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Editoriale

ESERCITAZIONI IN LINGUA ALTRA Ci chiedevamo: esiste il teatro di poesia? È esistito nella tradizione novecentesca, è deflagrato sulla scena italiana? Avevamo una domanda più radicale: non la performance, l’intrattenimento, la poesia spettacolare. Poi le sigle iniziano a scorrerci davanti agli occhi: teatro di parola, teatro dell’urlo, teatro in versi, teatro versificato… Un excursus sul novecento ci porta subito alla deriva in una selva di nomi, definizioni, manifesti, tentativi di rottura. Eppure in questione è sempre la lingua, la sua rigenerazione in un corpo fisico e nell’azione. L’innesto della poesia nel teatro e del teatro nella poesia si rivela come una pratica estrema, una esercitazione in una lingua altra, dove è gioco l’effrazione dell’ordinario, la necessità di uno spostamento. Come questa spinta verticale abbia disturbato, fecondato o anche portato al fallimento la drammaturgia italiana, dopo l’exemplum tragico di Pasolini e Testori, dopo l’irruzione non metabolizzata di Carmelo Bene; come i poeti si siano impadroniti della scena, o come drammaturghi, registi e attori abbiano inseguito l’utopia di un teatro nuovo, e di una poesia altra dalla poesia stessa; come l’avanguardia teatrale del novecento, da Artaud a Beckett, abbia rivoltato dall’interno la scrittura, il dettato dei poeti. Una mappatura di questo terreno vasto e accidentato richiede un confronto prolungato, ci impegna in una avventura di conoscenza dove sono in gioco il nuovo e la sua possibilità. Il confronto inizia da questo numero dell’Ulisse: una panoramica storica (in Saggi e incursioni) su momenti chiave del teatro di poesia del secondo novecento europeo (Artaud e Beckett) e italiano (D’Annunzio, Bene, Pasolini, Testori) fino alle esperienze più recenti (Walcott, Porta, Raboni); una ricognizione (ne La poesia in scena) di alcune delle esperienze più vive della scena italiana degli ultimi anni, documentando il lavoro di compagnie teatrali (Teatro i, Teatro Valdoca con Mariangela Gualtieri, Lenz Rifrazioni con Pierluigi Bacchini, Teatro delle Ariette con Giancarlo Sissa) drammaturghi, registi e attori (la trilogia Pasolini di Latella, l’esperienza di Engelbrecht, Mazzarelli e Berti) e ospitando interventi polemici e appassionati sull’unicità del teatro di poesia italiano (Fratus) e sulla perturbante e silenziosa coralità del dire poesia (Scarpa). Il teatro di poesia è incorporato anche nella sezione Autori, dove Il teatro dei poeti presenta una vasta campionatura di scritture per la scena, ospitando lavori teatrali di poeti contemporanei (Costa, D’Elia), prove di autori delle più recenti generazioni (Petrova, Engelbrecht, Sannelli, Diana, Ventroni) frammenti di drammaturgie sceniche su testi teatrali (Latella su Pasolini) o poetici (Pititto su Bacchini e Rilke), poesie dal passo intimamente teatrale o già adattate per la scena (Amato, Damiani). Mentre la sezione i tradotti, accanto ad una scelta di poesie legate al teatro di Heiner Müller e alla scena finale de Le drame de la vie di Valère Novarina, presenta una selezione antologica di autori di lingua francese, tedesca e spagnola, cui si aggiunge anche il consueto diorama di letture italiane. Ci chiedevamo: esiste il teatro di poesia, cos’è oggi, cosa lo distingue dal teatro “altro”? Perché si scrive teatro in versi, perché si fa teatro con le poesia? Perché rappresentare sulla scena un testo di poesia, quali le sue specificità per il regista? Quali le poetiche delle compagnie che decidono di lavorare sul teatro di poesia o di fare riduzioni teatrali di testi di poesia? E cosa distingue la poesia “pura” dalla poesia per il teatro? Ci chiedevamo e continuiamo a chiederci: perché la sfida del teatro di poesia sarà lanciata di nuovo nel prossimo numero. Italo Testa

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SAGGI E INCURSIONI

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Un panorama del Novecento

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LA POESIA E LA SCENA NOVECENTESCA C’è voglia di Poesia nel teatro italiano novecentesco, anche perché c’è la coscienza che con la morte di Dio, Poesia e Teatro siano accomunati da un medesimo destino luttuoso. E nello stesso tempo, circola negli intrecci la topica del poeta suicida, per amore magari o perché non compreso dal pubblico, e in tal modo anche i nostri repertori si allineano ai lamenti sulla «perdita dell’aura». Ma c’è da sottolineare subito che se la poesia in scena non è più di casa, non è perché le parole sono troppo immanenti, e non «fanno» più «il verso», né perché i corpi non si muovono più con l’antica leggerezza. Alle parole solo parlate, e non cantate (il carmen ossia lo charme, ossia la fascinazione), al corpo fermo nello spazio e non danzante, corrisponde infatti, nel teatro di prosa, e in «lingua», la definitiva cancellazione delle maschere, che nel dialetto aveva trovato le sue ultime difese. Ora, senza maschere, la poesia non accede sul palcoscenico, meglio, senza un rapporto religioso (nell’etimo di legame organico) tra maschere, complesso mitico, funzione rituale della rappresentazione. Il teatro novecentesco nella sua strategia poetica se vuole tornare al sacro e al tragico, per la sua avversione al mimetico, al lucido, al funzionale entro i meccanismi del box office, non potrà che ritentare la via della maschera, e da qui rischiare un’immersione nel magico. Perché poesia coincide, in questa nostalgia dell’arcaico, con «poiesis», ossia fattura, pratica gestuale per «vedere oltre», e per far vedere l’al di là agli iniziati, e dunque una pratica divinatoria, e un apparato di protocolli per frequentare l’ombra in una dimensione evocativa. Ma la nostalgia è ineffabile, non può cioè essere detta, né comunicata, né realizzata se non sul piano di tecniche riduttive. Il teatro di poesia, per restare all’Italia, ha conosciuto solo due esperienze «regressive», nell’etimo della parola, due repertori eversivi rispetto ai codici scenici egemonici della loro epoca, proprio in quanto travolti da un ambizioso furore, da un gusto aristocratico (da aristos), da una velleitaria ricerca di mitizzare scandalisticamente la propria scrittura e di assegnare un ruolo dichiaratamente magico alla drammaturgia personale. E non riuscendovi, entrambi han finito per mitizzare se stessi, trasformare le proprie metafore ossessive in miti personali, rinchiudersi in un’aura tragica un po’ come l’Enrico IV pirandelliano. Mi riferisco a D’Annunzio e Pasolini, molto simili tra loro per più d’un aspetto, accomunati nel rifiuto sprezzante delle condizioni imperanti al loro tempo sui palcoscenici pubblici, il primo negli ultimi anni dell’Italia umbertina al passaggio verso quella giolittiana, il secondo nel decennio ‘60-‘70, tra il centro sinistra e la contestazione sessantottesca. Ma entrambi, nel loro programma di alzare il tiro, di riportare la Poesia a Teatro, non possono che fallire, anche se gloriosamente. Occorre a questo punto precisare lo statuto antropologico delle maschere, quale grammatica primaria per una scena poetica, e dunque sacra. LA MASCHERA E L’ASSENZA

La maschera è infatti presente in tutte le civiltà arcaiche e classiche. un segno festivo che non manca a nessuna società nella sua origine. Come il tabù dell’incesto, allo stesso tempo motivo convenzionale e culturale per le diversità tra un’area e l’altra, e insieme naturale per l’universalità delle sue manifestazioni, la maschera parla, o meglio danza in tutte le lingue. L’Oriente è, però, il suo territorio privilegiato. Nei templi buddisti, nei chiostri lamaisti, nelle cappelle shintoiste, nelle corti nobiliari, nelle sale recintate delle caste militari, nei santuari e nelle processioni ai sacri luoghi induisti, negli agapi cimiteriali, e ancora nelle piazze popolari, tra i campi di riso, tra semplici festoni floreali, davanti a banchi sacrificali cosparsi d’erba, come nei culti vedici, tra rozzi assi di bambù e al baluginio della lampada votiva. E la maschera veste la Festa col suo suggello misterioso per le più svariate strategie: dalla bassa magia animistica alle raffinate liturgie esoteriche, dallo sciamanismo medianico alle divinazioni esorcistiche, emerge il suo volto sconciato e deforme per lanciare enigmatici messaggi. I grandi cicli propiziatori, legati alle culture venatorie, pastorali, agrarie e zootecniche, rielaborate spesso in chiave culta-sublime, i rituali relativi ai miti di «fondazione» (il «prima» originario), ai miti di «iniziazione» e di «integrazione sociale» (il «poi» verso cui procedere grazie al superamento di prove), ai miti di fecondazione (il «di più» da garantirsi nel prodotto alimentare e sessuale) si appoggiano inevitabilmente al suo ghigno mostruoso, al suo fascinus numinoso. Col suo solo apparire, la maschera «racconta». È il suo un epos tutto tradotto in una iconografia multipla, in movimento che della «fabula» utilizza e segue tutte le direzioni, dall’agiografia all’innografia, dall’epinicio alla ierofania, dalla cosmogonia all’insegnamento protreptico, dalla rapsodia amorosa e guerresca delle mitologie leggendarie ai formulari devozionali, dalla declamazione soteriologica al divertissement ludico-decorativo. Ora, tra i tanti colori di cui si ricopre, è possibile scorgere, sotto, un disegno costante: infilarsi la maschera significa sempre, «all’inizio», perdere il «Soggetto». La Storia, anzi, delle maschere potrebbe intendersi in fondo come Storia di narcotici pubblici, di fughe deliranti dal proprio ego sentito quale limite, di sospensione di coscienza, autorizzata e cercata con ossessiva e puntigliosa sollecitudine! Perché la maschera religiosa, non ancora caduta nello spettacolo, esclude il Soggetto, è inversamente proporzionale alla sua vischiosa resistenza nella misura in cui opera un vero e

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proprio decentramento rispetto all’io, quasi in una dimensione oniroide, dove, parafrasando Benjamin, l’individualità precipita in basso come un dente cariato! Questo itinerario verso l’altro da sé è, però, un morire simbolicamente protetto da parte di chi la indossa. La maschera è infatti un morto che esplode, che urge oltre la barriera tra il di qua e l’Aldilà, cranio del defunto sovraimposto sulla faccia del vivo, barriera che ne divora e assorbe i sensi vitali. Antenato totemico, spirito zoomorfo, divinità solare iperurania cui come in uno specchio sollevato verso l’alto si protende, e ancora demone inferico che schizza fuori dalle oscure pulsioni ctonie che brulicano nei visceri del suolo, sempre è una larva spettrale che s’impossessa di colui che l’ha evocata, che si presenta non di sua iniziativa, il che sarebbe catastrofico e incontrollabile, ma culturalmente provocato, e quindi non per distruggere, ma per aiutare. Del resto, maschera e persona si ricongiungono nella loro etimologia arcaica intorno a un comune vocabolario luttuoso. La maschera non è, allora, investita per essere vista dagli altri, spettacolo rivolto agli occhi profani dei presenti, ma è una propedeutica singola e collettiva per «vedere oltre», per farsi, attraverso l’intensità estatica con cui si pensa all’assente, con cui si immedesima in chi non c’è, penetrare nel corpo dall’Altro. Esserci, ma non vedere, apparire come in sogno ma non esserci, è questo lo statuto ontologico, la condizione indeterminata del fantasma, il cui arrivo esclude la presenza di chi l’ha incorporato; di questo scambio notturno la maschera costituisce una sorta di lugubre sineddoche. Potremmo anzi vedere l’origine della maschera nella bocca dove lo sciamano si riduce a cavità orale entro cui sprofonda il morto e da cui poi lascerà i suoi sillabati, esoterici oracoli. Se la bocca è l’orifizio metafisico da cui fuoriescono i «rumores» orrifici che vanno e vengono tra «daimon» e sacerdote, l’occhio si riduce a mera appendice inerme, sguardo risucchiato dal vuoto, buco spalancato che si proietta nella Notte. La maschera non guarda i vivi; le sue sbarrate pupille fissano abbacinanti L’invisibile, sono la «tache aveugle» di cui ci parla Bataille, sono il volto della Medusa, pateticamente inseguita dalle poetiche decadenti occidentali fine ‘800. Si chiedeva Nietzsche: «Noi vediamo tutte le cose con la testa umana, e non possiamo tagliare questa testa (...) che cosa esisterebbe ancora del mondo, se invece la testa fosse tagliata?». Ebbene, la maschera arcaica è proprio questo «mondo senza una testa», mondo sentito in assenza del Soggetto. La trascendenza che si mescola con l’immanenza, il sogno che sostituisce la veglia, si incrociano negli attoniti lineamenti della maschera stessa, dove si intersecano e ruotano tra loro le coppie polari del vivo/morto, cultura/natura, reale/immaginario, umano/non umano. Nella dialettica tra reintegrazione ed espulsione del morto questo travestimento manifesta innanzitutto un furore omeopatico. Ora il contatto tra il volto del vivo e il simulacro di chi è già morto o di chi mai morrà, avviene infatti entro un orizzonte di paura. «Larva, simulacrum quod terret», si legge nei penitenziali tomistici, e questa apotropaica didascalia implica che tra le funzioni esaltate nel commercio colle anime, dopo il dissimulare e il metamorfizzare, lo spaventare è la strategia più attiva, perché entrare nella maschera comporta il passare dalla classe di chi subisce il fascinus in quella che lo provoca. È la maschera, pertanto, lo spazio dell’oltre e dell’altro, inciso sul proprio corpo, sorta di altare iconico che spiazza, mutua e destorifica la presenza del soggetto. Se la musica e la danza rappresentano le arti che favoriscono i processi di «incarnazione», «in-spirazione», «in-vasamento», la maschera suggella la fine del viaggio, grida nella sua maniera «mostruosa», che questo «adunaton», questo evento che disintegra le leggi della natura, è già «avvenuto». Sbocco terminale del grande profluvio energetico richiesto, dell’investimento traumatico di forze, di vitalità e di concentrazione, la maschera va ben oltre i sintomi febbrili, gli scotimenti delle membra, i parossismi della trance, è didascalia «dell’arrivo», dell’oltre raggiunto dallo psicopompo. Fissazione di una condizione transitoria, la maschera convive paradossalmente con la gestica della danza, con la pronuncia animistica delle sillabe sacre, in una catena simultanea, plurisegnica, in un dialogo dissociato e reintegrato tra forze in campo opposte, di cui la maschera rappresenta proprio l’esito fantasmatico. Se i gesti del corpo fungono da indici deittici del percorso metafisico, da richiami iniziatici al Dio, la maschera opera come momento iconografico e cinetografico di questa «insania», risultante dello spostamento di soggetto. Se il corpo in movimento, ulteriormente, è il momento dionisiaco della danza, la trasgressione autorizzata e la ricerca dell’eccesso dinamico, la maschera traduce da parte sua il culmine apollineo, la ricomposizione statica nella forma, «nell’imago» messa a fuoco. Il corpo che regge questa maschera diventa allora il corpo incompiuto, collettivo, rovesciato, configurazione dell’abnorme e dell’eccentrico, come nelle parallele carnevalizzazioni dell’area occidentale. Il ripresentarsi così del codice, la coazione a ripetere del rituale di questa perdita del sé, si concretizzano, si solidificano, depurandosi dai tratti più angosciosi, nella struttura della maschera medesima. Situazione immaginaria cristallizzata in una lunga sedimentazione di tentativi precedenti, divenuta segno che si espone in tutta la sua compiutezza, la maschera è l’invisibile che apre palpitanti fessure nella serie del visibile, e tra i due mondi avviene una densa osmosi, quasi prestazione totale di mutuo scambio, secondo le leggi del «Potlac» a cui allude Marcel Mauss. Specialista di questa massima lontananza dal sé, in grado di procedere avanti, e insieme capace di rientrare nel quotidiano, ossia di togliersi la maschera e tornare vivo, è il mago danzatore. Per nascondersi dietro la maschera, infatti, per mettere in scena questa «fictio», nel doppio significato di immaginare una presenza che non c’è e di modellare su questa assenza una «figura», un simulacro, perché possedere l’immagine del modello sacro, imitarla sulla propria pelle permette dì operare

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attraverso quel modello, è richiesto un tirocinio estremamente impegnativo. Saper sparire e rientrare ad «entusiasmo» finito, rimettere i piedi in terra da un viaggio che è insieme tecnica artistica, trance amorosa, allucinazione vaticinante e cerimoniale di iniziazione, implica una tecnica ardua, «un’arte del doppio», per incanalare la dispersione centrifuga in un «itinerarium mentis ad Deum» che consenta di avventurarsi tra la folla dei «mana» invisibili e che garantisca per il ritorno alla propria identità, inibendo altresì le forze malefiche dall’approfittare della momentanea separazione tra spirito e corpo del mago stesso. Ora, colui che ha il diritto di assumere la maschera inferica, questo incantatore dedito all’occulto fervore religioso, è divenuto attraverso il tempo e poi nei contatti col pubblico occidentale, inevitabilmente un archetipo di attore teatrale. Ma in tal modo riemerge la presenza del Soggetto. La maschera è messa fuori gioco, è scomparsa dalla scena occidentale in quanto emblema funebre, s’è detto; rivive solo come progetto utopico nelle avanguardie storiche, nelle febbrili reviviscenze, nelle manifestazioni estetiche lasciate ai margini dell’industria culturale, caricata di valenza politica contestativa o di strategia ludica, ma ormai tutta dentro la cultura del Soggetto. Morti i morti nella dimensione mondanizzata delle nostre selvagge città, in cui la festa è diventata ferie, consumo privato e individuale di un preteso tempo libero, spezzato il cordone, un tempo solidissimo, di socializzazione culturale tra i vivi e i morti, resta la curiosità per questo arcano che ricompare ormai solo nella psicopatologia quotidiana, nei sintomi nevrotici, nella lingua del sogno, tra il familiare e l’irriconoscibile. È la morte del morto che più non ritorna, più che la Morte di Dio, ad aver spento le maschere, riempito le loro bocche, aperto i loro occhi, ricomposto i loro corpi. Eliminato il culto dei morti, che non producono e quindi non servono, rinchiusi nei cerimoniali privati, sono le maschere a sparire dalla circolazione profonda dell’immaginario collettivo. La nostalgia dell’estasi, del narcotico, d’altra parte, dopo tragiche esperienze politiche recenti, non può non suonare sospetta ideologicamente e culturalmente, tra società di massa e regimi totalitari. Nell’anonimato urbano, nella voracità ebbra con cui si drizzano e abbattono via via i nuovi idoli feticcio, lo scambio tra soggetti avviene ormai come mero incrocio psicologico tra precarie e fittizie identità. Non siamo noi il coro di servitori del Dio, che immobili riescono a scaricare l’energia interna nel mondo esterno dell’icona sacra, non siamo noi capaci di «vedere oltre», circondati come siamo dalle ragnatele delle tante, proliferanti antenne televisive che hanno pervicacemente opacizzato l’infinito sopra i tetti del nostro villaggio elettronico. Se anche, in una più completa ricostruzione filologica di questi spettacoli, potessimo recuperare l’altra parte della scena, trascinare anche chi sta al di qua della rampa, del «limen», il gruppo cioè dei fedeli, scorgeremmo sempre soltanto quelli che «vedono», non quello che costoro «sanno vedere». Partita dai templi, passata per le corti e le piazze, la maschera arriva così nei nostri festivals, già nel termine deformazione etimologica, tragica e insieme irreversibile, della Festa antica. Divenuta spettacolo desemantizzato, folklore esportato, questa maschera ha subito la rimozione profonda della Storia che preme alle sue spalle: la complessa trama del suo regime iconologico, le contaminazioni tra momenti devozionali ed estetici, le incessanti migrazioni tra aree alte e basse della cultura, sono cancellate per un contatto immediato. A questo sogno ormai disorganizzato, senza possibilità per noi di coglierne spostamenti e compensazioni, possiamo accostarci solo coi surrogati della fa me conoscitiva, per divorano nei nostri templi laici del sapere come oggetto di esposizione, frammenti per raggelate autopsie tra istituti universitari e tavole rotonde. Artaud, del resto, ha pagato a caro prezzo il velleitario tentativo di riprodurre sulla Scena di Città la metafisica lotta dell’anima alle prese con larve e fantasmi. IL TENTATIVO DANNUNZIANO

Negli anni in cui la parola dannunziana sale sul palcoscenico per la prima volta, ossia verso la fine del secolo, la riflessione sul mito in Europa ha, nel frattempo, accumulato nuovi e decisivi contributi su origini, funzioni, meccanismi, strategie culturali del mito stesso e sulle sue connessioni col linguaggio. Pur nella diversità di scuole ed indirizzi vengono così ad emergere, e via via a stratificarsi, alcune costanti interpretative, capaci anche di infiltrarsi in modo produttivo nei settori lontani dall’antropologia o dalla mitologia comparata, come ad esempio quello estetico. Innanzi tutto, si batte l’accento proficuamente sull’omologia tra mito e sogno per la comune presenza di aspetti incongrui e tematicamente selvaggi. «Incoerenza» e «violenza» risultano dunque i correlati primari e del mondo arcaico e di quello onirico: le due dimensioni manifestano allo stesso modo infatti una spinta irresistibile a vanificare le leggi del «regime diurno», a umiliare le pretese del Soggetto verso un’organizzazione razionale e logica del reale, a sostituire al principio di «non contraddizione» o di identità lo spirito di «partecipazione». Nel mito, insomma, le categorie del tempo e dello spazio, il rapporto io-altro, la scansione lineare del montaggio subiscono, per quanto appunto concerne la narrazione, un processo radicale di frantumazione, uno smottamento continuo e assillante dei bordi e delle giunture. Grazie ad un simile gioco di «condensazioni» e «spostamenti», per usare proprio una terminologia ormai classica desunta dall’approccio psicoanalitico al sogno, l’immagine diviene inevitabilmente «polivalente», esalta il tasso di ambiguità, rivendica il suo «statuto iconocentrico», sottraendosi a qualsiasi velleità di definirla e coprirla attraverso la parola! A tale metaforicità inesausta e diffusa, il mito aggiunge altresì (e qui i suoi codici culturali si fanno più complessi del sogno) una

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propensione evidente a «regredire», a rivolgersi verso il passato in quanto «origine», anzi a costituirsi quale «fondazione» del presente comunque inteso, ma allo stesso tempo questa carica verso il «prima» si dialetizza coll’opposta tensione a proiettarsi verso il «poi», controllando ed esorcizzando le insidie del futuro. Cosmogonia originaria da un lato, iniziazione e fecondazione dall’altro, implicano allora cerimoniali precisi, protocolli specifici, una pratica dunque, dove il «mito» si trasforma e si rinnova in «rito», per garantirsi «un’efficacia» simbolica sul reale. Ancora, il mito cresce su se stesso, germina, e si moltiplica sulle proprie parti, ripete ma contemporaneamente assimila valori semantici nuovi, si fa cioè «struttura dinamica», in un gioco serrato di schemi oppositivi, di corrispondenze plurime, definibile in base alle sue variabili. In un certo senso, noi ritroviamo simili componenti nella drammaturgia dannunziana. Nel suo teatro, il mito circola come Notte, come distruzione momentanea dell’Ordine, come perdita d’identità, come metafora indecifrabile, come aspirazione a fondare il passato e ad orientare il futuro, come metamorfosi indecifrabile che parte però da una combinatoria limitata. Soprattutto, la scena dannunziana si apre al mito in quanto forma e sostanza della sua vocazione irreversibile a «ritualizzarsi», a coinvolgere un circuito, a determinare e ad incidere un tempo-spazio non meramente estetici. Non ci troviamo insomma davanti, come invece succede per tanto teatro europeo primonovecentesco, ad un «pastiche» letterario, ad una citazione ironica, ad uno straniamento critico nei riguardi del mito, ad una sua riattualizzazione problematica che ne dimostri la caduta d’aureola nel mondo moderno. D’Annunzio non è Gide, o Giraudoux o Anouilh, per fermarci ad autori francesi che pure tanto spesso «usarono» il classico, non è nemmeno un Oriani o un Morselli, per restare in area nostrana e in periodi anche coevi allo scrittore. Se in costoro la memoria dell’antico agisce in una prospettiva «critica», al contrario in D’Annunzio il mito possiede una forza «monumentale-antiquaria», nell’accezione niciana del termine, e questo in quanto fiducia intrinseca sulle possibilità d’un «ritorno globale dei valori» del passato e di un loro fecondo riproporsi nella cultura del tempo. Teatro come rito, allora, e rito essenzialmente di «passaggio». Lo strumento scenico, nonostante la sua estrazione elitaria, idealistica ed esoterica, di partenza, secondo le poetiche tardoromantiche in cui si iscrive l’impatto dannunziano col palcoscenico, intende infatti come il mito fondare un’origine, iniziare un futuro, svolgere un compito «alchemico di mutazione» rispetto ai materiali culturali prelevati e ai destinatari cui si offre. Semplificando, potremmo sostenere che il teatro dannunziano funziona come una «macchina mitopoietica», in cui il «pubblico» si deve trasformare in «popolo», il «caos» in «cosmo», la folla «minacciosa» socialmente in massa «disciplinata» e lavoratrice, l’eroe androgino e snervato in novello «Ulisside», la donna da «femmina medusea» a «madre-partner» esorcizzata. Conviene iniziare dalla parola, a questo punto. Teatro scritto, teatro letterario, s’è spesso polemicamente affermato a proposito delle partiture dannunziane. Ebbene, nel l’ottica mitica, tale caratteristica non rappresenta un limite, ma una scelta necessaria! Sfasata enormemente nei confronti della chiacchiera convenzionale dei tardi epigoni del naturalismo francese, questa parola irrompe nei salotti prudenti e verosimili dei Giacosa, dei Praga e dei Torelli con un’insostenibile, inospitale «verticalizzazione», con un accumulo «inaudito» di enunciati, un sovraccarico debordante di figure lessicali, di tropi poetici da rendere inevitabile la crisi di rigetto da parte del contenitore. Si tratta in effetti d’una lingua medianica, salmodiante, innaturale, di «côte» wagneriano simbolista, che si colloca cioè nel solco, almeno nella sua origine «culta», dei teatrini d’arte della «rive gauche» parigina «fin de siècle». Oralità animistica, melopea ierofanica, la parola dannunziana sulla scena diventa formulario magico per tragitti estatici e stuporosi, molto più «performativa» degli attanti di maniera che la «recitano», degli stereotipi languorosi della «Zivilisation» preraffaellita e anglo-bizantina, incaricati di pronunciarla. Così le «Erodiadi», gli «Orfei» di Moreau, le «Pentisilee» di Kleist, le «Salomé» di Wilde, le «Psiche giacenti» di Burne Jones, le «Meduse» di Khnopff, le «Muse» di Denis e di Maeterlinck, le «Beatrici» di Rossetti, i «Fauni» di Mallarmé e di Debussy, le «Cleopatre» di Swinburne, le «Salambò» di Flaubert, le «Sibille» di Sartorio, gli «Efebi» di Pater, ossia l’iconologia parnassiano-decadente, grazie alla parola si mettono in azione, entrano in «trance», lasciano la dimensione quotidiana per sprofondare nella topica del sogno. Ecco pertanto la condizione costante del protagonista dannunziano sulla scena, che si mostra quasi sempre addormentato, o in dormiveglia, o in stati febbrili di possessione amorosa, riproducendo in tal modo perfettamente la fenomenologia del «Soggetto» che partecipa ai «protocolli mitico-rituali» nel mondo arcaico. Come già puntualizzato altrove, lo spazio visibile esteriormente è molto meno rilevante dello spazio invisibile; ciò che si mostra e in cui si svolge la rappresentazione, il conflitto, è solo un «pretesto» per ciò che viene «e-vocato», ricordato, atteso. Nonostante le soluzioni a volte spettacolari, richieste dalle didascalie, nonostante l’uso multimediale dei segni scenici col ricorso all’Opera d’Arte totale dalla «Figlia di Jorio» alla «Pisanelle», dalla «Nave» al «San Sebastiano», il qui «presente» ha nettamente meno carisma dell’«assente», il momento «drammatico» si risolve in quello «lirico-epico» ed è la parola che media la distanza tra la scena fisica e quella allucinatoria del personaggio in crisi. L’«altro», l’avversario, il «partner» erotico è in fondo un mero precipitato, una condensazione che «appare», risucchiata dallo sguardo trasognato di un io isolato nei propri labirinti deliranti! Nei testi più radicali, meno compromessi, cioè colla «collisione interpersonale», il lessico brucia presto le scorie del dialogo, salendo musicalmente verso una monodia lamentosa, abbandonato il «recitativo» e innalzandosi

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verso l’«aria», a mo’ di prosciugato libretto, ultima stagione del nostro melodramma ottocentesco. E la parola, insomma, che consente la fuoriuscita del fantasma, che libera la visione interiore, che opera una sorta di graduale parossismo fascinante travolgendo il protagonista e con lui (almeno nelle intenzioni dell’autore) lo spettatore. Inevitabilmente, il «sermo» risulta «elatus», punta sistematicamente al «sublime», evita il registro «cotidianus» o peggio quello «rusticus-plebeius», rifugge dalle contaminazioni con cifre ironiche, da slittamenti nella «bassa» comicità, stante appunto l’analogia col mito-rito e col sogno. Ora lo statuto ritualistico del teatro dannunziano comporta dei «cerimoniali regressivi», ossia il rimando ad un orizzonte mitico, ad un tempo anteriore in cui è già esplosa la «scena primaria», verso cui retrocede il montaggio con una progressione irresistibile. Dietro l’impulso d’un’autentica «coazione a ripetere», l’azione presente tende a riprodurre istericamente l’azione passata, prima in termini narrativi e poi rivivendola in una maniacale riattualizzazione. Può essere un incubo demoniaco, come il tragico antefatto d’amore luttuoso nel quale è inchiodata la demente Isabella nel «Sogno d’un mattino di primavera», oppure l’abbacinante ricordo di lontani trionfi erotici che perseguita e umilia, per il contrasto colla decadenza fisica e il nuovo stato d’abbandono, la Doganessa Gradeniga nel «Sogno d’un tramonto d’autunno». DI AFFABULAZIONE E DI ALTRO

Nel ‘66 Pasolini è a letto, ammalato d’ulcera. Perde sangue e intanto legge i «Dialoghi» platonici, anche memore di due sue precedenti traduzioni dall’antico, cioè l’«Orestiade» e il «Miles gloriosus». Questo è il quadro costruito dai suoi agiografi, questa è la «bibliografia» classica in cui si inscrive la serie dei suoi testi, sei, composti di getto in quegli anni. E nella ripresa del mito classico, nella sua declinazione sottile, che si «origina» la parola pasoliniana, è in questa distanza abissale dai canoni coevi del teatro «storicamente» prodotto che si sprigiona il suo lessico «medio-alto», nei registri retori ci cioè di una parola antica, che recita nell’etimo il verbo di Omero, e quello di una parola recente, transeunte, tipica delle «parole non scritte di cui non c’è niente di più bello». Nel lessico di questo teatro ritroviamo puntualmente l’atipica ambivalenza pasoliniana: da un lato, la parola si consegna alla pronunzia convenzionale, ad una «koiné», non purista, ma pur sempre interregionale e antidialettale, verso una oralità prosaica che dilata le proprie possibilità semantiche, la parola insomma come significato da esportare, come medium «didattico» e «dialettico», ed è questo il momento «apollineo» — illuminista; dall’altro, la parola «dionisiaca», ctonia, notturna, che sale verso un livello sublime o sprofonda verso lo scatologico in una circolarità tra l’eccesso del divino e l’eccesso del bestiale, che sta al tono medio precedente come l’«aria» sta al «recitativo» nel libretto musicale del melodramma. È in questa seconda lingua che si manifesta con più evidenza la natura monologante, la propensione lirica «Oratoria» di Pasolini, la sua propensione «affabulatoria» verso una sorta di autoallucinazione per il Soggetto che si narra. Parola in questo caso, che agisce in sostituzione dell’azione scenica praticamente annullata, tutta già avvenuta al di là del sipario, tutta rivissuta nel ricordo o nell’attesa, parola sillabata quale agente «estatico» per la discesa nel magma pulsionale dell’«Es». Ora, se il lessico rivela contaminazioni tra il sostrato greco e attualizzazioni con aree determinate dell’epicità antidrammatica del Gran Teatro della Crisi (dal «fantasmi» eliotiani alle «Uscite» funebri pirandelliane di memoria leopardiana, dall’«Antologia di Spoon River» alle confessioni pubbliche di Wilder), anche l’intreccio denuncia collegamenti precisi colla staticità, discontinuità, intransitività del teatro «espressionista», e perfino colla destrutturazione della letteratura dadaista per certe animazioni di oggetti o stati d’animo, divenuti «dramatis personae» come in «Bestia da stile». Ma è il Notturno, nella scena pasoliniana, che scalpita per uscire alla luce e monopolizzare la parola, in una messa a fuoco del desiderio e in una messa a morte dell’io, ossia nelle due tipiche attività delle macchine oniriche. Ancora una volta, tale lingua cerca di parafrasare il «disordine del discorso» di farsi doppio del corpo, rallentando il processo che appunto l’annulla nella mera fisicità, là dove verrebbe sostituita da un alfabetiere e da una sintassi che usano i corpi direttamente come figure cifrate. E dunque questa lingua sfida l’impossibile, e intende esprimere il «profondo silenzio con cui si tocca il grembo», e in tal senso i corpi evocati automaticamente sullo spazio del palcoscenico devono subire uno straniamento che li smaterializza, li riduce ad ombre, data la natura «iconica», non «simbolica» del mezzo teatrale. Ulteriormente, questo lessico, inteso quale trattenimento, quale sospensione e allungamento del desiderio e della violenza omicida, quest’instabile equilibrio sul filo della vita/morte, perimetra tutto un intreccio centrato maniacalmente sulla «Famiglia di Notte», secondo la tradizione del teatro europeo tra i due secoli, tra Strindberg e Pirandello. Ecco, allora, gli snervanti «mixages» dei ruoli parentali, le inversioni tra Padre e Figlio, tra Marito e Moglie, tra Vittima e Carnefice. «Affabulazione», ad esempio funziona come una sorta di cerebrale carne-valizzazione nella gerarchia sessuale dell’asse edipico, rovesciamento provocatorio all’insegna del «complesso di Laio»; con un padre voyeur che spia il figlio, ne individua la forza coitale, in una frenetica identificazione-possessione del suo Mana fallico, fino a masturbarsi per farsi sorprendere dal ragazzo:

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«Nella sua testa immacolata e testardamente conformista non può entrare la previsione nemmeno più confusa di un padre nudo, pronto a far l’amore, ma senza sua madre sotto di lui. Ed è così che mi troverà, invece, e vedrà il mio sesso ... la cui funzione, dunque, sarà pura .... senza utilità come nelle masturbazioni, del ragazzo, appunto ... quando un ragazzo si sente, nel pugno un sesso di padre, ma privo del privilegio di fecondare, come un grande albero senza ombra».

È inevitabile pertanto, che questa regressione si traduca in un processo di detronizzazione, di cannibalizzazione del figlio stesso: «Ci sono delle epoche nel mondo in cui i padri degenerano e uccidono i loro figli compiono dei regicidi».

In «Orgia», al contrario, è il rapporto coniugale ad essere attraversato da una simile furia demolitrice, con un transfert ed osmosi interne, finché l’uomo, il cui cuore si è indurito «come un membro», l’Uomo che ha sacrificato, novello Isacco senza più Angelo che lo fermi, l’intera famiglia, s’è femminilizzato in un cerimoniale psicotico e dissociativo che allude a Genet. È questa creatura spettrale che sbuca all’inizio di «Orgia», a suicidio avvenuto, è quest’Uomo apparso a declamarci la sua triste storia, il personaggio forse più rappresentativo del teatro pasoliniano, colui che s’è inoltrato più a fondo nel tunnel senza ritorno di una crudeltà autodiretta e autodistruttiva, colui che monta sulla scena, in cui non saliranno mai operai come nel sogno del «Calderon», colla testa in mano, avendo alla lettera perso questa testa, e potendo quindi percepire il mondo appunto senza testa, al di là del bene e del male, della vita e della morte. Questo narratore funebre lo ritroviamo in «Affabulazione», sdoppiato nei due simulacri complementari dell’Io epico e giudicante, immagine di Sofocle, del padre disperato, obsédé dai propri fantasmi. «Affabulazione» è pure un dramma a tesi, se lo si legge alla luce del «Manifesto del Nuovo Teatro» del ‘68. Questo funebre «auto da fè» rivendica una nobile origine, una indipendenza in quanto «micro Accademia» dalla lontana democrazia ateniese, una aura di circuito chiuso dove mittenti e destinatari del testo-lettura siano rigorosamente sullo stesso piano di «competenza culturale», in una trasparenza speculare che consenta eventuali rotazioni nelle parti in gioco. Teatro di parola, scritto innanzi tutto per la mente che lo ripercorre, spunto recitati vo da consumarsi in esercizi di «autodidattica», oratorio i cui interpreti, secondo l’utopia pasoliniana, dovrebbero essere i soli ascoltatori e in cui a farla da protagonisti non sono i personaggi, ma le idee che crescono e si spostano grazie allo scambio problematico tra scena e sala. Pasolini, si sa, parodizzava in quegli anni, i vari modelli di «rito» teatrale del «mercato», da quello basato sulla figura carismatica del mattatore al revival pseudo-sacrale dell’americanismo del Living, dal politicocomiziante al mondano-sociale (quest’ultimo irreversibilmente spiazzato per la concorrenza trionfante della civiltà audiovisiva). Per certi versi, allora, il nuovo schema agita paradossalmente la memoria del «Lehrstück» brechtiano, del dramma didattico concepito dal drammaturgo tedesco tra le ce neri della Repubblica di Weimar: là, il processo dell’«autodramma», ossia di copioni scritti esclusivamente per gli esecutori militanti, intendeva agevolare l’interiorizzazione della dialettica hegeliana in una strategia rivoluzionaria del mutamento anche personale. Qui invece, in un orizzonte azzerato ideologicamente per la caduta di tutti i miti, dalla resistenza alla cultura popolare, dal progetto alternativo alla rivoluzione stessa, viene ribadito in dimensioni ridotte il mandato sociale dell’intellettuale tramite la moltiplicazione infinita di zone periferiche decentrate, in cui avviare la sotterranea educazione al dialogo. Nessun divertimento, nessun gusto scandalistico, nessuna catarsi, nessuna tautologia, assicurati, viceversa, come Pasolini annotava polemicamente, dal teatro della chiacchiera e dal teatro dell’urlo, ossia dal teatro naturalistico-mimetico gastronomico e dal teatro gestuale-sperimentale, in cui Pasolini racchiude un po’ sbrigativamente le tendenze del teatro italiano sul finire degli anni ‘60. «Affabulazione» rientra così in una specie di didattica illuminata alla notte romantica: antipopulista per eccellenza, un po’ esoterico ed elitario pur nella prefissata proliferazione del proprio modello, questo schema contraddittorio mantiene tutto il fascino di un «discorso sul teatro al di fuori del teatro», in una prospettiva «postuma», in una tensione poetica-adolescenziale che ignora volutamente le leggi della macchina dello spettacolo, che sabota sadicamente la tradizione dell’interprete, le esigenze dello spettatore, i calcoli degli impresari o la velleità del militante! Per ritrovare una simile «inesperienza», una analoga aggressività contro lo specifico professionale, dobbiamo risalire, per restare nell’ambito italiano del nostro secolo, proprio ai citati «sogni» niciani del giovane D’Annunzio gettati coll’ardore del neofita,

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ma anche con una maggior tecnica autopromozionale, contro l’universo della scena-salotto e del «badinage» da quarta pare.

Paolo Puppa

[Da Il teatro dei poeti – Antologia-catalogo, a cura di Fabio Doplicher (C.T.M. – Circuito Teatro Musica coop. S.r.l. 1987). Per gentile concessione.]

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PASOLINI E LA TRADIZIONE DEL TEATRO DI POESIA La straripante parola teatrale di Pasolini è una sfida alla ricezione supina dello spettatore, in accordo con la dimensione pedagogica dei dialoghi di Platone a cui, non a caso, lo stesso Pasolini fa riferimento quando cerca di spiegare il suo nuovo impegno drammaturgico degli anni 1966/68. Lontano, ma non arbitrario, riferimento della scrittura di Pasolini è il teatro di Racine, per la cui “stupenda, delirante musica dell’alessandrino” aveva già dichiarato il suo amore venti anni prima, e che torna in maniera carsica nelle sue opere. Del resto, Racine è una poco analizzata chiave di volta del teatro in versi contemporaneo. Mi riferisco, per esempio, a Yukio Mishima (che per molti versi compie percorsi analoghi a quelli di Pasolini negli stessi anni), che dichiara, mentre compone Madame de Sade e Il mio amico Hitler: “il mio ideale drammaturgico è una tragedia politica come il Britannicus di Racine, in cui il sangue viene lavato con il sangue, in eleganti versi alessandrini”. Meno corretto è invece il riferimento talvolta avanzato riguardo a D’Annunzio. In realtà, se la tragedia dannunziana ha i toni della pura declamazione oratoria, confondendo la teatralità con la recitazione aulica e sostenuta, quella pasoliniana è impastata di una straordinaria modernità che la cala nel pieno del rinnovamento drammaturgico della seconda metà del ’900. Proprio a cominciare dall’uso del verso teatrale, che mescola sensibilità verso uno strumento inattuale e organicità con forme radicali di rinnovamento drammaturgico in Europa. George Steiner sottolineava nel 1965 (l’anno prima dell’inizio della scrittura delle sue sei tragedie da parte di Pasolini) l’inattualità del verso nel teatro ricordando che “il verso non è più al centro del discorso espressivo”. Per Steiner ben due motivi ostacolano un uso efficace del verso nel dramma contemporaneo successivo alla scomparsa del genere tragedia: da una parte la poesia non è più mezzo espressivo condiviso come era in passato ma mezzo individuale, dall’altra parte questa trasformazione in senso eminentemente lirico ed elitario comporta un’inadeguatezza all’interno di un genere che è invece per sua natura drammatico e popolare, cioè rappresentativo della realtà. In attesa che la canzone riporti il verso, proprio a cominciare da questi anni ’60 di nascente cultura pop, a una dimensione nuovamente condivisa a livello universale e legata alla rappresentazione del reale, il suo uso in questo momento appare improprio per chi voglia rappresentare la realtà (quindi sfuggire alla gabbia della poesia lirica o comunque soggettiva), tanto più nell’agorà scenico. E proprio su questo paradosso Pasolini interviene non solo riesumando il genere tragico, ma addirittura il suo strumento d’elezione, il verso. Al contrario dell’esperienza italiana di D’Annunzio, dove la scrittura teatrale poetica si proietta verso una retorica magniloquente che dovrebbe dare lustro metastorico ad azioni esemplari, magari cercando di recuperare archeologicamente la prosodia arcaica, il verso tragico di Pasolini ricerca al proprio interno le ragioni di una struttura drammaturgica da rifondare nell’unità di concezione dell’opera, nel solco del grande teatro in versi del ’900 europeo iniziato da Yeats. È infatti con il drammaturgo irlandese che la parola poetica si colloca al centro della scena in senso moderno, non come esercizio di stile o come dominante letteraria, ma per la sua carica evocativa. Il teatro in versi di Yeats, come egli stesso scrive nel 1903 in Riforma del teatro, rifugge il realismo e ricerca il simbolismo e l’allusione, imponendo la massima concentrazione all’attore, sottraendogli un’eccessiva mimica e movimento e richiedendogli un’attenzione al fluire ritmico del verso che sottolinea con la metrica il proprio essere verso, e dunque fraseggio artificiale. D’altro canto Thomas Stearns Eliot ribadisce la necessità di una scrittura poetica a teatro in quanto il verso consente di svelare le profondità dell’animo umano. Interessante è il fatto che, al contrario di Yeats, Eliot persegua una sorta di mimetizzazione del verso che si trova a dover assumere, anche nella recitazione, un ritmo prosastico. E tuttavia, al di sotto dell’apparenza della prosa, è il verso nascosto come un fantasma insidioso a inquietare l’ascoltatore che così può intuire un senso alto e altro rispetto a ciò a cui assiste, sostenuto in questo dall’evidente e diretta ispirazione delle opere eliotiane dalle grandi tragedie greche. La grande tradizione inglese della declamazione del verso nei secoli precedenti, dal blank verse di Shakespeare in poi, ha consentito a Yeats e Eliot di presentare le proprie sperimentazioni drammaturgiche a una tipologia di attori e di spettatori con una competenza di alto livello, cosa che ha reso le loro opere ‘facilmente’ assimilabili dai contemporanei. Analogamente è accaduto nella tradizione francofona, dove l’alessandrino di Racine e di Molière ha costituito una buona base per un altro riuscito tentativo di versificazione teatrale nel secolo scorso, quello di Paul Claudel, che sempre nella prima metà del ’900 come Eliot, mette a punto una versificazione fluente, dal ritmo ampio e complesso, costruita sul ritmo organico della respirazione. Anche per questo il verso di Claudel, pur in una dissimulazione in direzione della prosa come nel teatro eliotiano, impone all’attore uno studio attento della tecnica per una sua corretta recitazione. Perfino in ambito tedesco, negli stessi anni di scrittura teatrale di Pasolini, possono trovare piena cittadinanza gli esperimenti di teatro in versi di Peter Weiss, che aggancia la versificazione alle nuove tensioni sociali e politiche, a cominciare da Marat-Sade e L’istruttoria, o di Heiner Müller che muove i primi passi nella direzione del teatro in versi per il recupero dei miti classici. Dunque la scelta del verso compiuta da Pasolini è inserita all’interno di un’ampia e ricca tradizione europea di rinnovamento del teatro e non di vagheggiamento antiquario. E tuttavia la forza innovativa e di respiro internazionale di questa concezione viene misconosciuta nel momento in cui si innesta su una tradizione nostrana tutt’altro che esemplare. Infatti gli esempi più importanti nella storia del teatro italiano, devoto alla prosa di autori come Machiavelli, Goldoni o Pirandello, si limitano sostanzialmente

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alle tragedie di Alfieri, Manzoni e D’Annunzio che però - diversamente dai loro omologhi europei impongono una recitazione in forma di declamazione altisonante, allontanando di fatto attori e spettatori dal loro studio e dal loro apprezzamento. Il ritmo del verso teatrale pasoliniano costituisce una vera e propria partitura. Il verso sembra tendere a una certa linearità prosastica che ha più a che vedere con l’opera di Eliot o dell’amato Allen Ginsberg che non con i tragici greci, ma Pasolini non ha intenzione di rinunciare ancora all’autonomia della poesia rispetto a una contaminazione con la prosa, e impone agli attori una recitazione inusitata, che obbliga a cadenze, tonalità e volumi di non facile applicazione per interpreti di formazione accademicopirandelliana, spesso disabituati (al contrario dei colleghi europei) a un serio studio del verso teatrale. In questo senso, il testo teatrale pasoliniano è sperimentale nella sua stessa confezione, cioè nel rendersi inavvicinabile da parte di un attore tradizionale e cresciuto a forza di Pirandello e Goldoni (per non dire della piatta drammaturgia degli epigoni), e nel necessitare di una nuova generazione di attori capaci di restituire correttamente quei versi, studiando e costruendo una nuova lingua teatrale. Il verso tragico va dunque necessariamente ricollegato alla critica della lingua media parlata a teatro, che non a caso Pasolini stigmatizza violentemente soltanto pochi mesi prima di iniziare la stesura delle tragedie. Questa lingua palesemente antagonista a quella usata nella tradizione della prosa italiana è dunque la pars costruens del nuovo teatro, ovvero traccia di sviluppo, suggerimento. Pasolini rilancia portando il traguardo del nuovo teatro molto oltre l’orizzonte al quale non solo il teatro tradizionale ma anche quello sperimentale riescono a guardare: proiettando il suo nuovo teatro ben oltre gli anni ’60, verso un’epoca in cui nuovi attori sarebbero stati in grado non solo di comprenderlo ma soprattutto di comunicarlo. E che la scelta della tragedia in versi sia una scelta consapevolmente rivoluzionaria per l’angusto recinto teatrale italiano del 1966 e costituisca il secondo atto di un affondo iniziato con gli interventi su “Vie nuove” e “Sipario” lo dimostra la lettera scritta a Livio Garzanti nell’aprile 1966, esattamente all’inizio della nuova esperienza di tragediografo, in cui spiega quale sia “il mio problema. Far dare questi drammi all’estero, e in Italia, magari, non rappresentarli, o rappresentarli dopo la pubblicazione. Dovrei perciò cercare un buon traduttore, anzi, buonissimo, perché i drammi sono in versi”. Il concetto è chiaro: in Italia non si vedono attori in grado di recitare questi testi. Ma come andrebbero recitati? Stabilire un’ipotesi tecnica non è possibile. In realtà, solo due tracce ci possono aiutare, pur nella loro fragilità. La prima è scritta proprio in questi stessi mesi, e perciò di grande utilità, e si trova all’interno del saggio Dal laboratorio che analizza la questione linguistica, subito dopo aver accennato alla recitazione di Eleonora Duse e Petrolini: “Saba leggeva stupendamente le sue poesie (…): la pateticità nel tempo stesso pudibonda e sfacciata con cui diceva le proprie parole affidate al misterioso mezzo di locomozione metrico dei suoi endecasillabi ‘raso terra’, è uno straordinario fenomeno di ‘teatro’. Gli elementi strutturali di tale dizione sono due: la pronuncia triestina, locale fino quasi al ridicolo (il ‘fasista abièto’), e una particolare ‘allure’ del suo registro melodico, una particolare idea dei diagrammi della frase pronunciata” (“Nuovi Argomenti”, gennaio 1966). Gli elementi che trasformerebbero, almeno in Saba, i versi in teatro sono dunque una pronuncia ‘vera’ ed essenziale con sfumature verso la leggerezza o il ridicolo, e una consapevolezza dei “diagrammi” della frase in senso melodico. Una traccia sicuramente labile, anche se precisa. La seconda traccia è la registrazione della messa in scena di Orgia diretta da Pasolini nel 1968 al Teatro Stabile di Torino, che tuttavia può rappresentare appena un inizio di attuazione del pensiero pasoliniano. Protagonista è Laura Betti, che agli occhi di Pasolini incarna ciò che più si avvicina al nuovo attore che ha in mente. Per la parte maschile viene scelto Luigi Mezzanotte, che Pasolini aveva visto l’anno prima nello spettacolo di Carmelo Bene Amleto o le conseguenze della pietà filiale. La recitazione si avvale di otto microfoni per creare un effetto di oggettivazione della parola e distanza dalla fisicità naturale grazie alla mediazione metallica dell’altoparlante. Nella rappresentazione la parola non è declamata né enfatizzata, ma recitata con un tono quasi didascalico, che nei passaggi più drammatici assume forti sfumature ironiche, ed è sottolineata dal timbro dell’impianto di amplificazione e dalla sostanziale fissità (ma non rigidità; si tratta piuttosto di contenuta sobrietà di gesti e movimenti) degli attori. Un’acuta testimonianza di Augusto Romano riferisce che gli attori “dicono le loro parti un po’ come si cantano i ‘recitativi’ nei lavori musicali del Settecento, con un che di distaccato, di rattenuto, ma anche di salmodiante”. Stefano Casi [Rielaborazione a cura dell’autore di alcune pagine tratte da “I teatri di Pasolini” di Stefano Casi, ed. Ubulibri, Milano 2005]

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Appendice

Pier Paolo Pasolini - Manifesto per un nuovo teatro (Ai lettori)

1) Il teatro che vi aspettate, anche come totale novità, non potrà mai essere il teatro che vi aspettate. Infatti, se vi aspettate un nuovo teatro, lo aspettate necessariamente nell'ambito delle idee che già avete; inoltre, una cosa che vi aspettate, in qualche modo c'è già. Non c'è nessuno di voi che davanti a un testo o a uno spettacolo resista alla tentazione di dire: "Questo È TEATRO", oppure: "Questo NON È TEATRO" il che significa che voi avete già in testa, ben radicata, una idea del TEATRO. Ma le novità, anche totali, come ben sapete, non sono mai ideali, sono sempre concrete. Quindi la loro verità e la loro necessità sono meschine, seccanti e deludenti: o non si conoscono o si discutono riportandole alle vecchie abitudini. Oggi, dunque, tutti voi vi aspettate un teatro nuovo, ma tutti ne avete già in testa un'idea, nata in seno al teatro vecchio. Queste note sono scritte sotto la forma di un manifesto, perché ciò che di nuovo esse esprimono si presenti dichiaratamente e magari anche autoritariamente come tale. (In tutto il presente manifesto, Brecht non verrà mai nominato. Egli è stato l'ultimo uomo di teatro che ha potuto fare una rivoluzione teatrale all'interno del teatro stesso: e ciò perché ai suoi tempi l'ipotesi era che il teatro tradizionale esistesse [e infatti esisteva]. Ora, come vedremo attraverso i commi del presente manifesto, l'ipotesi è che il teatro tradizionale non esista più (o che stia cessando di esistere). Ai tempi di Brecht, si potevano dunque operare delle riforme, anche profonde, senza mettere in discussione il teatro: anzi, la finalità di tali riforme era di rendere il teatro autenticamente teatro. Oggi, invece, ciò che si mette in discussione è il teatro stesso: la finalità di questo manifesto è dunque, paradossalmente, la seguente: il teatro dovrebbe essere ciò che il teatro non è. Comunque questo è certo che i tempi di Brecht sono finiti per sempre). (Chi saranno i destinatari del nuovo teatro)

2) I destinatari del nuovo teatro non saranno i borghesi che formano generalmente il pubblico teatrale: ma saranno invece i gruppi avanzati della borghesia. Queste tre righe, del tutto degne dello stile di un verbale, sono il primo proposito rivoluzionario di questo manifesto. Esse significano infatti che l'autore di un testo teatrale non scriverà più per il pubblico che è sempre stato, per definizione, il pubblico teatrale; che va a teatro per divertirsi, e che qualche volta vi è scandalizzato. I destinatari del nuovo teatro non saranno né divertiti né scandalizzati dal nuovo teatro, perché essi, appartenendo ai gruppi avanzati della borghesia, sono in tutto pari all'autore dei testi. 3) Una signora che frequenta i teatri cittadini, e non manca mai alle principali "prime" di Strehler, di Visconti o di Zeffirelli, è vivamente consigliata a non presentarsi alle rappresentazioni del nuovo teatro. O, se con la sua simbolica, patetica, pelliccia di visone, si presenterà, troverà all'ingresso un cartello su cui c'è scritto che le signore con la pelliccia di visone sono tenute a pagare il biglietto trenta volte più del suo costo normale (che sarà bassissimo). In tale cartello, al contrario, ci sarà scritto che i fascisti (purché inferiori ai venticinque anni) avranno l'ingresso gratuito. E, inoltre, vi si leggerà una preghiera: di non applaudire: i fischi e le disapprovazioni saranno naturalmente ammessi, ma, al posto degli eventuali applausi sarà richiesta da parte dello spettatore quella fiducia quasi mistica nella democrazia che consente un dialogo, totalmente disinteressato e idealistico, sui problemi posti o dibattuti (a canone sospeso!) dal testo. 4) Per gruppi avanzati della borghesia intendiamo le poche migliaia di intellettuali di ogni città il cui interesse culturale sia magari ingenuo, provinciale, ma reale. 5) Oggettivamente, essi sono costituiti nella massima parte da quelli che si definiscono dei "progressisti di sinistra" (compresi quei cattolici che tendono costituire in Italia una Nuova Sinistra): la minoranza di tali gruppi è formata dalle élites sopravviventi del laicismo liberale crociano e dai radicali. Naturalmente, questo elenco è, e vuole essere, schematico e terroristico. 6) Il nuovo teatro non è dunque né teatro accademico (1) né un teatro d'avanguardia (2). Non si inserisce in una tradizione ma nemmeno la consta. Semplicemente la ignora e la scavalca una volta per sempre. (Il teatro di parola)

7) Il nuovo teatro si vuole definire, sia pur banalmente e in stile da verbale, "teatro di parola". La sua incompatibilità sia col teatro tradizionale sia con ogni tipo di contestazione al teatro tradizionale, è dunque contenuta in questa sua autodefinizione.

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Esso non nasconde (3) di rifarsi esplicitamente al teatro della democrazia ateniese, saltando completamente l'intera tradizione moderna del teatro rinascimentale e di Shakespeare. 8) Venite ad assistere alle rappresentazioni del "teatro di parola" con l'idea più di ascoltare che di vedere (restrizione necessaria per comprendere meglio le parole che sentirete, e quindi le idee, che sono i reali personaggi di questo teatro) (A cosa si oppone il teatro di parola)

9) Tutto il teatro esistente si può dividere in due tipi: questi due tipi di teatro si possono definire secondo una terminologia seria - in diversi modi, per esempio: teatro tradizionale e teatro d'avanguardia; teatro borghese e teatro antiborghese; teatro ufficiale e teatro di contestazione; teatro accademico e teatro dell'underground, ecc. ecc. Ma a queste definizioni serie noi preferiamo due definizioni vivaci, ossia: a) teatro della chiacchiera (accettando dunque la brillante definizione di Moravia), b) teatro del Gesto e dell'Urlo. Per intenderci subito: il teatro della chiacchiera è il teatro in cui la chiacchiera, appunto, sostituisce la Parola (per esempio, anziché dire, senza humour, senza senso del ridicolo e senza buona educazione, "Vorrei morire", si dice amaramente "Buona sera"); il teatro del Gesto o dell'Urlo, è il teatro dove la parola è completamente dissacrata, anzi distrutta, in favore della presenza fisica pura (cfr. più avanti). 10) Il nuovo teatro si definisce di "Parola" per opporsi quindi: I) al teatro della Chiacchiera, che implica una ricostruzione ambientale e una struttura spettacolare naturalistiche, senza cui: a) gli avvenimenti (omicidi, furti, balletti, baci, abbracci e controscene) sarebbero irrappresentabili; b) dire "Buona notte" anziché "Vorrei morire" non avrebbe senso perché vi mancherebbero le atmosfere della realtà quotidiana. II) Per opporsi al teatro del Gesto o dell'Urlo, che contesta il primo radendone al suolo le strutture naturalistiche e sconsacrandone i testi: ma di cui non può abolire il dato fondamentale, cioè l'azione scenica (che esso porta, anzi, all'esaltazione). Da questa doppia opposizione deriva una delle caratteristiche fondamentali del "teatro di parola": ossia (come nel teatro ateniese) la mancanza quasi totale dell'azione scenica. La mancanza di azione scenica implica naturalmente la scomparsa quasi totale della messinscena - luci, scenografia, costumi ecc.: tutto sarà ridotto all'indispensabile (poiché, come vedremo, il nostro nuovo teatro non potrà non continuare ad essere una forma, sia pure mai sperimentata, di RITO. E quindi un accendersi o uno spegnersi di luci, a indicare l'inizio o la fine della rappresentazione, non potrà mai sussistere). 11) Sia il teatro della Chiacchiera (4) che il teatro del Gesto o dell'Urlo (5) sono due prodotti di una stessa civiltà borghese. Essi hanno in comune l'odio e la Parola. Il primo è un rituale dove la borghesia si rispecchia, più o meno idealizzandosi, comunque sempre riconoscendosi. Il secondo è un rituale in cui la borghesia (ripristinando attraverso la propria cultura antiborghese la purezza di un teatro religioso), da una parte si riconosce in quanto produttrice dello stesso (per ragioni culturali), dall'altra prova il piacere della provocazione, della condanna e dello scandalo (attraverso cui, infine, non ottiene che la conferma delle proprie convinzioni). 12) Esso (il teatro del Gesto o dell'Urlo) è il prodotto dunque dell'anticultura borghese (6) che si pone in polemica con la borghesia, usando contro di essa lo stesso processo, distruttivo, crudele e dissociato, che è stato usato (unendo alla follia la pratica) da Hitler, nei campi di concentramento e di sterminio. 13) Se, sia il teatro del Gesto o dell'Urlo, che il nostro teatro di Parola, sono ambedue prodotti di gruppi culturali antiborghesi della borghesia, in che cosa consiste la differenza tra loro? Eccola: mentre il teatro del Gesto o dell'Urlo ha come destinataria - magari assente - la borghesia da scandalizzare (senza la quale esso sarebbe inconcepibile, come Hitler senza di Ebrei, i Polacchi, gli Zingari e gli Omosessuali), il teatro di Parola, al contrario, ha come destinatari gli stessi gruppi culturali avanzati da cui è prodotto. 14) Il teatro del Gesto o dell'Urlo - nella clandestinità dell'underground - ricerca coi suoi destinatari una complicità di lotta o una forma comune di ascesi: esso dunque tutto sommato, non rappresenta, per i gruppi avanzati che lo producono e lo fruiscono come destinatari, che una conferma, rituale, delle proprie convinzioni antiborghesi: la stessa conferma rituale che rappresenta il teatro tradizionale per il pubblico medio e normale con le proprie convinzioni borghesi. Al contrario, negli spettacoli del teatro di Parola, se pure si avranno molte conferme e verifiche (non per nulla autori e destinatari appartengono alla stessa cerchia culturale e ideologica) ci sarà soprattutto uno scambio di opinioni e di idee, in un rapporto molto più critico che rituale (7). (Destinatari e spettatori)

15) Sarà possibile una coincidenza, pratica, tra destinatari e spettatori?

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Noi crediamo che ormai in Italia, i gruppi culturali avanzati della borghesia possano formare anche numericamente un pubblico, producendo quindi praticamente un proprio teatro: il teatro di Parola viene a costituire dunque, nel rapporto tra autore e spettatore, un fatto del tutto nuovo nella storia del teatro. E ciò per le seguenti ragioni: a) il teatro di Parola è - come abbiamo visto - un teatro reso possibile, richiesto e fruito nella cerchia strettamente culturale dei gruppi avanzati di una borghesia. b) esso rappresenta, di conseguenza, l'unica strada per la rinascita del teatro in una nazione in cui la borghesia è incapace di produrre un teatro che non sia provinciale e accademico, e la cui classe operaia è assolutamente estranea a questo problema (e quindi la sua possibilità di produrre nel proprio ambito un teatro è soltanto teorica: teorica e retorica, come dimostrano tutti i tentativi di "teatro popolare" che ha cercato di raggiungere direttamente la classe operaia). c) il teatro di Parola - che, come abbiamo visto, scavalca ogni possibile rapporto con la borghesia, e si rivolge solo ai gruppi culturali avanzati - è il solo che possa raggiungere, non per partito preso o retorica, ma realisticamente, la classe operaia. Essa è infatti unita da un rapporto diretto con gli intellettuali avanzati. È questa una nozione tradizionale e ineliminabile dell'ideologia marxista e su cui sia gli eretici che gli ortodossi non possono non essere d'accordo, come su un fatto naturale. 16) Non fraintendete. Non è un operaismo dogmatico, stalinista, togliattiano, o comunque conformista, che viene qui rievocato. Viene rievocata piuttosto la grande illusione di Majakowskij, di Esenin, e degli altri commoventi e grandi giovani che hanno operato con loro in quel tempo. Ad essi è idealmente dedicato il nostro nuovo teatro. Niente operaismo ufficiale, dunque: anche se il teatro di Parola andrà coi suoi testi (senza scene, costumi, musichette, magnetofoni e mimica) nelle fabbriche e nei circoli culturali comunisti, magari in stanzoni con le bandiere rosse del '45. 17) Leggete i precedenti commi 15 e 16 come i commi fondamentali del presente manifesto. 18) Il teatro di Parola, che attraverso questo manifesto si va definendo, è dunque anche una impresa pratica. 19) Non è escluso che il teatro di Parola esperimenti anche degli spettacoli esplicitamente dedicati a destinatari operai: ma ciò, appunto, in via sperimentale, perché il solo modo giusto per implicare la presenza operaia in tale teatro, è quello indicato al punto C del comma 15. 20) I programmi del teatro di Parola - costituito in impresa o iniziativa - non avranno perciò un ritmo normale. Non ci saranno anteprime, prime o repliche. Si prepareranno due o tre rappresentazioni alla volta, che verranno date contemporaneamente nella sede propria del teatro, e nei luoghi (fabbriche, scuole, circoli culturali) dove i gruppi culturali avanzati, cui il teatro di Parola si rivolge, hanno la loro sede. (Parentesi linguistica: la lingua)

21) Che lingua parlano questi "gruppi culturali avanzati" della borghesia? Parlano - come ormai quasi tutta la borghesia - l'italiano, cioè una lingua convenzionale, la cui convenzionalità però, non si è fatta "da sola", per un naturale accumularsi di luoghi comuni fonologici: ossia per tradizione storica, politica, burocratica, militare, scolastica e scientifica, oltre che letteraria. La convenzionalità dell'italiano è stata stabilita in un dato momento, astratto (mettiamo il 1870) e dall'altro (prima dalle corti, su un piano esclusivamente letterario e in piccola parte diplomatico, poi dai piemontesi e dalla prima borghesia risorgimentale, sul piano statale). Dal punto di vista della lingua scritta, tale imposizione autoritaria può apparire anche inevitabile, seppure artificiale e puramente pratica. Infatti si è avuta una indubbia omologazione dell'italiano scritto in tutta la nazione (geograficamente e socialmente). Ma per l'italiano orale l'accettazione dell'imposizione nazionalistica e della necessità pratica, è stata semplicemente impossibile. Nessuno del resto può essere insensibile al ridicolo della pretesa che una lingua soltanto letteraria, venga imposta attraverso norme fonetiche artificiali e dotte, a un popolo di analfabeti (nel 1870 gli analfabeti erano più del novanta per cento della popolazione). Ed è comunque oggi un fatto che se un italiano scrive una frase la scrive allo stesso modo in qualsiasi punto geografico o a qualsiasi livello sociale della nazione, ma se la dice la dice in un modo diverso da quello di qualsiasi altro italiano. (Parentesi linguistica: la convenzionalità della lingua orale e la convenzionalità della dizione teatrale) 22) Il teatro tradizionale ha accettato questa convenzionalità dell'italiano orale, emanata, per così dire, per editto. Ha accettato, cioè, un italiano che non esiste. Su tale convenzionalità, ossia sul nulla, sull'inesistente, sul morto, essa ha fondato la convenzionalità della dizione. Il risultato è ripugnante. Soprattutto quando il teatro puramente accademico si presenta sotto la specie più "moderna" del teatro della Chiacchiera. Per esempio il "Buona sera" che nel nostro esempio sostituisce il "Vorrei morire" che non si dice, ha, nella reale vita dell'italiano orale, tanti aspetti fonetici quanti sono i gruppi reali d'italiani

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che lo pronunciano. Ma in teatro ha una sola pronuncia (usata unicamente nella dizione degli attori). In teatro dunque si pretende di "chiacchierare" in un italiano in cui in realtà nessuno chiacchiera (nemmeno a Firenze) (8). 23) Quanto al teatro di contestazione (che qui chiamiamo del Gesto o dell'Urlo) il problema della lingua orale o non si pone, o si pone solo come problema secondario. In tale teatro, infatti, la parola integra, in posizione ancillare, la presenza fisica. E adempie, poi, questo suo ufficio, generalmente, attraverso una semplice contraffazione dissacrante - tende cioè ad imitare il gesto, e a essere quindi pregrammaticale, fino a farsi, appunto, interiettiva: gemito, versaccio o urlo. Quando semplicemente non si limiti a fare la caricatura della convenzionalità teatrale (fondata sulla convenzionalità impossibile dell'italiano orale). 24) Il teatro della Chiacchiera, avrebbe in Italia uno strumento ideale: il dialetto e la koinè dialettizzata (9). Ma esso non usa tale strumento in parte per ragioni pratiche, in parte per provincialismo, in parte per incolto estetismo, in parte per servilismo verso la tendenza nazionalistica dei suoi destinatari. (Parentesi linguistica: Il teatro di Parola e l'italiano orale)

25) Il teatro di Parola esclude tuttavia, nella sua autodefinizione, il dialetto e la koinè dialettizzata. O, se li include, li include in via eccezionale e in una accezione tragica che li pone a livello della lingua colta. 26) Il teatro di Parola, quindi, prodotto e fruito dai gruppi avanzati della nazione, non può che accettare di scrivere dei testi in quella lingua convenzionale che è l'italiano scritto e letto (e solo saltuariamente assumere i dialetti, puramente orali, al livello della lingue scritte e lette). 27) Naturalmente il teatro di Parola deve accettare anche la convenzionalità dell'italiano orale: dal momento che i suoi testi sono scritti anche per essere rappresentati, ossia, nella fattispecie, e per definizione, detti. 28) Si tratta evidentemente di una contraddizione: a) poiché in questo caso specifico (ed essenziale) il teatro di Parola si comporta proprio come il più abbietto teatro borghese, accettando una convenzionalità che non esiste: ossia l'unità di un italiano orale che nessun italiano reale parla; b) perché mentre il teatro di Parola, vuol scavalcare la borghesia, rivolgendosi ad altri destinatari (intellettuali e operai), nel tempo stesso eccolo che accetta di essere avviluppato alla borghesia: perché solo attraverso lo sviluppo dell'attuale società borghese, è pensabile che si possano riempire le "tappe vuote" della formazione di una convenzionalità fonetica - storica - dell'italiano, e raggiungere quell'unità di lingua orale che ora è astratta e autoritaria. 29) Come risolvere questa contraddizione? Prima di tutto, evitando ogni purismo di pronuncia. L'italiano orale dei testi del teatro di Parola deve essere omologato fino al punto in cui resta reale: ossia fino al limite tra la dialettizzazione e il canone pseudo-fiorentino, senza mai superarlo. 30) Perché tale convenzionalità linguistica teatrale fondata su una convenzionalità fonetica (cioè l'italiano dei sessanta milioni di eccezioni fonetiche) non divenga una nuova accademia, è sufficiente: a) avere continuamente coscienza del problema; (10) b) restare fedeli ai princìpi del teatro di Parola: ossia a un teatro che sia prima di tutto dibattito, scambio di idee, lotta letteraria e politica, sul piano più democratico e razionale possibile: quindi a un teatro attento soprattutto al significato e al senso, ed escludente ogni formalismo, che, sul piano orale, vuol dire compiacimento ed estetismo fonetico. 31) Tutto ciò richiede la fondazione di una vera e propria scuola di rieducazione linguistica; che ponga le basi della recitazione del teatro di Parola: una recitazione il cui oggetto diretto non sia la lingua, ma il significato delle parole e il senso dell'opera. Uno sforzo totale, insieme di acume critico e di sincerità, che comporta una revisione completa dell'idea di sé che ha l'attore. (I due tipi esistenti di attore)

32) Che cos'è il teatro? "IL TEATRO È IL TEATRO". Questa è la risposta di tutti, oggi: il teatro è dunque oggi inteso come "qualcosa" o meglio "qualcos'altro" che si può spiegare solo con se stesso, e che può essere intuito solo carismaticamente. L'attore (11) è la prima vittima di questa specie di misticismo teatrale, che fa di lui spesso un personaggio ignorante, presuntuoso e ridicolo. 33) Ma, come abbiamo visto, il teatro di oggi e di due tipi: il teatro borghese e il teatro borghese antiborghese. Sono di due tipi, quindi, anche gli attori. Osserviamo prima gli attori del teatro borghese. Il teatro borghese trova la sua giustificazione (non in quanto testo ma in quanto spettacolo) nella vita di società: è un fasto della gente ricca e perbene, che ha anche il privilegio della cultura (12). Ora, un simile teatro è in crisi: perciò è costretto a prendere coscienza della sua condizione, a riconoscere le ragioni che lo respingono dal centro di una vita di società ai margini, come qualcosa di superato e di sopravvivente. Una diagnosi che non gli è stata difficile: il teatro tradizionale ha ben presto capito che un nuovo tipo di società, immensamente appiattita e allargata, le masse piccolo borghesi, lo hanno sostituito con due tipi di avvenimenti sociali molto più adatti e moderni: il cinema e la televisione. Non gli è stato neanche

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difficile capire che qualcosa di irreversibile è accaduto nella storia del teatro: il demos ateniese e le élites del vecchio capitalismo sono dei remoti ricordi. I tempi di Brecht sono finiti per sempre! Il teatro tradizionale è dunque venuto a trovarsi in uno stato di deperimento storico, che gli ha creato intorno, da una parte, un'atmosfera di conservazione miope quanto accanita, e dall'altra un'aria di rimpianto e di speranze infondate. Anche questo è un fatto che il teatro tradizionale ha saputo (più o meno confusamente) diagnosticare. Ciò che il teatro tradizionale non ha saputo diagnosticare neppure fino a un primo barlume di coscienza è ciò che esso è. Esso si definisce teatro e basta. Anche il più sciatto e mestierante degli attori, davanti al più vecchio e spelacchiato dei pubblici borghesi, sente vagamente di non partecipare più a un avvenimento sociale, trionfante e del tutto giustificato, e perciò spiega la sua presenza e la sua prestazione (così poco richiesta) come un atto mistico: una "messa teatrale", in cui il teatro appare in tutta una luce così abbagliante da acciecare completamente: infatti, come tutti i falsi sentimenti, esso produce una coscienza intransigente, demagogica e quasi terroristica, della propria verità. 34) Vediamo ora il secondo tipo di attore, quello del teatro borghese antiborghese, del Gesto o dell'Urlo. Tale teatro ha, come abbiamo già visto, le seguenti caratteristiche: a) si rivolge a destinatari borghesi colti coinvolgendoli nella propria scatenata e ambigua protesta antiborghese; b) cerca le sedi dove dare i propri spettacoli fuori dalle sedi ufficiali; c) rifiuta la parola, e dunque le lingue delle classi dirigenti nazionali, in favore di una parola contraffatta e diabolica o del puro e semplice gesto, provocatorio, scandaloso, incomprensibile, osceno, rituale. Qual è la ragione di tutto questo? La ragione di tutto questo è una diagnosi inesatta ma ugualmente efficace di ciò che è diventato, o semplicemente, è, il teatro. E cioè? IL TEATRO È IL TEATRO, ancora. Ma mentre per il teatro borghese questa non è che una tautologia che implica un ridicolo e tronfio misticismo, per il teatro antiborghese questa è una vera e propria - e cosciente - definizione della sacralità del teatro. Tale sacralità del teatro si fonda sulla ideologia della rinascita di un teatro primitivo, originario, compiuto come rito propiziatorio o meglio, orgiastico (13). Si tratta di un'operazione tipica della cultura moderna: per cui una forma di religione cristallizza l'irrazionalità del formalismo in qualcosa che nasce come inautentico (ossia per estetismo) e diviene autentico (ossia un vero e proprio tipo di vita come pragma fuori e contro la pratica) (14). Ora in alcuni casi, tale religiosità arcaica ripristinata per rabbia contro il laicismo cretino della civiltà dei consumi, finisce appunto col diventare una forma di autentica religiosità moderna (che non ha nulla a che fare con gli antichi contadini, e molto invece con la moderna organizzazione industriale della vita). Si pensi, a proposito del Living Theatre, alla collegialità quasi da ordine monacale, al "gruppo" che costituisce i gruppi tradizionali come la famiglia, ecc., alla droga come protesta, al droping out o autoesclusione, però come forma di violenza, almeno gestuale e verbale, e insomma allo spettacolo quasi come un caso di sedizione, o, - così oggi usa dire - di guerriglia. Nella maggior parte dei casi però una simile concezione del teatro, finisce con l'essere la stessa tautologia del teatro borghese, obbedendo alle stesse inevitabili regole (15). La religione, cioè, da forma di vita che si realizza nel teatro, diviene semplicemente "la religione del teatro". E da tale genericità culturale, da tal estetismo di second'ordine, l'attore in gramaglie è drogato, è reso ridicolo come l'attore integrato, in doppio petto, che lavora anche per la televisione. (L'attore del teatro di Parola)

35) Sarà dunque necessario che l'attore del "teatro di Parola", in quanto attore, cambi natura: non dovrà più sentirsi, fisicamente, portatore di un verbo che trascenda la cultura in una idea sacrale del teatro: ma dovrà semplicemente essere un uomo di cultura. Egli non dovrà più, dunque, fondare la sua abilità sul fascino personale (teatro borghese) o su una specie di forza isterica e medianica (teatro antiborghese) sfruttando demagogicamente il desiderio di spettacolo dello spettatore (teatro borghese), o prevaricando lo spettatore attraverso l'imposizione implicita del farlo partecipare a un rito sacrale (teatro antiborghese). Egli dovrà piuttosto fondare la sua abilità sulla sua capacità di comprendere veramente il testo (16). E non essere dunque interprete in quanto portatore di un messaggio (il Teatro!) che trascende il testo: ma essere veicolo vivente del testo stesso. Egli dovrà rendersi trasparente sul pensiero: e sarà tanto più bravo quanto più, sentendolo dire il testo, lo spettatore capirà che egli ha capito. (Il "rito" teatrale)

36) Il teatro è comunque, in ogni caso, in ogni tempo e in ogni luogo, un RITO. 37) Semiologicamente il teatro è un sistema di segni i cui segni, non simbolici ma iconici, viventi, sono gli stessi segni della realtà. Il teatro rappresenta un corpo un oggetto per mezzo di un oggetto, un'azione per mezzo di una azione.

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Naturalmente il sistema di segni del teatro ha dei suoi codici particolari, a livello estetico. Ma a livello puramente semiologico esso non si differenzia (come il cinema) dal sistema di segni della realtà. L'archetipo semiologico del teatro è dunque lo spettacolo che si svolge ogni giorno davanti ai nostri occhi e alla portata delle nostre orecchie, per strada, in casa, nei ritrovi pubblici, ecc. In tal senso la realtà sociale è una rappresentazione che non è priva del tutto della coscienza di esserlo, e ha dunque i suoi codici (regole di buona educazione, di comportamento, tecniche corporali, ecc.): in una parola essa non è priva del tutto della coscienza della propria ritualità. Il rito archetipo del teatro e dunque un RITO NATURALE. 38) Idealmente, il primo teatro che si distingue dal teatro della vita, è di carattere religioso: cronologicamente tale nascita di un teatro come "mistero" non è databile. Ma essa si ripete in tutte le situazioni storiche, o meglio, preistoriche, analoghe. In tutte le "età delle origini" e in tutte le "età oscure" o medioevi. Il primo rito del teatro, come propiziazione, scongiuro, mistero, orgia, danza magica ecc. ecc. è dunque un RITO RELIGIOSO. 39) La democrazia ateniese ha inventato il più grande teatro del mondo - in versi -, istituendolo come RITO POLITICO. 40) La borghesia - insieme alla sua prima rivoluzione, la rivoluzione protestante - ha creato invece un nuovo tipo di teatro (la cui storia comincia forse col teatro dell'arte, ma certamente col teatro elisabettiano e il teatro del periodo d'oro spagnolo, e giunge fino a noi). Nel teatro inventato dalla borghesia (subito realistico, ironico, avventuroso, d'evasione, e, come diremmo oggi qualunquista anche se si tratta di Shakespeare o di Calderón), la borghesia celebra il più alto dei suoi fasti mondani che è anche poeticamente sublime, almeno fino a Cechov, cioè fino alla seconda rivoluzione borghese, quella liberale. Il teatro della borghesia, è dunque un RITO SOCIALE. 41) Col declino della "grandezza rivoluzionaria" della borghesia (a meno che - forse giustamente - non si voglia considerare "grande" la sua terza rivoluzione, quella tecnologica), è declinata anche la grandezza di quel RITO SOCIALE che è stato il suo teatro. Sicché se da una parte tale rito sociale sopravvive, a cura dello spirito conservatore borghese, dall'altra parte esso sta acquistando una coscienza nuova della propria ritualità. Coscienza che sembra essere del tutto acquisita - come abbiamo visto - dal teatro borghese antiborghese, che infuriando contro il teatro ufficiale della borghesia e la borghesia stessa, prende di mira soprattutto la sua ufficialità, il suo establishment, ossia la sua mancanza di religione. Il teatro dell'underground - come abbiamo detto - cerca di recuperare le origini religiose del teatro, come mistero orgiastico e violenza psicagogica: tuttavia in una simile operazione, l'estetismo non filtrato dalla cultura, fa sì che il reale contenuto in tale religione sia il teatro stesso, così come il mito della forma è il contenuto di ogni formalismo. Non si può dire che la religione violenta, sacrilega, oscena, dissacranteconsacrante del teatro del Gesto o dell'Urlo, sia priva di contenuto e inautentica, perché è riempita talvolta da un'autentica religione del teatro. Il rito di tale teatro è dunque un RITO TEATRALE. (Il teatro di Parola e il rito)

42) Il teatro di Parola non riconosce come proprio nessuno dei riti qui elencati. Si rifiuta con rabbia, indignazione e nausea, di essere un RITO TEATRALE, cioè di obbedire alle regole di una tautologia nascente da uno spirito religioso archeologico, decadente e culturalmente generico, facilmente integrabile dalla borghesia attraverso lo stesso scandalo che esso vuole suscitare. Si rifiuta di essere un RITO SOCIALE della borghesia: anzi, non si rivolge nemmeno alla borghesia e la esclude, chiudendole le porte in faccia. Non può essere RITO POLITICO dell'Atene aristotelica, con i suoi "molti" che erano poche decine di migliaia di persone: e tutta la città era contenuta nel suo stupendo teatro sociale all'aperto. Non può essere infine RITO RELIGIOSO, perché il nuovo medioevo tecnologico pare escluderlo, in quanto antropologicamente diverso da tutti i precedenti medioevi... Rivolgendosi a destinatari di "gruppi culturali avanzati della borghesia", e, quindi, alla classe operaia più cosciente, attraverso testi fondati sulla parola (magari poetica) e su temi che potrebbero essere tipici di una conferenza, di un comizio ideale o di un dibattito scientifico - il teatro di Parola nasce ed opera totalmente nell'ambito della cultura. Il suo rito non si può definire dunque altrimenti che RITO CULTURALE. (Riepilogo)

43) Riepilogando dunque: il teatro di Parola è un teatro completamente nuovo, perché si rivolge a un nuovo tipo di pubblico, scavalcando del tutto e per sempre il pubblico borghese tradizionale. La sua novità consiste nell'essere, appunto, di Parola: nell'opporsi, cioè, ai due teatri tipici della borghesia, il teatro della Chiacchiera o il teatro del Gesto o dell'Urlo, che sono ricondotti a una sostanziale unità: a) dallo stesso pubblico (che il primo diverte, il secondo scandalizza), b) dal comune odio per la parola, (ipocrita il primo, irrazionale il secondo).

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Il teatro di Parola ricerca il suo "spazio teatrale" non nell'ambiente ma nella testa. Tecnicamente tale "spazio teatrale" sarà frontale; testo e attori di fronte al pubblico: l'assoluta parità culturale tra questi due interlocutori, che si guardano negli occhi, è garanzia di reale democraticità anche scenica. Il teatro di Parola è popolare non in quanto si rivolge direttamente o retoricamente alla classe lavoratrice, ma in quanto vi si rivolge indirettamente e realisticamente attraverso gli intellettuali borghesi avanzati che sono il suo pubblico. Il teatro di Parola non ha alcun interesse spettacolare, mondano ecc.: il suo unico interesse è l'interesse culturale, comune all'autore, agli attori e agli spettatori; che, dunque, quando si radunano, compiono un "rito culturale". Pier Paolo Pasolini [Da "Nuovi argomenti", n.s., 9, gennaio-marzo 1968] Note. (1) Antichi o moderni teatri con le poltrone di velluto. Compagnie teatrali. Stabili (Piccolo Teatro) ecc. (2) Cantine, vecchio teatri in disuso, secondi canali delle Stabili. ecc. (3) Con candore neofitico. (4) Da Cechov a Jonesco all'orribile Albee. (5) Lo stupendo Living Theatre. (6) Da Artaud al Living Theatre, soprattuto, e a Grotowskij, tale teatro ha dato prove assai alte. (7) Non è detto, certo, che gli stessi gruppi culturali avanzati siano qualche volta scandalizzati e soprattutto delusi. Specie quando i testi siano a canone sospeso, cioè pongano i problemi, senza pretendere di risolverli. (8) Il testo, insomma, è in ciabatte, mentre l'attore, inconsapevole, è in coturni (per questo in Italia il teatro è impopolare anche presso la borghesia, che non vi riconosce le ciabatte della sua koinè dialettizzata). (9) Infatti gli unici casi in cui in Italia il teatro è tollerabile, sono quelli in cui gli attori parlano o il dialetto (il teatro regionale, specie quello veneto e quello napoletano, col grande De Filippo) o la koiné dialettizzata (il testo di cabaret). Purtroppo però, generalmente, là dove c'è il dialetto o koinè dialettizzata ci sono quasi sempre qualunquismo e volgarità. (10) Nessun uomo di teatro italiano (c'è qualche eccezione, mettiamo Dario Fo) si è mai posto finora questo problema, e ha sempre preso per buona la identificazione tra convenzionalità orale dell'italiano e convenzionalità della dizione teatrale, appresa dai più spelacchiati, ignoranti e esaltati maestri accademici. C'è il caso straordinario di Carmelo Bene, il cui teatro del Gesto e dell'Urlo, è integrato da parola teatrale che dissacra, e per dirla tutta, smerda se stessa. (11) Ma anche il critico. (12) Almeno quella ufficiale, nata dal privilegio di andare a scuola. (13) Dioniso... (14) Balugina qui di nuovo la figura di Hitler, già evocata in altri commi di questo manifesto. (15) Il teatro antiborghese non potrebbe esistere: a) senza il teatro borghese da contestare e massacrare (questo è il suo principale scopo); b) senza un pubblico borghese da scandalizzare, sia pure per interposta persona. (16) Cosa che fanno, con molta buona volontà e spesso con buona fede, tutti gli attori seri: con deboli risultati critici, però. Infatti essi sono ottenebrati dall'idea tautologica del teatro, che implica materiali e stili storicamente diversi da quelli del testo preso in esame (se si tratta di un testo anteriore a Cechov o posteriore a Jonesco).

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IL TEATRO DI POESIA DI GIOVANNI TESTORI La centralità della parola come unico corpo materico e sonoro da frapporre all’afasia e al silenzio dell’ineluttabilità della morte è la risposta concreta della poetica teatrale di Giovanni Testori alle tendenze sceniche degli anni Sessanta. Una drammaturgia intesa come il tentativo «di ‘verbalizzare’ il grumo dell’esistenza» (1) costituisce una reazione al dominio della fisicità, dell’improvvisazione e dell’immagine che aveva contrassegnato l’impegno laboratoriale e collettivo di tanti artisti contemporanei alla ricerca di inedite, ataviche e universali forme di comunicazione antitetiche o divergenti rispetto alla natura convenzionale del linguaggio parlato. In un rappel à l’ordre condiviso anche da Pasolini nel Manifesto per un nuovo teatro (2), Testori riscatta la dimensione verbale dall’ormai imperante soggezione agli altri codici espressivi dell’allestimento, propugnata con convinzione e pervicacia dalle avanguardie, e le attribuisce la missione primaria e fondante di una teatralità concepita come trasformazione della carne in materia dicibile. Ultima prova del mistero dell’essere, estremo appiglio prima del baratro del vuoto etico ed estetico, gemito effimero in cui albergano tutti gli interrogativi, la parola è una realtà fisiologica a cui non si può e non si deve sfuggire per cercare di rappresentare il mondo e di indagare la condizione umana. Il saggio Nel ventre del teatro (3) del 1968 ribadisce la sacralità del palcoscenico come luogo deputato a dibattere il principio stesso dell’essere senza la pretesa di una risposta esauriente e in una sorta di veglia funebre che evochi l’angoscia della possibilità terminale offerta all’uomo. Alle soglie di un’irredimibile agonia l’assenza di soluzioni non deve precludere la necessità del chiedere in attesa che la bocca chiusa del destino pronunci un fatidico suono, sia pure non riconducibile a un concetto. La drammaturgia non si affida quindi al ragionamento, alla meditazione filosofica o alla dimostrazione di una tesi, ma deve piuttosto dare libera voce a una rivelazione imprevista, provocatoria, incontrollabile. Dall’urlo all’estasi, dalla lauda alla bestemmia, dall’eroismo al sacrificio, il teatro diventa la presa di coscienza immediata e sconvolgente dello scandalo della nascita e della morte. Alieno dal gioco ammiccante della conversazione almeno quanto dalla mera riflessione dialettica, lo scrittore lombardo non si lascia attirare dalle lusinghe dell’argomentazione e privilegia uno stile in grado di avvicinare il più possibile il significante al significato, in una corrispondenza biunivoca e invischiante come quella che sussiste fra il corpo e le sue infinite manifestazioni esteriori. L’itinerario multiforme ed eclettico dello sperimentalismo letterario di Testori si sottrae alle trappole del mero esercizio formale in virtù di un’attenzione quasi ossessiva al dato oggettuale, non tanto nella prospettiva di una ricostruzione naturalistica quanto nel desiderio di penetrare nelle ragioni originarie e profonde della realtà prescelta. Il linguaggio risulta protagonista come i suoi contenuti in una tensione drammatica più fiduciosa nella potenza epica del racconto personale che nella dinamica scenica. Il teatro di Testori, infatti, non si prefigge di imitare le azioni umane nell’adesione al canone aristotelico, ma preferisce restituire mimeticamente il loro contesto senza subordinarsi all’ossequioso rispetto di un parlato effettivo in favore dell’esplicitazione del non detto e del non udibile. Poco importa se la stesura di un testo appartenga all’universo logico e consequenziale della prosa o sfoci naturalmente nella formula icastica, franta e sintetica del verso, poiché in Testori la parola è sempre autonoma dalla frase in cui è inserita e si ritaglia una violenza semantica originale e spiazzante. Dal ritratto dissacratorio e pietoso di una coralità popolare che accomuna La Maria Brasca (4) e L’Arialda (5) in una progressiva conquista della sublimazione metaforica, racchiusa nell’apparente affresco sociale, si approda a un’ossessiva ricerca dell’ambiguità del corpo che anticipa e rispecchia la futura inquietudine generata dall’impossibilità di riconoscere un senso univoco all’esistere. Ogni vicenda assunta dalla scrittura di Testori si muta in un’inchiesta metafisica, in una disperata voluttà di vincere la morte attraverso la vita, in una vendetta sia pure esclusivamente verbale contro la scomparsa definitiva, in un esorcismo religioso che sostituisce una mancata promessa salvifica. La parola è un baluardo contro la finitezza in una deformazione linguistica che asseconda la tradizione della poesia lombarda e la esalta attraverso la ripetizione compulsiva di alcuni termini emblematici o il loro vertiginoso isolamento. La domanda assillante che la dialettica teatrale non chiarisce e non risolve produce anche il poema innografico I trionfi (6) e le successive raccolte prettamente poetiche in cui si possono ravvisare i percorsi lirici e allusivi che troveranno un’espressione più matura e completa nella Trilogia degli Scarozzanti. Una posizione intermedia tra drammaturgia e poesia, un crinale espressivo fra oratoria e invocazione, una tensione morale soffocata dall’ideologia del nulla contraddistinguono, invece, La Monaca di Monza (7) ed Erodiade (8), due drammi al femminile in cui la battaglia fra il pensiero codificato dalla civiltà e il desiderio istintivo del singolo cerca di materializzarsi in un discorso coerente nella speranza vana di oltrepassare l’insensatezza. La medesima utilità del teatro come rappresentazione verbale del conflitto esistenziale e della inesorabilità della morte è messa in discussione: «La carne fatica troppo a ridiventare parola. E poi se il verbo che abbiam saputo esprimere dalle nostre ossa è solo questo, che senso ha aggiunto a quel che sapevamo?» (9). Tuttavia resta un tentativo non trascurabile, un necessario atto di fiducia in un rito collettivo che sappia individuare lo sforzo quasi disumano di voler affermare la vita prima di arrendersi a perderla. La confessione intima e lacerata di un personaggio disposto a consegnarsi al nichilismo, che lo divora e lo ingloba fino alla totale ed eterna scomparsa, richiede un’adeguata

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frantumazione del linguaggio che subisce condensazioni, ellissi, alterazioni di piani e dominanze sonore proprio come avviene nella poesia. La prosa si scardina fino alla deflagrazione dell’urlo e del singhiozzo pur non organizzandosi nella struttura precisa e riconoscibile della versificazione, ma il ritmo incessante e musicale della battuta smaschera una naturale pulsione lirica in cui il cupio dissolvi delle dichiarazioni contagia la loro epifania verbale. Complice una fertile parentesi poetica, compresa tra il 1966 e il 1973, in cui regna sovrana la tematica amorosa nelle sue più eterogenee manifestazioni, sino a una disperazione per l’abbandono e il distacco che finisce per condurre al dubbio teologico, con un uomo afflitto dalla solitudine destinato a implorare un cenno di solidarietà da un Dio illusorio, muto e indifferente, Testori dirige la sua creatività linguistica nel territorio sbrigliato e liberatorio della contaminazione. A guidarlo in questo multiforme e policromo caos espressivo non è il gioco onnipotente e gratificante di impadronirsi di una convenzione comune per sovvertirne le regole né il gusto intellettuale e letterario di cimentarsi nella rappresentazione del mondo attraverso l’ironia, il paradosso e la parodia come in parte avviene in Gadda, bensì un bisogno ancestrale e trascinante di parlare per comprendersi, di dire per esistere, di nominare per rendere oggettivo. Nella scrittura teatrale l’ansia comunicativa si rafforza nella consapevolezza dell’eventualità di rivolgersi a una platea e non soltanto alla ricezione solitaria del singolo lettore come accade nella poesia. La parola non resta bloccata sulla pagina, ma acquista vocalità, emozione fisica e psichica, sublimazione artistica attraverso il lavoro dell’attore che si pone come un mediatore ispirato e ispirante fra l’autore e lo spettatore. La concezione rituale del teatro di Testori, che assimila lo spettacolo a una cerimonia religiosa, si completa e si sostanzia con un’idea dell’interpretazione come «verbo» che diventa carne in linea con la cultura cristiana. La presenza maieutica e sciamanica di un attore officiante, disposto all’estremo sacrificio di sé, muta quindi il copione in una poetica in atto, assecondando la natura performativa del linguaggio ed emancipandolo dalla prevedibilità del suo codice. Nasce così il pastiche, un tessuto contaminato e irregolare, in cui la voluttà maccheronica si sposa con suggestioni sonore e virtuosismi orali da grammelot. È il passaggio fatidico dal mimetismo all’invenzione con cui la drammaturgia testoriana si conquista una specificità unica e forse addirittura irripetibile nel panorama italiano. La lingua manifesta la sua origine molteplice e sedimentaria: gli arcaismi si innestano sul lessico corrente in cui la terminologia tecnica e scientifica convive con uno stile quotidiano non privo di volgarità, i vocaboli stranieri delle più disparate provenienze vengono giustapposti e spesso italianizzati e il dialetto lombardo diventa un fucina di deformazioni. Dalla tecnica ludica del calembour si arriva naturalmente all’alterazione fantasiosa dei suffissi, alla crasi, al neologismo. L’istanza trasgressiva contagia ogni normativa grammaticale e sintattica per inseguire un’esplosione verbale demistificante e catartica in cui però non si rintraccia il gioco rassicurante della parodia o il ghigno irridente del grottesco, ma emerge una disperazione latente e perversa che deriva dalla amara constatazione dell’incapacità di strutturare razionalmente la realtà. I modelli sottesi sono i drammaturghi europei del secondo Novecento che hanno dovuto confrontarsi con l’assurdità del presente rifugiandosi nel paradiso fittizio del surreale come Dürrenmatt o denunciando la labilità di tutti i percorsi umani e dei rapporti interpersonali come Beckett. Allo stallo nichilista dell’incomunicabilità, all’autoreferenziale monologo parallelo in stile nominale, al dialogo ridotto a semplice funzione fàtica, Testori replica con un incessante flusso di parole che avverte il suo limite nel descrivere il mondo circostante almeno quanto si sforza di superarlo creando un universo alternativo e praticabile sia pure prettamente verbale. Per afferrare una condizione umana sfuggente e inspiegabile con gli strumenti razionali, non resta che abbandonarsi a uno sfogo che rappresenti sulla scena l’impegno di attribuire alla vita un significato plausibile mentre si prende atto della sua inutilità. Nella trilogia incentrata sulle possibilità sceniche della tragedia, comunemente considerata un genere in crisi e in via di estinzione in quest’epoca contemporanea che esclude figure eroiche, avventure sacrificali dagli esiti collettivi e conflitti con un assoluto divino, storico o sociale a cui si possa ricondurre un principio esistenziale, la lingua deve contenere il marchio indelebile della tradizione culturale precedente, dai classici all’attualità, senza prescindere dal ratificare il caos informe della degenerazione moderna. Stratificata e convulsa come una materia composta con residui appartenenti a tempi e spazi differenti, diventa un esperanto babelico che si allontana dalla mimesi poiché il teatro stesso non è ritenuto uno specchio fedele della vita, ma la sua immagine metaforica e deformata. Se la drammaturgia si pone come domanda suprema e inchiesta esistenziale, il suo linguaggio non può che destrutturare e decodificare se stesso alla ricerca di matrici originarie e correlazioni ataviche. Il progetto scenico della fantomatica compagnia degli Scarozzanti, attori girovaghi che trasferiscono sul repertorio classico la loro mesta esperienza quotidiana, si avvale quindi di una metateatralità finalizzata alla scoperta del mistero umano che richiede un tessuto verbale adeguato. Immaginato a partire dalla suggestione esercitata da La Moschea (10) ruzantiana, interpretata da Franco Parenti (11), il discorso di questi patetici quanto sintomatici guitti violenta l’impianto linguistico dell’opera da recitare e consente all’autore lombardo di sfociare nell’invenzione. Il magma confuso e indomabile dell’essere si può nominare soltanto con un amalgama di arcaico e moderno, di latino e italiano, di straniero e dialetto, di erudito e popolare, di forbito e sgrammaticato, di ibrido e paradossale. La sintassi si sganghera in virtù del predominio della parola singola con una tendenza spiccata alla ripetizione, all’iperbole, al superlativo quanto al diminutivo in un’atmosfera verbale improntata all’accumulo eterogeneo e sbrigliato di termini slegati fra loro e destinati a urtarsi per generare ulteriori significati.

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Il monologo si palesa come la forma privilegiata di un teatro che mira dritto al perno del dilemma sospeso fra la vita e la morte in una visione scenica totalmente svincolata dalla priorità dell’azione e orientata verso la condivisione di un rovello interiore così fagocitante e urgente da necessitare un interlocutore esterno al contesto principale. I personaggi testoriani sembrano indirizzarsi al pubblico o a un’entità superiore onnisciente nella speranza di essere liberati dall’atroce condanna di un destino sacrificale. Ognuno di loro segue e incarna il suo discorso: una confidenza esacerbata dalla solitudine dell’anima, una meditazione gridata al prossimo senza attendere la sua reazione, una dolente constatazione di impotenza che ha come estrema risorsa la verbalizzazione del proprio itinerario emotivo. Ecco quindi L’Ambleto (12) discostarsi dall’originale shakespeariano con un protagonista che si ribella ai ruoli precostituiti e al potere fino ad approdare al rifiuto totale della vita ridotta a un fatuo inganno concluso dalla vittoria del nulla. L’intreccio si condensa sulla vocazione amorosa di un eroe costretto, forse più che disposto, a caricarsi del male universale, espiando in un rapporto negato con la madre di cui diviene l’assassino e in un’attrazione omosessuale per un personaggio inedito, il Franzese, suo alter ego positivo e angelicato. Il desiderio affettivo implica una regressione infantile, un ritorno alla situazione fetale che però non celebra il miracolo della vita, bensì inchioda alla fatale acquiescenza del non essere. Il carattere residuale del linguaggio adoperato, con i suoi fulminei e lancinanti salti di registro e le sue bizzarre trasgressioni stilistiche, dovrebbe tenere insieme i pezzi di un conglomerato logico di secondo livello, ottenuto nel confronto dinamico e irriverente con il testo di partenza. La disgregazione dell’apparato letterario si sviluppa progressivamente in occasione del Macbetto (13) in cui il pessimismo cosmico affligge anche l’andamento delle battute che appaiono articolate in versi polimetri privi di rima con una scelta lessicale sempre più elementare. La coppia malefica si giustizia a vicenda in una castrazione reciproca che verifica la valenza del connubio fra amore e morte. L’esistenza è soltanto un effimero e vano tragitto dal buio uterino a quello dell’Ade in cui si può cogliere per un attimo la verità dell’essere legata alla coscienza della propria finitezza. La riduzione al grado zero del modello tragico di riferimento procede poi in Edipus (14) con Lo Scarozzante concepito come unica voce solitaria rimasta a testimoniare la definitiva dipartita degli altri membri della compagnia e la possibilità magica dell’interprete di rivestire tutti i ruoli in un teatro antinaturalistico che è incarnazione, travestimento, maschera nuda e straniante di una realtà incoerente. Il parricidio e l’incesto, mutuati da Sofocle, non sono motivi di colpevolezza e la responsabilità tragica scontata dalla futura progenie scompare per lasciare il posto a una diversità etica che sovverte una consuetudine sociale e religiosa fondata sul privilegio per proclamare la nascita di un nuovo sistema culturale emancipato dai tabù che hanno ratificato la civiltà e il suo ordine. La scarica di mitra che colpisce dalle quinte l’Edipus-Scarozzante riconsegna, infine, al silenzio un attore che si è illuso di essere l’ultimo sacerdote di una religione della libertà rifiutata dalla gente in un teatro considerato l’estremo baluardo del dionisiaco e della sua sfida a un assetto gerarchico e autoritario. Ancora una volta la parola aspra, disarmonica, irreale di un interprete plebeo abbandonato a se stesso e inascoltato denuncia la crisi della professione teatrale nel momento in cui tende a ribadirne la necessità in un mondo sordo e violento. Un idioletto fluido e ritmato con le sue difformità grafiche, sonore e morfologiche produce una tensione epica ineguagliabile che sconfigge ogni aspirazione apollinea e precostituita del linguaggio e delle sue suggestioni. Il teatro permette, infatti, di comunicare anche con una lingua incomprensibile o inventata affidando il messaggio al contatto empatico fra l’attore e il pubblico come conferma il successo internazionale e atemporale della commedia dell’arte. La scarnificazione si radicalizza ancora in Post-Hamlet (15), una sorta di oratorio per coro e voci in cui la sacra rappresentazione si impone sulla riscrittura della tragedia classica restituendo alla parola la sua forma consueta e frequentata per segnare un patto di pace e comunione fra i personaggi da estendere ovviamente alla platea. C’è qui allora l’essenzialità della liturgia con le sue iterazioni non aliene da intenti didattici e predicatori. Le strofe sono piuttosto lunghe, ma i versi risultano brevi, spesso monosillabici o ridotti a un solo vocabolo e talvolta rimati, in una struttura fonica che favorisce l’immediatezza delle appoggiature vocali. Allo spiazzamento del clima tragico si sostituisce ora la rassicurante modulazione dei testi religiosi con chiasmi, anafore, assonanze e sinestesie che collocano serenamente il nuovo Amleto in un crinale fra eroe tragico e martire cristiano con debita identificazione cristologica. Dopo il dubbio del prototipo shakespeariano mutato nel nichilismo di Ambleto, si avverte la necessità di un Messia contemporaneo in grado di rinsaldare l’alleanza con il Padre dell’intera comunità. La natura rituale del teatro risulta trionfante nella fusione di palcoscenico e platea per la partecipazione comune a una celebrazione religiosa capace di garantire agli uomini l’esperienza della fraternità nel riconoscimento collettivo del bisogno urgente di un Padre che sappia amare e perdonare. Il compromesso ideologico raggiunto fra l’avventura eroica dell’antichità e l’anelito mistico del cristianesimo si formalizza in uno stile semplice e paradigmatico con metafore desunte dal quotidiano e riferimenti concreti. Questo tragitto messianico e pacificante non acquieta il travaglio intimo del drammaturgo che torna all’idea metateatrale della compagnia di guitti per mettere a nudo un tormentato cammino d’espiazione in Confiteor (16). Le tappe di una Via Crucis interiore scandiscono la redenzione di un uomo colpevole di aver ucciso il fratello minorato in un atto misto di rabbia e pietà. Un rovello che ha spesso i connotati della bestemmia anima un dialogo a posteriori fra madre e figlio in cui il teatro accoglie «una poesia di nuda e scoperta confessione con la risonanza corale di una parola rituale ampiamente partecipata» (17).

