StorieSkira
Il libro
Un secolo di piccole e grandi storie italiane, raccontate dalla voce piana e ispirata di Giuseppe Sgarbi, farmacista, amante di poesia, grande cacciatore e padre di due protagonisti della nostra scena culturale come Vittorio ed Elisabetta. Le sue memorie raccontano di una campagna antica e nobile al confine tra due terre ricche di storia come Veneto ed Emilia, in uno dei più famosi mulini dell’area del Po: il primo alimentato dall’elettricità e non dalla forza dell’acqua. Un racconto evocativo, appassionato e appassionante che dalla fine della Grande Guerra arriva ai giorni nostri, rileggendo, senza mai perdere vivacità e freschezza, alcune tra le pagine più intense del nostro Novecento. Compagno di strada e avventure, grande suggeritore ed evocatore di immagini, e testimone privilegiato, il Po: amico, confidente, fratello. Un grande fiume lungo i cui argini scorrono le storie senza tempo di una compagnia di indimenticabili personaggi.
L’autore
Giuseppe Sgarbi, padre di Vittorio ed Elisabetta, per quasi mezzo secolo ha esercitato la professione di farmacista nella campagna tra Veneto ed Emilia.
Giuseppe Sgarbi
Lungo l’argine del tempo Memorie di un farmacista
A mia moglie Rina, che amo ora come allora
Un’infanzia felice
Ho sempre amato la poesia Leggo da quando ero bambino. Mi è sempre piaciuto e ho sempre letto tantissimo. Leggevo ovunque: in cucina, in giardino, tra le macine del mulino, anche a letto. Ora che ho più di novant’anni e la vista non regge, mi lagno del fatto che si sta portando via uno dei più grandi piaceri della vita. Fatico a leggere, curvo sui fogli, con una lente di ingrandimento in una mano e una piccola torcia elettrica nell’altra e sono più le parole che mi scappano via di quelle che riesco a guardare negli occhi. Ci può essere una condanna peggiore, per uno che ama leggere, di quella di perdere la vista? Oggi ci sono quei dischi nei quali alcuni attori leggono i grandi libri, così, invece di leggere certe opere, uno può ascoltarle. Capisco che sia un’idea utile e anche interessante ma a me non entusiasma per niente, perché quando leggo un libro, gli do la mia interpretazione: l’intenzione, il tono della voce, la caratterizzazione dei personaggi… E poi se la voce è quella di un attore famoso, qualcuno del quale conosco la faccia e l’espressività, finisco col sovrapporre la sua faccia a quella del protagonista e non mi appassiono, perché i libri e i personaggi ognuno se li deve immaginare con la propria testa. Di tanto in tanto, qualche lampo di poesia riesce a squarciare il buio e compensare tutta questa fatica, ma non posso pensare a tutte le cose che mi perdo e a tutta la bellezza alla quale sono costretto a rinunciare. Prima non era così. Ogni volta che volevo, aprivo un libro e mi immergevo nella bellezza. La bellezza è importantissima. Già gli antichi Greci avevano dimostrato che è vita. Quando ci penso mi viene in mente Frine: una etera meravigliosa. Era diventata talmente ricca che, quan-
do Alessandro Magno distrusse Tebe, lei si offrì di ricostruirne le mura, a patto che vi fosse apposta una iscrizione che diceva: “Questa città distrutta da Alessandro, fu restaurata da F.”. Fu modella e amante di Prassitele, uno dei più grandi scultori della classicità, che pare l’abbia ritratta spesso nelle sembianze di Afrodite, la dea dell’amore. Frine venne accusata di empietà. Dicevano che avesse costituito un’associazione illecita per celebrare il culto di una nuova divinità. Venne processata e difesa da Iperide (grande oratore e celebre politico ateniese) il quale, mentre pronunciava la sua arringa finale davanti ai giudici, ebbe l’idea di afferrare un lembo della tunica che Frine indossava e strappargliela di dosso. La bellezza sublime di quella nudità lasciò senza fiato i giudici i quali, profondamente colpiti da tanta meraviglia (non bisogna dimenticare che nell’antica Grecia l’idea di bellezza era intimamente associata a quelle di bontà e valore), finirono con l’assolverla. Nessuno mi ha mai impedito