Vietato leggere all’inferno Roberto Gerilli © 2016 A cura di Alessandra Zengo Redazione: Cristiana Melis, Federica Urso Elaborazione grafica di copertina: Denis Pitter Comunicazione: Chiara Chinellato Ufficio Stampa: Pia Ferrara ufficio.stampa@speechlessmagazine.com Speechless Books © 2016 www.speechlessmagazine.com Proprietà letteraria riservata. Vietata la riproduzione, anche parziale, del testo senza specifica autorizzazione.
PREFAZIONE Winter turns to summer Sadness turns to fun Keep the faith, baby You broke the rules and won Ramones, Howling at the Moon – Sha La La
Vietato leggere all’inferno è un romanzo divertente. Perché, vi pare poco? Ancora: è un romanzo spassoso, creato da chi, secondo me, di certo non si è annoiato a scriverlo, e questo, per il bene e la gioia del lettore, traspare da ogni pagina. Se dovessi presentarlo con uno dei famigerati pitch tanto cari al mondo del cinema e ormai anche all’editoria nostrana, non avrei dubbi: un classico impazzito della Vertigo Comics sceneggiato sotto gas esilarante dal figlio illegittimo di Quentin Tarantino e Neil Gaiman. Intendiamoci: Vietato leggere all’inferno è molto di più e funziona a vari livelli. È un romanzo distopico (non spaventatevi, non è Hunger Games, grazie al cielo, o forse è Hunger Games rivisto & corretto dal Garth Ennis di Preacher o da James Gunn, il geniale autore di Guardiani della Galassia, Super e Slither), è una riflessione per nulla superficiale sul ruolo dei libri e della lettura, è una non storia d’amore, è un pezzo di Rob Zombie sparato a manetta lungo la strada dritta per l’inferno, è un videogioco della Rockstar Games, è il sogno a occhi aperti di un nerd di quelli veri (duri
e puri, non i troll da Internet) e parecchio, parecchio altro. Il tutto ambientato non nei soliti Stati Uniti o nell’altrettanto inflazionata Scandinavia, ma in un’Italia fin troppo credibile. E poi, Roberto Gerilli sa imbastire dialoghi scattanti come quelli di un tascabile hard-boiled, tenere alta la tensione e concedersi battute liberatorie che però non scadono mai nella semplice autoparodia. Sputateci sopra. Insomma, come si sarebbe detto una volta, è un gran viaggione, entertainment allo stato puro, e siete vivamente pregati di salire a bordo. Se la gpei (Grande/ Piccola Editoria Italiana, per chi non ama gli acronimi) non si è ancora accorta del talento di Gerilli, non è che una conferma dello stato da Unità di Terapia Intensiva in cui versa, affannata a spacciare bolsi ricalchi dell’ultima hit o libercoli lagnosi che erano già datati vent’anni fa. Oh, peggio per loro. Fuck ‘em and kill’em all, per citare la risposta del compianto Cliff Burton davanti alle perplessità dei discografici per il primo album da studio dei Metallica. Mi fermo qui anche perché in genere le prefazioni vengono saltate a pie’ pari, spesso a ragione. Però non commettete lo stesso errore con il resto del libro. Ah, tra parentesi, vi ho già detto che è divertente?
Giovanni Arduino, luglio 2016
www.giovanniarduino.com
Al Deus ex machina che è arrivato all’improvviso e mi ha cambiato la vita.
PROLOGO Il problema della lettura è che non finisce mai […] da lettura nasce lettura – e proprio questo il punto, no? – e uno che non devia mai da un elenco prestabilito di libri è già intellettualmente morto. Nick Hornby, Shakespeare scriveva per soldi, Guanda (2009), traduzione di Silvia Piraccini
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Mi chiamo Amleto Orciani e sono un libromane. Un nome di merda, lo so, ma ai miei genitori sembrava romantico. “È il libro che declamavamo quando ti abbiamo concepito” mi hanno detto. “Le sue parole hanno scatenato la nostra passione”. Vi sembra una storia da raccontare a un bambino di cinque anni? Antonio e Clara, due maledetti sniffa-inchiostro. Vi lascio immaginare la mia adolescenza infernale. Ho trentacinque anni e mi faccio dall’età di dodici. Ho iniziato per gioco con un paio di amici. Era estate, pioveva e avevo trovato una copia malridotta de L’isola
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del tesoro. Ci siamo messi in circolo e abbiamo fatto girare il romanzo. Nonostante fosse ancora legale, la letteratura aveva già quel non so che di trasgressivo, almeno agli occhi di noi ragazzini. Insomma, abbiamo letto e fatto i fighi. Per i miei amici è durata poco. I genitori li hanno scoperti la sera stessa e la voglia di trasgredire è passata a suon di ceffoni. Io sono stato beccato, proprio mentre rimettevo il libro nell’armadio, ma a differenza degli altri mi sono guadagnato un sorriso compiaciuto e alcuni consigli su come evitare i tagli della carta. Ho iniziato abbastanza riabilitazioni da sapere che non bisogna incolpare gli altri per le nostre debolezze, ma, fanculo, almeno uno scappellotto potevano darmelo, no? Lavoro in un supermercato di bricolage ad Ancona, in zona Baraccola per la precisione. Non è un centro commerciale, solo un capannone. Uno di quei posti in cui pensionati, sociofobici e scoppiati mentali vagano per le corsie in cerca di hobby che li calmino, li distraggano o che riempiano in qualche modo le loro squallide vite. È il regno degli emarginati, e io ne sono l’umile inserviente. Me ne sto in magazzino finché qualcuno non fa cadere una latta d’olio, o rovescia un cestino di bulloni, o si taglia un dito con la sega circolare. “Amleto Orciani è pregato di recarsi nella corsia due” o sette, o undici. Vado e sistemo il casino. Le dita mozzate non capitano spesso, solo una volta a essere onesti, ma avreste dovuto vedere che caos. Sangue ovunque, ci ho messo ore a pulire. È un lavoro di merda, ma con la mia dipendenza non posso trovare di meglio. Non che io sia uno di quelli che barcollano per strada con occhialini da lettura e Moleskine, sia chiaro, però a forza di farmi ho preso il vizio di usare parole che la gente sana non conosce. Non lo faccio apposta. Mi vengono in mente e basta. Mi chiedono come sto e io confesso di avere un’emicra-
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nia, parlo del meteo e mi scappa cumulonembo, discuto di programmi tv e mi viene da criticare il palinsesto. È un bel cazzo di problema, non credete. Se sospettano che sei uno sniffa-inchiostro ti puoi scordare i lavori socialmente cool: niente autosaloni, centri benessere, palestre e negozi di moda. Di prendere i voti per qualche sacerdozio non se ne parla, e quindi rimangono solo i ruoli di inserviente, becchino e barbone. Il governo finge d’interessarsi con le pubblicità progresso (Era un lettore, ma ha smesso. Dagli una seconda occasione, ora è come te), ma poi se ne frega del tuo destino. La mia assuefazione suggerisce paradosso e perbenismo. Vi parlo del lavoro perché è lì che ho conosciuto Eleonora. Me la sono ritrovata di fronte nel settore Cacciaviti & Martelli. Tuta sformata, cappello floscio, occhialoni scuri. Fuori luogo come un congiuntivo nella bocca di un ragazzo. Ha dato un’occhiata a destra e a sinistra, ha fatto un passo verso di me e ha mormorato: «Tu sei Amleto?». Io ho annuito. Non potevo immaginare che due mesi dopo mi sarei ritrovato una pistola puntata alla tempia, il Bibliotecario a pochi centimetri dal viso e le sue parole ronzanti nelle orecchie. «Poiché nessuno sa quel che lascia nel tempo della vita che gli è negato, che importa lasciarlo da giovani?1» Ora vi racconto l’intera storia.
1 William Shakespeare, Amleto, BUR (1975), traduzione di Gabriele Baldini.
PARTE PRIMA
Tutte le sostanze d’abuso, dall’alcol all’eroina, dalla cocaina all’amfetamina, dalla fenciclidina alla nicotina, alla metilendiossiamfetamina (ecstasy), ai barbiturici e alle benzodiazepine, sono in grado di produrre sensazioni piacevoli o di ridurre quelle spiacevoli, di alleviare la tensione e l’ansia, di migliorare l’interazione sociale e l’umore. Gli effetti piacevoli ottenuti con l’assunzione del farmaco sono tuttavia vanificati dai danni, talvolta irreversibili, provocati all’organismo nel corso di ripetute somministrazioni. Tutto questo vale ancor di più per quegli stupefacenti che non trovano alcuna indicazione terapeutica (come l’ecstasy, le amfetamine di sintesi, l’lsd o la letteratura) e che sono presenti solo nel mercato illegale. Ministero della salute – Italia, Che cos’è uno stupefacente
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Capitolo 1
«Io sono Eleonora, piacere.» «Piacere mio.» Rimane in silenzio e io guardo il mio riflesso nei suoi grossi occhiali scuri. Tenuto conto del mio rapporto scopate/due-di-picche, so di essere da sei e mezzo (sette meno meno al massimo), per cui escludo che la ragazza sia qui per chiedermi un appuntamento. Di sicuro non è una tipa interessata al bricolage. Quindi rimane solo un’opzione: è una lettrice. Attendo. «Avrei bisogno di parlarti» mormora. «Lo stai già facendo. Continua.» «No, non qui. Dovrei chiederti delle informazioni… delicate.»
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L’imbarazzo e l’aspetto gradevole mi spingono a inquadrarla come “persona simpatica”. Con il tempo ho imparato che lo è quanto un brufolo sul culo. Le prime impressioni sono spesso ingannevoli. «E perché ti rivolgi a me?» chiedo prudente. «Ho parlato con Matteo e dice che puoi aiutarmi.» «Matteo chi?» «Come?» «Si chiama solo Matteo? Come McGyver?» «Ah, no. Il suo cognome non lo so.» «Conosco tanti Matteo e la maggior parte sono degli stronzi.» «Questo non lo è.» Sorrido, la risposta non è male. «Cavolo, pensavo fosse più facile» continua. «Chi? Matteo?» «No, ottenere le informazioni che cerco.» «Se vuoi qualche consiglio su cacciaviti e martelli è facile. Per altro, sì, è più difficile.» «Va bene, senti, sto parlando di Matteo: alto, biondo, dinoccolato. Ha un piercing all’orecchio sinistro.» Il dinoccolato buttato lì attira la mia attenzione, ma cerco di non darlo a vedere. «Quel Matteo mi sta sulle palle.» Mi piace fare lo stronzo con gli sniffa-inchiostro nervosi. Lei serra la mascella, le labbra sigillate da un silenzio rabbioso. Poi riprende in tono secco. «Vuoi continuare così ancora per molto o possiamo parlare d’affari?» «Okay, sto scherzando» cedo. «Ti manda Matteo. Bene. Vediamoci alle sette e mezzo al parcheggio dell’Ikea. Settore D.» Annuisce e fa per andarsene. «Ehi» la fermo. «Compra qualcosa.» «Come?» Indico gli scaffali che ci circondano. «Ho detto: compra qualcosa.»
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«E perché dovrei? Non mi serve nulla.» «Ci sono telecamere in tutto il locale e tu sei vestita come una cazzo di spia in un film trash anni ’70. Magari è meglio se fingi di essere una cliente, no?» «E se compro un cacciavite pensi sia più credibile?» «Solo un po’.» «Non ho tempo da perdere.» «E io voglio tenermi questo lavoro.» «Sul serio?» «Compra qualcosa e vattene.» Prende un martello dallo scaffale più vicino e si avvia lungo la corsia deserta diretta alle casse. Ha un culo che sembra scolpito nel marmo. Come avrete intuito, Eleonora è una bella ragazza. Alta, slanciata, collo affusolato, gambe toniche. Davanti è piatta come la pianura Padana, ma si muove con fare aggraziato, quasi ferino. Insomma, se siete uomini etero o donne gay, incrociandola per strada vi girereste a guardala, desiderando un incontro ravvicinato sopra un materasso, un tavolo o semplicemente sul pavimento. Se invece siete uomini gay o donne etero, incrociandola per strada vi girereste comunque a guardala, desiderando (con vostro sommo stupore) un incontro ravvicinato sopra un materasso, un tavolo o sul pavimento. Tanta bellezza è però accompagnata da una serie di difetti al cui confronto il lato oscuro di Darth Vader sembra una simpatica imperfezione. Eleonora è maniacale, pazza e, soprattutto, pericolosa. La mia assuefazione suggerisce nociva e squilibrata. Vi voglio raccontare tutto con ordine, senza anticipazioni, ma gradirei fosse chiaro che questa non è una di quelle storie con i cuoricini al posto dei puntini sulle i. Preferirei fingermi morto durante un convegno di necrofili piuttosto che innamorarmi di Eleonora. Dopo che il suo culo è sparito dietro l’angolo, alzo i tacchi e torno in magazzino. Sono le quattro di un mar-
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tedì pomeriggio di fine maggio, ci sono solo una manciata di clienti e non vado in pausa dall’ora di pranzo, per cui avviso il mio supervisore ed esco a fumare una sigaretta. Già, sono un libromane e un fumatore, un vero bad boy. Prendo rapide boccate di nicotina e le trattengo nei polmoni, poi tiro fuori il cellulare e chiamo Matteo. Risponde al terzo squillo, proprio mentre Eleonora sbuca nel parcheggio, a una trentina di metri da me. «Buon pomeriggio, Leto, ben trovato.» Grugnisco. Come se non bastasse il nome di merda, ho anche degli amici stronzi che si divertono a storpiarlo. «Come stai?» chiedo. «La mia esistenza procede senza rilevanti impedimenti, ti ringrazio. La tua?» «Idem. Trovato lavoro?» «Ahimè, non ancora. Ho sostenuto un colloquio per un possibile impiego come assistente scolastico, ma hanno preferito un ex detenuto.» Eleonora cammina con passo deciso, il sacchetto con il martello le oscilla accanto al fianco destro. Raggiunge una Mini nera, fa scattare la serratura automatica e sale. «Non te la prendere» commento distratto. «Oh no, Leto, ormai mi sembra sciocco rimanere amareggiato. Quello che un tempo era dispiacere, ora è diventata abitudine.» Matteo è così assuefatto alla letteratura da essere diventato formale. Non penso che troverà mai un lavoro se non smette di farsi, ma questo non lo dico. «Mi ha cercato una certa Eleonora. La conosci?» chiedo. «Alta e bella?» «Sì.» «È una ragazza che vive al viale. La sua famiglia è benestante e lei è una grande lettrice.» «Non sembra di Ancona.»
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La Mini parte ed esce dal parcheggio. Annoto mentalmente la targa, potrebbe servire. «No, non lo è» conferma Matteo con il solito tono calmo. «È nata e cresciuta a Roma. Si è trasferita nelle terre marchigiane solo da qualche mese.» «Tu come la conosci?» «Ho avuto il piacere d’incontrarla una sera a casa di Luca. Mi ha confidato che preferisce comprare libri interi. Molti libri. Però non ama leggerli in compagnia.» «Cosa vuole da me?» «Non l’ha detto. Cercava qualcuno che l’aiutasse in un affare.» «Mi devo fidare?» «Luca garantisce per lei.» «Ora vado.» «Va bene, Leto. È stato un piacere risentirti.» Chiudo la chiamata. Aspiro l’ultima boccata dalla sigaretta, butto il mozzicone per terra e lo spengo con la scarpa. Rientro nel magazzino, convinto di aver trovato la gallina dalle uova d’oro.
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Capitolo 2
Sono in macchina, stravaccato sul sedile. Motore spento, finestrino abbassato, radio sintonizzata su Virgin. L’orologio digitale indica che Eleonora è in ritardo di sette minuti, la mia pazienza è disposta a concederle altri centottanta secondi. Guardo la gente entrare e uscire dall’enorme capannone blu e giallo. I miei odiano questo posto. Dicono che l’Ikea tenta di standardizzare il nostro ambiente domestico. L’arredamento usato per imbrigliare l’espressione personale. Tutte stronzate. La Mini nera entra nel parcheggio e si ferma proprio sotto il cartello del settore D. Chiudo tutto e scendo.
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Ci incontriamo a metà strada, accanto a una pozzanghera che riflette l’onnipresente logo Ikea. Guardo Eleonora e noto che ha lasciato a casa il suo travestimento da Gola Profonda (penso al Watergate, non al film porno). Avrà ventisei-ventisette anni, non di più, lunghi capelli castani stretti in una coda di cavallo, occhi verdi. Madre natura non le ha fatto mancare nulla. A parte le tette. «Sei in ritardo» dico. «Può essere.» «Può essere un cazzo. Sei in ritardo.» «Tesò calmati, per favore.» Con Eleonora sono tutti “tesò” o “darling”, bisogna abituarsi alla sua paraculaggine. «Okay, sono in ritardo. Scusami. C’era traffico.» «Non m’interessano le tue scuse. Io faccio affari solo con gente affidabile e chi arriva in ritardo non lo è.» «Non succederà di nuovo.» «Bene. Che ti serve?» Lei inarca le sopracciglia e si guarda intorno. Manca solo un rotolacampo in stile western per farvi capire la desolazione che ci circonda. «Ne vuoi parlare qui?» chiede. «Perché no?» «Pensavo fossi un paranoico della sicurezza.» «Io?» «Mi hai fatto sprecare tre euro per un martello.» «Quella è stata prudenza.» «Sì, certo gioia. Come ti pare.» Mi volto e torno verso la macchina. Non ho intenzione di farmi prendere per il culo da una ragazzina viziata. «Dove te ne vai?» chiede. «Via.» «Va bene, va bene. Scusami. In realtà avevo proprio bisogno di un martello.»
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La guardo e resto in silenzio. Lei mi fa cenno di avvicinarmi. «Ho un affare da proporti.» «Allora parla, datti una mossa. Mi sto rompendo le palle.» «Sono la coordinatrice di un gruppo di lettura e avrei bisogno d’aiuto per un progetto.» «Un gruppo di lettura?» «Sì, c’incontriamo, condividiamo i nostri libri e ci sballiamo.» «Quanti siete?» «Venti, compresa me.» «Una mandria di sniffa-inchiostro.» Si stringe nelle spalle. «All’inizio eravamo solo cinque, poi si sono aggiunte le altre.» «Siete tutte donne?» «Sì. Ti sembra strano?» «Non mi sembra, lo è. A meno che non siate le Pony Women.» «Per carità di Dio!» «Vabbè, cosa c’entro io con il vostro gruppo?» «Beh, avremmo un’idea e ci serve qualcuno con i contatti per realizzarla.» Le chiedo dettagli ed Eleonora mi riversa addosso un’ondata gargantuesca di parole. Parla, parla e parla ancora, entusiasta. Gesticola, sorride. Gli occhi le brillano come ai ragazzini quando parlano di… cosa va di moda adesso? Vabbè insomma, immaginatevi una bambina che parla del suo cartone animato preferito: sguardo sognante, guance imporporate e fiato corto. Eleonora è così, solo che parla di un fottuto progetto criminale. Il mondo dell’editoria è così pericoloso che nemmeno Satana vorrebbe averci a che fare. La leggenda narra che dopo la strage di San Francesco decine di editori finirono all’inferno. Vennero torturati dai demoni, e poi condannati al supplizio della stilografica infernale, at-
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traverso cui il re degli inferi in persona incideva le loro carni con inchiostro infuocato. Gli editori accettarono la pena senza proteste. Poi, quando tutti i loro corpi furono ricoperti dalle annotazioni del sovrano diabolico, si scuoiarono a vicenda e distribuirono le loro pelli in tutti i gironi infernali. Poche ore e metà delle legioni demoniache barcollava tra le zaffate di zolfo, cercando un’altra dose di lettura. Satana dovette aprire un centro di recupero per demoni e disseminare tutto il regno con i cartelli: Vietato Leggere all’Inferno. Okay, è solo una storiella, ma secondo voi perché è nata? Gli editori sono spietati e letali. Sono decenni ormai che combattono quotidianamente e in clandestinità per pubblicare e distribuire libri. Hanno dovuto affrontare la Guardia di Finanza, e resistere a missioni sotto copertura, retate e arresti di massa. Se si fossero fatti scrupoli ora le strade sarebbero vuote e senza romanzi. Io sono cresciuto ai confini di questo mondo. Antonio e Clara sono sciroccati, ma almeno hanno evitato di rimanere invischiati in situazioni pericolose. Molti amici di famiglia non sono stati altrettanto scaltri. Ero troppo piccolo per comprendere “i discorsi da grandi”, ma dopo essere andato a trovare parecchi di loro in ospedale per “misteriosi” incidenti e dopo aver assistito a tre funerali in pochi mesi ho capito che il mondo dell’editoria non andava d’accordo con la mia inguaribile voglia di vivere (a lungo). Poi arriva Eleonora che con lo sguardo incantato e il sorriso sognante ti chiede: «Vuoi aiutarmi a fondare una casa editrice clandestina?». «Fanculo» rispondo. Lei aggrotta la fronte e sbatte le palpebre un paio di volte, come se avessi rifiutato il biglietto vincente della lotteria. «Scusami, devo essermi espressa male. Ho bisogno…»
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«Lascia perdere» la interrompo. «Ho capito quello di cui hai bisogno, si chiama psicoterapeuta. E la mia risposta è: vaffanculo. È un mondo che non voglio conoscere, e non dovresti farlo nemmeno tu.» «No, no, è evidente che non hai capito. Non si tratta di spacciare qualche libro, si tratta di cambiare la società. Una rivoluzione.» «Senti, questo è un mondo libero. Se tu vuoi essere la maledetta Che Guevara di tutti gli stramaledetti lettori del mondo, fa un po’ come cazzo ti pare. Io, tra una fabbrica cinese di magliette che sfrutta il mio volto di martire per far soldi e una vecchiaia tranquilla in un ospizio, preferisco di gran lunga la seconda opzione. Morire da ottuagenario dopo un pompino ricevuto da una gentile infermiera, cosa c’è di meglio?» Eleonora mi guarda inorridita, ma non demorde. «Tesò, il tuo disgustoso concetto di vita non m’interessa. Ho bisogno di te e sono disposta a pagarti bene.» «Trovati un altro fesso, tesoro.» «No, a quanto dicono tutti tu sei l’ultimo fesso, o almeno l’unico che non sia già pagato da qualche editore.» Sorrido. «E sto bene così, grazie.» «Ho detto che ti posso pagare adeguatamente, hai sentito?» «Senti…» Alza una mano e mi ferma. Tira fuori dalla tasca dei pantaloni un foglietto bianco ripiegato in quattro. Me lo porge. Dentro c’è scritta una cifra. Una serie di numeri scarabocchiati senza cura che hanno il potere di togliermi il fiato. Non dirò l’importo, non voglio che sappiate quale prezzo attribuisco alla mia vita. La mia assuefazione suggerisce pennivendolo e meretrice.
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Capitolo 3
Quando ho compiuto diciotto anni, Antonio e Clara mi hanno comprato una torta. Alla frutta. Ho sempre pensato che se bisogna mangiare una torta alla frutta tanto vale comprare una macedonia, ma Antonio e Clara dicono che gli zuccheri raffinati fanno male all’organismo. Capite l’assurdità? Mi hanno stressato l’anima con le loro filippiche contro gli zuccheri e i grandi magazzini, per non parlare della caffeina e dell’alcol, ma mai una parola contro la letteratura! Non cerco scusanti, però… vabbè, torniamo alla storia. Ho compiuto diciotto anni e mi sono ritrovato seduto di fronte a una maledetta torta alla frutta con tanto
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di candeline accese. Soffio, fumo nell’aria, applausi accennati e sorrisi tirati sui volti dei miei. Per regalo un libro (ovviamente) e una notizia inaspettata. «Dobbiamo parlarti» dicono. «Non eravamo certi, ma abbiamo deciso che è meglio così» affermano. «Tu ormai sei grande e non hai più bisogno di noi» ipotizzano. «E dopo quello che è successo a Londra…» contestualizzano. Per farla breve, hanno capito che per i libromani si prospettava un futuro molto arduo e si sono trasferiti in una comune di lettori. Vivono in un vecchio parco giochi con altri hippie come loro. Coltivano la terra, fanno yoga, giocano a Scrabble e leggono. Saranno un centinaio, tra cui anche qualche ragazzino che ha avuto la sfiga di nascere lì. A me non hanno mai nemmeno chiesto di raggiungerli. Dicono che quando sarò pronto lo farò senza bisogno di essere invitato. Devo ancora capire se sono stati loro a crescere me o io a crescere loro. Mi hanno lasciato l’appartamento nel centro di Ancona, un gruzzoletto di denaro a malapena sufficiente per farmi finire le superiori senza lavorare e uno scatolone pieno di classici, giusto per non perdere il vizio. Ho speso i soldi. Poi ho venduto la casa e mi sono trasferito in una delle città dormitorio nei dintorni, Falconara Marittima. Ho speso anche i soldi della casa. Da vendere rimanevano soltanto i libri, ma la mia dipendenza ha suggerito: trovati un lavoro, stronzo. Così l’ho fatto, ma il bisogno di soldi è diventato cronico. “Per una cifra del genere potrei anche decidere di rischiare. Do una svolta alla mia vita, volto pagina, mi sistemo.” Sto seduto sulla mia poltrona sfondata, stringo il bigliettino bianco e mi racconto tutte queste cazzate per convincermi di aver fatto la scelta giusta. Sono un funambolo dell’autoconvincimento, purtroppo.
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Squilla il citofono. Mi alzo, sollevo la cornetta, dico «Arrivo». Vado in bagno e butto il foglietto nel water. Lo osservo mentre scivola nella porcellana e finisce nel mio piscio. S’inzuppa, ma la cifra rimane visibile. Tiro lo sciacquone e gli ultimi dubbi finiscono nelle fogne di Falconara. Da qualche parte, là sotto, ci sarà un coccodrillo albino che li troverà e penserà: “Amleto è un coglione”. Lavo le mani, le asciugo, prendo le chiavi ed esco.
Giacomo guida veloce sulla Flaminia e parla dei problemi che ha sul lavoro. Una qualche discussione con il capo riguardo a ferie e permessi, o qualcosa di simile. Non seguo molto il discorso. Sono troppo concentrato a stringere la maniglia appendiabiti e puntellare i piedi sulla carrozzeria. Giax è un caro amico, ma ha la pericolosa abitudine di sbattersene dei limiti di velocità. Guida sportiva, la chiama. In più è uno di quelli che quando parla si gira verso di te. Per cui preme l’acceleratore e non guarda la strada. Un’accoppiata che prima o poi ti fotte, non ci sono dubbi. «Capisci che stronzo?» chiede mentre sorpassa con la doppia linea. «Ah-ah» faccio io. «Per cui niente socio, la vacanza mi va a puttane» e brucia uno stop. «Ah-ah.» «Mi ci rode il culo perché avevamo organizzato tutto» e accelera per sfruttare il giallo del semaforo. «Ah-ah.» «Era rosso?» chiede. «Forse solo un po’.» Scoppia a ridere e non rallenta. Voliamo sulla statale, superiamo la stazione ferroviaria di Ancona e la Mole
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Vanvitelliana, ci infiliamo nella galleria San Martino ed eccoci parcheggiati a piazza Pertini. Un viaggio di dieci minuti ricco di frenate, strombazzate, accelerazioni e avvisi di morte imminente urlati dal mio cervello. Tuttavia, quando Giacomo spegne il motore, siamo ancora vivi. Incredibile. Scendiamo dalla macchina e attraversiamo la piazza, passando accanto all’enorme culo del rinoceronte bronzeo. Tutti i martedì sera io e Giacomo andiamo al Donegal, un Irish pub tanto classico da rasentare il cliché. Oltre alle luci soffuse, ai rivestimenti di legno, alle sedie traballanti e ai tavoli rovinati ad arte, ci sono birra, stuzzichini vari e dolci. Ogni tanto c’è anche qualche gruppo che suona dal vivo. Non il martedì, però. Il martedì ci siamo solo noi, il barista che ci serve una Hoegarden (per me) e una Guinness (per Giax) e il cameriere che ci porta qualche salatino e una zuppa inglese (ancora per me). «Tu che mi racconti socio?» «Ho bisogno di qualche informazione» rispondo a bocca piena. «Spara.» «Mi hanno ingaggiato per un lavoretto e devo trovare un mucchio di carta e qualche litro d’inchiostro per stampanti.» «Roba seria.» «Diciamo di sì. Il Losco è ancora in affari?» «No, è sparito. Qualcuno gli ha fatto saltare in aria la macchina e lui se l’è svignata.» «Cazzo.» «Già.» La mia forchetta prende un po’ di panna dal bordo del piatto e poi affonda tra gli strati di zuppa inglese. Chiudo gli occhi e assaporo il boccone. «Per cosa ti serve il materiale?» «Potrei dover produrre qualche libro» rispondo dopo aver ingoiato.
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«Cazzo, socio, sei sicuro di quello che fai?» Annuisco. «Mi ha contattato una certa Eleonora, una ragazza con la testa piena di ideali e le tasche traboccanti soldi. Ha un gruppo di amiche lettrici e vuole provare l’ebrezza dell’editoria. Mi faccio pagare e poi le lascio al loro destino.» Se pensate che dovrei tenere un riserbo maggiore riguardo ai miei affari illegali, anticipo le vostre obbiezioni assicurandovi che la lealtà di Giacomo non è in discussione. L’ho conosciuto una decina di anni fa durante il mio secondo tentativo di disintossicazione. Uscivo con una strafiga che non apprezzava il lato letterario della mia personalità e si era convinta di potermi cambiare. Avete presente quelle rompicoglioni che cercano di salvare gli uomini da cui amano essere sbattute? Insomma, era da poco passata la legge anti-letteratura, erano spuntate centinaia di cliniche riabilitative e la strafiga era riuscita a strapparmi una promessa pre-coito: «Sì, certo cara. Voglio smettere di leggere. Prima però scopiamo, okay?» Finito l’amplesso sono riuscito a evitare la clinica, ma sono stato costretto a frequentare un’Anonima Lettori tenuta da un prete sessualmente ambiguo. Sono convinto che avesse adocchiato il mio culo per scopi tutt’altro che cristiani, ma ora non è importante. Sono andato a questo incontro e ho trovato Giacomo. Se ne stava stravaccato su una sedia, in disparte. Vestiti sgualciti, barba incolta, sguardo annoiato. Non mi ricordo bene come, ma ci siamo messi a parlare. Era stato fermato da una pattuglia per eccesso di velocità e gli avevano trovato nella giacca un tascabile di Asimov. Il padre è avvocato quindi aveva evitato l’incriminazione, ma Giax era stato costretto a disintossicarsi. Abbiamo seguito gli incontri insieme, parlando di fantascienza sottovoce, mentre il prete recitava i suoi sermoni e ogni tanto mi faceva l’occhiolino. Siamo di-
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ventati amici e in questi anni ci siamo più volte salvati il culo a vicenda. Giacomo è un guru dell’informatica. Vede la fottuta Matrice. Non può ancora piegare cucchiai e schivare pallottole, ma è il cazzo di prescelto dello spionaggio telematico. «Per le stampanti non ho problemi», dico masticando un altro boccone di zuppa inglese, «ma per carta e inchiostro…» «La finanza controlla tutti gli acquisti sospetti.» «Già.» Rimane qualche secondo in silenzio poi sorride. «Forse ho la soluzione che fa per te.» «Dimmi.» «Le ex cartiere di Fabriano.» «Ma non sono abbandonate?» «Esatto. La produzione ha chiuso dopo lo scandalo e sul proprietario pende ancora l’accusa per favoreggiamento del traffico di libri. Le scorte di carta che avevano in magazzino sono state sequestrate, ma i dati non combaciano.» «In che senso?» «Ho confrontato le quantità dichiarate dalla finanza e quelle acquistate dalla fabbrica e… non hanno trovato tutta la carta.» La forchetta si ferma a mezz’aria. «Cazzo.» «Già.» «Ma come fai a sapere tutte queste cose?» «Sono lì, nella rete, basta sapere dove guardare.» L’ho già detto che Giacomo è lo stramaledetto prescelto? Keanu “Neo” Reeves può bellamente fargli una pippa! «Ormai però sono passati più di due mesi dallo scandalo. Sicuro che qualcuno non abbia trovato la carta?» Sorride e annuisce. «C’è un intero magazzino nascosto sottoterra e gli unici che lo sanno sono dovu-
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ti fuggire all’estero. Magari prima o poi manderanno qualcuno a prendere tutto, ma non è ancora successo.» «E gli operai che l’hanno costruito o che ci lavorano?» «Fidati di me. Per costruirlo hanno usato manodopera straniera che alla fine dei lavori è tornata in patria. E lì dentro non ci lavorava nessuno. Era una specie di assicurazione. Quei fabrianesi erano efficienti e paranoici.» La forchetta fa un altro giro: panna, zuppa inglese, bocca. Mastico e rimango in silenzio. Ingoio. «Cazzo.» «Già.» La mia assuefazione suggerisce tripudio e opulenza. Bevo un sorso di birra. «Mi devo organizzare un po’, ma credo di potercela fare.» Giacomo mi guarda perplesso e scuote la testa. «No, socio, ci siamo capiti male.» La birra mi va di traverso. Tossisco. «Cosa?» «Ho già venduto l’informazione ad altri.» «E che cazzo aspettavi a dirmelo?» urlo. Il barista e il cameriere mi guardano accigliati. Alzo una mano per scusarmi e mi sporgo sul tavolo verso il mio amico. «Perché non me lo hai detto subito?» sibilo. Giax mugugna qualche scusa e poi beve la sua Guiness. Io finisco il dolce e mi calmo. «Okay, scusami» dico. «No, socio, scusa tu. Non pensavo che volessi fare il colpo di persona.» «E allora perché me ne hai parlato?» «Beh, era per dirti che conosco della gente che presto avrà quello che cerchi.» Già, molto più logico in effetti. Mi sento un coglione. È bastata l’offerta di una viziata figlia di papà per farmi credere di essere il nuovo don Corleone. Fanculo il mio ego.
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Capitolo 4
Una settimana dopo sono nel reparto giardinaggio a pulire il piscio di un vecchio incontinente che ha scambiato un tosaerba per un cesso, quando la mia chiappa destra inizia a vibrare. Tiro fuori il cellulare e rispondo. È Eleonora. «Gioia, voglio presentarti le mie compagne.» Le chiama proprio così “compagne” e io non posso evitare di risponderle: «Spasibo tovarish2». Lei non
2 Espressione risalente al periodo comunista della Russia. “Grazie compagno”.
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coglie, quindi improvviso un ringraziamento sarcasmo-free e continuo ad ascoltarla. Ha organizzato una riunione del suo gruppo di lettura e vuole che partecipi anch’io. Accetto e chiudo la chiamata. L’appuntamento è per quella sera stessa, in un casolare vicino Genga, nell’entro-entroterra dell’anconetano. Un posto dimenticato da Dio, scelto per un desiderio paranoico d’anonimato. Non sia mai che i plutocratici fascisti-capitalisti ci scoprano, giusto? Lascio il mocho nella pozza di urina, fingo di star male e mi prendo il pomeriggio libero. Nonostante l’anima da bad boy, sono un ragazzo educato e so che non è appropriato presentarsi a una cena senza almeno una bottiglia di vino. Falconara non offre molto per cui punto il muso scalcagnato della mia Alfa 146 verso sud e raggiungo il nuovo e scintillante Pray & Buy. Quando è stato inaugurato è diventato meta di pellegrinaggi consumistici, ma sono bastati sei mesi per dimenticarsi della sua fama. Gli anconetani si stancano presto delle novità. Se non avete mai visitato un Pray & Buy, non è che vi siate persi molto. Ci sono chiese, solarium e qualche negozietto di brand fashion. Per carità, le cascatelle artificiali e le colonne di marmo sono d’effetto, però per il resto non è che sia molto diverso da qualsiasi altro centro commerciale. A parte l’enorme fonte battesimale, ovviamente. Parcheggio, varco le porte scorrevoli e vengo circondato dal consueto branco di volantinari sacri. Ci sono un sacco di cristiani (cattolici, protestanti, anglicani, ortodossi, episcopali, evangelici e via dicendo), ma anche musulmani, ebrei, buddisti e induisti. Tutti interessati a convertirmi e tutti pronti a gareggiare per il simbolo sacro più lungo. Dopo la legge Montag, nelle Marche la religione è
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diventata di moda. Chi professava già una fede è stato colto dall’esaltazione divina, mentre per gli altri c’è stata la corsa alla conversione. Alcuni dicono che è il ritorno alla spiritualità dopo la caduta della cultura, la falsa dea. Altri che è il sintomo più evidente dell’imbarbarimento della società. Non so chi abbia ragione, e non è che me ne freghi molto, ma secondo me la gente non si inginocchia di fronte a Dio quanto piuttosto alla tessera Lettore di fede: i libri sacri sono una lagna, ma almeno sono legali. «Meglio leggere la Bibbia che essere un libromane» l’ho sentito dire da un ex compagno di liceo. Come se qualche Dio potesse cancellarmi dal registro per sniffa-inchiostro in cui mi hanno schedato. L’enoteca che cerco è strizzata tra un solarium ultratecnologico e una chiesa cristiana di qualche tipo. Eleonora non mi ha detto il menù della serata per cui opto per una bottiglia di rosso, Lacrima di Morro, e una di bianco, Verdicchio dei Castelli di Jesi. Pago in contanti e scopro che con la tessera Lettore di fede avrei lo sconto su tutti i negozi del Pray & Buy. Rimango immobile per qualche istante in attesa di una folgorante conversione divina, ma l’unica cosa che sento è un rutto che mi sale per l’esofago. Esco.
Piove. Un maledetto diluvio. A Falconara era bel tempo. Ho fatto una doccia, ho letto un paio di capitoli di Shining e poi ho guardato fuori dalla finestra: tutto sole e niente nuvole, il cliché della primavera. Ero “moderatamente felice”. Dopo nemmeno quaranta minuti sono in questo posto dimenticato anche da Google Maps, nel bel mezzo di un diluvio, strafatto di horror e con le Converse di tela ai piedi. Sono incazzato. Quelle rivoluzionare dei miei coglioni potevano affittare una saletta privata in un ristorante al centro di
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Ancona, ma no, cazzo, no! E se poi qualcuno le avesse viste con un poco di buono come me? No, meglio perdersi tra le montagne marchigiane durante un nubifragio. Tutto molto più sicuro. Avrei voglia di chiamare la finanza e mandare a fanculo loro, questo posto sperduto, il diluvio universale e le mie scarpe di tela. Devo pensare alle mazzette di banconote che saltano lo steccato e cadono nelle mie tasche per riuscire a calmarmi. Mi fermo nella piazzola di un benzinaio e cerco di capire dove sono. Tra un passaggio dei tergicristalli e l’altro, vedo il cancello di una fabbrica, la strada, tanti alberi e monti tutt’intorno a me. Nient’altro, cazzo! Guardo il cellulare e ovviamente ho solo una tacca di campo. Provo lo stesso, tanto non ho molte alternative. Un paio di squilli, alcuni crepitii e poi silenzio. Riprovo. Stessa storia. Riprovo ancora e questa volta sento la voce di Eleonora. «Darling, …ei in …itardo?» «Darling un cazzo, dove siete?» «Come? Non ti sento.» «Dove. Cazzo. Siete?» Sento una risata. «Tesò, ti sei pe…o?» Bum! Bum! Qualcuno bussa al finestrino del passeggero e per poco non ci rimango secco. Sobbalzo, mi giro di scatto e arretro sul sedile sbattendo la testa sul telaio della macchina. Il cellulare mi scivola di mano e finisce tra i pedali. Il benzinaio sta chinato di fronte al vetro (non capisco se volontariamente o per il peso della pioggia). Mi fa cenni strani. Abbasso un po’ il finestrino e l’acqua inizia subito a bagnare il sedile. «Allora?» chiede. «Allora cosa?» «Quanto ti faccio?»
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È una cazzo di scena tipica. Io gli dico che mi sono fermato solo per chiamare e quello tira fuori un’ascia e mi sbudella. Magari è solo colpa di Shining, ma sono quasi certo di vedere l’ombra dell’ascia. Ha il manico lungo e la lama affilata, lo so. «Il pieno» dico, schiacciando il pulsante che apre il serbatoio. Quello annuisce e va verso la pompa. Io alzo il finestrino e cerco il cellulare. La chiamata è stata interrotta quindi ritento la sorte. Squilli. Risposta. «Gioia ma dove eri finito? Non sentivo più nulla.» «Lascia stare. Sono in un benzinaio e non so…» Bum! Bum! Un altro salto sul sedile, un’altra capocciata sul telaio. L’uomo è tornato di fronte al finestrino. È sempre più bagnato e incazzato. E io so che ha in mano un’ascia. Lo so, cazzo. Non è perché sono strafatto. Cioè, magari sì. Dentro il petto ho Dave Grohl che martella un assolo sul mio cuore. «Che succede?» «Aspetta.» Abbasso il finestrino. «Devi spostarti.» «Come?» «Ti sei fermato sul tubo della pompa, coglione. Devi spostarti.» «Chi è che ti ha dato del coglione?» chiede Eleonora dal telefono. «Fa’ silenzio» le dico. «Come?» chiede il tizio incazzato. «No, non tu. Sono al telefono.» «Ti sposti o no?» Avvio il motore, mi sposto di un metro, spengo. Eleonora è ancora in linea. «Sono in un benzinaio di fronte a un cancello» dico.
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«Allora sei arrivato, caro. Prendi la prima sterrata a destra e ci sei.» «Sterrata?» Ride. Chiudo la telefonata. Fanculo a queste paranoiche di merda. Il benzinaio torna di fronte al finestrino. «Quant’è?» chiedo. «Cinquanta.» Gli porgo i soldi. «Mi scusi per lo spiacevole inconveniente del tubo.» Non risponde. Poi si allontana e mugugna «Fottuto lettore del cazzo». Non vedo l’ascia, ma so che non è lontana.
Il casolare è un edificio di campagna a due piani, con tanto di stalla trasformata in garage. È stato rimesso a nuovo da poco e all’interno c’è ancora quell’odore di vernice misto a lacca per i mobili che fa tanto casa vacanza. Al piano terra ci sono un grande salone e un bagno, di sopra le camere. Affittare questo posto non sarà stato economico. Quando arrivo la tavola è imbandita, l’atmosfera festosa. Più che un incontro cospiratorio di lettrici, sembra la riunione del club di cucito, ma c’era da aspettarselo. Le “compagne” sono tante, troppe. Serena, Erika, Sabrina, Silvia, Claudia, Elena, Chiara, Cinzia, un’altra Chiara, Fiorenza, e poi smetto di ascoltare. Eleonora me le presenta tutte, ma è impossibile distinguerle. Sono venti donne giunte da tutta Italia che sorridono, mettono in mostra l’abbronzatura e parlano di mariti, amanti, figli, ricette e, ovviamente, libri. Sono finito in un dannato gruppo di casalinghe disperate che leggono per dare verve alla vita matrimoniale. Alcune sono
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più sfrontate e non si vergognano della loro dipendenza, altre riescono a dire romanzo solo distogliendo lo sguardo e abbassando la voce. La cena è ottima, ma riesco solo a sbocconcellare qualcosa qua e là. Sono l’ospite della serata (o il piatto forte del menù?) e tutte le “compagne” mi tempestano di domande assurde su quel “misterioso” mondo della criminalità di cui, secondo loro, sono un habitué. Ai loro occhi sono il cicerone-tossico che le guiderà nel lato oscuro della società. Preferirei vestirmi da mago imperiale del Ku Klux Klan e presentarmi a casa di un gangsta-rapper afroamericano portando in dono un crocifisso fiammeggiante, piuttosto che fare da balia a queste donnette sorridenti. Ma penso che questo compito ingrato sia compreso nel mio prezzo. Le ragazze si alzano a turno per andare a leggere qualcosa nell’altra stanza, mentre io resto incollato alla sedia a parlare di editori, librai e stampatori. Poi prende la parola Eleonora e le altre fanno silenzio. La leader maxima è pronta a dominare le folle. «Amiche, compagne, lettrici. Datemi solo un minuto e poi potremo continuare questa piacevole serata. Vi sono grata per essere venute qua, oggi, e mi sento in dovere di darvi una spiegazione sul progetto che voglio condividere con voi. Noi siamo lettrici. Siamo appagate dalle nostre vite, ma al contempo sentiamo la necessità di chiuderci in bagno, o nasconderci nello scantinato e in soffitta, per leggere paragrafi, capitoli o anche interi romanzi. Perché lo facciamo? Siamo solo delle vittime? La legge ci definisce libromani, i bigotti ci chiamano sniffa-inchiostro o mangialibri. Ma voi, tutte voi, pensate di avere qualcosa in comune con i disperati che barcollano nei vicoli maleodoranti in cerca di una dose? No, non credo proprio. Noi amiamo leggere, apprezziamo la buona scrittura, ci emozioniamo di fronte alle storie ben costruite. Noi non ci accontentia-
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mo di romanzi di quarta categoria. Pensate di essere le uniche? Credete che fuori da questa stanza non ci siano altri lettori che condividano la nostra passione? Non è così. Non siamo sole! Ci sono milioni di appassionati che vorrebbero leggere un buon libro, ma si devono accontentare di romanzetti scialbi distribuiti da editori senza scrupoli. Un’opera nuova e creativa è una merce troppo pura per essere spacciata. Pericolosa. Meglio far soldi con i soliti romanzacci e tenere i manoscritti più originali in cassaforte. È così che funziona il mercato nero. Ma possiamo cambiarlo. Noi, tutte noi, possiamo unire le nostre forze e scrivere qualcosa di unico. Un romanzo bello da leggere, che trasmetta un messaggio. Un libro che non abbia solo lo scopo di dare un momentaneo sollievo all’assuefazione dei lettori, ma che li faccia riflettere e che rimanga per sempre nella loro mente. Basta scrivere per vendere, basta leggere… tanto per sballarsi. È arrivato il momento di cambiare le cose. È tempo che i lettori alzino la voce e gridino tutto il loro sdegno!» L’applauso è unanime. Già, anche da parte mia. La ragazza è brava a infuocare gli animi, bisogna ammetterlo. I suoi scopi sono tanto nobili quanto utopistici, però coinvolgono. Sono parole pronunciate da una pazza megalomane, però trascinano gli ascoltatori. Ed è così che rimango fregato.
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Capitolo 5
L’indomani mattina, quando le mie sinapsi sono ancora in letargo, Giax mi manda un sms: i tipi del furto alla cartiera mi aspettano alle undici di sera al Passetto, proprio sotto il Monumento ai caduti. Conclude con un devi essere puntuale. Scritto proprio così, tutto in maiuscolo. Una raccomandazione che suona come un avvertimento. Non si vive a lungo nel sottobosco dell’editoria se si trascurano i pochi avvisi concessi. Vorrei poter dire di essere un duro alla John McClane, ma la canotta bianca non mi dona e al pensiero di attaccarmi la pistola sulla schiena con il nastro adesivo mi vengono i brividi. Strapparsi i peli con lo scotch è
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traumatico. E poi non ho un buon rapporto con le pistole. Non che sia contro le armi, tutt’altro. È che ho una mira pessima. Preferisco affidare la mia protezione a chi le sa usare bene. Mi alzo dal divano, faccio un metro e mi siedo al tavolo di fronte al portatile. Mi sono dato malato, per cui niente lavoro. Ho chiamato il mio capo, ho tossito un paio di volte, poi ho spedito via e-mail un certificato medico. Diagnosi finta: bronchite. Diagnosi reale: attacco acuto di pigrizia. Avvio Skype e cerco il contatto della mia guardia del corpo: BulletPussy. Clicco il pulsante della video-chiamata e dopo alcuni squilli mi ritrovo a guardare le magnifiche tette di Caterina. «Merda Cate, non puoi coprirti?» «Ohi, ciao Amleto. Aspetta alzo la webcam.» «No, Cristo, mettiti qualcosa addosso. Non voglio passare il tempo a cercare di sbirciare oltre l’inquadratura.» «Ma voi uomini pensate mai ad altro?» «Ringrazia il cielo che non sia così, altrimenti dovresti trovarti un lavoro vero.» Mi manda a quel paese ed esce dallo schermo andando in cerca di una maglietta. Caterina è una camgirl: si spoglia di fronte a una videocamera e fa felici tutti quelli che hanno abbastanza soldi da potersi permettere lo spettacolino. Non fa incontri o sesso a pagamento. Sfrutta il suo corpo perfetto per svuotare le tasche digitali di ricchi depravati. Lo chiamano sesso virtuale e in pratica significa farsi le seghe di fronte alla telecamera. Erotismo post reality show. A ogni modo, il mercato del sesso virtuale è molto vasto e redditizio. Cate è specializzata nel military porn, o army porn… non ricordo mai il nome preciso. In sostanza fa dei video in cui si struscia nuda contro
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mitragliatori, bazooka e tutta una lunga serie di armi falliche. C’è gente che si eccita parecchio con queste cose. E paga. Profumatamente. Una ragazza potrebbe vivere felice con un lavoro del genere, ma non Cate. Lei ha uno stile di vita dispendioso, motivo per il quale ha deciso di trovarsi un impiego secondario: uccidere la gente. La cosa buffa, almeno a quanto dice, è che i clienti che la vogliono vedere nuda non cercano mai di mercanteggiare sul prezzo, mentre quelli che vogliono eliminare qualcuno provano sempre a chiedere lo sconto. Caterina torna dentro l’inquadratura e mi mostra una maglietta nera con stampata la faccia pelosa e sorridente di Chewbacca che indossa un paio di grossi occhiali da sole a goccia. «Così va bene?» «Molto meglio. Grazie.» Alza la cam, si sistema con le mani il suo caschetto di capelli neri e poi fissa gli occhi azzurri sull’obiettivo. «Te l’ho fatto venire duro?» sorride maliziosa. La ignoro. «Stasera devo andare a un incontro e ho bisogno di qualcuno che mi guardi le spalle. Sei disponibile?» «Certo, mio principe.» Sempre a sfottermi per il mio nome. «Ci sarà da ballare?» «No, dovrebbe essere un affare semplice. Loro vendono e io compro.» «Ma tu preferisci pararti il culo…» «Non li conosco. Meglio essere prudenti.» Annuisce. «Ricevuto. Passerò la serata a guardare il tuo sederino.» «Ti passo a prendere alle dieci, così abbiamo anche il tempo per un sopralluogo.» «E quello per una sveltina?» «A stasera» e chiudo la videochiamata. Se ve lo state chiedendo… Caterina è lesbica. Le pia-
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ce tormentarmi con la storia del sesso perché al liceo ho fatto l’errore di dirle che l’amavo. Facevo il secondo anno e lei era una matricola, una gran gnocca di matricola. Erano i tempi in cui credevo ancora che il mondo fosse un bel posto per metter su famiglia, per cui le avevo chiesto di uscire. Dopo qualche appuntamento ero convinto di aver trovato la donna della mia vita e le ho detto quello che pensavo. Lei è scoppiata a ridere e ha detto: «Guarda che sono lesbica». Una bella fregatura.
Passo il resto della mattinata a vegetare tra il divano e la scrivania, tra la televisione e il computer. Detta così sembra che casa mia sia molto spaziosa, ma in realtà sono solo due stanze più il bagno. Quarantacinque metri quadrati mal arredati e pieni di cianfrusaglie che mi scordo di buttare. Però ho un bel televisore da quarantadue pollici attaccato a una parete, un computer portatile pompato da giga-roba-che-non-capisco e, soprattutto, una mansarda segreta. Sul soffitto del minuscolo corridoio tra il bagno e la camera da letto, c’è infatti una porticina, nascosta da un pannello scorrevole. Aprendola si può estrarre una scaletta traballante che, con pochi sforzi, è allungabile fino al pavimento. Ammetto che, appena trasferitomi, ero terrorizzato da quello che avrei potuto trovare lì sopra. Ma una sera, con l’aiuto di una pesante dose di tequila (sì, lo so, leggo, fumo e mi ubriaco… sono proprio un satanasso), ho trovato il coraggio e ho scoperto che non c’erano zombie, fantasmi o tute sadomaso. Solo un sottotetto che ho trasformato nella mia piccola biblioteca personale. Manca solo un Umpa-Lumpa come bibliotecario. Con una scorta di libri sempre a portata di mano, il rischio di diventare un fattone come Matteo sareb-
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be molto alto, per cui cerco di controllare i miei istinti ma, soprattutto, di allenarmi alla mimetizzazione sociale. Dentro le mura domestiche puoi anche essere un uomo di cultura, ma quando esci devi essere capace di fingerti normale. Non è semplice, almeno per me. Per questo mi sforzo di imparare dalla televisione. Studio tutti i programmi trash che vanno di moda e annoto ciò che può tornare utile per la chemioterapia mediatica a cui mi sottopongo. Un trattamento auto-inflitto per nascondere il cancro letterario che mi perseguita. Paragonerei la mia ossessione per i libri a quella del capitano Acab per Moby Dick, ma sarebbe una similitudine socialmente inadatta. Meglio dire che sono ossessionato per la letteratura come il mio uccello lo è per il culo di Jessica Alba. In attesa dell’appuntamento con Caterina, quindi, passo la giornata in pigiama e mi alleno. Guardo quindici minuti di programmi spazzatura, poi mi disintossico con un video musicale su YouTube. Prima uno show di cucina, poi Smell Like Teen Spirit dei Nirvana. Prima un reality di palestrati e troiette, poi Here To Stay dei Korn. Prima un presunto telegiornale con più tette che notizie, poi Devour degli Shinedown. Non credo sia il metodo più efficace per imparare a essere normale. Anzi, se ne conoscete uno migliore, vi prego di dirmelo. Perché il mio non è semplice da tollerare. Ci vuole costanza e molta forza d’animo. I risultati sono buoni, ma sopportare il peso della maschera da persona comune è sfibrante e deprimente. Forse è per questo che il progetto di Eleonora ha fatto breccia nella mia testa. Perché sono stanco dei vestiti tamarri, degli addominali scolpiti, delle palestre piene di specchi, della ceretta maschile, delle macchine ribassate, delle marmitte rombanti, delle ragazze truccate anche in spiaggia, dei bigotti, degli ottusi, degli uomini che baciano
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la moglie e scopano l’amante, delle donne che dicono ti amo a Tizio mentre si trombano Caio, delle sopracciglia maschili depilate, dei grassoni che chiedono l’invalidità mentre si strafogano come maiali, della normalità usata come arma di clonazione di massa, della fabbrica di uguaglianza coatta chiamata movida, degli stronzi, delle troie, della politica, degli ambientalisti, della banalità. Sono stanco di tutto questo, o forse solo di me stesso che mi riempio la bocca di belle parole e poi le ingoio trasformandole nell’ennesimo cumulo di merda che caratterizza la mia esistenza. Mentre sto steso sul divano a guardare la sagra del silicone, per la prima volta da quando ho memoria, sento la necessità di credere in qualcosa che vada oltre la semplice sopravvivenza, qualcosa che colmi il vuoto che mi contrae lo stomaco in spasmi rabbiosi. Ho bisogno dell’illusione di poter cambiare il mondo. Ma può anche essere che sia solo un calo di zuccheri e che io abbia bisogno di mangiare un panino.
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Capitolo 6
La serata è mite, il mare calmo. Da sotto la rupe del Passetto sale l’odore salmastro e il suono attutito dello sciabordio delle onde. Caterina si stringe a me, il mio braccio tra le sue tette. Per l’occasione ha pensato di vestirsi in maniera casual: jeans larghi (che cadono a pennello sulle natiche rotonde), maglietta con scollo a V (che mette in mostra lo splendido décolleté) e una felpa attillata (che evidenzia la vita stretta e il ventre piatto). Insomma, se non lo avete capito Caterina sarebbe sexy anche indossando un burka.
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«Non è romantico?» chiede. «No.» Osserva il cielo, poi il marmo bianco del Monumento ai caduti e, infine, il verde praticello curato che lo circonda. «La luna, le stelle, il Passetto e il rumore del mare. Con un’atmosfera del genere mi aspetto una storiaccia tutta lingua e sfregamenti.» «Hai una pistola alla caviglia e un coltello a serramanico in tasca.» «E allora? Hai un problema con le armi falliche?» «Non le trovo molto romantiche.» «Sara mi ha regalato due pistole per il nostro anniversario. Due Glock calibro 9 con l’impugnatura in madreperla. Erano dentro una scatola rossa a forma di cuore. Molto romantico, te lo assicuro. Mi sono commossa… e anche bagnata.» «Mi faresti il favore di concentrarti sulla serata?» Sbuffa. «Devono solo farti un preventivo per un mucchio di carta e qualche litro d’inchiostro. Non c’è nulla di pericoloso.» Mi fermo. La scrollo di dosso. La guardo negli occhi. «Cristo Santo, Cate. Ma cosa credi che andiamo in una cartoleria?» «Mi sa che ho capito qual è il tuo problema.» «Sentiamo.» «Scopi poco.» «Fanculo.» «No, dico sul serio. Aiuta a buttar fuori le tossine e fa miracoli con la tensione. Tu sei tutto contratto, nervoso. Immagino tu abbia le palle piene…» «Caterina, per piacere.» «O-Kappa. Ricevuto.» Si fa seria. «Dimmi di questi tipi.» «Non li conosco, è per questo che sono nervoso.» «Dai sul serio, devi rilassarti. Tu vuoi comprare, loro vendere. Perché dovrebbero farti qualcosa?»
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«Nei film succede di continuo.» «Nei film i cani sopravvivono anche alle catastrofi nucleari. Sono solo cazzate, stai tranquillo.» Rimango in silenzio e lei continua. «E se proprio non ce la fai a rilassarti, va dietro quel cespuglio e fatti una sega.» «Stronza» dico, ma mi metto a ridere. Quando smetto, scorgo tre figure all’ombra del Monumento. Caterina li indica con la testa. «Sono loro?» «Penso di sì.» «Tranquillo, sono delle mezze seghe.» Abbassa la zip della felpa e la lascia aperta sulla maglietta provocante. «Passeranno tutto il tempo a guardami le tette.» Ci avviciniamo. Giacomo non mi ha detto come si chiamano. Li ha chiamati semplicemente “i romani” e mi ha consigliato di fare altrettanto. Lui non ha mai un contatto diretto con i criminali, usa sempre un intermediario. Giacomo scova un’informazione utile e la passa a questo tizio, che trova la gente interessata al colpo e pensa a tutto il resto. Giax si prende una parte del guadagno, tipo una percentuale, ma non so quale di preciso. Con questi traffici è sempre meglio farsi i cazzi propri. Per il colpo alla cartiera Giacomo ha fornito anche le informazioni di un possibile acquirente. Io. In pratica gli ha detto dove trovare la roba, come rubarla e a chi venderla. Un affare sotto dettatura. «Voi siete i romani?» chiedo. «Beh, dipende» risponde quello al centro, anche se l’accento l’ha già tradito. «Sono Amleto.» «Allora noantri semo i romani.» «Uhm, bene. Sentite mi servirebbero…» «Amlè, e aspetta, no? Che c’hai er pepe ar culo? Famose du chiacchere, prima.» A parlare è un uomo sulla cinquantina. Ha la testa rasata, la barba lunga e un paio di occhialini con le len-
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ti tonde: sembra un incrocio tra John Lennon e Steve Jobs, ma senza un briciolo d’eleganza. In effetti con quelle mani grosse come badili e quel pendaglio d’oro a forma di lupa, forse assomiglia più a Mario Brega. Vabbè, insomma, è un coattone ammaliato dalla bellezza di Cate. «Sta pischella chi è?» chiede, poi aggiunge: «I miei ossequi, signorina.» Caterina ride, io no. «Annamo, Amlè, fattela ’na risata!» Dalla tasca dei pantaloni tira fuori un libretto tutto sgualcito. Si muove lentamente e ci mostra (soprattutto a Cate) che non è un’arma. Il tizio finge di essere coglione, ma ha capito che la mia accompagnatrice è molto più pericolosa di quel che sembra. Inizia a leggere. «Perché per me l’unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano, bruciano, bruciano, come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni attraverso le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra dello scoppio centrale e tutti fanno Oooohhh!3» Chiude gli occhi. Trattiene il respiro. Poi espira lentamente. Assapora le parole, la punteggiatura, il concetto. Sospira. «Le parole di Kerouac hanno il sapore salato della libertà, non trovate?» L’accento romano è caduto come una maschera slabbrata. Avevo sentito dire che i tossici cronici, quelli che leggono fino a farsi seccare gli occhi, soffrono di questi cambi repentini di registro lessicale. Pensavo fosse una cazzata.
3 Jack Kerouac, Sulla strada, Mondadori (1989), traduzione di Magda de Cristofaro.
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«La libertà dovrebbe essere dolce» rispondo. Sorride. «Mi piace parlare di libertà con i giovani. L’agognate, la idealizzate e le attribuite il sapore più dolce. Ma cadete in errore.» Indica l’orizzonte buio da cui sale il rumore delle onde sugli scogli. «La libertà è come il mare: tanto sconfinata da naufragarci e tanto salata da ucciderti. Volete farvi un paragrafo?» Scuoto la testa mentre Caterina non riesce a tenere a freno la lingua. «Vallo a raccontare a chi ha lottato per farcela avere.» L’uomo scoppia a ridere. «Non c’è vocabolo di cui non si sia fatto così largo abuso: libertà. Non mi fido di questo vocabolo, per la stessa ragione che nessuno vuole la libertà per tutti; ciascuno la vuole per sé. Non è una frase mia, purtroppo, ma di Otto von Bismarck.» Caterina fa per rispondere, ma rinuncia dopo la mia occhiataccia. «Vi vedo tesi», continua il romano, «per cui forse preferite parlare d’affari.» Annuisco. «Abbiamo una stanza qua, al Grand Hotel Passetto. Perché non entriamo e ci prendiamo qualcosa al bar? A quest’ora saremo sicuramente soli.» Guardo Caterina e lei scuote il suo caschetto moro in un assenso silenzioso. «Va benissimo» dico. Il romano si volta e fa un gesto ai suoi accompagnatori che lo precedono verso l’hotel. Noi li seguiamo.
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Capitolo 7
«E quindi sei andato all’incontro insieme alla tua ragazza.» «Ma mi stai a sentire o no?» «Allora, perché te la sei portata dietro?» «Te l’ho già detto, è la mia guarda del corpo.» «Ma sei serio?» Eleonora è seduta sul divano del mio appartamento. Il braccio destro appoggiato al poggiolo, le gambe accavallate. Le sopracciglia si alzano in un arco d’incredulità. «Pensavo scherzassi.» È stata irraggiungibile per due giorni, passati a tempestarla di chiamate e messaggi, tutti senza risposta. I
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romani mi hanno dato una settimana per contattarli, ma non mi sembrava il caso di farli aspettare. Lei non era d’accordo. E poi eccola qui, alle otto di venerdì sera, che si presenta bella rilassata a casa mia e mi chiede come è andato l’incontro. Scuoto la testa e lascio perdere la sua ironia. «Quando siamo arrivati nella sala bar, ci siamo…» «No, darling, parliamone, dai» m’interrompe. «Te ne vai in giro con un gorilla in gonnella. È parecchio bizzarra come scelta.» «Non è un gorilla in gonnella, okay? È un cazzo di Beatrix “muori-in-cinque-fottuti-passi” Kiddo, hai capito? E ora ti vorrei parlare dell’incontro.» Alza le mani e solleva un angolo della bocca, in un sorrisino tanto sensuale quanto irritante. «Okay, capo. Sei tu il criminale incallito. Dimmi tutto.» Non dovevo parlare di Caterina, è evidente. Eleonora ha subito arruffato il pelo e mostrato i denti. E non ha nemmeno visto le sue tette! Quando s’incontreranno, beh, dovrò convincerle a mettersi un bikini e lottare nel fango. «È stato strano parlare di certe cose nella Lounge Bar del Grand Hotel, ma si è rivelato produttivo. Hanno quello che cerchiamo e sono disposti a vendercelo a un prezzo… diciamo onesto.» «Bene, caro. È una buona notizia.» «Hanno proposto di occuparsi della stampa…» «Non se ne parla!» urla. Resto in silenzio e mi appoggio allo schienale della sedia. Lei riprende il tono normale e continua. «Dobbiamo fare tutto da soli, altrimenti non possiamo avere il reale controllo del progetto.» «Ti ricordo che non siamo editori. Potrebbe venir fuori una schifezza.» «Se fate tutto quello che dico io, verrà perfetto.»
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«Molto democratico.» «Gioia, sono immune al tuo sarcasmo.» Mi sporgo in avanti, i gomiti appoggiati sulle cosce. «Se facciamo da soli sarà complicato.» «Non ho mai pensato il contrario.» «Come vuoi. Però dobbiamo decidere quanta roba comprare.» Si alza in piedi, mi guarda. «Compriamola tutta.» Apro la bocca senza dire nulla. «Beh?» «Ho bisogno di una birra.» Scappo nella zona cucina. «Portane una anche per me» mi urla dietro. «No, tu hai già bevuto troppo.» «Di che parli?» chiede mentre mi raggiunge. Prendo una bottiglia dal frigo e cerco il cavatappi in uno dei cassetti. Non ricordo mai dove sta. Sposto coltelli e forchette con malagrazia, poi lo trovo e apro la birra. Rispondo dopo una bella sorsata: «Che ti sei fottuta il cervello». «I soldi non sono un problema.» «I soldi sono sempre un problema, cazzo. Dovremmo organizzare uno scambio, portarci dietro una valigia piena di soldi e sperare che non ci facciano fuori.» «Tanto hai la sorella di Chuck Norris che ti difende.» Bevo. Rutto. «Fanculo. E poi dove la mettiamo tutta la merce che compriamo? Servirebbe un dannato magazzino.» «Ne ho uno, amore.» «Ah.» Ammetto che le risorse di Eleonora sono sorprendenti. «È una specie di vecchio fienile che usava mio nonno. Me l’ha lasciato in eredità. Non è l’Hilton, ma per quello che ci serve andrà benone.» «Ma non sei di Roma?»
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«Vedo che hai fatto i compiti, bravo. Però mio nonno era di Ancona. Proprio come te.» «E il camion?» faccio io. «Servirà un camion per portare tutto…» «Sai cosa penso?» m’interrompe. «Penso che tu ti sia fissato che non sia possibile, e quindi ora ti arrampichi sugli specchi per convincerti che hai ragione.» Preme un dito sul tavolo di formica e lo fa scorrere producendo uno stridio irritante. «Tu parli e io sento solo il rumore delle tue unghie che scivolano.» Preferirei farmi un giro al Gods of Metal con una maglia di Gigi D’Alessio piuttosto che darle ragione, cazzo. «Ti sbagli di grosso» mento. «Il tuo progetto non è una corsa saltellante su un prato fiorito. Mettitelo bene in testa. È una maledetta marcia su una distesa di vetri rotti e siringhe infette, e noi siamo talmente principianti che indossiamo le infradito.» Ride e m’interrompe di nuovo. «Sei bravo, sai?» Aggrotto la fronte. «A far cosa?» «A inventarti queste metafore.» Alzo le spalle. Lei annuisce convinta e si avvicina. «Sì, sì, sei bravo. Ho appena deciso che ci darai una mano con il libro.» «Cazzo sarei? Il tuo schiavetto?» «Mi stai proprio simpatico.» «Non era una battuta.» Eleonora si allontana facendomi il verso: «Cazzo sarei? Il tuo schiavetto?» e se la ride. La seguo. Raccoglie la borsa dal divano e si avvia verso l’ingresso. «Dove stai andando?» «Devo scappare.» «Non puoi! Non abbiamo deciso nulla.» S’infila gli occhiali da sole. «Tesoro, te l’ho detto. Compra tutto e organizza lo scambio. Poi ci risentiamo per telefono.»
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Apre la porta, alza la mano destra senza voltarsi e la scuote in aria. «Ciao, ciao.» Io rimango impalato al centro del mio salotto. La bocca spalancata come l’uscio di casa. La mia assuefazione suggerisce… no, anche la mia assuefazione è rimasta senza parole.
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Capitolo 8
Fare acquisti illegali è come rimorchiare una bella donna: molto facile se hai un sacco di soldi. E grazie ai fondi di Eleonora la liquidità non è un problema. Ho passato una notte insonne, tra incubi a occhi aperti e presentimenti di fallimento. Appena è spuntato il sole ho avuto la tentazione di prendere subito il cellulare e chiamare i romani. Ma ho resistito fino alle sette e trenta. Non un secondo di più. Prendo il telefono. Ho le mani sudate, il battito cardiaco accelerato e le budella aggrovigliate. I classici sintomi del verginello in azione. Poi però compongo il numero, premo il pulsante verde e tutto procede a
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meraviglia. Qualche saluto di cortesia e inizia la contrattazione. Loro fanno un’offerta e io l’accetto. Non è una vera contrattazione, in effetti, ma con il budget della mia “capa” perché dovrei perdere tempo a tirare sul prezzo? All’altro capo della cornetta i romani sono soddisfatti. Mi dicono addirittura che apprezzano il mio stile di concludere gli affari, e devo ammettere che ora, con le tasche piene di soldi, mi apprezzo anche da solo. Mi sembra addirittura di avere un tono di voce più profondo e persuasivo. La mia paranoia era del tutto immotivata. Chi dice che l’autostima non ha un prezzo, beh, è un cazzaro. Ci accordiamo per incontraci nel parcheggio dell’Ikea la notte successiva. Proprio nel punto in cui mi sono incontrato con Eleonora dieci giorni fa (solo? Sembra un secolo). Non è una coincidenza. Il piazzale ha tre uscite diverse, è a pochi metri da uno dei più importanti snodi stradali della zona e non ha telecamere. È anche il principale luogo di ritrovo per scambisti e voyeuristi, ma questa, al momento, non è un’informazione utile. Però ho saputo che si possono fare incontri piacevoli, magari siete interessati. Vorrei poter dire che la scelta oculata del luogo è figlia del mio innato istinto criminale, ma in realtà è stato un suggerimento di Giacomo. Qualche mese fa avevo bisogno di un posto nuovo per i miei piccoli traffici e il “fottuto eletto” mi ha consigliato il parcheggio dell’Ikea. Se lo abbia scoperto navigando sul web o frequentando circoli scambisti… non è dato saperlo. Muoio dalla curiosità, mi sembra ovvio, ma non ho mai trovato una maniera elegante per chiederlo. Dopo una lauta colazione e qualche capitolo per digerirla, procedo con la seconda telefonata della giornata, a Giax. Ho bisogno di un camion per trasportare tutta la merce dei romani e di qualcuno in grado di
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guidarlo. Lo becco a casa di Luca e capisco subito che si sta facendo un capitolo in compagnia dell’onnipresente Matteo. Dico loro di aspettarmi. Dovrei fare anche una terza telefonata, a lavoro, per inventarmi qualche balla che giustifichi la mia assenza, ma ormai sono le undici… avranno capito da soli che non ho intenzione di presentarmi. Lascio cadere il cellulare sul letto e accendo lo stereo. M’infilo nella doccia mentre i Volbeat iniziano i loro riff metal-rockabilly. Bagnoschiuma: m’insapono e canto inventando le parole. Acqua calda: mi sciacquo e urlo i ritornelli. Shampoo: m’insapono e riprendo a inventar parole. Acqua calda: mi sciacquo e seguo il ritmo con mugugni a bocca chiusa. Esco dalla doccia fischiettando. I vicini fanno tremare il pavimento a furia di scopettate. Me ne sbatto e continuo a camminare nudo per casa. Improvviso pose plastiche e assoli di air-guitar, poi torno in bagno, afferro lo spazzolino, mi piazzo di fronte allo specchio e lancio degli yeah degni di James Hetfield. Sono di buon umore. No, non è vero. Volo così in alto che cago sulla testa di quelli che sono di buon umore. Ho un ego gonfio e tosto come un’erezione di Rocco Siffredi. Perché devo combattere con una pazza pseudo-rivoluzionaria, è vero, ma cazzo con tutti questi soldi posso spaccare il mondo. Ed è ora di farlo.