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L’inquietudine del tragico e la sua difformità nel contemporaneo tornano nei quattro monologhi di Sfaust (18), con un’alternanza di prosa e versi combinata disarmonicamente fra parodia e allegoria creando un linguaggio sincretico intorno al vernacolo lombardo con incursioni arcaiche aliene dalla filologia. La prosa recupera l’assemblaggio contaminato della trilogia, mentre la poesia mira all’effetto immediato dell’oralità predisponendosi alle coloriture tonali della recitazione. Il protagonista goethiano affronta la sua risibile caduta nell’eroismo sterile e autodistruttivo di Ubu roi e il delirio di onnipotenza dell’uomo tracolla in una pagliacciata caricaturale. Ecco quindi il rovesciamento della parola nel suo contrario con una pulsione semantica verso l’ossimoro concretizzata nell’aggiunta di una “esse” davanti alla maggioranza dei vocaboli. La creatura umana gabbata dalla sua velleità prende coscienza della sua fallacia e si lascia consolare dalla misericordia divina senza però trovare la modalità corretta e adeguata per esprimere la disperazione. Il perdono diventa, invece, un mito di rinnovamento etico in quanto istanza unificante della comunità nel nome di Dio in sdisOrè (19). Un solitario attore scarozzante si dimena nell’incarnare la saga familiare dell’Orestea, rinnovando l’avventura dissacrata di Edipus con il filtro della recente demistificazione di Sfaust. Nel vortice martellante di un verso indirizzato alla declamazione si insinua il suono di una parola nuova, svincolata dal tessuto dominante e dalle sue appartenenze geografiche, letterarie, storiche o popolari. Prima ancora che un’idea salvifica, il perdono è un accostamento inedito di sillabe, un gorgheggio, un’invocazione. Nel gioco di assonanza con il rintocco delle campane si comprende come la speranza finale sia partorita dall’universo sonoro e generata da un esercizio vocale. La vita diventa vera quando la lingua riesce a oggettivare le percezioni umane. Una constatazione che attribuisce al teatro la missione di svelare e testimoniare le condizioni dell’esistenza. E il mistero per eccellenza si sonda, infine, attraverso un genere drammatico ancestrale, melodico e lirico come il lamento nel trittico di monologhi femminili Tre Lai. Cleopatràs. Erodiàs. Mater Strangisciàs (20), testamento scenico dell’autore lombardo consegnato all’attrice Adriana Innocenti come viaggio estremo nella sofferenza causata dai legami amorosi. In un percorso iniziatico di memoria dantesca dalla dannazione infernale all’attesa purgatoriale fino all’estasi mistica, tre donne piangono sul corpo dell’amato rievocando il rapporto violato dalla morte e meditando sul significato della loro sopravvivenza. Dall’enfasi terrena e sensuale di Cleopatra che eredita il registro linguistico della trilogia, si passa al patrimonio metaforico e lessicale dei testi sacri profanati dalla violenza di una vendetta contro una religione che impone la rinuncia caratterizzata da Erodiade, figura ossessivamente ricorrente nella produzione testoriana, per poi rifugiarsi nella rinfrancante pacatezza dell’abbraccio materno di Maria. Ancora una volta classicità e cristianesimo si incontrano in teatro, si cedono il testimone e collaborano per chiarire e rappresentare la sorte umana. È la voce dell’attore a coniugare questi mondi differenti e talvolta conflittuali come il suo corpo riesce a condensare eroi e martiri nell’unica, policroma e multiforme immagine dell’uomo solo. La parola si nutre della sua fisicità proprio come la sua presenza reale incarna il testo dell’autore e materializza sulla scena personaggi costruiti sulla pagina. L’urlo solitario di ogni protagonista si trasforma in preghiera corale quando è rivolto a una platea: l’avventura esistenziale di un singolo diventa l’emblema della vicenda umana quando la cerimonia del teatro sperimenta le prospettive e le incoerenze della drammaturgia in corrispondenza con le possibilità e i limiti della vita. Tiberia de Matteis Note. (1) G. Testori, Nel ventre del teatro, in «Paragone», giugno 1968, ora in Giovanni Testori nel ventre del teatro, a cura di G. Santini, p. 34. (2) P.P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1968. (3) Testori, Nel ventre del teatro, cit.. (4) G. Testori, La Maria Brasca, Milano, Feltrinelli, 1960. (5) G. Testori, L’Arialda, Milano, Feltrinelli, 1966. (6) G. Testori, I trionfi, Milano, Feltrinelli, 1965. (7) G. Testori, La Monaca di Monza, Milano, Feltrinelli, 1967. (8) G. Testori, Erodiade, Milano, Feltrinelli, 1969. (9) Testori, La Monaca di Monza, cit., in Id., Opere 1965-1977, a cura di F. Panzeri, Milano, Bompiani, 1997, parte II, p. 565. (10) A. Beolco, La Moscheta (1529), a cura di L. Zorzi e G. de Bosio, Padova, Randi, 1951. (11) Milano, Piccolo Teatro, marzo 1970. (12) G. Testori, L’Ambleto, Milano, Rizzoli, 1972. (13) G. Testori, Macbetto, Milano, Rizzoli, 1974. (14) G. Testori, Edipus, Milano, Rizzoli, 1977. (15) G. Testori, Post-Hamlet, Milano, Rizzoli, 1983. (16) G. Testori, Confiteor, Milano, Mondadori, 1985. (17) A. Cascetta, Invito alla lettura di Testori. L’ultima stagione (1982-1993), Milano, Mursia, 1995, p. 64. (18) G. Testori, Sfaust, Milano, Longanesi, 1990. (19) G. Testori, sdisOrè, Milano, Longanesi, 1991. (20) G. Testori. Tre Lai. Cleopatràs. Erodiàs. Mater Strangisciàs, Milano, Longanesi, 1994.

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LA CARTOLINA ILLUSTRATA DELLE LETTERE ITALIANE CARMELO BENE: VOCE, POESIA, TEATRO Concepire il luogo teatrico come cassa di risonanza della parola poetica, come semplice e acritico riverbero che riproduce la parola, come sua più o meno estendibile protesi, è qualcosa che, dal mio personale punto di vista, mi pare essenzialmente non corretto. Facile anche da sostenere, in tempi in cui la pratica di poesia sconta inevitabilmente la sua inconsistenza sociale e pubblica, la sua mancanza di forza, la sua ostinata incapacità di dire e di divertire e interessare il pubblico. Il teatro diventerebbe allora una confezione ben predisposta, attraente e garantita da tutta una serie di meccanismi di sicurezza - i teatri, nell’antichità erano luogo pubblico per eccellenza, quasi sempre all’aperto, poi furono costruiti al chiuso, in una materia deperibile e infiammabile come il legno, ora per lo più scontano il rigor mortis e la forma stabile del cemento armato. L’ossessione per la performance di sicuro garantisce una certa dose di spettacolarità e, soprattutto, la sensazione di trovarsi di fronte ad un tipo di parola vivente, immediata, capace di conquistare attraverso le dinamiche della vocalità un pubblico sempre più abituato a ritenere l’arte una questione di narcosi a buon mercato, capace magari di garantire lo sballo controllato, la ricreazione dalla catena di montaggio dell’economia e del famigerato tempo libero - o, peggio, un pratico altarino interiore di una consolatoria devozione domestica, mascherata da happening pubblico e comunitario. Ma il teatro non è né immediato né naturale, né pubblico né privato, in quanto capace di attraversare e rendere problematiche tutte queste dimensioni che, nel momento in cui sono portate (o, meglio, ri-portate in vita) nel palco ricominciano davvero ad essere pensate e soprattutto a “dare da pensare”. Esso infatti è per eccellenza il luogo della finzione e dell’artificio, della maschera e della virtualità più spinta. È il luogo della volontà e della rappresentazione - e proprio per questo, forse l’unico spazio estetico rimasto in cui veramente volontà e rappresentazione possono in qualche modo essere contestati e messi in discussione mediante una “pratica”. È in definitiva questo, infatti, lo spazio di una vera e propria pratica ed esperienza del pensiero, dove le consuete contrapposizioni fra teoria e prassi saltano e dimostrano la loro costitutiva inconciliabilità, la loro portata indissolubilmente comunitaria, relazionale (comunità e relazionalità che in un autore come Bene vengono davvero capovolte, sofferte come intollerabili, rese impossibili, di contro alle mistificazioni correnti della politica e del sistema della ricezione estetica). Va da sé che l’oblio sistematico di quanto appena detto va di pari passo con una opzione politica ben precisa, perché di questo si tratta: il teatro è sempre politico, perché è il luogo della rappresentazione (e della rappresentanza), e quindi del potere. C’è un potere, evidente nel teatro, forse come in nessun’altra disciplina estetica, ed è appunto quello legato ad un tipo di rappresentazione del vivente in tutte le sue forme che potremmo forse avvicinare a quella categoria debordiana dello “spettacolare integrato”, capace di fornire la sensazione agevole di una totalità, di un tutto vivente. Quando invece per Bene la pratica attoriale è essenzialmente pratica del disagio, e solo in quanto disagio può essere poesia. Ecco allora un divertente e feroce quadretto beniano su uno dei monumenti del Novecento italiano:

La scorsa notte, una signora - Nostra non certo - laureata dei numeri e muse fisiche, niente quasi avendo intelletto del verso scritto, ci esponeva il suo amore per la cartolinata poesia montaliana. Simulava la dama ricercar pareri, dappoiché, avendo altro tempo conosciuto de visu il vate che l’innamora non si sa perché, tetragona non rinunciava - è comprensibile - all’aver “visto il poeta”, e difendeva da nessun attacco, candida, i versi dell’Eusebio, i più impossibili di poesia, appunto. Eliot, Pound, Laforgue, che dico? Il Gozzano, tutti maestri tessitori il vento dell’incidente Montale, ella ignorava assai brillantemente. Basta, signora, riguardiamo a mente questi pochi versi sufficienti a mostrare che l’Eusebio nazionale aveva in gran dispetto quel disagio ch’è proprio del poetare:

Anima mia [mica tanto bella] non più divisa, pensa Cangiare in inno l’elegia, rifarsi, non mancar più…

Anima “bella”, evocata (riferita). A che? A pensare. Pensare a che? A rifarsi (il confort dell’essere). “Non mancar più” (e non è la poesia il suo venir meno?). Non è forse il testamento di uno strozzino? Montale sparagnino. Il suo è un tentar poesia del tempo libero. Il verso, il suono, salvi certi meriggi, gli son decisamente inessenziali. E lo sapeva. Ma contenti gli altri… […] Non divergente dalla malcapitata signora della scorsa notte è la italiana critica letteraria. […] Via, via, signora cara, gli Ungaretti Quasimodo Montale, limbo mondano di soperchieria non poi tanto innocente, no davvero. Su Martinetti si poteva osare: “è un cretino con lampi di imbecillità”. Non male. […] Poesia è distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, suono e, soprattutto, urgenza, vita, sofferenza (non necessariamente cristiana). È flusso dell’insofferenza d’esserci. È scontento, anche nei casi più “felici”. È risuonar del dire oltre il concetto. È intervallo musicale d’altezza, lirico, in che si dice detta la delusione di quell’altro intervallo (distanza) tra il “pensato” e il suo riporto sulla pagina. È l’abisso che scinde orale e scritto. (1)

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Il disagio, per Bene, è il disagio del soggetto e della rappresentazione. Non si confondano certe sue tirate con una forma ormai largamente vulgata di simbolismo o di estetismo deteriore: non rimane niente, a ben vedere, nella pratica beniana, di quel buio programmatico, di quella sistematica ricerca del distacco dal vivente verso una presunta purezza della forma che si rovescia spesso in necrofilia. Siamo piuttosto in presenza di un movimento contrario che però attraversa tali impasse bruciandone quel tanto di rappresentativo e di decorativo, che non le accantona acriticamente ma le vive nella propria carne martoriata e nella grana sbrecciata della voce. Questo, per Bene, è teatro. E teatro che usa la poesia e la voce come critica, luogo cavo mediante il quale attraversare le forme, tutte le forme, trapassandole senza evitarle. E non c’è nessun mito della purezza, neanche di una purezza vocalica originaria, come forse ad un primo approccio potrebbe sembrare. Nell’agone teatrale, nella gogna della scena e della rappresentazione, l’attore sperimenta appunto il disagio dell’esserci, fa i conti con le incrostazioni della storia e del testo, che non fugge ma combatte in un corpo a corpo letterale: se la formazione di una identità ci distacca dalle pratiche che la costituiscono, il teatro ci spara in faccia, con violenza e tenerezza insieme, tutto questo. E proprio l’attore-Bene, proprio il campione indiscusso della vocalità non abbandona mai lo scritto e le sue cancrene: la performance teatrale non è concepibile, per Bene, se non a partire dal testo scritto e dalla sua tirannia: è un continuo rimasticare e risputare brani di testo come impedimenti, sassi in bocca che lacanianamente impediscono la marea del significante. È la stessa cosa che succede con il trovarobato di scena: abiti lunghi e fuori misura che ostruiscono e rendono innaturali i movimenti, oggetti sproporzionati, manichini e pezzi che non tornano, che risulta impossibile ricomporre, le stesse voci registrate in asincrono che stracciano la linearità della storia, che è poi la linearità del nostro procedere scrittorio-alfabetico. Si tenta insomma lo sgambetto, il tranello, in modo da riaprire quella falla davvero originaria tra scritto e orale, tra pensato e pensiero in atto, tra atto e azione - l’abisso della volontà che, per forza di cose, non può non contemplare al suo interno anche il suo “non”, la sua negazione, la sua in-potenza. La cosa sconvolgente è che gran parte della poesia del nostro tempo non è più disposta ad abitare un tale abisso e molto spesso all’abisso preferisce l’ab-soluto, la prestazione immunitaria o al massimo omeopatica: la gestione del negativo e la costruzione di un rovescio dell’identità altrettanto tenace della forma identitaria stessa. E spiace dover constatare che in alcuni casi questo accade proprio ad un tipo di fruizione ed esperienza poetica che si dice “performativa” e teatrale. Molto spesso, questo tipo di esperienze si limitano ad accantonare il problema dello scritto che, come abbiamo visto, è il perno dell’agone orale beniano: allora, nel momento in cui sembrerebbe possibile e attuabile un recupero interessante del corpo-voce e delle sue dinamiche, ci troviamo in realtà di fronte ad una smaterializzazione, ad una fuga aproblematica e aprioristica che divide incessantemente vivente e vissuto, nuda vita e forma di vita, immediatezza e mediazione. È chiaro che allora la fruizione da parte del pubblico diventa più semplice ed accattivante poiché lascia tutto così com’è e può tranquillamente essere tollerata anche nelle sue forme più “estremistiche” poiché non mette in discussione l’essenziale, non percepisce cioè la voce come dialettica del pensiero. Lo stesso Bene infatti sostiene:

Non mi riguarda il verso descrittivo, il compitino del paesaggio, il verso, insomma, da componimento, poiché equivale il riferire sciagurato d’ogni attore ch’io sappia sulla scena. E in tal senso, la tradizione “classica” universa è un infinito cimitero d’attori-poeti e di poeti-attori. Ma se il poetare di là dai “sentimenti” è l’esercitazione in lingua altra che rigorosamente si preclude ogni tentazionacella extratestuale, ecco il gioco sovrano del dire che la voce scrive in pieno mercato di scena. […] Ci vuole urgenza - disessere nei suoni per dar voce al pensar dimenticato. (2)

Da tutto ciò la forte critica al modello poetico occidentale, e italiano in particolare, e il progetto di una sua disintegrazione mediante l’atto teatrale:

In questa “inumazione prematura”, la massa dei miei atomi ha meritato, per autocombustione irripetibile, un’esplosione che ha disintegrato gli scapigliati fiutascorregge della tradizione e i signori di baciaculo della neoavanguardia pre-pensionata. Anche se, senza scampo, seguitano a riprodursi, visibilmente incoronati dal boato. Disintegrato è l’autorialità ecceduta dalla sprogrammazione nel prodursi e costituirsi come opera di che solo le scorie sono oggetto del corpo tipografico a seguire. Disintegrato è tutto il novecento: il “pasticciaccio brutto” dell’anti-neotradizione intesa come servizio funebre d’imbellettare il sonno eterno dei classici, e - in questo ufficio macabro cosmetico - se-viziare, “spregiudicata”, posture e atteggiamenti, spettinandone il senso, sforbiciandolo, intascare una ciocca nel dis-senso “diligente”, invidioso, mai tentata di rinunciare al senso; come la scampagnata d’avanguardia, lungi dal rovinare le rovine, nell’ora più sfrenata di ricreazione scolastica, scorrazza, sfregia i nomi sulle lapidi, inverte fiori, ceri e fuochi fatui, e finalmente impazza nell’obitorio di quel cimitero, invocando il non-senso e il suo contrario. Non oltre. (3)

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Disintegrazione che dunque ha ben poco a che fare con i tentativi della neoavanguardia italiana e con i suoi nipotini - da dove spesso deriva la deriva montante della performance in poesia e degli scellerati e per lo più poco di-vertenti slam poetry, che confondono improvvisazione e immediatezza con pressappochismo e bricolage del fai-da-te. Da questo punto di vista, davvero, Bene non ha eredi: non ha insegnato o, meglio, non ha disimparato a nessuno. Andrea Ponso Note. (1) Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna, in Opere, Bompiani, Milano 1995, pp. 1153-1156. (2) Ibid., pp. 1158-1159. (3) Ibid., p. XII.

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UN ALBO DI ROVINE (CON ALCESTI), SOGNANDO UN'ALTRA STORIA … quando il mondo era pieno di luce… e da tutte le parti, nella fossa di chi rammenta, nelle quinte ingombre di macerie, nei cessi, nel foyer annerito dagli incendi ferveva l’incauta vita… [Quare tristis]

O forse la felicità è solo degli altri, d’un altro tempo, d’un’altra vita e a noi non è possibile che recitarla come viene viene, a soggetto, ostinandoci a inseguire la parte di noi stessi in un vecchio, bizzarro canovaccio senza capo né coda… [Barlumi di storia]

Nel Novecento quello di Alcesti è il luogo in cui s’intersecano inquietudine privata, famigliare, e dramma collettivo, storico. Tra spietata bufera dei tempi e affannosa ricerca d’un luogo franco. Basti pensare ai tempi in cui vennero composte le due principali riscritture precedenti, Il mistero di Alcesti di Marguerite Yourcenar e Alcesti di Samuele di Alberto Savinio: 1942 e 1948. La cornice storica è esplicita, nello smisurato e sregolato dramma di Savinio, sin dall’antefatto: che fa risalire le sue origini proprio al ’42, quando l’autore intravede, alle prove di un Wozzeck all’Opera di Roma, la figura “tragica” del dottor Alfred Schlee, direttore delle Edizioni Universali di Vienna la cui consorte, ebrea, per salvarlo dalle persecuzioni naziste aveva compiuto la stessa scelta della remota regina dei Tèssali. L’intreccio che le vicende collettive compongono con la biografia personale è il luogo dal quale ci parla Giovanni Raboni. Nella sua Alcesti non figurano riferimenti espliciti al contesto storico; si può dire che le allusioni ai «tempi che corrono», al «rischio mortale / che incombe sulle nostre teste», al «potere» che «sta ammassando / i presunti avversari del nuovo ordine» negli «stadi» e nei «velodromi» – insomma a quanto fa sì che «il nostro mondo stia cadendo a pezzi» –, tutto questo disegni una condizione, nell’aere perso del totalitarismo, generale e universale. Anni Trenta e Quaranta – potremmo dire – ideali eterni. Dice del resto Simone, con amara ironia, che «i mali imprecisi sono i peggiori». Questo anche se l’onomastica dei personaggi, e certe battute di Sara (la quale definisce per esempio «esodo» la sua fuga), potrebbero localizzare più precisamente l’azione nello spazio e nel tempo. Il persecutorio «nuovo ordine», infatti, è colpevole soprattutto in quanto «mira a toglierci l’anima / prima ancora di toglierci la vita»: altrimenti e manzonianamente detto, dunque, perché mette le sue vittime – come Stefano e Simone che vergognosamente battibeccano su chi abbia più diritto a sopravvivere – nelle condizioni di «far torto o subirlo». È stato nei Sommersi e i salvati che un altro grande manzoniano del nostro tempo, Primo Levi, ha citato I Promessi Sposi per ricordare che «tutti coloro che […] fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi». A precisare meglio i contorni “esterni”, si ponga mente alla fotografia che illustra l’edizione garzantiana dell’Alcesti (uscita nel settembre del 2002): due figure minuscole si aggirano nella platea di un grande teatro in rovina, si fanno largo tra le macerie, rivolgono lo sguardo ansiosamente verso l’alto, verso lo squarcio – ai nostri occhi invisibile – attraverso il quale la bufera ha prodotto il suo catastrofico varco. La didascalia recita: «Il teatro alla Scala, Milano 1943». E se l’Eracle euripideo (quello che in Savinio era un enfatico Presidente Roosevelt…) diviene qui un laconico ed enigmatico «Custode» – detto anche «spedizioniere» – si può pensare alla figura di «Caronte» che appare in Quare tristis: il libro di versi, di Raboni, che insieme all’ultimo Barlumi di storia meno dissimula il tremare della vita di fronte all’agghiacciare della storia. «Fra l’Anschluss e la notte dei cristalli, / fra Monaco e Danzica», un «Caronte // di se stesso», in «decappottabile», s’impegna in una «gita / fuori porta, fuori dazio». Viaggio ambiguo, di salvezza e perdizione. Una lotta muta e senza nome, come quella di Eracle con Thanatos. (Ci si ricorda pure che gli unici versi residui della mai completata Alcesti di Racine – per Yourcenar «la più perfetta delle Alcesti», quella che «da qualche parte fluttua, nel regno delle Idee» – ritraggono proprio il traghettatore ìnfero: «Je vois déjà la rame et la barque fatale; / J’entends le vieux nocher de la rive infernale. / Impatient, il crie: “On t’attend ici-bas; / Tout est prêt, descends, viens, ne me retard pas”»; ed ecco il Custode del Teatro di Raboni: «Ma su, adesso sbrigatevi, o c’è il rischio / che il camion non vi

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aspetti: / il motore, lo sento, è acceso, / e sento anche che l’autista / ogni tanto, per impazienza, / dà qualche colpo d’acceleratore.») Se, come pensava Marguerite Yourcenar, protagonista occulto di ogni Alcesti è proprio lui, Eracle, l’averlo trasformato – da ruvido e alticcio paladino della vita, manesco fracassone di buon cuore – in traghettatore taciturno, figura liminare dai lineamenti sfuggenti, è il nucleo più intimo, forse, dell’immaginazione di Raboni. Quello che non può non prescindere dall’identificazione positiva del “contesto”. In una delle prime sticomitìe fra Simone e Stefano, quest’ultimo annuncia che è giunto il momento di «una scelta». Ribatte il padre: «Neanche fosse tra vivere e morire!», al che replica il figlio: «E fra cosa e cosa, se no?». La battuta richiama alla mente quella – nuovamente di Savinio – che un rimpianto lettore e amico di Raboni, Luigi Baldacci, ha posto in esergo a un suo libro: «Quando si dice pensare, s’intende pensare alla morte. E a che altro pensare?…». C’è un «gran fiume imminente» – stretto parente dell’Isar nel quale s’immerge l’Alcesti di Savinio – che attende il lettore al termine di Quare tristis (flusso di endecasillabi sciolti che prelude, tecnicamente in misura forse decisiva, al dialogato in versi della Rappresentazione della Croce e di questa Alcesti): un «fiume» al quale siamo chiamati, come i traghettati dal Custode, a «muoversi, affrettare l’incerto passo»: «e lì svoltare, perdersi, svanire». E non è certo nel “contesto” contingente di un’età che s’allunga, che nelle parole di Raboni si delinea un simile orizzonte. Sono più di trent’anni che, come scrisse Piergiorgio Bellocchio, «anche se formalmente (sintatticamente) i morti restano l’oggetto del discorso tenuto dai vivi, sostanzialmente ne diventano il vero soggetto». Ma non è proprio questo lento, graduale, quasi insensibile scambiarsi di posizioni – fra vivi e morti – il “vero” tema di ogni Alcesti? Non è, colei che si vota al sacrificio, moralmente più “viva” dell’irresoluto consorte? Non è ella consegnata alla morte sin dall’inizio del dramma – e, malgrado ciò, assai “viva” sulla scena? (Drammaturgicamente, anzi, primo motore dell’azione.) A un punto tale, è spinta sin dall’archetipo questa condizione limbica della reggia di Admeto (nella quale sin dal principio dimora Thanatos), che l’ultimo traduttore dell’Alcesti di Euripide, Davide Susanetti (nella bella edizione commentata pubblicata da Marsilio nel 2001), ha potuto definire il dramma un’«enciclopedia umanistica e sentimentale della morte», nella quale vige «una condizione confusa e sospesa tra il regno dell’essere e il suo contrario, tra presenza e assenza, in una cornice temporale che si presta a intersecare e confondere passato, presente e futuro». Si pensa, tornando a Raboni, a un sonetto di Ogni terzo pensiero (titolo, questo rubato alla Tempesta di Shakespeare, di per sé eloquente: seguìto com’è, sulle labbra di Prospero, dalle parole «sarà per la mia tomba»…): «è questo niente / che ci separa, aria da foglie, gente // che aspetta pallidamente di qua / e di là d’una lapide, i non morti / ancora dai non ancora risorti». Ma non è proprio questa la condizione, non morta ancora e non ancora risorta, del personaggio che al dramma dà il titolo? Come dice Susanetti, «per l’intera durata del dramma, Alcesti “è” e “non è” […] Quando è ancora viva, può essere considerata e definita già morta […] per il sacrificio che l’attende. Una volta morta, continua tuttavia a “essere” secondo forme e modalità diverse». Al suo ritorno in scena, muta e velata, tiene un contegno non dissimile da quello del Custode che la scorta – colui che a tutti gli effetti, cioè, appartiene a una condizione intermedia, impartecipe, sospesa fra i due regni. Giungiamo così a un elemento che caratterizza con forza la riscrittura raboniana: il suo ambientare la vicenda nell’allusivo “contesto” di un Teatro. Non è proprio della somma ambiguità che chiamiamo teatro questa vita che non è “del tutto” vita, questa morte che non è “interamente” morte? Non è squisitamente teatrale l’«essere o non essere» – l’essere e, insieme, il non essere? Il titolo di Raboni lo si legga per intero. Alcesti sì ma, in aggiunta, la recita dell’esilio. Uno dei pochissimi particolari che sull’antefatto ci vengano riferiti, anzi forse l’unico, è l’«odio indecifrabile» che, «trasformatosi in legge dello Stato», impedisce a Sara «di fare / la sola cosa che ama […]: recitare». L’assenza presente di Sara dalla scena, che nella prima parte del dramma consente a Simone e Stefano di sfogarsi nei loro ineleganti alterchi, si deve proprio al suo frugare fra le quinte, alla ricerca delle emozioni del debutto, su quello stesso palco, più di vent’anni prima: «ero così giovane… Due battute, / massimo tre, la parte di un’ancella / – sì, ma in quale tragedia?». È l’anziano, il colto Stefano a riconoscerla dalle prime battute: naturalmente Euripide, naturalmente l’Alcesti. Non si pensi tuttavia a un ludico divertissement postmodernista. Tutt’altro. Qui la riflessione del teatro su se stesso scende a fondo – alle radici stesse, crediamo, del senso del testo. Probabilmente neppure l’archetipo euripideo – tutt’altro che arcaico, anzi appartenente a una stagione matura della drammaturgia classica – sfugge del tutto a questa dimensione (e forse non a caso già s’annoverava, prima di quella raboniana, una meta-Alcesti: quella del poemetto del 1871 di Robert Browning, Balaustion’s Adventure, nel quale un’eroina perseguitata dai pirati si rifugia a Siracusa, dove le viene offerto riparo a patto che acconsenta a recitare, appunto, la parte di Alcesti). Aggiunge infatti Susanetti che se nulla, come dice l’ultimo stasimo del coro, si può contro la morte, il senso del dramma «si traduce, implicitamente, nel valore stesso della poesia e del teatro che celebra chi muore, che ne garantisce il ricordo, e che nel finale rende il miracolo completo costruendo la scena della resurrezione». Il teatro – la parola – come rifugio dalla Storia? O – ciò che sarebbe più consolante ancora – come argine al dilagare della Morte, al montare del Non Essere? Quel che si può dire, con Hölderlin, è che dov’è il pericolo è anche la salvezza. È Sara a spiegare che nel Teatro, il luogo dal quale il vento della Storia l’aveva bandita, la sorte «ha voluto che ritornasse». Sarà lì che sceglierà il Sacrificio, dunque, e sarà di

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nuovo lì che andrà in scena il suo trionfo: la sua Resurrezione. Nello stesso luogo, insomma, «mentre tutto finisce», «qualcosa, forse, può ricominciare». Che è poi, a ben vedere, l’eterno “scandalo” di Alcesti: il suo “lieto fine”. Non a caso non s’è fin qui usata la parola tragedia. Che tragedia può essere quella il cui nodo si scioglie felicemente? Per secoli ci si è affannati a sanare l’ambiguità di Alcesti, la sua compresenza di linguaggio tragico e intermezzi comici e, soprattutto, l’enigma del suo finale. S’è definito, quello di Euripide, dramma prosatiresco (in quanto, quarto in tetralogia, figura in luogo del vero e proprio dramma satiresco). E il suo tono è stato definito, più che tragico, elegiaco. Ma forse, almeno nel Novecento – che s’è valso di questa favola nel modo che s’è detto –, la chiave va cercata altrove. Leggendo la prima volta il finale dell’Alcesti di Raboni si resta spiazzati; in apparenza, però, molto diversamente da come ci lascia il finale di Savinio: nel quale, anziché unirsi ad Admeto nella nuova vita, l’eroina lo chiama a sé nel regno della morte. Altro che lieto fine... Ma anche il silenzio finale dell’Alcesti di Raboni, a ben vedere, è un segno di sospensione, di ambiguità. (Una conclusione “in levare”, direbbe forse l’autore di Cadenza d’inganno.) Già in Euripide, in effetti, il finale è incerto – segnato da un silenzio simmetrico a quello, misterioso, nel quale all’inizio è immersa la reggia. E tuttavia il gesto col quale Eracle alla fine scopre il volto della donna che ha indotto Admeto ad accogliere nella sua casa, così rivelandone l’identità, ha un valore inequivoco: quello di “nuove nozze” (questo il senso tradizionale dello svelare, in pubblico, il volto della donna), di patto riannodato. Una commedia del rimatrimonio avanti lettera. L’Alcesti di Raboni non solo resta muta – come quella di Euripide. A differenza di quella, resta anche velata. Il dramma si conclude, infatti, col Custode che avvia i suoi tre protetti alla salvezza, ma senza svelare l’identità della terza presenza. I due uomini, che non hanno riconosciuto le fattezze «misteriosamente mutate» di Sara, restano convinti che «per far partire lei, per salvarla […] uno di noi tre / ha dovuto sacrificarsi». Se qui il velo è metafora della maschera teatrale, e in generale dell’arte come protezione, l’ostinazione di quel silenzio, e soprattutto di quel velo, ci turba. E insieme ci affascina. Lo sentivano, i nostri tre personaggi, sin dall’inizio. Uno di loro aveva chiesto: «c’è qualcosa / che mi tiene sul chi vive – qualcosa / che ancora m’impedisce di capire / se siamo in un rifugio o in una trappola». La risposta di Sara – «Siamo in un teatro» – era stata, in apparenza, incongrua; era invece proprio quella, con ogni probabilità, la vera risposta. Noi, quella, non la possiamo dare. Ogni spettatore darà la sua. È, questo, il Teatro. Andrea Cortellessa [Da «Alias», V, 41, 19 ottobre 2002, p. 19; poi in Andrea Cortellessa, Giovanni Raboni, l’osso senza carne della parola, ne La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Fazi, 2006, pp. 309-313.]

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ARTAUD E LA SCRITTURA DELLA CRUDELTÀ “Tutta la scrittura è porcheria”. Interrogare sul tema della scrittura l’autore di tale lapidaria affermazione può apparire un non senso teso solo a far ricadere la questione su se stessa. Tuttavia l’accanimento con il quale Antonin Artaud frequentò la scrittura in ogni sua forma – da quella poetica a quella epistolare, dal saggio al diario, dall’invettiva alla drammaturgia, dagli aforismi agli oroscopi, come documenta il corpo monumentale delle sue Oeuvres Complètes – impone una valutazione non affrettata del rapporto intrattenuto da questo autore con il proprio gesto grafico. Un aspetto della scrittura di Artaud colpisce in particolare il lettore: sin dalla sua produzione giovanile, egli sembra condurre un esercizio ambiguo di esposizione e sottrazione della propria intimità, della propria vita profonda in un gioco destabilizzante che, mentre toglie validità ai contenuti espressi spingendoli all’autocontraddizione, suggerisce l’esigenza di attraversare quegli stessi contenuti, di perdersi nella loro contraddittorietà per attingere qualcosa che, travalicandoli, ne determina e la consistenza e la vacuità. La manifestazione più eclatante di tale ambiguità è forse il fatto che Artaud stesso, poco prima di morire, abbia concordato con Gallimard i termini per la pubblicazione delle sue Opere complete, proprio lui che nel 1925 aveva scritto: “Cari amici, quel che avete preso per la mia opera era solo lo scarto di me stesso, raschiature dell’anima non accolte dall’uomo normale” (1). Artaud sembra dunque fare un doppio gioco teso a spingere il lettore alla impasse, costringendolo a farsi carico di una ponderosa inconsistenza: quella di un’opera che, nel darsi, si annulla come tale. Ma che significa ‘come tale’? Anzitutto come prodotto ultimativo, risultato concluso di una operatività finalizzata a risolversi nella stabilità di un significato espresso, fatto tra fatti il cui senso è garantito da una estrinseca referenzialità. Tra coloro che per primi sottolinearono questa caratteristica della scrittura artaudiana, particolare interesse rivestono le riflessioni svolte da Jacques Derrida in un articolo del 1965 intitolato La parole soufflée, nel quale viene avanzata una ipotesi assai efficace ai fini di un approccio non più solo letterario al lavoro di Artaud. L’ipotesi derridiana, in sintesi, è che il testo di Artaud si neghi ad ogni forma di commento, sia esso critico o clinico, dando così luogo ad un corto circuito che non interrompe semplicemente il flusso della trasmissione comunicativa, ma boicotta la struttura bipolare sulla quale si fonda la possibilità stessa del commento, ossia dell’intera tradizione dei saperi occidentali. “Se Artaud resiste in modo assoluto – e, pensiamo, come non era mai successo prima di lui – alle esegesi cliniche o critiche, è per quello che nella sua avventura (e con tale parola designiamo una totalità anteriore alla separazione della vita e dell’opera) è la protesta stessa contro l’esemplificazione stessa. […] Artaud ha voluto distruggere una storia, quella della metafisica dualista che ispirava in modo più o meno sotterraneo i tentativi a cui abbiamo più sopra accennato […]: metafisica del commento, che autorizzava i commenti perché dominava già le opere commentate” (2).

Così Derrida. In tale prospettiva si spiegherebbe però solo un lato del doppio gioco di Artaud: quello occlusivo, per il quale, nel fare, si nega al fatto di sussistere nella propria validità separata – negazione pregna di effetti se, come suggerisce Derrida, essa pone in questione in ultima analisi la possibilità di sussistenza della polarità fatto/commento, accidente/necessità, segno/significato. Resta però da comprendere il lato complementare di tale occlusione di commento, il secondo lato del gioco, ossia la provocazione esercitata dalla scrittura di Artaud nel darsi tuttavia in forma di opera, esponendosi a quel medesimo commento cui si nega. Solo cogliendo la duplicità del gesto di Artaud sarà possibile comprenderne il portato complessivo e l’intento propositivo. Potremmo cominciare dalla domanda più scontata: che cosa si sottrae nell’opera di Artaud, proprio mentre essa si dà in forma di ‘opera completa’? Ciò che oppone resistenza, diceva Derrida, nella scrittura di Artaud è il suo prodursi come “avventura” complessiva, “totalità anteriore alla separazione della vita e dell’opera”: rifiuto del principio di separazione soggiacente all’istanza dell’opera come fatto, della scrittura come testo e della comprensione come commento. L’intera esperienza di Antonin Artaud si pone quindi come immane vicenda grafica, là dove vita e opera si diano in un intreccio non dipanabile e dove scrittura si dia come esercizio vivo di segni dotati di efficacia produttiva e performativa. E se fare vita e fare opera coincidono nel senso grafico dell’avventura artaudiana, ciò spiega infine perché quella scrittura non potesse essere opera se non in quanto operatività, incisione di senso irriducibile alle tracce (o allo “scarto”) del suo operare. Scriverà infatti Artaud nella Prefazione al Teatro e il suo doppio: “Quando pronunciamo la parola vita, dobbiamo renderci conto che non si tratta della vita quale la conosciamo attraverso l’aspetto esteriore dei fatti, ma del suo nucleo fragile e irrequieto, inafferrabile dalle forme” (3).

Quel che della vita resta inafferrabile e inafferrato dalle forme è però anche ciò che solo nel prodursi di quelle forme si manifesta, disfacendosi nelle proprie tracce. Col che, finalmente, si può iniziare a intendere quale sia l’efficacia, la riserva di fertilità che il doppio gioco artaudiano rivela. Potremmo dire: ciò che in quella scrittura va inevitabilmente perso è il medesimo che ogni scrittura perde nel fissarsi nelle proprie forme significative; ma solo il palesarsi, l’esibirsi paradossale di quella perdita

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consente di esporvisi, di assumerla consapevolmente e di abitarla. Ciò che va perduto è, in altri termini, l’accadere dell’incisione, il movimento del fissare in forme, l’orientamento del far segno, ciò che precede ogni segno e ogni significato perché ne è la tensione evenemenziale: in-tensione di senso che vige solo come anacronistica assenza in presenze venture. La scrittura satura, refrattaria alla linearità del rinvio semantico praticata da Artaud non testimonia dunque di una “esistenza che rifiuta di significare”, di “un’arte che si è voluta senza opera”, di “un linguaggio che si è voluto senza traccia, cioè senza differenza” (come avrà a concludere Derrida), se non nella misura in cui si assuma la “differenza” in una prospettiva ancora stanziale, bipolare e monoorientata – prospettiva questa, che pertiene eminentemente alla metafisica dualistica del commento. È piuttosto tale idea di differenza che Artaud vuole far saltare. Egli infatti boicotta quell’ingranaggio fondamentale che, stabiliti oggetti e significati come reciprocamente trascendenti, si interroga poi sui modi della loro connessione sensata istituendo, appunto, la pratica del commento. Più che una scrittura “senza traccia”, quella di Artaud si rivela così una scrittura tesa a mostrare il precipizio di se stessa nelle sue stesse tracce, a suo modo esercitandosi come auto-bio-grafia. Come intendere però tale espressione senza incorrere nelle medesime banalità psicologistiche che hanno alimentato tutti i commenti di tipo ‘clinico’ ai quali l’opera di Artaud il folle è stata così spesso sottoposta? Scrive Carlo Sini: “Ogni filosofia è una autobiografia, non in un senso meramente psicologistico, ma nel senso per cui si può dire che in ogni sapere (saper fare, dire, scrivere) è compresa una genealogia, che è la autobiografia di quel sapere” (4).

Ogni sapere è sempre una auto-bio-grafia in quanto, esercitandosi, testimonia di sé e della vicenda del suo prodursi in segni che rinviano al proprio stesso tracciarsi – senza mai poterlo significare, ma sempre mostrandolo nella sua congrua operatività. Ogni pratica (cioè ogni sapere in quanto “intreccio di pratiche”, come Sini direbbe) è dunque scrittura che produce se stessa come eredità, una eredità che si riscuote dissipandosi. La pratica filosofica è però quella scrittura che interroga la dissipazione e si nutre della perdita, esponendosi al proprio stesso “scarto”. “Cari amici, quel che avete preso per la mia opera era solo lo scarto di me stesso”: il doppio gioco di Artaud rivela così una consapevolezza filosofica insospettata e la sua opera, esponendosi come scarto e allo scarto di se stessa, non fa che reiterare il movimento produttivo di ogni scrittura, che circoscrive un mondo in-tagliandolo di senso. Visto sotto questa luce, il gesto grafico di Artaud fa tutt’uno con l’ampiezza del suo gesto teatrale, sussunto e contratto nella nota espressione teatro della crudeltà. Nella ricerca di Artaud tale espressione costituisce un momento di svolta, all’interno di un percorso che, a partire dalla sua concreta esperienza di attore e di regista, lo condurrà ad una fatale resa di conti con i fondamenti dei saperi occidentali. Il teatro della crudeltà, infatti, non è propriamente teatro sulle scene, ma è l’istanza di una inedita acrobazia che chiede di sostare operativamente proprio in quel luogo inafferrabile, quel “nucleo fragile e irrequieto” che era stato indicato come il dissipato di ogni scrittura. E se ogni scrittura non può che essere autobiografica iscrizione di sé, taratura del senso come esposizione di una anacronistica provenienza, allora quel sostare operativo si determina come rappresentazione di sé nella pluriorientata e gratuita produzione di altro da sé. Ciò che Artaud chiama ‘teatro della crudeltà’ è un esercizio autogenerativo e attore crudele è colui che, agendo, espone la realtà alle sue metamorfosi e il soggetto alla sua costitutiva soggezione. Crudeltà è dunque esercizio di insistenza nel luogo utopico nel quale si compie la sottrazione produttiva, nonché l’esibizione riproduttiva di quella sottrazione medesima: luogo che è propriamente un primum movens in quanto transito già sempre accaduto nella emergenza grafica di pratiche di vita. Quel che in ogni scrittura si sottrae è l’accadere dell’incisione, avevamo detto; tuttavia solo sottraendosi l’incisione accade, e accade in forma di spoglia inerte che, cadendo appunto, cede il passo a nuove scritture del medesimo in-scrivibile. Il teatro della crudeltà è perciò la frequentazione rigorosa del transito in-scrivibile, verticalmente attivo all’interno delle sue iscrizioni, solo in esse e per esse riattivabile (questo era il secondo lato del doppio gioco artaudiano). Ed è ovvio che tale frequentazione sfugga al principio della differenza binaria saturando il rinvio semantico. Non perché “rifiuti di significare” (il che coinciderebbe con il paradossale rifiuto di accadere nell’unico modo in cui può farlo), ma perché abita la macula di quel differire: punto osmotico vivente/vissuto nel quale non vi è differenza né rinvio, in quanto ogni differenza vi si inaugura e ogni rinvio vi si articola. Solo la comprensione di tale ‘indifferenza’ consente di intendere la scrittura della crudeltà come teatro autobiografico e, ad un tempo, di accogliere la provocazione artaudiana ad interrogare i suoi scarti reiterandone il gesto fondativo. Solo tale comprensione, forse, potrebbe consentire di transitare dall’intreccio di inconsapevoli autobiografie alla scrittura di una consapevole ma imprevedibile autogenerazione (5). Florinda Cambria

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Note. (1) A. Artaud, Il Pesa-Nervi, trad. it. in Al paese dei Tarahumara e altri scritti, a cura di H. J. Maxwell e C. Rugafiori, Adelphi, Milano 1966, p. 39. (2) J. Derrida, Artaud: la parole soufflée, trad. it. in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 226. (3) A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, trad. it. a cura di G. R. Morteo e G. Neri, Einaudi, Torino 1968, p. 133. (4) C. Sini, Idoli della conoscenza, Cortina, Milano 2000, p. 127. (5) Per un approfondimento del senso autogenerativo del teatro della crudeltà mi permetto di rinviare al mio Far danzare l’anatomia. Itinerari del corpo simbolico in Antonin Artaud, ETS, Pisa 2007.

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APPUNTI A MARGINE DE L'ODISSEA, UNA VERSIONE TEATRALE DI DEREK WALCOTT

…da lettore preferisco gli appunti di un critico ai suoi trattati. –W.H. AUDEN

Intervistatore: Prima di questa Odissea aveva già scritto Omeros, come mai questo interesse per Omero? Walcott: Omeros non è una riscrittura di Omero ma è solo vagamente ispirato a Omero… Greg Doran, il giovane direttore della Royal Shakespeare Company, era interessato a un adattamento teatrale dell’Odissea e mi ha chiesto di farlo. La prima reazione era stata di non accettare. Non me la sentivo di derubare un povero cantore cieco a cui non potevo nemmeno pagare i diritti. Poi, però, ho iniziato a lavorare sui singoli versi, a condensare gli episodi in scene, e la cosa ha iniziato a interessarmi.

Da un’intervista a Radio 3, Siracusa, 13 luglio 2005

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“Un povero cantore cieco a cui non potevo nemmeno pagare i diritti”. Una battuta che contiene almeno una verità: il modo in cui Walcott concepisce la figura di Omero. Non il busto che fa da cariatide all’intero edificio della cultura occidentale, ma il povero cantore cieco, itinerante e bistrattato, costretto a chiedere l’elemosina nelle corti in cui si esibiva. Diverse variazioni di questa figura le troviamo in Omeros: il mendicante scacciato dai gradini di St. Martin-in-the-Fields a Londra, un griot africano – il “cantore dagli occhi bianchi” incontrato da Achille alla fine del suo viaggio allucinato verso le origini – e il vecchio Seven Seas, che seduto tutto il giorno al No Pain Café di Ma Kilman “a volte cantava […]// […] ma per lei le sue parole erano greco, o antico balbettio africano”. In questa Odissea compare nei panni di Blind Billy Blue, un bluesman nero che svolge la funzione di coro e che riveste anche i ruoli di Femio e Demòdoco, due bardi ciechi come lui già presenti nel poema omerico. ***

L’Iliade e l’Odissea hanno preso la forma in cui oggi le conosciamo tra il 750 e il 650 a.C. (questa, almeno, la teoria più accreditata) grazie al lavoro di un aedo cieco che la tradizione identifica con Omero. Gli eventi della guerra di Troia definivano il limite della memoria del popolo greco e le storie che li narravano erano state preservate oralmente da cantori illetterati che le avevano tramandate attraverso i “secoli bui” (circa 1100-800 a.C) durante i quali, in seguito all’improvvisa scomparsa della civiltà micenea, l’arte della scrittura era andata perduta. Una situazione molto simile a quella che ha seguito la deportazione dei neri dall’Africa alle Americhe, dove ciò che resta della memoria storica e culturale di un’intera razza è sopravvissuto grazie agli eredi dei griot africani che, come i bardi greci, improvvisavano su temi tradizionali e la cui arte è tuttora viva nei bluesmen e, in area caraibica, nei cantanti di Calipso. Omero e Billy Blue sono entrambi rapsodi (“cucitore di canti”), poiché raccolgono storie già esistenti e nel ri-raccontarle le rielaborano, integrandole con frammenti di altre storie. In questo senso, i poemi omerici sono più vicini alla poesia orale africana di quanto lo siano all’Eneide, alla Divina Commedia o al Paradiso Perduto, vertici epici di una cultura scritta di stampo europeo che vede in Omero la propria origine e il proprio modello. Walcott, ponendosi come erede di entrambe, ne opera una sintesi. Nonostante sia un poeta saldamente ancorato alla scrittura, sia l’inglese in cui scrive sia gli elementi formali di cui si serve sono il risultato di una fusione dell’educazione coloniale – “scribale” e inglese – ricevuta nelle scuole caraibiche (a St. Lucia, la sua isola natale, e in Giamaica) e delle culture creole e orali di quegli stessi luoghi. ***

Il tempo in cui la scrittura di Walcott accade non è quello lineare della storia – che separa tra prima e dopo, tra causa ed effetto – ma quello “simultaneo” del mito che, come il mare, non ha epoche. Un tempo in cui, come succede in Omeros, Walcott e Omero possono trovarsi sulla stessa barca al largo di St. Lucia e intonare insieme un “Calipso greco” in sua lode, o in cui, come in questa Odissea, la schiava Euriclea può parlare in un dialetto caraibico anche se l’azione continua a svolgersi nell’antica Grecia. Questa concezione del tempo non si riflette solo sui soggetti delle sue opere, ma anche su suo stile di scrittura e sulla sua attitudine verso la letteratura nel suo insieme. Lontano da qualsiasi movimento letterario, da qualsiasi “ismo”, Walcott ha sempre perseguito una strada individuale, anche se non solitaria. I suoi compagni di viaggio sono stati numerosi: i “grandi morti” – i poeti che lo hanno preceduto e che ha amato – e alcuni dei vivi (anche se oggi non più), come il suo “scopritore” Robert Lowell o il suo amico Joseph Brodskij. Tutti abitatori di un pantheon poetico a cui ogni suo verso è consacrato e la cui influenza è stata sempre sentita come simultanea, poiché nella lingua (a differenza di ciò che accade nelle

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storie della letteratura, divise in capitoli e in volumi) i poeti di ogni tempo sono simultaneamente presenti e, quindi, eternamente contemporanei. Convinto dell’esistenza di un “genio comune” che in ogni generazione cerchi poeti attraverso cui esprimersi, Walcott non ha mai avuto il timore di imitare, di assorbire, di camminare sulle orme dei padri. La sua idea di vocazione poetica è di tipo medievale, lontana dal culto della personalità e dell’originalità, e ha come oggetto, prima di tutto, la perpetuazione di ciò che già esiste. Usando una sua metafora, si tratta di “aggiungere un mattone alla cattedrale”. Se Walcott è un innovatore lo è nell’unico modo in cui si possa realmente esserlo: senza volerlo. La sua originalità è il risultato di una doppia fedeltà, al genio poetico e alla realtà caraibica; una fedeltà giurata, per dirla con un verso di Mandel’stam, “con un voto così solenne da far salire le lacrime agli occhi” e mantenuta senza mai scendere a compromessi. ***

Adattando l’Odissea per il teatro Walcott mantiene pressoché inalterati struttura e metro originali. L’esito è una pièce piuttosto “decentrata" rispetto alla produzione teatrale contemporanea. Tre ore di spettacolo in esametri (per di più rimati) potrebbero facilmente spaventare più di uno spettatore e, sicuramente, più di un produttore. Eppure si tratta di un testo la cui freschezza è risanante. Credo che questo sia dovuto principalmente al fatto che per Walcott quella storia, quella struttura e quel metro sono elementi naturali del mondo in cui è cresciuto e ha vissuto. Per lui, l’Odissea è sia la grande epica che contiene la voce di Omero e di tutti quelli che dopo di lui l’hanno cantata o riadattata, sia la storia di qualsiasi pescatore che percorrre il Mare dei Caraibi per tornare alla sua casa. Come leggiamo nel suo Omeros, il nome stesso del poeta greco è parte del paesaggio e della lingua locali: “[…] dissi ‘Omeros’/ e O fu l’invocazione della conchiglia, mer/ sia madre che mare nel nostro patois delle Antille,/ os, un osso grigio e l’onda bianca quando si frange/ e sparge il suo colletto sibilante su una costa merlettata./ Omeros era l’incartocciarsi delle foglie secche e lo sciacquio/ che echeggia da una grotta quando la marea è rifluita”. Il rispetto per la forma di un racconto non gli viene solo dallo studio della letteratura ma anche, o soprattutto, dalla cultura popolare caraibica, dalle fiabe che gli venivano raccontate da piccolo. Così è anche per il metro e per la rima, che non sono solo "una cosa inglese" ma anche quegli elementi sui quali, e grazie ai quali, i cantanti di Calipso compongono e improvvisano. L’esametro è qui usato non per, e con, puntiglio classicistico ma, prima di tutto, perché è il metro del mare che, incurante di quanto succede (e si succede) sulla terra, continua a battere sulle coste di St. Lucia e su quelle di Itaca con la stessa scansione con cui lo faceva ai tempi di Omero e che, come il cuore dell’uomo, non ha mai alterato il proprio ritmo per adeguarsi alle mode. Gli esametri di Walcott, come qualsiasi altro metro abbia mai adottato, non sono reperti da museo ma organismi viventi che, grazie a quella straordinaria adattabilità che contraddistingue la specie metrica, hanno saputo modificarsi dall’interno in modo da poter accogliere e contribuire a creare quell’altrettanto straordinaria entità che è la sua lingua. ***

Il teatro di Walcott è un teatro di parola. Tutto ciò che ci serve vedere è contenuto nei dialoghi. In quello tra Odisseo e i marinai (Atto I, scena V), ad esempio, i ricordi del passato e le aspettative dell’imminente (o creduto tale) arrivo a Itaca sono espresse attraverso immagini che a partire dal fondo del mare fino alla volta celeste costruiscono la scenografia del viaggio notturno in nave. Come accadeva per il dramma elisabettiano, le sue pièce non hanno bisogno di particolari accorgimenti scenici. Una caratteristica, questa, che Walcott difende strenuamente anche come regista. Questo tipo di scrittura fa appello all’immaginazione di chi ascolta o legge. L’immaginazione poetica contempla e trasforma. Trasforma gli eventi in storie, conferisce loro un senso. O meglio, “trasforma il lettore in poeta”, chiedendogli di partecipare alla creazione di una storia. A “raccontarci” l’Odissea non è solo la voce narrante, ma anche quella di alcuni personaggi come Proteo, Femio, Nestore (in Walcott, riprendendo l’Ulisse dantesco), Menelao e Tiresia. Nessuno di questi è però abile quanto Odisseo, che a ogni occasione racconta una storia diversa su se stesso, compresa una parte di quella che identifichiamo con la vera Odissea. ***

Da dove viene a Odisseo questa capacità? Per Walcott, dalla schiava egiziana Euríclea. È lei – la depositaria di una saggezza più antica di quella dei filosofi greci (una saggezza “africana” e guaritrice che si esprime attraverso il linguaggio poetico del mito e delle favole) – che con le sue storie ha formato le menti di Odisseo e di Telemaco, di cui anche è stata nutrice. Quanto questa educazione sia stata importante, lo vediamo durante la visita di Telemaco a Menelao. Quando il re di Sparta gli mostra il vaso dipinto da cui scaturisce, tra la nebbia, la visione di Proteo - “un essere fluido, sfuggevole” – Telemaco lo riconosce perché quella è una storia che Euríclea gli ha raccontato da bambino: TELEMACO Ma è la storia della mia vecchia nutrice, grande Menelao./ MENELAO Allora considerati per sempre in suo debito./ TELEMACO

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Perché? MENELAO I cancelli dell’immaginazione non si chiudono mai./ TELEMACO Neanche da adulti? MENELAO Cos’è l’uomo? Un bambino che dubita”. Eppure, un paio di scene prima era proprio Euríclea a essere il “bambino che dubita”. Di fronte allo stupore di Telemaco, sicuro di aver ricevuto una visita di Atena, Euríclea è scettica. Telemaco le ricorda che è lei ad avergli raccontato che Atena è egiziana e che gli dèi possono prendere forme naturali. Solo l’apparizione di Atena, nelle vesti del capitano Mentes, riporterà la fede che Euríclea aveva perso o che soltanto sonnecchiava come una brace sotto le ceneri di Troia. Telemaco si reca a Pilo e a Sparta perché crede che “il cinguettìo di una rondine” (che in verità garrisce) sia il messaggio di una dea. Atena lo sprona a partire non alla ricerca di suo padre ma della storia di suo padre. Quello di Telemaco è un atto di fede nelle storie che gli sono state raccontate. Come scriveva Italo Calvino, la storia di cui Telemaco va in cerca è l’Odissea. ***

“Nancy stories me tell you and Hodysseus”. In realtà è questo il primo tentativo di Euríclea per screditare i propri racconti. Nel suo dialetto caraibico (questa frase ne è un ottimo esempio: “me” al posto di “I”, il presente “tell” al posto del passato “told”, la “h” anteposta a Odysseus), nancy, che in inglese standard significherebbe “effeminato”, è invece una contrazione di Anancy (o Anansi), vale a dire del nome proprio di un ragno parlante la cui presenza nel folklore dei Caraibi è tale da far sì che la locuzione Anansi stories (storie di Anansi) col tempo sia venuta a significare “favole” o “fiabe”, così come in inglese tutte le fiabe sono fairytales (racconti di fate). In origine un personaggio della mitologia africana che con l’astuzia ha vinto al dio del cielo Niame tutte le storie, nel suo passaggio ai Caraibi (sulle navi dei negrieri, assieme agli schiavi) Anansi si è via via trasformato in un vero e proprio “trickster”, cioè una sorta di anti-eroe ribelle, astuto e ingenuo allo stesso tempo, che con la sua buffoneria e irriverenza è capace di rovesciare l’ordine sociale; uno spirito che non s’incarna solo in figure definite come Anansi (o, più vicini a noi, Arlecchino e Pulcinella), ma che compare anche, con tratti non sempre univoci, nelle mitologie di tutti i popoli (per rimanere in Grecia, il dio Hermes), nelle avventure picaresche, nel carnevale e nei riti religiosi d’iniziazione, anticipando in certi casi la figura del salvatore, che guarisce perché ferito. Quanto di questo spirito sia presente nell’Odisseo di Walcott (che da quello di Omero eredita la “ferita” – la cicatrice che ha sulla coscia) lo si può vedere nell’ultima scena dove le angherie dei Proci ai suoi danni rievocano (o, volendo assecondare la finzione, anticipano) la Passione, trasformando Odisseo in una prefigurazione del Cristo. O ancora, nell’incontro con il Ciclope-dittatore, durante il quale sarà proprio la sua buffoneria a salvargli la vita. Il motivo per cui le storie di Anansi sono diventate così popolari in un ambiente dominato dalla schiavitù è piuttosto evidente. I rapporti di potere tra padrone e schiavo sono impari. Solo l’astuzia può permettere a quest’ultimo di sopravvivere e, nel migliore dei casi, avere la meglio. L’astuzia di Anansi ha un parallelo greco nella metis, una sorta di “prudenza accorta” che è anche una delle caratteristiche principali di Odisseo. Quando, nella scena II dell’Atto II, Atena gli farà ascoltare il sussurro dei frangenti, questi gli ripeteranno il suo nome e alcuni degli epiteti che Omero, secondo l’uso epico, gli associa: Odisseo è polumechanos (dai molti espedienti), polutlas (che molto ha sofferto) e polumetis (dalle molte astuzie). ***

L’origine della metis, come quella di Anansi, è divina. Come nome proprio, metis designava infatti una divinità femminile figlia di Oceano. Il ruolo di questa dea nella mitologia greca è poco più che un cammeo: prima sposa di Zeus, Metis è messa in cinta e poi ingoiata dal marito prima di aver dato alla luce la figlia Atena. Fine. Si direbbe un ruolo davvero marginale, se non fosse che con l’atto d’ingoiarsela il re degli dèi ne acquisisce per sempre le qualità e che sua figlia Atena, naturale erede di queste, causa un’affinità elettiva, ha sempre avuto Odisseo, come si suol dire, nella manica. È lei che lo consiglia e lo protegge. Di tutti gli dèi dell’Olimpo, Atena è anche l’unica che Walcott mantiene. Zeus e Poseidone sono nominati ma rimangono sempre dietro le quinte, invisibili. Metis è un tipo di astuzia che mette in gioco esperienza e capacità di prevedere, grazie a un’alta concentrazione su ciò che sta accadendo, gli sviluppi futuri di una data situazione; un’attesa vigile del “momento opportuno” (kairós) in cui prontezza nell’agire e agilità sono richieste. Metis è inoltre caratterizzata da Omero come molteplice, varia, rapida e ondeggiante perché queste sono le qualità del campo a cui metis si applica: il mondo fluido del movimento, le situazioni in costante cambiamento. Così è la realtà in cui Odisseo si muove, e così è, più che mai, quella in cui oggi ci muoviamo. Una coincidenza che Walcott non manca di sottolineare in varie occasioni. Ad esempio, prima del naufragio causato dall’apertura dell’otre dei venti, Odisseo, vedendo che il suo giovane timoniere Elpenore governa la nave con troppa leggerezza, lo riprende: “Attento alla manovra. Una nube può indurirsi in uno scoglio”. O ancora, durante la già citata visita di Telemaco a Sparta, quando, sganciandosi da Omero, Walcott fa lottare Odisseo con Proteo – cosa che nell’originale accade solo a Menelao.

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Per Odisseo, ogni approdo cela un pericolo: un mostro pronto a ucciderlo o una ninfa pronta a fargli scordare la sua Itaca. Spesso le cose appaiono diverse da come sono: Circe, che trasforma gli uomini in maiali, diventa la sua guida nell’Ade, il canto sublime delle Sirene è “come una fune” che trascina verso la morte. Per gli antichi greci, soltanto lo stesso agisce sullo stesso, così Odisseo, per far fronte a questi continui mutamenti, è costretto a mutare in continuazione, a reinventare la propria identità attraverso nuove storie su se stesso, finché dal Ciclope – il “Grande Occhio”, lo “Zero” al cui cenno “ogni uomo è ridotto a un niente” – diventerà un “Nessuno”. Da Circe, la maga, sarà un fiore magico a salvarlo; dal canto delle Sirene, la corda con cui si fa legare all’albero maestro. Questa sua versatilità è anche una forma di saggezza, che in greco era sophia ma che, a differenza di quanto accade oggi, aveva allora un significato molto pratico. In origine era riferita alle arti che richiedono destrezza manuale e, in particolare, proprio a quella del timoniere, la cui saggezza si manifesta “nell’abilità di compiere minimi aggiustamenti con la barra del timone in accordo con le variazioni accidentali delle onde, del vento, del carico” (J. Hillman). Non è facile dare un senso agli accidenti, ai venti che fanno deviare dalla rotta e sembrano ritardare l’arrivo, ma forse soltanto integrandoli nel percorso si può giungere a destinazione. Alla fine, Odisseo troverà la via di casa proprio perché, grazie alla sua flessibilità, saprà assecondare gli imprevisti e in base a questi ridisegnare la sua rotta. Pensare di poter conoscere la meta e di calcolare la rotta in anticipo è una presunzione umana, un atto di hybris che non può non incontrare il disfavore degli dèi. Un disfavore che quando si manifesta non è forse tanto per punire quanto per mandare un ammonimento e un segnale. L’incidente che ci capita sembrerebbe così servire proprio a correggere l’errore e a portarci sulla rotta e alla meta giuste: quella che non avremmo mai pensato di prendere, quella dove non avremmo mai pensato di arrivare. Una “strada” la cui traiettoria, come ha scritto Adam Zagajewski in una poesia sul modo in cui il divino opera, è “così tortuosa che è a malapena visibile”. ***

A metà degli anni Settanta, ne “La Goletta Flight”, Walcott faceva scrivere al suo protagonista, il poetamarinaio Shabine, “Ho un solo tema:/ Il bompresso, la freccia, l’anelito, lo slancio del cuore–/ il volo verso un bersaglio di cui mai sapremo lo scopo,/ ricerca vana di quell’isola che risana col suo porto/ e un orizzonte senza colpa, dove l’ombra del mandorlo/ non ferisce la sabbia”. A quasi una ventina d’anni di distanza, ritroviamo Walcott alle prese con un altro marinaio, Odisseo, che a “quell’isola che risana col suo porto” arriva, ed è la stessa da cui è partito. Ma una volta arrivato non la riconosce. È Atena, una dea, a dovergli dire dove si trova. È lo stesso percorso circolare che troviamo nella chiusa dei Quattro Quartetti di Eliot: “Non cesseremo di esplorare/ E la fine della nostra esplorazione/ sarà arrivare dove siamo partiti/ e conoscere il posto per la prima volta”. Il luogo d’arrivo è e non è lo stesso da cui si è partiti. L’Odisseo di Walcott, come consiglia Kavafis, durante il viaggio tiene sempre Itaca a mente. Per lui, il vero pericolo non è essere ucciso (perdere la vita, fa sapere al Ciclope, non gli importa), ma “l’oblio di seta scarlatta” nel quale, dalla maga Circe, rischia di “annegare”. A ricordagli costantemente Itaca è la nostalgia che ha nel cuore. E la nostalgia, come tutti gli affetti, è un legame. Odisseo è home-bound, cioè “diretto a casa”, ma anche, se si intende bound non come aggettivo ma come passato del verbo to bind, “legato” alla sua casa; o ancora, “destinato” alla sua casa, visto che to be bound to significa “essere destinato a” e che lo stesso verbo latino destino originariamente significava “legare saldamente”, “fissare”. Nel suo continuo spostarsi per mare, come una spola, Odisseo intreccia il filo dell’ordito che lo lega a Itaca con la trama di ciò che gli accade. Il risultato di questo lavoro di tessitura è l’arazzo della sua esistenza. Potremmo azzardare l’ipotesi che il destino di un uomo si compia quando questi, raccogliendo i “suggerimenti” divini, riesca a riprodurre durante la sua vita il disegno, l’intreccio, già intessuto per lui dalla divinità. Ed è proprio questo disegno che l’Odisseo di Walcott sembra sempre intento a scorgere e a tentare di ripetere. Al suo arrivo a Itaca, quando Penelope, ancora ignara di avere davanti a sé il marito e non capendo le sue parole, gli chiederà dov’è il filo dei suoi discorsi, Odisseo risponderà: “nell’arazzo della mia mente”. Un arazzo dalla trama complessa quanto quella della tela che Penelope (cercando di deferire il suo destino) intesse di giorno e disfa di notte. Complessa, circolare e invisibile quanto quella della tela di un ragno; e quanto quella intessuta per lui dagli dèi – che è poi la trama dell’Odissea stessa. ***

La praticità della saggezza di Odisseo è intesa da Walcott anche come "buon senso". Nella scena VIII dell’Atto I, possiamo confrontarla con quella del filosofo Socrate Aristotele Lucrezio che, al contrario di Odisseo, non sa come muoversi nel mondo stravolto in cui si trova. Il monologo che il filosofo recita quando viene arrestato è forse uno dei momenti più toccanti della pièce, come lo è l’intera scena seguente – anche se a quel punto sappiamo che l’intelligenza prevarrà sul potere che costantemente la umilia, sappiamo anche che l’umiliazione e i crimini perpetrati restano e continueranno a ripetersi.

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Nonostante Walcott non abbia mai vissuto direttamente sotto una dittatura, questo episodio è comunque ispirato a ricordi personali: l’esperienza del suo amico Joseph Brodskij e quella, incrociata solo per un istante ma mai scordata, di Ghiannis Ritsos, esiliato durante la dittatura dei colonnelli evocata in questa scena. Il Filosofo e il Ciclope sono agli antipodi e, per questo, hanno qualcosa in comune. Entrambi sono esseri sbilanciati. Uno dalla parte dell’intelletto, l’altro dalla parte della bestialità. L’Odisseo di Walcott è l’uomo del mezzo, nel quale intelligenza e istinto si compenetrano. Alla visione monoculare del gigante che si è divinizzato da sé oppone quella dell’uomo comune, che guarda con entrambi i suoi occhi. Al Ciclope che gli chiede a cosa serva averne due, Odisseo risponde: "equilibrio, proporzione, contrasto". Per fargli capire che questo è il principio su cui tutto si regge, gli porta degli esempi: paradiso, inferno; bene, male; sinistra, destra. Potremmo aggiungere anche bianco e nero, visto che il mondo del Ciclope, nel quale il contrasto non è ammesso, è grigio. I due occhi servono anche uno per ridere e l’altro per piangere. Il mondo degli uomini non è univoco. Una stessa cosa, in questo caso le lacrime, può avere due significati opposti. Anche il Ciclope piange, ma le sue lacrime sono solo quelle del riso. L’equilibrio dei due occhi è anche quello uomo-donna. Odisseo spiega al Ciclope di voler tornare a casa perché lì ha una moglie: “Come i miei occhi. Facciamo una coppia”. Al suo ritorno a Itaca, quando in preda all’ira vorrà impiccare la serva infedele Melantó, in un altro dei casi in cui Walcott si stacca da Omero, sarà proprio Penelope, impedendoglielo, a ristabilire l’equilibrio. ***

Il pericolo per Odisseo non è solo di “scordare il ritorno”, ma anche di perdere la propria umanità. Se la perdesse, il ritorno non avrebbe più senso, o meglio, non potrebbe compiersi. Odisseo è l’uomo che ha “molto sofferto”. Questa è una delle cose che, arrivato a Itaca, Walcott gli farà ricordare dalla “voce dei frangenti”. Se Odisseo avesse smesso di soffrire (di provare nostalgia, cioè “dolore per il ritorno”) avrebbe perso l’ago della bussola che lo ha guidato verso casa. Questo è quanto rischia dalla ninfa Calipso. Così lo racconta ai cortigiani di Scherìa: “ODISSEO La dea gli offre la divinità. Lui rifiuta./ PRIMO CORTIGIANO Non accetta l’immortalità? Dio! Perché non la vuole?/ ODISSEO Desidera il suo scoglio, troppo roccioso per i cavalli./ PRIMO CORTIGIANO Più dell’immortalità? ODISSEO Sembrava naturale. L’uomo ama, poi muore./ PRIMO CORTIGIANO Ma il suo nome, Odisseo, rivettato di stelle!/ ODISSEO Preferisce accendere le lampade della sua casa./ FEMIO E quella casa sarà la lampada che guida la sua zattera”. Nella stessa scena, la sofferenza, storpiatrice di uomini, è accomunata da Femio alla deformazione. Il cantore cieco, che "vede attraverso", sa che entrambe sono preziose perché sono ciò che dell’uomo sopravvive, parte del suo mistero, al quale, proprio per essere tali, se “ascoltate” gli permetteranno di riunirsi: “FEMIO Sopravvive chi è deviato. Ciò che è deforme è ciò che rimane./ ALCÍNOO Perché lo dici, Femio? Perché le tue pupille sono spente?/ FEMIO È così per le lacrime. I torrenti tortuosi si uniscono ai loro fiumi”. E i fiumi al mare. Nel coro conclusivo, Odisseo è l’uomo “che il dolore non ha saputo annientare”. Odisseo è riuscito a resistere, non ha permesso al dolore (più propriamente rispetto all’originale, alla “disperazione”) di annientare la sua umanità. Odisseo non è morto come uomo prima che il suo corpo fosse morto. Anche in questo caso, come nella Passione dell’ultima scena, abbiamo una sovrapposizione tra mondo ellenico e cristiano. Nel “Cantico di Frate Sole” di Francesco d’Assisi i beati che saranno “incoronati” dall’Altissimo sono quelli che sostengono “infirmitate et tribulatione” e “ke’l sosterrano in pace”. ***

Seppure la trama della pièce sia in gran parte identica a quella omerica, i pochi cambiamenti apportati sono piuttosto rilevanti. Facendo naufragare la nave come conseguenza dell’apertura dell’otre dei venti, anziché del passaggio tra Scilla e Cariddi, Walcott risolve brillantemente un impasse scenico che la riproduzione fedele dell’intreccio avrebbe creato e, allo stesso tempo, introduce un elemento di sogno, o di follia, che in Omero non è presente. All’inizio dell’Atto II, tramite un flash-back, troviamo Odisseo su una zattera – quella che lo porta a Scherìa, dove a noi sembrava fosse arrivato naufragando con la nave – ed è su questa che, con l’aiuto dei compagni morti emersi dal mare, passerà attraverso il canto delle Sirene per poi naufragare nuovamente, come in Omero accade alla nave, tra Scilla e Cariddi. Per tutta la scena, Odisseo non sa se stia sognando o se sia impazzito. Lo ripete più volte e, dopo il naufragio, sono Billy Blue e Euríclea, in una ninna nanna cantata sul suo corpo rannicchiato nel sonno, a chiederselo. Ma se tutto sia realmente accaduto o se sia stato un sogno o un’allucinazione non fa molta differenza. Le tre cose forse non possono essere distinte e sono simultaneamente vere. l’Odisseo di Walcott sa che i mostri che ha incontrato sono, in ogni caso, un prodotto della sua immaginazione; che non è solo quella forza benevola di cui Euríclea gli ha aperto i cancelli ma che, come tutte le cose che esistono davvero, ha un suo lato oscuro e proietta un’ombra. Odisseo sa di avere “stanze buie che non os[a] esplorare” e che “l’inferno è l’ombra dell’immaginazione”, ma sa anche che non per questo è meno reale. Tra i mostri che Odisseo incontra, il Ciclope, in questo senso, è sicuramente il più emblematico. Il

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Polifemo di Walcott non è solo un dittatore moderno ma anche The Great Eye: il “Grande Occhio” orwelliano e, per l’omofonia tra “eye” e “I”, il “Grande Io”. Nel combattere il Ciclope, Odisseo sta anche combattendo il suo stesso ego. Le sue ultime parole saranno dedicate proprio a questo: “PENELOPE C’erano cose strane là fuori?/ ODISSEO Mostri. Dio abbia pietà di noi. PENELOPE Perché? ODISSEO Siamo noi a crearli”. Tornano alla mente, oltre a “Itaca” di Kavafis, alcuni versi di Lowell particolarmente amati da Walcott: “Pity the monsters!/ Pity the monsters!/ Perhaps, one always took the wrong side–” (“Abbi pietà dei mostri!/ Abbi pietà dei mostri!/ Forse, ci si è sempre schierati dalla parte sbagliata”). ***

Pietà e pace sono le due parole che dominano il verso su cui cala il sipario. In uno dei due cori precedenti, Antíclea ricorda a suo figlio che la pace a cui è infine approdato gli era stata promessa e che se il suo cuore si è “gonfiato” non è stato “per il masso scagliato dal Ciclope” ma perché la profezia ricevuta negli inferi si potesse avverare. La promessa di Antíclea era anche una profezia e la profezia, per compiersi, ha avuto bisogno che il cuore di Odisseo si “gonfiasse”. A gonfiarlo è stata la nostalgia di casa; l’unica cosa, assieme alle istruzioni di Atena, a cui Odisseo abbia mai obbedito. Nel suo ruolo di “primo eroe scettico della letteratura” (da qui, per Walcott, la sua modernità), Odisseo mette in discussione l’operato degli dèi, se ne le lamenta, ma non arriva mai, come Antinoo, a dire che gli dèi non esistono e a vantarsi per averli cacciati. La casa (nel senso di home, parola di cui in italiano non esiste un equivalente) è innanzitutto un luogo dello spirito. Odisseo, come una tartaruga, o come un granchio – che “si sposta con i suoi appartamenti” –, la porta sempre con sé. Ma ogni cosa invisibile è in continua ricerca di un luogo concreto in cui le sia possibile “incarnarsi” pienamente. Il momento in cui una realtà invisibile e un frammento di realtà visibile convergono (o rimano) è anche il momento in cui per entrambe la pace è raggiunta. Per Odisseo quel luogo è Itaca. L’isola che gli dèi, durante le sue numerose disavventure, gli hanno costantemente rimesso nel cuore e alla quale, quando nel girare del tempo il momento decretato è giunto, “nella loro pietà” gli hanno concesso di tornare. Matteo Campagnoli [Postfazione a Derek Walcott, Odissea: una versione teatrale, Crocetti, 2006. Per gentile concessione di Nicola Crocetti]

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L’effetto Beckett

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BECKETT IN POESIA Le Poesie in inglese apparse ora in Italia (traduzione di J.R. Wilcock, Einaudi, 1964) sembrano offrire l’occasione per un confronto e danno la possibilità di compiere alcune ricognizioni e di proporre alcune conclusioni che interessano quella che chiamiamo la “nostra poesia”, cioè la poesia di “oggi”. Mi limiterò ad alcuni exempla, che tuttavia mi paiono sufficientemente indicativi, senza pretendere di esaurire l’argomento della poesia beckettiana. Prendiamo l’inizio, il “Puttanoroscopo”, certamente il più poundiano e joyciano insieme, offre qualche spunto di rilievo: Cos’è questo? Un uovo? Per i fratelli Boot! Puzza di fresco.

(quel “puzza di fresco”, mi pare, solo Beckett poteva isolano in quel modo) e fornisce, nello stesso tempo, materiale al mio discorso: O Weulles risparmia il sangue di un franco che ha salito le amare scale (René du Perron...!) e concedimi la mia seconda ora inscrutabile senza stelle.

Dando per scontato l’umorismo “nero” di Beckett, non mi pare che in quel verso finale ce ne sia molto, anche se si tratta di un “Puttanoroscopo” e quell’ora inscrutabile non può che mettere in sospetto. A che cosa si riferisce, che cosa significa? Del resto, già il titolo suonava come un campanello d’allarme: l’oroscopo puttana, o l’oroscopo che non conta niente, ma però abbastanza per essere maledetto o insultato, il gesto di sfregio, insomma, che ha un senso, ovviamente, solo in relazione a qualcosa che conta, ancora: non l’oroscopo certamente, ma un certo tipo di idee che esso può rappresentare, al di là della banale superstizione. Osserviamo quest’altro finale apocalittico: derisi da un tessuto che può non servire finché fame terra e cielo non saranno rifiuti.

A parte l’ottimo rovesciamento di quel “non servire”, l’eccesso di demolizione finale sembra rivelare i sintomi di un rifiuto dell’esistenza, un sentimento della “nausea”, una conseguenza della mistica del “nulla”. Ma occorrono altre prove e mi pare che si trovino notando il frequente uso della metafora (e di quale tipo di metafora!): e scivolo svogliato sotto le grida della staccionata intorno alla bandiera vistosa dura della staccionata verso un ovest nero soffocato di nuvole.

Il che significa solo, a mio parere, trasporre continuamente l’esperienza da “fatto” esistenziale a riferimento metafisico, in relazione con qualcosa d’altro che si rifiuta o si rimpiange. Soltanto con un tale atteggiamento di partenza un poeta può usare la metafora senza renderla ambigua. [Che bisogno c’era di continuare, ad esempio, oltre l’ovest nero, che nella sua realtà fissata in un istante preciso (il suo essere nero) poteva e doveva rimanere ambiguo, semantica mente meno decifrabile e per questo più significativo?] Non tutta la poesia di Beckett è così, certo, ma quello che mi pare importante è scoprire se la sua poesia (o anche la sua poesia) possa significare per noi l’inizio della nostra storia o la fine di un’altra di cui possiamo utilizzare solo certi elementi o certe rotture e aperture chiaramente individuabili. A questo scopo ho trovato utile confrontare le varianti presentate nel libretto tra la versione francese e quella inglese dell’ultima sezione, intitolata “Quattro poemi”: Variante I

francese: verso le vecchie luci

inglese: verso la città illuminata

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Le vecchie “luci” appare certamente più beckettiano e distrugge l’anonimo e banale “città illunimata”, che è proprio il suo contrario: “vecchie luci” ha chiaramente un tono angosciato e “città illuminata” una carica “magica” di scoperta felice e di rivelazione. In tutti e due i casi vi è trasposizione: per questo avrei preferito “verso le luci della città” anche se “vecchie luci” riesce a rimanere “oggetto”, sia pure con una venatura di sentimentalismo già riconosciuta. Variante II

francese: su me la vita che mi sfugge mi insegue e finirà il giorno del suo inizio inglese: verso il suo inizio verso la sua fine

Ecco un caso di variante straordinariamente azzeccata. “Finirà il giorno del suo inizio” lascia sì intravedere ancora la disperazione beckettiana ma la soverchia con il gioco di un’ambiguità veramente reale, aperta, cioè, a tutti i possibili. Qui sono tentato di dire che Beckett insegna, libero, per un istante. Variante III

francese: caro istante ti vedo in questa tenda di bruma che indietreggia dove non potrò più calpestare quelle lunghe soglie mobili inglese:(congiungendo i primi due versi) la mia pace è là nella nebbia che indietreggia

Il salto alla metafora è così violento che ci si domanda se quella “tenda di bruma”, oltre a essere sovraccarica di simbologia, riesce a diventare presenza reale: la risposta è incerta e complicata dal cambio di “my peace” con “cher instant”. In questo caso “pace” ha un senso di “momento felice”, ma in tutti e due i casi (leggiamo anche il finale: e vivrò il tempo di una porta che si apre e si richiude)

non si riesce ad allontanare una certa sensazione di banalità e inutilità, che il simbolo del “passaggio” (la tenda) non riesce a cancellare. Perché? Credo di rispondere più avanti con il significato di questo mio scritto. Variante IV

francese: che farei senza questo silenzio fossa dei bisbìgli (o mormorii) inglese: senza questo silenzio dove i bisbìgli (o mormorii) muoiono

e la poesia continua così:

ansimante furioso verso il soccorso verso l’amore...

Mi domando, prima, se era meglio tradurre “bisbìgli” o “mormorii” che sono meno articolati, credo, più allucinati, forse più adatti a spegnersi in quel silenzio: “bisbìgli” può essere solo di parole e “mormorii” riferirsi anche a piccoli rumori, gutturali, animali, eccetera. A parte questa osservazione mi pare che la soluzione “inglese” sia preferibile perché più semplice e chiara. In entrambi i casi, soprattutto pensando al seguito, ritorna la sensazione di inutilità. La convinzione che queste poesie non facciano parte della nostra storia si fa più precisa: ecco un eccesso di “personalismo” nel senso della protesta individuale verso il destino infame, il crollo dei valori, la fine di tutto ecc. ecc. Perché non interessa? Perché non si trova una ragione che giustifichi il rifarsi a una idea del mondo nata e morta con l’idealismo. È falso, evidentemente, che non vi debba essere più niente di diverso e di nuovamente vitale e che, in conseguenza, tutto sia finito. Variante V

francese: che farei come ieri come oggi guardando dal mio oblò se non sono solo a errare e girare lontano da ogni vita in uno spazio burattino senza voce tra le voci chiuse con me

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inglese: spiando dalla mia feritoia se c’è qualcun altro che erra e gira come me lontano da ogni vita in uno spazio convulso senza voce tra le voci che affollano la mia reclusione

Preferisco “oblò” a “feritoia” è di più esatta identificazione; è una variante di “precisazione”, mentre “burattino” al posto di “convulso” è molto grave e scopre il fondo della poesia beckettiana, clownesca, appunto, ma solo in senso negativo: cioè non rivelato come un “fatto”, un momento dell’esistenza, ma accreditato di un giudizio definitivo sulle cose e sugli uomini, sull’esistenza. Unica nota positiva le “voci chiuse con me” al posto di quella “reclusione” disastrosa. È vero, ognuno può avere delle “voci chiuse con sé” ma sarebbe soltanto stolto se si recludesse, volontariamente, in un momento in cui è necessario capire quanto più è possibile, e quindi vedere e toccare e sentire, vivere insomma. Variante VI

francese: piangendo su quella che credette di amarmi inglese … la prima e l’ultima ad amarmi

In entrambi i casi rimane una vena di “crepuscolarismo”, ma occorre riconoscere che la variante francese ha più forza di rivelazione. Sottolinea il gioco, non mai sopito, di Beckett, di illusione e abbaglio nel descrivere il mondo, perché non è più “quello”, quello, cioè, che ci hanno lasciato in eredità, con tutti gli equivoci e le lusinghe ditale eredità. Questo dell’abbaglio, della visione incerta della realtà, non è un punto a favore di Beckett nei suoi rapporti con il presente. È importante sottolineare che lo sbaglio “ottico” beckettiano è una conseguenza della sfiducia, della delusione per un mondo reso irriconoscibile dal crollo di certi valori, mentre l’errore calcolato nel guardare il mondo, proprio della nuova poesia, e la ricerca dell’ambiguo e del plurisignificante, è pienamente positivo, calcolato, appunto, in funzione di una più ampia visione e conseguente presa di possesso del reale. Di un appostamento molteplice, di una più felice e approfondita conoscenza. Si può notare, tra parentesi, quanto sia errato continuare a parlare di “crisi” in questo secondo caso, quando si tratta, chiaramente, di “costruzione”. Non sembra inutile, a questo punto, rifarsi per un momento alla prefazione, dove Wilcock dice: “Giocando con tedesca ponderosità sui contrasti di parole, diremo che laddove l’Ottocento è pessimista affermazione, il Novecento è ottimista negazione. Che in Beckett diviene addirittura umoristica”. Non si può negare che ciò sia vero e che, soprattutto, possa valere per il primo Novecento, ma non si può nemmeno tacere che questo termine (“Novecento”) in questo modo diventa soltanto cronologico, perché tra i due atteggiamenti sopra descritti l’opposizione è soltanto apparente. “Affermazione” e “Negazione”, ottimistica o pessimistica, sono le due facce di uno stesso atteggiamento e di una presa di posizione, in relazione soltanto con la sua dialettica interna, sul piano del l’essere, e quindi dell’esistere, in un determinato momento storico. In questo ambito nasce l’idea del nulla variante mistica dell’idea di sublime. In questo arco di pensiero è chiuso anche Beckett, non si può dubitarne, e riesce a liberarsene in rare aperture. Come questa, a mio parere: Sanies lì c’era un paese felice l’America Bar di me Mouffetard c’erano delle uova rosse lì ho una schifosa senti gallinoroide tornando dal gabinetto il valore la delizia il sorbetto

mentre ricade nel peggio in Serena:

sul seno del Regent’s Park il flogo crepita sotto il tuono bellezza scarlatta in questo mondo pesce morto alla deriva.

Ecco le differenze fondamentali, che separano il mondo “vecchio”, Ottocento e primo Novecento, da quello “nuovo” (secondo Novecento e nuova poesia): nel secondo caso risulta chiaramente un atteggiamento di tipo “narrativo”, privo di giudizi definitivi su cose e uomini, nel primo caso è precostituito un giudizio, per il quale si cerca il famoso “correlativo oggettivo”.

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È soltanto nel secondo caso che si scopre un’apertura, l’atteggiamento libero di fronte al “vivere” e la necessità del “narrare”, del momento e dell’oggetto, che acquista un valore autonomo caricandosi d’ambiguità e quindi di significati autentici e non coatti. È sul piano dell’essere che la poesia deve giustificarsi. Scambiare una modificazione di questo piano, o un suo spostamento, con il nulla, è assolutamente imperdonabile (1). Antonio Porta [Questo articolo è apparso in «Malebolge. Rivista di letteratura» (anno I, numero 2, 1964, pp. 57-59). Lo riproponiamo per gentile concessione di Rosemary Porta.] Note. (1) Non vorrei che qualche male intenzionato scambiasse queste affermazioni come una sorta di adesione al cosiddetto “nuovo umanesimo” che, come è noto, facendo un uso improprio di termini propri, è diventato la bandiera dei rivoluzionari finti (sì, sono proprio di cera), ultima cartuccia della conservazione a tutti i costi, e immagine patetica dei rappresentanti di una cultura che, pur senza esistere, non vogliono vivere.

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IL SASSO E L’UOVO. BECKETT E ANTONIO PORTA. What’s that? An egg? By the brothers Boot it stinks fresh. Whoroscope

In due circostanze la fluttuante ma sostanzialmente fedele a se stessa linea di sviluppo dell’opera portiana ha costeggiato la formazione basaltica di Samuel Beckett, venendone deviata, e dovendosi così scavare altrove il suo cammino. Due incontri non sembrerebbero un granché per stabilire un rapporto, meno che mai un condizionamento, specie quando, come in questo caso, consegnati a un breve scritto d’occasione e alla menzione all’interno di una poesia. Il giudizio espresso da Porta, inoltre, è in entrambi i casi recisamente negativo. Porta è l’inesauribile provocatore di forme, l’aperto e generoso protagonista di un’attività, creativa e più largamente intellettuale, intesa come dispendio di energia psichica e fisica nell’opera, dapprima furibonda, e poi sempre più distesa in una sia pur problematica serenità, di attraversamento e manipolazione dei linguaggi, dei generi e delle maniere letterarie, per scuoterli tutti e farli comunicare con un «fondo», con una «realtà», che accomuni scrittori, lettori, non lettori. Poteva dunque un’intelligenza siffatta solidarizzare con il «terribile semplificatore», il «semplificatore dell’orrore» (1), alla ricerca per tutta la vita, furiosamente a sua volta, di un livello energetico più vicino possibile allo zero, e di un linguaggio, per giunta anche non verbale da un certo punto in poi, assottigliato e condotto quasi (ma quasi) all’evanescenza? Tuttavia, doverosamente registrata la profonda avversione, e proprio da quella prendendo avvio, si può ipotizzare che non ci siano solo indifferenza ed estraneità, e che quei due minimi punti di intersezione si possano vedere come affioramenti di una tessitura più complicata, e più nascosta. Intanto, a leggere bene, si constata come dagli accenni portiani si ricavi un’immagine di Beckett. Un’immagine unilaterale, per la mancanza di feed-back, un sommario profilo di Beckett osservato dalla lente di Porta, e dunque potentemente idiosincratico, tutto sottomesso all’inflessibile programma di ricerca e di azione del poeta lombardo. Forse quest’immagine diventa un punto di riferimento, non palese, polemico e oppositivo quanto si vuole, per la costruzione della propria identità, per tracciare la rotta: una sorta di grande barriera corallina da cui tenersi a debita distanza. Un indizio che spinge a cercare in questa direzione è che le due apparizioni beckettiane nel corpus di Porta si situano cronologicamente in passaggi cruciali, la prima nel 1965, quando anche le ultime poesie che entreranno nella raccolta d’esordio I rapporti (in cui l’autore, per dirla con Giuliani, si confesserà togliendosi di mezzo) sono state scritte; l’altra nel 1978, anno cui bisogna datare, con l’uscita del Re del magazzino, il cambio di direzione (non lo strappo) che Porta imprime alla sua scrittura. Forse si può provare a raccontare questa storia poco evidente, ripercorrere le tappe di un’ostilità che probabilmente affonda le radici in un fermento di problemi, ostacoli e blocchi comune; e che certo conduce a modi assai diversi di fronteggiarli.

Nel 1965 Porta recensisce, sul secondo numero di «Malebolge», le beckettiane, giovanili, Poesie in inglese, appena tradotte da Rodolfo Wilcock e pubblicate nella «Collezione di poesia» Einaudi (2). Si tratta, dichiaratamente, di una recensione militante, scritta soprattutto perché i testi «danno la possibilità di compiere alcune ricognizioni e di proporre alcune conclusioni che interessano quella che chiamiamo la “nostra poesia”, cioè la poesia “di oggi”». Porta, che analizzando le varianti apportate da Beckett nelle versioni francesi di Quatres poèmes non si perita di entrare nell’officina e di suggerire spavaldamente soluzioni alternative, nelle sue tre dense pagine eccepisce duramente a ciò che gli pare di scorgere nei versi letti. È un rifiuto chiaramente articolato su alcuni punti critici. Per prima cosa Beckett sarebbe ancora legato a una temperie culturale primonovecentesca, segnata da un radicale pessimismo sulle possibilità della conoscenza, comunque si declini, di giungere a un vero contatto con la realtà; ne conseguirebbe un atteggiamento di completa ripulsa di una serie di immagini del mondo percepite come inautentiche, screziata però da un’insopprimibile nostalgia per quanto si è perduto, ovvero il grande ordine borghese ottocentesco. A proposito di Whoroscope la perplessità nasce fin dal titolo: l’oroscopo puttana, l’oroscopo che non conta niente, ma però abbastanza per essere maledetto o insultato, il gesto di sfregio, insomma, che ha un senso, ovviamente, solo in relazione a qualcosa che conta ancora: non l’oroscopo certamente, ma un certo tipo di idee che esso può rappresentare, al di là della banale superstizione;

di The Vulture si rileva «un eccesso di demolizione finale» che «sembra rivelare i sintomi di un rifiuto dell’esistenza, un sentimento della “nausea”, una conseguenza della mistica del “nulla”»; e l’appariscente ancorché funereo (e in questo già profondamente diverso dal modello joyciano) utilizzo della metafora viene degradato a escamotage che «traspone continuamente l’esperienza da “fatto” esistenziale a riferimento metafisico, in relazione con qualcosa d’altro che si rifiuta o si rimpiange». Da ciò discende la seconda imputazione presentata da Porta, vale a dire «un eccesso di “personalismo” nel senso della protesta individuale verso il destino infame, il mondo dei valori, la fine di tutto»; è dall’inane rimpianto del vecchio soggetto espropriato delle sue alte prerogative che prenderebbe origine, nella poesia

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beckettiana, «l’idea del nulla variante mistica dell’idea di sublime. In questo arco di pensiero è chiuso anche Beckett, non si può dubitarne, e riesce a liberarsene in rare aperture». È chiaro allora il motivo per cui alla nuova poesia la soluzione beckettiana non serva: essa mantiene, mimetizzati, troppi resti di quel «poeta-io» che si racconta sulla pagina, tanto aborrito da Porta, e che per controbilanciare le spinte disgreganti in azione su di esso nella realtà (politica e sociale) si inventa un nulla terrorizzante, ma anche consolatorio, in cui scomparire conservandosi: il poeta diventa un fantasma, puro spirito. La nuova poesia, al contrario (e Porta non può non pensare anche alla propria), approfitta del dissesto e crollo parziale di certi schemi d’interpretazione del mondo, e del conseguente disordine che dal piano gnoseologico si trasmette a quello percettivo (o viceversa), per mettere a punto strategie calcolate di «errore […] nel guardare il mondo», dove la «ricerca dell’ambiguo e del plurisignificante è pienamente positiva», e il disturbo è finalizzato ad «una più ampia visione e conseguente presa di possesso del reale», ad «un appostamento molteplice» e una «più felice e approfondita conoscenza». La conclusione, perentoria, vorrebbe additare il più grande difetto della poesia di Beckett, intesa come exemplum di un passato da sganciare, e indicare la strada ai poeti che veramente vogliano stare nel proprio tempo: «è sul piano dell’essere che la poesia deve giustificarsi. Scambiare una modificazione di questo piano, o un suo spostamento, con il nulla, è assolutamente imperdonabile». Ci sono già diversi motivi per tenere bene a mente queste pagine di Porta, non foss’altro perché, nella loro foga un po’ didascalica, hanno il merito di esprimere chiaramente, su Beckett, un pensiero che all’interno del Gruppo 63 era condiviso, come vedremo, anche da esponenti di formazione più solida e tradizionale. E altri se ne aggiungono a considerare le (sporadiche) annotazioni “positive” riservate dallo zelo portiano ai testi presi in esame. L’attenzione del recensore si appunta sul secondo dei Quatres poèmes, e su una modifica intervenuta nel passaggio dall’inglese al francese: francese: su me la vita che mi sfugge m’insegue / e finirà il giorno del suo inizio [;] inglese: verso il suo inizio, verso la sua fine. Ecco un caso di variante straordinariamente azzeccata. «Finirà il giorno del suo inizio» lascia sì intravedere ancora la disperazione beckettiana ma la soverchia con il gioco di un’ambiguità veramente reale, aperta, cioè, a tutti i possibili. Qui sono tentato di dire che Beckett insegna, libero, per un istante (3).

Dove, più ancora dell’idea, già esposta, del possibile contro il nulla, occorre rimarcare che l’apprezzamento di Porta si deve probabilmente ad una diversa configurazione geometrica sottesa alle due versioni: la coincidenza di due punti nella redazione inglese, una traiettoria circolare su cui si effettua un movimento continuo, in quella francese. Non sarà inoltre superfluo far notare che questa poesia, l’unica lodata senza riserve, prende inizio con un bivalente je suis, che vale insieme per «seguo» e «sono», trasferendo così l’esistenza del soggetto in un moto, uno scorrimento (Gabriele Frasca ha tradotto appunto «scorro», combinando la sonorità di sono e il senso di seguo (4)), e termina sull’immagine di una porta: «et vivrai le temps d’une porte / qui s’ouvre et se referme» (pensiamo solo, nei Rapporti, ad Aprire, datata 1964: «Dietro la porta nulla…»; per Leo Paolazzi, che lo ha assunto come nom de plume, Porta è sicuramente un nome parlante). Solo una suggestione? Se sì, sarà una delle tante.

Nel 1965 Porta interviene anche al convegno del Gruppo 63 sul romanzo, rafforzando alcune direzioni salienti già formulate nella recensione, e opponendosi senza mezze misure alle tesi di uno dei principali esperti di narrativa dell’équipe sperimentale come Renato Barilli. Il terreno dello scontro è l’idea barilliana di normalizzazione e di estasi materiale, e forse, un po’ più in profondità, il disaccordo sulla maniera di intendere i caratteri dell’esistenza individuale (il Dasein, secondo la terminologia fenomenologica e latamente heideggeriana cara a un’ala dell’avanguardia), fuori e dentro la costruzione romanzesca. Mentre Barilli, sulla scorta soprattutto del nouveau roman, sosteneva l’opportunità di strutturare i materiali linguistici per la produzione di «epifanie» della mera esistenza, ancora non gravata di senso determinato, da cui «spremere tutti i significati potenziali» (5), e quindi la necessità di mettere al centro dei romanzi il grigiore di una quotidianità fatta d’inezie, Porta insisteva su quanto fosse perniciosa quella tecnica, perché capace di «cancellare la possibilità dell’istituzione di un rapporto soggetto – oggetto. […] Si rischia di non poter più credere alla possibilità di un soggetto progettante […] capace di impadronirsi dell’esserci, o capace di strutturare un nuovo modo di esserci» (6). Porta respinge il pericolo dell’informe, che vede nella proposta di Barilli, come aveva respinto il nulla di Beckett, in nome della convinzione, viscerale, che sempre lo spinge e si manifesta in una quantità di maniere instabili e contraddittorie, fino a sfociare nell’impasse tragica: una concezione assolutamente affermativa del vivere e dello scrivere (il grande «Sì» che, già nel 1958, metteva capo a Europa cavalca un toro nero). Ma in questa occasione Porta non ha bisogno di prendere nuovamente le distanze da Beckett, perché, incredibilmente, nonostante diverse opere di quest’ultimo, prose, versi, pièces teatrali e radiofoniche, fossero state tradotte e circolassero in Italia, quasi nessuno lo nomina (7). L’unico a far mostra di dolersene è, nel dibattito, Aldo Tagliaferri, allora impegnato in quello che sarebbe diventato Beckett e l’iperdeterminazione letteraria (uscito in prima edizione nel 1967), che naturalmente giudica Beckett «un grande scrittore, incommensurabilmente superiore a tutti i romanzieri anglosassoni che sono stati qui citati» (tra i quali, sia detto per inciso, ci sono anche Salinger e Pynchon) (8).

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Ma il 1967, se da una parte vede pubblicato il libro di Tagliaferri, prima, e fondamentale, monografia italiana su Beckett, è anche l’anno di L’azione e l’estasi di Barilli, in cui l’autore mostra di essere, sull’argomento beckettiano, in perfetta sintonia con le tesi precedentemente esposte da Porta (insomma: l’uno contro l’altro, ma tutti contro Beckett). Il titolo del saggio dedicato alla questione, Nichilismo retorico di Beckett, parla da sé: il nichilismo sarebbe l’ideologia (intendendo il termine nel senso più generico di visione del mondo) che lo scrittore irlandese caccerebbe a forza nella sua opera, e che ne salterebbe fuori ad apertura di libro, immutabile («il verbo beckettiano si svolge in tutta linearità e univocità di toni»); profondamente permeato dalla lezione dei maestri modernisti e soprattutto di Joyce, il lavoro di Beckett se ne allontanerebbe sul filo di due differenziali, ossia la suddetta radicalizzazione del nichilismo («un teorema di negatività generalizzata e onnivora») e la degradazione del personaggio a livello subumano. Ma Beckett non può fare da guida ai narratori più giovani (a dispetto delle dichiarazioni di costoro, evidentemente) perché essi sono impegnati nel potenziamento dell’ambiguità e nella generazione di possibili, e non hanno bisogno del nulla preconfezionato; e avendo tagliato i ponti con il modello «positivo» dell’uomo, non saprebbero che fare del modello «negativo», mero rovesciamento ironico del primo, e dunque ad esso legato indissolubilmente. Le regressioni vengono ora usate «come neutre ipotesi di lavoro per sperimentare nuove possibilità di vita e di conoscenza. I mostriciattoli di Günter Grass, i dementi di Robbe-Grillet, non cadranno mai nel compiaciuto proposito di disegnare in negativo un’immagine canonica dell’uomo». Beckett, lungi dall’aver apportato sensibili contributi al rinnovamento del romanzo, «resta sostanzialmente un “isolato” intento a svolgere un suo personale contrappunto in margine al discorso del “grandi” primonovecenteschi, o esasperarne retoricamente alcune proprietà» (9). Certo è impressionante constatare come né Barilli né Porta vedessero che la distinzione di Beckett dal magistero joyciano non era certo un capovolgimento, qualiscumque meccanico o dialettico, bensì un vero divorzio motivato dalla necessità acutamente avvertita (ne fa fede la celebre, ora più di allora, lettera del 1937 ad Axel Kaun) di oltrepassare l’ottimismo mitologico di Joyce, che conduceva a quell’«apoteosi della parola», vera teologia del verbo implicante, anzi generante, la concezione circolare del tempo e l’eterno ritorno del medesimo, il reincantamento del mondo e la possibilità di una nuova dizione, piena e integrale, di esso (10). Ed è incredibile che si sia potuto scambiare per isolamento rancoroso, e vano tentativo di autosegregazione protettiva da parte del soggetto, uno dei più grandi gesti novecenteschi di coinvolgimento, di richiesta di partecipazione, il che era proprio l’obiettivo dichiarato del movimento neoavanguardista (11). Ma sarebbe troppo facile, a bocce ferme, stilare tabelle di errori e promulgare verdetti di condanna. Più interessante, spero, è vedere come le convinzioni sopra compendiate abbiano contribuito a dare una direzione all’opera portiana, e dove l’abbiano spinta.

