Incubus - Racconti

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incubus è una raccolta di sette racconti inediti scritti da alcune autrici e collaboratrici del Blog Letterario “Diario di Pensieri Persi” www.diariodipensieripersi.com Proprietà letteraria riservata. Vietata la riproduzione, anche parziale, di testi ed immagini. Diario di Pensieri Persi ©2012 Cover grafica ed impaginazione a cura di MissClaireDesign ©2012 INFO: miss.claire@hotmail.it


Fair is foul, and foul is fair. Hover through the fog and filthy air. Macbeth

A Chiara,

le streghe non muoiono mai.


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di Elisabetta Bricca

SETTE. Sette lunghi passi nel terrore. Sette lunghi, algidi brividi nella dannazione. Sette come il numero dei racconti di questa nuova antologia di Diario di Pensieri Persi. INCUBUS è un salto nella parte più oscura dell’animo umano, una rapida discesa, senza freni, nel baratro della follia. Un salto a occhi chiusi oltre il confine che separa il fantastico dal reale, dove il lecito sfiora l’illecito e il male è l’unico incontrastato sovrano. Sette colpi a disposizione in un gioco alla roulette russa, in cui l’inquietudine, e solo l’inquietudine, sarà la vostra unica compagna. I blogger di Diario sono pronti a traghettarvi all’Inferno, nelle torbide acque delle vostre più recondite paure, e a dischiudere le fragilità della psiche umana. Perciò, mentre leggete, guardatevi le spalle: i vostri peggiori incubi potrebbero avverarsi.

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di Antonella Albano


“A walk in the forest” Kevin Bryce

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Ero un ragazzino sveglio. Dovevo esserlo per forza, abbandonato a me stesso com’ero, dalla morte di mia madre. Ora che lo spazio bianco dove vergo i miei aspri ghirigori si confonde con la mia lunga barba, mi sembra di amare quel bambino che ogni mattina cominciava la giornata come un’avventura, benché non avesse la minima sicurezza su chi lo avrebbe nutrito o protetto. Sgraffignavo da mangiare nelle case del villaggio, sempre aperte, e la gente mi lasciava fare. Finché fossi stato uno scricciolo infreddolito e solo, girare la testa dall’altra parte era il loro modo d’aiutarmi. Ogni tanto però c’era chi mi inseguiva con un battipanni e, in una di queste occasioni, pensando fosse meglio cambiare un po’ aria, seguii non troppo da lontano una strana spedizione familiare: su un carro il padre aveva messo la moglie incinta, la sua prima figlia e cibo, accuratamente conservato in tegami, fasciati in vecchie stoffe. La mia fervida mente, rapita dall’immagine di leccornie da rubare, decise di seguirli. Tanto l’asino procedeva lentamente e io ero pronto a vedere posti nuovi. Era ormai quasi sera quando arrivammo sulla cima di una tozza montagna e il fascino del cibo aveva ceduto di fronte all’urgenza dei miei piedi doloranti, poiché solo per poco ero riuscito a estorcere un passaggio sul carro. Il padre e la madre si consultarono con aria preoccupata e in me cominciò a nascere una forte curiosità di capire cosa li avesse condotti lì. Perché la loro non era una faccia da scampagnata. Oh, ora so bene cosa muove la gente a lasciare la propria casa per trovare risposta ai dubbi angosciosi che inquietano l’anima. Allora, bambino com’ero, quando il viso bianco della mia povera madre e dei suoi abbracci già cominciava a svanire dalla mia memoria, le preoccupazioni erano conquistare una pagnotta e un giaciglio. Che potevo sapere? L’uomo lasciò il carro e, presa in braccio la figlioletta, sostenne lungo un impervio sentiero la moglie, già provata dal viaggio. E io dietro a loro.

Che sarebbe stato di me, mi chiedo ora, se quella mattina avessi preso una decisione diversa? Se non avessi seguito quel carro che sfidava il freddo dell’alba, lontano dal mio villaggio? Una persona del tutto diversa avrebbe portato il mio volto e tante avventure in meno avrebbero costellato la mia memoria. La famiglia, arrancando sul sentiero, arrivò in vista di un piccolo altopiano roccioso, che svettava come il cranio calvo di un uomo, contornato di radi e crespi capelli: gli arbusti e i cespugli non osavano turbare la grigia nudità di quella pietra dove, a una certa altezza, si apriva l’antro di una caverna. E, in strano contrasto con il sentiero deserto, lì c’era gente. Non molta, certo, ma ogni persona di quel piccolo mucchio sostava in silenzio davanti a un breve squarcio di oscurità, celando ai miei occhi l’origine di tanto interesse. A un tratto l’uomo si voltò e fissò proprio me. Il cuore mi si fermò nel petto, più per stupore che per paura, poiché egli m’aveva ignorato per quasi tutto il viaggio: “Stai lontano tu!”, sibilò l’uomo con lo sguardo infiammato dall’urgenza. “Non è cosa per te! Avvicinati e te ne farò pentire!”. Mi sentii bruciare di rabbia e di timore. Ma fu la curiosità a vincere. Mentre la famiglia si accostava al gruppo in rispettosa attesa, io ero in allerta come un furetto, pronto a mordere o a scappare se qualcuno mi avesse minacciato. Ma il mio agitarmi non mi consentiva di vedere nulla: i corpi delle persone in attesa erano una cortina compatta e, nello spazio fra le loro gambe, non riuscivo a distinguere quale spettacolo li tenesse così compunti. Stavo lì a impazzire di curiosità, quando a un tratto un piccolo gruppo si scostò, chinando il capo in segno di reverenza, lasciando intravedere inizialmente una persona, seduta di spalle a gambe incrociate, che

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si sollevava e, dopo un ultimo sguardo e un definitivo inchino a qualcuno che non vedevo, se ne andava. Il mio intento fu subito quello di correre lì, prima che si chiudesse il varco, per poter alfine scorgere l’oggetto di tanto interesse, ma qualcos’altro mi colpì: cosa aveva prodotto quell’espressione sul volto di quell’uomo adulto? Non era felicità e non era tristezza. Non era paura né sollievo. Era un misto di tutte quelle emozioni. Sembrava completamente assorto: quasi avesse trovato il bandolo di una matassa inestricabile, ma non sapesse ancora esattamente che cosa farsene. Pensieri come nuvole veloci passavano nei suoi occhi, ma un barlume di chiarore cominciava a illuminarli, come se il sole stesse facendo capolino. Ma fu un attimo e se ne andò, lento, attorniato di parenti e amici che riflettevano la sua stessa espressione o lo scrutavano con attenzione. Ora ero determinato a svelare il mistero: mi intrufolai fra le gambe delle persone per vedere… All’inizio rimasi deluso. Lì c’era semplicemente una donna, seduta anch’essa a gambe incrociate su una sporgenza all’ingresso della roccia. Non era giovane, ma non sembrava nemmeno vecchia. Una veste azzurro chiaro le ricopriva il corpo e una leggera stoffa marrone le celava i capelli. Non era certo una gran signora quella, avrei potuto giurarlo, sebbene la mia esperienza del mondo all’epoca non fosse più vasta del mio sparuto villaggio, ma aveva in sé una compostezza e una solenne calma che, insieme agli occhi chiari e diretti volti all’interlocutore, ispirava reverenza. Ma questo ancora non mi spiegava nulla di quello che stavo vedendo. Perché quella gente era là? Che cosa otteneva da quella donna seduta su una roccia isolata? Giunse il momento in cui la donna, con un gesto della mano, accennò a una ragazza che, lì davanti agli altri, si tormentava le mani. Quella subito si toccò il viso, quasi sgomenta per aver ottenuto quell’attenzione che

certo pure attendeva da un po’. Poi, con esitazione, si avvicinò e, rispondendo al lieve sorriso silenzioso della donna, si sedette davanti a lei. Stava per parlare, quando si guardò intorno vergognosa. La gente capì e arretrò di un passo, quasi travolgendomi. Così, quando parlò, pochi capirono cosa disse, o meglio, cosa chiese alla donna dal velo marrone. La curiosità che mi bruciava dentro esigeva che io chiedessi notizie a chi mi stava intorno, almeno il nome di quella donna e quali miracoli compisse per spingere le persone a raggiungerla fino a quel luogo deserto, ma nessuno rompeva il silenzio, se non i lamenti lievi di qualche bimbo in braccio alla madre. Il silenzio si fece assoluto quando la donna cominciò ad accarezzare qualcosa che aveva accanto a sé. Io non sapevo cosa fosse quel grande oggetto squadrato che la sua mano bianca cominciò ad aprire. Io non avevo mai visto un libro. La mia vita cambiò in quell’istante, lo so ora, ma, chissà come, lo seppi anche in quel momento, mentre, a occhi spalancati e labbra socchiuse, spiavo quel gesto che si accingeva a schiudere un altro mondo. «E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo, spirandole contro gonfiava intorno la sua veste e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli, rendendola in fuga più leggiadra». La voce della donna, chiara, bassa, animata come una brezza, arrivava alle menti di tutti assediando il cuore per la via dell’udito, mentre tutti gli sguardi impallidivano nella visione di un’altra realtà, accesa per incanto. «Ma il giovane divino non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore lo sprona, l’incalza inseguendola di passo in passo. Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto una lepre, e scattano l’uno per ghermire, l’altra per salvarsi; questo, sul

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punto d’afferrarla e ormai convinto d’averla presa, che la stringe col muso proteso, quella che, nell’incertezza d’essere presa, sfugge ai morsi evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla, un fulmine lui per la voglia, lei per il timore. Ma lui che l’insegue, con le ali d’amore in aiuto, corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento. Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e: «Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere, dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui». Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra, il petto morbido si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici, il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva. Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco, sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo, ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae». La voce si spense in un sussurro, mentre il rumore più forte era quello delle foglie dei bassi alberi che vibravano. La gente si scosse leggermente per sottrarsi alla magia di quella voce lenta e suadente che, tacendo, aveva appena chiuso la cortina su un mondo lontano, dove tutti, per un poco, avevano soggiornato. Il vento, in quel denso imbrunire, suonò diverso da quello che scuoteva le vesti della fanciulla del racconto. Negli sguardi quasi vergognosi che tutti si scambiarono levitò quella consapevolezza. La ragazza che aveva posto la domanda rimase lì a fissare la donna: gli occhi negli occhi. Pena, dolcezza e amore trasparirono da quelle iridi calme che le scavavano

l’anima. Lentamente una luce di comprensione mitigò l’inquietudine di quelle mani che, senza più tremito, si levarono a ravviare i lunghi capelli bruni per poi riunirsi davanti al viso, mentre il capo si chinò in un ringraziamento commosso. Sembrò triste, un poco delusa, ma più serena e ferma quando mi passò davanti. Che cosa era successo lì? La mia piccola mente non capiva, ma mi fu chiaro che quella dovesse essere una grande magia. Quella voce aveva trasportato anche me in un altro mondo e io bruciavo, bruciavo di curiosità: volevo sapere che terra fosse quella, che dio corresse e chi avesse trasformato la fanciulla in un albero. Ma non fu quella la sera che mi svelò il segreto. La donna chiuse il libro e si levò, comunicando così che per quel giorno le udienze erano terminate. Inchinando lievemente il capo scomparve nella caverna, abbracciata al grande libro che conteneva le magiche parole. Un poco deluso, l’uomo con cui ero arrivato abbracciò la moglie e la figlioletta, e le condusse parlottando vicino agli alberi più vicini. Poi si allontanò per prendere dal carro il necessario per la cena e la notte che ormai arrivava. Dopo qualche occhiataccia al mio visino implorante, non mi fu negato un posto al caldo vicino alla donna e alla bambina. A pancia piena mi addormentai, sognando di fanciulle albero e divinità deluse. Un rumore di voci mi svegliò la mattina seguente, il sole era sorto da poco e io e la bambina eravamo rimasti a dormire con la beata incoscienza dei piccoli. Mi stropicciai gli occhi e vidi che un gruppuscolo di persone era già lì, all’ingresso della caverna. Affrettandomi riuscii a essere in prima fila e resistetti agli adulti che volevano scavalcarmi. La donna arrivò presto. Sulle braccia aveva più libri, un poco più piccoli e li mise accanto a sé sulla

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roccia, poi alzò lo sguardo azzurro cercando il primo che si facesse avanti. Un uomo avanzò. Era ben vestito, ma senza ostentazione; le spalle curve e gli occhi sfuggenti rivelavano un rovello interno. Questa volta ero deciso a non perdermi la domanda che le avrebbe rivolto. “Signora… vorrei sapere se la mia attività avrà successo o se le persone che mi sono vicine vogliono il mio male e i miei averi”. La donna lo scrutò pensosamente. Poi cercò il più grosso dei libri che aveva portato e, sfogliandolo con profonda venerazione, trovò una pagina. «Come fa l’onda là sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s’intoppa, così convien che qui la gente riddi. Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa, e d’una parte e d’altra, con grand’urli, voltando pesi per forza di poppa. Percoteansi ‘ncontro; e poscia pur lì si rivolgea ciascun, voltando a retro, gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?». La donna velata alzò lo sguardo triste sull’uomo, che rivelava la sua confusione con il volto e la persona, allora ella continuò, cercando con il dito un altro passo. «Or puoi, figliuol, veder la corta buffa d’i ben che son commessi a la fortuna, per che l’umana gente si rabbuffa;

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ché tutto l’oro ch’è sotto la luna e che già fu, di quest’anime stanche non poterebbe farne posare una». Stizza, rabbia e paura si susseguirono sul volto di quell’uomo mentre tutti scrutavano la sua reazione. Fu con la pelle rossa dalla vergogna che inchinò il capo e si divincolò in fretta dalla piccola folla. A quel punto l’uomo con cui ero venuto mormorò alle persone più vicine la sua richiesta di precederle facendo cenno con lo sguardo e con la mano alla vistosa condizione di gravidanza della moglie, che mostrava la stanchezza nelle rughe del viso pur giovane. Tutti assentirono e la donna si accoccolò alla meglio sulla pietra, mentre l’uomo con la figlia in braccio si schiarì la voce per pronunciare la frase che si era arrotondata in mente per molto tempo: “Signora, questa nuova creatura che il destino ci porta avrà una buona sorte?” la famigliola scrutava con apprensione ogni movimento del viso e del corpo della signora. Anche il chiacchiericcio della bambina si era fermato. Gli occhi azzurri si soffermarono sul viso gonfio della donna, sul suo ventre arrotondato e prominente, sulla sua evidente stanchezza e il turbamento li velò. Poi cercò un altro volume mentre la madre guardava il marito con un’espressione impaurita. Di nuovo pagine furono sfogliate finché il tesoro delle parole non venne a galla. «Indosso la corazza, l’elmo in testa, la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo; e più leggier correa per la foresta, ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo».

