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La bella verità
C
di Luigi Borgo
ome s’impara a sciare? C’è un verso di Dante che lo spiega e spiegandocelo ci dice come s’impara a giocare a calcio, ad andare forte in bici, a nuotare, ma anche come s’impara la matematica o un qualsiasi altro sapere; come s’impara a fare il giornalista o un qualsiasi altro mestiere. Prima di citare il verso, occorre fare una premessa, attraverso la quale quel verso, che nella lettura della Divina Commedia ha un suo significato preciso e diverso da quello che noi ora gli stiamo per attribuire, possa rispondere alla nostra domanda: “come s’impara a sciare? Ovvero come s’impara a imparare?” Dante considerava il numero 3 il numero perfetto, perché richiamava la Trinità Cristiana. Sul numero 3 egli centrò tutta la struttura e la simbologia della sua opera. La Divina Commedia si compone di 100 canti suddivisi in 3 cantiche: Inferno, Purgatorio, Paradiso, con un proemio iniziale e poi 33 canti per ciascuna delle 3 parti. Ogni canto è scritto in terzine. Dante ha 3 guide: Virgilio, Beatrice, San Bernardo. Dante vede Beatrice per la prima volta quando lei aveva 9 anni, ovvero 3 volte 3; si conoscono quando lui ne aveva 18, che è sempre un multiplo di 3. Il tre è il numero più importante della Divina Commedia per queste e per tante altre ragioni. Ebbene nei 14.233 versi del Poema, ce ne è uno solo che è il terzo verso del terzo canto della terza cantica. Nella poesia dantesca non può essere un verso qualsiasi. Infatti nel verso precedente Dante scrive la locuzione “bella verità” proprio per metterci in guardia, per dirci: attenzione, lettore, alla fine del mio poema (canto 33 della terza cantica) conoscerai la Verità della Trinità, che è Dio, qui, però, ti sto per rivelare la Bella Verità che appartiene agli uomini. Nel terzo verso, del terzo canto, della terza cantica leggiamo: “provando e riprovando”. Eccola, la “bella verità”, l’essenza dell’uomo, come la Trinità è l’essenza della Divinità; eccola, la formula di come si realizza il miglioramento degli uomini. Che non nascono colti, capaci e forti, ma predisposti alla conoscenza, alla competenza, alla forza nel loro essere, per natura, “esseri allenanti”. La “bella verità” dantesca ci dice che l’uomo, attraverso l’esercizio ripetuto, “provando e riprovando”, diventa colto, diventa capace nel lavoro, diventa forte nello sport.
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la lettera
di Gaspare Pozza
C’era molta neve negli anni ’50/’60 Una riflessione a margine dell’editoriale pubblicato sul numero di ottobre, intitolato “Requiem per una pista”
C
aro Luigi C’era molta neve negli anni ’50 – ‘60. Cominciava presto e ricordo nevicate al giorno dei Morti. In cimitero a Recoaro, davanti alla tomba della nonna a volte incominciava a volare una neve granulosa, minuta, mossa da un vento gelido e pungente che in breve tempo copriva le tombe di bianco. Il posto peggiore avevano scelto per costruirlo ‘sto cimitero: lo sbocco di una valle perpendicolare in un nascosto declivio con un frontale a parete del colle di Santa Giuliana di cui non scorgevi
la cima e tanto vicino da non lasciare vedere nemmeno il tramontare del sole. E sì che lor signori predicavano la rinascita di una nuova vita piena di luce, ma lì, ora come allora, l’ombra perenne la faceva da padrone. Un non luogo: via dagli sguardi, via dai ricordi, via dalla vita e via dalla luce. Un paese che si nasconde e non vuol ricordare è un paese votato ad essere senza memoria e senza futuro. E’ così che la nostra comunità onora i propri morti. Mia madre non voleva essere sepolta lì e ricordava sempre il suo piccolo cimitero al sole dei colli padovani.
Beh! Imparai presto l’uso degli sci. A otto anni il primo paio di sci. E chi lo avrebbe mai detto, erano un paio di sci di Gino Soldà. “Sei già molto alto per la tua età” - mi disse – “anche se sono molto lunghi, vedrai che riuscirai a dominarli, tutto sta in te. Vedrai che all’inizio sarà come avere un paio di nuovi scarponi, ma con un po’ di allenamento, poi…, vai, vai te li regalo”. Un groppo simultaneo alla gola e allo stomaco mi assalì. Non riuscivo a dirgli grazie, ma lui capì tutto - “Vai, vai e salutami l’Ampelio”. A quel tempo gli sci erano veramente più lunghi di quelli di oggi e costruiti con
un unico legno massiccio, perciò anche pesanti. E i miei avevano tutto: le punte e le lamine di ferro, il colore azzurro e gli attacchi Kandahar. Toni Stecca, mio santolo scarparo, mi prese le misure dei piedi e mi costruì gli scarponi, quelli con al tacco la presa per l’aggancio degli attacchi e il puntale. La neve venne ben presto. Ci mancava proprio che non nevicasse. Troppo li avevo amati, toccati, lustrati e accarezzati per tutta l’estate e l’autunno. Ora ero attrezzato, mia mamma mi aveva fatto ai ferri un maglione di lana doppia, calzettoni grossi, un berretto e un paio di guanti sempre di lana. La giacca a vento non si sapeva cosa fosse, forse non l’avevano ancora inventata. Boh! E poi, io avevo gli sci di Gino Soldà, e so quanto invidiato ero dagli amici, quanto io orgoglioso. Il mio campo di allenamento era la discesa che dalle Scuole Elementari mi portava davanti a casa. Prima su a scaletta e poi giù. Così non so per quante volte, ogni po-
7 meno di 5. Io quel giorno arrivai a casa con alle spalle una sola discesa e quando era ormai già buio. Ma ce l’avevo fatta. La neve che veniva e si accumulava era tanta. La misuravo di continuo e spesso mi arrivava alle ascelle. Altissima mah! Ero sì un po’ alto ma ero un ragazzo, forse ora dovrei ridiscutere il mio metodo empirico di misurazione, ma a me pareva altissima e la verità è quella dei miei ricordi, punto.
meriggio e quante cadute; ma lasciamo perdere. Avevo lavorato tutta l’estate per 300 lire la settimana, avevo risparmiato e avevo i soldi per la seggiovia e il debutto vero lo feci sulla pista che partiva dall’arrivo della Seggiovia e portava in piazza a Recoaro: dosso dei Cessi, salto e vajo dei Pré, casetta dei nani, pontaron “la Santi”, traverson dei Pintari, poi dai pomari giù in picchiata lungo i Pralonghi, salto della strada e rosa (roggia) de Marzotto fino alla partenza della seggiovia per un altro giro. 14 minuti di salita e c’era chi, Tito Dal Lago, ne metteva 3 minuti e mezzo di discesa. Tutti gli altri non
Ora, qualcosa sul tuo articolo “Requiem per una pista”. Non credo che siano soltanto le “scartofie” a causare la chiusura degli impianti sciistici. Sì, anche quelle concorrono e hanno il loro pesantissimo lato negativo, ma questa è l’Italia. Anzi siamo noi italiani che abbiamo bisogno di migliaia di normative costruite per aggirare le leggi al fine di coprirci sempre le spalle. E’ la politica che noi vogliamo. In essa noi ci siamo rispecchiati per una vita e ora qualche raro italiano si rivede vecchio, immerso in un sistema democratico che mostra l’incapacità di una visone globale di futu-
ro. Un’Italia che non sa dove sbattere se non nel produrre leggi e regolamenti a bizzeffe solo a misura dei vari clientelismi. Norme legali che si sovrappongono e si contraddicono, questa è la prassi. I danni causati sull’eticità sociale di un popolo sono gravissimi: persi i valori fondamentali di una democrazia quali la libertà, la giustizia, la solidarietà, l’uguaglianza e la fraternità. Concetti di valori vecchi e insopportabili anche al solo sentirli enunciare. Di qui disaffezione, individualismo e, come si dice ora, “populismo” nella ricerca di un nemico su cui riversare tutte le responsabilità. L’assenza endemica di neve credo non c’entri con la soverchiante e inefficiente burocrazia. Qui le cause sono ben individuate a livello mondiale e scientifico: il cambio irreversibile del surriscaldamento del pianeta è già da molto tempo noto ed in atto: non nevicherà più o sempre meno. Se ne stanno accorgendo tutti o solo gli sciatori? Il “chi se ne frega, non è vero e non è un problema”, come risposta di leader mondiali di peso, è bruciante. Una presa di posizione che mi ricorda vecchie politiche egoistiche del secolo scorso con esiti nefasti di lutti e guerre. Ma che mondo lasciamo ai
nostri figli e nipoti? Inevitabile sia un mondo basato sulla fame di terra (la necessità di sfamare numeri sempre più crescenti di persone) che produrrà un ambiente naturale sempre più compromesso (urbanizzazione, inquinamento, mutamenti climatici ed effetti di gas serra, siccità, alluvioni, povertà diffusa, fuga di popolazioni verso i paesi più ricchi, rischi di guerre più aggressive e non solo localizzate). Non entro nel merito degli errori di scelte o non scelte fatte dalle nostre ultime Amministrazioni Comunali sulla gestione di Recoaro Mille perché le esperienze passate non ha senso sviscerarle in un paese senza memoria e senza futuro. Dai dati demografici è un paese di tanti vecchi, senza prospettive; una morte di Recoaro direi teologica dovuta al suo peccato originale: un non paese di due secoli di vita: creato da capitali esterni per lo sfruttamento dell’acqua nel 1820 (dopo la costruzione della carrozzabile Valdagno-Recoaro) e che dopo aver bruciato tutto il possibile ora sembra in fase di annegamento, aspettando l’anniversario del 2020.
