Damasco e dintorni

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chiara palazzolo

Damasco e dintorni 1987


introduzione di Giuseppe Lupo


H

o conosciuto Chiara Palazzolo nel giugno del 1988, quando la giuria del Premio Teramo, che si avvaleva di importanti nomi (Carlo Bo, Mario Pomilio, Michele Prisco, Silvio Guarnieri, Renato Minore), assegnò a lei e a me il primo posto, ex-aequo, nella sezione autori esordienti. Chiara aveva presentato un racconto dal vago sapore di oriente: Damasco e dintorni. Protagonista era una tartaruga che cercava la via di fuga da una catastrofe, ma in questo suo viaggio di salvezza scopriva paradossalmente la propria fragilità e, come in ogni fiaba che si avvia a diventare apologo, la scrittura interrogava il mondo, si faceva espressione di incertezze, di paradossi, di inquietudini. Quel testo, con una buona dose di simboli, conteneva già la febbre narrativa che avrebbe avvolto i libri successivi, manifestava i segni del futuro lavoro: le allegorie della favola, il senso della fine, la speranza che non tutto sia davvero nulla, polvere, morte, ma che forse qualcosa sopravviva, sia pure sotto forme diverse o sotto la maschera del macabro; elemento, questo, che ha dato il segno alla scrittura più recente e matura, radunata nella trilogia di Mirta-Luna: Non mi uccidere (2005), Strappami il cuore (2006) e Ti porterò nel sangue (2007). Non credo che il racconto del Premio Teramo fosse premonitore di quella che sarebbe stata la vita di Chiara Palazzolo, ma di certo puntava sull’idea che nell’oriente favoloso, in quel crogiolo di razze e di civiltà sognate, andavano trovate le risposte alle insicurezze,

le soluzioni alla crisi. Dall’oriente, insomma, veniva la nostra identità e laggiù saremmo dovuti tornare, come la tartaruga, per scampare all’apocalisse. Negli anni successivi Chiara Palazzolo avrebbe abbandonato questa cifra per incamminarsi in un tipo di narrativa costruita sulla imprevedibilità delle situazioni familiari e adolescenziali, dai colori forti e laceranti, ma non avrebbe perso la fiducia nell’invenzione, in quel gusto seducente che possiedono le sue storie, un po’ tinte di nero, un po’ cimiteriali, comunque misteriose (come il romanzo Nel bosco di Aus, 2011) o giocate sulla scommessa delle cose impossibili (come le gocce di acqua spruzzata sul lavabo che avrebbe indicato il ritorno dei due bimbi morti in I bambini sono tornati, 2003) o lanciate sull’azzardo del fantasy in un’epoca in cui invece domina, forse in maniera fin troppo accentuata, l’attenzione verso una letteratura di denuncia, affondata nel dato reale. Questo credo sia stato il punto di forza della ricerca narrativa di Chiara Palazzolo e anche il segreto che sta a monte del successo. Ripresentare Damasco e dintorni non significa solo risalire alle radici della sua narrativa, ma chiedersi se mai la tartaruga sia giunta a destinazione, domandarsi le ragioni del suo girovagare lento e macchinoso, veder correre il mondo intorno alla sua corazza e provare a la sensazione che da qualche parte ci sia la risposta. Basta avere il coraggio di fermarsi ad ascoltarla.


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La giovane creatura avanzava a mossettine lente e sbilenche lungo l’erta e sassosa parete. Zampettava incerta, abbacinata dal disco solare a picco nel caldo mezzogiorno. Voleva tornare a casa, ma si era un po’ persa tra rocce e anfratti oscuri e cominciava a dubitare della sua capacità d’orientamento acquisita troppo di recente.

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I fili d’erba e le stoppie bruciate dalla calura dell’agosto fiammeggiante le davano noia, impigliandosi continuamente nella piccola corazza. Il sentiero divenne tutto d’un tratto più ripido e scosceso. I movimenti della creaturina, da lenti che erano, si fecero oltremodo guardinghi. Il suo piccolo cuore cominciò a battere a dismisura per lo sforzo e la tensione. Improvvisamente, abbagliata in pieno da un raggio di troppo, la creaturina non vide più nulla, mise una zampetta in fallo e rovinò giù per il dirupo. Svenne.

