Fotografia di progetto, tra didascalie e grafie

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Fotografia di progetto Tra didascalie e grafie






Indice Pagina

Introduzione

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FLAWLESS CAPTION

9-80

Fondamenti Iconografici

11-32

Elementi

Charles Traub Paul Graham

13-22 23-32

Fondamenti Spirituali

33-44

Elementi

Nanni Moretti

35-44

Materiali

45-56

Elementi

Didascalia Tessuti Maglieria Tintura Stampa Pantalone Camicia e Capospalla Impermeabile e T-shirt

45-46 47 48 49 50 51-52 53-54 55-56

Feria d’agosto

59-80

Elementi

Riferimenti e Trama Modelli

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Pagina

FOTOGRAFIA DI MODA

83-130

A cavallo tra gli anni settanta e ottanta Panoramica

85-87

Autori

89-111

Elementi

Guy Bourdin Helmut Newton Deborah Turberville Sarah Moon Aldo Fallai Paolo Roversi

Confronti

89-92 93-96 97-100 101-104 105-108 109-112 113-130

Elementi

Finzione e Corpo, Guy Bourdin e Helmut Newton Narrazione e Introspezione, Guy Bourdin e Deborah Turberville La visione italiana, Aldo Fallai e Paolo Roversi

A proposito del gioco

113-118 119-124 125-130 131-152

Elementi

Riferimenti e trama Modelli

131-132 133

Considerazioni finali

153-154

Bibliografia Filmografia e Sitografia

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Introduzione

La presente tesi “FOTOGRAFIA DI PROGETTO: TRA DIDASCALIE E GRAFIE” pone le proprie fondamenta nell’analisi del progetto di collezione Flawless Caption, svolto sotto la supervisione del docente Arthur Arbesser, e da esso si muove per approfondire un tema centrale nella ricerca: la fotografia. Se all’interno di Flawless Caption è preso in esame un tipo di fotografia con un’alta valenza estetica e cromatica, nell’approfondimento si è cercato di visionare ed analizzare la specifica fotografia di moda temporalmente parallela alla prima citata.

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Si è cercato di inquadrare e contestualizzare l’epoca nelle sue declinazioni differenti, inserendo gli autori cardine del periodo, facendo luce sui diversi stili, sulle poetiche personali e sulle tecniche utilizzate; necessariamente si sono fatti confronti, evidenziato le differenze e marcato le analogie, mantenendo un criterio di obiettività e fondatezza. Partendo da fotografi come Paul Graham e Charles Traub, si arriva a esaminare esponenti propri della fotografia di moda degli anni settanta e ottanta, come Aldo Fallai, Sarah Moon, Paolo Roversi, Deborah Turberville, Helmut Newton e Guy Bourdin; con l’obiettivo ulteriore di presentare uno studio fotografico dedicato alla materia studiata, che trae le proprie origini dalle atmosfere di Turberville e dalle componenti narrative di Bourdin e da esse si discosta per definire una propria estetica.


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Flawless Caption

Il progetto di collezione tenta di rispondere, in primo luogo, alla necessità di creare un percorso narrativo coerente, in grado di esplicitare un concetto supportato in ogni suo punto da fonti e ricerche e capace di reggere l’intenzionalità autoriale ed esporla senza che nessun suo elemento possa risultare vano o casuale. La fase di ricerca e collegamento tra le diverse fonti ispiranti diventa, dunque, centrale in Flawless Caption.

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Il tentativo di dare un senso giustificato, perlomeno a livello teoretico, corre a pari passo col riuscire a dare forma alle proprie idee, passando ad un piano prettamente materico. Con questo non si debba credere che gli elementi fondanti siano così riconoscibili e apertamente rintracciabili sui capi, a progetto finito. La volontà primaria era più quella di lasciare una scia, di far intravedere qualcosa di tutto ciò che sta sotto alla superficie, senza appesantire l’immagine percepita, senza riempirla oltremodo. Questo tentativo risponde alla convinzione che il messaggio che si comunica, nel nostro come in altri mestieri, debba essere assolutamente intuitivo e semplice; cosa che nulla ha a che fare con l’essere elementare.


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Fondamenti Iconografici

Flawless Caption prende vita dall’intersezione di due diverse tipologie di fotografia di inizio anni ottanta; l’una disincantata, fatta di insegne e spazi vuoti, l’altra fatta di colori, di gente, tra Roma e Napoli.

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Un’immagine prettamente mondana, vivace, contrapposta alla prima, proletaria e d’attrattiva grafica. L’intersezione si compie solamente, però, con l’innesto di un elemento cinematografico, Ecce Bombo, che funge sia da fondamento concettuale per l’intero progetto sia da principio per definirne lo spirito.


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Elementi

Dolce Via, Italy in the 1980s Charles Traub

La scoperta di questo tipo di materiale non è stata causale sebbene fortuita nelle modalità con cui si è presentata; difatti, già da tempo si era manifestato, in me, il desiderio di conoscere, attraverso immagini, racconti e sapori, il passato prossimo del nostro paese, prima della mia nascita.

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Lontano dal ricercare un valore ideologico, molte delle fasi sociali e politiche affrontate dall’Italia, a partire dagli anni settanta ai primi anni novanta, mi affascinavano in un modo prettamente iconografico. Il mio sguardo si posava più su maniere e pose, su abiti e colori, su palazzi e strade, su folle e comizi, che su qualsiasi altra cosa; e il punto di vista era il più distante possibile dal voler dare un significato;


ero semplicemente interessato a vedere e ad assorbire quei sapori che tanto le immagini mi trasmettevano. Questo volume mostra un’Italia, quella degli anni ottanta, nelle sue più varie sfaccettature. Da Napoli a Roma, passando da Siena e Venezia e finendo a Milano e Bologna; il tutto è ripreso da un occhio straniero, ospite; e pure questo mi è parso curioso, perché il punto di vista cambia completamente; ed infatti il fotografo riesce a porsi in una posizione di semi-distacco dalla realtà circostante. È in grado di osservare con uno sguardo, che varia dall’umoristico al riflessivo, riuscendo ad essere “di passaggio” quanto un turista, ma troppo impegnato per farsi credere tale.

Nella prefazione del libro, al proposito, Max Kozloff (critico d’arte e storico, Executive editor di Artforum nel 1975/76) afferma che Traub, attraverso le sue immagini, è in grado di descrivere i piaceri dei sensi e della carne in una maniera allegra, troppo seria per un villeggiante. Inoltre, un’altra capacità notevole dell’autore rimane quella di riuscire a riprendere in modo sempre molto sensibile le diverse situazioni e i diversi corpi che incontra; dai gruppi in festa ai solitari in gruppo, dalle piazze alle spiagge, da una sessualità vestita ad una più scostumata, dai bambini giocosi agli anziani separati dalla moltitudine che li circonda, da persone di spalle che governano la scena ad altre che diventano minuscole rispetto alla maestosità del barocco.

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Elementi

A1 The Great North Road Paul Graham

Alla ricerca di una contromisura, di una qualche sorta di antitesi che potesse portare ad un significato più intenso l’intera ricerca.

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Una cosa che mi premeva era quella di trovare uno studio fotografico, contemporaneo all’altro, che esponesse una tematica impegnata e che fosse eseguito nel paese di nascita dell’artista. La necessità di reperire un materiale sviluppato nella terra natia dell’interprete voleva verificare il diverso tipo di sguardo che si utilizza e il diverso tipo di linguaggio con cui si comunica, nel momento in cui ci si trova ad affrontare tematiche di casa, tali da sentirle proprie.


“A1 The Great North Road” di Paul Graham è sembrato perfetto sia a livello cromatico, si sposava perfettamente con “Dolce Via”, sia a livello concettuale. Graham, con questo suo primo lavoro che pubblicò nel 1983, denuncia la disoccupazione e il disagio sociale che colpisce la Gran Bretagna all’inizio degli anni ottanta, prendendo come soggetto il movimento tra caffè bar, hotel e distributori di benzina sull’A1, strada che aveva subìto un tracollo degli affari per la costruzione della M1, l’autostrada parallela.

