STILE I TA L I A N
CULTURA NEL MONDO LUGLIO - S E T T E M B R E
ni XV an -2010 1995
Arturo Benedetti Michelangeli
Euro 10,00 USD 20,00
TRIMESTRALE / NUMERO
10
2010
9 7 71 972 45 600 3
ISSN 1972456X
10010 >
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ANNO IV. N.10
LE A I C E S P versario
Perr i c ev er ei lc di nmemor i adiAr t ur oBenedet t iMi c hel angel i s c r i v er eai nf o@s t i l ec ul t ur a. i toppur et el ef onar eal l o+39. 02. 45485042-f ax+39. 02. 45485044
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Di Angela Giannini Pagani Donadelli Editoriale
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A cura di Paolo Andrea Mettel Quella sera a Tokyo fu smontato il piano
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A cura di Duilio Courir “Ho preso per mano il genio solitario di Michelangeli”
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A cura di Vittore Castiglioni Un Debussy in originale
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A cura di Armando Torno Innanzitutto, un animo irripetibile
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Francescanesimo
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Biografia
Un suono per l’eterno L’interprete
Sommario N.10 / 2010
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Sommario
Speciale XV anniversario Arturo Benedetti Michelangeli
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Stile Italiano / N. 10-2010
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12 giugno 2010, Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo
SPECIALE XV a n n ive rs a r i o (1995-2010)
Arturo Benedetti Michelangeli Stile Italiano numero 10... e come potevamo arrivare al numero 10 se non avessimo avuto il “numero uno”, lo stesso della nostra prima copertina? Un numero uno che continua a far vibrare i nostri cuori solo nel nominarlo: Arturo Benedetti Michelangeli. Un uomo speciale che viene ricordato con grande gioia a Mendrisio, nel 15esimo anniversario della sua scomparsa, dalla “Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo” e da Stile Italiano con questo numero speciale a lui dedicato. Avrete modo così di leggere una straordinaria raccolta di articoli sull’artista, tra i più belli scritti da Paolo Andrea Mettel, Duilio Courir, Vittore Castiglioni e Armando Torno. Noi di Stile Italiano siamo certi di fare cosa gradita a tutti coloro in Italia e all’estero che amano Benedetti Michelangeli e le sue uniche, indimenticabili interpretazioni. Buona lettura. Angela Giannini Pagani Donadelli
Stile Italiano / N. 10-2010
L’EVENTO A MENDRISIO In queste pagine alcuni momenti della cerimonia svoltasi a Mendrisio lo scorso 12 giugno. Tra i partecipanti: Padre Mario Cattoretti O.P. già Priore di Santa Maria delle Grazie a Milano con Anne Marie-
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José Gros Dubois; il dottor Umberto Rabagliati medico e amico personale del Maestro e Angelo Fabbrini, tecnico accordatore; Rolando Peternier, vice sindaco e capo dicastero Museo e Cultura della città di Mendrisio; Paolo Andrea
Mettel insieme a Armando Torno; Roberto Corrent, redattore musicale Rete Due, RSI, Adriano Heitmann, musicologo, e Wolfram M. Burgert, fondatore dell’etichetta Divox. Accanto alle foto: l’invito all’evento commemorativo, la lettera
del ministro degli Affari Esteri On. Franco Frattini e la lettera aperta a Stile Italiano di Tullio Cappelli Haipel, vicepresidente dell’Istituto Internazionale di Studi sui Diritti dell’Uomo
Chiesa di San Giovanni Battista
Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo ringrazia Stile italiano Cultura nel Mondo per la collaborazione e il patrocinio:
Hamburg, 7 maggio 1993 (© Friedmann Simon Hamburg)
MARIO LUZI POESIA DEL MONDO
CITTÀ DI MENDRISIO
Invito
ASSOCIAZIONE MENDRISIO
Prima dell’attuale, sullo stesso sedime sorgeva un’altra chiesa costruita nel 1503 grazie alla munificenza del frate servita Luca Garovi. Nel 1721, la primitiva costruzione fu parzialmente abbattuta, e l’anno successivo si cominciò ad innalzare la nuova, progettata dall’architetto e stuccatore Giovan Pietro Magni. Tutta la comunità si impegnò a costruire la chiesa, ottenendo dal Vescovo di Como l’autorizzazione a lavorare nei giorni di festa. Nel 1721 l’edificazione era già molto avanti, mancavano però il presbiterio, il coro e la sagrestia, e probabilmente si faceva capo ancora a quelli della vecchia chiesa. Poi vennero costruiti realizzando i disegni non del Magni ma del frate camaldolese Giuseppe Antonio Soratini.
15° Anniversario (1995-2010) della scomparsa del Maestro ARTURO BENEDETTI MICHELANGELI
www.marioluzimendrisio.com
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Arturo Benedetti Michelangeli
Quella sera aTokyo fu smontato il piano A.B.M.: gli aneddoti, le intense conversazioni di amore e di amicizia ricordano il grande pianista
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L Stile Italiano / N. 10-2010 9-2010
per gentile coNcessione del sole 24 ore a cura di paolo andrea mettel
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La telefonata nel mezzo della notte mi fece capire che questa volta non ce l’avrebbe fatta. Tutta la mia speranza si spense in una fitta di dolore: il Maestro ci aveva lasciati, per sempre. Ogni cosa all’improvviso cambiava. Mi accorsi che i conti con la realtà dovevano essere fatti senza la sua presenza, senza poter udire la sua bella e forte voce, senza la sua allegra e sapida ironia, senza le volute di fumo del suo sigaro toscano, senza le passeggiate nel bosco (lui gentile e affabile con il giardiniere), senza gli innocenti scherzi che mostravano la sua incontaminata innocenza artistica, ma soprattutto senza le stupende mani a intrecciare note musicali sulla magica tastiera del suo pianoforte come nessun altro. La consuetudine nella frequenza era divenuta quasi una certezza. A volte nella vita si crede che tutto possa essere immutabile: il Maestro, la sua arte, il pianoforte, i concerti, i viaggi, le visite a Pura, le cene o i pranzi consumati insieme, le discussioni con Angelo Fabbrini su come accordare lo strumento, “la bestia”. No, non sarebbe più stato così. Certo, sono stato troppo coinvolto, emozionato: trascorrere ore e ore insieme a lui aveva sempre rappresentato un’esperienza rara e speciale e sempre nuova, mai ripetitiva. Il Maestro lontano dalla sua tastiera non era burbero e le battute non mancavano. Diventava duro e intransigente appena indossava le vesti da lavoro. Un giorno dovevo pranzare con lui, a Pura, per trattare l’argomento dei dischi pirata. Ai fornelli, eccezionalmente, ci sarebbe stato il Maestro. Menù previsto: spaghetti. Un mio cliente, ahimè, mi trattenne più del previsto e giunsi in ritardo di circa venti minuti. Apriti cielo! “Adesso ti presenti? Non siamo mica al ristorante” mi disse con tono non soave. E precisò: “Gli spaghetti sono irrimediabilmente sciupati”. Mi lasciò solo, con quel piatto di pasta che, nonostante fosse tiepida e compromessa, aveva un sapore squisito. Lui scese nello studio per esercitarsi al piano. Dopo trenta minuti ricomparve. Si avvicinò al tavolo, senza profferire parola mi versò un po’ di vino. Intanto si era rasserenato e assaporava – sorridendo sotto i baffi – una scheggia di parmigiano. Andammo poi in salotto per fumare il