Un affettuoso e sincero saluto Gaspare
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chiampo
Auguri speciali
di Elena Calvetti
Lo Sci Club Chiampo compie 40 anni e a fargli gli auguri è arrivato sua maestà Alberto Tomba, la leggenda dello sci mondiale
M
ercoledì 15 novembre a Chiampo si respirava un’aria di grande attesa e gioia. Più di 800 persone riunite al Palastport Mondelange, in occasione del 40° anniversario dello Sci Club locale, aspettavano impazienti l’arrivo dell’ospite, il campionissimo dello sci, Alberto Tomba. L’evento, organizzato dal comune di Chiampo assieme allo Sci Club cittadino, sempre attivo nel sostenere la cultura e la pratica dello sci con i suoi numerosi iscritti di tutte le età, ha richiamato numerosi appassionati, sciatori e non, che si sono presentati al Palasport per accogliere la leggenda vivente della neve e per festeggiare insieme l’importante traguardo dei 4 decenni dello Sci Club. Alberto ha conquistato tutti i partecipanti con la sua
energia e simpatia; ha ricordato le sue vittorie più belle, con il supporto di un filmato, in un emozionante salto indietro nel tempo, facendo rivivere quelle immagini che incollarono allo schermo milioni di italiani. Nel corso della serata sono intervenuti anche Matteo Macilotti, sindaco di Chiampo, il presidente e fondatore dello Sci Club, Francesco Zecchin, il figlio Luca, che, assieme al nostro direttore, Luigi Borgo, maestro di sci ed editorialista di Sciare Magazine, hanno introdotto l’evento, dialogando con Alberto Tomba. È stato un momento ricco non solo di emozioni, ma anche di riflessioni sul movimento sciistico nazionale. Alberto Tomba ha raccontato i suoi anni nel grande sci, dai suoi esordi fino ai trionfi olimpici, alle vittorie mondiali. Tra un ricordo e l’altro,
Da sinistra Matteo Macilotti, Alberto Tomba, Luigi Borgo, Luca Zecchin
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I Dirigenti dello Sci Club Chiampo
Tomba ha trovato lo spazio anche per rivolgersi alle nuove generazioni, lanciando un importante messaggio: fare tutto con amore e con passione, senza farsi sovrastare dalla fatica fisica o mentale. Si è vissuta una serata indimenticabile che ha lasciato a tutti i partecipanti una grande voglia di sciare, come ci racconta Luca Zecchin, promotore con i dirigenti dello Sci Club Chiampo dell’evento. Quindi un successone… È stato tutto fantastico. Ho visto 800 persone entusiaste, Alberto è un personaggio unico. Ancora oggi sa trasmettere quelle emozioni che solo la sua sciata sapeva esprimere. È questo il valore dei grandissimi campioni: sanno sempre farci provare ammirazione e gioia e tanta voglia di sport.
Alberto Rumignani di Edynea e Carlo Meggiolaro di Autovega con il secondo premio del consorso fotografico Katia Gecchele
“Effetto Tomba!” Esatto, ma anche “affetto Tomba!” Alberto ha dato tantissimo, ma ha anche ricevuto dal pubblico di Chiampo un abbraccio pieno di affetto, riconoscenza, amicizia. Quando, al termine dei vari interventi, è sceso tra il pubblico, sembrava di esser ritornati sul parterre di una delle gare che ha vinto tra sorrisi, urla di gioia, abbracci, strette di mano, foto. Lo Sci Club Chiampo ogni anno apre la stagione invernale con un incontro sul tema dello sci Abbiamo questa tradizione: una volta all’anno si parla di sci prima di iniziare a sciare. Lo sci è uno sport ricco di contenuti. È importante approfondirli. Poi si scia meglio. Abbiamo avuto tanti ospiti importanti come il direttore di Sciare Magazine, Marco Di Marco, ma quando celebriamo
un decennio, chiamiamo un ospite speciale. Per i 10 anni del Club venne Gustavo Thoni; per il ventesimo Peter Runggaldier; per il trentesimo Morena Galizio, Fabrizio Tescari, Bruno Alberti, l’indimenticabile Erwin Stricker e Giulietto Corradi. E per i 40 Alberto Tomba… Il nostro Sci Club è cresciuto negli anni in cui Alberto vinceva. Sono stati anni magici, di grande euforia. Da Chiampo partivano pullman e pullman strapieni di ragazzini che andavano a sciare. Il mito era Tomba e festeggiare con lui i nostri 40 anni è stata la scelta migliore, infatti abbiamo avuto una partecipazione straordinaria: ho rivisto molti di quei ragazzini, oggi adulti, presenti con i loro figli alla serata. E poi…
10 E poi? Beh, nel 2013 c’ero anch’io a Valdagno, quando è stato ospite Alberto. Purtroppo non sono riuscito a entrare nel palazzo e ad assistere all’incontro perché era tutto pieno. Però ne percepii l’emozione che c’era nell’aria. Da allora mi sono ripromesso che avrei fatto di tutto per portare Alberto Tomba anche a Chiampo. Con il mio amico Luigi Borgo ne ho parlato e poi, grazie a Eugenio Menato, che è amico sia di Alberto sia di Luigi, sono riuscito a organizzare la serata. Un evento così ha le sue complessità Assolutamente sì. Il Comune con il sindaco Macilotti in primis ci ha dato un grande supporto. Il palazzetto è stato predisposto con palco e sedie e luci dal Comune. Poi un grande lavoro è stato sostenuto dai dirigenti del Club e da alcuni soci. Quindi ci sono stati i nostri sponsor, che hanno creduto all’iniziativa: Sicit 2000, che è sempre molto sensibile ai progetti culturali e sportivi della nostra città; Edynea, che è un nuovo brand del mondo degli integratori energetici naturali; Autovega, da sempre sostenitore dello
Roberto Costa, primo premio del concorso fotografico
Sci Club Chiampo; poi Zecchin Sport e Sportivissimo, come media partners. Raccontaci po’ la storia dello Sci Club… A fondarlo il 17 novembre 1977 è stato mio padre, Francesco Zecchin, che ha la tessera numero 1. Al primo anno eravamo già in 179 iscritti. Abbiamo iniziato con le gite sulla neve e con le prime settimane bianche, storica quella fatta a Bormio, dove abbiamo dormito al rifugio Rododendro, 2300 metri, tutti assieme. Esperienza indimenticabile. Da allora abbiamo continuato a fare gite e a organizzare corsi di sci sia per adulti (le 3 domeniche di dicembre a Pampeago) e per bambini. Sono circa 180 i bambini che ogni anno portiamo a sciare, di cui70/80 principianti, offrendo loro, trasporto, attrezzatura, pasto, lezione di sci. Negli anni ’90 abbiamo ricevuto l’encomio dalla Fisi per numero d’iscritti affiliati alla Federazione. E poi, come ti ho detto, ci impegniamo a diffondere la cultura dello sci con incontri, conferenze, video. Da anni promuoviamo un concorso fotografico, le cui miglior foto vanno a realizzare il nostro calendario, che è sempre molto apprezzato.
Roberto Bortoluzzi e Silvano Panozzo, presidenti FISI Veneto e Vicenza
Zecchin Sport è un punto di riferimento per lo sci nell’Alto Vicentino Io e la mia famiglia amiamo lo sci da sempre. Il nostro lavoro è la nostra passione. Tutto quello che facciamo per lo sci, è parte autentica della nostra vita. Non diamo mai un consiglio per vendere un certo attrezzo, ma perché siamo noi i primi a credere sulla sua validità. In questi anni difficili per lo sci, la passione per la montagna e per il nostro lavoro ci ha fatto andare avanti comunque, inventando, anno dopo anno, sempre qualcosa di nuovo e di buono perché si continui ad andare a sciare, nella certezza che lo sci è lo sport più bello del mondo: che una domenica trascorsa a sciare con la famiglia o con gli amici sappia donare quella felicità che nessun altro sport ti può dare. E poi adesso è arrivata anche la neve La neve di fine novembre è un dono meraviglioso. Quest’anno abbiamo iniziato alla grande, si scia benissimo ovunque. Le 3 domeniche del corso a Pampeago, appena concluse, sono state magiche. 104 appassionati che sciavano come Tomba!!!!
Luca e Francesco Zecchin
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La nuova via sul Sassolongo di Campetto
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’hanno chiamata “Il seme della follia” nome suggestivo ed efficace per descrivere forse lo stato d’animo di chi si disponga ad una simile impresa. Aprire una nuova via alla sinistra dello spigolo Boschetti-Zaltron su quello spalto roccioso non molto invitante
di Bepi Magrin
anzi dall’aspetto piuttosto repulsivo. La stessa idea in realtà, l’aveva avuta anche chi scrive nel lontano 1976 e, il 31 dicembre (ultimo dell’anno) aveva trasportato alla base della parete una gran quantità di materiali, prevedendo il gelido bivacco in parete, e salendo perciò col carico tra
la neve e gli intrichi selvaggi della vegetazione. Tra i materiali si erano trasportati su, alcuni chiodi a pressione (forse gli unici mai avuti) per disporsi a fare con circa 240 martellate (allora non c’erano i trapani a batteria) ogni piccolo foro che accogliesse il chiodo del diametro di mezzo cm. che prometteva – senza troppa convinzione - qualche sicurezza. Giunse per conto suo, anche il compagno, col quale da mesi si vagheggiava l’impresa: 1^ salita , 1^ invernale ecc, insomma scampoli di gloria alpinistica qualora si fosse riusciti. Ma il compagno giunse senza il sacco a pelo e soprattutto giunse – a dispetto della grande fama di climber - sprovvisto della necessaria voglia di impegnarsi e di provare. In buona sostanza non aveva con sé, nessun seme di pazzia: corredo indispensabile per imbarcarsi in terreni verticali vergini ed affrontare simili avventure. Il naufragio era giocoforza, e l’avventura finì infatti una decina di metri più in alto, là dove, fuggito il compagno, piantai l’ultimo chiodo e mestamente ridiscesi. Dovevo quindi portar giù tutto il materiale tecnico e di bivacco, ciò che mi costò due faticosi viaggi fino alla sottostante strada, perché, diviso in due tutto l’ambaaradam, tra neve e bosco cespuglioso fitto, mi ficcai nella oscurità della notte, imprecando come si può immaginare al mondo intero. Giunto la seconda volta alla strada, caricai l’intero pesantissimo fardello: certo oltre la mezza quintalata, e discesi a piedi
nella gelida notte verso Recoaro Mille, e quindi giù fino a San Quirico, dove finalmente qualcuno venne a prendermi. Così passai l’ultimo giorno di quell’anno, sperando che fosse la conclusione di una fase nera, piuttosto che l’inizio per niente allettante di un anno nuovo. Ora, ed è passato quasi mezzo secolo, ecco che il seme della pazzia è di nuovo germogliato e il forte e preparato alpinista-scalatore che risponde al nome di Moreno Camposilvan, con amici all’altezza della situazione, arriva lì e …toh… ritrova i vecchi chiodi. Mezzi più moderni e molto più efficaci, supportano stavolta l’impresa che comunque richiederà una serie di tentativi. Certo, quanto a bravura, forza, determinazione e coraggio, questi giovani ne hanno buona provvista e… salgono, salgono, lungo una linea che ripropone la classica goccia cadente dei lontani anni ’60. Superano decisi, ostacoli impressionanti: 7° grado e oltre e guadagnando metro su metro, giungono su fino ai boschetti sommitali. Bravi, Bravissimi! Anche perché, nella parte finale, gli ultimi 70/80 metri sono stati vinti durante una giornata che peggio non poteva essere: pioggia, freddo, cielo tetro, umidità, vento forte e spruzzi di acqua e neve… un tempo da lupi come si vede raramente. Dunque, Onore ai primi salitori, alla loro volontà e a quel “seme di pazzia” che li sostiene e li ha condotti a salire fino a vincere su una parete “quasi” impossibile. Chapeau!
