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Una giornata con Paul Bartolotta
Tra piani economici, progetti e la volontà di mantenere fede alla cucina e ai sapori italiani
Che effetto fa parlare della nostra cucina a 8000 chilometri dall’Italia, precisamente a Milwaukee, in Wisconsin, sfogliando un menu scritto in perfetto italiano, affacciati al lago Michigan?
Qualcuno avrà già capito da queste indicazioni chi è l’interlocutore, il protagonista di questo racconto: Paul Bartolotta. Paul è una delle figure di riferimento della nostra cucina all’estero tanto da detenere il titolo, conferitogli dal presidente della Repubblica, di autentico ambasciatore. L’effetto di questa conversazione è… sorpresa assoluta, per un punto d’osservazione diverso, ma consapevole, sulla nostra cucina.
Un seme piantato in famiglia
La storia di Paul è tracciata da un’iperbole crescente, che inizia ai tempi della scuola alberghiera e dei primi impieghi, da giovanissimo, come lavapiatti e aiuto cuoco. Anzi, volendo essere precisi, bisognerebbe fare un ulteriore passo indietro e spulciare nei cassetti di famiglia per trovare il vero seme di questa storia, messo a dimora negli anni ’60 in una casa italo-americana a Milwaukee.
Era in quei tempi che i Bartolotta si recavano nei mercati italiani locali per acquistare salumi, formaggi, pesce e altre eccellenze italiane. Nelle mura domestiche replicavano accuratamente le ricette inondando la casa, e la strada, di profumi invitantissimi.
Ci racconta Paul: “In famiglia, in particolare attraverso la figura di nostro padre Salvatore, si è sempre tenuto alla cultura di origine, al concetto di ospitalità, al cibo e all’educazione. A volte non è stato semplice gestire questa dicotomia culturale”.
Ci sarebbero tanti aneddoti da raccontare sulla sua infanzia, contraddistinta da sapori e consistenze diverse da quelle a cui erano abituati i conterranei americani. Piatti deliziosi sfilavano ogni giorno sul grande tavolo in legno attorno a cui si radunava la famiglia; oggi quel tavolo sosta all’ingresso dell’azienda Bar- tolotta’s Restaurants a fianco a decine di uffici che contengono campioni per le mise en place, tovagliati, menu, grafiche di eventi, grafici di andamento e deadline. Una realtà completa e complessa, che si presta a festeggiare il trentesimo compleanno.
“Il primo ristorante l’ho aperto con mio fratello Joe, purtroppo mancato nel 2019. Mio fratello è stato essenziale per la nascita dell’azienda, ma soprattutto lo era per noi. Assieme abbiamo aperto il primo Bartolotta, un vero e proprio ristorante italiano, tappezzato da foto di famiglia. Proponiamo menù regionali, studiati, ricercati, realizzati con la maggior parte delle materie prime provenienti dall’Italia. Il nostro obiettivo è essere fedeli al gusto d’origine”.
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Il sogno americano… fatto di concretezza
Paul è stato anzitutto cuoco, poi ristoratore, e oggi a tutti gli effetti un imprenditore su larga scala. La costellazione di attività che sottostanno a Bartolotta’s Restaurants è impressionante: 17 tra ristoranti e strutture di catering pluripremiati, tra cui Bacchus - A Bartolotta Restaurant, Bartolotta’s Lake Park Bistro e Harbour House. A cui si aggiungono numeri da capogiro, come gli oltre 600 dipendenti (erano quasi un migliaio prima del Covid) inseriti in un sistema organizzativo studiato al millimetro, con figure altamente professionali, specifiche per ogni comparto. Non mi riferisco solo all’ambiente ristorante, quindi al personale di cucina e sala: l’ossatura dell’azienda è composta anche da professionisti di grafica, marketing, business plan, allestimenti… ogni segmento è governato internamente in modo specifico, trasversale, e lavora allineato agli altri.
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“Ogni volta che si deve intervenire in un aspetto di un’attività ci sono internamente le risorse predisposte ad elaborare idee e progetti. Qui siamo soliti lavorare d’anticipo: non apriamo un locale e poi vediamo cosa ne sarà - come spesso accade in Italia - predisponiamo già tutto sulla base delle analisi, dei dati, delle risorse. Ti parlerò di cucina perché io parto da lì… e arrivo lì. Far mangiare bene le persone e accoglierle nel modo giusto è l’obiettivo in ogni mio ristorante. Ma c’è anche l’aspetto della sostenibilità economica, delle tempistiche, della coerenza. O si rispettano questi punti o non si può fare una ristorazione seria. E aggiungo che bisogna, per fare impresa nella ristorazione, conoscere le regole per non fallire, per esempio avendo il polso sul ritorno dell’investimento”.