Attraverso una tipologia di lavoro che riprende l’idea della “road trip” dei maestri americani della fotografia a colori come Walker Evans, Stephen Shore e William Eggleston, Graham unisce diversi stili fotografici: dai ritratti ai panorami, dalle nature morte alle foto di interni, fino a spingersi verso un reportage di denuncia. Marysa Dowling, artista e fotografa inglese, in onore di una retrospettiva dedicata a Graham alla Whitechapel Gallery di Londra, si sofferma sulla scelta, da parte di Graham, di utilizzare una fotografia a colori per il suo studio, cosa questa assolutamente non consona nell’Europa di allora, dove si preferiva presentare lavori così impegnati e seri doverosamente in bianco nero; infatti, il colore veniva considerato frivolo, mondano, pubblicitario.

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Fondamenti Spirituali

Mancava un elemento che potesse suggerire una posizione da cui guardare la scena. Sentivo una mancanza di senso governare ancora l’intera vicenda.

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Un’assenza di regÏa. Qualcosa che facesse muovere tutti gli ingranaggi come li avrei voluti vedere girare, donando a tutto il processo un’angolatura perlomeno umoristica.


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Elementi Ecce Bombo

Ecce Bombo Nanni Moretti

Ecco Nanni Moretti, il primo Nanni Moretti, quello fin troppo autoriflessivo e amarissimo nel guardare i rapporti generazionali e la società. Critico sì, ma autocritico ancor più; ciò che racconta può far ridere, ma in realtà può far molto piangere.

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È tutto avvolto in un tale iperrealismo cinico e freddo che i personaggi si muovono ma non sanno neanche loro il motivo per il quale sono portati a farlo; eppure lo fanno, perché la spinta generazionale non muore mai, ma è sterile e in cerca di un’introvabile serenità, a casa, come con gli amici ed ancor più con l’altro sesso. Ed il tutto è immerso in una Roma, molto poco città eterna, una Roma nord, di quartiere, della fine degli anni settanta.


Uno spirito che sento ancora vivo, molto vicino a me e alla mia generazione, uno spirito di costante critica e di tedio. Uno spirito sempre in ricerca, ma di base chiuso nel proprio solipsismo. Un’insoddisfazione perenne che spinge sempre a voler far niente che non sia alcunché. Però persiste un profondo impegno politico, ideologico più che altro, nostalgico rivoluzionario, sempre pronto a mettere in discussione il perbenismo e la Democrazia cristiana, un ardore spento che lega i personaggi alla società, altrimenti distantissima.

Il critico Ugo Casiraghi ne ha parlato così: «Ahi, quanto è doloroso il mestiere di giovane, che i mezzi di comunicazione ti costringono a praticare. Un ruolo è diventato un rito, un rito si è convertito in coazione a ripetere, e la società di massa crea lugubri solitudini. Con le donne, poi, com’è difficile stare: un incontro e via, magari con la moglie di un amico. Si reagisce con risate collettive al vuoto di sentimento che invece, sul piano personale, si sente come un’insopportabile pena». Infine, mi dava modo di possedere una seconda diversa opinione rispetto al nostro paese tra gli anni settanta e ottanta; questa volta fatto anche di dialoghi, parte rilevantissima del film, ma fondamentalmente fatto di immagini e sensazioni estetiche, quanto quelle di “Dolce Via”.

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Materiali

Didascalia

Il ponte tra le parti, tra fondamenti e materia, è la didascalia. Didascalia in quanto scritta esplicativa di un’opera (di norma iscritta su un cartiglio situato solitamente al di sotto dell’opera). L’annotare una proposizione di M. Foucault che asserisce, a proposito del celeberrimo quadro “Ceci n’est pas une pipe” di R. Magritte, che «la didascalia, letteralmente parlando, spiega una cosa vera, a cui per lo più delle volte non prestiamo un’attenzione dovuta1», ha dato il là ad ulteriori riflessioni. Ponendo di trattare, come suggerito dalla tesi di T. Andina nel libro “Filosofie dell’arte: Da Hegel a Danto”, «le opere d’arte come oggetti simili alle parole, oggetti che abitano la medesima regione ontologica del linguaggio2», vediamo che, in entrambi i casi, ci troviamo di fronte a «strutture che veicolano significati3». Sono sempre “a proposito di qualcosa” e il significato è altra cosa rispetto alla struttura fisica dell’oggetto.

L’opera, di per sé, nella sua funzione primaria, rimanda sempre a qualcos’altro, a significati, a realtà secondarie, però per farlo ha bisogno di rispettare dei codici rappresentativi (un quadro per essere considerato rosso è meglio che lo sia) e se non li rispetta ha bisogno dell’intervento del linguaggio per declinarsi (un quadro completamente blu, la didascalia dedicata intitola Red); «le parole, invece, possiedono intrinsecamente un significato semantico4» (la parola rosso nelle sue componenti r-o-s-s-o niente ha a che fare col significato che noi diamo alla parola rosso, né deve essere scritta in rosso perché il significato giunga correttamente). La didascalia stabilisce, le qualità verificabili, descrittive, qualificative dell’opera: titolo, autore, data, tecnica, dimensioni, ubicazione, ecc. Non può permettersi di alludere o rimandare a qualcos’altro che non sia l’opera stessa.

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1

Andina T, Filosofie dell’arte: da Hegel Danto, Carocci, Roma 2012, p. 40 Ibidem

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2

Ivi, p. 39 Ivi, p. 41

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Sta all’opera veicolare un significato, la didascalia ubbidisce al significato impostole dall’autore, nella digitazione del titolo, niente più. Conscio dell’esperimento portato avanti da Judith Clark nelle esibizioni quali “Captions” e “The Concise Dictionary of Dress” e affascinato dallo strumento e dalla sua intrinseca necessità di verità, l’ho posto sul capo e ne ho modificato latentemente la funzione. Gli ho fatto dire il falso. Almeno in parte, perché in fondo confonde il proprio oggetto di riferimento, ma non sempre, solo in un caso. Sì fa più scarna e striminzita, corre attorno al capo, sopra del ventre, come in un cerchio che gira sempre su se stesso e recita la tipologia del capo (sweater, jacket, raincoat), com’è costruito (knitwear, fabric), il colore principale (blue, red, aqua green, white), l’anno (2015) e il nome della collezione (Flawless Caption). Nella sezione del colore si trova l’errore; difatti, nella specifica parte, la didascalia si riferisce non tanto al colore del capo che descrive, quanto al proprio con cui è scritta (es. nel caso dell’impermeabile blu la didascalia è scritta in un rosso chiaro e recita Red Fabric Raincoat 2015 Flawless Caption).

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Quasi a smentire Gorgia, il quale sosteneva l’inesistenza dell’essere attraverso la tesi che anche se esistesse non potremmo parlarne, perché per farlo avremmo bisogno delle parole e «le parole hanno una caratteristica: non rispecchiano le cose5». Perché il mio rosso per essere definito tale ha bisogno di impossessarsi del colore, per significare, come se non bastasse il significato del vocabolo in sé medesimo. Confonde il proprio soggetto di riferimento. L’obiettivo non è quello di voler destabilizzare l’osservatore, si vuole solo mettere alla prova il grado di concentrazione attiva d’osservazione, per stuzzicare. È come correre con gli amici verso il mare, mettiamo verso Ostia, per riprendere un’immagine di Ecce Bombo, per vedere sorgere l’alba ed arrivare troppo presto e finire addormentati. Al risveglio l’alba nasce alle tue spalle, neanche la vedi eppure la vivi perché la luce arriva anche se non la fissi. E rimani così, un po’ perplesso. Persino l’alba nasce dietro di te. Lo spirito è il medesimo. L’intento è creare la stessa perplessità che nasce quando si mette in discussione un’esperienza automatica e necessaria, che non può essere diversa da quella che di norma è. È applicata su maglione, giacca, impermeabile e camicia. L’ironica proposizione Flawless Caption (Didascalia Perfetta) dà, effettivamente, prova ulteriore dell’importanza della fase, il nome al progetto.

Andina T, Filosofie dell’arte: da Hegel Danto, Carocci, Roma 2012, p. 40

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Elementi

Tessuti

I tessuti sono stati scelti ricercando una ragion d’essere in ognuno. In totale sono sei, escludendo i filati di lana merino utilizzati in maglieria. Quattro bianchi, uno blu, di consistenza della carta semitrasparente, di nylon utilizzato per l’impermeabile ed uno giallo molto rigido e a tratti lucido.