Luca vive in pieno riò de la fetina, che tradotto dall’anconetano significa rione della fettina ed è chiamato così perché in tempo di guerra era abitato dagli unici che potavano permettersi la carne. È un quartiere storico di Ancona ed è noto per essere abitato da famiglie bene. Nel riò de la fetina le madri affermano con fierezza che
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i loro figli non hanno mai letto un libro e i padri sono convinti che la piaga della letteratura riguardi solo le famiglie disadattate. Antonio e Clara hanno sempre odiato questa zona e per una volta, forse l’unica, sono d’accordo con loro. Luca però è un tipo a posto. E anche i suoi genitori, per quanto ho potuto conoscerli. Il figlio ha trasformato la tavernetta in una legatoria artigianale, con annesso spaccio, e loro non hanno dato di matto. Hanno soltanto preteso l’assicurazione che Luca non vendesse i libri fuori dalle scuole. Gli adulti sono liberi di leggere quello che vogliono, ma i bambini non devono entrare in contatto con quel materiale deviante. Ognuno ha i suoi confini morali, giusto? Parcheggio tra due suv lungo viale della Vittoria e raggiungo casa Zocchi. Suono alla porta secondaria e sento i passi strascicati di Matteo. Sono inconfondibili, anche attraverso una porta chiusa. Il ragazzone è una pertica bionda di due metri, magro e in apparenza incapace di camminare come un bipede normale. Apre la porta e noto che la sua solita espressione un po’ sorpresa è stata sostituita da un sorriso ebete. Mi abbraccia. «Dite, amici, ed entrate.4» «Amici» rispondo, e lui si fa da parte barcollando all’indietro. È fatto come un monaco copista dell’ordine dei cistercensi. Entro. Matteo mi precede lungo il corridoio, poi si siede per terra, gambe incrociate e occhi chiusi. La stanza è ingombra di roba lasciata in giro alla rinfusa. Giacomo non fa eccezione, abbandonato sul divano con gli occhi arrossati e un libro aperto sulla pancia. Mi saluta con un cenno della testa. Ricambio. Dalla parte opposta c’è un telaio di rilegatura dietro cui spunta la mano di Luca.
4 J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani (2003), traduzione di Vicky Alliata di Villafranca.
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«Ehilà, bello. Come te la passi?» mi saluta. «Bene. E voi? Vi state facendo Il signore degli anelli?» «No, socio, è Bukowski» risponde Giax indicando il libro. «Matteo si è fissato con Tolkien, ma non sappiamo perché.» «Capito.» Mi siedo sul divano. «Mi fai fare un giro?» Giacomo mi passa il volume. Lo volto e guardo la copertina: Factotum. Approvo la scelta. «Come cazzo è possibile che a un uomo piaccia essere svegliato alle 6.30 da una sveglia, scivolare fuori dal letto, vestirsi, mangiare a forza, cagare, pisciare, lavarsi i denti e pettinarsi, poi combattere contro il traffico per finire in un posto dove essenzialmente fai un sacco di soldi per qualcun altro e ti viene chiesto di essere grato per l’opportunità di farlo?5» Leggo, e trattengo la frase dentro la mia testa. La faccio scorrere di fronte a me, l’assimilo e la lascio affondare nella memoria. Sorrido e ripasso il romanzo a Giacomo che si fa un altro paragrafo. Luca smette di lavorare con il telaio e ci raggiunge. Sposta un cumulo di vestiti da uno sgabello e si siede. «Che si dice?» mi chiede. «Più o meno le solite cose. Notizie da Federico?» «La richiesta è sei anni.» «Merda.» Federico è un piccolo spacciatore di Falconara. Abita tra il liceo scientifico e l’istituto tecnico commerciale, ma invece di spacciare agli studenti ha ben pensato di creare un sito per il commercio di libri su internet. Si faceva chiamare LiberRebel, ma è durato poco. Ha finito per coinvolgere il figlio di un poliziotto e ora passerà qualche anno al carcere di Monteacuto. Ci dispiace per
5 Charles Bukowski, Factotum, SugarCo (1979), traduzione di Marisa Caramella.
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lui, ma siamo anche sollevati di non aver mai fatto parte del suo giro. Basta una notte in cella per trasformare un libromane nel più loquace degli spifferoni. «Quella tizia, poi, Eleonora» riprende Luca. «Ti ha contattato?» Annuisco. «Te la fai?» «No, lavoro per lei.» «Nel senso che ti paga per farle i servizietti?» «No, nel senso che non sono cazzi tuoi.» «La tipa ha grandi progetti editoriali» ridacchia Giacomo trascinandosi in bagno, ignaro della mia voglia di strozzarlo. Ci manca solo che tutti gli amici si mettano a sbandierare i miei nuovi obiettivi. «Progetti segreti?» Scuoto le spalle. Ormai il danno è fatto. «Non proprio segreti, diciamo progetti da non sbandierare in giro.» «Colui che non ha visto il calar della notte, non giuri di inoltrarsi nelle tenebre.6» mormora Matteo, steso sul pavimento in preda al suo delirio tolkieniano. «Quindi? Cosa ha in mente la ragazza?» «Una casa editrice. Una di quelle serie.» Luca fischia e si appoggia allo schienale della sedia. «Pericoloso e… affascinante.» «Gliel’ho detto anch’io, socio» interviene Giacomo, riaffondando nel divano. «Certe cose meglio lasciarle ai professionisti, e comunque secondo me dovrebbero puntare sul digitale. Ho dei contatti molto interessanti se volete.» «Quelle cagate sintetiche non mi piacciono, lo sai. E penso che anche Eleonora sia d’accordo con me.» «Concordo con Leto» dice Luca. «Il libro vero sta all’e-book come i Pink Floyd stanno a Justin Bieber.»
6 J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani (2003), traduzione di Vicky Alliata di Villafranca.
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«Cazzate!» sbotta Giax. «Molta gente ama sapere prima che cosa verrà in tavola; ma coloro che si sono affaticati per preparare la festa desiderano mantenere il segreto; perché lo stupore ingrandisce le parole di lode. Ed Aragorn attende un segnale.6» «Sicuri che si riprenderà?» chiedo indicando Matteo che si rigira sul pavimento. Gli altri continuano il battibecco. «Se sono cazzate, perché tu hai in mano un libro e non uno dei tuoi amati e-book?» «Ma che vuol dire? Sei stato tu a offrire, socio. Se mi passavi un e-book sarei stato contento ugualmente.» «Ne dubito.» «Da quando è che ti sei convertito al digitale?» chiedo. «Non mi sono convertito a niente, è che mi fa incazzare sentirvi fare ancora questi discorsi da vecchi hippie. Non si può rifiutare il progresso.» «Posso eccome» ribatte Luca. «Prova a strombarti con gli e-book e ne ricavi solo un brutto mal di testa.» «È una questione d’abitudine, nient’altro. Se tutti lo capissero, ci leveremmo di mezzo anche il Bibliotecario.» «Questa non c’entra nulla. Sua Altezza il Bibliotecario non può essere minacciato dagli e-book. Quello controlla il mercato editoriale di mezza Europa. Se gli e-book diventeranno redditizi, inizierà a produrli anche lui.» «In realtà», intervengo, «dicono che il Bibliotecario sia un purista e che non si sporcherà mai le mani con quella roba artificiale.» «Questa è una stronzata degna del culo di Gulliver» sbotta Luca. «No, socio, no. L’ho sentito anch’io.» «Però», specifico, «ho anche sentito che il mercato digitale inizia a essere controllato da qualcun altro.»
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«Vedi?» sbotta trionfale Luca. «Finché la letteratura sarà illegale esisterà sempre qualcuno che vorrà controllarne la diffusione, che sia il Bibliotecario o…» «Il Nordico» lo interrompo. «Come?» «Il Nordico. È così che lo chiamano.» «Ma di chi stai parlando?» «“Gandalf”, ripeté il vecchio, come se avesse ritrovato fra vecchi ricordi una parola da tempo in disuso. “Sì, era questo il nome. Io ero Gandalf”.7» Ridiamo mentre Matteo aggrotta la fronte e non capisce l’ilarità che ha suscitato. «Il Nordico», spiego, «dovrebbe essere il presunto boss del digitale.» «Un altro elemento da evitare, quindi.» «E che ne sai socio?» obietta Giacomo. «Magari è un tipo a posto e non è pericoloso.» Luca mi guarda. «Ma che cazzo c’ha oggi?» «Quando legge Bukowski gli prende lo sballo polemico.» «Sballo rompicoglioni, più che altro.» «Ma andatevene a fanculo» chiude il discorso Giacomo prima di nascondere la faccia dietro al romanzo aperto. «Com’è venuto fuori questo casino?» chiedo. «Stavi parlando della tipa e della sua casa editrice.» «Ah, giusto. Giacomo, ho bisogno di un camion con autista.» «E questo che c’entra?» chiede Luca. Gli faccio cenno di lasciar perdere e mi rivolgo ancora Giax. «Ce la fai a procurarmelo per domani sera?» Annuisce immusonito senza staccare gli occhi dal libro.
7 Ibidem.
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Luca torna alla sua postazione e riprende a lavorare al telaio. «Quindi vuoi diventare un editore?» «No, do solo una mano per l’organizzazione.» Si ferma un attimo e mi guarda. «Sta sempre con il culo parato, mi raccomando.» «Certo.» Dico a Giax di chiamarmi all’ora di cena per dirmi del camion, poi mi alzo dal divano. Il mio cellulare scivola dal cuscino e cade sul pavimento. È abituato a urti peggiori. Lo raccolgo e saluto tutti. Matteo riprende a fatica la posizione eretta e mi sbarra la strada verso l’uscita. Il sorriso ebete è sparito, sostituito da un’espressione seria, quasi sana, se non fosse per gli occhi arrossati e lucidi. «Credevo che i meravigliosi protagonisti delle leggende partissero in cerca di esse, perché le desideravano, essendo cose entusiasmanti che interrompevano la monotonia della vita, uno svago, un divertimento. Ma non accadeva così nei racconti veramente importanti, in quelli che rimangono nella mente. Improvvisamente la gente si trovava coinvolta, e quello, come dite voi, era il loro sentiero. Penso che anche essi come noi ebbero molte occasioni di tornare indietro, ma non lo fecero. E se lo avessero fatto noi non lo sapremmo, perché sarebbero stati obliati. Noi sappiamo di coloro che proseguirono, e non tutti verso una felice fine, badate bene; o comunque non verso quella che i protagonisti di una storia chiamano una felice fine.8» Non riesco a capire se la citazione vuole essere un augurio o un avvertimento. Per non rischiare mi concedo una grattatina scaramantica ed esco da quella gabbia di matti.
8 Ibidem.
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Capitolo 9
Quando torno alla macchina, mi rendo conto che è sabato e ho la serata libera. Non è una novità, ma oggi suona strano, deludente quasi. Sto lavorando a un progetto rivoluzionario, ho contatti con criminali pericolosi e soldi da spendere, tanti soldi. Sono stato etichettato per tutta la vita come “poco di buono”, ma ora mi sembra di esserlo sul serio. Dovrei andare in giro a pavoneggiarmi. Yes, baby, I’m a fucking bad boy! Non posso passare il sabato ad annoiarmi sul divano! Devo prendere spunto dai grandi criminali della storia. Ce lo vedete Pablo Escobar che dice: “No, ragazzi, oggi non esco perché domani mi devo alzare
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presto”? Andiamo! E poi può essere l’occasione per provare i progressi nella mimetizzazione sociale. Prendo il cellulare dalla tasca dei jeans e chiamo Lorenzo, uno dei miei pochi contatti nel mondo non libromane. A quanto so, Lorenzo ha letto un solo romanzo in tutta la sua vita: L’isola del tesoro. Sì, esatto, lui è uno dei due amici con cui mi sono fatto il mio primo libro, a dodici anni. Nonostante l’aperto astio dei suoi genitori verso la mia famiglia, io e lui siamo rimasti… diciamo amici. Una definizione abbastanza veritiera che tuttavia negherei se detta di fronte a Giacomo o a qualcuno degli altri. Insomma, non è un rapporto di cui vado molto fiero perché, beh… Lorenzo è un gran cazzone. Avete presente quella maglietta logora e fuori moda che vi fa inorridire quando ricompare nei vostri cassetti ma che, nonostante tutto, vi ostinate a non buttare? Lorenzo è quella t-shirt. Con la differenza che lui non se ne sta buono e silenzioso dentro un cassetto. È molto più rompicoglioni. «Ehi, fratello! C…» un crepitio elettrostatico si mangia il resto. Guardo il display del cellulare, ho quattro tacche di campo e la batteria è carica. Che quella dal divano sia stata la caduta fatale? «Lorè, mi senti?» «Sì, bello, certo.» Il ronzio è sparito: smartphone uno, pavimento zero. «Ora anche io» ribatto. «Sempre con i tuoi cellulari giurassici, vero? Come butta?» «Ehm, veramente… vabbè tutto bene, grazie. Tu?» «Tutto a bomba, fra’.» «Disturbo?» «No, sto di flanella, tranqui. Spara.» «Che fai stasera?» «Stasera? Si va di party. Location cool, gente bene. Fuoco e fulmini. Perché?»
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«Pensavo di aggregarmi, che dici?» «Ma certo, fra’, certo. Si fa chiusura. Poi ti presento Francesca.» «Francesca?» «La mia troia, fra’. La mia ragazza. Cazzo, ma da quant’è che non ci becchiamo?» «Eh, un po’, in effetti.» «Dai, perfetto allora. Ci facciamo un bel “nelle puntate precedenti”.» La telefonata continua qualche minuto, impiegato per tradurre l’idioma alla moda di Lorenzo e per assicurami di non finire in una di quelle mortali serate tra coppie. Se ho tradotto bene, non dovrei correre il rischio. Mi accordo per l’orario e chiudo. Come avrete capito, Lorenzo è membro onorevole di quella marmaglia di mentecatti venduta un centesimo al chilo al supermercato dell’omologazione. È odioso, irritante, e quindi ben inserito nella nostra fantastica società. Lo frequento perché siamo cresciuti insieme e, nonostante quello che è diventato, è difficile dimenticare l’amicizia di vecchia data. O almeno questo è quello che penso quando sono in vena. Non capita spesso. Per il resto del tempo Lorenzo non è niente più che il mio merdoso lasciapassare per la ancora più merdosa vita sociale da non libromane. Bisogna frequentare i luoghi giusti per mettere in pratica la mimetizzazione. A ogni modo, ascoltare Lorenzo che parla di fidanzata è come sentire il Papa chiedere una scopata con cappuccio a una puttana: l’ultima cosa che ti aspetti. È sempre stato un fermo sostenitore dell’inutilità dei rapporti di coppia, per nulla cool a quanto diceva. Sono curioso di sapere cosa ha di tanto speciale questa Francesca per essere riuscita a fargli cambiare idea. Magari è una ninfomane contorsionista.
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Prepararsi per una serata letteratura-free non è né facile, né divertente. Devi pettinarti, raderti e poi scavare nell’armadio per trovare una maschera da persona normale. Il tutto senza l’aiuto di qualche lettura, neanche poche righe, perché presentarsi fatto non è accettabile. Vorrei poter indossare la maglia Reading is fu**ing sexy, ma già immagino l’imbarazzo di Lorenzo. Opto per una camicia bianca – comprata per, boh, qualche colloquio di lavoro, forse – e un paio di jeans anonimi. Pablo Escobar non sarebbe fiero, però amen. Non posso andare in giro a uccidere tutti quelli che mi guardano storto. Almeno non ancora. Lorenzo e Francesca mi aspettano ad Ancona, per cui salgo in macchina e parto, vergognandomi dell’approvazione con cui mi guarda la vecchietta del secondo piano, ma curioso di conoscere la ragazza. Più ci penso e più l’immagino come una fatalona tutto sesso, magari bionda, con tette che sfidano la gravità e un quoziente intellettivo non pervenuto. Ci incontriamo in piazza del Papa, unico teatro della pseudo movida della città, e la ragazza che mi ritrovo di fronte non è quella che mi aspettavo. È minuta, dall’aria impacciata, e non sembra proprio capace di imbrigliare le energie testosteroniche di Lorenzo. «Piacere, Francesca.» «Amleto. Piacere mio.» Tutto molto formale. Con Lorenzo invece sono abbracci e pacche sulle spalle. Io vorrei limitarmi a un cenno con la testa ma «ehi no, fra’, la gente fica si saluta così». Il coglioncello sfoggia la consueta abbronzatura fuori stagione, la canonica camicia troppo stretta che mette ben in mostra i muscoli e una nuova pettinatura che definisce “Miami Style”. «Allora quali sono i programmi?» chiedo, finiti i convenevoli.
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«Beh, fra’, drinkiamo qualcosa qua e poi dritti a cazzo duro al party, okay?» «Va bene, dai, vi offro un giro.» Entriamo in un locale e cerco di farmi notare dal barista. In mezzo a quel mare di melanina mi sento più pallido di un cadavere albino. Musica altissima, grida, risate, un miscuglio di deodoranti vari che non nasconde la crescente puzza di sudore. Ordino tre cocktail e mi servono altrettanti bicchieri di plastica pieni di ghiaccio e liquidi colorati. Brindiamo, beviamo e per fortuna arriva presto l’ora di andare alla festa. Mi incastro sul sedile posteriore della macchina di Lorenzo, che è costosa, strafiga e scomoda. Lui guida e parla. Cazzo, non smette mai di parlare! Racconta a Francesca vari aneddoti della nostra infanzia. Pezzi che lui crede esilaranti (o “fulminanti”, per citare lo slang cool), ma che sono solo ricordi distorti e quasi sempre esagerati. Io mi limito a ridere e intervenire quando serve. Nonostante il maremoto di stronzate che esce dalla sua bocca, Lorenzo sta attento a non menzionare la mia dipendenza, né la mia passione per i libri. Potrebbe sembrare una gentilezza nei miei confronti, ma sono certo che Francesca è stata istruita sui presunti difetti del sottoscritto, perché mi guarda come se fossi un raro esemplare di scimmia volante a tre teste. La nostra meta è a Sirolo, e nonostante non sia ancora stagione estiva ci vogliono trenta minuti buoni per arrivare. Se pensate che siano pochi, venite voi su questo sedile posteriore e poi ne riparliamo. Quando giungiamo a destinazione la voglia di farmi è quasi intollerabile. Ho bisogno di un po’ di letteratura per diluire la realtà. Mi pento di non aver portato almeno un piccolo tascabile da leggere in bagno. Al momento mi accontenterei addirittura di un mummy porn.
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Okay, magari non sono ancora a questo punto, però sì, insomma, avrei proprio bisogno di leggere. La festa è organizzata in una villa lussuosa, con annesso giardino verdeggiante e vista sulla splendida riviera del Conero. Sembra la scena di un telefilm americano, uno di quelli in cui ricchi figli di papà fingono di avere gli stessi problemi delle famiglie operaie. Il posto meno adatto per trovare un romanzo. Lorenzo e Francesca mi presentano un po’ di gente, poi si fermano a parlare con un gruppetto di ragazzi. Io mi defilo e vago senza meta studiando l’ambiente. Il giardino è curatissimo, con aiuole ordinate e un paio di fontane di marmo in cui sguazzano sparuti pesci rossi. Manca solo un dondolo. Finito il giro esplorativo, entro in casa e trovo una distesa di marmo lucido. Pavimento, colonne e una scalinata imponente che sale ai piani superiori: tutto di marmo. Di librerie nemmeno l’ombra, ovviamente, ma in compenso i barilotti di birra, le bottiglie di vino e le caraffe di cocktail sono ovunque. C’è un via vai di persone che entrano ed escono facendo la spola tra la musica house del soggiorno e il silenzio del giardino. Ascolto spezzoni di discorsi e sembra che gli unici argomenti siano il calcio o lo shopping. Un ragazzo prova a parlare delle nuove tasse imposte dal governo, ma viene subito interrotto dagli amici che gli urlano: «Non cominciare con i tuoi soliti discorsi da frocio». Si respira tolleranza a pieni polmoni. Raggiungo l’entrata del salone e mi affaccio. È una sala da ballo degna de Il Gattopardo, con tendaggi di velluto, quadri e un camino monumentale. Dal soffitto pende un maestoso lampadario di ottone e cristallo, e al centro della sala c’è lei: Eleonora. Indossa un vestito corto che lascia scoperte gran parte delle gambe e tacchi a spillo vertiginosi. Ha i capelli raccolti, orecchini vistosi e un velo di trucco che mette
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in risalto i bei lineamenti e gli occhi brillanti come smeraldi. Una maschera da non-libromane migliore della mia, bisogna ammetterlo. Una vera esperta della mimetizzazione. Balla e ride insieme alle sue amiche, con uno stormo di uccelli rapaci che volteggia lÏ intorno. Rimango qualche istante sull’uscio, a osservare la scena. Poi Eleonora volta lo sguardo tra la folla e incrocia il mio. Il suo travestimento vacilla, solo per un istante, poi torna saldo sul suo volto. Lei si gira di nuovo verso le amiche e finge di non avermi visto. Io approvo la sua scelta e torno in giardino.
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Capitolo 10
Il bello delle feste organizzate dai virtuosi della vita “sana” è osservare come anche il problema della dipendenza venga affrontato secondo l’unico paradigma sociale universale: la prestanza fisica. Se uno sniffa-inchiostro è brutto come la peste, viene considerato un drogato di merda. Se è affascinante, allora è un ragazzo che ha bisogno di essere salvato e diventa una “calamita da gnocca”, per citare Lorenzo. Concetto banale ma vero. Io non sono abbastanza bello da attrarre le reginette della festa, ma diciamo magnetico quanto basta per le seconde scelte. Quelle insicure, che cercano un ragazzo
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ma si accontentano di una missione caritatevole. Ed è proprio mentre sono in giardino a pasturare con una potenziale infermiera notturna, che vengo interrotto dalla versione ubriaca e fracassona di Lorenzo. «Ehi, fra’, ma dove ti eri imboscato?» «Sempre qua, ho fatto un po’ di giri.» «Merda, non ti ho più visto. Dovevamo fare il recap della situation, non ricordi?» «Okay, allora vi saluto» dice la tipa, allontanandosi. «Lorè, sei uno stronzo.» «Perché? Cosa ho fatto?» «Tu che dici?» «Quella? No, ma dai fratello, è una cozza.» Sbuffo. «Che volevi dirmi?» «Camomillati, dai. Volevo solo parlare del più e del meno, no? Prima c’era sempre quella tritura-maroni di Francesca.» «Tritura-maroni?» «Ma sì, fra’, cazzo! Sta sempre attaccata con quella faccia da beccamorto. Uno strazio.» Scoppio a ridere senza rendermi conto che forse non era il momento più adatto. L’espressione di Lorenzo mi costringe a scusarmi. «Pensavo fosse una specie di tua anima gemella… o qualcosa di simile.» «No, macché.» «Non lasciarla stasera, però. Non mi mettere in mezzo a qualche scenata.» «Lasciarla?» «Hai appena detto che è uno strazio…» «Sì, vabbè fra’, ma che c’entra? Stai fuori per caso? Ci sposiamo il prossimo anno.» Quasi mi strozzo da solo. «Cosa?» «Fratello, perché fai quella faccia? È carina, e ha anche uno stipendio niente male.» «Sì, okay, ma…» Ride e mi guarda scuotendo la testa. «Amleto ormai
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abbiamo trentacinque anni, bisogna pensare a metter su famiglia. Matrimonio, mutuo, figli…» Butto lì una risata che spero riesca a nascondere il mio stupore. «Francesca è una troietta a posto», continua, «ed è pure scema quanto basta. Ma lo sai le tipe che mi lavoro mentre lei sta a casa ad aspettarmi? Sarà un matrimonio perfetto.» «Beh, congratulazioni, allora.» Farfuglio una scusa e mi allontano verso la casa. Sono tutto fuorché un moralista, però certe cose non riesco a capirle… «Tesò, che faccia seria che hai. A cosa stai pensando?» Eleonora mi taglia la strada con un sorriso tirato e uno sguardo tutt’altro che divertito. «Penso che il problema non siamo noi, ma loro. Da quando matrimonio, mutuo e figli sono un obbligo sociale? Fanculo, piuttosto che avere la casa invasa da nani urlanti capaci solo di cagare e frignare mi taglio le palle in questo giardino del cazzo. Se loro credono di aver il diritto di giudicarmi perché amo leggere, allora anche io posso guardare loro con disprezzo, mentecatti capaci solo di pregare, abbronzarsi e tradire. Che senso ha tradire? Nessuno ci obbliga ad avere una relazione seria per cui se sei capace di tenere il cazzo a freno ti meriti una compagna, altrimenti scopa a destra e a manca e non rompere i coglioni. Ma soprattutto penso che non sono un fottuto narcotrafficante, per cui il sabato sera è meglio se vado a letto presto.» «Un sacco di pensieri per quella tua testolina scorbutica.» «Già.» «Non è meglio che torni a casa e sparisci dalla mia cazzo di festa?»
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La guardo e mi dimentico del mio sfogo morale. Eleonora continua a sorridere, ma al contempo digrigna i denti e solleva le sopracciglia, impaziente. «Hai paura che ti sputtani?» «No, gioia. Ti ho dato una motivazione con molti zeri per tenere la bocca chiusa. Però non mi piace mischiare il lavoro con il resto della mia vita.» «Capisco» dico, senza riuscire a trattenere un sorriso. «Bravo, darling. Sei un vero genio. Hai sistemato la questione del materiale?» Annuisco. «Lo consegnano domani.» «Molto bene. Proprio bravo. Ci vediamo domani allora. Ora levati dalle palle.» «Altrimenti immagino che mi farai trovare sul letto la testa mozzata di un cavallo…» Scoppia in una risata fragorosa, mi dà un buffetto sulla guancia (che assomiglia molto più a uno schiaffo) e si allontana disinvolta. Mi avvio verso il parcheggio sperando in un passaggio per tornare in città, invece trovo Francesca che sta in un angolo a leggersi un tascabile. Quando sente i miei passi sobbalza e nasconde il libro dietro la schiena, poi mi riconosce e si rilassa. «Ehilà.» «Ciao Amleto. La festa è una noia mortale.» «Vero.» «Vuoi farti qualche pagina?» «Volentieri.» Mi passa il romanzo, ma quando lo prendo non molla la presa. «Vuoi anche un pompino?» Non credo che Lorenzo possa prendersela se accetto.
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Capitolo 11
Il salotto di Caterina sembra il set di un film. Porno, naturalmente. Ci sono cavalletti, telecamere, un paio di computer portatili, dei faretti e anche quei pannelli argentei che credo servano per le luci. E poi cavi. Metri e metri di spessi fili neri che collegano i macchinari e circondano un divano rosso addobbato con morbidi cuscini e dildo colorati. L’ambiente porno-erotico vive di clichÊ. Se hai finito di fantasticare sui miei vibratori, sono di qua. Mi muovo con prudenza, facendo attenzione a non inciampare, e seguo la voce verso la zona notte. Nel
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corridoio stretto ci sono tre porte: il bagno, la camera da letto e la stanza più grande, l’armeria. Saranno quindici metri quadri di armadietti e rastrelliere piene di pistole, fucili e… penso che quello nell’angolo sia un lanciafiamme. «Hai deciso di dichiarare guerra a qualcuno?» chiedo. «Sì, agli idioti come te.» «Potrebbe rivelarsi uno scontro molto lungo.» «Non sei un duro.» «No, ma sono uno dei tanti.» «Già, è per questo che ho comprato un lanciafiamme.» È appollaiata su una sedia pieghevole, gomiti appoggiati sul tavolo di metallo, pistola puntata verso il soffitto. È incazzata. Con me. L’ho chiamata ieri sera, dopo la festa, per chiederle di accompagnarmi all’appuntamento con i romani e, già che c’ero, per vantarmi della mia innata capacità di concludere affari illegali. Ma lei ha avuto da ridere. Parecchio. E, tralasciando gli insulti, devo ammettere che era tutto logico e sensato. Se volete un riassunto: sono nella merda. Indica un asciugamano appoggiato su uno scaffale e poi l’altra sedia. «Passami quello e poggia le chiappe lì.» Eseguo senza fiatare. Non sono spaventato da Caterina, sia chiaro, ma preferisco non contrariare quelli che impugnano una pistola e la sanno usare bene… anche se si tratta di una vecchia amica. Stende l’asciugamano sul tavolo e inizia ad armeggiare con la pistola. Estrae il caricatore, arretra il carrello e toglie il colpo in canna. Appoggia caricatore e proiettile sull’asciugamano e mi guarda. «Ti serve un corso sull’editoria.» «Okay, senti, ho commesso una leggerezza, lo so…»
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«Una leggerezza? Prendersi una malattia venerea scopandosi la propria mano è una leggerezza, scriversi “ingresso libero” sul culo e andare nudo al gay pride potrebbe essere giudicato un errore madornale. Almeno se vuoi rimanere analmente vergine.» «Hai reso l’idea.» «Non ne sono certa.» «Di cosa stai parlando?» «Se non impari come funziona il mondo dell’editoria, presto ti apparirà sulle chiappe una bella insegna al neon. È di questo che sto parlando.» «Sì, okay.» «Sei il classico tipo altamente e ripetutamente inculabile.» «Ho detto che ho capito.» «Bene.» Sblocca il carrello della pistola e appoggia quest’ultima accanto al caricatore. Gira il carrello tra le mani, fa scattare qualcosa al suo interno e ne estrae una molla, una guida di metallo e la canna lucida. Appoggia tutto sull’asciugamano e poi si concentra di nuovo su di me. «L’editoria è un mondo piccolo, frequentato da poche persone che sanno tutto di tutti, e un ragazzo di Ancona che compra un mucchio di roba per stampare genera un sacco di voci. Dovevi tenere un profilo basso con i romani, farti portare nel loro magazzino e poi incaricare me di chiudere loro la bocca. Invece li hai avvisati in anticipo e hai pure annunciato che vuoi comprare tutto.» Si allunga verso un cassetto, lo apre e tira fuori una lattina d’olio per armi e qualche piccola pezza di tessuto. «I romani potrebbero presentarsi all’appuntamento, ucciderti e fregarsi i soldi.» «Avevi detto che certe cose succedono solo nei film.» «Sì, prima che tu sventolassi i soldi sotto il loro naso.»
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Ingoio a vuoto, rimango in silenzio. Lei continua. «Comunque non lo faranno. Sono rintracciabili e non sanno se hai qualcuno che ti copre le spalle. Venderanno l’informazione. Torneranno a Roma, si piazzeranno al centro del dannato Colosseo e urleranno ai quattro venti che hanno informazioni riguardo a un ragazzo di Ancona che non vede l’ora di farsi inculare. Potremmo farli secchi prima che partano, ma non sappiamo se hanno già venduto l’informazione.» Apre la lattina d’olio, ci bagna una pezza e inizia a pulire la canna. «Già così saresti fregato ma, per essere sicuro, hai ben pensato di contattare anche un camionista, che magari prenderà i soldi e si farà i cazzi suoi, o magari ti osserverà mentre fai lo scambio e ti venderà al miglior offerente.» Mentre parla pulisce con cura i pezzi, li olia bene e poi li appoggia sull’asciugamano. Aspetto che continui il suo monologo, ma lei rimane in silenzio, concentrata sulla pistola. Vi ricordate quando ho detto che se hai tanti soldi concludere affari illegali è semplice? Beh, era una stronzata. Portare a termine certe trattative è come fare l’inventario in un sexy shop, ci sono sempre cazzi che ti dimentichi di considerare. «Quindi?» chiedo. «Quindi tutti gli editori, dai mentecatti che stampano nelle roulotte sul Monte Conero su, su, fino ad arrivare al Bibliotecario, presto sapranno che c’è un tizio ad Ancona che vuole far loro concorrenza. Possono ucciderti o venderti alla polizia. Non so se hai preferenze.» Si ferma per rimontare la pistola. «Sono fregato.» «Concordo.» Con un colpo secco inserisce il caricatore.
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«Ma con un po’ di fortuna posso ancora rimediare ai tuoi casini.»
Nonostante abbia un grosso pezzo della sua maglia dentro la bocca e uno spesso nastro isolante a serrargli le labbra, l’uomo riesce comunque a urlare. Versi agghiaccianti che hanno perso tutto l’accento romano e suonano bestiali. Fanno accapponare la pelle. La causa di tutto questo dolore è Caterina. L’ho aiutata a portare l’uomo svenuto nell’altra stanza, e poi a legarlo alla sedia. Si è spogliata, mi ha consegnato i vestiti e ha indossato una tuta di plastica nera. Non credo fosse necessario rimanere nuda, ma Caterina non perde occasione di stuzzicarmi, nemmeno quando sta per torturare un uomo. Mi ha detto di aspettare fuori da questo scantinato e di incrociare le dita. Ha fatto anche l’occhiolino. Poi sono iniziate le urla. Dopo l’umiliante lezione, Cate ha promesso di aiutarmi, ma in cambio ho dovuto accettare due clausole ben precise. La prima era la cieca obbedienza. È stata una domenica impegnativa. Prima di tutto ho chiamato il camionista e gli ho detto che l’incontro era saltato. Ha voluto essere pagato lo stesso e non ho protestato. Poi sono andato all’incontro insieme alla mia protettrice tettuta e armata. I romani sono rimasti stupiti dall’assenza del nostro camion, ma ho detto che avevo intenzione di comprarmi il loro e, visto il lauto extra che ero disposto a pagare, non hanno avuto nulla da ridire. Mi hanno mostrato il carico e dato le chiavi dell’autoarticolato. Ho tirato fuori i soldi e loro hanno sorriso. Poi Caterina ha estratto la pistola. Due colpi attutiti dal silenziatore e gli scagnozzi erano a terra con un
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buco sulla fronte. Il capo è rimasto in piedi nel parcheggio deserto. Mani alzate, sguardo terrorizzato. Un colpo sulla nuca con il calcio della pistola ed è stramazzato a terra, svenuto. Lo abbiamo legato, imbavagliato e ficcato nel bagagliaio della mia Alfa, poi abbiamo nascosto i cadaveri in quello della loro. Per nostra fortuna era molto spazioso. A quel punto siamo partiti. Caterina ha guidato il camion, io l’Alfa. L’altra macchina con il suo carico di morte è rimasta là. Il rifugio di Cate è… beh, non sono così stupido da dirvi dove sia. Diciamo che non è distante dal parcheggio dell’Ikea, ma il viaggio fino a destinazione è stato ugualmente infernale… almeno per me. Ogni auto che incrociavo sembrava una volante della polizia, ogni scricchiolio che sentivo un colpo proveniente dal bagagliaio. Il cuore rivelatore di Edgar Allan Poe non mi è mai sembrato tanto verosimile. Caterina, invece, è scesa dal camion fischiettando. Il nascondiglio è un vecchio magazzino. Ha detto di averlo comprato per queste evenienze. La gente normale compra case per scampagnate, Caterina un magazzino per torturare persone. Concordo con il detto che la normalità è sopravalutata… però, che cazzo! Il posto è grande, isolato e lontano da sguardi indiscreti. Abbiamo parcheggiato il camion al suo interno, poi siamo scesi nello scantinato con l’uomo ancora privo di sensi. Il resto l’ho già raccontato. Il romano aveva ancora con sé Sulla strada di Kerouac, tutto spiegazzato e sgualcito. L’ho trovato qui fuori quando Caterina mi ha fatto uscire. Deve essere caduto nel trasporto. Provo a farmi qualche paragrafo per distrarmi, ma con queste urla non riesco nemmeno a concentrarmi. Si sente uno sparo, e poi silenzio.
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Caterina esce dalla stanza, affaticata ma rilassata. Sbuffa mentre si apre la lampo della tuta. «Mi serve una doccia.» Rimango in silenzio e lei alza lo sguardo verso di me. «Ehi, stai bene? Sei bianco come un cadavere.» «Mi prendi per il culo?» Ride. «Esatto. Però sono colpita che tu non abbia vomitato.» Annuisco. In realtà l’ho fatto, ma le urla hanno coperto i miei conati. «Comunque sei un signorino fortunato. Avevano messo un localizzatore gps in uno dei pacchi di carta. Volevano venderti insieme alle coordinate per recuperare il carico. Ma non avevano ancora contattato nessuno.» «Mi hai salvato il culo. Grazie.» «Lo so» dice pizzicandomi una chiappa. Si toglie la tuta e cammina nuda fino al piano superiore, dove prende la valigetta con i soldi e la chiude in cassaforte. Questa è la seconda clausola che ho dovuto accettare. Ma in fin dei conti se li è meritati.
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Capitolo 12
A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione.9 Mi faccio qualche paragrafo di Sulla strada sperando di perdermi nel mondo di Kerouac, ma il tentativo non va a buon fine. Le parole vengono scalzate dalle immagini della nottata appena trascorsa. 9 Jack Kerouac, Sulla strada, Mondadori (1989), traduzione di Magda de Cristofaro.
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Come se non bastasse la tortura del romano, infatti, c’è stato il viaggio per recuperare la macchina e i cadaveri dei suoi compagni, e infine il lavoro di macellazione. Già, perché dopo aver rifatto la strada Ikea-rifugio, questa volta con ben due cadaveri nel bagagliaio, Caterina mi ha comunicato (con un’estrema naturalezza del cazzo) che avremmo dovuto fare a pezzi i corpi. Un pluralia maiestatis finto democratico che significava: «Tu lavori con la sega da ossa e io guardo». Cate ha comprato il magazzino per queste situazioni… estreme, per cui l’ha attrezzato a dovere ma, nonostante l’equipaggiamento affilato, è stata dura smembrare i romani. Se qualcuno pensa che tagliare un cadavere sia come squarciare un pollo, è un coglione. È raccapricciante. Nonché faticoso. E non sono riuscito a nascondere i conati. Anzi, a dire il vero, ho vomitato come una ragazzina alla prima sbornia. E Caterina mi ha preso per il culo, ovviamente. Ogni corpo è stato diviso in sei pezzi, che abbiamo raccolto in vari bustoni neri (di quelli ultra resistenti, nello scantinato ce n’è un armadietto pieno, proprio accanto al reparto manette e catene), e poi trasportato alla discarica. Caterina sembrava conoscere molto bene la zona, compreso il buco nella recinzione. Mi ha assicurato che nessuno troverà mai i corpi (o quel che ne resta) e, vista la sua preparazione per queste evenienze, non mi sembra sia il caso di dubitarne. Non avevo mai osservato Caterina in azione. Di storie sul suo lavoro ne avevo sentite tante (soprattutto durante le cene con lei e Sara), ma nessun racconto, seppur dettagliato, ti può preparare a vedere la tua migliore amica mentre uccide, tortura e macella cadaveri. Forse dovrei essere scioccato, e magari dire qualcosa tipo “ora non potrò più guardarla con gli stessi occhi”, ma la verità è che sono orgoglioso di lei. È una vera professionista, e sono contento di averla al mio fianco.
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Senza dimenticare che mentre ammazza la gente è ancora più sexy. Dopo aver lasciato la discarica, siamo tornati al magazzino e ci siamo fatti entrambi una doccia. Prima io, mentre lei sistemava i suoi attrezzi. Poi lei, mentre io cercavo il localizzatore gps. Ora il cielo si sta schiarendo segnando l’inizio di una nuova settimana, e io sono seduto nel camion, con una piccola scatoletta nera tra le mani. L’ho trovata dove aveva detto il romano, ma non sono sicuro che sia ciò che cercavo. Sembra troppo innocuo per essere il marchingegno che mi avrebbe fottuto la vita. «Trovato?» Caterina è in piedi accanto allo sportello aperto, i capelli bagnati pettinati all’indietro. Alzo le spalle e le lancio il dispositivo. Lei annuisce e lo schiaccia sotto il tacco dello stivale. «Possiamo dormire, ora?» chiedo. «Intendi fare sesso?» «Cristo, Cate, ma ti va di scherzare anche dopo una notte del genere?» «Ne ho viste di peggio. Una volta…» «No, ti prego. Non lo voglio sapere.» «Peccato. Era una storia divertente. Comunque no, non possiamo dormire. Dobbiamo portare questo camion nel magazzino della tua amica.» «Adesso?» «Subito. La polizia dorme ancora a quest’ora.» «Dovremmo farlo anche noi.» «Non serve, ho un pacco di Red Bull in frigo.» «C’è anche un frigo in questo posto?» «E anche un letto matrimoniale circondato da specchi, se vuoi.» «Prendi quelle Red Bull e andiamo.»
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Dopo circa un’ora di tortuose strade secondarie, percorse sotto l’attenta guida del navigatore satellitare, arriviamo a destinazione e troviamo… un fienile. Ma non un fienile normale. No, questo sembra dipinto da Grant Wood, o addirittura uscito da American Gothic. Grande, di legno, laccato di rosso, vernice scrostata. C’è anche un forcone arrugginito abbandonato tra l’erba. E poi arrivano i cani. Uno nero e uno bianco, entrambi grossi, pelosi e minacciosi. Due fottuti orsi. «È questo il posto?» chiede Caterina. Controllo il navigatore. «Le coordinate sono queste.» «È un po’ lugubre.» Mi volto per guardarla. «Hai torturato un uomo fischiettando e ti spaventi per un vecchio fienile e due cani?» Si stringe nelle spalle. «I cani sembrano simpatici, ma quel capanno è inquietante.» La lascio perdere e abbasso il finestrino. «Eleonora!» urlo. I cani iniziano ad abbaiare e corrono verso il camion. Tiro su il vetro e mi rannicchio sul sedile. Simpatici un par di balle! «Vincent, Jules, a cuccia!» Il comando è imperioso e quelle bestiacce ubbidiscono. Si allontanano dalla mia portiera e trotterellano verso la porta del fienile, dove Eleonora li aspetta in piedi, braccia conserte, sguardo accigliato. Riabbasso il finestrino. «Non è che puoi legare quei due mostri?» «Scordatelo, caro.» «Simpatica la tua amica» bisbiglia Caterina. «Un tesoro di donna» replico. Scendiamo dal camion e raggiungiamo il fienile, senza fare movimenti bruschi. I cani ringhiano, ma Eleonora mormora loro qualcosa e si calmano.
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«Carino questo posto» mento. «I diavoli lo hanno portato in volo dall’inferno?» Le ragazze ignorano ingiustamente la mia ironia e si guardano. «Tu devi essere la guardia del corpo.» «E tu la tizia del club di cucito.» «È un circolo di lettura.» «Già, e io non sono una guardia del corpo.» Eleonora distoglie lo sguardo da Cate e punta i suoi occhi verdi su di me. «Non mi ricordo di averti detto di portare anche le tue amichette.» «Se non fosse stato per lei saremmo tutti fottuti. Fidati.» Caterina intanto s’inginocchia sull’erba e allunga una mano verso i due cani. Invece di saltarle alla giugulare, si avvicinano docili, la annusano e poi iniziano a farle le feste. «Te l’avevo detto che erano dei cagnoni simpatici.» «No, ti sbagli» replica piccata Eleonora. «Fanno così solo quando sentono l’odore di una cagna in calore.» «Oppure sono solo maschi che apprezzano le tette grosse. Non se ne vedono molte da queste parti, mi sembra.» Sono sul punto di gettarsi a terra e azzuffarsi, o almeno lo spero, invece si rilassano e sorridono. Non capirò mai le donne. Eleonora mi indica con le testa. «A quanto dice sei stata di grande aiuto.» Caterina scuote le spalle. «Il frigidello aveva bisogno di una lezione pratica. Tende a piegarsi troppo in avanti di fronte al peso della cultura.» «Posizione pericolosa.» «Senz’altro.» Annuisce poi mi indica a sua volta. «Ti ha già parlato della sua libreria?» «No.»
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«Va in giro a raccontare che ha una libreria bella grossa, ma in realtà ha solo una pennetta usb con qualche libro digitale.» Eleonora scoppia a ridere. «Che delusione!» Stanno veramente alludendo a quello che penso? Le lascio ridere ed entro nel fienile. L’aspetto American Gothic è solo una copertura per un edificio pulito e ristrutturato di recente. È di due piani, anche se il secondo è solo una sorta di solido soppalco che copre un terzo dello spazio disponibile. Al livello del terreno ci sono stampanti, stampatrici e computer. Tutto ordinato in file regolari, spento, in attesa dell’attività futura. Sulla destra una rampa di scale sale verso il piano superiore, mentre un’altra scende verso lo scantinato. «Tesò, ti piace il posto?» Mi volto verso l’entrata. «Ma da quanto tempo pensi a questa storia del libro?» «Un paio di mesi.» «Un paio?» «Sì, forse meno.» «E sei riuscita a organizzare tutto questo?» «Sono efficiente, gioia.» Non replico e lei si gira verso Caterina. «Vieni, cara, ti faccio fare un giro del posto.» «E a me no?» «No, amore. Tu devi scaricare il camion.» «Da solo?» Caterina si avvicina e strofina un dito sul mio braccio. «Dai, facci vedere tutta la tua forza di maschio.» «Sul retro c’è la rampa d’accesso allo scantinato. Sposta il camion e scarica tutto qua sotto.» Mi fanno l’occhiolino e se ne vanno al piano di sopra.
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Quando le raggiungo è l’ora di pranzo e io sono in piedi da trentasei ore. Ho sonno, sete e fame, ma mi limito ad abbandonarmi sul divano del soggiorno-cucina dove Caterina ed Eleonora chiacchierano, spizzicando quella che sembra una Caesar Salad. «Tutto a posto, caro? Non sembri in gran forma.» «Se facessi più sesso avresti più resistenza.» «È un ottimo modo per mantenersi allenati.» «La smettete, per piacere?» «Ci preoccupiamo solo della tua salute, gioia.» «Odiose.» Si scambiano un sorriso, poi Eleonora si alza e inizia a riporre i piatti sporchi nel lavello. «Dai, tesoro, vatti a fare una dormita. Di là ci sono due camere da letto e un bagno. Io do un passaggio a Caterina e poi vado a fare un po’ di spesa. Che taglia porti?» «Perché?» «Ti compro qualche vestito.» «A casa ne ho un armadio pieno.» «A parte che qualche consiglio di stile non ti farebbe male, ma comunque non ho voglia di andare nel tuo appartamento.» «Ci vado io, non tu.» «No, darling. Tu rimani qui.» Scuoto la testa per snebbiarmi il cervello e mi siedo più composto. «Come, scusa?» «Dobbiamo scrivere un libro e qui abbiamo tutto quello che ci serve. E poi non voglio rischiare che mandi tutto all’aria ripresentandoti a casa mia.» Caterina mi guarda sorpresa. «Non ne fai mai una giusta.» «Non so di cosa stai parlando.» «Tesò… la festa!» «Sei andato a una festa?» «Cate, per piacere. Lasciami capire.»
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Annuisce e io riprendo. «Non sapevo che era casa tua, okay? Ho solo seguito una specie d’amico.» «Può darsi, ma non ho apprezzato la sorpresa.» «E quindi hai intenzione di rapirmi per costringermi a scrivere un libro? Sono finito dentro Misery non deve morire?» «Non fare il melodrammatico.» «Lo fa sempre.» «Caterina, per piacere!» Solleva le mani in gesto di resa e alza gli occhi al cielo. «Darling, fa un respiro profondo e stammi a sentire. Non ti sto rapendo e non ho intenzione di spezzarti le caviglie per farti rimanere qui. Dobbiamo scrivere un libro e dobbiamo rimanere concentrati. Muovendoci tra Falconara e Ancona rischieremmo solo di essere visti insieme. Qua abbiamo tutti i comfort, le mie compagne ci possono raggiungere tranquillamente e riduciamo al minimo lo spreco di tempo.» Il ragionamento ha una sua logica, anche se è dura ammetterlo. Vorrei trovare qualche argomentazione con cui ribattere ma quando apro la bocca esce solo un rutto dal sapore di Red Bull. «Okay» capitolo. «Ma c’è almeno qualcosa da leggere?» «Due librerie piene.» Dolci parole per le orecchie di uno sniffa-inchiostro. «Porto la 44-46.» Eleonora annuisce sorridendo. Caterina mi dà un bacio sulla guancia e mi augura buon riposo e buon lavoro. Un minuto più tardi scendono le scale e mi lasciano solo. Io mi alzo dal divano e barcollo verso le altre stanze. Ci sono due camere da letto, gemelle, arredate entrambe con un letto matrimoniale e una libreria piena che occupa due pareti intere. Vivere in questo posto potrebbe addirittura piacermi. Mi lascio cadere sul letto e mi addormento.
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Capitolo 13
Dovrei dire di essere perseguitato dagli incubi, di aver rivissuto decine di volte la scena degli omicidi, di avere ancora nelle orecchie le urla della tortura e di essermi svegliato in preda al panico. Dovrei raccontare questo, ma la realtà è che dormo tranquillo per quasi dodici ore. Nessun sogno, né incubo. Sono morti due uomini, okay. Il terzo è stato seviziato per farlo confessare, okay. Però non è che fossero le Tre Marie, giusto? Non erano dei santi a cui era stato assegnato il posto alla destra del Padre. Erano tre delinquenti che volevano fregarmi i soldi e uccidermi. Tre fessi, visto come sono finiti. Pensate sul serio che
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dovrei perdere il sonno per tre fessi? Eh no, cazzo, non se ne parla. Un plauso alla mia coscienza cinica. Mi alzo dal letto e barcollo fino alla porta, il cervello non ancora connesso. Esco dalla camera e vado verso il bagno. Abbasso la maniglia, ma la serratura non scatta. Una voce di donna mi spiega il perché. «Occupato!» «Eleonora, sbrigati» urlo. Dalla cucina arriva la risposta. «Mi devo sbrigare a fare cosa, darling?» Mi volto verso la voce e trovo la faccia di Eleonora che spunta dall’uscio del corridoio con espressione interrogativa. Mi gratto una chiappa poi indico la porta del bagno, che nel frattempo scatta e si apre. «Ciao, Amleto.» «Ciao… ehm… Claudia?» «Elena.» «Sì… uhm… c’ero quasi» mormoro. La ragazza si mette a ridere e passa oltre. «Tesò, muoviti così iniziamo il brainstorming.» «Il cosa?» «Siamo venute tutte per parlare del romanzo» interviene la compagna. «Oh, cazzo.» Eleonora le indica due bottiglie di cedrata e le chiede di portarle di sotto, poi si volta verso di me. «Metti da parte la tua solita reticenza sarcastica e datti una mossa. Dobbiamo lavorare.» Apro la bocca per risponderle, poi scuoto la testa ed entro in bagno. Ci mancava il brainstorming.
Al centro del magazzino, tra le stampanti e i computer, è stato creato un circolo di sedie pieghevoli. Al suo esterno qualche tavolino con bevande e stuzzichini, all’interno un vuoto da colmare con idee brillanti e colpi di genio letterari.
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Tutte le “compagne” sono sedute al proprio posto: bevono, sgranocchiano, sorridono e ciarlano. Si scambiano consigli, mostrano le foto dei figli, raccontano i problemi familiari e si confortano a vicenda. Tutto molto confidenziale, tutto poco criminale. Quando le raggiungo mi salutano in coro, poi riprendono i loro discorsi. Mi siedo e aspetto paziente l’inizio del brainstorming, che letteralmente significa tempesta cerebrale ma che in pratica non è niente più di un mutuo scambio di cazzate mascherato da lavoro creativo. L’ho già detto che mi sembra tutto poco criminale? Eleonora batte le mani due volte e prende la parola. «Okay ragazze, dobbiamo pensare a qualcosa di fico. Il nostro romanzo deve essere originale, rivoluzionario… favoloso. Diamoci dentro.» Silenzio. Sguardi bassi. Un colpo di tosse. Silenzio. «Allora?» continua la leader del nostro circolo di cucito. «Dai ragazze, concentrate. Da dove vogliamo partire?» «Dal genere?» suggerisce quella che penso sia Erika (o magari Serena). Il dialogo prende timidamente vita. «Potremmo usare un genere commerciale per trasmettere le nostre idee.» «Fantasy?» «No, per carità ormai non va più.» «La nuova tendenza è l’erotico.» «Vogliamo cambiare il mondo, non farci ridere dietro.» «Lasciamo quelle schifezze alle Pony Women.» «Allora buttiamoci sulla classica storia d’amore.» «L’amore non stanca mai.» «Sì, ma serve un’ambientazione diversa.»
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«Qualcosa che spinga il lettore a riflettere mentre si sballa con il nostro libro.» «Possiamo anche scegliere un punto di vista originale.» Lo scambio di battute continua a un ritmo sempre più serrato. Potremmo prendere una decina di libri al piano di sopra, farli girare in questo circolo e sballarci come nemmeno quel tossico di Leopardi mentre stalkerava la povera Silvia. E invece siamo qui, a parlare a vanvera, bevendo… cedrata? A chi piace la cedrata? «Amleto, tu che ne pensi?» Silenzio. Tutti gli occhi puntati su di me. Compongo una chiamata di emergenza per il mio cervello, ma trovo solo la segreteria. E c’è chi dice che i libromani stanno sempre a trastullarsi con la fantasia. Poi ricordo l’idea assurda che ho avuto nel dormiveglia, un secondo prima di addormentarmi e due dopo aver guardato le librerie di sopra. «Potremmo pensare a un mondo dove la letteratura sia ancora legale, accettata e diffusa» dico. Un mormorio di assenso percorre il circolo fino a raggiungere Eleonora, che rimane in silenzio ma annuisce piano con la testa. «Passatemi la cedrata» sbotta. «Penso meglio bevendo cedrata.» La bottiglia passa di mano in mano fino a raggiungere la destinazione. Dita indistinte svitano il tappo, sollevano un bicchiere, lo riempiono con il liquido giallo e lo porgono alla “capa”. Eleonora lo svuota in un sorso poi annuncia. «Mi piace. Ragioniamoci sopra. Come sarebbe un mondo in cui la letteratura è ancora legale, accettata e diffusa?» E la tempesta di cervelli riparte. «I lettori non sarebbero perseguitati.» «Le case editrici non sarebbero diventate associazioni criminali.»
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«Le librerie non avrebbero chiuso, e magari ce ne sarebbe una a ogni angolo di strada.» «I libri verrebbero venduti anche al supermercato.» «E la gente li leggerebbe ovunque.» «Pensate a quanto sarebbe bello poter leggere un libro sotto l’ombrellone.» «O in un caffè sorseggiando una cioccolata calda.» «La domanda del mercato sarebbe altissima.» «Per cui ci sarebbero un sacco di case editrici e di scrittori.» «Ci sarebbero editori mainstream come in ogni campo, ma anche piccole case editrici specializzate in generi particolari.» «Il lettore potrebbe tornare a scegliere quello che vuole, senza dover per forza adeguarsi a quello che offre il mercato.» «Immaginate che bello entrare in una libreria…» «E leggere senza ricevere occhiatacce o rischiare l’arresto.» «Esisterebbero dei cataloghi per aiutare la scelta dei lettori.» «E siti dedicati.» «Oppure blog.» «Blog dedicati alla letteratura, non sarebbe fantastico?» «I libri potrebbero essere venduti anche su Internet.» «E ti arriverebbero direttamente a casa.» «Io finirei per sposarmi il postino.» «Anche io.» «Il mio postino è troppo brutto, ma se qualcuno mi regalasse un bouquet di libri gliela darei subito.» «Oddio è vero, potrei ricevere dei libri per il compleanno o per Natale.» «Tanti libri.» «Pensate a quanta cultura circolerebbe!»
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«La letteratura sarebbe di nuovo considerata arte.» «E potrebbe essere insegnata di nuovo a scuola, allora.» «La letteratura che torna nelle aule… è un sogno troppo grande, forse.» «No, perché? Se non ci fosse stato quel dannato Anti-literature movement non sarebbe mai scomparsa dai piani di studio.» «Tutti tornerebbero a studiarla come facevano i nostri genitori. Essere spronati verso la lettura, fin da piccoli.» «Ogni ragazzo avrebbe di nuovo le basi per riconoscere un buon libro da una schifezza commerciale.» «Altro che erotico…» «O perlomeno gli erotici dovrebbero essere scritti bene per poter vendere.» «Con la libertà di un tempo e la diffusione capillare garantita dai nuovi media…» «Il livello culturale della società sarebbe altissimo.» «I congiuntivi verrebbero usati anche per le strade.» «E alla televisione non verrebbero trasmessi quei reality da deficienti.» «Ci sarebbero programmi dedicati ai libri.» «Tipo quelli della musica… ma più intelligenti.» «E anche letture, interviste, approfondimenti.» «E i politici? Cambierebbero?» «Ma certo!» «Attraverso il web la cultura sarebbe disponibile per tutti, e una popolazione colta non potrebbe votare quegli analfabeti che abbiamo ora.» «Ragazze vi prego ditemi che da qualche parte esiste un posto così.» Eleonora si schiarisce la voce. «Dobbiamo solo far in modo che accada.» È rimasta in silenzio per tutto il tempo, ma ha ascoltato anche le virgole del discorso. E ora sorride, mentre le sue ultime parole fanno esplodere gli animi già
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infiammati dall’intenso scambio d’idee. Non sta scherzando, ci crede sul serio. Lo capisco dallo sguardo. Determinato, concentrato. Uno sguardo che da solo potrebbe convincerti a partire verso il Polo Sud per insegnare a volare ai pinguini. Avevo intuito la sua forza durante la cena in quel casolare di campagna, ma ora la vedo. È lì, dentro i suoi occhi del colore della speranza. Potrebbe conquistare il mondo, o scuoterlo fino a non farlo essere più lo stesso. E tutto bevendo cedrata. La mia assuefazione suggerisce panegirico e reverenza.
Le ragazze restano al magazzino fino a tarda notte. Il brainstorming si è trasformato in un sogno a occhi aperti, ed è degenerato in un chiacchiericcio confuso che è continuato anche dopo cena. Sono stato idolatrato per la mia idea geniale. Pensavo fosse una boiata, a essere onesti, ma se ha generato uno scalpore così grande… chi sono io per contraddirle? In fondo, mi sono sempre considerato un genio. Hanno deciso che si intitolerà *** e che l’ambientazione utopistica sarà il teatro di una storia di amore, vendetta e lotta. Un ragazzo e una ragazza rimarranno coinvolti in una vicenda di corruzione e violenza ordita da un editore che vuole estremizzare la commercializzazione della letteratura. Una specie di squalo spietato che vuole riempire le librerie solo con i titoli che si vendono meglio. I ragazzi cercheranno di fermarlo. E si innamoreranno. E vinceranno. Tutto molto bello, appassionante e… stucchevole. «Ti va una tisana, darling?» chiede Eleonora salendo le scale. Nel magazzino siamo rimasti soltanto io e lei. Le altre sono andate via lasciandosi dietro un’eco di saluti alticci. «Secondo te sono un tipo da tisana?»
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«Esistono i tipi da tisana?» «Certo. Di solito sono chiamati “vecchi”.» «Puro complesso di John McClane. Anche gli uomini bevono tisane, tranquillo.» «Io no, non me ne volere. In ogni caso sono stupito che tu conosca Die Hard.» «Hippie ya ye figlio di puttana!» Scoppio a ridere e la seguo fino in cucina. «Mi faccio una birra… se sua signoria è d’accordo, ovviamente.» «Una birra… tesò, sei scontato.» Non ribatto e prendo una Beck’s dal frigo. «Soddisfatta della serata?» «Abbastanza, ma potevamo fare di più» risponde riempiendo un pentolino d’acqua e mettendolo sul fuoco. «Dobbiamo ancora delineare i personaggi, buttare giù una sinossi. C’è un sacco di lavoro da fare.» «Un passo alla volta.» «L’importante è che siate capaci di seguire la mia andatura.» «Non penso di aver mai conosciuto un motivatrice più abile di te.» «Questo ha tutta l’aria di un complimento, darling.» Già, e non so perché mi sia sfuggito. «Anche Hitler era un grande motivatore» mi riprendo. «Prima o poi potrei offendermi per le tue battute.» «Ne dubito.» «Sì, poco probabile infatti.» Spegne il fornello e mette le erbe in infusione dentro una teiera. Io continuo a sorseggiare la mia birra. «Questa… cosa» continua con un gesto vago della mano «potrebbe funzionare in un libro.» «Cosa? L’infuso?» «No, stupido. Parlavo dei nostri dialoghi. Battutine, sarcasmo… potrebbe piacere ai lettori.» «Vuoi diventare la protagonista di un romanzo?»
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Scrolla le spalle. «Potrebbe funzionare.» «No, secondo me no. Saresti una pessima protagonista.» «E invece sarei un’eroina fantastica» ribatte infastidita. Scuoto la testa. «Naa, ti sbagli. Io ti ho davanti e dubito comunque che tu sia reale. Non puoi essere un personaggio letterario. Tu sei il deus ex machina che arriva e stravolge in positivo la vita di tutti.» Eleonora mi guarda e sorride. «Due complimenti nella stessa sera, mi vuoi proprio far commuovere.» Mormoro: «Devo pisciare» e scappo da quella strana situazione. Ho parlato senza pensare, e ho sbagliato. Eleonora è imprevedibile e potenzialmente dannosa. La sua “missione” potrebbe rivoluzionare l’editoria, ma anche trasformarsi in una strage. E a morire saremo noi. Non certo i cattivi. Nella realtà i cattivi sopravvivono sempre. Dovrei fare il lavoro per cui sono pagato e ridurre al minimo i coinvolgimenti personali. Lei è il capo e io un dipendente, punto. Ma lei è anche carismatica. Simpatica. Gnocca. Non la starò mica stimando, vero? La faccenda potrebbe diventare complicata. Piscio, tiro lo sciacquone, mi lavo le mani. Poi vado diretto in camera e mi chiudo la porta alle spalle. Buonanotte.
PARTE SECONDA
È detto libro stupefacente, psicoattivo o psicotropo (nel linguaggio comune, romanzo): — una storia di finzione che narra eventi non reali, o eventi reali arricchiti di particolari non storicamente dimostrabili; — capace di alterare l’attività mentale; — in grado di indurre, in diverso grado, fenomeni di dipendenza, tolleranza e assuefazione. Per via del loro potenziale psicotropo, i romanzi sono stati storicamente usati a scopo ricreativo (“recreational book use”) ma anche in contesti religiosi o culturali. Romanzo, def. Wikipedia
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Capitolo 14
Siamo stesi sul prato di fronte al magazzino, quasi fosse una scampagnata aziendale. Il cielo è terso, il sole alto e le “compagne” non hanno resistito al richiamo della tintarella. Io non vado d’accordo con l’abbronzatura, ma è davvero una bella giornata e non riuscivo più a stare nella stessa stanza con Eleonora. Nel cerchio irregolare formato dai nostri corpi girano alcuni romanzi. Non so se siano stati presi dalle libreria delle camere da letto o se appartengano a qualche ragazza, ma la loro comparsa non mi ha stupito. I libri sono l’elemento chiave del kit di scampagnata perfetta per libromani. Dateci un po’ di sole, un prato
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in cui stenderci e un romanzo da leggere, e noi sniffa-inchiostro saremo felici. Tutto sommato siamo dei tossici semplici. Mi arriva tra le mani Alta fedeltà di Nick Hornby. Mi stendo sull’erba, con il libro tra me e il sole. Mi faccio un paragrafo. Ecco, per stilare una classifica, le cinque più memorabili fregature di tutti i tempi, in ordine cronologico: Alison Ashworth Penny Hardwick Jackie Allen Charlie Nicholson Sarah Kendrew. Ecco quelle che mi hanno ferito davvero. Ci vedi forse il tuo nome lì in mezzo, Laura? Ammetto che rientreresti fra le prime dieci, ma non c’è spazio per te fra le prime cinque; sono posti destinati a quel genere di umiliazioni e di strazi che tu semplicemente non sei in grado di appioppare. Questo forse suona più cattivo di quanto vorrei, ma il fatto è che noi siamo troppo cresciuti per rovinarci la vita a vicenda, e questo è un bene, non un male, per cui se non sei in classifica, non prenderla sul piano personale. Quei tempi sono passati, e che liberazione, cazzo; l’infelicità significava davvero qualcosa, allora. Adesso è solo una seccatura, un po’ come avere il raffreddore o essere al verde. Se volevi veramente incasinarmi, dovevi arrivare prima.10 Assaporo le parole, recito il pezzo nella mente, poi chiudo gli occhi e cerco di trattenere il brano dentro la mia testa, di farlo mio. Quando sono certo di aver assimilato la citazione, passo il volume a Sabrina… oppure è Chiara? Sono passate due settimane e ancora devo imparare i loro nomi.
10 Nick Hornby, Alta fedeltà, Guanda (1998), traduzione di Laura Noulian.
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Già, due settimane. Quattordici giorni di clausura coatta a lavorare sul romanzo. Lo so che a Walter White di Reading Bad bastano un camper e quattro giorni tra le montagne del Maine per cucire centinaia di libri, ma quella è solo una serie tv. Nella vita vera è tutto più complicato. Bisogna sviluppare storia e ambientazione, caratterizzare i personaggi, trovare il giusto stile, inserire quegli elementi di originalità che rendano unico il tuo lavoro. E poi bisogna correggere le bozze, formattare il testo, trovare un titolo e stampare il tutto. Sembra incredibile ma siamo riusciti a fare tutto questo. Abbiamo pensato di dividerci il lavoro, in modo da procedere senza soste, notte e giorno. Ma eravamo troppo lenti. Quindi abbiamo iniziato a farci, farci di brutto. Romanzi horror per tenerci svegli, action/thriller per darci la carica, grandi classici per trovare l’ispirazione, perché più eravamo fatti e più scrivevamo bene. Assurdo? Forse no. In ogni modo ci siamo fermati solo per dormire, quasi sempre in piedi. Abbiamo avuto crisi isteriche, crisi di pianto e anche qualche svenimento. Qualsiasi fosse il problema potevamo contare su Eleonora: ti consolava, ti faceva sfogare e poi ti spronava a tornare al lavoro. La crisi passava e riprendevi a scrivere. Lei è stata l’unica a non scrivere. Ha coordinato la fase creativa e ha organizzato formattazione e stampa. Mi ha anche costretto a rapire Giacomo e portarlo bendato fino a qua. Lui non l’ha presa bene, anzi, si è proprio incazzato. Però quando gli abbiamo mostrato i computer ha ritrovato la calma. Per me sono soltanto scatole grigie come tante, ma secondo Giax sono le macchine più all’avanguardia che il mercato possa offrire. Non gli è parso vero poterci lavorare. È così che opera Eleonora, capite? Riesce sempre a proporti quell’idea a cui non puoi dire di no.
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E quindi Giacomo, pur sequestrato nel cuore della notte, narcotizzato e bendato, alla fine è stato contento di poter programmare e ottimizzare il nostro sistema di formattazione e stampa, e se ne è andato ringraziando la “capa” di averlo coinvolto. Ringraziandola! Non so come lei ci riesca. Ho anche provato a chiederlo alle “compagne”, ma loro si limitano ad adularla. «Amleto, raccontaci ancora dei tuoi genitori.» Una voce alla mia destra interrompe i miei pensieri. «Oddio Fiorenza, no, ti prego» rispondo. «Veramente sono Cinzia.» «Sì… mmm, certo Cinzia. Però no, dai.» «Andiamo, solo un altro aneddoto.» Ho passato due settimane deliranti, lavorando giorno e notte, talmente strafatto da vedere Dante, Beatrice e Virgilio ammucchiarsi proprio qui, dove sono steso adesso, ma il vero supplizio è stato parlare di Antonio e Clara. Colpa di Lev Tolstoj. Ero sotto gli effetti di Guerra e pace e mi sono lasciato andare ai ricordi. Ricordi difficili, traumatici, di quando mia madre mi leggeva le favole prima di andare a dormire. Avevo bisogno di un po’ d’affetto e mi sono concesso un po’ di sano vittimismo, in fin dei conti cosa c’è di più abominevole del leggere storie a un bambino? Ma invece di indignarsi, le ragazze si sono commosse. Dicono che sono stato fortunato ad aver ricevuto una tale educazione. E poi sarei io il tossico! «Ragazze, vi prego, basta con questa storia dei miei.» Vengo assediato dalle proteste, ma per mia fortuna l’abbaiare dei cani interrompe il discorso. Ci voltiamo verso l’entrata del magazzino. Vincent e Jules abbaiano ancora una volta verso di noi e poi iniziano a scodinzolare attorno a Eleonora. È stanca, stremata quanto noi, ma sorride. E sorridiamo anche noi. Stretta al petto tiene la prima copia del nostro libro.
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Tutte le ragazze le vanno intorno e la stringono in un abbraccio collettivo. Vincent e Jules rimangono fuori dal cerchio, sconsolati. Li chiamo con un fischio, gratto loro i musi e in pochi istanti mi ritrovo a rotolare nell’erba con quei due bestioni. Da quando mi hanno recuperato nei campi (dopo la mia fuga allucinata post Il richiamo di Cthulhu) sono diventati molto più affettuosi, abbiamo fatto branco. In fin dei conti tra maschi bisogna aiutarsi, soprattutto in un ambiente ostile al testosterone come questo. Quando il momento delle smancerie “tra femmine” è finito, lascio i cani a giocare tra loro e mi avvicino alle ragazze. Il libro passa di mano in mano. Viene ammirato, sfogliato, sniffato. L’orgoglio per il lavoro è palpabile nell’aria. Eleonora distribuisce sorrisi, baci e abbracci. Ha gli occhi lucidi per la felicità ma al contempo sembra tenere a freno l’entusiasmo. «È merito vostro, non mio, ma c’è ancora molto da fare.» Non l’ascoltano. Vanno a prendere tre bottiglie di spumante dalla cucina e fanno saltare i tappi. Brindiamo. Beviamo. Brindiamo. Beviamo. Alla terza sorsata l’emozione si trasforma in festa. Portano le casse dello stereo fuori dal capanno, e la batteria dei Clash rompe il silenzio: I Fought The Law, canzone quanto mai a tema. Eleonora viene trascinata sul prato e tutte iniziano a saltellare e ballare sull’erba. Io prendo “il romanzo che salverà i romanzi” (almeno così la pensano tutte) e lo metto in salvo all’interno del magazzino. C’è odore di inchiostro, di carta. Odore di stampa. Mi piace l’odore di stampa al mattino. Salgo al piano di sopra per prendermi una birra. Sulle scale incrocio Chiara (o è Erika?) che porta di sotto un vassoio enorme di bistecche e salsicce, e poi un’altra ragazza (è inutile che tenti di indovinare il suo nome) con grill e carbonella. Prendo una Beck’s dal frigo e torno giù, mentre il via vai dalla cucina continua senza sosta.