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La signora alzò lo sguardo e il sorriso aperto fugò ogni incertezza e paura dagli animi dei genitori trepidanti. Il velo di lacrime fu interpretato dalla donna incinta per quello che era davvero: malinconia che confinava alla lontana con un po’ di invidia per quell’essere madre che forse alla signora era negato. Io non capii tutto questo allora con la chiarezza che ho invece nella mente e nel ricordo ora, che la vecchiaia mi rode le ossa. Ma quei momenti li ho rivissuti tante volte perché così profondamente segnarono la mia vita. Infatti quel giorno guardai l’uomo con cui ero giunto lì lasciare il cibo che era venuto a portare in dono, osservai la signora che ringraziava con un cenno del capo. Una nuova serenità gli animava i gesti, al pensiero che il suo figlio neonato sarebbe stato un maschio e magari sarebbe divenuto un cavaliere; mi guardò, come a chiamarmi all’appello, ma io scossi il capo e rimasi lì. Ora, ripensandoci, credo che sia ciò che avviene nel nostro cuore e nella nostra mente quello che cambia il destino di ognuno. La speranza avrebbe accompagnato quella vita che doveva nascere, la fiducia di una buona sorte avrebbe illuminato il viso del padre mentre guardava il neonato e addolcito il latte della madre e quel bambino avrebbe davvero avuto una buona esistenza, baldanzosa e foriera di gloria. E io? Io rimasi lì. Lì dove ero stato calamitato dalla mia curiosità. Quando la gente se n’andò tutta, dopo aver ricevuto il responso, la signora all’inizio fece finta di non vedermi, portò dentro il cibo che le era stato offerto e preparò un fuoco all’ingresso della grotta, in una posizione tale che il fumo sarebbe stato spinto fuori dal vento, ma avrebbe impedito agli animali di entrare. Mi allontanai per i miei bisogni e, al mio ritorno, trovai una coperta, non distante dal calore della fiamma e, sopra, un pezzo di pane e un po’

di cacio. Sbirciai all’interno, ma non osai addentrarmi nei meandri di quella caverna che sembrava profonda: quella donna mi metteva soggezione, ma era l’unica persona con cui volevo stare. Non ci furono dialoghi per molto, molto tempo. La sua voce bassa e armoniosa si udiva solo con le parole dei libri che leggeva alle persone che venivano a chiedere il suo consiglio. Io ascoltavo rapito: giorno dopo giorno cresceva in me la speranza che lei avrebbe desiderato insegnarmi la magia delle parole. Eppure non accadde per molti mesi. Non provai a parlarle, intimidito sempre da lei, ma non mi mancò mai un po’ di cibo e la coperta vicino al fuoco. Fu quando mi ammalai, un giorno che mi ero ferito cadendo malamente, che le cose mutarono. In preda all’infezione, mi svegliai in un luogo caldo e scuro, illuminato solo dalla luce di una torcia. La signora mi aveva curato, applicando erbe e cataplasmi sulla mia povera gamba. “Dunque è proprio qui che vuoi stare?” il lenimento proveniva dalla sua mano fresca sulla mia fronte e dalla musica della sua voce. Dopo mesi di solitudine e di attesa la domanda sgorgò, al di là della mia volontà, fra fiumi di lacrime: “Mi insegni?” e in fondo, lo so ora con la mia consapevolezza di vecchio, volevo dire “Mi ami, per favore?”. Risposero le sue mani e il suo abbraccio. Da allora mi aprì la strada alla conoscenza delle parole e dei pensieri multiformi degli uomini. Ci facemmo compagnia, in silenzio e sulle cose grandi, che mi si svelavano in quel posto isolato e prezioso, dove gli umili e i potenti giungevano a chiedere il consiglio di una saggezza perduta. L’ultimo mistero di quella vita da eremita era dove fossero riposti i libri che sempre diversi aiutavano i responsi della signora. Il luogo dove lei dormiva era inaccessibile, ma lì doveva essere la chiave di quell’enigma che lei, ancora, non voleva svelarmi.

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La prima peluria cominciava ad addensarsi sul mio labbro, quando tutto cambiò. Ormai le parole e il loro senso mi si svelavano con scioltezza, anche se la strada davanti a me era ancora lunga. Un giorno, in cui una bruma densa assediava la rada foresta intorno alla nostra roccia, una strana vibrazione turbò l’aria attorno a noi e uno stormo di uccelli si levò furioso da un punto non lontano, dove sapevo essere l’inizio del sentiero che conduceva al nostro eremo. La signora s’irrigidì, lasciò le verdure che stava preparando per il pranzo – nessuno era giunto fin lì quella mattina e noi godevamo della nostra preziosa solitudine – e mi guardò fisso. Poi si alzò e mi prese per mano. “Figlio del mio destino” mi disse e io tremai a sentirmi chiamare così “è giunto il momento in cui tu accetti il compito che ti affido, se lo vorrai” il volto grave era sempre bello ai miei occhi e mi testimoniava il suo amore. “Io credo che tu sia giunto per questo, ma non c’è destino che non contempli la nostra libertà. Quindi sta a te la decisione”. Io non capivo, ma non dissi parola, turbato da quel momento raro, in cui m’aveva chiamato “figlio”. “Che devo fare?” dissi. “Vieni” mi rispose, conducendomi all’interno della grotta e poi dietro la tenda che celava il suo giaciglio. Dietro di esso, accanto a una rientranza dove erano riposte le sue cose, ve ne era un’altra, in cui una ventina di libri stavano impilati. Lei cominciò a scostare quei tomi ponendoli accanto, con cura, sul suo giaciglio. Il fondo della nicchia era dello stesso colore della roccia, ma, mi resi conto, non era roccia! Era una cortina maculata e spessa che lei spostò, rivelando il vuoto. Con qualche difficoltà ci si infilò, scomparendo nel buio. Io mi appressai timoroso per lei, quando un chiarore lì dentro mi mostrò uno spazio ampio e una mano afferrò il mio braccio, tirandomi dall’altra parte. Quando il mio corpo adolescente ebbe oltrepassato

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la strettoia, lo stupore mi afferrò. Il cuore della montagna era cavo! Sembrava lo spazio all’interno di una cattedrale enorme, quale avevo solo potuto immaginare dalle figure dei libri. Alla luce di una torcia appesa al muro, un numero di scaffali infinito mi annichilì al pensiero di tutti i mondi nascosti dentro i libri che vi erano custoditi a perdita d’occhio. Tutti quegli anni passati a studiare Ovidio, Dante, Ariosto e Virgilio mi parvero un nulla rispetto a quel numero maestoso di volumi, che cominciai a percorrere con lo sguardo. Stavo per accostare le dita al primo di quelle decine di migliaia - perché di questo si trattava: una immensa biblioteca era custodita là sotto - quando la signora mi afferrò il braccio. “Questo è il tesoro che devi difendere con la tua vita! Capisci?” mi prese per entrambe le braccia e cercò il fulcro del mio sguardo. “Se questo compito dovesse esserti troppo gravoso, per il resto della tua vita, ricorda che questo tesoro degli uomini ha un valore inestimabile, perciò ti chiedo di attendere il momento in cui capirai chi potrà essere colui o colei che potrà prendere il tuo posto. Solo allora potrai andartene, in un modo o nell’altro!”. Il senso delle sue parole cominciava solo a penetrare la superficie della mia comprensione, quando lei mi tirò via, mi indicò lo stretto pertugio dal quale eravamo entrati e spense la torcia. Tutto fu riassettato, come se quel luogo incredibile fosse stato solo un sogno, ma non ebbi tempo di commentare perché lei si affrettò a uscire dalla caverna. Feci per seguirla, ma mi fermò: “Non farti vedere a nessun costo. Rimani nascosto all’interno della caverna. Non uscire per nessun motivo allo scoperto, qualunque cosa sentirai accadere. Se qualcuno dovesse entrare rifugiati nella biblioteca, rimanendo al buio finché il pericolo non sarà passato. Ricorda! Il senso della mia vita è riposto nelle tue mani, figlio mio!” E uscì alla luce.

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La rarefatta solitudine di quella modesta montagna era violata da un serpente di polvere che percorreva il sentiero e produceva un vibrazione innaturale: gli uccelli volavano via e l’aria stessa tremava. Quando il serpente si fermò, scoprì le sue interiora: un gruppo di armati, nemmeno tanti poi. L’uomo che era alla testa scese dalla sua cavalcatura e l’alterigia dei suoi gesti svelò che era il capo. Un’armatura composta da placche di metallo e duro cuoio gli ricopriva il corpo. Tolse l’elmo rivelando una testa castana e occhi stretti in una curiosità rabbiosa. “Ecco finalmente l’indovina di cui mi hanno tanto parlato. Così misteriosa che non se ne conosce neanche il nome!” La donna, in piedi davanti al suo rifugio, avanzò fino al limite della piattaforma dove la gente si assiepava per consultarla. Non chinò il capo, ma rimase in attesa, in una postura composta. Il vento le muoveva il velo marrone. “Sei una specie di monaca, forse? Chi ti ha dato l’autorità per esercitare la professione di indovina? Non sai che si deve rendere conto all’autorità di quello che si fa?” Il silenzio che ottenne in risposta lo indispose, ma non abbastanza da darlo a vedere. “E soprattutto si pagano le tasse per quel che si fa!” l’uomo voltò indietro il capo verso il suo secondo e quello fu il segnale perché si levasse una risata dalla truppa, che subito si spense quando il capo si mosse. Quando fu di fronte alla donna, la squadrò da capo a piedi e si mise le mani ai fianchi dove pugnali e mazza facevano bella mostra di sé. “Be’ suppongo che potrei avvalermi dei tuoi servigi, giacché ci sono. Avanti dimmi qualcosa del mio futuro, indovina, su!”. La donna si sedette sulla roccia, come faceva sempre, e l’uomo continuò a fissarla in attesa.

“Dovresti pormi una domanda, signore, la gente di norma fa così”. La sua voce, chiara e lenta, senza esitazioni, scosse un poco la truppa. L’uomo, invece, sorrise, come se la sua interlocutrice si fosse finalmente scoperta. “Una domanda, vediamo… vincerò la guerra che sto preparando?”, un sogghigno gli deformò la barba rada. La donna tacque un poco e poi, senza nulla leggere, declamò: «L’udì Febo, e scese dalle cime d’Olimpo in gran disdegno coll’arco su le spalle, e la faretra tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo su gli omeri all’irato un tintinnìo al mutar de’ gran passi; ed ei simìle a fosca notte giù venìa. Piantossi delle navi al cospetto: indi uno strale liberò dalla corda, ed un ronzìo terribile mandò l’arco d’argento. Prima i giumenti e i presti veltri assalse, poi le schiere a ferir prese, vibrando le mortifere punte; onde per tutto degli esanimi corpi ardean le pire». L’uomo, come soggiogato dalla cadenza e dal suono pieno di quelle parole, rimase zitto un poco, in dubbio sul valore di quella risposta. “Mi parli di guerra, sì, è vero, ma mi hai vaticinato pure della vendetta di un dio irato contro un esercito colpevole e verso un capo colpevole, Agamennone...”.

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La donna si lasciò scrutare da quello sguardo freddo, in cui si andava accrescendo la rabbia. “Credevi che fossi digiuno di sapienza come il popolo ignorante cui racconti le tue frottole?”. Con uno sforzo percepibile, però, l’uomo si adoperò di ritrovare la sua calma. “E dimmi, posso porre una domanda su di te? Quale sarà, donna, il tuo destino? Che ti dice la tua consumata sapienza?”. Il ghigno gli sollevò di nuovo un angolo delle labbra. “Sarà quel che sarà. Io ho assolto al mio compito e non ho rimpianti. Non ho bisogno della sapienza antica per essere certa di questo”, tacque per poco e il fatto che non citasse, ma parlasse da sé e per sé parve strano a entrambi. Ma poi riprese. “E tu signore, dimmi, quante possibilità ci sono che io possa continuare a svolgere il dovere affidatomi dal destino, ancora, dopo la tua visita?”. L’espressione crudele sul volto dell’uomo svaporò in stupore quando la donna, alzandosi, gli si appressò. Fu da vicino, infatti e a voce bassa, ma perfettamente percepibile anche dai soldati, che emise il suo ultimo vaticinio: “Io so quale destino ti riserva il futuro, signore: un giorno qualcuno più crudele e furbo di te ti tenderà un tranello e tu, senza onore e senza gloria, soffocherai nel tuo sangue. Nessuno ti piangerà, perché la donna che hai scelto l’hai svilita in ogni occasione, le hai tolto la consolazione del figlio che ha avuto da te e lui, ormai adolescente, ti odia per tutte le volte che lo hai paragonato ad altri, più forti e valorosi di lui. Quando esalerai il tuo ultimo respiro, solo, sulla nuda terra, penserai a ciò che di bello c’è stato nella tua vita e solo la mortificazione dei tuoi nemici ti consolerà”. Il silenzio pesava sulla rocca come piombo fuso che immobilizzasse ogni alito di vita. La voce armoniosa era limpida come l’acciaio appena

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temprato. L’uomo fissava l’indovina con occhi sbarrati, mentre un pallore funereo si diffondeva in lui. “L’ultimo pensiero sarà per tua madre, che ti cullava da piccolo. Dopo il tuo trapasso, una buia angoscia ti stringerà l’anima e un tunnel nero ti ingoierà; mani viscide strofineranno mentre cade il corpo che più non avrai. Qualcosa poi fermerà la tua corsa verso il basso: una mano potente ti prenderà per il calcagno e, appena sopra l’abisso, ti terrà sospeso. Lì si svolgerà il tuo processo: tua madre sarà lì e parlerà delle tue guance di pianto e del suo amore per te. Tua sorella interverrà e ti accuserà di averla venduta per pochi soldi e di aver condannato vostra madre alla tristezza. Un tuo commilitone racconterà che gli hai salvato al vita. Poi centinaia di voci si alzeranno testimoniando la propria uccisione e tu vedrai il sangue colare dalle tue mani. Donne grideranno i loro stupri e bambini piangeranno la tua mancanza di pietà. Ogni grido, ogni pianto scivolerà via sulla tua anima immonda come acqua sulla pietra, ma l’orrore ti seccherà la gola. Il Signore allora pronuncerà la sua condanna e l’angelo lascerà il tuo calcagno, cosicché tu sia ingoiato nel nero dell’inferno, per sempre”. La donna tacque, contemplando la sagoma dell’uomo, che, con gli occhi sbarrati, giaceva a terra ricoperto di sudore freddo. Nessun suono usciva dalle sue labbra aperte, mentre le sue mani cercavano di aprire la corazza come se si sentisse soffocare. Fu il luogotenente che ruppe l’immobilità: accorse verso il suo signore che non poteva staccare gli occhi folli da quelli tranquilli e fermi della donna. Quell’azzurro era acqua profonda in cui un peso immane lo trascinava verso il fondo. Condusse via l’uomo e diede ordine ai soldati che lo caricassero in sella e ce lo assicurassero, dato che non era in grado di condurre. Dovette urlare l’ordine due volte e solo allora gli uomini si scossero. Lui stesso dovette andare verso la donna, la prese per un braccio e la costrinse a salire

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davanti a sé, dopo averle legato le mani. Ci pensò su un poco e decise anche di imbavagliarla, per buona misura. Fu così che, fra il nervosismo generale, tutti accesero le loro moto e, rombando, si allontanarono dalla grotta. Fu così che io divenni ciò che sono. Fu così che la biblioteca della cripta fu conservata per gli uomini. Ora, tu che leggi, sei libero di scegliere il tuo destino, ma sappi che il cuore dell’uomo ha bisogno della sua memoria, ha bisogno della vita, del sangue, del pensiero dei grandi, perché a nessuno sia negata una parola di saggezza. Tu sei il depositario del segreto, a te è dato di tramandarlo. In questo mondo barbaro, sei tu quello che io ho scelto. Non lasciare che il tesoro della cripta sia logorato dal tempo, ma curalo e preservalo per il bene della tua anima e di quella di tutti.