sigaro (avevo preso anch’io, frequentandolo, l’abitudine del toscano) e cominciammo a tracciare una sorta di strategia per denunciare la piaga dei dischi pirata che tanto lo affliggeva, soprattutto a causa dei risultati di bassa qualità di tali prodotti. Nel 1993 ad Amburgo presso Steinway andammo per “fare visita” ai due pianoforti che erano stati messi a disposizione del Maestro. Si trattava di lavoro intenso e raffinato per accordatura e armonizzazione da eseguire insieme al vecchio esperto della nota casa tedesca. Un ufficio dava direttamente sul salone che ospitava un gran numero di neri “bestioni”. Benedetti Michelangeli era completamente a suo agio e si alternava tra l’ufficio e il vasto spazio, sempre con in testa diesis, bemolli da trasformare in tonalità che solo lui poteva sentire e immaginare. Ma durante la pausa, l’atmosfera severa era accantonata e nascevano momenti quasi esilaranti: quell’ufficio fu trasformato in sala da pranzo, il Maestro divenne ancora chef, e cominciò a condire, con la consueta abilità, l’insalatina che avrebbe accompagnato un piatto di formaggi. Ricordo che una parte del programma della tournée di Tokyo, decisa durante i concerti di Monaco del 1992 dove il Maestro suonò con la Münchner Philharmoniker diretta da Sergiu Celibidache (suo grande amico ed estimatore), prese corpo una sera al termine del concerto. Celibidache e Benedetti Michelangeli decisero insieme cosa suonare giacché anche la Münchner sarebbe partita per una tournée in Giappone: nel camerino eravamo tutti incantati dal garbo reciproco che avevano questi due “mostri sacri”: “Ma proponga lei un brano” diceva l’uno; “Ci mancherebbe, decida pur lei” ribatteva l’altro. Alla fine si accordarono su Schumann, Concerto per pianoforte e orchestra in la minore. E ancora: nel settembre del 1992 tutto era pronto per il secondo concerto a Tokyo. In camerino il Maestro chiese del suo orologio (si trattava di un dono molto speciale di Steinway). Non si riusciva a trovare. Subito lo andammo a cercare, Fabbrini ed io, sullo strumento pronto, immobile, mentre il pubblico era già in sala, in un religioso silenzio. Il palcoscenico aveva ancora le tende
chiuse. Niente da fare, non compariva. Fabbrini, un po’ spaventato, pensò che potesse essere scivolato dentro il corpo dello strumento, con gli immaginabili rischi durante il concerto (quando si esercitava, solitamente, il Maestro lo teneva appoggiato sullo strumento). Rapido, decise di smontare pezzo dopo pezzo tutto lo strumento: l’orologio non venne fuori. E invece: eccolo, sbucato chissà da dove nel camerino. Finalmente! Dopo i sospiri di sollievo il concerto ebbe inizio alla presenza del pubblico giapponese, che alla fine era estasiato e in piedi ad
applaudire. Nessuno voleva abbandonare la sala e tutti chiamavano ripetutamente Benedetti Michelangeli. Sempre a Tokyo una sera stavamo cenando nella suite del Maestro. I discorsi s’intrecciavano tra Fabbrini, Marie-Josè, il Maestro e chi sta scrivendo. Argomento fu la cucina giapponese che Arturo Benedetti Michelangeli adorava e gustava con piacere. A un certo punto intervenni ricordando i bis che il Maestro aveva concesso durante i concerti di Monaco. Lui rispose, molto severamente, che li aveva eseguiti solo per festeggiare il compleanno di Ce-
libidache. Io continuai nell’esaltazione di quella serata che culminò con un’esecuzione fantastica della lirica di Grieg: At the cradle. Mi disse: “Ah! Sei un uomo debole, ti lasci commuovere facilmente”; gli risposi: “Maestro la carne è debole certamente ma lei quella sera strappò il cuore a tutti”. Terminata la cena, si sedette in poltrona, accese il suo amato toscano; dopo due o tre boccate si alzò dirigendosi verso il pianoforte (un tre quarti) e attaccò At the cradle. Quando terminò, avevamo gli occhi rossi e il cuore in gola. Chiudo con le parole di Fernanda
Pivano: “La sua realtà era Listz o forse era Chopin o forse era Debussy chi lo sa qual era la sua realtà, ciascuno aveva una sua realtà, una realtà di Arturo Benedetti Michelangeli, una realtà che scaturiva dagli occhi chiusi, che filtrava dal mistero dell’anima, che sgorgava dalle promesse del cuore. Forse erano queste le sue realtà, irreali come i sogni della sua anima, come piogge di stelle, come ombre azzurre di nuvole; un artista così può vivere solo di sogni, può credere solo alla sua anima. Può ascoltare solo il canto dei colibrì”.
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“Ho preso per mano il
genio solitario di Michelangeli� Il direttore Celibidache parla dell’amicizia che lo lega al grande pianista Stile Italiano / N. 10-2010
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per gentile coNcessione del corriere della sera a cura di duilio courir
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Monaco di Baviera – I concerti Michelangeli-Celibidache sono un avvenimento entusiasmante per la Monaco musicale. A maggio l’impatto emotivo della celebrazione degli ottant’anni di Celibidache con il Concerto in sol di Ravel, con i bis per quattro sere consecutive tutti dedicati all’amico, bellissimi e carichi di affettività. Quattro mesi dopo, il ritorno di Arturo Benedetti Michelangeli con il Concerto in la minore di Schumann: la stessa emotività e trasparenza sentimentale. Del raro rapporto fra Sergiu Celibidache e il pianista italiano abbiamo parlato con il direttore romeno, uomo dolcissimo che parla con la saggezza di un personaggio da romanzo.
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Lei è il solo grande direttore che ha convinto Michelangeli a suonare con un’intesa miracolosa. “Abbiamo effettivamente suonato una enormità di concerti insieme senza che uno solo sia stato mai annullato. Ho vissuto dei momenti paurosi, ma non mi sono mai innervosito davanti alle sue richieste anche quando non capivo, perché io lo amo talmente che ho sempre ceduto: sentivo che c’era dietro una
ragione musicale e non un capriccio. L’ultima volta è avvenuto qui a Monaco, alla terza ripresa del Concerto di Ravel. Le luci erano state alzate per ragioni televisive. Michelangeli entra in sala pallidissimo. Gli chiedo: ‘Che c’è?’. Lui mi guarda appena: ‘Non posso suonare. La luce è insopportabile’. Mi si è fermato il cuore. Così davanti al pubblico, prima di cominciare, fa: ‘Me ne vado’. Devo aver fatto un’espressione di bambino che muore, che perde la famiglia. Lui mi ha guardato e ha aggiunto semplicemente: ‘Va bene’. Ho tirato un sospiro di sollievo che non si può neppure immaginare, ma ho compreso che Michelangeli ha fatto un immenso sacrificio perché io non vedevo i musicisti a causa della luce e lui, molto più sensibile di me deve aver sofferto moltissimo”.