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Una volta, da piccolo, ho partecipato a una scampagnata simile. Stessa allegria e stesso menù carnivoro. Eravamo sul Monte San Vicino, credo. Antonio e Clara avevano organizzato una specie di laboratorio di scrittura con i loro amici. Mentre noi bambini giocavamo sui prati, loro avevano composto un racconto collettivo, per poi leggerlo e rileggerlo fino a farsi lacrimare gli occhi. Fu una bella giornata, almeno finché non arrivarono quegli esaltati dei No-Lit a protestare per il comportamento inappropriato. Mia madre riuscì a calmare gli animi ed evitare la rissa, ma l’atmosfera felice era ormai rovinata. Fu la prima volta che sentii parlare dell’Anti-literature movement. Meglio non pensarci. Esco di nuovo e mi appoggio con la spalla alla porta del capanno. Una parte delle “compagne” ha acceso la griglia e sta preparando il tavolo con le sedie. Le altre continuano a ballare sul prato. Ai Clash sono seguiti i Thin Lizzy, con The Boys Are Back In Town. Non so di chi sia questa playlist ma dovrò farle i complimenti. Eleonora è sempre al centro del gruppo a ballare senza sosta. Alza lo sguardo e mi vede, sorride. Rispondo, alzando la birra in un brindisi silenzioso. Lei scuote la lunga coda di cavallo e ordina a tre ragazze di venirmi a prendere per trascinarmi nella pista da ballo improvvisata. Mi lascio coinvolgere e mi ritrovo a saltellare tra quelle scatenate (e un po’ ebbre). Dalla festa a casa di Eleonora sembra trascorso un secolo, o forse anche due. Quando arriva il momento di mangiare troviamo la tavola piena di carne e vino rosso. Dopo due settimane di sofferenza questo pranzo sembra un banchetto luculliano. Parliamo del libro, del progetto, ma anche della semplice vita privata. Nessuna mi tratta più come un soggetto misterioso, nessuna mi tartassa più con mille domande sulla mia presunta carriera criminale. Ormai
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sono a tutti gli effetti un “compagno”. Lo so che questo dovrebbe spaventarmi, come so che nessuno vorrebbe entrare nel mondo dell’editoria affiancato da un gruppo di massaie idealiste. Ma dopo quattro bicchieri di rosso tutto sembra meno preoccupante. «Discorso! Di-scor-so!» Le ragazze battono mani e piedi e incitano Eleonora ad alzarsi. Lei annuisce e accetta l’invito. Scende il silenzio. «Innanzitutto volevo ringraziare ognuna di voi. Per due settimane avete rinunciato alle vostre famiglie, ai vostri lavori, alle comodità delle vostre case. Avete dormito poco e su brande scomode, avete sopportato la fatica e stretto i denti anche nei momenti di delirio. Senza di voi e il vostro impegno tutto il progetto sarebbe rimasto solo un sogno. E invece il primo e più importante passo è stato compiuto. Il romanzo è pronto… ed è ottimo!» Uno scroscio di applausi, poi riprende: «Dobbiamo ricordarci, tuttavia, che il lavoro è ancora lungo. Oggi festeggiamo e divertiamoci, lo abbiamo meritato, ma domani riprenderemo il nostro cammino e ci fermeremo solo quando il mondo sarà cambiato!» Brindiamo, beviamo, mangiamo. La cena prosegue finché le ragazze decidono di sparpagliarsi sul prato. Qualcuna gioca a Scrabble, altre riprendono a farsi Alta Fedeltà, io preferisco rientrare nel capannone. Ho bisogno di una tregua dal sole. Eleonora mi segue. «Tesò, aspetta, ti devo dire una cosa.» Mi fermo finché non mi raggiunge. «Dimmi.» «Abbiamo bisogno di qualche lettore di prova per il nostro libro. Qualcuno che possa dirci se è bello come pensiamo.» «Sì, certo, conosco qualche lettore…» «No, ciccio, non voglio qualche libromane a caso. Voglio gente esperta, qualcuno che possa darci un parere autorevole.»
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Aggrotto la fronte. «Mmm, okay, hai qualcuno in mente?» «Certo. Dobbiamo andare a trovare i tuoi genitori.» La mia assuefazione suggerisce sciagura e armageddon. La bella giornata finisce qua.
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«Non se ne parla» mormoro. «Andiamo darling, lo sai anche tu che ne abbiamo bisogno» risponde Eleonora. La guardo negli occhi. «No… darling, io non so proprio un bel niente.» Sbuffa. «Non possiamo mettere in circolazione il libro senza una valutazione professionale.» «Okay, bene, fallo valutare allora, ma lascia fuori Antonio e Clara.» «Non possiamo rischiare che il libro finisca nella mani del Bibliotecario.» «Cosa c’entra il Bibliotecario?»
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Alza una mano e finge di bussare alla mia testa. «Toc toc, Amleto! C’è nessuno in casa? Dobbiamo trovare qualcuno di fidato, che legga il libro, ci dia un’opinione valida e poi stia zitto.» «E ti vorresti fidare di quei due?» urlo. «Gesù santo, datti una calmata.» «Calmarmi? Nemmeno li conosci, cazzo!» Le grida iniziano ad attirare le ragazze, che si affacciano timide alla porta del capannone. Eleonora prende un bel respiro, poi continua. «Tesò, stammi a sentire. È un ragionamento logico, non la devi prendere sul personale.» «Ah, no? Stai parlando dei miei genitori, te lo ricordi? Come fa a non essere personale?» Alza le mani, mi invita a tacere. «Dobbiamo trovare dei lettori di prova. Possiamo affidarci a qualche amico, magari anche al marito di qualche ragazza, ma non risolveremmo niente perché sono solo opinioni soggettive. Non è quello che ci serve.» «E quindi? Cosa cazzo c’entrano Antonio e Clara?» continuo a urlare. Vincent e Jules entrano nella stanza e mi ringhiano contro. Sei un umano simpatico ma non toccare la nostra padrona. Messaggio ricevuto, bestie. Dietro di loro si sono ammassate tutte le ragazze, silenziose, forse spaventate. Quando urlo non sono un bello spettacolo, lo ammetto. Divento rosso e mi si gonfia una vena che ho sul collo, almeno così dicono. «Ciccino, ti sta per scoppiare una vena sul collo.» Appunto. Annuisco. Respiro. Cerco di mandare un po’ di ossigeno al cervello. Eleonora riprende il discorso. «I tuoi sono grandi lettori, e solo questo è già un pregio, ma oltretutto hanno anche studiato letteratura.» «Non è vero.»
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«Gioia ce l’hai detto tu, l’altra notte. Ti sei fatto La versione di Barney, sei scoppiato a piangere e hai iniziato a raccontarci dei tuoi genitori. Eri tenerissimo, tutto da sbaciucchiare.» Merda! «Okay, magari hanno studiato letteratura, ma avevano dei pessimi voti.» «Non fare il bambino, dai.» «Ma resta il problema della fiducia. Non li conosci, come fai a fidarti?» «Non abbiamo alternative.» «Possiamo trovare un vecchio intellettuale e, dopo che ci ha dato la sua opinione sul libro, lo uccidiamo.» «Ora vuoi uccidere un vecchio…» Mi stringo nelle spalle. «Magari lo faccio fare a Caterina.» «Sei disposto a uccidere qualcuno pur di non andare a trovare i tuoi genitori?» Sbuffo, scuoto la testa. «Forse.» Le ragazze si sono avvicinate, ci circondano. Mi sorridono con compassione e tenerezza. Sono davvero diventato così patetico? «Quindi qual è il piano?» chiedo. «Ora li chiami e gli dici che domani andiamo a trovarli.» «Cristo santo… domani?» «Ho controllato la tua agenda, non hai altri impegni.»
Siamo sulla A14, all’altezza di Fano. Io guido, Eleonora rompe le palle. Non ha fatto altro per tutto il viaggio. È riuscita a esasperarmi in meno di un’ora. Non pensavo fosse possibile.
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Mi ha svegliato all’alba: elettrizzata, nervosa, logorroica. Sembrava il coniglietto della Duracell con un reattore nucleare attaccato al culo. Le ragazze sono andate via ieri, in serata, restituite alle loro routine quotidiane. La leader maxima non poteva discutere con nessun altro. Solo con me. E il fatto che non avessi voglia di parlare non era un problema rilevante. Ha parlato, parlato e parlato. Non è stata zitta nemmeno per un dannato secondo. Poi siamo partiti con la sua Mini, e ho dovuto guidare io. «Dai, forza, mettiti al volante.» I “per favore” e i “grazie” non fanno parte del suo vocabolario. Si è tolta le scarpe, ha messo i piedi sul cruscotto e ha iniziato a giocare con la radio. Con quelle gambe che si ritrova la posa era molto sexy, non si può negarlo, ma quel continuo passare da una frequenza all’altra… Inutile dirle che a quell’ora ci sono solo le preghiere del mattino. Per cui ho guidato con una colonna sonora fatta di stralci di invocazioni al Signore e tanto rumore bianco. Al primo bar si è voluta fermare per colazione. Tè caldo e brioche alla marmellata. «Forza, fai il cavaliere. Non puoi far pagare il conto a una ragazza.» E poi di nuovo in macchina, i piedi scalzi ancora sul cruscotto, altri spezzoni di preghiere, altro rumore bianco. Arrivato al casello di Ancona Sud ha esordito con un: «Dai, forza, parliamo di qualcosa» e ha iniziato a far domande sui miei genitori. E non ha più smesso. Vorrei ucciderla. Lo giuro su tutti gli dei. Ucciderla e scaricare il cadavere in una piazzola di sosta. Okay, forse sono un tantino troppo nervoso. Ieri sera ho mangiato poco, questa notte ho dormito male e ora ho il battito accelerato, il fiato corto e le budella ritorte. Preferirei prendere i miei soldi, trasferirmi in India e investire tutto in una macelleria bovina, piuttosto che andare a trovare Antonio e Clara. È bastata una telefonata per mandarmi fuori fase e farmi venire l’orticaria.
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«Pronto?» «Ciao Ma’, sono Amleto.» «Amore mio, come stai? Tutto bene? È successo qualcosa?» «No, Ma’, niente. Non essere ansiosa.» «Scusa è che non è il mio compleanno, né quello di tuo padre, e nemmeno Natale. Non chiami mai negli altri giorni. Sicuro che stai bene?» «Ma’, non cominciare, okay?» «Certo, Amleto, certo. Dimmi pure.» «Domani vi vengo a trovare, ho bisogno di parlarvi.» «Allora lo vedi che è successo qualcosa?» E poi via di seguito, fino alla fine della mia pazienza. Vivono a Rivazzura, una frazione di Rimini, a un centinaio di chilometri da Ancona. Abbastanza vicino, un’ora di macchina. Ma non li vado mai a trovare. Odio quel posto. Non tanto il paesello in sé, quanto quella cazzo di comunità, congrega, setta o come cavolo la chiamano. Per farla breve, la storia è questa. All’inizio degli anni Novanta il panorama letterario stava iniziando a diventare bollente. La legge Montag sembrava ancora assurda ma la lobby degli editori stava perdendo forza, gli studi sulla pericolosità della letteratura stavano guadagnando credito e l’opinione pubblica iniziava a storcere il naso contro i lettori. Prevedendo che il clima non poteva che peggiorare, un piccolo gruppo di intellettuali decise di comprare un parco divertimenti abbandonato, tipo centocinquantamila metri quadri. Hanno ristrutturato la zona, costruito qualche casa, eretto una bella recinzione e si sono isolati dal resto del mondo. Quando ho compiuto diciotto anni anche Antonio e Clara sono entrati nel gruppo. Il fatto assurdo, e preparatevi perché è veramente assurdo, è che quegli intellettualoidi non hanno comprato un terreno qualsiasi, no, hanno acquistato il vecchio parco di Fiabilandia. Un nome, un destino.
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Eleonora si sposta sul sedile, appoggia la spalla sulla portiera e si volta verso di me. «Ci sono ancora le montagne russe?» «Dove?» «A Fiabilandia.» «Non si chiama più così. La provincia di Rimini ha cancellato qualsiasi possibile riferimento al parco. Anche tutti i cartelli stradali.» «Va bene, ciccio, chissenefrega. Ci sono le montagne russe?» «Non ci sono mai state.» «E allora cosa c’era?» «C’erano quelle giostre con i carrellini. Roba per bambini. Il brucomela, la miniera d’oro del west, il castello di mago Merlino.» «Tesò. Devi. Assolutamente. Portarmi. Sul. Castello. Di. Mago. Merlino!» «Non funziona. È abbandonato da anni.» «Meglio ancora. Un castello in rovina è una figata pazzesca.» Sbuffo. In realtà ha ragione. Quel coso è tutto scrostato e arrugginito, ma conserva un fascino spettrale in puro stile Stephen King. Eleonora prende il cellulare e si mette a smanettare sul touch screen. «Chi devi chiamare?» chiedo. «Nessuno, voglio vedere il parco su Google Earth.» Qualche istante di silenzio e poi riprende. «Oh mio Dio, ma c’è anche un lago! Io adoro i laghi.» «È una vecchia cava allagata…» Si porta il cellulare più vicino al viso, poi si volta verso di me. «Ma c’è una barca nell’acqua? Sembra grande.» «È un battello a vapore.» Mi fissa. «Accelera!» «Non eravamo qui per il libro?»
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«Sì, gioia, però dopo. Prima il battello a vapore. Accelera!» Purtroppo non serve accelerare troppo. Manca un chilometro al casello di Riccione, e poi altri dieci minuti scarsi. Siamo quasi arrivati. Eleonora è elettrizzata, io depresso. Visto che non mi sto divertendo il tempo dovrebbe rallentare, scorrere piano e blablabla, dico bene? Beh, non accade. Neanche il tempo di maledire tutti i santi e ci ritroviamo di fronte al cancello nero di Fiabilandia. Ai tempi del parco c’era una grande entrata sormontata da un castello stilizzato, alto una decina di metri. Tutto rosa e zuccheroso. È stata la prima cosa a essere abbattuta. Ora restano solo i monconi delle torri con il cancello in mezzo. Tutto nero e avvilente. E subito oltre, l’oppressione fatta a coppia: Antonio e Clara, i miei genitori. Sono in piedi sotto alla statua di Puk, un castoro con cilindro e mantello. Era la mascotte e non hanno voluta sfrattarla. E così c’è Puk che sorride con i suoi dentoni e subito sotto… loro, che non riescono (e forse nemmeno provano) a nascondere l’ansia. «Come stai?» «Sei dimagrito.» «E cosa sono quelle occhiaie? Non dormi bene?» «C’è qualcosa che ti preoccupa?» «Stai male, vero?» «Hai fatto le analisi?» Il tutto condito con carezze, abbraccia e baci sulla fronte. Serro la mascella e prendo un profondo respiro. Li rassicuro sulla mia salute, poi dico loro di calmarsi e di lasciarmi parlare. Presento Eleonora. Fraintendono. «Hai sentito Antonio? È venuto per presentarci la sua fidanzata.» «Fidanzata?» chiedo.
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«Andiamo Clara, non lo mettere in imbarazzo. Non si dice più fidanzata ormai.» «Uhm… sì… e come si dice? Compagna?» «Non importa, Clara, non importa. Pensiamo ad accogliere Eleonora nella nostra famiglia.» E così l’abbracciano, la baciano, le fanno domande. E lei ride, che io sia dannato se non si sta divertendo un mondo. Mentre io no, non mi diverto affatto. «Cristo santo ma perché non mi lasciate mai parlare?» sbotto. Rimangono per qualche istante in silenzio, sorpresi, e io continuo. «Non sono venuto per dirvi che sto per morire, né per annunciarvi che sto per sposarmi. Eleonora non è la mia fidanzata, compagna o come cazzo vi va di chiamarla.» «Amleto, non c’è bisogno di dire parolacce.» «Non adesso, papà» ringhio. Altro respiro profondo. «Abbiamo bisogno di chiedervi un consiglio su un… affare.» «Certo, figliolo. Ne siamo onorati.» «Okay, bene. Ora possiamo andare a parlare a casa vostra? Questo dannato castoro mi mette i brividi.»
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Nel parco non si usano macchine o motorini. Ci si può spostare a piedi, o in bicicletta. I più giovani preferiscono i rollerblade. Per gli ospiti, invece, c’è il trenino. Eh già, questi sniffa-inchiostro non si fanno mancare proprio nulla. Dietro la statua del castoro c’è la rotaia e, sopra di essa, una mini-locomotiva con attaccati tre vagoni. Più oltre, sulla destra, dietro un grosso cespuglio mal curato, svettano le torri del castello di Merlino. Eleonora cammina accanto a me e sento che lo punta, come un cane con una preda interessante. Se avesse un guinzaglio tirerebbe e strattonerebbe. Invece si li-
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mita a guardare me, e poi il castello. Me, e poi il castello. Trepidante. Io faccio di no con la testa e lei mette il broncio, sbuffa, trascina i piedi fino al primo vagone e sale. Il trenino costeggia il lago superando prima quel che resta di una pagoda cinese e la carcassa mezza affondata di un galeone pirata. In lontananza si scorge il profilo della zona far-west, ma noi ci fermiamo prima, di fronte a una serie di piccoli prefabbricati a un piano. Hanno l’aspetto di baite di montagna, con tanto di tronchi di legno finto sulle pareti, ma sempre prefabbricati rimangono. Il secondo sulla sinistra è quello della famiglia Orciani. Mio padre fa gli onori di casa e ci mostra l’interno: cucinino, salotto, camera da letto, bagno. Nemmeno una libreria. Aggrotto la fronte, ma non dico nulla. Mia madre ci invita ad accomodarci sul divano, e riempie il piccolo tavolinetto da tè con sandwich prosciutto e maionese, fette di crostata al limone e bevande varie. È incredibile, ma c’è anche una bottiglia di cedrata. Eleonora è subito conquistata. Non abbiamo il permesso di cominciare a parlare prima di aver mangiato qualcosa, «soprattutto tu, Amleto, che sei così sciupato.» E così mangiamo e beviamo. Eleonora si spertica in lodi, mia madre ricambia e mio padre mi dà di gomito sottolineando la sua approvazione per quella che continua a credere la mia ragazza. La mia assuefazione suggerisce imbarazzo e molestia. Quando arriva il momento delle cose serie, cedo la parola a Eleonora che lascia briglia sciolta alla sua parlantina. Intervengo solo per chiarire alcuni punti del mio coinvolgimento. Evito di dire quanto verrò pagato e anche di parlare dei romani. Quando nomino Caterina mia madre mi interrompe per sapere come sta, ma per il resto i miei genitori rimangono in silenzio e
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ascoltano con attenzione. Alla fine del discorso la loro reazione mi sorprende. «È pericoloso.» «Lo sappiamo», ribatto, «ma sappiamo anche come tutelarci.» «Tutelarvi? Nel mondo dell’editoria?» «Sentite, non siamo qui per farci dire quanto l’editoria sia pericolosa.» «E per cosa sei venuto, allora?» sbotta mio padre. «Per invitarci al tuo funerale?» «Oh mio Dio, Antonio, non dire così.» «E cosa dovrei dire, Clara? Che andrà tutto bene?» Si alza, allarga le braccia, finge di sorridermi. «Ma certo, figliolo, andrà tutto bene. Come è andata bene a tuo zio Valerio, a Giorgia o a Luca, il tuo padrino. Ah no, scusa, loro sono morti!» Ha ragione, lo so che ha ragione. E so anche che dovrei mantenere la calma e cercare di spiegar il mio punto di vista senza alzare la voce. Ma non sono un dannato Dalai Lama, né la reincarnazione del Mahatma Gandhi. E così mi alzo, e metto in mostra la vena sul collo. «Da quando ti preoccupi della mia vita, eh? Cos’è, una nuova moda? Mi avete cresciuto come un tossico e ora vi sorprendete se finisco nel mondo dell’editoria? Non vi è mai passato per la testa che, non so, magari non è il caso di far leggere un bambino? Oh, no, certo che no, vostro figlio doveva crescere con i vostri stessi valori, dico bene? E chi se ne frega se passa una vita da paria, senza mai riuscire a integrarsi.» «Avresti voluto veramente crescere come uno di quei fantocci in cerca di Dio?» «Avrei voluto crescere come un bambino, cazzo! Invitare i miei compagni di classe al mio compleanno, essere invitato ai loro e sì, anche collezionare quelle dannatissime figurine sulla Bibbia. Perché lo facevano
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tutti, e poi se le scambiavano e tutte queste stronzate qua. E invece no, niente figurine sulla Bibbia, meglio quelle su Hook – Capitan Uncino, giusto? Facevano cagare quelle figurine di merda!» Mio padre non ribatte, mia madre mi guarda scioccata, Eleonora si nasconde dietro un bicchiere di cedrata. Inspiro. Espiro. Il sangue mi ronza nelle orecchie. Tutto il resto è silenzio. Continuo. «Mi avete cresciuto come un libromane e poi mi avete abbandonato in una società che odia i libri e i lettori. Non potete stupirvi che sia qui a parlarvi di qualcosa di pericoloso e, soprattutto, non avete il diritto di preoccuparvi per me. Per cui ora state seduti, chiudete la bocca e ascoltate quello che ha da dirvi Eleonora. Perché lei, a differenza vostra, non vuole nascondersi ed essere dimenticata.» Poi me ne vado. Senza sbattere la porta, sarebbe troppo scontato. Mi accendo una sigaretta e cammino per la zona farwest. La cascata artificiale e le piccole montagne russe sono ferme da tempo, ma la scenografia è ancora in piedi e in buone condizioni. C’è anche un fortino su cui arrampicarsi. Dovrebbero esserci bambini che giocano, urla di divertimento. Invece è deserto, e silenzioso. Triste, come tutto in questo parco. Butto per terra il mozzicone della sigaretta e lo spengo con la punta della scarpa. La nicotina ha diffuso il suo effetto calmante e l’adrenalina della discussione sembra essere scemata. Sento dei passi dietro di me. È Eleonora. «Come stai, darling? Ritrovata la calma?» Annuisco. «Hanno ascoltato tutto quello che avevo da dire. Leggeranno il libro, subito. Mi hanno chiesto di convincerti ad aspettare il loro parere e magari di rimanere anche per cena.»
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Storco il naso. «Dici che sia il caso?» «Lo è, caro, lo è. Anche perché devi portarmi sul battello a vapore e poi al castello di Merlino.» «Non so se sono accessibili.» «Scopriamolo!»
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Capitolo 17
Nel castello di Merlino non c’è molto da vedere. Quattro pareti scenografiche e due torri in stile Medioevo made in Disney che racchiudono una monorotaia fatiscente. La statua del mago, però, ha un fascino particolare. È un mezzobusto alto quattro o cinque metri che emerge dal tetto del castello: cappello a cilindro, pelle raggrinzita, lunga barba grigia e braccia allargate in posa da incantesimo. È incurvato verso l’entrata del castello e incombe come un incubo malefico, pronto ad afferrarti e infilarti nel suo calderone. Ispira un timore reverenziale, ma forse è solo colpa dei troppi horror che mi sono fatto negli anni. Perché Eleonora non pro-
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va nulla di simile, anzi, si mette nelle pose più assurde costringendomi a fotografarla con il cellulare. Le sue risate squillanti attirano l’attenzione di molti abitanti della comunità, che ci guardano accigliati, ma non si fermano. L’unico ad avvicinarci è Sergio, un vecchio amico di Antonio e Clara. «Sei tu, Amleto?» Mi volto e lo saluto, ma a lui le parole non bastano. Mi abbraccia. Ha circa novant’anni, la schiena curva, pochi capelli in testa e ancor meno denti in bocca. Ma i suoi occhi sono vivi, proprio come li ricordavo. «Sei venuto a trovare i tuoi genitori?» Annuisco. «Beh, era ora. Dovresti farti vedere più spesso.» Sorrido, evitando di rispondere. «E questa bella ragazza?» Eleonora si avvicina e faccio le presentazioni. Il vecchio Sergio ha sempre avuto un debole per le donne e l’età non ha di certo attenuato la sua indole. Poche battute e subito affiora il magnetismo intellettuale con cui conquistava il cuore delle sue studentesse (e non solo quello, secondo mio padre). «Siete di passaggio o vi trattenete?» «Ripartiamo questa sera» rispondo. «Dobbiamo aspettare che i miei terminino… una cosa.» «Allora vorrei invitarvi a pranzo, se permettete. Non ho molte occasioni di mangiare in compagnia, ormai.» Esito, ma Eleonora accetta per entrambi. «Molto bene, ne sono contento. Allora vieni, cara, prendi sotto braccio questo povero vecchio e aiutalo a camminare fino alla sua umile dimora.» Eleonora annuisce, mi fa l’occhiolino divertita e cammina al fianco del suo nuovo accompagnatore, che le racconta tutte le curiosità del parco. Io mi limito a seguirli. Sergio è stato il professore di letteratura di Antonio e Clara, un luminare innamorato della sua materia e
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della cultura (senza dimenticare le studentesse, ovvio). Un mentore, oltre che un insegnante, e poi un caro amico di famiglia. Una bella persona, pensate? Assolutamente no. Noioso, arrogante. Fu lui a trascinare i miei genitori in questa dannata comunità. Vive poco lontano dal castello di Merlino, a destra del castoro gigante. Una casa identica a quella dei miei, ma arredata in modo spartano, essenziale. Ci offre un piatto di tortellini alla panna e una selezione di affettati e formaggi della zona. Lo aiutiamo a cucinare e ad apparecchiare, mentre lui ci delizia con il racconto della sua vita. Eleonora ascolta con attenzione, soprattutto quando Sergio parla della sua carriera accademica. È affascinata all’idea di un’università dedicata alla letteratura e probabilmente sta già pensando a come fondarne una. Io mi annoio da morire. E non c’è nulla da leggere. Ma dove sono finiti tutti i libri di questo maledetto parco? Quando sto per crollare addormentato sul tavolo, la discussione acquista una piega più interessante. «Scusami se ti interrompo, Sergio», dice Eleonora usando il tu che lui ha preteso, «ma perché non avete fatto qualcosa?» «In che senso, cara?» «Perché avete permesso che i libri diventassero illegali?» Lui scoppia a ridere e sfoggia un assaggio dell’arroganza che ricordavo. «A quanto pare la signorina non ha studiato la storia.» «Conosco la storia, ma questo non risponde comunque alla mia domanda.» «Ed ecco intanto scoprirsi da trenta o quaranta mulini da vento, che si trovavano in quella campagna; e tosto che don Chisciotte li vide, disse al suo scudiere: “La fortuna va guidando le cose nostre meglio che noi non oseremmo desiderare. Vedi là, amico Sancio, come si vengono ma-
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nifestando trenta, o poco più smisurati giganti? Io penso di azzuffarmi con essi, e levandoli di vita cominciare ad arricchirmi colle loro spoglie; perciocché questa è guerra onorata, ed è un servire Iddio il togliere dalla faccia della terra sì trista semente”.11» Pensavo che la solitudine e la vecchiaia avessero addolcito il carattere di Sergio, ma sbagliavo. Il sorriso di Eleonora si spegne, così come la sua gentilezza. «Tesoro, è inconcepibile pensare che combattere in favore della letteratura sarebbe stato folle come assalire i mulini a vento.» «Non folle, ma inutile. Non aveva senso difendere il diritto alla lettura di quelli che pensavano che Agatha Christie fosse una grande scrittrice, oppure di quelli che leggevano sotto l’ombrellone o in bagno. Senza dimenticare tutti gli avvocati, assicuratori, postini o ingegneri che scrivevano un libro e pensavano di essere scrittori. Non aveva senso lottare per gente simile.» «Ah sì, certo, capisco. La purezza della letteratura, e tutte quelle fesserie radical chic. Si scrive per l’arte e non per i soldi, si scrive per essere apprezzati dagli intellettuali e non dai lettori comuni.» «Esatto. La letteratura era morta molto prima della legge Montag. Erano rimasti solo editori che facevano scempio del suo cadavere e lettori che leggevano per passare il tempo. Romanzi scritti per intrattenere, come pagliacci o buffoni di corte.» «Okay, è ora di andare» dico alzandomi, ma Eleonora mi fa cenno di aspettare. Ha la mascella serrata, e questo non è un buon segno. «Sai, Sergio, non avevo mai parlato con un professore di letteratura. Pensavo foste stati perseguitati ingiu-
11 Miguel de Cervantes, La storia di don Chisciotte della Mancha, Edoardo Perino editore (1888), traduzione di Laura Barberi.
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stamente, linciati da una società stupida e superficiale. E invece non è così. Siete stati voi la causa di tutto. Avete trasformato la letteratura in un concetto tanto elitario da escludere i lettori stessi. Vi siete isolati in un recinto di pregiudizi, arroganza e paroloni intellettualoidi. Potevate avvicinare le persone alla lettura, aprirvi alla modernità, invece avete preferito coccolare e masturbare il vostro ego. Avete condannato la nostra e tutte le generazioni future a un mondo senza libri.» Fa una pausa, prende fiato e sfoggia un sorriso mefistofelico. «Ma stai tranquillo, la situazione cambierà e tutti torneranno a leggere… anche sotto l’ombrellone.» Detto questo si alza ed esce. Lei sì che sbatte la porta. Io borbotto un saluto e la raggiungo. Trema per la rabbia. Impreca, impreca, e impreca ancora un po’. Poi pronuncia due parole che mi fanno capire quanto sia sconvolta: «Avevi ragione…» Sono troppo sorpreso per ascoltare il resto. Pensavo servisse un viaggio all’inferno e ritorno per guadagnarmi un “avevi ragione” e invece è bastato andare a trovare Antonio e Clara. Non che ci sia molta differenza in effetti. Quando torno in me, il momento di debolezza è già passato. «Adesso, darling, mi porti sul battello a vapore, niente scuse. E spera che funzioni, altrimenti ti affogo nel lago assieme a quel demente sdentato.» Così amorevole…
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Capitolo 18
«Quelle sono anatre?» «Forse.» «Andiamo gioia, scoprilo.» «E come? Lo chiedo a loro?» «A chi?» «Alle anatre?» «Oh sì, bravo, parla con le anatre e chiedi dove vanno quando il lago gela.» «Questo lago non gela.» «Ah no? Allora non ho capito di cosa parlava Salinger.» Se non è chiaro, siamo strafatti.
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Dopo aver lasciato casa di Sergio, abbiamo trovato il battello a vapore e, con somma gioia di Eleonora, funzionava alla grande. È l’unica parte del parco tenuta con cura. Sembra nuovo, o meglio antico. Insomma sembra un battello a vapore originale. Legno dipinto di bianco, pale e via discorrendo. A ogni modo siamo saliti e abbiamo trovato i libri. Ci siamo rimasti secchi. Li tengono qui per sicurezza. Quando Carabinieri o Guardia di Finanza vengono dentro al parco per fare controlli, questi intellettualoidi mettono tutti i libri in una mega sacca a chiusura ermetica e la buttano nel lago. Il lago è protetto dagli animalisti perché ci sono anatre, cigni e via discorrendo, e quindi niente controlli nel lago. A ogni modo c’erano i libri, c’era il battello, c’era il tempo e quindi ci siamo strafatti come uno scriba dell’antico Egitto. Erano anni che non mi facevo con Il giovane Holden. Mi lascia secco, ogni volta. Quando squilla il cellulare, però, l’euforia prende il volo e migra insieme alle anatre di New York. Sono Antonio e Clara, hanno finito di leggere il “romanzo che salverà i romanzi”, ci aspettano a casa. «Pensi che sia piaciuto?» «Non lo so. Non hanno detto nulla.» «Ma il tono? Che tono avevano?» «Normale.» «Oh Gesù, Amleto, che vuol dire “normale”? Era un tono ammirato? Oppure negativo?» «E come sarebbe il tono ammirato?» E via discorrendo12, finché il battello non attracca al molo ed Eleonora mi trascina di corsa fino a casa dei miei.
12 J.D. Salinger, Il giovane Holden, Einaudi (1961), traduzione di Adriana Motti.
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Suoniamo. Aprono la porta. Salutiamo. Ricambiano. Ci sediamo negli stessi posti della mattina. C’è tanto imbarazzo che sembra di star più stretti. «Amleto, abbiamo capito che ti dobbiamo delle scuse» esordisce mio padre. «Abbiamo voluto trasmetterti il nostro amore per la letteratura – era importante farlo – ma non ci siamo riusciti nel modo giusto.» «Perché non ci hai mai detto quello che provavi?» chiede mia madre. Stringo le spalle. «Ero un ragazzino, cosa pretendevate?» «Ha ragione, Clara, era nostro compito capirlo. Abbiamo sbagliato, e ti chiediamo scusa. Però lasciaci dire che siamo orgogliosi di come sei cresciuto e siamo onorati che tu ti sia rivolto a noi per avere un giudizio sul romanzo che avete scritto.» Apro la bocca per spazzare via quell’illusione, ma Eleonora mi appoggia la mano sul ginocchio. La guardo. Sorride e scuote la testa. Per un istante penso che non sia giusto tacere, non con tutto quello che mi hanno fatto passare. Poi però torno a osservarli e… rimango in silenzio. Nemmeno io so bene perché. Eleonora mi dà due colpetti sulla gamba e approva la mia scelta. Antonio e Clara non si accorgono di nulla. Hanno iniziato a parlare del libro e ci stanno sommergendo di complimenti. Sentiti, autentici, intervallati da scuse per non aver capito l’importanza del progetto. «Ma dovete stare attenti. Giurateci che starete attenti» quasi implora mia madre. «Il Bibliotecario è spietato, vi si scaglierà contro non appena capirà che siete una minaccia.» «Posso chiedervi una cosa?» interviene mio padre. «Come pensate di distribuirlo? Avete una strategia?» Eleonora annuisce. «Vogliamo raggiungere fin da subito moltissimi lettori, creare il passaparola. Non sottovalutiamo il Bibliotecario e sappiamo che scoprirà
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l’esistenza del nostro libro, ma dovrà farlo solo quando sarà troppo tardi.» Non sapevo nulla di questo piano e ancora una volta rimango stupito dalla preparazione della leader maxima. I miei genitori le chiedono ulteriori dettagli e lei continua a stupirmi. «Stamperemo molte copie, moltissime copie, e invaderemo il mercato editoriale. Non un po’ alla volta, ma tutto il mercato, fin dall’inizio. Quando il Bibliotecario lo scoprirà non potrà più fermarci.» Mio padre annuisce mentre mia madre diventa pensierosa. «Ci sarebbe un altro modo di raggiungere contemporaneamente lettori di tutto il mondo» dice. Mio padre le afferra il braccio, folgorato dall’idea. «Ma certo Clara, perché non ci abbiamo pensato subito?» «Di cosa state parlando?» chiedo. «Amleto, tua madre ha appena trovato una soluzione molto più efficace ed economica per la vostra distribuzione.» «E sarebbe?» «La London Book Fair.» «Ma possono partecipare solo gli espositori invitati» interviene Eleonora. «Sì, cara, ma noi conosciamo uno degli organizzatori.» «James Thomas, un ragazzo gentilissimo, è stato ospite della comunità un paio di anni fa. O sono già tre?» Interrompo sul nascere le divagazioni di mia madre. «Posso sapere di cosa state parlando?» «La London Book Fair è il paradiso dei libromani» risponde Eleonora. «Una fiera in cui ogni editore ha lo spazio per vendere i suoi libri. E poi musica, letture in pubblico, presentazioni.»
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«Sembra un rave party per sniffa-inchiostro.» «Praticamente sì.» «E perché non ne ho mai saputo nulla?» «Beh…» tentenna mio padre. «Ah, ho capito. Immagino sia un posto pericoloso.» «Lo è», conferma, «ma potrebbe anche essere il modo migliore per farvi conoscere. Potreste affittare uno spazio con un nome fittizio, arrivare senza clamore e presentare la vostra opera.» Avrei decine di domande da porre, ma Eleonora mi anticipa annuendo convinta. «È perfetto. Perfetto!» Ora devo solo tentare di capirci qualcosa.
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Capitolo 19
«Tesoro, non è possibile che tu ancora non abbia capito.» «Se qualcuno si fosse preso il disturbo di spiegarmi, magari ci sarei riuscito.» «Mi fai morire quando fai l’offeso.» «Non faccio l’offeso, vorrei solo che mi spiegassi di cosa avete parlato tu e i miei per tutta la cena.» «Metti il broncio come Brontolo.» Hanno passato la serata a discutere, mentre io cercavo invano di capire. Pensavo che dopo lo sfogo della mattina, e dopo le scuse ricevute, mi sarei guadagnato un po’ di attenzione da parte dei miei, e invece niente.
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Tutta le sera a parlare di libri, del Bibliotecario e di questa dannatissima fiera per tossici. E io lì a chiedere senza avere risposte. Poi siamo partiti in tutta fretta, perché «non possiamo perdere tempo, darling. Dobbiamo tornare al casolare, chiamare le ragazze, organizzarci». E quindi sono qui, a guidare, di notte, dopo aver passato tutta la giornata in quell’inferno di parco. E questa mi dice che le ricordo Brontolo. Ce n’è abbastanza per uscire di testa, non trovate? Inspiro. Espiro. Mi concentro sulla guida e aspetto che l’istinto omicida diventi meno impellente. Il traffico sull’autostrada è scorrevole. Ci sono i camion che sfruttano la notte per spostarsi, e poi c’è la nostra Mini, un microbo tra i giganti. «Andiamo, ciccino, non mettere il muso, ora ti spiego…» esordisce ma è costretta a interrompersi. Veniamo tamponati. L’impatto è fortissimo. I nostri corpi vengono schiacciati contro le cinture di sicurezza. Il lunotto posteriore va in frantumi. La macchina sbanda a destra e a sinistra. Riesco a mantenere il controllo. Guardo lo specchietto retrovisore. Una grossa griglia rinforzata resa vermiglia dalle luci di posizione della Mini. Rallenta e indietreggia nel buio. È un suv con i fari spenti. Eleonora abbassa il parasole e guarda dietro attraverso lo specchio per il trucco. «Va bene» mormora. «Sei pronta per questa situazione. Prima regola: mantenere la calma.» Sta parlando allo specchio. Bene! Ci mancava solo questa. «Eleonora ma che…» «Seconda regola: accelerare.» «…diavolo stai facendo?» «Accelera!» urla Eleonora. «Come?» «Ho detto accelera, cazzo!»
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Scalo dalla quinta alla quarta, sfrutto lo slancio del motore e schiaccio tutto il pedale dell’acceleratore. L’auto scatta in avanti, ma il suv è più veloce. Ci sperona. Le lamiere si accartocciano. Le cinture affondano nella carne. Il suv rimane lì, attaccato al nostro culo. Spinge. «Mantieni il controllo!» «Eleonora ma che cazzo…» «Tieni. Dritta. Questa. Macchina. È la terza regola.» Si china. Cerca qualcosa sotto il sedile. «E poi?» Si rialza. Una pistola per mano. «Tiro fuori gli artigli.» Slaccia la cintura di sicurezza. Sposta il sedile in avanti. Prende posizione con cura: in ginocchio, il culo appoggiato al cruscotto, le braccia stese ai due lati del poggiatesta. Spara. Uno, due, tre volte. Il rumore è assordante. I colpi scintillano sul cofano del suv, che continua a spingere. Il mio piede è ancora sull’acceleratore. Se rallento veniamo schiacciati. Se sterzo perdiamo il controllo. Ma c’è un camion, sei, settecento metri di fronte a noi. E va piano, troppo piano. Glielo urlo. Eleonora osserva la situazione sopra la sua spalla destra. Le luci rosse del camion sono sempre più vicine. «Devi mantenere la calma, tesoro. Respira.» «Respira un cazzo! Cosa faccio?» «Quando te lo dico buttati a sinistra.» E spara. Cinque colpi da ogni pistola. Lampi, scintille, boati. E poi fumo. Il suv perde terreno. La carrozzeria scricchiola. Il paraurti si stacca. «Ora!» Sterzo. Mi butto verso la corsia di sorpasso. Eleonora spacca il finestrino accanto a lei con il calcio della pistola. Sposta il corpo verso di me. Appoggia la schiena sulla mia spalla. Punta le pistole fuori dal vetro appena rotto.
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«Frena!» urla. Eseguo. Le gomme stridono. La Mini si affianca al suv. Lei spara. «Vai! Vai! Vai!» Scalo in terza. Accelero. L’auto scatta in avanti. Il suv sbanda dietro di noi. Parte in testacoda. Rimbalza sul New Jersey e poi sul camion. Si cappotta. Rotola sull’asfalto. Qualche istante di silenzio. E poi esplode. «Eleonora, ma che cazzo…» «Non ti fermare, gioia, continua dritto.» Rimette indietro il sedile, si siede in punta, di traverso, la testa che si muove a scatti a destra e sinistra. Indica un cartello. «Va bene, ci siamo. Un’area di sosta tra cinquecento metri. Fermati lì.» Le mie mani iniziano a tremare, e poi le braccia. Eleonora se ne accorge. «Tesoro, non crollare adesso. Non adesso.» Annuisco. Stringo le mani sul volante. Le nocche diventano bianche, il tremore passa. Vedo l’area di sosta, rallento. Metto addirittura la freccia. Bisogna essere prudenti alla guida, giusto? Una risata isterica mi sale alla bocca. Cerco di trattenermi, ma non ci riesco. Sghignazzo. Fermo la macchina. «Fuori di qui, forza.» Esco piegato in due dalle risate. Eleonora gira intorno alla macchina. Si avvicina e mi molla un ceffone. Poi mi afferra la testa con entrambe le mani e mi fissa negli occhi. Ha il volto graffiato e un taglio profondo nell’attaccatura dei capelli. «Respira, darling, respira. Piano, così, bravo. Rimani con me.» Annuisco. «Bene. Ora sta’ zitto un attimo che devo pensare.» Guarda la Mini, poi la strada e la campagna intorno a noi. Sembra indecisa. Mentre gira su se stessa mor-
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mora qualcosa, come un mantra: «Cancella e scappa, cancella e scappa.» Alla fine batte le mani, e mi indica. «Dammi il tuo Zippo.» Glielo passo. Il tremore è tornato. Lei si china verso l’interno della macchina, afferra la borsa, il libro e il resto delle nostre cose. Toglie le chiavi dall’accensione e corre verso il serbatoio. Lo apre. Strappa un pezzo di maglia e lo infila nel bocchettone. Indica con la testa i campi che costeggiano l’autostrada. «Via di qui, forza. Corri!» Accende lo Zippo e dà fuoco allo straccio. Oh, cazzo! Corriamo. E poi la seconda esplosione della serata, con l’aria bollente che ci colpisce e ci fa barcollare. Ma continuiamo a correre.
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«Si può sapere chi cazzo sei?» chiedo. «In che senso…» «Secondo te?» «Non ti capisco, gioia.» «Voglio che mi spieghi chi sei. È chiaro così?» «È una domanda esistenziale, la risposta è troppo lunga.» «Puoi iniziare dalle pistole, che ne dici? Vai sempre in giro armata?» Si stringe nelle spalle. «Sì.» «Come… sì! Ti sembra normale?» «Me le ha regalate mio padre.»
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«Tuo padre? E chi cazzo è tuo padre?» «Un tipo ricco che tiene alla sua sicurezza.» Quasi mi strozzo per lo stupore. «Alla sua… sicurezza?» Ancora spallucce. «E quelle… cose, regole, quello che diavolo erano… che ripetevi?» «Ah sì», sbuffa, «il mio allenatore ha questa mania per le regole.» «Allenatore?» «Non capisco quale sia il problema, tesoro. È stato un bene che avessi le pistole, siamo salvi.» Allargo le braccia. «Non è questo il punto.» «E qual è allora?» Sospiro. «Non lo so.» Mi siedo per terra, ginocchia al petto. Abbiamo corso per i campi, finché il fiato ce l’ha permesso, poi abbiamo continuato camminando, finché le fiamme della Mini sono diventate nulla più di un bagliore lontano. Abbiamo usato i cellulari come torce, ma siamo comunque inciampati e caduti. Siamo stanchi, sporchi, con i vestiti strappati in più punti, fermi sul bordo di una stradina mal asfaltata al confine tra Marche ed Emilia Romagna. Aspettiamo Caterina. L’ho chiamata una quarantina di minuti fa e ringrazio tutti gli dei, i santi e i martiri di qualsiasi religione per aver comprato un cellulare con gps e navigatore. Avete presente quando vedete queste due funzioni nell’elenco delle dotazione di un telefono e pensate “sono inutili, non le userò mai”? Beh, pensateci meglio! Ho mandato a Cate le nostre coordinate e sono crollato a terra, distrutto. Hanno cercato di ucciderci. Non so chi sia stato, né perché, e nemmeno se ci riproveranno. Sono tutte domande a cui dovremmo trovare risposta, ma non ora, non riesco a pensarci. Ora riesco solo a guardare Eleo-
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nora e domandarmi come sia riuscita a trasformarsi da ragazza viziata e megalomane a Wonder Woman glaciale e sputa piombo. «Sei ancora sconvolto, darling?» chiede, sedendosi accanto a me. «Tu no?» «Sì, ora sì.» «Ora?» Annuisce. «Mi hanno insegnato a reagire senza pensare, ma ora che l’adrenalina è sparita…» «Hai un allenatore che ti insegna queste cose?» «Già, corso di difesa personale.» «Difesa personale? E chi era l’istruttore, John Rambo?» Si stringe nelle spalle. «No, sul serio, chi diavolo sei? Ti chiami veramente Eleonora?» «Ma certo che mi chiamo Eleonora, scemo! Non sono Jason Bourne travestito, fidati.» Mi volto a guardarla in faccia. «Hai il coraggio di fare del sarcasmo? Te ne vai in giro con due pistole in macchina, fai esplodere i suv e mi rifili il tuo sarcasmo?» «Sei tu che fai domande idiote, non te la prendere con me. E poi ho salvato le nostre vite. Un “grazie” sarebbe apprezzato.» Abbasso lo sguardo, mormoro grazie e riprendo a guardare il buio di fronte a me. «Scusami, non sono abituato a tutto questo» e il fatto di esser sembrato una fighetta isterica non aiuta, ma questo non lo dico. Sospira. «Nemmeno io, tranquillo. Mio padre ha sempre voluto che mi sapessi difendere, ma era la prima volta che sparavo fuori da un poligono di tiro.» «Voleva un figlio maschio?» «Assolutamente no. Teneva solo alla sicurezza della sua principessa.»
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Scoppio a ridere. «Non son l’unico ad avere genitori stravaganti.» «No, direi proprio di no» e ride anche lei. Una luce ballonzola in lontananza sulla nostra strada. Si avvicina e si divide nei fasci paralleli dei fari di una macchina. Il cellulare vibra in tasca. Lo estraggo. Caterina. «Dove sei? Sono arrivata, ma non sento l’odore del tuo testosterone.» «Continua dritto, noi ti vediamo.» La chiamata termina, i fari lampeggiano. Una Punto scura accosta accanto a noi e abbassa il finestrino. «Stavo suonando il trombone con Sara, per cui spero per voi che sia una cosa importante.» «Hanno cercato di ucciderci.» Grugnisce. «O-Kappa, avete vinto. Salite e muoviamoci da qua.» Non ce lo facciamo ripetere. Mi stendo sul sedile posteriore, Eleonora si siede davanti e aggiorna Caterina sull’assalto subìto in autostrada. «Ragazza, complimenti per il sangue freddo» commenta Cate. «Ora avete bisogno di un luogo sicuro. Qualche suggerimento?» Scuotiamo la testa. «Allora vi porto al mio magazzino.» L’idea di tornare in quel posto mi dà il voltastomaco, ma non mi sembra ci siano alternative. Do il mio assenso. «Poi cerchiamo di scoprire chi vi vuole morti.» Il peso della frase ci crolla sulle spalle. Rimaniamo in silenzio. E quindi, dopo poco meno di un’ora dall’attentato alla mia vita, eccomi di nuovo nel teatro degli orrori di Caterina, con l’immagine dei cadaveri di fronte agli occhi e il rumore della sega nelle orecchie. Non è una questione di rimorsi, ma è stata di sicuro la serata più
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schifosa che abbia mai passato. Il sangue, la puzza, la stanchezza. Peggio anche di questa, durante cui qualcuno ha cercato di uccidermi. Non riesco a pensare ad altro, cazzo! I soldi facili non esistono, dico bene? Cate parcheggia la Punto all’interno del magazzino, poi chiude la saracinesca. «Eccoci qua…» Un bip acuto interrompe il suo discorso. «Scusate, è una mail di lavoro. Devo rispondere.» Mi fa l’occhiolino. «Amleto, fai gli onori di casa.» Caterina si siede accanto a un bancone e inizia a trafficare al computer. Io ed Eleonora andiamo verso le altre stanze. Le mostro la camera, l’armadio degli asciugamani e il bagno. Lei si avvicina subito al lavandino e inizia a togliersi il sangue secco dal viso. Il brutto taglio sulla fronte si è rimarginato, ma una scia di sangue le è colata sulla guancia destra e poi giù per il collo. Si sfila la maglia e lega i lunghi capelli da una parte della testa, poi fa scorrere l’acqua calda e mi chiede di passarle un asciugamano pulito. Mentre lo specchio si appanna per il vapore acqueo, lei sta lì in reggiseno, e passa sulla pelle chiara il panno bagnato. Sensualità senza tette da post-apocalisse, ha il suo effetto nonostante la stanchezza. Lo scappellotto improvviso di Cate mi riporta a una realtà molto più prudente e opportuna. «Non fare il guardone, principino.» «Non sto…» Ma lei prosegue senza farmi ribattere. «Ho una notizia brutta e una bruttissima per voi.» «Prima la brutta» dico. «Avete fatto incazzare qualcuno di pericoloso.» «Ora non so se voglio sapere l’altra notizia.» Eleonora smette di pulirsi e si volta verso di noi. «Io sì, avanti.» Cate sorride. «Sono stata ingaggiata per farvi fuori.»
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Capitolo 21
Eleonora si irrigidisce, il volto imperlato di vapore, gli occhi guizzanti in cerca della borsa e, soprattutto, delle pistole al suo interno. Ma la borsa è in camera, abbandonata sul letto, troppo lontana per essere raggiunta. Allora mi fissa negli occhi e fa un lieve cenno con la testa. Ăˆ il mio turno di tirar fuori gli artigli. Ma io non sono Wolverine, anche se avrei sempre voluto esserlo. Per cui mi limito ad alzare le mani e arrendermi al mio destino. Per fortuna di tutti non servono armi o combattimenti in stile Bruce “ho fatto il culo a Chuck Norrisâ€? Lee.
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«Rilassati, tigrotta», dice Caterina mostrando i palmi vuoti, «se avessi voluto uccidervi sareste già a guardare sotto le tuniche degli angeli. Sono sempre stata curiosa di sapere se quella storia degli asessuati è vera.» «Le tue curiosità sono discutibili» mormoro di rimando. «Pensala come vuoi, zuccherino, ma se il paradiso è una terra senza sesso, preferisco l’atmosfera infiammata dell’inferno.» «Come se potessi scegliere.» Scoppia a ridere. «No, non credo in effetti.» Poi torna seria e indica con la testa lo stanzone da cui siamo entrati. «È il caso di fare una chiacchierata.» Non abbiamo obiezioni, la seguiamo. Oltre la macchina ci sono cinque o sei sedie di plastica impilate. Caterina ne prende due e le trasporta senza sforzo fino al bancone. Gira quella già posizionata di fronte al computer ed eccoci seduti a parlare di libri, killer e fiere internazionali. «Spiegaci di cosa stavi parlando» esordisce Eleonora. «Non c’è molto da dire» risponde Cate. «C’è qualcuno con tanti soldi a disposizione che vi vuole morti e sepolti.» «Chi?» «Non lo so. L’anonimato è fondamentale nel mio lavoro.» «E allora come fai a sapere che è ricco?» «Perché altrimenti non potrebbe permettersi la mia parcella.» «Ma tu non hai accettato, giusto?» intervengo. «Certo che ho accettato.» «Mi prendi per il culo?» «No, però se vuoi tiro fuori lo strap-on.» «Vaffanculo, Cate.» «Sta’ calmo, non ti scaldare. Ho accettato per darvi
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una mano. Secondo il contratto ho quarantotto ore di tempo per spedirvi in qualunque paradiso voi crediate. Questo significa che avete due giorni per nascondervi e sparire.» «E poi?» «Poi verrà ingaggiato qualcun altro e dovremmo inventarci qualcosa per farvi sopravvivere.» Annuisco in silenzio ed Eleonora prende la parola. «Ci sono altri dettagli per questa… missione?» «L’obiettivo sei tu, poi c’è un bonus per il recupero del libro.» Sospiro di sollievo. Entrambe le ragazze si girano verso di me. «Che c’è?» chiedo. «Non posso essere felice di non essere l’obiettivo di un killer?» Cate sorride. «Il file ti definisce, e cito, “utile per ottenere informazioni”.» «Che significa?» «Pensa a come ho ottenuto le informazioni dal romano.» Deglutisco a vuoto e rimango in silenzio. «Puoi mostrarci il file?» chiede Eleonora. Caterina allunga un braccio e gira il portatile verso di noi. «Non c’è molto. Foto, indirizzi, descrizioni delle vostre auto e le coordinate del tuo magazzino in campagna. Sul libro praticamente nulla.» «E come faresti a recuperarlo?» «Dicono che lo porti con te.» Eleonora impreca. «Qualcuno ci ha traditi.» «Già, questo è sicuro. Cosa avete combinato dall’ultima volta che ci siamo visti?» Eleonora fa un breve ed esauriente riassunto della nostra attività. L’arrivo delle ragazze, il lavoro in isolamento, la cena di commiato e poi la partenza per Fiabilandia.
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Cate inizia a riflettere. «Che sia stata una delle ragazze…» ma viene subito interrotta. «Non è possibile! Le mie compagne credono troppo nella nostra causa per tradirci.» «Lo diceva anche Gesù Cristo dei suoi apostoli.» «Senti, cocca, ficcati il sarcasmo tra le tette e dammi retta. Non possono essere state loro. Magari quel Sergio o qualche altro che ci ha visti nel parco.» «O magari sono stati i miei genitori» suggerisco. «Non dire cazzate» sbotta Caterina. «Antonio e Clara non lo farebbero mai.» «Se lo dici tu…» Anche Eleonora scuote la testa con decisione. «No, gioia, non avrebbe senso.» «E perché no?» «Pensaci e vedrai che ci arrivi anche da solo.» L’unica cosa che mi viene in mente è quella storia della fiera, ma non mi sembra abbia molto senso. «Intendi perché ci hanno parlato della London Book Fair?» Eleonora sgrana gli occhi e impreca. «Tesoro, un po’ di riserbo!» «Cosa?» «Avevamo detto di non parlane così… liberamente.» «In realtà è tutta la sera che chiedo una spiegazione. Se ti fossi degnata di dirmi qualcosa magari sarei stato più riservato.» «Riservato con la tua migliore amica?» chiede Caterina offesa. Perfetto! Cerco di rimediare con una battuta. «No, a Sara glielo avrei detto.» «Ah sì? Allora chiama lei la prossima volta che tentano di ucciderti.» Merda! Ma possibile che questa sera non ne va una giusta? Alzo le mani e fermo la discussione. «Okay, basta, facciamola finita. Eleonora, tra me e Cate non ci sono
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segreti, per cui lascia da parte la paranoia e parla liberamente. Cate… tu limitati ad ascoltare, per piacere.» Aspetto cenni d’assenso da parte di entrambe. Ci mettono un po’ ad arrivare. «Parlavamo della London Book Fair» riprendo. «Sarebbe?» chiede Caterina. «Una fiera del libro» risponde Eleonora. «In Inghilterra esiste un movimento chiamato The Pickwick’s Army. Ogni anno organizzano una manifestazione dove alcuni editori selezionati presentano la loro merce, mentre i lettori si radunano per leggere e strafarsi. È chiamata London Book Fair.» «E cosa c’entra questa con Antonio e Clara?» Eleonora racconta l’incontro con i miei, senza tralasciare nemmeno la mia sfuriata. «Sei uno stronzo» commenta Caterina. «Concentriamoci sulla storia di Londra, okay?» dico, facendo cenno di continuare. «La manifestazione è sempre dalle parti di Londra. I lettori vengono a conoscenza di data e luogo con pochissimo preavviso, tramite una e-mail criptata, mentre gli editori possono partecipare solo con la garanzia di un organizzatore. Antonio e Clara ne hanno conosciuto uno, qualche tempo fa, e ci hanno dato il suo contatto. Se pensavano di tradirci non lo avrebbero fatto, mi sembra ovvio.» «Concordo. Solo un’idiota come Amleto può pensare il contrario.» «Guarda che ti sento.» «Lo spero bene. Devi iniziare a rispettare i tuoi genitori. Se lo meritano.» «Prima troviamo il modo di sopravvivere e poi penso ad Antonio e Clara, okay?» Sbuffa poi si gira verso Eleonora. «Perché volete partecipare alla fiera?» «Per spacciare il nostro libro. Durante il periodo della Book Fair lettori di tutto il mondo viaggiano fino
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a Londra e aspettano l’e-mail. Fanno baldoria per tutta la durata della fiera e poi tornano nei rispettivi Paesi di origine portandosi dietro le ultime novità dell’editoria. È il miglior modo per farsi conoscere in poco tempo.» «Capito. Quando avevate intenzione di partire per Londra?» «Abbiamo bisogno di almeno una settimana per i preparativi…» «Beh, penso che dovremo anticipare.» Eleonora aggrotta la fronte e fa per parlare, ma Caterina l’interrompe subito. «Non sapete chi vi ha tradito e tra due giorni avrete un killer spietato e ben pagato sulle vostre tracce. Vi serve qualcuno di cui fidarvi, che vi aiuti a sparire e che vi protegga. Ti dovrebbe bastare questo per capire che dobbiamo partire subito e che avete bisogno della mia compagnia.» Ma la leader maxima non è d’accordo, e inizia così una lunga discussione a chi ha il dildo più grosso. Ci starebbe bene un duello di scherma con falli di gomma, ma (con mio sommo rammarico) si limitano a discutere e alzare la voce. Per cui mi alzo, ignorato da entrambe, ed esco a fumarmi una sigaretta. Cerco nelle tasche il mio Zippo, ma non riesco a trovarlo. Lo ha ancora Eleonora. Sto per rientrare quando rivedo, di fronte ai miei occhi, la scena dell’assalto e soprattutto le grosse pistole apparse come per miracolo. Mi allontano di qualche metro e chiamo Giacomo. Non sarà felice di essere svegliato a quest’ora della notte, ma ho bisogno del suo potere informatico. Risponde dopo molti squilli. «Pronto?» «Ehi, Giax!» «Amleto?» chiede sorpreso. «Lo so, amico, non mi faccio sentire per settimane e poi ti chiamo a quest’ora della notte. Chiedo venia. Ho bisogno di un favore. Devi fare una ricerca per me.»
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Gli racconto tutto quello che so su Eleonora e gli chiedo di trovare tutte le informazioni possibili su di lei. La quantità di soldi che lei mi ha promesso garantisce una bella mole di fiducia, ma non quella necessaria a trascurare la sua trasformazione in Nikita. Giacomo risponde che avrà bisogno di alcuni giorni, e rimaniamo per una chiamata da parte mia tra settantadue ore. Quando rientro le ragazze hanno smesso di discutere. «Sbrigati, zuccherino, dobbiamo preparaci per il viaggio.» A quanto pare l’ha spuntata Caterina.
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Caterina dà un significato molto particolare alla fase dei preparativi. Non sono un esperto, lo devo ammettere. A parte due viaggi distruggi-neuroni nei Book Shop di Amsterdam, non mi sono mai mosso da Ancona. In ogni caso non ho bisogno di un agente turistico per sapere che prima di partire bisogna preoccuparsi dei biglietti aerei, del pernottamento e dalla valigia. Sono queste le cose fondamentali, giusto? E invece no, è sbagliato. Almeno secondo Cate. Mentre Eleonora va a farsi una doccia (non è brava ad accettare le sconfitte), il mio angelo custode tettuto e assetato di sangue mi costringe a sedermi di fronte al
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computer per scrivere la lista delle cosa da fare prima del viaggio. Questo non vuol dire che io partecipi alla decisione, sia chiaro. Lei detta e io scrivo. Tutto molto democrazia-free.
Lista 1. Documenti falsi 2. Soldi 3. Armi 4. Cellulari usa e getta 5. Albergo 6. Biglietti aerei 7. Piano B A mutande, calzini e vestiti nemmeno ci pensa. Mentre scrivo, Caterina ragiona ad alta voce per cui riesco a capire la sua logica. Ora ve la riassumo. Prima di tutto abbiamo bisogno di nuove identità. I mastini che verranno sguinzagliati contro di noi saranno professionisti del settore. Non impiegheranno molto tempo a capire che non siamo più dalle parti di Ancona e inizieranno a guardarsi intorno. Le liste passeggeri delle compagnie aeree e i registri della dogana dovrebbero essere ben protetti dagli attacchi informatici, ma è quel condizionale che tende a fregarti. Perché in realtà non lo sono. E quindi abbiamo bisogno di documenti falsi. Punto due: i soldi. I movimenti di carte di credito e bancomat sono tracciabili, per cui servono contanti o beni di valore da vendere una volta a Londra. I soldi sono fondamentali anche per il tassello successivo, le armi. Sarebbe bello poter andare a casa di Caterina e riempire un paio di trolley con la sua “riserva personale”, ma tre persone che cercano di imbarcarsi con le valigie piene di armi trasformerebbero la dogana in una slot machine post jackpot. E sono certo che il premio finale
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non sarebbe di nostro gusto. Dobbiamo quindi trovare il modo di procurarci i “ferri” (come li chiama Cate) una volta arrivati, o ancora meglio trovare qualcuno che ci aspetti all’aeroporto di Stansted con un’armeria nel bagagliaio. Dopo questioni gravi come identità, soldi e armi, pensare a cellulari e albergo sembra una sciocchezza, ma quando lo faccio notare mi becco uno scappellotto. A quanto pare molte delle vittime di Cate sono state individuate per aver usato i propri cellulari o per aver scelto alberghi lontano da vie di fuga facili da raggiungere. Errori che non vogliamo commettere. Il punto più sorprendente della lista però è il sesto, perché uno potrebbe pensare che sia difficile comprare dei biglietti d’aereo quando si vuole mantenere l’anonimato, e invece scopro che basta andare in aeroporto con contanti e documenti falsi, avvicinarsi al banco della compagnia aerea e acquistarli. Non rimane che il piano B, ma a questo punto è arrivato il mio turno per la doccia e lascio quindi il posto a Eleonora che, con i capelli ancora umidi, si siede, dà un occhiata allo schermo del computer e inizia subito a battibeccare con Caterina. Sono troppo stanco per gustarmi lo spettacolo. Esco dalla stanza e le lascio sole. Prendo due asciugamani puliti dall’armadio ed entro in bagno. Lo specchio è ancora opaco per il vapore, ma basta il riflesso offuscato per capire che non ho una bella cera. Mi spoglio, entro nella doccia e spalanco il rubinetto dell’acqua calda. Una cascata bollente mi colpisce, mi isola, mi sommerge. Ne esco pulito e rilassato, o, meglio, diciamo più pulito e rilassato rispetto a prima. Quando sai che qualcuno vuole ucciderti il significato di parole come “rilassato” o “calmo” diventa relativo, ambiguo. E anche l’attenzione al decoro lascia il tempo che trova. Mi asciugo, indosso di nuovo i vestiti sporchi e strappati, e torno nell’altra stanza.
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«Ragazze, voi decidete pure quello che volete, ma io devo trovare qualche vestito pulito.» Caterina guarda Eleonora e scuote la testa. «Non ci sono più gli uomini di una volta.» «Tesoro, non abbiamo tempo per rifarti il guardaroba.» «Sono contento di vedere che appianate le vostre divergenze per prendermi per il culo… però dopo un po’ tendete a rompere il cazzo, vi avviso.» «Sì, mio principe, mi piaci quando fai il rude!» Non rispondo e sbircio sopra le loro spalle. Ogni voce della lista è stata barrata. «Abbiamo risolto tutto?» chiedo. «No», risponde Cate, «ma ci siamo quasi.» Indica Eleonora: «Lei farà un paio di telefonate per i soldi e per l’albergo», poi il computer, «io sto trattando per i ferri e i cellulari. Consegna unica appena atterrati.» E infine me: «Tu dovrai occuparti dei documenti…» «E come dovrei fare?» «Se mi lasci finire magari te lo dico…» «Minchia, ragazze, ma un po’ di valium no?» «Sei tu che fai il nervoso, darling.» «No, cara, fa lo stronzo. Ma sta tranquilla, bastano due sberle per fargliela passare.» «Va bene, mamme, faccio il bravo, promesso.» Caterina mi lancia un’occhiataccia poi continua, ingoiando la voglia di uccidermi. «Come stavo cercando di dire, ho contattato una ragazza che si occupa dei documenti. Lavora in un camper nascosto da qualche parte all’interno di Senigallia. È costosa, ma è la miglior grafica della zona, e ha accettato di mettersi subito al lavoro.» «E io che c’entro in tutto questo?» «Tu vai da lei, la paghi, prendi i documenti e torni qui.» «Vuoi dire adesso?»
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«No, tra una settimana. Aspettiamo che i killer vengano a ucciderci e poi andiamo a farci i documenti falsi.» «Cristo santo, Cate, ma sono le tre di notte! Ho bisogno di dormire. Possibile che ogni volta che finisco in questo posto non riesco a chiudere occhio?» «Conosci già la risposta.» Aggrotto la fronte, poi annuisco. «Le Red Bull in frigo, ho capito.» «Bravo il mio principe! Ora mettiti in posa che dobbiamo fare le foto.»
Quaranta minuti dopo sono in macchina a ballonzolare sulle buche di quella che, secondo la suadente voce del navigatore satellitare, è la strada della Benedetta. Nome che presumo dovrà essere cambiato dopo la scia di imprecazioni che mi sto lasciando alle spalle. Possibile che tutti quelli implicati con l’editoria debbano per forza vivere in posti sperduti? Non dico le mega ville dei narcotrafficanti che si vedono nei film, per carità, ma tra quelle e tutti i merdosissimi posti nel nulla che ho visitato in questo mese ci dovrebbe essere qualche passaggio intermedio, no? E poi, dannazione, ma le vogliamo asfaltare queste strade ogni tanto? Nell’ultima buca ho incrociato la deviazione per il quarto cerchio dell’Inferno. C’era anche un demone che faceva l’autostop mentre spingeva un masso più grande di questa macchina. Tra. Duecento. Metri. Svolta. A. Destra. E. Arrivo. Miss Navigatore interrompe il mio delirio, ed ecco lì il camper, esattamente alle coordinate indicate. Accosto sul ciglio della strada e spengo il motore. Buio. Apro lo sportello per accendere la luce di cortesia e sento il borbottio sommesso di un generatore.
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Qualche istante e arriva anche l’odore del diesel che lo alimenta. Raccolgo la borsa con i soldi ed esco. Busso piano alla porta. Sento una voce provenire dall’interno, e poi lo scatto della serratura. L’uscio si apre e mi ritrovo sull’orlo di un’altra dimensione. Non sono fatto e nemmeno ubriaco. Magari un po’ sovraeccitato per via delle Red Bull, però, insomma, non è un’allucinazione, ne sono sicuro. Anche perché prima di entrare mi guardo un’ultima volta alle spalle e per sicurezza tocco anche le lamiere del camper. Tutto reale. Ma strano, tanto strano. Perché fuori, nella notte, c’è la campagna marchigiana, mentre dentro, illuminato a giorno, c’è il camper di Jane Austen. «Tu devi essere Amleto.» Annuisco a bocca aperta. La ragazza è magra, lineamenti spigolosi ma espressione dolce. Ha i capelli acconciati in una crocchia scomposta, il collo scoperto ed elegante. È una bellezza diversa, particolare, fuori dal tempo, come tutto in questa roulotte, d’altronde. «Io sono Emma, piacere di conoscerti.» Si aspetterà il baciamano? Opto per una più moderna stretta. «Piacere mio.» Mi lascia entrare. Ora mi prenderete per matto, lo so, e forse lo sono diventato. Qualcosa tipo stress post-traumatico, o roba simile. O magari solo troppi libri. Dicono tutti che la letteratura brucia il cervello e quindi prima o poi deve accadere, è inevitabile. Però provate a darmi credito, okay? Perché sono quasi certo di non essere pazzo (come dicono tutti i pazzi) e quello che vedo sembra troppo reale per essere un’allucinazione. Sulle pareti una carta da parati crema con righine bordeaux, sulle finestre oscurate delle tendine in pizzo, sul soffitto una geometria di stucchi e un piccolo lampadario in ottone. A sinistra, dietro un paravento decorato a tema floreale, si intravede l’angolo di un let-
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to a baldacchino, al centro un tavolino da tè con tanto di tazzine di porcellana, biscottiera e teiera fumante, e infine, a destra, un tavolo da disegno in legno decorato. Accanto a quest’ultimo ci sono una serie di mele morsicate a indicare computer, scanner e stampanti rigorosamente realizzate nella bottega artigiana di Steve Jobs. «Posso offrirti qualcosa? Tè? Biscotti?» Scuoto la testa. «No, grazie mille.» «Allora mettiamoci al lavoro. Hai portato le foto?» Panico. «Non ti sono arrivate per e-mail?» Storce la bocca, dubbiosa. «Controlliamo subito.» Si avvicina al computer. «Oh, sì, eccole. Non avevo controllato. Chiedo scusa.» Sollievo. «Tranquilla, nessun problema.» Sorride gentile. «Accomodati pure, ci vorrà qualche minuto. E se hai fame o sete, serviti pure.» Mi siedo accanto al tavolino da tè e fingo di armeggiare con il mio cellulare. «È stato difficile trovare questo posto?» «No, con il navigatore satellitare no.» «Bene. Purtroppo devo spostarmi spesso e sempre in zone poco frequentate. Per sicurezza, capisci?» «Sì, certo.» Esito un istante, poi chiedo. «Ma tu vivi qui?» «A volte penso di sì» ride. «In realtà questo dovrebbe essere solo una specie di rifugio.» Annuisco. Silenzio imbarazzato. Riprendo a giocare con il cellulare, mentre le stampanti entrano in funzione. «Ecco fatto» esclama dopo qualche minuto. «Vuoi venire a vedere?» Mi avvicino. Emma mi mostra tre carte d’identità. Filippo Mengarelli, Alessandra Rossi e Francesca Mariani, prima conosciuti come Amleto, Eleonora e Caterina. Sono perfetti. «I documenti in sé sono autentici», mi spiega, «ma
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ho sostituito le vostre foto a quelle dei proprietari. Ho scelto persone con caratteristiche fisiche simili alle vostre per cui non dovreste avere problemi. A meno di un controllo molto approfondito.» «Perfetto.» «Ora li infilo in una piccola centrifuga per simulare l’usura del tempo.» Sono impressionato. Un lavoro certosino. Costoso, ma certosino. Emma si alza e sparisce dietro al paravento. Io rimango in piedi accanto al computer. Sul piano del tavolo da disegno c’è la bozza di un’illustrazione. Mi avvicino incuriosito. Ha tutta l’aria di essere la copertina di un libro: sullo sfondo un paesaggio fantascientifico e in primo piano un elfo grasso, un mago, un giullare e una ragazza vestita di nero. In alto l’abbozzo di un lettering: si distingue la parola “città” ma il resto è troppo confuso. «Bella questa copertina» esclamo. «Come?» «Dico l’illustrazione qua, sul tavolo. Bella.» «Ah sì, trovi?» chiede mentre mi raggiunge poi, fingendo nonchalance, copre l’immagine con un libro. «È solo una sciocchezza che ho disegnato qualche giorno fa.» «Sembra la copertina di un libro.» Ride e scuote la testa, poi cambia discorso. «Okay, direi che i vostri documenti sono pronti. Comprese nel prezzo ci sono anche le patenti. Vi serve altro? Tessere della sanità, passaporti…» «No, non credo. Per arrivare a Londra bastano le carte d’identità, dico bene?» Quando sente “Londra” le si illuminano gli occhi e inizia a consigliarmi una lunghissima serie di ristoranti, pub e negozi d’antiquariato. Io cerco di pagare il dovuto per potermene andare, ma lei continua a parlare.