di leggere, anzi. Anche perché sono andato a vivere fuori casa molto presto e ho imparato quasi subito a diventare autonomo. Le elementari le ho fatte a Stienta, una croce di strade, una piazza e un campanile sulla riva sinistra del Po. All’epoca non arrivava nemmeno a quattromila anime: oggi si ferma ancora prima. Abitavamo in una grande casa di pietra rossiccia di fianco al mulino: il primo che, per far girare le macine, sfruttasse l’elettricità e non l’acqua del fiume. Ci volevano due motori molto potenti (e molto rumorosi) per muovere quelle macine pesantissime e fu proprio grazie alla forza dei due motori del mulino Sgarbi che l’intero paese venne, per la prima volta, illuminato dalla luce elettrica! La nostra era una bella casa: una di quelle case di campagna fatte a forma di casa, che danno un senso di equilibrio e solidità, con le finestre che ti guardano negli occhi e ti promettono che, qualunque cosa accada, lì dentro sarai sempre al sicuro: vento, pioggia, neve, grandine e ghiaccio non riusciranno ad avere la meglio. E, in effetti, la nostra casa mantenne la parola: né
il grande gelo del ’29, né la devastante alluvione del ’51 riuscirono a metterla in ginocchio. Era una casa davvero grande: sul davanti c’erano enormi macine che non si usavano più e che erano diventate giganteschi sedili e dietro c’era un bosco piccolo ma bello, con una casona in legno per gli attrezzi, che noi bambini usavamo come una specie di rifugio e di stanzone per i giochi. Oggi il boschetto non esiste più. Al suo posto è stato ricavato uno spiazzo per le automobili. Anche per questo non ci torno volentieri. Provo nostalgia, ma non curiosità, per i posti dove sono stato bambino. Preferisco i ricordi alla realtà. Prima di tutto perché sono l’unico posto nel quale la realtà viene conservata e non distrutta (dentro di me il boschetto è ancora lì e non darò mai a nessuno il permesso di costruirci un parcheggio!) e poi perché è bene che il presente non si intrometta tra noi e il passato e che non provi a portarci via ciò che il passato ci ha dato e che nessuno ci deve toccare. Nella casa di Stienta ci saranno state perlomeno una ventina di stanze. C’era un enorme salone d’entrata che serviva da magazzino e divideva la casa vera e propria dall’edificio del mulino: da un lato la cucina (il cuore della casa, della quale mia mamma era regina incontrastata), dall’altro, appunto, il locale attraverso il quale si accedeva al mulino. In casa eravamo otto: mio padre (Vittorio: alto, bello, impeccabile: solino bianco sempre immacolato e perfettamente inamidato – ne aveva una decina e li cambiava continuamente – e una cravatta sulla quale era immancabilmente appuntata una spilla con diamante); mia madre (Clementina, di una bellezza che incantava – quando camminava per strada la gente si fermava a guardarla – seconda solo alla sua modestia e riservatezza); io, Giuseppe detto Nino, probabilmente perché qualcuno aveva cominciato a stropicciare il mio nome; le mie tre sorelle: Angiolina (che papà chiamava la “mosca”, perché lo infastidiva continuamente), Lidia e Nelly; nonna Angela (la mamma di mio papà: un granatiere di quasi un metro e novanta!) e la zia Eliduina, una sorella di papà, che era rimasta vedova presto e lo aiutava nella gestione del mulino,
dove mia mamma – che con quattro figli aveva già il suo bel daffare – non metteva mai piede. Gestire il mulino era questione di primaria importanza per l’economia della famiglia: per questo (oltre che per un particolare tipo di affetto) mio padre teneva sua sorella in grande considerazione. Considerazione che conferiva a Eliduina una certa autorità all’interno della famiglia, e che provocava non poco fastidio a mia madre. Non solo per la limitazione che gliene derivava, ma anche perché il fatto che la zia si occupasse del mulino lasciava a mio padre molto tempo libero per coltivare le sue passioni. Passioni che, come avrei capito un po’ più in là negli anni, evidentemente non si limitavano solo alla musica, alla caccia e alla