Costo copia trimestrale: 7,50 euro abbonamento annuo 30,00 euro Per abbonarsi: info@ilbelviaggio.it
L’Italia è bella, l’Italia è lunga
Da Vipiteno a Portopalo di Capo Passero ci sono mille e mille occasioni di scoperta, di storia, di bellezza. Non esistono solo le destinazioni più conosciute a livello internazionale come Venezia o Roma ma per fare dei luoghi meno noti, come la maggior parte di quelli contenuti in questo numero della rivista, delle destinazioni che abbiano anche la forza economica per esistere e resistere è necessaria una politica del turismo che non sia apparenza.
Tra poche settimane ci sarà il G7 del turismo a Firenze dove il nostro Paese sarà in primo piano. Facciamo anche di quel momento un’occasione per riflettere su cosa vuol dire turismo per il nostro Paese.
Questo non significa auto-lodarsi, dire che in Italia c’è più del 50% del patrimonio artistico mondiale; sono cose che già sappiamo, dobbiamo invece dire come riusciremo a valorizzarlo degnamente, renderlo alla portata di tutti, fare in modo che gli hotel, i ristoranti, gli uffici turistici siano in stretta connessione, che ci lavori personale qualificato e adeguatamente formato.
Quei lavori, nel turismo, che sarebbero i più belli, grazie al contatto che si ha con il mondo intero, sono invece sottopagati, spesso lasciati in mano a stagisti e comunque poco considerati nella scala sociale. Eppure i ragazzi che frequentano i corsi professionali di turismo, enogastronomia e ospitalità escono con un diploma che ha previsto la comunicazione in almeno due lingue straniere, l’insegnamento per programmare eventi, valorizzare il patrimonio ambientale, artistico ed enogastronomico dei territori. Perché allora abbandonano in così tanti?
Cosa serve per mantenere in questi ragazzi la passione per queste professioni?
Le risposte non possono essere univoche ma di certo c’è un dato incontrovertibile: nel percorso formativo manca, in maniera evidente, l’entusiasmo da trasmettere a questi ragazzi, l’innovazione che renda interessante e appetibile l’ingresso in questo ambiente di lavoro, oltre ad adeguate condizioni economiche.
Far ritornare i luoghi meno conosciuti al centro dell’attenzione turistica significa anche partire da qui, dalle persone che devono trovare un valido motivo per andare a lavorare in zone, come l’Appennino, dove si è fuori dalle grandi rotte di comunicazione ma in cui la qualità della vita può ritrovare un valore irrinunciabile.
Dove il turista che vi arriva è una persona che sceglie la destinazione, non la subisce. Sceglie di uscire dal traffico infernale per raggiungere una località dove vanno tutti per godersi una vacanza rilassante. Sceglie il silenzio, la scoperta, la bellezza di un paesaggio ma vuole anche un servizio che sia al passo con i tempi: una camera d’albergo o di b&b che non sia composta da mobili d’antan; le informazioni adeguate per muoversi in quelle zone; i giovani che accolgono, con il sorriso di chi sa che, in quei posti, c’è sempre qualcosa da fare, anche suggerire di prendersi il tempo per leggere un libro seduti su una panchina nella piazza del paese.
Queste sono le componenti dello stile di vita italiano che ci invidiano nel mondo: cosa aspettiamo a dar loro il valore che meritano?
Luigi Franchi
direttore responsabile de Ilbelviaggio luigi.franchi@ilbelviaggio.it
Bagni di Lucca, il borgo dei primati
La storia qui ha lasciato un grande segno
Autrice: Luigi Franchi
Già arrivarci a Bagni di Lucca ti sembra di rivivere i viaggi del Grand Tour europeo del Settecento, perché poco è cambiato dal punto di vista naturalistico da allora ad oggi.
Partendo da Lucca, infatti, ci si immerge quasi esclusivamente nel verde delle colline e delle montagne che ti accompagna fino a questa celebre località. Prima di arrivare a Bagni di Lucca si incontra il Ponte del Diavolo fatto costruire, nel 1101, da Matilde di Canossa che governava queste terre, per consentire il passaggio delle galee di mercato sotto l’arcata più alta lungo il fiume Serchio.
Subì diversi restauri nel corso dei secoli, a cominciare da quello voluto dal governo di Castruccio Castracani tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, per finire con l’aggiunta di una quarta arcata alla fine del 1800 per consentire il passaggio della ferrovia.
Un restauro che non si vede grazie alla bravura degli architetti di fine Ottocento che, in Italia, inventarono il falso storico intervenendo su molti siti architettonici aggiungendo ma senza snaturare.
Bagni di Lucca
Bastano dieci minuti dal Ponte del Diavolo a Bagni di Lucca e, subito, ci si accorge di quanta storia è passata in questa cittadina, a partire dall’epoca del Grand Tour. Lo si vede dall’impianto urbanistico che unisce grandi edifici a case più piccole.
“Gli edifici più grandi erano alberghi: Grand Hotel de Russie, Hotel d’Europe, Grand Hotel du Royal Casinò, Hotel d’Amerique e via dicendo. – mi racconta Virgilio Contrucci, lo storico locale che si è offerto di accompagnarmi alla scoperta di questo luogo straordinario – Già dai nomi si capisce l’internazionalità che c’era in questo posto”. Un luogo che, va detto subito, non è un solo borgo ma si divide in almeno tre differenti località: Bagni Caldi, Ponte a Serraglio, Bagni alla Villa. Oggi Bagni di Lucca vanta il primato di essere il più esteso comune di montagna d’Italia, con le sue 25 frazioni ma questo non è che uno dei primati. Gli altri li scopriremo strada facendo. Ma perché era così internazionale il borgo?
“Per due motivi principali – continua Virgilio – Da un lato era sulla strada che collegava il Brennero con Roma, quindi la maggior parte di coloro che volevano visitare l’Italia passavano, per forza, da qui. L’altro motivo erano le Terme e il primo Casinò da gioco costruito in Europa”. E qui c’è un altro primato.
Il Ponte del Diavolo
Le terme di Bagni di Lucca
Conosciute fin dal Medioevo, le terme di Bagni di Lucca sono frutto di acque ricche di calcio, solfato e cloruro che scorrono sotterranee fino a una profondità di 2/3 chilometri e affiorano lungo fratture per emergere in superficie a temperature che possono raggiungere anche i 54°.
Fino a pochi anni fa erano ben nove gli stabilimenti termali, ora resiste solamente il Bagno Bernabò, con una vasca realizzata in marmo di Carrara, sembra su disegno del Canova, e con acque indicate per le malattie della pelle. A fondare questo bagno fu un certo Nicolò Bernabò, pistoiese, che venne a Bagni di Lucca nel 1578 per curarsi. Un giorno, mentre percorreva la strada per andare al Bagno S.Giovanni scivolò nel terreno melmoso nei pressi della sorgente detta della rogna, perché ci portavano a bagnare gli animali che avevano sul vello tracce di rogna. A fatica si risollevò, completamente ri-
coperto di fango e notò che le sue piaghe erano completamente guarite a contatto con l’acqua termale mischiata alla melma. Fu così che la Repubblica Lucchese costruì un nuovo bagno dedicandolo a Bernabò che divenne ancor più famoso quando Michel de Montaigne, uno dei tantissimi ospiti illustri di Bagni di Lucca, scrisse nel suo diario, dato alle stampe nel 1774, che “il sabato, la mattina a bona ora, andai a tor l’acqua di Bernabò. Questa è una fontana tra le altre di questo monte et è meraviglia come ne ha tante, e calde e fredde… un Bernabò, leproso, avendo assaggiato et acque e bagni di tutte le altre fontane si risolse a questa, dove guarì”.
