Mario Palenzona
Il tempo e la marea
Mario Palenzona
Il tempo e la marea Fra memoria e avventura, i racconti di un capitano di lungo corso
Proprietà letteraria riservata Mario Palenzona, Il tempo e la marea © 2009 In copertina: Perdita (elaborazione grafica) di Andrea Valleri © 2009 Prodotto da Spazio Sputnik Redazione, grafica e impaginazione: Mirko Visentin www.spaziosputnik.it Finito di stampare nel mese di giugno 2009 presso Laser Copy Center – Peschiera Borromeo (MI) per conto di MiMiSol Edizioni – www.mimisol.it Il testo di questo libro è composto in Adobe Caslon (corpo 14 su 16 punti), un carattere romano ispirato a quelli incisi a metà Settecento da William Caslon, il primo grande incisore di caratteri inglese. Il titolo è invece composto in Clarendon, famiglia di caratteri egizi di epoca vittoriana derivati dai tipi incisi da Benjamin Fox nel 1845.
Mario Palenzona
Il tempo e la marea Fra memoria e avventura, i racconti di un capitano di lungo corso
Ringrazio per l’amichevole collaborazione Ivo Prandin, Andrea Valleri e Mirko Visentin.
Memoria di acque lontane di Ivo Prandin Il mare non lo scopriamo da soli o non lo guardiamo solo con i nostri occhi. Lo vediamo anche come lo hanno guardato gli altri... nelle immagini e nei racconti che ci hanno trasferito e lasciato. [Predrag Matvejevic]
L’uomo che ha scritto questi racconti di mare può dire «Io ho navigato in tutto il mondo», e noi pensiamo a un’avventura, a un’impresa sportiva. Invece, come lui stesso testimonia, il suo navigare è stato un lavoro, interessante e anche pericoloso, ma lavoro. Il che non esclude l’avventura – in fondo la giovinezza e la maturità sono avventurose non soltanto sui mari interni e sugli oceani ma anche in terra ferma. E proprio da qui, dalla terra ferma dove il capitano di lungo corso Mario Palenzona vive ora, il suo destino marinaro ha cominciato a trasformarsi in ricordi, è divenuto memoria e scrittura. E “memoria delle acque della Terra”, percorse per anni su navi da carico, potrebbe essere un titolo accattivante e veritiero: però, per essere storie di uno ieri lontano, questi capitoli non sono imbrigliati nella nostalgia ma sciolti al vento dei ricordi. Navigare nelle vastità grandiose del mare tempra i caratteri, insegna a conoscere il mondo in cui viviamo, richiede spirito di sacrificio, solidarietà – come nel caso di un naufragio, per esempio – e la responsabilità di “portare” una nave alla meta. Navigare è come imparare alla scuola della vita; è – nel caso di Palenzona e dei traffici marittimi commerciali – un par
tecipare alla civiltà degli scambi, alla conoscenza di altri stili di vita; e le traversate, con le loro insidie e con la spettacolare bellezza del “pianeta azzurro”, sono simili a prove d’esame: ogni volta diversi. La navigazione richiede capacità di orientarsi, di tracciare una rotta, dunque è una forma di educazione, di crescita. Gli approdi sono porte spalancate sulla realtà e possono essere fatali, come lo è stata Venezia nella sua vita sentimentale. Tutto questo è nel suo vissuto, fa parte del patrimonio culturale, professionale di Mario Palenzona. Il suo stile descrittivo ci restituisce una vita marinara, il suo è un linguaggio asciutto e privo di abbellimenti retorici, scarso di aggettivi, e così aderente alla vita di bordo con i termini “tecnici” che àncorano la nostra attenzione al suo piccolo mondo spinto da motori invisibili che però, come il battito cardiaco, danno un lieve fremito alle paratie. Leggendolo, ci sembra di stare lì con lui, sulla tolda, a spiare gli umori balzani del mare, che come la vita non è sempre prevedibile, incluse le tempeste tropicali.
Il tempo e la marea
A Liana
Perdita
La presenza di Benito in attesa, al monumento di Colombo, a sinistra uscendo dalla stazione ferroviaria di Genova Principe, in mezzo a piccioni svolazzanti e venditori occasionali di sigarette, era chiaro indizio che qualcosa d’importante poteva essere accaduto. Tempo addietro, nell’ultimo periodo di guerra, a quel monumento avevamo fissato la base per il commercio di borsa nera. Compravamo farina in Piemonte per rivenderla a Genova, alternando tale traffico allo scambio con olio d’oliva nella Riviera di Ponente. Le ferrovie allora non funzionavano, se non per brevi tratti. Tutti i ponti erano stati distrutti con facili attacchi aerei, spesso sproporzionati all’importanza del bersaglio. Per i trasferimenti usavamo mezzi di fortuna e con le biciclette avevamo percorso tutta la Riviera lungo l’Aurelia. Giorni meravigliosi con spirito avventuroso che richiedevano l’adattamento a continue situazioni d’emergenza. Nello stesso tempo, in contrasto con la situazione nazionale di generale incertezza, questo vagabondare, a parte l’interesse mercantile, ci aveva gratificato con la partecipazione alle bellezze naturali di piccoli borghi e golfi incastonati lungo la costa, nella cornice di lussureggiante mediterranea profusione con la fragranza di resina delle pinete. Le nostre spedizioni duravano anche una settimana e non sempre il risultato, sotto il profilo economico, era appagante. Tutto questo restava nel ricordo ma era anche servito a rin
saldare la nostra amicizia. Ora molte settimane erano trascorse dall’inizio della comune ricerca d’imbarco, con periodiche indagini alla Capitaneria di Porto e negli uffici di varie compagnie di navigazione. Benito era di costituzione massiccia, sotto una generosa cascata di rossi capelli aveva aspetto mite, e generalmente era condiscendente alle mie iniziative. Sotto una corazza di bonarietà vestiva carattere ancorato a principi solidamente maturati. Spesso poteva apparire trascinato dallo spirito intraprendente dell’altro, ma sapeva intervenire al momento opportuno e con calma azzeccava giuste valutazioni. La mia corporatura alta e magra, con capigliatura castana fluente sulla faccia che metteva in evidenza, nell’abbronzatura generale, il naso pronunciato, contrastava un poco con la sua. Nostro solito punto d’incontro, per tenere contatti con altri marittimi e raccogliere informazioni per le indagini, era Piazza Banchi. Il nome derivava dai banchi dei cambiavalute che lì avevano praticato i loro affari ai tempi della Superba Repubblica. Era stato il cuore pulsante dell’economia locale. Sulla piazza s’affacciava la loggia vetrata che era stata sede della prima borsa merci italiana e centro dell’armamento marittimo. Incrocio tra carruggio e souk, quasi casbah con traffico convulso. Una folla di sfaccendati potenziali marittimi era sempre in attesa della sperata chiamata per l’imbarco. Si trovavano, frammiste a venditori improvvisati, persone non chiaramente identificabili il cui interesse non si poteva classificare in linea legale con il commercio di tabacchi ed altri generi di dubbia provenienza. Un tocco multicolore era portato dalle divise militari degli occupanti frammisti alle prostitute sempre a caccia di benevola compagnia. La guerra, lunga tanto da sembrare senza fine, era termi
nata da poco e la ricerca per il primo imbarco nella Marina Mercantile non era approdata ad esito soddisfacente nel breve termine. Tentativi erano stati fatti per navi passeggeri, con bandiera panamense, allora in servizio regolare dal Mediterraneo al Sud America, senza risultato, nonostante l’interessamento vantato anche da una bionda signora che si diceva imparentata con certi indefiniti armatori. In quei tempi le banchine pullulavano di marittimi disoccupati e la probabilità d’ingaggio, per due giovani sprovveduti, era anche ostacolata dalla precedenza nei turni accordata ai profughi istriani. Benito aveva avuto una precoce esperienza marinaresca cominciata all’età di sedici anni con arruolamento volontario, spinto da amor patrio e anche dal particolare coinvolgimento politico di suo padre durante il ventennio fascista. Pure il nome gli era stato imposto in assonanza al periodo storicamente legato al carisma esercitato, in quegli anni, dal capo del regime informato a storia gloriosa archiviata da millenni. Alla tenera età di sedici anni si presentò come volontario e, dopo un periodo d’istruzione all’arsenale di La Spezia, fu destinato come aiutante di un sottufficiale segnalatore, in servizio su convogli facenti la spola con la costa dell’Africa settentrionale. A bordo era considerato una mascotte dai marittimi anziani militarizzati, che non riuscivano a capire come un ragazzo avesse potuto volontariamente partecipare alla cruenta avventura in cui si trovavano tutti invischiati. Conobbe ben presto la tragica realtà della guerra. In seguito all’affondamento della nave per siluramento, assaporò il salmastro dell’acqua e fu pescato dopo ore di permanenza nel canotto di salvataggio. Dopo la dichiarazione dell’armistizio, non ebbe alcuna titubanza per confermare la sua adesione al reparto della Marina Militare che si era impegnato a continuare le ostilità con la Repubbli
ca Sociale Italiana. Con la fine della guerra era stato costretto a rocambolesca fuga in cerca d’asilo, come puro nascondiglio, essendo indagato per collaborazione con il passato regime. Non fu mai appurato fino a che punto potesse essere stato coinvolto durante l’ultimo periodo bellico; lui non ne aveva mai parlato e non avevo dimostrato curiosità sull’argomento. Come conseguenza della sua scelta di campo, a guerra finita, aveva cercato e trovato rifugio e protezione presso un ente religioso d’accoglienza a Rapallo. Personalmente non ero stato coinvolto direttamente nel marasma bellico, anche per la giovane età; i ricordi della prima giovinezza erano legati alla vita famigliare, in quel lembo della pianura padana che arrivava a costeggiare il preappennino ligure. La vulgata era un misto di piemontese e ligure. Rimaneva sempre il segno dell’antico dominio genovese nella denominazione di certi paesi e castelli. Gli inverni erano sempre lunghi e nebbiosi. Soltanto all’inizio della primavera il vento marino dal mar Ligure rotolava giù lambendo delicatamente la catena dei Giovi, ravvivando tutta la pianura nel risveglio della natura. Da questa situazione di relativa pacifica convivenza ero stato brutalmente strappato a metà del periodo bellico. Fui trapiantato sulla Riviera di Levante, con l’interessamento di uno zio prete, professore di belle lettere al liceo classico di Chiavari ed appassionato cultore di ricerche storiche. Ero confuso e spaesato, ma trovai amicizia e collaborazione per riprendere gli studi frequentando i corsi all’Istituto Nautico di Genova. L’assiduità ai corsi scolastici era in quel periodo ostacolata dai continui bombardamenti sia sulla Riviera sia su Genova. A Chiavari, durante l’attacco d’aerei americani al ponte sull’Entella, che poi risultò indenne, avevo trovato rifugio nello
scantinato di un palazzo sulla stessa piazza costeggiante il fiume dove altri edifici erano stati sventrati. Faceva contrasto la visione delle macerie al margine di una zona contornata da palme rigogliose e primaverili mimose in fiore. Migliore protezione si poteva avere a Genova, dove frequentavo i corsi all’Istituto Nautico, con i rifugi antiaerei predisposti nelle gallerie. In quegli ultimi anni del periodo bellico una complicazione veniva dall’attività dei partigiani operanti sulle montagne dell’entroterra ligure, perché comportava continui rastrellamenti per le strade da parte di unità militari che collaboravano con le Brigate Nere. Non ero mai stato renitente alla leva a causa della giovane età ma tale stato era sempre messo in dubbio dai repubblichini, a causa dell’evidente mio giovanile sviluppo. Io e Benito ci perdemmo di vista per qualche tempo, per ritrovarci soltanto nel settembre dell’anno sulla tradotta che portava militari di leva della marina dalla Liguria a Venezia. In totale eravamo e all’arrivo fummo imbarcati su chiatte e convogliati in Canal Grande per raggiungere il deposito di San Biagio. In una mattinata di sole splendente l’attraversamento del bacino di San Marco, con la visione sfavillante nella magnificenza dell’oro e dei marmi della basilica di San Marco e del Palazzo Ducale, aveva creato in tutti uno stupore indimenticabile facendoci ammutolire nell’ammirazione. La nostra frequentazione era continuata durante il servizio militare di leva al V Gruppo Dragaggio di Venezia. Eravamo stati destinati al Sottogruppo di Chioggia, in associazione per la sola razione alla Capitaneria di Porto, aggregati operativamente a mezzi requisiti con personale militarizzato. Con
motopescherecci e natanti ausiliari erano organizzate le uscite in mare per le operazioni di sminamento. Il compito più gravoso, anche in periodo invernale, era affidato ai militari del sottogruppo. Scelto un punto d’ancoraggio, dopo aver messo in mare le motobarche, il compito dei marinai di leva consisteva nel sistemare i gavitelli di segnalazione per il dragaggio con trascinamento della sciabica e successivo recupero degli stessi. Un lavoro continuo a mani nude per delimitare i canali da bonificare, in condizioni climatiche disagevoli, a fronte del quale era riconosciuta la liquidazione extra di lire cento per ogni uscita in mare. Nel caso in cui il cavo d’ormeggio della mina risultava incocciato, intervenivano i torpedinieri. Si trattava di volontari, con buona esperienza maturata durante il periodo bellico, che talvolta operavano con una dose di apparente noncuranza ma con reale temerario sprezzo del pericolo. Accadde anche di dover accorrere al concitato richiamo di un peschereccio. I membri dell’equipaggio erano vivamente preoccupati temendo di avere incocciato una mina durante il recupero della rete. Intervennero i torpedinieri e virando con cautela apparve il sacco della rete strapieno di pesce. La conclusione fu grigliata mista in generale euforia. Normalmente le mine magnetiche venivano fatte esplodere in mare. Di quelle a percussione alcune venivano portate in un capannone, nel parco della zona difesa del Lido di Venezia, per la disattivazione. Purtroppo nell’inverno del ’, quando ci trovavamo al Lido, fu avvertita una forte detonazione. Durante lo svuotamento, al distacco dell’urtante col supporto, era scoppiata una mina. Fu accorrere concitato di militari, anche da Sant’Elena, perché si era temuto il coinvolgimento di molte persone nell’esplosione. Nella zona permaneva con azzurrognola
sospensione l’acre odore dell’esplosivo nel lezzo della morte. Furono soltanto trovati brandelli umani sparsi in giro tra gli arbusti della vegetazione. Conoscevamo bene il capo torpediniere investito in quell’operazione, da lui eseguita molte volte in precedenza con sicurezza. Durante la funzione funebre, al cimitero di San Nicolò, facevamo parte del plotone d’onore. Solo silenzio punteggiato dal singhiozzare sommesso e senza sosta di una giovane signora. Nel suo profondo dolore teneva una mano appoggiata alla bara temendo quello che tutti sapevamo. Durante il servizio nel sottogruppo io e Benito eravamo i più giovani e godevamo buona considerazione agli occhi del capitano di corvetta comandante. Questa situazione ci permetteva un certo grado di libertà e buon cameratismo con tutti, in un paese con canali pieni di pescherecci e gente naturalmente portata a semplice e sincera giovialità. La comune partecipazione aveva contribuito alla cementazione della nostra sincera amicizia, che durò in seguito al Nautico fino a conseguire il diploma d’Aspirante capitano di lungo corso. Ora eravamo alla ricerca d’imbarco e avremmo voluto cominciare quali allievi ufficiali, ma fu ben presto riscontrato che avremmo dovuto abbassare il livello delle nostre aspirazioni. Per iniziare si doveva cominciare come giovanotti di coperta e marinai. In quei giorni Genova mostrava ancora tracce dei bombardamenti subiti durante il periodo bellico. Ovunque si manifestava una convulsa attività allegramente espressa, anche a mascherare le latenti ferite della città, sia materiali sia psicologiche. Era in atto l’esplosione di traffici e commerci con la ripresa del movimento portuale. Intorno alla zona portuale si notava l’appariscente circolazione di divise militari delle for
ze occupanti. I loro interessi erano orientati principalmente a luoghi di divertimento ubicati nei carruggi all’ingresso dei quali era stata dipinta sui muri, a caratteri cubitali, la scritta off limits che veniva regolarmente ignorata da tutti i militari. Con la ripresa del traffico commerciale marittimo, dopo la stasi del periodo bellico, le banchine portuali erano totalmente occupate da navi di tutti i tipi e la Marina Mercantile Italiana cercava di aumentare la sua partecipazione, dopo le gravi perdite subite durante la guerra. E in effetti si era presentata un’opportunità che sembrava interessante. Era necessario il contatto urgente con una piccola compagnia di navigazione che aveva acquistato una nave da carico a Liverpool. L’equipaggio doveva essere inviato entro breve per la presa in consegna. Il primo contatto con l’armamento avvenne in un palazzo nella parte vecchia della città. L’armatore era una persona corpulenta ma giovanile, aiutato da un occhialuto ingegnere che curava la parte tecnica della compagnia. Fu concordato il nostro ingaggio. Benito sarebbe stato messo a ruolo come marinaio, in considerazione del suo precedente coinvolgimento durante la guerra. Il mio arruolamento poteva essere fatto con la qualifica di giovanotto di coperta. Le formalità burocratiche furono svolte presso la Capitaneria di Porto e la Sanità Marittima con l’assistenza dello spedizioniere doganale: un taciturno rubicondo e panciuto ometto che umilmente assolveva il suo compito con apparente noia ed indolenza ma con navigata esperienza. Appuntamento il mattino seguente alla stazione ferroviaria di Porta Principe, atrio partenze, con il resto dell’equipaggio. L’euforia dell’ingaggio si era parzialmente dissolta, nella se
La nave Perdita
rata, dalla consapevolezza del previsto lungo distacco dalla famiglia. I miei familiari mostravano partecipazione per l’inizio della carriera, tuttavia sul viso di mio padre, con gli auguri espressi, si poteva leggere un velo di preoccupazione per il figlio che aveva scelto l’esperienza del mare. Altro breve contatto di congedo fu quello avuto a Nervi con l’amico Giorgio il cui padre, il Pasquale, benevolmente noto per la sua bonomia e il continuo cordiale ottimismo, quando seppe che la nave sulla quale stavo per imbarcare si chiamava Perdita sbottò in una sonora risata. Lo ricordavo davanti alla finestra spalancata al rosso tramonto sul Tigullio. Era divertitamente meravigliato per l’insolito nome volgendolo poi a scaramantico augurio per il futuro. Il mattino seguente non fu difficile localizzare il punto d’incontro alla stazione ferroviaria. L’eterogeneità dei componenti la spedizione si discostava alquanto da quella ipo
tizzata durante il periodo scolastico. A prima vista non era facile inquadrare i soggetti in una tipologia comune rispetto a quanto ci si sarebbe aspettato. Vi erano rappresentate diverse regioni, e ciò risultava evidente anche dalle differenti cadenze linguistiche già esperimentate durante il servizio militare. Era necessario un adeguamento alla situazione corrente con un leggero processo d’integrazione e adattamento. Bisognava stabilire un programma personale di comportamento, nell’attesa di approfondire i diversi aspetti della nuova situazione. Il comandante era identificabile in un crocchio, intento a discutere particolari concernenti il viaggio. Al primo tentativo di presa di contatto, con la dovuta presentazione, ci guardò con sguardo basso come si può guardare una cosa immonda ed emise un grugnito tra lo schifato e l’annoiato. Era un sessantenne di statura media con corporatura tozza, portava in testa un cappellaccio nero, non un baschetto come si usava in genere sulle navi mercantili. Aveva un aspetto miserevole e derelitto, si sarebbe potuto identificare come uno di quegli spaesati esseri che spesso gravitano senza meta nelle stazioni ferroviarie. A tratti pareva muto e pensieroso, però ogni tanto bofonchiava osservazioni con colorita fioritura di mugugni tipici liguri per tutto e per tutti. Sarà stato anche un lupo di mare ma niente lo differenziava da un vecchio orso. Un marinaio anziano, che era originario della sua stessa città, sulla Riviera di Levante, si premurò di precisare che nel mondo della marineria gli era stato affibbiato il nomignolo di “il contadino”. Ciò non per sminuire la sua esperienza marinaresca, che si diceva notevole, bensì per l’insolito abbigliamento e anche per distinguerlo da due altri capitani, suoi spocchiosi compaesani aventi lo stesso cognome, per i quali erano stati elaborati soprannomi determinati dai loro liberi
comportamenti riscontrati a bordo delle navi: “il maleducato” e “lo sporcaccione”. “Il maleducato” era un comandante che trattava la bassa forza di coperta in modo brutale e sgarbato, e ciò gli aveva procurato nella marineria genovese una nomea appropriata alle sue maniere. Allo “sporcaccione” invece pare fosse stato dato quell’appellativo perché viveva esclusivamente sul ponte di comando, con poca attenzione alle personali necessità igieniche. Come primo ufficiale la nave imbarcava un distinto signore originario di Sorrento che normalmente esercitava l’incarico di professore d’astronomia e navigazione all’Istituto Nautico di Napoli. Dal primo contatto si notava signorilità e compostezza nel gestire e nel parlare, in evidente contrasto con le maniere del comandante. Sapemmo in seguito che faceva casualmente un periodo d’imbarco per puro amore del mare. Secondo ufficiale di coperta era un maturo Padrone marittimo autorizzato di origine ligure: alto, rossiccio di capelli, dimostrava praticità con poche parole e ispirava fiducia anche dai primi contatti. Il nostromo era anziano di aspetto e di modi bonari, con occhiali molto spessi. Sia lui che altri tre marinai erano di origine pugliese con precedenti imbarchi su navi di piccolo tonnellaggio e pescherecci. Parlavano poco con gli altri e tra loro sempre in dialetto molfettese: era un clan chiuso. Il quarto marinaio era calabrese, quando guardava era sempre torvo e sembrava esprimere insieme odio e commiserazione per tutti. Si seppe poi che aveva vissuto esperienze traumatiche durante la guerra e il suo animo era stato provato, portandolo a diffidare di tutti. Successe in seguito, durante il suo servizio a bordo, che si dimostrò all’occorrenza scrupoloso e valido, sempre generosamente disponibile per aiutare gli altri.
Completava la bassa forza un mozzo genovese, giovane alto magro sdentato con colorito olivastro, vivente incarnazione di quasi agonia e pura espressione dei bassifondi portuali: quando raramente parlava usava un linguaggio infiorato da riferimenti pornoerotici dialettali. Portava in sé l’evidente bagaglio della miseria sofferta dalla sua famiglia negli anni della guerra appena terminata. Il personale di macchina aveva il fulcro nel capo macchinista. Origine toscana, sembrava un professore, oltre che per portamento e il pacato modo di parlare, per gli occhiali dottorali che portava. Altri macchinisti carbonai e ingrassatori erano, in massima parte, originari del Golfo di Napoli, vale a dire Torre Del Greco e Monte di Procida. Solo il caporale di macchina era di La Spezia. Questa era una prima parte dell’equipaggio, gli altri avrebbero completato il ruolo entro pochi giorni. La partenza avvenne nel primo pomeriggio, in treno, destinazione Liverpool via Parigi e Calais. Passate le prime ore di viaggio, cominciò a diffondersi una sensazione nuova, inizialmente inspiegabile e, a poco a poco, prevalse un senso di liberazione conseguente forse al nuovo ambiente interno alla vettura con lo scorrere d’insoliti paesaggi. Era aria nuova, evasione e liberazione da un mondo che per anni aveva coinvolto tutti in una confusa interminabile situazione bellica d’incertezza: uno stato opprimente, negazione di tranquilla e serena convivenza con involontaria partecipazione ad avvenimenti sempre radicati nelle avversità e nella diffidenza. L’animo di tutti quanti era stato sforacchiato anche dai patimenti altrui. Per di più eravamo stati testimoni e parzialmente coinvolti dalla repressione nella lotta partigiana sulle montagne liguri.
L’arrivo nel Regno Unito avvenne nei tempi previsti con regolarità insolita in quegli anni. Era la Gran Bretagna, la Vecchia Albione, quella che all’inizio della guerra era stata indicata dalla propaganda, con una canzone imposta agli studenti, come «isoletta di pescatori». Non era mai stato facile dimenticare quel giorno in classe al ginnasio di Novi Ligure, quando fu esibita la scritta «Dio stramaledica gli inglesi». Era stato coniato anche un distintivo con tale dicitura. Era seguito un momento di silenzioso sconcerto e imbarazzo, poi una ragazza, la Zampini, o forse l’Ottolenghi, non ebbe timore di affermare che Dio non poteva stramaledire nessuno. Fu zittita dall’insegnante in cattedra, una bionda giovane procace professoressa di belle lettere, ad evitare che orecchie improprie potessero riportare quella precisazione. Fu sùbito particolare il contatto con una linea costiera marina differente da quelle conosciute in Mediterraneo; questa, a causa dell’alta escursione della marea con dislivelli insoliti in Mediterraneo, metteva in evidenza con il movimento di riflusso ampie distese di fango nero. L’agente marittimo che attendeva alla stazione di Liverpool ci accompagnò con alcuni taxi a Prescot, località portuale poco distante dal porto principale. Non era stato necessario un molo grande per ormeggiare quel natante in disarmo che apparve come la nave alla quale eravamo destinati. La prima impressione fu notevolmente sconfortante, ma indietro non si poteva tornare. I mali peggiori possono essere digeriti con calma considerazione, attenuando i lati negativi e cercando di considerare ciò che può essere positivo. Si notava una vetustà incarnata, ma lo scafo non presentava evidenti segni di ruggine. Il dritto di prora era proprio
geometricamente dritto a piombo con una bella ancora appennellata. Colore dominante era il nero sia sullo scafo sia sulle soprastrutture. Partendo dal castello di prua si notava una stiva unica fino al ponte di comando, seguivano due stive a poppavia, la carbonaia e il cassero di poppa con osteriggi di macchina e di cucina. Le cabine del comandante e degli ufficiali si trovavano sotto il ponte di comando, quelle dei sottufficiali nel cassero di poppa, la cosiddetta bassa forza era sistemata in una specie d’alloggio open space nel sottocastello di prua, con cuccette addossate alla struttura stellare dello scafo terminante a prua con il pozzo delle catene. Le stive avevano i boccaporti con incerate bloccate alle mastre da cunei di legno. In coperta si poteva notare che verricelli, argani e picchi di carico erano in buono stato di manutenzione e ben ingrassati. Ai diplomati nautici, come previsto da contratto, sarebbe stato doveroso assegnare un alloggiamento adeguato. Personalmente fui costretto ad arrangiarmi nella ricerca di una cuccetta in quella doppia cala sottocastello. La prima notte la passai in modo alquanto scomodo rannicchiato su una panca, poiché non erano state ancora definite le sistemazioni e, in conseguenza, si era generata una vivace disputa per la precedenza ai posti migliori tra due marinai, uno dei quali appariva alquanto esagitato. Il mattino seguente, con intervento del nostromo, mi fu assegnata una cuccetta a prua estrema sul lato dritto quasi sotto l’occhio di cubia, a poca distanza dal pozzo delle catene. Il nome della nave era evidente a caratteri cubitali sia a prua sia a poppa: perdita. Venne a tiro un impiegato dell’agenzia marittima, col quale era interessante cercare di scambiare qualche frase, anche per incrementare la conoscenza della
lingua inglese. Gli fu chiesto perché era stato dato alla nave un nome per noi così maleaugurante. La nostra domanda generò in lui stralunamento degli occhi ed incredulità nello stesso tempo, ma anche suo interesse perché non capiva il motivo della nostra richiesta. La sua spiegazione fu netta: – It is the name of a flower, è il nome di un fiore e la pronuncia esatta è perdaita. La spiegazione era chiara ma poco convincente alle orecchie dell’equipaggio. I tentativi fatti in seguito presso diverse fonti, cercando una conferma di tale interpretazione, non ebbero risposte soddisfacenti ed accettabili per mancanza di una traduzione corretta, quindi il dubbio sull’esatto significato da dare a questo nome durò per molti anni. Tutto bene insomma, grandi difficoltà non erano evidenti, semmai sarebbero venute in seguito. Bisognava armarsi di buona volontà e mettersi tutti al lavoro procedendo a una verifica generale dell’armamento e all’imbarco di provviste ed attrezzature. Il completamento dell’equipaggio, compreso il cuoco, sarebbe giunto entro pochi giorni. Questo fu il motivo per cui il giorno seguente si rischiò un generale lavaggio, non della nave bensì nostro corporale. Avevamo lavorato molto la mattina per rassettare, procedendo al controllo delle stive con pulizia delle sentine. Era un lavoro necessario che comportava l’apertura delle serrette con ispezione e, quando necessario, asportazione di residui e depositi. A mezzogiorno eravamo molto affaticati e affamati perciò fu gradito il richiamo in coperta. Era stato preparato un sostanzioso pranzo a base di abbondante spaghettata, condita con sugo di pomodoro e formaggio grattugiato. In cucina aveva operato un marinaio che, provvisoriamente, era stato incaricato alla funzione di cuoco.
