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Dello stesso autore Nove gradi di libertà Sogno numero 9 A casa di dio I mille autunni di Jacob de Zoet Cloud Atlas - L’atlante delle nuvole Le ore invisibili
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David Mitchell
I CUSTODI DI SLADE HOUSE Traduzione di Katia Bagnoli
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Tutti i personaggi di questo romanzo sono immaginari e ogni somiglianza con persone realmente esistenti o esistite è puramente casuale. Realizzazione editoriale a cura di studio pym.
Slade House Copyright © David Mitchell 2015 © 2016 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. per Edizioni Frassinelli ISBN 978-88-8832099-1 I Edizione settembre 2016 Anno 2016-2017-2018 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
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Il tipo giusto 1979
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Qualsiasi cosa stesse dicendo la mamma è stata soffocata dal rombo fuligginoso dell’autobus che si allontana rivelando, dietro di sé, un pub che si chiama The Fox and Hounds, la volpe e i segugi. Nell’insegna ci sono tre beagle che hanno stretto una volpe in un angolo. Stanno per saltarle addosso, e sbranarla. Una targa stradale dice westwood road. I lord e le lady dovrebbero essere ricchi, perciò mi aspettavo piscine e Lamborghini, invece Westwood Road mi pare piuttosto normale. Normali case di mattoni, mono o bifamigliari, con giardinetti e automobili normali. Il cielo umido ha il colore dei vecchi fazzoletti da naso. Sette gazze passano in volo. Sette va bene. Però ho la faccia della mamma a pochi centimetri dalla mia, anche se non capisco se è una faccia arrabbiata o preoccupata. «Nathan? Mi stai ascoltando, almeno?» Oggi la mamma è truccata. Il colore del rossetto si chiama Giglio del mattino, ma più che di giglio odora di attaccatutto. Siccome la faccia non si allontana dico: «Cosa?» «Si dice ‘Prego?’ oppure ‘Scusa?’. Non ‘Cosa?’» «Okay», dico io, parola che spesso funziona. Oggi no. «Hai sentito quello che ti ho detto?» 3
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«Si dice ‘Prego?’ oppure ‘Scusa?’ Non ‘Cosa?’» «Quello che ti ho detto prima! Se da lady Grayer qualcuno ci chiede come siamo arrivati, tu devi rispondere che siamo arrivati in taxi.» «Credevo che non si dovessero dire bugie.» «Ci sono bugie», dice la mamma pescando dalla borsetta la busta su cui ha scritto l’indirizzo e le indicazioni per arrivarci, «che sono sbagliate, e poi ci sono quelle per dare la giusta impressione, che invece sono necessarie. Se tuo padre pagasse quello che dovrebbe pagare, saremmo venuti veramente in taxi. Quindi…» Dà un’occhiata alla busta. «Slade Alley parte da Westwood Road, circa a metà…» Guarda l’orologio. «Bene, sono le tre meno dieci e ci aspettano per le tre. Su, svelto. Non perdere tempo.» E si mette in moto. La seguo, evitando di camminare sulle crepe. Certe volte, dove il marciapiede è coperto di foglie marce, devo tirare a indovinare. A un certo punto mi sono dovuto spostare per far passare un uomo con delle mani enormi che correva, con una tuta da ginnastica nera e arancione. La maglia dei Wolverhampton Wanderers è nera e arancione. Da un eucalipto penzolano delle bacche molto lucide. Mi piacerebbe contarle, ma il tic-tac-tic-tac delle scarpe della mamma mi spinge avanti. Le ha comprate ai saldi di John Lewis con gli ultimi soldi dello stipendio del Royal College of Music, anche se British Telecom ci ha mandato un sollecito definitivo per il pagamento della bolletta. Indossa l’abito blu scuro che usa per i concerti, e i capelli raccolti sono fissati con lo spillone d’argento a forma di testa di volpe. Lo spillone l’ha portato suo padre da Hong Kong dopo la Seconda guerra mondiale. Quando la mamma dà lezione a uno studente e io non devo stare tra i piedi, a volte vado al suo tavolino da toeletta e tiro fuori la volpe. Ha gli occhi di giada e in certi 4
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giorni sorride, mentre in certi altri no. Oggi non mi sento tutto a posto, però tra poco dovrebbe fare effetto il Valium. Il Valium è fantastico. Ne ho presi due. La settimana prossima dovrò rinunciare a qualche pillola, in modo che la mamma non si accorga che la sua scorta diminuisce. La giacca di tweed è ruvida. La mamma l’ha presa da Oxfam per questa occasione, e anche il papillon viene da Oxfam. Lei lavora lì come volontaria tutti i lunedì, così può prendere le cose più belle fra quello che la gente va a consegnare di sabato. Se Gaz Ingram o qualcuno della sua banda mi vede con questo cravattino, mi trovo uno stronzo dentro l’armadietto, garantito. La mamma dice che devo imparare a socializzare di più, però non ci sono lezioni di Socializzazione nemmeno sulla bacheca degli appuntamenti della biblioteca comunale. Adesso pubblicizzano un club dove si gioca a Dungeons & Dragons, e io ci vorrei tanto andare, ma la mamma dice che non posso perché Dungeons & Dragons è un gioco che c’entra con le forze oscure. Attraverso i vetri di una finestra vedo cavalli che corrono. È la Tribuna sportiva del sabato sulla BBC1. Le altre tre finestre hanno le tende, però riesco a vedere il wrestling. C’è Giant Haystacks il cattivone peloso contro Big Daddy, il pelato buono su ITV. Otto case più in là vedo Godzilla sulla BBC2. Abbatte un pilone con una zampata e un vigile del fuoco giapponese con la faccia sudata grida dentro una ricetrasmittente. Adesso Godzilla ha afferrato un treno, cosa priva di senso visto che gli anfibi non hanno i pollici. Forse quello di Godzilla è come il cosiddetto pollice del panda, che in effetti è un artiglio evoluto. Forse… «Nathan!» La mamma mi ha afferrato un polso. «Non ti ho forse detto di non ciondolare?» Mi ripiglio. «‘Svelto, svelto!’; ‘Non ciondolare’.» «E che cosa stai facendo, adesso?» 5
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«Pensavo ai pollici di Godzilla.» La mamma chiude gli occhi. «Lady Grayer mi ha invitata – ci ha invitati – a una serata musicale. Una soirée. Ci saranno persone che amano la musica. Gente dell’Arts Council, gente che ha il potere di assegnare premi e borse di studio.» Negli occhi della mamma ci sono venuzze rosse come fiumi fotografati da una grande altezza. «Anch’io preferirei che tu fossi rimasto a casa a giocare con il tuo diorama della Battaglia dei boeri. Ma lady Grayer ha insistito perché venissi, quindi… ti devi comportare come un ragazzo normale. Puoi farlo? Per favore? Pensa al ragazzo più normale della tua classe e fa’ quello che farebbe lui.» Comportarsi da ragazzo normale è come socializzare. «Ci proverò. Comunque non è la Battaglia dei boeri. È la Guerra boera. Il tuo anello mi fa male al polso.» Lei mi lascia andare. Così va meglio. Non capisco che cosa esprime la sua faccia.