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Ci vogliono oltre venti minuti per fuggire da quella prigione vittoriana. Altro che genio della grafica… questa è matta da legare. Salgo in macchina, imposto il navigatore, parto. Quando raggiungo la strada statale, le prime luci dell’alba stanno schiarendo il cielo. Prendo il cellulare e chiamo Caterina. «Tutto fatto?» chiede. «Sì, a posto. Voi?» «Tutto sistemato. Partiamo all’ora di pranzo da Falconara. Volo Ryanair.» «Pranzo di oggi?» «Certo. Andiamo all’aeroporto appena torni qua. Sulla strada c’è un negozio di vestiti così possiamo comprarci qualcosa.» «Ma non è meglio partire domani? Sicura di aver pensato a tutto? Non dovevi pensare al piano B?» «Fai tutte queste storie perché vuoi dormire.» Sospiro. «Sì.» «Dormirai sull’aereo, non rompere. Intanto ti metto in fresco altre due Red Bull.» «No, ti prego, basta Red Bull.»
PARTE TERZA
Per bibliopatia si intende la modalità patologica d’uso della letteratura che conduce a menomazione e disagio clinicamente significativi, come manifestato da tre (o più) delle seguenti condizioni, che ricorrono durante un periodo di dodici mesi: — tolleranza, nel senso di bisogno di quantità sempre più elevate di romanzi per raggiungere l’intossicazione o l’effetto desiderato; — astinenza; — i romanzi sono spesso letti in quantità maggiori o per periodi più prolungati rispetto a quanto previsto dal soggetto; — desiderio persistente o tentativi infruttuosi di ridurre o controllare il desiderio di lettura; — una grande quantità di tempo viene spesa nel procurarsi i romanzi, a leggerli, o a riprendersi dai loro effetti; — interruzione o riduzione di importanti attività sociali, lavorative e ricreative a causa della lettura di romanzi; — lettura continuativa di libri nonostante la consapevolezza di avere un problema persistente o ricorrente, di natura fisica o psicologica, verosimilmente causato o esacerbato dalla letteratura; Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione
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Mi siedo. Chiudo gli occhi. Li riapro. E l’aereo atterra a Stansted. Nemmeno il tempo di sognare i Sex Pistols che suonano God Save The Queen. Però ho il costato dolorante. «Oh, guarda un po’, il principe si è svegliato.» Caterina alla mia destra. «Cornetto e cappuccino?» Eleonora alla mia sinistra. «Perché, ho dormito?» «Sembravi stecchito.» «E russavi.» «Nemmeno le gomitate ti hanno svegliato.»
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Ecco spiegato il dolore alle costole. «Dormire è necessario» ribatto sbadigliando. «Ma la narcolessia è una malattia, gioia.» Lascio correre. Il problema è che non mi sento più riposato di prima. La vita del fuorilegge è troppo movimentata per il mio ritmo circadiano. L’aereo raggiunge il terminal e spegne i motori. Tutti i passeggeri si alzano e iniziano a defluire verso le uscite. Noi aspettiamo che il corridoio sia libero, poi prendiamo il nostro bagaglio a mano e scendiamo sulla pista. Indossiamo vestiti nuovi, occhiali da sole e trasportiamo una borsa di tela nera ciascuno. Con un po’ di effetto rallenty e la giusta colonna sonora sembreremmo gli eroi di un action movie. Sotto il sole reale e impietoso del primo pomeriggio, invece, appariamo come quel che siamo: tre individui loschi partiti in fretta e furia che mal nascondono le proprie occhiaie dietro a grosse lenti scure. Facciamo un passo indietro. Dopo la telefonata con Caterina ho guidato per circa un’ora. Quando sono arrivato al magazzino le ho trovate già fuori ad aspettarmi. Il tempo di una pisciatina veloce e poi di nuovo in macchina, stravaccato sul sedile posteriore ancora sporco di terra dalla sera precedente. Ci siamo fermati in un grande negozio di abbigliamento, a due chilometri dall’aeroporto di Ancona-Falconara. Abbiamo comprato vestiti nuovi (e buttato i vecchi) e qualche extra come occhiali da sole, borse e indumenti di riserva. Giusto il minimo indispensabile, perché «chi viaggia senza bagaglio attira l’attenzione». Parole di Caterina. Poi l’acquisto dei biglietti e il check-in, con la paura (tendente al panico) di essere scoperti a ogni estrazione dei documenti falsi. Paura solo mia, perché le altre due sono state rilassate e ciarliere per tutto il tempo, come due comari dalla parrucchiera.
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Ma il lavoro di Lady Emma non ha destato nessun dubbio tra hostess e funzionari della dogana, e quindi ora eccoci qui a calpestare la patria di Sua Maestà. Entriamo dentro la palazzina principale dell’aeroporto. Camminiamo per dieci minuti nell’intrico di corridoi rivestiti di moquette. A ogni svolta c’è una freccia da seguire, e poi un’altra, e via di seguito fino quasi a farmi dimenticare che c’è un controllo ulteriore da superare. Che arriva di botto, all’improvviso. Un momento sto camminando sulla moquette polverosa e quello dopo sto porgendo la carta d’identità falsa, imponendo alla mia mano di non tremare. Ma i soldi lasciati nel camper vittoriano sono stati ben spesi e l’impiegato doganale mi sorride, addirittura, augurandomi un buon soggiorno. Non ci lasciamo distrarre da negozi e caffetterie, e proseguiamo verso il terminal dei bus navetta. Senza dire una parola, io e Caterina svoltiamo a destra verso la biglietteria, mentre Eleonora gira a sinistra e si allontana. La leader delle compañeras è stata chiara: non vuole farsi vedere insieme a noi dal suo “contatto”. Le virgolette sono d’obbligo perché la nostra cara promessa del crimine ha risolto il problema del denaro nella maniera più semplice: ha chiesto il bancomat in prestito a una (ricchissima) amica inglese. Useremo la sua carta per le nostre spese ed Eleonora provvederà poi a risarcirla una volta risolta la situazione. La storia dei killer che ci inseguono e il rischio di morire prima di poter restituire i soldi? Beh, diciamo che Eleonora li ha considerati aspetti trascurabili della contrattazione e si è dimenticata di citarli. Vatti a fidare delle amiche. La mia assuefazione suggerisce imbonitrice e dulcamara. Caterina mi ordina di controllare le destinazioni dei bus, mentre lei si mette in coda. L’interpretazione del
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pannello delle partenze non è così intuitiva come vorrebbe far credere la legenda, ma dopo qualche sforzo capisco che dobbiamo prendere la navetta A51 della linea Terravision. «Sei sicuro?» Prima o poi dovrò offendermi per la totale mancanza di fiducia nei miei confronti. «Certo» rispondo fingendo sicurezza. La biglietteria accetta anche i pagamenti in euro, e noi diamo fondo alle nostre casse per comprare tre “sola andata”. Eleonora non si vede ancora, per cui indico una panchina a Cate. «Ci sediamo?» «Basta che non ti addormenti.» «Magari chiudo solo un po’ gli occhi.» «Tu provaci e ti ritrovi sanguinante.» «Che amica dolce e premurosa!» «Nessuna delle tre.» «Come?» «Non sono dolce, non sono premurosa e soprattutto non sono tua amica.» Scoppia a ridere e mi dà un pizzicotto sulla chiappa. «Forza, appoggia pure il tuo bel culetto stanco. Io preferisco stare in piedi.» Non me lo faccio ripetere. «Mai stata a Londra?» «Solo di passaggio.» «Per andare dove?» «Irlanda, tre volte.» «Ti piace la Guinness?» «Non particolarmente, preferisco i Leprecauni e le loro pentole piene d’oro.» Sto per chiedere spiegazioni, ma poi capisco. «Oh.» Lei ammicca e mi manda un bacio. Meglio cambiare argomento, non voglio sapere quanti irlandesi ha ucciso la mia amichetta del liceo.
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La mia domanda successiva viene però interrotta sul nascere dall’arrivo di Eleonora. «Tutto fatto?» chiedo. «Yes, darling.» Il motore di un bus romba per un istante e poi tossicchia al minimo dei giri. Caterina si volta a controllare. «È il nostro, muoviamoci.»
Ho la testa appoggiata al finestrino, le palpebre pesanti. Potrei cercare di farmi un altro pisolino, invece mi sforzo di rimanere sveglio. Perché là fuori c’è Londra. Okay, lo so, non sembro il tipo che si emoziona per un semplice paesaggio, e la consapevolezza di viaggiare con una rivoluzionaria schizoide e una killer psicotica non dovrebbe farmi apprezzare le gioie del viaggio. Senza dimenticare il tentato omicidio. Insomma… ci siamo capiti. Però, nonostante tutto, quando il bus lascia l’autostrada e si inoltra per le vie di Londra, basta un’occhiata alla semplice architettura popolare per spingermi a combattere la stanchezza. Magari per voi è solo un punto su una mappa geografica, ma per un libromane come me… sto parlando di Dickens, Orwell, Conan Doyle e poi Tolkien, Hornby… Shakespeare, merda! Sono nella città dove ha vissuto lo stronzo a cui devo il mio dannatissimo nome. Voglio andare sulla sua tomba e chiedergli: “Perché Amleto? Perché? Non andava bene Robert, principe di Danimarca?” A ogni modo, tralasciando la questione del mio nome, Londra per un libromane è come Hollywood per un cinefilo, Braunau am Inn per un nazista o Topolinia per uno zoofilo: il paese dei balocchi! E vederla sfilare tutto intorno a me è elettrizzante. Una scossa di adrenalina, di quella buona, che ti fa sorridere come
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uno scemo, ti copre le braccia di pelle d’oca e magari te lo fa anche diventare duro. Io sono troppo stanco per una qualsiasi di queste reazioni, ma rimango sveglio, che è già un bel risultato. Gli edifici bassi, i negozietti, i passanti sui marciapiedi e uno scorcio dei grattacieli della City, lucidi e abbaglianti per il riflesso del sole. E infine il parcheggio degli autobus a Liverpool Street, che nasconde l’orizzonte ma non lo isola. Londra è tutta intorno a me, ormai. Scendiamo dalla navetta. «E ora?» chiedo. «Andiamo all’albergo, poi decidiamo il da farsi» risponde Caterina. «La fermata della metro è all’interno della stazione.» La seguiamo. L’edificio mi ricorda alcune versioni di Gotham City: fuori una facciata classica (vittoriana direi) con due alte torri quadrate e una tettoia di vetro e acciaio a coprire l’entrata; dentro un’intricata volta di travi metalliche sorrette dalle colonne di marmo e dalle pareti dell’edificio stesso; sotto questo tetto, un turbinio d’attività con il piano terra dedicato agli esercizi commerciali e quello rialzato agli arrivi e alle partenze dei treni. Forse poco gotico per attirare l’attenzione di Batman, ma abbastanza rétro per ricordare le atmosfere in cui ama combattere. Eleonora indica uno sportello della atm e si avvicina, pronta a testare il bancomat dell’amica. Procedura guidata, pin e cinquecento sterline finiscono nella nostra cassa comune. Adoro avere amici ricchi, l’ho mai detto? Indico una caffetteria. «Mangiamo qualcosa?» «Non è il momento.» «Il mio stomaco non è d’accordo.» Eleonora mi lancia un pacchetto di Tic Tac. «Mangiati una mentina, tesoro.»
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Sbuffo. Caterina cammina spedita e nemmeno mi ascolta. È nervosa, anche se cerca di mascherarlo. Lei se ne frega di essere a Londra, pensa solo ai killer che presto saranno sulle nostre tracce. E dovrei farlo anche io, non ci sono dubbi. Metto in bocca un paio di Tic Tac e accelero l’andatura per mantenere il passo. Compriamo tre biglietti e scendiamo per i corridoi piastrellati dell’Underground. Due fermate di Circle Line e saremo a King’s Cross/St. Pancreas, la nostra meta.
L’albergo si chiama MacDonald Hotel ed è una palazzina di due piani affacciata sulla tranquilla Argyle Square (che a dispetto del nome non è una piazza ma un piccolo giardino pubblico, verde e ben curato). Non è stato scelto per la sua pulizia, né per la qualità dei suoi servizi, né tantomeno per il panorama che si gode dalle sue finestre. È stato scelto per la sua posizione: cento metri esatti da King’s Cross, stazione da cui partono treni, autobus e ben sei linee della metropolitana, e meno di ottanta dalla A501, arteria del traffico che fa parte del London Inner Ring Road, un anello di strade che circonda il centro della capitale ed è collegato alle principali via per uscire dalla stessa. Insomma il MacDonald è la scelta perfetta per le nostre esigenze logistiche, se non fosse che a dieci metri c’è l’Excelsior Hotel. Ora, io capisco che spesso i nomi sono fuorvianti, ma, a parità di logistica, perché scegliere un albergo che porta il nome distorto di un fast food? Sono certo che le camere dell’Excelsior sono molto più pulite e comode, ma non potrò mai verificarlo. In compenso scopro che la tripla che abbiamo prenotato al MacDonald è una stanzetta al primo piano, angusta e un po’ maleodorante, con un bagno
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loculo in cui se ti siedi sul water sbatti la testa sul lavandino. «Poteva andarci peggio» mormora Caterina guardandosi intorno. “O anche meglio…”, vorrei ribattere, invece taccio e mi stendo sul letto più vicino. Ce ne sono tre, singoli, disposti in parallelo di fronte alla finestra. Oltre a questi una piccola scrivania, una sedia sgangherata e un armadio, ma per aprirlo bisogna prima chiudere la porta d’ingresso. Una stanza di merda, inutile girarci attorno. Cate tira fuori il portatile e lo piazza sulla scrivania. L’hotel non è provvisto di Wi-Fi ma lei non ne ha bisogno. Connessione satellitare criptata, roba da killer. Controlla la posta e annuisce. «L’appuntamento con SanPatrick è confermato.» «Chi sarebbe SanPatrick?» chiede Eleonora sedendosi nel letto accanto al mio. «Il tizio che deve darmi i ferri e i cellulari.» «Nome in codice banale.» «Gli irlandesi sono tradizionalisti.» A parlare di irlandesi mi viene in mente una sigla pericolosa. Mi alzo dal letto. «Ti prego, dimmi che non è un tizio dell’ira.» «Non sapevo che fossi fedele alla regina.» «Caterina, che cazzo, ma sul serio? Uno dell’ira? Non bastano gli editori?» «Sta’ calmo. Non è più dell’ira, è in pensione.» «Oh, perfetto. Allora così non ci sono problemi!» «Tesoro, lasciala respirare» interviene Eleonora. Alzo le mani. «Okay, okay, come volete. Andiamo pure a comprare armi da un pensionato dell’ira.» «Lo incontro da sola.» È brutto da confessare, ma sono sollevato dalla notizia. E non fate quell’espressione da moralisti, in fin dei conti è lei la killer professionista che tortura le persone, no? Che aiuto potrei darle?
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«È un vecchio amico, gli ho salvato la vita una volta, e ora ricambierà il favore. Tutto qui, nessun rischio.» Si alza dalla sedia. «Torno tra un’ora. Voi non muovetevi. Dormite, scopate, fate quello che vi pare ma non uscite da questa stanza.» Io mi ristendo sul letto e non protesto. Eleonora prova a dir qualcosa ma poi desiste. Caterina annuisce. «Bravi cuccioli» poi apre la porta. «E fate sesso protetto, mi raccomando.» La sua risata si allontana per il corridoio.
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Capitolo 24
«Gioia, non avrai intenzione di dormire, vero?» «Sì, l’avrei» rispondo da un punto imprecisato sulla via dell’incoscienza. «Beh, non ci pensare, dobbiamo pianificare.» Mi giro su un fianco, la guardo. «Eleonora, di che cavolo parli? Io non ho nemmeno ben capito perché siamo qui.» «Dai, tesoro, stai concentrato. London Book Fair.» «Sono più preoccupato da quelli che vogliono ucciderci.» Indica la porta con la testa. «Per quello ci pensa lei. Noi dobbiamo pensare al libro.»
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Sbadiglio. «Okay, comincia tu.» «Prima di tutto dobbiamo telefonare a questo signor Thomas. E dobbiamo essere convincenti. Se non ci dà un posto alla fiera siamo fregati.» «Avremmo dovuto chiamarlo prima.» «Lo so, ma la generalessa di Lesbo ha ordinato di non dire a nessuno della nostra partenza.» Sogghigno un po’, non è male come soprannome per Cate, anche se dubito che lo apprezzerebbe. «Dobbiamo cercare di incontrarlo», continua Eleonora, «e magari anche di fargli leggere il libro.» «Il libro è rimasto in Italia, ricordi?» «Ne ho portata una copia.» Spalanco gli occhi. «Abbiamo viaggiato con un libro nella borsa?» «Tu hai viaggiato con un libro nella borsa.» «Cosa?» urlo. Mi lancio sulla mia valigia e inizio a frugare. Calzini, mutande e magliette finiscono sul letto e sul pavimento. Nessun libro. Mi volto verso Eleonora e la trovo piegata in due dalle risate. «Vaffanculo.» «Eddai, darling, è per sdrammatizzare. Dall’incidente in autostrada sei troppo nervoso.» «Hanno cercato di ucciderci…» «Lo so, c’ero anche io. Però non ci sono riusciti, e ora hai ben due valchirie che ti proteggono. Rilassati.» Mi stendo di nuovo sul letto. «Ho pensato sul serio che mi avessi infilato il libro nella valigia.» Mi mostra una piccola pennetta usb. «E l’ho fatto.» Occhiolino. «Cristo santo…» «No, no, non ricominciare. Concentrato.» Come ho fatto a infilarmi in questo casino? Ah, già, i soldi. Tanti soldi. Dannazione! Prendo un bel respiro, le faccio cenno di continuare.
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«Una volta ottenuto il posto alla fiera dobbiamo occuparci della stampa.» «Tutto il materiale è nel tuo magazzino. O hai messo nella mia borsa anche quello?» Storce la bocca. «È un casino. Dobbiamo trovare una soluzione.» Pausa. «Ci sarà la cedrata in Inghilterra?» «Non credo.» «Va bene, allora vado a farmi una doccia. Le idee migliori mi vengono sotto la doccia.» «Se lo dici tu…» «Tu intanto pensa, mi raccomando.» Do la mia parola di boy scout. Eleonora prende in fretta le sue cose ed entra in bagno. Appena la porta si chiude, io abbasso le palpebre e mi addormento. Ho sempre odiato i boy scout.
Vengo svegliato da un pacco di Oreo che mi piomba in testa, seguito da due tramezzini sullo stomaco e una bottiglietta di Cherry Coke sulle palle. Non un buon risveglio, ma la situazione sta per peggiorare. «Dov’è Eleonora?» «Doccia.» Caterina mi dà uno schiaffo. Apro gli occhi. «Dov’è Eleonora?» ripete. Mi alzo a sedere sul bordo del letto. Sul tavolo ci sono uno zaino verde e due sacchetti trasparenti di un qualche supermercato. Caterina è in piedi, braccia incrociate sul petto. Nessuna traccia di Eleonora. «Ehi, io non ne so niente. È andata a farsi una doccia e mi sono addormentato.» «Dovevi scopartela invece di lasciarla andare.» «Non l’ho lasciata andare, dannazione! Era in bagno…»
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«E ti sei addormentato. L’hai già detto.» «Appunto.» «Non dovevi farlo, porca puttana!» E con perfetto tempismo teatrale, ecco che bussano alla porta. «Ciccini, sono io, aprite.» Caterina spalanca l’uscio con ferocia. «Dove cazzo sei stata?» «Sono andata a chiamare James.» «Chi cazzo è James?» ringhia. «Il signor Thomas, quello della fiera. È un tipo simpatico, molto cordiale.» «E da dove l’hai chiamato?» «Cabina telefonica. Un paio d’isolati qua dietro.» «Avevo detto di aspettare qui.» «Sì, vabbè, non mi andava di sprecare tempo.» Cate si incazza, si incazza di brutto. Con il dorso della mano destra le molla un manrovescio a tutto braccio. Eleonora crolla a terra. Un solo istante di sorpresa e poi reagisce. Si accuccia sulle gambe e si lancia contro Cate. La colpisce allo stomaco e finiscono aggrovigliate sul letto accanto al mio. Mi alzo, cerco di dividerle, ma guadagno solo un calcio al petto. Finisco con la schiena contro il tavolino. Le buste della spesa cadono sul pavimento. Mi volto appena, imprecando dal dolore, e sopra la spalla destra, con la coda dell’occhio, vedo lo zaino verde. Lo afferro, lo apro. Tre pistole e un fucile a pompa. È da quando ho visto L’armata delle tenebre che desidero impugnarne uno. Lo carico con una mano, come il vecchio Ash insegna, e poi lo punto sulle scalmanate. «Allora idioti primitivi, sturatevi le orecchie! Vedete questo? Questo è… Il mio “Bastone di Tuono”!13» Okay, lo ammetto, conosco a memoria tutti i dialoghi di quel film. 13 Tratto da L’armata delle tenebre (1993), film diretto da Sam Raimi.
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La ragazze smettono di picchiarsi e mi guardano. Caterina sorride. «Hai il bastone scarico, dolcezza.» Esito un istante. «Può darsi», (e in effetti è così), «ma posso sempre usare il fucile…» «Attento a quello che dici, potrei prenderlo come un invito.» «Caterina!» «Che c’è? Quando uno come te mi mostra il suo Bastone di Tuono mi eccito tutta.» Eleonora scoppia a ridere, e la tensione evapora insieme alla mia autostima. Ma almeno sono riuscito a separarle. Cate si alza. «Dammi qua quel fucile, prima di farti male.» Lo prende e lo rimette nello zaino. «Ragazzi, dobbiamo trovare un accordo, prima di ammazzarci a vicenda.» Eleonora va in bagno a ricomporsi un po’. Quando torna ha un asciugamano premuto su un angolo della bocca. Non parla, ma sembra disponibile al dialogo. «Sentite, capisco che dovete pensare ai vostri affari, ma non potete comportarvi da stupidi. Qualcuno vi vuole morti, ricordatevelo. Dobbiamo essere prudenti.» «Non possiamo rinchiuderci in questo posto» ribatte Eleonora. «Non ho detto questo.» Indica lo zaino. «Abbiamo i ferri e i cellulari. Possiamo muoverci e difenderci, ma dobbiamo organizzarci. Niente più alzate d’ingegno o imprese solitarie.» Annuisco subito, voglio uscire vivo da questa missione. Eleonora è più titubante, ma alla fine allunga la mano in segno di pace. Non perdono tempo a chiedersi scusa o a fingersi dispiaciute. Non hanno voglia di diventare amiche, è evidente, ma almeno sembrano intenzionate a collaborare.
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Sarebbe un momento idilliaco, se non fosse che il pacco di Oreo è rimasto vittima della zuffa. Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno.
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Capitolo 25
Decidiamo di firmare il nuovo trattato di pace durante la cena. Caterina infila due pistole all’interno del giacchino. Io ed Eleonora non abbiamo soprabiti abbastanza voluminosi per cui preferiamo girare disarmati. Usciamo. Il sole sta tramontando dietro una spessa coltre di nubi. La temperatura è scesa di qualche grado. Londra di sera non è accogliente come di giorno. Giriamo una mezzoretta per le vie intorno a King’s Cross e troviamo solo due posti in cui poter cenare: un Irish Pub (molto Irish) e una serie di Italian Restaurant (poco Italian). Mangiare italiano all’estero è quasi sempre una scel-
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ta sbagliata, ma il pub è troppo rumoroso per poter discutere. Entriamo dai mangia-spaghetti più vicini all’albergo. Mandolini: ci sono. Tovaglie a quadri rossi e bianchi: ci sono. Immagini dai film di Totò appesi sui muri: ci sono. Tricolori sparsi a caso: ci sono. Manca solo una panoramica del Vesuvio e un cuoco baffuto che parla napoletano. Lo stereotipo è servito caldo, appena sfornato. Insieme alla pizza, ovviamente. I tavoli sembrano tutti pieni, ma un giovane cameriere ci accoglie, gentilissimo, e non si sa bene come trova posto anche per noi. Il fisico di Cate fa sempre questo effetto, e anche quello di Eleonora sono certo abbia aiutato. Andare in giro con due ragazze del genere ha dei vantaggi che vanno oltre la sopravvivenza ai protettili. Il menu offre una lista di strafalcioni culturali talmente lunga da poter causare un incidente diplomatico, ma per fortuna del proprietario, del cuoco (che ha veramente i baffi, ma è greco) e del cameriere arrapato non siamo qui per difendere l’onore della nostra patria. Ordiniamo tre piatti di linguine al pesto (sperando in una cottura decente) e riprendiamo il discorso interrotto dalla rissa. «Come vi dicevo», racconta Eleonora, «ho parlato con James Thomas. I tuoi genitori lo hanno chiamato appena siamo partiti e ci hanno presentato senza lesinare lodi.» Caterina mi rifila una forchettata sulla gamba. Un colpo “amichevole”, che però fa male come qualsiasi altra forchettata. «E tu che pensavi vi avessero tradito.» La ignoro. «Cosa ti ha detto il tipo?» «Non ha voluto parlare molto al telefono, ma vuole incontrarci. Domani pomeriggio a Piccadilly Circus.» «Posto pubblico e pieno di turisti. Ottima scelta» annuisce Caterina.
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«Grazie, gioia, ma non l’ho scelto io.» «Non importa. Significa che avete a che fare con gente professionista. È un bene.» «Sempre che non vogliano ucciderci» mormoro. «Negativo. I vostri problemi vengono dall’Italia, non dall’Inghilterra.» Il cameriere interrompe il discorso. Serve i nostri piatti, senza staccare gli occhi dalle mie due accompagnatrici, poi esegue un veloce inchino e se ne va lasciandosi dietro un cortese «Hope Enjoy». Arrapato sì, ma molto educato. «Quindi come vogliamo muoverci?» chiedo. «Te l’ho detto, tesoro, dobbiamo essere convincenti.» «Sì, giusto, ma intendevo per la “sicurezza”.» «Allora», interviene Caterina, «potrei stare con voi, ma non sarebbe pratico. Meglio seguirvi a distanza. Abbastanza vicino per le emergenze e abbastanza lontano da prevenire eventuali pericoli.» Eleonora annuisce, mentre io mangio le mie linguine (al dente ma troppo unte). «Però», continua Cate indicandoci con la forchetta, «niente turismo o giri a vuoto. Usciamo dall’albergo solo per gli affari. E sempre tutti insieme.» «Va bene, ma non possiamo rimanere segregati per sempre.» «Corretto. Dobbiamo scoprire il mandante.» E all’improvviso, mentre ingoio con difficoltà un boccone troppo grande, capisco una drammatica implicazione di questa situazione. Noi siamo fuggiti, siamo armati e abbiamo Caterina che ci protegge, ma i nostri amici sono rimasti ad Ancona, esposti a un pericolo che nemmeno sanno di correre. Non abbiamo molto tempo per capire chi ci vuole morti.
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All’uscita del ristorante veniamo battezzati dalla nostra prima pioggia londinese. Dicono che sia impossibile visitare Londra senza prendersi almeno un acquazzone, e io non posso smentirli. Perché di pioggia ne cade tanta, troppa per illudersi di riuscire a raggiungere l’hotel senza avere le branchie. Entriamo di corsa dentro un negozio, uno di quelli in cui si vende un po’ di tutto. Dalle valigie, agli ombrelli, passando per souvenir e cartoline. Un turista normale comprerebbe paccottiglia da vacanza (tipo l’orsetto vestito come una guardia della Torre di Londra), noi preferiamo concentrarci sulla sezione coltelli a serramanico. Sembra assurdo ma, proprio accanto a quello delle T-shirt ricordo, c’è lo scaffale dei coltelli. E non parlo solo degli immancabili coltellini svizzeri. Eleonora li guarda un attimo, poi si allontana verso la sezione delle tazze decorate; Caterina li snobba, «con quelle lame non riesci nemmeno a tagliarti le unghie»; io li apprezzo. Con un inglese fatto più di gesti che di parole, chiedo al pakistano dietro la cassa di aprire la teca per osservarne meglio alcuni. Il tizio è diffidente, nervoso, si avvicina titubante. Meglio non fare movimenti bruschi. In camera abbiamo tre pistole e un fucile a pompa, lo so, ma secondo voi posso sentirmi a mio agio andando in giro con una pistola infilata nei pantaloni? Come minimo mi sparo in un piede, se non peggio. Un coltello, invece, potrebbe essere adatto alla mia scarsa esperienza e utile per guadagnare tempo in attesa dell’intervento di Caterina. Pensiero ancora una volta poco galante, è vero, ma non devo certo ricordarvi che è lei la killer professionista, giusto? Ne osservo uno in particolare, manico nero, ergonomico, con un congegno a scatto che fa uscire la lama dall’aria affilata. Lo mostro a Caterina. «Questo sembra perfetto.»
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«Per temperare le matite.» «Vabbè, ho capito. Lo prendo comunque.» Si stringe nelle spalle: «Contento tu…». Poi allunga la mano verso una fondina per pistola con stampata una Union Jack glitterata e sbrilluccicante. «Pensi che a Sara possa piacere?» «Non sono il tipo adatto per dare consigli di shopping.» «Andiamo, su. Dammi un parere. Sara la conosci.» Indico Eleonora. «Meglio chiedere un parere femminile.» «Se Sara viene a sapere che mi sono fatta consigliare da un’altra ragazza mi spella viva.» Sbuffo, le prendo la fondina dalle mani e mi avvicino alla leader maxima. «Ti piace?» Lei mi guarda, sorride e mi stampa un bacio sulla guancia. «Dio mio, grazie. È bellissima.» Direi che ha frainteso. Sto per chiarire la situazione, ma Caterina mi prende per un braccio e mi trascina verso la cassa. «Vieni via prima di rovinare tutto.» «Ma io non…» «Hai fatto la figura del ragazzo gentile, non rovinare tutto. Paga e sta zitto.» Dieci sterline per una fondina glitterata. Mi sembra un’enormità. Ma a ben pensarci i soldi che ho in tasca sono quelli dell’amica ricca, per cui vada per la gentilezza. Pago anche il coltello e mi volto verso Caterina mentre aspetto lo scontrino. «Tu non la prendi per Sara?» «Se piace alla viziata non può piacere anche a Sara.» Il ragionamento ha una sua logica. Prendo il coltello ed esco dal negozio. Di fronte all’entrata c’è una tettoia che ripara dalla pioggia, per cui mi accendo una sigaretta e aspetto le ragazze. Escono dopo una decina di minuti, proprio quando la pioggia smette di inondare Londra.
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Ci incamminiamo verso l’albergo. Mentre attraversiamo la strada noto una scritta sul muro accanto all’ingresso della metropolitana. Vernice spray verde sullo sfondo di mattoni sporchi. Follow the Luckdragon. «Ehi, Eleonora, hai visto?» «Sì, ciccio, lo so. È la stazione di quel maghetto.» «Harry Potter.» «Esatto. Quella serie aveva potenziale.» «Secondo me sarebbe stato un flop anche senza l’intervento dei No-Lit.» «Tesoro, tu dell’editoria non capisci una mazza. Quei personaggi avrebbero potuto avvicinare i giovani alla lettura.» «Sì, certo, dei maghi che prendono il treno a King’s Cross, sai che figata!» Mi manda a quel paese. «Comunque non parlavo della stazione. Guarda la scritta su quel muro, accanto alla pubblicità del Pray & Buy. Ha tutta l’aria di una citazione.» La indico. «Non ci credo!» «Ma di che state parlando?» interviene Caterina. Indico la scritta anche a lei. «E allora?» «È un riferimento a La storia infinita.» «Mai letto.» Eleonora sussulta, incredula. Cate si stringe nelle spalle. «Non sono una fattona come voi, abbiate pietà. Però ho visto il film.» Sospiro. «Non dirlo mai di fronte a dei libromani.» «Perché?» «Micheal Ende, che sarebbe l’autore, ha rinnegato quel film.» «Non era poi così male.» «Mi ripeto: non dirlo mai di fronte a dei libromani. L’Anti-literature movement boicottò la produzione e rimosse tutti i messaggi in favore della lettura. Quel film è considerato un crimine contro l’umanità.»
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«E poi nessun film è all’altezza di un libro!» sbotta Eleonora. «La visione di un film è un’attività passiva. Lo guardi e basta. Un lettore invece deve immaginare le scene, deve riempire gli spazi descrittivi lasciati vuoti dall’autore. Leggere è uno sforzo di fantasia, nulla a che vedere con i film!» Caterina sorride. «O-Kappa, non ti scaldare. Resta il fatto che quel cane parlante era bellissimo.» «Quale cane?» «Quello che volava.» «È un drago! Falcon è un drago!» Un’alzata di spalle. «Sembrava un cane.» «Maledetti scenografi No-Lit.» «Voi libromani siete strani.» E così parte una lezione su La storia infinita, con Eleonora in veste di professorina saccente e Caterina di alunna annoiata. Io non ascolto. Penso alla scritta che ormai ci siamo lasciati alle spalle. Questa Londra potrebbe avere sfaccettature ancora più interessanti.
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Capitolo 26
Piccadilly Circus è molto più piccola di quanto mi aspettassi. Anche perché pensavo fosse una piazza. Invece è un enorme incrocio stradale con questo palazzo ad angolo pieno di mega schermi pubblicitari. Attirati dalle luci abbaglianti, sciami di turisti intasano le vie. Non c’è molto altro da vedere. Pubblicità e turisti. Ah no, scusate, c’è anche una fontana a base esagonale, ed è proprio vicino a questa che dobbiamo aspettare. Caterina è… da qualche parte. A osservarci pronta a intervenire, o magari a limonare con una inglesina tutto pepe. C’è anche la possibilità che sia dentro gap
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a fare shopping, ma vabbè, meglio non pensarci. Bisogna credere nel proprio angelo custode, dico bene? Siamo arrivati all’appuntamento con qualche minuto di anticipo. Eleonora è nervosa, io riposato. Già, perché finalmente sono riuscito a dormire, una decina d’ore filate. Non avevamo altro da fare durante la mattinata, quindi ci siamo svegliati tardi e siamo rimasti in albergo fino all’ora di pranzo. Abbiamo attivato i nostri nuovi smartphone, fatto pratica con i comandi in inglese e scoperto che ogni telefono è provvisto di abbonamento Internet già pagato. La connessione ha mandato un po’ in paranoia Caterina, che ci ha vietato l’accesso ai forum, siti o social network che frequentiamo di solito. Non siamo così fessi da twittare qualche commento su Londra, né da condividere una nostra foto di fronte al Big Bang, ma secondo Cate basta loggarsi per comunicare al sistema la propria posizione. Dati che non compaiono sul sito, ma che rimangono nel database, a portata di qualsiasi hacker. Dice che l’anno scorso ha rintracciato un obiettivo proprio in questo modo. Dice che era stato bravo a sparire, ma poi si è connesso a un sito di scommesse. Dice che l’ha ucciso. E noi diciamo che ci ha convinto. Usciti dall’albergo ci siamo separati, io ed Eleonora verso Piccadilly Circus e Caterina da qualche parte, vicina ma non troppo. Abbiamo preso la Piccadilly Line fino a Covent Garden, poi siamo risaliti in superficie in cerca di un posto dove mangiare. Vi dico subito che se Piccadilly Circus non mi ha impressionato, il Central Market di Covent Garden è stata una folgorazione. Saltimbanchi, mangiatori di fuoco, pittori, tutti circondati da una folla rapita; e poi quello che era il mercato coperto, con negozi di artigiani che vendono dai giocattoli in legno alle collezioni di tè pregiati. Non si respira la tipica atmosfera stereotipata e kitsch da meta
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turistica. Tutt’altro. C’è un sentore di cultura nell’aria, con il dolce retrogusto dei biscotti appena sfornati da Ben’s Cookies. Dopo una breve fermata al negozio dell’Original Penguin, dove Eleonora ha comprato un soprabito adatto a coprire la fondina, abbiamo mangiato crêpes salate in un locale specializzato all’interno del Market e poi ci siamo avviati a piedi verso la nostra meta. «È la prima volta che vieni a Londra?» mi ha chiesto Eleonora camminando. «Già, non ho mai viaggiato molto.» «Io ci ho trascorso due estati, in collegio.» «Non ti ci vedo a dar retta alle suore.» È scoppiata a ridere. «No, tesoro, non era quel tipo di collegio. Niente suore. Serviva per imparare l’inglese… e per star lontana dai miei genitori.» «Raccontami qualcosa di Londra, allora. Forza.» Ha alzato lo sguardo e ha indicato il nome della strada che stavamo attraversando: Charing Cross Road. «Una volta era chiamata la via dei bibliofili. Era piena di negozi d’antiquariato specializzati in romanzi.» «Non ci credo!» «Tutto vero, darling. La libreria più famosa si chiamava Foyle’s Bookstore e occupava una palazzina di tre piani, ma c’erano anche piccole botteghe con più libri che aria da respirare. Ai tempi del collegio la mia amica, quella del bancomat, mi ha fatto vedere delle foto d’epoca. Impressionanti.» «E ora…» «Caffetterie, catene di fast food e qualche tempio di culto.» Siamo passati oltre e abbiamo cambiato argomento, ma per il resto del tragitto non ho fatto che pensare a Charing Cross Road. E ci penso anche adesso, mentre stiamo aspettando James Thomas.
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Un’intera via dedicata ai libromani. No, scusatemi, agli appassionati di libri. Perché la memoria di Charing Cross Road non può essere sporcata con un epiteto tanto spregevole. Quando Eleonora ne parlava aveva un tono riverente, carico di tristezza. Sul momento ho pensato che fosse esagerato, ma sono bastati pochi passi per farmi capire che sbagliavo. Charing Cross Road è il monumento funebre della nostra cultura. Avevamo la conoscenza, l’immaginazione, la fantasia. E ora? Passiamo di qui e piangiamo sulla lapide del nostro futuro. Una gomitata di Eleonora mi riporta alla realtà. «Berretto rosso e maglia dei Pink Floyd, è lui il nostro uomo.» «Come mai ne sei sicura?» «Perché ci sta salutando.» Mi volto ed eccolo lì. Vi ricordate Scuotiossa della serie di cartoni animati Filmation’s Ghostbusters? Mettetegli cappello rosso, barba incolta, maglietta di The dark side of the moon, jeans scoloriti e Converse di tela e otterrete James Thomas. Un ragazzo segaligno, che si avvicina con passo scattante. Ci stringe le mani. «Hi, dears, I’m Jim. Nice to meet you.» E quindi l’organizzatore della London Book Fair non ha nemmeno trent’anni. Mi sento vecchio. Eleonora e Jim “Scuotiossa” iniziano a parlare in un inglese troppo veloce per me. Rimango in silenzio e cerco di annuire o ridere al momento giusto. Non credo di riuscirci bene. Dopo qualche minuto il nuovo arrivato capisce la mia difficoltà e sorride. «Sei tu il figlio di Antonio e Clara, aren’t you?» mi chiede in un italiano dal forte accento. «Sì, esatto. Ma tu parli italiano?» Esita, imbarazzato. «Conosco l’italiano ma non lo parlo bene. Ho un accento terribile. Quando sono sta-
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to a Fiabilandia mi sono divertito a parlare in italiano con Antonio, Clara e con i loro amici, ma ora ho perso… training?» «Allenamento.» «Esatto. Al-le-na-men-to» scandisce. «Beh, non sembra. Parli molto bene» e a parte il forte accento è vero. «Se mi correggerete, parlo in italiano con voi. Per al-le-nar-mi. Ho detto bene?» Mi metto a ridere e annuisco. Avrebbe potuto ignorarmi e continuare a parlare in inglese solo con Eleonora, invece si sforza addirittura di passare all’italiano. Mi sta simpatico, anche se è amico dei miei genitori. «Posso offrire qualcosa da bere? Non abbiamo il vostro caffè expresso, ma il tè è sicuramente mighliore.» «Avrei proprio voglia di un tè verde» risponde Eleonora. «E allora… let’s go!»
Seguiamo James per alcuni minuti, lasciando le vie principali e inoltrandoci nei vicoli meno frequentati. Tra le grandi arterie come Regent Street o Shaftesbury Avenue, ci sono centinaia di piccole strade strette tra i palazzi vittoriani e gli edifici di mattoni tipici della città. È un reticolato stradale contorto, irregolare, che mostra aspetti di Londra molto più folkloristici, ma nel quale sarebbe facile perdersi. Per nostra fortuna abbiamo un cicerone esperto e loquace, che ci guida con sicurezza e ci intrattiene con curiosità divertenti. La sua allegria viene guastata solo dalla visione del poster del nuovo film sui cavalieri dell’apocalisse, The Horsemen: Age of The Beast. I faccioni di Robert Downey Jr., Chris Evans, Chris Hemsworth e Mark Ruffalo
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sorridono ai londinesi, mentre Scuotiossa sputa veleno su una pellicola che a suo parere brucia i neuroni della gente. Eleonora stempera il momento dando voti ai culi dei protagonisti, mentre io preferisco rimanere in silenzio. Meglio che nessuno sappia che ho adorato il primo film. Impieghiamo poco più di dieci minuti per arrivare al Tea’s Corner, un localino con la facciata verniciata d’azzurro, vetrate all’inglese (non poteva che essere così) e ingresso sull’angolo dell’edificio. Tutto il locale è molto british. James fa un cenno alla cameriera che ci accoglie con un sorriso smagliante e ci fa accomodare a uno dei tavolini di ferro battuto posti subito fuori, sul marciapiede. «Ti assicuro che qui berrai il miglior green tea della tua vita.» «Non vedo l’ora di assaggiarlo» risponde Eleonora. «Tu, Hamlet, sei un amante del tea?» «Lo bevo molto volentieri, ma non sono un esperto.» In realtà lo bevo solo quando ho mal di stomaco, ma meglio non dirlo a un inglese. «Esistono posti molto più famous del Tea’s Corner, ma sono troppo… stylish?» «Alla moda» traduce Eleonora. «Thank you, sweetheart. Preferisco un posto dove si spende meno e si parla con più tranquillità. E il tea è buono tanto quanto all’Hilton o al The Winter Garden.» La cameriera ci porta i menu e noi passiamo i successivi cinque minuti a studiare la lunga lista di tè disponibili. O meglio, Eleonora e James leggono tutto attentamente, mentre io guardo la carta e penso a quanto vorrei bermi una birra o farmi un paragrafo. Quando arriva il momento di ordinare scelgo il primo della lista dei white tea.
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«Oh, well done, Hamlet» commenta Scuotiossa. «Quel tea ha un retrogusto davvero raffinato.» Sorrido, annuisco e ringrazio, mentre sogno di tuffarmi in una piscina di birra schiumosa e gelata. Continuiamo a parlare di facezie, poi James strizza l’occhio e ci offre un paragrafo di Chuck Palahniuk. Ha con sé un tascabile e dice che i gestori del locale non fanno storie se qualcuno legge mentre è al bagno. La prima ad andare è Eleonora, io l’aspetto fuori dalla porta. Quando ha fatto, esce e mi passa il romanzo. Survivor, forse l’ultimo capolavoro pubblicato prima della legge Montag. Se Gesù Cristo fosse morto in prigione, senza nessuno a guardarlo, a torturarlo o piangerne la morte, saremmo stati salvati lo stesso? Se alla crocifissione ci fosse stata meno affluenza del previsto, l’avrebbero rimessa in programma? Il fattore più importante che fa di te un santo è la quantità di articoli che riesci a ottenere sulla stampa… Se non ci fosse stato nessuno a testimoniare l’agonia di Cristo, saremmo stati salvati? La chiave per la salvezza sta in quanta attenzione riesci a ottenere. Negli indici di gradimento. Nello share di pubblico. Nel numero delle tue apparizioni. Nella riconoscibilità del tuo nome. Nel tuo seguito giornalistico. Nel pettegolezzo. Realizzi che la gente fa uso di droghe perché è l’unica vera avventura intima che le rimane nel suo mondo fatto di vincoli temporali, leggi, ordini, e limiti dati dalla materia. È soltanto con le droghe o con la morte che vediamo qualcosa di nuovo, e la morte è un po’ troppo definitiva. Realizzi che non c’è ragione di fare nulla, se nessuno ti guarda.14 Una vera botta di letteratura. Ne avevo bisogno. Mi sento carico e su di giri. Esco dal bagno, do una pacca
14 Chuck Palahniuk, Survivor, Mondadori (1999), traduzione di Michele Monina, Giovanna Capogrossi.
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sulla spalla di Jim, gli passo il libro e sorrido: «Tutto tuo, bello». Quando torniamo al tavolo la cameriera ha già sistemato le nostre ordinazioni. Tre piccole teiere con acqua bollente, tre tazzine di porcellana, e poi spuntini dolci e salati che riempiono il tavolo. Spio le movenze di James per mettere in infusione il mio raffinatissimo white tea. Spero che sappia di qualcosa e che non sia la solita acqua sporca. Ma in ogni caso mi consolerò con gli stuzzichini, leggere mette appetito. «Allora, ragazzi, se ho capito bene, volete partecipare… all’evento.» «Esatto» risponde Eleonora drizzandosi sulla sedia. I tempi della cazzate sono finite. «Permettetemi di spiegarvi come funziona l’organizzazione. La location è divisa in stand e quelli più grandi sono dedicati agli editori famosi…» «Quali editori?» lo interrompo. Dall’occhiataccia con cui mi fulmina Eleonora deduco che non era il momento per questa domanda. Chiedo scusa e indico a James di continuare, ma lui è troppo educato per non rispondere. «Ci saranno Vodendrak, Edizioni Senzaparole e Wonder House, poi ovviamente il Bibliotecario e il Nordico, le Pony Women e quest’anno ci sarà anche la Randall Publishing.» Quasi mi strozzo con il sandwich che sto mangiando. «Stephen King?» «No, lui non ci sarà. Sta scrivendo un nuovo libro. Manderà i suoi collaboratori.» Eleonora si schiarisce la voce. «Amleto, non sei interessato a sapere come funziona la fiera?» Domanda dal retrogusto di minaccia. Annuisco e rimango in silenzio.
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Scuotiossa sorride e riprende il filo della spiegazione: «Dicevo, ci sono stand di diversa grandezza. Quelli più piccoli sono disponibili per gli editori… nuovi.» Ci indica. «Come voi.» Afferra il manico della sua teiera con la destra, allunga l’indice della sinistra per tenere fermo il coperchio e poi inclina tutto versando il liquido fumante nella sua tazzina. Prende due zollette dalla zuccheriera e mescola, attento a non far sbattere il cucchiaino sulla porcellana. Poi continua. «Well, ci sono ancora alcuni stand disponibili, e vorrei riservarne uno a voi. Ho sempre invitato Antonio e Clara a partecipare, e ora che hanno mandato il loro figlio non vorrei deluderli.» Annuisco, mentre copio tutti i gesti di James per versare il tè. Lo bevo. E ovviamente sa di acqua sporca. Cosa ci troveranno questi inglesi nel tè. Mah. Aggiungo altro zucchero. Eleonora mi guarda accigliata, ma me ne frego. Non sono un tipo dal palato raffinato. «Il problema», continua James, «è che ci sono giunte molte richieste per gli stand ancora liberi, e quindi devo convincere i miei partners a… come si dice… devo convincere loro che voi siete la scelta migliore. È corretto?» Non mi sognerei mai di togliere la parola alla leader maxima, per cui riempio la bocca con un bel pezzo di torta e lascio che sia lei a rispondere. «È difficile dirti qualcosa senza conoscere i vostri criteri di valutazione. Posso dirti che se cercate un editore a cui importi soltanto guadagnare, noi non siamo la scelta migliore. Se cercate un editore con un catalogo ampio e vario, noi non siamo la scelta migliore. Se cercate un editore disposto ad accodarsi ai dettami “suggeriti” dai giganti del campo, noi non siamo la scelta migliore. Ma se cercate quell’unico semplice romanzo capace di infiammare l’animo dei lettori… avete trova-
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to quello che cercate.» Beve un sorso di tè verde. «Noi siamo il barbarico yawp che risuonerà sopra i tetti del mondo.15» «You are fucking awesome! Awesome!» James saltella sulla sedia, estasiato dalle parole di Eleonora. Il suo aplomb tutto british è stato stracciato dalla veemenza del discorso. «Antonio e Clara mi hanno parlato della passione che brucia nei tuoi occhi, ma non pensavo… Fuck!» Eleonora nasconde un sorriso compiaciuto dietro la tazza di tè, poi riprende. «In ogni caso, prima di qualsiasi decisione vorremo farti leggere il nostro libro. Le parole scritte sono sempre più convincenti.» «Oh, sweetheart, sarebbe un vero piacere.» «Non è ancora stato tradotto in inglese», intervengo, «ma non credo che tu abbia problemi a leggere l’italiano.» «Oh no, no, course not. E poi leggere nella lingua originale è più… come dite… autentico.» «Hai ragione» concordo. «Dicci pure tu quando preferisci, noi…» «E perché non subito, Hamlet?» Guardo Eleonora. Mi fa l’occhiolino. «Subito sarebbe perfetto, James, perfetto.»
15 Riferimento alla poesia Canto di me stesso, di Walt Whitman.
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Capitolo 27
James abita in una specie di loft minimale all’ultimo piano di una palazzina di mattoni rossi (tanto per cambiare). L’appartamento è piccolo, ma ben arredato. Una libreria alta fino al soffitto divide la zona giorno (cucina, tavolo e due sedie) da quella notte (divano letto, poltrona e televisore). Conoscendo Scuotiossa, la presenza di libri può apparire scontata, ma la loro esposizione, quasi sfrontata, mi ha stupito. E non poco, perché l’ordinata disposizione di romanzi più o meno rilegati è visibile fin dalla porta d’ingresso. Nemmeno Antonio e Clara hanno mai mostrato con tanto orgoglio la loro dipendenza.
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E così, mentre Eleonora si complimenta per la quantità e la qualità della sua fornitura bibliofila, io chiedo: «Ma quando ti suonano alla porta?». «Sorry, Hamlet, non ho capito.» «Intendevo: come fai a nascondere la libreria quando apri la porta? Non hai paura che ti venga a suonare un poliziotto o qualcuno che ti possa denunciare per possesso di letteratura? Non credo che tu riesca a spacciare questa casa come un luogo di culto.» Sorride. «In questa zona non c’è da aver paura. Perfino i bobbies non fanno domande.» Annuisco. Ora si spiega la noncurante ostentazione dei libri… e anche i fattoni barcollanti che abbiamo incrociato lungo la via. Il migliore era quello con la giacca di velluto a coste che biascicava a occhi chiusi versi di Omero, anche se la tipa con la maglia I fu**ed in the Nautilus meritava tutto il rispetto. Durante il tragitto in metropolitana James ci ha spiegato a grandi linee la storia di questo quartiere, e non è molto diversa da quella di Fiabilandia. Da meta turistica a ritrovo per libromani, con conseguente crollo del valore delle proprietà e fuga dei cittadini modello: caduta e rovina di Baker Street. Il loft in cui ci troviamo è al civico 236, proprio di fronte al celebre 221B. Il museo di Sherlock Holmes è chiuso da un pezzo, ma gli sniffa-inchiostro continuano a pellegrinare imbrattando i muri con firme, citazioni dei libri o frasi banali. Non è semplice comprendere perché una simile situazione venga tollerata dalla cittadinanza e dal governo inglese, soprattutto per noi italiani, abituati a nascondere e negare la nostra natura di lettori. Jim dice che è merito del The Pickwick’s Army, ma io ho molti dubbi a riguardo. «Well, se ho capito bene avete una versione digitale del libro.» Eleonora annuisce e mostra la pennetta usb.
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«Allora carichiamolo sul tablet.» Scompare dietro la libreria e torna con una custodia rigida tra le mani. La apre, estrae il dispositivo e lo accende. «Senti, James», dice Eleonora, «a costo di sembrare indelicata vorrei specificarti che abbiamo preventivato adeguate contromisure in caso di… appropriazione indebita del nostro lavoro.» Visto che non ho mai sentito parlare di contromisure, presumo sia un bluff per evitare ogni tentazione, ma non sapevo nemmeno di viaggiare con una memoria usb nella borsa, per cui meglio che stia zitto. A ogni modo, se fossi in lui smetterei di scuotere le ossa e mi incazzerei come una iena. E non parlo delle iene ridens, parlo di quelle che guardano le cugine ridens e ringhiano: «Cazzo ridi!». Cioè, lui ci fa un favore e noi insinuiamo che voglia fregarci? Non mi sembra un buon modo di comportarsi. Per nostra fortuna, James sembra ormai soggiogato dal fascino di Eleonora. «Certo, sweetheart, certo, mi sembra ovvio. State certi che il vostro libro è al sicuro. Lo leggerò e poi lo cancellerò dal mio tablet.» Eleonora è soddisfatta dalla risposta. Attacca la pennetta usb al dispositivo e completa il trasferimento. «Ora, my friends, io mi metto sulla poltrona e inizio a leggere. Voi potete mangiare, leggere o anche riposarvi un po’. Fate come se foste a casa vostra.» Neanche il tempo di rispondere e ha già cominciato a farsi il “romanzo che salverà i romanzi”.
L’appartamento di James è carino e comodo, ma al momento non ho né fame né sonno. Potrei leggere qualcosa, e ammetto che non mi dispiacerebbe farmi qual-
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che capitolo, anche se in inglese. Però sono a Londra, dannazione! «Io vado di sotto a fumarmi una sigaretta» dico. Eleonora fa un cenno vago con la mano, il naso infilato in un tomo sdrucito. James nemmeno mi sente, o comunque non dà segno di averlo fatto. Se non muovesse il dito sul touch screen sembrerebbe paralizzato. Mi stringo nelle spalle ed esco. Le nuvole hanno coperto il cielo, la temperatura è scesa. Faccio scattare lo Zippo e accendo la sigaretta. Una boccata e mi guardo intorno. Un bar, un minimarket, molte serrande abbassate e dimenticate, molti derelitti ambulanti. Nulla che meriti una seconda occhiata. Mi incammino verso sinistra. O almeno tento di farlo. «Dove cazzo credi di andare?» Caterina. Semi nascosta nel vicolo dove scendono le scale antincendio del palazzo di James. Scale antincendio esterne, di metallo, arrugginite, proprio come quelle dei film americani. E sotto di esse c’è Caterina, che mi guarda minacciosa. «Ehi, Cate» gioco la carta sono-solo-un-turista-disinvolto. «Faccio due passi mentre fumo.» «Non credo proprio.» Non ha funzionato. «Eleonora?» chiede. «All’ultimo piano, da James. Lui sta leggendo il nostro libro e lei si fa qualche capitolo per rilassarsi nell’attesa.» «E perché non ti rilassi pure tu?» «Dai, Cate, siamo a Londra. Faccio solo due passi qua attorno.» «Se speri di trovare qualche pollastra camminerai invano.» «E tu come lo sai? Hai controllato?»
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«Perlustrazione del perimetro.» «Ah, si chiama così adesso?» «Finalmente un po’ di spirito, principino.» Scuoto la testa. Inspiro il fumo, lo espiro. «Ci hai seguito per tutto il tempo?» «Yes, sir.» «Secondo me sei andata a fare shopping.» Alza un sopracciglio. «Dici quando mangiavi la crêpes a Covent Garden o quando bevevi il tè bianco al Tea Corner?» Impressionante. Ho cercato di scorgerla, ma non l’ho vista da nessuna parte. «Dall’espressione che hai fatto mentre lo assaggiavi non credo che quel tè ti sia piaciuto.» Alzo le mani. «Okay, okay, messaggio ricevuto.» Altro tiro di sigaretta. «Allora posso fare due passi o no?» «Negativo. Dimmi di James.» «Un tipo a posto, direi. Non scollerà il culo dalla poltrona finché non avrà finito la lettura.» «Neanche per pisciare?» «È un libromane cronico. Probabilmente camminerà, piscerà e tornerà alla poltrona senza staccare gli occhi dal libro.» «Tu lo hai mai fatto?» «Se il libro è buono lo faccio sempre.» «Continuo a pensare che voi libromani siete una razza strana.» «Già.» L’ultima boccata di fumo ha il sapore acido del filtro, quindi espiro, butto il mozzicone per terra e lo spengo con la punta della scarpa. «Posso almeno attraversare la strada?» chiedo. Caterina mi guarda per qualche istante in silenzio, poi si stringe nelle spalle e annuisce. Sono incuriosito dal civico 221B. O almeno da quel che ne resta. L’edificio è un casermone di tre piani di-
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viso in cinque o sei palazzine, difficile capirlo con esattezza. La facciata è uniforme e gli ingressi ai piani superiori si confondono con quelli dei negozi al piano terra, ormai abbandonati. Le targhe dei numeri civici sono state rimosse, forse per tentare di confondere i visitatori, ma il 221B è comunque ben riconoscibile. A destra del portone d’ingresso c’era l’ampia vetrina del museo, se ne scorgono ancora i contorni. La finestra è stata murata e l’intera parete è coperta da scritte di ogni forma e dimensione. Dal marciapiede fino alla prima fila del rivestimento di mattoni che copre i piani superiori, migliaia di citazioni tratte dai romanzi di sir Arthur Conan Doyle. Ognuna accompagnata da una data e da un nome, a testimonianza del passaggio di un… devoto. Già perché sarebbe riduttivo dire che tutto questo sia solo il frutto di tossici incivili o di libromani strafatti. Questo muro è un commovente altare alla letteratura. Ma c’è anche la possibilità che sia solo un’opera di vandalismo e che l’aria di Londra mi abbia trasformato in un fricchettone dal cuore tenero. Vallo a capire! Tra le scritte ce n’è una in particolare che attira la mia attenzione. È più visibile delle altre, sembra essere stata tracciata da poco, ed è evidenziata da una cornice tratteggiata con vernice verde. Follow the Luckdragon. Di nuovo. «Darling, torna qua!» Mi volto. Eleonora è accanto a Cate e gesticola nella mia direzione. Torno sui miei passi. «Sopra c’era questo volantino.» «E quindi?» «Voglio andarci.» «Scusa?» «James ne ha ancora per qualche ora, e noi dobbiamo comunque trovare il modo di passare il tempo.» «Siamo a Londra, ci sono un sacco di cose da fare.» «Tesoro, fidati, ci divertiremo.»
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Non posso credere alle mie orecchie. Mi giro verso Cate cercando man forte. «Tu non dici niente? Non credi sia pericoloso?» «No, quello è l’ultimo posto dove vi cercherebbero.» «Forza, darling, non fare come al solito.» Legge meglio il volantino e poi indica la stazione della metro. «È a poche fermate da qui, vicino all’albergo, così possiamo anche darci una rinfrescata se facciamo in tempo. Andiamo.» E parte, senza nemmeno aspettarci.
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Capitolo 28
Sono in molti a ricordarsi cosa stavano facendo alle 17 del primo giugno 1998. Io giocavo a Tomb Rider II, e mi incazzai non poco quando i miei genitori mi costrinsero a staccare la Playstation dal televisore del salotto. «Una tragedia» mormoravano. Guardammo l’edizione speciale del telegiornale, seduti sul divano. Mia madre singhiozzava, mio padre non riusciva quasi nemmeno a respirare e io… senza rendermene conto stavo prendendo coscienza della società in cui vivevo. Guardando le immagini dei sacchi mortuari adagiati sotto la statua di Newton, ricordo che per la prima volta pensai di voler smettere di
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leggere, ma nonostante la drammaticità del momento la mia assuefazione suggerì subito credulo e asservito. Non c’erano più speranze ormai, né per me né per i lettori… e tutto per colpa del Governo di Sua Maestà. Non ho voglia di rivivere quei momenti, né di ripensarci troppo. Durante il tragitto in metro tento di spiegarlo a Eleonora, invano. Continuo a ripetermi anche mentre camminiamo per Euston Road, ma non mi ascolta. Quando arriviamo all’angolo con Ossulston Street, eccolo lì, quel dannatissimo edificio di mattoni rossi con tanto di monumento ai caduti troneggiante nel cortile. Dopo tutti questi anni pensavo fosse stato abbandonato, o magari addirittura abbattuto, e invece gli inglesi hanno preferito riqualificarlo: la British Library, ideata come ultimo baluardo della letteratura, è diventata il British Rehab Center, simbolo di una società che ha preferito disintossicarsi. Attraversiamo la strada ed entriamo nel cortile del complesso. La gente va e viene a passo svelto, con la testa bassa e le spalle curve sotto il peso delle proprie scimmie. Oltre l’ingresso principale c’è un ambiente arioso, nel quale cemento e marmo bianco si mescolano a intarsi di mattoni rossi e opere d’arte. Il soffitto è altissimo e le ampie vetrate garantiscono un’ottima illuminazione naturale. È uno di quei luoghi nel quale il visitatore è portato a sussurrare, per rispetto e reverenza. Una cattedrale costruita per i lettori e frequentata da libromani e altri tossici. Eleonora si avvicina al bancone delle informazioni, mentre io e Caterina saliamo la grande scalinata lì accanto e continuiamo a guardarci attorno, incantati dall’ambiente maestoso. Abbandonarlo o abbatterlo sarebbe stato un peccato, bisogna ammetterlo. Sul piano rialzato ci sono piccoli tavoli rotondi intorno a cui uomini e donne più o meno giovani guardano
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il cellulare o bevono da bicchieroni di Starbucks. Sulla sinistra, un freccia appesa al muro indica una galleria privata. Cate non vuole allontanarsi troppo da Eleonora, per cui entro da solo. Quello che trovo mi mette a disagio. La stanza è piena di schermi, appesi sulle pareti e appoggiati su piedistalli di ferro battuto. Su ogni schermo vengono trasmessi documentari, girati da registi famosi e doppiati da celebrità inglesi del piccolo e del grande schermo. Riconosco il nome di Benedict Cumberbatch (quello che ha dato la voce al drago della trilogia su San Giorgio), e anche quelli di Daniel Radcliffe, Rupert Grint e Emma Watson, della serie Young Apostles. Ogni documentario illustra un momento diverso della storia dell’Anti-literature movement, dalla prima pubblicazione del loro manifesto nel 1969, alla proclamazione della legge Montag nel 2000. Pura propaganda No-Lit. Sto ancora decidendo se cedere alla curiosità morbosa e guardarmi qualche filmato o scappare a gambe levate, quando Eleonora entra nella stanza a cercarmi. Basta guardarla in viso per intuirne la reazione emotiva: prima stupore, poi nausea e infine rabbia. Sarebbe divertente vederla esplodere (potrebbe urlare e saltellare in perfetto stile Paperino, o trasformarsi in un’amazzone verde sorella di She-Hulk), ma preferisco prenderla per un braccio e trascinarla fuori. Le persone normali, la gente perbene, pensa che tutti i libromani odino l’Anti-literature movement, e la reazione di Eleonora non fa che avvalorare questa tesi. Ma in verità non tutti gli sniffa-inchiostro hanno questa opinione. Ci sono quelli, come il sottoscritto, che attribuiscono gran parte della colpa a coloro che si sono fatti trascinare, o piuttosto a quelli che non sono riusciti a contrastare l’ascesa del movimento. Perché per carità, se non ci fossero stati i No Lit tutto il processo
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alla letteratura non sarebbe mai iniziato, ma se milioni di persone hanno creduto che il verso Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse16 fosse un avvertimento di Dante nei confronti dei pericoli della letteratura… forse la legge Montag ce la siamo meritata, no? Considerate quello che è successo proprio nel cortile della British Library quel maledetto primo giugno: dopo tutte le proteste avvenute l’anno prima per la pubblicazione di Harry Potter e la pietra filosofale, pensate fosse saggio inaugurare una mega-super-biblioteca costruita con i soldi statali? Certo è semplice ragionare a posteriori, e ancora di più gridare al complotto e pensare che le vittime fossero integralisti disposti al suicidio per la causa dell’Anti-literature movement, ma la realtà è che il Governo inglese gestì male l’intera faccenda e dei semplici protestanti furono trasformati in martiri. E mi fa incazzare che la gente non lo capisca e che si ostini a schiumare di rabbia contro la propaganda dei No Lit. Se la gente è pronta a seguire il primo coglione che urla stronzate da un palco, bisogna aver paura della folla, non dell’urlatore. Ecco, perfetto, ora mi sto incazzando anche io. Impossibile rimaner calmi qui dentro.
«Per riuscire a eliminare l’impulso alla lettura, dovete imparare a combatterlo.» A parlare è il responsabile della seduta, un assistente sociale che gesticola a pugni chiusi per dar maggior vigore alle sue banalità. Di fronte a lui un gruppo di libromani italiani trapiantati a Londra. Sette uomini e undici donne, tanto per confermare che la letteratura
16 Dante Alighieri, Divina Commedia – Inferno.
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è femmina. Poi ci siamo noi, seduti in ultima fila. Eleonora ascolta il discorso, Caterina mangia un tramezzino preso dal tavolo del buffet e io fisso il pavimento, ancora incredulo per essere finito in un’Anonima Lettori. Di nuovo. Siamo in una saletta al secondo piano del British Rehab Center. Un locale elegante e confortevole, arredato con colori tenui, che dovrebbero facilitare il rilassamento e la condivisione. Se non avete molta esperienza di queste riunioni, vi assicuro che sono tutte uguali. Arrivi e ti guardi attorno con imbarazzo. I veterani aspettano l’ultimo istante per entrare in modo da evitare l’impaccio iniziale, mentre i novellini si aggirano per la stanza a occhi bassi, fingendosi impegnati in qualunque modo possibile. All’ora programmata, l’assistente sociale di turno dà il via alla riunione: ti siedi e ascolti il sermone che esalta la grandezza della fede e il suo potere curativo contro la tua bibliomania. Rivolgiti a Dio, Allah, Odino o Buddha, e lui ti salverà dalla piaga della letteratura. Poi iniziano le testimonianze e chi vuole può alzarsi per condividere con il gruppo le sue incertezze e le sue disgrazie. Infine, si prega tutti insieme e questo è l’unico momento che può variare, perché la preghiera cambia a seconda del culto che ha organizzato l’incontro. Ho sentito dire che da qualche parte, negli Stati Uniti, ci sono riunioni di lettori anonimi organizzate dal culto di Bacco, e allora invece della preghiera si improvvisa un’orgia. Ma penso che sia solo una leggenda metropolitana. A ogni modo, dopo la preghiera mangi, bevi e fai quattro chiacchiere, perché a quel punto hai condiviso le tue paure e non hai più motivo di vergognarti con il prossimo. Tutto molto standardizzato. Così come i dodici passi, d’altronde. Primo passo. Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte alla letteratura e che la nostra vita era diventata
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incontrollabile per colpa della sua ascendenza. Sì certo, come no! «Potete allontanarvi dai libri», continua il responsabile, «e isolarvi in ambienti privi di tentazioni, ma questo potrebbe non bastare. Prima o poi vi capiterà di imbattervi in un capitolo, o magari in qualcuno che vi offre un paragrafo, e dovete essere pronti a combattere contro l’impulso di cedere.» Fa una pausa a effetto, poi riprende. «Alcuni suggeriscono di parlare con i propri sponsor, ma io non sono d’accordo. Discutere delle vostre incertezze potrebbe innescare un dibattito che peggiorerebbe la situazione. Meglio correre a casa e guardare la televisione. Vi sedete di fronte allo schermo, da soli, prendete respiri profondi e vi concentrate su una trasmissione qualunque. Senza cambiare canale.» La tv usata per lobotomizzare è un concetto banale, ma ai presenti piace e c’è qualcuno che chiede addirittura ulteriori dettagli. Che questi libromani siano davvero intenzionati a smettere? Magari sono tutti al primo tentativo e credono sul serio che la terapia possa aiutarli. Dovrei alzarmi e dir loro di non sprecare tempo con queste stupidaggini e imparare invece l’arte della mimetizzazione. Questo se volessi aiutarli. Ma non mi interessa farlo. Al momento voglio solo capire perché sono qui. Mi sporgo verso Eleonora per chiedere l’ennesima richiesta di spiegazioni, ma l’assistente sociale mi becca prima ancora che riesca ad aprir bocca. «Vedo che oggi ci sono dei volti nuovi, volete presentarvi agli altri?» Nemmeno fossi tornato tra i banchi del liceo, cazzo! Caterina sottolinea il momento mormorando un sarcastico «Bella mossa, campione!», mentre Eleonora reagisce in un modo inaspettato: annuisce e si alza con aria affranta.
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«Salve a tutti, io sono Alessandra e sono una lettrice compulsiva.» Un coro di voci. «Ciao, Alessandra.» Le chiedono se voglia condividere con il gruppo la sua esperienza e lei riesce a stupirmi per la seconda volta in sette secondi: risponde di sì e raggiunge l’assistente sociale. L’uomo le dice di farsi forza, poi si sposta di lato e la lascia sola al centro della scena. «Ieri era il mio sessantasettesimo giorno lontano dai libri, ma durante la serata sono ricaduta nel vizio.» Un mormorio di dispiacere si diffonde tra i presenti. Qualcuno urla «Coraggio!», altri «Fatti forza, non hai bisogno dei libri!». Una lacrima solitaria scivola sulla guancia di Eleonora. Mi sporgo verso Cate. «Sta piangendo?» «È brava.» Già, brava, ma cosa ha in mente? Si asciuga la guancia con una mano e riprende a parlare. «Sono dovuta venire a Londra per un colloquio di lavoro. Ero nervosa, avevo bisogno di essere assunta. Sono arrivata in albergo al tramonto, volevo dormire ma non ci riuscivo, così sono andata a bere una birra in un pub. Mi sono seduta al bancone e c’erano queste ragazze che parlavano… di un libro. Avrei dovuto allontanarmi, lo so, ma erano entusiaste di quello che avevano letto e mi sono intromessa nel loro discorso. Mi hanno detto “il libro si chiama ***”, e poi anche “verrà presentato alla London Book Fair”, e non facevano altro che ripetere quanto fosse entusiasmante e così alla fine… ho chiesto loro di leggerlo.» Fa una pausa per trattenere un singhiozzo, poi continua. «Mi sono detta, “solo un paragrafo, niente di più”, ma quel libro era eccezionale e non riuscivo a smettere. È il miglior libro che abbia mai letto!»
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E a questo punto scoppia a piangere di fronte a diciotto libromani che stanno sbavando dalla voglia di farsi “il romanzo che salverà i romanzi”. Dopo un momento di silenzio iniziano le domande. Nessuno è interessato a far forza a Eleonora, nessuno grida «Coraggio!», tutti vogliono solo sapere dove possono trovare quel romanzo, e lei, tra un finto singhiozzo e l’altro, continua a ripetere «sarà in vendita alla prossima fiera del libro». L’assistente sociale ha capito quello che sta accadendo, ma non riesce ad arginare la ridda di domande, né tantomeno le risposte precise di Eleonora, che ormai è circondata da tutti i libromani in delirio. Noi aspettiamo ancora qualche minuto, poi la raggiungiamo e fingiamo di sostenerla avviandoci verso l’uscita. Lei continua a piangere, e urla: «Mi raccomando, mettete in guardia anche tutti i vostri amici. *** è un libro pericoloso, se lo inizi non riesci a smettere di leggerlo». Poi con un finale straziante ribadisce: «È il miglior libro che abbia mai letto!». Usciamo di corsa dall’edificio e ci allontaniamo in fretta verso la stazione di St Pancras. Appena lasciato il cortile, Eleonora smette di recitare la parte della tossica sconvolta e scoppia a ridere. «Tu sei pazza, lo sai, vero?» dico. «Tesoro, questo è marketing!» La mia assuefazione suggerisce estro e perfidia. Mentre continuiamo lungo la via, il cellulare di Eleonora si mette a vibrare. Lei risponde e le si illumina il viso. Dice solo: «Arriviamo», poi chiude la chiamata e affretta il passo. «Ehi, dove scappi?» chiedo. «Ha finito di leggere! Vuole vederci! Gli è piaciuto!» Il buon Scuotiossa. Io e Caterina affrettiamo il passo, ma Eleonora ci stacca e ci precede verso la fermata della metro. La lasciamo allontanare.