Esclusa, perché fraintesa come si è visto, la via beckettiana, a cominciare dai Rapporti Porta si sforza di ottenere effetti di contatto mettendo in parentesi il poeta-io, vale a dire il modo lirico anche nei suoi ripiegamenti sliricati, e cercando di far risuonare, nel vuoto di significato ottenuto tramite un compatto gruppo di procedimenti, la «privata, unica, voce» del soggetto, attività inalienabile di resistenza ai tentativi di espropriazione della “civiltà” capitalistica. Il percorso della raccolta è complesso, per l’eterogeneità dei materiali inglobati (scritti in un arco di tempo piuttosto lungo) e per la ripartizione cui l’autore li sottopone; ma alla fine il nucleo vitale-vocale, centro del soggetto progettante e dunque motore di quel possibile la cui importanza Porta non si stanca mai di sottolineare, si rivela esposto a una rottura che fa collassare la sfera del possibile e distrugge lo stesso soggetto, smembrato e dissolto in un grande flusso materiale-sonoro, impersonale e primitivo, che coincide con la Vita e con la Realtà allo stato selvaggio. Per aggirare questo blocco tragico, allora, Porta aumenterà l’astrazione e la concettualizzazione del suo dettato in Cara (1969), in cui un sistema combinatorio e permutativo lavora in regime di radicale sospensione del riferimento (donde la disposizione dei testi in «serie da verificare»); e continuerà a sperimentare nelle due raccolte successive, Metropolis e Week-end, in varie modalità, mettendo a punto figure-autoritratto come quelle del passeggero, del poeta servo e del nomade, sempre con forte tasso di complicazione e dissestamento linguistici (12). Fino ai tardi anni Settanta in quanto Porta scrive non sembra esserci traccia alcuna della presenza di Beckett (l’immersione nell’aleatorio e nell’ipotetico di Cara non ha niente a che vedere, neppure dal punto di vista di un’analogia ideale, con gli elenchi e gli schemi combinatori di Watt, pubblicato del resto solo nel 1970). Nel 1978 esce il secondo romanzo di Porta, Il re del magazzino, importante perché vi si riconosce l’avvio del movimento interno più palese della sua opera. Si tratta della cosiddetta “svolta” verso la comunicatività e la chiarezza, la linearità stilistica, che di solito si data al 1980 di Passi passaggi. Il re del magazzino, misto di prosa e versi, segna un risultato nuovo tanto nei confronti del precedente romanzo, Partita (13), alla cui destrutturazione narrativa e segmentazione in tableaux informali mette a fronte una tenace fibra rappresentativa tessuta sul telaio di un espediente classico come il manoscritto ritrovato (14), tanto rispetto a Week-end e ai suoi ascetici esercizi (si pensi solo a Rimario), con la costruzione dell’epistolario poetico delle Brevi lettere e il definitivo ritorno a una sintassi poetica relativamente piana. Stefano Agosti, per spiegare il cambiamento, ha parlato dell’emersione di una «scena della crudeltà» rimasta fino a quel momento irrappresentabile (15); si potrebbe anche dire che il «grande caos» e l’«enigma», di cui Porta parlava all’epoca dei Rapporti, ora si lasci ammansire, e plasmare, dalla voce, e sia quindi possibile insieme dirlo e in un certo modo ordinarlo; che la voce insomma riesca a mediare il grande soffio rovente

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del cosmo, laddove un tempo falliva. Ed è rilevante che il “sollevamento” della voce non riconduca, nelle intenzioni dell’autore, alle gabbie del poeta-io, cioè del soggetto psicologico con le sue incrostazioni percettive e intellettuali. In occasione di questo passaggio, l’ombra di Beckett torna a comparire. Questa è la Lettera n. 4 (16): Non sono un poeta-ciotolo come Beckett non interrogo i cieli di cartapesta del teatro vi confesso che non so interpretare le costellazioni né stare lì a guardarle dal buco del cortile a meraviglia ma uso quelle delle parole a mosaico compongo e ricompongo per parlarla insieme questa lingua questi linguaggi solleviamola la lingua a vedere che c’è sotto parliamola la parola svelata con le radici senza pudore (questo biglietto vi consegno a futura memoria)

In questi versi, che, con il loro empito a una lingua insieme della poesia e della comunità, perché semplice e nella sua leggerezza rivelatrice del proprio radicamento, contengono buona parte della poetica portiana degli anni Ottanta, tre luoghi dell’opera di Beckett, intenzionata così parte pro toto, sono condensati e nuovamente fatti oggetto di negazione. Utilizzando l’espressione «poeta-ciotolo» Porta allude ad una costante beckettiana assoluta, la tendenza dei suoi personaggi a pietrificarsi per arrestare definitivamente lo scorrimento degli anche più tenui fluidi vitali, eliminando il sentire e regredendo fino alla materia inorganica. In Watt, Arsène vagheggia di diventare una statua; in Finale di partita Clov troverebbe pace venendo mutato in un «sassolino nella steppa»; Molloy succhia pietruzze, facendole circolare fra mani, bocca e tasche in una grande macchina schizofrenica, per placare la fame e la sete (naturalmente senza mangiare); e avanti così fino a Mal vu mal dit, con il suo «la voilà donc comme changée en pierre face à la nuit». Ma se quella di Porta è una citazione precisa, allora potrebbe venire dall’ottavo dei Testi per nulla (17): Senza quale speranza, l’ho detto ora, quella di vedermi vivo, e non solo in una testa immaginaria, un ciottolo votato alla sabbia, sotto un cielo mutevole, e che cambia un po’ di posto, ogni giorno, ogni notte, come se potesse essere d’aiuto, a diventare meno, sempre di meno, senza mai sparire.

Con quell’interrogare «i cieli di cartapesta del teatro» è probabile che Porta si riferisca ai non infrequenti passaggi di Aspettando Godot in cui Vladimiro e Estragone guardano il cielo notturno (18); mentre ci sono pochi dubbi che l’accenno all’interpretazione delle stelle sia una reminiscenza di Whoroscope, in cui Cartesio compila oroscopi per riempire il tempo che lo separa dalla sua «second / starless inscrutable hour», dal momento della sua morte. Sembra tutto chiaro. Il rapporto con Beckett serve anche in questo caso a disegnare uno schema contrastivo, l’affermazione contro la negazione, i mosaici di parole piene contro la pietra e la cartapesta. Ma le cose non sono così semplici, e diversi motivi si oppongono ad una lettura tanto pacifica. Innanzitutto i personaggi di Beckett sono quasi mineralizzati, quasi morti; ma non interrompono mai la loro attività, ridotta a un «fremito fermo» ma sempre, tenacemente, presente. È uno dei marchi di fabbrica dello scrittore irlandese; si continua incessantemente a finire, la parola, per dire la sua fine, non smette mai di pronunciarsi, c’è sempre un «minor minimo», un «inannientabile minimo» da raggiungere. Se tutta l’opera di Porta si può raccogliere nel motto «Sì. Ancora», un doppio, entusiastico assenso a tutto ciò che accade (19), non è possibile opporle direttamente l’esperienza beckettiana all’insegna di un tutto negativo «No, basta». Questa si dispiega invece sotto l’impulso di qualcosa come un «No. Ancora», o meglio di un paradossale «Basta. Ancora» in cui i due avverbi andrebbero pensati simultaneamente. Questa è una considerazione che Porta certamente non avrebbe condiviso, tuttavia resta da spiegare come mai egli abbia sentito così forte la necessità di mettere un’altra volta in evidenza, all’interno di una dichiarazione di poetica in piena regola, il suo rifiuto del grande negatore. A guardare meglio, infatti, non è difficile scoprire una serie coesa di analogie tra i due scrittori, partendo proprio dal Re del magazzino e dal suo protagonista, senza dubbio la figura più beckettiana, in un senso che vedremo subito, mai creata da Antonio Porta. Il romanzo, ambientato in Italia settentrionale, mette in scena la crisi catastrofica dell’Occidente capitalista, provocata dallo sfruttamento delle risorse e dalle speculazioni finanziarie, e costellata da violenze e rivolte popolari, e il conseguente stato di regressione e di anarchia. Il personaggio, colui che scrive il diario, si ritira in un vecchio capanno isolato e vi conduce una vita sempre più stentata. Lo scorrere dei suoi ultimi giorni lo rende assai somigliante ai menomati di Beckett; sempre meno cibo, sempre meno acqua, calo drastico delle energie; progressiva riduzione del movimento, dalle lunghe passeggiate degli inizi fino alla quasi totale immobilità, da sdraiato o da seduto, dei giorni postremi; rapido processo di ottundimento (20). Al trattamento della figura umana si associa una semplificazione degli sfondi dell’azione (dalla città ai campi fino alla reclusione nel «casotto» nella fattispecie del romanzo in questione), che potrà arrivare fino all’azzeramento del «poema per il teatro» La festa del cavallo, ambientato in uno spazio desertico, anche qui dopo un’imprecisata catastrofe (forse

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Finale di partita non è troppo lontano). In entrambi i casi le prose beckettiane degli anni Sessanta, Comment c’est, ma soprattutto Imagination morte imaginez, Bing, Sans offrono un termine di paragone verosimile, per la fissazione delle posture e l’atonia (pur se scolpite lì con un’incomparabile economia di mezzi: «corps nu blanc fixe seuls les yeux à peine.[…] Corps nu blanc fixe hop fixe ailleurs» (21)), e per i soffocanti volumi in cui sono rinchiuse le «Teste morte». Il fatto è che nel “secondo” Porta assume un’importanza fondamentale, più di quanto accadesse nei libri precedenti (trionfi della morte, ma in un senso diverso), il tema della fine, e più precisamente dei momenti che la precedono. Se è la fine ad essere tematizzata, come potrà risuonare il «sì», e se l’esistenza è schiacciata sulla massa di un corpo pressoché catatonico e in punto di morte, come la si potrà accordare con l’«ancora»? E come infine il desiderio di mettere in comune la lingua e di fare un’arte che parli a tutti potrà non essere vanificato dall’eclissi dell’essere parlante (22)? Forse è perché la sua risposta fosse priva di ambiguità che Porta rimette in gioco Beckett, perché si capisca bene che laddove sembra avvicinarglisi di più sta in realtà prendendo una strada che lo porterà lontanissimo. In Beckett, ha spiegato Gilles Deleuze, si tende alla fine per saturazione ed esaurimento di tutto il possibile; in Porta, dopo aver realizzato una porzione di possibilità, le possibilità proprie dell’esistenza di ciascuno, non si finisce che per fare ritorno nell’apertura impregiudicata del possibile, che ne produce sempre di nuovo. La differenza concettuale fra Beckett e Porta è tutta qui. L’avvicinamento alla fine del re del magazzino è costellato da alcune fantasticherie a questo riguardo molto significative. La perdita della stazione eretta porta con sé insistenti figure di sprofondamento, caratterizzate da un senso crescente di tranquillità e armonia. «Mi metterò in parziale letargo: dormirò diciotto ore al giorno. Oppure mi farò ricoprire dal fogliame e lì giacerò 24 ore su 24, come un giorno ho immaginato di poter fare. […] Desiderio di buio, di assenza»; e poco oltre: «prima le foglie e sopra le nevi. Aspettare la prima nevicata e subito stendermi sotto e poi tutte le altre, a strati. […] Sotto non va mai oltre lo zero. Andare in letargo può diventare lo scopo di vivere questi giorni» (23).

Oppure può trattarsi di fantasie sulla trasformazione del corpo dopo la morte, ad opera di legioni di necrofori: il corpo seppellito dagli insetti diventa una sfera da cui questi traggono nutrimento. «A loro (gli insetti necrofori) consegnerò il mio corpo. Devo scegliere bene il luogo della deposizione finale. Diventerò simile a una mela, a una palla in forma di mela, di pera, e così sarò sepolto, sotterrato, nel terriccio morbido, e conservato come cibo.» A questo punto Porta inserisce nel libro alcune illustrazioni sulle tecniche dei necrofori, e poi affida al suo personaggio un commento: «vorrei anche sostituire la parola “carogna” che mi sembra vilipendiosa» (24). La fine, insomma, diventa un tragitto di immersione e di passaggio verso un approdo ormai prevedibile: la rinascita, la rigenerazione: Come un insetto giornaliero avverto le ore allungarsi a dismisura fino a contenere tutta o quasi tutta la vita, fino al punto in cui il presente basta a se stesso, non viene più contenuto da nulla e si arresta. Sdraiato sento il respiro alzare e abbassare il petto come in un movimento celeste. Anche la misura di questo respiro basta a se stessa. Fili di energia mi attraversano e quanti altri come me che stanno aspettando. Nessuno può togliermi o impedirmi il passaggio. Entro nel buco che sta sopra e comincio a risalire il cunicolo. Oppure comincio a ricoprirmi, che è lo stesso (25).

La fine è diventata il punto di partenza, o di transito, per una vera renovatio: «farò tutto nuovo». Ed è, nella finzione romanzesca, esattamente questa frase emblematica che convince il “trascrittore” a trascrivere (26). La palla in cui si trasforma il protagonista, raccoglimento in sé della materia non più umana che prelude ad una nuova trasmissione, emanazione, non è certo il ciottolo beckettiano, nonostante entrambi abbiano forma sferoidale. È in Passi passaggi che se ne trova la definizione, in un gruppo di versi perfettamente addentellati al brano in prosa appena citato dall’identità del tema: torno su a respirare e sento tutta la forza della terra attira nella morte dunque la risposta sembra che sia: NO invece io ci credo che ci sarà una nuova nascita nuova e uguale a tutte le altre che continuano io sono un uovo lasciato cadere nella notte e tu, chiunque tu sia ma sei donna o uomo, di certo mi hai fecondato. (27)

Non un sasso, ma un uovo. La riserva figurale della scrittura di Porta giunge a questo punto ad una sistemazione che durerà fino alla prematura morte del poeta. Si tratta di una metaforica dell’avvolgimento e dell’involucro, nella quale ogni movimento è un ritorno, un rientrare nel guscio. Può sembrare assurdo fare un’affermazione simile su un’opera che, anche dopo essere uscita dai parossismi avanguardistici, è sempre rimasta giocata su forti immagini di lacerazione e trauma. Tuttavia ogni distacco, ogni sortita, in Porta, abbandonano il precedente luogo stanziale per entrare in un altro luogo, da intendere nella sua essenza come luogo protetto, salvo: si passa da un guscio a un altro guscio, dal

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quale infallibilmente, per giunta, si farà ritorno nel primo. Perché i due gusci, in realtà, sono uno solo. Al paradigma del riparo sferoidale sono regolarmente aggregati alcuni altri elementi. Se finire significa oltrepassare una soglia verso un altro inizio, diventa ovvio che tanta morte non confligga, e anzi si leghi immediatamente, con l’idea del nascere, dell’entrare nel mondo, e che quindi la poesia di Porta sia tuffata in uno spazio femminile e per di più materno (28); la cavità uterina, o i suoi sostituti analogici, e il parto diventano riferimenti fondanti (29). La vis generativa inoltre, non limitata nei corpi umani, ha grana corpuscolare e satura tutto lo spazio; si viene ridotti in polvere, ma la polvere è ancora feconda, come fosse una nuvola di minuscoli semi in cerca di un terreno dove attecchire (30). Di nuovo una singolare corrispondenza, perché nel mondo di Beckett la polvere è presenza costante. Ma, che veli le cose o si sollevi momentaneamente in un turbine, è polvere allegorica che parla della ripetizione insensata di nascite e morti, sotto il sole che splende sul niente di nuovo (31). Le immagini di fecondità sono in naturale pendenza verso quelle di coito, godimento sessuale e concepimento, in una corrente fortemente libidica e senza equivoci destinata alla procreazione. «E io ho molta fame / e voglio fare l’amore», si trova scritto in una poesia (32); e che l’amore debba essere genitale, e generante, lo conferma, fra tanti altri, una porzione importante dei materiali preparatori al romanzo cui l’autore lavorava quando morì. Si tratta di una scena assai studiata in cui l’io narrante (uno scrittore di nome Antonio, Emilio, o Leo, che riceve commissioni da uno stravagante personaggio chiamato Leonardo), osservando sua moglie che allatta il figlioletto, decide che non deve dirle di un incontro sessuale avuto con una ragazza sconosciuta, e concluso con una fellatio: «mi guarderebbe come se l’avessi derubata di qualcosa […]; il mio seme» (33). Il desiderio, che funziona da propulsore nel Porta degli anni Ottanta, non è lontano da quello schopenaueriano: desiderio della Specie. È la Specie che, nell’individuo, dice «ancora», per sentirsi rispondere «sì». Ma questo desiderio finalizzato al godimento e alla conservazione della specie è uno degli oggetti di più forte diniego da parte di Beckett. I suoi sciancati, finché riescono a parlare, pronunciano maledizioni verso i genitori, e propositi di sterminio nei confronti dei bambini (34). Rimpiangono di non essere stati risparmiati dalla nascita, e si sforzano di diventare «ogni giorno un po’ più puri, un po’ più morti», dirigendosi «ansimando verso la grande apnea» (35). Come ha scritto Carlo Pasi, «è il corpo il nemico, il desiderio che oscuramente fluisce nel corpo e il pensiero non è in grado di contrastare» (36).

A fronte di un insieme così ben delineato di temi comuni ossessivamente ripresi, cosa permette a Porta di non virare verso il peggio, e di abbracciare con gioia la logica del desiderio? È un vincolo che egli stringe tra quel desiderio, l’immaginazione e il linguaggio poetico. Da Passi passaggi (ma già dalle Lettere del 1976) la poesia portiana si dice come canto, un canto creatore di immagini e animato da un respiro sovra- e pre-individuale. Se è vero che sono sempre i corpi a occupare la scena, tali corpi sono innervati, quasi modellati dalla voce immaginante che arriva a fare tutt’uno con essi. Credo si possa dire che l’intero mondo, qui, sia immaginato più e prima che percepito, e proprio l’immaginazione valga come principio organizzatore. Il canto è medium, atmosfera che unisce le individualità tra loro e con l’ambiente che le circonda. Il che assume subito un forte valore protettivo, di garanzia e fondamento delle attività e dei rapporti, un baluardo contro la tentazione del vuoto e dell’isolamento: «ma questo solo conta che io ti parli / che io stia respirando / insieme a voi tutti che non vedo / che ho chiamato, un giorno, / carissimi…» (37). È questa riserva che fornisce la fiducia nella stabilità, sia pure provvisoria; la poesia diventa, spesso prendendo accenti heideggeriani, ciò che consente di avere un mondo, e di abitarlo; e di non essere macinati dalla terra nei suoi indifferenti ritmi sempre identici (38); è qui che affonda la sicurezza nella giustizia dei cicli naturali, e il fervore al pensiero della rinascita. Ed è ancora la voce immaginante, la voce della poesia, a salvaguardare la comunità contro la chiusura del soggetto e l’ostacolo della morte; l’io è un filtro o un recipiente in cui la poesia si versa prendendone temporaneamente la forma, ma quando il vaso si rovescerà, vuotandosi, essa tornerà a scorrere verso altri vasi. La fine, allora, è il canto dell’io nel momento in cui deve interrompere l’agire e il comunicare, per lasciare libera la corrente che aveva preso posto in lui: la fine è un’aria, «è un vento che soffia via / la polvere di tutte le ossa» (39). Chi legge Porta sa bene che questi lunghi momenti estatici non formano una sequela ininterrotta, ma al contrario si alternano in moti fortemente ondulatori con precipizi di desolazione, in cui il male e l’abbandono sembrano avere il sopravvento, e persino il canto pare svelare un profilo malevolo, non essere nient’altro che un pessimo trucco. Il canto stesso, inoltre, sovente si deve interrompere, dando luogo a vasti intervalli di silenzio. Porta, insomma, non rifiuta affatto di confrontarsi col negativo, e di revocare in dubbio i mezzi scelti per affrontarlo. Tuttavia ogni volta trova il modo di rimettersi all’opera, di ricominciare, dando «per scontato il male» e cercando «il bene, disperata-mente», come afferma nella famosa poesia del Nuovo diario (1986) dedicata a Sanguineti (40). Questo perché l’angoscia non è semplicemente un’affezione del soggetto, ma lo stato d’animo essenziale che permette all’uomo, se è disponibile a sperimentarlo fino in fondo, di compiere l’esperienza fondamentale, che è sempre, heideggerianamente (e ho già detto come negli anni Ottanta certe dichiarazioni portiane assumano un inconfondibile tono heideggeriano) esperienza dell’essere che si dirada per lasciar avvenire l’ente, della Lichtung come spazio abitabile. Il sentimento fondante di questa “seconda” fase della poesia di Porta è lo stupore che il mondo sia, stupore conquistabile solo accettando la prova dell’angoscia (41). E l’intervallo silenzioso, l’interruzione, non è altro che un ritorno del canto nella sua origine, dell’immaginario nella sua sorgente segreta; è proprio questo stacco, questa sorta di pausa in cui il

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mondo riprende il respiro che rende possibile, per gli uomini, nonostante la morte, continuare ad abitare e progettare. La pausa, il silenzio, sono il momento del possibile puro, dell’immaginazione pura, dai quali si può ogni volta ricominciare: «lei, perdendo la memoria / del canto prepara l’avvento / ma ha perso anche l’ultima parola, seguendo il ventre che cresce» (42). Non bisogna fare a Porta l’affronto di scambiarlo per uno sconsiderato verseggiatore neo-orfico tutto rapito in un piccolo delirio poetico di pioggia, sole, frutta e verdura (un “innamorato”, per intenderci). Non bastasse la sua attività di critico e organizzatore culturale, tutta la sua opera letteraria restituisce l’immagine di un uomo vigile, osservatore attento della trasformazioni politico-economiche, e quindi psichiche, sociali e comportamentali, occorse nella seconda metà del Novecento; l’annullamento delle distanze, l’alleggerirsi progressivo delle identità, il dominio sempre più brutale della “ratio” capitalistica, la lotta, condotta sul campo dei nuovi mezzi di comunicazione, tra omologazione e appiattimento in immagine evanescente e tentativi di riappropriamento. Il cinema, la televisione, la musica pop, i videoclip, sono stati avidamente consumati da Porta, e rimescolati alla ricerca di qualcosa che gli servisse per il suo «progetto infinito»: «il poeta deve avere le antenne». E l’arte è stata pensata da lui anche come mezzo di resistenza, in grado di coadiuvare la lotta di coloro «che non sono disposti a essere trasformati in immagine, a essere mistificati, ridotti a merce […]. Una moltitudine di uomini e di donne resiste nel proprio corpo, nella propria identità» (43). Resistenza esercitata in due direzioni apparenti che alla fine confluiscono sullo stesso punto, in uno schema che ormai ci è familiare. Da una parte sta la calcolata «ingenuità» di chi guarda a «quanto ha di divino» il linguaggio, e usa questa garanzia come scudo contro la derealizzazione: «lì dove si forma il linguaggio poetico […] reinventa il mondo non lo descrive, partendo da uno sguardo primordiale, intatto, originario, come quello del bambino che esce dalla vagina, non dal teleschermo» (44). Dall’altra l’ugualmente calcolato sprofondamento in ciò che si vuole combattere, chiamato il «tempo postmoderno»: «la narrazione […] può e forse deve […] essere pensata come un grandioso naufragio nello spazio-tempo planetario dove tutto si equivale» (45). A mettere in circolo le due vie sta l’idea che «solo tentando questo naufragio totale si può credere, sperare, di raggiungere la nuova isola di Robinson Crusoe e ricominciare da capo: dallo sguardo primordiale, elementare» (46); quello, si è visto, che reinventa il mondo, vale a dire lo immagina e lo canta. I materiali preparatori di Los(t) Angeles includono un pezzo fondamentale per comprendere il meccanismo di formazione di questo modo di pensare, e di questa poetica. Si tratta di un brano che unisce la narrazione di un sogno e di un ricordo infantili: Sto ripensando alla mia prima comunione, in piena guerra, la seconda guerra mondiale per me quel giorno di primavera che si riempiva di sangue […] con il capo chino nella piccola chiesa, in raccoglimento precoce, vedevo il sangue scorrere ovunque, avvolgere il mondo. Il giorno prima avevano cantato una volta ancora gli argentei bombardieri che dalla costa, dove noi eravamo, si dirigevano a nord […]. Il mio corpo tornava quello del bambino di quel giorno, che proprio quella mattina, prima di andare in chiesa, aveva sognato di fare l’amore con sua madre, in modo così chiaro e limpido che lo posso ancora descrivere come avessi sognato ieri. […] Di certo non mi sono confessato e ho preso la comunione così, come il corpo di mia madre nel grande, candido letto, tra le lenzuola (47).

Il sogno e il successivo divoramento simbolico del padre, entrambi da manuale di psicoanalisi freudiana, interessano qui soprattutto per ciò che li accompagna. Ancora una volta si tratta di canto (a comporre la consueta dorsale portiana di canto - madre - ritorno), ma qui non è l’airone («l’immagine-canto»), il respiro, il «suono del contatto» a farsi sentire; bensì il ronzio dei bombardieri, che non può non richiamare alla mente i milioni di morti della guerra. All’inizio della poesia di Porta c’è la seconda guerra mondiale, e le dinamiche che questa ha tanto contribuito ad accelerare e a far esplodere, per creare quel mondo inospitale, piatto e sempre più schizofrenico in cui ancora oggi si vive. Trasformare in canto il rombo degli aerei, l’esplosione delle bombe, è il gesto primitivo della «coscienza bombardata» (48) di Porta, ed è, con tutte le precisazioni che il caso richiede, un gesto consolatorio, di compensazione immaginaria per conservare l’equilibrio psichico in uno stato di cose privo di stabilità e di misura. E se pensiamo a quanto hanno scritto Deleuze e Guattari sul «flux de connerie» che il capitalismo farebbe copiosamente scorrere sugli altri flussi che formano il socius, per impedire che le tendenze schizoidi e furiosamente deterritorializzanti che mette in moto raggiungano un livello assoluto incompatibile con la logica del profitto, e come in questo flux si bagnino anche, purtroppo, tante esperienze artistiche fissate sulle loro riterritorializzazioni neoarcaiche, allora il sospetto che la difesa portiana dell’immaginazione, dell’innocenza, della primordialità non sia la maniera migliore per tirarsi fuori dalla «coglionaggine» di una gromma di concrezioni psichiche che proprio nell’immaginarsi altrove (facendo come se esistesse un qui non soggetto ai processi planetari di schizofrenizzazione e perdita di mondo) trovano la loro ragione, si fa forte (49). L’immaginazione, diceva Beckett, bisogna immaginarla morta; il possibile va esaurito totalmente, bisogna esaurire anche quella porzione di possibile che non si effettua nell’avvenimento e nell’esistenza, la pura possibilità (50). È un lavoro lungo, il lavoro di una vita, da compiere lentamente e metodicamente, «so little by little all strange away». L’esito non è il banale nichilismo che Porta credeva di vedere (il terribile semplificatore, scriveva già Adorno, «non ammette di essere spiegato con criteri di semplificazione»

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(51)), ma il raggiungimento, nell’opera d’arte che si forma sempre all’incrocio di molti strati, ciascuno con le proprie regole di chiusura e organizzazione, di un margine estremo di contatto, di osmosi, con qualcosa di radicalmente destratificato. Disimmaginata l’immagine, disarticolata e infine abbandonata la parola, bloccata la possibilizzazione tramite l’affermazione – o negazione – simultanea di tutte le possibilità (è la famosa, massacrante permutazione beckettiana), a quel barlume percettivo residuale si fa sentire quello che ancora Deleuze e Guattari chiamano plan de consistence, intensivo, non formato, assolutamente disumano, e insieme immanente a tutti gli strati (52). Le opere d’arte sono uno dei luoghi in cui queste percezioni estreme, ottenute a costo di un desertificante divenire-impercettibili, vengono “montate” in blocchi di «percetti» e «affetti» per essere ritrovate, riattivate, dai fruitori. Nessuna patria, o matria, consolatoria, nessuna stanzialità, nessuna custodia sferoidale che non vada fatta esplodere. Il principio dell’uovo, che ci costruisce un’identità luminosa ma ormai irrimediabilmente posticcia, per nasconderci che non abbiamo più un’identità, ma solo una funzione, quella di servire, a questo punto può solo essere dannoso (53). La letteratura, se davvero è la «creazione di una salute» (54), deve perforare le barriere illusionistiche dell’immaginario e far sentire il mondo come è. Per riuscirci, cioè per arrivarci, a queste «cose troppo grandi, troppo forti», ma anche per sostenerne l’urto senza esserne completamente disfatti, bisogna prima di tutto imparare a ridere di tutte le pretese dell’“uomo”. Quella, per esempio, di pensarsi il privilegiato ascoltatore della voce silenziosa dell’Essere; o quella di non essere tutto destinato alla morte (la canzonatura che sale da Mille Plateaux: «pour qui il se prend, l’homme?» – ma chi crede di essere, l’uomo?). Sono molti i contenuti e le immagini su cui l’“uomo”, questa «forma d'espressione», esercita il suo dominio, e sono molti i posti di blocco dove non farsi intercettare se se ne vuole uscire (55). Per riuscirci, sembra dire Beckett, a finire ancora, ad avere «ancora un secondo. Uno soltanto. Il tempo di aspirare questo vuoto. Assaporare la felicità» (56), bisogna diventare un sasso. Quasi un sasso. Ma chi crede di essere, l’uovo?

Federico Francucci [Da Tegole dal cielo. L'"effetto Beckett" nella cultura italiana, a cura di Gianfranco Alfano e Andrea Cortellessa (EDUP, 2006).] Note. (1) Th. W. Adorno, Versuch, das Endspiel zu verstehen, in Noten zur Literatur, II, Frankfurt Main, Suhrkamp, 1961; trad. it. Tentativo di capire il «Finale di partita», in Note per la letteratura I, 1943-1961, Torino, Einaudi, 1979, p. 275. (2) S. Beckett, Poesie in inglese, Torino, Einaudi, 1964: si tratta della traduzione di S. Beckett, English Poems, London, John Calder, 1961; la recensione di Porta s’intitola Beckett in poesia ed è alle pp. 57-60. (3) Il testo inglese: «on me my life harryig fleeing / to its beginning to its end»; il testo francese: «sur moi ma vie qui me fui me poursuit / et finirà le jour de son commencement»; Poesie in inglese, cit., p. 74. (4) S. Beckett, Le poesie, a c. di G. Frasca, Torino, Einaudi, 1999, p. 107 e nota esplicativa pp. 287-288. (5) R. Barilli, Normalizzazione e abbassamento, in Gruppo 63. Il romanzo sperimentale, a c. di R, Barilli e A. Guglielmi, Milano, Feltrinelli, 1965, p. 20. (6) A Porta, [Intervento], in Gruppo 63, cit., pp. 66-67. (7) Nel 1965 il lettore italiano aveva accesso alla Trilogia, pubblicata da Sugar tra 1957 e 1958; al volume di Teatro einaudiano del 1961, comprendente tutte le pièces da Godot a Krapp; a Murphy, ancora per Einaudi, tradotto dal francese nel 1962, e infine oltre ai già ricordati versi inglesi a Come è, uscito da Einaudi nel 1965. Erano stati rappresentati, in vari teatri italiani, Aspettando Godot (nel 1954), Finale di partita (1958), L’ultimo nastro di Krapp (1961), Gioco (1964) e Giorni felici (1965); e sulle frequenze radiofoniche della RAI erano stati trasmessi Ceneri, nel 1960, e Tutti quelli che cadono nel 1961. Per notizie più dettagliate si veda S. Beckett, Teatro completo, a c. di P. Bertinetti, Torino, Einaudi, 1994. (8) A. Tagliaferri, [Intervento], in Gruppo 63, cit., p. 66. (9) R. Barilli, Nichilismo retorico di Beckett., in Id., L’azione e l’estasi. Le neoavanguardie negli anni ‘60, Torino, testo&immagine, 1999 [I ed. Milano, Feltrinelli, 1967], pp. 114, 115, 118. A Barilli rispose, e merita per questo gratitudine, un altro amico-nemico come Angelo Guglielmi, che nel ‘68 recensì con dovizia il volume sul numero 7 di «Quindici». Si impone una citazione lunga, se non altro per rinfrancarci un po’: «Ecco, Beckett è la bestia nera del discorso di Barilli (nel senso di colui che minaccia sempre di sgambettarlo) come Robbe-Grillet ne era l’angelo illuminante. Per Barilli Beckett è il grande negatore, è una specie di angelo del nulla, le sue illuminazioni sono incendi che inceneriscono, le sue immaginazioni sono pensieri di morte. Beckett costituisce la prospettiva negativa, è il profeta degli apocalittici, degli adoratori della morte dell’arte, come Barilli li chiama, dei sacerdoti della fine del mondo. In questo senso ponendosi esattamente all’opposto di Robbe-Grillet che ridando spazio alle cose e ai suoi [sic] aspetti ineluttabili introduce e incoraggia una prospettiva intellettuale democratica e da tutti praticabile. Ecco qui che Barilli mentre crede di portare avanti un’analisi stilistica sviluppa infatti una piatta analisi contenutistica. Inavvertitamente privilegia nella sua considerazione gli aspetti aneddotici lasciandosi sfuggire le ragioni di struttura, le aperture dello stile. Contro la vetrina di oggetti ben conservati che gli offre Robbe-Grillet sta la mostra degli sciancati con cui Beckett gli viene incontro. Così l’uno (il primo) è la vita, l’altro la spia della fine. Barilli cade nella trappola della sua stessa virtù. La sua virtù è la vista corta, la sua propensione a tenere l’occhio strettamente incollato all’oggetto e il suo rifiuto (davvero provvidenziale) di tenerlo fisso sull’infinito. Ma ogni virtù si paga. Il prezzo che Barilli versa è il non rendersi

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perfettamente conto che a partire da ingredienti e materiali corrotti e in disfacimento Beckett avvia un processo d’invenzione stilistica e strutturale tanto più gagliardamente vitale quanto più compromessi e minati sono i materiali di partenza. I personaggi di Beckett sono sostanzialmente dei picari. Il picaro è certamente sconfitto, è oggetto di ludibrio e vittima della cattiva sorte ma tale che sceglie e vive l’abiezione come esperienza di allegria. Se ha ancora un senso dire che il romanzo è avventura allora l’unico grande narratore vivente è Beckett»; A. Guglielmi, Letteratura come libertà, «Quindici», n. 7, 1968, p. 2. (10) Aspetto, questo, che Tagliaferri aveva benissimo enucleato in quegli anni, sottolineando come la diffidenza beckettiana per la parola-entità autonoma comportasse la liquidazione dei «grumi mimetici», ossia delle parolemondo, di Joyce; e che in seguito è stato l’oggetto di alcuni straordinari saggi firmati da Gabriele Frasca (secondo cui Beckett è un campione, per precocità ed eminenza, delle estetiche post-joyciane). Lo stesso Tagliaferri rispondeva implicitamente alla teoria del romanzo come esplorazione progettante del possibile, e assestamento strutturale sul carattere aperto dell’esistenza, opponendole la tecnica negatrice, non ingenua ma «metacritica», di Beckett, ossia «l’impegno di una continuazione direzionata dalla precisa funzione […] di negazione di tutti i valori ipostatici, di tutte le reificazioni che un’intera millenaria tradizione occidentale ha raggrumato a coprire l’insostenibilità della nuda soggettività umana». Il rifugio metafisico in cui sembrava ai fenomenologi del Gruppo 63 rincantucciarsi, in cerca di sicurezze, l’opera di Beckett, è volatilizzato da Tagliaferri che reimmette la posizione nichilista nel flusso di affermazioni e negazioni implicantesi vicendevolmente soltanto per andare oltre se stesse: «l’opera viene progressivamente risucchiata, affascinata dalla ipotesi della propria assenza, di un tempo e di un luogo in cui ancora non era, e al contempo strumentalizza questa ipotesi potenzialmente numinosa col reggersi su di essa per continuare a sfuggirsi verso un tempo e un luogo in cui non sarà più. Questa speranza, potenzialmente altrettanto numinosa, può sussistere fin tanto che viene delusa, e la criticità di questa condizione è al centro della poetica beckettiana»; A. Tagliaferri, Beckett e l’iperdeterminazione letteraria, Milano, Feltrinelli, 1979 [I ed. Milano, Feltrinelli, 1967], pp. 3435. (11) Ma anche in questo caso fa eccezione Tagliaferri, consapevole da subito che il non potersi fermare del vaniloquio che attraversa i fantocci beckettiani, e la parallela inarrestabilità della negazione, indirettamente significavano la fine del meccanismo tradizionale della rappresentazione, e la convocazione del lettore nell’opera: «l’autore si è sbarazzato della concezione tradizionalmente oggettiva della fabulazione: dalla tranquilla frontalità implicita nell’uso secolare delle regole aristoteliche, le rivoluzioni cosmologiche portano lo spettacolo fra gli spettatori negando loro la possibilità di assistervi con il distacco che permette l’identificazione e l’oggettivazione del nucleo immobile della narrazione» (ibidem); e anche in questo caso Frasca, prolungando per tutt’altre vie le conclusioni di Tagliaferri, ha saputo mostrare, a partire dalla fine degli anni Ottanta, come Beckett abbia costruito vere e proprie «macchine per la diretta», macchine «per fare compagnia», vale a dire comunità. Mi riferisco in particolar modo a Cascando, Napoli, Liguori, 1988, a Per intradurre la compagnia, «il verri», n. 18, 2002, e al capitolo Congegni fonografici nella Lettera che muore, Roma, Meltemi, 2004. (12) Questa fase dell’attività portiana, nonostante molto se ne sia scritto, e spesso ottimamente, attende ancora una sistemazione critica adeguata. Ho provato a seguire i tracciati della voce, e a rinvenire le giunture macrostrutturali della prima silloge nel mio Un’interpretazione dei Rapporti, in corso di pubblicazione su «Strumenti critici» n. 114, 2006; e a dar conto dell’intreccio formale di una poesia di Cara in Per leggere Come se fosse un ritmo, «Strumenti critici», n. 108, 2005, pp. 319-338. Rimando a quei saggi anche per la bibliografia di riferimento. (13) A. Porta, Partita, Milano, Feltrinelli, 1967; ripubblicato da Mondadori con un’introduzione dell’autore nel 1978. (14) Il personaggio cruciale, colui che, nella finzione narrativa, ha il compito di giustificarla, è dunque il mediatore, il trascrittore; il superstite che, in un tempo catastrofico, trova un fustino zeppo di fogli scritti, accanto a un cadavere. Costui, all’incirca nell’ultimo mese di vita, ha tenuto un diario, intervallando senza un ordine preciso le annotazioni con trenta lettere in versi indirizzate ai figli (le poesie contenute in verità sono 31, dato che del novero fa parte, non numerata, anche la Poesia dedicata a Scardanelli). Le lettere di questo libro, tutte scritte nel 1976, confluirono, assieme a quelle – del 1978 – presenti in Passi passaggi e ad alcune altre del 1980-81, nel volume L’aria della fine, Catania, Lunarionuovo, 1982. (15) S. Agosti, Porta e la scena della crudeltà, in Id., Poesia italiana contemporanea, Milano, Bompiani, 1995. (16) A. Porta, Il re del magazzino, Milano, Mondadori, 1978, p. 30. La somiglianza con la frase beckettiana sulla necessità di «fare buchi nel linguaggio» per vedere «cos’è nascosto dietro» è, credo, ingannevole. La lettera ad Axel Kaun, da cui l'ho prelevata, si legge in Disjecta: Miscellaneous Writings and a Dramatic Fragment, edited by R. Cohn, London, Grove Press, 1984; trad. it. Disiecta: scritti sparsi e un frammento drammatico, a c. di A. Tagliaferri, Milano, EGEA , 1991. (17) S. Beckett, Nouvelles et Textes pour rien, Paris, Les Editions de Minuit, 1955, trad. it. Testi per nulla, in Id., Primo amore. Novelle. Testi per nulla, Torino, Einaudi, 1979, p. 139. Forse conta qualcosa anche che la parola galet, tradotta da Wilcock proprio con «ciotolo», comparisse già in quella poesia francese elogiata da porta, al v. 2: «je suis ce cours de sable qui glisse / entre le galet et la dune». (18) «La luna comincia a calare rapidamente. In un attimo si fa notte. La luna si alza sul fondo, sale alta nel cielo, si ferma, inonda la scena di un chiarore argentato. Vladimiro: – Mah! […] Che fai? – Estragone: – Quello che fai tu, guardo il faccione –»; S. Beckett, En attendant Godot, Paris, Les Editions de Minuit, 1952, trad. it. Aspettando Godot, in S. Beckett, Teatro completo, cit., p. 45. (19) Il «sì» è quello, già citato, che si trova alla fine di Europa cavalca un toro nero, un sì joyciano (l’autore stesso certifica la discendenza: «è la citazione dell’ultima parola di Ulysses») che, scrive Porta, «nonostante tutto non mi ha più abbandonato». «Ancora» viene da un altro finale, quello della decima poesia di Passeggero, scritta nel 1975, solo un anno prima delle Brevi lettere 1976. La poesia è dedicata al fratello Mario, allora da poco scomparso, e gli ultimi due versi suonano: «appoggia una mano all’ombra si mette / seduto e dice: ancora». «Non mi sento di dire altro – sono parole portiane – se non far notare l’“ancora” finale, così vicino a quel “Sì” di cui ho detto per Europa». Le citazioni vengono da A. Porta, Nel fare poesia, Milano, Mondadori, 1985, rispettivamente alle pp. 10, 73 e 69. (20) «Ma la difficoltà sta nel principio, nell’impossibilità di rizzarmi in piedi, da carponi come ero finito. Allora ho preferito cedere alla mancanza di forze (la fame ha la sua importanza ma anche la frana silenziosa dei desideri che si produce nella separazione) e mi sono rimesso supino. In quel momento ho sentito con precisione che il mio sesso si stava congelando»; A. Porta, Il re del magazzino, cit., pp. 119-120. (21) S. Beckett, Bing, in Id., Têtes-mortes, Paris, Les Editions de Minuit, 1972, p. 61.

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(22) Quest’ultima difficoltà si riflette anche sul piano narratologico del romanzo, che ha bisogno, lo accennavo prima, di un mediatore, di una persona viva che riapra il diario e recapiti le lettere, e tale necessità trova un preciso riscontro nel tessuto narrativo: «lì accanto, dove starò» – e da morto, s’intende – «appesa a un albero o inchiodata al tronco, immagino una cassettina postale che funzionerà al contrario: invece di ricevere la posta serve a consegnarla a chi passa. Le mie lettere sono destinate a tutti coloro che vogliono leggerle e qualcuno dovrà provvedere a rifornire la cassetta, ammesso che i passanti siano molti e che abbiano voglia di fermarsi sotto l’albero, ai suoi piedi, o accucciati lì su una radice, per voglia di leggermi o semplicemente di leggere, qualunque cosa» (Il re del magazzino, cit., pp. 8687; il corsivo è mio e spero di poterlo giustificare tra breve). Il personaggio di un romanzo, anche qualora, come nella finzione del Re del magazzino; sia il personaggio che scrive quanto noi leggiamo, ha bisogno di un’istanza autoriale che inventi (immagini) la sua esperienza, e la inserisca in un mondo parimenti immaginato. Beckett, scrivendo Watt, aveva messo in chiaro che le voci che si sentono negli organismi romanzeschi sono in realtà quasi sempre la voce dell’autore, ventriloquo dei suoi personaggi; e sabotato il canale tra istanza autoriale e personaggio mettendoli entrambi sulla pagina e divertendosi ad ostacolare il loro «monodialogo», per dirla con Manganelli. Anche Watt contempla infatti un mediatore o portavoce («mouthpiece»), di nome Sam, che riporta i discorsi dell’eroe eponimo. A scherno feroce dell’ideologia letteraria della fedeltà al vero, per cui nel suo lavoro di immaginazione l’autore non dovrebbe tradire la “realtà”, Beckett fa sì che Sam (o all’inverso) riferisca alla lettera le dichiarazioni di Watt anche quando costui è colto da tragicomici disturbi linguistici e modifica in vari modi l’ordine dei componenti delle parole e delle frasi. «Ettod ìa osac? Ettod ìa osac?». Mentre Porta assembla una narrazione in cui afferma o racconta di voler uscire da certi meccanismi della letteratura, e proprio raccontandolo ostacola il suo intento, dopo Watt Beckett, con la grande invenzione della voce innominabile, ricostruisce un flusso di attività mentale decontestualizzata e usa una prima persona grammaticale che vale come punto di entrata su quel flusso, in modo che ogni lettore possa farsene il supporto diretto: si veda ancora G. Frasca, Cascando, cit. Ricordo che il grande saggio di Foucault sulla figura dell’autore, del 1969, si appoggia, e pour cause, su una frase tolta dall’Innominabile: «che importa chi parla, qualcuno ha detto che importa chi parla»; M. Foucault, Qu’est ce qu’un auteur?, in Dits et écrits I, 1954-1975, Paris, Gallimard, 2001; trad. it. Che cos’è un autore?, in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 1984 [I ed. 1974], p. 3. (23) Ivi, pp. 100-101 (24) Ivi, p. 86. (25) Ivi, p. 152. (26) «Adesso che ho finito la trascrizione integrale con scrupolo da filologo, in omaggio ai vecchi maestri, non so ancora quanto gioverà alla mia vita avere attraversato la sua, lo sapranno i giorni futuri. C’è una piccola frase che mi aiuta e che voglio ripetere: farò tutto nuovo»; ivi, p. 8, a chiudere l’Informazione preliminare. (27) A. Porta, Passi passaggi, Milano, Mondadori, 1980, p. 142. Il testo è l’ultimo della raccolta, compreso nella sezioni di Brevi lettere 1978. La giuntura con Il re del magazzino ne è ulteriormente rafforzata. (28) Nel Re del magazzino si parla senza mezzi termini di abolizione del padre, necessaria per uscire da un circolo vizioso, un cerchio che non protegge ma imprigiona e condanna a morte: «il Padre manda il Figlio al sacrificio. È la morte del figlio che deve aprire il futuro, il farò tutto nuovo. […] Così una possibile successione diventa un cerchio che non si apre e nessun anello della catena può spezzarsi, il futuro non comincia, finisce già prima e il frastuono della storia rischia di rimanere quello di un circuito chiuso. Per uscirne c’è una sola speranza: è il padre che deve cancellarsi»: Il re de magazzino, cit., p. 137. E in Airone: «non vi è traccia di maschio sulla terra» (in A. Porta, Il giardiniere contro il becchino, Milano, Mondadori, 1988, p. 90. Questo titolo offre l’occasione per un altro piccolo contrappunto beckettiano: il giardiniere del signor Knott si chiama Graves). (29) Dalla medesima sezione di Airone: «sotto rimane nascosta / la placenta che tutto contiene, / cunicoli di dove la vita risale veloce / […]e la madre / risucchia tutto e tutto restituisce / in forma di albero, di foglie, di erbe, di muschio, / di licheni, di anellidi, di bacche odorose, la mia bocca / si apre per accoglierla, la lingua della terra, / stringerla tutta dentro di sé» (ibidem). Si potrebbero fare molti altri esempi; basti per ora il rimando a titoli come La posizione fetale, Poemetto con la madre, Partorire in chiesa. (30) «Oggi quando il merlo della fine chioccola / ancora una volta il mio corpo si alleggerisce / così che il vento lo soffia e io sono / polvere cieca e feconda»; non stupirà nessuno che si tratti di un testo in mortem, dedicato a Tanizaki. A. Porta, Invasioni, Milano, Mondadori, 184, p. 45. (31) Penso ad esempio a That Time, con il suo muto ascoltatore di voci, e il laconico – stavolta davvero uno short statement – “discorso” della polvere: «nessun rumore soltanto il vecchio respiro e i fogli voltati e poi di colpo questa polvere il posto di colpo pieno di polvere quando apristi gli occhi dal pavimento al soffitto niente solo polvere e non un rumore solo cos’è che disse andato e venuto fu questo che disse o qualcosa così venuto e andato venuto e andato nessuno venuto e andato in un momento andato in un momento»; S. Beckett, Quella volta, in Id., Teatro completo, cit., p. 448. (32) È la sesta della sezione Balene delfini bambini in A. Porta, Invasioni, Milano, Mondadori, 1984, p. 21. (33) « – Noi abbiamo fatto l’amore – dice Elisabeth – pochi giorni dopo che mio figlio è nato, quando io scoppiavo di latte. Mi sono sentita bruciare. – Guardo Elisabeth un po’ sorpreso, un po’ filisteo, ma sono convinto che ha ragione quando parla apertamente. Temo solo che altri possano fraintenderla e infatti la fraintendono e le fanno proposte sessuali. Lei le accetta e le respinge, per scelta, per sentirsi libera. Penso che se Elisabeth sapesse della geisha mi guarderebbe come se l’avessi derubata di qualcosa, di qualcosa di concreto che le appartiene di diritto: il mio seme»; A. Porta, Los(t) Angeles, Firenze, Vallecchi, 1996, p. 80. (34) «Maledetto progenitore!» grida per esempio Hamm a suo padre Nagg; più pacata a riguardo l’osservazione di Molloy: «Non ce l’ho troppo con mia madre, io. So che fece di tutto per non avermi, salvo evidentemente la cosa più importante. […] Ma l’intenzione era buona e questo mi basta». «Vado a vedere», dice Clov dopo aver creduto di avvistare un bambino fuori dal rifugio, «prendo il rampino». «Lascia perdere», gli intima Hamm, al che il servitore replica stupefatto: «lasciar perdere? Un procreatore in potenza?». (35) S. Beckett, Testi per nulla, cit., pp. 140 e 141. (36) Continua Pasi: «il corpo è il laccio che stringe in un rapporto in cui fatalmente circola la vita e la vita non è sola. L’incrocio di identità lacunose che la costituisce contrasta con la pulsione a scomparire, a tacere, ad appiattirsi nello stato tanto agognato della “supinazione cerebrale”, premessa alla distensione della morte»; C. Pasi, La comunicazione crudele. Da Baudelaire a Beckett, Torino, Boringhieri, 1998, p. 304. (37) Sono versi importantissimi tratti dalle Brevi lettere 1978, in Passi passaggi, cit., p. 28.

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(38) Ancora dalle Brevi lettere 1978: «diciamo così: questa è la nostra terra questo / il luogo dove abitare e questo è il nostro nome / a ognuno il suo e per tutti: noi / […] qui i miei versi diventano semplici e chiari / spazio dove si incontrano i nostri progetti / per abitarci finalmente e dire: adesso / sappiamo cosa dire (tutto deve rinascere)»; ivi, p. 30. (39) Si veda in Passi passaggi la poesia La luna: «cresce un altro pensiero: la soffice culla si trasforma in letto / e il letto in una piccola cassa di legno / e la cassetta di legno in polvere / e la polvere in respiro /(ma il respiro è già di un altro che continua)»; e, in Yellow (Milano, Mondadori, 2002, p. 30) Prego che la poesia: «Prego che la poesia /forte e pietrificata / in passato e futuro / voglia sgorgare adesso liquida / musica su da un pozzo inesauribile / (fin che l’uomo abita la terra) / e questo scorrere sorgivo e antico / passa dal filtro mio / ma è poi di tutti, / insieme ci mettiamo in ascolto». Che l’aria della fine, quella che «si comincia a sentire» nell’explicit della ventiseiesima lettera del 1976, vada intesa anche in senso propriamente musicale, è una supposizione confortata ulteriormente dalla lettura della Festa del cavallo, in cui Glück e Monteverdi vengono evocati e più di una volta i personaggi, uomini ridiventati bruti che sopravvivono in condizioni terribili, hanno degli a solo in strofette di versi brevi e cantabili: «il giorno più freddo dell’anno / il giorno che chiude il domani / amata qui accanto rimani / perché si prepara il mio danno / amata io sono in affanno / io sono in affanno / nel giorno che schiude il presente». La festa del cavallo, nella sua durezza, è forse la cosa portiana che più si avvicina a Beckett. Basterà leggere quest’altra arietta: «ramo secco, ramo secco / il tuo seme sulla sabbia / neanche il vento lo raccoglie / si consuma nella rabbia / nella polvere ti soffia… / nella polvere ti scaglia…». Ma anche in questo caso, e a prezzo di omicidi e cannibalismo, la vita sarà continuata, Musa, il personaggio femminile, ingraviderà, e in una scena decisiva tutti potranno sentire il cuore del feto, che diventa il rumore più forte al cui ritmo tutto si adegua. Le citazioni vengono da A. Porta, La festa del cavallo, Milano, Corpo 10, 1986, pp. 10 e 36. (40) A. Porta, Yellow, cit., p. 47. (41) «Unico fra tutti gli enti, l’uomo, chiamato dalla voce dell’essere, esperisce la meraviglia di tutte le meraviglie: che l’ente è. Chi dunque, nella sua essenza, è chiamato nella verità dell’essere, è perciò sempre disposto in uno stato d’animo in modo essenziale. Il chiaro coraggio per l’angoscia essenziale garantisce la misteriosa possibilità dell’esperienza dell’essere, perché vicino all’angoscia essenziale e allo sgomento dell’abisso abita il timore. L’angoscia dirada (lichtet) e custodisce quel luogo abitato dall’uomo, entro il quale egli dimora stabilmente come a casa»; M. Heidegger, Nachwort zu «Was ist Metaphysik?», in Id., Wegmarken, Frankfurt Main, Klostermann, 1976; trad. it. Poscritto a «Che cos’è metafisica?», in Id., Segnavia, Milano, Adelphi, 1994 [I ed. 1987], p. 262. (42) A. Porta, Yellow, cit., p. 68. O anche: «Se ti prepari alla nascita / esci dalla dimensione del tempo / eppure, dicono, entri nel tempo. / ma c’è un tempo che non conosciamo 7 che non misuriamo mentre agisce / dentro e fuori di noi: la nascita / lo svela e la morte non lo cancella. / Anche il senza tempo ha un tempo / e ci sfugge e non va inseguito, / ritorna da solo quando il corpo / guizza fuori dall’utero e nasce / la voce»; ivi, p. 98. (43) A. Porta, Los(t) Angeles, cit., p. 73. (44) Ibidem. (45) Ivi, p. 76. (46) Ibidem. (47) Ivi, p. 71. Importantissimo che la rammemorazione si attivi al racconto, pressoché identico, di un’altra persona della generazione del narratore – Antonio, Emilio o Leo, ricordiamocelo – e quindi testimoni un’esperienza comune, quella di chi ha vissuto la seconda guerra mondiale da bambino. (48) Sono parole di Adorno nel saggio beckettiano già citato. (49) Mi riferisco naturalmente a G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Oedipe. Capitalisme et Schizophrénie, Paris, Les Editions de Minuit, 1972, trad. it. L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Torino, Einaudi, 1975; e alla riflessione condotta a partire da quelle pagine da Gabriele Frasca nei capitoli ottavo e dodicesimo del suo La lettera che muore, cit. (50) Cfr. G. Deleuze, L’épuisé, in S. Beckett, Quad et autres pièces pour la télévision, suivi de L’épuisé par Gilles Deleuze, Paris, Les Editions de Minuit, 1992, trad. it. G. Deleuze, L’esausto, Napoli, Cronopio, 1999. E solo un esaurimento fisiologico può condurre a termine l’esaurimento logico: «solo l’esausto può esaurire il possibile, perché ha rinunciato a ogni bisogno, preferenza, scopo o significazione. Solo l’esausto è abbastanza disinteressato, scrupoloso. […] la combinatoria esaurisce il proprio oggetto, ma perché il suo soggetto è egli stesso esaurito. L’esaustivo e l’esausto»; p. 27. (51) Th.W. Adorno, Tentativo di capire «Finale di partita», cit., p. 275. (52) Penso allo stupendo terzo capitolo – La géologie de la morale (pour qui elle se prend, la terre?) – in G. Deleuze, F. Guattari, Mille Plateaux. Capitalisme et schizophrénie 2, Paris, Les Edition de Minuit, 1980, trad. it. Millepiani. Capitalismo e schizofrenia 2, Roma, Cooper Castelvecchi, 2003. (53) Il principio dell’uovo è il titolo di alcune formidabili pagine di Peter Sloterdijk sui rapporti tra l’esistenza umana e lo spazio che la circonda e con cui deve interagire. Ne riporto un passaggio: «Con la sua simmetria magica e la sua forma quintessenziale, l’uovo, dai giorni delle creazioni neolitiche dell’immagine del mondo, era servito come simbolo primario della creazione di cosmo a partire dal caos. Era possibile, grazie ad esso, presentare con un’evidenza che conserva qualcosa del pensiero elementare il fatto che le creazioni per nascita costituiscono sempre uno spettacolo in due atti: dapprima la produzione dell’uovo da parte di una potenza materna, in seguito la liberazione della creatura vivente per mezzo di se stessa, a partire dagli involucri o gusci iniziali. L’uovo è così un simbolo che insegna, a partire da sé, a pensare insieme la forma che protegge e la sua rottura. L’origine non sarebbe quella che è se ciò che ne scaturisce non acquistasse la libertà. Ma perderebbe il suo potere d’origine se non potesse riassorbire ciò che è da lei scaturito; là dove l’Essere è esposto nella scaturigine [jaillissement], è in ultima istanza il legame con l’origine che annulla la libertà. Sotto il bisogno di forma parametafisica, i gusci infranti non possono dire l’ultima parola sull’autentica forma del tutto; e quanto deve sparire nel dettaglio è in questo modo ristabilito su larga scala sotto forma dell’involucro globale che circonda il mondo e la vita, e che non si può perdere; le antiche volte celesti sono state stabilite come garanti cosmiche del fatto che l’esistenza umana isolata, anche dopo la sua uscita dagli involucri e dalle caverne resta contenuta in vasi indistruttibili. […] Visto che il processo della modernizzazione implica un’iniziazione dell’umanità all’esterno assoluto, una teoria della modernizzazione essenziale può produrre formule credibili e utilizzabili da un punto di vista esistenziale solo se è un protocollo della psicosi ontologica del processo. Come epoca dei sistematici spostamenti di frontiera, delle patologie collettive del guscio e degli sconvolgimenti

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epidemici degli involucri, l’era contemporanea esige un’antropologia storica della follia che progredisce»; P. Sloterdijk, Sphären I. Blasen, Frankfurt Main, Suhrkamp, 1998; non ho potuto vedere l’edizione tedesca, e cito traducendo dalla versione francese, P. Sloterdijk, Sphères I. Bulles, Paris, Hachette, 2002, pp. 352-53 e 359. Come si vede, ciò che auspica Sloterdijk è un sostanzioso parergon di Capitalismo e schizofrenia. (54) G. Deleuze, La litterature et la vie, in Id., Critique et clinique, Paris, Les Editions de Minuit, 1993; trad. it. G. Deleuze, Critica e clinica, Milano, Cortina, 1996, p. 17. (55) «La vergogna di essere uomo: c’è una ragione migliore per scrivere? […] Il mondo è l'insieme dei sintomi di una malattia che coincide con l'uomo. […] Quale salute può bastare a liberare la vita ovunque si trovi imprigionata dall’uomo e nell’uomo, dagli organismi e negli organismi, dai generi e nei generi?»; ivi, pp. 13 e 16. (56) S. Beckett, Mal vu mal dit, Paris, Les Editions de Minuit, 1981; trad. it. Mal visto mal detto, Torino, Einaudi, 1981, p. 82.

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L’ALDILÀ TRAVESTITO: IL FIN DE PARTIE BECKETTIANO E LE STORIE NATURALI DI EDOARDO SANGUINETI The trouble with tragedy is the fuss it makes About life and death and other tuppenny aches (S. Beckett, Long After Chamfort)

(penso a una farsa tragica orgasmatica, a un tragico striptease ideologico: penso, vedi, all’osceno della scena): (grande boudoir di ogni filosofia): ogni teatro è un teatro anatomico. (E. Sanguineti)

Prologo

L’impraticabilità del tragico costituisce uno dei tratti inaugurali o paradigmatici della modernità (cfr. Steiner 1965). Il poema e il teatro antico, l’epica cavalleresca, il dramma romantico ponevano analogamente al centro il destino tragico di un eroe unitario, intatto dal dubbio sul suo compito individuale di formazione o collettivo di redenzione: Oreste, Enea, Ulisse, fino a Faust. Viceversa, la moltiplicazione dei punti di vista e delle prospettive gnoseologiche imposta dal relativismo e, di più, la frantumazione stessa dell’io in corrispondenza della nuova indagine psicoanalitica, conducono nel moderno alla dissoluzione dell’integrità, con conseguente morte irreversibile del personaggio a tutto tondo, rimpiazzato, nei diversi casi, dall’eroe problematico, dall’antieroe, dall’inetto. Restando in Italia, nella vacanza di senso esistenziale e nel disagio individuale che ne deriva, si ripresenta il comico come possibilità privilegiata di rappresentazione, dall’umorismo (pirandelliano) al buffo (palazzeschiano) o, ancora avanti negli anni, al parodico (sanguinetiano o manganelliano) (1). La tragedia non è cioè deprivata del suo fondamento ontologico, ma solo del suo classico vincolo formale: l’eroe tragico si traveste in comico mutando in virtù la “ferrata necessità” di aderire a una sorte beffardamente incontrollabile, senza più contrasti velleitari o romantici. Fuori d’Italia Joyce, e poi Kafka e Beckett, ossia la deriva dell’identità nelle declinazioni dell’impaludamento socio-antropologico, della mutabilità angosciosa (l’uomo-scarafaggio) e della paralisi vitale. Edoardo Sanguineti riconosce in Beckett il riferimento, o uno dei riferimenti, della moderna tragedia (ma, invece, della sua impossibilità) nel dialoghetto premesso ai Sei personaggi.com, uno dei suoi ultimi “travestimenti”, ossia riproduzioni contemporanee di un testo classico e in altre parole ancora, quelle dell’autore, occasioni di travaso del milieu storico-culturale contemporaneo nell’orizzonte testuale della classicità, con effetti di “devastazione sfigurante”: […] la tragedia con la società borghese muore. La tragedia c’è con il re, con l’Ancien règime, con l’aristocrazia. Per essere tragici bisogna non avere niente da fare: allora si può incontrare il destino. Con il mondo borghese non a caso si passa dalla tragedia al dramma. […] La tragedia non può più esistere perché tutte le categorie di fatalità ad essa connesse non funzionano più. […]. Nelle grandi tragedie novecentesche – si tratti di Kafka o di Joyce o di Beckett – il tragico è legato al comico. È l’orribile del basso non dell’alto che innesca il tragico. (Sanguineti 2001, p. 11)

Torna alla memoria la nota apposta da Savinio (autore tutt’altro che sgradito a Sanguineti, e non distante da alcune tematiche beckettiane) alla voce Dramma per la Nuova Enciclopedia, all’indomani della seconda guerra mondiale: È da una ragione “cosmica” che viene la nostra impossibilità di dramma: dalla sparizione di Dio. Radice del dramma era il lunghissimo conflitto tra uomo e Dio (e suoi surrogati). Uomo contro uomo non fanno dramma, ma appena una rissa (Savinio 1977, p. 127).

Atto primo: denegazione

Se gli esordi sanguinetiani (il ’62 di K. e altre cose, restando al teatro) di necessità si muovono entro un panorama ancora quasi del tutto intatto dalla portata scardinante della drammaturgia beckettiana, nel decennio successivo la circolazione di Beckett e la messinscena delle sue opere non sono più affidate alle cure di compagnie semiclandestine, ma conquistano i debiti spazi di riflessione (2): È evidente che all’altezza dei primi anni Settanta, nell’affrontare teatralmente una tematica come quella del corpo, non potevo non considerare Beckett un punto di riferimento imprescindibile. […] Non è però men vero che […] la direzione che poi, in prima persona, ho cercato di prendere era quella di una perpetua frustrazione dell’andamento per così dire limpido della narrazione che ancora la drammaturgia beckettiana rispetta. Quando parlavo di “materiali” per una messa in scena, avevo ben presente l’idea della simultaneità.

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[…] nei quartetti e sestetti degli anni Sessanta in qualche modo esisteva pur sempre una sorta di prescrizione o di prestrutturazione dell’esecuzione, mentre con Storie naturali pensavo a materiali ancora più in disfacimento e in complicazione, totalmente affidati, per la loro orchestrazione, al regista e agli attori responsabili della messa in scena.

A parlare è Sanguineti stesso, nella rinnovata edizione delle Storie naturali, “materiali per la scena” originariamente destinati a un nuovo progetto teatrale ronconiano, all’indomani del rivoluzionario e pionieristico travestimento del Furioso (’69), e poi pubblicati in volume autonomo da Feltrinelli nel ’71. Il testo della princeps si correda finalmente di una nota esplicativa, affidata come spesso accade nella produzione sanguinetiana a una conversazione: quella con Claudio Longhi, regista della prima mise en scène integrale mai realizzata in Italia (3). In essa, tra le altre indicazioni autoesegetiche, spicca quella appena riferita, in cui Sanguineti respinge di fatto la possibilità di una sinonimia scenica tra la drammaturgia beckettiana e la propria: al di là di un inevitabile parallelismo relativo alla (dis)funzione del corpo in entrambe, quella manterrebbe un impianto autenticamente narrativo, laddove all’ideale progetto sanguinetiano andrebbe ricondotto –iuxta intentionem auctoris – l’esclusivo scardinamento di qualunque progettualità diegetica, entro uno spaziotempo rinnovabile a ogni rappresentazione, e deprivato perciò di qualunque traccia di continuità o di unità drammatica (4). In particolare per le Storie, Sanguineti meditava una messinscena tutta vocale, osando anche oltre la simultaneità già sperimentata nel Furioso (5). Il primitivo canovaccio del testo, una volta fallito il progetto di collaborazione con Ronconi per le difficoltà di natura pratica intercorse, e reciso quindi ogni vincolo di tipo drammaturgico, si dilatò fino a esplodere in lacerti di senso da consegnarsi, nel caso, alla sola voce degli attori, e da recitare preferibilmente al buio, in modo che lo spettacolo potesse sostanziarsi di pura phoné (6): Per un verso […] puntavo, per via della vocalità, a raggiungere una fisicità estrema, non cancellata, ma addirittura moltiplicata dalla carenza di un controllo visivo […]. Per un altro, bruciando completamente le possibilità di controllo da parte del fruitore attraverso la scelta della simultaneità e del buio […] speravo di riuscire a mantenere vigile lo spettatore rispetto a tutte le declinazioni possibili di quelle tematiche del corpo, dell’esperienza concreta della fisicità, dell’erotismo, che sono alla base delle quattro storie (SN, 233).

Atto secondo: rentrée

Nel nome di Beckett si chiudeva a Bologna il 7 ottobre 2005 il convegno celebrativo dei settantacinque anni di Edoardo Sanguineti, occasione in cui, tra l’altro, l’editore Manni presentava per il tramite di Anna Grazia d’Oria le Storie naturali ripubblicate con l’introduzione di Niva Lorenzini e la già ricordata conversazione dell’autore con Claudio Longhi. I due interventi finali del convegno, affidati a Erminio Risso e Luigi Weber – curatore il primo di alcune opere antologiche di Sanguineti e recente interprete il secondo della poesia sanguinetiana sub specie parodiae –,(7) forzatamente ignari di quella recente e ormai definitiva dichiarazione autoriale, proponevano entrambi ipotesi genetiche plausibili, indugiando sul travaso dall’irlandese al nostro non solo di temi comuni ma anche di tasselli lessicali o tutt’altro che occasionali omaggi. Risso, in particolare, si soffermava sulla reificazione sanguinetiana del mondo, ridotto a cumulo di oggetti, e sulla destrutturazione del corpo e la dispersione delle sue singole parti – attiva già dall’esordiale Laborintus –, sia pur riannettendo la tematica a una doppia e fondata suggestione beckettiano-artaudiana. Weber, più puntuale nello spoglio delle reminiscenze dirette, riproponeva all’attenzione, collazionandole, le diffuse tracce dell’opera beckettiana nel Sanguineti creativo, a dispetto del silenzio quasi assoluto (e sintomatico) del critico. Così per la ricorrente affinità-identità letto-cullabara, già allusa nel romanzo esordiale e pienamente realizzata all’altezza del secondo, e a stretto giro poi tematizzata nelle Storie naturali. Ancora dal Giuoco dell’oca (sezione 15) veniva tolta la riproposta del “ci manca poco”, topos traversante l’opera beckettiana almeno dal romanzo Malone muore fino ad Aspettando Godot e all’ esergo di Finale di partita in cui “tutto sta forse per finire”. Proprio dal protagonista di quest’ultima piéce Sanguineti deriva la “voce” inaugurale di A-Ronne: a: ah: hamm: anfang: principio:

in: in principio nel mio

Nel poema del ’74 su musiche di Berio il leitmotiv verbale è costituito dal recupero dell’eliotiano cortocircuito fra end e beginning, affiorante più volte anche nel Finale di Beckett: “la fin est dans le commencement et cependant on continue” (8). Vada quest’ultima suggestione ad aggiungersi ai luoghi scandagliati da Weber e Risso, in attesa di un’eventuale integrazione dei due interventi, alla luce della ormai esplicita e perciò imprescindibile dichiarazione d’autore. Ascritto dunque alla inevitabile predilezione moderna per il comico –nell’accezione chiarita in premessa – il comune tono teatrale delle scritture sanguinetiana e beckettiana, e accettata in modo altrettanto cogente la definitiva negazione di una derivabilità diretta dell’una dall’altra, è su due dei testi appena citati – le Storie naturali e Finale di partita – che vanno a insidiarsi i maggiori sospetti, se non di quella parentela genetica che l’indicazione autoesplicativa di Sanguineti dovrà inevitabilmente rassegnarci ad

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escludere, di una effettiva interdiscorsività di temi e di motivi, legittimata se non altro da una cronologia non ostile. Atto terzo: in medias res

Fin de partie è un serrato e paradossale scambio dialogico tra due personaggi menomati: il cieco e paralitico Hamm, il claudicante Clov (cui si aggiungono Negg, il padre sordo di Hamm, e la madre Nell, dalla vista corta), costretti in uno spazio svuotato se non deserto, abitato esclusivamente da due bidoni e illuminato da due finestre “haut perchées, rideaux fermés” (9). Il testo uscì nelle Éditions de Minuit nel 1957 e in inglese nell’anno successivo col titolo Endgame. In Italia la traduzione circolante già dal ’61 si deve a Carlo Fruttero, mentre la prima rappresentazione di un certo rilievo andava in scena nel ’63 al Teatro Ateneo di Roma (per la regia di Carlo Quartucci con Leo De Berardinis nel ruolo di Clov e Anna D’Offizi in quello di Nell) (10). Le Storie naturali, mai rappresentate in Italia in versione integrale prima dello spettacolo di Longhi (11) si articolano in quattro quadri, e prevedono di solito due personaggi gravitanti attorno a un letto, cui si aggiungono via via degli altri personaggi (o meglio voci, per la quasi totale assenza di una caratterizzazione che non sia la mera opposizione uomo-donna) (12), con l’eccezione del secondo quadro, dove oltre al letto l’ambientazione prevede un camino acceso. In uno scenario analogamente desertificato, è il dialogo tra i personaggi a sopravvivere come residuale possibilità comunicativa, sia pur attraverso i modi privilegiati dell’assurdo e del nonsense (la barzelletta del sarto nel Finale di Beckett, i tipi comici e i tic verbali dei quattro quadri di Sanguineti, dalla neranegra al ladro alle formiche, al motivo occasionale del “berliccare”, alla diffusa ossessione del toccare). Il primo tratto comune ai due testi è dunque l’impostazione dialogica, prevalentemente bipartita. Inoltre, in entrambi i casi, i temi della conversazione si mostrano solo all’apparenza destrutturati. In realtà è nell’argomentare scientemente dissolto che si innervano i motivi di un colloquio in entrambi i testi assoluto, svolto in uno spaziotempo imprecisato. Parrebbe di leggere le Operette morali di un Leopardi post-atomico, in cui si sia inverata l’apocalittica profezia del “mondo senza gente” inscenata nel dialogo favoloso tra il Folletto e lo Gnomo. E l’accostamento di Beckett-Sanguineti via Leopardi non parrà del tutto infondato, dove si rifletta in particolare sulla novità e l’imprescindibilità del punto di vista sensistico e materialistico leopardiano nella concezione della vita e, di più, dell’ “oltre” (13). I personaggi di Beckett e Sanguineti a cui niente accade perché nulla può ancora accadere sono, proprio come nelle Operette morali, solitamente due, anche se ormai essi non si fronteggiano più su visioni esistenziali contrapposte ma piuttosto sproloquiano sul nulla, realizzando in pieno quella paralisi dell’azione che all’interno del corpus leopardiano cominciavano variamente a sperimentare il Colombo o l’Islandese, personaggi bloccati nella coazione a ripetere (il vano sforzo di sostituire alla noia la varietà), e invariabilmente poi riportarli all’unica possibilità di esperienza, scandita dal tedio e conclusa dalla morte. Così, all’espediente retorico della domanda inevasa (“a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono”: l’Islandese alla Natura, nell’operetta leopardiana) si rifanno in modo affine Beckett e Sanguineti, entrambi prodighi di interrogativi vanamente ripetuti e destinati analogamente a rimanere privi di risposta. Innanzitutto il martellante “che ore sono”, comune a entrambi, che in un mondo svuotato di ogni possibilità vitale così come di ogni referente materiale, suona come visibile paradosso. Ancora sulla scorta della rappresentazione “finale” operettistica, lo spazio entro il quale i personaggi o le voci di Beckett e Sanguineti similmente si confrontano appare poi uno spazio ultimo e definitivo. Vi prevalgono il buio, le allusioni sepolcrali: Hamm: […] Mets moi dans mon cercueil. Clov: Il n’y a plus de cercueils. Hamm: Alors que ça finisse! […] D’obscurité! (FP, 127).

U1: Vuoi dire –vuoi dire che lì – ci sta quello che ci è morto, per noi? – Che ci stiamo noi come morti, insomma? U2: Sì, un po’ – ecco – è un po’ come un loculo, dentro un cimitero.

U: Ecco, per esempio – il letto. – Io ci vedo come una grossa cosa confusa, soltanto lì da quella parte, ormai. – Che non è più un letto vero, per me. D: Già – e che cosa è, allora? U: Oh, puoi indovinarlo da sola, sai. – Può essere una bara, per me – ecco, soltanto una grossa bara può essere – a due piazze. […] – E poi, me lo devi ammettere, tante volte tu arrivi qui che è già tutto buio, lo sai.

R2: –magari, un po’ alla volta, si scalda – con la sua mano lì morta – lui, lì che è morto. […] R1: […] Che cosa ti importa, poi, chi tocca? – Una che è viva? Uno che è morto? Uno che dorme? – Una che sta qui, dunque, che sta qui, nel buio […] (SN, 36 79, 198).

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E se l’equivalenza – peraltro automatica – tra oscurità e morte, dalle esemplificazioni addotte parrebbe più insistita nel secondo testo, l’ambientazione claustrofobica di tutta la pièce beckettiana restituisce l’allusione oltremondana in modo altrettanto convincente (14). Inoltre, è rovesciando la prospettiva dell’inchiesta che si realizza la paradossale domanda dei morti sulla consistenza vitale: così nel coro delle mummie di Ruysch in Leopardi, e nel Finale beckettiano, in cui i genitori di Hamm manifestano sensazioni fisiche (il prurito, la fame) e a un certo punto provano a baciarsi, mentre la loro condizione appare intrappolata in una forma e ultima vuota, deprivata di ogni ulteriore possibilità di senso: Nagg: Tu ne veux pas ton biscuit? […] je croyais que tu allais me laisser. Nell: je vais te laisser. Nagg: Tu peux me grater d’abord? (FP, 34).

La paralisi che è il motivo dominante del testo beckettiano contagia così anche questi due personaggi comprimari, relegati nel loro spazio “sanza speme”, come i dannati danteschi (Salvadori Lonergan 2003). La loro inesausta quanto irrealizzabile vitalità residua, opposta alla fissità della condizione scenica, pare rinviare però, piuttosto, alle presenze genitoriali di un’altra opera novecentesca fortemente influenzata dal materialismo oltremondano di Leopardi, invece che dallo spiritualismo e finalismo dantesco: le sagome dipinte di papà e mamma Goerz nell’Alcesti di Samuele di Savinio (con una possibile derivabilità sia pur indiretta che sarebbe utile approfondire), analogamente imprigionate entro un insensato orizzonte di vitalismo, da intendersi in senso cinico e borghese, come, nello specifico, all’interno della conversazione tra i due personaggi sulla fortuna inattesa capitata al figlio, di una “collocazione” definitiva e duratura come quella di “morto” (cfr. Policastro 2005, pp. 71-86). In un aldilà che non è più popolato da eroi ed eroine ma da uomini che scontano la condizione di “stati vivi”, il motivo saviniano dell’”imparare a morire” potrebbe poi aver ispirato, sempre attraverso il comune tramite leopardiano, la condizione di stasi mortale o di paralisi vitale beckettiana, da cui i personaggi faticano ad uscire negandosi l’azione e permanendo nel ricordo. Affine a quello, il motivo della morte indolore, ancora dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie di Leopardi, chissà con quanta consapevolezza trasmigra nel quieto scivolare verso la morte del personaggio di Nell in Beckett, o nelle prove di morte del terzo quadro delle Storie naturali: R1: […] come ti sta freddo, lì, anche? R2: Ah, è un pezzo di ghiaccio, ecco – un pezzo di ghiaccio. R1: Gli è come scappata via, la sua vita. R2: Oh, ma se ti scappa lì, la tua voglia, guarda – è poi la vita, sempre, che ti scappa via, tutta (SN, 194).

Resta costante in Sanguineti l’interrogarsi su dati corporei, in un contesto depauperato di qualunque altro motivo esperienziale e, insieme, segnato da una sorta di ilarotragica ossessione del “dopo”: R1: è una storia di gusti – che ognuno ci va con il suo passo, lì alla morte. – Sai, il problema è chi rimane, come si dice. – Non dico mica il dispiacere, lì il rimpianto, sai – le cose così, del funerale. – Penso proprio alla faccenda pratica, io. – Quello che si è inventato che uno se li brucia, i morti – te lo immagini, per esempio? […] – ma quello che gli è venuta l’idea, poi, che uno se li nasconde, giù, dentro la terra – e poi, avanti, con i cimiteri, con le croci – con i fiori–

Ne consegue un aldilà deprivato tanto di una possibilità – sia pur paradossale – di esperienza vitale, quanto di una decodifica onirica, per il senso ultimo che si denega, avvolgendosi su se stesso come nel sogno dantesco di chi “sognando desideri sognare”: […] ti aiuta un po’ il buio, se vuoi – perché è come un sogno tutto vuoto – fatto di niente, proprio. – È un sogno dove devi abolirti lì tutto […] dentro il buio. […] – Allora , è un po’ come il teatro, se vuoi – che ci sono quelli che te li vedi – che parlano – che si muovono, che si agitano – che poi le luci si spengono, alla fine – e quelli se ne vanno, tutti via – e ci resta come il silenzio, soltanto – e il buio, il vuoto – e tutto è come cancellato – perchè era tutto falso, tutto finto – perchè era come il sogno di un sogno, soltanto, se vuoi – che è tutta una cosa che non è niente – che non era niente, mai-niente (SN, 215).

È l’aldilà-aldiqua tutto novecentesco dove il corpo, anziché dormire del sonno eternamente giusto, permane in uno stato di perenne torpore. Sonno e morte, però, più che contendersi uno statuto ontologico paritario, come in Leopardi, divengono proprio indistinguibili: UL: […] Mi sveglio a pezzi, ecco – un po’ alla volta. –Prima si sveglia un pezzo, poi un altro, poi un altro – e avanti. Prima che mi sveglio tutto, io, ci ho già dei pezzi che mi dormono, a me, di nuovo. – Capito? – E poi, arriva così presto, sempre, la notte! (SN, 180).

In Beckett una possibile via d’uscita dal dormiveglia esistenziale potrebbe darsi nella forma di una definitiva deprivazione del desiderio attraverso la progressiva mutilazione, compiutamente realizzata ad esempio dal Molloy dell’omonimo romanzo. Ma il paradosso del desiderio superstite all’abdicazione delle

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illusioni, vivo nella memoria beckettiana attraverso l’insistito recupero del canto leopardiano A se stesso, passato dal saggio su Proust alla trilogia e al “sogno” di Belacqua, si supera solo riproponendo in modo demistificante il paradosso stesso: la mortalità in vita sulla paradossale vitalità della vita ossimoricamente mortale: “non che la speme, il desiderio è spento”, come Beckett non cessa di ricordare, richiamandosi, alla fine, non più a Leopardi ma propriamente “a se stesso” (15). Lo stesso dialogo finisce col deprivarsi dei suoi connotati comunicativi, soffrendo la parola della stessa destrutturazione e impossibilità al movimento dei corpi menomati dei personaggi, tanto in Beckett che in Sanguineti, entrambi sensibili alle esigenze del suono più che alle richieste di senso, con una identica attenzione alle espressioni musicali. Se Fin de partie si articola attorno ai due temi del “farla finita” (Hamm) e del “bisogna partire” (Clov), in Sanguineti è però la dissonanza a dominare una polifonia per altri versi comunque scandita dai leitmotive dei “berliccamenti” e “toccamenti” (e tra l’altro alla parola che stenta, minacciata dall’afasia, Sanguineti preferisce piuttosto quella debordante, in una sorta di iperlinguaggio che inzeppa il discorso di tutto ciò che vi sarebbe innecessario: la ridondanza pronominale, i tic linguistici). Così il dialogo beckettiano come possibilità di incontro tra alterità, sia pur solo nei termini sadomasochistici del servo e del padrone, indispensabili l’uno all’altro (donde la minaccia mai attuata da Clov di lasciare Hamm) si riduce in Sanguineti all’unica opposizione possibile, quella dei sessi, solo veicolo di avvicinamento reciproco essendo il corpo. Non a caso resiste solo in Beckett la richiesta del divino, sia pur nella forma rovesciata della sua negazione, con dei precedenti che vanno dalle Confessiones ai Karamazov (16), passando per la preghiera negativa e terribilmente blasfema dall’abbozzo leopardiano ad Arimane, trasposto nel Finale di Beckett forse per pura suggestione dell’interprete: Hamm: […] Prions Dieu. Clov: Ancore? Nagg: Ma dragée! Hamm: Dieu d’abord! […] Vous y êtes? […] Nagg: […] Notre Père qui êtes aux… Hamm: Silence! En silence! Un peu de tenue! Allons-y […]. Alors? Clov: […] Je t’en fous! Et toi? Hamm: Bernique! (A Nagg) Et toi? Nagg: Attends […]. Macache! Hamm: Le salud! Il n’existe pas! (FP, 75-76)

Non così in Sanguineti, dove il divino lascia ben labile traccia di sé, e l’unica forma di ascesi sperimentata è una sorta di anti-catabasi o discesa al rovescio nella cappa fumosa del camino in cui i personaggi tentano di interagire, naturalmente attraverso il mero contatto corporeo. Nessuna traccia di numinoso, nemmeno puramente residuale: U: Oh, ma ti sento un po’ lontana, te. – Cosa ti succede, adesso? D: Mi succede che salgo su – no? - dentro l’imbuto. Ci provo. Magari, mi ritrovo l’angelo mio, così. U: Sei matta? – Vieni giù subito! – Che angelo che ti vuoi cercare, tu? –Sarà magari una specie di assassino, invece, quello – altro che un angelo! – sarà lì con il coltello, che ti aspetta (SN, 99).

Epilogo: l’autore, nuovamente Hamm: […] Puisque ça se joue comme ça…[…] jouons ça comme ça… et n’en parlons plus… ne parlons plus (FP, 112).

VU: – Sognavo che dormivo, pensa. – Che dormivo sopra un letto, lungo disteso – con le formiche. – È il sogno della mia vita, un po’. – Ma mica le formiche, sai. – Là il resto, soltanto – il letto, e dormire (SN, 222).

La fine provvisoria, analogamente sospesa, lascia aperta la possibilità che si ricominci o si prosegua all’infinito: “mai come in teatro”, per Sanguineti, “si è davanti al grande fiume eracliteo” (SN, p. 239). Gilda Policastro [Da Tegole dal cielo. L'"effetto Beckett" nella cultura italiana, a cura di Gianfranco Alfano e Andrea Cortellessa (EDUP, 2006).] Note. (1) Per le ragioni dell’annessione dei due scrittori a un orizzonte parodico analogamente e propriamente moderno, si rimanda a Policastro 2005.

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(2) Cfr. Cascetta 2000 e la ricca appendice a Cascetta 1997, in cui peraltro si rimanda all’interesse beckettiano del gruppo neoavanguardista dei Magazzini, attivo dal 1972, con cui Sanguineti realizzò la prima messinscena di Commedia dell’Inferno, nell’89 per la regia di Federico Tiezzi. Quest’ultimo era stato autore, solo due anni prima, della trasposizione teatrale del “romanzo” di Beckett Come è, tradotto già nel ’65 per Einaudi da Franco Quadri (esegeta, tra l’altro, del Furioso di Sanguineti-Ronconi in Quadri 1973). Alla luce di questi singolari intrecci, la possibilità che l’idea beckettiana di teatro si sia precocemente intersecata con quella di Sanguineti, al di qua di una derivabilità diretta, non pare del tutto peregrina. (3) Sanguineti 2005, pp. 234-5, d’ora in avanti siglato a testa SN. (4) Di avviso contrario è A. Cascetta in Il tragico e l’umorismo cit., pp. 95-96: “[…] le unità classiche di tempo, luogo e azione [in Fin de partie] sono apparentemente salvate ma in una struttura in cui sono a rischio i contenuti che le giustificano: la situazione rappresentata è al limite infatti della non azione, del non-tempo, del non-luogo”. (5) Per la prima messinscena del Furioso (al Festival dei Due Mondi di Spoleto), Sanguineti immaginò una dilatazione ad libitum dello spazio scenico, con i singoli momenti rappresentati in simultanea, e gli spettatori forzatamente attori itineranti. Per la versione televisiva Sanguineti avrebbe gradito una messa in onda in contemporanea su più canali delle diverse sequenze, ma l’adattamento fu poi trasmesso in cinque puntate consecutive per le cure del solo Ronconi nel ’75. Sull’episodio cfr. SN, p. 236. (6) Un primo elemento di interdiscorsività tutto da approfondire potrebbe dunque già risiedere nell’ossessione vocale, addirittura tematizzata nel beckettiano Ultimo nastro di Krapp (1958). (7) Vedi almeno Sanguineti 2000 e Sanguineti 2004; dello stesso Risso si annuncia a breve la prima edizione commentata del testo di Laborintus. Si segnala. Weber 2004. (8) Così, citando cursoriamente, almeno in Stracciafoglio 19 (“faticando fino all’item conclusivo, a fare fine, finalmente): […] e in Rebus 18 (“la mia/continuazione è la mia fine”), oltre che già nel titolo del poema A- Ronne: “ARonne: come dire A-Zeta, Alfa-Omega. Ronne è una delle tre abbreviazioni poste un tempo alla fine delle tavole dell’alfabeto, dopo la Zeta. Esso sono: Et, Con e Ron (quest’ultime due sono una trasformazione di cum e della desinenza latina orum). Le designazioni fiorentine, utilizzate da Sanguineti a conclusione della poesia, erano Ette, Conne, Ronne. A-Ronne è diviso in tre brevi strofe: il tema della prima strofe è l’Inizio, il tema della seconda è il Mezzo e quello della terza è la Fine” (cfr. 1991, p. 817). Quanto a Beckett, il motivo si nutre qui per lo più di suggestioni bibliche e scritturali, dal Genesi all’Apocalissi, ma appare diffusissimo in tutta l’opera nella sua declinazione esistenziale, in particolare nei romanzi e segnatamente nel finale dell’Innominabile: “[...] è la sua storia che bisogna raccontare, ma lui non ha storia, non è stato dentro la storia, la cosa non è sicura, è nella sua storia personale, inimmaginabile, indicibile, non importa, bisogna tentare, tra le mie vecchie storie che non so da dove vengano, di trovare la sua, ci dev’essere, dev’essere stata la mia, prima di essere la sua, la riconoscerò, finirò per riconoscerla, la storia del silenzio che lui non ha mai lasciato, che io non avrei mai dovuto lasciare, che non ritroverò forse mai più, che forse ritroverò, e allora sarà lui, sarò io, sarà il luogo, il silenzio, la fine, il cominciamento, il ricominciamento, come dirlo, sono parole, non ho che quelle, e pure scarse, si fanno rare [...]” (Cfr. Beckett 1996, p. 463). (9) Beckett 1957, citato d’ora innanzi con la sigla FP. (10) Per una storia del testo, nella sua complessa elaborazione, e della sua fortuna si veda ancora Cascetta 1997, pp. 77-98 e 384. (11) Per una più dettagliata notizia dello spettacolo si veda Policastro 2005b. (12) Opposizione tematizzata già nel beckettiano Play del 1963, la cui ambientazione oltremondana è suggerita da diversi elementi, come la collocazione dei personaggi sul palcoscenico, a imitazione dei dannati fuoriuscenti dal lago ghiacciato di Cocito. (13) Vero è che se le letture leopardiane di Beckett sono state tutte rilevate e accertate, più complesso si rivela il rapporto di Sanguineti con Leopardi, definito in sede critica, alla stregua peraltro del ben più amato Dante, poeta “di buona razza reazionaria”, e associato sprezzantemente a un orizzonte di senso ancora troppo marcato dalla comunicabilità dell’esperienza per dirsi realmente moderno. Orizzonte che il Sanguineti autore si propone evidentemente di “sabotare” sin dal primo verso di Laborintus, come ribadito in una recente occasione orale. Nell’ambito dell’incontro con gli studenti del corso di Letteratura italiana moderna e contemporanea dell’Università di Roma “La Sapienza” (30 maggio 2006), sulla poesia dei “Novissimi”, Sanguineti chiariva infatti la propria posizione esordiale proprio attraverso un riferimento all’operazione ancora classica di costruzione leopardiana dell’orizzonte poetico, a esemplificazione della quale l’autore ricordava l’incipit dell’Infinito, in cui ogni parola rimanderebbe a un referente ben identificato. Del tutto antitetica l’operazione di totale scardinamento del senso compiuta da Laborintus, sin dal primo, volutamente indecifrabile verso (“composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis”, cfr. Sanguineti 2004, p. 13). (14) A supporto di questa idea, la interpretazione della topologia di Finale di partita come spazio non solo asfittico, ma per di più assoluto e totalizzante. Il “rifugio” di Hamm e Clov rimanderebbe così ad una situazione di “sopravvivenza alla fine di (guerra nucleare, catastrofe, distruzione del mondo)”, ma anche, secondo una tipologia drammatica risalente alla cultura medievale – di cui l’opera beckettiana com’è noto si sostanzia col tramite dantesco – all’intera struttura del cosmo, con un’unica possibilità di doppia apertura a imitazione delle “due polarità (Paradiso e Inferno), fra le quali è iscritto tutto il cosmo”. Così per Allegri 2004, p. 169. Sulla cospicua presenza di Dante (anzi, di “Danti”) in Beckett, vedi il ricchissimo regesto intertestuale (in un senso molto opportunamente chiarito, di discussione dell’autorità, attraverso un orizzonte che superi la mera testualità per farsi discorso sulle cose) in Caselli 2005. (15) Sulla questione interviene Caselli 1997, che inquadra opportunamente il problema della presenza di Leopardi in Beckett entro l’orizzonte teorico della parodia intesa come riscrittura demistificante. Caselli connota il procedimento beckettiano di citazione come intratestuale più che intertestuale, appoggiandosi alla nota dicotomia di Segre. Sulla citazione di A se stesso, peraltro, si soffermava già Restivo 1991, pp. 121-132. (16) Si pensi per il romanzo dostoevskjano all’interrogazione sulla latitanza divina rispetto al godimento sadico delle torture sui bambini, all’interno del trattato sull’ateismo di Ivan, nel libro V della seconda parte del romanzo. Sul senso del male in Beckett, vedi ancora Cascetta 1997, p. 88: “il male, in tutte le sue forme, percorre il testo: è il male fisico, connesso ai disagi dei corpi menomati dei quattro personaggi; è il male morale nella forma della sofferenza ora evocata dal racconto di Hamm ora affiorante come un leit motiv nel dialogo fra i due”.

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FUOCHI TEORICI

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L’AUTOSUFFICIENZA DELLA LINGUA ITALIANA (CON TITOLETTI IN BERGAMASC) Introdusiù Lo dirò senza tanti fronzoli. Ciò che salva e salverà ancora per diverse generazioni questo paese è la lingua italiana. Ciò che ci salva da duemila anni di corruzione e di malgoverno, di tentativi ora falliti ora portati a termini di sperperare il patrimonio delle civiltà etrusche e latine, di cancellare, di revisionare, di incendiare, di obliare, sono da oltre duemila anni boicottati dalla straordinaria bellezza e ingegneria della lingua italiana, che è somma mai pari agli elementi che la compongono. È la lingua italiana che ci ha dato capolavori straordinari per noi che viviamo in questa parte di mondo e per tutti gli altri popoli. Non mi sono mai reputato un nazionalista ma devo ammettere che chi leggerà queste poche righe ne ricaverà, probabilmente, un’idea differente. Si sopravvive anche alle dicotomie.

Breve stòria L’Italia ha generato – e continua a generare – il più vasto patrimonio letterario e artistico presente nel genere umano. Spesso si elogiano – giustamente – capolavori dell’ingegno di matrice tedesca, inglese, giapponese, statunitense, olandese; ma questi sono tutti paesi la cui storia è breve quanto la rinascita della lingua italiana che ha partorito Dante Alighieri. Nel tredicesimo secolo chi abitava – e come – la Germania, il Regno Unito, il Giappone, il Nord America, le terre sommerse dal mare del Nord? Certamente ci sono paesi splendenti come l’Egitto che ha una storia di tremilacinquecento anni, la Cina di duemila anni, l’India di duemilatrecento anni, ma nessuno di questi enormi mondi ha una ricchezza rinnovata nel tempo come quella che oggi abbiamo l’immeritato dovere e piacere di contemplare. Per noi che oggi veleggiamo nelle anguste acque della poesia la scelta e l’abbondanza sono davvero imbarazzanti: dal De rerum natura di Lucrezio alle poesie d’amore di Gaio Valerio Catullo e Sesto Properzio – che molti hanno riscoperto grazie a Pound –, da Virgilio a Dante, dal Canzoniere di Lorenzo De’ Medici – quanti non sanno che è stato un ottimo poeta – dall’Amorum libri di Matteo Maria Boiardo alle Laudi di Jacopone da Todi, dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto alle Rime di Giovan Battista Marino, dal Metastasio al Giorno del Giuseppe Parini, da Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo a Carlo Porta, da Giacomo Leopardi – quanti “leopardini”, senza a, che ci sono in giro oggi – al Giuseppe Gioachino Belli, e poi la densissima modernità del Carducci, e del Pascoli e del D’Annunzio e del Montale eccetera… chi legge conosce meglio di chi scrive. La storia di questo paese e delle lingue italiane – dal latino ai dialetti all’italiano figlio della televisione e della scolarizzazione diffusa – è talmente ricca che ha condotto ad un fioritura di stili, di forme, di modalità di scrittura che nessun altro paese possiede. Parentes pulèmica-pulìtica (Oggi essere buoni intellettuali – e buoni poeti – vuol dire aderire al miscuglio progressista del nascente atlantide Ds, che io ammetto di osservare con la bocca sghemba, intoniamo l’internazionale socialista nel buon nome dell’amore e dell’amicizia che lega tutti i popoli e ogni forma di nazionalismo ci sembra oramai arcaica come la visione del poeta vate alla D’Annunzio e alla Neruda. Ebbene, il Fratus si getta in una spropositata dichiarazione di passione ne riguardi dell’Italia, paese culturalmente – e poeticamente – “autosufficiente”)

Ura mà spieghe Alcuni dei lettori sanno che per anni mi sono occupato di teatro e nello specifico di nuova drammaturgia. Non è un caso che abbia curato diversi volumi sul nuovo teatro italiano e collaborato per anni a Outis, il Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea di Milano, ed oggi diriga una stagione al Teatro Fondamenta Nuove di Venezia. Viaggiando e vedendo spettacoli ho potuto constatare quello che poi ho potuto sentire in sede europea, ovvero che il teatro e la drammaturgia italiana contemporanea offrono la maggiore ricchezza di stili e di lingue oggi presenti a livello mondiale. Le grandi differenze formali del nostro teatro, dalla rappresentazione di un testo secondo una consolidata maniera italiana al teatro di maggiore ricerca formale, dall’uso degli spazi anomali – postindustriali o postclericali o semplicemente caduti in disuso, a pezzi – all’evoluzione tutta interna alla tradizione italiana del teatro di narrazione che vede certamente un grande innovatore e anticipatore in San Francesco – per chi non crede consiglio Lu Santo Jullàre Francesco di Dario Fo – dal teatro in versi alle fanta e multi lingue utilizzate a teatro, sia il messinese, il cosentino, il napoletano, il romano, l’abruzzese, il toscano, il cesenate, il bolognese, il milanese, il genovese, il piemontese. Ho scritto diversi articoli in questi anni sulla varietà e la ricchezza di forme e lingue del teatro italiano, della nuova drammaturgia italiana. Insomma vedi Giovanni Testori, vedi Franco Scaldati, vedi Raffaello Baldini, vedi Edoardo Sanguineti, vedi En z o Moscato. Non a caso autori di teatro in versi, di drammaturgia, di materiale organizzato per andare in scena a teatro, al di là della forma che la scatola teatro potesse prendere. Ecco perché sono così tanto – in questo saggetto – orgoglioso della mia identità linguistica. Essere un poeta che tenta di dominare e lavora, come uno scultore in mezzo alle polveri e alle schegge della materia lingua italiana è davvero un onore, un piacere, una “maraviglia” senza fine.

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El teater italian Quanto scrivo ha l’obiettivo – così ho stabilito con uno dei triunviri che governano l’«Ulisse» – di rendere conto della varianza della drammaturgia italiana versificata. Ora molte volte mi sono trovato a dibattere – inutilmente – su cosa sia o non sia il teatro in versi. Utilizzo, in questa sede, dunque la maglia più larga, di modo da pescare tutti quei soggetti che hanno semplicemente scritto per il teatro o della poesia che poi ha raggiunto il teatro in versi. Una grande distinzione va fatta. È infatti ampia la popolazione di autori che possiamo riscontrare. Nel punto precedente ho abbozzato un rapido conto, ma si possono aggiungere Antonio Porta, Giovanni Raboni, Mario Luzi, Pier Paolo Pasolini, Mariangela Gualtieri, Nevio Spadoni, Antonio Tarantino, Maura Del Serra, il dimenticato Fabio Doplicher – a cui dedico queste righe –, Carmelo Bene, ma più indietro si può dire anche di Raffaele Viviani, cantante e attore delle origini napoletane, fino ai più giovani e a noi prossimi Edy Quaggio, Chiara Guarducci, l’attrice milanese Federica Fracassi. Ora quello che conta non è tanto fare la conta di chi c’è e di chi manca, piuttosto tentare di capire come si è caratterizzato questo lavoro, ovvero, dato che il punto di partenza è – come nelle raffigurazioni della prospettiva di Paolo Uccello o di Piero della Francesca – capire da poeti come il teatro in versi possa essere poetico, ovvero utile alla poesia, ovvero, se non si tratti soltanto di una organizzazione spaziale e vocale del testo che potrebbe benissimo essere stampato in prosa. E quest’ultimo è un punto importante, anzi, è il punto fondamentale. Parto proprio da questo. El respir Quando si incomincia a parlare di teatro in versi o di teatro versificato bisogna partire da un punto di pratica, che poi è la stessa origine da cui partire per valutare una drammaturgia: il respiro dell’attore. Molto spesso ad un autore che non è stato attore o che ha scarsa pratica del mestiere viene mossa la classica critica che la sua è una scrittura più che una partitura per attore (ora semplifico perché il discorso sarebbe ricchissimo di implicazioni e complesso). Ovvero spesso gli autori teatrali scrivono più per la carta che non per la scena, tant’è che la miglior pratica anglosassone permette all’autore di lavorare a contatto con la compagnia ed il regista mentre in Italia i teatranti lasciano l’autore fuori dal teatro e a distanza di sicurezza. Il poeta è una monade non controllabile e soprattutto ha una esperienza per quanto moderata di sé stesso e della propria voce. Molti poeti di fatti recitano, per sé e ad alta voce ciò che scrivono, è uno degli esercizi di verifica del valore – della maturità – acquisito da ciò che si è scritto. Questo, a mio parere, avvantaggia i poeti nello scrivere qualcosa di recitabile, di funzionale alla respirazione che poi è gemella di quello dell’attore – invero come è gemella di quella del falegname, del carpentiere, del macellaio, del Presidente degli industriali. – Non è un caso che molti ottimi drammaturghi modifichino i testi anche alla trentesima replica della messa in scena. Ciò che resiste sulla pagina può invece fallire in scena, e viceversa. Questa è una regola, non strettamente necessaria ma spesso verificata.

