Mi sono dimenticato della mia faccia

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Mi sono dimenticato della mia faccia

Travel Book

Negli ultimi venti anni ho attraversato la Terra. Ecco quello che ho visto, ecco quello che ho sentito.

Stefano Maria Palombi
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Mi sono dimenticato della mia faccia

4 87 259 47 169 183 457 375 123 133 101 11 INDICE Un regalo del cielo 11 Mi sono dimenticato della mia faccia 19 In quel campo di papaveri 41 Finalmente notte 47 Con un white opossum sulla testa 59 Una pagina forse meno 87 Chissà perché 97 Pa-ra-na-tin-ga 101 Gesù la domenica viaggia sulla linea 6 123 Il biglietto di ritorno 127 Il party più esclusivo della terra 133 L’altezza di un uomo 169 Harmattan è il nome del vento 183 Il terzo occhio di chissà chi 207 Nella terra di qualcuno 217 Funziona così 229 Tra l’abisso, l’immenso e il mal di testa 245 La scena si apre così 259
5 285 229 207 397 59 277 327 245 217 127 19 385 97 349 Un asino bianco miracolo e otto melograni rosa 277 Io la chiamo Palestina 285 Dead man writing 301 Day after, day before 327 La dittatura del consumismo 331 Tokyo, duemiladicassette 341 Sul fiume! Sul fiume! 349 Enjoy yourself 365 In ordine sparso 375 I miei figli africani 385 Nuvole e Messico 397 Le mie vite a Bangkok e altre storie thailandesi 407 “In quale parte del mondo sei?” 437 Se mi dici solitudine 461 Poi è arrivata l’erba alta. 469 Perso 475 41 469 449 301 331 341

“Troppa gente si occupa del senso. Mettetevi in cammino. Voi siete il senso e il cammino.”

(Jean Sullivan)

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«Forte di una lunga esperienza da disoccupato...». Iniziava così il mio breve curriculum, quando, alla fine del 1988, mi presentai a un colloquio presso la celebre agenzia di pubblicità Saatchi&Saatchi. Marketing, advertising, timetable erano parole completamente sconosciute per me. Avevo nello zaino qualche racconto e nella testa la vaga idea che forse avrei potuto fare il copywriter. Mi dissero che potevo restare per una settimana. È andata a finire che ci sono rimasto un po’ di più, quindici anni. Dopo un mese, sono stato assunto, dopo tre anni sono diventato supervisor, dopo cinque, direttore creativo, anzi, il creativo più premiato d’Italia. Provenendo da una famiglia di avvocati e forse per non sentire il peso della colpa di aver tradito la tradizione, ho iniziato a dedicare molto del mio tempo libero alle campagne sociali. Di giorno, lavoravo per i grandi clienti e di notte per quelli che non potevano pagare. Insomma, sono diventato il creativo delle cause perse. Dalla “pantera” per il movimento degli studenti a Medici senza frontiere, dal WWF alla Comunità

di Sant’Egidio, da Greenpeace al Tribunale per i diritti del malato, da eccetera a eccetera. Poi, un bel giorno, ho mandato all’aria la mia carriera, ho buttato nel cesso tutti i premi e ho preso la decisione di dedicarmi alla regia, ancora una volta da autodidatta. Ho iniziato così a scrivere e dirigere documentari, short film e le campagne per la Chiesa cattolica. Sono andato negli angoli più sperduti della terra e ho raccontato tante storie invisibili del nostro paese. Durante questi viaggi, nei rari momenti di pausa strappati al lavoro e alla stanchezza, ho scritto. Non è un reportage, né un romanzo e nemmeno una raccolta di poesie. Sono parole, le mie parole.

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UN REGALO DEL CIELO

STANCO, ANZI DISTRUTTO, dopo una giornata di sudore, polvere ed emozioni al quadrato, salgo sulla jeep che ci riporterà a un letto o forse semplicemente a un’amaca. Spingo lo sguardo fuori dal finestrino, mentre ci spostiamo di villaggio in villaggio.

E LA MAGIA INIZIA.

Le scene girate poche ore prima o molti mesi e chilometri fa, si confondono con le immagini che ora mi scorrono davanti, in una catena di lentissime dissolvenze.

TUTTO SI MUOVE a cinquanta fotogrammi al secondo, davanti ai miei occhi senza fondo.

SONO QUI, NEL CHACO MISERABILE E STELLATO, ma anche lungo il Rio Madeira illuminato e scosso da lampi e tuoni. O nel cielo rosso come il becco dei tucani mentre dietro di me si perdono le capanne degli indios bakairì.

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SONO QUI, ADESSO, MA C’È UN ALTRO ME

che, spinto come una nuvola dal vento della Patagonia, attraversa la domenica ubriaca e dolce di Antigua Guatemala e salta le pozzanghere profumate di merda dello slum di Kibera o si gode piangendo il panorama di facce e baracche della favela Rocinha.

NON

C’È UN FRAGILE ISTANTE, NON C’È UN PARTICOLARE, CHE

SFUGGA ALL’INQUADRATURA DEL MIO SGUARDO. COSÌ RIESCO A ENTRARE IN CONTATTO CON LA VITA CHE MI SCORRE DAVANTI.

PADRONE DI UN’ENERGIA EMOTIVA, DI UN’IPERSENSIBILITÀ CHE MI PORTA DENTRO, DENTRO, DENTRO TUTTO QUELLO CHE VEDO.

E così, quello che non sono stato, che mi sono perso per strada, tutto quello che mi ha reso l’esistenza difficile, fatto sentire scomodo, solo e forse infelice, ora mi torna incontro correndo, a braccia aperte. E mi stringe forte e mi bacia e mi accarezza e mi sussurra parole dolci che mi fanno innamorare.

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13 PIENO DI PAROLE BELLISSIME CHE FUGGONO VIA DA ME E CHE PERDERÒ PER SEMPRE. COME UNO SCIAMANO, GUARDO QUESTO MONDO, QUESTE FACCE, QUESTI MURI, QUESTI CIELI E MI SENTO IN PACE.

Pieno di pensieri che mi fanno sentire leggero, pieno di visioni lucide che mi regalano un’infinità di esistenze. Una pace contagiosa come una delle malattie che tanto mi preoccupano e che in questo momento mi fanno sorridere.

UNA PACE CHE SI MUOVE CON I PASSI LENTI

di una bambina con la legna sulle spalle e arriva nei letti di chi mi ama e di chi mi ha amato. Pace e visioni. Senza il pejote degli stregoni messicani, senza il fumo sparato nel naso dalle cerbottane degli indios yanomami.

È UN REGALO DEL CIELO, UN REGALO PER ME.

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MI SONO DIMENTICATO DELLA MIA FACCIA

(THE NUBA MONTAINS, 2005)

LOKICHOGGIO

È UNA MERDA.

È da qui che partono gli aerei della cooperazione internazionale. Siamo ancora in Kenia, a pochi chilometri dal confine con il Sudan. Da una parte capannoni e aerei United Nation, dall’altra tra polvere e sporcizia, le capanne turkana derubate di ogni fascino, si nutrono con gli avanzi dei vari campi base.

PILOTI RAZZISTI, PELLE CANDIDA E PASSATO

OSCURO,

SIEDONO SUGLI SGABELLI

dei tristi bar delle loro spregiudicate compagnie aeree, con lo sguardo perso nel vuoto e nei vuoti d’aria. Due voli al giorno, quattro birre alle ore diciotto e poi una ragazza nera da portare sotto una zanzariera grigia piena di buchi.

TUTTO È BRUTTO QUI, PERFINO LE PRINCIPESSE

TURKANA

SEMBRANO MENDICANTI.

Le reti di filo spinato che recintano l’aeroporto, dividendo il mondo in due, intercettano le buste di plastica portate da un vento bollente.

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SEMBRANO CORPI

ELETTRIFICATI, MORTI CERCANDO LA FUGA.

IL PAPA NON È PIÙ. L’UOMO DEL DARFUR CHE CI SIEDE DI FRONTE, INVECE, È ANCORA.

E nemmeno lui sa spiegarci come, perché. Ha visto scannare moglie e figli e un intero villaggio dai janjaweed. Poi ha sentito un coltello entragli in gola, poi sul dorso di un asino ambulanza è arrivato in un ospedale. Quando parla deve tapparsi con una mano il buco in gola per evitare di far entrare aria. È vivo ma a ogni parola i suoi occhi sembrano esalare l’ultimo respiro.

UNA BIRRA TUSKER ANCHE PER NOI, poi gli occhi trasparenti di padre Kizito e i suoi racconti sulle avventure di un missionario nudista in una tribù cannibale, dimezzano le cinque ore di attesa.

COME UN FORTINO, L’AEREO È CIRCONDATO E

PRESO D’ASSALTO.

Sudano tutti, non solo noi. Fuori trentanove gradi, dentro quarantacinque, almeno. Non è un aereo, è un matatu!

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ATTORNO A ME IL FRATELLO DI KUWA,

il celebre capo poeta morto qualche anno fa, e poi molti nuba della diaspora, che tornano nella loro terra per la grande conferenza, la prima dopo la firma del trattato di pace. Niente da fare: dopo ore di sauna ed estenuanti trattative su posti e bagagli, ci fanno scendere tutti. L’aereo è troppo carico, è troppo tardi, e noi siamo tutti troppo stanchi per prendere il pilota e impiccarlo a un’elica del suo fottuto aereo.

LA NOTTE DI PADRE KIZITO È MALATA, L’ALBA È UNA PIOGGIA LEGGERA, MOSCHE

E SILENZI.

ECCO,

ARRIVA IL NOSTRO AEREO.

Ieri trasportava i cani della regina d’Inghilterra, oggi lì dentro abbaieremo noi. Si balla, cazzo, poi le nuvole si aprono e come in un’operazione a cuore aperto appare l’organo pulsante, appaiono le Nuba Mountains. Rimetto i piedi a terra e ci cammino sopra come un santone sui carboni ardenti. Il caldo regna sovrano, incurante delle guerre e dei tentativi di pace. Mi guardo intorno mentre saliamo verso Kerker.

GRUPPI DI UOMINI SOTTO GLI ALBERI ASPETTANO

CHE LA VITA PASSI, un ragazzo scortato dal suo kalashnikov appare e scompare come in un gioco di prestigio, poi gli occhi animali delle donne, i fantasmi baobab, le sculture di rocce, le capanne di pietra e i tetti di paglia.

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CI FERMIAMO, LA GENTE ASPETTA SERIA

il tuo sorriso, il tuo saluto, poi subito risponde piena di grazia e dolcezza. I più anziani si alzano e ti vengono incontro, i più piccoli scappano via ridendo. Lungo i crinali delle prime montagne e dell’ultima sera, incrociamo piccoli nuba che non hanno mai visto nessuno come me e il loro sguardo assomiglia al mio. Perché anche io non ho mai visto nessuno come loro.

SALIAMO E SCENDIAMO, I FUOCHI DEGLI UOMINI

della terra illuminano e bruciano la Terra. Le ultime due arrivate di questo pianeta succhiano la vita da due giovani e timide mamme tira. I loro occhi fuggono ma quando si fermano mi trafiggono da parte a parte. Bello morire così.

L’ALTRO STEFANO CHE VIAGGIA CON NOI, MI DICE CHE SEMBRO FELICE.

NELLO STESSO VILLAGGIO CONVIVONO

PACIFICI, A POCHI METRI DI DISTANZA, la moschea e una chiesa di fango, paglia e commoventi affreschi di gesso.

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KERKER ADESSO SORRIDE, MA FINO A DUE ANNI FA I SORRISI ERANO PREZIOSI E RARI COME LO ZUCCHERO E IL TÉ.

LA MILIZIA SUDANESE RAPIVA, STUPRAVA, BRUCIAVA.

E i nuba rapiti, stuprati, bruciati, lottavano per difendere terre e villaggi. Con armi preistoriche e il loro nome come bandiera: “nuba”, unica parola capace di unire le novantanove leggendarie lingue di queste leggendarie montagne.

LA NOTTE SCENDE IN UN ATTIMO, DA SOPRA LA ROCCIA SACRA DEL GRANDE SERPENTE LA VEDO ARRIVARE DI CORSA.

DA QUI, DOMANI ALL’ALBA, vedrò arrivare di corsa bambine, bambini, ragazze, ragazzi, verso la Koinonia Model School, creata da Kizito e da Amani.

LA NOTTE, GIÀ.

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CHI HA DETTO CHE È IL SILENZIO LA

COLONNA SONORA DELLA NOTTE AFRICANA?

QUI LE STELLE BALLANO, urlano domande, insulti, poesie innamorate. Come cazzo posso in mezzo a questo casino, a questa curva sud in delirio, chiamare il sonno e dirgli: «Addormentami!». Prendo una scopa e sbatto il manico contro questo soffitto di luci, ma al piano di sopra nessuno mi sente, e la festa continua…

IL GIORNO, IL MEZZOGIORNO, INVECE È VENTRILOQUO.

Nulla si muove, ma qualcosa ti parla lo stesso. E io, ogni tanto, faccio finta di non capire. Dormiamo nelle loro capanne dopo aver diviso con loro riso e capra e cielo. Ragni, pipistrelli e serpenti ridono a crepapelle della mia strana zanzariera, dello spray di Alessandro e soprattutto dei nostri sogni emozionati.

LA

MATTINA A SCUOLA:

spieghiamo ai ragazzi il funzionamento delle trenta macchine fotografiche usa e getta che stiamo per affidargli.

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25 LA MAGGIOR PARTE DI LORO NON NE HA MAI VISTA UNA PRIMA D’ORA. IN GRUPPI DI TRE, SENZA DISTINZIONI DI ETÀ E DI SESSO, RACCONTERANNO LA LORO VITA SULLE MONTAGNE. SARANNO I PRIMI FOTOGRAFI NUBA DELLA STORIA.

VOGLIO FARCI UN LIBRO, ACCOMPAGNATO DALLE LORO

PAROLE.

GIÀ FREMO PER L’EMOZIONE

pensando al momento in cui mi vedrò davanti le foto sviluppate.

COMBATTO CON LA MIA SUPER8

contro il migliore dei lottatori, tutti ridono e ridono ancora di più quando indosso il loro regalo per me, una gonnellina tradizionale. Ballo muovendo il sedere, che culo essere qui!

I ragazzi e le ragazze che fino a pochi anni fa non sapevano neppure che esistesse un’altra lingua, parlano inglese molto meglio di me. Sono intelligenti, fieri e allegri.

ERO GIÀ STATO QUI,

lungo i sentieri di Kerker o le capanne di Gidel, anni fa, in sogno. Un sogno a occhi socchiusi e con una penna in mano. Ripenso ai giorni in cui avevo scritto la campagna per aiutare Amani nel suo solitario impegno per questo popolo. Per farlo, mi ero tuffato nelle foto scattate da Francesco Zizola, cercando di diventare uno di loro, forse ci ero riuscito.

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FORSE SONO UNO DI LORO,

forse sono quell’uomo che mi viene incontro e come sono soliti fare i nuba, per salutarmi, prima posa la mano destra accanto al mio cuore e poi sorride stringendo le cinque dita della mia.

QUI TUTTO

È

PREZIOSO,

ANCHE UNA BOTTIGLIETTA

D’ACQUA

DISEREDATA DELLA SUA LIQUIDA E TRASPARENTE RICCHEZZA. QUEL CONTENITORE QUI NON È UN RIFIUTO, È UN REGALO. QUI NIENTE È PREZIOSO, PERCHÉ SAI FARE A MENO DI TUTTO, PERCHÉ PUOI FARE A MENO DI TUTTO, PERCHÉ DEVI FARE A MENO

DI TUTTO.

LASCIAMO

KERKER DIRETTI A KAUDA,

è lì che si tiene la Conferenza. Le buche, gli stop improvvisi e le ripartenze hanno guarito il mio mal di schiena. Ancora grandi alberi e sotto di loro donne magiche, colorate da veli fosforescenti, come frutti maturi appena caduti. Ecco Kauda con la sua foresta di manghi. Accolti dai capi del SPLA, il Sudan People Liberation Army.

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NON HANNO DIMENTICATO CHI HA AIUTATO LA

LORO GENTE NEI MOMENTI DIFFICILI, così salutano reverenti padre Kizito e Gianmarco Elia e mi stringono la mano, impettiti nelle loro uniformi da guerra.

POI, DOCILI, SI LASCIANO FUCILARE DALLA MIA SUPER8.

LA STRADA VERSO KUJUR SHABIA, dove ci aspetta l’altra scuola, è un tormento per il sedere se sei seduto sul cassone della jeep, e un tormento per gli occhi, se hai il coraggio di tenerli aperti, perché è tutto assolutamente bello.

CI ARRAMPICHIAMO COME FORMICHE, il vento ci butta in faccia l’Africa, le capanne nuba, le donne con brocche d’acqua in testa, gli occhi rossi di uomini neri. I passati bombardamenti di immagini fotografiche e video, non riescono a rubare ai miei occhi l’emozione della prima volta.

LA

LUCE ORA È UN CAPOLAVORO.

Tutto è troppo. Così ora mi riempie e poi lo so, mi svuoterà, mi spingerà lontano.

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ARRIVIAMO ALLE CAPANNE DEGLI INSEGNANTI

e un attimo dopo sono già in giro con Gianmarco. Figure di ragazzi nuba stagliati sulle rocce, contro un cielo che soffoca un sole luna.

ANCORA UNA NOTTE NELLA NOTTE DEI TEMPI.

ANCORA RISO E CAPRA CUCINATE

in cucine di terra, con un fuoco di un’altra età. Anche qui la scuola è miele. Ci arrivano a piedi, a volte dopo ore, a volte su di una gamba sola, come una ragazza che Kizito cerca subito di aiutare. Anche qui i bambini sono divisi tra timidezza, curiosità e voglia di ridere.

CALDO, CALDO, CALDO!

Fermi, spesso in silenzio, aspettiamo. Un’attesa sconosciuta. Niente da rincorrere. Nessun appuntamento. Fermo, il vento mi oltrepassa.

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DA QUANTO TEMPO NON È COSÌ, FORSE DA MAI,

UN LUNGO IMMOBILE ISTANTE.

Guardo e imparo dai maestri sudanesi. Parlano a bocca e occhi socchiusi. Respirano il respiro della terra, in cinque, vicini, come un cerchio misterioso di baobab. Come alberi cresciuti da un seme di roccia. Guardo i loro piedi, polvere e unghie e sandali ristrutturati.

ALZO LO SGUARDO, C’È UN TETTO ANTICO COME L’AMORE E L’ODIO. E IMMOBILE LASCIO CHE IL TEMPO MI OLTREPASSI.

ATTESA, ATTESA, ATTESA!

LE DITA NUBA GIRANO CAPRA E RISO, riso e capra, il piatto è blu e il cielo ancora bianco di calore. Attesa e parole scritte, scivolano via da me come lucertole e si fermano qui, su queste pagine, a prendere il sole. Adesso ridiamo tra noi e di noi. Adesso camminiamo, scendiamo sicuri come le capre che ci siamo mangiati, come le capre che ogni tanto incontriamo. I miei compagni di viaggio Alessandro, Angelo e Stefano filano che è un piacere.

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LA NOSTRA GUIDA È VELOCE, ma non ci facciamo lasciare indietro. La gente risponde sempre, con la voce, le mani, le gambe, gli occhi.

MAI UN VAFFANCULO, SEMPRE

UNA PORTA

APERTA IN QUESTE CASE SENZA PORTA. PERCHÉ QUI

È

COSÌ,

E

DA NOI FILI SPINATI E CUORI CHIUSI COME PORTE BLINDATE? NOI ORMAI LONTANI SCONOSCIUTI PARENTI DI NOI STESSI. COSA CI HA RESO COSÌ STRAORDINARIAMENTE TRISTI E SOLI E INUTILI?

QUANDO GESÙ URLAVA FANATICO E RIBELLE, qui tutto era come adesso. Generali, poeti, santi e conquistatori figli di puttana, queste rocce, questi alberi sono stati più forti e pazienti di voi. Oggi sono qui, e attorno a me gli stessi gesti di miliardi di mesi fa. Hanno vinto loro. Perché qui un albero è un albero e un uomo è un uomo. Molto moltissimo, poco pochissimo. Quasi tutto e quasi niente.

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CAMMINARE COME AL SOLITO

mi fa sentire bene, su goffi arbusti grassi stanno spuntando eleganti fiori rosa. Lungo il sentiero che ci porta giù a Kauda, in alto appaiono bambini nuba. Ai miei occhi microscopici e immensi.

IMPROVVISAMENTE PENSO CHE MI SONO DIMENTICATO DELLA MIA FACCIA.

NEL GIALLO DI UN CAMPO, UN UOMO vestito di bianco si inginocchia e prega, la testa tocca terra, ma lui sembra voler andare ancora più giù. Come un rabdomante sente l’acqua lui forse riuscirà a sentire Dio.

ECCO KAUDA BY NIGHT, ILLUMINATA da fiochi neon figli della nuova pace. La Conferenza è finita, finite le parole e i discorsi pieni zeppi di futuro. Domani solo danze e canti. Polvere sulle merci del piccolo mercato e su di noi. Molto è cambiato, mi dice Gianmarco, qui nel centro più importante, nella “capitale” del territorio nuba, in seguito al cessate il fuoco. C’è perfino un ristorante di otto metri quadrati.

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DOPO LE NOTTI NEI VILLAGGI ISOLATI

qui sembra di essere tornati alla realtà o alla finzione del set di un film di guerra.

TUTE MIMETICHE E JEEP

delle varie sigle ONU, ONG e dei tanti che durante il genocidio non hanno fatto niente e ora vorrebbero mettere la loro bandiera su tutto.

LA MUSICA È ARABA,

come i turbanti bianchi, le due tazzine su un minuscolo tavolino a terra, e le strette di mano che durano un’ora.

I RAGAZZI CRESCIUTI SOTTO GLI OCCHI

DI

PADRE KIZITO

BELLEZZA.

ESPLODONO

DI

INTELLIGENZA E

Guardo i futuri leaders di questo territorio e penso ai nostri rappresentanti, flaccide mozzarelle scadute.

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LE TENDE DELL’ACCAMPAMENTO CHE CI OSPITERANNO PER UNA NOTTE MI FANNO RIMPIANGERE LE CAPANNE NASCOSTE LASSÙ. MA LA DOCCIA È UNA DOCCIA.

SOPRA I BIDONI, SULLA PISTA D’ATTERRAGGIO

circondata dal nulla più un baobab e il relitto di un aereo, uso la super8 come se fosse un “gun”. E quando inquadro nel mirino quegli sguardi, e mi avvicino a quegli occhi, mi chiedo come cazzo si fa a premere un grilletto.

IL PILOTA RUSSO SMONTA E RIMONTA I SEDILI

mentre fuori il suo secondo pompa a mano il carburante. Odia l’Africa e gli africani, ancora due settimane e va via, «ho l’esaurimento nervoso», dice ad Alessandro. Niente male come Welcome on board. Attesa, attesa sulla pista, a più di quaranta gradi all’ombra, all’ombra dell’ala del nostro aereo. Con una scala a pioli si sale a bordo come per andare a cambiare una lampadina.

LE LINGUE NUBA SI INTRECCIANO RIEMPIENDO L’ATTESA DI SUONI CHE IL VENTO MI PORTA E MI PORTA VIA.

QUANTI HANNO PARLATO DELL’ELEGANZA

di queste donne femmine, quanti dell’ebano abbacinante di questi uomini maschi? Tanti, troppi. Mille più uno, io. Nuba, nuba, nuba!

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MENTRE VOLIAMO VIA DALLE MONTAGNE

Kizito ci racconta ancora di loro, del loro modo aperto di vedere il mondo, la fede, l’esistenza. Diverso da quello di tante altre etnie.

DELLA LORO CELEBRE FORMA DI LOTTA: NESSUNA UMILIAZIONE PER LO SCONFITTO, SOLO GLORIA PER IL VINCITORE.

di rami e affluenti trasformisti. Qui i grandi esploratori del passato hanno perso orientamento e testa riempiendo il cielo di bestemmie. Qui Sir dal petto gonfio di medaglie e onorificenze hanno visto certezze, speranze e bagagli annegare tra ippopotami, coccodrilli e serpenti velenosi. Ancora oggi solo gli shilluk sanno come muoversi e vivere qui. Qui anche i nuba hanno perso. Dei mille che partirono all’inizio del conflitto, cercando di superare l’immenso fiume per avere armi e aiuti dal sud, soltanto duecento arrivarono vivi. E l’incubo del viaggio li spinse a non tornare più indietro. Il dopo è l’incontro con un senegalese tifoso della magica Roma e poi ancora attesa, ancora caldo, ancora aerei, e fortunatamente ancora parole di Kizito.

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SORVOLIAMO, INTRAVEDIAMO IL PADRE NILO. TRENTA CHILOMETRI DA SPONDA A SPONDA
MENTRE SORVOLIAMO TRA NUVOLE COLORATE IL DESERTO DEI TURKANA, CELEBRI PER I LORO STRAVAGANTI ABBIGLIAMENTI, MI RACCONTA CHE QUALCHE TEMPO PRIMA UN PADRE MISSIONARIO DEL POSTO SI ERA TROVATO A CELEBRARE UN MATRIMONIO AL QUALE LO SPOSO SI ERA PRESENTATO IN GIACCA, CRAVATTA E BASTA. «INSOMMA», PROSEGUIVA IL PADRE, «READY FOR ACTION!». RIDO, E LA MIA NUOVA COLLANA SI MUOVE E SUONA. 39
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IN QUEL CAMPO DI PAPAVERI (PAROLE DAL CARCERE DI FROSINONE, 2005)

ABBIAMO TERMINATO LE RIPRESE NEL CARCERE di Frosinone. Per raccontarlo inizio dalla fine, da me e Bruno e Antonio.

QUI NEL CORTILE IL SOLE È GIÀ TRAMONTATO.

Tre muri su tre lati e sul quarto la faccia del penitenziario di Frosinone, quaranta finestre sbarrate sugli occhi sbarrati della sezione di massima sicurezza. Quella faccia ci guarda, agita le braccia, regala bottiglie di caffè carcerato da prendere al volo e risponde alla mia domanda: «Quanto ancora?», facendo cinque e ancora cinque con la mano e un sorriso disperato, ma senza che la voce dica quell’interminabile tempo da trascorrere ancora e ancora e ancora.

QUI NEL

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CORTILE, DOVE OGNI GIORNO I LADRI AMMAZZANO IL TEMPO E GLI ASSASSINI RUBANO UN’ORA D’ARIA, SIAMO DI FRONTE, VICINI, UGUALI.

RESPIRIAMO TUTTI E TRE.

Tutti e tre siamo stati, siamo e saremo, neonati, bambini, ragazzi, uomini e vecchi. Tra poco io sarò fuori, là dove il sole non è ancora tramontato.

DENTRO

VORREI INSEGNARGLI A LASCIARE QUEL CORPO

PRIGIONIERO A UNA CONTROFIGURA

per volare via leggeri come il polline che nevica sulle nostre teste. Loro ridono, a volte amari, a volte complici, a volte ironici.

A VOLTE PIANGONO.

CONOSCO LE LORO REGOLE, IL LORO ORGOGLIO, la loro amicizia, la loro violenza, e la mia rabbia. Uno di loro. Io qui, perfettamente a mio agio.

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VORREI NASCONDERLI
DI ME, FARGLI SUPERARE CONTROLLI E CANCELLI. E POI LIBERARLI IN QUEL CAMPO DI PAPAVERI.

COSÌ, MENTRE RACCONTANO TRA VERITÀ E FANTASIE, BUGIE E REALTÀ, LA LORO STORIA, SONO

IO CHE MERITEREI DI ESSERE ARRESTATO, PERCHÉ ASCOLTO E RUBO E RUBO.

MENTRE SUPERO L’ULTIMO CANCELLO, TIRO UN SOSPIRO DI SOLLIEVO, HO

PRESO QUALCOSA.

Ma nessuno se n’è accorto. Ancora una volta io non sarò più soltanto io. Forse è per questo che a volte mi scopro a guardare i miei figli con gli occhi miracolati di un povero pescatore scampato alla tempesta o ad amare con lo stesso amore violento, assoluto e sbalordito di un prigioniero al suo primo giorno di libertà.

IO COMPLETAMENTE ESTRANEO, TIMIDO, insofferente e arrogante verso un mondo nel quale vivo, ma che non è il mio.

I MIEI SIMILI, I MIEI FRATELLI, SONO SEMPRE ALTROVE. CHIUSI IN UNA CELLA GABBIA O LIBERI NELLA FORESTA IMMENSA. 43
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FINALMENTE NOTTE (PAGINE ARGENTINE, 2004)

DUE RAGAZZI SEDUTI A TERRA.

Lei gli accarezza il viso, lui è serio guarda oltre. Oltre le pianure della Patagonia e i monti della Cordigliera. Oltre le carezze e oltre quel foglio che tiene in mano. Quattro o cinque righe, trenta o quaranta parole. Che lo tengono lì, che lo spingono oltre.

VERSO ALLUMINÈ,

VERSO

LA CORDIGLIERA, nuvole sempre più scure. Gauchos solitari e silenzi preistorici. Il vento dei mapuche mi ha detto qualcosa che non so ripetere.

QUESTE NUVOLE CHE

I MIEI OCCHI INGHIOTTONO, queste ombre, queste luci che entrano dentro di me, dove poi finiranno mai?

SULLA PIEDRA PINTADA, ANTICO MIRADOR DEGLI INDIOS MAPUCHE, l’aria è come l’aria dopo un anno in cella di rigore.

I MIEI OCCHI FINALMENTE OCCHI.

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NON DEVO DIMENTICARE.

PADRE VALERIO DOVEVA RESTARE SOLO QUALCHE MESE IN PATAGONIA E INVECE HA TRASCORSO QUI QUASI UNA VITA.

Padre Valerio, che dorme per due anni in una baracca di lamiere costruita a ridosso di un albero, sfidando freddo, vento e il mondo intero. Il suo amore è così forte che quando lascerà la baracca, l’albero morirà di solitudine. Padre Valerio che, alla fine delle riprese, mi mette tra le mani un’antica pipa mapuche e mi dice «Hai fatto il tuo lavoro non solo con l’intelligenza ma anche col cuore».

Cuore, questa parola torna sempre verso di me. Io la lascio volar via, lontana e lei attraverso sentieri sconosciuti torna, da me.

È NOTTE, INCROCIAMO FARI.

Basta un borracho, un ubriaco deluso d’amore all’ennesima sbandata della sua vita e ciao a tutto.

I PIQUETEROS BLOCCANO LA STRADA,

noi relegati nelle piste di terra rossa della Patagonia sconosciuta. Balli, colonne di luce e pioggia, sassi colorati, birra.

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49 IN DUE IN BICI, IN TRE A CAVALLO, IN CINQUE IN MOTO, IN OTTO NEL LETTO, IN QUINDICI IN CAMERA. QUI È PIÙ DIFFICILE SENTIRSI SOLI.

BANDERA BAJADA È MISERIA, FANGO,

bocche che non sanno sorridere, pioggia, noi avanziamo scivolando su strade disperate.

LUCCIOLE, LOU REED, CAVALLI CHE EMERGONO DAL BUIO, sudore tatuaggio stampato sulla pelle, lacrime nella testa. Emozione emozione emozione!

ABBIAMO BUCATO, sotto il sole reggae ancora a ballare, nel buio.

PUZZA DI GOMME BRUCIATE, BAGLIORI

DI TELEVISORI IN BIANCO E GRIGIO, baci di innamorati senza un peso in tasca. Lungo la carretera che da Bandera Bajata ci porta via. Lucciole come stelle cadenti, e viceversa. Sono qui adesso, al centro di un gigantesco déjà-vu con i miei compagni di viaggio. Catapultati sulla via del ritorno a Terra. Lucido, sento quello che dovrei sempre sentire, ogni istante è pronto con valigia e passaporto a essere l’ultimo istante. Ecco, arriva. È lo sbalordimento della vita.

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SO SOLO CHE È QUALCOSA

CHE RENDE LIBERI E POI PRIGIONIERI.

Entusiasti e depressi. Troppo folli e troppo saggi. Ispirati e banali. Semplicemente felici e assolutamente tristi. Con lo stesso biglietto ti porta in cielo e sottoterra. Sognanti sono i giorni e insonni sono le notti. È il tuo orgoglio e la tua vergogna. La tua forza più forte e la tua più debole debolezza. È tutto quello che sei e quello che non vuoi essere. Vicino quando sei lontano, lontano quando sei vicino. Unico al mondo e uno dei tanti tra tanti. Gli occhi vedono come gli occhi di uno sciamano e piangono come quelli di un cieco. So solo che ti farà vivo sul letto di morte e morto in una sera piena di vita.

MI PIACCIONO QUELLI CHE DA TERRA VANNO DRITTI VERSO IL CIELO. 51

GUIDATI DAGLI SCIAMANI E DAI PROFETI,

gli indios guaranì andavano e andavano alla ricerca di una terra senza male, suolo fertile e spazio vitale senza malattie, gli spagnoli pensarono che fosse l’Eldorado…

SONO IN UN VILLAGGIO MAPUCHE, SI CHIAMA PULMARÌ.

Vuol dire “finalmente notte”. Gli indios in fuga dalla morte lo chiamarono così, quando vi trovarono riparo, stremati. Ecco, quando le mie labbra ti baciano a volte sorridono e adesso sai perché. Stanno dicendo “finalmente notte”. O se preferisci, Pulmarì.

SONO STANCO, SONO SPORCO, SONO. LE EMOZIONI, VENTO. IO, BANDIERA.

BUENOS AIRES, A CANTARE

sul tetto della casa accoglienza con i ragazzi del barrio Barracas, padre Charango e Miguel. Durante le riprese sono stati bravissimi, quando gli abbiamo fatto vedere gli spot degli anni passati avevano gli occhi più grandi dello schermo. E andando via non smettevamo di abbracciarci e salutarci.

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SU UN MURO, NEL QUARTIERE PALERMO:

“Duele de placer tu cicatriz en mi” e ancora “Tu cuerpo lunar rifugio celestial”. Cazzo, vorrei averli scritti io.

LE

LACRIME DELLE FAMIGLIE POVERE CHE SI

SPEZZANO

E SOFFRONO, ALL’AEROPORTO DI SANTIAGO. NELLE VETRINE, PANTALONI E GIACCHE DA COMPRARE A RATE.

DOPO GIORNI DI BATTAGLIA, nel momento in cui ho detto: «Abbiamo finito», tuoni lampi e pioggia e pioggia. Sui nostri sorrisi e sopra i nostri applausi.

LA STANCHEZZA STA DIVENTANDO UNA

VALANGA CHE MI RINCORRE. Cerco di fuggire, ma la testa mi gira, e le gambe hanno così poca voglia di fare le gambe… Il capo elettricista argentino, pensando alle zone sperdute e povere dove abbiamo girato, mi saluta dicendomi: «Grazie per avermi fatto scoprire l’Argentina».

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NELL’ULTIMO PRANZO INSIEME, IN PIEDI SULLE PANCHE LA TROUPE MI SALUTA: «OH CAPITANO! MIO CAPITANO!».
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CON UN WHITE OPOSSUM SULLA TESTA (STORIE

DALLA PAPUA NUOVA GUINEA, 2006)

L’ANTIPASTO.

Dodici voli in quattordici giorni. La mia guida sarà Malinowski e non Lonely Planet. Tre giorni di viaggio, poi, all’ultimo imbarco, facce sfacciatamente preistoriche.

ATTERRIAMO A PORT MORESBY.

Ci accoglie un cartello invisibile che dice: «Benvenuti nella capitale più violenta del mondo!».

IL VESCOVO, ALTO E DRITTO COME UN PIOPPO, ci chiede se siamo stanchi e poi, senza aspettare risposta, ci mostra le nostre stanze salesiane. Dopo il riposo e prima di andar via, ci fanno vedere un bellissimo documentario. È il racconto della prima spedizione australiana in Papua. Fino al 1920, questa regione del mondo era terra inesplorata e, a parere di molti, disabitata. In realtà, gli aborigeni erano oltre settecentomila.

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LE IMMAGINI GIRATE

nel corso della spedizione sono fantastiche ma le testimonianze, registrate intorno al 1970, lo sono ancora di più. Un aborigeno che aveva assistito sbalordito all’arrivo di quegli strani esseri bianchi, in cui loro vedevano gli antenati defunti tornati a trovarli dall’al di là, raccontava oggi le sue impressioni di allora.

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«QUANDO VEDEMMO ATTERRARE L’AEROPLANO CI AVVICINAMMO PER SCOPRIRE SE FOSSE MASCHIO O FEMMINA. POI, COMINCIAMMO A SEGUIRE QUESTI STRANI ESSERI BIANCHI, TENENDOCI SEMPRE A UNA CERTA DISTANZA. A UN CERTO PUNTO, VEDEMMO UNO DI LORO ALLONTANARSI E NASCONDERSI TRA I CESPUGLI. QUANDO SI RIUNÌ AGLI ALTRI, ANDAMMO A VEDERE CHE COSA AVEVA FATTO E, CON GRANDE SORPRESA, SCOPRIMMO CHE ANCHE SE VENIVANO DAL CIELO, LA LORO MERDA PUZZAVA PROPRIO COME LA NOSTRA!».

MAI COME IN QUESTO LUOGO,

passato remoto e futuro hanno finito per trovarsi faccia a faccia. Ed è quasi inutile ricordare come il mondo di questi terribili mangiatori di teste sia stato in poco tempo divorato dal nostro onnivoro progresso.

ORA SIAMO APPENA ATTERRATI AD ALOTAU,

tappa di avvicinamento alla meta finale. A bordo di un bel furgone, attraversiamo un immenso palmeto piantato da non ricordo più quale multinazionale. La cittadina è in realtà un semplice villaggio.

I

PADRI MISSIONARI AUSTRALIANI

che ci ospiteranno sono in realtà distinti signori dalla pelle rosa, troppo rosa per questo sole e pantaloncini corti, non abbastanza corti per questo caldo.

SONO GENTILI. TRANNE UNO.

Lui, quasi non ci saluta, chino sul suo piatto e sulla sua malaria. Scoprirò poi che è il più intelligente e sensibile del gruppo. Se non fosse per Rita, la giovane e allegra cuoca, ci sarebbe da spararsi per l’imbarazzo. Gioca a calcio e la sera va ad allenarsi.

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COSÌ, NATURALMENTE, MI CONQUISTA

e le faccio mille complimenti per la pasta più immangiabile che abbia mai mangiato.

È NOTTE E VORREI FARE UN GIRO A PIEDI,

ma potrò farlo solo in compagnia della scorta. Ci affidano a Gregory e a Philip. Quest’ultimo è un piccoletto sordomuto, ha l’aria di esser lui ad aver bisogno di protezione. Ma mi sbaglio di grosso.

AD

ALOTAU, PHILIP È UNA

LEGGENDA, lo si capisce dalla deferenza con cui lo salutano per strada. Lui mi sorride e, su invito di Gregory, mi mostra un pezzo del suo repertorio.

«KARATÈ MAN! KARATÈ MAN!», gridano i bambini. Restiamo a bocca aperta. È una macchina di muscoli, agilità e potenza. Su di lui fioccano le storie del tipo «A Port Moresby è stato circondato da tre ladri armati di machete e lui gli ha tolto il machete e la voglia di fare i prepotenti». Insomma, di lui non mi dimentico, mentre sulle buche per arrivare ai villaggi dell’interno stenderei volentieri un pietoso velo.

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63 LA NOTTE È I SOGNI INTERROTTI DA UN CANE INNAMORATO DELLA LUNA E DA UN UBRIACO CURIOSO DEL COLORE DELLA PELLE DI ARMINA CHE FA CAPOLINO ALLA FINESTRA.
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PALAFITTE, IMMENSI ALBERI, PIOGGIA DI LUCE SU TORRENTI E LAVANDAIE.

IL PAZZO DEL VILLAGGIO SI AVVICINA E MI MOSTRA ORGOGLIOSO IL SUO ORGOGLIO: UN «WHITE OPOSSUM». Ha gli occhi gialli e sporgenti e unghie come artigli. In un attimo me lo ritrovo sulla testa, a camminare sui miei pensieri e le mie emozioni. Ora so, finalmente, cosa risponderò quando qualcuno mi chiederà, «Stefano, si può sapere cosa ti frulla per la testa?».

A SERA I RAGAZZI DEL CORO CANTANO, aiutandoci a digerire le cene del centroavanti Rita e la rabbia accumulata durante la visita al “supermarket” di Alotau. Aggirandoci tra gli scaffali, abbiamo capito perché questa terra è nota come “la pattumiera del mondo”.

MEDICINALI SCADUTI, cibi immangiabili, prodotti difettosi. Tutto quello che non va bene per il resto del mondo va bene per Papua Nuova Guinea. Guardo la carta del nostro azzurro pianeta e penso che siamo già allo sprofondo. Eppure sento che è solo l’antipasto.

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DOMANI SI PARTE PER LE ISOLE TROBRIAND.

Domani inizia il vero viaggio. Sorvoliamo il Mar dei Coralli. Dagli abissi spuntano atolli senza nome e senza traccia di uomo. E di donna. I miei occhi passano dal blu dipinto dell’acqua al nero stampato delle parole di Malinowski. Si apre il carrello di atterraggio. C’è un forte vento contrario e l’aereo da venti posti sembra quasi fermo, più veloce è la bicicletta della suora che pedala parallelamente alla polverosa pista di atterraggio.

PADRE ALFREDO CI ACCOGLIE IN BERMUDA

scoloriti e colorito accento romanesco. Ragioniere ed ex impiegato al ministero di non mi ricordo più che cosa, ha udito, a 45 anni suonati, la chiamata di Dio: «Ahò, Arfré, che ne dici de datte da fa’ pe li poveri?». Lui ha mollato tutto ed è diventato missionario.

HA UN CUORE D’ORO, ma sembra che viva qui come se fosse ancora in viale Trastevere, con le stesse manie di ordine e le stesse abitudini a scandire le giornate.

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MA TUTTI QUESTI PENSIERI ARRIVANO DOPO,

dopo la sbalordita emozione che accompagna il trailer che scorre davanti ai nostri occhi. Mi chiedevo se la realtà descritta da Malinowski nei primi anni del Novecento non fosse ormai solo letteratura antropologica. Ebbene no, non è così.

SE NON È OGGI, IL 1914 È SOLO IERI.

SU QUESTE ISOLE, NIENTE COLLINE E FORESTE

ma foreste di volti e sorrisi di sorpresa ed eccitazione. I dim dim, i bianchi, qui sono rari come le medicine. Nessuna traccia dei volti duri da età della pietra dei papuani visti fino ad oggi. Capelli selvaggi esplodono come fuochi d’artificio su volti illuminati da una sensualità antica e ribelle, in nessun modo imparentata con l’addomesticato termine “sexy”. Capanne di paglia e, al centro, il magazzino decorato dello yam, cibo padre della loro alimentazione, cibo sacro e fulcro della grande festa che ogni anno porta per un giorno gli uomini a non conoscere più la propria donna e le donne il loro uomo.

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69 VENTIQUATTRO ORE DI TOTALE LIBERTÀ SESSUALE CHE SPINSERO MALINOWSKI A BATTEZZARE QUESTE ISOLE “LE ISOLE DELL’AMORE”.

L’ARRIVO, I PRIMI MOMENTI,

i benedetti minuti dai secondi lenti e con il cuore dai battiti veloci. Non so come, ma c’è tempo anche per osservare le foglie ciclopiche e i frutti dalle forme mirabolanti, prole fantastica di orti innaffiati da riti magici.

CAMBIERÀ

LA LUCE, i nomi dei villaggi e il mio stato d’animo, ma i saluti saranno sempre così: i bambini con la corsa folle, gli uomini con il braccio teso verso le nuvole, le ragazze con gli occhi profondi e immobili.

KIRIWINA, SI CHIAMA COSÌ LA NOSTRA

ISOLA. KIRIWINA COME LA FARFALLA CHE ORA VOLA INTORNO A ME.

KIRIWINA NERA CON LE ALI CHIUSE.

Nera se visiti l’ospedale, senza un medico da 10 anni, vetri rotti e fragili anziani allungati a terra, un bambino anni tre orrendamente ustionato, i malati gravidi di tubercolosi vicino alle donne incinte.

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KIRIWINA BLU CON LE ALI APERTE.

Blu come l’abisso mare, dove bambini pescatori di polipi e pesci colorati si tuffano con fiocine a elastico e trucchi ereditati da un nonno di migliaia di anni fa. «Gli squali? Tuffati pure, hanno paura», mi dice un vecchio che impugna un bastone di ebano intagliato. E io e io mi tuffo!

LA MISSIONE DOVE CI FERMEREMO SEMBRA QUELLA DI MISSION . GRANDE SPAZIO VERDE, DUE IMMENSI ALBERI DELLA PIOGGIA,

che ancora oggi, a volte, vengono a visitarmi in sogno per regalarmi la loro ombra, la chiesa con un sentiero di fiori bianchi sul pavimento che, con il loro profumo, ti prendono per mano e ti portano davanti all’altare, come un padre con la giovane figlia in abito da sposa. Poi le case di legno e legno, dove dormiremo.

NOI CON PADRE ALFREDO, ARMINA CON LE SISTER VALENTINA E TERESA.

LA NOTTE, IL VENTO SEMBRA PIOGGIA. COSÌ QUANDO LA PIOGGIA ARRIVERÀ, SEMBRERÀ VENTO.

Dalle finestre a persiana protette da stanche zanzariere che chissà quante malarie di missionario non sono riuscite a fermare, vedo palme e bambini giocare insieme. Intravedo madri che bussano alla porta delle suore come se bussassero alle porte del paradiso.

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I MIEI OCCHI SULLA FOTO RITRATTO

del missionario fondatore del loro ordine, poi sulle piccole camere di legno scuro e sui fiori in quel bicchiere d’acqua. Il pane caldo, la sedia per sedersi, qualche istante di reciproci sorrisi e poi il silenzio e poi sentirsi come non mi sento quasi mai.