Slade Alley è il vicolo più stretto che abbia mai visto in vita mia. Inizia in mezzo a due case e dopo una trentina di passi sparisce. Immagino che ci potrebbe vivere un barbone, con la sua scatola di cartone, non un lord e una lady. «Ci sarà senz’altro un ingresso principale dall’altra parte», dice la mamma. «Slade House è soltanto la loro residenza cittadina. La vera casa dei Grayer si trova nel Cambridgeshire.» Se mi avessero dato cinquanta pence ogni volta che la mamma mi ha detto questa frase, adesso avrei tre sterline e cinquanta. Il vicolo è freddo e umido come la grotta White Scar negli Yorkshire Dales. Papà mi ci ha portato quando avevo dieci anni. Al primo angolo c’è un gatto morto, per terra. È grigio come la polvere sulla luna. So che è morto 6
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perché è immobile come un sacchetto caduto, e perché ci sono delle mosche gigantesche che gli bevono gli occhi. Come è morto? Non vedo ferite d’arma da fuoco né segni di zanne, ma la testa ha una strana angolazione, perciò magari è stato strangolato da uno strangolatore di gatti. Si merita immediatamente un posto fra le 5 Cose Più Belle che Ho Mai Visto. Forse in Papua Nuova Guinea c’è una tribù che trova musicale il ronzio delle mosche. Forse potrei entrare a farne parte. «Andiamo, Nathan.» La mamma mi sta tirando per la manica della giacca. «Non sarebbe meglio fargli un funerale?» chiedo. «Come alla nonna?» «No. I gatti non sono esseri umani. Vieni.» «Non sarebbe meglio avvertire i suoi padroni che stasera non tornerà a casa?» «Come? Lo prendiamo in braccio e percorriamo Westwood Road bussando a ogni porta dicendo: «Scusateci, è vostro questo gatto morto?» Certe volte alla mamma vengono delle buone idee. «Ci vorrebbe un po’, però…» «Scordatelo, Nathan. Ci aspettano da lady Grayer adesso.» «Ma se non lo seppelliamo i corvi gli beccheranno gli occhi.» «Non abbiamo né un badile né un giardino a disposizione.» «Lady Grayer ce li dovrebbe avere tutti e due.» La mamma chiude di nuovo gli occhi. Forse ha mal di testa. «Questa conversazione è finita.» Mi trascina via e arriviamo nel tratto centrale di Slade Alley. Sono più o meno cinque case, mi pare, recintate da muri di mattoni talmente alti che non si vede niente. Soltanto il cielo. «Tieni gli occhi aperti per una porticina di ferro nera, sul lato destro.» Ma arriviamo fino all’angolo successivo e sono esattamente no7
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vantasei passi, e dalle crepe spuntano cardi e soffioni, però porte non ce ne sono. Dopo aver girato a destra facciamo un’altra ventina di passi e arriviamo su una parallela di Westwood Road. Un cartello dice cranbury avenue. Parcheggiata di fronte c’è un’ambulanza del St John. Sul parabrezza posteriore sporco qualcuno ha scritto lavami. Il conducente ha il naso rotto e sta parlando alla radio. Passa un mod su una motocicletta che sembra uscito dal film Quadrophenia, e non porta il casco. «Andare in moto senza casco è contro la legge», dico. «Non ha nessun senso», fa la mamma fissando la busta. «Se non sei un sikh con il turbante. In quel caso la polizia…» «Una porticina di ferro nera: voglio dire… come abbiamo fatto a non vederla?» Lo so. Per me il Valium è come la pozione magica di Asterix, invece alla mamma fa l’effetto di stonarla. Ieri mi ha chiamato Frank – il nome di papà – e non se ne è accorta. Si fa dare due ricette da due medici diversi perché una non le basta, però… …un cane abbaia a pochi centimetri da me e devo aver gridato e fatto un salto per la paura ed essermi fatto un po’ di pipì addosso ma è tutto a posto, tutto a posto, c’è una recinzione, ed è soltanto un cagnetto abbaione, non un mastino, non è quel mastino, e sono solo pochissime gocce di pipì. Eppure il cuore mi batte da matti e sento che potrei vomitare. La mamma è sbucata su Cranbury Avenue in cerca del grosso cancello di una grande casa e non si è nemmeno accorta del cagnetto abbaione. Viene nella nostra direzione un uomo con la tuta da imbianchino, con un secchio e un paio di scale sulla spalla. Sta fischiettando I’d Like to Teach the World to Sing (in Perfect Harmony). 8
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La mamma lo interrompe. «Mi scusi, lei conosce Slade House, per caso?» Fischio e uomo si fermano. «Se conosco cosa?» «Slade House. La residenza di lady Norah Grayer.» «Mai sentita, ma se trovate Sua Signoria riferitele che se vuole scambierei volentieri un po’ di lusso con un po’ di miseria», poi, rivolto a me: «Mi piace il tuo farfallino, ragazzo» e imbocca il vicolo riprendendo a fischiare la sua canzone nel punto esatto in cui l’aveva lasciata. Mamma lo guarda allontanarsi e borbotta: «Grazie per non essere servito a un bel cacchio». «Credevo che non si dovesse dire ‘cacchio’…» «Non cominciare, Nathan. Ti prego, non farlo.» Credo che questa sia la faccia arrabbiata della mamma. «D’accordo.» Il cane ha smesso di abbaiare per leccarsi il pisello. «Ripercorriamo il vicolo in senso inverso», decide la mamma. «Magari lady Grayer si riferiva al vicolo successivo.» Imbocca Slade Alley e io la seguo. Arriviamo nella parte centrale in tempo per vedere l’uomo con le scale scomparire dietro l’angolo dove il gatto grigio come la luna se ne sta sempre per terra morto. «Se qualcuno ti ammazzasse qui», osservo, «non se ne accorgerebbe nessuno.» La mamma mi ignora. Forse non era una cosa molto normale da dire. Siamo circa a metà del vicolo quando lei si ferma: «Che mi venga un colpo!» C’è una porticina di ferro nera nel muro di mattoni. È veramente piccola. Io sono alto un metro e quarantotto e la porta mi arriva appena agli occhi. Una persona grassa faticherebbe a entrare. Non ci sono maniglie, né serrature o fori sui bordi. È nera. Nera come il nulla, come i buchi fra le stelle. «Come diavolo abbiamo fatto a non vederla?» dice la mamma. «Sei proprio un bravo boy scout.» 9
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«Non sono più negli scout», le ricordo. Il signor Moody, il nostro caposcout, durante un’uscita mi ha detto di andare a farmi un giro, e io così ho fatto, e al servizio di salvataggio del monte Snowdonia ci sono voluti due giorni per trovare il mio nascondiglio. Sono finito sui giornali locali e tutto il resto. Erano tutti arrabbiati, ma io avevo solamente eseguito gli ordini. La mamma spinge la porta, che però rimane chiusa. «Come diavolo si apre questa stupida cosa? Magari dovremmo bussare.» La porta attira il palmo della mia mano contro di sé. È calda. E mentre si spalanca i cardini stridono come i freni di un’automobile…
…e stiamo guardando un giardino; un giardino che ronza come se fosse ancora estate. Ci sono rose, ridenti girasoli, macchie di papaveri, cespugli di digitale e moltissimi fiori di cui non conosco il nome. C’è un angolo di giardino con i sassi, alla giapponese, uno stagno, e api e farfalle che succhiano. Un’epopea di giardino. «Guarda che roba», dice la mamma. La casa è su in cima, antica, squadrata, severa e grigia e mezzo soffocata da un’edera rampicante, e completamente diversa dalle case di Westwood Road e Cranbury Avenue. Se fosse di proprietà del National Trust chiederebbero due sterline per farti entrare, settantacinque pence per i giovani fino a sedici anni. Abbiamo già superato la porticina di ferro nera, che il vento ha richiuso come un maggiordomo invisibile, e le correnti ci sospingono nel giardino, sotto il muro. «I Grayer devono avere un giardiniere fisso», commenta la mamma, «o addirittura più di uno.» Sento che il Valium comincia finalmente a fare effetto. I rossi diventano più accesi, gli azzurri 10
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più vitrei e i bianchi sono trasparenti come uno strato di carta a due veli. Sto per domandare alla mamma com’è possibile che una casa così grande e il giardino riescano a stare nello spazio fra Slade Alley e Cranbury Avenue, ma la mia domanda cade dentro un pozzo che non ha fondo, e dimentico quello che ho dimenticato.