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recoaro
di Bepi Magrin
E
cco una di quelle imprese che, pur immaginate in tempi lontani, hanno dovuto attendere i giorni nostri per realizzarsi. Salire in modo direttissimo lo spigolo della guglia Cesàreo avrebbe fatto la gioia di Comici (grande esteta dell’arrampicata), ma anche dei nostri Soldà, Baldi, Casara, Meneghello ecc. Essi non mancavano di senso estetico ma a quei tempi, le pareti si salivano sfruttandone i possibili punti deboli, senza trapani, senza chiodi a pressione, con corde di canapa, senza sicurezze che non fossero quella del tutto aleatoria della tenuta “a spalla” della corda: tecnica ancora in uso quando chi scrive apriva le sue prime nuove vie di roccia (primi anni ’70) . Vennero dopo le corde dinamiche, le imbragature, il mezzo barcaiolo, e via via i dispositivi tecnici e di equipaggiamento che, se ancora non azzerano il rischio della scalata, li riducono però ai minimi termini… ciò che stravolge anche le filosofie, l’etica e lo spirito del
Guglia Cesàreo: Prima salita integrale dello spigolo nord
16 berg-vagabunden. Ecco quindi gli spit, i cliff hanger, i rurps, i nuts, i copper head e chi più ne ha più ne metta per fare della scalata una “cosa altra” rispetto ai tempi in cui anche Berta filava il suo tiro di corda…. Occorrono pur sempre tuttavia, doti atletiche, occorre forza, occhio, esperienza e determinazione. Chi ne disponga potrà accingersi a realizzare i sogni proibiti dei nostri vecchi e
anche di quelli della mia generazione, prossima anch’essa alla vecchiaia. Lo hanno fatto - onore al merito - il fortissimo Gianni Bisson, maestro delle guide alpine: un “ercolino sempreinpiedi” dalle mille risorse atletiche e sportive che se solo avesse tempo e compagni disponibili, coprirebbe di nuovi tracciati ogni più repulsivo lastrone roccioso delle nostre piccole, ma non facili montagne. Con lui Claudio Tessarolo, bassanese, alpinista e conoscitore delle altitudini himalajane, ex capo
redattore del Giornale di Vicenza scopritosi scalatore di rocce in tempi più recenti (prima della pensione bisognava sempre riempire le pagine del quotidiano) e valido supporto per il climber recoarese. Ho ancora in mente quando Gianni appena 16enne apriva col sottoscritto e altro compagno la “Zharatustra Crags” breve e difficile itinerario a settentrione della guglia Valdagno… fu forse la sua prima via nuova. Chi avrebbe detto che Gianni sarebbe andato così lontano e…così in alto! Gianni è oggi certamente
il più forte scalatore che muova sulle pareti dei nostri apicchi, anche se già si intravedono validi emuli che come quelli del “seme di pazzia” ne calcano da vicino le tracce. Le recenti realizzazioni, con itinerari prestigiosi e altamente difficili, danno riprova se ce ne fosse bisogno, che l’alpinismo di croda conosce fasi alterne di stasi e di azione e, a dispetto dell’ignavia della informazione di solito impegnata con Grandi fratelli e simili, la passione non è morta anzi trova ancora modo di reinventarsi e rinascere.
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Il Re I delle Rocce di Dorino Stocchero
Il camoscio è il più elegante mammifero che si possa incontrare nelle praterie della catena alpina
l camoscio è il più elegante mammifero che si possa incontrare nelle praterie della catena alpina. Esso è un agile abitatore delle zone più ripide e dirupate, infaticabile scalatore spericolato, dal cuore d’acciaio fin oltre 400 grammi di peso (quello umano è di 280 grammi) in grado di tollerare senza alcun danno anche 200 battiti cardiaci al minuto, mentre il sangue contiene 12-13 milioni di globuli rossi per millimetro contro i 4-5 milioni di quello umano. È dotato di polmoni molto sviluppati. I tendini delle zampe sono robustissimi e le ossa degli arti ben spesse, capaci di sopportare le violente sollecitazione che la vita d’alta quota comporta (può raggiungere 1000 metri di dislivello in 10 minuti). Le rocce sono il suo habitat naturale e i camosci vi si inerpicano facilmente per sfuggire ai nemici. Il camoscio alpino costituisce senza dubbio la presenza più significativa e affascinante della fauna di alta montagna. Diffuso con una decina di sottospecie geograficamente isolate sui principali gruppi montuosi d’Europa e dell’Asia minore, dai Pirenei ai Carpazi al Caucaso. Questo splendido ungulato popola, con la sua razza, l’intero arco
alpino. Più a Sud, isolata nel cuore dell’Appennino sui monti del Parco Nazionale d’Abruzzo, vive invece una specie diversa di camoscio che presenta alcune particolarità anatomiche e comportamentali che indurrebbe a considerarla una specie distinta da quella alpina. In Italia il camoscio alpino (rupicapra-rupicapra) è presente in tutte le regioni alpine, normalmente a un’altitudine superiore ai 1500 metri, ma si conoscono località in cui vive molto più in basso. Dalle Alpi Marittime al Tarvisiano, secondo recenti stime la consistenza totale è di almeno 120.000 capi. In Provincia di Vicenza sono stimati circa 3000 esemplari. La riduzione dell’agricoltura e della zootecnia, con l’abbandono e la riduzione di numerosi alpeggi e di vaste aree di media e bassa montagna, ha indubbiamente favorito la specie, che, piuttosto significativamente ha dimostrato di sapersi adattare assai bene. L’estensione dell’area annualmente frequentata dalle femmine adulte oscilla
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tra alcune decine di ettari, mentre i maschi sono mobili, qualche centinaio di ettari. Le camosce con i piccoli e i maschi immaturi tendono durante i mesi estivi a frequentare praterie d’altitudine, per poi spostarsi più in basso nelle aree di svernamento, fino a coprire fino a 2 chilometri di distanza. I giovani maschi sessualmente maturi, invece, tendono a radunarsi in gruppi unisessuali di coetanei dalla primavera fino all’autunno, mentre alcuni maschi adulti ese-
guono spostamenti più o meno rilevanti, in genere per qualche chilometro, per più anni di seguito,fino a stabilirsi in un’area al termine del periodo d’erratismo. Infatti sono proprio questi maschi nomadi che garantiscono il mescolamento genetico delle popolazioni a tutto beneficio del vigore e della salute di questa specie. In novembre, durante il periodo degli amori, i maschi combattono tra loro per assicurarsi il primato nella gerarchia interna del branco. Se tali combattimenti
hanno luogo senza disturbi esterni e si risolvono in breve tempo, ne deriva un risparmio energetico che sarà di aiuto per superare l’inverno incombente. I camosci alpini con il loro bellissimo mantello invernale nero o marrone molto scuro, dalle bianche macchie frontali, golari e anali, sono uno degli abitanti più emblematici delle nostre Alpi, forse proprio l’entità zoologica più rappresentativa! Con l’augurio che rimanga tale il più a lungo possibile… tanto a lungo almeno quanto l’esistenza delle stesse montagne in cui vive. E’ specie cacciabile, la durata della sua vita è di circa 15 anni.
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equitazione
Sport, passione, divertimento Horse Club Boschetto, Pony Club Boschetto di Giovanna Ferrari
È
qui, al maneggio, che ogni allievo dell’Horse Club Boschetto inizia la propria avventura. Qualcuno e’ molto piccolo, qualcun’altro un po’ più grandicello, se non già
adulto. Ognuno con i propri obiettivi, talvolta ben definiti come chi vorrebbe che l’andare a cavallo diventasse un lavoro, o chi sceglie l’equitazione per poter gareggiare oppure, solamente per fare attivi-
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tà fisica all’aria aperta. Ma c’è anche chi chiede solo di rilassarsi, di stare a contatto con gli animali o, semplicemente, di conoscere LUI, l’amico cavallo. Già dalle prime esperienze si inizia a costruire la relazione con l’animale, un dialogo basato sul silenzio, dove ogni gesto assume un grande significato e solo l’attesa donerà delle risposte. E’ stupefacente la velocità con la quale un bambino di tre anni possa diventare amico di un piccolissimo pony. Sarà il gioco, fondato sul rispetto e sulle regole, la chiave del successo del loro rapporto. Anche per il più serio dei cavalli non deve mancare il divertimento, oltre che il rispetto. Una volta appresa qualche nozione base sul linguaggio del corpo, si può iniziare a lavorare sull’equilibrio, sulla coordinazione motoria e sulla sensibilità della mano. Il gioco assume, per chi non è più bambino, la tecnica d’esercizio ma, la relazione che si instaurerà tra cavallo e cavaliere, permetterà a quest’ultimo di avere un compagno disponi-
bile e fidato. Qualcuno poi decide che questo piccolo mondo, ricco di natura, animali e persone, deve fare parte del proprio mondo. C’è chi sceglie un cavallo per sempre, c’è chi vuole saltare più alto, chi, dopo un allenamento, si rilassa con una passeggiata. E poi c’è chi affina, giorno dopo giorno, quel linguaggio, inizialmente sconosciuto, che diventa poi fine ricerca dell’impercettibile, per far si che due corpi, completamente diversi e per struttura addirittura opposti, si fondino assieme in un unico movimento. Ed è così che, senza rendersene conto, dopo che la primavera è diventata estate e il caldo torrido ha lasciato il posto al freddo inverno, si fa il resoconto dell’anno passato. Come sempre si chiude l’anno con grandi soddisfazioni e risultati, ognuno per ciò che ha perseguito, per tutto ciò che si è ricercato. Le fatiche lasciano spazio ai bei ricordi, perché chi va a cavallo lo sa, la parola d’ordine è: divertirsi!
