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Parlare di cibo
Ancora… consigliamo agli chef le materie prime più adatte al loro menu, cercando soluzioni che evitino spreco, informando che, ad esempio, un pesce surgelato non lo si sceglie in base al prezzo ma in base alla provenienza e all’indice di glassatura (quanta acqua in % si utilizza per conservare il prodotto) che rappresenta un peso nella confezione, peso che lo chef paga come se fosse pesce anziché liquido.
Ci preoccupiamo di non avere prodotti scaduti nei nostri magazzini facendo acquisti e stoccaggi oculati, per non sprecare e per non gettare via soldi.
Vogliamo, infine, che i nostri agenti di vendita conoscano molto bene il settore, le problematiche, trasferiscano il food-cost di un prodotto allo chef e al ristoratore.
In questo modo facciamo cultura del cibo, senza affidarci ai vuoti che occupano le notizie sui media come quelle appena descritte all’inizio di questo articolo.
Il mondo del cibo è sulla bocca di tutti noi almeno una volta al giorno. Tutti parliamo di cibo ma in molti non sanno neppure cos’è. Cambiare la narrazione diventa un compito morale!
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“Tutti aiutano tutti e ognuno sa fare il lavoro degli altri”. Parole pubblicate su Repubblica, in una bella descrizione del caseificio Gennari, produttori di Parmigiano Reggiano dal 1953.
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Ci ha incuriosito quella frase che sa di emilianità, di una regione dove la solidarietà tra le persone resta ancora un valore, e allora siamo venuti a vedere con i nostri occhi, a Collecchio, in provincia di Parma, per raccontare come si vive a contatto diretto con una produzione che occupa ogni giorno dell’anno, Natale compreso. Lo facciamo con Paolo Gennari, terza generazione di questa famiglia di produttori.
Cominciamo dalla storia visto che questo è il settantesimo anno di attività del caseificio, 25.517 giorni ininterrotti di produzione…
“La storia della nostra azienda ha molto a che fare con l’amore. Mio papà e mia mamma, Sergio e Maria, si sono sposati il 31 dicembre 1952 e il loro viaggio di nozze è stato andare nel piccolissimo caseificio che avevano preso in affitto alla Corte dei Paveri, a Collecchio. All’alba del primo dell’anno 1953 erano a preparare la cagliata per le tre forme che producevano giornalmente. Vent’anni dopo, nel 1974, le forme erano diventate 12 al giorno, ma per arrivare lì i sacrifici che hanno fatto sono inimmaginabili se raccontati oggi. La mamma, da piccolo, mi raccontava che per fare gas al camioncino mio papà doveva riuscire a vendere tutte le uova che le galline producevano nel loro orticello. La loro è stata davvero una scelta di vita, non avevano nessuna esperienza se non il fatto che mio padre, fin da adolescente, amava bazzicare per i caseifici, ammirava il miracolo che i casari compivano ogni giorno. Erano i tempi in cui se volevi fare l’aiuto-casaro ne avevi davanti una cinquantina prima di te per quel posto così ambito. Oggi è quasi un’illusione trovarne uno. Nel frattempo i miei fratelli Pietro e Tino e mia sorella Rosangela iniziano a lavorare in caseificio. Io ero ancora uno studente ma, nel 1988, mio papà viene a mancare e tocca a me prendere il suo posto. La vita ti sorprende sempre all’improvviso, magari stavo pensando ad altro, non lo so. Il mio arrivo combacia con una ristrutturazione del caseificio, per renderlo più adeguato ai tempi, siamo nei primi anni ‘90 e mi trovo a fare le mie prime forme. Nel 1997 passiamo da 24 a 40 forme giornaliere di Parmigiano Reggiano, per arrivare, nel 2014 ad allargare il caseificio portando, a 100 forme. Il resto è sotto ai tuoi occhi”:
Uno dei vostri punti di forza è il controllo dell’intera filiera, con l’allevamento delle vacche da latte, come funziona?
