Fantasmi #3

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Romanzo breve, spin off della Serie TV Sherlock BBC scritto da Stefania Auci < www.stefaniaauci.com > Questo è un romanzo pubblicato a puntate gratuitamente sulla Rubrica Once a Week del Blog Letterario Diario di Pensieri Persi < www.diariodipensieripersi.com > Proprietà letteraria riservata. Vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi. Diario di Pensieri Persi ©2012 Cover grafica ed impaginazione di MissClaireDesign ©2012 info: miss.claire@hotmail.it


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#3


V Alba. Inverno. Il sole tenue attraverso le tende. Ricami di pioggia sul davanzale. Una mattina come le altre. La donna era in cucina, intenta a sorseggiare un caffè, con lo sguardo sonnacchioso, in pigiama. Si voltò di scatto quando la porta d’ingresso si schiantò contro il muro: un colpo secco, seguito da una nuvola di schegge. Uomini entrarono nell’appartamento con il fucile spianato, avvolti in mimetiche imbottite con i caschi calcati sul viso e i mephisto a mascherarne i lineamenti. Il grido che cercava di farsi strada attraverso le sue labbra morì soffocato da una mano coperta di pelle; la tazza le scivolò dalle dita, rotolò sul tavolo e si schiantò per terra. Il caffè si allargò sul pavimento scivolando tra gli interstizi del parquet chiaro; qualcuno dei soldati calpestò il liquido, lasciando tracce in cui si mescolavano le impronte degli anfibi e una lunga scia fatta di passi convulsi.

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“Greg? Dio santo, ti ho trovato!” “Ehi, John… che succede?”


“Harriet. Sono tornato a casa e… Mia sorella è sparita. Credo che sia stata rapita.” L’ufficio dell’ispettore Lestrade a Scotland Yard era immerso in un caldo soffocante che sapeva di sigarette e sudore. Seduto alla scrivania, l’ispettore si accarezzò la mascella fissando John Watson con aria pensosa, dondolandosi stancamente sulla sedia girevole. Aveva trascorso una notte insonne dietro un caso complicato, stipato in un furgone per intercettazioni ambientali con altri tre colleghi. L’ultima cosa di cui avrebbe avuto bisogno era un’emergenza. “Tu non hai idea di cosa possa essere accaduto?” Lo sguardo di John corse verso la vetrata: Londra era oppressa da una coltre di nuvole. Scosse la testa con un gesto stanco. Sembrava… era svuotato. Aveva le mani strette sulle ginocchia, gli abiti stazzonati. “Nessuna. Quando sono rientrato a casa dal turno di notte in clinica, ho trovato la porta accostata e numerose impronte sul pavimento.” Sollevò gli occhi, puntandoli sul viso del poliziotto. “Io so che è accaduto qualcosa, Greg. Non ho passato invano due anni con Sherlock Holmes per non capire che c’è stata un’irruzione in piena regola e che Harriet è stata portata via.” Si alzò in piedi, avvicinandosi alla vetrata. La falcata era rigida, il viso contratto, la voce bassa. “E ti dirò di più. Ciò che ho visto ha un nome ben preciso”. Lestrade lo seguì con gli occhi, tirando su la testa dallo schienale della poltrona. Non aveva mai sentito quel tono di voce in John: cupo, simile a un ringhio. “Chi?” domandò, più incerto di quanto avesse voluto.

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L’uomo scosse la testa. Negli occhi chiari era scivolata una patina di gelo che sgorgava dal profondo, dilagandogli sul viso ridotto a una maschera di pietra. “Non qui. Non ora.” John si sentiva prigioniero in una bolla di vetro. Guardava la gente muoversi attorno a sé, le auto che passavano sfrecciando lungo i viali che costeggiavano il Tamigi, il cielo sporcato da nuvole grigie. Ma era come se tutto questo non gli appartenesse: uno spettatore capitato per caso sul grande teatro del mondo. Soltanto che stavolta non aveva più voglia di rimanere a guardare gli altri vivere la propria vita. Aveva visto una persona cara darsi la morte. Non avrebbe accettato di farsi portare via anche l’ultimo brandello di famiglia che gli rimaneva. Il London Eye, luogo dell’appuntamento con Greg, era a poca distanza, ormai. John superò i figuranti dell’horror show allontanandoli con un’occhiata, poi scansò un ragazzo con i rasta che distribuiva manifesti per uno spettacolo che si sarebbe tenuto poco distante. Raggiunse il pontile sotto il gigante di metallo bianco e si guardò attorno, respirando profondamente. E la vita entrò in lui. Colori, suoni, emozioni. Il gorgoglio del Tamigi si insinuò tra le voci chiassose dei turisti, e l’odore del take away lo disgustò, strappandogli una smorfia. Rabbia. No, non avrebbe permesso che accadesse qualcosa a Harriett. Era una donna complicata che aveva affrontato la vita nel modo peggiore, ma era sua sorella. Lo aveva accolto quando il resto del mondo gli aveva dato le spalle e lo aveva aiutato a rimettersi in piedi.