pesca. Mia madre, dunque, mal sopportava la presenza di un’altra donna in casa e i contrasti non mancavano. Allora intuivo e adesso capisco le ragioni del suo risentimento nei confronti della zia, ma di lei conservo ugualmente un bel ricordo. C’è una frase che ripeteva sempre, il cui insegnamento mi torna alla mente spesso. “Un bel tacer non fu mai scritto”, diceva, a proposito del fatto che ci sono cose che non bisognerebbe mai dire e circostanze nelle quali è bene saper tacere. È vero. Non tanto per educazione, necessità o opportunità, ma perché le cose che taci e tieni dentro di te sono solo tue, ed è meglio che certe cose profondamente tue rimangano dentro di te e non vengano comunicate: non tutti sono in grado di coglierne la profondità. Ricordo quella frase fin da quando ero bambino. Non dico di averla capita subito, ma subito l’ho accolta, perché ho sentito che tra me e quelle parole c’era come un’affinità elettiva. Ho sempre pensato che ci sia una sola eccezione a questa regola: i poeti. “Udia tra i fieni allor allor falciati da’ grilli il verso che perpetuo trema, udiva dalle rane dei fossati un lungo interminabile poema.” (G. Pascoli, “Romagna” in Myricae)
Dove sarebbe tutta questa breve ma intensa felicità se i poeti rinunciassero a scrivere? Tra noi bambini, invece, contrasti non ce n’erano. Con le sorelle andavo d’accordo. Erano simpatiche e allegre. Stavamo bene insieme, parlavamo e giocavamo spesso. Ricordo soprattutto le interminabili tombole serali, con i chicchi di granoturco a cercare di coprire i numeri che uscivano sulle cartelle di cartone acquistate con gli spiccioli. Le mie modeste sostanze avevano un sussulto solamente a fine anno, quando salivo da mia nonna per farle gli auguri. Sul suo comodino mi faceva sempre trovare un soldone (credo che lo regalasse solo a me): una di quelle monete grandi che c’erano allora e non saprei dire quanto valessero. Fatto sta che lo cambiavo, per comprare qualche piccolo giocattolo, ma soprattutto qualche cartella in più. Il regalo più bello, però, arrivava alla Befana. Non parlo della calza, nella quale potevo trovare un po’ di carbone e qualche automobilina di cartone. Parlo dei “crostoli”, delle specie di “chiacchiere”: rettangoli di pasta fritti in casa da mia mamma; delle vere e proprie leccornie. Senza crostoli non sarebbe stata la stessa festa. Per Natale il clima in casa rimaneva sobrio. Si andava a messa tutti insieme, si preparava la tavola con maggiore accuratezza del solito, l’albero e il presepe venivano decorati a dovere, ma sebbene la nostra fosse una famiglia benestante, non ricordo regali particolarmente ricchi. Solo una catenina, una volta, ma mai niente di vistoso. A parte (ma questo quando ormai ero già un po’ più grandicello) una bicicletta straordinaria. La più bella di tutte: una Olympia. Una bicicletta che costava una cifra spropositata: trecentocinquanta lire!, quando le bici normali ne costavano al massimo cinquanta. Nera, lucente, aveva una linea elegantissima ed estremamente moderna e una coppia di freni speciali, che facevano parte del manubrio, ma in maniera molto più armoniosa rispetto alle altre bici di allora, e sulle cui leve – cosa rarissima – era incisa a rilievo la marca. Aveva una solidità e una stabilità incredibili, tanto che mi ero abituato ad andare
ovunque senza mani, visto che bastava inclinare appena il corpo e la mia Olympia modificava la direzione di marcia, affrontando docilmente ogni curva. Ci andavo dappertutto: a Stienta, ovviamente, lungo il Po, salendo e scendendo dagli argini a velocità sconsiderate, nei paesi vicini insieme agli amici e anche a Ferrara. Sebbene Stienta fosse provincia di Rovigo, era a Ferrara – molto più vicina non solo in termini di chilometri (ce ne vogliono trenta per arrivare a Rovigo e poco più della metà per raggiungere Ferrara) – che noi ragazzi guardavamo come la meta delle nostre fughe. Era lei la nostra Parigi. Puntare a sud e attraversare il fiume era come passare il confine per ritrovarsi in una terra