Quale programma portate in tournée? “Sempre il Concerto di Schumann. C’è un’attesa enorme. I biglietti sono stati venduti in pochi minuti e adesso si trovano al bagarinaggio per duemila marchi, Michelangeli ha preso molto seriamente la cosa. Me ne accorgo dalle prove. Una volta infatti se ne faceva una, adesso siamo già alla terza e mi ha chiesto di vederci per parlare del Concerto come se fosse la prima volta che lo dirigevo. Lui ha veramente bisogno di una persona che lo ami, che lo apprezzi e che non sia in una posizione critica verso di lui. Forse pensa che io sia questa persona ideale e d’altra parte io provo questi sentimenti nei suoi confronti, anche perché quello che mi fa paura è la sua immensa solitudine”. Da che cosa nasce questa solitudine? “Dall’assenza nella sua vita di calore umano. In qualche caso si trasforma. Quando per esempio gli piace una donna diventa un’altra persona: è ispiratissimo, incomincia a raccontare, è brillante e divertentissimo”. è stato a trovarlo a Lugano? “Sì, fa una vita semplice eppure qualche volta piena di cose incomprensibili. Una volta ha tremato tutto l’inverno per il freddo. Sono tornato dopo qualche mese e la casa era circondata da cataste di legna alte tre metri preparate per l’inverno. Non si riusciva addirittura a trovare l’ingresso. Vive con pochi soldi perché non si interessa al denaro. Quando ha avuto il primo incontro con Michelangeli? “Nel 1938 a Berlino. Lui aveva 18 anni ed io 26. Una cosa paralizzante. Ho ringraziato Dio di non essere pianista. Il dominio della tastiera era miracoloso. Tra noi esiste un’affinità che mi sorprende perché abbiamo formazioni diverse. Ma che si deve giudicare dai risultati”.
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Michelangeli ritornerà in Giappone. Non è un episodio trascurabile per comprendere quale rapporto di amicizia e di totale confidenza esiste fra voi. “Lui in Giappone ha vissuto una situazione molto difficile e ha perso una partita legale complicata nella quale però artisticamente aveva ragione. Per la sua tecnica e più esattamente per il suo pensiero, un solo tasto che non risponde come desidera, non gli consente di suonare. Il suo pianoforte era rimasto scombussolato per il freddo. ‘Non posso suonare’, ha detto con disarmante serietà agli organizzatori, i quali hanno detto di provare con i pianoforti giapponesi ma la risposta è stata più precisa: ‘Non è neppure il caso di parlarne, miserabili’. A questo punto le cose si sono messe al peggio e i toni si sono fatti duri da parte dei giapponesi. ‘Lei suonerà, altrimenti il suo pianoforte resta qui’. Così hanno fatto e hanno combinato una porcheria. Lo hanno messo sotto processo, e, costretto a stare chiuso in albergo, gli hanno ritirato il passaporto. Lo ha salvato il suo accordatore che ha avvertito l’ambasciata. Così hanno potuto riavere passaporti e prendere il volo. Dopo questa brutta avventura mi scrisse una lettera, a me che gli voglio tanto bene, in cui mi chiedeva che tutti i giapponesi fossero espulsi subito dall’orchestra. Adesso le acque sono un poco cambiate e con que-
sta tournée cerchiamo di ricucire uno strappo tanto amaro e doloroso nel quale lui aveva sostanzialmente ragione ma ha perduto la partita legale davanti all’insensibilità degli altri. Del resto è stato un po’ il destino della sua vita”.
Un Debussy in originale
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per gentile coNcessione del corriere del ticino a cura di vittore castiglioni
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[...] A Milano l’editore Tallone, o per meglio dire, gli eredi familiari della prestigiosa stamperia e dell’arte del celebre Alberto Tallone, sono venuti all’annuale appuntamento con il loro nuovo volume. Questa volta dedicato alla musica: Monsieur Croche antidilettante di Claude Debussy. Anche questa volta la realizzazione di quest’opera di altissimo valore editoriale è stata resa possibile dall’intervento della Finter Bank e dall’iniziativa del dottor Paolo Mettel. Il volume, che al Circolo della Stampa era presentato dai due musicologi Giorgio Pestelli e Gian Paolo Minardi, si presenta nella sua veste originale in lingua francese; cioè come apparve la prima volta nel 1921. Che dire di tutto ciò? è un libro che, naturalmente, si presenta in una veste impeccabile e preziosa. Direi meglio, armoniosa. La tradizione dei Tallone, insomma; che è una tradizione che si potrebbe definire umanistica nel senso di una prassi d’arte informata ad una cultura che ha l’uomo come misura delle cose che lo circondano e che lo accompagnano nel vivere quotidiano. E un libro, un libro che sia anche un bell’oggetto per un pregnante contenuto, fa parte delle cose di cui l’uomo, inteso nel suo essere più nobile e spirituale, non può fare a meno. Atto di civiltà, quindi, questo consociato concorrere della Finter Bank, della casa Tallone e del signor Mettel, rivolto a chi ritiene che le cose dello spirito, della cultura e dell’arte siano gli unici autentici ornamenti degni di lui. E bisogna ancora
dire che il bellissimo volume, con gesto di elegantissimo e finissimo omaggio, è stato dedicato al grande artista Arturo Benedetti Michelangeli che del Ticino è ospite di indiscusso prestigio. A lui, in una pagina del volume, Paolo Mettel ha indirizzato brevi parole che tracciano, fra l’altro, anche il perché di tale dedica: Benedetti Michelangeli come inimitabile interprete di Debussy, interprete che “... a su nous révéler la profonde essence” della sua arte in un unico “itinéraire, celui du compositeur qui modèle par le son les images de la propre vie intérieure et celui du plus grand interprète qui a su les recréer magistralement”. Per quel che riguarda il testo di Debussy, si tratta di una raccolta di scritti di soggetto musicale. Debussy incominciò a scrivere quando, nel 1901, era già vicino ai quarant’anni. I suoi scritti apparivano sulla rivista parigina “Revue Blanche”, e furono seguiti in particolare da un ristretto ambiente di musicisti e intenditori. Ma una più vasta eco ebbero, poi gli articoli di critica apparsi sul quotidiano “Gil Blas”. Tuttavia, l’obbligo di una puntualità e di un impegno precisi non faceva per lui; quindi abbandonò la collaborazione regolare per mandare scritti isolati a suo piacimento, ai periodici “Mercure de France”, “Revue Belu”, “Musica”, “Commedia”, e a i quotidiani “Figaro”, “Paris Journal”, “Excelsior” ed altri. Ancora qualche articolo ebbe diversa destinazione. Solo nel 1914 Debussy scelse venticinque scritti per raccoglierli in un volume dal titolo Monsieur