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«È una buona notizia?» chiede Cate. «Sì, penso proprio di sì.» «Buon per voi.» Annuisco. Già, è proprio un’ottima notizia. Ma quel “voi” detto da Caterina mi ricorda il motivo per cui lei è qui: qualcuno vuole ucciderci. E la gioia viene subito stemperata. «Hai scoperto nulla riguardo all’assalto? Chi ci dà la caccia?» «Non lo so, Amleto. Ho fatto qualche telefonata e chiesto qualche favore, ma chiunque sia è bravo a nascondere le sue tracce.» «Riuscirà a trovarci?» Si stringe nelle spalle. «Ci siamo mossi bene, ma è difficile nascondersi a lungo.» «E i nostri amici?» «In che senso?» «Rischiano qualcosa? Tipo essere rapiti per farci uscire allo scoperto.» «No, lo escludo. Sarebbe dilettantistico, e questi sono professionisti, stanne certo.» «Dilettantistico?» «Se rapiscono qualcuno a te caro, potrebbero usarlo per convincerti ad arrenderti…» «È di questo che parlavo.» «Ma se non sanno dove sei non possono contattarti per ricattarti.» «E se lo scoprono?» Scuote la testa. «Sanno che io vi sto dando una mano. Non possono credere che mi fiderei della loro parola. Se ti consegni, loro ti uccidono e poi fanno fuori anche quelli che hanno usato come esca. È così che si comportano i professionisti. Stai tranquillo, certe cose succedono solo nei film.» Eleonora si volta e urla: «Vi volete dare una mossa?». Le faccio cenno di stare calma e continuo il discorso. «Quindi se ci trovano cosa succederà?»
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Caterina sorride. «Tenteranno di uccidervi, e poi ancora, e ancora di nuovo. Una pioggia di piombo.» Rimango in silenzio per alcuni passi. «Quindi che possiamo fare?» «Non farci trovare è un buon inizio.» Vorrei chiedere altre spiegazioni ma siamo arrivati ai tornelli della metro ed Eleonora non mi lascia il tempo di parlare. Mi guarda e strizza l’occhio: «Tesoro sei carico? Siamo al momento della verità». Poi si rivolge a Caterina. «Tu, invece… guardaci le spalle come al solito.» Mentre scendiamo le scale verso i tunnel, la giacca di Eleonora si apre e scorgo la pistola, infilata nella fondina glitterata. A quanto pare le è piaciuta sul serio.
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Capitolo 29
James apre la porta e sembra sconvolto dall’eccitazione. È talmente agitato che temo di vederlo cadere in pezzi… proprio come accadeva sempre allo “Scuotiossa” originale, d’altronde. Ci abbraccia, cammina avanti e indietro, si muove a scatti, gesticola. Parla senza pause, mischiando italiano e inglese, e si interrompe solo per mitragliarci con una raffica di «Fuck!» entusiasti. Eleonora è in visibilio e devo ammettere che non è semplice rimanere impassibili di fronte a una così grande dimostrazione di gradimento. Quando smette di rimbalzare a destra e a manca, James si ferma proprio di fronte a noi, ci prende per mano.
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Ha gli occhi lucidi per la gioia. «Ragazzi… io… io non… voi… two fucking geniuses! Two. Fucking. Geniuses! Il vostro libro è maghnifico! Non ho mai provato una simile carica, una simile… follia. Sono strafatto di energia. Il libro è romantico, epico, rivoluzionario. Ti prende la testa, te la scuote, te la rivolta. It’s a fucking masterpiece!» Cerchiamo di ringraziarlo ma lui ci interrompe, ci stringe a sé. «Come avete fatto? Come ci siete riusciti?» Poi ci allontana e scuote la testa. «No, non ditemelo, non voglio saperlo, nessuno deve saperlo. Non è importante! Who cares? Quello che conta è che il vostro libro ti brucia l’anima, te la fa esplodere. Voglio correre per strada e costringere il mondo a leggere. Andiamo. Facciamolo! Ora! Aiutatemi a farlo!» Corre verso l’ingresso e sono costretto a bloccarlo. Lui si divincola, poi si rilassa. «Hai ragione Hamlet, non ora, non è il momento. Alla fiera! Sì, certo, alla fiera! Tutti dovranno leggerlo!» «Vuoi dire che siamo ammessi?» chiede Eleonora. James scoppia a ridere e piangere allo stesso tempo. «Ammessi? No, non ammessi. Voi sarete gli ospiti d’onore! Nel nostro stand, quello dell’organizzazione. Ho già parlato con gli altri, li ho chiamati. Vogliono incontrarvi, vogliono leggere il vostro libro. Farselo dalla prima all’ultima parola. E vogliono che tutti provino…» Si ferma. Sorride. Gonfia il petto e poi urla come nemmeno Tardelli nella finale dell’82. «yaaaaawp! yaaaaawp!» E allora anche Eleonora gli va dietro, e ulula di gioia. E poi ci sono io che mi trattengo ma loro mi saltellano contro e allora urlo anche io. «yaaaaawp! yaaaaawp!» E via di seguito. Mentre continuiamo a urlare vedo Caterina sbirciare dalla finestra e scuotere la testa. Le indico di entrare, ridendo e gli altri mi prendono per matto, perché quando si girano Cate è sparita di nuovo. Alla fine siamo stremati, con le voce rauche e una sete dromedaria. James prende tre birre dal frigo e ci
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prega di accomodarci al tavolo. È più calmo, ma sempre emozionato. «Se stasera non avete da fare, vorrei proporvi di cenare insieme a me e agli altri organizzatori.» «Certo, molto volentieri» accetta subito Eleonora. «Però dovremmo allargare l’invito anche a una nostra amica» intervengo. «Of course! No problema. Anzi, ditemi pure se avete bisogno d’altro. Qualsiasi cosa.» Lo ringrazio e lui rimane in silenzio. Guarda me, poi Eleonora, poi di nuovo me. È imbarazzato, ma alla fine rompe gli indugi. «Scusatemi se mi permetto, ma vorrei farvi una domanda.» Annuiamo. «Avete pensato di tradurre il vostro libro in inglese?» «Sì, certo» risponde Eleonora. «Molto bene, bravi. E sentite, avete già trovato un traduttore?» «Non proprio…» E qui James rischia veramente di finire in frantumi. Si allunga verso di noi, ci prende le mani, ci supplica. «Fatelo tradurre a me! Vi prego. Please!» e via dicendo finché non gli assicuriamo che ha avuto l’incarico. Un tipo del tutto fuori di testa il nostro amico Scuotiossa.
Prima di continuare con la storia, è bene precisare che il The Pickwick’s Army non è una simpatica congrega di lettori affezionati a Dickens. Cioè, in realtà sono davvero affezionati (consacrati?) a Dickens, ma non è questo il punto importante. Il nocciolo della questione è che il The Pickwick’s Army è un’organizzazione criminale con i controcazzi. Voglio sottolineare questo concetto perché quando arriviamo al luogo della cena, io, dall’alto della mia
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ignoranza, mi aspetto di incontrare gente alla mano e un’atmosfera conviviale, rilassata, magari un po’ ebbra. Invece mi ritrovo seduto al tavolo della cosca letteraria più importante d’Inghilterra (e forse anche d’Europa… o del mondo). E l’atmosfera è tutt’altro che tranquilla, ve lo assicuro. Errore mio, lo so. Questi organizzano una fiera dei libri, e per farlo devono gestire e controllare i più importanti esponenti del mercato editoriale. L’ho raccontata la storiella degli editori all’inferno, no? Non è come organizzare una sagra della porchetta o una festa dei fiori. E tutto questo lo sapevo anche prima di superare le tre perquisizioni all’ingresso del ristorante, me ne rendo conto, però mi ero immaginato un ambiente molto diverso. Colpa dell’aspetto semi-ridicolo di Scuotiossa, o forse del suo atteggiamento molto disponibile. Dico la verità: se conosci quel sempliciotto non puoi pensare che sia membro di un’organizzazione tanto pericolosa. Dai, sul serio, è inconcepibile! E invece eccoci qua, seduti alla tavola dei parenti malvagi della famiglia Corleone. Dopo averci supplicato di concedergli l’onore di tradurre “il romanzo che salverà i romanzi”, James ci ha offerto la sua ospitalità per darci una rinfrescata e riposarci un po’ in attesa della cena. Caterina non ha gradito l’invito a unirsi a noi, né tantomeno il programma della serata (ha molto più sesto senso di me, è inutile ripeterlo), ma con un po’ di suppliche siamo riusciti a farle cambiare idea. Alle nove è arrivato il nostro taxi, un Black Cab, ma di quelli moderni purtroppo. Vetri oscurati, interni in radica e sedili in pelle: gli ospiti del The Pickwick’s Army godono di tutti i privilegi. L’autista ha guidato in silenzio, sfrecciando per le vie di Londra. Impossibile capire l’esatta ubicazione della nostra meta. Durante il tragitto, James ci ha descritto
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alcuni dettagli della sua organizzazione, ed è a questo punto che ho intuito il mio errore di valutazione. «Innanzitutto vi devo avvisare che quando siamo in presenza di persone non appartenenti al Pickwick’s usiamo dei nickname per mantenere l’anonimato. Io sono Smike. La nostra presidentessa è Miss Havisham, è lei che ha l’ultima parola su tutte le discussioni. È una donna che tiene molto alla forma per cui…» e via dicendo fino al nostro arrivo. Ora siamo nella sala grande di un ristorante di lusso. Siamo entrati dall’uscita secondaria per cui non sono riuscito a scorgerne il nome, me è un posto tanto elegante da mettere soggezione. Considerazione che vale per me, per Caterina, e forse anche per James, ma non per Eleonora. Arazzi, lampadari di cristallo, candelabri, argenteria, piatti di porcellana bordati d’oro. Siamo circondati dallo sfarzo, ma lei si guarda attorno con aria annoiata. Tuttavia l’aspetto più buffo di questa cena non è l’atteggiamento snob di Eleonora, quanto il contrasto tra l’omaggio che questa organizzazione vuole rendere a Dickens e l’atmosfera tutt’altro che dickensiana di questo ristorante. Si chiamano “l’esercito di Pickwick”, usano nomi in codice tratti dai romanzi del maestro, ma cenano in una reggia degna della regina Vittoria. Scelta bizzarra. Ma non siamo qui per giudicare. Siamo qui per portare a termine un affare, e per tentare di sopravvivere. James si è seduto alla mia sinistra, pronto a tradurre tutto quello che verrà detto durante il pasto. Di fronte abbiamo Caterina ed Eleonora. Oltre a noi quattro ci sono Mr Sowerberry, un tizio austero dall’aria funerea, Sissy Jupe, una ragazza dai modi molto cordiali, e ovviamente Miss Havisham, seduta a capotavola come una matriarca altezzosa. È una donna anziana con la pelle segnata dal tempo e dalle preoccupazioni. Magra, esile (in pratica rinsec-
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chita), ma al contempo forte, nella sua postura rigida con la schiena dritta appoggiata alla sedia. Parla lentamente, scandendo bene le parole. Nessun tremore nella voce. «È un piacere e un onore avervi come ospiti.» «Il piacere è nostro Miss Havisham» risponde Eleonora. «Smike ha incensato il vostro lavoro, non lo avevo mai sentito così entusiasta di un libro.» «Ne siamo molto felici, signora. E se volesse leggerlo anche lei…» «Oh no, non ce n’è bisogno. Nella nostra organizzazione ci fidiamo dei rispettivi giudizi. Se Smike dice che il vostro libro merita di essere ospitato nel nostro stand, sono certa che sia vero. Non ho dubbi.» «Molto bene.» «Vorrei tuttavia delle rassicurazioni riguardo a voi stessi. Avete dato prova di essere eccellenti autori, ma nel campo dell’editoria non basta saper scrivere. Bisogna soprattutto saper vendere.» «Certo, signora.» «E allora, se non vi dispiace, vorrei intrattenermi con voi dopo cena, magari di fronte a una fetta di torta.» «Sarebbe un piacere, Miss Havisham.» «Perfetto. Godiamoci questo pasto e rimandiamo i discorsi d’affari a più tardi.» La donna allunga la mano verso un campanello dorato appoggiato sul tavolo e lo fa tintinnare. Due delle tre porte della sala si aprono all’unisono e uno stuolo di camerieri in livrea si riversa dentro con scaldavivande ricolmi di tortini caldi. Alcuni sono ripieni di uova e pancetta, altri di patate e carne. Poi è la volta del roast beef, accompagnato dallo Yorkshire pudding e dalle Jacket Potato, patate cotte al forno con tutta la buccia e ripiene di formaggio cheddar. Un banchetto luculliano… ormai dovreste aver imparato cosa significa. Durante il pasto un attore dalla voce stentorea legge paragrafi tratti dai romanzi di Dickens, mentre i came-
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rieri ronzano intorno al tavolo, versando vino e assicurandosi che tutto sia di nostro gradimento. «Dombey aveva circa quarantotto anni. Il Figlio circa quarantotto minuti. Dombey era piuttosto calvo, piuttosto rosso, e pur essendo in tutto e per tutto un bell’uomo aveva un atteggiamento piuttosto rigido e sicuro di sé per riuscire attraente. Il Figlio era molto calvo, e molto rosso, e pur essendo (com’è naturale) innegabilmente un bel neonato, appariva nel complesso ancora un po’ sgualcito e chiazzato.17» Miss Havisham, Mr Sowerberry e Sissy Jupe ignorano camerieri e attore e ci intrattengono con aneddoti divertenti (o presunti tali) riguardanti la società e la politica inglese. Eleonora e Caterina ascoltano con attenzione, mentre io preferisco dedicarmi alle portate. Le mie papille gustative rimangono impressionate dal sapore dei tortini, corposo, e da quello delle Jacket Potato, delicato, nonostante la pesantezza di patate e formaggio cotti insieme. Il roast beef è succulento e si merita un buon quarto d’ora della mia attenzione. «Marley era morto, tanto per cominciare. Non c’era dubbio su ciò: il suo atto di morte era firmato dal pastore, dal coadiutore, dall’uomo delle pompe funebri e dal capo dei piagnoni. L’aveva firmato anche Scrooge, e il nome di Scrooge alla Borsa degli scambi valeva per qualunque cosa a cui egli decidesse di metter mano. Il vecchio Marley era morto come un chiodo di un uscio.18» La mia concentrazione mangereccia viene interrotta quando Miss Havisham si dice molto interessata ai miei genitori e soprattutto alla loro comune, associa17 Charles Dickens, Dombey e Figlio, Rizzoli (1994), traduzione di G. Angiolillo Zannino. 18 Charles Dickens, Canto di Natale, RCS Libri (1997), traduzione di Maria Luisa Fehr.
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zione, o quel che diavolo è. James ne ha parlato molto dopo la sua visita e lei è rimasta affascinata dall’idea di questo gruppo di intellettuali che vive quotidianamente la propria passione per la letteratura. Vorrei dirle che Antonio, Clara e i loro amici sono in realtà un gruppo di codardi, che Fiabilandia è solo un ospizio e che considero quegli intellettuali la causa principale della rovina della letteratura, ma Eleonora mi rifila un calcio sulla rotula seguito da una delle sue occhiatacce. Per cui rispondo che i miei genitori sono dei pionieri nella lotta per la legalizzazione, che Fiabilandia è deliziosa e che sono orgoglioso di far parte di quella comunità. Un discorso poco dignitoso, lo so, ma quando non hai le palle per dire la verità meglio prendere pon-pon e gonnellino colorato e unirsi alle cheerleaders. Le vie di mezzo sono sopravvalutate. «Gli uomini che guardano la natura o i propri simili lamentandosi che tutto è buio e triste hanno ragione, ma quei colori spenti altro non sono che il riflesso dell’amarezza che hanno nel cuore e negli occhi. I veri colori sono delicati e si mostrano a sguardi più limpidi.19» Quando arriva il momento del dolce, Miss Havisham suona il campanello. I camerieri sparecchiano la tavola con estrema efficienza, mentre l’attore interrompe la lettura, fa un inchino verso la donna ed esce dalla stanza. Un nuovo scampanellio e il maitre raggiunge solerte la presidentessa, che gli ordina di servire il dessert nel salotto privato. L’uomo annuisce e offre il braccio alla signora, che si alza con movimenti misurati. Una volta in piedi suona per l’ultima volta il campanello e quattro uomini in completo scuro entrano nella stanza.
19 Charles Dickens, Oliver Twist, Newton Compton (2006), traduzione di Mario Martino.
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«Spero non vi offendiate, miei cari, se confesso che per tutta la durata del pasto siete stati controllati dalle mie guardie del corpo. Trovo che i metal detector e le perquisizioni siano così volgari, indegni di un posto tanto bello. D’altro canto dobbiamo garantirci una sorta di sicurezza. Lo so che il concetto può apparire deprecabile, ma sono convinta che nel mondo dell’editoria la fiducia verso il prossimo non sostenga la sopravvivenza.» Eleonora e Caterina annuiscono sicure, in fin dei conti la paranoia è nel loro stile. Io non mi sento molto a mio agio a pensare di aver mangiato con un mirino puntato alla testa, ma lancio in aria i miei pon-pon e dico: «Certo, signora». «Da qui in avanti, tuttavia, mi piacerebbe discutere in pace e tranquillità, e vorrei quindi chiedervi di consegnare le vostre armi, prima di trasferirci di là, nel salotto.» Io ed Eleonora accettiamo, mentre Caterina si irrigidisce e serra la mascella. Neanche un veloce scambio di battute riesce a rilassarla. Alla fine confidiamo a Miss Havisham che la nostra “responsabile della sicurezza” preferisce rimanere a conversare di questioni a lei più consone con gli altri agenti. La donna sorride e non commenta. Eleonora consegna pistola e fondina glitterata a uno degli uomini, io tento di fare lo stesso con il mio coltello, ma la guardia si mette a ridere. Dice qualcosa in inglese che James non traduce e mi lascia tenere la lama. “Scuotiossa” è stato gentile, ma non ci voleva un madrelingua per capire il significato di quella frase: «Con quel temperino non ci tagli nemmeno la torta, amico». La prossima volta torno con un dannato machete e poi vediamo chi ride. Bastardo! Seguiamo Miss Havisham in un corridoio. Sono troppo povero per sapere se sia normale che un ristorante di lusso abbia un salotto privato dedicato ai clienti, ma
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questo ce l’ha ed è sfarzoso quanto la sala da pranzo. Luci soffuse, pavimento in marmo bianco, tappeti, rivestimenti in legno alle pareti, quadri con cornici d’oro, divani e poltrone d’antiquariato, tavolini di cristallo e un camino. La presidentessa si accomoda su una poltrona, io, Eleonora e James nel divano accanto. Miss Havisham mi guarda. «Se lei vuole un drink, caro, il bar è nel mappamondo» e indica un grosso globo di cristallo nell’angolo opposto della stanza. Annuisco, ma Mr Sowerberry mi ferma subito. «No, sir, non si scomodi, la servo io se permette.» «Certo… grazie… avete un…» balbetto in attesa di un suggerimento. «Le va bene un bourbon, sir?» Sarebbe meglio uno Jagermeister ma penso sia troppo plebeo per questo ambiente. «Senz’altro, molto gentile» rispondo. «On the rocks?» «Sì, grazie.» Un quadrante del mappamondo si apre mostrando un ampio scompartimento ricco di bottiglie ambrate. Niente Jagermeister, lo immaginavo. Mr Sowerberry mi porge il bicchiere e alza il suo per un brindisi. I bicchieri tintinnano. L’uomo si siede sul divano di fronte al nostro, proprio accanto a Sissy Jupe, che nel frattempo è entrata nella stanza chiudendosi la porta alle spalle. Miss Havisham si schiarisce la voce. «Come vi ho anticipato, vorremmo discutere delle vostre qualità… imprenditoriali, possiamo dire così. Non ho mai sentito parlare della vostra casa editrice.» «Siamo una realtà nuova, signora» risponde Eleonora. «Questo è il nostro primo libro.» «Ma avete alle spalle un’organizzazione esperta, è corretto?»
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«No, signora.» «Avevamo capito che i signori Orciani vi sponsorizzassero» interviene Mr Sowerberry, guardandomi. Butto giù un sorso di bourbon. È talmente forte che trattengo a stento le lacrime. «I miei genitori hanno letto *** e ne sono rimasti tanto entusiasti da decidere di chiamare James. Ma il nostro è un progetto autonomo.» «Ed è lei il responsabile, Mr. Orciani?» «No, signore, la responsabile è Eleonora.» «Così giovane…» mormora Sissy Jupe. Eleonora sorride, per nulla preoccupata. «Sono giovane, questo non si può negare, ma la mia giovinezza non deve essere scambiata per incompetenza. Non abbiamo qualcuno che ci sostenga, né alcun modo di dimostravi la nostra abilità negli affari, ma abbiamo un sogno e sappiamo come realizzarlo. Voi potete aiutarci ed entrare a far parte del sogno stesso, oppure restare a guardare e perdervi l’occasione di cambiare il mondo.» «Cambiare il mondo…» ripete Miss Havisham. «Suona così utopico.» «No, signora, non lo è.» Nella saletta cala il silenzio. Tutti aspettano la reazione della presidentessa. La donna guarda James. «Tu credi nel loro sogno, Smike?» «Sì, signora.» Un lieve bussare alla porta annuncia l’arrivo della torta. Un cameriere spinge un carrello con sopra sei piatti con altrettante fette di un plumcake farcito di crema al limone e ricoperto di meringa bianca. Una squisitezza, ma credo sia inutile dirvelo. Quando il cameriere esce e richiude la porta, Miss Havisham ci fissa con sguardo serio. «Sono abbastanza vecchia da aver conosciuto due mondi. Quello in cui la letteratura era per tutti e quello di oggi, in cui i lettori sono considerati pericolosi. È cambiato tutto tranne una cosa: i lettori sono una minoranza. Smike dice che
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*** ha il potenziale di conquistare tutti, e il pregio di non ricorrere al facile populismo. E nel vostro sguardo, miei cari, scorgo la cieca determinazione che una volta apparteneva anche a me. Per cui, sì, noi vogliamo credere nel vostro sogno.» Eleonora ringrazia mentre io mi chiedo: ho veramente uno sguardo determinato? Forse è merito del bourbon. Mentre finiamo di mangiare la torta, ci accordiamo sui dettagli dell’organizzazione. James tradurrà “il romanzo che salverà i romanzi”, e noi dovremmo trovare il modo di inviarlo in Italia per farlo stampare nel magazzino di Eleonora. Una volta pronte le copie, The Pickwick’s Army si occuperà del trasporto oltreconfine e della presentazione durante la Book Fair. Non ci spiegano come pensano di trasferire così tanti libri, ma non hanno dubbi riguardo alla riuscita del trasporto. «In che giorno si terrà la manifestazione?» chiedo. Mr Sowerberry mi stupisce. «Follow the Luckdragon.» «Come scusi?» «Follow the Luckdragon. È un codice. La prima lettera, la “f”, è la sesta lettera dell’alfabeto e indica il mese, giugno. Il numero delle lettere della terza parola indica il giorno, il dieci. Dieci di giugno.» Rimango pietrificato dalla data (abbiamo solo tredici giorni), ma l’uomo scambia la mia paura per incredulità. «È un modo sicuro per comunicare la data della Book Fair senza correre rischi. Ogni anno componiamo una frase diversa, dedicata al tema centrale dell’evento, e la scriviamo nelle principali aree della città. Il giorno della manifestazione creiamo una pagina web accessibile solo all’ora della data – quest’anno sarà alle 6.10 della mattina e della sera – in cui indichiamo l’indirizzo della sede. Tutto molto semplice.» Aggrotto la fronte, tentando invano di capire il meccanismo.
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«Sapevamo che comunicate la data via e-mail» dice Eleonora. «Oh, no, non lo facciamo più da alcuni anni. Il nuovo modo è più sicuro e può raggiungere molte più persone.» «Capisco. E perché proprio La storia infinita?» Sissy Jupe guarda Miss Havisham che annuisce e risponde. «Penso che il fantastico sia un genere molto complesso. I mondi creati su carta riflettono le paure e le aspirazioni degli autori, offrono uno spaccato dello stato morale in cui versa la società. Al contempo sprona i lettori a sognare, li sfida a trovare la forza di migliorare il mondo. È un genere figlio del suo tempo, ma proiettato verso il futuro. La storia infinita rappresenta tutto questo e ci ha permesso quindi di creare delle istallazioni molto particolari.» «Sarebbe bello poterle ammirare.» «Le vedrete domani» sorride Sissy Jupe. «Domani?» chiedo. «Vorremo mostrarvi il posto e spiegarvi la disposizione degli stand. Spero non sia un problema.» Io esito, ma Eleonora risponde sicura. «Nessun problema, ci mancherebbe. Dove vogliamo incontrarci?» «Alla Battersea Power Station. La conoscete?» Scuotiamo la testa. «Non è difficile da raggiungere» interviene Mr Sowerberry. «Vi darò le indicazioni prima che ve ne andiate.» «Molto bene, cari, molto bene» esclama Miss Havisham alzandosi dalla poltrona. «Credo che per questa sera sia giunto il momento di accomiatarci. È stato un piacere pasteggiare con voi e soprattutto raggiungere un proficuo abboccamento.» Saluti, strette di mano e in poco tempo ci ritroviamo con Caterina nel taxi nero, diretti verso il nostro albergo. «Quella tipa mi mette i brividi» confesso. «Miss Havisham?» ribatte Eleonora.
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«Già, lei.» «A me è sembrata una vecchietta adorabile.» «È una donna pericolosa» interviene Cate. «Non sottovalutatela e non deludetela.» Ripenso ai tredici giorni a disposizione e rabbrividisco.
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Capitolo 30
La mattina dopo, come è facile prevedere, Eleonora ci tira giù dal letto all’alba per pianificare le prossime mosse. Durante la cena ha ostentato tranquillità, ma ora, lontana dagli sguardi dei Pickwicks, lascia venir fuori la sua insicurezza da inesperienza. «Dobbiamo contattare qualcuna delle ragazze.» «Non potete, Ele.» È la prima novità del giorno, Caterina la chiama Ele e a lei sembra stare bene. «Non sappiamo chi vi ha tradito.» «Va bene, Cat.» È la seconda novità del giorno. Vanno di moda i nomignoli. «Però come stampiamo il libro?»
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«Non lo so. Magari posso fare dei controlli su qualcuna di loro.» «Non avevi detto che connettersi a Internet è pericoloso?» intervengo. «Dal cellulare, sì. Il mio portatile ha la connessione criptata.» «Lo sentite anche voi?» chiede Eleonora (o Ele che dir si voglia). «Cosa?» Indica di far silenzio. Qualcuno, fuori dalla porta, sta fischiettando Eleanor Rigby. «È la canzone dei Beatles che preferisco» dico. E poi si scatena l’inferno. Caterina impreca. Urla di raccogliere le nostre cose e allunga la mano verso il fucile. La porta viene scardinata, sbatte contro la parete. Un colosso di muscoli entra nella stanza, punta la pistola, un cazzo di cannone pronto a vomitare piombo. Eleonora si lancia contro il braccio dell’uomo, lo blocca contro il muro. Ma il gigante le afferra la gola con la mano libera, la solleva e la scaraventa lontano. Io sono paralizzato. Caterina rinuncia al fucile e balza verso il colosso. Tenta una gomitata al naso. L’uomo scarta di lato, assorbe il colpo sullo zigomo. Arretra di un passo, calcia verso le tette di Cate. Lei si abbassa, schiva e molla un pugno sulle palle del colosso. Lui fa una smorfia di disappunto, poi sorride. «Amleto spara a questo figlio di puttana!» Provo a muovermi, ci riesco. Mi butto sulla pistola più vicina. La alzo, sparo. Colpisco il muro. Il gigante si volta, mi guarda, punta il cannone. Caterina scatta in avanti, gli morde il polso. L’uomo urla, lascia andare la pistola. Sparo di nuovo. Ancora il muro. Il colosso afferra Cate per i capelli, cerca di strapparsela di dosso. Ma Cate continua a mordere. Piroettano su loro stessi. Sbattono sul letto. Cadono a terra. Caterina si schianta
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con la schiena sul tavolo. Molla la presa. Il gigante la colpisce sul volto, un pugno poderoso. Poi si rialza. È in piedi al centro della stanza, la sua mole oscura la luce della finestra. Il braccio morso penzola sul fianco, quello sano scompare dietro la schiena e riappare con un coltello lungo quanto una katana. Poi si sente il click secco del fucile. Il gigante gira la testa, Caterina spara. Il sangue esplode sui muri della camera. Fine dei giochi. «Chi cazzo è questo?» urlo, l’adrenalina a mille. «Un collega.» «Come ha fatto a trovarci?» «Non lo so, ma ora abbiamo problemi più gravi.» «Che vuoi dire?» Eleonora si muove con cautela, Caterina la guarda preoccupata. «Come stai? Sei ferita?» «Non lo so… no… forse solo un bernoccolo. Merda che botta.» «Quali sono i problemi più gravi?» urlo ancora. Cate indica il cadavere. «Questo è Paul. Non gira mai da solo. Fuori da qualche parte ci sono sicuramente George e Ringo.» «E John no?» «No, John l’ho ucciso l’anno scorso.» «Mi prendi per il culo?» Mi fissa accigliata. «Non è il momento.» «Perché mai i Beatles ci vorrebbero morti?» «Sono killer. Quattro killer di Liverpool a cui piaceva essere chiamati “The Fab Four”.» Indica Eleonora. «Forza aiutala ad alzarsi, dobbiamo muoverci da qua.» Mi avvicino, Eleonora mi allontana e si solleva con le sue forze. Barcolla, ma rimane in piedi. «Sto bene, non ho bisogno di aiuto. Pensa a raccogliere tutto.» «Solo il necessario.» Caterina si apposta di fianco alla finestra e sbircia fuori. Un grosso ematoma sta emergendo sulla pelle perlacea del suo volto. «Questo
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posto ha due uscite. Una frontale e una sul retro. Ecco quello stronzo di George. Ringo sarà dall’altra parte.» Prendo una borsa, la riempio con tutto quello che mi capita a tiro. «Quindi come usciamo da qui?» Indica in alto. «Dal tetto. Io vi copro, voi salite, camminate sui tetti e scendete attraverso l’ultimo palazzo.» «Dove sono le scale antincendio?» «Niente scale, dovete passare dalle camere.» «E se sono occupate?» Quando vengo assalito da un bestione ipertrofico tendo a diventare petulante, non ci posso fare niente. «Fatevi strada sparando.» Eleonora prende una pistola e l’infila nella fondina glitterata. «Non possiamo lasciarti indietro.» «Non rimarrò indietro, tranquilla. Vi faccio guadagnare un po’ di tempo poi uccido questo mentecatto e vi raggiungo alla metro di Russell Square. Ci vediamo lì.» Mi passa il fucile. «Vedi di migliorare la mira.» Mi stringo nella spalle. «Quello stronzo si muoveva troppo, scusami.» «Già, di solito non stanno fermi a farsi uccidere. Abituati.» Rimaniamo in silenzio, immobili. «Fuori da qui!» urla. Usciamo nel piccolo corridoio. Il vicino di stanza sta guardando attraverso la porta socchiusa, ma la sbatte non appena ci vede. Corriamo sulle scale, due gradini alla volta. Al piano superiore un ragazzo in pigiama chiede cosa sta succedendo. Eleonora gli dà una spallata e continua a salire. Nella mansarda c’è una porta sola. Chiusa. «Spara alla serratura.» Carico, premo il grilletto. Centro perfetto. Quando l’obiettivo sta fermo è tutto più semplice. Apro la porta con un calcio. Una ragazza nuda, sul letto, un uomo nudo, sulla porta del bagno. Urlano entrambi. Li igno-
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riamo. Corriamo alla finestra. Il tetto ha due spioventi e uno stretto passaggio centrale, che gira intorno ai comignoli. Che si fottano Mary Poppins e tutti i maledetti spazzacamini, questo tetto sarà la mia tomba, cazzo. Eleonora chiude gli occhi. «Prima regola: mantenere la calma.» Lo sussurra piano, due, tre, quattro volte di seguito, poi apre gli occhi di scatto ed esce sul tetto senza esitare. Io esito, esito eccome. Lo spazio è poco, il palazzo è alto, c’è vento. Un incubo. Solo il rumore degli spari mi sprona a uscire e camminare. Un piede dopo l’altro, senza (quasi) mai guardare in basso. Dalla strada arrivano le urla dei killer, alcune di dolore, altre di rabbia. Poi la risata di Caterina: nitida, brillante, divertita. «Il primo che muore paga pegno!» E ancora spari. E ancora urla. Continuiamo a camminare, due equilibristi circondati da killer. Superato il primo comignolo, inizia il tetto del secondo palazzo. Diversi colori ma stessa struttura. Sono quattro edifici, uno accanto all’altro. Circa trecento metri prima di poter scendere. Poco oltre il secondo comignolo il vento aumenta d’intensità. Spira da nord, contro le nostre spalle. Spinge per qualche istante, poi cambia direzione. Eleonora perde l’equilibrio. Impreca, cade, sbatte il fianco sul camminamento e inizia a scivolare verso destra. Agisco d’istinto, mi getto in avanti. Afferro con la sinistra il bordo del passaggio e allungo il corpo dal lato opposto. Oscillo per la spinta. Eleonora si aggrappa alle mie ginocchia. Il contraccolpo è troppo forte da sopportare con una mano. Sento le dita cedere. Lascio andare il fucile e trovo una presa anche per l’altra mano. «Tesoro, non mollare.» «Ci provo, ma tu cerca di risalire, in fretta.» «Hai la cinta sui pantaloni?» «Sì, ma che…»
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Si tiene salda con la sinistra e allunga la destra verso la mia cinta. La afferra. Per nostra fortuna indosso dei jeans di ottima fattura. Resistono, ed Eleonora si arrampica su di me. «Non sapevo che avessi un culo così sodo, darling.» «Lascia stare le mie chiappe e sali.» «Per una volta che ti faccio un complimento…» Raggiunge il camminamento, si siede, mi aiuta risalire. «Dalla forma e dalla tonicità del culo si può capire molto di un uomo.» «E dal mio cosa avresti capito?» «Che prima o poi te lo dovrò salvare per ricambiare il favore.» Mi bacia sulla guancia e poi riprende a camminare. Arriviamo sull’ultimo tetto. Nessuna finestra, solo un abbaino. Eleonora rompe il vetro con il calcio della pistola, poi si cala dentro. La seguo. Troviamo una mansarda larga una decina di metri quadri e alta uno. Al centro una botola. La raggiungiamo muovendoci carponi. È simile a quella che ho a casa, con tanto di scala retrattile attaccata. La apro e atterriamo nel pianerottolo dell’ultimo piano dell’Hotel Excelsior. Come immaginavo è molto più lussuoso di quella topaia dove abbiamo dormito. C’è perfino l’ascensore, aperto, pronto per la nostra discesa. Entriamo e premiamo lo zero. Una tranquilla musichetta da camera si diffonde dagli altoparlanti. I pulsanti si illuminano a turno, in un lento conto alla rovescia. Il grande specchio riflette una versione sporca e malconcia di noi stessi. Le porte si aprono accompagnate da un simpatico Dlin! e noi usciamo, ignorati da tutti. Raggiunta la strada ci voltiamo a sinistra. Sull’asfalto, un cadavere. Un uomo, testa rasata. Probabilmente George. Nessuna traccia di Caterina. Proseguiamo ver-
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so sinistra, passo svelto ma senza correre. L’illusione di allontanarci inosservati dura poco. Uno stridore di pneumatici ci annuncia l’arrivo dell’ultimo “Fab Four”: Ringo. È all’altezza del MacDonald Hotel, nell’angolo opposto degli Argyle Square Gardens. Ferma la moto da cross accanto al cadavere del compagno, osserva la zona. La visiera del casco riflette un lampo di luce solare. Ci ha visto. Il motore va su di giri. Non serve continuare a guardare per capire che vuole inseguirci. Corriamo. Eleonora indica un vicolo sulla destra. La seguo. Due staccionate di metallo formano una chicane che permette l’accesso solo ai pedoni. Le dribbliamo e riprendiamo a correre. La moto ruggisce dietro di noi, poi arrivano gli spari. Tre colpi. Schegge di mattoni si staccano dal muro sulla destra e ci rimbalzano addosso. Abbassiamo la testa, scartiamo verso sinistra. Un altro sparo, altre schegge nell’aria. Poi la strada compie una piccola curva e lo spigolo di un palazzo protegge la nostra fuga. Gli pneumatici stridono sull’asfalto, il rumore del motore si allontana. «Se ne sta andando» ansimo. «No, sta facendo il giro. Non ti fermare.» Raggiungiamo un bivio, Eleonora svolta a destra. Persone, troppe persone. Passeggiano ignare godendosi la mattinata. Vorrei urlare loro di nascondersi nelle case, di lasciarci passare, ma dalla gola esce solo un rantolo rauco. I polmoni bruciano per lo sforzo. Alcuni londinesi ci guardano incuriositi, altri si fanno da parte spaventati. Nessuno scappa. Poi iniziano le urla e i gemiti di terrore accompagnati dal ringhio della moto. Di fronte a noi, un rettilineo privo di ogni protezione; dietro, un killer sempre più vicino. Ci serve un miracolo. Oppure un po’ di confusione.
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Mi volto verso Eleonora, prendo fiato. «Spara…» Scuote la testa. «Se lo manco siamo morti.» «No» ansimo. «In aria.» Lei aggrotta le sopracciglia, poi capisce. Rallenta il passo, estrae la pistola. Due colpi in aria e il panico dilaga per la strada. I passanti scappano in ogni direzione. Il killer non riesce a evitarli. Una frenata, uno schianto. Mi concedo un’occhiata alle spalle. La moto è accartocciata contro una macchina in sosta. Ma Ringo è già in piedi. Si sfila il casco. Ha i capelli a caschetto e il volto macchiato di sangue: una grottesca maschera beatlesiana di rabbia e odio. Inizia a correre trascinando un po’ la gamba. È ferito anche all’altezza del fianco, ma non ha intenzione di fermarsi. «È un cazzo di Terminator!» sbotto. «Cosa?» «Corri!» Una pallottola fischia vicino alla mia testa e abbatte un uomo in giacca e cravatta. Poi tocca a un vecchio in tenuta da jogging. Ci spostiamo sul marciapiede, proteggendoci dietro le macchine in sosta. Cerchiamo di stare bassi, di muoverci a zigzag. Eleonora tenta anche di rispondere al fuoco, ma non riesce a scappare e sparare in maniera efficace. Continuiamo per una decina di metri, poi ci nascondiamo dietro a un cassonetto. Siamo riparati, ma in trappola. Le urla dei londinesi sciamano lontano. Sulla strada cala un silenzio surreale. Il passo strascicato del killer è l’unico rumore rimasto. Ha smesso di correre e avanza con prudenza. Eleonora allunga la pistola oltre il bordo del nostro riparo, spara tre colpi alla cieca. Sentiamo uno scalpiccio, poi l’aria intorno a noi vibra per le pallottole. Eleonora si avvicina al mio orecchio. «Ha trovato un riparo. Dobbiamo capire dove. Tu guarda, io ti copro.»
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Conta fino a tre con le dita. Spara altri due colpi alla cieca. Io sbircio da sopra il cassonetto. Quello stronzo di Ringo è dietro un suv, dall’altra parte della strada, una decina di metri dietro di noi. Lo riferisco. «Dobbiamo aggirarlo» sussurra. «E come?» «Scivola dietro le macchine da questo lato della strada.» «Tu sei pazza» sibilo. Altri spari. La vetrina del negozio alla nostra sinistra va in pezzi. «Se aspettiamo qui siamo morti.» «È una delle tue dannate regole?» «No, solo buon senso.» «Appena metto la testa fuori quello mi ammazza.» «Tesoro, ti copro io. Non ti preoccupare. Io sparo e tu scivoli dietro alle auto.» «Io mi preoccupo, eccome.» «Dai, muovi il culo. Al mio tre.» «Aspetta» la fermo. «Partiamo quando tu dici tre, o tu conti uno, due, tre e poi partiamo?» «Quando dico tre.» Conta con le dita. Uno. Due. Mi guarda. «Mi raccomando, stai basso.» E inizia a sparare. Mi getto dall’altra parte e striscio sui gomiti. Alcuni frammenti della vetrina hanno raggiunto il marciapiede. Mi tagliano pantaloni e pelle. Una breve raffica del killer, e poi la risposta di Eleonora. Io continuo ad arrancare. Metro dopo metro. Sono talmente concentrato che non sento il dolore delle ferite, né gli spari e nemmeno il click della pistola ormai scarica di Eleonora. Quando raggiungo la fine della seconda macchina, mi acquatto dietro lo spigolo ed estraggo dalla giacca il coltello. Mi sporgo. Nessuna traccia di Ringo. Appoggio la schiena sul paraurti posteriore e scivolo di lato fino a raggiungere l’altro angolo. Mi sporgo ancora.
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Il killer è in piedi di fronte a Eleonora. Sorride. Le punta la pistola alla testa. Fare o non fare l’eroe? Dannazione! Afferro il coltello dalla parte della lama. Mi alzo di scatto. «Questo è da parte di Pete Best, stronzo!» Miro al cuore. Lancio il coltello. La lama ruota nell’aria. Rimbalza sul petto di Ringo e cade per terra. Merda! L’uomo mi guarda. Scuote la frangetta. Poi sento un sibilo alla mia destra e lui vacilla all’indietro. Una macchia rossa si allarga al centro del suo petto. Un altro sibilo e un buco compare sulla fronte del killer. Mi volto. «La frase su Pete Best non era male», sorride Caterina, «ma se rivedo ancora quel maledetto coltello giuro che ti ammazzo.»
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Capitolo 31
Caterina è ferita in più punti. La guancia destra sta assumendo una colorazione violacea e macchie di sangue raggrumato le ricoprono il collo e parte del braccio sinistro. Nella mano stringe ancora la pistola di Paul, con la canna allungata dal silenziatore che vibra in un leggero tremito adrenalinico. Si sfila la tracolla della borsa, quella che avevo riempito io stesso nella stanza d’albergo, e la lascia cadere a terra. «Stai bene?» Annuisco. «Ele?» «Sono qua.»
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Da dietro il cassonetto spunta Eleonora, che barcolla verso di noi. Cate sospira di sollievo, poi mi stritola in un abbraccio. Non sono bravo con gli abbracci, ma dopo qualche secondo mi lascio andare e ricambio la stretta. Lo so che non è il momento per pensare certe cose, ma la morbidezza delle sue tette è confortante. Quando si stacca da me, mi dà un bacio sulla guancia poi si gira verso Eleonora e abbraccia anche lei. La leader maxima spalanca gli occhi verdi per lo stupore, e si mette a ridere. «Avevo paura di avervi perso.» «Ci siamo andati vicini» ribatto. «Lo so, mi dispiace. Ho freddato George e sono corsa sul retro, ma quello stronzo di Ringo aveva già capito che stavate scappando.» «Forse ha visto il fucile che ho lanciato dal tetto.» «E perché mai…» Le sirene della polizia interrompono il cazziatone in arrivo. «Dobbiamo andarcene. In fretta.» Eleonora guarda le macchine intorno a noi, poi indica una vecchia monovolume Ford parcheggiata a qualche metro. «Prendiamo quella.» Senza aggiungere altro, raggiunge l’auto e inizia ad armeggiare con la serratura. Qualche istante e la portiera si apre. Guardo Caterina. «È anche una ladra d’auto?» «Già, una ragazza da sposare.» Il motore inizia a borbottare incerto. Eleonora dà gas per non farlo spegnere. «Allora volete salire o no?» Magari è una peculiarità delle scuole per ragazzine viziate: insegnano come essere snob, come sparare e come rubare le auto. L’educazione pubblica andrebbe riformata. Saliamo. Caterina davanti, io dietro. Eleonora inserisce la marcia e parte. «Ciccini, dove vado?»
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«Non chiederlo a me» rispondo. «Gira a destra, poi in fondo alla via a sinistra. Se raggiungiamo Euston Road siamo al sicuro.» Rimaniamo in silenzio. Eleonora guida con prudenza, attenta a non attirare l’attenzione. Siamo solo tre persone qualunque in una monovolume qualunque che viaggia in una giornata per nulla qualunque. Perché sulla strada, tutto intorno alla nostra isola di quiete, c’è il pandemonio. La gente urla, gesticola, piange. Un capannello di persone è radunato attorno a una signora anziana che si tiene il petto, spaventata; un altro discute di solo Dio sa cosa; un terzo tampona le ferite di un ragazzo steso a terra, pallido. Danni collaterali. Si chiamano così, giusto? «Tutto questo casino per il nostro libro?» chiedo. «Gioia, non farti prendere dell’isteria.» «In realtà sono calmo» e forse è questo che mi spaventa di più. Caterina si gira verso di me. «Ti senti in colpa?» «No, direi di no» mi stringo nelle spalle. «Ma se prendevamo un’altra strada magari c’erano meno passanti, non so.» «O magari sareste morti.» «Già.» Avete presente quei romanzi in cui il protagonista è un signor nessuno che all’improvviso si trasforma in un maledetto “portatore di morte”? Mentre leggi sei talmente strafatto che non ti accorgi di nulla, poi arriva la fase down e ti ritrovi a pensare: “Vabbè, ma che merda. Nella vita reale le persone non si comportano così”. Sono tutte cazzate. Nella vita reale la gente reagisce nei modi più imprevedibili. Tipo quando esci vivo da una sparatoria, e ti guardi attorno, e vedi i morti, e sai che se avessi svoltato a sinistra invece che a destra sarebbero ancora tutti vivi. Potresti crollare in lacrime, potresti
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metterti a ridere, oppure potresti parlare con una tua amica e capire che non sei stato tu a premere il grilletto. Tu hai solo scritto un dannatissimo libro, e i libri non uccidono. Anche se la pila di morti alle nostre spalle è sempre più alta. Eleonora svolta a destra su Judd Street. All’orizzonte abbiamo l’incrocio con Euston Road, ma anche due volanti della Police che sfrecciano verso di noi a sirene spiegate. Mi sporgo tra i due sedili. «Merda!» «Sta’ calmo» mi intima Caterina. «Siamo solo una monovolume per famiglie che procede rispettando i limiti di velocità.» Indica una via sulla sinistra. «Gira là, incroceremo Euston Road più avanti.» «E poi dove andiamo?» «Lontano da qui.» «Ma lontano dove? Che senso ha? Ci hanno trovati, hanno scoperto i nostri nomi falsi. E come se non bastasse ora avremo anche la polizia alle calcagna. Dove cazzo possiamo andare?» Lo schiaffo arriva improvviso. E forte. Una cinquina a mano aperta sulla mia guancia. Tra qualche istante avrò le impronte di Caterina impresse a fuoco sulla faccia. «Non fare la checca isterica!» «Tende a perdere il controllo quando è sotto pressione.» Le guardo. «No, ma sul serio? Abbiamo trasformato Londra in una zona di guerra e voi vi mettete a scherzare?» «Darling, devi imparare a stare calmo. Siamo vivi, troveremo il modo di arrivare sani e salvi alla fiera.» «La fiera?» sbotto. «Fanculo la fiera, ma sei matta? Ci hanno trovato, vogliono ucciderci, dobbiamo solo sparire. Altro che fiera!» Eleonora guarda Cate. «Puoi reggermi il volante un secondo?»
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E Bam! Un altro schiaffo. Questa volta sulla guancia sinistra. «Non siamo venuti a Londra per fuggire o per salvarci le chiappe. Siamo qui per partecipare alla Book Fair e nessun editore, killer o poliziotto ci impedirà di farlo. È chiaro?» Annuisco, indietreggio fino allo schienale del sedile e resto in silenzio, a massaggiarmi il volto dolorante e a coccolare il mio animo umiliato. Eleonora continua a guidare per Bidborough Street. Al primo incrocio, gira a destra. Si ferma per far passare due signore sulle strisce pedonali, poi raggiunge finalmente Euston Road. Alla nostra destra, in lontananza, la sagoma rossiccia della stazione di King’s Cross, attorniata da luci lampeggianti e poliziotti. Dall’altra parte una lunga striscia d’asfalto, dritta fino alla libertà, almeno momentanea. Eleonora svolta a sinistra e continua a velocità di crociera.
L’unica soluzione plausibile ai nostri problemi ha il passaporto irlandese ed è un membro in pensione dell’ira. Preferirei cospargermi le palle di eucalipto ed entrare in un allevamento di koala affamati piuttosto che immischiarmi con quelli dell’ira, ma visto come siamo ridotti forse è meglio che saluti le mie gonadi. Il ragionamento di Caterina è logico. Il tizio non sapeva i nostri nomi falsi, né dove alloggiavamo, per cui non può averci venduto alle brutte copie dei Beatles. Inoltre, ha l’esperienza e i contatti giusti per aiutarci a nasconderci. Non possiamo partire e sparire in un altro continente (lo schiaffo di Eleonora è stato eloquente), ma Londra è grande abbastanza per eclissarsi tra la folla. O almeno è quello che speriamo.
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Caterina chiama l’irlandese al telefono. È molto lapidaria e riassume in poche parole il nostro stato: «We’re fucked». A questo perfetto esempio di sintesi segue un veloce scambio di battute, qualche frase in codice, qualche risposta monosillabica, e alla fine un saluto. «Ci sta aspettando. Prosegui dritta.» «Tutto a posto?» chiedo. «Ha accettato di vederci, è quello che conta.» Annuisco. «C’è qualcosa che dobbiamo sapere su questo tizio?» «Tipo?» «Cate, non lo so, qualcosa che non dobbiamo dire o fare? È un tizio che si offende facilmente?» «No, vai tranquillo, padre Keeran è un tipo alla buona.» «Padre Keeran?» «Esatto.» «Padre nel senso di prete.» «In che altro senso vuoi che sia?» «E non ti sembra un’informazione utile da darci?» «No, non credo. Tanto lo avresti capito alla prima occhiata.» «Perché ha un’aria ecclesiastica?» «Perché è vestito da prete, stupido!» «Quindi quello che ci ha venduto le armi è un prete, un prete vero, un prete che vende armi e si veste da prete.» «Vuoi ripetere “prete” ancora una volta?» Eleonora mi guarda dallo specchietto retrovisore. «Tesoro, perché non ti fai un pisolo e ti rilassi?» «Sì, bravo, dormi un po’, che è meglio.» Okay, ora ho capito. Sono finito in un universo parallelo in cui tutto è assurdo. Una specie di versione pulp del Paese delle Meraviglie, dove è normale che
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i personaggi di Dickens posseggano un’organizzazione criminale, che i Beatles abbiano tentato di ucciderci e che un prete irlandese venda armi e cellulari. Ma sapete quale è il fatto piÚ assurdo? Che sono ferito, sanguinante e in fuga su una macchina rubata, ma mi addormento come angioletto narcolettico.
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Capitolo 32
Mi risveglio nel parcheggio di un pub, un Irish pub, ovviamente. In quale altro posto si potrebbe incontrare un irlandese? Ho dormito circa trenta minuti. Sono più riposato, ma di certo non rilassato. Eleonora appoggia la mano sulla portiera, ma Caterina le fa cenno di aspettare. «Padre Keeran è là dentro. Sembrerà solo, ma non lo sarà. È un tipo prudente quindi cerchiamo di non apparire nervosi o, peggio ancora, minacciosi.» «Al massimo sembreremo disperati» suggerisco. Mi ignorano. «Portiamoci dietro tutto. Giacche, borsa, pistole.»
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Eleonora inarca le sopracciglia. «Anche le pistole?» «Sì, tanto sa che le abbiamo.» «Io non sono armato» sottolineo. Caterina mi guarda. «Quanti anni hai? Cinque?» Allargo le braccia. «Che ho detto? Sono disarmato… è vero.» Indica la borsa. «Prendi il coltello che aveva Paul.» Apro la bocca per ribattere, poi rinuncio. Uno non può fare una considerazione che subito diventa quello infantile. Faccio scorrere la zip della sacca, mentre Cate continua. «Lui non sa perché siete a Londra, non conosce il motivo per cui vi vogliono morti. Non deve saperlo. Odia i libri. Pensa che corrompano le anime dei fedeli. Se vi chiede qualcosa lasciate parlare me.» Una pausa. «Anzi, facciamo che parlo solo io.» Eleonora fa un verso sdegnato. Io mormoro il mio assenso, ma in realtà sono concentrato sul coltello. È una cazzo di arma bianca di distruzione di massa. Ha una lama di venti centimetri, affilata da una parte e seghettata dall’altra, con una punta che ti buca solo a guardarla. Impugnatura ergonomica, laccetto di sicurezza da infilare al polso e fodero ascellare per il trasporto. Con un coltello del genere faccio invidia anche a Goemon, Deadpool e a tutti gli stramaledetti moschettieri del re. Tolgo la giacca, indosso la fondina, rimetto la giacca. Quando alzo lo sguardo trovo Eleonora e Caterina che mi fissano tra i sedili. «Che c’è?» «Ti piace il tuo giocattolino nuovo, darling?» «La tua predilezione per le armi falliche potrebbe indicare una carenza di virilità.» «Fatela finita.» Le lascio ridere di me e scendo dalla macchina. L’edificio è diviso in due tronconi: il piano terra è bianco,
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di cemento, con finestre all’inglese e una doppia porta con oblò proprio sotto l’insegna verde, St. George’s Pub. I due piani sovrastanti hanno facciate di mattoni, finestre scrostate, cornicioni fatiscenti e grondaie arrugginite. Insomma… un posto di merda. Metto la borsa a tracolla e aspetto che le ragazze facciano strada. Caterina è la prima a entrare, poi Eleonora e alla fine io. Se sopravvivrò a questo progetto avrò bisogno di una lunga psicanalisi per ritrovare il testosterone perduto. L’interno del pub è identico a quello del Donegal di Ancona. Luci soffuse, rivestimenti di legno, sedie traballanti e tavoli rovinati. Con la differenza che qui tutto ha un’aria autentica, compreso il beone seduto sullo sgabello di fronte al bancone, già ubriaco alle dieci di mattina. Padre Keeran aspetta in un separé all’angolo opposto all’entrata. Capelli bianchi, barba incolta, primi bottoni della camicia slacciati e collarino ecclesiastico penzolante di traverso. Un boccale di birra sul tavolino, e una sigaretta elettronica stretta tra il pollice e l’indice della mano destra. Il prete più improbabile che abbia mai visto. Guarda verso di noi e ci indica di raggiungerlo. Bacia Caterina sulle guance, stringe le nostre mani e dice di essere lieto di conoscerci. Parla un inglese lento, dall’accento marcato, non è difficile seguire la conversazione, anche senza traduzione. «Sedetevi, posso offrirvi qualcosa da bere?» «Non è necessario Keeran, grazie.» «Oh, andiamo Kate, che senso ha stare in un pub se non si beve?» Caterina ci guarda. «Birra?» Poi sorride al prete. «Tre birre. Grazie.» Un gesto per comunicare la nostra ordinazione al barista, poi riprende a parlare. «Come posso aiutarvi?»
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«Abbiamo bisogno di allontanare alcuni cacciatori.» Prende una boccata dalla sua sigaretta elettronica, fa una smorfia disgustata e la spegne. «Questi aggeggi sanno di merda. Il dottore vuole obbligarmi a smettere, ma se Dio non mi ha dato la forza di farlo pensate che ci riesca una sigaretta elettronica?» Ride e prende una sorsata di birra. «Scusatemi, non volevo divagare. Parlavamo di cacciatori. Dopo aver ricevuto la tua telefonata mi è giunta voce che ne hanno trovati tre morti dalle parti di King’s Cross. Avevano puntato una preda fuori dalla loro portata.» Caterina indica il livido sul suo volto. «O magari la preda è stata fortunata e ora ha paura di essere catturata nella prossima battuta di caccia.» «Una preda molto ambita.» «Lo sai come sono fatti i cacciatori: bramano quello che non possono avere, anche se si tratta di prede di poco valore.» Il prete sta per rispondere, ma viene interrotto dal cameriere che arriva al tavolo con le nostre birre. Padre Keeran alza il boccale per invitarci a brindare, beve un altro sorso e si schiarisce la voce. «Kate mi avevi detto che eravamo pari, sbaglio?» «Non sbagli. Siamo pari, ma ho bisogno di un favore. Sai che lo ricambierò quando ti servirà.» «Sei una donna onesta, la tua parola vale molto per me, ma non posso garantirti il mio aiuto se non so in che guai sei finita.» «Lo capisco. E ti fornirò tutte le spiegazioni che vorrai. Prima però dovremmo occuparci della macchina.» Il prete osserva il parcheggio attraverso la finestra. «Quale macchina?» Seguiamo il suo sguardo. L’auto è sparita. Sto per imprecare, violando la promessa di silenzio fatta a Cate, ma poi capisco quello che è successo. Il dialogo in codice avvenuto per telefono. Per fuggire bisogna
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innanzitutto nascondere le tracce, e guidare una macchina rubata non è il miglior modo di farlo. Un prete efficiente, bisogna ammetterlo. «Ti ringrazio» riprende Caterina. «Non devi. Alcuni ragazzi avevano bisogno di un incentivo per far partire la loro carrozzeria. Smonteranno la macchina, venderanno i pezzi e ringrazieranno il Signore per l’aiuto ricevuto. Dio opera in modi misteriosi.» Non credo che questi fantomatici “modi” comprendano il furto d’auto e la ricettazione, ma confesso che a catechismo ero più interessato a sbirciare le mutandine bianche di Giorgia Olivetti piuttosto che ascoltare il prete e i suoi discorsi sulla grandezza di Sua Sommità l’Altissimo. «Allora Kate, vuoi parlarmi delle vostre necessità?» «Pensi che questo posto sia adatto?» Il prete strizza l’occhio. «Certamente, cara. Il St. George’s è la mia chiesa da molti anni, ormai.» Caterina si stringe nelle spalle. «Abbiamo bisogno di un alloggio, di un’auto, di munizioni e di qualche prodotto per cambiare il nostro aspetto, tipo tinture per capelli, creme autoabbronzanti e via dicendo.» «Che tipo di alloggio?» «Un posto a Londra in cui non serva mostrare documenti.» Padre Keeran rimane in silenzio. Sorseggia la sua birra, sospira. «Quello che mi chiedi non coinvolgerebbe solo me ma anche i miei parrocchiani. Ho il dovere di preoccuparmi per la loro sicurezza.» Caterina rimane in silenzio e lui continua. «Le persone che avete alle calcagna hanno trasformato King’s Cross in un far west, come posso rischiare che succeda lo stesso anche qui, nel mio quartiere?» «Comprendo le tue preoccupazioni. Non conosci un posto lontano dal tuo quartiere?»
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«Sì, un posto c’è. È caro, sporco e scomodo.» «Andrà benissimo.» «Okay, va bene allora. Per le altre cose, ho bisogno di una mezzoretta per organizzarmi, potete aspettare?» Cate annuisce. «Certo, nessun problema. Per il pagamento…» Il prete alza una mano e l’interrompe. «So che posso contare sulla tua lealtà, Kate, non preoccuparti. Quando avrò bisogno del tuo aiuto ti chiederò di ricambiare il favore.» Poi fa un gesto verso il bancone, dove il beone ubriaco si desta con lucidità inaspettata e raggiunge il nostro tavolo. Porge a Caterina foglio e penna, e aspetta. «Scrivi pure quello di cui avete bisogno» riprende il prete. «Roger andrà subito a comprarlo.» Cate scrive in fretta, cinque sei voci in tutto. Ripassa il foglio al prete, che lo legge e annuisce. Il finto beone si china verso padre Keeran, ascolta le sue parole appena sussurrate ed esce in tutta fretta dal locale. Eleonora lo indica e interrompe il silenzio. «Un attore da Oscar» mormora. «Da giovane era un attore di teatro, in effetti. Ha recitato per alcuni mesi Trappola per Topi di Agatha Christie, al St. Martin’s Theatre. Prima delle legge Montag, ovviamente.» «Non ha perso il suo smalto.» «No, direi di no.» Passiamo i restanti ventisette minuti a parlare, in apparenza, del più e del meno. Caterina ci presenta come Marco e Giovanna, figli di un ricco imprenditore anconetano che ha pestato i piedi alle persone sbagliate. Padre Keeran sembra bersi la storiella, annuisce comprensivo, ci conforta. Poi, però, inizia a chiederci informazioni sulla nostra vita e sul nostro lavoro. Un interrogatorio molto astuto. Io me la cavo con il problema della lingua. Fingo di non parlare inglese e lascio che
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Cate risponda per me. Eleonora non si fa problemi e sfodera la consueta faccia tosta: replica sempre a tono, non cade in contraddizione e infine inizia una filippica contro il padre fittizio, che l’ha messa in pericolo e bla bla bla. Una recitazione da standing ovation. Le birre finiscono e il prete ordina un altro giro. Caterina si irrigidisce, cerca di rifiutare. L’alcol non è alleato del bugiardo. Alla fine è costretta a capitolare, e non le rimane che offrire quattro porzioni di stuzzichini fritti, sperando che il cibo contrasti l’effetto della birra. È una partita a scacchi mascherata da amabile conversazione. Mosse e contromosse, giocate con sagacia, fino al ritorno di Roger. Attraverso la finestra lo vediamo entrare nel parcheggio al volante di una Nissan Micra grigio metallizzato. Scende dalla vettura, entra nel locale e guarda verso di noi. Il prete gli fa un cenno di assenso e lui si avvicina consegnandoci la chiave. Abbiamo superato l’esame. «Siete dei ragazzi simpatici», dice padre Keeran, «e spero che Dio protegga il futuro vostro e dei vostri cari.» Lo ringraziamo e lui riprende il discorso. «Non meritate di alloggiare in quell’albergo sudicio di cui parlavo, quindi mi sono permesso di prenotarvi una foresteria in zona Bayswater. È spartana, ma pulita e discreta.» Indica l’auto nel cortile. «Troverete l’indirizzo già impostato nel navigatore, mentre nel bagagliaio c’è tutto il resto che mi avete richiesto.» Si alza, stringe le nostre mani, ci dà la sua benedizione. Usciamo. Caterina passa la chiave a Eleonora. «Guida tu.»
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Capitolo 33
La foresteria è su Moscow Road, a un centinaio di metri dalla stazione della metro di Bayswater. Un ragazzo di circa vent’anni ci aspetta di fronte al portone dell’edificio. Consegna il mazzo di chiavi a Caterina e se ne va senza nemmeno guardarci negli occhi. Nessuna presentazione, domanda o spiegazione. L’appartamento è un monolocale essenziale, con un divano, due letti a castello, un angolo cottura e un bagno abbastanza spazioso. Come promesso da padre Keeran è un posto pulito, ma dubito ci sia ossigeno sufficiente per la sopravvivenza di tre persone. Il quartiere, tuttavia, è frequentato da persone di ogni razza,
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sesso ed etnia, e sembra un ottimo posto dove sparire. Tutto sommato rimaniamo soddisfatti. I problemi arrivano quando iniziamo a discutere dei “travestimenti”. Abbiamo sparato e ucciso di fronte alle telecamere di sorveglianza e agli sguardi dei passanti. Le nostre foto e i nostri identikit saranno presto in mano a tutti i poliziotti di Londra. Per non parlare delle televisioni e del web. Non possiamo cambiarci d’abito e fingere che non sia successo niente. Abbiamo bisogno di una trasformazione più radicale, che si renda meno riconoscibili. Un trapianto di faccia alla Face Off sarebbe l’ideale, ma purtroppo non siamo in un film di John Woo, anche se le sparatorie potrebbero suggerire il contrario. Caterina apre una delle buste fornite da Roger, l’ex attore. Forbici, rasoio elettrico, tintura per capelli, crema autoabbronzante, lenti a contatto colorate e una trousse di trucchi. «Chi vuole cominciare?» Eleonora inorridisce. «Non ci pensare proprio. I miei capelli li tocca solo Serge!» «E chi è Serge, di grazia?» chiedo. «Il mio parrucchiere francese.» «Okay, dai, chiamalo e prendi appuntamento, allora. Fa anche visite a domicilio?» «Piano con il tuo sarcasmo, ciccio.» Caterina sbatte un pugno sul tavolo. «Non abbiamo tempo per discutere. Se oggi pomeriggio volete andare alla Battersea Power Station dobbiamo cambiare aspetto.» Eleonora la guarda con un misto di terrore e rassegnazione. I suoi capelli lunghissimi e curatissimi stanno per essere violentati da una lesbica in una bettola di Londra. È difficile mantenere un’espressione seria e trattenere la mia fantastica ironia. Cate mi lancia il rasoio elettrico. «Tu intanto rapati a zero barba e capelli.»
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La mia vena comica si esaurisce all’istante. «Come?» «A zero, forza. Barba e capelli cambiano molto la fisionomia di un uomo. Rasati e sei a posto.» «Non se ne parla.» «Ora non fai più il sarcastico, darling!» Tutte le proteste sono inutili. Caterina assume il ruolo dittatoriale di nazi-parrucchiera e il monolocale si trasforma in un campo di sterminio per capelli. Io sono confinato nel bagno, con il rasoio elettrico che vibra in modo sinistro. Sembra affamato. Vorrei potermi fare un capitolo o due, ma l’unica cosa da leggere a portata di mano è il foglietto delle istruzioni di questo aggeggio infernale. Che brama i miei capelli. Lo sento. E allora mi arrendo, e inizio a tagliare. Mi guardo allo specchio e penso a Bruce Willis: lui non è male anche se è calvo/rasato, giusto? E anche John Travolta in From Paris with Love aveva il suo perché. Poi però penso a Lex Luthor, Antonio Chimenti e Zio Fester. Merda. Intanto dall’angolo cucina arrivano i lamenti disperati di Eleonora, sempre più acuti, piagnucolosi. L’unica rilassata è Caterina, che sghignazza e danza in un turbine di capelli in stile Edward mani di forbice. Okay, forse la situazione è meno drammatica di quella che ho descritto… ma ho reso l’idea, giusto?
Dopo circa un’ora di delirio, io ed Eleonora siamo in piedi di fronte a Caterina, che ci osserva come un generale in visita alle truppe. Io sfoggio una boccia liscia, lucida e abbronzata, Eleonora un taglio molto corto, sbarazzino, nero come le sue nuove iridi artificiali. Appariamo molto diversi rispetto a prima, o forse ci illudiamo di esserlo, giusto per dare un senso al sacrificio pilifero che abbiamo compiuto.
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La trasformazione più grande, però, è quella di Cate, che esibisce con orgoglio il suo nuovo look punk-fashion, con pettinatura biondo platino rasata da una parte, lenti a contatto azzurre e finti piercing a sopracciglio destro, narice sinistra e labbro inferiore. Con una dose abbondante di fondotinta è riuscita perfino a coprire il livido che aveva in volto. Sorride. «Siamo proprio carini.» Eleonora singhiozza. «Dai, non fare così» tento di consolarla. «Ti sta bene quel taglio.» Mi guarda. «Tu invece sembri la versione gay di Mastro Lindo.» «Per una volta che ti faccio un complimento, Cristo santo!» «Era commiserazione quella.» «Vabbè, come ti pare.» Caterina mi zittisce con un’occhiataccia. «Ora abbiamo bisogno di vestiti nuovi. Con gli accessori giusti possiamo passare per universitari in vacanza.» «Lui giusto per un coglione fuori corso.» «Oh, ma che t’ho fatto?» «Odio chi prova a compatirmi.» «Ma non…» Cate mi molla uno scappellotto. «Vi posso lasciare soli o devo chiamare la babysitter?» «Non andiamo tutti?» «No, vado da sola. Sento che aria tira, compro i vestiti e trovo qualcosa da mangiare. Voi rimanete qui e fate i bravi.» «Io dico che dobbiamo scoprire chi ci vuole morti.» «Certo che dobbiamo farlo, ma tra meno di cinque ore avete un appuntamento per quella maledetta fiera. Non possiamo fare tutto.» Mi limito a fissare il pavimento e lei continua rivolgendosi a Eleonora. «Dammi il bancomat della tua amica. Abbiamo finito i contanti.»
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Afferra la tessera ed esce senza aggiungere altro. Cerco le sigarette nelle tasche della giacca. Il pacchetto è stropicciato, ma ancora integro. Mi affaccio alla finestra e inizio a fumare. Eleonora tiene il broncio per il tempo di tre boccate, poi si avvicina. «Me ne offri una?» Le passo il pacchetto, poi la faccio accendere con lo Zippo. La mano le trema mentre porta la sigaretta alle labbra. «Senti, non volevo essere stronza.» «Mi stai chiedendo scusa?» «Tesoro, non t’allargare.» Rido, e lei mi viene dietro. Fumiamo per un po’, in silenzio, poi la mia curiosità ha il sopravvento. «Ci tenevi così tanto ai tuoi capelli?» Annuisce. «A voi uomini sembra stupido, lo so.» Mi stringo nelle spalle. «Forse perché mi ricordavano l’infanzia.» «Ti stai psicanalizzando?» «Sì, tu non lo fai mai?» «No, non direi.» «A me piace farlo. Cioè, spesso reagisco in modi spropositati e non so perché. Allora ci penso, e cerco di capire.» «Se fossi uno psicologo azzarderei che sei una maniaca del controllo.» «Gioia, non ci vuole un psicologo per capirlo. E poi non è che io voglia controllare le cose, è che nella maniera in cui le faccio io riescono meglio.» «Sì, giusto.» Ridiamo. «E quindi i capelli lunghi ti ricordavano l’infanzia?» chiedo. «Già, probabile. Da piccola mia madre mi aiutava a curarli, me li spazzolava ogni sera, prima di andare a dormire. Parlavamo di fronte allo specchio. E poi arrivava mio padre che si complimentava per i miei capelli,
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mi dava un bacio sulla testa e mi rimboccava le coperte.» Avvicina la sigaretta alla bocca. Inspira. Espira. «È un’idiozia.» «No, solo un bel ricordo.» «Sì, forse è così. Uno degli ultimi ricordi, prima di scoprire la verità.» «La verità?» Mi guarda ed è come se si ridestasse da una trance ipnotica. Scuote la testa, fissa il panorama. «Niente, lascia perdere.» Butta il mozzicone sulla strada e inizia a cercare il cellulare sul divano. Il momento di psicanalisi è passato. «Cat ha preso il suo telefono?» Spengo la sigaretta sul davanzale. «Sì, penso di sì. Perché?» «Ho bisogno di cedrata. Magari riesce a trovarla.» E inizia a comporre il numero di Caterina. Chi è questa ragazza? E soprattutto… chi sono i suoi genitori? Devo trovare il modo di chiamare Giacomo. A quest’ora dovrebbe aver finito le sue ricerche.
