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TRIMESTRALE SCIENTIFICO DI PATOLOGIA VASCOLARE Anno V - N. 1, 2011 - ISSN 1973-7564
EDITORIALE Un nuovo Nautilus tra vasi, flussi e medici Giovanni B. Agus LEADING ARTICLE Linfedemi secondari: inquadramento e costi sociali Vincenzo Gasbarro, Luca Boschetti ARTICOLI ORIGINALI La durata ottimale della terapia anticoagulante nei pazienti con tromboembolismo venoso Raffaele Pesavento, Fabio Dalla Valle, Chiara Piovella, Lucia Filippi, Paolo Prandoni L’insegnamento della medicina di famiglia all’università. Un’esperienza in atto Attilio Giotta, Jacopo Acquati Lozej, Beatrice Costa Luca De Giambattista, Giulia Fusetti, Francesco Carelli La trombosi venosa superficiale tra vene sane e vene patologiche Fabio Dalla Valle, Isabella Minotto IN EVIDENZA Il burden della sindrome post-trombotica (SPT) Raffaele Pesavento CASI CLINICI A PIÙ VOCI Discussioni fiorentine CULTURA Scienza e umanità. Due culture, anzi una. Per rinnovare il mestiere di medico Giorgio Cosmacini, Giovanni B. Agus WEB Survey sito web NAUTILUS: Risultati
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Editore SINERGIE Edizioni Scientifiche S.r.l. Via la Spezia, 1 - 20143 Milano Tel./Fax 02 58118054 E-mail: redazione@edizionisinergie.com www.edizionisinergie.com Direttore responsabile Mauro Rissa Direttore scientifico Giovanni B. Agus
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Steering Committee Giovanni B. Agus Raffaele Pesavento
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Board scientifico Claudio Allegra Giuseppe Maria Andreozzi Pier Luigi Antignani Giovanni de Gaetano Vincenzo Gasbarro Arkadiusz Javien Andrew N. Nicolaides Gualtiero Palareti Hugo Partsch Michel Perrin Paolo Prandoni Maurizio Puttini Eberhard Rabe Angelo Scuderi Roberto Simkin Paolo Zamboni
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Segreteria di redazione SINERGIE Edizioni Scientifiche S.r.l.
TRIMESTRALE SCIENTIFICO DI PATOLOGIA VASCOLARE Anno V - N. 1, 2011
SOMMARIO EDITORIALE Un nuovo Nautilus tra vasi, flussi e medici Giovanni B. Agus LEADING ARTICLE Linfedemi secondari: inquadramento e costi sociali Vincenzo Gasbarro, Luca Boschetti ARTICOLI ORIGINALI La durata ottimale della terapia anticoagulante nei pazienti con tromboembolismo venoso Raffaele Pesavento, Fabio Dalla Valle, Chiara Piovella, Lucia Filippi, Paolo Prandoni
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La trombosi venosa superficiale tra vene sane e vene patologiche. Fabio Dalla Valle, Isabella Minotto
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IN EVIDENZA Il burden della sindrome post-trombotica (SPT) Raffaele Pesavento CASI CLINICI A PIÙ VOCI Discussioni fiorentine
Stampa Galli Thierry Stampa S.r.l. Via Caviglia, 3 - 20139 Milano
CULTURA Scienza e umanità. Due culture, anzi una. Per rinnovare il mestiere di medico Giorgio Cosmacini, Giovanni B. Agus WEB Survey sito web NAUTILUS: Risultati
Registrazione presso Tribunale di Milano n. 139 del 07/03/2007 © Copyright 2011 SINERGIE Edizioni Scientifiche S.r.l. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata o riprodotta senza l’autorizzazione dell’Editore.
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L’insegnamento della medicina di famiglia all’università. Un’esperienza in atto Attilio Giotta, Jacopo Acquati Lozej, Beatrice Costa, Luca De Giambattista, Giulia Fusetti, Francesco Carelli
Impaginazione SINERGIE Edizioni Scientifiche S.r.l.
Tiratura 20.000 copie
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La bibliografia integrale degli articoli sarà disponibile sul sito della rivista www.nautilussalute.com
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Un nuovo Nautilus tra vasi, flussi e medici Tentativamente, inizia con questo primo numero del 2011 la nuova serie di Nautilus. Ciò che avete nelle vostre mani è infatti un nuovo/vecchio giornale, “Nautilus”, ponte di passaggio tra i primi tre anni di lavoro del progetto che dal giornale prende nome, e un nuovo periodo che vorremmo Intanto, ricorderemo la scelta programmatica del nome e del logo - negli anni scorsi rappresentato in copertine accattivanti per creatività astratta, ora realistica con un celebre nautilus ampezzanus - che simbolizza con il suo guscio, affatto simile ai gusci delle chiocciole, una realtà vivente, essendo appunto il nautilus un fossile vivente. Il guscio è formato da un tubo che si allarga a poco a poco verso l’avanti e che nella maggior parte dei casi è arrotolato in una spirale chiusa. La parte retrostante del tubo è suddivisa in molteplici camere, mentre nella parte anteriore, costituita da un’unica cavità, si trova il corpo molle dell’animale, la vita. Il suo movimento nel liquido, l’acqua, avviene grazie ad un sistema valvolare. Ma fermiamoci qui. Il contenuto di questo giornale è il sistema circolatorio umano, con tutte le sue implicazioni fisiologiche e, purtroppo, patologiche di un sistema costituito dai vasi - contenitori vitali -, quanto dai contenuti flussi di sangue e linfa -. Il medico, specialista vascolare o di medicina generale (ma amiamo sempre la definizione di medico di famiglia), è fortemente messo alla prova con questo apparato di vasi e flussi, considerate le evidenze di elevata epidemiologia dei disturbi e malattie vascolari per morbidità e mortalità. In più, nuove sfide sono da affrontarsi per il medico di oggi: l’impatto tecnologico, la sua formazione universitaria ed il suo aggiornamento continuo, le costrizioni di un sistema sanitario che toglie capacità decisionali, i nuovi costi della salute, non ultime le nuove emergenze etiche. Di questi temi vuole trattare Nautilus, in modo scientifico e professionale. La struttura del numero. Leading article. Apre il numero il tradizionale articolo a firma di personaggio rilevante nel panorama delle Società scientifiche: oggi il Prof. Vincenzo Gasbarro, dell’Università di Ferrara, neo-presidente del Collegio Italiano di Flebologia. Egli tratta l’argomento poco conosciuto dei linfedemi secondari; tra i quali nella comune pratica clinica va ricordata la concomitanza di patologia venosa e linfatica nelle sindromi post-trombotiche. Articoli originali. Sono compresi sia articoli di specialisti, come quello di Raffaele Pesavento, sempre più promotore del Progetto Nautilus, o di medici di famiglia; così come di medici più esperti e di giovani medici con un brillante futuro. E’ questa, occasione per invitare gli uni e gli altri a collaborare con il giornale inviando loro articoli.
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condividere con voi, ancor più che in passato.
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In evidenza. Viene in questo numero esaminata la sindrome post-trombotica che rappresenta oggi in medicina una consistente epidemia, sequela del tromboembolismo venoso. Ancora Raffaele Pesavento ci conduce attraverso il burden-peso del problema. Nella nuova Sezione Casi clinici a più voci, si vuole discutere come un medico lo farebbe raccontando ad un collega il caso clinico che lo mette in difficoltà, oppure gli insegna qualcosa di nuovo o di speciale, o che semplicemente desidera condividere in epoca gestionale nuova (economia sanitaria, etica medica, medicina legale sempre più invadente e medicina difensiva sempre più opprimente). In questo numero si leggerà, tra le righe, un omaggio agli indimenticabili “casi clinici” di Tempo Medico. E’ tempo infatti che si ricuperi la forza dell’induzione, quanto l’importanza della biografia del singolo - in quella medicina definibile narrativa - perché la “trama della vita non può essere raccontata se non
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con il caso singolo. Il caso istruisce, perché la vita non è un caso”.
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Nella Sezione Cultura, quasi naturale prosieguo dell’articolo di Ugo Garbarini, presidente dell’Ordine Provinciale di Milano, sui “Cento anni di Ordini dei Medici Chirurghi in Italia”, che lo firmò sull’ultimo numero del 2010 di Nautilus, proponiamo una riflessione sull’essere medico oggi, cercando di ottemperare l’esigenza antropologica della nostra professione con l’inevitabile avanzamento tecnologico. Il contributo a firma Giorgio Cosmacini, notissimo medico e storico della Medicina, e personale, deriva dall’incontro milanese del novembre scorso a ricordo e risorgimento dell’Ordine dei Medici Chirurghi; o, in altre parole, dalla necessità di creare una resistenza a chi vuole negare il ruolo del medico, piegandolo ai propri interessi, di potere o di economia. La Sezione NEWS comprenderà annunci di congressi, convegni e corsi selezionati per i mesi dell’anno successivi all’uscita del numero; notizie dal mondo del farmaco; notizie dal mondo della Sanità. In questo numero ci occupiamo della parte WEB, propositiva del nuovo sito www.nautilussalute.com. Iniziamo con la comunicazione di un interessante survey sul rapporto tra medico e web. Giovanni B. Agus
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Linfedemi secondari: inquadramento e costi sociali Vincenzo Gasbarro, Luca Boschetti Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Anestesiologiche e Radiologiche Università degli Studi di Ferrara U.O. di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare - Arcispedale S. Anna - Ferrara Il linfedema rappresenta una patologia cronica e invalidante dal punto di vista fisico, funzionale e psicologico, di non facile controllo, con spiccata tendenza all’evoluzione clinica. Per tale motivo richiede un approccio diagnostico mirato, precoce e ripetuto nel tempo. La peculiarità dell’edema linfatico rispetto ad altri edemi vascolari è data dalla costante evoluzione in senso fibrotico: questo perché gli edemi di natura linfatica sono ad alta concentrazione di macromolecole proteiche e queste ultime sono causa dell’attivazione della cascata infiammatoria (Fig. 1). Clinicamente, quanto più è presente l’elemento infiammazione, tanto più il linfedema va incontro a “connettivizzazione” , quindi a fibrosi. Stabilire le cause del deficit linfatico ed il suo stadio
Fig. 1 - Linfedema congenito bilaterale ( >a dx.) in una bambina in età scolare
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evolutivo, sono altresì elementi indispensabili per stabilire i tempi e le modalità della strategia terapeutica medico-fisica. Le dimensioni del fenomeno: cenni di epidemiologia I dati ricavati dalla letteratura internazionale, pubblicati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 1994), riportano un'incidenza del linfedema nel mondo stimata intorno ai 140 milioni di casi (circa 1:2000). Quasi la metà è di origine primaria, caratterizzata perciò da una natura congenita linfo-angio-adeno-displasica. Circa 40 milioni di casi sono imputabili a malattie parassitarie del sistema linfatico (Filariasi linfatica Bancrofti), endemiche nelle zone tropicali e subtropicali (India, Brasile,Sud-Africa). 20 milioni di casi sono attibuibili a condizioni post-chirurgiche secondarie all'intervento sul carcinoma (linfedema secondario). I restanti sono determinati dal sovraccarico del volume linfatico secondario a patologie di ordine medico internistico e forme miste in corso di IVC. Il linfedema in Italia Nel nostro Paese il numero di linfedemi secondari riconosciuti è in costante aumento grazie alla precocità della diagnosi e di intervento nella patologia del tumore mammario. Questa condizione è caratteristica per lo più degli arti superiori e riconosce prevalentemente una genesi secondaria mentre il coinvolgimento degli arti inferiori è prevalentemente riconducibile a disordini di tipo primario, ma con numerosità casistica di sindromi post-trombotiche (SPT) tra i secondari. Il sesso femminile è quello principalmente colpito da questa patologia. L'età classica di insorgenza del fenomeno corrisponde alla II-III decade di vita per le forme primarie, alla V-VII
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per quelle secondarie. La linfangite rappresenta una complicanza non rara della linfostasi e richiede, in alcuni casi, un trattamento antibiotico protratto, sia a scopo terapeutico sia profilattico. Secondo uno studio epidemiologico condotto dalla Società Italiana di Linfangiologia si calcola che in Italia si sviluppino circa 40.000 nuovi casi annui di linfedema, di cui il 15% circa evolve verso uno stadio clinico avanzato. Per quanto riguarda la localizzazione agli arti superiori, è quasi sempre (98%) secondario a linfoadenectomia ascellare e/o radioterapia per il trattamento del carcinoma mammario, mentre nel 2% dei casi è conseguenza dell'asportazione di lipomi in sede ascellare, di biopsie linfonodali ascellari, di radioterapia axillo-sovraclaveare per linfoma o melanoma. Uno studio italiano condotto su circa 200 donne sottoposte a trattamento chirurgico per neoplasia mammaria ha dimostrato la comparsa di linfedema secondario dell'arto superiore nel 20-25% delle donne sottoposte a mastectomia o quadrantectomia associate a linfoadenectomia ascellare, e fino al 35% di quelle alle quali è stata associata la radioterapia. Tali dati corrispondono a quelli della letteratura internazionale. Data l'elevata incidenza del linfedema secondario, la possibilità di prevenire la patologia linfostatica, in termini di precocità diagnostica e tempestività terapeutica, riveste importanza cruciale. Tutto ciò non solo in considerazione dei pesanti risvolti psicologico-sociali e dell'invalidità fisica correlate a tale patologia, ma anche della possibilità di prevenzione delle frequenti complicanze linfangitiche e delle più rare trasformazioni neoplastiche (linfangiosarcomi). In termini di SSN italiano, il linfedema è inquadrato come malattia della pelle e non come patologia vascolare e ciò rende ragione da un lato della scarsa comprensione del significato di questa patologia, ma soprattutto dello scarsissimo riconoscimento sociale per questa malattia. Il linfedema degli arti costituisce una patologia vascolare misconosciuta dai pazienti ed in buona parte anche dai medici, dalla classe dirigenziale sanitaria e dai legislatori sanitari verso che spesso sottovalutano una patologia fortemente invalidante sia sotto il profilo biologico che sotto quello psicologico. Di fatto la presenza di un linfedema obbliga molto frequentemente il paziente a vagare fra diverse strutture lungo tutto il territorio nazionale, sottoponendosi a diverse tipologie di terapie molto spesso approssimative, o addirittura obsolete e incongrue. Il
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tutto si traduce in dispendio di energie e costi per il paziente, che vede nella stragrande maggioranza dei casi la sua patologia peggiorare di anno in anno. Una simile situazione si ripercuote soprattutto in termini di perdita di ore lavorative e nella necessità di reiterati trattamenti spesso non coordinati; se a ciò aggiungiamo che la maggior parte delle terapie per il linfedema è a totale carico del paziente (farmaci, calze/bracciali elastici o bende elastiche, pressoterapia, drenaggio linfatico manuale.), se ne deduce che la patologia del linfedema comporta oggettivi problemi per le classi sociali più disagiate, con ricadute immaginabili a corto-medio e lungo periodo. Classificazione del linfedema e dei suoi stadi evolutivi Secondo la classificazione su basi fisiopatologiche proposta di M. Földi, si possono riconoscere tre tipi di insufficienza linfatica: 1° tipo o dinamica, 2° tipo o meccanica e 3° tipo o dipendente dalla insufficienza della valvola di sicurezza. Nell’insufficienza dinamica, si osserva che il rendimento della pompa linfatica è limitato; ciò non per una disfunzione del sistema bensì per l’aumento della produzione del liquido interstiziale. Essendo il carico fisiologico superiore alla capacità di trasporto del sistema linfatico, che si traduce con la formazione dell’edema. Questo può essere di tipo ortostatico, ipoproteico, o essere legato a stadi precoci d’infiammazioni acute: iperemia, ultra filtrazione, ecc. L’insufficienza meccanica, d’altra parte, si produce quando la capacità di trasporto è fortemente ridotta sia per un danno anatomico dei vasi linfatici e/o linfonodi. Quindi, questo tipo d’insufficienza produce un eccesso di proteine nell’interstizio: l’edema quindi può evolvere in un fibredema. L’insufficienza della valvola di sicurezza, si traduce nella ridotta capacità di trasporto, dovuta all’assenza o scarsa rappresentazione dei sistemi di blocco; ciò aumenta il carico linfatico fisiologico idrico e proteico, generando un edema massiccio e ricco in proteine. Nelle zone di edema si producono processi di necrosi e di progressione patologica. L’esempio tipico è lo stato tardivo di insufficienza venosa cronica degli arti inferiori (C3 - C6). Per un corretto e completo inquadramento della patologia linfatica non è però possibile prescindere dall’utilizzo della Classificazione CEAP-L (Clinica-Ezio-
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C1: Assenza di edema in presenza di alterazioni delle vie linfatiche (mastectomizzata con linfadenectomia ascellare con arti coincidenti in quanto a volume e consistenza). C2: Lieve edema reversibile con la posizione declive ed il riposo notturno. C3: Edema persistente (non regredisce spontaneamente con la posizione declive) ed ingravescente (linfangiti acute eresipeloidi). C4: Fibrolinfedema (verrucosi linfostatica iniziale) con arto a “colonna”. C5: Elefantiasi con grave deformazione dell'arto, pachidermite sclero-indurativa e verrucosi linfostatica marcata ed estesa. Tab. 1 logica-Anatomica-fisioPatologica-sistema Linfatico), anche in considerazione dei risultati ottenuti con l’introduzione, nello studio del sistema venoso, della classificazione CEAP. Questo sistema permette di raccogliere una serie di informazioni fondamentali sull’entità e sulla evoluzione clinica della malattia utilizzando un linguaggio comune e di facile applicabilità clinica. Il linfedema dal punto di vista Clinico (C), evolve secondo 5 stadi clinici (Tab.1).
