Diario di Primavera - Il Risveglio

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Copyright Diario di Primavera “Il Risveglio”

è una raccolta di undici racconti inediti scritti da alcune autrici e collaboratrici del Blog Letterario “Diario di Pensieri Persi” www.diariodipensieripersi.com

Proprietà letteraria riservata. Vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi. Diario di Pensieri Persi ©2012 Cover grafica ed impaginazione di MissClaireDesign ©2012

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PREFAZIONE di Maila Daniela Tritto RISVEGLI di Antonella Albano UNA VITA NUOVA di Francesca Rossi NEI SOGNI DI EMILY di Desy Giuffrè LA PRIMAVERA È ARRIVATA, FORSE... di Elena Bigoni ANGELI INSANI di Elisabetta Bricca INTERMEZZO DIGITALE AMOROSO (?) di Elisabetta Ossimoro IL RITMO NEL VENTO di Gabriella Parisi LE RÉVEIL di Germana e Roberta Maciocci PERSEFONE di Romina Casagrande EMOZIONI NEL RICORDO di Simona Postiglione SOLO UNA STORIA di Vittoria Liant


Prefazione di Maila Daniela Tritto Nel 1971, Fabrizio De Andrè cantava: «Primavera non bussa, lei entra sicura come il fumo lei penetra in ogni fessura, ha le labbra di carne e i capelli di grano, che paura, che voglia che ti prende per mano, che paura, che voglia che ti porti lontano» (da Un chimico). In questa canzone, dalla grande carica evocativa — quasi fosse un testo poetico —, predomina la forza trainante della primavera che, con piglio sicuro, prende il posto dell’inverno; per molti triste e silenzioso. E così, la primavera — con la sua positività — diventa, addirittura, fonte d’ispirazione. È quanto è successo alle ragazze del blog letterario Diario di pensieri persi, che hanno contribuito alla stesura di alcuni racconti, compresi nella raccolta dal titolo: Diario di primavera: Il Risveglio. Si inizia dal racconto scritto da Antonella Albano, Risvegli, che — come suggerisce già il titolo — indica “il risveglio” della natura — nei suoi colori —, su uno scenario tetro e oscuro; caratterizzato da una valle punteggiata da lapidi, quasi che la stessa rappresenti — in realtà — l’inverno. Proseguendo, con il racconto creato dalla fantasia di Francesca Rossi: Una nuova vita, in cui la protagonista sarà aiutata — in qualche modo — a prendere delle decisioni, grazie alla forza immaginifica della primavera rigeneratrice. Il racconto di Desy Giuffrè, Nei sogni di Emily, si rifà a quell’amore — ormai diventato leggenda — tra Catherine e Heathcliff; e alla genesi di un titolo — Wuthering Heights — “che avrebbe sfidato, nei secoli, il tempo e la storia.” La raccolta comprende anche il racconto scritto da Elena Bigoni: La primavera è arrivata che, con velata ironia, indica che “forse” la primavera è arrivata davvero. Il lettore di Diario avrà modo di leggere anche la poesia inventata dalla penna di Elisabetta Bricca: Angeli insani; quasi una denuncia a questo mondo, per molti aspetti, malsano e che, purtroppo, dà solo delle “mere illusioni”. Con Intermezzo digitale amoroso, Elisabetta Ossimoro ritrae fedelmente la realtà di oggi, caratterizzata dal predominio dei social network che scandiscono il tempo, in un mondo cibernetico e digitalizzato. Il protagonista del racconto scritto da Gabriella Parisi, Il ritmo nel vento, è, in realtà, “Il Vento” che diviene, in tal senso, una personificazione. Germana e Roberta Maciocci che, con Le Rèveil, narrano di Emma che — proprio come Alice nel Paese delle Meraviglie — si lascia dolcemente cullare dai pensieri che la sua fantasia è in grado di produrre. Romina Casagrande ripropone, in una nuova veste, il Mito di Persefone; l’eroina che — anche secondo la concezione platonica — incarna la fertilità. Con Simona Postiglione e il suo racconto Emozioni nel ricordo, la primavera sarà motivo di “ricordo”, appunto, per la sua protagonista. A concludere la raccolta è il racconto scritto da Vittoria Liant: Solo una storia, in cui — sin dall’introduzione — si apprende che “questa storia, non è solo una storia, ma inizia come tale, in un paesino come tanti, in un’Italia lontana, invecchiata dalla guerra.” Diario di primavera: Il Risveglio è, quindi, una raccolta non solo di racconti che traggono ispirazione dalla stagione, bensì anche una moltitudine di sfumature — dalle più tetre, alle più luminose —, che caratterizzano la vita dell’uomo.


Risvegli di Antonella Albano La grande luna rossastra era attraversata da frange sfilacciate di nubi grigie, ma il chiarore malato, nella valle punteggiata da lapidi, arrivava a inondare ogni particolare del cimitero. Il sottobosco fra gli alberi nudi fremeva di minuscola vita e solo il fruscio delle grandi ali di un predatore notturno interruppe per un istante l'incantesimo del chiarore lunare. Tutto sembrava sospeso nell'attesa e il mondo si impietrì un istante quando finalmente qualcosa mosse la terra umida sopra una delle tombe. Un fremito scuoteva ciò che avrebbe dovuto riposare per sempre ed ecco che dal suolo una mano sbucò ad afferrare l'aria. Subito dopo una figura emerse, nera di terra grassa. Con movimenti scoordinati liberò la faccia e gli occhi con le mani sanguinanti per le unghie spezzate e, come se dovesse reimparare a muoversi, lottò per lasciare quel luogo oscuro che era stato la sua prigione. L'uomo vestito di un abito scuro e una cravatta sottile, boccheggiando, cominciò a guardarsi intorno con gli occhi rossi iniettati di sangue, quando… «Era ora!» una vocetta argentina interruppe il fragore silenzioso della notte. La figura si girò di scatto quando da dietro una delle lapidi emerse una bambina con un tenero abito rosa che, con le manine intrecciate davanti a sé, squadrava l'uomo da sotto in su. All'apparire di quella figuretta paffuta, la faccia ancora scura di terra dell'uomo si trasfigurò e venature rosse rigarono le sue palpebre, nella bocca spalancata quattro canini appuntiti perforarono dolorosamente le gengive. Urlando di dolore e di rabbia, protese le mani artigliate verso di lei ponendo goffi passi uno dietro l'altro. La bambina rimase ferma fino a quando quell'essere non le giunse vicino e poi, facendo un passo di lato all'ultimo secondo, rapida, gli fece uno sgambetto che lo fece finire di nuovo con la faccia nella terra, non senza che la sua testa incontrasse prima lo spigolo di un'altra lapide. La bambina si sedette pazientemente su una tomba lì vicino con i gomiti sulle ginocchia e la faccina appoggiata alle mani. I suoi riccioli biondi mandavano una luce pallida sotto la luna. «Non potremmo saltare qualche passaggio, Harvey? » il tono annoiato fece girare la testa al vampiro che si toccava con espressione stupita e dolorante il punto dove la sua tempia aveva incontrato la dura pietra. Aprì la bocca, ma ebbe qualche difficoltà a emettere suoni. Guardò di lato con aria perplessa. Il suono di un sospiro rassegnato giunse dalla figuretta rosa con il visino ormai nascosto fra le mani. «Io...» alla fine rochi suoni trovarono la strada «cosa sono? Che mi è successo?» la luce dell'orribile realtà cominciò a baluginare negli occhi attoniti di Harvey. «Sono uno zombie?... No, non è possibile!» «Harvey» la bambina stava evidentemente sforzandosi di essere paziente e gentile «toccati i denti. Sì, bravo, le senti le punte dei canini?» Si arrampicò sopra un cippo funebre per arrivare alla sua altezza. «Sono un vampiro! Ma non è....» «È possibile, possibilissimo, i vampiri esistono bla bla bla.» La bambina, in perfetto equilibrio e completa padronanza della situazione, si sistemò una piega del


vestitino rosa: evidentemente ci teneva ad apparire ordinata. Sembrava rassegnata a concedere al vampiro un altro po' di tempo per inquadrare la situazione. «Non so nulla...» disse l'uomo mentre la prima luce di orrore rassegnato cominciava a brillargli negli occhi vitrei «ma ho una fame terribile!» e di nuovo si lanciò verso la bimba. Stavolta lei non si mosse più di tanto, alzò una manina e tuffò il ditino nella propria guancia sinistra. Immediatamente il vampiro si bloccò a mezz'aria e gli occhi persero quell'alone rossastro e i denti, con un rumore vagamente meccanico, si ritirarono nelle loro postazioni. Rimase inebetito a guardare la bambina che si toglieva un pelucchio inesistente dall'abitino rosa. «Ora sei disposto ad ascoltarmi Harvey?» continuò quasi dolcemente mentre l'uomo cercava una lapide su cui sedere prima che gli shock ripetuti di quella nottata gli facessero quello che la morte, fino a quel momento, non aveva potuto fargli. «Ok» disse stancamente «chi sei tu? E che cosa mi hai fatto prima con quel gesto?» agitò la mano come se stesse scegliendo il pasto in una rosticceria. «Mi chiamo Joyce e ti stavo aspettando perché ho bisogno di te...» «Aspetta!» Harvey strabuzzò gli occhi “sei stata tu a farmi questo?» si sarebbe slanciato ancora contro di lei, ma un breve e saggio calcolo mentale lo trattenne. «Oh santa pace, Harvey!» la pazienza di Joyce pareva giunta al limite «Vuoi sapere se...» si sforzò di controllarsi e parlò come si parla ai bambini piccoli «io sono la causa del tuo essere morto o del tuo essere un vampiro? Nessuna delle due, ovviamente» unì le punte delle dita davanti a sé “non so se hai notato, ma sono solo una bambina. Ho visto però cosa ti è successo, non ho potuto impedirlo» Harvey si grattava la testa da cui grumi di terra si staccavano silenziosamente. «Sei, anzi eri, il nostro postino; non so se ti ricordi, io abito al 1630 di Revello Drive e...» «Ora mi ricordo, sono un postino...» Harvey smise di grattarsi per spalancare gli occhi sui suoi primi vaghi ricordi. Joyce continuò con un leggero fastidio nella voce per essere stata interrotta «...e ho visto mentre quel vampiro ti mordeva ma, capisci, non potevo farmi notare e...» «Aspetta!» l'urgenza dell'improvvisa comprensione spinse l'incauto Harvey a interrompere la bambina una volta di troppo “ma tu potevi fermarlo, come hai fermato me prima! Non è vero? Non sei una bambina normale, no?» «Harvey. Se tu hai deciso di farmi perdere la pazienza, sappi che ci sei riuscito! Te lo dico ora e non te lo voglio più ripetere: come ho potuto fermarti prima, posso anche ridurti in cenere solo con uno schiocco delle dita, quindi taci e stammi a sentire, perché qui ci ho perso anche troppo tempo, è chiaro? » «Oookey” il vampiro rassegnato riprese posto sulla lapide e si dispose ad ascoltare. «Devi sapere che... » Il gufo dalle ampie ali planando considerò la scena dall'alto, maledicendo silenziosamente gli umani che gli rovinavano la piazza per la caccia di quella dannatissima nottata. Le luci dell'alba cominciavano a spuntare quando finalmente il portone del 1630 di Revello Drive si aprì a due figure furtive. «Ti invito a entrare» sussurrò la figura più piccola. «Oh grazie, ma non c'è bisogno di essere così formali.... » rispose la figura più alta e allampanata.


«Per favore, Harvey, entra! Sei un vampiro! Senza invito non puoi.... oh va bene, te lo spiego dopo!» la vocetta esasperata accompagnava il gesto della mano che spingeva l'uomo verso l'ingresso della cantina. «Stai qui e non fiatare, per nessun motivo. Ricordati che mi basta uno schiocco di dita...» la piccola Joyce richiuse silenziosamente la porta della cantina alle spalle di Harvey e, in punta di piedi, raggiunse la cucina. Fece appena in tempo ad avvicinarsi al tavolo che il suono di uno sbadiglio e di ciabatte trascinate giù per le scale annunciarono l'arrivo di qualcuno. «Tesoro! Che ci fai qui già sveglia?» togliendosi le ciocche nere dalla faccia, una ragazza poco più che ventenne sbatteva gli occhi guardandosi il polso. Realizzato che l'orologio non ce l'aveva e, risultati assenti anche gli occhiali, si rassegnò a considerare la bambina che, placida, la contemplava seduta sulla sedia della cucina, da cui le gambette penzolavano alternatamente. «Insomma, che ore sono?» gli occhi azzurri misero alla fine a fuoco quelli verdi, leggermente canzonatori di Joyce. «Nina, ti ricordo che io non dovrei ancora saper leggere l'orologio, ma comunque sono le sette, credo». Un sorriso allegro condì il tutto. «Oddio! Devi andare a scuola! Ma perché la sveglia non ha suonato, maledettissimo aggeggio?» Nina cominciò ad aprire il frigorifero tirando fuori latte, succo d'arancia e cercando i cereali nel mobile in alto. «Calmati Nina» la manina della bambina coi corti riccioli biondi tirò la vestaglia rossa di una Nina sempre più preda dell'agitazione. «È domenica! Stai tranquilla! Però...» aggiunse quando le braccia di Nina scesero a tirarla su in un caldo abbraccio «...il latte coi cereali mi andrebbe proprio!» mise la testa sulla spalla della ragazza e aggiunse chiudendo gli occhi. «Devo ammettere che non ho dormito bene». «Oh, e perché tesoro?» Nina si accomodò su una sedia tenendo con le due braccia la bambina, aggrappata come un koala. «Non è che hai sognato di nuovo i vampiri, per caso?» sorridendo le accarezzava dolcemente i riccioli sulla fronte. Joyce si scostò a guardarla con gli occhioni pensosi e poi l'abbracciò di nuovo senza rispondere. «No, niente vampiri... piuttosto, mamma ha chiamato ieri?» La fronte e la boccuccia si contrassero lievemente per la tristezza. Nina la scostò per guardarla in viso e le mise una mano sulla guancia tonda. «No, piccola! Aveva avvertito che non avrebbe potuto telefonare per una settimana circa. È per lavoro, lo sai...». «Lo so Nina, è che mi manca tanto...» Joyce chiuse gli occhi per trattenere le lacrime, nascondendo poi la faccia sulla morbida vestaglia rossa e la ragazza cominciò a cullarla un po'. Poi disse: «Mh, cucciola... e quel latte coi cereali? Lo vuoi ancora?» la tentò grattandole leggermente la spalla. «Giusto! La colazione! Me ne ero dimenticata...» la testolina ricciuta si scosse e Joyce saltò giù con nuova energia. «Nina, faccio da sola, la scatola dei cereali che sta troppo in alto l'hai già tirata giù, brava! Perché non vai a prepararti? Potremmo andare a fare una passeggiata... che ne pensi?» gli occhi scintillarono urgenti.


«S-sì, è una bellissima idea! D-d'accordo, allora vado su, ci metto poco, ok?» si scosse dalla faccia la perplessità per quel repentino cambiamento di umore e, ancora guardandola, si avviò ciabattando verso la scala. Appena Nina fu scomparsa al piano di sopra, la bambina si precipitò al frigorifero e, frugando dietro contenitori vari, trovò una bottiglia di plastica bianca e opaca, la stappò, la sistemò nel microonde e impostò meno di mezzo minuto. Attese pazientemente, la prelevò e si precipitò verso la porta della cantina, silenziosamente la aprì e, con le orecchie tese verso il piano di sopra, scese giù verso il buio. Solo una volta in basso cercò l'interruttore e accese la luce. Nessuno. «Harvey? Su vieni qui, ho qualcosa per te... ricordi quello che ho detto?» Sollevò bene in vista le due dita della mano accostate come se stesse per schioccarle. «Che vuoi? Sono qui dietro» Joyce lo raggiunse dietro la scala dove stava seduto su dei vecchi cartoni, con le braccia intorno alle ginocchia e la faccia imbronciata. La guardò con espressione offesa. «Sembra che lo stomaco mi stia azzannando dal di dentro. Io proprio non sono d'accordo con tutta questa faccenda del vampiro: lo so che è un sogno.» distolse gli occhi «È solo che non riesco a svegliarmi» concluse tristemente. «Ti ho portato qualcosa, tieni, bevi» la bambina gli porse la bottiglia e rimase a guardarlo mentre la stappava. «Cos'è? Latte?» chiese, avvicinandola al naso però gli occhi mutarono e un fitto reticolo di vene rosse e strane protuberanze trasformarono l'espressione della sua faccia rendendola famelica. Joyce sorrise nella penombra male illuminata della cantina mentre Harvey si ingozzava avidamente. «È sangue, ovvio!» disse e, con le mani nelle tasche del vestitino rosa, osservò tranquillamente il rivolo rosso che solcava il mento del vampiro. «Harvey...» Joyce si sedette su uno degli scatoloni sul pavimento, attendendo che l'ultima goccia scendesse a saziare il postino. «...Sì?» finalmente i suoi occhi cercarono quelli della bambina “Comunque mi sembra che manchi ancora qualcosa a questo pasto.... Da dove l'hai... spillato?” l'espressione dubbiosa considerava alternativamente la bottiglia e la bambina. «È sangue proveniente dai macelli. Suppongo ti manchi il sangue umano e la sensazione di ricavarlo direttamente dalla fonte, ma tu sei una brava persona Harvey, vero? Non vorrai essere come gli altri vampiri, quelli cattivi e sanguinari, vero?» Un'espressione vulnerabile aggrottava la fronte morbida fra i ricciolini d'oro: al vampiro la bambina sembrò meno tosta di prima. «Ehm, suppongo che essere sanguinario o meno non sia una mia scelta, no? Però sssì, mi pare di ricordare vagamente di essere una brava persona», grattandosi la testa fece cadere altra terra. «Questo è molto importante, Harvey, in qualsiasi condizione, noi possiamo scegliere, sai? Papà me lo diceva sempre...» «Oh, e chi è tuo padre, piccola?» il postino si appoggiò ad altri due scatoloni lì vicino. «Lascia perdere, non ho molto tempo adesso. Sto facendo in modo che tu possa sistemarti un po'. Io fra poco uscirò con Nina... ti ricordi quello che ti ho detto prima, vero?» alla fronte strizzata per ricavarne dei ricordi, Joyce decise di sorvolare «Ok, ti verrà in mente».


Al vago barlume di riconoscimento sulla faccia cogitabonda di Harvey, la piccola continuò: «Di sopra potrai farti una bella doccia e renderti presentabile; solo, per favore, lascia tutto a posto, lei non deve sospettare nulla, d'accordo? E poi faremo quello che ti ho spiegato...». All'ennesima grattata di testa e pioggia di polvere di terra da parte di Harvey, Joyce sospirò, saltò in piedi e si avviò verso la scala. «Non farti vedere da nessuno, non rispondere al telefono e concentrati nel ricordare chi sei, va bene?» aggiunse con un brillio sinistro negli occhi verdi mentre saliva al pian terreno. «Tesoro, sei stanca? Ti si chiudono gli occhi! Vuoi che andiamo a casa?» Nina si chinò sulla bambina a cui teneva la mano. Joyce trattenne uno sbadiglio stropicciandosi gli occhi con la manina paffuta, poi guardò il sole che stava tramontando e sorrise alla ragazza. «Be' mi sono proprio divertita, ma forse è ora di andare a casa». «Ma certo, ci abbiamo passato moltissimo tempo in questo zoo! Nemmeno sapevo che ti piacesse tanto! Ci possiamo tornare presto, se vuoi!» Nina si passò i capelli dietro le orecchie sorridendo alla bambina. «No, direi che per ora mi può bastare, Nina.» Poi, allo sguardo perplesso dell'altra, soggiunse: «Magari quando torna mamma, ci possiamo venire tutte e tre...» sorrise con l'espressione più candida del mondo. «Penso che sia una fantastica idea, piccola!» le due camminavano lungo una strada illuminata, ma stavano per svoltare in un vicolo che era un po' più in ombra «Nemmeno mi ero accorta che si stava facendo buio...» continuò Nina, mentre Joyce si guardava in giro senza darlo a parere. Improvvisamente una figura scura balzò da dietro una bassa staccionata che costeggiava la strada, con un movimento che voleva essere elastico, ma che quasi abbatté la staccionata stessa. Nina d'istinto arretrò, prendendo in braccio la bambina, che aveva sulla faccia un'espressione... furiosa. «Oh, scusate! Non volevo spaventarvi!» Harvey cercava goffamente di rimettere in sesto la staccionata rivolgendosi allo stesso tempo alle due, soprattutto occhieggiando preoccupato la bambina. «Ma come diavolo...» Nina si concentrò sulla faccia dell'uomo che in quel momento si stava ravviando i capelli e, mettendosi una mano in tasca, cercava di assumere un'aria mondana. «Ma è lei... come si chiama... Harvey, vero? Lei è il nostro postino giusto? Salve!» Un sorriso e un po' di rossore comparvero sul suo viso. «Mi scusi, ma ci ha spaventate un po'...» Nina era indecisa se tenere una posizione difensiva o essere gentile, e cercò di fare tutt'e due, con espressione incerta. «Non la vedevamo da un po' in effetti, ora c'è un altro che fa il suo giro...» «Be' non stento a crederlo, dato che sono....» Harvey intercettò l'espressione significativa di Joyce, ancora in braccio a Nina «...che sono stato in viaggio! Sì, era un mio sogno da molto tempo e così...». L'uomo si avvicinò un poco con fare gioviale e un po' affettato. «Ah sì? E dove è stato? Se posso chiederlo.» Nina si ritrasse leggermente, passando la bambina sull'altro braccio, non vedendo gli occhiacci che lei faceva al loro confuso interlocutore. «Un po’ in giro, sì, all'estero, posti bui... in Alaska, proprio nel periodo dei sei mesi senza sole, ecco!»