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Capitolo 34
La Battersea Power Station dista una ventina di minuti di macchina dal nostro nuovo rifugio. È una ex centrale termoelettrica a vapore sull’altra sponda del Tamigi, tra il Chelsea Bridge e il Vauxhall Bridge. Un edificio imponente con quattro ciminiere bianche che svettano nel cielo londinese e sono distinguibili anche a un paio di chilometri di distanza. Una location che trasmette fascino e, soprattutto, potere. Il potere del The Pickwick’s Army, capace di organizzare una fiera del libro sulle rive del Tamigi, sotto gli occhi di tutta l’Inghilterra. A notare questo significato simbolico sono Eleonora e Caterina, che parlano tra loro con tono al contempo
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ammirato e preoccupato. Io non partecipo alla discussione. Per me la Battersea Power Station è soltanto la fabbrica immortalata sulla copertina dell’album Animal dei Pink Floyd e mi limito a osservarla per tutto il tragitto con sguardo sognante. Poi arriva Caterina che mi dà una botta in testa e mi riporta alla realtà. È tornata alla foresteria dopo un’oretta, portandoci vestiti, viveri e qualche buona notizia. La sparatoria della mattina ha suscitato un bel clamore, ma la polizia non ha diffuso ai media le nostre foto. I notiziari parlano di un regolamento di conti tra bande, altri di un attentato terrorista non ancora rivendicato. Nel web sono stati caricati una manciata di video della sparatoria, ma i cineamatori erano tutti concentrati sui defunti “Fab Four” piuttosto che sui nostri volti. Sono morti dei passanti, per cui sappiamo che questa relativa pace non durerà a lungo, ma speriamo ci dia il tempo di completare le questioni riguardanti “il romanzo che salverà i romanzi”. Finito il resoconto abbiamo indossato le nostre nuove identità: tre universitari in visita a Londra. Io sono quello dall’aspetto meno convincente, ma compenso con il mio atteggiamento, tanto immaturo da risultare credibile. O almeno è quello che dice Eleonora, e non credo sia un complimento. In ogni caso con pantaloni cargo, t-shirt di Batman e giacchetta jeans mi sento proprio a mio agio. Senza dimenticare i miei due coltelli. Ormai non giro più senza. Quando raggiungiamo la Battersea Power Station troviamo Scuotiossa e Sissy Jupe che aspettano all’entrata. Rimangono interdetti dal nostro cambio di look, ma sono troppo educati per manifestare il loro disgusto. Salutano, sorridono, mormorano degli apprezzamenti poco credibili e poi ci invitano a entrare nell’edificio. Il fido James mi affianca, pronto a tradurre,
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mentre la sua collega cammina illustrandoci gli interni e il programma. «L’edificio ha una pianta quasi perfettamente quadrata ed è diviso in tre tronconi: il blocco A, il blocco B e la Boiler Room. Abbiamo pensato di sfruttare questa divisione per creare delle aree tematiche che simboleggino tutto il mondo dell’editoria. Vi faccio strada.» Partiamo dalla Boiler Room e ci troviamo subito soverchiati dalla maestosità delle ciminiere di cemento. È uno spazio enorme, largo settanta metri e lungo più del doppio, delimitato da un perimetro di acciaio e mattoni alto cinquanta metri. E sopra di esso il cielo azzurro su cui spiccano i quattro camini, agli angoli della struttura. Sissy Jupe ci racconta che questa era la zona principale della centrale elettrica, dove veniva creato il vapore. Nonostante lo scopo industriale, tutta l’area era abbellita da decorazioni Art Déco, inserti in marmo e lavorazioni in ferro battuto. «Purtroppo rimane solo questo immenso spazio vuoto, senza più neanche un tetto.» «E cosa dovrebbe rappresentare questo nella vostra idea?» chiede Eleonora. «La libertà della fantasia. La Battersea Power Station era una centrale elettrica, ma è stata costruita come una cattedrale. La stessa opposizione tra arte e industria è secondo noi presente anche nel mondo dell’editoria. Gli editori possono essere visti come dei fabbricanti di parole, mentre i libri sono l’energia intellettuale che viene prodotta. Un’energia che colpisce i lettori e proietta in alto la loro fantasia. Abbiamo quindi pensato di dedicare questo spazio alle rappresentazioni. Nessuno stand. Ora immaginate che sia notte. Intorno a voi musica, letture collettive, risate. Poi alzate lo sguardo verso le stelle e vedete le quattro ciminiere su cui vengono proiettate citazioni e illustrazioni tratte da La storia infinita.»
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«La letteratura che si libera dai vincoli produttivi e si libra verso l’immensità del cielo.» «Esattamente.» Eleonora è estasiata dall’idea, Sissy Jupe e James quasi commossi da tanto entusiasmo. Io sorrido, annuisco, mormoro aggettivi come geniale, conturbante, epico. Ma in realtà credo che questi devono essersi fatti di brutto per pensare una stronzata del genere. Cioè, secondo loro uno che viene qui per strafarsi, ballare e rimorchiare qualche lettrice, poi alza lo sguardo e pensa alla libertà della fantasia? Andiamo! Ma che cagate stiamo dicendo? E se piove? Alzi lo sguardo e cosa vedi? Le nuvole? Per mia fortuna la visita prosegue con discorsi meno poetici. «A sinistra e a destra», riprende Sissy Jupe allargando le braccia, «ci sono rispettivamente i blocchi A e B. Sono quasi speculari anche se il secondo è stato aggiunto dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando i soldi erano pochi, per cui ha degli interni scevri di abbellimenti.» Fa l’occhiolino e abbassa la voce con fare cospiratorio, anche se siamo soli. «Abbiamo riservato il blocco B al digitale e la scelta non è stata casuale. Un vostro connazionale, il Nordico, si è molto arrabbiato per la sistemazione, ma Miss Havisham è stata irremovibile.» Ridacchiamo. «Conoscete il Nordico?» chiede James. «Solo di fama» rispondo. «Un tipo molto determinato, a quanto dicono.» «He’s an asshole», poi arrossisce. «Scusate, un commento inopportuno.» «Tranquillo, Jim, rimarrà tra noi.» «È arrivato l’altro ieri e ha passato tutto il tempo a proclamare la superiorità del digitale. Pretende lo spazio espositivo più grande perché è convinto che i suoi libri saranno i più richiesti della fiera.»
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«Ne dubito.» «Dopo aver letto il vostro libro, concordo con te.» Il buon vecchio “Scuotiossa”, sempre pronto a leccare il culo.
A differenza dalla Boiler Room, il blocco A freme di attività. Decine di uomini e donne indossano tute da lavoro sformate e si adoperano per pulire e sistemare gli interni. Una squadra di imbianchini vernicia le pareti dell’ingresso principale, mentre una signora passa la cera sul pavimento di marmo. Attraversiamo la stanza velocemente, quasi in punta di piedi, e ci ritroviamo nella sala turbine, dove gli operai stanno preparando gli stand per gli editori. Siamo in uno spazio lungo oltre centoquarantacinque metri, coperto da un soffitto di vetro posto a circa trenta metri di altezza. I banconi per l’esposizione sono stati divisi in tre file, due appoggiate per tutta la lunghezza delle pareti, e una terza al centro dello stanzone, in modo da costringere i visitatori a un percorso ellittico. Sissy Jupe ci indica gli stand assegnati agli editori più famosi, ma la loro preparazione è appena iniziata ed è difficile distinguerli uno dall’altro. A eccezione di quello delle Pony Women. Con tutto quel rosa e tutti quegli arcobaleni lo si nota subito. Affacciata lungo la parte alta della sala turbine, c’è la sala controllo, una stanza completamente restaurata con pareti di marmo, pavimento in legno levigato e lampadari di cristallo appesi al soffitto. Potrebbe essere il salone da ballo di un castello vittoriano, se non fosse per la parete ricoperta da quadranti, bottoni e leve, e per l’imponente bancone di controllo, posto al centro della stanza e circondato da pannelli di legno lucido e intarsiato.
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«Questa sala», spiega Sissy Jupe, «sarà dedicata alla nostra organizzazione. Là in fondo», dice indicando la parete corta opposta all’entrata, «ci sarà lo stand che ospiterà il vostro romanzo, mentre nel resto dello spazio verranno istallati pannelli temporanei per una mostra su Michael Ende. La postazione là al centro verrà trasformata in una bacheca di vetro in cui esporremo una copia autografata della prima edizione de La storia infinita.» Eleonora sospira felice. «Il nostro libro presentato nella sala dedicata a Ende, non potremmo chiedere di meglio.» Prende sotto braccio la nostra accompagnatrice e la rapisce per avere maggiori dettagli. Io, Caterina e James, invece, rimaniamo vicini all’entrata e osserviamo dalle vetrate gli operai al lavoro nella sala turbine. «Scusa la domanda, James», dico, «ma come fate a organizzare tutto questo senza la paura di una retata da parte della polizia? Ho capito che le autorità inglesi sono più permissive rispetto a quelle italiane, ma così mi sembra esagerato.» «Comprendo le tue perplessità, Hamlet. Il merito della Book Fair è di Miss Havisham. Nel corso degli anni la sua figura ha guadagnato importanza in tutti i palazzi di Governo. Alcuni dicono perfino a Downing Street. È difficile contrastare i suoi progetti, anche se sono imponenti, e illegali, come questo.» «Ma questo privilegio può essere mantenuto solo in un clima di rispetto» sottolinea una voce alle nostre spalle. Ci voltiamo e vediamo la presidentessa del The Pickwick’s Army incedere verso di noi. Le labbra strette in una smorfia di rabbia. «Non è facile organizzare questa fiera, ma il rispetto che ho guadagnato negli ambienti politici lo rende possibile. Ogni anno, da molti
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anni. Poi arrivate voi e trasformate King’s Cross in un campo di battaglia.» Deglutisco a vuoto. «Miss Havisham, noi…» «Silenzio!» tuona. «Ho dovuto passare l’intera giornata a convincere il sindaco e il capo della polizia che la strage avvenuta questa mattina non è collegata in alcun modo con la mia fiera. Ho dovuto fingere di non riconoscere i vostri volti nei video di sorveglianza!» La donna fissa Eleonora, che si è avvicinata, attirata dalle urla. «E tu, ragazzina, vuoi cambiare il mondo uccidendo i tuoi rivali?» E a questo punto accade qualcosa di inaspettato. Perché vi assicuro che Miss Havisham emana un’aura di puro terrore. Ma invece di abbassare la testa e chiedere scusa, come vorrei fare io stesso, Eleonora s’incazza, s’incazza di brutto. «Senti, cocca, tu non sai un cazzo di quello che è successo stamattina. Non è stata colpa nostra, noi ci siamo solo difesi.» La donna urla ed estrae rapida una pistola dal vestito. Caterina scatta come un cobra e le punta la sua arma alla testa. «Attenta a quello che fai, ma’am.» Io sospiro, alzo le mani e mi metto in mezzo a loro. «Ehi, ehi, ehi, ehi. Giù le pistole, state calme» urlo in un inglese stentato. «Amleto, levati di mezzo.» «No, Cate, ora abbasserete entrambe le pistole, okay?» «Prima lei» intima la presidentessa. «Non se ne parla, ma’am.» «Calme, state calme! Le abbassate insieme, al mio tre.» Conto e le canne scendono verso il pavimento. «James, vuoi gentilmente tradurre tutto quello che dico?» Cenno d’assenso. Racconto con dovizia di particolari le nostre recenti
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peripezie: l’inseguimento in autostrada, l’ingaggio di Caterina, la fuga a Londra e la sparatoria di King’s Cross. Miss Havisham ascolta pensierosa. Non è contenta dell’attenzione che rischiamo di concentrare sulla Book Fair, ma al contempo è compiaciuta del fatto che “il romanzo che salverà i romanzi” desti un così grande interesse. Alla fine del discorso le pistole tornano dentro le fondine e l’atmosfera diventa più rilassata. Ringrazio Scuotiossa per la traduzione e lascio la parola alle donne. Per quanto mi riguarda ho già detto fin troppo. La presidentessa rimane in silenzio per qualche istante, poi guarda Caterina. «Sono poche le persone che sono sopravvissute dopo aver puntato un arma contro di me, ma vi concedo la scusante dello stress.» La donna ignora il verso sprezzante di Cate e continua rivolgendosi a me e a Eleonora. «Mi dispiace per la vostra situazione e spero che riusciate a rimanere in vita fino al giorno della Book Fair, ma i miei doveri verso la fiera sono troppo importanti per rischiare che la nostra organizzazione rimanga invischiata in vicende che non ci riguardano. Rinnovo quindi il mio invito a ospitarvi nel nostro stand, ma vi prego di rimanere lontani da noi fino all’inizio della manifestazione. Qualsiasi tentativo di contattarci vi costerà l’esclusione immediata dall’evento.» «Ma non è possibile» ribatte Eleonora. «James si sta occupando della traduzione, e noi avevamo un accordo per l’importazione delle copie del libro dall’Italia.» «Miss Havisham», interviene “Scuotiossa”, «non voglio mettere in discussione le sue decisioni ma per me sarebbe un onore tradurre il loro romanzo. Onore che si estenderebbe anche al The Pickwick’s Army dopo la pubblicazione.» La donna serra la mascella. «E va bene Smike, se ci tieni così tanto puoi tradurre il libro, ma dovrai avere l’accortezza di non farti mai vedere con questi italiani.»
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Mai in vita mia avevo sentito pronunciare la parola “italiani” con tanto disprezzo. «Per quanto riguarda l’importazione dei testi, invece», continua fissando Eleonora, «la mia decisione non è sindacabile. Se volete essere editori, dovete trovare il modo di diventarlo.» E detto questo se ne va, senza nemmeno salutare.
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Capitolo 35
James e Sissy Jupe rimangono in silenzio, imbarazzati. Eleonora è furiosa e si limita a indicare l’uscita con lo sguardo. Caterina si avvia verso la porta. Io mormoro un arrivederci educato a Scuotiossa e poi le seguo. Scendiamo le scale in silenzio. Vorrei provare a dir qualcosa, ma l’espressione della leader maxima suggerisce che non è il momento per alcun discorso. Quando usciamo dall’edificio, tuttavia, troviamo una sorpresa che spezza l’atmosfera irosa. Tre ragazze attendono accanto alla nostra Micra. Sono vestite di rosa, con abiti ridicoli di raso e tulle, tipo le damigelle sfigate della sposa. Quella a destra ha capelli castani che le arrivano fin sotto il sedere. È im-
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pegnata a spazzolarli usando come specchio il lunotto posteriore della macchina. Quella al centro è grassottella e intenta a truccarsi, appoggiata tra i due sportelli, portacipria in una mano, rossetto nell’altra. Quella a sinistra, infine, è seduta sul cofano, e prova pose sexy per fotografarsi con il suo cellulare. Credo sia un trans. Rabbrividisco. «E quelle chi cazzo sono?» chiede Cate. «Le tre sorellastre di Cenerentola?» ribatto. «Erano due.» «Chi?» «Le sorellastre. Genoveffa e Anastasia.» «Ah, okay. Allora abbiamo le due sorellastre e il principe rosa.» «Principe?» «Quella a sinistra non ti sembra un trans?» «Oh, merda! È vero. Abbiamo Trans Charming di fronte a noi.» «Sono le Pony Women» interviene Eleonora. Caterina scoppia a ridere mentre io continuo a rabbrividire. Breve momento didattico Se avete la fortuna di non averle mai sentite nominare, le Pony Women sono un gruppo di ragazze italiane, con livelli preoccupanti di estrogeni e grossi problemi di coerenza. Proclamano la superiorità femminile, ma: —— adorano tutti gli stereotipi creati nel tempo per svilire “il sesso debole”; —— scrivono, pubblicano e leggono solo romanzetti d’amore ad alto contenuto erotico; —— il loro nome deriva da My mini pony, cartone animato “per femminucce” dove piccoli cavalli colorati vivevano tra nuvole rosa, mangiavano zucchero e cagavano arcobaleni. Serve aggiungere altro? Fine del momento didattico
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Ci avviciniamo. Anastasia chiude il portacipria e dà di gomito alle altre due, che scattano sull’attenti e cercano di assumere un atteggiamento minaccioso. Non ci riescono. «Bene, bene, bene. Guardate un po’ chi abbiamo qui» esordisce Genoveffa in uno svolazzo di capelli. «Gli arroganti esordienti di quest’anno.» «Arroganti?» chiede Eleonora. «Già, bella mia, arroganti. E illusi.» «Arroganti e illusi» ripete Trans Charming. «Abbiamo sentito parlare di voi» riprende Belli Capelli. «Sarete gli ospiti d’onore dello stand del The Pickwick’s Army, siete celebri: i giovani italiani che odiano l’editoria ma vogliono diventare editori, i rivoluzionari che denigrano la situazione letteraria e pensano di poterla migliorare.» «Senti, confettino di merda», la interrompe Cate, «non abbiamo tempo da perdere con bimbette come voi, per cui vedete di sparire.» «Secondo me il ragazzo non è d’accordo» ribatte Anastasia sbattendo le lunghe ciglia. Aggrotto la fronte. «Io? D’accordo su cosa?» «Già, proprio tu. Tu non vuoi che scompariamo. Lo vedo che mi stai spogliando con gli occhi.» «Al massimo cerco di coprirti.» «È inutile che lo neghi», ciglia che sbattono, «si vede che sei innamorato di me.» «Innamorato di lei» ripete Trans Charming. Eleonora e Caterina mi guardano. «Ragazze, vi giuro che non la scoperei neanche con il cazzo di qualcun altro.» «Come osi!» urla Genoveffa, ondeggiando la chioma. «Non tollero che un maschio offenda una delle mie sorelle.» «E allora dille di tenere a bada gli ormoni.» Eleonora si schiarisce la voce, spazientita. «Possiamo sapere cosa volete?»
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«Cosa vogliamo?» Altro turbinio di capelli. «Vogliamo dirvi che l’editoria non ha bisogno di essere salvata. Ogni anno vengono pubblicati centinaia di libri bellissimi, e voi non avete nessun diritto di considerarli ciarpame solo perché non sono di vostro gusto.» «Ciarpame» ripete Trans Charming. «Arrivate qui», riprende Belli Capelli, «e iniziate a sputar sentenze su onesti lavoratori che scrivono e pubblicano da molti anni. Pensate che io e le mie sorelle non saremmo capaci di scrivere un romanzo rivoluzionario?» «E perché non lo fate?» chiede Eleonora. «Perché non vogliamo, è semplice. Le nostre lettrici ci amano.» «Quindi scrivete brutti libri per rispetto delle lettrici?» «Se fossero brutti non venderebbero così tanto» ribatte Anastasia guardando me e sbattendo le ciglia. «Sentite, ciccine, non siamo qui per denigrare il lavoro di nessuno. Se vi piace scrivere quei romanzetti da quattro soldi, buon per voi. Continuate a farlo. Non ci interessa. Noi siamo qui per offrire un’alternativa ai lettori e, soprattutto, per lottare con la classificazione tossica della letteratura.» Genoveffa butta la testa all’indietro, scuote i capelli e scoppia a ridere. «Avete sentito, sorelle? Vogliono cambiare il mondo!» «Cambiare il mondo» ripete Trans Charming. «Datemi retta» riprende Belli Capelli. «Rinunciate alle vostre utopie e tornatevene in Italia. L’editoria può essere un mondo spietato e noi saremmo molto contente di dimostravi quanto.» Eleonora sbuffa. «Okay, ora basta.» Cammina verso la ragazza, le afferra i capelli e li strattona all’indietro. Le sorelle in rosa tentano di ribellarsi, ma Caterina estrae fulminea la pistola e fa capire che non è il mo-
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mento di tentare mosse avventate. Io rimango fermo, è una scena divertente da osservare. Eleonora abbassa la testa verso l’orecchio di Genoveffa e sussurra qualcosa. La rompiballe spalanca gli occhi e apre la bocca in un’espressione terrorizzata. Una pozza di urina si allarga tra i suoi piedi. «Tesoro, mi puoi passare il coltello per piacere?» «Sicura?» Annuisce. «Sì, tranquillo.» Guarda i capelli della ragazza. «La signorina ha bisogno di un taglio per liberarsi dalle doppie punte.» Non so se sia per lo stress accumulato in questi giorni, per il trattamento ricevuto da Miss Havisham o per il cambio di look impostole da Caterina, ma lo sguardo di Eleonora assume una luce tra il divertito e il sadico mentre taglia con malagrazia i capelli di Genoveffa. Poi, con la chioma recisa stretta in mano, guarda le Pony Women e sorride. «Continuate pure a scrivere, pubblicare e leggere i vostri dannati romanzetti, ma provate a minacciare di nuovo me o uno dei miei collaboratori, e giuro che vi troverò e pretenderò il vostro scalpo.» Detto questo butta i capelli a terra, spintona via Anastasia dalla portiera e sale in macchina. Non la conosco abbastanza per esserne certo, ma il suo limite di sopportazione appare quanto mai prossimo.
Il ritorno alla foresteria è funereo. Mi aspettavo scoppi d’ira, scenate, insulti, invece ce ne stiamo seduti nella Micra, in silenzio, mentre Londra scorre intorno a noi. Costeggiamo il Tamigi, risaliamo verso Victoria Station, giriamo intorno a Hyde Park e parcheggiamo di fronte al portone del nostro alloggio. Nessuno parla, nessuno ha il coraggio di schiarirsi la gola.
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Le Pony Women sono solo delle tizie mentalmente instabili, ma il loro agguato ci ha dimostrato che il mondo dell’editoria non ci sta aspettando a braccia aperte. Un aspetto della situazione molto importante che però al momento dobbiamo trascurare, visto che qualcuno ci vuole morti. Anzi, meglio essere più precisi: qualcuno ci vuole così morti da essere disposto a sparare a mezza Londra pur di ucciderci. Come se non bastasse, c’è il problema dell’organizzazione per la Book Fair: abbiamo dodici giorni di tempo per stampare le copie del libro e contrabbandarle qua in Inghilterra. Nel caso fallissimo non riesco a decidermi se sarà peggio affrontare la rabbia di Miss Havisham o quella di Eleonora. Anche se magari a quel punto saremo già belli defunti, e quindi tanti saluti. Con tutto questo peso sulle spalle, il silenzio è, in effetti, la colonna sonora più adatta alle nostre vite. Entriamo nell’appartamento e accendiamo la luce. Padre Keeran è in piedi al centro della stanza, impugna una pistola con silenziatore e la punta contro di noi. Ci sono giorni in cui ti svegli gridando: «Buongiorno, mondo», e altri in cui tutti vogliono solo puntarti contro un’arma. La cosa buffa è che io, questa mattina, un «Buongiorno mondo» l’ho anche pensato. Il prete indica il divano con la canna della pistola. «Sedetevi.» Caterina annuisce. Tenendo le mani in vista, si muove lentamente e si siede. Io ed Eleonora la imitiamo. «Mi avete mentito. Avete guardato negli occhi un rappresentante del Signore e avete raccontato un cumulo di stronzate. È un peccato mortale.» Ci guarda, aspetta una risposta, ma noi rimaniamo in silenzio. «Pensavo di aver dato rifugio a due cristiani bisognosi, condannati per le colpe del padre, e invece ho
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scoperto che non solo siete due anime colpevoli, ma che siete addirittura dei peccatori della peggior specie. Editori!» Sputa sul pavimento, poi riprende. «Voi corrompete le menti dei figli di nostro Signore, le traviate. Con quale diritto vi siete permessi di chiedere il mio aiuto?» Eleonora si schiarisce la voce. Dopo la sfuriata con Miss Havisham e il semi-scalpo a Genoveffa, non so più cosa aspettarmi e, infatti, mi stupisce ancora una volta. «Se mi permette, padre Keeran, vorrei spiegarle meglio la nostra posizione.» Parla con tono calmo, conciliante. «Noi non siamo editori e le assicuro che odiamo il mondo dell’editoria tanto quanto lei.» Corrugo la fronte, perplesso. Questa mi giunge nuova. O magari ho solo tradotto male. Ma anche Caterina sembra confusa, quindi non è un problema di lingua. «La letteratura come è intesa oggi, è una piaga della società. Non si può negarlo. Suscita domande nelle menti dei lettori, semina il dubbio, mette in discussione i dogmi, allontana le anime dalla salvezza divina. Ma questa situazione può essere cambiata.» Il volto del prete assume una smorfia scettica. «Ma davvero…?» Eleonora ignora l’ironia. Annuisce con vigore e continua. «Certo, può essere cambiata. Ed è quello che vogliamo noi! Immagini un libro capace di attrarre l’attenzione dei lettori, di conquistare i loro gusti. E ora immagini che quello stesso libro sia capace di trasmettere i valori cristiani del rispetto, dell’amore, della fede.» «Esiste già un libro del genere, la Bibbia.» «La sua obiezione è lecita, ma la Bibbia non viene letta con piacere dai libromani.» Lo scetticismo di padre Keeran vacilla. «Pensi alla forza che potrebbe avere un romanzo
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che combini il potere salvifico della Sacre Scritture con le caratteristiche virali di un successo editoriale.» «È questa la vostra missione?» «Certamente.» Il prete guarda Caterina. «Dice il vero?» «Sì, è la verità. Altrimenti non mi sarei permessa di chiedere il tuo aiuto.» «Ma tu mi hai mentito.» «Eravamo stanchi e feriti. Avevamo bisogno di un rifugio, in fretta. La verità era lunga da spiegare.» «La verità è l’unica merce che il Signore accetti.» «Hai ragione. Mi dispiace di averti mentito.» L’uomo rimane in silenzio. Punta ancora la pistola contro di noi, ma la sua mano è meno sicura. Indecisa. Dopo qualche minuto torna a concentrarsi su Eleonora. «Quale sarebbe il vostro piano?» «Vogliamo partecipare alla Book Fair.» Segue un racconto abbastanza dettagliato e incredibilmente veritiero del nostro progetto. Il contatto con il The Pickwick’s Army, l’accordo stipulato, il problema dei killer e la taglia sulla nostra testa. «So della taglia» conferma padre Keeran. «Cosa sai?» chiede Cate, subito attenta. «Qualcuno offre una ricompensa molto ricca a chi ucciderà la ragazza», e indica con la pistola Eleonora, «e un bonus nel caso vengano recuperate o distrutte tutte le copie del vostro romanzo. Non riuscivo a capire l’importanza di questo libro, ma se quello che dite è vero, la faccenda avrebbe senso.» «Hai qualche altra informazione?» insiste Caterina. «Non so chi sia il mandante. È stato molto prudente, non è uno sciocco. So solo che ha messo una taglia anche su di te. Ma non per la tua morte. Vuole che tu venga torturata e mutilata. Una punizione esemplare perché non hai rispettato l’ingaggio.» Una pausa. Si
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gira verso di me. «Della tua esistenza, figliolo, non importa a nessuno, mi dispiace.» Mi stringo nelle spalle. Ormai ci sono abituato. «Ci sono state candidature per l’incarico?» «Non ancora, ma accadrà presto. Ci sono troppi soldi in ballo.» «Una somma che tenta anche te?» «Certo, con quei soldi potrei aiutare molte famiglie della mia parrocchia.» Silenzio. Dalla finestra vedo la Vecchia Signora con la falce che si sfrega le mani per l’eccitazione. Ma Eleonora prende la parola, e la Dama Nera è costretta ad allontanarsi. «Ci sarebbe un modo per aiutare i suoi parrocchiani senza doverci uccidere.» «Sentiamo.» «Nei prossimi giorni abbiamo bisogno di qualcuno disposto a contrabbandare le copie del nostro romanzo dall’Italia all’Inghilterra. Potremmo ricompensare il servizio con una percentuale sulle vendite.» «Perché dovrei aiutarvi?» «Guadagnerebbe una bella somma e favorirebbe la diffusione del messaggio cristiano contenuto nel libro.» «Ma io non l’ho letto. Dovrei fidarmi della vostra parola.» «No, assolutamente no. Quando importerete le copie dall’Italia potrete leggere il romanzo in anteprima e valutare così se abbiamo detto il vero.» «E se mentite?» «Beh, a quel punto potreste ucciderci per riscuotere la taglia.» Il prete annuisce pensieroso. «E se morite prima della data posso sempre vendere il romanzo al miglior offerente. Interessante. Sei un abile stratega, ragazzina. Ma rimane un problema. Chi ti dice che io sappia come contrabbandare letteratura?»
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«Riguardo questo avrei un suggerimento.»
Bibbie! “Il romanzo che salverà i romanzi” verrà nascosto in una spedizione di Bibbie, proprio come fanno i Sons of Anarchy quando devono trasportare i romanzi del cartello canadese. Non so se Eleonora si sia ispirata alla serie tv, ma in effetti il suo piano è molto semplice. Padre Keeran è un prete cattolico, e in quanto tale non desta sospetti se decide di importare dalla Santa Sede uno o due pancali di Bibbie. Basterà effettuare la spedizione del nostro libro da Roma, invece che da Ancona, e il gioco è fatto. In realtà la faccenda è più complicata di così, ma diciamo che questo è quello che ho capito del dialogo serratissimo tra il prete, Eleonora e Caterina. Hanno parlato per venti lunghissimi minuti in una sorta di brainstorming del contrabbando da cui sono stato escluso. Non che avrei potuto dare qualche suggerimento utile, per carità, ma visto che rischio la vita anche io un po’ di considerazione non farebbe schifo. In ogni caso hanno affinato i dettagli dell’operazione finché non hanno dichiarato di essere soddisfatti. A quel punto hanno contrattato la percentuale sulle vendite che spetterà a padre Keeran. Questa parte del discorso l’ho capita, ma non è stata molto interessante. Alla fine l’ha spuntata il prete con un esorbitante trenta percento, che lo ha fatto andar via con aria tronfia e per niente bellicosa. Ora siamo rimasti soli e le ragazze si danno il cinque, felici. Io le guardo e… okay, quello voleva ucciderci e noi lo abbiamo addirittura convinto ad aiutarci, per cui, va bene, è giusto festeggiare, però… a me sembra ci sia un grosso ed evidente problema. «Scusate un attimo. Cosa succederà quando il prete leggerà il libro?»
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«In che senso?» chiede Eleonora. «L’accordo è che lui si occupa di importare i libri e prima di consegnarceli ne legge una copia per capire se tu hai detto la verità.» «Esatto.» «Ma tu hai detto che è un romanzo che vuole trasmettere i valori cristiani.» «Yes.» «Ed è una cazzata.» «Ancora esatto.» «E quindi cosa succederà quando il prete leggerà il libro?» «Lo uccideremo.» «Mi prendi per il culo?» Sbuffa e alza gli occhi al cielo. «Senti, non so cosa succederà. C’era un prete che stava per ucciderti e ho improvvisato. Ho guadagnato tempo. Magari non lo dovremmo uccidere. Vedremo.» «Tu sei pazza, lo sai, vero?» «Sì, me lo hai già detto.» «Ma a quanto pare non te ne importa.» «Non capisco quale sia il problema.» «Ma ti ascolti? Parli di uccidere un prete con la stessa facilità con cui apri un pacchetto di patatine.» Scuote la testa. «No, gioia, io parlo di uccidere qualcuno che ci ha puntato contro una pistola minacciandoci di morte. E in questo caso, sì, avrei più problemi ad aprire un pacchetto di patatine perché quelle fanno ingrassare.»
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Capitolo 36
Vorrei dormire a lungo. Rimanere steso sul divano, gli occhi chiusi, il cervello spento, e sognare il mio tranquillo lavoro da inserviente. Certi impieghi li apprezzi solo quando li perdi. E invece Caterina ci sveglia di prima mattina perché vuole parlare. Già, avete capito bene. Caterina, non Eleonora. Lo so che è strano. Le informazioni ottenute da padre Keeran l’hanno messa in agitazione. Non tanto per il trattamento che vogliono riservarle, quello immagino se lo aspettasse, quanto per la ferocia che questo mandante sembra impiegare nel darci la caccia. «Vediamo di elencare tutto quello che sappiamo.»
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Piazza l’unica sedia proprio di fronte al divano e siede a cavalcioni in modo da guardarci bene in faccia. Sbadiglio, le palpebre gonfie di sonno che combattono per chiudersi. «Se ti addormenti ti sveglio a suon di schiaffi.» Mormoro un qualche verso di assenso, il cervello ancora scollegato. «Siete stati attaccati tornando da Fiabilandia. Possono avervi seguito fin dalla mattina, oppure avervi notato al parco e poi aggredito. Nel primo caso, vorrebbe dire che hanno avuto bisogno di un’intera giornata per organizzare l’attacco. Poco probabile. Abbiamo alle calcagna dei professionisti, e i professionisti sono addestrati a reagire all’istante. Rimane la seconda ipotesi.» «Tesoro, secondo me è ancora meno probabile.» «Lo pensavo anche io, Ele, però c’è qualcosa che non mi torna. Ho passato tutta la notte a pensarci. Chi sapeva che sareste andati a Rivazzura?» «Tutte le compagne.» «Lo avete detto proprio a tutte?» «Diciamo di sì» rispondo pensando alle mie urla e alla discussione con Eleonora. «Okay, bene. Qualcun altro?» Scuotiamo la testa. «Quindi, o qualcuna delle ragazze, o qualcuno connesso con Antonio e Clara. Andiamo avanti. Passiamo al primo assalto. Siamo certi che vi volessero morti?» «Buttarci fuori strada a oltre cento chilometri all’ora non è un gesto di amicizia» ribatto. «Ma avrebbero potuto spararvi. Avevano dalla loro l’effetto sorpresa e si sono limitati a tamponarvi. Io credo che volessero solo spaventarvi, per convincervi che l’editoria non era un mondo adatto a voi.» «Ma io ho tirato fuori le pistole» ragiona Eleonora. «E a qual punto la posta si è alzata. Mi hanno ingaggiato per ucciderti e recuperare o distruggere il libro.»
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«Questo ci suggerisce qualcosa?» chiedo «Sì, direi di sì. Non hanno messo una taglia su Amleto, quindi sapevano che tu, Ele, sei la leader. Allo stesso tempo, però, ti hanno sottovalutato. E quando hai dimostrato di che pasta sei fatta si sono rivolti a una professionista pur di eliminarti.» «Sono disposti a tutto pur di avere il libro.» «Esatto, principino, è questo il punto. Vogliono il libro. E perché, secondo te?» «Hanno paura della nostra concorrenza?» «No, troppo arrogante. Ricordati che all’inizio vi hanno sottovalutato. Il punto centrale della questione non siete voi, ma il libro.» «Allora hanno paura del libro.» «Bersaglio colpito. Fin da quando mi hanno ingaggiato hanno specificato che c’era un bonus per chi recuperasse o distruggesse il libro. A loro, chiunque essi siano, non interessa avere il romanzo, vogliono bloccarne la pubblicazione. E sono così determinati a distruggerlo che ci hanno seguito fino a Londra e hanno assoldato altri killer. Anzi… continuano ad assoldarne. Però, e qui arriviamo al punto fondamentale, perché tanto sforzo per un libro di cui hanno solo sentito parlare?» «Gioia, stai suggerendo che hanno letto il libro?» «Ancora bersaglio colpito. Hanno letto il libro, ne conoscono il potenziale e sono disposti a tutto pur di distruggerlo.» «Il romanzo è stato letto dalle ragazze e dai miei genitori. Il numero di sospettati non si restringe» sottolineo. «Forse, però ricordatevi quello che vi ho detto prima. Se una delle ragazze fosse la troietta di un editore, avrebbe potuto scegliere un momento qualunque delle due settimane… per recapitare il messaggio.»
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«Però aspetta» la interrompe Eleonora. «Non ha senso. Antonio e Clara… ci hanno parlato della Book Fair, ci hanno raccomandato a James…» «Ele, tu non puoi immaginare quanto mi costi incolpare Antonio e Clara, però riflettiamoci bene. Ipotizziamo che siano loro i traditori: leggono il libro e informano la Grande Eminenza Grigia (chiamiamola così per ora). Questa dice loro di recuperare il libro, e allora viene preparato l’assalto per spaventarvi. E sottolineo spaventarvi. A questo punto vi parlano della London Book Fair, ma già sanno (o sperano) che dopo l’assalto sarete voi stessi a rinunciare. Però tu reagisci con violenza, e forse a quel punto la situazione sfugge loro di mano. La Grande Eminenza Grigia conosce ormai la pericolosità del vostro libro e decide di giocare pesante ingaggiando me.» Eleonora scuote la testa, ma io l’anticipo, ormai sveglio. «Ci sono altri due fatti che combaciano con questa teoria. Primo: quando abbiamo raccontato loro del nostro piano ci hanno aggrediti sostenendo che era troppo pericoloso. Secondo: hanno suggerito la fiera, sapevano che prima o poi saremmo finiti a Londra, e questo spiegherebbe perché siamo stati rintracciati in così poco tempo.» «Non so, gioie, non mi convince. Concordo sull’escludere le nostre compagne, ma accusare Antonio e Clara…» Mi stringo nelle spalle. «Una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità.20» Nessuno aggiunge nulla e nel silenzio quasi si sentono gli ingranaggi (arrugginiti?) dei nostri cervelli all’o20 Arthur Conan Doyle, Il segno dei quattro, Newton Compton (2006), traduzione di Nicoletta Rosati Bizzotto.
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pera. I miei genitori hanno scatenato la caccia contro di noi. Eleonora e Caterina sembrano amareggiate e scioccate dalla scoperta. Io fingo un pragmatico cinismo, della serie “ve lo avevo detto”. Ma confesso che nel profondo, sotto strati e strati di indifferenza, c’è un bambino che sta frignando. Perché un conto è pensare che i tuoi genitori siano una coppia di egoisti sniffa-inchiostro, e un altro è capire che ti hanno venduto a una Grande Eminenza Grigia ricca e senza scrupoli. La mia assuefazione suggerisce afflizione e sconcerto. Caterina si schiarisce la voce. «Mi dispiace, ragazzi, ma penso che ci sia un’altra brutta notizia.» Tanto per cambiare. Sarà solo un problema di sfiga oppure c’è una congiunzione astrale e divina che vuole annientare le nostre esistenze? «Non sappiamo ancora chi ci vuole morti, ma abbiamo capito che è interessato a distruggere il vostro manoscritto. Per cui, secondo me, stiamo parlando di un editore.» Concordiamo anche noi. «Un editore ricco, potente e spietato come quello di cui stiamo parlando parteciperà sicuramente alla Book Fair. Se non è già a Londra arriverà presto.» «E saranno cazzi amari, vero?» chiedo. Annuisce: «Anche se riuscissimo a nasconderci, o comunque a evitare i prossimi attacchi, arriverà il momento in cui dovremmo andare alla Battersea Power Station, e lui sarà lì ad aspettarci.» «Potremmo chiedere aiuto al The Pickwick’s Army.» «Non dopo quello che è successo ieri.» «Quindi?» «Io penserei al piano B.» Eleonora geme, allarmata. «No, ciccini, stiamo calmi, non lasciamoci prendere dallo sconforto.» «In cosa consiste il piano B?»
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«Darling, non è importante. Tanto non ci servirà. Saremo prudenti, addirittura paranoici se preferite, ma non lasceremo Londra prima della fiera. Siamo a un passo dal successo, non possiamo mollare ora.» «Ele», interviene Cate, «capisco quanto possa essere frustrante, ma dobbiamo prendere atto della situazione.» «Non possiamo prendere atto di nulla. Sono solo ipotesi.» Mi alzo dal divano. «Intendi che la fuga dai tetti, i killer che ci inseguono e tutte le persone che continuano a puntarci contro una pistola non sono abbastanza?» «Il peggio è passato, tesoro, fidati. Nessuno sa che siamo qui, abbiamo un accordo per il trasporto dei libri e saremo ospitati alla Book Fair. Dobbiamo solo aspettare che James finisca la traduzione e contattare le ragazze per occuparsi della stampa.» «E come sai che le ragazze non ci tradiranno?» «Lo abbiamo detto prima. Le compagne sono a posto.» «Quindi le nostre ipotesi sono valide solo quando ti fanno comodo?» chiedo. Eleonora mi guarda, trema in un misto di rabbia, paura e disperazione. Il suo progetto, la sua missione, i suoi sogni: tutto sta crollando. Ma invece di arrendersi, di gettare la spugna, lei serra la mascella e i suoi occhi artificialmente scuri diventano gelidi. «Non molleremo. Questo è quanto!» Allargo le braccia. «Fai come vuoi.» Prendo la giacca e me ne vado.
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Capitolo 37
Tutte le scelte appaiono semplici se viste attraverso gli occhi di qualcun altro. In fin dei conti si tratta solo di valutare i pro e i contro, calcolare le percentuali di riuscita e considerare tutte le variabili di rischio. È una questione matematica, anche abbastanza semplice. L’ho letto da qualche parte, non mi ricordo più nemmeno dove. Ma quando bisogna prendere una decisione all’improvviso? Ho accettato di collaborare con Eleonora, e per molti giorni mi è sembrata la scelta giusta. Nel piatto dei pro c’erano i soldi, la causa nobile, e mettiamoci anche il carisma della ragazza. “Se qualcuno può riu-
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scirci, quella è lei”. L’ho pensato e ha pesato dalla parte dei vantaggi. Nel piatto dei contro, invece? Orari impossibili, qualche ostacolo organizzativo, nulla di più. La scelta è stata facile. Poi sono arrivate le pallottole, e i morti. Come cazzo si può bilanciare il peso del piombo e dei cadaveri? E quindi ancora una volta la scelta è facile… giusto? Fanculo Eleonora, il romanzo, la Book Fair, il The Pickwick’s Army e tutti i killer che hanno tentato di ucciderci. Io me ne vado. Hasta la vista. Statemi bene. A mai più rivederci. Però, dannazione, non è affatto così semplice. Perché c’è sempre quell’idea che mi pulsa nella mente, come il cadavere ne Il cuore rivelatore: È impossibile dire come l’idea mi sia entrata per la prima volta nel cervello; ma, una volta concepita, non mi diede più tregua né giorno né notte.21 Per anni ho desiderato una famiglia e un’esistenza normali. Dei genitori che mi proteggessero dai pericoli della vita e una quotidianità simile a quella dei miei amici, che dovevano solo studiare e giocare, senza l’ansia del sentirsi emarginati. Poi ho capito che far parte della massa non era poi così esaltante, ed essere alternativo è stato perfino divertente. C’era la scocciatura della mimetizzazione, quello sì, però la rabbia mi aiutava. Ma adesso? Siamo veramente in grado di cambiare il mondo? Mi allontano dalla foresteria e passeggio verso Hyde Park. Lo costeggio per qualche centinaio di metri, mi inoltro per uno dei tanti viottoli asfaltati. La temperatura è rigida, il sole non ha ancora scaldato l’aria, ma i podisti non se ne preoccupano. Chissà se lo fanno per questioni di salute o solo per l’aspetto fisico?
21 E.A. Poe, Il cuore rivelatore, De Agostini (1985), traduzione di Renato Ferrari.
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Proseguo per una decina minuti. Ogni tanto mi volto per cercare di capire se sono seguito. Forse mi aspetto che Eleonora mi corra dietro scusandosi per il suo comportamento. Non avviene. Gli unici che corrono sono i podisti. Arrivato al Round Pond, mi siedo su una panchina. Cigni bianchi scivolano sull’acqua di fronte a me, e aspettano che lanci qualcosa da mangiare. Dopo qualche istante se ne vanno delusi. Tiro fuori il cellulare e chiamo Giacomo. La linea è libera. «Pronto?» «Giax sono Amleto.» «Ehi, socio… come va? Che fine avevi fatto?» «Lascia stare. Storia lunga.» «Ma da dove chiami? Non ho riconosciuto il numero.» «Sì, giusto, non è il mio cellulare. Diciamo che me lo hanno prestato.» «In che senso?» «Dai, lascia stare, non è importante. Hai finito quella ricerca che ti avevo chiesto?» «Sì, socio, o meglio non proprio. Cioè, è un po’ un casino.» «L’hai finita o no?» «L’ho finita perché non so più come continuarla, ma non ho trovato nulla.» «Nulla?» «No, socio, nada de nada. Quella tipa non ha passato.» «O almeno tu non l’hai trovato.» «Sì, esatto. Però, sai… non è che sia una ricerca difficile.» «E quindi?» «Non so che dirti. Mai vista una cosa del genere.» Sbuffo. I cigni mi starnazzano contro. «Vabbè, dai, non importa, lascia stare.»
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«Ehi, socio, mi dispiace, sul serio.» «Non ti preoccupare, tutto a posto.» «Senti… posso continuare a cercare. Se trovo qualcosa ti chiamo.» «Dai, va bene. Grazie. Chiamami a questo numero. Ci sentiamo.» Riattacco, forse in maniera troppo brusca. Come diavolo è possibile che non esistano dati su Eleonora? Chi è in realtà? Chi sono i suoi genitori? Avrei voglia di alzarmi, urlare e magari uccidere qualcuno di questi maledetti cigni che continuano a far casino. Ma un vecchio signore si siede accanto a me. Chiede qualcosa. Gli faccio capire che non parlo bene inglese, e lui ripete, più lentamente. «Vuoi qualcosa da leggere?» Rimango allibito. È un tipo distinto, molto magro. Capelli bianchi, barba grigia, completo di tweed fuori stagione. Avrà sessant’anni, forse anche settanta, e se ne sta qui, a Hyde Park, a spacciare libri con aria affamata. Scuoto le spalle. «Mi spiace, non leggo in inglese.» «Ma io ho anche capitoli in tua lingua» risponde in italiano, sbagliando tutti gli accenti delle parole. «Never Ending Story, okay? La storia infinita. Trenta pound, un capitolo.» «Te ne do venti, non di più.» Storce la bocca, poi mi fa l’occhiolino. «Okay, twenty.» Si guarda attorno, tira fuori dalla tasca una decina di foglietti ripiegati su loro stessi. Me li passa. Gli do i soldi. «Grazie mille, italiano. Buona lettura» e se ne va. Mi alzo, cerco un posto appartato, tra le fratte. Uno scoiattolo rimane infastidito dalla mia intrusione, ma poi mi lascia solo. Leggo, ne ho bisogno. Ci sono tante e diverse passioni, quante e diverse sono le persone. Per Bastiano Baldassarre Bucci la passione erano i libri. Chi non ha mai passato interi pomeriggi con le orecchie in fiamme e i capelli ritti in testa chino su
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un libro, dimenticando tutto il resto del mondo intorno a sé, senza più accorgersi di aver fame o freddo; chi non ha mai letto sotto le coperte, al debole bagliore di una minuscola lampadina tascabile, perché altrimenti il papà o la mamma o qualche altra persona si sarebbero preoccupati di spegnere il lume per la buona ragione ch’era ora di dormire, dal momento che l’indomani mattina bisognava alzarsi presto; chi non ha mai versato, apertamente o in segreto, amare lacrime perché una storia meravigliosa era finita ed era venuto il momento di dire addio a tanti personaggi con i quali si erano vissute tante straordinarie avventure, a creature che si era imparato ad amare e ammirare, per le quali si era temuto e sperato e senza le quali d’improvviso la vita pareva così vuota e priva di interesse; chi non conosce tutto questo per sua personale esperienza, costui molto probabilmente non potrà comprendere ciò che fece allora Bastiano.22 Il paragrafo mi colpisce con violenza, quasi fosse un pugno nello stomaco. Rimango senza fiato. Mi vengono le lacrime agli occhi. Respiro. Asciugo le guance con il dorso della mano. Rileggo. L’idea utopista di Eleonora mi martella dentro la testa. In quanti, al giorno d’oggi, possono comprendere quello che prova Bastiano? In quanti hanno provato le emozioni descritte da Michael Ende? Il primo incontro con i protagonisti, l’emozione della storia e infine la tristezza del commiato, quando la copertina si chiude e sei costretto a dire addio a quei personaggi che ormai consideri amici. Leggere non serve solo a migliorare la propria cultura. Chissenefrega di quella. Non è fondamentale.
22 Michael Ende, La storia infinita, Longanesi (1981), traduzione di Amina Pandolfi.
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Leggere serve a osservare in modo diverso le persone, le situazioni e il mondo che ci circonda. Niente è più sprecato di una mente ottusa, e senza lettura l’idiozia sta diventando l’unica possibilità. Voglio veramente vivere in un mondo nel quale nessuno capisce le emozioni provate da Bastiano? Voglio veramente vivere in un mondo nel quale i lettori sono una minoranza costretta a comprare solo i romanzi delle Pony Women? Il mio istinto di sopravvivenza dice: «Sì, fottitene. Non è un problema tuo. L’importante è non morire.» La mia coscienza da libromane dice: «Tu sai cosa è giusto. Torna da lei, e aiutala a realizzare il sogno di ogni lettore». La mia assuefazione dice: «Continua a leggere! Perché ti sei fermato? Leggi!» Anche questa volta la scelta è facile. Finisco di leggere le pagine, e poi torno alla foresteria.
Caterina è sul marciapiede, di fronte al portone. «Temevo te ne fossi andato sul serio.» «Sono troppo buono. E poi non saprei come tornare in Italia senza farmi arrestare.» «Sì, esatto, è per questo che ti cercavo. Ti va un cappuccino?» «Dipende.» «C’è uno Starbucks dall’altra parte dell’isolato.» Accetto. Non so voi, ma io non sono capace di rifiutare un cappuccino di Strabucks, anche se sto tentando di mantenere un’aria sostenuta e imbronciata. Svoltiamo a destra su Queensway e camminiamo. Aspetto che Cate dica qualcosa, ma lei procede in silenzio. «Quindi?» chiedo.
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«Aspetta, dai, prendiamoci il cappuccino e parliamo.» La caffetteria è di medie dimensioni, con entrata nell’angolo tondeggiante dell’edificio e vista sulla Our Lady Queen of Heaven Catholic Church, che dal nome potrebbe sembrare la sede di un gruppo metal, invece è una chiesa gotico-disneyana incastonata a forza in un quartiere inglese. Entriamo da Starbucks. L’orario delle colazioni è passato, per cui non troviamo coda alla cassa. Ordiniamo due cappuccini (o meglio, capussini), aspettiamo che i bicchieroni bollenti siano pronti, e ci sediamo a un tavolo. Caterina svuota due bustine di zucchero, poi mescola piano con il bastoncino di legno. «Mi dispiace per questo casino.» «Non è colpa tua.» «Sì, vero, però… O-Kappa, non era quello che volevo dire.» Continua a mescolare. «Senti, non posso abbandonarla. Non vorrei abbandonare neanche te, ma… lo so che sembro una stronza, ma la vogliono morta. Se tu sparisci per un po’, puoi cavartela, Sara può darti una mano, ma lei non so come potrebbe sopravvivere se rimanesse sola.» «Mi sembra che sappia difendersi.» «Sembra, e lei probabilmente ne è convinta, però è solo una principiante. Amleto, sul serio, non sai quanto mi dispiace dirti queste cose…» Bevo un sorso di cappuccino. «Cate, stai tranquilla, non ho intenzione di andarmene.» «Dici sul serio?» «Sì, o almeno credo. Dovrei scappare e non voltarmi più indietro, però so che quel benedetto romanzo può cambiare la situazione. Abbiamo il dovere di provarci fino alla fine.»
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Mi guarda, alza un sopracciglio. «Sei proprio tu, mio principe?» sussurra. «Non è che ti hanno rapito gli alieni o quelle robe lì.» Sorrido. «Sono fatto.» «Deve essere roba buona.» «Diciamo… ispirante.» Brindiamo con i nostro calici over-size. «Nel caso l’effetto della lettura non duri a lungo», riprende Caterina, «ti volevo parlare del piano B.» Ora, immagino che voi vi aspettiate una rivelazione scioccante, una strategia geniale pronta a risolvere tutti i nostri problemi. In effetti un po’ ci spero anche io. Però, vi anticipo, rimarremo delusi. Perché Cate si sporge sul tavolo e mi passa un foglietto ripiegato, ma sul quel pezzettino di carta non c’è scritto il numero di emergenza degli Avengers, né il codice per attivare il bat-segnale, né la formula magica per far apparire la versione psycho-killer di Mary Poppins, pronta a supercalifottere tutti i nostri avversari. No, in quel biglietto ci sono solo i dati di accesso a un servizio di cloud storage, nome altisonante per indicare l’equivalente virtuale di un porta documenti. «Non servono software particolari» mi spiega. «Inserisci i dati nella home page del sito e sei dentro.» «E cosa trovo?» «Un file di testo, molto semplice, con tutte le istruzioni per lasciare l’Inghilterra e sparire.» «Sicura che funzioneranno?» «In questo mondo non si può essere certi di niente, ma se vuoi andartene quella è la maniera più sicura.» Ripiego il foglio e faccio per infilarmelo in tasca, ma Cate mi blocca. «Devi memorizzare i dati. Meglio non tenere niente di scritto.» User: DildoStellare. Password: 69orgasmo69. Da Caterina cosa vi aspettavate?
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Capitolo 38
Quando torniamo nel monolocale, troviamo Eleonora seduta sul divano, gambe incrociate, sguardo concentrato sul display dello smartphone. «Tesoro, ti stavo chiamando.» «Dici a me?» chiedo. «Sì, ciccio, a te. Ho avuto un’idea per il pranzo.» «Il pranzo?» «Non mi entrare subito in modalità pappagallo, per favore.» «Io non sapevo nemmeno se tornare e tu mi volevi chiamare per il pranzo?» Alza la testa, mi fissa per qualche secondo. «Naaa, lo sapevo che saresti tornato.» Si alza, mi punta l’indice
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contro, abbassa la voce in un improbabile tono maschile. «Tu non hai trovato niente. Tu sei solo chiacchiere e distintivo! Tu in mano non hai niente! Non hai niente per il tribunale, non hai preso il contabile, tu non hai niente! Non hai niente, sei solo un povero stronzo! Con me non ce la fai!23» È la più ridicola imitazione di Al Capone che abbia mai sentito, e non capisco bene cosa c’entri al momento, ma ha la forza di farmi ridere. Caterina rimane interdetta, poi viene contagiata dall’ilarità. È impossibile rimanerne immuni. E così ci ritroviamo senza fiato e con le lacrime agli occhi, lontani per un po’ dalla preoccupante realtà che ci circonda.
Il programma per il pranzo è molto semplice: pizza e audiolibro. Vengo spedito al Pizza Hut di fronte alla foresteria per ordinare tre Pepperoni Pizza da asporto. Provo a chiedere se vendono anche cedrata, o qualcosa di simile, ma con la descrizione che riesco a dare ottengo solo l’espressione perplessa della commessa. Ci dovremmo accontentare tutti della Pepsi. Nel frattempo le ragazze hanno scaricato gli audio-book di Trainspotting e Alice nel paese delle meraviglie. Non è stato semplice, soprattutto per l’avversione di Cate al collegamento web via smartphone, ma quando torno i file sono già pronti per l’ascolto. Ci sediamo per terra, apriamo i cartoni della pizza, schiacciamo il tasto play. Alice cominciava davvero a stufarsi di starsene a sedere accanto alla sorella sulla riva, e senza aver nulla da
23 Tratto dal film Gli intoccabili (1987), diretto da Brian De Palma.
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fare. Una volta o due aveva dato una sbirciata nel libro che sua sorella stava leggendo; ma non conteneva né figure né spunti di conversazione «e a che serve un libro, – pensava Alice, – senza figure né chiacchiere.»24 Ascoltare un libro non è come leggerlo. È più difficile concentrarsi e non c’è il tempo di assimilare le frasi. Tuttavia c’è il vantaggio della durata: occhi e muscoli non si stancano e tu puoi farti anche tutto un libro senza pause. Mangiare con un audiolibro in sottofondo, poi, è rilassante, pacifico. La prima a dare segni di “fattanza” è Caterina. È la meno abituata e quando sente «Più che molto curiosissimo» gridò Alice24 scoppia a ridere spargendo pezzetti di mozzarella e pomodoro tutto intorno a lei. Poi tocca a Eleonora, che quasi si strozza con la Pepsi quando Alice calcia in cielo il povero Mino. L’ultimo a cedere sono io, che resisto fino all’entrata in scena del Bruco. Tempo mezz’ora e ci ritroviamo tutti e tre spaparanzati per terra ad ascoltare divertiti gli sproloqui del Cappellaio Matto. Alice ebbe un sospiro di sconforto: «Mi pare che dovreste spendere meglio il vostro tempo, invece di starvene a proporre indovinelli che non hanno risposta». «Se tu conoscessi il Tempo come me» rispose il Cappellaio «non parleresti di perdere lui. È lui che è così». «Non capisco» disse Alice. «Naturale che non capisci!» disse il Cappellaio, scuotendo la testa con aria sprezzante. «Scommetto che non hai mai parlato col Tempo!» «Non mi pare» rispose Alice prudentemente. «Ma so che quando studio musica debbo batterlo».
24 Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, Einaudi (2003), traduzione di Alessandro Ceni.
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«Ora capisco!» disse il Cappellaio. «Ma lo sai, almeno, che lui non sopporta di essere battuto? Se tu riuscissi a restare in buon accordo con lui, ti farebbe con l’orologio tutto quello che desideri tu. Per esempio: supponi che siano le nove del mattino, l’ora in cui devi cominciare le lezioni. Ecco, basterebbe che tu mormorassi una parolina al Tempo e in un attimo sarebbero già le dodici e mezzo, l’ora del pranzo!»24 All’improvviso Caterina si alza, gli occhi azzurri spiritati. «Ho avuto un’idea geniale: Pornoland!» Scoppiamo a ridere. «No, no, sono seria. Un parco a tema dedicato al porno. Diventeremo ricchi.» «Ah sì?» chiedo. «E cosa ci metteresti?» «Beh… sicuramente una montagna russa sexy. Tipo un’immensa donna gonfiabile, con le persone su un carrello di forma fallica che le passa tra le tette e poi entra e esce…» «Okay, abbiamo capito.» «E poi anche qualcosa tipo le torri gemelle: immaginatevi due immensi peni rosa attorno a cui scorrono su e giù i sedili della giostra. Molto autoerotico.» «La sfilata sui carri allegorici non può mancare» interviene Eleonora. «Giustissimo, brava. Tre volte al giorno uomini e donne nudi che sfilano sui carri e salutano la folla. Un successo assicurato.» «Il merchandising sarebbe il lato più divertente.» «E anche il cibo a tema.» «I giochi acquatici non vi piacciono?» «Oh, darling, certo, sono perfetti per i doppi sensi.» Lo so che sembra un discorso da pervertiti, da maniaci o forse solo da dementi, e chissà, magari lo è, però sono questi i momenti che ti permettono di andare avanti. Non le disquisizioni filosofiche, le discussioni esegetiche, i ragionamenti logici, le ostentazioni d’inge-
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gno. L’unico modo per sopportare la merda che ci piove addosso ogni giorno è ridere. Spegnere il cervello, liberare l’immaginazione e seguirla ovunque essa voglia condurci. Anche se si tratta di Pornoland. Chissà se siete d’accordo. Io, intanto, rido.
Il nostro idillio letterario scema insieme alla digestione. Parliamo per tutto il pomeriggio, dandoci involontariamente il cambio per brevi sonnellini, ma i discorsi diventano via via più sensati. Quando il problema della stampa dei libri riemerge nelle nostre parole, decidiamo che è il momento di una pausa. Eleonora ascolta un po’ di musica dal cellulare, stesa sul letto, con gli auricolari nelle orecchie. Caterina smonta e pulisce le pistole. Non ha con sé i suoi prodotti preferiti, ma si adatta con una t-shirt strappata e del detersivo per piatti. Io mi infilo sotto la doccia. Quando esco dal bagno, ancora turbato dalla sensazione strana provocata dal getto d’acqua sulla testa rasata, trovo le ragazze nervose e un po’ allarmate. «Che succede?» «James ha mandato un messaggio, chiede di incontrarci» risponde Eleonora. «Come mai?» «Ha un problema con la traduzione, vuole alcuni consigli.» «E non possiamo darglieli per telefono?» «Dice che non è sicuro.» «E ha ragione» interviene Cate. «Quindi?» «Non ci sono molte scelte, gioia. Andiamo.» Caterina suggerisce di prendere qualche precauzione. La casa di Scuotiossa è in un quartiere troppo isolato, e per giunta meta di pellegrinaggio per libromani.
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La Grande Eminenza Grigia è un editore e avrà molti contatti nelle zone per sniffa-inchiostro. Meglio cercare punti più turistici, dove i criminali compassati difficilmente mettono piede. Ci sarà più polizia, ma i bobbies hanno solo delle nostre foto sgranate e il travestimento potrebbe reggere con più facilità. Eleonora riassume le nostre considerazioni nel limitato spazio di un messaggio di testo. James si conferma molto disponibile e risponde con un indirizzo della zona centrale, vicino a Leicester Square. «Ma dobbiamo andarci questa sera stessa. Di giorno dice che è impossibile.» «Magari è un posto dei Pickwicks e ha paura che Miss Havisham ci scopra» rifletto a voce alta. Cate concorda. «Scrivigli che va bene. Ci diamo una sistemata e partiamo.»
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Nel lato oscuro di Leicester Square, all’ombra dei cinema, delle insegne al neon e dei locali per turisti, c’è Lisle Street, una via stretta, anonima, invasa dagli odori speziati dei ristoranti orientali. Trascurando la nausea derivante da questa puzza poco appetitosa, la via sembra innocua, tranquilla. Sono le otto di sera, i turisti cercano un posto dove mangiare, mentre gli inglesi sono già a tavola da un pezzo. Nessuno sembra avere un’aria sospetta. Caterina preferisce comunque essere prudente. Guida la Micra lungo la via e osserva con attenzione tutto quello che incrociamo: pedoni, motorini, auto.
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La nostra meta è il penultimo palazzo: un edificio piuttosto malridotto, riconoscibile dalla bandiera coreana che i gestori del locale al piano terra sventolano con orgoglio. Anche qui nulla da segnalare. Cate si rilassa e accelera. Facciamo il giro dell’isolato e parcheggiamo a un centinaio di metri dal portone indicato da James. Civico numero tre, porta nera, secondo campanello dall’alto. Siamo armati e vigili, ma nessuno ci dedica più di un’occhiata. Suoniamo ed entriamo. Jim è affacciato alla tromba delle scale, ci incita a salire, in fretta, senza farci vedere, ma il palazzo è deserto e nemmeno gli scarafaggi sembrano interessati al nostro passaggio. Il buon vecchio Scuotiossa sembra in prenda a un adrenalinico delirium tremens. Quasi ci spinge dentro l’appartamento e poi chiude subito la porta alle nostre spalle. «Bloody hell!» sospira. Corre verso un tavolo, raccatta al volo un libro, lo apre a caso, legge. Non riesco a vedere di che romanzo si tratti, ma ha un notevole effetto calmante su di lui. Il ragazzo chiude gli occhi, inspira, espira, e finalmente smette di tremare. «I’m sorry, dears, non sono abituato a questo stress.» «Tranquillo, tesoro, non c’è problema.» Indica il libro. «Volete leggere anche voi?» «No, grazie, per oggi abbiamo letto a sufficienza.» Il posto è una specie di laboratorio grafico del The Pickwick’s Army. Ci sono computer, stampanti, plotter e un’infinità di volantini, sagome di cartone e striscioni pubblicitari. «Mi dispiace avervi chiamato», continua Jim, «ma ci sono alcuni punti complicati da tradurre e volevo il vostro parere.» «Capito, mettiamoci al lavoro, allora.» Indica un portatile acceso sopra un tavolino e ci invita a sederci sulle sedie già preparate lì intorno. «Il
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problema è che vi siete divertiti molto a giocare con l’italiano e penso che bisognerebbe trovare il modo di rendere lo stesso effetto in inglese. Anche i lettori anglofoni devono avere il piacere di capire la complessità letteraria che sta dietro a questo romanzo.» «Beh», lo interrompo, «se qualche dettaglio viene perso non credo sia un dramma.» Reagisce come se avessi insultato Dickens. «Oh no, Hamlet, no, no, no. Non possiamo perderci qualcosa del vostro capolavoro.» Allargo le braccia, sorrido. «Va bene, James, come vuoi tu.» E così iniziamo ad analizzare passaggio dopo passaggio tutti i periodi evidenziati da Scuotiossa. Il ragazzo sembra aver fatto un ottimo lavoro e il suo zelo è apprezzabile, ma dopo un’ora di elucubrazioni lessicali, i miei testicoli sono diventati palloni aerostatici e mi devo legare alla sedia per non volare via. Mi alzo. «Are you okay?» «Sì, tranquilli, continuate pure. Mi sgranchisco un po’ le gambe.» Vago per il laboratorio. Dalla sala in cui ci troviamo si può accedere a due stanze: sulla destra, una camera più piccola, piena di scatoloni; sulla sinistra, una vecchia cucina, usata per stampanti e plotter. Il posto deve essere stato un appartamento, e nessuno ha avuto voglia di smontare i mobili a incasso. Posso capirli. Mi allungo verso il lavandino e provo ad aprire il rubinetto. Niente acqua. Continuo a gironzolare, mentre dall’altra stanza giungono i discorsi filologici degli altri tre. Anche Caterina vuole dare il suo contributo. Io mi racconto che non conosco abbastanza l’inglese per rendermi utile, ma la verità è che mi è sempre piaciuto bighellonare da solo nelle case degli altri, con quell’istinto impiccione nato ben prima di Facebook. Osservo con più attenzione le sagome di cartone. Sono cartelloni pubblicitari pronti per la fiera. Ogni
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romanzo viene presentato come l’evento letterario dell’anno, ogni editore come l’ente benefico che garantisce l’accesso dei lettori a simili tesori. Nessuno si accorge che pubblicano tutti gli stessi libri? Basta confrontare alcuni dei cartonati presenti. I temi, le storie, i personaggi, a volte persino le copertine, sono solo varianti di un unico filone. Fanculo alla legge Montag, ovviamente. Gli editori rischiano la galera – per non dire la vita – e preferiscono pubblicare libri poco curati e di sicuro successo. È un comportamento deprecabile, per carità, ma anche inevitabile. Avete mai sentito di un trafficante di droga che rinuncia al profitto per fornire ai tossici una droga più pura? L’unica speranza è la legalizzazione dei romanzi. Con una letteratura libera gli editori avrebbero il coraggio di puntare sulla qualità, sull’originalità, sugli autori emergenti. Sarebbero i lettori stessi a pretenderlo. In un mondo dove leggere fosse legale gli editori non potrebbero inseguire solo il facile guadagno, dico bene? Accanto alla porta, ci sono tre scatoloni ancora aperti. Mi concedo ancora un po’ di curiosità prima di tornare ai problemi di traduzione. Nel primo trovo opuscoli pubblicitari e romanzetti scadenti, buoni solo per i dolori dell’astinenza. Nel secondo volantini. Ne prendo una manciata e li sfoglio. Titoli anonimi che non stimolano nemmeno la mia assuefazione. Poi arriva quello che mi mozza il fiato. C’è l’immagine di una copertina: sullo sfondo un paesaggio fantascientifico, in primo piano un elfo grasso, un mago, un giullare e una ragazza vestita di nero, e in alto il titolo Città Senza Eroi. Ho già visto quell’immagine. Nella roulotte-casa-laboratorio di Lady Emma, la grafica pseudo-vittoriana. Ma ora, in basso sulla destra, c’è un simbolo che quella notte non c’era. Un marchio inconfondibile per ogni libromane. Il logo del Bibliotecario.
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La memoria mi gioca un brutto scherzo e mi riporta a quella sera, io e la ragazza in piedi, proprio accanto alla bozza di questa immagine. Lei: «Okay, direi che i vostri documenti sono pronti. Comprese nel prezzo ci sono anche le patenti. Vi serve altro? Tessere della sanità, passaporti…» Io: «No, non credo. Per arrivare a Londra bastano le carte d’identità, dico bene?» Per arrivare a Londra. «Merda!» mormoro. Quella schizzata sapeva la nostra meta e anche i nomi con cui avremmo viaggiato. «Merda!» esclamo. Quella sniffa-inchiostro dipendente da Jane Austen sapeva come trovarci. «Merda!» urlo. Quella stronza lavora per il Bibliotecario. «Gioia, che succede?» «È colpa mia. Merda, merda, merda, è colpa mia!» Caterina corre in cucina. «Amleto, che ti prende?» Le passo il volantino. «Ho detto che andavamo a Londra, capisci?» «No, non so di cosa stai parlando. Stai calmo. Respira.» «Stai calmo un cazzo. Sono stato un coglione. È colpa mia!» James ed Eleonora ci raggiungono. Il ragazzo sembra atterrito, mi supplica. «Hamlet, non urlare, please.» Cate mi prende per le spalle, mi scuote. «Sta’ calmo!» Mi schiaffeggia. «Respira.» Cerco di seguire il suo consiglio, ma non ci riesco molto bene. Mi trascinano nella stanza più grande, mi invitano a sedere. No, devo camminare, devo muovermi. E così cammino avanti e indietro, tra le stampanti e i computer. Racconto quello che è successo, quello che ho detto. La notizia colpisce Jim e Caterina, che fanno smorfie
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di disappunto e rimangono in silenzio. Eleonora, invece, non sembra convinta dal mio ragionamento. «No, non è possibile… cioè non credo che… vedrai che è solo una coincidenza.» «Coincidenza?» «No, nessuna coincidenza», interviene Cate, «ci chiedevamo chi fosse la Grande Eminenza Grigia… ora lo sappiamo. Ha le possibilità, il movente e ha avuto l’occasione.» «Ci ho pensato io a darle l’occasione.» «Dai, Amleto, smettila di colpevolizzarti. Non serve a nulla. Anzi, ora abbiamo dato un nome al nostro cacciatore. È un’informazione che ci può aiutare.» «Però aspettate… non è detto.» Eleonora continua a farfugliare la sua negazione. «Ele, sapere che il Bibliotecario ci vuole morti non è una notizia facile da accettare, me ne rendo conto, ma dobbiamo prenderne atto…» James la interrompe. «You have to go. Dovete andarvene.» «Che succede?» «Aveva ragione Miss Havisham… non dovevo farvi venire qui… ho sbagliato.» «Andiamo, ragazzo, il Bibliotecario è un vostro… socio, per la fiera.» «E se pensasse che vi stiamo proteggendo? You have to go!» Inizia a piagnucolare. «Go away, please, go away.» Caterina ci guarda e indica la porta con la testa. «Su forza, fuori di qui.» Prendiamo le giacche e usciamo dall’appartamento. Scuotiossa quasi ci spinge fuori, per poi sbattere la porta non appena abbiamo oltrepassato l’uscio. Caterina scende le scale imprecando. Eleonora barcolla, ancora frastornata dalla notizia. Io procedo a testa bassa, incapace di credere alla cazzata commessa. Nessuno dei tre può immaginare quello che ci aspetta fuori dal palazzo.
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Capitolo 40
La notte è calata su Londra. Le luci dei lampioni dipingono ombre sui marciapiedi sporchi. I locali si sono svuotati, perfino i turisti stanno tornando nei rispettivi letti. La strada è silenziosa. L’unico rumore è la voce di una ragazza che bestemmia in italiano: Caterina. Cammina, spedita, entra in macchina e accende il motore. Affrettiamo il passo e la raggiungiamo in auto. La Micra si stacca dal marciapiedi, ma si ferma dopo pochi metri. Di fronte a noi, in fondo alla via, un uomo è in piedi al centro della carreggiata. Tuta mimetica, giubbotto antiproiettile, mitra. Non c’è possibilità di equivocare. Sta cercando noi.