QUEL PUDICO SEGRETO, quella incomunicabile sensazione di essere già stato lì, di averla già vissuta quella vita. Vita di lingue strane, difficili da domare, di villaggi attraversati a sera tra i primi fuochi, di solitudine insopportabile, di risate e giochi inventati per i più piccoli.

TRAMONTI DI

LIBRI

E

VENTO, ALBE DI LENZUOLA SUDATE E DI MALARIA, ORE TAGLIENTI E PREZIOSE COME IL CORALLO E IMMOBILI E INUTILI COME IL FANGO.

VITA DI PROBLEMI INSORMONTABILI poi sormontati, di progetti microscopici e giganteschi, di giornate passate a litigare con una pioggia di settimane, di pareti da verniciare e luce che non c’è, di pasta macchiata di muffa, di acqua piovana da bollire e di acqua piovana che poi non fai bollire più.

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E SENTIRTI SOLO AL MONDO E DIVERSO

da tutti quelli che sono intorno a te e poi, poco dopo, vederti da loro accolto come il migliore degli amici, come nessuno nella tua terra ti accoglierebbe mai.

ESISTENZA DI PIAGHE

SULLE GAMBE E UNA RADIO CON L’ANTENNA DA ORIENTARE VERSO LAGGIÙ, PERCHÉ C’È IL NOTIZIARIO DALL’ITALIA ALLE ORE VENTI CHE CHISSÀ IN ITALIA

CHE ORA È.

VINCERE IL MONDIALE

IN

DIFFERITA e con i gol da immaginare mentre celebri messa e festeggiarli con il villaggio intero e un maiale offerto da te, tutti, maiale compreso, con un’ idea assai vaga dell’Italia e del mondiale.

ANNI DI CENE TÊTE À TÊTE CON TE STESSO,

accudito da una donna senza parole e senza figli che cucina per te e tu che mangi facendo un gran rumore e non te ne accorgi e non ti accorgi nemmeno che i tuoi rari ospiti se ne accorgeranno.

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E LA LUCE CHE TORNA PERCHÉ IL GENERATORE

ADESSO VA.

ESSERE UN “FATHER”

ma allenarti sotto la pioggia con i Nim, ossia le “Zanzare”, la squadra di calcio locale, orgogliosa delle magliette della Roma non originali che sei riuscito a farti spedire fino a qui.

VITA DI ENORMI GRANCHI VIOLA RICEVUTI

in regalo e adesso come li cucino, vita di dubbi dolorosi sulla tua fede e di domande curiose sulla fede degli altri, vita di preghiere, sì, e di un Gesù al quale ormai dai del tu, di lettere di rimprovero del vescovo: «Insomma sei un uomo di Chiesa o un capopopolo?».

VITA DI MESSE

con al fianco due chierichetti che chiudono gli occhi in raccoglimento proprio come li chiudevi tu quando eri combattuto tra fare il calciatore della Roma e diventare un missionario di Gesù.

E MI CHIEDO ANCORA: «È UNA VITA PASSATA

QUELLA CHE SENTO? O UNA VITA SFIORATA?».

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RICONOSCO

IL RUMORE DEL PAVIMENTO

di legno scricchiolante della missione da cui sbucano topi e serpenti dalla testa rossa. Cammino, e i miei passi sembrano già conoscere il sentiero e i fuochi dei villaggi, e le mie mani stringono mani mai viste eppure già amiche. Con quanta facilità dormo tra lenzuola lise da sudori di padri coraggiosi vissuti in Afriche, Americhe e piccole isole sperdute, figli dimenticati di un’Italia desaparecida. E sorrido pensando con quanta pena il mio intestino avrebbe combattuto battaglie perse in partenza con questi batteri in tenuta da guerra.

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CERTO È CHE, QUANDO SONO COSÌ LONTANO, SPESSO MI ACCADE DI VEDERE, SENTIRE, LA MIA ALTRA POSSIBILE E IMPOSSIBILE ESISTENZA COSÌ VICINA. NON CAPITA A TUTTI UN PRIVILEGIO DEL GENERE. MOLTI DEVONO ACCONTENTARSI DI UN FULMINEO DÉJÀ VU, DI UN INCONSAPEVOLE FLASH BACK. IO, INVECE, MI RITROVO COMPLETAMENTE IMMERSO IN UN ALTRO ME.

E MI VEDO QUI, A SCRIVERE A MIA MADRE,

orgogliosa e al tempo stesso sfinita della mia scelta missionaria. E mi accorgo con disappunto che anche qui tutti i miei pregi si sarebbero trasformati in difetti, proprio come nella vita di adesso. Ma non è, questa sensazione, rimpianto. I miei figli, i miei amori, non mi permettono neppure per un breve istante di vederla così. E poi, è una vita così al limite della vita, che esaltarla o sognarla o idealizzarla o rimpiangerla è una stupida e presuntuosa operazione che non farò.

MA, LA SENSAZIONE DI ESSERE GIÀ

STATO QUI

CON

UNA

PARTE DI ME, C’È. NEL PROFONDO PIÙ PROFONDO DI ME.

SUOR VALENTINA HA TANTO DA DARE e non solo in cucina (che pane e che pasta!). Mi piace la visione che ha del suo essere qui. Quando le dico che non riesco a vedere quale esempio, quale modello, potremmo mai proporre a questa gente, lei fa sì con la testa. Stiamo tornando dal più grande villaggio dell’isola, proprio quello dove il celebre antropologo Malinowski ha stabilito la sua base.

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MENTRE SCENDEVAMO TRA LE CAPANNE

verso la laguna, mi aspettavo di trovarmelo di fronte da un momento all’altro, tanto è tutto simile ad allora. Ottanta, novant’anni, che cosa sono per una civiltà millenaria che ancora cammina al rallentatore e non corre avanti cieca e presuntuosa come la nostra?

LA LUCE FA MAGIE, NON C’È NIENTE DA FARE, IL MIGLIOR DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA È SEMPRE QUELLO CHE STA LASSÙ IN CIELO.

Filtra tra la paglia dei tetti, tra i rami degli alberi, tra le foglie delle piante degli orti cresciuti sotto l’influsso di parole magiche e lune ciclopiche e cade radente sulla vasca naturale dove vecchie streghe e giovani angeli si lavano e sorridono con denti e paura e gridano e fuggono o si paralizzano davanti a me fotografo.

POCO PIÙ IN LÀ, NELLA LAGUNA, BAMBINI

PESCANO IN CONTROLUCE.

Sembrano dipinti rupestri che raccontano scene di pesca del tempo in cui l’uomo era homo. Lanciano fiocine sottili in acqua, capaci, come nel miracolo di un Vangelo apocrifo, di procurare pesce a un fuoco che già brucia legna e fumo.

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POI, IL GIORNO SEGUENTE,

dopo aver fatto conoscenza con il Mar dei Coralli, camminiamo sulla spiaggia e ridiamo con le suore delle loro disavventure con ragni pelosi come orsi e serpenti chilometrici.

TERESINA È LA PIÙ ANZIANA, ha quasi settant’anni. Ultima di dieci figli, è nata nel paese dell’Albero degli zoccoli. «I piatti li faccio io, sono abituata, mia madre li faceva lavare sempre a me. Era severa mia madre, da lei poche carezze ho avuto …». Forse è per questo che, mentre attraversiamo i villaggi, alla vista dei bambini sporchi e sorridenti lei non riesce a sorridere. Pensa allo sporco. Pensa alle tante Teresine che crescono senza carezze.

PADRE CESARE, ORIGINARIO DI MONREALE, costruisce e ristruttura le missioni tra battute, silenzi e canzoni siciliane fischiettate e pasta ai quattro formaggi innaffiata da un goccio di Altar Wine.

SI POTREBBE RACCONTARE IL MONDO DAL CASSONE DI UN TRUCK.

Col culo piatto e le spalle torturate dalle buche. Guarda, guarda, il mondo terzo e quarto e ultimo in classifica come ti accoglie! Sorrisi e urla, un vero benvenuto.

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PROVATE A FARE LO STESSO IN ITALIA,

provate a salutare come faccio ora io gli sconosciuti che passano per la strada.

E ANCORA, CHE COSA POSSIAMO FARE? GLI AIUTI SANITARI, SÌ.

L’OSPEDALE È UNA VERGOGNA.

No medici, no medicine, e ancora tanti e tanti no a chi chiede aiuto, aiuto e aiuto.

PAPUA NUOVA GUINEA È ANCORA

PROTETTORATO BRITANNICO, qui la gente festeggia ancora il compleanno della regina d’Inghilterra, sovrana che per i suoi cani spende in un giorno il budget con cui qui si deve far funzionare l’ospedale per tutto l’anno.

MA DOVE SONO LE ONG?

In tanti posti, sperduti o no del mondo, le ho incontrate. Nella loro spesso triste e dannosa gara ad accorrere dove è importante e strategico essere.

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E QUI, NESSUNO, NESSUNO, NESSUNO.

VOGLIO LEGGERE DI PIÙ SUI RITI MAGICI

degli orti, sulla struttura matrilineare della società, sul significato del dono, sulla festa dello yam. Voglio provare a dare una mano a suor Valentina e a suor Teresina nel portare avanti i loro progetti. Voglio tornare per girare un documentario.

VISITO LE SCUOLE, PICCOLE E BELLE.

Ma oltre a leggere e scrivere, non so davvero che cosa possiamo insegnare ai bambini di qui. Che cosa sappiamo più di loro? Il segreto della felicità è forse nelle nostre mani? Nel grande prato al centro del villaggio, che ha un nome troppo complicato da trascrivere e ricordare, prima uno, poi dieci e, alla fine, cinquanta bambini giocano con me liberi e divertiti, come da noi ormai è così raro vedere.

Li guardo: per loro il segreto della felicità non sembra essere un segreto.

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I GECHI SUI MURI PARLANO TRA LORO,

gli uccelli rosso verdi e blu fanno lo stesso, i galli salutano alba e tramonto. Io guardo nuove stelle e annuso nuovo vento e parlo con loro e parlo con me.

L’AEREO ASCOLTA LE MIE PREGHIERE E IL GIORNO DELLA PARTENZA NON SI FA VEDERE.

Così, invece di tornare nella ibrida Alotau, si resta qui. Allora mi sdraio ancora un po’ sul letto umido di pioggia notturna. Poi mi alzo e inizio a scrivere queste parole, queste pagine qui. Iniziate come appunti di viaggio da sviluppare e poi partite per un viaggio tutto loro. Impossibile rileggerle. Scritte senza fermarsi, come per lavoro non faccio quasi mai. La spossatezza, il fastidio, la stanchezza, la voglia di essere via da qui non sono ancora arrivati. Ora mi infilo le scarpe e vado.

UNA DELLE CENE PIÙ ROMANTICHE

della mia vita: a lume di candela in una casa di legno delle isole dell’amore, circondati da enormi alberi e infinite stelle, con le suore coraggiose e il mio intrepido amore. La mia barba missionaria cresce, fuori pioggia a folate e poi scrosci di vento. Domani si parte. Così almeno sembra. Attraversiamo la notte: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me».

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FUOCHI, LUMI A PETROLIO

e una fetta di luna appoggiata nel cielo come una fetta di anguria.

PRESEPI

NELLA NOTTE DI KIRIWINA.

Ogni notte un Gesù nasce in una capanna. Qui puoi leggere il Vangelo, alzare gli occhi e vedere il Vangelo. Un’altra cena d’addio, questa volta a Wapipi, con padre Cesare, il siciliano, e tre sister di tre paesi diversi. Per capire da dove vengono basta salutarle. Le guance sfiorate in un contatto evitato è sorella Rodna del Bangladesh, la stretta di mano forte e allegra di chi vuol farti capire che ha fatto la scelta giusta e non ha rimpianti è l’italiana Antonella, l’abbraccio stretto, il contatto fisico, è la sorella brasiliana Jane.

ANCORA UNA NOTTE con il pavimento di legno che non dorme e racconta, la luce di stelle e di alba che entra accompagnata dal vento accompagnato dai canti di uccelli notturni, colonna sonora dei miei sogni e dei miei incubi papuani. Frittelle, banane e tè per l’ultima colazione, sotto il ritratto di un martire missionario.

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POI IL CIAO DI SUOR VALENTINA, MISTO DI FEDE E MALINCONIA, E LE PAROLE DI SUOR TERESINA: «ERO UN FIORE, ORA SONO UNA FOGLIA. MA SONO FELICE DI ESSERE QUI, DI ESSERE SUORA. IL MIO RAGAZZO MI AMA». GUARDA UN ATTIMO IL CIELO E POI UN ATTIMO ME.

CIAO, TERRA

DI

CANNIBALI

E GROTTE

misteriose e machete, che l’ultima notte si alzano e si incrociano per contendersi il corpo di una donna defunta. Il ferito lo portano via con il nostro aereo tra i pianti delle donne. I primi che ascolto da quando sono qui. Poi, le Trobriand dall’alto. Sembrano il paradiso, forse lo sono. Poi, nuvole bianche.

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UNA PAGINA FORSE MENO (GUATEMALA, 2003)

MI RICORDO LA POLVERE, mi ricordo le baracche con i tetti di lamiera e le pareti anche.

MI RICORDO DI UNA MATTINA, anzi di un’alba dal cielo dello stesso colore indio dei miei pantaloni, comprati, ricordo, in quel mercato di Antigua Guatemala.

MI RICORDO DI UN BAMBINO con una maschera sul viso che ci faceva strada lungo una strada che non era strada. Mi ricordo che era tutta sassi e buche e sguardi timidi attraverso buchi.

MI RICORDO UNA PORTA APERTA, quattro occhi di sorelle, angeli a difesa di un tesoro, ricordo di aver pensato, quando in quel piccolo cortile senza acqua e luce ho visto il tesoro.

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MI RICORDO LA VOCE DEGLI ANGELI

raccontare una storia, la loro storia, via dalla Spagna, da sole, fin lì, per raccogliere da terra i piccoli che il vento della miseria india strappava alla vita.

MI RICORDO

LE PIAGHE DELLE

INFEZIONI, gli occhi della fame, le bocche della paura, ricordo che i bambini arrivavano lì di pochi giorni ma sembravano aver attraversato ottanta inverni.

MI RICORDO DI UN AMORE MIRACOLOSO E IMPOSSIBILE CHE LI TRASFORMAVA DI NUOVO IN CAPELLI E OCCHI NERI E LUCENTI E SORRIDENTI

E DIVERTENTI.

Mi ricordo che erano tutti fratelli e sorelle come mai ho visto fratelli e sorelle, che erano madri come mai ho visto madri, che erano pura utopia in carne e ossa e felicità.

MI RICORDO CHE

NON AVEVANO

NIENTE, ogni giorno c’era da moltiplicare e dividere qualche pane, qualche carota, e baci e carezze, per le venti bocche affamate di quel nido nascosto in un muro, di un nascosto cortile di un nascosto villaggio, di un nascosto angolo di Guatemala.

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91 MI RICORDO DI AVER PENSATO AL VANGELO ENTUSIASTA CHE CI SPINGE A OSSERVARE I GIGLI DEI CAMPI E GLI UCCELLI DEL CIELO, AL SORRISO INCOSCIENTE DI FRANCESCO D’ASSISI, MENTRE SALUTAVO E LI ASCOLTAVO REGALARCI DEGLI «ADIOS, ADIOS» CHE SU DI ME AVEVANO LO STESSO EFFETTO DEL CANTO DELLE SIRENE SU ULISSE.

MI RICORDO CHE STAVO LÌ, FERMO, e non riuscivo ad andar via, e pensavo tornerò e tornerò, e sono tornato e sono tornato.

MI RICORDO

DI AVER VISTO

CICHI E MARISELA crescere e crescere dentro l’inquadratura della mia macchina fotografica, insieme a quel nido, sempre più grande e resistente e bello. Mi ricordo poi che questa storia è diventata anche la storia di uno spot per la Chiesa Cattolica e le parole che state leggendo ora. Mi ricordo che quando le ho scritte, era l’ora del tramonto e il cielo aveva lo stesso colore indio della mia camicia, comprata, ricordo, in quel mercato di Antigua Guatemala.

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HO VISTO LO SPIRITO…

Ho visto lo spirito di un camionista sollevarsi e incontrarsi in cielo con lo spirito di un cane morto nel tornante precedente. A terra, sull’asfalto bagnato, una sindone rosso sangue nasconde ai vulcani e agli occhi velati di Cerveza Gallo dei campesinos, il corpo di un uomo morto, morto come un cane, come il cane insieme a cui ora sale verso i vulcani Agua e Fuego, e poi ancora verso lassù. Al rallentatore ho visto, le gocce della pioggia scendere e loro salire.

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CHISSÀ PERCHÉ (NAIROBI, 2006)

SCOSTO LE TENDE. Mi affaccio alla finestra. C’è un uomo che cammina sulle acque. È il primo miracolo del mio nuovo viaggio africano.

«YOU WILL BE MY FRIEND FOREVER», mi dice un giovane maestro nuba osservando i nostri volti emergere dal bianco nulla di una polaroid.

CHISSÀ PERCHÉ NON SONO I TAMBURI MA LE MANI PIENE DI VALZER DI MARGHERITA A GUIDARMI ANCORA UNA VOLTA LÌ.

SULLE NUBA MOUNTAINS, tra i campi gialli di Kerker. Io sono qui, ma qualcosa di me è rimasta indietro. Forse si è persa nell’erba alta, bianca di luna, di Gidel, dopo le lotte e i balli.

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UOMINI AVVENTUROSI E AVVENTURIERI PARTIVANO PER VIAGGI LONTANI.

Lunghe le andate, interminabili i ritorni. OGGI, QUANDO

RITORNO DAL VIAGGIO

PROFONDO

DI

UN VIAGGIO, gli aerei che mi trascinano indietro, per quanto lenti e così poco aerei, sono sempre troppo veloci per me.

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IL MIO CORPO ARRIVA A DESTINAZIONE MA LA MIA ANIMA NO. E COME LA PIÙ PREZIOSA E AMATA DELLE AMATE SI FA ASPETTARE E ASPETTARE E ASPETTARE.
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PA-RA-NA-TIN-GA

(DAL RIO MADEIRA AL MATO GROSSO, 2002)

MI SONO MANCATI LA FORZA E IL TEMPO DI RACCONTARE IN DIRETTA.

Tanti sospiri, molte voci, alcuni sguardi forse li ho persi dentro di me. Chissà se riuscirò a raccontarli ora, a mente e corpo freddi (a Roma è arrivato l’inverno), o se riemergeranno all’improvviso, improvvisamente.

LA PRIMA SENSAZIONE APPENA TOCCO TERRA ed esco dall’aeroporto mi colpisce sempre attraverso le narici.

L’ODORE DI SAN PAULO mi ricorda Ouagadogou, Ouagadogou mi ricordava Città del Guatemala.

MISTO DI CURIOSITÀ,STANCHEZZA, PAURA, ECCITAZIONE.

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POCHE ORE FA ERO A CASA MIA

e ora sono su quello che ieri era solo un puntino sul mappamondo della camera di Chicco.

PRIMA NOTTE IN ALBERGO, MEZZA PASTICCA PER DORMIRE.

MATTINA, COLAZIONE E PARTENZA

per Manaus. All’aeroporto compro i primi regali da riportare a casa. In volo ripasso la shooting list, spingo lo sguardo fuori dal finestrino e mi appare la foresta.

L’INTRECCIO INFINITO DI SERPENTI D’ACQUA

dai nomi leggendari: Rio Negro, Rio Madeira, Rio delle Amazzoni. Se si potesse districarli e distenderli potrebbero abbracciare la Terra.

VOLIAMO SEMPRE PIÙ BASSI.

Ecco Manaus, un tempo più ricca e popolosa di Londra e Parigi e poi, dopo la crisi del caucciù, abbandonata e diseredata. Sorte condivisa da altre città effimere dell’America meridionale, come, ad esempio, la boliviana Potosì.

102

SE LA NOTTE DI SAN PAOLO ERA CALDA, COME

DESCRIVERE LE ORE DODICI A MANAUS?

Dobbiamo prendere un piccolo aereo da 14 posti per arrivare a Borba, la nostra prima vera meta. È da lì che parte la nave ospedale. Si contratta sul peso, tra troupe italiana, brasiliana e materiale, sembra sia davvero troppo per quella zanzara a motore. Alla fine decidiamo di noleggiarne due.

RIDIAMO PRENDENDO POSTO SULLE “POLTRONCINE”.

Il capitano ci informa che in fondo alla cabina c’è una scatola frigorifera con le bibite.

SUDIAMO, NON

È LA PAURA,

ALMENO NON SOLO QUELLA. C’È UN’UMIDITÀ MAI SENTITA PRIMA.

O

È solo un aperitivo, il piatto forte deve ancora arrivare… A questo punto immagino già i commenti che susciterà la mia prossima osservazione: «Sei in Amazzonia e pensi al calcio!». Come faccio a non pensarci, come faccio a non notare un campetto con le sue due porte, che sfila sotto di noi.

103

RUBATO ALLA FORESTA CHE LO CIRCONDA,

senza lasciare neppure un po’ di spazio per le panchine. Mi sembra di vedere Mister Capello sopra un mango a sbracciarsi per dare indicazioni. Il campo è rosso di terra mulatta, intorno è tutto verde amazzonia.

IMPOSSIBILE NON RICORDARE

l’accostamento cromatico opposto che mi colpì arrivando a Ouagadogou. Lì era tutto rosso sabbia sollevata dal vento harmattan e, dall’alto, l’unico spazio verde visibile era il rettangolo magico del campo di calcio. Chissà che cosa fanno in questo momento i miei piccoli, che piccoli non sono più.

IO STO VOLANDO SU QUELLO CHE UN TEMPO ERA IL PARADISO DI CENTINAIA DI ETNIE INDIE.

Abitavano lungo i fiumi, quasi tutte pacifiche, poi costrette a nascondersi sempre più vicino al cuore della foresta, che da quassù mostra le sue cicatrici. Grandi aree disboscate, strade sterrate che tagliano come bisturi, in modo chirurgico, la pancia amazzonica. Molte non si vedono da quassù. I fiumi inquinati dai cercatori d’oro, le nuove malattie portate dagli avventurieri e dagli eserciti di ieri e di oggi. Ma lei sembra ancora forte e fiera. Improvvisamente iniziamo a ballare.

104
105 PIOVE, E IL PICCOLO TERGICRISTALLO CERCA DISPERATAMENTE DI FARE IL SUO LAVORO. SOTTO DI NOI IL RIO MADEIRA. DOMANI ARRIVEREMO SUL DORSO DI QUEL PLACIDO SERPENTE.

HO SCRITTO PLACIDO PER TENERMELO BUONO,

o forse perché da qui, mentre il vento ci fa ballare la samba, tutto sembra più tranquillo, laggiù a terra. Bellissime le colonne d’acqua che attraversiamo e che vediamo toccare il fiume come riflettori su un palcoscenico. Usciamo dall’acqua, per immergerci nel sole al tramonto. Stiamo atterrando sulla piccola pista di Borba.

GUARDO FUORI, DUECENTO BAMBINI CI ASPETTANO. ACCOMPAGNATI DAL VESCOVO AGITANO LE

MANI.

ESCO DALLA NOSTRA SCATOLA VOLANTE E MI SEMBRA DI VOLARE ANCORA.

I bambini cantano una canzone brasiliana e ci commuoviamo. Poi, scoppiamo a ridere all’ascolto delle parole di O sole mio. Invadono la pista e ci corrono incontro. Andiamo subito a vedere una zona bruciata dove dovremo girare alcune scene. È una location terribilmente ok. Ora siamo in paese. È un villaggio povero, diviso da due strade asfaltate, molte casette semplici, per non dire misere. Ma l’atmosfera è ricca, molti bambini, coppie di ragazzi in giro. Davanti al nostro microalbergo si gioca a calcio. Sotto c’è un emporio e un telefono.

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FINALMENTE, DOPO DUE GIORNI, CHIAMO A CASA.

TUTTO BENE, Matt mi dice che la Roma sta vincendo. È così assurdo telefonare da qui, e sentire loro rispondere lì. Non mi ci abituerò mai.

LE CAMERE SONO BUCHI PIENI DI ZANZARE, fa un caldo boia e l’aria condizionata è più rumorosa dell’aereo di stamattina. Mi lavo e mi asciugo con un asciugamano di venti centimetri. Monto il mio lettore cd con le piccole casse e vai con Santana.

LA SERA ATTRAVERSIAMO IL PAESE A PIEDI, molti ci guardano, siamo la novità del mese, forse dell’anno. Una mamma cuoce qualche pesce su una griglia arrugginita. Seduti sul ciglio della strada in attesa davanti alla baracca cinque piccoletti pieni di appetito e di capelli che piacerebbero un sacco a Margherita. Molti vanno in bici, in due come piace a me.

È SCESA LA NOTTE, È ROMANTICA BORBA.

107

IL NOSTRO “RISTORANTE”

è gestito da un panzone che, come poi scopriremo, ci spaccia per acqua minerale l’acqua del rubinetto, facendoci rischiare a tutti una super vendetta di Montezuma. Sul tavolo ad aspettarci, pesci giganteschi, riso, fagioli, e il vescovo con la sua inseparabile caipirinha. Poi a letto sotto la zanzariera, domani sveglia alle cinque. Una cucchiaiata di guaranà e via.

NAVIGHIAMO

LUNGO IL FIUME, LA LUCE

È BELLA, fa caldo, ma quando la barca va si sta bene. Dobbiamo girare le prime scene. Dopo cinque o sei mesi lontano dal set, non è mai facile rompere il ghiaccio. Il mirino mi aiuta.

DOPO

LE PRIME DUE INQUADRATURE

mi sembra di non aver fatto altro nella vita: il regista. Eppure ancora mi viene da ridere quando qualcuno della troupe mi chiama così. Forse è per questo che per tutti loro io sono «Capitano, mio capitano!».

SIAMO UN GRUPPO MOLTO UNITO, io penso a loro e loro non si tirano mai indietro quando c’è da combattere. E spesso con me c’è da combattere… Come oggi.

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ORA SIAMO A BORDO DI UNA BARCHETTA

a motore: io, Leo, Stefano, Adriano ed Emanuele, un italiano che vive a Rio e che è il mio aiuto. Dobbiamo riprendere il battello ospedale che ci sfila accanto. Il nostro “pilota” sbaglia la manovra, e la prua del Padre Goes (è così che si chiama la nave ospedale, dal nome di uno dei primo missionari che si avventurarono fin quaggiù) ci colpisce in pieno.

IMBARCHIAMO ACQUA, e per un soffio non finiamo tutti in bocca a piranhas e coccodrilli. Ce la siamo vista brutta e abbiamo rischiato di perdere la macchina da presa. Ma non c’è tempo per rimuginarci su troppo. Dobbiamo ancora fare diverse inquadrature. A pranzo la cucina del Padre Goes ci sfama con riso, pesce e i soliti fagioli.

È SCESA LA SERA, ABBIAMO GIRATO CON LA

A CAVALLO. E IN UN ATTIMO È GIÀ

BUIO.

LUCE

TORNIAMO INDIETRO CON LA STESSA BARCA con cui abbiamo rischiato il naufragio e sfortunatamente anche con lo stesso comandante.

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NON HA FARI, CORRE,

e per ben due volte andiamo a sbattere contro i tronchi che galleggiano sulle acque del fiume, rischiando di ribaltarci. Lo invitiamo ad andare più piano e un elettricista della troupe brasiliana riesce a montare un’illuminazione di fortuna. Così arriviamo a Borba.

NIENTE MALE COME PRIMO GIORNO, TANTO PIENO DA SEMBRARE UNA SETTIMANA.

UNA VOLTA IN ALBERGO, APRO LA PORTA della mia camera e vengo investito da un’ondata di caldo atroce. L’aria condizionata è spenta, la finestra chiusa, c’è una strana puzza di insetticida. Roba da morire soffocati.

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MI FACCIO UNA DOCCIA E SCAPPO FUORI.

Domani sveglia alle quattro e trenta. All’aria si sta meglio. Per arrivare alla nostra cena dobbiamo passare sotto un enorme sant’Antonio di venti metri. Il santo guarda verso il fiume, c’è una leggera nebbia che forse gli ricorda Padova. I ragazzi e il vescovo vanno avanti a caipirinha, io mi faccio due birrette, sembrano più sicure dell’acqua che ci passa il ciccione.

SI TORNA A PIEDI IN “ALBERGO”, notare prego le virgolette. Monto la zanzariera, ammazzo qualche ragno, pillola per dormire e ciao a tutti.

ALLE 4 E 25 BUSSANO ALLA MIA PORTA, un cucchiaio di guaranà e sono già sul fiume. Oggi andiamo in un villaggio sulle sponde del Madeira. Si chiama Trocanà. L’alba sul fiume è bellissima e a quest’ora ancora si respira. Dall’argine del fiume si arriva al villaggio lungo una ripida scala. Le case sono baracche di legno, un foglio scritto a mano ci dà il benvenuto. C’è poca gente, giovani pescatori riparano le reti, un tuono improvviso ci fa saltare di spavento. Dietro le capanne c’è la foresta. Con i suoi alberi di caucciù e i suoi mille misteri. Una scimmietta legata a una corda riposa all’ombra.

111

DAI PICCOLI VILLAGGI VICINI

iniziano ad arrivare, con canoe e microscopiche barche a motore, intere famiglie. Sanno che c’è la nave ospedale e il vescovo. Nel giro di due ore saranno duecento. Iniziamo a lavorare, zuppi di sudore, bevo anche cinque o sei litri d’acqua al giorno e faccio pipì non più di una volta. I bambini del villaggio mi portano a vedere con orgoglio il loro campo di calcio circondato dalla foresta. Facciamo qualche tiro insieme. Segno il primo e ultimo gol della mia tournée amazzonica.

TORNIAMO A NOTTE FONDA, su un battello più grande. Intorno a noi i lampi illuminano cielo e foresta. Sembrano sempre più vicini. La pioggia però non ci troverà.

IN PACE.

114
ANCHE OGGI, GIORNATA DURISSIMA.
IL FILMPRIMO È FINITO, ANDIAMO

SVEGLIA ALLE CINQUE E TRENTA.

Dobbiamo girare le scene nella zona deforestata. Scheletri di alberi ci danno il benvenuto. Sarà un’altra giornata di passione. Zanzare e caldo oggi hanno attaccato a lavorare molto presto.

ARRIVA PADRE ANGELO, un missionario che sarà il protagonista del secondo spot. È una bella persona. Diventerà mio grande amico. Settantatré anni con la forza e lo spirito di un trentasettenne. A pranzo mangio pane e scatolette di tonno portate dall’Italia. Le digerirò solo ventiquattro ore dopo. Le scene girate sembrano belle. Fino ad ora mi sembra tutto ok. Orari e condizioni sono davvero dure, ma tutti remano nella stessa direzione.

GLI URUBÙ STANNO APPOLLAIATI SULLA CIMA

DEGLI ALBERI BRUCIATI AD ALI APERTE.

Stanchi morti torniamo verso le nostre stanze.

PENSO SPESSO A CASA, CHISSÀ SE ANCHE LÌ TUTTO VA BENE? QUANDO PENSO A DOVE MI TROVO, A QUANTO SONO LONTANO, MI GIRA LA TESTA.
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A LETTO SENZA CENA. CAMMINO AVANTI E INDIETRO

PER DIGERIRE.

CI SVEGLIAMO VERSO LE OTTO, LO SHOOTING AMAZZONICO È FINITO.

Salutiamo tutti e prendiamo la zanzara che ci riporta a Manaus. Dall’alto riconosciamo le zone dove ci siamo mossi in questi giorni.

DA MANAUS CI TRASFERIAMO A BRASILIA.

Telefono a casa, stanno tutti bene, ma la Roma ha preso un gol al novantesimo, due a due con l’Inter. Da Brasilia altro volo per Cuiabà, dove arriviamo quando ormai è sera. Le distanze sono immense. È come se questa mattina fossimo stati a Helsinki e ora fossimo arrivati a Roma. Invece siamo nel centro del Mato Grosso. Il clima è peggiore di quello di Manaus. Ancora non mi sento un granché. Una volta in albergo me ne vado in camera.

SVEGLIA ALLE SEI. SI PARTE PER PARANATINGA.

Tre ore di viaggio su asfalto e quattro su una gruviera di terra dura e indigesta. Quello che era il Mato Grosso (Selva Fitta), oggi è una pianura sconfinata senza un albero.

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ENORMI DISTESE COLTIVATE A MAIS,

spesso transgenico, fattorie con i nomi dei proprietari, spesso italiani. Padre Angelo mi dice che trent’anni fa per arrivare qui si passava sotto una galleria di alberi. Si stenta a crederlo.

A PARANATINGA ARRIVIAMO COTTI.

Per avvantaggiarmi sul piano di lavoro, avevo previsto di girare qualche scena oggi, se avessi saputo quanto era duro arrivare… Le scene comunque sono semplici. Siamo nel centro di padre Angelo, è qui che tiene il suo corso di riforestazione. Doccia, in quello che sarà eletto all’unanimità il peggior albergo del viaggio.

ALL’INGRESSO UNA RAGAZZA MAGRA E BRUTTA PIANGE DAVANTI A UNA TELENOVELA.

In mano ha un grande fazzoletto. Lunghe file di formiche giganti attraversano i muri della mia camera. Viste dall’alto, sembrano carovane di cammelli che solcano il deserto. La zanzariera c’è e l’aria condizionata pure. Sembra un elicottero ma c’è. A proposito, le zanzare di tanto in tanto scendono in picchiata e non c’è repellente che sembri repellergli. Si cena in una currascheria di immigrati tedeschi di terza generazione.

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FA EFFETTO VEDERE LE FIGLIE BIONDE

e bianche come il latte girare tra i tavoli, sembrano fantasmi.

BRINDIAMO AL GRIDO DI PA RA NA TIN GA!

MANGIAMO CARNE, A STRISCE, DI VARI ANIMALI.

Uno schizzo va a colpire la camicia di Fabrizio che si arrabbia per la prima volta da quando siamo partiti. Ridiamo, ridiamo. Siamo nel Mato Grosso.

PER DIGERIRE FACCIAMO UN GIRO A PIEDI.

Paranatinga è spuntata come un fungo venti anni fa, dalle ceneri del mato bruciato. Cresciuta insieme alle fazende e ai tanti diversi gruppi di immigrati. Polacchi, italiani, tedeschi. Divisi in comunità molto chiuse hanno colonizzato questo angolo sperduto di mondo. Alberghetti fatiscenti accolgono gli amori dei braccianti, che la domenica dilapidano i guadagni di una settimana. E a volte qualcosa di più.

SI INDEBITANO E DIVENTANO PRIGIONIERI DI UN LAVORO CHE UCCIDE.

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STASERA È DOMENICA SERA.

Nella piazza di questo assurdo paese, giovani e meno giovani figli di spermatozoi europei, africani, portoghesi, si incrociano, parlano, ballano con la colonna sonora offerta da due grandi e potenti casse montate su un camion.

MI

CHIEDO, SENZA QUESTO LAVORO, QUANDO MAI AVREI VISTO I SORRISI DELLE PROSTITUTE E GLI OCCHI ARRABBIATI DEGLI UOMINI DI PARANATINGA?

ALLE QUATTRO E QUARANTACINQUE DEL

INIZIA LA SECONDA SETTIMANA

18 NOVEMBRE

di viaggio. Andiamo al villaggio indio. Guidati da padre Angelo, dopo due ore di viaggio entriamo nella riserva degli indios bakairì.

Qui la natura è più bella, ci sono alberi, animali al pascolo, tanti uccelli colorati. I tucani sono quelli che mi piacciono di più. Con quel becco arancione. Il nostro autista di cui non ricordo più il nome, ci indica un delicato animale che corre accanto a noi, di cui non ricordo il nome. È il simbolo del Mato Grosso. La giornata al villaggio vale oro.

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RIMANGONO COME FLASH DENTRO DI ME

gli uomini che si tingono volto e corpo per la danza, le bambine che fanno il bagno nel fiume, i bambini con arco e frecce che corrono liberi, le donne che ci mostrano anelli di cocco e orecchini di piume colorate, gli alberi piantati e cresciuti, i sogni premonitori dello sciamano, e poi il ritorno, in una luce illuminata.

MENTRE GLI ALTRI DORMONO, IO RUBO TUTTO QUELLO CHE I MIEI OCCHI RIESCONO A RUBARE. COME L’ANIMALE PREVIDENTE NASCONDE NEL CAVO DEL SUO ALBERO LE PROVVISTE, COSÌ IO METTO TUTTO DA PARTE DENTRO DI ME. PER I GIORNI FREDDI, PER I GIORNI BUI. PER QUEI GIORNI UGUALI A TUTTI GLI ALTRI. 121
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GESÙ LA DOMENICA VIAGGIA SULLA LINEA 6 (NEW

YORK, 2011)

DAL FINESTRINO DELLA NOSTRA CARROZZA

li ho visti arrivare. Erano neri, erano illuminati, avevano un potere che non so dire o spiegare. Qualcosa che li rendeva diversi non solo da tutti i musicisti, gli accattoni, i mendicanti della subway. Ma dal resto del genere umano.

SONO ENTRATI NEL NOSTRO VAGONE

e ho visto un’onda crescere, travolgermi e arrivare fino ai miei figli. Carne della mia carne hanno sentito quello che ho sentito io.

NON C’È STATO BISOGNO DI PAROLE,

i nostri sorrisi hanno parlato per noi. Mentre cantavano il loro inno a Gesù, tutto era come sospeso e ho pensato che la prossima fermata non sarebbe stata Union Square ma il paradiso.

123
124 ERANO DOLCI E SERENI COME BUDDHA, leggeri e innocenti come i passeri con cui si confidava
MENTRE LI OSSERVAVO ANDARE VIA CON POCHI DOLLARI NEL CAPPELLO, MI SONO TORNATE ALLA MENTE LE PAROLE DI PROUST, SULLA RICONOSCENZA CHE DOBBIAMO AI GENTILI GIARDINIERI CHE RENDONO LA NOSTRA ANIMA FELICE. ANCHE PER UN BREVE ISTANTE, TRA UNA FERMATA E UN’ALTRA DELLA NOSTRA VITA, AGGIUNGO IO.
Francesco da Assisi.
126

IL BIGLIETTO DI RITORNO (TRA ROMA E NON SO DOVE, 2009)

POI, IMPROVVISAMENTE, SONO LÌ.

Felice e senza sonno davanti a un elefante. La scena l’ho immaginata appena qualche giorno fa e ora siamo pronti a girarla.

SCRIVO ALLA MIA DONNA:

“La vita è una magia”. Una magia che mi permetterà, seduto sulla riva di un fiume, nel nord della Cambogia, di capire quello che Son Chai mi dice. Parla con gli occhi e i miei occhi ascoltano e rispondono. Ha dieci anni e non può camminare ma il suo viso continua a correre avanti e indietro dentro di me.

MAGIA SONO LE MAGIE, o se preferite, i fatti straordinari che vedi accadere e che non puoi spiegare ma che, dopo aver passato una vita nella foresta, come padre Angelo, impari a rispettare.

127

I SOGNI PREMONITORI DEGLI SCIAMANI,

i rimedi degli uomini magici, i miracoli di un santo guatemalteco protettore delle prostitute del Salvador che un giorno ha fatto una grazia anche a me.

ERAVAMO A CHICICASTENANGO, avevo appena salito i diciotto gradini – uno per ogni mese dell’antico calendario maya – della chiesa sacra e blasfema di Santo Tomas, tra petali di rose e offerte votive, figlie di quel mix da sballo di cristianesimo e ancestrali credenze, quando mi sono accorto di aver perso il biglietto del volo di ritorno.

ANA, LA NOSTRA GUIDA, MI HA ACCOMPAGNATO DA MACIMÒ.

L’HO

SEGUITA

IN UNA BETTOLA e poi lungo una rampa di scale. Al piano di sopra, in una piccola stanza piena di fiori e luci intermittenti c’era lui, o meglio, Lui, una statua in abiti borghesi, un grande paio di baffi e tutt’intorno le offerte dei fedeli: sigarette e aguardiente. Gli ho acceso un grosso sigaro e ho formulato la mia timida richiesta.

128

IN SEGUITO, completamente assorbito e stordito dai racconti e dalle testimonianze riguardanti il genocidio perpetrato ai danni di questo popolo mite e al coraggio di alcuni religiosi uccisi a causa della loro barba comunista, non ci ho pensato più, anche perché la produzione era riuscita a ottenere per me una copia del biglietto.

SONO

COSÌ

VOLATO A ROMA.

UNA VOLTA A CASA, svuotando la valigia, trovo nella tasca di una giacca, la stessa ispezionata mille volte, il dannato biglietto.

MACIMÒ NON SI ERA DIMENTICATO DI ME ANCHE SE IO MI ERO DIMENTICATO DI LUI. QUEL BENEDETTO BIGLIETTO LO CONSERVO ANCORA, PER NON SCORDARE MAI CHE COSA LA VITA È. 129
132

IL PARTY PIÙ ESCLUSIVO DELLA TERRA (TRA

GLI YANOMAMI DELL’AMAZZONIA, 2007)

IL NOSTRO CARONTE, ANZI IL NOSTRO VIRGILIO, anzi la nostra Beatrice, si chiama Carlo Zaquini, missionario della Consolata.

MI PARLA DEI DICIOTTO ANNI passati nella foresta amazzonica come se si trattasse di diciotto giorni.

ENFASI ZERO, DEVO IMPARARE DA LUI.

Nato in un piccolo paese della Valsesia, al tempo in cui l’Italia partoriva ancora uomini così, e settimo di dieci figli, ascoltò a scuola i racconti avventurosi di un missionario di ritorno dall’Africa. Ci pensò a quelle storie, arrampicandosi sulle rocce dei suoi monti o sdraiato, sognando a occhi aperti, nel fienile della paterna casa. POI, PRESE CORAGGIO E LO DISSE AI SUOI.

133

POI PRESE ALTRO CORAGGIO ANCORA E PARTÌ.

«NON

MI CHIAMARE “PADRE”, SONO UN FRATELLO», MI DICE.

«Non posso celebrare messa e, se proprio vuoi saperlo, non ho mai parlato agli indios del nostro Dio. Gli ho chiesto invece di parlarmi del loro». «Hai fatto bene, credo che anche Dio sia d’accordo», gli ho risposto.

ECCOLO QUI, MISTER 39 MALARIE, fragile e indistruttibile, ogni sua parola diventa un’immagine indelebile nella mia mente.

OGNI SUO RACCONTO SI TRASFORMA nel capitolo di un libro che forse non saprei scrivere, ma che sicuramente leggerei fino a consumarne le pagine.

ALL’INIZIO MI

HA ANNUSATO, COME AVREI

FATTO ANCH’IO. VOLEVA CAPIRE CHI AVEVA DI FRONTE, se ero degno della foresta. Alla fine ha deciso di sì, non so che cosa l’abbia convinto. Forse le mie scarpe, sporche e luminose di tanti luoghi sperduti della Terra.

134
CI CONSIGLIA DI
NOTTE
IN
NON SI SAPPIA DEL NOSTRO ARRIVO. 135
PASSARE LA
DA LUI. È PREFERIBILE CHE
CITTÀ

È UN’ATMOSFERA CHE CONOSCO BENE,

simile a quella già sperimentata in altri agglomerati urbani, nati in quello che un tempo era territorio indio. Qualcosa di molto simile a un avamposto nel Far West. Proprio per evitare rogne, entreremo nella foresta come missionari e Armina come suora laica.

SARÀ UN AEREO A ELICA A QUATTRO POSTI A PORTARCI ALLA MISSAO CATRIMANI, NEL

CUORE DEL TERRITORIO YANOMAMI.

MA PRIMA DOBBIAMO PREPARARCI, comprare le amache e l’acqua per noi, gli ami, il filo di cotone ed altro, per loro. Già, loro.

LORO SONO GLI YANOMAMI. E io e voi e chiunque al mondo non sia yanomami è, per loro, un nap.

DEGLI OLTRE TRECENTO POPOLI AMAZZONICI, SONO TRA I PIÙ ANTICHI.

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LE PRIME TRACCE DELLA LORO PRESENZA

risalgono a tremila anni fa. Ma sono tracce rare e difficili da decifrare, perché quando uno yanomami muore, tutti i suoi averi sono seppelliti con lui. Così, mentre prepariamo i bagagli, penso che i regali che oggi abbiamo comprato per loro, un giorno finiranno sottoterra.

LA SERA PRIMA DELLA PARTENZA,

nella stanza di fratel Carlo, guardiamo la mappa della sconfinata riserva, nove milioni e mezzo di ettari, quasi un terzo del territorio italiano. Senza di lui, senza il suo impegno, quei confini adesso non ci sarebbero e forse non ci sarebbero più neppure gli yanomami, che ora sono invece circa 20.000, un numero che, finalmente, dopo tante cadute al ribasso, riprende a crescere.

SOTTO UN FUOCO AMICO DI DOMANDE

costringo Carlo a raccontare. Seduto sull’amaca che usa come letto anche quando un vero letto c’è, lui distilla episodi, centellina avventure. È vero che non può celebrare messa, ma noi lo ascoltiamo lo stesso in religioso silenzio. Arrivato qui dall’Italia senza nessuna preparazione, a parte gli studi di teologia, fu assegnato alla Casa dell’Ordine della Consolata, qui a Boa Vista, nell’estremo nord del Brasile.

137

MA TRA QUATTRO MURA NON RIUSCIVA

PROPRIO A STARE.

Così, un bel giorno, si offrì di sostituire un anziano missionario malato, che la foresta stava divorando. Improvvisamente si ritrovò solo, tra le braccia di quella madre sconosciuta.