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H
o sempre sentito parlare dell’aurora boreale, quel fenomeno atmosferico che colora il cielo del nord, e la curiosità di vedere dal vivo e di fotografare quelle fasce colorate di energia nel cielo è diventata, di anno in anno, sempre più forte... A luglio, in occasione del mio quarantasettesimo compleanno, mia mamma, sentendomi sempre dire che mi sarebbe piaciuto andare da qualche parte a fotografare l’aurora boreale, mi ha regalato un biglietto aereo per Tromsø, Norvegia. Il mio sogno si stava avverando. Finalmente avrei avuto la possibilità di fotografare il grande incanto del nord, la famosa aurora boreale, uno dei fenomeni naturali più affascianti della nostra Terra. Con mio fratello e un amico, si parte il 2 ottobre scorso. Il volo è da Milano Malpensa diretto a Francoforte. Poi, da lì, si decolla per Oslo. Con un terzo volo si arriva a Tromsø ... Abbiamo preso ben tre aerei per arrivare a destinazione. Una volta a Tromsø abbiamo preso una macchina a noleggio, per poter spostarci in autonomia, e ci siamo diretti in hotel. La stessa sera vagabondiamo per la città nella speranza che l’aurora si facesse vedere, ma niente, il cielo era coperto, così torniamo in albergo stanchi del lungo viaggio e ce ne andiamo a dormire... La mattina sveglia presto e dopo la colazione partiamo alla ricerca di un posto lontano dalla città, dove ci fosse meno inquinamento luminoso. Scegliamo di dirigerci a nord di Tromsø,
percorrendo parecchi chilometri in scenari mozzafiato, tra dolci colline e fiordi straordinari. I colori sono autunnali e magici. Scesa la sera, prepariamo le nostre macchine fotografiche sui cavalletti in attesa della “nostra” aurora, e verso le 21.00 la vediamo apparire in tutta la sua bellezza. Mai avrei pensato di provare un’emozione così forte, così intensa, così unica. Mi sono sentito perfino imbarazzato nell’apprezzare tanta bellezza... Iniziamo a fare i primi scatti. L’aurora si manifestava sempre più intensa e sempre più maestosa, fluttuando nel cielo con combinazioni cromatiche mai viste, verdi, gialle, viola, blu.... Assoluta magia, assoluta bellezza. Tutto era meraviglia e gioia, emozione allo stato puro... Siamo stati davvero fortunati perché ogni sera uscivamo alla ricerca di posti nuovi e ogni sera l’aurora era presente a farsi ammirare con danze sempre diverse e sfumature sempre più belle... Auguro a chiunque di poter provare questa emozione e a vedere personalmente queste meraviglie che ci sono donate...
grandi viaggi
I colori del cielo del nord foto e testo di Luca Scortegagna
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sportart
i colori del Nord
photo: Luca Scortegagna
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bici
Su una ruota Sportivissimo ha incontrato Simone Temperato, il ciclista acrobata vicentino che ha scalato con la sua bicicletta le più dure e famose salite alpine e dolomitiche pedalando in equilibrio su una sola ruota
C
ome un vero artista, Simone Temperato ha interpretato in maniera un po’ bizzarra ma allo stesso tempo intrigante l’andare in bicicletta, confrontandosi e mettendo in dubbio, in alcune occasioni, anche le leggi della fisica. In salita o in discesa per lui non cambia poi così tanto, l’importante e pedalare con una sola ruota, sì perché la sua specialità, alquanto singolare, è quella di affrontare in costante equilibrio le salite o le discese più famose e più difficili in Italia e non solo. Più di 500 le ascese fatte in questo modo, salite che hanno fatto la storia del ciclismo, dalla salita dello Stelvio, al Gavia, al Rombo, al Fedaia e Zoncolan e senza farsi mancare il Mortirolo e Punta Veleno. Lui è Simone Temperato, noto agli appassionati delle 2 ruote come il Magico Tempe, 43 anni di Bassano del Grappa, è uno che del ciclismo estremo ha fatto una passione, una passione che lo ha portato ad esibirsi ad eventi e manifestazioni di livello nazionale ed internazionale su salite come l’Alpe d’Huez al Tour de France e in molte salite al Giro d’Italia. Ma vediamo di conoscere meglio questo singolare personaggio.
Quand’è nata la tua passione per la bicicletta e a quanti anni la prima impennata? Fin da bambino c’è sempre stata una grande passione per la bicicletta, sono sempre stato attirato per le acrobazie per l’uso della bici non del tutto “normale”. Quando avevo 4 anni mi divertivo ad alzare la ruota del triciclo salendo con i piedi sulle ruote posteriori e aiutandomi con il manubrio alzavo la ruota anteriore muovendo prima il piede dx poi quello sx. Quando avevo 8 anni con la bici
da cross ho iniziato ad impennare lungo la via dove abitavo, mi divertivo così tanto pedalare con una sola ruota che ben presto mi accorsi che per me non faceva molta differenza dal pedalare normale. A 10 anni mi comprai una BMX mentre l’anno successivo è iniziato il mio lungo percorso sportivo con la bici trial o BMT, uno sport che mi ha dato moltissimo e che ho praticato per ben 25 anni. Da questo anno ho iniziato nuovamente ad allenarmi con la bici da trial ma solo come
preparazione invernale, come si suol dire, il primo amore non si scorda mai! Nel tuo palmares vanti un 16° posto al Campionato del MONDO di biketrial a Zuoz e un titolo di campione italiano di biketrial 2003. Hai dei ricordi particolari legati a queste esperienze?
29 Ovviamente fin da quando ho iniziato a praticare il bike trial c’è sempre stata la voglia di vincere qualche gara, un sogno diventare Campione italiano, un sogno che sono riuscito poi con gli anni e con molti sacrifici a concretizzare nel 2003. Ho sempre inseguito i miei sogni perché per raggiungere certi obiettivi bisogna prima di tutto crederci sempre. Non ho mai mollato specialmente nelle situazioni più critiche dove magari era più facile tirarsi indietro, penso che prima di tutto bisogna essere alimentati da una grande passione e poi avere una determinazione nel fare e nel raggiungere i propri obbiettivi, i propri traguardi. Partecipare a gare internazionali come il Campionato del Mondo mi è servito a confrontarmi con
altri biker più bravi di me e prendere spunto dalle loro tecniche, questo mi è servito per maturare e migliorare nel tempo. Al Campionato Italiano del 2003 ero molto motivato, sapevo che avevo tutte le carte in regola per fare un ottimo risultato, alla fine sono riuscito a vincere tutte le gare a cui ho partecipato incoronando così il mio sogno. Dal trial sei passato all’“extreme cycling” come è nata questa idea delle prove al limite dell’impossibile? Questa passione ce l’ho avuta fin da giovane quando in paese si facevano le sfide tra amici in impennata. Nel 2003 con la vittoria del Campionato Italiano di bike trial ho chiuso con l’agonismo e dal dal 2004 in avanti ho iniziato a dedicarmi alle
sfide in bicicletta con una ruota sola, da lì è stata una continua escalation di imprese di ogni genere alzando sempre di più il livello di difficoltà. Sono partito a fare queste imprese con delle bici normali poi ho iniziato a togliere i pezzi che vedevo non mi servivano, quindi ho iniziato con la ruota davanti, poi è stata l’ora della forcella, adesso sono rimasto solo con il telaio e la ruota posteriore e ovviamente la sella. Ogni volta che riesco a portare a termine un’impresa sono sempre più motivato per puntare a qualcosa di sempre più difficile, non è un caso se il mio motto è “l’impossibile non esiste ancora!”
leno molto per preparare queste imprese, la mia è solo passione e quindi quando ho tempo esco in bici. Alterno nei miei allenamenti dalla mtb, alla bici da corsa a quella da trial, al monociclo e questo massimo 3/4 volte la settimana periodo primavera estate e anche una / due volte periodo autunno inverno.
C’è un’impresa che è stata più dura da realizzare delle altre o a cui sei più legato? L’impresa che mi ha dato filo da torcere l’ho portata a termine proprio l’anno scorso, si chiama Monte Grappa 4.9. Ho preso semplicemente 4 bici e le ho fatte a pezzi togliendo da esse alcuFai prove uniche al mon- ni componenti, 9 per l’edo, come alleni queste sattezza, ecco spiegato il motivo del 4.9. Con ogni tue doti? A dire la verità non mi al- bicicletta ho pedalato in
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30 4 maniere diverse lungo il percorso suddiviso in 4 settori da c.ca 6.5 Km per un totale di 26 chilometri e 1600 metri di dislivello. Partendo con una mountain bike priva di ruota, forcella e sella, seduto sul tubo dello sterzo del telaio, tenendo quindi la bici in posizione verticale e con il manubrio dietro la schiena sono giunto in località Costalunga dove ho cambiato bici per passare a una da corsa senza ruota anteriore. Qui ho dato sfogo alle mie doti di scalatore imponendo fin da subito un ritmo molto sostenuto staccando per alcuni momenti alcuni degli amici che mi seguivano in bicicletta. A Camposolagna è avvenuto il secondo cambio di bici passando con una mountain bike senza ruota e forcella. Nel tratto fino a ponte San Lorenzo ho sfruttato la poca pendenza per recuperare ulteriore tempo e dare il tut-
to e per tutto nell’ultimo settore quello dal bivio di Malga Pat dove è avvenuto l’ultimo cambio con una bici da corsa senza ruota, forcella e manubrio. Negli ultimi chilometri, quelli più difficili visto anche la stanchezza, ho gestito al meglio le ultime energie rimaste e sono riuscito ancora una volta a portare a termine un’impresa ciclistica unica nel suo genere. Una performance dir poco eccezionale visto che per finire questa incredibile impresa ho impiegato un tempo record di 2 ore 11 minuti e 27 secondi. Cosa fai nel tempo libero? Durante la settimana lavoro come programmatore Cad/Cam in una importante ditta che lavora per il settore aeronautico e aereospaziale in provincia di Trento, quindi nel poco tempo libero che mi resta mi piace legge-
re libri su le tecniche di allenamento mentale, sul training autogeno, mi piace fare trekking e ascoltare i rumori e i suoni della natura, questo mi aiuta a caricarmi mentalmente. Hai qualche ciclista su strada o MTB che ti esalta in particolare? Non seguo molto il ciclismo su strada tranne che nelle occasioni importanti come Giro, Tour e Vuelta in questi casi mi piacciono vedere i corridori mentre affrontano le salite, gli scalatori puri sono quelli che mi esaltano di più, la salita è sempre stata per me uno dei luoghi di allenamento dove ho preparato le più dure e difficili sfide che ho fatto, vedere un corridore salire a velocità sostenuta o addirittura scattare per staccare il gruppo ecco, quello è un corridore che mi piace indifferentemente da chi è. Nel MTB
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Buone Feste
Nino Schurter è uno dei biker che mi esalta di più per la sua tecnica e per la sua forza che ha, un vero campione. Qual è la tua prossima impresa fuori dal comune che hai in programma? A dire la verità ne ho tante in programma ma preferisco non svelarle subito. Dopo l’ultima fatta sul Passo Gavia domenica 13 agosto scorso sono molto motivato per continuare e provare qualcosa sempre di più difficile, salire con un a bici senza ruota, forcella e manubrio per 17.3 Km è stato veramente difficile. Un anno fa avrei sicuramente pensato che fosse stata una cosa impossibile, e invece ci sono riuscito con un tempo di scalata di tutto rispetto, 1h e 47min alla media di quasi 10Km/h. Incredibile vero!