C’è speranza, sempre, che i complessi termali riprendano il loro corso, a maggior ragione, in questo momento storico dove le persone cercano sempre più rimedi naturali. Sprecare questo patrimonio fa veramente male.
Una scltura di Burlamacchi Villas
L’ospedale Demidoff
Nel 1826 il principe russo Nicolaj Demidoff, venuto a Bagni di Lucca per curarsi la gotta, saputo che i poveri avevano bisogno di un ospedale mise a disposizione la somma di 40.000 ducati per costruirlo. Ad esso venne aggiunta una cappella votiva che si richiama al Pantheon di Roma. Oggi la struttura è sede dell’Associazione Villaggio Globale, che porta avanti un progetto culturale per sviluppare l’evoluzione dell’uomo ed è uno dei principali centri internazionali di medicina Olistica per la salute psicofisica e le terapie psicosomatiche.
Il primo Casinò d’Europa
Entriamo, con il signor Virgilio, e ci troviamo in un edificio spoglio ma che esprime un grande fascino. Ora c’è solo una stanza, bellissima, che viene utilizzata per i convegni. L’edificio che ospita il Casinò fu disegnato dall’architetto Giuseppe Pardini (autore di molti altri edifici storici di Bagni di Lucca) nel 1839. Il Casinò fu voluto da due imprenditori francesi, Adrien Mathis e Edouard Ginnestet, che ottennero la licenza dal Duca di Lucca Carlo Lodovico. Si potevano giocare solo franchi francesi e sterline per evitare, senza successo, che il palazzo venisse frequentato ad avventurieri mescolati all’ari-
Un ingresso delle Terme a Bagni alla Villa. Uno dei tavoli da gioco del Casinò
stocrazia europea. Fu il primo in Europa e fu costruito qui perché si era radicata a Bagni di Lucca un’enclave di aristocratici inglesi che qui potevano, oltre che a curarsi, dar sfogo alle loro eccentricità e alle passioni mal accettate dal clima vittoriano che si respirava sulla grande isola britannica.
Gli inglesi a Bagni di Lucca
Ancor oggi i turisti che visitano questo delizioso borgo sono in prevalenza inglesi. Nel XIX secolo, come dicevamo, Bagni di Lucca era una piccola enclave di inglesi; una comunità che sentiva il bisogno di avere un proprio luogo di culto e anche un cimitero che si possono vedere ancora oggi. I coniugi Stisted furono i principali fautori di tutto questo. Il colonnello Henry Stisted aveva combattuto contro Napoleone a Waterloo e sua moglie Clotilda Elizabeth era una donna dai forti gusti letterari.
Da Firenze si spostarono a Bagni di Lucca per fuggire da un’epidemia di colera che coinvolse la città. Qui trovarono la pace e la loro casa divenne ben presto un luogo di in-
contro privilegiato di tutti i residenti inglesi. La signora Elizabeth manteneva una ricca corrispondenza con il mondo e, in una delle lettere, descriveva così la vita a Bagni di Lucca: “In tutte le stagioni i nostri amabili vicini della popolazione nativa costituiscono una sorgente di interesse: essi sono sempre pronti per essere utili e grati per ogni piccola gentilezza che noi possiamo render loro ed io sono lieta di testimoniare tutto ciò che è stato detto e scritto a loro elogio. Dopo tanti anni di residenza noi non possiamo dire male di alcuno e non abbiamo a lamentare il più piccolo furto, nonostante la villa abbia dieci porte aperte sul prato ed i portici siano spesso lasciati pieni di libri, quadri e mobili anche durante la notte”.
Il colonnello Stisted fu anche il promotore di una piccola grande trasformazione della cucina a Bagni di Lucca, di cui si trova ancora qualche traccia nelle famiglie e in un convegno che l’Accademia Italiana della Cucina tenne proprio qui qualche anno fa, come ci ha raccontato la preparatissima Angela Amadei, bibliotecaria, che ci ha fatto cono-
La camera di Lord Byron
scere il dottor Massimo Betti, titolare dell’omonima farmacia che vanta il primato di condurre la più antica gestione di farmacia d’Europa (probabilmente del mondo) da parte della stessa famiglia: nove generazioni, dal 1709).
Cosa c’entra un farmacista? In questa farmacia il dottor Betti produce e commercializza ancora il curry con la ricetta segreta che il colonnello Stisted confidò al suo trisavolo, il farmacista speziale Adriano Betti, portata appresso dalle Indie dove aveva prestato servizio per il regno inglese. Un curry che continua ad essere apprezzato nei ristoranti più internazionali della Lucchesia.
Il cimitero degli inglesi
Costruito, per volere dei coniugi Stisted, nel 1840 ospita 139 tombe, tutte bianche, che raccontano un pezzo di storia molto importante ma anche di amori e amicizie come quella tra Rose Elizabeth Cleveland, sorella
del 26° presidente degli Stati Uniti, che volle essere sepolta accanto a Evangeline Whipple che, pur morendo a Londra, volle essere portata qui. Entrambe le tombe sono vicine e identiche. L’ultima sepoltura risale al 1953 ma il cimitero è ancora visitabile e tenuto perfettamente in ordine dai volontari della Fondazione Culturale Michel de Montaigne e dell’Istituto Storico Lucchese.
La chiesa anglicana
Fu voluta dai coniugi Stisted che, dopo anni di residenza a Bagni di Lucca, lamentarono al ducato lecchese la mancanza di una cappella di rito anglicano e di un pastore permanente. Il Duca Carlo Lodovico di Borbone concesse loro la costruzione, superando le proteste dell’arcivescovo di Lucca che, alla fine, pose una sola condizione: la chiesa non doveva avere l’aspetto architettonico di una chiesa ma quello di un palazzo. I lavori furono affidati all’ar-
Interno della biblioteca
chitetto Pardini che rispettò le imposizioni dando all’edificio un aspetto in stile gotico-normanno. Oggi nella chiesa anglicana, diventata patrimonio del Comune, si trova la biblioteca comunale, curata da Angela Amadei, che conserva, tra i 30.000 libri, un migliaio di volumi facenti parte dell’originaria biblioteca anglicana e il fondo Ian Gordon Greenlees che Angela ci racconta così: “Ian Gordon Greenlees nacque il 10 luglio 1913 da una famiglia che possedeva distillerie di whisky in Scozia. Amante dei viaggi si innamorò completamente dell’Italia fino a decidere di stabilirvisi. Greenlees divenne direttore del British Institute of Florence sostituendo Francis Toye che, a seguito di alcune incomprensioni con Harold Acton, aveva deciso di dimettersi il primo maggio del 1958. “Da anni sono innamorato dell’Italia, del vostro bel paese, non soltanto per la grandezza del passato, ma anche e soprattutto per il popolo italiano, così civile, gentile e umano. A conoscere meglio l’Italia, ho acquistato un affetto particolare per la Toscana, la Campania e le Puglie, e
nella Toscana posso confessare che ho un grande affetto per Bagni di Lucca, nella valle di Lima, così ricca di ricordi anglo-italiani...” Con queste parole, Ian Greenlees volle raccontare il proprio amore per Bagni di Lucca, il luogo del quale divenne cittadino onorario e nel quale si rifugiò definitivamente una volta abbandonata la direzione del British Institute. La frequentazione della località in provincia di Lucca iniziò nel 1959. Dieci anni dopo, al Bagno alla Villa, capoluogo del Comune, acquistò poi l’antica residenza della famiglia Mansi di Lucca. Qui si trasferì definitivamente nel 1981 e vi fece trasportare lì la sua intera biblioteca, ricchissima e preziosa, oltre all’archivio.