«La signora Bishop e figlio, suppongo», dice un ragazzo invisibile. La mamma sobbalza, un po’ come è successo a me con il cane che abbaiava, ma adesso il mio Valium funziona da paraurti. «Quassù», continua la voce. Guardiamo in alto. Seduto sul muro, direi a più di quattro metri, c’è un ragazzo della mia età. Ha i capelli ondulati, le labbra carnose, la carnagione lattea, porta i blue jeans, le scarpe da ginnastica ma senza calze e una maglietta bianca. Nemmeno un centimetro di tweed, e niente papillon. La mamma non ha mai parlato di altri ragazzi alla soirée musicale di lady Grayer. La presenza di altri ragazzi significa faccende che chiedono chiarimenti. Chi è il più fico? Il più tosto? Il più intelligente? Ai ragazzi normali interessano queste cose, e quelli come Gaz Ingram fanno a botte, per queste cose. La mamma sta dicendo: «Sì, salve, sono la signora Bishop, e lui è Nathan… guarda, quel muro è piuttosto altino, sai. Non pensi che dovresti scendere?» «Lieto di conoscerti, Nathan», dice il ragazzo. «Perché?» chiedo alle suole delle sue scarpe. La mamma sta sibilando qualcosa a proposito della buona educazione e il ragazzo risponde: «Perché sì. Io sono Jonah, a proposito. Il vostro comitato di benvenuto». Non conosco nessun Jonah. È un nome da ragazzo di colore. La mamma chiede: «E la tua mamma è lady Norah?» Jonah ci pensa su. «Diciamo di sì, che è mia madre.» 11
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«Bene», dice la mamma, «insomma, è… capisco. Tu…» «Oh, Rita, stupendo. Ci hai trovati!» Una donna spunta da una specie di galleria. È un pergolato coperto di fiori penduli bianchi e rossi, a grappoli. Ha più o meno l’età della mamma, ma è magra e meno sciupata ed è vestita con i colori del suo giardino. «Ieri sera, dopo aver riagganciato, mi è venuta la paturnia di averti tremendamente confusa con le mie indicazioni per trovare la porta sul vicolo… davvero, avrei dovuto farti arrivare all’ingresso principale. Ma volevo tanto che la vostra prima immagine di Slade House fosse del giardino nel suo pieno splendore.» «Lady Grayer!» La mamma fa l’imitazione di una persona elegante. «Buon pomeriggio. No no no, le sue indicazioni erano…» «Chiamami Norah, Rita, ti prego – tutta questa storia della ‘lady’ è di una noia mortale quando siamo in privato. Avete conosciuto Jonah, a quanto vedo: lo Spider Man di casa.» Lady Grayer ha gli stessi capelli neri del figlio e occhi con visione a raggi X che preferisco non fissare. «Questo giovanotto deve essere Nathan.» Mi stringe la mano. La sua è tozza, però la stretta è forte. «Tua madre mi ha raccontato tutto di te.» «Lieto di conoscerti, Norah», faccio, come un adulto in un film. «Nathan!» dice la mamma a voce troppo alta. «Lady Grayer non intendeva che tu puoi darle del tu.» «Va bene così», dice Norah Grayer. «Davvero, mi fa piacere.» Il luminoso pomeriggio ondeggia leggermente. «Il tuo vestito è intonato al giardino», dico. «Che complimento elegante», risponde lady Grayer. «Ti 12
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ringrazio. E anche tu hai un’aria molto carina. I papillon sono terribilmente distinti.» Sottraggo la mia mano alla sua. «Norah, avevi un gatto color grigio luna per caso?» «Se ‘avevo’ un gatto? Vuoi dire in tempi recenti o nella mia giovinezza?» «Oggi. È nel vicolo.» Indico nella giusta direzione. «Al primo angolo. Morto.» «Certe volte Nathan è troppo diretto.» La voce della mamma suona strana, e affrettata. «Norah, se il gatto è tuo sono terribilmente…» «Non ti preoccupare, a Slade House non ci sono gatti da anni. Chiamerò il nostro tuttofare e gli dirò di dare immediatamente una decente sepoltura alla povera bestiola. Molto premuroso da parte tua, Nathan. Sei premuroso come tua madre. Hai ereditato da lei anche il talento musicale?» «Nathan non studia abbastanza», dice la mamma. «Studio un’ora al giorno.» «Ce ne vorrebbero due», ribatte secca la mamma. «Devo anche fare i compiti», puntualizzo. «Be’, il genio è al novanta per cento sudore della fronte», interviene Jonah ora in piedi dietro di noi, a terra – la mamma annaspa per la sorpresa, invece io sono ammirato. «Come hai fatto a venire giù così in fretta?» Si batte un dito sulla tempia. «Circuito di teletrasporto impiantato nel cranio.» So già che è sceso con un salto, però preferisco la sua risposta. Jonah è più alto di me, ma quasi tutti i ragazzi lo sono. La settimana scorsa Gaz Ingram mi ha ufficialmente cambiato il soprannome da Finocchietto Facciadiporco a Nano Venefico. «Un incurabile esibizionista», commenta Norah Grayer 13
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con un sospiro. «Dunque, Rita, spero proprio che non ti dispiaccia se ho parlato a Yehudi Menuhin, che è passato a trovarmi, del tuo recital di Debussy. Decisamente non vede l’ora di incontrarti.» L’espressione della mamma è quella di un personaggio sbigottito dei Peanuts: «Yehudi Menuhin? È qui? Adesso?» Lady Grayer fa di sì con la testa, come se si trattasse di una cosa normalissima. «Sì, ieri sera dava un concerto alla Royal Festival Hall e Slade House ormai è diventata la sua tana-et-pied-à-terre, diciamo pure. Allora non ti dispiace?» «Dispiacermi?» dice la mamma. «L’idea di incontrare sir Yehudi? Certo che non mi dispiace, solo che… non riesco a credere che non sia un sogno.» «Bravissima.» Lady Grayer la prende sottobraccio e la guida verso la grande casa. «Non essere timida… Yehudi è molto dolce. Perché voi due», si gira verso Jonah e me, «non vi divertite un pochino in questa splendida luce? La signora Polanski sta preparando degli éclairs al caffè, quindi cercate di farvi venire appetito.»