e traslato per cui la musica non dovrebbe mai riprodurre più o meno esattamente la natura, ma farsi interprete delle sue misteriose concordanze con l’immaginazione. E, con molta prudenza, potremmo anche definire ciò come estetica impressionista. Del resto, non è, quella esposta, l’unica indicazione che Debussy ci elargisce attraverso le sue pagine, per ricostruire l’andamento di una coerenza di principi coi motivi scaturiti da una natura e da una mente dotate di un’estrema sensibilità. Bisogna, insomma, leggere o rileggere, il libro per aprire il nostro amico alla variegata panoramica che ci offre, e spesso alla sua attualità. (19 dicembre 1990)
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Croche antidilettante. Ma questa interessantissima raccolta fu pubblicata solamente nel 1921, tre anni dopo la morte del musicista. Questi scritti sono fondamentali per conoscere il pensiero critico dell’artista francese. Un pensiero critico che si lega ad un’espressione quanto mai sciolta, a volte quasi discorsiva, e ben lontana dall’accigliata e supposta autorevolezza di certi critici del tempo. Debussy si limita ad enunciare il “suo” modo di sentire un’opera o un autore, con estrema semplicità; una semplicità che, però, spesso non rinuncia al gesto polemico verso posizioni di giudizio a suo parere obsolete o inattese. è, insomma, un musicista sapiente che cerca con la sua sensibilità di stabilire un confronto di idee con l’autore di cui parla, con la cultura entro cui ha operato e con la posizione da lui acquisita in tale cultura. La sua non è mai una cronaca o una relazione più o meno partigiana e personalizzata, ma è un continuo raffronto con la propria cultura che si apre improvvisamente su inaspettate prospettive. I suoi giudizi – quando s’impegna in un giudizio – sono sempre motivati dall’esercizio di un’assoluta libertà interiore. Sono, in genere, brevi e non di rado taglienti. Né deve trarre in inganno quel suo discorrere leggero, quasi senza pretese, dove affiora spesso il sapore dell’ironia e dove il paradosso segna, con la sua sintesi, l’obiettivo di un procedimento di pensiero in modo efficace. Ma, soprattutto è l’assoluta libertà, cui ho accennato, che incanta e quel suo rivelarsi come totalmente figlio del suo tempo e come appartenente ad uno degli ambienti musicali e culturali più sofisticati di questo secolo. Tutto ciò fornisce al suo scrivere il marchio di un’autenticità oltre che di una genuinità che affascinano. Nella sua espressione c’è sempre una chiarezza e un’immediatezza avvincenti. Legato alla musica, Debussy scriveva solamente per la musica e della musica, rifiutando qualsiasi altra sovrastruttura. Basta leggere quel che scriveva per la Nona di Beethoven, dove lamentava la coltre di parole e di letteratura con la quale veniva generalmente sepolta. Ma per tornare all’estetica che si configura nelle sue pagine, un’indicazione ci viene dal suo ricondurre ogni segreto pensiero musicale alla natura, tramite un rapporto segreto
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“Un pianista rifugiatosi a Pura, suonerà eternamente per noi”
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“Un incontro”: Arturo Benedetti Michelangeli raccontato attraverso gli articoli di Armando Torno, raccolti nella pubblicazione dell’Editrice Morcelliana
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un animo irripetibile
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per gentile coNcessione di Editrice morcelliana © 2007 a cura di ARMANDO TORNO
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Francescanesimo
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Tra i primi documenti dedicati a San Francesco d’Assisi vi è una vita del santo scritta da Frà Tommaso da Celano. I letterati discutono se sia meglio consultare queste pagine nella prima versione, denominata Legenda prima, o se sia preferibile conoscere il poverello di Cristo nella Legenda secunda, la successiva stesura che il frate biografo realizzò utilizzando la ricca documentazione che gli inviarono i conoscenti del santo. Comunque sia, in entrambe troverete un passo di grande forza, nel quale si legge che “sicurissimo rimedio contro le mille insidie e astuzie del nemico il nostro Santo affermava essere la letizia spirituale”. Di più, Tommaso da Celano ci rammenta che Francesco era così certo di questo antidoto che “si studiava egli stesso di essere sempre lieto, e conservare l’azione di spirito e l’olio della letizia”. Non capita nella vita di conoscere molte persone che hanno nella loro madia “l’olio della letizia”, ancora meno se ne incontrano capaci di versarlo sulle cose e sui giorni. Chi scrive deve però confessare al lettore di averne conosciuta una, e di aver potuto apprezzare
le sue qualità proprio attraverso “sorella letizia”. Forse al lettore quello che sta leggendo parrà strano, frutto di un paradosso giornalistico: invece sappia che è veramente così e la persona in questione è proprio Arturo Benedetti Michelangeli. Ora che non è più tra noi ci accorgiamo di avere un debito con lui. Una parte certamente passa dalla tastiera: in tal caso non occorrono spiegazioni, perché Benedetti Michelangeli è stato un pianista unico, ineguagliabile, che non ha avuto e sicuramente non avrà paragoni. Di questo argomento avremo ora tutto il tempo per scriverne. Ma c’è una seconda parte del mondo del Maestro che è poco o affatto conosciuta, e che è degna della massima considerazione: riguarda quel suo francescanesimo integrale, con il quale ha vissuto e grazie al quale ha interpretato la musica. Sceglieremo dunque questa seconda via per ricordarne la figura, magari anche perché grazie a essa rivedremo per un attimo il suo sorriso, o la battuta che gli serviva per fustigare i fatti, o quel suo sguardo che scrutava la realtà come se fosse uno spartito.
