Giacinto & Fiordirosa Una favola di Novalis tradotta da Genny Biondo e illustrata da Silvia Salvagnini
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Giacinto & Fiordirosa Una favola di Novalis tradotta da Genny Biondo e illustrata da Silvia Salvagnini
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La storia di Giacinto e Fiordirosa (Die Geschichte von Hyazinth und Rosenblütchen) è contenuta nella novella I discepoli di Saïs (Die Lehrlinge zu Saïs), composta da Novalis tra il 1798 e il 1799. Traduzione dal tedesco: Genny Biondo. Illustrazioni: Silvia Salvagnini. Progetto grafico: Mirko Visentin. Copyright © 2005 by edizioni dn edizioni dn è un progetto di: Associazione Culturale Diapason&Naima piazza San Michele 57 30020 Quarto d’Altino (VE) www.diapasonenaima.org – info@diapasonenaima.org Mirko Visentin – Servizi per l’editoria via Abbate 32 30020 Quarto d’Altino (VE) tel./fax 0422 824727 www.mirkovise.net – info@mirkovise.net
Da tempo immemore, lì verso Occidente, viveva un giovane dal temperamento tanto ombroso quanto sanguigno e inquieto. Era senza dubbio un ragazzo d’animo buono ma questa sua natura lo rendeva soggetto a frequenti stranezze e sbalzi d’umore. Si lamentava di continuo e quasi sempre per un nonnulla; se ne stava a lungo in silenzio, seduto discosto dagli altri intenti a giocare allegri e spensierati. Lui sembrava preferire passatempi solitari. Amava nascondersi nelle grotte oppure nei boschi, dove poteva parlare a ruota libera con uccelli e animali d’ogni tipo, con alberi e con rocce: naturalmente erano solo discorsi bizzarri, tutt’altro che ragionevoli, buoni – al
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massimo – per far crepare il sommo Zeus dalle risate! Nonostante tutto continuava a rimanere intrattabile e serio; a nulla servivano gli sforzi che scoiattoli, scimmie salterine, pappagalli e ciuffolotti facevano per distrarlo, come volessero mostrargli un altro modo di vivere, un’altra Via. L’oca raccontava fiabe mentre il ruscello strimpellava melodie in sottofondo e una grossissima pietra si esibiva in ridicole capriole; la rosa, quatta quatta, scivolava alle sue spalle sfiorandogli i morbidi ricci, e l’edera gli accarezzava quella fronte sempre ricolma di pensieri. Tuttavia il malumore e la cupezza si dimostravano ostinati. I suoi genitori non potevano che essere afflitti da tale situazione, pur non sapendo assolutamente cosa fare per aiutarlo. Eppure sembrava così sano, e neppure l’appetito gli mancava; non aveva mai dato loro alcuna preoccupazione e, fino a pochi anni prima, era stato spensierato e vispo come pochi, protagonista in ogni gioco e ben voluto dagli amici. E poi era splendido – sembrava dipinto – e danzava persino come un angelo.
