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Il lavoro usurante del cuoco

Ripartiamo dal menu

I modelli di scuola che danno fiducia nel futuro

Uno

Giancarlo Perbellini

LA REDAZIONE

Mario Benhur Tondini

presidente Edizioni Catering srl

Imprenditore nel settore della distribuzione alimentare, gestisce con il fratello Oscar l’azienda di famiglia a Cavriana (MN), dove ha svolto anche l’incarico di sindaco.

Le competenze maturate sul piano professionale e su quello amministrativo lo hanno portato alla convinzione che il principio della condivisione sia la miglior modalità di crescita. Molte sue iniziative, anche all’interno del gruppo Cateringross (che detiene la titolarità della casa editrice), di cui è consigliere d’amministrazione, vanno in questa direzione. A questo affianca una forte sensibilità per ogni azione che dia valore al suo territorio.

benhurtondini@salaecucina.it

Marina Caccialanza

Redazione

Milanese, un passato come traduttrice, da diversi anni giornalista e redattrice per riviste del settore alimentare rivolte al mondo dell’artigianato e all’industria, in particolare nel campo della ristorazione, del dettaglio specializzato e della ricerca. Contribuisce alla realizzazione di importanti libri di comunicazione gastronomica in Italia e all’estero diretti ai professionisti e ai consumatori. Collabora con le redazioni di sala&cucina, Ecod e Trenta Editore.

Luigi Franchi

Direttore responsabile

Prima fotografo di cibo e territori, poi comunicatore, autore di numerosi libri di enogastronomia e di turismo enogastronomico. e infine giornalista di enogastronomia. Tra le sue principali pubblicazioni, scritte e/o coordinate: La prima edizione della Guida al turismo del vino in Italia, per conto del Movimento Turismo del Vino, (1997), I parchi e il turismo enogastronomico (2004), Il marketing delle Strade del Vino edizioni Agra – Rai Eri (2005), Atlante Alimentare Piacentino, con Valentina Bernardelli (2007), “cuo chi, due anime in cucina”, con Alessandra Locatelli, GL.Editore (2009), Dalle Terre Traverse al Po, GL.Editore (2010), ideatore e coautore dei Maestri del lievito madre, Edizioni Catering (2014), coautore della guida online dedicata alla ristorazione Meglio Prenotare, Edizioni Catering, Le interviste (2018) editore Mediavalue. Co-direttore di Food & Book, festival nazionale di editoria enogastronomica luigifranchi@salaecucina.it

marina.caccialanza@salaecucina.it

Giulia Zampieri

Redazione

Ricorda con esattezza il profumo del primo pane preparato all’età di sette anni.

Forse il suo primo traguardo e, soprattutto, l’inizio di una grande passione: per le cose semplici, per la genuinità, per gli alimenti che crescono e prendono forma. Dopo la Laurea in Scienze Gastronomiche, la specializzazione in comunicazione enogastronomica, e un periodo di alternanza nelle cucine, ha chiara la missione: scrivere per comunicare. Come? Utilizzando gli strumenti di oggi e la curiosità di sempre. Gionalista pubblicista, collabora anche con la guida di Identità Golose.

Simona Vitali

Redazione

Laureata in filosofia, ha lavorato nella comunicazione e organizzazione di grandi eventi a Parma.

Ha ricevuto una prima inconsapevole educazione al gusto per il cibo grazie all’ indimenticato oste dell’Osteria della Stazione di Felino (PR), il nonno materno Massimino. Con gli studi umanistici è poi arrivata una seconda, consapevole, educazione al gusto per l’utilizzo delle parole secondo il loro significato. Poi sono seguiti un corso di Alta Formazione alla scuola Holden e un master in Filosofia del cibo e del vino. Della ristorazione l’affascina il pensiero e la componente umana. Della formazione di settore segue movimenti ed evoluzioni.

giuliazampieri@salaecucina.it

Gabriele Adani

Grafico

Modenese, appassionato di arte figurativa, fotografia e linguaggi di comunicazione visiva.

s.vitali@salaecucina.it

Nel 1992 inizia il suo percorso professionale presso una casa editrice. Lavora poi in uno studio grafico e fonda una piccola agenzia di comunicazione in cui ricopre il ruolo di direttore creativo per 18 anni.

Viaggiatore, utilizza i frequenti viaggi a Londra e nel Sud Est asiatico per arricchire il suo bagaglio culturale e placare la sua innata curiosità per le altre culture.

Dal 2019 lavora in proprio, occupandosi di fotografia, grafica e consulenze nel campo della comunicazione.

grafica@salaecucina.it

7 LA LETTERA APERTA

Il lavoro usurante del cuoco | Luigi Franchi

9 L'EDITORIALE

La pizzeria, un trend inarrestabile | Benhur Tondini

10 IL CONFRONTO

Giancarlo Perbellini | Luigi Franchi

16 LA RIFLESSIONE

Ripartiamo dal menu | Giulia Zampieri

20 LA FORMAZIONE

I modelli di scuola che danno fiducia nel futuro | Simona Vitali

24 IL RISTORANTE

Incàlmo ci insegna la coralità | Giulia Zampieri

27 IL RISTORANTE

Alfredo alla Scrofa, un luogo simbolo dell’Italia gastronomica | Luigi Franchi

30 IL RACCONTO

La qualità va riconosciuta e pagata! | Simona Vitali

34 IL VINO

Alberto Oggero | Giulia Zampieri

39 I CUOCHI

Le partnership danno risultati brillanti tra gare, medaglie e Corporate Meeting | Rocco Cristiano Pozzulo

41 LA NEUROVENDITA

Sanremo in sala | Lorenzo Dornetti

44 DOGUSTO

Il prosciutto cotto fuori stampo e legato a mano DoGusto | Guido Parri

46 LE CONTAMINAZIONI

Come la cucina italiana si è fatta spazio in Argentina | Federico Panetta

50 LA STORIA

Gouffé, un genio (quasi) dimenticato | Alessia Cipolla

54 AMODO LA RETE DEI RISTORANTI ETICI

BaccoFurore | Giulia Zampieri

56 IL RISTORANTE

La Boudoir, alta cucina a Parma | Luigi Franchi

59 L'ETICA

Il potere è nelle parole | Francesco Parrotta

61 L'OLIO AL CENTRO

L’evoluzione della Carta degli oli | Luigi Caricato

63 LA DIGITAL TRANSFORMATION

Le principali innovazioni nella ristorazione per il 2025 | Claudia Ferrero

64 LA DISTRIBUZIONE

Foppa taste supporter | Luigi Franchi

68 LA PRODUZIONE

Surgital presenta i nuovi Bottoni al Gambero Rosso di Divine Creazioni® | Marina Caccialanza

70 LA PRODUZIONE

Il re dei risi viaggia su una Nuvola | Marina Caccialanza

72 LA PRODUZIONE

Affumicato, stagionato, senza cotenna | Marina Caccialanza

74 LA PRODUZIONE

Il meglio del Mediterraneo in tavola | Marina Caccialanza

76 LA PRODUZIONE

Genio e amore | Marina Caccialanza

78 GLI EVENTI

Le Stelle di Domani, giovani talenti nascono | Guido Parri

80 I LIBRI

Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi- Storia del bar in Italia | Luigi Franchi

81 LA PRODUZIONE

La tartare di scottona You&Meat | Guido Parri

N° 91 febbraio 2025

EDITORE

Edizioni Catering srl Via Margotti, 8 40033 Casalecchio di Reno (BO) Tel. 051 751087 – Fax 051 751011 info@salaecucina.it - www.salaecucina.it

PRESIDENTE

Benhur Mario Tondini benhurtondini@salaecucina.it

DIRETTORE RESPONSABILE

Luigi Franchi luigifranchi@salaecucina.it

COLLABORATORI ESTERNI

Luigi Caricato, Alessia Cipolla, Bruno Damini, Lorenzo Dornetti, Rocco Pozzulo, Claudia Ferrero, Elena Monteverdi, Federico Panetta, Guido Parri, Francesco Parrotta.

FOTOGRAFIE

Archivio sala&cucina, Marco Di Donato, Benedetta Bassanelli, Sara Bergando, Eunica Brovida

* L’editore è a disposizione per eventuali crediti fotografici di cui si ignora la fonte

RIVISTA PARTNER di AMODO

PUBBLICITÀ Tel. 331 6872138 marketing@salaecucina.it www.salaecucina.it

PROGETTO GRAFICO

Gabriele Adani - www.gabrieleadani.it

STAMPA

EDIPRIMA s.r.l. – www.ediprimacataloghi.com

TIRATURA E DISTRIBUZIONE – 28.900 copie Ristoranti, trattorie e pizzerie 20.700 – Bar, pub e birrerie 4.000 – Hotel 3.100 – Grossisti e distributori f&b 1.100

Costo copia mensile: 4,00 euro abbonamento annuo 40,00 euro

Per abbonarsi: info@salaecucina.it

Giancarlo Perbellini
Foto di copertina: Marco Di Donato

Il lavoro usurante del cuoco

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Perché da anni si cerca di far passare la professione di cuoco tra quelle usuranti senza alcun risultato? Forse la risposta sta nell’idea, ancora molto radicata, che la ristorazione sia un settore dove le regole, soprattutto quelle fiscali ed economiche, sono disattese, dove si fa ancora molto nero, dove i dipendenti vengono considerati spesso carne da macello da utilizzare senza ritegno, dove i titolari devono per forza lavorare 16 ore al giorno. E questo non aiuta nel rapporto con le istituzioni che devono legiferare.

Perché purtroppo, al di là dello spettacolo televisivo, è ancora così che viene letto il settore dalla maggioranza delle persone, anche se, in realtà, le cose, per volere o per obbligo, stanno rapidamente cambiando. A cominciare dal motivo per cui quelle stesse persone vanno al ristorante nelle ore di svago, che non è più solo per mangiare, si spera, bene; ma per vivere un’esperienza che coinvolge tutti i sensi, per trascorrere un paio d’ore in pace, per farsi una cultura gastronomica.

Tutti questi motivi portano gli ospiti a prestare un’attenzione maggiore a ogni aspetto del ristorante e del personale che ci lavora; si guarda alla pulizia, all’insonorizzazione delle sale, alla bellezza del locale, al menu che non deve essere eccessivamente lungo, alla capacità del personale di sala a essere empatico e preparato e, nel caso degli chef table’s, a voler vedere come si comporta la brigata di cucina. Tutti aspetti che hanno portato un gran numero di ristoranti a migliorarsi!

C’è da sperare che si affermi, nel prossimo periodo, una corretta visione della ristorazione affinché i soggetti istituzionali prendano in seria considerazione l’importanza di un comparto che muove 101 miliardi

Luigi Franchi direttore responsabile

luigifranchi@salaecucina.it

di euro ogni anno, crescendo costantemente; c’è anche da sperare che chi fa questo mestiere da anni cambi atteggiamento verso quei giovani che aspirano a diventare bravi chef e bravi maître, rendendosi aperto alle loro aspettative, seguendo l’esempio dei tanti colleghi che lo fanno (uno di questi è il protagonista della copertina); c’è da sperare, infine, che la scuola che formerà gli chef e i maître del futuro (e anche qui abbiamo un esempio lodevole su questo numero della rivista) diventi più moderna, più aperta, meno burocratizzata e meno sottoposta a una riforma per ogni ministro che passa.

Con questi auspici intendiamo aprire questo 2025 e affrontare un anno che dovrà segnare punti di svolta verso il settore della ristorazione, a cominciare dal rendere finalmente vinta una battaglia di civiltà come quella che la Federazione Italiana Cuochi porta avanti da troppi anni: quella di considerare il lavoro del cuoco tra quelli usuranti, per garantire a chi ha svolto per una vita intera questo lavoro una pensione degna di tale nome!

Non è una battaglia campata per aria: lavorare nelle cucine è davvero usurante, vivere per 14 ore in un unico ambiente lo è anche sul piano psicologico; aver cura della propria salute oltre che di quella degli ospiti è un diritto; rendere attrattiva ai giovani che iniziano, con questa soluzione anche a livello di trattamento pensionistico, una professione molto impegnativa, sia dal punto di vista fisico sia da quello sociale, risolvendo in parte il problema dei problemi, quello della mancanza di personale.

Chi apre nuove strade è destinato ad essere copiato

La condivisione delle idee, la conoscenza del mondo HORECA, l’interazione tra rete commerciale, distributori e professionisti della ristorazione rappresentano l’essenza di Demetra.

Questa visione ci guida verso il futuro e il miglioramento continuo. Essere innovativi è un’attitudine naturale, alimentata da passione, autenticità e coraggio.

Questa è Demetra.

La pizzeria, un trend inarrestabile

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Poche settimane fa si è svolto il SIGEP, la più importante fiera del settore legata alla pasticceria e al gelato. È stata un successo di pubblico e di novità, tra cui la più importante è stata l’apertura di un padiglione interamente dedicato al mondo pizza: frequentatissimo! Ancora una volta si dimostra che il ruolo delle fiere ha una sua funzione vitale, per gli incontri vis-à-vis, per il confronto tra produttori e utilizzatori finali, per gli assaggi dei prodotti. Tutte cose che il mondo digitale non è ancora in grado di fare, ma soprattutto si capisce che le fiere sanno a volte anticipare, altre adeguarsi ai trend, come nel caso della pizza a Sigep.

Ci sono altre fiere dove si parla di pizza, naturalmente, ma che un ente fieristico come quello di Rimini, tra i primi in Italia, decida di dedicare lo spazio al tema è indicativo di come il mondo pizza, con tutti gli annessi e i connessi, stia assumendo una grande importanza.

In effetti è la prima risposta al costo sempre più elevato dei consumi fuoricasa che, nel 2024, hanno causato una crescita complessiva del fatturato – stimato da Tradelab in 101 miliardi di euro – ma un calo di presenze soprattutto nella ristorazione.

Chi esce sceglie la pizzeria, per compensare il costo godendo di una serata fuori casa!

Questo starà a significare, e gli elementi già si vedono, una migliore organizzazione degli spazi della pizzeria; molte si stanno adeguando alla tendenza di avere un bel locale, ordinato, pulito, con la giusta distanza tra i tavoli, un’adeguata insonorizzazione per accogliere gli ospiti che non intendono più mangiare una pizza e basta, a farlo in fretta per lasciar liberi i tavoli.

Anche gli ingredienti sono cambiati, subendo un’accelerazione molto forte, in quest’ultimo periodo. Le farine adesso sono uscite dal ruolo di commodity per diventare materia prima di eccellenza, diversificando

Benhur Tondini presidente sala&cucina

benhurtondini@salaecucina.it

non solo i formati del packaging ma anche le tipologie: non c’è più solo la doppio zero o la manitoba, ci sono decine e decine di referenze diverse. Gli altri ingredienti che compongono il topping della pizza, dalla mozzarella all’olio extravergine, dal pomodoro ai salumi, dai funghi alle verdure, vengono scelte dai pizzaioli più attenti e avveduti non più in base al minor prezzo ma alla più alta qualità.

Questo ha significato, anche in questo settore, un aumento del costo finale per l’ospite ma decisamente più contenuto e accessibile. A questo si aggiunga il mood dell’andare in pizzeria, leggero, senza eccessivi desiderata, allegro. Tutti aspetti che danno valore al settore che oggi conta un numero elevato di locali, secondo una recente indagine di Cga by Nielsen Niq sono 34.406, escludendo i ristoranti-pizzeria, e rappresentano la tipologia di locale più amato: lo predilige il 74% delle persone, rispetto al 65% che opta per il bar e il 64% per il ristorante.

A questi numeri aggiungiamo che le pizze sfornate in un anno in Italia sono circa 1,8 miliardi e si avverte tutta l’importanza che viene data al comparto da parte delle aziende alimentari e dei distributori; anche qui è necessario ribadire quanto sia necessario rafforzare il dialogo tra tutti i soggetti della filiera al fine di garantire continuità e qualità nei locali, sviluppando tutti insieme modelli formativi che spazino dall’accoglienza alla conoscenza delle materie prime affinché si riduca, fino ad annullarla, l’improvvisazione in questo campo!

Giancarlo Perbellini con la moglie Silvia Bernardocchi

La voce che si incrina, le lacrime di gioia per sé, per sua moglie Silvia che lo raggiunge sul palco del teatro Pavarotti di Modena, per i ragazzi e le ragazze del suo giovane staff di Locanda Perbellini 12 Apostoli di Verona, mentre viene insignito delle tre stelle Michelin, e quelle semplici significative parole – “i 12Apostoli è un luogo magico che ha fatto la storia della gastronomia e della cultura italiana e riportarlo… (voce incrinata). Ho cominciato a 14 anni, con il primo anno di scuola alberghiera e il tempo libero lo giravo a guardare i menu dei grandi ristoranti pensando: arrivarci…” - mi hanno fatto riflettere sull’umanità di Giancarlo Perbellini: uno chef che non dimentica di ringraziare, dal palco, la sua direttrice di sala, la giovanissima Chantal Feletto; che sa cosa significa impegnarsi seriamente in cucina e nella gestione di uno e più ristoranti.

È stato in quel momento che ho capito quanto le parole che mi ha regalato in questa intervista sarebbero state raccolte e custodite dai nostri lettori per la loro importanza.

Per descrivere la tua lunga carriera non basterebbe lo spazio di questa intervista ma evidenziare i tre momenti importanti è utile per avere un’idea di come hai fatto a raggiungere il risultato di oggi: le tre stelle Michelin…

“Il primo sicuramente è legato alla scuola alberghiera perché mi ha fatto incontrare un professore che è stato un mentore, che mi ha appassionato alla cucina: il suo nome è Matteo Lovato. Il secondo è stato il passaggio da qui, dai 12 Apostoli, al San Domenico di Imola, con Valentino Marcatillii e Pascal Piermattei, il pastry-chef, che mi ha fatto capire che c’era un altro modo di far pasticceria rispetto a quello che io odiavo, e da Valentino ho capito cosa significa fare grande cucina. In quel momento eravamo nel cuore del grande cambiamento tra cucina di tradizione e cucina di ricerca e di qualità. Il terzo è stato il coraggio, a cinquant’anni, di cambiare totalmente e di lasciare Isola Rizza per un nuovo progetto. Lì è stato il primo salto mortale. Il secondo è questo: i 12 Apostoli”.

Parliamone subito allora: i 12 Apostoli è stato un momento di formazione importante per te. Cosa ti ha riportato qui, nel cuore di Verona, e come è avvenuta la decisione? “Importante perché questo era ‘il ristorante’, come ce ne sono pochi in Italia. Ci avevo già provato un paio di volte a capire se la famiglia Gioco lo volesse cedere. L’ultima volta Antonio mi disse: mio padre Giorgio ha una grandissima stima di te ma fino a che c’è lui qui non si tocca nulla. In quel momento decisi di aprire Casa Parbellini a San Zeno”.

La terza volta, quella decisiva, cosa è accaduto?

“Mi ha chiamato Antonio. Voglio parlarti, mi disse, perché lo chef se n’è andato e noi non abbiamo più voglia di rimetterci in cerca. Io avevo disdettato Casa Perbellini e stavo pensando di fare lo chef itinerante nei miei altri locali. Ormai non pensavo più ai 12 Apostoli, invece poi la vita…”

La vita ti ha riportato qui e, nel corso della ristrutturazione, hai introdotto elementi molto contemporanei, molto belli e che non hanno modificato gli elementi artistici e storici che caratterizzano da sempre questo ristorante: come sei riuscito in que-

SalaWall
Wafer di branzino al sesamo

sta difficile impresa?

“Nelle sale non ho messo, come si dice, becco. L’architetto Patricia Urquiola mi ha presentato delle proposte e, già alla prima, ho capito che ci sarebbe stata una rivoluzione senza toccare nulla e lì poi abbiamo avviato il confronto. Ad esempio, il mobile di entrata che c’è all’ingresso, nei suoi piani, doveva essere alta due metri e mezzo e io l’ho voluta fino al soffitto per un aspetto legato alla privacy. Io non volevo perdere l’identità di Casa Perbellini e così ho disegnato la cucina ma l’architetto mi ha convinto a fare le modifiche che hanno rivoluzionato l’ambiente. È la prima volta che lavoro in una cucina disegnata da un architetto dove lo Chef’s Table ha praticamente occupato lo spazio dove doveva esserci la cucina, sotto la grande cappa che connotava l’ambiente, e questa, devo dire, è stata una scelta strategica, seppur costosissima al punto che ci ha fatto sballare il budget che avevamo ipotizzato. Mia moglie non ci ha dormito per quattro mesi: finiremo sotto un ponte, mi diceva”.

Cosa significa avere uno Chef’s Table così strutturato?

“Significa aver mantenuto lo spirito e l’idea di Casa Perbellini, dove la cucina diventava palcoscenico. Con questa soluzione – un grande tavolo dove ci sono cinque postazioni da due ospiti ciascuna, l’informalità fa si che si possa creare un dialogo diretto con la cucina, oppure tra gli ospiti se lo vogliono; è molto più coinvol-

gente perché l’ospite vede due servizi, quello di sala e quello che succede in una cucina vera”.

A differenza di altre situazioni tu hai fatto una scelta che potremmo definire ‘democratica’ quando hai aperto tutti i tuoi altri locali – nove in totale – perché passiamo dai tre stelle alla trattoria, dal bistrot alla pizzeria e quant’altro. C’è una strategia precisa in questa scelta?