Che dire in margine a questa vicenda? Semplicemente che i compact autentici e quelli abusivi si mescolano senza pudore nelle discografie, come prova quella presentata da Piero Rattalino e pubblicata dalla Ermitage di Bologna nel gennaio di quest’anno per i 75 anni del Maestro. Ed è qui che val la pena riprendere il filo della nostra storia per ricordare che un francescano ama le incisioni terse, autentiche, e non desidera scendere a patti con figure e figuri che affollano il mondo della clandestinità acustica. Qualcuno potrà dolersi del fatto che Benedetti Michelangeli incideva pochissimo, ma è altresì vero che “l’olio della letizia” va usato con vera parsimonia. Si è mai preoccupato San Francesco di un problema di quantità? Giovanni dei Cauli da San Giminiano – figura fascinosa del primo francescanesimo – nelle sue Meditationes vitae Christi, già volgarizzate nel 300, scrisse che “alle virtù degli altri dei mirare e seguitare, e stare sempre in paura”. Tutto ciò, certamente, non si realizza con l’abusivismo. Caso mai con l’esatto contrario. Non pensi il lettore che questi fatti accostati a passi francescani siano un artificio, una nostra invenzione. Arturo Benedetti Michelangeli amava la carità, proprio nel senso che San Paolo dà al termine. Qualche esempio? Prendiamo il récital che diede ad Ascona il 13 maggio 1986. Il ricavato servì per aiutare un villaggio dell’Amazzonia. In particolare i beneficiati scattarono una foto del pozzo che venne costruito con i fondi di quella serata e la inviarono al Maestro. Tale fotografia la teneva come una reliquia, gioiva nel mostrare quell’acqua ritrovata che aiutava a vivere e a lavorare. Un altro récital di Parigi è servito per costruire un lebbrosario nel Ciad (il villaggio porta il suo nome). Un altro esempio? Il ricavato del tanto citato concerto di Brescia del 16 giugno 1980, dato in onore alla memoria di Paolo VI, è stato affidato a monsignor Carretto per aiutare le famiglie disperse durante la guerra del Vietnam. E che dire delle suorine di Arezzo che si sono trovate il tetto rifatto e un nuovo organo? (a loro dava lezioni di musica e non si deve nemmeno tacere una certa gelosia da parte del vescovo). Potremmo continuare con altre decine di esempi. [...] Ma è giusto aggiungere qualcosa in più, un fatto 21
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Cominciamo innanzitutto con il rilevare che su Arturo Benedetti Michelangeli è circolato di tutto. Aneddoti, fatti completamente inventati, episodi inverosimili, battute. [...] Quello che occorre invece ricordare di lui era l’estremo rigore morale dinanzi all’arte e al prossimo. Non avrebbe mai accettato di eseguire un brano senza aver prima ripercorso tutti i possibili sentieri dei suoni, senza averlo intimamente conosciuto. Allo stesso modo, egli non volle mai autorizzare un’incisione senza essere sicuro dell’assoluta qualità della stessa. Purtroppo si scatenò intorno alla sua arte una pirateria che non ha eguali. Fu il suo ultimo cruccio. Tentiamo, prima di proseguire, qualche considerazione intorno a questo argomento, proprio per ricordare alcuni suoi giudizi sulle incisioni abusive. Egli le considerava delle “truffe” per un pubblico dal palato grossolano. Si rammaricava del fatto che l’Italia dei nostri giorni è un laboratorio che produce senza sosta e senza pudore incisioni pirata. In un’esecuzione, commercializzata sotto il suo nome, il Maestro aveva riconosciuto il tocco volgare di una donna che lo scimmiottava. Durante l’ultima visita che gli feci, mi parlò di due compact registrati abusivamente (dalla quinta o sesta fila) a Monaco il 5 giugno del 1992 e il 25-26 settembre dello stesso anno. La prima volta Benedetti Michelangeli eseguì il Concerto per pianoforte e orchestra in sol maggiore di Ravel e due Mazurche di Chopin, le seconda volta il Concerto in la di Robert Schumann (in entrambe le esecuzioni la direzione era di Celibidache). Tali incisioni abusive lo offesero particolarmente e diede mandato ai suoi legali di avviare una denuncia. Sono ancora questi due compact che entrano nel discorso, dopo la sua scomparsa, quando incontriamo Anne Marie-Josè Gros Dubois, la signora che gli fu accanto in questi anni: “Gli dispiaceva di queste due in particolare, ma anche del fatto che recassero il timbro SIAE. Sono registrazioni rozze, realizzate in fretta con un apparecchio da dilettanti, senza nemmeno rispettare i tempi di legge, e subito distribuite fuori Europa (al Maestro vennero inviate da amici giapponesi)”. “Ma il dramma sta anche nel fatto – prosegue Marie-Josè – che il timbro SIAE l’ho visto su decine e decine di dischi non autorizzati da Benedetti Michelangeli”.
suo esecutore testamentario [...]. Bene, nel sentire la frase Mettel provò una gioia particolare, perché – me lo spiegò più tardi – “l’abate” era la massima concessione che il Maestro si permetteva con i suoi ospiti e significava il riconoscimento più alto, quasi uno strappo alla regola. “L’abate” equivaleva al dom Perignon. Quella volta Benedetti Michelangeli si scusò perché avremmo usato “i bicchieri da dentista”, ovvero delle coppe normali. Da come apriva la bottiglia, a come sapeva versarne il contenuto, alla grazia con cui riponeva la forma nel secchiello: questi gesti apparentemente banali diventavano sotto le sue mani una liturgia. Si capiva che quell’uomo non era semplicemente il più grande pianista conosciuto, ma un animo nobile sopravvissuto in un angolo della terra e ora era lì, quasi per sortilegio. Anche con i “bicchieri da dentista” un fatto come “l’ingresso dell’abate” entrò a far parte dei ricordi. I quali, detto semplicemente, sono anche l’unico deposito a cui può attingere la nostra felicità. Mi dicono Anne Marie-Josè e Paolo Andrea (e anche altre persone che desiderano restare anonime) che il Maestro fu sereno sino all’ultimo e non si è accorto del trapasso. Si è spento alle prime ore di lunedì 12 giugno (poco prima delle 2). Si è addormentato e non si è più risvegliato. In ospedale era arrivato per un semplice controllo il martedì precedente, in seguito a un malessere di poca importanza. Ancora domenica scorsa, al mattino, i medici dell’ospedale di Lugano avevano portato i loro bambini per farli incontrare con lui. Mi dicono che ha avuto ancora una volta un sorriso per tutti, soprattutto per una bambina di due anni. Mi assicura Paolo Andrea che è riuscito, prima di andarsene, a fumare l’adorato toscano Garibaldi. La cerimonia di Pura, dove è sepolto, fa parte di quelle semplicissime. La bara era appoggiata a terra. Cinque religiosi hanno officiato il rito funebre. I loro nomi corrispondono a don Gian Paolo Patelli (parroco di Pura), don Antonio Sfriso, padre Egidio Hediger di Zurigo, monsignor Gastone Lastrucci di Mendrisio, padre Mario Cattoretti, priore di Santa Maria delle Grazie a Milano. Il suo testamento, scritto nel 1986 e mai mutato, chiedeva di evitare gli annunci e le cerimonie pubbliche. Desiderava inoltre una bara 23
