PRIN “ITALIA DI MEZZO. DESIGNING THE URBAN TERRITORIAL TRANSITION”
Principal Investigator | Prof. Arturo Lanzani – Politecnico di Milano
SEDI CONSORZIATE:
Politecnico di Torino – Coordinatrice Prof. Cristina Bianchetti
Università della Basilicata – Coordinatrice Prof. Maria Valeria Mininni
Università Federico II di Napoli – Coordinatore Prof. Enrico Formato
GRUPPO DI RICERCA | UNITÀ LOCALE POLITECNICO DI TORINO – DIST:
Prof. Cristina Bianchetti
Arch. Edin Barbi Cinti
Arch. Laura Cardino
Arch. Alessia Carlone
Ph.D. Arch. Michele Cerruti But
Ph.D. Arch. Luis Martin Sanchez
Arch. Natalia Migliore
Arch. Camilla Rondot
R.U. Ianira Vassallo
Progetto grafco | Luis Martin Sanchez
Sei icone dell’Italia di mezzo
«Appartiene veramente al suo tempo […] colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo»
G. Agamben, 2008
Indice
I. Apertura
Introduzione
Iconografe e anacronismi
II. Luoghi consacrati a immagini defnitive
Biella
Borgo Mezzanone
Bussi sul Tirino
Carrara Cervia
Terni
III. Prime considerazioni di sintesi
Iconografe
Dèsafliation
IV. Fino a qui Biblilografa
Calendario
I. Apertura
Borgo Mezzanone. Fotografa di Camilla Rondot, 2022.
Introduzione
di Cristina Bianchetti
Chiudendo un volume che può essere considerato il primo prodotto della ricerca collettiva su L’Italia di mezzo (Bianchetti 2024), richiamavo un passo di Giorgio Manganelli: un commento al testo intitolato Condizioni di luce sulla via Emilia. In questo commento compare un personaggio, un “pittore di ornamenti per giostre” che cerca, lungo la via Emilia, un luogo in cui “la luce faccia grazia alle cose”, “le lasci consistere immobili” (Manganelli 2020: 189) . La parola immobile, scrive Manganelli, torna continuamente “a designare le cose che riposano nel proprio essere, non disturbate dal frammentato urgere dell’esistere”. Trovo che questa sia un’immagine molto corporale: le cose, la luce, il loro esistere fermo, immobile mettono in gioco i sensi, l’esperienza e il desiderio. Un’immagine che si può estendere ad alcuni luoghi dell’Italia di mezzo: luoghi consacrati a immagini definitive, che riposano nel proprio essere. Non significa luoghi ben delineati, netti, chiari. Al contrario di definitivo c’è forse solo una certa sfocatezza, una testarda opacità. Una penombra. Quella delineata da Manganelli è sembrata un’utile angolazione per affrontare un’indagine sulla provincia italiana, su L’Italia di mezzo, un concetto che non si riesce ad afferrare una volta per tutte, anche se spesso, paradossalmente, rimanda a immagini definitive, immobili.
Luoghi consacrati a immagini defnitive
Questo testo, qui in formato ancora provvisorio, fa un ulteriore passo. Cerca di mettere in discussione la prospettiva dell’immobilità individuando sei luoghi che possono essere considerati “consacrati a immagini definitive” dell’Italia di mezzo e prova ad osservarli, ad osservarne i mutamenti e le politiche che li riguardano.
Biella; Borgo Mezzanone; Bussi sul Tirino; Carrara; Cervia; Terni. Luoghi che riposano nel loro essere e nelle loro specifiche storie del rapporto tra produzione e territorio, a volte antiche. Biella consacrata nella storia del distretto industriale tra i più antichi in Italia, forse il primo se ha qualche senso individuare una primazia. Borgo Mezzanone consacrato nella storia, assai più breve (trent’anni), ma più intensa e ferale della baraccopoli dei lavoratori legali e illegali nella piana foggiana. Bussi sul Tirino consacrata nella storia della prima grande modernizzazione del paese ad opera dell’industria chimica, dentro il cuore dell’appennino abruzzese. Carrara e l’estrazione del marmo. Cervia e il sale. Terni e le acciaierie. Luoghi che sembrano riposa-
re nelle loro storie. Spesso rappresentate in una forma abbreviata, iconica, sintetica, coprente. Storie che vogliono raccontare gli orizzonti di senso per l’intera collettività. E così facendo finiscono con smorzare in questi orizzonti complessivi le tensioni, i desideri, le forze, il garbuglio delle relazioni tra corpi, ognuno dei quali tende alla propria affermazione e conservazione.