“Tutto è nato in modo goliardico, a cavallo tra gli anni Ottanta e i primi Novanta, perché tra amici avvertivamo l’esigenza di dare risposta a quello di cui ci imputavano: voi chef fate da mangiare solamente per un determinato pubblico. Da lì è nata l’idea dettata dal fare locali che avessero un tema: la pizza, il pesce, la carne ma sempre con la qualità al primo posto. Poi è nata Locanda, la sintesi perfetta di quello che è una trattoria moderna. La prima che ho fatto è stata a Forte Village in Sardegna, era un ristorante di pesce sulla spiaggia, senza fronzoli, molto concreto. Loro l’hanno chiamata locanda e da lì me la sono tenuta”.

La terza stella, te l’aspettavi, cosa ha cambiato?

“Me l’aspettavo, era avvenuto più volte che me l’aspettassi. Già nel 2018 mi avevano invitato e poi il premio era miglior servizio di sala. Quando nel 2007/2008 ci siamo andati vicini poi ti resta addosso la sensazione di arrivare secondo. Arrivando ai 12 Apostoli ai miei ragazzi ho

Giancarlo Perbellini ai 12 Apostoli

detto “qui abbiamo tutto, abbiamo un luogo che darà a tutti noi una carica enorme”; non ho fatto tutto questo per le tre stelle ma riceverla è stata una grandissima soddisfazione, per tutti noi”.

Quante persone lavorano con te ai 12 Apostoli?

“Siamo arrivati qui che eravamo in 11 ora siamo in 24, otto in cucina e il resto in cucina. La squadra è giovanissima e questa scelta è stata voluta. Voglio giovani che portino qualcosa di nuovo, su cui costruire insieme. Il rapporto a Casa Perbellini era unico, sala e cucina un tutt’uno. Qui ho fatto un passo indietro, come se fossi a Isola Rizza, non vedo più i tavoli, non vedo più i clienti e, di conseguenza, ho dovuto delegare ma devo dire che le cose funzionano a meraviglia perché sulla sala ho voluto persone che sapessero mettere a proprio agio gli ospiti, una sala leggera, non impettita e la direzione di Chantal Feletto si muove in quella direzione. Quelli che mangiano in sala, nel 90% dei casi fa i complimenti prevalentemente al servizio. Quelli che, invece, mangiano in cucina vivono un’esperienza diversa perché molte volte si dialoga tra i cuochi e gli ospiti”.

Quale età hanno i tuoi collaboratori?

“Il più ‘vecchio’ è Stefano, ha 32 anni ed è il responsabile dello Chef’s Table. È con me da 13 anni”.

Arriviamo alla domanda topica: il problema del per-

sonale, un linguaggio che non riesce a trovare un punto in comune tra generazioni diverse. Tu come ci sei, invece, riuscito?

“Alle volte ci riesco, in altre no. La prima risposta è che andiamo a cercare ragazzi che abbiano stimoli per questa professione e, in generale, nella vita e questo non solo ai 12 Apostoli, ma in tutti i locali che gestisco. Il problema vero è che oggi manca un’adeguata formazione su cosa vuol dire lavorare nella ristorazione. Prima ho detto dell’importanza che ha avuto sulla mia carriera la scuola, è indispensabile investire lì, è il fondamento della vita. La passione è la qualità che ricerchiamo di più perché esistono due stili di lavoro completamente diversi tra chi ci mette passione e chi no”.

Come riesci a individuarla questa passione?

“Sta nel nostro modo di porci a tirare fuori questa passione. Non dobbiamo pensare che tocchi sempre e solo a loro. Nel nostro caso la scelta di avere sempre un socio

ChefsTable
Giancarlo Perbellini in cucina

nei nostri locali, che a monte ha avuto modo di capire la nostra filosofia perché ha lavorato con noi, diventa un elemento fondamentale per il successo di quell’insegna”.

Il vino: che importanza ha nella tua proposta?

“Altissima! Abbiamo una carta che gira molto bene, soprattutto perché i ragazzi in sala sanno presentare, motivare, incuriosire e vendere. Il vino rappresenta il 30% del fatturato e questo ci consente di non ricaricare molto il piatto. Abbiamo una carta accessibile che ci permette di ottenere grandi soddisfazioni. Per il ricarico la valutazione è bottiglia per bottiglia. Se, ad esempio, l’ospite mi prende un vino locale forse può apparire più caro del dovuto ma noi dobbiamo tenere conto che lo serviamo in delicatissimi bicchieri di cristallo che costano più della stessa bottiglia e quando quel bicchiere si rompe il guadagno del vino si trasforma in perdita e questo succede di frequente. Queste considerazioni non vengono quasi mai tenute in conto”.

Ci sono alcune tue frasi che mi hanno colpito, una di queste recita: la cucina è un’evoluzione di sé stessi. Sotto quale punto di vista?

“Le filosofie devono essere una cosa marginale perché c’è sempre un’evoluzione intorno a noi. Quella del tempo, ad esempio, ma anche quella della cucina. Se io guardo i piatti di trent’anni fa non mi ci riconosco. Qualcuno mi chiede di tirare fuori qualche piatto storico ma non lo faccio, è cambiato tutto rispetto al passato, sono cambiate le temperature, le cucine stesse, il modo di mangiare, le persone. In Sicilia serviamo ancora 120 grammi di pasta, qui 70. A 54 anni ho cambiato sous-chef e ho deciso di prendere uno – Marco

Stagi che arrivava da Crippa - che mi ha insegnato molto, mi ha fatto vedere una cucina che io non cono-

scevo e che mi ha migliorato anche come persona. Un altro grande sous-chef che ho avuto è Simone Tricarico, che veniva da 12 anni di Francia, con un’impostazione classica, con cui avevo infinite discussioni sui piatti che io volevo togliere e lui si opponeva. Ora è un grande, davvero grande chef”.

Prediligo la semplicità all’estetica è l’altra frase che mi ha fatto riflettere… un po’ controcorrente di questi tempi, non trovi?

“Quando progettiamo un piatto per me l’aspetto principale è il gusto. Per l’estetica a volte dico ai ragazzi, pensateci voi a come presentarlo e servirlo”.

Prima hai detto che sono cambiate le persone: com’è il cliente di oggi?

“È un cliente, spesso, molto preparato, trasversale, che conosce. Nelle cucine non c’è un’etichetta per capire gli ingredienti e io dico sempre che il buono è buono per tutti, il cattivo è buono solo per qualcuno. Il palato è diverso in ognuno di noi, va educato, affinato e questo è il vero cambiamento in atto”.

Racconti spesso del ruolo fondamentale di tua moglie Silvia, in cosa consiste?

“Nel concreto a lei è demandata la gestione economica del sistema Perbellini ma qui voglio ricordarla per due cose molto importanti: mi ha dato sicurezze che prima non avevo e mi fa rincorrere i sogni. Non è poca cosa!”

In questa rincorsa quanti ne hai realizzati di questi sogni?

“Quasi tutti. Questo è l’ultimo. Prendersi per mano, darsi degli obiettivi, riprogettare tutto per stare meglio noi e tutto il nostro staff lo devo a lei”.

Lo staff di cucina dei 12 Apostoli

LA RIFLESSIONE

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Ripartiamo dal menu

Un contenitore, e un contenuto, sempre più cruciale

Il menu inteso come contenitore di proposte, ma anche come contenuto di un locale, è un elemento sempre più rilevante nella ristorazione.

In un contesto di forte concorrenza come quello attuale non si dovrebbe più guardare al menu come a un accessorio ma come a uno strumento strategico ed essenziale

C’è qualche buona regola da adottare? E cosa possono volere i clienti di oggi, che appaiono sempre meno food addicted e più selezionatori di piacere?

Forma e lunghezza

Piuttosto buffo pensare che menu, termine che abbiamo ereditato dai francesi, significhi minuto e particolareggiato. È buffo per una ragione: questi due attributi sembrerebbero inconciliabili.

Eppure così non è. Esiste una formula magica, un equilibrio preciso, per rendere il menu ‘davvero menu’. Per riuscire in questa impresa di concisione ed esaustività c’è però bisogno di molta cura

Ci sono teorie precise sulla lunghezza, sulla collocazione suggerita per le portate principali, sull’ordine di piatti e bevande, ma lasciamo questi aspetti tecnici a chi lo fa di mestiere. Il consiglio da chi frequenta i ristoranti, li osserva e li interpella, è: non omologate… e soprattutto dedicateci tempo. Un menu non si stila su due piedi, il giorno prima o addirittura pochi minuti prima della stampa o della messa online. Richiede lo studio delle parole, dei termini, della sequenza e sì, anche della grammatica.

Sono sempre di più i locali che riescono a formulare dei menu lunghi il giusto, invitanti, completi e chiari, ma ce ne sono ancora molti privi di correttezza, informazioni essenziali e, a volte, buon senso. La consultazione dev’essere pratica, veloce e non simulare una lettura biblica. È giusto e consigliato informare sull’origine del prodotto, specificare il produttore (valutate anche di raccoglierli in un’unica pagina) insomma fare cultura di provenienza e filiera… ma prendere in ostaggio l’ospite con letture interminabili, condite da sostantivi su sostantivi, non porta da nessuna parte. Finisce che l’ospite non è in imbarazzo per la scelta ma in imbarazzo e basta.

L’attenzione alla scena gastronomica ha poi portato a molte derive, con frasi incomprensibili e esperienze sensoriali fatte e finite, già esplicitate nero su bianco dal ristoratore stesso, ancora prima che la portata venga ordinata. Perché dovrei provare un piatto di cui so già tutto, consistenza compresa?

Quando state pensando a come organizzarlo tenete a mente la sua funzione: il menu deve informare sì, ma anche invogliare.

Gola, intelligenza, equilibrio

Non di solo forma è composto il menu, naturalmente. Del menu come “contenitore” abbiamo parlato con Giorgia Eugenia Goggi, chef di Masseria Moroseta, una struttura, a Ostuni, che è diventata riferimento per l’ospitalità e ispirazione per le scelte accuratissime adottate nel ristorante.

Come andrebbe strutturato un menu contemporaneo, guardando all’aspetto gastronomico?

Ci siamo posti e abbiamo posto questo quesito. Il menu per Giorgia è il riflesso di tutti i valori che persegue la cucina.

“Per me è rappresentativo dei criteri che perseguiamo in cucina, primi su tutti il territorio e i vegetali (che costituiscono l’85%/90% dell’intera proposta). Siamo piuttosto asciutti nella parte descrittiva, ovvero inseriamo i prodotti e lasciamo che siano le materie prime a parlare, ad invogliare il cliente. Un elemento caratterizzante è la variabilità degli ingredienti molto alta: seguiamo

Giorgia Eugenia Goggi
Raccolti in Masseria Moroseta

strettamente la stagionalità e in pochi giorni le disponibilità cambiano. Potrebbe sembrare un limite invece ritengo sia la componente eccitante di questo lavoro. Poi se mi chiedi come arrivo a trasformare, a combinare insieme in poco tempo… non c’è una regola, è una stratificazione di fasi, tecniche e suggestioni”.

Per come ne parla Giorgia intuiamo che il proposito non sia di mettere al centro la cucina ma proprio il prodotto, attraverso un lavoro di tecniche e sulle consistenze.

“Credo che il menu contemporaneo dovrebbe dare un senso di cosa c’è intorno a noi, quindi nel nostro caso l’orto, gli uliveti, ma anche i nostri fornitori. È proprio nel rapporto con chi coltiva e trasforma che abbiamo imparato tanto, è un continuo istruirsi vicendevolmente”.

Cieca o non cieca?

Su questo ci piacerebbe chiedere il vostro parere. Intanto vi riportiamo quello di Giorgia Eugenia Goggi. Perché - e non ve l’avevamo ancora detto - il menu de La Moroseta è interamente alla cieca, viene presentato solo quando si è al tavolo.

“Non c’è alcun tipo di difficoltà da parte degli ospiti, anzi, sono consapevoli e informati, vivono con curiosità questa dinamica. La differenza con un menu in chiaro è che così non hanno aspettative, né cercano quel piatto iconico tutto l’anno. Arrivano e liberi e incondizionati. Proponiamo questa formula perché è coerente con ciò che ho detto sulla stagionalità e la variabilità degli ingredienti”.

La sequenza di ingresso dei piatti non avviene sempre allo stesso modo: ci sono cinque uscite e tre di queste sono portate “corali”, messe al centro per condividere. “È una scelta che piace moltissimo, sposta l’esperienza sul piano anche della condivisione. Dalla cucina usciamo sempre, almeno una volta nell’arco della serata, per lo stesso motivo: condividere. Ci piace lo scambio

onesto, diretto, con chi ha deciso di mangiare qui”. Sono anche altri i locali che per ragioni simili o identiche a Masseria Moroseta propongono il menu alla cieca. È un tema su cui vale la pena fermarsi, sintomo di un cambiamento deciso nel modo di impostare la ristorazione.

Le foto

Poco tempo fa, con alcuni addetti ai lavori, si discuteva sul valore, o sul non valore, delle foto in un menu. Eravamo più o meno tutti d’accordo: potrebbero avere significato solo per il menu online utilizzato per la consultazione da casa. Per i menu cartacei o digitali che vengono forniti al ristorante probabilmente è meglio lasciar perdere. Il cliente è già seduto, ha già fame, ha già “convertito” - parlando in termini commerciali - l’input in una scelta: è pronto a godersi il momento, non c’è bisogno di ulteriori stordimenti. Arrivati a questo punto le foto non danno valore aggiunto, semmai potrebbero dirigere il cliente verso una scelta che potrebbe non essere funzionale a quel preciso servizio.

Il fine lavoro di orientamento dell’ospite, in favore di eventuali necessità del giorno o della cucina, ci auspichiamo lo faccia il personale di sala. Quanto terribile sarebbe farsi ingolosire dallo scatto di un nido di pappardelle fumanti e poi non poterne godere?

Quindi, il menu lo lasciamo spoglio e sterile? No! Una grafica pulita, ordinata, anche a colori, con elementi iconografici stuzzicanti e un carattere leggibile per tutti, è già sufficiente. Ci pensano le parole a solleticare il palato e la bocca dello stomaco!

Qualora si utilizzassero le foto online, invece, vanno rispettate delle regole ferree: qualità, quantità e aggiornamento. Esistono ancora siti web con foto di piatti del Pleistocene (un conto se è un archivio dei piatti iconici, un altro è se si ha la parvenza che siano i piatti fuo-

Una cena di gruppo in Masseria Moroseta

ri in quel momento). Per fortuna si rintracciano sempre meno nei web site foto di bassa qualità, sgranate e sbrodolate, che fanno venire tutt’altro che appetito, ma un check agli archivi è sempre consigliato.

Ahìnoi resistono, in molti contesti turistici, ancora esempi anacronistici di menu infilati in cartelline plastificate, impressi da immagini spregevoli (oltre alla plastica stessa). Qui concedeteci un accorato… basta! L’immagine che dobbiamo veicolare, anche come Paese in cui la cultura gastronomica è vetrina e sostanza, è di autenticità, veridicità, modernità. Questi modelli vanno nella direzione opposta. Lo abbiamo ribadito parlando dei social, ma vale anche qui: il gioco delle aspettative instillate nei clienti, prima di averli come clienti, è delicatissimo.

Presentazioni, commiati, pane&coperto

La piacevolezza del menu passa anche per misurati elementi di narrazione, ovvero presentazioni, scelte e scuole di pensiero, commiati. Ciascuna insegna deve trovare la propria cifra stilistica ricordando che si tratta di informazioni tattiche che possono incuriosire alcuni clienti, intrattenerli, ma anche suscitare domande scomode. Pertanto: trasparenza, sincerità e pochi ego-riferimenti!

C’è una voce a margine che non dovrebbe mai essere a margine: il pane (che fortunatamente viene sempre più scorporato dal coperto). È significativo che molti inizino a sottolinearne la provenienza, specificando il fornitore o l’auto-produzione. Rendetela una portata a tutti gli effetti!

E ancora, le note speciali: vedendo l’abnorme quantità di richieste eccezionali, intolleranze e allergie, giocare d’anticipo - rispettando anche le normative - è un vantaggio in termini di tempo, fatica, e un accorgimento gradito dall’ospite che a questi dettagli ci fa sempre più caso.

Sempre che ne rimanga traccia

Abbiamo volutamente lasciato alla fine un quesito puntiglioso: il menu è meglio in cartaceo o in digitale? Mi accingevo a scrivere questo articolo quando tra le mani mi è comparsa la straordinaria raccolta Note di Pranzi - I Menu della Storia, di Alessia Cipolla. Dentro vi sono 350 menu dal 1850 ad oggi, con storie, curiosità e memorie da far luccicare gli occhi.

“Una porta che si apre verso il passato” scrive l’autrice, in grado di proiettare le persone in epoche lontane, di dare testimonianza di stili, forme, abitudini alimentari, nuove correnti culinarie. Molte delle opere riprodotte sono in tiratura limitata, e per questo profumano di unicità e autorialità.

Inevitabile pensare a oggi e all’immaterialità a cui, anche il menu, come dal resto tutto ciò che ci circonda, sta andando incontro. L’avvento dei qrcode e dei menu digitali, che hanno preso piede a partire soprattutto dal 2020, ha dato prima una risposta alle urgenze igieniche e poi ha consegnato ai ristoratori maggiore agilità nella gestione, oltre che un evidente risparmio. Comprendiamo che la digitalizzazione sia una risorsa, e anche un’accortezza ambientale (guai a noi!) ma pensandoci, sarebbe bello prevedere, almeno per le occasioni speciali o per certe insegne, una stampa, un’illustrazione che possa essere conservata dall’ospite. Alcuni locali già lo fanno coinvolgendo artisti, grafici, fotografi. Ne escono delle micro-opere o delle opere a tutti gli effetti.

I ricordi a tavola possono essere indelebili anche senza che vi sia una carta a imprimerli, siamo d’accordo. Ma poter ritornare dove eravamo, rievocare cosa avevamo assaggiato o stupirsi dell’evoluzione della dialettica gastronomica, passando per il piacere tattile che solo la carta riesce a garantire, è un godimento che si allunga e rimane.

LA FORMAZIONE

Autrice: Simona Vitali Clicca e leggi l’articolo sul web

I modelli di scuola che danno fiducia nel futuro

L’esempio virtuoso della scuola professionale provinciale alberghiera Kaiserhof di Merano

C’è una scuola nell’Alto Adige, la scuola professionale provinciale alberghiera Kaiserhof di Merano (BZ), riconosciuta come un luogo di formazione di eccellenza nel settore alberghiero e nella ristorazione. Chi è addentro nella formazione sa bene che da queste parti c’è una marcia ben innescata, ci si muove con passo sicuro e si fa la differenza, vuoi per quel mix di culture che tanto arricchisce (a partire da un bilinguismo di base), vuoi per quello spazio di manovra nel dirigerla che consente di metterci del proprio rispetto alle leggi statali, pur attenendosi a quelle costituzionali.

In una parola: respiro. Avere respiro, possibilità di dare corpo ad altri modi di intendere la scuola, quello stesso tipo di scuola, l’alberghiera, oggetto del nostro interesse specifico e che, a ben guardare, dovrebbe potersi programmare in modo diverso a seconda di collocazione geografica e peculiarità del territorio.

La sede della scuola Kaiserhof di Merano

La sede della scuola: un hotel storico che ha ospitato la principessa Sissi

Accolti con squisita cordialità dal direttore, Hartwig Gerstgrasser, figura estremamente preparata per essere stato responsabile della formazione in Alto Adige, ci caliamo letteralmente dentro questa scuola, che pare iscritta nel “registro delle favole” viene da dire, per la bellezza della sua struttura: un palazzo storico che a inizi ‘900 è stato sede di uno degli hotel più prestigiosi di Merano, florido centro termale, e ha ospitato figure del calibro della principessa Sissi, a cui peraltro è intitolato.

“Abbiamo questa bellissima casa” esordisce il direttore, di cui ai ragazzi ha cura di raccontare la storia “perché si sentano orgogliosi come principi e principesse”. A coronare quest’atmosfera ogni anno viene organizzato, presso il Kurhaus, il tradizionale Ballo di Maturità, evento molto atteso, pianificato e organizzato nei particolari nell’arco dell’anno scolastico, che in sole due settimane registra il tutto esaurito (venduti 1600 biglietti). Ma attenzione a non fare la leggerezza di pensare al Kaiserhof in modo troppo poetico, perché decidere di frequentarlo comporta un impegno serrato e intensivo.

Un percorso intensivo

Tanto per iniziare la formazione è in lingua prettamente tedesca, tuttavia si coltivano anche l’italiano, l’inglese e il francese, per cui si familiarizza con quattro lingue. La scuola si configura sostanzialmente come un tempo pieno che porta alla maturità, col valore ag-

giunto di conferire, rispettivamente nel terzo e quarto anno anche due qualifiche professionali , nella cucina e nel servizio, spendibili sul mercato. Ciò significa lavorare sodo per sostenere un esame all’anno dal terzo al quinto anno (servizio, cucina e maturità).

Gli stage di sei settimane nel periodo estivo (le cui condizioni imposte sono retribuzione min €600, due giorni di riposo e max otto ore di lavoro) sono il presupposto fondamentale per l’ammissione alla scuola (tra il secondo e il terzo anno) e alle successive classi (tra il terzo e quarto e il quarto e quinto anno) e quindi per il conseguimento del diploma. Insieme a un’intensa attività progettuale (sono molti i progetti su cui vengono fatti lavorare i ragazzi), consentono di intensificare al massimo l’apprendimento per un fitto conseguimento di certificazioni.