Ci radunammo tutti in coperta, appoggiati a bitte e boccaporti, con sistemazione provvisoria per il pranzo, pronti a riprendere il lavoro che era stato interrotto. L’appetito era tanto, ma alle prime forchettate fu evidente un generale senso d’insoddisfazione e disgusto. Nella pasta si sentiva un dubbio sapore dolciastro che non era mai stato esperimentato prima, pur essendo stata propagandata una preparazione che fu detta di cucina siciliana. Dopo generiche schifate considerazioni, fu chiesto al facente funzione di cuoco se alla cottura era stato aggiunto il dovuto sale. Pretendemmo appurare che tipo di sale era stato usato e dove era stato preso. In cucina, su un’alta rastrelliera, c’era un solo sacco contenente una sostanza bianca granulosa e di quella ne aveva presa una manciata: era soda caustica. Non restava che buttare via tutto e ricorrere a gallette e scatolame. Iniziò un periodo di umoristiche considerazioni ed ironici commenti all’indirizzo del responsabile sulle sue capacità culinarie. In seguito non riuscì mai a scrollarsi di dosso gli spregevoli commenti per quella sua particolare esibizione. Il battibecco era anche conseguenza delle colorite espressioni dialettali con cui ci si definiva reciprocamente, a seconda della regione di origine dei contendenti. L’uscita in mare avvenne dopo pochi giorni con nave vacante, diretti in Portogallo. Sbarcato il pilota iniziò il normale svolgimento del turno di navigazione. In rispetto delle regole doganali generali si diede corso alla distribuzione di tabacchi e liquori. Come si ebbe a constatare in seguito, questo non poteva avvenire per tutte le marinerie. Con riferimento a certe bandiere il procedimento era inverso, in porto era concessa una certa libertà e, alla partenza tutti i generi alcolici birra compresa erano tolti dalla circolazione e messi sotto chiave, per evitare il facile ricorso a pericolose ubria
cature durante la navigazione. Da parte nostra fu particolarmente gradita la distribuzione di whisky cognac e sigarette in abbondanza. Finalmente si poteva respirare la fresca brezza del canale di San Giorgio con mare leggermente mosso. Era doveroso continuare i controlli in mare per assicurarsi dell’affidabilità che si poteva dare alla nave. L’essenziale si dimostrava efficiente. In modo particolare la macchina a triplice espansione, secondo il capo macchinista, dava garanzia di solidità e regolare esercizio. La valutazione non era pienamente condivisa in coperta. Pur accettando il competente giudizio del tecnico, si doveva constatare che la velocità impressa era notevolmente scarsa. Dopo un primo esame propedeutico al quale fui sottoposto da parte del comandante e del primo ufficiale, per verificare quanto imparato all’Istituto Nautico, mi fu affidato un turno di guardia al timone. Quattro ore ininterrotte alla ruota, intervallate a quattro ore di riposo e successiva ripresa. Con l’entusiasmo il servizio era piacevole. Il timone era di tipo classico, la ruota alta quasi due metri collegata in presa diretta con la macchinetta a vapore posta alle spalle del timoniere, ad ogni correzione di rotta emanava sbuffi di vapore, cadenzati al ritmico lavorio degli stantuffi per azionare il collegamento a poppa. Questo non era l’unico compito affidato alla macchinetta. Specialmente di notte serviva a conservare ben calda la cuccuma del caffè posta sulla piastra superiore. Il governo della nave fu subito assorbito ed una piacevole sensazione si trasmetteva dalle impugnature alle caviglie, esercitando le continue correzioni per mantenere la giusta rotta. Per le accostate, il comandante, ricordando la sua gioventù passata su velieri, esprimeva gli ordini a quarte e quartine.
Era classico collegamento al vecchio stile della navigazione, facendo riferimento alla rosa dei venti e non alla fredda numerazione da zero a trecentosessanta gradi. Il primo ufficiale, con il quale mi trovavo sempre di guardia, era per me una gradevole miniera. Con il suo carattere, dal quale affiorava la predisposizione scolastica, infondeva senso di pratica collaborazione. Era appagante verificare con lui tante nozioni teoriche apprese a scuola con particolare riferimento ai problemi di navigazione costiera nonché all’uso del radiogoniometro per il rilevamento dei radiofari. A mezzo suo avveniva anche il mio primo serio approccio alla conoscenza delle costellazioni e delle stelle più utili per l’uso del sestante. Durante la sosta in porto per allestimento nave mi era stato affidato il compito di controllare le dotazioni nelle lance di salvataggio secondo le previste tabelle di sicurezza nave. Nulla era apparso deteriorato o scaduto o mancante. Tutte le riserve di viveri e materiali d’emergenza e segnalazione erano nel dovuto stato di conservazione. Avvenne in seguito che, alla proposta del primo ufficiale di calarle in acqua, per constatare la loro tenuta stagna, il comandante espresse forti dubbi sulla loro affidabilità in caso di bisogno. Personalmente, una cosa che mi annoiava era la totale impossibilità di esaminare le carte nautiche. Non esisteva in sala nautica una completa cartografia; il comandante custodiva le carte disponibili nella sua cabina e solo raramente ne appariva una riguardante la zona interessata. Altra particolarità della nave era che non esisteva una stazione radio e quindi un marconista. Sarà per il sommarsi di tutte queste deficienze, oltre che per il trasparente stato d’umore poco allegro, che il primo ufficiale, durante una delle prime guardie notturne fatte insieme, paternamente mi disse: – Ti vedo un po’ preoc
cupato e hai ragione di esserlo essendo questo il tuo primo imbarco, ma devi tenere presente una cosa: nella tua carriera, che inizia ora, una nave più brutta e male attrezzata di questa non la troverai mai. Partendo dal peggio non potrai che trovarti sempre meglio in futuro. Ne ricevetti un’iniezione di fiducia e fu un oroscopo pienamente confermato nel tempo. Tutto sommato, comunque, le deficienze della nave erano controbilanciate dall’entusiasmo giovanile, dall’inesperienza e dalla necessità di lavorare. E poi la macchina a vapore era una sicura sbuffante compagna... Oltre che il punto nave, con la navigazione costiera fu molto utile la pratica delle osservazioni astronomiche sia diurne sia notturne. La navigazione non fu molto avversata dalle condizioni atmosferiche nel canale di San Giorgio, con vento fresco e mare al giardinetto. L’attraversamento del Golfo di Biscaglia, la Guascogna che era nominata dai vecchi naviganti come cimitero delle navi, si dimostrò più movimentato a causa della nave in zavorra. Veniva evidente il confronto della nostra scarsa velocità con quella di tutte le navi che ci sorpassavano. S’intuiva la commiserazione che dovevano provare per quel povero vascello che procedeva ad andatura modesta, soggetto a costante beccheggio e rollio. In questa situazione il capo macchinista ostentava sicurezza e ci teneva sempre a ricordare che la macchina a triplice espansione funzionava bene senza problemi. E questo era sempre per noi confortante melodia. Capo Finisterre si annunciò nel pieno di una notte stellata col suo fascio luminoso radente oltre la linea dell’orizzonte. Barometro alto, notte allietata dalla volta celeste nel suo
splendore di miriadi di stelle con la Via Lattea quasi fosforescente nella tersa fredda trasparenza dell’atmosfera. Fu proprio in quella notte che il primo ufficiale m’insegnò le basi pratiche della navigazione costiera secondo l’esperienza della marineria inglese: log-lead-lookout, vale a dire solcometro, scandaglio e vedetta. Le tre elle da ricordare per navigare in sicurezza, senza affidarsi supinamente soltanto alle informazioni ricevute dalle apparecchiature tecniche. Nostra destinazione era Leixoes. Secondo porto commerciale del Portogallo, praticamente trattasi dello scalo moderno sul quale gravita la città di Oporto, alla foce del Douro. La navigazione lungo costa fu agevolata da tempo buono e mare calmo nel regolare trascorrere del turno di guardia, scandito ad intervalli di quattro ore dal doppio tocco della campana sul ponte di comando. Approfittando di una certa calma portata dalla navigazione costiera, franco di guardia, avevo trovato uno svago piacevole che in futuro avrei cercato di rinnovare. Le coste del Portogallo lambite dalle correnti a loro collegate sono molto apprezzate e frequentate dai delfini. A prua estrema, disteso tra bitte e occhio di cubia in alto sul dritto di prora, era punto perfetto d’osservazione per seguire le evoluzioni con le quali i delfini a coppie guizzavano con tondi occhi spalancati, zigzagando felici appena sotto la linea d’acqua, emergendo poi a scatti in verticale con acrobatici tortuosi avvitamenti, parevano cercare un cenno di partecipazione e apprezzamento per la loro bravura, consci della presenza in alto su di loro. Seguendo uno stretto canale la nave fu portata all’ormeggio predisposto per l’imbarco del carico destinato a Swansea e Cardiff nel canale di Bristol. Mi fu affidato l’incarico di sorvegliare l’imbarco alla stiva numero due. Dovevo controllare
le operazioni di stivaggio e anche i lavoratori portuali per una loro corretta operatività. Gli uomini che salirono a bordo diedero subito l’impressione di persone dignitosamente modeste e, durante il tempo passato insieme in stiva, mi resero partecipe dei loro movimenti segreti in opposizione al governo dittatoriale, allora imperante, di Salazar. Circolavano di mano in mano, sotto furtivi sguardi, manifestini ciclostilati di strisciante avversione politica e rivendicazioni salariali. I nostri contatti erano favoriti dalla comune radice linguistica e da reciproca simpatia, generata anche dalla coscienza di una nostra partecipazione alle loro istanze. Si procedeva all’imbarco di grosse partite con tonno e sardine in scatola unitamente a barili di Porto. A stive piene, fu completato il carico con paletti di pino, tutti della stessa lunghezza, destinati al puntellamento delle gallerie nelle miniere di carbone del Galles. Ne fu fatta una copertata completa con il gravoso impegno di tutto l’equipaggio per il rizzaggio con cavi d’acciaio e tornichetti. Il nostro barba – come viene detto il comandante in gergo marinaresco veneto-giuliano – si dimostrò moderatamente soddisfatto del lavoro e gli esportatori confermarono il loro apprezzamento gratificandoci con una consistente provvista, per nostro uso, di pancetta di tonno e sardine in scatola, aggiungendo al tutto due barilotti di vino di Porto, con reciproci ringraziamenti per la vicendevole collaborazione. Durante la sosta, con l’inseparabile Benito, fu possibile esplorare la città con il vicinissimo porto peschereccio di Matosinhos che, come vantato dai locali, era da sempre base molto importante per la pesca atlantica. Passammo una bella serata conclusasi in un caratteristico ristorante di Oporto con pesce fresco e vinho verde.
A partenza avvenuta, con lo sbarco del pilota, ci trovammo subito a contatto con condizioni meteo avversate da continui piovaschi. Appena messi in rotta, con mare lungo da nordovest, fu evidente che il tempo dei giorni passati era solo un ricordo, vento da maestrale e mare al mascone di sinistra. La nave aveva buona immersione e teneva bene il mare. Lasciando Capo Finisterre la Guascogna si presentò dimostrando che la fama di cui godeva era pienamente giustificata. Eravamo soggetti a forte beccheggio con mare rinforzato. Credevo di conoscere ormai tutte le parolacce ed espressioni oscene, dopo tutte quelle che avevo sentito sciorinare durante il servizio in Marina Militare. Evidentemente esiste una scala in senso negativo facilmente accessibile, come pure difficilmente scalabile per valori positivi. Mi fu data occasione per entrare a un più alto gradino nella conoscenza della volgarità nello sproloquio che uscì dalle imprecazioni del nostro cuoco. Costui era un uomo di mezza età e statura, corpulento e calvo, solitamente piuttosto taciturno. Con mare movimentato e burrascoso la sua bocca emetteva universale disprezzo. Non era facile determinare la sua regione di provenienza. In conseguenza del suo passato vagabondare non si poteva aggregarlo a una particolare etnia, neppure dal suo frasario con termini in diversi dialetti. Forse poteva essere definito un marittimo puro. La cucina non era grande, sistemata nel cassero di poppa per traverso nave, a fianco del fumaiolo; di conseguenza, a causa del forte beccheggio e rollio, pentole e marmitte erano destinate a sbattimenti e tracimazioni continue. La sua filippica iniziava con esplosioni non benevole e poi maledizioni al timoniere di guardia con estensione alla sua genitrice. Aumentando di tono la litania continuava tirando in ballo l’armatore e tutta la sua ascendenza. A rosa
rio ingranato erano coinvolti santi e madonne. Nel florilegio erano incluse espressioni triviali di carattere pornografico. Non avevo mai sentito simili giaculatorie. Una vera scuola di volgarità valevoli solo in mare aperto e tempestoso. In quelle condizioni era anche naturale la considerazione che tale comportamento derivava dal dispetto per l’impossibilità di continuare la sua opera. Sottocastello la situazione era molto differente. Non essendo la cucina in grado di fornire pasti caldi ad orario regolamentare, venivano distribuiti viveri complementari in scatola. Noi però avevamo la nostra riserva: pancetta di tonno e sardine in scatole da kg. Con le gallette quello costituiva il nostro pasto, accompagnato da generose bevute di vino di Porto a garganella dai buglioli. Il tutto terminava fumando profumate sigarette e sorseggiando buon brandy spagnolo. L’atmosfera concordava con la nostra euforia accompagnata allo sciabordio delle ondate che lavavano il castello di prora, sopra le nostre teste, e si scaricavano in coperta gorgogliando negli ombrinali. Lo sconforto veniva quando, a fine turno, si andava a poppa per la lettura del solcometro a barchetta, e le miglia percorse risultavano sempre poche. L’entrata nel canale e l’accesso a Swansea avvenne con la cooperazione di un vecchio pilota che, attraverso chiuse e canali fuligginosi, condusse la nave all’attracco in un dock non molto grande ma adiacente alla città. La disposizione e la forma delle case era piattamente uniforme: tutte uguali a due piani con evidente comune allestimento interno e apparenza esterna. Un tipico porto minerario, con montagnole di carbone che, nella serale ora d’arrivo, apparivano illuminate da alte lampade a luce gialla diffusa filtrante tra ponti caricatori, avvolgendo tutto in una cornice ovattata. Essendo vener
dì la previsione era di iniziare lo sbarco dopo il sacrosanto weekend. Ci fu chiaro il giorno dopo che il sabato era sempre avidamente atteso e partecipato dalla gente. Per noi fu un piacevole riposante distacco dal consueto servizio. Il sabato pomeriggio iniziò senza meta vagabondando in una città senza particolare attrattiva turistica. Aleggiava una sensazione di placida sonnolenza più che di festa. Arrivati alle ore serali fummo testimoni del cambiamento. Il sabato evidenzia la personalità e l’indole della popolazione della Gran Bretagna. I pubs erano molto frequentati con uomini seduti meditabondi in silenziosa contemplazione davanti a pinte di birra. La bevanda era centellinata per gustarne a fondo l’essenza e, con l’espressione calma devotamente assunta dai bevitori, si poteva figurare il raggiungimento di uno stato di pace cercato durante la settimana lavorativa. Non fu difficile per certe persone contattate da noi evadere dalla loro proverbiale riservatezza. Oltre al desiderio di conversare c’era sempre in noi la volontà d’incrementare alla base la conoscenza della lingua. È particolare il ricordo di una coppia di donne, una giovane con la nonna a braccetto, in evidente stato d’alcolica euforia, le quali, quando ebbero conosciuto la nostra nazionalità cominciarono a cantare, in mezzo alla strada, O sole mio in nostro onore. C’era una generale allegria ma tutto entro limiti accettabili per un normale weekend. Partecipammo ad una comune bevuta e poi, essendo tutti ben zavorrati, decidemmo per il ritorno alle rispettive abitazioni anche perché l’indomani era il church day. Ci fu pure, da parte nostra, un’altra ispezione in cerca di qualcosa non chiaramente definito. Avrebbe potuto anche essere precisato ma, da contatti avuti con persone di dubbia qualificazione, incluse ragazze prosaicamen
te imbellettate ed emananti effluvi alcolici, non fu possibile stabilire un prolungamento accettabile sia su lato ludico sia turistico. Con tre giornate lavorative in doppio turno, lo sbarco fu eseguito con metodica precisione sotto la direzione di un capo stivatore incaricato dall’agenzia. A sbarco ultimato, nel locale macchina erano in corso lavori di normale manutenzione, nell’attesa della prevista partenza del giorno seguente con la prima alta marea. Non sarebbe stato possibile compiere qualsiasi manovra usando i verricelli e gli argani di bordo per la mancanza di vapore. Salì in coperta un gallonato dock master con la richiesta di spostare la nave lungo banchina di duecento metri. Ciò avrebbe comportato la necessità di fare intervenire un rimorchiatore in quanto non era possibile effettuare il tonneggio con mezzi di bordo. Con fare accondiscendente e conciliante il comandante invitò il dock master in saletta a centro nave e, contemporaneamente, ordinò al cameriere di servire una bottiglia di cognac. Con argomenti navali e di chiacchiera in chiacchiera, il tutto frammezzato da bene auguranti convenevoli con scambio d’idee e considerazioni sempre di stampo marinaresco, la seduta si protrasse alquanto. Fu concordata l’ora della partenza per il giorno seguente e, in conclusione, non era più strettamente necessario che la nave fosse spostata lungo banchina. Con un largo goodnight il port officer scese sorridente lo scalandrone e si avviò compiaciuto verso il suo ufficio. Il comandante informò di conseguenza il primo ufficiale ed il nostromo. A me che ero presente disse: – Ricordati bene: quando sei in nord Europa per ottenere qualche agevolazione devi off rire una buona bevuta, invece quando sei in Mediterraneo devi off rire bakshish, cioè denaro.
Il burbero capitano aveva sputato una sentenza semplice della quale sarebbe stata sperimentata l’utilità. In zavorra, alla solita velocità moderata, ripercorremmo la nota rotta d’attraversamento della Guascogna, con tempo buono a parziale acquetamento della furia iconoclasta del cuoco. I tre turni di guardia di quattro ore nell’arco della giornata erano molto impegnativi, anche a causa delle continue correzioni di rotta che bisognava fare per il continuo accentuato beccheggio e rollio. Tra una tazza di profumato caffè e qualche occasionale sigaretta il tempo passava anche con i discorsi del primo ufficiale, sempre in stile colloquiale. Iniziando da argomenti tecnici relativi alla navigazione, conversavamo e gradatamente si evidenziava l’arguta tendenza partenopea a vedere tutto con spirito benevolmente critico. Velatamente si facevano commenti alla personalità del vecchio orso del quale, confrontato al primo ufficiale, risaltava la musoneria tipica della gente della Riviera di Levante. A Lisbona, con ormeggio a Piazza del Commercio, si fece scalo per imbarco di merci varie destinate a Genova, con sosta di tre giorni. Un sabato pomeriggio il nostromo espresse il desiderio di recarsi a Cascais per fare visita al re Umberto II di Savoia in esilio. Il referendum che aveva portato alla proclamazione della repubblica aveva fortemente diviso le simpatie popolari. Il nostromo vantava una forte fede monarchica; da parte mia ricordavo con simpatia i sentimenti di mio padre su tale argomento, che da sempre erano a favore di casa Savoia. Il capo macchinista, di origine toscana, si definiva repubblicano storico e dissentiva calorosamente da questa progettata visita. Anche per contrastare la sicumera del toscanaccio, io accettai
di partecipare alla spedizione alla quale si unirono anche due marinai. Di domenica mattina fu facile raggiungere la meta a mezzo ferrovia, direttamente da Lisbona. Non avevamo indicazioni precise per arrivare a Villa Italia. Non essendo riusciti ad individuare l’ubicazione del sito, costretti a cercare informazioni, fummo veramente fortunati. La strada era un po’ appartata e un gruppetto di quattro persone stava risalendo. L’istitutrice con le tre giovani principesse stavano tornando dalla passeggiata marina. Maria Pia, Gabriella e Beatrice ci furono presentate, in mezzo alla strada con democratiche strette di mano e vicendevole leggera confusione. Della villa ricordo la facciata contornata da rigogliosi rampicanti con entrata dignitosa ma non sfarzosa. Il re ci ricevette da solo in un salotto arredato con mobili antichi e ci fece accomodare informandosi dettagliatamente sulla nostra origine regionale, ricordando qualche località da lui visitata. Volle poi informazione sulla nostra nave e sui viaggi effettuati. Si poteva notare nell’aspetto e nel modo di parlare una penosa riservatezza, anche ringraziando per le gentili parole espresse dal nostromo. Lo scalo di Faro, sulla costa sud dell’Algarve, comportò l’ancoraggio in rada non essendo accessibile un ormeggio a causa dei bassi fondali. Tutto il carico fu convogliato sottobordo con chiatte e maone per imbarco con mezzi di bordo e personale di terra. Ancora si trattava del classico imbarco di prodotti portoghesi della pesca con complete partite di tonno in scatola e vino in barili. Erano previsti festosi giorni sottocastello per noi marinai. Il rientro in Mediterraneo dall’Oceano Atlantico, con la vi
sta della Rocca di Gibilterra, era preludio per il ritorno alla casa e agli amici, al nostro mare. Dopo lo sbarco nel porto di Genova, la nave fu portata in un cantiere navale a Savona. Non ci sentivamo attratti dalla prospettiva di compiere un altro viaggio sulla stessa nave. Eravamo propensi a cercare impiego su navi più allettanti sia dal punto di vista tecnico sia economico. Purtroppo però non avevamo altre prospettive aperte. Partecipammo anche noi ai lavori di ristrutturazione generale. La motrice fu cambiata. Invece della macchina a vapore fu installato un motore marino. La carbonaia fu quindi eliminata derivandone maggior spazio usufruibile per il carico commerciale. Come bassa forza noi fummo impiegati al picchettaggio generale, anche fuoribordo, con successiva pitturazione. Parte dell’equipaggio fu cambiata. Venne imbarcato un nuovo comandante originario dell’isola di Procida che era solo padrone marittimo. Non avrebbe potuto comandare la nave fuori degli stretti del Mediterraneo, perciò gli fu affiancato come capitano di bandiera il capitano Mortola. Questi era un vecchio marittimo originario di Camogli, sessantenne, pervaso da un’aura di evidente sobrietà e calma che dava sicurezza con lo sguardo perennemente indagatore sotto un basco tenuto a visiera. Il nuovo primo ufficiale era Padrone marittimo e aveva portato un nuovo nostromo che non sarebbe stato male, a prima vista, ma il ricordo del primo impatto tra noi rimase legato ad un ventoso mattino di tramontana. Era il gennaio, mio compleanno, ed essendo in programma la continuazione del picchettaggio fuoribordo, espressi il desiderio di ottenere un giorno di permesso. Per tutta risposta mi fu messa in mano
una picchetta e fui destinato a lavorare sopravvento fuoribordo con un gelido vento invernale per quattro ore senza interruzione. Con ritorno nel porto di Genova, fu effettuato un carico generale di merci varie destinate a vari porti del Mediterraneo occidentale. Primo scalo fu Algeri e, nella congestione della città esaltata nell’evidente avversione al colonialismo, fummo scambiati per francesi nell’irata ostentazione di alcuni giovinastri. In compenso lo scalo a Orano, in atmosfera completamente diversa e pacifica, fu occasione di amichevole accoglienza. Con la toccata a Tangeri non era prevista alcuna impegnativa operazione commerciale, però, in tale occasione, il capitano di bandiera, ricordando con entusiasmo una sua escursione di molti anni prima, ci spronò alla sua riscoperta dell’antico insediamento della città romana di Volubilis, rovine archeologiche distese sotto un sole accecante, alte sul promontorio aperto sull’oceano. Una colonna d’Ercole sullo stretto opposta a Gibilterra, al confine sud occidentale dell’impero romano, rievocante una civiltà che era prosperata e poi caduta nella sonnacchiosa dimenticanza umana. Della vita a bordo di quella nave io e Benito ci eravamo stancati, forse da tempo. Il primitivo giovanile interesse era svanito, si era risolto nella presa di coscienza che per noi doveva solo essere l’inizio per cercare un’ulteriore occasione tendente a miglior appagamento, anche professionale. Durante la navigazione da Casablanca verso Gibilterra, col mare leggermente mosso che quasi cullava la nave in un leggero rollio, stavamo osservando Beppe che largamente gettava pezzi di pane ai gabbiani in volo radente a poppa. Era un carbonaio siciliano di Pozzallo, addetto ai lavori più umili in macchina, strabico, con una ricca chioma di capelli neri che
viveva in un corollario esterno completamente nero ma, nella sua ingenuità, rivelava anche un’interiorità ricca di saggezza congenita, da popolare sapienza mediterranea. Questa sua azione a favore dei volatili aveva suscitato violente proteste da parte di un marinaio calabrese. I gabbiani erano da lui definiti la reincarnazione di cuochi e cambusieri che nella loro precedente vita marittima avevano prosperato alle spalle dei naviganti ed ora erano condannati a pescare i rifiuti lasciati dalle navi. La diatriba aveva interrotto ogni considerazione, ma ritornando alla nostra determinazione, concordammo definitivamente nella decisione di sbarcare appena possibile per cercare altro ingaggio. Prossimi all’arrivo a Genova, alla richiesta fatta al capitano di bandiera circa il previsto arrivo in Italia, lo stesso rispose, come in precedenza per altri arrivi: – Cun l’ajuetu su Segnu e da a Madona arriviemu duman matin fitu, con l’aiuto del Signore e della Madonna arriveremo domani mattina presto. Circolava la voce che sarebbe stato cambiato il nome della nave. Nella tradizionale cultura della marineria, una nave non dovrebbe mai cambiare il nome. I vecchi ricordavano che portava male. Il nostromo ed il cuoco che, sfaccendati, incrociammo in Piazza Banchi a Genova, interpellati sull’argomento ebbero solo un grugnito di condanna. Sarebbe stato imposto il nome latino della città d’origine dell’armatore, Sedula. Fummo convocati nello scagno della Compagnia, ma Benito ed io eravamo risolutamente propensi ad insistere per trovare imbarco su una nave tipo Liberty. Speravamo, perché avevamo avuto qualche nuovo contatto ed eravamo in attesa di essere convocati per viaggi tra il Mediterraneo e la costa orientale degli Stati Uniti. Il nostro rapporto con quella precedente esperienza fu così
terminato. Continuavamo ad incontrare alcuni marittimi del precedente equipaggio durante il peregrinare per carruggi e piazza Banchi. A distanza di pochi mesi fummo informati che il pessimismo dimostrato anche da altri riguardo al cambio del nome era stato convalidato da una serie d’eventi non favorevoli all’armamento. Era ancora irrisolta la nostra curiosità circa il nominativo primario della nave. Non eravamo mai riusciti ad avere un’esatta spiegazione in riferimento al significato della parola inglese Perdita. Per caso, a distanza di anni, in seguito ad inchiesta esplorativa attraverso internet, fu evidenziato che, come asseriva l’agente marittimo di Liverpool: «Perdita is an english rose, has very light, yellow/apricot blooms that fade quickly to white»*.
