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L’italiano non è la lingua migliore del mondo

Una riflessione su cos’è desiderabile

nella nostra ristorazione e su quali sono, invece, gli aspetti migliorabili

Per sessanta giorni non sono entrata in un ristorante italiano (in Italia). Cosa mi è mancato?

Partirei da qui per parlare di come ci si sente - o non ci si sente - nei ristoranti italiani oggi.

La prima nostalgia che si affaccia, a mio avviso, riguarda i sapori Con questo non diamo per scontato che in tutti i ristoranti italiani circolino sapori che generano desiderio di ritrovamento, anzi. Non tutti sanno stimolare a distanza quella sensazione atavica, quella voglia prorompente di voler percorrere migliaia di chilometri per rientrare a casa, recarsi in quel ristorante, e affondare la forchetta nel piatto preferito e goderne. Questo perché anche in Italia, oggi, capita di rimanere delusi dalla sostanza. Da alcune cucine escono piatti esteticamente perfetti, ammalianti, bilanciati a livello cromatico, ma che dietro non nascondono piacere, quindi sapore.

Da qui il primo invito a riflettere sulla “pancia” dei menù dei nostri ristoranti e il suggerimento di leggere, nelle pagine precedenti, cosa è emerso dalla conversazione con Paul Bartolotta. Un personaggio che, proprio sul sapore italiano (se così possiamo definirlo), ha molto da dire. Altre considerazioni a seguire.

Non sarà mica solo la pasta

Non attingo dai dati da un sondaggio ma ritengo piuttosto evidente che il cibo che dà più sintomi da astinenza sia la pasta. È una costante che ricorre sia quando si incontrano connazionali fuori confine sia quando si parla con qualcuno che non conosce ma vorrebbe conoscere la cucina italiana. Dalla secca alla pasta fresca, dallo spaghettino al raviolo con il ripieno di stagione: qualsiasi sia la forma e lo stile, trovare (o ritrovare) la pasta nel menu è una piacevolissima sensazione per molti.

Per gli italiani poi, ritrovare una cottura attenta e un condimento consono, senza abbondante panna come sovente capita all’estero, è gioia.

Convincersi che la pasta sia un diffuso e inamovibile oggetto del desiderio italiano, anche per gli stranieri che vengono in Italia, dovrebbe indurre quei ristoratori che l’hanno abolita dal proprio ristorante, e puntano a fare una cucina italiana, a ripensarci. Penso a un’intervista pubblicata su questo magazine mesi fa, a Claudio di Bernardo; il restaurant manager del Grand Hotel di Rimini affermava come le paste tradizionali italiane siano la voce del menu che tutti si aspettano di trovare in un ristorante italiano. Perché dunque depennare, in tronco, la pasta?

Sarebbe curioso indagare anche le differenze per regione italiana, capire quali siano gli altri piatti e prodotti più desiderati dagli italiani lontani da casa, o dagli stranieri che ci fanno vista.

Ci sono poi due elementi che, per nostra sbagliata abitudine, diamo per scontati in un ristorante, e invece hanno un grande impatto sull’immaginario della cucina italiana e del ristorante italiano

Mi riferisco a un buon olio extra vergine di oliva, che sia ingrediente nel piatto o servito a parte, e il pane.

Partendo dal primo: è folle che alcuni ristoratori italiani reputino l’olio extra vergine di oliva, anche quello riposto sopra al tavolo, come un elemento accessorio. No, è un valore aggiunto e come tale deve essere scelto e proposto, come ben ci racconta ogni mese Luigi Caricato nella rubrica che trovate nelle prime pagine della rivista. L’olio diventa esperienza gastronomica e si dà l’occasione di far conoscere le produzioni del nostro Paese.

In quanto al pane, vi pongo una domanda. Qual è il modo migliore per identificare il ristorante italiano attraverso il pane? È allestire un cestino con una moltitudine di pani colorati, con spezie come curcuma e curry, o potrebbe essere più pragmatico servire un pane ben fatto, digeribile, leggero, croccante, profumato, da mettere al centro o da tagliare con cura davanti al cliente?

Chi viene in Italia per provare la cucina italiana sarebbe disposto a pagarlo, quel pane, pur di trovare identità e un prodotto sensibilmente diverso dal pane industriale nel sacchetto di plastica.

Il servizio

Ora, invece, parliamo di servizio. In due mesi di lontananza dalla ristorazione italiana ho personalmente avvertito delle mancanze, ma ho pure incontrato delle consuetudini straniere molto gradite. Una delle abitudini che, per esempio, sussistono in America è presentarsi appena il cliente prende posto al tavolo.