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Ma cosa era accaduto, dannazione, e perché? Chi poteva voler rapire un’analista finanziaria? John accarezzò la tasca esterna del giubbotto nero. Un legame c’era: lui lo aveva trovato e avrebbe seguito quella labile traccia fino alla fine Greg arrivò alle sue spalle guardandosi attorno con fare distratto. Teneva il viso rivolto verso il London Eye e le mani infilate in tasca, giocherellando con le chiavi per stemperare la tensione. “Mi sento come il protagonista di Tutti gli uomini di Smiley” esordì abbozzando una smorfia incerta. La risata di John fu secca, aspra. “Forse è davvero così, Greg. Non ti ho chiesto di venire fin qui senza una ragione”, mormorò con voce appena udibile. Lestrade abbassò gli occhi fino a incrociare il suo sguardo. Lentamente, si sfilò gli occhiali da sole e lo scrutò, dapprima con curiosità; poi, quasi con timore. “Cosa intendi?” chiese in fretta, aggrottando la fronte. John rimase immobile, appoggiato sul parapetto di pietra che delimitava l’argine del fiume. Non aveva scelto quel luogo a caso: in mezzo alla folla, lontano da auto o costruzioni private, all’aria aperta. “Mia sorella è stata rapita, Greg, e non da delinquenti comuni. Si tratta di agenti governativi”. A quella frase l’ispettore provò una stretta allo stomaco, dettata dall’incredulità. “John… rapita?” chiese, soffocando un’imprecazione. “Non crederai che…” L’occhiata in tralice dell’altro lo zittì. “Impronte prodotte dal medesimo tipo di calzature, anfibi con punta di metallo rinforzata. C’è il segno di un colpo da sfondamento sul battente della porta. È il calcio di un fucile in uso alle forze speciali e infine”, sussurrò voltandosi “questo.”

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Lestrade prese l’oggetto che John teneva tra le dita e annuì pensosamente. “Un pezzo di carta”. Nella voce, la perplessità si era trasformata in aperto scetticismo. “Impregnato di tracciante” replicò l’altro, sottraendolo dalle dita dell’ispettore. “L’ho rilevato quando ho ispezionato l’appartamento con la lampada a luce blu.” “Tu… tu hai una lampada a luce fredda? E hai analizzato casa tua come una scena del crimine…” John annuì distrattamente, fissando un punto indistinto sul fiume. “Ho avuto un buon maestro”. L’ispettore si umettò le labbra, alla ricerca di una spiegazione logica, di qualcosa… Parla come lui. Agisce come lui. In due anni ha imparato da Sherlock più di quanto io abbia fatto in otto. “Appartiene al bloc notes da lavoro Harry: lo riconosco dal bordo. Vedi? C’è scritto Duncombe Financial Trading. L’ho trovato per terra, accanto al cestino della sua scrivania. Chi potrebbe mettere del tracciante su un block notes di un’oscura impiegata? E perché? ” John prese il ritaglio dalle dita dell’amico. “Mia sorella si occupa di trading finanziario. Era una professionista in gamba, molto valida; poi l’alcool le ha rovinato la vita, il matrimonio, la carriera… Ma adesso ne sta uscendo: non beve più da quasi un anno. Ha trovato un nuovo lavoro da circa sei mesi presso una società che si occupa di transazioni internazionali”. Le sue labbra si trasformarono in una linea stretta ma nessuna emozione trapelò dallo sguardo opaco. “Io ero in Afghanistan quando lei ha iniziato a bere. Avevo una guerra da combattere… senza curarmi del fronte interno.” Ridacchiò, ma era una risata