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Tra i bianchi: una maglia leggera in jersey per le t-shirt; un cotone molto poroso e piuttosto denso ed elastico utilizzato per camice, giacche e pantaloni ed in taluni casi tinto; un cotone molto più leggero e liscio utilizzato per pantaloni, adoperato anche tinto; e per finire un piqué con struttura a nido d’ape, piuttosto fermo, utilizzato per un completo, composto di camicia e pantalone corto. Superfici molto diverse tra loro, con pesantezze diverse e cadute diverse, distanti l’una dall’altra.


Elementi

Maglieria

La maglieria fin dagli abbozzi preliminari ha ricoperto, per il progetto, un ruolo particolare perché era stato prefigurato, come suo compito, quello di regalare un senso d’intimità all’intera collezione. Il poter creare in prima persona il capo, poter scegliere il filato, seguirlo nelle sue fasi costitutive; il processo è lungamente diverso dal tagliare un tessuto seguendo le direttive di un cartamodello. In più, il maglione, per mia esperienza, l’ho da sempre associato ad un’idea di italianità e di “sentirsi a casa”, che volevo fosse presente.

Quattro pezzi, due maglioni e due pantaloni. I maglioni sono l’uno il negativo dell’altro nei punti usati e nelle tecniche affinché si sottolineasse l’effetto diverso che una stessa faccia può mostrare. I punti in questione sono la costa inglese spostata e il rasato, entrambi calati. I pantaloni, tagliati, seguono la struttura di due delle varianti utilizzate per la categoria pantalone: pantaloni corti e pantaloni a palazzo. Sono stati utilizzati 5 colori per comporre tutti i capi in maglieria. I colori primari sono il rosso, il giallo, il bianco, il verde limone. I colori di taglio sono il blu, il bianco, il giallo e il rosso.

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Elementi

Tintura

L’intenzione era quella di non far notare troppo il fatto che fossero stati tinti. Nel movimento doveva rimanere in mente il colore ed apparire tutto liscio, niente di più. L’allusione ad una tecnica, il tendere ad un significato, non deve mai apparire quello che realmente è.

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In sintesi, non dovevano sembrare così amatorialmente tinti a mano i quattro capi lavorati; una camicia verde limone, una giacca e due pantaloni blu lavanda. La buona riuscita dell’operazione è arrivata dopo infiniti tentativi fatti per indovinare la giusta sfumatura. La scelta di tingere è nata dopo la consapevolezza dell’impossibilità di reperire tessuti con quelle gradazioni a cui tanto tenevo, e, seguendo lo spirito progettuale, col desiderio di sentire più personale la collezione, donandole un’identità empirica, lontana da un’idea industriale e meccanica.


Elementi

Stampa

La stampa proietta molto del significato e dello spirito della ricerca sul capo finito. È il mezzo attraverso cui, maggiormente, si è comunicato il messaggio, sebbene rimanga una comunicazione piuttosto codificata.

La prima tecnica utilizzata è quella della stampa digitale utilizzata per la t-shirt rosso stinto-blu e la camicia in piqué giallo-verde limone. Si è ricaduti su questa stampa per cercare di far tentennare l’attento osservatore dal distinguere i capi tinti da quelli stampati, visti i toni piuttosto slavati che si è cercato di ottenere. La seconda e fondamentale tecnica consiste in un adesivo transfer che attraverso il calore s’incolla sul tessuto. Infine, si è usata la tecnica del ricamo industriale per comporre la didascalia nell’impermeabile.

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Elementi

Pantalone

La base di partenza è stata un modello di pantalone degl’anni ottanta, da uomo, con una piega non fermata con stiratura centrale sul davanti e una pince sul retro. Da questa versione base ne sono derivate tutte le varianti presenti in collezione. Quattro varianti, ognuna delle quali ripetuta due volte con tessuti e/o lavorazioni diverse. La prima variante consiste nell’aggiungere una piega più piccola, adiacente a quella centrale sul davanti, posta più esternamente rispetto all’altra e larga 2cm (al contrario della più importante larga 4 cm);

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a partire dal ginocchio nasce una piccola svasatura, sia internamente che esternamente di 1,5cm, per conferirgli quell’accenno di effetto a trombetta. La seconda variante, differentemente, sostituisce alla stiro-piega centrale una cucitura all’inglese e, invece che allargarsi a trombetta, si restringe leggermente sul fondo terminando prima della caviglia. Il terzo modello presenta, contrariamente a tutti gli altri tasche jeans sul davanti (negli altri modelli, alla francese) ed, eliminando ogni sorta di piega, la gamba mantiene un’eguale larghezza, dall’inizio alla fine; in uno dei due capi di questa terza variante è presente un grande risvolto di 10 cm sul fondo. La quarta e ultima variante è il pantalone corto al ginocchio, senza pieghe e in uno dei due casi con tasche a mezzo filetto sul davanti, di maglieria.


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Elementi

Camicia e Capospalla

Per la camicia si è preso spunto, sia dalla fonte cinematografica, sia da numerose istantanee di Traub, come per esempio nella scelta della manica corta ad altezza gomito. La scelta di togliere quanti più elementi superficiali, tasche e abbottonature, è figlio della ricerca, presente nell’intero progetto, di essenzialità e pulizia. Le camice, in totale tre, presentano tre lunghezze differenti, identiche per forma; il fondo è un’esasperazione della normale linea curva della camicia. I colletti uniscono in un sol pezzo luna e vela e ci sono in due varianti: la prima con le punte che tendono apertamente verso l’esterno, la seconda con le punte più chiuse, rivolte verso terra.

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Sul retro a partire dal carré sono presenti due pieghe laterali che corrono stirate e chiuse fino alla fine. Il capospalla s’ispira alle giacche corte in jeans, presenti anche in foto, con una o due grandi tasche a toppa e una cucitura all’inglese che corre orizzontalmente a livello pettorale. Alla fine della manica è presente un piccolo spacco e sul retro a partire dal carré sono presenti lateralmente due faldoni che si perdono via via lungo il capo. Anche in questo caso sono stati eliminati tutti gli elementi superficiali non necessari, a fini progettuali, ad una identificazione del capo. Per la pesantezza del tessuto nel carré davanti e dietro non si è raddoppiato il tessuto.


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Elementi

T-shirt

Si è cercato di trovare una vestibilità né troppo ampia né stretta ed un collo che non fosse né a barchetta né girocollo.

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Le due t-shirt presenti in collezione sono analoghe se non per il fatto che una, quella non stampata, rimane più corta, fermandosi all’ombelico.


Elementi

Impermeabile

Capo rilevato da un vecchio modello anni ottanta da uomo. Modificato in larghezza ed allungato fino al polpaccio;

allargato e squadrato il collo; ripulito da tasche, passanti ed abbottonature. Infine, aggiunto un ampio spacco che permette il rimbocco quasi per intero delle maniche, fino ad altezza gomito.

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Feria d’agosto Riferimenti e Trama

Come locazione per il servizio fotografico si è scelta una casa di campagna, di villeggiatura, dove quattro ragazzi sogliono ritrovarsi per trascorrere del tempo assieme, con disincanto, pochi sorrisi. Con l’idea, più che altro, di crescere, di sperimentare dialetticamente e sessualmente, ma anche semplicemente di fare cose, vedere gente, stare.

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Per presentare tutto ciò si è scelto un tipo di fotografia ruvida, analogica, intima, che partecipa alla scena insieme con i protagonisti. Si è scelto un apparecchio piccolo, quasi a voler sorprendere i modelli al momento dello scatto, senza farsi vedere ma partecipando attivamente all’azione, alla ricerca di spontaneità. Una fotografia che si rifà a Juergen Teller e Corinne Day, a Terry Richardson e David Sims e a tutta la “raw school” degli anni novanta, con una ricerca di ordine e composizione ispirata da Henry Cartier Bresson.


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Elementi

Modelli

La selezione dei modelli ha seguito due regole primarie; quella di trovare donne che emanassero femminilità e quello di trovare uomini che non fossero così virili, ma in costruzione.