Harvey si strofinò la fronte fissando disperatamente il lastricato del marciapiede e poi tornò a sorridere alle due. «Ma posso accompagnarvi? Si possono fare brutti incontri da queste parti...» sorrisetto sghembo. «Nina, mi fai scendere?» Joyce si divincolò, posò i piedi a terra e si mise fra i due, prendendo la mano di Harvey. Una frastornata Nina non poté che abbozzare. «Harvey...» cominciò la bambina, dopo un po' di silenzio imbarazzato. «Sì?» la mano dell'ex postino salì ad asciugare il sottile velo di sudore sulla fronte. «Non vuoi sapere dove siamo state?» la voce suonava gioiosa, ma gli occhi verdi mandavano scintille. «Non siete state a...» pochi istanti furono necessari per ritrovare la concentrazione «Oh sì, certo, dove siete state di bello?» Il tono dubbioso fu fin troppo marcato e un sorriso cordiale illuminò il viso di Harvey, mentre guardava i lineamenti confusi di Nina e, fissandola, si ricordò improvvisamente di quanto gli piacesse quella ragazza, prima che... «...lo zoo è più bello di questa stagione, gli animali d'inverno se ne stanno al chiuso, ma a primavera è più facile vederli...» Nina parlava da un po', ma Harvey si era perso un po' della conversazione, ispirato dal profumo del sangue che scorreva rapido e rumoroso sotto la pelle di lei. «E sì, devono essere agitati per la stagione degli amori...» Improvvisamente l'argomento gli sembrò scottante «... e poi hanno certamente più appetito, la fame li fa venir fuori e ululano e mordono...» «Harvey...» Joyce gli tirava la giacca: senza accorgersene si era avvicinato pericolosamente a Nina e le fissava il collo. «Sì?» si distolse a stento e guardò verso il basso. La bambina indicava col ditino paffuto la sua stessa guancia, ma sembrava incoraggiarlo con un cenno del capo che fece vibrare i riccioli biondi. «Un attimo». La bambina e il vampiro/postino si volsero verso Nina. «Perché ho l'impressione che ci sia qualcosa che non so?» La ragazza si strofinava il mento dubbiosa. Entrambi rimasero a fissarla sospesi. «Joyce, non starai tramando per procurarmi un appuntamento?» Arrossì sorridendo imbarazzata. «Harvey, le chiedo scusa se forse la bambina le ha detto qualcosa di inopportuno... sa è piccola e vede che sono spesso sola... cioè, non sono sola, assolutamente, ho tanti amici, ma lei evidentemente avrà pensato che avessi bisogno di un aiuto e...» «Nina,» Harvey si era avvicinato ancora e, come ipnotizzato da lei, fissava con occhi vacui le sue labbra e il suo collo «tu non hai bisogno di nessun aiuto, certamente, sei una ragazza assolutamente fantastica e io ho sempre pensato che… che...» «...Che?» non poté fare a meno di echeggiare Nina, mentre scrutava gli occhi scuri del ragazzo sotto il ciuffo di capelli neri che gli spiovevano sulla fronte. «Che dovreste uscire insieme, magari» concluse una vocetta dal basso. Due visi rossi e sorridenti si abbassarono a guardarla. «Ma prima” aggiunse la bambina “Harvey deve farmi un favore, vero Harvey?» il tono urgente spense il sorriso sulla faccia del postino, facendo posto a un'espressione disperata. «Ma qual è il problema?» Nina era un po' stufa di quei sottintesi «Che hai combinato, Joyce?»


«Nina, Joyce vuole che io ti faccia vedere… questo...» Harvey teneva gli occhi bassi. «Questo cosa?» ora la ragazza era un po' preoccupata. Con un ultimo sguardo triste alla bambina, l'uomo si decise ad alzare il viso verso la poca luce che filtrava dal lampione. «Questo» ripeté avvicinandosi: il viso era trasfigurato da vene e protuberanze che lo rendevano mostruoso, gli occhi rossi fissavano famelici la giugulare di Nina e i canini, lunghi come zanne, brillavano nella bocca digrignata orribilmente. Dal vicolo in ombra un urlo raccapricciante si sollevò, gelando il sangue di chi lo udì: i gatti e i topi che l'abitavano. Nina sedeva accovacciata sull'orlo del marciapiede con la testa sulle ginocchia, avvolta dalle braccia, e non smetteva di tremare. Poco più in là Joyce cercava invano di consolare un Harvey dibattuto fra la rabbia e il dispiacere. «Non volevi certo farmi un piacere a permettermi di “chiacchierare” con la tua tata, vero? Se anche avessi avuto qualche speranza, pure come vampiro, dopo questa cosa non vorrà vedermi mai più e dovrò pure pagarle le sedute dallo psicanalista.» con le mani in tasca, non riusciva a evitare di fare nervosi passetti avanti e indietro sul posto. «Hai fatto quello che ti ho chiesto. Te ne sono grata.» la piccola prese la mano dell'allampanato vampiro/postino. «Vedrai che lo supererà, ho cercato di renderle lo shock più lieve possibile...». «Non riesco proprio a capire...» la voce di Nina, che si era avvicinata, li fece sobbalzare, anche perché suonò un tono più alta del normale, anche se ancora tremante «...perché hai voluto farmi questo scherzo Joyce? E tu Harvey perché ti sei prestato, con quell'orribile maschera di Halloween... potevo davvero sentirmi male per la paura!». I due guardarono la ragazza pallidissima a bocca aperta, poi Harvey si girò dall'altra parte e Joyce si mise le manine sulla faccia rotonda. «Ma che c'è?» Nina continuava a non capire le reazioni di quei due «Non so... non state nemmeno ridendo... allora perché organizzare tutta questa cosa?». «Se vuoi te lo dico io perché, Nina.» la voce profonda e dal chiaro accento inglese fece sobbalzare tutti e tre; un uomo si avvicinava dal fondo del vicolo. Prima intravidero un cappotto svolazzante di pelle nera, poi una chioma di un biondo fluorescente e poi con passo lungo ed elastico l'uomo si avvicinò, mostrando, alla luce del lampione, un profilo affilato, un'espressione sardonica e lunghi occhi azzurri. «Papà!» la nuvoletta rosa in cui si trasformò Joyce volò letteralmente fra le braccia dell'uomo, facendo un buffo contrasto con la camicia rosso porpora. «Amore!» i due si strinsero forte volteggiando e ridendo «Ma che vai combinando, piccola?» le due teste bionde vicine rivelavano la consanguineità e un amore reciproco assoluto. «Te lo dico io che va combinando quella peste...» un'altra figura sostava alle loro spalle, una donna non alta, ma slanciata, vestita alla moda, ma con stivaletti comodi e una bionda coda di cavallo. «Mrs Summers...» Nina non sapeva se sorridere o preoccuparsi, mentre cercava con la mente giustificazioni per aver messo a repentaglio la sicurezza della bambina. Almeno si aspettava qualcosa del genere, invece... «Joyce, vieni qui.» La voce di Buffy Summers, la Cacciatrice, non ammetteva repliche e la piccola, dopo aver ricevuto un bacio affettuoso dal padre sui suoi riccioli biondi, fu deposta a terra e camminò dignitosamente fin davanti alla sua mamma. Stette lì, con gli occhi luminosi e l'espressione spavalda e ingenua di chi non ha


paura di niente, fino a che... «Salta immediatamente qui, brutta monella che non sei altro!» Il salto che Joyce fece da ferma, finendo dritta fra le braccia della sorridente Mrs Summers, lasciò perplessi e stupiti solo Nina e Harvey, mentre quest'ultimo cercava disperatamente con gli occhi un'occasione per dileguarsi. Non conosceva quelle persone, ma un vago istinto gli diceva che sarebbe stato meglio starne alla larga. «Nina», con la faccia in mezzo ai riccioli della figlia, Buffy cercò lo sguardo della tata. «Mi dispiace di tutto questo, ci sono cose che avrei dovuto spiegarti: mia figlia insisteva che io te ne parlassi, ma io volevo davvero che la sua quotidianità non avesse sempre a che fare con i vampiri...» Nina aggrottò le sopracciglia. «Oh, vuole dire gli incubi che fa spesso...» disse con un sorriso incerto. «Io non ho mai parlato di incubi, mamma, è Nina che l'ha pensato!» la bambina non sembrava intenzionata a staccarsi a nessun costo dal collo della madre, che non riusciva a smettere di sorridere dal sollievo di averla fra le braccia. Spike e Harvey sorridevano entrambi in maniera un po' ebete, fino a che i loro sguardi non si incrociarono e allora tornarono immediatamente seri, con qualche colpetto di tosse per schiarirsi la voce. «Non potevo parlarne con nessuno, mamma!» il tono di Joyce suonava un pochino lamentoso, molto più simile però finalmente a quello di una bambina della sua età. Nina continuava ad avere un'aria completamente spaesata, allora Buffy decise che era il momento di prendere il toro per le corna. «Nina, parlavamo dei vampiri, i vampiri veri» e fece un cenno a Spike. Quando Nina si voltò a guardare, la maschera maligna dell'uomo biondo la terrorizzò al punto che indietreggiando sarebbe caduta se qualcuno non fosse intervenuto a sostenerla, solo che, quando Harvey si rese conto che Spike era un vampiro, e non uno qualunque, la trasformazione si innescò anche in lui e così, quando Nina si voltò e lo vide, questa volta, svenne definitivamente. Tutti quelli ancora coscienti si voltarono a guardare una certa bambina con aria di profondo rimprovero: «Ma mamma, papà, Harvey, davvero!!!! Come si fa a vivere ignorando l'esistenza dei vampiri??!?» Gli occhioni verdi spalancati e la boccuccia rosa con un ghigno sardonico familiare fece sorridere tutti, mentre Spike e Buffy si guardavano con un'espressione di complicità e di orgoglio trattenuto a stento. «E lui? Come hai fatto a tenerlo a bada, tesoro?» Spike posò un ginocchio per terra per arrivare all'altezza della figlia. «Be', la cosa del dito sulla guancia funziona e gli disinnesca la trasformazione... e poi gli ho detto che a uno schiocco di dita sarebbe finito in polvere...» «Ma tu non sai ancora schioccare le dita Joyce!» Buffy soggiunse fra il preoccupato e il divertito. «Lo so, mamma, ma lui non lo sapeva!» Con un sorrisetto trionfante si girò a guardare Harvey, che non la stava ascoltando perché stava contemplando Nina fra le sue braccia, preparandosi speranzoso al suo risveglio.


Una Nuova Vita di Francesca Rossi Tutto iniziò come un sogno. Troppo bello per essere vero. Avevo paura di viverlo, perché temevo potesse consumarsi e usurarsi con il trascorrere dei giorni e delle notti. Per me era una rinascita, ma intuii solo troppo tardi che poteva rappresentare anche la mia fine. Lo vidi per la prima volta e pensai di trovarmi di fronte a un dio greco: bello, perfetto, colmo della vitalità che anche io possedevo e di una dirompente sensualità che mai avevo conosciuto. Tra noi ci fu il classico “colpo di fulmine”. La mia vita, a quel punto, poteva dividersi in un prima e un dopo di lui. Non c’era altro intorno a noi. Ero certa che non sarebbe mai finita. Mi cullai per mesi in una dolce illusione, senza rendermi conto che mi stava trascinando sempre più nell'abisso. Quella sottile gelosia che mi faceva sorridere e mi lusingava divenne angoscia e terrore. Non mi resi conto che la dolcezza era diventata ossessiva, le domande pressanti e la gentilezza un modo per evitare scontri. Non mi accorsi di avere una catena di finto amore stretta intorno ai polsi e alla gola. Alle volte avevo la sensazione di non riuscire più a respirare. Come se il corpo non ne fosse più capace, o si fosse arreso agli eventi. Dall’esterno la prigione dorata non era visibile: giorno dopo giorno sentivo su di me gli sguardi invidiosi della gente, i sorrisi maliziosi di chi credeva fossi una privilegiata. Che fortuna! Che affare! Un colpo del genere non capita a tutte. Come si poteva rifiutare? Dovevo essere grata a Dio, o a chi per lui, per tutta questa generosità. Io, però, non dissi mai niente, non feci mai affiorare gli stati d’animo altalenanti che mi turbavano. Perché? Perché nessuno mi avrebbe creduto. L’Uomo Perfetto aveva anche la superba qualità di essere potente. E, si sa, quando il rispetto non può essere meritato può sempre essere preteso con la forza. Questo, almeno, è ciò che molti credono. Ma non io. Fu così che l’amore si trasformò in odio. In verità, non svelai mai il mio segreto ad anima viva: non riuscivo ad accettare che il mio sogno si fosse infranto. Non volevo svegliarmi bruscamente nella più tetra realtà. Non poteva essere vero, non poteva essere successo proprio a me e, per questo, cercai di andare avanti. Far finta di niente, però, può fare davvero male. Significa tradire se stessi. La parte più razionale dell’anima può nascondersi dietro a cavilli o sottigliezze inutili, ma la nostra coscienza non si fa prendere in giro e ogni volta che proviamo a celarle un segreto lei lo scova e ce lo sbatte in viso. A nulla serve tentare di schivarlo. Se non lo sveliamo, la nostra ombra inizia a colpire l’anima e i colpi si fanno sempre più violenti, come pugni nello stomaco che mozzano il fiato.


Fu così che un giorno, verso la fine dell’inverno, decisi di lasciarlo e fuggire via. Avevo meditato quell’idea per settimane, poi, alla fine, scelsi di riprendermi la mia vita, perché nessuno lo avrebbe fatto al posto mio. Basta gelosie, ossessioni, urla, botte. Dovevo liberarmi da quelle catene o sarei morta. Al diavolo il potere, i soldi, la convenienza e la gente. La gente! Che ne sanno loro? Arroccati su squallide convenzioni, pronti a puntare il dito e a buttarsi su ogni nuovo pettegolezzo per distruggere e calpestare. La loro smania di intromettersi per poter dire la loro a qualunque costo, infischiandosene dei sentimenti che calpestano, ha dell’incredibile. Dov’è scritto che dobbiamo esporci sulla pubblica piazza di una moralità da copertina e sopportare di buon grado lezioni di vita da chi per primo le trasgredisce? Nessuno poteva salvarmi. Dovevo farlo da sola. Il mio cervello funzionava ancora, anche se ci aveva messo del tempo a svegliarsi dall’intorpidimento d’amore o, meglio, di quello che ritenevo fosse amore. Se ci fosse stata la mia famiglia con me sarei stata più forte. Ma loro erano lontani e non ho mai voluto farli preoccupare. Se io stavo bene, loro erano felici. Meglio lasciarli vivere in questa illusione che, almeno nel loro caso, non poteva far male. Scappare non fu difficile: l’Uomo Perfetto si fidava di me, della mia inconsistenza dovuta all’apparente sottomissione. Non avrebbe mai pensato che potessi lasciarlo. Facevo parte del mobilio e i mobili da soli non vanno da nessuna parte. Così un tiepido mattino di primavera feci i bagagli e me andai, mentre lui era al suo prezioso e remunerativo lavoro. Prima di andarmene appoggiai la fede sul libro che stava leggendo, sopra al comodino. Ormai non mi serviva più. Quando chiusi la porta alle mie spalle iniziai a respirare: le catene si erano sciolte come neve al sole, la paura non esisteva più ed ero finalmente libera di vivere e di pensare a modo mio. Presi l’auto e costeggiai il lungomare con i finestrini aperti, perché mai come in quel momento avevo bisogno di aria. I fiori dei giardini erano sbocciati, gli alberi fioriti e tutt’intorno l’atmosfera era riempita dal canto vivace degli uccelli. Finalmente vedevo il mondo a colori: per me quello fu l’inizio della vita vera. I volti delle persone che incrociavo mi sembravano sereni, o forse era la mia anima che finalmente si era placata. Lui era il passato ormai e non lo avrei più lasciato entrare nella mia vita. E mentre io rinascevo, dentro di me si formava una nuova vita, che presto avrebbe visto la luce e che io avrei preservato dalle tenebre. Forse la vita è proprio questo: un eterno ciclo di nascita e rinascita in cui la morte non è che un semplice anello di congiunzione.


Nei sogni di Emily di Desy Giuffrè Fruscio di pagine baciate da un rivolo di sole che attraversa nella sua dorata ferita il cielo plumbeo. Sapore di vento sulle labbra semichiuse, i capelli si scompigliano sulla fredda roccia che apre la sua pelle per far spazio ai campi spruzzati d’erica. L’ombra di un sogno si adagia sulla cerea tempia, bianco lampo di visioni spezza il placido pulsare della mente. Le voci si accarezzano plasmandosi in corposi coni di luce e oscurità. Fiammeggiano occhi vispi e scuri, ardenti di vita e giovinezza. Due giovani corrono a perdifiato, il loro incedere selvaggio sfida i rovi di una brughiera solitaria e silente. Terra che canta, spera e singhiozza. Falce dell’anima che cerca riposo. Stanco bagliore di paradiso, tempesta di vento in bocca al cuore dell’uomo. Nelle vene lo scorrere di un tempo stanco di eternità, sul petto il freddo della roccia in cui due nomi incisi troneggiano nel loro silenzio: Catherine e Heathliff. Il sonno saluta con passo danzante il suo pallido insorgere, e in un lieve battito di ciglia la realtà torna a vibrare di vita agli occhi della giovane donna appena destatasi. Tutt’attorno una semi-immobilità sembra accoglierla benevola, mentre in lei si accende, fulminea e impetuosa, l’idea incalzante di una nuova storia.

Emily afferra il libro di versi che aveva portato con sé come unica compagnia per la sua passeggiata pomeridiana e corre, corre lasciando che i polmoni le si gonfino di attesa e improvvisa euforia. Lì, sotto il pergolato di casa Bronte, le sorelle Anne e Charlotte la osservano interdette in una muta domanda che non trova risposta, se non nel momento in cui sentono la porta della camera di Emily chiudersi. Soltanto allora le due si fissano per qualche istante negli occhi, e annuiscono di comune accordo. Intanto, già china sulla sua piccola scrivania in legno, leggermente illuminata da un ultimo mozzicone di candela, Emily tenta di placare la propria agitazione. Respira a fondo più volte, chiude gli occhi per alcuni attimi. Li riapre, e in essi adesso brilla una calda luce che sa d’infinito. Attinge il pennino nell’inchiostro lucido e nero, e il suo polso non accenna ad alcuna titubanza nel momento in cui i tratti fluidi e decisi della sua calligrafia non segneranno su un bianco foglio da copertina, un titolo che avrebbe sfidato nei secoli il tempo e la storia: Wuthering Heights.