amara. Si staccò dal parapetto con uno scatto. “Il resto lo sai già. Sai com’ è andata e cosa è accaduto” concluse. Lestrade annuì. Per un istante la mente sfiorò l’immagine di un trolley rosa fragola prima di tornare a concentrarsi sui dati che John gli stava fornendo: c’erano troppi punti oscuri in quella storia. John si stava riprendendo dopo un periodo che avrebbe prostrato la fibra di qualunque altra persona. Non sarebbe stato strano se la tensione gli avesse fatto un brutto scherzo, facendogli immaginare qualcosa di inesistente. L’Ispettore si massaggiò la fronte con la mano, mentre il vento che soffiava dal Tamigi diveniva radente. Avrebbe avuto bisogno di recarsi nell’appartamento di John e Harry, di leggere la scena del crimine… sempre che si trattasse davvero di crimine e non di una lite, o una fuga volontaria. Ma l’analisi di John era stata così accurata… Ha perso il suo migliore amico da meno di sei mesi. Si tratta di sua sorella. Non è lucido. Greg si coprì le labbra con le mani, come faceva sempre quando doveva riflettere e John seppe, comprese quale sarebbe stata la sua risposta. Meanwhile in London… Harriett Watson sollevò la testa per un istante, ma il capogiro che l’aggredì la costrinse a tornare a stendersi di nuovo. Chiuse gli occhi e attese che la vista tornasse a essere nitida e che il mondo smettesse di girare. Si sentiva come dopo una sbornia colossale, di quelle in cui finiva per addormentarsi per terra, senza sapere dove… e forse era accaduto davvero. O no?

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Sbirciò attraverso le palpebre socchiuse. La luce lattiginosa in cui era immersa la stanza le arrivò come una coltellata al cervello. Ricordò tutto. D’improvviso, si rese conto di giacere su un pavimento di metallo, di essere chiusa in una sorta di cella e di indossare ancora il pigiama. Era lì da quanto tempo… due giorni? Una notte? Un paio d’ore? Ma sopratutto… dov’era? Non avrebbe saputo dirlo. Era stata narcotizzata. Adesso si trovava in una stanza con le pareti di metallo, immersa in una totale assenza di suoni. La luce soffusa proveniva da una piastra sul soffitto: una luce fredda, bianca, che si rifletteva sulle piastre di acciaio opache di cui erano rivestite le pareti, e che non faceva alcuna ombra. “C’è nessuno?”, chiamò timidamente. “Mi sentite?” Silenzio. “Che volete da me? Chi siete?” Silenzio. Pesante, insostenibile. “Io… vi prego, chi siete? Che volete?” Il nodo alla gola divenne duro, una pietra difficile da inghiottire. Poteva essere… per quello? Diosanto, dove si era andata a cacciare? Chi era quella gente? Perché? Harriet si rintanò in posizione fetale, con la testa nascosta tra le braccia e il corpo raccolto contro la parete. Un conato di vomito dovuto al narcotico l’assalì a tradimento, mescolandosi alla paura e al panico. Si tirò sui gomiti e vomitò a terra, vergognandosi come una bambina; poi, tremando di freddo, strisciò nell’angolo opposto, rannicchiandosi con le gambe contro il petto.


Non voleva guardare. Era un incubo. Era frutto di una sbornia maledetta. Scivolò di nuovo nel dormiveglia. Dopo un po’, timidamente, Harriet sbirciò attraverso le dita e tentò di osservare i muri della stanza. Di certo c’era una telecamera, un pannello da cui la stavano guardando, spiando le sue reazioni… perché era certa che ci fosse. Nel momento in cui quegli uomini avevano fatto irruzione nell’appartamento, lei aveva compreso chi fossero e perché erano lì. John. John mi dispiace. Il silenzio era devastante. Le ustionava i nervi, le impediva di pensare, di organizzare un pensiero semplice quale quello di alzarsi e sedersi al tavolo che era comparso dinanzi a lei, quasi per magia. La luce era forte, invasiva. La temperatura della stanza era salita; l’aria aveva acquistato un tanfo puzzolente ed era carica di umidità. Persino il pavimento e le mura sembravano arroventati, e forse lo erano davvero. Respirò con la bocca aperta, alla ricerca di un sollievo che le strappasse via dal petto la sensazione di soffocamento che la opprimeva da ore. Un tempo che le sembrava infinito. Si ritrovò a immaginare un bicchiere di birra gelata, o una bottiglia di sidro, mentre il desiderio di bere diveniva insostenibile. Rivoli di sudore le scorrevano dal collo lungo la clavicola, inzuppandole il pigiama sporco di caffè e vomito. Harriet provò a concentrarsi sul proprio respiro ma non servì a molto. Si tappò la bocca per non mettersi a urlare. Il fiato era rovente sulla pelle e le raschiava la gola arsa. Aveva sete, e fame, e aveva bisogno di andare in bagno. La testa era piena di immagini confuse: ricordi d’infanzia, spezzoni di film, frasi seminate nella