gnosi precisa di linfedema (Fig. 2). Nella maggior parte dei pazienti, sulla base dell'anamnesi e dell'esame obiettivo, si può agevolmente porre diagnosi di linfedema: edema generalmente di consistenza aumentata, a seconda della maggiore o minore componente tissutale fibrosclerotica, assenza del segno della fovea, anche negli stadi più precoci della malattia, presenza del segno di Stemmer (non plicabilità della cute alla base del 2° dito del piede), lesioni distrofiche cutanee (sequele post-linfangitiche, ipercheratosi, verDiagnosi rucosi linfostatica, linforrea, chilorrea, ecc.), frequenti Per una adeguata terapia è indispensabile una diacomplicanze dermato-linfangio-adenitiche (DLA). Utile, inoltre, la valutazione delle stazioni linfonodali, per evidenziare l'associazione o Algoritmo diagnostico-terapeutico del linfedema meno di linfoadenopatie acute o croniche. Nelle forme più complesse di angiodisplaClinical management of the linfedema of the limbs sia, caratterizzate da una condizione di Swollen limb iperstomia artero-venosa (Sindrome di MaProbable systemic cause Probable vonous cause Physical examination yall ) o da macro e microfistole artero-venose congenite (Malattia di Probable lymphedema Duplex ultrasound negative Klippel-Trénaunay o di Klippel-Trénaunaypositive Servelle), il quadro clinico può essere caLymphoscintigraphy As, Ap, An lymphedema Soft tissue ultrasound S0-S2 An ratterizzato da: gigantismo con Venous edema allungamento dell'arto, dismorfismo più o CT scan/MRI, other 2ary lymphedema Es 1ary lymphedema Ep meno marcato del piede, angiomi color C1-5, DO-3, PoPr C1-5, DO-3, PaPiPr “vino Porto”, piatti e a carta geografica, iperidrosi della pianta. Esistono, tuttavia, Medical / physical treatment surgery forme spurie, ancora più difficili da diaBandage Limb elevation Manual pressotherapy gnosticare per la prevalente componente Elastic Hygienic measures Lymph. garments Lymphangioraphy Excissional linfedematosa. In alcuni casi, inoltre, la drainage C2-3 techniques presenza di condizioni sovrapposte quali Clinical and instrumental l'obesità patologica, l'insufficienza veRicontructive techniques Other treatment re-evaluation nosa, il trauma più o meno evidente e riGasbarro V. Et al, 2007 correnti infezioni possono complicare il quadro clinico. Nel considerare l'origine Fig. 2
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di un linfedema uni o bilaterale delle estremità, specialmente negli adulti, è necessario prendere anche in considerazione l'eventualità di una causa tumorale. L'associazione di altre condizioni patologiche, quali l'insufficienza cardiaca congestizia, l'ipertensione arteriosa e patologie cerebrovascolari, compreso l'ictus, possono a loro volta influenzare l'iter terapeutico. Qualora non fosse chiara la diagnosi di linfedema o ci fosse bisogno, anche per considerazioni di ordine prognostico, di una migliore definizione diagnostica del quadro clinico, è opportuno un consulto specialistico linfologico, indirizzando il paziente ad un centro specializzato di linfologia. Valutazione strumentale Il primo livello diagnostico è rappresentato dalla linfoscintigrafia, dall'ecografia ad alta risoluzione e dall'ecocolordoppler; il secondo livello, TC, RM, linfografia; il terzo livello, flebografia, arteriografia, genetica, biopsia. L'ecografia ad alta risoluzione (sonde lineari da 10-14 MHz) evidenzia l'incremento degli spessori sopra e sottofasciali basali e la riduzione dello stesso dopo trattamento. Evidenzia altresì il grado di compressibilità tissutale e le caratteristiche ecogeniche diverse a seconda della prevalente componente idrica o fibrotica tissutale. Utile, a questo proposito, ai fini del monitoraggio del trattamento ed ai fini prognostici. Un ulteriore apporto della metodica è rappresentato dalla possibilità di individuare gli spessori muscolari sottofasciali consentendo di mirare l'intervento terapeutico atto ad ottimizzare il trofismo muscolare stesso. La linfoscintigrafia è l'esame di prima scelta per la definizione diagnostica dell'edema, per confermarne la natura linfostatica, per l'individuazione della causa (da ostacolo o da reflusso), per valutare l'estensione della malattia (dermal back flow), la compromissione maggiore o minore del circolo linfatico profondo rispetto a quello superficiale, il drenaggio attraverso le stazioni linfonodali. Utile, pertanto, lo studio della circolazione linfatica sia superficiale che profonda, mediante l'opportuna iniezione del tracciante nelle sedi specifiche di drenaggio dei due sistemi. L'esame non è invasivo, facilmente ripetibile, eseguibile anche in età neonatale. Consente, infine, di individuare lo stadio della linfostasi ancora clinicamente non manifesta, svolgendo così un ruolo fondamentale nella prevenzione del linfedema secondario. Utile, infine, lo studio nel follow-up dei diversi
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metodi terapeutici del linfedema e, in particolare, delle tecniche di microchirurgia linfatica. Indispensabile è lo studio della circolazione venosa mediante eco-color-doppler (indagine costantemente impiegata nella valutazione strumentale di un arto edematoso). Anche lo studio della circolazione arteriosa può rendersi indispensabile nei quadri di panangiodisplasia con associato linfedema. In questi casi, oltre all'esame Eco-Color-Doppler, può essere utile lo studio arteriografico digitale. La linfografia rappresenta modernamente un'indagine indispensabile per lo studio delle complesse patologie congenite o acquisite dei vasi chiliferi, della cisterna chyli e del dotto toracico. Viene più modernamente eseguita in sala angiografica, in anestesia locale e con preparazione dei vasi linfatici mediante tecnica microchirurgica precedentemente evidenziati con un colorante vitale come il patent Bleu Violet. La TC e la RM rappresentano strumenti diagnostici utili per la definizione delle complesse sindromi in cui si associano quadri di angiodisplasia e linfedema, oltre che per lo studio della eventuale natura organica ostruttiva del linfedema secondario a malattia tumorale. In particolare, per i linfedemi degli arti, La Linfangio-RM, in particolare, eseguita con la metodica di sottrazione del tessuto adiposo, può fornire informazioni importanti nei quadri avanzati di natura ostruttiva, in cui le vie linfatiche si presentano dilatate e ripiene di linfa. Studio genetico, esame bioptico, tecniche immunoistochimiche Sebbene tali tecniche abbiano utilità e affidabilità universalmente riconosciute, offrono però un contraltare rappresentato da costi elevati, invasività e tempi di realizzazione prolungati che le rendono adatte solamente a pochi casi altamente selezionati come i dimorfismi genetici a trasmissione familiare o i sospetti di patologia neoplastica. La disabilità nel paziente affetto da linfedema In funzione della disabilità complessiva presentata dal paziente affetto da linfedemi degli arti (comprese le voci dell'International Classification of Functioning-I.C.F. relative alle sfere psichica, sessuale, sociale etc.) è possibile distinguere diversi gradi di impegno funzionale. Questo sistema codifica uno score progressivamente crescente a seconda che il paziente presenti assenza
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C1: non segni visibili di malattia (pre-clinico) CICLO DI MANTENIMENTO Compressione: tutore elastico K1 Pressoterapia: uso domiciliare bisettimanale (P= 20-40 mmHg) Ginnastica Vascolare Tab. 2 C2: Edema che scompare col riposo notturno CICLO INTENSIVO D. L. M.: 3 sedute x sett.li (2 cicli mensili /anno) Compressione: bendaggio multistrato dopo seduta D.L.M. Pressoterapia: 3 sedute x sett.li (2 cicli mensili /anno) CICLO DI MANTENIMENTO: Compressione: tutore elastico K2. Pressoterapia: uso domiciliare quotidiano (P= 30-60 mmHg) Ginnastica Vascolare Tab. 3 C3: Edema che persiste con il riposo notturno CICLO INTENSIVO D. L. M.: 3 sedute x sett.li (3 cicli mensili /anno) Compressione: bendaggio multistrato dopo seduta D.L.M. Pressoterapia: 3 sedute x sett.li (3 cicli mensili /anno) CICLO DI MANTENIMENTO: Compressione: tutore elastico K3 (2+1) Pressoterapia: uso domiciliare quotidiano (P= 30-60 mmHg) Ginnastica Vascolare Tab. 4 C4: Edema fibrotico CICLO INTENSIVO D. L. M.: 3 sedute x sett.li (4 cicli mensili /anno) Compressione: bendaggio multistrato dopo seduta D.L.M. Pressoterapia: 3 sedute x sett.li (4 cicli mensili /anno) CICLO DI MANTENIMENTO Compressione: tutore elastico K4 (2+2 o 1+3) Pressoterapia: uso domiciliare quotidiano (P= 40-80 mmHg) Ginnastica Vascolare Tab. 5 C5: Elefantiasi CICLO INTENSIVO Compressione: bendaggio multistrato CICLO DI MANTENIMENTO: Compressione: tutore elastico K4….. (2+3) Ginnastica Vascolare e Articolare Tab. 6
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di disabilità (Grado 0) fino allo sviluppo di una disabilità completa (Grado 4), passando attraverso le forme lieve, moderata e grave (rispettivamente Gradi 1; 2 e 3) in almeno una delle attività/partecipazioni codificate dall' ICF. Trattamento La terapia del linfedema periferico è essenzialmente basata sulla fisioterapia CPT (Combined Physical Therapy -CPT) anche se sono comunque contemplate le terapie chirurgica e farmacologica che rivestono un ruolo minore. La CPT consta generalmente di un programma di trattamento in due fasi: la prima fase prevede la cura della pelle, il linfodrenaggio manuale, una serie di esercizi di ginnastica e l' elastocompressione normalmente applicata con bendaggi multistrato. La seconda fase, che va iniziata non appena completata la fase precedente, con l'obiettivo di mantenere ed ottimizzare i risultati ottenuti nella fase 1, comprende la cura della pelle, l'elastocompressione per mezzo di tutore (calza o bracciale) a basso grado di elasticità, la ginnastica per il recupero funzionale del o degli arti e ripetute sedute di linfodrenaggio manuale a seconda dei singoli casi. Condizioni essenziali per la riuscita del protocollo fisico combinato sono la disponibilità di personale medico (linfologi clinici), infermieristico e di fisioterapisti adeguatamente formati ed istruiti su tale metodica terapeutica. L'elastocompressione, se non applicata adeguatamente, può essere inutile ed a volte dannosa pertanto deve essere eseguito da professionisti di provata esperienza. La nostra esperienza ormai ventennale ci ha portato a riflettere molto sul tipo di approccio metodologica da dare al programma terapeutico del paziente affetto da linfedema. Gli ultimi cinque anni , dopo l’applicazione clinica quotidiana della CEAP-L, sono stati impostati ad un approccio terapeutico che tenesse conto delle classi cliniche del linfedema e permettesse al paziente affetto da linfedema di poter eseguire un progetto riabilitativo non molto complesso in termini di organizzazione
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del percorso riabilitativo e che permettesse altresì al paziente di poterlo eseguire quanto più possibile alla sua residenza. Grazie alla collaborazione dei pazienti e delle strutture sanitarie pubbliche e private distribuite su tutto il territorio nazionale siamo in grado di fornire al paziente una indicazione terapeutica adattata alla sua classe clinica di gravità (Vedi Tabelle 2-6). Secondo noi questa è la strada per fare del linfedema una malattia che possa essere trattata diffusamente su buone basi culturali, riducendo sensibilmente il disagio sociale e i costi considerevoli che giornalmente dei nostri pazienti devono sobbarcarsi. Bibliografia 1. Piller NB The prevalence of leg, arm and facial swelling in a western population. Eur J Lymph 1998; 6, N°23. 2. Campisi C, Michelini S Lymphedema epidemiology in Italy. Lymphology 1998; 3: 243-4. 3. International Society of Lymphology Executive Committee. The Diagnosis and Treatment of Peripheral Lymphedema. Lymphology 1995; 26: 113-7. 4. Witte MH, CL Witte, Bernas M for the Executive Committee. ISL Consensus Document Revisited: Suggested Modifications. Lymphology 1998;31: 138-140. 5. Browse NL, Stewart G Lymphedema: pathophysiology and classification. Cardiovasc Surg; 1985; 26: 91-106. 6. Bruna J, Miller AJ, Beninson J A simple classification of lymphedema. Eur J Plast Surg 1999; 22:404-5.
7. Ely JW, Osheroff JA, Chambliss L, Ebell M Approach to leg edema of unclear etiology. J Am Board Fam Med 2006;19:148-60. 8. Agus GB, Allegra C, Antignani P.L, Arpaia G, Bianchini G, Bonadeo P, Botta G, Castaldi A, Gasbarro V et al Guidelines for the diagnosis and therapy of the vein and lymphatic disorders. Int Angiol; 24; N°2: 160-8. 9. Yale SH, Mazza JJ Approach to diagnositic lower extremity lymphedema. Compr Ther 2001;27:242-52. 10. Gasbarro V, Cataldi A, Viaggi R Approccio terapeutico pluridisciplinare del linfedema degli arti: protocollo terapeutico. Flebologia 1997;8:75-80. 11. Cho S, Atwood KE Peripheral edema. Am J Med 2002; 113: 580-6. 12. Doldi SB, Lattuada E, Zappa MA, Pieri G, Favara A, Micheletto G. Ultrasonography of extremity lymphedema. Lymphology 1992;25:129-33. 13. Partsch H Assessment of abnormal lymph drainage for the diagnosis of lymphedema by isotopic lymphangiography and by indirect lymphography. Clin dermatol 1995;13:445450 14. Witte CL, Witte MH, Unger EC et al Advantages in imaging of lymph flow disorders. Radiographics 2000; 20:16971719. 15. Weissleder H, Weissleder R. Lymphedema evaluation of qualitative and quantitative lymphoscintigraphy in 238 patients. Radiology 1988;167:729-735. 16. Michelini S, Campisi C, Failla A et al Staging of lymphedema: comparinig different proposals. Eur J Lymphol 2006; 16: 7-10.
La sindrome post-trombotica (SPT), causa anche di linfedemi secondari, è sempre stata considerata una vera e propria "piaga sociale" con sequele a 15 anni di distanza superiori all'80%, oggi migliorate grazie alla profilassi e terapia con EBPM e alla compressione elastica. Nonostante i progressi della profilassi incidente sulla storia naturale, in una percentuale del 10-15% di pazienti si riscontra un deterioramento progressivo della circolazione venosa e linfatica e del trofismo cutaneo dell'arto, oltre che un rischio reale di recidiva trombotica. E' comprensibile pertanto un atteggiamento più aggressivo al problema. Il trattamento della SPT è eminentemente preventivo, e si deve basare su diagnosi e terapia tempestive della TVP in fase acuta e in fase di recidiva con immediata ripresa dell’EBPM, nonché sulla compressione elastica, rigorosa durante i primi due anni dopo una TVP di qualsiasi estensione e gravità. I trattamenti farmacologici del flebo-linfedema post-trombotico di provata utilità sono attivi soprattutto per la cura sintomatologica e della cura delle ulcere cutanee, e per la prevenzione delle recidive trombotiche. Tra i farmaci che possono contemporaneamente ottenere i due scopi, i glicosaminoglicani come il sulodexide rivestono un ruolo sempre più evidenziato dalla letteratura; ruolo ulteriormente riconosciuto dalle più recenti linee-guida (USA) in pubblicazione su supplemento del Journal Vascular Surgery. Sono di notevole importanza infine le norme igieniche e posturali, delle quali il paziente deve essere ben istruito, quali svolgere una vita attiva e una idonea attività sportiva, ridurre il peso corporeo, evitare traumatismi delle gambe, dormire con gli arti in posizione antideclive corretta.