Sconnessioni e sfasature: i luoghi defnitivi non sono defnitivi
Perché queste storie, queste immagini sintetiche delle relazioni tra processi produttivi e territori parlano dell’Italia di mezzo oggi, della sua realtà, del modo in cui questi territori si situano nel complesso campo delle politiche? Sono storie che raccontano il passato, ma i loro sfridi e anacronismi introducono nel tempo delle discontinuità. Parlano di più tempi. Non coincidono con il presente, ma attraverso le sconnessioni e le sfasature sono capaci di farci riflettere sul presente.
Questo è un punto rilevante della ricerca che tenta di incrociare le condizioni contemporanee dell’Italia di mezzo, rinunciando ad inseguire ciò che si dichiara innovativo, e provando invece ad osservare i sussulti, gli scarti, le sconnessioni e le sfasature di queste vecchie storie. Riconoscendo ad esse la capacità di dire i paradossi e le difficoltà del territorio in questa fase. È paradossale, ad esempio, l’idea di discutere la fase attuale di crisi (sanitaria, ecologica, finanziaria e di rappresentanza) attraverso storie moderne o premoderne.
È indubbio che siamo in una fase in cui ricorre incessantemente il tema della crisi. Della crisi di questa fase del capitalismo, innanzitutto. Con ogni probabilità più auspicata che reale. Resta il fatto che YouTube è letteralmente inondata di dialoghi e podcast sulla crisi e sul fallimento del capitalismo. La presenza di David Harvey è dominante. Per la pubblicistica scientifica non è diverso: i termini più utilizzati oltre a crisi (Harvey), sono fallimento (Michie), rovina (Brown), conflitto (Urbinati), cannibalismo (Fraser). In modi diversi si ritrova, più o meno, lo stesso racconto: si sono chiusi i trent’anni neo-liberisti che lasciano un’eredità controversa e difficile da superare. Difficile da superare è innanzitutto il formidabile spostamento di potere, di risorse e di autorevolezza che in questi anni si è verificato tra Stato e mercato, tra pubblico e privato, tra azione collettiva e mobilitazione indi-
Osservare anacronismi, sfridi, sussulti di vecchie storie ri-raccontate tante volte come storie esemplari, può essere un modo per spiare questioni più ampie che riguardano questi territori, l’Italia di mezzo e forse anche l’indagine territoriale in uno sfondo di crisi. Per capire come la dimensione tecnica e culturale dell’architettura e dell’urbanistica può oggi esprimere, se lo può, la sua dimensione politica.
L’inizio di una ricerca è sempre un gesto
13 viduale. Ha probabilmente ragione Gabriele Pasqui (Conferenza SIU, 2024) a sostenere che “se non capiamo la pervasività, materiale e culturale, perfino simbolica, di questo colossale spostamento di potere e di risorse” finiamo per capire poco dei nostri territori, delle politiche che li coinvolgono e delle capacità di incidere delle nostre competenze di architetti e urbanisti.
La ricerca osserva storie tra loro molto diverse, sorprendenti alcune per la resistenza a mutate condizioni, altre più tradizionali e al contempo mutevoli. Storie che dichiarano problemi sanitari, ambientali, idraulici esplosi negli ultimi anni. Disegnano un territorio di accadimenti, resistenze e disastri. Per questo le prime mosse della ricerca seguono un’analisi processuale di continua scomposizione e ricomposizione: abbiamo più volte mutato l’angolazione con una certa libertà di movimento e sfocatura dello sfondo: abbiamo messo al centro la nozione di impronta. Impronta della produzione sul territorio, ispirandoci ai lavori anni ‘60 di Tito Scialoja che richiamano, con questo termine, una forza esercitata su una superficie che la accoglie e la rivela in una forma. Poi le nozioni di inciampo, sfasatura tra tempi, anacronismo. Poi ancora le tracce di un indebolimento progressivo della capacità di resistenza (nel senso foucaultiano, nel binomio tra resistenza e potere). E infine mettendo al centro la nozione ormai desueta di iconografia: studio delle figure costruite nella e dalla società locale per rappresentare sé stessa. Figure che si collocano nel registro del mito (spesso coincidente con l’oggetto della produzione: la stoffa, il marmo, il sale, l’acciaio, spesso espressione di un desiderio, prima che di una condizione, ma il desiderio sappiamo, è sempre forza affermativa, generativa, potenza, forza in atto, apertura…).
Questo girare attorno, costruire e decostruire punti di osservazione, spostarsi continuamente non costituisce una perdita di tempo: «la ricerca
territoriale non si costruisce da presupposti limpidi e ben definiti. Con un orientamento già chiaro fin dall’inizio. Ma da un girare attorno a qualche questione in un tempo che solitamente è abbastanza lungo» (Crosta, Bianchetti 2021). Anche in questo caso abbiamo seguito un processo lento di ridefinizione continua del nostro punto di osservazione e, assieme, del nostro oggetto (per quanto i tempi del Prin hanno concesso). L’inizio, peraltro, non è mai un istante. È un gesto.