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di Stefania Auci


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All’inizio fu solo il fruscio del vento. Un suono accartocciato, come di foglie che sfregano contro il sentiero di sassi dinanzi la vecchia casa. Si insinuava attraverso le pietre, tra le fessure, e penetrava oltre la fragile barriera dell’intonaco, fino alle sue orecchie. Agnese lo ignorò. Aveva quasi cinquant’anni e viveva da sola in un casolare lungo la strada che portava verso quelle montagne scabre, sin dalla morte del marito e del figlio, molti anni prima. La donna chiuse gli occhi e si strinse nello scialle, serrando tra le dita il rosario. I capelli macchiati da ciocche di grigio e di cenere le sfuggivano alla crocchia e si fermavano sul viso, simili ad alghe imprigionate tra le rughe. Poi, alcuni giorni dopo, arrivarono i passi. Pochi, dapprima; poi sempre più numerosi. Giungevano con il buio, dopo che la luna era tramontata. Allora, il silenzio avvolgeva la valle e tra le ombre, alcune si staccavano dal folto degli alberi, dalla terra, dalle mura di pietra delle vallate del Natisone. Nell’immobilità della notte, in quel tempo sospeso, il rumore impastato diventava nitido. Passi. Centinaia di passi. A ogni notte che trascorreva, Agnese riusciva a sentirli in maniera sempre più chiara. Alcuni erano veloci, altri zoppicanti, altri ancora strascicati. Il suono del vento, o quello della pioggia o della tempesta, non riusciva ad attutirli. Il mattino dopo, Agnese scrutava il terreno alla ricerca di un segno di passaggio. Uomini, o donne, o bambini… chiunque fosse doveva lasciare almeno una traccia, un’orma. Ma non vi era nulla, neppure nelle giornate di pioggia in cui il sentiero si trasformava in un fiume di fango e pietre.

Ogni notte, i passi. Ogni giorno, lo stesso rito per Agnese. Apriva la porta del vecchio casolare, lasciava uscire il cane e, con le mani giunte sul ventre, osservava la strada bianca e polverosa. Rimaneva in attesa lì, per pochi istanti, dove il marito era morto, ventidue anni prima, osservando il profilo dolce e boscoso del Matajur. Aveva guardato verso quelle montagne per giorni e giorni, prima che un ufficiale con il cappello e il pennacchio le portasse una lettera in cui si dichiarava che Serafino Liussi era morto colpito da una pallottola austriaca. Non sarebbe stato possibile dare sepoltura al corpo poiché sulla sua trincea era caduta una granata. Nicola, il loro bambino, il loro figlio, era morto di febbre e stenti poche settimane dopo. La notte dopo aver sepolto Nicola, Agnese aveva chiuso la porta alle spalle e aveva iniziato a camminare verso la Slavia, la Benecija, arrampicandosi sui sentieri scavati dai passi di drappelli di soldati che correvano verso il fronte per arginare un’emorragia di vite umane che sembrava non potersi fermare mai.. Avvolta in un vestito nero e largo che qualcuno le aveva prestato, aveva nascosto i capelli in un fazzoletto e indossato gli scarponi di Serafino, quelli che l’uomo aveva lasciato in un angolo prima di partire per la guerra. Il dolore l’aveva resa un guscio vuoto. Non provava più alcuna sofferenza, non vi era in lei alcuna consapevolezza. Camminava strisciando i piedi, nel buio spezzato dai lampi giallastri che provenivano dalle montagne lontane, inalando con forza l’odore di bruciato e di pirite che impregnava l’aria. Doveva raggiungere le trincee per arrivare ai campi di battaglia e ritrovare suo marito: era giusto – aveva detto alla comare Tina, la sua

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unica amica – che padre e figlio riposassero insieme al Camposanto. Camminò così a lungo che le sanguinarono i piedi, immersa nei boschi devastati dagli incendi, superando senza uno sguardo le fattorie annerite dallo scoppio delle bombe. Giunse in un altro paese distrutto, di cui si era cancellato persino il nome, dove alcuni soldati in attesa dinanzi una caserma notarono quel corpo dagli occhi vuoti che avanzava nella polvere della strada, con i piedi feriti e le labbra spaccate dalla sete. Qualcuno chiamò un medico, un altro un prete. Agnese fu riportata a casa dal vecchio curato e dalla perpetua, che l’affidarono alle cure della comare Tina. “Povera donna, ha perso il senno…” aveva detto il prete sulla soglia, fissandola con uno sguardo carico di dolore. Ma Agnese non era pazza. Si era nascosta là dove nessun dolore avrebbe potuto toccarla, in silenzio. C’erano voluti mesi, e poi anni, ma Agnese era riemersa dal buio. La pace era tornata tra le valli, il Natisone continuava a scorrere, comare Tina era morta, e Agnese aveva deciso di tornare a vivere nella sua vecchia casa fuori dal paese. Era accaduto poco meno di dieci anni prima. Da allora, ogni giorno Agnese fissava il profilo delle montagne contro il cielo azzurro, chiedendosi dove fossero finite le ossa del suo amato Serafino. Ma era un quesito privo di dolore, ormai. La rassegnazione – la medicina che il tempo le aveva somministrato in grande abbondanza – aveva il sapore dolce del miele dei fiori di campo. Era una droga cui era piacevole abbandonarsi, un balsamo su ferite che le avevano tolto ogni energia.

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Fino a poche settimane prima. Fino a che non era iniziato il fruscio. Quella notte, Agnese non si coricò. Rimase seduta al tavolo di legno annerito dal tempo, con lo sguardo fisso sul lume a petrolio, rannicchiata dentro su una sedia di paglia. Attraverso la stoffa della camicia da notte, Agnese avvertiva la pressione dello schienale e immaginò che sulla sua pelle vi fossero impresse le linee della seggiola. Aveva cenato in fretta, pane e formaggio, e aveva tolto le stoviglie che adesso inviavano un bagliore opaco dalla scansia della credenza dove la donna le aveva riposte. Agnese accarezzò il tavolo con le dita. Sotto i polpastrelli avvertiva le venature del legno, il calore quasi fisico che quel vecchio mobile riusciva a trasmettergli, insieme alle ondate di ricordi del marito che lo aveva costruito. Ogni tanto, emergevano dal lago della memoria immagini di Serafino, ma erano così sfocate, così sfuggenti che Agnese non riusciva a fermarle. Erano particolari dimenticati: l’angolo della bocca che si sollevava, la pelle attorno al collo, le mani di lui che prendevano le sue. Brandelli di un passato che Agnese aveva cercato di cancellare, ma che era rimasto in un angolo della memoria, e che quella sera sembrava ben determinato a tormentarla. Non erano come i ricordi di Nicola. Del bambino ricordava il profumo fragrante e la sensazione calda del suo corpicino stretto contro il petto, delle minuscole braccia che le circondavano il torace in un abbraccio impacciato. Nicola la consolava. Serafino la braccava, lasciandole addosso un’angoscia inquieta.

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Agnese scoccò un’occhiata alla finestra coperta da tende di cotone scolorite dal tempo: le aveva chiuse, timorosa di ciò che avrebbe potuto vedere se avesse guardato nel buio. Poi tornò a fissare le dita che inseguivano le venature sul legno e si sorprese di vederle rugose e macchiate dall’età. Alcune dita mostravano segni di artrosi e si stavano arricciando come rami nodosi di un olivo. Istintivamente, le dita corsero al viso e ai capelli. Rughe. Attorno al viso, sul collo, sotto gli occhi. E ciocche grigiastre che scolorivano il biondo dei capelli. Quando era invecchiata, si chiese? Quando è accaduto? La domanda le bloccò il respiro in gola per un istante. Poi, subito dopo, il fruscio. I passi iniziarono uno dopo l’altro. Adesso Agnese li sentiva bene: erano passi di uomini, strascicati come una nenia. Si alzò in piedi e, appoggiandosi al tavolo, raggiunse la finestra. La mano si aggrappò alla falda della tenda e la strinse, mentre il suono diventava potente come mai era stato prima di allora. C’erano passi, e tintinnii, e un sommesso chiacchiericcio che non si era udito mai prima di quella notte. Agnese ritrasse la mano di scatto e, incespicando, raggiunse il pagliericcio dove dormiva. Si tuffò sotto le coperte, con le mani sulle orecchie. Recitava in maniera affannosa il rosario, respingendo le immagini che la memoria le offriva. Ricordava quei rumori. Quei mormorii. Solo, aveva voluto dimenticarli. La mattina dopo, Agnese aprì la porta di casa con cautela. Il sole splendeva sul sentiero e faceva scintillare le cime delle montagne che sembravano fendere l’aria tersa come lame di pietra. Dai boschi giungeva il canto

timido degli uccelli e un vento profumato la avvolse come in un abbraccio. “È stato un sogno” si disse, serrando le labbra in una smorfia stizzita. “Un sogno dettato dalla vecchiaia e dalla solitudine”. Strinse le mani sul petto e sospirò: forse doveva lasciare quella casa e trasferirsi in paese. Restare da sola non è una buona… Abbassò gli occhi. Ai suoi piedi, sull’uscio, c’era un bottone di metallo. Ottone lucido, sporco di fango sul bordo inferiore. Agnese non tremò. Non pianse. Raccattò il bottone e lo rigirò tra le dita, mentre, lentamente, gli anni scivolavano via dalle mani e dal suo viso riportandola a un mattino simile a questo, più di vent’anni prima. Quella sera, Agnese si vestì con l’abito della festa: nero, con il colletto di crepe bianco, come si addiceva a una vedova. Aveva raccolto i capelli in una crocchia e indossato le scarpe di cuoio. Le coperte erano ben piegate sul letto, i pochi soldi che possedeva sul tavolo. Appena il fruscio iniziò, Agnese scattò in piedi. Si guardò attorno alla luce tremolante della lampada e accennò un sorriso per quella stanza spoglia e bianca che l’aveva accolta per così tanti anni. Si sentiva serena, eppure una piccola parte del suo cuore vibrava di paura. Non sapeva se stesse facendo la scelta giusta o se la pazzia e la solitudine l’avessero distrutta. Forse era così. Ma a quel punto, non era più importante. I passi divennero forti, sonori. Il tintinnio dei cinturoni e delle armi, le ruote contro il selciato, il suono delle scarpe contro le pietre della strada era tale da riempire la stanza e invaderle la mente.

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Era il suono della ritirata, quello. Respirando con forza, Agnese aprì la porta. Centinaia di ombre si muovevano sulla strada. Soldati di ogni età. Morti. Ragazzini imberbi cui mancava un braccio, anziani devastati da fori di granata sul petto, fanti che trascinavano i muli, carri spinti a braccia da uomini dal viso sfregiato da pallottole. I soldati della Grande Guerra stavano tornando a casa. Con le mani serrate sullo scialle che le copriva il collo, Agnese si voltò verso la fine della carovana. Fece qualche passo sulla soglia, poi si gettò in mezzo alle ombre ed esse si dischiusero lasciandola passare, accettando con un sorriso grato un briciolo di energia esausta che proveniva da quel corpo avvizzito. Era un brandello di calore, il profumo di una vita vera. Agnese corse fino a che non sentì il cuore farle male nel petto. Si chinò sulle ginocchia mentre la vista si offuscava e le ombre si confondevano con il nero della notte. “Serafino mio… dove sei…” mormorò ansimando. Sollevò la testa e sentì un’altra fitta al torace. Serafino era davanti a lei. Una scheggia di granata gli aveva portato via una parte del viso e un proiettile aveva aperto una ferita sul petto, ma che importava? Il suo Serafino, l’amore della gioventù, era con lei e le stava sorridendo. Gli mancava un bottone sull’uniforme, lo stesso che lei gli aveva ricucito poco prima della partenza durante la sua ultima e unica licenza. Lo stesso bottone cha adesso la donna stringeva tra le dita. Sorrise: il suo amore le aveva riportato la giovinezza. Sentì il cuore leggero che batteva con gioia, le gambe che tornavano a essere agili, la pelle del viso che si distendeva.