La Primavera è arrivata, forse... di Elena Bigoni La giovane si accascia esausta a terra e appoggia la schiena a un muretto di pietra. Le gambe sono leggermente raccolte e le mani stanche sono poggiate mollemente sulle ginocchia. La spada ancora macchiata di sangue riposa accanto a lei, non se ne separa mai. Tutto, attorno a lei, è immobile. Il viso sporco di fango, sangue e fuliggine è rivolto al terreno; non deve alzare gli occhi per sapere cosa vedrà, c’è abituata ormai: solo morte e distruzione. È stato solo un altro freddo, calcolato massacro: donne, uomini, bambini e vecchi. Non si sentono gemiti di dolore e pianti di disperazione, non ce ne sono mai: nessuno rimane in vita abbastanza per piangere i propri morti. Quando la Danae colpiva, nessuno sopravviveva per raccontare il massacro. Lentamente il respiro torna regolare, ma la giovane non sembra voler alzare gli occhi da terra. Un gemito sussurrato l’assale e allunga la mano verso la spada. Una grossa pietra color rubino ne adorna il pomello. La sua mano stringe l’impugnatura con una tale forza da far sbiancare le nocche. Rimane immobile, il respiro mozzato dal dolore; un brivido le percorre piano il corpo, poi, dalla manica della giacca ormai usurata e sdrucita, appare un serpente nero come la pece. La sua figura sembra perdersi nel riverbero del mattino: appare vivido e reale, mentre a tratti sembra appiattirsi sulla pelle della mano. Dopo un istante d’immobilità il rettile scivola verso l’impugnatura e la lama della spada; un attimo ancora e un secondo serpente segue il precedente. Le due irreali figure si accavallano, si attorcigliano sulla lama fino a diventarne parte, graffiti immobili forgiati sulla spada. La ragazza torna a respirare agevolmente. Alza i suoi tristi occhi color nocciola, pieni di dolore e rimpianto. Un’unica silenziosa lacrima percorre la guancia, le labbra serrate. Un singulto, poi la resa di fronte all’inevitabile. Un destino, un desiderio di vendetta, un richiamo d'aiuto così forte alla quale la Danae non poteva non rispondere. E’ apparsa, in quella fredda e umida prigione in cui ha vissuto per anni, un oscuro luogo di follia dove è stata reclusa dal suo stesso sangue. Il suo peccato? Essere nata. Essere figlia di sua madre. Essere sopravvissuta alla sua morte, monito dei suoi peccati. Era appena una bambina quando il patto era stato siglato. La Danae, apparsa come d’incanto cosparsa da un alone dorato, le aveva parlato, aveva sussurrato con flebile voce soave alla sua mente malata: una goccia del suo sangue e avrebbe ritrovato la libertà e la vendetta nei confronti dei suoi torturatori impietosi, che per dieci anni l’avevano fatta marcire in quella fetida prigione. La giovane non desiderava altro: cosa poteva essere mai una goccia del suo sangue in cambio della libertà e della vendetta? Senza alcun indugio si era accostata alla spada fluttuante: strane creature simili a serpenti ne adornavano la lama e una grossa pietra nera come la notte impreziosiva l’impugnatura, altrimenti semplice.


La voce nella sua testa ripeteva ininterrotta una litania che raggiungeva il suo cuore, riempiva la sua mente e faceva sussultare la sua anima: “In me troverai la pace, in me troverai la vita. Io ti donerò la forza, io ti donerò la velocità, io ti donerò un nuovo mondo. Non più tormenti, non più dolore. Usami e io ti amerò, ti onorerò e non ti abbandonerò. Dissetami con il tuo sangue e io ti donerò la vita.” La ragazza, col cuore colmo di stupore, aveva afferrato la lama con entrambe le mani e aveva chiuso gli occhi: un dolore immediato l’aveva investita, ma lo aveva cavalcato e vi si era immersa. Rivoli di sangue macchiavano la lama, ma nemmeno una goccia cadeva al suolo; la spada aveva cominciato a respirare e prendere vita tra le sue mani ferite: i serpenti che vi erano impressi cominciarono prendere vita muovendosi sinuosi lungo l’argento brunito della lama. La pietra nera stava lentamente cambiando colore, diventando color rubino, e palpitava come un cuore vivo. I movimenti dei due serpenti apparivano sempre più confusi, più reali e concreti. Un bagliore accecante. Poi, il buio. La ragazza si lasciò cadere a terra, la spada ancora tra le mani; sentiva qualcosa strisciarle sul braccio nudo e sfregiato da numerose cicatrici malamente rimarginate. I due serpenti neri si muovevano sul suo braccio, ma la giovane non aveva la forza di scacciarli, non aveva forza per scostarsi: li osservava immobile, ipnotizzata dalle spire luccicanti. Imperterriti, i due rettili si muovevano sinuosi verso il suo petto. Poi, come d’incanto, sparirono dentro di lei. Un dolore acuto e cominciò a percepirli dentro di lei, mentre avvolgevano il suo cuore con le loro spire, annidandosi fin dentro l'anima. All’improvviso era stata posseduta da una forza che non aveva mai sperimentato prima. La vita prese a scorrerle con ardore nelle vene. Si era lasciata cullare da quella forza protettrice. I momenti successivi furono sincopati e frenetici: il suo io più profondo osservò il suo corpo alzarsi e colpire con forza la porta. Ripetutamente. Sentì i passi affrettati del suo torturatore, il chiavistello girare. Si scostò. L’uomo non aveva avuto il tempo reagire. La sua testa ora giaceva, come una macabra scultura, sul pavimento. La ragazza aveva osservato quel corpo immobile, indifferente, lontana da qualunque passione o sentimento; gli occhi di quell’uomo, che l’avevano sempre guardata con odio, rabbia e follia, ormai erano senza vita. Suo padre: sangue del suo sangue, il suo carnefice e torturatore. Non aveva indugiato vicino a quel corpo ormai inanimato. Un ultimo sguardo e poi era scappata dalla porta aperta. La giovane conserva ancora ricordi confusi di quella fuga, ma da allora la spada non l’ha più abbandonata, impossessandosi di lei ogni volta che nelle vicinanze percepiva della magia latente. Il patto era stato siglato. Aveva donato il proprio corpo e la propria anima a uno strumento di morte, perché la Danae non era altro che questo: un magico


artefatto infernale che si cibava della vita e della forza vitale delle persone. La Danae era la morte, la tenebra, l’inferno di chi non conosce pietà. La giovane si riscuote dai suoi pensieri. Ogni singolo giorno, da quando si è liberata, ripensa alla sua scelta: non tornerebbe indietro, ma sente che sta perdendo la sua battaglia con la spada. Ben presto le apparterrà completamente, la sua anima sarà risucchiata dalla tenebra e non ci sarà alcuna vita da vivere e da sognare. Un respiro profondo, poi la ragazza si alza in piedi con agilità. Non si guarda in giro: non vuole più guardare, non ne ha la forza. Aveva tentato di evitare il villaggio, ma era troppo tardi: la forza della spada aveva cominciato a pulsare percependo la forza vitale delle anime degli abitanti, i serpenti avevano cominciato a risvegliarsi e, subito dopo, si erano impossessati di lei, del suo corpo, e l’avevano resa un mero strumento del loro mortale godimento. Ora, recupera lo zaino, l’arco, le frecce e i pugnali ricurvi lasciati alle porte del villaggio e si incammina verso il bosco. La sua via di fuga, la sua casa, l’unico luogo in cui sa di non incontrare uomini a cui può far male. Dal lontano giorno della fuga la vita errante era l’unica che conosceva. I primi tempi aveva tentato di avvicinarsi a qualche insediamento, ma l’unico risultato che aveva ottenuto era stato quello di portare morte e distruzione per cibare la spada di altro sangue. Passava le giornate in attesa di qualcosa: una via d'uscita, un modo per ritrovare quella vita normale che ricordava di aver vissuto prima della prigionia, quando era circondata da persone che l’amavano e la cullavano con dolci nenie prima della notte. Erano confusi frammenti di un passato che ricordava appena, ma al quale si era aggrappata con tutta se stessa per non impazzire. La giovane procede con ritmo sostenuto: vuole allontanarsi il più possibile dal villaggio, ma non sa ancora che direzione prendere; di solito vaga senza meta tra i boschi, cacciando a volte, ma soprattutto muovendosi in maniera confusa. Non riesce a rimanere ferma da qualche parte: sebbene sappia di aver massacrato tutte le persone presenti nella casa, l’irrazionale terrore che qualcuno la segua per riportarla in quella stanza buia la spinge a muoversi sempre. Sceglie un sentiero a caso e non sa dove la porterà, probabilmente verso il fiume. Non pensa quando cammina, non dopo che la Danae si è svelata in tutta la sua forza: è un semplice corpo in movimento che non può fermarsi per trovare riposo e giovamento. Un grido lontano, seguito da un pianto infantile, riscuote la giovane dalla trance. Normalmente passerebbe dritta, ma quel pianto risveglia i lontani dolori della sua infanzia. Decide di allontanarsi dal sentiero, si arrampica sul costone che lo costeggia e, con cautela, si avvicina al luogo da cui proveniva il pianto. Man mano che si avvicina i rumori diventano più forti: masserizie sbattute o lasciate cadere a terra, grugniti e qualche bestemmia; nell’aria di sente odore di legna bruciata. Attraverso i rovi la ragazza riesce finalmente a vedere ciò che sta avvenendo più in basso: i briganti hanno assaltato un carro. La Danae, nel suo fodero, non accenna a riprendere vita: perché dovrebbe? Quegli uomini sono fatti della sua stessa pasta. Il carro coperto da un telone è trainato da due buoi, ora al pascolo poco più in là; probabilmente una famiglia che si stava dirigendo al mercato nel villaggio in fondo alla valle e aveva deciso di fare colazione prima di continuare il viaggio.


Osserva con attenzione: accanto alla ruota anteriore del carro un corpo maschile è riverso sulla schiena e l’asta di una freccia gli spunta dal petto. È morto sul colpo: probabilmente stava tentando di raggiungere la sua arma sul carro. Poco distante, altri due corpi più piccoli: due ragazzini adolescenti. Dietro il carro scorge la gamba lattea di una donna: è macchiata di sangue. Nessun movimento, non percepisce in lei il fluire della vita, ma solo il suo bagliore che, lentamente, si affievolisce. Un uomo spunta da dietro il carro e si riordina le brache con un sorriso soddisfatto stampato sul viso sfregiato dal vaiolo. Si guarda circospetto in giro e annusa l’aria; percepisce qualcosa e osserva attentamente tra le fronde dove si trova la giovane: «Roark» urla «vieni fuori, dobbiamo andare, portati la bambina.» Un grugnito dall’interno del carro. Dei movimenti. Altri singulti di sottofondo. Un secondo uomo spunta da sotto il tendone. «Che c’è Drug, non avevo nemmeno iniziato.» ma sta già scendendo dal carro trascinandosi dietro una bambina di tre o quattro anni, con un caschetto di capelli castani che incorniciano un viso smunto ma pulito; ha gli occhi gonfi di pianto e sbarrati dal terrore e le mani legate con una corda; non urla, non si ribella, sembra proprio ciò che è: un cucciolo pietrificato dalla paura. Roark borbotta e strattona la piccola, facendola cadere malamente a terra per farla scendere dal carro. «Muoviti» le urla tirandole un calcio. «Drug, cos’è tutta questa fretta? Non c’è anima viva qui intorno: se arriviamo a Lunadel vorrai consegnarla subito a…» L’uomo sfregiato non lo lascia continuare «Ne potrai avere quante ne vorrai con i soldi che faremo con questa. Ora prendi su quello che serve e andiamocene, vado a recuperare i cavalli.» Roark osserva il compagno allontanarsi, lega la bambina a un raggio del carro e si affretta a recuperare tutto ciò che potrebbero barattare al mercato. La giovane continua a osservare. Lei scruta la bambina: così piccola, così indifesa. In un giorno qualunque le sono stati strappati i genitori e, ben presto, la sua vita diventerà un tormento. Le mani fremono sull’elsa della spada: sa che la Danae non farà nulla per aiutarla. In passato le era già capitato di voler aiutare qualcuno, ma la spada le si era rivoltata contro e aveva sterminato chi aveva tentato di salvare. Tutto in lei le dice di lasciar stare: non può fare nulla, eppure il suo sguardo è incollato alla piccola legata alla ruota. Non potrà aiutarla ma, forse, le potrà donare una fine misericordiosa. La Danae comincia a pulsare nel fodero, il bagliore bluastro si intravede anche attraverso di esso; sente l’odore della sua speranza: adora nutrirsi dei suoi sentimenti più innocenti e vibra deliziata percependo il suo piano. La giovane si sente dilaniata dall’orrore per ciò che sta per commettere. La voce della spada comincia a farsi sentire, comincia ad adombrare la sua anima e il suo corpo. Lei lotta con tutte le sue forze, non vuole che la spada si nutra di quella piccola: la ucciderà lei col pugnale, la spada non deve contaminare le giovani carni di quella fragile e innocente creatura. Lentamente il bagliore della Danae comincia a diminuire. La giovane sa che la spada sta giocando con lei e che, appena potrà, comincerà tormentarla, ma spera di riuscire a controllarla abbastanza al lungo. Per la prima volta in vita sua non vuole essere adombrata dal proprio potere mentre cerca di liberare quella bambina.


La giovane, ormai, ha preso la sua decisione e sente una scintilla, nel suo cuore, dirle che sta facendo la cosa giusta: quella bambina non soffrirà quello che lei stessa ha passato. L’uomo chiamato Roark sta terminando di ammucchiare la roba che porteranno via. La giovane, con un movimento fluido e silenzioso, estrae una freccia dalla faretra che porta sulla schiena, recupera l’arco che tiene a tracolla, lo imbraccia e prende la mira: è questione di un attimo, poi scocca la freccia. L’uomo cade a terra trafitto al petto. La bambina sobbalza e si rincantuccia ancor di più vicino alla ruota. La ragazza scende dal costone e scivola silenziosa sulla neve fangosa quasi sciolta — l’inverno è ormai giunto al termine. Si avvicina circospetta al carro e guarda di sfuggita la piccola, che la osserva a occhi sbarrati. Sente di fronte a sé lo scalpiccio dei cavalli. Recupera un’altra freccia dalla faretra, ma un sesto senso l’avverte che qualcosa non va: un impercettibile rumore alle sue spalle la rende guardinga; non vuole sfoderare la spada, non ancora, e si guarda alle spalle di sottecchi. Un’ombra. La giovane lascia cadere arco e freccia. In un unico movimento fluido si gira e si sposta repentinamente a sinistra, sguainando i coltelli ricurvi che tiene alla cintola. Il fendente di una spada si abbatte dove si trovava fino a pochi istanti prima. La ragazza non dà nemmeno il tempo al suo aggressore di ritrovare l’equilibrio dopo il colpo andato a vuoto e, in un battito di ciglia, è già su di lui: il coltello compie un parabola verso il collo dell’aggressore e tronca di netto la giugulare. L’uomo rantola, la mano corre inutile a tamponare la ferita al collo, mentre un fiotto di sangue imbratta il terreno di fronte a lui e la giubba in pelle. Si gira un istante verso la sua assassina, poi crolla a terra in ginocchio e boccheggia nel tentavo di respirare. Bollicine rossastre si formano agli angoli della bocca e un fiotto di sangue comincia a calare; non c’è salvezza per l’uomo, che cade a faccia in giù sul terreno fangoso, imbrattato di neve quasi del tutto sciolta, esalando un ultimo respiro. Il respiro della giovane è regolare. Nessuno sforzo, non ha provato nessun emozione a uccidere un uomo senza l’aiuto e l’ombra della Danae. Adesso giungerà per lei il momento più difficile: occuparsi della piccola. Sente la spada fremere al suo fianco, la forza dei serpenti concentrarsi sull’elsa, e un dolore sordo l’assale dietro gli occhi. La vista sembra sdoppiarsi. Cerca di respirare e di controllare la potenza che sale dalla spada: sta perdendo la sua battaglia, di nuovo. Un urlo scaturisce dalla sua anima e crolla sulle ginocchia. Nessun suono esce dalle sue labbra, ma lacrime calde solcano le guance. Sente di non farcela, ma sa che se, anche questa volta, si farà sopraffare dalla spada non ci sarà più alcuna speranza, nessun futuro, nessun libertà. Si aggrappa con tutte le forze ai frammenti del suo passato: quando era felice, quando era amata, quando era coccolata e viziata. Il calore del fuoco, l’odore del legno, i biscotti di muck appena sfornati, l’odore di erba e di agrifoglio. Continua a lottare per la bambina, quel piccolo essere indifeso a cui è stato tolto tutto e che le ricorda così da vicino se stessa, tra le nebbie di un periodo ormai passato. Sta lottando per lei, ma anche per il ricordo di ciò che è stata prima.


Sente la spada ridere di lei e delle speranze che verranno disattese. La sente pulsare, ma i serpenti non accennano a superare la barriera dell’elsa. Si mette in ascolto del loro potere vibrante. Percepisce una membrana tra l’arma e il suo corpo: è una sorta di confine. Non capisce cosa stia succedendo, ma sembra che la Danae sia bloccata. Continua ad osservarla, percepisce il movimento convulso dei serpenti. Respira; respira lentamente e capisce che i suoi desideri, per la prima volta così limpidi e chiari, sono più forti di qualunque condizionamento della spada. La lotta non è semplice: la spada non vuole cedere ma, alla fine, si ritrae. Rimarrà lì in allerta, la giovane lo sa. Un sorriso appena accennato, il primo dopo anni, le illumina il viso: sente una nuova vitalità percorrerle il corpo e la mente, una ventata di aria fresca in una stanza stagnante. Apre gli occhi, che ha tenuto serrati durante il corso della sua battaglia interiore: accanto a sé vede il corpo dell’uomo in una pozza di sangue; di fronte la bambina, che la scruta con occhi sbarrati. Cosa farà ora di lei? Continuare nel suo piano e ucciderla? Scarta immediatamente l’idea: non può farlo, non riuscirebbe a farlo a mente lucida. Lasciarla lì in attesa che passi un viandante e che la soccorra? No, troppo rischioso. Sa che non c’è soluzione: dovrà portarla con sé e accompagnarla al villaggio più vicino, dove sicuramente troverà qualcuno che si prenderà cura di lei. Riuscirà a farcela? Non ne è convinta, ma la rinnovata energia che la pervade le dà una speranza, anche se flebile, di riuscire nell’impresa. Si alza in piedi un po’ indolenzita: lo scontro con la Danae è stato duro e spossante. Si avvicina alla bambina, si china di fronte a lei e i suoi occhi incontrano quelli castani e guardinghi della piccola. C’è qualcosa di strano in lei: lo sente ma non comprende cosa sia. Non le rivolge parola: le slega le mani dal raggio della ruota, poi si alza e comincia a cercare tra il mucchio di oggetti poco distante qualcosa di utile. La bambina non si muove, è terrorizzata, ma la giovane non fa alcun gesto per rinfrancarla. Un atto simile è fuori dalla sua portata: conosce il valore della vita perché ne ha tolte troppe, ma non le è mai stato insegnato a stare con le persone. Come avrebbe potuto rimanendo imprigionata per gran parte della sua vita in una scantinato? La bambina non si muove: è vigile e osserva la sconosciuta. Le persone con cui viaggiava sono morte, non ha avuto nemmeno il tempo di conoscerle. Non volevano conoscerla: era figlia della strega, una bastarda degli Altri, e solo un atto di compassione li aveva spinti a portarla con sé, lontano dalla sua casa vuota ormai, dopo che Loro avevano portato via sua madre. Quella ragazza dai capelli lunghi e corvini le piace, anche se odia le sensazioni che sente provenire dalla sua spada: sono malvagie. La mamma le ha sempre detto di scappare quando sente quelle sensazioni, ma la giovane è buona: lo vede, lo sente, sa che non le farà del male. Si alza e si avvicina a lei: sa di essere osservata, la ragazza non l’ha mai persa di vista, e con l’empatia che l’ha sempre contraddistinta percepisce che la sta lottando contro qualcosa di oscuro. Non sa spiegarselo ma è consapevole che il loro destino è profondamente intrecciato. «Come ti chiami?» chiede la bambina titubante.