No alla dispersione scolastica e sì all’apprendistato

Nel primo biennio i ragazzi frequentano un’altra scuola (ci sono specifici bienni alberghieri in tre città) e il decidere di proseguire al Kaiserhof in seconda battuta, è certamente un atto più soppesato. L’annoso problema della dispersione scolastica qui è ben arginato. A

Hartwig Gerstgrasser, direttore del Kaiserhof

supporto delle scelte dei ragazzi ci sono, come dicevamo, ben tre titoli (servizio, cucina e maturità) ciascuno spendibile singolarmente e, per chi intende cambiare scuola, l’obbligo – e sottolineiamo l’obbligo - del direttore è di seguirne le sorti, fino all’iscrizione presso un’altra struttura. Questo significa fare davvero sistema con le altre scuole, per ravvedere eventualmente in esse le risposte più adeguate per quello studente. Come la possibilità, ad esempio, di avvalersi dell’apprendistato, che in Alto Adige, diversamente da noi, si contempla: “Se qualcuno rigetta la scuola - ci spiega il direttore - lo instradiamo nella pratica, per cui viene inserito per tre anni in azienda e retribuito secondo i dettami del contratto collettivo. La sua frequentazione della scuola viene circoscritta a 10 settimane in blocco”.

La struttura scolastica simula l’organizzazione di un hotel dove gli studenti hanno l’obbligo di vestire - secondo il regolamento della scuola - un abbigliamento scolastico consono all’ambiente di lavoro (giacca, blazer, camicia, cravatta o papillon...) oltre a quello professionale quando fanno pratica e vengono da subito orientati all’acquisizione di uno stile professionale, connotato da modi raffinati e cordialità nell’approcciarsi all’ospite, necessario completamento di una competenza che non deve mancare ma da sola non basta.

Nutrirsi di informazioni e lavorare su progetti

È significativo come il punto di partenza nella nostra visita alla scuola sia - per scelta ben precisa della direttore - la biblioteca, luogo con cui i ragazzi familiarizzano ben presto, imparando a viverlo con naturalezza. Lì studiano, fanno ricerca, si incontrano… vivono l’attesa di un esame o, e non è infrequente, preferiscono trascorrere il tempo dell’intervallo quotidiano dalle lezioni, come ci racconta una studentessa che incontriamo in questo frangente: “Ci troviamo molto

bene qui dentro e ci siamo anche spesso”. Prendere confidenza con la cultura, imparare a nutrirsi di informazioni ma soprattutto a distinguere quelle buone dalle fallaci, comprendere che l’approfondimento è la strada… un’impagabile dote per questi ragazzi!

Del resto basta guardare alle materie inserite nel programma di studi dove, accanto alle più tradizionali, svettano diritto ed economia politica, economia aziendale e tecniche amministrative, gestione dei servizi ristorativi e organizzazione, Event management. Giusto quest’ultima materia citata mette in evidenza un punto cardine della scuola, vale a dire l’abituare i ragazzi a lavorare su progetti, oltre che nell’organizzazione di eventi speciali, anche nell’attività di ristorazione quotidiana.

Il momento del pranzo, ogni giorno, è parte integrante della formazione: nella grande sala, dove si apprende il servizio a un banchetto, gli studenti sono invitati a creare eventi a tema, nell’elegante ristorante (45 posti) si impara da un lato il servizio à la carte e dall’altro si entra nel ruolo di clienti che si accomodano senza fretta e si impegnano a mangiare tutte e tre le portate servite, nel bistro vengono proposti piatti semplici con un servizio veloce.

Il laboratorio multimediale

Il direttore ci mostra con orgoglio l’ultimo nato al Kaiserhof: un laboratorio multimediale, allestito grazie al contributo del PNRR con attrezzature che consentano di fare foto, interviste, video professionali in linea con le tendenze più attuali:“Perché la tradizione, di cui siamo espressione - sottolinea il direttore - deve innestarsi con le più moderne tendenze, secondo i nostri intenti. Agli alunni questo spazio piace tantissimo: hanno gli occhi lucidi quando lavorano qua e si possono dedicare a foto di piatti, podcast, interviste che li connettono così tanto all’oggi”.

Il pensiero di Phiipp Achammer, l’assessore provinciale a istruzione e cultura tedesca, innovazione, ricerca, musei, beni culturali

È orgoglioso di questa scuola, Philipp Achammer, l’assessore provinciale a istruzione e cultura tedesca, innovazione, ricerca, musei, beni culturali, con cui abbiamo avuto modo di scambiare una battuta: “La scuola alberghiera Kaiserhof di Merano è un esempio eccezionale della qualità e dell’impegno delle nostre istituzioni educative. Gli studenti e gli insegnanti dimostrano quotidianamente quanto sia importante una formazione solida nel settore dell’ospitalità e della gastronomia. Il loro lavoro contribuisce in modo significativo al rafforzamento della nostra economia locale e

alla promozione di giovani talenti. Sono orgoglioso dei risultati ottenuti qui e ringrazio tutti i coinvolti per il loro instancabile impegno”.

Lo crediamo bene, assessore! Bravo lei a dare fiducia al suo team.

Il caso ha voluto che la sera precedente la visita alla scuola mi trovassi a cena presso il ristorante Zur Kaiserkron di Bolzano. Parlando con lo chef Filippo Sinisgalli, allievo di Gualtiero Marchesi, noto per la sua reale dedizione ai giovani cuochi in erba e bravo nell’individuare e potenziare talenti, è emerso come realmente questa scuola doti i ragazzi di una marcia in più, dal momento che approcciano al mondo del lavoro preparati e rispettosi dei ruoli.

Il laboratorio multimediale

Incàlmo ci insegna la coralità IL RISTORANTE

Non è inusuale incrociare un ristorante gestito a più mani - otto, in questo caso - ma è decisamente più improbabile che quelle mani si assentino dalla routine lavorativa per posarsi sulle ginocchia, nello stesso momento, per più di sessanta minuti, a un paio d’ore dall’inizio servizio serale. No, in agenda non erano a corto di prenotazioni e non c’era un giornalista del New York Times ad attenderli, se vi fosse venuto il dubbio. Da Incàlmo, a Este, hanno trovato tutti il tempo per questa conversazione per un motivo più semplice: sanno esercitare insieme.

È da questa accortezza che si percepisce quanto questo ristorante, che dal 2022 ha smosso la scena fine dining dalla bassa padovana, sia un progetto corale come se ne vedono pochi. Non dalle foto di gruppo (che, certo, non mancano e sono pure originali). Non dalla pagina web che sintetizza il chi siamo. E nemmeno dalle firme o dai post che raccontano le attitudini di ciascun volto. Ma piuttosto sì, da questo modo di raccontarsi con equità, senza pestarsi i piedi, interferire, prevaricare.

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Michele Carretta e Ricardo Scacchetti, i soci fondatori, gestiscono la sala e il rapporto con il cliente (oltre che l’albergo attiguo). Francesco Massenz e Leonardo Zanon, entrambi bellunesi, si dedicano invece a cucina e pasticceria; lavorano braccio a braccio da tempo. Le loro storie varrebbe la pena raccontarle una ad una, hanno aneddoti e cambi di fronte ammirevoli, ma il senso di questo articolo va in un’altra direzione: capire come in un contesto di forte instabilità lavorativa nel settore dell’ospitalità si riesca a far convergere più figure creando stabilità e serenità.

La condivisione

Diciamocelo: i ristoranti 4.0 oggi raccontano di squadre che stanno bene insieme. Che lavorano e poi escono in gruppo; organizzano uscite, bevute, ritrovi, formazione. E questo sicuramente contribuisce a una fidelizzazione del personale, a un’affezione al progetto, a saldare il sentirsi parte. Poi, però, è più o meno all’ordine del giorno che giunga quella notizia: lo chef ha lasciato, il responsabile di sala è andato, chi si occupava della carta vini ha preso un’altra strada. Avevano bisogno di nuovi stimoli, avevano visioni diverse. In alcuni casi è concesso e comprensibile, in altri meno. Ma ecco, mi soffermo su quanto mi hanno trasmesso i ragazzi di Incàlmo: un rapporto lavorativo vissuto con maturità. Dove la condivisione non manca ma non è invadente. Non si mescola alla vita privata, non crea fraintendimenti. Non c’è quella sbagliata interpretazione dell’ambiente di lavoro-ristorante come nucleo familiare. Non si tratta di essere famiglia, se non lo si è davvero, si tratta di navigare insieme e saper mettere dei confini, in favore della qualità della vita. Alla domanda “come gestite i vostri rapporti interni?” mi risponde subito Michele.

“Abbiamo delle gerarchie, per questioni organizzative, ma partiamo sempre dal presupposto che nessuno di noi sia in grado di fare tutto e ci sia bisogno degli altri. Ognuno ha quindi i suoi incarichi e le sue responsabilità, una sorta di specializzazione che mettiamo in mezzo per crescere insieme”.

Continua Ricardo:

“Diversamente sarebbe difficile perché arriviamo da tante esperienze diverse, nello stesso settore e non solo. Se ognuno dicesse la sua senza delle regole sarebbe un caos. Abbiamo la fortuna di essere molto diversi e complementari ma la complementarietà va’ curata”.

Il dialogo è in cima alla lista delle buone pratiche di Incàlmo. Lo è per davvero, e anche se non ce lo spiegassero si capirebbe dalla capacità di gestire i tempi di questa conversazione.

Francesco, che ha sempre un piglio pragmatico, ci conferma: “Il dialogo si concretizza con due appuntamenti mensili, due riunioni per dedicare un momento, senza pentole o altre distrazioni di mezzo, per fare il punto su tutto. Poi ci sono tutte le comunicazioni più pratiche, da

quelle strettamente legate alla cucina al briefing che facciamo al pass, che è il nostro momento di raccoglimento prima del servizio in cui ci confrontiamo su quali sono gli ospiti che arriveranno in sala. Questo ci consente di avere tutti una panoramica delle richieste speciali, eventuali intolleranze, altre informazioni importanti”.

“Infine - aggiunge Michele - facciamo una calendarizzazione precisa degli appuntamenti che si svolgeranno nel corso dell’anno, ovvero eventi, cambio menu, shooting, partecipazioni. Ognuno deve essere a conoscenza per tempo per poter sviluppare idee e organizzare al meglio il lavoro”.

Gestire la comunicazione, in tutti i sensi

Non siamo ancora arrivati a parlare di menu, cucina e sala in senso lato, ma facciamo una premessa sulla comunicazione, uno degli elementi di Incàlmo che balzano subito all’occhio. È tutt’altro che scontato trovare un locale che risponda alle recensioni, curi così bene la sua presenza online, dia risposte personalizzate ai clienti o potenziali clienti. Se ne occupa direttamente Ricardo, che ha un lungo trascorso nel mondo delle agenzie pubblicitarie.

“Creiamo un rapporto molto stretto con i nostri ospiti. Cerchiamo di anticipare o allungare l’esperienza comunicando direttamente con loro. Ci piace che le risposte siano spontanee ma formulate sulla persona. Sicuramente ci aiuta a stabilire una connessione”.

Francesco: “In tante attività, e non parlo solo di ristorazione, non si conoscono i propri clienti, anche quando sono abituali. Non è facile gestire il rapporto con le persone, lo sappiamo bene, ma farle sentire a proprio agio, anche solo chiamandole per nome, rende tutto diverso.

Mi piacerebbe entrare al mattino nel solito bar per il caffè e sentire che mi chiamano per nome!”.

Fa incursione Ricardo: “Diciamo che siamo clienti a nostra volta quindi sia in cucina che in sala cerchiamo di prestare moltissima attenzione ai dettagli. Intendo nella conoscenza di chi abbiamo davanti ma anche nella gestione dei tempi di ingresso e di uscita dei piatti, nella lettura dei bisogni, nel capire quando c’è interesse per conversare con noi”.

Michele interviene: “Sì, naturalmente queste accortezze sono possibili quando c’è anche un’ottima comunicazione interna. Abbiamo capito che gestendo al meglio anche la comunicazione tra noi non solo riusciamo e maneggiare qualsiasi imprevisto ma riusciamo anche ad allinearci sulla gestione del cliente”.

Non morto ma ridefinito

Siamo al tramonto del fine dining? È un tema che abbiamo affrontato negli ultimi numeri della rivista. Non potevamo non farlo anche qui, trovandoci in un’insegna abbastanza singolare rispetto alla tipologia di ristorazione che offre la zona.

Michele: “Parto dal definirlo. Per me fine dining è una cucina di ricerca in un contesto raffinato. Le persone lo vivono come un’occasione speciale. Molti clienti ci dicono “è la prima volta” e cogliamo con piacere lo stupore, la voglia di piacere. Ripensando a loro mi viene da dire che no, non è morto e anzi si sta ridefinendo”.

Si accoda Francesco: “Aggiungerei che è sempre meno legato alla figura dello chef ed è sempre più un momento cucito sul benessere del cliente. Rispetto a qualche anno fa sono cambiate proprio le priorità”.

Ricardo: “La risposta la trovo nelle parole dei nostri clienti. Molti, soprattutto i più giovani, ci confessano di uscire meno ma di voler concedersi delle esperienze che non proverebbero in un locale canonico. Prima di dire quale

sarà il futuro partiamo dal presupposto che le persone scelgono”.

Leonardo: “Non credo sia finito, anzi, ma sia necessario definire il fine dining vero da ciò che abbiamo visto in questi anni, in cui bastava mettere la foto di un impiattamento fatto anche in casa e aggiungere l’hashtag #finedining. Ecco, dobbiamo impegnarci a difenderlo e a raccontarlo quando lo è davvero”.

Al netto di questa conversazione, tutta questa coralità come si percepisce quando si è seduti da Incàlmo? È una sensazione più che un codice. C’è un ritmo piacevole, un modo affabile di porsi e alternarsi ai tavoli, di presentare e ascoltare. Il menu stesso - composto da un percorso vegetariano, uno alla cieca, più le opzioni alla carta - racconta una confluenza di idee. Ci sono rimandi ai viaggi, fusioni con la cucina della tradizione, considerazioni personali.

E poi c’è molta gentilezza. Ci riferiamo sì a quella ‘gentilezza’ formale che riguarda la cura dei dettagli, dalla mise en place all’ambiente, dall’accomodare all’accompagnare, ma soprattutto a quel modo implicito (e qui condiviso) che ti fa sentire in un luogo sano e plurale.

Autore: Luigi Franchi

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Alfredo alla Scrofa, un luogo dell’Italiasimbolo gastronomica

Luigi Pirandello, Guglielmo Marconi, Ettore Petrolini, Federico Fellini, Alberto Sordi, Anna Magnani, Gabriele D’Annunzio, Paolo Sorrentino, Aldo Fabrizi, Frank Sinatra, Jimmy Hendrix, Sophia Loren, Audrey Hepbourn, Serena Autieri, Christopher Lambert, Ewan Gordon McGregor e, per festeggiare il suo novantesimo compleanno, qualche giorno fa, Corrado Augias. Sono solo una minima parte dei personaggi del mondo del cinema, della musica, dello spettacolo e della cultura che hanno varcato le porte di Alfredo alla Scrofa, il ristorante di Roma che, dal 1914, accoglie coloro che vivono o transitano per Roma. Sono ormai più di cento i volumi con le dediche che sono conservati al ristorante!

Tutto ha un inizio

Come ha fatto ad essere così famoso questo ristorante?

Forse il più famoso dei ristoranti italiani nel mondo.

Grazie al suo fondatore, Alfredo di Lelio, che, dopo aver aperto nel 1914, inventò di sana pianta una ricetta per alleviare la spossatezza di sua moglie Ines debilitata dal parto: le fettuccine Alfredo, una pasta in bianco con burro e Parmigiano Reggiano.

Nel 1920 due attori di hollywoodiani, Douglas Fairbanks e Mary Pickford, varcarono la soglia del ristorante e assaggiarono le fettuccine Alfredo che, dopo aver rimesso in sesto la signora, erano state inserite nel menu.

I due attori erano a Roma in viaggio di nozze e rimasero talmente estasiati da quel piatto che, ritornando a Hollywood, ne parlarono con i colleghi; ma non si limitarono a questo, tornarono a Roma e donarono ad Alfredo una

forchetta e un cucchiaio d’oro con una loro dedica posta sul retro.

Con quel cucchiaio e quella forchetta ho mangiato anch’io una sera di poche settimane fa. Il sommelier, Alessandro Novelli, si è avvicinato al tavolo con una scatola che conteneva le due posate invitandomi a prenderle in mano, in attesa che arrivasse il maestro mantecatore Mario Mozzetti, anche attuale proprietario. Potrà essere una boutade ma fa il suo effetto! E comunque, Alessandro mi ha confidato che non è per tutti facendomi sentire un poco più importante!

Alfredo alla Scrofa di oggi

Entrare in questo ristorante, dove i muri raccontano la storia recente del mondo, tanti sono i personaggi che vi compaiono, è un’esperienza da fare per chiunque voglia conoscere un po’ meglio Roma.

Oggi Alfredo alla Scrofa è un locale che infonde la sensazione pacata di un luogo di piacere gastronomico ma non solo; ai tavoli si sta bene, tutto è perfettamente organizzato per garantire buon gusto e tranquillità. Le fettuccine Alfredo, inizialmente denominate fettuccine al triplo burro, sono una componente del menu che è un inno alla cucina romana e a quella classica italiana che lo chef Massimiliano Sepe e un’affiatata squadra di giovani talenti interpretano alla perfezione, utilizzando materie prime di elevata qualità che arrivano dalla

Una sala di Alfredo alla Scrofa
Master Mantecatore Mario Mozzetti

campagna romana e dell’Agro Pontino, mentre il pescato è di Fiumicino e Anzio, oltre a carni e eccellenze del territorio che danno vita a una cucina tanto classica quanto contemporanea.

Per le fettuccine Alfredo degli anni Duemila la sfoglia deve essere la più sottile possibile, il Parmigiano Reggiano di 24 mesi è del Caseificio Gennari, mentre il burro è artigianale di montagna del Caseificio Cavola. Un piatto replicato in migliaia di modi negli Stati Uniti ma che, senza l’abilità del mantecatore, rimane una semplice pasta in bianco. Abbiamo visto direttamente come si trasforma quel piatto grazie agli abili gesti che il mantecatore fa sotto gli occhi degli ospiti al tavolo. Materie prime eccellenti e la manualità di un bravo chef e di un artigiano del cibo fanno delle fettuccine Alfredo una ricetta generosa e buonissima, al punto che le viene dedicata una giornata nazionale: il 7 febbraio, ogni anno, si celebra il Fettuccine Alfredo Day.

Due chiacchiere a fine serata con Alessandro Novelli, sommelier “Questa è la mia seconda casa. – esordisce Alessandro –Ho cominciato in questo ristorante quando avevo sedici anni, ora ne ho trentatre. In mezzo ho fatto altre esperienze tra cui l’ultima in Scozia e poi, per amore, sono rientrato in Italia. Nella primavera del 2020, ho aperto un mio locale a Nettuno poi è arrivata la pandemia. Chiusa

quella breve avventura ho bussato a questa porta; avevo voglia di un ristorante dove tutto si svolgesse in modo normale, senza gli artifizi dell’alta ristorazione, dove gli ospiti potessero godere di piatti riconoscibili, di un dialogo sui vini e di un costo accessibile per molti, di un posto bello che ha saputo rinnovarsi senza cancellare la sua importante storia”.

Dopo quella premessa ci ha portato nei sotterranei del ristorante, dove c’è quella parte di Roma che racconta del suo passato glorioso. “Qui stiamo facendo un grande lavoro di ristrutturazione per accogliere una cantina meglio organizzata e offrire agli ospiti altre sale dove poter degustare vini e piatti in ambienti che uniscono storia e contemporaneità” racconta Alessandro.

Quando abbiamo fatto la visita era dicembre; ora la prima sala, chiamata Hollywood per ovvi motivi, è pronta, a fine febbraio sarà attivo lo spazio dedicato alla cantina. Un buon motivo per tornare, oltre che per riassaggiare le fettuccine Alfredo!

Alessandro Novelli
Lo Chef Massimiliano Sepe

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La qualità va riconosciuta e pagata!

Storia di un modo di concepire il Prosciutto di Parma

Autrice: Simona Vitali
L'arte della sugnatura di Sivia Costa

Chi meglio di “uno del luogo” può dire di conoscere e sapere riconoscere nelle più diverse sfaccettature un prodotto tipico, figlio di quella terra che abita, vive, respira, introietta ogni giorno, fino ad acquisirne inevitabilmente la padronanza?

Vivere in territorio parmense, ad esempio, significa non limitarsi ad essere orgogliosi di quel Prosciutto di Parma, garantito nella sua qualità da un rigido disciplinare, ma arrivare a conoscere piuttosto bene il tessuto da sapere che, se è vero che tutti i prosciuttifici hanno i loro pezzi da novanta, di qualità superiore, da mettere in campo nelle occasioni migliori, è pur vero che il perseverare a quei livelli sull’intera produzione non è da tutti.

Se partiamo dal presupposto che, per quanto ne dicano gli allevatori, ogni maiale è diverso dall’altro e così ogni coscia da cui si ricava il prosciutto, è presumibile quale impegno e quali accorgimenti comporti il voler portare tutta quanta la produzione a un livello alto E quando ci troviamo di fronte a una qualità indiscussa che si mantiene costante nel tempo, o comunque è protesa in questo senso, è bene che cerchiamo di saperne di più, perché scopriremo che ne vale la pena.