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Non tanto in costruzione sessuale, perché non volevo ricadere sui concetti di androginia o a-gender, ma nella formazione di personalità, che fossero ragazzi in ricerca, da riunioni di autocoscienza, ragazzi indecisi, tediosi e con una velo di precarietà che sembra non abbandonarli mai. Uomini in costruzione, donne più mature; questa era l’intenzione.


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«Chi fossero i miei compagni di quelle giornate, non ricordo. Vivevano in una casa del paese, mi pare, di fronte a noi, dei ragazzi scamiciati - due - forse fratelli. Uno si chiamava Pale, da Pasquale, e può darsi che attribuisca il suo nome all'altro. Ma erano tanti i ragazzi che conoscevo di qua e di là6»

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Pavese C., Feria d’agosto, Einaudi, Torino 2002, p. 5


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Fotografia di moda a cavallo tra i settanta e gli ottanta

Arrivati a questo punto, ad analisi progettuale verosimilmente conclusa, è parsa cosa conseguente e giusta approfondire un tema presente nella collezione, in modo da seguire un filo logico e poter soddisfare anche una personale curiosità culturale. Dato l’enorme apporto iconografico e simbolico che la fotografia ha ricoperto all’interno del progetto e, visto il circoscritto periodo storico preso in esame, la decisione di affrontare la fotografia di moda di quegli anni, da metà anni settanta a metà anni ottanta,

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è sembrato il più esauriente metodo per poter far ulteriormente luce su di un periodo fecondissimo. Si è scelto di analizzare gli autori protagonisti di quell’epoca, i quali, ognuno a suo modo, hanno contribuito fortemente all’avanzamento del settore e alla sua affermazione. Ci focalizzeremo su quegli anni principalmente, tuttavia, non è possibile decontestualizzare la vicenda e, dunque, citeremo più volte gli anni settanta nella loro interezza, come gli anni ottanta. Affinché non mancasse una visuale italiana, si è scelto di visionare autori come Paolo Roversi e Aldo Fallai ed a loro vanno aggiunte personalità centrali quali Deborah Turberville, lSarah Moon, Helmut Newton e Guy Bourdin.


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Panoramica

Robin Derrick, direttore creativo di British Vogue, la chiama «Cinderella Syndrome7» il male che ha colpito la fotografia di moda almeno fino agli anni ottanta, quando è parzialmente riuscita a ristabilirsi ed affermare la propria indipendenza. “La sindrome di cenerentola” denota la scarsa attitudine, secondo esperti del settore, critici, mercato ed interpreti stessi, a considerare la fotografia di moda un’ arte maggiore, o perlomeno un’arte, una disciplina autorevole che non debba confrontarsi continuamente con la fotografia per così dire impegnata, nobile, seria, reportagistica tanto da apparire come una sua misera branca, da non prendere troppo sul serio.

Un sentirsi sempre l’ultima, per farla breve. Derrick sostiene che, negli ultimi anni novanta, ancora più fotografi mantenevano nei loro portfolio, accanto a scatti commerciali, scatti in bianco o nero o che si rifacevano più a Walker Evans o a Bill Brandt, per darsi un tono; già tuttavia negli anni ottanta c’è una significativa inversione di mentalità, sia per la nascita di un settore editoriale esteso ed indipendente, dove la fotografia di moda si espande celermente, sia per una tendenza crescente ad annullare le differenze formali e di spazi dedicati tra arte pura e arti visive. Un’inversione che arriva dopo che già autori come Guy Bourdin, Helmut Newton e Deborah Turberville avevano mutato l’immagine di moda esplorando concetti quali il corpo, la sessualità, lo story-telling. M. Harrison, autore de “Appearances: Fashion Photography Since 1945” argomenta che gli anni settanta e ottanta rappresentano un’esplorazione verso un mondo interiore: la mente del fotografo;

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Derrick R., Muir R., Unseen Vogue: the secret hystory of fashion photography, Little Brown, Londra 2002, p.8


difatti sono anni in cui si trattano le ossessioni personali nella fotografia di moda. Se negli anni settanta prevale una fotografia fatta in studio, con luce soffusa, geometrica, con una buona dose di voyerismo sognante e un’introspezione psicologica del corpo, negli anni ottanta si aprono le porte del lusso, dell’opulenza e del nudo. Inoltre, si consacra quell’immagine di donna androgina, nata verso la metà degli anni settanta, che trova sempre più forza d’imporsi nelle pagine delle riviste ed il culto del corpo materiale, tutt’altro che metafisico. C. Marra, a proposito di questo, asserisce nel volume “Nelle ombre di un sogno: Storia e idee della fotografia di moda” che negli anni settanta muta il soggetto della fotografia di moda, si passa da un corpo vestito ad un vestito corporeizzato. La fotografia comincia a mostrare situazioni, comportamenti, tranches de vie, il vestito in sé non conta più molto, conta il vestito incarnato dalla modella. Tale carattere può razionalmente coincidere con l’ascesa del pret à porter, cosa che tende a privilegiare una dimensione performativa della moda.

Una volta liberato il corpo, ovviamente, ad essere trattati sono gli argomenti più censurati fino ad allora, quali la sessualità e l’erotismo. Temi questi non nuovi alla materia ma declinati in maniera diversa, in un qual modo riprendendo un concetto teorico base della fotografia, la predisposizione al voyeurismo. Tutto ciò ha portato, conseguentemente, ad una sempre più tendente autonomia dell’immagine di moda rispetto al prodotto da presentare. In parallelo, negli anni ottanta nasce anche un nuovo tipo di editoria indipendente che si sviluppa a Londra e che porta alla luce tutta una cultura underground fino ad allora celata sotto l’asfalto mainstream. i-D (Instant Design), The Face e Blitz sono tre dei titoli più importanti di queste fanzine/ magazine. La possibilità di far scattare giovani autori e di dar loro spazio di sperimentare nelle pagine delle riviste è stato determinante per la nascita di una nuova estetica; autori i quali, negli anni, hanno fatto la fortuna delle stesse riviste patinate dalle quali rifuggivano per imporre un nuovo stile, come Nick Knight o Juergen Teller. Uno stile che farà la fortuna di tutti gli anni novanta, ruvido, grezzo, amatoriale, poche pose, molta real life su tematiche quali il genere, l’androginia, l’un-fashion, la quotidianità, le sottoculture.

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Parallelamente a questa cultura giovanile che si rifaceva a immaginari punk, post-punk e new wave, a Parigi arrivano i designer orientali: Rei Kawakubo, Yohji Yamamoto, Issey Miyake. Elemento questo d’imprescindibile importanza per la successiva evoluzione fotografica. Perché cambia il punto di vista. Da una moda e una fotografia che si concentrano sulla sensualità del corpo, si passa ad una moda ed una fotografia che sono sensuali intellettualmente. Autori come P. Roversi e S. Moon colgono questo latente passaggio. Vero è anche, che negli stessi anni una fotografia molto più materica e cultrice del corpo prende piede grazie a Newton e H. Ritts; quest’ultimo insieme a B. Weber inaugura un protagonismo maschile centrale nella moda dagli anni ottanta; un protagonismo che coincide con l’esplosione della cultura gay. Infatti, tutti gli anni ottanta giocheranno su di un’ambiguità sessuale maschile tra gesti e pose e muscoli tipica di quegli anni e che trovano un corrispondente cinematografico in Richard Gere nel film cult American Gigolò.

Infine, si fa sempre più forte la consapevolezza, da parte degli interpreti e dei fashion editor, che la fotografia di moda in maniera efficace e celere ha la capacità di direzionare la realtà e, cosa ancor più importante, che è credibile. È credibile, come sostiene Claudio Marra, perché “è stata”, è un momento realmente esistito che è in grado di alimentare i sogni dei lettori proprio perché mostra un istante effettivamente vero. Un sogno, quello di Bourdin, Roversi, Moon, Newton, Fallai, Turberville che va oltre l’accomodante versione proposta dalla fotografia commerciale, portando l’attenzione del lettore verso quella che R. Brooks definisce «le potenti relazioni e la violenza sessuale che sono implicate in tutta la fotografia di moda8». Dall’esistente al sogno, questo è il grande potere della fotografia e questo fa sì, oltre che a sempre una maggiore cultura del corpo, nata negli anni ottanta, che negli anni novanta si sviluppi l’era delle supermodelle; personificazioni monopolizzanti della bellezza e dello stile, modelli ipnotici per una società senza altri credo che non abbiano a che fare coll’immagine del corpo.