Esemp Tenuto conto del legame fra scrittura e respiro la drammaturgia contemporanea offre molti testi in prosa, di gran lunga la maggioranza, e alcuni testi in versi. A questo punto vanno divisi quei testi scritti da poeti che intendono scrivere per il teatro ma al contempo proseguono l’officina di scrittura poetica – poiché ci sono poeti che invece scrivono in prosa e mettono da parte la poesia – dai testi scritti da drammaturghi che versificano soltanto per semplificare la rappresentazione del respiro di ogni singola battuta. Parto da questi ultimi che mi rappresentano una prassi maggiormente presente a livello internazionale. Penso al teatro di Thomas Bernhard e di Heiner Müller (però non ho mai verificato gli originali in lingua tedesca), ad alcuni testi del teatro di Rodrigo Garcia (Note di cucina) e di Jon Fosse, ai primi testi di Antonio Tarantino (Stabat Mater, Passione secondo Giovanni, Vespro della Beata Vergine), a porzioni del testamento di Sarah Kane, Psicosi delle 4 e 48, scritto poche ore prima di togliersi la vita. Ma anche il teatro dell’ultimo Mario Luzi (La Passione) e di Giovanni Raboni (Rappresentazione della croce) sono tutti esempi di scrittura in versi regolata non da un ricerca formale quanto, soprattutto, da una esigenza di ordine tecnico, di ordine mentale: vado a capo perché è finita la battuta, per evidenziare e isolare. Sappiamo benissimo quanto questo sia un meccanismo vigente nella poesia contemporanea dominata dal verso libero. Ma qui il meccanismo è portato alle estreme conseguenze, tanto, dico io, che se i testi fossero scritti in prosa sarebbe teatralmente lo stesso.

Romans an vers Un genere particolare che segue con attenzione è quello del romanzo in versi. Anche i romanzi in versi possono rientrare in questa casistica semplificata, come l’ultima opera di Dario Voltolini, Le scimmie sono inavvertitamente uscite dalla gabbia, oppure La maschera di scimmia dell’australiana Dorothy Porter – le scimmie portano al romanzo in versi? – o ancora il romanzo che più mi ha convinto della Isabella Santacroce, Lovers. Molto più complesse mi paiono le evoluzioni che costruiscono romanzi in versi o poemi del calibro dei mastodontici Omeros di Derek Walcott – non a caso inteso come uno dei capolavori della poesia moderna –, Freddy Nettuno di Les Murray, Canto general di Pablo Neruda, Paterson di William Carlos Williams – che miscela incisi e racconti in prosa alla poesia – e l’ottocentesco (e da me amatissimo) Clarel di Hermann Melville. Fra l’altro tutti figli, volenti o non volenti, dei capolavori della letteratura classica

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(Omero, Virgilio, Lucrezio) e della letteratura medioevale italiana. Come lo sono anche poemi mondo quali Foglie d’erba di Walt Whitman e Cantos di Pound, su cui, come sappiamo, è decisiva anche l’eredità degli studi di Fenellosa e della letteratura cinese.

Dopo Eliot A mio parere esiste però un filo rosso – o blu, o verde, o nero o bianco… – che porta alla drammaturgia in versi, al tentativo quindi fare della poesia a teatro o del teatro linguisticamente più alto. Come sappiamo nel corso della modernità uno degli esempi più noti è il teatro del poeta Thomas Stearns Eliot. Un teatro devo ammettere molto sopravvalutato. Anzi, come ha sapientemente notato uno dei suoi traduttori e studiosi italiani, è certamente vero che il miglior teatro di Eliot lo si incontri nella sua poesia e non nel suo teatro borioso e noiosissimo. Assassinio alla cattedrale è davvero un esempio accademico di uno dei discorsi che ho intessuto in precedenza. Ovvero ci sono testi che scritti possono piacere ma in scena uccidono il teatro. Soprattutto uccidono lo spettatore. Magari l’attore ma per lui o lei si tratta di lavoro (ce ne sono di operai e commesse che muoiono un pezzo al giorno…). Sacrificato il teatro di Eliot, ci avviciniamo all’Italia con le avventure di Mario Luzi (Felicità turbate, ma anche il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini) e di Sanguineti, che di teatro ne hanno scritto e praticato parecchio, così come Doplicher, Scabia, Scaldati, ovvero autori – a mio parere i meno – che proseguono la battaglia sul ritmo, sullo scavo del verso e dell’espressione. È il caso di Pasolini, di cui si parla (ma ne parlava lo stesso poeta friulano nel suo celebre Manifesto per un Nuovo Teatro) spesso della difficoltà di mettere in scena le sue tragedie proprio perché è un teatro dell’immobilità, della parola, dove l’azione è ridotta al minimo; oppure è il caso di Nevio Spadoni, della sua perla in dialetto romagnolo L’isola di Alcina in scena da diversi anni ad opera del Teatro delle Albe di Ravenna; è il caso del napoletano En z o Moscato che dal 1988 scrive e porta in scena testi in versi di grande complessità quali Partitura e la Quadrilogia di Santarcangelo; è il caso dei siciliani Scaldati e Nino Gennaro, anche se l’opera teatrale di quest’ultimo talvolta è versificata nella maniera del primo caso, quindi secondo semplificazione. Giovanni Testori è poi un caso non facile da qualificare, poiché ha scritto talvolta andando a capo ogni parola come nella seconda trilogia, quella composta fra il 1978 ed il 1981 (Conversazione con la morte, Interrogatorio a Maria, Factum Est), talvolta in modo maggiormente complesso come nel romanzo sdisOrè è nei Tre Lai. Üna parentes d’amor Non perdo però l’occasione di ribadire che le poesie d’amore scritte da Testori a cavallo del ’70 sono tra le più belle della modernità italiana ed europea.

Poetc savi Ci sono anche poeti che non tormentano troppo l’anima dei lettori. Ovvero poeti che se scrivono poesia fanno quel che sanno fare e che se si dedicano al teatro decidono di aderire alla moda corrente della prosa per il teatro. È il caso di Robert Lowell (si ricordi la sua traduzione e riscrittura del Prometeo incatenato), Derek Walcott (in Italia sono arrivati Ti-Jean e i suoi fratelli, Sogno sul Monte della Scimmia – ancora!). E alüra?! In definitiva. Siamo contenti o no del teatro in versi che abbiamo in Italia? Offre opere dalla grana qualitativamente soddisfacente e stimolante? A mio parere sì, certo va tenuto conto l’esigenza pratica che il teatro reclama, sebbene un’opera poi possa benissimo tramandarsi nei secoli anche se non va in scena ma resta un’opera di carta dal valore inestimabile.

Nòta infond: chiedo scusa ai bergamaschi doc che potranno certamente recriminare sul mio pessimo memoriale di dialetto. Sono vent’anni che abito in Piemonte e la mancanza di pratica ha certamente fiaccato la mia conoscenza. Tiziano Fratus

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IL POETA E IL CORO DEL SILENZIO La poesia è assoluta e inospitale. Non c’è posto per la voce, né per il poeta, che viene sfrattato dalla sua stessa poesia. Il lettore di poesia, con l’atto stesso della sua lettura, è come se dicesse: “Tu, poeta, non c’entri. No, non c’entri nemmeno con le tue poesie. Sta’ zitto: faccio da solo. Leggo da solo. Va’ via. Lasciami solo con la poesia. Non mi importa se l’hai scritta tu. Me la leggo da me.” È un atteggiamento legittimo, un’estetica della lettura, una concezione della poesia che anch’io pratico, come lettore silenzioso e solitario delle poesie altrui. Ma se le cose stanno così, che cosa si mette in scena, allora, quando si legge poesia in pubblico? Cosa si vuole quando si invita un poeta a leggere i propri versi? Si vuole che egli sia assoluto, inospitale e inospitato. L’attore, la statua e l’esibizionista

Al poeta non è consentita l’incorporazione dell’alterità, l’ospitalità dell’altro. Pensate invece a ciò che avviene comunemente a teatro: l’attore attua la personificazione di un altro, incorpora il personaggio, si lascia possedere idealmente, e fisicamente, dalla personalità altrui: la ospita dentro di sé. Cambia voce e andatura, si trucca, si mette un costume. Al poeta è consentito soltanto porgere parole, e casomai incorporare un’unica porzione di mondo: quella che coincide con i suoi contorni personali. Il proprio corpo, la propria voce, le proprie parole, e basta. Il resto è espulso. Il poeta deve andare in scena vestito soltanto di se stesso. È un poemoforo puro, e anche un egoforo, non un eteroforo com’è l’attore. A ben guardare, però, le cose non stanno esattamente così. Il poeta va in scena senza costumi, senza avvalersi di scenografie o strumenti o trucchi, senza “teatro” (e senza il suo doppio!, vale a dire senza ciò che da Artaud in poi è considerato essenziale e irrinunciabile per il teatro: il grande apparato tecnico che, da semplice scenografia, si fa sostanza scenica protagonista al pari della parola e degli attori). Ma è come se il poeta avesse incorporato o assorbito lo sfondo, come se fosse la scenografia di se stesso. Mi viene in mente un’antica statuetta egizia: è un ippopotamo, sulla sua pelle sono disegnate le canne del Nilo: quella statuetta è contemporaneamente (mi viene da dire “conspazialmente”) se stessa e scenografia di se stessa. Oltre all’attore, dunque, per comprendere che cos’è un poeta che legge i suoi versi in pubblico, c’è quest’altra figura che bisogna tenere presente sottolineando analogie e contrasti con il poeta in scena: la statua. Pensiamo a un monumento che raffigura un eroe del Risorgimento, al centro di una piazza: che cosa lo contraddistingue? La mancanza di tutto il suo contorno ambientale e storico. È immerso in un altro tempo, in un altro spazio. Il monumento a Garibaldi è vestito come nel 1860, il suo cavallo ha i finimenti d’epoca, il condottiero ordina la carica ma intorno a lui non c’è nessuna truppa, di fronte a lui non si vede nessun esercito nemico da assaltare; in piazza circolano le automobili e squillano i telefoni cellulari. È una figura paradossale, un alieno, una presenza transtemporale e transpaziale. Anche il poeta che va in scena ha una qualche affinità con la figura della statua: generalmente non si mette il costume da scena, va vestito così com’è (conosciamo qualche eccezione, nelle performance di Hugo Ball al Cabaret Voltaire, per menzionare soltanto un esempio). Che cosa significa, questo? A differenza della statua, il poeta non viene da un’altra epoca. Eppure, come la statua, non si adatta all’immersione ambientale della scena, non predispone un costume e una scenografia per la scena. Dunque il poeta in scena impersona la sua provenienza da un’alterità, la sua, che non è il passato storico o il mondo ideale e fantastico della mitologia (come la statua di un dio greco). Da dove viene, allora? Dal presente. La semplice apparizione del poeta in scena rende tutto il presente paradossale. Il poeta che non si mette il costume da scena, porta sulla scena la sua irruzione aliena, come una statua che è venuta a farci visita scontornata dal suo ambiente e dalla sua epoca. È una visita transtemporale e transpaziale di una figura ritagliata da un altro mondo. Per una pura coincidenza, il poeta vive nel presente. La comparsa del poeta in scena spacca la realtà in due, mostra la sua venuta da un altro tempo, che apparentemente coincide con il nostro tempo.

Un’altra figura che vale la pena di paragonare col poeta che legge in pubblico è quella dell’esibizionista. L’esibizionista è una specie di teatro ambulante, che apre il sipario dell’impermeabile per mostrarsi allo spettatore-vittima. L’esibizionista si porta addosso tutto il teatro, mentre il poeta entra in scena assolutamente privo di qualunque elemento scenico, senza scenografia né costume. È per così dire polpa esibizionistica pura.

La persecuzione delle parole Cosa c’è, in scena nelle letture di poesia? Non semplicemente un corpo, ma una persona, qualcuno vestito “come nella vita”.

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E cosa si chiede al poeta in scena? Di mostrare la persecuzione che perpetra verso se stesso. Una sorta di iperautologia: il poeta mette in scena l’essere perseguitato dalle sue stesse parole. Proprio così: l’essere perseguitato (che esprimo con l’intensificazione data dal prefisso iper-) dalle sue stesse (-auto-) parole (logia). Un essere umano attraversato da parole che lo perseguitano: questo, secondo me, è il poeta in scena. Perché dico, con un’espressione che può suonare un po’ enfatica, che le sue parole lo perseguitano? Perché sono parole che il poeta aveva scritto, aveva esteriorizzato, aveva espulso da se stesso, se ne era liberato e disfatto: ma ecco che queste parole tornano presso di lui, dentro di lui, lo riattraversano e lo fanno vibrare; fanno vibrare il suo corpo, le sue corde vocali; non solo: strutturano anche il suo assetto, la sua postura fisica. Pensate ancora, per contrasto, all’attore: l’attore imita la produzione linguistica immediata degli esseri umani, fa finta di improvvisare con naturalezza la battuta che in realtà ha imparato a memoria, e gran parte della sua bravura consiste nel far credere agli spettatori che, in quel momento, lui stia semplicemente parlando. Invece il poeta in scena tiene in mano la carta, ostenta il libro che lui stesso ha scritto, non finge di improvvisare: mostra il libro, o la carta, i fogli sparsi, le pagine, insomma tutti quei posti dove stanno le parole che aveva espulso da sé, e che ora invece lo perseguitano reimmettendosi in circolo dentro di lui, riattraversando la sua persona e facendola vibrare. In questa logica, è chiaro che non sono persecutorie, tanto per fare un esempio, le parole dell’improvvisazione poetica orale pubblica (come le gare di improvvisazione in ottava rima degli stornellatori, oppure dei rapper che si sfidano a free style). Quelle parole sono cairologiche, appartengono all’occasione, mettono in scena una sorgività momentanea, legata indissolubilmente a quell’istante e quel luogo (poi ci sarebbe da dire che in quei casi il poeta improvvisatore mette in scena l’essere perseguitato da una forma metrica o retorica, se improvvisa in endecasillabi, in rima, ecc., ma questo è un altro discorso). Il poeta improvvisatore fa sgorgare sorgivamente quelle parole, come il jazzista che si avvale di un sapere tecnico compositivo estemporaneo e di tanta esperienza pratica. Per proseguire il paragone con la musica, nelle letture di poesia, in scena è visibile non una semplice esecuzione, la lettura di uno spartito, bensì che cosa succede a una persona attraversata dalle parole che lo perseguitano, cioè riattraversata vocalmente (vibratilmente) dalle sue stesse parole, di cui si era liberato esteriorizzandole con la scrittura. Arriva qualcuno sulla scena, e incappa nei suoi stessi scritti: ce li legge, vale a dire che ci fa vedere che effetti fisici hanno quegli scritti sulla sua persona. Naturalmente sono effetti diversissimi, dalla lettura sommessa a quella esorbitante: in Italia, per esempio, Stefano Raspini grida a perdifiato, Milo De Angelis sussurra; si vedono persone esagitate, altre persone composte, che quasi si sottraggono alla loro stessa voce, sottraggono voce alla poesia o, al contrario, la sfondano sovraccaricandola di voce: la mettono in scena, per quanto possibile, al di qua o al di là della voce, nel bisbiglio e nell’urlo. A volte sembra addirittura di assistere a forme di autolesionismo dei poeti nei confronti di se stessi, autolesionismo inflitto attraverso le loro parole: attraverso la sostanza fisica, vocale delle parole, ancor più che dal loro significato, parole che infliggono disagio, imbarazzo, o esaltazione maniacale nel poeta che ha permesso alle sue parole di riattraversarlo fisicamente, danneggiandolo. Il conferenziere e il leader politico

Un’altra figura piuttosto ovvia con cui confrontare il poeta che legge in scena è il conferenziere. Chi ha scritto la conferenza che tiene in mano il conferenziere? Si insinua il sospetto che sia opera di un ghostwriter, il braccio destro dell’uomo politico, l’assistente dell’amministratore delegato dell’azienda. Una fortunata idea novecentesca ha predicato che il poeta condivida con il conferenziere un rapporto apocrifo verso il testo: il poeta patisce il linguaggio che è il suo ghost-writer. La scrittura stessa è l’autore fantasma che ha scritto le parole del poeta. O, in una prospettiva più esistenziale, è semplicemente il se stesso passato, l’autore ormai trapassato, sorpassato dal tempo, che ha scritto quel testo un anno o un minuto prima… Il conferenziere esegue uno spartito verbale, si infiamma, poi con sapiente noncuranza porge una battuta di cui ha già collaudato l’effetto comico, cambia registri vocali come un consumato attore. Che cosa succede sulla scena del conferenziere, del leader politico che fa un discorso? Un testo scritto sulla carta crea imprevedibili effetti su una persona che lo legge. Molti poeti spesso lavorano “a togliere” quando leggono in pubblico, porgono una parola monocorde, depressa, che causa nella persona che la legge una improvvisa e inspiegabile serietà, un rispetto quasi luttuoso. Si legge con compunzione, con sommesso decoro. Qualcosa sembra essere morto, c’è un corpo sacro (il testo?, il poeta?, il pubblico?), da rispettare come un cadavere. Naturalmente si tratta di scelte estetiche, e, di fatto, stili registici che variano da poeta a poeta, ma penso di essere abbastanza obiettivo se dico che la tendenza maggioritaria delle letture di poesia della nostra epoca è quella seriosa, anaffettiva, che presenta innegabili analogie con il tono di un discorso funebre. Di chi si celebra la morte? Della scrittura? Del pubblico inerte? Del poeta stesso costretto dalla scrittura alla compunzione? La poesia è sadica, ci mette in riga, ci fa leggere rigidi e disumani, atoni e sussiegosi? Il leader politico vuole persuadere e regolare il pubblico sulla sua stessa temperatura emotiva. Mette in scena un climax, un aumento di eccitazione causata dalla lettura di un testo. Il suo scopo è far sì che gli ascoltatori condividano non soltanto il contenuto di ciò che dice, ma l’emozione che gli fa raggiungere ciò

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che sta dicendo, l’esaltazione provocata dal testo che sta pronunciando. Che movimento politico, che partito fonda la mozione degli affetti della poesia letta in pubblico? Il cantante rock e la creazione del noi

Per comprendere che cos’è un poeta che legge in scena, oltre alle figure dell’attore, della statua, dell’esibizionista e del conferenziere o leader politico, bisogna confrontarlo anche con la figura del cantante durante il concerto rock o pop. Il cantante rock o pop si avvale di un dispositivo, la canzone, che tende alla creazione di un coro. La forma strofa-ritornello, infatti, tende a insegnare una melodia anche a chi ascolta la canzone per la prima volta. Alla seconda o terza ricomparsa del ritornello, l’ascoltatore è già in grado di cantare insieme al cantante (non importa anche se non canta fisicamente, giacché è in grado di riconoscere mentalmente la melodia e le parole, collabora in spirito all’esecuzione dell’opera). È significativo, da questo punto di vista, che gli anglofoni chiamino il ritornello chorus: il ritornello crea un coro, vale a dire una comunità che pensa e parla e si esprime con tutta se stessa (la totalità, il “tutto se stesso” dell’espressione è simboleggiata e realizzata dalla musica, per cui un pensiero si esteriorizza non solo con una frase pronunciata ad alta voce, ma anche con il canto, occupando un maggiore coinvolgimento, un’attività espressiva più ampia del pensiero e della parola parlata; e questo accade in misura ancora maggiore quando al canto si aggiunge contemporaneamente il ballo, il movimento ritmico che asseconda la musica mentre si canta: in questo modo, cantando e ballando, si significa che ci si sta esprimendo con “tutti se stessi”): La comunità degli spettatori di un concerto si esprime con tutta se stessa all’unisono: l’estetica rock e pop, attraverso la forma-canzone, ha come scopo la creazione di un noi, una comunità concorde che canta in coro, che canta in chorus il ritornello. Il poeta che legge in scena è una singolarità assoluta che non intende creare nessun noi. Gli ascoltatori non lo stanno a sentire per condividere all’unisono le sue parole, per essere coinvolti con tutti se stessi, con tutto il pensiero, addirittura recitando assieme al poeta, cantando in coro le sue stesse parole, la melodia che insegna se stessa ritornando nel ritornello, ballando al ritmo cadenzato dalla sua metrica… Per quanto ne sa il poeta, il suo pubblico silenzioso potrebbe essere distratto, pensare ad altro mentre lui legge, non comprendere la sua lingua. Il coro del silenzio

Il coro degli spettatori esprime un silenzio. Il silenzio non è vuoto, ma è l’accompagnamento dell’ascolto. Accompagnamento in senso attivo, musicale. Quando uno strumento accompagna l’assolo di un altro strumento, predispone l’alveo armonico per la melodia, e con l’esecuzione di diversi accompagnamenti, contrappunto, discanto, stonatura, eccetera, è in grado di cambiare completamente il senso dell’assolo. Suonando l’accompagnamento, si manifesta come minimo un’attenzione verso l’assolo, lo si segue, sebbene a modo proprio, senza l’unisono del coro unanime. Gli ascoltatori suonano il tacet dello spartito, ma il loro mutismo è significativo, perché non è semplicemente il mutismo delle cose inerti, ma di esseri che potrebbero fare baccano, distrarsi, parlare per conto proprio, contrastare la parola del poeta con un’altra parola. Non è esatto dunque dire che il poeta non crei un noi: crea il coro del silenzio, il chorus dell’ascolto, il ritornello del tacet musicale, il noi di una comunità che esegue all’unisono il ritornello dell’ascolto silenzioso. O forse crea il voi del pubblico separato da lui. Se riteniamo che crei un noi, cioè che il silenzio del pubblico sia all’unisono con la parola del poeta, allora intendiamo che la sostanza della sua parola sia in realtà il silenzio, e che il pubblico stia cantando in coro la verità della parola che sta leggendo il poeta, il suo nucleo silenzioso, la consistenza taciturna della poesia. Se invece cogliamo l’aspetto contrastivo del silenzio degli ascoltatori, il loro costituirsi in voi opposto al poeta, ne sottolineiamo il carattere di separatezza, di ostile differenziazione: gli ascoltatori fanno un coro a parte, il coro dei taciturni, contro il poeta che parla da solo inerpicandosi per il suo sentiero di parole senza essere seguito da nessuno. “Mentre tu parli, noi stiamo dalla parte del silenzio. Ci mettiamo in scena di fronte a te stizzosamente zitti, enigmatici, come sfingi senza espressione, senza parole. Ecco la nostra parola, la nostra poesia, che leggiamo silenziosamente per te, e che tu riesci ad ascoltare soltanto leggendo, conficcato nella tua dimensione verbosa”. Tiziano Scarpa

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LA POESIA IN SCENA

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Compagnie, registi e attori

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Teatro delle Ariette

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TEATRO E POESIA Teatro e poesia sono entrati nella mia vita attraverso le persone, come elementi concreti e materiali, terrestri. I libri e la letteratura (altri elementi concreti e materiali, ma di natura aerea) sono arrivati dopo. Teatro e poesia sono sempre esistiti nella mia vita da che ne ho ricordo, quindi mi precedono, esistono prima di me e in un certo senso sono io che entro nel loro esistere come si entra in una dimensione parallela. Ricordo le filastrocche dell’infanzia, le favole in rima che mia mamma cantava e che parlavano di capretti, di lupi e di principi, di penne di uccelli grifoni e di fratelli assassini, di flauti parlanti e di streghe. Ricordo la messa, tutte le domeniche e nelle feste speciali, Natale, la settimana di Pasqua. La celebrazione del rito, i gesti e le parole, la musica e il canto e io chierichetto, con la tunica bianca sopra i vestiti che allungavo al prete l’acqua e il vino, mi inginocchiavo e suonavo campanelle. Preghiere lunghe, ritmate, cantilene, intonazioni e silenzi. La messa è il rito frontale, l’officiante si rivolge direttamente al partecipante, è lì soltanto per lui, non esiste una quarta parete, la stessa frontalità delle filastrocche infantili. Quello che comunemente si chiama teatro di prosa è per me teatro della chiacchiera, teatro borghese, ridicola imitazione della realtà. Tutto il teatro è teatro di poesia perché teatro e poesia sono intimamente connessi, forse sono addirittura la stessa cosa. Il teatro non è imitazione della realtà, ma realtà trasfigurata ed è soltanto in questa dimensione che noi possiamo credere alla verità dell’evento teatrale, così come la poesia non è imitazione del linguaggio, ma trasfigurazione dello stesso: svelamento della realtà in una dimensione parallela. È così difficile oggi usare certe parole senza essere fraintesi o parlare di certe cose senza essere considerati pesanti. Per questo voglio dire che alla base di tutto, del rito, del teatro e della poesia sta il gioco, la dimensione infantile della conoscenza attraverso il gioco e le sue regole. Gioco è il termine usato in tante lingue per indicare l’azione teatrale o la pratica musicale. So che leggendo “filastrocche infantili” si disegna un sorriso sulle labbra del lettore e la parola “messa” glielo fa cancellare, ma per me bambino il gioco della messa era un gioco golosissimo, divertente, misterioso e affascinante, di oggetti chiusi a chiave dietro porte dorate, di candele accese, di parole che a casa non sentivo mai pronunciare e che avevano spesso suoni e significati misteriosi. Credo che tutto il mio teatro sia nato lì, lì e nelle filastrocche in rima cantate di fianco al letto nei miei giorni di malattia e di febbre. Per questo non riesco a immaginare un teatro che non sia frontale, un teatro senza quarta parete, un teatro dello e per lo spettatore, un teatro di poesia, perché la prima poesia che ho conosciuto era voce, suono e perché la poesia é frontale, dal cuore del poeta al cuore dell’ascoltatore-lettore, senza mediazione, senza pudore. Al di là di queste considerazioni però, ricordo ancora molto bene come è approdata al nostro teatro la poesia che viene tecnicamente definita poesia, che è stampata sui libri e venduta nello scaffale poesia. Anche questa volta è arrivata come voce. Era la notte del capodanno tra il ‘99 e il 2000, a casa nostra alle Ariette. Avevamo organizzato una cena di sostegno all’autofinanziamento della costruzione del Deposito Attrezzi (l’edificio rurale per il teatro che abbiamo costruito in mezzo ai campi della nostra azienda agricola). C’erano diversi amici e tra questi Giancarlo Sissa che avevamo conosciuto alcuni anni prima all’osteria del Montesino a Bologna nelle serate di poesia e teatro. Al Montesino lo avevamo ascoltato leggere le sue poesie ed eravamo rimasti colpiti dalla frontalità del suo scrivere e del suo dire. Giancarlo in quel capodanno aveva portato un regalo per noi. Dopo la cena, i brindisi, i canti e i balli fuori sul ghiaccio intorno al vecchione che bruciava, siamo rientrati in casa attorno al tavolo. Giancarlo ha tirato fuori un libro e ne ha letto un pezzo per noi, questo era il suo regalo: la lettura, la dedica e il libro. Il libro era “Non c’è paradiso” di André Frenaud, il pezzo era “Contadini”. Ero commosso, ascoltavo la poesia e mi sentivo intimamente vicino alle parole che Giancarlo mi regalava. Quando nel luglio del 2000, a Volterra, abbiamo debuttato con “Teatro da mangiare?” quelle parole erano lì, lette da Maurizio seduto in un angolo come quando mia nonna diceva il rosario, mentre io e Paola tagliavamo e “smazzavamo” le tagliatelle. È questa la poesia che mi commuove, la poesia che è voce e corpo, è suono e senso. Poesia che non è letteratura, per un teatro che non è chiacchiera. Stefano Pasquini Teatro delle Ariette

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LA POESIA A TEATRO Conosco il Teatro delle Ariette da anni. I primi incontri, informali e amicali, con Stefano Pasquini, Paola Berselli e Maurizio Ferraresi risalgono al tempo in cui presso l’osteria del Montesino, a Bologna, si organizzavano letture di poesie e “performance” teatrali cui partecipavo attivamente con altri amici poeti. In particolare una sera, era forse il 1997, ci fu modo di “esibirci” assieme – o almeno nell’ambito dello stesso appuntamento -. Stefano Pasquini e Paola Berselli portarono fra i tavoli dell’osteria un loro spettacolo che prevedeva la trasposizione di alcune canzoni di Tom Waits – opportunamente tradotte da Stefano – in ambito bolognese e a raccontare una storia d’amore, di bar, di periferie padane anche fortemente caratterizzate. A seguire io e un altro poeta leggemmo le nostre poesie. Il nesso fra le due cose, benchè non concordato, emerse con una certa evidenza: il lavoro sulla parola (della canzone, della traduzione, del testo poetico), sul ritmo e sulla musica quindi ( della chitarra e del canto, della dizione in cerca d’una sua efficacia non artefatta, non spiccatamente attoriale), sui movimenti della voce in scena esposta, nuda in uno spazio tanto ristretto come quello di un’osteria in cui il pubblico premeva i fianchi di attori e poeti - , parlavano della comune intenzione di raccontare “in presenza”, di condividere mani e fiato. La cosa che mi colpì, fra le altre, con particolare evidenza fu l’estrema perizia tecnica delle versioni dall’americano all’italiano e, addirittura – in certi passaggi – al dialetto bolognese, il dialogo insomma tutt’altro che artificioso e anzi piuttosto “esperienziale” fra lingue, slang, intonazioni. L’effetto, voluto, era fra il drammatico e il comico con accenti di sincera commozione e discreta ilarità dalla parte del pubblico. L’alternarsi delle emozioni corrispondeva in modo ritmicamente esatto alla voce che raccontava, cantava, leggeva e su questo si innestavano i gesti della presenza scenica. Complice qualche bicchiere di vino iniziammo a parlarci, a dirci. Interessante sembrava il confrontare punti di vista diversi ma adiacenti, la parola per certi versi più statica della poesia e il gesto della voce teatrale, l’uno curioso dell’altro, l’uno testimone dell’altro.

Qualche tempo dopo il Teatro delle Ariette prese parte, assieme ad altre persone interessate, a un laboratorio sperimentale di scrittura autobiografica che – con un pedagogista e un altro poeta – avevamo organizzato sempre in osteria. Quattro o cinque incontri – non ricordo esattamente – durante i quali tentare un altro tipo di dialogo, quello eventualmente possibile fra parti di sé più o meno sparse nel tempo e quell’io tessitore (per usare le parole del pensiero autobiografico) che può decidere di ricucirne – svelandola – la trama. Fu questa l’occasione per verificare una volta di più l’altissima qualità della scrittura di Stefano, Paola e Maurizio (alcuni dei testi da loro “prodotti” in quell’ambito confluirono poi, fra l’altro, in uno spettacolo importante e fondante come “Teatro da mangiare?”). Dico questo senza alcuna personale presunzione – chi può giudicare nella sostanza una materia tanto compromessa (dalla vita stessa) e delicata come la scrittura autobiografica? – e senza preoccupazioni di carattere critico o letterario. La qualità della scrittura – individuale, certo, ma per qualche inspiegabile motivo anche collettiva – dei componenti il Teatro delle Ariette, si trattasse di versi, di frammenti, di prose, di lettere o racconti, si trovava ad essere puntualmente – e come per magia – arricchita d’un ritmo diverso, d’una densità particolare. In quei testi si percepiva il calore dei corpi che li avevano scritti, la parola scritta era impastata del fiato e della voce, la voce veniva dal corpo certo, e restituiva il corpo della voce, ma ancora una volta senza artificio, quasi senza sforzo e, col senno di poi lo posso dire, in virtù d’una tanto inconsueta quanto mirabile coincidenza fra l’essere e il rappresentarsi, senza finzione. Avveniva, in sostanza (cioè nella realtà immediata dei fatti) ciò che ogni artista – sia attore, pittore, scrittore e via dicendo – spera – o dovrebbe sperare – gli capiti prima o poi nel suo percorso, vale a dire il verificarsi dell’assoluta coincidenza fra ciò che è (compresi delirio, sogno, follia) e ciò che fa (o restituisce al mondo). La tecnica – attoriale, di scrittura o altro – passa qui in secondo piano, anzi scompare, in quanto viene assorbita dalla forza e dall’autenticità del gesto umano, vitale, artistico.

Anche ragionando di questo Stefano Pasquini e Paola Berselli mi proposero di seguire nel tempo, accompagnandoli in tournée, due spettacoli (ma parlare di “spettacoli” quando si tratta del Teatro delle Ariette appare davvero riduttivo!) in particolare: il già citato “Teatro da mangiare?” e “L’estate.fine”, due vertici della loro progettualità artistica e teatrale e, per certi versi, i due estremi di un percorso umano radicale, tanto nelle sue scelte esistenziali quanto nei suoi esiti. A Volterra prima e a Sant’Arcangelo poi – in momenti anche distanti temporalmente – il mio compito fu quello di osservare e scrivere (descrivere?) quanto accadeva, dal mio punto di vista di spettatore e poeta, durante lo svolgimento di quello che vorrei definire il rito. Gli esiti di quest’opera d’osservazione sono raccolti e testimoniati in due specifiche pubblicazioni a cura del Teatro delle Ariette e parlarne ora richiederebbe troppo spazio. Quello che importa dire qui invece è che questo esperimento ha indotto, strada facendo, Stefano Pasquini a decidere di inglobare nell’ambito del lavoro più espressamente teatrale la figura, in certo senso ibrida, d’un attore-poeta che prende parte all’azione, che condivide ogni momento del rito, che come gli altri protagonisti del Teatro delle Ariette dà carne allo spirito dell’evento teatrale.

Per oltre un anno abbiamo lavorato all’idea di “Bestie”, raccogliendo materiali, testi poetici, testi e frammenti di prosa, brani musicali, immagini, vedendo film, confrontando conoscenze, proponendo e

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sviscerando impressioni, turbamenti, perplessità. Durante incontri almeno settimanali abbiamo letto visionato e studiato tutto quanto ci sembrava attinente. Abbiamo passato serate intere a leggerci e rileggerci reciprocamente – nel ritmo incessante e duro del lavoro e dell’amicizia – pagine e pagine di autori centrali per la storia del pensiero, della letteratura e del teatro, ma anche pagine nostre o, ancora, depliant informativi (ad esempio su come vengono trattati gli animali negli allevamenti industriali o nei macelli) e testi riconosciuti come sacri da religioni diverse e anche molto distanti fra loro. Quello che accadeva ogni volta – durante questo severo e attento lavoro di documentazione, riflessione e scelta – era che la poesia, nella lettura reciproca e condivisa, attraversava i corpi, le febbri, le emozioni, la sensibilità e le perplessità di ognuno di noi, accendendosi negli entusiasmi, arrochendosi nelle inevitabili stanchezze, suonando improvvisa o depositandosi nelle voci che la tentavano, nelle mani che la contavano e sfogliavano sul tavolo, negli sguardi che si riflettevano fra vetri d’occhiali e bottiglie.

E ancora dopo, durante settimane di prove in teatro, la poesia ha dichiarato in noi le sue istanze, i suoi sussulti, le sue abissali ingenuità, le sue luminose incertezze, le sue ipotesi oscillanti in riva al finimondo, il suo respiro di diluvio, consolandoci talvolta, più spesso ferendoci col morso della volpe. Strada facendo molto è stato accantonato o tralasciato, molto è stato scelto e preferito, qualcosa è stato feticisticamente conservato intatto, altro è stato stravolto, assorbito, metabolizzato. Poesia, testo, musica, danza, gesto, ginnastica, pronuncia si sono abbracciate e slacciate reciprocamente più volte, contratte e distese ritmicamente, spremute, smussate o enfatizzate reciprocamente. Ogni cosa però ha lasciato traccia, nell’abisso d’una danza silenziosa l’eco del brano musicale abbandonato ha fatto brillare la sua assenza (e m’è capitato di sentire, finito lo spettacolo, un ignaro spettatore canticchiare fra sé e sé, inspiegabilmente, magicamente, proprio la canzone sacrificata alla nostalgia dell’attimo!), la parola scomparsa continua a risuonare da qualche parte, il gesto attenuato porta con sé la sua carica di violenza prediluviana. Il percorso è testimone di sé stesso e della propria storia, l’aria è gravida di presenze. Nel teatro la poesia diventa compiutamente ciò che si tende troppo spesso a non considerare, vale a dire un comportamento, a più livelli: non è solo il testo cui affidare la sorte della dimensione emozionale del pensiero o il tentativo della lotta, non è solo il gesto della voce che si tenta nelle dinamiche della storia o la testimonianza e l’esercizio di stile, non è più la scelta defilata e solitaria o esibita e ridondante, non è più solo l’oasi e l’esilio o l’infanzia della specie, non è più il materiale antologicamente canonizzato. La vita si apre alla possibilità della trasformazione, reagisce al depotenziamento museale del linguaggio, reagisce al processo di cretinizzazione in atto da decenni in Occidente, la poesia può finalmente seminarsi nella lingua plausibile del teatro perché il teatro propone con evidenza l’esposizione dello spirito dialogico e plurale della poesia, perché i versi non sono sentimento ma esperienza e nel teatro la poesia esce di casa, riprende a respirare senza affanno, a vivere e si lascia tirare i capelli nel gioco e quando è stanca si chiude o si addormenta come i fiori. La poesia è lo sguardo reciproco fra l’uomo e il mistero immemoriale che lo abita e agisce, in “Bestie”, ad esempio, trema e vibra nei nervi degli animali in scena … il cartellino POETA sul tavolo dell’attore ride in faccia a chi lo legge, sottolinea una differenza altrimenti non percepibile, preoccupa, suscita sorrisi, è il malinteso primo, attribuisce un significato che distrae. La poesia nel teatro è il pane che si può condividere nel comportamento che detta il riconoscersi, è l’esperienza quotidiana del sacro, il teatro sembra saperlo più della vita.

Nell’evoluzione di “Bestie” (“È finito il tempo delle lacrime”) c’è l’idea d’un accampamento nomade, un’intenzione di circo filosofico, davanti alla roulotte “Confessati con il poeta” la gente fa la fila per entrare – qualcuno mi chiede se sono un cartomante, rispondo se è da un cartomante che in genere ci si confessa -, contro ogni previsione, contro ogni logica, si aspettano grandi cose, rivelazioni, risposte – è questo che accade quando ci si confessa? -, il tempo della clessidra è silenzioso, qualche volta la pioggia batte sulla lamiera del tetto. Spesso mi abbracciano prima d’uscire – cos’hanno trovato? -. Fuori ci sono tigelle e salame, inizia lo zapateado del Flamenco, il vino bianco riflesso nello sguardo della volpe, del teatro, della poesia. Giancarlo Sissa

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Teatro Valdoca

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QUANDO IL LABBRO MI SANGUINAVA DI LINGUAGGIO Il teatro di poesia è assai raro. Secondo me è la miglior cosa che, come spettatore e come attore, possa capitare a teatro. C’è anche un teatro di poesia per immagini, che non usa la parola, ma qui vorrei scantonare tutta dalla parte delle parole perché su questo fronte si sta perdendo pericolosamente terreno, mentre ritengo che la parola sulla scena sia sovrana. E questa parola, in teatro, oggi, può essere solo verticale, vertiginosa, necessaria. Poesia, insomma. (su questo si veda il testo che segue) Il teatro, come tutto l’arte del resto, sta venendo meno al suo potere esortativo, rivelatore, incendiario: educativo, nel senso di ‘condurre fuori dall’ordinario’, fuori anche dall’ordinarietà della lingua corrente. Non è più un capogiro di forze, e dunque apertura all’inatteso, ma l’esatto contrario: la realizzazione di un progetto, (che quanto più è fedele alle premesse tanto più rassicura committenti e finanziatori ecc.).

Il teatro di poesia non è solo un teatro che usa la parola poetica; diciamo che questo è condizione necessaria ma non sufficiente, e anzi tanto teatro in versi è davvero pedante, greve, didascalico, molto barboso, insomma lontano dalla forza e vitalità della poesia. Molti versi memorabili cadono a volte sulle tavole del palcoscenico privi di vera vita, letterari, fiacchi, scritti. Il teatro di poesia ha lo stesso compito della poesia: “distruggere la letteratura ed espandere lo spirito”. In questo compito, per la mia esperienza, nulla è più dinamitardo e fecondo del teatro e della poesia messi insieme e dunque del verso pronunciato in scena. Ma, come dicevo, accade raramente che la cosa funzioni, forse perché sono molto particolari le condizioni che portano all’accensione della miccia. Ne segnalo solo alcune, (quelle che più si rifanno alla mia esperienza): un regista e un poeta che coincidano nella stessa figura o che siano stretti da un sodalizio simpatetico; un regista che formi i propri attori e li guidi alla scoperta delle loro energie profonde (prima che la tecnica, da sola, faccia un’incrosto imperforabile); un poeta disposto a rischiare la faccia in una scrittura al presente, disposto cioè ad entrare nel capogiro delle forze della scena. Cioè un poeta che partecipi all’intero percorso, dalle prove al debutto, e che serva dal vivo la scena. Io credo sia molto difficile dire ‘che cosa è’ il teatro di poesia, perché non stiamo parlando di un genere quanto piuttosto di ‘forze’, di captazione di forze, di rito, forse, e comunque di qualcosa che scavalca la razionalità e investe lo spettatore in tutto il suo essere presente: corpo, mente, intuito, spirito, ecc. (l’eccetera in questo caso non è trascurabile, perché intende tutto il resto di cui non sappiamo). Il risultato non è dunque intrattenimento o insegnamento o narrazione o altro. Il risultato non è qualcosa che si porta a casa ma piuttosto qualcosa che si lascia lì, che si depone, di cui ci si libera. È forse qualcosa che succede fra spettatori e attori, e a ciascuno con se stesso: un’avventura della conoscenza, qualcosa insomma che si svela, o che si rivela, e rivelandosi spalanca e rifà contatto fra la nostra visione dell’umano e del sovra umano, del temporale e dell’intemporale. Vorrei dire, come spettatrice, che quando nel teatro di poesia il rito è compiuto esattamente (cioè quando il teatro diventa di poesia), ognuno sente di farne parte, quasi di fare cuore comune, per un tempo assai breve ma decisivo, un tempo quasi sottratto al tempo. Se il rito era cerimonia che caricava i simboli, il rito del teatro di poesia carica le parole e dunque anche il silenzio in cui esse precipitano. Perché quando si dà teatro di poesia io credo che la parola torni a precipitare verticalmente, proprio come quando è stata scritta dal poeta. La parola precipita e riguadagna la sua fragranza di nascita, quella capacità di avvenire sempre ora.

(Mi rendo conto che ciò che tento di descrivere non è altro che lo shock estetico che si prova davanti all’opera d’arte, di qualunque arte si tratti. Ma il teatro ha in più quell’essere insieme fra vivi e questo forse lo ritualizza di più).

Accanto alla figura del poeta/drammaturgo, sta quella del regista, cioè colui che, usando la parola e tutti gli altri elementi (corpi degli attori, luci, scene, suono, ecc.) darà vita a quella che è stata definita come ‘scrittura scenica’. Il regista, nel caso del teatro di poesia, ha un ruolo centrale: innanzi tutto crea una sorta di recinto magnetico per la parola. È il regista a far sì che anche il tempo di prova sia tempo di quella accoglienza propria dell’arte nel suo farsi, cioè un tempo di rivelazione, se posso usare questo termine, e non la messa in opera di un progetto. Credo che la qualità del tempo di prova sia in sostanza ciò che fa la differenza. È sempre il regista che guida ed esorta il poeta, che sceglie gli attori e li educa o rieduca alle forze della scena, e che poi vigila sulla vivezza del testo. Come un rabdomante insomma, il regista guida tutte le figure che entrano a far parte dell’allestimento e ne fa in qualche modo corpo compatto, comunità. Io ho avuto la fortuna di lavorare con Cesare Ronconi che è il regista che prediligo e che mi ha chiamata alla parola, che mi ha esortata a scrivere per la scena e che lo ha sempre reso possibile.

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I miei testi sono nati quasi tutti dentro le prove di Ronconi con i suoi attori e non so immaginare una scrittura a tavolino, al di fuori di quel capogiro di forze. Penso che davanti alle sue opere sia molto appropriato parlare di teatro di poesia. Altri nomi che con certezza mi sento di fare sono quelli di Carmelo Bene, Danio Manfredini, Enzo Moscato. Ma anche l’Alessandro Berti di Scancrer. Non ho mai visto spettacoli di Novarina, ma il suo pensiero sul teatro mi fa aggiungere qui il suo nome. Alcune riflessioni sulla lingua poetica come unica lingua all’altezza del teatro.

Non possiamo quasi più usare certe parole, le più necessarie, direi, quelle che riguardano l’area semantica che più ci rende umani, le parole dell’amore, del dolore, ad esempio, della pietà o del sacro. È difficile anche pensare a tutto ciò, perché la ridicolezza a cui sono arrivate oggi certe parole, ci impedisce di accoglierle nelle nostre teste, di ragionare semplicemente con quelle. Siamo costretti ad un intellettualismo esagerato, per evitare la banalità e per nascondere il terrore di dire il già detto.

Il nemico, quello che altre volte ho chiamato la Signoria Attuale, e che ha ora innumerevoli e sfuggenti facce, il nemico, insomma, si è impossessato delle nostre parole, le ha ridicolizzate, le ha usate e le usa per vendere merci, per mentire, per accattare voti e potere, per fare la guerra, per impoverire, per ingannare.

A me la bellezza degli uomini è arrivata soprattutto attraverso delle parole. Quasi ogni giorno sono stata cresciuta, guidata, incoraggiata, sono stata abbellita da delle parole. Dalle parole di alcuni, che poi ho riconosciuto come maestri, a volte miei compagni, a volte più vecchi di me, spesso vissuti in altri secoli, ma tutti con la straordinaria proprietà di essere sempre miei coetanei, “coetanei che mi hanno preceduta”. La mia qualità sottile, se così posso chiamarla, si è raffinata e vitalizzata nell’ascolto delle parole dei maestri. E potrei allargare il discorso a tutta la letteratura sacra del mondo, cioè alle presunte parole degli Dei.

Insomma, io credo che la battaglia che tocca a questo tempo e a questo pezzo di mondo, a chi vuole avere cura della bellezza, sia da fare sul fronte della lingua, e intendo proprio la lingua parlata e scritta, cioè le parole. E chi non crede alla forza delle parole dovrebbe forse smettere di leggere e scrivere e forse anche di parlare.

Quella del teatro è sempre stata un’arte dotata di parola, cioè un’arte che ha la possibilità di tenere la parola al proprio centro. Il teatro è sempre stato un luogo di consegna di parole, incastonate dentro tutta la scrittura scenica, certo, e capaci, con quella, di arrivare al capogiro, di condurre nei pressi di una rivelazione.

Io credo sia di una necessità estrema spericolarsi in questa rifondazione della lingua anche attraverso il teatro, rischiare l’osso del collo, cioè la propria cara reputazione, in questo tentativo di consegna di parole salutari, che diano una salute immediata, una immediata aggiunta di più vita. E non potrà essere, quella del teatro, una lingua prosaica. Penso che la poesia sia l’unica lingua all’altezza del teatro. Non il poetico. Non la poesia piegata e limata per la narrazione (che spesso è stata la solfa più lontana dalla vivezza del teatro). Non il verso cólto e intimidatorio e irraggiungibile (altra solfa). Intendo proprio la precipitazione poetica nella sua dettatura urgente, libera dal servire un progetto con trame e personaggi, e influenzata e impastata da e con tutti gli altri elementi della scrittura scenica. Penso che la poesia sia l’unica lingua all’altezza del teatro per vari motivi: 1/ se il nemico si è impossessato delle nostre parole, lo ha fatto nei modi della lingua parlata e della prosa. Bisognerà allora saltare di lato e riprendere la parola condensata e verticale della poesia che è ancora terra senza menzogna.

2/ nella scrittura poetica l’io è in qualche modo abolito. La sua condizione di lingua ispirata ci fa supporre che lo spirito, il soffio, arrivi attraverso di lei al linguaggio. Perché ciò avvenga occorre dunque una dimissione, dentro la lingua, dell’io che la scrive. Questa abolizione dell’io, o questa strana condizione di un io che c’è ma deve sottrarsi, la rende in perfetta sintonia col teatro, o forse col mio modo di pensare il teatro. Mi sembra che l’attore abbia lo stesso problema di chi scrive, mi sembra che si dia grande teatro lì dove l’attore riesce a dimettersi da “io”. E anche il regista. Ed anche lo spettatore, il quale riuscirà a commuoversi o ad avvertire i sintomi di una rivelazione che lo riguarda, solo se saprà andare al di sotto di “io”, lì dove qualcosa è ancora indistinto e somigliante a tutto, lì dove il nome di chiunque è identico al mio, “prima di essere chiamato ”. 3/ la parola poetica è dotata di ” risonanza ”, cioè rimanda ad altra grandezza, chiama in causa ciò che

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non si consuma, ciò che non appartiene solo allo spazio e al tempo. La poesia è, come dice Petrarca, sempre sacra scrittura. La rivelazione è in qualche modo sua provenienza e sua meta, e dunque il teatro e il rito del teatro sembrano essere il perfetto luogo in cui ciò può accadere.

4/ la parola poetica non parla solo alla ragione, ma nel suo essere melodia e ritmo e pausa e cortocircuito, parla a qualcosa che non è solo l’intelligenza, che sta fuori dal pensare, tocca parti molli profonde e incrosti duri, parla ai viscere, agli intestini, al cuore. Questo avviene soprattutto nell’oralità, cioè quando la parola poetica viene pronunciata, incarnata, battuta ritmicamente da una voce, respirata da un corpo presente e vivo. Anche il teatro si rivolge a queste parti non ragionanti, anch’esso nella sua forma migliore tocca in profondità, non si rivolge solo alla nostra comprensione razionale.

Se credo che le parole, ora, ci siano più che mai necessarie, credo anche si debba dire basta con i classici, basta con i maestri. Smettiamo di stare aggrappati a loro come orfani a padri presunti. I maestri debbono essere dentro di noi digeriti, trasformati in poltiglia e in nuova energia. Se la loro lezione non fa nascere la nostra, resteremo per sempre allievi, e ai nostri allievi non consegneremo altro che parole di morti. Ora tocca a noi. Il presente ci sta riducendo al silenzio. Per questo citiamo e citiamo, per questo rifacciamo i classici come se quello fosse il teatro vero. Si è come inceppato il meccanismo pensante: pare non ci siano più menti in grado di leggere il presente e dare ad esso espressione. La forza di questa fortezza dinamitarda che è il teatro, una delle sue dinamiche profonde, sta anche nella capacità di fare da specchio al fondo magmatico di chi lo guarda ora: ciò sarà fatto meglio con la lingua di ora. I classici e la loro lezione meravigliosa, servono come indicatori d’altezza: la meta a cui tendere è quella, quella passione, quella sapienza, è quella qualità, quella libertà, quella maestria. Servono a farci coraggio, a dirci che è possibile ora, anche per noi, è possibile avere quella loro intensità, quella loro chiaroveggenza. È possibile vivere il presente con l’intensità con cui loro hanno vissuto il loro. Noi dobbiamo diventare loro, essere loro. È anche per devozione ai miei maestri, per onorarli, che ho tentato e tento di pronunciare, di balbettare una mia parola. Di scriverla sulla scena. Ho desiderato moltissimo dire anch’io, al mio tempo, a quelli vivi con me ora, dire parole così vitalizzanti e dunque mi sono messa ad attenderle, quelle parole. Ho avuto il desiderio e l’ambizione di essere io, anche io a pronunciarle. Ma non era solo desiderio ed ambizione, era ed è anche quella che posso chiamare la mia legge, il mio essere fatta così, cioè la mia tensione tipica, somatica, a voler essere anch’io parte della bellezza del mondo. Tutto ciò è per fortuna accaduto dentro il teatro, cioè insieme ad altri compagni molto amati e molto stimati, primo fra tutti il mio regista che di certo ha avuto un ruolo maieutico nella nascita della mia scrittura. Tutto ciò è nato all’interno di una tribù che ha amato in anticipo le mie parole e le ha attese con una certezza dettata forse dalla necessità e urgenza. Tutto quello che ho scritto per Cesare e per le attrici e attori della Valdoca, non sarebbe forse mai nato senza questa nicchia o culla, senza questo lembo di terra feconda al riparo dalle tempeste furibonde del presente.

Ma appena si comincia a scrivere si è dentro la scrittura, sullo stesso piano di tutti gli altri che nei millenni lo hanno fatto. Quando si comincia a scrivere si sa, si sente, che ‘la carta è stanca’ e che non si può ripetere in peggio ciò che è già stato detto da altri meravigliosamente. Ma non si può neppure continuare a tacere. Fra questi due “ non ” sta anche l’accettazione a priori di un fallimento quasi certo. In questo si rinnova lo spirito tragico di chi si batteva contro un nemico sicuramente più forte. Mariangela Gualtieri Teatro Valdoca

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POSSIBILITÀ È UNA PAROLA PLURALE RIFLESSIONI SUL TEATRO DI POESIA INTORNO AL LAVORO DEL TEATRO VALDOCA. La poesia, o meglio: molta della poesia scritta da Mariangela Gualtieri è inscindibile, come l’autrice stessa ha fatto notare, dal suo legame con il teatro, inteso come l’appropriato contesto e modo in cui quella poesia possa essere pronunciata. Non che con questo si pensi che quella stessa poesia, letta unicamente “sulla carta” non regga, non sia autonoma, tutt’altro; è possibile leggere e amare certi poemetti senza aver partecipato della loro “messa in scena” (termine forse inadeguato per questo genere di opere). In che senso allora questa unità? Questa unità la si può capire solo dopo aver preso parte a uno spettacolo della Valdoca. Non si tratta solamente del fatto che certi testi siano stati scritti appositamente per certi attori (e dunque voci, corpi, storie particolari e uniche), come ad esempio il “Monologo del non so” all’interno di Parsifal, incarnato da Danio Manfredini. Non si tratta solo di un’origine comune, dettata dalla presenza di certi esseri umani invece che di altri. Certo, questo è influente, e probabilmente non avremmo mai avuto “Chioma” per come la conosciamo, se non ci fosse stata l’occasione terrestre dell’incontro tra Gabriella Rusticali, Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri. Il legame però è molto più profondo, e credo che possa essere percepibile e riscontrabile più fortemente in ciò che crea, che realizza, che permette, nel momento in cui ha inizio lo spettacolo e le persone sono sedute in sala. Tutto si gonfia di un silenzio profondissimo, denso, intenso, e si spalanca lo spazio alla meraviglia; una meraviglia che non riguarda solamente la testa, la comprensione di ciò che accade, la vicinanza o meno ai versi che vengono pronunciati. Stiamo – tutti: attori, regista, drammaturga, pubblico – dentro un unico evento, sulla soglia di una grande possibilità. La visionarietà e la poetica del teatro Valdoca portano sì i segni chiari della scrittura della Gualtieri, ma sono tutte profondamente pervase di un mistero, di un’evocazione che è data anche e in medesima parte dalle azioni, dal sudore dei corpi, dalle voci, dalla visione complessiva di ciò che accade. È per questo che non è solo il fatto che il teatro sia stato per la Gualtieri l’occasione per comporre la maggior parte dei suoi lavori, ma è proprio la riuscita corale della sua scrittura a essere testimone e testimonianza della potenza che certi versi possono avere. Penso sia stato il lento emergere di questa consapevolezza, di questa presa di coscienza (che è venuta in me a galla da sola e senza alcuna volizione o analisi particolare) a pormi tra quelli che ritengono che il teatro di poesia sia una delle più profonde e anche salubri voci della contemporaneità. Sebbene in Italia siano pochissimi a praticare questo genere di arte, tanto che occorrerebbe forse un pensiero e uno spazio appositi per comprenderlo meglio. Man mano che mi appassionavo al teatro, che scoprivo autori e spettacoli, che conoscevo spazi e linguaggi, si faceva sempre più forte in me un orientamento quasi naturale, che mi portava e mi porta a cercare i lavori che più mi riguardano. Mi riguardano naturalmente in termini di sensibilità, di vicinanza, di scambio umano… non sono certo la prima o la sola a sostenere che sono le opere d’arte che si mettono in cammino verso di noi e non il contrario. E in questi anni me ne sono venute incontro molte, alcune delle quali mi hanno appunto mostrato come le più grandi sommosse e rivoluzioni venissero proprio da questo connubio tra uno spazio, dei corpi e la parola poetica. Non si tratta di performances, di reading o di esperimenti in cui la poesia si incastra come sottotesto o in cui altre arti entrano come appoggi (la musica, la videoarte, l’installazione, la danza ecc). Sto parlando dell’equilibrio perfetto e delicatissimo in cui il corpo e la voce raccolti in uno spazio danno ancora e di nuovo spazio a una parola ulteriormente spalancante, in un vortice profondissimo e quasi destabilizzante. Nessuna storia davvero raccontata, nessuna logica apparente, eppure il senso di un destino che si compie, la misteriosa comunione di un gruppo di persone, che lascia supporre o presagire la o le possibilità di una diversa modalità di vita, in cui la natura e la società non sono due cose diverse o oggettive (differenziazione che ha portato la nostra civiltà al disastro attuale), ma una sorgente comune in cui gioia e dolore e ogni altro accadimento si manifestano senza forzature. Questo è possibile, nel teatro di poesia, nel momento in cui non solo vi sia un poeta ad occuparsi della drammaturgia, ma quando la coesione e la poesia si manifestano in ogni aspetto della creazione: dunque anche al regista e agli attori sono richiesti un ascolto assoluto e una capacità di accogliere quella poesia di parola, ritraducendola in una poesia del gesto e anche persino dello sguardo (che diventa qui un effettivo e pieno sentire, contraddicendo McLuhan). Ovviamente è difficile trovare spettacoli in grado di reggere la fatica del peso di tale equilibrio, in cui il primo equilibrio necessario pare essere quello tra gli esseri umani che vanno a fare parte di un progetto, e che lo compongono con la loro personale visione del mondo, col loro modo di stare al mondo e di concepire l’arte. Forse è per questa ragione che non è facile trovare spettacoli orientati in questa direzione che non siano forzati, volenterosi, pedanti. Credo però che sia una ricerca che valga la pena di essere tentata, innanzi tutto per permettere questo lavoro corale (che è qualcosa che, quando avviene, può portare solo del bene), ma anche per poter porgere a un pubblico ormai sempre più esiguo e violentato e anestetizzato da intrattenimenti di ogni tipo, una riflessione, un ripensamento profondo. Questo compito, da sempre assegnato a filosofi e poeti, potrebbe trovare nuove vie, in qualcosa che oltre ad essere pensiero e parola sia anche prassi, pratica, fino a divenire (ritornare) rito. È più difficile scriverne, così, a freddo, cercando di spiegare, di raccontare cosa accade, che prenderne parte e vivere questo tipo di esperienza. Penso ad esempio all’ultimo lavoro della Valdoca, la trilogia di cui ho già avuto

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occasione di parlare (www.daemonmagazine.it), a quanto il pubblico ne sia rimasto colpito e in quante poche occasioni abbia avuto modo di assistervi. Certamente il discorso sul mondo teatrale in generale, che è fatto di tante cose come ogni industria, va distinto da una riflessione puramente poetica sul lavoro di certi gruppi (sto riflettendo qui in particolare sulla Valdoca, perché è l’esempio più continuativo nel tempo di questo tipo di ricerca); eppure non si può non considerare anche l’aspetto di possibilità di esistenza di certe realtà. Esattamente come accade per i poeti, alla mercè dell’intricato mondo editoriale, anche gli artisti teatrali sono legati alle dinamiche complesse della promozione, del marketing, della vendita… e in modo ancora più forte, poiché l’allestimento di uno spettacolo è sicuramente più impegnativo, in termini di costi materiali e persone coinvolte, che la creazione di un libro. Ed è per questo che è così difficile seguire il proprio percorso di ricerca, riuscendo a sopravvivere senza ammiccare a ciò che pare essere richiesto da un mercato poco coraggioso. Lo spiraglio di speranza è che il mercato non coincide col pubblico, che anzi spesso riesce a stupire nella sua capacità di accogliere e comprendere i lavori più onesti e densi (ma anche più legati all’osare). Mi auguro che questo possa essere un auspicio e un invito: che si continui a pensare, a tentare la parola più autentica, che si continui a lavorare cercando nuove possibilità di assemblea, senza che questo sia rimesso a una forma di resistenza e sacrificio strettamente personali. Azzurra D’Agostino

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Lenz Rifrazioni

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IL TEATRO È POESIA – O NON È Perché il bello è niente.

Dalla Prima, dalla Quarta, dall’Ottava. Parti di queste elegie duinesi formano il canto unico di questa messa in scena della parola estatica. L’angelo tremendo poiché estraneo alla natura umana - così distante dall’angelo cristiano – della prima elegia segna la diversità della condizione umana. È coscienza totale, non partecipa allo spegnersi della vita, non muore. È energia pura, moto perpetuo, la sua metamorfosi dal visibile al non visibile è già compiuta. La condizione dell’attore può lambire quella dell’Angelo. Il pensiero della Quarta è l’impossibilità di darci per intero all’Altro – o cosa o persona – nell’assoluto conoscere, amare, fare. La coscienza nemica ce lo impedisce e restiamo come spettatori di fronte allo spettacolo del nostro cuore. Spettacolo triste, falso, vigliacco. Il poeta preferisce, allora, la Marionetta che, rimasta sola, attende l’Angelo che ne muoverà i fili. Il Marionetten-Theater di Kleist ancora abita in noi, come il Prinz von Homburg, come il Guiskard, come la Kätchen von Heilbronn, come la Marquise von O …, così come aveva abitato in Rilke: “In Kleist divampa un cuore infinito, splendente e allo stesso tempo quasi soffocato dalla tempesta della sua vita”. La condizione dell’attore – via dalla coscienza – può sedere a lato dell’inanimato. Le bestie – dell’ottava - sono, rispetto alla coscienza umana, all’altro lato del luogo angelico. Non sanno della morte, non percepiscono alcun confine, di fronte hanno solo Dio e vanno in eterno come scorrono i fiumi. La condizione dell’attore – via dalla percezione del futuro – può avvicinarci a quella del bambino per il quale l’accadere è puro e a quella della nobile bestia che nessun segno può delimitare. FALSO MOVIMENTO.

È dall’inizio che abbiamo praticato quell’atto dell’avanzare nell’ostinazione visionaria di cui parla Luciana Rogozinki a proposito de “Coplas a lo divino” di Juan de la Cruz. Quel balbettante salire verso l’alto – “… Venisse,/ venisse un uomo, /venisse un uomo al mondo, oggi, con /la barba di luce dei patriarchi: dovrebbe, /se di questo tempo /parlasse, do-/vrebbe /solo balbettare e balbettare, /continua-, continua/mentete. . . nur lallen und lallen, /immer-, immer-/zuzu.” (già ci era al fianco Celan al tempo della “Morte di Empedocle” nel 1990) – verso quell’aspra conquista che solo “en escuro” può raggiungere, nella furia della conoscenza, la preda. Del suo intervento ho apprezzato in particolare l’enunciazione dell’attesa – etica ed estetica – della prossima arte nuova: il suo primo desiderio: Fioritura in nome di Nessuno e, il secondo desiderio: Attitudine (o avvento?) del fulmine Nero. Immediatamente mi è apparsa l’immagine di due orizzonti da cui salivano due albe, l’alba di Nessuno – “… Un Niente /eravamo, siamo, /restiamo, in fiore: /la rosa del Niente, di /Nessuno.” – e l’alba del fulmine Nero, l’esperienza pratica della luce che viene dal buio, dal di dentro, sí come uno iato che divide i contrari ma anche come la cesura che sta tra la vita e la morte. DALL’ HYPERION DI HÖLDERLIN (trad.F.Pititto) Se anche mi trasformassi in pianta, sarebbe il danno così grande? Io sarò. Sarò; non indago su cosa diventerò. Essere, vivere è sufficiente. È l’onore degli dèi. Le nature vivono l’una con l’altra, come amanti. Le stelle hanno scelto la durata, non conoscono vecchiaia.

Alza gli occhi verso il mondo! Ma ora devo tacere. Potessi io vederti nella tua futura bellezza! Difenderci dalla mosche sarà la nostra futura occupazione. Rosicchiare le cose del mondo, come bambini. Invecchiare tra i vecchi è la cosa peggiore. Partono dal cuore e tornano al cuore, le vene.

Forse l’esperienza primaria della paura dovrebbe ritornare all’uomo, all’attore parafulmine, all’eroe mancante nell’epoca dei superuomini virtuali. L’uomo dovrebbe ritornare ad essere uguale a zero e, come scrive Hölderlin, nell’infinita debolezza trovare la sua massima potenza. Se è nella decomposizione/trasformazione/trasfigurazione che l’opera d’arte percorre un vero cammino di luce e conoscenza, chi meglio dell’uomo, e quindi della forma artistica che non può prescindere dalla sua

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presenza – il teatro -, può riaffermare il primato dell’essere sull’apparire? Certo non tutto il teatro ma il teatro del falso movimento. La nostra esperienza artistica ci ha disegnato una mappa che è fatta di tanti percorsi scuri e oscuri ma dove abbiamo incontrato la vera bellezza lì c’era l’impronta di un passo incerto, claudicante, insicuro. Un balbettío. Fosse una “Veduta” scritta nella notte scura di Hölderlin o un “carne, dura marcia carne –“ di una luminosa attrice sensibile. CONTEMPORANEITA’.

Certo con i classici non si inventano nuove trame, intrecci, sviluppi, plot e così via ma quale storia non è già stata scritta? E quale opera classica non necessita di essere tradotta in nuova poesia? E, in primo luogo, è il teatro che abbisogna di testi che, antichi o moderni o contemporanei, possano di nuovo ridargli senso in un mondo in cui la complessità è forse più decifrabile con una lirica hölderliniana che attraverso un coup de théatre. NOTE PER UNA MISE EN PAROLE DELLA PAROLA. RILKE_BACCHINI.

Con la lingua di Orfeo Rilke va “là dietro” dove “tutto torna in ordine”. Anche la tarda poesia rilkiana è arte astratta. Perché è evidente, una parola che voglia essere la voce stessa delle cose, entrare nei loro solchi per estrarne il rumore primordiale, non può usare le vie usate del significato. Partecipe della natura di Dioniso, Orfeo parla un linguaggio oscuro; non canta soprapponendo al reale forme puramente apollinee. Dopo aver creato lo spazio dell’ascolto, traduce in poesia umana la voce delle cose che là ha risuonato. Il linguaggio dei Sonetti è arte astratta non perché trasponga e riproduca il disgregarsi delle forme della realtà contemporanea, ma perché scende a profondità dell’essere dove le voci sono limpide e oscure al contempo. (dall’introduzione a “Poesie”, edizione Einaudi-Gallimard) Anche la poesia di Bacchini va talvolta “là dietro” dove “tutto torna in ordine”, dietro lo specchio dell’illusione ad “ascoltare” la verità vera, l’unica realtà. L’occhio del poeta sente, l’orecchio vede nel luogo del pensiero infinito e della conoscenza “ – e la vita che si cerca/è solo la musica/I grandi cori sinfonici, e il risalire di un violino/e la memoria senza fine antica dei suoni.” Solo la musica, nemmeno la “parafrasi della musica” della pittura di Paul Klee, può dimostrare l’unità del terribile e del bello in un unico volto divino. … - Rainer Maria Rilke e Pier Luigi Bacchini, frammenti di opere allo specchio in una mise en parole dentro il corpo dell’attrice che si fa figura, geometria, costellazione, albero e fiore, gusto e profumo, eco e segno di un’unica passione poetica ed estetica della vita e della morte. Mito e Natura, entrambi alla ricerca costante del continuo mutare del reale, il movimento circolare degli esseri viventi, la “selva oscura” che circonda la conoscenza degli uomini. I due poeti, “contemporanei a loro stessi”, entrano nel “doppio regno” della vita e della morte in un flusso dionisiaco di creazione poetica che tutto comprende e tutto avvolge, compresi i due cantori: “– oggi arderai/senza paura, arderai, divampando il passato.” PIER LUIGI BACCHINI.

"Nel corso di questi undici anni, ho tradotto in diversi “moti” di rappresentazione scenica, le opere di Pier Luigi Bacchini. Ho praticato differenti “moti” di creazione sonora e corporea dei versi bacchiniani: per attrice e autore, per quartetto d’attrici con autore, per musicista attore e autore. Ciascuna “mise en parole” ha stabilito con il luogo dell’accadimento una relazione di dissolvenza incrociata tra i corpi, le voci, i suoni e il paesaggio poetico. Ho proposto a Bacchini la definizione di un testo scenico che non comprendesse soltanto la sua scrittura ma anche frammenti poetici di alcuni autori a lui cari. Yeats, Elliot, Benn, Pound e Pascoli. Il senso del valore e della musicalità della parola in Yeats, la poesia aristocratica ed evocativa di Eliot, la sregolatezza e la precisione di Pound, l’immobilismo di Benn, la sperimentazione poetica di Pascoli e le infinite germinazioni e fioriture di Bacchini, contribuiscono a comporre la drammaturgia di questi Haiku sull’acqua. Ho immaginato un concerto di voci sull’acqua e il poeta a scandire il tempo con gli aiku, al crepuscolo quando il sole partecipa all’evento. La poesia di Bacchini è talmente compenetrata nell’essenza del nostro teatro poetico da diventarne la più pura espressione. Nei suoi versi la natura e la scienza sorgono, muoiono e risorgono, gli dèi sono presenti nelle più piccole molecole umane e i teatri sono paesaggi viventi in cui si alternano nascite, morti e proiezioni divine." “Un tempo il poeta era là per nominare le cose: come per la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della Creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte. Per scrivere i loro nomi sull’acqua: forse su quella stessa onda levata che fra poco le avrà travolte. Un parco ombroso, il verde specchio di un lago corso da bei germani dorati, nel cuore della città, della tormenta di cemento armato. Come non pensare guardandolo: l’ultimo lago, l’ultimo parco ombroso?

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Chi oggi non è conscio di questo, non è poeta d’oggi.” Ancora Cristina Campo per dire del nostro tempo, ancora lei per dire della Fiaba e della Poesia. “L’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata nel reale e, soltanto per allusioni celate nel reale, si manifesta il mistero. I simboli delle sacre scritture, dei miti, delle fiabe, che per millenni hanno nutrito e consacrato la vita, si vestono delle forme più concrete di questa terra: dal Cespuglio Ardente al Grillo Parlante, dal Pomo della Conoscenza alle Zucche di Cenerentola. Davanti alla realtà l’immaginazione indietreggia. L’attenzione la penetra invece, direttamente e come simbolo – … Essa è dunque, alla fine, la forma più legittima, assoluta d’immaginazione.” Nominare e leggere su molteplici piani la realtà delle cose. Pier Luigi Bacchini ha scritto una fiaba “Il bambino solo”, l’ha scritta per la nona edizione del festival “Natura Dèi Teatri”. È la prima fiaba, richiesta o stimolata, poiché già latente, sperimentale, nuova e perciò misteriosa. “La scrivo pensando al teatro, a come verrà detta, al suono della voce che racconta”: anche questa attenzione fa parte del compito poetante. RISCRIVERE IN VERSI. GOETHE.

Ho imparato a leggere il tedesco da Barbara Bacchi nostra autentica germanista e a riascoltarne il suono applicando all’istante una selezione estetico-musicale che si materializza poi nella nostra forma poetica teatrale. Nelle traduzioni di Hölderlin e Kleist ho osato più del concesso per rimanere fedele alla sonorità della lingua originale anche a costo di rendere fragile il senso della parola scelta. Fedeltà al suono o, nel caso del Faust, al ritmo dell’opera originaria, alla durezza e secchezza del verso goethiano. «DEDICA” che apre il “Faust-Eine Tragödie: “Voi di nuovo qui, figure mosse che un giorno al mio occhio siete apparse. Cerco io, forse adesso, di dirvi “Halt”? Sarà il cuore mio come i sogni di una volta? Siete tutte strette a me! Va bene, così sia il potere vostro, come dai vapori e dalla nebbie a me venite. Il mio petto si commuove per il soffio e la magia, da una nuvola voi salite. Con voi l’immagine sale del sereno giorno, e di più di un’ombra cara; come una vecchia, scomparsa saga il primo amore torna e l’amicizia risale su; il dolore si fa nuovo, il lamento ricomincia della vita il labirinto e conta i buoni che sono via per sempre. Non ascolteranno più i canti che verranno, le anime, a loro che ho cantato; disperso è il gruppo, spento, ach! Il primo contro-suono. Il mio dolore dilaga verso una massa senza nome, il suo applauso fa paura al cuore mio, e quelli che al mio canto erano felici, sparsi sono per il mondo, se sono ancora vivi. E a me prende una gran voglia mai provata, verso questo “Geisterreich”, il regno senza corpi questo mondo senza parole e senza suoni. Il mio canto - pianissimo - è come un’arpa dal vento mossa, ecco! Uno scroscio mi prende, lacrimano lacrime, il duro cuore è leggero e molle; quel che ho, ormai lontano vedo e quel che più non ho tocco adesso con la mia mano”. RISCRIVERE IN CORPO. JUAN DE LA CRUZ.

Corpo nello spazio vuoto delimitato da tre pareti, una porta, una finestra. Spazio dotato di due angoli, a destra e a sinistra. A destra l’angolo scuro e a sinistra l’angolo chiaro. Il corpo-che-indossa-se-stesso è spazio nello spazio. I vuoti del corpo si riempiono di parole, il vuoto dello spazio fisico accoglie il pieno del corpo in movimento. L’attrice produce forma, performa secondo un cammino di conoscenza, esplorando terra e muri per percorsi perimetrali e diagonali. Salite ai muri, corse

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da e verso la luce seguendo tempi e movimenti dell’estasi poetica. I rumori del corpo e del respiro per/formano a loro volta una partitura che si apre al canto mistico della parola. Lo spazio è in penombra, come un dio scuro. L’atleta dell’amore divino scivola sicura nella sua notte scura. “ – senza altra luce e guida/tranne quella che nel cuore ardeva.” RISCRIVERE IN IMMAGINE. JUAN DE LA CRUZ.

La Fabbrica nella costruzione retorica e poetica di Calderón - la fábrica gallarda del universo – e il Nero che scolora i percorsi dell’eros mistico di Juan de la Cruz nello scuro e nell’oscuro dell’ascesi conoscitiva. Un corpo femminile penetra lo spazio della grande sala di Lenz Teatro pregna dei segni della creazione artistica. Ancora il rallentamento artificioso scambia i binari della sincronia parola-musica-movimento abbandonando alle scìe luminose il campo del già vissuto ma ancora ancorato al presente. Il film è muto e musiche nate altrove ne riempiono il vuoto virtuale allacciandosi al corpo in abbraccio d’amoroso tempo. Francesco Pititto Lenz Rifrazioni

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Teatro i

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OGGI (ovvero della poesia che può salvare il teatro) Carmelo Bene all’inizio degli anni ‘80 riempiva il Palalido di Milano. La gente accorreva a vedere il suo recital di poesia. Serate di poesia sold out. Concerti di poesia. 5.000 persone. 2.000 rimaste fuori. La necessità di aggiungere una replica in più alle due repliche in programma. Ho visto un frammento di registrazione di una di quelle serate in occasione di Walkie- Talkie, un convegno ideato dal mio gruppo di lavoro, Teatro i, per poter esplorare l’incontro tra testo e scena. Avevamo dedicato tre giorni a teatro e poesia e, lungi dal trovare risposte univoche alle questioni sollevate, il confronto aveva sollecitato e radicalizzato domande aperte, grazie alle testimonianze di artisti e poeti che da anni lavorano insieme nell’interazione fra i due territori in continuo dialogo. Carmelo Bene era per molti l’inizio, o meglio “all’inizio era Carmelo Bene” come si potrebbe dire in tono più evangelico: l’unione dissacrante tra teatro e poesia, il portatore malato del verbo, il fool, il de-pensante. Non ero sola, dicevo, a guardare quella registrazione, quei pochi secondi usciti miracolosamente indenni dagli archivi Rai: un boato, poi un omino bianco, la camicia da dandy, le maniche a sbuffo. C.B. che si pavoneggiava sul palco vuoto come in un’arena, gladiatore solo davanti a una folla acclamante. 5.000 persone. Il mio cuore ha cominciato a battere forte. Le lacrime scendevano senza che potessi frenarle, un’emozione fisica che mi era quasi sconosciuta e mi sono accorta che non ero l’unica a piangere. Un pensiero che con me anche gli altri pensavano, che partiva dalla mente e dilaniava il cuore. In un attimo abbiamo avuto tutti la stessa tragica consapevolezza: il tempo di Carmelo era finito. Oggi quella situazione sarebbe impossibile. Sono bastati vent’anni e quel tempo si è perso, per sempre inghiottito da reality e veline. Quel paese non esiste più. Sconfitto. Irrimediabilmente. Oggi il teatro deve essere spettacolo, divertimentificio. Oggi in teatro non c’è spazio per la poesia. Ovunque io mi volti nel mio paese non trovo spazio per la poesia.

Quest’articolo sarà bacchettone e conservatore. Mi sento così, profondamente reazionaria, davanti a un dilagante nulla che pervade la cultura, un nulla che ci fanno passare come pop, come gusto della gente, e in nome di questo fantomatico gusto della gente, in nome di questa demagogia da quattro soldi, l’asticciola si abbassa e si abbassa, il livello precipita giù e più giù senza vergogna, sempre in nome della gente, come se la gente non avesse nulla a che fare con la cultura, come se la gente non meritasse la poesia. E la gente, cioè in fondo noi, nella maggior parte dei casi si è adeguata a questo stato di cose, a questa mancanza di interesse, a questo amore per il pettegolezzo, a questa ignoranza del talento, a questa mollezza che fa si che si creino i più falsi miti e le più false menzogne, e tra le altre che chiunque, senza studiare e fare sforzi, possa raggiungere una posizione in nome della sola dote veramente necessaria oggi, la furbizia, che ha spazzato via tutto il resto e cioè la curiosità, la passione, lo studio, la conoscenza. Il livello è così basso che è quasi impensabile oggi credere che la persona della strada sappia che cos’è la poesia, o il teatro: che sappia ad esempio qualche poesia a memoria o che conosca i versi di qualche poeta vivente o che abbia visto uno spettacolo a teatro una volta nella vita ricordandosi il nome dell’autore o del regista. La madre di Carmelo Bene, come lui stesso raccontava, pur essendo molto più popolana e ignorante della maggior parte dei piccoloborghesi ben pensanti che siamo noi, conosceva molte poesie a memoria. Anche mia nonna e mio nonno conoscevano Leopardi. Sono loro che mi hanno insegnato “L’infinito” e “Il passero solitario”. Le avevano imparate a scuola, alle elementari come alcuni canti de “La Divina Commedia” e le citavano così, come in Toscana è d’abitudine per alcuni vecchi parlarsi in ottava. D’estate andavamo al mare nelle Marche e non mancava anno che non si facesse una visita a Recanati. Sembravamo i pellegrini di Giacomo Leopardi, a vedere la sua casa, la sua biblioteca e l’infinito di fronte alle sue finestre. Era la poesia un bene della gente, un bene popolare, un canto. E soprattutto un’esperienza. Anche oggi abbiamo divulgatori eccellenti del nostro bagaglio poetico, da Benigni a Sermonti, e almeno lì uno spiraglio si apre, ma mi pare che molto si sia perso. Il teatro è un’esperienza molto particolare in cui attore e spettatore hanno ruoli ben distinti e precisi. In Giappone il pubblico ha una reverenza quasi religiosa nei confronti degli attori del teatro No o del Kabuki. Si riconosce all’attore un ruolo elevato nella società. L’attore è un medium, un sacerdote, che grazie a una preparazione tecnica e spirituale di decenni può giungere a vedere là dove gli altri non vedono e tramite la sua visione a illuminare la coscienza dei popoli. Lo stesso per il poeta. Nella nostra società l’unico paragone esperienziale di questo tipo che ho nella mente è legato alla musica rock e ai concerti, e poi al calcio e agli stadi. Non riesco a pensare al teatro e alla poesia oggi come a esperienze popolari, come a esperienze di massa e dunque mi pare che la gente non le percepisca come beni spirituali, ma eventualmente come beni di consumo da aggiungere agli altri nel carrello della spesa. Eventi nel migliore dei casi in cui non si può non esserci (penso a certi libri e spettacoli che puntano sul coinvolgimento di personaggi mediatici riconoscibili per attirare il pubblico). Mi pare ad esempio che alla gente comune il teatro e la poesia interessino eventualmente come palcoscenici in cui mostrarsi. Mi pare che continui a sfuggire che il teatro e la poesia, come la matematica, la fisica, la chimica, l’economia sono ambiti che richiedono linguaggi, talenti e tecniche

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specifiche. Ma dopotutto, mi dico, viviamo in un paese dove tutti sono poeti e scrittori, dove i best sellers li scrivono i calciatori e dove fare l’attore significa per lo più avere un book da mostrare a qualcuno che conta per arrivare il più presto possibile a un passaggio televisivo di fronte al grande pubblico. Di tecnica ci sarebbe da dire, eccome! Ci sarebbe da dire che addirittura le scuole di teatro faticano a lavorare sul verso, sul suono, sulla forma. Se le poesie non si studiano a memoria da piccoli, allora anche noi, “giovani attori” non abbiamo in memoria quel ritmo, quegli accenti, quelle scansioni, quelle cesure. La lingua è fiacca e peggiorata. Chiunque oggi può fare l’attore. In un paese dove i politici sono le vere star, che vanno in televisione dopo essere passati dal truccatore, non è necessario aprire la bocca e farne uscire suoni udibili o scanditi o conoscere le differenze tra gli accenti: tutti possono fare gli attori. Perché in Italia l’attore è il cialtrone, è il pallista, è il bono. Fare lo spettatore invece interessa a pochi, è abbastanza fuori moda. Perché la partecipazione a un evento teatrale o la lettura di una poesia non si risolvono in un puro elemento voyeristico e distratto, ma richiedono un’attività. Essere parte di un’esperienza come quella teatrale e poetica richiede un’attività cerebrale ed emozionale. Fare lo spettatore è una piccola fatica. E questa pigrizia del pubblico ha modificato anche le proposte artistiche in circolazione. Si rischia meno, si cerca di omologare e di accontentare. Oggi il teatro nella maggior parte dei casi è: una storia semplice con lieto fine; una storia in cui lo spettatore si può immedesimare; una storia che fa ridere… molto e che fa scordare la giornata difficile; una storia scritta in prosa con parole comprensibili e quotidiane con dialoghi prevalentemente secchi, botta e risposta. I tempi li dettano il cinema d’azione, il videoclip, la televisione. Uno spettacolo deve durare circa 50 minuti, altrimenti diventa noioso. Chiunque è in grado di scrivere seguendo queste poche regole. E dunque siamo tutti poeti, siamo tutti scrittori. Ecco che emerge a poco a poco, con rabbia, quello che penso davvero quando penso al teatro e alla poesia, quel poco che vorrei gridare tutti i giorni. Sono tempi così bui che non sento l’esigenza di elenchi storici o di analisi formali, ma di un’analisi della necessità e dell’essenza di queste due arti. Credo che l’unione dirompente di teatro e poesia stia nella loro inattualità e nella potenza deflagrante che potrebbe avere se se ne avesse la piena coscienza. Una potenza etica, politica che il mondo chiede a gran voce. Siamo molto più conservatori di un tempo. Pochi gesti di rottura. Poche provocazioni. Poche pernacchie. Tutto ci scorre addosso. Comunichiamo continuamente, ma cosa vogliamo dire? Il teatro e la poesia, soprattutto nella loro possibile interazione, dovrebbero aiutarci a portare alla luce la nostra opinione sul mondo. Dovrebbero metterci in ascolto e in azione. Penso al teatro come a una potenza grande, primigenia, politica. Penso alla poesia come a una potenza grande, primigenia, interiore. Il teatro e la poesia sono ossessioni formali. Sono figli partoriti dalla musica. Per parlarci di noi, anche di noi cosiddetti artisti che non sempre abbiamo il coraggio della poesia. Sono un’attrice, faccio teatro e conosco il teatro, i teatri. Oggi sento il teatro snaturato e defraudato, la sua portata politica crollata, con pochi desideri. Vedo il teatro ridotto sempre più spesso a chiacchiera, a sistema, a routine, a occupazione culturale che aiuta il pubblico a omologare la propria opinione, anziché a potenziarne le differenze. Anche la parola “differenza” così come la parola “esperienza” dà fastidio. Sono parole ormai indicibili. Solo da lettrice frequento la poesia. E mi ritengo fortunata perché conosco diversi poeti: le loro parole mi hanno illuminato il cammino. E loro, i poeti, persone fragili, buffe, animali, infanti sono giganti quando con il coraggio che pochi teatri mi sembrano avere, ci donano il loro pensiero e ne fanno universi. Sento in loro la natura, la schiettezza, la politica, il gioco, l’ossessione tecnica e la ricerca della forma. Se è vero che la poesia non è necessaria, se è vero che la poesia è difficile, se è vero che la poesia è verticale e profonda, se è vero che la poesia è suono e ritmo, se è vero che la poesia manda in corto circuito le divisioni fra le arti, se è vero che la poesia è vita e morte, se è vero che la poesia è lo sguardo di un bambino, se è vero che la poesia parla chiaro e provoca, se è vero che la poesia non ha paura di mettere il dito nella piaga, se è vero che la poesia è contemplazione e corsa… allora la poesia insegna al teatro. Allora il teatro dovrebbe essere la poesia. Allora il teatro ha bisogno di poesia. Per recuperare la sua portata politica. Per attivare lo spettatore all’esperienza. Per riaprire solchi sopiti di ricerca, di mistero, di conoscenza. Per sconfiggere quella violenza morbida, senza nome, subdola e sotterranea che ci sta a poco a poco addormentando. Che rapporti, che nascite, che utopie possono crearsi dall’incontro di questi due mondi! Federica Fracassi Teatro i

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I LINGUAGGI DELLA MISURA. UN COLLOQUIO SUL TEATRO DI POESIA CON L’ATTORE E REGISTA ALESSANDRO BERTI Che cosa chiede la parola poetica al corpo, alla voce e allo spazio, quando entra in teatro?

Dal mio punto di vista dipende molto da che tipo di parola poetica viene usata. La maggior parte della poesia è meglio leggerla, in silenzio. Poi c'è una parte che si può leggere a voce alta, non solo senza tradire quella parola ma esaltandola (se si sa come leggerla, ovviamente). Solo una piccolissima parte della parola poetica che io ho incontrato negli anni mi ha fatto dire: ecco qualcosa che potrebbe essere portato in scena. Ovviamente questo è un giudizio molto personale, dipende dalla mia educazione teatrale, del tutto occidentale, shakespeariana e stanislavskijana, una formazione che mi ha insegnato a mettere in scena solo i testi che, tra le righe, contengono una azione, o almeno una relazione. Spesso il fatto che un testo sia teatrale non significa che abbia una scrittura viva, che corrisponda a quello che ho appena detto. È per questo che è cominciata la mia curiosità per la poesia.

Non sono pochi a sostenere che il teatro in Italia stia vivendo un periodo di grande difficoltà. I poeti lamentano la codardia del sistema editoriale. Potrebbe il teatro di poesia essere un modo di accogliere e dunque superare queste due diverse crisi? Non saprei. Posso parlare del teatro, che conosco meglio. Il teatro ha perso quasi tutto lo spazio di attenzione che ancora aveva quando io ho cominciato, quindici anni fa. Qualche grande spettacolo e una schiera di narratori non possono prendere il posto di qualcosa che non c'è più: una continuità, un'abitudine, una cultura condivisa, una ritualità. Il problema di un rapporto con i poeti mi sembra che sarebbe un problema di 'saperi'. Mi pare che ci siano pochi teatranti in grado di mettere in scena una lingua poetica vera. E anche di poeti veri e con una scrittura adatta alla scena non me ne vengono in mente molti. Poi è chiaro che io sono contento se succedono cose anche caotiche ma vive, appassionate, perché siamo in un momento di tale aridità che bisogna prima di tutto inseguire la vitalità delle cose, non il proprio gusto. Rendere un volume di poesia uno spettacolo, con solo poche aggiunte drammaturgiche e senza che sia un reading o una performance: questo il progetto che stai curando, sui versi di Claudio Damiani. Come procedi a svilupparlo?

Senza nessuna aggiunta testuale, questa è la sfida. Le poesie di Damiani sono brevi, dunque apparentemente costruire una drammaturgia coerente è difficile. Ma, soprattutto in EROI, il suo secondo libro, i rimandi da una poesia all'altra sono tantissimi e possono dar vita a un minimo di coerenza drammaturgica, fondamentale per una messa in scena. Il grosso del lavoro è con gli attori, che ho scelto piuttosto digiuni di poesia, e di teatro di parola in generale, per provare a partire con loro da zero, dai legami che la poesia di Damiani ha con la vita, con i sentimenti umani, che poi dobbiamo tradurre in qualcosa di tecnico, di pratico, com'è il teatro. Ci sarà un bambino piccolo, di cinque anni, in scena con noi, un cane, degli alberi e lo spettacolo sarà fatto al tramonto, su una collina, si spaccherà la legna, si farà il bucato. Sarà uno spettacolo fortemente aristocratico in questo momento, un angolo di pace che proviamo a prenderci, un gesto di leggerezza e di rivolta sorridente. In cosa ti colpisce, un poeta?

Mi colpisce sempre, invariabilmente, l'unione tra la sua umanità, evidente, trasudante, e la capacità di dare voce a questa umanità.

La lettura di una poesia è un momento privato, un grande movimento interiore; sembra essere però addirittura rivoluzione quando viene vissuto collettivamente, non solo attraverso un corpo e una voce che sporcano e segnano di vita la pagina, ma anche attraverso il silenzio concentrato di una sala di ascoltanti davvero rapiti dal momento. È un atto di creazione, che ricrea il mondo, che ipotizza una diversa possibilità di comunione e di vita corale. Sono cose che non capitano spesso, ma incredibilmente potenti, quando si manifestano. Il teatro di poesia secondo me può questo. Tu cosa ne pensi? Penso che sarebbe bello che capitassero più spesso. E penso che perché ci siano tutti gli ingredienti che dici tu ci vuole il concorso di molte forze, perché si crei un circolo virtuoso. Il teatro è un'arte collettiva. Il ruolo di un organizzatore o di un produttore è tanto importante quanto quello dell'artista, perché di persone che amano esperienze come quelle che descrivi tu ce ne sono ma non arrivano quasi mai a varcare la soglia dei pochi luoghi e momenti dove cose del genere accadono. È questo che intendo quando parlo di smantellamento del teatro come insieme di saperi. Ci sono pochi organizzatori capaci e coraggiosi, ad esempio. Oppure, per fare un esempio che mi riguarda: io potrei fare benissimo il piano

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luci per i miei spettacoli, senza bisogno di un tecnico. Ma voglio avere un tecnico luci, capisci? Perché lui quella cosa la sa fare comunque meglio di me, e se avessi il denaro vorrei uno scenografo, un costumista ecc. Io ho scelto il teatro anche per questa idea di lavoro d'equipe, che però, per motivi economici, e anche culturali, sta scomparendo. Così siamo invasi da dilettanti, da gente che si improvvisa a fare quello che fa, e si vede. In questa fase magari non si vede ancora tanto perché anche il pubblico ormai è abituato ai reality show e alla mancanza di professionalità data per scontata ma tra qualche tempo, quando passerà la moda di tutto questo, si riapriranno scuole in cui di nuovo si imparerà a fare qualcosa come si deve. Forse ti aspettavi una risposta diversa ma io non so affiancare alla tua immagine altro che un gruppo di persone capaci di fare quello che stanno facendo e motivate a farlo. Qualcosa che oggi succede raramente. Secondo te gli artisti hanno un compito? E che responsabilità comporta?

Ti confesserò che non ci ho mai pensato tanto. Forse perché l'ho sempre vissuto molto praticamente tutto questo: insegnando teatro, incontrando il pubblico, scrivendo spettacoli che facessero ragionare, arrabbiare anche. Non saprei, penso che ognuno la veda a suo modo. In questo momento, se dovessi dire quale è il compito degli artisti, direi che è quello di stare calmi. Cioè di non farsi prendere da questa foga, da questa fretta di farcela, di essere famosi, di godere dei privilegi di casta ecc. Perché se esisterà ancora qualcosa che potremo chiamare arte, sarà qualcosa che nascerà dalla quiete, anche nel mezzo della storia, anche nell'occhio del ciclone, ma comunque in uno spazio da cui lo sguardo di qualcuno, indisturbato e forte, riesca a guardare ciò che accade, e a parlarne. In questo senso mi sembra che, mai come oggi, per essere artisti veri bisogna essere anche persone forti. Un poeta ha detto che la carta è stanca. Secondo te è così? Sì, è così, ma è in buona compagnia.

E a te cosa stanca?, in teatro, nella letteratura…

La fretta, come ti dicevo, poi anche il non comprendere l'umanità di chi sta scrivendo, parlando, anche il gioco delle opinioni mi stanca molto, perché il mondo ci sta cambiando sotto i piedi mentre noi ne discutiamo al bar...

Ha senso secondo te fare queste distinzioni “poesia”, “teatro di poesia”, “teatro”…? Cosa hanno in comune? E cosa li separa?

Il teatro è azione, parola che minaccia una azione, che parla a qualcuno di preciso, qualcuno che si ha davanti, è corpo che fa, e qualche volta fa mentre parla, o parla per non fare, e usa una parola carica di qualcos'altro, che sprizza vita, violenza, tenerezza, una parola colloquiale ma fortemente allusiva, come era la lingua fino a pochi anni fa, quando bastava uno sguardo, un modo di accentare una parola perché chi avevi davanti capisse...Oggi servono tante parole per tutto questo, e forse è per questo che il teatro è in crisi, mentre, per dire, il romanzo no. La poesia condivide col teatro questa cosa importante: la necessità, l'amore direi, per l'economia di parole, per l'evocatività dei vocaboli e dei versi. Ma deve ottenere questo effetto senza la presenza reale di un corpo, solo attraverso le parole sulla pagina. Poi, in alcuni casi, come in Damiani, poesia e teatro si avvicinano, perché Claudio scrive sempre in prima persona, usa una lingua colloquiale, sono brandelli di discorso quelli che emergono alla sua coscienza e che diventano poesie. Però, sì, direi che poesia e teatro sono entrambi linguaggi sintetici, che richiedono misura. In questo senso sono due linguaggi aristocratici, monastici, da artigiani intrattabili.

Nella tua vita hai vissuto facendo teatro. Il teatro, come la poesia, come l’arte in genere, sono a tuo avviso necessari? C’è chi dice che sia un bisogno, chi un dovere, chi un privilegio. Sono privilegiati i poeti che conosci? Sono necessari, gli artisti? Anche a questo ti confesso di non pensare mai. Per me è necessario che l'essere umano stia sul sentiero della propria umanità, un sentiero tutto curve e paesaggi diversi. La bellezza è un bisogno dell'essere umano, uno dei panorami di cui ha bisogno. Come l'amore, la libertà, il riposo. A partire da questi bisogni gli uomini, secondo me smarrendosi dal loro sentiero, costruiscono istituzioni, corporazioni, poteri, privilegi. Non amo la corporazione degli artisti come non amo nessun'altra corporazione. Io non ho mai avuto problemi a vivere di teatro, problemi con me stesso intendo. Ora ci sono scenari economici che rendono molto difficile continuare a vivere del teatro per come lo interpreto io, e forse c'è anche una certa stanchezza in me nel momento in cui sempre di più un regista teatrale deve essere promotore di se stesso e sempre meno artista. In questi anni sto scrivendo, molto di più di quanto faccia teatro, perché la scrittura mi sembra che mi metta più alle strette, dia pane ai denti della mia intransigenza. E poi a dir la verità io scrivo da quando ho dodici anni, quindi la scrittura mi ha sempre accompagnato e ora si sta facendo più vicina, come se finalmente, nell'isolamento degli ultimi anni, nella diminuzione dei ritmi di

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lavoro, riuscisse a trovare uno spazio per parlarmi, insomma qualcosa di intimo e bello, anche se faticoso, perché per uno che per quindici anni è saltato sulle assi del palco come un matto trovarsi ore al tavolo a scrivere è dura...Comunque vedremo, come non ho avuto problemi a vivere di teatro, non ne avrei a vivere di scrittura. Il problema vero è che qua, oggi, se si vuole lavorare con serietà e pazienza, si rischia di non vivere più né dell'uno né dell'altra. La poesia dice eternamente il suo tempo. Secondo te, cosa ci dice quella del nostro tempo?

Non la conosco abbastanza per esprimere un giudizio. In generale mi piace la poesia più semplice, in ogni tempo. Semplice, economica, essenziale. Questo tipo di poesia mi parla. Non mi piace la poesia troppo ellittica, come certe volte è la poesia contemporanea, perché non ho bisogno di ulteriore confusione, ho bisogno di qualcosa di forte e semplice. Ho bisogno di una voce oltre che un cervello. Un poeta su cui ti piacerebbe lavorare

Claudio Damiani è davvero l'unico poeta contemporaneo che conosca la cui scrittura io possa trasporre in teatro. Scrivi poesia?