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che conoscono soltanto pochi intimi del Maestro. Egli visse quasi un anno in un monastero francescano, alla Verna, in provincia di Arezzo, nel luogo dove il poverello di Assisi ricevette le stimmate (è proprio “il crudo sasso tra Tevere e Arno” di cui parla Dante nel Paradiso). Lì venne accolto dai frati per una convalescenza negli anni cinquanta. E senz’altro quell’esperienza lasciò un marchio indelebile nel suo sensibilissimo animo. Un animo che sapeva gioire con le cose semplici. Si potrebbe scrivere un trattato intorno a questa sua inclinazione. Benedetti Michelangeli amava il prato, adorava la pioggia, i fiori, le piante, anche quelle da frutto (scrutava con dolcezza il suo adorato albicocco). Coltivava i limoni e ogni giorno, in quest’ultimo anno di vita, mangiava un limone delle sue piante. Si capiva questa passione per la natura persino guardando dalla finestra del suo salotto: la vista si posava su una collinetta che sembrava messa lì apposta per far perdere l’occhio nel verde. Quello che posso testimoniare è un grande senso di armonia che si provava in sua presenza. Con mia meraviglia, la prima visita che gli feci durò poco meno di quattro ore: ma quel tempo era occupato così bene dalla regia del Maestro che non ci si accorgeva quasi di nulla. Le sue parole avevano qualcosa di solenne, cadevano sempre nel luogo giusto del discorso. Era informato di tutto. Sapeva citare D’Annunzio e vi stupiva ricordando il passato di un critico musicale che aveva conosciuto decenni addietro. Riusciva sempre a conciliare gli argomenti con il sorriso. Memorabile fu la battuta sulle 8 lauree honoris causa che alcune università italiane e straniere avevano cercato di conferirgli. Le rifiutò tutte. Ci disse, ricordando l’episodio: “Ma cosa ne faccio?”. Rispedì al mittente anche altri attestati, il cui elenco stuccherebbe persino i più pazienti. [...] Ci si accomiatava da lui conservando il sorriso. Mi capitò, proprio alla fine del primo nostro incontro, di assistere alla “cerimonia dell’abate”. Quando tutto era andato liscio e il Maestro desiderva congedarsi in maniera speciale, pregava Anne Marie-Josè di “far entrare l’abate”. Quella volta era accanto a noi il comune amico Paolo Andrea Mettel che, oltre ad essere di casa dal Maestro, gli curava i problemi economici ed è il
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semplice, non una lapide, sulla sua tomba voleva soltanto una croce. E chiedeva inoltre che la sua salma fosse benedetta da un religioso. La sepoltura, infine, la gradiva nella nuda terra. Aggiungeva in calce alla breve richiesta un “grazie”. Mi assicurano inoltre Anne Marie-Josè e Paolo Andrea che il suo volto, dopo il trapasso, ha acquisito un sorriso tranquillo, sereno, simile a quelli che egli concedeva nei momenti felici. Lo si direbbe toccato – e ora lo sarà per sempre – dall’“olio della letizia”. Un sorriso francescano, degno di un uomo che se n’è andato in silenzio, senza disturbare, lasciando un tesoro inestimabile. Tra I detti del Beato Egidio di Assisi – uno dei primi seguaci di Francesco – ce n’è uno che recita testualmente: “Chi non fa agire in sé due personaggi, il giudice e il signore, non può venire a salvazione”. Se il Beato Egidio è stato ispirato per questo passo non lo sappiamo, certo è che nell’animo di poche altre persone come in quello di Benedetti Michelangeli seppero convivere “giudice e signore”. Jacopone ci ha anche ragguagliato sulla povertà che deve avere questo “giudice e signore”, ovvero ci ha lasciato una quartina che ci invita a meditare sul possesso delle cose, sul significato stesso della vita: “Povertate è nulla avere/ e nulla cosa puoi volere,/ e onne cosa possedere/ en spirito de libertate”. Non è il caso di raccontarvi chi ha partecipato alla cerimonia e gli ulteriori commenti che sono nati. Possiamo soltanto riportare una risposta che il Maestro diede ai medici di Lugano che si scusavano per non aver trovato in quei giorni una stanza con particolare vista. Anne Marie-Josè ce la ricorda: “Non preoccupatevi, la mia testa è piena di musica”. Come dire: ho da fare lo stesso, il panorama lo guarderò la prossima volta. Una risposta semplice ma significativa, proferita da un uomo che amava la semplicità che la natura sa offrire e che riusciva a meravigliarsi osservando un dettaglio (per non dimenticarcelo: era deliziato dai film di Walt Disney, soprattutto da Biancaneve e i sette nani e da Bambi). Ha vissuto di musica, dunque, il Maestro. Ad essa è giunto attraverso la via di Francesco, quella
assoluta. Come pochi altri interpreti egli ha conosciuto l’anima delle note, il senso profondo di un accordo, il valore di un certo suono. Nella sua casa di Pura tutto è rimasto come quel martedì in cui è partito (il pomeriggio aveva suonato ancora). Peccato, avremmo avuto un suo nuovo concerto in ottobre. E lo avrebbe dato a Monaco, insieme a Celibidache. Ma ora non è più tempo di ragionare con i “se”. Dobbiamo renderci conto che egli non è più tra noi. E che un pianista così non riusciremo né a dimenticarlo né a sostituirlo. Molte volte gli uomini si chiedono come sia la morte. Come giunga ogni giorno sulla terra e cosa dica alle persone che deve incontrare. Come si presenta? È nera e solenne così come la vediamo ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman e prima di svolgere la sua missione apre le braccia spalancando il lugubre mantello dicendo: “Sono la morte”? O forse no, non è così. Può essere che sia dolce, così come la descrive Beethoven ne la sonata Al chiaro di luna? Seguite il pianoforte e vi accorgerete che, lentamente lentamente, i tasti si trasformano in inquietanti passi: sono appunto i suoi, quelli dell’Eterna Signora che stanno raggiungendo qualcuno. Se è così può essere che la Morte giunga scortata dalla tranquillità. Sentiremo camminare. Ce ne accorgeremo soltanto per questo. Oppure sarà terribile? Ci farà piangere, ci strazierà? Difficile rispondere. Può anche essere che ognuno di noi avrà una morte proporzionata a quello che ha cercato in vita. I politici se ne andranno inseguiti dalle chiacchiere, i vanesi dai complimenti e dalle patacche che li attestano, gli sciocchi dalle lodi che hanno tanto cercato, i cretini dal ghigno generale. Raro è però morire con un sorriso, portarselo con sé per sempre, amalgamarlo con una piccola fiasca di “olio della letizia”. Convenite che è una fine per anime elette e grandi? Per anime che, al di là di mille apparenze, hanno saputo lasciare qualcosa agli altri uomini? Se tutto questo vi trova d’accordo, allora siate con noi: mettete un nome accanto a simili qualità ora elencate. Fatelo tranquillamente. Lui non può che approvarvi. (18 giugno 1995)
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Un suono per l’eterno
Non è facile per chi ha avuto la fortuna di incontrare Arturo Benedetti Michelangeli ricordarlo a un anno dalla morte. Le sue parole, i suoi gesti, soprattutto la sua arte non riescono a lasciare i pensieri, a spegnersi nel silenzio che il tempo reca con sé. Il Maestro lo immaginiamo ancora lì, nel salotto della sua casa di Pura, accanto alla cara Marie-Josè, attento alle mosse del gatto Attila. È sempre un conversatore pacato che ogni tanto, senza dare importanza alla cosa, cita l’amato D’Annunzio o si sofferma su un passo de I Fioretti di San Francesco. Il giardino, come è suo compito, attutisce i rumori del mondo. Soltanto i tasti dei suoi pianoforti se ne stanno immobili attendendo quel tocco che ora è possibile ritrovare soltanto nella memoria. [...] Vive soltanto in essa. Michelangeli è appunto la memoria pianistica di questo secolo. Si potrà dire di lui tutto e l’esatto contrario, ma ben poco si riuscirà ad aggiungere ai suoni che ci ha lasciato in eredità. In un secolo che ha rincorso la comunicazione, che ha esaltato l’immagine, che ha puntato ogni cosa sui sensi, quest’uomo ha cercato di dire poche ed essenziali cose, ha indossato sempre un vestito che assomigliasse alla
semplicità più estrema, ha usato le sue doti di seduttore per le note. Varcare la soglia della casa di Pura equivaleva ad entrare in un convento. Non vi era alcun orpello in giro, non esisteva il superfluo. C’era lui, la sua arte, la sua conversazione. [...] Sull’uomo circolavano leggende ridicole. Si sono raccontate su Benedetti Michelangeli barzellette che qualcuno ha creduto vere. Egli non rispose, non replicò. Ricorse agli avvocati soltanto quando la pirateria delle incisioni assunse proporzioni industriali; chiamò ancora i legali quando si accorse che un suo gesto di carità era stato disatteso. Non fece altro con gente che avrebbe meritato la gogna per quello che ha detto e scritto sul suo conto. Sospese i concerti quando si accorse che si facevano speculazioni musical-turistiche con il suo nome. Si limitò a chiudersi nel silenzio col quale conviveva benissimo, evitando in tal modo di trovarsi davanti la faccia di certi esemplari della specie umana che andrebbero salutati soltanto con i guanti del chirurgo, per scongiurare il contatto con la loro pelle. Certo, non passava mese senza che i curiosi si interessassero a lui. E lui, il grande pianista, replicava rifugiandosi tra le