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L’uomo sollevò una mano verso di lei e Agnese gli tese la sua. Si sfiorarono. “Sono venuta a cercarti, ma non ti ho trovato. Perdonami” mormorò mentre l’oscurità si faceva più fitta attorno a loro. La voce del marito suonò lontana e insieme vicinissima. “Non importa più. Sono venuto io a prenderti, prima che scoppi l’inferno.” La donna dilatò gli occhi e si guardò attorno. “Perché, amore mio? Che sta succedendo?” L’ombra non rispose subito. Le prese la mano e stavolta Agnese avvertì la stretta forte del marito: era concreta, salda. D’istinto, si appoggiò sulla sua spalla. Una strana, magnifica sensazione di pace si impossessò della mente. “Sta arrivando l’inferno in terra, e nessuno di noi vuol vederlo di nuovo. Stiamo tornando a casa, fuggendo via dalla terra che ha bevuto il nostro sangue e ha coperto i nostri corpi”. Fece una pausa, camminando insieme alla moglie, in mezzo agli altri fantasmi. “Altri, molti altri prenderanno il nostro posto”. Agnese Liussi fu trovata morta al centro della strada da un contadino di passaggio, stroncata, forse, da un attacco di cuore. Fu sepolta con gli abiti che aveva indosso e per il funerale fu usato il denaro che la donna aveva lasciato sul tavolo. Nessuno fu in grado di toglierle dalla mano il bottone da uniforme militare di fanteria che stringeva e che, probabilmente, apparteneva al marito morto poco lontano da Caporetto. Poche settimane dopo, l’Italia fascista entrò in guerra.

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di Elena Bigoni


Nayiri si osservò un’ultima volta allo specchio, se così si poteva chiamare quella scheggia di metallo lucido non più grande del palmo di una mano. Vide i propri occhi pesanti e cerchiati a causa della mancanza sonno. Una condizione ormai perenne. Prese lo zainetto sdrucito e il thermos. Ogni giorno si chiedeva per quale motivo continuasse quella vita. Erano passati ormai quattro anni da quando, appena dodicenne, aveva fatto il suo ingresso alla Hiong Than Manufacturing ed era iniziato il suo inferno personale. Un incubo: il lavoro in fabbrica, dal quale non poteva sottrarsi. Il giorno in cui la madre aveva perso l’uso del braccio destro, a causa di un incidente sul lavoro, aveva per sempre segnato la vita di Nayiri che si era dovuta sacrificare e farsi carico della famiglia. L’unico luogo che ancora assumeva personale minorenne era la Hiong Than Manufacturing. Non c’erano molte altre possibilità, sempre che non seguisse il consiglio della sua amica Saria: trasferirsi nelle zone costiere diventate ridenti e floride mete turistiche. L’idea di farsi toccare dalle viscide mani di un uomo la disgustava; la madre, scoprendolo, sarebbe morta di dolore e vergogna. Si sentiva imprigionata in una vita che non le apparteneva. A volte sognava di uscire dalla porta di casa per non farvi più ritorno. Scappare in cerca di tutte quelle belle cose che vedeva ogni tanto alla TV della signora Singh, la sua vicina di casa. Tentare di trovare quella felicità che sembrava essere alla portata di tutti, eccetto della sua; ma sapeva che, per una come lei, nulla sarebbe cambiato. Le bastava dare uno sguardo alla stanza che chiamava casa e che condivideva con sua madre e i tre fratelli, per capire che non c’erano possibilità di scelta. Si sentiva sola, diversa, ma non era l’unica. Ogni mattina avviandosi al lavoro o guardandosi attorno

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durante il turno di dodici ore Scorgeva volti con la sua stessa espressione. Volse lo sguardo un’ultima volta alla stanza: i fratelli dormivano insieme sull’unico materasso steso a terra. Fece un cenno alla madre, seduta su una poltrona che usava come letto. Era diventato un rito che lei si svegliasse, la osservasse prepararsi per andare al lavoro e con gli occhi colmi di sofferenza le augurasse buona giornata. Un rito straziante che costringeva Nayiri ad andare avanti, ma che lacerava ogni giorno di più il suo cuore. Anne Raley si osservò un’ultima volta allo specchio della porta d’ingresso. Adorava quello specchio ovale con la semplice cornice color ebano, ma in quel momento tutta la sua attenzione era focalizzata sul viso che ne veniva riflesso: occhi scavati e spenti, occhiaie, capelli raccolti in una disordinata coda. Erano lontani i tempi in cui Anne scorgeva una donna attraente, decisa, con un radioso futuro e una vita di cui teneva saldamente le redini. Era bastato un soffio e il suo sogno si era infranto cambiandola per sempre. Aveva scoperto nel modo peggiore che una bella casa, un buon lavoro, una marito meraviglioso e i soldi non servivano a nulla se la vita ti strappava dalle mani la cosa più importante della vita: tuo figlio. Un bambino le era sempre apparso il tassello più importante per sentirsi felice e, quando aveva saputo di essere incinta, era esplosa dalla gioia. La gravidanza era stata splendida, ogni giorno che passava, man mano che il suo corpo s’ingrossava, si sentiva più felice, più viva e più vitale. Passava ore a guardare cataloghi di prodotti per bambini, immaginando tutte le cose che avrebbe comprato per il piccolo in arrivo, osservando il

“Mad World” Gary Jules

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mondo con occhi nuovi; faceva liste mentali delle attività che avrebbero fatto insieme, delle cose che gli avrebbe insegnato. Ogni tanto si faceva anche prendere dalla paura: sarebbe stata una buona madre? Il parto sarebbe andato bene? Il piccolo sarebbe stato sano? Quando finalmente Michael era nato tutto aveva acquistato un senso diverso. Non subito: è vero, c’era voluto un bel po’ per digerire il fatto che quella piccola e fragile creatura era il frutto dell’amore suo e del marito. Si ricordava ancora quando lo allattava, lo osservava incantata e diceva a suo marito, George, che non riusciva a capacitarsi di come fosse cambiata la loro vita. Non sapeva ancora che quel piccolo frugoletto sorridente sarebbe rimasto con loro per poco. I primi tempi erano stati difficili: conoscere e curare una nuova persona che dipendeva completamente da lei era stato impegnativo. Aveva vissuto quei primi tre mesi in una specie di limbo: intervalli di sonno, veglia, poppate e cambi. Michael però era un bambino meraviglioso: dormiva nella sua culletta accanto al loro letto, svegliandosi solo il tempo di mangiare. Durante il giorno era un piccolo “grillo” vivace che scrutava il mondo con contagioso stupore. Anne spesso si era persa ad osservarlo e si sentiva teneramente orgogliosa delle sue scoperte. La deliziavano i tentativi con cui cercava di afferrare qualsiasi oggetto alla sua portata con le piccole mani grassocce. A quattro mesi erano cominciati i cambiamenti: il piccolo non voleva più il latte, dormiva sempre di più, piagnucolava inconsolabile e i suoi movimenti, all’inizio così energici e continui, erano diventati più lenti e rari. Preoccupata si era rivolta al pediatra, forse il suo latte non era abbastanza nutriente, o forse era solo un momento, forse il caldo… Aveva provato persino ad appoggiarsi a

un’ostetrica specializzata in problemi di allattamento, ma nulla era cambiato. Su consiglio del pediatra era passata al latte artificiale, ma le condizioni peggioravano: era cominciato il calvario negli ospedali, analisi, ecografie, visite specialistiche. Nessuna terapia sembrava sortire alcun effetto, non c’era una diagnosi chiara e Anne vedeva il suo piccolo deperire sotto il suo sguardo impotente. A otto mesi Michael era entrato in coma. Non c’era cura per ciò che stava succedendo al suo piccolo: nessuno tra i più prestigiosi dottori sembrava trovare il bandolo della matassa. Michael si stava lasciando morire. Ormai era certo che suo figlio fosse stato colpito dalla Sindrome di Tabitha, dal nome della prima bambina che era morta a otto mesi, dopo numerose settimane di coma e che presentava gli stessi sintomi di suo figlio. I casi che si registravano erano ancora poche centinaia, ma nelle ultime settimane stavano aumentando e molti eminenti scienziati parlavano già di una pandemia. La stampa si era buttata su questa notizia come un lupo affamato. Ipotesi surreali si sovrapponevano fra loro: complotti delle case farmaceutiche, riscaldamento globale, fine del mondo. Erano solo alcune delle tesi che venivano date in pasto ai giornali quotidianamente. I genitori avevano paura, i medici brancolavano nel buio e si stava generando un’isteria di massa, ma nulla, nemmeno le precauzioni più estreme, sembrava contenere questo morbo. Michael probabilmente era uno dei primi bambini a essersi ammalati e Anne ormai viveva in una sorta di incubo a occhi aperti. Con muta rassegnazione osservava gli occhi preoccupati dei medici: i loro sguardi sfuggenti erano pugnalate continue.

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Nayiri lavorava china sul suo banco di lavoro, ingombro di pietrine colorate da incastonare in vezzosi e teneri disegni di orsetti, giraffe, coniglietti, cuoricini e fiocchi che avrebbero poi adornato le culle, i lettini e tanti altri graziosi oggetti nelle stanze amorevolmente arredate da future mamme e orgogliosi papà. Appena era stata assunta, l’idea di confezionare quei bellissimi addobbi per accogliere delle nuove vite la entusiasmava; spesso si era trovata persino a canticchiare dolci canzoncine. La riempiva di un’inaspettata gioia immaginare che quelle nenie sussurrate sotto voce potessero allietare i sogni dei nuovi piccoli arrivati. Si augurava che la loro vita fosse ricca e piena di speranza, di amore e di desideri esauditi. Ben presto però quel sentimento era andato scemando trasformandosi in una sorta di rancore, un odio verso quelle famiglie, quei bambini e quel mondo che abbelliva inutilmente cosa? Un letto! Sandir, il fratellino minore, aveva dormito per lungo tempo nel cassettone sgangherato che fungeva anche da armadio per i loro miseri abiti. Una camera? Erano talmente piccoli quei bambini! Che cosa interessava a loro se sulla testiera del lettino o sull’anta di un armadio c’era un orsetto o un cuore? Pensava a quei genitori che sprecavano i loro soldi in oggetti futili e vezzosi quando c’era gente come lei che non poteva permettersi nemmeno un giacca pesante per le giornate di pioggia. Ma anche quel sentimento, quel rancore, ben presto era scomparso, come qualunque altra emozione. Quel luogo, la fabbrica, era una sorta di limbo: una non vita dove movimenti automatici imbarbarivano le persone. Pensare faceva male, sognare ancora di più e ben presto, entrando attraverso i cancelli della Hiong Than Manufacturing, Nayiri aveva cominciato a lasciare la

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sua vita fuori dallo stabilimento. Entrava e diventava un fantasma, una faccia priva di emozioni. Se la sua anima si fosse affacciata anche solo per un attimo durante le ore lavorative, quel luogo si sarebbe trasformato in un inferno e Nayiri non avrebbe potuto sopportarlo. Meglio annientare per dodici ore la sua essenza piuttosto che trascinare nell’abisso l’intera vita. Come lei tutti coloro che varcavano quei cancelli avevano scelto di smettere di esistere per l’intera durata dei turni: automi privi di sentimenti, privi di qualunque desiderio, sogno o speranza. Una cappa oscura aleggiava in quei luoghi. Una densa marcescente coltre di vuoto che impregnava oggetti e pareti. Lo stabilimento della Hiong Than Manufacturing era ormai diventato un ricettacolo purulento di NULLA, i cui tentacoli avvolgevano quei piccoli oggettini che avrebbero fatto la gioia di tanti genitori. La morte sarebbe entrata nelle loro case e loro ne erano inconsapevoli. Anne era seduta in camera da letto. I sussurri della gente venuta per la veglia funebre formavano un ipnotico brusio di sottofondo. Sapeva che doveva scendere, ma non ne aveva la forza. Michael si era spento, non c’era stato nulla da fare, il suo piccolo corpo ormai privo di vita era una fotografia indelebile davanti ai suoi occhi. Il dolore che provava era opaco, profondo e quando non riusciva a trattenerlo saliva lento a galla esplodendo nel petto e nell’anima ormai priva di forza. Non si ricordava nulla delle ultime ore, o forse erano giorni. Appena tentava di rimettere a posto i pezzi e i ricordi delle settimane precedenti, l’ansia e il panico l’assalivano. Cercava ristoro nel sonno: aveva quasi sempre dormito dalla morte del figlio. Il sonno era diventato la sua via di fuga. Nei sogni poteva immaginare che Michael fosse ancora vivo e che presto sarebbe tornato

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a casa. Sognava di abbracciarlo, cullarlo e di trovare serenità nell’inebriante profumo di pulito e d’innocenza che emanava. Poi si risvegliava e vedeva la culla vuota. Ripiombava nella realtà e un nodo le saliva alla gola. Con la morte di Michael il mondo aveva perso i colori, gli odori. Non era più un luogo in cui sentisse di poter vivere. Sentì i passi pesanti nel corridoio, la porta aprirsi. “Anne devi scendere, non puoi rimanere qui così, ancora”. Anne si voltò verso la voce, nessuna parola. Con volto inespressivo osservò George, suo marito. Ogni volta che le parlava provava un profondo odio nei suoi confronti: possibile che non sentisse il dolore che stava provando? Possibile che riuscisse a vivere come se nulla fosse successo? Come se fosse stato giusto che Dio gli avesse strappato Michael dalle braccia? Perché lui, perché proprio lui, cosa aveva fatto per meritarsi questo? Anne osservò per un altro istante il marito, poi volse lo sguardo verso la culla, quella bellissima culla impreziosita da un fiocco celeste sulla testiera. Era diventato il simbolo di una nuova vita, di un nuovo inizio. L’accarezzava ogni tanto, ne seguiva con le dita il disegno. Quella culla era diventata il simulacro di sogni infranti e speranze spezzate, di una vita che non sarebbe mai stata vissuta. Nella mente di Anne si fece largo l’idea che essa rappresentasse l’unico luogo sicuro in cui avrebbe potuto trovare pace. Sentì il rumore dei passi di suo marito allontanarsi. Si avvicinò a quella culla vuota, l’accarezzo e l’abbracciò. Si lasciò cullare dal torpore che sentiva quando si abbandonò su di essa, sentì che ogni sentimento, ogni dolore ogni tormento pian piano lasciava il posto al nulla. Un profondo, caldo e nero senso di pace l’avvolse.