In questo momento no. Negli anni scorsi, sì, ho scritto poesia, e anche tre cose che poi sono andate in scena, a Santarcangelo, a Volterra e a Milano. Quasi dieci anni fa già. Ma era una specie di poesia usa-egetta, per così dire, cioè erano esperimenti folli, in cui per un mese si provava con la compagnia e io ogni mattina scrivevo qualcosa, pensando all'attore che poi doveva interpretarlo. Ho ricordi bellissimi di quegli anni, che sono stati un apprendistato eccezionale, una bottega drammaturgica unica. Anche la scrittura che usciva da questo stato di pressione non era cattiva, con alcuni difetti tipici della fretta ma direi onesta. Ora sto scrivendo prosa, una prosa che però mi sembra contenga tutto il lavoro di questi anni tra teatro e poesia. Notizia. Alessandro Berti, dopo la scuola del Teatro di Genova, nel 1995 ha fondato con Michela Lucenti L'Impasto Comunità Teatrale, per cui ha scritto e diretto tutti gli spettacoli tra cui ricordiamo: Skankrèr, Home Balòm (1996), Terra di Burro (1997), Il mondo dei figli (1999), Trionfo Anonimo (2000), L'Agenda di Seattle (2001), Il Quartiere (2002). Nel 2002 ha vinto il premio Gherardo Gherardi col suo Teatro In Versi (Rivedere le stelle, La Riga, Simurgh-Poema delle Moltitudini). Dal 2002 al 2004 ha vissuto e lavorato in Friuli, impegnato nella realizzazione di una Scuola Popolare di Teatro e del progetto tematico legato alla psichiatria Arte/Società/Follia. Il suo ultimo lavoro, Confine, ha debuttato allo scorso festival di Santarcangelo. Attualmente vive a Roma e sta allestendo uno spettacolo sui versi del poeta romano Claudio Damiani (A cura di Azzurra D’Agostino)

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LUNGO LA VERTEBRATA COSTA DEL CUORE. UN PERCORSO VENTENNALE TRA POESIA E TEATRO Ho sempre creduto nella potenza della parola poetica nel suo essere pronunciata, detta, “cantata” e dunque ascoltata, proiettata - attraverso il suo manifestarsi in quanto suono, sonorità - nelle profondità celate dell’animo umano, pronto a vibrare nell’apparato sensibile-sentimentale mediante una suprema stimolazione dell’intelletto. Su questa base ho avviato, ormai venti anni fa, un Progetto Poesia ovvero un progetto di ricerca di carattere teatrale sulla poesia contemporanea articolato per grandi sessioni tematiche che ne hanno regolato la messa in scena e la riflessione: scrittura poetica, forma poetica e forma musicale. Il progetto, tutt’ora in corso, si propone di indagare il rapporto tra verso poetico nella sua fondante dimensione scritta, formale e verso nella sua espressiva dimensione orale, sonora: l’agire dell’attore, che di questo processo creativo si fa centro d’azione per mezzo del corpo/pathos e della bocca/manteia, imprescindibilmente si colloca all’interno del codice che governa la pur mutevole rappresentazione teatrale. Inizialmente questo confronto ebbe una particolare rilevanza all’interno del monumentale progetto che Lenz Rifrazioni dedicò alla figura del grande poeta tedesco Friedrich Hölderlin: il discorso sulla necessità del rappresentare mi portò a considerare la scrittura poetica come origine e premessa della forma tragica. In ANCHE SE ABITO UNO SCOGLIO (1993), uno dei primi lavori da me scritto e rappresentato a Lenz Teatro, il materiale drammaturgico che costituisce la struttura del testo ha come riferimento principale i frammenti poetici di Pindaro, autore di cui Hölderlin tradusse una parte della produzione lirica maggiore. L’elaborazione si compone in una successione di tre passaggi che articolano l’andamento drammaturgico in una forma tripartita (A-B-A1), la cui tessitura interna ripropone l’alternarsi di versi di Pindaro, di Hölderlin e miei: “il valore dei canti della gloria si fa eterno”, “poeticamente abita l’uomo” e la domanda, più volte ripetuta, “a chi possono ancora cantare i poeti?” indicano nel passare dei tempi e delle culture la modificazione profonda della funzione del poeta, e la progressiva perdita del rapporto tra il poeta e il suo luogo di appartenenza artistica e sociale. Il distacco che nello scorrere dei tre “passaggi” si rende elemento consapevole e visibile, diventa attraverso l’esperienza tragica dell’atto teatrale la ragione stessa della propria identità poetica. Il luogo in cui matura questo processo conoscitivo ha la misura del minimo, del piccolo, dell’insignificante, e la riconoscibilità di un interno quotidiano e domestico. “Vi prego di leggere questo foglio soltanto con animo ben disposto”, così si apre il primo passaggio; un’umile richiesta di attenzione rivolta ad un pubblico che non si cerca nel presente, ma ad una collettività perduta. I pochi sguardi di oggi appaiono indiscreti, colpevoli di un voyeurismo che non rispetta la solitudine dell’”ultimo gesto”. Se la ripetizione della domanda “a chi possono ancora cantare i poeti?” costituisce la questione centrale di “Anche se abito uno scoglio”, in INFELICE NEL DESIDERIO IO STO (1994) l’ossessione del poeta contemporaneo porta questo interrogativo al suo limite estremo: “È ancora il tempo del canto?”. Un’intuizione: solo l’agire teatrale, l’atto drammatico ricrea la possibilità del canto poetico, ristabilendo una condizione comunicativa che permette di restituire significato alla perdita della forma poetica. L’irruzione dei versi di Archiloco all’interno della scrittura s-formata di questo testo costringe l’attore in una situazione di conflitto, di opposizione inconciliabile tra la forza originaria del verso – la sonorità creata dalla ferrea ritmica del trimetro giambico – e la conseguente indicibilità del frammento contemporaneo. Nell’agire scenico l’attore tenta di risanare questa lacerazione rendendosi “mezzo” del sentimento, corpo e voce della poesia. In VIDER (1995) - letteralmente svuotare - nel vuoto segnato da un confine di pietre bianche si dà forma ad un inconsueto fluire di parole. Nell’assenza totale della forma verbale di questa versificazione poetica, l’unica possibilità dell’agire teatrale è il dire, l’atto della parola a farsi suono in tempo. Anche Vider costringe l’attore a parlare le parole della poesia in un ritmo arcaico, con la ripresa ritmica del trimetro giambico - in un movimento inarrestabile del corpo. “Il poema si afferma al margine di se stesso; per poter sussistere esso incessantemente si evoca e si riconduce dal suo Ormai-non-più al suo Pur-sempre. Ma questo Pur-sempre non può non essere un parlare” (Paul Celan). Dopo i due allestimenti sui lirici greci Pindaro e Archiloco, e la messa in scena di Vider, la ricerca è approdata alla forma madrigalistica, segnando l’inizio di una ricerca approfondita su alcune forme poetiche chiuse e non. La prima realizzazione del progetto ha portato alla mise en espace di MADRIGALE (1996), opera poetica e visiva suddivisa in tre parti. Il luogo di azione di Madrigale è uno spazio artistico e sonoro creato dalle artiste Giuliana Di Bennardo e Ghislaine de Montaudouin, e dalle compositrici Patrizia Mattioli e Carla Delfrate. A dare forma ai versi del testo poetico, attraverso l’atto plastico e compositivo, sono le artiste stesse, soggetti estremi di una parola autentica, di una verità poetica. L’elaborazione teatrale procede per innesti, il gesto artistico e la parola non si sommano, non si sovrappongono, ma si uniscono per produrre nuovo senso, una nuova natura. L’estraneità dell’artista alle tecniche espressive del linguaggio teatrale fa risorgere il segno poetico nella sua pienezza, un segno che sfugge l’artificio e diffida della finzione. Per l’artista il teatro è un luogo straniero, un paesaggio chiuso nel tempo finito della rappresentazione, lontano da quello infinito dell’opera d’arte; ma in questo luogo l’artista può vedersi in atto, può fermare l’azione creativa,

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trattenerla, ripeterla, modificarla. Un processo di rinascita che trova ritmo nella forma antica del madrigale, nella brevità del canto amoroso. Attraverso lo sguardo innocente e pieno dell’artista il teatro allontana da sé la minaccia dell’equilibrio linguistico e ritrova la bellezza dell’inizio. La poesia è connessa alla lettura, al testo, al culto della testualità, la poesia è una forma visibile, sono parole stampate davanti agli occhi, nel madrigale si vede la forma, si vedono le terzine e la quartina: ma la poesia è destinata all’orecchio, si trasmette nell’oralità e nella memoria. Il teatro può essere una forma della poesia, il non-luogo di un suono senza patria. Una significativa parentesi di indagine poetica è costituita da ROSENSTRAHL (1997) -letteralmente Lampo di Rosa - un testo scritto e realizzato a Monaco di Baviera la cui scrittura si relazionava con una coreografia realizzata dal danzatore/coreografo tedesco Ludger Orlok. La struttura del testo, scritta originalmente in italiano e tedesco, è quella del colloquio nel senso heideggeriano del termine, ovvero “la possibilità del parlare e dell’ascoltare”. Nella tripartizione che reca a titolo tre domande – Wo die Rose?, Wo das Wort?, Wo der Name? – si evidenzia una genealogia poetica che attraverso tre citazioni indica un definito ambito estetico: sono infatti le citazioni di frammenti di Celan, Rilke e Hölderlin a disegnare il percorso tratteggiato dal lampo di rosa. Scrittura per la voce e scrittura per il movimento disegnano l’impossibile luogo di un dialogo, qui affidato a coppie di danzatori e attori avidi di un possibile contatto fisico che permetta all’esperire artistico una via di accesso per la conoscenza dell’Altro da Sé. I sonetti shakespeariani dominio del passato, aleggiano rivali e contendono alla poesia contemporanea la felicità della forma. Nella continua ricerca del suono originario dopo aver smarrito la parola poetica, nell’impossibilità di afferrarla e arrestarla, SONETTO (1998) tenta, attraverso una metamorfosi del corpo testuale in corpo voce dell’attore, un percorso a ritroso: non più versi per comporre un sonetto nella classica costruzione shakespeariana (tre quartine e un distico finale), ma un’intera forma di sonetto per costruire un solo verso. L’eccesso momentaneo del verso poetico nella rappresentazione teatrale dunque è il motivo dominante della scrittura poetica, compiuta attraverso una reale esperienza estetica intesa come esperienza di sensibilità. Nella rappresentazione, a qualunque livello, viene in luce, cioè si mostra, ciò che è. La rappresentazione è un evento di cui l’artista, l’esecutore, l’interprete e lo spettatore sono partecipi. L’opera, evento teatrale compreso, è più vera della realtà proprio in quanto è Gebilde, formaimmagine, struttura compiuta e conchiusa, liberata dalla casualità e dall’indefinitezza che caratterizza l’esperienza quotidiana. La rivendicazione della valenza di verità dell’esperienza estetica e dell’opera d’arte è fatta in nome dell’esperienza, non intesa solamente come approccio empirico, bensì nel senso di Erfahrung: è un esperire di verità che modifica effettivamente chi la fa. Sonetto si ispira a tre possibili vedute pittoriche di Friedrich, Hopper, Klein che delineano le situazioni di attesa, immobilità, salto. Il testo parla una lingua sporca, rotta, compresa tra la sonorità dell’inglese e il tedesco della traduzione di Paul Celan. Dopo l’atto estremo del salto, sospensione conclusiva di Sonetto la ricerca sulla forma è proseguita con POEMETTO (1999), una nuova, rigogliosa composizione poetica ispirata alla celebre opera shakespeariana Venus and Adonis. Incastonati nel parco metaforico del Venere e Adone, gli attori si muovono subendo la costrizione dello spazio scenico, brulicanti animali sotterranei governati nelle azioni dal meccanismo narrativo del poema shakespeariano. Nelle viscere della terra come nelle viscere del proprio ventre, gli imenotteri poetanti sono alla ricerca de “la ciba parola” nutrimento primario dell’esperienza estetica, osservati dall’alto da spettatori etologi. L’origine del verso è ora da ricercarsi seduti alla mensa del tempo e sulla bestia morta del proprio cuore: gli attori commensali di questa cerimonia rinnovano ininterrottamente l’atto estetico della parola poetica, residuo pulsante di versi ingeriti, deglutiti e risputati. Rappresentazione di un rito antropofagico che induce l’attore a misurarsi con la verità irrazionale dello stato animale, Poemetto indaga la forma della narrazione in versi affidandosi al paesaggio shakespeariano di Venus and Adonais sottratto del suo riferimento mitologico. Con la messa in azione di GOLDBERG (2001) insieme a Lenz Rifrazioni ho dato inizio ad un interessante progetto di ricerca che sposta l’indagine dal testo letterario e dal relativo autore ad un’opera di carattere musicale e al musicista che la ha composta. Goldberg si presenta come mobilità sonora di una sequenza in vari-azioni testuali strutturate secondo la celebre partitura di Johann Sebastian Bach. Nell’imporsi come visione di materia sonora, Goldberg sfugge alle regole del codice teatrale per piegarsi all’azione della continuità vocale avvalendosi della scrittura poetica come prassi compositiva ed esecutiva propria della scrittura musicale. Il luogo della poesia si misura con l’atopia dell'udibile che sempre è. Crinale della "montagna oro" (sono i versi con cui si chiudeva il precedente lavoro poetico dedicato ad Archiloco e Hölderlin) Goldberg corre nell’oscurità abbacinante della conoscenza e canta le possibili variazioni del respiro che batte e del cuore che ansima. Nello spazio bianco dal riverbero abbagliante si rinnova la vicinanza dello spettatore con le voci della poesia, trasparenza occultante dell’estasi fonetica, ricerca dell’essente nella dimensione temporale di ogni accadimento musicale. Goldberg dunque segna la continuità dell’innovazione linguistica del percorso intrapreso con la riflessione sulle grandi opere di poeti come Shakespeare, Hölderlin, Rilke e Celan. Ulteriore sosta nell’articolato cammino del progetto è QUARTETTO - Strategia della passione. Strutturato secondo una sequenza di tre moviment-azioni poetiche legate al quartetto come organico compositivo ed esecutivo e ad alcune forme musicali come la variazione Quartetto muove le proprie parole, i propri gesti, i propri versi, secondo il fraseggio di quattro canti tra loro strutturati. Il testo, tra sinuose discontinuità e tortuose continuità, disegna la propria tessitura nelle oscillazioni e nei frequenti

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passaggi da voce a voce, da movimenti musicali a dinamiche gestuali: proprio come in un quartetto d’archi, le quattro voci, nel loro autonomo andamento formale, ne ridisegnano la sua unità strutturale e stilistica. I Adagio – primo movimento della trilogia che compone QUARTETTO - muove il proprio canto dal lembo di terra già stratificata di parole, fruttificata di suoni, maturata nella corteccia del tempo e contrappunta al tema del secondo movimento del quartetto “L’Imperatore” di F. J. Haydn: la trasformazione di sonorità paesaggistiche in partiture ritmiche e timbriche impregna il giardino poetico dell’azione poetante per giungere allo spazio della parola interna, umida, della fertilità poetica. II Andante e III Allegro volgono rispettivamente il loro canto alle acque del dentro giù, del corpobocca, sbocco naturale dell’umano ri-dire e all’aria del su, all’aria-cibo - nutrimento indispensabile del paradisiaco sonare -. Il percorso della parola poetica cantante - dall’immacolata concezione, alla gestazione, alla nascita - disegna il passionale itinerario delle geografie sentimentali degli attori non professionisti di questa azione poetante, unici possibili portatori della santa innocenza di ogni indicibile. Costruita invece sull’architettura formale della celebre pagina musicale bachiana “Herz und Mund und Tat und Leben”, CANTATA - liturgia della passione rappresenta un ulteriore luogo di sosta della parola poetante nel regno seducente e sfuggente dell’artificio teatrale. Nell’articolata successione di cori, arie, corali e recitativi, Cantata si compie nel solco della terra feconda della parola sonante, nell’andare e tornare perpetuo e costante dell’attore alla prova con la verità della Poesia, fino al suo uscirne dall’arato solco: è il momento del sublime delirare, canto supremo necessario al nutrimento primario della poesia. Poesia come Liturgia. “Liturgia -come poesia- è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi”. Le parole di Cristina Campo incorniciano questa cerimonia della parola. Nel compimento liturgico dell’atto poetante emerge prepotente il disegno occultato di itinerari passionali che solcano gole avide, corpi sospesi e spigolati alla potenza squassante dell’attimo, parola orante che dimora l’attesa di un pieno risonante. ”Lode davvero trinitaria, nella quale il corpo è fatto sentimento, il cuore pensiero e l’intelletto azione”. Tutti i testi poetici fin qui delineati e descritti nella loro relazione con la scena sono stati raccolti e pubblicati nel volume Lungo la vertebrata costa del cuore per i Quaderni del Battello Ebbro con una nota introduttiva del grande poeta Pierluigi Bacchini. In B - sette profili per un’architettutra sentimentale è il primo lavoro del Progetto teatrale e musicale dedicato sempre a J. S. Bach, ma in particolare alla celebre “Arte della Fuga”: un percorso di ricerca volto ad indagare in maniera approfondita l’articolata relazione tra scrittura poetica, scrittura scenica e scrittura musicale. Come nella celebre composizione bachiana l’ultima fuga - incompiuta - si costruisce sulle quattro note che costituiscono il nome Bach (nella notazione tedesca il nome delle note è dato in lettere), anche il compimento formale del progetto scenico si attuerà in quattro distinti momenti teatrali, In B, In A, In C e In H. Dal topos al typos. La prima azione di In B - sette profili per un’architettutra sentimentale muove il corpo e la voce dell’attore secondo il modello di alcuni contrappunti che costituiscono l”Arte della Fuga”. Il movimento dell’attore nello spazio scenico e nel luogo del testo compie un percorso di linee, sussulti e stasi come fosse il tracciato di un sismografo che registra violenti e spasmodici movimenti tellurici di un rosso topos sentimentale. La diafonìa, letteralmente la voce traverso, risponde della rappresentazione grafica di un andamento fenomenico per cedere progressivamente all’arresto della lingua, ad una sorta di momentanea glossoplegìa, fondamento e misura indispensabile per la costruzione dell’edificio sentimentale che accoglierà l’istante poetico. La seconda azione, In B - quattro contrappunti di un’architettura sentimentale, si costruisce secondo il modello di quattro voci che contrappuntano il movimento vocale al movimento spaziale proprio come l’incedere del primo contrapunctus bachiano. La circolarità compiuta dalla voce poetante del canto fermo in canto chiude il movimento ortogonale di altezze melodiche differenti: maschile, femminile e bianca. Il rigido contrappunto formale delle quattro voci restituisce non-mediato il canto viandante della poesia e del bàttuto core: “e ch’io cerc’anche’l canto altrove pur che’l cor mai voc’estin...gu...a”. In A - Vor deinen Thron tret’ ich (Davanti al tuo trono io sto): il percorso testuale di quest’ulteriore azione poetica si compie nell’ulteriore progressione di neo-scritture maturata nell’ambito di un percorso laboratoriale per giovani attori: una sorta di aumentazione didattica del verso secondo uno schema di carattere contrappuntistico. Protagonista di questa parola “per aumentazione” rimane la domanda fondamentale sulla necessità del “canto” e della sua vita, coincidente con il mistero dell’arte e della vita stessa. É dunque ancora una volta nell’acerbo corpo e nella fragile bocca dell’attore “fuori forma” che la poesia tenta il suo possibile cantarsi: tra sosta e cammino, tra ristoro e insaziabilità. Dopo le due precedenti ricognizioni sull’Arte della Fuga – che hanno prodotto i due eventi performativi “in B – sette profili per un’architettura sentimentale”, “in A – Davanti al tuo trono io sono”, è seguito un altro momento di riflessione sulla conduzione del corpo poetico in scena e di una matematica del cuore attraverso “in C – elogio della misura”. Il progetto prosegue con l’eventuale realizzazione di un’ulteriore tappa: “in H – titolo da definire”. Ultimo “approdo” scenico e poetico realizzato recentemente, ma ancora in corso d’opera – non è ultimata infatti la scrittura della terza parte e della sua realizzazione scenica – è il confronto con la figura mitica e

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potente di Tristano, “abile cantore del core piangente e sapiente costruttore di versi, tra arma ed arpa , tra canto e pianto”. Di questo Tristano contemporaneo, cantore per eccellenza - il cui testo si ispira al leggendario mito di Tristano di Gottfried von Strassburg - è stata riscritta l’assenza del gesto eroico cavalleresco per lasciare il posto al solo canto poetico, qui espresso come manifestazione vivente del canto della contemporaneità, vale a dire della Poesia come Necessità e Verità artistica dell’uomo. Una sorta di “a solo” cantato che si è realizzato nel primo Tristano. Canto alla Catena attraverso una serie di scritture liriche metamorfosate in canti: nel mare dell’anima l’inarrestabile navigazione del poeta approda al lido degli oscuri moti umani cantandone il mistero per poi salpare verso altre coste ignote, nella perpetua necessità di poter svelare il miracolo della poesia. La potenza della parola poetica espressa attraverso la voce, il verso cantato e il corpo attivo e re-attivo dell’attore - dunque la dimensione oralesonora del verso detto ed ascoltato - apre ad un ventaglio di ulteriori possibilità di significati testuali altrimenti limitati e parziali se affrontati nella comune scrittura e nella lettura personale ed individuale. Scrittura che vede un suo semplificarsi, un suo estendersi e dipanarsi in Tristano. Canto alla Soglia: i pochi frammenti dialogici edificano, in un’azione di sprofondamento verso l’enigma dell’origine del canto poetico, l’inarrestabilità del moto del core che accompagna il poeta nelle ignote coste dell’anima. La richiesta di un approdo momentaneo, di una breve sosta per conoscere il mistero della poesia - custodito nello scrigno della sua stessa forra toracica -, fornisce al poeta la chiave di accesso al canto del giù, effimero suono che subito fugge e di nuovo si cela nelle pieghe arroccate del ventre che sente. Adriano Engelbrecht

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LA TRILOGIA DI PASOLINI Tanto più grande il POEMA Tanto più grande il poeta… Non al contrario. E sei già un grande poeta, se chiedi con chi perderti. L’arte come opera che ti impedisca di insuperbire. Ti dico che L’ARTE è LAMENTO Qualcosa per qualcuno, ma nulla per tutti Perché già per il solo sperare tu sei nel FUTURO C’è sempre qualcuno che ci sorpassa… perché anche l’amore non è che una parte della nostra certezza… Armonia atonale … Vladimir Holan

Una trilogia che racconta il nostro incontro con l’artista Pier Paolo Pasolini e il suo Teatro, un viaggio con tre stazioni nel forse vano tentativo di conoscere l’uomo poeta, l’uomo regista, l’uomo intellettuale, l’uomo Pier Paolo Pasolini. Un viaggio importante iniziato tre anni fa, e che per interi tre anni ci ha insegnato ogni giorno, nel tentativo di una comunione da condividere non solo tra di noi, ma con tutti quelli che hanno creduto in questo progetto (produttori, distributori, amici) e non per ultimi gli spettatori che ci hanno seguito e in qualche modo ci hanno aiutato nella nostra ricerca e nello sforzo di avvicinarli ad un teatro che a prima lettura può sembrare ostico, e non per tutti; il loro esserci ci ha dato una speranza, e le forze di andare avanti. Un teatro che ci ha stimolati a cercare, risposte a domande più grandi di noi. Le risposte non sono arrivate, ma il lavoro ci ha resi vivi, e ci ha convinti che il teatro di parola è vivo come non mai, soprattutto in questa parentesi storica della nostra Repubblica, della storia del nostro paese che si affaccia a questo millennio, dove il torpore intellettuale e politico dissemina cadaveri ovunque. Oggi la parola non ha più coscienza. La parola non ha un’anima. La parola è vuota di tutto, la parola è menzogna. Ma è molto lontana da quella menzogna necessaria, come ci suggerisce il poeta, per avvicinarci, accostarci ad una qualche verità. La parola è consolatoria, ed è nella consolazione che il tutto si ferma… Nessuno più si chiede perché vivere… no, si vive e BASTA!! CHE PAURA! CHE VUOTO! In questo vuoto la parola di Pier Paolo Pasolini torna a sgorgare nelle nostre vene, incidersi sul nostro corpo, a farci credere ancora in una possibilità. Utopia NECESSARIA alla nostra voglia di vivere la vita dei teatranti. Viaggiatori, vettori di parola e di idee da condividere con tutti quelli che hanno ancora voglia di ascoltare ATTIVAMENTE – SENZA SUBIRE. PILADE – PORCILE – BESTIA DA STILE : queste le mete scelte. Questi i luoghi di memoria visitati. Queste le tappe per provare a crescere, soprattutto per provare a migliorare. Pilade, un’assemblea intellettuale dove il pubblico partecipa ad una riunione, che spezza le parole e i corpi, e divide il pane del sapere con tutti gli ospiti. Qui la forma teatrale scelta è qualcosa che si avvicina all’ essenza di un oratorio, e la parola diventa tutto, LA PAROLA è IL TEATRO, circoncisa nell’ascolto dei corpi di tutti gli spettatori disposti in un cerchio, attorno ad un tavolo altare, ma anche tavolo di un’osteria. Il cibo è la parola. Il rapporto tra gli attori, l’autore, e gli spettatori è diretto, essenziale. La veglia è ascolto.

In Porcile la regia si impone per tracciare una geometria dittatoriale, che gli attori dovranno percorrere e ripercorrere in una partitura di lucida e accecante borghesia. La parola di Pier Paolo Pasolini attacca sotto forma di teatro borghese, la borghesia stessa. Sceglie uno stile più riconoscibile, una storia raccontata con più semplicità, solo perché la borghesia possa rispecchiarsi, e riconoscersi nella propria MOSTRUOSITÀ. Gli attori danno anima e corpo a dei disegni caricaturali. MASCHERE DI MOSTRUOSA UMANITÀ . CANCRO che contamina ogni cosa. Pasolini sa che questo Virus va colpito dall’interno, combattuto all’interno del palazzo, bisogna entrare nel ventre… Il corpo viene mangiato, per poi essere mangiato a sua volta. Il corpo del figlio. Il cannibalismo visto come arma di salvezza. Qui la regia cerca di imporsi, per cercare paletti, ostacoli da abbattere, forme e stili, contro una naturalezza quasi improvvisata dei due ragazzi – lì c’è la vita – il resto sono cadaveri, carogne putride e infettate dal potere. Il rapporto con il pubblico per questa seconda stazione, è più classico, poiché è in questa classicità che si crea la “lontananza” e quindi quel ghiaccio che congela la discussione e la voglia di mettersi in discussione. In Porcile non c’è una comunione. Il rito è spiato e non condiviso. In Bestia da stile la regia è condivisa. La regia è la comunione necessaria alla ricerca. Il testo come esperimento è una opera D’ARTE. Poiché un’ autobiografia è la sintesi artistica di un percorso di vita e come tale non può essere rappresentata, e nemmeno giudicata. Le domande poste sono di tutti, e tutti sentiamo la necessità di cercare e cercare, e ancora cercare, una risposta. Queste nostre domande sono da condividere con il pubblico: Perché BESTIA DA STILE? COSA VUOL DIRE RAPPRESENATRE una biografia, un percorso teatrale scritto per appunti? Appunti per un Inno … di che Inno si parla? È un funerale ad un autore, ad un’idea di teatro?

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È il funerale della poesia. Cos’ è la poesia/ Cos’è il gesto poetico? POESIA – versi –

I versi sono vettori di parole, di un’intimità – i versi non possono essere rappresentati. La parola deve nascere, ogni volta come se venisse alla luce per la prima volta o come se fosse detta per la prima volta. L’ESSENZA. E la difficoltà di fare teatro, questo teatro, è sotto gli occhi di tutti. E i versi, come ci suggerisce la parola stessa, devono andare verso chi ascolta. Ecco un teatro da ascoltare, forse qui c’è la formula. Una pura confessione. La regia è di tutti poiché in tutti noi c’è questo mettersi nudi, per provare ad arrivare allo scheletro, rinunciando agli orpelli, alle sovrastrutture. Un teatro fuori dal sipario per provare ad essere condiviso assieme agli ospiti che verranno ad ascoltarci. Un funerale della poesia, che vede nella poesia stessa, e nella caverna dietro il sipario, una possibilità di resurrezione. Quella resurrezione che non è solo dello spirito, ma è nell’uomo e nel suo struggente esserci. Sempre. UNA MESSA laica – UN CONCERTO alla luce del giorno – Teatro non teatro –Gli attori sono chiamati ad essere parola - piena. In una totale nudità registica – Il concetto dell’attore/autore non è solo un concetto, ma è un’idea di teatro – L’attore in questo testo, ancora più che negli altri, è chiamato ad essere regista di se stesso e autore dell’intera opera. Il testo di Pier Paolo Pasolini è un’opera d’arte che rompe ogni regola e convenzione, ogni forma e stile, anzi è un viaggio negli stili per trovare l’essenza, la nudità del corpo e della parola. Uno sguardo non è sufficiente per raccontare “Bestia da stile”, occorre che lo sguardo sia di tutti coloro che raccontano, poiché solo così può avvenire una comunione culturale con gli spettatori. A volte nell’ossessione di cercare, la paura di trovare il nulla è tanta, ma proprio questa paura può aiutarci, forse è la paura che bisogna accettare, forse è la sconfitta, poiché nella sconfitta non vi è la morte, la sconfitta ci da ancora una possibilità. Ogni volta che c’è una sconfitta c’è una rinascita. “Bestia da stile “ ancora vita e poesia . Ancora una rinascita, un nuovo incontro, un INNAMORAMENTO. Un nuovo amore da vivere, da raccontare, da nutrire. Una nuova strada da seguire, un pensiero, un’idea, un appunto… Per un Inno al teatro di parola. SACRO – Rito – Poetico. Ogni spettacolo ha una sua forma e una sua vita, ma nel proporre allo spettatore l’intera trilogia, ci può essere quell’autentico scambio culturale tra l’autore, gli attori, e gli spettatori, tanto caro a Pier Paolo Pasolini. Necessario e difficile, ma come dice Pasolini è nella grande difficoltà che c’è la vera Democrazia. Antonio Latella

Presentiamo in appendice, per gentile concessione di Antonio Latella, le note di regia della Trilogia Pasolini. PILADE

Una sconvolgente ed interminabile maratona di versi che tolgono il fiato. Una marcia di lineare musicalità con un timbro e un ritmo ossessivo, cadenzato dal susseguirsi delle parole, pari allo stillicidio di una goccia che con vibrante ossessività va a rompersi sulla pelle dei tamburi. Una rivoluzione di parole che creano una crepa in tutto ciò che non muta, nella storia che si ripete con la vergogna prevedibile del potere politico. Una poetica corsa alla ricerca di una luce da contrapporre alla luce accecante della ragione. Il grande teatro di Pier Paolo Pasolini è il teatro di parola. La parola diventa tutto: armi, architettura; diventa essa stessa lo spazio teatrale, il luogo scenico della mente dove gli uomini si fermano ad ascoltare e a riflettere; dove il testo, gli attori, l’autore, il pubblico, sono messi alla pari; partecipano ad un grande abbraccio culturale, affinché il rito possa essere ancora una volta compiuto. Come dice Pasolini nel suo Manifesto teatrale: “Il teatro di parola non ha alcun interesse spettacolare, mondano, ecc., il suo unico interesse è l’interesse culturale, comune all’autore, agli attori e agli spettatori”. Il suo teatro non è e non sarà mai il teatro del chiacchiericcio, dell’urlo senza ragione d’essere. Una sfida avvincente che i sei giovani attori che mi accompagnano in questo viaggio, accettano di affrontare con una totale adesione, affinché le loro anime possano essere parola, e nella loro mente il battito del cuore sia così forte da tentare la strada della non ragione contro la ragione (come fanno i poeti, i folli, gli assassini). Antonio Latella

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NUOVO TEATRO NUOVO in collaborazione con Teatro Out Off presenta PILADE di Pier Paolo Pasolini con Marco Foschi, Pilade Annibale Pavone, Coro Giuseppe papa, Contadino Enrico Roccaforte, Ragazzo Cinzia Spanò, Elettra Rosario Tedesco, Oreste costumi Cristina Da Rold luci Alessandro Canali scenotecnica Alberto Bartolini Sergio Cangini tecnico luci Monica Gorla assistenti Claudio Angelici Laura Giovannini regia Antonio Latella

*** PORCILE

Ancora una volta subisco l’incanto della parola di Pier Paolo Pasolini unica e potente. Necessaria. Porcile è il secondo appuntamento con Pasolini. L’anello che simbolicamente va ad unire o a far da ponte; tra il primo testo affrontato Pilade e quello con cui chiuderemo il nostro percorso Bestia da stile. Testi potenti, vibranti, poiché in ogni verso c’è Pier Paolo Pasolini, quasi come se fossero un autobiografia, illuminante e allo stesso accecante, per la cruda verità tramutata in poetica…valanghe di versi che tolgono il fiato. Un viaggio cominciato da un anno, con i miei amici di sempre – con cui condivido le scelte degli autori e dei testi affinchè ci sia adesione totale che ci coinvolge in tutte le ore e in tutti i giorni. Così la ricerca si trasforma in discussione quotidiana, assemblea culturale dove l’incontro e lo scontro, diventano la forza motrice per la nostra crescita, forse come “artisti” o forse meglio come artigiani; ma sicuramente come uomini sempre e costantemente in cerca. Con Porcile Pasolini ci spiazza, ci diverte, ed in qualche modo ci fa tornare alle origini del teatro fatto per un pubblico borghese. In questo testo il poeta volutamente abbandona la potenza evocativa dei suoi versi, per accettare la sfida di un teatro dai dialoghi brevi, dalla scansione delle scene, dal tratteggio dei personaggi, appartenenti al teatro borghese. Quel teatro da lui stesso messo alla berlina, qui chirurgicamente esplorato, ingigantito, per cercarne il male, il virus che lo ha infettato e lo corrode dall’interno, lo rende mostro accecato dal potere – la grande famiglia che con ostinazione, e con l’inganno continua a dominare su tutto e su tutti. Ma la rivolta non si è fermata, con questo testo Pasolini non urla le sue parole fuori dalle mura del grande teatro; ma le sussurra dall’interno, va dritto al cuore, al centro della tavola della imponente casa borghese. Tutto ciò è quel che accade a Julian, il nostro eroe, protagonista di Porcile. Non basta più urlare sotto le mura di Berlino, con cartelli che sono solo parole scritte ma presto dimenticate, o assolutamente

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fuorvianti, tipo “ABBASSO DIO” … per risolvere il problema bisogna per esempio per prima cosa accettare ciò che si è, la nostra nascita. Figli di: “operai, contadini, borghesi” non dimenticare la radice perché è quella che ci ha fatto essere, e se la radice è marcia è da lì che bisogna cominciare. Julian prova tutti i modi per farsi sentire, e la vera rivoluzione si fa con il silenzio – IL DIGIUNO TOTALE DELLE PAROLE. Il silenzio destabilizza, fa perdere il controllo, rende impotenti i potenti, poiché non sanno come, cosa, che colpire. Alla fine il silenzio si trasforma in verbo, in carne, per essere divorato ed andare ad annidarsi nel corpo malato di chi ci ha dato la vita e che ci vuole vedere crescere già morti. Antonio Latella

N.T.N. Nuovo Teatro Nuovo Teatro Stabile di Innovazione in collaborazione con Festival di Salisburgo/Young Directors Project presenta PORCILE di Pier Paolo Pasolini con

Julian Annibale Pavone Ida Stefania Troise Padre Marco Foschi

Madre Cinzia Spanò

Hans Guenther Mauro Pescio

Herdhitze Rosario Tedesco Clauberg (ex Ding) Giuseppe Lanino Servo Enrico Roccaforte

Spinoza Rosario Tedesco, Marco Foschi, Cinzia Spanò, Mauro Pescio, Stefania Troise, Giovanni Prisco, Giuseppe Lanino, Giuseppe Papa Wolfram Giovanni Prisco Maracchione Giuseppe Papa Scene Mela dell’Erba

Costumi Cristina Da Rold Suono Franco Visioli Disegno luci

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Giorgio Cervesi Ripa Realizzazione scene Clelio Alfinito

Costumista realizzatrice Gabriella Campagna Regista assistente Tommaso Tuzzoli Regia Antonio Latella Debutto Festival di Salisburgo Young Directors Project Teatro Republic 8 agosto 2003

*** BESTIA DA STILE Tanto più grande il POEMA Tanto più grande il poeta… Non al contrario. E sei già un grande poeta, se chiedi con chi perderti. L’arte come opera che ti impedisca di insuperbire. Ti dico che L’ARTE è LAMENTO Qualcosa per qualcuno, ma nulla per tutti Perché già per il solo sperare tu sei nel FUTURO C’è sempre qualcuno che ci sorpassa… perché anche l’amore non è che una parte della nostra certezza… Armonia atonale … Vladimir Holan

“Bestia da stile” un testo non testo. Un’opera teatrale che attraversando frantuma tutte le regole e le forme di scrittura teatrale. Una sorta di biografia, di testamento, dove lo stesso Pier Paolo Pasolini, si schiera in prima linea, raccontando una storia e rivelandosi in questa non storia abitata da un universo di morti, che vide, nella primavera di Praga, la fine del Comunismo. Non ci sono personaggi ma solo fantasmi, e la parola prende forma solo attraverso i ricordi e la morte. I versi sono vettori di parole, di un’intimità – i versi non possono essere riprodotti, possono essere solo ripetuti a tutti coloro che con la propria presenza celebrano il rito teatrale: attori e spettatori. La parola deve nascere, venire alla luce, e ogni volta deve essere detta per la prima volta. L’ESSENZA. La difficoltà di fare teatro, questo teatro, è sotto gli occhi di tutti. I versi, come ci suggerisce la parola stessa, devono andare verso chi ascolta. Un teatro da ascoltare, forse qui c’è la formula. Una pura confessione. La regia è condivisa con i miei amici-attori. La regia è la comunione necessaria alla ricerca. La regia è di tutti poiché in tutti noi c’è questo mettersi nudi, per provare ad arrivare allo scheletro, rinunciando agli orpelli, alle sovrastrutture. Un teatro fuori dal sipario per provare ad essere condiviso assieme agli ospiti che verranno ad ascoltarci. Un funerale della poesia, che vede nella poesia stessa, e nella caverna dietro il sipario, una possibilità di resurrezione. Quella resurrezione che non è solo dello spirito, ma è nell’uomo e nel suo struggente esserci. Sempre. UNA MESSA laica – UN CONCERTO alla luce del giorno – Teatro non teatro –Gli attori chiamati ad essere parola - piena. In una totale nudità registica – Il concetto dell’attore/autore non è solo un concetto, ma è un’idea di teatro. Il testo di Pier Paolo Pasolini è un’opera d’arte che rompe ogni regola e convenzione, ogni forma e stile, anzi è un viaggio negli stili per trovare l’essenza, la nudità del corpo nella parola stessa. Un unico sguardo non è sufficiente per raccontare “Bestia da stile”, occorre che lo sguardo sia di tutti coloro che raccontano, poiché solo così può avvenire una comunione culturale con gli spettatori. A volte nell’ossessione di cercare, la paura di trovare il nulla è tanta, ma proprio questa paura ci aiuta ad accettare la sconfitta, poiché nella sconfitta non vi è la morte, la sconfitta è l’ altra possibilità. Ogni volta che c’è una sconfitta c’è una rinascita. “Bestia da stile” ancora vita e poesia .

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Ancora una rinascita, un nuovo incontro, un INNAMORAMENTO. Un nuovo amore da vivere, da raccontare, da nutrire. Una nuova strada da seguire, un pensiero, un’idea, un appunto… Per un Inno al teatro di parola. SACRO – Rito - Poetico. Necessario e difficile, il solo ad essere, come afferma lo stesso Pasolini, teatro democratico. Antonio Latella

Nuovo Teatro Nuovo Teatro Stabile di Innovazione / Teatro Stabile dell’Umbria / La Biennale di Venezia presentano Bestia da Stile

di Pier Paolo Pasolini Jan Marco Foschi Sorella Stefania Troise Madre Cinzia Spanò Padre Rosario Tedesco Karel Enrico Roccaforte Novomesky Annibale Pavone Ragazzo Partigiano Giuseppe Lanino Il Capitale Rosario Tedesco La Rivoluzione Giuseppe Massa Coro Marco Cacciola, Giuseppe Lanino, Marco Martini,Giuseppe Massa, Giuseppe Papa, Annibale Pavone, Mauro Pescio, Giovanni Prisco, Enrico Roccaforte, Rosario Tedesco, Cinzia Spanò, Stefania Troise Costumi Cristina Da Rold Disegno luci Giorgio Cervesi Ripa Suono Franco Visioli Realizzazioni sceniche Clelio Alfinito Sarta di compagnia Gabriella Campagna Foto di scena Alessandro Giuliano Ufficio Stampa Roberta Rem Regista assistente Tommaso Tuzzoli Regia di gruppo a cura di Antonio Latella

debutto Biennale di Venezia – 36. Festival Internazionale del Teatro – Teatro Piccolo Arsenale - 22 settembre 2004

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DOVE SI TROVA IL TEATRO DI POESIA? Che cosa è il teatro di poesia? Esiste, è qualcosa di definito o definibile, o è piuttosto una definizione che si presta a mille significati, che può essere maneggiata e modificata da chiunque assumendo facce diverse? Guardo indietro, in questi anni di vita che ho alle spalle, e mi dico: quando ho assistito ad un teatro di poesia? Ne ho conoscenza? Che ricordo ne ho? Ho poi provato, in qualche modo, a praticarlo? Vediamo un po’, posso fare due cose: la prima è dare un significato preciso alla definizione di partenza, “teatro di poesia”, e poi, analiticamente, stabilire quali spettacoli, o attori, o meglio quali momenti teatrali che io abbia visto nella mia vita rientrino nei termini della definizione iniziale. Oppure posso procedere al contrario: senza dare alcun significato preciso alla definizione di partenza, lascio che il mio istinto porti davanti agli occhi della memoria tutto quello che associa alle parole “teatro di poesia” e, una volta che il mio istinto ha dato le sue risposte, confrontandole tra loro definisco che cosa è il “teatro di poesia”. Se i miei ricordi scolastici non mi ingannano, si tratta di arrivarci per deduzione o per induzione, ecco, qualcosa del genere. Voglio cominciare dal secondo procedimento (quello che come si vedrà pone i problemi maggiori) chiedendomi: quando nella mia vita ho visto, incontrato, conosciuto, esperito, un “teatro di poesia”? Ed ecco, senza aver dato nessuna definizione preliminare di “teatro di poesia”, cosa la mia memoria associa a quelle parole: ricordo il momento dell’”Amleto” di Nekrosius, in cui il grosso pezzo di ghiaccio, simbolo dello spettacolo, si scioglie. Ricordo, ancora con Nekrosius, ma nel suo “Faust”, una scena sconvolgente in cui Faust viene irretito dentro un elettroencefalogramma luminescente di corde danzanti, che, al ritmo sincopato di femminili fonemi, lo costringono a rendere l’anima. Ricordo Pippo Delbono che legge un foglietto, e poi urla, ripete parole, tutto esplode, e mi pare che tutti nel pubblico siano presi da brividi violenti. Ricordo Danio Manfredini che, alla fine de “La notte poco prima della foresta” di Koltès, si libera in una danza, ed io vedo distintamente che a muoversi sulla scena c’è un angelo e non più un uomo, e tutte le cordinate spazio-temporali vacillano, e di nuovo scendono lacrime, e la bocca si apre. Ne “La scimia” di Emma Dante, ricordo solo un momento, ma fulminante: quando la scimmia, appunto, appare per un attimo crocifissa e penzolante, prima di sparire in un gioco di luce, ed io sento, ecco sì, una possibile visione di Dio. Mi fermo (è già un casino..), e mi dico: perché ho associato questi ricordi alle parole di partenza “Teatro di poesia”? Cosa hanno in comune questi momenti? A quale (discutibilissima) definizione di “Teatro di poesia” giungerei basandomi su queste associazioni istintive? Scelgo una parola chiave per ogni ricordo, ed ecco che cosa ne esce: Si scioglie/ rende l’anima/ brividi violenti/ un angelo/ visione di Dio. Oh mamma. Siamo caduti nel misticismo.. Eppure sì, c’è qualcosa che mi corrisponde in questo gioco. E la definizione indotta suonerebbe, diciamo, più o meno così: definisco teatro di poesia, quel teatro che, attraverso immagini, azioni, parole, situazioni, arriva a generare uno “spostamento”, una “caduta”, un passaggio dall’ordinaria realtà (della ragione) ad una altra realtà, fatta di sensazioni, visioni, violente scosse, cadute, rimembranze. Per essere ancora più radicale (ed onesto), dovrei dire: definisco “Teatro di poesia” quel teatro che ci ricorda, anche solo per un attimo, che “la realtà” non è quella della ragione e della mente lucida, bensì un’altra più profonda ed indefinibile, nella quale non possiamo che perderci, abbandonarci, che porta dritta verso il sacro, la morte, Dio, lo stato animale, l’infinito, il mistero, la perdita dell’”io”, l’assoluto. Kantor diceva: la mia definizione di teatro è una definizione poetica e mistica, il mio è un teatro nel quale la Realtà si trova continuamente messa in crisi, su un Confine tra due mondi, quello dei vivi e quello dei non-vivi, e su questo Confine la Realtà è in perenne confronto con le Troupe del Circo della Morte. Ma giunti a questo punto… Giunti a questo punto direi di abbandonare, sul più bello, l’analisi induttiva (ahimè dove non ci ha portato..) per passare alla più rassicurante analisi deduttiva, e poi fare un confronto. Ricomincio quindi da capo, dando però questa volta una definizione di partenza, possibilmente sensata, di cosa sia, esattamente, il “Teatro di poesia”. E cercando di essere semplice. Ecco, facciamo così: “Teatro di poesia” è quel teatro che mette in scena, anziché un testo in prosa, un testo in versi. Più semplice di così! Ma…e l’annoso problema delle traduzioni? E Shakespeare? E i tragici greci? O, per dirne uno di oggi, Heiner Müller?

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Sono o non sono ”teatro di poesia”? Se i versi sono la discriminante…la definizione è piuttosto labile e mobile.. Hmmm.. Proviamo allora così: “Teatro di poesia” è quel teatro che mette in scena, anziché un testo scritto e pensato per il teatro, un testo poetico (ma non necessariamente in versi) scritto e pensato per la lettura o tutt’al più per la “declamazione”, e cioè per la lettura ad alta voce. Sì, forse va meglio.. ma è interessante? Diciamo che mi piacerebbe arrivare ad una sintesi tra le due definizioni (quella induttiva e quella deduttiva), per provare a giungere a qualcosa che sia personale, e anche che mi corrisponda se guardo a quelle poche cose che ho provato a fare nel mio lavoro. E allora, proviamo così: definisco teatro di poesia, quel teatro che utilizza testi poetici (non scritti per il teatro) come uno dei mezzi per ottenere “uno spostamento”, per generare un corto circuito, per far intuire uno stato di realtà “altro” da quello ordinario, per mettere per un momento in crisi le certezze (o le incertezze) della ragione, e far intuire uno sfondo mistico-poetico percepito semplicemente come “qualcos’altro”. Ecco. In teatro, mi trovo a pensare alla poesia come ad un mezzo. Un mezzo che aiuta a portare “da qualche altra parte”. Insieme all’azione, alla eventuale trama, alla recitazione, alle immagini, alle luci, alla musica.. Ma non definirei, ad esempio, “teatro di poesia” un teatro in cui uno o più attori sono in piedi a leggio, e declamano versi o poemi. Per quanto possa essere, ovviamente, meraviglioso. Penso invece a quando la poesia, il verso, la visione letteraria, attraverso la loro “messa in scena” si fanno tramite verso un altrove, verso un altro stato. Nel mio breve percorso registico, in due occasioni ho provato ad utilizzare la poesia in teatro. La prima volta, in uno spettacolo che si chiama “Morte per acqua”, sono partito da “The waste land” di T. S. Eliot. I personaggi messi in scena erano immaginati nell’attimo di una mitica, archetipica, universale “morte per acqua”(con tanto di catastrofe ambientale e dati scientifici allarmanti), e gli squarci poetici (e profetici) di Eliot erano visti come rimembranze di episodi delle loro vite, che prendevano forma nella memoria (e quindi in scena ) nell’attimo dilatato della Fine. In un altro spettacolo, “Fuoco!”, ho innestato in un racconto di H. Müller, “Ouverture russa”, un montaggio di poemi di V. Majakowskij (La nuvola in calzoni, Amo, Guerra e universo, Lettera al compagno Kastrov, A voi!). La storia raccontata da H. Müller narra di un comandante dell’Armata Rossa, che nell’ottobre del 41, condanna a morte un proprio soldato colpevole di essersi sparato ad una mano per evitare la battaglia con le truppe tedesche. Ma quando il soldato condannato, nell’ultima ora prima delle sua fucilazione, si trova a ricordare e rivivere gli episodi più importanti della propria vita, ecco che, in scena, sono i poemi di Majakowskij a dare voce a questi ricordi, sebbene il soldato non possa essere evidentemente Majakowskij, non foss’altro perchè nel 1941 il poeta russo era morto da tempo. In entrambi i casi, ho evidentemente “tradito” la fonte poetica, certamente la ho utilizzata, montandola in una costruzione teatrale lontanissima dal contesto originario, cercando in compenso di cavarne al meglio la potenzialità teatrale e immaginifica. Mi sono messo a metà tra la vita e la morte, tra la storia e la fantasia, tra l’attimo concreto e l’eterno, e in quello spazio senza nome mi sono affidato alla poesia per continuare a “dire”. Non sta ovviamente a me stabilire se e quanto ci sono riuscito, ma posso senz’altro dire che la maggior parte del pubblico ha dimostrato, pur nell’ovvia difficoltà iniziale, di appassionarsi alla poesia e di abbandonarvisi. La parola poetica, il verso, si portano dentro per natura una destrutturazione ed una potenzialità “mistiche”, hanno in sé la naturale disposizione a disattivare certi meccanismi di percezione per attivarne altri, più complessi e profondi. Portano, insomma, di per sé “da un’altra parte”. In ciò generano anche, ovviamente, una resistenza ed un iniziale rifiuto. Ecco perché la poesia in teatro mi affascina tanto. Ecco perché mi trovo spesso a leggerla, ed ecco perché quando la riconosco, da spettatore, un brivido di riconoscenza e gratitudine profonda mi prende verso coloro che hanno saputo creare, come si dice, “un attimo di poesia”, un attimo cioè che mi ha saputo portare “da un’altra parte”, laddove la sensazione di “esistere” si fa intensa, violenta, magica, spaventosa. È rimasto, oggi, solo il teatro a poter svolgere questa funzione (parlo del teatro come sede, comprendendo quindi anche la danza e la lirica). Tutti gli altri media fanno esattamente l’opposto. Ci ricordano che non c’è nient’altro, oltre all’evidente. Che tutto è chiaro e delimitato. Cosa possiamo fare? Niente, se non rimuovere la morte (e tutte le domande che la morte pone) e nel frattempo godere, “ammazzare il tempo”, provare a vincere, “diventare qualcuno”, uccidere. Poi morire, certo. Non c’è fede in nulla, solo una atrofizzata, puzzolente pratica religiosa che si spaccia per fede.

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Non c’è Sacro, non c’è mistero, non c’è magia, non c’è, oltre alla faccia offesa della Terra, nient’altro. Come se sapere che siamo in una delle innumerevoli galassie in esplosione dentro un infinito spaziotempo, togliesse diritto ad ogni domanda, ad ogni dubbio, ad ogni mistero. È tutto chiaro. È solo per contrappormi a questa terrificante visione, che è quella del nostro tempo, che credo nell’importanza di un teatro di poesia. Che nel mio piccolissimo cerco di praticarlo, ossia di inseguirlo. Che ringrazio e amo, davvero, coloro che riescono a realizzarlo.

Paolo Mazzarelli

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GLI AUTORI

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Il teatro dei poeti

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IL REPARTO No… non è vero che parlo troppo. Invece si potrebbe dire che sciupo il tempo in piccoli silenzi che non servono. Ma non servono a chi? A mia madre che una volta per tutte vorrebbe capire come sono fatto?

È… … che sono fatto troppo male. E lo sanno benissimo gli infermieri che mi trasportano da un reparto all’altro (dalla cucina all’astanteria). Lo sa quella donna bellissima che si taglia le unghie con una trousse giocattolo e che si pettina con un oggetto quasi insensato (una specie di mezzaluna). * Non odio nessuno qui. Nemmeno la Caposala che è spietata con noi e ci leva gli oggetti di mano anche se è chiaro che lei ad esempio con quella specie di mezzaluna non saprebbe farci niente.

Io comunque la guardo negli occhi con le pupille ferme e tonde poi le tocco una gota con due dita come volessi darle un buffetto e le dico:

– Pensa che sia ingrassato? Mi guardi bene. Non abbia fretta di rispondere. Il peso è un’opinione di una certa coerenza e le bilance sono strumenti incerti e quasi trepidanti. Hanno senz’altro un cuore troppo delicato. E poi… non ti guardano mai negli occhi.

* La Caposala mi sorride o non mi sorride? Direi… che non lo sa nessuno.

E certe cose è meglio che rimangano un segreto perché tutti d’un tratto sarebbero gelosi e insomma… si sentirebbero esclusi da questa vita che non può uscire dalle finestre ma che si apposta dietro le tende per guardare fuori e magari si accontenta di immaginare il giardiniere che invece di tagliare i fiori morti muove le forbici a caso.

* È un posto dove non ci sono bambini.

E anche la donna che si taglia le unghie non è più giovanissima. Anzi è una donna anziana e le unghie se le taglia un po’ male. (Sarà che non si piega bene o… non ci vede abbastanza).

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Potrei aiutarla ma credo che lei non vorrebbe. Non mi conosce affatto eppure pensa che finirei per perdere quasi subito la pazienza. (E con le forbici in mano uno diventa pericoloso non è vero?)

No non è vero perché io sono il più buono del mondo e a mia sorella Elvira non ho mai torto un capello. Nemmeno quando lei mi faceva i dispetti più disumani. Dispetti crudelissimi e inimmaginabili dispetti così grandi che non se ne può parlare. Dispetti che più di una volta hanno oscurato il sole e fatto cadere la luna in un tranello assolutamente perfetto.

Se fosse qui mio padre potrebbe testimoniare. Se non fosse stato rinchiuso da mia madre in quella madia troppo piccola. E se lei non lo avesse fatto impazzire con certe abitudini irritanti come quella di dargli le spalle a letto e di sprofondarsi malvagiamente in un libro di ricette o nell’Enciclopedia Medica quando lui voleva semplicemente grattarle la schiena.

* Se fossi pazzo mi piacerebbe essere una specie di divinità non so se equestre o campestre. Insomma mi piacerebbe andare a cavallo (e parlarci di tutto col cavallo). Poi smonterei di sella davanti al giardiniere e lo prenderei per un orecchio perché io (gli direi tra le lacrime di rabbia) non li sopporto i lavori fatti male.

* Mia madre non è degna di me. Come le dico sempre lei dovrebbe pulire bene dove cammino. Posso inciampare in un granello di polvere e fare un volo stratosferico.

E la testa? Si può sapere dove la batto? Si può negare che il mondo fuori dalla finestra è solo un percorso a ostacoli? … in fondo il mio piccolo padre stava bene nella sua madia. E in ogni caso sarebbe stato pronto al Secondo Diluvio Universale (se fosse cominciato). Certo mia madre lasciava sempre tutti i rubinetti aperti (come per darne notizia). Ma lui diceva forse con una punta di ironia (ironia della sorte)

che in casa nostra gli scarichi funzionavano straordinariamente bene.

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Notizia. Roberto Amato è nato nel 1953 a Viareggio, dove vive e lavora. Sue poesie sono uscite su «Nuovi Argomenti» e «Paragone». Nel 2003 ha vinto il Premio Viareggio-Répaci per la sezione Poesia con Le cucine celesti (Diabasis, Reggio Emilia, 2003). Nel 2006 è uscita sempre per Diabasis L'agenzia di viaggi.

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RILKE_BACCHINI [FRAMMENTI POETICI DA “I SONETTI A ORFEO” DI RAINER MARIA RILKE Parte prima: II-V-IX-XV-XVI-XXII-XVI Parte seconda: I-IV-XXVII-XXVIII-XXIX E DA “CONTEMPLAZIONI MECCANICHE E PNEUMATICHE” DI PIER LUIGI BACCHINI * TRADUZIONE E MISE EN PAROLE FRANCESCO PITITTO

* LA TRADUZIONE DEL SONETTO XXVIII E’ DI GIAIME PINTOR] DAI SONETTI A ORFEO PARTE PRIMA – II

E quasi una ragazza era e nata Da questa gioia di canto e lira E splendente nella veste trasparente della Primavera. E un letto ha fatto nel mio orecchio. E in me ha dormito. E tutto era il suo dormire: L’albero che io guardavo, questa Palpabile distanza, questo sensibile prato, E ogni meraviglia che mi ha preso. Lei dormiva il mondo. Dio del canto, come L’hai creata ancora prima d’averla svegliata? Lei, lei è nata e dorme.

Dove è la sua morte? Oh, questo tuo motivo Non cadrà nel nulla, eh, e il tuo Lied sarà compiuto? E a me dove batte? Una ragazza PARTE PRIMA – V

Non edificate lapidi. Lasciate che la rosa Sola ogni anno fiorisca in suo onore. Perché Orfeo è. La sua metamorfosi Nell’una e nell’altra. Non cerchiamo

Altri nomi. Nel tutto È Orfeo, va e viene. Non è bello abbastanza, se oltre il tempo di una rosa Un giorno rimane? O come deve svanire per farsi capire! E nello sparire prova terrore Ma la sua parola l’esser qui non comprende, egli già è là dove voi non lo seguite. La grata della lira non trattiene la mano. E nel suo obbedire lui già sta oltre.

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PARTE PRIMA – IX

Solo quello che la lira alzava, anche tra ombre, un canto infinito può avere in presagio.

Solo chi con i morti il papavero Gustava, il loro, il più lieve dei toni non perderà domani.

Se anche il riflesso nello stagno Spesso ci confonde: Wisse das Bild. Sappi la Figura.

Solo nel Doppelbereich – il doppio regno tra morte e vita – Si fanno le voci Dolci e per sempre. PARTE PRIMA – XV

Aspettate … un sapore … buono è e vola via. … musica breve, piedi pestati, un sussurro -: ragazze, voi calde, ragazze, voi mute, danzate il sapore del frutto morsicato! Danzate l’arancia. Chi può scordarla, come lei, sommersa da sé, alla dolcezza resiste. Lei è stata vostra. Lei a voi con delizia si è data.

Danzatela l’arancia. I più caldi campi Fate roventi voi, che diventi rossa Nei cieli della patria! Ardenti, divampate Profumi su profumi. Stringetevi Alla scorza, che pura respinge, al succo, che la riempie di gioia. PARTE PRIMA – XVI

Tu, mio amico, tu sei solo, perché … Noi con parole e segni Facciamo nostro il mondo, forse la sua più delicata, pericolosa parte. Chi segna con un dito un odore? Ma le forze, che ci minacciano, tu le senti … Tu sai dei morti e ti spaventi di fronte alla magia.

Vedi, il nostro compito è unire Parti e frammenti come fossero il Tutto. Difficile è darti aiuto. Prima di tutto: non piantare me Nel tuo cuore. Io crescerei troppo veloce. Ma al mio Signore la mano io guiderò e gli dirò: Qui. Questo è Esaù nella sua pelle.

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PARTE PRIMA – XXII

Noi siamo la forza che spinge. Ma la corsa del tempo, vedete, è solo un piccolo passo nell’eterno restare. Tutto ciò che affretta Sarà presto svanito; solo ciò che rimane ci inizia allo stare.

Figli, il vostro coraggio Non gettatelo nel sentire veloce, e neanche nel provare a volare. Tutto è fermo: scuro e chiaro, fiore e libro.

PARTE PRIMA – XXVI

Ma tu, dio, tu, fino al limite ancora intonavi, Quando lo stormo delle pazze Menadi si scagliava, Tu le loro urla coprivi con ordine, tu il più bello, Dalle forze della distruzione s’alzava la tua Musica a costruire. Nessuna tra loro, la tua Testa e la tua Lira hanno colpito. Anche se cadevano e infuriavano, e tutte le appuntite Pietre che lanciavano al tuo cuore, Leggere ti sfioravano e dolci erano all’orecchio.

Alla fine ti fecero a pezzi, sfiancate dalla vendetta Mentre il tuo lamento ancora nei leoni e nelle rocce si adagiava E negli alberi e negli uccelli. Là canti tu ancora.

O tu perduto dio! Tu infinita traccia! Solo perché te l’odio furioso in pezzi ha sparso, Siamo noi quelli che ascoltano ancora e una bocca della Natura. DA CONTEMPLAZIONI MECCANICHE E PNEUMATICHE GIARDINO RINCHIUSO

Tutte queste foglie. E l’albero di sambuco ricco di sensi. Piovaschi. Quando il sambuco si bagna, profuma intensamente. Primordiali verdi. Oh, nella mia vita Ho conosciuto donne e uomini Ma anche dèi. Ho parlato E mi rispondevano. E’ difficile: se parlano Sembra sempre che dicano altro. Intermediari? Alcuni Parlavano attraverso foglie rosse Nascoste da altre foglie Con nervature molto evidenti. Senza nome. Foglie Assai vaste, bacate, orride. Toccavano terra.

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E’ difficile amarli.

Talvolta dànno sensazioni felici, anche sensuali. Certi massi, riversi, avevano un pube verde, di musco. Statue. Fantasticato molto, con interferenze culturali di dèi pagani e un poco d’Oriente. Non si sa, non ci si può credere. Ma li ho pensati spesso, anche nelle zone aride, o sopra le distese d’acqua. IV. PRIMO QUARTO

Nella mia vita ho parlato con vecchi Vissuti in altre lune. E cammino col bastone Appartenuto a un altro.

Quest’uomo che mi cammina al fianco con il suo bastone, e mi trasmette esuberanze, era selvaggio, e mi ha portato un tavolino tondo per rendermi più agevole la scrittura. Non sapeva che questa antichità di parole Si scrive sopra l’erba, e morendo ogni volta, come amando. Ora benché vitale e amante di cibi E d’irruenze amorose E ricco d’ire (e acuto Come questa punta), è silenzioso Nella sua tomba. RADIOGRAFIA

Ho guardato il mio spirito Come una nube, era Nelle profondità del corpo. Seghettato Il tubo spettrale Con la sacca dello stomaco, e il tenero cardias Dolorosamente corroso. Colpa di attese, e di quelle parole Che mi sono state scagliate contro Come cani da morso. GIORNI

Ma poi i fiori morivano – il vaso trasparente delle zinnie Mostrava i gambi, i loro poveri peli, macchie, e alla sommità uno, ancora violaceo, con orli giallognoli, d’autunno; ma gli altri ormai senza colore, nel rattrappirsi delle corolle. Ecchimosi E quel grosso bitorzolo senza petali. La nudità mostrata, e le foglie con le sembianze della disperazione. Le zinnie, ornamento degli angoli. IL VOLO DELLE PARCHE

O gradita, scaltra, barbara cornacchia Vecchia voce di carnivora Occupante i territori dei colombi E dei falchi

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Sui calanchi –

E ringraziate col gracchiante nord Le più fertili terre. Il vostro è un grido dirupato, con notti spaventose, con solitudini d’echi, con scricchiolii di rocce.

O antiche, è il canto ritardato Dei freddi avi rettili, tanto che il ramarro Fa capolino. Chissà perché Mi piace guardarti, o uccello delle nevi Sporche di sangue – dall’oleoso volo. Forse perché selvaggiamente imiti la parola, sacra al poeta e alle comari. URNA DI VETRO

Ho provato a seppellirmi, per un poco, dietro la porta, seduto tra le ante della piccola bussola. –

tutta la botanica del creato di là dai vetri, è ridotta a un vialetto con una quercia, i cedri, e due emerocallidi.

I godimenti di una volta, quando l’organismo era me stesso secondo il desiderio – tutta la materia, credo, vibri così, trascorsa dalla vita, anche gli antri aridi dei vulcani, quando fuoriescono le lave che si consolidano, e che s’imponga sempre la giovinezza per i canalicoli seminali. Come può darsi Che uno come me, senza castità, possa un giorno salire sino a un eremo, distaccarsi in preghiera, esalarsi di sera se non nel maggio, trascinando con sé un’intera foresta e la volatile polvere dei suoi profumi, che apre le bocche dappertutto per nutrimento, per amore? Questa è un’urna di vetro – ma all’esterno Le generazioni metodiche delle ombre Si spostano, e un tepore penetra il legno, dà sussulti, scotimenti, moti d’atomi: e anche le parole sono fiato, soglia dell’audiogramma, energia-materia che rientra nell’eterno. DAI SONETTI A ORFEO PARTE SECONDA – I

Respirare, tu invisibile Poesia! Sempre attorno

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Al proprio centro scambievole spazio. Contrappeso In quel che in me ritmicamente accade. Unica onda, di cui Poco a poco il Mare io sono; Sobrio tu tra tutti i possibili Mari, Spazio conquistato.

Quanti di quei punti negli spazi erano Già in me. Più di un vento È come mio figlio.

Riconosci tu me, Aria, tu, ancora piena di quelli che furono i miei luoghi? Tu, un tempo liscia crosta, Rotondità e foglio delle mie Parole. PARTE SECONDA – IV

O questa è la Bestia, che non c’è. Di lei niente si sapeva ed ebbe ugualmente - il suo passeggiare, il suo portamento, il suo collo, fino alla luce silenziosa del suo sguardo – amanti.

Eppure era niente. Ma poiché l’amavano, diventò Una pura Bestia. Le lasciarono sempre spazio. E in quello spazio, chiaro Leggera alzò la testa e non ebbe nemmeno bisogno Di essere. L’allevarono con germogli, Sempre solo con la possibilità, di essere. E questa dette una tale forza alla Bestia,

Che da lei un cornofronte spuntò. Un corno. Tutta bianca verso una giovane vergine venne E fu nell’argenteo specchio e in lei. PARTE SECONDA – XXVII

Esiste davvero il Tempo, il devastante? Quando, sull’immobile montagna, distruggerà la fortezza? Questo cuore, che senza fine agli dèi appartiene, quando lo violerà il demiurgo? Siamo noi paurosamente fragili Come il destino ci vuol far credere? E l’infanzia, profonda promessa, alle radici, poi tace?

Ach, lo spirito dell’Attimo, passa attraverso chi bene l’accoglie come fosse fumo.

Ma noi, noi, che andiamo senza sosta Anche noi, come le forze senza tempo, siamo in uso al divino. PARTE SECONDA – XXVIII (traduzione di Giaime Pintor)

O vieni e va’. Quasi bambina avanza Per un momento la figura al gesto Di quelle immagini astrali di danza

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In cui talvolta la natura arresta

Il suo sordo lavoro. Solo un tempo La ridestò la musica d’Orfeo. Tu aprivi allora le docili membra Turbata appena se al tuo fianco un vero Albero si muoveva ad ascoltare. Sapevi il luogo dove coi suoi canti La lira si levò - : l’orma terrena.

Per quello osasti i tuoi passi tentare Sperando un giorno dell’amico il viso Volgere, e il piede, a una festa serena. PARTE SECONDA – XXIX Amico silenzioso delle molte lontananze, senti Come il tuo respiro allarga gli spazi. Nella trave della campana scura Lascia il tuo suonare. Ora, quel che consuma te, diventerà una forza con questo nutrimento. Va nella metamorfosi fuori e dentro. Qual è la tua più sofferta esperienza? E’ il tuo bere amaro, diventa vino. Sii in questa notte dell’eccesso Forza magica dove incrociano i tuoi sensi, senso del loro curioso incontrarsi.

E quando te il mondo dimentica, alla terra silenziosa dille: Ich rinne, io scorro. All’acqua rapida parlale: Ich bin, io sono.

[Presentiamo il testo dello spettacolo di Lenz Rifrazioni Rilke_Bacchini, andato in scena Venerdì 22 giugno 2007 presso il Palazzotto Eucherio San Vitale nell’ambito di ParmaPoesia. La mise en parole Rilke_Bacchini, basata sul lavoro poetico de I sonetti di Orfeo di Rainer Maria Rilke, poeta austro-tedesco considerato uno dei più importanti poeti di lingua tedesca del XX secolo e di Contemplazioni meccaniche e pneumatiche di Pier Luigi Bacchini, autore parmigiano tra le esperienze più significative ed originali nell’ambito della poesia italiana è stata curata da Francesco Pititto (con l’istallazione di Maria Federica Maestri) per l’interpretazione avvolgente della performer Elisa Orlandini.]

Rilke_Bacchini: UNDICI ANNI DI CORPO POETICO.

Nel corso degli ultimi dieci anni abbiamo tradotto in diverse modalità di rappresentazione scenica le opere poetiche di Pier Luigi Bacchini. Abbiamo praticato differenti modi di creazione sonora e corporea dei versi bacchiniani: per attrice e autore, per quartetto d’attrici con autore, per musicista attore e autore, per attrici e voce off, per attrice sola. Ciascuna mise en parole ha stabilito con il luogo dell’accadimento (mise en site) una relazione di dissolvenza incrociata tra i corpi, le voci, i suoni e il paesaggio poetico. L’appuntamento annuale è stato realizzato selezionando le sue opere secondo una drammaturgia dei corpi che, di volta in volta, sono diventati in situ la sua poesia. Nei suoi versi la natura e la scienza sorgono, muoiono e risorgono, gli dèi sono presenti nelle più piccole molecole umane e i teatri sono paesaggi viventi in cui si alternano nascite, morti e proiezioni divine. Francesco Pititto

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PIER LUIGI BACCHINI E LENZ RIFRAZIONI

1996 Mise en parole da “Visi e foglie” e “I versi della morte” con P.L.Bacchini e Elisa Orlandini. Casino dei Boschi di Carrega (Casino di Caccia di Maria Luigia), Sala Baganza, Parma. Lenz Teatro, Parma. 1997 Mise en parole da “Distanze fioriture” e ‘Frammenti dal romanzo inedito.” Con P.L.Bacchini, Pierluigi Feliciati. Villa Madonna degli Angeli, Collecchiello, Parma. 1998 Mise en parole “Frammenti poetici”. Con P.L.Bacchini, Antonio Riccardi, Elisa Orlandini. Villa Gambara-Thovazzi, Felino, Parma. 1999 Mise en parole “Aiku”. Con P.L.Bacchini. Chiesa di Corniana, Corniana, Parma. 2000 Mise en parole “Quartetto d’attrici” con P.L.Bacchini, Elisa Orlandini, Sandra Soncini, Barbara Voghera, Sara Monferdini. Cortile delle Carrozze, Casino dei Boschi, Sala Baganza, Parma. 2001 Mise en parole “Pier Luigi Bacchini – Per attore, viola e violino”. Con P.L.Bacchini e Adriano Elgelbrecht. Chiesa di San Genesio, San Secondo, Parma. 2002 Mise en parole “Aiku sull’acqua”.- da Eliot, Yeats, Pound, Benn, Bacchini, Pascoli. Con P.L.Bacchini, Elisa Orlandini, Sandra Soncini, Laura Tanzi. Oasi Lipu “Il cavaliere d’Italia, Torrile, Parma. 2003 Mise en parole “Aiku sull’acqua”.- da Eliot, Yeats, Pound, Benn, Bacchini, Pascoli. Con Elisa Orlandini, Sandra Soncini. Terme Berzieri, Salsomaggiore, Parma. 2004 Mise en site “Il Bambino solo”.- Adattamento drammaturgico della prima fiaba di Pier Luigi Bacchini scritta per Lenz Rifrazioni. Rocca Sanvitale di Sala Baganza, Parma. 2005 Traduzione scenica de “Il Bambino solo”.- Adattamento drammaturgico della prima fiaba di Pier Luigi Bacchini scritta per Lenz Rifrazioni. Lenz Teatro, Parma. 2006 Mise en parole “RILKE_BACCHINI”.- da “I sonetti ad Orfeo” e “Contemplazioni meccaniche e pneumatiche”. Con Elisa Orlandini. Chiesa Madonna degli Angeli di S.Secondo, Parma. 2007 Mise en parole “RILKE_BACCHINI”.- da “I sonetti ad Orfeo” e “Contemplazioni meccaniche e pneumatiche”. Con Elisa Orlandini. Palazzetto Eucherio San Vitale, Parco Ducale, Parma.

Notizia. Pier Luigi Bacchini è nato a Parma nel 1927 dove ha risieduto fino al 1994. Ora abita nei pressi di Medesano, in provincia di Parma. Ha pubblicato i libri di poesia: Dal Silenzio d’un nulla (A. Schwarz, Milano, 1954), Canti familiari (De Luca, Roma, 1968), Distanze fioriture (La Pilotta, Parma, 1981), Visi e Foglie (Garzanti, 1993, “Premio Viareggio”), Scritture vegetali (Mondadori, 1999, “Premio S. Pellegrino” 2000), Cerchi d’acqua - Haiku (Garzanti, Milano, 2003, “Gli elefanti”), Contemplazioni meccaniche e pneumatiche (Mondadori, 2005). Suoi versi sono stati editi nell’ “Almanacco dello Specchio” e in varie riviste e quotidiani tra cui “Paragone”, “Nuovi Argomenti” e il “Corriere della Sera”oltre che ne “La giovane poesia di Enrico Falqui (Colombo, 1956) e in altre antologie (Garzanti, Einaudi, Crocetti).

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DECOMPOSIZIONI ESEMPLARI (La notte in cui Giordano Bruno apparve a Shakespeare) L’OMBRELLAIO E IL PARASOLE

Stanotte una cometa nera elude la traccia dell’ellissi, sfiora l’arcobaleno che circonda il viso e il viso com’è bianco! Una luce brucia e non fa luce

Timida con le labbra appese a una bocca invisibile completamente al buio rispondi alle ombre che bussano alla porta: «Non c’è nessuno in casa» È andata via la luce non si apre la porta

Coricata nel letto ti attraversa un vuoto molto più grande: «Non sai chi ti protegge»

Stanotte a torso nudo l’ombra di una donna emerge coperta dall’ombra di un uomo che la insegue nascosto dall’ombra degli alberi nella casa sepolta dalla rottura dei monti I monti salgono stanotte verso una luce che non si può vedere Questi sono i fatti CENA

SHAKESPEARE: Bruno? Giordano...nolano...? BRUNO: chi? SHAKESPEARE: Parlavano latino? BRUNO: Sì SHAKESPEARE: Galantuomini? BRUNO: Sì SHAKESPEARE: Di buona reputazione? BRUNO: Sì SHAKESPEARE: Dotti? BRUNO: Competenti. SHAKESPEARE: Ben creati, cortesi, civili? BRUNO: Così così. SHAKESPEARE: Dottori? BRUNO: Messer sì, padre sì, madonna sì, madesì, di Oxford! SHAKESPEARE: Qualificati? BRUNO: Come no? Vestiti in lungo, di velluto, catene d’oro, dodici anelli ai diti.

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SHAKESPEARE: E il greco? Sapevano di greco? BRUNO: E di birra, eziandio. SHAKESPEARE: Tira via «eziandio», obsoleta antiquata dizione. Come erano fatti? BRUNO: Uno sembrava un conte di stalla e l’altro un governatore saraceno. SHAKESPEARE: Quanti erano? BRUNO: Sette. SHAKESPEARE: E come erano disposti? BRUNO: Dopo aver fatto saluti e resaluti. Florio alla mia destra, al suo fianco la moglie. SHAKESPEARE: E io, io dov’ero? BRUNO: Tu, Shakespeare? Eri qui di fianco a me. Alla tua sinistra Numidio e dopo di lui Torquato. SHAKESPEARE: E tu dov’eri, Giordano? BRUNO: Eravamo in due. Due, il numero misterioso. Due le coordinazioni: finito-infinito, curvo-retto, destro-sinistro. Due i numeri: pari-maschio, dispari-femminile, due i cupidi: superiore-inferiore, divinovolgare. Due gli atti della vita: cognizione-affetto, vero-non vero, bene-male. Due i moti: retto-circolare, tendenza alla conservazione-conservazione. Poi ancora: il caldo e il freddo, la materia e la forma, il raro e il denso, il semplice e il misto. SHAKESPEARE: Le bestie dell’arca... a due a due. Nolite fieri; cavallo e mulo. Immagini dell’uomo: barbagianni in cielo; scimmie in terra. Le piramidi una e due. Dove sono scritti tutti i nomi del due. E che cosa ti hanno chiesto, nolano? BRUNO: Intelligis, domine, quae diximus? SHAKESPEARE: Tu cosa hai risposto? BRUNO: No. IL VENDITORE DI TAPPETI

VENDITORE: Si regala. Abbiamo due importanti tappeti di 131 x 207 e 311 x 270. Fateli vedere. Due pezzi notevoli da un milione di nodi al metro quadro. Entrano in gara a partire da 22,7 lire alla coppia di nodi. Il prezzo è di.... Non ve lo dico. Il loro valore è mille volte superiore e poi li recapitiamo a casa. È quello che occorre a qualunque ragazza, da cima a fondo. Comprate, comprate, comprate, giovani, non fate piangere le vostre belle. Comprate da me. Guardateli, annodati a mano da abili adolescenti. Due antichi Ctesifonte autentici. Fateli vedere. E non veniteci a dire che sono consumati, pieni di scalcagnate, colpi di tacco e bruciature. Li abbiamo acquistati in una importante moschea. Sono logorati dalle ginocchia, dalle genuflessioni, dalle lampade. La moschea si trova sui monti Altai. E non veniteci a dire che non ci sono figure. Le figure ci sono ma bisogna saperle immaginare. Aspettiamo un intenditore. Sono tappeti per contemplatori. Direte: «contemplatori di che cosa?». Contemplatori scalcagnati, pestati con i piedi, torturati con le cicche. Da chi? Chi lo sa. Le figure sono stilizzate. Fateli vedere, fateli vedere. BRUNO: Una donna astuta si mise a giacere nuda su questi tappeti di fronte a uno schiavo nero. Lo schiavo stava in piedi con una verga d’argento in mano. Ma avvolta nel tappeto la bella donna nuda che si è addormentata e la bella donna si è svegliata a mille chilometri di distanza, in un palazzo sconosciuto, a letto con il suo amante. SHAKESPEARE: Un negro? BRUNO: Se ti piace. Non è proprio un negro, diciamo un moro. La gente girava nel palazzo sconosciuto. SHAKESPEARE: Dove? BRUNO: A Venezia. E la gente gridava: «Senatore!». SHAKESPEARE: «Senatore!». BRUNO: Un ariete nero monta la tua pecora bianca. SHAKESPEARE: Poi il moro non ha una verga d’argento. BRUNO: Cos’ha? SHAKESPEARE: È avvolto in candido mantello. Nella prima conformazione dell’Ariete un uomo nero, di statura possente, con gli occhi ardenti, dal volto sereno, avvolto da un bianco mantello. VENDITORE: Per carità evitatemi questo strazio! Dite il vostro discorso, vi prego, come ve l’ho detto io; non come se vi danzasse sulla lingua. Se non me lo urlate come fa un banditore da piazza, tanto mi varrebbe affidare i miei tappeti a un attore moderno. E falciatemi l’aria con la mano, così. Vi ricordo che la situazione è brutale, violenta. Quindi calma. E la ragazza è sbalordita. Non spaventata. Sbalordita. SHAKESPEARE: Non voglio ucciderla senza preparazione. BRUNO: Come? SHAKESPEARE: Come? BRUNO: Vuoi ucciderla nella sicurezza dei nervi? Nella fede bronzea? Nel casino? Nel combattimento? Nella tromba di bronzo? SHAKESPEARE: Il negro nel casino? BRUNO: Il negro che sta premendola col piede.

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SHAKESPEARE: Negro che sta premendola col piede. BRUNO: Inaudito. SHAKESPEARE: Negro inaudito. BRUNO: Incostante. SHAKESPEARE: Negro incostante. BRUNO: Non riposto. SHAKESPEARE: Negro non riposto. BRUNO: Incantato. SHAKESPEARE: Negro incantato. VENDITORE: Torniamo per favore a ripetere. Da «uccidere»; che l’assassinio, pur senza lingua com’è, parla di suo con voce di prodigio. SHAKESPEARE: Ho detto «uccidere»? Vorrei uccidere il corpo ma non vorrei uccidere l’anima. BRUNO: Dì un numero. SHAKESPEARE: Nove. BRUNO: Nove. Un enunco si chiude gli occhi davanti a un letto sudicio. SHAKESPEARE: Va bene. Recito ad occhi chiusi. Non voglio ridurre ad un assassinio il compimento di un sacrificio. BRUNO: Cosa vuoi ottenere? SHAKESPEARE: Voglio essere sicuro di modificare le circostanze e le cose. BRUNO: Perché? SHAKESPEARE: Perché la certezza mi strazia. Perché te l’ho dato io e tu a chi l’hai dato? A chi? Perché gliel’ho veduto in mano. Perché l’ho visto io. Una sibilla. C’è una virtù magica intessuta. Un sibilla ha contato duecento volte il corso del sole e lo ha ricamato mormorando vaticini. I bachi. I bachi che hanno fatto la seta erano stati consacrati. I colori. I colori sono stati estratti da una materia che gli artisti trovano nel cuore delle mummie. Vergini. Una maga che riusciva a leggere i pensieri. Quasi. Una zingara l’ha consegnato a mia madre. È desiderabile chi lo tiene. Mio padre, finché lei lo teneva, era soggiogato. Se lo avesse perduto o dato a degli altri, gli occhi di mio padre l’avrebbero fissata con odio. Avrebbe cercato altri amori. Me l’ha dato morendo. Per darlo a mia moglie, se l’avessi avuta. Tenetelo caro come i vostri occhi. BRUNO: Cosa c’è scritto? VENDITORE: Fate vedere, fate vedere... SHAKESPEARE: Sorveglia a primavera la nascita di un fiore. BRUNO: Obliquo. SHAKESPEARE: Fiore obliquo, lascivo. BRUNO: Infernale. SHAKESPEARE: Fiore infernale, fugastro. BRUNO: Tremulo. SHAKESPEARE: Fiore tremulo, forcuto. BRUNO: Assalito. SHAKESPEARE: Fiore assalito, dannato. BRUNO: Amaro. SHAKESPEARE: Fiore amaro, sgualcito. VENDITORE: Vola. Le immagini si dispongono in gerarchia secondo i colori. SHAKESPEARE: Giallo. A questa altezza/circa/a questa altezza/una linea fredda immaginaria determina uno spazio/ destinato a contenere/il giallo. BRUNO: Dì un numero. SHAKESPEARE: Sette. BRUNO: Un uomo in abito giallo da pontefice che due uomini precedono, nudo, con dei vestiti rossi o di giallo-oro, ha un corvo sul petto e sotto i piedi un cane d’oro. SHAKESPEARE: Ma giallo non apre gli occhi/giallo/non apre il colore degli occhi/ questo tappeto/destinato a con tenere/il giallo/è vuoto e immaginario/il suo colore è verde. BRUNO: Dì un numero. SHAKESPEARE: Sette. BRUNO: Un fanciullo cavalca un ariete verde le cui corna afferra con la sinistra e con la destra porta un pappagallo. SHAKESPEARE: Anche verde non apre gli occhi! Verde non apre il colore degli occhi. Questo tappeto/destinato a con tenere/il verde/è vuoto e immaginario/il suo colore è blu. BRUNO: Dì un numero. SHAKESPEARE: Sette. BRUNO: Un fanciullo e una fanciulla lottano nudi e uno lega strettamente l’altra che ha in mano del bisso blu. Lui ha in mano una catena d’oro. SHAKESPEARE: Il suo colore è/non è importante determinare un tappeto dentro una forma cieca/e immaginaria con i colori simili ai colori del tappeto/questo tappeto si sente che un nodo inferiore/destinato a contenere un suono che non si sente/il suo colore è a questa altezza circa/sotto le

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dita si sente che cambia interiormente i suoi colori geometrici/ azzurro giallo rosso verde arancio viola/non sono azzurro giallo rosso verde arancio viola/ che sono senza colore in fondo al buio non aprono il colore/degli occhi/la loro forma è vasta e immaginaria/ è verde azzurra rossa arancio e viola/ il suo colore è dolce e genitale/ destinato a contenere il colore. BRUNO: Dì un numero. SHAKESPEARE: Sette. BRUNO: Un cocchiere sopra un carro che due cervi trascinano, l’uno che porta in mano un pesce l’altro una falce curva. SHAKESPEARE: Sono i giardinieri? BRUNO: Sono gli elementi che stanno accanto che precedono gli elementi che stanno fermi. Poi ci sono gli elementi che si presentano o che stanno al posto di quelli che si presentano e seguono l’elemento che sta fermo o che è posto in luogo di quello che sta fermo. VENDITORE: Ultimi secondi. Si tratta solo di tappeti. Potete arrotolare la vostra amante nuda dentro al tappeto come in un tessuto di fiori. La sua ombra si allaccerà alle vostre gambe. Fate vedere. DESDEMONA: Venite a letto signore? SHAKESPEARE: Avete recitato le vostre preghiere. PRIMO INTERMEZZO

- Ha preso una camera in affitto? - Certamente... no.. - Una pensioncina? - E come fanno i gentiluomini? - Stanno in casa degli altri. - E stava in casa di chi? - Di Michele di Castelnau di Mauvisiere. Il gentiluomo. - E il Mauvisiere? - Zona d’ombra. - Mauvissiero, signor della malviciera. - Casteinuovo. - Si fermò due anni e mezzo. - Zona d’ombra. - Poi l’accompagna a Paris. - Paris non c’entra. - Come è messo il Castelnuovo? - Amico di Maria Stuarda. - Parla piano. - Amico di Maria Stuarda. - E dove sta il Nolano? - A casa del Greville. - Fulke Greville? - Folco. - Posta dove? - Pare in Withehall o lì vicino. - E sai chi c’è nei dintorni? - Florio. - Florio? Chi? Giovanni? - Giovanni Florio. - Il rifugiato valdese? - Valdese, di Siena e poi... - Zona d’ombra.

- Che è poi lo stesso Florio che frequenta Ben Jonson. - Era cognato di Samuel Daniel. - Frequentava Shakespeare? - Li frequentava tutti e due. - Shakespeare? - E il nolano. - Insieme? - Certamente sì. - E Matteo? - Matteo Gwinne?

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- Sì, quello che traduce Montagnie. - Amico. - Anche lui amico? - Amico stretto del Nolano. - E l’altro dello stesso cognome? Come si chiama? - Brown. - Brown. Bruno. - Tommaso? - Tommaso è il traduttore. - Allora Antonio. - Il visconte Montagnie. - Antonio Brown, visconte Montagnie. - È probabile. - Perché? - Molto amico di Florio. - Parla piano. - Molto amico di Florio. Parla piano. Sono nomi importanti. Non dobbiamo comprometterli. - Zona d’ombra. LA MAGIA DEI DISPERATI

PRIMA STREGA: Venitemi ora in aiuto, sortilegi e incantesimi; e voi spiriti alati che mi fornite ammonimenti e segni dei casi futuri, O voi, pronti al mio soccorso, sotto gli ordini del potente monarca del Settentrione mostratevi ed aiutatemi in questa impresa. Su, dunque, spiriti miei famigliari evocati dalle potenti regioni di sottoterra, aiutatemi ancora una volta. Non tenetemi sospesa! Non rimanete in silenzio. Io vi ho nutrito col mio sangue. Mi taglierò un braccio, una mano, il membro che volete. Ve lo darò in caparra. Vi pagherò col mio corpo. Non volete il corpo? Non volete il sangue? Prendetevi la mia anima. SHAKESPEARE: Misteriose e tenebrose signore della mezzanotte, che cosa fate? LE STREGHE: Un’opera senza nome. SHAKESPEARE: Scatenate i venti per dar battaglia alle chiese. BRUNO: Toro che si oppone. SHAKESPEARE: Travolgete le onde spumeggianti che ingoino i naviganti. BRUNO: Uomo, busto di uomo. SHAKESPEARE: Stendete a terra il grano ancora verde. BRUNO: Femmina dubbiosa. SHAKESPEARE: Schiantate gli alberi. BRUNO: Lupo sul cadavere. SHAKESPEARE: Fate crollare i castelli sulle teste dei guardiani. BRUNO: Gallina inchiodata sulle uova. SHAKESPEARE: Fate chinare il capo dei palazzi e delle piramidi sulle fondamenta, ma datemi una risposta. BRUNO: Sepolcro. SHAKESPEARE: Confondete la germinazione per saziare la distruzione fino alla nausea. BRUNO: Fanciullo che gioca. SHAKESPEARE: Ma datemi una risposta. Voglio una risposta. LE STREGHE: Da noi o da qualcuno che ci comanda? SHAKESPEARE: Chiamala, fammela vedere. LE STREGHE: Circe! BRUNO: Questa volta appare con testa di maiale. SHAKESPEARE: Chi è? BRUNO: È un demone sotterraneo, acquatico, fangoso, completamente privo di ragione. SHAKESPEARE: Come si chiama? BRUNO: 1 che ha gli occhi piccoli 2 orecchi acuti 3 fauci grandissime 4 con le narici nell’immondizia 5 dai denti che danneggiano 6 strettissima fronte 7 cervello grassocci 8 coda tagliata che si accorcia

SHAKESPEARE: avaro barbaro curioso duro erroneo fetido goloso accalappiato

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9 ventre riempito di ventre 10 che non perde i denti 11 ossa senza midollo 12 che non cambia il pelo 13 famigliare ai pidocchi 14 si accoppia con voce singolare 15 meglio la sua femmina 16 crudelmente si infuria pieno d’estro 17 più fecondo di tutti gli animali 18 cambia cibo 19 che si adatta 20 cambia pascolo 21 mangiaghiande 22 che si rotola nel fango 23 totale brutalità

castrato libidinoso molesto nolente ozioso pertinace querulo rustico stolto turgido vile lunatico auricolato zotico non buono se non morto

BRUNO: E i? i? SHAKESPEARE: Immemore, infondente, incaprettato. BRUNO: Componi la tua invocazione! SHAKESPEARE: Essere barbaro dagli occhi piccoli ingrati, barbaro dagli orecchi acuti, immondi, dalle curiose fauci grandissime, che infili duro le narici nelle immondizie, essere erroneo dai denti che danneggiano incostanti, che hai fetida la strettissima fronte impaziente, sopra il goloso grassoccio cervello indiscreto, essere accalappiato dalla coda tagliata che si accorcia incivile, castrato ventre incaprettato riempito di ventre libidinoso, molesta le tue ossa senza midollo, infauste! Nolente che non cambia il pelo inetto, ozioso, famigliare ai pidocchi, iniquo che ti accoppi pertinace, inumano, meglio la tua femmina querula, rustica crudelmente si infuria piena d’estro, inverecondo stolto che fecondi più degli animali inquieti e cambi cibo insano, turgido, vile intemperato che si adatta, e lunatico cambi pascoli ignobili, auricolato mangiaghiande incolto, zotico che ti rotoli nel fango inospitale, immemore della totale brutalità, se sei morto, sei buono. BRUNO: Ascolta, non dire nulla. PORCO: (parla a Shakespeare senza audio)……………………? SHAKESPEARE: (che ha sentito le parole del porco). Ti ringrazio dei tuoi avvertimenti. (A Bruno). Ha toccato la mia paura. BRUNO: Cosa ha detto? SHAKESPEARE: Dopo. Mandane un altro più potente. (Vede l’immagine) Fanciullo insanguinato. BRUNO: Demone che abita le rovine e le carceri. Comprendi il linguaggio articolato FANCIULLO: (parla senza audio)………? SHAKESPEARE: Se avessi tre orecchi lo ascolterei con tutti e tre. Ti ringrazio. Posso dormire a dispetto del tuono. BRUNO: Che cosa ha detto? SHAKESPEARE: Dopo. Mandane un altro più potente. (Vede l’immagine) Fanciullo incoronato con ramo d’albero in mano. BRUNO: Demone che abita l’aria. Demone terribile, può condurre in errore gli stessi umani tramite l’immaginazione e promesse ingannevoli. FANCIULLO INCORONATO: (parla senza audio)....? BRUNO: Che cosa ha detto? SHAKESPEARE: Dopo. Vivrò tutta intera la lunghezza naturale della vita. Ancora una cosa, se la loro arte può dire tanto, mandane uno più potente. Che rumore è questo? (Vede l’immagine). Re con specchio in mano. BRUNO: Sono i demoni che abitano l’etere sopra l’aria. Benefici e splendenti. SHAKESPEARE: Notte nefasta! Che tu sia maledetta nel calendario. BRUNO: Cos’hanno detto? SHAKESPEARE: Dopo... SECONDO INTERMEZZO

- Gridavano «oares». - I dest gondolieri. - Dove? - Da Lord Buckhurst. - Quello che ha arrestato Maria Stuarda? - Lui, proprio lui. - E ha condannato a morte Essex? - Un bel tipo, il cancelliere di Oxford.

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- Non tirarlo in ballo. - Perché? - Perché non c’entra niente e potremmo avere delle grane. - Zona d’ombra.

- Cantavano. - Cosa cantavano? - Deh! dove senza me dolce mia vita/rimasta sei sì giovane e sì bella. - Ariosto, ottavo, settantasei. - Adagio. - Che adagio? - Festina lente, ti prego spende bradéos, come diceva Augusto. - Corri adagio? - Zona d’ombra. - A la buazza ne gittarono là. - Chi? - Il nolano. - Cosa ha detto? - «Mi par vedere un porco passaggio». Ecco cosa ha detto. - Dove? - Nell’aria caliginoso. - Aria è maschile. - Il aria. Uno aria. - Zona d’ombra. LEZIONE D’ANATOMIA CELESTE SHAKESPEARE: Si ammala la fortuna. Per colpa mia, si ammala. Mi dicono per colpa delle stelle, la luna, il sole, sono un disgraziato per necessità, stupido per impulso celeste. Furfante, ladro e traditore per il predominio di una sfera. Ubriaco, bugiardo e adultero per obbedienza all’in flusso planetario. Perverso a causa di sollecitazioni divine. Sono puttaniere? Una stella ha la colpa! Mio padre se l’intese con mia madre sotto la coda di un drago. Io sono nato sotto l’orsa maggiore, per questo sono brutale e sporcaccione. E sono quello che sono, anche se la vergine stella del firmamento avesse brillato in alto nella mia bastai tardi/fica/azione. Bastardificazione. Le eclissi presagiscono dissonanze. BRUNO: L’ombra si insinua nella faccia del sole. SHAKESPEARE: L’astrologo ci piglia. BRUNO: Si snatura il rapporto padre e figlio. SHAKESPEARE: L’astrologo ci piglia. BRUNO: Rottura di antica amicizia, morte, carestia. SHAKESPEARE: L’astrologo ci piglia. BRUNO: Diffidenze irragionevoli. Esilio di amici. SHAKESPEARE: L’astrologo ci piglia. BRUNO: Infrazioni, delitti, rapporti coniugali avvelenati. SHAKESPEARE: Cosa succede stanotte. VOCE: Si solleva su due piedi un ariete si solleva sotto il letto con la fronte con furore batte l’armento e il toro è rannicchiato nell’ombra. BRUNO: (con) la sega uccide le pecore che porta (con) la pioggia prepara l’altare sottratto (con) l’uncino costruisce in acqua indigesto (con) il fieno immola il fanciullo scrupoloso (con) la lingua circoncide impedito vibrante cometa arcobaleno

battezza apre il capo dell’uomo davanti agli altari

immondo fragile

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torre giunonica nube sovrastante fume che sale

vela il capo della donna davanti agli dei augure nell’orgia

mendicante multiforme che sta davanti

SHAKESPEARE: con la sega uccide le pecore che porta, prepara l’altare con la pioggia sottratta, costruisce in acqua l’uncino indigesto, col fieno scrupoloso immola, il fanciullo impedito la lingua vibrante circoncide, la cometa battezza l’immondo arcobaleno, apre il capo dell’uomo davanti agli altari, fragile torre giunonica, un mendicante vela il capo della donna davanti agli dèi, la multiforme nube sovrastante l’augure, fanno che sale nell’orgia che sta davanti. Nell’orgia contro il sole che sta davanti, fermo, sale il sole, multiforme sovrastante la nube. BRUNO: Comincia a mettergli a nudo il petto. SHAKESPEARE: Il petto? BRUNO: Il petto inerte Il petto indegno Il petto vestito Il petto inetto Il petto che sta disteso SHAKESPEARE: Vicinissimo al cuore. BRUNO: Ristagna le sue ferite che non perda sangue. SHAKESPEARE: Il sangue. BRUNO: Il sangue in dodici segni il sangue nel cubo geometrico il sangue nei mondi innumerevoli il sangue dalle idee il sangue in nove elementi. SHAKESPEARE: Vicinissimo al cuore. BRUNO: Preparati a tagliare la carne. SHAKESPEARE: La carne. BRUNO: La carne nella chiave e nelle ombre la carne in due ragioni contrarie la carne nella ragione della natura la carne il male come nulla. SHAKESPEARE: C’è qualcos’altro? BRUNO: Non versare sangue, e non tagliare né più né meno di una libbra di carne. SHAKESPEARE: Dove? BRUNO: Nella testuggine nella balestra nella bandiera nella scudo nella macina da mulino. Inerte in dodici segni della balestra l’ariete capo del gregge si solleva su due piedi indegno nel cubo geometrico della testuggine il toro eccitato fuori di sé si vendica, nei mondi innumerevoli, i due gemelli calano nel mare inetto il cancro figlio delle acque chiare si avvicina a ritroso il leone che disteso in nove elementi e sembra che la sua ombra lo insegua la vergine si imbatte nell’uomo-bilancia seduto sui piatti in due ragioni contrarie brucia la punta adunca dello scorpione, noi temiamo la notte, ricorriamo ad arti magiche, mentre si avvicina l’uomo-sagittario che ferisce il capricorno con un dardo e il capricorno s’inabissa, preda dei pesci, che abitano le acque, una libbra di cielo, preparati a tagliare, senza una stella di luce. TERZO INTERMEZZO

- Quel Sidney deve essere un bel tipo. - Giovane. - Anche lui parla italiano. - Ha studiato a Padova. - Bologna la grassa, ma Padova la passa. - E il nolano? - Non fa altro che dedicargli libri. - Amico di Greville? - Amico di tutti e due. - Perchè Greville non ne parla?

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- Zona d’ombra.

- Colloca le stelle nelle loro immagini, lui, Chi? Il nolano. E l’altro? - Colloca nella lingua la voce degli dei, chi? Il cosiddetto Shakespeare. - È questo il punto. - Che punto? - D’incontro fra il nolano e Shakespeare. - Zona d’ombra. Correvano tutti dietro a quel Laski. - Alasco. Alberto Alasco? - Il principe polacco. - A Oxford? - Banchetti, spettacoli e dispute. - Con Sidney. - Con Florio. - Col nolano. - E quello stronzo di George Abbot ha detto: «quell’omiciattolo italiano»... - Philoteus Jordanus Brunus Nolanus? - .. «ha un nome più lungo del suo corpo». - Si rimboccò le maniche come un giocatore. - Il mago! - Centrum. - Circulum. - Circonferenchia. - Circonferenchia? - Proprio così, lui dice così. - Zona d’ombra. - La situazione precipita. - Il nolano non se ne accorge. - Cosa gli salta in testa di presentare un libro al Papa? - Zona d’ombra. - Quello stupido di Gianbattista Ciotto. - Il libraio? - È il libraio che gli trasmette l’invio di Moncenigo. - Traditore. - Il nolano voleva mettersi in contatto con il papa. - Chi lo dice? - Moncenigo. - Achi? - All’inquisizione. - E lui, cosa dice? - Zona d’ombra. QUANDO SIAMO NELLA TAVERNA

BRUNO: Nella terza conformazione dei gemelli un buffone con un flauto nella destra, nella sinistra un passero e vicino a quello un uomo adirato che afferra il bastone. SHAKESPEARE: Dove mi metto a sedere? Dove c’è posto? BRUNO: Lei conosce il suo grado? Secondo il suo grado appunto. SHAKESPEARE: Qui? BRUNO: Il posto d’onore. SHAKESPEARE: Allora qui. BRUNO: Anche quello è il posto d’onore. SHAKESPEARE: Si vede che mi si è attaccato al sedere, il posto d’onore. BRUNO: Consideri che i lati della tavola sono al completo. Qualsiasi disposizione lei prenda è chiaro che i lati della tavola sono diversi. Se si siede qui, i lati della tavola sono lì e lì e lei è sempre al posto d’onore. SHAKESPEARE: Badi che lei ha il viso sporco. BRUNO: Di cosa? SHAKESPEARE: Sembra sangue. Ha lavorato in cucina? BRUNO: Ho degli improvvisi colpi di emorragia. Dalla bocca e dal naso. SHAKESPEARE: Mi sembra il sangue di un altro. BRUNO: Può essere. Il cuoco si è tagliato una mano. Un cameriere è stato accoltellato e la cuoca giace con la gola squarciata.

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Gli ho fatto io il servizio. Benvenuto! SHAKESPEARE: Non so come spiegarmi. Ho una certa angoscia. Se non avessi una certa angoscia starei benissimo, tranquillo, perfetto. BRUNO: Come? SHAKESPEARE: Come il marmo. BRUNO: Intero. SHAKESPEARE: Come la roccia. BRUNO: Salda. SHAKESPEARE: Come l’aria. BRUNO: Diffusa. SHAKESPEARE: Invece io come le sembro? BRUNO: Come? Compresso, poi claustrale, poi confinato e dopo incatenato, esposto a dubbi e timori insolenti. SHAKESPEARE: Non potrebbe andarsene via? BRUNO: Non mi sembra in vena di allegria. Ha invitato qualcuno a cena? SHAKESPEARE: Una mia amica. BRUNO: Certo che per mangiare si sta meglio a casa pro pria. Se si mangia fuori la salsa da usare è la cortesia, se no l’appuntamento è squallido. Aspettiamo? SHAKESPEARE: La tavola è al completo. BRUNO: Questo posto è riservato. SHAKESPEARE: A chi? BRUNO: È il posto dell’assente. SHAKESPEARE: La vuole smettere di agitarmi in faccia i suoi capelli insanguinati. BRUNO: Non si sente bene? SHAKESPEARE: Cosa le interessa? BRUNO: Sta spesso così? Le accade dalla gioventù? Mi faccia sentire il polso. Credo che sia un accesso momentaneo. Le dovrebbe passare in un attimo. Secondo me, se lei sta rigido con le braccia alzate fra poco starà benissimo. La vostra amica, quando viene, farà bene a non farci caso. SHAKESPEARE: Perché mi voltate le spalle? BRUNO: Per non farci caso. Simulo indifferenza. Per non offendere e prolungare lo stato di delirio. Siete un uomo? SHAKESPEARE: Sono un uomo audace. Oso guardare il piatto che mi ha messo davanti con tutte le ditate di sangue. BRUNO: Che storie! Sono crisi di parossismo. Sussulti. Siete a cena. Siete un uomo. Non siete accanto al fuoco, d’inverno, come una donnetta, che ascolta sua nonna. Si può sapere perché fate quella smorfia state guardando solo una seggiola. SHAKESPEARE: Perché mi fa dei cenni con la testa? BRUNO: Il menù. Facevo segno se voleva ordinare. SHAKESPEARE: Anche il menù è tutto sporco di sangue. È sicuro di farcela con queste emottisi mi sembra che le sanguini anche il naso. BRUNO: Facciamo un brindisi? SHAKESPEARE: Come si sente le ossa? BRUNO: Senza midollo. SHAKESPEARE: Il sangue? BRUNO: Freddo. SHAKESPEARE: La virtù visiva degli occhi? BRUNO: Completamente sbarrata. SHAKESPEARE: Ho invitato una amica in un ristorante col cameriere cieco che perde sangue. Buon locale. Si sta bene, ma guarda il piacere della serata. BRUNO: Nella terza conformazione della Vergine, un vecchio si appoggia a due bastoni con i capelli composti davanti alla fronte con la barba sparsa, vestito di colore nero. SHAKESPEARE: Digli che si avvicini. Cosa c’è di più terribile del vecchio con la barba sparsa? BRUNO: Un orso. SHAKESPEARE: Irsuto. BRUNO: Un rinoceronte. SHAKESPEARE: Armato. BRUNO: Una tigre. SHAKESPEARE: Ircana. Provati ad avvicinarti dotto una di queste forme. Assumi qualunque forma. Ritorna in vita o va via. BRUNO: L’allegria se n’è andata. Vi succedono spesso questi vaneggiamenti? SHAKESPEARE: Ho delle agitazioni. Ma lei come fa a con templare queste visioni e conservare la sua aria tranquilla? BRUNO: Che visioni? SHAKESPEARE: La tua. BRUNO: Buonanotte signore e ci venga a trovare presto. Buonanotte. Torni in buona salute. Buonanotte.

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SHAKESPEARE: La mia cortese buonanotte a tutti. BRUNO: Le chiamo un taxi? SHAKESPEARE: Supplemento servizio notturno. Si è saputo che delle pietre si sono mosse e degli alberi si sono messi a parlare. Le gazze, i corvi sono sospetti. Anche i pavoni. A che punto è la notte? BRUNO: Quasi alle prese col mattino, per decidere chi sia dei due. SHAKESPEARE: Come? BRUNO: Devono decidere chi sia dei due.

[Opera tratta da Corrado Costa, Cose che sono parole che restano, antologia di testi a cura di Aldo Tagliaferro (Biblioteca Panizzi – Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1995). Per gentile concessione.]

A delucidazione riportiamo la nota posta del curatore:

Tra i testi teatrali di Costa abbiamo scelto questo, del 1988, realizzato sulla scena in varie località (tra l’altro al Teatro S.Geminiano di Modena e al Teatro Piccolo Orologio di Reggio Emilia), ma rimasto finora inedito. Partendo dall’ipotesi, ventilata da Frances A. Yates, secondo la quale Giordano Bruno avrebbe potuto incontrare il giovane Shakespeare in Inghilterra nel 1583, e prendendo numerosi spunti dal De umbris idearum, testo bruniano eretico per eccellenza, Costa delineò una insistente sticomitia, liricamente suggestiva ma teatralmente tenue. Consapevole di questa debolezza, decise di elaborare il progetto accogliendo i suggerimenti di Silvio Panini e Paolo Pagliani, del gruppo teatrale Koiné, che poi realizzarono l’opera sul palcoscenico. Il testo acquistò maggior efficacia scenica anche grazie all’adozione di un insieme di ben sette video (alla cui realizzazione l’autore collaborò attivamente) destinati ad agire come una specie di duplicazione muta dell’azione scenica. Anche in Decomposizioni esemplari, costruito in torno all’abbinamento immaginario tra il «mago ermetico» (F.Yates) nolano e il poeta inglese ricorrendo a un ricco intarsio di citazioni, è centrale la questione del doppio, o meglio dello sdoppiamento e della ricongiunzione nell’unità. Il testo è bruniano soprattutto in quanto gioco di immagini opposte e confluenti, secondo una tecnica combinatoria, nell’unità dello spettacolo. In una intervista concessa a Luisa Gabbi per la «Gazzetta di Reggio» del 3 aprile 1988 Costa ha voluto chiarire: «Il Teatro di Bruno è Teatro del Sole, da intendere all’interno del suo sistema eliocentrico: egli ritiene che la fonte principale della luce proietti sul mondo delle ombre. Per risalire dalle ombre alla luce si dovrebbe percorrere un cammino che porta dalle ombre alle immagini, dalle immagini alle idee, da queste al simbolo, indi al Dio unico. L’unico modo possibile di avvicinarsi alle idee è il teatro.»] Notizia. CORRADO COSTA, nato ne! 1929 a Mulino di Bazzano (Parma), visse a Reggio Emilia, dove esercitò la professione di avvocato e morì nel 1991. Fece parte del Gruppo 63 e collaborò, anche come disegnatore e grafico, a molte riviste letterarie, italiane e straniere. Dopo Pseusdobaudelaire (1964), la sua prima opera poetica, raccolse saltuariamente parte della propria produzione poetica, narrativa e critica (ricordiamo i saggi di Inferno provvisorio, del 1971), ma lasciò molti testi di varia natura disseminati in plaquettes e riviste; fu anche autore di testi teatrali. Frequentò una larga cerchia di poeti (tra i quali Emilio Villa, Adriano Spatola, Giulia Niccolai, Nanni Balestrini, Franco Cavallo e Franco Beltrametti) e di artisti visivi (tra i quali Claudio Parmiggiani, Giovanni Rubino e William Xerra) e spesso collaborò con questi amici, scrivendo testi per cataloghi di mostre d’arte o per raccolte poetiche a quattro mani (tra le quali ricordiamo Il Mignottauro, con Emilio Villa, del 1970). Dall’amicizia con il poeta americano Paul Vangelisti nacquero la pubblicazione di The Complete Films (Los Angeles 1983) e la traduzione in inglese di Le nostre posizioni, del 1972.