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Rinvenne che il sole già calava all’orizzonte. Aveva creduto di morire, e invece! Certo, vedeva tutto in modo strano, come sottosopra, ma sicuramente era effetto del brutto volo. Provò quindi a muoversi, ma i suoi tentativi furono del tutto inutili. Ogni sforzo risultava vano e la prospettiva del mondo rimaneva capovolta. Provò a sgambettare con più forza, ma nulla accadde. Piangente, impaurita, la piccola creatura iniziò a implorare Dio affinché la salvasse dalla brutta situazione in cui s’era cacciata per la troppa imprudenza. In realtà — con rimorso stava pensando proprio a questo — fino ad allora la creatura non aveva creduto in nessun Dio, o meglio, come tutte le creature estremamente giovani, non si era mai posta il problema della sua esistenza. Ma adesso! Nella sua situazione! 9


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Solo l’intervento divino poteva salvarla. “Aiutami, aiutami!” improrava sempre più afflitta. La coppia passeggiava nel bosco assaporando un cono gelato e discutendo animatamente. “Guarda là” fece l’uomo, interrompendo la conversazione. La donna seguì il suo sguardo e vide nell’erba fitta una tartaruga di piccole dimensioni rovesciata sul dorso, che agitava trafelata le zampette coriacee. La donna scoppiò a ridere. “Com’è buffa!” esclamò continuando a leccare il suo gelato. “Non c’è animale più stupido” sentenziò l’uomo. “Già la loro lentezza le definisce in tutti sensi. Distolsero quindi lo sguardo e si allontanarono motteggiando le zampette in aria della tartarughina.

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La tartaruga non li vide, come non aveva visto un uomo in vita sua. Lei teneva gli occhi per terra quando camminava. La tartarughina, come tutta la razza delle tartarughe, non sapeva neppure dell’esistenza degli uomini. Ma le vecchie generazioni erano molto religiose. Esausta e sfinita, la tartarughina aveva smesso pure di agitarsi. Oramai attendeva la notte e con essa la morte. Sicuramente infatti sarebbe stata presa da qualche orribile e selvaggio animale notturno. Indifesa com’era, sarebbe stata senz’altro divorata in un sol boccone. “Oh Dio, ti prego — balbettò la povera tartaruga — perchè non mi aiuti?” 13


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“Tu non capisci!” esclamò lo scienziato, camminando a lunghe falcate dinanzi all’allievo. “Il problema dei limiti della scienza si deve completamente reimpostare. “Io credevo...” lo interruppe lo studente disorientato. “Io ti capisco” si addolcì lo scienziato. “Sono stato giovane e confuso anch’io, ma imparerai presto a distinguere. Vedi, questo è un problema di equilibri, non di struttura o misura. Esistono degli “equilibri successivi”, li definirò così, in natura. Tali equilibri vanno rispettati fino al punto in cui non divengano squilibri. Soltando a questo punto si innesca il cambiamento, come rottura dell’ordine precostituito, e quindi la possibilità di modificazione del sistema.” “Ma se lo squilibrio viene provocato — interviene lo studente — qualcuno sta barando!” “La tua giovinezza è pari alla tua miopia — spiegò pazientemente lo scienziato — Nessun equilibrio, se è veramente tale, e quindi non ancora maturo per lo squilibrio, si lascia facilmente provocare... ti faccio un esempio... vedi quella tartaruga rovesciata sul dorso?” Lo studente annuì prontamente. 15


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“Bene — continuò lo scienziato — nessuno la tocchi! Il suo equilibrio naturale, e così quello dell’intero ambiente, viene in questo caso rispettato. Se, per ipotesi, la rimettessimo sulle zampe, il coyote che stasera se ne ciberà non troverebbe più cibo. Innescheremmo quindi una reazione a catena sproporzionata. Chiaro fino a che punto?” Il professore fece una pausa e lo studente si affrettò ad annuire. “Ma se per caso io mi trovassi a passare di qui — riprese lo scienziato — e vedessi “mille” tartarughe rovesciate sul dorso (è capitato, è già capitato in altri luoghi), bene, allora io intervengo, perchè siamo di fronte a uno squilibrio. E a quel punto potrei naturalmente decidere un po’ a modo mio, diciamo arbitrariamente, il nuovo equilibrio. Ma non ho provocato io lo squilibrio!”