Forse era così che Michael si era sentito quando aveva smesso di lottare. Anne percepì di essergli più vicina ora di quanto non lo fosse mai stata negli ultimi mesi. Era in quel luogo che Michael si era rifugiato e, forse, anche lei vi avrebbe trovato riposo. Il vuoto l’avviluppò fino a sommergerla. Vi si immerse completamente. Il battito del cuore rallentò, il respiro si fece sempre più lento. Poi, fu solo il silenzio…

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di Roberto Gerilli


“Children Of the Grave ” Black Sabbath

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Poco-egregio profanatore di tombe, sei giunto (non invitato) nella mia cripta e ora sei alle porte della mia sepolcrale dimora. Non sei stato intimorito dalla minaccia di una maledizione letale (lo dicevo sempre anche agli egizi che questi anatemi non sono credibili) e hai superato i tre trabocchetti che avevo piazzato lungo il corridoio. Quelle lame erano almeno ancora affilate? Il fabbro che le ha create ha garantito per la loro durata, ma non sembrava un tizio di cui fidarsi. Beh, a ogni modo, devo prendere atto che sei giunto fin qua. Vuoi che ti faccia i complimenti? Si potrebbe dire che li meriti, in effetti, ma prima che il tuo ego sbatta la testa contro il soffitto, concedimi qualche minuto della tua discutibile… come vogliamo chiamarla? Carriera professionale? Oltre questo uscio c’è una cavità scavata nella roccia. È vuota, fatta eccezione per il mio funereo giaciglio. Una semplice bara di legno in cui spero di poter dormire a lungo in pace e tranquillità. Non ci sono tesori né oggetti di alcun valore. Ovviamente non mi aspetto che tu sia giunto fin qua per fidarti semplicemente delle mie parole, ma ti prego di concedermi qualche istante per tentare di convincerti. In fin dei conti se hai superato tutti le difese ora sarei stanco, sbaglio? Il nocciolo del discorso è questo: io sono un vampiro. Se varcherai questo uscio mi troverai placidamente addormentato nel mio comodo feretro e, anche se starai attento a non far rumore, ci saranno buone probabilità di svegliarmi. Una volta desto avrò fame e non avrò più sonno. Non nego che una bella sorsata di sangue caldo mi farebbe piacere, ma se questo implica anche un solo giorno nella vostra società… preferisco una seduta di lettino solare. Mi sono spiegato? Sì, lo so, è un affermazione molto critica. Una volta non ero così avverso al vostro modo di vivere. Anzi, a dir

la verità, sono stato sempre affascinato dagli umani e dal loro strano rapporto con la morte. La temono tanto da inventarsi storie su mondi immaginari dai nomi fantasiosi (walhalla, aldilà, paradiso), ma al contempo trovavano modi sempre più fantasiosi per dispensarla su larga scala. Pensavo che foste soggetti interessanti, poi però ho conosciuto la musica di Lady Gaga, i BlackBerry e i romanzi di Stephanie Meyer. Ho vissuto un’esperienza ben poco gradevole nella società globale del nuovo millennio e voglio raccontartela sperando che, poco-illustre profanatore di tombe, tu sia impietosito dalla mia storia e decida di lasciarmi riposare, lontano dal vostro inferno quotidiano. Sognavo. Ero al mare, seduto su un pontile di cemento al chiaro di luna. Estate, aria afosa, i miei piedi ciondolanti nell’acqua fresca. Sorseggiavo la mia granita al sangue ed ero felice. Poi il risveglio. Qualcuno aveva scoperchiato la mia bara e io ero di nuovo desto. Mi tirai su lentamente e chiesi con voce lugubre «Chi osa disturbare il mio sonno?». Poi aprii gli occhi di scatto. Lo ammetto è un risveglio un po’ troppo teatrale, ma noi vampiri amiamo la drammaticità di queste entrate scenografiche. Mi guardai intorno e scorsi una ragazzina cicciottella. Era strizzata in un paio di jeans a vita bassa e in una maglietta rosa con disegnato uno strano gatto dalla testa quadrata. Sorrise e scosse la mano in aria. «Ehi, ciao, io sono Susi.» A quel tempo dormivo in un seminterrato di un’antica villa abbandonata. Le finestre erano oscurate da pesanti drappi neri da cui filtrava solo la luce necessaria per vedere l’espressione ebete della ragazzina. Stava immobile di fronte a me e aspettava qualcosa. «Ebbene?», chiesi.

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«Uhm, sì, cioè… ma tu sei un vampiro?» «Conosci molti umani che dormono in una bara?» «Non molti, solo un paio. Tipi strani però.» Quasi mi soffocai per la sorpresa. Tossii piano e ripresi il mio austero contegno. «Io sono Valery William Sigfrido Svindal-Pederesen III, vampiro delle terre del nord.» Lei fece scoppiare una bolla fatta con il chewingum «Va bene se ti chiamo Val?» Aggrottai la fronte. Lei non lo notò e proseguì. «Senti però, insomma, sei sicuro di essere un vampiro? Perché mi sembri troppo bruttino per esserlo.» «Come osi tu…» Non riuscii a finire la frase. Susi si era aggrappata alla tenda più vicina e l’aveva tirata con malagrazia. Lame di luce polverosa trafissero il buio e mi colpirono in volto. La mie pelle iniziò a bruciare riempendo la stanza di fumo e odore di barbecue. Mi catapultai fuori dalla bara rintanandomi in un angolo buio. «Ecco, ti pareva, sei uno di quelli.» «Tu, malefica e grassa umana, come osi insultarmi? Sei forse una discendente di quei maledetti Van Helsing?» La ragazzina scoppiò a piagnucolare «Non sono grassa, uffa». Nella mia secolare non-morte ho incontrato persone capace di ridefinire i vertici della stupidità, ma questa Susi era fuori dalla portata del mio intelletto. Rimase per qualche istante ferma, singhiozzando e tirando su con il naso, poi riprese a parlare. «Mi dispiace per la luce. Speravo che non fossi uno di quelli.» «Ti ho detto che sono un vampiro, cazzo!» sbottai. «Si ma speravo che fossi uno come Edward. Invece aveva ragione mia nonna, sei uno di quelli vecchi.»

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«Chi sarebbe questo Edward? Un vampiro?» «Certo! Come fai a non conoscerlo?» «Sono un vampiro non una comare. Non posso conoscere tutti i miei simili.» «Ah», rimane sorpresa. «Pensavo aveste una specie di Facebook?» «Una specie di cosa?» «Facebook, mai sentito? Twitter? Cioè, devi essere proprio vecchio, cacchio.» «Torniamo su questo Edward, va bene? Chi è? Cosa ha di tanto speciale?» «Beh, lui è un vampiro come te, però al sole la sua pelle si copre di luccichii dorati.» Scoppiai a ridere. E rido anche ora a ripensarci. Luccichii dorati, ma come si fanno a inventare certe cazzate? Il difficile dialogo tra me e Susi andò avanti per parecchie ore. La storia della ragazza era questa: era andata al cinematografo e si era innamorata di un vampiro, tale Edward Cullen. In quel momento non capii se lo avesse incontrato durante la proiezione o se costui fosse solo un personaggio di finzione. Quando parlava di questo Edward, Susi era tutta un “Mmm, cioè, è proprio bono”, a cui ogni tanto aggiungeva un “Cioè, non puoi capire” per poi ripetersi con un “Sicuro che non lo conosci?”. Insomma, la ragazza si era convinta che tutti i vampiri fossero “strafighi” e quindi si era recata da un certo signor Google per fare delle ricerche. Questi gli aveva riferito di antiche leggende che circondavano l’edificio in cui mi ero rifugiato, storie confermate anche dalla nonna. Per cui lei aveva raggiunto la villa e aveva avuto la brillante idea di svegliarmi. Chiarisco subito che a quel tempo non avevo impiegato molte risorse per difendere il mio riposo.

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Quando ero andato a dormire il timore di incontrare un vampiro era sufficiente a tenere lontani curiosi, spericolati e… sì, perfino i suoi colleghi tombaroli. I tempi cambiano, purtroppo. Torniamo a Susi. Quando riuscii a capire tutta la sua storia, il sole era calato e fuori dalla finestra si scorgeva solo un confortevole buio. Avevo fame e ero tentato di addentare il collo della ragazza, ma era talmente sciroccata da farmi tenerezza. Mi limitai a dirle: «Senti, scusa se ti interrompo, ma ho fame. Devo trovare qualcosa da mangiare.» Lei mi guardò imbarazzata. «Intendi che vuoi succhiare il sangue a qualcuno?» «Beh si, è questo che facciamo noi vampiri.» «Però, cioè, non è molto carino, non trovi? Non potresti mangiare qualche topo o roba simile?» «Cazzo, no, ma per chi mi hai preso?» Rimasi scioccato dalla proposta, poi ci pensai su per un istante e capii quale fosse il problema: «Non mi dire che il tuo amato Edward fa anche una cosa del genere.» «Certo! Edward è troppo buono per far del male alle persone.» «Un vampiro buono che brilla al sole. Sì, certo, molto credibile.» Susi si arrabbiò ma io avevo troppa fame per continuare il discorso. Uscii all’aria aperta, incontrai un uomo che portava a spasso il cane e lo dissanguai con un morso alla giugulare. Parlo dell’uomo, non del cane, sia chiaro. Nutro un profondo rispetto per gli animali. La ragazza mi raggiunse e mi guardò disgustata. «Non è buona educazione fissare un vampiro mentre mangia», dissi. Alzò le spalle e si voltò. Quando ebbi finito mi chiese

di accompagnarla a casa e io l’accontentai. Mi erano occorsi pochi minuti per capire che avrei avuto bisogno di una guida per districarmi in quell’epoca. Certo Susi non sembrava la più indicata per il ruolo d’anfitrione, ma non avevo molte alternative. Scoprii così che eravamo alle soglie del 2009, che il presidente degli Stati Uniti era un afroamericano (termine politicamente corretto), e che Susi teneva una certa Lady Gaga rinchiusa dentro una scatoletta che chiamava “aipod”. Quest’ultima informazione mi sembrò poco chiara, ma quando stavo per chiederle spiegazioni arrivammo a destinazione. «Ti va di entrare? I miei genitori sono in vacanza». Sorrisi all’ingenuità con cui la ragazza aveva appena invitato un vampiro in casa. Era evidente che non capiva le possibili implicazioni, ma non stava di certo a me spiegargliele. Ora, poco-esimio profanatore di tombe, potrei dilungarmi sulla serata passata a casa della ragazza, raccontarti del mio primo incontro con quella scatola magica che chiamavano televisione e dirti degli approcci maldestri tentati da Susi per convincermi a fare sesso con lei. Non voglio, tuttavia, rischiare di annoiarti, per cui passo oltre. Arriviamo così al giorno successivo. Eravamo nell’ampio salotto, le tapparelle abbassate, Susi che non smetteva di raccontarmi dei suoi futili problemi, quando dall’esterno arrivò un gran vociare. La ragazza fu subito incuriosita, ma io sapevo esattamente cosa fosse: contadini infuriati, torce e forconi. Mi ero già trovato in quella situazione e non era stato piacevole. Mi innervosii. «Hai detto a qualcuno che sono qui?» «No, a nessuno. Cioè l’ho solo scritto nel mio blog.» «Che cos’è un blog? Uno di quei diari privati che piacciono tanto alle ragazze?» «Beh, quasi.»

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«Che vuol dire?» «Che, cioè, è una specie di diario. Però lo possono leggere tutti.» Stavo per arrabbiarmi, e quando dico arrabbiarmi intendo sbavare come un cane idrofobo pronunciando improperi che farebbero impallidire anche il più rozzo dei demoni dell’inferno, quando alla televisione apparve un uomo in giacca e cravatta. Una scritta scorreva sulla sua pancia: I vampiri esistono! Poi l’immagine sfumò ed apparve l’esterno della casa. Il portone era assediato da uomini famelici, ma invece di torce e forconi impugnavano microfoni e telecamere. «Chi diavolo sono?» chiesi. «Giornalisti.» «E cosa vogliono?» «Intervistarti, credo. Sei fortunato.» «Fortunato?» «Sì, ora ti pagheranno per portarti nelle loro trasmissioni. Andrai in televisione.» «Sarà meglio fuggire.» «No, ma che dici? Andare in televisione, cioè, è un sogno, cavolo. Diventerai celebre, il pubblico ti amerà.» «Amerà me? Un vampiro?» «Sì, certo, andate di moda. Sta tranquillo. Però, cioè, puoi farmi un favore?» «Che favore?» «Beh, se te lo chiedono siamo andati a letto insieme, ok? Cioè, avere un vampiro in casa e non andarci a letto sarebbe troppo da sfigate.» Ed è così che diventai una… com’è che mi chiamavano? Ah sì, star televisiva. Mi trasferirono in un hotel di lusso e mi pagarono una suite con i vetri oscurati. Vissi lì per un mese intero.