Bagni
alla Villa
È la parte più bella e amena di Bagni di Lucca, leggermente sovraesposta per dominare l’intero territorio. Qui ci sono tutte le ville che i signori dell’epoca si fecero costruire. Un particolare balza subito all’occhio: c’è un solo palazzo con i muri di cinta. “È Villa Reale, fu fatta costruire da Elisa
L'ingresso del casinò
Bonaparte in Baciocchi nel 1811. – racconta Virgilio – Ed è vero, è l’unica protetta dalle mura. Suscitò molte lamentele all’epoca perché metteva in discussione quello che Montaigne aveva ben descritto parlando della vicinanza tra i nobili e le famiglie locali: …questi contadini e le lor donne sono vestiti da gentiluomini ed è bella cosa e rara per noi francesi di vedere queste contadine tanto garbate e vestite da signore”
Bagni alla Villa è effettivamente un crogiuolo di ville che si aprono una di fianco all’altra convertendo verso la piazzetta del borgo, costruita nel 1470 dall’architetto Domenico Bertini. Lo stesso che diede vita al bellissimo palazzo che oggi ospita Burlamacchi Villas, un hotel raffinatissimo. Con Virgilio entriamo a Villa Webb, dal nome del banchiere inglese, John Webb, che, nel 1812, la acquistò dai Buonvisi.
“Oggi è la sede della nostra associazione – spiega Virgilio – La villa ha subito molti rimaneggiamenti nei secoli: dopo aver ospitato personaggi illustri quali Lord Byron e Mary Shelley, che qui, si dice, scrisse l’ultima versione di Frankestein, divenne hotel
di lusso, il più caro di Bagni di Lucca. Nel dopoguerra fu colonia estiva per gli ingegneri della Piaggio e vide la nascita del prototipo della Vespa, poi divenne scuola professionale e media. Io venivo a scuola nella stanza dove abbiamo ricostruito la camera di Lord Byron. Nel 1978, acquistata dal Comune, fu sede di scuola materna, sede di corsi di danza e, infine, magazzino comunale. Ora, come associazione Vicaria di Val di Lima, cerchiamo di riportare un po’ di splendore: abbiamo portato qui il museo dell’Impossibile, il museo dei tavoli da gioco del Casino, l’armeria con balestre e archibugi, abbiamo restaurato le antiche cucine del 1500. In una parola vogliamo dare ai visitatori un’idea di cos’era Bagni di Lucca”. Riuscendoci benissimo!
Dimenticavo…
Tra i primati di Bagni di Lucca c’è anche: la prima illuminazione elettrica d’Italia (1886); la nascita del movimento Scout in Italia (1910) e una grande voglia, da parte della comunità, di tornare ad essere qualcosa d’importante. Le carte per farlo le hanno tutte!
Le antiche cucine di Villa Webb
Dove dormire
BURLAMACCHI VILLAS
Via S.Francesco, 6
55022 Bagni di Lucca (LU)
Tel. 392 890 3388
www.burlamacchivillas.it
Burlamacchi villas è una proprietà composta da due ville e da uno splendido e curato giardino con piscina privata. Situata a Bagni di Lucca, nel verde della campagna Toscana, è il luogo ideale dove trascorrere il vostro tempo privato e arricchirlo di momenti indimenticabili.
AGRITURISMO
PIAN DI FIUME
Loc. Pian di Fiume, 20
55022 Bagni di Lucca (LU)
Tel. 347 3575737
www.piandifiume.it
Trae origine da un antico borgo medievale restaurato, immerso completamente nel verde. Gli appartamenti sono ampi e confortevoli (40/50 mq) e hanno a disposizione spazi all’aperto. La ristorazione si basa su una cucina di stagione genuina e tradizionale.
Dove mangiare
CIRCOLO DEI FORESTIERI
Piazza Jean Varraud n10 55022, Bagni di Lucca (LU)
Tel. 0583 805558
In un ambiente suggestivo ed accogliente, è proposta la cucina tipica toscana con pasta fatta in casa, zuppe, salumi e sfiziosità, ottima carne e prodotti tipici.
Un bel salone, luminoso in stile liberty, suscita atmosfere di altri tempi insieme ad un eccellente servizio e a una buona cantina che si sposa con la cucina locale fatta con materie prime ottime.
Dove comprare
ENOTECA NONSOLOVINO
Viale umberto I, 105 55022 Bagni di Lucca (LU)
Tel. 0583 867707
Guido Bracci conduce questa bella enoteca con la sapienza di chi, nel vino, ci è nato dentro. La sua famiglia lavora con la bevanda degli Dei da inizio Novecento e questo si avverte nella competenza del signor Bracci e nelle scelte che si trovano sugli scaffali. Vale il viaggio!
Il fascino della valle Staffora
Alla scoperta del valore di ciò che è stato preservato
Autrice: Simona Vitali
Il Carnevale Bianco. Foto di Gianmarco Taietti
Una delle operazioni più difficili, in questo nostro tempo, è scovare ciò che è stato preservato, certamente a fatica e spesso in modo parziale, e riconoscerlo come un valore. E questo significa predisporsi a un approccio avvincente ma non così comodo. Ci sono luoghi che non sono per tutti. L’importante, sempre, è andare incontro alle proprie propensioni, ai propri gusti. Solo così non si resterà delusi e anzi se ne uscirà contenti.
Con questo spirito mi sono spinta nel cuore della parte appenninica della Valle Staffora, che è il lembo più a sud dell’Oltrepo Pavese, incastonato fra due regioni: Piemonte ed Emilia Romagna, e mi sono lasciata prendere da quell’ambiente in cui è il verde, nella sua espressione più prorompente, spettinata e incontaminata, a farla da padrone, costellato da una tale varietà di sentieri e percorsi da fare la gioia degli escursionisti di qualsiasi livello.
A collegare quest’ area molto estesa e, in proporzione, poco densamente popolata, un dedalo di strade piccole e tortuose dove attenersi rigorosamente a destra nella guida, per poter raggiungere piccoli borghi in pietra arroccati, ciascuno foriero di qualche perla, tra fortificazioni, torri, castelli, abbazie, monasteri, chiese...da cercare come in una caccia al tesoro.
La Via del sale
Una valle, la valle Staffora, naturalmente vocata al commercio (per via di quella sua posizione di confine con altre regioni) di cui gli occupanti che si sono succeduti, nel corso dei secoli, hanno avuto grande
consapevolezza. Nel Medioevo, in particolare, il marchesato Malaspina, che tanto ha inciso su questo territorio, ha provveduto a edificare nuclei fortificati e castelli diffusi nella zona per avere l’egemonia del transito nella valle, percorsa da un’importante Via del sale. Immaginiamo carovane di muli carichi di sacchi di sale che trasportavano dalle località marine (Genova) alla pianura padana (Pavia e Milano, in particolare) questo elemento così utile per conservare i cibi, produrre formaggio e conciare le pelli. Un percorso che si snodava sulle creste dei monti per potersi orientare meglio e arrivare prima evitando guadi, che oggi si ripropone come una sorta di riscoperta e traccia di tutti coloro che, in tempi diversi, sono transitati di lì: oltre ai mulattieri an-
che partigiani, pellegrini o briganti. Non è infatti difficile imbattersi in antichi manufatti, ruderi, stazioni di posta che ora sono rifugi per chi transita, laddove la natura la fa comunque da padrona.