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La durata ottimale della terapia anticoagulante nei pazienti con tromboembolismo venoso Raffaele Pesavento, Fabio Dalla Valle, Chiara Piovella, Lucia Filippi, Paolo Prandoni Dipartimento di Scienze Cardiologiche, Toraciche e Vascolari Clinica Medica 2 ed Unità Tromboembolica, Università di Padova Abstract The risk of recurrent venous thromboembolism (VTE) approaches 40% of all patients after 10 years of followup. This risk is higher in patients with permanent risk factors of thrombosis; in carriers of several thrombophilic abnormalities; and in patients with idiopathic presentation. Patients with permanent risk factors of thrombosis should receive indefinite anticoagulation, consisting of subtherapeutic doses of low-molecular-weight heparin in cancer patients, and oral anticoagulants in all other conditions. Patients whose VTE is triggered by major surgery or trauma should be offered three months of anticoagulation. Patients with idiopathic VTE, including carriers of thrombophilia, and those whose thrombotic event is associated with minor risk factors should receive at least three months of anticoagulation. The decision as to go on or discontinue anticoagulation after this period should be individually tailored and balanced against the haemorrhagic risk. Post-baseline variables, such as the D-dimer determination and the ultrasound assessment of residual thrombosis can help identify those patients in whom anticoagulation can be safely discontinued. As a few emerging anti-Xa and anti-IIa compounds seem to induce fewer haemorrhagic complications than conventional anticoagulation, while preserving at least the same effectiveness, they have the potential to open new
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scenarios for decisions regarding the duration of anticoagulation in patients with VTE. Riassunto Il rischio di recidiva di tromboembolismo venoso (TEV) si avvicina al 40% di tutti i pazienti dopo 10 anni di followup. Il rischio è maggiore nei pazienti con fattori di rischio permanente di trombosi, in portatori di diverse anomalie trombofiliche e nei pazienti con presentazione idiopatica. I pazienti con fattori di rischio permanente di trombosi dovrebbero ricevere una terapia anticoagulante a tempo indeterminato, costituita da dosi subterapeutiche di eparina a basso peso molecolare, nei pazienti oncologici, e da anticoagulanti orali in tutte le altre condizioni. I pazienti con TEV causato da un intervento chirurgico maggiore o da un trauma dovrebbero ricevere tre mesi di terapia anticoagulante. I pazienti con TEV idiopatico e quelli il cui evento trombotico è associato a fattori di rischio minori devono ricevere almeno tre mesi di terapia anticoagulante. La decisione di continuare o interrompere la terapia anticoagulante dopo tale periodo deve essere personalizzato e bilanciato con il rischio emorragico individuale. La determinazione del D-dimero eseguita dopo un certo periodo di terapia e la valutazione del residuo trombotico possono aiutare ad identificare quei pazienti in cui l'anticoagulazione può essere interrotta. Poiché al-
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cuni nuovi farmaci anticoagulanti (anti-Xa e anti-IIa) sembrano indurre un minor numero di complicanze emorragiche rispetto alla terapia convenzionale, mantenendo la stessa efficacia, essi hanno il potenziale per modificare le attuali decisioni riguardanti la durata della terapia anticoagulante in pazienti con TEV. Introduzione Dopo la sospensione della terapia anticoagulante una frazione considerevole di pazienti con trombosi venosa profonda (TVP) e/o embolia polmonare (EP) svilupperà una recidiva tromboembolica venosa. I risultati di una serie di studi prospettici di coorte condotti presso il nostro Istituto [1,2] ed altrove [2-7] mostrano chiaramente che le recidive tromboemboliche sono frequenti in molti casi, fino al 40% dei pazienti e compaiono con una frequenza significativamente più elevata nei pazienti con tromboembolismo venoso (TEV) idiopatico rispetto a quelli con TEV secondario a fattori di rischio transitori. I fattori di rischio di recidiva 1. Fattori di rischio acquisiti persistenti Dopo la sospensione del trattamento anticoagulante orale (TAO) i pazienti con malattie mediche croniche che richiedono immobilizzazione prolungata e quelli con cancro attivo, soprattutto se in fase avanzata e in trattamento chemioterapico, mostrano un rischio particolarmente elevato di recidiva di TEV [8-10]. Se nel primo caso non esistono chiare evidenze di un beneficio ne prolungare la TAO, nei pazienti oncologici un recente studio clinico randomizzato ha dimostrato che la somministrazione di un’eparina a basso peso molecolare (EBPM) a dosaggio pieno per il primo mese e ridotto a circa il 75% della dose iniziale per un ulteriore periodo di 5 mesi è potenzialmente in grado di dimezzare il numero di recidive tromboemboliche senza aumentare il rischio emorragico [11]. Una terapia anticoagulante prolungata a tempo indefinito dovrebbe essere considerata nei pazienti con episodi multipli di TEV, soprattutto se idiopatici [13], nei casi in cui è stato posizionato un filtro cavale permanente
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e l’anticoagulante non è controindicato [14] ed in presenza di sindrome da anticorpi antifosfolipidi [15]; recenti studi randomizzati [16,17] hanno mostrato che è sufficiente mantenere un dosaggio convenzionale della TAO anche in queste categorie di pazienti [12]. 2. Fattori di rischio transitori Il rischio di recidiva risulta basso nei pazienti con TEV provocato da un fattore di rischio maggiore e reversibile (es. chirurgia, trauma maggiore) e un trattamento anticoagulante di 12 settimane può essere sufficiente [3,12,18,19]. Nei pazienti con trombosi provocata da un fattore di rischio minore (trauma minore alle gambe, terapia con estrogeni, gravidanza, puerperio, viaggio aereo di lunga durata) il rischio di recidiva è più elevato e una maggiore durata della terapia anticoagulante dovrebbe essere considerata, dopo un’attenta valutazione del rischio emorragico individuale e delle preferenze del paziente[5,12]. Quando un episodio trombotico si sviluppa durante la gravidanza, dovrebbe essere trattato con EBPM a dosi piene per almeno tre mesi, tenendo presente che il trattamento non deve essere comunque interrotto prima della fine della gravidanza e dovrebbe sempre essere esteso a coprire le prime sei settimane dopo il parto [12]. Il trattamento anticoagulante è raccomandato nel puerperio in tutte le donne con precedente TEV. 3. TEV idiopatico Dopo la sospensione del trattamento anticoagulante, i pazienti con un primo episodio di TEV idiopatico hanno un rischio di recidive che si avvicina al 50% dopo 8-10 anni [1,2], indipendemente dal fatto che la terapia anticoagulante sia stata mantenuta per 6 o 12 mesi [19,20-22]. A questi pazienti devono essere proposti almeno 3 mesi di terapia anticoagulante orale, con valori di INR da mantenere tra 2,0 e 3,0 [12]. La decisione di continuare o meno la terapia anticoagulante dopo tale periodo deve essere personalizzata e bilanciata con il rischio emorragico stimato[12] e la nozione che il tasso di letalità di un
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episodio emorragico maggiore è notevolmente superiore a quello di una recidiva di TEV [23-25]. La terapia con warfarin a dosaggio convenzionale dovrebbe essere considerata come la prima scelta; un dosaggio minore di warfarina (INR tra 1.5 e 2.0) mantiene una certa efficacia antitrombotica, comunque minore rispetto a quella ottenuta con il dosaggio convenzionale e potrebbe essere considerato in situazioni particolari, in base ad un giudizio individuale, per esempio nei pazienti con elevato rischio emorragico[26,27]. Due cosiddetti parametri post-basali, il residuo trombotico persistente ed elevati valori di D-Dimero, misurati dopo la sospensione della terapia, sono risultati fattori prognostici indipendenti di TEV recidivante e la loro potenziale utilità pratica è stata valutata con successo in successivi studi clinici randomizzati che hanno mostrato come una strategia di trattamento basata su questi semplici parametri ha permesso di ridurre il rischio di TEV ricorrente fino al 40%[28-36]. L’opportunità di introdurre queste strategie nella pratica medica quotidiana è argomento di dibattito, principalmente per il fatto che una percentuale piccola ma non trascurabile di pazienti è colpita da recidive nonostante l’assenza di trombosi residua o di valori anormali di DDimero. Sono stati recentemente avviati due importanti studi clinici mirati alla valutazione di efficacia di diverse strategie di regolazione della TAO basate questa volta sulla combinazione dei due test. Sono in corso di valutazione altri parametri basali e post-basali che, combinati fra loro e con la determinazione del D-Dimero, potrebbero identificare pazienti a maggiore rischio di recidive: fra questi lo sviluppo precoce di una sindrome post-trombotica,l’obesità, l’ età superiore a 65 anni, il sesso ed il tipo di presentazione clinica[37-39]. 4. Trombofilia ereditaria E’ ancora controverso se ed in quale misura i pazienti con trombofilia ereditaria presentano un più alto rischio di TEV ricorrente dopo la sospensione della terapia anticoagulante[40].
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Si ritiene comunemente che i pazienti con deficit di AT, proteina C e S, iperomocisteinemia, aumentati livelli di fattore VIII o IX abbiano un maggiore rischio di recidive, anche se non è stato definitivamente dimostrato. Non è chiaro se aggiungere a questi gruppi i pazienti omozigoti o con doppia eterozigosi per il fattore V di Leiden o per la variante della protrombina G20210A, perché le evidenze attualmente disponibili sono contrastanti [41-47]. Studi recenti suggeriscono che in questi pazienti la terapia anticoagulante estesa ad un anno dopo l’evento iniziale ha il potenziale per ridurre il rischio di recidive rispetto ad una terapia anticoagulante di 3 mesi[48,49]. Di converso, i risultati di uno studio randomizzato controllato evidenziano che la riduzione dell’ omocisteinemia mediante supplementi di vitamina B non previene le recidive di trombosi venosa [50]. 5. Altri fattori I pazienti con un primo episodio di TVP sintomatica idiopatica sono a più alto rischio di TEV ricorrente rispetto a quelli con primo episodio di EP sintomatica [2,51-55]. Inoltre, i pazienti con EP sintomatica mostrano chiaramente un rischio più elevato di recidivare con ulteriori episodi di EP rispetto ai pazienti con TVP isolata [56]. L’età avanzata, notoriamente considerata come un fattore di rischio di trombosi venosa, è stata recentemente identificata come un fattore predittivo anche di TEV ricorrente[57] e pertanto la pratica comune di somministrare a pazienti anziani anticoagulanti a dosaggi più bassi o per periodi più brevi, a causa del timore di complicazioni emorragiche, deve essere riconsiderata. Anche l’obesità è stata recentemente dimostrata essere un fattore di rischio potente ed indipendente di TEV ricorrente [59]. Ai pazienti obesi deve pertanto essere offerto un adeguato programma di calo ponderale controllato allo scopo di ridurre il rischio di recidive tromboemboliche. Nuove prospettive per il trattamento a lungo termine dei pazienti con TEV I nuovi farmaci antitrombotici orali sono potenzialmente
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in grado di semplificare il trattamento a lungo termine di pazienti con TEV ovviando alla necessità di un monitoraggio periodico di laboratorio ed essendo associati ad un favorevole rapporto beneficio/rischio. Essi comprendono inibitori del fattore Xa, come il rivaroxaban, e inibitori della trombina, come il dabigatran etexilato. Recentemente, sono stati pubblicati i risultati degli studi clinici randomizzati Recover [60] ed Einstein [61] sul trattamento iniziale e a lungo termine dei pazienti con TEV. Nel primo studio, la somministrazione di dabigatran etexilato alla dose di 150 mg due volte al giorno per 6 mesi in pazienti con TEV acuto è risultata efficace quanto quella di warfarina in pazienti che erano stati tutti trattati con eparine o fondaparinux per i primi 7 -10 giorni, ed è risultata associata ad una riduzione statisticamente significativa dell'incidenza di complicanze emorragiche maggiori o clinicamente rilevanti [60]. Nel secondo studio, la somministrazione di rivaroxaban a partire dalla fase iniziale del trattamento e alla dose di 15 mg due volte al giorno per tre settimane, seguita da 20 mg una volta al giorno per un periodo di 3, 6 o 12 mesi nei soli pazienti con trombosi venosa profonda acuta è risultata essere almeno altrettanto efficace e sicura rispetto al trattamento convenzionale con enoxaparina e warfarin [61]. E’ molto interessante l’osservazione che il rivaroxaban è risultato essere significativamente più efficace del trattamento convenzionale per il raggiungimento di un endpoint ad alto impatto clinico, ciòe l’end-point combinato sanguinamento maggiore e TEV ricorrente. Inoltre, prolungando il trattamento con rivaroxaban alla dose di 20 mg una volta al giorno per un ulteriore periodo di 6- 12 mesi nei pazienti che avevano ricevuto almeno tre mesi di rivaroxaban o warfarin ( studio Einstein-Extension) è stata ottenuta una riduzione pari all’82% del rischio di recidive rispetto al placebo ma senza pagare un prezzo significativo in termini di sicurezza, essendo risultate meno di 1% di complicanze emorragiche maggiori [61]. Infine, un breve cenno meritano le ipotesi attualmente al vaglio dei ricercatori sul ruolo potenziale della terapia antiaggregante o con statine per il trattamento a lungo
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termine del TEV. L'evidenza attualmente disponibile per un ruolo dell’ aspirina nella prevenzione e nel trattamento del TEV è abbastanza limitato. I dati sul trattamento a lungo termine del TEV sarà fornito da due studi gemelli attualmente in corso in Italia (Warfasa) e in Australia e Nuova Zelanda (Aspire)[62]. Entrambi gli studi sono disegnati per valutare il beneficio clinico di 100 mg di aspirina somministrata dopo il completamento del trattamento anticoagulante nei pazienti con un primo episodio di TEV. L'interesse per le statine nasce da una serie di dati recenti che suggeriscono un ruolo inaspettato nel ridurre il rischio di TEV ed è congruente con le più recenti acquisizioni fisiopatologiche di una correlazione fra TEV e malattia aterotrombotica e fra TEV, infiammazione e disfunzione endoteliale[64-67], come è già stato esposto in un precedente articolo pubblicato in questa rivista scientifica[68]. E’ senz’altro auspicabile che il loro potenziale ruolo nel trattamento a lungo termine di pazienti con TEV dopo un congruo periodo di terapia anticoagulante venga formalmente investigato. Letture Consigliate - Prandoni P, Lensing AWA, Cogo A, et al. The long-term clinical course of acute deep venous thrombosis. Ann Intern Med 1996; 125: 1-7. - Prandoni P, Noventa F, Ghirarduzzi A, et al. The risk of recurrent venous thromboembolism after discontinuing anticoagulation in patients with acute proximal deep vein thrombosis or pulmonary embolism. A prospective cohort study in 1626 patients. Haematologica 2007; 91: 199-205. - Kearon C, Kahn SR, Agnelli G, Goldhaber S, Raskob GE, Comerota AJ. Antithrombotic therapy for venous thromboembolic disease: American College of Chest Physicians Evidence-Based Clinical Practice Guidelines (8th Edition). Chest 2008; 133 (6 Suppl): 454S-545S - Bates SM, Greer IA, Pabinger I, Sofaer S, Hirsh H. Venous thromboembolism, thrombophilia, antithrombotic therapy, and pregnancy. American College of Chest Physicians EvidenceBased Clinical Practice Guidelines (8th Edition). Chest 2008; 133 (6 Suppl); 844-86S. - Ridker PM, Goldhaber SZ, Danielson E, et al. Long-term, lowintensity warfarin therapy for the prevention of recurrent venous thromboembolism. N Engl J Med 2003; 348: 1425-34. - Schulman S, Kearon C, Kakkar AK, et al. Dabigatran versus Warfarin in the Treatment of Acute Venous Thromboembolism. N Engl J Med 2009; 361: 2342-52. - The Einstein Investigators. Oral Rivaroxaban for Symptomatic Venous Thromboembolism. N Engl J Med 2010; 363: 2499-510.