I primi mesi, anzi i primi anni, gli servirono per imparare a costruirsi un riparo, a pescare, a cacciare, a difendersi dagli insetti, dai giaguari, dalla malaria e dalla solitudine. A sopravvivere, giorno dopo giorno, notte dopo notte.

A PROPOSITO DI NOTTE,

«Si è fatto tardi» ci dice, «domani si parte presto, è ora di andare a dormire». E noi, ubbidienti andiamo, anche se avrei voglia di mettermi a fare i capricci e di rotolarmi per terra, come facevo da bambino quando i miei mi spedivano a dormire prima della fine di un film di avventura.

ALBA, INIZIO AD ESSERE UN VETERANO di colazioni tra missionari, però è sempre un piacere sedersi al loro tavolo nelle case madri, e ascoltare i progetti dei giovani e i ricordi dei vecchi. Passiamo a prendere il pilota. È lì che ci aspetta, davanti alla sua piccola casa azzurra.

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SALUTA LA SUA PICCOLA MOGLIE E LA SUA PICCOLISSIMA FIGLIA E DOPO POCHI CHILOMETRI CI PRESENTA IL SUO MICROSCOPICO APPARECCHIO.

Una vita in miniatura, la sua, penso, mentre Cristian, per esorcizzare la paura, si fa fotografare spavaldo davanti all’aereo.

ORA SIAMO IN VOLO, sono seduto sul sedile del copilota, mi sembra di essere a bordo di un furgone solo che se guardo fuori … Allora utilizzo il mio solito espediente: mi giro verso i compagni di viaggio terrorizzati dalle raffiche di vento che scuotono l’aereo come se fosse un modellino in mano a un teppista di ragazzino, e subito la loro paura diventa il mio coraggio. E mi godo lo spettacolo come un vero incosciente.

LA

SUPERFICIE DELLA TERRA SEMBRA UN LIBRO ILLUSTRATO,

non c’è bisogno di parole per capire cosa accade laggiù. Superate le strade asfaltate e le case case della “civilizzata” Boa Vista, iniziano le piste di terra rossa che collegano piccoli villaggi a riquadri di terreno disboscato, su cui sorgono le solitarie abitazioni dei cablocos che, man mano che ci si avvicina alla foresta, assomigliano sempre di più a isolati e fragili fortini eretti in territorio nemico.

139

ALZO LO SGUARDO E PROPRIO DI FRONTE MI APPAIONO COLONNE DI PIOGGIA CHE SEMBRANO SOSTENERE LA VOLTA LUMINOSA DEL CIELO.

IL PILOTA METTE DA PARTE IL NAVIGATORE

TASCABILE E INIZIA A VOLARE A VISTA.

Per evitare il peggio, descriviamo bizzarre traiettorie simili a graffiti su un muro. Il peggio vuol dire precipitare giù e scomparire in quell’oceano verde. È accaduto non più di un mese fa a un medico, due infermieri e, naturalmente, al loro pilota, che facevano la spola tra la missione verso la quale siamo diretti e uno sperduto presidio medico. Quando hanno iniziato a perder quota, hanno gettato via le scatole di medicinali e di tutto ciò che appesantiva l’aereo. Al momento dell’impatto, uno di loro è riuscito a catapultarsi fuori. Così facendo si è salvato ma non ha potuto evitare di veder morire prima il pilota, poi gli altri due compagni.

140
E SI È RITROVATO SOLO IN MEZZO AI GIGANTI.

È DIFFICILE CHE LA FORESTA RISPUTI FUORI QUEL CHE HA INGHIOTTITO.

141

GLI ALBERI SONO COSÌ ALTI E FITTI

che nemmeno il fumo di un fuoco diventa visibile ai soccorsi. Il superstite lo sapeva e dopo essersi martoriato le mani per creare una piccola radura intorno al relitto, ha unito quelle stesse mani in preghiera.

DOPO NOVE GIORNI,

qualcuno dal cielo lo ha visto. Forse era Dio, forse un altro pilota, fatto sta che si è riusciti a portarlo in salvo. Era la seconda volta che usciva illeso o quasi da un incidente aereo. Adesso lavora a terra e da terra, dice, non ha più intenzione di sollevarsi, neppure per spolverare il lampadario.

NOI,

INVECE, VOLIAMO

sul territorio yanomami che, come il corpo disteso di una lasciva divinità, si lascia ammirare. Mi sento in colpa, perché stiamo godendo di una visione del loro mondo che loro non avranno mai. O forse sì, forse in sogno sì.

ECCO IL PRIMO INEQUIVOCABILE SEGNO DELLA LORO PRESENZA:

lo yano, la capanna collettiva, esemplare dimora circolare con uno spazio vuoto al centro.

142

DA QUASSÙ SEMBRA UN ANELLO, PEGNO D’AMORE ETERNO TRA QUESTO POPOLO

E LA SUA TERRA.

ENTRIAMO IN UNA NUVOLA

come timidi invitati a una festa in cui non conosci nessuno e, quando ne usciamo, ci troviamo di fronte a una padrona di casa grande come una montagna, una montagna di rocce rosse. Mi giro verso Carlo e chiedo notizie. Mi dice che trent’anni fa ci è salito in cima e che gli indios che lo avevano accompagnato hanno preferito fermarsi prima in segno di rispetto.

COME IN UN CARTONE ANIMATO, adesso passiamo sotto l’arcobaleno, mentre inizia la manovra di atterraggio. Rido dello stesso riso pazzo di quando da ragazzino combinavo qualche casino giocando nel cortile di casa.

TOCCHIAMO TERRA e proseguiamo la nostra corsa come se fossimo su una jeep. Le ali sfiorano i banani e noi sfioriamo l’infarto quando ci rendiamo conto che la pista è quasi finita.

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QUELLO CHE NON FANNO I FRENI

lo fa una ripida salita, che, finalmente, pone fine alla nostra folle corsa.

ARRIVATI.

In una radura, circondata dalla foresta e bagnata dal fiume Catrimani, ecco l’omonima missao. Tre o quattro case di legno con chissà quante mani di vernice sopra, un trattore paralitico, tre suore inselvatichite e due missionari vagabondi appena tornati da un periodo trascorso nei villaggi della parte più interna della foresta. E poi, i primi yanomami. È un’emozione a cui ci abitueremo, come accade con gli scoiattoli a New York.

UN’ANZIANA SEDUTA A TERRA

sotto il portico, qualche bambino curioso e due ragazzi che ci aiutano a scaricare i bagagli dall’aereo. Fanno parte di una piccola comunità che vive intorno alla missione e sono abituati a vedere qualche forestiero anzi, qualche nap. La casa dove passeremo la notte è stata disabitata per tre mesi e si vede e si sente. Un ragno velenoso grande quanto la mano aperta di un giocatore di basket ci dice buongiorno. Senza pensarci due volte uno dei giovani indio con un bastone gli dà la buonanotte.

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TRA LIBRI BIANCHI DI POLVERE,

riconosco un Vangelo rosicchiato e un testo sulla teologia della liberazione di Leonardo Boff che un topo rivoluzionario ha pensato bene di risparmiare.

RACCOLTE

DI LETTERE

MISSIONARIE, fogli sparsi con un abbozzo di dizionario yanomami, torce, cartucce, una canna da pesca e l’immagine di una timida Madonna.

POI, I LETTI, coperti da diversi strati di lenzuola lise, quasi trasparenti, accostati a pareti punteggiate da centinaia di piccole macchie. Mi avvicino a osservarle e svelo l’arcano: sono zanzare schiacciate ed esplose insieme al loro serbatoio di sangue.

IL

BAGNO,

DESCRIVO.

IL BAGNO NON VE LO

LA SERA CUCINIAMO NOI

per tutti pasta all’amatriciana e le nostre quotazioni salgono sensibilmente.

145

DOMANI SI VA VERSO I VILLAGGI.

Domani è già oggi e oggi inizia con sei occhi neri che mi guardano silenziosi e curiosi, da dietro la zanzariera.

CHE BELLO, SIAMO SUL FIUME!

Uno spompato motore fuori bordo sospinge la nostra barca di ferro lungo il fiume Catrimani. C’è la piena, per fortuna, così le rapide non saranno troppo difficili da superare.

IL VENTO PROFUMA DI FORESTA.

SLANCIATI COME ATLETI, GLI ALBERI SI SFIDANO

A CONQUISTARE IL CIELO.

Altri, sfiniti, dormono sdraiati lungo le sponde il loro ultimo sonno. Al loro capezzale, uccelli colorati cantano una ninna nanna o forse una messa funebre.

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PER UN ATTIMO PIOVE UNA PIOGGIA RUGIADA.

L’acqua è marrone, sembra il fiume della Fabbrica di cioccolato . Davanti al mio naso passa rombando un calabrone e Carlo mi dice qualcosa che ha a che fare con il mito della nascita del primo yanomami, ma poi il calabrone vola via e dalla mia testa volano via anche i particolari di quel racconto. Deve avermi distratto la spuma delle rapide o forse la calma improvvisa di un’ansa in cui le nuvole si specchiano.

NO, ECCO COSA HA ATTIRATO LA MIA ATTENZIONE:

ho visto l’infinita gamma dei verdi punteggiarsi di rosso. E poi quel rosso scomparire e riapparire di nuovo. Una, due, cinque ragazze indie, con il loro gonnellino di un rosso lucente e i loro corpi innocenti, sono apparse tra le foglie, lungo la sponda del fiume. La più alta stringe un piccolo di uomo tra le braccia, le altre si immergono nell’acqua e ci osservano silenziose passare.

IL RIO, CHE MI APPARIVA A OGNI ISTANTE DIVERSO, ORA, ALL’IMPROVVISO, MI SEMBRA SEMPRE UGUALE.

I nostri occhi incontrano soddisfatti i resti del ponte e della strada, voluti dall’esercito e sfruttati dai garimperos per sfruttare. La foresta li ha circondati e le acque in piena gli hanno dato il colpo di grazia.

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IL NOSTRO SCIVOLARE VERSO L’IGNOTO

della foresta ha qualcosa di solenne. L’assurda ossessione di Fitzcarraldo di voler ascoltare le arie di un’opera lirica qui, non mi sembra più così assurda.

NON ESISTE AL MONDO TEATRO PIÙ MAGNIFICENTE E PUBBLICO PIÙ DEGNO.

Così, invito la Callas a cantare dentro di me, solo per me, «Quando, rapito in estasi» e con quella musica nelle orecchie, rapito e in estasi, mi sfilo pantaloni e maglietta e incurante dei pirana, degli jakarè e dei pesci elettrici e sotto lo sguardo benedicente di fratel Carlo, mi lascio battezzare dal fiume. Faccio qualche bracciata, poi mi giro e mi lascio trasportare dalla corrente, con gli occhi colmi di alberi e cielo, felice, più della lontra che, offesa, si immerge e scompare a pochi metri da me. Se proseguissi la mia nuotata nel Catrimani finirei nel Rio Branco, poi nel Rio Negro, nel Rio Madeira e finalmente, nel Rio delle Amazzoni. Forse è meglio risalire a bordo …

UN TUCANO, UN MARTIN PESCATORE E ALCUNE

GAZZE BIANCHE CI INDICANO LA STRADA.

Speriamo che sia quella giusta. Abbiamo lasciato il nostro fiume e navighiamo su uno dei suoi fratelli minori. Tristi tronchi rallentano il nostro andare tra le risa di scherno di un grosso pappagallo.

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CI INOLTRIAMO SEMPRE PIÙ A FONDO

nella foresta attraverso il fiume e il fiume e la foresta entrano sempre più a fondo in me.

STO IMPARANDO A RICONOSCERE I SEGNI

DELLA PRESENZA DEGLI YANOMAMI.

Il villaggio che ci aspetta mi pare di sentirlo, di vederlo. Ecco i banani, ecco i bambini in equilibrio sui tronchi caduti degli alberi. Un richiamo, ed ecco anche gli altri spuntare da quel nulla, da quel tutto.

CHE MERAVIGLIA, CHE MERAVIGLIA!

«Sono così privi di malizia e così generosi che quasi non lo si crederebbe. Non negano mai una cosa di loro proprietà, anzi invogliano le persone a richiederla e si mostrano così amorevoli che darebbero il cuore stesso …».

HO LASCIATO CHE FOSSE

Cristoforo Colombo ad esprimere cosa si prova a penetrare nell’universo indio, così nessuno mi potrà accusare di essere troppo dolciastro e infatuato.

SIAMO QUI SOLO PERCHÉ LORO HANNO DETTO DI SÌ.

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MI SENTO UN VERO PRIVILEGIATO.

La nostra presenza non gli è stata in nessun modo imposta. Carlo è venuto qui a spiegare il progetto che avevamo in mente, quello di far usare delle macchine fotografiche usa e getta ai bambini e alle bambine, per raccontare una delle loro giornate. Nessuno ne ha mai usata una prima e proprio questa, mi auguro, sarà la vera magia del progetto.

CI SALUTANO CON LA MANO E POI CI AIUTANO A SCENDERE A TERRA.

Avrei voglia di baciarla questa terra, invece seguo i più giovani che ci fanno strada. Gli alberi sono così alti che quando una foglia cade hai tutto il tempo di osservarla scender giù. Migliaia di pappagalli di specie diverse, chissà se ognuna si sente unica e superiore come gli yanomami. Carlo mi spiegava che questa convinzione un po’ razzista li ha aiutati a superare momenti terribili e incoraggiati a resistere.

QUI IL TENTATIVO DI GENOCIDIO NON È STATO PERPETRATO CON LE

ARMI, ma con le malattie. Morbillo, malaria, tubercolosi, hanno, in un certo periodo, falcidiato la popolazione. Di quei giorni, fratel Carlo serba ancora il ricordo, come un incubo che ti accompagna di giorno e ti fa svegliare di soprassalto la notte.

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DURANTE LE EPIDEMIE,

quando i bambini morivano in massa e gli uomini più veloci volavano attraverso la foresta per venire a chiedere il suo aiuto, Carlo lasciava la missione e si trasferiva nei villaggi colpiti per mesi interi.

PORTAVA CON SÉ LA SUA AMACA

e si trasformava in medico e si trasformava in uno di loro. Quando le sue cure erano efficaci, i più anziani ringraziavano lo spirito dell’ago e delle pasticche. Poi, arrivavano anche i giorni felici, e Carlo andava in giro nella foresta con il capo di un villaggio che gli indicava per nome ogni esemplare di animale e di pianta. In un solo giorno Carlo ne annotò più di cinquecento. Erano i giorni della caccia silenziosa, con archi e trappole, di una lingua imparata parola per parola, della scoperta, è stato proprio lui a farla, che il nome di questo popolo era “yanomami”. I giorni in cui la fiducia reciproca diventava confidenza e poi amicizia.

L’HO

VISTO CON I MIEI

OCCHI, a distanza di anni gli anziani si ricordano tutti di lui e lo abbracciano e gli continuano a chiedere come mai non si è ancora sposato. A proposito, più di una volta si è sentito domandare da uno yanomami se non avesse voglia di andare con la sua donna.

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GLI YANOMAMI,

infatti, pensano che i figli si concepiscano non in una sola ma in più volte, e ad alcuni di loro piacevano molto i peli sulle gambe del nostro amico missionario e sarebbero stati felici di avere un figlio con quella dote. Tra imbarazzo e furbizia, Carlo declinava l’invito, persuadendoli che quei peli erano una grande scomodità per un cacciatore.

UN’IMPROVVISA RADURA CI ANNUNCIA L’ARRIVO

ALLO YANO. Il sole è già alto, il caldo è già forte, la luce è già bianca. Quasi senza rendermene conto, varco lo stretto ingresso della capanna e mi trovo nel buio e mi trovo nel suono di urla, è il loro saluto, è il loro benvenuto. Quando andremo via non sarà così. “Addio” gli yanomami non lo dicono mai.

LENTAMENTE IL DIAFRAMMA

DEI

MIEI OCCHI si adatta e iniziano a venire alla luce i segreti di un mondo sospeso e dondolante.

OGNI FAMIGLIA OCCUPA CON LE SUE AMACHE, il suo fuoco e le sue poche cose una porzione della capanna comune.

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SOBBALZO DI FRONTE A UNA PILA DI PICCOLI

CORPI

NERI, AGGROVIGLIATI UNO SULL’ALTRO.

Sono corpi di tapiri, scimmie e altre prede, messi ad affumicare. Ridendo, Carlo mi dice che un regista venuto qui a girare un documentario, vedendo quel groviglio è fuggito gridando «Aiuto sono cannibali!».

GLI YANOMAMI CHE NON AMANO LE PERSONE PRIVE DEL SENSO DELL’UMORISMO, NON HANNO VOLUTO CHE QUELLO STUPIDO NAP SI FERMASSE ANCORA LÌ.

Insomma, fortunatamente, i loro contatti con il mondo esterno sono rari e spesso difficili. Per quanto mi riguarda non faccio nessuna fatica a sorridere. La notte poi, giocherò con i più piccoli nello spazio centrale a cielo aperto dello yano, e non saranno solo sorrisi ma vere risate. Per ora mi guardo intorno, le amache di cotone tinto di rosso si incrociano una con l’altra e creano all’interno dell’inquadratura una profondità sconosciuta.

UNA MADRE FIERA E SERIA, CIRCONDATA DA QUATTRO FIGLI FOTOCOPIA, EVITA DI INCROCIARE IL MIO SGUARDO.

Un bambino più coraggioso degli altri viene a toccarmi e poi scappa via. Un cane magro ringhia e un ragazzo lo fa tacere ringhiando a sua volta.

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UN VECCHIO MI MOSTRA IL SUO PAPPAGALLINO

e resta incantato nel vedere la sua immagine riflessa sullo schermo della mia telecamera. Una famiglia sta terminando un pasto a base di tartaruga, il piatto è la stessa corazza rovesciata della povera vecchia bestia. Dieci mani dalla XS alla XL, ci si tuffano dentro.

DUE RAGAZZE INCINTE CHIEDONO A CARLO IL MIO NOME E QUELLO DI ARMINA, VOGLIONO CHIAMARE COME NOI I BAMBINI CHE PRESTO NASCERANNO. CHISSÀ COSA COMBINA IN

QUESTO MOMENTO IL PICCOLO STEFANO YANOMAMI.

QUANDO

LI RIPRENDO SI FERMANO, IMMOBILI.

Poi, si aprono in un sorriso, a volte nascosto, a volte gridato e senza denti. Le ragazze hanno il fascino della timidezza, della sensualità, della purezza. Ma anche qui, come in tanto mondo selvaggio, la bellezza delle donne è fragile e breve come la vita di una farfalla.

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KAREKA, IL CAPO, FA GLI ONORI DI CASA e ci assegna uno spazio di yano dove potremo montare le nostre amache. Ci spiega anche, o meglio, spiega a Carlo che traduce per noi, che domani avrà luogo una grande festa a cui parteciperanno anche gli abitanti dei villaggi vicini.

È UNA FORTUNA DAVVERO GRANDE E INSPERATA. SAREMO TRA I POCHI NAP DELLA TERRA A POTERSI VANTARE DI AVER PARTECIPATO AD UNO DEI

PARTY PIÙ ESCLUSIVI DEL PIANETA.

ORA, SONO LE ORE DELLA CALMA, la vita dello yano rallenta e resta sospesa, come il fumo che si alza dai fuochi. Il lento dondolio delle amache scandisce la lentezza del loro vivere che forse raddoppia la durata delle loro esistenze, altrimenti molto breve. Ma noi, ora, dobbiamo cominciare a lavorare.

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AIUTATI DAI RAGAZZI PIÙ

BAMBINI E LE BAMBINE

GRANDI, RADUNIAMO I

fino a dodici, tredici anni, e inizia mo a spiegare il funzionamento delle macchinette usa e getta. Mimo, come in uno spettacolo teatrale, le spiegazioni “tecniche”.

COME IN OGNI ANGOLO DEL MONDO,

ci sono bambini sicuri di sé e intraprendenti e bambini timidi e imbarazzati.

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IN OGNI CASO, HANNO CAPITO COME SI FA

e, a gruppi di tre, si inoltrano tra le foglie alla ricerca di uno scoop. Tra tutti, qualche riga in più merita Esmeraldino. Piccolo di statura, spalle larghe, testa quadrata e buffi occhi sporgenti, molto diverso, insomma, dai suoi compagni di giochi. Si era innamorato della fotografia, e ogni due ore me lo ritrovavo intorno perché aveva finito di scattare e voleva un’altra macchinetta. Prima siamo diventati amici e poi si è trasformato nel mio professore di lingua yanomami. Io disegnavo sul mio blocchetto un oggetto o lo indicavo con il dito e lui mi faceva ripetere la parola.

ESMERALDINO SEMBRAVA SODDISFATTO

della mia pronuncia e felice della sua vita. Qualche mese prima si era ammalato. La febbre era così alta che cadde in coma. Per due giorni perse conoscenza. Ma lo sciamano disse che non si trattava di una malattia dei bianchi, ma di una loro malattia, di un maleficio dei nemici, e che ci avrebbe pensato lui a curarlo.

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SOLE SI DICE “MOTOKA”, LUNA “PORIPÒ”, NUVOLE “KROKE KROKE”, STELLE E LUCCIOLE “PINIMAUHU”, PIOGGIA “MAAKEI”.

GLI UOMINI MAGICI YANOMAMI

sono celebri per i loro strabilianti poteri. Fatto sta che Esmeraldino si è risvegliato. Carlo mi dice che spesso gli sciamani durante l’infanzia vivono esperienze simili e che il nostro piccolo fotografo un giorno potrebbe diventare l’uomo magico del villaggio.

C’È ODORE DI ERBA TAGLIATA E UN AVVOLTOIO GIRA IN TONDO SOPRA IL TONDO DELLO YANO, CHE ORA SI ANIMA.

Le donne escono in fila, qui davvero indiana, con le ceste sulle spalle e si avviano a raccogliere la tapioca, quattro ragazzi tornano dalla caccia con gli archi cresciuti insieme a loro, un indio con il piede mezzo mangiato da un serpente botox, si dà da fare intorno al grande recipiente in cui verrà preparata la bevanda di patate dolci che servirà a far salire l’eccitazione durante la festa, bande di ragazzini si rincorrono succhiando pezzi di canna da zucchero.

AFFASCINATO, GUARDO DUE DONNE CREARE UN’AMACA DA UN FILO DI COTONE E LORO GUARDANO AFFASCINATE ME, MENTRE ANNODO I LACCI DELLE MIE SCARPE. 159

POI ASCOLTO VOCI VENIRE DALLA SELVA E LE SEGUO QUELLE VOCI E SCOPRO, IN UNA PISCINA NATURALE, LA LIBERTÀ.

Si tuffano e tuffano in quell’acqua che conosco anch’io e ridono e scherzano. Più liberi di così, penso, non è possibile essere. E resto lì a guardarli e resto lì a sentirmi felice.

QUANDO TORNIAMO È QUASI SERA,

quasi tutti sono rientrati. C’è un odore forte di fumo, gli uomini si alternano intorno al grande pentolone magico. Insieme a Carlo, faccio il giro dello yano. Sono molto affettuosi e intelligenti, la loro proverbiale ingenuità sembra resistere. Mi chiedo se non sia la loro vera forza. Per chi si comporta male non c’è prigione.

IL

COLPEVOLE VIENE ALLONTANATO DAL CLAN

e lasciato solo nella boscaglia “a far raffreddare la testa”. È una punizione saggia ma più crudele di quanto si possa immaginare. Gli yanomami, infatti, non amano star soli, temono di essere assaliti da Okapo, il “nemico dipinto di nero”.

VORREI SAPERE QUALCOSA DEI LORO SOGNI E LORO DEI LORO SOGNI MI DICONO, TIMIDI E SORRIDENTI.

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LE DONNE SPESSO RACCONTANO STORIE

di amori nella macchia, gli uomini episodi di caccia e di pesca. Guardandomi negli occhi uno di loro mi dice di aver sognato il nostro arrivo. Le ragazze sono tutte impegnate a riempire schiene, visi, petti e braccia di primitivi e appariscenti disegni realizzati con il rosso dell’urucù. Una goccia di latte esce dal seno di una madre e scivola giù.

DELLA FORESTA.

ADESSO IL BUIO È BUIO E A FATICA RITROVIAMO

LA STRADA DELLE NOSTRE AMACHE.

Seduti in cerchio, iniziamo a mangiare e, quando penso che la giornata stia per finire, la giornata inizia. Tanto è tranquillo il giorno, quanto è movimentata la notte.

MI GIRO E IMPROVVISAMENTE VEDO ILLUMINATA, DA UNA LUCE CHE NON SO, UNA PICCOLA LEI, OCCHI COME PERLE E UN FILO DI PERLINE AZZURRE COME OCCHI QUI SCONOSCIUTI. È PERFETTA: INNOCENTE, SELVAGGIA. UN MIRACOLO VIVENTE, FIGLIA PREDILETTA
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E LA LUNA PIENA, LASSÙ, È PRONTA DARE IL SUO CONTRIBUTO DI AGITAZIONE E FOLLIA.

Tutto ha inizio con un lungo monologo di Kareka. Non dal centro, ma da un angolo nascosto dello yano, il capo parla a tutti e, a tratti, mi sembra, soprattutto a se stesso. Poi le ragazze più giovani, quelle che prima si dipingevano a vicenda il corpo, iniziano a danzare nello spazio centrale ora bianco di luna. Vanno avanti e indietro per un tempo infinito, ripetendo con voce monotona un’ipnotica canzone. Alla fine uniamo le nostre voci alle loro e il popolo yanomami mostra di apprezzare lanciando alte grida.

SIAMO SFINITI E DECIDIAMO DI SDRAIARCI, FINALMENTE, SULLE NOSTRE AMACHE.

Ma io che dormo poco nel mio letto, come posso sperare di prender sonno qui? E, comunque, non saranno solo le emozioni di queste memorabili ore a tenermi sveglio. Dopo le ragazze, ci pensano i più anziani a far sentire la loro voce, parole che suonano come poesie. Poi, a poco a poco, sembra che il sonno arrivi per tutti o quasi.

NON TROPPO LONTANO DALLE MIE ORECCHIE SENTO SOSPIRI DI AMORE

e, non troppo lontano dal mio naso, a profanare l’atmosfera, rumore di peti, anzi di vere e proprie scorregge.

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UN BAMBINO PIANGE

a lungo il suo pianto neonato e l’unico che sembra aver qualcosa da ridire è un cane che abbaia proprio come un cane.

DAL CIELO PIOVONO STELLE, DAL TETTO DI PAGLIA BLATTE.

Non so se ho dormito per qualche minuto, ma so per certo che non mi ha svegliato il canto dei loro amati galli, ma il rantolo cupo e isterico di un indio coperto di penne e pittura. Mi sono sollevato quel poco che bastava per vedere lo sciamano del villaggio ospite dare il via a un’interminabile cerimonia propiziatoria. Accanto a lui, a mo’ di voce di controcanto, un altro indio. Mi è rimasto impresso nella mente quel lamento che diventava una minaccia e poi una benedizione e poi un canto.

CON LA CERBOTTANA I DUE SI SPARAVANO

nelle narici il fumo di un potente allucinogeno, mentre lo yano iniziava a reagire. Molte donne avevano già alle orecchie e sulla testa penne colorate e, insieme agli uomini, rispondevano con danze e urla ai canti e alle grida provenienti dall’esterno. Carlo mi ha detto che nessuno poteva uscire dallo yano, fino a quando non erano entrati tutti gli ospiti, ma che io, se volevo, potevo andare a vedere. Così, sono uscito da solo e mi sono trovato circondato dagli sconosciuti abitanti di villaggi lontani anche giorni e giorni di cammino.

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DIVISI IN PICCOLI GRUPPI, HANNO MARCIATO A

LUNGO NELLA FORESTA, in una millenaria formazione: il padre davanti a tutti con l’arco in pugno, poi i figli e, per ultima, la madre con una cesta contenente tutti i loro averi e l’ultimo nato in braccio. Alcune donne hanno tratti diversi dalle altre e mostrano una grande fierezza e dignità. Anche i disegni dei loro corpi sono diversi. Molti uomini hanno i volti dipinti e impugnano lance e archi, come se andassero in guerra, mentre uno, interamente dipinto a strisce bianche e nere, si agita scompostamente.

SONO VANITOSI E OSSERVANO

LA

LORO IMMAGINE RIFLESSA IN MICROSCOPICI SPECCHI E NEGLI OCCHI DEGLI ALTRI.

TUTTO A UN TRATTO ENTRANO DI CORSA

NELLO YANO.

Io e i miei cerchiamo di riprendere la folle concitazione del momento. Accolti da urla apparentemente ostili, iniziano a correre in tondo. Poi è la volta delle loro donne e poi di altri gruppi. Si confondono in balli il cui significato parte da qui e arriva fino alle caravelle di Colombo.

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GLI UOMINI BEVONO FINO AL VOMITO

la pozione preparata con cura per più di ventiquattro ore e noi, storditi e partecipi e ubriachi di visioni, riusciamo a dire grazie a Carlo per l’onore che ci è stato concesso.

La sera mentre tutti i miei compagni di viaggio sono già sulla barca, incrocio Kareka che a gesti mi fa capire che gli altri stanno per andarsene; sempre a gesti, gli faccio capire che voglio restare qui. Lui prima mi guarda serio, poi mangia la foglia e scoppia a ridere e io con lui.

OLTRE.

LA MIA CAMICIA, IN ORIGINE BIANCA e poi rossa del rosso delle loro tinture, adesso, tutta bagnata, sembra un acquarello dipinto da una artista di tre anni.

SULLA LIQUIDA VIA DEL RITORNO, IL MOTORE SPRIGIONA NUVOLE NERE E LO STESSO FA IL CIELO, ADESSO ARRIVA IL BELLO. IL BELLO È UNA LUCE SPAVENTOSA CHE CI INONDA E UNA PIOGGIA TIEPIDA CHE CI BAGNA DI SOFFICI GOCCE E POI SUBITO PASSA
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MI SCOPRO A RESPIRARE IN MODO DIVERSO, E

MI SENTO BENE.

Uccelli si tuffano in acqua e pesci volano verso il cielo. Scrivo sul mio taccuino, colpito, ma non affondato dal temporale. Mentre ripenso ai bambini, le mie labbra si muovono a mimare i loro sorrisi.

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CHIUSO IN UN IMPENETRABILE SILENZIO, ESCLUDO DA ME OGNI COSA, DALLE PAROLE DEI COMPAGNI DI VIAGGIO AL RUMORE DEL MOTORE. CONSAPEVOLE E INCOSCIENTE, ASSORBO TUTTO CON TUTTO ME STESSO. E, ANCORA PER QUALCHE ISTANTE, MI ISOLO IN UNO DEI LUOGHI PIÙ ISOLATI DELLA TERRA.
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L’ALTEZZA DI UN UOMO (APPUNTI PERUVIANI, 2007)

LE

BARACCHE

DELLE

FAVELAS DI LIMA SONO

COLOR CARAMELLA.

CARAMELLA

AMARA. Nella periferia triste di un derelitto fine settimana, i centri commerciali, cattedrali della nuova religione planetaria, inghiottono intere famiglie cariche di desideri destinati a rimanere tali.

CONTO I CANI RANDAGI, arrivo subito a dodici, come gli apostoli. Di un gatto Gesù nemmeno l’ombra. ECCO IL MARE, surfisti da barrio, chicas da bar. Una prostituta una, davanti alle due torri del Marriot Hotel. Primero de majo in Lima. Il pranzo dei ricchi e le montagne di rifiuti cena dei poveri.

ANCORA STRADE DI POLVERE e lurida miseria, da cui, come per miracolo, uscirà una lei vestita di bianco immacolato su tacchi principianti e sguardo fiero.

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ARIA PACIFICA DEL PACIFICO. ARIA DI SUDAMERICA.

BLINDATI SULLA PIAZZA E POCHI CONTADINI

sotto le zampe del destriero di San Simon Bolivar (proclamato beato da me, in nome di tutti gli uomini di bassa statura della terra, per la sua celebre frase: «L’altezza di un uomo si misura dalla testa in su»).

UNA DONNA QUASI

VECCHIA,

QUASI ELEGANTE, ASPETTA SEDUTA SU DI UNA PANCHINA CHE IL SUO PASSATO RITORNI.

Ragazze magliette strette e passo morbido vanno. Posso sentire il profumo del loro passato indio ma quello del loro futuro, no.

ADESSO IN VIAGGIO VERSO LA CORDILLERA BLANCA.

Insetti colorati sui vetri dei finestrini, maggiolini arrugginiti sulle strade. Un deserto di dune circonda Lima. Vita arida, immagino, per chi ci vive. Ecco la terra occupata dai senza terra, le case come scatole di scarpe vuote, abbandonate dopo un saccheggio. Chissà quanto avranno combattuto per impossessarsi di quel nulla di sabbia, di questa aria fetente di pesce messo in scatola qui e mangiato su chissà quale tavola.

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GIURO, NON HO FATTO COLAZIONE CON IL CELEBRE SAN PEDRO MA, COME IN UN’ALLUCINAZIONE, SUL FIANCO DI UNA COLLINA SABBIOSA E INFUOCATA, MI APPARE UNA GIGANTESCA SCRITTA DI SASSI CHE DICE «CRISTO VIVE». IMMENSA PROVA DI AMORE DI UN POVERO CRISTO CHE CHISSÀ COME SOPRAVVIVE! 171

POI,

TRA MONTAGNE DI ROCCE,

cactus neri e immobili come sentinelle, un fiume, finalmente, circondato come un maestro dai suoi seguaci: alberi da frutto, mais, canne da zucchero, banani. Buchi neri dei minatori sulle colline, buchi neri dei conigli sui prati. Se dovessi scegliere in quale buco vivere la mia esistenza non avrei dubbi: quello del coniglio!

NUVOLE E CIELO VIOLA. IMPROVVISA, L’ESISTENZA INTERA DI UN POVERO PADRE DI FAMIGLIA MI PASSA DAVANTI AGLI OCCHI.

UN CAVALLO CORRE INSEGUITO DA TRE CANI, come il nostro giorno dalla notte. I fari illuminano figure che emergono come spettri dall’oscurità e nell’oscurità svaniscono. Simili a tanti esseri visti già. Su strade e sentieri diretti verso villaggi del Sahel, capanne nepalesi, baracche guatemalteche. «Dove andate?», avrei voglia di chiedergli. Ma se fossero loro a rivolgere questa domanda a me, saprei rispondere?

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«NOI ANDIAMO A CASA, TRE ORE DI

CAMMINO DA QUI, ACCENDEREMO UN FUOCO, MANGEREMO FORMAGGIO, RACCONTEREMO STORIE E CI SCALDEREMO TRA NOI. E TU, TU DOVE VAI?».

È L’ALBA,

ECCOMI QUI

con un nuovo capello in testa e una penna in mano, in una breve pausa tra una ripresa e l’altra. Eccomi qui e guardo e scrivo di un villaggio in una gola delle Ande con una colpa da scontare. Quella di trovarsi lì, troppo vicino alla grande miniera dei canadesi e di Fujimori. Le vite terribili dei minatori hanno finito per rendere terribile anche la vita del villaggio.

LE DONNE HANNO SCOPERTO CHE SI POSSONO VENDERE, GLI UOMINI CHE SI PUÒ UCCIDERE, I BAMBINI, GIÀ, CHISSÀ COSA AVRANNO IMPARATO, I BAMBINI.

CAMMINO NELLA PUNA.

I miei polmoni cercano l’aria, come a Lima. Lì per lo smog, qui perché siamo a 4.500 metri d’altezza. Sconfinati e verdi altopiani con vista sulle cime bianche della Blanca Cordillera.

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CHI VIVE QUI, VIVE PIÙ IN ALTO DI QUASI TUTTI

I POPOLI DELLA TERRA. E PIÙ IN BASSO COME CONDIZIONI MATERIALI DI VITA.

CI ACCOLGONO IN DUE MINUSCOLE CASETTE di pietra, dove per entrare anche io e i miei 168 centimetri dobbiamo inchinarci. Rispetto a tanta povertà vista e raccontata qui mi colpiscono le assenze.

NIENTE VICINI, NIENTE VILLAGGIO, NIENTE ALBERI, NIENTE. SOLO IL GREGGE FUORI, UN CANE E UNA MICROSCOPICA SERRA DI PLASTICA A PROTEZIONE DI TENTATIVI ESTREMI DI AGRICOLTURA.

UNA VECCHIA COLOR E ODOR FUMO, come avrete visto in un qualunque catalogo di un’agenzia turistica, una coppia di sposi giovani come figli e un piccoletto figlio che molto presto se ne andrà a zonzo per la puna, con tutto il suo destino nascosto tra i belati di una manciata di pecore.

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179 COME IL PROTAGONISTA DEL VAGABONDO DELLE STELLE, CHIUDO GLI OCCHI, QUANDO LI RIAPRO SONO LONTANO CENTINAIA DI CHILOMETRI, CIRCONDATO DALLE MACERIE. NON È UN SOGNO E NEMMENO UN INCUBO. O FORSE UN INCUBO SÌ, È IL TERREMOTO. HA DATO SPETTACOLO QUI, NEL SUD DEL PERÙ.

UN CANE SOPRAVVISSUTO ALLE SCOSSE

e all’odio di una banda di suoi simili, mi cammina accanto. Non ho capito se ama me o il mio ruolo di regista, comunque lo utilizzerò per un’inquadratura.

UN SORRISO DI PRINCIPESSA MI APRE LA PORTA DI UN CASTELLO FATTO DI TELI DI PLASTICA E LAMIERE.

In mezzo a tanta disperazione, mi mostra orgogliosa la sua condizione di sfollata. Bambini dormono stesi a terra, all’ombra di muri crollati, le gambe piene di baci d’insetti, ragni e zanzare. C’è anche un televisore da 10 o forse 8 pollici, di fronte al quale un pollicino con la maglietta stinta e bucata del Barcellona cerca di intravedere, tra onde e nebbie, quel suo gemello soldo di cacio di nome Lionel Messi, mentre fa impazzire i ciclopi delle difese di tutto il mondo.

ADESSO, IMMAGINATE DI ESSERE UN DETENUTO.

Immaginate di trovarvi chiusi nella vostra cella. Immaginate di sentire il boato sotterraneo e profondo del terremoto e provate a contare fino a centottanta. Il terrore di sentirsi presi in trappola come topi e poi, improvvisa, un’onda di adrenalina che vi spinge oltre i muri crollati della prigione, verso il buio o la luce di un’inaspettata libertà.

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HARMATTAN È IL NOME DEL VENTO

(BURKINA FASO, 1998)

DOPO AVER SORVOLATO PER PIÙ

DI DUE ORE IL GIALLO DEL SAHARA, la prima e unica cosa che vedi arrivando a Ouagadogu, è il verde del rettangolo di un campo da calcio. Non devo dimenticare di dirlo a Mattia e Francesco.

SONO 38 ANNI E 5 MESI CHE ASPETTO DI ESSERE QUI.

LA LUCE E GLI ODORI MI HANNO FATTO VENIRE IN MENTE GLI ODORI E LA LUCE DI ROMA IL GIORNO IN CUI È NATA MARGHERITA.

Le zanzare sono appena uscite a fare la spesa. Mi aspergo di Autan e prego che alla dogana non facciano storie: non ho il timbro della vaccinazione per la febbre gialla.

IL BURKINA, MI DICONO IN MOLTI, È ANCORA AFRICA COM’ERA L’AFRICA.

Era destino che la mia prima volta sarebbe stata così, tutto in una dose.

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ATTRAVERSARE OUAGA, È ATTRAVERSARE.

NON C’È IMMAGINE FISSA CAPACE DI

RACCONTARE QUESTO MONDO.

Tutto si muove, scorre. «Panta rhei», direbbe mia sorella Valentina. E i movimenti, le occupazioni, i volti, i gesti, i culi, sono così diversi che faccio fatica a chiamarli movimenti, occupazioni, gesti, culi.

Banane cullate dalle teste di ragazze dalle movenze antiche e sconosciute. Falegnami, lattonieri, artigiani. Biciclette, motorini, asini.

QUATTROCENTO

DOLLARI È IL

REDDITO PRO CAPITE ANNUO. ME LO SONO FATTO RIPETERE QUATTROCENTO VOLTE.

MOLTI SALUTANO E IO DAL PULMINO RISPONDO.

La popolazione è formata al 90% da contadini. Molti vengono a vendere i loro prodotti in città. Vorrei mangiare una carota, ma non si può. Cerco di prevedere se prenderò o no la malaria.

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BAMBINI DI 3 ANNI APPENA MI SALUTANO. IN AFRICA NON CI SI ABBRACCIA.

Mi danno la mano seri seri. Sono felice di poter parlare in francese con loro. Le bambine di una scuola cattolica sono felici di avere il mio indirizzo. Vogliono fare “correspondance” con me. Alla fine ho 30 e più indirizzi. E 50 di loro hanno il mio.

MENTRE CERCHIAMO UN ANGOLO PER “GIRARE”, INCROCIAMO UN GRUPPO DI RAGAZZE CHE DANZANO E CANTANO.

Hanno un modo di muoversi, di parlare, di salutare e di sorridere che mi incanta. Vorrei essere meno naif ma non ci riesco. E il confronto con il nostro mondo è continuo.

UN TEMPO OUAGADOGU ERA NOTA COME LA CITTÀ DEI GUERRIERI, OGGI QUI CONVIVONO DECINE DI ETNIE DIVERSE.

E almeno cinque religioni. L’istruzione non è obbligatoria, le scuole e gli asili che abbiamo visitato sembrano oasi.

LO SAPEVO CHE QUI SAREI STATO FELICE, LO SAPEVO, MA AVEVO PAURA DI SBAGLIARMI. 185

AVEVO PAURA DI ESSERE SOPRAFFATTO DALLA MISERIA. NON È COSÌ.

Le zanzare ballano intorno al mio taccuino.

DIGNITÀ. ECCO LA PAROLA.

Sono passati due giorni da quando sono arrivato nella Terra dell’uomo libero e integro (Burkina Faso vuol dire questo).

HO VISTO UN OSPEDALE CON UN GRANDE REPARTO RISERVATO AI BAMBINI PREMATURI.

In città la mortalità infantile è del 40%. Nelle campagne arriva al 90%.

HO PARLATO CON UN FRATE CAMILLIANO DI NAPOLI, SI CHIAMA TANO. I SUOI AMICI BURKINABESI DICONO RIDENDO CHE È UN CAPO MAFIA.

È QUI DA QUARANT’ANNI.

Capelli lunghi, barba bianca, con la sua tunica sotto il ginocchio e sul petto la croce rossa del suo ordine, sembra un guerriero medioevale.

186

CURA I LEBBROSI, I MALATI DI AIDS

(4000

CASI AL GIORNO), LE VECCHIE ABBANDONATE DALLE FAMIGLIE PERCHÉ

ACCUSATE DI ESSERE MANGIATRICI DI ANIME. Tutti lo conoscono, guida la jeep con avambracci da boxer. Padre Joseph mi dice ridendo che il “mafioso” è immune a qualsiasi malattia, a qualunque puntura di zanzara.

IN QUESTO PAESE, CONVIVONO

PACIFICAMENTE

MOLTISSIME ETNIE.

I mossi sono i più numerosi, i lobi i più chiusi (hanno resistito alla colonizzazione e sono molto gelosi delle loro tradizioni).

187
190 OSSERVANDO LE STRADE, I VOLTI NERI INCIPRIATI DALLA POLVERE SOLLEVATA DALL’HARMATTAN, IL VENTO CHE VIENE DAL DESERTO, MI VIENE SPONTANEO CREDERE CHE L’UNICO SCOPO, LA SOLA PREOCCUPAZIONE DI QUESTA GENTE SIA LA SOPRAVVIVENZA. MA NON È COSÌ. È UN PAESE CON UNA FORTE COSCIENZA CIVILE E UN GRANDE RISPETTO PER LA VITA.

BENCHÉ IL TASSO DI ANALFABETISMO SIA MOLTO ELEVATO, I POPOLI DEL BURKINA, QUANDO SI MUOVONO, POSSONO METTERE IN GINOCCHIO IL GOVERNO NELL’ARCO DI VENTIQUATTRO ORE.

Quando un famoso giornalista dell’opposizione è stato ritrovato carbonizzato nella sua auto, il paese si è sollevato. Per protesta, si è decisa l’interruzione dell’energia elettrica e qualunque tipo di attività e commercio. È stata fatta “ville morte”, città morta.

ANCORA UNA VOLTA IL PENSIERO CORRE ALL’ITALIA, DOVE LA COSCIENZA COLLETTIVA È ORMAI DEFUNTA, MORTA DI SONNO DAVANTI ALLA TELEVISIONE.

COME VORREI PORTARMI A CASA UNA SEDIA FATTA DI BASTONI, UNA GABBIA PER I POLLI E QUELL’INSEGNA DIPINTA A MANO DEL COIFFEUR.

«Posa la mano sull’Africa, il Burkina Faso è lì, dove senti battere più forte il cuore» (me l’ha detto qualcuno o è il copywriter in me a parlare? Giuro che non lo ricordo).

OGGI MI SONO SVEGLIATO ALLE 5, DECISO A SMETTERE I PANNI DEL FOLGORATO, DELL’INGENUO TURISTA.

191

MI SONO SVEGLIATO QUASI VERGOGNANDOMI

DEL MIELE VERSATO CON LA PENNA IL GIORNO PRIMA. MI SONO SVEGLIATO DECISO A GUARDARE CON GLI OCCHI E NON CON IL CUORE. Ma ho sbagliato giorno. Oggi i cattolici vanno in pellegrinaggio. Portati da camion, vecchie auto, motorini, biciclette, calessi, gambe e vento.

IN QUESTI GIORNI HO VISTO GENTE CHE SI TROVA IN CONDIZIONI DI VITA ASSOLUTAMENTE

DISPERATE.