La rosa Perdita
* Perdita è una rosa inglese, ha fiori molto chiari color giallo/albicocca che tendono presto al bianco.
Homme libre, toujours tu chériras la mer*
Dopo l’introduzione alla vita marittima con imbarco sulla nave Perdita, avendo maturato, al disopra delle difficoltà, anche amore per questo genere di vita, con cielo e mare generosamente aperti al giovanile entusiasmo, fu necessario cercare condizioni migliori d’ingaggio, sia come qualifica sia come tipo di nave. Avevo preso coscienza della realtà da aff rontare. Durante il periodo scolastico e poi con l’assistenza del capitano Cappiello, negli ultimi anni della guerra, avevo avuto occasione di conoscere ufficiali di coperta in servizio alla Società Italia e dagli stessi avevo avuto solo parole di commiserazione per chi aspirava ad intraprendere la carriera marittima. I naviganti erano descritti come gente disgraziata condannata ad una vita di soli sacrifici, sempre lontani dalla famiglia, con scarso appagamento professionale. Nell’immaginario venivano identificati come i forzati del mare dei racconti avventurosi e, con commenti ampiamente ripetuti dai suddetti ufficiali, la loro vita veniva soltanto svalorizzata e banalizzata. Ripensando a questo atteggiamento generale piano piano era venuto in evidenza il sospetto, e poi la certezza, che i loro sentimenti erano determinati, in buona parte, da una carriera avara di soddisfazioni. Erano persone decisamente sfiduciate * «Uomo libero, sempre tu amerai il mare!» (Charles Baudelaire, L’uomo e il mare in I fiori del male).
e questa loro posizione doveva essere stata influenzata anche dalle vicissitudini incontrate durante il periodo bellico. La prima esperienza non mi aveva smontato: avrei cercato imbarco solo su navi per navigazioni di lungo corso, su navi superiori a quanto appena sperimentato, sia come tonnellaggio sia come impegno personale. Non era facile trovare l’ingaggio desiderato perciò fu necessaria un’indagine allargata attivando contatti attraverso comuni amici di Chiavari. Per l’imbarco sulla motonave Paolina fui agevolato da una segnalazione ricevuta alla capitaneria di porto da comuni amici. Mi sarebbe stato possibile l’ingaggio ma solo come allievo ufficiale in soprannumero. Praticamente alle dipendenze dirette del nostromo per servizio giornaliero di coperta, con parità di trattamento alla mensa ufficiali. La nave, che era adibita esclusivamente al trasporto di merci varie dalla costa orientale degli Stati Uniti al Mediterraneo, apparteneva alla classe Liberty ed era stata varata nel negli usa con il nome Edward W.Bo. Faceva parte delle unità costruite in tempo di guerra con le caratteristiche del Liberty americano, per l’urgente necessità di rifornire l’Europa con aiuti militari. Il primo varo di questa classe era avvenuto il settembre del con scafo completamente saldato, messo a mare dopo giorni di lavoro. Il record, sul tempo lavorativo totale impiegato, per la costruzione di un’unità di questo tipo era stato raggiunto con la Robert E.Peary in giorni ore e minuti. Si trattava di settori costruiti a parte in modo completamente indipendente e poi assemblati in cantiere. Il sistema a saldatura completa dello scafo, anziché chiodatura, comportava una semplificazione in relazione ai tempi occorrenti per la costruzione ma aveva
Esempio di nave Liberty americano
coinvolto molti problemi durante le traversate atlantiche, con cedimenti e crepe nelle strutture che portarono anche all’affondamento di molte unità. Ceduta alla fine della guerra ad un prezzo simbolico, la Paolina era stata rinforzata per tutta la lunghezza, in corrispondenza del trincarino, con una cintura di lamiere corrente sopra tutta la testata dei bagli del ponte principale. In navigazione con mare mosso, a centro nave, si sentivano ancora particolari scricchiolii che ormai non suscitavano alcun timore, per abitudine ed anche confidando nella ristrutturazione operata. In occasione delle prime toccate effettuate in Nord America nei porti atlantici, ho potuto vedere molti scali dai quali erano state varate le navi di questa classe nel periodo bellico, a ritmi molto brevi per un veloce inserimento a rafforzare i convogli destinati all’Europa. C’erano ancora concentrate all’ancoraggio centinaia di navi, sia mercantili sia militari, ordi
natamente disposte su più file, tutte ricoperte di una vernice protettiva color vino, la cosiddetta «riserva in naftalina». La partenza da Genova avvenne con nave vacante. Per la traversata atlantica si rese necessario zavorrare completamente la stiva n° con acqua di mare, per consentire migliore pescaggio all’elica. In queste condizioni gli ostacoli alla traversata erano proporzionali alle condizioni del mare, il beccheggio ed il rollio una costante alla quale ci si era abituati. Questo fino a quando si poteva tenere una velocità commerciale apprezzabile. Soltanto durante una traversata, a causa del brutto tempo, il beccheggio accentuato non aveva permesso di avanzare sulla rotta prestabilita. Era stato quindi necessario fermare le macchine e, con la segnalazione diurna e notturna di non governo, sballottati sempre da forte rollio, attendere un miglioramento delle condizioni generali per poter riprendere. Al ritorno, con nave a pieno carico di merci varie, si aveva la possibilità di navigare con più sicurezza e stabilità in qualsiasi condizione meteorologica. Il primo scalo a New York era stato atteso con desiderio, nella coscienza di venire a contatto con una realtà che era stata per molto tempo cercata e ammirata. Entrando nella baia non poté mancare la foto con amici, avendo sullo sfondo la statua della Libertà, la quale ci vedeva sfilare, sempre in atteggiamento ieratico, nel nostro entusiasmo tendente alla scoperta di questo mondo. Erano previsti nuovi contatti con sistemi più moderni nel commercio e nella pratica marittima. L’attracco era fissato ad un dock di Manhattan, una serie di grandi magazzini su calate costruite in legno su palafitte.
Il momento dell’arrivo a New York
Il primo significativo impatto con la società americana avvenne durante l’imbarco di merci varie alla stiva n° , alla quale ero assegnato per controllare lo stivaggio delle merci. Un capo stivatore con il quale avevo cominciato a dialogare, sempre nell’intento di meglio penetrare l’uso della lingua, intendendo spiegarmi la realtà nordamericana con un esempio, estrasse dalla tasca una moneta da un quarto di dollaro ed esibendola mi fece notare che sulla stessa stava incisa l’iscrizione «In God we trust». Mi chiese se ne sapevo la traduzione. Era semplice: Noi crediamo in Dio. Si aff rettò a dirmi che la traduzione era esatta ma in effetti sulla moneta avrebbe dovuto esserci inciso «In gold we trust» – noi crediamo nell’oro, nel denaro. Questo semplice fatto cominciò a farmi vedere la realtà americana con occhio disincantato. A New York mi trovai con Pietro Bisio, una conoscenza
di quando ero ragazzo. Pur essendo maggiore di alcuni anni apparteneva a quella categoria di persone che senti condividere le sensazioni del tuo mondo quasi meglio di un parente. Era di statura media e si sarebbe potuto definire tarchiato come corporatura, anche la faccia pareva incorniciata in un quadrilatero con cranio parzialmente pelato. Su tutto questo appariva sempre uno sguardo che solo le persone molto buone sempre ostentano. Esprimeva uno stato d’animo che qualcuno avrebbe potuto considerare segno di semplicità ma che, nel suo intimo, era espressione di una tenacia che da lungo tempo lo aveva portato a conseguire quanto si era prefissato. Si era infatti tenacemente opposto a seguire professionalmente le orme paterne, essendo suo desiderio dedicarsi alla musica con un vivo amore per il pianoforte. Non era arrivato a risultati di grande valore ma aveva potuto vivere suonando e dedicandosi anche all’insegnamento. C’eravamo persi di vista e lui, da alcuni anni, era approdato alla Grande Mela. In compagnia di una Tarsilla dai capelli corvini, alquanto procace, e ad onor del vero anche un po’ svampita, che da sempre era stata la sua musa. Era stato preavvisato del mio arrivo dal solito comune amico e lo trovai ad attendermi fuori dal dock. Era in compagnia di un giovanotto cieco, con il quale collaborava in campo musicale, anche a scopo benefico, a conferma di quella che era sempre stata la sua generosa attività. Non aspettava altro che incontrarmi per immettermi nel mondo delle sue conoscenze a Little Italy, dove si era perfettamente integrato. In quegli anni molti marittimi cercavano di entrare in America clandestinamente, eludendo la sorveglianza dell’ufficio immigrazione, per trovare lavoro e sistemazione. Mi venne offerta l’occasione per fermarmi definitivamente in America,
con pronto ingaggio a bordo di una draga operante nel fiume Hudson al comando di un capitano d’origine italiana. Il contatto prevedeva lavoro garantito con sistemazione regolarizzata. Non ci fu titubanza a rifiutare. Il pensiero di abbandonare l’Italia, il mondo familiare, pur con tutte le limitazioni del dopoguerra, non mi avrebbe lasciato altro che rimpianto ed insoddisfazione. Nel periodo d’imbarco di un anno facemmo scalo anche nei porti di Boston, Filadelfia e Baltimora. Il carico era sempre costituito da merci varie nelle cinque stive e completamento con veicoli sopra coperta. Sempre avvenivano lunghe soste nei porti, le quali off rivano la possibilità di frequentare nuove conoscenze e quindi incrementare la conoscenza pratica della lingua. Furono dodici mesi sempre a rimorchio del nostromo, un maturo spilungone, con la faccia rinsecchita dalla salsedine e dal sole, che sotto la crosta dell’abbronzatura non nascondeva, pur con la necessaria severità, innata bontà. Mi fu guida in molte pratiche marinaresche, comprese le impiombature con cavi di manila e di acciaio, nelle quali era veramente maestro. Inoltre tutte le sere partecipavo, sul ponte di comando con gli altri ufficiali, all’osservazione astronomica con quattro stelle per il calcolo del punto nave, trovandomi avvantaggiato dall’esperienza fatta sul Perdita con l’ufficiale professore di astronomia. Dopo un anno d’imbarco fu buona norma ritornare alla vita civile per un periodo di convivenza e socialità con amici comuni e familiari. Era un periodo di riposo atteso e vissuto intensamente, in una realtà appagante che solo dopo un mese mi portò a desiderare il ritorno alla vita di bordo. La prima offerta d’imbarco veramente interessante arrivò
Esempio di nave Liberty canadese
con la possibilità di essere iscritto al turno particolare della Compagnia Alta Italia di Genova: inizio da allievo ufficiale sulla motonave Mongioia per un anno, cui avrebbe fatto seguito il passaggio a terzo ufficiale. Finalmente una nave che appariva sotto ogni aspetto adeguata alle mie aspettative. Impiegata per il trasporto di merci varie in linea regolare con il Golfo del Messico, apparteneva alla classe Liberty canadese, costruita in Canada nell’anno e varata con il nome Fort Kooteray. A guerra finita era stata assegnata all’armatore italiano con il pagamento di un prezzo simbolico. In Italia la macchina motrice era stata sostituita con una turbina a vapore che assicurava una velocità commerciale di nodi. Le navigazioni attraverso l’Atlantico avvenivano sempre a velocità apprezzabili. Il comandante era di origine ligure come gran parte degli ufficiali. Rispetto alle precedenti esperienze era un ambiente che faceva sentire l’appartenenza ad un mondo condiviso anche nel modo di ragionare. Il primo ufficiale, con il quale dividevo la guardia sul ponte, era anche una piacevole compagnia nelle lunghe ore di navigazione, che
spesso non comportavano particolari problemi nautici. Come diceva il primo ufficiale del Perdita durante il mio primo imbarco, le navi sono tutte fatte di ferro ma è l’equipaggio che fa la differenza. Tra tutti noi ufficiali di coperta intercorreva un rapporto quasi familiare, forse anche derivante dalla comune provenienza geografica. I compiti erano da tutti consapevolmente assolti con reciproca partecipazione. Nel Golfo del Messico venivano regolarmente scalati i porti di Tampa in Florida, New Orleans e Baton Rouge in Louisiana, sul Mississipi, seguiti in successione dai porti del Texas con Galveston, Houston, Brownsville e Corpus Christi. La navigazione nel fiume per arrivare a New Orleans avveniva solo di giorno e la notte spesso si era obbligati all’ancoraggio, con un caldo soffocante e sotto l’attacco di mosquitoes affamati, mentre l’arrivo allo scalo di Brownsville, all’estremo confine sud con il Messico, veniva sempre salutato da stormi di rosseggianti fenicotteri. Le soste nei porti duravano sempre alcuni giorni, il che permetteva contatti sia turistici che amichevoli. La città di New Orleans evidenziava una comunità musicalmente movimentata, ma non freneticamente vissuta come le città del nord. La popolazione era per metà composta da persone di colore, con appariscente evidenza di rigogliose donne creole che quasi sempre procedevano maestosamente, nella consapevolezza della loro bellezza. A Bourbon street, nel quartiere francese, c’erano molti locali nei quali piccole bands suonavano una viva musica jazz, e le serate trascorrevano piacevolmente. Nella stessa città il marconista aveva trovato un modo più eccitante per passare il tempo, frequentando il casinò sul lago
Ponchartrain. Lo faceva non solo per cercare la fortuna, che sempre gli sfuggiva, ma anche spinto dalla necessità di fronteggiare uno stato di continua insicurezza: si sentiva “chiuso”, rivivendo rischiosi momenti passati a bordo del sommergibile Barbarigo durante la guerra. Era di origine sarda e teneva in sé il disprezzo per la vita che sentiva essergli stata risparmiata in oceano, con il sommergibile in immersione sotto gli scoppi delle bombe di profondità. Era stato sbarcato per avvicendamento durante una sosta nella base di Bordeaux. L’unità fu data dispersa nel Golfo di Biscaglia presumibilmente nel mese di giugno e lui recriminava di non aver potuto condividere la stessa sorte dei suoi amici, affermando che il destino di tutti era stato determinato soltanto da doverosa incoscienza. Al suo rientro a bordo, dopo una nottata al casinò, fu visto sullo scalandrone imprecare e scagliare contro il mare le monete che gli erano rimaste. Anche a Corpus Christi c’era la possibilità di avere inframmezzi musicali ma di genere più impegnato. In tutte le città degli Stati Uniti è comune fare amicizia con persone di origine italiana di seconda generazione. Sono perfettamente integrate ma sempre manifestano nostalgia per l’origine dei loro padri. Larry Chiorgno, con la sua famiglia, era diventato nostro amico e quando aveva notizia dell’arrivo della nave veniva a prelevarci. Faceva parte dell’orchestra sinfonica di Corpus Christi e, con il suo enorme contrabbasso, ci rendeva partecipi a serate di soporifera musica sinfonica. Durante l’ultimo viaggio successero molti contrattempi. Una settimana prima dell’arrivo al pilota fluviale del Mississippi, per il primo scalo a New Orleans, avevo notato che il calendario appeso in sala nautica segnava come giorno e data
del mese venerdi . Il commento del primo ufficiale, forse anche annoiato dalla mia constatazione, era foriero annuncio di guai in arrivo. Era un cinquantenne sempre benevolo ma dal carattere piuttosto chiuso. Secondo la sua opinione tale coincidenza non poteva che portare male, per antico collegamento a radicata superstizione marinaresca, e non si poteva dissentire apertamente da questa sua opinione per non urtarne la suscettibilità. Nonostante la supposta incredibilità di una nefasta influenza, quello che avvenne durante quel viaggio nel Golfo poteva far pensare a sospetta maligna persecuzione, in conseguenza della concatenazione degli incidenti che accaddero entro pochi giorni coinvolgendo tutto l’equipaggio. Il primo fatto accadde a Galveston. Si era proceduto all’imbarco di zolfo alla rinfusa in tre stive. La massa doveva essere spianata e su di essa sistemato un pagliolato di grosse tavole, come base per l’imbarco di carri armati. Lo stivaggio sottomastra dei carri doveva essere perfezionato con il trascinamento per mezzo di cavi di acciaio deviati da pastecche. Accadde quello che a prima vista sembrava un incendio, generato dalla forte pressione sulle tavole con sfregamento a contatto della polvere di zolfo. Fu necessario intervenire con mezzi di bordo combattendo il fumo acre che sviluppava il fuoco. Fu una cosa di poco conto che però portò molta agitazione. Niente male come inizio... Due giorni dopo, usando picchi di carico per imbarco di merci varie nel porto di Houston, avvenne la rottura dell’attacco di un bigo alla base e lo stesso restò incastrato contro la casamatta alla stiva n° . Avrebbe potuto causare molti danni alle persone, in coperta al lato della mastra del boccaporto, e anche ai manovratori addetti ai verricelli. Il nostromo era un veterano della compagnia e conosceva la nave fin nei più
oscuri recessi: aveva l’abitudine di eseguire continuamente minuziosi controlli, quando venivano impiegate attrezzature di bordo per il carico e durante un’ispezione fu rilevata l’incrinatura sul pivot del bigo di forza. Il rischio corso era stato grande perché si stavano imbarcando veicoli pesanti. La sospensione immediata delle operazioni e la rimessa in opera comportarono una gravosa mole di lavoro per tutti durante l’intero pomeriggio, incalzati da un sole spietato. Pareva che la serie d’inconvenienti e disgrazie fosse ormai superata con il solo brutto ricordo, e invece no. Il secondo ufficiale lamentava da giorni uno stato febbrile che si era tentato di curare a bordo con trattamento generico antifebbrile e amntiinfluenzale. Con la necessaria richiesta d’intervento del servizio sanitario locale, dopo esami approfonditi in ospedale, fu necessario lo sbarco immediato per ricovero o rimpatrio. Era un’ulteriore complicazione che avrebbe sconvolto i normali turni di guardia sul ponte di comando durante la navigazione. Dopo alcuni giorni, con carico completato a Baton Rouge, scendemmo il Mississippi con pilota fluviale sino alla foce. I soliti paciosi pellicani appollaiati sulle bricole ci rivolsero uno sguardo incurante. Eravamo nel Golfo con destinazione Genova. Il tempo era buono con mare lungo quasi lattiginoso al riverbero del sole splendente. Era cominciata la navigazione con i primi incarichi e turni regolari. Con stanche onde lunghe al mascone, parve necessario provvedere a rinforzare il rizzaggio dei fusti metallici sistemati in coperta a pruavia. A tale scopo stava provvedendo parte dell’equipaggio con l’intervento del comandante con il primo ufficiale e mio personale. La nave non era dotata d’impavesata continua e la coperta era contornata da candelieri di ferro e catene. Quello
che improvvisamente avvenne non fu mai possibile chiarire con esattezza. In quella condizione generale di mare calmo fu imbarcata al mascone di dritta un’ondata che dal castello di prua si riversò sul boccaporto della stiva e in coperta. Travolse tutti: due marinai non finirono in mare solo perché si erano aggrappati ai candelieri riportando lacerazioni e contusioni. Il nostromo, che era piccolo di statura ma sembrava di costituzione metallica, tutto nervi e muscoli, riportò la rottura di una spalla e contusioni varie. Il primo ufficiale ebbe la rottura di una gamba e, nel generale trambusto, il comandante, con una ferita alla testa che perdeva sangue, sembrava ridotto in malo stato. Per quanto mi riguarda, venni investito dalla cascata d’acqua che dal boccaporto della stiva n° si riversava in coperta. Mi aggrappai a un verricello evitando di venire sbattuto contro la casamatta, in spumeggiante risucchio di calda acqua salmastra. Si finì per addossare completamente la colpa al timoniere. In quelle condizioni era impossibile proseguire il viaggio. Fu stabilito il contatto con la Guardia Costiera americana per concertare il modo ed il tempo per l’assistenza. In un primo momento veniva consigliato di fare scalo a Key West, sulla punta estrema della Florida. Poi, ponderando la non eccessiva urgenza e la particolarità della nave a pieno carico con forte pescaggio, fu concordato di procedere fino all’ormeggio di Miami Beach. Arrivando sembrava di partecipare alla ripresa cinematografica di un film in technicolor con nutrito dispiegamento di ambulanze e polizia, tutti con rutilanti segnali luminosi. Fu disposto lo sbarco dei feriti per ricovero ospedaliero. Il comandante venne sottoposto a controllo a bordo e medicato con ferita giudicata non grave. La partenza venne fissata per il mattino seguente.
Terzo ufficiale sulla nave Mongioia
Quello che per altri fu motivo di disagio ed infortunio con sbarco, per me e l’altro ufficiale rimasti a bordo, essendo gli unici ufficiali di coperta rimasti in grado di coprire tutti i turni di guardia fino all’arrivo a destinazione, fu una fonte di guadagno. Dovendo assolvere doppio turno di guardia fino a Genova, in tali condizioni lo stipendio degli ufficiali mancanti venne diviso tra coloro che li avevano rimpiazzati. Con nave a pieno carico e pescaggio ottimale veniva sviluppata tutta la potenzialità dell’apparato motore. La velocità venne notevolmente incrementata dall’entrata nel pieno della Corrente del Golfo, e ci permise di arrivare a Gibilterra in anticipo su quanto sarebbe stato abituale. Lo sbarco era già stato predisposto, per periodica rotazione. In attesa di successiva convocazione per altra unità avevo programmato un periodo di sosta e svago.
Fay Apatimeno
Il comandante dell’Associazione Armatori Liberi mi aveva convocato ed io lo ricordavo comodamente assiso alla sua scrivania, dalla quale manovrava buona parte del traffico marittimo, sia di navi sia di uomini. L’ufficio si trovava in un palazzo di via Garibaldi, cuore della Genova mercantile: palazzi grandiosi e pesanti nella loro architettura pure elegante. Tutti erano stati sede e fulcro dei mercanti genovesi. La loro opulenza, già manifesta nell’aspetto esteriore, continuava con l’ingresso nell’ampio atrio e si espandeva per lo scalone marmoreo contornato da statue e stucchi a profusione. Nell’anticamera dell’ufficio trovai la cordialità del segretario e, dopo brevi convenevoli, mi fu possibile arrivare alla grande scrivania del capitano d’armamento, che sempre aveva manifestato partecipazione alla vita di bordo, con un po’ di rimpianto. Aveva ricevuto una particolare richiesta da una società armatoriale di Londra e lui, paternamente, aveva pensato che sarebbe stata un’opportunità interessante e formativa per la mia carriera. Era richiesto un secondo ufficiale di coperta per imbarco su nave battente bandiera inglese, in prossima partenza dal porto di Amburgo con destinazione Estremo Oriente, dopo una serie di scali in Europa settentrionale. La decisione s’imponeva immediata. La paga in sterline era buona e, a mio avviso, la prospettiva di un imbarco annuale, con possibilità
di perfezionamento della lingua inglese, era il lato più interessante, veramente capitale per lo svolgimento dell’attività commerciale marittima. I particolari furono concordati ed accettati con Londra, telefonicamente in mia presenza, e fu organizzato il trasferimento con carattere d’urgenza. In breve mi trovai frettolosamente coinvolto in una veloce traversata aerea: Alitalia per Zurigo, Swissair per Francoforte, e prosecuzione finale per Altona con la Lufthansa. All’arrivo era notte fonda, trovai un impiegato dell’agenzia marittima a ricevermi e convogliarmi al porto di Amburgo, dove la nave era in attesa con pilota a bordo per la partenza. Era mancato anche il tempo per una ragionevole considerazione sull’evento e sul tipo di nave, che era stata descritta soltanto come adibita al trasporto di merci varie, stazza lorda di tonnellate, equivalenti a circa tonnellate di portata. Allo scalandrone d’imbarco una persona di circa anni, di statura media e corporatura molto magra, mi stava aspettando. Parlando un italiano un po’ stentato ma comprensibile si qualificò come terzo ufficiale di coperta (risultò poi essere parente dell’armatore senza specifica competenza marittima). Disse che la nave stava partendo, in quanto la partenza era stata organizzata in concomitanza con il mio arrivo. Il pilota era a bordo e il comandante mi mandava a dire di andare a riposare in cabina: mi avrebbe incontrato il giorno dopo. Ero effettivamente molto stanco, perciò mi chiusi in cabina e mi addormentai con il sottofondo di una nave in disormeggio e partenza con l’ausilio dei rimorchiatori. Il mattino seguente mi svegliò lo sciabordio del mare sulla fiancata della nave nonché un gradito aroma di caffè. Mi pre
murai subito di cercare contatto con il comandante. Era sul ponte di comando e mi accolse cordialmente. Era un tipo di mezza età, piuttosto corpulento, con una capigliatura grigia ricadente sulla fronte. Avevo preparato il primo contatto con frasi che avrei sciorinato pescando nella mia non perfetta conoscenza della lingua inglese, confidando con modesta soddisfazione in precedenti esperienze. Lui però parlava un inglese per me troppo comprensibile: cercai d’inquadrarlo e non tardai a capire che non era suddito della Corona Britannica, Infatti era greco con residenza in Atene, ed era cognato dell’armatore greco con residenza a Londra. I due erano legati non solo da parentela ma anche da interessi societari. Il quadro totale venne in evidenza ben presto: il primo ufficiale era italiano pensionato della marina mercantile, il terzo – che avevo incontrato la sera prima allo scalandrone – era greco e parlava un buon italiano, il marconista era scozzese, mentre tutti gli altri componenti dell’equipaggio, sia di coperta sia di macchina e cabina, erano di origine ellenica. Non che io avessi pregiudizi di nazionalità; i marinai, poi, nella maggioranza provenivano dalla isole del Dodecanneso e potevano intendere e parlare discretamente la lingua italiana. Non restava quindi che adeguarsi e cercare accordo con la nuova situazione trovata. Il mio servizio di guardia ebbe subito inizio con non poco gradimento da parte del comandante e degli altri pochi ufficiali di coperta. Il primo scalo fu fatto lo stesso giorno a Vlissingen, tipico villaggio olandese, attrezzato solo per le operazioni di bunkeraggio delle navi in transito sulle rotte dell’Europa settentrionale. Tante dighe, molte mucche pascolanti in prati ben
al disotto del livello marino medio, ambiente bucolico con odore salmastro ma anche diffuso penetrante meno gradevole odore di prodotti petroliferi. Tutto poteva ricordare l’ambientazione di un romanzo di Simenon. Durante il periodo fuori del mio servizio di guardia feci qualche giro ispezionando le parti più importanti di questa mia nuova sistemazione. La nave era ben dotata d’attrezzature sia in coperta sia sul ponte di comando. Il primo ufficiale si trovava in quella mansione da tre mesi e manifestava segni d’apprezzamento per la nave e per il personale. Il primo scalo avvenne a Rouen, sulla Senna, per imbarcare un completo carico di farina in sacchi, destinata parzialmente al porto di Haifa in Israele e a Colombo, possedimento portoghese sulla costa occidentale dell’India. Il pilota francese per risalire la Senna fu particolarmente premuroso ad informarci ed insistere sulle precauzioni da prendere, stando ormeggiati nel posto designato per l’imbarco. Giornalmente sarebbe stata preannunciata l’ora esatta, per ogni determinato punto lungo il fiume, in cui si sarebbe manifestato l’improvviso arrivo dell’alta onda di marea: non una salita graduale, bensì un muro d’acqua improvviso per cui tutti i natanti, all’ora prevista, giorno e notte, dovevano avere l’equipaggio pronto alle cime di ormeggio per allascarle agevolando l’improvvisa elevazione della nave rispetto alla riva, onde evitare il pericoloso strappo dei cavi. I francesi danno a questa onda di marea il nome Mascaret. Specialmente di notte è una situazione caratteristica, preannunciata dalle grida di preavviso dal basso fiume risalenti di nave in nave. Con il ritorno in mare aperto riprese la navigazione con regolari turni di guardia, i quali mi permettevano anche d’intensificare la conoscenza di altri membri dell’equipaggio.