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L’insegnamento della medicina di famiglia all’università. Un’esperienza in atto Attilio Giotta, Jacopo Acquati Lozej, Beatrice Costa, Luca De Giambattista, Giulia Fusetti, Francesco Carelli * * Docente Responsabile Corso, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Milano Hanno collaborato: E. Bresciani, F. Censabella, V. Colosimo, L. Di Leo, L. Grosso Di Palma, I. Inzoli, S. Marchesi, S. Sgherzi Da sempre l’Università italiana, avvalendosi dell’ampia autonomia di cui dispone nella determinazione dei programmi didattici e riferendosi a quanto contenuto nei testi legislativi (Tabella XVIII), ha garantito la formazione di base del medico italiano (BME). Concentrando le energie verso la direzione accademica, il mondo universitario aveva trascurato il campo del primary care e abbandonato a sé stesso il Medico di Famiglia o di Medicina Generale (MMG), delegando a figure istituzionali di limitata esperienza sanitaria scelte che potevano condizionare in modo assoluto il ruolo del MMG nella comunità. Solo raramente è stata garantita un’adeguata selezione dei MMG, istituendo concorsi che premiassero i professionisti più preparati in campo medico-scientifico e universitario. A questi medici veniva assegnato un corso ADE o, mediante convenzioni sindacali e culturali, veniva concesso di disporre dei propri studi professionali come luogo di insegnamento. Era stato però trascurato il valore dell’impatto formativo che questa soluzione poteva avere; non esisteva infatti alcun controllo in itinere della qualità dell’insegnamento né del background dei medici. Nonostante tutte le difficoltà finora incontrate nel sistema proposto e le criticità esperite, il mondo delle cure primarie rimane totalmente persuaso della necessità di una stretta interconnessione con il mondo accademico. E’ quindi ancora più urgente comprendere quali tra i MMG siano in grado di adempiere con successo al ruolo di docente o potrebbero acquisire in tempi brevi la formazione necessaria che richiede un’attività obbligatoria nel percorso dell’acquisizione dei CFU professionalizzanti, o mediante l’inserimento della disciplina tra le attività elettive. Solo così è possibile dare vita a un percorso di formazione obbligatorio (ADO) e a elettivi professionalizzanti
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(ADE) che siano adeguati alle richieste formulate e descritte dalla UE nella European Definition (WONCA Europe, 2002) e nella Educational Agenda di EURACT (European Academy of Teachers in Family Medicine). Ciò non esclude che si definiscano delle attività didattiche per l'insegnamento pre-universitario della Medicina Generale, ma serve a ribadire che è prioritario considerare tale insegnamento come un percorso qualificante professionale, proiettato verso la definizione del MMG come autonoma specialità medica. E’ infine utile ricordare che la Medicina di Famiglia (MdF) è divenuta parte del tirocinio obbligatorio a cui tutti i neo-laureati in Medicina e Chirurgia devono sottoporsi per poter sostenere l’Esame di Stato. E’ qui ancor più evidente il paradosso di come si possa essere esaminati su una disciplina a cui non si è formati. La MdF in ambito accademico non deve limitarsi a garantire un’equa distribuzione dei servizi nel campo delle cure sanitarie, ma anche produrre studi e ricerche di elevato valore scientifico; ciò costituisce un argomento importante per lo sviluppo di un’Agenda della Ricerca (Research Agenda). E’ necessario acquisire la capacità di sviluppare e, talvolta generare, network di ricerca territoriali e nazionali. Ugualmente, vanno proposti processi cooperativi fra i networks europei già esistenti al fine di aumentare e integrare la loro produttività. Presso l’Università degli Studi di Milano è stato possibile creare un Corso Elettivo di MdF, con la supervisione del Prof. PM. Mannucci e guidato dal Dott. F. Carelli. Esso ha visto, negli anni, il passaggio di decine di studenti che, nel periodo trascorso nello studio medico-didattico, hanno acquisito profonda coscienza della essenzialità della MdF e talvolta hanno deciso di fermarsi come interni per la tesi di laurea in MdF.
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Materiali e metodi Viene qui riportata in sintesi l’esperienza di studenti tirocinanti presso lo studio del Dott. Prof. F. Carelli con alcuni esempi di casi specifici. Una caratteristica della MdF è la varietà di pazienti, e quindi di casi clinici, che possono essere portati all’attenzione del medico curante magari dalla necessità di un certificato di malattia, dalla prescrizione di ricette mediche ed esami diagnostici, dal trattamento di patologie croniche e acute, dai malanni stagionali. Possono presentarsi anche delle problematiche che non vengono esposte direttamente dal paziente, o perché non consapevole della patologia che lo affligge, o perché tende a sottovalutarla, ma che vengono riferite dai parenti allarmati per le conseguenze delle patologie a carico del proprio familiare. Nell’attuale scenario della sanità italiana, il MMG continua a rappresentare una della figure più complete sia professionalmente che umanamente. È a tutti gli effetti un punto di riferimento per i pazienti, che nella maggior parte dei casi si trovano ad affrontare una malattia spaventati e, nonostante ciò, vengono “scaraventati” nel complicato mondo della burocrazia, ospedaliera e non. Caso 1. “Un lunedì sera, si sono presentati due coniugi presso lo studio medico, il titolare era però assente e, considerata la delicatezza della questione, la dottoressa che lo sostituiva, ha preferito invitare i pazienti a presentarsi il giorno seguente, giorno in cui l’avrebbero sicuramente trovato. Così infatti, è puntualmente avvenuto, indipendentemente dal fatto che l’attuale domicilio dei pazienti fosse dalla parte opposta di Milano, ma, da ex-assistiti, e visto il rapporto che avevano con il proprio medico, avevano preferito tornarvi. Fortunatamente non hanno posto obiezioni in merito alla presenza di studenti durante il colloquio che trattava un argomento alquanto delicato: la ricerca di soluzioni per proporre un TSO nei confronti del proprio figlio. I genitori erano preoccupati, disperati per l’atteggiamento del proprio figlio che si dimostrava strano, bizzarro, incomprensibile, anche con dei picchi di aggressività: una volta, infatti, aveva praticamente distrutto tutte le porte di casa, spingendoli con il suo modo di agire a chiamare il 118. All’arrivo degli operatori, però, il figlio si era opposto al loro ingresso rassicurandoli in modo fermo e deciso che la situazione si era tranquillizzata e che tutto “era sotto controllo”. Altre volte invece, se ripreso, tendeva ad essere violento ed ostile nei confronti del padre, senza picchiarlo apertamente ma strattonandolo energicamente incutendo timore nei coniugi. I genitori evidenziavano anche la situazione lavorativa del figlio trentacinquenne, da 10 anni disoccupato, perché licenziatosi dalla ditta presso la quale lavorava, in quanto convinto di una sua imminente chiusura,
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evento però che poi non era realizzato, dimostrando così, l’infondatezza di tale convinzione. Da allora ha avuto inizio un processo involutivo: si è chiuso in sé stesso, ha troncato tutti i legami di amicizia e non ha più avuto alcun rapporto con l’esterno. Allo stesso tempo, è nata la convinzione di essere spiato e ascoltato dai vicini: più volte è stato visto sdraiato sul pavimento con l’intento di carpire gli ipotetici discorsi dei condomini che avrebbero come oggetto lui e la sua famiglia. Tale atteggiamento di diffidenza ha interessato anche i genitori: ha iniziato, infatti, a controllare le loro telefonate. Una volta i genitori gli hanno proposto di accompagnare il fratello durante una giornata di lavoro (autista di bettoniera) e, per tutto il tempo, è stato seduto sul mezzo nel più assoluto silenzio e alla domanda su cosa stesse facendo ha risposto al fratello di avere in testa mille pensieri, e che stava ragionando per trovare una soluzione ai problemi che lo stavano attanagliando senza però dare una risposta specifica e precisa. E’ stato denunciato una volta per il furto di un taxi, crimine compiuto senza alcun fine di lucro: una volta rubato, è stato conservato con cura ed attenzione: ha perfino comprato dei tappetini perché quelli presenti erano rovinati e voleva che il mezzo fosse in un buono stato. Durante il colloquio viene proposto ai genitori di chiamare la forza pubblica in caso di un ulteriore attacco violento, per procedere immediatamente a un TSO da eseguirsi durante la fase aggressiva della patologia ma, visto il precedente furto, si sono mostrati preoccupati di compromettere ulteriormente la situazione giuridica del figlio. Proporre una soluzione, al di fuori della manifestazione violenta, non è alquanto facile: ci vorrebbe il parere di altri colleghi e poi si potrebbe procedere con il TSO, ma poi, una volta finito, come potrebbe reagire il figlio tornando a casa sentendosi tradito dai propri genitori? Che atteggiamento avrebbe nei loro confronti? Quali le possibili conseguenze? Il medico ha rivolto queste domande ai genitori per fargli capire che era meglio puntare su un approccio più prudente e graduale facendo avvicinare il figlio di sua spontanea volontà ad una struttura psichiatrica. Avrebbero potuto utilizzare anche degli stratagemmi, dicendogli, per esempio, che l’avrebbero aiutato a capire i motivi per cui lui e la sua famiglia venissero spiati dai vicini. Tale modalità avrebbe reso il ricorso a tale struttura il meno traumatico possibile, avendo il miglior grado di compliance che sarebbe stata, molto probabilmente compromessa, in caso di un intervento coatto. E’ stato quindi suggerito loro di recarsi presso la vicina clinica psichiatrica dell’Università per avere consigli più specifici su come affrontare un avvicinamento spontaneo del figlio, per iniziare così un percorso terapeutico. Questo è stato un caso limite fra tutti quelli vissuti in studio, ma ha permesso di trattare
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un argomento particolare, finora mai visto nello studio medico e che esula dai classici casi clinici che si possono incontrare nelle visite ospedaliere. Nonostante ciò, è possibile riscontrare degli aspetti fondamentali della MdF: a) i genitori non si sono rivolti all’attuale MMG ma si sono rivolti al precedente, verso il quale avevano più fiducia, dimostrazione del fatto che il rapporto di fiducia che si crea fra MMG ed assistiti è fondamentale; b) il MMG non si cura solo ed esclusivamente delle malattie, ma anche delle loro conseguenze, sia a livello personale, familiare e sociale; c) il MMG cerca di trovare una soluzione anche seguendo le indicazioni, le volontà fornitegli dai pazienti, il cui ruolo principale nella cura viene sempre considerato;d) nella parte iniziale si è concessa al paziente libertà di esposizione, al più interrotto da domande aperte, nella seconda parte invece domande chiuse più specifiche per cogliere degli aspetti precisi della patologia e della storia del figlio; e) i genitori si sono presentati con il loro bagaglio di dubbi, domande, paure, cercando oltre che una cura per la patologia, anche un appoggio, un sostegno, un supporto; f) il MMG cerca di fornire una soluzione accettata anche dal paziente, per avere così una compliance ottimale; g) il MMG fornisce un supporto oltre che per la manifestazione acuta, anche per il decorso cronico della patologia.” Caso 2. Un caso che mi ha colpito è stato quello di una bella signora di mezza età che si recava in studio per il rinnovo di alcune ricette per sé e, soprattutto, per discutere con il suo medico della delicata situazione del proprio marito. La signora ci ha parlato a lungo del proprio consorte, che si trovava in quel momento a casa dopo aver passato un lungo periodo di degenza nel reparto di chirurgia perché sottoposto ad un intervento di chirurgia vascolare maggiore. Quello che mi ha colpito non è stata tanto la seppur tragica e toccante storia del marito, quanto l’atteggiamento della signora: il fatto che si fosse segnata su un foglio molte domande da fare al proprio medico, cioè ad una persona di cui si fidava non solo da un punto di vista professionale, ma sicuramente anche da un punto di vista umano. Il fatto che le domande che faceva fossero solo in minima parte riguardanti la malattia in sé; erano invece su come potesse gestire il marito, spesso introdotte da un “Ma secondo Lei, dottore, è meglio se…” o intere frasi seguite da un “Mi dica lei dottore cosa sarebbe meglio fare perché io proprio non saprei”. Il fatto che fosse in vera difficoltà e si sia affidata al proprio MMG. Ovviamente è stata una situazione in cui si è reso necessario un atteggiamento di empatia da parte del medico, che ha saputo capire lo stato d’animo della paziente senza farla entrare nello sconforto né darle vane speranze, rispondendo alle sue domande in modo professionale senza trascurare le accortezze da pre-
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stare ad una persona che è debole e sta soffrendo. Quel giorno la paziente era la signora, non il marito. Il MMG in questa circostanza è sicuramente una delle poche figure - se non l’unica !- su cui un parente o un amico di una persona malata può realmente fare riferimento: in ambito ospedaliero viene prestata attenzione al paziente ricoverato, ai suoi bisogni e alla cura della malattia; spesso i parenti non vengono neanche informati, se non quando strettamente necessario, per esempio per bambini, pazienti molto anziani o persone non in grado di intendere. Il MMG diventa quindi anche una persona “fidata”, con il ruolo di supportare la famiglia, aiutarla a gestire il proprio caro, aiutando a non sprofondare nello sconforto o peggio ancora in depressione. Caso 3. Compito fondamentale del MMG è, sicuramente, quello di non sottovalutare mai i dubbi dei pazienti, e quei piccoli segnali, che potrebbero rivelarsi assolutamente innocui, ma anche essere il campanello d’allarme di patologie serie. A questo proposito ricordo una giovane paziente sui 25 anni, che, in una fredda serata di gennaio, si è presentata nello studio. Avevo già conosciuto la ragazza precedentemente, poiché solita presentarsi mensilmente per richiedere le ricette dei farmaci della mamma. Quella sera, però, la ragazza veniva per un problema che la interessava personalmente: da circa un mese riferiva dei formicolii ad andamento intermittente alla mano sinistra; erano iniziati alle dita, poi si erano estesi a tutta la mano. Quando, però, si erano presentati anche alle dita della mano destra, la ragazza, preoccupata, aveva deciso di consultare il proprio medico. Egli ha coinvolto immediatamente noi studenti, spingendoci ad interrogare la paziente, per riuscire ad inquadrare meglio la situazione. Così, insieme ai miei colleghi, ho provato a porgere delle domande riguardanti la sintomatologia, per aiutare la giovane a spiegare con maggiore chiarezza ciò che, effettivamente, le succedeva da un mese, più volte al giorno: in quali specifiche situazioni si presentava il sintomo? Quanto durava il formicolio? Come insorgeva e come si attenuava? C’erano altri segni o sintomi correlati? Le dita cambiavano colore? Essendo la stagione molto fredda, e la ragazza sana e giovane, il primo sospetto che mi è balenato è stato “il Fenomeno di Raynaud”. In realtà, però, non c’era alcuna correlazione tra il sintomo e l’esposizione a temperature fredde: il fenomeno si presentava anche quando la paziente si trovava in casa al caldo e, per uscire, la giovane era solita sempre indossare dei guanti. E’ intervenuto, così, il MMG nostro tutor soffermandosi, invece, su un piccolo particolare che a noi studenti era sfuggito: la ragazza aveva parlato di “intorpidimento” e “indolenzimento”, ma cosa intendeva davvero? Dopo alcune domande più specifiche, la giovane ha raccon-
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tato di percepire una perdita di forza alle mani in concomitanza con il formicolio: non le erano mai caduti degli oggetti, ma comunque, non percepiva la stessa forza in entrambe le mani. Proprio questa ipostenia ha preoccupato il nostro docente. Il calo della forza è un sintomo che potrebbe nascondere o essere il primo campanello d’allarme di plurime patologie, anche molto serie. Il medico si è complimentato con la ragazza per essersi recata in studio per un sintomo apparentemente così banale, ma da tenere sotto stretto controllo. Ha riferito alla ragazza di continuare a monitorare la situazione e di ritornare in studio dopo un mese per rivalutare insieme la situazione. Qualora il quadro si fosse modificato o soggettivamente peggiorato, la giovane avrebbe dovuto presentarsi immediatamente per un’ulteriore valutazione e una eventuale prescrizione di esami specifici quali l’elettromiografia. Questa situazione, in apparenza banale si è rivelata, per me, di grande insegnamento. Innanzitutto ho imparato a non sottovalutare mai le piccole preoccupazioni dei pazienti. Il medico conosceva la ragazza da tempo, e sapeva che l’essersi recata in studio esclusivamente per un suo problema (non aveva aspettato, quindi, la visita mensile per le ricette della madre) nascondeva una reale apprensione. Inoltre ho compreso l’importanza del colloquio: è bene lasciare parlare prima il paziente, interrogandolo con domande aperte, che gli permettano di spiegare nel migliore dei modi, con le sue parole, le condizioni, le sensazioni e le preoccupazioni correlate al sintomo specifico da analizzare. Niente deve essere sottovalutato e nulla deve sfuggire. Successivamente, se incuriositi da qualche particolare, si deve, allora, intervenire con domande più specifiche, così da poter comprendere con maggior chiarezza ciò che davvero il paziente intende spiegarci. È, quindi, fondamentale lasciare il tempo necessario al paziente per spiegarsi, indirizzandolo e guidandolo con le domande, verso ciò che maggiormente ci interessa. Le domande del medico aiutano anche il paziente a ragionare sul sintomo che lo affligge; gli permettono di porre attenzione a particolari che, egli stesso, non aveva mai considerato o notato. Il colloquio, quindi, non aiuta solo il medico, ma permette anche al paziente di fare attenzione a ciò che davvero è rilevante e a capire quello che risulta maggiormente importante. Questa esperienza mi ha fatto anche capire la fondamentale importanza rivestita dal ruolo del MMG: egli è il punto di riferimento per i pazienti, per qualsiasi loro dubbio e qualsiasi loro incertezza. Egli è l’anello di congiunzione tra la popolazione e il SSN; è il “filtro”, che deve scindere e riconoscere i pazienti che necessitano di cure e assistenza, da coloro che, invece, non richiedono un intervento sanitario. Infine il MMG ha la possibilità di monitorare le condizioni
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del paziente nel tempo. Egli instaura e mantiene un rapporto longitudinale nel tempo. Questo gli permette di valutare i pazienti nel tempo, monitorare i cambiamenti delle sintomatologie e intervenire nel modo più efficace, e nel momento più corretto. Conclusioni L’esperienza dei Corsi Elettivi di MdF, se bene organizzata e gestita, basandosi su profonde conoscenze delle linee guida didattico-metodologiche internazionali, ha dimostrato che studenti selezionati possono raggiungere importanti traguardi: migliorare nelle loro conoscenze cliniche; approfondire il rapporto medico-paziente; sviluppare analisi critica, communication skills, acquisire una più profonda esperienza nel campo sempre più importante della medicina legale e della sanità pubblica. Lo studente, se correttamente stimolato, motivato e guidato, spesso deriva da questa esperienza una precisa scelta specialistica per il proprio avvenire, intraprende tesi di laurea, discute e approfondisce casi che reputa meritevoli. Anche grazie alle voci degli studenti coinvolti è stato possibile aprire la strada a un corso e a un tutoraggio di MdF che sia ADO per tutti gli studenti del V anno del corso di laurea in Medicina e Chirurgia. Tutto ciò conduce a una conoscenza undergraduate della MdF, a una migliore presenza dei neolaureati nel mese di tirocinio valutativo abilitante all’Esame di Stato e favorisce lo sviluppo di un’apertura mentale e professionale verso un aspetto fondamentale della Medicina con cui avranno a che fare qualunque sia la strada specialistica che intraprenderanno nella loro vita professionale futura. Bibliografia 1. Tabella XVIII. http://copanoramix.altervista.org/oldpanoramix/tabellaxviii.htm. 2. The Euract educational Agenda: upload/file/200911/the euract educational agenda.pdf. 3. European definition of General Practice (Version 2005). 4.Wonca (world family doctors caring for people-Europe) http://www.woncaeurope.org/Definition%20GP-FM.htm. 5.EGPRN (European General Practice Research Network), Research Agenda for GP http://www.egprn.org/images/Research%20Agenda%20for%20General%20Practice_Family%20Me dicine.pdf. 6. Carelli F. Essere medici di famiglia. Vol 4, La didattica e la ricerca. 7. Carelli F et al. Insegnare la Medicina Generale. Franco Angeli Ed, Milano. 8. Maso G. La ricerca in medicina di famiglia. Passoni Ed, Milano 9. Howell S. The new GP survival guide. Scion Ed. 10. Endean ED, Sloan DA, Veldenz HC et al Performance of the vascular physical examination by residents and medical students. J Vasc Surg 1994; 19: 149-56
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La trombosi venosa superficiale: tra vene sane e patologiche Fabio Dalla Valle, Isabella Minotto Dipartimento di Scienze Cardiologiche, Toraciche e Vascolari Clinica Medica 2 ed Unità Tromboembolica, Università di Padova La trombosi venosa superficiale (TVS) è una patologia frequente generalmente considerata di scarso valore clinico ed anche per questo meno studiata della trombosi venosa profonda (TVP). La scarsità e l’eterogeneità delle evidenze disponibili ha consentito che, fino a tempi molto recenti, l’indicazione terapeutica fosse discrezionale, basata su esperienze e preferenze individuali, eterogenea, variando dalla somministrazione di antibiotici a quella di FANS, anticoagulanti alle dosi più diverse o ricorrendo sistematicamente alla chirurgia. In realtà è oggi da molti riconosciuto che la TVS, probabilmente con la sola esclusione della forma indotta da sostanze chimiche, costituisce una delle manifestazioni del tromboembolismo venoso (TEV) e ha una prognosi talvolta meno favorevole di quanto ritenuto in passato: la TVS si associa infatti con una certa frequenza alla TVP (dal 6 al 53% nei diversi studi) ed all’embolia polmonare (EP) (fino al 33% globalmente, fino al 13% nei casi di EP sintomatica e fino a circa il 2% nei casi con EP fatale). (1, 2, 3). Il rischio di sviluppare TEV durante un episodio tromboflebitico superficiale aumenta in modo significativo quando sono presenti alcune condizioni quali la gravidanza. Fino al 13% dei pazienti con TVS risultano affetti da una neoplasia maligna e fino a circa il 3% ricevono la diagnosi di cancro dopo l’insorgenza di una TVS (4, 5, 6). Sembra di poter riconoscere una sorta di gradiente prognostico con un rischio di complicanze minore per la TVS insorta su terreno varicoso rispetto a quella che insorge su un letto venoso sano (7). Ad ulteriore sostegno dell’ipotesi che la TVS non è sempre benigna sono ora disponibili i risultati di due importanti studi di coorte prospettici, lo studio POST e lo studio OPTIMEV (8, 9). Nello studio POST è stata stimata la prevalenza di TEV all’esordio e la sua incidenza dopo 3 mesi di follow-up in 844 pazienti con TVS e non sottoposti a procedure chirurgiche o scleroterapiche.