La giovane si volta, la osserva e poi scrolla la testa triste «Non lo ricordo.» Sono passati troppi anni da quando qualcuno l’ha chiamata per nome e, anche se vorrebbe, non se lo ricorda. La bambina capisce istintivamente e le sorride «Io sono Nene.» Non riceve risposta. La salvatrice guarda il cielo: il sole è ormai già alto ed è ora di rimettersi in cammino. Si alza e si girò verso la piccola. «Andiamo» le dice e, senza voltarsi, si incammina verso il sentiero. La bambina capisce che non c’è più niente da fare lì, si guarda ancora un attimo in giro e poi le trotterella dietro. La bambina osserva la sua camminata sciolta: c’è forza in lei, c’è vitalità; i suoi occhi la sondano e l’analizzano carpendone ogni flusso vitale. Aumenta il passo per mettersi al pari della ragazza. Non parla, non è ancora il momento; silenziosa, segue la sua nuova compagna di viaggio verso il destino che l’attende. La ragazza sente la presenza della bambina. La spada sembra essersi assopita: un buon segno? Un cattivo segno? Non lo sa, adesso pensa solo ad andare avanti e cercare un riparo e del cibo per la notte, poi si vedrà. Guarda fisso davanti a sé e annusa l’aria: il profumo della primavera viene trasportato dal vento e si lascia inebriare dagli odori che percepisce. Di sottecchi osserva la bambina che le cammina accanto: la primavera è arrivata. Forse…


Angeli insani di Elisabetta Bricca In un mondo inverso, dove niente ha senso, e i sogni hanno perso, per un tempo perverso, né logica, né cuore ma insano torpore;

Lobotomia delle menti, meccanica dei corpi, c’è ancora sangue? O solo sangue da versare? E l’anima vive, per quel soffio vitale, spinto da un Dio, o è pura utopia, voluta follia?

Lontano, lontano… Dove l’occhio si perde ma l’essere avverte, una mera illusione? Anelata tensione di ciò che non siamo? Al largo di Orione, un’oscura visione… Appare e decade, a noi angeli schiavi di un mondo malsano.


Intramezzo digitale amoroso (?) di Elisabetta Ossimoro Sofi87 scrive (0.49): *hola :) volevo farti un salutino prima di andare a nanna...come va? Gio85 scrive (0.50): *tutto ok... Sofi87 scrive (0.50): *ma ti connetti sempre a questa ora da streghe? Gio85 scrive (0.51): *veramente qui sarebbero le nove del mattino, sai com’è…qualche oretta di fuso Sofi87 scrive (0.51): *giusto… Gio85 scrive (0.51): *più o meno Sofi87 scrive (0.52): *che cos’hai mangiato oggi? Gio85 scrive (0.52): *sushi sushi sushi, ucciderei per un piatto di spaghetti che non sembrino fatti di gelatina. Prima di partire pensavo che venendo a fare questo tirocinio strapagato qui a Tokyo le cose sarebbero andate meglio… in realtà il marketing fa schifo qui come laggiù, solo che in Italia ti lodano se appena fai le fotocopie giuste…. qui se sbagli sei crocifisso in sala mensa come Fantozzi Sofi87 scrive (0.53): * :-D :-D :-D Gio85 scrive (0.54): *uhm... dico sul serio Sofi87 scrive (0.54): *certo! Gio85 scrive (0.55):


*mi manca la mia stupida università e mi manchi tu… Sofi87 scrive (0.56): *davvero? Gio85 scrive (0.56): *sei strana stasera…. Sofi87 scrive (0.57): *bah, forse… Gio85 scrive (0.57): *non me la conti giusta…. ti è successo qualcosa? Sofi87 scrive (0.58): *bah, solite cose, sono andata al ricevimento dalla prof di paleografia latina, ma naturalmente non c’era…. Gio85 scrive (0.59): *da quando fai paleografia? Sofi87 scrive (1.01): *da mai, temo: ho perso ogni voglia di prendere in considerazione quell’esame Gio85 scrive (1.01): *razza di cazzate che fate voi umanisti :-P Sofi87 scrive (1.02): *modera i termini, io sono ben un’umanista! Gio85 scrive (1.05): *Eddai, scherzavo…. Dio, quanto sei strana stasera…. Sofi87 scrive (1.05): *be’, in effetti….giacché mi metti sotto torchio… Gio85 scrive (1.06): *ecco, ci avrei giurato: cos’è successo? Sofi87 scrive (1.06): *ho fatto un incontro piacevole qualche giorno fa… Gio85 scrive (1.06):


*piacevole in che senso? Sofi87 scrive (1.07): *sta’ buono, fammi raccontare! Sofi87 scrive (1.09): * allora, ti ricordi di quella volta….quando sono andata alla festa di laurea della mia amica Liliana? Gio85 scrive (1.10): *se ti dico di no, ti offendi? Sofi87 scrive (1.12): * sei tremendo… comunque, lì avevo incontrato quel tipo mezzo giornalista…quello che scrive sul giornaletto dell’informagiovani. Biondo… occhi celesti…. riga in mezzo… Gio85 scrive (1.12): *ne so quanto prima e non capisco dove tu voglia andare a parare Sofi87 scrive (1.12): *aspetta… comunque lì avevamo parlato del più e del meno…. niente di che… forse avrei potuto evitare di mettermi a sghignazzare quando ha detto che la certezza di non poter leggere tutti i libri esistenti mondo lo faceva stare male… comunque, pensavo di essergli parsa una cretina totale Gio85 scrive (1.12): *…………………………………. Sofi87 scrive (1.13): *e invece… passa un mesetto e lunedì lo ribecco in facoltà, con la sua lunga onda di capelli e il suo piglio lunare Gio85 scrive (1.13): * risparmiami i commenti pseudopoetici… insomma, ho capito. è stato un autentico riveglio dei sensi. Sofi87 scrive (1.14): *comunque mi saluta, mi abbraccia, mi bacia, tutto felice di rivedermi, come se non aspettasse altro! Pazzesco… e poi mi chiede di uscire!!!!! Gio85 scrive (1.14): *cooooosa???? E tu che gli hai detto?


Sofi87 scrive (1.14): *gli ho detto di sì, ovviamente! Sofi87 scrive (1.16): *Così siamo andati insieme a vedere un film che si intitola “Un giorno questo dolore ti sarà utile”, una commedia strana concettuale di quelle che piacciono a lui. E indovina un po’? Gio85 scrive (1.16): *ah, a questo punto non mi stupisco più di niente…. Sofi87 scrive (1.16): *mentre il protagonista litiga con la madre, be’… lui mi ha baciata! Coi controfiocchi, eh?! Gio85 scrive (1.18): *………………………………………………………… Sofi87 scrive (1.18): *sei svenuto? Be’, così impari a darmi della sfigata! Gio85 scrive (1.18): *mah, senti… toglimi una curiosità…. perché vieni a dirlo a ME? E poi con questo candore, questa finta bontà… io sono basito! Sconvolto! Sofi87 scrive (1.20): *te l’ho detto perché hai insistito… e francamente non capisco il tuo sgomento. E’ una cosa naturale! Gio85 scrive (1.21): *Cornificare il fidanzato che si trova in un altro continente è normale? Ok, forse è vero… ma andarglielo a dire con questa leggerezza…. ma che ti sei fumata stasera? Sofi87 scrive (1.22): *secondo me sei tu che sei fumato…giuro che non comprendo! Che continente? Che fidanzato? Gio85 scrive (1.22): *…………………………………………oddio……………… ma cosa succede, il mondo sta andando a gambe all’aria……………………………… IO SONO IL TUO FIDANZATO! PER AMOR TUO MI SONO SORBITO TUTTI QUEI PRANZI IN CAMPAGNA CON QUELLA MUMMIA DI TUA MADRE, TUTTI QUEI


SEMINARI DEL CAZZO SULLA STORIA DELLA REGIONE, SONO PURE ANDATO A PORTARE DAL VETERINARIO IL TUO GATTO QUANDO AVEVA LA COLITE E TU MI RIPAGHI COSI’? IO, IL TUO FIDANZATO!!! Sofi87 scrive (1.23): *ehm…. giuro che mi sono persa un passaggio, io e te non siamo mai stati fidanzati! Anzi, non mi risulta che siamo mai neanche stati amici… infatti non capivo tutta questa confidenza stasera! Da quando ci siamo conosciuti a uno dei famosi seminari del cazzo che hai nominato poco fa, ci siamo parlati pochissimo… ci ha presentati Roberta e avevo chiesto il tuo contatto msn perché mi serviva qualcuno che desse ripetizioni di economia politica a mio fratello, ma poi non se n’è fatto niente. Stasera hai proprio deragliato di brutto, lo sai?! Gio85 scrive (1.23): *ma…… tu……. tu non sei….. Sofia Gastaldi, la mia fidanzata?! Sofi87 scrive (1.23): * Dio me ne scampi!!! Sono Irene Giachini! E la odio, la tua fidanzata! Dritta come un fuso, prende tutti 30 e va tutte le sere in discoteca… non mi sorprende che anche sua madre sia odiosa! Gio85 scrive (1.24): *non ti permettere! Ma perché cazzo vai in giro con il suo nick, Sofi87? Sofi87 scrive (1.24): *perché ho letto di recente l’ultimo romanzo di Federico Moccia, L’uomo che non voleva amare, e la protagonista si chiama Sofia… e io sono dell’87, ho cambiato nick stasera Gio85 scrive (1.24): *……………………………………………………………………….oddio che cantonata……………………….. Sofi87 scrive (1.26): *questa è da antologia, domani vedrai quando la racconto! Gio85 scrive (1.27): *forse sono un idiota, ma provo un indescrivibile senso di sollievo, un risveglio della mia coscienza Sofi87 scrive (1.27): *sì, concordo… sulla prima parte: sei un idiota. Ma non per la ragione che pensi tu… Gio85 scrive (1.28):


*perchÊ dunque? Sofi87 scrive (1.29): *ora vedi come te lo do io il risveglio della coscienza, cosÏ posso vendicarmi di tutte le umiliazioni che mi ha inferto quella stronza della tua tipa: sono 2 mesi che se la fa con una matricola con dei bicipiti grossi come meloni, un tronco di pino che non ti immagini! Si infrattano nella biblioteca di dipartimento‌ lo sanno tutti! Gio85 ha abbandonato la conversazione (1.30)


Il ritmo nel vento di Gabriella Parisi Il vento trasportava raffiche di un ritmo ipnotico. Una cadenza sconosciuta, prodotta da uno strumento misterioso e magnetico. Il ragazzo si sentiva contemporaneamente attratto e respinto dal suo richiamo. Era curioso di scoprire cosa producesse quel suono che il vento faceva arrivare non solo alle sue orecchie, ma a tutte le cellule del suo corpo, con vibrazioni che gli scuotevano ogni singolo nervo. Eppure, nonostante la malia di quella melodia, sentiva una sorta di ripulsa quasi fisica: la sua storia, la sua situazione gli dicevano che essere attratti dalla diversità, dalla novità, poteva essere molto pericoloso. Solo per ascoltare, solo per vedere quale strumento lo produce, si disse, uscendo dalla tenda. Erano arrivati la sera prima e si erano accampati fuori dalle mura della città di Crolton. Molti si sarebbero fermati lì, ma lui aveva deciso di proseguire per Karatrak, dove sperava di essere accolto nell’Accademia dei Musici di Corte – sempre ammesso che la notizia della sua espulsione dall’Accademia di Hivelan non fosse già di pubblico dominio, il che gli avrebbe precluso ogni prospettiva di diventare ciò che aveva sognato da sempre. Espulso. La parola gli si era impressa nel cervello come un marchio a fuoco. Non c’era un attimo nelle sue giornate – e neanche nelle sue notti – in cui non la sentisse dentro le orecchie, dentro il cuore, dentro lo stomaco. Cacciato via come un verme per aver eseguito musica non consona agli standard richiesti dall’Accademia, per aver suonato la sua musica, il suo fiume di note travolgenti, che lo aveva portato fuori dagli argini. Clairion si era ritrovato fuori dall’Accademia totalmente stordito, senza sapere cosa fare o dove andare e con gli abiti improvvisamente striminziti; quando era arrivato ad Hivelan due anni prima non avrebbe mai creduto di poter più indossare altre vesti che non fossero quelle del musico: beige per tutti i giorni, verdi e oro per le rappresentazioni. Fin da quando ricordava, l'unico scopo della sua vita era sempre stato diventare Musico di Corte. Si era impegnato con ogni fibra del suo essere per farsi ammettere all’Accademia, per migliorare ciò in cui era carente e per far risaltare ciò in cui eccelleva. E, fino a quel momento, era stato ripagato per l’impegno profuso. Ma poi… quella musica invadente, coinvolgente, quella musica che era la sua musica, era arrivata come una tromba d’aria e aveva stravolto ogni cosa. Aveva vagato per le strade di Hivelan come un pazzo per una notte e un giorno dopo l’espulsione. Poi, stremato dalla stanchezza e dalla fame, si era appisolato fuori da una taverna in cui aveva rimediato qualche avanzo. Infine, entrato al suo interno, aveva inteso un gruppo di mercanti che erano in partenza per Pistral. Nella sua capitale – Crolton – stava per svolgersi una fiera molto importante e Clairion, improvvisamente spinto da un impulso di disperazione, aveva ricordato che a Pistral, precisamente nella città di Karatrak, c’era un’altra Accademia per Musici di Corte, meno importante di quella di Hivelan, forse, ma pur sempre una piccola porta aperta alla speranza. Aveva chiesto, in cambio di piccoli servigi, di potersi aggregare al gruppo di mercanti, per poter arrivare a Pistral e chiedere di essere ammesso a frequentare ancora una volta un istituto per poter seguire la sua vocazione. Per fortuna quei mercanti erano molto socievoli ed avevano accettato la sua compagnia.


Lei è lì. Immobile. Attorno ai polsi e alle caviglie ha dei nastri pieni di nodi che non la legano a niente, solo all’aria. Dorelys è spettinata, ha profonde occhiaie e continua a guardarlo con aria supplichevole. Prova a muoversi, ma è come se nell’aria ci fosse un ostacolo, un freno ad ogni suo movimento. «Suona!», gli dice. Poi continua a sforzarsi per eseguire la sua danza sinuosa, ma riesce solo a muoversi bruscamente, strattonando catene invisibili. «Suona la tua musica, fallo per me!». I lamenti della fanciulla sono strazianti e Clairion cerca di mettersi le mani sulle orecchie per non udirli: neanche lui riesce a muoversi. Cerca di camminare verso il clavicordo ma il suo percorso sembra non aver mai fine – come sempre accade in sogno – e lo strumento si allontana sempre di più, fino a svanire. «Non riesco più a danzare!», geme Dorelys, mentre Clairion terrorizzato viene spinto via da cento mani invisibili che lo scacciano, lo allontanano da Dorelys, finché il ragazzo non si sveglia madido di sudore. Ogni notte lo stesso sogno. Uscito dalla tenda, Clairion fu accolto da una folata di vento che portava le note di quello strumento che lo attirava a sé. Come se il vento lo stesse incitando e gli avesse posato delicatamente una mano sulla spalla per accompagnarlo. La città era in fermento: in ogni angolo fervevano i preparativi per la Fiera. Alcuni bottegai allestivano allegri e colorati banchi di mercanzie; gli osti avevano preparato piccoli chioschi all’esterno dei loro locali, dove friggere e scaldare vivande da vendere ai passanti e spillare il vino; le fioraie preparavano mazzetti colorati legati con nastri di raso; i pasticcieri continuavano a sfornare dolci e a riempire i chioschi; i bambini correvano scalzi da una bancarella all’altra rincorrendosi e chiamandosi festosi. Il ritmo continuava ad avvicinarsi, poi si allontanava, giocando con il vento come i fanciulli fra gli stand della Fiera. Clairion seguiva le vibrazioni nel vento senza esitare: si infilava nei vicoli, girava a destra, poi a sinistra, scansava i passanti e i mercanti, passava fra mille profumi e odori, si stordiva fra i colori accesi della festa. Deciso, rispondeva alla chiamata: la repulsione che aveva provato prima nella tenda era già dimenticata, ogni remora vinta. Quasi inciampò in una corda lasciata da un sellaio, che stava disponendo raffinati finimenti di cuoio all’esterno della sua bottega; poi, come se fosse sfuggito a un pericolo ancora incombente, Clairion si mise a correre verso il ritmo, affannosamente, avidamente, ritrovandosi in una piazzetta semideserta, dimenticata dai mercanti in Fiera. Sotto a un edificio imponente, dalla cupola di mille diverse tonalità di verde, Clairion vide un ragazzo giovanissimo che muoveva la mano su uno strumento a corde che non aveva mai visto, producendo il ritmo ammaliatore. Era appoggiato con la schiena contro le mura dell’edificio e teneva il ginocchio flesso e il piede puntellato contro la pietra per sostenere lo strumento. Da vicino Clairion si rese conto che non si trattava di un semplice ritmo, ma di una vera e propria musica, simile a quella che scriveva lui, eppure completamente diversa. Si avvicinò al ragazzino, che lo guardò e gli sorrise rivelandogli due fossette che lo facevano sembrare ancora più giovane. «Ti stavo aspettando» gli disse con aria cospiratoria il ragazzino, continuando a suonare. La sua voce era dolce. I suoi movimenti aggraziati e il leggero


rigonfiamento sotto la blusa gli fecero sospettare che non si trattasse affatto di un bambino, ma di una ragazza. Clairion la guardò attonito, poi si volse indietro per vedere se improvvisamente fosse arrivato qualcun altro alle sue spalle e fosse a questi che la musicista si stava rivolgendo, ma la piazzetta continuava ad essere deserta. «Stavi aspettando me?». La voce uscì molto più forte di quanto avesse desiderato a causa dell’affanno. La ragazzina non gli rispose. Smise di suonare e si avviò verso lo sbocco della piazza opposto a quello da cui era arrivato Clairion. Era sicura che lui l’avrebbe seguita. «Come si chiama lo strumento che suoni?» chiese Clairion, vinto dalla curiosità. Avevano percorso un dedalo di vicoletti e il ragazzo temeva ormai che non sarebbe più riuscito a tornare indietro senza una guida. «Klasthar», rispose lei. «Si chiama come mio fratello, che mi ha aiutata a costruirlo». Clairion si domandò se quello fosse il nome comune per quel tipo di strumento o se fosse un nome proprio che la ragazza gli aveva dato, dal momento che era la prima volta che vedeva qualcosa del genere — non era uno degli strumenti tradizionali che si utilizzavano all’Accademia dei Musici di Corte — ma non osava dimostrare la sua ignoranza. La ragazza interruppe le sue perplessità. «Non è strano che tu mi chieda il nome del mio strumento prima di domandarmi il mio? Ma ti capisco, oh, se ti capisco!», disse la fanciulla maliziosamente. «Comunque, se ti interessa, mi chiamo Kerrilyn,» aggiunse poi. «Io sono Clairion,» disse il ragazzo con aria contrita. Le parole di Kerrilyn gli erano sembrate uno scherzoso rimbrotto. «Oh, so molto bene chi sei!», disse Kerrilyn svoltando in un vicolo chiuso in cui si apriva una malconcia porticina di legno bruno. Clairion, spiazzato, continuava a non capire, ma non voleva fare domande: un turbine di pensieri gli vorticava in testa, confondendolo, e fare domande avrebbe solo aumentato la sua confusione, visto che non sapeva da dove cominciare. Sperava solo che Kerrilyn, prima o poi, gli avrebbe fornito delle risposte, dando un senso a quella confusione che provava. Entrarono in un edificio fatiscente dal soffitto altissimo e cadente. Forse si trattava di una sala da ballo in disuso, ma la confusione di vecchi mobili, oggetti e ragnatele che vi regnava non consentiva di farsi un’idea ben precisa. «Sono arrivata qui tre anni fa.» raccontò Kerrilyn, mentre attraversavano gli angusti corridoi che si erano creati fra un divano rattoppato e uno scrittoio tarlato, fra una pila di cappelli di mille fogge e colori e un armadio senza ante da cui straripavano abiti fatti di ogni genere stoffa e modello, forse le vestigia di un’antica Accademia Drammatica. «La musica era il mio sogno, ma… come vedi sono una ragazza: niente Accademia per me.» disse facendo un gesto vagamente rassegnato con la mano e guardando un punto distante, forse ricordandosi della ragazzina che era stata. Sedette su un polveroso tappeto arrotolato e invitò il ragazzo a seguire il suo esempio. «Da piccola, quando vivevo con i miei fratelli, suonavamo tutti insieme. Avevamo tutti la passione per la musica e un unico sogno: diventare Musici di Corte e suonare ai Grandi Balli di Hivelan e di Crolton. Ma naturalmente il mio sogno era irrealizzabile. Poi Lukis, il mio fratello più grande, fu arruolato per la Guerra contro i Kahili e fu mandato nella Foresta di Songon. Non tornò più…»Kerrilyn guardava nel vuoto, gli occhi velati di lacrime. «Klasthar, ormai stanco di aspettarlo, una notte partì. Ci lasciò un biglietto in cui diceva che era deciso a farsi ammettere all’Accademia dei musici di Corte di Hivelan.