«Mangia una susina», dice Jonah porgendomi un frutto appena colto dall’albero. Poi si siede con la schiena contro il tronco di un altro, e io mi metto contro quello più vicino. «Grazie.» La polpa tiepida e succosa ha il sapore delle mattine di inizio agosto. «C’è veramente Yehudi Menuhin a casa vostra?» Jonah mi guarda con un’espressione che non capisco. «Perché diavolo Norah dovrebbe mentire?» Non ho mai incontrato nessun ragazzo che chiami sua madre con il nome di battesimo. Papà lo definirebbe «molto 14
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moderno». «Non volevo dire che mente. È solo che lui è un violinista incredibilmente famoso.» Jonah sputa il nocciolo della susina in un cespuglio di alte margherite rosa. «Anche i violinisti incredibilmente famosi hanno bisogno di amici. Allora, Nathan, quanti anni hai? Tredici?» «Precisi.» Sputo il mio nocciolino più in là. «E tu?» «Tredici anch’io. Li compio in ottobre.» «Io in febbraio.» Sono più grande, anche se più basso di statura. «A che scuola vai?» «Io e la scuola non ci siamo mai visti in faccia», dice Jonah. «Per così dire.» Non capisco. «Sei un ragazzo. Devi andare a scuola. È la legge.» «Non vado d’accordo neanche con la legge. Un’altra susina?» «Grazie. Ma come fai a giustificare le assenze?» L’espressione sulla faccia di Jonah significa che è perplesso. La professoressa Marconi e io abbiamo lavorato sulla «perplessità». «Quali assenze?» Non ci arrivo. Deve sapere cosa sono le assenze ingiustificate. «Mi stai prendendo per il sedere?» «Non mi sognerei mai di prenderti per il sedere. Che posto scomodo per prendere qualcuno!» Piuttosto spiritosa come battuta, ma se la usassi con Gaz Ingram mi crocifiggerebbe sui pali della porta del campo di rugby. «Seriamente, studio a casa.» «Dev’essere fortissimo. Chi ti insegna? Tua madre?» Jonah risponde: «Il nostro precettore» e mi guarda. I suoi occhi fanno male, quindi distolgo lo sguardo. Precettore è una parola chic per «insegnante». 15
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«Che tipo è?» «Un autentico genio», dice Jonah, e non come se volesse darsi delle arie. «Muoio di gelosia», ammetto. «Io odio la mia scuola. La odio.» «Se non sei adeguato al sistema, il sistema ti rende la vita un inferno. Anche tuo padre è un pianista, come tua madre?» Parlare di mio padre mi piace almeno quanto detesto parlare della scuola. «No. Lui vive a Salisbury, però Salisbury in Rhodesia, non nel Wiltshire. Viene da lì, dalla Rhodesia, e lavora come addestratore dell’esercito del Paese.» Un sacco di ragazzi raccontano palle sul conto dei loro padri, ma io non lo faccio. «È un tiratore scelto eccezionale. Può piantare un proiettile in mezzo agli occhi di un uomo da cento metri. Una volta mi ha lasciato guardare.» «Ti ha lasciato guardare mentre piantava un proiettile in mezzo agli occhi di un uomo?» «Era un manichino in un poligono vicino ad Aldershot. Aveva una parrucca con i colori dell’arcobaleno e i baffi alla Adolf Hitler.» Le colombe, o forse sono piccioni, tubano sui rami del susino. Nessuno sa mai bene se colombi e piccioni sono lo stesso animale oppure no. «Dev’essere dura con tuo padre così lontano.» Faccio spallucce. La mamma mi ha detto di tenere la bocca chiusa sul divorzio. «Sei mai stato in Africa?» mi chiede Jonah. «No, però papà mi ha promesso che a Natale potrò andare a trovarlo. Ci dovevo andare il Natale scorso ma all’improvviso ha avuto un sacco di soldati da addestrare. Quando qui è inverno là è estate.» Sto per raccontare a Jonah del safari dove mi porterà papà, però la professoressa Marconi dice 16
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che conversare è come giocare a ping-pong: si fa a turno. «Tuo padre che lavoro fa?» Mi aspetto che Jonah mi risponda che suo padre è un ammiraglio o un giudice o qualcosa di altolocato, invece no. «Mio padre è morto. Per un colpo d’arma da fuoco. È stato un incidente durante una battuta di caccia. È successo tanto, tanto tempo fa.» Non può essere poi così tanto, penso, comunque mi limito a dire: «Capito». Le piante di digitale rossa ondeggiano come se dentro vi fosse qualcosa…
…ma non c’è niente, e Jonah continua: «Parlami del tuo incubo ricorrente, Nathan». Siamo seduti vicino allo stagno su dei lastroni tiepidi. Lo stagno è un lungo rettangolo con le ninfee nel mezzo e una statua di bronzo di Nettuno che è diventata turchese e livida. Lo stagno è più grande di tutto il nostro giardino, che in effetti è soltanto un fazzoletto di terra fangosa con un filo per stendere la biancheria e i bidoni dell’immondizia. Lo chalet di papà in Rhodesia invece è circondato da tantissima terra, che scende fino a un fiume dove ci sono gli ippopotami. Penso alla professoressa Marconi mentre mi dice: «Concentrati sull’argomento». «Come fai a sapere del mio incubo?» «Hai quell’aria tormentata che rivela tutto.» Lancio un sasso nell’acqua. Disegna un arco che è perfetta geometria. «Il tuo incubo c’entra in qualche modo con le tue cicatrici?» Immediatamente la mia mano nasconde con i capelli l’area dove i danni sono più visibili, sotto l’orecchio destro. Il sasso fa splash. I cerchi concentrici sono invisibili. Non penserò al mastino che si lancia su di me, le zanne che mi strappano la 17
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carne dalla guancia come se fossi un pollo arrosto, i suoi occhi mentre mi scrolla come una bambola, la mia mascella nella sua morsa; né alle settimane passate in ospedale, e le iniezioni, le medicine, gli interventi chirurgici, le facce degli altri; né al fatto che quando mi addormento il mastino è ancora in agguato. Una libellula si posa su un giunco a due centimetri dal mio naso. Le ali sembrano di cellofan e Jonah dice: «Le ali sembrano di cellofan», e io: «Stavo pensando proprio quello», ma Jonah dice: «Pensando a cosa?» quindi forse ho solo creduto che lo dicesse. Il Valium cancella brandelli di discorso e apre nuvolette di pensieri. L’avevo già notato. Nella casa la mamma si riscalda con qualche arpeggio. La libellula non c’è più. «Tu hai degli incubi?» chiedo. «Ho incubi che riguardano il fatto di rimanere senza cibo», risponde Jonah. «Vai a letto con un pacchetto di biscotti», dico io. I suoi denti sono perfetti, come quelli del bambino sorridente con zero otturazioni della pubblicità del Colgate. «Non quel tipo di cibo, Nathan.» «Quali altri tipi di cibo ci sono?» Il codice morse di un’allodola da una stella molto molto molto molto lontana. «Cibo che più ne mangi più ti viene fame», dice Jonah. I cespugli tremolano confusi come se qualcuno ne stesse facendo uno schizzo. «Non mi stupisce che non frequenti una scuola normale.» Jonah si avvolge un filo d’erba intorno al pollice…
…e lo spezza. Lo stagno non c’è più e noi siamo sotto un albero, quindi ovviamente è un altro filo d’erba, spezzato più tardi. Adesso il Valium mi pulsa nei polpastrelli e la luce 18
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del sole è un’arpista. Le foglie cadute sul prato ben tagliato hanno la forma di minuscoli ventagli. «Questo è un gingko», dice Jonah. «L’ha piantato chi viveva a Slade House mezzo secolo fa.» Comincio a sistemare le foglie in modo da creare una grande Africa, una trentina di centimetri dal Cairo a Johannesburg. Ora Jonah è sdraiato supino, e o dorme o ha soltanto gli occhi chiusi. Non ha parlato di calcio nemmeno una volta, e non ha detto che sono un finocchio perché mi piace la musica classica. Forse questo è come avere un amico. Deve essere passato del tempo, perché la mia Africa è completa. Non so che ora è perché domenica scorsa ho smontato il mio orologio per farlo funzionare meglio, e quando l’ho rimontato mancavano dei pezzi. Decisamente non era tornato intero come Humpty Dumpty. Mia madre ha strillato quando ha visto gli ingranaggi e si è chiusa in camera sua, quindi con il tè ho dovuto mangiare un’altra volta i fiocchi di mais. Non so perché se la sia presa. Era un vecchio orologio, vecchissimo, fabbricato molto prima che io nascessi. Tolgo le foglie del lago Victoria e le uso per il Madagascar. «Accipicchia», dice Jonah, appoggiando la testa su un gomito. Quando uno ti dice «accipicchia» si deve rispondere «grazie»? Siccome non lo so preferisco non rischiare e chiedo: «Ti capita mai di pensare che potresti far parte di una specie diversa di esseri umani, creati dal DNA in laboratorio come nell’Isola del dottor Moreau, e poi liberati sulla terra per vedere se riuscite a farvi passare per persone normali?» Un lieve applauso ritmico scende da una delle stanze di sopra. «Mia sorella e io effettivamente apparteniamo a un’altra specie», dice Jonah, «anche se la parte che riguarda l’esperimento in laboratorio è ridondante. Noi riusciamo a passare 19
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per normali, o per qualsiasi cosa vogliamo. Vuoi giocare a volpe e segugi?» «Venendo qui abbiamo visto un pub che si chiama così.» «Esiste fin dagli anni Trenta. Ha anche un odore da anni Trenta, se ci entri. Io e mia sorella ne abbiamo preso in prestito il nome per un gioco. Vuoi giocare? Sostanzialmente è una corsa.» «Non sapevo che avessi una sorella.» «Non temere, fra poco la conoscerai. Volpe e segugi è una corsa. Partiamo da due angoli opposti della casa. Tutti e due gridiamo: ‘Volpe e segugi, un due tre!’ e al tre partiamo, in senso antiorario, fino a quando uno riesce a prendere l’altro. Quello che cattura l’altro si chiama segugio e quello che viene catturato è la volpe. Semplice. Ti va?» Se dico di no lui potrebbe pensare che sono una sega o un fesso. «D’accordo. Ma non dovrebbe chiamarsi ‘volpe e segugio’ se il segugio è uno solo?» Sulla faccia di Jonah passano due o tre espressioni che non riesco a decifrare. «D’ora in avanti, Nathan, si chiamerà ‘volpe e segugio’.»