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Quasi un quarto (24.9%) dei pazienti sono risultati affetti da TEV concomitante (EP e/o TVP) ed una EP sintomatica è risultata presente nel 3.9% dei casi. L’incidenza di TEV al termine del follow-up è risultata pari a 10.2%. I pazienti erano stati trattati secondo giudizio del curante con dosi profilattiche o terapeutiche di eparina oppure con terapia anticoagulante orale e quasi tutti (97.7%) ricevevano le calze elastocompressive. Il sesso maschile, una storia di TEV, una pregressa neoplasia e l’assenza di vene varicose erano tutti fattori di rischio indipendenti per la comparsa di TEV sintomatico durante il follow-up. Nello studio OPTIMEV sono stati valutati prospetticamente 788 pazienti con diagnosi di TVS, associata o meno a TEV; nel 28.8% dei casi una TVP concomitante è stata registrata al momento della diagnosi (di cui il 21.6% con EP ) e EP isolata nel 2.2% dei casi. La presenza di dolore localizzato, vene varicose, assenza di edema e di dolore in sede profonda sono risultati presenti nel 27.6% di tutte le TVS e nel 14.8% dei casi è stata registrata una concomitante TVP. Di converso la presenza di edema, dolore in sede profonda, vene apparentemente sane senza dolore localizzato e cordone palpabile è risultata presente nel 4.5% di tutte le TVS e nel 65.7% dei casi è stata registrata una concomitante TVP. I soggetti con TVS isolata hanno evidenziato un rischio inferiore di morte rispetto a quelli con TVS associata a TVP (1.2% vs 9.3%, p 0.001). Ospedalizzazione e sesso maschile sono risultati fattori indipendenti di recidiva tromboembolica. La TVS su vena non varicosa è risultata più frequentemente associata a TVP o EP (39.4% vs 23.3%, p 0.001). Come è noto la diagnosi di TVS è sostanzialmente clinica e si basa sui classici segni clinici (dolore) e obiettivi (cordone venoso duro, arrossato e dolente alla palpazione, eritema circostante); frequentemente, però, l’estensione reale della trombosi è maggiore di quanto stimabile cli-
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nicamente e ciò rende ragione dell’utilità di eseguire, anche dopo l’inizio del trattamento, l’ecografia compressiva o l’ecocolorDoppler. L’associazione della TVS con evidenti segni clinici e sintomi infiammatori è apparso per molto tempo come un tratto ben distintivo rispetto alle altre manifestazioni di TEV. E’ pertanto interessante la recente acquisizione che il sistema dell’infiammazione gioca un ruolo attivo non solo nella TVS ma anche nell’aterotrombosi, nella malattia venosa cronica, nella sindrome post-trombotica e nella malattia tromboembolica venosa: uno stato infiammatorio parietale è in grado di avviare la formazione di trombo anche in assenza di lesione vasale e l’attivazione delle cellule endoteliali, delle piastrine e dei leucociti sembra giocare un ruolo chiave in quanto conduce alla formazione e al rilascio di una serie complessa di mediatori dell’infiammazione e della coagulazione in grado di sostenere ed amplificare processi di infiammazione bioumorale, cellulare e processi di attivazione piastrinica e protrombotica (micro particelle (MPs) tissue factor (TF) tissue factor pathway inhibitor (TFPI), molecole di adesione cellulare (CAMs), Selectine e dei loro recettori come il P-Selectin Glycoprotein Ligand 1 (PSGL-1), diverse interleuchine, Tumor Necrosis Factor alfa (TNF-alfa))(10-21). Dati recenti mostrano il ruolo patogenetico del glicocalice dell’endotelio arterioso, venoso e del microcircolo. Il glicocalice svolge un ruolo protettivo del microcircolo e dell’albero vascolare arterioso e venoso, influenzando la permeabilità dell’endotelio ed inibendo l’adesione piastrinica e leucocitaria e la perdita della sua integrità sembra svolgere un ruolo molto importante nel mantenimento di una risposta infiammatoria e protrombotica; questi processi sono stati prevalentemente studiati in modelli fisiopatologici di aterotrombosi, sindrome post-trombotica e malattia venosa cronica e sembra ragionevole ipotizzare un loro coinvolgimento nella patogenesi della TVS, soprattutto quella associata alla malattia venosa cronica. In sintesi, evidenze classiche e più recenti indicano chiaramente che la TVS deve essere considerata come una delle possibili manifestazioni del TEV, con il quale condivide diversi tratti fisiopatologici, ne rappresenta una forma prevalentemente benigna, soprattutto quando associata ad una patologia varicosa, ma non ne devono essere trascurate le potenziali complicanze e la necessità di un adeguato trattamento, che in molti casi dovrebbe essere mirata alla profilassi del TEV.
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Una revisione sistematica, pubblicata nel 2001, ha indicato che l’anticoagulazione con eparina seguita da anticoagulanti orali è più efficace del trattamento chirurgico (legatura della crosse safeno-femorale da sola o con stripping venoso associato o meno a legatura delle perforanti) nella prevenzione di TVP ed EP nella TVS della vena grande safena di coscia(22). I primi studi con un adeguato disegno sperimentale dedicati specificatamente al trattamento della TVS risalgono agli anni 1999-2003 e risultano sostanzialmente fallimentari nell’individuare uno specifico trattamento (23,24,25). Lo studio Stenox (26) ha randomizzato pazienti con TVS, con o senza varicoflebite, in 4 gruppi di trattamento (enoxaparina a due diversi dosaggi, trattamento antiinfiammatorio non steroideo per 10 giorni o nessun trattamento) e li ha seguiti per 3 mesi. Il mancato raggiungimento del campione previsto (436 pazienti sui 1200 previsti) ha fortemente limitato la possibilità di identificare differenze statisticamente significative e clinicamente rilevanti tra i gruppi di trattamento. In ogni caso il trattamento farmacologico è risultato più efficace rispetto all’assenza di trattamento nel ridurre l’estensione prossimale della TVS e ha mostrato una tendenza statisticamente non significativa alla riduzione di eventi tromboembolici maggiori; tale tendenza si è manifestata d’altra parte solo inizialmente ed il potenziale vantaggio della terapia farmacologica si è annullato dopo la sospensione del trattamento. Lo studio Vesalio (27) ha randomizzato pazienti con TVS della grande safena a ricevere dosaggi profilattici o terapeutici di nadroparina per 30 gg, un periodo di tempo volutamente maggiore di quello adottato nello studio Stenox. Anche in questo progetto il basso tasso di reclutamento ha ridotto la potenza dello studio, che ha mostrato un iniziale beneficio nel gruppo di trattamento con nadroparina ad alte dosi, non più evidente nei due mesi successivi alla sospensione del farmaco. In entrambi gli studi il trattamento farmacologico mostrava comunque un buon profilo di sicurezza. I risultati interlocutori di questi studi ed il significativo tasso di complicanze tromboemboliche sintomatiche durante il follow-up di tre mesi, indipendente dal trattamento assegnato, hanno fatto ben comprendere la necessità di ulteriori studi clinici, caratterizzati però da un ampio reclutamento di pazienti, dal confronto di un farmaco antitrombotico contro un placebo e da un’adeguata durata di trattamento. Con tali premesse è stato avviato nel 2007 lo studio CA-
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LISTO, multicentrico, internazionale randomizzato in doppio cieco di ampie proporzioni. I risultati sono stati recentemente pubblicati sul New England Journal of Medicine (28). Lo studio ha arruolato 3002 pazienti con TVS acuta isolata degli arti inferiori, randomizzati a ricevere una dose giornaliera di fondaparinux (al dosaggio di 2,5 mg die) o placebo per 45 giorni, un periodo di tempo ritenuto idoneo ad evitare il fenomeno di “catch-up” osservato negli studi precedenti. In sintesi lo studio Calisto ha dimostrato l’efficacia e la sicurezza del trattamento con fondaparinux nel ridurre le complicanze tromboemboliche (TVP sintomatica, EP sintomatica, estensione sintomatica della TVS) sia al termine del trattamento che dopo la sua sospensione [incidenza dell’endpoint primario di efficacia a 47 giorni: 0 ,9% vs. 5,9%, RR 0,15 (95% CI: 0.08-0.26; P<0,001), NNT 20; incidenza dell’endpoint primario di efficacia a 77 giorni : 1,2% vs.6,3% ; RR 0.19; (95% CI: 0.12 – 0.32; P<0,001); emorragie maggiori: 1 per gruppo, eventi avversi seri non fatali: 0.7% vs 1,1%, mortalità per ogni causa: 0,1% nei due gruppi]. Una significativa riduzione del rischio relativo durante il trattamento è stata inoltre dimostrata nei confronti dell’estensione della TVS alla giunzione safeno-femorale, della recidiva di TVS e della legatura chirurgica safenica. Dunque, il trattamento della TVS acuta con 2,5 mg di fondaparinux s.c. 1 volta al dì per 6 settimane, è risultato efficace, sicuro, ben tollerato, ampiamente applicabile ed in grado di offrire una protezione prolungata ai pazienti affetti. Una certa prudenza nel traslare i risultati dello studio Calisto nella pratica medica potrebbe insorgere dalla constatazione che le complicanze clinicamente significative sono state relativamente rare anche nel gruppo di pazienti trattato con il placebo (NNT per TEV sintomatico di 88) ma non si può non rammentare che un numero piuttosto elevato di pazienti ha interrotto il trattamento sperimentale in cecità ed è stato successivamente e prevalentemente trattato con anticoagulanti in forza del raggiungimento di uno degli end-point predefiniti, l’estensione prossimale della trombosi alla giunzione safeno-femorale. E’ pertanto del tutto probabile che in assenza di un trattamento anticoagulante una frazione significativa di questi pazienti avrebbe sviluppato delle complicanze tromboemboliche maggiori. Resta da chiarire quanto il successo di questa strategia terapeutica sia da attribuire alla scelta del farmaco e del suo dosaggio o alla durata della terapia. Considerate le premesse fisiopatologiche menzionate nei
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paragrafi introduttivi alcune eparine a basso peso molecolare con spiccato potere antiinfiammatorio potrebbero risultare parimenti vantaggiose nel trattamento della TVS. Fra queste la parnaparina risulta particolarmente dotata di effetti antiinfiammatori, mediante l’ inibizione dei meccanismi di adesione leucocitaria e interazione leucocitipiastrine attivate, riduzione dell’espressione di TF e L-selectina nei leucociti (29, 30). È stato recentemente completato uno studio clinico multicentrico randomizzato in aperto sul trattamento con parnaparina di pazienti con TVS (Steflux) (31). I pazienti sono stati assegnati a 3 gruppi di trattamento con 3 differenti dosi di parnaparina: 8500 IU s.c. una volta al giorno per 10 giorni seguita da placebo per 20 giorni; 8500 IU s.c. 1 volta al giorno per 10 giorni seguita da 6400 UI s.c. 1 volta giorno per 20 giorni; 4250 UI sc. 1 volta die per 30 giorni. I risultati dello studio dovrebbero essere disponibili a breve. In conclusione è tempo che la TVS, lungi dall’essere considerata una condizione medica minore e di trascurabile importanza, sia sempre valutata con un adeguato inquadramento clinico-diagnostico e riceva un’adeguata terapia, principalmente mediante profilassi anticoagulante; attualmente sono a disposizione robuste evidenze scientifiche in grado di aiutare il clinico nella scelta del più opportuno trattamento; cardini della terapia della TVS sono la prevenzione dell’estensione prossimale della trombosi, di una complicanza tromboembolica maggiore e la necessità di un’adeguata durata della terapia farmacologica. Letture consigliate - Decousus H et Al. Superficial venous thrombosis and venous thromboembolism. A large, Prospective Epidemiologic Study. for the POST Study Group. Annals Intern med. 2010;152:218-224. - Galanaud J-P et Al. Predictive factors for concurrent deeepvein thrombosis and symptomatic venous thromboembolic recurrence in case of superficial venous thrombosis. The OPTIMEV study. Thromb Haemost 2011; 105 - The STENOX Study Group. A randomized double-blind comparison of low molecular weight heparin, non steroidal anti-inflammatory agent and placebo in the treatment of superficial vein thrombosis, Arch Intern Med 2003; 163: 1657–63. - The Vesalio Investigators Group. High vs. low doses of lowmolecular-weight heparin for the treatment of superficial vein thrombosis of the legs: a double-blind, randomised trial. J Thromb Haemost 2005; 3: 1149-51. - The CALISTO Study Group. Fondaparinux for the treatment of superficial-vein thrombosis in the legs. N. Engl. J. Med 2010; 363: 1222-32.
