Serodine nel Ticino - Introduzione

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Un’altra mostra di Serodine

– «Un’altra mostra di Serodine?» – «Ma non ne hanno fatta una due anni fa?» – «E ancora a Rancate, alla Pinacoteca Züst?» Sì. Un’altra mostra di Serodine alla Pinacoteca Züst. E messa su proprio da chi si è trovato tante volte a criticare l’inflazione di esposizioni di Kandinskij e di Klimt, ma anche di Canova e di Hayez. Allora perché? C’è una ragione contingente molto precisa: nella parrocchiale di Ascona stanno per iniziare i lavori di restauro all’intero edificio; di qui la necessità di ricoverare la pala dell’altare maggiore, il quadro più grande di Giovanni Serodine e l’unico destinato con certezza al suo paese d’origine (cat. 10). Il luogo prescelto è l’unica pinacoteca cantonale del Canton Ticino. Intorno a questa presenza eccezionale – l’opera mancava infatti dalle ultime rassegne – sono stati raccolti tutti i dipinti del pittore che ora si trovano in Svizzera. Sono 10 quadri, su un catalogo complessivo che non arriva ai 20 numeri. Serodine, per chi non lo sapesse, è morto giovane, nel 1630, e la sua produzione è dispersa ai quattro venti, spesso nascosta sotto altri nomi: la sua resurrezione critica e la sua collocazione agli estremi limiti della pittura europea del Seicento fanno parte dei tanti meriti di Roberto Longhi1. Negli anni che ci separano dal saggio del più grande storico dell’arte del XX secolo, cioè dal 1950, le mostre di Serodine – esclusa la presente – sono state quattro, di cui una con due sedi: alle Isole di Brissago la prima, nel 1950; a Locarno e a Roma la seconda, nel 1987; e poi le due a Rancate, nel 1993 e nel 2012. È un record, che nessuno – crediamo – dei pittori, si fa per dire, caravaggeschi ha raggiunto: nemmeno l’onnipresente Artemisia Gentileschi. Eppure la fama dell’artista non ha ancora toccato nella consapevolezza comune il posto che le spetta, a fronte di una qualità sbalorditiva e di un manipolo di fanatici che ne hanno a cuore la grandezza. Tra le ragioni di questa limitata notorietà, oltre al silenzio delle fonti contemporanee (non si va molto al di là della breve, e malevola, biografia di Giovanni Baglione, stampata nel 1642), c’è forse la collocazione periferica delle sue opere: ma non ne mancano al Prado, alla National Gallery di Edimburgo, a Palazzo Barberini a Roma e al Louvre2. Potrebbe pesare anche l’assenza di elementi romanzeschi nell’esistenza di Giovanni Serodine, al di là del destino di sparire a trent’anni. Quindi niente beghe giudiziarie, niente stupri, niente omicidi, niente avvelenamenti (anche se la storiografia ticinese su questo punto ha provato, ma invano, a insistere). E neanche tanta bohème. A riscaldare un po’ gli animi ci sarebbero solo le relazioni pericolose tra le mura famigliari: ma nulla, se non la curiosità pruriginosa, ne garantisce l’esistenza. In Serodine c’è solo – o soprattutto – un’incredibile profondità nel compiere il proprio mestiere, con una libertà senza confronti tra i contemporanei, che ha spronato semmai a fascinose, 8

se non indebite, attualizzazioni. Da quelle in direzione dei grandi maestri europei del Seicento, da Velázquez a Hals e a Rembrandt, a quelle che puntano verso la pittura moderna: da Van Gogh a Cézanne, da Soutine a De Staël. Forse tutti riferimenti, a pensarci bene, leggermente inattuali in un’epoca come la nostra, troppo figli di un amore per la pittura-pittura che sembra ai più avere fatto il suo tempo. Resta un omaggio a quella stagione, e a chi ci ha creduto e ci crede, il particolare che campeggia su una delle due copertine del catalogo, sul dépliant e su uno dei due poster: gli alberi ai bordi dell’acqua sotto il cielo di crema solcato orizzontalmente dalla freccia di San Sebastiano, cioè i pioppi sulle rive del Lago Maggiore ai Saleggi, accanto al delta della Maggia. Come ci piacerebbe fossero visti, tra anarchia e utopia, dall’alto del Monte Verità3. Lo scopo della mostra di quest’anno è rivedere – senza orpelli e senza confronti, né casuali né mirati – le opere ticinesi di Serodine: stanno tutte immerse, da sole, nella sala grande, dal doppio volume, al piano terreno della Pinacoteca Züst. Danno vita a una sorta di installazione, inventata da Stefano Boeri. Sua è l’idea di mettere le opere in un unico ambiente: e sua soprattutto è la proposta di esporre, appese tanto in alto, la pala dei Mercedari (cat. 4) e le due minori di Ascona (cat. 1-2), a filo con quella più grande. Lo scopo è fare sì che chi arriva sul palco a mezz’aria si trovi immerso in un lago di Serodine, che ti avvolge su tutti i lati: quasi in un panopticon. Così da fissare a livello degli occhi – ed è la prima volta – l’orchestra angelica che circonda l’Incoronazione di Maria nel quadro dell’altare maggiore di Ascona. In questa scelta espositiva così radicale, per cui tanto si è prodigato Marco Giorgio, non manca dell’azzardo: ma ci sembrava fosse una scommessa da tentare. Quasi che una delocazione temporanea fosse in grado di stimolare poi a scrutinii ravvicinati. Non è difficile immaginare però i commenti dei benpensanti: – «Questi vogliono fare strano, divertirsi» – «È perché non hanno niente di nuovo da dire…» – «Sapessero almeno fare le attribuzioni…». Eppure a guardare bene la distanza tra l’occhio dello spettatore, che si sporge dal balcone, e la pittura non supera di molto i tre metri, cioè il punto di vista con cui normalmente si osservano i quadri di grande formato nelle chiese e nei musei. La squadra dei Serodine è disposta sui muri di Tita Carloni diventati per l’occasione neri, mentre i proiettori, che l’Artemide di Carlotta de Bevilacqua ed Ernesto Gismondi ha gentilmente prestato, li bagnano di luce nel buio. Le indicazioni didattiche stavolta sono ridotte all’osso, affisse al grande muro che si frappone alla vetrata aperta sul sagrato della chiesa di Santo Stefano. Anche da fuori abbiamo voluto si leggesse il titolo dell’esposizione: Serodine nel Ticino. Un nome proprio e uno stato in luogo4. Niente di più: niente «protagonista», 9


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