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“E se non fosse stato l’ambiente a provocare il fenomeno delle mille tartarughe rovesciate, ma un agente dotato di capacità volitiva?” argomentò argutamente lo studente. Il professore stavolta sorrise di gusto, dandogli un’amichevole pacca sulle spalle. “Di questo parleremo col tempo” rispose con evasiva lungimiranza “Sei un ottimo studente e penso che risponderai perfettamente alle mie aspettative. “Ma voglio prima chiarirti un ulteriore punto...” I due si allontanarono chiacchierando verso il tramonto. “Sono finita” pensò la tartarughina con un nodo alla gola. Il buio stava per calare e la creaturina tremava di freddo e di paura. “Mio Dio — pregò accorata — dammi la forza di sopportare tutto questo”. “Andrea, è tardi — gridò la donna bionda sul limitare del bosco — Dobbiamo tornare a casa” “Vengo, mamma” rispose a un centinaio di metri il piccolo Andrea, che s’attardava a giocare con una coccinella. Depose quindi per terra a malincuore la minuscola compagna di giochi e si avviò verso la madre in attesa. Evitò per un pelo di inciampare in un sacco... ma non era un sacco! Era una piccola tartaruga rovesciata che muoveva lentamente le zampette. “Povera tartarughina, adesso ti aiuto io — esclamò subito il piccolo Andrea, e con un colpetto di mano rimise a posto delicatamente la tartaruga. Le fece un buffetto e si allontanò poi di corsa verso la madre.

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MIRACOLO! Fu il grido che proruppe dalla piccola gola della tartarughina. Incapace di parlare, di muoversi, folgorata sulla via di Damasco, la piccola creatura vacillava sulle zampette. “Dio esiste” continuava a ripetersi come un’ossessa, incapace di pensare ad altro. Calde lacrime di ringraziamento e di pentimento per la sua poca fede caddero tra i fili d’erba, assetati per la gran calura. Infine, calmatasi, la tartarughina riprese il cammino. Ma stavolta i suoi passi erano certi, la sua mente sicura, il suo cuore palpitava incapace di contenere la nuova splendida certezza che vi albergava.

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Senza fretta, ma al contempo senza indugi, ferma per sempre nella sua decisione, la creaturina non andava verso casa. Una nuova meta la attendeva: il monastero della Tartaruga Madre sarebbe stato da allora la sua dimora. Non narreremo del suo cammino per arrivare al monastero, che sarebbe poco interessante raccontare del lento zampettare di una tartarughina minacciata per mesi e mesi, quanti gliene occorsero per raggiungere l’ambita meta. Diremo brevemente che ella infine giunse, in una tarda sera di dicembre, partita nel torrido agosto, in vista delle guglie merlate del monastero. Aveva ormai superato l’atavica tentazione della sua razza di cadere nel letargo invernale e si sentiva leggera e pura come mai. Emozionata ed entusiasta, la giovane tartaruga coprÏ in poche ore i venti lunghi metri che ancora la separavano dall’edificio. Era esausta, ma quasi volava sulla prima, mai vista, soffice neve dell’inverno. 23


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Il suo arrivo in piena notte fu salutato con sorrisi e gentilezze da parte della tartaruga portinaia che la introdusse, malgrado l’orario, al cospetto della vice-Madre. Questa la interrogò brevemente e, ascoltato l’entusiasmante racconto della semplice tartarughina, rispose affermativamente alla sua richiesta di rimanere nel monastero. E fu accolta per sempre. Il giorno dopo, rifocillata e rinfrancata, dopo aver narrato cento volte alle altre tartarughe della sua edificante esperienza, la tartarughina fu accolta negli appartamenti della tartaruga Madre per un colloquio privato. “La Sua mente ha pensato, il Suo cuore ha palpitato, la Sua mano t’ha salvato” spiegò la Tartaruga Madre alla trepidante tartarughina, dopo aver ascoltato attentamente il racconto della disavventura occorsale e del provvidenziale intervento divino, “simile a un terremoto”, che aveva strappato per sempre la tartarughina alla cecità dell’ignoranza. “La Voce ti ha chiamato con rombo di tuono, figlia mia — concluse la Tartaruga Madre e allargò le zampe a ricevere nell’abbraccio la commossa tartarughina. 25