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Il burden della sindrome post-trombotica (SPT) Condizione clinica ad elevato impatto socio-economico che colpisce, dopo una trombosi venosa profonda, un paziente su tre entro due anni dall’evento acuto Raffaele Pesavento Dipartimento di Scienze Cardiologiche, Toraciche e Vascolari Clinica Medica 2 ed Unità Tromboembolica, Università di Padova La trombosi venosa profonda (TVP) è una condizione clinica frequente. L’elevata mortalità e morbilità della TVP sono dovute alle molteplici complicanze che la caratterizzano, quali l’embolia polmonare, le recidive tromboemboliche, la sindrome post-trombotica (SPT) e l’ipertensione polmonare cronica tromboembolica. A differenza delle altre complicanze della TVP, la SPT è stata per molti anni scarsamente percepita come un importante problema di salute ed infatti gli studi clinici sulla TVP, anche recenti, non hanno quasi mai previsto fra gli “end-points” di efficacia una misura dell’incidenza di SPT. La Sindrome Post-Trombotica (SPT) è una complicanza frequente della TVP ed è gravata da una importante morbilità, elevati costi sociali legati all’invalidità cronica dei pazienti colpiti ed alti costi economici, principalmente legati ai lunghi periodi di cura per la guarigione delle ulcere venose e alle numerose giornate lavorative perse a causa della sindrome. A partire dalla seconda metà degli anni ’90 un numero crescente di evidenze scientifiche ha consentito di acquisire una maggiore consapevolezza dell’importanza clinica della SPT e ha fornito le basi sia per definire un corretto inquadramento diagnostico che per avviare la ricerca di trattamenti profilattici e curativi efficaci. In due recenti rassegne pubblicate su riviste scientifiche
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internazionali, Paolo Prandoni e Susan Kahn, fra i maggiori esperti nel campo, ci hanno mostrato lo stato dell’arte delle conoscenze sulla PTS e hanno suggerito le modalità per una gestione appropriata della sua diagnosi, profilassi e terapia. La lettura dei due contributi consente di identificare alcuni concetti fondamentali molto utili per orientarci verso il corretto approccio alla malattia e che saranno brevemente esposti. La SPT insorge in un intervallo di tempo ben definito: nell’arco di due anni dall’episodio trombotico un paziente ogni due-tre svilupperà una SPT, che nel 10% dei casi sarà severa. La SPT può insorgere indipendentemente dalla durata e dall’intensità della terapia anticoagulante, ma sembra che la persistenza di valori sub-terapeutici di INR nei primi mesi di terapia aumenti il rischio di sviluppare SPT fino a 3 volte. La diagnosi di SPT è prettamente clinica: non esistono attualmente indagini strumentali, funzionali o ecografiche in grado di determinare, da sole, la diagnosi. La presenza di sintomi e segni clinici tipici in un soggetto con una storia documentata di TVP è sufficiente per porre la diagnosi. Certamente il quadro clinico può risultare poco specifico e confondersi con quello di numerose altre condizioni patologiche; in questi casi il ricorso alle procedure strumentali può essere utile, soprattutto quando non è presente una storia di TVP o quando si sospetta una recidiva tromboembolica in un soggetto con SPT manife-
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Sintomi e Segni
Assente Lieve Moderato Severo
Edema (C3)
Sintomi Dolore Crampi Pesantezza Parestesia Prurito
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Segni Edema pretibiale Indurimento della pelle Iperpigmentazione Arrossamento Ectasia venosa Dolore alla compressione del polpaccio Ulcera venosa
Alterazioni trofiche (C4)
0 Assente
1 Presente
Score Villalta della Sindrome Post-Trombotica (0-33): SPT lieve (5-9); SPT moderata (10-14); SPT severa (≥ 15). Tab. 1
sta. Allo scopo di assistere il clinico nella formulazione diagnostica e di fornire uno strumento oggettivo di misura della gravità della SPT sono stati sviluppati e validati dei sistemi a punteggio. Quello attualmente riconosciuto in sede internazionale (Subcommittee on Control of Anticoagulation of the Scientific and Standardization Committee of the International Society on Thrombosis and Hemostasis) è la scala di Villalta. La scala di Villalta prevede la categorizzazione di una serie di sintomi clinici ( pesantezza, dolore, crampi, prurito, parestesie) e di segni ( edema pretibiale, indurimento della cute, iperpigmentazione, ectasia venosa, eritema, dolore alla compressione del polpaccio, presenza di ulcerazione); ogni sintomo o segno, con la sola eccezione dell’ulcerazione, viene stimato in assente (0), lieve (1), moderato (2) o severo (3); l’ulcerazione viene segnalata come presente o assente. Uno score totale di 0-4 depone per l’assenza di SPT, 5-9 SPT lieve, 10-14 SPT moderata, ≥ 15 o presenza di ulcerazione SPT severa (Tab.1, Fig. 1). Esistono una serie di fattori di rischio o condizioni predisponenti che devono essere sistema-
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Ulcere in atto (C6)
Fig. 1
ticamente identificati durante l’inquadramento di una sospetta SPT: localizzazione prossimale della TVP (femorale comune o iliaca), pregressa TVP ipsilaterale, obesità, età più avanzata. Di particolare interesse è il recente riscontro di fattori di rischio legati a verosimili condizioni di aumentata flogosi: risoluzione incompleta dei sintomi e dei segni clinici di TVP nel primo mese dall’evento iniziale, elevati livelli di interleuchina 6, proteina C reattiva, mediatori dell’adesione leucocitaria, D-Dimero. L’attuale teoria patogenetica della SPT riconosce un ruolo centrale dell’ipertensione venosa cronica e delle alterazioni flogistiche che insorgono nei tessuti della gamba esposti a regimi di elevata pressione venosa, che stanno alla base dell’intero spettro di sintomi e segni clinici della SPT. La stessa ipertensione venosa è verosimilmente dovuta a fenomeni di distruzione valvolare e rimodellamento riparativo dei vasi venosi trombizzati ad opera di meccanismi infiammatori. Il modo migliore per prevenire una SPT è evitare l’insorgenza di una TVP. Sfortunatamente gli attuali metodi di trombo-profilassi farmacologica sono solo in
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grado di ridurre parzialmente il rischio di sviluppare una TVP e solo in presenza di condizioni a rischio; in circa la metà dei casi la TVP insorge in modo del tutto imprevedibile. Certamente nei pazienti con storia di TEV, la durata della terapia anticoagulante deve essere ottimale, per non esporre i pazienti all’aumentato rischio di sviluppare una SPT. Il presidio più importante per la prevenzione della SPT è rappresentato dalla prescrizione sistematica di una calza elastocompressiva per un adeguato periodo di tempo nei pazienti con TVP. Tre importanti studi hanno dimostrato che l’uso sistematico dell’elastocompressione graduata dopo un episodio di TVP riduce il rischio di sviluppare SPT del 70% e della sua forma severa di oltre il 60%. Le maggiori linee guida sul trattamento del TEV raccomandano, dopo un episodio di TVP, la sistematica adozione della calza elastocompressiva con pressione alla caviglia di almeno 30-40 mmHg, per un periodo di almeno due anni. Nella pratica clinica quotidiana l’uso dell’elastocompressione ha certamente delle limitazioni: il gradiente pressorio è spesso mal tollerato dai pazienti, i soggetti anziani hanno difficoltà nell’ indossare una calza elastica, soprattutto se lunga; le calze elastiche sono inoltre piuttosto costose e devono essere sostituite con una certa frequenza. In questi casi è utile ricordare che alcune evidenze mostrano che l’elastocompressione risulta abbastanza efficace se usata almeno nei primi 6 mesi, che non sembra esserci differenza fra calza lunga e gambaletto, meglio tollerato e che piuttosto di assistere all’abbandono della profilassi meccanica è possibile proporre una classe di compressione leggermente minore. Da più parti si afferma che la terapia trombolitica della TVP consentirebbe di ridurre in modo significativo la complicanza post-trombotica. Il dibattito sull’argomento è tuttora vivace ed esistono opinioni ampiamente divergenti fra gli esperti. Il nostro orientamento resta conservativo: attualmente non riteniamo raccomandabile l’uso routinario della trombolisi nella TVP, che deve essere considerata solo in casi selezionati e a basso rischio emorragico. Il paziente colpito da una TVP deve essere adeguatamente informato sul rischio di sviluppare una SPT e deve essere invitato a seguire i programmi di monitoraggio della TVP, utili non solo per definire il timing della durata della terapia anticoagulante ma anche per identificare precocemente la comparsa della SPT: diversamente da quanto si crede, la prognosi dei pazienti con una SPT
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adeguatamente trattata può essere buona in oltre il 50% dei casi. L’elastocompressione associata alla frequente elevazione degli arti inferiori sono i fondamentali presidi per il trattamento della SPT conclamata. Deve essere fatto ogni sforzo per mantenere un’elevata aderenza del paziente al trattamento e l’adozione di programmi ambulatoriali di gestione della PTS si sono dimostrati efficaci nel migliorare la prognosi. Gli intervalli ottimali di pressione alla caviglia della calza elastocompressiva sono 30-40 e 40-50 mmHg; nei pazienti intolleranti si possono prescrivere calze con pressione di 20-30 mmHg. Sono stati recentemente autorizzati per l’uso medico, in Canada e negli U.S.A., dispositivi pulsatili portatili in grado di aumentare l’efficienza della pompa venosa al polpaccio (VenoWave). Esistono evidenze a supporto dell’efficacia della somministrazione orale o parenterale di diverse sostanze, soprattutto nelle forme più gravi di SPT, quali pentossifillina, rutosidi, prostaglandine, sulodexide. La gestione dell’ulcera venosa richiede un approccio specialistico, che preveda l’uso combinato della compressione, farmaci, medicazioni avanzate e costante elevazione dell’arto colpito. La valvuloplastica chirurgica e le procedure di rivascolarizzazione endovascolari venose potrebbe essere utili in pazienti selezionati ed in centri altamente specializzati. L’uso estensivo della chirurgia nella SPT deve essere ancora dimostrato formalmente in casistiche più ampie. Un problema emergente è quello della SPT dell’arto superiore, che sembra insorgere fra il 15% e il 25% dei soggetti con una pregressa TVP dell’arto superiore. Non esistono attualmente evidenze sull’efficacia dei presidi meccanici e farmacologici già adottati con successo per la profilassi e la terapia della SPT dell’arto inferiore ma sembra del tutto ragionevole considerarli anche in questi pazienti. Bibliografia - Prandoni P et al. Post-thrombotic syndrome: prevalence, prognostication and need for progress. Br J Haematol 2009;145:286-95. - Kahn SR. Measurement properties of the Villalta scale to define and classify the severity of the post-thrombotic syndrome. J Thromb Haemost 2009;7:884-8. - Kahn SR How I treat postthrombotic syndrome. Blood 2009;114:4624-31.
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Discussioni fiorentine Firenze, fine novembre 2010: Sandro (Firenze), Altardo trecentesche. E’ significativo che tutto questo avvenga berto (Roma), Attilio (Bologna), Giovanni (Milano), sono proprio con uno spazio pensato e realizzato per i bambini. quattro colleghi e amici che si ritrovano a Firenze per parEmblemi di questo sentimento diventano i Putti di Andrea tecipare al Congresso Nazionale della Società Italiana di della Robbia, collocati sul loggiato di piazza SS. AnnunMedicina Generale (SIMG). ziata a riempire gli oculi brunelleschiani, la sequenza di Giovanni: penso che il congresso sia molto interessante, bambini che stiamo ammirando e che, dalle fasce strette anche per questa scelta di raccordare il sistema di linee quasi un monito della loro condizione di trovatelli, si aprono guida al sistema di rete. Solo il medico di medicina generale alla città e al mondo, a farsi conoscere in modo ampio e liha realmente la possibilità di vivere e comprendere le proberatorio. Per decorare gli ambienti più significativi del comfonde interazioni tra singole patologie con la co-morbilità, plesso furono scelte le tavole sfavillanti e vivacissime di artisti le cure per l’assistenza, la gestione delle problematiche tanto come Domenico Ghirlandaio e Piero di Cosimo o le sculture degli adolescenti quanto degli andi Luca e Andrea della Robbia, nelle ziani, i processi di integrazione degli quali si proponevano nuovi modelli di assistiti con culture diverse…i pazienti bellezza ideale e di una religiosità fragili … insomma tutta la serie di più vicina al sentire umano. Queste problematiche che riscontriamo nella opere possiamo ancora ammirarle rete di cure territoriali. nel Museo al suo interno. Sandro: hai ragione, però ora dopo Attilio: questa passeggiata e questi due giorni di congresso, da fiorenluoghi mi provocano un irresistibile tino, vi voglio portare a vedere una capogiro. Non sarò vittima della legstruttura territoriale di altri tempi, ed gendaria «sindrome di Stendhal» ? anche piuttosto bella. L’Ospedale Sandro: bravo ! Conosci l’arte ed degli Innocenti che di sicuro conoanche la medicina. Le famose ricerscete, ma vale la pena ritornarvi. che della nostra collega Graziella [Si incamminano dal Palazzo dei Magherini dell'ospedale di Santa Congressi. Per la via Guelfa rapidaMaria Nuova di Firenze. Andiamo mente sono alla piazza della Sana prenderci un caffè ! tissima Annunziata, non senza Attilio: ritorno alla medicina ed al gettare un occhio ammirato verso la congresso. Peccato, però, l’affronto via dei Servi e il cupolone del Brudell’area cardiovascolare sta risennelleschi. Fig. 1]. tendo più del “cardio” che del “vaSandro: l’Ospedale degli Innocenti Fig. 1 - Firenze, prospettiva dalla Piazza scolare”. Anzi, di vene, proprio mi di Firenze opera da quasi sei secoli pare che non se ne parli affatto. Ed della Santissima Annunziata a favore della famiglia e dell'infanio avrei un problema attuale di diazia. All'epoca in cui sorse, la prima metà del '400, rappregnosi e terapia che cerca risposta. sentò la prima istituzione nel mondo, esclusivamente Giovanni: di necessità di adeguati percorsi clinico-assistendedicata all' assistenza dei fanciulli. Ancora oggi l'Istituto ziali dei pazienti cronici se ne tratta ampiamente. Ma hai degli Innocenti ha sede in questa piazza, nell'edificio dello ragione, di vene e delle loro frequentissima patologia crostorico Ospedale progettato e realizzato per incarico dato nica ed acuta, no. Uno spazio andava riservato. A cosa ti dall'Arte della Seta a Filippo Brunelleschi. Per Brunelleschi riferisci, Attilio ? fu l’occasione per fissare i principi della nuova architettura Attilio: proprio in due parole, questo è il caso. Un uomo di occidentale: è qui infatti che si apre la prima stagione rina35 anni, senza storia di patologie di rilievo in passato ed scimentale e che si segna un punto di non ritorno nei conal momento dell’osservazione medica, per un trauma al gifronti del passato rappresentato dalle nostalgiche soluzioni nocchio sinistro da caduta dalla moto, si era recato al P.S.