fu varcata da pochissime persone. Si contano sulle dita delle mani. Che dire ancora di un uomo che fu vittima di calunnie, di truffe, di bugie, di invenzioni e che replicò con la sua arte e con il silenzio? Che dire di un artista che non fu capito e che diede la vita per farci capire la musica? Che dire di “fratello Arturo”, francescano sopravvissuto nel mondo delle comunicazioni, che amò la semplicità e la discrezione? Che dire di un artista che poteva guadagnare miliardi e li ha rifiutati devolvendo i suoi eventuali proventi quasi tutti in beneficenza? Già, che dire? Oggi si diventa famosi nel mondo della cultura unendo bassi servizi a scelte politiche oculate, apparizioni in televisione a dichiarazioni possibilmente volgari (così si è capiti subito e da tutti); Michelangeli divenne un mito fuggendo da tutto ciò, comportandosi come un asceta. Jean Cocteau ha scritto che “il dramma della nostra epoca è che la stupidità si è messa a pensare”. Parole sante. Per questo un artista come Benedetti Michelangeli ha subìto di tutto durante la sua vita e ha dovuto rifugiarsi oltre il confine d’Italia, Paese che si riesce ad apprezzare soltanto a debita distanza e con le giuste precauzioni. Ma è certo che quanto ci ha lasciato non morirà per chi ama la musica e la sua lezione servirà ai giovani di domani e di dopodomani. La sua vita ha avuto senso per quelle anime gentili che non accettano il compromesso e non si dilettano con la mediocrità. Sì, la sua è stata una lezione d’artista, ma la sua fuga da ogni circostanza imbarazzante è servita come esempio per qualche spirito isolato. È difficile scrivere cose particolari quando si deve trattare con l’emozione. Quando un uomo la evoca in noi attraverso la corsa delle sue mani sulla tastiera, con i suoni che ci ha lasciato, oppure semplicemente per un sorriso che ha concesso. Lo ripetiamo: è difficile. Ma è anche vero che i greci, quando ragionarono intorno all’essere sotto l’Acropoli, si accorsero che se il tempo è destinato a ritornare, allora tutte le vite che viviamo o che vivremo le abbiamo eternamente vissute; e tutto ciò che facciamo o faremo lo abbiamo eternamente fatto. Se è così, un pianista rifugiatosi a Pura suonerà eternamente per noi. (9 giugno 1996) 27
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sue tastiere. Le interrogava ore e ore per decifrare quei messaggi che Chopin o Debussy o Mozart ci avevano un giorno lasciato. Si arrivò a offenderlo, pubblicando un elenco delle incisioni abusive. Quel pomeriggio, a Pura, ci fu tristezza. Ma alla fine dei dialoghi affiorava sempre un sorriso, un giudizio, qualcosa insomma che arricchiva i presenti. [...] Si potrebbero ricordare due momenti brillanti di Benedetti Michelangeli. Il primo è senz’altro quello del rifiuto delle onorificenze. Ci disse – e lo scrivemmo a suo tempo – che aveva respinto ben otto lauree che le varie università gli offrirono. Dovremmo aggiungere per completezza che non accettò nemmeno alcun riconoscimento che fu proposto dalla Repubblica italiana. Perché? La risposta è molto semplice (e la riportiamo qui, così come la proferì il Maestro, presente anche Paolo Andrea Mettel, che gli curava l’amministrazione): “Non li posso accettare, sono monarchico”. L’altro momento che ci fa sorridere è il ricordo della sillabazione dell’aggettivo “cretini”. Era divino quando lo pronunciava. Quel “cre” grave, seguito da un “ti” intenso e da un “ni” quasi sussurrato diventava il ritratto e la chiave di infinite situazioni che siamo chiamati a vivere. “Quei cretini”, oppure “cretini!” (il punto esclamativo indica la solennità della pronuncia), o ancora “cretini” (semplice semplice) riassumeva una vera gamma di giudizi. Chi scrive si accorse a Pura che cosa mai sia il grande avanzamento della stupidità (e di tanti cretini) nel mondo dell’arte. Michelangeli non sbagliava un colpo. Il guaio è che l’assedio al suo rifugio era stato posto e gli assedianti erano più numerosi dei girini dello stagno. L’ultima volta che lo andai a trovare ricevetti un abbraccio. Lo scrivo ancora con emozione. Ma forse è giusto che lo ricordi, anche per replicare a coloro che hanno osato infangare la sua figura sostenendo che “era privo di calore umano”. Il guaio è che ne aveva troppo. Ciò che sapeva comunicare non è spiegabile con semplici parole, perché assomigliava a qualcosa di magnetico. Chi l’ha offeso in quel modo – si sappia – non lo ha mai incontrato (apparvero anche interviste mai rilasciate, così come si lessero necrologi di persone che vantavano confidenze mai concesse). La soglia della casa di Pura
L Lipsia, 1811. Un critico – di cui si è perso il nome e del quale conosciamo con sicurezza soltanto le iniziali – ha la fortuna di assistere alla prima assoluta del quinto Concerto per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven. Il titolo di Emperor Concerto verrà dato alla composizione in Inghilterra, subito dopo la morte del Maestro. Anche per questo il signor critico parlerà soltanto nella sua recensione di Concerto in mi bemolle maggiore. L’entusiasmo del fortunato spettatore fu tale che la penna gli scappò di mano, e il suo giudizio venne formulato con una serie di superlativi: “Di tutti i concerti esistenti, questo è senza dubbio uno tra i più originali e spettacolari, ma anche uno tra i più difficili”. [...] Opera tra le più ammirate, ricca di elementi che verranno messi a frutto da Schumann, Liszt e Brahms, l’Imperatore scaturisce da qualcosa di “trionfalmente solenne”, di intimamente bello. È proprio l’abilità del pianista quella che sa mettere in luce sia i bisbigli d’argento sia la forza dei pieni orchestrali presenti nella scrittura di Beethoven. Sottolineiamo l’abilità, ché il compositore in quest’opera non concede al solista alcuna possibilità di inserire passaggi ornamentali propri. Anzi, Beethoven è così meticoloso che arriva a prevenire eventuali “fantasie” del solista. Inutile negare che il brano fa parte dei repertori e che
L’interprete di esso sono disponibili decine di incisioni. Ma forse, proprio a causa di questa larga offerta, si può scrivere che è raro ascoltare un’esecuzione degna di tale concerto. Arthur Rubinstein, ad esempio, nelle sue interpretazioni non è andato a nostro giudizio oltre quel languore virile che era adattissimo per il suo Chopin, ma che in questo caso rendeva le innovazioni formali e le arditezze armoniche dell’Allegro iniziale come se avessero il retrogusto al rosolio. Un Pollini con Abbado, per passare al secondo esempio, ci offrono un’eccellente interpretazione dei cinque concerti per pianoforte e orchestra beethoveniani, ma giunti al Quinto si direbbe che rinuncino al colpo d’ala necessario (evidentemente Pollini lo ha riservato per le Sonate, nelle quali oggi non ha molti concorrenti). Certo, il miracolo Furtwangler-Fischer è forse irripetibile per l’Imperatore, ma a ben riascoltarla questa interpretazione resta il documento di un’epoca insuperabile più che l’insuperata interpretazione della pagina beethoveniana (il magnetismo di Furtwangler si avverte, e quasi ipnotizza l’eccellente Fischer). Glenn Gould – lo abbiamo ricordato in altra occasione – rinunciò a entrare nelle dolcezze del Quinto, forse per evitare di confrontarsi con i dettagli dell’Adagio un poco mosso, il secondo movimento, terrorizzato dalla tonalità in si maggiore che propone un viaggio a colori tra le vene dell’anima.