“Piacere sono Marco… Giovanni, Giulia, Francesca” cambia di molto la percezione iniziale.

Ci si sente nelle mani di qualcuno di cui oltre a conoscere il volto si conosce il nome. Quella persona da lì alla fine del pasto diventa riferimento, dialogo, intrattenimento.

Qui, in Italia, seppur spesso si dia molta confidenza all’ospite, è piuttosto raro.

L’altro elemento estremamente interessante riguarda le accortezze al momento del servizio al tavolo. Nei ristoranti e nei locali italiani spesso mentre vengono conse- gnati i piatti o le bevande si assiste ad uno sgradevole sbracciamento, con tanto di contorsioni, per capire quale dei commensali abbia ordinato cosa. Fanno eccezione a questo bieco costume (in genere) i ristoranti gastronomici, in cui le attenzioni durante la raccolta dell’ordine sono più spiccate. Le strategie per ricordare chi ha ordinato un piatto e chi ha ordinato l’altro, o chi ha ordinato un vino e chi ha ordinato l’altro, senza doverlo chiedere al cliente pochi minuti dopo, sono le più varie ma sono tutte estremamente percorribili anche nei nostri ristoranti. Se in generale frequentando alcune insegne americane ho incontrato una maggiore organizzazione, posso affermare che il savoir faire della sala italiana può davvero fare la differenza in termini di accoglienza. Non parlo solo di movenze e personalizzazione del servizio. Parlo di suggerimenti disinteressati sul vino o sul piatto da scegliere, di consigli sugli abbinamenti, sulla sequenza dei piatti per apprezzare appieno il menu senza accavallare i sapori. E ancora, le informazioni essenziali ma fondamentali sui produttori che mettono la firma sulle materie prime. In altre parole sono la nostra cultura e la conoscenza del gusto possono fare la differenza.

L’ambiente

Potremmo stare a discutere per ore sulla direzione che stanno prendendo architettura e design nella ristorazione. Di quanto lo stile nordico e industriale siano entrati nei nostri locali negli ultimi anni. Potremmo parlare di quanto alcune sale dei ristoranti gourmet abbiano indossato un abito freddo, poco accogliente, anche anonimo, omologato a indirizzi con lo stesso profilo e la stessa tipologia di clientela.

Ma c’è una parola che vale la pena mettere al centro quando si parla di ambiente e atmosfera nei ristoranti italiani. È un termine abusato e di cui si apprende di rado il significato: autentico.

Arredare un locale in modo genuino, allestire la sala con trovate originali, non necessariamente eccentriche, cre- are insomma un’atmosfera vera, per noi italiani non è difficile. Il problema è quando incappiamo in oggetti scialbi, plastiche malconce, carte dei vini disordinate, tavoli preparati come si faceva negli anni ’90, senza che la scelta sia intenzionale: lì si vede l’Italia seduta su se stessa, che non si prende cura.

Non è dappertutto così, chiaramente. I locali che hanno cambiato il passo, nell’aspetto e nel servizio, ci sono e incontreranno sempre più l’interesse del pubblico italiano e straniero.

Ho in mente un luogo mentre scrivo. È in un centro storico di montagna, nascosto dietro un arco incorniciato da una pianta. C’è un portone in legno, una botte che sorregge un vaso di fiori e, subito dietro, il menù. L’ingresso del ristorante Boivin di Levico è di quelli che mette curiosità e fa venire il felice sospetto che lì ci sia un posto autentico. Quando si entra… solo conferme. Le sale ricordano una cantina che oggi non c’è più, con i muri spessi che mantengono una temperatura gradevolissima. L’ambiente è caldo, sincero; i suoni, delicati e di sottofondo, fanno venire voglia di sedersi a tavola e stare bene. Nessuno tra il personale pecca in gentilezza; i tavoli sono minimali ma curati, e così i piatti. In sala, per pura curiosità, mi sono guardata attorno e ho aguzzato le orecchie: si parlava italiano, inglese e tedesco.

La magia che si è creata attorno alla cucina italiana nei decenni scorsi ci si sta ritorcendo contro. Se pensiamo che l’Italia, “solo” per le sue doti - di biodiversità agronomica, di trasformazione gastronomica, e via dicendo - possa rimanere un punto di riferimento nel mondo sbagliamo. Alcuni ristoranti stanno lavorando male, davvero male. Stanno rendendo il nostro modo di vivere, intendere e raccontare il cibo incomprensibile, non riconoscibile. Forse dobbiamo ritrovare la nostra lingua e iniziare a parlare quella degli altri. Senza dimenticarci di prendere spunto dalle grammatiche migliori della nostra.

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