L’Italia di mezzo
Questa ricerca non vuole lasciar riposare le cose nella luce piatta e ferma della provincia. Lavora per incrinare l’immagine definitiva dell’Italia di mezzo e dei suoi luoghi. Per capire cosa si può fare. Quali questioni più ampie, questi luoghi ci pongono.
Le pagine che seguono sono dunque un gesto: il cui scopo è capire come le iconografie di questi luoghi riescano, se riescono, a dare corporeità, consistenza, ingombro, profilo all’idea di Italia di mezzo. Come raccontano gli specifici meccanismi di co-produzione territoriale, richiamando, elaborando (forse) una tradizione degli studi urbani che una volta si proponeva di indagare le congruenze tra economia, società e territorio. Lasciando aperto il problema della sua (di quella tradizione) eredità e di come farla rivivere.
Le pagine che seguono sono un gesto che si risolve nella presa in carico di un campo di forze, tensioni, insufficienze, risonanze, desideri, modi di resistere, aspetti percettivi, corporali. Così facendo aprono domande: quali crepe palesano nei luoghi? Dove si inchiodano le situazioni? Dove appaiono irriducibili? Dove si percepisce qualche inciampo? Dove si esprime una dimensione pratica e politica dei nostri saperi?
Iconografe e anacronismi
di Cristina Bianchetti e Michele Cerruti But
“Delle icone russe non interessa chi le ha dipinte o quando, ma se fanno miracoli.”
P. L. Crosta, C. Bianchetti, 2021
Perché le iconografe?
L’ipotesi che muove il ricorso all’iconografia è duplice: da un lato, l’iconografia di un territorio è una categoria operante, categoria che produce e trasforma lo spazio; dall’altro, lo studio dell’iconografia di un territorio ci può dare strumenti per comprendere come quel territorio stia cambiando (o si ritiene che lo possa).
L’uso del termine iconografia deriva dalla tradizione di studi dell’immagine riconducibile a Panofsky, pur qui osservata secondo una specificità disciplinare che la rende spuria.
Cosa dice Panofsky?
Muovendo dal lavoro del suo maestro, Aby Warburg,1 e dalle tradizioni sulla lettura delle immagini derivate da Cesare Ripa nel 500, Erwin Panofsky definisce un metodo di lettura delle opere d’arte distinguendo tra “Iconografia” e “Iconologia” che diventerà classico per tutto il Novecento. Secondo Panofksy (1939), le immagini si possono leggere secondo almeno tre livelli di approfondimento: il primo è quello fattuale o formale, oggetto della descrizione. Il secondo è quello delle convenzioni: immagini, storie e allegorie, ed è oggetto dell’iconografia in “un senso più stretto”, che identifica nell’immagine convenzionale dell’agnello il Cristo, o in quella della ruota dentata Santa Caterina di Alessandria. Il terzo, invece, è la lettura dei significati intrinseci e dei valori simbolici sottesi dalle immagini, come la società, le idee e l’impostazione culturale che le hanno prodotte, ed è oggetto dell’iconografia nel senso “più profondo”, o, come dirà nel suo più famoso saggio (1955), dell’iconologia. Al centro sono le “forme simboliche” custodite dalle immagini, intese non come “figure che si riferiscono a una realtà attraverso suggestioni e allegorie”, ma come “forze che producono e pongono ciascuna un mondo proprio” (Cassirer, 1923-9).
1 Mentre gli albori dell’iconografa sono entrati a pieno titolo negli studi urbani, implementando il lavoro di Warburg sull’atlante come strumento anche progettuale, meno lavoro è stato fatto sull’iconografa ed iconologia, seppure vi sia un’importante rifessione sulla Semiotica (cfr. anche Hasenmueller 1978).
In che modo impieghiamo l’iconografa (e ci riferiamo alle icone)
Innanzitutto usiamo il termine icona in modo diverso da quello praticato da “pittori innamorati dell’oro e delle geometrie” (Manganelli 2023: 67): pitture dettate da un codice liturgico rigoroso, stabilito nel tempo, codificato dalla Chiesa. “Volti assoluti, ignari di psicologia” (ivi). Al contrario, l’icona è intesa come esito di processi plurali, densi, che non si danno da sé, ma nemmeno vi si possono riconoscere forze autoriali dominanti, semmai cristallizzano pluralità, coagulano un inconscio desiderante.
Questa è una prima dimensione convenzionale che ne definisce l’uso che ne facciamo. Una seconda, pragmatica, è ancor più rilevante. Le iconografie (produzione, interpretazione, usi delle icone) non si riferiscono ad altri mondi, come nel caso delle icone russe, ma producono realtà esse stesse, attraverso processi articolati che si danno nel tempo.