“Negli anni ’80 mio padre partecipa a una stalla sociale che poi noi abbiamo rilevato. Oggi abbiamo 1800 vacche che ci danno, ogni giorno, il latte per le nostre forme, oltre a quello che raccogliamo dai nostri conferenti storici nel raggio di 30 km e al latte per fare un Parmigiano Reggiano biologico. Il controllo della filiera e del latte è fondamentale per fare sempre un ottimo prodotto. Se, ad esempio, il latte dei conferitori in certi giorni non va bene lo paghiamo ugualmente ma non lo utilizziamo. Come funziona? È vero ciò che ha scritto Repubblica che tutti aiutano tutti in questa azienda ma qualche suddivisione di compiti è necessaria. Mio fratello Tino si occupa dell’azienda agricola che si sviluppa su 2.000 biolche di terra e dell’allevamento. Io mi occupo, con mio nipote Andrea, della produzione e del commerciale, l’altra mia nipote, Laura, dello spaccio aziendale che abbiamo trasformato negli anni in una vera e propria boutique gastronomica con prodotti di assoluta eccellenza. Tornando all’allevamento abbiamo le tre razze – Frisona, Bruna e Vacca rossa – che ci consentono di diversificare la produzione del Parmigiano Reggiano. Per questa impostazione aziendale di controllo dell’intera filiera siamo anche stati premiati dal Consorzio”.
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Cosa determina la qualità assoluta di un Parmigiano Reggiano?
“L’esperienza del casaro innanzitutto. Non ti puoi improvvisare. Partendo da una grande materia prima naturale, il latte, devi trattarlo in maniera corretta: la temperatura esterna, il tempo, cambiano le sue caratteristiche organolettiche, i fermenti ne risentono subito e il casaro deve adattarsi, cuocendo più lentamente per non far raggrumare la cagliata, ad esempio. Dietro a ogni forma c’è una grande artigianalità”.
Voi stagionate il Parmigiano Reggiano fino a 100 mesi. Questa è una tendenza che sta coinvolgendo anche altri caseifici. Ma le stagionature così spinte incontrano il mercato?
“La risposta è si, le persone sono attratte da queste stagionature così estreme, permette loro di giocare con gli abbinamenti e trovare sapori inusuali. Il nostro caseificio è stato il primo a proporre queste stagionature spinte. A fine secolo osservavo il mondo del vino che stava puntando moltissimo sui millesimati, noi abbiamo cominciato a puntare sulle riserve. Il primo anno mettemmo da parte 50 forme per farle arrivare a 36 mesi vendendole successivamente al prezzo di un 24 mesi. L’anno successivo le forme erano diventate 150, per portarle a 48 mesi. Poi a 60 e via di questo passo. Ovviamente non potevamo più venderle sotto costo. L’immobilizzazione di capitali rischiava di pesare troppo, questo è, del resto, il problema del Parmigiano Reggiano: i magazzini di stagionatura, con le loro scalere in legno di abete, sono delle autentiche architetture gastronomiche, bellissime da vedere per le persone che ci vengono a trovare, ma è altrettanto vero che si tratta di capitale fermo per lunghi anni. Ci vuole forza per fare questo lavoro, forza economica e forza spirituale perché ti assorbe ogni giorno della vita: quando è morto prima mio padre e poi, nel 2010, mio fratello Pietro ti lascio immaginare con quale stato d’animo quelle mattine io e mia madre abbiamo realizzato le forme. Torniamo alle stagionature estreme: il principale cliente per quel tipo di Parmigiano Reggiano è l’alta ristorazione. Peter Brunel, lo chef che ha il suo ristorante ad Arco (TN) realizza un risotto con il nostro Parmigiano Reggiano da 200 mesi che conferisce un sapore eccezionale”.