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Ogni giorno mi passavano a prendere al tramonto, mi portavano negli studi di registrazione, mi intervistavano e poi mi riportavano in albergo. Susi divenne famosa pubblicando il libro “La mia notte di passione con un vampiro”. A capodanno mi sballottarono per una decina di discoteche. Entravo nel locale, la musica si abbassava, io auguravo buon anno dal microfono del dj, uscivo. E poi di nuovo. Mi pagavano tanto e non si lamentavano quando attaccavo qualcuno per berne il sangue. Era una vita strana. Piacevole e assurda. Poi, all’improvviso, finì. Le domande dei giornalisti iniziarono a essere polemiche. Mi chiedevano se non mi vergognassi a dover succhiare il sangue per vivere. Arrivarono gli insulti dei passanti. Mi accusavano di essere un pericolo per la società, però continuavano a comprare gli occhiali da sole che portano il mio nome. Susi scrisse un altro libro “La notte che sono stata stuprata da un vampiro.” Divenne ricca e ancora più famosa. Venni arrestato e passai un mese in carcere. Devo ammettere che fu un periodo molto rilassante. Vivevo in una cella piccola come una bara, senza finestre e con quell’odore stagnante di muffa che mi ricordava la cripta in cui sono cresciuto. I secondini erano individui mentalmente suggestionabili e non era mai difficile ipnotizzarli per convincerli a portarmi qualche pasto, magari qualche vecchio detenuto di cui nessuno avrebbe sentito la mancanza. Furono trentadue giorni molto rilassanti che purtroppo terminarono per… insufficienza di prove. Quelli dello showbiz sono dei virtuosi nell’arte di nascondere le malefatte dei loro protetti. Fui scagionato. Già, poco-insigne profanatore di tombe, hai capito bene. Venni liberato proprio da coloro che mi avevano usato e abbandonato. Nonostante avessi perso la stima

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degli spettatori, i produttori erano convinti di non avermi sfruttato ancora a dovere. Mi volevano spremere… beh, come una vergine nelle mani di un vampiro. Mi presentarono un gruppo di ragazzi un po’ strambi e mi dissero di socializzare con loro. Non era facile viste le loro carenti capacità d’interazione civile, ma in fondo erano simpatici. Almeno all’inizio. Odiavano Stephanie Meyer e i suoi romanzi. Li definivano “un abominio contro la storia dei vampiri” e io non potevo che essere d’accordo. Mi avevano visto alla tv, per cui conoscevano le mie inclinazioni sanguinose. Invece di esserne spaventati, ne erano affascinati. Mi vollero intervistare nei loro blog e ricevetti migliaia di… visualizzazioni (visto l’entusiasmo che suscitarono ho intuito che fosse qualcosa a cui tenevano, anche se non ho mai capito di cosa stessero parlando). Mi dissero «Diventerai il nuovo fenomeno del web, più popolare addirittura dei gattini», frase che mi lasciò alquanto perplesso ma che risultò profetica visto che di lì a qualche giorno tornai a essere ospite in un programma televisivo. Sono molti gli aspetti della società umana rimasti per me oscuri, ma il concetto di popolarità non fu difficile da capire. Più appari in televisione, più sei popolare. Semplice. E vista questa definizione io lo ero effettivamente molto. Mi invitarono a trasmissioni di dibattito in cui io e i miei nuovi amici dovevamo affrontare i sostenitori dei “vampiri luccicanti”. Battaglie verbali in cui tutti venivano incitati a offendere e sbraitare. Mi coprirono d’insulti… e di soldi. Ma era snervante. Mi stancai di combattere questi inutili scontri e i miei “nuovi amici”, mi scaricarono dicendo che mi ero svenduto al pensiero di massa. Venni ospitato in un programma di cucina, in cui una matrona dal sorriso falso tentò di consigliarmi un

menù senza sangue, e poi in uno di divulgazione medica, in cui un dottore molto affettato tentò di curarmi dalla mia presunta malattia. Proprio nel backstage di questa trasmissione rincontrai Susi. Era dimagrita e nascosta dietro a una pesante maschera di fard, ombretto e lucidalabbra. «Ciao Val.» «Buona sera Susi.» «Come stai?» «Non-morto, come al solito.» Silenzio. Poi di nuovo la sua voce. «Pensavo, sì cioè, che mi dovessi dire qualcosa.» «No Susi, sta tranquilla. Non sono il tipo che porta rancore.» «Rancore? Io pensavo mi volessi ringraziare!» «E di cosa?» «Beh, ti ho reso famoso. Se non fosse per me tu staresti ancora dormendo in quella bara.» «Quella bara era comoda.» «Sai che ti dico? Sei un ingrato.» E se ne andò stringendo al petto una copia del suo nuovo libro “La notte in cui capì che i vampiri sono impotenti.” A quel punto… beh a quel punto le corsi dietro, le chiesi scusa per la mia ingratitudine e ci sposammo. No, scherzo! Le ho succhiato tutto il sangue e l’ho uccisa. Poi ho morso i cameramen, il regista, i presentatori, gli ospiti, lo staff della sicurezza e i produttori. Mi sono saziato del loro sangue e della loro vita. Poi ho continuato con tutti quelli che ho incrociato e ho raggiunto questo sepolcro costruito con i soldi guadagnati. Ho percorso una strada lastricata di cadaveri e nessuno ha avuto il coraggio di seguirmi.

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Non l’ho fatto perché avessi particolarmente fame, né perché fossi arrabbiato. L’ho fatto perché… cazzo perché sono un vampiro, ok? Un signore delle tenebre. Non un personaggio di una storiella per teenager, né tantomeno di un romanzo rosa per casalinghe insoddisfatte dal loro matrimonio. Non sono un figo o uno strambo o una star televisiva o un fenomeno del web o un VIP. Sono un vampiro: succhio il sangue e uccido la gente! Non sono un simbolo, sono solo un cazzo di vampiro. Ora, poco-distinto profanatore di tombe, non so se questa storia ti abbia convinto a lasciami dormire ma so per certo che ti insegnerà un’importante lezione morale. Se t’intrufoli in una cripta di un vampiro, ignori la maledizione ed eviti tutti i trabocchetti, non è saggio perdere tempo a leggere una lettera (anche se scritta molto bene) perché nel frattempo uno zombie da guardia di nome Susi (già proprio lei) potrebbe raggiungerti e ucciderti. Buona morte.

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di Giulia Marengo


“Non seguirmi. Potresti pentirtene”. Controllo l’apparecchiatura elettronica in dotazione, cercando di ignorare il tremito delle mie mani. Sul labbro superiore si è raccolta una perla di sudore gelido. Non incrocio il suo sguardo. E’ già successo una volta, quando sono arrivato, e spero di non doverlo fare mai più. Quegli occhi incolori, freddi quanto la morte, mi fanno accapponare la pelle. La mia risposta è poco più di un balbettio nervoso, ma mi schiarisco la voce cercando di suonare professionale. “E’ il mio lavoro. Lei ha accettato l’accordo con il giornale”. Sento un fruscio di vesti, appena percettibile. Nell’aria si spande un odore stantio, che sa di muffa, ma con un sottotono dolciastro, di materiale in decomposizione. E’ così vicino che sobbalzo quando sento la sua voce calma nell’orecchio. “E’ solo un consiglio. Vedrai accadere cose, questa notte, che ti toglieranno il sonno. Che ti faranno urlare e contorcere fra le lenzuola, e danzeranno macabri balletti nella tua piccola mente provata”. Il suo alito ha lo stesso sentore asciutto delle vecchie ossa. Le mie dita sfiorano il bottone della piccola videocamera, cercando una rassicurazione istintiva. “Sono pagato per farlo”. “Allora dì addio alla tua pace, ragazzo. E vieni con me”. Il lungo mantello nero che indossa si fonde liquido nella tenebra e io arranco per seguirlo. Si fa chiamare Swallow, ed è un assassino. Fino a oggi gli sono stati imputati trentasette omicidi, ed è sospettato di decine di altri. Eppure la polizia non riesce a ricondurre a lui nessuna prova lontanamente incriminante. Swallow non lascia tracce dietro di sé. Niente impronte, niente fluidi corporei.

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Niente fibre, capelli, tracce di DNA. Nulla di nulla. E’ solo un’ombra che colpisce nelle ore più buie della notte, e abbandona sul suo cammino una collana di vite strappate. A nulla è valsa la stretta sorveglianza delle forze dell’ordine. Sguscia via come un soffio di tenebra, irrintracciabile, inarrestabile. Le scene dei suoi crimini sono un agghiacciante affresco di sangue. Ma di lui, nemmeno un’orma. Fino a questa sera. Il giornale mi ha svegliato nel bel mezzo del mio pisolino pomeridiano per dirmi che Swallow aveva accettato di farsi intervistare. L’adrenalina mi è schizzata nelle vene, svegliandomi di colpo. Erano mesi che cercavo un contatto con lui. Giorni e notti trascorsi studiando i suoi delitti, le varie piste che conducevano a un nulla sonoro per una questione di ritmo della frase io toglierei questo pezzo e metterei “incocludenti”, i profili delle sue vittime. Uccideva senza freni, e senza distinzioni. Uomini, donne, a volte addirittura degli anziani. Ogni omicidio sembrava completamente slegato da quello precedente, privo di alcuna logica. I corpi venivano abbandonati alla mercé di testimoni scioccati, muti baluardi a memoria della violenza subita. Avevo setacciato il loro passato alla ricerca di una pista che mi conducesse all’oscuro angelo di morte che aveva messo fine alle loro vite, ma avevo incontrato solo un solido muro di silenzio. Poi Swallow aveva deciso di farsi trovare, ma a una condizione: l’intervista sarebbe avvenuta soltanto alle sue regole. E questo significava entrare nel suo mondo. Io, da solo, con una videocamera. In silenzio, a osservare. Ero il cronista migliore, lo sapevo. Non mollavo mai. Non ero certo un Philip Marlowe, anche se a volte mi trastullavo a giocare all’investigatore, fumando sigari

“Enter Sandman” Metallica

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e tracannando intrugli che un giorno mi avrebbero fatto venire la cirrosi. Ma il mio sporco lavoro lo sapevo fare. E quel servizio mi avrebbe fatto vincere il Pulitzer. Mi ero affrettato al luogo dell’incontro con il suono del sangue che pompava nelle orecchie. Una notte attraverso gli occhi dell’assassino più inafferrabile dai tempi di Jack lo Squartatore. Era un’occasione che capitava una sola volta nella vita. Attendeva in un locale angusto, poco più di un garage. Le pareti tinte di nero erano rese ancora più spettrali da una singola lampadina sfiancata, appesa a un filo. Gettava una luce singhiozzante, mantenendo il suo volto in ombra. A parte gli occhi. Quegli occhi morti e terribili. Swallow aveva chiesto un testimone e io avevo risposto. Ma poi quell’avvertimento. Mi aveva consigliato - intimato - di non seguirlo, di rinunciare a portare a termine il mio lavoro. Impensabile. Per tutta la vita mi sono preparato a questo momento. Quello in cui avrei smesso di essere un modesto elzevirista a caccia di un tozzo di pane e sarei stato proiettato nell’empireo dei cronisti di fama. Ho paura, lo so. Sento i tentacoli del panico minare la solidità delle mie giunture. Ma mi rifiuto di abbandonare tutto e tornare alla familiare sicurezza della redazione, e subire i lazzi dei colleghi che mi danno dello sbruffone e del codardo. Controllo per l’ultima volta che la videocamera sia accesa, e seguo Swallow nella notte. E’ una macchia di oscurità appena più densa di quella che lo circonda, e stargli dietro si dimostra difficile. Il cuore mi martella nel petto, ho il fiatone. Lui scivola sul selciato senza produrre alcun suono, e le falde della cappa che indossa lo avvolgono liquide. La sua grazia irreale mi porta alla mente immagini confuse di letture da tempo dimenticate. La città è immersa in una foschia greve, e un

nome che non riesco a collegare ad alcunché mi rimbalza nella testa. Whitby. La telecamera sta riprendendo, ma le immagini sono confuse, anche a causa della mia andatura scomposta. Davanti a me, Swallow si è fermato. Il mio respiro è l’unico suono che si alza nell’aria pesante, ma lui si gira e mi fa cenno di avvicinarmi. “Ultima possibilità”. Le sue parole raschiano un punto sensibile della mia mente, e sobbalzo. Il tremore che sento si è diffuso e i miei denti battono l’uno contro l’altro, ma la mia bocca traditrice lascia lo stesso uscire una risposta. “Resto”. Un lampione solitario gli illumina per un attimo i lineamenti e vedo che le sue labbra sono tese in un sorriso che assomiglia di più a un ghigno. E’ distorto, e malvagio, e totalmente nero. Si volta e si avvicina a un’abitazione. E’ una villetta uguale a decine di altre che fiancheggiano un viale alberato. Davanti, un fazzoletto di terra su cui giacciono abbandonati un triciclo e una palla di plastica. Swallow attraversa il prato e io lo seguo, riprendendo con la telecamera la porta-finestra in vetro. Appoggia una mano all’infisso di metallo, e questo cede verso l’interno senza un gemito, spalancandosi su un soggiorno disordinato. La casa è buia e avvolta nel silenzio. Si inoltra nella stanza, e io lo seguo. Solo che non sto guardando dove metto i piedi, e calpesto un giocattolo in gomma, che esala un sospiro acutissimo. Swallow si volta verso di me, il volto distorto in una maschera di rabbia. Arretro verso il muro, incespicando. Ora sono davvero terrorizzato. Con una mano continuo a stringere la telecamera, che inquadra il suo braccio sollevato verso di me con fare minaccioso. Mi manca l’aria, non riesco a respirare.

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Ma poi i miei occhi scattano oltre, alle sue spalle, perché nel corridoio si è accesa una luce. Si ode un passo pesante e la figura di un uomo in pigiama si delinea contro la bocca spalancata della porta. Indossa un pigiama a righe e le tempie sono spruzzate di grigio. Ha l’aria preoccupata, e ancora un po’ assonnata. La sua voce rimbomba nel salotto. “Chi c’è là?” Swallow è ancora voltato verso di me, e vedo che sta sorridendo di nuovo. Quell’orribile fessura nera sembra ingigantirsi e divorargli l’intera faccia, e io sono così terrorizzato che penso che potrei farmela sotto. E’ veloce, così veloce che sento ancora il suo sguardo che mi inchioda a terra, ma lui è già addosso all’uomo. La sua cappa nera è fra me e il pigiama a righe del padrone di casa, quindi non vedo quasi niente di quello che sta succedendo. Sento un gorgoglio, e l’uomo si accascia a terra. Swallow si china su di lui, e col braccio compie un lento, aggraziato movimento ad arco. Quando il braccio raggiunge l’apice della parabola, qualcosa scintilla nell’aria, qualcosa di scuro che spande attorno un odore metallico. Piomba per terra con un suono liquido e flaccido. Nell’oscurità, il fluido che scivola lento sul pavimento sembra quasi fatto d’argento. Swallow resta curvo sul corpo per lunghi, agghiaccianti momenti. Sento ancora un suono, un risucchio, e per un momento la mia mente compromessa si chiede se stia bevendo il suo sangue. Che cosa sto vedendo? A cosa ho accettato, consapevolmente, di partecipare? Di nuovo un nome galleggia inerte nel mio lobo frontale. Renfield. Ma no. Quando si alza, il suo volto è bianco, senza alcuna macchia più scura nella luce lunare. Uno strillo acutissimo mi strappa da quella faccia lattescente. Sulla soglia è comparsa una donna, che