In questo senso osserviamo che le iconografie dei territori, ovvero le loro rappresentazioni simboliche e operative, sono l’esito di processi culturali in grado di plasmare tanto l’immaginario geografico quanto il paesaggio stesso, nella sovrapposizione di culture dominanti e alternative (Cosgrove 1988). Detto in altro modo: osserviamo che quando la rappresentazione di un territorio ne diventa anche l’immagine operante che trasforma spazio e società, ovvero produce realtà, è un’icona.
Cosa non è l’iconografa
L’iconografia del territorio non è “l’immagine della città” (Lynch 1960), ovvero la restituzione delle immagini mentali dell’esperienza urbana delle persone. Ma non è neppure la Semiotica urbana, che studia la città come un linguaggio (Barthes 1970) o i significati dei suoi segni e simboli o delle sue interpretazioni (Choay 1965). Più scivoloso è tuttavia il confronto tra l’iconografia del territorio e l’urban branding: un lavoro sulle iconografie non intende certo occuparsi delle rappresentazioni dell’urbano, delle immagini promozionali o di marketing territoriali. Va tuttavia osservato che queste stessi campi impiegano le icone territoriali per farne rilevanti campagne. Non ci pare tuttavia che avvenga il contrario, ovvero che i processi di city branding producano iconografie operanti.
Iconografe e anacronismi
Ci pare di osservare come nel territorio possano convivere iconografie non coincidenti, in forme di “simultaneità del non-simultaneo” (Pinder 1926), e che tale “nonsincronismo” (Bloch 1932), “anachronisme” (Loraux 1993; Fevre 1942-1978), inciampo si ponga come domanda sul reale. Come è stato argomentato in un aspro dibattito nel campo della storia.
Entro uno spazio longitudinale abitato da frammenti provenienti da tempi diversi, “i fatti si annodano secondo ritmi temporali complessi, irriducibili all’orizzontalità di un unico livello sincronico. L’oggetto storico è scandito da un contro-ritmo che lo situa su piani diversi, come sono quelli del passato e del presente, dell’originario e dell’attuale, del conscio e dell’inconscio” (Esposito 2017: 14).
Le iconografie che proviamo a osservare sono processi alternativi o sostitutivi o rafforzativi delle forme istituzionalizzate del fare e del rappresentare il territorio, che emergono mentre quelle stesse forme simboliche entrano in crisi, o che talvolta convivono con esse come plurali inconsci desideranti, mondi “altri” che descrivono le potenzialità del futuro, o gli accadimenti del presente.
Il nostro obiettivo non è giungere a una scelta ideologica, univoca (“scegliere l’icona”, direbbe Manganelli), ma discutere il ruolo dello spazio nella costruzione di un’iconografia.Ci pare che lo spazio costituisca una prospettiva privilegiata per osservare il dialogo tra iconografie plurali che abitano un luogo longitudinale di anacronismi, perché consente di “pensare in presenza” (Zamboni 2009) muovendo dal riconoscimento della differenza, che qui intendiamo più come orientamento che come fine, con l’obiettivo di tornare a ragionare di parole e idee della nostra disciplina.
II. Luoghi consacrati a immagini
defnitive
a cura di Luis Martin
Saline di Cervia. Fotografa di Natalia Migliore, 2024.
Biella; Borgo Mezzanone; Bussi sul Tirino; Carrara; Cervia; Terni sono luoghi specializzati entro processi di produzione moderni (in alcuni casi pre-moderni). Luoghi asserviti alla produzione, si sarebbe detto al tempo degli studi sulla città-fabbrica: dove asservite sono le condizioni fisiche-ambientali, territoriali, e insieme coloro che vi abitano. Questi luoghi esprimono ancora una logica definitivamente produttiva?
Biella; Borgo Mezzanone; Bussi sul Tirino; Carrara; Cervia; Terni sono luoghi nei quali confliggono condizioni geografiche-ecologiche-idrauliche e traiettorie produttive e insediative in cui è evidente l’indebolimento progressivo delle capacità di resistenza del territorio. In altri termini sono luoghi emblematici di come si relaziona il territorio e la biosfera in una logica di sfruttamento o di resistenza.
Si potrebbe obiettare che questi luoghi raccontano vecchie storie.
Il che è sicuramente vero. Ma qui si situa un punto rilevante per spiegare l’orientamento della ricerca, al quale si è accennato nelle pagine precedenti: rinunciare ad inseguire ciò che si dichiara innovativo, provando invece ad osservare i sussulti, gli scarti di queste vecchie storie. Riconoscendo ad essi la capacità di dire i paradossi e le difficoltà del territorio nel presente.