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memoria che emergevano senza un motivo. Da quanto era lì? Perché non veniva nessuno a parlare con lei, perché non le dicevano cosa sarebbe accaduto? Ebbe paura. Non era una sensazione familiare: somigliava vagamente all’angoscia, ma era assai più intima, inquietante e profonda. All’improvviso, sentì montare dentro di sé una smania violenta, simile a quella che l’assaliva nei momenti in cui beveva: una sensazione terribile, che pensava di aver lasciato alle spalle e invece.. invece… Harriet iniziò a piangere senza rendersene conto. Poi a gridare, a battere i pugni a terra, a imprecare, a singhiozzare, a strapparsi i capelli. Tutto, tutto pur di superare quell’assenza assoluta di suoni. Ma se quella stanza non era l’inferno, ci andava molto vicino. Qualunque suono veniva risucchiato dalle pareti, come se non fosse mai stato emesso, come se quelle grida di rabbia e terrore fossero solo nella sua testa. Harriett si ritrovò a fissare il soffitto, ansimando, mentre lacrime e sudore le bagnavano il viso. La gola le bruciava per le urla e la sete. “Ammazzatemi e facciamola finita…”, mormorò chiudendo gli occhi. La stanchezza stava soppiantando anche la disperazione: aveva i muscoli doloranti, le labbra spaccate dalla disidratazione, il corpo pesante. Non provava più timore di una condanna: era la certezza che questa sarebbe arrivata e che sarebbe stata intollerabile. Il muro si aprì. Letteralmente. I pannelli si schiusero e una sagoma entrò nella stanza da quello che sembrava un corridoio oscuro. Recava con sé un vassoio coperto da un tovagliolo che appoggiò sul tavolo. Assieme a lui, giunse un refolo

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di aria fresca e pulita, che costrinse Harriet ad aprire gli occhi, strappandola al torpore in cui era precipitata. Si trovò una mano dinanzi agli occhi. “Si alzi”, la invitò l’uomo con un sorriso gentile. “Per favore, signora Watson.” Da qualche parte, qualcuno la stava osservando, ne era certa. Ma era talmente tanto spaventata, e stanca, e spossata da non pensare più a nulla. Afferrò la mano dello sconosciuto e si lasciò rimettere in piedi. Barcollava, così l’uomo dovette sorreggerla fino alla sedia, dove la fece sedere. Harriett scostò dal viso i capelli biondi, madidi di sudore. “Ho bisogno di andare in bagno” mugolò, abbassando gli occhi. L’uomo mantenne il sorriso fermo. Era giovane, di colore, con un fisico imponente; indossava un completo grigio e una camicia immacolata. “Tutto a suo tempo, signora.” Incrociò le mani dinanzi a lei e la fissò con intensità. “Immagino che lei sappia per quale motivo si trova qui.” “Dove sono?” “Per quanto le possa sembrare assurdo, lei è al sicuro.” Aveva una voce bella, calma, che infondeva fiducia. Harriet non percepì la sfumatura di minaccia evanescente come uno sbuffo di fumo, nascosta tra quelle parole. Il suo sguardo si concentrò sul vassoio coperto dal tovagliolo. Le mucose della gola si accartocciarono, la salivazione aumentò di colpo. Era una bottiglia. Allungò il braccio ma l’uomo lo bloccò con un gesto fulmineo. Harriet protestò. “Ho sete! Per favore…” supplicò con una nota di lacrime nella voce. Un altro sorriso accompagnò il gesto di diniego del carceriere. Quasi senza fare sforzo, allontanò la mano della donna. “Tutto a suo tempo, mia cara.”