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Il tempo rallenta. Caterina afferra la leva del cambio, inserisce la retromarcia, gli ingranaggi protestano e scattano con fragore. L’uomo alza l’arma, un centimetro alla volta. Caterina allunga il braccio verso il poggiatesta di Eleonora, si volta, tiene il volante con una mano e accelera. L’uomo continua ad alzare il mitra. La macchina scatta indietro, scivolo sul sedile. Il lunotto posteriore esplode, schegge di vetro brillano nell’abitacolo, piovono su di noi. Poi il tempo riprende a correre. «Cazzo, ce n’è un altro dietro.» «Buttati lì a sinistra, va’ dentro la piazza.» Eleonora ripete il numero da cavallerizza sul sedile. È più sciolta, questa volta, meno impacciata. Non parla di lezioni, agisce e basta. Le sue pistole spuntano ai lati del suo schienale, proprio sopra la mia testa. Tuonano. La macchina riparte in avanti, sbanda, gira a sinistra. Avanziamo per una decina di metri, giusto il tempo necessario a illudermi di averli seminati. Una raffica colpisce il retro della Micra. Le pallottole si piantano nella carrozzeria. Stridore di lamiere. La parte posteriore si abbassa di colpo, l’auto inizia a girare su se stessa. Vengo sbattuto per terra, tra i sedili. Eleonora abbraccia lo schienale. Caterina ruota il volante per mantenere il controllo. Invano. La macchina sbanda una volta a destra, una a sinistra, poi il semiasse si rompe e l’auto continua la sua corsa contro la vetrina di un negozio. Gli airbag anteriori esplodono. Una cascata di cristallo piomba sulla Micra. L’auto continua ad avanzare. Il motore urla impazzito. Un altro schianto e l’abitacolo viene sommerso da M&M’s. L’allarme assordante del sistema antifurto ruggisce nella notte londinese. Cerco di alzarmi. Una fitta di dolore mi trapassa il petto e mi lascia senza fiato. Devo avere una costola rotta, forse due. Stringo i denti. Faccio forza con le
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braccia e mi alzo sul sedile. I confetti colorati continuano a piovere. Ma dove cazzo siamo finiti? Mi allungo verso lo sportello destro, la lamiera è deformata e non si muove. Provo con l’altra. Si apre. Mi trascino fuori, rotolo sul pavimento. Yellow e Red sorridono allegri, ignari di quello che sta accadendo. Siamo dentro M&M’s World. Raggiungo la portiera del passeggero, una fitta al costato mi fa quasi perdere l’equilibro. Mi appoggio all’auto, apro lo sportello. Il volto di Eleonora è coperto di sangue. L’airbag l’ha colpita alla schiena schiacciandola contro il sedile, la fronte ha sbattuto sull’angolo del poggiatesta, una ferita si allarga sopra l’occhio destro. «Stai bene?» «Tirami fuori di qui.» Spalanco la portiera e l’aiuto a uscire. Riesce a reggersi sulle gambe, ma barcolla, tenendosi la testa con le mani. Il sangue le offusca la vista. Prendo una maglietta da uno degli espositori e gliela passo. Il giallo acceso del tessuto si tinge subito del suo sangue. Giro intorno alla Micra e mi occupo di Caterina. È priva di sensi, la testa abbandonata sul volante. Le sento il battito, trattenendo il respiro. È viva. Cerco di sbloccare la cintura di sicurezza, ma è incastrata. Estraggo il lungo coltello militare e taglio il tessuto con facilità. Afferro Cate da sotto le ascelle e la tiro con cautela verso di me. La stendo sul letto di M&M’s. Le schiaffeggio la faccia. «Svegliati, ti prego svegliati.» Per una volta le mie preghiere vengono esaudite. «Sono all’inferno?» «Solo se sei allergica al cioccolato e alle arachidi.» Alza le sopracciglia, perplessa, ma non abbiamo tempo per le spiegazioni. Una raffica di mitra squarcia il muro sopra di noi. Getto un’occhiata oltre la macchina. I due assalitori sono fuori del negozio, coprono i due lati delle vetrine e si avvicinano convergendo secondo
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un V invisibile. La Micra ci offre un riparo parziale, ma se rimaniamo fermi saremo presto in trappola. Siamo acquattati e appoggiati alla carrozzeria. Eleonora ha raccolto un’altra maglia promozionale e l’ha trasformata in un turbante per tamponare la ferita. Io cerco una posizione per non pesare troppo sulle costole doloranti, ogni respiro è uno strazio. Caterina sembra illesa, il disorientamento iniziale spazzato via dai colpi sparati contro di noi. Sbircia a destra e a sinistra. Cerca una strategia. «Ce la fate a correre?» chiede. Annuisco, anche se sarà doloroso farlo. Eleonora risponde di sì. Cate indica alla nostra destra. Nel buio quasi totale del posto si scorgono le colonne portanti, gli espositori di caramelle e, ancora oltre, un’ampia scalinata a chiocciola che scende nei piani sottostanti. «Dobbiamo raggiungere le scale. Da qualche parte, là sotto, ci deve essere un’uscita d’emergenza, o qualcosa di simile.» «Appena mettiamo la testa fuori quelli ci falciano.» «Lo so. Tu pensa solo a correre come il vento, al resto ci pensiamo noi femminucce.» Mi fa spostare in modo che abbia la strada libera per scattare, poi si avvicina a Eleonora. «Sopra le vetrine ci sono dei grossi neon colorati. Corriamo e spariamo a quei cosi. Io a destra, tu a sinistra.» La leader maxima prende una manciata di M&M’s, se l’infila in bocca e alza entrambi i pollici. «Al mio tre.» «Aspetta» la fermo. «Partiamo quando tu dici tre, o tu conti uno, due, tre e poi partiamo?» «Ma che cazzo di domande fai?» «Scusate. Arma letale mi ha incasinato il cervello con questa storia del tre.» Silenzio. «Quindi?» «Quindi cosa?»
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«Quando dici tre o…» «Adesso cazzo! Vai, vai, vai!» Il tempo rallenta di nuovo. Le ragazze scattano in piedi, come letali pupazzi a molla. Una pistola per ogni mano. Sparano verso le vetrine. I bossoli luccicano nell’aria, cadono, rimbalzano sul pavimento dove ero accovacciato. Io non ci sono più, sono scattato, schiena curva, testa bassa. Il dolore alle costole è straziante. Poi gli espositori iniziano a esplodere. Peluche, tazze e scatole di caramelle vengono dilaniate dalle raffiche di mitra. Parti d’imbottitura, cocci di ceramica e confetti colorati cadono sulla mia testa e su quelle delle mie compagne. I proiettili sibilano tutto intorno a noi. Raggiungo la scalinata e mi butto sui gradini a quattro zampe. Scivolo, rotolo. Un torrente di M&M’s scorre alla mia sinistra. Sbatto sulla parete e la fitta di dolore riporta il tempo alla giusta velocità. Eleonora mi supera, raggiunge il primo piano interrato e si volta, pistole spianate. Caterina è seduta sulla ringhiera centrale, si lascia scivolare e intanto spara verso l’alto. Uno degli assalitori è affacciato dalla balaustra soprastante, seminascosto dietro una colonna. Le pistole di Cate non lo fermeranno ancora per molto. Ma sopra di lui è appeso un immenso lampadario. Prendo fiato. Urlo sopra il frastuono degli spari e dell’allarme ancora in funzione. «In alto!» Il messaggio arriva a destinazione. Caterina spara, il lampadario crolla, l’uomo viene colpito. Noi corriamo, raggiungiamo Eleonora. L’unica luce proviene dall’esterno, attraverso la tromba delle scale, e getta ombre sinistre sui sorrisi delle mascotte. Tutto il resto è al buio. In alto, proprio sopra le nostre teste, l’insegna spenta per l’uscita di sicurezza indica a sinistra. La seguiamo. Procediamo a tentoni. Una breve mitragliata sulle scale ci ricorda che non abbiamo molto tempo. Cer-
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chiamo di orientarci tenendoci vicino agli scaffali, ma al buio è impossibile capire dove stiamo andando. Il frastuono dell’allarme arriva attenuato qua sotto e il rumore dei nostri passi sembra assordante. Poi udiamo il suono di stivali pesanti. Dietro di noi. Ci buttiamo a terra. I lampi del mitra illuminano il corridoio. Eleonora coglie l’occasione e spara. Sentiamo un tonfo, poi una serie di lamenti. Quello stronzo è ancora vivo. «Via di qua» urla Caterina. Scatto, ma non abbastanza veloce. Un proiettile mi colpisce la gamba. Crollo a terra. Se urlo sono morto. Non deve sapere in che direzione sparare. Le ragazze sono lontane, ormai. Striscio, nemmeno io so verso dove. Il buio mi opprime, il dolore consuma la mia lucidità. E poi arriva, inesorabile, il panico. Mi metto seduto, estraggo il coltello, lo tengo puntato di fronte a me. Trema. No, sono io a tremare. Degli spari, dall’altra parte del negozio, e il suono di passi affrettati. Il mio predatore se n’è andato. Sono vivo, almeno per il momento. Mi alzo facendo forza sulla gamba illesa. Barcollo dietro uno scaffale. Prendo lo Zippo dalla tasca, schermo la fiamma con una mano e guardo i danni del proiettile. È una ferita superficiale. Ha strappato i pantaloni e portato via qualche strato di pelle. Se un colpo di striscio provoca un dolore del genere, cosa si prova quando ti sparano sul serio? Meglio non saperlo. Una luce rossa si accende tremolante nella direzione degli spari. Una torcia di segnalazione. E poi eccone un’altra, che volteggia nell’aria e atterra a non più di due metri da me. Merda! Mi accuccio, evito una breve raffica, scappo. L’odore acre dei fumogeni riempie il locale. Il chiarore vermiglio permette di vedere quello che ci circonda. Un inferno, un inferno di M&M’s. Gran parte delle
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scaffalature sono state colpite dai proiettili. Il pavimento è coperto da cocci, sangue e confetti colorati. Difficile capire dove mi trovo, ancora di più trovare l’uscita di sicurezza. Procedo accosciato dietro un espositore di tazze. Sbircio oltre l’angolo. Eleonora è in piedi, dietro un’enorme M&M’s verde vestita da dama vittoriana. Mi guarda. Porta l’indice di fronte alle labbra, poi lo ruota in aria: vuole fare il giro per raggiungermi. Il palmo aperto verso di me è un ordine chiaro: resta lì! Ubbidisco. Rimango in attesa, il coltello ancora stretto nella mano destra. Un rumore alle mie spalle. Alzo la testa. Da sopra la bassa scaffalatura spunta la canna del mitra. Reagisco d’istinto. Do una spallata e rovino insieme al mobile contro il killer. Rotolo sul fianco, mi rialzo, ma quello è già in piedi di fronte a me. Affondo il coltello. L’uomo ruota il busto, schiva e mi colpisce il polso con il taglio della mano. Il coltello cade e scivola lontano. Il pugno che mi arriva allo stomaco nemmeno lo vedo. Volo sul pavimento. Il dolore al costato mi immobilizza. La canna del mitra si alza e punta dritta alla mia testa. Poi la tempia del killer esplode in una nuvola di sangue, ossa e cervello. Il corpo cade ed Eleonora emerge dal fumo. «Ti avevo detto di non muoverti.» «Pensavo di sorprenderlo.» «Se vuoi rimanere vivo, non pensare più certe cazzate.» Annuisco. «Prendigli il fucile, sbrigati.» «Dov’è Caterina?» «Non lo so, dobbiamo trovarla.» Gli spari ci indicano la strada. Corriamo tra le corsie del negozio. La luce rossa altera la percezione delle ombre, il fumo fa lacrimare gli occhi. Eleonora è di fronte a me. Le pistole strette nelle
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mani, le braccia stese in avanti, le gambe snelle scattanti. Io arranco dietro di lei. Il mitra puntato verso il buio, il calcio appoggiato alla spalla destra. Corriamo mossi dalle più lodevoli intenzioni, ma sbagliamo. Il secondo assalitore aspetta dietro un espositore pieno di peluche. Quando lo vedo, è troppo tardi. Eleonora viene colpita alla nuca. Stramazza al suolo e non si muove. Io scarto a sinistra e perdo l’equilibrio. Riesco a premere il grilletto, ma la raffica si perde sul soffitto. Scivolo ma rimango in piedi. L’uomo è a non più di due metri da me. Alza il mitra. Il mio è già puntato. Sparo. Click. Click. Click. L’arma è scarica. Per la seconda volta in pochi minuti la canna di un mitra è puntata alla mia testa. E ancora una volta è una ragazza a salvarmi. Caterina corre tra gli scaffali e si lancia in un perfetto placcaggio da football. Colpisce con la spalla lo stomaco dell’avversario, lo butta a terra. Rotola su un fianco e si rialza con uno scatto di reni. È disarmata, ferita e sanguinante in più punti, ma la sua espressione è pura furia. La più bella amazzone che il mondo abbia mai visto. L’uomo fa una capriola all’indietro e torna in piedi. Prova a puntare il mitra, ma Cate lo allontana con un calcio. Un altro colpo e l’arma cade sul pavimento. «Forza, maschione, ho voglia di fotterti!» Il killer attacca con un gancio sinistro. Caterina si fa sotto, para il pugno con gli avambracci e colpisce la parte bassa dell’addome con un veloce destro-sinistro-destro, proprio sotto il giubbotto antiproiettile. L’uomo ha la spalla destra ferita, la sua difesa vacilla; urla e carica una testata. Cate si abbassa, schiva, e molla una poderosa ginocchiata sulle palle dell’avversario. «La pistola!» urla.
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Guardo alla mia destra. Eleonora ha ripreso conoscenza, ma è ancora stesa a terra. La pistola è accanto ai suoi piedi. Corro, mi chino, l’afferro. Caterina colpisce il naso dell’uomo con la parte dura del palmo. Il killer crolla a terra. Faccio un passo in avanti, alzo la pistola. Ma l’assalitore è più veloce. Estrae un piccolo calibro dall’anfibio. Spara. Uno, due tre volte. Il corpo di Cate sussulta. Barcolla. Cade in ginocchio. Io urlo. Urlo con tutto il fiato che ho in corpo. Urlo e sparo. Sparo. Sparo. Sparo, finché il caricatore non è vuoto. Per la prima volta nella mia vita, tutti i colpi vanno a segno. Ma sono stato troppo lento. Caterina è per terra, il sangue si allarga sotto il suo corpo. Mi getto al suo fianco. Il petto è straziato dai colpi. Le appoggio la testa sulle mie ginocchia, le prendo la mano. «Cate, no. No. No. No.» Lei mi guarda. Strizza l’occhio. «È arrivato il momento di guardare sotto le tuniche degli angeli.» «No, Cate, ma che dici. Adesso ti portiamo all’ospedale…» Scuote la testa. Sorride. «Ti voglio bene, mio principe.» E muore. Tra le mie braccia. Il tempo si ferma.
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Capitolo 41
Quello che succede dopo è difficile da descrivere. Abbasso le palpebre di Caterina e rimango lÏ a sorreggerle la testa. In ginocchio nella pozza di sangue, da solo, i sensi anestetizzati dal dolore. Urlo, singhiozzo, piango. Per giorni, o forse per mesi. Eleonora scuote la mia spalla. Non mi muovo. Si china su di me, mi abbraccia. Mormora al mio orecchio frasi spezzettate. Dobbiamo scappare, sta arrivando la polizia, lasciala andare, Amleto, lasciala andare. Mi prende la mano, mi trascina via. Io rimango lÏ, con Cate, ma al contempo mi alzo, cammino, le dico addio.
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La vedo sulle scale del liceo, che parla con le sue amiche, e io a guardarla come se fosse la donna della mia vita. Idealizzata come solo una cotta giovanile riesce a fare. Intanto camminiamo per il negozio, tra il fumo, con il bagliore dei bengala che pulsa ed esita. Seguiamo le indicazioni per l’uscita d’emergenza. La mia mano stretta in quella di Eleonora, unico collegamento con questa realtà. Perché io sono in spiaggia, sul pontile, steso accanto a Caterina a bere birra e parlare di donne. Io con le mie paranoie; lei con i suoi consigli, le sue prese per il culo, le sue risate. E poi nel salotto della mia vecchia casa, abbandonato dalla mia famiglia, incazzato, spaventato, con Cate che mi rassicura, mi insulta, mi fa ridere. Ma Eleonora mi trascina lontano, ancora nella bolgia delle M&M’s, attraverso l’uscita di sicurezza, su per strette scale di metallo. Ha con sé delle t-shirt, le usa per pulirmi via il sangue dal viso, dalle mani. È inutile, glielo dico. «Non verrà mai via, mi rimarrà sempre addosso» ma lei nemmeno mi ascolta. Mi sfila la maglia, me ne fa indossare una pulita. Poi si cambia anche lei. E io scivolo via, di nuovo. Sono ad Ancona, sugli scogli del Passetto, accanto alla Seggiola del Papa. Bagnato dagli spruzzi delle onde incazzate, e dalla pioggia. Un diluvio che scioglie le lacrime di Caterina. «Oggi ho ucciso un uomo. Mi hanno pagata per farlo. Pensi che sia un mostro?» E io troppo codardo per dire qualsiasi cosa, me ne sto lì a guardare il mare, sperando che ci sommerga, facilitandoci le vite. Ma l’unica cosa che emerge dalle onde è la mano di Eleonora, che mi riporta a Londra, in un vicolo sporco, con le macchine della polizia che sfrecciano sulle strade e noi che ci allontaniamo silenziosi. Dice: «Sali» e sono seduto sul sedile di un’auto. Per un momento credo che sia la Micra, e mi volto a guardare. Magari Cate
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è seduta lì, magari non è successo nulla. Ma il sedile è vuoto. Questa non è la Micra. La Micra è distrutta dentro il negozio. Lo stesso negozio dove Cate è distesa in una pozza di sangue. Morta. «Dobbiamo tornare indietro» mormoro. «Dobbiamo andare a prenderla.» «Non possiamo, Amleto. Abbiamo bisogno di un rifugio sicuro.» «Dobbiamo portarla in Italia, da Sara, dalla sua famiglia.» «Ora mettiamoci in salvo. Conosco un posto. Poi ci occuperemo di Caterina. Te lo prometto.» Annuisco. Mi appoggio sullo schienale. «L’hai promesso» sussurro. Poi chiudo gli occhi, dormo.
Sono in catene in un’aula di tribunale. Di fronte a me lo scranno gigantesco del giudice F. Kafka, alla mia destra il tavolo dell’accusa, rappresentata da John Grisham che ammicca sorridente verso la giuria. Che però io non vedo, perché, quando cerco di dare un’occhiata, trovo solo uno striscione: “Scemo chi legge”. Il mio avvocato mi saluta, con le valigie in mano. «Dove vai?» chiedo. «Vado ad abitare in un Paese… che è il più bel Paese di questo mondo: una vera cuccagna!» risponde. «E come si chiama?» «Si chiama il Paese dei Balocchi. Lì non vi sono scuole; lì non vi sono maestri; lì non vi sono libri.»25 E parte con un raglio. Il giudice batte il martelletto e il processo inizia.
25 Tratto da Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, di Carlo Collodi.
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Io scatto in piedi. «Colpevole» urlo. «Sono colpevole, ho ucciso Caterina.» «Caterina?» chiede qualcuno. «Chi è costei?» «Noi non conosciamo Caterina.» «Questa è la causa: “Letteratura contro Amleto”.» «Al rogo!» «Bruciatelo!» «Al rogo!» «Così è deciso. L’udienza è tolta.» E mi trascinano su una pira in fiamme. Insieme a tutti i miei amici e parenti. Ci sono Matteo, Giacomo, Luca, mio padre, mia madre, Eleonora e anche Caterina. Urlano tutti dal dolore, i loro capelli bruciano, la pelle si carbonizza. Mentre io rimango incolume. Tutti muoiono intorno a me.
Mi risveglio di soprassalto. Eleonora mi guarda preoccupata. «Siamo arrivati.» «Che posto è?» «Uno dove possiamo passare la notte.» Scendo dall’auto. Le costole spediscono una fitta di dolore dritta al cervello. Sento che la testa mi sta per esplodere. Barcollo sul marciapiede. Eleonora si affretta a fare il giro della macchina, mi aiuta a rimanere in piedi. «È qua vicino, stai tranquillo.» Le metto una mano intorno alle spalle e scarico su di lei un po’ del mio peso. La pressione al costato non diminuisce, ma il dolore diventa più sopportabile. Non so dove siamo. C’è un cavalcavia di mattoni che sorregge le rotaie di una ferrovia. Noi passiamo sotto. C’è puzza di sudore e piscio. Oltre al passaggio un condominio scuro. Edilizia popolare, a buon mercato. Il
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portone è aperto, le rampe di scale strette. Eleonora mi precede sui gradini, mentre io salgo a fatica aiutandomi con la ringhiera. Due piani e poi una porta, la chiave nascosta sopra lo stipite. «A destra c’è la camera da letto. Vatti a stendere. Io guardo se c’è qualcosa nel bagno.» Mi appoggio al muro. La carta da parati è ruvida sotto le dita. L’appartamento è piccolo, puzza di muffa. Entro nella camera e mi siedo sul letto, non so se riuscirò a stendermi. Eleonora entra con un bicchiere d’acqua e due pasticche. «Ho trovato un barattolo di aspirine, dovremmo accontentarci.» La guardo per la prima volta in faccia da quando… da quando Caterina è morta. Non ha una bella cera. Il taglio sulla fronte sembra profondo. Ha un livido sul collo e varie escoriazioni su braccia, gambe e volto. Non ha più le lenti a contatto, gli occhi verdi sono arrossati, stanchi, sfiniti. «Come stai?» chiedo. «Ce la caveremo.» «Dove siamo?» «Te l’ho detto, è solo un posto dove passare la notte.» Deglutisce. «Mi spiace per Caterina.» Abbasso lo sguardo sul pavimento impolverato. Annuisco. «Era una cara ragazza» continua. «Era la mia migliore amica.» Rimaniamo in silenzio e ancora una volta scivolo via, lontano da Londra e dal presente. Sono a casa mia, di fronte al computer. Cate mi sorride attraverso la videochiamata di Skype. «Stasera devo andare a un incontro», dico, «e ho bisogno di qualcuno che mi guardi le spalle. Sei disponibile?» «Certo, mio principe. Ci sarà da ballare?» «No, dovrebbe essere un affare semplice.»
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Non la dovevo coinvolgere. Ho sbagliato. Non sono nemmeno riuscito a rimanere zitto quando serviva. È colpa mia se ci hanno trovato. Colpa mia se è morta. Eleonora appoggia la mano sulla mia spalla. «Sei ancora qui?» Mi volto, la guardo. «Avrò bisogno del tuo aiuto.» «Certo, Amleto, ci penserò io alla salma, te l’ho promesso.» «No, non per quello. Ho bisogno che mi aiuti anche per un’altra faccenda.» «Dimmi.» «Voglio vendicare Cate.» «Lo hai fatto, hai ucciso quello stronzo.» «No, non basta. Voglio uccidere il Bibliotecario.» Eleonora serra la mascella. Non dice nulla. Poi abbassa le palpebre e annuisce. «Prometto che ti aiuterò a farlo.» Mi stendo sul letto, chiudo gli occhi. Non so dove tu sia ora, Cate. Magari in paradiso, a correre dietro le gonne degli angeli, o magari a Pornoland, a guardare la sfilata delle donne nude, ma ovunque tu sia, vendicherò la tua morte. Lo giuro sulla nostra amicizia.
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Capitolo 42
Mi risveglio con una torcia puntata in faccia. Sotto di essa un fucile. L’istinto mi obbliga a fuggire, ma il dolore al costato mi blocca, poi due paia di mani mi immobilizzano sul letto. Mi legano le braccia dietro la schiena con spesse fascette di plastica. Cerco di scorgere i loro volti, ma indossano tutti dei passamontagna neri. Sento Eleonora gemere nell’altra stanza. «Lasciatela stare!» urlo. Vengo impacchettato con un bavaglio, stretto dietro la nuca, un cappuccio soffocante e un’altra fascetta per immobilizzare le caviglie. Mi sollevano di peso e
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mi trascinano fuori dall’appartamento, fin dentro un furgone. Una puntura sulla coscia e arriva l’oblio.
«Orbene, chi sono costoro?» Una voce al di là del cappuccio. Un uomo. Parla in italiano. Sono seduto su una poltrona, ancora legato. Le braccia formicolano, la mente galleggia negli strascichi di qualsiasi cosa mi abbiano iniettato nella gamba. Sollevano il cappuccio, la luce mi trafigge gli occhi come un chiodo affilato. Sbatto le palpebre, cerco di mettere a fuoco. Vedo una libreria di legno alta fino al soffitto e ricolma di volumi. Accanto a essa ce n’è un’altra, e poi un’altra ancora. Tre librerie in altrettante pareti, e al centro una scrivania imponente e un tappeto dall’aria pregiata. Di fianco a me una seconda poltrona, occupata da Eleonora, ancora impacchettata e priva di sensi. Al di là della scrivana, un signore distinto mi guarda con espressione curiosa. Ha i capelli impomatati, il volto rasato e il braccio destro sul tavolo, appoggiato accanto a una pistola. Assomiglia a Robert Redford, ma molto più minaccioso. «Ti conosco?» chiede. Rimango in silenzio. Un pugno improvviso mi colpisce la nuca. «So che parli la mia lingua, i miei uomini ti hanno sentito imprecare, quindi ti consiglio di rispondere.» Afferra la pistola, l’allunga di fronte a sé e la punta al centro esatto dei miei occhi. «Poiché nessuno sa quel che lascia nel tempo della vita che gli è negato, che importa lasciarlo da giovani?» Meglio parlare. «No, non mi conosce.» Altro colpo sulla nuca e un ringhio minaccioso dietro di me. «Parla con rispetto.»
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Non so chi sia alle mie spalle, ma picchia duro. «Lei non mi conosce, signore.» Il tipo che ho di fronte riappoggia l’arma sulla scrivania. Annuisce. «Lo sospettavo. Ho un’ottima memoria visiva. Tuttavia, giacché io non ho mai fatto la tua conoscenza, non comprendo come tu abbia avuto l’ardire di introdurti in una delle mie dimore.» «Non sapevo che fosse casa sua, signore. Non so nemmeno chi lei sia.» Aggrotta la fronte. «Dici il vero?» «Non conosco il suo nome.» «Non sono in molti a conoscere il mio nome, per cui non mi stupisco che tu lo ignori, ma pensavo che ti fosse giunto all’orecchio come tutti ormai sono soliti chiamarmi. Io sono il Bibliotecario.» Scoppio a ridere. Dovrei essere spaventato, lo so. Dovrei pensare di essere al cospetto dell’editore più feroce e spietato del mondo, e farmela addosso per la paura. Dopo quello che è successo, tuttavia, penso solo a Caterina e questo è lo stronzo che l’ha fatta uccidere. Per cui rido. «Lo trovi divertente, giovanotto?» Annuisco. «Molto divertente, sì. Non pensavo che oggi fosse una bella giornata.» «E perché di grazia?» «Perché oggi ti ucciderò… signore.» Sento l’uomo dietro di me irrigidirsi e muoversi in avanti, ma il Bibliotecario alza una mano e lo ferma. Mi guarda. «Una bella giornata così brutta non l’avevo mai vista.26» Sorride. «Ipotizziamo che tu sia in grado di liberarti da quei legacci, neutralizzare le mie guardie e uccidermi prima che io riesca ad afferrare questa pistola a spararti. Perché vorresti farlo?»
26 William Shakespeare, Macbeth, Mondadori (2004), traduzione di Vittorio Gassman.
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Eleonora inizia a muoversi sulla poltrona. La indico con la testa. «Vuoi uccidere la mia socia e hai ucciso la mia amica. Meriti di morire.» «È vero, merito di morire. Su questo non ci sono dubbi, ragazzo. Se in tutta la vita ho compiuto una sola buona azione, di essa con tutta l’anima mi pento.27 Ma non credo di essermi macchiato anche delle colpe di cui mi accusi.» «È inutile negarlo. Ci dai la caccia da giorni.» Eleonora si agita con più vigore, cerca di liberarsi dalle fascette di plastica. «Io dare la caccia a voi?» «Certo. Hai iniziato in Italia e poi ci hai seguito fino a Londra. Ci hai trovato grazie alle informazioni che ti ha dato la tua grafica, Emma, e hai cercato per ben due volte di ucciderci. È morta molta gente per colpa tua.» «Emma è una mia collaboratrice, è vero, ma in questi giorni non ho dato ordine di uccidere nessuno.» Guarda un punto dietro di me. «Sto dimenticando qualche missione, Mr. Child?» «No, signore.» Eleonora inizia a sbraitare da sotto il cappuccio, il bavaglio le permette di articolare solo versi indecifrabili. Il Bibliotecario la guarda. «Sembra che la ragazza pretenda le dovute attenzioni» mormora. «Liberatele la testa, sentiamo se anche lei vuole accusarmi di qualcosa.» Quello che presumo sia Mr. Child si avvicina a Eleonora e le toglie il cappuccio. Da dietro la scrivania giunge un’esclamazione di sorpresa. «Il diavolo ha il 27 William Shakespeare, Tito Andronico, Newton (1990), traduzione di Agostino Lombardo.
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potere di comparire agli uomini in forme seducenti e ingannatorie.28» «No, papà, sono realmente io.» Un momento! Devo aver sentito male. «Papà?» chiedo, ma vengo ignorato. «Figlia mia, non capisco perché devi essere una continua fonte di guai.» «Se mi sleghi tolgo subito il disturbo, tranquillo.» «Non iniziare con quel tono, non te lo puoi permettere. Sparisci per mesi e poi ti fai trovare in un nostro rifugio… in queste condizioni.» «Se avessi saputo che saresti venuto a rapirmi nel cuore della notte, mi sarei vestita meglio.» «È ora di crescere, ragazzina.» «Toglimi questi legacci!» sbotta. L’uomo sospira e fa un cenno alla guardia del corpo, che estrae dalla cinta un coltello affilato e taglia i legacci. Nessuno si cura di me. Eleonora si alza subito in piedi, ma il padre le intima di sedersi e afferra il cellulare. «Tua madre è stata in pensiero per tutto il tempo. Devo dirle che sei qui.» Poi, parlando nella cornetta: «Pronto, cara? Puoi venire nello studio? C’è una visita.» Guardo Eleonora. «Sei la figlia del Bibliotecario?» «Sì, poi ti spiego» risponde. «Cosa vuoi spiegarmi? Sei la figlia di quello che ha ucciso Caterina, Cristo santo.» «Ragazzo, ti ho già detto che non ho fatto uccidere nessuno. Non nell’ultimo mese, questo è sicuro.» Una sezione della libreria ruota su se stessa e una signora elegante entra nella stanza. Si porta subito una mano alla bocca. «Oh, sia ringraziato il cielo!» poi 28 William Shakespeare, Amleto, BUR (1975), traduzione di Gabriele Baldini.
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corre verso Eleonora e la abbraccia. «Tesoro, ma cosa ti è successo? Stai bene? Sembri così sciupata e… cosa hai fatto ai capelli? Oh mio Dio, cos’è questo brutto taglio? Dicci subito chi è stato che mandiamo Mr. Child a ucciderlo.» Mi schiarisco la voce. «La colpa, signora, è del killer che suo marito ha assoldato per ucciderci.» La donna mi fissa poi si volta di scatto verso suo marito. «Il ragazzo dice il vero, Giorgio? Volevi uccidere nostra figlia?» «Cara!» urla il Bibliotecario. «Non devi usare i nostri nomi, lo sai!» «Tu mandi qualcuno a uccidere nostra figlia e ti lamenti se uso il tuo nome?» «Non ho mandato nessun killer da nessuna parte. Quante volte lo devo ripetere?» La signora sembra convinta, poi arrossisce per l’imbarazzo. «Scusa se ho usato il tuo nome, caro. Non dovevo.» Mi guarda. «Mi sa che ora ti dobbiamo uccidere.» «No, mamma» interviene Eleonora. «Amleto è con me, nessuno deve azzardarsi a fargli del male.» «Ti chiami Amleto?» chiede il Bibliotecario. «È un nome fantastico. Avrei voluto avere un maschio per chiamarlo così.» «Scusa se sono nata senza uccello!» «Ma no, cara, tuo padre non intendeva quello.» «Mio padre intende sempre esattamente quello che dice.» «Non essere suscettibile, figliola, parlavo di un tuo eventuale fratello.» «Scusate» urlo per sovrastare le chiacchiere. «Qualcuno può essere così gentile da tagliare questi legacci?» «Non credo, Amleto» risponde il Bibliotecario. «Hai confidato che vuoi uccidermi.»
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«Beh, viste le ultime rivelazioni penso che dobbiamo prima chiarire la situazione. E in ogni caso, io ammazzo dopo aver fatto colazione.29»
29 Tratto da Ritorno al futuro – parte III (1990), diretto da Robert Zemeckis.
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Capitolo 43
Le mie costole non sono rotte, solo incrinate. Ho il petto livido per gli ematomi, ma il medico assicura che la cassa toracica è ancora integra. Mi consiglia di non compiere sforzi o movimenti troppo bruschi e di prendere degli antidolorifici. Lascia una boccetta di pillole verdi ed esce dalla stanza. La porta si chiude e viene serrata a doppia mandata. Non diventi l’editore piÚ potente del mondo se non sei abituato alla prudenza e il Bibliotecario ha dimostrato di esserne un maestro. Avrebbe voluto portarci subito in un’altra sala per chiarire la situazione, ma Eleonora, sua figlia, lo ha convinto a darci un
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paio d’ore per lavarci, medicarci e cambiarci d’abito. Sembrava furioso. Si è congedato dando ordine a Mr. Child di prendersi cura di me. Quando la super-conflittuale famiglia editoriale ha lasciato lo studio (e solo allora), la guardia del corpo ha tagliato le fascette di plastica che avevo addosso e mi ha scortato verso la camera a me assegnata. Un percorso di una decina di minuti tra corridoi, salotti, biblioteche e scalinate. Non so dove siamo, sicuramente non più a Londra, ma questo posto è di certo una tenuta aristocratica. Passando accanto alle finestre ho visto prati, cespugli e fontane, tutto pulito, curato, raffinato. In una parola… british. Mr. Child mi ha confinato in una camera con bagno privato e aria condizionata. È grande come il mio appartamento di Falconara, e non sto esagerando. L’uomo ha controllato che le finestre fossero bloccate e poi mi ha lasciato solo, chiudendo la porta d’ingresso. La figlia del grande capo garantisce per me, e nonostante questo sono imprigionato dentro una stanza guardata a vista dalla sicurezza. La prudenza in questo palazzo raggiunge livelli mai immaginati nemmeno dal peggiore dei paranoici. Ma in fin dei conti hanno ragione a non fidarsi di me, perché se il Bibliotecario non sarà bravo a convincermi della sua innocenza, lo ucciderò. L’ho giurato e non verrò meno all’impegno, anche se mi dovesse costare la vita. Nel bagno c’era tutto l’occorrente per l’igiene personale: spazzolino, dentifricio, bagnoschiuma, shampoo, spugna per il corpo e asciugamani puliti. Avrei voluto anche radermi, ma trovare una lametta da queste parti è da escludere. Lavarsi via lo sporco, il sudore e il sangue è stato rigenerante, ma nonostante gli sforzi sento ancora addosso uno strato di sudiciume. Non penso che verrà mai via. Non dopo la notte scorsa.
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Uscito dal bagno, ho bussato alla porta d’ingresso e ho chiesto a Mr. Child dei vestiti puliti e un dottore. Il medico è arrivato dopo pochi minuti. E quindi eccomi qua, con una grossa fasciatura alla gamba, cerotti sparsi su tutto il corpo e un antidolorifico che si sta sciogliendo nello stomaco, ad aspettare qualcosa da indossare, sperando di non dover incontrare il Bibliotecario coperto solo da un asciugamano. Nella camera sono appese due mensole piene di libri. Scorro con lo sguardo le costine colorate. Il desiderio di farmi è forte, ma non voglio presentarmi all’incontro con la mente offuscata da fantasticherie o inutili ideali. Devo essere concentrato. Servirebbe un manuale, qualcosa come Tutto quello che devi sapere prima di un colloquio con gli editori. Immagino andrebbe a ruba. Se sopravvivrò alla giornata, potrei pensare di scriverlo io stesso. Mr. Child bussa due volte e apre la porta. Appoggia sul letto due completi simili al suo, anche se piuttosto logori, e poi camicie, mutande, calzini e scarpe. Una coppia di ogni indumento. «Il Bibliotecario si scusa, ma gli unici vestiti da uomo che si avvicinano alla sua taglia sono quelli del mio armadio personale.» Lo guardo. Inarco le sopracciglia. Avete presente le pubblicità delle palestre? Beh, io sono il prima, lui è il dopo. Con i suoi abiti addosso sembrerò uno spaventapasseri. Ecco la prima regola del manuale: se devi incontrare un editore, portati sempre i tuoi vestiti.
Eleonora mi guarda da capo a piedi. «Tesoro, ma come ti sei conciato?» «Non è che avessi molta scelta.»
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Si stringe nelle spalle. «Dai, andiamo.» È passata a prendermi per accompagnarmi all’incontro con suo padre. Attraverso la porta chiusa ho sentito che Mr. Child non è stato contento: «Siamo certi che quest’uomo non sia un pericolo per la sua incolumità, signorina?» Lei ha riso e ha aperto la porta. La seguo, con la guardia del corpo che mi alita sul collo, pronta a rendermi inoffensivo se solo tento di allungare troppo il passo. «Come vanno le costole, darling?» «Non sono rotte.» «Ottimo, buon per te.» «E la tua fronte?» Sposta la ciocca di capelli e mostra un largo cerotto bianco. «Sette punti di sutura. La cicatrice mi darà un’aria da dura.» Mi limito a sorridere e rimango in silenzio. Vuole mantenere un’aria disinvolta, ma non le riesce molto bene. Non sembra la stessa Eleonora che ho imparato a stimare. Scendiamo una scalinata e arriviamo di fronte a una porta a due battenti. Eleonora afferra le maniglie, indugia per qualche istante. «Senti… lo so che ti devo delle spiegazioni, ma ti assicuro che tutto quello che abbiamo fatto ha un senso. Non è stato il capriccio di una ragazza viziata.» La guardo dritta negli occhi. «Lo spero.»
Il Bibliotecario aspetta seduto su una poltrona della sua… biblioteca. Anche i grandi signori del crimine amano i cliché. È bene precisare, tuttavia, che non sto parlando della stanza dove eravamo prima. Quello era solo un studio piccolo, nulla a che vedere con la magnificenza di questa stanza. Colonne di marmo, statue ro-
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mane, busti di scrittori, teche contenenti preziosissime prime edizioni. E poi una libreria per ogni parete, con migliaia di volumi conservati con ordine maniacale. L’uomo si alza, indica un divano, ci invita a sedersi. Parla con Eleonora. «Tua madre ha voluto preparare un banchetto degno del figliol prodigo, per cui mi duole informarti che dovrai aspettare ancora un po’ prima di sparire di nuovo.» Sposta l’attenzione su di me. «Nel frattempo, però, possiamo tentare di capire perché questo giovanotto mi accusa di aver attentato alle vostre vite.» Annuisco. «Or dunque, figliolo, vuoi raccontarmi quello che vi è successo?» «Non sono tuo figlio.» L’uomo si irrigidisce e trattiene il fiato per qualche istante. Sospira. «Se lo fossi avresti dei modi più educati.» «Ne dubito» commenta Eleonora. Il Bibliotecario la fissa con rabbia, poi scuote le spalle e torna a rivolgersi a me. «Lasciamo perdere, non è importante. Ti piacciono i modi spicci e sarai accontentato. Forza Amleto, raccontami tutta la storia dal principio.» «Dunque, sono stato contattato da Eleonora…» «Chi è costei? Una tua amica?» Mi volto di scatto verso la figlia. «Hai mentito anche sul tuo nome?» sbotto. La ragazza balbetta qualche scusa mentre il Bibliotecario applaude compiaciuto. «Brava figliola, per una volta sono fiero di te. Mantenere l’identità segreta è importante.» «Identità segreta?» urlo. «Ma chi sei, Superman?» Mr. Child inizia ad avvicinarsi minaccioso, ma Eleonora scatta subito in piedi e allarga le braccia. «Smettetela, state zitti!» Silenzio. «Amleto, ho promesso che ti
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spiegherò ogni cosa. Ora chiariamo questa faccenda e poniamo fine a questo supplizio.» «Non conosco nemmeno il tuo nome, dannazione.» Mi fissa. «Per favore, gioia, racconta solo la nostra cazzo di storia. Per favore.» Annuisco. Riprendo a parlare. Riassumo tutto quello che ci è capitato, dal nostro primo incontro nel reparto Cacciaviti & Martelli alla morte di Cate. Espongo i fatti e anche le nostre teorie. Eleonora (chiamiamola così per comodità) interviene solo in due occasioni, per spiegare meglio alcuni punti. Il Bibliotecario rimane in silenzio, concentrato sul nostro resoconto. Ogni tanto guarda la figlia scuotendo la testa, ma non dice nulla. Parla solo quando capisce che abbiamo finito. «Mi dispiace per la vostra amica. La conoscevo di fama. Era un’ottima professionista.» «E una grandissima persona» sottolineo. «Non lo metto in dubbio. Tuttavia, come vi ho già detto questa mattina, non sono coinvolto in questa vicenda. Anzi, rimango sconcertato da fatto che mia figlia possa averlo pensato.» «Non ti atteggiare da persona perbene, non ne sei capace. Non sapevi che io fossi Eleonora, e tu i concorrenti li uccidi. Lo hai sempre fatto.» L’uomo serra la mascella. «Hai ragione, è vero, ma se ogni tanto provassi a ragionare con calma, avresti potuto chiamarmi e chiarire tutto subito.» «E perché avrei dovuto? Per farmi ripetere quanto la mia idea sia utopistica e infantile?» Il Bibliotecario appare molto colpito da quel ricordo, quasi imbarazzato. Apre la bocca, forse per ribattere qualcosa, poi preferisce tacere e cambia argomento. «Amleto, c’è un modo per dimostrarti la mia buona fede?» Rimango in silenzio. Bastano delle semplici parole per fidarmi di questo stronzo?
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«Una cosa ci sarebbe» mi anticipa Eleonora. «La salma di Caterina deve essere riconsegnata alla sua famiglia, ad Ancona.» «Consideratelo fatto. Servono solo un paio di telefonate.» Un gesto nobile, ma non basta. «Non è sufficiente, mi dispiace» dico. «Se non sei stato tu a mettere una taglia sulle nostre teste, chi è stato?» «Vuoi che vi aiuti a scoprirlo?» «Voglio vendicare la mia amica.» Eleonora cerca di fermarmi, ma non la ascolto. Il Bibliotecario mi osserva. «Shakespeare mi scuserà se per una volta prendo in prestito le parole di Alexandre Dumas: L’odio è cieco, la collera sorda, e colui che si mesce la vendetta, corre pericolo di bere una bevanda amara.30» Rispondo con le parole di Macbeth. «Venite spiriti che presiedete ai pensieri di morte; cancellate il mio sesso. Stivatemi di crudeltà dalla corona ai piedi! Ispessite il mio sangue, sbarrate ogni accesso al rimorso: che nessuna ipocrita istanza di umanità scuota il mio disegno mortale o né disturbi l’effetto.31» L’uomo sorride si stringe nelle spalle. «E va bene, allora, se è la vendetta che desideri, è la vendetta che ti offrirò per cena. E voglia il cielo che non sia il tuo ultimo pasto.»
30 Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo, Baldini Castoldi Dalai (2010), traduzione di Antonio Marza. 31 William Shakespeare, Macbeth, Mondadori (2004), traduzione di Vittorio Gassman.
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Capitolo 44
Il pranzo è una scena surreale degna della famiglia Addams. C’è il Bibliotecario che arde ogni volta che ascolta una citazione di Shakespeare, la moglie che discute amabilmente di ricette e omicidi e la figlia che sbuffa insofferente verso i genitori, cercando di essere presa sul serio. Poi ci sono io, lo zio Fester, con tanto di pelata e occhiaie, che mangio per placare i morsi della fame e, soprattutto, per tenere la bocca impegnata ed evitare domande. Guardo Eleonora. Con una famiglia del genere la ragazza non aveva possibilità di crescere normale. È brava a nascondere la sua dipendenza dalla letteratura,
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e anche a ostentare una sicurezza che spesso non le appartiene, ma quando si trova di fronte al padre appare nervosa, esitante, esasperata. «Amleto, scusa se mi permetto», dice la madre interrompendo i miei pensieri, «come mai ti hanno dato questo nome? È molto insolito.» Deglutisco. «I miei genitori raccontano che è stato proprio l’Amleto a infiammare i loro sensi nella sera del mio concepimento.» «Oh, che cosa romantica.» Già, non avevo dubbi che la pensassero così. «Mio marito», continua, «dice che hai salvato la vita di mia figlia.» Inarco le sopracciglia, mi volto verso Eleonora. «Sul tetto» mi ricorda. «Oh, sì» rispondo. «In realtà, però, sono più le volte che lei ha salvato me.» «Questo non conta, figliolo. La morte ti raggiunge solo una volta, e se non fosse stato per te…» scoppia a singhiozzare e copre il volto con il tovagliolo. «Scusatemi, ora mi passa.» Ancora qualche singhiozzo poi riprende. «Quello che volevo dire è che abbiamo un debito molto grande nei tuoi confronti e sono certo che mio marito saprà come ricompensarti.» «Certo, grazie mille.» «Se posso darti un consiglio, ti suggerisco di usufruire dei nostri killer. Abbiamo a libro paga i migliori professionisti…» «Mamma!» La donna scatta sulla sedia, sorpresa e perplessa. «Che c’è?» «Amore», interviene il Bibliotecario, «lo sai che nostra figlia si vergogna dei nostri affari.» «Io mi vergogno solo della tua ottusità» ribatte Eleonora. Ma l’ennesimo screzio viene subito interrotto dalla madre, che prende un piatto e lo sbatte a terra con
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violenza. Inspira tanto profondamente che sembra intenzionata a rubare tutto l’ossigeno della stanza soffocandoci nella sua rabbia, poi espira e ci concede di sopravvivere. «Vi prego di non farmi arrabbiare» mormora. Guarda il marito. «Tu, caro, ricompenserai questo ragazzo e rispetterai le idee di tua figlia, che si sono dimostrate ancora una volta meno peregrine di quello che immaginavi.» Si volta verso la figlia. «E tu, cara, tratterai tuo padre con il rispetto che merita ogni genitore.» Infine si rivolge a me. «Vuoi una fetta di torta?» In effetti la famiglia Addams era più normale di questi pazzi.
Dopo il caffè Eleonora mi chiede di parlare. Torniamo nella biblioteca e ci sediamo. «Tesoro…» Pausa. Silenzio. Riapre la bocca, ma non dice nulla. «Facciamo il gioco dei mimi?» «Non so bene da dove cominciare.» «Magari dal nome? Anzi no, non mi interessa come ti chiami. Voglio sapere il perché di tutto questo. Sei la figlia del Bibliotecario, che bisogno avevi di me?» «Senti, ciccio, non è che essere la figlia del Bibliotecario sia questa gran figata. Hai visto come sono i miei genitori.» «Quindi? Era una ripicca?» «No, cazzo, ma per chi mi hai preso? Io credo nel nostro progetto, non puoi dubitare di questo.» Su questo ha ragione, è difficile credere che tutti i suoi discorsi e le sue idee fossero mosse solo da un capriccio infantile. Però continuo a non capire. «Spiegami.» «Sono cresciuta sotto una fottuta campana di vetro. Mio padre pensava che fosse troppo pericoloso uscire,
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o avere amici. Se qualcuno avesse scoperto che aveva una figlia mi avrebbero usata contro di lui. Minacce, vendette… le solite cose. Ho passato l’infanzia e l’adolescenza ad addestrarmi per sopravvivere nel mondo. Da sola. Quando ero piccola pensavo fosse normale “giocare alla lotta”, e le uniche bambole che conoscevo erano i manichini che usavo come punching ball. Ma poi… non puoi immaginare cosa significhi scoprire che sei prigioniera in casa perché tuo padre è un maledettissimo editore. Sono potuta uscire solo a diciotto anni, dopo aver dimostrato la mia preparazione mettendo al tappeto il mio istruttore. Con un documento falso, ovviamente.» Sospira. «L’unica piccolissima soddisfazione è che in tutto quel tempo ho avuto modo di leggere. Penso di aver letto tutti i libri che ci sono a casa nostra e anche tutti quelli di questa tenuta di campagna.» «Vuoi dire che voi non vivete qui?» «No, gioia. Questa è solo per la vacanze.» C’è chi ha un monolocale in multiproprietà in Val di Fassa e chi una tenuta vittoriana fuori Londra. La mia assuefazione suggerisce… okay, meglio non dirlo, anche una dipendenza da letteratura diventa scurrile in situazioni simili. «Nemmeno i libri, però, erano di conforto. Più leggevo e più sviluppavo un disprezzo verso quello che mio padre rappresentava. L’editoria è un sistema passivo, che si crogiola nella decadenza della letteratura. Nessuno ha il coraggio o la voglia di tentare qualcosa di diverso. I lettori vengono discriminati, puniti, arrestati, e gli editori pensano solo a vendere libri. È inaccettabile.» Si alza, passeggia avanti e indietro di fronte al divano. «Ho voluto dare una possibilità a mio padre, e gli proposto la mia idea. Mi ha riso in faccia. “È ora di crescere, ragazzina”, “tu non sai come funzionano gli affari”, “nemmeno Shakespeare riuscirebbe a cambiare la situazione” e altre cazzate del genere. Allora ho
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pensato… vaffanculo. Ho comprato una nuova identità e mi sono trasferita ad Ancona. Ai miei ho raccontato che volevo rilassarmi un po’ nella vecchia casa del nonno. Il resto lo conosci.» «Volevi dimostrare a tuo padre che si sbagliava.» «No, tesoro, mio padre è solo una vecchia testa di cazzo. Io volevo dimostrare che un libro può cambiare il mondo.» Non ribatto. Penso che è una stronza per avermi mentito. È una stronza per aver coinvolto le “compagne”, me e i miei amici. È una stronza per avermi costretto a incontrare i miei genitori. È una stronza per aver stravolto la mia vita. È una stronza perché ha fatto uccidere Caterina. Ma in realtà non è vero. Vorrei poterla accusare di avermi ingannato. Vorrei poter scaricare su di lei tutte le responsabilità. Vorrei potermi liberare dagli incubi che mi perseguiteranno per il resto della vita. Purtroppo, non è possibile. Eleonora mi ha detto fin da subito quale era il suo obiettivo. Sarebbe cambiato qualcosa se avessi saputo che era la figlia del Bibliotecario? Non credo, non di fronte alla cifra che mi ha offerto. Sono stato io ad accettare l’incarico, io a coinvolgere Caterina. Sono io che dovrò convivere con il peso della sua morte. «È un peccato aver fallito» dice. «Non abbiamo fallito. Non ancora.» Esprime il suo scetticismo con una smorfia eloquente. «Vorrei fosse vero, ma la verità è che se non avessi chiesto inconsciamente aiuto a mio padre a quest’ora saremmo entrambi morti.» «Ma non lo siamo, giusto? E abbiamo ancora il libro.» Non so se sia perché mi dispiace vederla così abbattuta, o perché non voglio che Caterina sia morta invano, o perché credo a tal punto al nostro progetto che lo voglio vedere realizzato a ogni costo, forse è addirittura
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solo il frutto di una pazzia momentanea. Non lo so. Ma qualunque sia il motivo, sono convinto che “il romanzo che salverà i romanzi” debba essere pubblicato. «Se ti guardo ora», continuo, «vedo due persone. Da un lato Eleonora, la ragazza che ha ideato un progetto rivoluzionato e ha convinto perfino il The Pickwick’s Army a parteciparvi, e dall’altro la figlia del Bibliotecario, una ragazzina che non fa altro che frignare e commiserarsi. Quale delle due sei in realtà? Perché da come la vedo io, Eleonora capirebbe che avere il Bibliotecario come alleato sarebbe l’ultimo tassello per completare il quadro.» «Ma dovremmo convincere mio padre.» «Facciamolo.» Sorride e scuote la testa. «Chi lo avrebbe mai detto, tu che convinci me a lottare per il libro.» «Noi boyscout abbiamo una filosofia semplice: il cielo è azzurro, l’acqua è bagnata e i predatori sono sempre in agguato e sempre più forti… Il nostro motto è “sii sempre pronto”.32» «Adoro quel film.» Cammina a lunghe falcate ed esce dalla stanza. Devo correre per starle dietro.
Convincere il Bibliotecario non è semplice, soprattutto perché ha preso l’elicottero ed è volato a Londra. Ce lo dice un clone sovrasviluppato di Mr. Child, indicando fuori dalla finestra. E seguendo il braccio allungato della guardia del corpo, eccolo lì, l’eliporto privato della casetta in campagna. Ogni commento è superfluo. Eleonora è tornata carica. Vorrebbe continuare a
32 Tratto da L’ultimo boyscout (1991), diretto da Tony Scott.
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parlare, stilare una lista delle cose da fare e magari preparare un discorso per persuadere suo padre ad aiutarci. Io ho solo voglia di riposarmi. La saluto e torno alla mia camera. L’energumeno convoca via radio un suo simile e mi fa scortare a destinazione. L’uomo dice che rimarrà fuori dalla mia porta per soddisfare le mie esigenze, che tradotto significa: non credere di essere libero di muoverti da questa camera. Mi sta bene, non ho intenzione di andare da nessuna parte. Mi avvicino ai libri. Fingere di essere carismatico è molto stancante. Ho bisogno di leggere. Prima dell’incontro avevo notato un romanzo in particolare: L’isola del tesoro. Non me lo faccio da quel fatidico pomeriggio di oltre vent’anni fa. Lo prendo. È una vecchia edizione, la carta ingiallita scricchiola tra le mie mani. Se mai storie di mare, narrate su ritmi marini, e tempeste, e avventure, e geli, e ardenti calure; se mai velieri, e isole, e gente lasciata a marcire su spiagge deserte, e pirati, e tesori sepolti, e tutte le vecchio epopee, narrate di nuovo nei modi di un giorno, possano ancora piacere a questa gioventù tanto disincantata come a me piacquero un tempo, allora, suvvia, che il racconto cominci! Ove, però, gli studiosi giovani d’oggi, dismesse le antiche passioni, più non percorrano Kingston, né Ballantyne l’ardito, né Fenymore Cooper, con le sue selve e i suoi mari, ebbene, avanti comunque, dovessimo pur sprofondare, io e i miei bucanieri, in quello stesso sepolcro ove costoro riposano insieme alle loro creature!33
33 Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro, DeAgostini (1989), traduzione di Mauro Imbimbo.
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Leggo e sono di nuovo un dodicenne, elettrizzato all’idea di scoprire cosa contenessero quei volumi di cui tutti parlavano tanto. Dicono che ogni libromane ricordi la prima volta in cui si è fatto. Non so se sia vero in assoluto, ma io ricordo benissimo quel pomeriggio. Le mani tremanti per la paura di essere scoperti, le risate nervose, gli sguardi curiosi. E poi il primo assaggio, l’immersione nella storia, dapprima incerta, poi trascinante. Un paragrafo dopo l’altro, di capitolo in capitolo. A veleggiare con i pirati, condividere le loro avventure, unendoci ai loro canti e alle loro bevute di rum. Leggemmo per tutto il pomeriggio, tanto strafatti da convincerci che nel mio giardino ci fosse un tesoro. Ci saremmo dovuti vedere l’indomani per cercarlo, e giurammo a noi stessi che nemmeno Long John Silver avrebbe potuto ostacolare la nostra impresa. Il vecchio Cuoco di Mare non fu un problema, ma i genitori dei miei amici sì. Non ci fu alcuna caccia al tesoro nel mio giardino. Solo libri, uno dopo l’altro, come chiodi sulla bara della mia normalità. Alle volte avrei voluto essere partito sul serio per la maledetta isola del tesoro, perché magari lì, sopra la X indicata sulla mappa, avrei trovato finalmente il mio posto. Silver tirò due o tre boccate di pipa e poi riprese a parlare: «Vedi, Jim, ora che ti trovi qui ti dirò come la penso. Ho sempre apprezzato in te il ragazzo di spirito, un ritratto di me stesso quando ero giovane e forte. Ho sempre desiderato che ti unissi a noi, per avere la tua parte e morire da gentiluomo. E ora, caro il mio galletto, ci sei! Il capitano Smollet è un gran marinaio, come ho sempre sostenuto, ma è troppo fissato con la disciplina. “Il dovere è dovere” dice lui, e ha ragione. Ma stai alla larga dal capitano. Per il dottore, poi, sei come morto. “Ingrato birbante”, ecco che cosa ha detto di te. Insomma, il suc-
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co della storia è questo: non puoi tornare dai tuoi amici perché non ti vogliono e, a meno che non t’imbarchi su un’altra nave per conto tuo, dovrai unirti al capitano Silver.»34 Lascio il libro sul tavolo, mi stendo sul letto, chiudo gli occhi. Sbaglio o Long John Silver è l’alter ego della mia assuefazione? Forse sono solo strafatto. Mi addormento.
34 Ibidem
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Capitolo 45
Vengo svegliato dal rumore dell’elicottero. Guardo fuori dalla finestra per cercarlo, ma vedo solo il cielo arrossato dal tramonto. Accendo la grossa televisione ultrapiatta, più per abitudine che per reale curiosità. Riempio il lavandino del bagno con l’acqua fredda e ci immergo il volto. Resisto in apnea finché i polmoni me lo consentono, poi tolgo il tappo e prendo fiato. Afferro un asciugamano e torno nella stanza da letto. La televisione è dotata di antenna satellitare ed è impostata per accendersi su Rai 1. Una scelta nostalgico-patriottica che non mi sarei aspettato dal Bibliotecario, ma forse è solo una casualità. A ogni modo mentre
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mi asciugo guardo lo schermo e vedo la Micra infilzata dentro il negozio delle M&M’s. Alzo il volume. «Continuano le indagini relative alla morte della turista italiana, uccisa durante una sparatoria avvenuta la scorsa notte nel centro di Londra. Le autorità inglesi non hanno ancora voluto rendere pubblica l’identità della nostra connazionale, ma hanno dichiarato di lavorare a stretto contatto con il governo italiano per catturare al più presto i responsabili. Ricordiamo che lo scontro a fuoco è avvenuto all’interno del negozio di una nota marca di dolciumi ed è costato la vita a un totale di tre persone. Nell’ultimo comunicato diffuso dalla Farnesina, il Ministro degli Esteri ha dichiarato di essere molto soddisfatto del lavoro svolto dalla polizia britannica. Alcune voci accreditate della stampa d’oltre Manica indicano come principale indiziato padre Keeran Malley, ex attivista dell’ira e possibile responsabile della sanguinosa sparatoria avvenuta, sempre a Londra, ieri mattina, nei pressi della stazione ferroviaria di King’s Cross. Scotland Yard non ha rilasciato dichiarazioni a riguardo.» Spengo il televisore, mi siedo sul letto. Il prete indagato per il nostro casino? Che abbiano collegato l’auto ritrovata con la sua parrocchia? Le mie congetture vengono interrotte da due colpi leggeri alla porta. Mr. Child entra con due buste cariche di vestiti nuovi. «Sua signoria è tornata da Londra e gradirebbe parlarle tra trenta minuti, nel suo studio.» «Quello di stamattina?» «Affermativo. Il mio collega l’aspetterà qui fuori e l’accompagnerà. Nelle buste trova dei vestiti della sua taglia e gli oggetti personali che possedeva al momento del… prelievo.» Strano modo di indicare un rapimento, ma sorvolo. Controllo le buste. Calzini, mutande, jeans, magliette, scarpe. E poi lo Zippo, il portafogli e il coltellino.
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«Non avevo anche un cellulare?» chiedo. Risposta negativa. Ringrazio e l’uomo esce dalla camera. Gli indumenti sono comodi, molto più nel mio stile rispetto al completo di prima. Non che indossandoli possa sentirmi a mio agio al cospetto del Bibliotecario, sia chiaro, però bisogna accontentarsi. L’abito farà anche il monaco ma i miracoli no di certo. E così, puntuale come uno svizzero ossessivo, sono di nuovo nello studio del Bibliotecario, seduto sulla stessa poltrona, con Eleonora ancora alla mia sinistra, l’editore dietro la scrivania, e la pistola appoggiata accanto alla sua mano, anche se questa volta appare meno minacciosa. Almeno per quanto possa sembrare poco minacciosa una pistola accanto alla mano di un criminale. «Papà», esordisce Eleonora, «io e Amleto dobbiamo parlarti.» «Certo, cara, ma forse è meglio che vi dica…» «No, papà, è importante. Lasciaci parlare.» L’uomo annuisce e la fa cenno di proseguire. «Quando ti ho proposto la mia idea tu l’hai reputata impossibile da realizzare. Ora sai che non è così. Miss Havisham e gli altri membri del The Pickwick’s Army hanno capito il potenziale del nostro libro; qualcuno potente è quasi arrivato a ucciderci pur di averlo. Di fronte a tutto questo devi ammettere di aver sottovalutato il progetto.» Non credo che costringere l’editore più pericoloso al mondo a confessare un errore sia una strategia furba, ma a dispetto dei miei timori il Bibliotecario si appoggia allo schienale della poltrona e alza le mani nell’universale gesto di resa. «Hai ragione. Sono stato superficiale nel valutare il tuo progetto.» Sospira. «E a causa di questo errore ho messo in pericolo la tua vita. Me lo ha fatto notare tua madre, ed è stata molto chiara esprimendomi il suo disappunto.»
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Eleonora rimane basita, in silenzio. Serve un mio colpo di tosse per ricordarle il motivo di quel colloquio. «Bene» quasi squittisce. Si schiarisce la voce e riprende. «Non penso che tu… sì insomma, sono io che sono andata in cerca dei guai, ma non è questo l’importante. Non ora.» Un bel respiro. «Aiutaci a completare il nostro progetto.» «È proprio per questo che vi ho convocati.» Scruto il volto dell’uomo in cerca di un segnale che tradisca il suo bluff, una contrazione involontaria delle ciglia, magari, oppure un tremolio delle labbra, ma la sua espressione appare sincera. Ha lo sguardo fermo, le rughe spianate. Anche Eleonora lo guarda, circospetta. Apre la bocca per ribattere qualcosa, poi rinuncia e rimane in silenzio. Il nuovo atteggiamento del padre l’ha colta in contropiede. Il Bibliotecario riprende a parlare. «Sono andato a Londra per tastare di persona il polso della situazione. Vi prego di interrompermi nel caso la mia logica vi appaia errata. Abbiamo bisogno di un piano che consideri due aspetti: dobbiamo pubblicare il libro e dobbiamo scoprire chi ha tentato di uccidervi.» Fissa la figlia negli occhi. «Voglio fare ammenda nei tuoi confronti e voglio ammazzare quel figlio di buona donna che ti ha messa in pericolo, per cui concedimi, te ne prego, l’uso del “noi” in questa esposizione. Giuro sulla mia stessa vita che non voglio appropriarmi dei vostri meriti.» Fondete Shakespeare, Don Corleone e Robert Redford e otterrete il Bibliotecario. Gli editori sono tutti flippati come questo pazzo? Rimpiango Lorenzo con i suoi discorsi di sesso & melanina. «Ho parlato con Emma», continua l’uomo, «e mi ha assicurato di non aver detto a nessuno del vostro viaggio a Londra.» «Sicuro che non menta?» chiedo.
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Sorride. «Non ho dubbi a riguardo.» Eleonora si allunga dalla poltrona e appoggia la mano sul mio braccio. «Tesoro, mio padre intende che la ragazza è stata torturata fino ad avere la certezza delle sue parole.» Merda! Eleonora prosegue, diretta al Bibliotecario. «Spero che tu non l’abbia uccisa.» «No, tranquilla. Avrà solo bisogno di qualche mese di fisioterapia per tornare a disegnare.» La mia espressione deve aver tradito il mio turbamento, perché il Bibliotecario volta lo sguardo dalla mia parte e aggiunge: «Nessuna lesione ai nervi. Recupererà l’uso completo delle mani». Beh, se sono stati così gentili da non danneggiare i nervi, allora tutto a posto, giusto? «Purtroppo», riprende l’uomo, «questo significa che non sappiamo ancora nulla su chi vi ha tradito. L’unica pista che ci resta da seguire è quella dei genitori di Amleto.» «No!» scatto. Il sopracciglio destro del Bibliotecario scala la fronte in un arco perplesso e ostile. Non ho avuto, non ho e con ogni probabilità non avrò mai un buon rapporto con mio padre e mia madre, ma consegnarli ai torturatori di Sua Atrocità, mi sembra esagerato. «Il tradimento dei miei genitori è una supposizione e… interrogarli sull’argomento potrebbe rivelarsi solo una perdita di tempo. Credo sia più utile scoprire chi è il mandante degli omicidi piuttosto che i traditori.» Eleonora si dichiara d’accordo, il padre si limita a stringersi nelle spalle. «Come volete.» Di niente mamma, di niente papà. Non c’è di che. «Senza prove o piste da seguire, però, è impossibile scoprire l’identità di chi vi vuole morti. Dovremmo inventarci un modo per stanarlo.»
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«Non con una guerra tra editori, papà.» «Ah, sì, viva la guerra, dico io; vale più della pace come il giorno vale più della notte: è viva, sveglia, pronta, piena di voglie; mentre la pace è una paralisi bella e buona, un letargo: è spenta, sorda, addormentata, non sente nulla; fa venire al mondo più bastardi di quanti sono gli uomini che la guerra porta via.35» Eleonora sbuffa. «Io e tua figlia saremmo un’esca perfetta» intervengo. Il sopracciglio dell’uomo riprende ad arrampicarglisi sulla fronte, sempre più arcuato, sempre più minaccioso. «Stai suggerendo di mettere a rischio la vita di mia figlia per ottenere la tua vendetta?» Merda! «Aspetta, papà, Amleto ha ragione. Chiunque sia la Grande Eminenza Grigia…» «Chi?» «Era il soprannome che Caterina aveva dato al mandante.» Serro la mascella. Udire il suo nome è doloroso, molto doloroso. «Scusa, tesoro, non volevo…» «Tranquilla, vai avanti.» «Insomma, chi ha messo una taglia su di noi non sa che sono tua figlia e non sa che ora siamo noi a dargli la caccia. Dobbiamo solo rimanere qui, al sicuro, ideare una buona trappola e farla scattare al momento più adatto.» «Quanto spesso la vista dei mezzi con cui compiere male azioni fa sì che vengano compiute!36 Va bene, fi-
35 William Shakespeare, Coriolano, Newton (1990), traduzione di Franco Fochi. 36 William Shakespeare, Re Giovanni, Newton Compton (2009), traduzione di Agostino Lombardo.
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glia, possiamo studiare un piano insieme, ma dovrà essere perfetto, la tua vita non deve essere in pericolo.» Eleonora risponde gelida. «Sono la figlia del Bibliotecario, la mia vita è sempre in pericolo.» «Hai ragione, ma non dirlo a tua madre, che poi si preoccupa.» L’uomo sospira, poi guarda l’orologio. «A proposito, credo la cena sia pronta ormai. Vogliamo raggiungere tua madre in sala da pranzo?» Si alza, subito imitato da Eleonora. Mi alzo anche io, ma ho ancora una domanda da porre. «Un momento, per favore» lo interrompo. «Quando ero in camera ho acceso la televisione e ho visto un servizio su quello che è accaduto la notte scorsa.» L’uomo annuisce. «Giusto, ragazzo, me ne ero dimenticato. Ho sistemato tutto, il corpo della tua amica sarà consegnato alla sua famiglia tra meno di una settimana. Sarà considerata una donna sfortunata capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nessuno farà riferimento alla sua professione e non verrà implicata nelle indagini.» «Grazie mille, lo apprezzo molto. Il giornalista, però, ha affermato che padre Keeran è indagato per l’accaduto.» «Sì, è esatto. Serviva un capro espiatorio ed è bastato elargire qualche sterlina per convincere alcuni poliziotti a trovare le prove che lo incriminassero.» «Ma questa città non è piena di telecamere? Lo dicono anche in Fast & Furious 6.» «Tu hai visto Fast & Furious 6, gioia?» chiede Eleonora. «Corso di mimetizzazione, un giorno ti spiegherò.» «Sì, certo, come no.» «A ogni modo», riprende il padre, «sembra che tutti i video di sorveglianza nelle zone e negli orari degli attacchi che avete subito siano andati perduti. E questo ben prima del mio intervento.»
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«Qualcuno ci vuole proteggere?» «Più probabile che qualcuno voglia proteggere se stesso.» Annuisco. «E quando cattureranno il prete? Lui farà i nostri nomi…» «Non succederà.» «E come fai a dirlo?» Eleonora si allunga verso il mio orecchio. «Darling, mio padre intende che padre Keeran è stato ucciso.» «Ah!» esclamo. Il Bibliotecario gira intorno alla scrivania e mi dà una pacca sulla spalla. «Se avessi lasciato in vita una persona che ha minacciato la nostra principessa, mia moglie mi avrebbe fatto dormire sul divano per il resto dei miei giorni.» Scoppia a ridere e si avvia verso la sala da pranzo.
PARTE QUARTA
Le fasi della riabilitazione dalla letteratura: — superamento dell’astinenza: la privazione di letteratura può causare nei libromani gravi crisi. Si consiglia di diminuire gradualmente la qualità delle letture per garantire un distacco progressivo dalla dipendenza; — disintossicazione da tutti i residui letterari: il reiterato abuso di romanzi può lasciare nella mente impulsi malsani come l’eccessiva proprietà linguistica tipica dei libromani. Solo eliminando questi inibitori della socializzazione il soggetto può liberarsi dalla dipendenza; — riabilitazione etico-sociale dell’individuo: per liberarsi dalla dipendenza è considerato necessario seguire dei corsi di orientamento che insegnino all’individuo come interagire in modo conforme con gli atri membri della società; — reintegrazione nella società come membro utile e valido. Programma della comunità di recupero “Federico Moccia” per libromani pentiti.