Slade House incombe su di noi, l’edera rossa è più rossa della solita edera rossa. Le finestre del pianterreno sono troppo alte perché io possa vedere dentro, e comunque riflettono soltanto cielo e nuvole. «Tu resta qui», mi dice Jonah in piedi sull’angolo di destra della facciata. «Io vado sul retro. Quando cominciamo corri in senso antiorario… per di qua.» E se ne va costeggiando la fiancata della casa, che è circondata da una siepe di agrifoglio. Mentre aspetto mi accorgo che qualcuno si sta muovendo dietro la finestra più vicina. Mi accosto, guardo in su. È una donna. Un’altra 20
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ospite della soirée di lady Norah Grayer, suppongo, o forse una domestica. Porta i capelli cotonati come certe signore sulle copertine dei vecchi LP di papà; ha la fronte aggrottata e apre e chiude la bocca lentamente, come un pesce rosso. Come se stesse ripetendo all’infinito la stessa parola. Siccome non riesco a capire quello che sta dicendo, perché la finestra è chiusa, le dico: «Non sento». Faccio un passo verso la finestra ma lei sparisce e vedo solamente il cielo riflesso. Quindi faccio un passo indietro, e rieccola di nuovo. Come con quelle figurine che si trovano nelle scatole di cereali dove l’immagine, se la inclini un pochino, sembra muoversi. La donna con i capelli cotonati forse sta dicendo: «Mai mai mai»; oppure: «Vai vai vai»; o potrebbe anche essere: «Ahi ahi ahi». Prima di riuscire a capirlo sento la voce di Jonah dal sentiero di agrifoglio: «Pronto, Nathan?» «Pronto!» grido, e quando guardo ancora verso la finestra la donna con i capelli cotonati non c’è più, e non riesco a ritrovarla nemmeno se cambio posizione o piego la testa. Mi metto alla posizione di partenza sul mio angolo. «Volpe e segugio», grida Jonah, e lo grido anch’io. «Un, due…»
«Tre!» urlo e parto per il sentiero di agrifoglio – slap slap slap fanno le mie scarpe, e l’eco fa whack whack whack. Jonah è più alto di me e forse sui cento metri mi batterebbe, però c’è la possibilità che finisca io per fare il segugio, perché sulle lunghe distanze conta la resistenza, e sono già arrivato in fondo al sentiero, dove mi aspettavo di vedere Cranbury Avenue, invece c’è soltanto un lungo muro e una fila di abeti e una stretta striscia di prato che si allontana sfocata. Proseguo e costeggio una tubatura, sprinto giù per 21
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un altro gelido sentiero laterale tagliato da lame di luce che arrivano da un’alta recinzione fra le cui assi crescono i rovi, poi esco di nuovo all’aperto dove vado a sbattere contro un cespuglio coperto di farfalle e le farfalle si sollevano come una tempesta di neve tutte arancioni e nere e rosse e bianche e una mi si infila in bocca perciò sputo e supero le rocce e atterrando quasi cado ma poi invece rimango in piedi. Corro davanti ai gradini dell’ingresso principale, davanti alla finestra della donna con i capelli cotonati ma adesso lei non c’è e poi giro l’angolo e sto correndo di nuovo lungo il sentiero con l’agrifoglio e l’eco e comincio a sentire una fitta al fianco ma la ignorerò e l’agrifoglio mi graffia il dorso della mano come se la stesse spingendo e mi domando se Jonah stia guadagnando terreno o sia io a guadagnarlo su di lui, ma non mi ci soffermo troppo perché sono tornato sul retro di Slade House, dove gli abeti sono più fitti e più grandi e i contorni della recinzione più indistinti e continuo a correre, correre, correre fino all’angolo dove i rovi praticamente invadono il sentiero, mi graffiano i polpacci e il collo e adesso ho paura che diventerò la volpe e torno davanti alla casa dove il sole è spento, andato, tramontato, e i fiori sono appassiti e non c’è nemmeno una farfalla nel cespuglio delle farfalle, solo farfalle morte spiaccicate sul sentiero, tracce di polvere colorata con una farfalla mezza morta che batte ancora un’ala, appena appena… Mi sono fermato perché all’estremità del giardino, il muro con la porticina nera… è diventato tutto sfocato e incerto. Non perché è sera. Penso che non siano ancora le quattro. Nemmeno perché c’è la nebbia. Guardo in su: il cielo è ancora azzurro come prima, più o meno. È il giardino. Il giardino si spegne. Mi giro per dire a Jonah di interrompere il gioco, che qual22
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cosa non va, ci vuole un adulto. Da un momento all’altro si precipiterà verso di me dall’angolo estremo. I rovi ondeggiano come tentacoli sott’acqua. Mi volto a guardare il giardino. Prima c’era una meridiana che adesso non c’è più, e anche i susini sono spariti. Sto diventando cieco? Vorrei che papà mi dicesse che va tutto bene, che non sto diventando cieco, ma papà è in Rhodesia, allora vorrei la mamma. Dov’è Jonah? E se questa cosa che dissolve il giardino avesse catturato anche lui? Il pergolato è stato cancellato. Che cosa si fa quando si va a trovare qualcuno e il suo giardino si mette a scomparire? Il vuoto si sta avvicinando come un fronte temporalesco. Poi, in fondo in fondo al sentiero laterale con i rovi spunta Jonah e per un secondo mi rilasso perché lui saprà cosa fare, ma mentre guardo la sagoma del ragazzo che corre diventa indistinta e diventa un’oscurità ringhiosa con gli occhi ancora più scuri, occhi che mi conoscono, e zanne che finiranno il lavoro iniziato, e corre per prendermi con movimenti spaventosi al rallentatore, grande come un cavallo che mi sta per precipitare addosso e griderei se potessi ma non posso ho il petto pieno di panico fuso mi soffoca mi soffoca è un lupo è inverno è ossa è cartilagine pelle fegato polmoni è Fame è Fame è Fame e Scappa! Scappo verso i gradini dell’ingresso i piedi mi scivolano sui ciottoli come nei sogni ma se cado mi prenderà e mi manca pochissimo arranco sui gradini e afferro il pomolo apriti ti prego apriti è bloccata no no no il pomolo è d’oro graffiato è duro e rigato si gira sì no sì no prova spingi tira spingi tira gira prova sto cadendo disteso su uno zerbino ispido sopra piastrelle bianche e nere e il mio grido è come un grido gridato dentro una scatola di cartone tutto ovattato e soffocato… *** 23