In un post scriptum cercò di consolarmi dicendomi che la Musica non era l’Accademia, che avrei trovato la mia strada e il mio modo per fare musica.» Clairion si sforzò, cercando di ricordare chi fra i musici o gli allievi dell’Accademia da cui era stato cacciato potesse essere Klasthar.» «Io e Edemon, il mio fratellino più piccolo, ci rassegnammo alla perdita di un altro membro del nostro nucleo familiare ma, ciononostante, eravamo felici per lui, perché avrebbe realizzato il suo sogno.» «E poi, un giorno, ci arrivò la tremenda notizia: neanche Klasthar sarebbe riuscito a raggiungere la meta agognata da tutti giovani membri della nostra famiglia. Era stato espulso. Klasthar era un musicista generoso, fantasioso e originale. Fin da piccolo aveva suonato ogni sorta di strumento musicale e aveva anche inventato diversi strumenti, come quella specie di viella che ti ha portato fino a me. Amava sperimentare, creare, giocare con i suoni e i ritmi. Era un genio. E loro lo avevano espulso. Credevano che fosse fuori dagli schemi, ma la verità è che non lo meritavano. I mesi passavano, ma Klasthar non tornava a casa. Decisi di partire per cercarlo, per convincerlo che non tutto era perduto, che non esisteva solo quell’Accademia, ma soprattutto volevo dirgli ciò che lui aveva detto a me: che la Musica non era l’Accademia e che avremmo trovato insieme la nostra strada, il nostro modo per fare musica. Insieme ce l’avremmo fatta, ne ero sicura.» «E così arrivai qui a Crolton ed effettivamente lo trovai. Suonava per le strade, quando gli andava, altrimenti si limitava a mendicare. Trovammo questo posto per caso, e aprimmo la porticina per ripararci dal vento che ci tagliava il viso con le sue raffiche insistenti. Credo che fosse un vecchio Teatro o un’Accademia per Attori di Corte ormai abbandonata da tempo.» «Per un periodo mi sembrò di essere riuscita a convincerlo a reagire: costruiva nuovi strumenti, componeva ballate e canzoni. A volte aggiungeva anche versi poetici, oppure raccontava le imprese degli eroi dell’Antico Regno, come facevano tanto tempo fa i Menestrelli di Corte. Parlavamo di quando ci saremmo esibiti per le strade con la nostra musica, di come avremmo trasformato questo posto, facendolo diventare un’Accademia per Musici diversa da quelle di Hivelan e Karatrak, un posto dove fosse concesso anche alle donne di diventare Musici e dove qualsiasi musica sarebbe stata ben accetta. Ci furono dei ragazzi che si unirono a noi. Erano ragazzi di strada, ma alcuni erano davvero dotati come musicisti. Il sogno cominciava a prendere forma, anche Edemon ci raggiunse e — a parte Lukis, che ci mancava immensamente — sembrava che tutto fosse come prima, prima che la guerra e l’Accademia sconvolgessero la nostra famiglia.» Kerrilyn si passò una mano sugli occhi, poi andò a sfiorare lo strumento che portava il nome di quel suo fratello adorato. Le parole le uscivano con fatica: non riusciva a trovare in sé la forza per proseguire il racconto. Poi, dopo un sospiro, riprese con voce incrinata. «Un giorno, però, arrivarono alcuni membri anziani dell’Accademia di Hivelan. Cercavano — come ogni anno — le nuove leve per l’Accademia e reclutarono alcuni ragazzi, fra cui Farkon, un ragazzino molto dotato, che aveva preso il posto di Lukis nel nostro quartetto originario. Farkon era dispiaciuto per noi — per Klasthar soprattutto — ma anche il suo sogno era quello di diventare Musico di Corte, quindi era al settimo cielo per essere stato scelto. «Klasthar crollò: dopo avergli negato la realizzazione del suo sogno gli stavano portando via anche colui che rappresentava la sua speranza per il futuro. Smise di suonare e ricominciò a mendicare. Non mangiava più, non ragionava più. Cambiava sempre angolo in cui accattare, per non farsi trovare da me, per non farsi convincere a ricominciare a sognare e quando lo trovavo mi diceva soltanto fra le lacrime e la febbre: “Anch’io volevo studiare all’Accademia di Hivelan. Chiedevo solo questo!”»


Lacrime scendevano silenziose sulle guance di Kerrilyn. La voce era rotta dai singhiozzi, ma riprese il racconto senza ulteriori indugi. «Una mattina lo ritrovammo senza vita in un vicolo… non so da quanti giorni non mangiasse e ormai disperavamo di farlo tornare qui, ma fu ugualmente un colpo tremendo. Edemon fu il più forte di tutti noi e riuscì a farmi reagire, dicendomi che non voleva perdere anche me, che se l’Accademia non aveva voluto Klashtar e aveva distrutto i suoi sogni, allora non meritavano niente. Che non sognava più di diventare un Musico di Corte, che il suo sogno era di stare con me e portare avanti il progetto che avevamo intrapreso con Klasthar.» Kerrilyn si asciugò gli occhi e prese lo strumento fra le braccia cullandolo come il fratello perduto. Un lungo silenzio seguì le sue parole. Clairion non sapeva cosa dire: era profondamente commosso da quella storia che gli sembrava così vicina alla sua, eppure non voleva chiedere: aveva paura delle risposte, paura che anche il suo sogno fosse ormai irraggiungibile. Tuttavia non voleva rinunciare all’esile speranza rimastagli. Kerrilyn si alzò, spezzando l’atmosfera drammatica che si era creata e andò in cerca di qualcosa da bere. Tornò con due coppe piene di una bevanda dolce e tiepida che offrì a Clairion. «Ti starai chiedendo come mai ti stessi aspettando e come mai sapessi chi fossi.» disse la ragazza dopo essersi schiarita la voce. «Naturalmente la notizia della tua espulsione dall’Accademia di Hivelan non poteva rimanere un segreto, soprattutto perché noi teniamo d’occhio quei signori e tutte le ingiustizie che continuano a perpetrare. Non vogliamo che nessuno debba patire ciò che ha patito Klasthar, ciò che abbiamo patito anche noi.» Kerrilyn lo guardò apertamente negli occhi e Clairion vi lesse solidarietà e compassione, ma anche serenità e fiducia. «Non sapevamo se saresti passato da qui, ma se lo avessi fatto speravo proprio di riuscire a parlarti, per farti sapere che non sei solo, che non tutto è perduto, che se vuoi continuare a suonare la tua musica ci siamo noi, pronti ad accoglierti a braccia aperte…» Clairion la interruppe commosso, tuttavia cercò di dimostrarsi risoluto nella sua decisione. «Diventare un Musico di Corte è sempre stato il mio sogno…». Tutto quello che aveva patito negli ultimi mesi insinuò nella sua voce una nota petulante, come se dovesse giustificarsi per l’ambizione di tutta una vita. «Credi che non sappia cosa significa? Credi che non fosse anche il mio sogno? E quello di mio fratello?». Kerrilyn aveva iniziato con voce salda, ma poi improvvisamente il suo tono aveva preso un tono stridulo, angosciato. «A loro non interessa niente dei tuoi sogni, né della tua musica. Vogliono solo l’esecuzione perfetta e la composizione perfetta — ovviamente secondo i loro canoni —, e poco importa loro se esiste un’altra musica, una musica che fa provare allegria, gioia, dolore, inquietudine, disperazione, rabbia, pace. A loro non interessa se tu ami la tua musica come se fosse un essere generato da te, lo considerano un’aberrazione e te la strapperebbero via dal cervello se potessero. Non vogliono niente al di fuori dei loro standard e quando si sono accorti che non riuscivano a farlo, che non potevano estirpare la tua musica da te, hanno preferito espellerti!». Clairion la ascoltava in agonia. Sapeva bene che le parole della fanciulla rispecchiavano quello che anche lui pensava, ciò che aveva continuato a ripetersi per giorni, per settimane, per tutto il lungo tragitto da Hivelan a Crolton e che sarebbe stato quello che avrebbe continuato a pensare fino a Karatrak, il dubbio che — anche se lo avessero ammesso nell’altra Accademia — lo avrebbe sempre turbato. Ma non


voleva lasciare che questa ragazza, sbucata dal nulla in una piazza deserta, recidesse quel sottilissimo filo di speranza che lo teneva ancora legato al suo sogno. Kerrilyn vide il dolore nei suoi occhi e si addolcì. Fece un lungo sospiro per calmare la rabbia che provava dentro, cercando di non rivelargli i propri pensieri, i dubbi che aveva riguardo a una sua possibile ammissione all’Accademia di Karatrak. «Non ti sto consigliando di abbandonare il tuo sogno. È stato anche il mio sogno e forse continua ad esserlo nonostante tutto, nonostante per me sia ancora più impossibile di quanto non lo fosse per Klasthar dopo l’espulsione. Ti dico solo che noi siamo qui. E ti dico quello che mi disse mio fratello quando se ne andò: la Musica non è l’Accademia, si può trovare un’altra strada e un altro modo per fare musica.» Lei è lì. Immobile. Attorno ai polsi e alle caviglie ha sempre gli stessi nastri pieni di nodi che non la legano a niente, ma questa volta i nodi sembrano essersi allentati. Dorelys è sempre spettinata e ha profonde occhiaie, ma non lo guarda: ha lo sguardo concentrato su qualcosa lontano, come se stesse cercando di ricordare qualcosa. La fanciulla inizia a muoversi lentamente, sinuosamente come se udisse una musica che lui non percepisce. E poi anche Clairion lo sente: è il suono ipnotico e fortemente ritmato prodotto dal klasthar, lo strumento di Kerrilyn. Lentamente il ritmo si avvicina, come ha fatto quel pomeriggio quando il vento l’ha spinto verso di lui calamitandolo nella piazzetta. I movimenti di Dorelys si intensificano, diventando sempre più liberi e sinuosi. Il ritmo del klasthar si sovrappone a una delle sue musiche e Dorelys danza felice, sciolta, quasi sfrenata, mentre i nastri le volano via dai polsi e dalle caviglie. La ragazza salta, volteggia, si agita e Clairion la osserva con il petto che gli si riempie di un’enorme gioia. La musica può produrre tutto questo. La sua musica! Improvvisamente anche lui incomincia a ruotare su se stesso al ritmo del klasthar ridendo felice. Clairion si svegliò nel cuore della notte con una sensazione di trepidazione, ma anche di speranza che non provava ormai da molti giorni. Il sogno era cambiato, tutto era cambiato! Che significato aveva andare in un’altra Accademia per Musici di Corte, dover ricominciare tutto daccapo, con il rischio di essere espulso nuovamente — sempre ammesso che fossero disposti ad ammetterlo — a causa della sua musica? Perché Clairion non vi avrebbe mai più rinunciato: la sua musica travolgente era ormai una parte di se stesso, il suo stesso motivo di vita, il sottile legame con Dorelys. Era tutto ciò che ormai gli restava, il suo unico talento. L’Accademia e tutto ciò che era collegato ad essa gli sembrava ormai privo di scopo, un sogno vuoto: il sogno in cui Dorelys non riusciva a muoversi e a danzare. Il sogno era cambiato: anche con gli occhi aperti, mentre guardava la stoffa della tenda che si agitava lieve alla brezza notturna. Con il respiro che gli tremava per l’emozione della scoperta, Clairion capì che anche il suo sogno era cambiato. D’improvviso si sentì spossato, come se fosse riuscito a rimuovere fisicamente un enorme macigno dal cuore e poi si sentì invadere da un’enorme tranquillità. All’alba salutò i mercanti della carovana e li ringraziò per la loro gentilezza e per tutto l’aiuto che gli avevano dato quando aveva perso ogni speranza, quando si era sentito un reietto. Non avrebbe proseguito per Karatrak: la sua musica non sarebbe rimasta incatenata alle regole di un’altra Accademia.


Incominciò a camminare verso la piazzetta in cui solo il giorno prima aveva incontrato Kerilynn, quella piazzetta in cui il suo mondo era cambiato, assumendo un'altra prospettiva da cui guardare al futuro. E poi si mise a camminare sempre piÚ veloce, a correre, come se non volesse piÚ perdere neanche un attimo. Stava correndo libero, a braccia aperte verso il suo nuovo sogno.


Le Réveil di Germana e Roberta Maciocci Ci siamo, pensò Emma. La familiare sensazione di rigidità e impotenza pervadeva il suo corpo ancora una volta, mentre la donna giaceva, inerme e vulnerabile, nel suo letto. Chiunque l'avesse vista in quel momento, avrebbe potuto giurare che fosse profondamente addormentata, le palpebre chiuse, il respiro regolare, le membra mollemente abbandonate tra le coltri. In realtà, la donna era completamente sveglia, in allerta. Riusciva perfino a vedere, a scorgere nella penombra i particolari della sua stanza e qualsiasi altra persona che fosse stata presente nei momenti in cui l'anomalia la colpiva. Unica manifestazione fisica che avrebbe potuto attirare l'attenzione, il battito cardiaco notevolmente accelerato, ulteriore dettaglio spiacevole di una condizione alla quale le era impossibile sottrarsi. Le braccia e le gambe non rispondevano ai suoi stimoli imperiosi al movimento, il corpo continuava a giacere inerte, mentre qualsiasi possibile richiesta di aiuto rimaneva bloccata in un grido muto nella sua mente. La prassi era la stessa, uguale: si addormentava di colpo e si ritrovava in un sogno dai colori vividi, nel quale le sembrava di agire in un mondo parallelo, molto spesso in situazioni piacevoli, dove qualsiasi cosa – odori, rumori, sensazioni – sembravano veri. Si era ritrovata, ad esempio dalla modista, dove poteva avvertire sotto le sue dita la morbidezza del velluto o la freschezza della seta; a volte si era risvegliata all'improvviso nel bel mezzo di questi sogni con un sospiro di delusione, come se "dall'altra parte" avesse lasciato qualcosa – un ninnolo che fino a un istante prima stringeva tra le mani, una persona dal volto estraneo ma che le era sembrato conoscesse da sempre, con la quale aveva chiaccherato amabilmente davanti a una tazza di cioccolata calda. Altre volte, dalla piacevolezza del sogno, Emma scivolava, come Alice nella tana del bianconiglio, in uno stato di totale veglia mentale, vincolata da un'immobilità terrificante, assoluta. Spesso, a risvegliarla, era una condizione paradossalmente onirica: in uno stato di semi-trance lottava con tutte le sue forze per impedire a un’entità immaginaria, terrena o soprannaturale che fosse, di entrare (pur in questa realtà “altra” che viveva nello stato di semi-veglia), da una porta sospesa nel vuoto e immersa nell’oscurità. Come un ariete contro il portale di un castello, la donna forzava in senso contrario per impedire l’ingresso a questa – o queste – entità minacciosa che sembravano volerla, cercando di puntarsi sulle gambe, spingendo con le braccia, invano: la sua spossatezza reale, riconosceva Emma alla fine, derivava dalla sua fatica onirica. Eppure, quello che succedeva nei suoi “viaggi” immaginari in epoche, luoghi e situazioni diverse, era ancora più inquietante e doloroso: subire ogni volta la perdita di una traccia, un aroma, un oggetto che, risvegliandosi, cercava tra le pieghe delle lenzuola e delle coperte, sicura che ciò che aveva visto, sentito e percepito non fosse stato solo frutto di un sonno agitato o sedimento del subconscio. Chissà, si domandava di continuo, se sono la sola a vivere queste esperienze o se succede ad altri, magari a tante persone. Forse è vero che la nostra vita è un'evoluzione (o involuzione, per alcune persone) della somma delle vite precedenti: ma a chi raccontarlo? Gli scettici o i pragmatici non avrebbero condiviso queste considerazioni, anche se Emma, razionale nell’irrazionalità della sua vita semi-


onirica, aveva sempre trovato quasi ridicola la cecità di certi individui, pronti ad affidarsi a un’entità soprannaturale per convenzione sociale (i falsi credenti), e poi increduli di fronte ad accadimenti extrasensoriali provati in prima persona. E, qualora fosse vero che esistesse altra gente che si portava appresso quel fardello e che era in grado di trarne dei benefici, probabilmente non doveva mai essersi trovata alle prese con Gli Occhi. La prima volta che li aveva visti, aveva creduto che sarebbe morta dallo spavento. Poco dopo il Risveglio, come ormai Emma tendeva a chiamare familiarmente la sua “avventura” notturna, si era trovata a fissare quelli che sembravano due occhi completamente neri, senza iridi né pupille, più scuri della notte più nera, dalla forma allungata, i bordi dai riflessi vermigli rivolti all'insù in un'espressione, se così era possibile definirla, assolutamente, definitivamente inquisitoria. Fin da quella prima volta, Emma aveva capito che era tutta colpa degli Occhi: la sua immobilità, il peso sul petto, l'impossibilità di fuggire, di urlare a squarciagola il senso di orrore e di panico... quasi fosse stata sepolta viva. Erano gli Occhi a volerla così, a illuderla, ogni tanto, attraverso voli in atmosfere impalpabili e musiche soavi, che in realtà non era poi così male; forse in qualche modo avrebbe dovuto convogliare l'energia spesa a lottare invano per svegliarsi al fine di liberarsi da quel giogo infernale, assoggettandosi a esso, cedendo qualsiasi piccolo stralcio di resistenza, verso una libertà vera, assoluta. Sguardo di alterità, o forse il suo sguardo erano quegli Occhi: privo di dimensioni spaziali e temporali, il Risveglio era un ambito speculare, dove tutto si riproduceva senza poter identificare quale fosse l’istanza originale e quale la copia. Cominciava a credere che quello sguardo fosse il suo, quello del suo corpo astrale, fluttuante nella sua stanza: quante volte aveva provato a toccare un angolo del soffitto o lo stipite della porta per sincerarsi che, seppur non con il corpo fisico, stesse realmente “volando” tra le pareti della sua camera? E ogni singola volta la reazione era di percepire al tatto quell’angolo di soffitto e quello stipite della porta, mentre dall’alto vedeva chiaramente la sua sagoma (il corpo fisico) sdraiata e dormiente sul letto. Eppure, dopo le prime volte che questa esperienza l’aveva lasciata interdetta e forse un po’ spaventata, notte dopo notte si era ritrovata ad attendere che si ripetesse. Ma non era sempre così: non succedeva sempre e il terrore iniziale veniva sostituito dalla delusione quando la “magia” non scattava. Cominciava a credere che il massimo perfezionamento di quell'esperienza sarebbe stato riuscire a “volare” fuori dalle quattro mura della sua stanza, come in un racconto fantastico, poter sorvolare la città e magari anche attraversare il mare, le barriere architettoniche e naturali e ancora oltre, verso luoghi remoti, nello spazio di una notte. Forse stava esagerando: già era spossante sostenere, anche se non tutte le notti, un’impresa del genere. Chi credeva di essere? Una fata dei boschi? C’era poco da scherzare con l’intensità delle sensazioni provate nel suo girovagare notturno, ma il senso dell’umorismo era quello che l’aveva sempre salvata dalle sue introspezioni, troppo spesso dolorose, dall'avvitarsi dei suoi pensieri e dalle intuizioni alimentate dalla fantasia. Perché questo era quello che provava in realtà, anche se non riusciva ad ammetterlo fino in fondo: un misto di terrore e desiderio, di fascino e raccapriccio, che la spingeva nonostante tutto a voler svelare il mistero di quegli Occhi. Tale impulso l’aveva portata, alla fine, a sfidare quello sguardo crudele, con l’unico, fragile strumento che aveva a disposizione quando si trovava in quella sorta di livello parallelo: aveva provato a rivolgersi agli Occhi con la voce della sua mente,