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Harriet serrò le mani contro lo stomaco, cercando di recuperare un briciolo di dignità: la sete, l’urgenza, la paura le stavano devastando la mente. Il terrore si unì a un’altra sensazione, amplificandosi, divenendo un desiderio spasmodico di consolazione, abbarbicato alla parte più profonda della sua psiche. Non ora, non adesso. “La prego…” Harriet ormai piangeva a dirotto. Le unghie si infissero nei palmi delle mani. “Un sorso d’acqua, uno…” Le mani iniziarono a tremare. Il desiderio si trasformò in un bisogno feroce: una bestia che la divorava dall’interno. L’uomo annuì. “Solo dopo che lei avrà collaborato in maniera piena e soddisfacente.” Un rivolo caldo scivolò tra le gambe della donna e tintinnò sul pavimento allargandosi in una pozza. “Dirò tutto, ma adesso… Per favore… ho sete!” Implorò senza vergogna, ormai priva di controllo. Si accasciò sul tavolo, tendendo la mano fino a lambire il vassoio ma l’altro la bloccò. “Non ancora.“ Con un gesto, l’uomo tolse il tovagliolo. Riflessi di ambra e oro si disegnarono sul piano laccato di bianco. Harriet spalancò gli occhi e gemette, mentre le sue difese, la forza di volontà, la dignità svanivano, bruciate dall’istinto animale che aveva preso possesso di lei. Una bottiglia di cristallo, piena del miglior whiskey che potesse immaginare. Ne sentì il sapore contro il palato, rinfrescarle le labbra, riempirle lo stomaco e il cervello. Il torturatore sorrise, un sorriso luminoso e ferino. Accarezzò il collo della bottiglia con le dita, poi incrociò lo sguardo allucinato di Harriet. “Mi dica tutto, signora Watson. Tutto. E dopo, potrà avere ciò che desidera.”

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VI Le dita picchettarono il labbro inferiore. Lo afferrarono pizzicandolo, poi lo accarezzarono, strofinandolo, torturandolo, disegnandone il contorno. Poi si staccarono, riunendosi a piramide con quelle dell’altra mano, dinanzi il viso. Sherlock inarcò un sopracciglio e spostò la sua attenzione dallo schermo del circuito chiuso al viso del fratello. Nello sguardo, un’ombra di rimprovero fu immediatamente cancellata nel momento in cui il suo sguardo incontrò quello di Microft. “Non ti chiederò quante norme sui diritti umani avete violato, ma convengo con te che è stato fatto un notevole passo avanti.” Il maggiore degli Holmes abbassò gli occhi sulla scrivania di metallo, dove era stato collocato il monitor da cui avevano seguito l’interrogatorio di Harriet Watson. In quel momento la donna era sola, e singhiozzava riversa sul tavolo dinanzi una bottiglia semivuota. “La sicurezza nazionale impone delle scelte. Ti assicuro che la pressione cui è stata sottoposta è stata minima.” Controllò il proprio orologio: un modello da taschino d’antiquariato, appartenuto al padre. Gli diede la carica con gesti metodici, lenti. “È rimasta chiusa in cella per poco meno di sei ore. Il narcotico che le è stato somministrato non lascerà alcun tipo di conseguenza e con un’adeguata terapia psicologica, sarà in grado di risolvere la sua dipendenza dall’alcool in maniera definitiva”. Sherlock non replicò. Ricordava fin troppo bene la ruga di tensione che si scavava

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nella fronte di John nel momento in cui il “problema” di Harriet veniva menzionato. Si alzò in piedi e indossò i guanti in pelle senza degnare il fratello di uno sguardo. “Confido che vorrai provvedere in tal senso. Al più presto” concluse atono, dandogli le spalle e dirigendosi verso la porta di metallo. Mycroft alzò il viso. I lineamenti si erano induriti, le mani contratte sull’orologio. “Dove stai andando?” “A caccia” gli rispose la voce distante del fratello.