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giulia magrin (atleta)
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storia La grande guerra in alto Adriatico 14a parte
1 novembre 1918 di Antonio Rosso foto archivio ANMI e www.betasom.com
L
’attacco dei MAS di Luigi Rizzo, culminato nell’affondamento della corazzata austro-ungarica Szent Istvan (Santo Stefano) il 10 giugno (Sportivissimo n. 94), aveva creato le premesse per una inversione delle sorti dell’intera guerra ed il bombardamento navale di Durazzo del 2 ottobre stava aprendo la via all’occupazione dell’Albania settentrionale e del Montenegro. Ora per la Marina si concretizza anche la possibilità di forzare la base navale di Pola. Impresa difficile per la costante sorveglianza del porto e per i vari sbarramenti che ne impediscono l’avvicinamento. Nel luglio del 1918, il Tenente Colonnello del Genio Navale, l’ingegnere Raffaele Rossetti e il Tenente Medico Raffaele Paolucci avevano elaborato un piano inedito, basato sull’utilizzo di un nuovo mezzo d’assalto chiamato “mignatta”, costruito su progetto dello stesso Rossetti. Ad agosto il mezzo è trasportato da La Spezia a Venezia per una serie di prove che danno esito positivo. Pertanto, in considerazione anche della prevista prossima fine del conflitto e desiderando un nuovo successso, la Marina accelera i preparativi e fissa la data dell’azione per il 31 ottobre. Nello stesso mese, poichè è evidente che l’impero avrebbe perso la guerra, l’imperatore Carlo I decide, per salvare le sue navi, di cedere l’ammiraglia, la corazzata Viribus Unitis, con tutta la flotta al Consiglio Nazio-
Paolucci e Rossetti affondano a Pola la corazzata Viribus Unitis
la corazzata sta affondando
nale degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi, che si sono costituiti in una federazione. Spera, forse, in questo modo, anche di tenerli sotto la sua influenza. Il 16 ottobre scioglie tutti questi popoli da ogni vincolo nei suoi confronti e proprio il 31 ottobre incarica l’ammiraglio Horthy, comandante in capo della Marina austriaca, di consegnare ai quattro delegati del Consiglio Nazionale degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi la flotta ancorata a Pola. Ciò avviene nel tardo pomeriggio ed il capitano di vascello Janko Vuković de Podkapelski, ne prende il comando provvisorio. L’ATTACCO ALLA CORAZZATA All’oscuro di tutto ciò, nella giornata del 31 ottobre, alle 13:00, Rossetti e Paolucci lasciano Venezia a bordo di due MAS scortati da due torpediniere. “la punta del campanile di San Marco si allontana, si fa più piccola, sfuma, scompare: la rivedremo? Così scrive Paolucci
nel suo raporto. Alle 19:45 una torpediniera è in avaria e deve ripegare. Le altre unità proseguono. A poche miglia dall’imbocco del porto di Pola, alle 20:00 circa, la mignatta viene messa in mare e le unità di scorta si ritirano lasciando il MAS 95, da solo, a rimorchiare il mezzo d’assalto fino in prossimità della diga foranea. Alle 22:00 è il momento di scendere in acqua, sulla mignatta, Paolucci a prua e Rossetti a poppa. Puntano verso il porto mentre il MAS si allontana. L’avvicinamento è complesso: devono trascinare la mignatta col motore spento oltre le ostruzioni costituite da uno sbarramento esterno e da sette ordini di reti ed eludere la vigilanza delle sentinelle. In un caso per superare una ostruzione fanno passare la mignatta al di sotto delle reti. Per precauzione i due incursori hanno una mimetizzazione sulla testa, costituita da un fiasco finto. Se un riflettore li dovesse inquadrare, le sentinelle
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l’ancora della corazzata (è quella di destra) davanti al Museo Storico Navale di Venezia
Affondamento
avrebbero visto galleggiare due fiaschi spaiati. Nella rada passano inosservati alle sentinelle sul molo, alle imbarcazioni di ronda e ad un sommergibile che li incrocia a meno di cinquanta metri. Verso le 3:00 sono in prossimità delle prime navi scoprendo che hanno consumato metà dell’aria compressa del motore. Dovrebbero rientrare, ma decidono di andare avanti per raggiungere le corazzate situate all’interno del porto, rinunciando alla possibilità di tornare. Scoppia un temporale con pioggia e grandine. Le navi sono oscurate, solo l’ultima è illuminata, si dirigono su quella. Ma, ecco che il loro mezzo comincia ad affondare: la valvola di poppa è aperta. Riescono a chiuderla ed aprire quella di emersione riequilibrando la mignatta. Dirà Paolucci: ”fra tutti, il momento più angoscioso da noi attraversato è stato indubbiamente questo”
Alle 4:15 del 1 novembre, dopo più di sei ore di permaneza in acqua, riescono a posizionarsi accanto allo scafo della Viribus Unitis. Alle 4:50 Rossetti si stacca dalla mignatta e si avvicina alla chiglia della corazzata con uno dei due ordigni, mentre Paolucci rimane ad attenderlo, con mille difficoltà, alla guida del mezzo reso poco governabile dalla corrente. Alle 5:30 l’esplosivo viene assicurato alla carena ed il timer programmato per le 6:30. Quando Rossetti ritorna, è sempre Paolucci che racconta: “un riflettore c’illumina in pieno. Siamo scoperti! Grande, terribile, ci appare in quel momento l’impegno d’onore assunto verso il Comando: “Distruggere l’apparecchio ad ogni costo”. E’ un giuramento. E, mentre aspettiamo che una scarica di mitraglia ci colpisca, saldiamo il nostro debito di onore: l’Ingegnere apre le valvole d’immersione; io attivo la seconda torpedine
la posizione della corazzata Santo Stefano nel porto di Pola
un esemplare del mezzo utilizzato nell’azione
e dò il moto all’apparecchio” che va ad arenarsi nei pressi del piroscafo Wien, ormeggiato a poca distanza e che poi salterà in aria assieme alla mignatta. ...“ci prendono e ci conducono a bordo. Ci spiegano che da poche ore l’Ammiraglio austroungarico è andato via, che quasi tutti i tedeschi e gli ungheresi e i boemi e gl’italiani della Viribus Unitis partiranno nella giornata, che la flotta è stata ceduta!” Alle 6.00 Paolucci e Rossetti decidono di comunicare al nuovo comandante, Janko Vukovic, l’imminente distruzione della nave, senza fornire altri dettagli. Egli dà ordine di abbandonare la nave. L’esplosione, però, non avviene in quanto non sono ancora le 6:30. L’equipaggio fa gradualmente ritorno a bordo e non dà più credito all’avvertimento degli italiani, anzi minaccia di rinchiuderli all’interno della nave. Puntuale, alle 6.30, la torpedine scoppia. La coraz-
zata si inclina su un lato e comincia rapidamente ad affondare. In soli dieci minuti tutto è finito: oltre 300 tra vittime e dispersi, fra cui il comandante. I due italiani, presi prigionieri, vengono liberati quando entrano a Pola le navi della Regia Marina a seguito della firma dell’armistizio avvenuta il 4 novembre. L’azione, la prima compiuta con un mezzo d’assalto di questo tipo, viene chiamata “l’impresa di Pola” e Raffaele Paolucci assieme a Raffaele Rossetti vengono insigniti della Medaglia d’oro al valor militare. E’ stata un’azione lecita? Ancor oggi si discute sulla correttezza dell’affondamento e ci sono versioni discordanti. Secondo alcuni la corazzata, perché consegnata al nascente Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, sarebbe stata affondata “fuori tempo massimo”. Secondo questa tesi, “il Regno d’Italia sapeva i problemi che sarebbero sorti ai confini orientali di li a poco
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l’indumento in gomma indossato durante l’azione
e forse si sarebbe cautelato di conseguenza.” Una minaccia? un errore? una dimostrazione? forse non lo sapremo mai in quanto, in alcuni documenti, gli stessi austriaci escludono di aver comunicato agli italiani la cessione della flotta che, anzi, viene considerata dalle forze vincitrici preda di guerra. IL RELITTO Il relitto della corazzata, capovolto su di un fondale di 29 metri presso la sua boa d’ormeggio, è rimasto per un paio d’anni in fondo al porto, poi, negli anni successivi al 1920 lo scafo è stato tagliato in tre blocchi e recuperato come rottame. A bordo non si sono trovate salme. I recuperi sono continuati anche dopo il 1945, quando sono state prelevate numerose lamiere per le fonderie iugoslave. Sul fondale, oggi, rimangono alcune parti metalliche, poco rilevabili anche con un ecoscandaglio, ma che non vengono portate in superficie per non bloccare il porto durante i lavori di recupero. Un’immersione non è pensabile.
Tenente Medico Raffaele Paolucci
Tra le parti recuperate, un’ancora è esposta all’ingresso del Museo Storico Navale di Venezia, indicata da una targa, un’altra si trova al Museo del Ministero della Marina Militare Italiana a Roma, due proiettili sono posti all’ingresso del faro Vittoria a Trieste ed una parte di catena è collocata nel monumento ai caduti di Pescasseroli. VIRIBUS UNITIS Era una corazzata della Marina austro-ungarica. Nave ammiraglia e fiore all’occhiello della flotta, apparteneva alla stessa classe delle altre corazzate Szent István, Prinz Eugen e Tegetthoff. Varata il 5 dicembre 1012, era lunga 160 metri, larga 27 con un dislocamento di 20.000 tonnellate. L’apparato motore sviluppava 27.300 Hp con una velocità di 20 nodi. A bordo vi erano 43 ufficiali e 1003 marinai. La corazzatura era di acciaio al nichel cromo. Come armamento, aveva 12 pz da 305/45 mm, 12 pz da 150/45 mm, 2 pz da 75 mm, 18 pz antiaerei da 70 mm, 4 tubi lanciasiluri da 533 mm.