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«Che cosa ti succede mai, Nathan?» Le mie ginocchia doloranti sono su un tappeto dell’ingresso, il mio cuore fa slap slap slap slap slap slap ma sta rallentando, rallenta, sono salvo e lady Grayer è qui davanti a me con un vassoio con una piccola teiera di ferro dal cui beccuccio esce serpentino un filo di vapore. «Non ti senti bene? Devo chiamare tua madre?» Frastornato, mi alzo. «Norah, c’è qualcosa, fuori.» «Non credo di capire. Qualcosa di che tipo?» «Una, una, una… cioè una specie di…» Una specie di cosa? «Di cane.» «Oh, è Izzy, la cagnetta dei vicini. È tonta come non so cosa e insiste a fare le sue faccende fra le mie erbe aromatiche. Proprio seccante, però è molto dolce.» «No, era un cane… più grosso… e il giardino scompariva.» Lady Norah Grayer sorride, anche se non ne capisco il motivo. «È favoloso vedere i ragazzi usare l’immaginazione! I cugini di Jonah stanno inginocchiati davanti alla tv con quei loro affaretti Atari, i loro giochi spaziali che fanno blip blip e io gli dico: ‘È una bella giornata! Andate a giocare fuori!’ e loro rispondono: ‘Sì, sì, zia Norah, se lo dici tu’.» Il pavimento dell’atrio è a piastrelle bianche e nere come una scacchiera. Sento profumo di caffè, di cera, del fumo dei sigari e dei gigli. Guardo fuori, attraverso una finestrella a rombo nella porta, e vedo il giardino. Non si è dissolto. In fondo vedo la porticina di ferro nero che si apre su Slade Alley. Devo aver immaginato troppo intensamente. Dalle scale arriva il Chant de l’alouette di Cˇajkovskij. È la mamma che suona. Norah Grayer chiede: «Nathan, ti senti bene?» Ho cercato la voce Valium in una enciclopedia medica nella biblioteca e ho letto che in rari casi può produrre allu24
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cinazioni e allora bisogna riferirlo immediatamente al medico curante. Suppongo di essere un caso raro. «Sì, grazie», rispondo. «Jonah e io stavamo giocando a volpe e segugio e credo di essermi lasciato prendere dall’entusiasmo.» «Ero sicura che tu e Jonah sareste andati d’accordo – e, oh Cielo!Yehudi e tua madre si intendono alla perfezione! Vai su alla soirée, dopo due rampe di scale. Io cerco Jonah, e portiamo gli éclairs. Forza, vai. Non essere timido.»
Mi tolgo le scarpe e dopo averle lasciate in disparte salgo la prima rampa di scale. Le pareti sono rivestite di pannelli di legno e il tappeto sui gradini è spesso come la neve e beige come torroncino. Poco più su c’è un piccolo pianerottolo dove un orologio a pendolo fa krunk… kronk… krunk… kronk… ma prima passo davanti al ritratto di una ragazza, più giovane di me, coperta di lentiggini, con un grembiulino di epoca vittoriana. Sembra proprio vera. Il corrimano scivola sotto le mie dita. La mamma suona l’ultima nota di Chant de l’alouette e sento gli applausi. Gli applausi la rendono felice. Quando è triste a cena si mangiano solo cracker e banane. Il ritratto successivo è quello di un uomo con la barba cespugliosa e un’uniforme regimental: i Royal Fusiliers. Lo so perché papà mi ha regalato un libro sui reggimenti dell’esercito britannico e li ho imparati a memoria. L’ultimo ritratto prima del pianerottolo è di una signora sottile con il cappello che assomiglia molto alla professoressa Stone, la nostra insegnante di religione. Se la professoressa Marconi mi chiedesse di dire quello che penso, risponderei che l’ultimo posto al mondo in cui la signora vorrebbe trovarsi è questo. Dal piccolo pianerottolo un’altra rampa di scale a destra sale fino a una porta di legno 25
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chiaro. L’orologio a pendolo è veramente alto. Appoggio un orecchio alla cassa e ascolto il suo cuore: krunk… kronk… krunk… kronk… Non ha le lancette. Al loro posto ci sono parole, sul vecchio quadrante chiaro come un osso: il tempo è, sotto il tempo era e più sotto ancora il tempo non è. Su per la seconda rampa di scale c’è il ritratto di un uomo di circa vent’anni, con i capelli neri unti e imbrillantinati, gli occhi strabici e l’aria di uno che ha aperto un pacchetto e non riesce a capire che regalo contiene. La persona nel penultimo ritratto la riconosco. Per via dei capelli. È la signora che ho visto alla finestra. Gli stessi orecchini a goccia, ma un sorriso sognante al posto del trucco disfatto. Deve essere un’amica dei Grayer. Guardo quella vena violacea nel collo, e un mormorio all’orecchio mi dice: Scappa immediatamente, più veloce che puoi, da dove sei venuto… e io: «Come?» e la voce tace. L’ho sentita davvero? È il Valium. Forse per un po’ non dovrei prenderlo più. Adesso mancano pochi passi alla porta e sento la voce della mamma dalla stanza: «Oh no, Yehudi, non mettere me sotto le luci della ribalta con tutti i talenti presenti in questa stanza!» Non capisco la risposta perché è stata detta a bassa voce, ma la gente ride. Anche la mamma ride. Quando l’ho sentita ridere così l’ultima volta? «Siete tutti troppo gentili», dice. «Come faccio a rifiutare?» Poi comincia a suonare Danseuses de Delphes. Io salgo due o tre gradini e arrivo davanti all’ultimo ritratto. Sono io. Io, Nathan Bishop… Vestito esattamente come sono vestito adesso. Stessa giacca di tweed. Stesso cravattino. Solo che nel ritratto non ho gli occhi. Quello è il mio nasone, il brufolo che ho da una settimana, la cicatrice sotto l’orecchio lasciata dal mastino, ma niente occhi. Uno scherzo? Dovrebbe essere divertente? Non 26
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saprei proprio. La mamma deve aver mandato una fotografia fatta a scuola e le foto degli indumenti che mi avrebbe fatto indossare per venire a casa di Norah Grayer, e poi ha fatto fare il quadro a un artista. Oppure? Questo non può essere un brutto effetto del Valium, vero? Vero? Batto le palpebre più volte guardando il ritratto, poi do un calcio al battiscopa di legno; non così forte da rompermi un dito del piede, ma abbastanza forte per sentire male. Siccome non mi risveglio capisco di essere già sveglio. L’orologio a pendolo fa krunkkronk-krunk-kronk e io sto tremando per la rabbia. Riconosco la rabbia, quando la provo. È facile da riconoscere, è come un bollitore pieno d’acqua che bolle. Perché la mamma mi ha fatto uno scherzo proprio in un giorno in cui mi ordina di comportarmi come una persona normale? Di solito aspetterei che il brano di Debussy arrivi alla fine prima di aprire la porta chiara, ma quest’oggi mia madre non si merita la mia cortesia, perciò appoggio la mano sul pomolo.