Un’escursione, meglio, un cammino che, dicevo, va organizzato - ci sono guide abilitate che la ripropongono periodicamente - dal momento che può durare anche quattro giorni (60 Km di percorso) e necessita di pernottamenti in rifugi o alberghi lungo il percorso. La partenza è da Varzi per arrivare nelle località marine liguri come Recco e Portofino.
Non meno interessante la via dei Malaspina, un percorso alternativo alla via Francigena che, in 90 km, collega Pavia con Bobbio passando dalla Valle Staffora.
Varzi, base di partenza
Qualunque sia l’intenzione di chi arriva in Valle Staffora per esplorarla, che sia a livello escursionistico o di visita turistica, il mio consiglio è di tenere base a Varzi, borgo più strutturato rispetto agli altri, dove si è certi di trovare risposta perlomeno alle necessità di base. Se invece le esigenze sono più essenziali si può optare anche per altre soluzioni più decentrate ma d’atmosfera, come l’affitto di stanze nel cuore di un intimissimo borgo o qualche hotel e, più facilmente, b&b disseminati nel territorio, magari completamente immersi nel verde. L’autunno ormai alle porte mette certamente in risalto questo territorio, che consiglio di visitare nei fine settimana in particolare, quando c’è garanzia di apertura di più attività.
Fare base a Varzi è anche l’occasione per visitare il borgo, che cattura al primo colpo d’occhio per i suoi campanili e le torri e, addentrandosi, stupisce per la particolare architettura di portici a ordini sovrapposti, ben cinque file di bassi portici medioevali, su cui sbucano storiche cantine dalle pareti in pietra, perfette per la stagionatura del prodotto d’eccellenza della tradizione varzese, il salame Varzi DOP.
A Varzi al momento non esiste un Ufficio turistico, ma una svettante nuova pensilina con la dicitura “Info Point” nella piazza della Fiera fa sperare che non si tarderà molto a provvedere. Nel frattempo c’è una vivace associazione culturale, Varzi Viva, nata nel 1994 per promuovere eventi, itinerari di visita e incontri d’arte, convegni e pubblicazioni sul territorio, che si presta a fornire qualche
Uno scorcio di Varzi
dritta. Ma pure una piccola sosta, salendo nel cuore del borgo, presso le Ghiottonerie di Ale, per degustare un cannoncino alla crema può essere foriera di una piacevole chiacchierata ricca di buonissimi spunti. Per me è stata molto utile.
Se si è fortunati si riesce a visitare il Castello Malaspina (proprietà privata) e, se si è dell’idea, ci sono almeno quattro chiese che attendono di essere scoperte.
La chiesetta che svetta sul cucuzzolo della montagna
Stabilito quindi un punto fermo, ciò che è più avvincente è partire alla scoperta di un buon distillato del resto. Faccio tesoro di una delle informazioni raccolte: “Vai a visitare il piccolo borgo di Cegni, c’è una bella tradizione legata alla musica da scoprire, sareb-
be interessante che parlassi con il musicista Stefano Valla. E poi lo sai che lì festeggiano due carnevali all’anno?” mi suggeriscono. Tempo di recuperare l’auto e già mi trovo ad affrontare i tornanti che separano Varzi da Cegni, a 13 km di distanza, mentre ai miei occhi si apre uno scenario decisamente montano. Tutto intorno vette rivestite da vaste pinete di un verde intenso, su una delle quali spicca una chiesetta. Chissà di che veduta si gode da quel punto, mi dico. Scoprirò poi che si tratta del comune di Santa Margherita di Staffora, che vanta pure l’ultimo mulino conservato della vallata, il mulino Pellegro, e la testimonianza di un’antica produzione di mattoni, la fornace romana di Massinigo e i ruderi di uno dei castelli fatti ergere dai Malaspina.
I particolari portici di Varzi
Cegni, tra pifferai, balli di tradizione e ben due carnevali
Giunta a Cegni, che è frazione di Santa Margherita di Staffora, percepisco di entrare in una dimensione in formato mignon, viva ed estremamente curata, con le case di pietra a vista, i fiori sui balconi, l’ordine diffuso.
Giusto qualche passo e incrocio un uomo a cui chiedo di Stefano Valla: “Sono io!” mi risponde. Sarà stato destino che ci incontrassimo! Mi accompagna nel cuore di Cegni: intorno a un piccolo cortile in sassi si affacciano l’unica bottega di alimentari e frutta e verdura, denominata Commestibili, e il Bar Ca’ del Jack, fulcro della vita sociale, che nei fine settimana o su prenotazione funge anche da osteria.
Ci accomodiamo per un caffè sotto il porticato esterno, dove con un occhio al continuo via vai dei clienti dalla bottega e un
orecchio, anzi due, sul mio interlocutore, tutto da conoscere, e attraverso di lui quel luogo:
“ Che bel movimento di persone! - esclamo. “Siamo ancora nella fase estiva, seppur avanzata, e d’estate qui il richiamo è forte - commenta Stefano Valla -. Ci sono i ritorni, gente di qua che è andata via ma ha conservato la casa, e non mancano neppure i turisti. In questo periodo si contano anche 300 persone, di contro all’inverno quando restano meno di 40 residenti, che amano profondamente questo luogo e hanno cura di portare ciascuno il proprio contributo perché si possa viverci bene. Basti pensare alla famiglia Zanocco che qui ha impiantato una falegnameria dall’ ‘800, oggi ancora attiva (quarta generazione), e ha aperto Commestibili e il bar/osteria Ca' del Jack. L’altro ramo della famiglia gestisce una bottega di oggetti di artigianato. C’è
Il borgo di Cegni
pure una cooperativa agricola, un fabbro, un agriturismo sotto il paese, un’associazione Oriundi Club Cegni e una sala delle feste di oltre 500 mq con cucina”.
E poi c’è il mio interlocutore, Stefano Valla, e il movimento che, partendo da Cegni, si sta adoperando a tenere vivo intorno alla musica e cultura di tradizione orale di questa area montana che, come vedremo, accomuna ben quattro province (PV, AL,GE, PC) con un repertorio di musiche e balli antichi, dove lo strumento principe è il piffero appenninico, di cui Stefano è fedele interprete. Lo accompagna la fisarmonica di Daniele Scurati.
“Sono stato – ci racconta Stefano Valla - allievo di Ernesto Sala, uno dei pifferai più importanti del secolo - dentro questa cultura, l’ho respirata nella mia famiglia, ho fatto e continuo a fare tanta ricerca. La mia funzione è in continuità con i suonatori del pas-
sato, detentori di ruolo sociale importante, che oggi - seppur modificato - sussiste. Allora la musica scandiva le occasioni di socialità della comunità, oggi si mantiene la funzione delle feste. Il nostro repertorio, mio e di Scarati, che duetta con me con la fisarmonica, spazia dal rituale (matrimoni, carnevale...) alle danze (di gruppo o in coppia) al canto (polifonico- a più voci- o solistico).