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Quando oggi ho accompagnato Giovanni alla scuola materna, lui voleva farmi vedere i giocattoli, voleva dirmi delle cose che c'erano nella classe, e io vedevo, mentre li guardavamo, come erano poveri i giocattoli e come erano sporchi anche, e poi lui voleva che io lo prendessi in braccio e guardammo i pesci che avevano appiccicato sopra dei fogli (e vidi che i pesci erano delle foglie molto belle di una pianta strana di cui non so il nome, e sembravano proprio veri) e guardavo il foglio di Giovanni molto semplice e spoglio e mi piaceva molto, con solo due pesci che scendevano giù verso il basso del foglio e chiesi a lui quale era il suo, e lui mi indicava sempre il disegno di qualcun altro. Io dovevo andare al lavoro, così lo deposi e lui s'avvicinò a un tavolino dove la maestra tirava fuori dei puzzle, e lui disse subito: "Io voglio questo!" (con una prontezza che io non avevo mai avuto). La maestra glielo diede e lui cominciò a sparpagliarlo poi tutto solo cominciò a mettere i pezzi, e stava chino con la testa, e non mi guardava ora, e io potevo andare, ma mi veniva da piangere perché pensavo che o lui non sentiva quello che io sentivo, o se lo sentiva lo nascondeva, e, sapendo che io dovevo andare via, non alzava il capo verso di me (che l'avevo chiamato alla vita e l'avevo messo di fronte a questo strano gioco) ma rimaneva solo con il capo leggermente inclinato intento nel suo gioco. * Quando mi rividero gli alberi piansero. Non dovete piangere, dissi loro, possiamo essere indifferenti, continuare a esistere senza pensare a niente, posso essere accanto a voi e guardarvi esistere senza pensare a quello che è morto. Posso stare fermo, sotto le vostre fronde completamente immobile. Posso guardarvi nella vostra bellezza di visi quieti, come quando guardo Domitilla, quando la prendo in braccio e sento la sua guancia tenera accanto alla mia, sento la sua bellezza intera adiacente a me di bambina già grande, di ragazza, di donna anziana, di anima perfettamente intera che non muore più. * Perché tu a un certo punto mi hai cercato, hai detto: dov'è il mio amore? Dov'è colui che mi ha amato? Colui che mi ha risvegliato mentre dormivo nell'erba. Io dormivo sotto la terra e lui mi ha richiamato. Ero nel suono della fonte e lui mi ha ascoltato. Mi ha cercato, è venuto sulle mie tracce e mi ha catturato. Io camminavo e non lo sentivo

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ma lui era dietro di me che mi seguiva. * Sono steso sul letto e tu mi accarezzi, tu mi lavi come un eroe morto e mi cospargi d'olio. Piangi sopra di me, nei tuoi occhi non sai tenere le lacrime, escono le lacrime dalle tue ciglia e un singhiozzo ti scuote il petto. Perché piangi? Non piangere, io non sono morto. Sto camminando su una stradina bianca contornata di alberetti giovani, sento le foglie che sfiorano le mie tempie, sento la brezza che mi accarezza. * Cielo, metto l'orecchio a terra e ti sento. Come eri azzurro oggi. Sento i tuoi silenzi e i tuoi moti e il tuo muoverti come un bimbo nella pancia della mamma. * C'è qualcosa, sì, che non vediamo, ma sta ferma e respira come un animale che dorme. C'è qualcosa che sta immobile al di là del visibile, che non vediamo ma sentiamo. * I tuoi giorni, tesoro mio lontano da me, e quelli con me, i tuoi giorni che si svolgono, e che si apriranno, sempre di più come si apre un cielo nuvoloso, e viene l'azzurro, il sole riscalda la terra e la consola. * Oggi mi sono svegliato e ti ho baciato e baciato, ti prendevo i ciuffi dell'erba e te li stropicciavo, i pini li scuotevo, e mi riaddormentavo, i miei bambini correvano sulle tue colline e volevamo stare in te. Anche quando chiuderemo gli occhi vogliamo seguirti dove ci porterai seguendo i tuoi pensieri. Intanto veniva sera intorno alle tue rive e tu ci sussurravi: “Intanto ora dormite, poi vedremo...”

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* Chi passeggia sopra di me? L'erba mi cresce accanto, gli uccelli sui rami cantano, la loro voce mi calma. Ma tu perché non ci sei? Perché ci sono tutti e manchi solo tu? E come farò a superare la tua mancanza, come farò a continuare ascoltando il suono degli uccelli come un carillon o l'erba crescere come un tic tac? * Non svegliate il laghetto che dorme, pioppi, con le foglioline dei rami, vento, non soffiare così forte, freddo, non essere così rigido, vedi che non ha coperte! Nuvole, trattenete l'acqua passando sopra di lui, stelle, luccicate pure, guardatelo ma non svegliatelo. Non svegliatelo, non lo svegliate, è solo, non ha nessuno; solo le mucche che vengono ogni tanto a bere, solo i pioppi che frusciano sempre, solo i pesci silenziosi, solo le nuvole lente, solo il mio tesoro, che lo tiene nella sua mente come in una culla, e non lo dimentica. * Camminare sulla tua via, o sei tu, sentiero, che cammini dentro di me, o sei tu la creatura e io un cammino, una via. Perché tu, come sei intero, come sei fatto bene, e formato in tutte le tue parti. E quando ti incontro, mi sembri vivo ché ti fai incontro a me, felice, o quando ti batte la pioggia, e stai immoto come le mucche, senza cercare un riparo, e già chiacchiera l'acqua e diventi un ruscello. * Tu mi hai dato tutto poco a poco perché io lo capissi, perché io capissi piano piano. Mi hai fatto tanta paura, ma adesso non ho paura. Questa strada è piena di fiori, vorrei fermarmi a raccoglierne ognuno. Gli uccelli cantano, vorrei accarezzarli, vorrei fermarmi questa notte con loro. Vorrei sedermi qua e solamente respirare, respirare come questi fiori, questi steli, come l'aria che posa quieta su loro.

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* Camminare fra i tuoi fiori addormentarmi sulla tua erba toccare gli steli e tenermeli accanto per tutta la notte. Raccontarti storie di eroi antichi. Tenerti per mano e camminare, camminare fino al mattino. * Vorrei restare qui tra le lucertoline. Voi tornate a casa, io vorrei restare qui. Non vorrei, ora che il sole sta tramontando, come sempre, alzarmi e tornare; Non vorrei, come sempre, restare un poco la sera, vedere appena la sera cominciare a scendere con i suoi piedi timidi e poi, prima che sia buio, affrettarmi a tornare rifacendo a ritroso la strada, percorrendo la stradina in senso contrario. Quando la sera scende il buio aumenta sempre di più ed ecco diciamo: ora dobbiamo andare per avere lume lungo la strada. Io, ora, vorrei restare, non voglio avere lume perché non voglio tornare lungo la strada.

Quando noi torniamo le mucche sono ancora a bere, voglio vedere dove vanno a dormire. Quando torniamo c'è ancora luce e i cavalli pascolano sparsi, vorrei sapere che cosa fanno dopo, se si riuniscono tutti insieme oppure si raggruppano per famiglie, vorrei sapere se le mamme, quando viene la notte cercano i loro figli. [Da Eroi (Fazi, 2000)] Notizia. Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo. Vive a Roma dall'infanzia. Ha pubblicato le raccolte poetiche Fraturno (Abete, 1987), La mia casa (Pegaso, 1994, Premio Dario Bellezza), La miniera (Fazi, 1997, Premio Metauro), Eroi (Fazi, 2000, Premio Aleramo, Premio Montale, Premio Frascati), e Attorno al fuoco (Avagliano, 2006, finalista Premio Viareggio). Sue poesie sono apparse su varie antologie italiane e straniere. Ha curato i volumi: Almanacco di Primavera. Arte e poesia (L'Attico Editore, 1992); Orazio, Arte poetica, con interventi di autori contemporanei (Fazi, 1995); Le più belle poesie di Trilussa (Mondadori, 2000). È stato tra i fondatori della rivista letteraria “Braci” (1980-84).

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Accademia di Belle Arti di Urbino – scuola di Scenografia DIALOGO DELLA VECCHIA GIOVENTÙ di Gianni D’Elia AUCTOR Sono l’autore di questa scena in versi, che torna dopo anni sui suoi giorni dispersi...

Mi chiedo che cosa voglia dire tutto questo; e, chiedendomelo, lo chiedo anche a voi; del resto,

la gioventù e la poesia, con la politica, erano cose d’una generazione mitica, no? perché la gioventù fu canzone beat, tutt’al più, senza poesia esplicita, e la politica fu ideologia, non poesia...

Comunque, è bene che ci si sia ravveduti dall’errore, per cui fummo muti, se non in parole d’ordine, per scoprire poi le parole che danzano la scoperta del dolore, le parole

vicine alla carne, senza ideologia che non sia la critica dell’ideologia... Bene, che il peccato

o il laico errore, sia la vera pena, è qualcosa che conviene e non conviene; d’accordo, gioventù è non sapere quel che poi viene; ma, del resto, la mancanza, non è forse, quaggiù, a oltranza, il futuro dei più? Ora, grazie a Francesco, l’amico Calcagnini, il regista, e agli studenti di Urbino, che agiranno questo testo, pensato due decenni fa, riportandolo, come si dice, in questo contesto nostrano, italiano, che tanto ancora sperare e ancora disperare ci fa.,.

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SPEAKER La scena si svolge in un suo stretto cerchio, nello spazio che va da una sera a un’alba, da una stanza a una strada, a un mare. Ciò che parla ha il nome di chi parla: un giovane, una vecchia, un coro che rappresenta la coscienza culturale e tragica della Città. Il coro è, in realtà, una voce senza nome del nostro presente; poiché, perso il nome, ci si ostina ad avere una voce puramente disinteressata e infedele nel domandare. L’epoca è la contemporanea nostra, un po’ stracciona, ma tragica e banale nello spreco affluente. Infatti, col filosofo, è ridetto: “A questa civiltà livellatrice è legata una grande perdita. Storia è il racconto dei mezzi, delle vie che conducono alla omogeneità”. PARODO

E noi, qui, chi ci ripagherà d’essere irrimediabilmente vivi? Tu che vai per mare sopra un treno, ed io che resto qui, sul mare? Ma dove resto? E dove vai nelle tue ossa aguzze come baci, nelle sere che non portano niente se non il chiarore di un ricordo?

Noi non siamo nati per vivere dentro una città che spera ancora nella sua vita di mercati e sputi... Ne volevamo un’altra, ecco l’errore...

Anche il mare fa le sue pozzanghere. E barche di fumo sono le nuvole, Ma tu ricordati la pelle screpolata dei mosconi e l’odore di luce dei treni.

Ora sappiamo che nessuna città potrà mai contenere la vita. E ce ne andiamo amici o restiamo ovunque l’erba sappia di seme e di sole. PRIMO STASIMO

CORO Tu sei quell’ombra! Senza sapere hai già compiuto tutto ciò che un uomo giovane deve compiere, come oggetto di storia, come figlio. Hai già creduto nell’azione e nella noia, da cui viene ogni fare degli uomini nel tempo. Hai anche amato e odiato, come dicono nei libri. Uccidere; sposare; cieco. Ricordi? Da allora non puoi che dire tutto il presente, tutto il dolore passato.

Sei cieco. Dove sei? Sei solo un’ombra che chiede, che domanda. Ricordi? Da allora non puoi fare altro che domandare. Ma non sai cosa. Lo vedi, da allora tutto ciò che hai fatto è andato male. Tu torni, torni da una guerra, che non c’era, e chiedi ora a me di una casa, di una casa mai vista… almeno mi chiedessi di una strada, che porta alla città,

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tra i colli, le frasche, i vigneti… cose, non fantasmi, potrei dirti:

NON POSSO RISPONDERTI. BASTA. Ma così, cosi… tu sei folle non voglio neppure ascoltarti.

GIOVANE Non è detto che ciò che non si vede non sia. Anzi! Ciò che non s’è mai visto arriva e parte. Come quella barca, che ora beccheggia laggiù e si porta via dalla scena; come questa, che passa qui davanti, col pesce ammucchiato sulla poppa, i mastelli, le reti e gli uomini giovani e vecchi, che scartano i granchi dalla pesca, a torso nudo, coi neri gambali, e sciacquano in alici nei secchi, le pongono in cassette e un ragazzo, il più secco, immerge quel telo dentro una pentolaccia, e con quello le copre… E tutti dov’erano prima di adesso? Erano forse una quinta, che si sposta, da una scena all’altra, che nello stesso tempo è una scena che manca? O che mi manca? Una scena a cui viene, a cui va la vita, dove non sei che un guardone, un cieco? CORO Dentro la città, come l‘erba non richiesta, che cresce ai margini, tu devi vivere. Nessuno ti aspettava. Qualcuno ti aspettava, le sue viscere.

GIOVANE Io mi ricordo un tempo in cui tutto, prima del suo inizio, poteva essere. Era un tempo arbitrario. Gli animali cominciavano a pensare. Avevano bisogno di ciò che cercavano, ma non cercavano, se non trovando, ciò di cui avevano bisogno. Poi si operò la riduzione

dal pensare al far di conto. Amare allora fu solo raggiungere la distanza tra l’uomo e il mondo. La terra non fu che un fondo senza fondo, un magazzeno l’uomo. Un arto che arraffava. Morte fu creduto tutto ciò che stava fuori. Gegen=contro. Contro. E oggi la vita più non ci appare che un’immagine che insiste. Oggi che si uccide a distanza, oggi che il mondo è una pallina nelle dita di un mondo che c’è cresciuto sopra, prepotente e meschino come un uomo che smangia, oggi sono dovuto nascere. E solo l’idea della morte mi aiuta a morire... Ma tu, perché mi tormenti? Mi dici

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sei vivo!, come la più grande delle condanne. Tu lo sai io canto e non ti temo. Da quando sono cieco ho scoperto la parola. Prima di partire l’ho usata male, ma ora, che sono in cammino non parlo più, io dico. Conosco già le tue obiezioni. Voce di un coro che non riconosco,

voce di un coro di morti, perché la città che ti manda è finita. Dopo questa città cosa c’è? Dopo la tragedia che fingi? Essere nati è tutto il sogno? Non saprai mai rispondermi. A te che dici “non si può mutare la vita se non si cambia il mondo”, io con la storia a te più non rispondo: non sono comunista io sono vivo. SECONDO STASIMO

GIOVANE E tu chi sei? Sei nuova? Perché non mi guardi? E te ne stai lì accucciata come una bestiola, non parli, soffi solo dal naso, sembra quasi che tu voglia scusarti di essere qui in carne e ossa - poca carne intorno ai tuoi... Perché mi fa così male la tua presenza, che non chiede niente a nessuno, se non di essere lasciata vivere, in questo luogo che credevo solo mio in questa stagione, in queste

prime ore dell’alba, quando i bagnini rastrellano le sabbie su tutta la costa di questa parte di terra, sulla quale non siamo che un punto sopra un punto che gira nel vuoto? Perché non riesco a sopportarti neanche in questi luoghi, dove i ragazzi e le ragazze vengono a baciarsi , d’inverno e d’estate, in modi cosi diversi... scassando capanni, per esempio, oppure stringendosi sull’erbetta, che ci cresce davanti, come per miracolo, spuntando dalla sabbia, formando tappetini arrugginiti e smeraldi, quasi scendiletti… Perché la tua vista, invece di chetarmi, di farmi ragionare e almeno guardare quest’alba sotto monte, coi suoi colori verdi e bianchi, il blu che si dimena tra gli scogli, i pochi pescatori di renicola e di granchi, laggiù, nella bassa, che s’aggirano come mendicanti tra odori che posso solo immaginare (perché ci sono odori per cui vale la pena di vivere) - perché la tua vista è questo tormento, questo odio, questa paura, questo racconto ritmato dai treni qui dietro, che rompono l’aria fischiando canzoni disgraziate - e non c’è gente più di disgraziata dei treni che vanno...

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Perché sei venuta proprio oggi, tra questi casotti di cemento pitturati d’azzurrino e rosa, tra queste erbacce che fanno fiori piccoli così belli, tra queste latte, sacchetti, ogni forma di plastiche, perché proprio qui, seduta, sul cemento, con la schiena rivolta ai binari - che s’intravvedono tra la rete smagliata e i ciuffi di tamerici e pitosfori proprio qui dove venivo io, dove ora vengo? Sapessi cosa mi è successo... in una sola notte... non te ne staresti lì a guardarmi coi tuoi occhi grandi e morbidi, color di lana grigia, coi tuoi stracci, le tue rughe, - quasi altre due pelli sopra la tua pellaccia scura -

coi tuoi capelli e tutto quello che SEI non te ne staresti solo a guardarmi... se tu sapessi... mi daresti almeno un pezzo di quel limone che succhi - ché ho tutta la bocca impastata dal vino, dalle lacrime ed io vincerei lo schifo e il ribrezzo che mi fai usurpando questo luogo, succhierei... Ma, già, tu non sai... cosa vuoi che ti racconti, lì, coi tuoi stracci... forse sei anche sorda o muta, oppure slava, straniera... Come potresti capirmi? Cosa... ma... forse… forse un modo ci sarebbe. Guarda! Sì, potresti guardare quello che accade davanti a chi parla, come in un bianco, perduto teatro di Greci... Intanto io parlerò solo per chi non può o non sa guardare, ma vuole ascoltare le cose che vedi in questa lingua. Guarda, già i pescatori se ne vanno con le loro pale e cartocci di vermi lunghi e rosati, il sole è più alto, arrivano la colonie...

CORO Ecco, un’ombra di irresistibile tristezza, dove s’annida l’ansia, come un intestino immateriale, di un altro, che preme e duole… È con quest’ombra vicino, che cerca un passaggio, una tregua, o il suo corpo

che la manda nel mondo (ma non per gioco), è con quest’ombra, ragazzo, che ti misuri E non per scelta, ma per forza, È lei che ti muove la bocca, ti costringe a dire della sua presenza (quanto simile all’aria, al vento!) nei giorni di sole o di pioggia, sopra una terra non più necessaria a questo mondo, che la ricopre, che la espelle da sé, come per una segreta consacrazione a far morire tutto quello che c’è. E il suo divieto a farsi amare è qualcosa che trasmette ai feti come il sangue delle madri (qualcosa che si taglia, quindi, e che continua, da sola, quando si entra nell’aria, definitivamente, e la si occupa). La vita poi dove si vive con lei Somiglia ai versi che non si scrivono mai, se non nei pochi giorni che contano.

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E sono lemmi in cui si parla dei propri sentimenti, come degli anni che ci volevano avere, quando si davano i primi baci. Conoscerai così la menzogna dell’amore. L’infamia è questa: accorgersi. TERZO STASIMO

CORO Non avrai altro Coro all’infuori di me. Non c’è un’altra voce. E anche la tua è la mia voce che non vuoi. Io sono la sola voce che esiste. Perché mi dirai? Il vecchio Coro parlava, ricordi?, di figli e di padri e la sua voce era rotta dal pianto delle madri. Poi le cose sono cambiate. Le parole anche. Ora io parlo soltanto di me e gli uomini mi pensano perché mi consumano. Ogni giorno ne nascono nuovi ed io li accolgo dicendogli: TU SEI ME.

GIOVANE Che strano! Io occupo un posto non mio! Sono diventato tutti e sono sempre più solo! Qui, dove sono, già vivo nel futuro. Perché non c’è più futuro. Tutto è già accaduto. Le cose ci sono, ma non ci sono più. Gli alberi ci sono, ma non ci sono più. I corpi ci sono, ma non ci sono più. Parole ce ne sono, ma non ci sono più. E via di passo...

(rivolto alla vecchia) E tu, perché non dici niente? perché non mi guardi? Sei nuova? Mi fai forse più pena che rabbia... La vedi la ciotola azzurra del mare, la bevi con gli occhi? Oh, essere il mare nel mare.

VECCHIA (tra sé) Povero stupido! Cosa ti credi? Ce ne sono tanti come te. Passano qui, in questi luoghi, o in altri, tutti giovani come te, e vogliono qualcosa, che io parli con loro. Ma sono tutti arrivati troppo tardi! Avete fatto

per anni tutto quello che avete voluto ed ora vorreste rifarlo nello stesso modo! Ma io non mi presto a questo gioco. Ascolto. Io ascolto e intendo tutto quello che dite. Ma siete arrivati tardi! Sono diventata vecchia, vivo di morsi, e quando cantavo nessuno mi ha ascoltato. Ora venite qui come cani bastonati, ubriachi, e solo il vino riesce a farvi piangere. Vi sedete, guardate il mare e parlate parlate, recitate vecchie strofe, lo scrivete anche! Qualcosa vi brucia, ma cosa?

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Siete costretti a vivere la gioventù con la poesia, ma quella non l’avete

vissuta. La vostra gioventù non vide la poesia né la gioventù: ed ora è la poesia che la guarda, come un ricordo, un rimpianto, una corolla da aprire, che non vide sbocciare. Ma che poesia sarà mai questa? Di cosa? Voi mentite. Tirate fuori la politica e le date tutte le colpe. È stata lei! È stata lei a impedirci di vedere che c’erano anche le strade, l’erba e la pioggia, che c’erano anche le bestie, il mare, l’amore... Ma voi mentite perché siete nati ora. E vi vorreste già morti...

GIOVANE Guarda, vecchia che non parli, guarda... oh, le cose, nel sole, le cose che non sono più, nel sole, sbucato da azzurre asole, le cose, i capanni, i mosconi rossi e scrostati, nell'erba, sul terrapieno, lasciati a bruciare, e tutta la sabbia calda come un panno in mille pieghe, e, dentro, conchiglie, legnetti, i rifiuti più amari del mondo, con la poesia... È in questa forma che avviene la grande parata dei giorni. I giorni

lucidi come grappoli dopo la grandine. I figli passano da queste parti e i giorni li scacciano. - E in questa grande parata le cose irretire e morire. I miei passi asciutti più farsi. E la scena cambiare...

Vecchia mia, cosa vuoi sapere, le mattine? Mattine come queste, quando ci si alza dal sonno, come morti in un vivo? Accosto un corpo di madre. La gamba al primo piede poggiato, che fa male, il giallo e il bagno, la prima parola, sempre diversa, e se sei solo non parli, non parli, e la voce finge una parola

per sentirsi. - Al punto che se restassi solo in una stanza senza specchi potrei sentirmi un'ombra, se nessuno mi vedesse in questi giorni sarei morto, e non ci sono ruscelli da amare come Narcisi. Perché tu lo sai, vecchia, che esistere vuol dire essere visti, che essere reali è solo essere visti agire... ESODO

VECCHIA Non posso più rispondere. Domanda. Sono arrivata. Me ne vado. Senza parlare, nel silenzio. Le teorie sfilano come l'auto sulle strade, a luglio, vanno i caselli a intasare,

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a migliaia, con gli uomini e le donne intenti, dentro, ai loro figli, ai bagagli... L'errore è stato quello di legare la disperazione alla storia, credendo

di risolvere il tempo nell'esistere e nel porre un solo verso. Ma ora i vecchi segni, alitando sopra un vetro, escono di nuovo. Ma per quello che non sono appaiono. Non hanno fondamento. Come i corpi. E come i corpi sono di ragazze e di ragazzi o donne che in questi luoghi passano: vacanze accanto alberghi in costruzione, sterri, tavolacce, rifiuti e bidoni, latte, strappate carte e gazzette, calcinacci, ovunque l’erba si ripari e fugga... Tutte uguali, le cose, parlano ora

nel linguaggio dei segnali, dalla ruggine. Bisognerà anche noi la parte imparare, scordare il tutto, il ricatto. Pensare ad una nuova casa che non c’è, alle remote punte tre: la lingua, il cuore, il sesso. Sciogliere lo sguardo dalla scena. E non sarà sapere più, ma esserci. [1979] [1994] [2001]

Notizia. Gianni D’Elia, libero docente e traduttore, vive a Pesaro, dove è nato neI 1953. Ha pubblicato le raccolte di poesie “Non per chi va” (Savelli 1980; Marcos y Marcos, 2000), “Febbraio” (Il lavoro editoriale, 1985), “Segreta” (Einaudi, 1989) “Notte privata” (Einaudi, 1993) “Congedo della vecchia Olivetti” (Einaudi, 1996) “Guerra di Maggio” (San Marco Giustiniani, 2000), “Sulla riva dell’epoca” (Einaudi, 2000), “Bassa stagione” (Einaudi, 2003), “Coro della cometa” (LietoColle, 2004) e “Trovatori” (Einaudi, 2007). Ha fondato la rivista “Lengua”. “Gli anni giovani” (Transeuropa, 1995) riunisce una sua trilogia narrativa. Per Einaudi nella collana “Scrittori tradotti da scrittori” sono uscite le sue versioni di Gide, “I nutrimenti terrestri” (1994) e di Baudelaire, “Lo Spleen di Parigi” (1997).

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VIA SERIVED NON ESISTE Buona sera. Prima di iniziare con lo spettacolo, vorrei dire due parole su… Philip Dick, anche se può sembrare noioso, Philip Dick è negro. È nato nel ventotto è morto nell’ottanta due. due otto otto due. Due più otto dieci otto più due, dieci. Uno più zero, zero, zero più uno, uno, uno più uno, due. Otto. Ma per me è importante. Oltretutto molti di voi se sono qui è perché in qualche modo ne sanno già qualcosa, forse molto, e forse più di me su Philip dick. Philip Kindred Dick. Io pensavo fosse negro. È stata una delusione vedere la sua prima foto. Mi tornava tutto, che fosse un negro. Ho letto i suoi primi quattro libri che lui era negro. È rimasto un negro. Avevo sette anni, da piccolo. Mi piaceva la fantascienza. Ma non leggevo molto a sette anni, quindi non l’ho letto. DOVREBBE ESSERCI QUALCOSA CHE SPARA COME UN RIFLETTORE PER UN'INTERVISTA TELEVISIVA NOTTURNO ESTERNO. DOVREBBE AVERE LA LUCE SULLA FACCIA COME UNO CHE VIENE SORPRESO MENTRE VA DA QUALCHE PARETE, E GLI CHIEDONO STE COSE DU DICK. LUI SOSTANZIALMENTE VORREBBE SCAPPARE, PERÒ NON SCAPPA. NON SCAPPA E PARLA. MA È SEMPRE SUL PUNTO DI ANDARSENE. DEVE ESSERE EVIDENTE CHE CI SI STA ARRAMPICANDO SUGLI SPECCHI. ...LUCE.

Volevo farti qualche domanda, su Philip, come vedi tu... Ah, tu lo chiami Philip, mi stanno sul cazzo quelli che fanno così. Ssi, come vedi tu l’intersezione tra la letteratura e la vita dell’autore? La morte della sorella gemella. Non me ne può fregar de meno. A diciott’anni ho iniziato a scrivere il mio primo romanzo, non sapevo scrivere, non sapevo leggere, ovvio che sapevo leggere a diciott’anni, non leggevo un cazzo però. E allora ho pensato visto che vado male a ginnastica perché non provo a scrivere un romanzo - visto che sono un genio. Guarda come fanno gli altri e poi o impari. Ho letto ottocento pagine di Bukowski in due giorni e poi sapevo scrivere. Il rapporto con dio, o la divinità in generale? Anche la divinità, quelli che dicono la divinità mi stanno sul cazzo. È un concetto o un nome. Questo lo so dall’università. - prima di andare a dormire, anzi, dentro il lettuccio caldo, mani giunte e padre nostro. Che sei nei cieli. Sia santificato il tuo nome. Venga il tuo regno. Sia fatta la tua volontà. Sperando che coincida con la mia.

ADESSO CI VORREBBE DELLA MUSICA: (VORREI CHE FOSSE MOLTO EVIDENTE CHE LA SITUAZIONE È COMPLETAMENTE UN'ALTRA, MI PIACEREBBE CHE CI FOSSE QUALCOSA DI KITCH, IN UN CERTO SENSO, UN’ATMOSFERA UN PO' INCREDIBILE. PIÙ GRANDE DI LUI MI VIENE DA DIRE. PIÙ GRANDE DI LUI. LASCIAMO CHE CI SI PERDA DENTRO COME UN BISCOTTO AL PLASMON IN UN TAZZONE DI CAFFELATTE. PER RENDERE L'IDEA.) Oggi, cercavo un posto. Non ho la più pallida idea di dove sia, sto posto. Ci sono stato di recente ma venivo tutto da un’altra parte. Mi ricordo che c’erano dei giardini, ma non ne sono proprio certo. Il tipo con la moglie – il tipo con la moglie voi non lo conoscete -ha detto che sono troppo avanti, di tornare tutto indietro e girare dopo due semafori ma non quelli piccoli, quelli grandi., Gli incroci con le vie grandi. Via Serived 43/a . Attraversare la città. Tanto oggi ho tempo. Faccio il gioco dell’intuito. Incrocio una strada e chiedo alla parte sinistra del cervello: destra o sinistra? lei espande, ho tempo. Tanto quella di via Serived non credo che mi aspetti con impazienza. L’altra settimana quando sono andato per conto della ditta a comunicarle lo sfratto, non ha fatto una piega. Proprio niente di niente, cristo. Io quelle che non reagiscono neanche se gli dici che c’hanno uno scorpione tra i capelli non le reggo. Sembrava scema. Forse è scema. SÌ, ANDIAMO ALLA GRANDE. VORREI CHE LUI ADESSO DICESSE QUALCOSA DI SPIRITUALE: ((PAUSA DI RIFLESSIONE, LUCE DA INTERVISTA E BREVE STOP DELLA MUSICA))

“Credo che la vita, per quanto vasta e smarrita sia di forma circolare

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e che possieda un centro” ((musica))

Comunque sia: Oggi c’è lo sgombero esecutivo, quindi me la prendo, me la carico sul camion insieme a tutti i suoi santi e i suoi cristi - la notifica le è arrivata da un pezzo. Non paghi. Te ne vai. Non te ne vai? Ti portiamo via noi. È la legge. La legge della Casamia Associati spa. Ma con questo io non c’entro, io guido solo il loro camion. Non sono un socio. Sono un dipendente. Con quella di via Serived di mio non c’ho proprio niente. Spero solo non mi pianga davanti. Le lacrime non le reggo. Non mi piace vedere le lacrime che scendono giù per la faccia gli occhi che si arrossano e tutto il resto. Per non parlare del sentire quelli che tirano su col naso. Francamente è’ una cosa schifosa. Solo i bambini hanno diritto di farlo senza vergogna, i bambini possono, perché i bambini sono al di sopra di tutto, anche dello schifo: non c’è modo che un bambino perda la sua dignità. Ma se quella piange sì che è uno schifo; mi tocca caricarmela sul camion , tutta moccicosa, coi capelli che si disfano, la vestaglia scomposta, le calze smagliate. E tutta quella gente intorno che si commuove. Manco fosse alla televisione, “poverina, la mette sul camion!”. Facile commuoversi per le disgrazie di cui non siamo i responsabili. Tutta quella gente col sorriso perplesso inoltrerà istanza di proroga, “una settimana, un mese. Lasciatela stare infami, cani da guardia, li troverà i soldi, datele il tempo. Datele il tempo.” Ma come? – vorrei sapere, come li troverà i soldi? Me li date voi, al suo posto? Questi benedetti soldi? Sono almeno dieci mesi che questa non paga l’affitto ( non che il fatto mi sorprenda, a volte anch’io ho tardato qualche mese),non è questione di bontà o cattiveria. È la ditta. Ha le sue regole. Sopra o sotto i quindicimila, c’è il cambiamentoepocale. Puoi stare anche per vent’anni ad un pelo dei quindicimila, capisci, puoi stare pure a quattordicimila e novecento per dieci anni, ma se sfori sui quindici, non c’è nessuno che ti possa salvare. La ditta lo vede subito. E procede di conseguenza. Io sono il braccio della legge. In un certo senso, e la signora di via Serived lo sa benissimo anche lei. Perciò lei non piangerà, salirà sul camion senza versare lacrime, con dignità ed onore. Speriamo. Spero di non dover usare le maniere forti. Odio quando devo menare. Oltretutto per conto della ditta. È la ditta che mena, ma i segni viola delle dita sono i miei e non mi piace, non mi piace affatto.In certi casi non hai scelta, ma il più delle volte, con un po’ di sensibilità te la cavi alla grande. Lo devi sentire, con chi hai a che fare. Per esempio questa di via Serived è una strana, non so se capisce tutto. L’altra volta c’ha messo un tempo per capire che ero della Casamia associati spa, che non volevo stuprarla o altro , e che non volevo baciare Gesù. Ha tentato ripetutamente di farmi baciare Gesù. Non parlava, ma teneva quel Cristo in mano, lo baciava e poi me lo porgeva perché facessi lo stesso anch’io. Ma io non volevo baciarlo. Ma non volevo offenderla. Cazzo, mi dispiaceva che pensasse che non volevo baciarle Gesù solo perché aveva sforato nei quindicimila. (didascalia muta : L’affermazione che segue avrà la tempestività di uno spot subliminale. Non deve quasi percepirsi che non c’entra con la storia, falla scivolare)

Mi piace il buddismo anche lo yogurt müller, perché sembra bianco e puro. E invece è buono.-

Così l’ho baciato. Ho baciato Gesù. Però subito dopo le ho detto ben chiaro cosa l’aspettava; le ho detto che se non avesse saldato il debito, sarei dovuto tornare a caricare tutto sul furgone, anche il Gesù, e che l’avrei fatto senza guardare in faccia nessuno. Lei ascoltava, deve essere proprio un po’ svitata, senza guardarmi, e alla fine s’è messa a pettinarsi i capelli con una vecchia spazzola di setola, come una bambina di quattro anni . Anche se in realtà è vecchia almeno quanto la spazzola. (come prima, questa didascalia resta in ombra, ciò che dico s’intende a nostro uso e consumo, il pubblico non sente, non sa nulla: le indicazioni d’ordinanza sono occulte: riaccendete la luce da intervista, fermate la musica, come per un incidente! Inserite la prossima battuta e ripartite, come se non fosse mai stato) (SORRIDENDO MOLTO):

“ Una volta ho viaggiato fuori dal corpo!” (MUSICA E LUCE, COME PRIMA)

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Poco fa in galleria c’è stato un incidente, a giudicare dalla macchina deve esserci morto qualcuno. L’uomo con la moglie a cui ho chiesto l’informazione su via Serived era incerto, sull’incidente, prima ha detto che era morto il guidatore, poi ha raccontato tutto più velocemente, una seconda volta, come per riassumere i fatti, ma sta volta a morire era stato quello di fianco. Un uomo giovane. Non so perché c’ho fatto caso, avrei voluto chiedergli spiegazioni, chiedergli che si decidesse a dirmi chi dei due, secondo la sua versione dei fatti, secondo il suo punto di vista, era morto. Ma dietro c’era uno stronzo che suonava, e l’informazione su via Serived me l’aveva data, perciò ho lasciato stare. Mi piacciono gli incidenti stradali, perché spezzano i circoli viziosi del pensiero, ti spostano tutto d’un colpo al di fuori del tuo universo della mente. un incidente è uno squarcio della realtà, la fine, subito dopo, di tutte le cose che poco prima ti sembravano importanti. Non c’è più niente. Sei su un altro ordine di grandezza. Forse quando te la vedi chiaramente lì, davanti alla faccia, la morte, ti passano tutti i dubbi, diventi liscio come un tavolo da biliardo, e anche la mente per un attimo, fa silenzio. Vede, e basta. Dalla prospettiva migliore possibile e cioè dalla prospettiva di uno che con tutto questa roba ‘sta per non c’entrare più niente. Dannarsi non serve, non c’è una cosa che aggiunga senso o che lo tolga, a questo stare qui, con le gambe un po’ allargate e i piedi sulla terra con l’idea che, perché ci sei, ci puoi fare qualcosa. Qualsiasi cosa sia. Didascalia per chi ci crede:

“VIA SERIVED NON ESISTE, NEANCHE QUELLA DONNA, NIENTE ESISTE, FATTI E PERSONAGGI SONO PURAMENTE INVENTATI, LA STORIA È UN FALSO CHE NESSUNO HA MAI VISSUTO NE’ SCRITTO, LA PAZZIA, LA CASA VUOTA, FALSO, FALSO DIO, FALSO HITLER, FALSO GESÙ, DICIAMO LA VERITÀ, DICIAMO LORO CHE NON DEVONO CREDERE PER FORZA A TUTTO QUESTO CHE BISOGNA PIUTTOSTO SVUOTARE I PORTACENERI, RIVOLTARE IL POLIPO E PERCUOTERLO PERCUOTERLO, CONTRO UNA ROCCIA, LO SO, PARE BRUTTO DIRLO, MA È L'UNICO MODO PER MANGIARLO. DISPIACE PER IL POLIPO.”. ((LUCE INTERVISTA))

- Dom. Riesci a farlo- sostanze psicotrope?, - Risp. Se torni a casa ubriaco. Come al solito ho letto un manuale di un certo Monroe, anche quello prestato, come il libro di Bukowsky, devi praticamente allungare una mano e accedere la luce senza muovere un dito. Sono finito in una stanza, c’era un uomo dietro una scrivania, un militare rincagnato. “Che cazzo ci fai qui?”, mi son cagato sotto ed eccomi nel mio letto. Tutte palle. - Dom. tutte palle? Fino a dove? Fino a dove devi risalire per trovare qualcosa di vero, qualcosa di cui non si può assolutamente dubitare? - Risp. Fino a qui, devi risalire fino a qui, fino ad adesso.sulla stampa ma anche su rai tre.il romanzo del secolo. I nazisti hanno vinto la guerra figata. Idea geniale.compro subito. Dopo molti anni però.pausa.silenzio.hanno vinto la guerra? Syd barret è vivo.elvis è vivo.adolf è vivo.pinochet è vivo. Voi siete tutti morti. Io sono vivo. Io sono morto voi siete vivi. SILENZIO.

Dick si drogava. Dick era pazzo, era uno psicopatico si mangiava le scatolette dei cani, è una cosa questa delle scatolette, che mi è rimasta in testa, e poi in inglese dick vuol dire cazzo, e anche sua moglie lo ha lasciato. ((MUSICA))

“Non c’è più niente. Sono su un altro ordine di grandezza La casa è vuota. È vuota e senza speranza. Mastico di tutto. Puttana, sono perso. Non trovo un buco, aspetto… e se non succede niente aspetto. non si può vedere dio tutti i giorni. E quando non si vede dio la vita è piuttosto inconcludente, diciamo noiosa. Diciamo un’escrescenza inutile, a volte decisamente misera e sudicia, lavabo, cose sporche, reali, scarpe, polpastrelli rosa, ragni e soffitto. Una merda. Di gatto. A volte ho il dubbio che tutta questa luce addosso non serva a nessuno, che non sia divertente né altro. La luce di per se stessa, è solo il sintomo di un qualche grave squilibrio. Se scrivo sto meglio, anche se scrivere non cancella la realtà dei fatti. I piedi puzzano se non li lavi a dovere e, con dovizia di particolari, neanche le mutande scherzano. Non so, se

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potessi scegliere, se a vessi una qualche voce in capitolo, se sceglierei di rinascere uomo. Non sono sicuro che tutto questo arare il fondo in definitiva giustifichi l’impresa. Costa tutto molto caro. La fantasia, i gatti che parlano, le pastiglie, il telefono, l’amore, puttana, e tutti i soldi a tutti quelli. Il fatto è che le regole del gioco mi si disfano in mano, per esempio, ho l’impressione che gli altri sentano in modo diverso. Più stereofonico. Più orchestrato. Mentre a me il suono mi pare che arrivi tutto da una parte, per esempio , a destra, e poi di colpo, tutto dall’altro orecchio. Passo dai bassi All’eco degli acuti, ma non c’è verso di mettere insieme tutto. Non c’è orchestrazione nella mia testa. e allora che farci. Sono uno di quelli a cui probabilmente manca qualche proteina strana e che per semplici ragioni chimiche, crede di stare in un modo, mentre basterebbero due o tre cc di questa fantomatica proteina per ricondurmi sul piano dell’esistenza piana. Solo che la scienza procede con lentezza, e per ora non si sa molto della mia proteina. Mi è arrivata una lettera, senza mittente, l’ho aperta e dentro c’era un biglietto con su scritto a caratteri infantili, ma stampatello, TE LA DEVI CAVARE DA SOLO. Non so a chi sia potuto venire da scrivermi questo. Non so se era buona o cattiva l’intenzione di chi scriveva. Ma questo biglietto per me è un buon suggerimento. È una risposta. Una delle poche risposte che qualcuno, da qualche parte, ha pensato di darmi. Lo ringrazio. ((PAUSA PROTRATTA IL PIÙ A LUNGO POSSIBILE…))

Cioè era uno sfigato totale, uno che sdelirava un giorno su due, è chiaro che se sdeliri qualcosa di buono nella merda viene fuori, eh però gli è costato caro eh. Chi ce lo fa fare di sdelirare che poi si di dice delirare Cosa ti comanda? Comandare è sbagliato, starci dentro è giusto. Cronaca del dopo bomba. Copertina bianca, einaudi. ((pausa)) ((musica))

Elegìa: “Dovessi scegliere contro cosa consumare le parole e con esse la vita, contro cosa spezzare i remi della mia barca, per andare avanti e non sentirmi perduto. Sceglierei le cose ardenti, che bruciano o cuociono, le cose che scottano sulla pelle, tutto quello che non si dimentica voltando gli occhi”. Credo che la vita Per quanto vasta e smarrita Sia di forma circolare E che possieda un centro.

Tutte le cosmogonie e tutte le filosofie metafisiche e i pensieri attorno alla genesi del mondo parlano di qualcosa che assomiglia a un cerchio con dentro, nel migliore dei casi, parecchi altri cerchi e via dicendo fino a dio, o comunque a qualcosa che lo rappresenta. Anch’io, nel mio piccolo, mi sono fatta un’idea dell’esistenza. Mi sembra che non ci sia alcun senso supplementare e che se esiste una possibilità

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se esiste di trovare qualcosa che ci risponda qualcosa che non ci lasci del tutto inerti sulla faccia della terra, a zoppicare per niente in mezzo a cose che il più delle volte a loro volta non hanno senso se esiste una possibilità, dicevo, questa possibilità probabilmente risiede nel coraggio di toccare tutto, come le scimmie di scuotere baciare succhiare calpestare amare uccidere partorire e mordere tutto quello che si può prima che sia troppo tardi per farlo. Per tardi intendo soprattutto il nostro tempo interno, che a volte all’improvviso smette di battere, e ci lascia senza voglie e senza sorrisi. Così. Senza motivo.

Una volta amavo una poesia di Dylan Thomas che diceva Infuria infuria contro l’incedere della notte o qualcosa del genere Infuria infuria in italiano non rende l’idea, ma in inglese (non ricordo la parola), esprimeva uno sforzo sovrumano e ripetuto, contro qualcosa di cieco, che schiaccia . Io credo che la vita sia decisamente in questo infuriare e infuriare, e che l’atto di questa furia sia creativo – e non (come alcuni pensano) un atto di devastazione – anche se spesso, per errore o inesperienza, ho anche devastato. Ma la maturità, la giusta maturità, ci insegna a distinguere tra i funghi buoni quelli allucinogeni e quelli velenosi e ci insegna a scegliere – ciascuno per suo conto e secondo la propria coscienza o inclinazione, a quale fungo sia bene raccomandarsi. C’era un uomo che stava sempre seduto sulla sponda di un grosso fiume di città a guardare la gente che passava e a chiedersi dove e perché. In questo stare a guardare senza interrompere l’uomo trovava la sua pace e la misura della sua esistenza. dato che non sapeva dove andare né perché, preferiva guardare.

Ed io guardavo lui guardare e quella gente e non mi facevo le sue stesse domande ma domande del tutto diverse che riguardavano più lui che i passanti, ma comunque è uguale. importante è la poesia che trasuda dallo sforzo di vivere

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anche se questo sforzo è solo lo sforzo di uno che preferisce non fare nulla.

E pensa di rincontrare qualcuno dopo molto tempo Uno che non vedevi più da molto tempo Una persona Che l’ultima volta non parlava la tua stessa lingua, ed ora, dopo tutto questo tempo in cui tu non hai potuto incontrarla o non hai voluto chissà comunque ora la incontri che parla come te parla la tua stessa lingua correntemente senza accento ed esprime concetti lucidi con facilità e naturalezza. Tu sei a disagio Naturale Sai che prima gli hai fatto un qualche torto Prima, quando non capivi che tutti quei suoi concetti Stavano nella sua testa già allora, solo che non ti arrivavano Non potevano erano bei pensieri, forse persino più sottili dei tuoi, più originali, più inventivi dei tuoi, ma se ne stavano sdraiati dentro non uscivano per via della porta non c’era porta per quella lingua, la tua. Oh! Adesso sì che ti parla! - parla eccome, ma senza mai accennare al passato hai notato? Come se non ci fosse continuità tra quel tempo e questo, come se quel tempo che lui ti parlava in un’altra lingua - la sua vecchia lingua, che lui adesso non ricorda e non parla più, quel tempo – appartenesse ora a un altro. Non a lui. Alla memoria di un altro. In un certo senso. Perciò di questo non si parla. Ora. Di come ti vedeva lui, da là, da quella sua lingua di prima, da quel punto di vista muto , su di te, di come ti vedeva quando non ti capiva mentre parlavi, ma ti seguiva sillaba a sillaba, bovinamente, con lo sguardo, con stupore, come se fosse un miracolo che tu parlassi così speditamente una lingua di cui lui non conosceva neppure l’alfabeto un miracolo che tu compivi – naturalmente, per tua elezione, un genio, diceva tra sé, un genio, o poco meno mentre adesso, adesso che questa lingua la conosce è difficile ben difficile dico che lui possa pensare ancora di te che sei un genio o roba del genere difficile che se qualcuno capisce ciò che dici veramente possa anche dire di te che sei un genio potrà forse capitare, ma è difficile, tanto vale non sforzarsi no

tanto mistero, tanto esotismo fottuti tanta speranza di salvezza che lui aveva riposta in te e tu in lui, tutta quella voglia quel furore di capire di spremere e poi succhiare e poi ancora spremere e via dicendo se ne sono andate, state lì – nudi come vermi, con le vostre parole ferme come bocce, con le stesse parole per dire le stesse cose, una banalità totale – una noia mortale,

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pestilenziale, abissale, ancestrale eccetera che se lui dirà – pera – tu vedrai una pera, e se lo vorrai potrai agevolmente senza alcuna fatica indurlo a pensare, a concepire e forse addirittura visualizzare una mela. Ananas. Tacchino. Tubo con tacchino. Sopra il tacchino un altro tubo. E sopra il tubo Un cristo in croce lo vedi Lo vedi ?L’hai visto lassù?

E poi altri due tacchini Uno sull’altro E poi tubi e tubi Su e su Fino al penultimo tacchino Che se guardi bene Sta su una zampa sola sarà malato non so O qualcosa gli dice Che sta perdendo il suo equilibrio Ma di lassù Lo vedi Fino all’ultimo tubo L’ultimo Perché dopo non ce n’è Non ce ne sono più. Più niente. Né di tubi. Né di tacchini. Tutto finito ti dico. Ti dico. Chissenefrega. Chissenefrega di questo. Non avete più misteri tu e il tuo amico. Non c’è più un mistero. Le vostre parole Le tue e le sue, sono così piccolo ora, sono ridotte di portata, sono sassolini in bocca, potete sputarle, scambiarvele di bocca, giocare con la lingua a farle scivolare dentro e fuori ma non sarà lo stesso come prima mai più vi dico andate andatevene via lasciatevi. Non avete più segreti né scoperte Non avete niente da darvi perciò voltatevi Le schiene e provate Sforzatevi adesso Di – dimenticare Dimenticatevi di voi Dell’altro Scordate le parole Ogni singola parola Ogni nome Ogni definizione – e camminate (camminare facilita spesso le grandi imprese) E forse dopo

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Dopo aver molto dimenticato E molto camminato Un giorno Quando non ci saranno più parole uguali fra voi Un giorno vi rincontrerete.

IL PUBBLICO DEVE CREDERE CHE LUI ABBIA DETTO QUALCOSA. SAREBBE BELLO SE SE NE ANDASSE CON LA CONVINZIONE CHE LUI ABBIA DETTO QUALCOSA, ANCHE SE ALLA FINE, DISCUTENDO NEL FOIER, CIASCUNO AVRÀ LA SUA VERSIONE DEI FATTI, TANTO CAPITEREBBE COMUNQUE COSÌ, QUINDI TANTO VALE PREVEDERLO. Luce. Balance. Sorriso, Ci guardano, Siamo in scena! ((APPLAUSI)). FINE

Notizia. Valentina Diana è nata a Torino nel 1968. Nel 1992 consegue il diploma di attrice presso la Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano e lavora con diversi registi (Remondi e Caporossi, Baliani, Manfré, De Capitani, Barberio Corsetti, Kahn, Santagata, Vacis). Nel 1994 partecipa al corso di perfezionamento Le lingue del teatro, che le permetterà di lavorare con Denise Marleau, Barbara Nativi e Thierry Salmon. Con l’associazione teatrale OzooNo di Torino, progetta e scrive, insieme a Carlo Gabardini e Lorenzo Fontana, la sit-com teatrale in sei puntate Laundrette Soap, cura l’adattamento drammaturgico di Baby Doll di T.Williams, scrive i testi 56-32-104 e Via Serived non esiste, liberamente ispirato a P.K.Dick. La sua prima raccolta è Tre ore di notte e un pezzo del mattino di Valentina Diana (Edizioni Torino Poesia, 2007).

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TRISTANO Canto alla catena I.

siede

volge le spalle a sud

poi che tornasti ala su terra vermiglia e spina lungo’l dorsato sentiero srocciato varcò la cantura del gallo l’aere tersato sì ch’ora s’infiora’l pianto fermo in canto no no non son morto e pur son bruciato che’l fuoco m’h’arroventato e poi e poi nera la curva collina di brace ma tenace radice profonda’l germoglio occultato e fioriture tarde per dir de li sonanti frutti da bacche in petalate in bocca a la soglia de la terra sorgiva da occhio vettato il lacrimato goccìo irrìga e fecond’ora l’ampia terra sconsolata poi che è tempo di disarsare’l core * II.

s’alza

il pensiero suo ondeggia in un porto mai sicuro

scurito e accigliato punta dritto a l’ombra del faro sempre che la lampara getti reti salde chè senza pesca anche’l core non si ciba

* III.

Re mare in me mare tra vie crostate e rott’increspate sì ch’anche le bocche salpate da ugole strette in tuonino limpidi li sprofondi canti - pur che mai ceda la tes’amàrra al mirar di scogliate coste gl’amarantati lidi aspri di ginepri maculati e d’olivastri

cammina indietro s’avvicina al cuore Tristano! Tristano!

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chi mi parla?

Tristano!

chi me parla?

che voce più non ho per il tutto qui sotto’l core che pianto più non ho e sgorgo s’arso s’è l’occhio che non ho canto tanto quanto’l lupo al troppo su de la volta che me fuori strascino dal Re cinto d’arco canto e dardo labbro e pur s’ode’l più giù d’inima mea

* IV.

scricchiola’l ramo che pieg’al vento la curva fronda de l’olivastro è cant’anche questo come gemma che s’incastona’l costato

comincia splendidamente un bel canto molto triste dice spesso

pianto non più poi che gl’orci custodi’l varco del recinto già son colmi e altri pronti qua ora non ho e pur piango sai piango ancora’l mondo perché più ridere’l mondo io non so che sembra mondo questo la terra più non promessa sì che una e poi altre salse gocce me incavano me da occhio tristato verso’l giù giù lungo de lo sterno e al moto di core sbalzato e spazzito imploro beatitudine terrestre

* V.

sviscerare le ventraglie appesantite mantecare’l core tra coste e budella tra pietre e braci e baci

come bestia scalcata e in corteo offerta

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offre il cor ai convenuti ah potenza di rosa disarmata ch’enigmi ancor’ora’l canto del giù ah durezza di pietra ch’inchiodi‘l canto’l palato ah secchezza d’alveo ch’increspi’l labbr’ora ammutato me senti? me senti?

in verbata carne che tellurica spinta sempre scuote a l’inabissato ventre sempre lì appena un poco più sotto’l core dove’l pane s’inzuppa e’l calice sbieca’lla bocca inèrpicati al su de la forra toracica così ch’ora salpi’l canto menarca come segue la polare del core questo curvo cielo incostellato e generoso di lontane lumescenze che paion’a me fiaccol’amorose su mare già scurito

* VI.

ondeggiando senza sosta con voce sonante e chiara li petri s’inerpicano verso un raro terso dove di roccia splende audace’l pensiero rischiara Re la rossa nebulosa del core

qual’ombra dimora nel sempre sotto di s’carcassata mia cavità toracica gret’essicato di sempre muti latrati di sempre sguinzagliati ardori per landa sbussolata Oh! sai tu dove sono l’ore del tempo quando il core sbalza? dove sono l’ore quando ? dove sono

mi claudica il moto poi che sentito è questo sbinariato adagio sentimentale senz’arpa e fiati e cant’alti e cos’in me silente scorg’ora innanzi le falangi di mie mani terminazioni periferiche di supremi tatti d’un solfeggio affettivo

?

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* VII.

nella terra del pianto nella terra del canto passando da una costa all’altra poi ch’io son lo spacco che la pietra mut’in canto chied’io dov’ora sono l’ore del tempo se’l cor’ inchioda’l sasso’l moto poi ch’io son lo spacco che la pietra mut’in canto chied’io dov’ora sono l’ore del tempo se’l cor’ inchioda’l sasso’l moto

poi ch’io non più cammino ne l’ora certa chied’io dov’ora sono i miei piedi poi ch’ormai uscito sono dal ritmo

e sento pianto nel me giù lo sento lo spacco che crepa Oh se lo sento sempre lo sento incrinare’l boccale gaudente dei rotti canti

tu? tu la tocchi la mia contrattura? tu? tu lo cammini’l claudico mio passo piegato al tempo? lo senti lo spasmo che spiazza me’l greto e pietratamente lo acceca al buio?

* VIII.

bisogna aver pazienza per scorgere la cicala sul tronco degl’olivastri

arbusto dell’incidenza sentimentale il collinare cammino siede

aritmia di me o core stretto in magredine non ancora ora canuta certo di poch’in poco si sospende’l tempo di vita e scorre l’arresto bizzarro ne l’arco sconosciuto del vuoto presente poi che tornai a la terra vermiglia salpando’l caicco su l’onda folle che grave misura del cor le miglia di spaccat’inaridite mie zolle

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si guarda tutt’attorno

e se mi dolgo è per il tutto troppo che più dentro me non sta

Notizia. Adriano Engelbrecht è nato in Germania nel 1967 e risiede a Parma. Si è diplomato in violino presso il Conservatorio di Musica "Arrigo Boito" di Parma con il prof. Luigi Mazza del Nuovo Quartetto Italiano e laureato in Filosofia presso l'Università degli Studi di Parma con una tesi in Filosofia della Musica. Ha studiato quartetto con Elisa Pegreffi del celebre Quartetto Italiano e ha tenuto numerosi concerti con differenti formazioni cameristiche e orchestrali tra cui Trio Musiques organizzando con quest’ultimo diverse rassegne musicali. Spalla dei secondi violini con l’orchestra musicale da camera “Il divertimento musicale” diretto dal M° Carla Delfrate, ha suonato anche con il violinista Fabio Biondi in prestigiose tournèe tra cui il concerto tenuto al Mozarteum di Salisburgo e Vienna. Come solista ha eseguito in prima esecuzione assoluta brani del repertorio contemporaneo appositamente scritti per lui: “Dance for a Tube Station” di Patrizia Mattioli (Monaco di Baviera, Londra e Parma) e “Neuma” di Carla Delfrate (Parma, Monaco). Come voce recitante ha tenuto la prima esecuzione assoluta di “Blu Ipazia” della compositrice Simona Simonini e “Psycho Memory” della compositrice Michela Grandi. Ha collaborato con Lenz Rifrazioni, Laboratorio di Ricerca e Formazione Teatrale di Parma, in qualità di attore, compositore, regista, drammaturgo. Ha tenuto numerosi laboratori di teatro, teatro danza e poesia rivolti alle scuole elementari, medie inferiori e superiori e anche corsi di formazione per docenti e corsi di formazione professionale. Ha lavorato in Germania tenendo workshops per attori e danzatori (Berlino) mentre nel 1997 ha preso parte come autore e interprete allo spettacolo “Rosenstrahl” del coreografo Ludger Orlok: da quest’anno tiene regolarmente, come docente, laboratori di formazione teatrale in differenti situazioni istituzionali. Nel 1999 ha firmato la regia di “Riccardo II” di Shakespeare mentre nel 2000 ha pubblicato il cd “Catharina von Siena” di cui ha composto le musiche; sempre dal 2000 ha composte le musiche originali di diversi spettacoli tra cui “Hamlet”, “Faust” e “La vita è sogno”. Numerosi suoi lavori poetici sono stati rappresentati a Lenz Teatro e in diversi e prestigiosi festival (tra cui ParmaPoesia, Ricercare a Reggio Emilia e Parole Migranti - Bolzano Poesia) nell'ambito di un lungo e articolato Progetto sulla Poesia Contemporanea. Ha pubblicato con diverse case editrici tra cui Cultura Duemila Editrice, Guaraldi Editore, Book Editore, I Quaderni del Battello Ebbro: proprio con quest’ultima ha recentemente pubblicato il volume Lungo la vertebrata costa del cuore, che raccoglie una serie di lavori poetici scritti per il teatro e successivamente messi in scena in qualità di regista e interprete. Dal 2006 è stato nominato direttore artistico del Palio Poetico Musicale di Tizzano Val Parma.

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ANTONIO LATELLA SU PASOLINI [Presentiamo qui alcuni frammenti del lavoro di drammaturgia scenica operato da Antonio Latella sul testo di Pier Paolo Pasolini per lo spettacolo "Bestia da Stile", che ha debuttato il 22 settembre 2004 alla Biennale di Venezia – 36. Festival Internazionale del Teatro – Teatro Piccolo Arsenale.] Ascoltate ora Ascoltate ora questi “appunti per un inno” Mi rivolgo a tis, né mancano fraschette di vischio amore per Linneo o Gallileo, io dico che ce ne sarà ancora, e qualcuno santo starà intento nella luce del vigneto su paletti di ontano(?), non di cemento! A preparare le fondamenta di una Maestà o un altare a Zagreus figlio di Semele Che dico ci sarà tis un ragazzo alto un metro e ottanta, già con gli occhiali – e coi capelli corti – “uomini siate non fascisti”. Egli leggerà Erodoto e tizio e caio a un cantare di rane giù dal C. verso gli edifici razionali di T. che dico rane … e chiurli, pavane, fagiani io penso proveniente da V., con fratelli maggiori comunisti Κόρη, ∆ελιά δεινά, libidinis exspers – lui, segaiolo che se lo mena, lui umanistico che sa, lui dell’alternativa bianca che imita i volantinaggi degli altri estremisti, un poeta che pronuncia frasi di destra da un – estrema – sinistra – indefinita – piangendo stati d’animo che ci sono inspiegabili δακρύων δακρύων δακρύων in realtà i paletti di ontano (?) di vischio e le fraschette tis tis tis piccola – borghesia – paesana. Bene chi ti fa torto Atena? τις άδικει Bene. Carità abbila e non essere clericale Si, “Muss. Rovinato per sbaglio”: credici pure. Anche se “cocci ed errori tuoi ti circonderanno”. E dimenticavo Leggi pure Confucio, i vecchi pensionati a T. ti capiranno, tu di V., va bene, loro del F. Ma i piccoli Dei cinesi (o attici) le raganelle le stoppie mosse dal vento Qui si parla di gestualità. Anch’io sono gestuale non lo vedi? Faccio anch’io ora il gesto di scrivere poesia tanto forse per onorare l’onestà laboriosa, in pagis. Per te. E aggiungiamo pure le cicale, il cui frinire riempie il pomeriggio non lontano dai bastioni di Atene. Sappi amare il ceppo. Amare il festone di vite. Amare la nuca dei tuoi coetanei: tosata. Amare la linea tra campi e paese col fienile, e il brolo col suo odore acido di letame. Ubi amor ibi oculus est. Amare molto πολύ ciò che muore. Dunque, col corpo di un sognatore si fa sia un fallo sia un grembo. Nelle Gates of the dream leggerai che per fare un mondo nuovo il sognatore rosso non deve solo scindersi dal mondo: ma anche scindersi in essere e mondo,

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figlio e madre. L’anticomunismo è bile contro chi osa contravvenire il primordiale stato di sonno; è bile contro i giovani maschi che si incontrano nel deserto e da lì vengono a fondare Roma. Maledetti cazzi protetti da Mercurio, che non amano la Pasqua. Ti ho fin qui detto ciò che è male. Il Negativo. L’Eccesso. Che tu devi evitare. “Uomini siate non fascisti!” . Ora, mi resta da dirti ciò che va bene, per gaiezza. Acciocché tu rappresenti nel Padre che rivivi una Nuova Destra. Una Destra sublime. * Appendici a "Bestia da stile" Le frasi intervallate appartengono ai frammenti I, IV e V della prima appendice che corrispondono alle pagine 14 e 15 del copione. I frammenti citati nell’edizione Mondadori vanno da pagine 834-843 Jan: Versi senza metrica

Coro (Stefania): Fare il gesto di scrivere poesia

Jan: Intonati da una voce che mente onestamente Coro (Cinzia): Anziché scrivere poesia Jan: Vengono destinati

Coro (Rosario): La ricerca è sospesa stravolta Jan: A rendere riconoscibile l’irriconoscibile Coro (Enrico): Sei poeta di teatro Jan: Liberi versi non liberi

Coro (Giuseppe Massa): Devi recitare fino alla fine

Jan: Ornano qualcosa che non può essere che disadorno

Coro (Mauro): I poeti appartengono sempre ad un’altra civiltà Jan: Se la coscienza della lingua

Coro (Annibale): Piantare i ciliegi per il piacere di piangerli quando fioriscono Jan: Tiene il posto della sua necessità

Coro (Peppe): E dopo quando cominciano a sfiorire Jan: Istituisce nuove forme

Coro (Giovanni): Piangere come un poeta povero Jan: Lasciare che essa si illuda

Coro (Marco Martini):Considerare la morte di un individuo è intollerabile Jan: E aspettare che ciò che vuole si esprima

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Coro (Giuseppe Lanino): La morte di un individuo è identica alla morte di tutta l’umanità Coro (Marco Cacciola): Poeta.

Dall’episodio III della prima stesura; seconda appendice pubblicazione Mondadori corrispondente alle pagine 857-861. Rispetto al testo originale sono stati apportati dei tagli. Poeta: Ho visto un re antico, uomo-dio, che non doveva essere visto né mangiare né bere. Un giorno uno dei figli di dodici anni l’aveva visto, bere. E lui, aveva fatto venire i servi, l’aveva fatto vestire coi panni della festa, l’aveva fatto squartare e aveva mandato in giro i pezzi del corpicino, sotto le querce, e i platani, e le tremule, e i tigli, i sambuchi, i vincastri, tra i suoi radi sudditi, tutti uguali nella democrazia selvaggia. Quel re coi suoi sudditi non erano mai certi che dopo l’inverno tornasse primavera. Era mai possibile che le foglie morte e perdute, quelle stesse foglie, tornassero piano piano a spuntare dai rami?... E che dalla terra denudata, rispuntasse l’erba? L’erba dimenticata? Come cani, con teste prematuramente umane, poveri, guardavano storditi ciò che succedeva dopo l’inverno, incapaci di credere… Ci furono le prime seminagioni. Il Re della pioggia nella selva boema non poteva deperire, bisognava ucciderlo prima che perdesse le forze, e facesse ricrescere le foglie. Se ne incaricavano i figli – come oggi. Poi…poi… Adone si chiamò Cristo. Discese agli inferi E resuscitò. La croce era un albero, e un albero era una dea, e questa dea era la madre. I figli nati dalle madri fanno festa oggi al paese. Uccidono scherzando e cantando il padre Perché mi guardi in quel modo?

Sorella: Ti guardo come una bambina quando ascolta una fiaba. Poeta: Aspetta! Ma possibile che tu mi stia sempre ad ascoltare? Possibile che sia sempre io l’ammirato?

Sorella: Chi sono io? Una povera ragazza, che ha il solo dono di essere tua sorella, che non sa niente: cosa vuoi che dica? Cosa vuoi che faccia oltre che ascoltare?

Poeta: Ma io sono stanco di farmi adorare da te! Sorella: Va bene, la smetterò di adorarti. Ti disobbedirò, e ti farò arrabbiare. Sono capace, se lo voglio! Poeta: Ecco lo vedi?, ora accettando subito di disobbedirmi, mi hai obbedito.

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Sorella: E allora cosa debbo fare?

Poeta: Disobbedirmi quando devi obbedirmi E obbedirmi quando devi disobbedirmi.

Sorella : Ma anche così, lo farò per obbedienza.

Poeta: Va bene! Ma io non me ne devo accorgere!

Sorella: E perché tutto questo? È un nuovo gioco? Poeta: Perché… Chi è, fra noi due, l’amato?

Sorella: Tu! Io sono stata sempre la tua ancella, quando tu eri re-soldato, quando tu eri generale-cavallo, quando tu eri cavaliere. Poeta: Ma adesso non siamo più bambini.

Coro (Rosario): Cosa si poteva fare mezzo secolo fa nelle sere della campagna boema?

Coro (Annibale): Si uccideva scherzando e cantando il padre. [Giovanni: “L’Auciello grifone” (favola popolare detta nel dialetto di Sessa Aurunca) (Peppe continua l’arpeggio)] Sorella: Eccoli: hanno fatto il giro per il giardino e ora rientrano in casa. Poeta: Bel quadro famigliare!

Sorella: Si è bello lo difendo. Essi sono nostra madre e nostro padre. Frammento III prima appendice nel copione è a pagina 50, nell’edizione Mondadori a pagina 838

Jan: Provo un sentimento di profondo e disperato rancore, di delusione tanto silenziosa quanto definitiva, di umiliazione che non degrada soltanto me vecchio, ma degrada, di riflesso, tutta la mia gioventù. Questo rancore, questa delusione, questa umiliazione derivano dal fatto che io non sono vissuto come Aliosa, benché avessi potuto esserne capace. I sentimenti così forti, puri, violenti che mi agitavano da giovane nei confronti degli altri, non ho saputo spenderli senza interesse, come Aliosa; e non ho saputo tenerli segreti, rivelandoli solo a quelli che ne erano veramente interessati. Non ho saputo così, perdermi in silenzio, nel piccolo posto in una qualunque città, che la vita mi aveva riservato. Ho voluto investire questi miei sentimenti con interesse e in un più vasto giro di persone. L’ho voluto per ingenuità. Ho creduto che i miei sentimenti, facendo questo, si sarebbero ancor più nobilitati e soprattutto, sinceramente, ingranditi. Invece si sono fatti infinitamente piccoli e meschini. E il mio rancore, la mia delusione, la mia umiliazione sono dovuti a ciò che ha reso appunto i miei sentimenti piccoli e meschini: la letteratura. Si girano tutti verso il sipario. Rosario veste Marco da “Morto di paglia”.

Frammento VI prima appendice nel copione è a pagina 50-51, nell’edizione Mondadori va da pagina 844 a 853. rispetto al testo originale vi sono parecchi tagli l’ultima zona, quella dei comandamenti, è integrale. Jan: Ascoltate ora questi appunti per un inno…

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I Non nominare il nome di Dio invano (ma comunque spesso). II Dieci millenni ci dicono: gli uomini hanno gens e rampolli. (Niente pillola.) III Ci sono distretti. Evita litigi. (Gira armato.) IV Senza grano non mangerai, né alleverai bachi, esempio dell’Imperatore fu l’arare.(Tu fotografa.) V E poi non sprecare. (Investi.) VI Dieci millenni dicono: addestrare gli studiosi…bovem epiphyatum balteatum…ornatum. (Cornutum.) VII Non occorrono aggeggi (onora gli artigiani). (Una idea per i sindacati.) VIII Difendi il Codice vigente – senza emendarlo, mi raccomando, dai residui di quello napoleonico. IX Lega e nutri la vacca smarrita (purché sia una vacca). X La parola paterna è compassione; filiale la devozione; la fraterna mutualità; del tosatèl la parola è rispetto. Nel tuo fascismo privo di violenza, di ignoranza, di volgarità, di bigotteria, Destra sublime, che è in tutti noi, “rapporto di intimità col Potere” Hic desinit cantus. Prenditi tu sulle spalle tutto questo. Sulle mie è indegno, nessuno né capirebbe la purezza, e un anziano è sensibile ai giudizi sociali, tanto più quanto meno gliene importa (“Sono Dei per gaiezza”). Deve aver rispetto come un tosatél della propria figura pubblica: deve accettare il gioco che mai ha accettato. Prendi questo fardello, ragazzo che mi odii, e portalo tu. È meraviglio. Io potrò così andare avanti, alleggerito, scegliendo definitivamente la vita, la gioventù.

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Da I PASTORI DI DOLLY (operetta filosofica in dieci scene) SCENA PRIMA Mattina. Scimmione lavora nel giardino. In lontananza il giardino si perde nei campi. A sinistra una casa con la porta aperta, da cui sono visibili dei libri, una sedia alla Voltaire e uno schermo a un tempo opaco e trasparente sullo sfondo. Sopra la porta, al secondo piano la finestra dell’appartamento del vicino, Ivan lvanovič il Serpente. SCIMMIONE Ora rastrellerò il giardinetto, l’aria sa di foglie umide. Cadute, per tanti anni volate giù. Autunno del ventesimo secolo. Falciatura. Pecore pingui pascolano nei campi. Ma la più bella è la mia, meravigliosa senza pecca. Poeta, passa a cantare la creatura della scimmia! In lontananza suona un’armonica. Su Dolly! Esci in fretta, la natura fruscia tutt’intorno! UNA VOCE (quella del SERPENTE) Su Dolly, esci, frutto di mani ingegnose.

DOLLY (una bambola Barbie svestita, risplende dal tramezzo opaco-trasparente, come sotto la doccia)

Ora termino il mio make-up, finisco i miei corn-flakes ed esco. lo parlo con l’accento della volontà nella vostra lingua di turbamenti, sentimentalità, cadute, Tss! Hanno acceso il trainer. Corro per sciogliere un po’ le giunture. Continuate pure a borbottare, finché la bufera non vi rovescerà.

Esce dalla doccia, passa per le aiuole, calpesta i fiori (o dei cartellini con la scritta “fiori”) e sparisce. Compare il vicino-giardiniere, IVAN IVANOVIČ IL SERPENTE. Le grida alle spalle: Bellezza! Sta’ in guardia! lo posso metterti la museruola. Noi sappiamo come domare le bufere Non siamo nati ieri! (Allo Scimmione) Però, bella schifezza hai creato, mon cher, non hai voluto consigli, mascalzone. Se avessi chiesto prima alla Banca dello Sperma! Artigiano presuntuoso, tu sei uno zero - né verme, né re. SCIMMIONE Vattene, satanasso. Discorrere con un mediocre mi tedia. lo sono colmo di nobIli sentimenti. Pascetevi, mie dolly, nella valle celeste! SCENA SECONDA

I campi che si stendono oltre il giardino. PASTORE Il mio compito è stupendo.

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Pascolo l’agnello e a Pasqua me lo mangio. Trema, vello grave, come le nuvole.

Compare JEAN. Si guarda intorno con estatico intenerimento. PASTORE, a quanto pare, non gli presta alcuna attenzione. JEAN Il Pastore ora mi dirà come vivere, per comprendere me stesso. La sua anima è pura come il cielo. (S’inchina e si gira di scatto di faccia verso PASTORE): Sei puro? PASTORE: Perché, non mi lavo forse? Noi non siamo impudichi. Però, ben detto! (tra sé, con soddisfazione). Se mi è concesso esprimermi così, Vostra Eccellenza, avete una vespa sul colletto. E io invece sudo senza requie, e mosche, vespe non mi fanno paura. (in tono edificante, dopo una pausa) Il sudore discende dai tempi antichi.

JEAN Impara, pastore, lottare con le mosche è lottare con la malinconia. Tu non sai cos’è la malinconia... PASTORE La malinconia è un fenomeno spiacevole. È quando la pancia ti fa male o quando Laura non accorre al richiamo del corno. Nel mio gregge c’è una pecorella-cattivella-salterella che si chiama così. J EAN Oh, beata semplicità! Che saggezza!

PASTORE lo, signore, da dieci anni servo nell’esercito dei pastori. Prima ero attaché culturale. Ma mi sono riconvertito. Bisogna pur guadagnarsi da vivere. La cultura, si sa.... SCENA TERZA

SCIMMIONE (siede sulla sedia alla Voltaire e guarda alla televisione una scena con le ultime frasi della discussione tra Jean e Pastore. Quando il dialogo termina, compaiono sullo schermo immagini di pastori). Fa lo sciocco per mestiere vuoi far vedere a tutti il suo sedere, anche se nessuno l’ha chiesto, un Hammurabi nella sua testa. Leggi non si fan per sé, per non avere più bebè: negli asili più un posto libero non resta colpa dell’amante della protestai (Spegne il televisore. Batte le mani.) Su, Dollina, è ora di mettersi al lavoro. Oggi leggeremo la storia di Gianna la presuntuosa. Gianna non ascolta i più anziani, pensa di poter salvare il mondo e invece meglio farebbe a non immischiarsi. Anch’io ero fatto così. È un’opera assolutamente istruttiva. Ecco, ho fatto venire anche un maestro per te — ora farete un po’ di musica insieme. lo mi sono fermato ai Led Zeppelin.

(Il maestro prende la chitarra e inizia a suonare). DOLLY (piroetta sui pattini a rotelle con le cuffie in testa, si muove a tempo di danza) Nooo, papino, ma a che serve tutto questo? Una tale noia. Meglio andare in discoteca. Lì è grande. Semplicemente fantastico.

SCIMMIONE Sì?! Ma non hai guardato le riviste su cui è apparso il mio articolo “Le sostanze psicotrope e la perdita della memoria”?

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DOLLY Papino, ma la memoria non è più di moda! Che tristezza ricordarsi qualcosa di concreto e per giunta pensare che sia soltanto tuo, che agli altri non sia mai successo nulla di simile. Conservare provviste andate a male e mostrarle sottobanco a pochi eletti. I ricordi possono essere ricordi di quello che ancora non è stato, ricordi allegri colorati e saporiti, che si possono vendere come tutto il resto. E tu puoi provare, se ne hai voglia, la stessa esperienza di un altro. Occorre soltanto saper fare la propria ordinazione. “Ecumenismo”, si chiama, o anzi meglio: “Cosmizzazione”. SCIMMIONE Ma la memoria è la tua esperienza personale, ciò che ti distingue da! La tua vita interiore. Tu parli come una barbara! Sii te stessa!

DOLLY Papino, sei edificante come un dissidente. lo non voglio essere prigioniera di una me stessa inventata. lo viaggio. Ma devo conservarmi in forma perché, forse, sono degna dell’immortalità (Scivola via sui pattini). SCIMMIONE Gabriele, lei è qui per la parte musicale, no? Beh, mi scriva un pezzo techno e che si sentano queste parole: “E-e, l’uomo dalle sostanze psicotropè non deve dipenderè. Eee!” Ballano. E ballando escono di scena. SCENA QUARTA

Dolly entra leggera nella stanza. È pettinata in modo apparescente e in preda a romantiche fantasie. Canticchia un hit. Accende il televisore. Canale musi cale, danno la stessa canzone con cui si è chiusa la scena III. Dolly accompagna la canzone alla tele… Zapping. In primo piano appare Jean. Parla della semplicità. Di nuovo zapping, canale musicale, trasmissione... infine si ferma su Jean. Ascolta, continuando a canticchiare e accennando a passi di danza.

JEAN L’uomo non vuole conoscere se stesso. La sua vita è una foresta fitta, talvolta impenetrabile. Ma l’uomo cammina sempre lungo lo stesso sentiero, dal baracchino della birra fino alla fermata dell’autobus, dove lo aspetta immancabilmente il solito autista che, senza fare troppe domande, lo porta fino al punto A. Lì riluce la piazza principale, i ribelli, com’è giusto, languono in carcere. Noi passiamo tutto il tempo a punirci, a strapparci da... .Dolly cambia canale, musica, ad esempio Britney Spears, Dolly canticchia. Di nuovo Jean: Oh, io non ho mai voluto sposarmi, non avevo abbastanza fede nelle marce domenicali fino alla chiesa, nei pranzi coi parenti davanti al televisore o agli abbracci durante i concerti rock. Sì, sono d’accordo: questo mondo trabocca d’odio e ingiustizia e quindi ciascun uomo onesto che lavora e rispetta le tradizioni non è affatto un noioso filisteo, bensì un’indispensabile parte dell’edificio comune, quella trave tolta la quale tutto va a rotoli... Ma proprio questo ci fa comodo: pensare che tutto andrà a rotoli... La necessità del timore sociale, del timore tribale meglio d’ogni altra cosa ci esenta dalla scelta della libertà. DOLLY Sì, anch’io spesso penso: la libertà, ecco ciò che alcuni non sopportano. Tutto per loro deve fare il suo corso, senza strani espi... espre... esprementi. Canta.

JEAN (prosegue sul sotto fondo della canzone) Sì, insisto: noi viviamo negli escrementi della nostra civiltà che è soprattutto paura e mancanza di fantasia, ma ritorneremo finalmente al nostro migliore, fermo “io”. Oggi noi possiamo modellare la nostra interiorità, così come la nostra esteriorità, possiamo imparare a memoria la mappa genetica come le tabelline, ma questo non significa che conosciamo tutto di noi stessi. Occorre tornare indietro, cancellare le vecchie esperienze, dimenticare tutto come dopo un sonno profondo, liberarci dai condizionamenti...

DOLLY (ripete per qualche volta) Dimenticare tutto come dopo un sonno profondo, liberarci dai condizionamenti...

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SCENA SESTA

Il giardino e, al di là, i campi. Scimmione osserva con un cannocchiale la campagna dove Jean sta conversando con Pastore. DOLLY Fammi vedere chi c’è là dentro.

SCIMMIONE L’obbiettivo è troppo instabile per diventare bersaglio. DOLLY Ma è lui!

SCIMMIONE Lui? DOLLY E lui il mio maestro, il mio vero istruttore. E mi piace così tanto. SCIMMIONE Come può piacerti già così tanto? Lo vedi per la prima volta...

DOLLY No, io lo conosco di già, lo conoscevo perfettamente, papino, ancora prima di conoscerlo.

SCIMMIONE Ma come fai a conoscerlo? È solo un fantoccio borioso, una nullità, un pasticcione come ce ne sono pochi, un raccoglitore di erbari. DOLLY No, lei si sbaglia. L’ho visto alla televisione, è meraviglioso. Papino, mi dica subito, come si fa ad andare là? SCIMMIONE Ci arriverai, se così vuole il tuo destino. La sorte siede in trono, e noi vi cadiamo giù. Vola, vola, Gagarin farfalla color limone La sorte fa lo sgambetto e decide con le bombe. Un tempo ero un signore ma mi sono sciolto in compassione. SCENA SETTIMA

Dolly e Scimmione entrano nell’ombra e la luce si staglia su Jean e Pastore.

J EAN Egregio, possiamo forse scambiarci i ruoli? io pascolerò il gregge, e tu i miei scompaginati pensieri. A lungo ho guardato negli occhi la natura. Ma aspetto, assorto nei miei sogni, che anche lei guardi me. PASTORE La natura è una caldaia splendente Alla quale, riflettendoci, ci avviciniamo, e cadiamo in lei. Uccellini vivi, ammaliati dalla natura. Ella ci mangia, cieca e senz’occhi, e noi

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presso di lei cerchiamo dimora, senza capire il dolore.

JEAN E io, pastore, ho sete di sangue. O piuttosto, di cambiamenti. La libertà, ecco dove languono le mie ricerche! Con lei cambierà tutto! Ella è lieve e, a un tempo, imperiosa. Profonda, quieta e colma di fuoco. PASTORE E io l’ho vista. In lei non v’è nulla di quel che pensate. Io l’ho vista. J EAN Chi?

PASTORE La libertà. J EA N Quando?

PASTORE Ma sì, una decina d’anni fa. J EAN Ma dove, dove?

PASTORE Non posso dirlo con precisione, Vostra Signoria. So solo che l’hanno creata poi non è più servita a nessuno. Mi avevano invitato alla presentazione. JEAN Secondo me dici cose confuse, scemo.

PASTORE Gioca, gioca, non fai cadere l’oca dal quinto piano, piripiripiri, piano. J EA N Sei impazzito?

PASTORE Ma no. È la nostra tradizione.

J EA N Che razza di stupida tradizione?

PASTORE Te l’avevo detto, signore, tu non capisci il popolo. Oh! La mia pecorella smarrita è ritornata, guarda! (DoIly corre per il campo)

DOLLY Papino non mi ha dato il permesso, ma non ne potevo più. PASTORE Come, signorina, scusi?

DOLLY Loro fanno un sacco di cose inutili, papino beve, è così insano, in discoteca praticamente non mi lascia andare, nelle stanze c’è puzza di fumo e io ho i miei piani di bellezza e salute. Lei giustappunto (rivolta a Jean) parlava della natura... da oggi ho appeso i poster con la sua faccia. Sono una sua fan. J EAN Allora amiamoci, come le caprette!

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DOLLY E come fanno ad amarsi?

J EAN Così, ecco: il capretto s’avvicina da dietro alla capretta e le infila il perno che lei non ha e poi insieme si dondolano sul perno. Dai, dondoliamoci! DOLLY Noi fans non possiamo sottrarci alle richieste del nostro idolo. E per di più è divertente. E lui (indica Pastore) lasciamolo cantare o suonare lo zufolo! PASTORE Ahi, signore, non mettete in una situazione imbarazzante la signorina...

J EAN Su, suona, suona, non hai sentito che cosa ti hanno detto? (A Dolly) E tu, su, mettiti in posizione!

Dall’altra parte del campo Scimmione osserva: Ecco, privano dell’innocenza mia figlia e non posso farci nulla. O, sacro divenire, dove ci trascini, a quale meta sproni chi ti segue? (Si copre il volto con le mani). [Da “I pastori di Dolly (operetta filosofica in dieci scene)” (Onyx/Teatro 2004)]

Notizia. Nata a Leningrado, Alexandra Petrova ha vissuto a lungo in Israele e dal 1999 risiede in Italia. Oltre a numerose collaborazioni con varie e qualificate riviste italiane e straniere, ha pubblicato nel 1994 la raccolta poetica Linia otriva (Punto di distacco) e nel 2000 il libro di prose e poesie Vib na djitelstvo (Permesso di vivere o Permesso di soggiorno, o anche Vedute sull'esistenza), "short list" del "Premio Andrej Belyj" delle edizioni NLO. È del 2003 l'operetta filosofica in dieci scene I pastori di Dolly. Oltre che in italiano (una trentina di poesie sono uscite sulla rivista Poesia nel numero di dicembre 2002 che le ha anche dedicato la copertina; nel 2003 numerose sue poesie sono state tradotte nell'antologia La nuova poesia russa), i suoi testi sono stati tradotti in ebraico, inglese, slovacco, portoghese e cinese. Altri fuochi, la sua ultima raccolta di poesie, è stata pubblicata da Crocetti nel 2005.

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Antigone. Monologo, due frammenti 1. Se mi dicono «Donna, questa è legge», rispondo: Dio è una legge migliore. Se il tiranno non vuole e non protegge il dovere che spetta a tutti i morti e nega il torto e vuole che io neghi anche i pensieri fraterni di Antigone –

io so che sono – già – la figlia di chi non doveva nascere e ha sposato la madre che ha creato lui e me e i miei fratelli: faccio schifo – e adesso che cosa posso volere per me? se è già abbastanza non morire in culla – o farmi cieca, come fu mio padre – se sono la sorella di chi può (no, no! non può!) fare di meglio e altro?

Se Creonte impedisce a me di fare quello che anche un bambino sa donare a una rondine morta, a una lucertola che prima ha ucciso, forse, e poi si pente (non sente! – prima) (era il suo gioco, certo) –

ho solo un’infinita normalissima pietà umana di loro. Pietà. Umana.

2 [l’attrice interpreta sia Antigone sia Creonte: o muovendosi di un passo e tornando indietro, a seconda del personaggio, o girandosi a destra e sinistra] CREONTE Non sono più io l’uomo, sei tu l’uomo, se io non ti punisco. E lo farò. ANTIGONE Mi hai già presa. Mi vuoi morta? O di più? CREONTE Non voglio niente, io. Ho questo e ho tutto. ANTIGONE Che cosa aspetti, allora? Non mi piaci. Ma sei tiranno, e per te questo è molto: ciò che è permesso è solo ciò che ordini. CREONTE Non lo sapevo. Gli altri non lo dicono. Già, non sei come gli altri. E hai vergogna? ANTIGONE No. È una vergogna seppellire i morti? è una vergogna onorare un fratello? CREONTE L’altro, che è morto, era tuo fratello? ANTIGONE Sì, figlio degli stessi genitori. CREONTE Non sai che il tuo amore è una bestemmia? ANTIGONE Il morto non la pensa come te. CREONTE Certo: perché lo esalti come l’altro. ANTIGONE Non è morto un mio schiavo, ma un fratello. CREONTE Ma a me ha devastato questa terra, che l’altro amava. E tu non sei più onesta. ANTIGONE La mia pietà non è una cosa facile. CREONTE Un nemico si odia sempre. Taci. ANTIGONE Io sono nata per l’amore, e basta. CREONTE Hai detto amore? E ama! Ama quegli altri, i morti divorati dalla terra. Non te lo vieto e non te lo permetto. Ti faccio andare dove non c’è anima viva, ti chiudo viva in una grotta e ti do pane e acqua, che ti basti a rimanere in vita. Voglio questo.

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E invocherai la morte e i morti, e forse non morirai – o capirai davvero che il tuo amore è l’ombra dell’amore. Se muori, io sono puro e non ti ho uccisa; se vivi, sei già tolta dalla terra. Finché vivo, non obbedisco a donne: non sono donna di nessuna donna.

[N. d. A. Il monologo di Antigone, in cinque parti, rielabora sia il testo di Sofocle sia – nella sezione finale, pubblicata sul sito www.lapoesiaelospirito.wordpress.com nel febbraio 2007, la meditazione di María Zambrano (in All’ombra del dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima, a c. di Elena Laurenzi, Pratiche, Parma 1997); vi si aggiungono e alternano sezioni originali.] Notizia. La bio- è tutta spostata sulla -grafìa dei libri firmati da Massimo Sannelli (nato nel 1973, vive a Genova). Gli ultimi sono "Venti sonetti" (La Camera Verde, 2006); "Lo schermo" (Feaci, 2006); "Philologia Pauli. Il corpo e le ceneri di Pasolini" (Fara, 2006); "Nome, nome" (Inedition, 2007); "Huit poèmes" (trad. di A. Raos e E. Suchère: Contrat Maint, 2007); "Amanuense" (Cantarena, 2007); "inversiOn" (trad. di C. Daino: Dusie, 2007) e la traduzione di "Su un Io Colonna" di Emily Dickinson (La Camera Verde, 2007). Di prossima pubblicazione traduzioni da Susana Gardner e da classici indiani, più la raccolta delle interviste ("Al popolo futuro. Dialoghi", Cantarena, 2007). Vive a Genova.

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Da SALOMÈ In a minute there is time For decisions and revisions which a minute will reverse.

T.S. Eliot, The Love Song Of J. Alfred Prufrock

PERSONAGGI:

ERODE ANTIPA: tetrarca di Galilea e Perea, figlio di Erode il Vecchio. ERODIADE: nipote e moglie di Erode Antipa. SALOMÈ : figlia di primo letto di Erodiade, figliastra di Erode Antipa. JOCHANAAN: Giovanni detto il Battista. ABILA: consigliere di Erode Antipa. LIDDA: educatrice di Salomè. PETRA: responsabile di tutto il personale domestico. DANIÈL: coppiere di Erode Antipa. SEFORA: assistente personale di Salomè. MELCHISEDECH: titolare del circo degli animali. GIARDINIERE PRIMA GUARDIA SECONDA GUARDIA PRIMA BALLERINA SECONDA BALLERINA PRIMO MUSICISTA SECONDO MUSICISTA MIMO NANO

Personaggi e situazioni delle pagine che seguono, fatta eccezione per Salomè, Erode, Erodiade, Jochanaan, sono puramente immaginari. Resta ferma l’ambientazione, il palazzo di Erode a Macheronte, e qualche spunto riguardante Jochanaan. Un ringraziamento alle rime e al ritmo di Frate Cipolla, Petrolini e Pagliarani. *

dall’ATTO II SCENA 2. Sala di servizio. Molto disordine. Strumenti musicali, sedie, cuscini e un grande tavolo. Petra accompagna nella sala i musicisti e le danzatrici. Alcune cameriere portano dei vassoi.

PETRA: Ecco. C’è tutto il necessario e anche di più. Meglio mangiare prima, stasera c’è aria di tirare tardi. PRIMA BALLERINA: È vero che è il suo compleanno? Petra annuisce.

SECONDA BALLERINA: Buono per un compenso extra. PRIMO MUSICISTA: E noi abbiamo fatto tanta strada. PRIMA BALLERINA: E che vita che ci tocca. Mai nessuna sicurezza di tornare a casa tutti interi.

PETRA: Pagamento anticipato, ci pensa Abila.

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Sarà qui tra poco. Di più non so dirvi. Ma ora accomodatevi.

I musicisti si siedono a terra sopra dei grandi cuscini mentre le ballerine osservano con attenzione il cibo portato dalle serve. Capannello intorno al tavolo. Due musicisti e due ballerine continuano a parlare con Petra. SECONDA BALLERINA: Io non voglio mangiare. Non mangio mai prima di esibirmi. Io voglio soldi, voglio anche una bella mancia. Ho preparato qualcosa di speciale per Erode. SECONDO MUSICISTA: Hai fatto bene. Gli piacciono tanto le sorprese.

PRIMA BALLERINA: C’è anche la moglie?

SECONDA BALLERINA: Erode ha sposato sua nipote. PRIMA BALLERINA: Sua nipote?

SECONDA BALLERINA: Certo. Non lo sapevi?

PRIMA BALLERINA: Non mi dire. No, non lo sapevo.

SECONDA BALLERINA: C’è chi ha pensato a diffondere la notizia. Mi hanno detto che l’hanno preso. Mi hanno detto che quello lì finisce male. PETRA: Non ancora.

SECONDA BALLERINA: Che ne sai tu che stai sempre chiusa qui dentro? Fa schifo, è sporco e puzza come bestia. PRIMA BALLERINA: Con un bel bagno torna nuovo. SECONDA BALLERINA: Che ci fai con uno così? Un morto di fame che muore di fame. E tu con lui. PRIMA BALLERINA: Ma è un profeta! Non ho mai visto come è fatto un profeta.

PRIMO E SECONDO MUSICISTA: Un profeta, un profeta! Uomini, donne: leggete Isaia! PETRA: Attenti alle battute. Ci sono orecchie attente tutt’intorno. Oggi poi non è giorno.

SECONDA BALLERINA: Andava in giro a dire che Erode e sua nipote fanno cose. La seconda ballerina scoppia a ridere. PRIMA BALLERINA: Fanno cose?

SECONDA BALLERINA: Non stai attenta. Ti ho appena detto che lei è la nipote. PRIMO MUSICISTA: Erode ha capito tutto della vita.

SECONDO MUSICISTA: Tutti dovremmo imparare da Erode.

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PRIMO MUSICISTA [con la bocca piena di cibo] : Brindiamo a Erode, che se la fa con la nipote!

SECONDO MUSICISTA : Salute a Erode che ha tanta salute! SECONDA BALLERINA: Comunque è lei che se l’è preso. È lei che ha mosso tutto, sottosotto.

PRIMA BALLERINA: Lei? Ma non era già sposata con Filippo?

SECONDA BALLERINA: Sì, ma l’ha lasciato. Troppo poco ambizioso. Il fratello invece è meglio! PRIMA BALLERINA: Filippo è il fratello di Erode?

SECONDA BALLERINA: Fratellastro. È tutta un’altra cosa! La seconda ballerina scoppia a ridere. PRIMA BALLERINA: Povero Filippo.

PRIMO MUSICISTA: Filippo, povero Filippo! Tua moglie preferisce quello di tuo fratello.

SECONDO MUSICISTA: Facciamo un brindisi al povero Filippo! Il secondo musicista versa del vino nei bicchieri.

SECONDA BALLERINA: E la figlia? Chissà se assomiglia a Filippo, chissà di chi è figlia! PRIMA BALLERINA: Povera bambina.

SECONDO MUSICISTA: Povera bambina! È nata dalla madre! PRIMO MUSICISTA: Povera piccola Salomè! Un po’ a me un po’ a te. Un po’ alla mamma, un po’ ad Erode. Non la prendete certo con la frode.

SECONDO MUSICISTA: Un brindisi alla piccola Salomè! Il primo musicista versa da bere nei bicchieri. PRIMO MUSICISTA: È bellina bellina? PETRA: È solo una ragazzina.

In quel momento si avvicina il mimo con un bicchiere di vino in mano. MIMO: A Erode piacciono le bimbe, le bumbe la bambe, soprattutto gli piacciono le gambe. Alla serva delle serve Erode non piace: è una serva vecchia e verace.

PETRA: È una ragazzina sveglia. Attenti a voi. Il mimo finge costernazione. MIMO: Sai che paura.

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SECONDO MUSICISTA: Portiamola via.

SECONDA BALLERINA: No, che mi rovina la piazza. E smettetela di ingozzarvi, poi mi toccano i rutti.

SECONDO MUSICISTA: Ma noi siamo artisti. Dobbiamo sudare. PRIMO MUSICISTA: Sudare per guadagnare.

SECONDO MUSICISTA: Che è quella faccia, serva? Che cosa ti assilla? SECONDA BALLERINA: È preoccupata. Non l’avete capito? PRIMA BALLERINA: Per cosa, per chi?

SECONDA BALLERINA: Per il morto di fame. Lo Straccione del Fiume. PRIMA BALLERINA: Perché, dov’è?

SECONDA BALLERINA: Sarà già morto di botte. PETRA: È vivo. È vivo.

SECONDA BALLERINA: E tu l’hai visto? Petra annuisce.

SECONDA BALLERINA: Dicono che Erode se la fa sotto. Perché Erode è solo un gran fifone. SECONDO MUSICISTA: Gente, ascoltate il profeta! Non fate i fessi, aggiornatevi. PRIMO MUSICISTA: Erode è un fifone. Erode farà uscire il profeta di prigione.

SECONDA BALLERINA: E la moglie dove la metti? È lei che lo ha fatto arrestare. PRIMA BALLERINA: Davvero? Gli faranno male?

PRIMO MUSICISTA: Se gli faranno male noi lo vorremo vedere! Noi lo vogliamo sapere. Ce lo devono portare.

PRIMA BALLERINA: Vorrei tanto vederlo. Vorrei tanto conoscerlo. Tutti ne parlano. SECONDA BALLERINA: Guarda che è un pazzo. È stato da solo nel deserto.

SECONDO MUSICISTA: Attenta che ti salta addosso!

PRIMO MUSICISTA: Ti salta addosso e ti lecca come un gatto. SECONDA BALLERINA: Quello, una donna non sa nemmeno come è fatta. PRIMA BALLERINA: Vorrei parlarci.

PRIMO MUSICISTA: Non ha soldi per pagarti!

PRIMA BALLERINA: Ma io non voglio essere pagata. Non voglio farci niente.

PRIMO MUSICISTA: Magari lui vuole combinare qualcosina

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prima di morire. Amen!

SECONDO MUSICISTA: Amen! PETRA: Ecco Abila.

SECODNO MUSICISTA: Soldi! Soldi!

PRIMO MUSICISTA: Arrivano i soldi!

SECONDA BALLERINA: Soldi sonanti! PRIMA BALLERINA: Chi è Abila? Tutti sbuffano.

PETRA: Il consigliere di Erode.

PRIMA BALLERINA: Posso chiedergli di vedere il profeta? PETRA: Ti consiglierei di no.

SECONDA BALLERINA [a Petra]: La mia amica è un po’ stupida. Ma non lo fa apposta. [...]

Arriva Abila seguito da due assistenti. Ha l’aria di avere una certa fretta. ABILA: Buona sera a tutti e ben arrivati. Vedo che avete già iniziato a servirvi, spero tutto sia di vostro gradimento.

NANO: La carne era cotta male, se proprio devo dire.

Abila lancia uno sguardo sul cibo poi si avvicina ai musicisti.

ABILA: Oggi come sapete è un giorno speciale. Abbiamo dovuto cambiare la scaletta. Siamo in ritardo sui tempi. Spero che il resto sia ottimo, come credo. Abila butta un occhio sui vini.

NANO: Tutto questo non rientra nel pagamento? ABILA: Il cibo è offerto da Erode. Non è compreso nel compenso.

Uno dei due accompagnatori di Abila si avvicina al tavolo e inizia a spiluccare qualcosa. L’altro gli resta attaccato alle costole. NANO: Generoso quanto ti pare, ma stasera noi dovremo lavorare più ore.

ABILA: All’alba è previsto un grande evento. Kefa di Gerusalemme ha costruito un palazzo. Si tratta solo della facciata. È ovvio. La stanno montando in giardino. All’alba il sole sorgerà dentro la grande finestra centrale. Una copia perfetta della stanza personale di Erode. Il mimo finge ammirazione e sorpresa.

MIMO: Dobbiamo pagare o lo spettacolo è gratis?

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SECONDO MUSICISTA: Se tiriamo fino all’alba, dovete pagarci extra. ABILA: Chi è il capo, tra di voi?

NANO: Nessuno. Non abbiamo capo, siamo artisti. ABILA: Insomma, chi è il vostro portavoce, con chi devo discutere di soldi?

NANO: Io sono il nano, ho la paga da nano. Lei è la ballerina ma non stringe la mano. Lui è il mimo, non parla e va lontano. Siamo tutti uguali, siamo artisti! Credete che siamo tutti uguali? ABILA: Non rendetemi le cose difficili. Vi prego, Signori, veniamoci incontro. MIMO: Parla con il nano.

SECONDA BALLERINA: Già, parla con il nano. Lui è il più cattivo. ABILA [rivolto al nano]: Allora, vogliamo discutere di affari?

NANO: In questo caso, se gli altri non hanno obiezioni. Ma non qui. Mettiamoci comodi. ABILA: Benissimo.

Il nano e Abila si appartano intorno ad un tavolo, non troppo lontano. SECONDA BALLERINA: Fa sempre così. MIMO: E meno male.

PRIMO MUSICISTA: È anche vero che si prende una bella percentuale.

SECONDA BALLERINA: È il migliore a contrattare.

MIMO: Non ha niente da perdere. La gente ha paura dei nani.

SECONDA BALLERINA: La gente, non Abila. Quello ha il sangue freddo e tanto veleno in corpo. MIMO: Non mi pare così furbo.

SECONDA BALLERINA: Perché è versatile. Con noi si mostra ragionevole ma tiene in mano tutta la baracca. È lui che lo muove come un pupazzo. MIMO: Non è che ci vuole molto. Erode ha bisogno di un tutore, da solo non saprebbe come fare.

SECONDA BALLERINA: Abila si è fatto la gavetta con il Vecchio. Ci ha fatto il callo al comando. MIMO: Abila è un sole al tramonto. Una barca a picco. Erodiade gli fa un baffo.

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SECONDA BALLERINA: Quei due sono in società. Hanno un fiuto eccezionale per le congiure. MIMO: Sono fatti l’uno per l’altra.

SECONDA BALLERINA: Quelli non perdono la testa. MIMO: Tutti la perdono, prima o poi.

SECONDA BALLERINA: Io non mi lascio confondere.

MIMO: Tutto cambia a colpi di scena. Ci fanno concorrenza. SECONDA BALLERINA: Sì, ma qui se finisce male finisce male davvero. MIMO: Sangue chiama sangue.

SECONDA BALLERINA: Il sangue chiama. Carnale, seducente come una puttana. È gente che non ha niente da perdere. Cadono in piedi. Sono quelli che hanno tutto da perdere, a perdere tutto. Ma se ora la posta in gioco è potere per potere, può davvero finire molto male. MIMO: Come ti sei fatta seria!

SECONDA BALLERINA: Ho il problema della preveggenza.

MIMO: Uh. Sta per accadere qualcosa? Che cosa, che cosa? Dacci un’anticipazione! Il mimo sghignazza.

SECONDA BALLERINA: Qualcosa di terribile. MIMO: Cosa?

SECONDA BALLERINA: Questa volta non mi piace. MIMO: Un complotto?

SECONDA BALLERINA: Voglio rimanerne fuori. Non voglio sapere. MIMO: Voi donne pensate tutte di essere sensitive. SECONDA BALLERINA: Lasciacelo credere. MIMO: Tutte veggenti, molta concorrenza. Che si sente, una voce? Tante voci? Il mimo fa delle smorfie con la faccia.

SECONDA BALLERINA: È indefinito. È veloce. Non diresti che è un suono preciso, ma qualcosa come un fischio, un rumore. MIMO: Ma così tutto può essere tutto. Anche il mio rutto è significativo.

SECONDA BALLERINA: È veloce, passa, lo afferro. Lo sento venire dalla terra nelle ossa.