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di certo è la moglie dell’uomo in pigiama. I suoi occhi rimbalzano dal corpo del marito, immerso in una pozza di sangue, alla figura ammantata di nero, a me che sono ancora acquattato in un angolo, con le gambe allargate come un grosso ragno. Urla ancora, un suono ridicolmente alto, portandosi le mani alle guance, poi si volta e corre via, attraverso il corridoio. I piedi nudi non fanno rumore battendo sulla moquette che riveste il pavimento. Arranco per tirarmi in piedi, tenendo la mano che impugna la telecamera ben alzata. Stringo la presa, perché il sudore la rende inaffidabile. Giro piano intorno al cadavere, riprendendo la faccia di Swallow. Si lecca piano le labbra e segue la donna nel corridoio. Io faccio altrettanto. La donna si è rifugiata in una stanza in fondo, e ho sentito il rumore di una chiave che girava nella toppa. Ma quando Swallow la tocca, quella si apre senza fare resistenza. E’ la stanza dei bambini. Una luce notturna a forma di palloncino rischiara piano le pareti dipinte di pallido azzurro. Un ragazzino dorme in uno dei letti, una bimba con le treccine nell’altro. La donna sta raggomitolata in fondo alla stanza, tremante. Quando Swallow entra, grida di nuovo. “Vattene via! Cosa vuoi da noi?”, singhiozza. Non riesce ad articolare bene le parole, perciò faccio fatica a distinguere che cosa stia balbettando. Penso che il filmato forse avrà bisogno dei sottotitoli. Sembra realizzare in quel momento dove si trova, perché geme forte. “I miei bambini! Ti prego, non fare loro del male, ti prego, ti prego...” Cantilena senza fine, una preghiera dopo l’altra. La mano mi trema così forte che devo alzare anche

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l’altra per riuscire a inquadrare la scena. Mi sposto un po’, per poter avere una visuale migliore. La bimba si rigira nel lettino, mormorando qualcosa nel sonno e stringendosi al suo orsacchiotto. L’animaletto ha un fiocco intorno al collo peloso, su cui si legge “Roger” in lettere dorate. Una scia di piccole gocce di sangue punteggia la moquette color crema, colando piano dalle dita di Swallow, che si avvicina alla donna con calma studiata. Gli occhi di lei sono spalancati dal terrore, e mostrano il bianco. Si rattrappisce su se stessa in posizione fetale, portando le mani a difendere il volto. Un fiotto di bile mi risale a infuocarmi l’esofago e lo ricaccio giù a stento. Swallow si china sul lettino dove la bimba dorme, e allunga un braccio verso di lei. “Noooo!”, grida la madre, che però non si sposta dal suo angolo. Sembra incapace di muoversi. Lui traccia con un dito il contorno della guancia della bambina, lasciando al suo passaggio una striscia rossa di sangue. Non resisto. Mi piego in avanti e rovescio il contenuto del mio stomaco sulla moquette. Quando mi rialzo e la stanza smette di girarmi attorno, Swallow è chino sulla donna. E’ ancora viva, perché i suoi piagnucolii si fanno sempre più accelerati. Lui si piega su di lei e artiglia con un’unghia affilata la pelle morbida alla base della gola, quel piccolo incavo soffice annidato fra le clavicole. Con un unico movimento, strappa la carne della donna, squarciandola fino all’addome. Di nuovo quel gorgoglio, mentre affonda le mani nelle viscere calde e afferra qualcosa di scuro e scivoloso. La telecamera riprende la sua espressione, che è di piacere ineffabile. Si passa la lingua sulle labbra, protende l’orribile lingua nera e con le dita smembra il cuore che ancora batte piano nelle sue mani. Dalla gola gli sfugge un mugolio soddisfatto. Di colpo mi rendo conto di cosa sta facendo. Anche se non una sola goccia di sangue ha sfiorato le sue labbra, Swallow sta bevendo.

L’eternità ticchetta con dita di attesa e io guardo mentre deglutisce la vita della donna. Lascia cadere il cuore nel suo incavo violato e si rialza con indolenza. Si volta verso di me, le mani che ancora grondano sangue. “Hai capito, adesso? Hai capito quello che sono?” “Li hai... li hai...” Sembro un disco rotto. Il mio cervello non funziona come dovrebbe. “Li ho uccisi, certo. Non si può evitare. Io mi nutro delle loro vite. In quell’attimo in cui la loro anima si libera dal corpo, ecco, io l’afferro e me ne sazio. E’ questo che mi mantiene in vita, anno dopo anno, secolo dopo secolo”. La sua pelle è bianca e molle, e capisco che è molto più vecchio di quanto i suoi movimenti fluidi lascino intendere. Arretro d’istinto quando si avvicina, ma presto sento la parete fredda premermi contro le scapole. “I bambini...” “Sono troppo giovani per provare davvero terrore. La loro mente è ancora troppo elastica, troppo malleabile. Quello che voglio è panico cieco negli occhi di un adulto quando affondo le dita nel suo cuore e gli strappo via ogni speranza di sopravvivere. Solo questo riesce a placare il mio desiderio”. La sua bocca si stira in un nuovo, oscuro sorriso, e la punta della lingua nera guizza a lambire il labbro superiore. “E ho ancora sete”. Sento la vescica cedere e un rivolo caldo scorrermi lungo una gamba. Lascio cadere la videocamera, che rotola sul pavimento e rimane a fissarmi con il suo occhio lampeggiante. Swallow incombe su di me e con un dito mi sfiora la base del collo. “Te l’avevo detto di non seguirmi”.

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di Gabriella Parisi


“Dumb” Nirvana

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Prima di trasferirmi in questa casa non sapevo chi fosse Harvey Jones. L’agente immobiliare non mi aveva accennato alcunché, credo preferisse mantenermi all’oscuro, per ovvie ragioni. Quindi acquistai la casa, una palazzina a due piani che dava sulla strada principale del villaggio, con le casette che si affacciavano sul Mare del Nord. Qualche settimana dopo il trasloco notai alcune persone che si fermavano curiose nel tentativo di sbirciare dentro casa mia, ma lo attribuii al fatto che fossi appena arrivato lì: probabilmente volevano sapere qualcosa di più del nuovo arrivato. Non nego, tuttavia, che questa cosa mi infastidisse un po’. I negozianti del paese erano molto cortesi con me, ma si mantenevano distaccati: non mi davano confidenza, esattamente come io non ne davo a loro. I ficcanaso continuavano a cercare di forzare la mia privacy; alcuni li avevo visti più di una volta, altri erano spariti dopo un tentativo di guardare oltre le tende spesse che avevo fatto montare, disturbato da un tale interesse nei miei confronti. Per lo più, però, sostavano dall’altra parte della strada. Mi sembravano quasi i partecipanti a un concerto o a un evento sportivo, in attesa dell’apertura dei cancelli. Molti avevano eletto il muretto di mattoni rossi di fronte alla finestra del mio soggiorno a loro residenza fissa. Consumavano panini, birre e fette di pizza, in compagnia o da soli. Il muretto non era mai abbandonato: c’era sempre qualcuno a sentinella. Dopo qualche settimana di vera e propria paranoia — non è bello sentirsi sorvegliati notte e giorno, ve lo garantisco — decisi di affrontare i miei osservatori. «Si può sapere cosa diavolo volete da me?» chiesi al ragazzo coi lunghi capelli crespi, che avevo visto per diversi giorni di fila seduto sul muretto. In quel momento era l’unica persona di guardia alla mia abitazione.

«Da te niente, è per Harvey…», mi rispose con voce impastata. Era ubriaco, forse fatto. Avvicinandomi sentii che emanava un odore sgradevole: sicuramente non si lavava da chissà quanti giorni e la maglietta era unta e piena di macchie di cibo e di chissà cos’altro. Era blu e vi era raffigurato un chitarrista, con strani simboli tribali. Uno di quei simboli campeggiava tatuato anche sul polso del ragazzo. In alto, seminascosta sotto la sua barba, la scritta “Harvey Jones”. Il giovane distolse lo sguardo e lo puntò nuovamente su casa mia. «Senti, tu abiti lì?», mi chiese. «Certo che abito lì; è da oltre un mese che tu e gli altri osservate ogni mia mossa!» dissi piccato. Il giovane sembrò confuso, spiazzato. «Mi piacerebbe entrare a dare un’occhiata», disse con aria quasi sognante, come se stesse vagheggiando un viaggio ai tropici o una corsa in moto. «Non se ne parla neanche! Che vorresti vedere?» Ero indispettito e stavo per andarmene: quel ragazzo era davvero fuori di testa e il suo atteggiamento era tanto bizzarro da farmi decidere di tornare più tardi, magari quando ci fosse stata quella ragazza carina, quella piccolina, con i capelli rosso fiamma e l’anellino al naso, o quell’altra cicciona, che si vestiva sempre di nero e portava la treccia di lato. «Harvey… l’ultima casa di Harvey», rispose il giovane con voce lamentosa e delirante, mentre mi giravo e stavo per attraversare la strada. Mi bloccai un attimo, incerto sul messaggio che, passando dalle orecchie, mi aveva appena raggiunto il cervello. L’ultima casa di Harvey. Rientrato a casa, mi precipitai ad accendere il computer, deciso a scoprire tutto su questo Harvey Jones. Chi diavolo era ‘sto tizio che aveva trasformato la mia vita in una specie di “Grande Fratello”?

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Su Wikipedia trovai solo queste poche parole: Harvey Jones (Birmingham 1977 — Hopton, Norfolk 2009). Cantante rock, e chitarrista, leader della band The Fanatic Guns, morto suicida nell’aprile del 2009 nella cittadina di Hopton in Norfolk. Un tremendo sospetto mi attraversò la mente, così continuai a fare ricerche su internet, leggendo ogni rigo, ogni virgola, ogni sillaba su quell’Harvey Jones che si era suicidato proprio in quel paese. Il sospetto divenne certezza: la casa in cui abitavo era quella in cui Harvey si era tolto la vita. Tutti i tasselli scattarono al loro posto. Iniziai a comprendere che quella sorta di stalking era in realtà un pellegrinaggio dei fan nell’ultimo luogo in cui aveva vissuto il loro idolo, un tentativo di ricostruire la sua morte e forse di comprendere le sue motivazioni. Non contento, il giorno dopo andai nella biblioteca cittadina, alla ricerca di articoli, foto e di tutto il materiale che riguardasse Harvey Jones che riuscii a raccattare. Divenni più curioso dei curiosi, più morboso dei suoi fan. Cominciai ad ascoltare le sue canzoni ripetutamente, a scaricare video e a stampare i testi, che imparavo a memoria, analizzandone ogni verso, nel tentativo di cogliere l’essenza del personaggio. Ogni tanto spiavo da uno spiraglio fra le tende, per vedere se il ragazzo dalla maglietta blu fosse ancora lì, se le ragazze fossero tornate. Niente, non era cambiato niente: c’era sempre qualcuno che osservava casa mia, come se si trattasse di una veglia funebre. Per me, però, qualcosa era cambiato: sapevo per quale motivo loro erano lì e, pur essendone meno infastidito, ne ero parecchio turbato. La casa che avevo acquistato era completamente diversa da quella che avevo visto nelle poche foto apparse sui giornali e sui siti web relative al suicidio di Harvey. Tuttavia, essere a conoscenza di quel gesto estremo, consumatosi proprio

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nella stanza che utilizzavo come camera da letto, mi metteva una sorta di ansia. Anche i miei mobili, quelli che avevo portato con me quando avevo traslocato, mi sembravano estranei. Cominciai a dormire sempre meno e a stare sempre più davanti al computer, a studiare ogni documento e ogni brano dei The Fanatic Guns, ossessionato dalla figura di Harvey, insinuatasi nella mia esistenza mio malgrado. Quando uscivo, i fan all’esterno cominciavano ad abbozzare un sorriso o un saluto, forse perché pensavano che ormai mi stessi trasformando in uno di loro, o forse perché continuavano a sperare che li avrei fatti entrare in casa mia, un autentico santuario per loro. Incominciai a fare un po’ di modifiche all’interno della casa: tanto per cominciare non mi andava di dormire nella stanza in cui Harvey si era tolto la vita e poi ormai ero accampato nel soggiorno, facendo la spola dalla mia postazione al computer allo spiraglio che si apriva fra le pesanti tende blu. Continuavo a guardarli: cosa li spingeva a osservare quella casa estranea? Cosa credevano di trovare lì? Se, finalmente, mi fossi deciso a farli entrare, cosa si aspettavano di vedere? Un’epifania? Non vedevo già da un po’ la ragazzina dai capelli rossi e l’anellino al naso. La cicciona, invece, era sempre lì, almeno un giorno sì e l’altro no. A volte cambiava pettinatura, ma era sempre ridicola, inadatta a quel suo fisico sgraziato. I capelli del ragazzo con cui avevo parlato crescevano: adesso li portava quasi sempre legati in una coda disordinata. Aveva cambiato maglietta, ma dubito che questa profumasse di primavera. C’era anche una signora che avevo notato qualche mese prima e che era ritornata. Gli altri andavano e venivano. Mi divertivo a osservarli dallo spiraglio, intenti a celebrare il loro personale rito d’addio all’idolo che aveva voluto lasciare

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questo mondo proprio da lì, dalla stanza in cima alle scale. Poi, un giorno arrivò un ragazzo nuovo. Sulla trentina, somigliava in modo incredibile proprio a Harvey. Non so se la somiglianza fosse naturale o dipendesse da un tentativo di emulazione. In effetti il ragazzo vestiva proprio come il cantante nel suo ultimo concerto, che avevo guardato ormai centinaia di volte sul web. Anche la cicciona e il puzzone rimasero impressionati dal suo aspetto. Il sosia si muoveva anche come Harvey: di sicuro era un fan fuori dal comune, ancora più esaltato di tutti quelli che visitavano l’esterno della casa. Lo vidi che guardava la finestra della camera da letto con gli occhi lucidi, fumando una sigaretta dietro l’altra. Il puzzone fece delle smorfie in direzione delle mie finestre, gesticolando animatamente. Forse gli stava dicendo che non sarebbe riuscito a visitare la casa; forse gli avrebbe parlato male di me, dell’odioso proprietario che non lasciava entrare i poveri fan. Non so se fosse per l’aspetto di quel ragazzo, per la sua somiglianza con Harvey o per il fatto che fosse appena arrivato, ma provai un senso di stizza nel pensare che la sua mente potesse essere riempita di pregiudizi su di me. Avrei voluto uscire fuori di corsa e cacciare via gli altri fan, chiamarlo e parlargli di me e del mio rapporto con Harvey, nato solo dopo l’acquisto della casa. E allora presi una decisione. Spiai tutto il giorno le persone sul muretto di mattoni rossi. Il sosia si spostò solo un attimo, per andare a comprare le sigarette, facendomi provare un tuffo al cuore, perché credevo che fosse andato via. Non mi mossi neanche per un istante: le gambe mi tremavano, la pancia mi faceva male per il bisogno di pisciare. Ma ecco finalmente la mia occasione. Il sosia era lì. Da solo. Con gambe malferme, attraversai la strada, puntando dritto verso di lui.