Ho parlato con chi vive tra loro e li aiuta. Sono persone che di tragico non hanno nulla. Nulla di retorico o bigotto. Al contrario, hanno un fortissimo senso dell’umorismo.

NAVIGHIAMO SU UN FIUME DI GENTE, molti salutano o rispondono sorridendo ai miei saluti. Ancora non c’è stato un solo gesto di fastidio, d’insofferenza o inimicizia nei nostri confronti.

SONO 10 MILIONI, I BURKINABESI.

Una cifra così ridotta che mi viene spontaneo pensare, ingenuamente, che almeno qui sia possibile fare qualcosa.

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PENSO AI SOLDI SPESI IN ARMAMENTI, IN FINTI AIUTI UMANITARI, PENSO A CHI HA CHI SPECULATO SU QUESTA MISERIA E FINALMENTE SENTO DENTRO DI ME LA TENEREZZA CEDERE IL PASSO ALLA RABBIA.

IL SILENZIO, LA CONCENTRAZIONE, LA PARTECIPAZIONE CON CUI MIGLIAIA DI OCCHI VIVONO LA MESSA TRA QUESTE TIMIDE COLLINE È SCIOCCANTE.

Si sentono canti e versi di festa fatti con la bocca. E si sente qualcosa di grande, misterioso e tangibile, sospeso sopra di noi.

UNO DI NOI SI È SENTITO MALE. FORSE ADESSO TOCCA A ME.

Forse è la volta che smetto di usare la bocca per fare il romantico e inizio a usarla per vomitare.

IN POCHI SECONDI SIAMO PIOMBATI NELL’AGITAZIONE PIÙ TOTALE.

Sono bastate le seguenti parole: «Lorenzo si è preso la malaria nella forma più grave».

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L’ALBERGO E I SUOI CORRIDOI PIENI DI ZANZARE SONO DIVENTATI UN INCUBO.

La claustrofobia ha cancellato l’entusiasmo delle ultime ore. Qui è l’inferno e il paradiso.

NEL GIRO DI POCHE ORE, DI QUALCHE MINUTO, PASSO DALLA TENEREZZA PER I SORRISI GENTILI ALL’ANGOSCIA PER LA CONDIZIONE

MISERABILE DI MILIONI DI ESSERI UMANI.

L’albergo è un’orrenda prigione, è un inferno di portatrici di malaria. All’ingresso, bellissime ragazze nere. Angeli con l’aureola fosforescente dell’AIDS intorno alla testa.

NOTTE AGITATA. NON DORMO UN CAZZO. MA LA MATTINA CI DICONO CHE I NOSTRI TEST DELLA MALARIA SONO NEGATIVI.

E appena usciamo dall’albergo e ci mettiamo in strada per raggiungere la regione del Sahel, mi sento un altro. Il famoso Sahel, la terribile carestia del 1973. Ho le foto di Salgano bene in testa, ne parlo con Zizola. Pierpaolo, Leonardo e naturalmente Lorenzo restano in albergo, affidati alle cure di un bravo e gigantesco medico del posto.

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FINALMENTE ESCO DALLA CITTÀ, SE CITTÀ SI PUÒ

CHIAMARE

QUELL’IMMENSO VILLAGGIO FATTO DI CAPANNE E CASETTE DI FANGO A UN PIANO.

Attraverseremo il territorio dei mossi. La savana corre accanto a me.

I PRIMI BAOBAB, LE CAPRE, UOMINI IN BICI, DONNE A PIEDI. CHIOSCHETTI DI BANANE E SORRISI DIVERTITI ALLA VISTA DEL PIZZETTO DI MARCELLO, L’OPERATORE.

Come per incanto, appena entriamo in movimento mi sento bene. Il caldo è secco e non fa sudare. La gamba fatica un po’ a starsene piegata, ma mi vergogno a dirlo mentre passiamo veloci davanti a ragazze che portano sulla testa carichi inverosimili. Cammineranno così per ore e chilometri.

DOVEVA ESSERE UNA GIORNATA PIENA DI PAESAGGI

E DI COOPERATIVE, MA SI È TRASFORMATA IN UN VIAGGIO NELL’ETÀ DELLA PIETRA.

IL SAHEL È UNA REGIONE CHE SI STA PROGRESSIVAMENTE DESERTIFICANDO.

I giovani della SIX S studiano e applicano soluzioni per salvare i raccolti e sfruttare al meglio l’acqua, unendo vecchie tecniche a nuove idee.

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LA SIX S È UNA COOPERATIVA CHE RIUNISCE I

VILLAGGI

DELLA SAVANA E DEL SAHEL.

I suoi membri producono sapone con i semi degli alberi, tingono i tessuti, hanno una radio.

QUI INCONTRO CLARISSE. DIVENTERÀ LA MIA AMICA DI PENNA.

Le sue lettere scritte in un francese elementare e romantico, resteranno nel cassetto della mia memoria per sempre. Insieme alla foto del piccolo allevamento di maiali che l’ho aiutata a metter su.

CI FERMIAMO PER LE PRIME RIPRESE E SIAMO SUBITO INVITATI A PRANZO DAL VESCOVO DELLA DIOCESI. ALTRA FACCIA DA RICORDARE.

Poi lasciamo la strada asfaltata ed entriamo nel territorio dei villaggi mossi. Fa caldo, la terra è secca. Improvvisamente, tra i campi coltivati, appare un uomo alto, con un lungo abito.

CI FERMIAMO E IL RAGAZZO CHE CI FA DA GUIDA

SPIEGA CHE CI TROVIAMO IN PRESENZA DEL CAPO DEL VICINO VILLAGGIO. SENZA IL SUO PERMESSO NON POSSIAMO FARE NIENTE.

Parlano tra loro a voce bassa, quindi mi fanno cenno di avvicinarmi.

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NON PARLA FRANCESE, LO SALUTO CON

DEFERENZA E LUI FA LO STESSO.

Spiego che dobbiamo fare delle riprese lì per raccontare a tutti il loro lavoro. Serio ma felice, si fa riprendere nel campo giallo con il suo abito ancora più giallo. Gli faccio chiedere se possiamo visitare una zaka, un tipico villaggio di qui, un insieme di capanne difese da un muro di cinta.

PENSAVO FOSSE INTERESSANTE, MI SBAGLIAVO, È STUPEFACENTE.

IL CAPO MI GUIDA ALLA SCOPERTA DI UN MONDO FUORI DAL MONDO.

Le capanne sono fatte di fango, sterco e paglia, i tetti di paglia e rami. Quelle circolari sono riservate alle donne, quella quadrata è del capo, che può avere anche più di dieci mogli. Solo la piccola moschea è fatta di veri mattoni.

SORRIDENTE MI MOSTRA I GRANAI A FORMA DI CILINDRO, IL MULINO COMUNE, DOVE LE DONNE PESTANO SEMI SULLE PIETRE.

Le stalle e i piccoli recinti di tronchi, lungo i quali mi presenta tre caproni, un asinello e due vacche. Le caprette, invece, girano libere, con le loro teste nere.

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IL CAPO, CHE APPARTIENE AD UNA ANTICA

FAMIGLIA

REALE, MI FA FARE UNA VISITA

GUIDATA. Mi spiegano che è un grande onore. Chiedo come si dice in lingua more “buongiorno”, “grazie”, “asino”, “capra”.

OGNI VOLTA CHE PROVO A PRONUNCIARE UNA PAROLA, TUTTO IL VILLAGGIO RIDE E FA SEGNO DI SÌ CON LA TESTA.

SVEGLIATEMI. MI SENTO COME IN TRANCE. Entriamo in una piccola capanna. È pulita. A terra qualche straccio colorato. Nel piccolo cortile, nascosto in un angolo, il bagno, in quello opposto, la cucina. Due pietre, tre scodelle nate dalla scorza di un frutto misterioso.

STO PER FARE LA CONOSCENZA

DELL’ULTIMO NATO DEL VILLAGGIO. Ha sette giorni, la nonna me lo mostra orgogliosa. È pieno di capelli, lo prendo in braccio. Poi arriva la madre, bellissima e timida.

LE VECCHIE SONO INTENTE

AD

ACCONCIARLE I CAPELLI IN PICCOLE TRECCE.

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Uscendo dalla capanna, due donne con il gozzo e tanti bambini con lo stomaco gonfio mi ricordano che questo è uno dei 1200 villaggi mossi del Sahel e non il set di un film. Mi sento come drogato, parlo in italiano con il ragazzo del SIX S che ride come un matto e in morè con Luca.

A PROPOSITO, ANCHE LUCA SEMBRA

NON RIUSCIRE A NASCONDERE IL SUO

SBALORDIMENTO.

Mi dirà poi tornando in pulmino a Ouaga: «Secondo me non riusciremo a tornare alla vita di prima, c’è di che preoccuparsi». Ma non sembra affatto preoccupato, non lo vedevo così emozionato da una vita.

PRIMA DI ATTACCARE A GIRARE

CHIEDIAMO SEMPRE IL PERMESSO.

Sono molto orgogliosi ma anche molto ospitali e spiritosi.

E RIDO MENTRE RIPENSO A QUANDO STRINGEVA LA MANO DALLE DITA MANGIATE DALLA LEBBRA DEL VECCHIO CAPO.
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QUASI NESSUNO PARLA FRANCESE.

Hanno combattuto il colonialismo con la stessa tenacia con cui hanno combattuto la siccità.

E il rifiuto di quella lingua straniera sventola come una bandiera sopra le capanne.

IL POZZO DISTA PIÙ DI DUE CHILOMETRI E L’ACQUA NON È POTABILE. CIÒ PROVOCA MALATTIE E UN’INFINITÀ DI PROBLEMI.

EPPURE, ANCHE SE SEMBRA IMPOSSIBILE, DOVE C’È L’ACQUA IL SAHEL PRENDE COLORE.

Costruire 100 pozzi per 100 villaggi del Sahel. Ecco un buon motivo per stare al mondo.

IL VILLAGGIO È IN SUBBUGLIO PER IL NOSTRO ARRIVO MA ANCHE PER LA FESTA DI MATRIMONIO DI STASERA.

Intanto Zizola mi dice che proprio per questo circondata dalle amiche all’interno di una capanna, una ragazzina piange.

200

È LA PROMESSA SPOSA A CUI

VIENE ASPORTATA LA CLITORIDE. SPERO CHE ZIZOLA ABBIA CAPITO MALE.

È INTERESSANTE IL RAPPORTO CHE C’È TRA QUESTI I RAGAZZI DELLA COOPERATIVA E I CAPI

DEL VILLAGGIO.

C’è un grande rispetto da parte dei giovani. Benché abbiano studiato e diano consigli che a volte rompono tradizioni millenarie, come quello di non fare uscire gli animali dai recinti per evitare che vadano in giro a far danno, non c’è la minima prosopopea da parte loro.

A LORO VOLTA, I VECCHI SEMBRANO ESSERE PRONTI A SEGUIRE “NUOVE” STRADE PER DIFENDERSI DALLA MISERIA.

In questa giornata merita poi una citazione padre Samporè. Aveva preparato una visita alla stazione radiofonica cattolica, al collegio femminile, eccetera eccetera e invece ci ha visto riprendere per ore un villaggio musulmano.

APPOGGIATO LÌ, AL MURO DELLA MOSCHEA, CON IL SUO SGUARDO GENTILE, ERA L’IMMAGINE SIMBOLO DELLA GRANDE TOLLERANZA RELIGIOSA CHE SI RESPIRA IN QUESTO PAESE.

201

È IL TRAMONTO E, INVECE DI ANDAR VIA, VORREI RESTARE QUI. ALIGI ME LO DICEVA GIÀ VENT’ANNI FA: «SE CI VAI SEI FREGATO».

Sulla strada del ritorno, stanchi morti, guardiamo il sole che tramonta, la polvere alzata da urlanti partite di calcio, le macchie verdi degli ortaggi, poi savana, savana a perdita d’occhio, e file di persone lungo la strada sempre più buia e poi illuminata qua e là dai lumini di qualche capanna. La polizia ci ferma un paio di volte ma poi si riparte senza conseguenze. Un maialino evitato per un soffio e dopo ore e ore di viaggio ci ritroviamo di nuovo a Ouagadogu.

LO SMOG CI COSTRINGE A TENERE IL

FAZZOLETTO PREMUTO CONTRO LA BOCCA.

L’angoscia a poco a poco riguadagna terreno. In tre notti avrò dormito in tutto tre ore. La gamba mi fa male. Appena entro in albergo sento una voglia matta di andar via.

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NON POSSO FARE A MENO DI PENSARE E DI SCRIVERLO ANCORA: È INCREDIBILE COME QUI, INFERNO E PARADISO SIANO COSÌ VICINI.
È PASSATO QUALCHE GIORNO, SONO IN AEROPORTO, A PARIGI. DI FRONTE A ME, DUE COPPIE DI TIPICI ITALIANI CON UN’ABBRONZATURA CHE LI INVECCHIA DI VENT’ANNI, SI ACCINGONO AD ANDARE A SPENDERE AL DUTY FREE QUELLO CHE BASTEREBBE A SFAMARE UN VILLAGGIO MOSSI PER UN ANNO. LI GUARDO, E AL CONFRONTO LE ZANZARE MALARICHE DELL’HOTEL INDIPENDANCE DI OUAGADOUGU MI SEMBRANO INNOCUI MOSCERINI. 203
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205 POST SCRIPTUM: «LA VIE EST BELLE!», LA VITA È BELLA, CI HA GRIDATO SALUTANDOCI IL RESPONSABILE DI UNA RADIO CHE PARLA NEL DESERTO. IN PIEDI TRA ALBERELLI, SIEPI, MIMOSE SENSITIVE E PERFINO UNA MICROSCOPICA VIGNA, STRAPPATE CON I DENTI E CON UNA CISTERNA D’ACQUA PIOVANA ALLA SABBIA DEL SAHEL. «LA VIE EST BELLE!», HANNO RISPOSTO IN CORO LE PIANTE.
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IL TERZO OCCHIO DI CHISSÀ CHI (TSUNAMI

& SRI LANKA, 2006)

VA BENE, VA BENE SRI LANKA, PROVO A RACCONTARTI.

Piccoli pesci in olio di cocco friggono nell’angolo cottura di una casa profuga di legni e teli e plastica. Lacrime salate come l’acqua dell’oceano che ha strappato ventiquattro mesi di bambina dalle mani di questa moglie madre.

UN CAMPO DA CRICKET E SUBITO DOPO

UN CAMPO SANTO.

Le urla dei bambini che chiamano le onde come se chiamassero un taxi che li porti veloci laggiù, sulla spiaggia duna. Due innamorati, giovani antichi unici e universali. L’occhio di un elefante principessa, il naso di un mendicante re, le orecchie di un cane saltimbanco. Alba di scuola e divise candide su pelli scure e occhi immacolati e trecce con fiocchi rossi. Buddha bianchi tra le palme della foresta, Buddha neri sui palmi dei venditori. Nel mercato il tanfo è prima insopportabile, poi sopportabile e dopo ancora profumo.

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TSUNAMI, È PER QUESTO CHE SONO QUI.

UNO PARLA, UN ALTRO RIPETE PER NOI: «Una mattina di festa alle dieci e trenta. Donna che dice al suo uomo “Sento rumore temporale” e lui esce e vede palme immobili e cielo azzurro. Chiude porta di capanna e guarda interrogativo sua sposa come contadino suo cane prima di terremoto. Poi cerca con gli occhi sua ultima figlia e la vede per ultima volta. Arriva tsunami ed entra senza bussare».

TSUNAMI LACRIME DI CHI RACCONTA, LACRIME DI CHI TRADUCE, LACRIME DI CHI ASCOLTA.

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TSUNAMI È BAMBINI AGGRAPPATI COME NOCI DI COCCO ACERBE A PALME ALTE QUINDICI METRI.
TSUNAMI
TSUNAMI SCHELETRI DI BARCHE CHE URLANO,
SCHELETRI DI CASE CHE RACCONTANO, TSUNAMI SCHELETRI DI VECCHI CHE TACCIONO. TSUNAMI INVENZIONE PER TURISTI.

TSUNAMI NOME DEL TERRORE E NOME DEL GIOCO DI QUEI BAMBINI CHE INDICANO GRANDE ONDA GIOCATTOLO IN ARRIVO. TSUNAMI IERI SCONOSCIUTO A VOCABOLARI E UOMINI.

LA DOMENICA

DI QUI VISTA DAL PALCO REALE

del nostro pulmino in corsa. Vita e morte sfiorata a ogni curva. Tra frenate e mucche, pedoni, motocicli, biciclette, cani, camion, bombe tamil e piedi nudi. Corvi sui poveri avanzi dei poveri. Corvi sui ricchi avanzi dei ricchi.

MI SPIEGANO: Buddha medita, Buddha insegna, Buddha riposa. Ma il Buddha che ho davanti dondola sotto lo specchietto retrovisore e ipnotizza. Odore puzza a ondate dal finestrino. Odore profumo a ondate dalle onde. Riso bianco pompiere a spengere le fiamme di verdure e pesce e carne incendiaria.

TSUNAMI È CARTELLI CHE DICONO: QUI ABBIAMO PORTATO AIUTO NOI E NOI E NOI E NOI.

209

TSUNAMI È MODULI DI RICHIESTA TRA LE MANI DI SENZA TUTTO CHE NESSUNO AIUTERÀ MAI, NEMMENO IO. RAGAZZA FERITA E SDRAIATA SUI SASSI

vicino alla sua bici sdraiata come lei. Un uomo le tiene la testa e le mette dietro un cuscino. Poi, poi siamo già oltre.

TAXI TUC TUC CORRONO SU TRE RUOTE

sfiorando cani a tre zampe tra le risa di noi tre benedetti dal terzo occhio di chissà chi.

GUARDA,

TRA LE ONDE ARRIVA LA NOTTE

con una mezza luna a testa in giù! Guarda guarda guarda guarda.

DOPO GIORNI DI INQUADRATURE RUBATE, A FINE GIORNATA NON RIESCO A TENERE GLI OCCHI A BADA.

Come contrabbandieri instancabili continuano a mettere via scatole e scatole di refurtiva. Zizola, con una gamba bollente e dolente, grida e io penso che si paga sempre salato il conto, il conto di tutti quei sorrisi salati di onda di ventiquattro ore fa.

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SIAMO ALLE SOLITE:

un giorno è una vita, tornerò più vecchio. Siamo alle solite: una settimana è un lunghissimo attimo, tornerò più giovane.

IL PADRONE MARITO DELL’ELEFANTESSA

MI BENEDICE, facendomi passare sotto le gambe della sua schiava innamorata. Una, due, tre volte. Poi mi fa posare la testa su quella pelle cemento dentro la quale sento battere un enorme caldo cuore. Fabrizio, con la gola soffocata, gli occhi soffocati, soffoca per un peperoncino assassino e poi, dopo qualche colpo sulla schiena, di nuovo respira. I miei cazzotti benedetti dall’elefante principessa lo hanno trattenuto qui tra noi.

QUANDO VOGLIONO DIRTI SÌ MUOVONO

LA TESTA COME FACCIAMO NOI QUANDO DICIAMO NO.

ECCO IL VECCHIO TRENO STRAPIENO. CON LE PORTE APERTE E LA GENTE APPESA FUORI. COME UN NOSTRO TRAM DI UNA NOSTRA ITALIA NEOREALISTA.

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TSUNAMI NON SI È COMMOSSO NEMMENO

DAVANTI A LUI. CANI RASATI A ZERO

DORMONO

il sonno dei giusti, sfiorati dalle ruote giusto di un pelo. Interminabile negozio mercato su interminabile strada in interminabile viaggio di ritorno.

ARANCIONE, IL MIO ARANCIONE, addosso ai monaci. Mi sono simpatici quasi quanto quel colore.

BAMBINO SUL MANUBRIO, lei sulla canna, lui pedala: sacra famiglia, ciao!

UN ANNO FA, 365 GIORNI FA, SUI MONTI NUBA. Fa uno strano effetto, fa. Deja vu argentino: finita l’ultima scena inizia a piovere. È una pioggia indiana, ci insegue, e noi, come cow boys vigliacchi ce la diamo a gambe.

SCRIVO E LE BUCHE E LE FRENATE mi fanno vecchio e tremolante, scrivo a lume di abbaglianti, dopo riuscirò a tradurmi?

214
STEFANO, OMONIMO AMICO DI LAVORO E COMPAGNO DI VIAGGIO TRUFFATO, RACCONTA DI RUBINI COMPRATI «DE VETRO A STE’, DE VETRO!». COMUNQUE PER UN MOMENTO, IN UN PRECISO MOMENTO, MI SONO SENTITO BELLO, FELICE E CORAGGIOSO. È STATO TRA LE ONDE. TRE RAGAZZINI MI INSEGNAVANO A CHIAMARLE CON UN URLO, IN SEGNO DI SFIDA. E IO INSEGNAVO LORO COME ATTACCARLE, ARRIVANDO IN CIMA E DALLA CRESTA, LASSÙ IN ALTO, PER UN INTERMINABILE ISTANTE, GUARDARE IL MONDO. 215
216

NELLA TERRA DI QUALCUNO (SCAMPIA, 2010)

CHE STRANO!

Appena ho un attimo di tregua, scrivo parole nella mente e annoto pensieri nel taccuino. La ruota dell’ispirazione si è messa in moto da sola, lei gira e io giro con lei. Quello che spesso mi accade quando sono lontano, in qualche angolo sperduto del mondo, mi accade oggi mentre sono qui, a Scampia.

FORSE PERCHÉ NON SEMBRA

di trovarsi in Italia o forse perché la vera Italia è questa qui. Scendiamo e saliamo dalle auto per verificare le location. I sopralluoghi sono la parte del lavoro che amo di meno. Ma questa volta c’è poco da annoiarsi.

OGNI VOLTA CHE CI FERMIAMO

E METTIAMO PIEDE A TERRA CI RITROVIAMO IN UN BALENO DUE, QUATTRO, SEI, OTTO OCCHI PUNTATI ADDOSSO.

Il territorio è presidiato metro per metro, sguardo per sguardo, respiro per respiro.

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CI FIUTANO A DISTANZA, VOGLIONO CAPIRE CHE RAZZA DI ANIMALI SIAMO.

QUALCOSA DI SIMILE L’HO GIÀ PROVATO

a San Sperato, n ella oscena periferia di Reggio Calabria, mentre scendevo lungo la strada principale con al fianco un prete coraggioso, la sensazione di essere inquadrati al centro di un mirino, forse non solo metaforico, avanzando lungo quelle strade senza marciapiede e pietà, circondati da mura di cinta di ville blindate da telecamere, cani rabbiosi e innominabili complicità. Lì, dove anche nei taxi è meglio non parlare, lì, dove perfino le vetrate della Chiesa sono affrescate dai buchi dei proiettili, lì mi sono sentito in pericolo come mai nella mia vita. Una vita che ha conosciuto le più malfamate favelas, i più pericolosi barrios e i più famigerati slum.

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LA VISTA DI DUE BELLE RAGAZZE MI RIPORTA

qui e mi chiedo sorridendo e suscitando le risa dei miei compagni di lavoro, che sensazione si provi a essere fidanzato con una “scissionista”, il clan che sembra aver avuto la meglio nella guerra fratricida che ha insanguinato strade e cervelli.

È L’ORA IN CUI I RAGAZZI ESCONO DA SCUOLA,

vorrei fermarmi a parlare con loro, vorrei chiedergli dei loro sogni e dei loro incubi, così come ho fatto tra gli indios yanomami.

MA QUI, NELLA “RISERVA SCAMPIA”, COMUNICARE E MUOVERSI PUÒ ESSERE PIÙ DIFFICILE CHE NELLA FORESTA AMAZZONICA.

I SACERDOTI, CHE PURE VIVONO QUI DA MOLTO TEMPO E PROVENGONO QUASI TUTTI DAI QUARTIERI LIMITROFI, SONO PREOCCUPATI.

Più di quanto lo fosse padre Carlo quando si trovò a guidarmi tra serpenti, zanzare malariche e tribù guerriere.

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CERTO, HANNO LA BATTUTA PRONTA E UN MODO DI FARE CHE TI FA SENTIRE A CASA.

Ma è una casa nella quale devi sempre chiedere che cosa puoi e che cosa non puoi fare. D’altra parte è quello che succede a tutti quelli che vivono qui. Mi dicono che in alcune zone del quartiere, molti devono chiedere il permesso alla sentinella di turno per entrare nel palazzo in cui abitano. Ad altri è andata peggio, un giorno gli hanno comunicato che dovevano sgombrare perché l’appartamento serviva a loro. Anzi, a Loro. Così, dall’oggi all’indomani.

GIÀ, OGGI E DOMANI, CHE QUI NON SEMBRANO MAI COSÌ DIVERSI.

NEL CIELO I FUOCHI D’ARTIFICIO ANNUNCIANO

L’ARRIVO DELLA DROGA, lungo le strade le sporadiche apparizioni della polizia avvengono sempre con la scorta dell’esercito, ai bordi delle rotatorie il mercato a prezzi stracciati di braccia africane e sigarette di contrabbando, alle ore 15, puntuale come la morte, la fila degli spacciatori e dei tossici, nei sotterranei delle celeberrime Vele, ogni santo giorno il buio scende pietoso a coprire chissà quali maledetti orrori. Rari i negozi, niente cinema, nessun locale.

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EPPURE ANCHE QUI,

nel bel mezzo del regno dell’odio, non posso fare a meno di notare che i muri sono carichi di messaggi, promesse e dichiarazioni appassionate, che mi scorrono davanti come pagine d’interminabili lettere d’amore.

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QUI, DOVE LE TELECAMERE DI GOOGLE NON SONO RIUSCITE A ENTRARE, DA DOMANI ENTREREMO NOI.

IL NOSTRO ALBERGO RIPOSA TRANQUILLO

vicino alla stazione, così ogni mattina, per arrivare a Scampia, dobbiamo affrontare una traversata. Sintonizzo la radio sulle frequenze delle melodie partenopee, mi tolgo il cappello per salutare il signor Vesuvio e poi il viaggio inizia.

ECCO NAPOLI

BANGKOK, con le sue gabbiette per gli uccelli, Napoli Melito che mostra senza pudore la miseria del corpo disfatto di quello che fu il Cinema Gloria. Guarda Napoli Ouagadogou con la sua polvere rossa. E Napoli Marianella con i suoi infami sciolti nell’acido.

LAGGIÙ C’È NAPOLI NEW DELHI, con le case costruite sotto la tangenziale, Napoli Secondigliano con il suo carcere che produce pazzi, Napoli Caracas con gli uomini fermi davanti ai bar, senza niente da fare e niente da dire nemmeno sotto tortura, poi arriva Napoli Buenos Aires, con il volto di Diego Armando Maradona accanto a quello di una Madonna con gli occhi rivolti al cielo, forse per non incrociare gli sguardi dei politici che fanno brutta mostra di sé nei poster delle future elezioni.

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ELEZIONI DI CUI QUI TUTTI CONOSCONO GIÀ IL RISULTATO. ANCHE SENZA CONSULTARE LA MAGA CHANTAL CHE SPONSORIZZA LA PROSSIMA SERIE DI CANZONI CHE

NON RIUSCIRÒ AD ASCOLTARE PERCHÉ SIAMO ARRIVATI E DEVO INIZIARE A

GIRARE.

ALL’INIZIO MI MUOVO COME IN UN NEGOZIO DI OGGETTI DI CRISTALLO, poi, a poco a poco, prendiamo il via e inizio a raccontare con le immagini non solo le ombre ma anche le luci che ho visto e che voglio far vedere.

ORA È FACILE PARLARE CON I RAGAZZI, MI DICONO CHE LA COSA PIÙ DURA DA SOPPORTARE NON È LA VITA NEL QUARTIERE, ma quello che li aspetta appena mettono il naso fuori. «Quando sentono che sei di Scampia, ti guardano come un appestato», «Siamo marchiati a fuoco», mi dicono con un sorriso che a volte diventa rabbia e a volte lacrime. Sembrano tutti più grandi della loro età e una bambina di dodici anni mi parla come se ne avesse venti.

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DURANTE LA PAUSA PRANZO I SACERDOTI INIZIANO A SENTIRSI A PROPRIO AGIO E A RACCONTARE.

Non vogliono apparire come eroi e temono di rompere i delicati equilibri che negli anni sono riusciti a creare. Ci raccontano delle sconfitte, tante, e dei successi, pochi. Negli anni settanta, c’era davvero la speranza che qualcosa potesse cambiare, mi dice il più anziano. Poi il terremoto e la guerra tra i clan per accaparrarsi il tesoro della ricostruzione ha bloccato ogni crescita. Ora è difficile, sempre più difficile. Ma intanto loro ci sono, ogni giorno. Dello Stato, invece, nemmeno l’ombra.

NON È VERO CHE I POLITICI HANNO LASCIATO CHE QUESTA DIVENTASSE TERRA DI NESSUNO, HANNO LASCIATO CHE DIVENTASSE TERRA DI QUALCUNO.

Di qualcuno che comanda come un re, tra assassinii e feste, tra riti d’iniziazione e minacce, tra sparatorie e vasche a idromassaggio. Poi, finito di girare l’ultima inquadratura della giornata, esco dalla chiesa e, improvvisamente e senza averne immediata coscienza, il senso di oppressione e rabbia che mi ha fatto compagnia in questi giorni lascia il posto ad altri sentimenti.

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È VERO, STO ATTRAVERSANDO LA PIAZZA ITALIANA CHE HA VISTO IL PIÙ ALTO NUMERO DI OMICIDI, EPPURE MI SENTO LEGGERO.

Tre ragazze in sella a uno scooter, strette nei loro jeans e nelle loro cinte argentate, mi passano davanti inviando sms, un vecchio cerca di vendere ai passanti palette della polizia e io mi metto a scherzare con tre scugnizzi sul Napoli e la Roma. Sarà che don Salvatore ha detto che nel mio lavoro si sente il Vangelo, saranno i lamenti antichi sotto forma di canzone che escono dagli stereo, saranno le nuvole piene di luce, sarà quest’ aria che profuma non di morte ma di un’innocente primavera.

SARÀ, SARÀ, MA IN QUESTO PRECISO ISTANTE IO MI SENTO BENE.

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FUNZIONA COSÌ (IN DIRETTA DAL MYANMAR, 2016)

FUNZIONA COSÌ. LEGGO QUALCHE PAGINA

SU LONELY PLANET.

A volte è stato un libro a portarmi dove sono, a volte un ritaglio di giornale o un film. Non voglio, prima di partire, rovinarmi la sorpresa con foto o video. Poi, quando arrivo, la guida resta in camera, a volte anche la mappa. Mi scrivo su un foglietto come si dice buongiorno e grazie. Scelgo una direzione e vado. E ora vado tra streets e roads della vecchia Yangon o Rangoon, come l’hanno ribattezzata gli inglesi. Davanti a un tempio, un bambino offre mais ai piccioni. Li fotografo in controluce, a braccia e ali aperte. In campo entra un monaco con la sua veste rossa. Vesti e pelle dei monaci più scure qui, che nel resto della mia Asia. Tavolini in miniatura, sgabelli in miniatura, teiere e bicchieri in miniatura, aspettano clienti per gigantesche chiaccherate. È sera, il lavoro è finito, magicamente, a ogni angolo di marciapiede appaiono le sale da tè. Si riempiranno in fretta. Come ad Hanoi, anzi di più. Nel piccolo parco da cui inizia il quartiere coloniale o quel che ne resta, coppie d’innamorati si nascondono dietro ai cespugli

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e poi si regalano alla futura memoria digitale con sorridenti autoscatti. Selfie, quasi una religione. Una prassi collettiva, un istinto riflesso, un obbligo sociale. Come quello che spinge le mani a unirsi in segno di rispetto, al passaggio frettoloso davanti a uno stupa, a un’immagine del Buddha o a un albero sacro.

Io molto più curioso di loro. Zero turisti intorno a me, non ne devono passare molti qui. Eppure, incrocio rari sguardi interessati e pochi sorrisi complici. Si sente che è un popolo segnato da troppi anni di paura. Le donne hanno una polvere gialla sulle guance. Simile a quella usata dalle ragazze del Madagascar. Mi piace immaginare il tragitto di questa idea di make up, le terre attraversate, i volti che cambiano, uniti dallo stesso look.

SHWEDAGON PAGODA, IMPOSSIBILE PARTIRE PER YANGON SENZA AVER PRIMA INCONTRATO IL “CAPOLAVORO DORATO”.

Avevo un appuntamento qui con il sole al tramonto, ma non avevo fatto i conti con il traffico. Ma la luce ora forse è ancora più bella. Me ne rendo conto più tardi, quando seleziono le foto con il cielo che con il passare dei minuti fa esplodere ancora di più la lucentezza dell’immenso stupa. È alto 98 metri. Osserva e ascolta paziente l’umanità che si prostra ai suoi piedi da 2.500 anni. Si cammina in tondo, ai

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lati e alle spalle altri templi e le statue di Siddharta Gothama. Mi siedo in un angolo e provo a stare in pace. Sono sveglio dalle 6 e ho preso due voli. Mingulabà! Mingulabà! Tiro fuori il foglietto dalla tasca per imparare a rispondere ai saluti. La sera invio un messaggio a Margherita: “Ho voglia di scrivere. Mi devo essere emozionato.” Poi, al mio tavolo single, esperimento di antipasto e main course birmano. Mi ha fatto tornare in mente una canzone di Gianna Nannini: Bello e impossibile. Da digerire. Ehi, ora che ci penso, niente tuc tuc, risciò o simili. Non riesco a capire perché. I cinesi sono il popolo orientale per il quale provo meno trasporto, eppure le chinatown sparse nelle grandi metropoli asiatiche sono spesso il mio rifugio preferito. Anche qui come a Bangkok, mi piace perdermi e ritrovare la strada. Gli uomini portano quasi tutti il sarong. Incrocio i vicoli con le botteghe gestite dagli indiani e poi le barbe del Bangladesh. Reti da pesca e amache. Nei taxi niente amuleti sul cruscotto. I loro colleghi di Bangkok li ripudierebbero dalla categoria.

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LA MALEDIZIONE DELLA SVEGLIA ALL’ALBA È COME SEMPRE RIPAGATA DALLA BENEDIZIONE DELLE IMMAGINI CHE REGALANO LE CITTÀ

AL RISVEGLIO.

Devo farlo anche a Roma, mi dico. E so già che non lo farò. Incrocio gli operai che entrano nei cantieri che, come crateri lunari, punteggiano la superfice della città. Dalla finestra della mia camera, sembravano degli extraterrestri. Ora vedo le loro facce assonnate, i caschetti in mano, sono esseri umani e non alieni. Quante ore lavoreranno? E mi torna come al solito in mente la poesia di Brecht: “Tebe dalla sette porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re dentro ai libri”. Tra dieci anni molto sarà cambiato. Le bande internazionali di affaristi, volano alte su Yangon, pronte a scendere giù in picchiata. A proposito di cambiamenti, nel mercato, in bella mostra borse con la faccia di Aung San Suu Kyi, solo qualche mese fa la venditrice avrebbe rischiato la pena capitale. Tra pochi giorni dovrebbe iniziare il nuovo corso. Ha il volto stanco. Quanti anni di gabbia abbia fatto non lo so. Sembra un canarino che ha perso colore. Speriamo non la forza. Lungo le sponde del gran lago artificiale, in controluce, vedo come marionette sul telo bianco di un teatro delle ombre, gli sportivi della città agitarsi.

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TRASCRIVO DAL LIBRO CHE STO LEGGENDO:

“Le nostre buone azioni, dice il Dhammapada, ci accoglieranno in questa vita e nella seguente, come parenti e amici accolgono un loro caro al ritorno da un lungo viaggio.” Il titolo è: Le cose come sono. Lo ha scritto Hervé Clerc. Qualche riga prima sottolineava come tutte le religioni, abbiano in comune una visione. Se i nostri atti sono buoni è impossibile incorrere in un cattivo destino. Il libro parla del buddhismo in modo semplice e chiaro. Credo di aver educato i miei figli a quel principio di cui sopra. E spero di essere stato capace di seguirlo anch’io. Ho appena finito di scrivere questa frase e quasi a darmi un po’ di fiducia, una ragazza mi osserva togliermi gli occhiali e mi offre un prezioso sorriso. Forse ha capito che sono un collezionista. Tre ore di ritardo. Leggo e il tempo passa. La ragazza di prima, mi chiede se viaggio da solo. Lei sta tornando dalla famiglia dopo due anni di assenza. Lavora a Dubai. Mi dice: “Good for money, but not for people”. Facciamo amicizia. Si dice così? E mi aiuta a capire cosa sta succedendo con il mio volo. Non so viaggiare da turista e, lo ammetto, sull’argomento sono anche molto snob. Mi basta sentire tre parole in italiano, incrociare un gruppo organizzato e subito sento la mia fantasia volare via. Modo di dire che in questo caso trasmette esattamente quello che volevo dire. Così smetto di scrivere.

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SUL LAGO INLE, DENTRO A UNA LONG BOAT.

Luce diffusa su tutto lo specchio d’acqua. Incrociamo i celebri pescatori, uno su ogni canoa. In piedi, a poppa, le mani sulle reti che scendono a fondo, e la gamba destra attorno al remo che fa da timone. Scatto e questa sera il pescatore sarà ospite di Mattia, a Brooklyn. Il vento è quasi freddo. Il mio driver è simpatico e a gesti gli ho fatto capire che voglio andare dove non vanno gli altri. Così entriamo in un canale e iniziamo a incrociare la vita vera. Sto bene. Quando viaggi da solo, in realtà solo non resti quasi mai. Sei sempre in due. Tu e l’altra parte di te. Ci sono pochissimi attimi di silenzio. È come se stessi in viaggio con un amico logorroico che pensa di sapere moltissime cose di te. Così i momenti in cui io e me siamo la stessa cosa, sono i momenti più belli. Ora è uno di questi. Mi piace il vento, l’acqua che mi scorre vicino. Mi piace lasciare che le cose accadano. Su di un ponticello, un gruppo di ragazzi fa segno di rallentare, il driver mi guarda e gli dico ok. Così diamo un passaggio a una squadra di “Volleyball!”. Alcuni con i capelli alla Neymar altri con i cappelli di paglia da raccoglitore. Stanno andando dove andiamo noi, alla fine del canale. È sabato pomeriggio e c’è un torneo nel villaggio. Con più pubblico di quanto se ne veda ultimamente negli stadi italiani. Foto di gruppo e goodluck. Dopo aver visto un po’ di partita me ne vado a piedi verso un tempio a cui si arriva attraverso i banchi di un mercato coperti da un lungo colonnato. Trovo un

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Buddha dipinto su vetro “Very old!” con cui condividerò la mia camera di Roma. Quando arrivo in cima allo stupa è tardi, il tempo di un pensiero e già sono sulla via del ritorno a passo veloce. La sera sento Margherita, che sta facendo prove d’indipendenza a casa da sola. Bello sentire la sua voce e poi quella di mia madre. La cena è abbastanza triste (location e menu), me ne vado a letto prestissimo con il mio libro e sotto due coperte. Nella casetta di teak dove dormo fa un freddo boia.

QUI AL NORD HANNO LA PELLE PIÙ SCURA E TRATTI PIÙ FORTI.

Spesso è difficile comunicare, ma ci provano. Anzi, ci proviamo. Da sempre, sono i mercati il termometro che uso per capire la terra che calpesto e chi la calpesta accanto a me. La merce sui banchi mi dice che qui c’è ancora tanto da scoprire. Io che non tratto quasi mai, qui sono costretto. I prezzi di partenza sono assurdi. Quindi devo partecipare al ballo. E alla fine i passi li imparo bene. E passo ore tra statue di Buddha, amuleti contro gli spiriti malvagi e collane. Poi, m’inoltro nel mercato, il loro mercato. Tra semi, peperoncini, zenzero (ne compro una bustina e faccio una foto della venditrice per Chicco), attrezzi, pesci e verdure e mazzi di fiori. Molti dei prodotti in vendita crescono negli orti galleggianti che rendono questo lago un luogo

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speciale. Scatto seguendo la luce che taglia in due le inquadrature. Un giovane monaco con le mani in testa, una vecchia con la faccia furba e il sigaro in bocca. Il fumo se ne va, barlumi di felicità. La sera metto sul letto tutte le mie conquiste. Non mi posso lamentare. Per Chicco una statuetta di bronzo con le tre scimmiette (non vedo, non sento, non parlo). Per Mat una collana con dente di tigre per la sua collezione. Per Margherita una giacchetta senza collo, abbottonata davanti, perfetta da guerriera akido, a riposo. E poi, collane e bracciali d’argento, rifiniti davanti a me in un laboratorio palafitta.

GABBIANI VOLANO ALTI

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237 GABBIANI VOLANO ALTI E UCCELLI NERI S’IMMERGONO. UN BELLISSIMO MONASTERO DI LEGNO SOSPESO NELL’ACQUA. LE STATUE DORATE DEL RISVEGLIATO CIRCONDATE DA COLONNE. QUI MI DICONO CHE I MONACI HANNO INSEGNATO AI GATTI SALTI E ACROBAZIE. IO LI VEDO PLACIDAMENTE SDRAIATI. GLI UNI E GLI ALTRI. ALZO GLI OCCHI DAL MIO QUADERNO E I FIORI ROSSI DELLE NINFEE MI SUSSURRANO MINGALABÀ.

SONO STATO IN GIRO TUTTO IL GIORNO,

ma appena messo piede in stanza, la luce del tramonto mi spinge di nuovo fuori. Decido di salire la lunga scalinata che porta verso uno stupa che la luce della sera fa brillare. Arrivo su e non c’è nessuno. Mi levo le scarpe e mi obbligo a non scattare foto ma a godermi prima il silenzio e la lama di luce che entra da una porta. Attenzione! Attenzione! Stefano Maria re degli incostanti, imperatore dei senza programma, dichiara ufficialmente aperta la sua nuova era. Quella della meditazione. Avete capito bene. Io che non riesco a fare la stessa cosa per più di tre volte di seguito. Io che non riesco a tenere fermi i pensieri nella mia mente nemmeno quando dormo, io qui, in uno sconosciuto tempio sul lago Inle, mi sono seduto con le gambe incrociate davanti all’immagine di quello che fu Il Principe Siddharta. Ho iniziato timido, umile e imbarazzato, a respirare. E a seguire il mio respiro. Cercando di ricordare le poche regole che avevo provato a imparare. Il profeta degli autodidatti che si piega alle 84.000 regole del Buddha.

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COM’È ANDATA? HO FISSATO IL MIO PENSIERO

sui fiori bianchi ai piedi della statua. Si muovevano appena e ho pensato a un lavoro di Fausto, un mio amico artista che esponeva opere surreali in strada. L’opera si chiamava Dio respira e altro non era che una foglia che tremava al vento. Ecco, il pensiero se n’era già andato altrove, primo errore. Ho riprovato e mi sono fermato sulla fiamma arancione di una candela, poi ho chiuso gli occhi, poi ho cercato quelli di lui. Ho provato a non combattere i pensieri ma a lasciarli andare. Ho cercato di tenere la schiena dritta. Ho cercato di non cercare le parole dentro di me per descrivere quello che provavo. Non so quanto sono stato lì. Ma per ripetere una frase fatta usata qualche pagina fa, qui non c’era nessuno a farmi passare la fantasia. Insomma, mi è piaciuto. Giuro che qualche piccola cosa si è messa in circolo. Celeste ricompensa, premio d’incoraggiamento del Tempio dorato delle acque trasparenti, per il peggior meditatore della storia dell’umanità?

MENTRE MI SOLLEVO DALL’INCHINO

(a proposito, quanto è bello inchinarsi, eppure lo facciamo così poco) incrocio lo sguardo di un monaco. Mi saluta e mi chiede da dove vengo. Forse incuriosito dal mio tempo speso lì. Mi sono seduto di fronte a lui e con poche e semplici frasi abbiamo iniziato a parlare. Vive nel tempio da tredici anni, è

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l’unico monaco. C’è un grande serpente a tenergli compagnia. Lui chiede di me, gli racconto un po’. Dico che sono sempre in viaggio e che voglio imparare a meditare. Gli chiedo una benedizione. Mi mette la mano in testa e un fiume di parole sconosciute scorre sopra di me. Poi si alza e mi dice di aspettare. Prende un filo bianco e s’inginocchia tenendolo tra le mani. Poi inizia rivolto verso il Buddha un lunghissimo sutra. Alla fine mi lega questo cordoncino intorno al collo. Mentre trascrivo questi appunti, sono passati diversi mesi, e il suo dono è ancora qui con me. Mi chiede di fare una foto insieme, c’è poca luce allora suggerisco di usare le candele. Quando vede il risultato sul telefono sorride felice come un bambino. Ci salutiamo, fuori è buio, due donne anziane chiudono il vecchio portone. Io scendo le scale e mi sento leggero.

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DI NUOVO SULL’ACQUA. QUESTA VOLTA

DI FIUME.

Dopo aver risalito la corrente, abbiamo spento il motore. E scivoliamo lungo la scia del tramonto. Uccelli neri, come una squadriglia di aerei da combattimento, sopra di noi. Domani all’alba, da una mongolfiera, mi godrò la loro stessa vista. Il ragazzo che guida la barca si lava i denti inzuppando lo spazzolino nell’acqua verde. Poi si tuffa con un salto mortale all’indietro e dà inizio alle grandi pulizie. È sabato e si deve fare bello, mi spiegherà poi. Le cime delle pagode come i picchi delle Dolomiti, diventano rossi. Sono a Began, nella celebre piana birmana dei 13.000 templi. Ma sono gli antichi monasteri di legno che ho scoperto qui a occupare un posto speciale nella mia travel-parade. Sono loro a rispondere per me alla celebre domanda di un celebre viaggiatore: “Che ci faccio qui?”.