Zuarina, un marchio storico nel pieno della sua maturità

C’era una volta, già dal 1860, e c’è ancora un marchio, Zuarina, specializzato nella lavorazione del Prosciutto di Parma, e oggi riconosciuto, a diritto, marchio storico dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, sito in quel di Langhirano (PR), dove si concentra il grosso della produzione. Siamo nel cuore di una piccola area geografica che si è scoperta già dal II secolo

a.C. vocata per la conservazione della carne macellata e la lavorazione del prosciutto, grazie ad alcune favorevoli peculiarità del territorio. In quanti sanno, tanto per cominciare, della presenza a Salsomaggiore, che è lontano dal mare, di sorgenti di acque salse dalle quali ricavare il sale, scoperta fondamentale per la lunga conservazione della carne?

Sono invece ben più note le condizioni microclimatiche ed ambientali dovute all’azione dell’aria che giunge dalla Versilia, il cosiddetto “marino”, che consentono una stagionatura naturale, in questa delimitata area collinare della provincia di Parma.

Cosa comporta il voler essere costanti

nel produrre qualità superiore

Coscia di maiale e sale e poi l’azione del tempo e quella del vento, niente conservanti né additivi. Il Prosciutto di Parma è la risultante di questi ingredienti “soltanto”, sapientemente dosati, risolcando il tracciato di una saggezza antica ma sempre maestra, sotto l’ala di un rigido disciplinare a cui recentemente, nel nome di un’ulteriore qualità, sono state apportate modifiche ancora più stingenti

Nonostante questo c’è chi, e torniamo a Zuarina, puntando sulla replicabilità di un prosciutto di qualità superiore - perché questo è il difficile -, cerca di migliorare la sua qualità spingendosi oltre le richieste del disciplinare, come abbiamo modo di rilevare, calandoci nel suo comparto produttivo.

La peculiarità di questo prosciuttificio sta innanzitutto nel fatto che la carne, italiana e di suino pesante, proviene dalla filiera integrata di proprietà (CLAI, cooperativa imolese con 60 anni di storia specializzata

Marcello Barilli

in salumi e carni fresche).

Bisogna vedere con che scrupolo vengono selezionate le cosce di grande pezzatura in ingresso in questa che sembra un autentico posto di blocco! Rifilate e valutate una ad una per vedere cosa c’è sotto il grasso iniziale, che siano belle, non magre né sottopeso. Un’analisi meticolosa per mano d’uomo: rifilatore e giudice della coscia, prima figura chiave – non ancora sostituita da moderne tecnologie - che incontriamo nella nostra visita.

Lavorazione lenta e tempi lunghi

Ben presto iniziamo a imbatterci nel il concetto di lavorazione lenta, con cui ci troveremo a familiarizzare, incontrandola in più di una fase della lavorazione. Tradotto, aziendalmente parlando, significa rallentare, allungare i tempi, rispetto ai parametri obbligatori indicati. Una scelta, non da tutti certamente, indicativa di chi vuole puntare al massimo.

“Il riposo a freddo dopo la salagione, ad esempio – ci racconta Marcello Barilli, responsabile di stabilimento Zuarina - ossia quella fase in cui il prosciutto viene posto in ‘cella di riposo’ in condizioni di temperatura e umidità controllate, perché il sale assorbito penetri in profondità e si distribuisca, avviene in un tempo più lungo di quello indicato dal disciplinare (110/120 giorni anziché 90), perché intendiamo ottenere una migliore distribuzione del sale, consentendogli di lavorare di più sulla coscia”.

E vogliamo parlare del sale? Scelta certosina che ha portato a optare per quello delle saline sarde, più puro rispetto ad altre zone (l’isola è completamente deindustrializzata), tenuto non in silos ma in sacchi, perché mantenga i grani e non si polverizzi. E utilizzato anche umido, per ammorbidire.

Stagionatura ad oltranza

Ma tornando ai tempi lunghi c’è una scelta inziale che dà già la misura di un’intenzione, ed è quella di utilizzare cosce di di grande pezzatura, che consentono una stagionatura lunga

“Da qui non esce un prosciutto che non abbia 18 mesi! – ci tiene a precisare Barilli.- Ce ne prendiamo quat-

I gesti della sugnatura

tro in più (rispetto ai 14 mesi indicati dal disciplinare) perché il tempo è importante.

Oltre a sfruttare il marino aprendo le finestre e carpendolo attraverso uno spoiler di concezione ingegneristica, che catturi l’aria e la porti sui prosciutti, posizionato sul tetto sotto quel cappuccio verde, abbiamo anche un sistema di stagionatura a caldo, un termosifone a terra che permette il ricircolo dell’aria e ci consente di lavorare sulla coscia. Questo per favorire una lenta disidratazione che le permetta di sviluppare quegli aromi che ha già dentro di sé”.

Il fascino della sugnatura eseguita completamente a mano

Quando la sugnatura è realizzata completamente a mano, partendo dal riscaldare la sugna con le mani, ed evitando scorciatoie come la spruzzatura e la pennellatura, beh! quella gestualità esercita davvero molto fascino. Se poi è una figura femminile, più delicata, sensibile e precisa nei movimenti, ci si ferma proprio ad osservarla. E pensare che quei gesti sono quelli da sempre, uguali a sé stessi, non ancora così bene replicabili dalle macchine…coscia per coscia bisogna saper capire dove mettere la sugna, dove toglierla, complice

il tatto. Modalità, anche queste, che non consentono di realizzare chissà quanti pezzi al giorno ma pagano nei risultati.

La cantina interrata

Il profumo che si sprigiona nelle celle di stagionatura, che via via attraversiamo, ha un’intensità crescente fino a diventare, in fase finale nella cantina interrata (altra peculiarità), inebriante.

Non resta che prendere rigorosamente con le mani una fetta di prosciutto, avvicinarla al naso per carpirne i profumi e portarla alla bocca - per intero, con il grasso! - per comprendere come coscia, sale, tempo e vento possano fare la magia, se - e qui sta la vera differenza - ci sono registi capaci di dosarne l’entrata in scena.

Poi da gourmet quali ci vantiamo di essere scivoliamo sulla buccia di banana: “Non costate poco…”

Però quella fetta profumata, dolcissima, delicata quando la si incontra diventa irrinunciabile…perché questo è il Prosciutto di Parma quando è buono davvero! Eppure lo dovremmo sapere che se vogliamo la qualità dobbiamo pagarla. È matematica, non filosofia!

IL VINO

Autrice: Giulia Zampieri

Il Roero che sa esprimersi Alberto Oggero

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Quando l’auto è orientata verso il Piemonte c’è un pensiero che sgorga nelle intenzioni dei santi e appassionati bevitori: Langhe.

Il resto è già nel bicchiere. O magari in più d’uno, per capire come si stanno comportando le annate, se le nuove generazioni sono subentrate in punta di piedi, se ci sono nuovi prodigi, se i grandi rimangono sempre grandi.

Mentre ci avviciniamo alla cantina di Alberto Oggero - che è invece in Roero, a mezz’ora da La Morra - ci raccontiamo che non dev’essere stato facile per questa zona vitivinicola misurarsi con la culla dei grandi rossi italiani. Inconsapevolmente stavamo già commettendo un errore: perché misurarsi?

Ritorno alla terra

Ma prima di parlare di misure e differenze scopriamo la storia di questo territorio, nella porzione nord orientale della provincia di Cuneo, che ha preservato orti, boschi di latifoglie e castagneti, a differenza delle vicine Langhe dove il filari hanno ridisegnato pressoché tutto il paesaggio. Prima del grande boom economico, e della migrazione di molti giovani verso le città, in Roero già si produceva vino. Ce lo ricorda Alberto Oggero: “Nonno Sandro era un contadino e si è sempre preso cura della vite. Avevo modo di osservarlo proprio qui davanti, in questo cortile. Poi mio padre e mio zio hanno deciso di spostarsi, il primo ad Alba e il secondo a Torino; erano centri con maggiori possibilità economiche, l’industria richiamava, c’era bisogno di andare oltre il sostentamento che poteva consentirti l’agricoltura. Hanno preservato i due ettari del nonno continuando a produrre uva. Era un’attività marginale a cui si dedicavano nel fine settimana, solo per il conferimento ad una cantina della zona. Come altri giovani ho fatto esattamente l’opposto: sono rientrato dalla città

Foto di Eunica Brovida

per occuparmi della terra in cui avevo trascorso solo i primi anni di vita”.

Al rientro in Roero, nel 2009, Alberto frena la gola. Prima di produrre, e forte degli studi enologici, si dedica allo studio delle vigne e dei suoli, anche quelli limitrofi. Solo in un secondo momento avvia la produzione vera e propria.

“All’inizio come lascito di mio padre e di mio zio avevo due ettari, tutti ad Arneis e Nebbiolo che sono i vitigni rappresentativi di questa zona. I primi anni di studi mi hanno consentito di circoscrivere le caratteristiche, di capire che strada volevo intraprendere, quali erano le migliori condizioni produttive. Ora ho esteso la produzione a sei ettari e mezzo, che in futuro diventeranno nove, distribuiti su due rilievi, Santo Stefano (a 300 metri circa sul livello del mare) e Canale (200 metri circa). Oltre ad avere capito cosa avevo a disposizione in quel momento ho definito qual era la strada che sentivo appartenermi. Per me era chiaro che si doveva tirare fuori quello che c’era qui senza guardare altrove”.

Il Roero è Roero

La torre di Barbaresco dista venti chilometri dall’azienda di Alberto Oggero. In mezzo scorre il fiume Tànaro. Potrebbe sembrare uno stacco di poco conto e invece in questa distanza si gioca molto, anzi tutto. Le differenze sostanziali stanno, come immaginerete, nella morfologia del terreno: le Langhe sono caratterizzate dalla marna, il Roero da suoli soffici, sabbiosi e calcarei. E poi naturalmente entrano in gioco esposizioni, presenza di fossili e minerali, ma anche di microrganismi (che in Roero sono favoriti dall’ottima areazione del terreno).

“I contadini rimasti non avevano cultura territoriale, nemmeno un interesse agronomico vero e proprio per sviluppare qualcosa che fosse davvero espressione del Roero. Quando hanno compreso il valore di mercato del Nebbiolo, che già si posizionava con prezzi impensabili nelle carte dei vini dei ristoranti, non solo italiani, si sono domandati: perché non farlo anche qui? Perché non lo replichiamo? Mancava un pezzo: lo

studio del suolo. Un dettaglio, per così dire, perché la terra su cui cresce una vigna concorre, e di molto, nell’identità di un vino. Quando c’ho messo la testa ho capito subito che non potevamo e non dovevamo produrre come i vicini, sarebbe stato controproducente. Mi sono concentrato sull’idea di produrre vini territoriali, senza inseguire lo stile di una zona che ha tratti totalmente diversi. Ho fatto leva su quello che avevo: vigne vecchie ma anche un ambiente produttivo unico, con una cantina impregnata di lieviti indigeni perché qui dentro si fa vino da tanti anni”.

Basta metterci il naso, in cantina, per cogliere la stratificazione speciale da cui può attingere Alberto: c’è un profumo inebriante, buonissimo, di mosto e vino.

Così come basta aprire la prima bottiglia dei suoi rossi, il Sandro d’Pindeta, dedicato naturalmente al nonno, per ritrovare tutto ciò che ci ha raccontato fino a questo momento: identità, presenza, unicità. E finezza, anche se questa ha più a che fare con la sua mano che non con tutto il resto.

Il vino, quando è pronto, è per tutto

Alberto ha un piglio molto asciutto nell’esprimersi ma non lesina mai in sostanza.

“Non esiste un vino per, un vino adatto a, un vino da consumare con… per me il vino deve essere compiuto e pronto per tutto”.

Una considerazione precisa, sicuramente in controtendenza rispetto a tanti colleghi e che ci porta, ancora una volta, a mettere in discussione una buona fetta di prodotti (pardon, di vini) nati in funzione della vendita.

“Intendo dire che non faccio un vino da aperitivo o

da meditazione. Credo che il vino una volta pronto debba essere per tutto. Mi interessa che arrivi il vitigno, il terreno, la ricchezza di questi suoli. Per questo facciamo quattro vini da singola vigna e solo un uvaggio. Le caratteristiche delle zone sono talmente diverse che si devono valorizzare singolarmente. Mettendo assieme più parcelle non arriverei a un vero equilibrio in bottiglia”.

Un grande lavoro, di cui non si può non parlare, svolto in questi anni da Alberto, riguarda l’Arneis.

“È un vitigno che è stato interpretato in modo diffuso con molta omologazione. Abbiamo cercato di cambiare sguardo. Lasciamo a questa varietà il tempo di affinarsi ed evolversi senza troppo intervento. Anche qui, come per i rossi, lavoriamo con una fermentazione naturale e aspettiamo l’estate per imbottigliarlo, senza filtrazioni né chiarifiche. Usciamo con due Arneis: il Roero Bianco, succoso e sapido, e il Valle dei Lunghi, ottenuto da vecchissimi ceppi di Arneis piantati tra i filari di Nebbiolo. Sono convinto che la vera chiave per interpretarlo sia l’attesa”.

Entrambi sono ben discostati da tutto ciò che riconduciamo all’Arneis. In particolare il secondo: sarebbe un’impresa azzeccarlo alla cieca, per le sue note peculiari, accentuate anche dalla macerazione sulle bucce.

Gregory Bateson, noto antropologo e sociologo britannico, diceva: “La saggezza è saper stare con la differenza senza voler eliminare la differenza”.

I vini di Alberto Oggero raccontano proprio questo. Ci fanno pensare che l’analisi critica, la consapevolezza e la sensibilità di chi produce siano gli unici additivi che dobbiamo tutelare. E anche il segreto per vivere bene nelle differenze.

Alberto Oggero - foto di Sara Bergando

BUONE, PROFESSIONALI, TESTATE OGNI GIORNO

Forno e Vapore

Novelle

Gnocchi e Purè

Imbattibili e facili da realizzare

Gnocchi e Arrosto

Chef

fritte, gnocchi, crocchette, puré, croccanti al forno

Le Big

Viola

Le Piccole

Dolci
Versatili in cucina
Ideali al forno e vapore
Ideali per piatti gourmet
Dal sapore delicatissimo
Al vapore, arrosto e in insalataDal sapore deciso
Cartoccio, barbecue, grill o farcite

Le partnership danno risultati brillanti tra gare, medaglie e Corporate Meeting I CUOCHI

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In ordine cronologico, potremmo dire che l’ultimo esempio di grande gioco di squadra è stato il Corporate Meeting della Federazione Italiana Cuochi, andato in scena a Palazzo Brancaccio a Roma lo scorso 14 gennaio. Un appuntamento divenuto ormai consueto, durante il quale FIC incontra le aziende partner, con le quali traccia un bilancio di quanto realizzato e traccia altresì le nuove linee del percorso da seguire e da fare insieme. Un grande esempio di collaborazione, la cui positività è dimostrata dall’aumento continuo e costante delle realtà commerciali di prestigio nazionale e internazionale che decidono di fare parte della “Grande Famiglia” di Federcuochi. Quest’anno, infatti, sono ben tre le new entry, mentre le aziende storiche sono sempre più convinte della nostra partnership. Ma, dicevamo, potremmo definirlo l’ultimo esempio di collaborazione in ordine cronologico. Ci piace però citare un altro evento prestigioso e di carattere mondiale che ha appena avuto luogo, pochi giorni prima che andassimo in stampa con il nostro contributo su questa rivista e che è un altro tassello importante di ciò che significa lavorare assieme. È la conquista del titolo di Vice Campione del Mondo del Team Italia all’International Catering Cup di Lione, al Sirha 2025. Infatti, la squadra composta dal concorrente Andrea Monastero, dal commis Federico Corsi e dal coach Andrea Mantovanelli, è salita sul podio conquistando il 2° posto nella prestigiosa competizione, che si svolge nello stesso contesto in cui si svolgono la Coppa del Mondo di Pasticceria e la finale mondiale del Bocuse d’Or. Citiamo l’avvenimento naturalmente per il grande peso che ha per tutta la cucina e la ristorazione

Rocco Cristiano Pozzulo Presidente nazionale FIC

italiana, ma soprattutto perché è un altro esempio lampante di come la strada giusta sia quella della stretta collaborazione con le importanti realtà commerciali e aziendali con cui FIC già lavora.

E proprio in questi giorni altre notizie attendiamo anche dal Team Italia al Bocuse d’Or, con il concorrente Marcelino Gomez e il presidente della Bocuse d’Or Italy Academy, lo Chef tristellato Enrico Crippa, che è anche presidente onorario di Federcuochi. Altro Team, ma stesso schema, poiché la partnership avviata a suo tempo con tutta l’Academy e la Federazione ha portato i frutti sperati, anche se dobbiamo lottare e competere sempre di più e crescere sempre professionalmente. Tutti eventi e appuntamenti citati proprio nel corso del Corporate Meeting, su cui le aziende partner e le numerose realtà fieristiche presenti ai lavori hanno detto la loro. Con lo sguardo rivolto poi a un altro imminente appuntamento competitivo, che la nostra Federazione considera il suo evento più importante sul fronte delle gare: i Campionati della Cucina Italiana, di cui più volte abbiamo scritto su questo giornale. L’appuntamento adesso è per le giornate del 16, 17 e 18 febbraio prossimi, quando migliaia di cuochi professionisti si daranno battaglia sul palco della Fiera di Rimini. Ma sarà anche una grande festa per tutte le nostre aziende, con interviste, approfondimenti, talk show e degustazioni, che rafforzerà (ne siamo certi!) ancora di più il nostro legame. Un linguaggio che Cateringross e sala&cucina conoscono bene, poiché con orgoglio ci vantiamo di averle tra i nostri partner. E il 2025 è solo all’inizio con la fitta agenda di eventi FIC…

LA NEUROVENDITA

Sanremo in sala

Lorenzo Dornetti ceo Neurovendita

Il legame tra mente e musica è dimostrato. Molte persone ascoltano musica per rilassarsi, concentrarsi, divertirsi. Le neuroscienze confermano quanto profonda sia l’influenza della musica sulle performance mentali, sportive e persino sui comportamenti d’acquisto. 139 esperimenti pubblicati in riviste scientifiche internazionali dimostrano che ascoltare musica durante l’attività sportiva migliora l’ossigenazione e aumenta la resistenza alla fatica. Analogamente, la musica incide sulle performance mentali.

Nella ristorazione, il legame tra suoni e comportamenti dei clienti è particolarmente intenso. È stato dimostrato che una musica sotto i 100 battiti per minuto induce i clienti a fermarsi più a lungo, aumentando la propensione a spendere. Al contrario, ritmi più elevati accelerano il consumo, portando i clienti a concludere il pasto più rapidamente. Questo è il potere del ritmo: scandisce inconsapevolmente anche il tempo di una cena.

Un esperimento condotto in un’enoteca rivelò come la musica potesse influenzare le scelte dei consumatori. Alternando giornate di musica francese e tedesca, si osservò un curioso fenomeno: i clienti tendevano a comprare Champagne o Riesling in base alla musica in sottofondo. Sorprendentemente, solo lo 0,3% degli intervistati riconobbe consapevolmente l’influenza della colonna sonora. Questo dimostra come la musica agisca spesso in modo subliminale.

L’impatto musicale non si limita ai ristoranti o alle enoteche. Uno studio recente svolto negli Stati Uniti ha mostrato che una musica rilassante come l’ambient jazz, diffusa nella hall di un albergo, può ridurre i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, durante momenti delicati come il check-in e il check-out. Il risultato è un imprinting emotivo positivo che migliora l’esperienza complessiva del cliente.

Nel mese del Festival di Sanremo, l’importanza della scelta musicale può essere reinterpretata anche in chiave creativa per i ristoratori italiani. Sanremo è sinonimo di musica, tradizione e innovazione. Perché non prendere spunto per creare un’atmosfera che celebri la cultura musicale italiana, valorizzando al tempo stesso la proposta culinaria? Non è necessario trasmettere le hit sanremesi in loop, spesso troppo invadenti, ma costruire playlist che evochino le emozioni e le suggestioni della musica italiana. È importante evitare due errori comuni nella scelta musicale per i locali: l’uso della radio e delle hit di tendenza. La radio è inefficace, poiché la programmazione è fuori controllo e le interruzioni pubblicitarie o le breaking news rischiano di distrarre o infastidire, e talvolta terrorizzare, i clienti. Le hit, invece, tendono a catturare troppa attenzione, trasformando il pasto con un sottofondo da autoradio. In questo periodo dell’anno, un tributo musicale che si ispira a Sanremo può essere un’idea vincente per creare una connessione emotiva con i clienti, sfruttando l’impatto della musica sul loro stato d’animo e rendendo unica l’esperienza culinaria. Ma quale musica scegliere nel mese di Sanremo? Le neuroscienze sono chiare. Una playlist con le hit del passato Sanremese può funzionare, ma solo se riprodotte in una chiave adatta all’atmosfera del locale e possibilmente senza testo cantato. Quindi canzoni di Sanremo del passato, dalla melodia riconoscibile, sono ideali per creare la perfetta colonna sonora del ristorante nel mese di febbraio. Perché Sanremo è Sanremo. E la musica cambia la percezione del locale, molto più di quanto si possa immaginare. Non si tratta di canzonette, ma di scelte influenzate dalla musica.