Il marconista aveva la padronanza e indipendenza assoluta del suo servizio. Era poco espansivo, e ai tentativi di contatto verbale rispondeva gentilmente a monosillabi. Quando eccedeva mangiava le parole, e anche per questo c’era poco da incrementare la conoscenza della lingua inglese grazie a lui. Il personale di macchina, come ho detto, era composto totalmente da greci: il capo macchinista, borioso e presuntuoso con tutti, manifestava apertamente segni di ostilità verso gli italiani. Gli ufficiali di macchina erano invece tutte persone gradevoli nel tratto e nella conversazione. Alcuni avevano avuto precedenti di navigazione in altre compagnie con marittimi italiani. Di peculiare interesse fu l’occorrenza della Pasqua ortodossa, che avvenne in un soleggiato mattino, in pieno Mediterraneo, al largo della costa dell’Africa settentrionale. A turno l’equipaggio d’origine ellenica salì sul ponte di comando per esprimere al capitano l’augurio pasquale con la ripetuta espressione Christos Anesti – Cristo è risorto – alla quale egli rispondeva Alithos Anesti – Veramente è risorto. A Haifa lo sbarco avvenne con mezzi di bordo. Erano i primi anni dello Stato d’Israele. Gli scaricatori erano molto aperti e desiderosi di scambiare opinioni sulla situazione recente dello Stato e sulle lotte alle quali avevano partecipato attivamente durante la guerra; la loro provenienza era la più assortita che si potesse immaginare. Molti erano professionisti, arrivati dall’Europa centrale, che si adattavano volentieri a quella loro provvisoria mansione di scaricatori. Era un’occasione anche per prendere contatto con la nuova realtà sociale e politica che stava nascendo in Medio Oriente. Lo sbarco della farina durò pochi giorni e, in quel periodo, fu possibile compiere un tour di scoperta all’interno del pae
se, semplicemente usando autobus di servizio pubblico. Con sole accecante ovunque, tra rigogliose piantagioni di banane e agrumi di varie dimensioni dal pungente profumo... tutto invitava ad una soporifera e distensiva sosta, che arrivò soltanto a Nazareth, doverosamente desiderata e cercata. Il cielo era mare disteso su colline di ocra diffusa. Serenità ed evangelica reminiscenza. Un bagno ristoratore prima di tornare alla operosa quotidianità di bordo. L’arrivo nella rada di Port Said comportava una paziente ricerca del posto d’ancoraggio, in mezzo a decine d’altre navi, già ancorate in attesa della composizione del convoglio per attraversare il canale. L’abbordaggio della pilotina con l’agenzia avvenne prontamente con le informazioni d’ufficio. Contemporaneamente, come di prassi, ci fu l’assalto sottobordo delle barche di venditori ambulanti, spesso osteggiato dalle navi per la loro invadenza e per l’insistenza dell’offerta di oggetti da bazar arabo. Gli egiziani sono famosi per questi abbordi, aiutati da una vasta conoscenza linguistica. L’attesa del pilota non fu molto lunga e ci trovammo presto in navigazione verso Suez, in una lunga carovana procedente in fila indiana tra le dune fiancheggianti le sponde del canale. Iniziava un viaggio per l’Estremo Oriente, che avevo cercato come nuova interessante esperienza. Invece dell’inglese avrei avuto l’opportunità, rispolverando sedimenti del greco antico appreso al ginnasio, di accedere ad una discreta conoscenza del greco moderno, essendo l’equipaggio composto da greci, incluso il comandante. La nave si chiamava Tinamar, l’Union Jack sventolava a poppa. Con lo sbocco nel Mar Rosso cominciava la monotona uniforme discesa fino al faro dell’isola di Bab El Mandeb, che guida all’entrata del Mare Arabico. Lunghi turni di naviga
zione con mare costantemente calmo ed afosamente addormentato. Unico diversivo, incrociando altre navi in controcorsa, lo scambio di notizie con segnalazioni luminose relativamente alla loro provenienza e destinazione. Questo anche per tenersi allenati nell’uso dell’alfabeto Morse. Raramente si avvistava qualche costa, con brulle montagne totalmente spoglie di vegetazione, riarse da un sole cocente da millenni. I marinai avevano organizzato l’installazione a poppa di una lunga lenza con cavo d’acciaio terminante in uno straccio bianco. L’intendimento di catturare fosforescenti “indorate” fu raggiunto, con buona soddisfazione del cuoco, e molti pesci lucenti venivano appesi alla ghia in coperta. Un grosso pesce aveva abboccato una notte: fu issato a bordo per poi essere ributtato a mare, ancora vivo ma dannatamente arrabbiato. Si constatò allora che si trattava di uno squalo di circa tre metri. La bassa isola di Bab El Mandeb col suo potente faro fu avvistata da grande distanza e ci guidò all’uscita. L’inizio della stagione monsonica di sud-ovest era annunciato da tempo, con categorica precisione per un dato giorno del mese di maggio. Questa previsione era stata anche confermata, con personale passata esperienza, da un marinaio che era in turno sul ponte nella mia guardia. Era originario dell’isola di Egina e la sua previsione veniva da una lunga serie di viaggi effettuati in quei mari a bordo di navi petroliere della Olimpic Lines. Matematicamente ne fu constatata la fondatezza; anche il portolano documentava esaurientemente in merito. Il nome monsone deriva da parola araba con il significato di stagione, e stabilisce precise date per l’apertura e la chiusura della navigazione. Il monsone di nord-est è indicato con inizio ai primi di ottobre nel Bengala e debolmente avvertito a
Zanzibar verso la fine di novembre. Il monsone di sud-ovest si manifesta con inizio leggero sulla costa orientale dell’Africa, raggiungendo la massima forza ed estensione a giugno nel Mar Arabico. Sui velieri naviganti in Oceano Indiano, durante il medioevo, la responsabilità della navigazione era esclusivo compito del mastro pilota, che aveva spiccate conoscenze geografiche, meteorologiche e astronomiche. Solo lui poteva decidere i periodi propizi alla navigazione. Notizie tramandate vedono la prima nave portoghese, in rotta verso l’India nell’anno , guidata da un mastro pilota arabo. Una leggera brezza ci ricevette appena fuori dal Mar Rosso. Si aveva la gradevole sensazione di un più ampio respiro in conseguenza anche del percepibile vasto orizzonte. In poche ore dal cambio di rotta il mare venne gradatamente rinforzando sino a raggiungere, durante la notte, forza con onde costanti al giardinetto e largo spumeggiare in continuo beccheggio e rollio. La nave teneva bene il mare con buona immersione e queste condizioni di vento e mare costanti ci accompagnarono nei giorni seguenti, sempre rinforzando fino a forza , con frequenti marosi sulla bassa coperta, sino all’arrivo a Colombo. L’isola di Ceylon era una parentesi molto spettacolare del nostro viaggio per le condizioni ambientali, con una vegetazione riccamente debordante su marciapiedi colorati da grossi verdi lucertoloni sonnacchiosi. L’isola era stata nei secoli contesa tra portoghesi, olandesi e poi inglesi per assicurarsi la priorità nel possedimento di quella base nel commercio di prodotti esotici con il resto del mondo. L’indipendenza era stata pacificamente raggiunta a partire dal , lasciando un enorme impatto sulla cultura locale.
Si festeggiava in quei giorni la ricorrenza del capodanno buddista, con sfilate nelle strade di variopinte maschere evocanti figurazioni mitologiche, accompagnate da suonatori con strumenti tradizionali e festosa partecipazione di popolo. Alla condivisione di questa atmosfera influì la conoscenza di un’impiegata dell’ambasciata italiana e di un perito agrario che era ispettore nella coltivazione del tè. La visita di una grande piantagione durante la raccolta, su colline ondeggianti a perdita d’occhio, fu occasione per conoscere i locali proprietari, con donne prosperose che ci tenevano a fare mostra della loro casa e dei loro costumi, terminando in conviviali riunioni con abbondanza di aragoste e frutta tropicale. Assai diverso rispetto all’evoluzione della vita politica e sociale riscontrata in Ceylon apparve l’apparato coloniale ancora vigente a Mormugao, possedimento portoghese nello stato indiano di Goa. Alfonso d’Albuquerque ne prese possesso nel per assicurare una base a protezione e controllo del traffico delle spezie dall’India verso l’Europa. L’anno iniziò la costruzione di alcune fortificazioni a difesa del porto, ma le mire degli olandesi erano sempre state volte a subentrare in tale possedimento. I loro tentativi sfociarono in accentuata pressione militare negli anni dal al , e furono definitivamente respinti dai portoghesi. Mormugao fu quindi scelta come città fortificata e come definitivo centro di tutti i loro possedimenti in India. Questa lunga presenza appariva evidente anche nelle costruzioni richiamanti uno stile architettonico comune in Portogallo. L’autorità era rappresentata con nutrita evidenza di funzionari statali e di militari. Il primo ufficiale mi aveva fatto
notare questa particolare differenza nel comportamento della popolazione locale. Una quasi musoneria che difficilmente sopportava ancora gli occupanti, a confronto con il clima di gioia continuamente sperimentata a Colombo. Avevamo proceduto ad un completo carico di minerale destinato alle acciaierie del Giappone, con porto finale di sbarco che sarebbe stato confermato durante il viaggio. Iniziava una lunga navigazione con tempo moderatamente influenzato da condizioni meteorologiche nella norma stagionale, con primo scalo a Singapore per bunkeraggio. Le mie relazioni con tutti a bordo erano sempre state improntate a reciproco rispetto e cooperazione. Il comandante si era rivelato un buon capitano, al di sopra di ogni particolarismo. Rimaneva latente verso gli italiani in generale – e di conseguenza verso me – da parte del capo macchinista l’ostilità inespressa ma sentita, come coperta da cenere in attesa di venire espressa. A livello generale era anche sussurrata, e diventata di pubblico dominio, la faida esistente nel reparto macchina tra il capo ed il primo macchinista. Tronfio sempre il capo, in contrapposizione alla figura del primo, dall’apparenza semplice e costituzione minuta, che accoppiava ad una particolare esperienza un carattere bonario ed amichevole con tutti. Erano entrambi greci d’origine, invariabilmente in contrasto su qualsiasi questione di servizio. La bolla esplose due giorni dopo la partenza da Mormugao. Era un pomeriggio in normale decorso di navigazione, con mare calmo sotto caldo sole, alta temperatura e diffusa umidità. In coperta, all’uscita di una casamatta collegata con il locale macchina sul lato dritto, andava aumentando un vociare concitato che aveva rotto la tranquillità pomeridiana richiamando un capannello di marinai. I due macchinisti erano venuti ad
un chiarimento che doveva essere improrogabile e pareva definitivo. Entrambi inveivano e stavano per passare allo scontro fisico. Uno dei due, il primo macchinista, brandiva un randello. Molti astanti erano forse anche interessati alle ragioni della loro guerra, che io non capivo nell’esasperato loro sbraitare in lingua greca. Era stata nominata anche una pistola – fere pistola. La questione pareva degenerare verso pericoloso epilogo di tragedia greca. Mi sembrava strano che nessuno intervenisse per dividerli o per chiamare il comandante. Mi risolsi a salire il ponte superiore per attirare la sua attenzione sul fatto. Stava ascoltando dalla porta socchiusa della sua cabina, senza alcuna intenzione di scendere ed imporre la sua autorità. Quando mi vide disse: «Sono uomini, non sono ragazzi, se la sbrighino da soli». Tornato in coperta, la bega stava sfociando nella violenza con scontro fisico. Il capo aveva preso il primo per il collo con ambo le mani e stringendo lo spintonava verso la casamatta. Agii d’istinto e mi venne naturale intromettermi, afferrando l’aggressore per un braccio, per allontanarlo dal malcapitato oggetto del suo odio, il quale ricambiò con un’inaspettata reazione verso me stesso. Con spontanea mossa mi misi in guardia, a pugni serrati per la difesa, aspettando il suo assalto. Si era voltato verso di me e rimase in posizione inerte, interdetto dal mio intervento, solo un’espressione dura nei suoi occhi. Round rimandato? I marinai presenti avrebbero forse preferito assistere ad una scazzottata vera e propria. Sopravvenne un generale rilassamento e la riunione si sciolse, in momentanea totale apparente indifferenza. Il passaggio nello stretto di Malacca, tra la penisola della Malaysia e l’isola di Sumatra, navigando con mare calmo su lastra argentata, di primo mattino al sorgere del sole, portò tutte le sensazioni dei tropici.
Uno stretto filo di fumo, in elevazione dalla vicina costa dell’isola, tra palme e capanne, contribuiva ad accentuare il quadro diffondendo sul mare un leggero velo bluastro con penetrante odore di legno esotico bruciato. Era inteso come messaggio di benvenuto nei mari dell’Estremo Oriente. Sembrava strano il fatto che il capo macchinista avesse soltanto dimostrato una blanda reazione al mio intervento, durante la colluttazione da lui avuta in coperta qualche giorno prima. Da allora avevo notato che il suo atteggiamento nei miei riguardi era cambiato. Oltre all’ostentata superiorità, sempre espressa con un certo grado di sicurezza, era passato al vuoto completo di considerazione in contatti personali: proprio non voleva notare la mia presenza. Era il segnale che la mia intromissione nella bega non era stata digerita. Qualcosa covava nel suo intimo, stava cercando una rivincita per lui appagante. Avvenne una reazione che, a prima vista, poteva sembrare leggera, e in effetti era solamente intesa a sgravare la sua sconfitta con una bassa offesa. Successe in un primo meriggio di normale pacifica navigazione. Sceso dal ponte dopo l’osservazione meridiana del sole per la determinazione della latitudine, mi recai direttamente in salone per il pranzo. Il comandante con tutti gli altri ufficiali erano già presenti, mancava solo il capo macchinista. Dopo la solita formula di buon appetito, presi il mio solito posto ed iniziai il pranzo. Evidentemente il capo aveva atteso che il salone fosse completo per fare baldanzosamente il suo ingresso, tutto impettito altezzoso e sorridente. Iniziò lo show rivolgendosi ai commensali per l’usuale augurio. Chiaramente disse a tutti «Kali Orexi» – buon appetito in greco – aggiungendo: «A capitan Mario italiano: Fay Apatimeno».
Non ero ancora in grado d’interpretare il significato di tale espressione della lingua greca. Mi sarei documentato in merito durante il prossimo turno di guardia sul ponte. Georgios era un giovane marinaio originario dell’isola di Scarpanto nel Dodecaneso. Circa mio coetaneo, riccioluto corvino, di corporatura snella, aveva carattere aperto e portamento che si sarebbe potuto definire emancipato, rispetto alla generalità degli altri marinai, molti dei quali provenivano dal mondo chiuso di certe isole dell’Egeo. Aveva buone qualità marinaresche ed anche una discreta conoscenza della lingua italiana. Sin dall’inizio del viaggio era stato assegnato in servizio di guardia durante il mio turno. Con lunghi turni era possibile anche conversare nelle ore di veglia in mare, e così mi aveva spesso reso partecipe del suo mondo familiare, che aveva dovuto lasciare ma che sempre rimpiangeva. Alla mia richiesta di una spiegazione per quanto udito in mensa ufficiali, dimostrò pronta disapprovazione per il comportamento di quella persona, per la quale lui stesso non aveva alcuna simpatia, continuando nella sua reticenza per una chiara traduzione. Non potevo che insistere. Infine cedette e mi spiegò che a tutti i commensali era stato augurato «buon appetito», mentre al «capitano Mario italiano» era stata rivolta un’espressione offensiva, corrispondente a “mangia pane a tradimento”. La constatazione di questa bassa reazione, covata per lunghi giorni con lento metabolismo, un poco mi sorprese perché non mi sembrava appropriata ad un uomo della sua età, che a bordo aveva grado solo inferiore a quello del comandante. Il rospo era stato vigliaccamente vomitato, era meglio non aspettare troppo per dare una risposta adeguata. Il mezzogiorno seguente aspettai di proposito che tutti fossero già seduti a tavola per il pranzo, e arrivai per ultimo. Al
mio ingresso augurai a tutti buon appetito in lingua greca e, dopo breve pausa, dissi: «Proto Mechanicos Fay Apatimeno». Questa ribattuta non era attesa e ne fu subito colpito: balzò in piedi rosso in faccia ed accalorato. Era successo qualcosa che non avrebbe creduto possibile e gli bruciava, era sconcertato anche perché tutti gli ufficiali erano presenti. Il comandante si era pure alzato deciso a intromettersi, poi disse: «Capitano Mario hai fatto bene, lui ieri non doveva dirlo a te». Tutti seduti. Il pranzo continuò tra i risolini dei commensali divertiti. Da allora le posizioni risultarono giustamente regolate e non sarebbero state riviste. Georgios, durante il successivo turno di veglia notturna, non mancò di riferirmi le reazioni e i commenti dei marinai, conseguenti anche alla mia ferma reazione durante il precedente diverbio tra i due macchinisti. La mia quotazione ai loro occhi era aumentata. Era la prima volta che arrivavo nel mare del Giappone, con solo parziale conoscenza della sua storia millenaria e anche una mia coltivata passione per le silografie giapponesi. L’attraversamento dello stretto di Tsushima portava con sé i fantasmi delle navi della flotta russa affondate dai giapponesi durante la tragica navigazione dai porti europei per raggiungere Vladivostock. Il maggio la flotta giapponese, composta da corazzate e incrociatori, al comando dell’Ammiraglio Togo, aveva attaccato la flotta russa, composta da corazzate e incrociatori, al comando dell’Ammiraglio Roshdestvenski. I due terzi della flotta nemica vennero distrutti con poche perdite da parte giapponese. Aveva termine così la guerra iniziata alla fine del XVIII secolo prima con la Cina e poi con la Russia per il dominio della Manciuria. Tali tragiche battaglie non possono essere dimenticate, e il
loro ricordo sembrava ora esaltato dalle condizioni meteorologiche che ci accolsero in quel mare: una fitta coltre nera di nuvole basse sull’orizzonte, cariche di pioggia e solcate da abbaglianti saette in verticale all’orizzonte. Sotto lo scrosciare di violenti piovaschi, accompagnati da forti raffiche di vento, fu possibile contattare la pilotina per l’entrata nel canale di Shimonoseki, diretti all’isola di Shikoku, opposta a Honshu, dove si trovava Hiroshima. Per stretti canali, fiancheggiati da operose zone industriali, la nave fu ormeggiata alle acciaierie Yawatahama. Gli ultimi giorni di navigazione erano per me passati sopportando un forte dolore di denti. Nei giorni precedenti l’altro ufficiale italiano, con insistenza, mi aveva costretto ad assumere una dose di bromuro che mi permise di dormire anche durante un turno di guardia, per il quale lui stesso mi sostituì. Piccolo guaio, ma in una lunga navigazione diventa insopportabile, e la ricerca di un dentista appena arrivati in porto si rese necessaria come priorità assoluta. Con l’aiuto dell’agenzia mi trovai ben presto alla porta di un attempato gentile e cerimonioso medico. Dopo aver depositato le scarpe alla porta d’ingresso, mi condusse al suo ambulatorio. Fece una serie di piccole iniezioni ricamando attorno al dente per il quale si rendeva necessaria l’estrazione. Lo scarico della nave avvenne in pochi giorni con l’impiego di maestranze femminili. Nelle stive operavano squadre di donne che attirarono subito la nostra attenzione alla loro vista perché, contrariamente a quanto si sarebbe potuto aspettare, erano tutte donne giovani di alta corporatura e prestanza fisica. Ci fu spiegato che erano originarie delle isole Kurili, a nord del Giappone.
Avevamo la possibilità di conoscere la vita locale, che mostrava tanti segni di civiltà ed emancipazione. Il primo contatto avvenne al castello feudale di Matsumaya, che appariva conservato e mostrato con cura religiosa. Nello stesso giorno fu possibile visitare un tempio buddista meta di continui pellegrinaggi. Furono visite un po’ aff rettate che, unitamente alla partecipazione della vita cittadina comune, lasciarono la sensazione di cominciare a comprendere il sistema di vita nipponico, così diverso da quello occidentale e pur così civile. Solo per caso, durante una puntata a terra con il comandante, entrammo in una pasticceria venendo coinvolti in piacevole conversazione con quattro giovani donne. Forse non erano geishe, ma ne avevano tutto l’aspetto. Una di loro, nominata dalle altre col nome Teruko, vestiva all’occidentale, in modo appariscente con capelli corvini lucenti a proteggere un viso intelligente, e parlava un buon inglese. Iniziammo un piacevole contatto con generosi assaggi di prelibati dolci locali e con scambio di convenevoli ed opinioni, poi chiedemmo loro un pensiero sul bombardamento atomico della città di Hiroshima, situata sulla vicina isola, effettuato pochi anni prima, al termine della guerra. L’argomento era bruciante e sofferto. Fu solo notato un velo di tristezza nei loro occhi. Apparentemente nessuna brusca reazione. Unico commento: non lo dovevano fare. Teruko poi ci tenne a precisare che considerava tale azione un atto di terrorismo che il popolo nipponico non meritava e che non sarebbe stato dimenticato facilmente. Per ammorbidire l’atmosfera, cercai di portare l’interesse su argomenti più distensivi. Mi venne in aiuto la parziale conoscenza delle silografie, che avevo avuto modo di ammirare a
Utamaro, Ritratto di cortigiana con pipa
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Genova presso un collezionista. Tutte si mostrarono contente di riscontrare questo mio interesse. Quando poi pronunciai il nome di Utamaro, vissuto a cavallo dell’, la Teruko si aprì. Era una studentessa di scuola d’arte e ci tenne ad amplificare il quadro sulle caratteristiche di tale artista. Lo definì rappresentante dell’arte fluttuante. Chiesi una spiegazione di tale definizione e fui costretto a prendere annotazioni. Era un termine d’origine buddista: dando corposità ed imponenza alla figura della donna voleva indicare la transitorietà delle cose terrestri e l’esperienza fugace della vita. Terminato lo sbarco fu necessario collaborare per la pulizia delle stive, contemporaneamente all’attraversamento dello stretto di Tsushima, costeggiando poi la penisola coreana, per raggiungere il porto di Dairen in Manciuria. Al contrario della vivacità e modernità trovata in Giappone, trovammo solo accoglienza fredda con evidente realtà di vita quasi claustrale. I giapponesi avevano creato nel lo stato satellite del Manchukuo, sotto la nominale reggenza dell’ultimo imperatore Qing, quale base per la futura invasione della Cina. Il sogno svanì con la loro disfatta nella seconda guerra mondiale, che aveva permesso alla sovranità cinese di estendersi sulla Manciuria e che aleggiava localmente con senso d’impersonalità generale, ravvisabile anche nello scolorito aspetto del luogo e delle persone, un miscuglio di cinesi e coreani, tutti silenziosi, avviluppati nell’uniforme tuta di tela dai colori sbiaditi. Solo freddo contatto commerciale con personale scarsamente interessato in poche ore operative. Poi partenza per il successivo porto cinese.
Tien Tsin era stata rinominata Tianjin e la sua zona portuale aveva preso il nome Tanggu. Si ebbe una fresca constatazione della Cina moderna sotto il ferreo potere di Mao Tse Tung. I funzionari locali saliti a bordo per le consuete formalità esprimevano cortesia e praticità. Li guidava un giovane commissario politico: indossava una capace tuta uguale nella foggia a qualsiasi altra in circolazione ma di colore azzurro, con un vistoso medaglione appuntato al petto dal quale Mao Tse Tung sorrideva generosamente. Il permesso di scendere a terra sarebbe stato accordato a tutti senza restrizioni ma l’equipaggio non dimostrava particolare desiderio di fare una franchigia in quel porto. Ciascuno a bordo serbava il fresco ricordo dei giorni passati in Giappone, dove avevamo ricevuto cordiale accoglienza. Qui si respirava solo aria di caserma con tutte le persone, sia maschi sia femmine, in uguali tute grigiastre, occupate in lavori per i quali si sentiva la mancanza di spontaneità e giovanile allegra partecipazione. Le autorità intervenute all’arrivo erano accompagnate da alcuni studenti che, in inglese, fungevano da interpreti per le relazioni commerciali ed anche per avvicinare gli stranieri alla comprensione del sistema politico da pochi anni introdotto in Cina. Dietro loro insistenza fu concordata la visita di parte dell’equipaggio ad una sede di accoglienza per marittimi, con generosa offerta di birra cinese calorosamente accettata da tutti, ma dal marconista in special modo. In questa occasione fu azzardata la richiesta per un permesso particolare. Sapevamo dell’esistenza, in quella città, di una chiesa di rito cattolico fondata secoli prima dai Gesuiti. Ora risultava politicamente legata all’attuale sistema di governo, con vescovo e preti non ufficialmente conformati alla centralità vaticana, ma tollerati dall’autorità politica al governo. Il permesso fu accordato
mettendo anche a disposizione una vettura con autista per il giorno seguente. In quattro persone, due di coperta e due di macchina, potemmo intervenire ad una messa domenicale nella cattedrale d’antica architettura occidentale, celebrata da un vescovo assistito con religioso fervore da alcuni sacerdoti e che nulla aveva da invidiare ai normali riti del culto cattolico. Tutta la navata era occupata da cinesi inginocchiati che partecipavano, devotamente con il rosario in mano, alle funzioni officiate. Tutto ciò evidenziava un certo grado di liberalità preteso dalle autorità. Tutto il carico imbarcato in Manciuria e Cina, costituito da prodotti della zootecnia e dell’agricoltura, era destinato ad Amburgo per il mercato europeo. Durante il viaggio di ritorno avvenne un cambiamento nei consueti contatti con il primo ufficiale. In lui era latente una preoccupazione che cercava di mascherare. Aveva navigato sempre con la marina mercantile italiana, alternando i periodi d’imbarco sulle navi con insolita frequenza. Non era mai stato facile a scambi riguardo la sua vita privata. Solo brevi accenni e considerazioni durante l’incrociarsi sul ponte nei turni di guardia. Avevo avuto la sensazione che per lui il navigare, essendo già ufficialmente pensionato, era sentito come una forma di fuga da situazioni private non troppo agevoli. Era apparso sollevato nel viaggio d’andata, ora palesemente temeva il ritorno in Europa. Restava spesso pensieroso, appoggiato alla falchetta, guardando lo scorrere della schiuma ai lati della carena, assorto nei suoi pensieri senza voglia di parlare. La vita marittima è cercata in gioventù per il senso di liber
tà e d’avventura che off re. Orizzonti di libertà anche mentale, con possibilità di voli fantastici nelle lunghe ore di vedetta, spesso accompagnati a vita quotidiana professionalmente stimolante. Molti percorrono questa via con soddisfazione, arrivando inconsciamente, con la continua vita a bordo delle navi, all’assimilazione di un ambiente appagante che mette in secondo piano la vita a terra e anche talvolta la possibilità di sicuri legami familiari. Il cosiddetto “lupo di mare” trova piena affermazione della sua personalità solo nell’ambiente marittimo, sulle navi, con persone che ne condividono le soddisfazioni e i rischi. Per molti il ritorno ai ritmi minutamente costanti della vita a terra è vissuto senza particolare interesse, e comporta un certo disorientamento e un continuo desiderio di tornare alla vita di mare. Questo appariva lo stato d’animo del primo ufficiale, che fino a quel momento era sempre stato aperto ed affabile con tutti. Ne diede un accenno quando mancavano pochi giorni allo scalo di Singapore per bunkeraggio, e fu espresso con apparente indifferenza e nello stesso tempo nella coscienza di una situazione rivissuta che sempre, dopo il tempo perturbato, porta la bonaccia. Questa sua previsione venne confermata al contrario, con le condizioni meteorologiche che stavano tendendo ad una inversione. Se ne ebbe il primo avviso dalla constatazione che fece il comandante salendo in plancia. Stavamo navigando nel canale Dieci gradi nord, tra le isole Nicobar e le Andaman. Il comandante puntò l’attenzione sull’apparire di cirri alti sull’orizzonte, bianche cortine su cielo insolitamente terso, generalmente a quelle basse latitudini formati con il vapore condensato espulso in alto. Erano sicuramente premonitori dell’avvicinarsi di tempo perturbato. Poche ore dopo infatti, bassa sull’orizzonte, proveniente da
sud-est, apparve una linea nera simile ad un banco di nebbia che avvicinandosi velocemente portò a scaricare violente folate d’aria calda. Seguì improvvisa la grandine, che si abbatteva sulle strutture metalliche con ritmo assordante. Durò pochi minuti e, dopo breve sosta, fu seguita dallo scroscio diffuso di pioggia e schiuma gorgogliante, con riflusso fluente sulla coperta, che appariva allagata e scaricava a mare ritmicamente con il rollio. Stavamo in doppia vedetta, seguendo l’evoluzione della situazione, con mare influenzato dal vento che rinforzava. Il picchierellante crepitio della grandine sulle vetrate della timoneria, rischiarata solo dalla tenue luce della chiesuola, per analogia mi aveva richiamato dai recessi della mente un quadro che era stato vissuto molti anni prima. Mi ricordai che da bambino, ai primi anni della vita, avevo condiviso con mia madre nella cucina della vecchia casa l’arrivo di un temporale con scariche di fulmini e tuoni assordanti seguiti dalla grandine, che con rabbiosa violenza si abbatteva sulle case e sulla campagna. Con atto sicuro, forse tramandato da generazioni di semplice vita agreste, mia madre aveva afferrato un attizzatoio ed una paletta e li aveva deposti incrociati in cortile, appena fuori dalla porta, per esorcizzare una qualche maligna potestà che a me era apparsa gravante sul destino dei poveri mortali. Questa perturbazione tropicale, così come violentemente si era manifestata, allo stesso modo passò, dopo breve tempo, lasciando solo pioggia continua ed uniforme, che riduceva solo la visibilità sul mare. Restava diffusa la freschezza che tutto pervadeva: gli animi e le lamiere infuocate della nave. Nel gran bailamme atmosferico il lavorio della stazione radio, a fianco della sala nautica, aveva fatto da sottofondo. Mr.