Sono luoghi comunemente raccontati nel registro del mito. Luoghi paradigmatici di una iconografia politica, direbbe Ginzburg, suggerendoci di trattarli come icone: sei figure da decostruire.
Sono luoghi, infine, che non interessa, in prima lettura, ascrivere all’urbano, all’agricolo, al rurale; o al centrale al periferico. Proviamo a prenderli provvisioriamente in considerazione come emblematici della condizione dell’Italia di mezzo.
Biella
La “libertà vegetale” nella nuova iconografa del distretto
di Michele Cerruti But
Il territorio biellese è in Italia uno dei simboli della rivoluzione industriale e uno dei caposaldi della ricerca sui distretti:1 è nel 1816 l’introduzione del primo telaio “moderno”, ed è da quel momento che cambia in modo radicale il suo paesaggio. Nonostante una tradizione produttiva laniera persistente nei secoli, è l’arrivo di questa nuova macchina (il telaio) a determinare non solo un nuovo modo vivere, ma anche gli spazi del lavoro e dell’abitare: servono edifici diversi dal passato, più larghi, più lunghi, più alti e più compatti, in grado di accogliere le macchine – quante più possibili – e di permetterne la connessione con i sistemi di trasmissione dell’energia, naturalmente dipendente dall’acqua. È questa la ragione (una macchina per produrre tessuti e una macchina per produrre energia) della colonizzazione manifatturiera degli innumerevoli torrenti e di una dispersione produttiva che getterà le basi alla forma spaziale del distretto industriale. Alle fabbriche seguono, naturalmente, gli spazi dell’abitare, sia specifici (come gli innumerevoli insediamenti operai, o le ville degli imprenditori), sia generici (come l’adattamento delle vecchie case in modo che possano accogliere quei telai in più necessari a far fronte a una domanda di produzione eccessiva), ma anche gli spazi del loisir (piscine, parchi, attrezzature) e dei servizi (asili, scuole, ospedali): materializzazione di un pionieristico welfare aziendale che ha trasformato indelebilmente l’intero paesaggio biellese in una macchina per la produzione tessile.
A margine delle radicali trasformazioni insediative del Novecento, che hanno reso presto obsoleti impianti e infrastrutture ottocentesche o di inizio secolo, o dislocato lungo nuove infrastrutture della mobilità quanto prima era necessariamente connesso all’acqua, ma anche in ragione delle profonde crisi del settore tessile in Europa, tradizionalmente datate agli inizi degli anni 2000,2 il territorio biellese cambia profondamente, in assonanza con quanto avviene in simili territori distrettuali italiani. La produzione si verticalizza
1 Per un approfondimento sugli aspetti urbanistici del caso biellese e delle implicazioni rispetto alla letteratura sui distretti industriali si rimanda a: M. Cerruti But. “Urban Surplus.” In C. Bianchetti, et al., eds. Territories in Crisis. Berlino: Jovis, 2015, 116-124; C. Bianchetti, e M. Cerruti But. “Territory Matters: Production and Space in Europe.” City, Territory and Architecture 3, no. 26 (2016); M. Cerruti But. “What Is Happening to Industrial Districts?” In P. Viganò, et al., eds. The Horizontal Metropolis Between Urbanism and Urbanisation. Berlino: Jovis, 2018, 305-312; M. Cerruti But. “Out of the Public: The Archipelago Alternative.” In I. Vassallo, M. Cerruti But, A. Kërçuku, e G. Setti, eds. Spatial Tensions in Urban Design: Understanding Contemporary Urban Phenomena. Vienna: Springer, 2021, 175-187.
2 È normalmente considerata come soglia rilevante la fne dell’accordo multifbre (MFA), del 2002.
e concentra in pochi ed enormi stabilimenti, la ricchezza si polarizza, la società si avvia verso dinamiche di rilevante invecchiamento e spopolamento, con ingerenti pressioni rispetto al sistema di welfare, laddove le istituzioni pubbliche sono sempre più indebolite ed emerge una vitalità di nuovi (inaspettati) soggetti intermedi come imprese, enti del terzo settore, fondazioni.
In questo quadro, e dopo due decenni di non banale percezione di fallimento, il vecchio paesaggio industriale è rarefatto: non si tratta più soltanto dei monumentali esempi di archeologia industriale, ma neppure del «cimitero di capannoni» (Avallone 2013) che si poteva osservare dopo la crisi del 2008.