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Il prosciutto cotto fuori stampo e legato a mano DoGusto

Si tratta di un prosciutto di 9/10 kg di peso, legato a mano fuori stampo; un’innovazione nella produzione dei salumi cotti solitamente realizzati con lo stampo. Nel prosciutto cotto Fuori Stampo DoGusto, oltre a questa particolarità, ci sono altre caratteristiche che lo rendono davvero un prodotto eccezionale, indicato per una pizza di alta qualità ma anche per fare bella figura di sé nel menu degli antipasti, magari abbinato al formaggio Asiago DOP, sempre a marchio DoGusto, oppure alle verdure, come le zucchine trifolate o grigliate, per un piatto leggero e nutriente.

Le caratteristiche

La stessa coscia, proveniente da materie prime solo italiane, viene legata a mano e cotta avvolta in un canovaccio per trattenere tutti i sapori. Durante la cottura, e soprattutto dopo, le parti del prosciutto non sono pressate dalla rigidità dello stampo ma si adattano sotto il peso della sola gravità che permette di avere una fragranza e una morbidezza nelle fette che ne esaltano sapore e profumo.

La lenta cottura

La lenta cottura, più di 22 ore, a bassa temperatura ne esalta tutte le sue proprietà nutrizionali, le proteine nobili della carne non vengono disperse e la carne risulta più morbida e saporita. Un prodotto davvero speciale che puoi ordinare dai soci del gruppo Cateringross, aziende di distribuzione che sono presenti in tutte le regioni italiane per offrire ai professionisti dell’ho.re.ca.

Da materie prime 100% italiane, legato a mano e cotto a bassa temperatura per 22 ore

Come la cucina italiana si è fatta spazio in Argentina

“Gli argentini sono italiani che parlano spagnolo”, diceva Jorge Luis Borges, catturando con ironia l’essenza di un popolo che si è lasciato trasformare dalla sua grande ondata di migranti italiani. Sebbene l’Argentina di oggi, segnata da disuguaglianze profonde, crisi economiche croniche e un debito pubblico opprimente, sembra lontana da quella terra promessa che un tempo accolse migliaia di persone, molte tracce di questa commistione sono rimaste ben salde nella sua cultura, dalla lingua alla gastronomia.

La storia

Nella seconda metà dell’Ottocento l’Italia, da poco unificata, non disponeva ancora di un’infrastruttura statale in grado di venire in contro ad ogni necessità dei propri cittadini, e fin dalle sue prime fasi fu attraversata da corruzione, disoccupazione, profonde disuguaglianze sociali e disparità economiche

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tra Nord e Sud. A causa della mancanza di opportunità, in un contesto complicato dall’analfabetismo diffuso e dall’uso predominante dei dialetti rispetto alla lingua standard, molti italiani si spinsero a cercare un futuro migliore altrove, spesso nell’emisfero occidentale. D’altro canto, l’Argentina, nello stesso periodo, si presentava come una terra ricca di opportunità. La costituzione firmata nel 1853 incoraggiava l’immigrazione, in un paese sottopopolato e desideroso di sfruttare le vaste regioni conquistate con la sanguinosa guerra della Triplice Alleanza, come la Patagonia.

I primi italiani iniziarono a raggiungere l’Argentina già nella seconda metà del XVIII secolo, ma il vero flusso migratorio si registrò tra il 1870 e il 1930. In quel periodo, circa tre milioni di persone lasciarono l’Italia per stabilirsi nel paese sudamericano, con un picco di arrivi a cavallo tra il 1905 e il 1914. Fu il più grande movimento migratorio che l’Argentina abbia mai conosciuto, superando persino l’afflusso degli spagnoli durante la conquista e la colonizzazione. Ancora oggi, i discendenti italiani rappresentano la comunità europea più numerosa del Paese.

Inizialmente, gli emigranti provenivano soprattutto dal nord Italia, ma con il tempo aumentarono le partenze dal sud. La maggior parte si concentrò a Buenos Aires e nelle zone circostanti, principale punto di ingresso, ma molti si spinsero anche nelle aree semidesertiche della Pampa, del Chaco e della Patagonia, contribuendo alla colonizzazione di quelle regioni. Tra il 1948 e il 1949, lavoratori italiani furono protagonisti anche della costruzione di Ushuaia, la città più meridionale del mondo, dove molti di loro si stabilirono. Tra i primi italiani a migrare in Argentina vi furono i liguri, spinti dall’instabilità politica seguita all’occupazione francese e da problemi economici. Provenienti per la maggior parte dalla città di Genova, trovarono lavoro come marinai e commercianti, diventando presto il gruppo più numeroso di italiani di tutta Buenos Aires. Si stabilirono principalmente nel quartiere marittimo di La Boca, noto per le case popolari dipinte

con vernici avanzate dalla realizzazione delle navi e, leggenda vuole, anche per essere stato chiamato così in onore di Boccadasse.

Arrivando per primi, i liguri, furono anche i primi a lasciare le proprie tracce nelle tradizioni culinarie del paese, introducendo piatti come la farinata, oggi conosciuta come “farinà” o la “fugazza”, diventati dei capisaldi della cucina di Buenos Aires.

Ñoquis del 29

Che dire poi dell’usanza di mangiare gnocchi il 29 di ogni mese? L’origine italiana sembrerebbe nascere da una leggenda basata sulla storia di San Pantaleone, che un giorno chiese del pane ad alcuni contadini veneziani che lo invitarono a condividere la loro povera tavola, regalandogli i pochi gnocchi che erano rimasti. Dopo la partenza, sorprendentemente, la famiglia contadina trovò delle monete sotto il piatto, e proverrebbe proprio da qui l’usanza di lasciare una banconota o una moneta sotto il piatto per attirare fortuna e prosperità al commensale. Un’altra versione molto diffusa fa riferimento al fatto che in quella data, essendo uno degli ultimi giorni del mese, le persone più povere non avevano soldi se non per mangiare ciò che era fatto con le materie prime più economiche, come gli gnocchi. Si racconta che, quando gli immigrati italiani stabiliti da più anni o con migliori condizioni economiche invitavano a pranzo connazionali poveri o appena arrivati, sotto al piatto di gnocchi infilassero di nascosto una o due monete, per aiutarli come possibile.

Ma di prodotti di origine italiana diventati 100% argentini ce ne sono molti, come ad esempio il Reggianito, creato ad opera degli emigrati italiani che desideravano un formaggio a pasta dura simile al Parmigiano-Reggiano. Una delle cose che lo contraddistingue dall’originale è il tempo di stagionatura di circa 6 mesi: più di ogni altro formaggio sudamericano prodotto a partire da latte di vacca, ma molto meno del Parmigiano DOP, che parte da 12. Sulla pizza poi, si potrebbe scrivere un trattato intero. Le più comuni sono la pizza in teglia (al molde),

La Fugazzetta

di cui la fugazza è la versione più semplice, mentre la fugazzetta, con l’aggiunta di formaggio, quella un po’ più ricca. L’origine di queste due versioni molto popolari è attribuita a Juan Banchero, figlio di fornai genovesi e proprietario della pizzeria omonima. La seconda variante di pizza è quella a la piedra, più simile alla versione classica napoletana e con vari topping iconici come “la muza” (mozzarella), o “la napo” (da napoletana) con formaggio, pomodori a fette, aglio, origano e olive verdi, ma anche “la calabresa”, con salame piccante. Il terzo tipo di pizza diffusosi sul suolo argentino è simile alla nostra marinara e viene chiamato “pizza de cancha” o “canchera”, un impasto ricoperto da una salsa rossa condita con aglio, cipolla e fiocchi di peperoncino. L’origine del piatto viene fatta risalire a Oscar Vianini, fondatore della pizzeria Angelín, una delle più antiche di Buenos Aires ancora operative. Nata come cibo da strada economico, Viniani vendeva fette di questa pizza per strada fuori dallo stadio

quando c’era una partita, da qui il nome di cancha, ovvero stadio in argentino.

Se però dovessimo identificare la regina indiscussa della cucina argentina, questa sarebbe senza dubbio la milanesa napoletana, un piatto che consiste in una cotoletta milanese, messa in forno e condita come una pizza, con fette di pomodoro e mozzarella. Solitamente viene servita con un contorno di patatine fritte o purè di patate. Contrariamente alle aspettative, il nome del piatto non deriva dalla città di Napoli, ma dalla sua origine nel ristorante Nápoli di via Bouchard, dove fu preparato e servito per la prima volta alla fine degli anni Quaranta. Col tempo la ricetta si è arricchita di ingredienti, come il prosciutto cotto e la cipolla, e di varianti, come la Suprema Napoletana, dove la carne di manzo viene sostituita con il pollo. La sua notorietà a livello internazionale è stata accresciuta da famose star argentine come Lionel Messi, che in più interviste ha dichiarato essere il suo piatto preferito.

Milanesa napolitana
Quartiere La Boca a Buenos Aires

LA STORIA

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Gouffé, un genio (quasi) dimenticato

Famosissimo ai suoi tempi, tanto da essere chiamato ‘l’apostolo della cucina decorativa’, è uno dei più grandi chef e pasticceri della storia della gastronomia. Il suo Le Livre de Cuisine è considerato una bibbia della cucina, un’eredità appannata anche se venerata, tra gli altri, da Hervé This e la cucina molecolare.

Cresciuto in una famiglia di ristoratori parigini, Jules Gouffé (1807-1877) iniziò, ancora bambino, la sua attività di pasticcere nell’azienda di famiglia. Fu proprio lui a raccontare che il cuoco dei re e il re dei cuochi, ossia Marie-Antoine Carême, passò casualmente un giorno di fronte alla vetrina della pasticceria dei Gouffé ed entrò per chiedere chi fosse l’autore dei magnifici pièces montées ( torte a più strati) esposte: fu così che all’età di 16 anni divenne allievo del grande chef. Era il 1823 e il primo incarico sotto le ali protettive di Carême fu la cena per settemila persone per il ballo in onore del Duca di Angoulême al seguito della spedizione spagnola offerto dalla città di Parigi. In 17 tra chef e inservienti, il loro lavoro di preparazione durò quattro giorni.

Una carriera fortunata

Nel 1840 aprì quella che divenne una delle pasticcerie più importanti di Parigi, esattamente al numero 3 di Faubourg Saint-Honoré, trasformata ben presto più che in un ristorante, in un tempio della gastronomia dell’epoca. D’altronde, proprio come Carême, da grande pasticcere, Gouffé divenne un grandissimo chef. Già nel 1850 contava 28 operai e il successo fu tale da permettergli di chiudere nel 1855, all’apice del successo, osannato non solo da cuochi e pasticceri, ma anche da personaggi di punta della

Gouffe - Timbale à la milanaise

scena intellettuale e gastronomica parigina del tempo come Alexandre Dumas, il Barone Brisse e Charles Monselet, che ebbe per lui una vera e propria venerazione, scrivendo: “Eri l’incarnazione più perfetta e più ideale di un essere superiore che viene chiamato con questo nome insufficiente: il cuoco!”.

La pausa dall’estenuante lavoro di cuoco permise a Gouffé di dedicarsi allo studio scientifico dell’alta cucina e ai suoi libri.

Nel 1867, sotto suggerimento di Alexandre Dumas e del Barone Brisse, orfani inconsolabili della cucina del grande Maestro, riprese a cucinare divenendo lo chef del leggendario Jockey Club in rue Rabelais 2 vicino agli Champs-Elysées, un club per gentiluomini dal palato finissimo. Il successo, ça va sans dire, fu clamoroso.

In quell’anno uscì la sua prima opera Le Livre de Cuisine: comprenant la cuisine de ménage et la grande cuisine avec 25 planches imprimées en chromolithographie et 161 gravures sur bois dessinées d’après nature par E. Ronjat, Paris, Librairie Hachette (1867)” (Il ricettario: tra cucina casalinga e grande cucina con 25 tavole stampate in cromolitografia e 161 xilografie tratte dalla natura di E. Ronjat) più che un ricettario, un vero e proprio manuale di cucina, tradotto poi in tedesco nel 1872 e in inglese (The Royal Cookery Book) da suo fratello, Alphonse Gouffé, capo pasticcere della regina Vittoria. Ai suoi fratelli dedicò molte belle parole: “Tra i miei aiutanti citerò anche i miei due fratelli, Alphonse Gouffé, portavoce culinario della corte inglese per venticinque anni, e Hippolyte Gouffé, ufficiale di bocca del Conte Pëtr Andreevič Šuvalov. Le informazioni che mi hanno inviato dall’estero mi sono state di grande aiuto. Non è solo come fratello che

li ringrazio, ma anche come cuoco che rende giustizia al loro merito indiscusso. “

Nel 1869 scrisse il trattato Recettes pour préparer et conserver les Viandes et les Poissons salés et fumés, les terrines, les galantines, les légumes, les fruits, les confitures, les liqueurs de famille, les sirops, les petits fours, etc., (Ricette per preparare e conservare carni e pesci salati e affumicati, terrine, galantine, verdure, frutta, marmellate, liquori di famiglia, sciroppi, pasticcini, ecc.,) utilizzando il sistema di Nicolas Appert (1749 –1841), l’inventore della cottura sotto vuoto.

Nel 1872 pubblicò un altro trattato ma sul brodo Le Livre de Soupes et des Potages contenant plus de 400 recettes de potages français et étrangers (Il libro delle zuppe e dei brodi contenente più di 400 ricette di zuppe francesi e straniere) tradotto in inglese in The Book of Soups. Nel 1873 diede alle stampe la sua seconda grande opera Le Livre de Pâtisserie: ouvrage contenant 10 planches chromolithographiques et 137 gravures sur bois d’après les peintures à l’huile et les dessins de E. Ronjat (Il libro di pasticceria: opera contenente 10 tavole cromolitografiche e 137 incisioni su legno basate su dipinti ad olio e disegni di E. Ronjat) tradotto in inglese sempre dal fratello con il titolo The Royal Book of Pastry and Confectionery Morì nel 1877 a Neuilly-sur-Seine e, nel frattempo, alquanto dimenticato.

Le Livre de Cuisine: un manuale scientifico

Nelle sue considerazioni preliminari ricche di consigli sui principi elementari della cucina, Gouffé scrive una sorta di vocabolario, alcune indicazioni sull’ambiente cu-

cina e sugli attrezzi necessari, ma anche sul modo di fare la spesa, sulle spezie e gli aromi e sui servizi di cucina e di tavola.

Molte le novità al suo interno: innanzitutto una separazione netta tra la cucina “domestica” e l’alta cucina, con due terzi delle 2500 ricette, dagli antipasti alla pasticceria, dedicate, naturalmente, a quest’ultima. Scrive nell’introduzione: “Ho voluto separare ciò che non può essere unito. Ho parlato sia della cucina ‘de ménage’ che di quella “d’extra”. Queste due parti della cucina si corrispondono, senza dubbio, e si completano l’una con l’altra, come ho avuto più volte la possibilità di dimostrare; ma è altrettanto vero che nella pratica, rappresentano due parti separate. È incontestabile che il lavoro di una cuoca borghese non può essere lo stesso di un cuoco di una casa importante.”

Le indicazioni sui prodotti, le fasi di preparazione e i tempi di cottura sono estremamente precisi: ciò che ci si aspetta da un professionista di tale misura. Tutto è controllato, preciso, cronometrato, pesato, cotto al punto giusto seguendo il gesto, la cottura e il tempo. Scrive lo chef francese: “Non ho scritto una sola delle mie istruzioni di base senza avere costantemente l’orologio davanti agli occhi e la bilancia a portata di mano”.

‘Il Carême del Secondo Impero’, altro epiteto dedicatogli, fu un uomo innovativo, spinto proprio dalle scoperte scientifiche della seconda metà del XIX secolo e dalla rivoluzione dei nuovi strumenti, non solo in cucina. Grande sostenitore della chimica fisica in cucina, curioso e creativo, mise la tecnica al servizio del prodotto. All’interno della sua opera si trovano spiegazioni scientifiche, ad esempio, sull’ebollizione dell’acqua, su cosa succeda nelle varie fasi a differenti temperature per arrivare ai 100 gradi. Non è un caso che sia così amato dai cuochi molecolari contemporanei. Anche la presentazione dei piatti è altrettanto meticolosa e creativa. Molte sono, infatti, le illustrazioni e i disegni a colori presenti, tutte opera del fidato illustratore Eugene Ronjat (1822-1912), che hanno permesso di ricostruire la ricca arte compositiva dei piatti del grande Gouffé: piramidi, ellissi, figure coniche e tronco-coniche composte da aragoste, arrosti, verdure e frutta in rappresentazioni scenografiche spettacolari. Fu chiamato, a ragione, “l’apostolo della decorazione”.

La grande tavola di Gouffé

Come in ogni manuale ottocentesco che si rispetti non può mancare l’arte di apparecchiare la tavola e piegare i tovaglioli.

Tra uno stile di servizio alla francese e l’altro alla russa, il primo che consiste nel servire sulla tavola tutti i piatti e l’altro, che presenta sui piatti individuali pezzi tagliati in anticipo, egli suggerisce una via di mezzo

tra i due, il cosiddetto “ambigüe” o anche “all’inglese”: “Niente vieta certamente di servire in tavola, per guarnirla e adornarla come si deve, prima di tutto i pezzi freddi, capaci, come sappiamo, di tanto gusto e splendore; anche gli antipasti caldi, che generalmente possono aspettare sui “réchaud” senza deperire. In questo modo gli ospiti, quando prendono posto, non troveranno la tavola solo addobbata di frutta, composte, bronzi dorati, vasi di fiori ed altri oggetti che per loro natura sono poco nutrienti e che non possono produrre impressioni appetitose e stimolanti per un’ottima e buona cena.

Ma nulla vieta di servire su piatti cose che devono essere consumate al momento e mirano specificatamente al consumo, senza mirare all’adulazione della vista. Potremo così soddisfare più velocemente l’appetito delle persone che serviamo, ma anche donare tempo per tagliare i pezzi grandi senza troppa fretta.”

Il nome Jules Gouffé fu dato a un piatto composto da piccoli pezzi di carne saltata, ricoperti di salsa aromatizzata al Madeira e serviti con nidi di patate ripieni di spugnole in panna e asparagi cotti nel burro. Decisamente troppo poco.

Jules_Gouffé

L’eccellenza della Maionese e del Ketchup.

Ai professionisti della ristorazione, Calvé e Hellmann’s propongono oggi una gamma completa di prodotti, con la stessa garanzia di qualità e gusto, in diversi formati.

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AMODO, LA RETE DEI RISTORANTI ETICI

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BaccoFurore

Parlare di storia, prodotto e persone non è mai fuori moda

“A Furore vive una famiglia speciale: i Ferraioli. Di questo minuscolo e meraviglioso borgo della Costiera

Amalfitana i Ferraioli hanno costruito la storia recente, quella del secolo scorso, con Raffaele Ferraioli sindaco per quasi quarant’anni. Un sindaco amatissimo, anche fuori dai confini amministrativi, tra i fondatori delle Città del Vino, ideatore dei murales che dipingono le pareti di Furore, attento allo sviluppo turistico sostenibile del luogo e gestore, insieme alla moglie Erminia, di uno dei ristoranti che hanno fatto la storia della cucina in costiera. Ha gestito Bacco dal 1981 al 2010, subentrando come terza generazione in un ristorante con albergo che esiste dal 1930. Oggi a condurre questo angolo di paradiso c’è il figlio Domenico, un ragazzo a modo, gentile e attento a ogni desiderio degli ospiti, anche lui perdutamente legato a Furore come il padre, pieno di entusiasmo nel portare in tavola piatti che da sempre, qui, sono femminili: prima Angelina, poi Letizia e ora la mamma di Domenico, la sposa di Raffaele, Erminia.

“Da Bacco si mangia da Dio” scriveva anni fa un noto giornalista locale.

“Da Bacco si sta da Dio: scriviamo noi. Non solo si mangia bene ma si è accolti con spirito sincero, si viene accompagnati alla scoperta di questo luogo dove, ancora oggi, nonostante siano passati anni, si avverte, ad ogni passo, cosa vuol dire essere stati amministrati da una persona di grande morale etica, quel Raffaele Ferraioli amatissimo!”

Così abbiamo raccontato nel 2022, proprio alle primissime battute della costituzione di Amodo - la rete dei ristoranti etici, il pensiero e le azioni dei Ferraioli, una famiglia che, avrete capito, è intrecciata fino all’anima con la sua terra e la sua comunità, a cui cerca di dare voce attraverso l’accoglienza e la cura. Le basi sono tra le più semplici che si possano incontrare, ma anche le più resistenti.

Materie prime e persone

Abbiamo voluto parlare con loro, approfondire il metodo di lavoro, le sensibilità, esattamente come abbiamo fatto in questi mesi con tanti altri ristoratori affiliati alla rete. Ricordandoci una cosa, che tra l’altro è ben legata a tanti altri articoli di questo numero del magazine: le esperienze altrui sono sempre una risorsa utile per la crescita. Con questo spirito abbiamo sentito la condotta di Domenico Ferraioli,

della sua famiglia, della sua impresa.

“La materia prima e le persone sono il cardine delle nostre attività” ci dice, con il suo fare caldo e pragmatico.

“Quando dico che sono priorità intendo dire che prima di ogni altra cosa ci fermiamo per conoscere questi elementi. La conoscenza è sempre il punto di slancio per ogni progetto personale o collettivo”.

Come dare torto a Domenico? Anche se pare una banalità, oggi rintracciamo un po’ ovunque atteggiamenti lontani dalla conoscenza - vera, sudata, voluta - delle cose. Basta scorrere alcuni menu per incontrare piatti ricoperti di salse disposte nello stesso modo, ingredienti impiegati senza che se ne conosca l’origine, l’impronta culturale, il metodo di preparazione. Non è una regola, sia chiaro, ma è evidente che i modelli da seguire siano altri. Per avere un futuro con prospettive sane bisognare dedicare tempo, quindi approfondire.