fa soffrire. Gli offre il paradiso e lo trattiene. Alla fine del primo movimento, l’Allegro, c’è uno spazio dove si celebra una gagliarda contrapposizione tra solista e orchestra. Da essa Ludwig muove il formidabile passo in ottave del pianoforte, quindi ordina agli altri strumenti di ascendere con lo spunto “rullante” del tema stesso, conducente alla ripresa. Sarebbe un momento proprizio per lasciare libero il pianista e per dargli la possibilità di esprimersi. Invece no. Per scongiurare tale eventualità, Beethoven stesso scrive in italiano proprio a questo punto: “Non si fa nessuna cadenza, ma s’attacca subito il seguente”. Ed è in questa stretta osservanza che si rivela la grandezza di chi sta al pianoforte. Benedetti Michelangeli nel 1960 ci mostra che vi è l’infinito a disposizione in tale punto, che si deve far sentire una certa nota con l’anima oltre che con i muscoli delle dita. C’è, in altre parole, qualcosa di indescrivibile che si avverte, e che vi appaga scortato da un senso di pace. È l’interpretazione che entra in voi. L’altro esempio, sempre tratto dall’esecuzione del 1960, riguarda un incidente naturale capitato durante l’esecuzione. Undici battute prima della fine del concerto, al termine del ritardando, un lampo e il conseguente tuono. (6 agosto 1995)
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Inutile continuare, siamo giunti al nocciolo del nostro discorso. Il quinto Concerto è soltanto apparentemente facile, in realtà richiede le massime doti all’esecutore. La prova l’abbiamo avuta ascoltando due interpretazioni che ci ha lasciato di esso il sommo dei sommi: Arturo Benedetti Michelangeli. Una incisione il lettore la conosce certamente. È quella che ha in catalogo la Deutsche Grammophon, con i Wiener Symphoniker e la bacchetta di Carlo Maria Giulini, registrata nel 1982. La seconda – ed è questa la grande novità – è quella che Benedetti Michelangeli eseguì in Vaticano, nell’Aula della Benedizione, il 28 aprile 1960 con l’Orchestra Sinfonica della Rai di Roma sotto la bacchetta di Massimo Freccia. [...] Due interpretazioni che non hanno rivali. Quella del 1982 potremmo definirla dotata di una grazia che sa scolpire le arditezze armoniche e gli accordi ascendenti, i colori e i temi. Quella del 1960 è una vera rivelazione: nonostante l’incisione mono si riascolta un miracolo (probabilmente uno dei pochi avvenuti in Vaticano) acustico. Il Maestro, senza concedersi la minima disobbedienza nei confronti dei ferrei ordini di Beethoven, ci restituisce il più bell’esempio di interpretazione di una musica che è forte e intima, veloce e calma, doce e rutilante. Perché? Due casi per spiegare la nostra affermazione. [...] Beethoven non lascia spazio al pianista. Lo
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BIOGRAFIA Arturo Benedetti Michelangeli nasce nella notte tra il 5 ed il 6 gennaio 1920 a Brescia, dove inizia, all’età di quattro anni, gli studi musicali presso l’Istituto Musicale Venturi, sotto la guida di Paolo Chimeri. Successivamente prosegue gli studi a Milano perfezionandosi, per il pianoforte e la composizione, con Giovanni Anfossi e per il violino con Renzo Francesconi. Si diploma a soli quattordici anni al Conservatorio di Milano, iniziando subito un’intensa attività concertistica. La rivelazione del suo straordinario talento trova il più vivido suggello nel 1939 quando gli viene assegnato il primo premio assoluto al Concorso Internazionale di Ginevra, la cui giuria era presieduta da Paderewski. In quella occasione lo stupore destato dalla sua apparizione sarà riassunto nella famosa dichiarazione di Cortot: “È nato il nuovo Liszt”. Nel 1946 suona in Inghilterra mentre nel 1948 è invitato negli Stati Uniti e nel 1949 a Varsavia per partecipare alle celebrazioni del centenario chopiniano. Parallelamente si dedica con entusiasmo all’insegnamento: dapprima al Conservatorio di Bologna, quindi al Conservatorio di Venezia e di Bolzano. Ma tiene anche corsi di perfezionamento, ad Arezzo, Siena, Torino e in seguito a Lugano. L’attività concertistica lo porterà nel 1964 in Russia, l’anno successivo in Giappone quindi negli Stati Uniti, in Israele e di nuovo in Germania. Nel 1964 fonda il Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo di cui rimane direttore artistico per circa tre anni. Scelta la Svizzera come sua residenza, vive nei pressi di Lugano, a Pura, proseguendo, con sempre più profonda tensione riflessiva, nella propria ricerca interpretativa i cui esiti trovano riscontro in alcuni grandi appuntamenti: numerosi concerti con orchestra e recitals in tutta Europa. Si ricordano in particolare i concerti in Vaticano del 1977 e del 1987, la serie dei concerti di Bregenz, quelli londinesi e altri ancora. Attività che riprende con nuovo slancio dopo l’interruzione, tra il 1988 e 1989, dovuta a un grave malore durante un concerto a Bordeaux. Spiccano gli straordinari concerti di Brema del 1989 e 1990, che hanno trovato poi fissazione esemplare in due dischi mozartiani, quelli di München dove ha collaborato con Celibidache, seguiti dalla intensa tournée giapponese del 1992 e il recital di Amburgo del 7 maggio 1993, che ha rappresentato l’ultima apparizione in pubblico dell’artista. Muore il 12 giugno 1995 a Lugano ed è sepolto a Pura.