La qualità dispersa dell’urbanizzazione produttiva biellese, che aveva caratterizzato una crescita industriale territorialmente specifica, con fabbriche che emergevano ovunque, a ogni altitudine o situazione ambientale, e i relativi insediamenti umani, ma anche le attrezzature, gli spazi del welfare e delle istituzioni, ugualmente disperse in centinaia di microvillaggi produttivi, è oggi esempio di una forma di dismissione radicale, che arriva ovunque, pur se con intensità diverse. Ma è proprio questa dispersione del dismesso, perlopiù irrecuperabile, a diventare lo spazio di possibilità per la libertà vegetale. Che diventa drammaticamente visibile e presente.3 Ma sono, anche, i resti infrastrutturali del paesaggio industriale, integrati in una “natura” che ha tanto i caratteri della produzione che quelli dello spontaneo vegetale: un ecosistema di relazioni tra soggetti, che né nega né promuove lo spazio, ma che si dà come habitat dinamico, tanto industriale quanto naturale.
Il paesaggio postindustriale biellese è inteso oggi come un articolato sistema – o, meglio, una ampia serie di articolati sistemi – di relazioni tra spazi abitati, edifici abbandonati dall’uomo, sovrabbondanti essenze vegetali autoctone e non, nuove foreste, animali che erano fino a pochi anni fa non più presenti (lupi, ma anche alcune specie di insetti), rovine di cemento e di pietra, esseri umani, macchine per la produzione, rifiuti, mezzi per la mobilità umana etc. che interagiscono in sistemi di relazioni che sono più rilevanti della specificità dei loro soggetti. In altre parole, si potrebbe dire che il distretto biellese, proprio per la sua specificità spaziale di diffusione
3 Sul ruolo politico della visibilizzazione si veda J. Rancière. Le partage du sensible: Esthétique et politique. Paris: La Fabrique Éditions, 2000. Un lavoro di grande importanza rispetto al ruolo politico del vegetale spontaneo è certamente quello di M. Gandy. Natura Urbana: Ecological Constellations in Urban Space. Cambridge, MA: MIT Press, 2022 e, in Italia, di L. Barchetta. La rivolta del verde: Nature e rovine a Torino. Milano: Agenzia X, 2021.
Localizzazione | Biella (BI)
Coordinate |
Tipo produzione |
Inizio delle attivià produttive |
Addetti |
Numero di imprese |
Fatturato |
molecolare, è un pluriverso ecologico.4
Se infatti è vero che gli studi sugli ecosistemi urbani da decenni hanno osservato l’interdipendenza tra specie vegetali e specifiche strutture e infrastrutture antropiche,5 e pertanto non è naïve descrivere questo tipo di interazione tra umano, vegetale, animale, minerale e tecnologico come una “natura industriale”,6 quello che tuttavia è specifico del caso biellese è che sia il modo di funzionamento dell’attuale segmento produttivo, sia le specifiche forme di vita di questo territorio intermedio, sia il racconto del paesaggio che ne viene fatto ai fini commerciali o di marketing turistico si fondano su un’iconografia coerente. Quel che emerge è infatti un paesaggio fatto di ampie pluralità ecosistemiche, ovvero un paesaggio di relazioni tra soggetti prima che di identificazione di oggetti simbolici.
L’ipotesi è che il caso biellese mostri le tracce di un diverso modo di produzione dello spazio, in cui il palinsesto territoriale non è più l’esito a posteriori delle alterne vicende di intenzionalità umane e determinazioni naturali, ma espressione dinamica di una diversa distribuzione di agency tra attanti umani e non. In secondo luogo, che tale modalità “relazionale” di produzione dello spazio sia leggibile entro l’esplicitazione di una iconografia coerente e condivisa, che segna una distanza rispetto alle precedenti definizioni moderne.
Tracce di questo cambiamento sono, ad esempio, e in modo non esaustivo:
1. Le insistenze su un concetto estremamente ampio di woolscape di alcune iniziative locali, che non si soffermano più sui soli edifici di archeologia industriale, ma che promuovono un’impostazione assai più articolata, in cui il paesaggio è “un’opera combinata dell’uomo e della natura”.7 Mentre gli
4 Si veda A. Escobar. Designs for the Pluriverse: Radical Interdependence, Autonomy, and the Making of the Worlds. Durham: Duke University Press, 2018.
5 Per cui, ad esempio, è possibile identifcare ecosistemi “ferroviari” in cui le specie botaniche e animali dipendono largamente dai tipi di materiali derivanti dal deposito materiale antropico legato alla ferrovia – metalli, pietrame, etc.
6 Il riferimento è alla “Natura Urbana” come defnita da Matthew Gandy (2022).
7 Espressione impiegata nel comunicato stampa di uno degli eventi di “Woolscape”: https://www. fondazionesantagata.it/le-news-della-fondazione/woolscape-il-paesaggio-come-opera-combinata-delluomo-e-della-natura/.