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MIMO: Come un reumatismo. *

[…]

dall’ATTO III SCENA 2. Grande sala del banchetto. Vociare confuso e suoni di accordatura di strumenti. I musicisti si sistemano su un palco a sinistra della sala. La scena centrale è libera. Gli ospiti sono sdraiati sui divani o seduti sui cuscini tutt’ intorno. Erode è seduto su una poltrona sormontata da un baldacchino con veli e pendagli. La scimmietta è legata ad una colonna del baldacchino. Erodiade siede alla sinistra, Abila alla destra. Salomè è sdraiata su un triclinio vicino a Erodiade. Melchisedech introduce la sfilata. Tutti gli animali sono accompagnati da vallette. Gli animali più piccoli sono portati in teche di vetro, su cuscini imbottiti, al guinzaglio o intorno al collo. MELCHISEDECH: Vezzose donne, increduli signori, buonasera! Io sono Melchisedech, non vengo per servirvi vengo solo per stupirvi! Ho girato il mondo in lungo e in tondo.

Ho visto tutte le stranezze del creato e non mi sono mai meravigliato! Ho visto i denti dei draghi verdi gli unicorni in volo le squame delle sirene le pennuzze dell’araba fenice. Ho visto le blatte bianche le polente secche le streghe bislacche.

Ho visto dividersi i mari i capelli cadere, ho visto volare i calamari!

Ho visto l’albero dell’oro e il Mare dei guai, ho visto ombrelli senza ombrellai.

Ho visto la peste, la tigna, la scabbia ho visto sofisti contare la sabbia. Ho visto le Amazzoni ammazzare per noia. Ho visto il pesce in salamoia!

Ho visto il Leviatano da vicino: ha le scaglie di parmigiano. Ho visto l’acqua andare in salita senza fare alcuna fatica.

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Signore e signori, per farla breve: ho visto tutto quello che c’era da vedere.

Aprite i vostri occhi! Ecco a voi animali rari portati da belle fanciulle del Paese di Figulle!

Entrano le ragazze e accompagnano gli animali. Fanno un piccolo inchino al pubblico e proseguono la sfilata. MELCHISEDECH: Una scimmia del Congo! Una formica velenosa dell’isola di Formosa!

Una tarantola di Taranto! Una zebra albina!

Un airone parlante! Un leone sdentato!

Un babbuino addormentato!

Grandi risa e applausi al passaggio del babbuino sdraiato sopra un cuscino.

Un cinghiale pettinato!

Un elefante senza zanne dalle Indie! Un boa innamorato!

Ancora applausi al passaggio del boa avvinghiato al collo della valletta.

Uno scorpione egiziano!

Un pappagallo poliglotta! Un coccodrillo di terra!

Una pecorella ancora vergine!

Risa e applausi al passaggio della pecorella. Qualcuno del pubblico urla e fischia. Un toro senza corna da Siviglia!

La pantegana più obesa di Roma!

Una famiglia di piccioni viaggiatori!

Applausi al passaggio dei piccioni portati su un trespolo. Un orso dimagrito!

Uno sciame di lucciole spente! Una tartaruga a ruote!

Ancora applausi alla tartaruga che avanza su un carretto. Melchisedech prende tempo.

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MELCHISEDECH: Signore e signori, attenzione! Sto per mostrarvi l’attrazione del momento! Lo squalo rosso vegetariano!

Una valletta spinge una vasca di vetro, dentro c’è uno squalo rosso che mangia delle alghe. Applausi, fischi, urla, il pubblico batte con le mani sui tavolini. Erode ride a crepapelle. Dopo la sfilata degli animali, entrano i giocolieri, gli acrobati e mangiafuoco. Erode accarezza la scimmietta. […]

SCENA 4

Giardino. Non lontano dal palazzo finto fatto costruire da Kefa, Salomè e Sefora sotto una palma. Tuoni e lampi nel cielo.

SALOMÈ: Hai fatto un bel lavoro.

Sefora restituisce il coltello a Salomè. Salomè lo pulisce sullo scialle. SEFORA: Poi l’ho trascinata.

SALOMÈ: Hai una bella forza. SEFORA: Quando serve.

Salomè le palpa il muscolo del braccio. SEFORA: Robusta, robusta. SALOMÈ: L’ha già trovata?

SEFORA: La troverà presto. L’ho lasciata davanti al bagno.

SALOMÈ: Staremo a vedere la fine. Anche se piove.

Salomè si sdraia sopra uno dei divani sotto le palme. Fa cenno a Sefora di lasciarla sola. Salomè si addormenta. IL SOGNO DI SALOMÈ Ho sognato stavamo a vedere la fine, stavamo a vedere le stelle dietro il temporale.

Ho sognato una schiena bianca piume, un pavone.

Poi ho sognato il sangue dal naso i piedi mozzati con un morso, con un bacio. C’erano le carovane. Venivano, andavano lontano. Le carovane portavano pentole di rame.

C’era un fuoco di notte, intorno alla brace

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un vecchio dormiva, sembrava felice.

Ho sognato i cavalli, le balle di fieno arrotolate nel campo. Era estate.

Io stavo a guardare mi cadevano denti, mi toccavo i capelli non c’era più niente. La casa crollava, la torre crollava. Non c’era rumore. Mia madre dormiva sotto le macerie. Sulla strada le donne scalze smontavano le tende.

Guardavo che andavano via perché sapevano dei miei piedi.

Ho sognato che vendevo quell’oro al mercato. Non sapevo di averlo, lo vendevo per poco. Così anch’io andavo con le carovane lontano lontano. SCENA 5 Terrazza che dà sul giardino. Rumori di tuoni sempre più vicini. Lampi attraversano il cielo. La scena è vuota. Erodiade irrompe sulla terrazza con un urlo animale. Ha le mani insanguinate. Rantola. ERODIADE:

Un fischio nelle orecchie. Ho perso qualcosa. Non so cosa. Non ricordo. Sta riversa davanti alla porta. La bocca aperta. Fissa il soffitto. Le prendo la mano. Le stringo il polso. È così fredda. È così fredda la mia scimmia. È legata a catena. Non si muove. Mandate un fabbro. Mandate un giudice. Bisognerà dire. Bisognerà pulire. Non c’è nessuno. Dormono. Sudano. Sono tutti sudati.

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Si sono feriti. C’è vino a terra c’è sangue. Ci sono macchie. Ho le mani addormentate. Mandate qualcuno a svegliarli. Li ho legati tutti. Li ho messi uno sull’altro. Un mucchio indistinto. Dormono. *

Hanno freddo? Mandate qualcuno per accendere il fuoco.

Nascondiamo le prove. Dove possiamo nasconderci? Non si può più stare qui. Ho una scimmia legata a catena una figlia. Io non ho mai detto amore mio. Si sono sbagliati. Stanno dormendo. Stanno sognando tutto. Lei non è riversa in bagno. Lui ha la testa sul collo. È solo una voce. Un pettegolezzo. Io non l’ho mai detto, nemmeno all’orecchio. Fate stare zitta questa scimmia. Si strappa i capelli. Urla. Mi farà impazzire. Non capisco più se è morta se ho dimenticato di liberarla. SCENA 6

Cortile interno. Tuoni, lampi. Petra è seduta sui gradini. Tiene la testa tra le mani. PETRA: Molta speranza di riuscire, molto dolore. Regalare la speranza. Metterla nelle mani di qualcuno. Liberarsene.

La speranza dei disperati gli dà forza. Gli viene voglia di morire in nome di. Di parlare in nome di. Di nascondersi dietro un nome che non è il suo. Si carica il mondo sulle spalle

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eppoi vuole schiantarsi. Siamo tutti stanchi.

Tutto fatto. Tutto finito. Tutto lasciato pieno di equivoci. La tentazione di dubitare di chi si fa morire. Chi bisognerà seguire? Chi deve ancora arrivare? Stavolta, quella, un’altra.

Il pastore disteso sull’erba racconta le storie per non dimenticarle. Il cane abbaia. Rimette in ordine il gregge.

Arriva la tosatura. Arriva la mungitura. Il pastore prende la pecora più piccola. Quella che piange nel sonno come un bambino. È festa. È un sacrificio in nome di

Mangiate in pace la vostra carne, il vostro sangue. Qualcuno domani dovrà pure pulire tutto questo. Esplode il temporale. Vento e grandine fanno crollare il palazzo finto.

[Testi tratti da Salomè, No Reply, 2005, per gentile concessione dell’autrice. Un’interessante intervista a Sara Ventroni a cui vogliamo senz’altro rimandare è apparsa su http://www.sparajurij.com/tapes/maledizioni/intervista_ventroni.html.)] Notizia. Sara Ventroni è nata a Roma nel 1974. Ha pubblicato su numerose riviste e giornali («Nuovi Argomenti», «l’immaginazione», «Accattone», eccetera); collabora a «Liberazione» e al «Foglio». Come performer ha partecipato ai maggiori festival nazionali e internazionali di letteratura, e ha vinto il primo poetry slam italiano. Suoi testi sono stati tradotti in spagnolo da Isabel Miguel, in inglese da Alistair Elliot, in francese da Dominique Garand e in croato da Snjez ana Husic. Per RAI Radio Tre ha raccontato le vite di Jim Morrison e David Bowie (Storyville). Per No Reply ha pubblicato nel 2005 l’opera teatrale Salomè. La sua ultima pubblicazione in versi è Nel Gasometro (Le Lettere, 2006).

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I tradotti

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LEAR

Scende dal trono. Grande gli sembra d’essere. Come il proprio monumento, così si è posto Sta sulla terra che spoglia e cava Ruota sotto il monumento di carne, che precipita.

E la pioggia lo lava e lui osserva: non è uno spasso. Strepita, disteso su cadaveri. Non una bara vuota. Sulle ciarle del folle (carne si fa carogna) Risate di locomotive. Ma lui non sente più. * PESCE MORTO CON VENTRE D’ARGENTO

In folla intorno al cadavere carbonizzato, che Nel fiume masticafuoco abortisce nel mare Flotta di carne, imputridente al fumo. Al timone Amleto, figlio di buona famiglia Per la carne bruciata non ha naso. * PROIEZIONE 1975 Dov’è il domani che vedemmo ieri

Canta la notte intera il primo uccello Ammantellato, in rosso, va il mattino Nella rugiada e brilla come sangue Leggo cose che ho scritto tre, cinque, vent’anni fa come il testo di un autore morto in un tempo in cui la morte entrava ancora nel verso. Gli assassini hanno cessato di scandire il tempo alle loro vittime. Mi ricordo del mio primo tentativo di scrivere un lavoro teatrale. Testo andato perduto nella confusione del dopoguerra. Cominciava così, che il (giovane) eroe stava davanti allo specchio e cercava d’indovinare che percorsi avrebbero fatto i vermi nella sua carne. Alla fine era in cantina e faceva a fette suo padre. In questo secolo di Oreste e Elettra che sta montando, Edipo sarà una commedia. * SAPONE A BAYREUTH per Daniel Barenboim Da bambino sentivo dire gli adulti: Nei campi di concentramento con gli ebrei Fanno sapone. Da allora non ho più potuto Fare amicizia col sapone e detesto l’odore di sapone. Adesso abito, poiché metto in scena il TRISTANO In un edificio nuovo nella città di Bayreuth. L’appartamento è pulito come mai ne ho visti Tutto al suo posto: I coltelli, I cucchiai Le forchette Le pendole Le padelle I piatti Le tazze Il letto matrimoniale. La doccia, MADE IN GERMANY, risveglierebbe i morti. Alle pareti kitsch di fiori e di Alpi. Qui c’è ordine, anche il verde dietro la casa In ordine, la via silenziosa, l’HYPOBANK di fronte. Quando per la prima volta apro la finestra: odore di sapone. La casa il giardino la città di Bayreuth sanno di sapone.

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Ora lo so, dico al silenzio Cosa significa abitare all’inferno e Non essere morti o assassini. Qui È nata AUSCHWITZ nell’odor di sapone. 15.8.1992, quando a Bayreuth fu vietata una dimostrazione per Rudolf Hess. * MÜLLER ALLO HESSISCHER HOF

Al ristorante dell’albergo l’innocenza dei ricchi Lo sguardo disteso sulla fame del mondo io casco fra due sedie Il mio sogno La gola rugosa alla vedova del tavolo accanto Tagliarla col coltello del cameriere Che sta tagliando per lei il lombo d’agnello Ma io Non taglierò nemmeno questa gola Per tutta la vita non farò mai una cosa del genere Non sono Gesù Che porta la spada Io Le spade le sogno Sapendo che più a lungo di me Durerà lo sfruttamento cui partecipo Più a lungo di me la fame che mi nutre E i poeti lo so mentono troppo Villon poteva ancora blaterare Contro nobili e clero non aveva né letto né sedia E conosceva le carceri da dentro Brecht mandò Ruth Berlau in Spagna e scrisse In Danimarca I FUCILI DELLA SIGNORA CARRAR Gorkij viaggiando per Mosca su un tiro a due Odiava la povertà PERCHÉ UMILIA Ma perché solo i poveri Majakovskij si era già ridotto Al silenzio col revolver Le menzogne dei poeti sono consunte Dagli orrori del secolo Agli sportelli della Banca Mondiale Il sangue seccato odora di trucco freddo L’orrore del potere è la sua cecità Il barbone che dorme fuori dall’ESSO SNACK & SHOP Smentisce la lirica della rivoluzione Gli passo davanti in taxi Me lo posso permettere Benn aveva un bel dire Con le sue poesie Non ha guadagnato un soldo e sarebbe Crepato senza le malattie veneree e della pelle (1) La notte in albergo la mia ribalta Non è più in funzione Insensati Arrivano i testi la lingua si rifiuta al Blankvers (2) Allo specchio vanno in pezzi le maschere Non Un attore che mi accetti il testo Io sono il dramma MÜLLER LEI NON È UN OGGETTO POETICO SCRIVA PROSA La mia vergogna ha bisogno della mia poesia Francoforte, 3.10.1992 (1) Benn era medico specialista di queste malattie. (2) Il Blankvers è il verso del teatro classico tedesco, simile al nostro endecasillabo

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* TRISTANO 1993

Ieri mio figlio aveva un’aria strana Una notizia orribile lunga un intero spot Negli occhi di mio figlio io Che ho visto troppo ho letto la domanda Compensa ancora il mondo la fatica di vivere? Un istante una notizia orribile Lungo un intero spot io ero in dubbio Devo augurargli una lunga vita O per amore una precoce morte 1993 * IBSEN OVVERO LA MORTE COME EMBRIONE ATTRAVERSANDO UNA CITTÀ STRANIERA per Fritz Marquardt Nella mensa del Berliner Ensemble Che dalla caduta del muro si chiama CASINO Nel teatro dopo Brecht una conversazione su Ibsen Lento rientro a casa attraverso la città straniera In cui ho vissuto cinquant’anni Ibsen rinchiuso nel suo staterello Con l’esplosivo nel suo cervello troppo gravato col suo amore proibito E da ogni parte applaudito a morte Che gli lascia il tempo per un’opera tarda con moto ondoso e valanghe 1.12.1994 * MORTE IN TEATRO

Teatro vuoto. Sulla scena muore Un attore tutto a regola d’arte Pugnale nella nuca. Si è sfogato l’ardore In un ultimo a solo, che domanda l’applauso E niente mani. In un palco, vuoto Come il teatro, un abito è rimasto. E la seta sussurra ciò che l’attore grida. La seta si fa rossa e greve l’abito Del sangue della recita, che fugge nella morte. Luce dei lampadari che la scena sbianca L’abito ch’è rimasto beve svuota le vene Al moribondo, simile ancora solo a se stesso Non più piacere o spavento di cambiare Il suo sangue una macchia che non torna 9.12.94

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* SGUARDO ESTRANEO: CONGEDO DA BERLINO Dalla mia cella davanti al foglio vuoto In testa un dramma per nessun pubblico Son sordi i vincitori muti i vinti Sguardo straniero su città straniera Giallogrigie le nubi passano alla finestra Biancogrigi i piccioni cagano su Berlino 14.2.1994 * APPUNTO 409 Se il tuo canto non ti aiuta a vivere Ti aiuta tuttavia a morire (C. Brentano) Il cielo promette una bella giornata Incomincia Con la lettura del giornale nel bar dell’albergo Un sopravvissuto descrive un bagno di sangue GIACEVO SOTTO NEMMENOIOSO QUANTI MORTI CON LA PAURA CHE UNO FOSSE VIVO E SI AGITASSE O PRENDESSE A GRIDARE DA SOPRA DI ME SPARAVANO SU TUTTO CIÒ CHE SI MUOVEVA O MANDAVA UN SUONO PER FORTUNA ERANO TUTTI MORTI La fortuna deve fare il passo secondo la gamba Vivere perché tutti sono morti un sogno dell’umanità Tempo vuoto Un giorno mi getta nel seguente Axel Manthey (1) è morto Si dovrebbero scrivere commedie Vivere in questa torbida pappa umana Con idioti felici davanti al video Stanotte in sogno ero Atteone Sette donne mi davano la caccia Condotte da un’attrice Per campi e boschi calpestavamo i fiori Mi davano la caccia con un cappio di fil di ferro Io infastidivo alcuni amici con quesiti Sul mio nuovo lavoro SONO IRRITATO Disse il più cortese Gli altri tacevano Mia moglie mi chiedeva NE HAI PROPRIO BISOGNO Gründgens pranza con Göring cacciatore e collezionista In cantina la polizia segreta impartisce al comunista Hans Otto lezioni di canto IO SONO ATTORE NON POPOLO dice Amleto Quando Laerte attacca con la politica Lui da parte sua Sa come ci si volta e gira Discorrendo con assassini per amore dell’arte IO PENSO DI FARE UN LUNGO SONNO Era l’ultima cosa che da lui si è udita AMLETOWALLENSTEIN cui gli assassini Dovettero spezzare le gambe perché la bara Era riuscita troppo corta I nostri Amleti Nella caverna di Platone Althusser per esempio Un comunista massaggia sua moglie Da un pezzo Fa la nuca rigida contro la Fondamentale scepsi di lui Da un pezzo lui voleva Dice un graffito sul muro dell’école normale Essere un manovale

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COS’HAI FATTO

O MAMMA MAMMA

Oppure Pasolini DAMMI IL CULO PELOSI IO VOGLIO IL TUO LURIDO CULO FIGLIO D’ITALIA PUTTANA DI MARLBORO E COCA COLA DAMMI IL TUO LURIDO Nozze di sangue Con la classe che porta il futuro Sulle spalle tatuate dal capitale L’aurora di una notte La notte Dell’aurora Poi Pelosi innesta la marcia E guida l’auto sul proprietario ADESSO SEI CONGIUNTO PAOLO CON LA TUA ITALIA Oppure San Martino spirito dei boschi e gnomo da giardino In corte brache di cuoio in attesa del Führer … LE SUE SPLENDIDE MANI JASPERS Nella sua Selva Nera dove Kafka l’ebreo errante Ha visto il cacciatore Gracco il morto che Non ha imparato la morte il Mastro di Germania (2) Che si scalda le mani nel sangue delle sue bestie Comunque lui sapeva San Martino (3) Dacché i punti mediani sono andati Che il suolo è l’abisso la vita un salto Perché Dio è morto i suoi angeli orfani Non danno più a prestito le ali Il suo scheletro ruota nel cosmo Nel bar dell’albergo un ospite ubriaco annoia Una cameriera che a fine servizio può sedersi al banco Parlando della propria moglie morta di cancro Poi passano a parlar di cani A ME PIACCIONO I CHOWCHOW dice la cameriera PERCHÉ SONO COSÌ PICCOLI PER FAVORE ARRIVA O NO IL MIO DRINK strilla l’ubriaco I HATE DOGS THEY TOOK MY TIME WHEN I LIVED WITH MY WIFE AND SHE’s DEAD NOW AND THE DOGS TOOK MY TIME Ieri ho visto Teorema IO SONO MORTO PER QUESTA SOCIETÀ Dice il capitalista stanco sul marciapiede della stazione Come finirà il mondo se il denaro si stanca Il ragazzo di strada già si spoglia sul binario In mezzo ai viaggiatori diretti nel nulla Il mondo è descritto niente più spazio per la letteratura Chi strappa lo sgabello del bar per una bella rima finale L’ultima avventura è la morte Io tornerò fuori di me Un giorno d’ottobre nella pioggia Baden-Baden, ottobre 1995

(1) Axel Manthey, regista e scenografo tedesco (1945-1995). (2) Citazione da Fuga della morte (in Papavero e memoria, 1952) di P. Celan. (3) Allusione a M. Heidegger. [Testi tratti da Heiner Müller, Non scriverai più a mano, a cura di Anna Maria Carpi (Libri Scheiwiller, Milano). Per gentile concessione]

Notizia. Heiner Müller nasce nel 1929 a Eppendorf (Chemnitz) e muore nel 1995 nella Berlino unificata. È il maggior autore di teatro della Germania Democratica, rappresentato sulle scene internazionali con drammi sul presente e il passato tedesco, la Rivoluzione russa e l’antichità classica. Müller si muove sulle

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orme del teatro didattico di Brecht (dal ‘70 al ‘76 dirige il Berliner Ensemble), ma la sua è una «pedagogia per mezzo del terrore» che non rifiuta d’identificarsi col male e coi criminali. Nessuna bonomia, bensì il piacere della catastrofe e una da lui stesso sottolineata parentela con le opere figurative di Goya. Vasta ma meno nota la sua produzione poetica. Non scriverai più a mano è una scelta dovuta a Durs Grünbein. Müller, avversano del comunismo come del capitalismo e durissimo stoico, nella sua aggressiva disperazione riempie la scena di morti e di umani che nella loro cecità se la spassano credendosi vivi. Ma affronta anche il tema della poesia ovvero dello scrivere - salvezza e a un tempo impossibilità e fuga verso il silenzio.

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[…]

L’UOMO DI ASSE – Tutto ciò che vive è perfetto.

IL BAMBINO SCARPICO – Allo stadio di vuoto, l’uomo segue l’uomo, ci si accanisce sopra. L’uomo ripete l’uomo… Qui ho trovato riposo. GIAN VISAGERIO – Che si scaccino tutti dal mondo!

GIAN D’ALTRUI – Formate una parata ! È qui che ormai si vede solo lo Stadio di Vita senza nessuno. GIAN DI VITTIZIO – Tutto ciò che è vuoto è perfetto. EFISO – Qui finisce il dramma della vita.

ANTERNO – Qui finisce il dramma della vita. VALÈRE – Il dramma della vita è accaduto. Entra Adamo.

IL CANTORE – Adamo, entra ! Di’ i nomi di coloro che ti hanno preceduto !

ADAMO – Algone, Longhis, Settimo, Nordico, Bocca, Giondé, Lo Sciarmatore Luiggi Bogère, Laruota, Sapor Beante, I Genitrati, Efiso Tagan, Raccomandatore, L’Antico Palabrese, Ritmale, Il Bambino Zucreto, Funzione di Verga, Galtino, Vangetto, Il Professore che Porta, Gedeone, Albi Recton, Sermone Femnico, I Bambini Parietali, Rameau, Il Coro, Azione Comica, L’Uno, Lanciere Scopico, Circolazione del Crim, L’Uomo con la Visagéria, I Lottatori dei Pantaloni Due, Angone, Damone, An-Firmiziano, Traveggolo, Bardante, Eruzione, Lantiero, La Terza, Lubé, Buco Vocabolare, Virò, Pantone Piumato, Razza, Gestulòdino, Gabé Landù, Regulàt, Solet, Il Bambino Ignazio, Oncia e Lombetta, Pontracco, Gemilebeth, Il Professor Delumidàt, Il Bambino Perito, Selumidone, Chandul, Lulùt, Corbet, L’Inglese, Rabone Tugìt, Pantone Plumide, Irgo, Gianfranco, L’Uomo di Saporneol, Buffet, Piano del Virale, L’Uomo di Stalingra, La Saponarda, Leo Buco, L’Uomo di Bomba, L’Uomo di Dunlop, L’Uomo di Ghiotone, L’Uomo di Quinté, Charmante Lodone, Virgoleone, Giovanni il Bardro, Il Vendicatore Bodiniano, Il Suo Tronco Tubico, L’Uomo di Valzer, Gisella Obré, L’Uomo di Bòd, L’Uomo di Prima, Bombra, San Vincenzo Campione, L’Uomo di Gari, Sapoleone il Gas, Uzdac, La Porzione Generò, Gian Pippoleone, San Leone del Gas, Gian Polito, San Bianco Scabbiano, San Biondo Scabbiano, Sapoleone il Tipo, L’Uomo di Vir, Sapolo, Losapi, Maciuria, L’Uomo di Virpol, Sazione, Generazione, Il Bambino Sutura, Il Ladro di Suono, L’Uomo di Polizia, L’Uomo di Braccio, Il Maresciallo Petàlo, I Fratelli Passò, Il Bambino Saputo, I Fratelli Passa-Passa, Il Bambino Taciuto, L’Uomo di Gemito, Centrone Singulto, Il Bambino Zittito, Tuya, L’Uomo di Grazia, L’Uomo con la Tèt Blu, L’Uomo con la Tèt Bionda, L’Uomo con i Seni, Il Maresciallo di Grazia, Lacrima, L’Uomo di Fronte, Il Giovane di Carne, Il Dottor Medicante, Gian dei Suoni, L’Assassino Eblé, Taglia, Nacton, Patrizio Enrico, L’Assassono, Il Generale Provento, Il Generale del Tempo, Il Costeggiatore Bocardi, L’Uccisore di Verità, Il Piantatore Tubale, Papuzio, Bondrone, L’Uomo di Prepù, Il Chirurgo del Mondo, Pugna, Olix, L’Entrato, Gian Quando, Gian Tibò, Dottor Tubante, L’Uomo di Meladone, Paul Neomondo, Paul Leontù, Il Vecchio di Carne, Tubale Datté, Tibale Lumé, Regulone il Giovane, Il Giovane Tibardo, Meladone il Giovane, Il Suo Cane Scafario, Caino del Tubo, Tubale Bala, Il Suo Vecchio Scafeto, L’Ambone Piumide, Leone Bolante, Il Cane Medicamento, Poleo, Madama Vigé, L’Altro, Uf, Volet, Il Mondo, Lupìco, Il Cane Ultro, Pontalissone, Sermone Muto, Il Ventrilogo, Sermone Femminé, Montalissone, L’Uomo di Murda, L’Uomo di Pontaschiuma, La Salvatrice, Porco Cosciottone, L’Uomo di Mordica, Il Giovane Bambino, L’Operaio Satalico, Gian di Niente, Il Professor Geo, L’Uomo di Vettante, Il Professor Sàncubo, L’Uomo di Gemante, Tuffone, Gian Cadà, Il Bambino Troncone, Il Doganiere Nizione, Il Bambino Regolare, L’Uomo di V, Il Doganiere Vivente, Il Doganiere Dolone, Il Doganiere D’Azione, Il Doganiere Sembiante, Il Doganiere Rubèrt, Il Doganiere Francé, Il Doganiere Passatore, Il Doganiere dei Bianchi, Il Doganiere Luca, Il Doganiere Bambino, Il Doganiere Lumitra, Il Doganiere Soldato, Il Doganiere Algon, La Savatrice, Madama di To, L’Uomo Sudita, Goldamen, La Dama di Tomba, Il Padre Didentro, Il Grande Ponzone Savatore, Madama Calòn, Buco Salvatore, Porzione Profondo, Buco dell’Amen, L’Uomo di Amen, L’Uomo delle Azioni, L’Uomo di Han, Il Carnatore Salvaté, Pandermator, L’Uomo di Funzione, Carnedermatrice, L’Uomo di Nomblone, Làmbrido, Gesùs, Il Chirurgo del Suono, L’Attore di Mirba, L’Attore di Cada, Lapalisse, Il Dottor Pinnacolo, Il Sognatore Milipòt, Marciambolàr, Dunlop, Charmante Blodone, Vittorio, Buco Periente, Gian Respirante, Lo Spirito delle Materie, Il Bianco, L’Uomo di Milano, Il Dottor Màt, L’Uomo di Metà, Gian di Lebé, Reso, La Donna di Lebé, L’Uomo di Boda, L’Uomo-Maxa, Pontalambò, Il Dottor Medico, Il Veterino Medicante, Il Cantore di Vodré, Vignolo, Molosso, Medardo, Simone, La Madre di Lepanto, Il Bambino Scapino, Senso, Segmond, Gian Leone Bianco, Il Mostratore Omnibas, Melo, Sutur, Satun, Merulo, Il Bambino di Natura, Vodré, Omigene, Venere, L’Uomo

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di Spa, Il Bambino di Germizione, Gian d’Isifone, Doc Meridone, Il Suo Cane Pistò, Le Quadriglie, Gian Dio, La Quadriglia di Giudra, La Quadruglia di Sciabolé, L’Uomo-Maxon, Il Ballerino Genitone, Il Ballerino Melodio, Il Ballerino Danzante, Il Ballerino Serapione, Separdo, Spandro, Lubé, Enitra, Scardalubé, L’Uomo di On, Il Ballerino Monocorde, Il Bambino di Pantalone Gioia, Il Ballerino Saltico, Il Ballerino Uragano, Il Ballerino Fisico, Il Ballerino di Quaggiù, Il Ballerino Catapulta, Il Ballerino Levante, Il Ballerino Persistente, Gian Sansone, Il Ballerino Fisso, Il Ballerino Chirurgico, Il Tenore Nuca, Il Tenore Musetto, L’Alberghiera di Clapetto, Il Buco di Vivo, L’Infermiere Gigliò, L’Infermiere Lubino, Il Ballerino del Mondo, Il Ballerino Senza Suono, Il Ballerino Muscolus, Il Ballerino di Suono, L’Infermiere Rettore, L’Infermiere Lubico, L’Uomo di Maculèt, Il Ballerino Vivente, Il Ballerino Sembiante, L’Infermiere Tassone, L’Uomo di Urmul, Il Chirurgo Vivente, L’Infermiere Ragazzo, Il Chirurgo delle Vite, Il Chirurgo Muscolus, La Madre di Sansone, Il Chirurgo Sembiante, Il Chirurgo Longì, L’Infermere Lucieb, L’Infermiere Bianco, Il Dottor Ploncia, L’Uomo di Lungo, L’Infermiere Damante, L’Infermiere Longhé, L’Infermiere Urlante, L’Infermiere Carnaio, Il Dottore d’Azione, L’Infermiere Nudione, L’Infermiere Tubale, L’Infermiere Parlante, Buco di Speranza, Funzione Vidèl, L’Infermiere del Vuoto, L’Infermiere dell’Alto, Il Chirurgo del Crimine, Porzione Quinté, Vuoto, Lo Stato, Dottor Merula, Dottor Natte, L’Uomo di Nessuno, Il Dottore del Crimine, Boccardo, Il Dottore di Cloc, L’Ompido di Pattura, L’Uomo di Pontamolardo, San Giovanni delle Carni, Il Bambino Torcico, Gian L’Incudinatore, La Genitudine, Signor Pasqua, Il Bambino di Genitudine, L’Uomo di Ac, Il Cane Ultrone, La Germitudine, Il Dottor Generé, L’Uomo di Sappia, L’Uomo di Scienza, L’Uomo di Macaberio, Il Mangiatore Lambié, Il Mangiatore Algon, Il Mangiatore Purna, Il Mangiatore Anthon, L’Uomo di Calcigliote, Il Sindaco di Gandolfo, Il Sindaco d’Altromondo, Giovanni l’Onnivoro, L’Uomo di Zebedea, L’Uomo di Crucifone, Gian delle Carni, L’Uomo di Fine, Il Mangiatore Adamo, Abisselech, Giovanni il Giniandro, Autone, Vardone, La Donna di Sappia, Il Dottor Massacro, Il Cane Umedente, Sapoleore, Monte Suppliziano, L’Uomo di Appello, L’Uomo Perpetuo, Tiballe, Napoleone Cazziere, L’Uomo di Tiode, I Deputati Razionali, Il Bambino Superiore, Il Monte Feciale e Simpliciano, Cervello Maggiore, Il Mondé, Il Monte Valle, L’Uomo del Mondo, Sapor Leporeone, Il Muro, Uspé, L’Uomo di Nitan, L’Ingegnere del Genere, L’Uomo di Bamblona, Veneratrice, Fogna, Delcottò, Il Ventre, L’Uomo di Santùb, L’Uomo di Lentì, Wandala Maciulé, L’Uomo Videone, L’Uomo Cubico, L’Uomo di Udon, Il Curante Patta, L’Uomo di Tasca, La Merlìade, L’Operato, L’Uomo di Mildon, Gian Genandrone, Il Curante Autocultore, Androne, André, Il Ragazzo, La Lingua del Mondo, Il Cane Blodone, L’Azione, Lacrimone, Il Mercier, L’Uomo Ciabattato, Piantito, San Giovanni Bùfolo, Sonda, Carnu, Il Rettore Parlato, Il Rettore di Verità, Gian Gemiandrone, Gian Geniandrone, L’Uomo di Eva, L’Autocrate, Il Motociclista Tomba, Il Motociclista Lutì, L’Uomo di Vivo, Il Campione Automatico, L’Autista d’Ambulanze d’Azione, L’Uomo che Passa, Leondro, Giunchetto il Grasso, L’Uomo di Ur, Cretino, L’Uomo di Pazzo, L’Attore del Mondo, Il Professor Presidente, Il Suo Bestiaglione, Deo, Il Concerto Logico, Il Nano Homnus, Il Pattinatore Muscolus, Il Concerto Bogico, La Donna di Verga, Gian Negativo, Il Tenore Duca, Gian Vocassum, Il Pattinatore Muscoloso, L’Alberghiera di Trotté, Il Sarmione, Schwyz, Il Dottor Poté, Il Tenore Musicista, Potà, San Giovanni Landrone, Il Buco di Roma, Lo Scavatore di Shwi, Il Chiodo, Il Vivo, L’Uomo Buco, La Donna di Cadré, Il Bambino di Parole, L’Attore Musetto, L’Attore Inerte, L’Attore Lombardiere, Il Suo Rettangolon, Il Suo Regolon, Il Sindaco dell’Ospedale dei Ghiotti, Il Sindaco dell’Ospedale Retto, Il Bambino Lunub, Severatrice, Il Bambino di Meldive, Fante del Lodino, Melchicedrone, Fanzone Femnica, L’Uomo di Cubo, Il Dottore del Cielo, Il Chirurgo di Zeda, La Carne, Il Dottore di Terra, Il Cane Cannone, Il Bambino Ossone, Il Chirurgo del Cielo, L’Anima, L’Uomo di Massacro, Gian Vuloziano, Il Capitano Buono, Il Dermatore André, L’Uomo di Fossa, Gian Ventura, Il Portatore Generì, Gian Colombo, Il Suo Ragazzo, Il Venerante, L’Anima di Carne, Il Chirurgo di Vita, Sordo, Stregone, Dagolino, Dragolino, La Femminide, Rapezzo Carnato, Il Suo Basculino, L’Uomo Maschile, L’Uomo di Vita, Il Cumulo, Il Lottatore, L’Abate Bum, Porzione, Il Membro, Ricòn, Compar Potardo, Membruto, Madiano, Il Morto di Carne, L’Exidon, Lapus, Il Dottor Bucò, Madama Bocca, Gefte, Sansone Lubico, Uomo Cretini, L’Oblà, Seresta, L’Uomo di Scampanìo, L’Uomo di Protà, Il Bambino Sperma, L’Uomo di Stuffa, L’Uomo di Mirimondo, L’Uomo di Angume, l’Uomo di Tubo, L’Uomo di Scromondo, L’Uomo di Obré, L’Uomo di Sì, L’Uomo di Barcani, L’Uomo di Altromondo, L’Uomo di Isipo, L’Uomo di Gaban, L’Uomo di Londra, L’Uomo di No, Pompiera, le Due Orifesse, Le Orifesse Lompide, Le Orifesse Leopordo, Sichem, Exit, Amalec, Ombetta, Colombino, Il Dottor Trifé, Colombetta, Patron Unzione, Il Portatore di Fondo, Sansone Porié, L’Algon, Il Dottor Scafante, Tomba della Salvezza, Il Dottor Turié, Ermenonde, Amedeo Boschetti, L’Altissimo, Il Doganiere Dogan, L’Ereditiere Doghignòn, Banca, Venitvé, Il ballerino Clysto, Buco Vocassino, Il Piccolo Uomo, Ludus, Chudul, L’Uomo, Il cane di Bonderia, Picardy, Regulon, Lupido, L’Uomo di Ludro, L’Uomo di Materia, Mambron Sandré, Doghignan, L’Uomo di Bron, L’Uomo di Musciòn, Il Bambino Motore, Udro, Mondrone Sadré, Lappata Inchiavata, L’Uomo di Dove, L’Amboleone Borscé, L’Operaio del Mondo, Il Troncone Verniciaio, L’Amboleone del Potardo, Il Ballerino Clistorio, L’Uomo di Potaria, Il Musicista del Basso, Il Bambino Amniato, Il Dottor Turbante, Il Musicista del Ballo, Il Ballerino Trupico, Lambero Dublico, Il Mago di Carne, Il Mostro dell’Ospedale Logico, Mondul, Giadé, Il Dottore delle Materie, Il Pianetico, L’Uomo di Sette, Il Dottor Perpetrale, L’Uomo Amniò, L’Autista di Ambulanze Giamblico, Il Bambino Valère, L’Uomo di Millimondo, La Terra di Terra, Il Giocoliere Rudùl, Lo Spadaccino Mercico, L’Elefantaro Vero, Lo Strangolatore Vero, Vocazziere, Il Tetrazziere Vero, Il Vapore Ricardone, Il Bambino di Albone, Il Tettazziere Sarcobé, Il Tettazziere Ubliquo, Il Resto, Il Sarcofaro Roberto, La Tetrazziera, Gian Menebro, Il Sarcofago di Cacarne, Alessi, L’Operaio di Niente, Vertebra, L’Uomo di

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Resto, Il Sarcofago di Ulan, Il Luinzone Carnico, Ulò, Ardone, Il Fortunatore Masculètt, L’Uomo di Larcà, Ocumentario, La Sua Gestrice, Urs, Tronco Pollicione, Tronco Sarcofico, Melèd, Il Bambino Vivente, L’Uomo di Tempo, Doc Mercé, Doc Sarcofa, Il Professor Bicò, Il Professor Leggendre, Doc Motté, Doc Capretto, Lunico, L’Uomo di Motore, L’Angelo delle Materie, L’Uomo di Gotaria, Lo Stappatore, L’Attore Denutrizione, Comaragione, Il Principe di Odeon, L’Uomo del Rex, Humus, Lumnube, Lunieb, Il Piccolo Polé Capretto, Il Piccolo Polé Carissa, Deone, Il Dottore dell’Ospedale Barile, Il Bambino di Verità, Censor, Regolo, Lupidone, Podario, Gian Bodré, Il Professor Api, Il Bambino Muscoloso, Geone, Lunizione, Il Bambino Passato, Gian Caduto, Il Bambino Separato, L’Uomo di Cacaos, L’Uomo Pantalone, Potario, Ombardo, L’Uomo Zebedeo, Il Dottor Sebo, Il Nelson, Il Soggetto, Il Nexto, Il Morse, Pistolino, Luberdo, Venetrio, Il Professor Ilposto, Nitone, Nicolè, Il Dottor Ficino, Il Dottor Formidoblerone, Il Dottor Ninzione, San Giovanni Lapeto, San Paolo Geone, Il Professor Mozà, Giapiero, Mambiero, Ira, Cancron Albon, Dottor Albon, Gian dell’Altissimo, Il Generale di Diope, L’Uomo di Zebrato, Il Corridore di Hop, Il Corridore Mancato, Il Bambino Sordo, Il Vecchio Cifratore, Il Bambino senza Lingue, Il Professor Vizion, Il Bambino Imbecille, Il Bambino senza Vita, L’Uomo di Marcabio, L’Uomo di Metron, Gli Uomini di Adamo, Adamo Primo, Gian degli Spiriti, Il Bambino Scopico, Adamo Ultrone, L’Attore Pilotiere, Il Generale di Dado, Adamo Secondo, Adamo Ultimo, Gambaro Sacrifètt, L’Uomo di Rumore, Doc Sapolì, Sapor Largon, Sargor Laton, L’Uomo di Largito, Sapor Mental, Il Bambino Elargito, Il Bambino Motorizzato, L’Uomo fatto di Carne, Porzone Giambico, L’Uomo di Dritta, Lobo, La Menetriera Sarbacata, Olinfo, Antuffo, Portiere, Lobato, Ansa, Snet, Tartufo, Sebaceo, Ordale, Aton, Crassio, Cratone, Dantilo, Pontone, Gallo, Il Campione Porcino, Carlus Portaggio, Funzione Francese, Mac Norton, Alessi Grüss, Patrizio Grüss, L’Uomo dai Pantaloni Fieri, Gypsy, L’Uomo dai Pantaloni Bu, Il Suo Trapassato, La Voce dell’André, Gigogini, L’Uomo di Lambi, Voce d’Animale, Lobot, Gian della Fine, Berie, Gigolazione, Fattore Azione, Vice Capitano, Hominibus, Il Leopane, Buco Biondo, Rambe, Giondré, Siordo, Sora, Piccione, Porcarino, Giandussa, Grande Sezamiere, L’Autista di Ambulanze Santone, L’Uomo dai Pantaloni Morti, La Generalessa Sapolé, Michele di Scienza, L’Uomo del Masculazziere, I Proletari di Vendetta, L’Uomo di Limassa, Gli Altri, San Finlandaro, San Burduluzio, San Giangiacomo Viton, San Portaleo, San Giovanni della Carne, L’Uomo col Buco, I Membri della Fabbrica Culemana, L’Uomo-a-cui-non-è-successo-Niente, Il Doc di Doc di Doc di Biogio, L’Ortiglia della Sobré Verbica, La Quadriglia di Cortigo, La Quadriglia di Sobré, La Quadriglia di Gonna, la Quadriglia di Alfando, Il Merziano Venandré, L’Ecarrniziano Merziano, Il Dottor Merce, Quadriglia Huje de Sobre, Doc Mercier, Il Babino di Carne, Plitone, La Cadulta Alimentere, Fantrone Moschico, Il Professor Picchetto, Il Cane Calinò, Porzione dello Chef, Ulmann, Carne, Pontagra, Sapor, Ostia, Valère, Dottor Scapino, Dottor Tamié, La Giondra a Scavalline, L’André di Ruscelletta, Buco Vocalico, Onbuco, L’Autista di Ambulanze, Buco del Vocale, Onbuco da Masculemani, Barnetta, La Balena, Il Bambino Sezeo, Il Deputato Susino di Rigò, Cantrino, Ord’l, Salto, Cornetto, L’Uomo di Pontalambino, Gian Membretto, Sapolino, L’Uomo di Saporleolimassa, Bandrù, L’Uomo di Pontagra, Bomberra, L’Uomo dell’Ostia, Bandra, Landrubio, Sapor Landré, Omnibus, Gian Disastrina, Gli Uomini della Squadra Logica, Penetrale di Scienza, Il Giovane di Bombiera, Il Giovane di Scienza, Dottor Masticaferro, Dottor Culemani, Formulatore André, Gian Buco Verbiere, San Metronomo, San Bianco Scarpìa, L’Uomo di Maclumerda, Il Dottor Legista, Il Bambino Capitano, Il Doc di Biòg, San Sabone, Il Doc di Biògg, San Scudetto, L’Ontogeno, Sapoleone, Gianni il Gas, L’Uomo di Proté, Sansone Glapì, Laborbledone, Papus Locone, Buco d’Uf, Tibardo, Uomo Sapolì, Caino del Figlio, Uomo Venereo, Monte di Vienna, Buco di Vienna, L’Infermiere Turbante, Nombirra, L’Uomo di Massimògeno, Il Buco Gnam, Vignolo, Pilastro, Serminero, L’Uomo di Latrina, L’Aquila di Pontamuscione, L’Aquila di Biògg, Buco Hutin, Nordilinoquio, Ambius, Girolamo Carena, Vergine con Sapolètt, Charmante Glodon, Petrulo, Petrone, Peridonio, L’Uomo di Suripò, Il Sextupede, Omberdo di Ebron, Il Settomane, L’Incordeo Boccardo, Il Rettore Bocardì, Scafario, Trufema, Homo Automaticus, Hautomaticus, Omo Onomaticus, Lactante, Trufico, Milone, L’Uomo di Dolosà, Il Dottore Ostruito, Il Dottore di Verità, Il Cane Mutante, Blodone, Il Rettore Umano, L’Uomo del Bodiniano, Dalla, Anton, Uzadenti, Doc Divorasson, Il Germe, Gian Bocardì, L’Uomo di Shatù, Il Capitano di Bo, Gian Carne, Madama Cadà, Tìode, Fecciale, Pantalacarro, Polimiero, Sapor Minchio, L’Uomo di Nicepse, Il Gas, L’Uomo di Defunto, Dottor Sacrìm, Doc Melodòn, Dottor Mercùl Elefantaro, Maciulé, Santùb, Maciùl, L’Intero, L’Uomo Maciulé, Àspero, Braghetta, Melandrone, Nepton, Il Cicloptero, Corona, Il Sordo, Dragolini, Il Chirurgo di Carne, Ludùl, Raciùl, L’Àmbulo di Pantura, Unus, Lunub, Scivolé, Gian Cadavere, Il Portatore Geneziano, Il Portatore Generato, L’Uomo Commestibile, Il Tetanista, Muorimondo, Mialloggé, Il Dottor Albuco, Il Dottor Altrui, Tio, Pontardo, Il Bambino di Tio, L’Uomo di Bozone, Doc Merziano, Carné, Gotario, Umno, Il Censore Lupidone, L’Attore Trimestre, Punto Capissò, Fantòlo, Zebedeo, Gian Geone, L’Uomo Sapoleo, Sapor Trippone, San Giovanni Matié, Necara Bobisciona, la Pilotara, Uri, La Scanderblade, Il Dottor Profondo, Viletta, L’Uomo di Valvorina, Buco Iambato, Cladé Burone, Ada Kunz, Emma Djucke, Filippò, L’Androne Avanti, Il Morto, Aciùl, Dottor Lodone, L’Uomo di Carne, Bombiera, Sapor Leo, L’Uomo col Porco, Il Bambino Aciù, Campione Tubico, Il Rettore Biondo, L’Uomo di Sfortuna, Il Rettore Unùl, L’Animale Salico, Il Dottor Masticafèt, L’Uomo Venandréo, L’Uomo Venereo, Morilungo, Meladone, Il Gendarme Medicamento, Melandro, Elandrone, L’Animale Venereo, Sapor Glodon, Il Suo Germe, Canal Minchieo, Masticaferro, Dottor Trupino, L’Uomo di T, Radlabladone, Dottor Scafario, L’Uomo di Settomòne, L’Uomo di Utron, L’Uomo di Simplon, L’Uomo di Donna, L’Uomo di Settòmane, Il Ballerino Bocardì, Il Ballerino Boccassone, Il Dottor Masticachiappe, Corridore Androne, Homo Sapoleone, Homo Automoblone, Campione Androne, Homo Lodone, Campione Sapoleone, Lui,

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Sapoleone Calcico, L’Ufficiale Nord, Gli Inventori, Il Notaio di Grazia, L’Ufficiale Sud, Il Giustiziato Buffé, Velox, L’Uomo di Gnam, Pantaladamo, Il Vettore Cabrato, Gian Durafù, Galuth, Linan, Il Cacciatore Strangolone, Il Ballerino Anaton, Il Lanciatore Semnico, L’Uomo delle Lingue, Ermaglodone, Il Bambino Parlato, L’Ebeterio Charlet, Il Dottore di Carne, Ugé, Molab, Il Vivaridiere Roberto, Il Manovratore Stronzino, Il Ciclandrone, L’Operaio del Mondo, Lindice, L’Uomo dei Lembi, Il Giocoliere Splendido, Tronco Caputtino, Il Ciclonista, Macalberto, Il Bambino di Defunto, L’Uomo di Macchina, Il Bambino Verico, L’Uomo di Trombalambi, L’Uomo di Uno, Il Venandré, L’Uomo di Nudo, L’Uomo di Nitron, Amnius, Giandé, Esecuzione, Pantalone Crespo, Tronco del Vocale, Il Porco, L’Uomo di Germe, Sargone Tamié, Rambussa, Vociferiato, Dalto, Il Bubro, Il Bambino Ontogeno, Santone, Corpo Senatone, Giardone,Il Melodiaro, Il Melodiaro Fusarca, Il Costante Melodiaro, Gianni il Membro, Gian Verìfico, Gian Cadetto, Il Fottaro Loré, Il Fottaro Bambino, Il Passatore Bianco, L’Uomo col Passamontagna, La Bandera, Gendermazione, L’Uomo di Dogana, Il Malato Mentare, L’Uomo di Métrula, L’Uomo di Manifattura, L’Uomo di Obré, Stérulo, Il Manufattore, Lanzio, Céfiso, L’Uomo di Sferidon, Il Manufattore Sperone, Ritò l’Abate, Buco Vocifé, L’Uomo non-nato, Gian Vocé, L’Uomo di Vuoto, L’Uomo di Veridà, L’Altro Socé, Andruà, Laglone, L’Uomo di Distorno, Il Bambino non-nato di una Carne, Santiero Lutrino, Buco Riformato, Il Bambino Didentro, Il Bambino di Ut, Tubone Femnico, L’Uomo di Narcò, L’Uomo di Sì-Faccia, Buco Separato, Biandrone, Il Bambino Recton, Vòrico, Venandrone, L’Uomo di Massa, L’Uomo di Nassa, Ronzone, Urlambo, Il Bambino Di Fronte, Largone, L’Uomo di Nascita, Speciele, Lulambo, Nilastro, Femminiere, L’Operaio del Dramma, L’Uomo di Utica, Il Bambino di Utica, San Giovanni delle Membra, San Giovanni che Fa, L’Uomo di Ménebra, Francesco dei Galli, Buco Lupidato, Tor Lupidone, Gian Vedusse, L’Uomo di Maximortale, La Donna di Maclumiera, Gian Suo Cadavere, Francesco delle Facce, Azione Mortale, Gian Centurione, Il Caporale Delgrano, la Donna di Nombàra, Bombante, Gian Suo Curiale, L’Uomo Affamato, La Donna di Lepò, L’Uomo Obliquo, Fante di Espero, L’Uomo Ambiente, Gian Landiùs, Varone, Le Due Infermiere, L’Uomo Logico, Il Vocìfero, Il Tabaccaro Gibboso, Gian Sembiante, Arbio, Larbio, Gianni Uscito, Potardo Agostini, L’Uomo di Gioia nei Buchi, La Donna delle Materie, Il Dottor Generì, Il Bambino Animale, Il Dottor Genizé, Il Bambino Ragazzo, L’Uomo di Sotto, L’Attore Brutto, Melùdo, L’Attore Sanatòn, I Due Oriferi, Gian Reputé, Gian Brontolé, Il Bambino Genatiziano, Il Dottor Fleùl, Il Narratore, Il Doganiere Sospetto, Il Bambino Geriatrico, Il Capo dei Rivoltici, Il Bambino Miocùb, L’Uomo di Vallata, Generale Milogé, La Persona Stravaccata, L’Onomico, Gian Sultante, L’Uomo di Giudrea, Il Bambino Frisone, Buco Sarcastaro, Il Bambino Obliquo, Il Bambino Narratore, L’Uomo nei Pantaloni Sacco, La Donna del Rettore Bodiniano, La Donna del Rettore Carniano, Udre, Il Bambino del Rettore Umano, Fantiere Lubico, Il Numero, Stagione, Lorìno, Il Bambino Sonoro, L’Attore di Troppo, L’Uomo di Turacciolo, L’Asorsata Caffré, La Donna di Legno, L’Uomo di Cane, Gian Tèbèl, L’Uomo delle Mosche, Il Capitale de Dré, Gian di Sfiga, Il Bambino Pontasso, Il Soffiatore Reagionario, Il Soffiatore Reà, Il Seguace di Verità, L’Infirma Obliquo, L’Infirma Capissone, L’Uomo dei Mari, L’Uomo di Murlé, Il Bambino Repubblicano, Il Dottor Catapulta, Il Bambino Ciulé, L’Essere di Lambiere, L’Essere di Vora, L’Essere di Turgione, L’Essere di Narcasso, L’Essere di Tripano, Gian Lombrìde, La Donna dell’Oblà, Ruttico, La Vivandiera Lepò, Catone a Piume, Il Vivìttero Charlet, Gli Esseriumani, La Vivictera Làmbride, Modanatura, Sòdon, L’Uomo delle Mani, Il Vivisterio Loré, San Giovanni dei Mondi, L’Essere di Lento, Il Motociclista Nero, Gian Mondiusso, L’Omocrate, L’Uomo di Perfetto, Gian Geandro, L’Uomo Scartato, L’Infermiere Cantante, L’Infermiere Deòl, L’Automocrate, L’Infermiere Bello, Gian Cantante, L’Uomo col Vestito di Carta, Gian Sociale, L’Uomo dal Vestito Secco, Il Pedone, Il Vedovo Logé, Il Dotto Ap, La Vedova Logé, Il Dottor Medicamento, La Vedova Ultro, La Doloressa di Albano, La Doloressa Làmbride, La Doloressa di Uzès, La Doloressa delle Lingue, L’Uomo Anfibico, Il Dottore di Fondo, Il Cane Urlò, Gian Dolore, Gian Cervello, Il Malato Morto, L’Uomo di Urlò, L’Uomo di Quadro, L’Uomo di Acton, Buco Minaccere, Ilastro, Amberio, Curèl, Cilimo, Cotera, Gian Colino, Il Suo Motociclista Perfetto, L’Uomo di Ombroso, La Donna di Carnassa, L’Uomo del Tribunale di Vita, La Donna dell’Uomo di Carnassa, Il Suono d’Altrui, I Bambini del Dottore del Ponte, Gian Buco Ficèl, L’Uomo Simpliciano, Gian Melodiere, I Bambini del Dottore di Pompa, Il Dottor Melosso, Il Sospiratore Vero, I Bambini di Melodia, Il Malato Crucifone, Il Dottor Gambista, Il Dottore delle Vite, Il Dottore Anestesiano, L’Anima di Vérica, L’Anima di Forza, La Doloressa d’Azione, Il Chirurgo Urgente, L’Uomo di Logica, Il Rittore Scapone, Gian Sambiano, Gli Uomini di Scapor-Tissò, Civiletto, Lurduzzo, Montagné, L’Uomo di Mascialàm, L’Angista, Il Dottor Urtiò, Il Bambino Bubié, L’Uomo di Ambrona, L’Uomo di Arbente, L’Uomo di Bellaguardia, L’Uomo di Bellignà, L’Uomo di Borgo, L’Uomo di Brenòd, L’Uomo di Cerdone, L’Uomo di Amberieu, L’Uomo di Aranco, L’Uomo di Bagé, l’Uomo di Belley, L’Uomo di Bettante, L’Uomo di Bregnier-Cordone, L’Uomo di Campo, L’Uomo di Ceyzerat, L’Uomo di Castiglione, L’Uomo di Gagliardo, L’Uomo di Campodoro, L’Uomo di Sciampagna, L’Uomo di Scialamonte, L’Uomo di Giassèns, L’Uomo di Gex, L’Uomo di Dortano, L’Uomo di Divonna, L’Uomo di Culò, L’Uomo di Collonge, L’Uomo di Colignì, L’Uomo di Scezerì, L’Uomo di Sciaveyrià, L’Uomo di Masticaferro, L’Uomo di Onimiano, Il Sospiratore Pangla, Il Sospiratore Vero, Il Sospiratore Reo, Il Sospiratore Langlois, Regolone, Ludergò, Upidò, Il Bambino Campione Meccarnico, Il Bambino Olimpo, L’Uomo del Tetanerdaio, Il Bambino del Buco del Genere, Il Bambino Regolatore, Il Bambino del Limbo, Il Cantante Masculetto, Il Bambino della Testa, L’Ottavio Sospiranio, Il Bambino dei Terdi, Giadalba, Nurlamba, Lombussa, Ottardo-Toché, Giabulone, Gian Polifante, Il Bornocrate, La Zuppiera di Viviere, Gian Protestante, Norilico, Ramni, Platino, Nimolle, Brancàsc, Il Furegolo Saliziano, L’Amnante Medico, L’Ombiera Salica, Il Virofago, Il Sermiolo, L’Autofago, Gian Deòl, L’Uomo di Liandrone, Poncio e

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Lambiano, L’Ontropiofago, L’Uomo di Legno, Il Mangiatore di Scene, L’Uomo di Luti, Gian Umano, L’Uomo di Dentale, Il Mangiatore di Icipiti, L’Uomo di Sale, L’Uminiano, Pontògeno, Il Lanciatore Femminile, Gian Leandro, Gian Tomba Vivente, L’Uomo dal Buco di Fronte, Gian di Sotto, L’Amnante di Deòl, L’Amnante Salico, Il Sospiratore Viviere, Il Sospiratore Rettante, Il Sospiratore Antuffo, L’Amnante delle Tombe, Il Bambino di Fuori, Il Bambino di Dentro, L’Androne Femnico, Gian di Traversie, Il Bambino Semnico, Gian d’Urgenza, L’Attore Retico, L’Uomo di Sale Bianco, L’Attore di Adamo, Ondrù, Femniere, L’Uomo di Che, Gian Stimulato, L’Attore dell’Uomo, Gian l’Ambriano, Algazèl, Il Campione delle Bestie, Dorsé, Ilippi, Il Campione del Buco d’Assi, Il Campione del Buco di Sotto, Gian Bianco, Naciurio, Scoduto, Scotario, L’Uomo di Bragone, Gianni Ilfalso, L’Uomo di Dio, Il Malato Bianco, Gian Necromate, Il Dottor Trupiano, Sapor Lotone, Sapor Antifo, Il Malato Coso, L’Uomo dal Buco Forte, Andone, Ipado, L’Uomo di Penùltico, Il Suo Cane delle Piste, Il Sarcofriero Landese, Melosso, Lughé, Buco dei Puniani, L’Uomo di Pontedunlop, Gian d’Arte, L’Uomo di Scromene, Il Lanciatore Scopico, Gian dei Cieli, Gian Venusiano, Gian Venindré, Il Lottatore Scopico, L’Uomo di Scabbiano, L’Uomo di Buco in Mezzo, Fandulodista, L’Uomo di Nero Gas, Fantugiambò, L’Essere di Mitano, La Donna di Mitano, Il Logista, Il Bambino Respirante, Il Suo Soccio, L’Uomo dal Vecchio Lupo, Il Bambino Serrmiano, Gian dei Ludi, L’Uomo di Me, Omnon Operaico, Omnon Omon, Il Bambino Scafario, L’Uomo di Croce, Gian Respirato, L’Uomo di Nero Gente, Pontià, Bordò, Vuotura, Gomero, Dunkerque, Landra, L’Uomo di Rennes, Gian Lincudine, L’Uomo di Avignone, Il Professor Tre-Quarti, La Madre delle Materie, I Malati d’Azione, Gian delle Carni, Il Suono delle Azioni, Il Musicista degli Atti, Il Suo Sembiante, Il Musicista delle Azioni, Quelli delle Luci, L’Uomo di Maciuria, L’Uomo di Oggetto, Il Dottor Licet, Gian di Lompido, Il Dottor Oblé, Il Bambino di Distruzione, Le Genti del Tempo, La Donna di Maclumerda, L’Uomo di Loquior, L’Animale del Tempo, Gan d’Ecatombe, L’Uomo dal Buco che Perde, L’Uomo dal Buco che Penetra, L’Uomo di Cocquiò, La Madre dei Mati, Il Bambino di Sotto, L’Uomo delle Materie, Melandrina, Il Giupitone Suppliziano, Il Bambino del Cervello, Gian di Qui, Il Dottor Scabiano, Il Vecchio Asper, La Donna di Là, Anter, Il Bambino Moribondo, Il Naturiere di Ulbano, L’Uomo di Sezalinda, Il Fabbro Voide, L’Uomo di Gerusea, Il Fabbro Guadrì, Tianna d’Azione, L’Uomo di Caino, L’Uomo di Gianni, Il Chirurgo Bello, Muxione, Axo, Nitra, Vittizia, Gian di Vivo, L’Uomo di Musica, Millione, L’Ingegnere Budé, Ada, Il Chirurgo Scopico, Gian Verificante, Gian delle Maschere, L’Uomo di Adamo, Il Sarcofriero Semnico, Gian del Buco di Fronte, Paolo d’Omissione, L’Amberio Muovico, Gian d’Animale, Il Sezamiere Caduco, Gianni Semnico, L’Uomo di Forca, Il Vivaridiere Lubino, La Donna di Forca, Gian delle Assi, Il Chirurgo Femnico, Il Bambino di Deòl, Il Bambino di Strangolone, Urbano, L’Uomo du Gerùb, Il Vivaridiere Semnico, Il Macellaio Tallone, L’Incordone Porcé, L’Uomo di Nulano, Il Canto, Rambiero, Manino, L’Operaio Vivente, Gian Visagero, Gian d’Altrui, Gian di Vittizio, L’Uomo di Asse, Il Bambino Erculio, Il Bambino Scarpico, Efiso, Anterna, L’Uomo di Algon, L’Uomo di Labbiano, Il Bambino Longìs, Il Dottor Pugno, L’Uccisore Vero, Gian Scalinandro, L’Uomo dai Suoni, Il Cantore, Scotario, Calops, Marbaco, Urcieb, Gian Geòl, Paolo d’Albone, L’Uomo di Verassa, Gian Separato, L’Uomo di Strangolù, Generù, Urnan, Lumnambo, Cigilizio, Orecchio, Lidamo, Ergileo, Dablàn-Vuscìtt, Gian Senz’Uomo, Egloglidone, Harpimio, Crudòtt, L’Uomo di Isifone, Urnale, Il Vetrificatore Bodinètt, L’Amboleone Calcico, Verone, Boché, Piràtt, Albòtt, Gian Biondo, L’Uomo di Uriano, Dorètt, Crepìno, Fantina, Soplàtt, Talgòtt, Gian Passato, Rinone, Fresni, Àzico, Lagò, Gian Vivente, L’Uomo di Ventricolo, Lorima, Tadione, Fajord, Ravàna, Ecordeone Carni, Encordeone Oromini, L’Uomo dal Buco Fatto, Sciamòrd, Entìf, Clesòn, Raghé, Classiòtt, Tagiònc, Criminèl, Ottardo, Nevìtt, Ramon, Lusètt, Cudò, Potario, Blarètt, Salsima, Vitione, Labione, Vermètt, Sciardò, Urdìtt, Lagionc, Rapone, Itàl, Orina, Palmòtt, Damètt, Tesseròn, Terba, Giano, Tropmann, Andòtt, L’Uomo di Nato, Gli Uomini di Nettono, L’Uomo di Golfiera, Gian di Carne Vuota, Gioché, Clami, Radò, Rudé, Angume, Viràn, Gaby, Uzon, Gian Morente, Pane Bulimico, I Bambini Spaventapasseri, Galbus, Moscòn, Lupòn, Guangla, Potario Regolidon, Il Fendardo Bulimico, Sciaùl, Tuzìtt, Erda, Mugione, Labio, Gramé, Ghedrì, Bescé, Lagètt, Giunchiglia, Linglese, Gallone, L’Uomo dal Moncherino Rettogeno, Sagètt, Alba, Lalàm, Argìtt, Generon, Fragòtt, Tergiverlù, Gradut, Abet, Tote, Maduligione, Nilope, Actile, Gentìtt, Giubé, Marte, Dabere, Farèl, Luigi G, Fabùtt, Bucòtt, Orima, Spadone, Piumiere, Il Bambino Armato, L’Uomo di Gi, L’Infermiera Turbanta, San Saberio, Marmoledone, Gian Ripò, Vigètt il Bianco, Scardanalaibon, Busciòtt e Brunòtt, Vetrata, La Saponarda di Ripòtt, Torre e Membrètt, Sant’Edmondo Voragine, L’Uomo di Numerètt, Merdalisiori Membrètt-Ponò, Pasquètt, Tronco, Bomba, Il Bambino di Più Niente, Varètt, Darancia, Giamìtt, Rafe, Sansone, Goge, Verbigedone, L’Uomo di Verbigedone, Il Dottore di Luce, Màrmolo, Sciarmante Pedicolare, Pantarleoguardo, Actil, Niceps, Aremia, Glilite, Pondassa, Nilite, Dattiverton, Mamùl, Gadino, Abiagio, Dottor Mamario, Fante Scardablone, Micta, Ragazzo, Bartaglagine, Nadino, Pietro Goldano, Aghìtt, Vibralutore, Azzeraggio, Fognàss, Gabiasimo, Giadino, Il Camminatore Lancré, Adramifero, Il Suo Camminatore Sapien, Trapanissò, Lettripone, Cortalitone, Saporigeno, Guardàtt, Urètt, Glitone, Alb, Il Bambino Cadavere, Il Bambino Senza Dolore, L’Uomo di Sapien, Il Bambino Bianco, Giandò, Abèr, Pinochet, Il Principale Tanone, Il Professor Uri, Il Professor Reggente, Dottor Mercier, Malato Dargiàtt, Maggior Cervello, Luigi R, Rolando Enino, Paolo Lorissò, Penultro, Il Bambino Portatore di Corpi, Il Dottore Sordo, L’Infermiere Stregone, Lucto, Ilo, Il Romanziere Gambista, Il Romanziere Tallone, Reuf, L’Attore delle Lingue, Il Piccolo Sciabolato, L’Uomo di Masculièb, La Chirurga di Vita, la Chirurga di Dado, Lucieb, L’Animale Labio, Antore, Latorre, Il Dottor Marino, Silipo, Aporifugo, Suciòrd, Glutro, Hardy, Lucione, Il Versatore Acatenico, Castagn, Snione, Piòtt, Doc Elefante, Doc Santubo, Tactò, Fi, Aglon, Giaglot, Bricàsc, Cortaligò, Vapuna, Orifuga, Glitò, Aji,

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Ghigliò, Ripo, Tercina, Antuma, Canussa, Sparaglitone, Enoc, Cratilo, Contro-Giga, Malbotto, Gravone, Forghìt, Irq, Il Bambino Scardablone, L’Uomo di Terra, La Donna di Gambista, Gli Uomini di Ecatombe, Antalacardo, Orbiere, Morbi, L’Uomo di Azzeratore, L’Animale Generato, Il Dottore di Biog, Andrea T, Luciano T, Figura, Langino, Volante, Titone, Il Bambino Caino, La Petiera Sciamorcino, Il Declamatore Urbano, Boggetto, Il Bambino del Buco di Verità, Obstinus, Elidano, Il Deputato Haghìtt, Coccalino, Bestsabeo, Hotame, Sabordo, Siòtt, Oripe, Licta, Tactìl, Gestrice Lucerna, Gestrice Soppisa, Convitato Metronomo, Convitato Diapason, Convitato Corsa, Convitato Arcampo, Convitato Nasconde, Convitato Lucché, Adramelec, Convitato Dury, Convitato Nassa, Convitato Musetto, Il Bambino Deficiente, Il Bambino di Vivace, Il Bambino di Leone, L’Ingegnere Peribile, L’Ingegnere, Mantendone, Clamo di Albone, L’Ingegnere Armando, Il Dottor Perpetuo, Azzeratore Chabord, Generale Potame, Il Bambino Kaputt, Il Bambino Eccellente, Paolo di Uf, Uzòn, Retulo, Trigabus, Capella, Rectore, Severo, Gurba, Tanghino, Patino, Acrimate, Onomato, Angiù, Ansimiel, Samael, Piva, Solone, Jayet-Burone, Stivale, Piede, Mano, Sponx, Zefiro, Seleptat, Frisa, Ghiacciaia, Tristre, Cedrone, Vetro, Gigal, Piano, Gisellus, Labano, Convitato Osmino, Convitato Pamino, Convitato Elica, Il Dottore, L’Uomo Oggetto, L’Ingegnere Meladone, Il Bambino Porschico, Il Sociètt, Il Rettore Bocardi, Cantedro, Darma, Melectonico, Sandro, Melec, Mel, Il Bambino Si Salvi Chi Depuò, Il Secondo Sociètt, Terzo Sociètt, Quarto Sociètt, Gli Uomini di Legno, Il Babino di Carne, Il Bambino di Lucieb, Ursce, Piaga, Piagul, Baccano, L’Uomo di Sotto, L’Uomo all’Albero Maestro, Vedova Luce, Vedova Pino, Tipo Vistosso, Il Bambino Comunicante, L’Uomo col Carro, Azzeratore, Il Palabraro, L’Uomo di Colonna, Gli Ominiani, L’Uomo a Statua, I Bambini di Quaggiù, L’Uomo di Pezzo, Il Bambino Vergico, la Madre dell’Uomo Bianco, Griot-Culletta, Casché-Vetrif, Capo di Cuor, Il Babòt di Dorètt, Parasole, Flupiòtt, Tubata, Krapone, Batrassé, Doc Med, Il Generato, Doc Medìc, Funambo, Scardalinazio, Canzone Porcino, Coccarda, Buco la Ciampa, Oro del Baccano, Troncone Vergico, Pezzone Gambico, Glady’s Minor, Sargone Loròtt, Cuidètt Licenziato, Orogi, Lobòtt Amnato, Luisa, Ada Djucke, L’Uomo di Imbessa, Il Dottor Retata, Il Dottor Riflesso, Il Dottor Porcodié, Il Dottor Tudor, Riva e Sublètt, L’Uomo di Vagìr, Il Dottore dei Membri, L’Uomo di Mondiàtt, Il Dottore degli Spiriti, L’Uomo di Carnassa, L’Uomo di Ponce, Gian Fraseggio, Gli Oratori Costumati, Gian Vagina, L’Uomo di Pino, la Pilotessa Lindùr, Il Tubo, Il Dottor Filièl, L’Uomo delle Materie, Desiderato Luti, Madama Superficie, I Due Elisei Luti, Lovarinus, Francesco D, Crucifero, L’Uomo di Crucifero, Vonone, Impugno, Tallone, Emeri, Gli Ex del Collegio di Vendetta, L’Ombopitrico, Il Bambino Tubo, L’Uomo Capitano, Milogio, Il Venadrico, Il Manutenziario di Saigon, Desiderato Hutin, L’Ontrobopitano, L’Uomo dal Colletto Blu, Il Sì-Gallo, Il Bastoniere di Limù, Iletta, L’Operato Rodé, Ilario, Il Dottor Mozzèr Uzzèr, Il Vetrificatore, L’Opitano Narcinale di Bue, Gian Ravagina, Doloreo, Gian Leandrone, L’Uomo di Bicipite, Palpebra, I Malati Viventi, Il Dottor Nicolodromo, Il Dottor Arimateo, San Giovanni del Tempo, Il Dottore del Giorno, Il Dottor di Notte, La Stimolata, Bianduca, Zona di Foresta, Gian delle Lingue, Ponzone Trùfico, Pistoleo, Vasé, Il Malato del Suono, L’Attore di Luce, Gian Serapione, Razza Sacattina, Rambaghiottino, Il Malato del Tempo, Il Bambino del Ventasso, I Bambini Ominidini, I Bambini Uminirini, I Bambini Uninini, I Bambini Olinirini, I Bambini Ominirini, I Bambini Uninininini, I Bambini Ominini, I Bambini Uminini, I Bambini Onirini, I Bambini Ulinini, I Bambini Unini, I Bambini Urinini, L’Uomo di Notte, Canalassa, L’Uomo di Porzione, L’Uomo di Sapètt, Massimo, Il Matematicaro, Bio, Metodo, Gian la Carne, Il Bambino Polito, Il Capitano dei Tubi, L’Adolescente Charlet, Gian Venandrone, L’Uomo dello Stadio, Il Suonatore di Ut, Il Bambino di Bombassa, L’Uomo di Ponte Serminiero, L’Arbitro di Vittoria, L’Uomo Salico, Il Bambino Automovente, Tolozàtt, Il Bambino Automatico, Gambiera, L’Inflante di Bombassa, L’Inflante di Turètt, L’Infante di Vittoria, L’Infante di Conturbante, Il Corpo del Farmacista Bollò, L’Infermiere Incudinatore, Doctìl, Ghiottò, Il Professor Massimale di Giò, L’Uomo delle Ceneri, Il Professore di Digiuno, L’Uomo Omnato, L’Uomo del Cielo, L’Uomo di Coso, L’Uomo di Polvere, Tibaldo, Il Capitele de Dré, La Piuma, Il Bambino Onnivoro, Lacrimòtt, Lo Zolfo, Il Dimenticoso Dorètt, Il Dimenticoso del Mondo, Carnàtt, Il Peggio, Generato, L’Autoscopio, Il Doctat, L’Ambride di Panturio, Il Bambino delle Ceneri, Il Dato, Dongalupòn, Voracico, Gran Sciabolatore, L’Ambiera di Galizia, Ferrassone, La Donna di Lambride, Il Bambino Omnico, Rangetto, Tattone, Il Moribondo Vivaribondo, Il Leofante Pitròtt, L’Arbitro di Disfatta, Lo Scavatore Adamo, Il Filosofo del Tempo, Il Filosofo di Azione, Gian Politropo, Lo Scavatore Leone, Il Fortunatore Camion, L’Omino di Terra, Il Forzatore Funambòl, Il Poliziotto Scopico, Il Violinista, Panto la Piùm, L’Asilario Capullo, L’Asilario Ecarnico, L’Attore Ruth e Lubin, L’Evocassone Mercico, L’Ebeterio Carletto, Il Suono, Gian Grande Medicale, Il Piccolo Medicale, Gian Soggetto, L’Ebeterio Dottasso, Manètt, Sardone, Gian Santo Spirito, Cane Visaggiato, Gian Pino, La Menebriera Stendula, Gian Serafico, Il Bambino del Salvatore, Capor Sebone, Il Lottatore Fantoccino, Fregolino, Spacchina Lupata, Landèr Carlé, Il Bambino Lucieb, Il Bambino di Cortaggio, Nordié Minor, L’Uomo di Luca, Nordié Major, Il Dottore delle Mani, La Madre Senatiera, Gian Sapino, Fregoletti, Onomaticus, Hasmùs, Pantalina, Oncina, Lanube, Il Vecchio Raossètt dello Spermatore, Pantone, Il Batracere Comuniale, Tago Loisé, Ditrave, Ulambe, Uzèd, Latrino, Ditrone, Azzeratore Beante, Capo d’Agro, Tuzzone, L’Abbondanziere, Lantiere Fisone, Sognètt, Razza Venetriera, La Bova, Putrone, Il Senatiere, Lincubo, Il Suo Gendarme, Spermiere l’Avolo, Pollicione, Sebone Scopico, Pollicio, Corpo Senatiere, Il Sistematicista Chiuso, Dottor Geàl, Charmante Quinté, Sebone, Cortaggio, Valigione, Giunzione Matica, Germano la Bracca, Gian Spermaggere, Gèt Cadavére, La Torcia, Fancul Ricté, L’Abbondanzi, Luinzone Scopico, Semenò Figli, Mendaro, Manièr, L’Infermiere Olpante, Anguone del Franco, Funzione Fatica, Il Bacilliato, Organo, Il Menebriero Stendulo, Sandù Victé, Giunto Cadaverètt,

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Fant Lucieb, Angolo Samalié, La Sua Capitale a Canussètt, Il Suo Bìf, Bìf de Capìtt, Il Bambino di Carne, Collo, Lubbòno, Sarcofriere, Venestriere, Il Bambino dello Spermatore, La Menedrina Sarbacca, Il Vivaridiere Sardino, Salpetriere Uliando, Vergico, Menestriere Cacarne, Funzione Vocazza, Il Ragaç, Dorvalle, Il Bambino Differente, Gian Truppino, Gian Calcico, Gianni I Galli, Gian Ciclone, Gian Senza Niente, Il Ciclista, Gianni Senza Dio, Il Bambino Anatomico, La Femmina di Sfortuna, Il Ballerino degli Spiriti, Francesco Sorti, Carne della Salvezza, Gian La Grandine, Gian Differente, Il Suo Colonnello Fradicio, Gian Gli Spiriti, Il Bambino Commestibile, Il Corridore di Buco, L’Uomo Senza Voce, Gianni Ultimo, L’Olberto Fessura, Fessura Suzòn, Colle da Tracciare, Formante del Carne, Il Mostruato Sadùr, Il Mostriato Entòm, L’Alunno Bianco, Il Mostruato Cadùl, Il Rettore Venerale, Il Venedrino, L’Istitutore Spirito, Trono del Salpetriere, Campione Comico, Campione Meccanico, Blair, Capullo, Rasciùz, Sempite, Delchìn, Borgàm, Bortito, Fingante Labètt, Lobato Bucodi, Serpol, Conzione Camina, Phisone Ragazzina, Dangetto, Raynaud, Salvia, Rettante, I Mitroni, Gamba Duoleziera, Cancratrice, L’Attore del Morto, Giahàm, Dalebàs, Calmy, Frasson, Lucrezio, I Plany’s, Ruscelletta, Il Ciaparé Carnoso, Cortigo, Sobretto, Il Cortigo Putré, Il Sobretto Putré, Il Deòl, L’Ambone Fottico, Mestruato Mandrù, La Stilla, Upsus, L’Olimpo, Mestruato Dandrù, Sapor Luciano, L’Aspirante Ardino, Prete Ardino, Sottopiffero Barlé, Gioffrino, Mondusso, Giuttàmi, Giacallo Dacré, Saponza, Leonza Gigolini, Generalessa Frisona, Sapor Giratone, I Due Membri, Gian delle Scene, L’Attore Porcarino, L’Attore Porschico, L’Operaio di Vendetta, Il Malato delle Scene, L’Uomo di Sìcìpiti, L’Uomo di Poco, L’Uomo di Bissa, L’Uomo di Massimandro, L’Uomo di Scena, Pondo, Tronco Geòmitra, L’Attore di Sìggiù, Il Suo Buon Fattorino, L’Uomo di Urgenza, L’Uomo di Valvàtt, L’Uomo di Muscolassiere, L’Uomo di Urna, L’Uomo di Giustiniere, L’Uomo di Urnino, L’Uomo di Dorcètt, L’Uomo di Sciampagnòtt, L’Uomo di Sciamorcina, Il Malato Buliminale, Il Dottor Ulèr-Adlèr, L’Operaio del Cielo, Tagàno, Il Vecchio Cornetto con Ragazza, Il Vecchio Cornetto con Luiggé, Collidò, Generale Schiuma, Il Palabraro Ribacco, La Grande Aria di Sansone, Il Meccanico Salvia, Sapor Antino, Sapor Risoletto, Cucitura, Porzione di Cane, Generalessa Frisona, Samporna Saldé, Sebo Capitale, Le Labbra del Generasso Gadino, Sursone Riandetto, Rotolé Sardone, Sorsone Sardone, L’Infermiàca, L’Orbi Porcé, Pompidia Carné, Gli Uomini del Castellardo, Il Cane Lamnio, Lo Scavatore Multibraccia, Il Bambino Penultìno, Il Ballerino Bodiniano, L’Attore Anatone, Il Soffiatore Veterato, L’Uomo di Fisone, L’Uomo di Pietà, L’Uomo di Meximeglio, I Lanciatori Lupici, I Musicisti di Odessa, I Meccanici Genitali, Dio, Gian d’Orifizio, Il Dottor Violento, Il Cantatore Serapico, Il Cacciatore Stupido, Il Cane di Coccassa, Il Cacciatore Suicidato, Gian-che-marcia, Gian Non-viene-niente, Il Bambino Scenico, La Persona di Tomba, L’Operaio Ontogeno, La Cantante Allarmàn, Gian dei Giambàgi, Il Bambino Urf, L’Operaio Bianco, Il Bambino Polmonìaco, La Femmina del Bodiniano, Il Colpitore Veridico, Il Penultiere Gigàn, Il Bambino Funesto, Il Giocoliere del Buco Bello, Il Ballerino Lento, Il Ballerino Senza Niente, Il Colpitore Penùltron, L’Uomo di Pietà, Gian Multiplo, L’Uomo Orifìcico, Il Proletario Roblètt, Gli Animali Medici, Gli Autisti di Ambulanza, La Sònnica Riccassiera, L’Animale Spezzato, Il Bambino Cratone, Il Pianista Pilastro, Il Ciclopista Urgione, Il Ciclopista Lento, Il Musicista degli Animali, L’Attore di Vita, Il Prete Ardente, Il Suo Filògino, Carnùa, Totò Necessità, Il Musicista di Carne, Il Cadaveriere Ménebro, Il Cadaveriere Sospetto, Il Musicista di Silenzio, Il Borsaro Violento, L’Attore Pessimo, Il Musicista Legista, Il Bambino Multìpede, Il Bambino di Gelizia, L’Animale del Mondo, Il Musicista Violento, L’Uomo dai Pantaloni Verdi, Il Bambino Scudetto, Il Bambino Minuscolo, L’Uomo degli Oltraggi, Il Bambino di Parlante, Il Suo Grande Penultiere, Il Bambino di Sembiante, Gli Innamorati Urs e Uri, La Francia, L’Infermato, Lobase, La Gente Vivente, L’Òmpido Carnato, Pampelùche, Il Campione Carlino, La Curlina del Campione Gerente, Sberma, Il Bambino Dottore, Il Bambino Medico, Gian Buco che Verba, L’Uomo Altrui, Madama Sperma, La Sua Scopa, Landrone, Attone, Seneratrice, Adamo. Parigi-Trécout, 1975-1983

[Tratto da Valère Novarina, Le drame de la vie, Paris, POL, 1984, p. 297-319. Scena finale. Traduzione di Andrea Raos, già apparsa in www.nazioneindiana.com.]

Notizia. Per informazioni dettagliate sul drammaturgo rimandiamo a www.novarina.com.

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LE LITANIE DELLA SUA VITA

Lasciano entrare il dolore? Le litanie della sua vita girano a vuoto. Offri stelle di piombo sii tu stessa il fedele prestatore lega al guinzaglio la tua piccola dimora ne imperversa in un battibaleno segue un fedele prestatore su per tre scale, parte retrostante della casa.

Il tuo conforto sono galline pietrificate tu di buon grado ne mangi il petto nel nido dei pulcini custodiscono uova di pere i vecchi dolori già gridan di nuovo: vivi fino in fondo, dì chiaro l’Oscuro sii istinto e cadi al trotto. Gli amori, quelli risplendono lievi la notte un ambizioso prolunga le litanie. * QUANDO MORIRÒ PER AMORE?

Ridi. Lega rape all’ampia acqua. Veglia su di lei. Corpi vincono là fuori. La nuova vita era cere per barba. Il corpo era color rosa, chiamalo bianco. Chi nomina il ghiaccio? Peccato per il corpo. Stai in agguato. Quando finirò per? Di certo mai. * VOCI DIETRO LA PARETE

Altrimenti malato e dolce l’umore chiodi della bara, addetto ai funerali, leggendaria depressione le azalee lasciano la testa, gli spilli lasciano la testa, collo e gamba lasciano la testa uccelli neri svolazzano nella testa cotonature come soffi d’aria irrigiditi la macchina da scrivere lascia la sua testa deve starsene impiccata, impiccala la tua stessa carne e sangue (chi parla?) altrimenti sogno di valzer, scoppio di uno schioppo prendi il tuo cappello e vai, spara in aria un buco splendente chiaro stridente la taccola stride, becca nella fronte e neanche una vena di collera si enfia.

Bussa così dolcemente, segno del bussare bussa molto debolmente così la testa è attaccata a un fascio di nervi debolmente bussa, becca, adesso prendi il tuo letto e aprilo, nella neve irrigidito e cambia la tua testa lavata chi parla adesso dietro la parete dalle bocche scorre sottile come un filo colla da tappezzeria parla il modello sulla parete la rana muggente con occhi di vetro batte alla parete né un principe, né un principe ranocchio davanti alla parete le bocche ben chiuse perduto è il frutto del bottino

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braccia rinserrate sopra la camicia, la chiave chiude un foro nella parete, passerotto nella mano l’amante nell’armadio si addormenta prendi il tuo letto così senza pieghe ripiegato bussa nella testa, la parete è silenziosa le bocche mordono una parete di pietra l’avventura dei pensieri è terminata sono fedeli a se stessi e si annoiano. * Non può essere qui non può essere là dove è la candela, dev’essere un lucignolo dove scorre il sangue, può essere un omicidio può non avvertire nella stanza neppure un vento può nel vento non attizzare neppure un pensiero dove è il qui, sarebbe là qui come là un luogo estraneo. * NOIA

Il vostro avvicinarvi, vi allontana. Quel che è lontano, incrostato, impietrito. Dove però pietra e gamba distruzione prendi solo un terremoto nel cavo della mano falce e bastone, canti soffocati il mondo, parto di un intruso venuto da chissà dove potrebbe perire davanti agli occhi di tutti e non vorrebbe accorgersene a causa della sua ben studiata sensibilità artistica. Quel che viene represso: un indenne sbadiglio. * NOTTE DI GIUGNO

Come piove oggi, scuri fastelli d’acqua nelle nuvole, la fiamma guizzante dello stoppino per il tè una pioggia di fiamme, già umido meglio in volo, in volo distrutti dal soffio del vento che macellati nel sonno neppure un corvo bianco, nessun coleottero nel lenzuolo nessun congedo dalla notte tintinnano le tazze, inserite nel vitreo. * PRIMI DI NOVEMBRE

Quel che mi aspetto dal giorno il crepuscolo, la notte che già rideva al mattino: Aspettami.

Vedove scomparse contano le loro posate tutto un brontolare accanto a registratori di cassa ma io prima di Lei, ma prego, motivi zero. Le nuvole recitano tempesta il cielo si gonfia con buste di plastica io non piango, non sono sola il giorno trascorre, trascorse, scorso rami spazzolano l’orizzonte.

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* ANDARE TROPPO LONTANO

Tutto raggiunto quel che la mano raggiunge quando il braccio teso verso un bicchiere d’acqua o quel che la mano sfiora, eppure è proprio quel braccio teso più lungo di e una mano più tremolante di acqua versata neppure una parola su questo, dove nessuna mano è abbastanza abbastanza a portata di mano [Testi estratti da "Tecnica del risveglio" ("Technik des Erwachens", Suhrkamp, 1998, di prossima pubblicazione in traduzione italiana per Heimat Edizioni). La traduzione è di Riccarda Novello. Per gentile concessione.] Notizia. Ursula Krechel, nata a Trier (Treviri) nel 1947, ha studiato a Berlino germanistica, storia del teatro e storia dell’arte e ha debuttato nel 1974 con il testo teatrale Erika, tradotto in sei lingue. Attiva come docente di scrittura creativa presso diverse università tedesche, ha pubblicato nel 1977 la sua prima raccolta di versi (Nach Mainz! Gedichte) cui sono seguiti i testi Verwundbar wie in den besten Zeiten (1979), Rohschnitt (1983), Vom Feuer lernen (1985), Kakaoblau (1989), Außerst innen (1993), Landläufiges Wunder (1995), Ungezürnt (1997), Verbeugungen vor der Luft (1999), Bei Eichendorff , Der Übergriff (2001 ), In Zukunft schreiben (2003), Liebes Stück (2003 ), Mein Hallo dein Ohr (Witzwort) 2003. Una sua silloge, con il titolo L’arte della parola, è apparsa, a cura di Riccarda Novello, sul numero 183 di “Poesia” (Maggio 2004).

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Aveva esercitato alte cariche; due dita mancavano alla sua mano destra; non era più giovane, era vestito con stanca negligenza, e lo stupore altezzoso delle sopracciglia, la pesantezza sinuosa della mascella sotto la morbida barba, il naso troppo visibile, mi fecero riconoscere un Levantino. Era calvo; stava immobile, seduto. Batteva appena le palpebre per conservare l’immagine di una vela fuggente, trasportata qua e là, rimpicciolendo senza scampo verso l’isola di Stromboli, o il biancore svelato del ventre dei gabbiani, quando di fronte al sole cambiano rotta e s’inarcano lentamente offrendosi senza fine. Voleva senz’altro gioire delle cose; era miope. Oppure forse guardava soltanto il mare, la distesa che non si abbraccia, la vecchissima metafora senza senso. Lo osservavo a pochi passi sotto quel sentiero di ombre. Forse non mi aveva visto, intento ad accecarsi di cose chiare; ma, più verosimilmente, mi scambiava per uno dei suoi domestici, o per un pescatore. Dopo un tempo che mi sembrò lungo, volse verso di me il volto, e mi salutò; gli risposi senza fare il suo nome. Vidi che portava al petto un grosso crocefisso ornato di gemme, le cui braccia avevano i capi ritorti come morsi violenti, secondo l’uso dei Barbari. Così cominciò, a dispetto delle nostre età tanto diverse, a dispetto del fatto che io mentissi, facendo finta di scambiarlo per un altro, per uno qualunque, e che lui mentisse accettando di essere quell’altro, e addirittura accentuasse il suo essere un altro, così cominciò quella che va pur chiamata la nostra amicizia. Fin da quel primo giorno sedetti acanto a lui sul banco di pietra; e siccome anch’io contemplavo le vele parlammo di navigazione, degli amici del ramo e dei vascelli neri, di navigazione e di poesia greca: perché non si può dire l’una senza l’altra, tanto che non si sa quale è il testo dell’una e quale quello dell’altra, se furono lanciati prima le fragili costruzioni incatramate o i versi dalla sintassi esatta, in balia del mare aperto o delle lingue. Lui pensava che la poesia precedesse le navi, come il Padre viene prima del Figlio; ricordo che mi era stato detto che era ariano. Guardandolo, insinuai che al mare e alle lingue avrei aggiunto le folle, e alla nave e alla poesia, i grandi uomini, i potenti i cui nomi riecheggiano come versi, visibili da lontano come le vele. Non rispose. Con la mano mutilata si accarezzava lentamente la barba. Il sole calava, l’ombra della quercia da sughero non lo proteggeva più: delle gocce di sudore gli imperlavano il cranio, dove palpitava una venuzza; le sua labbra si accostavano col fare testardo dei vecchi che si cibano di qualcosa che non conosciamo, delizia sognata o parole taciute da tempo. Mi apparve assai povero e nudo, aspirava al silenzio, temeva il silenzio. Attesi che parlasse; i richiami discordanti dei gabbiani riempivano la sera; alzando gli occhi, con un gesto vago che forse indicava quelle voci oscure portate da voli così diurni, cominciò: «La musica, pure, l’esercizio della lira»; poi, alzando il braccio destro, che finiva con ciò che non era più una mano: «Io fui un bravo musicista.» Quando ci lasciammo, tutte le vele erano scomparse dal mare già notturno, inevitabilmente color del vino, come dissero i Greci. Salì dolorosamente il sentiero verso la villa modesta, sul pendio ripido del promontorio Monterosa, sollevando con strana sollecitudine un lembo del suo vecchio abito, fermandosi per riprendere fiato, e guardando per terra come quando in realtà ci si guarda dentro. I suoi sandali sollevavano un po’ di polvere rossa; la sua traccia svanì. Il sole invisibile illuminava al largo solo la metà di Stromboli, triangolo d’oro violento sulla distesa forte, dipinta, assoluta, come un diadema sulla porpora. Si eclissò. Udii il raglio d’un asino; annottava. [Da Pierre Michon, L’empereur d’Occident, Fata Morgana, 1989. Traduzione di Isabel Violante.] Notizia. Nato nel 1945, Pierre Michon è uno dei massimi romanzieri del secondo Novecento francese. Dalle Vies minuscules, edite nel 1984 e libro culto venduto in più di centomila copie, Michon utilizza uno stile fiammeggiante per parlare della piccola gente della Creuse, rivisita la critica letteraria con Rimbaud le fils (1991) e Corps du Roi (2002) e la storia dell’arte con la Vie de Joseph Roulin (1988). Oggetto di numerosi studi universitari, è tradotto in più di venti lingue.

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TRADURRE CLARA JANÉS: LE FORME DELLA PAROLA La traduzione poetica porta, o trascina, sempre con sé il traduttore, lo obbliga a fare armi e bagagli e trasferirsi negli intermundia, in una zone, un territorio intermedio, terra della possibilità e della metacultura, terreno apparentemente sconfinato, dove si trova esposto ad agenti atmosferici nuovi e almeno in p-arte imprevedibili, alle prese con codici da decifrare linguistica e metalinguisticamente, in compagnia, cercando di non esserne preda, del residuo traduttivo e altre amenità traduttologiche. Tradurre l’opera poetica di Clara Janés significa entrare in una fitta trama di citazioni più o meno occulte, in un territorio pieno di eco sfumate e di rocce sotterranee. Dal verso asciutto della poetessa, spesso breve, e insieme intriso di rimandi, che spesso fluttua in un universo ideale, che cerca un lettore attento e insieme disposto a un vigile abbandono, a un ascolto pronto a cogliere l’impercettibile. Fu proprio la voce, nella sua vibrazione avvolgente, quasi tattile, ad avvicinarmi alla poesia di Janés, e a spingermi ad avventurarmi nelle sue trame, e a dare forma a quest’avventura in una tesi dottorale che cercasse di avvicinarsi a quella voce, e interpretarne alcuni segni.

Annelisa Addolorato

Sette poesie di Clara Janés “40 CONIUNCTIO

Una mano sfiorò la superficie delle acque e il nome venne cancellato dalla mia memoria. Venni rapita da un sogno: la musica dimorava nel suo respiro, la brezza percorreva il suo corpo che era il mio, e nella mia bocca prendeva forma la sua insieme a tutte le lettere. Con la a copriva il cielo del palato, e nasceva la sua freschezza. Con la g mi scese in gola. Con la i mi colpì al cuore: il canale del mio corpo ospitò il suo respiro. E mi svegliai con le labbra colme di parole”. *

“I nidi celesti sono laghi setacciati dal sole. I fiumi ondeggiano ai miei piedi, si aprono, si allargano ed entrano in bianche correnti, onde che danno vita ai mari,

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assetato sale, fino al blu dell’oasi. E l’ocra e le palme approdano e lo spazio si capovolge aprendosi alla nera costellazione, agli oscuri picchi senza traccia degli occhi desiderati”. [Da C. Janés, Los secretos del bosque, Visor, Madrid 2002.] *

“Quindi l’amore si riversa nel poema, dal bianco silenzio, puro, ancora intatto pur nella sua condizione temporale: un guizzo senza fine che allontana le nubi della morte e svela l’armonia del bene accolto, la verità e l’intramontabile bellezza dell’intelligenza”. [Da C. Janés, Hacia el alba - Vers l’aube, El perro asirio, Madrid 1992.] *

“BLAS DE OTERO Non vidi quell’angelo ma abitò il mio udito nella notte oscura, che dalla sua umana ferinità si abbassò fino alla mia umana ferinità. L’alba stese le ali e nel grigio silenzio emerse dalle mie labbra un poema la cui rilucenza trasformava in fede lo strazio del dolore”. [Da C. Janés, Cajón de sastre, Centro Cultural Generación del ‘27 - Ibn Gabirol, Málaga 1999.] *

“L’orizzonte si trasfigura, e torna a me nell’abbandono e nel sacrificio. Lo accolgo sotto la mia volta - carnale comunione dell’etereo – e divento tempio del senso immutabile; la sua infinita ricchezza affiora tra le sillabe”.

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“Se la mia carne fosse frutta risplendente ve la offrirei nella conca più bella per invitarla a nozze in fragrante alcova trainata dagli uccelli in volo, tra le nuvole, fino a quando l’argento della luna diluisse nell’infinito l’ansioso rossore solcato dal battito”. [Da C. Janés, Hacia el alba - Vers l’aube, El perro asirio, Madrid 1992.] *

“Silenzio

Il tronco dei pini si rigenera lentamente; si staccano sottili strati di corteccia seguendo il tragitto senza fine dell’oblio. · Su fogli tanto delicati solo il silenzio può scrivere il suo messaggio, mentre sale dalle radici per ricadere in una una leggera pioggia. La pena deve essere vissuta senza essere notata, dissi. E lentamente misi ordine tra le mie orme. · Con in grembo i segni mi fermai sulla riva del fiume. Una libellula verde spinse il sonno nei miei occhi, ma si udivano parole d’acqua pronunciare le rune. Quando riaprii le palpebre mi sorpresi in presa all’abbandono dei sensi”. [C. Janés, Los números oscuros, Siruela, Madrid 2006.] [Scelta e traduzioni di Annelisa Addolorato]

Notizia. Clara Janés nasce a Barcelona nel 1940. Figlia dell’attivo editore e poeta catalano antifranchista Josep Janés - prematuramente scomparso negli anni ’50 - condivide con la madre clavicembalista uno sconfinato amore per la musica e per il ritmo. Studia a Barcelona, Pamplona e Paris: alla Sorbonne scrive il suo studio sul poeta avanguardista J.E. Cirlot, per la sua Meitrise in letterature comparate. Dagli anni ’70 vive e scrive a Madrid. Grande traduttrice e viaggiatrice, vince il Premio Nacional de Traducción e diversi riconoscimenti letterari, viene insignita dal governo spagnolo della Medaglia d’Oro per le Belle Arti nel 2005. Ha coltivato tutti i generi letterari, dal racconto al romanzo, dal libretto operistico alla stampa culturale periodica. Bibliografia poetica essenziale: Las estrellas vencidas, Agorá, Madrid 1964; Límite humano, Oriens, Madrid 1973; En busca de Cordelia y poemas rumanos, Alamo, Salamanca 1975; Libro de alienaciones, Ayuso, Madrid 1980; Eros, Hiperión, Madrid 1981; Vivir, Hiperión, Madrid 1983; Kampa, libro con audio-cassetta con la voce della poetessa che canta Kampa II, Ediciones Hiperión, Madrid 1986; Lapidario, Hiperión, Madrid 1988; Creciente fertíl, Hiperión, Madrid 1989; Emblemas, Caballo griego para la poesía, Madrid 1991; Diván del ópalo de fuego (o la legenda de Layla y Machnun), con prefazione di Luce López-Baralt, Editora Regional de Murcia (collana Ibn Al‘Arabi), Murcia 1996; Rosas de fuego, Cátedra, Madrid 1996; Arcángel de sombra, Visor, Madrid 1999; Cajón de sastre, Centro cultural Generación del ’27, Málaga 1999; El

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libro de los pájaros, Editorial Pre-Textos, Valencia 1999; Paralajes, Tusquets Editores, Barcelona 2002; Los secretos del bosque, Visor, Madrid 2002; Fractales, Pre-textos, Valencia 2005; Huellas sobre una corteza, Fundación Jorge Guillén – Ciudad y Universidad de Valladolid, Valladolid 2005; Los números oscuros, Siruela, Madrid 2006. Opere poetiche tradotte in italiano:

Parallassi, traducción de C. Greppi, en plein officina, Milano 1999. La línea discontinua, ed. bilingüe italiano-español, trad. Emilio Coco, Quaderni della valle, Bari 2002. In un punto di quiete (Fractales), ed. bilingüe español-italiano, edición de Mariarosa Scaramuzza, trad. de Annelisa Addolorato y Cesare Greppi, postfacio de Stefano Raimondi, CUEM, Milán 2000. Arcangelo d’ombra, ed. bilingüe, trad. e introducción de Annelisa Addolorato, Crocetti, Milano 2005. -Espacios translúcidos – poesía visual de Clara Janés, catálogo y homónima exposición, Instituto Cervantes Università degli Studi di Milano, Milano marzo de 2006. Testi critici sull’autrice:

ADDOLORATO A., “III periodo – Clara Janés”, en “La stampa culturale in Spagna nel XX secolo: la storia come pretesto letterario”, pp. 77-81 y anexo - antología de artículos de prensa, http://ariel.ctu.unimi.it/corsi/letSpagnolaSS/home/. ---, “Introduzione”, en C. Janés (tr. it. de A. Addolorato), Arcangelo d’ombra, Crocetti, Milano 2005, pp. 7-10. ---, “Luz oscura. Sobre Luz de oscura llama de Clara Janés”, en Il confronto letterario, n. 42, II 2004 (a. XXI), pp. 501-518. PROFETI M.G., “L’elegia funebre tra parola e silenzio”, en In forma di parole, VIII, n. 1, 1987, pp. 51-86. RUBIO F., “Abrazo de ciudad”, en Diario, 16 de octubre 1991. SCARAMUZZA VIDONI M., Alquimias poéticas en algunos versos de Clara Janés, separata en C. Janés, Los secretos de bosque, Visor, Madrid 2002. ---, “Amor y misticismo cósmico en Clara Janés”, introducción a Rosa rubea - Poemas de Clara Janés, Bulzoni, Roma 1995, pp. 11-47. ---, “Clara Janés/In un punto di quiete”, en Poesia, a. XIII, luglio-agosto 2000. ---, “Cosmologie poetiche. Clara Janés e Eduardo Chillida”, en Le arti figurative nelle letterature iberiche e iberoamericane, (actas del XIX Congreso de la Associazione Ispanisti Italiani, Roma 16-19 sept. 1999) Cancellier A. y Londero R., Unipress, Padova 2001, pp. 235-243. ---, “Encuentro con Clara Janés”, en Quaderni di Letterature Iberiche e Iberoamericane, n. 11-12, pp. 111-118, 1990. ---, “‘La palabra y el secreto’: l’ideario di Clara Janés”, en Orillas - Vol I (Il mondo iberico), Edizioni del Paguro, Napoli 2001, pp. 319-327. ---, “Materia e poesia: il Lapidario di Clara Janés”, en Quaderni di Letterature Iberiche e Iberoamericane, n. 9-10, 1989, pp. 129-136. ZAMBRANO M., “La voz abismática”, reseña del libro Kampa, en Diario 16, 7 diciembre 1986; y en Revista oral de poesía, 1-7, pp. 89-91.