Mochkrie, il marconista, pareva scatenato. Si era intensificato il traffico radio con altre navi e venivano in ricezione bollettini delle stazioni meteorologiche indiane. Il marconista era un tipo di mezza statura, con faccia ovale e rubiconda. Solitamente riservato, svolgeva il suo servizio quasi in sordina. Spesso non ti accorgevi della sua presenza a bordo e la sua comunicativa, quando sollecitata, poteva estendersi a qualche monosillabo. Quando poi, solo dopo l’arrivo nei porti, veniva distribuita dalla cambusa birra a richiesta, le sue bottiglie, religiosamente bevute, le metteva in evidenza sul tavolino della sua cabina con porta aperta, perfettamente allineate, come trofei, e invitava tutti a partecipare alla bevuta. In questa occasione si presentò in sala nautica con faccia più sorridente del solito, esibendo il messaggio ricevuto dalla stazione indiana. Appariva soddisfatto e cosciente di svolgere in quella circostanza una sua utile funzione. Il messaggio informava cha un’area di tempo disturbato si era sviluppata nelle vicinanze delle isole Nicobar, con ipotizzata la possibilità di evoluzione in peggioramento e convergenza in ciclone tropicale. Le piogge torrenziali continuarono e passammo tutta la notte sul ponte in ansiosa attesa di ulteriori notizie, non essendo ancora precisato il futuro sviluppo e la direzione di spostamento del fenomeno. La situazione fu meglio definita il mattino seguente con avviso di allerta, essendo confermata la formazione di un ciclone tropicale nel centro del Golfo del Bengala in movimento verso nord-ovest. La nostra rotta attuale era diretta a Ceylon e ci allontanavamo in sicurezza, perdendo gradatamente la coda del fenomeno. Avevamo da poco sbarcato il pilota del Canale di Suez a Port Said per incominciare pacifica navigazione in Mediterraneo
con destinazione finale in Germania che il comandante – che era sempre stato di umore bonario e calmo nel parlare e nel gestire – arrivò in plancia, salendo dalla scaletta esterna che collegava la sua cabina, con aspetto un po’ furente, quasi esaltato. Passò concitatamente da un lato all’altro della timoneria, facendo solo scarsi commenti in lingua greca e scambiando qualche parola con il timoniere, che assentiva e condivideva la sua eccitazione. Non mi era facile capire la ragione di quel movimento e continuai a volgere il mio interesse soltanto ai rilevamenti di navigazione costiera che stavo facendo. Ben presto passò a qualche considerazione in lingua inglese. Si accalorava alquanto. Era successo che il ritorno in Mediterraneo aveva portato la facile ricezione delle radio trasmissioni della madrepatria greca. Tutta la questione riguardava l’isola di Cipro, abitata in maggioranza da una popolazione di lingua greca e religione cristiano-ortodossa e una minoranza di lingua turca e religione mussulmana. Nel Makarios, eletto al rango di arcivescovo di Cipro, fu pronto a proclamare che suo obiettivo era portare l’isola all’unione con la Grecia. Pochi anni dopo venne fondata l’Organizzazione Nazionale Combattenti Ciprioti che cominciò una campagna terroristica antibritannica causando centinaia di vittime. Questa situazione durava in quei giorni con confuse informazioni che infiammavano i sentimenti dei greci. Era una complicata situazione internazionale, da tempo ben nota, che coinvolgeva Grecia e Turchia. Il comandante continuò infervorandosi, esternando il suo appoggio alla parte greco-cipriota e arrivando a dichiarare che lui sarebbe stato pronto ad andare in guerra contro gli inglesi. Non avrei potuto fare alcun commento ma, nello stesso
tempo, pensavo che l’uomo aveva dimenticato di essere al comando di una nave registrata al porto di Londra e che portava in giro per il mondo l’Union Jack. Ad un certo punto, resosi conto della sua posizione, si piantò davanti alla chiesuola della bussola pensieroso, poi tacque guardandomi, e ammise che aveva avuto uno sfogo dettato soltanto dall’amor patrio. Da parte mia, per cambiare argomento, riconfermai quanto già detto in precedenza, manifestando la mia intenzione di sbarcare al prossimo scalo in nord Europa e cercare imbarco possibilmente su navi italiane.
Second mate
Con l’amico Coletti eravamo stati abbinati durante il servizio di leva nella marina militare a Venezia, provenendo entrambi dalla Liguria. All’atto del congedo aveva gettato l’ancora, accasandosi in quella città, ed era alle dipendenze di una compagnia di navigazione veneziana. Mi propose un imbarco immediato su una petroliera il cui arrivo a Livorno era previsto entro pochi giorni. Avrei preferito una nave con traffico di merci varie, ma le sue insistenze, e la prospettiva di una convenienza sul lato economico, mi convinsero a tal punto che dopo due giorni ero in Toscana per le pratiche burocratiche. La prima nave sperimentata batteva bandiera panamense con equipaggio misto, in prevalenza italiano, e stava completando lo sbarco ad un pontile sulla costa toscana vicino a Livorno. Era una t costruita nel negli usa – con una portata di tonnellate, lunghezza metri e larghezza , che poteva sviluppare nodi. Era abbastanza moderna, con buone sistemazioni di cabina e attrezzature nautiche. Il primo ufficiale era napoletano, un quarantenne di statura media, piuttosto magro, con capelli biondi segnati da incipiente calvizie. Aveva un carattere affabile ed amichevole, senza però l’esuberanza partenopea che uno si sarebbe potuto aspettare. Sulle navi mercantili si viene talvolta a contatto con persone che dimostrano di covare interessi non sempre chiaramente percepibili, ma sicuramente al di sopra delle solite mansio
ni, espressione di una sensibilità superiore a quella comunemente manifestata da marittimi incrostati solo di salsedine e taciturna riservatezza. Capì subito che io, come secondo ufficiale, ero un novizio per quel tipo di navi. La sua insistenza nel glorificare le petroliere in genere partiva da una completa conoscenza delle problematiche connesse alle operazioni di carico e scarico di liquidi infiammabili. Definiva questo tipo di imbarcazioni più sicura in considerazione delle particolari strutture dello scafo, con molti compartimenti stagni. In pratica aveva sempre navigato con quel traffico dal Golfo Persico e dal Venezuela. Si poteva forse supporre che nascesse in me un particolare interesse carrieristico ed anche economico per le petroliere, ma non era così. Dietro insistenza del primo ufficiale eseguii diverse ispezioni nei locali di pompaggio, con richiamo della mia attenzione sulle tubazioni e derivazioni intersecantesi fino alle più svariate connessioni. Tutto ciò non mi suscitava però particolare interesse e ogni volta ne riportavo un senso di totale rigetto. Provai subito la sensazione che mi sarebbe stato difficile trovare sproni per ambientarmi in quel tipo di navi. Non sarebbe nato amore per quella vita. Il ricordo andava alle precedenti esperienze, con carichi di merci varie, e scali in porti congestionati dell’Europa e degli Stati Uniti. Il comandante era di statura media, quadrato di spalle e di testa, con radi capelli contornanti un viso inespressivo. Era solitamente schivo e sul ponte di comando appariva raramente: viveva in solitario riserbo. In servizio quale terzo ufficiale era un padrone marittimo cinquantenne. Risultava imbarcato sulla stessa nave da ben otto anni. Conosceva ogni minima particolarità della costa del Mar Rosso che veniva solitamente avvistata. Usufruiva di qualche breve licenza soltanto quan
do la nave entrava in bacino di carenaggio per pulizia della carena e controlli di riclassifica. Altra figura emblematica, tra gli ufficiali di coperta, era l’allievo. Giovane ventenne di origine triestina, uno spilungone rosso dai capelli disordinati, con lunghe braccia penzolanti che, quando camminava, accentuavano la sua andatura dinoccolata. Imbarcato da pochi mesi, manifestava apertamente l’insoddisfazione per la vita di mare alla quale era obbligato. La sua cabina era tappezzata da posters e ritagli di riviste che mettevano in mostra provocanti donne nude. Questa compagnia non poteva fare altro che accelerare la sua circolazione sanguigna, con pulsazioni che confluivano in confusione mentale e aperte manifestazioni di rabbiosa rivolta per quella vita claustrale. La navigazione nel Mar Rosso era già stata sperimentata noiosamente, almeno fino allo stretto di Bab El Mandeb. Con l’entrata nel Mare Arabico l’ambiente fu vivacizzato dal monsone, fino allo stretto di Hormuz che immette in Golfo Persico. Il dato positivo attribuibile alle petroliere risultava la possibilità di avere la nave sempre perfettamente zavorrata, con assetto ideale in qualsiasi condizione di mare. L’isola che dà il nome allo stretto di Hormuz si trova sulla costa iraniana, nel lato ovest del gomito formato dalla penisola arabica. Nella zona c’è sempre grande passaggio di navi, specialmente petroliere, con precisi percorsi stabiliti per evitare le collisioni. La navigazione comporta l’obbligo di repentini cambi di rotta, e l’immissione in un mare completamente nuovo, con fondali generalmente poco profondi e presenza di barriere coralline. L’acqua nel Golfo Persico era quasi stagnante con una calura opprimente che permetteva a fatica di respirare. Sull’acqua calma, con il riflesso accecante del sole sullo specchio marino,
apparivano bellissime chiazze di plancton con le varie tonalità del colore rosso, unitamente a serpenti di mare inanellati con variopinti colori. Era veramente una vista molto attraente, con continue variazioni. L’attracco avvenne a Ras Tanura, penisola estendentesi nel Golfo Persico, con pontili attrezzati esclusivamente per imbarco di prodotti petroliferi: il maggior centro dell’Aramco per l’estrazione e la spedizione. Ai limiti di una zona desertica, contornata da dune sabbiose, il caldo aggrediva soffocando. Unico riparo era un capannone attrezzato con aria condizionata e qualche bevanda rinfrescante che dava un momentaneo sollievo, aggravando però solamente la situazione una volta all’esterno. Comune desiderio rimaneva quello di completare presto l’imbarco per ripartire, sperando in qualche leggera brezza in navigazione. Uscendo infatti dallo stretto di Hormuz per entrare nel Mare Arabico si ebbe subito il beneficio di una leggera ventilazione, provocata dal movimento della nave, che permetteva di respirare. Il ritorno in Mediterraneo fu tutta navigazione senza particolari problemi, in continui turni che obbligavano all’isolamento con solo qualche raro incontro in sala mensa. Nulla di avvincente né di interessante. Ma non era ancora maturata la decisione e la possibilità di sbarcare per altre opportunità. L’attracco al posto di pompaggio di Falconara, in mare Adriatico, alla distanza di due miglia dalla costa, fu rapido. Venne impiegato solo il tempo materiale per le operazioni commerciali e l’imbarco delle provviste e si ripartì con destinazione Novorossisk, nel Mar Nero, sulla costa sud-est della Russia europea. L’entrata nei Dardanelli, il cui stretto collega il Mar di Marmara all’Egeo costituendo il confine tra Asia ed Europa, ed il
successivo passaggio nel Bosforo per entrare quindi nel Mar Nero, portò al ricordo di fatti e tradizioni che per millenni avevano segnato la mitologia e la storia in un immaginario virtuale: Elle, dea lunare, la prima ricordata, precipitata da un ariete con le ali d’oro nelle acque dello stretto dei Dardanelli – che da allora fu chiamato Ellesponto – e Giasone, partito con la nave Argo e argonauti per la conquista del vello d’oro attraverso il Bosforo, per raggiungere la Colcide, ipotizzata nel Mar Nero nella regione di Trebisonda. Il primo ufficiale aveva fatto anche un parallelismo storico, relativamente alla guerra che aveva portato alla distruzione di Troia sulla costa turca, paragonandola alle guerre puniche che avevano segnato la fine di Cartagine da parte di Roma, per gli stessi motivi ma dopo secoli. Sicuramente il rapimento di Elena, sposa del vecchio barbuto Menelao, sarà stato sbandierato dagli achei come casus belli, ma il vero motivo non poteva essere altro che la rivalità esistente per motivi commerciali. Queste considerazioni avevano tenuto compagnia fino all’entrata nel Mar Nero che, effettivamente si presenta di un colore sempre cupo, a differenza delle acque mediterranee. Novorossisk era centro importante per l’esportazione dei prodotti petroliferi del Kazakistan e la produzione di cemento. L’ancoraggio in rada, nell’attesa del turno per l’ormeggio, era strettamente controllato dalla polizia con fasci di luce dei fari che si incrociavano nella baia per tutta la notte. Si aveva l’impressione di trovarsi in campo di concentramento. Finalmente la nave fu portata ad un pontile, con disposizione allo scalandrone di guardie armate che controllavano ogni singolo spostamento. Era ancora il periodo in cui veniva applicata una stretta limitazione alla libertà di movimento
in Russia. Ci sarebbe stata la possibilità d’instaurare qualche contatto perché era evidente il desiderio di scambio colloquiale da parte del giovane personale femminile: tante belle ragazze adibite ad operazioni commerciali, che sapevano però di essere sotto stretta sorveglianza della polizia. Per caso fu possibile un furtivo scambio d’opinioni con un uomo, circa sessantenne, addetto al posizionamento dei cavi sulle bitte di ormeggio in banchina. In buon francese confidò di avere sempre sperato di vedere la fine del comunismo in Russia e, ormai, pensava con rammarico che non avrebbe mai visto soddisfatto questo suo desiderio. Non poteva esistere su quelle navi altro interesse che navigare, caricare, scaricare, guardia, sala mensa e cuccetta. Le condizioni economiche erano molto buone ed anche le navi avevano moderne attrezzature sia di coperta che di cabina. Era anche migliorato lo spirito amichevole con altri ufficiali. Prorogai l’ingaggio quale secondo ufficiale su una petroliera iscritta al compartimento marittimo di Venezia. Quell’anno passò più agevolmente in compagnia di marittimi veneziani, avendo come primo ufficiale il capitano Tortato di Venezia, che divenne amico sincero. L’occasione per il cambiamento fu presa al balzo nel porto di Anversa. Durante una breve sosta allo Stella Maris, punto di svago organizzato per i marittimi d’ogni nazionalità fui informato che era in preparazione nel porto di Rotterdam l’armamento e la formazione dell’equipaggio per una petroliera le cui tanche erano state completamente bonificate per essere quindi destinata al carico di granaglie alla rinfusa nella zona dei Grandi Laghi in America.
Avevo sempre guardato con scarsa simpatia alla vita a bordo delle petroliere, e sebbene mi si presentasse l’occasione d’imbarcarmi nuovamente su una di queste navi accettai l’offerta perché si trattava di trasportare solo carichi secchi, dandomi inoltre l’opportunità di visitare zone del continente nordamericano solitamente fuori dal generale traffico marittimo. La richiesta di essere aggregato a tale unità quale secondo ottenne subito il consenso del comandante, un toscano di statura media, atletico con capelli brizzolati, carattere estroverso, quasi vulcanico, con uno sguardo metallico penetrante, che poteva metterti in imbarazzo per la sua sicurezza, ma che sapeva anche farti sentire collega al momento opportuno. Seguì una sosta di una settimana nel porto di Rotterdam, per completare i preparativi per la nuova destinazione. Da parte delle autorità sia statunitensi sia canadesi erano richieste particolari attrezzature per la risalita del fiume San Lorenzo e l’attraversamento dei Grandi Laghi, in aggiunta alle normali dotazioni di bordo. Era previsto un collegamento continuo con le stazioni di terra, nei laghi, a mezzo di contatti radio nelle lingue inglese e francese, per le quali avevo raggiunto una buona conoscenza pratica. Inoltre la nave doveva essere dotata di segnali luminosi particolari per situazioni d’emergenza. Lungo tutto il percorso erano sistemate chiuse entro le quali la nave veniva innalzata in media di metri ogni volta. Questo avrebbe comportato anche la necessità di mettere a terra marinai di bordo, con il buttafuori che veniva sistemato a prua, per ormeggiare, all’entrata delle chiuse, in attesa dello scambio in bacino con navi in uscita. La destinazione sarebbe stata il porto di Duluth, nel Minnesota. Distanza dalla foce del San Lorenzo: statute mi
les, equivalenti a chilometri di navigazione intercontinentale. Le informazioni ricavate dal portolano e dall’ufficio idrografico degli Usa indicavano come dati generali del Lago Superior una lunghezza di chilometri con un’elevazione di metri sul livello medio del mare. Lo qualificavano come il più grande bacino d’acqua dolce del mondo, nel quale scaricavano ben fiumi. Era avvincente per nuove esperienze. La partenza con nave ben zavorrata avvenne dopo qualche giorno. Il comandante condivideva e partecipava all’interesse per questa nuova destinazione e, nello stesso tempo, non nascondeva la soddisfazione per aver ottenuto il comando della nave. Le funzioni di primo ufficiale erano affidate ad un anziano capitano di origine triestina. Sbarcando il pilota nel Mare del Nord il problema fu di quale rotta tracciare per attraversare l’Atlantico fino alla foce del San Lorenzo. In principio era stata espressa l’intenzione di attraversare il Nord Atlantico con una rotta ortodromica per circolo massimo, la classica via più breve, comportando molti cambiamenti di rotta. Alternativamente si poteva praticare la navigazione lossodromica, tagliando tutti i meridiani con lo stesso angolo. Uscendo dal Canale della Manica, dopo attento esame di carte nautiche e bollettini meteo, si optò per la seconda alternativa, la quale, avvenendo a latitudini più basse, avrebbe diminuito il rischio d’incontrare resti di icebergs, ancora possibile in quella stagione. La navigazione in Nord Atlantico è sempre stata la mia prediletta, confidando nelle previsioni regolarmente fornite dai bollettini meteo. Per collaudata esperienza si monitorava la circolazione atmosferica con precisione matematica nel
l’evolversi dei fronti e di tutte le perturbazioni connesse, in dipendenza delle pressioni bariche registrate. Questo rito era condiviso da tutti specialmente durante le lunghe, buie e interminabili notti con mare burrascoso, a velocità ridotta, nell’attesa dell’alba che avrebbe reso il pericolo più visivamente controllabile. Poi, con l’arrivo in porto, tutto veniva dimenticato e non valeva la pena farne menzione. Alle orecchie degli armatori non è gradito ricordare le difficoltà incontrate nella traversata: a loro interessa solo il compimento del viaggio nel minor tempo possibile. Di questo argomento si discuteva in sala nautica, il giorno della partenza, con il primo ufficiale. Ricordava disastri navali, con navi passeggeri arrivate in porto gravemente danneggiate alle soprastrutture ed alle lance di salvataggio, per aver mantenuto una velocità non adeguata alle reali condizioni del mare. Il pilota fluviale imbarcato alla foce del San Lorenzo controllò che la nave fosse in regola con tutte le dotazioni prescritte per la navigazione nei Grandi Laghi fino a Duluth, nel Superior. Il trasferimento prevedeva l’entrata in chiuse che avrebbero sollevato la nave all’altezza di metri sul livello medio del mare, corrispondente all’elevazione del lago Superior. Questo avrebbe comportato un continuo impegno in manovre per l’entrata, in qualsiasi ora del giorno e della notte. Le chiuse mediamente misuravano metri di lunghezza con una larghezza di , metri ed una profondità alla soglia di , metri ( piedi). Veniva anche precisato che il riempimento sarebbe avvenuto in circa / minuti, per gravità, con milioni di litri. Era previsto che il passaggio attraverso i bacini doveva avvenire entro circa minuti. Sapevamo che saremmo stati tutti sottoposti a turni mas
sacranti ma questa nuova esperienza valeva la pena di essere vissuta. Il passaggio avvenne regolarmente con l’ausilio di piloti fluviali dove richiesto e con il continuo allacciamento radio, in costante contatto con le stazioni locali statunitensi e canadesi. La parte più spettacolare avvenne nel canale Welland, dove la nave fu sollevata dal lago Ontario al lago Erie: una serie di chiuse a lato della Cascata Niagara... Dall’alto della nuova posizione raggiunta appariva l’ampia distesa della pianura canadese. Una visione affascinante sull’immensità di pianure e colline traboccanti di ricca vegetazione. L’impegno maggiore per le manovre si raggiungeva nell’avvicinamento alle chiuse. Mediante il buttafuori, che avevamo sistemato a prua, dovevamo portare sul molo d’attesa due nostri marinai perché incappellassero le gasse dei cavi d’ormeggio alle bitte, aspettando l’apertura della porta. La nave, in uscita, comportava lo spostamento dell’acqua dell’antibacino con obbligo da parte nostra di continuo lavoro per allascare le gomene, onde evitare brusche trazioni e strappi di cavi. Con l’entrata nel bacino non erano necessarie altre manovre, fino al bacino successivo. La navigazione avvene sempre in acque calme per tutto il lago Erie ed il lago Huron, alla fine del quale, con altre immissioni in chiuse, si entrò nel lago St. Mary, di piccole dimensioni e tutto trafficato da barche da diporto. Era una domenica mattina e molte imbarcazioni passavano sottobordo con gitanti distesi in costume ad assaporare il bagno solare. Veniva naturale fare il confronto tra la loro rilassante situazione e quella vissuta a bordo, in costante impegno
per il nostro servizio. Avremmo gradito poter condividere il loro svago e avere una bella “casetta in Canadà”, come ricordava una semplice canzone di quei tempi. Entrammo quindi nel Lago Superior con acqua di purezza cristallina e aria diventata pungente. Eravamo ad un’elevazione di metri sul livello medio marino con una distanza di miglia da percorrere per arrivare a Duluth, nello stato del Minnesota. La nave fu subito portata ad attraccare sotto grandi silos con previsto inizio imbarco entro poche ore. Non rimaneva che prendere contatto con questa località che mai più avremmo avuto occasione di visitare. La sera, appena scesi a terra, avemmo la constatazione che non c’era molto da visitare: la città appariva addormentata, semivuota anche di traffico, e non c’era alcun locale pubblico aperto. L’incaricato dell’agenzia marittima fu pronto ad informarci che non era problema: bastava prendere un autobus e, dopo pochi chilometri, saremmo entrari in un’altra realtà. In sostanza si usciva dal Minnesosta e si entrava nella città di Superior, stato del Wisconsin. Era uno stato governato da altre leggi, quindi vita movimentata nelle strade con locali pubblici aperti ed affollati fino alle ore piccole. Era una chiara espressione della diversa organizzazione degli stati federati nell’unione americana, tutti pervasi dal senso di comune appartenenza, pur nelle evidenti differenze riscontrabili. La sosta in questo porto fu molto breve perché il carico totale fu imbarcato con grossi tubi di caduta dai silos in tempi molto rapidi. Un carico di una rinfusa fatto in così poco tempo non si era mai riscontrato in altri porti, per di più senza necessità di continui controlli durante e dopo l’imbarco. A carico ultimato fu necessario spostare la nave ad altro or
meggio d’attesa per procedere all’imbarco del bunker e delle forniture di coperta e cambusa che erano state richieste. Il viaggio di ritorno si svolse attraverso i laghi e le chiuse con apparente minore impegno dell’equipaggio. Questo era dovuto anche alla familiarità ora acquisita con i continui contatti telefonici. Inoltre il passaggio attraverso le chiuse che ci facevano scendere gradatamente comportava meno impegno nelle manovre. Con l’ultima chiusa del canale di Welland la nave si trovò riconsegnata alla dolce corrente del fiume San Lorenzo e, ripassando sotto Montreal e Quebec, dopo lunga navigazione intercontinentale, rientrammo nell’Oceano Atlantico. Iniziava la vera navigazione atlantica, per di più con mare agitato, secondo le previsioni meteo continuamente controllate. Il porto di scarico era stato fissato definitivamente in quello di Amburgo. All’arrivo la nave fu portata in un canale, dove fu ormeggiata alle boe e prontamente affiancata da tre pontoni con impianti di aspirazione. Appena aperti i portelloni delle tanche iniziò il pompaggio a ritmo sostenuto, facendo presagire una sosta piuttosto breve in porto. Amburgo è una città dove avevo già avuto occasione di fare scalo durante precedente imbarco. È il maggior porto della Germania sia per numero di navi che per le quantità dei carichi operati. Per il marittimo che aspira ad una realtà diversa dall’acqua salata e le lamiere delle navi, anche per poche ore, esercitava una forte attrattiva, specialmente nelle ore notturne. Il quartiere di St. Pauli aveva richiami di svariato genere che occorreva saper guardare con interesse ma anche riservatezza. Si potevano passare ore piacevoli ma bisognava anche saper evitare certi locali frequentati da persone di dubbia catalogazione. Ebbi la fortunata occasione, durante una
serata, di incontrare Antonio, ex collega di origine greca che era stato secondo macchinista durante l’esperienza sulla nave Tinamar, di bandiera inglese. Mi ritrovai ad essere l’unico italiano aggregato ad una compagnia di stranieri, passando da un locale all’altro e bevendo birra in quantità – si usava pagare a turno. Ricordo solo un locale perché era frequentato in massima parte da greci e la banconiera, che non dava confidenza a nessuno e non sorrideva mai, era conosciuta da tutti con l’appellativo Katastrophi, debitamente attribuitole. Era previsto un altro viaggio con stessa destinazione e porto d’imbarco del precedente, da effettuarsi prima dell’inverno, che avrebbe comportato la chiusura della navigazione nei Grandi Laghi canadesi per tutta la stagione. A differenza del primo – che si era svolto con tempo buono sia in Atlantico che nel percorso continentale – questo secondo viaggio fu contrastato dalle avverse condizioni meteorologiche: mare continuamente burrascoso nelle traversate e piogge sferzanti sugli uomini in manovra durante tutto il transito nei Grandi Laghi. Fu veramente messa a dura prova la resistenza di tutto l’equipaggio. Fu quindi giustificata la lauta gratifica ricevuta allo sbarco nel porto di Rotterdam. Dopo la sosta a terra di un mese, l’occasione per altro imbarco si presentò con la convocazione da parte di una compagnia, su richiesta del capitano d’armamento dell’Associazione Armatori Liberi di Genova. Come secondo ufficiale imbarcai sulla motonave San Carlo del compartimento marittimo di Genova, armata dalla società Lombarda Ligure. Il comandante era puro genovese, con dovuta sobrietà e riservatezza, occasionalmente illuminata da