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TRA L’ABISSO, L’IMMENSO E IL MAL DI TESTA

(IN NEPAL, 2006)

«NAMASTÉ», UNENDO LE MANI come in preghiera. «Namasté», saluto dal significato lucente. «Namasté», saluto il Dio che è in te. Allora rispondo anche io «Namasté, namasté, namasté», così gli occhi del cuore, cullati da quella cantilena, davvero lo vedono, davvero lo sentono, il divino nascosto negli esseri umani che sono di fronte a me.

SOBBORGHI DI KATMANDU, saliamo tra case di legno affumicato con finestre partorite da artisti e tetti messi al mondo da pazzi. Ci inerpichiamo rapidi e a ogni curva i miei occhi precipitano ripidi in un burrone. Burrone giù dal quale qualcuno, con un furgone in tutto e per tutto simile al nostro, è precipitato. L’ultima cosa che deve aver visto sono quei contadini che raccolgono il fieno laggiù, sulle sponde del fiume.

TIRO GIÙ IL FINESTRINO E L’ODORE D’ERBA

TAGLIATA ARRIVA FINO A ME.

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APRO GLI OCCHI E VEDO LAMPADINE TIMIDE

come candele che illuminano stanze dai colori misteriosi. Come gli insetti che passeggiano tranquilli su e giù per le mie gambe. Sui muri, falci e martello e slogan maoisti, sulla strada donne formiche avanzano in fila indiana con il mondo sulla testa, mentre seduti sui gradini, uomini cicala giocano a carte.

LA PIOGGIA PRIMA, POI LA GRANDINE. DAL FINESTRINO DI UNA CORRIERA RUGGINOSA UNA MANO SI SPORGE E NE PRENDE UN CHICCO AL VOLO.

«IN NEPAL SU VENTOTTO MILIONI DI ABITANTI I CATTOLICI SONO LO ZERO VIRGOLA …» e poi una risata. Padre Pius ci ospiterà per la notte e intanto racconta. A tavola con noi anche le suore che ospitano, non solo per una notte, ragazze e bambini malati di AIDS. Arrivano dai bordelli di Bombay e resteranno lì fino a che la malattia non li costringerà a traslocare in cielo.

OGGI È PROPRIO IL PRIMO DICEMBRE, la giornata mondiale per la lotta all’AIDS.

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247 GUARDO LE SUORE E PENSO ALLA LOTTA INVISIBILE E QUOTIDIANA CHE CONDUCONO QUASSÙ E ALLE FACCE DEI POTENTI CHE OGGI SI SARANNO APPUNTATI LA SPILLETTA ROSSA SUL BAVERO E DOMANI LA RICHIUDERANNO NEL CASSETTO INSIEME ALLE PROMESSE E AI BUONI PROPOSITI.

KATMANDU.

Prima due ore di traffico folle. Puzza di auto e moto, tutte con il “bollino nero”. Dietro lo schermo dei finestrini opachi del taxi meno taxi del mondo, procediamo a passo d’uomo. Di un uomo molto anziano e claudicante. Scorrono interni di botteghe alveari, micronegozi gonfi di scatole colorate e ritratti di divinità.

SCENDIAMO,

DURBANS

SQUARE

CHE, NONOSTANTE L’ASPETTO, MERITA DI ESSERE MANGIATA. I TEMPLI, CON LE FONDAMENTA DI RIFIUTI, SI INNALZANO VERSO IL CIELO.

È UNA FETTA DI VITA

IN CIMA, TRA LE DIVINITÀ, BAMBINI VAGABONDI CON OCCHI COME CRISTALLI

dell’Annapurna. In mano, bottiglie di colla da aspirare, simbolo della loro diversità e, allo stesso tempo, della loro uguaglianza con i bambini di strada di tutto il mondo. Stoffe, statuette, fossili, studenti che manifestano per l’ambiente, inni maoisti, fiori arancioni dedicati a figure divine con i miei stessi gusti in fatto di colori e a terra, frutta, paglia e sputi.

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QUANDO TE NE VAI, KATMANDU RESTA

LÌ, a occhi bassi sui suoi affari e i suoi pensieri e le sue preghiere. A salutarti ci pensa l’Himalaya. MUSTANG. È l’alba. Le montagne giganti sfiorano il sole e il nostro aereo nano sfiora le montagne. Atterriamo.

MAI LA TERRA MI È SEMBRATA COSÌ VICINA AL CIELO. CAMMINO E ASCOLTO L’ASSOLO DI

PERCUSSIONI DEL MIO CUORE.

OGNI PASSO NE PESA TRE ma ci sono l’odore della montagna e i ricordi bambini a darmi energia. Ci fermiamo al rifugio, dove dormiremo, per fare il punto della situazione. Un tavolo al centro, una cucina stupenda e una foto con il vetro rotto dei due fratelli Messner. Sono passati di qui con in testa un’ossessione. Uno è tornato ed è diventato famoso, l’altro è rimasto quassù, per sempre. Con quell’ossessione a fargli compagnia.

LA NOSTRA GUIDA È DOLCE E INTELLIGENTE, SI CHIAMA TENSING.

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SUL TETTO DELLA JEEP: CULO ROTTO E OCCHI FELICI.

Occhi che guardano il vento spingere nella valle nuvole di polvere e pecore e nel cielo nuvole di luce e colori. Pastori nepalesi scendono a valle tra le loro bestie, hanno il futuro scritto in faccia: quattro giorni di cammino verso il primo grande mercato.

L’INVERNO È IN ARRIVO SUL BINARIO 3

e tutti quelli che possono lasciano i villaggi più alti. Resteranno i più poveri e i più anziani a far conversazione con il vento e ad addormentarsi abbracciati al gelo.

CAMMINO

SU UN PONTE SOSPESO

con lo sguardo indeciso tra l’abisso che si apre sotto di me e l’immenso che si svela di fronte a me.

LEGGO QUELLO CHE HO SCRITTO LÌ PER LÌ:

Kagbeni, primo villaggio, 3.200 metri, té alla menta, monastero, bambini giocano senza giochi, vecchie arrabbiate parlano senza denti, dal nord arriva il vento, dagli alberi le mele. Verso Muktinat, 3.700 metri, ogni curva una nuova visione. Colori: marrone valle, bianco montagne, rosso bandiera maoista, viola delle vette al tramonto.

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ORA SIAMO OLTRE I 4.000 METRI, IL FREDDO PORTA LE STELLE, LE STELLE COSA PORTERANNO?

Nel rifugio ci accoglie un Buddha in technicolor, un cane abbaia nella notte, identico ai suoi simili sparsi per il mondo, un altro cane abbaia nella testa di Cristian. Due aspirine lo faranno tacere. Un giorno che vale oro, un giorno diamante, come cento giorni e come l’attimo.

VORREI LASCIARLO IN EREDITÀ AI MIEI

FIGLI, insieme a ventiquattro ore sui Monti Nuba, un’alba attesa sotto un albero della pioggia in Papua Nuova Guinea, un pomeriggio tra le onde dello Sri Lanka con i bambini più forti dello Tsunami, una notte magica e insonne su di una amaca yanomami. Vorrei poter dire: «Tutto questo un giorno sarà vostro».

È BELLO QUANDO IL MONDO TI SI APRE DAVANTI. QUANDO NON CI SONO IMMAGINI PRECEDENTI A RUBARTI LA SORPRESA. QUANDO LA LUCE ILLUMINA TUTTO DI UNA LUCE SENZA TEMPO. E TU SEI LÌ, COME E DOVE NON SARAI MAI PIÙ. 253

TENSING MI DICE CHE CI SONO MESI IN CUI LA

VALLE

È VERDE DI ERBA

e ortaggi buonissimi e fiori. Fiori di cui posso sentire solo il profumo nel tè che bevo e bevo e bevo per vincere l’invincibile altitudine.

TENSING RACCONTA DELLA SUA VITA

a Londra, della malattia che lo ha colpito, della diagnosi: solitudine, e della cura prescritta da un vecchio guaritore: il ritorno tra questa montagne.

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LA NOTTE, CHIUSO NEL SACCO A PELO, ASPETTO CHE IL CUORE MI ARRIVI IN GOLA E MI LASCI IN APNEA PER QUALCHE ISTANTE. BREVI ISTANTI IN CUI NON POSSO FARE A MENO DI PENSARE ALLA GIOVANE SCALATRICE FRANCESE CHE POCHI GIORNI FA, DALL’ANNAPURNA,TORNANDO SI È FERMATA A DORMIRE QUI. E NON SI È PIÙ SVEGLIATA. MA POI LA NOTTE PASSA E FORSE RIESCO ADDIRITTURA A DORMIRE.

LA MATTINA UNA DOCCIA TIEPIDA

e poi subito sulla strada, dove si pesano le pecore e si soppesano le qualità dei montoni. I tibetan horses ci aspettano. Selle ammorbidite da coperte, strisce di stoffa colorata lungo le briglie, piccoli e forti, hanno trascinato o forse si sono lasciati trascinare da Gengis Khan nella sua galoppata di conquista. Insomma si va e si va, attraversando greggi e fiumi, percorrendo sentieri e superando valichi.

CENTO

CORVI NERI SI APRONO

e poi si chiudono sulle nostre teste come fuochi d’artificio. Una cagna dal passo lento di madre stanca si muove nella luce gialla delle tre del pomeriggio, tra cuccioli di albicocchi magri e spogli.

NEI VILLAGGI, LE CAMPANELLE DEI NOSTRI CAVALLI RICHIAMANO ALLE PORTA FACCE

occhi bocche. Le scuole sono mocciolose e curiose e povere ma hanno tutte un campetto di calcio. Quindi posso affermare con cognizione di causa che se fossi nato qui sarei cresciuto felice. Dopo le risate dei bambini e i nitriti dei cavalli, il silenzio di un convento buddista. Sono dieci i giovani monaci che studiano qui. Ad accoglierci preghiere incise sulle pietre e scritte sulle bandiere.

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MI PIACE ALZARE GLI OCCHI E PENSARE A QUELLE PAROLE SANTE PORTATE VIA

DAL VENTO.

ENTRIAMO, VIA SCARPE E CAPPELLO. QUI TUTTO È PACE.

Pareti gialle, scale legno, muri rossi, colombe bianche. Studiano dieci ore al giorno e ognuno deve occuparsi anche della vita pratica oltre che di quella spirituale. Beviamo il tè insieme, tagli di luce dalle fessure e dalle finestre alte o bassissime.

ANCHE NEL BUIO C’È QUALCOSA CHE LI ILLUMINA.

Poi tornano quello che sono, bambini, e si arrampicano sul tetto per salutarci. Le montagne sacre alle loro spalle sorridono.

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LA SCENA SI APRE COSÌ.

(CUBA ON THE ROAD, 2013)

LA SCENA SI APRE COSÌ: UNA BUSTA

DI PLASTICA GONFIA DI MERDA LIQUIDA VOLA DAI PIANI ALTI E ATTERRA COME UNA GRANATA NEL MEZZO DI CALLE SAN IGNACIO. Non ci sono morti né feriti, annoto da consumato reporter, mentre oltrepasso veloce.

CI SONO GLI INNAMORATI.

Giovani, sulla soglia dei portoni socchiusi, parlano. E si baciano.

IN UNA PIAZZA, MADRI E SORELLE ASPETTANO SEDUTE A TERRA CHE FIGLIE E SORELLE ESCANO DALLA SCUOLA DI BALLO.

I maschi giocano a biglie e a baseball con bastoni e tappi di bottiglia.

LA SERA LA LUCE INONDA LA SCENOGRAFIA E GLI ATTORI ENTRANO IN SCENA. Spesso sono l’unico spettatore.

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BELLEZZA UOMINI QUASI SUPERIORE A BELLEZZA DONNE.

IO PASSO INOSSERVATO.

Non c’è l’allegria o il pericolo africano, non c’è la curiosità e il rispetto orientale. Così io vado e vado.

POI LA SERA, CON ADDOSSO SOLO I PANTALONI THAI, MI SIEDO NEL TERRAZZINO E GUARDO IL CIELO.

HO COMPRATO

VENTI PESOS NAZIONALI

DI GIUNCHIGLIE BIANCHE E CHIACCHIERATO CON UN VECCHIO VENDITORE DI MANGHI.

LA

MIA CASA È VICINA ALLA CHIESA DELLA MERCEDE E A UNA PALESTRA DI BOXE.

Un quadro più a sud c’è l’affaccio sul mare. Mi sembra perfetto.

HEYLA CONOSCEVA TIZIANO FERRO, COSÌ ABBIAMO CANTATO L’AMORE È UNA COSA SEMPLICE.

E anche questo mi è sembrato perfetto.

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A COSTO DI SEMBRARE INGIUSTO E

BLASFEMO, L’OPERA DI RESTAURO DELLE QUATTRO PIAZZE CENTRALI, ESALTATA DA TANTI, NON MI ATTRAE PIÙ DELLE CALLI PIENE DI BUCHE E PALAZZI FATISCENTI.

CON I GUIDATORI DI BICI TAXI CI PERDIAMO

IN DISCORSI CHE PARTONO SEMPRE DALLO STESSO PUNTO E FINISCONO CHISSÀ DOVE.

LE MANI SUL CULO DELLE NOVIAS. E quando ballano, le donne sono femmine all’ennesima potenza.

PENSO ALLO STRANO DESTINO DI FIDEL. Ha vissuto una o due vite più del Che e di Camillo. Ma lui morirà, loro no.

UNA

BANDA DI BAMBINI MAGRI E SCATENATI GIOCA IN PLAZA DE CHRISTO.

Uno prende per la zampa un cane tutto pelle e ossa e lo fa girare. Finita la giostra, il perro torna a trotterellare nel gruppo come se niente fosse.

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IL DUE Ñ O DE MI CASA,

la mattina si prende cura degli altarini di San Lazaro e Yemanja.

I TRUFFATORI SONO DAVVERO

DEI FUORICLASSE: MI HANNO RICORDATO QUELLI CHE ASPETTAVANO IL LORO TURNO NELLA SALA D’ASPETTO DELLO STUDIO DI AVVOCATO DI MIO NONNO.

Per quanto attento e scafato tu possa essere, una piccola sola la rimedi sempre. La cosa affascinante è che non te ne accorgi subito, ma dopo. Magari quando a letto, la notte, ripassi a mente la giornata appena andata via.

IN GIRO CON QUEL PAZZO DI LAZARO IN BICI TAXI.

Suona a tutte le donne, manda baci a destra e manca, corteggia le vecchie fa incazzare le giovani.

LA LENTEZZA DEI VECCHI.

Pelle e capelli bianchi, scambiano un mango con tre uova. Ultimi testimoni del tempo eroico che fu. Primi testimoni del tempo che è.

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IL MALECON. OGGI AL TRAMONTO ERO LÌ.

C’era il vento dopo una giornata torrida. Ho capito perché gli habaneros passano le sere qui. Una bottiglia di rum da 4 pesos, un grappolo d’uva e una chitarra.

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NERA COME IL SUO BISAVOLO SCHIAVO ARRIVATO DA HAITI, HEYLA NELL’ACQUA DI PLAYA DE L’ESTE. LE GOCCE DI PIOGGIA CADONO SUL SUO VISO E SUL SUO SORRISO. FLASHBACK DI AMORI PASSATI.

IN BUS VERSO CIENFUEGOS, CON TURISTI

E CUBANI.

Dal finestrino, poco da dichiarare. CIENFUEGOS

LA SERA SEMBRA VUOTA

RISPETTO AL DELIRIO DELL’ HAVANA.

Le poche volte che leggo una guida e ne seguo le indicazioni, mi pento quasi sempre. Poi però, arrivo alla Casa della cultura, dove un gruppo di ragazzi stanno facendo lezioni di ballo. Alternano pezzi del celebre Benny Moré e di Hip Pop Americano. Alla faccia degli “embargos” di tutto il mondo. Allora sto subito bene e sono felice di essere qui. Mi perdo nelle vie secondarie tra scritte che inneggiano al Che e al mio amato Camilo Cienfuegos. In una piccola libreria, compro due stampe dei miei eroi e una vecchia moneta del tempo della rivoluzione.

LA NOTTE MI INVITANO IN UNA SPECIE

DI DISCOTECA.

Molti cubani con novia e qualche soldo in tasca. Sono stanco, me ne vado a dormire.

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IN VIAGGIO CON HOUSAIN E LA SUA LEDA SENZA CINTURE DI SICUREZZA E FRENI.

Mi spiega il perché del suo nome arabo, mi racconta degli studi fatti in Kazakistan ai tempi dell’Unione Sovietica. Facciamo amicizia e gli faccio un video mentre guida nella campagna cubana cantando.

Ci fermiamo nel giardino botanico con più varietà di palme al mondo. Mi perdo, lo giuro. Housain quando mi vede tornare sudato e con le scarpe infangate, si sbellica dalle risate. Di nuovo in viaggio, all’orizzonte la Sierra. Una curandera mi fa bere una pozione calda ricavata da uno strano tubero. Se calmerà un po’ la mia diarrea ve lo farò sapere.

MENTRE SCATTO

BUI E SOLITARI

La seguo e arrivo in un cortile dove le principali punk band cubane esibiscono suoni e testi maledetti. Sembra impossibile. A quattro quadri da qui, nella casa della musica, i turisti cercano di ballare i ritmi cubani. Le donne pretendono di farlo senza dichiarare guerra attraverso culo e fica. Gli uomini in punta di piedi, sembrano tanti finocchi messi a rosolare sui carboni ardenti.

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ANGOLI DELLA TRINIDAD NON INCLUSA NEL PACCHETTO “PATRIMONIO UNIVERSALE DELL’UMANITÀ”, SENTO UNA MUSICA ELETTRICA CHE RIMBOMBA, SEMBRA VENIRE DALL’ALTRO MONDO.

“LE CHICAS CUBANAS SON TODAS PUTAS”, È COLPA DEL SANGUE, NON È COLPA LORO. Sentenzia Vincente, l’ennesimo conducador de taxi del mio viaggio. Tra una pedalata e l’altra, mi rende edotto del fatto che per possedere molte donne a Cuba devi possedere un’auto.

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LE LACRIME. NEL PICCOLO MUSEO DEDICATO ALLA RIVOLUZIONE. ERO SOLO. E SOLO COSÌ MI GODO DAVVERO UN MUSEO, O UNA CHIESA. DI FRONTE ALLA CAMICIA MILITARE DI CAMILLO, L’HOMBRE DE L’AVANGUARDIA”, DAVANTI ALLE STAMPE IN BIANCO E NERO CON LE CORSE ALLEGRE DEGLI STUDENTI CHE SI RIBELLAVANO A BATISTA E AI RITRATTI DEGLI SCONOSCIUTI CAMPESINOS TORTURATI E UCCISI, MI SONO
MI SONO SCESE
COMMOSSO.

A

PROPOSITO

DI AUTO, MI AVEVANO PROMESSO UN’AUTO PARTICULAR CON ARIA CONDIZIONATA E INVECE ALL’ALBA SI PRESENTA UN VECCHIO

PARTICULAR CON LA SUA VECCHIA MACCHINA. Il vecchio parla come un libro stampato in difesa di Fidel e della Rivoluzione. Il giorno dopo, divido un sedile di autobus con un ciccione che dice che è tutto “un fracasso” e i valori della rivoluzione “una mierda”.

PER LE CALLES DI SANTIAGO.

Verso il porto. C’è odore di pane ogni quattro o cinque quadri. Una ragazza cuce un vestito rosa shocking. Altre due si fanno le unghie lunghe e colorate. Sono i giorni del carnevale. Il dio dei viaggiatori solitari mi guida verso una strada chiusa dove un barrio sta preparando la sfilata del giorno dopo. Faccio lo spettatore, faccio le riprese, faccio amicizia. Resto qui per più di un’ora e mi sento bene.

OGGI HO DORMITO DOPO PRANZO, DUE ORE. Una meraviglia!

L’INSEGNA

DEL CINE CUBA SI ACCENDE E SPENGE.

Ecco dove mi piacerebbe proiettare il mio film.

267

È COLTO E INNAMORATO DEL NEOREALISMO

ITALIANO.

Passa la vita tra vecchi libri del Che e foto di Mastroianni. Il nome non me lo ricordo, ma ho passato un pomeriggio intero a sentirlo parlare di Fellini e Pasolini, di De Sica e Anna Magnani. Mi ha spiegato che nei primi anni della rivoluzione, il responsabile della cultura faceva arrivare a Cuba i film italiani e francesi, visto che quelli americani erano proibiti. La gente riempiva le sale, i biglietti costavano niente, gli attori italiani erano eroi. E adesso, gli chiedo? Adesso il cinema italiano vale poco, mi risponde. E i giovani preferiscono i DVD con i film di Hollywood. E il Cine Cuba è quasi deserto.

OGNI TANTO BUTTO LA DOMANDA LÀ: “COSA SUCCEDERÀ A CUBA?”, UN SUONATORE DI CHITARRA SENZA CORDE MI RISPONDE:

“CI

VORREBBE LA SFERA DI CRISTALLO”.

Altri mi dicono che a Miami è già tutto pronto. E alla morte di Fidel sono pronti a fare piazza pulita in tre giorni.

“AHI

FIDEL! AHI CUBA!”

Quando qualcosa non va, ecco l’esclamazione.

268

A SANTIAGO I SEGNI DEL CICLONE SANDY SONO VISIBILI OVUNQUE.

Era famosa per i suoi alberi secolari, sono stati spazzati via.

APRO LA FINESTRA E LASCIO CHE I SUONI DELLA CASA DELLA TROVA MI FACCIANO COMPAGNIA.

TIVOLI È IL BARRIO CHE AMO.

La sera. Il saliscendi delle calles. Il fischietto del venditore del pane con il suo carretto. I vecchi che fanno i vecchi. Le case di legno e quelle con le colonne fanno a gara a chi crolla dopo. E i bambini fanno a gara a chi va più veloce. Musica. Tutto l’elenco possibile. Compreso Eros Ramazzotti.

NELLA CATTEDRALE UNA DONNA DORME CON

LA TESTA APPOGGIATA AL BANCO.

Fuori sono 39° all’ombra. È venuta a cercare Dio e il fresco. Spero li abbia trovati tutti e due.

A SIBONEY NELLA PLAJA DEI CUBANI.

Una ragazza mi fa la corte. Io mi comporto da timido, bravo ragazzo.

269

TRA TRE GIORNI È IL 60° ANNIVERSARIO

DELL’ASSALTO FALLITO DI FIDEL E COMPAGNI ALLA MONCADA.

Si salvarono in dodici, gli altri furono tutti fucilati. Ma fu la scintilla, prima del grande incendio. È bello leggere sulle lapidi accanto ai nomi degli eroi: poeta, contadino, autista.

MA SESSANTA ANNI SONO TANTI.

E i giovani hanno in mente altro. In mezzo a loro, nelle notti del carnevale, mentre ballano e cantano. E ballo e canto anche io. Nemmeno l’ombra di un turista. Non mi sorprendo di non incontrare gli avvoltoi in cerca di ragazzine, quei vigliacchi qui avrebbero paura. Ma possibile che non si veda in giro nemmeno un viaggiatore, una coppia giovane, un gruppo di amici all’avventura? Dove sono? Certamente non qui, all’alba nelle strade di Suegno.

NON È FACILE CAPIRE QUANDO E DI CHI

FIDARSI.

Sono da troppo poco qui. Così a volte dico un no quando dovrei dire sì, come alla famiglia pazza che mi aveva invitato a ballare l’altra notte. Per un po’ sono stato con loro ma poi li ho mollati. E ho fatto male. Mi volevano portare in posto bellissimo che avrei scoperto solo le notti dopo.

272

I MENDICANTI

INTORNO A PARQUE CESPEDE MI SALUTANO E SORRIDONO. SENZA UNA GAMBA, UNO DI LORO OGGI MI HA DETTO: “COMPA Ñ ERO NO TE PUEDO OLVIDAR. AYER ME SALVASTE LA VIDA”.

SOTTO L’HOTEL, JINETEROS E TRUFFATORI, TAXISTI E MUSICISTI.

Si incrociano battute, domande, richieste, proposte e risate. Ho trovato un mio modo per farmi rispettare: un misto di disincanto, fermezza e generosità. Proprio ora che parto…

IERI

NOTTE, CON UN CARRO TRAINATO

DA UN CAVALLO, VERSO LA FESTA. In salita il cavallo è scivolato. Ho visto le scintille degli zoccoli sull’asfalto e poi è andato a terra. Il carro ha iniziato scivolare all’indietro, siamo scesi al volo.

MI RACCONTANO STORIE DI AMORI TRA ITALIANI E CUBANE.

A volte il cattivo è lui, a volte la puta è lei.

273

IL CALDO DEL GIORNO OGGI NON SE NE È

ANDATO ALLA SERA: È RIMASTO ANCHE LUI A GODERSI IL CARNEVALE.

AUTISTA DI PULMAN:

“Le donne cubane sono un enigma anche per i cubani. Un giorno dicono che il frutto preferito è il mango e dopo tre giorni il mango non lo devi nemmeno nominare”.

274
275 L’ULTIMA NOTTE HO BALLATO IL RAGGAETON CON YARIANNA ED HO FINALMENTE CAPITO PERCHÉ AGLI URAGANI METTONO IL NOME DI UNA DONNA.
276

UN ASINO BIANCO MIRACOLO E OTTO MELOGRANI ROSA (ATTIMI

DI NEW DELHI, 2007)

GUARDO COME SE FOSSI SORDO, ASCOLTO COME SE FOSSI CIECO.

Tra i vicoli del mondo e le strade sterrate della mia anima.

LA NOTTE È UN

RAGLIO

DI ASINO ANTICO, suono remoto che supera i futuri palazzi di cemento armato e le presenti vetrate del nostro albergo, per arrivare alle mie orecchie.

POI APRO

LE TENDE E NEW DELHI

È LÌ. Sirene di treni e volo di falchi in un cielo che cielo non è. La guardo dall’alto come fossi un falco anche io.

POI GIÙ E ANCORA PIÙ GIÙ:

Old Delhi. Piccioni si alzano in volo come a Parigi, nel cielo come a Venezia e atterrano tra rifiuti, vacche e mendicanti come solo a Delhi.

277

È PIÙ DIFFICILE IMPARARE LA LORO

LINGUA, L’URDU, O QUELLA DEI CLACSON CHE DIALOGANO, SCHERZANO, PREGANO E BESTEMMIANO SENZA SOSTA?

ECCO, L’IO

FALCO TORNA IN AZIONE E PUNTA,

TRA MILIONI DI OBIETTIVI, un piccolo tavolo con sopra otto melograni rosa. Due sono aperti e mostrano il rosso rubino dei grani. Poco più in là, un asino bianco miracolo ha la bocca aperta e orgoglioso sfoggia denti giallo girasole.

RAGAZZI GIOCANO A CRICKET, BAMBINI

BATTONO SUI FINESTRINI DEL TAXI, cani e vecchi dormono il sonno agitato e profondo dei vecchi e dei cani, sdraiati su di una striscia di marciapiede, isola fragile e sottile tra due fiumi di macchine, camion e biciclette.

DOPO IL MERCATO E LE STRADE, LA TOMBA DI HUMAYUN È UN’OASI.

Immenso il cuore di questa vedova moghūl, capace di amare lo sposo defunto di un amore che puoi sentire ancora oggi. Tra le grate e i disegni dei pavimenti, nel verde dei giardini e nei canti dei pappagalli.

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NON SOLO DA MORTO MI PIACEREBBE ESSERE SEPOLTO

QUI. RESTERÀ.

Lo so, passeranno come mani di vernice sopra questo attimo, giorni tutti uguali e giorni ancora unici, ma questa visione resterà, prepotente e indelebile. I miei occhi si sono alzati verso corvi neri di penne e controluce, verso una scalinata di pietre erose dalle lacrime e dalle ossa eroiche di mendicanti.

SALIAMO VERSO L’ENTRATA DELLA IMMENSA JAMA MASJIID, LA PIÙ GRANDE MOSCHEA DELL’INDIA.

Tra due ali di angeli senza ali e senza molto altro ancora. Un gradino alla volta le mie tasche si svuotano di carta moneta, perché a ogni gradino un essere umano estrae per me dal suo corpo disumano il sorriso o la preghiera più bella che ha. Lui niente occhi, lei niente braccia, lui né braccia né gambe, loro microscopici nani, lui con la gobba che lo tiene piegato verso terra, lei con la paralisi che la costringe con gli occhi sbarrati verso il cielo.

279

TRONCHI DI UOMINI, PORZIONI DI

DONNE, SEMBRANO ESSERE LÌ

A

RICORDARTI CHE È L’ANIMA LA SOLA VERA E INVINCIBILE BELLEZZA.

POI ENTRI E TROVI UOMINI IN PREGHIERA e speri che la loro voce silenziosa arrivi in un qualche dove accogliente lassù, che ci sia a esaudire le loro bisbigliate domande di aiuto un dio anche lui con le tasche bucate.

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IO LA CHIAMO PALESTINA (NOTE DI VIAGGIO, TERRA SANTA 2016)

COSÌ HO SCRITTO e così trascrivo. Senza revisioni.

TEL AVIV: locali notturni e da brunch, modelle, gallerie d’arte e militari che fanno jogging con il mitra a tracolla. Ancora non so cosa mi aspetta.

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NELLA MIA FOTO, UN ANGOLO DI MURO (QUELLO DEL PIANTO) E UCCELLI IN VOLO. DENTRO PUZZA DI PISCIO E BARBE BIANCHE E MAL DI MARE SEGUENDO IL DONDOLIO DI QUEI CORPI IN PREGHIERA.

OSSERVO GERUSALEMME DAL LUOGO IN CUI

IL NAZARENO LA MALEDISSE.

Presto sarà tutta ebrea. Nella chiesa di Maria, buia e sotterranea, un istante di emozione. Profonda. Rubata alle code di pellegrini che invece di farsi il segno della croce, si fanno un selfie (nell’intero vocabolario, c’è solo una parola che odio di più: Lazio).

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MURO (QUELLO DELLA VERGOGNA), DUE VOLTE PIÙ LUNGO E PIÙ ALTO DI QUELLO DI BERLINO. LUNGO LA STRADA, STORIE DI COLONI CHE PRENDONO A CALCI DONNA DI PALESTINA PER FARLA ABORTIRE.
L’ALTRO

A GAZA, NELLA STRISCIA, DUE MILIONI

DI PRIGIONIERI A CIELO APERTO.

Permesso di pesca solo a due miglia dalla costa, nella stessa area di mare destinata allo scarico delle fogne. Dopo l’operazione Piombo Fuso, in cui gli israeliani hanno fatto di Gaza un campo di macerie, divieto di far entrare cemento per ricostruire. E per gli esseri umani che vivono lì, gli inverni passano, freddi e inesorabili, come i loro carcerieri.

MI GUARDO INTORNO E SALUTO

LA CISGIORDANIA.

È tempo di deserto. Le baracche e le scuole di lamiera. E i bulldozer con la stella di Davide pronti a buttarle giù. Droni e spie. Ruote infuocate dagli insediamenti giù verso i villaggi beduini.

UN DESERTO DI POLVERE, RIFIUTI E SCOLI

DI ACQUA AVVELENATA.

Ecco il villaggio beduino. Baracche di lamiera sparse qui e là, il cadavere gonfio di una pecora, due bambini che vengono da lontano, a dorso di asino, attratti dal profumo di scuola.

287

NON PIÙ NOMADI DIETRO ALLE LORO GREGGI.

Il muro del 2010 ha interrotto un cammino millenario. Costretti all’immobilità, vivono in piccoli accampamenti, simili a campi rom. Gli asili che le suore comboniane sono riusciti a creare per loro, fanno stringere il cuore: due microscopici container. Ci accolgono con la canzone “Palestina Palestina”, le sisters ci traducono ridendo il resto della canzone, che in una strofa dice “gli ebrei sono i nostri cani”. La realtà, dice esattamente l’opposto. Esistono e resistono, senza acqua e luce. E con la perenne minaccia degli avvisi di demolizione. Sono accusati di essere abusivi, dopo che sono stati cacciati dalla collina su cui vivevano da sempre. “Aveva cinque sorgenti”, mi dice il capo. “Hanno distrutto le nostre tende, ci hanno caricato su un camion e scaricati come immondizia, nel deserto più arido e ostile”.

FOTOGRAFO I PIÙ PICCOLI MENTRE CANTANO ORGOGLIOSI.

Superata la timidezza, ripetono il mio nome “Stefno Stefno” e quando gli mostro, sul visore della macchina, la foto appena scattata, esplodono ogni volta della stessa meraviglia bambina che ho visto detonare in tante altre latitudini del pianeta.

288

I BAMBINI E LE BAMBINE HANNO TUTTI GLI

STESSI OCCHI: NERI, CURIOSI, SELVATICI.

Per questo quando conquisti un loro sguardo amico vale il doppio. Siamo in un territorio che gli accordi di Oslo hanno condannato al controllo militare israeliano. I beduini hanno dovuto, come ci racconta il capo con kefiah in testa e faccia da Arafat, spianare la strada di notte. Perché per loro tutto è vietato. Non possono avere energia elettrica, costruire case, perfino la piccola scuola è stata demolita due volte. Fare figli è la loro unica forma di resistenza. Circondate da decine d’insediamenti (quelli sì illegali!), le povere baracche beduine e le stalle delle loro magre bestie, sembrano avere non i giorni, ma le ore contate.

GLI ASILI CHE SIAMO VENUTI A DOCUMENTARE, SONO PICCOLI CONTAINER CON FUORI QUATTRO GIOCHI FATISCENTI.

Ma per loro sono una scatola delle meraviglie. Arrivano a piedi o in due su somarelli fuggiti da un presepio. A volte camminando per ore e rischiando i sassi e le ingiurie dei coloni. Li vedo scendere veloci come caprette mentre suona la campanella d’ingresso. Il sole si fa spazio a spallate tra le nuvole per illuminare questa fetta dimenticata di deserto. Suona l’inno palestinese e noi giriamo qualche scena tra le baracche.

289

IL TÈ PROFUMA DI SALVIA. IL CIELO ORA È NERO

E VIOLA.

Un bambino corre con la bandiera del suo paese in via d’estinzione, sul fondo un insediamento osserva beffardo la scena. L’immagine si ferma nella mia digitale e nella mia memoria.

LI SALUTIAMO, NON È UN ADDIO.

Torneremo presto.

PIÙ DI SETTANTA RISOLUZIONI ONU HANNO DICHIARATO ILLEGALI GLI INSEDIAMENTI ISRAELIANI IN CISGIORDANIA.

Questo lo sapevo anche prima di partire. Quello che non sapevo è che gli insediamenti sono delle vere e proprie città. Io immaginavo, qualche casa di fortuna abitata da una decina di coloni mistici e un po’ folli. Intorno il deserto, un check point all’ingresso e poi viali orlati di palme, prati finti e vere swimming pool! Quindicimila abitanti, arrivati da Russia ed Etiopia, attratti da case quasi regalate e dalla “sicurezza” di un posto di lavoro. Dei giovani francesi e americani, nemmeno l’ombra. Quelli si occupano solo della parte iniziale del progetto. Arrivano, iniziano a battagliare, protetti dall’esercito, con i legittimi proprietari delle terre. Creano le prime roccaforti che poi diventeranno città, come quella che ora ho davanti.

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TATTICHE DEL PROCESSO DI COLONIZZAZIONE, ASCOLTO E REGISTRO.

C’è una grande strategia che unisce tutti i punti di questa invasione, di questo annientamento? Cancellano la storia altrui. Raccolgono fondi in Europa, per riforestare la Giudea, poi scopri che gli alberi sono piantati per andare a nascondere per sempre quelle che sono le tracce della presenza araba. Perfino l’origine di alcuni piatti tipici, viene messa in discussione. Cancella la loro storia ed esalta la tua, le parole d’ordine.

NESSUNA TRATTATIVA DI PACE, NESSUNA VIA D’USCITA.

Non solo per i palestinesi, ma anche per gli israeliani. Società civile eroica: avvocati e medici e volontari israeliani impegnati a difendere i diritti calpestati dei loro vicini. Ci vuole tanto coraggio. A pagarne le conseguenze sono spesso i figli, considerati come traditori e nemici della patria.

È

INVERNO E IL DESERTO È DAVVERO DESERTO

e ti chiedi perché si combatta con tanto accanimento per vivere in mezzo a questo nulla.

291

QUANDO IL SOLE È ALTO,

sul fondo appare il lago di Tiberiade. Non posso fare a meno di pensare al Messia in cammino con la sua banda. Il paesaggio non deve essere cambiato un granché.

APARTHEID nelle strade, negli autobus, negli ospedali, nelle targhe, nel cervello.

GIUSEPPE E MARIA, CON IL LORO ASINO.

Fermi di fronte a questo muro che gli impedisce di entrare a Betlemme. La colomba di Banksy e le scritte in tante lingue arrabbiate del mondo. Ogni trecento metri una torretta. Un bellissimo murales che racconta di lanci di fionda e donne ammanettate. Mi allontano da solo, tra le ultime luci del giorno, alzo gli occhi verso l’alto e sul cielo non appare la parola Fine.

292
BETLEMME COME IL GHETTO DI VARSAVIA. LA STORIA SI RIPETE, I CARNEFICI CAMBIANO DIVISA.

SOLDATI IN ASSETTO DA GUERRA,

attraversano la strada, scortati da un blindato. Li vedo arrivare da una strada in discesa, mitra in mano. La sera, a volte, entrano anche nella zona A, il centro di Betlemme, dove non avrebbero diritto di accesso. Provocano. La risposta è spesso fatta di pietre. Lanciate da uomini di tredici anni. Che vedranno piovere sulle loro teste e sulle loro ginocchia 250 proiettili in un’ora, che conosceranno interrogatori con percosse e pistole sul tavolo e poi mesi di torture e carcere preventivo. Spesso senza processo.

ALL’INGRESSO DI AIDA, UNA GRANDE

CHIAVE, a ricordare le chiavi delle case lasciate in fretta e furia e alle quali dal 1948 attendono di tornare. Tremila persone compresse in meno di un chilometro quadrato. E il muro proprio lì, a separarli dal loro passato e dai loro ulivi. Graffiti sui muri in memoria dei loro martiri e di un martire di Genova. La ragazza italiana, ospite di una famiglia, che studia antropologia e sta facendo una tesi sulle donne palestinesi e il carcere. Nell’appartamento, ordinato e quasi moderno, sul muro il poster di un’eroina, kefiah e mitra. Saliamo sul tetto, gli ulivi sono a pochi metri, sul fondo gli insediamenti. Da una terrazza un bambino mi saluta con il segno della vittoria.

293

LA RAGAZZA PALESTINESE CON DUE LAUREE E TRE MASTER CHE NON PUÒ USCIRE

DA BETLEMME. Questa era una città colta e in gran parte cattolica. I giovani studiavano nelle scuole dirette da suore e missionari. Soffocata dal muro si sta spegnendo lentamente.

LEGGO NOMI SULLA MAPPA

e ogni volta torno bambino nella classe di catechismo.

QUANDO SEI DI FRONTE AL MURO,

sotto lo sguardo e forse dentro il mirino di un fucile, ti senti testimone di un delitto. Hai visto e potrai testimoniare.

A SERA, di ritorno dalle riprese al campo beduino, illuminate dai fari su due camion scoperti, la bandiera palestinese e quella di Al Fatah. Non festeggiano la liberazione di un prigioniero, come immaginavo. Festeggiano con colpi di clacson e grida, il ritorno a casa (dopo 6 mesi passati nelle mani israeliane) dei corpi senza vita di 8 ragazzi.

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APPUNTI

per il progetto “Nemesi”.

• Razza superiore / popolo eletto

• Cieca obbedienza ed esaltazione della gioventù ariana / spietata determinazione coloni estremisti

• Rappresaglia: per un soldato tedesco morto dieci civili assassinati / stesso principio in Israele con proporzioni ancora più terribili

• Ghetto Varsavia / Muro attorno a Gaza e altrove

• Segregazione: divieto accesso agli ebrei in luoghi pubblici / Divieti per i palestinesi su strade, autobus, ecc

• Ebrei invitati dai nazisti a portare via solo gli oggetti valore e poi spogliati di tutto / lo stesso per i profughi palestinesi

• Irruzioni: retate e campi di lavoro per gli ebrei / retate, arresti arbitrari, distruzioni case per i palestinesi

• Annientamento culturale: demonizzazione e cancellazione storia dell’altro / idem

• Malvagità: campi sterminio / torture fisiche e psicologiche, sistematica violenza, che non risparmia donne, anziani e bambini

• Spie: controllo e delazione / Mossad

• Deportazione: treni nazisti / container per i beduini

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OGNI GIORNO CI RACCONTANO DI UN MORTO.

Quattordici, sedici, diciassette anni. Martiri che andranno a ingrossare le fila del “Country of Saints”, come recita la scritta a firma irlandese sul muro che a ogni svolta ci ritroviamo di fronte. Eppure nel resto del mondo arrivano solo le notizie degli attentatori suicidi.

PENSAVO SAREBBE STATA “EMOZIONE” LA PAROLA CHIAVE DI QUESTO VIAGGIO. INVECE È “RABBIA”.

L’ULTIMO AGGLOMERATO PRIMA DEL DESERTO DI GIUDA

è una cittadina di case con i piloni dei piani superiori lasciati lì, ad aspettare un altro piano, quando ci saranno i soldi, quando torneranno i figli. Come nella nostra abusiva Calabria. Ma quello che i miei occhi registrano qui mi piace. Ci resterei, a prendere idee per una storia.

298
299 LAGGIÙ IL MAR
E PRIMA E DOPO COLLINE
E SAGGE. HANNO VISTO E VEDRANNO.
MORTO.
ARIDE
300

DEAD MAN WRITING (UGANDA, 2009)

ODIO I VIAGGI.

Anzi, i giorni che li precedono. Vaccini, valigia, testamento scritto la notte prima della partenza e chiuso in una busta battezzata “Se non torno”. Così, quando ho letto l’introduzione a Tristi tropici , mi sono sentito meno solo. Levi Strauss la pensava proprio come me.

ORA SONO QUI NELLA MIA CASA, tra Borgo e Trastevere, ma tra ventiquattro ore sarò in Uganda, in viaggio tra Kampala e Gulu.

RACCONTEREMO LA STORIA

DEI BAMBINI

SOLDATO E DEL ST.

MARY’S

LACOR HOSPITAL, un ospedale fondato da un medico italiano, il dottor Piero Corti e da sua moglie Lucille. La loro storia d’amore e passione è stata oggetto di libri e film.

DAL NIENTE HANNO CREATO UNO DEGLI OSPEDALI PIÙ IMPORTANTI DELL’AFRICA CENTRALE.

301

LA GUERRA E IL VIRUS EBOLA NE HANNO

MESSO

A DURA PROVA L’ESISTENZA.

Ma medici e volontari, anche a rischio della vita, non hanno abbandonato i loro posti, hanno tenuto duro. E così oggi, anche senza i due coniugi Corti, quell’ospedale dà assistenza a trecentomila persone l’anno.

PIOVE PIOGGIA, TUONANO TUONI, LAMPEGGIANO LAMPI E

IO SOGNO SOGNI.

ALBA IN KAMPALA, IL CALENDARIO DICE CHE LA STAGIONE DELLE PIOGGE È FINITA. Ma non è vero, bugiardo un calendario.

FUORI È FANGO, È MERCATO, È IL COLORE DEI MURI, ORA BLU COBALTO, ORA ROSA SHOCKING, fuori sono poltrone handmade in attesa di culi benestanti, mototaxi driver da un cliente al giorno che si specchiano in cromature del tempo che fu. Fuori sono fabbriche di mattoni, pezzi di carne e mosche appesi in bella vista come un’opera d’arte contemporanea.

302
303 FUORI SONO I PASSI SCIVOLOSI DI UOMINI E DI DONNE IN EQUILIBRIO SU QUEL FILO SOTTILE CHIAMATO VITA. FUORI È AFRICA E IO SONO DI NUOVO FUORI.

SE FOSSI UN UGANDESE,

quelle che scrivo potrebbero essere le mie ultime parole, le mie ultime volontà.

DEAD MAN WRITING.

QUI L’ASPETTATIVA DI VITA È DI CINQUANT’ANNI CIRCA

ed è intorno ai miei cinquanta anni che sono qui, a vivere, a scrivere. Se fossi un uomo di Uganda dovrei tirare a campare con un dollaro e mezzo al giorno. Chissà come avrei svoltato la giornata. Fermo lì, come uno svitato, tra i binari della vecchia ferrovia, a guardare i ratti che si tuffano in un misterioso buco nero, oppure seduto sullo sgabello di un amico barbiere ad ascoltare la radio suonare la stessa canzone che una radio sta suonando a Brooklyn, New York.

SE AVESSI AVUTO BOCCHE DA SFAMARE,

avrei chiuso la mia bocca per non farci entrare la terra e sarei a scavare la lunga trincea di non so quale filantropico progetto regalato dal governo giapponese. Oppure mi vedreste lì, ad insegnare ad un apprendista sfaticato come tirare fuori un letto matrimoniale da un singolo pezzo di legno.

304

FORSE NON MI SAREI ACCONTENTATO

di quei 400 dollari l’anno e avrei cercato di far fortuna con una vecchia pistola arrugginita in mano, minacciando l’impiegato dello sportello dell’unica banca che assomigli a una banca nel raggio di molti e molti chilometri. Forse sarebbe andata bene, e adesso bighellonerei con ai piedi un paio di stivali di vero cuoio e in testa un cappello da cow boy di finto ghepardo, ma forse sarebbe andata male, e allora sarei lì, su quel camion scoperto, circondato da miei facsimili, con una divisa giallo piscia di cavallo e una faccia di pietra, come le pietre che sarei stato costretto a spaccare ai lavori forzati per tutto il santo giorno. E ora, circondato da guardie con il colpo in canna, me ne starei tornando in gabbia, osservando, come in un’allucinazione, quello strano musungu che immagina di essere me.