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Quattro poesie da Escrituras visibles (1999) a cura di Salvatore Ritrovato e Anna Bucarelli VEDENDO LE AUTO PASSARE VERSO OCCIDENTE

Nelle piccole città del centro di Cuba le vie, di solito chiassose e dolci, restano vuote nei mesi d’inverno. Io l’ho vissuta questa faticosa quiete. Gli studenti se ne sono andati a scoprire il mondo e una pace, una strana e lunga assenza, arriva fino alle pareti e penetra all’interno delle case. I club, le case della cultura, i campi sportivi, somigliano a un set, accuratamente preparato, che aspetta nel ritorno degli attori per continuare le riprese. Nelle piccole città del centro di Cuba tutto è assenza e attesa nei mesi d’inverno. Io l’ho vissuta questa faticosa quiete. Notti di febbraio all’angolo vuoto di Libertad y Paseo, dove vedi le auto passare verso Occidente. Come chi vede una ragazza di pelle bianca candida e capelli neri passare contenta a un altro uomo. * CALLE G. 1982

Una notte dividevamo mandorle in Calle G. Erano passate le dodici, e tu e quella gonna di fiori bianchi parevano l’eternità. Io mi fermai un momento a contemplare la luce e il passaggio di auto per L’Avana il 1982. Tutto sembrava così sincero. il vecchio mare benedetto di fronte alla statua di Calixto García. il tuo viso avanzava nella penombra dei pini. Il golpe con cui la mia mano cercava nella rossa intimità della mandorla tutto sembrava tanto sincero. Come la vita dell’acqua che scorre tra i dadi. Non doveva venirne niente. Non ci aspettavamo niente. Io mi trovai un momento a contemplare la luce e il passaggio delle auto per L’Avana del 1982. Tu, e quella gonna di fiori bianchi, parevano l’eternità. * GUASTATE IMMAGINI DI UN TEMPO

Che la tristezza non mi spinga verso il mare. Coste di L’Avana, aperte nei giorni d’inverno del millenovecentonovanta, che la tristezza non mi obblighi a essere altro. Guastate immagini di un tempo: la pelle di mela delle ragazzine in un’auto azzurra e l’occhio ironico dei figli di Occidente il loro sguardo postmoderno nella memoria delle isole. Coste di L’Avana, disposte al viaggio nelle notti più fredde di gennaio, che la tristezza non mi porti a morire sulla spiaggia. Che la tristezza non mi spinga verso il mare.

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* LA LIBERTÀ È INFINITA

Sotto il duro affiche che dà senso a quest’ore, contemplo il viso dei ballerini. Mani distinte si muovono nell’aria. Si muove una voce, ragazze appiccicate di sudore e le chitarre che una stella avvicina per la sua luce. Sedotti dall’allucinazione giriamo liberamente, senza paura, senz’altra volontà che sopravvivere, così giriamo, tutti belli nel crepuscolo della città. Passa la mia Laura portando il ritmo sulle labbra. Passa Fernando con un tocco di rock sulle bottiglie. Passa il mare, azzurro e grigio chiarissimo. Bianche monete che la libertà denuda. Contemplo il viso dei ballerini e l’effimero bagliore delle cose più pure. Com’è difficile per il mio occhio umano guardare in faccia questa unica luce. Però continuano dentro a brillare i suoi scintillii. Notizia Edel Morales, nato a Caibaiguán, Cuba (1961), vive a La Avana. Ha pubblicato le raccolte poetiche Viendo los autos pasar hacia Occidente (1994) e Escrituras visibles (1999), Lejos de la corrente (2004), il racconto Los pies en la tierra (2004), e curato il catalogo di giovani poeti cubani Cuerpo sobre cuerpo (2000) e la mostra La Estrella de Cuba. Inventario de una expedición (2004). Dirige il Centro Culturale Dulce María Loynaz e la rivista letteraria «La Letra del Escriba». Sue poesie sono state tradotte in inglese e in francese. Dalla prefazione di Lejos de la corrente (2005) che include alcune poesie di Escrituras visibles (1999): «Ho scritto queste poesie nel corso di venti anni. Molte cose sono cambiate nel frattempo, alcune aldilà di ogni possibile previsione. Tanti cambiamenti hanno lasciato una traccia nella scrittura e anche nella mia biografia, nelle letture realizzate nel tempo, nei diversi contesti economici, sociali, tecnologici o naturali in cui interagiamo. Ma la mia concezione della poesia e dell’uomo che fa poesia, che ne ha bisogno e che ne è degno non è mutata nelle sue linee essenziali. E credo che i testi qui raccolti dimostrino tale continuità. Non so se sia un bene o un male. A me piace, amico Lettore, ritrovarvi le stesse emozioni e gli stessi interrogativi, scoprire che le parole conservano il loro significato e accrescono la loro intensità quando hanno saputo esprimere l’istante della loro ormai lontana origine. Naturalmente, vorrei che la loro essenza resti nel tempo. Che non si corroda il sentimento. Che sia ancora febbraio quando faccio ritorno a questa poesia: “In te è la collera / l’enigma / la conoscenza // l’aureola di luce / l’altera bellezza // e il desiderio irrefrenabile / che fa smarrire la ragione // Così dovevano essere le dee / che cantavano gli antichi”. E che sulla soglia di un libro di poesie sia sempre possibile una semplice dedica, come questa: A Viviana, per amore».

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REFERENZE, DATI PERSONALI

Mi hanno fatto gli uomini che vanno sotto il cielo del mondo cercano la lucentezza dell’alba accudiscono la vita come il fuoco.

Mi hanno insegnato a difendere la luce che canta commossa mi hanno portato una speranza che non basta sognare e per quella speranza conosco i miei fratelli. Allora rido contemplando il mio cognome, il mio volto nello specchio so che non mi appartengono in essi voi agitate un fazzoletto allungate una mano grazie a cui non sono solo. In voi la mia morte finisce di morire. Anni futuri che avremo preparato conserveranno la mia dolce credenza nella tenerezza, l’assemblea del mondo sarà un bambino riunito. (Da El juego en que andamos, 1959) *

ARTE POETICA

Fra i tanti mestieri esercito questo che non è mio, come un padrone implacabile mi costringe a lavorare di giorno, di notte, con dolore, con amore, sotto la pioggia, nella catastrofe, quando si aprono le braccia della tenerezza o dell’anima, quando la malattia affonda le mani. A questo mestiere mi costringono i dolori altrui, le lacrime, i fazzoletti sventolanti, le promesse in mezzo all’autunno o al fuoco, i baci dell’incontro, i baci dell’addio, tutto mi costringe a lavorare con le parole, col sangue. Mai fui padrone delle mie ceneri, i miei versi, volti oscuri li scrivono come sparando contro la morte. (Da Velorio del solo,1961) *

MARIA LA SERVA

Si chiamava Maria per tutto il tempo dei suoi 17 anni, era capace di avere un’anima e di sorridere con gli uccellini, ma la cosa importante fu che nella valigia le trovarono un bambino morto di tre giorni avvolto nei giornali di casa. Che maniera era quella di peccare peccare, dicevano le signore abituate alla discrezione e in segno di orrore alzavano le ciglia con un breve volo non sprovvisto d’incanto. I signori meditarono rapidamente sui pericoli

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della prostituzione o della mancanza di prostituzione, ricordavano le loro prodezze con popolane diverse e dicevano severi: certamente cara. Al commissariato si comportarono decentemente, la palpeggiarono solo dal sergente in su, ma Maria era occupata a sognare, gli uccellini le si cancellarono sotto la pioggia di lacrime. C’era tanta gente disgustata di Maria del suo modo di impacchettare i risultati dell’amore e ritenevano che il carcere le avrebbe restituito la decenza o almeno francamente l’avrebbe resa meno rozza. Quella sera le signore e i signori si profumavano con ardore per il bambino che diceva la verità, per il bambino che era puro, per il bambino tenero, per quello buono, insomma, per tutti i bambini morti stipati nelle valigie dell’anima e cominciarono a puzzare all’improvviso mentre la grande città chiudeva le sue finestre. *

LA MIA CARA BUENOS AIRES

Seduto sull’orlo di una sedia sfondata, frastornato, malato, quasi vivo, scrivo versi previamente pianti dalla città dove nacqui.

Bisogna acchiapparli, anche qui nacquero figli miei dolci che fra tanto castigo ti addolciscono bellamente. Bisogna imparare a resistere. Né ad andarsene né a restare, a resistere, anche se è certo che ci saranno più pene e dimenticanza. *

LA VITTORIA

In un libro di versi schizzato dall’amore, dalla tristezza, dal mondo, i miei figli disegnarono signore gialle, elefanti che avanzano sopra ombrelli rossi, uccelli fermati sull’orlo di una pagina, invasero la morte, il grande cammello azzurro riposa sulla parola cenere, una guancia scivola sulla solitudine delle mie ossa, il candore vince il disordine della notte.

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*

A MIO AGIO A PARIGI

Chi rimpiango è il vecchio leone dello zoo, prendevamo sempre il caffè nel Bois de Boulogne, mi raccontava le sue avventure nella Rodesia del sud ma mentiva, era evidente che mai si era mosso dal Sahara.

In ogni modo m’incantava la sua eleganza, la sua maniera di alzare le spalle davanti alle piccolezze della vita, guardava i francesi dalla finestra del caffè e diceva «gli idioti fanno figli». I due o tre cacciatori inglesi che si era mangiato gli provocavano brutti ricordi e anche malinconia, «che cosa non si fa per vivere» rifletteva guardandosi la criniera nello specchio del caffè.

Sì, lo rimpiango molto, non pagava mai la consumazione, ma indicava la mancia da lasciare e i camerieri lo salutavano con particolare deferenza.

Ci congedammo sul crepuscolo, lui ritornava al suo bureau, come diceva, non senza prima avvertirmi con una zampa sulla spalla «stai attento, amico mio, alla Parigi notturna». Lo rimpiango veramente molto, i suoi occhi si riempivano a volte di deserto ma sapeva tacere come un fratello quando emozionato, emozionato, io gli parlavo di Carlitos Gardel. (Da Gotán, 1962) *

GIORNALISMO

alle dieci di mattina gli impiegati del Palazzo di Giustizia si misero a gridare contro l’ingiustizia dei loro magri salari alle undici furono scoperte certe manovre criminali alle dodici il partito democratico e borghese ribadì di essere democratico e borghese ci fu un concorso al municipio salì il costo della vita si pranzò normalmente o in maglietta di fronte al buon vino la legge organica della polizia non subì grandi variazioni all’una alle due di pomeriggio all’ombra gloriosa del grande giorno altre città del paese ricordarono i loro fondatori i loro banditi i comuni locali promossero decisioni discordanti il sud continuò a essere nel sud il presidente alle quattro ricevette il suo decimo magnate del petrolio alle cinque mi annoiai ma alle sei ti vidi dopo tanti anni ti vidi alle sei e mi turbai come un bambino il passato risaliva come i tuoi dolci seni ed erano le sei della dolcezza come una violenta dimenticanza adesso hai le lentiggini sul collo e la tua voce era attuale cosicché alle sette non eri più notizia

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cominciava il crepuscolo usciva la gente dal lavoro saliva il carovita si scoprivano nuove manovre criminali nel paese in lungo e in largo. (Da Cólera buey, 1965) *

BISOGNI

l’individuo che differisce dai suoi pari che turba o scandalizza la sua famiglia o la società suole essere classificato come matto accusato d’infermità mentale e perseguitato come malato quest’atto di psichiatria soddisfa bisogni importanti l’individuo che vede gambe azzurre di donna volare alberelli cantare il mondo puzzare è rinchiuso colpito con elettricità insulina medici quest’atto di psichiatria soddisfa bisogni importanti

bisogni del volare o cantare? bisogni dell’individuo che differisce dai suoi pari che turba o scandalizza la sua famiglia o la società ed è qualificato come matto accusato d’infermità mentale e perseguitato come malato? altri bisogni? bisogni dell’individuo che non differisce dai suoi pari che non turba o scandalizza la sua famiglia o la società che non è qualificato come matto accusato d’infermità mentale né perseguitato come malato? gambe azzurre di donna volare no? né alberelli cantare né mondo puzzare? quest’atto di psichiatria soddisfa necessità importanti i cinghiali d’oro si stanno mangiando Yvonne *

CONFIDENZE

si siede al tavolo e scrive «con questa poesia non prenderai il potere» dice «con questi versi non farai la Rivoluzione» dice «né con migliaia di versi farai la Rivoluzione» dice

e ancora: quei versi non gli serviranno perché braccianti maestri spaccalegna vivano meglio mangino meglio o egli stesso mangi, viva meglio né per fare innamorare qualcuna gli serviranno non farà soldi con essi non entrerà nel cinema gratis con essi non gli daranno di che vestirsi grazie ad essi non otterrà tabacco o vino grazie ad essi né pappagalli né sciarpe né navi né tori né ombrelli otterrà con essi e se fosse per loro la pioggia lo bagnerebbe non otterrà perdono o grazia per essi

«con questa poesia non prenderai il potere» dice

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«con questi versi non farai la Rivoluzione» dice «né con migliaia di versi farai la Rivoluzione» dice si siede al tavolo e scrive (Da Relaciones, 1973) *

XVI

Non bisognerebbe strappare la gente dalla sua terra o paese, non a forza. La gente rimane afflitta, la terra rimane afflitta. Nasciamo e ci tagliano il cordone ombelicale. Ci esiliano e nessuno ci taglia la memoria, la lingua, gli entusiasmi. Dobbiamo imparare a vivere come il garofano dell’aria, esattamente dell’aria. Sono una pianta mostruosa. Le mie radici sono a migliaia di chilometri da me e non ci lega uno stelo, ci separano due mari e un oceano. Il sole mi guarda quando esse respirano nella notte, dolgono di notte sotto il sole. *

XVIII

Il vento che entra in cucina smuove il manifesto con il volto di qualche attrice del cinema muto. Mary Pickford forse. È bella, i suoi occhi brillano soavemente e con la bocca costruiscono un semisorriso tenerissimo, silenzioso. Anche noi, qui, siamo attori muti. Abbiamo dolci lucentezze, tenerezze sporche di sangue secco come bambini, molto silenzio intorno. La platea preferisce il film sonoro. Chi ha fatto questa pellicola? Da questo lato dello schermo, il nostro, si odono morti che mollano la vita a poco a poco come uno scricchiolare di sogni, i torturati gridano, crepita la gente in prigione, sotto il frastuono degli stivali militari l’ingiustizia è un ruggito infernale. Dall’altro lato, sembra veder passare fantasmi pallidi e nessun piano li annuncia. Ti amo, Mary Pickford, so che adesso mi ami. Entra il vento e scuote i nostri amori di carta. (Da Bajo la lluvia ajena, 1980) [traduzione di Emilio Coco]

Notizia. Juan Gelman nacque a Buenos Aires, nel 1930, nello storico quartiere di Villa Crespo. Nella sua giovinezza fece parte di diversi gruppi e movimenti letterari. Con l’avvento della dittatura, a causa della sua militanza nell’organizzazione rivoluzionaria “Montoneros” (da cui poi si separò per dissensi con i dirigenti), dovette esiliarsi in vari paesi europei, tra cui l’Italia, e latinoamericani. Durante la dittatura del generale Rafael Videla, furono barbaramente assassinati suo figlio Marcelo e la nuora Claudia. La loro figlia nacque in un campo di prigionia e se ne persero le tracce. Solo alcuni anni fa, dopo lunghi anni di intense ricerche, Gelman ha potuto riunirsi con sua nipote in Uruguay e, pur avendo ottenuto la grazia, ha scelto di vivere in Messico, anche se «a tornare, torno tutti gli anni, ma non per restare. La domanda per me non è perché non vivo in Argentina, ma perché vivo in Messico. E la risposta è molto semplice: perché sono innamorato di mia moglie, questo è tutto». Nel 1997 ha ricevuto il Premio Nazionale di Poesia e la città di Buenos Aires lo ha onorato recentemente con il titolo di «cittadino illustre». Con la sua prima prova poetica Violín y otras cuestiones (1956), presentata entusiasticamente da un altro grande della poesia, Raúl González Tuñón, ricevette immediatamente l’elogio della critica. La sua opera è stata

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tradotta in dieci lingue. Gotán (1956-1962), Cólera Buey (1965), Los poemas de Sidney West (1969), Eso (1983-1984), La abierta oscuridad (1993), Dibaxu (1994), Debí decir te amo (antología personal, 1997), Valer la pena (2002), País que fue será (2004), Los Poemas de Sidney West: Selección (include CD, 2005), Oficio Ardiente (2005), Miradas (2006) figurano tra i numerosi titoli della sua opera poetica. Considerato da molti critici come uno dei più grandi poeti contemporanei, la sua opera, tesa alla ricerca di un linguaggio personalissimo, sia attraverso il realismo critico e l’intimismo prima, sia dopo con aperture verso altre estetiche, non rifugge dal compromesso sociale e politico, come forma di avvicinare la poesia alle grandi questioni del nostro tempo. I fatti più banali diventano atti poetici per il solo fatto di enunciarli. Tutto – la politica, l’amore, la morte, il dolore, la gioia – trova posto nei suoi versi, nei quali l’interesse per il quotidiano s’intreccia con una forte indignazione di fronte all’ingiustizia.

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ISOLA TORTUGA

Mi sveglio feroce stamattina, con voglia d’amore e colazione in campagna. M’impossesso della città abbandonata agli uccelli come un paese costiero dopo una tormenta, e penso a quel che resta: un promontorio, un aspro rifugio visitato da un postino con la borsa vuota e che gioca ai dadi nella penombra della cucina. Non mi aspetto niente dall’estate. Non mi aspetto niente dalla poesia. Bisogna pitturare quella porta arrugginita e raccontarmi qualche favola di quando i pirati erano seri, signori della parola asciutta e col cuore ammollito come una prugna nella brocca di rum. *

POST SCRPTUM

E non ti ho parlato ancora del deterioramento della posta in questa oscura provincia dell’impero. L’impiegato grugnisce unicamente sdraiato contro un calendario dell’anno precedente (uno sfondo eccessivo di fiori, vacche e montagne) ma adesso si è innamorato delle destinazioni delle mie lettere, sorride – qualche volta – e posso scommettere che pensa a me quando attraversa i ponti diretto al suo cuscino. Ci si può impadronire dei sogni degli altri per non morire, si può accettare la vita come una rappresentazione del desiderio. Così senza turbolenze, invento false lettere da scrivere – esotici mittenti nel mattino che trema – e quell’uomo e io torniamo a essere porosi, invincibili, per un momento. *

LA SUPERFICIE DELL’ESTATE

C’è un grillo sotto il coperchio e radici che pendono nel corridoio. Ci sono resti di mais, di arenili di fiume, marzo calpesta le strade e stabilisce il dubbio come trionfo sulla tavola. È tempo di terminare le storie e metterle ad asciugare (la vita è vestita da noi da molto presto.) La mia amica dice: “Il mondo è inconquistabile” mentre la cicca le brucia le dita e annebbia gli occhi “Ma ho rubato a un uomo il cuore”.

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Che hai fatto di lui, non dico, dice il vento, che hai fatto di lui. *

ESTATE 1954

Lancio in aria un cappello immaginario e vivo un altro giorno. Nascosta in qualche luogo tra la stanchezza e il dolore, sta la passione. Chiudo gli occhi nel buio e muoio un altro giorno.

Sta buttando il cappello da una terrazza: una ragazza magra, dalla triste curiosità. Infilata in un vestito più grande dei suoi sogni (e nei sogni di altri.)

Che cos’era che cantavano tutti intorno, c’è una grande cornice per una canzone che l’esclude, che cosa era che cantavano.

Nascosta in qualche posto tra la ringhiera e il vuoto, sta la passione. *

LO SCAMBIO

In alcune poesie l’arte è l’acquerello, l’arte della diluizione, scrivo, e i cigni di Natales si dileguano davanti alla parola cigno. La vita si nasconde dietro il colore per ingannarmi, la vita rischia di diventare una lettera infinita. «Una moneta per ogni parola mi dava

il tempo, lo invitavo a passare ( lui andava sempre in fretta), gli regalavo un francobollo raro e un bicchiere di tè freddo». In alcune poesie l’arte è il tatuaggio, scrivo, e aggiungo: le parole dolgono molto più del peso delle cose.

A volte il mondo è lento e vecchio come una casa che odora di nave e di stiva e riceve i gabbiani come grandi presenze. A volte il mondo mi restituisce la visita del tempo – affabile ma deciso – che reclama la sua parte di leone.

Apro le credenze, mostro il cielo. Il fulgore delle poche parole che mi restano è la mia oscura tensione – in fondo alla mia felicità – la bellezza di quelle palme spettinate contro la lancia sul punto di partire.

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*

CONSOLE ONORARIA

Ti scrivo dal nulla, piccola oscura funzionaria che non vede nemmeno il fiume. La cupola rotta si riflette nelle pozzanghere quando piove ed è l’unico posto in cui brilla l’esilio, l’unica moneta che sembra d’oro. All’ora del caffè tutti parlano di niente, si aspetta una tempesta (che possa staccare lo smalto dell’aria) o la notifica di un’altra destinazione. Mi sento come un console nella mia stessa città: una poesia rinsecchita sotto il rapporto, una lettera a metà, un invito per la festa al molo.

Quella donna con gli occhi pesantemente truccati devo essere io, che saluta sotto la luce arancione dei lampioni di carta e immagina una goletta ormeggiata a pochi passi e la sua scrivania che galleggia in alto mare. Il vento è debole e l’umidità delle piante il punto d’impressione. Una città, un’altra città, s’inclinano sulla mia vita con la loro storia (e non piangono la mia). Nomi così forti come alberi, hanno le loro buone ragioni per arrivare fino in cielo e cercare di resistere all’uragano (che pure urla un nome). La vecchia furia di non saper dove cammino è presente (come un classico). Una nebbia che si alza dall’acqua e nasconde l’orizzonte. Vedo i miei piedi, vedo il ripiegamento, la notte che finisce senza essere cominciata, un quaderno di appunti negli ospedali del mondo. Una pazzia di cristallo, accasermata. *

III

Acqua dolce è il nome del caffè e il nome che mi sussurrava il mio primo amante. Io non ero dolce, la furia appariva nell’estate durante una partita di scacchi che sarebbe durata fino a che gli alberi avessero detto basta. È ancora estate, gli alberi non dicono basta e la luce sul ponte segna quella fragile furia diventata frontiere, schegge di poesie, tesori che più non hanno scrigno dove custodirli. Che cosa è scrivere se non modificare il respiro delle città? Mi avvio al caffè per mano a un marinaio russo che era appena sceso dalla sua nave verso il gin oscillando su una stradina fiancheggiata da narcisi. Nel suo inglese primitivo può raccontarmi poco. Mi mostra varie foto tra i bicchieri ardenti e guardo (Da quanto tempo sono sveglia e guardo,

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sveglia tutto il tempo per guardare?) Una casa di periferia, abbandonata a un orgoglio di padella, di zerbino, di caffettiera lucente. Con l’animo vuoto contemplo un cane nero e più indietro, la cicatrice della sconfitta nella mia stessa memoria che pure si guarda. Esco dalla foto in una soglia, in una notte calda in una città così grande che non crede a se stessa, solo palpita e in essa per caso ci riconosciamo: la pietra scura del focolare (non scompare la macchia, non scompare con la spugna e lo sforzo del braccio e la vertigine delle stelle mentre spiamo l’identico gesto del padre e una bandiera diversa). Insonni, riuniremo fra un po’ la nostra ostinazione. Chi è venuta prima, l’orfanezza o la ferita? Per adesso è il vento lo scrittore assoluto, il padrone di tutte le storie. *

BLACK MASK

Nel romanzo nero lei non si innamorerebbe dell’assassino, sarebbe la torva ingenua ballerina di cabaret o la dolce – nient’affatto ingenua – bambola dagli occhi come cervi, capelli da agitare nel vento tra le acacie. Nel romanzo nero non potrebbe mai attraversare la linea, sotto il suo respiro starebbero i muri gialli, la seduzione di un eroe da abbracciare.

E non importerebbe la tensione della poesia o della sua schiena che sostiene il mondo.

Nel romanzo nero lei non avrebbe quest’asfissia, questo ritornello che invecchia man mano che mangia del suo pane e apre le braccia al buio in uno scandalo incompiuto. Se qualcosa la abita è la memoria di un porto insignificante e caldo dove la morte non è uno scoppio ma una conversazione, una chiara evidenza. *

L’APPUNTAMENTO in memoria di Ana Calabrese Avremmo preso il vino del crepuscolo sedute sul pavimento, a spiegare il dolore e gli amori letterari

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come una tovaglia: alcuni buchi e colori sicuri. Due donne espulse dall’idioma, dalla festa, da un’ostinata latitudine.

Avremmo lasciato che il fiume ci invadesse (tutti gli amici mi parlarono più del fiume che della tua disperazione). Pezzetti di sughero, storie di qualcuno ossessionato dalla libertà dello spirito, resti di un angelo dipinto su un appendiabiti di legno.

Il tuo suicidio annunciato li portò a rifugiarsi nel bosco (loro, i lupi, gli amici), li svuotò di parole. Strano fiore di ombre cinesi sulla parete, diventasti una voce e un silenzio contro un fiume.

Una poesia condannata a una scatola inafferrabile. *

LA MORTE DELL’IMMAGINAZIONE Ciò che temo di più è la morte dell’immaginazione. Sylvia Plath Nessuno scrive al cuore, nessuno osa attraversare la notte remando nelle intemperie (nessuno si vede). E se fu solo un amore nero, sussurrante che non dà niente il viaggio più lontano fu quello della mia testa verso la sua spalla (il più inutile). Il ramo sbatte sulla terrazza ma è soltanto buia. La paura si siede a mangiare un pasticcino in cucina (e dice che è reale).

Qualcuno ha potuto toccare la disperazione?

Velluto, carta di giornale, una lattina ossidata, non c’è vaccino contro le superfici. Il mondo è un buco tappato con vernice (e non respira). *

PIOVVE TUTTA L’ESTATE a María del Carmen Colombo E la vigilia odorava di orto in piena folla.

Lei solo si guardava nelle vecchie pellicole, seppelliva parole come ossi di cane

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invece di scrivere (invece di vivere.)

Non c’erano segni nelle cose, le finzioni erano questo: finzioni rivoltate nella polvere del mondo. Un viaggio sonnambulo verso una citazione di Barthes.

Da ogni parte pendevano panni umidi e il caffè si annacquava come il cielo. «Chi abiterà nella casa a fianco? Un cane abbaia, ha la testa bendata come Apollinaire, quel rock suona come lo stesso inferno o come un paradiso che non espelle la furia per esistere.» Tutta l’estate lei si rifugiava nella sua stessa assenza come se fosse la casa di campagna del posto (come se fosse il posto). La contrazione confusa di un’epica cancellata dalla pioggia.

Un erotismo silenzioso definiva la vita nella cospirazione del buio, come un altro buio (molto vicino). [traduzione di Emilio Coco]

Notizia. Paulina Vinderman è nata a Buenos Aires nel 1944. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Los espejos y los puentes (Buenos Aires Sur, 1978), La otra ciudad (Botella al Mar,1980), La mirada de los héroes (Botella al Mar, 1982), La Balada de Cordelia (Fundación Argentina para la poesía, 1984), Rojo junio (Literatura Americana Reunida, 1988), Escalera de incendio (Último reino, 1994), Bulgaria (Libros de Alejandría, 1998), El muelle (Alción, 2003) e Hospital de veteranos (Alción, 2006). È, inoltre, autrice di due antologie: Cónsul honoraria (antología personal, Vinciguerra, 2005) e Transparencias (Arquitrave, Bogotá, Colombia, 2005). Ha ottenuto, tra gli altri riconoscimenti, il Terzo e Secondo Premio Municipale (1988-89 e 1998-99, rispettivamente), il Premio Regionale, Segreteria di Cultura della Nazione, 1993-94, il Fondo nazionale delle Arti 2002 e 2005 e il Premio Città di Cremona, Italia, 2006, all’insieme della sua opera. Ha collaborato, con poesie, articoli e recensioni letterarie a diverse riviste e periodici sia nazionali che internazionali, come La Nación (Buenos Aires), La Prensa (Buenos Aires), El Espectador (Bogotá), Hora de Poesía (Spagna), Babel (Buenos Aires), Intramuros (Buenos Aires), ecc. È stata invitata al Primo Incontro di poeti ispanoamericani a Bogotà, nel 1992 e al Terzo Festival Internazionale di Poesia di Medellín nel 1993.

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Letture

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Canto II

Gli bastavano i ritagli le riviste che comprava in settimana per sapere della vita e certe foto conservava per copiarne il buon vestire la postura che allo specchio ripeteva in precisione: il tre quarti dello sguardo il sorriso di chi vince la partita… *

Canto III

Occorre l’ordine al vestire, occorre la coerenza per l’inganno. Cosi ripeteva mentre a mani lisce tutto il bordo della giacca a risalire, i risvolti, la camicia intonsa attorno al collo troppo stretta eppure esatta per l’immagine allo specchio. Un ampio gesto, un ritocco anche ai capelli già perfetti nell’assetto e tutto il resto: perfezione ripeteva offrirsi certi come il volto di quell’uomo imparato alla tivù. Sono meglio a ben vedere, anche più vero: guardava gli occhi nel riflesso, l’adesione

dell’immagine per il verso che voleva… Anche la pelle era esatta nel colore, con il tono preso a tempo nel solarium dietro casa. Perfezione ripeteva

e si mostrava sulla porta alla moglie già vestita. Mano a mano senza dire. Non dicevano mai nulla. Troppo spesso non trovavano che dire. E non trovava altre cose a ben vedere: una ragione per restare soprattutto… *

Canto V

Occorrevano quei riti alla forma di famiglia allo stato fermo e ricco di famiglia benestante: il bambino da lasciare nel recinto a piano terra

con lo scivolo ed i giochi, con le bolle in gommapiuma poi ognuno alla funzione, certi acquisti nel carrello da riempire in ogni spazio, certe marche che sapeva

esser meglio come il detto chi più spende meno spende e l’offerta raccoglieva, il tre per due con il regalo con il punto che spedito mette in gara all’estrazione.

Occorre molto ripeteva, occorre avere per sapere che felici non si accade e il prodotto è un senso primo colma fitto ogni altro smarrimento: è una vita che lavoro

certe cose sono diritto come prendere il prodotto senza il marcio della rogna senza essere fregati e chi si fida di quei nomi, i mai sentiti alla tivù?

Poi la fame nominava: niente basta mentre fuori nel parcheggio tra le auto tutte in fila il carrello accanto e pieno scaricava nel baule, ogni sporta chiusa bene perché niente si smarrisse perché nulla andasse perso, fosse preda d’altre mani…

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*

Canto XVI

Qualcosa spetta ripeteva, ancora qualcosa e sono felice: ma la donna a cavalcioni nello sforzo non vedeva, né le mani cingere quei seni sobbalzare sotto i colpi. Solo lei che le pupille verso il viso rimandava

un solo sguardo gli chiedeva che donasse almeno un senso allo sforzo della carne. Fotti come un animale gli diceva a voce bassa poi veniva con guaiti aggrappando alle lenzuola. A che pensi domandava appena dopo: domani parto con mia moglie rispondeva, resto fuori nel week end… *

Canto XVIII

Stare attenti ad ogni gesto cancellare la memoria al cellulare era questo che premeva poco prima di rientrare poco prima di rimettere le chiavi nel portone risalire per le scale ritornare col sorriso alla recita serale

con la cena, le notizie da ascoltare che in cucina rispondevano al silenzio con i piatti già riempiti e mezza cena da finire

ritornare col sorriso e l’accenno per un gesto che veniva rifiutato….Si cenava con il film, gli occhi alti per lo schermo che aiutava a superare almeno il tempo del contatto, delle forme messe accanto a cibarsi d’altra forma, d’alimento e niente altro. Lava i denti del bambino gli diceva a denti stretti che sia a letto per le nove… *

Canto XXV

Come gli altri anche loro certe volte se d’estate il tempo regge, se d’estate con il sole: nel giardino la grigliata con i tavoli le sedie con l’odore della carne

e il marito col grembiule con la birra che discute mentre attorno coi vicini si ritorna sul lavoro, alle rate del pc all’offerta che al super offre un nuovo dvd ma di quelli americani e le mogli più discoste sotto il melo e dentro l’ombra che si scambiano consigli tutte assorte dentro il ruolo e a turno ognuna chiama con il nome il proprio figlio che divincola nel prato a rincorrere il pallone che lanciato contro il box fa tuonare la lamiera manca poco che si mangia

poi a tavola per lungo con il vino quello buono da provare nell’assenso perché sa dove comprare e le mogli in altre cose ed i figli

a metà pasto sono andati per giocare, sono intorno

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già divisi per le cose da inventare, chi si arrampica sul melo chi improvvisa la partita le magliette a far da porta

ed il sole va scendendo ch’è già ora di tornare. Solo dopo la certezza che la vita è come un film, col giardino americano e tutto torna a ben vedere e non estingue in episodi…

[Da "Registro dei fragili", inedito] Notizia. Fabiano Alborghetti è nato a Milano nel 1970 e vive a Lugano. Ha pubblicato due raccolte poetiche, presso l'editore Lietocolle (Faloppio): Verso Buda (2004) e L'opposta riva (2006). Quest'ultima è stata scritta dopo aver vissuto tre anni coi clandestini ed è composta come una sorta di “Spoon River” dei vivi. Ha pubblicato testi su varie antologie e collabora con numerose riviste letterarie. Scrive inoltre per il teatro ed è fotografo.

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SANTA MARIA A PIÈ DI CHIENTI Dita rattrappite a corone di finta madreperla

sul ballatoio in pura pietra vergine rotola affaticata l’eco di madrigali domestici

nella zona industriale vespri di vecchie levate presto la mattina perché hanno fretta di morire. * GOTICA

Mi lasci guardarmi e mi chiedi se vedo

il viso facciata scolpita la bocca portale socchiuso

- ho sognato per i miei seni rotondità di absidi e gambe pinnacoli svettanti mi rincorre la fuga di una sola navata transetti le braccia

nel ventre un vuoto di cattedrale. * SALMO DI STAGIONE

Salmo di stagione quotidiana recita Nostra Signora del crocicchio tabernacolo voto fioretto spada ruota degli orfani edicola di strada il vestito di novembre piange come i vecchi. * La sera m’impone compagnia. Nel bicchiere il discreto naufragio del silenzio che non dico. Addomestico l’umore

e le labbra a una spuma che sa di capodanno.

Una risata passa come uva nella stanza.

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* Ci teneva stretti il vicolo nell’incastro imbalsamato dei mattoni la notte che i gatti ci sorpresero a pisciare sui portoni delle case imprevisti come una visitazione e contro le ringhiere in equilibrio sopra i neon della città vecchia di ciottoli e viali. * Se mi volto e non ha cura la persistenza dell’odore una grammatica di versi che ci sopravvivano è l’unica obiezione agli amuleti zingari con cui distrai la rotta agli aeroplani.

[Dall’antologia “L’opera continua” (Giulio Perrone Editore, Roma, 2005)] * FUGA IN ALBIONE

Rimbocco la Manica e il collo del maglione

serrata la bocca in un saluto e i boccaporti scolorano scie d’elica inseguite da chi resta s’inchioda a un molo non nuota e non affoga.

Io le ho perse – giàin partenza e nell’arrivo a uno scoglio bianco smisurato dentatura se esiste di balena teoria e tramonto di polene seni d’acciaio eros metallo prua in benvenuto.

Raccoglie transfughi moderni la perfida Albione

e ora coperta da miglia marinare sto dove il tempo alla finestra è un margine mutevole e piovoso.

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* PADDINGTON STATION

Il fruttivendolo accampato nella metro tra la scala mobile e l’uscita è un verso rubato a Ferlinghetti. Un’indiana in sari viola compra raspberries al sacchetto e intanto allatta tre bambini aggrappati alla sottana tenda abbassata bacio sul collo del piede. Mi appoggio a quel che resta di un lampione vittoriano

valigie a rotelle tracciano lunghezze di binario orizzonti frettolosi paralleli al pavimento. Mastico il tempo trascorso vuoto che rimane

e una barra ai cereali comprata insieme ai quotidiani.

Tra due ore avrò di nuovo fame. * PROVINCIA

ruralità sommersa di bastioni industriali asfalti opachi lavori in corso e case popolari

sto attenta al cane e al padrone come vuole la scritta sul cancello dei vicini. * IL RIPOSO

Ai padri una domenica da autolavaggio ai figli il funerale di una lucertola

che non vuole fiori né opere di bene ma urla feroci di ragazzini rincorse sudate di pallone nei cortili acciottolati e sfranti tra i palazzi.

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* FERMO, UN POCO MOSSO (Alla città di Fermo, da lontano)

Fermo è perimetro orto recinto d’animale

è terra sistina provincia intinta di papi è figlia di un do minore quello dei musicisti dritti nei conservatori

quello di petto bulgaro tenore che s’accorda con la moglie violinista.

Fermo è il convento che non ti puoi affacciare la coda indifferente che si reca al santuario madonna che sanguina di spade. Fermo è il convitto dell’istituto industriale

e ferme le auto in sosta che bloccano le strade. * LAUTO RITRATTO

A tutte le città che mi hanno visto riservo il medesimo rituale di rabbia e commozione spallate all’intonaco dei muri ruggine di tubature incastrata nelle unghie le automobili in corsa le scavalco come si guada un fiume passanti incontrati in qualche altrove ma chi mi riconosce se chiede d’accendere e non s’accorge che sto prendendo il volo e quasi fuoco. * LE PIAZZE DI PADOVA L’ora serenissima prima della cena batte il legno chiuso alle finestre.

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Il palazzo capitano porta in fronte ombre meridiane

elenca oroscopi di semina e raccolta. A passeggio si lascia indovinare la logica che nomina le strade. [Inediti]

Notizia. Cristina Babino è nata ad Ancona nel 1976. È laureata presso la sezione Arte del DAMS di Bologna con una tesi dal titolo "Montale critico d’arte". Ha pubblicato la raccolta di poesie "L’abitudine del cielo" (Blu di Prussia, 2003) ; suoi testi sono inclusi in varie antologie, tra cui "L’opera continua" (a cura di G. Vincenzi, Giulio Perrone Editore, 2005) e sono di prossima pubblicazione nell’antologia Nodo Sottile 5 (a cura di Vittorio Biagini e Andrea Sirotti). Ha collaborato con recensioni a "Stilos – La Sicilia" e ad altre riviste letterarie cartacee e on-line. Suoi testi poetici sono apparsi in traduzione inglese su riviste di poesia contemporanea britanniche, tra cui "Aesthetica" e "Coffee House Poetry", e sono di prossima pubblicazione nell'antologia "Poetry of the World /6" (a cura del Dipartimento di Studi Anglo-Americani, Università di Coimbra, Portogallo). Nel 2007 ha rappresentato l’Italia come poeta invitato al VI Meeting Internazionale di Poesia organizzato dall'Università di Coimbra. È vincitrice unica del bando europeo "Poets in Residence 2008" promosso dalla stessa Università. Attualmente vive e lavora a Bristol.

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Conto le ragnatele del cervello nella penombra di un pomeriggio invernale mentre sale, frantumato in mille spilli, il canto sconosciuto di qualche uccello. I versi sono sottili nervature che attraversano questo foglio che ha sembianze di foglia. Dentro ci sono pesci che nuotano felici, uomini che vanno in bici. * Stanotte seguirò la cometa che morde il buio con la bile dei suoi dentini aguzzi. E nel suo volto di annegata specchierò le pupille divorate dalla faina ammantata di polvere. Poi dormirò lieto sotto altri fuochi. * Ora emergi, vascello che hai per corde nervi e vele di capelli, sul gorgo velenoso del sangue che sciaborda dalla polena dell’occipite alla chiglia capovolta del perone. Seguirai la rotta perduta, imbarcazione sbilenca a cui basta per inabissarsi solo l’ombra di un canto.

* Quante pagine d’incubo la vita ancora scriverà con nero inchiostro. E se un’ora ti riuscisse più gradita nel sole d’aprile che ti smemora

strappato hai quella pagina, ricorda, al libro mastro che esibisce alla voce “avere” il vuoto spaventoso dei tuoi giorni. * Grande sole di scisto, indovino nel cielo delle ciglia i biondi riccioli come una foglia crivellata dalla grandine. Scendi di sangue in sangue verso gli inghiottitoi, grande sole barbuto che incombi sul volto dei passanti come una mano screziata a lutto sul vento martoriato del confine.

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* Scendi nel mulinello come una foglia, voce sottile di aghi che nell’aria dirami la tua gioia di esistere. Dimenticarsi in un mattino di giugno di quella gioia, tra nuvole andare spensierato incontro al nuovo sole

che, ignaro della tua storia, nel vento ti scalda lo scheletro, barca che nello sciabordìo barcolla lambendo gli esili contrafforti dell’esilio. * Se parlare alle nuvole, nel sole lancinante della prima estate, ti rende come spiga incistata sull’erba del canale, con colori che vorticano scortando il silenzio dei vessilli tra la scogliera deserta e il bagliore delle casematte,

io perdermi vorrei come il falchetto che incombe nel cielo d’agata percosso dall’ombra delle vele laggiù, verso il candore azzurrino del mondo. [da Pasquale Di Palmo, Marine e altri sortilegi, Il Ponte del Sale, 2007] * In quest’aridità di Doppelgänger quando il sole colora di carminio le piante che tendono nel vento rami di filigrana

cammino con le scarpe di un morto e la testa piena di pensieri che brulicano come insetti dondolandosi sulle vertebre [inedito] Notizia. Pasquale Di Palmo è nato al Lido di Venezia nel 1958 e risiede a Ca’ Noghera (Venezia). Ha pubblicato le raccolte poetiche intitolate Arie a malincuore in “Poesia contemporanea. Secondo quaderno italiano” (Guerini e Associati, Milano, 1992), Quaderno del vento (Stamperia dell’Arancio, Grottammare, 1996), Horror Lucis (Edizioni dell’Erba, Fucecchio, 1997), Ritorno a Sovana (L’Obliquo, Brescia, 2003), Marine e altri sortilegi (Il Ponte del Sale, Rovigo, 2006), oltre alle plaquettes fuori commercio Scrivere in aria (Mugnaini, Scandicci, 2000), Quadernetto scaramantico (Grafiche Fioroni, Casette d’Ete, 2001) e Trittico per un ramo d’inverno (Edizioni dell’Ombra, Salerno, 2005). Sue poesie sono presenti in numerose antologie e riviste, tra cui “Nuovi Argomenti”, “Paragone” e “Poesia”. Collabora con interventi critici e saggi alle riviste “L’Indice dei Libri”, “Stilos”, “Wuz” e “Letture”. Ha curato e tradotto diversi volumi, tra cui opere di Artaud, Corbière, Daumal, d’Houville, Michaux e Radiguet. Ha inoltre curato I surrealisti

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francesi. Poesia e delirio (Stampa Alternativa, Viterbo, 2004), I begli occhi del ladro di Beppe Salvia (Il Ponte del Sale, Rovigo, 2004), Neri Pozza. La vita, le immagini (Neri Pozza, Vicenza, 2005), Saranno idee d’arte e di poesia. Carteggi con Buzzati, Gadda, Montale e Parise di Neri Pozza (Neri Pozza, Vicenza, 2006) e Fine di Mirco di Silvio D’Arzo (Edizioni Via del Vento, Pistoia, 2006).

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AÏCHA Aïcha la dea, Aïcha la regina. Così apparve una mattina sulla porta del mio ufficio. Chiese della segretaria di redazione. Risposi che non c’era, e che forse potevo esserle d’aiuto. - No, grazie molte. Mi chiamo Aïcha: può dire a Francesca che sono passata e che le telefonerò nel pomeriggio? …e arrivederci! Arrivederla, signorina Aïcha, biascicai mentre seguivo con lo sguardo il corpicino svelto uscire dal mio mondo. Non presi nota della visita come facevo di solito. E come scordare quel nome, del resto. Aïcha! *

SONIA E LA SABBIA Dalla sabbia sul parquet. Capii che Sonia era tornata. Ama tanto fare jogging nel bosco, vicino al laghetto della Porte Dorée. Era tornata in anticipo, dunque. L’aspettavo per la settimana dopo. Né mi aveva avvertito. Forse per farmi una sorpresa. Con la sabbia per prima. E un asciugamano per terra nella stanza da bagno vicino agli abiti sporchi. Ma non c’erano abiti sporchi sotto al lavandino. Solo l’umida profumata traccia di una doccia presa alla svelta. Sonia non era in casa. Mi svestii e feci un bagno caldo. Mi coricai in attesa di un felice risveglio coi baci di Sonia. *

SARAH Fissavo i suoi occhi all’altro capo del salone, mi evitavano. Alla festa di compleanno di Franco. Lei era la sua ragazza. Me ne aveva parlato, erano insieme da non molto, e appena la vidi capii che era lei. Fissavo quegli occhi dall’iride grigio tendente al viola, più vicino alla pupilla. E essi mi evitavano. Mi cercavano, credo, con la stessa intensità con cui i miei la penetravano, la pervadevano incuranti delle presenze tutt’intorno. Ero assente a me stesso. Più la guardavo, più la scoprivo seducente. Suggevo con lo sguardo la caviglia momentaneamente scoperta, e la calza spessa e scura, blu-viola, e ne lambivo i riflessi occasionali. La ciocca di capelli scesa non so quando sulla fronte trasformava il suo viso, da ninfa a sgualdrina. E per questo l’amavo di più, con quel barbaglio di padrona nel chiarore dell’iride ridente. E nelle labbra così fini. Ai suoi piedi! Mi vedevo ai suoi piedi, in atto di baciarli, per adorarla intera. Abbandonai la festa adducendo una scusa sciocca. *

KRISTEL Sei tu, Kristel? Sì, è stata una giornata un po' pesante. Certo! Ho una voglia pazza di vederti, angelo mio... Allora a stasera! Un bacio. Un'ora dopo un sms merdoso rinvia il sogno a chissà quando. *

NOTTE PRIMA Seguivo dalla finestra la traiettoria incerta di un’auto che si avvicinava. Mentre cercavo l’accendino in cucina udii un botto dalla strada: il cofano dell’auto era accartocciato contro il palo del semaforo all’angolo della via. Mi sporsi per vedere meglio ma tutto era immobile nel buio. Apparentemente ero l’unico sveglio in tutto il quartiere, la luce del mio salotto si rifletteva sulle porte-finestre dirimpetto. Infilai le scarpe e un giaccone e scesi giù per le scale. Appena fuori dal pesante portone del palazzo giaceva l’Alfa schiantata. I fari erano spenti. Un cortocircuito, probabile. Guardai all’interno e non vidi nessuno. Aprii la portiera per sincerarmene. No, proprio nessuno. Nemmeno una luce accesa nelle case vicine. Eppure lo schianto era stato forte. Tutto dormiva. Diedi un’altra occhiata nella macchina. Alcuna traccia di sangue sui sedili o sul parabrezza, alcun odore. Risalii in fretta al mio appartamento. Mi svestii, spensi la televisione e m’infilai nel letto. La mattina mi svegliai febbricitante al secondo trillo del telefono. *

IL RAGAZZO E LA BARISTA «Ragazzo né povero né ricco cerca ragazza per vita da innamorati». La sera, alla chiusura del locale, Giulia vide un post-it di piccolo formato sulla porta interna del cesso. Lo staccò e lo gettò pensando che strano, non un graffito o uno scarabocchio con l’indelebile, ma un semplice foglietto bianco. La mattina seguente, il locale era già pieno di studenti. Giulia scese al cesso, chiuse la porta dietro di sé e senza volerlo si trovò a cercare con lo sguardo vicino alla maniglia. Il biglietto era lì dove l’aveva trovato la sera prima. Il messaggio, identico: «Ragazzo né povero né ricco cerca ragazza per vita da innamorati». Giulia lo staccò di nuovo. Osservò attentamente i giovani al bancone e ai tavolini. Il parlottare confuso e concitato di tutte le mattine.

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Passarono alcune settimane, e ogni giorno Giulia trovava il biglietto al solito posto, lo stesso messaggio, quella complice strizzatina d’occhio. Non li gettava più, quei post-it, li incollava uno sull’altro via via che li trovava. Uno la mattina e uno la sera alla chiusura. I tavolini erano sempre più ingombri di libri e quaderni, e pochi stavano al banco. La sessione di giugno. E il biglietto, sempre uguale, sempre sulla porta del cesso, mentre si susseguivano gli appelli, mentre il locale si svuotava giorno dopo giorno. Una mattina, Giulia scese al cesso. Chiuse la porta e posò lo sguardo sopra la maniglia. La carezzò e pianse a lungo. *

CARLO Se ne accorse quella notte. Brevi esplosioni di luce lontane ma intense. Fumava sul balcone fissando il vuoto sonnolento delle antenne. Sulle prime le scambiò per avvisaglie di temporale e ne fu infastidito (l'indomani si sarebbe dovuto svegliare presto). Si rivolse a quell'insolita sorgente luminosa, che subito tacque. Ma insistette (qualche boccata ancora). Due lampi in successione. Provenivano da un appartamento. Un brivido. Allora si rese conto di essere amato. *

LA BOITE Divanetto sotto il palco della Boite. Concerto metal. Musica assordante. Terzo cuba libre. Sandy con la frangetta nera perfetta e gli occhi dipinti con tratto deciso. Sensuale. Unghie nere. Lunghe. Le mie. Sulle sue cosce fasciate di nylon. Coprente. Caldo. Sandy. In ginocchio per te. *

PIANTO Se guardi dal finestrino puoi scorgere ancora l'ultima frangia luminosa della città immensa nella notte fonda. Mentre voli verso un posto lontano lontano verso casa. La donna al tuo fianco ti sorride benevola indovinando le tue lacrime. Vorresti chinarti su di lei e piangere a dirotto. Laggiù ti saluta ancora la tua amica facendo ciao con le braccia verso il cielo. Le mandi un bacio una carezza sui capelli dorati dal sole brasiliano. Le dici io tornerò presto. Ti risponde io ti aspetto. *

NOTTE SECONDA Triste notte invernale di pioggia. Mi affaccio alla finestra. Tutto tace nella luce rossastra dell’insegna della macelleria. Un bicchiere di superalcolico, forse mi addormenterò prima. Alla tele nulla di buono, la guardo, domani non lavoro. Vedo qualcuno avvicinarsi al portone, sarà un ubriaco che cerca riparo dalla pioggia sempre più fitta. Ho sempre sospettato che nelle cantine dello stabile passassero la notte i barboni della zona. Un giorno ne ho visto entrare uno. L’aria del barbone ce l’ha davvero, barcolla. Prova e riprova il codice di apertura. Il portone non s’apre. Lui pare stupito, pensa alla pioggia, chissà. Si ritrae e s’appoggia al muro. Ritenta. Il portone stride. Sento i passi fermarsi nell’atrio. Un rumore di chiavi che cadono a terra, di chiavi nella toppa. Che sia un ladro? Poi una porta s’apre e si richiude bruscamente. Un nuovo vicino. *

LA STELLA CHE FU La vedevo ogni tanto sulla linea rossa della metro, stava seduta sullo strapuntino del vano d’accesso. Non levava mai lo sguardo dai propri stivaletti colle cerniere ai lati, bruttini, un po’ sformati, impeccabilmente lucidi. Dopo averli rimirati spostando il piede a destra e a manca, tirava fuori da una sporta un tubo di lucido per scarpe rapido, colla spugna, e cominciava a imbrattarli con quell’eccesso di liquido che formava una schiuma bianchiccia. Un vero peccato, mi veniva da pensare ogni volta. Poi con un kleenex li puliva attentamente, a lungo, li osservava, li rigirava a destra e a manca. Erano proprio lucidissimi, i suoi stivaletti. E buttava il kleenex sotto al sedile. Avrà avuto settant’anni. Un abito rosa antico che lasciava scoperti gli stivaletti e dei polpacci bianchi e molli.

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*

NOTTE TERZA Terza notte di nebbia. La statale trasuda freddo e umidità viva. La percorro con lo stereo a tutto volume. Semafori donne trans lampioni benzinaio incrocio nigeriane dito su. Continuo. Lo sguardo perso avanti, non so dove, ma avanti. Un graffio nel silenzio. *

STAZIONE Le mani del ragazzo rincorrono la sigaretta sul tavolino del fast food. Incrocio il suo sguardo. “Hai da accendere?” Ho un sussulto. “Sì, certo!” Si avvicina a me si china sulla fiamma sfiorandomi la spalla coi capelli bruni un po' lunghi. Ci sorridiamo e torniamo a fissarci da un tavolino all'altro. Presto arriverà il suo treno. E l'avrò perso per sempre. Mi alzo per andare via di colpo mi chino sul ragazzo “Mi chiamo Fabio” “Io Andrea”. Si alza e andiamo via insieme. *

JASMINE! Solco Milano in lungo e in largo, i suoi viali, i controviali, Jasmine, a 100 all'ora. Mi fermo. Sembri tu. No, merda! Chiedo alle ragazze in minigonna lì vicino, tue amiche, chissà. “No, Jasmine, non so... non conosco Jasmine. Io mi chiamo Lucia, bello, vieni con me. Ti faccio divertire!” *

UNA NOTTE PER ALINA Alina sapeva sempre quel che faceva. Volle che la sua notte di addio al nubilato cadesse un mercoledì, nel bel mezzo della settimana, così che poche amiche vi sarebbero andate. Mercoledì sera, dunque. Dopo essersi ritrovate da Alina alle venti, Claire, Nathalie, Lucia e Viri presentarono alla festeggiata un foglio arrotolato cinto da un nastrino rosso. Era il loro regalo. Alina levò religiosamente il nastro e srotolò il dono, che lesse a voce alta: una notte per alina 01 43 57 23 00. Sorridendo riconoscente alle amiche musiciste, Alina compose in fretta il numero di telefono, che era il mio. Mi precipitai al suo appartamento, alla fragranza del corpo color cannella. Non ho mai udito cantare il raï con tanto orgasmo. La voce di Alina mi portava lontano, lei sulle mie braccia, come due sposi. Sospiravo fra i suoi seni. Insieme a Alina non sapevo più quel che facevo. (Racconti brevi inediti da “Una notte per Alina”.) Notizia. Giuseppe Macor è nato a Milano, dove vive e lavora, nel 1968. Laureato in Lingue e Letterature Straniere, collabora con case editrici italiane e straniere come traduttore e autore di racconti e poesie. Dal 1990 si è dedicato in maniera sempre più consistente alll'esplorazione del linguaggio fotografico. Le sue traduzioni di Pascal Quignard, Jean Cocteau così come i suoi racconti brevi testimoniano la sostanziale attrazione per la forma frammentaria nel processo di scrittura che, inevitabilmente, è sfociato nell'adozione del mezzo fotografico, sintesi per eccellenza e, dal 2002, nell'apertura di un proprio studio di fotografia d'arte.

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Sei testi da La casa esposta Si muove in modo mite tra le cose della stanza adesso che la stanza non è un limite alle cose dall’interno, conta quanta capienza di nero è tra lume lupo acceso nella bugietta verde e vetro del tavolo riflesso basso, alla finestra spia dall’alto altro di altro che non c’è già in cortile, quasi infine (pensa) in sé *

Invece è inverno. Cala – curva. Siena. A me dispiace di essere ma sono diverso da quello che sono – fa il giusto ben orientando e sembra che niente come l’ascia spezzi il freddo e questo spezza quella al filo o taglio. Tanto che è la ferita a ferire – buio, gelo giusto, verbo dire *

I fratelli hanno preso le cambiali, adesso è loro.

Hanno fatto uscire tutto il sangue dall’agnello alla bocca – era vicina la base di sasso. Sorella e padre sono nei canali nei pozzi, al respiro dell’acqua. Niente tiene vivo niente.

Così è rimasto il sole, stampato sui soldi: questo prosegue il racconto fino all’altro lato, dove cominciano gli archi larghi nella campagna, pezzi di acquedotti, verso il Tirreno, che si infesta *

Gli è stato detto racconta che dici di avere il morso, il cane ha che? lo stecco del gioco – invece.

Quello che è piccolo e nato riceve l’impatto di luce nei plessi vuoti e capovolge fuori il labirinto della voce, dentro aria e senza rapporti, senza equivalenza, fa suonare e risente plettro dalla gola: dal disaccordo a un disaccordo che si mutila per vivere. Anche questo senza sapere di sé niente, dice mai nemmeno dopo

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divisione, (luogo diviso), museruola: sporca con l'elastico mangiato, cardato, due candele sporche, spostate sul tavolo della terrazza, al sole, il sole è forte, inizio agosto, le candele fondono, sul piano di formica. il calore allo stesso tempo fa facile scrostarle, tirarle nella valle. un'angoliera di fine ricamo metallico bianca da giardino, su, un santo di plastica nera e grigia. l'angoliera nei suoi punti non verniciati la strappano le sue ruggini. due sottovasi, celluloide verde bottiglia, paniere arancio e blu, se mezzo manico staccato. se è felice che si sono rivisti, rete, se l'albero parassitato dall'edera, se era molto. un piano orizzontale di compensato, vernice, o bianco e rosso acceso, era della cameretta. la lavatrice perde, durante tutto il ciclo, anche dopo. non si può aggiustare, si può, per una rinuncia, per una differenza.

dormono. sera. nemmeno. un nuovo modulo d'ordine, un telefono, date successive. la situazione è continuamente compromessa. toglie i piedi i marmetti quando loro entrano. non entrano più, tutto cambiato, era cambiato. non ci abitano *

stesso luogo altra data. parlano del quadro che raffigura sale raffigura secondo me un prelato. significa dice che significa, una riga, due righe di più, in meno, eccetera. il mezzo cambia la comunicazione. cabla. il fondo è molto buio. può essere un pregio. può al contrario. freddo che gli viene incontro, gli apre la porta, è solo col suo dio io. storia delle diagonali. delle originali. sì ma in casa alla parete è un'altra faccenda. non dico mai ma non sempre funziona. e comunque non alla cifra che pensate. e quanto di meno? la metà se va bene, ma proprio. è sempre stata una questione di gradazioni di neri. già ricordo anche la mia casa. beato averne, cose così. ma poi non acquistano valore. dice con il tempo. quale tempo. quello a ci si muore, ridono forte ride smettono. mela caffè. kulturgedichte Notizia. Marco Giovenale è nato a Roma, dove vive e lavora – in una libreria antiquaria. È stato organizzatore di mostre. Si è laureato con una tesi sulla poesia di Roberto Roversi. Con Massimo Sannelli cura la letteradono aperiodica «bina». È redattore di GAMMM (http://gammm.org), e di varie altre pagine web: un indice è in http://liensliens.blogspot.com. Per la collana FuoriFormato della casa editrice Le Lettere è in uscita il libro La casa esposta. Una biobibliografia completa è rintracciabile su http://slowforward.wordpress.com.

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Q2 [secondo quando] Alza la schiuma, schiude. Squarcia e si chiude quando. Era qui. Era acqua. * La senti che trascorre? Ne hai sofferto, corrente tra. Sale, trasalendo. * Intanto sulla sabbia quanto. È da contare nei quarzi. Muore quando. * Vale così, riflesso il tempo non trascorso. Non luce, sa di sale. * Perdutamente perso eroso a vento. Viene quando, forma le dune. A somigliarsi in vita l’onda minerale tace. Fa cenni? Invita? * Non vita, non altro che grani persi. Di quando. E in quando. Di quando. E… Notizia. Giulio Marzaioli (Firenze, 1972) vive a Roma. Suoi testi appaiono su varie riviste cartacee e telematiche e sono tradotti in Francia e Stati Uniti. È presente in opere collettive e antologie. Ha pubblicato varie sillogi di poesia (la più recente, In re ipsa, a cura di Anterem Edizioni - Premio Lorenzo Montano 2005). Nel 2006, per i tipi di Oedipus Editore, sono stati pubblicati i frammenti di Quadranti. Ha scritto testi per il teatro, raccolti nel volume Appunti del non vero (Editrice Zona, 2006). Assieme a Romina De Novellis ha fondato la compagnia DENOMA (www.compagniadenoma.it), attiva nell’ambito del teatro di ricerca. Collabora con artisti dai vari linguaggi espressivi e di varie nazionalità in eventi performativi ed installazioni. È inoltre curatore di eventi e rassegne (recentemente presso Teatro Vascello e Teatro Eliseo, in Roma).

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POESIA NICA

‘I vasciu sbujava n’adduri (na zolla ‘i falacchi chi ‘n sacciu) ti piacìa u ti fermi a nghjiuttiri na spira ‘i suli, pò t’assettavi sutt’all’umbri ‘i n’ajivu a occhji chjiusi, tenendo inta ‘u rispiru.

Nenti potìa piccijari ju mari ‘i sonna cusì veri na folìa ad ogni stroffa, l’acqua chi mpracìda i rrobbi ad ogni basu a torri, i paggetti, i balli chi non fininu mà… Non era ammata ‘u tempu d’i malipenzeri (‘u jelu chi buca a gonna l’ardica a’ xumara nto sangu axxeri sprizzati nto cori) Na leggi nto ccittu mparavi guardari i cosi diritti nta ll’occhji pè nommu dassi tra i petriceji e l’erba i craculi, vischjiu e trummentu ‘i tanti, assà viti.

[Esalava un odore dal basso/ (una zolla di fango che ignoro)/ ti piaceva fermarti a inghiottire/ un raggio di sole, poi sedevi sotto/ l’ombra di un ulivo a occhi/ chiusi, trattenendo il respiro.// Niente poteva destare quel/ mare di sogni così veri/ un nido ad ogni cespuglio, l’acqua/ che inzuppa i vestiti ad ogni bacio/ la torre, i paggetti, le danze infinite…// Non era ancora il tempo dei/ cattivipensieri (il gelo che buca la gonna/ l’ortica a fiumara nel sangue/ gli stracci strizzati nel cuore).// Una legge in silenzio imparavi/ guardare diritto negli occhi le cose/ per non lasciare tra i ciottoli/ e l’erba i detriti, vischio/ e tormento di tante, troppe vite.] *

‘U PRIMU BASU

Du primu basu non restà nenti mi dici ca ‘u rimuri d’a xumara cancellà i cuntuorna, ‘u sapuri nu vesparu a spettari potessari ‘i panni stenduti e mani ‘i lavari. I palori tò su tènnari, oji chi sa u mi mostri i minneji scippandumi a malizia ‘i dint’a ll’occhji ed eu t’ammiru scorza d’i malijorna chi dassi a’ casa l’anima, se servi. Batti pè tutti ‘u ferru suttaterra figghjioli e vecchjiareji, vi dugnu a mè felicità ‘i deci sordi, ‘n cangiu ‘i rispiri da chjiudiri nta na cascia xammeji du tempu c’avi a vèniri. E finisci amuri sulu quandu ‘u focu s’astuta ‘i domandari. [Del primo bacio non è rimasto niente/ mi dici che il rumore del torrente/ ne ha cancellato i contorni, il sapore/ un pomeriggio in attesa forse/ di panni stesi e mani da lavare.// Le tue parole sono morbide/ oggi che sai mostrarmi il seno/ strappandomi dagli occhi la malizia/ e io ti ammiro scorza dei giorni tristi/ che lasci a casa l’anima, se occorre.// Batte per tutti il ferro sottoterra/ bambini e moribondi, vi porgo la mia felicità/ da dieci soldi, in cambio di respiri/ da chiudere in un cassetto/ fiammelle del mio tempo che verrà./ E cesserà l’amore solo quando/ si spegnerà il fuoco di domande.]

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A GUTTI E TU

A San Martinu lapru a margarita e mi linchjiu ‘u nasu d’a sidura pistata nto parmentu; nc’è n’ammujinu ‘i mmagavisti nta ja mbivuta cuntra natura chi mi veninu a trovari i frundi du paniculu chi fetinu ‘i spulicu e l’erba tagghjiata ‘i pocu d’a rina e ‘n artu i muntagni viju franari chjianu chjianu comu ‘n mari…

Pigghjiu xatu xatu xatu e nci riprovu. A vuci ‘n menzu a’ furca mi mprissiona ‘i na nanna chi s’a fujì oramà d’a lucia e i spiri, i spiri lindi sup’a facci ‘i ji jorna c’u mundu spaccaristi cu nu pugnu e tutti sutt’è pedi a riveriri! Ma ‘i ja margarita nesci nu xarvu chi non sacciu, s’axxuranu i labbra e ‘u canthu vaci… (E nuda t’immaginu jà inta, mbiscari ò mustu i tò adduri ‘i fimmana u fa u mi mbiacu mviatu di ducezza). [A San Martino apro il rubinetto/ e mi riempio il naso del sudore/ pigiato nel palmento; c’è un casino/ di sensazioni in quella bevuta/ innaturale che mi vengono a trovare/ le foglie del granturco che puzzano/ di bruco e l’erba appena strappata/ dalla rena e in alto le montagne vedo/ franare lentamente come un mare…// Prendo fiato fiato fiato e ci riprovo./ La voce in mezzo all’arco mi commuove/ di una nonna ormai fuggita dalla luce/ e i raggi, i raggi nitidi sul viso/ di quei giorni che il mondo spaccheresti/ con un pugno e tutti sotto i piedi/ a riverire! Ma da quel rubinetto/ viene un profumo che non so, s’infiorano/ le labbra e il canto va…/ (E nuda t’immagino lì dentro, mischiare/ al mosto i tuoi umori di donna/ per farmi ubriacare di dolcezza).] *

D’I VOTI RIVENINU

D’i voti riveninu, abbasta libbarari l’unghji, provari a terra e iji su jà, nt’a sputazza, scippanu palori, lampranu a facci, nto scuru. S’aricuordanu, ndi scusinu i jorna d’a peji, s’agustanu a vucca c’arridi, farza, e si spijanu ch’esti chi fagghjia du cuntu pecchì jiru a finiri nto fossu i culuri pecchì ogni scrusciu ndi menti pagura. E’ nenti, na funtana d’aria chi nuju mà vitti, ‘i jà nescinu i mali dinnu medici, orbi e strolachi… Mò chi sapiti, a occhji chjiusi scavati pè arretu, se armenu a morti vi voliti godiri.

[A volte ritornano, basta liberare/ le unghie, assaggiare la terra/ e loro son lì, nella saliva, spiccicano/ parole, distendono il viso, al buio./ Si ricordano, ci scuciono i giorni/ dalla pelle, guardano la bocca/

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sorridere, falsa, e si chiedono/ cosa manca dal conto/ perché sono finiti nel fosso i colori/ perchè ogni fremito ci mette paura.// È niente, una fontana d’aria/ mai vista, da lì nascono i mali/ dicono medici, ciechi e fattucchieri …/Adesso che sapete, ad occhi chiusi/ scavate a ritroso, se almeno/ la morte volete godere.] *

CERZI MUZZATI

I cerzi ‘i muzzaru nto voscu du Lleri u ntisaru nzina i petruji ‘i timpuna d’i singazzi d’a terra sbujava na muffura mentri l’unghji nto cielu ‘u corvu azzippava. Armi lordi ‘i jà sutta, fumenti zali a mmuzzu, nu fetu ‘i pisciazza… staccati i dentuzzi affilati d’i minni veniti, c’a serpi è stenduta nto margiu.

Jà nt’a furca, viditi, ‘i nu rramu na frunda c’alluci, mi pari, chi dicu! è na lama chi muzza na capa ‘i cristianu e mi trasi diritta nt’a menti a hjiumara.

M’agghjiunca, mi strizza, mi suca m’arrota nta ll’aria e mi linchji ‘i sputazza, eu mi scotulu e mi mbasciu ‘n dinocchjiu se vo’ l’anima aspetta ma fammi… Cantari.Eu mi toccu e suspiru mi ngrugnu nt’è jorna cchjiu’ ‘i focu accarizzu un piruni e mi mentu ‘n caminu nto voscu, jà sulu mi gurdu d’amuri.

[Han mozzato le querce nel bosco del Lleri/ l’han sentito persino le pietruzze di rupe/ sbucava una nebbia da sotto la terra / mentre il corvo affondava sopra il cielo gli artigli.// Anime immonde dal basso, vapori / urla a casaccio, una puzza di piscio…/ staccate i dentini dal seno bambini / venite, la serpe è distesa sul prato.// Guardate là in mezzo ad un ramo/ una foglia lucente, che dico!/è una lama che mozza la testa di un uomo/ nella mente diritta mi entra a ruscello.// Mi avvinghia, mi striza, mi succhia/ mi rotola in aria e mi riempie di sputi,/ mi pulisco e mi metto in ginocchio/se vuoi l’anima aspetta ma fammi….// Cantare.Io mi tocco e sospiro / mi rannicchio nei giorni di fuoco / accarezzo un legnetto e mi metto in cammino/ nel bosco, là soltanto mi sazio d’amore.] *

ABBASTA NA MUZZICATA

Abbastà na muzzicata sicca ad occhi chjiusi ed a farvetta non nci restà cchjiù ‘u coju ‘u canthu mutu nt’è spina d’a sipala ‘u volu lenthu d’i pinni nzina a ‘n terra. E’ l’unica sarvazzioni ‘u sangu cardu pè cu a na certa età i cunti faci ch’i picci du passatu, ‘i scafazza com’ajivi sutt’a macina e ‘u spilu ‘i pitaci diventa siti ‘i milli e cchjiù anni arretu viulenza mmenzu è jidita, dinta dinta. Non mi dassati, cacaruni propia mò, chi sugnu ruggia

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‘i petra e mmerda pè lavari culi l’acqua mi sicca nta sti notti magri e ‘u pisu du mè corpu spiaccica formichi nt’è macigni. E non potimu mancu jestimari nu chi l’occhji orbi tenimma sempi a Ddi. [Bastò un morso secco ad occhi chiusi/e alla capinera non restò più il collo/ il canto strozzato tra le spine del roveto/ il volo lento delle piume a terra.// È l’unica salvezza il sangue caldo/ per chi a una certa età fa i conti/ coi tarli del passato, li schiaccia/ come sotto la macina le olive/ e il desiderio di sesso/ diventa sete primordiale/ violenza nelle dita, dentro dentro.// Ma non mi lasciate, codardi/ proprio adesso,che sono ruggine/ di pietra e merda per lavare culi/ l’acqua mi secca in queste magre /notti e il peso del mio corpo/ spiaccica formiche sulle rocce.// E non possiamo neanche bestemmiare/ noi che gli occhi ciechi/ tenemmo sempre a Dio.] *

A SURVARA

Se a nu corpu chjiudi a peji vidi a terra chi si xacca sbuja acqua ‘i ogni vanda latti, ruggia, filu ‘i ferru zzucchi ‘i cerza c’a xumara sbatti a schjiaffi mpacci è scogghjia…. ‘I na grutta na mmagara faci cruci mmenzu all’aria cu nu jiditu a curteju zala ò mundu ch’è i gudeja sù catoju ‘i mmerda e amuri… Chi voliti, tri cotrari chi ncugnati sup’è rrami a cu prima schjiatta o godi? Inta ‘u latti chi vi cula nc’ènnu arrisi e petri amari, se mentiti ‘n terra i pedi ncuminciati m’i scorgiti nt’è pezzòla ‘i ssa survara. [Se d’un tratto chiudi la pelle/ vedi la terra che si spacca/ sgorga acqua da ogni parte/ latte, ruggine, fil di ferro/ ciocchi di quercia che la fiumara/ sbatte a schiaffi tra gli scogli…Da una grotta una magàra/ disegna croci in mezzo all’aria/ con un dito su a coltello/ urla al mondo che le budella/ sono cantina di merda e amore…/ Che volete, tre ragazzi/ che spingete sopra i rami/ a chi prima schiatta o gode?/ Dentro il latte che vi cola/ ci sono sorrisi e pietre amare,/ se mettete a terra i piedi/ inizierete a intravederli/ nella corteccia di quel sorbo.] *

A VECCHJIA

D’acitu a vecchia s’ammojà i labbra prima u ndi parra du spilu, a curpa chi ‘n panza si porta di na vita.

Ncigna' u ndi dici d'i spini 'i sipala chi s’appizzanu a n’età int’è dinocchjia comu nenti fussi, nenti rispettu è corpi 'i nervu sup'a schina.

A scola a chi servi ? Rimbumbanu i palori

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du patri, e po’ sup’o purminu sacciu eu comu si movinu i mani d’i cotrarazzi d’oji! tu stà pilita ccà, int’è mè vrazza. D’a grutta i cucuja ntronavanu e a forza i vidiri fogghji mpurruti a testa quasi scoppia, nu fetu d’a terra e ‘u jelu chi trapàna dint’a gonna. Seditivi cotrari, ‘u focularu vaci p’a so strata, vu chi campati ‘i palori smuzzicati….a storia non si poti portari a’ fini quandu a xumara ti squarta a memoria. [D’aceto la vecchia si bagnò le labbra/ prima di parlarci del desiderio, la colpa/ che in pancia si porta da una vita.// Iniziò a dirci delle spine del rovo/ che s’infilzano a un’età sulle ginocchia/ come niente fosse, niente rispetto/ ai colpi di nerbo sulla schiena.// A che serve la scuola? Rimbombano le parole/ del padre, e poi sul pulmino so io/ come si muovono le mani dei ragazzacci di oggi!/ Tu stai pulita quì, tra le mie braccia.// Dalla grotta la grandine rintrona/ e a forza di veder marcire le foglie/ la testa quasi scoppia, un puzzo dalla terra/ e il gelo a trapanare nella gonna.// Sedetevi ragazzi, il focolare va/ per conto suo, voi che vivete/ di parole mozze… la storia non si può/ portare a termine quando il fiume/ ti squarcia la memoria.] *

RRAMI D’AGGHJIASTRU Pecchì rramu, rramu d’agghjiastru ammata non mbizzàu a ligari li fascini(comu voli a terra mia) e assettatu a n’armacera sù c’aspettu c’o carrettu di l’arrisi vaji u passa e cunti mi rigala cunti frischi da spogghjiari?

Sentu, ammata sentu a zala du porceju chi trapana nta timpuna e voschi fitti mi spingi sup’a peji com’a chiju ‘i nu lallà ch’è senza latti, senza xatu e puru mà d’a figghjiolanza mi spagnài… sdarrupa straci spili e vrazza mò a chjina mentri i spini d’a sipala fannu buca nt’è ricuordi e ncocchjiunu pè vilanza pagà troppu. A petra du trappitu non perdugna.

[Perché ramo, ramo d’olivastro/ non ho ancora imparato a legare/ le fascine (come vuole la mia terra)/ e seduto su un muro a secco aspetto/ che il carro dei sorrisi passi/ a regalarmi storie, storie fresche da sfogliare?// Sento, ancora sento l’urlo del maiale/ trapassare la collina e i boschi fitti/ mi preme sulla pelle come quello/ di un neonato senza latte, senza fiato/ eppure mai ho temuto l’innocenza…/ travolge cocci voglie e braccia la corrente/ mentre le spine del roveto fanno buchi sui ricordi/ e qualcuno a compensare paga troppo.// La pietra del frantoio non perdona.] *

SE NCHJIANA DDI

A muntagna ammuccia i culuri nt’è notti ‘i luna chjina

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smettì ‘i pocu ‘u cantu ‘i morti du scropìu sup’o timpuni craculi ‘i ruggia si mpastanu è pezzula ‘i lignu cacati du ventu. Na calurìa ‘i scarricu rovina i sonna d’a carni nnocenti, vota mentrasti nt’a catramma na tartarugha gihanti sbujata d’u fundu, sputa e jetta focu sup’a panza d’a prima matrigna.

Cu vitti ‘u primu jiditu tremari cu vitti ‘u sangu nesciri du parmentu ndavi u vaji cchjiù chjianu u si menti ‘n dinocchjiu nnanzi a’ na petra ‘i timpa e cu nu tizzuni signari a peji scriviri na strata pricisa chi sparti ‘u cielu di l’ossa. Ca se nchjiana Ddi, na vota pe’ tutti si rendi cuntu ‘i undi trasì a mmerda quantu custaru i larii arrisati e c’a violenza diricati ‘i landa a’ terra nci misi.

[La montagna nasconde i colori/ nelle notti di luna piena/ è appena cessato il canto di morte/ dell’assiolo sulla collina/ cocci di ruggine si impastano/ ai trucioli di legno cagati dal vento.// Un’arsura di fogna deturpa/ i sogni di carne innocente,/ rovescia sterpaglie sull’asfalto/ una tartaruga gigante emersa/ dall’abisso,sputa e getta fiamme/ sulla pancia della prima matrigna.// Chi ha scorto il dito tremare/ chi ha visto il sangue sgorgare dal palmento/ deve rallentare il suo passo/ inginocchiarsi davanti a una pietra di rupe/ e con un tizzone segnare la pelle/ tracciare netto il percorso/ che separa il cielo dalle ossa.// Chè se sale Dio, una volta per tutte/ si renderà conto dov’è penetrata la merda/ quanto sono costati gli sporchi sorrisi/ e che la violenza ha messo radici di latta/ alla terra.] *

NC’E’ NU POSTU

Nc’è nu postu, tra Magenta e Treccati aundi vaju a paci mu cercu ogni vota chi veni a serpi u mi trova o ’u mè corpu arrè addura di pani. Jà nc’è l’acqua ammucchiata c’aspetta i mè occhi e si prica nta gurna, com’a prima vota; cutulija i petrocciula pemmu vinci a virgogna ‘i nu sulu minutu po’ mi sciogghji cavaju. Eu mi rivigghjiu e m’aggrappu a na sipala, seguu ‘u fumu nto ponti ‘i nu trenu a vapori na caminata felina m’incanta mi jela, e specchjiata eu viju ‘i granitu a curva du cielu.

[C’è un luogo, tra Magenta e Trecate/ dove vado a cercare la pace/ ogni volta che viene la serpe a bussare/ e il mio corpo riodora di pane.// Lì c’è l’acqua in agguato/ che aspetta i miei occhi e s’incanta/ nel greto, come la prima volta;/ solletica i ciottoli per vincere/ la vergogna di un attimo, poi/ mi scioglie

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le briglie. Io// mi desto e m’aggrappo/ a un roveto, seguo il fumo sul ponte/ di un treno a vapore, un passo felino/ m’ipnotizza, mi gela e riflessa m’appare/ di granito la volta del cielo.]

Notizia. Alfredo Panetta è nato nel 1962 a Locri, in Calabria dove è vissuto fino al 1981. Da allora risiede a Milano dove svolge l’attività di artigiano nel settore infissi in alluminio. Da 6 anni scrive nel dialetto materno; ha partecipato a diversi concorsi di poesia, vincendo nel 2004 il premio Montale Europa per inediti e classificandosi tra i Menzionati Speciali nello stesso anno al premio Nosside. Sue poesie sono state pubblicate su varie riviste, tra le quali Il Segnale, La Mosca di Milano, La Clessidra, Capoverso, Tratti, Le Voci della Luna, Il Foglio Clandestino e Nuovi Argomenti. Nel 2005 è stato pubblicato il suo primo libro Petri ‘i limiti con la casa editrice Moretti & Vitali di Bergamo (Finalista al premio Maestrale, Premio Speciale della giuria al Concorso Delta POesia e Vincitore del premio “Il Tripode” a Crotone).

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NEI GIARDINI CONDOMINIALI (Inediti) * Un colpo d’ascia, di netto, abbatte il frassino adulto. Del resto non credevamo in lui, come non crediamo in chi non resiste. Resistere all’ascia, da piccoli si fa, si riesce. Ma l’adulto vacilla, scricchiola, cede, vede doppio. * Questo so, eravamo massa informe uniformemente amalgamata e gentile prima che ci facessero a pezzetti e tu fossi tu e le parole i gesti le figure tremolanti soverchiassero la gioia. Soppesare divenne l’esercizio, valutare il tempo come risorsa schifosamente progressiva. Cose che passano restano, per esempio la grammatica e il buio che ne deriva. * I pensieri si facevano enormi, distesi, ma più si camminava più le gambe si appiattivano sull’asfalto e i piedi prendevano misure sottili, ridicole al cospetto dei giganti di viale Sarca. Quando eravamo quasi pulci, con pensieri rotti dal gran dilatarsi, un attimo prima di dissolverci arrivammo da Marina «che era più grande e non lo sapevamo». Il vero gigante spaccapensieri ci aspettava nell’hangar altissimo più del duomo e buio come la notte all’ora dei corrieri in pieno giorno. Si poteva toccare la vastità? Niente somigliava a quel dolore dilatato, nemmeno il video di sette metri per trenta. Che terrore, sulla pancia di Marina, che sfinimento, «scorderai presto questa grandezza, ma dalle un posto ora, tienila dietro il cancello, dai un nome a questo muro liscio.» … Siamo di nuovo sulla strada. Lei portando gli occhiali leggeva. Si sentiva il respiro del gigante – la vecchia Breda – e Marina, o la sua presenza, che lo ammansiva. * Dice voglio diventare vecchissima, voglio essere vecchissima decrepita senza più desideri, oltre la tensione visibile, un liquame adagiato su vicende private, un dirupo vergognoso che mi crolla ancora addosso. Dice voglio arrivare a essere vecchissima, senza più giovani intorno, ornata solo di sabbie armate immobili per vedere cosa c’è dietro tutto questo, cosa c’era dietro tutto questo. Incappucciata in una storia risibile, ormai non più vista né osservata, vedere come intruglio maleodorante il vero motivo di tutto questo il vero (…) *

Come farà bebè a morire? (Teresa di Lisieux, Ultimi colloqui)

Le mamme con i piccoli entrano in acqua senza bagnarsi i capelli. Le pettinature mantengono il loro gonfiore, quando escono dall’acqua, ma certi ricciolini si depositano sul collo e sull’arco delle spalle… A essere quei piccoli c’è tutto da guadagnare: la schiena della mamma ancora umida offre un riparo dal sole e quella polpa chiara da prendere a morsettini! * Fräulein ha liberato il suo carceriere. Lui con spade pistole pugnali è scappato lontano non prima di togliersi la vita. Ora la ex reclusa mostra alle telecamere i segni della lunga latitanza: camicetta fuori moda, unghie poco curate, nessuna voglia di mandare sms. Guarirà con l’aiuto della psicoterapia. * Il bene salva. Abbiamo attraversato il tunnel di stazioni irriconoscibili per velocità di passaggio e fermate non richieste. Poi il buio delittuoso di una contrattazione rapida, marciare veloci, qualcuno che imprecava. A quel punto la paura aveva già consegnato la ragazza (chiamiamola così) alla schiera innocua di quelli che vanno. Voglio dire: si stava allontanando, le sembianze non erano più le stesse, la si portava via da noi. Senza allarme, senza orrore. Con una certa cordiale meticolosità.

Ma il buio, a volte, salva. Salva la notte. Di mattina gli arti spossati, pesanti quintali. La fatica di essere di nuovo leggeri.

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* Ti metti in macchina guidi di notte, millequattrocento euro esentasse senza bisogno del commercialista – qui alza il tono poi lo abbassa. Ciao belle bimbe dove andate. Il pomeriggio ha l’aria più scura. A furia di pause e tipi che passano il bar diventa una cattedrale. Pochi silenzi sono gli stessi solo non c’è un centro, il centro va via in corrispondenza dell’incrocio. È una rarità che corrompe, sperpera idiomi, illanguidisce. (zona Brera)

* Se poi non fossero che colate di attributi – i corsi alberati, l’indifferenza delle auto in sosta. Un tutt’uno che mortifica il parlato, un apparire legati all’incalzare della festa… (Milano, via Civerchio)

* Ottobre carsico, ma anche gentile. Tra l’inizio e la fine, in una staticità accudita, tutto parla di un sentimento mediano, gregario malpagato e riconoscente. Riconoscenza. Ecco come respingere le ondate estive irrisolte. Senza guardarsi indietro, attraversando muri a spallate. *

Ils sont venus, les forestiers de l’autre versant, les inconnus de nous, les rebelles à nos usages. (René Char, Les inventeurs)

Non ho nulla non posseggo nulla non aspiro a nulla. Amo il cruccio delle membra nell’incedere come il carcere spaesato che mi saldava allo sguardo dell’ultimo, o il penultimo comunque uno straniero, uno spogliato di tutto sorridente ancora piacente sotto la coltre devastata degli anni senza accumulo – una carriera al contrario – Sono io quell’uomo assente vigilo solo così, sento gli archi tesi del pianissimo, due gocce smaltate che si abbracciano a mezzo vetro e precipitano al fondo (…) Odio il tuo accumulo il discrimine il riserbo a sperperare, tu sei ricco un ricco potente non ci armare non guardarci, siamo una goccia unica priva di tutto, a filo di sogno, di smania a un disconoscimento, di un cortocircuito che prima o poi ci brucia. *

Appunti di economia domestica

Mia mamma fa le spremute, Annamaria prepara i toast mentre il cagnolino Tessa saltella tutt’attorno spargendo briciole di pane raffermo: sono i fantasmi raggelati in una cartolina postale dell’infanzia della famiglia Pianzola. Tutti potrebbero riconoscervisi, a parte i toast che in questo caso sono preparati con prosciutto Barabino, una produzione locale. … Abbiamo trovato le mele Annurca, stranissimo nome di mele campane. Purtroppo però in questa seconda cartolina non c’è il paesaggio che vi aspettereste: mancano bambini, in seguito mancheranno adolescenti. … Potrei spingermi oltre e incidere sulla pagina, che già si ribella, il nome di tutti i compagni di scuola e delle città che hanno formato. Mi sentirei tra l’altro a posto con la coscienza, impersonale collettiva come ho sempre cercato di essere, un buchetto insulso nella folla affaccendata militante. Che orrore, dio, la parola io. * Si vive meglio nel fallimento oscuro, nella caritatevole assenza di illusioni che mette quel sentore sapido tra i denti e la lingua. Da questa posizione, guardando in su, il cielo è un fondo incatramato che ripara, schiaccia verso il basso insacca nell’ombra. E lì il respiro insiste, la catena massacrante scivola leggera sulle scapole che non sembra vero. Non conviene salire di grado, non pare bello disseppellire il capo con un colpo astuto della nuca.

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* Da un po’ mi attraggono le sante, quelle che si ammalavano gravemente e prendevano il dolore come un premio speciale del padreterno, il segno che gli voleva proprio bene. Teresina, per esempio, diceva che Gesù era un ladro e la voleva rubare. Lo diceva con un sorrisetto furbo mentre la fatica di respirare la faceva sobbalzare sopra il letto. Ha parlato così un’estate intera, con bocciòli di gardenia che le uscivano dal petto. *

Non so come chiamarla: la cosa non ha nome. (Joseph Conrad, Lord Jim)

Lasciamo macchie, incalciniamo il passaggio con impronte un poco untuose. Là dove stavi seduto per molto tempo s’è creata un’infossatura. Era un pomeriggio o una sera, l’appartenenza alla stanza si placava su un sedile per nulla consapevole. E buchi, e mancanze, e volti da rallegrare. Ma se stai da un’altra parte, e hai percorso un bel po’ di scale, riempi almeno di presenza l’incavo affannato, manda qualcuno. Qui serve il tepore di un bacino a riposo. * Nei giardini condominiali vado di sera, fingo di passeggiare con il cane e mi sorbisco manfrine famigliari, rumori di cose spostate, tapparelle abbassate. Luci in sequenza dalle finestre degli appartamenti. A volte si sente lo scatto elettrico di un cancello, poi un ragazzo salta giù dalle scale comuni. Mi piace saperli a tavola, o in soggiorno, lei che va dove non sa lui, un figlio che gioca sul letto. * Nell’edificio anonimo, rumori di ferri gettati nel cortile. Risorse consumate gli oggetti nella stanza, più di ogni altro il cellulare, che ha già fatto il suo mestiere. Una mezzora scarsa ci separa dall’evento (fatto che accadrà nel pomeriggio). Nulla è incerto, anche il fumo della sigaretta cammina dritto verso un punto della parete mezzo illuminata. Qui, almeno, saremo pulviscolo persistente, già solidificato (intendo la realtà, il chiarore che sbaraglia). *

Sed nec perpetuae sedes sunt fontibus ullae, aeterni aut manant cursus. (Giovanni Pontano, Meteororum Liber)

Il tempo delle cose è brevissimo, eppure operai demoliscono insistentemente per costruire una multisala. Scavatrici in funzione, materiali edìli in quantità indescrivibile. Io per me infilo in fretta le scarpe alla mattina per scampare al crollo prevedibile e correre da qualche parte. L’inguine nei pantaloni non parla, ammutolito stancabile sfinito. È un tempo incolume finora, mi dico, ma a fatica lo intendo, a fatica assumo posizioni durevoli. Non è certa la causa, l’effetto addirittura manca. Ma quotidianamente insisto in un tempo che resiste, dentro una storia non richiesta che non rischia suoli, non escogita.

--Note. Il testo I pensieri si facevano enormi, distesi è stato scritto in occasione della mostra Balkan Epic, Marina Abramovic, Hangar Bicocca, Milano 2006. Fräulein ha liberato il suo carceriere si riferisce al caso di Natascha Kampusch, rapita a dieci anni nel 1998 e liberata nell’agosto 2006. Teresina, in Da un po’ mi attraggono le sante, è Teresa di Lisieux (1873-1897).

Notizia. Luisa Pianzola è nata a Tortona nel 1960 e si è laureata in storia dell’arte contemporanea alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova. Giornalista pubblicista, ha pubblicato i volumi di architettura Alberto Sartoris, da Torino all’Europa (Alberto Greco Editore, Milano 1990) e Prima del Progetto, disegni della formazione di Alberto Sartoris (Sapiens, Milano 1993). Ha pubblicato le raccolte di poesia Sul Caramba, Sapiens, Milano 1992, Corpo di G., LietoColle, Faloppio 2003 (prefazione di Maurizio Cucchi) e La scena era questa, LietoColle, Faloppio 2006 (prefazione di Gianni Turchetta).

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Ha curato l’edizione 2006 de Il Segreto delle Fragole, LietoColle. Sue poesie sono apparse in riviste e antologie. Vive e lavora tra Tortona e Milano.

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luglio, 10.00 pm

coro dei condomini (a lato) noi gente così povera di illuminazione da potersi dire carente di quelle verità su cui fondare la più friabile delle dannazioni ma sempre intenta a ruminare calma vaghe forme di lotta nel ventre [lungo dei palazzi noi soli consumiamo elettricità a fiotti coerentemente per meglio figurare davanti gli specchi dove scema la giornata ubriachi del sonno vuoto che procedere non vuole e si fa nuova ruga crepa abissale fra i due emisferi della mente * luglio, 11.40 pm

gli si fa incontro la troppa varietà dei nomi il diagramma di quante menzogne produciamo impossibile da decifrare qualcosa abbarbicata al respiro che lo spreme e lo ribalta tramutato in [nuovo orrore perché questo balbettio ci meritiamo e quale altra insensatezza può immaginare mentre varca la soglia malgrado il dolore procurato da questa faccia chiusa a pugno malgrado tutto * luglio, 09.00 am

poi s’è dormito ancora lontano dai morti come dai sogni in una distanza siderale cui si arriva per macerazione interna e assoluta dimenticanza ma niente dolore niente quindi naturale al risveglio farsi un caffè ascoltare dell’ufficio accanto il condizionatore quel suono snervante poi lasciare che pervicace il bianco invada la mente * luglio, 06.24 pm a venire

qui sono l’inferno e il dubbio personale cresciuti entrambi al passaggio di memorie disattente quelle che hanno formato le false prospettive da cui parte l’inverno prossimo a venire il vuoto abbaglio di candela creato per mostrare la distanza dai confini certi lo spazio troppo esteso dove l’opera dev’essere con forza e pugni fatta grande ma povera non tiene non ci fa contenti prima del letargo prima dei pensieri accesi spenti [Da INTERIORS]

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* prima

lo seguono nel chiarore del retrobottega sicuri del fatto loro gli fanno persino discorsi pratici su quanto potrebbe restare in piedi del suo futuro cosa che pare a lui non frega vuoi per l’eventualità di certi strascichi sia per l’onesto lavorare al pozzo dei pensieri oltre l’estremo limite di ogni costanza per questo sembra li guardi con indifferenza quasi non li senta parlare del come o dei perché solo contempla in funzione di se stesso la consistenza del cosa era davanti al cosa è mentre nuovamente la parola perde di significato e nesso * intermedia

ammirano lo strato secondario della luce quella piega meridiana che strappa forme dal paesaggio riducendole a fondale necessario qui andrebbe fatto lo sforzo si dicono qui non poco oltre fermando il tempo nell’istante imposto alla natura e l’uno capisce la parolina la formuletta magica composta dalla metà a se stesso identica allora con gli occhi immagina il boato avvenire prendere forma prima dell’orizzonte senz’altro bisogno di sapere * pausa

aspettano sempre il momento giusto perché solido gli appaia l’agglomerato dei ragionamenti con tutta l’ineluttabile staticità delle cause parenti strette nella produzione degli effetti aspettano con tranquillità creando pause fra boccata e boccata di qualche sigaretta senza stare troppo a immaginare l’oltre nascosto dietro il velo come sarebbe vero o semplicemente giusto si facesse per una volta sola per qualche volta almeno * terza azione

spostano l’attenzione di chi resta curioso dal fatto al presupposto dell’atto ancora tutto da interpretare

poi stanno ad aspettare che nessuno li noti nell’eco prodotto dai richiami delle sirene si fanno contenitori sempre più vuoti figure prese in prestito da subito eclissate

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* sesta: intorno a prima 1

l’uomo che dorme il suo destino gli dicono suadenti non ha futuro perciò sul da farsi lo consiglieranno proprio loro che come lui padri di famiglia già sono e restano integri padroni del governare sulla vastità del campo famigliare anche dopo il raccolto avvenuto per fede anche se lui nel racconto non crede né cede alle precedenti lusinghe poiché si avvede il seme è del tutto incoltivabile agli occhi appare completamente marcio ma loro vedere non possono trasformano se stessi in elementi abili a cancellargli le parole a trapassarle in suoni flebili * sesta: intorno a prima 2

allora l’uno dice chiaramente dio madonna esprimendo se stesso nel ringhio innaturale di chi s’è persa la ragione ma al contempo afferma verso l’opposta metà l’inconsistenza proterva del suo esistere lì e ora quel novero di atti ciechi per cui non sa né vuole sapere però ostinatamente agisce perpetrando quel che ha in mente l’altro comprende ogni cosa recupera insegnamenti si fa affine accosta le tende nel gesto deciso propende

* ottava

ora si sa quanto li facciano contenti quelle immagini rare formate per sedimentazione di paure eterne

le ossa murate dietro punizione larve di occhi impigliate sotto plastiche trasparenti e gli odori che dopo si sono andati creando spontaneamente sono alcuni esempi per dichiarare l’atto e la sua funzione

altrimenti chi li sente poi i diavoli dell’inferno i comandanti pronti a comandare dai loro parlamentini osceni capaci solo di ordire trame in luogo riparato quando già si sa il dramma per tutti è cosa indifferente

* nona

leggono dal corriere della sera le pagine sportive poi i tamburini degli spettacoli e procedendo a ritroso i necrologi le brevi di cronaca nera dove tutto il falso potere a loro aggiudicato prende forma e viene indicizzato col piombo scuro degli inchiostri [Da LORO]

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Notizia. Sergio Rotino (Lecce 1958) vive a Bologna dal 1977 dove lavora in campo editoriale e giornalistico. Poeta e narratore è stato uno dei fondatori delle riviste Versodove e Carmilla. Ha pubblicato la plaquette Non basta (Lecce, stamperia Palmieri, 1985). Suoi testi sono apparsi principalmente su fanzine, riviste e quotidiani fra cui Addictions 6 (1996); Atelier 17 (2000); Aube magazine 40 (Venissieux, Lione 1991); Bologna incontri 2 XVII (986); Campimagnetici 1 (1989); Carmilla 1, 2 (1995, 1996); Dispacci 3, 4, 6, 7, 8 (1983-1985); Fernandel 19 (1998); L’immaginazione 5 (1985); l’incantiere 20, 21 (1991, 1992); Labirinti del fantastico 1-2 (2005); Numero Zero 4 (1987); Nuovi Argomenti 25 (2004); Origini 8 (1989); Palazzo Sanvitale 4 (2000); Private 4, 6, 10, 14 (1994, 1995/1996, 1996/1997, 1998/1999); la Repubblica (1994); Il rosso e il nero 15 (1999); Lo spartivento 9, 21 (1988, 1989); La tartana degli influssi 7 (1978); ’tina 1, 8 (1996, 1998); Tratti 37, 72, 73 (1995, 2006); l’Unità (1984); Versodove 1, 4/5 (1994, 1996); Vertigine 6, 1 Nuova serie (2005, 2006). È inoltre presente su varie antologie quali Opposizioni 11 (1988, PASS srl); Lo spartivento (1986-1990) (1990, Edizioni Lo spartivento); Gilberto Centi (a cura di), Bologna e i suoi poeti (1991, EM); Poeta legge poeta (1992, A.A.A. in cerca degli angeli); Niva Lorenzini (a cura di), I colori delle parole (1993, Associazione Italo-francese); Marcello Fois (a cura di), Giallo, nero & mistero (1994, Stampa Alternativa); Matteo Bianchi (a cura di), Kaori non sei unica (1995, Tempi Stretti); Matteo Bianchi (a cura di), Miguel son sempre mi (1996, Tempi Stretti); Gilberto Centi (a cura di), Indagine sulla poesia (1997, Pendragon); Valerio Evangelisti (a cura di), Fantastorie dal terzo pianeta (1998, L’altritalia); Akusma. Forme della poesia contemporanea (2000, Metauro Edizioni); Le poesie del Navile 2000 (2000, Mobydick); Bruno Brunini, Carla Castelli (a cura di), Cinque anni dopo il duemila (2006, Giraldi); Corale (2007, Le voci della luna). Ha curato, da solo o con altri, le antologie Antologia 1988 (I quaderni del battello ebbro, 1988), Opposizioni 7 (1988), RZZZZZ! Scritture Sotterranee (1993, Transeuropa), 6000 raudi e 2mila paranoie (1996, Transeuropa); i fascicoli Lo spartivento 14 (1988), Iceberg ’96, in Versodove 6/7 (1997); Progetto Patchwork (2006); il libro di Francesco Scalone La macchina dei sogni (1995, Millelire-Stampa Alternativa); la sezione poesia-narrativa della rassegna e del catalogo “Rotte metropolitane 2” (Comune di Firenze, 1996); i volumi di poesia del premio “Renato Giorgi” relativi a Paola F. Febbraro (2003, Manni), Marco Giovenale (2004, id.), Raymond André (2005, id.), Maria Gabriella Canfarelli (2006, Giraldi), Elio Talon (2006, Le voci della luna). Ha fatto parte della cooperativa “Dispacci” di Roberto Roversi dal 1983 al 1986.

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Introduce la mano ed è caldo, le onde provengono da lontano, con l’impeto dell’acqua negli idranti, ma verso l’alto è gelido e terso, come un mattino di Febbraio sullo Ionio, l’occhio si distacca come un uccello, osserva l’orologio degli eventi ruotare e l’erba crescere nel giardino impraticabile, i camminamenti di pietra spariscono e i figli escono dalla porta di servizio, la sua donna, col volto pieno di date come i libri di storia, gli mostra la mappa attuale della loro vita, e sotto quella, politica e cangiante, egli intravede, senza confini, la stabile e anelata pace geografica. *** Lo sforzo di rappresentare in astratto, con formula matematica, lo spirito si infrange sempre su risultati antropomorfi, dai quali, anche dopo la morte, scomposizione geometrica della figura, si ricavano solo valori di superficie, come il dato numerico di base, altezza, lato, utili appena alla resurrezione della forma. *** E viene l’ora di rilegare le pagine, il ferro della cucitrice trapassa la carne, con la formula che pone in rapporto il tempo, il dolore e l’ordine che alla propria vita, con fatica, si tenta di dare, e fra quelle ingiallite e le mancanti, l’albero conosce l’affanno della sua irreversibile stagione autunnale, prima del macero finale, e i nuovi fogli ricavati, che si riscriveranno. *** Si osserva nella stanza come un oggetto, un bronzetto riverso di Colapesce con la coppa nella mano, ma privo di corpo, di spessore, istantanea di se stesso, che mai potrebbe cogliere altrimenti, come la carta di un fante prima d’essere giocata, chiara da un lato e oscura dall’altro, quello che si mostra, in agguato. [Da La dea della geometria] Notizia Biagio Salmeri, medico psichiatra, vive a Catania. Per la poesia, ha pubblicato: "E passano nebbiosi i bastimenti", Premio Montale Inedito, in "7 Poeti del Premio Montale" (Scheiwiller, 1998), "La via umida" (Il Girasole, 1999, prefazione di Silvano Nigro), Premio Dario Bellezza Opera Prima, "Voci di sola andata" (Lietocollelibri, 2002, prefazione di Marco Guzzi), "L'esatta cubatura del vuoto" (Manni, 2002, prefazione di Elio Pecora). La raccolta "La pace e il dissenso" è in uscita presso Passigli Editori (2007, prefazione di Maurizio Cucchi). È presente con vari componimenti su antologie e riviste letterarie.

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NORA […]nel buio figura labile tra figure Giorgio Caproni Fra le cose del tempo c’è anche Nora: sta ferma sulla soglia della stanza vietata ad osservare i resti del bicchiere caduto dalla mano e ascolta la frase ripetuta da quello Shultz & Pollmann oltre la vetrata. * Della Vienna d’inverno

Della Vienna d’inverno si rammenta con poco, se a chiamarla le basta appena il niente che dentro ha un dispiacere. * Come un guanto

Fra l’Anderlan e la notte sa un’altra lingua e tace quando si accosta ai vetri a guardia di ore chiuse, gelida come un guanto perduto per le scale. * Dietro le imposte

Il manto rassomiglia al muschio di Anterselva quasi senza il conforto dell’uomo coi gemelli che sta dietro le imposte di una città lombarda. * L’andatura

Pure così vicina quella malinconia che fa Merano, ancora, giovane come allora e bella l’andatura di lei che va per via. * Oltre le tende

Quando ancora non sa e delicata volge lo sguardo oltre le tende,

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col fiato rotto scorge, sugli alberi, la neve. (1987)

Notizia. Francesco Scarabicchi è nato ad Ancona, dove vive, nel 1951.

Ha pubblicato, in versi, La porta murata (’82), Il viale d’inverno (’89), Il prato bianco (’97) raccolti, in scelta, ne Il cancello 1980-1999 (Ancona, Pequod, 2001) con una nota di Pier Vincenzo Mengaldo. Nel 2003 è apparso L’esperienza della neve (Roma, Donzelli) finalista al “Premio Viareggio” 2004 e vincitore del “Premio Metauro” e “Premio Crati” 2004; Il segreto (Brescia, L’obliquo, 2007).

Ha tradotto da Machado e da Lorca raccogliendo una selezione ne Gli istanti feriti (Ancona, Università degli Studi, 2000) e in Taccuino spagnolo (Brescia, L’obliquo, 2000).

Di recente L’attimo terrestre – Cronache d’arte 1974 -2006 (Ancona, affinità elettive, 2006).

Ha ideato e coordina, dal 2002, la rivista semestrale di scritture, immagini e voci nostro lunedì.

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