“Nella nostra famiglia e nelle nostre attività di ospitalità siamo abituati a conoscere le persone, siano fornitori, dipendenti o clienti. Parlo dei primi, intanto: acquistiamo da chi lavora in questa zona. Ci piace valorizzare ciò che è proprio qui, a due passi; i limoni della Costiera, inevitabilmente, i totani di Furore, i formaggi a pasta filata di Agerola… e potrei continuare a lungo. Ma oltre che una pertinenza territoriale ciò che ci preme è la connessione con le mani che li lavorano. Non è detto che siano solo fornitori di lunga data; a volte sono nuovi e in quel caso investiamo tempo per capire il loro modus operandi, la loro storia. L’altro aspetto riguarda i collaboratori (i nostri sono 18) con i quali, oltre ad avere un rapporto diretto, abbiamo rispetto e riconoscenza. Infine, i clienti: anche per relazionarci a loro mettiamo sempre al primo posto il rispetto. Rispettare un ospite significa anche essere autocritici, ascoltatori e porre rimedio ad eventuali errori. Così abbiamo imparato negli anni”.

La storia non è anacronistica Innovazione, modernità, contemporaneità: sono tutte espressioni che oggi vanno per la maggiore. Ispirano

freschezza, agilità, profumano di pulito… ma a un giro di orologio possono già considerarsi superate. In un contesto così accelerato è sempre più complesso far valere la propria storia, specie se è di lungo corso. Domenico Ferraioli non lo teme e non ignora le proprie origini, tutt’altro.

“Aprire la porta di un’attività alla quarta generazione non è semplice. Da un lato i grandi cambiamenti in atto, dall’altro le problematiche che riguardano la gestione, l’interazione con i clienti, con il mondo nuovo. Penso alle intolleranze e alle allergie per esempio, oppure ai sistemi di comunicazione. Ma il segreto, a mio avviso, è essere sempre orgogliosi di ciò che abbiamo alle spalle e trovare il miglior modo per valorizzarlo. Abbiamo scelto la strada della coniugazione tra storia e modernità, sia nel ristorante che nel ramo alberghiero, composto da albergo dipinto (una formula davvero originale) e albergo diffuso, due spazi che abbiamo a cuore. A tenere il passo con l’attualità ci aiutano lo studio, la voglia di ammodernarsi sempre e anche la presenza di tanti giovani nella nostra squadra. Portano entusiasmo e sicuramente una visione nuova, che cerchiamo di conciliare alle nostre solide fondamenta”.

Scopriamo che in queste settimane stanno lavorando all’ammodernamento della sala per offrire un ambiente sempre più funzionale e accogliente. Lo diceva Domenico: la continua ricerca… il prerequisito di un luogo che vuole essere a modo.

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La Boudoir, alta cucina a Parma

Da cosa nasce la voglia di aprire un ristorante? È con questa domanda che varco la soglia di La Boudoir a Parma, aperto da due mesi nel centro storico della città, in via Dante a poche decine di metri dal Teatro Regio che ha accolto Giuseppe Verdi nel fulgore della sua carriera.

È un mezzogiorno, nel locale non c’è nessuno ma questo non significa nulla visto come cambiano repentinamente le abitudini delle persone, anzi è meglio perché riesco a parlare più a lungo con il responsabile di sala e, magari, anche con lo chef.

Vengo accolto da una ragazza gentile che mi fa accomodare al piano superiore dove trova spazio il ristorante mentre il piano terra è dedicato al cocktail bar e alle colazioni mattutine. Entrambi gli spazi denotano una cura dei dettagli non standardizzata.

La prima impressione

Mentre mi siedo al tavolo la ragazza mi consegna il menu che, alla prima occhiata, colpisce per la chiarezza delle suddivisioni e per la regola dei 180 secondi che diversi studi hanno evidenziato: secondo queste ricerche il cliente sceglie i piatti che vorrebbe mangiare nei primi tre minuti, passato quel tempo l’attenzione si sposta sui prezzi e la scelta cade sulle portate meno costose o su quello che si è abituati a prendere. A La Boudoir il problema non esiste perché il menu è composto da tre piatti per ogni sezione.

“L’ho voluto così perché le mie ricette necessitano di molta cura e tempo. Le preparazioni sono lunghe, basti pensare che per fare il brodo di cacciucco che accompagna lo scorfano utilizzo venti pesci”, si presenta così Antonio Bellantone, lo chef de La Boudoir.

Lo lascio parlare mentre avverto la sensazione, leggendo il menu, che qui siamo in un luogo dove alla cucina viene dato grande spazio, le poche proposte, per come sono descritte, fanno venire il desiderio di assaggiare tutto!

“Siamo giovani, – prosegue lo chef – abbiamo tempo per emergere, non vogliamo fare sbruffonate né voli pindarici. Abbiamo aperto da due mesi, siamo consapevoli che alcune cose sono da mettere a posto ma la volontà di riuscirci non ci manca di certo, vero Alessandro?”

Alessandro Rapaj è il titolare, 23 anni, una passione per questa professione che traspare dagli occhi e dalla voce. Comincia a raccontarmi come è nata l’idea di aprire un locale così importante nel cuore di una città abitualmente tradizionalista.

“Sono stato per qualche tempo a New York e a Toronto dove ho capito l’importanza di Parma nell’immaginario degli stranieri: la food valley è molto più conosciuta di quello che crediamo. – racconta Alessandro – In città, però, l’offerta gastronomica è prevalentemente quella tradizionale e, di conseguenza, abbiamo deciso di occupare la parte di contemporaneità, con i piatti del nostro chef”.

Siete entrambi calabresi, come siete arrivati a Parma?

“Io ci vivo da anni, da quando mio padre ha fondato qui la sua impresa edile. Antonio, invece, l’abbiamo chiamato dopo mesi di ricerca infruttuosa di uno chef come lo volevamo noi. Mio padre ha chiesto in giro, al presidente dei cuochi calabresi, ad altri ristoratori e tutti convergevano sul nome di Antonio Bellantone che, in quel momento, era di stanza a Milano”.

“Mi ha convinto la forza di questa famiglia, la libertà che mi hanno concesso fin da subito di fare la mia cucina, di scegliere il meglio tra le materie prime – pescato di pesce, selvaggina cacciata di altissima qualità, prodotti legati ai territori e a un concetto concreto di sostenibilità.

Nelle mie preparazioni c’è ancora tanta manualità perché sono convinto che l’artigianalità in cucina sia ancora un elemento di valore. Cambio menu in base alle stagioni, tra un mese ci saranno verdure nuove, pesci nuovi e non spreco neppure un grammo di quello che utilizzo” mi spiega lo chef mentre assaggio la prima portata restando di stucco rispetto all’individuazione di ogni singolo sapore, anche dell’ingrediente minore.

Perché La Boudoir?

“Mentre stavamo ristrutturando l’intero stabile, un palazzo novecentesco dove volevo coniugare modernità e tradizione ho pensato a quanto Parma viva ancora oggi del mito di Maria Luigia, moglie di Napoleone e amatissima duchessa di Parma e Piacenza, che ha portato uno stile francese in questa città, stile che resiste da ormai due secoli. Da quel pensiero a quello dei salotti privati ottocenteschi, i boudoir appunto, il passo è stato breve” confida Alessandro.

Come sarà il futuro di La Boudoir

Durante l’ottimo pranzo mi raggiunge al tavolo Artian, il padre di Alessandro e di Emanuel, il fratello più piccolo che sta in cucina con Antonio. E qui capisco molte cose:

Artian è arrivato in Italia dall’Albania, nei primi anni ’90. “Ma ci sono arrivato in aereo, con tanto di permesso perché non volevo dare i miei soldi a dei delinquenti. –specifica – Non sapevo fare un granché ma avevo chiaro in testa di raccogliere ogni sfida possibile per misurare le mie potenziali capacità. Avevo studiato, mi piaceva farlo. Arrivato in Calabria ho incontrato la donna che è diventata mia moglie, oggi fa la stilista di moda, e mi ha dato quella fiducia di cui avevo bisogno. Perché ho scelto di soddisfare il desiderio dei miei figli investendo in un ristorante come questo? Per aver visto nei loro occhi la volontà di farcela. Ogni tanto vengo qui per infondere ottimismo, per dire che non c’è fetta nel fare le cose come devono essere fatte. In due mesi abbiamo già raggiunto un ottimo risultato: essere parte integrante e innovativa dell’offerta gastronomica della città. E non è poco”.

Che dire?

La cucina di Antonio Bellantone è strepitosa! Le sue esperienze internazionali in locali di alta cucina si sentono tutte ma in questo posto mi sembra stia raggiungendo il sogno di ogni chef: sentirsi libero di esprimersi, di dare il meglio di sé, di contribuire al successo del locale come se fosse suo. Alessandro è bravo nel mettere i clienti a proprio agio, a creare cocktail decisamente moderni, a gestire i rapporti tra sala e cucina consentendo ad Antonio di venire a presentare i suoi piatti in prima persona, a spiegarne la complessità che diventa semplicità all’assaggio: questo è il vero risultato. Emanuel in cucina sta imparando quello che desidera di più: cucinare bene!

Lo chef Antonio Bellantone e il sous-chef Emanuel Rapaj

Contital propone la nuova linea Eclipse destinata all'alta ristorazione, ideale per il delivery e take-away di ingredienti s elezionati e sapori raffinati.

Un vantaggio per i ristoratori che vogliono offrire un servizio totalmente sostenibile, senza perdere la creatività e l'esclusività dei loro piatti.

Il potere è nelle parole L'ETICA

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Accade spesso che non venga prestata la giusta attenzione a ciò che viene detto o scritto, e in maniera analoga l’attenzione scompare anche durante i processi di lettura. Ciò accade perché è attualmente in corso una lenta, progressiva e inesorabile svalutazione dei termini, o mancanza di attribuzione del giusto valore alle parole, derivante da un quotidiano abuso dei concetti, che purtroppo finiscono spesso per non trovare una reale collocazione nello spazio e nel tempo.

Ad esempio, nel settore a cui si rivolge questa rivista, ovvero quello della ristorazione e delle innumerevoli filiere agroalimentari, gli imprenditori sono fortemente motivati a intraprendere un’attività imponendo uno stile principalmente incentrato sui concetti di: qualità, genuinità, gusto, tradizione o salute. Quelli elencati sono valori che realmente danno forza all’imprenditore a sviluppare attività allineate con le proprie idee imprenditoriali da cui hanno tratto ispirazione.

Ma siamo proprio sicuri che sia a tutti chiaro il significato delle parole elencate? Prendiamo, ad esempio, la parola “qualità”. Analizziamone il suo potere, ci accorgiamo subito che si colloca in due prospettive: la prima, è quella di chi la usa e, la seconda, è quella di chi la subisce. La sua importanza deriva dal grande potere nel dare rassicurazioni ai consumatori; quindi accade contestualmente che chi la utilizza, è consapevole della sua appartenenza a una collettività che vuole rispettare e chi ne subisce la lettura, si apre alla fiducia. In questa brevissima analisi sociologica del termine qualità, non dobbiamo dimenticare che la stessa si colloca in una scena reale che si chiama mercato.

Quindi, sulla scorta della suddetta analisi, si può concludere che le dinamiche imprenditoriali partono sempre da buoni propositi e che l’imprenditore desidera collocarsi in uno spazio definito del mercato, con un valido contributo alla collettività. Ma, siamo davvero convinti che poi, nel mercato, la parola qualità trovi effettivamente la sua giusta collocazione? Mi spiego meglio, chi utilizza le

Francesco Parrotta Avvocato specializzato in diritto penale alimentare

parole ha dei riferimenti validi per poterne garantire il significato? Ed ancora, chi queste parole le subisce ha la giusta maturità per capirne la conformità?

Le parole sopra elencate sono molto importanti perché determinano significative emozioni e questo i professionisti della comunicazione lo sanno bene: Il loro lavoro, infatti, consiste proprio nell’individuazione delle parole e nella giusta collocazione delle stesse, determinando inevitabilmente in questo modo il successo o il fallimento del progetto ad esse relativo. Il primo passo che sempre l’imprenditore compie è quello di chiedere ai professionisti della comunicazione di tradurre in emozione le parole che determinano i propri valori, perché non esiste una “quotazione analitica” delle parole, una borsa mondiale dove poterle collocare, un disciplinare universale da dove ricavarne la stima o un “rating” delle parole.

Con questo non voglio certo sminuire l’operato di coloro che credono realmente in quello che dicono e nel modo in cui lo fanno. Sia ben chiaro che ogni settore presenta la stessa problematica del significato autentico delle parole. Prendiamo, per esempio, il settore della moda, dove accade spesso che sentiamo parlare di artigianalità per aziende che, invece, hanno impostato l’impresa in modo industriale. C’è certamente un forte contrasto tra il significato del termine “artigianalità” con quello del termine “industriale” in quanto il sarto è un artigiano che produce un abito artigianale, mentre un industriale è impegnato nel confezionamento di abiti. Entrambi i due soggetti possono produrre manufatti di qualità, ma nel momento in cui viene espresso questo concetto bisogna allinearsi ai reali standard di qualità. A questo proposito, lancio una provocazione che potrebbe essere accolta dai più acuti: sarebbe forse arrivato, finalmente, il momento di imporre un censimento periodico sul termine “qualità” su campioni di individui scelti per esperienze, aspettative e conoscenze ed attenderne il risultato in modo analitico e statistico, prima di lanciare le campagne pubblicitarie sui prodotti che tanto decantano la qualità degli stessi?

pesce

come non le avete mai provate

Tutto il sapore della carne in prelibate bontà

L’OLIO AL CENTRO

L’evoluzione della Carta degli oli

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Qualcuno forse ricorderà lo chef Giancarlo Bini, patron del ristorante L’Ombrone in Maremma, scomparso nel 2019. Aveva aperto una eno-olisteria che era soprattutto un modo per esprimere pubblicamente una propria dichiarazione di intenti: dare corso a un nuovo approccio nel campo della ristorazione, valorizzando alla pari l’olio come il vino, rendendoli entrambi elementi identitari in sala e in cucina. È stato un pioniere, Bini. Pochi altri hanno seguito il suo esempio, in quegli anni Ottanta in cui l’olio non era per nulla considerato nei ristoranti: nessuna scelta di qualità, pessima presentazione in oliere bisunte, figurarsi la sola idea di pensare a “carta” e “carrello degli oli”. Bini aveva anche pubblicato un preziosissimo libro, per le edizioni SugarCo: L’olivo albero degli dei. All’interno esempi concreti su come allestire una carta degli oli e un carrello degli oli, e tante altre utili indicazioni, su scelta e abbinamenti. All’epoca non c’erano le opportunità di oggi, le bottiglie erano in prevalenza da litro, solo dopo vennero quelle da 750 ml. Oggi disponiamo di bottiglie mignon, ben al di sotto di 250 ml, condizione, questa, alquanto favorevole, ben più semplice e funzionale nella gestione di “carta” e “carrello”. Semplice, perché l’olio è alimento fragile, dalla vita breve, basta incorrere in qualche errore per perderne la bontà. Ed ecco allora - a distanza di oltre quarant’anni - l’evoluzione della carta degli oli. Questa volta a pensarci è un altro ristoratore, Paolo Morbidoni, che non è solo patron a Montone, in Umbria, di Tipico Osteria dei Sensi, ma ricopre da anni il ruolo di presidente della Strada dell’Olio Dop Umbria, di cui è tra i fondatori, ma ha assunto ruoli istituzionali: sindaco di Giano dell’Umbria, dal 2004 al

2014, vicepresidente nazionale delle Città dell’olio dal 2006 al 2014. Perché elenco questi incarichi? Per far comprendere che finora coloro che hanno dimostrato una sensibilità spiccata verso gli oli extra vergini di oliva sono in possesso di un solido background. Non è un caso che Morbidoni sia anche iscritto all’Albo degli assaggiatori d’olio. C’è dietro passione, professionalità, ma soprattutto progettualità e nessuna concessione all’improvvisazione. A fine dicembre 2024 ha presentato presso il suo ristorante, insieme con lo chef Giancarlo Polito, l’evoluzione della carta degli oli, la quale da semplice selezione di oli regionali è diventata esperienza di narrazione multimediale, assumendo il nome di Carta degli oli artigianali e dei produttori. La novità sta nel non disgiungere l’olio da chi lo produce. Inquadrando il QRcode scorre un video in cui gli stessi olivicoltori e frantoiani presentano l’olio. In questo modo l’olio diventa “chiave interpretativa del territorio”. A godere dei vantaggi sono in tanti: il prodotto, chi lo produce, chi lo utilizza in cucina, chi lo serve in sala, il ristoratore e lo stesso fruitore del locale. L’esperienza pionieristica di Bini, e quella a noi contemporanea di Morbidoni, servono a far riflettere tutti i ristoratori. Perché è tempo di guardare all’olio con occhi nuovi.  L’idea di introdurre una carta degli oli è fondamentale, perché contribuisce a creare una connessione con il territorio. È bello immaginare r istoratori, chef, personale di sala e utenti vivere il ristorante come luogo di cultura e intrattenimento, non solo come un esercizio in cui il cibo lo si somministra ilo cibo e ingurgita.

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Le principali innovazioni nella ristorazione per il 2025

Recentemente la piattaforma di TheFork in collaborazione con l’agenzia NellyRodi, ha stilato un elenco di innovazioni che avranno un impatto importante sulla ristorazione nel 2025.

Analizziamo i principali per capire meglio di cosa si tratta.

Che la gestione del conto sia diventata cruciale non è una novità; tuttavia, rendere più facile il pagamento ai clienti in alcuni ristoranti è ancora una chimera.

Prendiamo, ad esempio, la divisione del conto per le grandi tavolate, che ancora oggi alcuni gestori scoraggiano con cartelli alla cassa, in quanto portano a confusione, lunghe attese, code e persino errori.

Con i nuovi gestionali invece tutto questo è risolvibile grazie alla funzione “conto separato semplificato” in grado di accogliere qualsiasi richiesta sia in termini di suddivisione del conto sia in termini di modalità di saldo del conto con un semplice click.

Considerando che il pagamento è un momento percepito come “negativo” (si sottraggono risorse economiche) ma è anche l’ultimo che il cliente vive prima di lasciare il ristorante, a maggior ragione si dovrebbe renderlo il più fluido possibile.

La vera novità sarà comunque rappresentata dai pagamenti anticipati: ovvero quello di poter offrire ai clienti la possibilità di saldare in anticipo il conto per godersi l’esperienza senza distrazioni.

Con l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale all’interno di software specifici per la ristorazione, i gestori avranno l’opportunità di avere supporti strategici mai sperimentati prima.

Come ad esempio quello di poter contare su previsioni di affluenza grazie a software che analizzano criteri come

meteo, stagione ed eventi e che in base ai dati relativi alle prenotazioni (passate e future) calcolano quanti coperti il locale potrà generare per data e per fascia oraria.

Sulla base degli stessi principi il calcolo dei prezzi dinamici, ovvero l’impostazione di tariffe flessibili che variano in base alla domanda e ad altri fattori, sarà finalmente alla portata di tutti, anche delle piccole imprese.

Per i ristoratori più attenti ai costi di gestione invece la gestione intelligente dell’inventario, offrirà la possibilità di ridurre gli sprechi alimentari (un aspetto molto a cuore per i consumatori, specie tra quelli più giovani) ma anche di alleggerire il bilancio delle spese. D’altronde è grazie alla gestione oculata dei costi che le imprese trovano la giusta marginalità per andare avanti.

Per combattere una competizione sempre più agguerrita invece, i gestori potranno puntare sulla personalizzazione dell’esperienza dei loro clienti. Anche qui la raccolta dei dati, elaborati dall’intelligenza artificiale permetterà di adattare facilmente menu o servizio in base alle preferenze del target a cui il locale si rivolge ma anche apportare modifiche sull’atmosfera che questi ricercano.

Infine, per i titolari più aperti all’innovazione e alla tecnologia, l’automazione dei processi ovvero robot e AI permetteranno di ottimizzare la preparazione dei piatti, migliorando la velocità del servizio e riducendo i costi. Così come la stampa 3D in cucina potrà essere utilizzata per creare piatti innovativi, precisi e sostenibili (tramite l’utilizzo di ciò che normalmente si scarta) in grado di stupire i commensali e farli diventare virali sui social. Insomma anche il 2025 sarà ricco di opportunità per chi vorrà migliorare la gestione del ristorante così come la soddisfazione di clienti e collaboratori.

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Luigi Franchi

Foppa taste supporter

Sessant’anni di crescita nel mondo della distribuzione

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“Ci sono, ogni giorno, miliardi di uova nel mondo, qualcuno dovrà pur mangiarle”, deve aver pensato così Alfons Foppa, quando poco più di sessant’anni fa, nel suo podere agricolo nei pressi di Mogliano Veneto, guardava le sue galline ruzzolare allegre.

Un pensiero che gli restò in testa per settimane fino a che, con la sua Fiat 600, ne caricò 5.000 e decise di andare a vendere le uova nella sua terra d’origine: l’Alto Adige. Visitò strutture ricettive, ristoranti, pasticcerie fino a quando ebbe venduto tutto. Andò avanti in quel modo per diverse settimane fino a quando, era il 1964, decise di ampliare quel tipo di commercio e due anni dopo, nel 1966, apre un magazzino a Montagna e assume i primi due dipendenti: Josef Saltuari e Hermann Degasperi.