Sono in un letto, seduto. Quale letto? Sicuramente non il mio nella mia microscopica stanzetta in Inghilterra: questa stanza è tre volte più grande, la luce la inonda attraverso le tende e sulle lenzuola c’è disegnato Luke Skywalker. Mi gira la testa. Ho la bocca secca. C’è una scrivania; uno scaffale pieno di copie del National Geographic; tende a perline davanti alla porta; fuori un milione di insetti; uno scudo tribale da zulu e una lancia decorata che a questo punto mi sta portando sempre più vicino alla risposta, sempre più vicino… Il cottage di papà nel Bushveld. Mi sfugge un sospiro che sembra un latrato e tutta la mia rabbia onirica contro la mamma puff, sparisce. È la vigilia di Natale e io sono in Rhodesia! Sono arrivato qui ieri con un volo British Airways, 27
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da solo, la mia primissima volta in aeroplano, dove ho chiesto il pasticcio di pesce perché non sapevo cos’era il boeuf bourguignon. Papà e Joy sono venuti a prendermi all’aeroporto con la jeep. Tornando abbiamo visto zebre e giraffe. Nessun ritratto spaventoso, niente Slade House, nessun mastino. La professoressa Todds, che insegna lettere, dà automaticamente l’insufficienza a chi osa scrivere in fondo al suo racconto: «Mi svegliai e scoprii che era stato un sogno». Dice che rompe il patto tra l’autore e i lettori, che è una scappatoia, che è come il ragazzo che gridava al lupo al lupo. Però ogni mattina ci svegliamo davvero e davvero è stato tutto un sogno. Peccato che Jonah non fosse reale, comunque. Scosto la zanzariera intorno al mio letto e vedo distese di boschi e di pascoli a perdita d’occhio. Sotto il cottage scorre un fiume dalle acque scure dove fanno il bagno gli ippopotami. Papà mi aveva spedito una polaroid proprio di questo panorama. È appesa a casa, in Inghilterra, sul muro vicino al cuscino, però questo è il panorama nella realtà. Uccelli africani, un mattino africano, canti di uccelli africani. Sento il profumo del bacon e mi alzo. Porto uno dei miei pigiami comprati per corrispondenza sui cataloghi di Kays. Il pavimento è di legno nodoso, tiepido e scanalato sotto i piedi, e le tendine di perline sono come tanti polpastrelli sulla mia faccia…
Papà è seduto al tavolo che legge il suo Rhodesian Reporter con la camicia kaki a maniche corte. «Il risveglio del Kraken», dice. Lo dice sempre al mattino. È in un romanzo di fantascienza di John Wyndham dove c’è un mostro che scioglie le calotte polari e inonda il mondo. Mi siedo. «Buongiorno, papà.» Lui chiude il giornale. «Be’, volevo svegliarti per la tua 28
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prima alba africana, ma Joy ha detto: ‘No, lascia dormire il povero ragazzo finché vuole, ha fatto un volo di dodici ore senza scali’. Quindi ci penseremo domani mattina. Hai fame?» Faccio di sì con la testa – penso di essere effettivamente affamato – e papà inclina la sua verso il portello della cucina: «Joy? Violet? Il giovanotto ha bisogno del suo rancio!» Il portello si apre e compare Joy. «Nathan!» Sapevo di lei, che la mamma chiama «la bambolina di tuo padre» però è lo stesso un colpo vedere papà tenere per mano un’altra donna. Avranno un bambino in giugno, quindi devono aver avuto dei rapporti sessuali. Il bambino sarà mio fratellastro, o sorellastra, ma non ha ancora un nome. Mi chiedo cosa faccia, tutto il giorno. «Dormito bene?» chiede Joy. Ha un accento rhodesiano anche lei, come papà. «Sì. Anche se ho fatto dei sogni assurdi.» «Io faccio sempre dei sogni assurdi dopo un lungo volo. Succo d’arancia, sandwich e bacon per te, Nathan?» Mi piace come pronuncia «succo d’arancia». Mia madre lo detesterebbe. «Sì, grazie.» «Avrà anche bisogno di un caffè», dice papà. «La mamma sostiene che sono troppo piccolo per le bevande con la caffeina», dico io. «Assurdità», dice papà. «Il caffè è l’elisir della vita, e il caffè della Rhodesia è il più puro che esista al mondo. Ne berrai una tazza.» «Succo, sandwich con bacon e caffè in arrivo», annuncia Joy. «Dico a Violet di prepararlo subito.» Il portello si chiude. Violet è la cameriera. Alla mamma capitava spesso di gridare a papà: «Non sono la tua cameriera, Frank!» Papà si accende la pipa, e l’odore del tabacco mi riporta ricordi di quando lui e la mamma erano sposati. Con un angolo della bocca invita: «Raccontami il tuo sogno, giovane». 29
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La testa della gazzella mi distrae, e mi distraggono anche i moschetti del nonno di mio padre, cimeli della Guerra boera, e mi distrae il ventilatore a pale attaccato al soffitto. «La mamma mi ha portato a casa di una signora, una signora del genere lord-e-lady. Non trovavamo la casa e abbiamo domandato a una specie di imbianchino ma non lo sapeva neanche lui dov’era… poi l’abbiamo trovata, era una grande casa come quella della serie tv To the Manor Born. C’era un ragazzo che si chiamava Jonah, che poi si è trasformato in un cane enorme. C’era anche Yehudi Menuhin, e la mamma suonava con lui al piano di sopra», papà fa una specie di risata, «e poi ho visto un mio ritratto, però non avevo gli occhi, e…» In un angolo della stanza vedo una porticina di ferro nera. «C’era anche quella porta, nel sogno.» Papà si guarda intorno. «Succede, nei sogni. Che la real tà si mescoli con le sciocchezze. Prima di addormentarti ieri sera mi stavi chiedendo della stanza dove tengo le armi. Non ti ricordi?» Se dice che gliel’ho chiesto sarà vero. «Mentre sognavo sembrava tutto così reale.» «Lo so che lo sembrava, ma adesso vedi bene che non lo era. Giusto?» Guardo papà, i suoi occhi scuri, le rughe, la pelle abbronzata, le striature grigie nei capelli biondo rossiccio, il naso come il mio. Un orologio a pendolo fa krunk… kronk… krunk… kronk… e da fuori si sente un rumore strombazzante, poco lontano. Guardo mio padre, sperando che sia quello che penso. «Proprio così, bellezza: ieri pomeriggio una mandria ha attraversato il fiume. Andremo a vederli più tardi; prima riempiti lo stomaco.» «Eccoci qui», dice Joy mettendomi davanti un vassoio. «La tua prima colazione africana.» Il mio sandwich ha 30
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un’aria epica, con un triplo strato di bacon, e il ketchup che gocciola fuori. «Questo è il panino di Dio», dico. Ho sentito questa battuta in una sitcom e tutti ridevano. «Ma che ragazzo affascinante!» commenta Joy. «Chissà da chi hai preso…» Papà le passa un braccio intorno alla vita. «Prova il caffè, prima. Farà di te un uomo.» Io sollevo la tazza e guardo dentro. È nero come petrolio, come un buco nello spazio, come la Bibbia. «Violet lo ha macinato di fresco», dice Joy. «Il caffè di Dio», rincara papà. «Bevilo caldo, bellezza.» Una stupida parte di me dice: No, non farlo, non devi berlo. «Tua madre non lo saprà mai. È il nostro piccolo segreto.» La tazza è talmente grande che mi copre il naso come una maschera dell’ossigeno. È così grande che mi copre gli occhi, tutta la testa. Poi, la cosa che c’è dentro, qualunque essa sia, comincia a trangugiarmi.