«Sei qui per Harvey?» gli chiesi, senza esitazioni. «Sì.» «Vuoi vedere dove è morto?» «È per questo che sono qui.» «Vieni con me.» Il sosia non se lo fece ripetere due volte e attraversò di corsa la strada, precedendomi. Poi, davanti alla porta di casa, si scostò per permettermi di aprire e di fargli da guida nel santuario. Non ci aveva visto nessuno. Lo portai in cucina e presi due bicchieri. Li riempii di whisky, lo stesso che aveva bevuto Harvey quella notte, almeno secondo la ricostruzione degli inquirenti. Il sosia bevve volentieri, versandosi un secondo e un terzo bicchiere, evocando la sera della dipartita del cantante. Mi chiese se poteva accendersi una sigaretta e acconsentii, nonostante detestassi l’odore del fumo. Lo accompagnai nel salotto, dove il televisore era acceso sul video di un concerto dei The Fanatic Guns ad altissimo volume. La polizia aveva trovato la tele accesa e il dvd nel lettore, quindi si presumeva che Harvey lo avesse guardato prima del suo gesto finale. Il sosia gironzolò per la stanza osservando la disposizione dei mobili del salotto, che avevo ricomposto in base alle foto trovate in giro per il web. Diede una scorsa alla collezione di dvd, poi sedette sul divano e rimase un po’ davanti al video a guardare il suo cantante preferito che si esibiva. Sul tavolino, una linea di coca aspettava che qualcuno emulasse l’Harvey dell’ultima sera. Il sosia mi guardò con aria interrogativa e io feci un cenno con il capo perché si servisse. Il tour nell’ultima dimora di Harvey proseguiva seguendo ogni tappa senza intoppi.

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Il sosia mi chiese di poter andare in bagno: lo accompagnai senza indugi su per le scale, in quello che si trovava accanto alla mia vecchia camera da letto. Ormai lì non c’erano più i miei mobili, ma qualcosa di molto simile a ciò che la polizia aveva trovato il giorno in cui aveva scoperto il corpo di Harvey senza vita. Fu lì che aspettai il sosia. Fermo sulla soglia. Un brivido di eccitazione, ma anche di nausea, mi attraversò la schiena. Stavo rivivendo davvero quei momenti. Il sosia uscì dal bagno. Aveva uno sguardo vitreo: mi sembrò un animale sacrificale che stava per giungere davanti all’altare. In un brevissimo attimo di lucidità provai pena per lui. Poi mi scostai per farlo entrare: lo avrei osservato dalla porta. Come in trance il sosia si avvicinò al tavolino con il testo dell’ultima canzone scritta da Harvey poco prima di morire. Lesse i versi ad alta voce. Versi senza note: nessuno aveva osato mettere una melodia sulle sue ultime frasi. Il suo sguardo corse dallo sgabello alla corda del mi che avevo sistemato al posto del lampadario. Mi guardò confuso, ma gli feci un gesto col capo e lui, docilmente, salì sullo sgabello. Si volse un attimo verso di me, chiedendomi con lo sguardo se lo doveva fare. Gli feci cenno di sì col capo. Infilò il suo collo da Harvey Jones nel cappio e lo saggiò girandosi a destra e a sinistra. Quando lo vidi tranquillo, allungai un piede e con un calcio gli tolsi lo sgabello da sotto i piedi. Lo guardai in estasi. Ero l’unico testimone della morte di Harvey Jones.

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di Alessandra Zengo


Un odore pungente mi aggredì i sensi. La bile risalì per l’esofago rischiando di soffocarmi. Il buio mi reclamava. Cercai di risvegliarmi, nonostante l’incoscienza fosse un luogo preferibile alla realtà. La gola era secca; deglutire era come cercare di inghiottire schegge di vetro acuminate. Un suono inarticolato mi sfuggì dalle labbra. Una luce cominciò a colpirmi il viso, perforando il sottile strato di pelle delle palpebre ancora sigillate. Violacee e scure per le percosse. Una mano ruvida mi accarezzò impunemente, per poi martoriarmi la guancia. Una mano che prima mi aveva sfiorato con tenerezza. Ero esposta; non potevo difendermi. “Svegliati, cazzo!”. Le urla del mio aguzzino giunsero limpide alle mie orecchie. Dolorose come una stilettata al petto. La sofferenza era diventata una fedele compagna, nemmeno un centimetro di pelle era stato risparmiato al supplizio. “Apri quei fottuti occhi, o giuro che te li strappo!” Avevo braccia e gambe aperte. Le mani erano legate alla testiera del letto a baldacchino da una spessa corda. Sui polsi spiccavano, evidenti, solchi di carne frastagliata. Le caviglie non avevano ricevuto un trattamento migliore. Feci come mi era stato chiesto. Le mie iridi verdi si affacciarono sulla desolazione di una stanza colma dalla presenza minacciosa di un uomo. Il mio uomo. Era difficile ammetterlo ad alta voce, ammettere di aver sbagliato. L’avevo contrariato. Forse meritavo quello che mi stava succedendo, ma non riuscivo ad accettare passivamente la violenza. Non più. A lui avevo donato la mia innocenza, che nessuno avrebbe potuto restituirmi. Avevo consumato ogni residuo di energia cercando di contrastarlo. Non era servito. Avevo solamente alimentato

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la rabbia, aumentato la forza dei colpi che arrossavano la mia pelle, imprimendo marchi indelebili su di me. Sulla pancia svuotata da ogni traccia di vita. Il sangue scorreva copioso tra le mie cosce spalancate. Quasi fossero un tacito invito a continuare. Ero fottuta. In ogni senso. Sapevo, con una consapevolezza prostrata davanti alla rassegnazione, che non sarei uscita viva da quella maledetta stanza. Tempio e simbolo di un amore — se di amore si poteva parlare — che presto si era tramutato in un inferno. Le fiamme avevano cominciato a lambirmi fin dal primo giorno, dalla prima volta che avevo consumato il mio affetto per quell’uomo, frettolosamente e su lenzuola sporche. Non erano state cambiate da chissà quanto, ma a lui non era importato. Il suo corpo, premuto sul mio, aveva preteso piacere. Per se stesso, e nient’altro. Con il viso premuto sui cuscini avevo cercato affannosamente di respirare. I miei lamenti bisbigliati a fior di labbra si erano persi nel frastuono dei gemiti e dei versi osceni di lui. I jeans calati sulle gambe avevano morso la mia pelle, insaziabili, mentre il membro duro era sprofondato dentro di me, arida, non ancora pronta per quell’invasione violenta e senza controllo. Non avevo osato protestare. Né prima, né dopo. Dopo qualche minuto di rapida smania sessuale, si era accasciato sulla mia schiena. Il membro floscio aveva riposato tra le mie gambe tremanti, così inutile e così innocuo. L’uomo era scivolato presto nel sonno, i lineamenti rilassati, come se nulla fosse accaduto, come se non avesse perso quella dolcezza con cui mi aveva conquistato. Con cui mi aveva cresciuto. Allora ero stata felice, anche se non appagata. Era divenuta la routine, e aveva sopraffatto ogni spiraglio di razionalità e buon senso. Ogni ansito di coscienza era stato prontamente soffocato, privato subito del primo alito di

“Daddy, Daddy” Emeli Sandé

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vita. Non aveva avuto nemmeno il tempo di germogliare che era stato sradicato con forza dalla mia mente. Dovevo compiacerlo, era il mio compito. Ero in debito con lui e lo amavo. E lui, a suo modo, amava me. Non mi avrebbe tenuta con sé, se fosse stato altrimenti. Almeno, era quello che avevo creduto. “Ti stai divertendo, vero?” Il ghigno che aveva stampato in volto mi spaventò. Era imbevuto di follia. La vista del mio corpo martoriato non faceva che aumentare la sua evidente eccitazione. Voleva dedicarsi con calma spasmodica alla sottoscritta, godendosi ogni palmo di pelle. Stavo impazzendo di paura. Ero legata al letto come una vittima sacrificale sull’altare di dèi pagani inesistenti. Non avrei sopportato di essere toccata di nuovo. Ma i piani dell’uomo sembravano essere diversi. Mi aveva stuprata. Più e più volte, senza tregua, pochi giorni dopo avermi fatto abortire il figlio bastardo che portavo in grembo. Il frutto marcio della mia disubbidienza, aveva continuato a ripetere lui come impazzito. Uscì dalla stanza. Sospirai, fitte intense si riverberarono dalla gola e dal petto. Riuscivo a emettere solo suoni gutturali, nonostante la furia mi stesse invadendo, calda e rinvigorente. Passi strascicati, un tonfo e poi ricomparve. Teneva in mano un coltello, stranamente lucido in mezzo a quell’accozzaglia sporca e sudicia quale era la stanza. Fece qualche passo nella mia direzione e cominciai a dimenarmi, disperata. Polsi e caviglie ripresero a sanguinare; gli ematomi pulsavano sottopelle. “Stai ferma! Devo impalarti con questo, piccola puttana che non sei altro? È quello che ti meriteresti!”, sbottò irritato. Quando capii che stava cercando di tagliare le corde, mi calmai. Il respiro ancora affannato per lo sforzo, la pelle madida di sudore.

Appena fui libera, mi rifugiai dall’altra parte del letto. Permaneva ancora come monito una pozza di sangue grumoso nel centro. Non riuscivo a formulare un pensiero coerente su ciò che avevano accolto quelle lenzuola, le uniche testimoni del delitto che si era consumato tra quelle quattro pareti spoglie. Raccolsi le gambe e le abbracciai strette per proteggere la mia nudità dalle forme acerbe. Mi dondolavo sui talloni risucchiati dal materasso. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel viso familiare. Quelle profondità grigie, che mi fissavano con tanta bramosia, sembravano due schegge di cielo coperto. Un padre non dovrebbe guardare così la propria figlia. “E ora vediamo di utilizzare bene quella tua boccuccia, Maria.” La sua voce roca mi raggiunse, facendomi rabbrividire. Mi sentivo sudicia. Non solo nel corpo, ma anche nell’anima. Avrei voluto immergermi nell’acido per togliere la sensazione delle sue mani su di me. Si arrampicò sul letto. Non indossava nulla, a parte una maglietta logora che si apriva sul petto ricoperto da peli ispidi. Il ventre prominente malamente nascosto dalla stoffa che un tempo era stata del bianco più candido. Si era lasciato andare dopo la morte di mamma, ma avevo continuato a volergli bene, ad adorarlo come il genitore che ormai non era più. Aveva cominciato a bere e molestarmi, ma, testarda, avevo riversato su di lui il mio affetto incondizionato. Sembravo un cucciolo spaurito appena abbandonato sul ciglio di una strada. Non volevo lasciare colui che mi stava facendo del male. Non volevo ammettere di essere una vittima. Una parola che mi annientava; non riuscivo nemmeno a pronunciarla. Papà non era stato più lo stesso dall’incidente, e la resa incondizionata del mio corpo da adolescente non era bastata ad ammansirlo: la fame aumentava. Ogni giorno era stato un piccolo passo lungo il percorso della

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depravazione più sordida; ogni giorno era cresciuto un senso di quotidianità insolito. Come se tutto questo fosse stato normale. Avevo accettato il cambiamento. Ero felice di compiacerlo, e cercavo di farmi piacere quello che succedeva a letto. In cucina. In salotto. Nella doccia. A volte persino quando eravamo fuori casa. Diceva che il sesso sarebbe stato migliore, se la paura di essere scoperti avesse serpeggiato tra i nostri corpi uniti. Poi le cose erano cambiate. Mi ero indurita, il mio cuore spezzato per la perdita. Sanguinava anch’esso come se avesse abortito. E il perdono era l’ultima cosa che avrei donato a quel mostro. “No.” Fu solo un sospiro, ma risuonò come un colpo di cannone sparato a distanza ravvicinata. Mio padre non si prese la briga di rispondere. Scattò in avanti artigliandomi i capelli con una mano, mentre con l’altra mi stringeva i polsi in una morsa. Ridendo mi costrinse ad abbassare il capo. Un fiotto di vomito mi salì in gola, mentre il pene mi riempiva completamente la bocca, quasi soffocandomi. Smisi di dimenarmi come una forsennata e aprii gli occhi, dapprima serrati per non guardare quello che stavo facendo. Il mio sguardo fu catturato da uno scintillio tra le coltri spiegazzate e rosse cremisi. Il coltello. Avevo la vista offuscata. Non riuscivo nemmeno a piangere. Non per quell’animale che aveva approfittato di sua figlia. Sangue del suo sangue. Adesso ero libera, libera dal giogo di un padre stupratore e violento, che aveva ucciso anche la piccola vita che per mesi avevo cullato amorevole dentro di me. Aveva

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atteso, per procurarmi ancora più dolore quando avrebbe estirpato il male dal mio grembo. Non ero morta: aveva fermato l’emorragia solo per poter prolungare il tempo da trascorrere insieme. Non aveva avuto pietà. E io non ne ho avuta per lui. Nell’impeto dell’orgasmo aveva lasciato le mie mani libere. Le sue dita avevano stretto le mie spalle in una morsa, le unghie avevano inciso nella carne mezzelune rossastre. Ero stata costretta a succhiarglielo fino a inghiottire il suo seme dal sapore disgustoso. E poi aveva abbassato la guardia. Ne avevo approfittato. Felice, avevo affondato il primo colpo incerto nella sua pancia molle. Aveva sbarrato gli occhi interdetto; la presa sulla mia lunga chioma che si era fatta più debole. Era caduto lungo disteso sul letto, facendo scricchiolare le assi di legno. Mi ero sollevata di scatto con le ultime forze rimaste, allungandomi verso di lui: il mio viso a un soffio dal suo. Poi la lama si era conficcata sul collo, incontrando una debole resistenza. Mi ero rialzata. E avevo colpito più forte sullo stomaco, riversando tutto l’odio represso. Sul petto, dove aveva incontrato la dura opposizione di una costola che proteggeva un cuore putrido. E poi ancora e ancora, finché la figura di mio padre non era scomparsa sotto lembi di pelle scoperti e litri di sangue. Prima ero stata la sua ossessione. Ora il suo incubo. Un incubo che fissava il proprio riflesso davanti a uno specchio rotto. L’immagine di una bambina sciupata mi fissava di rimando. In realtà erano molte, le bambine. Dimenticate.

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