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Capitolo 46
Eleonora è seduta sugli scatoloni. Li ha sistemati in modo da creare una specie di gigantesco trono. E ora sta lì, schiena eretta, sguardo verso l’orizzonte, in attesa che io le scatti una foto con il cellulare nuovo, gentilmente offerto dal Bibliotecario. Nonostante i miei sforzi, il risultato non è un’immagine molto artistica. Intorno al trono si vedono porzioni di pavimento e pareti, tutte grigie, grezze, senza nemmeno una mano di vernice. I neon sul soffitto offrono un’illuminazione asettica, sparata su tutte le superfici senza armonia. Gli scatoloni sono dozzinali, con il nastro da imballaggio incollato male e la parola “Bibbie”
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scritta ovunque con grafia pessima. L’unico elemento bello dell’inquadratura è l’imperatrice improvvisata: ha i capelli corti pettinati all’indietro, un velo di trucco sul volto e un completo giacca-pantalone che mette in risalto il suo corpo atletico. «Come è venuta?» Mi stringo nelle spalle. «Non so. Non è che sia un posto molto epico.» «Dai forza, darling, fammi vedere.» Le passo il cellulare. Lei guarda la foto, sorride. «È perfetta, bravo.» «Mah! Sei solo tu seduta su degli scatoloni.» «Tesò, è simbolica! La conserverò gelosamente.» Sempre se sopravviviamo alla serata… Okay, ora vi spiego la situazione così potete comprendere il simbolismo della foto. Le pareti grigie e le lampade al neon appartengono a una stanza interrata della Battersea Power Station, gli scatoloni contengono le copie del “romanzo che salverà i romanzi” – stampate dalle “compagne” e arrivate come spedizione religiosa – e la mise di Eleonora, infine, è stata realizzata su misura da un sarto di Saville Row, per celebrare il debutto della ragazza nel mondo del crimine. Capite, ora? Scatoloni, trono, espressione regale… simbolismo spicciolo made in noia. Non possiamo uscire da qui, dobbiamo aspettare il… “segnale pattuito”, che è solo un modo cool per definire il “potete andare” che Mr. Child dirà nelle nostre orecchie attraverso i mini auricolari che indossiamo. Roba d’alta tecnologia che neanche James Bond si sognerebbe. Certo lui ha le penne laser nel taschino, il gas stordente nello smoking e l’emettitore di scoregge al napalm su per l’elegante fondoschiena britannico, però vabbè, accontentiamoci. In ogni caso, solo quando Mr. Child darà il via libera noi potremmo visitare la
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London Book Fair, che si sta svolgendo proprio adesso, sopra le nostre teste. Il piano è semplice: 1) lasciamo incustodita questa stanza: la chiudiamo con un lucchetto dall’aspetto robusto ma facile da scassinare, non mettiamo guardie a proteggerla; 2) giriamo per tutta la fiera: camminiamo nelle zone affollate e ci mettiamo in mostra, assicurandoci che tutti gli editori sappiano della nostra presenza; 3) Eleonora sparisce: finiamo la sfilata in una zona interrata simile a questa, dove la ragazza salirà sul suv corrazzato di Mr. Child e verrà trasportata in un appartamento sicuro, poco lontano da qui; 4) io divento l’esca: torno alla fiera, continuo a mettermi in mostra e aspetto che il pesce grosso abbocchi all’amo; 5) happy ending. La sequenza di eventi è stata pensata da Lisa, stratega-ufficio-stampa del Bibliotecario. In sostanza, questa ragazza è la responsabile delle comunicazioni che sua maestà l’Editore ha con il mondo esterno, e questo include anche trovare il modo migliore di fottere gli avversari. Dopo il viral marketing e il guerrilla marketing, ecco a voi il kill ’em all marketing. Suona efficace, speriamo che lo sia. Lisa si è presentata una settimana fa alla tenuta. È scesa dall’elicottero con passo deciso, senza nemmeno abbassare la testa per il vento dei rotori. Ray-ban a goccia con lenti a specchio, maglia attillata, jeans scoloriti, anfibi. «Perché l’entrata è tutto, mettetevelo in testa.» Parole sue, non mie. Si è seduta sulla poltrona del boss, ha incrociato i piedi sulla scrivania e ci ha intimato di raccontarle tutto, con dovizia di particolari. Ha ascoltato senza nemmeno muovere un muscolo. Poi ha annuito. Ha schioc-
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cato le dita in direzione di Mr. Child e ha dettato le cinque fasi del piano. L’analisi del problema è stata pragmatica, la spiegazione della soluzione efficiente. Parole a raffica, una dietro all’altra, come una sequenza d’ingranaggi che bramano l’azione. Poi si è alzata, ci ha lasciato il suo biglietto da visita, è risalita sull’elicottero e ha preso il volo. Ora dovrebbe essere dall’altra parte dei nostri auricolari, a monitorare e coordinare i nostri movimenti dall’appartamento sicuro che hanno trasformato in base operativa. Oltre a fornirci la sua press agent, il Bibliotecario si è prodigato a esaudire tutte le nostre richieste. Eleonora ha continuato a essere diffidente per qualche giorno, poi si è arresa all’evidenza. Mi ha “autorizzato” a fidarmi del padre, anche se mentre lo diceva non mi è parsa sollevata o felice. Solo preoccupata dell’ennesima possibile delusione. I dubbi però sono stati spazzati via dalla frenesia dei preparativi. E ora eccoci qui. La voce di Mr. Child ronza nel mio orecchio. «Potete andare.» Eleonora mi fa l’occhiolino e salta giù dal suo trono. «Emozionato, ciccino?» Guardo la fondina glitterata che le spunta dalla giacca aperta, e mi ricordo di Cate, e di Sara che non ha ricevuto nessun regalo gradito. Scuoto la testa. «No, solo concentrato.» Spegniamo le luci e chiudiamo le grosse porte di metallo alle nostre spalle. Lo scatto del lucchetto riecheggia nel sotterraneo. «Il vostro cacciatore», ci ha spiegato Lisa durante la preparazione, «ha dimostrato di essere ossessionato dal libro e da Eleonora. Dopo avere avuto entrambe le prede a portata di mano, passerà dieci giorni senza nemmeno annusare l’odore di un indizio. L’improvvisa
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comparsa dei suoi obiettivi lo renderà famelico, cieco, e non gli permetterà di vedere la nostra trappola che piomba su di lui.» Le note della musica di entrata rimbombano nelle nostre orecchie. Lisa ha insistito perché ne scegliessimo una, qualcosa capace di darci la carica e di regalarci l’atteggiamento giusto per il nostro ingresso nella Book Fair. Abbiamo scelto la canzone preferita di Caterina, Fucking in the Bushes degli Oasis. Guardo Eleonora. «Spacchiamo il culo a questi stronzi!» «Parole sante, tesoro.» We put this festival on you bastards with a lot of love we worked for one year for you pigs and you want to break our walls down? you want to fuckin’ destroy us? well you go to hell.37 Saliamo le scale, due gradini alla volta. È da dieci giorni che ci prepariamo a questo momento. Siamo pronti, determinati, cattivi. Siamo le star di questa fottuta fiera, siamo la tigre affamata scappata dal recinto, siamo gli angeli vendicatori pronti a consegnare il loro carico di piombo. Una porta a due battenti. Li spingiamo insieme. Ed ecco la sala turbine del blocco A. Camminiamo affiancati al centro del corridoio, i lettori defluiscono intorno a noi. Gli editori ci guardano. Questa sì che è un’entrata, cazzo!
37 Abbiamo organizzato questo festival per voi bastardi / con molto amore / Abbiamo lavorato un anno per voi bastardi / e ora voi volete buttare giù i nostri muri? / Volete distruggerci? / Beh, andate affanculo — Fucking in the Bushes, Oasis, 2000.
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Mimo un saluto militare verso Jim, poi accenno un inchino in direzione di Miss Havisham, a Sissy Jupe riservo il mio sorriso migliore. Eleonora, invece, non ne ha per nessuno. Procede a testa alta, sguardo fisso, sorrisino arrogante stampato sul volto. È il potere divenuto donna, il carisma trasformatosi in ragazza. Quando iniziano gli stand degli editori, rallentiamo il passo. Li guardiamo, ogni tanto ci avviciniamo. Vediamo solo libri di facile consumo. Roba scritta senza cura, creata per essere venduta e dimenticata. Passiamo oltre, lasciandoci dietro espressioni di compassione. Camminiamo in mezzo a greggi di lettori confusi, passivi, vogliosi di sballarsi e incapaci di pretendere qualcosa di meglio. Perché l’assuefazione logora, il bisogno di leggere è troppo grande. Lo so bene, potete scommetterci. Alcuni stand mettono in mostra finti scrittori dal petto depilato e dagli addominali scolpiti, altri scrittrici con tette rifatte e perizomi fluorescenti. Lo sballo erotico è l’ultima moda, e a quanto pare tutti si sono buttati a capofitto sui porno-book. Poi ci sono quelli che proclamano di vendere la nuova letteratura, riempiendo i testi di paroloni e pretendendo di essere considerati letterati, come se conoscere sette sinonimi di escrementi rendesse la loro merda profumata. Nessuna traccia delle Pony Women. Concediamo il nostro sdegno a tutti, senza riserve. «Continuate così, ragazzi, siete fantastici.» L’incitamento di Lisa arriva alle nostre orecchie mentre percorriamo i corridoi che uniscono i due blocchi della Power Station. È arrivato il momento di sfilare nella zona dedicata al digitale e la nostra DJ personale ci regala un’altra canzone per non far calare il flusso di adrenalina. La sua preferita, quella che fischietta quando ha bisogno di un’entrata a effetto. Metalingus degli Alter Bridge. La ragazza ha ottimi gusti. Aspettiamo l’attacco di chitarra, partiamo.
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Camminiamo al centro della sala, schiena eretta, petto in fuori. La nostra sicurezza brucia l’aria intorno a noi e toglie il respiro a chi tenta di parlarci. Nessuno deve provare a fermarci. Noi siamo quelli sulla bocca di tutti, noi siamo il vento nuovo dell’editoria mondiale. On this day I see clearly everything has come to life A bitter place and a broken dream And we’ll leave it all, leave it all behind On this day it’s so real to me Everything has come to life Another chance to chase a dream Another chance to feel Chance to feel alive.38 Il nostro ingresso nella sala turbine del blocco B attira l’attenzione come quello precedente. I lettori vaganti sono di meno, ma gli editori molti di più. I bassi costi del digitale hanno attratto un gran numero di investitori, per cui gli stand di questa zona sono più numerosi e più piccoli. A parte quello del Nordico, ovviamente. Come ci aveva anticipato Sissy Jupe, il blocco B è spartano, essenziale. I rivestimenti in legno sono stati sostituiti da piastrelle sbiadite, le decorazioni in ferro battuto da rifiniture funzionali in acciaio inossidabile. Non c’è poesia, solo estremizzazione dell’efficienza. Un ambiente perfetto per quella che chiamano letteratura 2.0. Superiamo stand semivuoti, dove ciarlatani in erba tentano di abbindolare i lettori sulle presunte proprietà
38 In questo giorno vedo chiaramente ogni cosa è diventata vera / Un posto amaro e un sogno spezzato / E lasceremo tutto, ci lasceremo tutto dietro / In questo giorno è così reale per me / Tutto diventa vero / Un’altra possibilità per inseguire un sogno / Un’altra possibilità per sentire / Possibilità per sentirmi vivo — Metanlingus, Alter Bridge, 2004.
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stimolanti del digitale. Passiamo di fronte a editori frustrati, che vendono libri un tanto al megabyte. Evitiamo scrittori che si auto-definiscono pionieri e affermano di aver scelto il digitale e non di esserci finiti per racimolare qualche spicciolo. Spacciano gli e-book, li chiamano frammenti di futuro, ma li preparano secondo le vecchie regole, brutte copie degli antenati cartacei e niente più. Eleonora si volta verso di me. «Il digitale deve essere sfruttato meglio» dice con tono alto. «Come può esserci innovazione senza lo sviluppo delle idee? La versione e-book del nostro romanzo segnerà una nuova era.» Io annuisco indossando la più spocchiosa espressione di cui il mio volto è capace. Voglio che il nostro nemico ci riconosca, o, nel caso non sia qui, che senta parlare di noi e ci raggiunga. Voglio che ci creda pronti a distruggere i suoi affari. «Un uomo disperato è un uomo avventato.» Parole di Lisa. Come evocata dai miei pensieri, la sua voce torna a farsi sentire nelle nostre orecchie. «Forza, ragazzi miei, manca solo l’ultima zona.» Usciamo dalla sala controllo e scendiamo verso la Boiler Room. Varchiamo la grande porta e ci troviamo nel paradiso dei lettori. Eleonora sorride come un neonato di fronte a una donna con tre tette, io… è strano, ma io penso ai miei genitori. Antonio e Clara piangerebbero di gioia guardando questo spettacolo. Perché nell’immensa Boiler Room della Battersea Power Station non ci sono editori, organizzazioni criminose o malviventi di qualsiasi genere. No, ci sono solo lettori. Libromani di ogni razza, nazionalità, sesso ed età, che scherzano, declamano paragrafi, discutono dei loro romanzi preferiti e si passano libri, come in un onirico pic-nic letterario. Nei punti ristoro, panini e bibite vengono venduti
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insieme a brevi citazioni famose, nella zona espositiva teche di vetro permettono ai visitatori di farsi le pagine del manoscritto originale de La storia infinita, e ai quattro angoli del locale comode chaise longue offrono la vista perfetta delle quattro ciminiere, dove le citazioni del capolavoro di Ende salgono a spirale per poi perdersi nella notte. Ci sono anche i tavoli per giocare a Scrabble, la mostra di segnalibri d’epoca e un percorso espositivo dedicato alle copertine. La letteratura satura l’aria e ti raggiunge a ogni sguardo, a ogni respiro. Vorrei che questo istante continuasse in eterno, vorrei condividerlo con tutti i lettori e mostrarlo a chi mi guarda ogni giorno come se fossi un derelitto. Vorrei immortalare questa scena e spedirla a tutto il mondo; sul retro un semplice messaggio: “Scendete dai vostri lettini solari e fatevi una cultura. I libromani stanno arrivando e cagheranno dentro le vostre teste vuote!”. Eleonora mi scuote per le spalle. «Dai, tesoro, dobbiamo andare.» «Scusa… mi ero perso nella contemplazione.» «Rimani concentrato ancora un po’. Finita questa faccenda ci facciamo una birra in quel chioschetto.» «Aggiudicato. Muoviamoci.» Terminiamo il nostro giro e scendiamo di nuovo nella zona interrata, dalla parte opposta rispetto a dove abbiamo lasciato i nostri libri. Mr. Child aspetta, come d’accordo, seduto al volante, il motore acceso. Lampeggia con i fari e attende. Eleonora sale sul sedile del passeggero. La macchina parte. «Ora tocca a te, Amleto» mormora Lisa attraverso l’auricolare. «Lo so.» «Il Bibliotecario ti manda un messaggio.» «Problemi?»
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«No, solo un consiglio. Fingi l’innocenza del fiore, ma sii il serpente che vi si appiatta dentro.39» «Ancora Shakespeare?» «Ovvio. Non ti piace?» «Se posso essere onesto… mi ha rotto un po’ i coglioni.»
39 William Shakespeare, Macbeth, Mondadori (2004), traduzione di Vittorio Gassman.
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Capitolo 47
Devo galleggiare nell’inerzia in attesa della mossa del predatore, non devo apparire sospetto. Non posso mettermi seduto in un angolo e aspettare di essere catturato. Devo comportarmi con naturalezza artificiosa. «Pensa come il nemico.» Parole di Lisa. Torno nel blocco A e raggiungo lo stand del The Pickwick’s Army. Quando abbiamo contattato Miss Havisham sul suo cellulare personale, la donna ha sfiorato il colpo apoplettico. L’abbiamo sentita boccheggiare per lo stupore e poi ringhiare furiosa minacce di morte. Tuttavia, sentendo la voce del Bibliotecario, i suoi sentimenti nei nostri confronti sono drasticamente cambiati.
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La mia assuefazione suggerisce cordiale e condiscendente. Ha garantito la massima collaborazione da parte di tutta l’organizzazione e ha addirittura proposto di piazzare telecamere microscopiche in ogni angolo della Battersea Power Station. Ne sto guardando una proprio ora, nascosta dentro il quadrante circolare di uno dei tanti pannelli di controllo presenti. Strizzo l’occhio e mi guadagno un «Non cazzeggiare!» dritto nell’auricolare. James mi saluta. «Good evening Hamlet, tutto bene? Dov’è Eleonora?» Il Bibliotecario, Lisa e perfino Miss Havisham hanno ritenuto prudente non raccontare agli altri Pickwicks della nostra strategia di caccia. Nessuno temeva una volontaria fuga di notizie, ma gente come il qui presente Scuotiossa non è adatta per mantenere segreti. Il buon vecchio James si è rivelato comunque un alleato prezioso per il nostro progetto letterario. La sua traduzione del “romanzo che salverà i romanzi” ha superato a pieni voti l’esame di Eleonora e anche quello di suo padre, che ha voluto darci il suo parere non richiesto. Non è difficile capire da chi Eleonora abbia ereditato la mania del controllo. «Sta sistemando le ultime cose» rispondo. «Siete emozionati per la presentazione?» «Diciamo che ancora non ci pensiamo.» «Non dovete essere nervosi. It’ll be great!» Sorrido, e gli mollo una pacca sulle spalle. «Great non è abbastanza per noi.» Scoppia a ridere e si allontana, pronto a rispondere alle domande di un paio di lettrici in cerca di sballo. La nostra presentazione è prevista per l’una di notte, l’ora di massima affluenza alla Book Fair, almeno secondo le stime di Miss Havisham. L’evento non è stato ancora annunciato. L’avviso ufficiale sarà il nostro ulti-
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mo asso nella manica, nel caso il bastardo non abbia il coraggio di agire. Dopo la presentazione tutto il mondo conoscerà il nostro lavoro, per cui se vuole fermarci, dovrà muoversi prima dello scoccare dell’una. Miss Havisham mi guarda da sopra la spalla di un grasso editore e mi indica di aspettarla un momento. Congeda con gentilezza il suo interlocutore e si avvicina. Mantiene un’espressione rilassata, ma sussurra in un inglese molto lento e facile da comprendere. «Tutto procede secondo i piani?» «Sì, signora. Sono in attesa della loro mossa.» «Molto bene. Dica pure a lei-sa-chi, che la consegna è stata ritirata.» «Non mancherò, signora.» Mi sembra di stare in un romanzo di John Le Carré, e sarebbe una situazione divertente, se non fosse che sto aspettando di essere rapito da un tizio pronto a torturarmi per cavarmi di bocca le informazioni che cerca. Questo non lo definirei divertente. Magari avventuroso, ma divertente? No, decisamente no. Lascio la sala di controllo e scendo verso la Boiler Room. Il numero di lettori è aumentato e camminare inizia a diventare problematico. Raggiungo le teche e mi metto in coda per leggere il manoscritto de La storia infinita. James ci ha spiegato che hanno deciso di spostarlo qui perché prevedevano una grande affluenza, e hanno avuto ragione. La fila è lunga, ma io non ho fretta e questo sembra un buon posto per mettersi in mostra. Sfodero il mio inglese claudicante per parlare con quelli che mi stanno intorno. C’è un tizio che conosce vita, morte e miracoli di Michael Ende. Commetto l’errore di sembrare interessato e mi sorbisco dieci minuti di lezione biografica. Non capisco quasi nulla di quello che dice. Poi una voce tra la folla.
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«Amleto!» Mi volto. A qualche metro da me, impegnato a farsi largo tra la gente, vedo Giacomo che sventola le mani e ripete il mio nome. «Amleto!» Lo raggiungo. «Giax, che cazzo ci fai qua?» «Beh, socio, potrei farti la stessa domanda.» «Io sono qua per divertirmi.» «Idem per me, socio. Ci sono anche Matteo e Luca… da qualche parte.» «Siete venuti tutti?» «Puoi scommetterci. Siamo atterrati ieri, pronti a sballarci per tutta la notte.» Come vedete, basta poco per mandare a puttane anche il piano meglio orchestrato. Come posso fare da esca con i miei amici che mi ronzano attorno? E se quella fottutissima Grande Eminenza Grigia capisce quanto tengo a queste tre benedetti imbecilli? Giacomo dice qualcosa. «Come, scusa?» «Ci facciamo una birra?» ripete. «Magari gli altri sono al bar.» Annuisco e lo seguo. La voce di Lisa non tarda a farsi sentire. «Liberati di lui.» «E come?» mormoro. «Inventati qualcosa o sono costretta a mandare Mr. Child a occuparsene.» «Okay, okay. Ci penso io.» «Hai detto qualcosa, socio?» Giacomo mi guarda, perplesso. «Dicevo che mi sembra impossibile averti incontrato qui» mento, ma non troppo. Ride e si fa largo verso il bancone. Si sporge verso il barista e ordina due pinte. Io rimango dietro di lui, fingo di lasciar spazio agli assetati e sfrutto il momen-
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to per guardarmi intorno. Nulla di sospetto o minaccioso. «Ecco a te. Brindiamo?» Alzo il bicchiere di plastica. «A Londra e alla Book Fair.» «Amen.» Beviamo e ci allontaniamo dal chioschetto. «Sei qui con la tua amica?» chiede Giacomo. «Quale amica?» Abbassa il tono. «Dai, socio, quella tipa, Eleonora. È qui con te?» Scuoto la testa. «No, non è qui.» La mia voce suona strascicata. Tossisco. «Prima di partire ho provato a chiamarti, ma il cellulare era sempre spento.» Anche la voce di Giacomo sembra allungata, come se provenisse da un vecchio walkman con le pile scariche. «… celluuularee eraa seeempree speeennnnto.» Che diavolo sta succedendo? «Ho perso il telefono» biascico. Lisa nell’orecchio. «Amleto, che cazzo ti prende?» Mi chino sulle ginocchia, cerco di prendere respiri profondi. Mi rialzo. Barcollo, perdo l’equilibrio. Giacomo mi afferra svelto per le ascelle. Si mette il mio braccio sopra le spalle e mi aiuta a camminare. «Tranquillo, socio. È tutto okay. Rilassati.» Brutto figlio di… e poi svengo.
Mi risveglio di botto. Urlando. Il cuore che batte all’impazzata. Legacci ruvidi mi scorticano polsi e caviglie. Cerco di strapparli, ma ottengo solo ferite più profonde. Non riesco a mettere a fuoco nulla, è come se le pupille rimanessero dilatate nonostante la luce. Chiudo le palpebre, le sbatto. Poco alla volta torno a vedere.
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Sono legato su una sedia, al centro di una stanza rotonda, sporca. C’è polvere dappertutto. No, non è polvere, è fuliggine. Guardo in alto. Sono dentro una delle quattro ciminiere. Merda! Un faretto è appoggiato sul pavimento e getta ombre lunghe sul perimetro di cemento. Oltre alla mia, quella di un altro uomo, Giacomo, con una siringa vuota tra le mani. «Che diavolo mi hai iniettato?» urlo. Schizzi di saliva volano nell’aria. «Calmo, socio, calmo. È solo un’eccitante per farti riprendere dal sonnifero.» «Nella birra, brutto stronzo. Mi ha messo un sonnifero nella birra!» Giax getta la siringa per terra, alza le mani. «Senti, lo so che sembra una bastardata…» «Sei tu che sei un bastardo! E anche quegli stronzi di Luca e Matteo.» «No, no, loro non c’entrano niente.» «Ti hanno accompagnato senza sapere nulla?» «Ma no, no, loro non sono nemmeno qua. L’ho detto solo per… beh, per fregarti.» «Brutto pezzo…» «L’ho fatto per il tuo bene. Lo giuro.» «Per il mio bene? Mi hai drogato e sequestrato per il mio bene?» «Sì, socio, esatto. Devi dirmi dove è Eleonora. Dimmelo, così possiamo tornare ad Ancona e dimenticarci di tutta questa storia.» «Dimenticarci di questa… Dimenticarci? Ma io ti ammazzo lurido verme schifoso. Ti ammazzo!» Tossisco. I legacci continuano a incidere la mia pelle. Cerco di prendere respiri profondi, di calmare il battito, ma il cuore sembra impazzito e la rabbia produce nuova adrenalina. «Amleto, quell’uomo è pazzo, okay? È ossessionato dalla tua amica e dal libro che avete scritto. Devi consegnargli la ragazza se vuoi sopravvivere.»
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«Fottiti!» «Usa la logica, per favore. Abbiamo trovato e bruciato le copie del romanzo, non potete più venderlo in questa fiera e non avete più carta o inchiostro per stampare ancora.» «Erano solo un’esca, idiota! Ci sono migliaia di copie nascoste in un posto sicuro e pronte a essere distribuite.» «Porca puttana, Amleto, ma non ce la fate proprio ad arrendervi? Non riuscirete a raggiungere il vostro obiettivo. È inutile illudersi. Dimmi dove sta quella troia, non fare lo stupido. Lui è disposto a torturarti fino alla morte, capisci?» «Lui chi?» «Ha davvero importanza?» «Certo che ha importanza, cazzo!» Scrolla le spalle. «Non posso dirtelo, socio, mi dispiace.» Serro la mascella. Devo trovare il modo di uccidere questo bastardo! Lo voglio vedere morto, cazzo! Prendo un respiro profondo. «Okay, hai vinto, ti dirò dove è Eleonora, ma prima devi spiegarmi come hai fatto a controllarci.» Giacomo mi guarda, scuote la testa, sorride dispiaciuto. «Socio, è inutile che prendi tempo. Ho trovato e distrutto l’auricolare, il microfono e il localizzatore che avevi addosso. Nessuno sa che sei qui. Non verranno in tuo soccorso.» «Cazzo!» «Già.» «Hai trovato solo un localizzatore?» Dalla tasca, tira fuori due aggeggini stretti e scuri. «No, ho trovato anche quello cucito nei pantaloni. Un posto astuto, ma l’ho trovato.» «Sei bravo.» Si stringe nelle spalle.
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«E del localizzatore che ho tra le chiappe che ne dici?» Ride. «Guarda che non sto scherzando. È tutta la sera che sto con il culo stretto per tenere quell’affare al suo posto. Hai trovato anche quello?» La sua sicurezza vacilla. È difficile esserne certi vista la luce sfavorevole, ma sono quasi sicuro che il suo colorito sia diventato più pallido della ciminiera che ci ospita. «Non può essere vero» mormora. «Temo di sì, socio.» «Ma come è possibile?» Va verso il faro, raccoglie un dispositivo da terra. «Ho controllato con lo scanner.» Viene verso di me, si abbassa per passare quel coso sul mio corpo. È troppo nervoso per mantenere le distanze. Scatto in avanti e gli do una testata sul naso. Sento il crack secco, accompagnato da urla strazianti. Giacomo impreca tenendosi il volto tra le mani. Piange mentre il sangue gli scorre tra le dita. Poi qualcosa alle mie spalle esplode, sollevando una nuvola di fuliggine. Fasci di luce perlustrano l’aria. Mr. Child e i suoi colleghi irrompono nella stanza, i completi eleganti sostituiti da uniformi tattiche. Imbracciano fucili d’assalto con torce elettriche fissate sulle canne. Circondano Giacomo, lo fanno inginocchiare, lo ammanettano e lo lasciano per terra, steso su un fianco. Due guardie lo tengono sotto tiro, mentre le altre si affrettano a liberarmi. Mi alzo, la testa è ancora pesante, il cuore ancora incazzato. Mi massaggio i polsi e mi avvicino allo stronzo. Lo guardo per qualche istante, piagnucola per il dolore al naso. Prendo la rincorsa, lo colpisco con un calcio all’addome. Il calcio più potente che abbia mai sferrato. Sono pronto a ripetermi ma qualcuno mi appoggia una mano sulla spalla. È Eleonora.
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«Non ancora, darling. Prima deve dirci un paio di cose.»
Chiariamo subito una cosa: non ho un localizzatore tra le chiappe. Non nego che potrebbe essere un nascondiglio ingegnoso, ma lo considererei troppo… invasivo. Liberi di pensarla come volete, ovviamente, ognuno ha i suoi gusti. In ogni caso, il punto è che ho bluffato: l’ho sparata grossa, ho cercato di abbassare la guardia dell’infame e di prendere tempo in attesa dei rinforzi. Le telecamere installate da Miss Havisham sono state più utili di qualsiasi localizzatore anale. Tengo questa verità per me, non la confido al sanguinante Giacomo. Voglio che abbia un’idea chiara di quello che sono disposto a sopportare pur di ottenere la mia vendetta. «Per quanto tempo ci hai spiato?» chiedo. Siamo ancora nella ciminiera, ma le parti si sono invertite. Ora Giax è sulla sedia, circondato dagli uomini di Mr. Child, mentre io sono in piedi di fronte a lui. «Era per proteggerti, socio, solo per proteggerti.» «Proteggere me?» «Sì, sì, te, certo.» «E da chi?» Alza il mento in direzione di Eleonora. La ragazza alza un sopracciglio e sogghigna. «Questa è bella, tesoro.» Colpisco Giacomo con un pugno. Fa male, cazzo. Intendo a me, non a lui. Possibile che i duri non sentano questo dolore? Ho tutta la mano in fiamme, merda! Mordo l’interno delle guance per restare impassibile e riprendo l’interrogatorio. «Basta stronzate. Raccontami la verità.»
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«Ma è la verità, lo giuro. Sei venuto da me con questa storia della casa editrice. Era troppo grande per te, pensavo che ti saresti fatto ammazzare. Così ho messo una microspia sul tuo cellulare.» «E quando lo avresti fatto?» «A casa di Luca, quando ci siamo incontrati.» Faccio mente locale. L’ultima volta che sono andato a casa di Luca era… cazzo, era prima dell’incontro con i romani! Questo stronzo mi ha spiato per tutto il tempo. Guardo Eleonora. «Antonio e Clara non c’entrano nulla. Questo verme ci ascoltava. Ecco come ha saputo di Fiabilandia.» Giax mi guarda sorpreso. «Sospettavi dei tuoi genitori, socio?» «Non chiamarmi socio!» Altro pugno, questa volta nello stomaco, molto più soffice. «Sono io che faccio le domande!» Gli lascio qualche momento per riprendere fiato. Annuisce. «A chi mi hai venduto?» «Non ti ho venduto» piagnucola. «Vi ho ascoltato mentre scrivevate e ho capito che quel libro ti avrebbe messo nei guai. Così ne ho parlato al mio capo. Vi voleva spaventare. Poi vi avrebbe offerto una somma generosa per il romanzo e tutti saremmo stati felici e contenti. Ma quella stronza ha tirato fuori le armi…» Questa volta il pugno parte da Mr. Child. Un colpo poderoso alla mascella. Nessuna smorfia di dolore. Sono una fottuta mammoletta. Da sotterrarsi. Con Giacomo sul libro paga, deve essere stato facile trovarci a Londra. Un paio di quelle menate da hacker per capire le nostre identità false, e poi ha solo dovuto seguire le tracce. Ma dopo che ci siamo nascosti da padre Keeran… «Hai tracciato la mia telefonata, non è vero?»
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Annuisce. «Quale telefonata?» chiede Eleonora. Mi volto verso di lei. «Quando me ne sono andato. Ero incazzato con te, volevo scoprire chi eri in realtà. E ho chiamato questo stronzo.» Mentre parlo capisco anche una cosa più importante. Rimango in silenzio, ammutolito dalla verità. «Cate è morta per colpa mia.» Eleonora dice qualcosa, ma la ragione ha già abbandonato il mio corpo. Mi avvento su Giacomo come una belva ferita, la furia che ulula e cerca di sovrastare il senso di colpa. La sedia si schianta sotto il nostro peso. Servono tre uomini per allontanarmi da quello che una volta consideravo un amico. Al telefono sembrava così naturale, il solito Giax, ma nel frattempo smanettava con i suoi algoritmi e trasformava il mio cellulare in un localizzatore. Il tempo di assoldare due killer, ed è partito l’assalto. Cerco di divincolarmi, non ci riesco. La presa degli energumeni è ferrea. Dicono qualcosa in inglese, una frase del tipo: «Calmati, ragazzo, non vogliamo farti del male». Sono costretto a seguire il loro invito. Eleonora fa cenno a Mr. Child di rimettere Giacomo in piedi. L’uomo lo solleva senza sforzo apparente. «Chi è il tuo capo?» chiede la ragazza. «Se te lo dico sono morto. Non posso.» Eleonora gli sussurra all’orecchio, non riesco a sentire cosa. Giacomo la fissa terrorizzato, si piscia nei pantaloni. Mormora un nome. «Più forte, ciccino.» «Il Nordico!» Un cenno del capo e le guardie trascinano Giacomo fuori dalla ciminiera. Rimaniamo solo io ed Eleonora, uno di fronte all’altra. «Abbiamo entrambi commesso degli errori nella gestione di questo progetto», dice, «ma né io né te siamo responsabili della morte di Caterina o di quelle dei passanti di King’s Cross.»
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Rimango in silenzio, la testa bassa. Lei si avvicina di un passo, mi prende il volto tra le mani, lo alza. «Il responsabile è ancora là fuori. Pensi che meriti di continuare a vivere?» La fisso, stordito e sempre più incazzato. «No.» Sorride. «Risposta esatta.» Mi prende sotto braccio. «Forza, andiamo a uccidere quello stronzo.»
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Capitolo 48
La voce di Sissy Jupe rimbomba dagli altoparlanti della Battesea Power Station: «Tra trenta minuti, nella Boiler Room la presentazione di ***, l’esordio letterario più promettente che la Book Fair ricordi. Accorrete numerosi.» Lisa ha deciso di anticipare la conferenza. Ha ideato una nuova strategia, che a quanto pare sta già funzionando. Il cellulare squilla nella mano di Giacomo. Lui lo osserva per un istante, poi alza lo sguardo verso la canna della pistola che ha di fronte. Deglutisce, strizza le palpebre, costringe i suoi occhi a mettere a fuoco il ragazzo incazzato che regge l’arma. Io.
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«Metti il vivavoce» sibilo. «Sai quello che devi dire.» Sentiamo il bip elettronico del tasto di risposta, subito seguito da una voce rauca, nervosa, con un difetto di pronuncia quanto mai ridicolo. «Aggiovnamento. Subito.» «Sì, s-s-signore, salve, signore, la stavo ch-ch-chiamando proprio ora…» «Non balbettave. Sbvigati.» «Ho… rapito il mio amico, signore. Non voleva parlare…» «Dove è la vagazza?» «Nello… nello scantinato sotto la Boiler Room, signore.» «Ben fatto. Ova spavisci.» Il Nordico riattacca, Giacomo quasi crolla a terra per il sollievo. Mr. Child prende il cellulare e lo schiaccia sotto il tacco dell’anfibio. «Sapete cosa dovete fare, state pronti!» ordina. La voce di Lisa arriva eccitata nelle nostre orecchie. «Si sta muovendo. Ripeto. Si sta muovendo.» La stanza si riempie di una frenesia ordinata ed efficiente. Siamo sul serio nello scantinato sotto la Boiler Room, un locale senza finestre, incassato nelle fondamenta dell’edificio. È stato usato dal The Pickwick’s Army come magazzino, ed è pieno delle cianfrusaglie d’epoca che hanno dovuto spostare per far spazio a stand, baracchini, bagni chimici e via dicendo. Al centro della stanza c’è Eleonora, che coordina i movimenti di Mr. Child e dei suoi tre colleghi energumeni. Accanto a lei, suo padre. Secondo Lisa la presenza del Bibliotecario non è prudente, ma l’uomo ha puntato i piedi e non ha voluto sentir ragioni. «Io non posso convincere mia figlia a rinunciare a questo folle piano e voi non potete convincere me ad abbandonarla in questo scantinato.» Non che Mr.
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Child l’avrebbe lasciata da sola, sia chiaro, ma sapete come sono fatti i padri apprensivi. A ogni modo, non sono più io l’esca per il Nordico. Non sono abbastanza succulento da spingere quello stronzo a muoversi in prima persona. Per uno come me basta uno sfigato qualunque come Giacomo. Ma se si tratta della ragazza che ha causato tutti questi casini… «Il Nordico ha lasciato il suo stand con quattro guardie del corpo» annuncia Lisa. Indico a Giacomo di spostarsi lontano dall’entrata. In un angolo c’è una specie di grosso cassonetto. Lo apro. «Entra qua dentro.» Giax si issa sul bordo, poi frana all’interno. «Guardami» dico. Lui volta la testa. Impiega un solo istante a girarsi, un istante lungo come una vita, quella di Caterina. Punto la pistola, sparo. Il boato riecheggia nella stanza. Le guardie si immobilizzano, il Bibliotecario ed Eleonora si gettano a terra, Lisa urla nei nostri auricolari. «Cosa è stato?» Alzo le mani sopra la testa. «Colpa mia. È partito un colpo.» Mr. Child mi raggiunge di corsa. Guarda dentro il cassonetto, osserva il buco sulla fronte di Giacomo. «Un colpo molto preciso» dice. «Già.» «Il traditore è morto» comunica l’uomo via radio. «Amleto devi attenerti al piano, cazzo» urla Lisa. Mi stringo nelle spalle. «Scusa.» Eleonora sorride, mentre suo padre appare molto meno rilassato. Mi fissa negli occhi per alcuni interminabili secondi. Non batte ciglio. Infine annuisce e torna a preoccuparsi dell’incolumità di sua figlia. Verrà un momento in cui assimilerò davvero tutto questo. Il tradimento di uno dei miei migliori amici, la
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sua complicità negli attentati, la sua esecuzione. Verrà un momento in cui realizzerò che ero un inserviente e mi sono trasformato in un assassino a sangue freddo. Ma non ora. Ora mi limito a rimanere immobile, nell’ombra, in attesa di completare la mia vendetta.
Eleonora è seduta su una scrivania di legno lucido, gambe incrociate, espressione impaziente. Ticchetta con le unghie sulla superficie rovinata, mentre l’unica lampada accesa nella stanza proietta la sua ombra sulla parete alle mie spalle. Io sono nascosto vicino all’entrata, dietro a un complicato pannello elettrico, pieno di valvole e interruttori. Non vedo nessuno degli altri, ma so che sono lì, in attesa, pronti a far scattare la trappola. «Ci siamo» sussurra Lisa negli auricolari. «Sono fuori dalla stanza, arrivano.» La porta viene spalancata con un calcio. Quattro uomini armati irrompono nello scantinato, subito seguiti da una figura bassa e tarchiata, il Nordico. Mai soprannome è stato meno appropriato. Eleonora si finge sorpresa, urla e si rannicchia dietro la scrivania, rinforzata con un lastra d’acciaio sul lato non in vista. Dovrebbe fungere da barriera antiproiettile, ma si rivela inutile perché nessun colpo viene sparato. I quattro uomini si avvicinano al centro della stanza, mentre il loro capo rimane indietro, gli occhi fissi sul suo obiettivo. «Vieni fuovi. È inutile nascondevsi.» È a questo punto che le luci del soffitto vengono accese. Mr. Child e i suoi uomini scattano fuori dai nascondigli, i mitra spianati e pronti a sparare. Si muovono con precisione, circondano gli avversari, intimano loro di mettere giù le armi e di arrendersi. Questi non si lasciano intimorire. Urlano a loro volta, non re-
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trocedono di un passo. Al primo proiettile sparato si scatenerà l’inferno. Il Nordico alza le braccia tozze verso il soffitto. «Calmi. Tutti calmi. Nessuno qua vuole movive.» «Dica ai suoi uomini di abbassare le armi» sbraita Mr. Child. «Non sono stupidi. Se lo fanno, muoiono. Lo sanno.» «Arrendetevi.» «Per fivmare la nostva condanna?» Un rumore dalla parte opposta della stanza attira l’attenzione di tutti. Un mobile viene spinto in avanti e da dietro esce il Bibliotecario, pistola in pugno. Guarda il suo avversario, scuote la testa. «Accetta il tuo destino, Nordico. Hai cercato di uccidere mia figlia, devi morire.» «Ti hanno infovmato male.» Eleonora esce dal suo riparo. «Stai dicendo che non sei qui per uccidermi?» «Tu sei sua figlia?» «La mia unica figlia.» «Non lo sapevo. Devi cvedevmi.» «Ignorantia legis non excusat.» Il Nordico mantiene la mani bene in vista. È un omuncolo viscido, più largo che alto, con radi capelli scuri e un velo di sudore che gli ricopre la faccia. Sembra un ratto di fogna, disposto a tutto pur di sopravvivere. Limita i suoi movimenti, ma trova comunque il modo di guardarsi intorno, di cercare anche la minima opportunità di salvezza. Dopo alcuni istanti di silenzio fissa gli occhi sul Bibliotecario. «Siamo uomini d’affavi. Possiamo tvovave un accovdo più vantaggioso pev entvambi.» «Eri disposto a uccidere la mia principessa. Non possono esserci accordi.» «Capisco la tua vabbia. È legittima. Anche io sono padve. Se avessi saputo che eva tua figlia l’avvei lasciata
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stave. Ma ho fatto molte vicevche. Nessuno conosceva la sua veva identità» Il Bibliotecario serra la mascella e annuisce. «Su questo dici il vero.» Il bastardo vede uno spiraglio e ci si getta a capofitto. «Lasciami vimediare al mio evvove. La mia movte ti davebbe solo vendetta. Puoi guadagnave molto di più da questa situazione.» «Parla.» «Immagina cosa potvemmo fave io e te insieme. Non più vivali ma alleati. Contvolleremo tutto: il cavtaceo e il digitale, la tvadizione e l’innovazione.» «Io non tratto quelle cose sintetiche.» Il Nordico fa una smorfia di rammarico, ma non demorde. «Vispetto le tue idee, ma non puoi negave le potenzialità della lettevatuva digitale. Insieme dominevemo il mevcato, e la mia attuale posizione di svantaggio vevso te e tua figlia potvebbe gavantivti numevosi benefici nella tvattativa.» Il Bibliotecario mantiene l’espressione glaciale, ma la canna della sua pistola si abbassa verso il pavimento. «Possiamo parlarne.» Scatto in piedi, mi faccio avanti. «Che storia è questa?» Eleonora mi dà man forte. «Non erano questi i patti.» Il padre la guarda, si stringe nelle spalle. «Figliola, io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte.40 Sono un editore, non un cavaliere di nobili ideali. Devo pensare ai miei affari.» «Questi sono i miei affari!»
40 William Shakespeare, Il mercante di Venezia, Newton (1990), traduzione di Paola Ojetti.
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«È ora di crescere, ragazzina.» A quelle parole il tempo si ferma. L’istante si dilata, i secondi diventano ore. Tutto accade al rallentatore. Vedo le canne dei mitra rivolte verso il pavimento. Vedo l’accenno di un sorriso sul volto del Nordico. Vedo il cassonetto dove giace il cadavere di Giacomo. Vedo Caterina, sorridente, incazzata, maliziosa e infine esanime, tra le mie braccia. E poi vedo Eleonora, lo sguardo deciso, il braccio che si alza impugnando la pistola, le nocche bianche strette attorno al calcio, il dito che si contrae sul grilletto. So quello che si aspetta da me. Smetto di pensare. Agisco. Spariamo nello stesso istante. Io faccio esplodere il petto del Nordico, lei la testa del Bibliotecario. I loro cadaveri precipitano sul pavimento, sussultano. E poi si scatena l’inferno. Mi getto rapido dietro a un armadio di legno. Le schegge volano sopra la mia testa. Rimango piegato, e striscio veloce verso un pannello di metallo. Le raffiche dei mitra sono assordanti. Solo le urla dei feriti riescono a sovrastarle. L’aria si riempie della puzza di sangue e cordite. Qualcosa colpisce il mio riparo. Lo fa oscillare. Mi sposto di lato e scivolo dietro un tavolo rovesciato. Alla mia sinistra, a circa cinque metri, c’è la porta d’ingresso. A destra, dietro a una catasta di non riesco a capire cosa, c’è Eleonora. Tiene la testa bassa, è bloccata da una pioggia di proiettili. La chiamo, le faccio cenno di raggiungermi. Conto con le dita. Uno, due, tre. Mi alzo e svuoto il caricatore della mia pistola. Non miro, sparo e basta. Le raffiche contro Eleonora si interrompono. Lei scatta, mi raggiunge e si rannicchia accanto a me. «Grazie» mormora. Indico la porta. «Come la raggiungiamo?» «Corriamo.» «Più veloce dei proiettili?»
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«Certo, tesoro. Usciamo da qui e andiamo a berci una birra al chioschetto.» Annuisco. «L’ultimo che arriva paga da bere?» Strizza l’occhio. «Andata.» Schizziamo via dal nostro riparo e corriamo verso la porta. Non abbiamo armi per proteggerci, solo una disperata voglia di vivere. I proiettili sibilano intorno a noi. Alzano nell’aria schegge di legno, frammenti di cemento e scintille. Corro per tre quarti del tragitto, poi mi butto in avanti e scivolo fuori dalla stanza. Rotolo su me stesso e mi volto per guardare Eleonora. Non c’è. Cerco di tornare indietro, ma l’ennesima raffica mi tiene lontano. Mi appiattisco contro il muro esterno e cerco di sbirciare nella direzione in cui eravamo nascosti. All’inizio non vedo niente, poi riconosco i suoi piedi. Sbucano fuori da dietro uno schedario di ferro, immobili. Il sinistro calza ancora la scarpa elegante, l’altro è nudo, un rivolo di sangue scende lentamente verso le dita smaltate. Boccheggio. Il mio stomaco viene squassato da conati di vomito. Cerco di chiedere aiuto tramite il microfono, ma dall’auricolare mi giunge solo il crepitio dell’elettricità statica. Mi tolgo tutti quegli aggeggi inutili e scappo lontano dallo scantinato.
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Capitolo 49
Sbuco tra i tavoli di Scrabble correndo come un indemoniato, ma i giocatori sono troppo impegnati nelle loro partite per notare la mia presenza. Il posto è così pieno di lettori da rendere impossibile camminare, si può solo scivolare tra un corpo e l’altro. Devo uscire dalla Battersea Power Station. Non so dove andare, ma non posso restare qui. Devo fuggire. Mi intrufolo nella folla e cerco di spingermi verso l’uscita. Lotto per alcuni minuti, tra il sudore, l’alito pesante e i vaneggiamenti letterari degli sballati. Resisto finché dura l’effetto dell’adrenalina, poi mi piomba addosso
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un’improvvisa spossatezza e raggiungere l’esterno diventa un’impresa ancora più disperata. Smetto di sgomitare e mi lascio trasportare dalla folla, sperando di recuperare le energie. La massa umana sta confluendo verso il palco principale, dove una raggiante Miss Havisham sta presentando un libro, il nostro libro. È stata un’idea di Eleonora. La conferenza doveva iniziare all’ora prestabilita, anche se non fossimo arrivati in tempo. Non mi ha spiegato perché. Forse prevedeva che la situazione sarebbe degenerata e si è voluta assicurare che il romanzo venisse distribuito ugualmente, o forse si era solo convertita alle teoria del marketing di Lisa, e sperava di fare un’entrata a effetto durante la presentazione. Più probabile la seconda. Al pensiero mi viene da sorridere, l’ennesimo sorriso triste di questi giorni. «La London Book Fair è orgogliosa di presentarvi l’esordio letterario di una giovanissima editrice italiana. Lei è qui, da qualche parte, e se volesse unirsi a noi saremmo onorati di ospitarla su questo palco, ma nel frattempo è per me un vero piacere e un onore aver la possibilità di parlavi di ***, il romanzo che cambierà per sempre le nostre vite.» Un mormorio di sorpresa si diffonde tra la folla. I libromani sono una razza curiosa e il desiderio di saperne di più monta dentro la testa di tutti i presenti. Confesso che anche io, se non lo conoscessi già a memoria, sarei diventato curioso dopo un simile preambolo. Ora, invece, sono solo stanco. Sento la donna riassumere ed elogiare l’intreccio del romanzo, e decido di aver riposato fin troppo. Riprendo a farmi largo tra la gente, che nel frattempo si è ammassata ancora di più. Raggiungere l’uscita è un’utopia. Qualcuno alla mia destra urla, non capisco cosa, non mi interessa. Poi l’urlo si ripete. Un nome. Pronunciato più volte, a gran voce. Le persone intorno a me iniziano a guardarmi. Uno mi tocca la spalla. «Are you Hamlet?»
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«No, hai sbagliato persona» rispondo in italiano. Ma quello non demorde e mi fa cenno di voltarmi. Dietro di me c’è un gruppetto di persone che sorride, dice qualcosa in inglese e indica il palco. Sissy Jupe mi saluta. Scuoto la testa e cerco di scappare lontano, ma i libromani si stringono intorno a me, mi spingono verso Miss Havisham. Mentre attende il mio arrivo, la donna mi presenta come uno degli autori del romanzo. Sorride e mostra tutto il suo orgoglio, ma quando sono sotto il palco nota la mia riluttanza a partecipare e il sorriso le si congela sul volto. Ma ormai è troppo tardi. Sono in piedi accanto alla presidentessa. La folla rumoreggia e applaude in mio onore. «Tutto bene?» chiede. «Non proprio.» Scuotiossa ci raggiunge trafelato. «Eccomi Hamlet, traduco io per te.» «No, Jim… io… io non…» Il palco è circondato da libromani in attesa delle mie parole. Nessuno cerca di inseguirmi, nessuno mi punta addosso un mitra o una pistola. «Amleto, ormai sei qui, devi dire qualcosa» sibila Miss Havisham continuando a fingere di sorridere. «E cosa?» «Qualsiasi cosa. Parla del libro.» Vorrei poter volare via da qui, librarmi in aria e sfrecciare nel cielo accanto alle ciminiere. Mentre seguo il mio sogno, alzo la testa e fisso la parole di Michael Ende. Sorrido e riabbasso lo sguardo. Mi guardo attorno e vedo solo lettori. Sono circondato da gente che condivide la mia passione, la mia dipendenza e i miei problemi di sopravvivenza. Di fronte a loro non devo fingere, non devo mimetizzarmi. Di fronte a loro posso essere me stesso, posso sentirmi normale. Per la prima volta in vita mia non vorrei essere in nessun posto diverso da questo. Ma poi comprendo che questo
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breve istante di normalità è costato troppo caro, e il sollievo ridiventa fantasia. Apro la bocca, riesco a emettere solo un rantolo secco. «Devo bere qualcosa.» James si guarda intorno e chiede a un ragazzo della prima fila se può passarmi la sua birra. Quello me la cede tutto contento, se ne fa passare un’altra da un amico e alza il bicchiere per brindare. Penso a Eleonora. “Certo, tesoro. Usciamo da qui e andiamo a berci una birra al chioschetto.” I suoi piedi immobili sul pavimento. La cerco nella folla. Non c’è. «Hamlet, che succede?» Mi volto verso Jim. «Niente, perché?» «Stai piangendo.» È vero, sto piangendo. «L’emozione» mormoro. Scolo metà della birra in un sol sorso. Alla tua. «Non sono molto bravo con i discorsi», dico al microfono, «preferisco leggerli… e scriverli.» Applausi e fischi di apprezzamento. «Questa sera celebriamo Michael Ende e il suo capolavoro, La storia infinita. C’è qualcuno che non se lo è fatto di recente?» Un coro compatto di “no” come risposta. «Lo immaginavo. Tutti i lettori vorrebbero diventare i protagonisti della storia che stanno leggendo, proprio come accade a Bastiano, ma sono convinti che non possa accadere. La pensate così anche voi, giusto? Vi sbagliate. Siete voi i protagonisti di quello che leggete, siete voi a provare rabbia, tristezza, gioia, compassione; voi a rendere immortale un romanzo. Senza i lettori i libri non sono che cumuli di parole sprecate. Masturbazione letteraria.» Miss Havisham si irrigidisce accanto a me, James si imbarazza a dover tradurre certe parole, ma il pubblico apprezza, applaude.
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«L’idea alla base del nostro romanzo», continuo, «è proprio questa: a chi appartengono le storie? I lettori devono riprendere il controllo della letteratura. Basta pubblicare pensando ai guadagni, basta pubblicare ciò che è facile vendere. I romanzi devono essere creati pensando ai lettori!» L’ovazione che segue è esaltante. Non so se gli errori commessi potevano essere evitati, non so se il progetto poteva essere organizzato meglio, non so se esisteva un modo più efficiente per realizzarlo. Sono molte le cose che non so, in effetti. Ma ho una certezza. Tutto quello che abbiamo sopportato, tutto quello che abbiamo sacrificato, è stato fatto per questo momento. Questo preciso istante in cui centinaia di migliaia di lettori prendono coscienza della loro importanza. Guardo ancora una volta, l’ultima, verso la zona Scrabble. Cerco Eleonora, vorrei avere la sua benedizione su quello che sto per fare, ma lei è il Deus Ex Machina. Arriva, sconvolge la storia, e poi sparisce. «Un’ultima cosa» riprendo. «Ognuno di voi ha diritto a una copia omaggio nel nostro libro!» Miss Havisham geme, sorpresa. James rimane interdetto, non sa se tradurre o meno. Gli indico di farlo e la folla approva con un’ovazione. Alzo una mano per richiedere un altro momento di attenzione. Devo aspettare alcuni minuti per averlo. «Questo libro è dedicato a voi che siete a questa Book Fair, ma anche a tutti i lettori che sono là fuori, da ogni parte e che magari in questo momento stanno leggendo di nascosto, preoccupati di non farsi scoprire. Leggere non deve essere un crimine, leggere non deve essere una rarità. Leggere deve essere la norma, la conditio sine qua non, lo standard. Noi siamo libromani, e siamo fieri di esserlo!» Alzo la birra verso la folla, bevo, sorrido.
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Jim mi fa i complimenti per il discorso, Miss Havisham non è molto d’accordo, ma nasconde le sue idee dietro il solito sorriso di facciata. Indica agli altri Pickwicks di salire sul palco con le copie del romanzo che salverà i romanzi, e chiede loro di iniziare a distribuirle al pubblico. Sfrutto la confusione e mi defilo. Lentamente, ma senza intoppi, raggiungo l’uscita. Dopo la bolgia della Boiler Room, l’esterno della Battersea Power Station appare desolato. La notte è buia. Lancio un’ultima occhiata alle ciminiere bianche. Osservo le citazioni. Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta.41 No, basta storie, è ora di tornare a casa. Saluto la vecchia centrale elettrica e mi lascio alle spalle la London Book Fair. Spero che le ragazze siano fiere di me.
41 Michael Ende, La storia infinita, Longanesi (1981), traduzione di Amina Pandolfi.
EPILOGO Erra chi dice che le lettere guastano è cervelli degli uomini, perché è forse vero in chi l’ha debole; ma dove lo truovano buono, lo fanno perfetto; perché el buono naturale congiunto col buono accidentale fa nobilissima composizione. Francesco Guicciardini
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Sono passate cinque settimane dalla notte della Book Fair, tre mesi dal primo incontro con Eleonora, proprio qui, nel reparto Cacciaviti & Martelli. Un bambino ha vomitato contro lo scaffale delle mazze. Questi mocciosi non hanno più nemmeno l’educazione di vomitare sul pavimento. La mia assuefazione suggerisce villania e tracotanza. Il funerale di Caterina si è tenuto in una chiesa di Ancona. Non mi hanno detto quale. Ho saputo che c’erano tantissime persone. Io no. Ero ancora a Londra. Sara mi ha chiamato, più di una volta. Non ho risposto. Prima o poi troverò il coraggio di andarla a trovare, ma ancora
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non ce l’ho fatta. Ho paura di quello che vuole dirmi. Se mi chiedesse spiegazioni, non sopporterei di rivivere quello che è accaduto; e se provasse a convincermi che la morte di Cate non è stata colpa mia, potrei crollare. Il ritorno alla vita normale non è stato semplice. Il mio equilibro è precario. Ma forse sono solo scuse, forse la verità è che ho paura di vedere il dolore di un amore spezzato. Sono andato al cimitero. Le ho portato dei fiori. Mi avrebbe preso in giro per quel pensiero, avrebbe detto che per riuscire a portarla a letto ci voleva ben altro. Mi sono messo a ridere come un idiota tra i sepolcri. Ma ridere da solo non è stato divertente. L’hanno tumulata in un loculo. Vedere la sua foto e il suo nome su quella lapide è stato straziante. Hanno scelto un’immagine molto casta. Non le sarebbe piaciuta. No, decisamente no. La cosa più paradossale è che Caterina ha continuato a vegliare su di me anche dopo la morte. Quando ho lasciato la Book Fair avevo solo il portafoglio, con dentro cinque sterline e un documento falso. Poi mi sono ricordato del piano B. Ho aspettato l’alba, vagando per le strade di Chelsea, e quando i negozi hanno aperto ho speso il mio capitale in un Internet Point gestito da pakistani. Mi sono connesso al servizio cloud e ho letto le istruzioni lasciate dal mio angelo custode. Il numero di un armadietto nel deposito bagagli di Liverpool Street, un codice per aprirlo. Nient’altro. È stata una lunga camminata. Dentro ho trovato alcuni passaporti falsi con le nostre foto, una bella mazzetta di sterline e il numero di un pilota privato. Pagamento anticipato, nessuna domanda, controlli minimi. Siamo atterrati in un piccolissimo aeroporto sulla costa atlantica della Francia. Da lì mi sono spostato in treno. Il mio appartamento era identico a come lo avevo lasciato. Non sembrava fosse passata nemmeno un’ora
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dalla mia partenza. Quasi per forzarmi a tornare a una routine tranquilla, mi sono seduto al tavolo e mi sono connesso a Internet con il portatile. Nel mio account di posta elettronica c’erano una serie di e-mail spedite da Luca e Matteo. Erano preoccupati per l’improvvisa scomparsa di Giacomo. Prima o poi dovrò raccontare loro tutta la storia. O forse no. Sono tornato a lavorare al supermercato del bricolage. Il capo ha fatto lo stronzo e mi ha assunto con un contratto di prova. Dice che ho dimostrato di essere inaffidabile e che devo riconquistare la sua fiducia. Mi paga meno di prima. Se sapesse quello che ho combinato ci penserebbe due volte prima di fare il gradasso. Non ho più avuto informazioni su Eleonora. Mentre aspettavo un treno in una stazione francese ho visto un servizio del notiziario di TF1. Inquadravano una squadra della polizia inglese che estraeva cadaveri dalla Battersea Power Station. I corpi erano chiusi in sacchi di plastica nera. Ho provato a chiedere a un controllore se mi poteva tradurre quello che dicevano nel servizio, ma ho ottenuto solo un “fanculo” in francese. Certe espressioni non hanno bisogno di essere tradotte. Il nostro libro, intanto, si sta diffondendo in tutto il mondo, almeno a quanto dicono Antonio e Clara. Prima di tornare a lavoro ho trascorso alcuni giorni a Fiabilandia. Le disavventure di Londra mi hanno spinto a guardare i miei genitori sotto una luce diversa, più benevola. Ho sempre pensato che mi avessero condannato a una vita da reietto, ma vedendo tutti i partecipanti della Book Fair ho capito che mi hanno regalato un lasciapassare per la comunità più interessante e internazionale del mondo: i libromani. Antonio e Clara mi tengono aggiornato sugli avvistamenti del “romanzo che ha salvato i romanzi”. Partendo da Londra si è diffuso in tutta la Gran Bretagna, e poi anche negli Stati Uniti e in Australia. Qualcuno
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lo ha tradotto anche in francese, tedesco e spagnolo. In Italia non si legge altro. Dicono che è la pietra miliare di una nuova era editoriale. Spero non siano tutte cazzate. Carico sul carrello tutti gli oggetti anche solo sfiorati dai succhi gastrici del bambino, poi spruzzo litri di disinfettante sullo scaffale e strofino via i resti del pasto non digerito. Per eliminare la puzza ci vorranno una decina di lavaggi con questo detersivo al pino selvatico. Per il momento gli odori si mescolano e sembra che un bambino abbia vomitato in una foresta. Rivoltante. L’altoparlante annuncia che le casse stanno per chiudere e che i clienti sono pregati di avvicinarsi alle uscite. Per noi inservienti è il segnale dello sciogliete le righe. Spingo il carrello fino al magazzino e lo svuoto dentro una vasca di sterilizzazione improvvisata. Domani dovrò passare tutta la mattina a pulire una mazza dopo l’altra. Sono troppo stanco per star dietro ai vostri doppi sensi, grazie. Per quanto ne so la mia Alfa 146 è ancora nel magazzino segreto di Caterina. Non ho ancora avuto modo di controllare. Farlo vorrebbe dire parlare con Sara e, come vi ho detto, non sono ancora pronto. In questi giorni mi sposto con i mezzi pubblici. La fermata è poco distante dall’uscita del supermercato. La raggiungo in cinque minuti. Per mia fortuna sono l’unico ad attendere l’autobus, per cui tiro fuori il tascabile de La storia di Lisey, di Stephen King e mi faccio un paragrafo. Quindi, invece di dirle che finché c’è vita c’è speranza, o esortarla ad affrontare le contrarietà con un sorriso, o rammentarle che il buio era sempre più intenso prima dell’alba, o una delle altre mille cose appena cascate fuori dal culo del cane, la tenne semplicemente tra le braccia. Perché in certi momenti abbracciare una persona e basta è quanto di meglio. Era una delle cose che aveva insegna-
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to all’uomo del quale aveva assunto il cognome: che certe volte è meglio stare zitti; certe volte era meglio chiudere l’imperitura boccaccia e resistere, resistere, resistere.42 Finisco di leggere e scorgo l’autobus in fondo alla strada. Lo maledico per la puntualità e nascondo il libro nella giacca. Salgo sul mezzo con le frasi di King che mi ronzano in testa. Non ho avuto il tempo di assaporarlo con la dovuta calma, ma il suo significato mi è rimasto impresso nella mente. Ci penso e ripenso per tutti i quaranta minuti di viaggio che mi riportano a casa. E poi ancora mentre salgo le scale del mio palazzo. Forse è arrivato il momento di chiamare Sara, dopotutto. Apro la porta dell’appartamento e mi paralizzo sull’uscio. Sul tavolo del soggiorno c’è una grossa borsa nera, e sopra di essa un pacchettino bianco con un fiocco rosso. Mi guardo attorno. Non c’è nessuno. Chiudo la porta e controllo tutte le stanze, il cuore in gola. Niente di anomalo. Solo quella borsa, e quel pacco. Mi avvicino. Sollevo la scatola bianca. È troppo piccola per contenere una bomba? No, è proprio della dimensione giusta, mi sa. Slego il fiocco, tolgo il coperchio. Dentro c’è il libro, il nostro libro, in un’edizione rilegata di ottima fattura. Lo estraggo, lo tengo in mano. È pesante. Sfoglio veloce le pagine mentre ne annuso l’odore. Buonissimo. Carta spessa, costosa. Osservo la copertina, un’immagine elegante unita a un lettering molto ricercato. In basso a destra c’è la firma della grafica, Emma. È un piacere sapere che è tornata al lavoro. Nella prima pagina c’è stampata una dedica: a Caterina, il nostro angelo custode.
42 Stephen King, La storia di Lisey, Sperling & Kupfer (2006), traduzione di Tullio Dobner.
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Tengo a bada il groppo in gola e appoggio il libro sul tavolo. La borsa è pesante, la apro. Dentro ci sono soldi, tanti soldi. Tutti quelli pattuiti nell’accordo con Eleonora. Ma c’è anche qualcos’altro, un biglietto, appoggiato sopra le mazzette di banconote. “Ti devo una birra, tesoro. Il Bibliotecario” Una piccola risata mi risale il petto prendendo vigore a ogni respiro, poi esplode fuori dalla mia bocca, e mi ritrovo a piangere per il divertimento. A quanto pare certi titoli sono ereditari. Sto per mettere via il biglietto quando mi accorgo che dall’altra parte c’è un post scriptum: Ti passo a prendere domani alle undici, dobbiamo scrivere un altro libro. Che gran figlia di…
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LINEA DEL TEMPO
1967: nascita dell’Anti-literature movement; 10 e 11 maggio 1968, Parigi: nel Quartiere Latino scoppiano gravi incidenti tra la polizia e gli studenti delle università di Nanterre e della Sorbona. I No-Lit si schierano a favore della polizia; Novembre 1968: l’Anti-literature movement invia una lettera aperta a tutte le maggiori testate internazionali comunicando i loro intenti e il loro manifesto. Nessuna redazione pubblica il materiale; 11 dicembre 1969, Italia: la legge 910 liberalizza l’accesso all’università a tutti gli studenti delle scuole superiori e non solo a chi ha frequentato il liceo: è la cosiddetta “Università di massa”. I No-Lit organizzano una protesta contro la legge; 4 maggio 1970, Stati Uniti: nel campus della Kent State University in Ohio, durante una protesta, la Guardia Nazionale degli Stati Uniti apre il fuoco sui dimostranti. Quattro studenti vengono uccisi. I No-Lit si schierano a favore della polizia; 4 maggio 1970, Stati Uniti: nello Stato del Mississippi la dura protesta degli studenti della Jackson State University viene interrotta dall’intervento della polizia. Al termine degli scontri si contano due vittime tra i di-
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mostranti. I No-Lit si schierano ancora una volta a favore della polizia; 30 dicembre 1975, Italia: approvata la legge 685 sugli stupefacenti: viene stabilita una distinzione tra spacciatore e consumatore, e poi tra droghe leggere e “droghe pesanti”. I No-Lit chiedono che la legge sia ampliata alla Letteratura ma vengono ignorati; 11 febbraio 1978, Cina: viene proibita la lettura delle opere di Aristotele, Shakespeare e Charles Dickens. I No-Lit spediscono una nuova lettera alle principali testate internazionali e propongono a tutti i governi del mondo di imitare l’esempio cinese; 18 novembre 1978, Jonestown (Guyana): i seguaci del reverendo Jones commettono un suicidio di massa. Sfruttando al meglio i media (compresa la neonata Internet) i No-Lit evidenziano il problema del condizionamento di menti deboli e lo associano al consumo sfrenato di letteratura. Alcuni notiziari riportano il messaggio del movimento e nasce il primo dibattito sull’argomento; 1980: i No-Lit si scagliano contro il caso editoriale del momento, La storia infinita, e accusano Michael Ende di voler plagiare le nuove generazioni. L’opinione pubblica si divide; 1980-1988: i No-Lit condannano la produzione di film e album musicali ispirati dai libri. Tra i primi vengono presi di mira Il nome della rosa (1980), accusato di essere storicamente poco attendibile, Rambo (1982), considerato troppo violento, e La storia infinita (1984), la cui produzione cinematografica viene boicottata a tal punto da essere poi disconosciuta da Ende stesso. Nell’ambito musicale il Movimento se la prende con
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il cantautore Francesco Guccini, autore della canzone Gulliver (1983) e dell’album Signora Bovary (1987), con i Cure per Killing an Arab (1979), esplicitamente ispirato a L’étranger di Camus, e soprattutto con il gruppo metal inglese Iron Maiden, che nel 1982 sceglie come frontman un laureato in lettere, Bruce Dickinson, e poi pubblica Rime of the Ancient Mariner (1984), brano che contiene parti dell’omonomo poemetto; 1988-1990: la lobby degli editori cerca di contrastare l’ascesa dell’Anti-literature movement, creando eventi per favorire la diffusione della letteratura come: il salone del Libro di Torino, il Salone del Libro di Parigi e la Fiera del Libro di Hong Kong. Tutte e tre le inaugurazioni vengono duramente contestate dai No-Lit che organizzano manifestazioni e marce di protesta; 16 marzo 1991, Italia: durante la preparazione di un attentato, un famoso editore italiano muore piazzando una bomba in una sede dei No-Lit. Gli intellettuali negano il loro coinvolgimento e accusano l’Anti-literature movement di aver organizzato l’esplosione; 15 novembre 1995, Stati Uniti: gli editori convincono l’UNESCO a decretare una giornata del libro, ma la notizia scatena manifestazioni violente sotto la sede delle Nazioni Unite. L’UNESCO è costretta a rinunciare al progetto e il passo indietro viene percepito dall’opinione pubblica come un gesto in favore dell’Anti-literature movement; 30 giugno 1997, Gran Bretagna: viene pubblicato Harry Potter e la pietra filosofale e i No-Lit accusano il romanzo di voler diffondere il satanismo tra i bambini; 25 giugno 1998, Gran Bretagna: il Governo Inglese inaugura la British Library. Durante la cerimonia, mi-
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gliaia di manifestanti No-Lit protestano contro lo stato. Ci sono scontri con la polizia e alcuni rappresentanti del movimento muoiono nel caos del momento; 17 agosto 1998, Stati Uniti: nel corso della sua testimonianza di fronte al Grand jury, l’allora presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, ammise di avere avuto una “relazione letteraria impropria” con la stagista Monica Lewinsky; 20 aprile 1999, Stati Uniti: il mondo viene scosso dalla strage della Columbine High School. Vengono demonizzati i messaggi violenti di videogiochi, film e romanzi; 23 aprile 2000: proclamazione della legge Montag, la letteratura viene inclusa nell’elenco delle sostanze illegali. La produzione, la vendita, il possesso e il consumo di letteratura è proibito, pena la reclusione per un numero di anni proporzionale alla quantità di lettura con cui il soggetto è entrato in contatto.
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LEGGI E MUORI
Ehi, psst, avvicinati un secondo. Siamo quelli di Speechless Books e vogliamo dirti due parole. Speriamo che Vietato leggere all’inferno ti sia piaciuto, e soprattutto che la tua dipendenza sia rimasta soddisfatta. Ora fallo girare, mi raccomando. Abbiamo bisogno anche del tuo aiuto per sopravvivere in un mondo dominato dal Bibliotecario. Consiglia il romanzo a tutti i libromani che conosci, e già che ci sei… facci sapere cosa ne pensi. La nostra e-mail è redazione@speechlessmagazine.com
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RINGRAZIAMENTI
Era la primavera del 2012, ero in fissa con Breaking Bad e tornavo a casa dopo un giro nelle librerie di Ancona. Contattai in chat Alessandra Zengo e lei mi disse che aveva finito i romanzi da leggere e che sarebbe dovuta uscire a rimediarne qualcuno. È nato Vietato leggere all’inferno. All’inizio erano solo tre righe scritte in un file Word salvato come “idea geniale”, ora è un mondo con tanto di linea di tempo a definire la cronologia degli eventi storici (la trovi qui di seguito, se non l’hai già letta online). Sono serviti quattro anni per completare questo lavoro, e il merito non è di certo solo mio. Grazie ad Alessandra, per avermi ispirato, spronato, supportato (e sopportato), e soprattutto per aver sempre creduto in vli, anche quando la mia fiducia andava in vacanza: con tutto il lavoro che hai svolto questo romanzo è molto più tuo che mio. Grazie a Pia Ferrara, che oltre a essere la migliore addetta stampa in circolazione è stata anche capace di guidarmi attraverso la prima stesura, quando i personaggi tendevano a cazzeggiare un po’ troppo. Grazie a Giovanni Arduino, per la bellissima prefazione e per il supporto: sapere che Vietato leggere all’inferno ti è piaciuto così tanto è stato uno sballo per il mio ego. Grazie al resto del team di Speechless Books, Chiara Chinellato, Cristiana Melis e Federica Urso, per il consueto (ma mai scontato) ottimo lavoro.
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Grazie a Denis Pitter per la grafica di copertina e gli ottimi suggerimenti. Grazie ai beta-reader, elencarvi tutti richiederebbe troppo spazio ma sappiate che ho apprezzato tantissimo i vostri consigli e ho cercato di seguirli il più fedelmente possibile: se ora il libro è così bello è anche grazie a voi. Grazie alla redazione di Diario di Pensieri Persi per l’abituale sostegno e per i consigli di lettura che mi sono stati utili durante durante le “ricerche”. Grazie a Giacomo, per aver accettato una pallottola senza protestare, grazie a Luca, Matteo e Federico per alcune straordinarie battute che ho rubato senza vergogna, e grazie a tutti i miei amici che continuano a parlarmi nonostante sappiano che le loro parole e le loro azioni potrebbero finire in una delle mie storie. E infine grazie ai miei genitori, che mi hanno cresciuto in una casa piena di libri.
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BIOGRAFIA Roberto Gerilli è un lettore anconetano di trentasei anni. Non esce mai da una libreria senza aver comprato almeno un libro, riconosce gli editori attraverso l’odore della loro stampa e vive in una casa in cui ci sono più librerie che armadi. È talmente dipendente dalla lettura che ha cominciato a scrivere. E ha scritto un libro sui libri. Nel 2014 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, Città Senza Eroi, per UteLibri, mentre nel 2015 e nel 2016 sono usciti Questo non è un romanzo fantasy! e Apocalypse Nerd, entrambi editi da Plesio.
SOMMARIO PREFAZIONE
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PROLOGO 11 PARTE PRIMA Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 PARTE SECONDA Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Capitolo 20 Capitolo 21 Capitolo 22 PARTE TERZA
17 19 24 29 36 44 50 55 60 69 76 80 87 95 105 107 115 123 128 133 138 143 148 155 165
Capitolo 23 167 Capitolo 24 176 Capitolo 25 182 Capitolo 26 189 Capitolo 27 199 Capitolo 28 206 Capitolo 29 216 Capitolo 30 230 Capitolo 31 240 Capitolo 32 247 Capitolo 33 254 Capitolo 34 260 Capitolo 35 269 Capitolo 36 280 Capitolo 37 286 Capitolo 38 294 Capitolo 39 300 Capitolo 40 306 Capitolo 41 315 Capitolo 42 321 Capitolo 43 328 Capitolo 44 335 Capitolo 45 344 PARTE QUARTA 353 Capitolo 46 355 Capitolo 47 365 Capitolo 48 377 Capitolo 49 385 EPILOGO 391 LINEA DEL TEMPO
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RINGRAZIAMENTI 405 BIOGRAFIA 407