MA SE FOSSI VENUTO AL MONDO NEL NORD DELL’UGANDA, DOVE ARRIVATI ORA

SIAMO, avrei camminato e, per venticinque lunghi anni, visto camminare ogni notte i miei figli e i loro figli, per sfuggire ai rapimenti e cercare riparo tra le mura del St. Mary’s. O, al contrario, sarei stato un ribelle, avrei rapito e stuprato, trasformato bambini in soldati, innocenti in assassini, vittime in carnefici, costretti ad uccidere a bastonate il loro migliore amico.

305

AVREI ASSISTITO ALLA PAZZIA DI UN PADRE

inginocchiato nel sangue di suo figlio da lui stesso assassinato. Avrei tagliato orecchie e nasi, chiuso bocche a colpi di machete, avrei crocifisso bambini Gesù in nome di un esercito fratricida che massacra nel nome del loro spirito santo. Oppure no, sarei andato con fratel Elio a soccorrere le vittime di Ebola, a seppellire i morti, a consolare i vivi.

COME LUI, SAREI DIVENTATO NONNO

senza aver conosciuto moglie e concepito figli. Nonno di 130 orfani, che sopravvivono grazie a qualche aiuto dall’Italia e alla celeste provvidenza.

SE FOSSI UN ESSERE UMANO NATO

IN

QUESTA TERRA, FORSE ORA MI TROVEREI

in uno dei letti del grande reparto riservato ai malati di AIDS, che ora attraverso indeciso se tenere gli occhi aperti più che mai o chiusi a doppia mandata.

306
HO VISTO UN UOMO IN BICICLETTA, TRA POZZANGHERE E FANGO, ANDARE. SUL PORTAPACCHI C’ERA UNA BUSTA DI PLASTICA NERA PIENA DI TERRA E DENTRO UNA PICCOLA

PIANTA CON DUE GRANDI FOGLIE CHE SI GODEVANO IL VENTO COME I CAPELLI DI UNA FIDANZATA PORTATA A SPASSO IN UN GIORNO DI FESTA.

POI, PIÙ TARDI, NEL REPARTO MATERNITÀ

DELL’OSPEDALE, MI SONO TOLTO LE SCARPE E SONO ENTRATO NELLA STANZA DEI PREMATURI.

Venti bacinelle di plastica con dentro venti respiri silenziosi. Mi sono avvicinato con l’orecchio per sentire e con gli occhi per vedere. Poi, ho fatto il contrario.

FUORI, NELLA NOTTE, I BAMBINI ORFANI CANTANO SOTTO LA PIOGGIA

«We say thank you Jesus» e io canto con loro e penso a quanto sia bello e generoso ringraziare chi sembra avergli negato tutto e anche di più. Chissà che i disegni celesti non li ripaghino di tanta cieca fiducia e di tante gioiose serenate.

ORA SIAMO TRA LE TENDE ROSA DELLA SALA PARTO, SONO APPENA SBARCATI SU QUESTA TERRA DUE GEMELLI.

Poco più in là, timidi gemiti di giovane madre annunciano un nuovo arrivo.

307

DAVANTI A ME, NEONATI CALDI CALDI, COME PAGNOTTE APPENA SFORNATE.

Che immenso atto di giustizia, in questo mondo immensamente ingiusto, vedere, sapere, che il miracolo più straordinario, che la ricchezza più grande, non sia patrimonio esclusivo dei ricchi e dei potenti. Ma anche della più povera e derelitta umanità.

NIENTE È PARAGONABILE A QUELLO CHE VEDO ADESSO DAVANTI A ME.

ORA SIAMO IN UN CIMITERO, tra lapidi che ricordano il sacrificio di suore, medici e infermieri. Nei giorni di Ebola, mi racconta fratel Elio, missionario con un sorriso alla Sean Connery, molti hanno deciso di rimanere qui, pur sapendo a che cosa andavano incontro.

308

SONO MORTI IN DODICI E ORA GUARDO LE LORO FOTO SULLE TOMBE E LEGGO I LORO NOMI.

«Per farci coraggio buttavamo giù un bicchierino di grappa prima di andare a sfidare quel mostro di virus», mi dice sorridendo, per commuoversi poi al ricordo delle ultime parole del dott. Mattews, colui che era destinato a portare avanti la pesante eredità dei coniugi Corti, «Accetto di morire, Signore, ma fa che io sia l’ultimo». E l’ultimo è stato.

TROPPA GUERRA, TROPPO ORRORE, PER TROPPI ANNI.

I sorrisi sui volti dei bambini sono rari.

LE FERITE SONO ANCORA APERTE E IN MOLTI CASI, AHIMÈ, VISIBILI.

Quando, nei villaggi, giriamo le scene dei flashback delle nostre storie, i protagonisti spesso si immedesimano e commuovono fino alle lacrime. Allora, resto un attimo di più vicino vicino a loro e, con le mani e con la voce, cerco di fargli sentire me. Ma alla fine sono io che sento loro. E continuerò a sentirli. Spesso, per alcuni partecipare attivamente alle riprese significa tornare a fare i conti con il passato, una drammatizzazione che molti progetti di recupero per bambini o ragazze traumatizzate, raccomandano.

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DAVANTI AI MIEI

OCCHI, NEL CORSO

DEGLI ANNI, ho visto carcerati, tossicodipendenti, malati di AIDS, donne schiavizzate, ragazzi di strada, superstiti di terremoti o alluvioni uscire dalle riprese con una maggior consapevolezza e forza. Li ho sentiti diventare più leggeri.

ECCOMI, SONO PROPRIO IO, CHE ME NE VADO A ZONZO SULLE STRADE ROSSE DI TERRA E SANGUE, IN SELLA A UNA VECCHIA MOTO E LASCIANDO DIETRO DI ME NUVOLE DI POLVERE AFRICANA E GIORNI DI TRISTEZZA ITALIANA.

CAMBIO MARCIA E AI

BAMBINI

SUCCHIANO

BORDI DELLA STRADA

CANNA

DA ZUCCHERO

e mi salutano mentre sorpasso donne con il culo ad anfora, proprio come le anfore che portano sulla testa e uomini magri come canne di bambù, carichi di fasci di canne, per l’appunto di bambù. Così, tra una facile similitudine e una scontata metafora rischio un paio di volte di finire fuori strada, ma alla fine sono lì, pronto a girare l’ennesima inquadratura.

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MOLTO HO DECISO CON LA FANTASIA, A ROMA,

MOLTO DECIDO ORA con l’istinto del momento. E qui, adesso, tutto mi riesce facile. E riesco a raccontare la poesia dove molti vedono solo la realtà.

CERCO, CON INQUADRATURE CHE DURANO UN

SECONDO E MEZZO, di mostrare la purezza della più sporca povertà, cerco di svelare la bellezza nascosta in un’esistenza misera e brutta.

IL GUANTO DI SFIDA

CHE OGNI

VOLTA MI GETTO SUL VOLTO, HA SEMPRE LA STESSA MOTIVAZIONE: far emergere dal profondo del profondo la meravigliosa umanità degli ultimi in classifica. Non è difficile. È una visione per me del tutto limpida.

OVUNQUE MI GIRI, IN QUESTO SCONFINATO SET

DI FAVELE, savane e barrios e foreste e slum, gli esseri umani, gli animali e perfino le piante sembrano mettersi in posa al mio passaggio, pronti a recitare una parte che conoscono a memoria. Aspettavano solo il mio “Action!”, “Assao!” o “Azione!”.

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LA VITA MERAVIGLIA È OVUNQUE ATTORNO A ME.

HO LETTO UNO DEI TANTI LIBRI CHE RACCONTANO LA STORIA DEI CORTI e ora che sono nella loro casa, mi sembra di passeggiare tra quelle pagine. Trofei di caccia appesi al muro mi osservano mentre guardo le foto che raccontano la loro vita, una vita piena di passione, coraggio e sono sicuro, solitudine. La posso sentire, la respiro e mi toglie il respiro e mi riempie di malinconia.

SARÀ PIÙ FACILE DORMIRE NELLA CASA DEI

MISSIONARI, dove, nonostante qualche topo e il fantasma di uno dei loro, sgozzato durante la guerra per ordine di uno sciamano, la notte dalla finestra arriva il suono dei tamburi a far da ninna nanna e, la mattina, la voce della cuoca che canta in gloria della vita, del Signore e della nostra colazione.

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SE FOSSI IN ITALIA ORA SAREI

SGUARDO PUNTATO, COME TANTI, SULLA MIA ESISTENZA INSODDISFATTA. PIENA DI NIENTE, VUOTA DI TUTTO. CON I REGALI DI NATALE INCARTATI SENZA AMORE E LA VOCE DI UN TELEVISORE IN SOTTOFONDO CHE MI CHIEDE DI SCARTARE UN PACCO PER DIVENTARE MILIONARIO.

LÌ CON UNO

FINITE LE RIPRESE, DOPO UNA DOCCIA CHE MI HA PORTATO VIA DI DOSSO LA TERRA ROSSA E LA POLVERE GIALLA MA NON I RACCONTI DEI RAGAZZI SOLDATO, per la prima sera da quando siamo qui, usciamo dalla clausura dello Spiritually Center Comboniano e ci immergiamo lentamente, passo dopo passo, come timorosi bagnanti in un fiume sconosciuto, nella misteriosa e torbida notte di Gulu. Ecco qui la mia vita oggi. Giorni, ore, passati tra suore e fratelli missionari, molti con più di settant’anni, i giovani sono rari, le vocazioni in calo.

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E POI, IMPROVVISAMENTE, ACCOLTO IN UN LOCALE DA UNA MUSICA INCANTATRICE E AMMALIANTI MISSIONARIE DEL SESSO.

TUTTE CON MENO DI VENTICINQUE ANNI, LE VOCAZIONI CRESCONO.

Con i missionari di Gesù, ho raccontato, ascoltato, ballato. E ora faccio lo stesso con queste colorate missionarie. A costo di essere blasfemo, vi giuro che il mio cuore batte di fronte a loro proprio allo stesso modo. E mi sembra che anche quel figlio di un falegname di Nazaret la pensasse come me. Insomma, così come mi sono innamorato di padre Angelo o fratel Carlo, così non dimenticherò questa Maria a cui dedicherò una poesia. Dopo carichi di amore dato e ricevuto, ora cammino e osservo la vita intorno a me, accompagnato da un senso di mancanza e di leggerezza e forse addirittura di libertà. Come un portatore nepalese senza carico, come un uomo di montagna senza legna, come un soldato che, dopo anni e anni, si mette per la prima volta in marcia senza il suo pesante zaino sulle spalle.

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INTANTO BALLO CON UNA RAGAZZA CON MAGLIETTA GUINESS e riccioli neri e, a ogni canzone, mi sento più allegro e brillo, come se me la scolassi quella ragazza Guiness. Non mi sento migliore di lei neanche un po’. «This is a swahili song», mi sussurra all’orecchio e mi insegna a rallentare il ritmo dei passi e del cuore.

NESSUNA DONNA DI QUESTO PIANETA PRENDERÀ SONNO O RESTERÀ SVEGLIA PENSANDO CON AMORE A ME. E NESSUNA, APRIRÀ GLI OCCHI CON LO STESSO SENTIMENTO PER INIZIARE UN NUOVO GIORNO. UN NUOVO GIORNO SENZA DI ME. NON POSSO FARE A MENO DI PENSARE CHE LA DOSE DI AMORE CHE IL CIELO SPACCIATORE AVEVA IN SERBO PER ME, MI SIA GIÀ STATA TUTTA
INIETTATA.
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316 COSÌ, PER LA PRIMA VOLTA NELLA VITA, CAPISCO BENE CHE GRANDE RIFUGIO LE DONNE PROSTITUTE SIANO PER GLI UOMINI NAUFRAGHI DI OGNI TEMPO, PAESE E RELIGIONE.

C’È SEMPRE UN PREZZO DA PAGARE PER AVERE

UNO SGUARDO DI OCCHI, un sorriso di bocca e altro ancora. Ora, qui, occhi e sorrisi bastano e avanzano, me li concede generosa una ragazza facile di Gulu in cambio di una birra. Come un poeta maledetto, come uno scrittore diseredato, come un santo sovvertitore, come un affarista pezzo di merda, cerco un po’ di vita dopo giorni di storie e racconti con la morte nel ruolo di star. Non tradisco nessuno e nessuno si sentirà tradito.

CONTINUO A BALLARE E A RIDERE CON I MIEI COMPAGNI E MI DICO CHE SARÀ BELLO VIAGGIARE PER UN PO’ SENZA ZAINO.

Chissà se domani mattina la penserò ancora così, intanto attraverso il locale in cerca dell’uscita, tra odore sudore di femmina e puzzo piscio di maschio. Mi giro ancora una volta e mi sento dire «God bless you» e a questo meraviglioso addio non so rispondere altro che un misero «bye-bye».

QUI LA VITA È DAVVERO UNA PARENTESI.

Si vive come se si fosse chiamati a una breve apparizione. Nel lungometraggio dell’esistenza, gli africani sono abituati a vedere la loro parte come la breve entrata in scena di una comparsa fuori fuoco.

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LA NOTIZIA DELLA MORTE DELLA SORELLA DI UN RAGAZZO DELLA TROUPE AFRICANA

è vissuta con assoluta normalità, come un fatto di ordinaria amministrazione. Sono quasi sorpresi di fronte alla nostra sorpresa.

LA VERITÀ È CHE, OGNI TANTO, LA MIA MENTE PRENDE E, SENZA SALUTARE, SE NE VA.

COSÌ MENTRE ATTRAVERSO IL REPARTO DEI BAMBINI MALNUTRITI,

penso sotto quale sole o quale luna potrà indossare quei vestiti a fiori che le ho regalato, senza appassire. Poi i pensieri tornano a casa e rido del mio dolore che è ben poca cosa paragonato a quello di chi mi circonda.

LA REGOLA È SEMPRE LA STESSA.

Più hanno vissuto la loro vita per gli altri, più sono stati coraggiosi, più hanno fatto scelte estreme e più sono aperti e sorridenti e inclini alla comprensione, alla curiosità, al mistero.

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319 HO CONOSCIUTO MISSIONARI E SUORE IN OGNI ANGOLO DELLA TERRA. ALCUNI DI LORO AVEVANO IL POTERE CON LA LORO SOLA VICINANZA DI FARMI SENTIRE BENE. DI ALCUNI MI SONO PROPRIO INFATUATO. COSA CHE NON MI È MAI SUCCESSA QUANDO, INVECE CHE A OUAGADOGU O GULU, IL MIO LAVORO MI PORTAVA A LONDRA O NEW YORK. E SUL SET A POSARE O RECITARE PER ME, C’ERANO CINDY CRAWFORD O NAOMI CAMPBELL.

POI ANCORA, ADESIVI SUI CRUSCOTTI DELLE JEEP, INVECE DI “BABY ON BOARD”,

c’è il divieto di “gun on board”. Due ex ragazzi soldato, in fuga dal loro passato, camminano tenendosi per mano.

GUARDO CORRERE SPAVENTATI I BAMBINI DI UN VILLAGGIO,

ma per una volta non sono uomini in divisa a portare il terrore bensì un esercito di api.

GLI UNICI A CHIEDERE L’ELEMOSINA SONO I MEMBRI DELLE FAMIGLIE DI BABBUINI

che vivono nelle vicinanze della grande cascata. Nei villaggi le suore mi spiegano il trucco degli orecchini alle orecchie dei piccoli maschi per farli sembrare piccole femmine ed evitare che siano rapiti. Le ali delle termiti, nel cielo, simili a neve. Uno dei bambini orfani di fratel Elio che distribuisce caramelle, alla fine per lui non ne resta nemmeno una, ma non batte ciglio.

ANNUNCIATA DA NUVOLE DI POLVERE, ARRIVA LA STAGIONE SECCA. DA OGGI IN POI, L’ACQUA DAL CIELO ARRIVERÀ SOLO IN SOGNO O PER I SORTILEGI DI UNO STREGONE.

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GLI ALBERI INIZIANO A TINGERSI

di terra rossa e l’erba verde diventerà, giorno dopo giorno, paglia gialla. Sfrecciano camion e ogni volta il nostro pick up sembra prendere una sberla. Un sasso colpisce come un proiettile il nostro parabrezza, proprio mentre pensavo agli spari ...

SEDUTA SU UNA POLTRONA DI TERRA UNA BAMBINA

con un gallo in mano e un sorriso leggero come una promessa mi guarda passare.

LA SERA DAVANTI ALLO SPECCHIO,

i miei occhi rossi di polvere e lacrime. Le parole di Francis e Cipryan che raccontano del giorno e dell’ora, 6 p.m., in cui sono stati strappati via dall’albero della famiglia degli innocenti. Nel bush per anni, tra sofferenze e atrocità inflitte. Storie di carceri sotterrane e ore interminabili con i piedi nell’acqua e sopravvivere con una sola banana al mattino e una sola banana alla sera. Poi, il giorno della fuga e del grande, immenso, no. «Uccidetemi pure, io torno a casa, io non uccido più». Alla fine ci abbracciamo forte e finalmente il comandante Francis mi guarda negli occhi e mi saluta senza abbassare lo sguardo.

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RIUSCIRÒ

ANCORA A SBUCCIARE

UNA BANANA, SENZA SENTIRMI CIRCONDATO DA RIBELLI IN CATENE, SENZA SENTIRE I MIEI PIEDI IMMERSI NELL’ACQUA?

SULLA VIA DEL RITORNO, SOTTO GRANDI ALBERI

DONNE

ABBRONZANO

PANNOCCHIE, bambini vendono manghi impilati a piramide, ad ogni stop, uomini ci offrono galline cotte sul fuoco mentre galline cotte dal sole rischiano di finire sotto le nostre ruote. Dalle chiese senza porta, corrono fuori i canti della domenica e nelle capanne entrano le preghiere che dovranno durare una settimana intera.

IL VENTO SPINGE LE PIANTE DI MAIS A SALUTARCI

con un inchino come una madre con i suoi figlioli bene educati. Intanto le mie basette sono di nuovo lunghe e fuori moda, e va bene così.

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DAY AFTER, DAY BEFORE (CALCUTTA, 2011)

CALCUTTA

È UN ULTRASUONO.

Come un cane addestrato mi muovo cercando di ubbidire ai suoi comandi. Calcutta è nebbia di tubi di scappamento e carbone, fumo di cadaveri e spazzatura. Calcutta è la più reale delle allucinazioni.

INCROCIO TOPI, CANI E UOMINI, membri paritari di una stessa casta. Calcutta è ciocche di capelli appena rasati in terra, Gange fiorito di escrementi e loto, spazzolini immersi in acque luride.

CALCUTTA È DAY AFTER. CALCUTTA È DAY BEFORE.

SONO STATO A CALCUTTA.

Perché dovrei avere paura di te? Ho vegliato, annusato e accarezzato il corpo di quella città che agonizza da un’eternità. Come speri di impressionarmi, mostrandomi le tue ferite?

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SI SVEGLIA LENTA E COME UNA NOBILDONNA DECADUTA, LADY CALCUTTA SI FA BELLA SPECCHIANDOSI NELLE FOGNE A CIELO APERTO. UNISCO LE MANI IN SALUTO E CON DEFERENZA M’INCHINO A DARE IL BUONGIORNO AGLI INTOCCABILI.

SE VOI VEDESTE LA SORPRESA DEI LORO OCCHI E ASCOLTASTE LA GENTILEZZA SENZA SUONO DELLA LORO RISPOSTA.

LE

BAMBINE ORFANE DI TUTTO

nei primi anni della loro vita, ora diventano ragazze qui, nelle case delle suore. Una versione femminile di Ndugu ndogo, la meravigliosa casa per i bambini di strada di Nairobi. Lì mi chiamano “father”, qui “ uncle”. Lì al momento di andar via mi gridavano: «Come again, come again!», qui mi cantano «Don’t go don’t go». Lì abbiamo giocato a pallone, qui facciamo il girotondo. Io davvero io, lì e qui.

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LA DITTATURA DEL CONSUMISMO. (PECHINO E DINTORNI, 2014)

LA CINA È PIENA DI CINESI.

ECCO LA PRIMA “PROFONDA”

CHE MI REGALO.

OSSERVAZIONE

Mai vista un’altra grande città al mondo con meno turisti stranieri.

SE CI ARRIVI DA BANGKOK, TUTTI SEMBRANO SERI E INCAZZATI.

Forse è meglio prendere un volo diretto da Roma, con Alitalia…

DALL’ULTIMO PIANO DELL’HOTEL VEDO IL SOLE ESAUSTO TRAMONTARE.

Lo smog ha vinto ancora una volta. Eppure in giro solo moto elettriche.

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RIDO PENSANDO A QUANTI SI AFFRETTANO

A IMPARARE IL CINESE,

mentre qui non si trova una persona in grado di capire o dirti due parole due in inglese. O in qualcosa di simile. Insomma, il nostro interesse verso di loro non sembra essere ricambiato.

ESORDIO SUBITO IN PIAZZA TIENANMEN.

È sera, dopo il cambio della guardia, restano dietro le transenne i bambini con le bandierine rosse in mano. Fotografo due militari mitra a tracolla e poi una bambina con le lucine sui talloni delle scarpette bianche. Si accendono a intermittenza, come lucciole.

LA SUBWAY COSTA POCHI CENTESIMI. Scarica e carica esseri umani a ritmo continuo.

HO SPESSO LETTO DELLA SCARSA PULIZIA DEI CINESI. CONFERMO.

Ma le strade sono pulite e curate. Giardinieri innaffiano rose e il mio vicino sputazza al vento. A proposito, è il periodo più caldo dell’anno ma questa sera che ci dà il benvenuto ha qualcosa di lieve.

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OGNI VOLTA CHE CHIEDIAMO UN’INFORMAZIONE

CI PREPARIAMO PSICOLOGICAMENTE A TRASFORMARCI IN EXTRATERRESTRI.

Camminiamo sotto gli alberi, in piccoli tavoli si gioca, si mangia e si grida.

AL MERCATO DI PANJIAYUAN HO COMPRATO UNA GIACCA MILITARE VERDE E DUE PIATTI, SPERO UN PO’ PIÙ ANTICHI.

Più tardi mangiamo i Dim sum più buoni della città. Accanto a noi, una ricca arpia si lamenta del cibo con camerieri e direttrice, con una durezza che mi colpisce e mi illumina su questo paese e la sua cultura. Digeriamo attraversando la hall del super lusso planetario. I ricchi si vedono e non fanno nulla per nascondersi. Le prime firme sono sempre Made in Italy. Ma come? Non ci hanno raccontato per anni che la Cina è la madre di tutti i nostri problemi e fallimenti?

MI GUARDO INTORNO E DI COMUNISMO NE VEDO POCO.

La vera dittatura mi sembra quella consumista.

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TROVO TRACCE DI ORIENTE TRA I PICCOLI VENDITORI ADDORMENTATI E TRA GLI ANZIANI CHE FANNO GINNASTICA NEL PARCO O CAMMINANO ALL’INDIETRO.

Non posso fare a meno di fare un paragone con la fauna di Mc Carren Park a Williamsburg. Lì, attorno alle macchine degli attrezzi, neri e latinos giovani e gonfi di muscoli. Qui ottuagenari magri e flessibili come giovani canne di bamboo.

RARI I SORRISI.

Rari davvero. Penso: la durezza che un giapponese può avere verso di sé, un cinese può averla verso gli altri.

LUNGO GHOST STREET, UN CLIENTE UBRIACO CERCA LA RISSA CON UN CAMERIERE ALLE PRIME ARMI.

Sui tavoli, illuminati da lampade rosse, prelibatezze mongole e gamberi. Gli ombelichi degli uomini rigorosamente in bella vista.

PEDALO SOTTO I MURI DELLA CITTÀ PROIBITA.

Proibito non emozionarsi. Negli antichi Hutong squarci di meraviglia. Le libellule sul lago del Parco Beihai si rincorrono tra i pedalò dei cinesi vestiti a festa. Lassù, il palazzo che fu di Kublai Khan.

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PIANETA SHOPPING CENTER:

in Italia non ci ho mai messo piede, ma in Asia sto diventando un esperto. Pensavo dopo Bangkok e Honk Kong che niente mi avrebbe stupito. Mi sbagliavo. Lusso sfrenato, megaschermi, architettura d’avanguardia, brand nel loro massimo splendore. Dopo l’orario di chiusura, di fronte alle gigantesche vetrine illuminate di Prada o Lamborghini, donne di mezza età ballano balli antichi.

LE DONNE.

Prima di arrivare nel Regno del consumo chiamato Sanlitum non avevo visto nulla che mi facesse dire “Oh!”. Prima di arrivare, appunto.

DOPO GIORNI E MESI DA VIAGGIATORE, MI CONCEDO UN GIORNO DA TURISTA.

Sulla grande muraglia. Ci arrampichiamo. Caldo, fatica e alla fine emozione. L’ultimo tratto, quello vietato, è bellissimo. In cima, ci sdraiamo sotto un albero con le strisce rosse che ballano al vento. Ascolto il mio cuore che riprende piano piano i suoi battiti. E recito dentro di me le parole di Confucio:

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“L’INTELLIGENTE È FELICE. IL BENEVOLENTE VIVE A LUNGO”.

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TOKYO, DUEMILADICIASSETTE. (MAGGIO 2017)

SHOKUNIN.

Devo approfondire l’esatto significato di questa parola. Padrone del proprio lavoro. Ma anche molto di più. Sfila dietro il vetro dello shuttle che mi porta fuori da Narita airport la figura composta e monacale, di un impiegato della compagnia degli autobus. Ad ogni arrivo e partenza si inchina. Sembra una forma di sottomissione al lavoro. In realtà in quell’inchino al lavoro io sento dignità. Per quanto monotono e senza prospettive, non è un lavoro da odiare, ma da celebrare in maniera quasi sacra. Con quell’inchino lui onora anche se stesso e il suo ruolo in questo universo.

Eccomi sono a Tokyo, di nuovo qui, a distanza di un anno. È primavera. E ci resterò per un mese, o giù di lì.

Nel ristorante dell’Hilton, nelle loro impeccabili divise, le osservo. Lei più anziana che spiega alla più giovane, che prende appunti, come apparecchiare i tavoli. Restano per lunghi minuti a osservare e spostare di pochi millimetri una saliera e un porta stuzzicadenti. Un cubo e un parallelepipedo che devono essere a una certa distanza tra loro. E così ancora osservano, come un artista di fronte a una

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sua opera in via di allestimento, il corretto allineamento dei piatti e delle sedie. Tredici milioni cinquecento trentadue mila e sessanta persone vivono a Tokyo oggi. Divisi quasi perfettamente a metà. Attesa di vita per gli uomini 79,82, per le donne 86,39. Undici milioni di visitatori l’anno, ma non li vedi. Così lo spaesamento è totale. Giro senza connessione. In balia degli eventi. Tutto quello che ho imparato della città nei viaggi precedenti sembra essere svanito nel nulla. Così mi accade di ritrovarmi al punto di partenza, dopo aver pensato di essere arrivato chissà dove. Perfetta metafora esistenziale. Coppia anziana e distinta in locale famoso per il meduro, mangia sushi con le mani. Le ragazze in gruppo sorridono, anzi ridono tra di loro. Se dovessi scrivere questa frase ogni volta che le ho viste fare così, riempirei in fretta il mio quaderno. Il “pilota” della subway in guanti bianchi immacolati. Lo osservo, mentre guida, fare gesti lenti e interloquire con la strada di fronte a sé. Come un direttore di orchestra. Le uniche persone che ho visto discutere in strada erano due donne siciliane. I giapponesi all’ombra degli alberi sembrano subito felici, proprio come me. Ma tanta, troppa gente con la mascherina sulla bocca. Sia che vogliano difendere me o che si vogliano difendere, non mi piace. I taxi lindi e old style. Con i loro driver, lindi e old. Immobili in attesa del semaforo verde i pedoni. Anche quando la strada

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è un deserto. L’esatto opposto di New York. Ho cambiato hotel, case e quartieri e ogni volta è come se mi fossi trasferito in un’altra città. Fin da piccoli educati ad osservare. Noi di fronte alla bellezza della natura abituati a commentare, muoverci, o a chiudere gli occhi per rilassarci. Loro osservano, in contemplazione, come se fosse un quadro. La voce dei corvi antica e severa commenta da lassù la vita di quaggiù. Ho pescato giornate di sole meravigliose, con un vento tiepido di giorno e fresco la sera. Truth, compassion, tollerance: passa uno striscione con tre parole magiche. Al concerto di un gruppo metal. In un’arena all’aperto. Fuori nel parco, distinti signori dipingono acquarelli. Poi, un po’ alla volta, come i pennuti neri che sfidano i grattacieli, arrivano gli adepti. È interessante vedere come anche i ribelli partecipino all’evento in ordine e secondo un ritmo quasi marziale. Muovono le mani tutti insieme e in direzioni sempre diverse. Quando sbattono la testa verso il basso e poi in sù, diventano un’onda da far invidia a quella di Hokusai. Devo ricordarmi di dire ai miei figli che il giorno in cui saranno in viaggio, con il loro amore o con i loro amici, di spendere qualche minuto, di regalare qualche parola al viaggiatore solitario che troveranno in cammino sulla strada o seduto accanto a loro in una bettola o su di un treno diretto chissà dove. Le loro parole, la loro attenzione, saranno un modo di ringraziare quelli che hanno fatto lo stesso con me in questi anni di vagabondaggi solitari.

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Come l’appassionato di opera che mi ha fatto compagnia durante il mio immancabile sushi o la coppia di Osaka che parla con me attraverso Google traslate e si commuove al mio racconto sulla camicia con le margherite che porto oggi, 6 maggio, in onore e ricordo della nascita di mia figlia. Al teatro Kabuchi, naturalmente non capivo una parola una. Ma per un atto è stato bello. Poi me la sono data a gambe, durava quattro ore e mezza. C’era una microscopica attrice di 4 anni che era uno spettacolo. A proposito di bambini, il mio potere non accenna ad affievolirsi. Dovrei forse crearci un personaggio per una storia. Per i grandi quel potere è invisibile, ma per i piccoli no. Anche oggi in ascensore, un essere di due mesi, appena svegliato, tra le braccia del padre, mi guarda e sorride. E sorridono sorpresi i genitori. Possibile che sentano così chiaramente i miei messaggi? In questi giorni spesso, e qui fa ancora più effetto, perché non c’è nemmeno una parola a fare da ponte. Ci sono quelli che sussurrano ai cavalli, quelli che con uno sguardo colpiscono una donna e poi ci sono io. Sulla stessa lunghezza d’onda dei più piccoli. È come se mi sintonizzassi in una frequenza nella quale hanno accesso solo loro. Una stazione di cui i grandi hanno perso la sintonia. Oggi ho cambiato di nuovo casa e sono tornato ad Harajuku. La città è sempre più mia. Me lo ripeto con un certo orgoglio. Esco a piedi con la mia nuova compatta stile Daido Moriyama. Mi è

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tornata una gran voglia di fotografare. Verso Yoyogi Park, dovrebbe esserci la parata gay. La sfilata è finita, ma il parco è pieno e irriconoscibile rispetto a qualche giorno fa. Tante, tanti stranieri. Ne vedo più oggi che in tutto il mio viaggio. Da segnalare degli Elvis un po’ attempati ma gran ballerini, in giacche e jeans super attillati. Anche sui dolcetti immagini di natura, diverse nei vari periodi dell’anno. Parentesi Ikebana. Andando contro la mia storia di autodidatta e di orso asociale, mi sono iscritto a un corso di ikebana. Scrivo nel mio quaderno di appunti una serie d’informazioni e cenni storici su questa nobile arte che la nostra insegnante ci tramanda. Poi ci mettiamo all’opera e subito mi sento ispirato e leggero. Lei mi dirà che ho avuto movenze e scelte da maestro. È stato come meditare e dipingere e camminare tra i fiori. Bellissimo. Mentre trascrivo, a Roma, tanti piccoli giardini mi circondano, sono i miei ikebana free style. Shibuya crossing: scatto con il flash, rubando volti e corpi, come un maniaco seriale. Cammino e cammino e cammino, ogni giorno per ore e ore. Ogni giorno un parco diverso: le coppie di anziani. Insieme. Lei suggerisce lui cosa fotografare. E lui apre il suo cavalletto come fosse un pittore. Le foglie di acero da sfiorare con gli occhi. Un popolo che sa. Sensibile alle foglie. Mi ero promesso di fare ordine tra le mie storie da film e i miei personaggi. Ma non l’ho fatto. Ho scritto solo questi pochi appunti volanti. Ho letto un po’ e ho molto osservato. A Jimbocho, un quartiere mercato

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pieno di librerie. Interi reparti dedicati al porno, in tutte le salse. E poi DVD, fumetti, monografie dedicate a modelle di nudo. E naturalmente bondage e viacosì. Le strade brulicano di provocanti Lolite e non c’è una ragazza che non porti con sé il proprio look come documento d’identità. Ma gli uomini passano senza voltarsi mai. I desideri scorrono in profondità.

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SUL FIUME! SUL FIUME! (IL VIAGGIO IN LAOS, 2010)

DOPO LA NOIA

degli aerei, del pullman e della fila per i visti, finalmente sulla slow boat, finalmente sul fiume! Sul fiume!

SDRAIATO SU UNA STUOIA SDRAIATA

su un tavolo di legno, scrivo e respiro aria di Mekong. E mi sento sollevato. Nel senso letterale della parola. E vaffanculo all’intestino che inizia a rammentarmi la mia terrena debolezza.

DA UNA PARTE IL LAOS E DALL’ALTRA

LA THAILANDIA. Uomini e donne e bambini di fiume. Fratelli di altri esseri conosciuti su altre acque.

TEMPLI SULLE COLLINE

con lunghissime scale prostrate ai loro piedi. Poi dormo, dormo! Solo chi mi conosce può capire il perché del punto esclamativo.

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E QUANDO RIAPRO GLI OCCHI,

a destra vedo scorrere il verde e il giallo della foresta e a sinistra il grigio e il nero del cielo. Poi mi tiro su e scrivo ancora. Uno degli uomini che governa la barca mi fa un cenno di saluto. Mi alzo a fare un giro, a poppa c’è un letto sollevato da terra e circondato da una zanzariera. Regista dei miei sogni, ambienterò qui una scena d’amore. Il rumore del motore copre le voci degli altri passeggeri e anche questo chi mi conosce sa quanto mi piace.

SCORRE

MARRONE IL FIUME

nascondendo non so che. Ogni tanto una roccia affiora, come il corpo di un marine gonfio di morte. Di fronte, capanne palafitte presidiano piccole coltivazioni di mais e banane. Più in alto gli alberi alti. E più in su ancora, nuvole illuminate da un sole di cui avverti la presenza come uno spirito. Poi le nuvole mandano giù gocce di pioggia a fare conversazione. Allora anche il sole esce fuori a godersi la scena.

SIAMO NELLA STAGIONE DELLE PIOGGE,

in questo periodo il fiume è alto e le barche veloci diventano pericolose. Sono felice di aver scelto la slow. E poi ho il posto più invidiato della barca.

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ALTERNO SONNI, SOGNI E PAROLE.

E davvero non m’importa sapere verso dove questa barca mi sta portando. Mi piace essere qui. Ed è lo stesso identico sentimento che sentivo mentre ero con Som. Non sapevo dove mi portava quel viaggio, ma era bello essere lì.

ORA LA PIOGGIA CI VIENE INCONTRO, CORRENDO COME UN’INNAMORATA RITARDATARIA.

A VOLTE MI SEMBRA CHE ESISTA UN SOLO GRANDE FIUME.

Le donne che appaiono chine sui panni da lavare, i pescatori sulle loro canoe sottili impegnati in una pesca millenaria, i bambini lungo le sponde sabbiose che salutano tuffandosi in acqua, il colore dell’acqua, la forma degli alberi, il canto degli uccelli, le capanne solitarie sulle cime o raccolte in basso, questo e molto altro che i miei occhi osservano oggi, in passato lo hanno visto altrove.

È LENTO IL NOSTRO VIAGGIARE, CI VORRANNO

DUE GIORNI PER LUAN PRABANG. FORSE QUESTA VOLTA LA MIA ANIMA NON RESTERÀ INDIETRO.

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ALLA FINE DEL GIORNO

attracchiamo sulle sponde di un villaggio fantasma che vive grazie alle barche che si fermano per la notte qui.

L’ALBA SEGUENTE, dopo due ore di trattativa (ci volevano mettere tutti su una barca sola), partiamo per il secondo giorno di Mekong. Furbo come un mariuolo mi rimpossesso del tavolo di legno su cui dormirò, scriverò e fantasticherò ancora. Ogni tanto incrocio lo sguardo della ragazza che gestisce la cambusa. Non so se è la moglie del capitano, so che ha gli occhi e il sorriso che dovrebbe avere una moglie.

IL BATTELLO FA ZIG ZAG TRA ROCCE E MULINELLI E ZIG ZAG FACCIO ANCHE IO TRA PASSATO E PRESENTE.

LE COPPIE STRANIERE CHE INCONTRIAMO

NON SI BACIANO MAI. Bernardo per addormentarsi si lascia un libro aperto sopra il petto. Som nell’amore recitava parole incomprensibili.

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I LAOTIANI DI FIUME

sembrano non aver ancora metabolizzato il passaggio tra ieri e oggi. I primi turisti in questa zona sono arrivati da pochi anni. Così ti guardano ancora con quello sguardo stupito e serio che ho visto nei miei viaggi più profondi.

«L’ANIMA TUA È IL MONDO INTERO» RECITANO I VERSI DELL’UPANISHAD, «L’ANIMA MIA È IL MONDO INTERO», RECITO IO. QUASI NON MANGIO.

Solo riso e pane. Rileggo Siddharta , letto tanti anni fa. Le pagine di lui tra i samana. Rido pensando che a volte anch’io, nel nostro mondo, mi sento così, lontano da tutto e tutti. Se non ci fosse l’amore per i figli a trattenermi, davvero non so dove sarei.

CREDO, IN QUESTI GIORNI

DI VIAGGIO

E DIGIUNO, di non aver scritto o vissuto una sola riga o una sola emozione davvero nuova per me. Con una sola eccezione, racchiusa in tre sole lettere: Som. L’unica cosa che varrebbe davvero la pena di essere raccontata ancora non la so raccontare.

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354 NONNO, PADRE E FIGLIO SU UNA CANOA. DI PROFILO, SINTESI PERFETTA DELLE TRE ETÀ DELLA VITA.

IL BARCAIOLO SIDDHARTA:

«Sì, bellissimo fiume, io lo amo più di qualsiasi cosa. Spesso lo ascolto e sempre ho imparato qualcosa da lui. Molto si può imparare da un fiume». È così anche per me. Il fiume divora le mie ansie come i miei vicini laotiani il loro pasto.

OGNI TANTO APPARE UN VILLAGGIO PIÙ GRANDE,

ogni tanto ci fermiamo per prendere a bordo un uomo o una donna, seduti su una roccia circondata di foresta e in attesa da una vita. Paesaggio e fiume iniziano a cambiare, Luan Prabang si avvicina.

CAMMINO A PIEDI NUDI

sulle tavole di legno del pavimento della mia camera in una vecchia casa coloniale, guardo i gechi entrare dalle finestre e le palme di fronte al tempio, immobili. La preghiera dei piccoli monaci si espande come un profumo. Con i capelli bagnati mi sdraio sul letto e dopo due giorni di fiume lascio scorrere tutto fuori di me.

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È SERA, mi basta attraversare la strada per entrare nell’area del tempio. I novizi leggono a voce alta, ognuno seguendo la sua lettura, la sua preghiera. Si incrociano voci che alla fine diventano una voce sola. Uno dei giovani monaci è seduto su una statua del Buddha che sembra coccolarlo. «Sabaidee», mi saluta. Cani neri e cani bianchi sembrano aver assorbito la pace di questa pace. La cantilena continua. Poi faccio amicizia con un monaco che mi chiede del Buddha che porto appeso al collo.

DI NOTTE SOTTO LA ZANZARIERA MI MANCA IL RESPIRO. APRO LE FINESTRE:

È

TUTTO

IMMOBILE. POI ARRIVA LA PIOGGIA E MI RACCOLGO AD ASCOLTARE IL TEMPORALE COME FOSSE UNA PREGHIERA.

QUANDO SENTO IL SUONO DEL GONG È L’ALBA.

Piove ancora ma con più dolcezza. Due donne in ginocchio sulla strada con un sacco di riso davanti, aspettano i monaci. Eccoli, in fila indiana. Ricevono una manciata di riso e proseguono il loro giro. Dalla mia finestra aspetto di vederli scomparire. Poi mi tuffo nel letto e chiedo anch’io l’elemosina di qualche ora di sonno senza pensieri.

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L’INCONTRO PIÙ TOCCANTE

del viaggio è con la piccola statua di Prapang. Il Buddha con i palmi delle mani aperti a pacificare gli oceani. Cuore spirituale di un popolo senza confini.

SALIAMO, ANZI ASCENDIAMO AL CIELO. DALL’ALTO DELLA COLLINA CHE SOVRASTA LUAN PRAPANG VEDIAMO I DUE FIUMI CONFLUIRE UNO NELL’ALTRO COME DUE INNAMORATI SENZA DIFESE.

IN TUC TUC ATTRAVERSIAMO LE CAMPAGNE, uomini e donne della terra tornano dal lavoro, le nuvole si specchiano nel fiume, una barca ci porta sull’altra sponda, dove saliremo nelle grotte di Tham Ting. Settemila Buddha, settemila. Lì ad attenderci, tra candele e incensi. È un luogo meraviglioso. Restiamo fermi lì a meditare, senza che nessuno ci abbia insegnato come fare. Cento metri più in basso il fiume sembra respirare più a fondo anche lui.

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ORA CONOSCO IL SIGNIFICATO

delle diverse posizioni del Buddha. Ora so che il Mekong è lungo più di 4.000 chilometri. Ora so che alle ragazze di qui piacciono i nasi lunghi e sono curiose di noi. Ma la legge vieta qualunque relazione tra laotiani e stranieri. Meglio così, o forse no.

ANCHE QUESTA MATTINA

mi sono svegliato al suono del gong che segnala il giro mattutino dei monaci. Anche questa mattina piove. Per un periodo il governo ha vietato ai laotiani di fare l’elemosina ai monaci, che sono stati costretti a infrangere i precetti del Buddha e si sono messi a coltivare orti e allevare animali per sopravvivere. Poi la pressione popolare ha ripristinato la millenaria tradizione.

QUANDO TRATTIAMO

i prezzi al mercato, tra me e loro si svolge una commedia fatta di sospiri e risate complici. Capiscono subito che non sono un osso duro, così si rilassano e si divertono a rosicchiarmi con calma. E a me bastano due sorrisi dolci come il miele della foresta per farmi felicemente truffare.

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VIENTIANE DALL’ALTO

sembra tutta allagata. Ogni donna ha un sorriso per noi. Ogni sorriso ha dentro sorpresa, curiosità, noia e forse lacrime.

IN UNA LIBRERIA: bandiera con la falce e il martello e il ritratto del Buddha sotto l’albero nel momento dell’illuminazione.

AL TRAMONTO, SUL MEKONG, DEJA VÙ DI UN SENTIMENTO VISSUTO A PHNOM PENH. NEI POCHI LOCALI APERTI DI NOTTE, UNO STRANO MIX DI ESSERI UMANI: SOLITARIE VIAGGIATRICI DEL NORD EUROPA, IMPROVVISATE PROSTITUTE, VECCHI FRANCESI FACCE DI MERDA CON ACCANTO IL FIDANZATINO LOCALE, UOMINI DI AFFARI FINITI QUAGGIÙ PER FARE UN LAVORO CHE ODIANO. 359

OGGI È UN GIORNO DI FESTA DEDICATO

AL BUDDHA, la città è piena di fiori e smog. Intorno ai templi vogliono fare le foto ricordo con noi, timidamente entriamo nel ruolo delle star. Poi ci fermiamo a mangiare, puzza dal tombino, cameriera nana e pesce dalla polpa bianca.

QUANDO LI FOTOGRAFO, MI RINGRAZIANO.

Scatto in controluce le sagome dei lavoratori lungo le banchine del Mekong. Il sole va giù rapido ma poi sulle larghe sponde il riverbero continua a tenerci compagnia. La prima stella della sera fa la sua apparizione solitaria e io le raccomando i miei figli e i miei cari. Puzza di pesce affumicato offerto da donne allo stesso modo cucinate dall’esistenza. Un bruto fa volare gentile un leggero aquilone e io salgo in camera a preparare il bagaglio.

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ENJOY YOURSELF (INDONESIA, 2017)

UN VECCHIO E UN BAMBINO SBADIGLIANO

ALL’UNISONO. Nessun riflesso nelle torbide pozzanghere di Jakarta. Il tempo di fare la conoscenza e stringersi la mano con la città dei tredici fiumi, che è già ora di lasciarsi. Bella o brutta? Non ho risposte, anzi sì. Per me non esistono città brutte, non riesco proprio a dare un giudizio negativo su nessuna città al mondo. Sono contento di essere stato qui. Fosse anche solo per aver visto quei due sbadigli di cui alla prima riga.

DALLA STAZIONE DI DURBIT, parte il treno che in otto ore e qualcosa, mi porterà a Yogyakarta. I vagoni sfiorano le baracche dei sobborghi e sul fondo i grattacieli che spuntano come amanite, da una notte all’altra. Gli ultimi templi del junk food con le loro insegne universali si alternano ai minareti. È vero, non è la prima volta che li incontro insieme, ma Asia e Islam, continuano ad essere per me una coppia male assortita. Iniziano le pianure allagate, i quadrati delle risaie, uomini e donne piedi nel fango, schiene curve e la testa, spero, tra le nuvole. Cielo bianco, scatto

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qualche foto senza infamia e sicuramente senza lode. Niente esalta di più la mia amata pesca di attimi che un treno in lenta corsa. Così metto nella rete dei miei ricordi quattro donne sedute in pausa pranzo, su di una isoletta di due metri quadri, circondate da campi allagati e ore di stremante lavoro. Un ragazzino con il suo cane, mentre cerca di togliergli qualcosa di bocca, devono essere inseparabili. Ogni tanto una palma. Due o tre uomini che bighellonano lungo i binari morti. Sciami di motorini fermi di fronte alla sbarra del passaggio a livello. E poi, lo sguardo affascinato di un bambino, fermo con la sua bicicletta scassata, che osserva il nostro treno passare, come se fosse la prima volta. E io so e lo sa anche lui, che non è così. Mi domando se scrivere sia l’unico modo per non farle fuggire via queste immagini. Queste sette oche che mi sfrecciano davanti mentre fanno la spesa su di un cumulo di rifiuti.