La musica, filo conduttore del territorio “Quattro province”
In passato i suonatori andavano ovunque li chiamassero, anche nelle province limitrofe. Per cui quelle tradizioni si sono diffuse oltre i confini, nelle altre province. Giusto verso la fine degli anni ’70 sudi etnologici e musicali hanno rilevato un comune filo conduttore nelle tradizioni musicali delle quattro province. Da lì è stato coniato il toponimo Quattro Province per indicare
Stefano Valla
Il panorama da Passo Penice
Il castello di Oramala
Abazzia S. Angelo di Butrio
un territorio culturalmente omogeneo. In realtà il gioco da quel momento ha consistito nel trovare altri minimi comun denominatori sotto quel cappello...
Rispetto ai suonatori del passato Stefano è chiamato a portare queste tradizioni in Europa, anche nei teatri, che è una dimensione diversa rispetto all’originaria. Tuttavia la sua predilezione rimane quella di segnare le feste a Cegni e dintorni, tenendo vive le tradizioni nei luoghi di origine. Anzi per questo si batte proprio, consapevole, e gli diamo ragione, che è qui che va rinsaldata l’identità di un’intera valle, la Valle Staffora.
Il Carnevale bianco
Ha un primato Cegni, quello di festeggiare due carnevali: il tradizionale e quello estivo, il Carnevale bianco
Tutto è nato una cinquantina di anni fa nel rilevare che il martedì grasso aveva perso ragione d’essere perpetrato, vuoi per il calo demografico in quella già piccola frazione, vuoi per la cadenza infrasettimanale che vedeva quei pochi impegnati al lavoro.
Si è così pensato di portarlo ad agosto, periodo di rimpatriate e di villeggiatura, precisamente il 16 agosto, all’indomani della festa del paese. Scelta che è stata premiata a tal punto da esercitare, oggi, motivo di ulteriore richiamo di turisti, anche stranieri, per l’occasione. E pure ha ripreso vigore il carnevale tradizionale. In entrambe le occasioni è usanza fare il giro delle aie del borgo, dove vengono offerti frittelle e dolci caserecci, accompagnati dai suonatori, tra musica e danze di gruppo, a coppie o a quattro, che coinvolgono i giovani e appassionano i turisti. E poi la rievocazione storica della vicenda della pòvradòna, la povera donna obbligata a sposare l’uomo che non ama.
Ceregate, il paese abbandonato che rinasce due volte l’anno
Intanto che si è a Cegni bisogna sapere di Ceregate, il paese completamente disabitato dal 1986, quando Carlo, l’ultimo suo abitante, è venuto a mancare. Lo si raggiunge soltanto a piedi, da Cegni appunto, in un’ora di camminata. Un luogo in cui le case semidiroccate parlano di una storia recente vissuta ai minimi termini e dove una chiesetta, assolutamente ben conservata, dice dell’oggi e della cura che gli abitanti del vicino sobborgo le riservano, come se fosse l’ultimo baluardo di un luogo che non si vuole lasciare morire. Due volte l’anno infatti, il lunedì di Pasqua e l’8 settembre, Ceregate torna a vivere: abitanti e villeggianti di Cegni sono soliti trasferirsi lì per la messa, raccogliere proventi tramite un’asta di prodotti alimentari per la salute della chiesetta e fare un pic nic tutti insieme in quella splendida nicchia di verde.
Il percorso del silenzio: tra il castello di Oramale e l’abbazia di S.Alberto
di Butrio
Tornando a base, quindi a Varzi, sono pronta all’indomani per affrontare un nuovo percorso, completamente diverso. Potrei definirlo del silenzio, dal momento che non incontrerò così facilmente persone con cui interloquire. Non a caso la mia destinazione sarà un eremo, che mi hanno insegnato essere - per definizione - luogo di straordinaria bellezza e pace.
Da uno strettissimo vicolo in quel di Varzi, che a dire il vero non mi è semplicissimo da individuare, mi porto velocemente in quota fra stradine strette, tornanti e verde incontaminato, che sono la cifra stilistica di questo territorio, finché non vedo sbucare fra le fronde la torre del castello di Oramala che, ahimè, non posso che osservare di passaggio, non essendo possibile l’accesso. Proseguo su su finché non arrivo a Ponte Nizza,
dove fra i fitti boschi di castagno si apre una spianata che ospita l’Eremo di S.Alberto di Butrio, un luogo appartato e protetto, come lo ha voluto il suo fondatore S.Alberto. Prima eremo, poi importante centro spirituale che ha subito la soppressione napoleonica fino alla nuova vita, nel ‘900, grazie a don Orione che qui ha introdotto gli Eremitani della Provvidenza. Il silenzio rarefatto, l’estremo ordine interno ed esterno degli ambienti, affreschi trado quattrocenteschi rapiscono letteralmente. La vista di un frate nella bottega dei prodotti erboristici mi illude di poter avere uno scambio con un umano. Risposte essenziali alle mie domande mi faranno scoprire a posteriori il motivo: lì vige la regola del silenzio, perché in esso “ridestiamo noi stessi”, come era solito ripetere don Orione.
Nel grande piazzale dove si lascia l’auto c’è uno spazio con tavoli e panche in cui, volendo, si può rimanere anche tutto il giorno. Il messaggio per tutti è che, indipendentemente dalla fede, quello è un luogo di grande pace.
Le sorprese che riserva la vetta
Potrei proseguire oltre nel racconto, mi limito a descrivere l’emozione finale di svalicare passo Penice, passando per quella zona di Menconico che traghetta a Bobbio, nel piacentino, su quella strada finalmente larga, dolce, dove le curve non sembrano curve e il piacere di guidare è tale che andrei avanti ad oltranza. Giunta al passo devio per la vetta, dove mi aspetta un panorama immenso e sconfinato sulla pianura padana, un santuario e un piccolo bar sottostante con vista. Qui conosco il barista di turno quel giorno, Matteo, un giovane regista milanese che dopo il Covid ha cambiato vita. Da porta Romana si è infatti trasferito in un paesino di 47 abitanti, lì in zona, dove ha segnato un +4 con la sua famiglia (ha due bimbi piccoli) e si sta dedicando a un sac-
co di belle iniziative. Tutto questo, che non è poco, fuori dal mondo completamente: a 1460 metri d’altezza!
Dove dormire
LA QUINTESSENZA DEL BORGO
Via della Piazzola, 3
27057 Varzi (PV)
Tel. 340 184 5653
Un B&B confortevole e curato nel cuore della Varzi storica, per vivere l’atmosfera del luogo
LOCANDA LE CICALE
Piazza della Fiera, 1 27057 Varzi (PV)
Tel. 0383 53050
www.locandalecicale.it
Per chi cerca la comodità di alloggiare nella piazza principale di Varzi, potendo pranzare o cenare nella stessa struttura.
HOTEL RISTORANTE LA PERNICE ROSSA
Località Roncassi, 20 27050 Menconico (PV)
Tel. 0383 541973
www.lapernicerossa.it
Per chi vuole fare un’esperienza di completa immersione nel verde e nella pace, fuori da tutto ma non così lontano dagli altri borghi, la possibilità di pernottare in hotel oppure in uno dei quattro chalet di cui la struttura dispone, con il conforto del ristorante annesso.
Dove mangiare
RISTORANTE PRIMULA BIANCA
Frazione Castellaro, 30
27057 Castellaro (PV)
Tel. 0383 52160
Un’intera famiglia che sa accogliere proponendo stuzzicanti piatti rivisitati anche con abbinamenti particolari.