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Quando la tartarughina prese commiato, avviandosi felice verso la nuova vita, la Tartaruga madre non potè fare a mano di reprimere un sorriso. La Tartaruga Madre aveva migliaia di anni. Erano in poche a sapere questo al monastero. Ella riandò indietro con la mente, molto indietro, alla sua prima giovinezza, quasi fosse stata nostalgicamente evocata dall’entusiasmo e dalla certezza che aveva letto negli occhi della giovane creatura da poco accomiatasi. Doveva essere molto “giovane” anche il Dio che l’aveva salvata, pensò ironicamente. I vecchi Dei non si commuovevano più. Lei lo sapeva molto bene. Ma che la tartarughina credesse pure al suo Dio Unico! Molti anni addietro, molti anni prima, migliaia d’anni — com’era giovane allora! — aveva assistito al grande cambiamento di rotta. La necessità storica e sociale aveva costretto i Sommi Padri e le Grandi Madri a “snellire” il politeismo. Il popolo si confondeva, rivaleggiava, viveva nei più oscuri e superstiziosi terrori di alterne e inesorabili vendette divine. Le loro menti semplici non erano assolutamente in grado di afferrare l’idea della Molteplicità e restringerla nella pura sintesi degli Infiniti Uni. 27


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Così. Tutto era stato più semplice dopo: si era spiegato loro, volgarmente, che i numeri sono infiniti, che Dio è Uno, che Dio è infinito. Non era proprio una menzogna, piuttosto una verità “detta non dicendo”, o meglio “non detta pur dicendo”. Era un’enigma fatto Dogma. Ci avevano creduto tutte, perfino le tartarughe miscredenti. Nella chiarità vacillante del tramonto, la Tartaruga Madre aspirò la fresca brezza vespertina. Forse era soltanto una sua impressione — la sua saggezza era ormai tale però che le sue impressioni erano sempre reali e la realtà stessa fatta delle “sue” impressioni — ma la mente, il cuore e la mano erano ormai sovrabbondanti. Forse bisognava iniziare una nuova cura dimagrante. Aveva guardato bene il volto intedetto della tartarughina quando aveva elencato l’agire triplice del suo Dio. E non le era piaciuto affatto quell’attimo di perplessità, di ritardo nella comprensione. Era solo un sintomo naturalmente, e lei poteva “anche” sbagliarsi. Ma sarebbe stato pronta a scommettere la sua antica e pregiata corazza che entro cent’anni la Triplice non avrebbe più trovato spazio di comprensione nelle menti sempre più imbarbarite delle nuove generazioni. Ciò avrebbe creato equivoci e avrebbe allontanato molto tartarughe dal Culto. Ma cosa bisognava salvare: la mente, il cuore, o la mano? “Questo si è un dilemma” pensò acuta ed eccitata la Tartaruga Madre. Ci avrebbe pensato nei prossimi cent’anni. Chiuse quindi gli occhi e s’immerse immediatamente e completamente nella pura e contemplativa interrogazione di se stessa.

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biografia

chiara palazzolo

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Chiara Palazzolo è stata una delle migliori autrici di fantastico italiane. Ha saputo anticipare i trend, non si è adattata al mercato, ma ha scelto di esprimersi, pur nel cambiamento della propria scrittura, in modo originale, distinguendosi per la qualità dei propri scritti. Migliaia di lettori, nel corso della sua carriera, ne hanno colto il raro talento. Speechless vuole ricordarla ancora una volta, ripubblicando un racconto datato 1987. Ringraziamo per questa opportunità di ripubblicazione Anselmo Terminelli, marito di Chiara Palazzolo, che ci ha accordato stima e fiducia. Chiara Palazzolo ha esordito nel 2000 con il romanzo La casa della festa (Marsilio), pubblicando quindi per Piemme I bambini sono tornati (2003). Con la trilogia horror di Mirta-Luna, affascinante eroina dark di Non mi uccidere (2005), Strappami il cuore (2006) e Ti porterò nel sangue (2007), ha ottenuto un grandissimo successo di pubblico e critica. L’ultimo romanzo pubblicato è Nel Bosco di Aus (2011). Per Speechless Magazine ha pubblicato nel 2012 il racconto Ragazza che passa.

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chiara palazzolo

Damasco e dintorni 1987

credits & copyright Damasco e Dintorni Vincitore nel 1987 del Premio Teramo per racconti inediti — Un ringraziamento a Anselmo Terminelli e Giuseppe Lupo — Disegni di Nataly Crollo www.natalycrollo.blogspot.it — Impaginazione grafica di Petra Zari — Pubblicazione a cura di Speechless Books www.speechlessmagazine.com


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