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Brooks R., “Fashion: Double-Page Spread” in Evans J. edition, The Camerawork Essays:

COntext and Meaning in Photography, Londra 1997, p. 205


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Autori

Guy Bourdin

Secondo Nancy Hall-Duncan nel volume “The history of fashion photography” Deborah Turberville non avrebbe avuto modo di sviluppare la propria estetica e, sono testimonianze di altri interpreti, molti dei lavori fotografici dagli anni settanta in poi non sarebbero potuti nascere senza la figura pionieristica di Guy Bourdin.

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Egli risulta essere una figura centrale nella fotografia di moda, già a partire dagli anni sessanta, quando inizia a distaccarsi dalla visione tradizionale, non inserendo il prodotto in primo piano, avventurandosi in immagini più artistiche che commerciali, dando più rilevanza all’immagine, rendendo le modelle invisibili o scomposte in parti, magari lasciando solamente le gambe in scena, elemento ricorrente nella carriera del fotografo, come l’inserimento di modelle dai capelli rossi. Una fotografia surreale, su sfondi inquietanti e sospesi; colori puri e forti come il rosso, il verde, il blu; o il bianco e nero, come ad inizio carriera. Una fotografia sicuramente più narrativa e dinamica che rigetta il concetto di statico.


Grazie a questo tipo di suggestioni, sia per Roversi che per la Moon, Bourdin è stato un educatore e uno sperimentatore insostituibile. Rompe il dogma che la moda debba essere la protagonista dell’istantanea. Suggestiona l’osservatore e lo fa sconfinare su realtà oniriche; spesso alienanti, sadiche e pseudo-thriller. Charlotte Cotton, passata curatrice della fotografia per il Victoria and Albert Museum, asserisce che ciò che rende sovversivo Bourdin è proprio l’esagerata falsità surreale delle sue immagini; mostra immagini di moda tanto false quanto realmente false sono. Le smaschera, in un certo senso, ma lo fa in un modo così drammatico e d’impatto che, in realtà, alimenta il sogno doppiamente. Un sogno molto differente da quello presentato successivamente da Roversi, dalla Turberville o dalla Moon che rimangono molto più eterei, evanescenti. Bourdin è purista in questo, tutto ben definito; ad ogni colore il suo spazio, l’immagine deve essere intensa e netta.

Il critico H. Kramer asserisce che la fotografia di moda si è ormai spinta in una direzione che la porta ad entrare nella cultura pornografica poiché manifesta interessi per omicidi, pornografia e terrore e Bourdin in questo è maestro. Già negli anni sessanta fotografa una modella vestita in haute-couture all’interno di una macelleria attorniata dalle carcasse di vacche macellate. Cavalcando questo immaginario e accompagnato da altri fotografi in questa degenerazione di genere, si è arrivati ben presto a considerare la violenza “glamour”. Vogue France negli anni settanta ha potuto definire una propria estetica anche e soprattutto grazie a Bourdin e alla sua grafica riconoscibile; così come il marchio di calzature Charles Jourdan, per il quale Bourdin ha firmato per quasi un ventennio le campagne, a partire dal 1964. L’inserimento di questo artista, nato nel 1929, che scatta prima di tutti gli altri fotografi selezionati in questo approfondimento, è stato fatto per dare una base, cercare di contestualizzare la scena e così comprendere le declinazioni successive. 90


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Autori

Helmut Newton

Nel volume “Unseen Vogue. The secret hystory of fashion photography” la didascalia di una foto di H. Newton intitolata “In the limelight now”, del 1973, svela il desiderio da parte del fotografo di attorniarsi di persone abbienti possibilmente in ambienti aristocratici e sebbene, a detta sua, abbia reso la sua vita più complicata, rende noto come abbia sempre preferito fotografare in posti inaccessibili a chiunque che non sia ricco.

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Questa premessa può ben inquadrare H. Newton che per tutta la sua vita ha volutamente sfidato il politically correct e ha sempre spinto verso una convergenza tra il pornografico e l’erotico, almeno a livello concettuale. Nato voyeurista, un fotografo secondo lui non può prescindere dall’esserlo, presenta immagini in cui il corpo fa sempre da protagonista. Corpi che sembrano artificiali per la loro perfezione fisica, corpi dominanti, che cercano di sottolineare la distanza che li separa dalla gente normale. Infatti, per Newton è necessario che ci sia uno stacco forte e visibile tra un corpo comune e la plasticità e tonicità di un corpo di moda.


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Un ideale da seguire, un’idea di corpo votato alla sensualità, all’erotismo, colto quasi dal buco della serratura, di nascosto. La ricerca di artificialità, ottenuta anche grazie all’utilizzo di un’infinità di equipaggiamenti, lo porta nel 1978 a scattare un servizio chiamato “In Dummyland” uscito su “Vogue Francia” e “Oui” in cui volutamente i protagonisti, una modella in carne ed ossa ed un manichino, non si riescono in definitiva a distinguere. Tanto che a tratti sembra più umano e sensuale il manichino che il corpo vivo stesso. Esamina tutte le più comuni perversioni e le impone con così tanta determinazione da consapevolizzare l’osservatore di stereotipare uno stereotipo già esistente.

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Esagera in tutto, nelle pose, nelle location principesche, nei corpi così perfettamente sfacciati e plastici, quasi bionici; le sue fotografie trasmettono un gran senso di codificazione e desiderio e ricchezza e benessere. Nato nel 1920 a Berlino da una ricca famiglia ebrea, giunge all’affermazione solo negli anni settanta dopo numerosi anni spesi in Australia e poi in Europa. Trasferitosi a Parigi negli anni sessanta inizia subito a lavorare per testate quali Vogue Francia; collabora nel tempo con stilisti quali Chanel, Versace, Dolce e Gabbana, oltre alla celebre collaborazione con Yves Saint Laurent. Arriva ad esporre nelle gallerie della città nel 1975 e da quel momento non romperà più questo tipo di sodalizio, distaccandosi soventemente dalle pagine delle riviste di settore per affermarsi come artista al di fuori del canonico mondo di appartenenza.


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Autori

Deborah Turberville

Deborah Turberville, dopo essere stata modella, passa all’editoria ricoprendo anche ruoli di spicco in qualità di fashion editor di “Harper’s Bazaar” e “Mademoiselle”. Dal 1970, grazie a delle lezioni molto ispiratrici tenute da Richard Avedon, incomincia a fotografare. Spesso presenta foto con modelle in gruppo, a dispetto della comunemente affiancata Sarah Moon, modelle che niente hanno a che fare l’una con l’altra né con l’ambiente circostante.

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Persiste in molti dei lavori di Turberville un senso di dissociazione dovuto ad una mancanza di sguardi tra le modelle medesime e la camera ed enfatizzato dalle pose dinoccolate e disagiate. Un’assenza di comunicazione enigmatica e dolorosa. Secondo E. Wingate, former director della Sonnabend Gallery e direttore della Gagosian Gallery, esiste un filo che lega le opere della Turberville con quelle del pittore impressionista E. Degas; infatti, secondo lei, entrambi posseggono uno stesso occhio capace di cogliere l’informale e l’astratto.


Inoltre, il tipo di colore utilizzato dal fotografo è prossimo a quello usato dal maestro impressionista, un colore non colore, di sfondo, pallido; e le pose delle modelle sono affini agli studi sui balletti di danza di Degas. Per sua stessa confessione Turberville ammette di aver tratto ispirazioni anche dalle atmosfere degli anni trenta e dal cinema dei grandi maestri italiani, ad esempio da Deserto Rosso di Antonioni, oltre che dalla sua tanto amata Russia, nella quale vivrà parte cospicua della sua vita. L’immersione in atmosfere governate da misticismo e confusione, in cui regna mistero e suggestione, portano Turberville ad essere una diretta discendente, se non parallela interprete, della fotografia narrativa e interpretativa iniziata da Bourdin.