RISTORANTE STAFFORA
Frazione Casanova Destra, 29
27050 Santa Margherita di Staffora (PV)
Tel. 348 710 9133
www.albergostaffora.com
Aperto solo il sabato e la domenica a pranzo fino a primavera. Propone un menù di degustazione ricchissimo dove è la genuinità dei piatti, come di casa, che conquista.
Dove comprare
SALUMIFICIO DEDOMENICI
Frazione Casanova Destra,8
27050 Santa Margherita di Staffora (PV)
Tel. : 0383 551341
www.salumidedomenici.com
Angelo Dedomenici è un pluripremiato produttore di Salame Varzi DOP di qualità. Negli anni non ha mancato di inventare altri salumi, tra cui la Bondiola, il Salame rosa, il Filetto delicato ma anche il salame senza salnitro. Vale la pena fargli visita per scoprire queste specialità e visitare il Museo del salumiere, da lui ideato.
LE GHIOTTONERIE DI ALE
via della Piazzola, 7/5
27057 Varzi (PV)
Tel. 338 320 2414
Un cuoco, Alessandro Degli Alberti, applicato alla pasticceria sulle orme del padre, che segnalo per ottime sfoglie, dolci e salate, e una buona torta di mandorle (di cui le campagne un tempo erano ricche).
Il Grande Fiume e il suo capitano
Giuliano Landini, la motonave Stradivari, un sogno diventato realtà
Autore: Luigi Franchi
Questa è la storia di un uomo, eroe moderno, che ha scommesso su un progetto affascinante: quello del turismo fluviale.
Le condizioni c’erano tutte, ai tempi di questa decisione 22 anni fa, ci sono ancora adesso se, accanto a lui, si muovessero le istituzioni preposte.
Ci sono ancora perché c’è il Grande Fiume, il Po, il più lungo d’Italia, uno dei più importanti d’Europa; c’è una motonave elegante e bellissima, la Stradivari, di cui parleremo tra poco; c’è lui, Giuliano Landini, il capitano, un profondo conoscitore del Grande Fiume, delle città d’arte che sul Po si affacciano (Cremona, Mantova, Ferrara) e dei piccoli borghi che ne costellano le sponde in tredici province e quattro regioni.
Serve solo crederci!
Il Grande Fiume
Lo abbiamo imparato a scuola quanto è lungo il Po, 652 chilometri, nasce sul Monviso e sfocia, con il suo straordinario Delta, nel Mar Adriatico, toccando 183 comuni rivieraschi. Le sue piene, nel corso dei secoli, hanno devastato i territori limitrofi, ma ora questo è il fiume che, anche con i cambiamenti climatici, fa probabilmente minori danni rispetto ai torrenti che vi sfociano.
Sono in atto alcuni interventi come la rinaturazione dell’area fluviale per favorire i processi naturali e il recupero della biodiversità, finanziati con il PNRR.
Ma cosa si prova viaggiando al centro del Grande Fiume lo si può scoprire solo grazie all’amore che Giuliano Landini prova verso questa massa d’acqua e le terre che la contornano.
Chi è Giuliano Landini
Ora è il capitano della motonave Stradivari, prima di questo è stato il più grande campione italiano di motonautica, vincendo tra gli anni ’80 e ’90 un numero infinito di campionati europei e internazionali. Da Boretto, sua città natale, quella stessa dove fu girata la saga di Peppone e Don Camillo tratta dai romanzi di Giovanni Guareschi, Giuliano Landini, seguendo le orme di suo padre Giuseppe e suo zio Remo, a loro volta campioni di motonautica, è andato a gareggiare in Europa, negli Stati Uniti, in Cina, vivendo situazioni straordinarie, rischiando la vita sui motoscafi a 200 all’ora, diventando un mito per la pazzia con la quale affrontava ogni gara. Di questa parte della sua vita racconta benissimo la scrittrice Rita Co-
ruzzi nel libro Giuliano Landini, un uomo, il Po, una vita.
A noi interessa il suo rapporto con il Grande Fiume, quello che lui dice sempre: “C’è il Po in Italia”.
Una frase che può apparire banale ma che, invece, rimanda a un pensiero che dovremmo fare più spesso tutti. C’è la più grande arteria di viaggio che si possa immaginare nell’area più antropizzata e industrializzata del Paese, e nessuno se ne rende conto. Il capitano Lando (per gli amici) sta conducendo, da solo, una battaglia per non lasciar morire tutto quello che il Grande Fiume può fare per l’Italia, sia dal punto di vista turistico che da quello produttivo, sia per la formazione che per l’ambiente e la biodiversità.
Lo fa per amore verso questo fiume. Lo fa perché ci crede e lo racconta agli ospiti della sua motonave. Diventa bambino tra i bambini quando a bordo salgono le scolaresche
per navigare sul Grande Fiume. Quella è la parte più bella del suo lavoro, mi confida. Raccontare loro ogni più piccolo dettaglio del fiume, delle sue sponde, delle lanche, della flora e della fauna, delle città d’arte e della loro storia lo fa sentire utile. E i bambini lo ripagano con i disegni del fiume che comprendono sempre anche il capitano. Ma cosa si prova navigando piano al centro del Grande Fiume?
La motonave Stradivari
Silenzio, si prova un silenzio che sembra impossibile, che è inaudito se pensiamo che stiamo attraversando terre dove vivono 17 milioni di persone e più di 60 milioni di animali (questi sono i numeri di questi territori bagnati dal Po).
Un silenzio rotto solo dal leggero sciabordio della Stradivari e intorno un paesaggio che non riesci neppure a immaginare dalle sponde: anatre tuffatrici, germani reali, ai-
roni cenerini ma anche il capanno, ricoperto dai rovi, dove il pittore Ligabue trascorse gran parte della sua vita.
Tutto questo grazie alla scelta che Giuliano Landini fece alla fine della sua carriera sportiva: l’acquisto della motonave Stradivari che gli costò tutto il denaro che aveva accumulato negli anni dei premi internazionali.
“Fu mio padre che mi spronò. – ricorda il capitano – Siamo nati sul fiume, mi disse, facciamo conoscere il suo ambiente, nessuno in fondo lo conosce meglio di noi, non credi? E mentre lo raccontiamo ai turisti raccontiamo anche di noi, quanto il grande fiume ha fatto per noi e quanto noi abbiamo realizzato grazie a lui”.
Il primo acquisto fu un taxi veneziano ma Giuliano aveva nel cuore quella meraviglia di motonave vista attraccata nel porto di Mantova.
Il nome già era un programma – Stradivari – varata a Cremona nel 1976, ancora oggi la più grande imbarcazione per acque interne esistente in Italia. Lunga 62 metri e larga 10 la motonave ha una capienza di 400 persone comodamente ospitate negli eleganti saloni interni e sul ponte sole/luna di c/a 400 mq.
L’acquisto avvenne insieme a un socio, l’im-
prenditore Pietro Bagnoli, e la Stradivari iniziò a fare brevi crociere sul Grande Fiume, arrivando fino a Venezia, con Giuliano diventato capitano, grazie al consiglio di sua madre Ginetta che gli suggerì di avere tutte le carte in regola.