UN TEMPO L’ALFABETO INDONESIANO

era uno dei tanti irrisolvibili enigmi del continente Asia, ma ora è come il nostro. Così leggere e pronunciare i nomi dei villaggi e delle città che attraversiamo è quasi possibile. Sembra di viaggiare in un vagone frigorifero. L’aria condizionata, status simbol per eccellenza di queste latitudini, dà sfoggio di sé. Come fantasmi, appaiono all’orizzonte i primi

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vulcani, di cui non so il nome. Ogni tanto chiudo gli occhi, ma li riapro in fretta. Ho paura di perdermi qualcosa. Ma le risaie e i campi allagati sono lì ad aspettarmi. Come la vecchia motorbike che riposa sotto un albero solitario, mentre il suo legittimo proprietario fatica sotto il cappello a pagoda. Tra meno di un mese sarò in Senegal. Che vita, la mia vita, dopo qualche ora è tempo di raccolta. Qui i campi e le risaie sono verdi. Appesi a quattro canne di bamboo, teli simili ad acquarelli dipinti su carta velina regalano quadrati di ombra ai contadini e a me un nuovo paesaggio. I vulcani approfittano del mio sguardo perso altrove per fare qualche passo avanti. Sul monitor del vagone, music video di produzione locale, con tanto di sexy protagoniste, scorrono davanti ai miei occhi e a quelli della mia anziana vicina musulmana. Vorrei essere nella sua testa. Ci arrampichiamo verso Kretek e ora sono le terrazze a ospitare le piantagioni di riso. Tre raccolti l’anno, a ciclo continuo. Entriamo nella foresta di Java e ne usciamo tra bamboo giganti, banani e alberi meravigliosi. Quassù, il paesaggio si fa più bello e così anche le scene di lavoro sembrano più dolci e poetiche. Guarda quell’uomo di profilo sull’orlo della collina, il corpo riflesso nell’acqua dello stagno! E poco più in là, una coppia di bufali fa i fanghi come in una spa di lusso. Saliamo ancora e qui il riso è già nei sacchi. Gli uomini se lo passano mentre una bambina fa l’altalena su di uno straccio sotto a una tettoia di foglie di palma. L’andatura, sessantacinque

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chilometri l’ora (non è quella dello Shinkansen giapponese, eheh) ti lascia il tempo per goderti anche la vista di quell’uomo accovacciato tra i cespugli mentre fa la merda. Il lavoro è quasi tutto manuale. L’unico aiuto meccanico l’ho visto in pianura, una vecchia motozappa capace di farsi strada nel fango. Se la mia scrittura traballa non è colpa della Bintang, la birra locale all’aroma di limone che mi sono scolato, ma del nostro trenino che arranca sui tornanti. Attraversiamo e poi costeggiamo un fiume gonfio d’acqua. La stagione delle piogge è appena iniziata, se è così incazzato oggi, cosa diventerà tra poco? Stiamo scendendo verso la costa opposta al nostro punto di partenza. Ai piedi di un immenso ficus una manciata di piccole lapidi come frutti caduti e marciti a terra. Siamo a Yogykarta. Mi ricorda un po’ Siem Rep in Cambogia, cresciuta grazie alla vicinanza dei templi. Faccio lo struscio serale su Malioboro Street. Botteghe e ristorantini sotto teloni di plastica. E qualche venditore che, scoperto da dove arrivi, ti snocciola il suo vocabolario italiano in sette secondi. Il tempio induista, quello buddhista e come colonna sonora la preghiera musulmana. Tutto nella stessa strada e nello momento.

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MENTRE TRASCRIVO GLI APPUNTI, MI ACCORGO DI NON AVER SCRITTO NEMMENO UNA RIGA SU BOROBUDUR E PRAMBANAN. I DUE SPLENDIDI TEMPLI CHE MI HANNO SPINTO AD ARRIVARE FINO A QUI. SONO STATI LA PRIMA RAGIONE DEL MIO VIAGGIO IN INDONESIA E IO SU DI LORO NON HO RACCONTATO NIENTE. CHE BASTARDO.

IL

GIORNO DEL MIO ARRIVO A

BALI avrei voluto che coincidesse con quello della partenza. Ovunque turisti e io così non so viaggiare. La depressione s’impossessa di me. E devo lottare per rispedirla al mittente. Decido di non avvicinarmi neppure alla costa e di andare verso l’interno. Faccio amicizia con Waigan che mi porterà in giro con il suo pick-up e che mi osserva stupito quando gli chiedo di andare dove gli altri non vanno. La pioggia mi dà una mano. E anche il calendario. Oggi è Dark Moon, giorno di festa per i balinesi. Così nei templi che visito sotto il diluvio ci sono pochi turisti e molti di loro. Salgono, in fila indiana, le donne con offerte sulla testa e abiti come fuochi d’artificio. Nel tempio

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di Tirta Empul, uomini, donne, vecchi e bambini, s’immergono in grandi vasche e si purificano sotto l’acqua che scende dalle fontane. Tremano per il freddo e l’emozione. Scatto sotto gocce benedette e chissà cosa ne uscirà fuori. Anche alcuni ragazzi australiani aspettano in fila, a occhio e croce, dalle facce, di purificarsi hanno davvero bisogno. Poi, a piedi, tra le risaie. C’è il vento, un piccolo sentiero di cemento, dove ogni tanto passa un motorino con un sorriso alla guida o una farfalla gigante. Respiro il profumo. E faccio pace con Bali. Osservo il celebre Subak, il sistema d’irrigazione che scorre generoso e democratico, da un campo all’altro, senza lasciare a secco nessuno. Nel Goa Gajah, svuotato dal temporale, entro nella caverna scavata nella roccia che custodisce frammenti del Lingam, simbolo fallico del dio Shiva e lo Yomi, il suo corrispettivo femminile. Il caffè più pregiato del mondo arriva da qui, anzi a essere precisi, arriva direttamente dal culetto del lawak, la piccola civetta delle palme. Chi vuole saperne di più si affidi a Google. Gli altri tirino fuori 200.000 rupie per berne una tazzina. Ubud, patria di artisti, così dice la Lonely Planet. Quadri, statue, batik, oggetti in legno, gioielli. Compro una piccola tela, nascosta tra mille altre, con due uccelli colorati tra le foglie. Ubud, patria di guaritori, moltiplicatisi come una parabola dopo l’uscita di Mangia, prega, ama . E fuggi! Aggiungo io. La patria dello yoga, se mai ha avuto un’anima se l’è

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venduta. Ma se sei fortunato e curioso, quell’anima da qualche parte la puoi ancora incontrare. Oggi attimi di bellezza e qualche istante di magia. Soprattutto sotto la pioggia. La celebre danza delle ballerine dagli occhi sbarrati e le mani al cielo. I miei occhi si socchiudono e provo un’immensa invidia per i tre randagi che a pochi metri da me sognano beati. Nel Monkey Forest Sanctuary di Padangtegal, mi trovo alla fine del giorno, confuso in una lunga fila di donne arcobaleno e uomini con il fazzoletto bianco sulla testa e i bambini in braccio. Mi siedo accanto a un drago di pietra decorato di muschio verde brillante e scatto dal basso verso l’alto. La mia macchina fotografica è assolutamente essenziale. La stessa usata dal mio amato Daido Moryama, ma riesco comunque a incasinarmi. Grande è la confusione sotto il cielo di Bali. La situazione dovrebbe quindi essere eccellente. C’è poca luce e il vento porta scrosci di pioggia, cambio impostazione, l’obiettivo si appanna e ogni tanto da un errore esce fuori l’immagine capace di raccontare qualcosa. Le scimmie dominanti litigano tra loro, nel mio zaino la statuetta di Hanuman e quella di Sarasvati, la dea della conoscenza, che finirà a casa di Margherita a Bologna. Questa sera c’è il derby, mi affido alle offerte fatte… Cazzo, nel resort dove dormo c’è una piscina a sfioro sulla foresta ma non la tv via cavo che trasmette la Magica. Così a notte fonda mi affido alle notizie che

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arrivano sul mio Ipad. Inizio secondo tempo: segna Perotti su rigore e subito dopo Radja! Dopo un po’ rigore per la lazio (notare la minuscola) e poi fino alla fine su e giù per la stanza come un condannato a morte. Che bello vincere il derby! Anche da quaggiù. Sento Marghe che ha fatto una curva sud a casa con i suoi amici, poi esulto con Mattia a Brooklyn e scrivo a Chicco a Londra. La mattina dopo, ancora stordito dall’adrenalina me ne vado verso l’interno dell’isola, voglio sentire battere il suo cuore. Devo essere sincero, dopo le prime ore qui, pensavo che anche la spiritualità si fosse trasformata in uno spettacolo serale da gustare tra un piatto tipico e l’altro. Invece non è così, ogni casa anche la più piccola ha un suo family temple e ogni villaggio un tempio più grande. Lungo la strada verso il vulcano Agung, le decorazioni delle feste appena passate o di quelle che stanno arrivando fanno da cornice alle processioni con le donne in testa e gli gli uomini in coda. I fiori, le piante e gli alberi che finora avevo visto solo sulle tele di quella interminabile galleria che si snoda lungo le strade principali, ora mi circondano e accompagnano verso il tempio più antico e grande di Bali, il Pura Agung. Siamo a mille metri, salgo la scalinata principale, davanti a me brilla all’orizzonte lo specchio del mare e alle mie spalle, brontola e gioca a nascondino il vulcano. Il ragazzo che mi fa da guida lo guarda con timore e rispetto. E fa bene (tra cinque giorni erutterà costringendo 100.000 persone a lasciare i villaggi che ho appena

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attraversato). Sulla via del ritorno Waigan mi vuole far provare la fonte di acqua calda che sgorga sulle rive di un lago. Mentre galleggio pancia in su da solo nella piscina e lascio che le gocce mi prendano a schiaffi, penso che dovrei scrivere un capitoletto sui vantaggi dei viaggi nei periodi sbagliati. La stagione delle piogge ha salvato i miei giorni a Bali. Ogni temporale, ogni scroscio di pioggia, ha finito per regalarmi momenti che non dimenticherò.

SPROFONDATO NEL LETTO KING SIZE, della mia camera al 34° piano di un hotel di Bangkok, osservo rapito sullo schermo davanti a me, le immagini dei monaci che in uno sperduto lago di montagna, eseguono i movimenti ipnotici del Tai Chi. Rapito, ho scritto. Colpito e affondato dalla sindrome di Stendhal. Spero di guadagnare in questa vita meriti sufficienti a farmi rinascere in quel monastero di un’Asia antica e misteriosa. Mi alzo e guardo dalla finestra il mondo ai miei piedi. E davvero non so perché, ma alla mia mente tornano correndo a perdifiato le parole di un vecchio cinese che in un ristorante di Chinatown vedendomi mangiare da solo mi ha sorriso. Poi si è avvicinato e guardandomi negli occhi ha detto: “Enjoy yourself”.

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IN ORDINE SPARSO

(ROMA, NEW YORK, MILOS, 2010, 2011)

AVEVO UN APPUNTAMENTO CON MR. TAGORE.

E non lo sapevo. Lui paziente era lì, in attesa tra la Second Avenue e l’eternità. Io, ignaro, camminavo con un capello di paglia nero nuovo di zecca. Solo come un padreterno e orgoglioso come un padre.

LE MIE PAROLE PER UNA LEI

si stavano trasformando da poesie in vaffanculo, quando una delle tante mani di una dea mi ha spinto dentro uno shop indiano di India.

LUI NON MI È VENUTO INCONTRO.

Anzi, è rimasto nascosto sotto la sua barba, tra ritratti di mistici e divinità. Così, quando me lo sono trovato di fronte non l’ho riconosciuto e stavo quasi passando oltre, quando qualcosa mi ha di nuovo spinto sotto il suo sguardo appena velato dal vetro della cornice. Ci siamo guardati negli occhi e non ci siamo più lasciati.

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M’INCHINO DI FRONTE A CHI AMA. E NON DI FRONTE A CHI È AMATO.

IO SO PERCHÉ A ROMA PIOVE MOLTO PIÙ SPESSO CHE NEL PASSATO.

Ma quale effetto serra! Ma quale cambiamenti climatici! La verità è che il cielo ascolta le preghiere dei ragazzi pachistani che come per magia appaiono nelle strade di Roma con i loro ombrelli, non appena iniziano a cadere le prime gocce.

SULLE NUBA MOUNTAINS

ho saltato il vitello appena sgozzato e poi mi hanno augurato ogni bene frustandomi con un ramo rosso di sangue. In Guatemala per benedirmi mi hanno spruzzato in faccia l’aguardiente. In Sri Lanka sono passato tre volte sotto la pancia di un’elefantessa e poi le ho ascoltato il cuore. Le clarisse in un monastero di clausura hanno cantato per me.

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ALLA POVERTÀ E ALLA BELLEZZA. ECCO A COSA VOLGO SGUARDO E CUORE.

MILOS:

Donna Catarina mi abbraccia forte, dopo che senza parole mi ha parlato dei suoi figli che su questa terra non sono più.

NON HO FORZA, VOGLIA O CAPACITÀ

DI SPIEGARLO. L’unico che mi potrebbe capire è l’Henry Miller del Colosso dei Marussi , alle pagine 39 e 47.

E

ALLORA GLI

HO DETTO, a Bernardo, che «Con l’amore è tutto possibile. E senza amore tutto è inutile». E lui mi ha chiesto «San Paolo?», l’ho guardato negli occhi e gli ho risposto «No, io». Abbiamo riso e riso. Ma forse avrebbe fatto meglio a tutti e due piangere e piangere.

SU UN MEMOTAC TROVO SCRITTO

con la mia calligrafia: «Scrivere storia su donna pazza di amore a Pantelleria negli anni 40. Dal racconto che mi aveva fatto un’anziana intervistata in un documentario».

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ALL’IMPROVVISO È INIZIATO A PIOVERE,

il vento, le gocce sulle foglie degli olivi e poi il sole. Lo sai, quei rari momenti in cui Dio sembra essere ancora innamorato di noi. Sono uscito fuori e immemore della lontananza, ho pensato che fosse ancora innamorata di me.

C’È STATO UN PERIODO

in cui ogni mattina uscendo di casa trovavo sul tappetino fuori dal portone una merda di cane. E un periodo in cui, ogni notte, mi curavo con le storie zen. OGGI HO RISO CON I MIEI FIGLI A CREPAPELLE.

C’È PIÙ AMORE E RISPETTO E CORAGGIO

in chi ha la forza di dire «Non ti amo più» che in chi dice «Ti amo».

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E SE QUALCUNO MI CHIEDE «L’HAI IMPARATA LA LEZIONE?», COME UNO STUDENTE IMPENITENTE IO RISPONDO NO E ANCORA NO. NON L’HO IMPARATA LA LEZIONE. 379
382 IL MARK CHE HA ILLUMINATO LA MIA VITA NON È IL FONDATORE DI FACEBOOK MA MARK TWAIN. LE SUE PAROLE SONO IL POST CHE VORREI PUBBLICARE SULLA BACHECA DI CHI PASSA L’ESISTENZA CONDIVIDENDO IL NULLA. «TRA VENTI ANNI SARETE PIÙ DELUSI PER LE COSE CHE NON AVETE FATTO CHE PER QUELLE CHE AVETE FATTO. QUINDI MOLLATE LE CIME. ALLONTANATEVI DAL PORTO SICURO. PRENDETE CON LE VOSTRE VELE I VENTI. ESPLORATE. SOGNATE. SCOPRITE».

UNA STORIA DEL SUD. UNA STORIA VERA.

Un ragazzo di 19 anni, un ragazzo a posto, vuole fare un regalo alla sorellina. Un cucciolo, gli vuole prendere. Allora insieme al cugino va da uno che i cuccioli di razza tiene. Mille euro quello chiede. E loro gliene offrono cento, che sono sempre cento euro. Ma quello dice nisba e tanti saluti alla sorellina. Allora i due cugini se vanno ma poi la rabbia gli monta e ritornano e il cucciolo se lo prendono di nascosto e corrono via. Sono veloci sono, pure con il cagnetto tra le braccia. Ma le pallottole di una 38 special corrono di più e prendono alle spalle e alla testa il ragazzo a posto, quello che voleva fare il regalo alla sorellina. L’altro, il cugino, scappa. Pianti disperazione di tutta la famiglia. Ma poi poco a poco i familiari dell’assassinato iniziano a rinfacciare al cugino di essere fuggito, di essere vivo. E alla fine sapete che fanno? Lo uccidono, così adesso siamo pari. E la sorellina e il cucciolo che fine avranno fatto, questo lo giuro non lo so.

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I MIEI FIGLI AFRICANI (KENIA 2010)

HO SBAGLIATO MOLESKINE.

Scrivo su pagine che un padre cartaio crebbe per darle in sposa a un pittore o a un maestro di acquarelli e non a uno scribacchino come me. La penna si muove su questa carta ruvida ed è l’unico rumore oltre al respiro dei miei tre figli che dormono il primo sonno africano della loro vita.

OGGI HO VISTO NEI LORO OCCHI

la gamma delle emozioni schierata al gran completo. Arrivare in Africa e qui a Kivuli, in questo incrocio tra una casa d’accoglienza per bambini di strada e un centro sociale, nel cuore di uno degli slum di Nairobi, non è avventura da poco. Per nessun cuore, anche se di pietra. Figuriamoci per loro, che sono cresciuti con le mie partenze e i miei ritorni, i miei racconti e i miei silenzi.

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MENTRE LENTAMENTE CI INOLTRAVAMO

nello slum, Margherita mi ha detto: «Mi sembra di stare dentro a una foto». Rapita, in senso non solo figurato. Mattia e Francesco, in silenzio, guardavano, osservavano, vedevano. In pochi minuti, hanno assorbito quello che molti non conosceranno in una vita intera.

LE FINESTRE

delle nostre camere affacciano sul cortile di Kivuli, altre sullo slum. «Che vista stupenda!», ha commentato Margherita come una turista soddisfatta del primo sopralluogo in una suite a cinque stelle.

MENTRE SCRIVO, sul filo elettrico che passa davanti alle nostre finestre, uccelli colorati si danno il cambio. Dietro di loro quattro bambine corrono con un cane di cui riesco a vedere le costole, una donna con il suo piccolo sulle spalle, due uomini bruciano non so che. Non è l’Africa calda, l’Africa sole. Il cielo in questi giorni è grigio e fa quasi freddo. Nel cortile un camion con la scritta Fast and Efficient svuota la fossa settica, bambini giocano a calcio e Margherita si sveglia dicendo: «Oddio che paura! Credevo di essere ancora a Roma».

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È UN PERIODO DIFFICILE

per la vita nello slum, i ragazzi più grandi ci parlano di morti, scorciatoie da non fare e notti dangerous. Ma aspettare è inutile e i miei figli sono pronti per il primo giro a piedi tra Riruta e Kawangare.

È UNA VITA CHE ASPETTAVAMO

QUESTO MOMENTO, FINALMENTE MANTENGO LA PROMESSA FATTA TANTI ANNI PRIMA: «UN GIORNO ANDREMO INSIEME A SCOPRIRE L’ALTRO MONDO».

I BAMBINI IN STRADA ci chiedono a ripetizione «Au are you?», «Au are you?».

Tre bambine hanno sequestrato Margherita e le vedo chiacchierare fitto fitto. Mi dirà poi che le hanno raccontato di padri morti, di vita sulla strada e del miraggio scuola. Mattia e Francesco camminano fianco a fianco dei loro fratelli africani e scattano foto quando e dove si può scattare.

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ARRIVA LA SERA, si accendono i lumini delle baracche e dei piccoli negozi. Ecco la macelleria e la clinica che promette circoncisioni indolori, galline e patate nelle ceste e le insegne fatte a mano che ho sempre amato: la bottega “Miracle Shop”, l’internet Point “Jesus is my provider”, il minuscolo bar sport “Wembley Arena”.

RIFT VALLEY, nebbia e pastori tra nuvole di polvere, i babbuini, le prime amatissime giraffe. Osservo gli occhi dei miei figli che osservano un uomo solo sotto un albero nella pianura. Ultimi avamposti di civiltà con pompe di benzina in perenne manutenzione, denti di leone prima tra mani masai e ora al collo di noi tutti, camion in panne e uomini sdraiati sotto euforbie grandi come querce e il sole che dice «Yambo!».

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UN UOMO SPOLVERA IMPERTERRITO LE SCARPE DEL SUO BANCHETTO ASSEDIATO DALLA POLVERE. OGNI TANTO INCROCIO LO SGUARDO DI QUALCUNO CHE HO GIÀ CONOSCIUTO IN PASSATO, CHE MI RICONOSCE E SORRIDE. TROVO TRA I MIEI APPUNTI LA SEGUENTE DICHIARAZIONE AUTOGRAFA: «UNA GIORNATA BELLISSIMA».

LA NOSTRA JEEP RUTTA IN CONTINUAZIONE,

non ci mettiamo molto a capire che a Narok il benzinaio, come un oste furbacchione, ci ha servito gasolio annacquato. Siamo costretti a fermarci in un luogo non luogo.

DIECI EDIFICI BASSI, indecisi sulla loro destinazione di case, negozi o baracche. Macchie di colore in lontananza ci dicono che è mercato. Solo masai qui, niente turisti. Solo merci per loro: sapone, semi e qualche vestito impolverato. Le collane, i bracciali, non sono in vendita sulle stuoie ma orgogliosi al collo e ai polsi delle donne. Le più anziane ci salutano, le più giovani non vogliono essere fotografate. O meglio, come ogni modella che si rispetti, per ogni scatto vogliono essere pagate. Assistiamo all’acquisto di quattro pecore caricate e poi scaricate e poi caricate di nuovo nel portabagagli di un’auto la cui marca dirvi non so.

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COMPRO UN BASTONE,

tra le risate generali. Poi facciamo amicizia con un piccoletto fantastico, timido, curioso e dolce come l’ananas che mangeremo la sera. Se potessi adottarlo, senza tanta pallosa burocrazia, firmerei ora. E i miei figli sottoscriverebbero. Così lo chiamiamo “il Palombino” e di lui non ci dimenticheremo.

QUANDO RIPARTIAMO, BENEDICO IL CONTRATTEMPO CHE CI HA SPINTO FUORI ROTTA E DENTRO A CENTO STORIE CHE ALTRIMENTI NON AVREMMO CONOSCIUTO.

NELLA GRANDE PIANURA

che porta nel cuore del Mara, gli avvistamenti degli animali aumentano. Il vento alza nuvole di polvere, così i pastorelli appaiono e scompaiono come in un gioco illusionista. Poi, finalmente, arriviamo al campo. È semplice, fatto di tende militari. Nemmeno lontanamente imparentato con i lodge super fashion. Le guardie kikuju vigilano attente. Non abbiamo capito se il pericolo sono le jene o qualche ladro ridens.

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IN PIEDI NEL NOSTRO PICCOLO MATATU,

circondati dai campi gialli e vento e niente più, mi sento con tutto me stesso qui. L’Africa degli spazi immensi o della follia inquinata degli slum, mi fa provare amore per la vita. La continua sensazione d’incertezza e precarietà, mi spinge al presente, all’attimo adesso. Mi porta a dimenticare progetti e a cancellare il passato. Mi costringe a essere ora. E ora è così bello.

INCONTRIAMO

DUE GIOVANI

MASAI, sono dipinti, hanno lance e gambe lunghissime. Un uomo che parla qualche parola di inglese ci dice che stanno per andare nel bush dove resteranno per mesi, fino a quando non impareranno a cacciare i leoni e a conoscere gli spiriti.

SONO LE 18,15 DEL 14 AGOSTO DUEMILADIECI.

A Nairobi, nello slum di Riruta, nel Kivuli center per ragazzi di strada creato dai miei amici di Amani. Vedo Mattia giocare a calcio tre contro tre, Chicco suonare i bonghi con altri cinque ragazzi, Margherita con in braccio una piccoletta e mi sento un re.

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HO COMPIUTO MEZZO SECOLO

con i miei figli e i figli di nessuno dello slum di Kibera. Ndugu Ndogo si chiama la piccola casa che ospita i bambini segnati da abbandono, miseria, maltrattamenti, morte. È un luogo meraviglioso, pieno di vita, cresciuto grazie a padre Kizito, a Gianmarco Elia e a tutti i volontari di Amani. Qui abbiamo parlato, cantato, mangiato la torta, giocato a pallone e alla fine, pianto.

E ORA, AL RITORNO, chi ci chiederà sorridendo «Au are you?». Chi mi stringerà la mano ripetendo divertito il mio nome e scandendo emozionato il suo? Chi m’inviterà a entrare nella sua casa grande come un letto, con un inchino che nemmeno il re dei re ha ricevuto mai? Quale bambino mi stringerà la mano e camminerà con me?

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CHI SARÀ SUL CANCELLO A SALUTARMI A OGNI PARTENZA E AD ABBRACCIARMI A OGNI RITORNO?

CHI SENZA AVERMI MAI VISTO PRIMA E CON LA CERTEZZA DI NON VEDERMI MAI PIÙ MI OFFRIRÀ IL SUO AIUTO?

Chi mi dirà «God bless you»?. Chi osserverà ammirato i miei palleggi e le mie mezze rovesciate?

Chi si metterà in posa di fronte al mio obiettivo? Chi sarà capace di diventare in un pomeriggio fratello dei miei figli e sorella di mia figlia? E niente uccelli a cantare e tamburi a suonare e niente cori di donne a buttarmi giù dal letto la mattina. E nessuna stanchezza di polvere e slum a spingermi nel letto alla sera.

ADESSO CHE TORNEREMO, quanto resisterò prima di decidere di tornare ancora?

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NUVOLE E MESSICO

SERGIO SEMBRA UN TORO, MA CON GLI OCCHI TIMIDI DI UN CERBIATTO.

Prima di cominciare a parlare guarda la moglie Maria Guadalupe. Otto innocenti anni passati in un carcere inferno. Venditore ambulante di origine india. Portato via all’alba dalla sua baracca, tra le urla disperate dei figli e i perché della moglie. Da uomini senza divisa, distintivo e pietà. Accusato di omicidio. Torturato e costretto a firmare una confessione di sangue. La madre morta di dolore. La moglie e i figli sopravvissuti alla fame e alla disperazione. Ero vivo ma ero morto, mi dice. Poi l’incontro con i volontari del PRODH e con una giovane avvocatessa dai capelli neri che riesce passo dopo passo a smontare accusa, processo e sentenza. SCENDONO

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LE LACRIME SUL VISO DI MARIA GUADALUPE, SONO LIMPIDE COME QUELLE DI UN TORRENTE. DEVONO AVERE IL SAPORE DELLA LIBERTÀ.

MA NON HO IL CORAGGIO DI CHIEDERGLIELO. IL LORO LEGAME È ACCIAIO.

Mi sorprendo a immaginare la loro prima notte di amore dopo tanto dolore. Le cicatrici e le ferite invisibili di lui che trovano pace nelle carezze di lei.

SIAMO IN UNA VECCHIA PARILLERIA E LA LUCE, COME UN CLIENTE ABITUALE, ENTRA SENZA CHIEDERE IL PERMESSO E SI VA AD ACCOMODARE AL SUO TAVOLO PREFERITO.

Fuori scorre la vita di Ciudad de Mexico. Accanto a me Sergio e Maria, davanti Diana e l’avvocatessa. Il figlio mangia e ogni tanto guarda il padre, come a sincerarsi che non si tratti di un’apparizione. IN VIAGGIO

VERSO HUAYACOCOTLA, STATO DI VERACRUZ. INCROCIAMO UOMINI E DONNE, VECCHI E BAMBINI. A PIEDI, A CAVALLO, DA SOLI O IN PICCOLI GRUPPI.

TUTTI HANNO QUALCOSA IN COMUNE: UN’IMMAGINE DELLA VIRGEN DE GUADALUPE.

Che sia un quadro, uno stendardo, una coperta, una statua o una maglietta, la madre di Cristo cammina

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insieme a loro. Il 12 dicembre si avvicina e la grande celebrazione richiama nella capitale oltre tre milioni di pellegrini.

DOPO QUATTRO ORE, SUPERATE LE PIRAMIDI ATZECHE, IL PAESAGGIO CAMBIA E SALIAMO TRA BOSCHI E NEBBIE VERSO LA NOSTRA

DESTINAZIONE.

Una piccola radio che tiene unita una grande comunità campesina. Gesuiti illuminati ci parlano di lotte per la terra, delle minacce dei narcos, di vivai e piaghe che devastano le coltivazioni. Insomma, delle vittorie e delle sconfitte. Alle loro spalle un grande murales sembra seguire passo passo le loro parole come le tavole di un canta storie. Domani all’alba partiremo per i villaggi più isolati, dove molti parlano solo l’otomì, l’idioma di indios da sempre discriminati e costretti a fuggire verso l’interno, verso la sierra. Ci vorranno cinque ore all’andata e sei a ritorno. Di strada sterrata e curve tra nebbia, dirupi, nuvole e frane. Non vedo l’ora di essere lì. Ora sono nella mia stanza in un ostello di mattoni e legno. Fa freddo, siamo a 2.200 metri. Mi infilo nel sacco a pelo e provo a mandare a Margherita un video con i Voladores de Paplanta. Forse le può servire per la tesi o per farle allegria.

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“YO NO SOY PERSONA”. ECCO COSA SPESSO

I MISSIONARI SI SENTIVANO DIRE DAGLI INDIOS DURANTE I LORO PRIMI INCONTRI COMUNITARI.

Abituati a essere trattati e braccati come animali, non avevano coscienza della loro condizione di essere umani. Dopo una giornata spesa nel villaggio, tra riunioni di comunità e foto con i bambini, mi viene da pensare che io non sarei persona, la stessa persona, se non avessi vissuto giornate così.

SONO PASSATI I GIORNI DEI SOPRALLUOGHI

E POI QUELLI DELLE RIPRESE. ORMAI A HUAYA

CI SENTIAMO A CASA.

E la gente del mercato ci saluta. Mi avvicino a padre Alfredo per dirgli adiós. Lo interrompo mentre sta applicando del nastro adesivo nero sulla fiancata della sua vecchia Volkswagen. Lui si gira per darmi la mano. Allora gli chiedo cosa stesse facendo e lui dopo un attimo di esitazione stacca il “cerotto” appena messo al suo maggiolino e mi mostra la ferita: il buco di un proiettile sparato la notte precedente, mentre uno dei padri stava tornando a casa. Se qualcuno vuole sapere che cosa pensano i narcotrafficanti del lavoro dei missionari nelle comunità più povere del Messico, ecco la risposta.

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PIOVE E INIZIA A FARE SERA. PROPRIO QUELLO

CHE DOVEVAMO EVITARE.

Scendere lungo i tornanti rompicollo che conducono dritti dritti (freni permettendo) alla tana di uno dei tre cartelli più feroci e potenti del Messico, a quest’ora e con questo tempo. Orizaba avrebbe altro da offrire, ma qui come in tutto il resto del paese dal 2006 è iniziata la guerra. Ogni giorno cadono vittime innocenti e no. Ogni giorno scompaiono donne e bambine. Ogni giorno è un giorno da vivere nella paura.

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NON
DI UNA SERIE PRODOTTA DA NETFLIX.
NARCOS QUI
È IL TITOLO

E, ALL’INTERNO DI QUESTO QUADRO NON

PROPRIO RASSICURANTE, CI SONO ALCUNI PUNTI SEGNATI IN ROSSO PERICOLO.

E uno di questi è proprio Orizaba. Per intendersi: quando si accendono i lampioni inizia il coprifuoco, le ragazze che vivono nell’orfanatrofio che siamo venuti a visitare, non possono uscire dal cancello e le suore insistono per accompagnarci anche per percorrere i duecento metri che ci separano dal nostro albergo. Il rischio dei sequestri è altissimo.

DUE GIORNI FA HANNO ASSALTATO UN’AUTO PROPRIO QUI DAVANTI ALLA SCUOLA

E UN UOMO È MORTO.

E l’omicidio non ha certo fatto scalpore. Nei primi tre mesi dell’anno ce ne sono state altre 4.000 di notizie così. Cerchiamo di spiegare alle suore che siamo abituati. Ma il mio sesto senso mi dice di non fare troppo lo sbruffone. La scuola e il dormitorio sono bellissimi e le ragazze allegre ed emozionate dalla nostra visita. Prima timide, poi sempre più curiose. Mangiamo insieme nella grande palestra (poi giocheremo a calcio e a pallavolo e risponderò a migliaia di domande su tutto lo scibile umano) e ci dedicano uno spettacolo che ci fa battere le mani e scendere le lacrime. Le guardiamo, pensando a quello che poco prima la madre superiora ci ha raccontato delle loro vite. Quasi tutte vengono da

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villaggi sperduti alle pendici del grande vulcano. E lì che le sorelle, incuranti di minacce e pistole puntate alla tempia, si avventurano ogni anno per convincere le famiglie che non possono mandare le figlie a scuola ad affidarle a loro. Hanno alle spalle, alle loro piccole spalle, storie di miseria e terribili abusi. Quando arrivano qui, molte hanno già perso la voglia di vivere. E psicologhe e suore fanno un lavoro meraviglioso per portarle di nuovo a sorridere. Questo dà fastidio al narcotraffico che spesso per queste ragazze ha già deciso un destino da prostitute. Un business in grande crescita, insieme a quello del commercio dei clandestini. Obrador, il presidente appena eletto, ha promesso di mettere fine a tutto questo. La gente tiene il fiato sospeso e spera o fa finta di sperare.

ARTURO HA LAVORATO CON NOI DURANTE

LA PRODUZIONE.

Mentre facevamo i sopralluoghi nei barrios più antichi di Città del Messico, quelli sulle colline, ci ha indicato una vecchia casa poggiata sopra un’altra e un’altra ancora e ci ha raccontato una storia. Lì abitava sua madre e ha vissuto anche lui. La donna, molto anziana, ha subito da poco un’operazione e le hanno dovuto amputare una gamba. Ieri Arturo è andato a trovarla in ospedale e lei sorrideva.

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ERA FELICE PERCHÉ IL MARITO

ERA ARRIVATO ALL’ALBA E L’AVEVA PORTATA CON SÉ A ZITACUARO, A VEDERE GLI ALBERI DI MANGO. ED ERANO PIENI DI FRUTTI, BELLISSIMI!

“OH ARTURO, FIGLIO MIO, CHE GIORNATA MERAVIGLIOSA CHE È STATA! C’ERA IL VENTO E LUI VOLEVA PORTARMI VIA CON SÉ MA IO GLI HO DETTO CHE NON VOLEVO ANDARE, NON ANCORA”.

Il padre di Arturo è morto 21 anni fa e lui ha gli occhi lucidi mentre ci dice che ai piedi del letto della madre c’erano come sempre le sue ciabatte. Ma questa volta erano sporche, sporche di terra. Tornato a Roma, ho saputo poi che la madre è morta solo un paio di giorni dopo. Ha voluto Arturo accanto a sé e gli ha raccomandato di avere cura di fratelli e figli. E che ora voleva andare, andare via. E’ così è andata, mi scrive Arturo. Con lo stesso sorriso che l’ha accompagnata ogni giorno della sua vita. E in quella passeggiata sul sentiero dei morti.

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LE MIE VITE A BANGKOK E ALTRE STORIE THAILANDESI (2010-2013)

IO, UOMO CHE PER AMORE HA PIANTATO ALBERI DI TIGLIO.

Io, che ho celebrato il rito purificatore di andare a baciarsi in tutti i luoghi dove avevamo litigato. Ed era stato, a essere sinceri, un lungo pellegrinaggio. Io, adesso di nuovo in viaggio. Non per dimenticare, ma per meglio ricordare me stesso. Per avere la forza e la saggezza di dire finalmente a un amore finito: «Riposa in pace».

LA FINESTRA DELLA MIA CAMERA SI AFFACCIA SU UN PANORAMICO MURO.

Così, quando i tuoni rompono il silenzio, la gente che corre al riparo me la devo immaginare.

NON VOGLIO FARE LA FINE DI QUESTA DOCCIA.

In qualunque direzione giri la leva del rubinetto, l’acqua che scende ha sempre la stessa temperatura. Non voglio. Su e giù per il mondo, per poi sentirmi tiepido.

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BANGKOK FINO AD OGGI PER ME ERA STATA

UN PICCOLO SLUM SUL CANALE, dove tre anni prima avevo girato la storia di suor Angela e dei suoi poveri. Ci ero arrivato dalla Cambogia, da una regione dove sottoterra era più facile trovare teschi che acqua. Sono curioso di scoprire che cosa avrà in serbo per me, questa volta, la città degli angeli. Un viaggio senza un lavoro da portare a termine. Da quanto non mi accadeva?

MENTRE BERNARDO ED IO CAMMINIAMO SU E GIÙ

PER KAU SAN ROAD INVASA DALLA MUSICA DEI LOCALI, MI SENTO COME L’AGO PASSATO IN RAPIDA RASSEGNA TRA LE STAZIONI DI UNA RADIO.

PER LA PRIMA VOLTA IN VITA MIA, ME NE VADO

IN CERCA DELL’ISPIRAZIONE.

“Primum vivere”, sto tatuando dentro di me, prima di decidermi a farlo sulla pelle. Seduto su uno sgabello, mentre un Dylan del Siam canta Is not for you , inizio a scrivere parola dopo parola, esitante. Come un miracolato che si alza dalla sedia a rotelle e muove i primi passi.

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“PRIMUM

VIVERE, DEINDE

PILOSOPHARI”. OKKEY, OKKEY, “PRIMUM VIVERE”.

L’ARIA

È IRRESPIRABILE. SE IMPARI

A RESISTERLE, TUTTO IL RESTO DIVENTA SOPPORTABILE.

Anche la solitudine o la perdita dell’anima. Scrivo, e qualche goccia solitaria precipita sulle pagine, trasformando in acquarelli le mie parole. Così a confusione si aggiunge confusione.

AL COLLO, UN BUDDHA CHE UN MONACO IN AMULET MARKET HA SCELTO PER ME. DI NOTTE CONTINUO A SVEGLIARMI DI SOPRASSALTO.

NEI BAR DI KAU SAN ROAD LE PARTITE DEL MONDIALE CONTINUANO A OCCUPARE

GLI SCHERMI, in spregio a ogni pretesa di attualità. Il tempo qui non è fermo. Semplicemente non esiste. Che ora è? Che giorno è? Domande che nessuno fa e che ho iniziato a non pormi nemmeno io. Penso a quanto sono cambiato. A quanto è cambiata la mia vita. Non so se ho deciso tutto io o tutto lei. Forse abbiamo fatto fifty fifty come due bravi compagni di viaggio.

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IL GIN TONIC SOPRA IL MIO TAVOLO INIZIA DARE SEGNI D’INSOFFERENZA MENTRE UN MATTO

GONFIO DI ANFETAMINE FA SU E

GIÙ TRA I BANCHI DI RAMBUTRI. SEMBRA IL MIO INCONSCIO.

CHI NON È THAI È UN FARANG. CERCHERÒ DI ESSERE MENO FARANG POSSIBILE.

LA CHINATOWN DI BANGKOK È IMMENSA.

Quelle di New York o Londra al confronto sembrano attrazioni di Euro Disney. Uomini, pesci, granchi, topi. Tutti mangiano tutto, ovunque. Sul fondo di vicoli bui appaiono le donne di malaffare illuminate da una sigaretta. Anche quella rigorosamente made in China. Un tempio e poi una casa di legno un tempo dipinta di bianco, dove potrei vivere. Ogni sera c’è il nostro tavolo, dove la nostra amica cameriera Big ci conduce per mano.

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BAMBINI CURIOSI SI FANNO CORAGGIO

E VENGONO A DARMI IL CINQUE.

Tuc tuc e motorini fanno zig e zag tra le bancarelle cariche di tutto quello che il dio uomo è riuscito creare. Il vecchio boss della zona, con un collare ortopedico al collo, ci passa davanti seduto sul sedile posteriore della sua lussuosa autovettura. Una cameriera gli offre al volo con un bell’inchino un pesce appena cotto e impacchettato.

SUKUNVIT È UN ALTRO FILM. UN FILM CHE NON RACCOMANDERESTI A NESSUNO.

Ma che alla fine ti vedi fino in fondo. Dalle porte scorrevoli degli hotel donne velate di nero camminano in fila indiana come formiche. Verso quale zucchero non lo so. Invece so verso quale dolce zucchero nero, verso quali dolcezze africane corrono i mariti nei loro camicioni bianchi.

LE RAGAZZE THAI SONO BELLE.

Bernardo come una guida tuareg mi spiega che il confine tra uomo e donna qui è come un confine tracciato nel deserto. Difficile stabilirlo con certezza. Mai fidarsi degli occhi. La voce invece, dice quasi sempre il vero.

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PER L’INFERNO BASTA SALIRE UNA RAMPA O DUE DI SCALE. DALLE PORTE S’INTRAVEDONO LE ANIME IN BIKINI DI RAGAZZE IN VENDITA. MI SENTO OPPRESSO. MESSO ALLA PROVA. FUORI POSTO. TRISTE. ANGOSCIATO. MA NON VOGLIO SCAPPARE. E NON SCAPPERÒ.

HO PREGATO CHE PIOVESSE.

Il cielo mi ha ascoltato. Se è una pioggia purificatrice, dovrà piovere a lungo.

BANGKOK

INVITA AL PERDONO,

ALL’AUTOASSOLUZIONE.

Mentre a piedi attraversi la notte, qualunque colpa tu abbia commesso, per quanto solo, sudato, perso, tu possa sentirti, c’è sempre qualcuno più colpevole, sperduto e sporco di te.

RINUNCIO ALL’IDEA DI PROVARE A ORIENTARMI NELLA CITTÀ.

Qualche punto di riferimento lo prendo, ma è come fare una tacca sul tronco di un albero nel fondo della foresta amazzonica.

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BELLO GIRARE IN SANDALI, BELLO TOGLIERLI

PER ENTRARE NEI TEMPLI E NEI LETTI.

QUESTA VOLTA NIENTE BARBA MISSIONARIA.

Lo Zelig che è in me mi spinge spesso al digiuno o al riso e pesce bollito. Così ora sono magro come un monaco.

L’UNICA CRAVATTA CHE HO VISTO È QUELLA

DEL PREDICATORE AMERICANO

che, con voce e fisico da sergente dei marines, urla i suoi divini ammonimenti sollevando la Bibbia come fosse una scure. Suda e minaccia, invitando lo stupefatto uditorio a fuggire dalle tentazioni e dal diavolo. In realtà, l’unico posseduto sembra lui.

LA WORLD METEOROLOGICAL ORGANIZATION HA

DICHIARATO BANGKOK LA

CAPITALE PIÙ CALDA DEL NOSTRO PIANETA.

HO FATTO AMICIZIA CON LA GENTE

DEL

MERCATO.

Mi sembra di essere a Porta Portese, dovunque mi giro c’è sempre qualcuno a salutarmi. Il primo è sempre il venditore di scorpioni fritti.

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SALGO I GRADONI

DEL RAJADAMNERN

STADIUM, mi sorprendo a ringraziare iddio per tutti i pazzi che ci sono al mondo.

MI SENTO COME UNO DI QUEI TURISTI CHE VENGONO A VEDERE IL DERBY IN CURVA SUD, non capiscono un cazzo di quello che succede nel campo e ancora meno di quello che accade sugli spalti ma in qualche modo ne sono rapiti. Musica continua di sottofondo che sembra conciliare il sonno più che invitare alla battaglia, suonata da una banda di anziani privi della minima espressione.

I

SETTORI DELLO STADIO SONO A CERCHI

CONCENTRICI, l’ultimo anello, quello chiuso con una rete è naturalmente il mio preferito. Qui si svolge il rito incomprensibile delle scommesse; mi avvicino fino a fotografare da pochi centimetri le banconote che arrivano e partono dalle mani degli allibratori.

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IL PUBBLICO ACCOMPAGNA I COLPI

CON UN URLO SORDO CHE DIVENTA BOATO

quando uno dei due finisce al tappeto. Prima di combattere, una lunga danza preghiera, i primi minuti di studio e poi, la guerra. Le facce raccontano coraggio, fierezza, lealtà e barlumi di paura. Si muovono su una gamba, sembrano trampolieri da combattimento. Esce zoppicando lo sconfitto. Il vincitore si mette in posa davanti al mio obiettivo e per una frazione di secondo tra le nuvole dei suoi occhi appare la luce di un sorriso.

SE MAI MI FARÒ UN TATUAGGIO, QUEL TATUAGGIO SARÀ UN SAK YANT.

Hanno origini sacre, ognuno porta con sé un significato. I monaci dei templi tatuano seguendo un antico rituale e con strumenti che si usano solo qui. Recitano i sutra mentre disegnano per te una tigre, un coccodrillo o il mio preferito: il ruesi, l’eremita.

I THAI SONO CONVINTI DEL LORO POTERE SOVRANNATURALE, ALCUNI SAK YANT

POSSONO ATTIRARTI LE ATTENZIONI FEMMINILI, ALTRI PROTEGGERTI DAGLI INCIDENTI E ALTRI DEVIARE LE PALLOTTOLE.