Tenente Colonnello del Genio Navale Raffaele Rossetti
la corazzata Viribus Unitis
la corazzata Viribus Unitis
WIEN Costruita tra il 1909 ed il 1911, la Wien era una nave mista da carico e passeggeri, trasformata in nave ospedale. Rimasta danneggiata alle eliche, dopo le riparazioni, viene dislocata a Pola, come nave caserma per gli equi-
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Il piroscafo Wien affondato nella stessa azione
paggi degli U-Boot. A bordo viene anche installata una stazione radio tedesca per intercettare messaggi. Alcuni militari tedeschi, che erano a bordo, periscono nell’affondamento. Dopo la guerra viene recuperata, riparata e rientra in servizio nel 1921 col nome di Vienna. Utilizzata nella guerra d’Etiopia, nel 1936 è ribattezzata Po ed iscritta nel 1940 nel ruolo del naviglio ausiliario come nave ospedale. La sera del 14 marzo 1941 si trova a Valona quando, poco dopo le undici della sera, la rada è sottoposta ad un attacco aereo inglese. E’ oscurata, non viene perciò riconosciuta come
Via Garibaldi, 12 36078 Valdagno (VI) Telefono: +39 0445 402173 Cel: +39 339 814 8385 Mail: albergoromavi@gmail.com
nave ospedale e alle 23.15, colpita sul lato di dritta, da un siluro inizia ad imbarcare acqua e affonda in circa dieci minuti. Il relitto, adagiato sul fondale in assetto di navigazione, si trova ad un miglio dalla costa, alla profondità tra 30 e 35 metri ed è stato individuato nel 2005 durante una campagna di ricerca dai subacquei della IANDT, società che abbiamo visto all’opera anche sul relitto della corazzata Santo Stefano. TORPEDINE SEMOVENTE La torpedine semovente Rossetti, “mignatta”, è stata un apparecchio motorizzato, pilotato e dotato
di due ordigni sganciabili da fissare alla chiglia di una nave per mezzo di un elettromagnete ad accumulatori, anche se, a Pola, la carica è stata assicurata con uno spezzone di cima. Realizzata in due esemplari, di cui uno ancora conservato al Museo Tecnico Navale di Genova, era simile ad un siluro. Lunga otto metri aveva il corpo cilindrico del diametro di 600 mm. Mossa da un motore ad aria compressa aveva due eliche e poteva raggiungere la velocità di due nodi. Il serbatoio dell’aria compressa consentiva un’autonomia di oltre dieci miglia. Una valvola di regolazione per-
metteva di variarne la velocità. La componenete esplosiva era costituita da due cariche di 175 kg di tritolo, ognuna attivata da una spoletta ad orologeria con una regolazione massima di 6 ore. Il corpo principale era rivestito da doghe di legno in modo che il mezzo risultasse leggermente positivo per navigare in affioramento. Era privo di timoni e la direzione di avanzamento veniva modificata dal corpo degli stessi incursori facendo aumentare la resistenza di marcia sul lato dove si voleva accostare. Ogni membro dell’equipagggio, composto da due uomini, era dotato di una tuta impermeabile in gomma, con collo rivoltato, chiuso sul davanti da fermagli metallici ed ai polsi da anelli di gomma. La muta era completata da un cappuccio stagno che lasciava liberi gli occhi e le orecchie. Nel 1935, gli ingegneri Teseo Tesei ed Elio Toschi, partendo ed ispirandosi a questo mezzo, metteranno a punto i celebri siluri a lenta corsa (maiali), utilizzati nella seconda guerra mondiale come mezzi d’assalto e che rappresentano, ancor oggi, la Marina Militare Italiana nei musei navali del mondo.
I PREZZI PIÙ VANTAGGIOSI DELLA CITTÀ
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valdagno
ROLLER SPORT VALDAGNO di Guido Romeo Scomparin Servizi di Giannino Danieli
U
na società per la quale la valorizzazione dei giovani è insieme un credo e una fede. Con questi principi è nata nel maggio 2015 la Roller Sport Valdagno e lo conferma pure il consuntivo del primo triennio. Al vertice c’è Guido Romeo Scomparin, titolare della Lariplast. Nel cuore c’è sempre il tennis, ma non s’è sottratto alla nuova esperienza, quando un gruppo di amici, che apprezzavano la sua esperienza industriale e nel campo sportivo, gli hanno chiesto un contributo per far nascere appunto la Roller Sport Valdagno. “Ho accettato molto volentieri e per tre motivi –spiega il Presidente Scomparin- Il primo è attinente all’aforisma di John F. Kennedy che recita “Non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”. Il secondo è che, pur tardi, ho scoperto le bellezze in varie forme del mondo a rotelle fra pattinaggio artistico e hockey, in particolare quest’ultimo sport di lunga e consolidata tradizione in Vallata dell’Agno. E il terzo perché reputo che educare i ragazzi allo sport contribuisca
alla crescita della società e sia un vantaggio di carattere economico pensando anche a quanto invece costerebbe un giovane che accusa problematiche di droga o similari”. Il presidente Scomparin sottolinea che una cosa importante ai fini del Progetto Roller è stato trovare un “gruppo di persone competenti e oneste” che hanno formato “una società di puro volontariato”. Nei principi del Roller Sport Valdagno non esiste la parola dualismo con altre realtà. “Vogliamo essere di supporto e di aiuto –continua Guido Romeo Scomparin-. Non siamo in competizione e nemmeno in contrapposizione con altre società sportive. Apprezziamo il lavoro che hanno fatto in questi anni e ci auguriamo ci sia collaborazione”. Una società quindi più che mai aperta. Che ha già stretto rapporti con società come Breganze, Lodi, Grosseto e Novara. “Vogliamo –puntualizza Scomparin- aprire gli orizzonti. Non capisco proprio perché qui si voglia una sola società di hockey quando invece si può benis-
simo andare d’accordo fra più realtà. C’è una mentalità del tutto errata da cambiare. E in fatto di mentalità la devono cambiare anche i genitori. Se questo sport non si apre è destinato solamente ad un lento, quanto inesorabile, declino!”. Nel decalogo della Roller Sport Valdagno c’è una filosofia ben precisa. “Qui facciamo pattinare proprio tutti. Educhiamo poi i ragazzi alla crescita sportiva e umana –sottolinea Scomparin-. E il nostro compito si ferma lì. Ma se qualche giovane emerge per doti e la volontà sua e della famiglia è che percorra la via dell’agonismo professionistico, siamo ben felici di seguirlo indicandogli la migliore strada, accompagnandolo fino alla meta. Ma va tenuto presente che quella effettuata da genitori e ragazzi è a tutti gli effetti una scelta totalizzante, economicamente molto impegnativa e non priva di rischi. Uno di questi è il perdere di vista l’importanza della scuola e della cultura: questo non deve mai avvenire”.
Quartetto e allenatrici
Asia Babolin 1 cl. e Sofia Fochesato 3 cl.
Anna Sbalchiero
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La struttura
Sono due le specializzazioni che caratterizzano la Roller Sport Valdagno. Una è l’hockey su pista e la seconda è il pattinaggio artistico. L’hockey su pista è suddiviso nelle principali categorie: il primo stadio è costituito dall’Avviamento. Seguono Minihockey, Under 11 (in gestazione), Under 13 (allenatore Juan Oviedo) e
Under 15 (allenatore Matteo Zarantonello). Oviedo e Zarantonello comunque collaborano nella gestione di tutte le suddivisioni dell’hockey che in totale mettono assieme trenta ragazzini. Nel pattinaggio artistico il responsabile è Alberto Fochesato, che cura 30 ragazzine dai 4 ai 12 anni. Giulia Cherubini
Juan Oviedo e Matteo Zarantonello
Juan Oviedo e Matteo Zarantonello ci tengono molto a far sapere che lavorano in simbiosi. “E siamo del tutto in linea con principi e obiettivi della società”, precisa Oviedo. “La volontà è di dare anche una mano alle famiglie” aggiunge Zarantonello. Campione del Mondo, una esperienza enorme di hockey Oviedo è convinto che “fino alla categoria Under 15 la cosa importante è imparare il gioco di squadra e il rispetto per i propri compagni e per gli avversari”. Secondo Zarantonello c’è una priorità da seguire e precisamente “prima va formata la persona e poi l’atleta”.
Di lavoro ce n’è tantissimo da fare, ma ci stanno anche delle grandi soddisfazioni. “In pratica, già arrivano –conclude Oviedo- quando giunge un bambino che a fatica riesce a stare in piedi e dopo il necessario percorso i pattini gli diventano familiari”. Non dimentichiamo che è necessaria la massima coordinazione tra: pattini, stecca e pallina. La tecnica, le soddisfazioni agonistiche e non, saranno il frutto di un lungo percorso fatto di sacrifici, costanza, dedizione, senza ansia e fretta, con l’indispensabile gioia, serenità e divertimento.
Alberto Fochesato
“Il 2017 –spiega Alberto Fochesato responsabile del settore- è stato un anno di significativi cambiamenti”. Che si identificano nella struttura. Il settore del pattinaggio artistico ora può contare su Arianna Dal Lago, allenatrice di secondo livello e responsabile del progetto tecnico. Con lei coadiuva come aiuto allenatrice Anna Sbalchiero. C’è una categoria agonismo (“parteciperemo così a gare federali”), una di avviamento all’agonismo, una nuova categoria gruppo spettacolo partita a settembre (“è formata da un quartetto”), una categoria primi passi, una categoria avviamento (“è dedicata ai bambini che non sanno pattinare”). “Anche nel pattinaggio artistico seguiamo la stessa filosofia dell’hockey –conferma Alberto Fochesato-. E dal 2016 abbiamo avviato un buon rapporto con le società limitrofe”.
Nell’anno di attività andato in archivio il bilancio è assai positivo quanto a risultati ottenuti nelle gare AICS: un primo posto con Asia Babolin, due secondi posti con Matilda Revrenna, un terzo con Sofia Fochesato, un quarto con Sofia Cocco e un quinto con Matilde Carta. Per il 2017/18 ci aspettiamo un altro anno di soddisfazioni per le atlete, che, in accordo con la società, gli allenatori e i genitori, disputeranno anche gare Federali, decisamente più impegnative.
Arianna Dal Lago Molti sono i motivi per approcciarsi al pattinaggio artistico: curiosità, senso di ebrezza provocata dalla velocità sulle ruote, indossare il vestitino con gli strass, ma la ragione principale dovrebbe essere una forte motivazione interiore e una grande passione per questo sport. Sembra scontato ma ciò che determina il miglioramento
in un atleta, con il tempo, da permettere quindi un salto di qualità decisivo, è sempre la passione! Pattinare è bellissimo, ma è anche impegnativo, faticoso, doloroso a volte, e comporta molti sacrifici! L’amore per questo sport richiede tanto, e ci offre poco in cambio se non la convinzione di fare qualcosa di bello e importante per noi stessi! La concentrazione e l’energia con cui ogni atleta affronta una difficoltà tecnica, la disponibilità ad ascoltare i consigli dell’allenatore mettendoli in pratica ,sono caratteristiche di un’atleta, che sta per iniziare il difficilissimo cammino verso le vette artistiche più ambite!
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Città di Valdagno Assessorato allo Sport
Ciclabile Agno-Guà
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n bagno di folla ha accolto il taglio del nastro del nuovo tratto di pista ciclabile che collega Valdagno a Novale. Il percorso Prien Am Chiemsee si arricchisce così di quasi 2,5 km che da oggi permettono un collegamento veloce e sicuro per pedoni e ciclisti. Bypassata anche la temuta strettoia di loc. Ruari, la nuova opera costeggia la sinistra orografica del torrente Agno, immersa in un paesaggio naturale di grande fascino.
Apre il collegamento Valdagno-Novale
di Giulio Centomo
varese gemellata con Valdagno, Jurgen Seifert, ha tenuto a battesimo la pista che proseguirà nel nome proprio del suo comune.