31 anni Novanta e i primi Duemila vedevano a Biella un modello di promozione turistica per “fatti urbani”, con iniziative come “la Strada della Lana” che congiungevano emergenze di archeologia industriale, il modello promosso da attori perlopiù privati della cultura che lavorano in rete è all’opposto un racconto territoriale del molteplice e dell’ibrido. Lontanissimo da un’idea di paesaggio “civilizzato” distinto dallo spazio “selvaggio” che molto dibattito novecentesco ha sviluppato: «Cattaneo non farà mai distinzione tra città e campagna in quanto tutto l’insieme dei luoghi abitati è opera dell’uomo. “Ogni regione si distingue dalle selvagge in questo, ch’ella è un immenso deposito di fatiche. [...] Quella terra adunque per novedecimi non è opera della natura; è opera delle nostre mani; è una patria artificiale”. La città e la regione, la terra agricola e i boschi diventano la cosa umana perché sono un immenso deposito di fatiche, sono opera delle nostre mani; ma in quanto patria artificiale e cosa costruita esse sono anche testimonianza di valori, sono permanenza e memoria. La città è nella sua storia» (Rossi 1966: 28).
2. La narrativa impiegata dalle imprese nella promozione della propria appartenenza territoriale. L’impresa Ermenegildo Zegna ha per esempio inaugurato in Piazza Duomo a Milano un progetto di arredo vegetale mimetico rispetto all’Oasi Zegna, che è invece un enorme intervento di parco artificiale (10.000 ha) che in oltre un secolo di interazioni tra soggetti vegetali, animali e umani rappresenta oggi uno dei più grandi esempi di natura “relazionale”8 e di ricca biodiversità. Ma anche Piacenza, le cui immagini promozionali sono l’esempio di una fabbrica che più che immersa nel verde sembra emergere dalle piante. Piante e presenza vegetali che, anche qui, sono l’esito di un lungo processo di relazioni tra uomo e paesaggio: anche il parco della Burcina, come l’Oasi Zegna, è un intervento di coltivazione del tutto umano (57 ha) che è però oggi descritto come una riserva “naturale”. Un approccio che è visibile anche nei progetti di rigenerazione, come l’intervento promosso dalla Fondazione Biellezza (organizzazione sostenuta quasi esclusivamente dagli imprenditori locali con lo scopo di potenziare il turismo) per il ridisegno della strada Trossi – un progetto commissionato allo studio di Landscape Urbanism LAND, e che è fondato su questa stessa ibridazione relazionale, immaginando una serie successiva di spazi di forestazione spontanea
8 Ben lontano dall’idea di “prima natura” di matrice hegeliana, qui il riferimento è naturalmente a Latour, ma anche al lavoro di Nicola Perullo (N. Perullo. Estetica senza (s)oggetti. Per una nuova ecologia del percepire. Bologna: Derive Approdi, 2022).
a marcare un ingresso tutt’altro che monumentale al territorio.
3. Le espressioni più diversificate dell’abitare turistico o del loisir, alla ricerca di incontaminati spazi di “natura”. Va in questa direzione la campagna di promozione turistica pensata per Piemonte e Lombardia: immagini di una ibridazione ecologica che affiancano il seducente motto “Naturalmente Biella”. Più che “naturali” o “selvatici”, gli spazi del turismo sono ecosistemi ibridi: rovine naturalizzate dei sistemi di dighe e canalizzazioni industriali ottocentesche che accolgono biodiversità ittiche piuttosto complesse, abbandoni industriali colonizzati da essenze vegetali specifiche indigene o nomadi, boschi irrigimentati da sistemi di protezione e cura oggi abitati da specie mammifere e microecosistemi di insetti rari. Un fenomeno di ibridazione leggibile nelle innumerevoli “piscine naturali” dei fiumi, per esempio, vasche generate dall’infrastrutturazioni di fiumi e torrenti a fini industriali e che nella interazione tra acqua, rocce, fenomeni alluvionali, cure umane si sono stratificate come icone del benessere estivo (una delle più rilevanti è per esempio esito dei lavori svolti negli anni 30 da Ermenegildo Zegna per l’approntamento di una centrale idroelettrica a fini industriali). O, ancora, nelle narrazioni sui percorsi e le vie turistiche di “forest bathing”, esito di imponenti lavori dettati dalle urgenze insediative manifatturiere del distretto e oggi straordinari mondi fauno-floreali insediate al bordo di infrastrutture abbandonate per la mobilità lenta o su rotaia.
A Biella, simbolo dell’industria dei territori intermedi italiani, è lo stesso spazio a prodursi e riprodursi in una polisemia del naturale: non è monumento, non è patrimonio, ma non è neppure un edulcorato paesaggio vincolato da convenzioni internazionali. Si tratta piuttosto dell’emergenza di un paesaggio relazionale, determinato dall’impossibilità di dominio totale dell’umano, ma anche dal riconoscimento di ciò che c’è come rilevante in ordine al quotidiano. Di quello che qualcuno ha definito come una mostruosità (Metta 2022).