Chiediamo a Paul se è possibile pensare di fare gli imprenditori della ristorazione partendo dalla casacca da chef.
“La ristorazione viene considerata rischiosa perché il fallimento è facile. La verità è che fare ristorazione non è un gioco, è un business. Molti chef nascono come artisti ma non hanno le basi per dare solidità economica a un’attività. Riprendo un concetto che mi ha trasferito mio padre: la vera libertà artistica nasce dalla libertà economica. L’arte, altrimenti non è sostenibile, perché non si ha la libertà di esprimersi”.
Un pensiero anacronistico in Italia, in cui tanti ancora sbandierano il lavoro fatto per passione, inadeguato sul piano retributivo e della gestione. La passione è il fulcro, in questo settore, ne siamo convinti, ma non è solo con questo talento che si può rendere vincente un progetto.
La teoria del gusto
“Non ha il sapore che avrebbe in Italia”. Quanti italiani che si recano all’estero pronunciano queste parole? Paul ha una risposta che dovrebbe far pensare anche a chi la cucina italiana la fa in Italia.
“Giovanni Marangelli è stato il mio mentore. Lui mi ha insegnato La teoria del gusto, in altre parole il bilanciamento degli ingredienti. Le colonne di questa teoria sono la temperatura e il tempo di cucina. Questi due fattori diversamente combinati si traducono in sapore.
Giovanni, il mio chef, quand’ero ragazzo mi ha messo al suo fianco per sei mesi senza cucinare nulla. Preparavo gli ingredienti, predisponevo tutto ma non toccavo padella (se non per lavarla!). Dovevo osservarlo e assaggiare i piatti una volta pronti. Un giorno, dopo appunto sei mesi, al momento del servizio è uscito nel retro della cucina senza presenziare ai fornelli. Mi disse che per lui ero pronto, che la gente in sala aspettava i miei piatti. Quando iniziai mi resi conto che avevo appreso tutto osservandolo e assaggiando. Grazie a Giovanni ho fatto mio il codice del sapore, cioè l’elemento più importante di tutti. Mi piace sottolinearlo perché oggi in molti piatti ci sono tecnica, elaborazione, presentazione… ma manca il sapore. Anche in alcuni ristoranti italiani è così. I piatti bellissimi ma senza odore e che non solleticano la pancia sono piatti freddi, non recano emozioni durature”. Le altre due grandi figure che hanno segnato la crescita professionale di Paul sono Gianluigi Morini e Valentino Marcatillii, i punti fermi al San Domenico New York ma soprattutto mentori di vita.
Gli chiedo, a questo punto, che direzione dovrebbe pren- dere la cucina italiana.
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“Il futuro per la cucina italiana dovrebbe essere adeguarsi ai cambiamenti, migliorare la tecnica ma senza perdere i profumi e i sapori di origine. Ti faccio un esempio pratico: in uno dei miei tanti viaggi in Italia ho incontrato, con stupore, la pasta ligure con patate e fagiolini. Poi, in Emilia, i tortelli con le patate. Abbiamo rielaborato questi due piatti proponendo ai nostri clienti un tortello di patate e porro, pesto, burro e un Parmigiano Reggiano. È un piatto ligure? Emiliano? Nessuno dei due, è un piatto italiano perché il suo sapore è italiano. È questo che mi auspico riesca a capire la cucina italiana: non bisogna imporre limiti, è importante definire la propria cucina - cioè affermarla come tradizionale, rivisitata, creativa - ma rimettere al centro il sapore e l’identità italiana”.
In un’intera giornata di racconti Paul non ha mai fatto riferimento ai tanti riconoscimenti ottenuti, né alla sua fama televisiva. Non ha parlato dei due premi James Beard, delle tre stelle dal New York Times ottenute con il San Domenico NY all’età di 24 anni, né delle più recenti apparizioni nei programmi di cucina. Invece, ha rievocato i lunghi viaggi in Italia (ben 15 esperienze in cucina, dalla Sicilia alle Alpi, che gli sono servite ad acquisire conoscenze su ricette e materie prime). Mi ha parlato a lungo del San Domenico, del rapporto con i grandi nomi della cucina francese come Bocuse, Vergé, Troisgros e Taillevent, di cui ha sempre ammirato l’organizzazione. Prima di tutte le parole che ho riportato e tradotto qui sopra però, mi ha introdotta alla sua vita mostrandomi uno scatto in bianco e nero, custodito nel suo ufficio. Vi erano ritratti Paracucchi, Gualtiero Marchesi, Gianni Morini, Romano Franceschini e molti altri grandi nomi della nostra storia di ristorazione… una foto che racconta come le cucine, e le relazioni che ne derivano, non solo possano generare sapori autentici, ma siano in grado di spostarsi nel tempo e per migliaia di chilometri.
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