora è a disposizione di tutti, con questo
Autore: Guido Parri
Centro Carni Company, l’azienda con sede a Tombolo (PD) con oltre 40 anni di esperienza nel settore della lavorazione della carne bovina, è una realtà dinamica e attenta all’innovazione. A confermarlo, la sua continua ricerca nell’elaborazione di nuovi prodotti, come la Battuta al Coltello You&Meat.
La battuta al coltello di Centro Carni Company: cos’é?
la Battuta al Coltello è una novità ready to eat gourmand e disponibile in due varianti: una a base di carne Aberdeen Angus Sired proveniente dagli allevamenti della filiera di Centro Carni Company (“La nostra filiera”) e una di carne Scottona.
Una curiosità? Con l’obiettivo di garantire i più elevati standard di sicurezza alimentare, per la sua produzione, l’azienda ha investito nella creazione di una nuova sala all’interno dello stabilimento. Il processo alla base di questo prodotto all’avanguardia consente infatti di ridurre al minimo la manipolazione del prodotto da parte degli addetti, che intervengono nella fase di avvio della produzione e di confezionamento.
Vera e propria esperienza gastronomica pronta da gustare, nonché espressione di crescita e modernizzazione dell’impresa, la battuta al coltello firmata Centro Carni Company nasce per più motivi.
Tra i più importanti, la necessità di rafforzare il legame con la storia dell’alimentazione italiana, la volontà andare incontro alle esigenze dei consumatori, sempre più alla ricerca di un prodotto di alta qualità, da gustare nei momenti più conviviali, e infine l’esigenza di far crescere il mercato della carne bovina lavorata.
storia della battuta al coltello
La battuta al coltello rappresenta uno dei piatti più em-
blematici della cucina francese ed è caratterizzato da una fine macinatura della carne, rigorosamente cruda. Tuttavia, secondo la leggenda, l’origine della tartare risale al popolo dei Tartari (da cui il nome), giunti dall’Europa Orientale nei territori un tempo occupati dall’impero romano intorno al V secolo. I Tartari, guerrieri di origine turca con uno stile di vita nomade, svilupparono un metodo per macinare la carne cruda durante i loro viaggi, trasportandola sotto la sella in modo che risultasse adeguatamente frollata all’arrivo e così più idonea al taglio. Questa prelibatezza si diffuse successivamente nella Russia zarista e fu importata in Francia a partire dagli anni Venti del Novecento, a seguito dell’esilio dei cuochi russi dopo la Rivoluzione d’Ottobre, diventando nel tempo un elemento centrale della tradizione culinaria francese, la cui ricetta prevede principalmente l’utilizzo di carne bovina macinata finemente, solitamente servita con un tuorlo d’uovo crudo al centro.
Ideale come antipasto, piatto unico o delizioso appetizer, la battuta al coltello si caratterizza per una texture grossolana ma leggera in bocca. L’aggiunta del succo di limone nella ricetta non solo conferisce gusto senza sopraffare quello della carne, ma lascia anche una sensazione di freschezza e profumo. Inoltre, l’utilizzo di pochi e semplici ingredienti, mira a esaltare il sapore autentico della carne, mantenendo fede ai valori aziendali di qualità, senza dimenticare la certificazione gluten free. La ricetta “neutra”, adattabile alle diverse preferenze individuali, offre la libertà di gustare il prodotto così com’è o di personalizzarlo con condimenti più intensi. La selezione dei prodotti provenienti dalla Filiera sottolinea l’impegno per la qualità e la tracciabilità, con certificazioni AIC a garanzia dell’assenza di glutine.
IL FASCINO DI UNA VERDURA ANTICA
C’è qualcosa di speciale nel papavero di campo, con le sue tenere rosette fogliari, che parla di tradizione e di radici: una pianta che racchiude in sé la forza della natura e l’anima della nostra storia contadina. Coltivate nei nostri campi a Borgo Tressanti con cura e passione, queste foglie giovani e delicate rappresentano una vera eccellenza, apprezzata da secoli per il sapore caratteristico e i loro benefici.
Le Rosette Fogliari di Papavero Selvatico di campo sono un esempio perfetto di come la natura possa offrire cibi semplici e nutrienti, utili per il benessere del nostro organismo: contengono infatti un concentrato di vitamine e minerali fondamentali per la nostra salute: ferro, calcio e vitamine A e C. Grazie alla combinazione di questi nutrienti, offrono proprietà remineralizzanti e rivitalizzanti, perfette per chi cerca alimenti sani e genuini.
Il papavero selvatico di campo ha un’altra caratteristica affascinante, un legame con la storia e la cultura italiana che lo rende unico. In ogni regione d’Italia, questa pianta è conosciuta con un nome diverso, segno di come il suo valore sia stato tramandato nel tempo e abbia acquisito un’identità specifica in ogni luogo. In Puglia, le rosette di papavero sono chiamate “Paparina”, un nome che ricorda la delicatezza delle foglie; in Lombardia diventano “Gallinelle” o “Madonnine”, evocando immagini bucoliche della campagna; in Emilia-Romagna sono conosciute come “Rosole”, e nelle Marche come “Pàvare”. Ogni nome racchiude una piccola storia, un legame con la terra e con le persone che l’hanno coltivata per generazioni.
Da un secolo abbracciamo queste tradizioni e le onoriamo, portando avanti la Coltivazione Naturale e l‘Agricoltura Biofilica che oltre a garantire verdure sane e genuine, mantengono viva una cultura agricola radicata e autentica, che oggi continua a raccontarsi attraverso ogni singolo seme. Il sapore delle nostre Rosette Fogliari di Papavero Selvatico di campo è un’ode alla semplicità e alla purezza, dal gusto delicato che sa di sole e di terra. La consistenza tenera ma decisa è perfetta per numerose ricette da quelle tradizionali fino a piatti più creativi che ne esaltano l’essenza. Ti invitiamo a riscoprire questo tesoro della natura, coltivato con cura e passione: un patrimonio da custodire e tramandare.
Le nostre rosette fogliari di papavero selvatico di campo nel DOPPIO RAVIOLO di SILVER SUCCI (in alto) e sulla pizza SAPORI ANTICHI di VINCENZO FLORIO
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