“Erano gli anni in cui Slow Food aveva ideato il viaggio in bicicletta lungo le sponde del fiume, dal Piemonte a Venezia, sulle tracce del Viaggio nella Valle del Po che Mario Soldati fece nel 1954 e che divenne una trasmissione cult della RAI. – racconta Giuliano Landini – Ad esso seguì il progetto di ciclovia VenTo, basata sulle strade che corrono sugli argini maestri del Po, che forse, grazie al PNRR, diventerà realtà: la più lunga ciclovia d’Italia, 700 chilometri. Ma la verità è che, adesso, sono rimasto solo io a credere nel turismo fluviale sul Grande Fiume. E non ho intenzione di mollare, devo molto al Po e voglio ripagarlo facendolo conoscere a più persone possibili”.
Giuliano Landini, secondo la definizione di Moni Ovadia, “è il signore del fiume. Lo conosce in ogni anfratto e lo percorre in continuazione ospitando cultura, eventi, buon cibo, storie di viaggiatori e narratori e raccontando lui stesso il suo fiume”.
Andate a conoscerlo, lui e il Grande Fiume. Vivrete un’esperienza senza pari!
Il viaggio sul Po con la motonave Stradivari è, di per sé, un’esperienza unica: vedere il Po dal centro crea un’emozione che non si dimentica. In più la Stradivari ha una cucina d’eccezione, prova ne sono le crociere d’autunno dedicate proprio al gusto.
Basta farsi consigliare dal capitano per stare bene. MOTONAVE STRADIVARI
Cell. 335 5293930 www.motonavestradivari.it
Gli etruschi, come conoscere questa civiltà
Un viaggio tra sopra e sotto la terra per capirne le origini
Autore: Jacopo Franchi
“Non si possono più riconoscere i monumenti dell’epoca trascorsa, immensi spalti ha consunto il tempo vorace. Restano solo tracce fra crolli e rovine di muri, giacciono i tetti sepolti in vasti ruderi. Non indigniamoci che i corpi mortali si disgreghino: ecco che possono anche le città morire”
Con queste parole il celebre poeta e politico romano Rutilio Namaziano descriveva, nei primi decenni del V secolo dopo Cristo, i resti di quella che era stata un tempo una delle più popolose e ricche città etrusche, Populonia. Le altre città, purtroppo, non offrivano uno spettacolo migliore, saccheggiate e incendiate a più riprese dagli antichi romani e dai “barbari” e per lungo tempo lasciate in uno stato di completa rovina.
Da più di duemila anni la scoperta della civiltà etrusca è un’esperienza di rovine, disseminate in tutto il territorio che va pressappoco dalla Pianura Padana fino alla Campania. Com’era ai tempi di Namaziano, è rimasto ben poco di Felsina, Kainua, Velathri, Velch, Vatluna, Kaisra, Pupluna, Suthrinas, Curtun, le città etrusche sulle cui macerie sono sorte rispettivamente Bologna, Marzabotto, Volterra, Vulci, Vetulonia, Cerveteri, Populonia, Sutri, Cortona. Eppure, si tratta pur sempre di resti notevolissimi per quantità, qualità, ricchezza di storie e suggestioni che riescono ancora oggi a tramandare.
Il rischio, per chi vuole avvicinarsi alla cultura etrusca, è quello di scambiare una parte per il tutto, e di limitarsi a visitare un museo, una rovina, una necropoli isolata, senza cogliere l’unità d’insieme
che lega fra loro luoghi tanto lontani. Il consiglio è quindi quello di non limitarsi a una sola dimensione del viaggio – museale o “naturale” - bensì di organizzare un itinerario a più tappe che preveda tanto le visite ai musei quanto le escursioni all’aria aperta, all’esplorazione di quelle necropoli di cui l’Italia centrale è tuttora ricchissima.
Per conoscere la civiltà etrusca
Partiamo dai musei: sono i più facili da visitare, anche se per vederli davvero nella loro interezza potrebbero non bastare giornate intere. Sono per lo più musei nazionali (ogni città prima menzionata ne ha uno), e raccolgono per buona parte ciò che nei secoli passati è stato razziato dai resti delle città e dalle necropoli. Alcuni ospitano capolavori riconosciuti in tutto il mondo, come la Chimera di Arezzo e l’Arringatore nel Museo Archeologico di Firenze, l’Ombra della Sera e l’Urna degli Sposi del Museo Etrusco
Guarnacci di Volterra, il Sacrofago degli
Sposi e l’Apollo di Veio del Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma, la Tabula Cortonensis e il lampadario etrusco del Museo dell’Accademia Etrusca e della città di Cortona. Altri musei minori valgono comunque il costo del viaggio per la cura dei dettagli e le loro raccolte di reperti, spesso uniche, capaci di ricostruire nello spazio di pochi metri la vita di intere comunità locali nel corso dei secoli: da non perdere, in questo itinerario che potete già cominciare a costruire idealmente sulla mappa, il Museo Nazionale Etrusco Pompeo Aria di Marzabotto, il Museo Isidoro Falchi di Vetulonia, il Museo Civico Archeologico di Verucchio, il Museo della Civiltà Villanoviana di Villanova, il cui costo del biglietto è inversamente proporzionale al valore delle collezioni (da non perdere, in particolare, il “trono” in legno del museo di Verucchio).
I resti della cultura etrusca, tuttavia, non si limitano solo a ciò che è custodito nei musei e richiedono di compiere un piccolo sforzo
– oltre a un’attrezzatura adeguata - per effettuare brevi o lunghe escursioni nei boschi, tra le campagne e sugli Appennini, praticabili dalla maggior parte delle persone con i dovuti accorgimenti. Popolo di mercanti, di navigatori, di sacerdoti, gli etruschi non hanno mai perso il legame con la terra ed è proprio al di fuori delle città e delle strade in asfalto che si trovano le testimonianze più suggestive della loro epoca, ancora oggi custodite nel fitto della vegetazione o all’ombra delle montagne.
Sui territori etruschi È il caso, ad esempio, della colossale piramide scolpita nella roccia a Bomarzo (riscoperta dopo duemila anni da Salvatore Fosci insieme a un gruppo di archeologi locali), del tempietto di Demetra incastonato tra i massi nel cuore di una foresta nei pressi di Sutri, delle colossali rovine del gigantesco tempio dell’Ara Regina nelle campagne attorno a Tarquinia e delle necropoli disseminate nei boschi di tutto il centro Italia, scavate nella roccia o costruite innalzando giganteschi tumuli nella pianura.
Infine, le necropoli: incalcolabili per numero e tipologia, esse sono state a più riprese esplorate e ormai ben poco rimane al loro interno che non sia stato depredato o rinchiuso all’interno di qualche collezione pubblica o privata. Eppure, la semplice esperienza di scendere nelle profondità della terra per ritrovare nello spazio di pochi metri quadrati una vera e propria abitazione scolpita nella pietra è sufficiente per cogliere con lo sguardo secoli di riti, credenze e usanze etrusche volte alla vita nell’aldilà.
Dalle tombe dipinte con gli uccelli, gli animali, gli uomini e le donne nudi, danzanti, festosi di Tarquinia ai tumuli colossali di Cerveteri, dagli ipogei circolari scavati nelle campagne attorno a Volterra alle necropoli rupestri nascoste nel fitto della foresta di San Giuliano, un viaggio nelle terre degli
etruschi non può prescindere dalla visita alla loro casa per l’eternità, pur se questo comporta uscire dai sentieri e dalle comodità abituali per andare alla ricerca di luoghi che a volte sono a malapena menzionati sulle mappe.