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ABBASSO LO SGUARDO

sui miei piedi armati di ciabatte che saltano pozzanghere colorate di petali. Sono le quattro del mattino e al Flowers Market non c’è traccia di puttanieri, fricchettoni o turisti con la guida in mano.

DOPO LA PIOGGIA E ASPETTANDO L’ALBA, MOLTI VENDITORI DORMONO,

altri intrecciano collane, dei ragazzi giocano a scacchi. Depositi ricolmi di fiori gialli, poi banchi e banchi coperti di rose incartate con le pagine di quotidiani, a profumare notizie che puzzano di guerra, morte, ingiustizie e fetida attualità.

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SE FOTOGRAFO, LE RAGAZZE SI NASCONDONO TRA I FIORI O S’IMMOBILIZZANO COME CERBIATTE ILLUMINATE DAGLI ABBAGLIANTI. SCRIVO SUL MIO MOLESKINE: «PROFONDO SENSO DI FORZA E LIBERTÀ».

IO NON VOGLIO PERDERE L’EMOZIONE.

Non voglio, come un fotoreporter di guerra, abituarmi a tutto e non pensare più a nient’altro che alla foto che mi renderà ricco o famoso. Io voglio continuare ad andarmene per il mondo come il più ingenuo degli idealisti. Voglio continuare a credere di poter dare sempre e comunque una parte di me e di poter ricevere qualcosa. Qualcosa che mi terrò dentro per sempre. Anche nei luoghi e nelle situazioni più terribili, corrotte e impossibili. Voglio che la mia luce non si spenga e voglio continuare nel buio a cercare la luce degli altri.

QUANDO LA PROFEZIA SI È AVVERATA, SONO RIMASTO SENZA FIATO.

Mi sono sentito come un fedele di fronte al suo Dio in carne e ossa. Bernardo mi aveva detto, come un vecchio fortune teller del Wat Pho: «Un giorno una donna ti toccherà il naso o forse le mani e sorriderà curiosa di te e tu come per incanto ti dimenticherai di tutto quello che oggi non riesci a dimenticare». Avevo gli occhi chiusi, ma finalmente tornavo a vedere.

LEI È LÌ,

DAVANTI

A ME. FUGGITA DA UNA MIA POESIA. MIRACOLO DA GRIDARE AI QUATTRO VENTI.

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NON C’È VENTO AD ANNUNCIARE

QUEL TEMPORALE.

Forse sono passati mesi. Forse anni. Forse non lo hai conosciuto mai quel momento. Ma poi arriva. E tu non hai parole, tanto le parole non servono.

IN BARBA ALLA DERIVA DEI CONTINENTI E ALLE POLITICHE RAZZISTE SULL’IMMIGRAZIONE,

alla faccia delle frontiere, dei metal detector, delle razze, delle religioni, degli usi e dei costumi, del turismo sessuale, del pranic healing, dei segni zodiacali e dei corsi intensivi d’inglese, io mi riapproprio della mia primitiva investitura di uomo. E parlo con occhi e mani e ascolto sospiri e battiti che nessun bisogno di traduzione hanno.

IO E TE, QUI, IN QUESTO PRECISO ISTANTE.

Mentre fuori sembra notte ma è quasi giorno e i topi prendono il comando delle operazioni tra cumuli di spazzatura e rifiuti umani, mentre i monaci si preparano a uscire per ricevere in dono da povere mani generose il loro unico pasto e i lady boy su Kau San Road si aggirano come spiritati avvoltoi sui corpi privi di volontà degli ultimi turisti ubriachi, mentre giovani freak thai e vecchi freak di professione cantano insieme Redemption song , mentre la polizia perquisisce pile in mano un ragazzo nel buio di una soy e un lui farang e una lei farang parlano e parlano senza decidersi a salire in camera, mentre il

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campione sconfitto di muai thai rivive nella testa mille e mille volte l’incontro della serata e sente i colpi diventare lividi, mentre le ragazze dei go-go bar tornate nelle loro stanze per addormentarsi prendono una dose di televisione, mentre le mama san e gli allibratori contano l’incasso della giornata e al mercato i venditori di fiori dormono con la corolla chiusa adagiata tra le braccia, mentre i guidatori di tuc tuc si toccano con le mani l’ultimo sak yant, il tatuaggio che li renderà invincibili e l’ultimo ghiaccio si squaglia negli ultimi bicchieri delle ultime bettole ancora aperte, mentre il tatuatore Jimmy Wong rifinisce una testa di scheletro sull’avambraccio di chissà chi, mentre in stanze piccole come scatole si dorme senza respirare per non consumare l’aria, mentre l’amore che era inizia a non essere più e i primi uccelli in libertà chiamano i loro fratelli chiusi nelle gabbie a forma di pagoda, mentre due ragazze olandesi si raccontano la vita che non verrà, mentre le Vespe parcheggiate una vicina all’altra sognano una vacanza in Italia e i viaggiatori zaino in spalla, lenti come astronauti sulla luna, si muovono verso i loro pullman, mentre un amico si tormenta nel dilemma se cedere al caldo o all’aria condizionata, mentre l’ambulante sordo che mi ha venduto un Buddha prega dopo essersi lavato il viso, mentre la notte muove i fianchi come un’esperta prostituta e spinge e spinge per far venire presto il suo cliente giorno, mentre, mentre, mentre, io e te, qui, in questo preciso istante.

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420 SEI TU LA MIA REGINA, REGINA DEL CIAKAIKI. A CHI POTRÒ PARLARE DI TE, SE NON A TE. SE IL MONDO FOSSE UNA STANZA SOSPESA TRA RAMBUTRI E KAU SAN ROAD, NOI SAREMMO IL MONDO. E INVECE NON SIAMO NIENTE. NELLA NOTTE MI HAI ANNUNCIATO UN MISTERO INCOMPRENSIBILE E MERAVIGLIOSO. IO SO CHE SAI. ANCHE SE ALLE MIE PAZZE DOMANDE RISPONDEVI «I DON’T KNOW» CON LA BOCCA NASCOSTA DAI CAPELLI. E MI PIACEVA QUELLA RISPOSTA PIÙ SINCERA DI QUALUNQUE RISPOSTA MI ABBIANO MAI DATO.

HA SEMINATO DENTRO DI ME. QUANDO

L’HA FATTO?

Forse dormivo, forse scrivevo. Ogni giorno da quei semi spunta un pensiero a dirmi di lei. Di quanto non ho capito. Di quanto non so.

IL CIELO È PIOMBO.

E il nostro taxi punta proprio lì. Come esploratori spaziali verso un buco nero dell’universo. Iniziano le gocce e il tergicristallo prova a rispondere, ma è una lotta impari. Inizio a fotografare e mi dimentico di tutto. Metto al mondo astratti quadri digitali. Esplosioni di rossi, arancio, verdi, tra i riflessi del finestrino e delle pozzanghere.

SEMAFORI, LAMPIONI, ABBAGLIANTI, GIGANTESCHE PUBBLICITÀ ILLUMINATE.

Un’allucinante tavolozza di colori a cui attingere. Poi inizia la città e continuo a scattare, ma quando arriviamo a Banglamphu lo spettacolo è finito. O deve ancora cominciare.

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DORME. E IO LA GUARDO DORMIRE COME NON

HO MAI FATTO CON NESSUNA DONNA PRIMA.

Respira così piano, vorrei essere dentro uno di quei respiri. Mi chiedo se la vedrò ancora, se mi mancherà. Mi sento come un uomo che sta per lasciare la terra che l’ha accolto in fuga, in esilio. E che nel momento di tornare a casa, sa che niente sarà più come prima. Né a casa né altrove.

IN LEI, ANCHE LA TIMIDEZZA. E QUANDO LE FACCIO IL SOLLETICO DIVENTA PAZZA.

TUTTO È SELVAGGIO

ESSERE UNO STEREOTIPO! NON MI ERA MAI CAPITATO DI ESSERE UNO STEREOTIPO.

IL TEMPO PASSA E LEI LASCIA I SECONDI SCAPPARE VIA

e getta via le ore come un giocatore d’azzardo con le tasche bucate, come un’ereditiera stravagante. Poi, quando alla porta busserà l’ora di andare, la troverò sul terrazzo a osservare il Wat Arun con gli occhi gonfi di lacrime.

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IL CIELO RECITA OGNI GIORNO LA STESSA COMMEDIA

che finisce immancabilmente con piogge scroscianti come applausi entusiasti.

NON MANGIO DA 36 ORE E NON HO DORMITO TUTTA

LA NOTTE. Ho vegliato su di lei malata e ora davvero sento di camminare sul benedetto presente. E su quel benedetto presente mi sdraierò a dormire.

SUL

FIUME, vicino all’imbarco dei battelli, cinque uomini anziani si bagnano nudi, si lavano la testa, parlano e ridono.

SCRIVO: «MI MANCHERÀ. E IL RESTO DEL MONDO MI SEMBRERÀ MISERO E VIGLIACCO».

IO LA OSSERVO DORMIRE DI NOTTE.

La mattina è lei che aspetta me. Poi, quando capisce che sono sveglio si avvicina e aspetta che l’abbracci. Restiamo così per ore, senza che una parola rompa l’incantesimo. Fare amore senza fare amore. E poi fare amore facendo amore.

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IL MONACO CHE CI HA BENEDETTO CI GUARDAVA CON RISPETTO.

NOI CREDIAMO, IO CREDO DI POTER

COMANDARE

LA MIA VITA.

Loro, Som, no. Non è accettazione ma constatazione. C’è qualcosa o qualcuno di più grande che decide, che decide per loro. Decide che si alzi il mare, che mandi in pezzi la barca del padre e allaghi la casa. Decide che un giorno io sarò lì, sulla strada, con la valigia in mano. A salutarla forse per sempre.

SOM PREGA, LEGGENDO DA UN PICCOLO LIBRO.

Alla fine le chiedo di tradurmi le parole e lei mi risponde che era un insegnamento del Buddha: «Hai potere, successo, denaro. Ricorda che dopo la morte non potrai portarlo con te». Me ne ricorderò.

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A VOLTE LA NOTTE SOM HA PAURA.

Se sente un rumore, se il vento entra da una finestra con forza, se sente qualcosa nell’aria. Mi dice che sono i Pii, gli spiriti. In Thailandia fanno parte della vita di tutti. Non è una credenza radicata in poche zone rurali. Som mi racconta di malavoglia che lei una volta ne ha visto uno. Io ascolto e imparo.

NEL SUD, A SONGKHLA.

La prima cosa che noto sono quattro farang disperati e vuoti come le bottiglie che hanno davanti. M’immagino che siano venuti qua pensando di dare una svolta alla vita di merda che facevano in Germania o in Inghilterra o in Italia. Mi fanno pena, ma poi ripenso alla frase letta sul cartello all’ingresso di un tempio: «Anche il fallimento può essere un successo se ti applichi a realizzarlo con costanza».

ALL’ALBA, DI FRONTE A UN MARE MORBIDO, SULLA ROTONDA DI FRONTE AL NOSTRO ALBERGO, UN’ANZIANA THAI CAMMINA TENENDO PER MANO IL SUO VECCHIO MARITO. GIRANO LENTI COME LE LANCETTE DELLE ORE DI UN IMMAGINARIO OROLOGIO. 425

IL SONNO.

Qui ho scoperto come dormire sia una vera e propria occupazione. Dormire è parte del piacere e non del dovere. Questo lasciarsi andare all’altro mondo, mi ha aperto le porte di una verità. Quel perdersi in sonni profondi, fuori dai tempi stabiliti dalla legge del nostro tempo, non accorcia la loro vita terrena. Semmai, preparandola al sonno eterno, la prolunga. Il sorriso beato dello sleeping Buddha nell’attimo precedente alla morte, sta lì a sostenere la mia tesi.

Chi m’insegnerà? Osservo Som e cerco d’imparare. Quando riapre gli occhi, c’è sempre un frammento di sbalordimento. È come se atterrasse da chi sa dove.

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POVERO ME, CON I MIEI SONNI PROFONDI COME LE PISCINE SENZA BAGNINO. UN METRO E QUARANTA ALTEZZA MASSIMA E DIVIETO ASSOLUTO DI TUFFARSI NEL BLU DELL’INCONSCIO!
O SCRIVO O SCATTO FOTO. OSSERVO E REAGISCO. ATTRAVERSO LA PENNA O LA CAMERA. NON RIESCO A FARE LE DUE COSE INSIEME.

VENTO SI DICE “LOM”.

Le case spesso sono stanze, senza cucina. Le zuppe comprate per la strada portate in buste di plastica trasparenti, come fossero pesci rossi vinti al luna park. Ogni giorno prima di uscire, il rito della vestizione: bracciale, Buddha al collo, libretto per scrivere. Cieca che canta accompagnata da un bambino, coppia di ragazze nordiche con i polpacci bianchi tempestati di punture rosse.

MI RIEMPIO GLI OCCHI

DI DIVERSITÀ.

DAVANTI, ANZI AI PIEDI DEL BUDDHA DI SMERALDO.

Laos e Thailandia se lo sono conteso a suon di morti. Ora, tra ori e ricami, ci guarda. Chissà se sta comodo lassù!

CON UN DITO SOM MI HA SCRITTO IL SUO NOME A LETTERE INVISIBILI SULLA FRONTE: «COSÌ NON DIMENTICHI».

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IMPROVVISE, ARRIVANO SULLO SCHERMO DEL TELEVISORE IMMAGINI DAL CANALE FASHION TV. Som guarda l’Italia di quegli stronzi alla moda, sorridenti ai loro party di merda. Allora le dico di fare come me e dirgli «Fuck you!». Lei ride e ride e si vergogna di dirlo.

NELLA NOTTE LA SUA MANO NELLA MIA MANO. LA MATTINA SI METTE LA MIA MAGLIETTA. CON LEI HO SCOPERTO IL SIGNIFICATO DELLA PAROLA PUDORE.

BOCCA SI DICE “PAK”, “TAA” VUOL DIRE OCCHI.

UN GIORNO MI SONO TROVATO DA SOLO IN MEZZO A QUATTROCENTO MONACI IN PREGHIERA, un altro ho visto tre studentesse sorridere timide e imbarazzate di fronte a una coppia di farang che si baciava in pubblico.

A VOLTE, IMPROVVISA, MENTRE VIAGGIO, LA MALINCONIA DI VITE PRECEDENTI MI ASSALE.

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BANGKOK

DOPO

CALCUTTA SEMBRA ZURIGO.

SONO USCITO PRIMA CHE FACESSE GIORNO, DOPO AVER SCRITTO TUTTA LA NOTTE.

Amo Banglaphu a quest’ora. Cucine di strada che aprono danze che dureranno venti ore e poi i monaci con le loro scodelle. Mi fermo a comprare del cibo per loro e poi al loro passaggio m’inchino offrendoglielo.

QUANDO

RIENTRO IN CAMERA SOM È SVEGLIA

e cerca di decifrare le mie parole sui fogli sparsi sul letto. Non c’è mai stato lettore così attento e appassionato. Allora mi siedo, prendo una pagina e inizio a raccontare.

MA SE DEVO SCEGLIERE UN LUOGO DI BANGKOK DOVE FERMARMI, DOVE TORNARE OGNI VOLTA CHE SONO IN CITTÀ, QUEL LUOGO È IL WAT PHO.

Lo sleeping Buddha immenso e a fatica contenuto dalla costruzione che lo accoglie. Il suono delle 108 vaschette, in cui ogni volta lascio cadere 108 monetine. E il gatto color oro che mi aspetta sotto l’albero per farmi le fusa e prendersi le mie carezze che lo accompagneranno nel suo nirvana.

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QUATTRO TAVOLI DI FERRO

travestiti da ristorante e gestiti da un travestito silenzioso ed elegante ci danno la forza per continuare e arrivare al Chao Phraia.

IL FIUME! NELLA MIA ORTOGRAFIA ESISTENZIALE

IL PUNTO ESCLAMATIVO UN FIUME SE LO MERITA SEMPRE.

E IL FIUME DEI RE ANCORA DI

PIÙ.

BELLO ASPETTARE IL TRAMONTO VICINO

ALL’IMBARCO

DEI BATTELLI

o andarsene in giro con una long boat capitanata da un vecchio ricoperto di sak yant e amuleti. Inoltrarsi nei canali che s’intrecciano alle spalle del Wat Arun mi rende felice. Le case di legno dove vorrei vivere, scrivere e amare. I bambini che pescano o giocano tuffandosi in acqua al nostro passaggio, i monaci che danno da mangiare ai pesci, le vecchie che lavano le pentole.

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ECCO, SE FOSSE UN FILM, A QUESTO PUNTO FAREI UNO STACCO E CATAPULTEREI LO SPETTATORE NELLA BANGKOK

IPERMODERNA, DELLO SKY TRAIN E DEI CENTRI COMMERCIALI PIÙ GRANDI DELL’ASIA.

Nei negozi di super lusso e nelle sale cinematografiche più grandi e più comode del mondo.

EBBENE SÌ, DI BANGKOK AMO ANCHE I CENTRI COMMERCIALI.

Forse perché so che all’uscita un tuc tuc mi può portare in salvo in pochi lunghissimi minuti di traffico infernale in un altro mondo e in un’altra epoca.

CAMMINAVO A NOTTE FONDA PER IL MERCATO DEI FIORI, DA SOLO.

Nuotavo nella calma piatta dell’Egeo, l’ultimo bagno dell’estate. La stessa sensazione di pace e voglia di andare, di poter continuare, lentamente, fino al termine dell’oscurità, fino alla fine del mare.

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434 «GOOD LUCK», CHE BEL MODO DI DIRE ADDIO, PRIMA DI SCOMPARIRE. QUANTA FORTUNA HO GIÀ AVUTO, AVREI VOLUTO DIRLE. TIENILA TUTTA PER TE, LA FORTUNA.
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“IN QUALE PARTE DEL MONDO SEI?”

(APPUNTI VOLANTI, 2014, 2015, 2016, 2017, 2018, 2019)

ARRIVA PUNTUALE A SVEGLIARMI LA NOTTE

E A RICORDARMI CHI SONO.

Un sms che finisce con un punto interrogativo e che vuole sapere dove mi sono andato a cacciare. Non è quasi mai la stessa persona a scrivere, ma le parole sono sempre le stesse: “Ciao Stefano, in quale parte del mondo sei?”.

Le parole che seguono, sono tentativi di risposta a quella domanda. POVERTÀ E BELLEZZA (ETIOPIA, 2013).

Ho una missione da svolgere in questo mondo, anzi nell’altro mondo. Apparire dal nulla, in un luogo sperduto. E chiedere a una ragazza a cui nessuno l’ha mai chiesto di mettersi in posa per me. E in pochi istanti osservare la timidezza trasformarsi in sbalordimento e poi in consapevolezza di bellezza, femminilità e potenza. Che bella missione, la mia missione!

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Sì, povertà e bellezza. Ecco cosa, quasi senza rendermene conto, ogni volta cerco di raccontare. L’ho fatto anche in Etiopia, dove ho girato due video per il progetto Storiezerolike: Dall’Etiopia con dolore e La vita è un music video

NON VA PIÙ VIA (COLOMBIA, 2015).

Lascio che l’acqua della doccia scorra a lungo su di me. Non se n’è andata e non se ne andrà. Più forte dell’odore di bruciato e miseria che esce fuori dalla mia valigia aperta al ritorno a casa. Più profonda delle voci e delle lacrime che mi tornano a trovare tra incubi e sogno. Il volto di Jimmy e le storie della sua banda non mi lasciano andare per la mia strada. Ho attraversato le frontiere invisibili che segnano come ferite il corpo dei barrios più violenti del mondo. Li ho incontrati drogati e armati, li ho ascoltati rabbiosi e commossi, li ho raccontati come esseri umani. E ora non riesco ad abbandonarli al loro destino. E loro non abbandonano me.

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HO PERSO I CAPELLI (GUINEA BISSAU, 2016).

Sono sul molo del porto di Bissau. Capitale fatiscente di un regno stile Conrad. Lo scheletro abbrustolito di una nave alla mia destra. È lì che vorrei girare la prossima scena. Ma è pericoloso e ci sono almeno dieci problemi da risolvere. La marea ha messo spudoratamente a nudo i suoi fondali melmosi e infidi. Scaricatori e sfancazzisti si alternano alla mia destra. Siamo una troupe così leggera che se il vento rinforza, temo ci spazzi via. Ho le mie immagini dentro la testa, quello che voglio girare. Ma a ogni momento devo trovare una nuova soluzione. A ogni secondo devo essere pronto a rapinare un istante di verità, legarlo e portarlo a casa. Mi tolgo il cappello e mi guardo in un triangolo di specchio appeso a un palo. Ho perso i capelli, ma non le idee. Però nessuno mi ha chiesto di fare una scelta. Avrei optato per la folta chioma.

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SMOKEY MOUNTAIN (FILIPPINE, 2014).

Cammino su un immenso tappeto di rifiuti. Ogni tanto mi giro a guardare Mattia. Non abbiamo bisogno di parole. Sì, meglio tenere la bocca chiusa. Incrocio un ragazzo con una maglietta strappata: Never give up. Ci stiamo inoltrando in uno degli slum, anzi delle montagne, più famose della Terra: Smokey Mountain. Immaginate una cittadina fatta di spazzatura, anzi, di mondezza. I camion arrivano alle porte di questa città fumante e i ragazzi più veloci si arrampicano al volo per essere i primi. Qui tutti hanno un compito, una missione impossibile: vivere, anzi sopravvivere, rovistando, dividendo, selezionando gli scarti degli scarti degli scarti. Colonne di fumo velenoso si succedono come nel miraggio di un lungo porticato, bambini ricoperti di croste vagano a piedi nudi alla ricerca di un regalo. Una suora coraggiosa ci precede nella sua divisa immacolata. Se respiri con il naso, senti bruciare. C’è un odore indescrivibile. Ma sto bene e mi chiedo perché. Per trovare una risposta la mia mente se ne va veloce a marcia indietro, apre le portiere e mi scarica davanti a uno dei primi ricordi della mia vita. Quando mia sorella più grande, Roberta, mi chiedeva di accompagnarla in bagno. Appena entrato, io mi mettevo tra la finestra e la porta, accucciato, zitto zitto. Lei iniziava a raccontarmi una storia, il suo intestino pigro è stata la mia fortuna di quegli anni. E

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forse anche di questi. L’ispirazione, la mia ispirazione non cresce mai in un set sterilizzato o sotto le palme di una splendida spiaggia. Insomma, per me, le storie da raccontare devono sempre avere il profumo di quella merda.

ANCORA PIÙ IN SÙ (ECUADOR, 2016).

Mi manca un piccolo pezzo di cuore, io so dove l’ho perduto. Sulle Ande, in Ecuador, mentre giravamo Sei proprio un bambino , per l’Unicef. Ogni tanto, quando il petto a sinistra mi fa male, mi siedo davanti allo schermo, faccio partire il video e premo il tasto pausa dove so che quel pezzo di cuore potrebbe essere. Nell’erba alta dove la bambina giocava con il vento e l’ombrello rosa, nella piazza polverosa davanti alla chiesetta dove sposi e ospiti ballavano ubriachi come non mai, nelle discese a perdifiato per fuggire dai tori imbizzarriti, oppure tra i bambini in fila indiana dietro a Miguel che suonava i piatti, o nel retro di un vecchio camion mentre risalivamo la valle circondati dalle piccole e silenziose bambine indie, donne in miniatura con scialle e cappello sulla testa. O “Ancora più in su! Ancora più in su!” oltre i 3.000 metri, dove ero sicuro che la luce sarebbe stata magnifica. E dove la luce magnifica è stata.

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ES REAL (PANAMA, 2016).

Sono nel malfamato Chorillo a Panama City. E su quel muro c’è scritto: “No tengo facebook, mi vida es real”.

UN IMMENSO FORMICAIO (IN BANGLADESH PER UNICEF, 2016).

Dakka è un immenso formicaio. Le formiche camminano in colonna, trasportano fardelli tre volte più grandi di loro, entrano, escono, salgono, scendono, seguendo un misterioso ordine, un’allucinata strategia. Poi a una certa ora, Dacca impazzisce come se fosse arrivato un bambino dispettoso a prendere a calci quel formicaio. Logica e strategie vanno a farsi fottere. E sei fottuto anche tu, se hai la ventura di trovarti lì in mezzo. Lì in mezzo, dopo una giornata passata nel calore asfissiante di una fabbrica di mattoni, circondato da bambini operai con la pelle come cuoio e ciminiere alte verso un cielo neon. Una giornata di vicoli magri come il Mahatma, dove hai camminato strusciando contro le pareti. E dietro a quelle pareti, nel buio profondo di angusti magazzini soppalcati a occupare ogni centimetro quadrato, gli invisibili schiavi del nostro secolo illuminato lavorano. Ho visto il bianco dei loro occhi e non lo dimenticherò.

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Poi la stazione, trappola per bambine, rapite e portate chissà dove. Nuvole di zanzare alle prime luci della sera ti sussurrano i nomi latini delle varie malarie che offre il loro menù. E tu sei sudato, sporco e provi un’irragionevole felicità. Così sali nel furgone che ha il compito benedetto di portare a letto te e la tua stremata crew e invece del morbido tappeto volante che sogni, ti trovi nel cuore pulsante del formicaio impazzito di cui sopra. E tu inizi a far parte dell’impazzimento generale. Tre ore e mezza per fare 5 o 6 chilometri. Ridi, maledici il mondo intero, parli, stai zitto e alla fine ti salvi, mettendo in play nella tua mente le immagini colorate delle danze fiorite di giravolte e mani eleganti verso il cielo delle bambine orfane che hai girato solo il giorno prima. E a te sembra già passata un’eternità.

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E VICEVERSA (MALESIA E SINGAPORE IN POCHE PAROLE, 2017).

Dopo il lavoro che ho fatto per l’UNICEF, mi è tornata la voglia di fotografare. E non solo con l’Iphone. Forse l’ho già dichiarato in un’altra pagina, se scrivo non fotografo. E viceversa. Almeno fino ad oggi è stato così. Così del mio viaggio solitario in Malesia e Singapore resta solo una serie di foto, di appunti visivi. Una festa indù nell’isola di Penang e quel sorriso che valeva il viaggio intero, una birra e uno spiedino dopo una giornata da 14 chilometri di passi, le antiche case coloniali di Georgetown, i fiori di Ginger, le scimmie ladre nella immensa grotta sacra fuori Kuala Lumpur, un vestito di donna lasciato ad asciugare su una panchina, simile ad un fantasma addormentato, i templi buddisti accanto ai templi indù accanto alle moschee, le passerelle tra gli alberi alti come grattacieli, i grattacieli a forma di alberi nel parco sul mare a Singapore, un’ora di meditazione con dentro pochi secondi di meditazione, le serre immense e i giocatori cinesi di scacchi, lo sguardo di una donna anziana con un mazzo di banconote in mano e subito dopo, tra i banchi del mercato l’uomo dai lucidi capelli neri e la testa chinata e persa in chissà quali pensieri. E poi, la mia curiosità, la mia solitudine e una frase di Marco Aurelio a rimbombarmi nelle orecchie.

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UN NONNULLA (IL MIO MADAGASCAR IN UN TWEET, 2015).

Ho perso il mio taccuino (taccuino?) con gli appunti sui miei giorni in Madagascar. Ma, cosa rara, al ritorno ho scritto un tweet che raccontava il mio stato d’animo e recitava così: Del Madagascar mi è piaciuto tutto, anche la notte in ospedale. “Finalmente”, dopo aver assistito, per anni e anni, ogni membro della crew colpito dalle più svariate sindromi, affezioni, infermità e morbi, nella Grande Terra è toccato a me. Anzi a noi, a me e Mattia. E c’è un’immagine a testimoniarlo. La amo quella foto.

Il giorno prima era stato meraviglioso, avevamo girato immersi in un oceano di bambini. Io avevo fatto con loro quello che il vento fa con le onde. E le onde erano arrivate in alto. Urla, sudore, energia allo stato puro. E felicità. La notte un incubo di conati e vomito e febbre. Cazzo, Africa, fai sempre così con me. Gioia e dolore separati da un nonnulla. Ma come il mio tweet raccontava, quella notte di delirio non ha cancellato le albe e i tramonti, l’albero sacro, le donne con gli ananas sulla testa, il primo bagno africano della mia vita, i bambini con i piedi un po’ meno storti che correvano zigzagando verso il mare dopo l’operazione, le vecchie Renalut 4 colorate, i lottatori portati in trionfo nell’ultima luce di una domenica qualunque, i cinque italiani dai capelli bianchi che

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osservavano silenziosi il sole e la loro vita andare giù, la musica pazza e i balli folli dei miei nuovi amici, il flash sui cani padroni della spiaggia, gli occhi sorprendentemente asiatici sui volti mulatti delle ragazze. Tornerò lì. A cercare una moglie. Fëdor Dostoevskij diceva: “La bellezza salverà il mondo”. Io spero che salvi me.

UN’AMARA CONFESSIONE (SEUL, 2018).

Sono stato in Corea. In inverno, con un volo da Bangkok. Ho lasciato il caldo e un sorriso che mi piaceva tanto e ancora oggi non so spiegarmi il perché. A Seul faceva freddo, la luce in cielo era come quella di una sala d’aspetto al neon e i sorrisi, se c’erano, erano nascosti dalle mascherine. Sembra l’inizio dell’amara confessione di un tragico errore. Lo è. Ma la colpa non è di Seul, è mia. Mentre vagabondavo per ore tra giardini e viali, mentre mangiavo in piedi nei mercati o sdraiato sul letto del mio hotel, mentre spiavo la vita degli altri e l’immortalavo a tradimento, non capivo che quella che mi ero lasciato dietro di me era la bellezza di un attimo. E che non l’avrei ritrovata mai più.

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CHEZ L’HOTEL DE PARIS DE KAOLACK (SENEGAL, 2017).

Sotto la zanzariera del mio single bed nella chambre vingt-quatre de l’Hotel de Paris di Kaolack, scrivo le prime e forse ultime parole di questo viaggio in Senegal. Solo chi è stato a Kaolack e ha avuto in sorte dal destino, l’occasione di dormire qui può capire la genialità e la fantasia dell’essere umano che ha così battezzato l’albergo. Siamo atterrati quattro giorni fa, nel nuovo aeroporto di Dakar, inaugurato solo il giorno prima. Lo scarico dei bagagli era in “rodaggio”, così dopo due ore e venti minuti di attesa, valigia in mano siamo usciti nella luce del sole. Ad attenderci un nuovo amico, Mamadou. E una mia vecchia conoscenza: l’harmattan. Il vento incontrato per la prima volta quasi venti anni fa in Burkina Faso. Dopo una notte spesa nella periferia della capitale, partiamo verso Kaolack. Nemmeno mezz’ora e il furgone si blocca, come un asino testardo e spaventato, sulle rotaie. Lo spingiamo in avanti, prima dell’arrivo del treno. Poi, attesa africana e trattative e bagagli traslocati su un altro mezzo. Madre santa, santa madre! Ondeggiano sinuose e regali le donne del Senegal. Non c’è velo che possa nascondere, non c’è povertà che possa umiliare la femminilità fatta persona. Siamo qui per fare i sopralluoghi e poi girare una storia sui talibé. Parola che vuol dire discepolo. Sono bambini di famiglie

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povere mandati a studiare nelle scuole coraniche, ma utilizzati spesso dai marabutti per chiedere l’elemosina. A Roma, il Sacro Cuore è una scuola per ragazze parioline, famose ai miei tempi per essere belle e un po’ così… Qui, invece, è una realtà meravigliosa che offre a più di 500 bambini la possibilità di studiare e crescere lontano da strada e miseria. Kaolack è una cittadina a cinque ore da Dakar, vanta uno dei più grandi mercati del West Africa. Niente turisti. Nemmeno fai da te. Polvere, strade sabbiose, edifici fatiscenti, carretti trainati da asinelli, ma anche smartphone e nuovi supermercati. Lo sviluppo del Senegal, dopato da capitali stranieri, mostra i suoi nuovi muscoli perfino qui. Ballo nella festa organizzata da padre Pascal e poi fotografo i sorrisi e il futuro, tutti rigorosamente made in Africa. Da domani iniziamo a girare e già so che non scriverò più. Nemmeno di Goré, la piccola isola che visiteremo prima di andare via. Ma quella porta aperta sul mare dalla quale furono imbarcati sette milioni di esseri umani trasformati in schiavi non la dimenticherò.

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CHE FLASH QUELLA SCIMMIA!

(MALAWI, 2019).

Se spiego il titolo, il più è fatto. Durante i sopralluoghi, tra rocce e baobab. È arrivato un ragazzino con una scimmia in braccio. Ho scattato con il setting con cui ho fotografato per tutto il viaggio. Black and white, hard contrast, flash e messa a fuoco a 50 centimetri. Per me il Malawi sarà per prima cosa quello scatto lì. Scimmia con gli occhi sbarrati dalla sorpresa e la silouhette nera del suo padrone e in fondo i rami dell’albero millenario. Forse voi non la vedrete mai quella scimmia, ma se avete tempo da perdere e vi mettete a cercare dentro ai miei occhi rugosi o vi arrischierete fino al mio inesplorato sito, da qualche parte quella foto salterà fuori. Sì, quel flash di scimmia viene prima di tutto. Prima anche del bagno all’alba in quella copia perfetta di mare che è il Malawi Lake. Con i bambini, con Mattia, Francesca, Manuele e i parassiti della schisomatiosi. Sì, prima di tutto. Anche delle meravigliose canzoni strappacuore dei prigionieri della Zomba Prison e prima del panorama mozzafiato che ci siamo goduti dal plateau. Sì è vero, anche i tagliatori di legna, incrociati nella notte, con il loro carico sovraumano sulla testa o sulle loro stoiche biciclette nere trovano un posto dentro di me. Come pure, i 700 grammi di esseri umani addormentati dentro le incubatrici salvavita del Saint Joseph Hospital, anche loro mi resteranno in mente.

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O le ragazze con il crocifisso al collo e la divisa verde scuro mentre attraversano la zona bruciata nel mirino della nostra macchina da presa. O il pazzo del villaggio che elencava gli antichi re del Malawi che ho fotografato mentre indicava una nuvoletta nel cielo. Sì, anche di quella nuvola mi ricorderò. E dei minerali preistorici nelle mani adolescenti dei venditori e della gelida cascata di montagna che mi ha fatto tremare di freddo e felicità. Certo quando qualcuno mi parlerà del Malawi, non potrò non pensare al viola dei fiori della jakaranda. Lo farò. Ma subito dopo aver pensato al mio flash e a quella scimmia. Perché quegli occhi sorpresi, anzi sbalorditi, sono gli stessi che deve aver visto lei guardando me.

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ECCO COSA MI STA SUCCEDENDO (ROMA, 2018).

Da bambino e poi da ragazzo mi sono sempre sentito in guerra: una guerra combattuta spesso nella mia testa. E a volte nelle strade. Mi sentivo o forse volevo essere fuori posto. Non volevo arrendermi alla corrente. Cercavo una ragione in più. Poi, è nato Mattia e ho iniziato a trovarla quella ragione. Nel suo nome e poi in quello di Francesco e Margherita. Non dico di essere diventato improvvisamente un altro, di aver perso la mia natura più profonda, ma sicuramente i loro sorrisi, i pianti, le crescite improvvise e i nuovi tormenti, mi hanno trasformato in un uomo delle risposte. Avevo un compito, mostrare loro ogni santo giorno la faccia benedetta di questa nostra maledetta terra. Ora che vivono lontani, mi scopro a fare i conti con le irrequietezze di allora. Così cerco la pace nei miei viaggi solitari. E, come avrete capito, a volte la trovo e a volte no.

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HO ATTRAVERSATO LA TERRA. E LEI HA ATTRAVERSATO ME.

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SE MI DICI SOLITUDINE (MILOS, 2013)

SE MI DICI SOLITUDINE, LA PRIMA IMMAGINE CHE MI VIENE IN MENTE È UN UOMO, NON PIÙ GIOVANE, NON ANCORA VECCHIO. UN BEL TIPO.

In una lavanderia a Mission, San Francisco, California.

La lavatrice ha finito di fare il suo lavoro e lui ora ripiega con cura, anzi con maestria, i suoi abiti senza macchia.

IO ERO LÌ, CIRCONDATO DAI MIEI FIGLI CHE RESPIRAVANO ANCORA INSIEME A ME OGNI RESPIRO.

Io ero lì, con una ragazza bella e giovane, con i capelli neri e una dichiarazione permanente d’amore per me.

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A VOLTE, A QUEL TEMPO, SOFFRIVO DI MOLTITUDINE: PERCHÉ IO, TROPPO SPESSO, ERO NOI.

SAI CHE TI DICO? TI DICO CHE LA SOLITUDINE COLPISCE I CORAGGIOSI.

Tu non la temi. Non lasci che sia lei a decidere per te. Tu dici, o tutto l’amore o la donna più femmina o l’amico fratello o la vita più vita, o niente. E quando il niente arriva, tu sei lì sulla strada, solo, ad aspettarlo. Gli porgi la mano per dargli il benvenuto e non sai che la mano in alto per dirgli addio non la solleverai più.

462 EPPURE QUELL’UOMO CHE PIEGAVA QUELLE MAGLIETTE, QUEI PANTALONI DA LAVORO, QUELLE MUTANDE, ME LO RICORDO BENE. NON C’ERA NESSUNO A CASA AD ASPETTARLO, MI CI SAREI SCOMMESSO LA CASA. NESSUNO GLI AVREBBE STIRATO LE CAMICIE, ECCO PERCHÉ LE PIEGAVA CON CURA. ALMENO DI QUESTO NON AVREBBE SOFFERTO LA MANCANZA.

ALESSANDRA È STATA MIA MOGLIE. AVEVA

UNA

SORELLA, ENRICA, LA CONOSCEVO FIN DA QUANDO ERAVAMO RAGAZZI. UN TUMORE L’HA

LETTERALMENTE CONSUMATA.

Nonostante la sua ferma intenzione di restare su questa terra. L’ultimo libro che ha letto, in mezzo a dolori atroci e inutili calmanti, è stato il mio. Alessandra mi ha detto che una delle ultime notti si è svegliata gridando. Era sbalordita, stava morendo. Poi, mentre cercava di ritrovare il respiro, le ha detto di avere paura, paura.

IO NON ERO LÌ. MA TI GIURO CHE NEI GIORNI SEGUENTI NON AVREI POTUTO GIURARLO. QUELLE PAROLE ERA COME SE LE AVESSI ASCOLTATE CON LE MIE ORECCHIE. E QUEL TERRORE VISTO CON I MIEI OCCHI. 463
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NON SO BENE COSA MI SUCCEDE, MA CREDO ABBIA A CHE FARE LA MANCANZA DI BACI. CREDO CHE ABBIA A CHE FARE CON QUELL’UOMO NELLA LAVANDERIA DI MISSION, SAN FRANCISCO, CALIFORNIA.
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CALIFORNIA.

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POI È ARRIVATA L’ERBA

ALTA. (I MIEI 90 GIORNI DI LOCK DOWN)

OGGI MI È CADUTO LO SGUARDO

A

TERRA. E LÌ L’HO LASCIATO.

TRA LASTRE DI PIETRA, RAMI SECCHI E FILI D’ERBA È APPARSA UNA FORMICA.

Avanti e indietro a destra e sinistra. Si muoveva come se volesse far perdere le sue tracce a un inseguitore. Le sono rimasto incollato al culo, come si suol dire. Per alcuni eterni minuti.

ALLA FINE HA VINTO LEI.

Ecco, se mi aveste seguito per questi novanta giorni, attraverso boschi, torrenti, campi e sentieri, cercando di capire la mia missione, avreste perso anche voi.

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HO CONSUMATO UN PAIO DI SCARPE. HANNO FATTO PIÙ DI NOVECENTO

CHILOMETRI INSIEME A ME.

E insieme a me hanno ascoltato Murder most foul, il nuovo interminabile pezzo di Bob Dylan, per almeno novecento interminabili volte.

Il bosco, come la più esperta delle geishe, mi ha svelato le sue parti intime un giorno alla volta. E vi levo subito il dubbio, sì abbiamo fatto l’amore. Ogni giorno era tutto appena, appena diverso dal giorno prima. Ma abbastanza per essere unico e irripetibile. Solo lei era immobile e immutabile, la mia maestra zen: una pietra squadrata nel mezzo del cammino, tre facce lisce come la pelle di un bambino e la parete nord verde muschio.

I FIOCCHI DI NEVE SULLE CIGLIA. I PUNGITOPO PRIMA I CICLAMINI POI.

L’apparizione delle minuscole foglie sui rami infreddoliti. La nebbia misteriosa. A volte sono tornato sui miei passi. A volte mi sono spinto dove prima mai. Il fiume travestito da ruscello ha recitato le sue preghiere, io le mie poesie. I sensi si sono sviluppati più in fretta dei muscoli dei polpacci. Nel vento ho imparato a riconoscere il profumo della

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pioggia in arrivo e del piscio dei cinghiali in fuga. Una notte di insonnia e tempesta mi sono rasato la testa come quella del piccolo monaco felice che veglia sul mio comodino. La mattina successiva in terra rami e capelli. E allo specchio un nuovo sorriso.

POI È ARRIVATA L’ERBA ALTA,

il nido di un picchio nel tronco di un ulivo, il mio corpo nell’acqua gelida e trasparente tra le rocce, la danza di una volpe, nel più innaturale dei silenzi, nella più naturale delle solitudini. Ho infilato i passi uno dopo l’altro, come se fossero grani di un rosario, le pietre di un mala tibetano, le stelle di una infinita costellazione. Ho inspirato buonanotte ed espirato buongiorno, dalla finestra aperta, tutte le sante notti e tutte le benedette mattine.

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HO LASCIATO LE MIE TRACCE ACCANTO ALLE LORO E HO CERCATO DI PERDERMI, CON LA SPERANZA DI RITROVARE L’UMANITÀ INTERA. O ALMENO QUELLA FORMICA.

CALIFORNIA.

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PERSO (TRA ROMA E NEW YORK, 2012)

VUOI SAPERE PERCHÉ SPESSO MI SENTO PERSO?

Perso alla vita normale. Alla vita come ci hanno insegnato a considerarla.

Perché quando sono in quel fuori fatto di buio e favelas, di fango e slum, di mercati e sudore, io faccio affari.

Do un sorriso e in cambio ne ricevo dieci, a volte cento.

COSÌ, QUANDO TORNO

e attraverso le strade della mia città, cerco il mio volto riflesso nei finestrini delle auto di uomini e donne ferme nel traffico e vedo un mendicante. Un povero, mi sento. Cammino con lo stesso stupore e sbandamento di un miserabile che un tempo non così lontano è stato ricco.

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IN VERTICALE. È UN
CANDELA.
LA DIREZIONE DEL MIO VIAGGIO È SEMPRE
TUFFO A

DA CUI RIEMERGO STREMATO.

Posso non mangiare, o farlo una volta al giorno, come un monaco. Posso non dormire, o farlo per poche ore a notte, come un eremita in penitenza. Così tutti miei sensi si allertano e mi aprono le porte di esistenze sconosciute fino a pochi istanti prima.

L’HO IMPARATO NELL’AMORE:

per capirsi, non c’è bisogno di parlare la stessa lingua. Anzi, senza quella scorciatoia tutto diventa più spontaneo e sorridente e misterioso.

MA C’È UN CONTO DA PAGARE. E NON C’È CASH O CARTE DI CREDITO CHE POSSANO VENIRTI IN AIUTO. È UN CONTO CHE CRESCE A OGNI NUOVO VIAGGIO, A OGNI NUOVA AVVENTURA.

IO, COME UN ALCOOLISTA IMPENITENTE, per anni ho continuato a dire: «Segna pure, la prossima volta saldo tutto». Per un po’ l’ho fatta franca, ma alla fine mi sono venuti a cercare, a tirare giù dal letto. I volti e le voci dei tanti e tanti con i quali ho incrociato passi, occhi e cuore in questi ultimi quindici anni di vita.

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480 TERREMOTI, POVERTÀ, SOLITUDINE, MALATTIE, SCHIAVITÙ, CARCERE, MORTE. IO PENSAVO DI ESSERE, CON IL TEMPO E L’ESPERIENZA, DIVENTATO PIÙ FORTE. MA È COSÌ SOLO IN APPARENZA. LA VERITÀ È CHE QUELLA ASSENZA DI DIFESE E ARMATURE CHE MI HA EMOZIONATO E APERTO LA PORTA DI TANTE ALTRE VITE, ORA DA QUELLA PORTA NON MI FA PIÙ USCIRE. ALLORA, MI ALZO DAL LETTO E CERCO DI RESPIRARE PROFONDAMENTE, E PENSO CHE ME LA SONO ANDATA PROPRIO A CERCARE QUESTA VITA, CHE NON RIESCO MAI A DOSARE LA MIA PARTECIPAZIONE, CHE NON MI ADATTERÒ MAI PIÙ A RELAZIONI CANONICHE, A DISCORSI DI CIRCOSTANZA E A SERATE IN SOCIETÀ. CHE SONO MALATO DI EMPATIA E NESSUNO MI GUARIRÀ.
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Mi sono dimenticato della mia faccia

Concept: SMP+

Texts: Stefano Maria Palombi

Editor: Valentina Palombi

Immagini: Francesco Zizola, Gianmarco Elia, Erasto Truijo, Mattia Palombi, Bernardo Notargiacomo, Paolo Marchetti, Francesco Ferrari.

www.stefanopalombi.com

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484 MENTRE GLI ALTRI DORMONO, IO RUBO TUTTO QUELLO CHE I MIEI OCCHI RIESCONO A RUBARE. COME L’ANIMALE PREVIDENTE NASCONDE NEL CAVO DEL SUO ALBERO LE PROVVISTE, COSÌ IO METTO TUTTO DA PARTE DENTRO DI ME. PER I GIORNI FREDDI, PER I GIORNI BUI. PER QUEI GIORNI UGUALI A TUTTI GLI ALTRI.

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