lievi ironiche considerazioni. Cinquantenne biondiccio, persona con portamento giovanile, alto di statura con lineamenti sempre tirati, guardava tutti da un gradino più alto, pur manifestando segno d’approvazione per la cooperazione ricevuta. La motonave San Carlo era stata affondata durante la guerra, poi recuperata, completamente ristrutturata e dotata di un motore nuovo. Aveva una portata di tonnelate con tre stive per il carico e moderne attrezzature sia per la navigazione in macchina e coperta sia con riferimento alle sistemazioni di cabina. Tutto era in avanzato stato di allestimento perché noleggiata a tempo da una società israeliana che intendeva impiegarla in un viaggio con merci varie per tutto il periplo dell’Africa. La previsione era molto stimolante perché mi avrebbe dato modo di scalare la maggior parte dei porti africani. Era programmata l’uscita dal Mediterraneo attraverso il Canale di Suez con rientro dallo Stretto di Gibilterra. Nel porto di Genova fu completato l’imbarco di merci varie per il primo scalo di Haifa, in Israele. Durante la navigazione, al largo dell’isola di Creta, con mare molto agitato, il marconista captò un s.o.s. da mercantile panamense che richiedeva urgente soccorso. Tutto l’equipaggio risultava già aver preso posto sulla lancia di salvataggio ma, dopo breve, si ebbe conferma che la nave era affondata. Il mare era stimabile in forza / con vento molto forte e violenti piovaschi. Sapevamo di altre navi impegnate nella ricerca e con le stesse eravamo in contatto con scambi di notizie. In base alla posizione geografica notificata il comandante apportò un’inversione di rotta con vedette rinforzate. Le nostre speranze furono premiate entro breve con l’avvistamento di un’ordinata fila di cinture di salvataggio color arancione, spiccatamente allineate sulla lancia che appariva e scompa
riva con cronometrica regolarità sulla cresta delle onde. Fu disposto l’abbordaggio da sopravvento e, nel frattempo, furono approntate le reti giapponesi sulla fiancata dritta, secondo una tramandata usanza applicata dalle navi genovesi nel ricupero di naufraghi. Appena accostati, esercitando opportuna cautela per controllare la risacca esercitata sulla fiancata della nave dalle onde, fu facile ricuperare tutti i naufraghi arrampicantisi sulle reti. La paura era passata e tutti ci adoperammo per la dovuta assistenza. La nave affondata era descritta come molto vecchia però appena rientrata in servizio dopo un periodo di lavori in cantiere per rimetterla in classe. Era carica di cemento ed era andata persa a causa dell’improvviso sfondamento di una lamiera al mascone, in corrispondenza dell’occhio di cubia di dritta. Fu recuperato quanto possibile dalla lancia di salvataggio ed i naufraghi trovarono una riposante sistemazione di fortuna a bordo, sia per la notte sia per la giornata seguente, fino allo sbarco nel porto di Haifa per il rimpatrio. Le operazioni di carico e scarico delle merci varie, in questo porto, furono effettuate impiegando i mezzi di bordo ed i verricelli erano manovrati da persone anziane. Erano professionisti arrivati in Israele da poco tempo provenendo da paesi dell’Europa Centrale. Erano tutte persone aperte a contatti facili anche perché molti parlavano diverse lingue. In generale era espressa da loro la soddisfazione per essere arrivati nello Stato ebraico dopo aver passato situazioni molto avventurose durante la passata guerra. Erano coscienti che si trattava di una situazione lavorativa per loro provvisoria, in attesa di futura assimilazione alla nazione. Con l’amicizia e compagnia di un giovane ingegnere ebreo di origine italiana, mi fu possibile fare una visita nei dintorni,
attraversando grandi coltivazioni e frutteti con esposizione di banane in maturazione e alberi di profumati agrumi. Il tour fu completato con la salita al Monte Carmelo, che sovrasta la città, per la visita alla grotta dove il profeta Elia sfidò un gruppo di profeti del dio Baal e li vinse. La guida era valida perché mi portò a visitare un tempio al quale non è facile accedere. Sempre sul Monte Carmelo si trova il tempio Bahá’í al quale si entra attraversando meravigliosi giardini degradanti. È tempio di religione monoteista, con propria dignità e dottrina, originata in Persia nel XIX secolo. All’interno del tempio, senza alcun rito o funzione, si respira aria di serenità e purezza, in mezzo a fiori e profumi. Per il successivo trasferimento, con attraversamento del canale di Suez, la compagnia noleggiatrice a tempo aveva dato precisa istruzione affinché la sua insegna distintiva fosse dipinta sulla ciminiera soltanto dopo l’entrata nel Mar Rosso. Questo per evitare possibili ritorsioni politiche da parte del governo egiziano, a causa di precedenti contrastati impegni commerciali. In seguito la discesa del Mar Rosso avvenne con assoluta calma di mare e di vento, in costante controcorsa con altre navi. Il turno di guardia diventava spesso monotono perciò era prassi comune a tutte le navi che si incrociavano in quel mare scambiarsi nominativi e notizie relative a provenienza e destinazione. Questo serviva anche a tenersi esercitati nell’uso dei mezzi di segnalazione visiva con alfabeto Morse. Erano previsti numerosi scali per imbarchi e sbarchi con piccole partite di merci varie. Generi industriali di manufatti e tessuti erano generalmente cambiati con prodotti vegetali e zootecnici. L’avvicinamento al porto di Massawa comporta la naviga
zione in vicinanza di molte isole rocciose dal colore rugginoso e aspetto lunare, senza il più piccolo segno di vegetazione. Il personale dell’agenzia marittima e gli operatori dimostravano una buona conoscenza della lingua italiana, unico retaggio della passata esperienza coloniale. Il caldo era veramente di difficile tolleranza perciò la sera cercammo un certo sollievo recandoci a terra. Su suggerimento andammo al caffè Torino, dove ci fu indicato un angolo reclamato come il più fresco della città nelle ore serali, ma chi lo decantava, nello stesso momento, aveva un sorriso sarcastico che esprimeva solo illusione. Non rimaneva che rientrare per la partenza del mattino seguente. Costeggiando fu raggiunto il porto di Assab. Questo era un avamposto del passato insediamento italiano. Rimanevano magazzini e costruzioni invasi dalle erbacce, era evidente la totale mancanza di manutenzione. Il ricordo di questo scalo era legato all’imbarco di caffè ed altri prodotti vegetali in sacchi. Tutto avveniva con metodica calma e serenità, non si sentiva il vociare dei lavoratori, soltanto una sussurrata cantilena con cadenzati richiami di un solista e risposta del coro. Da Assab, dopo breve navigazione costiera, entrammo nel porto di Gibuti. Al contrario dello scalo precedente era insediamento molto ben organizzato in atmosfera coloniale, prettamente dominata dalla bandiera francese. Le operazioni commerciali, con imbarco di piccole partite, furono svolte in poche ore e riprendemmo la navigazione attraversando il breve tratto di mare che separa Gibuti da Aden. L’antico porto di Aden giace nel cratere di un vulcano estinto collegato alla terraferma da un basso istmo; quello moderno si trova dall’altra parte della penisola e appare quasi scavato a forza tra pareti rocciose che, pur limitandone la grandezza,
introduce in una realtà completamente araba, differente e anche contrastante con quella africana, un congestionamento ordinato sia nella zona d’attracco che nelle poche strade cittadine. La breve sosta ad un tavolo di un bar terrazzato, sotto un sole accecante, per una tazza di te alla menta, accelerò il desiderio di imbarcarsi al più presto, con la speranza di fresca brezza in mare aperto. Ci trovammo subito nel Mare Arabico, destinati al Golfo Persico, che già conoscevo per precedente viaggio con petroliera a Ras Tanura, sulla costa dell’Arabia Saudita, a nord di Damman. Mare moderatamente mosso fino allo stretto di Hormuz ed entrata nel Golfo Persico. In quegli anni era scarsa la possibilità di avere aria condizionata sulle navi. La navigazione in quel golfo comportava la consapevolezza dei disagi che si dovevano aff rontare per la calura opprimente. Nostra successiva destinazione fu Kuwait, emirato arabo, confinante con l’Arabia Saudita a sud e l’Irak a nord, dichiarato stato indipendente dopo la prima guerra mondiale, ma sotto il protettorato britannico. Lo sbarco di merci varie avvenne in poche ore ma, nel frattempo, era intervenuto un messaggero dell’emiro che presentava una protesta per interferenze alla sua stazione radio imputabili alla nostra nave. Il marconista, che spesso sulle navi da carico viene nominato come “il passeggero”, era un giovane piccoletto, magro, sempre sorridente e valido nel suo servizio. Quando non impegnato in ascolti radio di routine, amava ascoltare musica o contattare altre navi e questo aveva disturbato l’emiro ed il suo harem. Lo Shatt Al Arab è fiume di circa chilometri, formato dalla confluenza dei fiumi Tigri ed Eufrate, che nella parte
terminale, prima di sboccare in mare aperto, segna il confine tra Persia ed Irak. Oltre che confine politico era distinzione, nella stessa fede religiosa delle due nazioni, tra sciiti e sunniti. L’avvicinamento ad Abadan portava la visione di grandi impianti petroliferi per lo stoccaggio e la raffinazione dei prodotti. Lo scalo avvenne lateralmente al fiume, in zona scarsamente popolata, con abbondanza di palme prodighe di rinfrescanti ombre. Per circa metri dalla riva del fiume si estendeva una cintura di vegetazione rigogliosa oltre la quale cominciava il deserto. La mercanzia sbarcata dalla nave veniva convogliata per accatastamento a cielo aperto sotto le palme. Era la stessa condizione che avevo già constatato in Egitto lungo il Nilo. Questo modo di operare comportava anche danni agli imballaggi, che dovevo personalmente controllare, per le conseguenti contestazioni ed annotazioni. La generosità ambientale della natura non risultava corrispondere a uguale cordiale comportamento da parte delle persone incontrate per le normali operazioni commerciali. Solo rapporti freddamente colloquiali in uno stentato inglese con uomini avviluppati in ampie vesti grigiastre e qualche rara presenza femminile in chador completamente nero. Risalendo per poco lo stesso fiume raggiungemmo il porto di Khorramshar, nella parte sud ovest della Persia, con la stessa condizione dell’insediamento precedente. In totale tre giorni di sosta con temperatura sentita più mite lungo il fiume. Erano scali fatti solo per sbarco di merci varie senza alcun imbarco. L’uscita dal golfo avvenne nel solito clima di caldo soffocante. Unica speranza era quella di arrivare presto allo stretto di Hormuz. Prontamente, all’ultima accostata per entrare nel
Mare Arabico, fu ricevuto il sospirato beneficio della lieve brezza del mare aperto. Iniziava una lunga navigazione che ci avrebbe portati dai ° di latitudine nord a circa ° di latitudine sud, con alcuni scali intermedi sulla costa africana. Nell’Oceano Indiano le stagioni monsoniche erano conosciute nella loro variabilità e sfruttate fin dai tempi antichi, con precisi periodi consigliati per le navi a vela ed altri di chiusura. Il tempo era per noi propizio. Il monsone di nord-est, iniziato ad ottobre debolmente nel golfo del Bengala, sarebbe stato favorevole, con modesta portata, fino alla fine di novembre sulle coste del Madagascar. Passarono lunghi giorni di pacifica navigazione, con venti leggeri e mare talvolta leggermente mosso. Il servizio sul ponte, da mezzanotte alle quattro e da mezzogiorno alle sedici, lasciava ampi spazi occupati in attività distensive giornaliere. Durante la notte avevo affinato la conoscenza delle stelle, con le quali si poteva procedere al calcolo del punto nave, anche con cercato orizzonte notturno, impiegando le stelle più piccole. Passando a levante dell’isola di Socotra avvenne il primo contatto con la costa africana, costeggiando fino al porto di Mombasa in Kenia. La città, maggior porto della costa orientale africana, era stata inizialmente fondata da commercianti arabi; poi, con l’arrivo nel delle spedizione di Vasco de Gama, fu scelta dai portoghesi come porto di transito per i loro commerci con il continente asiatico, e ne vantarono il possesso fino al . Successivamente passò al sultanato di Zanzibar ed al governo britannico. Fu il primo vero contatto con il continente nero, nella va
rietà anche delle etnie contattate. La permanenza si protrasse per tre giorni con sbarco di molti manufatti ed imbarco di prodotti coloniali. Era predisposto anche l’imbarco del bunker e di prodotti freschi per la cambusa, dei quali si sentiva necessità. Tanga e Dar Es Salaam, in Tanganika, costituivano le più importanti mete della spedizione marittima. La regione era stata colonia tedesca dal al , passando poi sotto amministrazione britannica. Notammo subito la particolarità del funzionamento di questa regione, sia a livello commerciale sia per la vita sociale, in manifesto contrasto con altre etnie africane. Molte persone anziane erano ancora capaci di esprimersi con linguaggio che ricordava il passato coloniale tedesco, terminato con la fine della prima guerra mondiale. L’impronta lasciata dalla passata colonizzazione germanica era palese anche nella sistemazione urbanistica e nell’organizzazione civile, e ricordata con rispetto dagli anziani indigeni. Primo scalo a Tanga e, dopo breve navigazione tra continente e Zanzibar fu raggiunta Dar Es Salaam. Battezzata con questo nome nel dal sultano di Zanzibar, significa “porto di pace”, ed era all’epoca la più importante città del Tanganika. La sosta si protrasse per una settimana con sbarco di merci varie e imbarco di caffè, cotone, agave e pelli. Con i consigli dell’impiegato dell’agenzia marittima e la guida procurata fu possibile visitare l’interno della regione e ammirare la maestosità della lussureggiante vegetazione ricca di specie animali e aviarie allo stato naturale. Alberi slanciati verso il cielo come guglie di cattedrali e vaste distese con erbe alte a grandezza umana. Dai contatti avuti venimmo a conoscenza
anche della grande povertà della popolazione. Per un giorno partecipammo alla vita delle semplici e sorridenti persone che incontravamo. Con breve navigazione al largo della costa fu effettuato scalo alla vicina isola di Zanzibar. Non essendovi possibilità d’ormeggio lungo banchina, la nave fu ancorata in rada. Tutto il carico per sbarco ed imbarco veniva operato per mezzo di chiatte. Isola di netto stampo arabo, come popolazione ed anche come impianto abitativo, Zanzibar era molto frequentata dai turisti e mostrava un movimento convulso attorno al commercio di spezie. La visita notturna della città, dalle tipiche viuzze strette di usanza araba, impregnate da caldi effluvi di legno e prodotti esotici, comportava continuamente l’abbordaggio da parte di commercianti insistenti che off rivano prodotti dell’artigianato locale. In particolare un arabo continuava a tallonarci reclamizzando la convenienza dell’acquisto di un gran portale di legno esotico. Molto bello, profumato, ben intagliato e scolpito in legno di sandalo ma difficile da prendere come souvenir... La navigazione riprese con destinazione Durban, in assoluta mancanza di vento ma continuando a beneficiare della corrente marina in vicinanza delle coste. Dopo i primi giorni di navigazione si manifestò uno stato d’apprensione da parte dei marinai, che ci avrebbe tenuti occupati per un po’ di tempo. Cominciò un marinaio anziano, restio a dichiarare apertamente il suo stato di necessità. Dietro insistenza si riuscì a capire che lamentava un forte bruciore al pene, con difficoltà di orinare. Quale secondo ufficiale avevo la responsabilità del servizio sanitario ed ero responsabile della farmacia. Non rimaneva che esaminare apertamen
te la sorgente del malanno. Aveva il membro arrossato con evidente gonfiore. Per una diagnosi precisa chiesi l’aiuto del primo ufficiale e fummo d’accordo nel constatare i segni di una malattia venerea infettiva: si trattava di blenorragia – più comunemente nota come gonorrea. Ad uno ad uno spuntarono altri tre casi tra i marinai, e risultò che tutti erano stati infettati dalla stessa donna d’origine indiana, vicino ad un certo ponte nella zona portuale di Dar Es Salaam. Per casi sanitari urgenti si sarebbe potuto chiedere assistenza medica via radio, ma quella volta non ce ne fu bisogno essendo la nostra farmacia fornita con buona scorta di antibiotici e quanto necessario per casi del genere. L’inizio della cura non poteva cominciare che con il mozzo. Era un ragazzo giovane e si mostrò un po’ titubante nel dover abbassare i calzoni e mostrare il suo deretano. Con appropriate iniezioni riuscimmo a dominare la situazione fino all’arrivo nel porto di Durban. In quasi tutti i principali porti mondiali, presso gli uffici sanitari marittimi, c’è una speciale sezione per il controllo delle malattie veneree. In questo caso l’assistenza avuta si dimostrò valida, confermando che l’insorgenza del male era stata opportunamente combattuta, evitando di dover sbarcare alcuni marittimi in Sud Africa. Durban ci rivelava un’altra Africa, improntata nella radice dell’etnia Zulu, con forte influenza di immigrati dal continente indiano. Una città moderna, cosmopolita nella fascia subtropicale della provincia del Kwa Zulu. Porto importante per dimensioni e traffico, aveva meravigliose spiagge e mare con splendidi fondali nei quali sarebbe però stato avventuroso immergersi per la frequente presenza di squali. Fu anche porto di rifornimento, oltre che di imbarco di prodotti agricoli e pellami.
Una sera con il primo ufficiale avevamo fatto una visita in città, e mentre ritornavamo a piedi discorrendo sotto un cielo stellato, avevamo preso una strada che pensavamo portasse al porto. C’erano lampioni a luce gialla che illuminavano con intermittenza. Lentamente fummo raggiunti da una macchina della polizia e due poliziotti, gentilmente, ci fecero salire per accompagnarci indietro, spiegandoci poi che era molto più salutare, in quella zona, non circolare a piedi di notte e – aggiunsero con una strizzatina degli occhi – non seguire ragazze sorridenti. Le correnti marine, che erano state favorevoli lungo la costa sud-orientale dell’Africa, si erano praticamente invertite quando, con navigazione costiera, era avvenuto il passaggio dall’Oceano Indiano all’Atlantico meridionale, in avvicinamento al porto di Città del Capo. Il mare si era mantenuto leggermente mosso sino al passaggio di Capo Agulhas, oltre il quale fu incontrata una forte corrente di marea. La nostra distanza dalla costa era limitata, solo in sicurezza, ed intorno al Capo di Buona Speranza molte foche arrampicate sugli scogli si godevano il sole con naturale innocente beatitudine. Città del Capo si mostrò con aspetto tutto europeo: strade moderne e traffico più congeniale di quello sperimentato nelle altre città africane visitate. In porto si procedeva regolarmente a sbarchi ed imbarchi con personale dell’agenzia e fu possibile organizzare un tour, accompagnati da una guida locale, nei punti principali della città. La visita alla Table Mountain, con vista panoramica su tutta la città e sull’intero promontorio, fu distensiva ed appagante anche se breve: una bellezza naturale che ci si porta dietro per sempre. Identici sentimenti deve aver avuto Barto
lomeo Diaz, primo europeo sbarcato in Sud Africa nel , di fronte alla visione aperta dell’estensione marina tra i due oceani – per secoli la rotta più trafficata e l’unica possibile tra l’Europa e l’Estremo Oriente. La prosecuzione della circumnavigazione verso nord avrebbe comportato l’attraversamento dell’equatore, con approdo previsto solo a San Vincenzo, nelle isole di Capo Verde. Le prime giornate della traversata erano state influenzate da condizioni meteo favorevoli, con vento e mare moderati che permettevano una buona media giornaliera, anche aiutati dalla corrente tendente a nord-ovest. Seguirono molti giorni di calma marina, con turni di guardia piuttosto noiosi. Attraversavamo zone che erano sempre state temute dai naviganti al tempo delle navi a vela, a causa della scarsezza di brezze marine. Nessun incontro di navi e di notte, durante la guardia da mezzanotte alle quattro, con governo del pilota automatico collegato alla girobussola Sperry, mi tenevo occupato per passare il tempo facendo punti nave con osservazione astronomica notturna, favorito in questo dall’orizzonte appena rilevabile sotto la grande campana di un cielo limpido e sfolgorante nella sua magnificenza, che faceva corona alla costellazione della Croce del Sud. Insomma: una tranquilla navigazione che a tratti pareva lacustre. Un piacevole diversivo avvenne avvicinandosi al Tropico del Capricorno. Eravamo in pieno Oceano Atlantico e apparve all’orizzonte, nella notte limpida, una linea bianca lattiginosa: sembrava onda frangente su una costa. Stavamo tutti con i binoccoli puntati increduli a quella vista. A poco a poco apparve evidente che stavamo per attraversare il Mare dei Sargassi, navigando in mezzo a lunghe strisce di alghe fosforescenti che illuminavano tutte le strutture della nave.
Lo spettacolo durò alcune ore e ne perdemmo la percezione soltanto con il sorgere del sole. Lo scalo avvenne a San Vincenzo delle isole di Capo Verde. La ragione principale era l’approvvigionamento di viveri freschi e acqua potabile. La sosta era gradita a tutti, ma in particolare al primo ufficiale, di origine ligure. Dai portolani aveva rilevato che la scoperta delle isole si poteva datare con l’anno , il giorno gennaio, festività di San Vincenzo, da parte dei naviganti genovesi Antonio e Bartolomeo Da Noli. L’arcipelago è costituito da dieci isole d’origine vulcanica. I venti alisei, provenienti dal continente africano, dividono l’arcipelago in due raggruppamenti: le isole di sopravvento a nord e quelle di sottovento a sud. La sosta durò due giorni, il clima tropicale secco si manteneva sui °C con cielo sereno e lieve brezza. Dopo tanti giorni di navigazione, con le provviste che erano venute all’esaurimento, fu possibile rifornire le cambuse con grandi caschi di banane e pesce fresco in quantità. Percorrendo con un taxi una strada da ovest verso est, che andava a passare tra due vulcani spenti, arrivammo ad un ristorante semplice che aveva buona mensa, con pesce e vinho verde. I contatti con la popolazione avevano permesso lo scambio cortese e amichevole con gente che, nell’evidenza di tanti problemi esistenziali e diffusa povertà, dimostrava schiettezza genuina. Dopo questa piacevole parentesi il porto di Genova, al quale eravamo destinati, non sembrava più troppo distante. Il capitano d’armamento, che mi aveva sempre seguito con la sua assistenza, mi fece subito convocare in ufficio, in via
La nave Brazil, successivamente chiamata Homeland
Garibaldi, nel solito palazzo mercantile genovese. Mi propose di imbarcare, entro pochi giorni, su una nave passeggeri battente bandiera panamense, ma con equipaggio completamente italiano, adibita a servizio di linea dai porti italiani alla Costa occidentale del Canada e degli Stati Uniti. La nave, della Home Lines, si chiamava Homeland. Era necessaria una decisione all’istante. Imbarcavo quale secondo ufficiale. Non potevo certo rifiutare una simile occasione... Rimaneva però un problema: dovevo completare la mia dotazione di divise regolamentari. In una sartoria specializzata fui sottoposto alle misure con consegna entro tre giorni. Ero quindi pronto, con documenti e visite fatte al momento del ritorno dal viaggio precedente. Dalla veranda del Ponte dei Mille la nave appariva in tutta la sua grandezza, scafo dipinto in nero e soprastrutture in bianco, unica ciminiera colore rosso con due bande terminali in bianco e nero. Da informazioni avute risultava di costruzione svedese, acquistata nel dalla Home Lines per il servizio sulla rotta Genova-Napoli-Halifax-New York.
Mi presentai al comandante – che era di origine toscana – persona molto riservata e distinta che non mancò di approfondire la sua indagine sulla mia persona con poche generiche domande. Mi trovai presto inglobato con gli ufficiali di coperta. Oltre al comandante c’era un comandante in seconda, due Primi ufficiali, due Secondi, due Terzi, e due allievi. I turni in navigazione erano intesi a doppia guardia con vedetta continua. Il mio turno dalle quattro alle otto del mattino e poi dalle sedici alle venti sarebbe sempre stato in compagnia del primo ufficiale anziano, il cap. Sturlese di Portofino, cordialmente nominato dall’altro primo ufficiale anziano come “Bertin”. L’equipaggio completo era di persone. La nave poteva trasportare passeggeri. L’imbarco dei passeggeri avveniva a Genova e nei successivi scali di Napoli e Palermo. Per qualche viaggio era anche prevedibile uno scalo a Ponta Delgada nell’isola di San Miguel delle Azzorre. Tutta la vita di bordo avveniva in forma più ordinata a paragone delle precedenti esperienze. Il turno di guardia consisteva prevalentemente nel continuo stazionamento all’esterno del ponte di comando per continua vedetta. Solo quando occorreva potevo entrare in sala nautica per qualche mansione a me affidata. Erano regolarmente fatte le esercitazioni per situazioni di emergenza ed abbandono nave. In tale occasione dovevo curare la gestione dell’apertura e chiusura di una grande porta stagna. Il mio capo turno era persona molto pratica, e non mi faceva pesare il servizio. Venivamo entrambi dal Golfo del Tigullio e lui spesso mi parlava di Santa Margherita e di Portofino, rimpiangendo il tempo che doveva passare lontano da quei paradisi.
L’autore (il primo da sinistra) a bordo della Homeland (28 ottobre 1954)
Dai contatti avuti con passeggeri durante il periodo di franchigia, fu subito evidente una particolarità: dei passeggeri imbarcati a Genova in massima parte erano giovani donne, tutte provenienti dal Friuli e dal Veneto, che andavano in Canada e negli usa per incontrare il marito che avevano sposato per procura e dal quale erano state convocate. Dello sposo conoscevano solo i dati generali e di lui avevano una foto. Speravano di trovare un legame affettivo per una futura vita coniugale, con famiglia in buone condizioni economiche – che in quegli anni di dopoguerra non avrebbero potuto avere nei loro paesi di origine. Nelle soste di Napoli e Palermo, invece, imbarcavano quasi tutti con destinazione usa per raggiungere parenti e conoscenti emigrati da anni e che li avevano richiesti. In quegli anni molte persone espatriavano clandestinamen
te negli Stati Uniti in cerca di lavoro, ed erano fortemente ostacolati dall’ufficio immigrazione, che applicava regole severe con rigetto forzato allo stato d’origine. Un terzo ufficiale del nostro gruppo aveva manifestato da tempo l’intenzione di abbandonare la nave scegliendo la clandestinità, pur non avendo un preciso orientamento. Si chiamava Evaristo, originario di Piacenza, e dopo tre viaggi riuscì a fermarsi clandestinamente con la prospettiva di un lavoro sicuro. Lo scalo di Ponta Delgada, alle isole Azzorre, era fatto solo durante qualche viaggio, per imbarcare emigranti d’origine portoghese. Nella generalità i passeggeri erano tutte persone che andavano a cercare nuova vita nel continente americano. Durante una sosta a Palermo fu commovente assistere al congedo dal figlio, in partenza allo scalandrone della nave in banchina, di una vecchia madre avvolta nel lungo scialle nero. Lei piangeva di un pianto continuo e silenzioso, abbracciandolo, e l’uomo restava ammutolito davanti a tale dimostrazione d’amore materno: era un distacco che ambedue sentivano come un definitivo addio. Con regolarità commerciale facevamo viaggi con primo scalo continentale a Halifax, in Canada, e successiva toccata a New York, per soste di uno o due giorni, per fare poi ritorno in Europa. Compito particolare assegnatomi, sotto la collaborazione del primo ufficiale anziano, era quella di curare la registrazione delle osservazioni meteorologiche fatte durante le traversate. Quelle più importanti erano trasmesse giornalmente via radio all’Istituto idrografico americano, mentre per le altre mi recavo ogni viaggio personalmente a Manhattan, consegnandole allo stesso istituo.