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Londra di notte era forse l’unico mistero che Sherlock si rifiutava di spiegare. Silenziosa e insieme caotica, sciabordante di colori, umanità e odori: il fetore dei gas di scarico, l’odore di chiuso che sfiatava dagli ingressi della metro, l’aroma pesante dei take away aperti tutta la notte. E insieme… sospesa, senza tempo. L’uomo camminava in fretta, il bavero del soprabito nero rialzato per il freddo improvviso che era calato sulla città in quello scorcio di settembre. Non badava a nascondere il viso. Il taxi lo aveva depositato a poca distanza dalla St. Pancras Station e ora stava procedendo a passi rapidi verso il retro dell’edificio neogotico. Le file ordinate di taxi neri lasciarono il posto ad auto frettolose che si immergevano nelle strade secondarie, inghiottite dal buio. L’uomo scivolò in quell’oscurità, confondendosi con le lunghe ombre disegnate dalle cancellate che delimitavano gli edifici georgiani. D’un tratto, si avvicinò a una di quelle recinzioni, l’aprì e scivolò nella tenebra che ristagnava nel piccolo cortile del piano seminterrato. Cercò una chiave in tasca ed entrò in fretta, lasciando fuori l’umidità della notte. Dinanzi a lui, scale. Prese queste ultime e iniziò a salire: primo, secondo piano. Mansarda. Un’altra chiave, un’altra porta.


Casa. Un surrogato di casa, a essere esatti: un rifugio che si era creato negli anni precedenti, che usava quando non voleva farsi trovare da Mycroft o quando John decideva di dormire con una delle sue ragazze… e no, non riusciva a essere discreto. Era un monolocale dalle pareti color ghiaccio, senza alcun quadro alle pareti. C’era un banco-cucina con un fornello e un frigorifero in acciaio sul fondo, accanto una postazione con un microscopio; a destra, un divano di pelle bianca con un tavolo giapponese di lacca nera e a sinistra, una libreria dagli scaffali in metallo opaco nella quale le finestre che davano sulla strada sembravano quasi incastrate. Tutto in un ordine maniacale, ben diverso dal caos creativo che contraddistingueva l’appartamento di Baker Street. Sherlock lasciò cadere il soprabito sul sofà e si diresse verso il bancone. Preparò il kettle, e mentre l’acqua bolliva mise il caffè e due cucchiai di zucchero in una tazza. Negli occhi si agitava una luce inquieta che strideva con la calma dei gesti. Si avvicinò alla finestra, portando con sé il caffè bollente. Guardò i tetti della città, soffermandosi sul profilo massiccio della British library, sul muro di mattoni rossi e metallo e poi oltre, verso il centro della città. Cosa? Dati sulle risorse economiche ed energetiche inviati via mail attraverso un numero altissimo di inoltri automatici. Un server che blocca l’accesso alla casella postale madre. Numerose mail in arrivo da altri circuiti secretati. Chi? Una voce dall’accento cockey che chiama il cellulare di Harriet Watson e che minaccia di far sparire il fratello e la sua ex moglie. Gli dimostra di essere entrata in casa sua: ha sottratto la fotografia di Claire, la sua ex moglie, che conservava nel comodino.

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E poi l’uso del termine sparire, non uccidere: l’incertezza è un’arma assai più affilata della realtà. Massima pressione psicologica. Quando? Il 30 giugno. Due settimane dopo il suicidio dal St. Bart. Quando John aveva accettato di andare a vivere da lei, ed era vulnerabile, bisognoso di aiuto. Perché? Ricatto. Vendita di dati al miglior offerente. Dimostrazione di potere. Sherlock arricciò le labbra in una smorfia di frustrazione. No, non era questo: il codice funzionava, non aveva bisogno – chiunque o qualunque cosa fosse – di dimostrare la propria forza. Vendita di dati. Prese un sorso di caffè. La bevanda si stava rapidamente raffreddando; nella mansarda ristagnava un’aria umida che sapeva di chiuso e libri. Quell’ambiente asettico lo aiutava a pensare, a trovare quell’equilibrio che, da solo, non riusciva a mantenere. Lì teneva sigarette e cerotti alla nicotina… oltre a una busta di polvere bianca conservata tra i libri. Per le emergenze, si era detto il giorno che l’aveva acquistata. Non la usava da più di due anni ormai. Nelle ultime ore, i tecnici del MoD avevano rilevato un aumento del numero di mail proveniente dal server che celava la casella di posta elettronica cui era stato inviato il pacchetto dei dati sulle risorse. Doveva trattarsi di uno scambio di mail protette, in cui più persone (o entità criminali? O stati esteri? Difficile dirlo.) stavano chiedendo… o proponendo? Perché l’influenza di simili notizie sul mercato delle risorse energetiche avrebbe potuto essere devastante per l’economia: chi ne era venuto in possesso, avrebbe potuto