Quello etrusco è un mondo costruito a metà tra la vita e la morte, e non è possibile comprenderlo appieno senza visitare il “sopra” e il “sotto” della terra, acquisendo la capacità di immergersi nell’oscurità delle tombe e risalire alla luce con la stessa naturalezza dei nostri avi. “Che la vita sia tanto più amabile quanto più teneramente custodisce dentro di sé la memoria di Ctonia, che sia possibile edificare una civiltà senza mai escludere la sfera sotterranea dei morti, che vi sia tra il presente e il passato e fra i viventi e i morti un’intensa comunità e una continuità ininterrotta: questo è il lascito che gli Etruschi hanno trasmesso all’umanità” afferma Giorgio Agamben nella prefazione del libro di D. H. Lawrence, Luoghi Etruschi, da poco ristampato da Neri Pozza e guida inseparabile per il viaggio. Eppure, ciò che si ottiene da un viaggio alla scoperta della cultura e della civiltà etrusca è tutto fuorché la sensazione di una civiltà morta e sepolta con le sue rovine. Dimenticata, ignorata dai più, ma nondimeno viva e pulsante fin nei più profondi recessi del nostro paese. Gli etruschi sono la porta d’accesso “italiana” alla cultura e della conoscenza greca, egizia, fenicia, e hanno lasciato un’influenza nella cultura romana e nelle successive che si è tramandata attraverso i secoli. Il loro rapporto con la natura, con la morte, con la ciclicità dei ritmi della vita, con l’imponderabilità del cosmo e dei suoi misteri, il loro approccio festoso nei confronti della vita ci riportano a una civiltà a noi lontana nel tempo, ma così vicina nello spazio e simile a noi per costumi e nelle apparenze da risultarci, alla fine, quasi familiare.
Cosa visitare
Museo della Civiltà Villanoviana, via Tosarelli 191, Villanova (BO)
Museo Civico Archeologico, via dell’Archiginnasio 2, Bologna
Museo Nazionale Etrusco Pompeo Aria, Via Porrettana Sud, 13, 40043 Marzabotto (BO)
Museo etrusco “Mario Guarnacci”, Via Don Giovanni Minzoni, 15, 56048 Volterra (PI)
Tomba della Pietrera, Str. Vicinale di Badia Vecchia - Casette, 58043 Castiglione della Pescaia (GR)
Tomba della Fibula d’oro, VXHW+G7 Castiglione della Pescaia (GR)
Città Etrusco-Romana di Vulci, 01014 Montalto di Castro (VT) con il Tumulo della Cuccumella, la Tomba François
Castello dell’Abbadia- Museo archeologico nazionale di Vulci, 01011 Canino (VT)
Ponte del Diavolo, 01011 Canino (VT)
Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia - Palazzo Vitelleschi, Piazza Cavour, 1a, 01016 Tarquinia (VT)
Necropoli dei Monterozzi di Tarquinia, Via Ripagretta, 01016 Tarquinia (VT)
Ara della Regina, Tarquinia (VT)
Museo archeologico nazionale Cerite, Piazza Santa Maria, 00052 Cerveteri (RM)
Necropoli della Banditaccia, Via della Necropoli, 43/45, 00052 Cerveteri (RM)
Necropoli del Laghetto, Cerveteri (RM)
Parco Naturale Regionale dell’Antichissima Città di Sutri, SS2, 01015 Sutri (VT)
Necropoli rupestre di San Giuliano - Barbarano Romano (VT)
Parco Regionale Marturanum, Località San Giuliano, 01010 Barbarano Romano (VT)
Tempio di Demetra, Vetralla, (VT)
Museo Nazionale Etrusco Rocca Albornoz, Piazza della Rocca, 21b, 01100 Viterbo
Piramide Etrusca di Bomarzo, 01038 Bomarzo (VT)
MAEC - Museo dell’Accademia Etrusca e della città di Cortona, Piazza Luca Signorelli, 9, 52044 Cortona (AR)
Melone secondo del Sodo, Frazione Pieve Vecchia, 52044 Cortona (AR)
Tanella di Pitagora, Località Cinque Vie, 52044 Cortona (AR)
Tanella Angori, Località Sodo, 52044 Cortona (AR)
Museo Civico Archeologico di Verucchio, Via Sant’Agostino, 14, 47826 Verucchio (RN)
Dove dormire
Dove mangiare
BEST WESTERN PLUS TOWER HOTEL
Viale Ilic Uljanov Lenin, 23
40138 Bologna
Tel. 051 6024111
www.towerhotelbologna.com
Il Best Western Plus Tower Hotel Bologna è strategicamente situato vicino all’autostrada A14 e alla E45 e a pochi minuti da Bologna Fiere e dall’Aeroporto Marconi di Bologna. Inoltre, è ben collegato anche al centro di Bologna e alla Stazione Centrale dei treni che dista 6 km.
HOTEL LA LOCANDA
Via Guarnacci, 24
56048 Volterra (PI)
Tel. 0588 81547
www.hotel-lalocanda.com
Dietro la facciata di un edificio del 14° secolo che fu un tempo monastero di suore, tra le viuzze della Contrada Sant’Agnolo, si cela questo hotel di design con stanze diverse
GRAND HOTEL BASTIANI
Piazza Gioberti, 64, 58100 Grosseto (GR)
Tel. 0564 332905
www.hotelbastiani.com
Il Grand Hotel Bastiani si trova a Grosseto, nel cuore della Maremma, ed è la destinazione ideale per chi vuole essere al centro della città senza rinunciare ad un’atmosfera di assoluta quiete. L’attenzione per i dettagli e la qualità dei servizi offerti negli anni lo hanno reso una delle realtà alberghiere più consolidate e significative del territorio.
OSTERIA DI SPERTICANO
Via Sperticano, 42 40043 Sperticano (BO)
Tel. 334 3846434
www.osteriadisperticano.art.blog Osteria collocata nel Parco del Monte Sole, a pochi chilometri da Marzabotto. Cucina semplice e buonissima. Il loro motto vale più di mille parole: “buon cibo, ottimi vini, tanta felicità. Amatevi, si vive una volta sola nella vita”.
IL TAGLIAPASTA
Via Renato Fucini, 12 58100 Grosseto
Tel. 392 6544754
Un tripudio di sapori, un posto che merita, cucina eccellente con materie prime ricercate. Ambiente elegante, personale cortese e oste eccezionale nel narrare il suo menù. Piatti incentrati sulla tradizione maremmana.
THERRA, OSTERIA E CARNE AL FUOCO
Via Vitelleschi, 9
01016 Tarquinia (VT)
Tel. 0766 032049
Posto in una piazzetta molto suggestiva di Tarquinia, questo ristorante presenta un menù tradizionale dell'area compresa fra Roma e la Tuscia, con particolare attenzione alla carne. Ingredienti di qualità, personale gentilissimo, ambiente confortevole e servizio veloce.
LA SFERA D'ORO
Piazza del Comune, 36 01015 Sutri (VT)
Tel. 0761 600030
Collocata nella piazza centrale del paese più antico della stessa Roma, la Sfera d’Oro soddisfa tutte le voglie di chi cerca una trattoria tipica, con personale gentile, un titolare di squisita simpatia e materie prime eccellenti.
SCARA E BEO
Vicolo Fierli, 7 52044 Cortona (AR)
Tel. 0575 958046
Ristorante vegetariano e vegano nel cuore di Cortona, locale nuovo e molto accogliente. I proprietari sono molto gentili e ti fanno sentire subito a casa. I piatti sono tutti belli da vedere e molto buoni al gusto.