a volte con gentilezza, come di fronte a un altro essere umano e non a una manifestazione che non poteva affermare con certezza non fosse altro, alla fine, che un prodotto grottesco della sua immaginazione malata. Altre volte aveva perfino urlato, in quella parodia di monologo senza suoni, con l’intento di cacciare via gli Occhi, di porre fine a quell’insensatezza, mentre si convinceva sempre di più che non sarebbero mai andati via, che erano una parte di lei, che erano lei. E, infatti, durante il periodo in cui era stata malata, tanto e così a lungo da far temere al marito che nonostante tutto l’avrebbe persa, ma non perché in fuga con il suo amante, gli Occhi non le avevano più fatto visita. La spossatezza e il delirio confuso di quei giorni infiniti le lasciavano allora energie appena sufficienti per respirare e forse gli Occhi, pensava lei, avevano avuto pietà della sua condizione e avevano deciso di non attingere ulteriormente alle sue risorse già scarse. L’idea che gli Occhi provassero uno stralcio di compassione nei suoi confronti le aveva fatto credere alla fine che fossero, in realtà, la manifestazione di Dio che Emma aveva cercato affannosamente da tutta una vita, invano, nella Chiesa, nel sentimento coniugale, sulla pelle dei suoi amanti. Un pensiero folle, si ripeteva spesso, ma anche perversamente logico nella sua semplicità. Dopo la guarigione, aveva ripensato a quelle teorie come ai vaneggiamenti di un moribondo, senza senso e privi di speranza. Quando gli Occhi si erano ripresentati, puntuali, ad attingere alle sue forze rinnovate, il senso di angoscia e di perdita imminente si erano sostituiti in un attimo a qualsiasi pensiero mistico. L’orrore provocato dalla loro espressione inquisitoria, la certezza che fossero loro a inchiodarla, viva e vigile, in quella pantomima di sonno, l’avevano trascinata di nuovo nell’abisso della dualità tra disperazione e bramosia. Cosa cercavano gli Occhi da lei? A quali, quante domande volevano rispondesse? Era soprattutto per quel motivo, per riuscire ad affrontare una volta per tutte quegli Occhi, unica costante della sua vita, che si era decisa a recarsi dal farmacista, nonostante ne disprezzasse l’indole saccente e le scarse capacità. Aveva valutato bene la sua scelta, anche se la cittadina dove abitava non offriva in fondo molte alternative, e l’ansia che ormai non era più in grado di gestire le faceva temere il peggio, per lei ma, soprattutto, per la sua bambina. In tutta questa situazione Charles rimaneva imperturbabile, squallido nella sua bonarietà, inetto come sempre: da medico avrebbe dovuto, ancor più che altri mariti, scorgere qualcosa di più di una semplice indisposizione, o di una smania passeggera, come quelle che lo avevano quasi ridotti sul lastrico: rimodernare la casa o comprare abiti sfarzosi che poi Emma non avrebbe neanche avuto occasione di indossare, vista la monotonia della loro vita. A malapena le aveva chiesto cosa le avesse prescritto il farmacista, ma non per disinteresse: a volte Emma sospettava che l’inerzia del marito derivasse da una forma di rimozione dei problemi e da una volontà di non sapere, non capire. Non era certo mai stato intuitivo né brillante, ma era impossibile che il comportamento e lo stato fisico e mentale della moglie lo preoccupassero in modo solo superficiale e non destassero in lui un allarme. Come sempre, Emma era lucida nella sua mancanza di lucidità: paradosso della sua vita, come quando si era perfettamente resa conto che le sue storie sentimentali erano tali solo per lei e che i due suoi amanti, in fin dei conti, avevano approfittato non tanto della sua virtù quanto della sua fame di novità e di amore passionale. A volte avrebbe preferito non essere così perspicace: e ora anche gli Occhi le si erano presentati come un nuovo stimolo verso qualcosa che sapeva non essere


casuale nella sua vita. Anche quando era stata sul punto di avvelenarsi erano apparsi loro, gli Occhi, e da quel momento si era resa conto che, nonostante l’inquietudine che le provocavano, non c’era da temerli: anzi, era il loro sguardo a proteggerla. Naturalmente il preparato del farmacista non aveva assolto neanche la funzione di placebo, che spesso calmanti e sedativi operano nei confronti di chi li assume: Emma sapeva che la verità e la serenità non l’avrebbe certo trovata in un miscuglio di polveri ed erbe. Oltretutto, questo lo aveva capito da poco: voleva, doveva immergersi catarticamente fino in fondo nella sensazione di inquietudine per riuscire a venirne fuori. L’appuntamento con gli Occhi aveva sostituito quelli che in precedenza anelava con i suoi amanti: ed era certa che, a differenza di quanto accadeva dopo gli incontri con i secondi, quando non le restava niente se non il rimpianto e la malinconia, prima o poi quelli con gli Occhi avrebbero portato ad altro e le avrebbero lasciato altro. Per questo decise che, quella notte, non avrebbe opposto resistenza e si sarebbe fatta attirare una volta per tutte nella voragine tenebrosa di quegli Occhi, ormai convinta che nel loro segreto si racchiudesse la tanto sperata chiave al compimento del destino di quella sua vita sacrificata, alla ricerca vana dell’unione finale, dell’appagamento fisico e spirituale. Non dovette attendere molto e, nel buio della stanza, gli Occhi si pararono dritti di fronte ai suoi, con la voracità di due piccoli buchi neri, a rinnovare la loro muta richiesta. «Prendetemi con voi.» La voce di Emma, nella sua mente, appena un bisbiglio, si fece più decisa a mano a mano che la scelta finale si definiva, sempre più decisa, verso l'oblio. «Portatemi via, è questo che volete vero? È questo che chiedete da sempre? Sono qui, sono pronta!» Gli Occhi rimanevano lì, davanti al suo volto, sempre fissi, sempre attenti... nessuna risposta, nessuna variazione nella loro presenza imperiosa e inevitabile. «È questo che voglio, capite? Potete sentirmi? Voglio venire con voi! Sento che è giunto il tempo di unirmi a voi perché questa è la mia volontà.» E fu in quel momento, quando si ritrovò a pronunciare la parola “volontà”, che accadde. Ora non era solo il suo corpo astrale a sollevarsi: se ne rese conto guardando, come ogni volta istintivamente dall’alto il letto dove tante volte si era vista dormire mentre la sua parte eterea galleggiava nella stanza. Il suo posto era vuoto, e Charles, nel suo pesante “sonno del giusto”, non si era accorto della sua assenza accanto, seppur recentissima: d’altronde, pensò Emma con proverbiale ironia, come potrei pretendere che si accorga della mia “nonpresenza” mentre dorme se non ha mai notato la mia “non-presenza” nella quotidianità? Questo pensiero pragmatico in un momento così straordinario e fuori dal comune la condusse a un altro: la figlia. Era stata una madre poco attenta; forse si era creata degli alibi attraverso la propria insoddisfazione e la sua condizione le stava stretta, ma sapeva che avrebbe dovuto portarla con lei: sì, oramai aveva deciso di non porre più resistenza a quella porta che aveva sempre respinto con tutte le sue forze e, soprattutto, agli Occhi. E fu proprio questo pensiero a farle fare un passo avanti, a farla uscire dalla sua stanza durante il volo notturno, come aveva sempre desiderato, ma non si diresse verso l’esterno bensì verso la stanza di Berthe.


La piccola dormiva profondamente ed Emma, forse per la prima volta in vita sua, si sentì madre nel profondo: quella creatura era una parte di lei, cosa che non erano mai stati né Léon, né Rodolphe… tantomeno Charles. Sapeva esattamente cosa doveva fare e, come un angelo portatore di nuova vita, si avvicinò al letto di Berthe e la sollevò tra le braccia. Durante il suo “volo” verso la stanza di Berthe, fino al momento in cui Emma, forte come non era mai stata, aveva preso in braccio la sua bambina, gli Occhi non l’avevano mai abbandonata. Aveva avuto l’impressione che al loro sguardo vigile e costante si fosse aggiunta un’ulteriore nota di curiosità, nei lampi che sprigionavano nell’oscurità della notte, nella profondità del loro abisso. Gli Occhi avevano forse notato il cambiamento repentino, approvavano il suo gesto di indipendenza, che l’aveva spinta finalmente a osare, a sfidare qualsiasi legge del mondo conosciuto per scoprire la sua vera essenza e liberare se stessa e Berthe da una vita banale e, per forza di cose votata, all’insoddisfazione? La risposta fu tanto rapida quanto desiderata: Emma fece per uscire fluttuando dalla stanza di Berthe, quando le si parò davanti Colei al quale appartenevano gli Occhi. «Ti ho aspettato a lungo, ma ne è valsa la pena.» La voce della Donna nella sua testa risuonava imperiosa ma gentile. Ed Emma, la sua bimba stretta al cuore, andò verso di lei. Il mistero della scomparsa di Emma Rouault e della piccola Berthe fu rapidamente liquidato da Charles Bovary: l’uomo, con la complicità di un collega medico, fece dichiarare morta la moglie, "avvelenata dai rimorsi e dall’arsenico", e dispose ogni cosa per un falso funerale. Disse quindi in giro di aver inviato la figlia presso lontani parenti, per farla crescere al riparo dalla sventurata influenza del ricordo di una madre scellerata. Charles, da anni morto nello spirito, non riuscì in ogni caso a sopportare il peso del rimpianto e della menzogna e si spense poco tempo dopo, senza lasciare segni significativi del suo passaggio su questa Terra, tranne il sospetto diffuso che fosse stato lui a far fuori moglie e figlia, accecato dalla gelosia nei confronti di Emma, finendo poi i suoi giorni stroncato dal rimorso. Tra innumerevoli Mondi diversi, Emma e Berthe continuano a viaggiare ancora oggi insieme alla Donna con gli Occhi simili a due piccoli buchi neri, Padrone del tempo e dello spazio, vive in eterno e in eterno libere.


Persefone di Romina Casagrande La prima settimana di primavera: un guazzabuglio di colori e profumi scaldati dal tepore di un sole che scende piano, accendendosi di porpora. Eppure è così freddo. Un brivido che affiora sulla pelle e la stringe nelle spalle. Anna attraversa con passo svelto la strada congestionata dal traffico della sera. Senza aspettare il verde, senza neppure sentire i clacson arrabbiati. Si sta chiedendo quando sia cominciato tutto. Come sia cominciato tutto. Le risate dei bambini sono una cantilena che suona lontana, tra gli alberi del parco. Deve concentrarsi, capire. Ma ha davvero importanza? Persino la primavera quest’anno le sembra sbiadita. Le stagioni e i loro cambiamenti sempre uguali: inverni freddi e inospitali, estati soffocanti e qualcosa di indefinito in mezzo. A volte ha l’impressione che il mondo corra troppo veloce. Sorride di quell’immagine banale. Ma è davvero così. Vorrebbe gridare e scendere. Soprattutto ora. Ora che non sa che fare. Le tornano in mente le parole della professoressa di lettere, la stupida favola di Ade e Persefone. E quella canzone... con il ritornello che fa – non ricorda tutta la strofa, ma è certa della melodia – “si muore un po’ per poter vivere”. Ade e Persefone. Focalizza quell’immagine. Avrebbero potuto farci un film, tanto ormai facevano film su tutto, su qualunque genere di storia. Chi avrebbe potuto interpretare Ade… e Persefone? Ade se lo figura bello, d’altronde è un dio, e Persefone è stata già stata abbastanza sfortunata a dover rinunciare al calore della madre e alle promesse del cielo. Chiusa in una tomba fredda. Se la immagina come un’eroina pallida – certo, abbiamo detto “chiusa in una tomba fredda” – che all’inizio doveva aver odiato un ombroso, ma affascinante Ade, creatura di poche parole, ma dallo sguardo tagliente. E poi, la magia. Gli strizzacervelli l’avrebbero chiamata sindrome di Stoccolma, la vittima che si innamora dell’aguzzino. Anche se era di certo più romantico pensare alla bella che scopre di amare la bestia. Ma si può davvero amare un mostro? Anche se ha le fattezze perfette di un dio, se ti strega con un sorriso che per un attimo spalanca il cuore sospendendolo sull’abisso? Lei ci era riuscita. Era riuscita a innamorarsi del mostro. Il suo Ade si chiamava Marco. Vent’anni, tre più dei suoi. E un volto spigoloso e impertinente. Anna sospira. Le chiavi schizzano nella serratura e il portone di legno si apre, soffiandole sul viso l’aria che sa di detersivo e scale appena lavate. Primo. Secondo piano. L’appartamento è silenzioso e vuoto. Casa. La calligrafia infantile di sua mamma la saluta da un post-it rosa appiccicato alla specchiera. Anna non ha bisogno di leggerlo. Vede il volto chino di sua madre, la penna che scorre veloce sul ritaglio di carta con cui le dice che la cena è nel microonde e che lei farà tardi. Ha sempre troppa fretta sua madre. Ma non riesce a biasimarla. Non riesce a odiarla. Sarebbe tutto più facile se ci riuscisse. Dannatamente più facile, se non le importasse nulla di lei, del suo giudizio.


Proprio lei che le ha ripetuto fino alla nausea di stare attenta, di non commettere il suo errore. Si libera della borsa senza un solo pensiero di pena per i quaderni che si aprono sotto il peso del cuoio, ali che si spalancano in un triste scricchiolio. Non ha più voglia di scuola, di odore di carta e sudore, ore perse in quella classe di ragazzi viziati che non la capiscono. Toglie la camicia e si sfila i jeans che sfregano contro i fianchi, ricordandole che quella vita al chiuso non le fa bene. Avrebbe bisogno di aria, di una corsa al parco. O soltanto di un bagno che confonda i pensieri. L’acqua comincia a scorrere, riempiendo la vasca in un piacevole sciabordio. Ha ancora del tempo prima che arrivi all’orlo. Si guarda allo specchio, sollevando la canottiera. No, lei non ha più tempo, le urlano due occhi spalancati sulla piccola gobba che comincia a odiare furiosamente. Sfiora il ventre, variando posizione. Di profilo e poi a tre quarti. Ma non cambia un bel nulla. Trattiene il fiato e per un istante si sente di nuovo quella di prima. Ma l’illusione svanisce nel battito di un respiro trattenuto troppo a lungo. Stupida, stupida. Come ha potuto essere così dannatamente stupida. Bel guaio, Anna. Quanto? Un mese, forse una settimana di più? E Marco non l’ha più visto dalla sera in cui, sicura nella sua maglietta preferita e con i capelli raccolti come piacevano a lui, gli ha raccontato tutto. Sa che è tornato a frequentare vecchie compagnie. Che ride al solito bar e ha ripreso a giocare a calcio. E poi c’è quella Silvia… Be’, non ne è certa. Si dicono tante cose a scuola. Ma la rabbia accende il vuoto in cui si sente sprofondare. Poi scivola via e resta di nuovo solo il buio. Sfiora con il piede l’acqua caldissima e si lascia cadere piano, giù, contro le pareti lisce della vasca. Sarebbe bello essere un pesce e respirare lì sotto, in un mondo senza rumori né pregiudizi. Il calore inonda le tempie e il volto mentre chiude gli occhi e si immerge in quel mondo. L’adrenalina infuoca le vene e pulsa in un battito più furioso. Lei non appartiene all’acqua, né a tutto quel blu. Si sente respingere, il corpo che lotta per riprendere aria. E se morire fosse così? Resistere a un impulso di sopravvivenza, a un istinto che accomuna uomini e bestie, dalla più insignificante macchia di muffa, su su attraverso millenni di evoluzione. Riaffiora, aprendo gli occhi che bruciano per il sapone. Trattiene di nuovo il fiato e si spinge sul fondo. Per scherzo, forse per gioco. Anche se un brivido che arriva dritto al cuore le dice che c’è qualcos’altro, qualcosa di pericoloso, come quando guardi nel vuoto e pensi che basterebbe così poco. Il telefono squarcia l’immobilità della perfezione che sta cominciando ad assaporare. Affiora quel che basta per capire che può fare a meno di tutto il correre, di tutto il rumore lì fuori.


E se fosse Marco? Poco probabile. La chiamerebbe sul cellulare. E poi è un mese – e una settimana? – che non lo sente più. Mentre qualcosa di lui sta crescendo nel suo corpo. L’acqua copre di nuovo le orecchie, portandole un altro suono. Ascolta il battito del suo cuore, cerca quello del bambino. E si stupisce quando un ritmo dolce e lieve come brezza la fa restare in attesa, concentrata su quel soffio soltanto. Intrappolata sotto onde di cui non si ricorda più. Il blu diventa luce. Si sfalda in gocce d’oro che squarciano la memoria e il pensiero corre veloce a tutto ciò che è stata in questi anni. Le persone che ama, quelle di cui farebbe a meno. Il compito di latino da preparare. Le scelte, tutte le piccole indecisioni che l’hanno tenuta sveglia la notte per esplodere in bolle di sapone trafitte dai primi raggi dell’alba. Marco, il modo cretino in cui si sono conosciuti per uno scherzo telefonico, e il sapore amaro dell’ultimo bacio. Quando era ancora troppo stupida – o soltanto ingenua – per capire che sarebbe stato un addio. E poi il buio. Il contatto con l’aria è uno schiaffo freddo che strappa i polmoni. C’è mancato così poco. L’acqua scivola via dal viso, dalle braccia mentre si affretta a prendere l’asciugamano. Va tutto bene, ora. Ma a un tratto ha la percezione che qualcosa non torni: una sfumatura scura che non dovrebbe esserci e che si allunga sulla parete di fondo. La macchiolina vibra sospesa nella luce delle stelle che filtra dalle tendine. Anna resta immobile. Si stringe nel cotone e solleva lentamente gli occhi. Pensa in fretta, per collegare dettagli e capire cosa ci faccia lì, nel suo bagno. Come sia entrato. Il bambino si stropiccia gli occhi. È stanco, come se si trovasse in quella posizione da tempo, rannicchiato sulla lavatrice con le braccia strette intorno alle ginocchia. Tira su con il naso e le sorride. «Non volevo disturbare», biascica. È una voce gentile. «Mi sono nascosto qui. Sa… lui è arrabbiato», aggiunge guardando verso la porta. «Quando fa così è meglio lasciarlo stare.» Anna non è sicura di aver capito. Si avvicina al bambino, scrutando nei suoi occhi neri. Ma rumori furiosi arrivano dalla cucina e la fanno rabbrividire in uno spasmo di terrore. Lo sguardo schizza alla porta chiusa, dove si è fissato anche il piccolo. «Mi chiamo Daniel», dice d’un fiato. Stringe più saldamente le braccia, piegando la schiena quasi a volersi proteggere contro quello che per ora è fuori, oltre il legno della porta. L’istinto di accarezzarlo, di toccarlo per vedere se è vero, spinge la mano a sfiorargli i capelli. Lui non si tira indietro. «Chi c’è di là, Daniel?» chiede, imbrigliando la voce in una calma troppo esasperata per suonare convincente. Potrebbe chiedere tante cose al bambino. Come sia riuscito a entrare. Perché sia nel suo bagno. Ma ha come l’impressione


che ogni riposta abbia a che fare con il frastuono di stoviglie e bicchieri che si frantumano contro le piastrelle e che scuote il cuore e lo stomaco. «Mio papà», risponde lui. Anna cerca qualcosa da dire. Cerca di mettere insieme i pezzi, mentre i sensi consigliano prudenza. Dovrebbe stare in silenzio, acquattarsi nell’angolo come il bambino, con le braccia sulla testa, aspettando che il frastuono passi e che l’uomo scompaia. «Ho paura», sussurra il bambino. È una richiesta d’aiuto. La porta si spalanca in un turbinio che avvolge la piccola stanza. Anna guarda indietro, verso la creatura che si rannicchia contro la parete. Istinto di protezione? Di sopravvivenza? E all’improvviso è coraggio il calore che muove il passo verso il frastuono, più vicina all’incubo che per il momento non ha nome né volto. E l’uomo è lì, al centro della stanza, chino sul pavimento. Rovista in cassetti, tra le sue cose. Posto pericoloso, la cucina, per fare la conoscenza di un ladro. Per di più disperato – lo capisce dalla fretta con cui fruga e butta. In crisi d’astinenza? – il sudore imperla la fronte bassa, anche se fa così freddo, e il braccio… ne ha viste di braccia così, pensa ricordando gli amici di Marco. Ci sono troppi coltelli, in una cucina. L’uomo si volta e lei ha l’impressione che il cuore si fermi e l’aria, l’aria è diventata a un tratto pietra. La paura attraversa la pelle come un’onda cui non riesce a resistere. Il mondo si scompone in milioni di pixel sgranati e il pavimento, le pareti, la casa intera seguono il moto furioso delle onde. L’uomo cade, arraffa in fretta quello che riesce: pochi soldi messi da parte per la spesa. Lotta per mantenere l’equilibrio, stringendosi ai bordi del tavolo, seguendo il muro. Soltanto allora Anna capisce che è un terremoto, un terremoto vero. E che appena l’uomo alzerà gli occhi, la vedrà. Una mano la trascina indietro. Lei vorrebbe protestare, ma Daniel le fa segno di stare zitta e la porta con sé, stringendola nelle sue dita piccole che le lasciano il freddo di leggeri fiocchi di neve. È in quell’istante che l’uomo la sfiora. Sta scappando e la sua folle corsa lo porterà via dalla casa di Anna, inghiottito dalla notte. Con i soldi per la spesa che sua mamma aveva lasciato nel barattolo dello zucchero – che stupido nascondiglio! Non fa caso ad Anna. O forse è soltanto l’urgenza di uscire da lì che gli fa urtare la sua spalla, senza fermarsi. Ma non quadra. Niente è al posto in cui dovrebbe trovarsi. Il bambino la guarda con occhi spalancati, umidi come stelle, e piega le labbra in una smorfia di rassegnazione. E a un tratto il mondo è così assurdo che le viene quasi da sorridere. Possibile che il padre lo abbia dimenticato, che sia scordato di lui? E poi, quale padre porterebbe il figlio nella casa che sta derubando… quale padre…