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in cui venne fatta diagnosi di trauma distorsivo del ginocchio ( vennero esclusi segni di frattura a carico delle ossa della gamba mediante RX e lesioni legamentose dopo consulenza ortopedica ) e sottoposto a crioterapia ed antiflogistici. Dopo 5 giorni dall’incidente, il paziente lamentava ancora dolore alla stessa gamba e persisteva zoppia, oltre a riferire la comparsa progressiva di edema della gamba in esame. Lo visito, ed all’ispezione trovo edema della gamba; assenza di varici ad entrambi gli arti inferiori. Non dolenzia alla palpazione del polpaccio. Negativa la manovra del ballottamento del polpaccio. Polsi periferici presenti e simmetrici. Assenza di soffi sui focolai di ascoltazione. Invio allora il paziente allo specialista vascolare con sospetto di trombosi venosa profonda o superficiale non evidente clinicamente, già avendogli prescritto terapia con eparina a basso peso molecolare a dose terapeutica, in attesa di conferma o meno della diagnosi sospettata. Lo specialista, alla valutazione ecodoppler segnala circolo venoso profondo e delle vene muscolari del polpaccio pervie e continenti. Pervie e continenti anche le vene superficiali, seppure a livello della crosse safeno-femorale sinistra riscontra un’incontinenza moderata. Finalmente, viene evidenziata l’obliterazione della vena safena, senza che questa si aggettasse nella vena femorale. Diagnosi: trombosi venosa superficiale della vena grande safena al terzo medio della coscia. Terapia: riposo a letto con declivoterapia, alternato a movimento con bendaggio fisso alla colla di zinco, seguito da gambaletto elastico da indossare fino a normale deambulazione del paziente. Fondaparinux 1 fl 2,5 ml/die, indicandone la scelta sulla base di un recente articolo su prestigiosa rivista scientifica, quale nuovo trattamento standard delle trombosi venose superficiali. Alberto: intanto, va pensato se non va detto, al P.S. potevano anche proporre un ecodoppler venoso, una CUS, un D-dimero, usare lo score di Wells… Giovanni: senz'altro caso interessante. Io ci andrei piano con l'uso della definizione di terapia "standard". Le TVS dei miei pazienti le tratto caso per caso sul giudizio clinico del singolo caso. Sandro: anche io sono d’accordo nel personalizzare il trattamento sul paziente. La dose proposta (da profilassi della TVP) mi sembra poi un po’ bassa, generalmente vado sulle dosi terapeutiche seguendo l' evoluzione del quadro e specialmente cercando di prevedere, con l'ecodoppler, le TVS ascendenti. Però quell’articolo citato è senza dubbio il primo grosso trial sull’argomento e merita la nostra considerazione. Inoltre, non vedo citate le crossectomie safeniche "in urgenza" come
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optional terapeutico: nella mia esperienza non sono poche. Giovanni: d'accordissimo con Sandro. A completamento, sull'utilità o meno della crossectomia, più o meno d'urgenza, avendone riscontrate parecchie in passato, ma abbandonate in era di efficacia farmacologica (l’impiego delle EBPM come per le TVP), di fatto ritengo la chirurgia inutile. Attilio: leggendo le disclosures dell’articolo di Lancet (sì, le dichiarazioni di assenza di conflitto di interessi degli autorevoli autori, sotto i loro nomi, sulla prestigiosa rivista), due considerazioni mi sono venute in mente. Sono tutti morti i medici che fanno gli studi scientifici (magari più piccoli di questo…ovviamente...) per conto loro, senza sovvenzione alcuna? Possiamo credere ad uno studio in cui tutti sono stati pagati dall’azienda produttrice del farmaco testato? Questi autori sono onestissimi e dunque io ci credo..., ma che sofferenza vedere ridotta così la scienza. Come sarebbe bello se lo Stato, le Università dessero i fondi per la ricerca e non solo le Aziende… Alberto: [sinora molto più attento all’arte dei luoghi] ma allora abbiamo letto tutti, o ne siamo stati accuratamente informati, questo articolo ! Qualcuno ha fatto questo conto, invece ? Fondaparinux 1 fl 2,5 ml/die = 15,76 euro/die; per 45 giorni: circa 710 euro (con 80 centesimi di resto per un buon caffè) [aggiunge, in romanesco: ...mmecojoni, vorrei vedere che non funzionasse...] Questa proposta mi ricorda quella di un noto endovascolarista made in USA che per una sindrome di MayThurner/Cockett - e magari, in questo caso potrebbe coesistere - propone non uno stent, bensì due stent: uno a sinistra [NdR: sede della costrizione venosa iliaca, tra arteria e vertebra] ed uno a destra. In italia penseremmo ad un sotterfugio per ottenere il pagamento di un doppio DRG. Probabilmente invece, equilibrando il peso del primo stent col secondo, si previene la scoliosi! Comunque, Attilio, come è andata a finire? Attilio: il “mio” paziente ha continuato a prendere l’EBPM che gli avevo prescritto io - parnaparina - con buon esito clinico e con consistente risparmio per il nostro SSN. A parte tutte le considerazioni scientifiche sull’efficacia di questa terapia sulla disfunzione endoteliale ed infiammatoria che solo l’EBPM può aggiungere nell’ottica della prevenzione della frequente sindrome post-trombotica. Eppoi, le EBPM sono ancora oggi il farmaco di scelta nella profilassi e trattamento del tromboembolismo venoso, secondo le linee guida nazionali ed internazionali, tema del nostro congresso. [Cfr. Vettorello GF Trombosi venose superficiali. EBPM rimane la miglior opzione per efficacia, sicurezza e analisi economica. Nautilus 2010; 3: 8-11].
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Scienza e umanità. Due culture, anzi una. Per rinnovare il mestiere di medico Giorgio Cosmacini*, Giovanni B. Agus** * Docente di “Teoria e Storia della Medicina” Università Vita-Salute San Raffaele, Milano **Direttore della Sezione di Chirurgia Vascolare e Angiologia, Dipartimento di Scienze Chirurgiche Specialistiche, Università degli Studi di Milano
Letture per il Centenario di fondazione degli Ordini dei Medici Chirurghi, Circolo della Stampa, Palazzo Serbelloni, Milano 27 novembre 2010 Cosmacini “Scienza e umanità”: non era questo un binomio di facciata, ma una vera e propria parola d'ordine che alle soglie del Novecento coinvolgeva la medicina nelle persone di molti suoi rappresentanti. In un clima culturale che, sulla scorta delle conquiste medico-scientifiche del tardo Ottocento, veniva sempre più celebrando la scienza e la tecnica, risaltavano figure di medici la cui identità professionale era fortemente connotata da valori integrativi di umanitarismo, di filantropia, di apostolato laico, di impegno etico-sociale. Il Novecento si apriva con la promessa di una igiene applicata alla sanità pubblica e di una tecnologia diagnostica e terapeutica destinate a risplendere “Excelsior !”, come vaticinava un famoso ballo che celebrava il trionfo della luce della scienza sulle forze buie dell'oscurantismo e che ripeteva nel titolo una poesia di Longfellow, voce genuina ottimistica degli Stati Uniti d'America, futuri protagonisti sulla scena mondiale anche nel campo medico-scientifico. Agli inizi del Novecento era ancora il Vecchio Continente, in particolare la Mitteleuropa, a produrre i maggiori avanzamenti nei campi della diagnosi, della profilassi, della terapia: nel 1901 i primissimi premi Nobel toccavano a Wilhelm Conrad Rontgen, scopritore dei raggi X, e a Emil von Behring, inventore del siero
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antidifterico; e nel 1906 Paul Ehrlich sintetizzava gli arsenobenzoli, capostipiti dei chemioterapici. Il nuovo secolo si apriva con la fiducia che la medicina, incorporando una sempre maggior dose di scienza - fisica, chimica, biologica, microbiologica -, sarebbe stata in grado di raggiungere uno statuto di massima scientificità con una messe sempre più cospicua di ricadute tecnopratiche a vantaggio dell'uomo. Un grande clinico, Augusto Murri, rilevava che per la diagnosi di tubercolosi polmonare un esame microscopico dell'espettorato e una radiografia del torace valevano ormai più di una anamnesi dal lungo ascolto e di un esame obiettivo con lunga auscultazione; ma prendeva anche atto che per la terapia della stessa affezione, laddove “spirava il gelido soffio della miseria”, prescrivere al malato cambiamento d'aria e ipernutrizione era una vera e propria “ironia fischiante”. Curare il “grande tarlo” che rodeva i polmoni della popolazione sottoalimentata, vivente nei tuguri e ammassata nelle fabbriche, voleva dire intervenire sui fattori di rischio, alimentari, abitativi, lavorativi. Per questo Murri diceva ai suoi studenti, medici di domani, di coltivare “non la scienza per la scienza, ma la scienza tutta per l'umanità” e di schierarsi per un sanitario “ordine nuovo”. Nella fase storica del massimo sviluppo medico-scienti-
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fico mai registrato fino allora, veniva ribadita l'esigenza di un pari impegno del medico in campo antropologicosociale, includendo questo termine un’attenzione fondamentale e globale alla condizione dell’uomo. Sembrava pertanto definitivamente acquisita la figura ideale, qua e là realizzata, di un medico scientificamente preparato, tecnicamente agguerrito, umanamente partecipe, civilmente impegnato, schierato stabilmente secondo la raccomandazione di Murri - a favore della vita nella sua pienezza, contra la morte, la malattia, la fame, la povertà, la sfruttamento, il dominio incontrollato dell'uomo sull'uomo. Era un impegno morale e sociale recepito dagli Ordini dei sanitari, comprendenti anche veterinari e farmacisti, sorti spontaneamente qua e là, prima e dopo la riforma sanitaria del 1888 e che si erano proposti come organismi non solo di autodifesa professionale, contro l'illegalità, ma anche di autocontrollo, di presa di coscienza e di progresso, permeati da cemento unitario, formati com'erano da tutti gli addetti alla sanità, disposti a impegnarsi per una soluzione concordata e concorde dell'intera questione sanitaria agitante il Paese. Nei programmi statutari entravano a pieno titolo obiettivi di vasto respiro e di grande impegno, quali le indagini sulle condizioni igienico - abitative urbane e rurali, sulla situazione sanitaria degli ospedali, sui modi di lavoro nelle campagne e nelle fabbriche. Tutti questi obiettivi e molti altri “costituivano il retaggio di quella volontà di farsi creative teste pensanti della sanità pubblica” che i medici raccolti negli Ordini dei Sanitari lasciavano in eredità ai loro colleghi del Novecento. Diceva agli iscritti il presidente della Associazione sanitaria milanese, Giuseppe Forlanini (fratello di Carlo, l'inventore del pneumotorace artificiale nella cura della tubercolosi polmonare), alla vigilia (nel 1909) della trasformazione ordinistica dell’associazione: “I medici sono uomini di scienza che hanno conosciuto ciò che è utile e buono” e che pertanto “assillano la lenta società, maestri di igiene, maestri di morale”. Promulgata il 10 luglio 1910, la legge (n. 455) istitutiva degli Ordini provinciali dei Medici, dei veterinari e dei farmacisti, forniva all'universo dei sanitari - a cinquant’ anni dall'unificazione politico-territoriale del Paese - un assetto organizzativo che appariva come una decisiva conquista promozionale.
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Approvata dopo un lungo iter parlamentare, la nuova legge veniva a iscriversi in quella che Benedetto Croce, nella sua Storia d'Italia dal 1871 al 1915, ha definito l' “attivissima legislazione sociale” caratterizzante in positivo la “vita politica e morale” nonché il “rigoglio economico” dell'Italia di Giolitti. La legge si affiancava a tutto il complesso legislativo, tra l'articolato e il frammentario, che veniva fuso nel Testo Unico delle leggi sanitarie, un testo che si presentava come perfezionamento e allargamento della riforma sanitaria crispina del 1888. Esso era effettivamente in linea con il progresso, anche se le linee del riformismo sanitario del primo Novecento seguivano le due direttrici della politica giolittiana d'intervento sociale: concedere sempre con la maggiore cautela, quando un rinvio non fosse più concedibile senza rischio, e limitare al massimo le spese, e sempre ad ogni modo quelle pubbliche statali. Era il tempo in cui lo stesso Croce sottotitolava il suo libro Filosofia della pratica (tomo III della Filosofia dello spirito) con il binomio Economica ed etica, quasi a significare, in campo sanitario, le due facce di un'unica pregiata moneta da investire nello sviluppo della sanità pubblica. Investitori, a pieno titolo, erano anche i medici veterinari e, a pari pieno titolo, gli odontoiatri, che avevano riscattato l’odontoiatria da esercizio meramente empirico pragmatico promuovendola a prassi medica su basi scientifiche e che avevano ottenuto di istituzionalizzare la propria professione nei ranghi della medicina e della chirurgia fin dal 1890 (R. D. n. 6850 del 24 aprile 1890). Il delineato modello di sviluppo sanitario integrato subì le interferenze delle due guerre mondiali, l’una interrompendo un periodo di pace semisecolare, l’altra concludendo un ventennio di evoluzione a senso e controsenso, nel quale, tra l’altro, dal 1929 gli organi dirigenti degli Ordini cessarono di essere espressione di libere elezioni da parte degli iscritti per essere nominati dall’autorità politica, sentito il parere dei sindacati di regime. I medici furono inquadrati, a livello nazionale, nella Corporazione dei professionisti e degli artisti e, a livello locale, nei Sindacati provinciali che vennero ad assorbire anche le competenze degli Ordini, finchè nel 1935 gli stessi Sindacati si incaricarono della tenuta degli Albi e
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della regolamentazione deontologica della professione, esautorando completamente e di fatto abolendo gli Ordini stessi. Nessuna organizzazione sindacale fu invece concessa ai medici dipendenti dalle amministrazioni pubbliche, come i medici condotti, i quali si videro inquadrati nelle associazioni del pubblico impiego. Siamo alla rinascita del 1946. La rottura con il passato degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta veniva segnata dalla discontinuità tra Sindacati fascisti e Ordini ricostituiti. Brillavano davanti agli occhi le istanze ideali dell'unitarietà e globalità dell'assistenza, cresciute nel solco della “liberazione dal bisogno” propugnata dalla Carta Atlantica nel 1941, dal piano economico per l’assistenza sociale formulato da William Beveridge nel 1942, dalle raccomandazioni suggerite dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro a Filadelfia nel 1944. La sanità pubblica era in cerca della propria identità, tra il primo Progetto di riforma dell' ordinamento sanitario italiano , elaborato dalla Consulta veneta di sanità operante nell'ambito del Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) della Regione Veneto in collegamento con i Commissariati regionali per l'igiene e la sanità dell'Alta Italia, e le mozioni elaborate nel 1948 dalla Commissione D'Aragona, proponenti l'unificazione e razionalizzazione di tutte le funzioni di assistenza svolte dai vari enti, istituti, casse, opere, fondi sopravvissuti al conato, operato in articulo mortis dal fascismo, di fondere le diverse gestioni nell'Ente Mutualità, istituito nel gennaio 1943 e divenuto poi l'I.N.A.M. Gli Ordini dei Medici erano attivamente partecipi in questa faticosa ricerca d'identità. Tra i “fondamenti del codice di deontologia medica” emanato da un Ordine provinciale e circolante in quegli anni si leggeva il richiamo “ai principi della solidarietà umana” ed esisteva l'affermazione di principio che “la tutela della salute collettiva impegna l'opera del medico come quella della salute individuale e secondo gli stessi principi morali”. Si imponeva un rinnovamento delle strutture e funzioni della sanità pubblica, ancora legate al prebellico “sistema delle mutue” e a un apparato ospedaliero in costante ritardo di aggiornamento e avanzamento. Occorreva rendere il sistema sanitario sensibile ai bisogni e responsivo alle richieste, facendo di esso un orga-
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nismo di grande efficacia, finalizzato a una migliore qualità e a una maggiore equità dei servizi erogati. Nella fase storica della “ricostruzione” e poi del “miracolo economico” bisognava qualificare ed espandere l'assistenza e nel contempo ridurre i dislivelli economici, intollerabili nel campo della sanità. Il “sistema sanitario”, pur espandendosi nel giusto senso di dare assistenza a tutta quanta la popolazione, tuttavia non mutava se non marginalmente l’indirizzo assistenziale e previdenziale vigente, restando per trent’anni in sostanziale continuità con il vecchio mutualismo. Peraltro nel 1958 veniva istituito il Ministero della Sanità, corrispondente alle aspirazioni esistenti da tempo verso una direzione unica e articolata della politica sanitaria; nel 1968 si arrivava alla riforma ospedaliera, che mirava a trasformare gli ospedali da istituzioni con fini diagnostico-terapeutici, orientate a identificare e rimuovere i guasti indotti dalle malattie, in enti con finalità anche di prevenzione e riabilitazione, nonché di integrazione con i bisogni sanitari territoriali; e nel 1978 si approdava alla riforma sanitaria, istitutiva del “servizio sanitario nazionale”, definito come il “complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi destinati alla promozione, al mantenimento e al ricupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni individuali e sociali e secondo modalità che assicurino l'eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio”. Alla legge n.833, che dava il via alla riforma sanitaria, si accorpava la legge n. 180 di poco anteriore, che intendeva restituire dignità umana ai malati di mente e che stabiliva la chiusura degli ospedali psichiatrici,divenuti spesso luoghi di segregazione oppressiva. Anche questa "liberazione" si inscriveva nel disegno di una mappa nuova: la mappa di quella che appariva poter essere la “città futura”, razionale e vivibile, fornita di una rete di servizi accessibili a tutti, come auspicava la Conferenza internazionale di Alma Ata, svoltasi nel 1978 nella capitale del Kazakistan dopo la fine della trentennale “guerra fredda” tra USA e URSS, per iniziativa congiunta dell'UNICEF e dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Intanto, già all’ indomani del secondo conflitto, la rivoluzione terapeutica dovuta agli antibiotici (precorsi negli anni prebellici dai sulfamidici) era sopraggiunta a debellare una gran parte delle malattie infettive respon-
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sabili di mortalità e morbilità elevate. In Italia le tre piaghe endemiche di antica data, sifilide, tubercolosi, malaria, grazie ai nuovi farmaci antibatterici e antiparassitari erano state cancellate dalla nera lavagna della patologia umana. Era stata la terapia farmacologica a risolvere i problemi epidemiologici, biologici, clinici e, mediatamente, sociali che avevano assillato il nostro paese per secoli. Era dunque legittimo confidare che in medicina il culto della scienza per la scienza avrebbe comunque risolto i problemi sanitari della società contemporanea, dando il via a una ideologia scientifica che avrà postumi e sequele. Nei decenni centrali del Novecento altri eventi si compiono. Nel diagramma della mortalità, la linea discendente delle malattie in¬fettive incrocia la linea ascendente delle malattie metabolico - degenerative in un punto cruciale che segna una svolta: è la svolta epidemiologica. Le malattie dell'uomo cambiano volto: a quelle infettive, sradicate dagli antibiotici, subentrano quelle metabolico - degenerative: l'aterosclerosi con le sue complicanze (trombosi coronariche e cerebrovascolari), i tumori con le loro molte varietà. Eponimi o prototipi delle malattie tumorali e cardiovascolari, “cancro” e “infarto” sono, nella realtà attuale, le “malattie del presente” subentrate alle “malattie del passato”. Il passaggio dalle une alle altre sottintende il passaggio dalla causalità monofattoriale di questo o quell'agente eziologico infettante (la spirocheta della sifilide, il bacillo di Koch, il plasmodio della malaria) alla causalità multifattoriale di più fattori di rischio, insieme convergenti nel determinare questa o quella affezione cardiovascolare o tumorale. I nuovi modelli di malattia fanno riferimento ai comportamenti, agli stili di vita, ai condizionamenti ambientali e socioeconomici non meno che ai fattori genetici, costituzionali, biologici, biomolecolari. Alla “svolta epidemiologica” segue la rivoluzione biotecnologica. Le “biotecnologie”, nate e cresciute sul fertile terreno della biologia molecolare, consentono grandi acquisti in campo terapeutico: nuovi preziosi farmaci sono messi a disposizione, nuovissime terapie geniche sono proponibili con successo in pazienti affetti da varie malattie. Si progetta, si intraprende, si perfeziona la mappatura del genoma umano. Si ha coscienza tuttavia che tutte queste realtà presenti e tutte queste prospettive future,
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inerenti all’area teorico-pratica delle “scienze della vita”, delineano problemi non solo conoscitivi, ma anche morali e comportamentali, fatti oggetto di riflessione da parte della “bioetica”. “Rivoluzione terapeutica", dagli antibiotici ai trapianti d'organo. “Rivoluzione bio-tecnologica”, oggi condensata nella promessa della imminente carta d'identità genomica personalizzata. Rischiando l'inflazione del termine “rivoluzione”, consideriamo una terza rivoluzione, la rivoluzione anagrafica che vede realizzarsi nel nostro paese un evento epocale: il numero dei “giovani” di età inferiore ai 15 anni minore di quello degli “anziani” di età superiore al 65 anni. Oggi sono sempre più numerosi coloro che vivono e convivono con le affezioni, oggettive e le afflizioni soggettive dell' età avanzata, con le limitazioni della salute residua, con le lunghe scadenze della cronicità. Per essi la tecnologia medica può legittimamente accampare i suoi meriti: la sua capacità di bloccare il fattore selettivo della malattia - quello che opera nelle società animali selezionando il più forte ed eliminando il più debole ha fatto e fa sì che la civiltà della tecnica, applicata e finalizzata alla civiltà dell'uomo, abbia dato e dia a quest’ultimo un tempo di vita in più che peraltro non tutti sono in grado di vivere con pienezza di vita. Le moltiplicate situazioni di disagio e di bisogno esigono un maggiore e diversificato impegno non soltanto tecnologico, ma anche e soprattutto umano e sociale. Correlato è il rilievo che tra le trasformazioni del vivere odierno c’è anche quella legata all' immissione in questa civiltà dell'uomo di una civiltà delle macchine generata dall'elettronica, dall'informatica, dalla telematica. Tale avanzata meccanica ha rivoluzionato l'ufficio e la fabbrica, l'ospedale e l'ambulatorio. Ulteriori grandi possibilità si aprono, in questo campo, alla medicina ospedaliera, territoriale, di famiglia, di base. Sono rilievi che dimostrano come la situazione attuale veda convergere le due anime storiche o metastoriche - possiamo dire “ippocratiche” - della medicina: quella tecnologica, di avanzamento scientifico e di progresso tecnico, e quella antropologica, della presa o ripresa del contatto umano. Non si tratta della coincidentia oppositorum teorizzata dalla scolastica medievale, perché le due
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anime non sono contrapposte, né tantomeno giustapposte in modo posticcio. Sono e devono essere invece culturalmente integrate fra loro da una comune, unitaria sapienza. Non si tratta di due culture, ma di una sola, la nostra, di noi medici. Gli Ordini dei Medici, in parecchi momenti della loro storia, in parecchie sedi dove questa si è svolta, sono stati portatori e promotori di tale sapienza. Se dall'orcio di Pandora oggi escono le vecchie e nuove malattie del nostro tempo, legate alle mutanti causalità, ai nuovi fattori di rischio, alle nuove ma sempre presenti diversità e povertà, dal vaso di una non perduta o ritrovata sapienza possono uscire presìdi preziosi. Di più: in questa prima decade del terzo millennio dell'era cristiana, a una società in fase di trasformazione complessa, fatta anche di una sanità dove “nuovi curati” esigono “nuovi curanti”, gli ordinamenti medici - gli Ordini dei Medici - possono corrispondere in pieno con la loro funzione di organismi vitali, consapevoli e responsabili.