libera e complice, che ci avrebbe accolti, nascosti e resi prima adolescenti e poi uomini. Una volta, proprio tornando da Ferrara, su un sentiero ai lati della strada sul quale si viaggiava solo in bicicletta, mi misi stupidamente a sfogliare un giornale che avevo appena acquistato. Poco prima di arrivare a Pontelagoscuro (una frazione di Ferrara sulla sponda destra del Po, nel punto dove, essendo il letto del fiume più stretto, era stato più agevole erigere un ponte), non mi accorsi che al centro di quel sentiero di tanto in tanto erano stati disposti dei paracarri, per evitare che quel tratto potesse essere percorso in auto. Continuavo a sfogliare il mio giornale, pedalando senza mani, e all’improvviso mi ritrovai in bocca a un paracarro che, ovviamente, non mi fu possibile evitare e finii rovinosamente a terra. Per fortuna non mi feci niente, ma confesso che mi rialzai temendo di aver distrutto la mia preziosissima Olympia, turbato, più che per il rischio corso, per il fatto di dover affrontare il ruvido disappunto di mio padre. Una volta in piedi, mi accorsi con somma sorpresa che la bici, robustissima, non aveva riportato alcun danno, se non un lieve graffio alla vernice in un punto che, fortunatamente, non si vedeva. Ancora una volta, l’Olympia aveva dato prova della sua eccezionalità. Aveva un solo difetto: le mancava la parola, il che non era poi un male e le impedì di testimoniare riguardo ad alcune licenze che hanno caratterizzato la mia esuberante adolescenza.
All’inizio degli anni Cinquanta, quando ho lasciato Stienta per esercitare la professione di farmacista, l’ho regalata a un operaio di Ro e andava ancora che era una meraviglia. In cucina e nelle faccende era Angiolina, la più grande (alta, magra, mora: una bella ragazza) ad aiutare la mamma. Delle tre sorelle fu l’unica a scegliere la strada della donna di casa. Lidia e Nelly, invece, si dedicarono di più allo studio. Ma Lidia (leggermente più bassa e più chiara di Angiolina) non li completò mai, non si sposò e visse fino alla fine accanto a mia mamma. Mentre Nelly (vispa, asciutta e un po’ più scura di Lidia) prese il diploma magistrale e divenne insegnante. Si sposò con Agostino Zampini, un medico esuberante, ebbe due figli, Umberto e Marina, e si trasferì a Venezia, città della quale era letteralmente innamorata, dove insegnò e abitò per tutta la vita. Anche Angiolina si sposò, con un maestro che era venuto a studiare a Stienta e si era innamorato di lei. Si chiamava Rino Fenzi. Lui e Angiolina vissero per lungo tempo con noi. All’epoca, in campagna, usava: le case erano grandi perché grandi erano le famiglie. Anche la Rina, mia moglie, ha passato il primo anno di matrimonio (era il 1950) nella casa della mia famiglia, prima che ci trasferissimo a Ro. Mia madre aveva un legame privilegiato con le mie sorelle, dalle quali si sentiva più sostenuta e protetta che da me (tra l’altro più giovane di Fenzi) che, tra studi, guerra e lavoro, ho passato gran parte della mia vita fuori casa e certo non le avrei potuto offrire le stesse attenzioni. Il maestro venne, dunque, accolto con affetto: un uomo in casa faceva sempre comodo e aumentava il senso di sicurezza di tutta la famiglia. Si rivelò persona di una certa iniziativa: uomo pratico, molto attivo e intenzionato a non lasciarsi sfuggire i benefici dell’occasione che gli si era presentata. E visto che noi gestivamo un mulino importante che lavorava molto e bene, ebbe l’idea di aprire un pastificio. La cosa funzionò e, anzi, nell’immediato dopoguerra – quando un grande nome come Barilla non aveva tanta distribuzione nella no-