È in questo modo che è iniziata la storia di Foppa taste supporter, l’azienda di distribuzione che opera nel canale ho.re.ca., che adesso si trova a Egna ed è condotta dal nipote di Alfons: Peter Foppa, con sua moglie Alexandra

La domanda, a questo punto, è lecita: le uova cosa rappresentano oggi per il tuo mercato distributivo? “Nel 2024 abbiamo venduto uova per 3.200.000 euro, pari al 4,8% del nostro fatturato che lo scorso anno è stato di 67,5 milioni di euro” mi racconta Peter.

Peter Foppa e sua moglie Alexandra

La sostenibilità per Foppa Taste Supporter

Su una cosa Peter Foppa è intransigente: sul corretto utilizzo della parola sostenibilità.

“Oggi se ne fa un gran parlare al punto che si è coniato perfino il neologismo greenwashing, che significa ecologismo di facciata. Noi invece, sostenibili lo siamo realmente, grazie a un percorso che abbiamo iniziato quarant’anni fa quando ci siamo dotati di mezzi di trasporto in grado di consegnare prodotti freschi e surgelati con lo stesso camion. Questo ha significato tagliare della metà i percorsi stradali. Oggi possiamo definirci, al 100%, azienda sostenibile: i nostri agenti viaggiano solo con auto elettriche, ne abbiamo 33; il personale, anche quello degli uffici, può rifornirsi in azienda per le proprie auto elettriche; da cinque anni Foppa è membro di TurnToZero (ex Climate Neutrality Alliance 2025): un’associazione a cui aderiscono imprese e istituzioni che si sono date come obiettivo la riduzione dell’impronta di co2. Grazie al confronto con tutti riusciamo a svolgere il nostro lavoro in modo neutrale al 100% per il clima”.

Quanto incidono queste scelte sul prezzo finale dei prodotti che vendete al canale ho.re.ca.?

“Non è più importante come un tempo parlare di prezzo finale, non sono i pochi centesimi in più che ci possono far perdere clientela. Anzi, i nostri 2.500 clienti apprezzano molto le nostre scelte perché li facciamo partecipi di tutto quello che facciamo. Nel corso dell’ultima edizione della fiera Hotel a Bolzano abbiamo presentato il primo numero del nostro magazine della sostenibilità che racconta ogni nostra scelta e ho spiegato ai nostri venditori che ogni ristorante, pizzeria o hotel altoatesino che pra-

tica correttamente il concetto di sostenibilità deve diventare nostro cliente”.

Quest’anno l’azienda compie sessant’anni e ad Hotel, in fiera, faceva bella mostra di sé all’ingresso la Fiat 600 con la quale il nonno Alfons ha dato inizio a tutto questo: sarebbe orgoglioso?

“Sicuramente si, perché era un tipo molto determinato che ha cambiato anche vita per raggiungere questi obiettivi. Oggi abbiamo una struttura che ospita circa 6.300 referenze per ogni esigenza della ristorazione ma anche delle gastronomie di qualità altoatesine; due filiali a Tures e a Mezzolombardo; siamo soci della più grande cooperativa italiana di distribuzione, Cateringoss; prestiamo moltissima attenzione ai prodotti locali dando risposta a una tendenza diffusa nella ristorazione altoatesina che cerca prodotti a km zero, lo facciamo grazie a rapporti con le comunità contadine del territorio; recentemente abbiamo dato vita a una partnership con il progetto di acquaponica Solos”.

L’acquaponica Solos

L’idea che coniuga idroponica e acquacoltura è nata nel 2019 dalla mente di Matthäus Kircher e da quelle dei suoi tre cognati durante una cena natalizia. Oggi si sviluppa in due stabilimenti dove vengono raccolti circa un migliaio di cespi di lattuga alla settimana. “Essa utilizza il connubio tra piante, pesci e batteri, andando a costituire un circuito chiuso al cui interno tutto risulta connesso ed equilibrato. I pesci, con le proprie escrezioni, forniscono all’apparato radicale delle piante il nutrimento direttamente dall’acqua, senza la necessità di un substrato solido come il terreno. Questi scarti metabolici, però, pri-

ma di arrivare alle piante passano attraverso un biofiltro che divide il liquido dai rifiuti solidi e trasforma le deiezioni dei pesci in nitrati; in questo modo, l’acqua convogliata nelle vasche di coltivazione permette alle piante di assorbire gli elementi di cui hanno bisogno. Inoltre la coltivazione acquaponica può definirsi una tecnica sostenibile in quanto non prevede l’utilizzo di pesticidi sintetici o prodotti chimici – i quali nuocerebbero gravemente alla salute dei pesci – e soprattutto permette di ridurre in modo significativo il consumo di acqua, utilizzandone fino al 90% in meno rispetto ad un metodo di coltivazione tradizionale”, così viene spiegato il processo produttivo sul sito di Alto Adige Innovazione.

Con questa start-up Peter Foppa e sua moglie Alexandra hanno parlato per capire come potevano collaborare: “Ci interessa vendere anche la loro lattuga ma la cosa più interessante sono i pesci che allevano per far funzionare tutto il processo: sono pesci-gatto che, a differenza di quelli selvaggi, non vivono nel fango, e il loro gusto è ben diverso. Insieme abbiamo quindi avviato la vendita di questi pesci, che crescono in maniera significativa, per farli degustare nei ristoranti altoatesini”.

Foppa Sailing Week

Peter è in azienda tutte le mattine alle cinque per gestire il flusso di ordini e di consegne giornaliero ma si concede una settimana di svago con la sua passione sportiva: la vela.

“Nel mio paese c’è un club velico molto attivo e in Alto Adige c’è la comunità di velisti più grande d’Italia, non potevo restarne fuori e così ho preso la patente nautica una decina d’anni fa ma non mi bastava. Allora ho preso la decisione di sostenere la più grande manifestazione sportiva che l’Alto Adige fa al di fuori dei propri confini: ogni anno siamo co-sponsor della Sailing Week, una regata velica organizzata dallo Yacht Club Salten che si svolge, dal 2015, in Croazia a maggio. Dal 2023 siamo diventati co-sponsor e l’abbiamo chiamata Foppa Taste Supporter Sailing Week. Nell’edizione 2024 hanno partecipato dieci imbarcazioni con otto persone di equipaggio ciascuna. La nostra barca si è classificata al nono posto ma ci siamo ugualmente molto divertiti” commenta il comandante Peter Foppa.

Anche così si festeggiano sessant’anni di ininterrotta crescita e successo.

Il comandante Peter Foppa

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Surgital presenta i nuovi Bottoni al Gambero Rosso di Divine Creazioni®

Un inno alla cucina mediterranea

Surgital, azienda leader nella produzione di pasta fresca surgelata per la ristorazione, lancia una novità firmata Divine Creazioni®: i Bottoni al Gambero Rosso. Questo nuovo prodotto rappresenta una celebrazione dell’eccellenza gastronomica mediterranea, grazie al suo ingrediente principe, il Gambero Rosso del Mediterraneo, scelto per la sua origine nobile e qualità organolettiche uniche. Con un ripieno ricco e cremoso, una sfoglia sottile ma resistente e una forma elegante, i Bottoni al Gambero Rosso offrono ai professionisti della ristorazione la possibilità di proporre una cucina raffinata, utilizzando soluzioni versatili e pratiche.

Un prodotto che si distingue per eccellenza e innovazione

I Bottoni al Gambero Rosso si contraddistinguono per un ripieno abbondante e voluttuoso, risultato di un’attenta ricerca: due anni tra selezione delle materie prime e messa a punto di una ricetta sviluppata per esaltare il gusto intenso del Gambero Rosso del Mediterraneo. È realizzata senza latte e derivati, ed è quindi ideale anche per una clientela con intolleranze al lattosio. Questa scelta dimostra l’impegno dell’azienda nel rispondere alle esigenze di una ristorazione moderna e inclusiva. La sfoglia sottile racchiude il ripieno in una struttura resistente, che conserva intatti gusto e consistenza anche dopo la cottura. Questo equilibrio tra cremosità interna e tenuta della pasta garantisce un’esperienza gustativa eccellente ad ogni assaggio. Un’altra peculiarità distintiva è la nuova forma tonda e piena. Non solo un dettaglio estetico, ma una scelta funzionale che consente agli chef di realizzare impiattamenti raffinati e di grande impatto visivo. Questa geo-

metria elegante si presta sia a composizioni tradizionali sia a presentazioni moderne e creative, rendendoli perfetti per il fine dining e valorizzando l’offerta del locale.

Versatilità e creatività a servizio degli chef I nuovi Bottoni al Gambero Rosso sono estremamente versatili. Grazie al loro sapore intenso e alla qualità delle materie prime, si prestano a una molteplicità di interpretazioni culinarie: da condimenti semplici, come un’emulsione di olio e agrumi, a salse cremose che ne amplificano la ricchezza senza coprirne il gusto. Questa flessibilità si estende anche alle occasioni di consumo: possono essere protagonisti di un primo piatto raffinato, un finger food elegante o un antipasto creativo, lasciando agli chef la massima libertà di personalizzarli e renderli unici.

Pur essendo un prodotto premium, perfetto da servire così com’è, i Bottoni al Gambero Rosso si rivelano anche un prezioso alleato per la creatività degli chef, valorizzando qualsiasi interpretazione gastronomica. Offrono un punto di partenza eccellente per creare piatti che conquistano sia il palato che la vista.

Efficienza e praticità: un supporto concreto in cucina

Per i professionisti della ristorazione, l’efficienza è cruciale, e Surgital risponde con soluzioni pratiche e performanti. Ogni bottone è surgelato singolarmente grazie alla tecnologia IQF (Individually Quick Frozen), che preserva perfettamente la texture della sfoglia e la cremosità del ripieno. Questo processo, unito alla qualità delle materie prime e alla precisione tecnica di produzione, garantisce una resa impeccabile in cottura. Gli LA PRODUZIONE

chef possono così contare su un prodotto che non si deforma, conserva intatte le sue caratteristiche e riduce sprechi: ogni pezzo è utilizzabile in base alle necessità, abbattendo il food waste.

Un altro vantaggio importante è il tempo di cottura brevissimo, soli cinque minuti, che consente una gestione ottimale della linea durante i servizi più intensi. Inoltre, la lunga shelf life rende i Bottoni al Gambero Rosso una soluzione pratica e sempre disponibile, da tenere in freezer e utilizzare al momento giusto.

Ricette creative per ispirare gli chef

Per aiutare i professionisti a sfruttare al meglio i Bottoni al Gambero Rosso, il team chef De Gusto di Surgital ha sviluppato una selezione di ricette esclusive. Queste proposte includono condimenti semplici e preparazioni più elaborate, pensate per esaltare le caratteristiche distintive del prodotto e ispirare gli chef a creare piatti memorabili. Le ricette sono consultabili nel folder dedicato ai Bottoni al Gambero Rosso Divine Creazioni® e sul sito surgital.it

Con i Bottoni al Gambero Rosso, Surgital offre un prodotto premium che coniuga innovazione, qualità e praticità, rivelandosi un alleato prezioso per creare piatti di alta cucina senza rinunciare all’efficienza operativa.

LA PRODUZIONE

Il re dei risi viaggia su una Nuvola

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Nelle terre dei Gonzaga il riso si coltiva dal Cinquecento. Riso Nuvola è coltivato, prodotto e trasformato come si faceva un tempo dagli agricoltori mantovani ma oggi l’azienda produce con metodi innovativi e ogni giorno rinnova la volontà di fornire ai propri clienti solo il meglio.

Il riso è una delle principali risorse del territorio mantovano, Riso Nuvola ne interpreta le caratteristiche naturali e ne tutela ogni chicco affinché ogni sacchetto ne conservi i profumi e le sfumature.

Per questo Riso Nuvola apre una finestra in ogni confezione e si lascia ammirare: dalle forme più allungate delle varietà Ermes e Arborio a quelle più tozze del Vialone Nano, dalle proporzioni medie del Carnaroli ai caratteristici Ribe Parboiled e Venere, ogni tipologia di riso viene accuratamente valutata e scelta.

Riso Nuvola è coltivato, prodotto e trasformato come si faceva un tempo dagli agricoltori mantovani, per poi essere insacchettato e distribuito sul mercato dalla riseria locale.

L’attenzione a ogni dettaglio dalla coltivazione alla distribuzione garantisce:

• massima qualità del prodotto, grazie alla selezione e ai controlli meticolosi effettuati

• un prodotto 100% naturale e italiano, raccolto da agricoltori e senza trattamento

• buon posizionamento del brand, scelto da gastronomie d’élite, ristoranti locali e importanti distributori e grossisti.

Il Carnaroli, il re dei risi

Nell’assortimento di Riso Nuvola, il Carnaroli occupa un posto di rilievo per le sue qualità e caratteristiche: il suo granello è grande, consistente e resistente alla cottura perché ricco di amilosio. È un riso superfino tra i migliori a livello qualitativo e deve la sua origine all’incontro tra il Vialone e il Leoncino favorito dal risicoltore paullese Angelo De Vecchi e da un suo collaboratore, nel 1945. “Carnaroli”, infatti, era il cognome di questo coltivatore, che meritò secondo De Vecchi di dare il nome alla nuova varietà di riso ottenuta dopo tante fatiche. È il “re dei risi” ed è ottimo per i risotti, è un prezioso alleato anche dei meno esperti in cucina perché si presta alle cotture lente, senza perdere la sua consistenza.

Riso Nuvola ha inserito a pieno titolo il Carnaroli nella sua Linea Selezione poiché risponde a caratteristiche fisiche e organolettiche che fanno la differenza tra un ottimo riso e un riso straordinario. Per fare ciò, vengono utilizzati strumenti dedicati, in grado di misurare esattamente la qualità del riso, supportati dall’insostituibile esperienza dell’uomo: gli operatori che da anni eseguono questa attività di selezione hanno sensibilità e competenze tramandate di generazione in generazione.

A partire dai metodi di coltivazione fino ad arrivare in tavola, il Carnaroli Selezione di Riso Nuvola è un prodotto che rivela caratteristiche ineguagliabili che in cucina fanno la differenza tra un buon prodotto e uno eccellente.

Ottima resa, tenuta in cottura

Le alte rese del terreno sono un plus che lo rendono assolutamente migliore in termini di resa favorendo e migliorando il lavoro dei cuochi. Il Carnaroli Superiore Riso Nuvola ha una resa superiore alla media nazio nale che generalmente si assesta intorno a 55 kg di prodotto per 100 kg di riso coltivato. Il Carnaroli Su periore Riso Nuvola può superare i 60 kg per quintale, sinonimo di prodotto ottimo sotto ogni aspetto. Questo significa che, nel piatto, 100 g di riso rendono di più, ovvero se con 1 kg di riso si realizzano, di solito, 12 piatti col Carnaroli Superiore se ne possono realizzare 15/16. Un evidente valore aggiunto al lavoro del cuoco che si traduce anche in vantaggioso food cost.

Un altro segnale di qualità superiore si riscontra nei tempi di cottura e nella tenuta in cottura. Infatti, quan do un riso bianco impiega più tempo a cuocere – i 10 minuti convenzionali possono diventare 13 minuti - si gnifica che è di qualità migliore perché è più resistente, tiene meglio la cottura e permette di controllare in ma niera più efficiente eventuali errori in cucina. Questa caratteristica dipende in parte dalla varietà, in parte dall’invecchiamento che in ogni caso non supera mai gli 8 mesi, e dalla lavorazione che consente di control-

diventa più semplice gestire i tempi di cottura e di servizio, e il rischio che il risotto scuocia non è più una variante possibile.

LA PRODUZIONE

Affumicato, stagionato, senza cotenna

Merano Speck, azienda a conduzione familiare, punta molto sulla tradizione e guarda all’innovazione con specialità di primissima scelta tra cui il pratico speck senza cotenna

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Tra i prodotti di salumeria tipici dell’Alto Adige lo speck è senza dubbio il più conosciuto e apprezzato. Un prodotto unico che rappresenta la specialità di Merano Speck e, in virtù della sua morbidezza e genuinità e al gusto equilibrato frutto di accurata stagionatura e utilizzo sapiente di sale e aromi uniti all’affumicatura delicata, è apprezzato e richiesto.

L’azienda nasce nel 1990 grazie all’intuito del suo fondatore Albert Rauch che, mastro macellaio, in Germania, comprese le potenzialità del prodotto e come una versione senza cotenna potesse offrire una caratteristica di funzionalità in più rispetto al prodotto tradizionale. Insieme alla moglie, Inge Rauch, tuttora proprietaria dell’azienda, mise in atto la sua idea, diventando uno dei pionieri in questo campo.

Caratteristiche e peculiarità dell’offerta produttiva

La Merano Speck, nonostante la grande quantità realizzata di prodotto – ogni settimana è in grado di raggiungere una produzione di oltre 20.000 speck - è riuscita a mantenere ricette tradizionali utilizzando le più moderne tecniche di produzione, garantendo così la genuinità di un prodotto di prima qualità e debitamente certificato (IFS e BRS).

Lo Speck viene realizzato con l’impiego di sale marino, spezie e 21 erbe aromatiche, secondo una ricetta ottimale studiata e perfezionata, nella quale le erbe sono dosate accuratamente, particolarmente il timo che attribuisce all’aroma una personalità unica.

La materia prima è selezionata e sottoposta a severi controlli di qualità che ne garantiscono la tracciabilità. La stagionatura è un passaggio fondamentale e come tale soggetta a un processo ben definito e controllato nel quale il tempo, lento e costante, diventa elemento importante: ogni fase viene osservata e il calo peso che avviene durante l’asciugatura monitorato e sorvegliato fino al raggiungimento del grado ottimale.

Affumicato a freddo su legno di faggio, dopo breve essiccazione, lo speck stagiona 22 settimane grazie a quello che è uno degli ingredienti principali della ricetta: l’aria dell’Alto Adige, pura e di montagna, che favorisce l’aroma dei prodotti. La zona della Val Venosta, infatti, dove si trova Merano Speck, è una zona secca nel mezzo delle Alpi e il suo clima permette una perfetta asciugatura all’aria.

L’offerta è suddivisa tra speck interi, metà, tranci, scotennati, pronti al taglio e infine affettati. Il punto di forza di Merano Speck è la specializzazione nelle linee di confezionamento in tranci, anche a peso fisso: tale produzione la rende, al momento, una tra le aziende più rappresentative e presenti sul mercato per la referenza “speck in tranci” soprattutto nel “private label”.

Lo Speck Alto Adige Igp viene prodotto dalla coscia di suino disossata, salata a mano e affumicata. La lavorazione avviene con l’uso di sale, spezie, zucchero, aromi naturali, conservante nitrito di sodio e antiossidante ascorbato di sodio.

Il peso medio delle pezzature si aggira intorno ai 5 kg per lo Speck intero; circa 2,5 kg per lo Speck a metà; circa 1,2

kg per lo Speck in quarti e circa 800g per lo speck 1/6. Tra le sue caratteristiche rilevanti ci sono la salatura a secco moderata e l’affumicatura delicata ottenuta da segatura di legno di faggio che ne determinano le proprietà organolettiche.

Il confezionamento avviene sottovuoto per i tranci e in ATM per gli affettati con tempi di scadenza di 150 giorni per lo Speck sfuso o sottovuoto e 60 giorni per l’affettato. Il carattere tradizionale non esclude uno sguardo sempre attento alle richieste di ultima generazione, infatti la Merano Speck sta lavorando a una nuova linea “benessere”, con un prodotto nuovo come lo “speck light”; per offrire ai consumatori un’alternativa attuale, povera di grassi mantenendo il sapore unico del prodotto.

Speck senza cotenna, già pronto per la vendita, pratico

all’uso

Dall’intuito di Inge e Albert Rauch, ecco dunque un prodotto di alta qualità, una specialità altoatesina realizzata con una caratteristica in più: lo speck senza cotenna, più praticità e zero sprechi. Nel rispetto della tradizione altoatesina, Merano Speck ha sempre puntato all’innovazione e alla contemporaneità del suo stile e mira a tenere in considerazione ogni aspetto della produzione in grado di favorire l’utilizzo del prodotto secondo l’evoluzione e il cambiamento, le abitudini e le necessità della società.

Lo speck, prodotto tipico, stagionato con maturazione naturale e realizzato con spezie ed erbe aromatiche, è molto versatile in cucina e adatto a diversi utilizzi oltre la degustazione in purezza. Risparmiare tempo e fatica è uno dei requisiti più ambiti in cucina dove ogni minuto guadagnato diventa un valore aggiunto. Evitare ogni spreco un impegno per la sostenibilità.

Lo speck senza cotenna, con poco grasso nella fetta, nasce

per favorire l’impiego del trancio da parte dei consumatori e degli operatori, che trovano nel prodotto vantaggi indiscussi di praticità e facilità di taglio eliminando oltretutto ogni spreco perché lo speck è disponibile a peso netto. È in grado, così, di fornire un importante contenuto di servizio che si aggiunge ai suoi molti pregi.

Buono, tipico e al tempo stesso moderno quanto basta, equilibrato nella sua proporzione grasso/magro, pratico e versatile, lo Speck Merano, scotennato e confezionato in pratici formati di diverso peso, per andare incontro a esigenze di stoccaggio e di uso, è la soluzione ideale.