mita a mettere in luce processi di deperimento e di consunzione già in pieno svolgimento” (Heidegger). Resta la minaccia tecnologica da cui guardarsi, perché l’interesse antropologico deve essere focalizzato e preservato (E. Jünger, Trattato del ribelle, Milano, Adelphi, 1990). La riflessione sull’impatto della tecnica in medicina – ed oggi più propriamente della tecnologia – trova in Karl Jaspers, Hans Jonas ed altri, tra cui diversi dei nomi già citati, analisi che ogni studente di medicina e medico stesso dovrebbe studiare e conoscere. In particolare leggere “Il medico nell’età della tecnica” del primo e “Tecnica, medicina ed etica” del secondo, potrebbe costituire un efficace antidoto contro un veleno che – ahimé, è stato osservato – si è rapidamente diffuso. Se è poi consentito per un attimo saltare dalla medicina all’arte, e alla montagna che amo particolarmente, la tecnologia come problema della modernità e come bisticcio dialettico tra conservazione e innovazione si dimostra fortemente trasversale in ogni campo. Agus Il saggio di Walter Benjamin, La tecnica ha da sempre accom“L’opera d’arte nell’era della sua ripagnato l’esistenza dell’uomo producibilità tecnica”, ci rappresulla terra sebbene in passato, in senta infatti come il rapporto con generale, rimanesse subordinata l’Originale si sia perso, perché Fig. 1 - HappyTech. Arte e Scienza, alla natura per imitarla e non per Mostra della Fondazione Marino Golinelli troppe volte l’Originale è stato visto alla Triennale di Milano, 2011 spezzarne il proprio equilibrio. in mille riproduzioni; così l’OrigiL’epoca moderna vede rovesciato nale come emozione della prima questo rapporto in quanto non è più la natura il fine, volta è quello che si è perduto. Si dovrebbe, forse, per bensì è proprio la tecnica che può sottomettere la natura la contemporaneità preferire un nuovo rapporto tra al nostro dominio. arte e scienza. Né la tecnologia né l’arte – come ogni Un contributo fondamentale a questo dibattito su civiltà forma di creatività – nascono dal nulla. Gli stili antichi contemporanea e tecnica si sviluppò nella Germania nascono per ripresa e superamento di quelli preceanno zero intorno a Heidegger, con interventi tra gli altri, denti. Allo stesso modo, quasi tutte le tecnologie nadi Gadamer, Jünger, Löwith, Schmitt. Questa discussione scono dalla combinazione di tecnologie già esistenti si incentrò appunto sulla tecnologia come cifra della crisi per svolgere un compito nuovo. Comune radice tra le contemporanea, senza cadere nel nichilismo nietzschiano due capacità e aspirazioni tipicamente umane: espricostantemente associato a caos e inquietudine. mere una spinta interiore realizzando qualcosa nel Jünger ad esempio “non si atteggia a demolire, ma si limondo esterno (Fig. 1).
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Perfino l’alpinismo, pose la questione se gli innovatori (l’uso di “qualcosa di artificiale”) fossero “sovvertitori della regola alpinistica”, mentre per i tradizionalisti significasse “essere umani” (Tita Piaz). Completa questo quadro generale del problema, un altro aspetto metodologico: quello dell’apprendimento e delle motivazioni. Negli ultimi decenni la capacità di pensare è notevolmente diminuita avendo l’uomo sostituito i modelli di apprendimento che erano propri della sua cultura, da “sapere il perché” a “sapere come”, tipico anche del giovane medico. E’ evidente che il modello “sapere come” è più produttivo, a breve, ma alla lunga produce schiavitù di pensiero e ritarda le capacità immaginative e reattive di progettazione di un futuro adeguato alla vocazione umana. Si ritorni pertanto a insegnare e apprendere il “perché” prima del “come”. E’ evidente che per credere e realizzare, la maggioranza degli uomini dovrebbe avere una visione antropologica comune dell’uomo. Però così non è. C’è chi vede nell’uomo una creatura di Dio e chi lo vede cancro dell’universo, altri si limitano a vederlo come puro mezzo di produzione e consumo. Date queste premesse, irrinunciabili, un’analisi pratica dell’agire medico ci porta ad una possibile lunghissima elencazione di situazioni in cui il “rischio tecnologico” può predominare e renderci pessimisti sul futuro umanistico della medicina e dunque dell’esser medico con un senso (il medico ippocratico). Mutuo da un altro campo un episodio veramente emblematico. “Unsafe at any speed”: 45 anni fa il giovane ed allora sconosciuto avvocato Ralph Nader, attraverso un rapporto-denuncia che mise in stato d’accusa la Chevrolet Corvair, il più popolare modello di automobile della General Motors di allora, indicò per primo il rapporto tra tecnologia e prodotti industriali pericoloso per i “consumatori”. In tempi di safety e di customer satisfaction in medicina, si deve evidenziare come l’introduzione di nuove tecnologie possa prevaricare la corretta indicazione al trattamento – dunque la “soddisfazione” del paziente/cliente –, quanto mettere a rischio di sicurezza lo stesso. Gli interrogativi etici sono molteplici. Oggi vi è da chiedersi infatti se il modello di buona medicina evocato dalla forza della stessa affermazione ip-
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pocratica, regga il mutare dei tempi, sia in termini di etica che di efficacia, sicurezza e costi clinici. I mutamenti infatti rappresentano ormai una negoziazione molteplice che tiene conto di almeno tre diversi tipi di valore: il bene del paziente, attraverso la corretta indicazione clinica diagnostico-terapeutica; il consenso del paziente, ovvero le preferenze ed i suoi valori soggettivi; l’ appropriatezza sociale, cioè l’ uso ottimale delle risorse limitate che crea il “cliente soddisfatto”. Questa ultima esigenza, in particolare, che va al di là dell’ intramontabile rapporto medico-paziente, mette in risalto il meno appetibile rapporto di stewardship non incentrato sul medico libero-professionista in cui modernamente poteva anche essere accettato un rapporto di partnership (da rapporto medico-paziente a professionista-utente), bensì sulla gestione ed amministrazione del servizio, del tipo fornitore-cliente. In realtà, questa spersonalizzazione del rapporto medico-paziente non è deleteria solo per il malato; lo è anche per il medico, ospedaliero e non, “che impara a sfuggire sempre più le sue responsabilità teoriche e operative”. E’ scontato ormai, dopo Balint, che “solo l’ammalato responsabilizza il medico, e questi si sente più responsabilizzato quanto più è solo di fronte all’ammalato”. Purtroppo si ha riprova troppo spesso come questi principi siano noti ma disattesi, accettati pacificamente, ma ignorati nell’insegnamento e nella pratica clinica ospedaliera e privatistica. Né si pensi di risolverla solo sul piano medico-legale con il consenso-informato formale, quasi unicamente inteso come medicina difensiva per il medico, e non vera relazione di cura tra umanizzazione della medicina e nuove tecnologie (Paola Binetti). Data la mia personale branca medica, un solo esempio qui potrà valere per la casistica clinica in cui si può imbattere ogni medico, ogni giorno. Mi riferisco al giudizio sul trattamento delle frequenti stenosi carotidee con stenting arterioso carotideo (CAS). L’avvento della CAS come alternativa alla tecnica standard di endoarteriectomia carotidea (EC), proprio perché alternativa e non “in sostituzione”, deve scrupolosamente attenersi all’iter diagnostico comune e alle peculiari discriminanti che portano all’esatta indicazione per l’una o per l’altra procedura; non potendosi prescindere da una contempo-
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ranea valutazione di evidenza e di etica delle indicazioni. E viceversa trova spesso colleghi spregiudicatamente fautori della stessa in casi e situazioni discutibili, forsanche per conflitti di interesse. Questi ultimi prospettano un altro annoso ed attualissimo problema etico, accentuatosi con lo sviluppo di una medicina sempre più tecnologica e dunque indiscutibilmente correlata all’industria. Una eccessiva diffusione della CAS invece della consolidata EC vede risultati troppo spesso disappointing ed essa non risulta chiaramente vincitrice per la maggioranza dei pazienti e certamente non per i sistemi sanitari, come è stato autorevolmente sospettato, che il vero vincitore siano le industrie che producono i sistemi e gli stent endovascolari (G.L. Moneta sul Journal of Vascular Surgery). Ma non si vuole essere qui troppo pessimisti, nessun atteggiamento a demolire; solo, la minaccia tecnologica da cui guardarsi. Oggi per il bravo medico, attento antropologicamente al suo paziente suo, e non di una qualsivoglia azienda sanitaria -, è possibile trovare forti punti di riferimento in strumenti tanto antichi quanto rinnovati. Il Codice di Deontologia Medica della FNOMCeO, ad esempio, nell’ultima versione del Codice, vede riscritto l’articolo riguardante proprio il conflitto d’interessi, che può verificarsi nella ricerca scientifica, nella formazione e nell’aggiornamento professionale, nella prescrizione di farmaci ed esami, o di interventi chirurgici, nei rapporti con la pubblica amministrazione. In esso viene ribadito che “il medico deve valutare l’importanza e i rischi di conflitto d’interesse e prevenirlo” e che “non deve subordinare il proprio comportamento prescrittivo ad accordi economici o comunque non improntati ai principi di lealtà, autonomia, appropriatezza, per trarne indebito profitto per sé e per gli altri”. Non cedere dunque alle pressioni delle aziende farmaceutiche e biomedicali. Ma altrettanto, il nuovo Codice non è certo anti-tecnologico richiamando a come “il ricorso a medicine non convenzionali non deve sottrarre il cittadino a trattamenti di comprovata efficacia”. Altro documento di riferimento oggi imprescindibile sull’ etica e deontologia è quello elaborato dalle Società Scientifiche Americane e dalla Federazione Europea di Medicina Interna, noto come La Carta della Professio-
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nalità, pubblicato contemporanea su alcune delle più importanti riviste mediche mondiali. Ma perfino una rilettura dell’ azione medica attraverso il pensiero narrativo che tanta letteratura ci può testimoniare può venirci in aiuto. Il pensiero narrativo ci riconduce per sua definizione al pensiero dell’incertezza e della singolarità, guidando il medico nella formulazione della diagnosi e della cura più appropriata al singolo paziente nella singola situazione. Ciò per controbilanciare un sapere troppo tecnologico e riduttivo, favorendo l’inserimento della nozione in un vissuto di malattia ove il dato autobiografico è elemento affatto trascurabile (Donatella Lippi). E concludiamo con l’ottimistica affermazione programmatica del Congresso Nazionale della Società Italiana di Chirurgia del 2010, tutta dedicata fin dalla copertina del suo programma alla robotica e alla tecnologia: “E’ ancora il medico che comanda il futuro”, “la mente umana è la più sofisticata fra tutte le macchine e dietro anche al più complesso degli strumenti, ci sarà sempre un cervello a guidarlo. La decisione ultima, di fronte al malato e col suo consenso, spetterà sempre al medico” (G.B. Grassi e A. Moraldi, presidenti del Congresso). Letture (o riletture) consigliate - Giorgio Cosmacini, Claudio Rugarli Introduzione alla medicina. Laterza 2000. - Giorgio Israel Per una medicina umanistica. Apologia di una medicina che curi i malati come persone, Lindau 2010. - Michael Balint Medico, paziente e malattia. Feltrinelli 1970. - Stanley J. Reiser La medicina e il regno della tecnologia. Feltrinelli 1983. - Karl Jaspers Il medico nell’età della tecnica. Raffaello Cortina Editore, Milano 1991. - Hans-Georg Gadamer Dove si nasconde la salute. Raffaello Cortina Editore, Milano 1994. - Hans Jonas Tecnica, medicina ed etica. Einaudi Ed, Torino 1997. - Paola Binetti Il consenso informato. Relazione di cura tra umanizzazione della medicina e nuove tecnologie. Ma.Gi. Ed Scie, Roma 2010. - Donatella Lippi Specchi di carta. Percorsi di lettura in tema di Medicina narrativa. Clueb, Firenze 2010.
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www.collprimvasc.it www.fadoi.org www.uptodate.com www.valet.it http://news.paginemediche.it/ www.corsiecm.info www.alimentaonline.it www.abmed.it www.simg.it altri siti web scientifici non specificati * in ordine di preferenza
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Principali ARGOMENTI di interesse: - Attività chirurgica (non specificato) - Flebologia - Chirurgia vascolare - Laparoscopia - Oncologia
Principali FONTI di aggiornamento IN FORMA CARTACEA: - Enciclopedia chirurgica - Review letteratura - Riviste scientifiche (non specificato) - European Journal of Vascular and Endovascular Surgery Phlebology
* in ordine di importanza
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4% Patologia venosa
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Review sulla letteratura News dai congressi
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Erogazione di servizi FAD
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Materiali formativi scaricabili (es. presentazioni powerpoint, …) Casi clinici commentati
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Strumenti di supporto all’attività specialistica ( es. l’esperto risponde, il legale risponde…) Altro
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