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far pressioni su chiunque. Era pura e semplice trattativa commerciale. Moriarty agiva su incarico: veniva contattato, provvedeva a soddisfare le esigenze del cliente, veniva pagato. Ma qui… c’era un passo avanti, e non solo per la rilevanza di ciò che era stato rubato. Era un vero e proprio network internazionale del crimine che si stava muovendo. I lineamenti del viso dell’uomo si distesero all’improvviso. La certezza che la sua intuizione era quella giusta si trasformò in un fiotto di adrenalina che si riversò nel sangue, strappandogli un sorrisetto. “Un’asta…” Oh, non si trattava di ricatto: era una vera e propria vendita. E questo significava solo una cosa: che i dati erano ancora nelle mani del possessore del codice, ma che non lo sarebbero stati per molto. Poggiò la tassa sul davanzale della finestra con un gesto repentino, raggiunse il divano e rovesciò il soprabito per prendere il cellulare. Compose l’ultimo numero in memoria. “Un’auto, al solito posto. Subito.” Poco prima a Londra Greg scoccò un’occhiata tesa a John che lo fissava dall’altra parte del tavolo, in piedi. Era freddo, spaventosamente calmo. Dinanzi a loro, sul piano, fotografie, un block notes, una pochette per il trucco e una piantina della casa di Harriet. “Ti da fastidio se fumo?” chiese prendendo una Lucky Strike dal pacchetto nella giacca. La risposta di John fu un’alzata di spalle carica di indifferenza. “Siamo a casa

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tua”, aggiunse senza guardarlo. Prese una delle foto che avevano scattato in casa e la osservò con attenzione mentre Lestrade si allontanava per prendere un posacenere. Avevano agito nel massimo silenzio, temendo la presenza di microspie o telecamere, limitando al massimo le comunicazioni tra loro. Greg aveva compreso che l’ipotesi di John era fondata nel momento in cui aveva messo piede in quel piccolo appartamento nella periferia nord ovest di Londra: Harriet era stata portata via con un’incursione rapida di pochi uomini armati. Non aveva più sorriso. La linea della sua mascella si era indurita, lo sguardo era divenuto teso. E in quel momento, più che mai, aveva sentito la mancanza di quell’uomo che non riusciva a definire amico, ne collega… ma che aveva rappresentato così tanto per lui. Erano rimasti in silenzio anche in auto, fino a che l’ispettore di Scotland Yard non si era fermato dinanzi un condominio dalle pareti grigie e gli infissi verde scuro. “Casa mia” aveva annunciato con una punta di imbarazzo. Era un condominio anonimo, nulla di lussuoso o signorile. Solo allora, dinanzi una birra e una scodella di nachos, avevano iniziato a parlare e analizzare ciò che avevano visto. “Tua sorella è in un brutto pasticcio”, commentò Greg tornando in soggiorno con la sigaretta stretta tra le labbra e un vecchio faldone di documenti tra le mani. “Conservo sempre copie dei casi che non sono riuscito a risolvere… non di tutti, in verità: non sono così masochista. Ma di alcuni sì.” Mentre parlava, aprì la grande cartella di cartone verde e ne estrasse un sottile fascicolo. “Ecco qui” disse, allungando la pratica a John. Si sbarazzò degli altri incartamenti e si avvicinò all’amico che aveva preso a sfogliare la pratica. John strinse gli occhi. Duncombe financial trading. Sollevò lo sguardo e incrociò quello dell’ispettore che annuì, una volta sola. “Si tratta di un filone di inchiesta legato

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agli attentati in metropolitana nell’estate 2006, ricordi? In quel periodo ci chiesero di monitorare le transazioni economiche che erano state effettuate verso alcuni stati del Medio Oriente da parte di cittadini inglesi. Un lavoraccio immane: abbiamo controllato i conti di più di cinquemila persone, simpatizzanti o comunque vicini agli ambienti dell’estremismo islamico. Se dall’indagine informatica fossero emerse delle evidenze, avevamo il compito di avviare una sorveglianza ambientale.” Greg spense la cicca nel posacenere incrostato e sollevò il viso per fissare John. “Indovina chi analizzava i report dei nostri informatici?” Il dito dell’uomo scivolò sulla carta ingiallita fino a fermarsi sul nome dell’azienda di trading. La stessa per cui lavorava Harriet. John deglutì. Una volta sola. No, non si trattava di angoscia, ma di un nodo di rabbia che si era impossessato della sua gola mozzandogli il respiro. Il soldato che era in lui, quello che aveva combattuto per una bandiera cui aveva giurato fedeltà si stava ribellando con tutte le sue forze. Aveva donato alla Gran Bretagna il suo sangue in Afghanistan, letteralmente. Aveva visto morire la persona che aveva rappresentato per lui qualcosa di simile a una famiglia, vittima di un disegno criminale che l’opinione pubblica aveva accettato senza fare una grinza, anzi: massacrando la memoria e la reputazione di Sherlock senza che nessuno alzasse un dito. Nessuno. Men che meno suo fratello Mycroft. In quel momento, John sapeva cosa fare. Ma l’idea di rivedere quell’uomo dagli occhi morti e gelidi lo faceva bollire di collera. Ridacchiò amaramente, scuotendo la testa. “Puoi dirgli che mi dispiace?” No. Non aveva mai detto a Sherlock quelle parole perché non le avrebbe accet-