Venni a conoscenza della storia della nave dall’origine. Era stata costruita nell’anno e aveva partecipato alle operazioni di salvataggio durante l’affondamento del Titanic. Fu comprata nel da una compagnia svedese che l’aveva ristrutturata a fondo con il nome Drottningholm. La compagnia Home Lines la riacquistò nel adibendola poi al servizio di linea da Genova per Halifax e New York. Le navigazioni con traversate oceaniche del Nord Atlantico avvenivano sempre con velocità media di nodi e senza ritardi sui tempi previsti. Soltanto in vicinanza dei banchi di Terranova per il porto di Halifax, e del battello-faro di Nantucket per l’arrivo a New York, si incontravano spesso banchi di nebbia che obbligavano a particolari misure di sicurezza. Durante una traversata per ritornare in Europa fu deciso un radicale cambio di rotta, per dodici ore, evitando il veloce transito di un violento uragano. Quando già mi trovavo imbarcato da un anno e prevedevo lo sbarco per rotazione, la Compagnia dispose per un viaggio speciale in Sud America. Un’altra nave passeggeri diretta in Argentina aveva dovuto interrompere il viaggio a Gibilterra a causa di una grave avaria. Tutti i passeggeri erano stati sbarcati colà in attesa di proseguire per la destinazione finale. Da Genova la Homeland fu destinata a completare quel viaggio. Dopo una breve sosta a Gibilterra per le operazioni connesse al reimbarco dei passeggeri fu ripresa la navigazione. L’attraversamento dell’Equatore con una nave passeggeri è sempre pittoresco, per l’euforica partecipazione di tutti coloro che lo passano per la prima volta. In questo caso, trattandosi in massima parte d’emigranti, era inteso bene augurante per il futuro che era tutto da scoprire. Personalmente avevo già fatto questa esperienza con navi
da carico. Rinnovato interesse era da me provato con riferimento alle osservazioni astronomiche per la determinazione del punto nave. La navigazione avveniva sempre verso sud e il cielo astronomico variava sensibilmente con la continua scoperta di nuove costellazioni. La più attesa e considerata era la Croce del Sud, che personalmente ritrovavo rappresentativa nel cielo australe come per me lo era la costellazione d’Orione in quello boreale. Il primo scalo avvenne in Brasile, a Rio De Janeiro. La nave raggiunse l’ancoraggio nella rada interna del porto in un luminoso mattino estivo. Tutta la baia, con il contorno di monti e vallate – a ventaglio dalla nostra posizione, in una radiosa apparenza – fu una visione indimenticabile, un’emozione rinascente. Mi trovai a catalogarla mentalmente tra le apparizioni più belle sperimentate fino ad allora. Stessa sensazione avevo provato la prima volta a Venezia alla vista di Piazza San Marco, dorata nella sua magnificenza, vedendola dal Canale della Giudecca. Non rimaneva molto tempo per estasiarsi. Si imponeva il servizio collegato al movimento di passeggeri in sbarco ed imbarco con natanti portuali. All’avvistamento della costa uruguayana la vedetta spagnola aveva gridato: Montevideo! In effetti Montevideo non è una montagna ma una collinetta di modesta altitudine che dal mare sembra molto più alta. Senza particolarità rilevabili, fu un ancoraggio con poco movimento di sbarchi e imbarchi in tempi brevi. L’interesse ormai era teso alla prossima toccata di Buenos Aires, nella stessa baia, dove il Río Paranà convoglia le acque limacciose raccolte in gran parte del continente sudamericano.
L’autore posa con due colleghi a bordo della Homeland
Era prevista una sosta in porto di alcuni giorni. Ad attendermi in banchina trovai il mio amico Secondo Barisone. Eravamo coetanei, nati sotto lo stesso campanile, e lui in Italia era sempre stato un corridore ciclista. Aveva partecipato a molte competizioni, anche quale gregario di Fausto Coppi in Piemonte ed in Liguria. Pur avendo raggiunto qualche successo personale, decise improvvisamente di emigrare in Argentina. Ora lo trovavo, gradita sorpresa, su preavviso di comuni amici dall’Italia. Era necessario il permesso speciale per un’assenza da bordo di ore e mi fu accordato facilmente, anche con appoggio del capitano Sturlese. Con questa buona guida attraversammo il quartiere Boca, poi Corrientes, Casa Rosada, passammo vicino al teatro Colon per arrivare, nella zona denominata Palermo, alla sua abitazione, dove era atteso dalla moglie argentina con tutta la sua famiglia. Approfittai di questo giorno di riposo pranzando in allegra compagnia, guardando le foto dei suoi successi ciclistici, per i quali aveva ricevuto anche complimenti e foto con il Presidente Peron: tutto sotto
un pergolato del giardino dal quale, in quel mese di gennaio, pendevano dorati grappoli d’uva. Il viaggio di ritorno verso Genova iniziò dopo l’imbarco di pochi passeggeri e fu molto regolare, con uno scalo tecnico soltanto a Casablanca. Tutto l’equipaggio fu sbarcato e la nave venduta ad armatore straniero. Era l’anno . Con quest’impiego sentivo di aver completato una serie d’imbarchi che si potevano considerare anche avventurosi.Si imponeva una generosa sosta a terra con l’intendimento di cercare sistemazione a lungo raggio.
Time & Tide
Dopo l’esperienza fatta con il grado di secondo ufficiale, terminata con la nave passeggeri venduta ad armatore straniero, e maturati i richiesti periodi di navigazione fuori dal Mediterraneo, decisi di perfezionare l’iter richiesto, con esami presso la capitaneria, per il conseguimento definitivo della patente di capitano di lungo corso, con l’abilitazione al comando in qualsiasi parte del mondo. I benefici unitamente ai sacrifici connessi alla carriera marittima erano stati sufficientemente sperimentati, soppesati e anche ripensati, ricordando sempre i commenti negativi che sin dall’inizio avevo sentito da capitani delusi e, nel recente passato, da molti marittimi che rimpiangevano la comodità della vita familiare, tutti tesi alla ricerca di una sistemazione in terraferma. Questa decisione comportò anche un periodo di riposo, con relativo impegno di studio per superare gli esami. Eravamo tre amici e dovevamo preparare la revisione di quanto studiato, con soluzione di molti problemi di navigazione, astronomia e trigonometria sferica, sui quali avremmo dovuto sostenere prova scritta ed orale. In ciò avevamo la fortuna di poter contare sull’assistenza e la collaborazione del professor Traversa dell’Istituto Nautico di Genova. Era docente di astronomia, ma si sarebbe potuto definire un artista, eclettico studioso con interessi indirizzati a ogni espressione del sapere scientifico. Ci rendeva edotti
degli aspetti meno conosciuti per la soluzione di problemi teorici che avremmo potuto incontrare durante gli esami. Era stato il nostro professore e ora si sentiva a noi accomunato, esprimendo rimpianto per la vita marinara aperta a maggiore attiva partecipazione. Fu periodo di studio e aggiornamento professionale, trascorso per lo più, e in buona compagnia, nei parchi di Genova Nervi. Tre parchi di rara bellezza, collegati tra loro per un’estensione totale di mq, derivanti da tre ville storiche, degradanti verso la passeggiata a mare sulla scogliera, con numerose piante esotiche e tropicali. La patente fu conseguita a Genova e con l’anno il desiderio era di tornare all’attività marittima. Si presentavano due possibilità, sempre quale secondo di coperta. La prima offerta riguardava la società con servizio di linea per il Golfo del Messico che già conoscevo con precedenti imbarchi. La compagnia era molto buona, con ottime navi a turbina, ed anche il trattamento economico era interessante. Le destinazioni nel golfo del Messico le conoscevo bene, unitamente alle condizioni ambientali locali di gran disagio per il torrido e umido clima della zona. La risalita del Mississippi, fino a New Orleans, comportava l’ancoraggio nel fiume durante le ore notturne, con conseguente tormento di noiosi grandi insetti, localmente chiamati mosquitoes. In cabina non era possibile riposare, con le lamiere sempre infuocate, e non si poteva fare altro che cercare scampo all’aperto, sui boccaporti, essendo in quegli anni l’aria condizionata soltanto un lontano desiderio. Inoltre il lavoro cui si era sottoposti durante le operazioni di carico nei porti texani di Galveston,
Houston, Corpus Christi e Brownsville era molto gravoso, con temperature sempre torride. Altra possibilità che avrei potuto scegliere riguardava una nave tipo Liberty canadese, con scafo completamente chiodato, a differenza delle costruzioni tipo Liberty americano, varate a ritmo accelerato con scafi completamente saldati. Il primo varo con questo tipo di navi avvenne il ottobre in Canada, su progetto dell’Ammiragliato inglese, che si trovava nell’urgente necessità di avere tonnellaggio disponibile per i convogli destinati dall’America settentrionale all’Europa con rifornimenti militari. Ne erano stati costruiti esemplari e quello preso in considerazione era sceso in mare nel . Ora si prevedeva l’impiego in Nord Atlantico, con carichi di rinfuse minerali. La compagnia armatrice era registrata a Genova e aveva la sede in una trafficata via del centro cittadino. Il capitano d’armamento, impersonato da un anziano corpulento ex comandante, taciturno e bonario, talvolta ironicamente brontolone, aveva diretto la formazione degli equipaggi in quella società anche prima della guerra. Nel suo ufficio ancora troneggiava un tabellone con i nomi delle navi allora amministrate: un totale di moderne motonavi. Tutte erano state affondate in Mediterraneo e Atlantico, e lui le ricordava come la perdita di figli amati. Alla cessazione delle ostilità era stata ottenuta l’assegnazione, a prezzo simbolico, di due unità tipo Liberty costruite in Canada. Oltre che per il tipo di nave, mi decisi ad accettare anche per il modo accattivante e francamente aperto con il quale ero stato contattato. L’imbarco su questa nave avvenne a Genova al comando del capitano Olivari di Camogli: uomo molto navigato ma
avanzato negli anni, che portava in sé i segni dei lunghi disagi causati da un’intera vita passata in mare e sentiva di essere all’ultimo ingaggio prima della pensione. Furono dodici mesi sempre con carichi relativi allo stesso contratto di noleggio, attraverso un oceano raramente benigno che tuttavia godeva della mia assuefazione, forse perché erano le acque meglio conosciute. Durante la guerra la nave era stata impiegata in convoglio con aiuti militari destinati alla Gran Bretagna. Sul castello di poppa erano ancora evidenti gli attacchi predisposti per il fissaggio di un cannone da mm per casi d’emergenza, ed anche due mitragliere erano state sistemate sul ponte della bussola normale. La navigazione verso la costa americana era sempre fatta in zavorra con allagamento delle stive e per portare l’elica operativa con maggiore pescaggio poppiero. Lo svolgimento dei turni era regolare con la quotidiana riunione sul ponte, in occasione dell’osservazione meridiana del sole per il controllo della latitudine. Il cielo generalmente appariva nuvoloso, occorreva avere molta prontezza, anche nelle osservazioni serali, per catturare rapidamente l’astro che talvolta si riusciva a captare tra le nuvole fuggenti in balia delle forti correnti atmosferiche. La traversata dell’Oceano Atlantico, con nave in zavorra, non comportava un passaggio piacevole: le condizioni meteo erano generalmente contrarie e, con nave vacante, il continuo rollio e beccheggio cui si era sottoposti disturbava non poco la vita di bordo. Quasi tutte le traversate erano ostacolate da mare generalmente agitato, del quale rimaneva costante il ricordo di notti passate con ondate spumeggianti all’altezza del ponte
di comando, portate dal vento a schiaffeggiare con violenza le soprastrutture. Questa situazione era particolarmente percepita durante le lunghe ore notturne, nell’attesa dell’alba, tra tazzine di caffè e qualche sigaretta. La meta era sempre Hampton Roads, nella baia Chesapeake, che la prima volta si manifestò nell’ampia apertura – quasi un’immissione in un grande lago, con la bonaccia piatta che ne derivava. La zona era così nominata in onore del conte inglese di Southampton, e l’aggiunta Roads era ben nota alla marineria, a datare dal XVII secolo, essendo a protected anchorage and safe harbour – ancoraggio e porto sicuro – come precisava il portolano. Con l’entrata veniva giustificato il nome assegnatole. La marina militare l’aveva eletta sede importante della flotta atlantica con la base navale di Norfolk. L’ormeggio avveniva a Newport News per imbarco di carbone. Il metodo adottato era molto pratico perché consentiva di procedere rapidamente. Una serie di binari incrociantisi convogliava i vagoni, manovrati da un addetto, ad una postazione alta sulla stiva della nave ed il carbone era totalmente scaricato in breve spazio di tempo nelle stive per caduta diretta. Dopo una prima serie di viaggi con lo stesso contratto la nave era stata fatta rientrare in Italia, nel porto di Savona, per carenaggio e lavori di riclassifica. Il comandante era ai limiti d’età e, soff rendo da tempo d’artrosi, dovette essere sbarcato per sottoporsi a controlli e cure mediche. Lasciò rimpianto: era una persona che, parlando poco come la maggior parte dei vecchi marinai, aveva sempre dimostrato serenità con apprezzamento e fiducia per tutto l’equipaggio.
Con lavori di manutenzione varia in macchina ed in coperta, venne fatta la preparazione per il nuovo impiego. Mi fu assegnato il passaggio alla qualifica di primo ufficiale ed il comando fu affidato al nuovo comandante d’origine ligure, persona socievole, di statura media con sguardo aperto in un viso affilato, carnagione pallida rossiccia e radi capelli grigi. Circa sessantenne di apparente gracile costituzione e fortemente condizionato dalle passate esperienze belliche in Africa come lui stesso ricordava. Si trattava di una situazione aggiornata nel gruppo di ufficiali ma su rotte che mi erano diventate familiari e su una nave che ormai conoscevo bene. Il secondo ed il terzo ufficiale erano due persone di una cinquantina d’anni, abilitati al grado di Padrone marittimo, entrambi della provincia di La Spezia, i quali avevano già assaporato molta acqua di mare. Anche il marconista veniva sostituito per rotazione con un operatore quarantenne, di origine toscana, gran fumatore, molto magro, quasi cartilaginoso nell’aspetto allampanato, con folta capigliatura ricadente su fronte accigliata ed occhi indagatori. In quegli anni molti comandanti anziani avevano reminiscenze giovanili, legate ai loro inizi su velieri, ed erano stati segnati dalle tragiche vicissitudini incontrate durante la guerra terminata da poco. Questo nuovo comandante si faceva notare poco in giro quando il tempo era buono. Quando poi si aff rontavano condizioni di mare molto agitato era solito essere presente sul ponte di comando per lunghi periodi, e in questi casi manifestava la sua partecipazione al comportamento della nave nell’aff rontare i marosi, ed era anche di buona compagnia con l’ufficiale di guardia. Anche il ritorno di questo nuovo viaggio iniziava nel mese
di settembre in Nord Atlantico. L’imbarco a Newport News fu completato in breve tempo e la partenza per l’Europa organizzata per il pomeriggio del giorno di quel mese. Con pilota locale già imbarcato, avvenne un concitato scambio di messaggi con la Guardia costiera. Praticamente veniva consigliata e poi decisa la sospensione della partenza, rimandandola al mattino seguente, come misura precauzionale. Stava passando un uragano a poche centinaia di miglia dalla costa. L’Ufficio idrografico degli Stati Uniti trasmetteva con cadenza oraria informazioni sull’evolversi della perturbazione e sulla posizione del centro dell’uragano. Era stato soprannominato Carie, e presentava pressione barometrica di millibar. La sua formazione aveva avuto origine al largo dell’Africa occidentale nei primi giorni di settembre, dirigendosi verso i Carabi e poi, passando tra Cuba e la Florida, aveva rinforzato la potenza e accelerato la sua velocità di traslazione. Transitava al largo della costa americana, dirigendo a nord-est verso l’Atlantico settentrionale. Per tutta la notte la posizione del centro continuava a essere controllata con il passaggio al largo della costa. Il mattino seguente, dopo la ricezione dei bollettini meteorologici, fu decisa la partenza. Appena iniziata la navigazione in mare aperto le condizioni atmosferiche aumentarono la loro intensità con vento moderato e mare lungo. La cauta opinione era orientata verso la tacita sensazione di uno scampato pericolo, pur rimanendo le condizioni meteo generali influenzate da mare agitato e venti che nella serata passavano a rinforzare. Mi ero fatto una particolare opinione circa la situazione, determinata oltre che dal ricordo dello studio della meteorologia riguardante gli uragani anche da precedenti esperienze maturate in traversate atlantiche. A quella latitudine una nave
avente almeno la velocità di nodi avrebbe potuto evitare di essere coinvolta in pieno da una perturbazione ciclonica, manovrando opportunamente. Mi era familiare la semplice regola, appresa durante precedenti imbarchi: quando il vento è rilevato sempre dalla stessa direzione rispetto alla rotta seguita, esiste il pericolo di essere seriamente investiti dal peggioramento delle condizioni generali con possibile coinvolgimento nella zona più pericolosa. Ora la velocità non era superiore a nodi ed il vento da molte ore era rilevato sempre proveniente dalla stessa direzione. Avevo potuto esternare queste timorose valutazioni in sala nautica, senza incontrare alcuna considerazione: solo eloquente silenzio. La rotta non fu cambiata. Seguì una giornata con venti costantemente sferzanti, che portavano continua pioggia: le condizioni generali peggiorarono. Il mattino seguente, quando salii sul ponte per il consueto turno di guardia, sembrava che tutto fosse passato. C’era una gran calma – ma era solo apparente. Da ore il comandante aveva preso la decisione per il cambio radicale della rotta. La nave quasi volava con onde in poppa lunghe centinaia di metri, sormontate da creste con spruzzi diffusamente spumeggianti che il forte vento riduceva a lunghe sfilacciature bianche. Pareva di essere in regata con mare forza dieci. Era cessato completamente il beccheggio e il rollio era scaduto a leggero ondeggiamento. Venne naturale ricordare che uguale condizione sarebbe stata sperimentata, ai tempi della navigazione a vela, con vento al gran largo. La mattinata scorreva lentamente, la nave ancheggiando fuggiva in cerca di migliori acque, in sala nautica si udiva solo il traffico radio proveniente dalla stazione del telegrafista. Ma la calma non durò molto.
Una nave aveva lanciato l’s.o.s. raccolto da una stazione radio alle isole Azzorre e ritrasmesso, dando una posizione geografica molto distante dalla nostra. Cominciò lo scambio incrociato di messaggi con altre navi che si trovavano nella zona interessata al fine di portare soccorso. Mancavano particolari circa il nome e la nazionalità della nave, ma purtroppo le notizie successive confermarono i timori. Si trattava della nave scuola Pamir: un veliero a quattro alberi di nazionalità germanica con persone a bordo tra equipaggio e cadetti. I contatti scambiati con altre navi, nelle ore seguenti permisero di avere particolari sulla situazione. In serata venne la notizia che tutti avevamo temuto: la nave era affondata. La conferma di un affondamento in mare è tragedia che colpisce tutti quelli che ne sono informati, e li rende più sensibili, essendo coinvolti nello stesso fortunale. A bordo l’atmosfera fu appesantita dal silenzio. Non fu possibile alcun nostro tentativo di soccorso a causa della distanza che ci separava dalla posizione indicata. In seguito si venne a conoscenza dei particolari relativi alla tragedia. Il Pamir era partito da Buenos Ajres all’inizio della primavera australe, diretto in Germania, con membri dell’equipaggio e cadetti della marina mercantile germanica, al comando del capitano Diebitsch. Aveva un completo carico di . tonnellate di orzo sistemato alla rinfusa nelle stive e nelle tanche di zavorra; sulla rinfusa erano state sistemate tonnellate in sacchi per il corretto stivaggio, ad evitare lo slittamento della rinfusa durante la navigazione. Le operazioni di imbarco, intralciate dallo sciopero in atto dei lavoratori portuali argentini, erano state completate con l’intervento dell’equipaggio disposto dal comandante dietro pressione degli armatori.
Il veliero Pamir
La mattina del settembre la nave era incorsa nella violenza dell’uragano Carie con tutte le vele a riva. Quando il comandante diede ordine di ridurre la velatura era ormai troppo tardi. La forza del vento impediva la corretta manovra e la velatura fu sottoposta a spaccature con alta eco degli strappi. Seguì una grande confusione nella quale il comandante aveva tentato, senza successo, di portare la prua al vento. Lo sbandamento a sinistra si accentuava e nella costernazione generale l’inclinazione continuava ad aumentare. Gli uomini erano restati muti ed increduli finché non era stato necessario dare l’ordine di abbandono della nave. Quando avevano tentato di mettere a mare le scialuppe di salvataggio non era stato possibile a causa del forte sbandamento della nave. Alla fine solo una zattera gonfiabile fu lanciata e raggiunta da una ventina di uomini; una scialuppa fu in seguito vista con molti uomini a bordo ma non fu possibile stabilire un contatto tra di loro. La nave fu vista capovolgersi in breve tempo e scomparire. Erano le . del settembre . Sui natanti erano andate perse sia le segnalazioni d’emergenza che le provviste di acqua e viveri. E con l’avvento della notte si susseguirono ore di disperazione, con mare sempre burrascoso, dal quale molti furono inghiottiti anche per le condizioni psicologiche generali, che portarono molti a gettarsi in acqua incuranti degli squali avvistati. Soltanto dopo una giornata completa la zattera fu avvistata da una nave in perlustrazione. In totale furono salvate otto persone. Lo sbarco del carbone avvenne a Emden, in Germania. All’arrivo, durante le operazioni d’attracco alla banchina, ma
novrando nel fiume Ems, perdemmo un’ancora. Furono fatti prontamente i rilievi, traguardando punti di riferimento a terra, per determinare la posizione per il ripescaggio, e il tauchermeister – il capo palombaro – incaricato dall’agenzia per il recupero manifestò la sua perplessità causa il fondo melmoso. Poi però, con la nostra assistenza e guida dalla motobarca, fu fissato il punto esatto in cui immergersi e riuscì ad incocciare il maniglione, rendendo facile riportare l’ancora nell’occhio di cubia. Il tauchermeister Arndt, veterano della Marina militare germanica, era anziano e proveniva dai molti interventi effettuati a guerra finita per recuperare relitti e bonificare le acque di molti porti. Aveva eletto a sua residenza un barcone recuperato dai fondali, riparato nelle sue strutture principali ed arredato in stile marinaresco. Ne nacque una piacevole amicizia, anche con la sua famiglia. Con lo stesso contratto di noleggio furono compiuti ancora tre viaggi dallo stesso porto di Newport News in Hampton Roads con destinazione Europa settentrionale. La traversata era entrata nella normalità del vivere quotidiano, avendo familiarizzato con le condizioni generali meteorologiche. L’Atlantico, anche nella stagione invernale, era divenuto quasi piacevole e si faceva desiderare per il contatto con la libertà ampia dell’oceano, nonostante la continua compagnia di fronti turbolenti, portatori di piovaschi, dei quali però era facile conoscere la provenienza e la destinazione. La costante animazione dei venti era comunicata con precisione dall’Ufficio idrografico della Marina degli Stati Uniti. Da parte nostra collaboravamo con il servizio generale inviando dati d’osservazione locale, quando ritenuti di particolare interesse.
Le osservazioni astronomiche, a causa del cielo coperto, si risolvevano spesso con la fortunata cattura del sole tra nuvole sfuggenti, per la determinazione della meridiana. Di notte avevo ormai acquisito una spiccata conoscenza delle posizioni stellari, preferendo quelle con apparenza più ridotta per la determinazione accurata del punto nave. L’ultimo sbarco di carbone fu fatto ad Amburgo, il cui porto era sempre scalo preferenziale per noi marittimi italiani. Era sorta la discussione in sala mensa, tempo addietro, relativamente ai porti più ospitali per passare giorni di sano relax, dopo le apprensioni delle traversate atlantiche. Continuando da tempo a scalare solo porti dell’Europa settentrionale, mi ero unito al primo macchinista per esplorare le città nei quartieri con movimentata vita notturna. Alvise, il mio compagno, era veneziano con precedente servizio nella Marina Militare durante la guerra. Nella mensa ufficiali le opinioni generali erano di apprezzamento per i porti di Anversa, Rotteram e Amburgo. Venivano dettate le linee generali, occorreva valutarne i pro e contro. Personalmente non potevo condividere quanto detto per il porto del Belgio. Anversa traversata persa, hanno sempre sentenziato i vecchi marinai italiani. In effetti si finiva per bighellonare in un quartiere che oggi sarebbe definito “a luci rosse”: una serie ininterrotta di grandi vetrate dietro le quali venivano messe in mostra e offerte donne seminude. Mercimonio di cattivo gusto, moderno mercato di schiave. Unico ricordo piacevole legato a quella città riguardava la visita alla casa di Rubens, per ammirare le smaglianti pitture di quel maestro, apprezzate anche perché influenzate dal suo soggiorno a Venezia.
Rotterdam era un altro porto che non godeva delle mie simpatie e altri condividevano il mio pensiero. Una sera invernale eravamo entrati in un bar, nella zona del porto, per bere una birra. Locale a luci attenuate, mentre bevevamo ci venne un sospetto. Gli avventori erano tutti uomini senza alcun aspetto di lavoratori portuali. Eravamo capitati male, meglio cambiare aria. Era già il più grande porto europeo ma, dal punto di vista del marittimo in cerca di tonificante riposo con qualche distrazione, non si poteva considerare conveniente. I marittimi italiani finivano per essere convogliati allo Stella Maris, “ente assistenziale” teso ad off rire sano ristoro ai naviganti. Effettivamente si poteva passare una serata con intrattenimenti anche danzanti. Però il posto risultava frequentato da ragazze, molte delle quali erano alla ricerca di un legame duraturo e possibilmente maritale; era posto pericoloso e tale si dimostrò per qualche navigante italiano, spero con reciproca soddisfazione. Amburgo riceveva apprezzamento da tutti quanti. Il quartiere St. Pauli, pur essendo sede di ogni tipo di frequentazione, off riva una variegata possibilità di scelta, con tanti locali frequentati anche da semplici ragazze desiderose di contatti fugaci ma generosi. Le tedesche apertamente godevano della nostra simpatia, che era generalmente ricambiata. Alvise conosceva da parecchio tempo Ursula, una giovane bionda estroversa e sempre allegra, che incontrava ogni tanto e non a caso. Un giorno, condividendo questa conoscenza, mi fu presentata Ingrid. Costei era veramente tedesca! Il suo cognome, che si potrebbe definire di collegamento sartoriale, ne era la dimostrazione. Aveva capelli neri corvini che più neri non è facile trovare, per cui avevo preso l’abitudine di nominarla col vezzeggiativo “calabrese”. Avevo dovuto spie
garle il motivo di questo nomignolo e lei ne fu quasi contenta. Insomma, avevo trovato un buon complemento ed ero felice quando la ritrovavo arrivando ad Amburgo. Erano due ragazze ben equipaggiate ed anche mentalmente dotate per compagnia conviviale. A St. Pauli una sera c’eravamo fermati davanti alla vetrata di un club nel quale si vedevano quattro donne giovani, bellezze esplosive paludate in vaporosi veli, che ballavano ammiccando. Qualcosa non ci sembrava quadrare e venne chiaramente accertato che si trattava solo di travestiti. Con le ragazze frequentavamo un night club piuttosto riservato, con buona musica e qualche ballo. Vi era collegato un ristorante, dove non solo mangiavamo bene ma imparammo anche l’abbinamento al vino Liebfrauenmilch del Reno. Tutto questo rendeva euforici e faceva dimenticare le notti passate in Atlantico con mare burrascoso. Mentre eravamo ad Amburgo arrivò da Genova il capitano d’armamento della compagnia per un controllo delle caldaie, che da sempre avevano dato qualche noia. Questo vecchio capitano mi aveva sempre dimostrato piena considerazione e benevolenza. Capitò in Germania in un periodo di tempo perturbato, con continua pioggia e, a suo dire, questa era una situazione generale costante a questa latitudine, che lo faceva solo sbuffare rimpiangendo il clima della sua amata Liguria. Un nuovo contratto di noleggio era stato firmato dalla società per la nave. Comprendeva cinque viaggi con carico completo di minerale di ferro, dall’unico porto di Freetown in Sierra Leone, sulla costa occidentale dell’Africa – tra la Guinea e la Liberia – destinato alle acciaierie della Germania.