La sua opera più controversa risale al 1975 pubblicata da Vogue, con un servizio di cinque scatti, ricordato come “Bath House Series”, nel quale vengono mostrate un gruppo di modelle con sguardi vitrei, quasi siano drogate, in pose semiserie o compassate all’interno di alcuni bagni. L’ambiente ha suscitato molte polemiche all’epoca perché sembrava si volesse rievocare l’idea delle camere a gas o di un campo di concentramento e le modelle in gruppo, isolatissime l’una dall’altra per posizione e sguardo, esprimevano un disagio atavico, proprio di una donna tormentata non conforme alla stereotipata immagine femminile promossa dalle riviste patinate di quegli anni. Immagini evocative, più che descrittive, inquietanti nel loro essere così oniricamente vere. Turberville sembra essere il negativo del contemporaneo Newton, così delicata lei, così diretto e brutale lui, così velatamente sensuale lei, così arrogantemente sensuale lui, così di silenzioso approccio lei, cosi spavaldo lui.

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Autori

Sarah Moon

A primo acchito D. Turberville e S. Moon potrebbero presentare numerose somiglianze; entrambe prima d’intraprendere la carriera da fotografo sono state modelle, hanno avuto un’ascesa simile, hanno uno stile molto intimista ed entrambe usano il colore essenzialmente in maniera monocromatica. A parte questo, sono molto diverse.

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Sarah Moon nasce nel 1941 a Parigi e incomincia ben presto la carriera di modella e inizia a fotografare le colleghe durante le attese e nei backstage. Negli anni settanta si dedica interamente alla fotografia, iniziando nel 1968 una collaborazione con Cacharel, che porterà avanti per più di quindici anni. All’inizio i suoi scatti escono su riviste innovative come “Nova” o “Sunday Time Magazine”. Fotografa spesso soggetti in movimento, preferendo il colore naturale al bianco e nero. I volti delle modelle sono spesso sfocati e difficilmente cercano un contatto con la camera.


Crea atmosfere romantiche, sognanti; è la fotografa di moda che più si avvicina al neoimpressionismo o al neoromanticismo. In linea con la corrente citazionista in voga nelle arti visive negli anni ottanta, riprende tecniche utilizzate agli albori della fotografia di moda, da E. Steichen e da A. de Meyer quale ad esempio l’effetto flou, oltre che attingere dall’archivio delle opere di Delacroix. Tali tecniche, ripristinate dal passato, conferiscono all’immagine una morbidezza e delicatezza propria delle luci fioche e diffuse. Affascinata dai processi di degenerazione della pellicola, tratta temi come il ricordo, la morte, l’infanzia, la solitudine, la femminilità.

Aleggia sempre una sensazione di serenità, di disillusa serenità, lontana dai tormenti e dalle ideologie degli anni settanta. È la prima donna, nel 1972, chiamata a scattare il calendario Pirelli. Lei e Turberville sono protagoniste del passaggio della fotografia di moda, negli anni settanta, da disimpegnata e superficiale branca della fotografiatestimonianza ad una forma d’espressione d’arte visiva che esce dai magazine per entrare anche nelle gallerie e nei musei. È preponderante nella fotografia della Moon, similarmente a quella della Turberville, un certo grado di distaccamento dalla realtà circostante, un essere assorti nei propri pensieri, per la prima in maniera prettamente disincantata, per la seconda in maniera maggiormente interiore. Dal 1985 diminuisce il carico di lavoro come fotografa di moda e si dedica prevalentemente ad altro, come il film-making e la fotografia paesaggistica.

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Autori

Aldo Fallai

Considerato che ormai la moda è perlopiù un fatto comunicativo e che tutti i grandi stilisti hanno fatto affidamento su un fotografo “di fiducia” che diffondesse il proprio immaginario in maniera identitaria, pensiamo a Dolce e Gabbana e Scianna, a Gautier e Mondino, a Yves Saint Lauren e Newton, capiamo quanto la collaborazione tra Fallai e Armani sia stata fondamentale per la diffusione dell’immaginario della casa milanese nel mondo.

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Dalla metà degli anni settanta e per oltre un quarto di secolo Fallai ha firmato le campagne per Giorgio Armani carpendo con sensibilità la filosofia dello stilista e riuscendo con coerenza a tradurla in immagini di raffinata profondità. Una fotografia essenziale, empia di ogni spettacolarizzazione o effetto, che gioca con capacità tra il bianco e nero e le scale di grigio. Uno scenario disadorno, inquietante a tratti, in cui la figura si staglia da protagonista, senza mai eccedere in pose eccentriche.Riesce a cogliere i tratti di Armani, potere senza eccesso, mascolinità con tenerezza, eleganza con umanità, stile ed identità.


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Più esperti associano alla fotografia di Fallai l’androginia, che però, senza una precisazione, rischia di tranne in inganno come affermazione. L’androginia di Fallai non è un’androginia in cui il corpo perde i propri caratteri connotativi. È l’androginia tipica degli anni ottanta; la donna rimane donna, l’uomo rimane uomo. Semmai, l’uomo mostra, in tutta la sua salute e fisicità, sentimenti comunemente considerati come femminili, quali la tenerezza, l’umiltà, la timidezza. La donna, invece, viene presentata come una donna indipendente, non più legata all’uomo per imporsi nel mondo, in carriera, forte ed attiva, dominatrice, con elementi maschili nel guardaroba.

Negli anni ottanta, Fallai lavora con modelle di forte personalità, dotate di una marcata femminilità androgina come Angela Wilde, Antonia Dell’Atte e Gia Marie Carangi. Fonti ispiratrici del suo lavoro si trovano nella storia dell’arte, dal Caravaggio, ai manieristi fiorentini come il Pantormo e il Bronzino, fino ai Prerafaelliti anglosassoni. Inoltre, in un servizio per Emporio Armani del 1986 cita direttamente un’opera di R. Doisneau, Le baiser de l’hotel de ville. Infine, secondo J. Sherwood in “Lo Sguardo Italiano: Fotografie di moda dal 1951” le immagini di Fallai, «pulite e semplici, come fossero girate all’interno di un film di Rossellini, reggono il confronto con quelle di personalità di spicco della fotografia come P. Lindberg e B. Weber9».

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Frisa M. L., Lo sguardo italiano: Fotografie italiane di moda dal 1951 a oggi, Edizioni Charta, Fondazione Pitti Immagine Discovery, Firenze 2005, p. 105


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Autori

Paolo Roversi

Nell’ A Magazine curato da Yohji Yamamoto, all’interno di un’intervista col già noto J. Sherwood, Roversi, alla domanda sul ruolo che il fotografo ricopre nel sistema della moda risponde che è importante capire che il fotografo non crea la moda, ma che ricopre la posizione paragonabile a quella di un direttore d’orchestra. Per esplicitare, Mozart è Yamamoto, Roversi il direttore che lo interpreta in concerto.

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Yamamoto e Roversi in carriera hanno stretto un legame solido, dato anche da una comune visione nostalgica di “bellezza perduta” e da un approccio piuttosto intellettuale alla materia. Roversi stesso indica gli anni “in cui la moda parlava la sua stessa lingua” proprio gli anni ottanta, gli anni dell’arrivo a Parigi, città del fotografo dal ‘73, dei designer giapponesi (Kawakubo, Miyake, Yamamoto) capaci, attraverso il loro lavoro, d’incoraggiarlo a sperimentare. Le tecniche che Roversi sviluppa per definire la propria poetica lo rendono inconfondibile e altamente imitato.


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Per iniziare, fu il primo a portare la Polaroid nella fotografia di moda, privilegiando il formato grande 20 x 25; oltre a questo, nel metodo di Roversi il lavoro in studio è fondamentale, sia per poter applicare con perfetta precisione le tecniche, quali la multipla esposizione, per la sovrapposizione dei colori, oppure l’allungamento dei tempi di posa, sia per l’utilizzo di strumentazioni pesanti, come il banco ottico. Il fine è creare atmosfere oniriche, sognanti, tra il sentimentale e il melanconico, molto intime, leggere, tra innocenza e follia, in cui prevale un gusto nostalgico, di desiderio inappagato. C’è molta fragilità nelle istantanee di Roversi e allo stesso tempo un qualcosa di sinistro, un sogno che può trasformarsi anche in incubo.