Il sindaco di Valdagno, Giancarlo Acerbi ha voluto scoprire anche qualche altra carta, confermando che entro il 2018 sarà avviato anche il cantiere dell’ultimo stralcio che salirà a nord fino al confine con Recoaro Terme. Si tratterà di un intervento del valore di 2,3 milioni, 2 dei quali arriveranno dal Fondo per i Comuni di Confine (ex fondi 2 milioni il valore comples- ODI). sivo dell’intervento che ha beneficiato di un importan- «La ciclabile Agno-Guà te contributo regionale di – ha spiegato il sindaco 1,6 mln attraverso il Fondo Acerbi – vede l’impegno Sviluppo e Coesione. di ben 11 comuni vicentiLa nuova pista consente ni che hanno sottoscritto inoltre di connettere l’esi- ancora nel 2014 un protostente percorso ciclo-pe- collo d’intesa per spingere donale di Maglio di Sopra il completamento verso attraverso il Ponte Briscola. nord. Asse strategico per Al taglio del nastro erano la mobilità slow, la pista presenti numerose autori- può essere strumento eftà, a partire dall’Assessore ficace per il rilancio turiRegionale ai Lavori Pubbli- stico dell’intera area. Non ci, Elisa De Berti. Solo una a caso la Regione Veneto settimana più tardi il trac- l’ha inserita nel Masterciato è stato visitato anche plan delle ciclabili venete, dalla delegazione di Prien con i suoi 35 km di sviluppo Am Chiemsee. Proprio il da Recoaro a Montebello.» sindaco della cittadina ba- «Inaugurare questa pista
– ha poi commentato l’Assessore Regionala, Elisa De Berti – è la riprova di quanto la Regione, con la collaborazione e il co-finanziamento dei comuni, crede nella mobilità sostenibile e nello sviluppo del cicloturismo. La ciclabile Agno-Guà si inserisce in una rete di tracciati che permetteranno a turisti e cittadini di scoprire le bellezze di un territorio, come quello veneto, che è tutto da visitare.» Tra le scelte costruttive spicca la decisione di realizzare tutte le staccionate che delimitano la pista in acciaio corten e legno di cantile, tradizionale legno di castagno naturale,
senza trattamenti, noto fin dal passato per l’elevata resistenza agli agenti atmosferici. È questo il secondo intervento realizzato a Valdagno nell’ambito del progetto di tutela del legno di castagno delle Piccole Dolomiti che vede coinvolte amministrazioni, un team di progettisti e di aziende del settore che hanno voluto sviluppare una filiera certificata e controllata dedicata a questo tipo di legname.
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calcio
Per un amico di Massimo Ceron
Il SauroTeamC5 in serie A/1 Provinciale: una squadra di Calcio a 5, in ricordo di un caro amico scomparso
S
orta nel 2013 per iniziativa di un gruppo di amici, il SauroTeam è una squadra di calcio a 5 che partecipa al Campionato Provinciale della Federazione amatoriale - disputando gli incontri interni al PalaDeGasperi di Cornedo Vicentino il Venerdì sera con inizio dalle ore 21,30 -: con questa modalità è loro intenzione portare avanti il ricordo di Giuseppe Monegato - soprannominato Sauro -, cresciuto dalla Curia Vescovile di Vicenza e venuto a mancare nel 2010, all’età di 71 anni. Giuseppe aveva molte amicizie nella Valle dell’Agno, e parecchi sono i ricordi che ha lasciato in tante persone per la sua voglia di vivere, dopo un’infanzia e una giovinezza sfortunata segnati dalla mancanza di affetti, perché orfano di entrambi i genitori. Dopo tre anni di serie A/2, nella stagione appena passata la squadra è giunta dopo un Campionato sempre al vertice, e una sola sconfitta - al primo posto del gir. B, accedendo di diritto alla serie A/1 Provinciale; attualmente, dopo 8 gare ed avendo già “scontato” il turno di riposo, il SauroTeamC5 occupa l’ottava posizione di Classifica – in testa c’è il Fimarc, di Arcugnano
- con 10 punti, frutto di 3 vittorie (contro L’Aion di Povolaro, Villareal di Villaverla e Chiampese), 1 pareggio (contro Edil Gostic di Longare) e 3 sconfitte (contro il Silva di Marano Vic.no, il Sarcedo e il LongareC5). Il Campionato è strutturato con 5 gironi di serie A/2, ed uno di serie A/1: salgono direttamente in serie A/1 le squadre che si classificano al primo posto nei rispettivi gironi, e la vincente della fase finale dei play off. La perdente sfida invece la vincente della gara dei play out A1, cosicché altre 2 squadre hanno virtualmente la possibilità di accedere alla serie A1; poi i successivi passaggi delle squadre vincenti le massime serie A1 (delle province venete) prevedono una breve fase regionale, ed una anche a livello nazionale. Oltre al SauroTeamC5, in vallata ci sono anche altre squadre che partecipano a questo Campionato amatoriale: il Trissino nel gir. A della serie A/2 (girone che racchiude generalmente squadre della Valle del Chiampo), il Brojan, il Castelgomberto e il Recoaro nel gir. B - sempre della serie A/2 - (girone con squadre della Valle dell’Agno, e di Vicenza Città o periferia). Il quadro Dirigenziale del
SauroTeamC5 è composto dal Presidente Massimo Ceron, dal Vice Presidente Enrico Vencato, dal Direttore Sportivo e Generale Diego Savegnago e dai Consiglieri Roberto Cocco, Claudio Rilievo ed Enzo Festa. La rosa dei giocatori attualmente “in forza” è costituita dai portieri Stefano Cocco, Denis Facchin ed Emanuele
Zattera, dai difensori Davide Dal Medico e Giuliano Visonà, dagli esterni Massimo De Zen, Federico Pelà, Luca Fattori, Andrea Pani, Daniele Asnicar, Federico Preto, Michele Menti ed Andrea Pretto, dai pivot Franco Salmaso. Paolo Bergamin, Daniel Storti, Matteo Faccin, Enea Gecchelin e Michele Zarantonello e dagli univer-
43 sali Fabio Franceschi, Matteo Perin e Mattia Verlato. Il mister è Paolo Milan. Collaborano col SauroTeamC5 anche Romano Ongaro, Andrea Garbin, Michele Pana ed altre persone che hanno avuto la fortuna di conoscere il Sauro. La Dirigenza dà appuntamento a tutti gli appassionati di Calcio a 5, e in modo particolare agli amici del Sauro, alla prossima gara interna al PalaDeGasperi: il calendario degli incontri è pubblicato sul web al link http://www.csainvicenzacalcioa5.it/), oppure è pos-
sibile dare un’occhiata ai display elettronici dei semafori di Cornedo - dove è inserita per tempo la programmazione interna delle partite, grazie al supporto dell’Amministrazione Comunale - o chiedere l’iscrizione al gruppo privato Facebook Sauro Club, così da ricevere gli inviti alle partite ma anche gli aggiornamenti settimanali sul Campionato. La Dirigenza tiene a ringraziare gli amici e le amiche che hanno sostenuto il Team durante gli incontri di Campionato delle stagioni fin qui disputate (in modo particolare le #SauroGirls), la filiale di Valdagno della Zurigo Assicurazioni per la collaborazione nella realizzazione delle borse e delle felpe e infine – ma non ultimi - la Pizzeria Lucignolo di Novale di Valdagno e Gero’s pub di Brogliano (“partner” per i dopo gara).
Aperto a pausa pranzo!
Seguici su bar trattoria giardino
Specialità della casa Pasta PiattifrescaStagionali giovedì: gnocchi fatti a mano fatta in casa venerdì: baccalà alla vicentina
Carne alla brace
Terrazza estiva
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cornedo
Maestro di calcio e di vita
di Nicola Ciatti
Sono 50 anni che il tecnico di Valdagno, ma cornedese d’adozione, allena nella società cittadina, facendo da “maestro di calcio e di vita” a centinaia di ragazzi. Un esempio per tutti
C
i sono pochi personaggi nel mondo dello sport che suscitano un istintivo affetto in ogni persona che incontrano. E ci sono pochi allenatori in Italia (e forse nel mondo…) che possono vantarsi di aver allenato per 50 anni…nella stessa società sportiva. Alla Virtus Cornedo, realtà calcistica cittadina, c’è un tecnico che si siede sulla stessa panchina esattamente da 50 anni! Chi è? Semplice. Chi non conosce in Vallata Giuseppe “Bepi” Lucato? Valdagnese di nascita e residenza classe 1939, ma cornedese d’adozione, inizia il suo percorso nel calcio nel 1954 come giocatore dell’Azzurra Maglio. Da allora il richiamo del campo non lo ha mai lasciato, e sono 63 anni che calca i campi di calcio di tutto il Vicentino. Dopo l’Azzurra gioca nella De Martino del Marzotto fino al 1958, prima di passare alla Filatura Maglio in Terza Categoria dove ricopre il ruolo di giocatore-allenatore. Nel 1966 il salto in Prima Categoria per allenare il Cornedo, dopo aver brillantemente superato l’esame per il patentino della Figc. Prima è stato il tecnico della prima
squadra, poi ha allenato i portieri, per poi passare al settore dove ha saputo raccogliere nel corso degli anni le maggiori soddisfazioni, il vivaio. Da tanti anni, infatti, Bepi è la guida di centinaia di giovani del paese, essendo da sempre il punto di riferimento dei Piccoli Amici e Primi Calci della società. A Cornedo ormai sono 3 le generazioni che sono passate sotto le grinfia del tecnico, capace di insegnare le sue conoscenze tecnico/tattiche, ma soprattutto di trasmettere ai ragazzi la cosa più importante del mondo dilettantistico: la passione per lo sport e per lo stare insieme. Sempre all’insegna
del divertimento. “Quando passeggio per la città mi ferma sempre qualcuno per salutarmi-spiega Bepi- e inizialmente faccio fatica a ricordarmi di tutti, ma dopo qualche minuto mi torna tutto in mente, perché ogni ragazzino che alleno per me è speciale”. Chi scrive queste righe può vantarsi di avere il privilegio di condividere con “Bepi” la realtà quotidiana del settore giovanile cornedese da quasi 8 anni. E stargli a fianco è una continua scoperta. Sportivamente c’è sempre qualcosa da imparare da uno della sua esperienza. Ma è soprattutto dal
punto di vista umano che si resta affascinati dalla bontà di quest’uomo: i suoi ricordi di tanti anni vissuti in prima linea nella vita quotidiana di due cittadine come Valdagno e Cornedo, sempre con una parola buona per tutti, sono un esempio da seguire per tutti. Quest’anno “Bepi” è stato insignito dall’Amministrazione Comunale di Cornedo Vicentino come “Personaggio sportivo dell’anno 2017” nel corso del Galà dello Sport che si è tenuto ad inizio dicembre al Pala Crosara. Un piccolo riconoscimento per una grande persona.