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Tra i suoi coetanei c’era una deliziosa, dolce ragazzina: tratti perfetti di una statua, capelli che parevano fili di seta dorata, labbra color ciliegia come quelle di una bambolina ormai cresciuta, occhi di un nero corvino. Quanti la vedevano avrebbero desiderato morire di fronte a tanta bellezza. Tale gemma era Fiordirosa – così si chiamava lei – che al bel Giacinto – così si chiamava lui – stava infinitamente a cuore. Gli altri ragazzi non ne sapevano nulla. Tuttavia una viola andava ripetendo – e i gattini lo avevano notato già da tempo – che le case dei rispettivi genitori si trovavano proprio vicine l’una all’altra… Di notte, quando Giacinto se ne stava affacciato alla finestra e Fiordirosa faceva altrettanto dalla propria, i gatti – che correvano giusto nel mezzo andando a caccia di topi – vedevano i due così impalati e ne ridacchiavano talmente forte che i ragazzi sentivano e se la prendevano a male. La viola, al corrente di tutto, si confidò con la fragola, che a sua volta lo disse alla propria amica, l’uva spina, la quale da allora non mancò di lanciare qual-
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che frecciatina a Giacinto, quando lo vedeva passare. Ben presto l’intero giardino e pure il bosco furono a conoscenza della simpatia tra i due ragazzi e quando Giacinto usciva immancabilmente veniva così canzonato: «Fiordirosa è il mio tesoruccio!». Ovviamente Giacinto si stizziva, ma nel profondo del cuore non poteva che venirgli da ridere quando la lucertola, strisciando, andava a stendersi su una pietra calda, dimenava la codina e cantava: Fiordirosa, la bella ragazzina, d’improvviso cieca è diventata: per Giacinto la mamma ha scambiata e al collo con foga le si è gettata. Si accorge però che un altro è il viso ma reagisce con un sorriso, e continua senza dire una parola a dispensargli baci sulla gola. Ah! Con quanta fretta si dissolse tale beatitudine. Da terre straniere arrivò un uomo che aveva viaggiato in lungo e in largo; aveva
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una lunga barba, occhi profondi sovrastati da sopraciglia dal taglio agghiacciante ed indossava un meraviglioso vestito con moltissime pieghe tra le quali erano state intessute misteriose figure. Si sedette di fronte alla casa dei genitori di Giacinto il quale, curioso com’era, non poté che avvicinarglisi con la scusa di portargli del pane e del vino. Allora il vecchio, attraverso la folta barba, cominciò a raccontare e continuò fino a notte inoltrata, mentre Giacinto si abbandonava alle sue parole senza esitazione e senza dimostrare stanchezza alcuna. Si venne poi a sapere che l’uomo aveva narrato di lidi lontani e sconosciuti paesaggi, aveva parlato di cose talmente incredibili da tenere incollato a sé per ben tre giorni il giovane Giacinto, col quale si era calato in profondi pozzi. Fiordirosa arrivò a maledire quel vecchio stregone, delle cui parole il suo Giacinto si era tanto incapricciato, al punto di non curarsi più di niente e di nessuno; persino cibarsi gli costava fatica: ingeriva solo pochi bocconi. Alla fine, lo strano personaggio decise
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che era giunto il momento di andarsene; non prima, però, di lasciare a Giacinto un libricino il cui contenuto rimase a tutti oscuro. Il giovane, in cambio, lo rifornì di frutta, pane e vino e lo accompagnò per un bel tratto. Una volta ritornato a casa si dimostrò nuovamente vittima delle sue vecchie malinconie, ma deciso ad intraprendere una nuova vita. Fiordirosa dimostrò ancora una volta il suo buon cuore, prendendosi cura di quel ragazzo che da tempo non le rivolgeva più attenzione e sembrava preso solo da se stesso. Accadde poi che il giovane, dopo una lunga assenza, facesse ritorno alla propria casa e si rivelasse una persona nuova, come rinata. Gettatosi al collo dei propri genitori, pianse. «Devo partire subito verso terre straniere – disse – la meravigliosa ed antica Signora del Bosco mi ha spiegato come fare per tornare alla felicità. Ha gettato il libro nelle fiamme e mi ha esortato a venire da voi e a chiedere la vostra benedizione. Forse sarò presto di ritorno, forse non tornerò mai più. Salutatemi Fiordirosa. Le avrei parlato volentieri ma…