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L’impalpabilità dei colori che ricrea, l’indagine psicologica che si coglie nella fotografia, la non convenzionale idea di grazia, rendono Roversi uno dei fotografi più considerati del settore. Non solo sfumature di bianco e nero, o seppia, ma anche colori come il verde smeraldo, il rosso, il blu e il rosa. Una serie di modelle hanno accompagnato Roversi, durante la carriera; modelle algide, sia angeli che demoni, come Kirsten Owen, Kirsten Mc Menamy, Karen Elson e Stella Tennant. Ossessionato dalla ricerca dell’immortalità attraverso la fugacità del momento, Roversi s’ispira all’estetica e la melanconia che si possono reperire in una Madonna rinascimentale e all’espressività di Modigliani. Per la fotografia di moda suoi punti di riferimento rimangono P. Horst e G. Hoyningen-Heune oltre che i rivoluzionari Bourdin e Newton, senza dimenticare R. Avedon.


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Confronti

Finzione e Corpo: Bourdin e Newton

Un confronto tra poetiche, fra Newton e Bourdin. Due figure particolari, di sovente affiancati, data la quasi contemporanea ascesa nelle pagine di Vogue e l’analoga forte componente voyeristica delle loro immagini. Diversissimi a livello umano, Bourdin piuttosto scorbutico, chiuso, con un legame alla fotografia di tipo più artigianale-privato, tanto da rifiutare di farsi dedicare mostre e di pubblicare libri, ed infatti solo dopo la sua morte è stato possibile organizzare delle retrospettive;

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Newton, invece, sicuramente più anima sociale, incline a seguire la tendente infiltrazione degli operatori dell’industria culturale all’interno del mondo dell’arte pura, in gallerie e musei, degli anni ottanta. Per quanto riguarda la fotografia, sicuramente sono stati tra gli esponenti più importanti degli anni settanta e ottanta; e qui dobbiamo fare attenzione secondo G. Marra; perché bisogna scindere le due decadi; per modalità espressive e poetica Newton appartiene agli anni ottanta, quanto Bourdin agli anni settanta. E per questo, secondo Marra, docente di Storia della fotografia al DAMS, non è utile né vantaggioso confrontarli.


Sicuramente, entrambi, in maniera differente, hanno esplorato nuovi confini per la fotografia di moda, portandola a possedere un carattere più personale, esplicitando ossessioni private e costruendo immagini lontane dall’essere considerate prodotto, trasmettendo sempre una volontà di andar oltre, di raccontare un pensiero. Entrambi creano mondi fantastici in cui le modelle, o modelli più raramente, partecipano alla scena. Gran parte del lavoro di Newton è incentrato sul nudo in bianco e nero e a colori, un nudo completato da elementi feticisti quali calze, corsetti, scarpe col tacco in cui i protagonisti sono spesso impegnati in atti sessuali. Bourdin va oltre al feticismo, nelle sue foto a colori brillanti, spingendosi più verso un immaginario violento, con modelle che spesso appaiono solo in parti o simili decedute.

Di certo, entrambi scioccano, il primo attraverso una sessualità esplicita e volgare, il secondo attraverso una finzione violenta ed inquietante. Nella donna di Newton non c’è una convenzionale sottomissione all’uomo, la donna è soggetto dominante, forte, capace di porsi e imporsi, la sensualità sta più nello sguardo o nei modi piuttosto che nel corpo lasciato nudo; al riguardo rimane celeberrimo lo scatto del ’75 per Yves Saint Laurent su Vogue France in cui appare una donna con i capelli pettinati all’indietro, androgina, con cravatta, tuxedo nero e sigaretta, ripresa in un vicolo parigino (in una seconda versione accanto ad un’altra completamente nuda se non fosse per tacchi e copricapo). La donna di Bourdin è più rigida, a volte un corpo senza spirito di vita, altre volte è regale, sicura ma meno ostentatrice rispetto a quella di Newton, scenica ma non spettacolare.

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Secondo C. Marra nel suo scritto “Nelle ombre di un sogno: storia e idee della fotografia di moda” Newton appartiene, molto più che Bourdin agli anni ’80, sia per l’idea di fisicità che propone, un corpo carnale non psicologico, che rivaluta l’esteriorità piuttosto che l’interiorità, carattere questo degli anni settanta, sia come personaggio che esce dalle pagine delle riviste ed espone in gallerie, annullando le differenze tra l’arte applicata e l’arte pura, tendenza propria degli anni ottanta. Newton porta all’eccesso elementi già codificati nella cultura visuale dell’uomo tanto che gli ingredienti utilizzati sono i più scontati possibile in materia di perversione: voyeurismo, feticismo, provocazione, sadomasochismo, omosessualità femminile, il tutto riproposto in dosi massicce.

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La dimensione è molto più giocosa rispetto a quella degli anni settanta, impegnata ideologicamente e propensa a sedute di autocoscienza; è per l’abuso degli stereotipi, per l’esagerazione. Un altro elemento, già accennato, che fa propendere verso l’opinione di Marra, di distanziare i due protagonisti della fotografia, sta anche nella presentazione delle modelle; fragili e allarmate, in pericolo, quelle di Bourdin, spavalde e sicure di sé quelle di Newton, donne degli anni ottanta, donne come quelle lanciate dalle campagne di Armani e Fallai. Detto ciò, non possiamo non constatare come entrambi, condividendo la tecnica narrativa, la utilizzano similarmente; le loro istantanee non dicono mai tutto, non si completano nello scatto dell’unica foto, alludono sempre ad un’altra situazione o azione che si compirà, lanciano indizi senza mai rivelare la soluzione; provocano.


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Confronti

Narrazione e Introspezione: Bourdin e Turberville

Il confronto nasce dal riconoscere un certo stile similare che accomuna i due interpreti. Sia l’uno che l’altro, com’è tipico negli anni settanta, si approcciano alla fotografia di moda attraverso una modalità narrativa.

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Diversi nelle tematiche, Turberville non applica assolutamente l’alto tasso di drammaticità e violenza tipico di Bourdin, entrambi registrano un interesse centrale nel ricercare un coinvolgimento emotivo nello spettatore sulla foto in quanto tale, in cui gli abiti non ci sono o si fanno corpo.


Se Bourdin si avvicina molto per tecnica e finalità alla corrente concettualista, in voga in quegli anni, conosciuta come Narrative Art, che proponeva una narrazione provocatoriamente frustante, con situazioni disseminate di indizi, che però non vengono mai decifrati con sicurezza, Turberville si pone con un punto di vista prettamente femminile, raccontandoci una donna interiormente problematica, complessa, tormentata. Turberville rigetta tutta la componente sessuale torbida e trasgressiva, si dimostra più delicata e introspettiva.

Oltre lo stile narrativo, condividono l’idea di fotografia come abito corporeizzato piuttosto che come corpo vestito; le pose, la gestualità, gli sguardi straniati comunicano un atavico disagio nella Turberville, come per Bourdin sussulto e sospensione. Differentemente, invece, si legano alla corrente narrativa. Turberville, in contrasto con Bourdin, si rifà più ad un modello pittorico che cinematografico. Sebbene la sua fotografia alluda sempre ad un qualcosa da scoprire, il senso si può trovare già nella fotografia stessa. L’allusione, il rimando rimane all’interno del singolo scatto, non spinge l’osservatore ad inventarsi un prosieguo. Di certo, nei loro scatti l’oggetto di riferimento della fotografia di moda si fa molto più complesso che il puro e semplice abito.

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Confronti

La visuale italiana: Roversi e Fallai

La decisione di unire questi interpreti è prettamente geografica, oltre che naturalmente cronologica. Se venisse naturale ricercare analogie tra i due compatrioti, si rimarrebbe delusi; realmente poco hanno a che fare l’uno con l’altro.

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Tra Roversi e Fallai c’è poco in comune sia nel caso della poetica che per quanto riguarda lo stile. Semmai, si possono trovare connotati simili in come abbiano prestato il proprio nome per l’ascesa o la consacrazione di case italiane di moda. E non è un caso che stilisti italiani abbiano collaborato con fotografi italiani (e viceversa) per definire il proprio immaginario.