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vicenza
Dr. Angelo Pietropan
Di nuovo in compagnia di Sebastiano “Da non vedente l’autonomia l’ho conquistata con l’abitudine, dando fiducia alle guide, esaltando i miei sensi, temprando il mio carattere, praticando lo sport.”
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el precedente numero di Sportivissimo abbiamo pubblicato una bella intervista ad uno sportivo speciale, Sebastiano, Presidente del Gruppo Sportivo Non Vedenti di Vicenza, che a 58 anni da ipovedente è diventato non vedente. Le cose dette e raccontate quando l’Oculista Dr. Angelo Pietropan ha avuto il piacere e l’onore di incontrarlo erano così tante che abbiamo deciso di proporvi la seconda parte della sua intervista in questo numero. Come certamente tutti i lettori di “Sportivissimo” sapranno, l’attività che maggiormente migliora l’autonomia e la fiducia in sé stessi è proprio lo SPORT. Sebastiano ne è la testimonianza. Sebastiano, di certo negli anni ha acquistato più autonomia, in che modo? “L’autonomia si conquista con l’abitudine, dando fiducia alle guide, esaltando i propri sensi, facendo tanta pratica, imparando dagli errori e dagli incidenti, usando bene la memoria e il senso dell’orientamento. In casa
mi muovo tranquillamente (anche se qualche spigolo imprevisto può far male). In una stanza d’albergo, sconosciuta, devo acquisire dapprima confidenza con l’ambiente, con cautela, ma con sicurezza e senza paura. I non vedenti hanno un ”sesto senso” dell’orientamento che è la somma di tutti i sensi più l’esperienza e il raziocinio. I non vedenti, quando si trovano in un ambiente nuovo, percepiscono molte più cose rispetto ad un vedente: in una stanza buia riescono a capire se ci sono mobili, tende o se non c’è arredamento perché i rumori sono diversi. E anche il silenzio è diverso da stanza a stanza.” In che modo e chi l’ha aiutata negli anni dal punto di vista lavorativo? “È grazie all’UIC (Unione Italiana Ciechi) e alla Regione Veneto che ho potuto trovare posto come telefonista in una banca: loro organizzano corsi di Braille e altri corsi specifici di lavoro. Ma soprattutto infondono fiducia a chi si affida a loro, grazie all’opera dei soci non vedenti.”
L’aiuto più grande è certamente arrivato dalla sua famiglia, moglie e figli in particolare. “Non ci sono parole sufficienti per esprimere la mia gratitudine e riconoscenza nei confronti di mia moglie e dei miei figli. Loro mi hanno dato la forza per continuare, per lottare, per acquisire autonomia. In assenza di un senso fondamentale come la vista, il corpo esalta gli altri. Quale Le rimane impresso più a lungo? Il rumore, il profumo, o altro? “Il senso che rimane più a lungo è l’udito, che mi permette di distinguere suoni e rumori, capire da che parte provengono, intuire se si tratta di un ostacolo o di un pericolo o di un fenomeno naturale come il canto di un uccello. Poi sicuramente viene l’olfatto con i suoi profumi e odori. Ma non dimentichiamo il tatto: le nostre mani si protendono in avanti, accarezzano cose e altre mani, percepiscono sensazioni che vanno al di là del semplice caldo o freddo.”
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Ha mai giocato a tennis (il mio sport preferito)? Vorrebbe provare altri sport? “Non ho mai praticato il tennis, ma c’è uno sport che vorrei praticare: il parapendio. Desidererei provare quella sensazione di volare libero nel silenzio, anche senza vedere il paesaggio sottostante. Vorrei che mia moglie mi accompagnasse, ma temo che dovrò impegnarmi per convincerla!”
Mi sento fortemente emozionato perché il signor Sebastiano mi ha fatto vivere un’esperienza coinvolgente, umana, nonché professionale: l’oculista, in teoria, dovrebbe esserci abituato, ma non è vero un pò perché ritiene la cecità una sconfitta della medicina, un pò perché le implicazioni psicologiche sono forti. Pensiamo a chi è cieco dalla nascita e subito capisce che si deve adeguare non
dr. Angelo Pietropan medico oculista Specializzato in Oftalmologia malattie dell’apparato visivo
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avendo una funzione che gli altri hanno e che lui non conosce; d’altro canto chi diventa cieco in seguito è più soggetto alla sofferenza, a sentimenti forti e necessita di una volontà e di un carattere eccezionali per imparare nuovi modi di apprendimento e di relazione, in modo da poter affrontare un mondo costruito per chi non ha alcun handicap. Ma il cieco impara a leggere con le dita e il
sordomuto impara a parlare con le mani: tutte e due esaltano tutti gli altri sensi rimasti. Il loro contatto con la natura è più intenso. Ringrazio ancora una volta Sebastiano per la sua squisita disponibilità nell’aver messo a nudo la sua quotidianità: farà riflettere tutti noi.
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bici
Verso Nord
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aponord geograficamente è il punto più a nord dell’Europa continentale raggiungibile via terraferma; spiritualmente è una delle mete più ambite dal Viaggiatore! Davanti al globo in acciaio, simbolo del luogo, la vista si perde tra il blu del mare artico e l’azzurro del cielo; ai fianchi le falesie delle scogliere strapiombano su queste fredde acque, ed alle spalle la bellissima desolazione delle terre del Nord ammalia i visitatori. Questi luoghi solitamente vengono raggiunti con il camper, ma i più avventurosi si cimentano con la moto; pochi altri, classificati come “disperati”, scelgono la bici contando sulle proprie gambe per superare le aguzze alpi, le collinone continentali del centro Europa, i venti contrari della Danimarca e le sterminate foreste Svedesi! Credo uno solo sia stato così folle da farlo in scatto fisso, ed è il sottoscritto! La scatto fisso è una bici nata per le gare in pista, senza cambio (un solo rapporto, il 46x18 nel mio caso), senza ruota libera (se le
di Dario Stefani
Vicenza-Nordkapp, 4500km di viaggio in 25 giorni con una bici a scatto fisso! ruote girano, non si può mai smettere di pedalare, pena una rovinosa caduta) e senza freni (NB: nel mio viaggio mi sono concesso una deroga e gli ho installati, non sarei altrimenti qui a raccontare il viaggio): indubbiamente la bici meno adatta per viaggiare, e proprio per questo una grande sfida!
Il viaggio sarà in solitaria, con una tendina ed assetto leggero: 6 kg sulla bici e 5 in spalla. Parto l’11 agosto, con solo una vaga idea di quanti chilometri mi separano da Caponord, ma onestamente... non voglio pensarci: lo scoprirò alla fine, per il momento ho solo voglia di pedalare e godermi la libertà che mi dà il viaggiare con tutta la casa a tracolla e sul portapacchi! L’itinerario passa per Bolzano, Lienz, Salisburgo, lungo il fiume Inn fino a Passau: qui abbandono le piste ciclabili a causa del-
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le frequenti forature, perché sono in parte di strade bianche e la mia bici ha ruote da pista quindi non adatte. Studio un nuovo percorso attraverso la Germania fino a Rostock, dove prendo il traghetto per Gedser ed attracco in Danimarca dopo 9 giorni di viaggio e 1600 km percorsi. Le Alpi sono state magnifiche e dure come me le aspettavo, nelle salite più arcigne ho camminato spingendo la bici, era previsto. Il percorso lungo i fiumi Salzach, Inn e Danubio è bellissimo, così come è stato intimo l’avventurarsi nella rurale Sassonia, maledettamente vallonata che mi ha fatto faticare su e giù da collinone alte anche 700m! Nel Mecklenburg già si assaggiano i paesaggi della Danimarca, fatti di vento contrario ed ostinato, pianure sconfinate e prati a perdita d’occhio. Attraverso la Danimarca in un giorno e mezzo, passando per Copenhagen e traghettando in Svezia a Helsingborg, proseguo per Halmstad, Jonkoping,
Orebro, Falun: si pedala in mezzo alle foreste, per strade poco trafficate, ma ancora ricche di saliscendi che spaccano le gambe: capisco perché la maggior parte dei cicloturisti sale per la Finlandia dove le strade verso nord sono piatte e con pochissime salite. Evito la trafficata E4 della costa Svedese e mi inoltro all’interno del paese lungo la E45 passando per Mora, Sveg, Ostersund, Storuman. La scelta è felice, le strade sono sempre con salitone e discese, ma pochissimo trafficate, con panorami grandiosi che appagano lo sforzo e che la solitudine del pedalare rende ancora più piacevoli in quanto nulla distrae dai rumori delle foreste e dai profumi di un ambiente ancora incontaminato e che nella nostra pianura padana non esiste più. Raggiungo il circolo polare artico (Napapiiri in finlandese, visto che mi sto avvicinando al confine), il posto più a sud dove durante il solstizio d’estate non tramonta il sole: sono passati 21 giorni da quan-
do sono partito, e 3600km contemporaneamente alla ...sembra incredibile! sparizione degli alberi avviene la comparsa delle Sto bene fisicamente, non renne ovunque, ed ignoransono allenato per la bici ti in quanto attraversano la ma solo nella corsa a pie- strada con poca attenzione di, ma pur essendo stanco ai veicoli, bici comprese, e la sera, al mattino le forze malcelata indolenza. si rinnovano, e sempre più mi convinco che non siamo Raggiungo il paese di Alta fatti per vivere seduti ad ed il mare, che significa una scrivania, ma ancora meta vicina e proseguo fino in noi albergano sopiti i ad Oldefjord dove solo 130 geni di animali da caccia! km mi separano da Nordkapp; l’emozione è così Già il 31 agosto le tempe- grande che mi sveglio alle rature qui sono fredde, la 4.30 del mattino ed alle 6 notte va sotto zero e nel sto già pedalando. La strasacco a pelo dormo (male) da si snoda sulla scogliecon tutti i pochi vestiti che ra, la vista è incredibile , e ho; al mattino con 4°C ri- dopo il tunnel sottomarino porre la tenda nella custo- la strada presenta le ultime dia è una tortura; inoltre i difficoltà, salendo con pencentri abitati sono a più di denze micidiali, ma infine la 50 km l’uno dall’altro e mi vista del promontorio e del costringono a colazioni e globo in acciaio sugellano cene fredde con campeg- l’impresa. gio nella natura! Ma l’essere in Lapponia, mi sprona a non mollare, e passo le città di Jokkmokk, Gallivare, Karesuvanto, Kautokenio. Qui l’ambiente è oramai artico, la taiga formata principalmente da foreste di conifere lascia spazio alla tundra e
L’emozione è tantissima, ed impossibile da trasmettere con le sole parole. Sono felice, e commosso di questa conquista, pazza ed assurda ma proprio per questo indelebile nel ricordo.
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AndreA de MunAri (atleta)