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tate. Perché Mycroft non era in grado di provare sofferenza, o dolore, o rimorso e il fratello lo sapeva bene. Aveva causato la sua rovina, lo aveva lasciato solo e non aveva fatto nulla se non presenziare ai suoi funerali, in disparte. Non avrebbe mai potuto perdonarlo. Ma adesso… Greg gli mise la mano sul braccio e John sollevò gli occhi, fissandolo con intensità. “Devo vedere Mycroft” spiegò a voce bassa. “Verrò con te” rispose Lestrade. A quelle parole, John scosse la testa. “Non c’è bisogno. Tu hai già il tuo lavoro e…” ”No.” L’altro alzò le mani face dogli cenno di tacere. “Non voglio lasciarti solo. Non stavolta.” Il silenzio che precipitò nella stanza era saturo di amarezza. John distolse lo sguardo, mentre le mani si flettevano a pugno, cercando qualcosa da stringere. “Non potevi fare altrimenti, allora” mormorò, abbassando la voce. “Eravamo ricercati. Tutto congiurava contro Sherlock” rispose, cercando di reprimere il rancore che si strisciava sul fondo della coscienza. Rancore verso tutti. Verso Anderson e Donovan che avevano fatto da sponda a Moriarty, verso la loro invidia. Verso i tabloid che avevano sbattuto il freak in prima pagina banchettando con le dichiarazioni false di una giornalista mediocre. Verso Greg, che aveva creduto a tutto ciò… sia pure per poco. L’ispettore si mosse verso la finestra. “Te l’ho detto, John. Ciascuno di noi ha il suo fardello da portare.” L’altro sollevò la testa e fissò l’ispettore, una sagoma scura sullo sfondo della fi-


nestra illuminata dal crepuscolo. “Non posso più aiutare lui. Ma voglio… devo aiutare te.” All’improvviso, la rabbia acquistò una strana consistenza salata sulle labbra di John. Era morbida, avvolgente e gli feriva il cuore. Provò a scacciare quella sensazione che rifiutava di andarsene, rimanendo abbarbicata al petto, togliendogli la forza che, lentamente, aveva recuperato in quelle settimane. Inspirò profondamente. “Tu vuoi un’assoluzione che io non posso darti.” La risposa di Lestrade arrivò dopo un tempo interminabile. “Lo so.” Si voltò a guardarlo. “Ma posso rimediare, e non solo per te stesso, bada bene. Per me.” L’espressione sul viso del dottore era pura amarezza. “D’accordo.” Si fissò la mano. Aveva ripreso a tremare negli ultimi giorni, ma in quel momento era perfettamente salda. “Mycroft sa dell’esito della perizia balistica?” “Credo che lo abbia saputo prima di me. Non ha fatto nulla per riabilitare la memoria di suo fratello.” “Tipico” commentò atono John “Sherlock è divenuto un peso di cui liberarsi, una macchia da coprire con altro sangue.” Non quello di mia sorella, bastardo. Poi lanciò un’occhiata all’orologio sulla parete. “D’accordo. Se vogliamo vederlo, dobbiamo muoverci adesso” concluse, dirigendosi verso la porta. Greg afferrò il soprabito e lo seguì, chiudendosi la porta alle spalle. “Dove andiamo?” chiese, mentre scendevano per le scale. John non rispose subito. Scrutò il cielo grigio e basso sopra Londra. Avrebbe piovuto di lì a poco. “Pall Mall, Greg. Al Diogene’s club.”

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