Armani sostiene che ad inizio carriera era alla ricerca di un occhio simile al suo, che avesse respirato lo stesso ambiente culturale, con una sensibilità che potesse sostituire il suo sguardo come indica in “Lo Sguardo Italiano: Fotografie di moda dal 1951” e Fallai fu l’interprete perfetto per questo compito. Ugualmente si comporta Roversi con Romeo Gigli, firmando la sua prima campagna nel ’85. Un altro elemento che divide i due protagonisti lo troviamo nelle testate per cui lavorano o nei marchi per cui firmano le campagna;

se Fallai, infatti, concentra i suoi lavori per case di moda italiane o per le edizioni italiane delle riviste di Condé Nast, sebbene annoveri tra i suoi lavori collaborazioni con Hugo Boss, Calvin Klein e testate quali Esquire Japan, Vogue Britain e L’Officiel Homme, Roversi, dal canto suo, mantiene un profilo più internazionale, collaborando con Harper’s Bazaar America, I-d, Interview, Marie Claire, W Magazine, Vogue Paris e firmando campagne con Comme des Garcons, Yohji Yamamoto, Givenchy, Yves Saint Laurent, Christian Dior. Identico principio vale per le modelle scelte come proprie muse; se a Fallai associamo le figure di Antonia Dell’Atte e Gia Marie Carangi, a Roversi quelle di S. Tennant e K. Owen, modelli molto differenti di femminilità che esibiscono un diverso gusto ed un diverso approccio alla materia.

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A proposito di gioco Riferimenti e Trama

A proposito del gioco racconta di quattro ragazze che condividono la stessa casa, in un tempo non meglio specificato; sicuramente un tempo passato, trasudante di ricordi, vissuto. Vogliono giocare, ma non sanno come fare.

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Colte nell’età in cui ci si considera troppo mature per far cose ludiche, ma troppo giovani per annullare il loro impeto giovanile, provano a muoversi ma son preda di amnesia. Amnesia ludica. Non sanno piÚ come divertire il loro spirito. Il colmo, il gioco si prende gioco di loro, attraverso di loro.


All’interno delle scene compaiono elementi o espressioni corporee poco idonee alla situazione o perlomeno fuori contesto, sia nelle immagini di gruppo, che in quelle singole. Indizi di un’insofferenza latente, troppo vera per non essere recepita, troppo debole per imporsi del tutto. Prove che non forniscono una lettura definitiva del caso, ma che si trascinano lungo il percorso. Si finisce per vagare per la dimora, senza troppe finalità, cogliendosi in se stesse, non celando un certo affanno. Comunicano poco, si alienano facilmente.

Il servizio fotografico trova Deborah Turberville come sua più grande ispiratrice sia per quanto riguarda inquadrature, stati d’animo e moda, sia per la grana di fotografia che si è sviluppata. Il tutto poi è stato macchiato, colorato riprendendo lo stile di Bourdin, lasciando dubbi, narrando senza definire, aggiungendo indizi senza continuare nella verifica delle prove. Si è cercata una sintesi tra i due autori, in un’ambientazione più legata all’estetica di Turberville, si è inserito un rimando a Bourdin nelle pose e negli equipaggiamenti, come stivali di gomma e guanti.

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Elementi

Modelli

La scelta delle modelle è ricaduta su di un genere femminile molto magro, con lineamenti ben marcati, e con capacità di espressione talvolta tormentate e di apatia pura. Come se il corpo potesse rispecchiare, nei connotati e nei modi, la disperazione che portano dentro.

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La scelta è ricaduta su due ragazze more e due bionde, alla ricerca di un equilibrio, in cui riuscivo a cogliere rigidità da una parte, ed immedesimazione nell’altra, senso di abbandono e vivacità, trasandatezza e cura, sinuosità e spigolosità. Ragazze impegnate nella crescita spirituale di se stesse, poco inclini a sacrificarsi per gli altri e mostrare il lato più materno e sensibile. La sensibilità la rivolgono a loro e a loro soltanto. E non tanto per egoismo, ma come passo doveroso per la comprensione di sé.


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Conclusioni

L’analisi progettuale e l’approfondimento di studio fotografico tentano di rispondere in primo luogo all’esigenza di rendersi consapevoli delle diversificate fasi che formano un progetto di collezione e del bacino culturale e visuale in cui tutto si svolge.

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Una maieutica dialogica, per comprendere i ragionamenti procedurali che hanno assemblato il progetto, la loro utilità e la loro funzione. Un tentativo di definizione, qualora non risultasse troppo limitante, delle fasi processuali e degli intrepreti che hanno contribuito, direttamente o meno, a far sì che quelle fasi fossero compiute.


Uno scavare nella fotografia, cercando di non cadere nell’anacronistico o nel banale, cercando di riprendere tutti dall’alto, attraverso fonti verificate, letture e cataloghi di mostre dedicate. Uno studio che tenta di inquadrare con obiettività lo scenario in cui si è svolto il percorso di progettazione della collezione. Affinché si potesse motivare con argomentazioni valide la dissertazione offerta sulla fotografia di moda, ci si è rivolti all’ambiente culturale e alle tendenze artistiche in voga in quegli anni, oltre che alle singole esperienze personali degli autori, per poi poterle porre su di un piano comune, in cui analizzarle.

I servizi fotografici prodotti riassumono queste influenze visive, letterarie e culturali riproponendole in chiave contemporanea e personale. Le immagini concorrono allo stesso livello delle parole alla lettura completa del progetto, sebbene queste ultime rimangano il fulcro portante fondamentale. Infine, si è voluto, in qualche modo, sfidare l’abituale corso del procedere progettuale secondo il quale s’incomincia da uno studio fotografico o letterario e grazie ad esso si sviluppa e si elabora un progetto autonomo. Dal mio canto, è stato proprio il progetto di collezione a condurmi a scoprire e approfondire la fotografia di moda che, fino ad allora, da una diagnosi frettolosa e lacunosa da me fatta, era affetta dalla stessa Sindrome di Cenerentola che l’ha stereotipata, agli occhi dei più, nel corso del tempo.

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Iconografia

Pagina Traub C., Dolce via: Italy in the 1980s, Venezia, 1981

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Id., Napoli, 1982

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Id., Napoli, 1985

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Id., Milano, 1981,

16-17

Id., Roma, 1981,

19

Id., Ostia, 1982,

20-21

Id., Roma, 1981,

22

Graham P., A1: the Great North Road,

25

Id., pag.

26, 27, 28, 29, 30, 31

Ecce Bombo, screenshot, Id.,

38, 39, 41, 43 , 44

Graham P., A1: the Great North Road,

41

Id.,

43

Traub C., Dolce via: Italy in the 1980s, Monte Cassino, 1981

42

Id., Sinalunga, 1981

44

Moon S., Vogue, 1973

84

Bourdin G., Untitled, 1977

88

Id., C. Jourdan 1975, 155

34

91-92


Pagina Newton H., Jenny Capitain, Pension Dorian, 1977

94

Id., woman into man lighting a cigarette, Vogue Francia 1979,

96

Turberville D., Bath house series, Vogue 1975

99-100

Moon S., 1974

103

Moon S., Suzanne aux Tuileries, 1974

104

Fallai A., Giorgio Armani, 1984

106

Id., Emporio Armani, 1985

108

Roversi P., Romeo Gigli 1977,

110

Id., Kirsten, 1988

112

Newton H., Yves Saint Laurent,Rue Abriot, Vogue Francia, 1975

116

Bourdin G., Charles Jourdan Summer, 1975

117-118

Turberville D., Jean Muir et models, Vogue Francia, 1975

121

Id., Five girls in Pigalle, Vogue Italia, 1982

122

Bourdin G., Roland Pierre Summer, 1983

123-124

Fallai A., Giorgio Armani, 1987

127

Roversi P., Claude Montana, 1986

128

Id., Yohji Yamamoto, 1985

129

Fallai A., Giorgio Armani Vogue America, 1988

130 156


Bibliografia

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Filmografia e Sitografia Ecce Bombo, regia Nanni Moretti, Italia 1978, commedia, 103 minuti.

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158


Ringraziamenti

RIngrazio la mia famiglia per il supporto che mi ha sempre dato e per il costante impegno profuso nei miei confronti. Ringrazio le amicizie sincere. Ringrazio i/le modelli/e che hanno reso i servizi possibili. Ringrazio l’università IUAV, la sua biblioteca e il mio relatore.

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