Praticamente avete lavorato sul brand Gennari: è una cosa atipica in questo settore. Invece voi avete puntato molto sui marchi, Oro Nero ne è un esempio…
“Esatto, è stata una scelta che continua ad essere il mood della nostra azienda. Oro Nero è nato da una sfida: eravamo in fiera a Tuttofood a Milano e un signore che fa banchettistica mi chiede un Parmigiano Reggiano da 10 chili. Gli rispondo che non si può fare perché il disciplinare non lo consente. Lui mi provoca dicendo che non lo so fare. Tornato a casa mi sono messo a pensarci e ho realizzato, con latte intero, una forma che ricorda come gusto un Parmigiano Reggiano di sei/sette mesi di stagionatura, ideale come aperitivo. L’ho ricoperto di nero, con un colore alimentare, e l’ho proposto sui mercati. Un successo immediato. Oggi stiamo lavorando ad altre idee che si basano sulla stagionalità, per incuriosire e stimolare gli chef; abbiamo registra- to due marchi antichi con i quali veniva ricordato il Parmigiano Reggiano: il Vernengo per richiamare le forme realizzate con latte invernale e il Maggengo, per le produzioni di primavera/estate”.
Hai parlato di ristorazione: è il vostro core-business principale? E il Parmigiano Reggiano come si deve comunicare al ristorante?
“Rispondo subito alla seconda domanda. È fondamentale far capire che il Parmigiano Reggiano è interamente senza conservanti. Oggi questa è la cosa che trasferisce più valore alle persone: mangiare un alimento completamente naturale. Poi è necessario che il Consorzio, nelle sue politiche promozionali, coinvolga sempre di più i ristoratori, magari con la realizzazione di una guida dei ristoranti che hanno il Parmigiano Reggiano in carta o poter mettere il marchio del prodotto sui menu. Per quanto riguarda il nostro caseificio il rapporto con gli chef è costante, da anni collaboriamo con i più grandi chef italiani, da loro e con loro nascono sempre idee e sollecitazioni. Noi serviamo i ristoranti Bulgari con Niko Romito, con Eataly siamo dovunque abbia aperto. Grazie al fatto che proprio tu avevi invitato Arrigo Cipriani in un evento ho potuto conoscerlo di persona e ora siamo in tutti i suoi ristoranti nel mondo. Questo è frutto non del lavoro di un’agenzia di comunicazione che non abbiamo ma dell’importanza delle relazioni, del metterci la faccia sempre. Di garantire che tutto quello che esce dal caseificio è fatto con competenza e passione. È anche in questo modo che è nata l’amicizia con Fabio Fazio e del nostro Parmigiano Reggiano nei dolci di Lavoratti, l’azienda di cui è socio”.
Avete rapporti diretti con il mondo della ristorazione o il ruolo del distributore è importante?
“Sono prevalentemente rapporti diretti. Con i distributori siamo disposti a ragionare se parliamo di qualità e di territorio prima che di prezzo”.
Qualche anno fa hai lanciato un’idea: Parmigiano Reggiano Experience. Poi è arrivato il Covid e immagino non abbiate più fatto nulla. Ma è ancora un progetto in essere?
“Si, facciamo funzionare questa experience a nostro modo perché non possiamo dedicarci ogni giorno a questo, ma il progetto funziona e, lavorando insieme un giorno intero, si creano rapporti duraturi. Come funziona? Ospitiamo un paio di persone dall’alba e, insieme, viviamo tutte le fasi produttive della preparazione della forma fino a quando viene tolta dalla fasciera e messa a riposare. Quella stessa forma diventerà di loro proprietà al termine della stagionatura”.
Oltre ai marchi di cui abbiamo parlato quali altri prodotti innovativi avete ideato in questi ultimi tempi?
“Sta avendo un grande successo il Tosone, ovvero la pasta del Parmigiano Reggiano quando non diventa DOP, un prodotto fresco che sta piacendo moltissimo. Poi i cubetti e le scaglie di Parmigiano Reggiano nella scatola rotonda, ideale nei minibar delle camere d’hotel, dove l’abbiamo messa ed è un ottimo veicolatore del brand Gennari”.
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L’ultima domanda: quale futuro può avere il Parmigiano Reggiano?
“Abbiamo una fortuna: realizziamo un prodotto che si mangia! Non è una scarpa o un abito che si può sostituire. Però dobbiamo avere una vision chiara: vendere in ogni parte del mondo, portare il bello e il buono ovunque, facendo ricerca per migliorare, diversificarsi gli uni dagli altri per dare ogni volta una sensazione e un’esperienza diversa. Solo così avremo davanti un futuro per questo formaggio straordinario”.