stra zona – il pastificio decollò bene, procurando all’intraprendente cognato e alla famiglia non disprezzabili guadagni. Sebbene qualcuno malignasse sul fatto che quello di Fenzi e mia sorella fosse stato, per lui, un matrimonio di convenienza, in realtà egli era una persona corretta e un buon lavoratore, e con lui sono sempre andato d’accordo. Angiolina era felice e mia madre, con la saggezza delle donne di campagna, era contenta del fatto che la posizione di insegnante del marito rappresentasse un ulteriore elemento di sicurezza per mia sorella. Vittorio Era proprio il padre che avrei voluto avere. Severo, ma giusto. Elegante sia nel vestire che nel trattare con il prossimo. Aveva vissuto molto tempo in casa dei conti Masi, a Stienta, ed era da loro che aveva appreso le maniere così raffinate. A tavola, nessuno di noi si poteva alzare fin quando il pranzo o la cena non fossero terminati e, comunque, mai senza il suo permesso. Io, primogenito e unico figlio maschio (ne avrebbe desiderati di più, lo sentivo, anche se lui non diceva né faceva mai nulla per darlo a vedere), sedevo alla sua destra. Mamma alla sua sinistra, di fronte a me. Zia Eliduina occupava l’altro capotavola. Con noi – che gli davamo del tu – papà parlava soprattutto italiano. Con mamma, invece, alternava italiano e dialetto. Credo che le regole fossero affidate al primo e le confidenze al secondo. Era severo, ma mai duro. Non ricordo discussioni, né momenti di tensione e mai nemmeno uno scappellotto. Uno sguardo era più che sufficiente. Viaggiava quotidianamente armato di pistola (un’arma che conservo ancora). Tornato a casa, toglieva il mantello, si slacciava il cinturone e lo appoggiava all’attaccapanni. Ma di notte dormiva con la pistola sotto il cuscino. Erano tempi pericolosi e la zona in cui vivevamo lo era ancora di più. Temeva le aggressioni. Una volta – lui girava quasi sempre in moto – era stato fermato lungo la strada da due malintenzionati e se l’era cavata solo perché aveva tirato fuori la pistola. In quegli anni, vicino a Stienta, in una località chiamata Zampine, era stato uc-
ciso un carabiniere che si era recato lì per compiere un arresto. Da allora, la zona era tenuta sotto stretta osservazione da parte del regime e Stienta e dintorni, probabilmente per reazione, erano diventati il centro nel quale si riunivano segretamente i più grandi comunisti e antifascisti di tutto il Veneto. La storia racconta che, quando il bar-teatro Cazzoli si riempiva per ascoltare gli oratori fascisti che tenevano comizi, alcuni oppositori del regime si confondessero nella folla per ascoltare quanto veniva detto. Al momento opportuno, quindi, si recavano in un’osteria vicina dove si radunavano i militanti comunisti, riferivano ciò che avevano sentito, si facevano istruire su come mettere in difficoltà i propagandisti del fascio e tornavano nel teatro per animare un contraddittorio pubblico contro i relatori. Questo non solo per dire a che livello fosse l’organizzazione del partito comunista dell’epoca, ma anche per sottolineare che la lotta non era dura solamente sul piano fisico, ma anche su quello culturale. Clementina Mia madre era una donna dolce. Dolce, ma ferma. Alta e slanciata, aveva occhi scuri e profondi. I capelli, non molto lunghi e quasi sempre raccolti, ricordavano il colore degli occhi. Era davvero bella (tanto che poteva permettersi di non usare nemmeno un filo di trucco) e si muoveva con grande eleganza, quasi sempre avvolta in belle stoffe scure a fiori, che, seguendo la moda del tempo, si facevano stagione dopo stagione più corte, ma che non salirono mai al di sopra della linea discreta delle ginocchia. Aveva un forte senso della famiglia e della casa e curava entrambe con passione. Tutto era sempre pulito e in ordine. Anche noi. Dolce di sguardi e di pensieri, era il “poliziotto buono” della coppia. Con lei avevo più confidenza che con papà. Era a lei, ad esempio, che mi rivolgevo per avere il permesso di andare a giocare a pallone. Mio padre non voleva. Io e le mie sorelle le forzavamo la mano, lei ci lasciava fare e poi si prendeva i rimproveri di mio padre che temeva che sudassimo troppo e finissimo con l’ammalarci. Pur non essendo particolarmente istrui-
Giuseppe in Grecia, al goniometro per dirigere tiri al mortaio
Rina sul lago di Alleghe A sinistra Rina a Ferrara
Rina e Giuseppe ad Ancona
Giuseppe, Villa Borghese a Roma A destra Bruno Cavallini nel suo studio