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LE CARTOGRAFIE DEL TALENTO Giulio Verago

Giulio Verago PEOPLE ART

“Nel mio lavoro non esiste un protocollo né una linea guida buona per tutti. Esiste sicuramente qualcosa di simile a una deontologia ma il suo codice non è scolpito nella pietra, soprattutto in Italia.”

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Se avessi quel tipo di talento senza dubbio trasformerei la mia esperienza nel mondo dell’arte in una sceneggiatura. Scrivere per la macchina da presa è un’esperienza vicina alla mitopoiesi e sono convinto che l’immagine in movimento rimanga nonostante tutto tra i rimedi migliori per fare mondi. Non ho ancora capito se nel mio caso si tratterebbe di una brillante commedia degli equivoci, di una mini serie con antieroi spigolosi dallo scomodo passato, di una sit-com queer rassicurante dal vago retrogusto nonsense, del corto in bianco e nero di un mimo, di un lungo piano sequenza di una festa o di un film di denuncia pensato per il circuito dei festival. So di essere in buona compagnia quando dico di aver assistito e interpretato scene diversissime, da Woody Allen ai Vanzina, da Pedro Almodóvar a Ken Loach, da Tarantino a Kiarostami, da Jarman a Muccino. Il passo dal sublime al grottesco - in questo mondo che chiamiamo lavoro - è in fondo breve. Sono il Curatore di un programma di residenza artistica e come tale il mio spettro d’azione è diverso e in fondo complementare al curatore di mostre in senso stretto o al curatore di un museo. Ai progetti preferisco i processi, ai risultati preferisco le ricerche, alle risposte preferisco le domande, alle inaugurazioni preferisco di gran lunga le studio visit. Questione di punti di vista, di attitudini, di affinità elettive. Nel mio lavoro non esiste un protocollo né una linea guida buona per tutti. Esiste sicuramente qualcosa di simile a una deontologia ma il suo codice non è scolpito nella pietra, soprattutto in Italia. Esistono tante convenzioni e per ognuna le relative eccezioni, un sistema nato per generare e affinare significati finisce spesso per essere vittima della logica del rituale, del capro espiatorio e persino del pettegolezzo. Allontanandomi per un momento dal qui e ora della scena mi piace pensare alla carriera di un artista come a una cartografia fluviale. Mi piace pensare idealmente alla Scena indipendente e persino all’Accademia e come alla falda che non a caso è il bacino madre, è fatto generalmente di rocce con gradi diversi di permeabilità per permettere il libero fluire di tanti piccoli rivoli che imbevono il terreno. È infrastruttura del bene comune, filtra con lentezza le impurità del terreno, è parte di una ecologia dalla quale dipendiamo, ci vuole molto tempo perché si formi e la sua contaminazione è molto pericolosa, una minaccia per la vita stessa. Il talento esce dalla falda in modo più o meno spontaneo, la fonte può essere infatti sotterranea e non visibile a occhio nudo, può percorrere i primi tratti sotto superficie. Il talento può formarsi anche a prescindere dalla falda, in un altrove indefinito come un ghiacciaio che si scioglie. Ci sono carriere dalla natura torrentizia, il loro alveo inizialmente è limitato, come la loro portata. Basta un fortunale per fare di un torrente un fiume in piena in grado si tracimare rovinosamente. Come quei talenti raccolti troppo presto, quando ancora non hanno sviluppato un vocabolario. C’è chi fiuta l’affare e decide di ridurre la complessità a un certo numero di formati, imbottigliati sul posto per garantirsi un ritorno immediato. Altri talenti crescono guidati dalla gravità, se sono fortunati incontrano altri affluenti che ne aumentano la portata, scavano il loro alveo assecondando come possono il tipo di roccia dove si trovano. Deviano, curvano, non seguono mai la strada più breve. Talvolta si riducono per poi ampliarsi di nuovo. Alcuni fiumi diventano nel tempo importantissimi, capaci di dare nome e leggende ai Paesi dove scorrono. Qualche Grande Maestro del passato ci sembra come il fiume di un Canyon, ti ispira e stupisce anche se non l’hai visto di persona. I fiumi sono autenticamente spettacolari quando incontrano un salto di paradigma e allora sono capaci di una cascata, che ti fermi a osservare e consigli agli amici di andarla a visitare, perché vale la pena della camminata su per i monti. Alcune cascate sono più spettacolari di altre e vengono sfruttate turisticamente, per altre si opta per uno sfruttamento industriale, costruendoci una centrale elettrica e allora una meraviglia diventa anche una fonte di guadagno. I laghi mi sembrano i nodi in cui gli immissari convergono, si mescolano un po’, stazionano prima di riprendere il corso in altra forma, inevitabilmente cambiati. I laghi sono piccoli, sono grandi, non importa. Alcuni sono più simili agli stagni, altri vengono chiamati piccoli mari. Sono luoghi di passaggio, ricchi di vita, che visti da una prospettiva di ere geologiche hanno natura magari effimera ma essenziale, servono a bere con le loro acque dolci ma anche a irrigare e tanti ci pescano pesci da cucinarsi poi a casa. In tanti sfruttano le acque dei fiumi per i motivi più disparati, alcuni nobili altri meno. Alcuni fiumi vengono pure deviati, creando canali artificiali privi di poesia. Eppure la carta fluviale prosegue, attraversa tutti i territori che non sono ancora deserti. Talvolta attraversano la tua città e nemmeno te ne accorgi. Tutti i fiumi hanno poi una fine che dipende da tanti fattori incluso il caso e il caos, e in fondo poco importa se è un delta rigoglioso, un estuario diretto e una laguna melmosa, perché si finisce comunque sempre al mare.

Giulio Verago è Curatore del programma di residenze artistiche di Viafarini a Milano.

A destra: Nabuurs & Van Doorn, cutout, portrait of curator, 2019. Courtesy Giulio Verago.

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