«Tanto lui non ascolta mai quello che gli dico», bisbiglia stringendole più forte la mano. Anna si inginocchia di fronte a lui. E in un battito di irrazionalità si chiede come sarà il suo bambino. Se assomiglierà a Daniel. Ma altri pensieri chiedono ascolto e premono nella mente. Devono allontanarsi dalla casa. La scossa è stata breve e il giroscala ora galleggia in un silenzio rassicurante. Ma non riesce a fidarsi. E poi, possibile che nessun altro l’abbia avvertita, che non si siano accorti di nulla. E Daniel… Pensa, Anna! Pensa in fretta! La polizia, sì devono andare dalla polizia. Lì le sapranno dire chi è il bambino. Lì saranno al sicuro dall’uomo. Non possono restare in quell’appartamento. E se rincasasse sua madre? Proprio nell’istante in cui l’uomo stesse tornando a riprendere il bambino… Forse anche lei ha sentito il terremoto e la sta cercando, preoccupata per quello che può esserle accaduto. La borsa è ancora sul pavimento, esattamente come ricorda. Fruga alla ricerca del cellulare, Daniel sempre stretto all’altra mano. Il respiro si distende davanti ai bagliori azzurri dello schermo. Digita il numero, le dita che corrono rapide. Ma il ronzio che riempie le orecchie la getta di nuovo nello sconforto. Prende in braccio Daniel. È molto leggero, pensa mentre il bambino si stringe a lei. C’è qualcosa, però, proprio sulla soglia, che le impedisce di varcarla. Un torrente di aria, calda e liscia come una superficie impalpabile, la respinge. Avanza di nuovo, muove il piede con cautela. E si sente sbalzare indietro, con più furia. «A volte succede», le dice il bambino. Anna sente il cuore tremare, il sangue diventare ghiaccio che brucia nelle vene. Daniel la osserva con un’espressione seria, quasi troppo matura per appartenere a un ragazzino di otto, nove anni. «É successo anche a me. Dopo l’incidente.» Il brivido scorre lungo le braccia mentre lo sguardo si posa sul portafoglino rosso che lui le porge. È impacciato, gli occhi neri non si staccando dalla foderina. «L’ha perso papà. Gli è cascato un giorno dalla tasca. Quello che perdono ce lo possiamo tenere.» Lei lo prende delicatamente tra le dita. Daniel annuisce e la incoraggia ad aprirlo. Ricaccia la saliva e si costringe a guardare. Sfoglia le fotografie ingiallite. Una in particolare attira la sua attenzione. È il ritratto di Daniel. Più abbronzato, più sorridente. E due date più sotto. È il fendente di un sospetto che le spinge lo sguardo alla porta spalancata sul bagno. Ma queste cose non accadono. Non succedono nella vita reale. E lei non si trova in uno stupido film dell’orrore. E poi un pensiero crudele la fa cadere di nuovo nel buio. Si sfiora il ventre. Liscio, gli addominali contratti. Cosa ha fatto? Cosa… Le finestre dell’appartamento si spalancano in unico grido, soffiando sul viso l’aria umida della sera.


I vetri tintinnano pericolosamente su ante in bilico tra cardini stremati. Ma Anna quasi non li sente. È il bambino a trattenerla. Anna nota la tristezza che gli piega le labbra in un sorriso dispiaciuto. «Succedono cose brutte quando ci arrabbiamo», dice volando con lo sguardo alla finestra e poi giù, ai frammenti di vetri che riflettono la luna, imbrigliandola sul pavimento. «Non andare, Anna.» Lei non gli ha mai detto il suo nome. E allora, perché lo conosce, come fa a sapere? «Troveresti qualcosa che non ti piace, nella vasca. A me non è piaciuto vedermi.» Vorrebbe gridare. Eppure riesce soltanto a inginocchiarsi davanti al bambino e stringerlo forte. O forse è lui a stringerla, in braccia troppo piccole, ma il contatto acquieta il freddo e la fa stare meglio. «Le ombre dicono che hai fatto una cosa cattiva. Ma non sono arrabbiate», si affretta a dire. “Le ombre non si arrabbiano mai con noi.» Pensa a sua madre e al dolore che proverà quando vedrà il suo corpo abbandonato nell’acqua. «Loro non possono vederci, vero?» Il bambino scuote la testa. «Ma noi possiamo sentire loro», aggiunge come se quella fosse la chiave, il gioco che gli illumina lo sguardo. Certo, pensa Anna. Ha sentito la spalla del ladro urtare contro la sua e la pelle bruciare. Ma un altro ricordo le stringe i polmoni. «E non potrò mai più uscire da qui?» Daniel le sorride. «Con il tempo, sì. È come svegliarsi, Anna. Ma in un modo diverso. Il tuo corpo continua a dormire e tu intanto vai a spasso, lascandolo da qualche parte. Come aria…» «Come aria…» ripete. «Non è così male, sai?» Lei gli sorride. Può accettarlo. Può farcela, soprattutto ora che si sente forte nell’abbraccio del bambino. Forse è soltanto una seconda possibilità, pensa. Imparerà ad amare quello che ha odiato. Sarà il prezzo del suo egoismo. Ripensa a Persefone. Era già stata abbastanza sfortunata da perdere la madre, il cielo. Abbastanza sfortunata da perdere se stessa. Poi lo sguardo si ferma su Daniel. Ade doveva essere bello, certo, era un dio, aveva pensato solo qualche ora prima. Sorride. Abbastanza fortunata da ritrovare ciò che aveva perso? «Vedi, è semplice!» la invita il bambino, aiutandola a varcare la soglia. «E ci hai messo molto meno tempo di me. Saranno contente le ombre, vedrai.»


Emozioni nel ricordo di Simona Postiglione L’anticamera, stretta e lunga, era poco illuminata. A metà del corridoio, appeso alla parete, c’era il vecchio telefono in bachelite e, appena sotto, una lavagna in sughero tappezzata di bigliettini pieni di nomi e numeri di telefono. Mi ero sempre chiesta a chi appartenessero e li osservai, tentando di decifrarne la scrittura; sarebbe stato interessante associare un volto a ciascun Postit. «Sei arrivata?» Trasalii udendo la voce di mia madre, non mi ero accorta della porta che si era aperta alle mie spalle. «Un minuto fa», la baciai sulle guancie. «Sei qui da molto?» «Da circa un’ora, ma non ho ancora iniziato a riempire le scatole.» Aveva l’aria stanca e due occhiaie disegnavano cerchi scuri sotto gli occhi. «Ci sono talmente tante cose qui dentro! Dovremmo chiedere alla società di traslochi di procurarci altre scatole», disse tornando in sala. La seguii e mi sentii rinfrancata dall’aria familiare della stanza e dalla luce che la illuminava. «Non credo che sarà un problema mamma, intanto possiamo riempire quelle che ci hanno lasciato. Cominciamo dai libri?» Lavorammo in silenzio per un po’, ciascuna persa nei propri pensieri. Quante volte avevo sbirciato tra quei titoli? Erano sistemati sugli scaffali del mobile letto a ribalta, lo stesso in cui da piccola avevo trascorso molte notti, insieme a mio fratello. Riposi, senza un ordine preciso, alcuni romanzi d’amore, diversi saggi sulla guerra, il Decamerone di Boccaccio, una copia della Divina Commedia, una Bibbia illustrata, una collana di gialli dalle copertine consumate e alcune pubblicazioni del Reader’s Digest. Nonostante gli anni trascorsi lontana da lì, ero certa che nessun titolo si fosse aggiunto alla piccola collezione; maneggiare quelli che consideravo veri e propri cimeli mi emozionava molto e fu con dispiacere che riposi l’ultimo libro nella scatola ai piedi dell’armadio. Voltandomi vidi la mia immagine riflessa nel grande specchio a paravento posto al lato del mobile e le sorrisi amichevolmente. «Chissà quanta gente ci si sarà specchiata?», mi sentii mormorare. La figura minuta di mia madre si affiancò alla mia. «Non saprei, anche se devono essere state molte. I nonni utilizzavano questa stanza per prendere le misure ai clienti e controllavano il risultato finale del loro lavoro proprio davanti a questo specchio. Quando ero piccola mi piaceva l’effetto della mia immagine riprodotta su più fronti: mi piazzavo davanti e con la coda dell’occhio mi osservavo a destra e a sinistra giocando a fare la donnina.» Le misi un braccio sulle spalle e le sorrisi smorfiosa. «Mi domando come sia possibile che con due sarti in casa tu, oggi, sappia a mala pena fare l’orlo ai pantaloni!» «Senti, senti!», disse fingendosi indignata. «Comunque è vero, né io né tua zia abbiamo seguito le loro orme. Il massimo che ho fatto è stato girare Milano in tram come piccinina: i nonni mi davano gli abiti pronti da consegnare direttamente ai clienti, mi scrivevano l’indirizzo, segnavano il percorso sulla cartina, m’istruivano sulle domande da fare al controllore e poi, via di corsa! Non mi sono mai sbagliata!» «Quanti anni avevi?», domandai. «Nove, dieci al massimo.»


Pensai, con una punta d’orgoglio, che mia madre doveva essere stata una bambina coraggiosa: al suo posto credo avrei avuto paura a girare tutta sola per una città come Milano, salendo e scendendo addirittura da mezzi pubblici. Erano davvero altri tempi! Le persone dovevano sentirsi più sicure fuori dalle mura di casa propria, se anche i nonni lasciavano che mia madre uscisse sola a quell’età. «Se sei d’accordo, mentre tu finisci di riempire le scatole con quello che c’è qui in sala, io vado in camera da letto a svuotare armadio e cassetti. Se ho bisogno, ti chiamo.» Mia madre mi fissò dubbiosa, poi assentì e, senza proferir parola, iniziò ad incartare e riporre i piatti del servizio buono, quello in porcellana con i decori in oro. Credo le sarebbe piaciuto occuparsi personalmente di quella stanza, ma doveva essersi resa conto che toccare con mano gli abiti e le spazzole di mia nonna sarebbe stato troppo doloroso. Entrando fissai lo sguardo sulla tela appesa alla parete di fronte: la Madonna stringeva tra le braccia il Bambino Gesù, dominava la stanza sopra il grande letto, in una predominanza di azzurro e rosa e la dolcezza nei suoi occhi trasmetteva una certa serenità. Spostai lo sguardo sull’enorme comò antico; il piano era colmo di oggetti e fotografie incorniciate d’argento, quasi tutte in bianco e nero. Una sola era a colori e ritraeva me e mio fratello abbracciati sul divano di casa; avrò avuto sì e no quattro anni, lui non ancora uno e mi guardava ridendo, con aria estasiata, come chi guarda il suo gioco più bello. Decisi che avrei tenuto quella foto per me e iniziai a svuotare i cassetti, partendo dal primo in alto; giunta all’ultimo, sotto uno strato di lenzuola e federe bianche ricamate a mano, nell’angolo più nascosto, trovai un pacchetto avvolto nella carta velina. «Cos’è?», domandò mia madre avvicinandosi. Non era riuscita a restare lontana. «Non lo so ancora, era nascosto sotto quelle lenzuola.» Scoprimmo un taccuino con la copertina di pelle marrone, morbida al tatto, con uno stampo a righe in rilievo. Le mani tremavano impercettibilmente; desideravo aprirlo, leggere quello che c’era scritto ma, allo stesso tempo, temevo di violarne il contenuto. Era come se mia nonna fosse in quella stanza con noi, come se fosse ancora viva e mi ammonisse dal farlo. «Che fai, non lo apri?» Guardai mia madre, nei suoi occhi lessi lo stesso desiderio, ma, soprattutto, una profonda nostalgia; forse, tra quelle pagine, sperava di ritrovare la parte perduta di sé. Da una scorsa veloce capii che si trattava del diario di mia nonna; il primo scritto risaliva al 18 ottobre 1938, l’ultimo recava la data del 24 dicembre 1941. «Quando era la nata la nonna?», chiesi a mia madre. «Nel 1910, il 2 Agosto», rispose. «Quando ha iniziato a scrivere il diario aveva quasi ventotto anni e non era ancora sposata con il nonno», aggiunse. La fissai meravigliata. «Vuoi dire che era ancora nubile a quell’età? Pensavo che ai suoi tempi le ragazze si sposassero prima!» «Di solito sì, ma lei e il nonno si conobbero più tardi, all’epoca mio padre doveva avere circa trentacinque anni. Quando s’ incontrarono, mia madre lavorava come guardarobiera in una famiglia bene di Milano, il nonno invece aveva già la sua attività di sarto.»


Milano, 18 ottobre 1938 Oggi Remo mi ha chiesto di sposarlo. Passeggiavamo nel parco e c’era un bel sole; con una scusa mi ha preso la mano, ha posto qualcosa al centro del palmo e subito dopo ha stretto le mie dita intorno all’oggetto. Quando le ho riaperte sono rimasta senza parole, c’era una spilla meravigliosa! Non ho mai posseduto nulla di così prezioso: la manifattura è a traforo in oro e argento, assai delicata e al centro è incastonato uno splendido topazio. Chissà quanto deve essergli costata! Ha insistito per appuntarmela sulla giacca e mentre lo faceva mi guardava con i suoi grandi occhi dolci. Mia madre sgranò gli occhi sorpresa. «Non immaginavo che mio padre fosse un tipo così romantico, non ci hanno mai raccontato nulla di quest’episodio!», sembrava quasi dispiaciuta. «E poi mi fa un certo effetto sentire parlare mia madre degli occhi dolci di mio padre, perché è sempre stata molto riservata e poco espansiva, almeno con noi figlie.» Le sorrisi. «Mamma di cosa ti stupisci? Quante volte mi hai fatto notare che ai tuoi tempi argomenti come l’amore romantico e il sesso erano un tabù in famiglia! Soprattutto tra madre e figlia, dubito che ci fosse la confidenza di oggi.» Sembrava d’accordo e presi a stuzzicarla. «Scommetto che papà non ti ha mai regalato una spilla simile, non è vero? Magari la troveremo da qualche parte e potrai sfoggiarla sulla tua giacchetta nuova!». Mi fece una smorfia, poi andai avanti a leggere. Milano, 31 maggio 1939 I preparativi procedono bene, dobbiamo ancora recapitare alcuni inviti e Remo ci tiene che si vada di persona dai miei parenti in provincia; dice che non gli secca, che sarà l’occasione buona per conoscere la mia famiglia e che saranno fieri di me quando vedranno che tipo in gamba sto per sposare. Scherzando, gli ho fatto notare che è un gran vanitoso e che a furia di darsi delle arie rischia un giorno di prendere il volo! E’ scoppiato a ridere e mi ha abbracciata forte: quasi soffocavo! Poi mi ha sussurrato nell’ orecchio: «Stellina, tra le tante cose che mi circondano, io vedo solo te!». Io devo essere arrossita, ma giurerei che anche lui fosse un po’ imbarazzato. Alzai gli occhi e incontrai quelli di mia madre che sorridevano. «La nonna mi ha ricordato spesso questa dichiarazione del nonno, soprattutto negli ultimi mesi, quando non stava più bene. Credo sentisse molto la sua mancanza. Mio padre non ha avuto modo di studiare, era nato nel 1903, prima c’era stata la guerra e dopo ha dovuto lavorare per aiutare la famiglia. Però amava leggere di tutto, si può dire che sia stato un vero e proprio autodidatta.» Sentivo nella voce una nota di orgoglio mentre parlava del suo babbo marchigiano e, improvvisamente, dovetti trattenere le lacrime tra le ciglia umide. Mio nonno era morto un paio d’anni prima e mi mancava terribilmente; era un uomo intelligente e ironico verso se stesso e la vita, ma il suo umorismo era di tipo garbato. Ripensai alla sua grafia ordinata ed elegante, alle frasi più belle che amava trascrivere ovunque, persino sui modelli di carta dei vestiti che cuciva; leggendole, nessuno avrebbe mai creduto che quell’uomo avesse frequentato solo qualche anno di scuola elementare.


Milano, 03 settembre 1939 Sono trascorse solo poche ore da quando sono ufficialmente la Sig.ra Stella Alfieri: sono felice! Sì, posso dirlo con tutta onestà: sono felice! La cerimonia è stata semplice come la volevamo, gli invitati non erano molti, ma si sono divertiti e sembrano avere apprezzato il pranzo. Remo mi ha coccolata tutto il tempo, mi seguiva con lo sguardo e correva a salvarmi ogni volta che i nostri amici e i cugini mi trascinavano a ballare. Giuro che a un certo punto mi sarei tolta le scarpe dal mal di piedi che avevo! Dopo la festa siamo subito andati a casa nostra. Per il momento non possiamo permetterci una Luna di Miele, ma la sartoria resterà chiusa per qualche giorno. Ora scappo a prepararmi, andiamo a passeggio sul C.so Buenos Aires e poi prendiamo un dolce in pasticceria. «Com’è che non racconta niente del dopo Festa?», domandai fingendo delusione. «La cerimonia, il pranzo, il ballo, e poi? Tornano a casa loro, e poi?» Mia madre mi diede una leggera spinta. «Ma la vuoi finire?», e scoppiamo a ridere. «Cos’è quella?», chiese allungando la mano. Tra le pagine del taccuino c’era una fotografia che ritraeva i miei nonni: lei sedeva a proprio agio su uno sgabello, indossava un vestito grigio perla e la gonna in georgette pendeva morbida ai lati, intorno al collo un filo di perle. Mio nonno invece era molto elegante in un doppiopetto blu, con i pantaloni a tubo. Il volto di Stella era rivolto all’insù e gli occhi erano fermi in quelli di lui; Remo era in piedi di fronte a lei, le mani intrecciate dietro la schiena, piegata in avanti per permettergli di raggiungerne il volto. Infine, le labbra di lui sfioravano in un bacio leggero la punta del naso di Stella. Rimasi incantata di fronte a quell’immagine, era così elegante e poetica insieme! Guardandola, non si poteva non avvertire tutta la delicatezza e la complicità che li univa: due anime che si erano trovate, che si amavano di un sentimento profondo e maturo, tanto da farli restare insieme per quasi cinquant’anni. «L’ultima pagina porta la data del 24 dicembre 1941», lessi a mia madre. Finalmente Laura si è addormentata! Essere diventata madre è bellissimo, ma mi sento sempre così stanca! Eppure è una brava bambina: beve il mio latte, dorme e piange di rado, solo se si è sporcata o ha fame. Deve essere perché è passato poco tempo dal parto... o forse è perché sono sola ad affrontare tutto questo. Sola senza il mio Remo. Non conosce ancora sua figlia, chissà cosa dirà quando la vedrà! Dall’ultima lettera ho capito che sono stanziati nei pressi di un villaggio, da qualche parte in Russia; ha scritto che il freddo è terribile e che, se non stanno attenti, rischiano il congelamento. Mi ha scritto che la parte più difficile da sopportare è la lontananza da me. Maledetta guerra! Quando finirà? Sono sfollata qui da non so più quanto tempo, per fortuna ci sono alcuni miei parenti, altrimenti non so proprio come farei... A volte mi viene da pensare che potrei non rivederlo più e mi dispero, perché non riesco ad immaginare la mia vita senza di lui. Prego la Madonna ogni giorno perché lo protegga, perché abbia cura di tutti noi e della nostra bambina.