Dopo l’uscita dal canale della Manica, con rotte obbligate tra pescherecci e banchi di nebbia, la navigazione nella parte meridionale dell’Atlantico incontrava condizioni meteo migliori, fino all’arrivo al fiume Rokel, sulla cui foce sorge Freetown, la capitale della Sierra Leone. Passarono circa due ore d’ancoraggio, alla foce del fiume, nell’attesa del pilota. La distanza dalla costa era limitata e, con il binocolo, si poteva seguire l’animazione di un piccolo gruppo di capanne. Distintamente si notavano alcune piccole barche per la pesca. Il tutto era centralizzato su un focolare dal quale si elevava una stretta colonna di fumo azzurro. Nell’inquadramento di una fitta corona di palme si aveva la sensazione di una convivenza povera ma serena e pacifica, la quale suscitava invidia nell’animo del marittimo perennemente vagabondo. La Sierra Leone fu così denominata dall’esploratore portoghese Pedro da Cintra nell’anno . Fu nei secoli centro di raccolta per organizzare il traffico transatlantico di schiavi verso il continente americano. La città di Freetown risulta fondata nel quale insediamento base per il ritorno di schiavi liberati e tornati in Africa, e divenne subito colonia britannica. L’economia della regione risultava ruotare completamente intorno al porto di Freetown, con esportazioni di petrolio, minerali, riso e manifattura di tabacchi. L’agenzia inviò un motoscafo sottobordo e con il comandante andammo a terra, nella sede dell’ufficio, per concordare l’imbarco. Le strade erano movimentate dal multicolore intrecciarsi di persone appiedate o in bicicletta, senza agitazione, nel gran caldo, con l’odore misto di legno bruciato polvere e spezie, caratteristico dell’Africa. La miniera si trovava a Pepel, circa venti miglia risalendo il fiume. Era necessario attendere un momento particolare
allorché, con la marea e con l’ausilio di un pilota pratico della zona, sarebbe stato possibile arrivare all’ormeggio della miniera per ricevere il carico. Tutto avvenne come previsto e il pilota ad un certo punto, in corrispondenza di un’ampia ansa del fiume, volle prendere personalmente la ruota del timone per evitare una pericolosa barra. La miniera era amministrata da personale inglese ed il direttore fu molto ospitale ed aperto alla collaborazione. I primi due viaggi si susseguirono con una certa regolarità e senza particolari problemi. Lo sbarco del secondo viaggio era destinato alle acciaiarie Krupp d’Amburgo. Prima dell’arrivo in Germania il comandante aveva manifestato un periodo di malessere che, non avendo suscitato particolare apprensione, era stato fronteggiato con somministrazione di comuni farmaci antifebbrili. Purtroppo non era stato riscontrato alcun miglioramento, e all’arrivo in porto fu necessario chiedere l’intervento di un medico da terra. Quando seppe che provenivamo da un porto dell’Africa occidentale, constatando la persistenza dello stato febbrile, non esitò a disporre il ricovero in ospedale per appropriato esame e trattamento. Il disappunto del comandante era manifesto. Rimase veramente sconcertato, anche se da tutti rincuorato con la certezza di ritornare a bordo in tempo per il viaggio successivo. Speravamo fosse solo questione di un giorno e invece, dagli esami fatti in ospedale, risultava uno stato di prostrazione tale che avrebbe comportato la necessità di una degenza prolungata. Non fu possibile il rientro a bordo in tempi brevi. Quindi urgeva l’invio da Genova di un nuovo comandante e in tal senso feci la richiesta alla compagnia. Gli impieghi commerciali non potevano comportare dila
zioni; nel frattempo era stata disposta la partenza con ausilio di un pilota locale, per la destinazione di Vlissingen, in Olanda, quale porto di bunkeraggio. La previsione a bordo era di trovare in banchina il nuovo comandante inviato con urgenza da Genova. Invece si presentò il marconista con un laconico messaggio radio. Con poche parole, senza alcun preambolo, era disposto il mio passaggio al grado di comandante. Istruzioni in tal senso erano già state passate al Consolato italiano di Rotteredam, al quale dovevo rivolgermi per ufficializzare la nomina. Questa nomina ebbe l’effetto di un fulmine a cielo sereno, lontana dalle mie aspettative e desideri, mi metteva improvvisamente di fronte a grande responsabilità. E così mi ritrovai comandante del piroscafo Giada. Il comando è oggetto di aspirazione di tutti gli ufficiali della Marina Mercantile. Molti sono gli aspiranti che arrivano alla pensione senza avere mai avuto la possibilità di esercitare tale mansione e questa condizione, generando una certa delusione, in tanti può comportare invidia e senso critico verso chi occupa tale carica. In me si manifestò un sentimento prima di sorpresa, perché era una promozione non pensata, poi anche di apprezzamento per la considerazione avuta dalla compagnia di navigazione. Nello stesso tempo ero cosciente ed anche preoccupato per l’impegno che avrei assunto. Avevo trentun anni e a bordo ero il più giovane capitano di lungo corso patentato. Il secondo ufficiale di coperta era un padrone marittimo di anni di La Spezia, uno spilungone ossuto, di poche parole, navigante con molta esperienza pratica. Il terzo ufficiale, anche lui padrone marittimo, era cinquantenne con le stesse caratteristiche del secondo, carattere estroverso con molta esperienza. Persone esperte con lunghi anni di navigazione
L’autore posa di fronte alla nave Giada
ed assolutamente affidabili anche per il servizio di guardia sul ponte. In riferimento ad un nuovo primo ufficiale si pensava che ne sarebbe stato disposto l’imbarco al nostro prossimo scalo in Europa. Il nostromo, nella gestione di un mercantile, è un prezioso collaboratore del comandante. In questo caso era un giovane d’origine pugliese che conoscevo da molto tempo, da me stesso fatto imbarcare. Rimaneva una certa indecisione per la possibilità di coinvolgimenti futuri. Si procedeva al bunkeraggio e mi recai al consolato di Rotterdam viaggiando in treno attraverso la campagna olandese. Trovai tutta la pratica perfezionata e fu velocemente ufficializzato il passaggio al comando. Non rimaneva tempo per altre titubanze, senza alcuna possibilità di ripensamenti o indecisioni che avrebbero pregiudicato il regolare funzionamento commerciale della nave. Fu definita la partenza appena completato il rifornimento di bunker e provviste. La navigazione procedette su rotte ben conosciute e condizioni generalmente buone. Fu particolare la prima sensazione sul ponte, iniziando la navigazione. Coscienza della nuova responsabilità e nello stesso tempo inconfessata giovanile soddisfazione. Perfino la macchina sembrava emettere un nuovo genere di rumore. All’arrivo era prassi normale l’ancoraggio al punto d’attesa del pilota, il quale ci avrebbe guidato lungo il fiume fino al pontile d’imbarco di Pepel. Quando fummo attraccati al pontile della miniera venne a bordo il conosciuto ispettore minerario per concordare la quantità da imbarcare. Restò impressionato per quanto successo al precedente comandante e, nello stesso tempo, si disse compiaciuto con me per il mio salto di grado e responsabilità. Era un funzionario inglese di una cinquantina d’anni, di statura media con corporatura
magra e frangetta di capelli biondo rossicci lisci, come solo in Gran Bretagna si possono trovare. Con flemma inglese guardò fisso e poi mi raccontò che lui stesso era stato nominato in giovane età alla responsabilità per la gestione della miniera. Menzionò un proverbio del suo paese: Time and tide wait for no man – il tempo e la marea non aspettano nessuno. Poi, stringendomi la mano in segno di stima e amichevole cortesia, disse: – Hai un’opportunità che forse non ti sarà mai più offerta. È il tuo momento, tanti auguri. Le operazioni d’imbarco erano poco impegnative e si venne a creare una buona collaborazione con il personale inglese della miniera, la quale ci avrebbe giovato anche nei viaggi successivi. Quella stessa notte, assieme all’ispettore, mi fu possibile assistere ad una riunione segreta che aveva luogo in una radura della foresta. In compagnia di un capo squadra dipendente della miniera che si diceva discendente dell’antica etnia Mende, con la dovuta circospezione durante la notte, attraverso un sentiero nella boscaglia, arrivammo in un punto dal quale si poteva osservare, vagamente in distanza, quello che doveva essere, a luce ovattata, un rituale di magica iniziazione con riti propiziatori tramandati da generazioni. Tutto si completò con il ritorno all’alloggio del capo squadra e generosa bevuta di cognac proveniente dalla cambusa di bordo. Seguirono tre viaggi con lo stesso contratto per l’Europa settentrionale. La Manica è sempre stata impegnativa per il gran traffico di navi e pescherecci, oltre la frequenza dei banchi nebbiosi che richiedono ininterrotta vigilanza. A disposizione c’era un radar rca, uno dei primi apparecchi disponibili per uso commerciale usciti dopo la guerra, non molto perfe
zionato ma sempre valido ausilio. La responsabilità del comando comportava la continua presenza sul ponte, con doppia guardia e continuo controllo al radar, oltre che frequenti rilevamenti al radiogoniometro dalle numerose stazioni del canale. Vivendo a caffè e sigarette per tutta la nottata, arrivavo in porto con un gran desiderio di riposo. Nel ritorno dal mio secondo viaggio, arrivando dall’Africa occidentale incontrai in Guascogna una perturbazione che l’ufficio meteorologico inglese, nei suoi bollettini, definiva exceptional depression. Nella notte ritenni opportuno mettere alla cappa per dodici ore: luci rosse a riva di non governo e macchina portata con elica a giri con mare al mascone. Fu rassicurante constatare che la nave a pieno carico teneva il mare con solo pochi spruzzi in coperta. Dopo questa pausa fu facile rimettere in rotta, alle prime luci dell’alba, con mare abbonacciato e graduale ritorno a venti più moderati All’arrivo era previsto lo sbarco del secondo ufficiale, del marconista e dell’allievo ufficiale. Per rimpiazzarli imbarcarono un secondo trentenne d’origine torinese, con carattere spigliato e allegro. Anche il nuovo marconista era una persona giovane, quarantenne napoletano di media statura, aspetto gioviale e voce squillante. L’allievo ufficiale era un giovane appena diplomato di origine ligure, più precisamente di Oneglia. Questo avvicendamento portò un cambiamento di relazione nella routine di bordo, con persone apertamente portate a giovanile entusiasmo e collaborazione. Con l’ultimo scalo per carico alla miniera e completamento del contratto di noleggio, vennero effettuati i soliti ultimi riscontri con successiva firma della polizza di carico. Tutto in regola: scambio di convenevoli e saluti. Un aiutante indigeno dell’ispettore aveva posato sulla mia
scrivania un cesto di paglia intrecciata, coperto da grosse foglie tropicali. Pensai a gradito omaggio di frutti tropicali e, distrattamente, mentre firmavo le polizze, avevo messo dentro una mano per tastare. Notai un divertito sorriso sui volti dei presenti. Alla mia domanda circa il contenuto mi fu risposto: – It is a snake, è un serpente. Credevo fosse uno scherzo, invece era un pitone reale di circa un metro, del quale però veniva declamata la mansuetudine e la non pericolosità. Tutti insistevano che potevo tranquillamente tenerlo anche in cabina e come dimostrazione un indigeno lo estrasse dal cesto. Era tutto arrotolato ed intrecciato come una grossa palla, poi si distese pigramente mostrando i suoi colori argentati, per avvolgersi infine carezzevolmente sul braccio. Dovetti resistere alle insistenze dell’offerta. Non potevo certo tenere a bordo un pitone, anche se appariva buono e socievole. Lo scarico di quest’ultimo viaggio avvenne a Bremen. Tutto l’equipaggio aspettava e pregustava lo sperato rientro in Italia. Invece era stato fissato un carico di bauxite a Puerto Ordaz, in Venezuela, nel fiume Orinoco, con porto di sbarco in Europa settentrionale. La destinazione finale sarebbe stata comunicata in navigazione. Nel mese di ottobre la traversata atlantica dall’Europa settentrionale alla costa venezuelana avvenne in condizioni meteo molto buone, anche in considerazione del fatto che era passato il periodo estivo nel quale si sviluppano gli uragani. La stagione delle piogge in Venezuela era trascorsa da tempo e il fiume registrava un periodo di bassa portata. Questo richiedeva particolare attenzione all’ancoraggio alla foce nell’attesa del pilota fluviale, a causa di una barra sabbiosa che costringeva a continuo sondaggio con lo scandaglio.
Iniziò la navigazione nel fiume, contro il lento fluire dell’acqua, tra gli isolotti creati dai diversi rami fluviali, per entrare infine nel corso principale, navigabile dalle grandi navi oceaniche. La terraferma, con la sua rigogliosa traboccante vegetazione, cambiava continuamente manifestando visioni “in technicolor”. Pareva il ritorno all’innocenza del mondo, l’entrata in un continente ancora da scoprire, con flora vergine e manifestazioni di fauna selvatica e volatili variopinti, fresca testimonianza della creazione della terra. L’enormità di questo delta era descritto dal portolano con la larghezza di quasi chilometri. Era uno spettacolo guardare con il binocolo lo sfilare continuamente mutuante d’alberi localmente chiamati bolas de canon, in un intreccio di liane e grosse noci con fiori profumatissimi. Aquile e scimmie incorniciavano questo spettacolo, appollaiati sulla vegetazione ricca di frondosi rami. In qualche radura, di quando in quando, si notavano grossi uccelli trampolieri dai colori rosseggianti sotto il lungo collo. Puerto Ordaz è una città fondata soltanto nel nel sud del Venezuela, esattamente alla confluenza del Rio Caroni nell’Orinoco. La sua posizione geografica era indicata esattamente in ° ’ N – ° ’ W. Era la sede delle più grandi compagnie minerarie e porto d’imbarco per le esportazioni. La posizione del pontile d’imbarco era difficile da individuare a causa della fitta vegetazione che lambiva le rive da tutte le parti. L’imbarco avvenne in tempi brevi e, dopo i consueti rifornimenti di provviste, fu iniziata la navigazione verso la foce con l’ausilio di un giovane pilota fluviale. Dopo una settimana di navigazione in mare giunse la conferma definitiva per sbarco a Bremen, in Germania. Durante lo scalo il capitano d’armamento venne ancora a bordo dal
l’Italia per concordare con il capo macchinista e un cantiere certi lavori urgenti da fare alle caldaie. In questa occasione venne confermato che avremmo fatto ancora due viaggi in Nord Atlantico, prima del definitivo ritorno in Italia. Dopo la sosta di una settimana, fu necessario approdare al solito scalo di Vlissingen in Olanda per bunkeraggio. Successiva destinazione era Lisbona, che conoscevo molto bene per le molte toccate fatte con altre navi. Nel grande estuario del fiume Tago, come porta di accesso alla capitale del Portogallo, rasentando la svettante bianca torre di Belem, eravamo approdati al centro della città, per un carico di sughero in balle. Ho sempre avuto una speciale predilezione per Lisbona. La sua popolazione sinceramente ospitale manifestava con tanta evidenza la passata gloria marittima. Questo apprezzamento era legato alle mie prime esperienze a bordo di naviglio minore con trasporto di merci varie da e per l’Italia. Fu una sosta piacevole, anche se le operazioni di imbarco procedevano a rilento perché il sughero arrivava convogliato in piccole partite. A carico ultimato la nave sembrava trasformata. A causa del basso peso specifico del carico imbarcato era stato utilizzato tutto lo spazio disponibile sia nelle stive sia in coperta. Dopo la rizzatura, fatta con cavi d’acciaio e tornichetti, la nave aveva l’apparenza di una barca a vela con la copertata che raggiungeva il livello del ponte di comando. Tutto il carico era destinato al porto di Baltimora. La traversata alle basse latitudini si svolse con mare abbastanza calmo e, ciò nonostante, la nave fu sottoposta a rollio continuo per l’innalzamento del centro di gravità. L’accesso a Baltimora, con pilota imbarcato a Hampton
Roads, comportava l’attraversamento della baia con passaggio davanti a Washington e tutto avvenne con calma regolarità. Baltimora risultava impressionante per la grandiosità degli impianti portuali, alternati ad edifici imponenti. Era anche notevole un grande movimento di natanti turistici con barche a vela e qualche veliero all’ancoraggio nella grande baia. Lo sbarco fu fatto in tempi brevi. Ci trovammo ben presto di nuovo in pieno Atlantico, con nave vacante. La destinazione non era molto distante. Dovevamo raggiungere il porto di Charleston, South Carolina, per imbarcare un carico completo di rottami di autovetture, pressati in colli di circa un metro cubo. La prima impressione fu che i ritmi di lavoro apparivano non frenetici come negli altri porti della stessa nazione. La sosta si protrasse per alcuni giorni e avemmo la possibilità di visitare anche la cittadella, che era stata particolarmente coinvolta all’inizio della guerra di secessione americana. Da quel forte il gennaio i cadetti della scuola navale avevano aperto il fuoco sulla nave Star of the west dell’Unione che stava entrando in porto. Iniziavano così ufficialmente le ostilità tra le due fazioni. La città presentava un impianto urbano la cui impronta era chiaramente legata al passato storico della regione, ed era ancora visibile il mercato degli schiavi. Il carico era destinato in Germania, il porto sarebbe stato definito tra Amburgo e Kiel con messaggio radio prima dell’entrata nella Manica. Il transito nel Canale avvenne in mezzo al solito traffico di navi e pescherecci ma questa volta non fu ostacolato dalla nebbia. Fu confermato lo sbarco nel porto di Amburgo come destinazione finale con generale gradimento da parte dell’equipaggio, trattandosi di uno scalo ben conosciuto. Da
mesi non si era avuta la possibilità di una sospirata sosta con buone occasioni di svago. Al marittimo alcuni porti sono più ambiti di altri per questo scopo, sempre con preferenza data ai porti europei. Come ho già detto, Amburgo era il porto europeo che, con la vita notturna della zona di St. Pauli, off riva sempre ai marittimi la possibilità di trascorrere una serata moderatamente animata, passando da un night club all’altro. Lo sbarco totale per le acciaierie Krupp fu effettuato con teutonica regolarità in un impianto siderurgico, durante tre giorni lavorativi. Successivamente, con pilota locale, la nave venne trasferita al porto di Emden, che conoscevo per precedente scalo, con imbarco di un completo carico di carbone destinato alla ferriera di Trieste. Il viaggio di ritorno comportava un ulteriore scalo a Vlissingen per solo bunkeraggio. Le rotte del Nord Europa fino a Gibilterra erano ben conosciute per i molti viaggi precedenti in quelle zone e la navigazione avvenne molto regolarmente, anche in considerazione di una visibilità eccellente nell’attraversamento del Canale. Gibilterra sfilò al traverso e fu simbolo definitivo del ritorno in Mediterraneo, dopo tanto navigare nell’Oceano Atlantico. La navigazione lungo le coste dell’Algeria e della Tunisia avvenne con tempo buono e venti moderati. Per arrivare all’entrata del Mare Adriatico dovevo decidere se passare a nord o a sud della Sicilia. La prima opzione avrebbe comportato un risparmio di trenta miglia ma, nello stesso tempo, si sarebbe dovuto attraversare lo stretto di Messina, sempre soggetto a traffico marittimo molto intenso in tutte le direzioni. Era sentito ma inconfessato mio desiderio percorrere la rotta più breve anche se comportava un rischio
maggiore. Ero cosciente del pericolo che avrei corso prendendo tale decisione, ovvero di anteporre il mio personale orgoglio a ogni altra considerazione. Continuai quindi deciso per Capo San Vito costeggiando la parte nord dell’isola, verso lo stretto, che fu attraversato in pieno giorno, in mezzo ad un intenso movimento di ferryboats e natanti di ogni specie, in maggior parte di piccole dimensioni, incrocianti tra la Calabria e la Sicilia. Proseguimmo contornando la punta dello stivale fino a Capo Spartivento, sull’estrema costa meridionale della Calabria. La risalita dell’Adriatico fu agevole, sospinti come fummo dalla corrente ed anche dal comune desiderio di arrivare a destinazione. L’avvistamento di Punta Salvore era preludio del Faro della Vittoria, a Trieste. Si rendeva necessario scegliere un buon ancoraggio essendo previsto l’ormeggio soltanto dopo due giorni d’attesa. In occasione di precedente viaggio, un pilota portuale aveva raccomandato una certa postazione sotto il Faro della Vittoria quale ormeggio migliore, specialmente come protezione da eventuale vento di bora. Lo scarico alla banchina della ferriera avvenne in tempi brevi, come previsto. La successiva destinazione della nave era stata fissata presso un cantiere navale di Venezia per vendita della stessa ad armatore straniero. Le caldaie a vapore avevano sempre dato problemi a causa dell’usura dei tubi d’acqua. Anche durante l’ultimo viaggio, come concordato con il capo macchinista, si era dovuto provvedere alla fornitura supplementare di acqua per garantire un regolare funzionamento. Il trasferimento avvenne con rimorchiatore d’alto mare e pilota giunti direttamente da Venezia. Dopo una notte a rimorchio, passata totalmente conver
sando con il capo pilota capitano Schlosser, si entrò in una dimensione diversa da quella solitamente sperimentata. L’approccio alla costa avvenne alle prime luci dell’alba. In una cornice di nebbia diffusa ma non molto fitta, si riusciva a vedere qualche tratto dell’imboccatura, come meglio evidenziato dal radar. Una torretta sul lato sinistro e a destra una serie di bastioni in muratura. Sempre a velocità molto ridotta, e guidati anche dal collegamento radio con la stazione piloti, fu facile arrivare in un bacino che appariva più aperto. Tra lenzuola infinite di nebbia bassa e radente apparve un campanile sulla sinistra ed un luccichio su altro campanile al lato destro. Io non dovevo preoccuparmi della manovra in quanto nelle mani sicure del capo pilota e dei rimorchiatori. Avevo quindi il tempo di ammirare ed assaporare quella visione di sogno in cui ci trovavamo. A bassa velocità, con l’ausilio di due rimorchiatori e radar in funzione, circondati da nebbia a banchi irregolari, tra suoni di sirene e segnali acustici, piccoli natanti transitavano nei canali. Improvvisamente, alto sul lato dritto di prora, apparve librato nell’aria l’angelo sfolgorante che sormonta il campanile di San Marco, nel luccichio del sole nascente. Il tutto contornato dalle cupole della basilica da una parte e dell’isola di San Giorgio dall’altra. Il globo dorato che sormonta la sede dell’antica dogana splendeva alto sulla prora, portando la Fortuna lanciata con ampio gesto augurale della Serenissima alle sue navi e ai suoi mercanti. Eravamo arrivati nel mezzo del bacino di San Marco con la visione della Piazza tra sfilacciature nebbiose. Tetti rivestiti
d’oro, finestre in bifore e trifore lavorate come fiori, balconi e muri come merletti. Tutto intorno era un traffico di piccoli motoscafi e gondole con casuali avvisi di ovattati segnali da nebbia. Lentamente ci avvicinavamo ad un ormeggio che era pervaso dal festoso sereno contorno della vita insulare della Giudecca. L’ormeggio predisposto era una sezione di banchina usata per lavori di manutenzione navale dal cantiere che si trovava sul lato posteriore dell’isola, verso la laguna aperta. Dopo tanti mesi di mare e porti commerciali sembrava un quadro da fiaba. Un impiegato della società armatrice fu gradito ospite in quanto portava quel che era atteso con più interesse da tutto l’equipaggio: la posta e le paghe con la liquidazione per tutti. poiché la nave veniva messa in disarmo per successiva vendita. Avevo accettato la richiesta di rimanere a bordo ancora per qualche giorno fino alla consegna della nave ai nuovi acquirenti. Quei pochi giorni si susseguirono in un clima di vacanza. Con me erano rimasti il nostromo e un marinaio. Erano molfettesi, e loro desiderio e compito primo rimaneva quello di preparare succulente zuppe di pesce. Per il caffè e quanto altro necessario ci appoggiavamo alla trattoria sottostante. In un posto simile non poteva chiamarsi altro che La botte d’oro. Stavo godendo insomma di questa sosta nel porto dove avevo buttato l’ancora, avendo provato anche una certa soddisfazione professionale. La gente con la quale venivamo in contatto era di una sonora gentilezza, alla quale non eravamo da tempo abituati. Derivava forse da antica assuefazione a storica gloriosa usanza di libertà. Le donne poi avevano un aspetto sempre dignitoso e un dialogare musicale ed armonioso.
Poi avvenne, in tempi brevi, quello che forse inconsciamente attendevo da molto tempo e che poteva capitare solo in tale ambiente fiabesco. L’angelo che avevo intravisto alto librato in mezzo alla nebbia ed il sole nascente, al momento dell’arrivo in laguna, sembrò materializzarsi. La Fortuna, proprio quella identificata con la Tyche greca, dispensatrice di abbondanza e benessere, aveva gradito il saluto rivoltole all’entrata in bacino, e volendo ricambiare aveva incrociato i destini. L’incontro avvenne sul ponte degli Scalzi e il comune tragitto si prolungò fino a Rialto. Un angelo biondo veneziano, le ali forse erano ripiegate e coperte da un semplice impermeabile di colore blu scuro. Gli occhi come due laghetti alpini in pieno sole. Un intenso fluido dato e ricevuto con un’onda registrata sul personale disco fisso. Fu inizio di evidente personale disposizione a gettare l’ancora in questo ambiente di sogno che avevo cercato dai tempi della prima giovinezza. Bisognava entrare in questo ciclo che avrebbe sigillato il comune destino per una rotta unica e senza fine... E così avvenne il mio naufragio.
Epilogo
Poi, un giorno di primavera del , mentre stavamo pranzando al ristorante Da Raffaele, presso il Ponte delle ostreghe, la Fortuna mi offerse l’incontro con il poeta che per magnificare Venezia ha formulato la più bella preghiera che per lei sia mai stata scritta. O Dio, quale grande gentilezza abbiamo fatto in passato e dimenticato, perché Tu ci regali questa meraviglia o Dio delle acque? O Dio della notte, quale grande dolore ci destini perché Tu ci compensi così prima che esso ci raggiunga? Ezra Pound
Indice
Memoria di acque lontane di Ivo Prandin
Il tempo e la marea Perdita
Homme libre, toujours tu chériras la mer
Fay Apatimeno
Second mate
Time & Tide
Epilogo
«L’uomo che ha scritto questi racconti di mare può dire “Io ho navigato in tutto il mondo”, e noi pensiamo a un’avventura, a un’impresa sportiva. Invece, come lui stesso testimonia, il suo navigare è stato un lavoro, interessante e anche pericoloso, ma lavoro. Il che non esclude l’avventura – in fondo la giovinezza e la maturità sono avventurose non soltanto sui mari interni e sugli oceani ma anche in terra ferma.»