È passato del tempo, non so bene quanto. Una lama di luce apre un occhio e diventa una lunga fiamma. Bianca come una gelida stella luminosa. Una candela, dentro un candelabro, sul legno graffiato del pavimento. Il candelabro è di argento opaco o peltro o piombo e sopra ci sono dei simboli, o forse sono lettere di una lingua morta. La fiamma non si sposta, è come se il tempo si fosse fermato. Nella penombra ci sono tre volti. Alla mia sinistra lady Grayer, però più giovane, più giovane persino della mamma. Alla mia destra Jonah Grayer, che invece è più vecchio del Jonah in giardino. Credo che siano gemelli. Portano dei mantelli grigi con i cappucci mezzo abbassati: lui ha i capelli corti e lei lunghi, e sono color oro, 31
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invece che neri come prima; e sono inginocchiati come se pregassero, o meditassero. Immobili come statue di cera. Se respirano non si vede. La terza faccia, di fronte a me, è quella di Nathan Bishop. È il riflesso in uno specchio, un alto rettangolo diritto. Indosso ancora la giacca di tweed di Oxfam, e il papillon. Quando provo a muovermi non ci riesco. Neanche un muscolo. Non riesco a girare la testa né a sollevare una mano o a parlare, nemmeno a battere le palpebre. Fa paura da morire, ma non posso neanche emettere un mmmfff come fa la gente che è spaventata e imbavagliata. Sono piuttosto sicuro che questo non sia né l’inferno né il paradiso, però so che non è la Rhodesia. Il cottage di papà è stato una specie di visione. Pregherei perché fosse il Valium che mi fa vedere questa cosa, ma non credo in Dio. A giudicare dall’inclinazione del soffitto e dalle travi mi trovo in un sottotetto. Forse i Grayer sono prigionieri come me? Sembrano personaggi del Villaggio dei dannati. Dove sono Yehudi Menuhin, tutti gli ospiti, la soirée? Dov’è la mia mamma?
La fiamma si anima, e i simboli sul candelabro cambiano, e continuano a cambiare come se il candelabro stesse pensando in fretta e i simboli fossero i suoi pensieri. La testa di Jonah Grayer si sposta. I suoi vestiti frusciano. «Tua madre si scusa», dice, toccandosi la faccia come per verificare che ci sia ancora. «Se ne è dovuta andare.» Provo a chiedere: «Perché? Dove?» ma niente di ciò che mi serve per parlare – mascella, lingua, labbra – funziona. Perché la mamma dovrebbe andare via senza di me? Il me stesso nello specchio mi fissa. Nessuno di noi si può muovere. Norah Grayer flette le dita come se si fosse appena svegliata. Mi hanno iniettato qualcosa? «Ogni volta che ritorno al mio corpo, sembra che 32
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più che tornare a casa sia come entrare nel carapace di un alieno. Un carapace sempre più fragile. Sai cosa c’è? Vorrei liberarmene.» «Fa’ attenzione a quello che desideri», dice Jonah. «Se accadesse qualcosa al tuo corpo originario, la tua anima si dissolverebbe come una zolletta di zucchero e…» «So benissimo cosa succederebbe.» La voce di Norah Grayer adesso è più gelida e gutturale. «La parrucchiera ha fatto una visita inopportuna.» Jonah chiede: «Di quale parrucchiera parli?» «Della nostra ultima ospite. Della tua ‘Zuccherino mio’. È comparsa a una finestra. Poi sulle scale, vicino al suo ritratto, ha cercato di dare una specie di avvertimento al ragazzo.» «La sua immagine residua si è palesata a una finestra, vuoi dire. Succede. La ragazza non c’è più, è come un anello di fumo soffiato anni fa durante una tempesta dalle parti di Rockall. Innocua.» Una falena scura si agita intorno alla fiamma della candela. «Stanno diventando più arditi», dice Norah Grayer. «Verrà il giorno in cui una ‘innocua immagine residua’ saboterà un Open Day.» «Se – se – il nostro teatro della mente venisse ‘sabotato’ e un ospite sfuggisse, per farcelo riportare indietro potremmo sempre ricorrere ai nostri amici, i nostri agenti della sicurezza. È per questo che li paghiamo. Profumatamente.» «Tu sottovaluti la gente normale, Jonah. L’hai sempre fatto.» «Ti costerebbe tanto, Sorella, per una volta dire: ‘Ottimo lavoro, un risultato superbo! Ci hai procurato una tenera anima succulenta con cui pagare le bollette dei prossimi nove anni – bon appetit!’?» «Il tuo cottage africano non avrebbe potuto essere un’ac33
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cozzaglia più fasulla e volgare, Fratello, nemmeno se fosse arrivato Tarzan aggrappato a una liana.» «Non voleva essere reale, doveva solamente corrispondere a quello che immaginava lui. Comunque il ragazzo è mentalmente anormale. Non si è nemmeno accorto che i suoi polmoni hanno smesso di funzionare.» Jonah mi guarda come mi guarda Gaz Ingram. È vero. Non respiro. Il mio corpo spento non ha fatto scattare l’allarme. Non voglio morire. Non voglio morire. «Oh, smettila di piagnucolare, per l’amor di Dio», protesta Jonah. «Non tollero le persone piagnucolose. Tuo padre si vergognerebbe di te. Io non piagnucolavo mai quando avevo la tua età.» «Non piagnucolavi mai?» dice Norah con una risatina nasale. «Quando morì nostra madre…» «Affrontiamo i ricordi più tardi, Sorella. La cena è servita. È calda, confusa, spaventata, macerata nel destrutturatore al punto giusto e pronta per essere sfilettata.» I gemelli Grayer disegnano delle lettere con le mani nell’aria. Sopra la candela, un po’ al di sopra delle loro teste, l’aria lentamente si ispessisce. L’addensamento diventa qualcosa. Qualcosa che è fatto di carnose escrescenze, è grosso come un pugno e pulsa color rosso sangue, rosso vino, rosso sangue, rosso vino, più rapido e più intenso, grande come una testa umana, ma più come un cuore grande come un pallone da calcio, sospeso proprio lì. Gli spuntano delle vene come tentacoli di medusa, che si attorcigliano nell’aria come i rami dell’edera. Stanno venendo da me. Non posso girare la testa e nemmeno chiudere gli occhi. Alcune delle dita-vene mi si infilano nella bocca, altre nelle orecchie, due nelle narici. Assisto a tutto guardando il mio 34
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riflesso nello specchio. Griderei, se potessi, ma non posso. Poi in mezzo alla fronte mi si spalanca un punto doloroso. Nello specchio, lì c’è qualcosa di nero. Qualcosa… …stilla fuori e rimane sospeso a pochi centimetri dai miei occhi. Guarda: una limpida nuvola di stelle, così piccola da stare tra due mani unite a coppa. La mia anima. Guarda. Guarda. Bella come, come… Bellissima. I gemelli Grayer si protendono verso di me, le facce luminose come Natale, e so di che cosa hanno fame. Sporgono le labbra e succhiano. La nuvola rotonda si allunga, elastica, fino a formare due nuvole più piccole… che si separano. Metà della mia anima finisce nella bocca di Jonah, l’altra metà in quella di Norah. Chiudono gli occhi come ha fatto la mamma quando siamo andati a sentire Vladimir Ashkenazy alla Royal Albert Hall. Beatitudine. Beatitudine. Dentro la testa io ululo e il mio ululato echeggia all’infinito ma niente dura davvero per sempre… …Il grosso cuore pulsante non c’è più, e i Grayer sono di nuovo in ginocchio dov’erano prima. Il tempo ha rallentato fino a fermarsi. La fiamma ha smesso di tremolare. La falena scura è stecchita a due centimetri da me. Un biancore freddo e stellare. Il Nathan allo specchio non c’è più, e se lui non c’è più, io sono…
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