Guardai mia madre e poi la strinsi a me, la schiena era scossa dai singhiozzi. Per un lungo istante sembrò inconsolabile e l’emozione coinvolse anche me, impedendomi di pronunciare qualsiasi parola che fosse di conforto. Capivo che non aveva mai conosciuto né pensato a mia nonna in termini diversi da quelli di una figura materna; la sua visione di lei era limitata, se così si può dire, a quella di una madre giusta, ma spesso severa. Mia nonna mostrava una grande tenerezza per i bambini in generale, ma con le figlie sembrava trattenersi; diciamo che era poco incline a lasciarsi andare alle effusioni. Probabilmente pensava di doversi mostrare forte e determinata, desiderava solo che le sue figlie crescessero sicure, considerandola un solido punto di riferimento. Oppure, semplicemente, erano state le vicissitudini della guerra, la solitudine e le privazioni dopo, a spegnere l’entusiasmo che traspariva dalle righe del suo diario. «Dunque anche la nonna é stata giovane e innamorata!», dissi sorridendo a mia madre. «Sì. Come me e te e come tutti, prima o poi, nella vita.» Prese il taccuino e alzandosi aggiunse: «Posso dire che questo diario sia stato l’ultimo regalo di mia madre, il più bello. Ho capito cose di lei che non avrei mai immaginato.» Le sorrisi, poi, mentre si allontanava, la richiamai: «Mamma? Se anche tu hai un diario nascosto nel cassetto del comò, forse sarebbe il caso di farmelo leggere, non credi?» Lei mi guardò per un attimo confusa, poi rispose con un gran sorriso: «No tesoro, non c’è nessun diario nel mio comò! Però, se ti va, dopo che abbiamo finito con le scatole, usciamo a bere una cioccolata calda e chiacchieriamo un po’.»


Solo una storia di Vittoria Liant Questa storia non è solo una storia, ma inizia come tale, in un paesino come tanti, in un’Italia lontana, invecchiata dalla guerra. La protagonista è una ragazza bruna con folti ricci e occhi scuri pieni di sogni segreti. Non è una Cenerentola tiranneggiata dalle sorellastre, né una Biancaneve perseguitata da una strega invidiosa; è solo Rosina, un piccolo fiore, che cerca il suo posto nel mondo. La nostra storia inizia in una mattina di metà Marzo; l’aria pungente, eco di un inverno che non vuole arretrare, le pizzica le guance di latte mentre va in bicicletta. I freni sono un po’ duri, ma non le importa perché alla fine della discesa userà i piedi. Chiude gli occhi un istante. Il vento le scompiglia i capelli: tutto è bello, sicuro. Quando li riapre, il grigio del mondo è ancora lì. Poi, un’ombra. Sbam Le mani bruciano, piene di terra e graffi. Alza gli occhi e il suo cuore manca un colpo. In piedi sopra di lei, un tedesco. «Mi perdoni, io... mi sono distratta» farfuglia «Scusi, non l’ho vista.» «Sanguina.» «Come scusi?» «Il suo ginocchio, sanguina.» dice lui indicando con il dito. Subito arrossisce e sposta lo sguardo sulla bicicletta rovesciata a terra. Basta un attimo e Rosina capisce. Nel cadere, la gonna si è alzata ben oltre il limite della decenza. Avvampa di vergogna mentre si rimette in piedi, facendo ricadere la stoffa. «Il suo ginocchio sanguina» ripete lui. Rossi rivoletti le scendono fino alla caviglia, mentre il bruciore si fa pulsante. Non vorrebbe guardarlo negli occhi, ma lo ha quasi investito. «Sì, lo so, grazie.» dice alzando lo sguardo da terra. Biondo, occhi azzurri, uniforme, mitra. Sì, ha quasi investito un tedesco. «Dovrebbe pulire i tagli e fasciare il ginocchio.» le risponde, fissandola. «Sì, ora torno a casa, grazie. Si è fatto male? Mi scusi sa, ero distratta, non l’ho fatto apposta…» «No,» la interrompe lui «non mi sono fatto niente.» La fissa per un momento, poi, senza aggiungere altro, si allontana. Nelle favole, quando la bella incontra il suo principe, è subito amore. A Cenerentola è bastato un ballo, alla Sirenetta addirittura un’occhiata fugace. In questa storia il primo scontro produce solo un po’ d’imbarazzo, ma niente di più. Aprile avanza baldanzoso, portando con sé un tiepido sole e i primi boccioli in fiore. Le case si aprono all’aria nuova e il bucato viene steso, senza l’ansia di un imminente acquazzone. E’ in un pomeriggio di biancheria che ritroviamo Rosina.


Le maniche della camicia sono arrotolate fin sopra i gomiti, e i bottoni sul davanti, mollemente sganciati, lasciano intravedere il pizzo della canottiera. I capelli sono raccolti in una crocchia, fermata ai lati da due pettinini d’osso, regalo della nonna. Ricci ribelli, le contornano il volto arrossato dalla fatica. In una cesta sono ammassate pesanti lenzuola, sbiancate a suon di colpi e cenere, pronte per asciugare ai timidi raggi primaverili. Rosina avanza traballante dietro quella montagna pesantemente linda. Canticchia tra sé un motivetto che le rimbomba nella testa dalla mattina. Non vede niente, non si accorge di niente. Sbam Si ritrova per terra, sommersa dalle lenzuola. Annaspa un po’ in quel mare di cotone e canapa, pregando mentalmente di non aver sporcato niente. Quando riemerge, scarmigliata e con la faccia umida, c’è un tedesco di fronte a lei. Lui si avvicina e le offre la mano per aiutarla a rialzarsi. No, non è un tedesco qualsiasi. E’ il tedesco che aveva quasi investito con la bici. «Si è fatta male?» domanda lui mentre la aiuta ad alzarsi da terra. «Mi scusi ma non l’avevo vista.» aggiunge. Rosina non lo sta ascoltando, gli chiede di perdonarla, perché ancora una volta era distratta e non l’ha visto. Zittiscono, entrambi. Si guardano. Poi, lui si mette a ridere. Lei rimane perplessa, non credeva che i tedeschi sapessero ridere. Lui si abbassa, e inizia a rimettere le lenzuola nella cesta. Raccoglie anche qualcosa di più piccolo e si blocca con la mano a mezz’aria. Accidenti, lo aveva dimenticato. La voce della mamma che le ordina di lavare anche un po’ della sua biancheria, che ormai è una donna, le giunge come un'eco lontana. Una fiamma di calore le avvolge il viso, mentre strappa da quella mano immobile ciò che la decenza vuole si mostri solo dopo sicure nozze. Il farfugliare del ragazzo le arriva sconnesso, mentre prega che un fulmine la colpisca all’istante e la sotterri. «Sono da lavare. Le devo dare alla signora Itala» sta dicendo. Il nome la riporta alla realtà. «E’ mia zia.» Silenzio. «Posso darle a lei allora?» riprende lui. «Cosa?» Accidenti, non aveva capito nulla di quello che le aveva detto. Al momento il suo unico pensiero è che lui la prenderà per una stupida. «Le uniformi,» dice lui, lentamente, indicando la roba sparsa ai suoi piedi «sono da lavare. Può darle lei a sua zia?» «Sì, certo, può darle a me. Le porterò subito alla zia.» dice Rosina ora un po’ troppo zelante. Il ragazzo la scruta per un attimo, poi si mette a raccogliere i panni da terra. Lei lo aiuta mentre intorno a loro il silenzio si fa pressante. In breve tempo hanno finito.


Lui la guarda ancora un attimo, le guance leggermente arrossate, poi dopo un cenno di capo si volta e se ne và. Stese le lenzuola, Rosina torna a casa. La mamma è in cucina. «Cosa ti è successo?» le chiede pulendosi le mani sul grembiule che porta sempre legato in vita. «Niente. Perché?» «Hai la camicia mezza sbottonata e i tuoi capelli sembrano un nido d’uccello.» Maledizione, si era scordata di essersi svestita un po' per stendere il bucato. E lui l’aveva vista in quello stato. Aveva visto il pizzo della sua canottiera, per tutto il tempo! Siamo alla fine del secondo incontro. E’ questo, dunque, il momento in cui la bella capisce di voler vivere per sempre con il suo principe? No, non ci siamo neppure vicini. L’imbarazzo, certo, è un particolare sentimento, ma da qui all’amore… Cavalca, cavalca principe, che la via per il cuore della tua bella è ancora lunga. Sono passati alcuni giorni, le uniformi, accuratamente piegate in una cesta, aspettano solo di essere riconsegnate. «Rosa, vai a portare il cesto alla villa. E portati Pietro.» dice Marialba facendo capolino dalla porta della cucina. «Ma mamma, perché sempre io? Non può andare Pietro da solo?» «O così, o peli tutte le patate. Scegli.» Pelare le patate è un lavoro noioso che Rosina detesta, e la mamma, in quanto mamma, lo sa benissimo. «Vado, vado.» Servono dieci minuti per arrivare alla villa dove sono stanziati i tedeschi. Quindici, se si cammina piano e magari ci si perde in chiacchiere. Quel giorno, Rosina ne impiega venti. Anche se vorrebbe rimandare ancora, sa che la salita è finita e le tende sono dietro la curva. Pietro, irrequieto, continua a saltellarle intorno per farla muovere, ma appena vede la sentinella, le prende la mano libera e si fa silenzioso. Aveva sempre avuto un po’ paura ad andare lì. In più, adesso, c’è l’ansia di incontrare quel tedesco. Due brutte figure con un ragazzo, anche se tedesco, sono due di troppo nelle regole di comportamento di una signorina. Un soldato dai capelli biondi le da le spalle. Istintivamente lascia la mano di Pietro e si tocca i capelli per vedere se sono in ordine. Quello si gira. E’ biondo con gli occhi chiari, ma non è lui. Tira un sospiro di sollievo. Cos’è quella strana sensazione che prova? Delusione forse? Per che cosa, poi. Troppo presto per vederci chiaro. Lungo la discesa che porta verso casa, si trova una fonte. Pietro mette le mani a coppa e beve avido il fresco elisir.


La paura gli aveva seccato la bocca. Rosina gli si avvicina piano alle spalle e gli da un pizzicotto sul sedere. Lui sobbalza, sbrodolandosi l’acqua addosso. E’ battaglia. Il mondo con le sue brutture è ancora lì in agguato, ma quel momento fatto di risa e acqua esplode ugualmente. Come racchiusi in una grande bolla di sapone, giocano dimentichi di ciò che li circonda. Rosina è zuppa fino al midollo, ma non le importa. Corre con Pietro dandogli pizzicotti ovunque. Si volta di scatto per evitare di essere bagnata ancora. Sbam Due braccia le impediscono di cadere. Alza la testa per vedere con chi si è scontrata. E’ il destino che ha fatto risalire il sentiero a quel particolare ragazzo, in quel particolare momento? Chi lo sa. Fatto sta, che non ci sarebbe stata una storia da raccontare, se Rosina non si fosse ripetutamente scontrata con lui. «Mi perdoni, ero distratta. Non l’ho vista.» farfuglia riguadagnando il proprio spazio. «Credo di averlo già sentito dire.” sorride lui. La miglior regola in una conversazione imbarazzante (e forse in una qualsiasi conversazione) è: quando non hai niente di appropriato da dire, taci. Rosina questo lo sa, quindi resta lì, bagnata da capo a piedi, con il viso in fiamme senza saper dove guardare. Il pensiero che il vestito possa essere anche solo minimamente trasparente la getta nel panico. Per tre, e ripeto tre, volte, si è ritrovata in una situazione sconveniente con quel ragazzo. Quante probabilità c’erano che accadesse? «Il mio nome è Friedrich.» dice lui porgendole la mano, mentre il sorriso gli illumina ancora il volto. «Rosina, ma tutti mi chiamano Rosa.» risponde stringendola. «Come il fiore?» «In realtà, come mia nonna… però sì, il mio, è il nome di un fiore.» Come si passa dall’imbarazzo di prima al batticuore di adesso? E’ stato per la solida stretta delle braccia di lui? Magari per il suo bel sorriso? Non c’è mai un momento preciso. Ad un certo punto, le cose cambiano. Quando si è molto giovani e alle prese con il primo amore, basta poco a far bruciare la miccia. Questo non è l’amore dato dalla conoscenza e dalla fiducia, ma ciononostante è un amore di un’intensità quasi vitale. Può accadere che si estingua con una sola fase di luna, tra pianti infiniti o nella più totale indifferenza, ma a volte, se si è molto fortunati, l’amore, diventa favola e dura una vita. Rosa e Friedrich sono giovani, 19 anni lui e appena 16 lei, ma gli anni vissuti durante l’orrore della guerra valgono doppio. Quando si lascia la propria casa per la prima volta, il mondo appare più grande e pericoloso.


Se sei un giovane soldato che va in guerra, quello che trovi non è solo apparenza. Quando spari per la prima volta e preghi di non morire, e forse anche di non ammazzare nessuno, anche se ti hanno ordinato di farlo, quanti anni vivi in quel unico attimo? Le donne non vanno in battaglia, ma quanto male provoca veder partire figli, mariti, fratelli. Si può paragonare a un colpo di striscio? Se sei una giovane in boccio che si ritrova a far da volontaria in ospedale, cosa succede se quello che ti stringe la mano tra bende e sangue, è il fratello di un’amica? Il boccio si schiude e l’innocenza se ne va in silenzio. Quanti anni vale l’angosciante attesa del ritorno? Non si è forse molto più vecchi, quando si sente la vita scivolare via dalla mano che stringi? Si può capire, quindi, che l’amore nato tra i due protagonisti, sia più di un fuoco di paglia. Gli incontri successivi iniziano a non essere più casuali. C’è sempre la scusa per un viaggio alla villa. Che sia per le uniformi da rammendare, o per la frutta da portare. Lui la aspetta alla fonte, per fare quel pezzetto di strada con lei. Parlano di loro stessi, della famiglia, dei sogni, del futuro, ma mai della guerra. Certo a volte è inevitabile, ma quando capita si rinchiudono in un silenzio teso. Poi, cambiano discorso. Forse facendo finta di niente dimenticheranno che intorno a loro si combatte, che il futuro è inghiottito dal fumo nero delle bombe e che loro due non dovrebbero stare insieme. «Come mai parli così bene l’italiano?» gli chiede Rosa mentre camminano lenti sul sentiero che porta alla villa. «Mio padre è commerciante di stoffe e per molti anni abbiamo abitato a Firenze. Io sono cresciuto correndo per i lungarni. Poi, il nonno si è ammalato e siamo tornati. E’ per questo che mi hanno destinato qui, perché parlo bene la lingua.» «E’così brutto se dico che un po’ sono contenta?» «No, non lo è, perché un po’ lo sono anch’io.» Maggio è giunto al termine e Giugno sta già entrando nel secondo quarto. La situazione è critica. Gli americani avanzano, mentre i tedeschi serrano la Linea Gotica. Le Fortezze volanti e i Liberator tornano costanti a far suonare le sirene. L’odore di perdita e orrore, impregna le campagne. Le famiglie raccolgono quello che possono e fuggono sui monti che profumano di speranza e di salvezza. «Vieni con noi.» sussurra Rosina «Non devi restare qui, morirai.» «Non posso, non potrei nascondermi. Si vede che sono un tedesco. E poi non voglio essere un disertore.» risponde Friedrich stringendole le mani. «Ma tu non credi in questa guerra. Me lo hai detto mille volte che non sei d’accordo. Sei uno di noi, i miei ti vogliono già bene, e Pietro ti tratta come un fratello. E io…» singhiozza «… lo sai, ti amo.»


«Rosa, tesoro, lo so. E io amo te, ma devo eseguire gli ordini. Sono un soldato.» «No, non lo sei. Vuoi fare il dottore. Vuoi salvare le vite, non toglierle. C’è una gran bella differenza.» «Rosa, io sono tedesco. Sono biondo con gli occhi azzurri. Se mi beccano in un rastrellamento, mi riconoscono subito e mi fucilano e poi fucilano voi per avermi nascosto.» Un colpetto di tosse alle loro spalle li fa sobbalzare. Marialba sta lì, in piedi con le braccia conserte. «Mio figlio è a combattere chissà dove, ma prego ogni giorno perché trovi qualche famiglia che lo tratti come io ho trattato te. Tua madre vorrà che tu torni da lei sano e salvo. Io non so se in monte non ci troverà nessuno, so solo che è più sicuro che andare a sparare contro gli Americani.» Non c’era bisogno di aggiungere altro. Le madri sanno essere molto persuasive, soprattutto quando parlano di preghiere e delle speranze di altre madri. Quel pomeriggio fu fatta una mistura di melissa, melograno, cenere e segreti tramandati di madre in figlia, per tingere i capelli bianchi. Il biondo ciuffo di Freiedrich si sarebbe eclissato sotto tale stregoneria donnesca. Giunta la notte, la famiglia Morelli in aggiunta al nuovo membro trovò silenziosa la via del bosco. I rastrellamenti ci furono e lasciarono la loro scia vermiglia a far da monito. Ma Marialba ci aveva visto giusto, sarà per il mito della mamma che ha sempre ragione, ma non un tedesco arrivò alla stalla dove si erano sistemati. Con il finire dell’estate, la città fu liberata, e poco a poco le famiglie fecero ritorno alle case. La desolazione per ciò che era distrutto, il vuoto della perdita, l’angoscia di non sapere, furono la base per ricominciare a vivere. Questa storia non è solo una storia, ma finisce come tale, in un paesino come tanti, in un’Italia lontana, avvizzita dalla guerra. Il tempo è trascorso di lustro in lustro, e quello che vediamo ora, è un letto dalla coperta a fiori, con dentro una ragazza dai ricci scuri e gli occhi azzurri. Seduta su di una sedia lì vicino, una signora si asciuga le lacrime dal viso. «E’ una bellissima storia d’amore nonna.» «D’amore e di guerra. Non dimenticare mai la guerra.» «Già. Ma cosa è successo dopo. Si sono sposati?» «Questa è un’altra storia e dura una vita, non solo un’estate.» dice la donna mentre schiocca un bacio sulla fronte della nipote. «Ancora sveglie voi due?» chiede un uomo dagli occhi azzurri affacciatosi dalla porta della camera. «Ci siamo perse in storie.» dice la donna mentre lo raggiunge. «Nonno, com’erano i caroselli?» «Assordanti” risponde, mentre le da un bacio sulla fronte. «Ti dispiace che la Germania abbia perso?» «Sì e no. Certo che due goal nel secondo supplementare… Vedremo a Berlino se se lo sono meritato. I francesi sono tosti.» «Ora basta voi due” li interrompe la donna “ è ora di dormire.» Spenta la luce e sussurrata la buona notte, i nonni si allontanano silenziosi.


«Rosa?» «Mmm?» «Ti ho sentita mentre raccontavi la storia… sai credo di sapere il momento esatto in cui mi sono innamorato di te.» «Davvero? E quale sarebbe?» «E’ stato quando ho raccolto le tue mutande tra le lenzuola cadute a terra. Te ne sei stata lì, imbarazzata, senza ascoltami, con la camicia sbottonata, mentre io non sapevo come fare per non guardare oltre la canottiera di pizzo. Sì, è stato in quel momento che mi sono innamorato.»


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