LA PRODUZIONE

Il meglio del Mediterraneo in tavola

Dal Mare Mediterraneo, Europesca porta nelle cucine degli italiani pesci e crostacei pescati e surgelati, un’offerta ricca e diversificata, da filiera certificata

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Europesca di Macaddino Nicolò & C. nasce a Mazara del Vallo, oltre mezzo secolo fa, dalla passione per il mare. Da tre generazioni l’azienda testimonia la vocazione per le eccellenze ittiche, si contraddistingue per la qualità del pescato, la dedizione di chi lavora e l’ambizione di far arrivare sulle tavole il buon pesce: è, infatti, un’azienda specializzata nella distribuzione di prodotti ittici congelati controllati in tutte le fasi della filiera, dalla pesca fino alla vendita.

Obiettivo di Europesca è da sempre garantire altissima qualità e territorialità dei prodotti ittici del Mediterraneo offrendo pesce e crostacei pescati nelle sue acque. Un’area particolarmente pescosa e ricca di specie pregiate.

L’offerta di Europesca comprende, oltre al pesce, un ampio assortimento di crostacei, non solo Gambero Rosso del Mediterraneo, prelibatezza tipica particolarmente apprezzata nella cucina italiana, ma anche Gambero Viola, Scampi, Mazzancolle e Gambero Rosa. L’azienda prepara e produce inoltre tartare e carpacci a base di crostacei, pesci o molluschi seguendo altissimi standard di qualità durante tutte le fasi produttive.

Selezione del pescato e garanzia di qualità

Europesca garantisce altissima qualità e territorialità dei prodotti ittici del Mediterraneo. Dal 2022 ha sviluppato standard di sicurezza di prodotto e qualità riconosciuti a livello globale grazie all’ottenimento della certificazione IFS FOOD.

L’attenta selezione della materia prima in entrata costituisce il presupposto essenziale per una corretta gestione delle successive fasi di lavorazione e quindi per la sicurezza, conformità e qualità degli alimenti prodotti. In questa fase l’azienda garantisce la salubrità dei prodotti ittici acquistati da pescherecci della zona o fornitori affidabili.

A rotazione, sui prodotti in entrata provenienti da diversi fornitori, vengono effettuati controlli analitici che precedono il confezionamento accuratamente eseguito utilizzando diverse tecnologie e formati: dal confezionamento termoretraibile al sottovuoto per le tartare e i carpacci confezionati ed etichettati singolarmente, fino ad arrivare all’innovativa tecnologia su misura Skin-Pack. Si tratta di un confezionamento sottovuoto di alta qualità, personalizzabile, in grado di preservare le proprietà organolettiche degli alimenti e di mantenere intatte qualità e freschezza.

Con frequenza giornaliera, il responsabile del sistema HACCP/igiene, attraverso controlli pre-operativi e post-operativi registra e monitora tutte le fasi produttive.

Le fasi della lavorazione

I crostacei vengono forniti prevalentemente interi o sgusciati secondo la tipologia. Abbattuti a bordo, vengono forniti interi in vaschette da 1Kg.

Le lavorazioni consistono, prevalentemente, in:

• Ri-confezionamento prodotti ittici acquistati congelati (crostacei, molluschi o pesce) in vaschette di polietilene ricoperte da un film termoretraibile poste

all’interno di cartoni 12X1 o 10X1. I crostacei vengono forniti interi in vaschette da 1Kg e sono abbattuti a bordo.

• Produzione di tartare a base di crostacei, molluschi o pesci confezionate in buste singole sottovuoto da 50g/80g/100g poste nei cartoni sfuse o in formato skin per il retail.

• Produzione di carpacci a base di crostacei confezionati in buste sottovuoto in formati da 60g poste nei cartoni.

Le tartare e i carpacci a base di crostacei vengono preparati utilizzando la materia prima tal quale senza aggiunta di altri ingredienti e costituiscono una soluzione ad alto servizio sia per il consumo privato sia per la ristorazione: porzionate e pronte al consumo possono essere arricchite in fase di ricettazione secondo l’estro; per il cuoco professionista sono uno spunto e un valido aiuto per risparmiare tempo e azzerare sprechi di materia prima.

Tutti i processi di lavorazione sono sottoposti ad audit per verificare la conformità agli standard IFS e l’intero processo di lavorazione delle tartare e dei carpacci, che ha luogo nello stabilimento di Europesca eseguito da personale qualificato e formato, segue le seguenti fasi:

• Pulitura e sgusciatura;

• Taglio a coltello o con cutter (in base alla richiesta del cliente);

• Forma e peso;

• Abbattimento della temperatura dei prodotti lavorati in abbattitore;

• Confezionamento dei prodotti finiti;

• Stoccaggio.

L’azienda conosce bene le esigenze dei suoi clienti e quanto un servizio rapido ed efficiente possa essere fondamentale: è infatti uno dei punti di forza di Europesca, e l’affidabilità un plus che contraddistingue l’azienda.

Grazie a un servizio di logistica personalizzato Europesca è in grado di garantire la consegna in cinque giorni lavorativi.

LA PRODUZIONE

Genio e amore

Una ricetta pratica, sana e gustosa, nata dal gesto di amore e di cura di un padre verso la sua famiglia, è la matrice dalla quale ha preso vita la Well Alimentare Italiana

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La storia di Well affonda le sue radici nei primi anni ‘60 a Mestre-Venezia, da un gesto d’amore familiare. Il dottor Antonio Valenti, appassionato e geniale chimico-farmacista, crea in casa il suo brodo granulare per aiutare e supportare il pesante lavoro famigliare della moglie, impegnata nella gestione della famiglia e dei loro primi cinque figli, il secondo dei quali, per problemi digestivi, era obbligato, su indicazioni del pediatra, ad una dieta leggera a base di brodo.

La ricetta piacque talmente tanto che, nel 1967, venne costituita la Well Alimentare Italiana snc, in un piccolo laboratorio sotto casa, per poter soddisfare la richiesta di quel “brodo speciale” da parte di amici e conoscenti.

Una crescita costante guidata dalla passione per la qualità e per i bisogni delle persone.

L’azienda resta un piccolo laboratorio sotto casa fino a quando due dei 10 figli, divenuti anche loro chimici-farmacisti, dopo aver fatto varie esperienze professionali, decidono, nel 1997, di raccogliere l’invito e la sfida di portare avanti e sviluppare quel piccolo laboratorio e, con altri tre fratelli, danno inizio alla storia della seconda generazione d’impresa, quella dei figli del dott. Antonio Valenti.

Oggi, Well è una realtà consolidata, un’azienda organizzata che ha mantenuto una forte identità familiare. “Crediamo nella forza del nostro passato, nei profondi valori della famiglia e ci sentiamo custodi di un’eredità culturale che cerchiamo di rinnovare ogni giorno per guidare il presente e ispirare il futuro della nostra impresa” dichiara il fratello più grande Rodolfo Valenti, oggi direttore generale.

Specialisti in brodi, insaporitori e basi culinarie

Well Alimentare è specializzata in una vasta gamma di brodi granulari, brodi concentrati, insaporitori, leganti, basi culinarie, salse base e sistemi aromatici personalizzati, con linee specifiche di prodotti per il canale industria, horeca, retail e private label, in italia e all’estro. Prodotti indispensabili in cucina per completare le ricette, dare sapore e identità al piatto, quelle preparazioni che si facevano una volta e oggi per questione di costi e tempi di lavorazione e organizzazione diventano più complicate da realizzare.

I prodotti della Well Alimentare, inoltre, offrono un vantaggio in più: la qualità.

La qualità delle materie prime impiegate e il metodo utilizzato nel processo di trasformazione sono il valore aggiunto che fa la differenza tra un prodotto qualunque e una specialità, conferma il dr. Valenti: “Nella realizzazione di questi prodotti, che hanno un’incidenza bassa sul food cost, cerchiamo di esprimere il massimo della qualità. Questo non incide sul costo ma sulla percezione del gusto sì. Il ristoratore che si orienta verso questo genere di prodotti deve poter ottenere il migliore risultato e pertanto deve sapere di potersi affidare a un prodotto che gli permetta di esprimere la massima qualità e valorizzare il suo lavoro. Per lui, vale la pena di usare i prodotti della nostra azienda perché portano valore aggiunto al piatto: la risultante costo beneficio è altissima”.

Al servizio della ristorazione

Una delle caratteristiche peculiari di Well Alimentare è possedere ben 18 referenze ideate appositamen-

te per la ristorazione. Una gamma in grado di cogliere e di esprimere ogni sfumatura possibile allo scopo di interpretare tutti i gusti e gli stili culinari, con varianti senza glutine e senza lattosio secondo le esigenze del mercato e della società.

“Impieghiamo una tecnologia molto particolare – spiega Rodolfo Valenti – che consente di essiccare a bassa temperatura ogni ingrediente, in tempi lunghi, e questo permette di evitare l’uso di aromi artificiali e di conservare e preservare quegli aromi naturali che andrebbero persi con l’essiccazione ad alte temperature. Utilizziamo solo succhi ed estratti e il profilo aromatico risulta così più naturale e delicato”.

Il Centro Ricerca di Well è un vero fiore all’occhiello per l’azienda, e si avvale di una esperienza di più di 50 anni nella ricerca e nella produzione di questi prodotti, maturando esperienze e competenze nella ricerca anche di altre tipologie di prodotti alimentari per esplorare nuovi settori e creare prodotti sempre più innovativi: Well è stata tra le prime aziende italiane a sviluppare una linea di prodotti biologici, prodotti senza glutine, senza lattosio, a basso contenuto di grassi e sodio, garantendo al contempo una qualità superiore e un gusto autentico e naturale.

Qualità, autenticità e sostenibilità

“La nostra missione – dichiara Rodolfo Valenti - è quella di sviluppare e produrre soluzioni alimentari innovative che rispondano ai bisogni emergenti del mercato e delle persone, senza mai perdere di vista i valori che ci hanno guidato fin dall’inizio: qualità, autenticità e sostenibilità”.

Tra le strategie che guidano l’azienda nel canale del Food Service, c’è quella di affidare la distribuzione dei prodotti esclusivamente ai grossisti, cercando di mantenere un

rispetto tra le varie zone e sviluppare così un rapporto di fiducia tra l’azienda e il grossista e tra il grossista e il suo cliente. Spiega il dr. Valenti: “Noi non vendiamo direttamente al ristoratore perché crediamo che rispettare il lavoro di ognuno sia fondamentale e il rapporto che si crea tra un distributore e un cliente sia un valore per entrambi. Inoltre, siamo molto impegnati nella formazione dei collaboratori del grossista perché siamo convinti che per poter spiegare bene un prodotto bisogna conoscerlo, specialmente quando la gamma è così ampia e i dettagli tecnici sono importanti ma difficili da esprimere. È un nostro vanto quello di essere riusciti a ingaggiare con gli agenti un rapporto di formazione, supporto e dialogo; è così che si crea collaborazione. Il ristoratore si rivolge con fiducia all’agente perché sa di avere da lui i suggerimenti e le risposte che cerca, e l’agente sa di potersi fidare dell’azienda. Uno scambio e un dialogo propositivo che porta vantaggi a tutti”.

Un programma di crescita, quello intrapreso da Well Alimentare, che comprende la massima attenzione alla sostenibilità. Conclude Rodolfo Valenti: “Ci impegniamo oltre che nello sviluppo di prodotti, anche nella sostenibilità e impatto ambientale della nostra attività, con l’utilizzo di energie rinnovabili autoprodotte e processi produttivi ad alta efficienza e a basso consumo, packaging sostenibile e cura negli sprechi e scarti. Con questi ideali ben in mente prepariamo il passaggio alla terza generazione dell’azienda. Una sfida importante che ci vede determinati a mantenere viva la nostra identità, investendo nelle persone, nelle tecnologie e nei valori che ci rendono un’azienda unica”.

Grandi novità si annunciano per i prossimi mesi, aspettiamo di conoscerle.

Le Stelle di Domani, giovani talenti nascono

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Si sta svolgendo da novembre 2024, e proseguirà fino a marzo 2025, il progetto formativo di cui

Unilever Food Solutions (UFS) presenta la prima edizione: Le Stelle di Domani, nato in collaborazione con la Federazione Italiana Cuochi (FIC), e prevede due step:

• un ciclo di otto lezioni dedicato alle tendenze della ristorazione contemporanea, con l’obiettivo di sostenere concretamente la crescita dei professionisti del futuro. Gli incontri saranno trasmessi in diretta streaming e resi disponibili on-demand, allo scopo di offrire a tutti gli interessati la possibilità di fruire dei contenuti formativi. https://www.unileverfoodsolutions. it/ispirazione-per-gli-chef/promozioni.html

• Una sfida culinaria rivolta agli studenti delle scuole alberghiere che si cimenteranno nella creazione di ricette ispirate alle tendenze globali della cucina contemporanea emerse dal rapporto annuale Future Menus 2024, frutto della collaborazione di oltre 1.600 chef in 21 Paesi nel mondo.

Le tendenze individuate sono:

• Cibo Benessere: lo chef contemporaneo mira a nutrire in modo armonioso non solo il corpo, ma anche l’anima; cresce l’attenzione verso il gusto e i sapori, la freschezza e la genuinità degli ingredienti; l’utilizzo di superfood è sempre più rilevante, insieme a un corretto bilanciamento dei piatti e a una varietà di opzioni; la presentazione a tavola riveste un ruolo importante e l’estetica del piatto contribuisce all’esperienza complessiva di benessere.

• Combinazioni Sensoriali: la cucina è un universo di esperienze gustative, visive e tattili dove si esplora l’incontro tra sapori, consistenze e colori, offrendo un’esperienza multisensoriale intensa e sorprendente; chi conosce i segreti della cucina può rompere regole e convenzioni,

offrendo un’esperienza multisensoriale intensa.

• Condivisione Gioiosa: il cibo diventa il collante tra le persone, accogliendo tutti attorno alla tavola; nei ristoranti, lo chef diventa il regista di questo momento.

• Cucina Sostenibile: lo chef è chiamato a rivestire il ruolo di promotore di una cucina sostenibile, caratterizzata da scelte consapevoli e responsabili tenendo conto degli effetti economici, ambientali e sociali.

• Proteine Evolute: le proteine vegetali assumono un ruolo fondamentale nell’alimentazione, emergendo come elementi essenziali per promuovere la sostenibilità ambientale e il benessere personale; è importante che gli chef tengano conto di questi ingredienti per creare proposte culinarie innovative, inclusive e nutrizionalmente equilibrate.

• Selvaggio e Puro: la stagionalità del menù è intimamente legata ai frutti della terra e ai ritmi naturali; è essenziale conoscere e promuovere le specialità del territorio, salvaguardare l’unicità dei prodotti e valorizzare il lavoro degli agricoltori e degli allevatori.

• Tradizione Moderna: la tradizione culinaria è una memoria del gusto in evoluzione che si concentra sulla materia prima, interpretandola nella sua forma più autentica; rivisitare la tradizione significa dare nuova vita a ricette senza tempo, mantenendo vive le connessioni culturali.

• Verdure Irresistibili: le verdure stanno emergendo come protagoniste nella cucina contemporanea, trasformandosi da semplici contorni a veri e propri simboli di un nuovo “green power”; è la risposta a una crescente domanda di proposte vegetali gustose, originali e salutari, che beneficiano sia il benessere individuale che la salute del pianeta.

Con questa iniziativa Unilever Food Solutions si propone di fornire uno spunto formativo agli studenti, che potranno cimentarsi in una nuova e originale prova pratica, che li sproni e li incoraggi verso l’approfondimento degli ingredienti, la sperimentazione di tecniche di preparazione e di comunicazione dei piatti. Ogni studente potrà realizzare una o più di una ricetta utilizzando una Special Box, contenente ingredienti professionali selezionati da Unilever Food Solutions. La partecipazione prevede la realizzazione di un video su TikTok che racconti la preparazione della ricetta. Ogni ricetta sarà poi valutata da una giuria di esperti UFS e FIC che selezionerà dieci finalisti sulla base della innovazione e della creatività e che si sfideranno nella finale del 20 maggio 2025 presso la sede della Gambero Rosso Academy a Roma.

Premio ambito sarà la possibilità di frequentare un esclusivo corso di cucina professionale, arricchito da una masterclass con lo chef stellato Domenico Stile

Autore: Luigi Franchi

Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi

Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi, ricettario pubblicato per la prima volta a Torino nel 1766 ma fondato in gran parte sul francese La cuisinière bourgeoise di Joseph Menon (Parigi, 1746), conobbe tra XVIII e XIX secolo uno straordinario successo, con oltre venti edizioni. Questo eccezionale testo, con il quale la capitale sabauda si affacciò per la prima volta al campo dell’editoria culinaria, è ritenuto uno spartiacque nella letteratura gastronomica italiana preunitaria. Quest’ultima edizione, stampata dall’editore Leo S.Olschki nel 2024, è la classica operazione che fanno gli editori (pochi) più attenti alla divulgazione della storia e della cultura gastronomica perché, oltre ad evidenziare il periodo in cui si videro le prime attestazioni in italiano dei termini culinari francesi (siamo nella seconda metà del Settecento) nel Cuoco piemontese viene riportata un’avvertenza dell’autore (anonimo) a’ leggitori. Egli scrive: …se la natura in portandoci a prendere gli alimenti, non ebbe altro fine, che la nostra conservazione, qual conto dunque dobbiamo noi fare di un’infinità di preparazioni, salse, intingoli alla moda che portano il fuoco, e la rovina nelle interiora de’ nostri corpi? La cucina non è altro, che l’arte di impiegare le produzioni della natura, per prepararne un nutrimento sano, e piacevole all’uomo… Sovvengavi che questo libro non esce da un’accademia ma bensì da una cucina: non propongo regole di ben dire, ma di ben condire. Vivete felici A cosa vi fa pensare?

Storia del bar in Italia

Domenico Maura Pag. 220

Edizioni LSWR

Euro 32,90

www.edizionilswr.it

Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi

Salvatore Iacolare Pagg. 520

Editore: Leo S.Olschki

Euro 49,00

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Storia del bar in Italia

Il bar. Cominciamo dall’etimologia della parola che, come tantissime di uso comune, ne dimentichiamo l’origine. Bar è una contrazione del termine inglese barred, cioè sbarra/barriera, che trova origine nella separazione fisica tra l’area di consumo degli alcolici e lo spazio per servirli. La parola appare, per la prima volta, sul dizionario d’italiano Sabatini-Coletti nel 1905 e sarà una delle poche parole straniere a sopravvivere all’autarchia di epoca fascista. I bar sostituirono, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento i cosiddetti caffè, riducendo gli spazi, cambiando gli arredi, introducendo il metallo nel bancone. Il primo bar, con le tre lettere usate come acronimo di Banco A Ristoro, pare sia stato aperto a Firenze nel 1898 da tale Alessandro Manaresi. Rispetto al passato, ai caffè, i bar non erano luoghi elitari ma, anzi, aperti a tutti e aprirono le porte a nuovi stili di vita, come per le colazioni mattutine o l’aperitivo serale. Queste e moltissime altre storie sono contenute nel volume che mancava – La storia del bar in Italia – scritto da Domenico Maura, riconosciuto come uno dei massimi esperti della storia dei bar nel nostro Paese. Un libro piacevolissimo, per i contenuti, la facilità di lettura, le numerose testimonianze di leggendari barman. Da leggere d’un fiato!

La tartare di scottona You&Meat

In commercio - sotto il brand You&Meat - da circa un anno, la tartare di scottona dell’azienda padovana

Centro Carni Company oggi continua a conquistare consumatori di ogni tipo. Non solo per la sua capacità di distinguersi in un mercato dominato dalla Fassona piemontese, ma anche per la sua praticità e – ovviamente – la sua qualità.

Cos’é la scottona?

La scottona, che non è né una razza né un taglio, è la carne di una femmina di bovino relativamente giovane (tra i 15 e i 22 mesi) che non ha ancora partorito. Considerata particolarmente pregiata e ricercata per le sue caratteristiche organolettiche, la buona marezzatura, la morbidezza, la carne di scottona è perfetta per il consumo a crudo.

La tartare di scottona

Caratterizzata da una texture grossolana ma leggera in bocca e un sapore delicato, la battuta al coltello di scottona è un prodotto che può essere gustato in modo veloce, sia come antipasto che come piatto unico o delizioso appetizer.

Perfetta e realizzata con pochi e semplici ingredienti, come un po’ d’olio extravergine d’oliva e del succo di limone, rappresenta quindi un prodotto easy to cook, ma di alta qualità.

Una curiositá

All’interno degli stabilimenti dell’azienda di Tombolo (PD), per la produzione della tartare, è stata realizzata un’apposita sala. Il motivo? Conseguire i più elevati standard di sicurezza. Il processo all’avanguardia con-

sente infatti di limitare la manipolazione del prodotto da parte degli addetti, che intervengono nella fase di avvio della produzione e di confezionamento.

«Con questo nuovo prodotto - ha dichiarato Raffaele Pilotto, direttore marketing - desideriamo offrire ai consumatori la possibilità di gustare la nostra carne in modo veloce consentendo loro allo stesso tempo di personalizzarla a piacimento. Il nostro obiettivo non è solo proporre nuovi prodotti, ma anche sviluppare e adottare nuove tecnologie che possano migliorarne la qualità e allo stesso tempo rappresentare un punto di riferimento nella nostra industria. L’innovazione costituisce uno dei pilastri fondamentali per la nostra azienda. Riteniamo cruciale investire nelle tecnologie al fine di migliorare sia i nostri prodotti sia i nostri processi».

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