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non so, qualcosa mi trascina via. Quando penso ai vecchi tempi, si intromettono dei pensieri più imponenti; la pace è lontana e con lei sono il mio cuore e la mia vita: li devo andare a cercare. Vorrei dirvi dove sono diretto ma ancora non lo so; vado là dove vive la Madre di Tutte le Cose, la Vergine Velata. Solo per lei vibra la mia anima. Addio.» E così detto si sottrasse al loro abbraccio e se ne andò. Padre e madre ne soffrirono e sparsero molte lacrime, mentre anche Fiordirosa si chiudeva nella propria stanza a piangere amaramente. Giacinto corse più forte che poté attraversando valli e luoghi impervi, montagne e fiumi, verso una terra trasudante mistero. Interrogava di continuo uomini, animali, rocce ed alberi: voleva avere notizie della santa vergine, Iside. Qualcuno rideva, qualcuno taceva, ma nessuno riuscì a dargli una risposta. All’inizio del suo viaggio si trovò circondato da aspre, ostili terre, mentre dense nebbie e nuvole si addensavano lungo il cammino; le bufere sembravano non cessare mai. Proseguendo s’imbatté in sterili de-
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serti di sabbia, in pianure arroventate. Nella varietà di questo peregrinare, anche la natura di Giacinto stesso visse un’importante metamorfosi. Il tempo parve dilatarsi e l’ostinata inquietudine che sempre lo accompagnava andò placandosi. Cominciò a sentirsi più leggero e il senso di malessere che lo aveva a lungo attanagliato lasciò spazio ad un nuovo equilibrio, e le ombre che avevano oscurato il suo volto si dissolsero, vinte da un temperamento forte e tenace. Fu come se di colpo si fosse scrollato di dosso molti e molti inverni. Da quel momento il paesaggio si fece via via più ricco e generoso: l’aria era tiepida e blu, la via da percorrere appariva spianata come non mai, verdi cespugli gli facevano dono di una benefica ombra. Purtroppo, però, Giacinto non riusciva più a cogliere il linguaggio dei suoi amici di sempre, anzi, sembrava che questi nemmeno parlassero, eppure riuscivano ad allietarlo ugualmente con le loro verdi fronde – abbracci generosi – e con la loro fresca essenza. E intanto cresceva inarrestabile il desiderio di raggiungere la meta: le
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foglie apparivano più grandi e vivide, come pure gli uccelli e tutti gli animali sembravano diventare sempre più vivaci e rumorosi e i frutti erano senz’altro più appetitosi e il cielo ancora più blu e l’aria più calda e più intenso il suo amore. Persino il tempo scorreva più velocemente: l’oggetto di tanta ricerca doveva essere vicino. Un giorno Giacinto giunse ad una fonte cristallina attorniata da una moltitudine di fiori che scendevano giù verso una valle, tra altissime e nere colonne. Lo salutarono amabilmente con parole che poté riconoscere: «Cari amici – disse il giovane – dove posso trovare la tanto onorata dimora di Iside? Dev’essere qui vicina e senza dubbio voi conoscete meglio di me questi luoghi.» «Anche noi siamo qui solo di passaggio – risposero i fiori – una famiglia di spiriti si è già messa in viaggio e noi li precediamo preparando loro la via e un alloggio. Poco fa, mentre attraversavamo una regione, abbiamo udito fare il suo nome. Sali verso il luogo da dove siamo arrivati e ne saprai di più.»
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Fiori e fonte sorrisero nel parlare a Giacinto; poi gli offrirono una fresca sorsata d’acqua e proseguirono oltre. Giacinto ascoltò il loro consiglio e, chiedendo a destra e a manca, alla fine arrivò alla dimora per la quale da lungo tempo ormai vagava: era nascosta tra palme ed altre splendide piante. Il suo cuore prese a palpitare di un’emozione senza fine e il più dolce degli affanni lo pervase del tutto al cospetto della sede della Stagione Eterna. Si assopì tra profumi celestiali, dato che solo il sogno lo poteva condurre nel Sancta Sanctorum. E il sogno venne e lo guidò attraverso immensi saloni disseminati d’innumerevoli stranezze, e poi più su, oltre leggiadri suoni e sconosciuti accordi. Aveva sentore che tutto gli fosse già noto, eppure non era mai stato testimone di tanto splendore. Lentamente si dissolse ogni parvenza mortale, come volatilizzata nell’aria, e Giacinto si trovò al cospetto della Vergine Celestiale. Allora le alzò l’impalpabile, lucente velo e Fiordirosa poté finalmente abbandonarsi alle sue braccia.
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(Una musica lontana avviluppò l’amorosa riunione, il dolce epilogo di tanto struggimento, escludendo qualsiasi estranea presenza dall’incantata scena. In seguito, Giacinto visse a lungo accanto a Fiordirosa, per la gioia dei genitori e degli amici, mentre i numerosi discendenti dovettero ringraziare la Signora Senza Tempo che operò tale miracolo, attraverso il propri consigli ed il proprio fuoco. Gli uomini, in quell’epoca, potevano avere tutti i figli che desideravano…)
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«Da tempo immemore, lì verso Occidente, viveva un giovane dal temperamento tanto ombroso quanto sanguigno e inquieto. Era senza dubbio un ragazzo d’animo buono ma questa sua natura lo rendeva soggetto a frequenti stranezze e sbalzi d’umore...»
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