A partire da tali tracce del cambiamento di paradigma nel rapporto tra natura e città, si potrebbe affermare che garantire al vegetale il “diritto alla città”, per dirlo con Lefebvre (1968), potrebbe accelerare la transizione all’ibridazione relazionale. Con il vegetale che si prende i suoi spazi secondo la logica «della métis: metafora di un’astuzia lontana dalla razionalità lineare, prevedibile e acquietante di tanta parte del pensiero moderno» (Bianchetti
2006), la città appare diversa. Non più e non solo un palinsesto di segni, esito di processi articolati di «determinismi naturali [e] atti di volontà umani»,9 bensì un ecosistema complesso, la cui stessa esistenza è legata all’esistenza di altri soggetti e alla loro relazione reciproca.
9 Nel celebre saggio di A. Corboz, “Le territoire comme palimpseste.” Diogène 12, 1983, pp. 14-35, il territorio è “conquistato” dalla città ed è descritto come un processo di segni. Quel che tuttavia appare in sordina è piuttosto l’avvicendarsi quotidiano della relazione tra umano e non umano.
Borgo Mezzanone
Il caporalato è una vecchia storia che si ri-declina nelle campagne dell’Italia di mezzo di Camilla Rondot
Guardare a luoghi come Borgo Mezzanone permette di ragionare ancora sul fenomeno del caporalato come pratica produttiva che si ri-declina, oggi, nelle campagne dell’Italia di mezzo.
In questo contributo si vuole tentare di riflettere su due piani: da una parte su come il rapporto tra territorio e produzione si dia in luoghi come quello del Tavoliere delle Puglie e che tipo di ricadute spaziali questo possa avere; dall’altra riflettere su come nelle storie che segnano tale rapporto possano esistere sfasature, salti, intoppi, in grado di farci riflettere sul presente.
Quella di Borgo Mezzanone è una storia antica, legata a pratiche produttive che segnano sin dall’inizio la storia di questo luogo. Le nuove forme insediative legate al mercato estrattivo dei suoli agricoli si scontrano con i vecchi borghi di insediamento fascista e con il sistema di casolari costruiti durante le operazioni di bonifica dei primi anni del XX secolo. Differenti modelli di produzione agricola hanno generato, nel corso degli anni, diversi tipi di risposte insediative. Il territorio è largamente caratterizzato dai segni della bonifica fascista degli anni ’30, tracciati regolari che si diramano da una maglia ad anello definiscono i confini e i collegamenti tra eleganti case coloniche cubiste distribuite in tutta la provincia di Foggia. A partire dagli anni ’80, per problemi di natura ecologica ed economica, un importante numero di produttori campani si spinsero verso la pianura del Tavoliere, alla ricerca di nuovi appezzamenti terrieri in grado di ospitare una coltivazione intensiva, in particolare, di prodotti orticoli. Nel giro di pochi anni, nella pianura della Capitanata, storicamente dedicata al pascolo, il verde delle piante di pomodoro ha cominciato a colorare i campi dorati delle campagne, trasformando questo territorio nella principale area di produzione agricola della zona meridionale.
Come si diceva, il collasso graduale di quella visione coloniale che ha investito le campagne della provincia di Foggia, ha portato al progressivo abbandono di quei dispositivi spaziali e impoverito le prospettive sociali e culturali di quel territorio. La vocazione produttiva tuttavia ha resistito nel tempo rafforzandosi sempre di più in quella che è diventata una delle principali aree geografiche italiane di produzione agricola.
Il lento declino di quella complessa infrastruttura coloniale, l’abbandono di quel modello insediativo, l’innesco di una complessa macchina produttiva intensiva e a larga scala di ortaggi destinati ad essere utilizzati
come materia prima nelle industrie alimentari del Nord Italia ha costruito lentamente le basi del sistema produttivo attualmente più diffuso in questi territori basato su dinamiche di sfruttamento che agiscono attraverso i sistemi del caporalato.
Ricomporre brevemente la storia del territorio del Tavoliere permette di aprire alcuni spunti di riflessione sulle attuali dinamiche economiche e sociali che lo investono.
Ad oggi, analizzando i dati del Sesto Censimento Agrario pubblicati
dall’Istat nel 2018, la Puglia risulta essere la regione con il numero più alto di aziende agroalimentari con una concentrazione che si sviluppa principalmente nelle zone della pianura foggiana. Il carattere fortemente estrattivo della produzione che oggi caratterizza questo territorio fa i conti, tuttavia, con un’importante arretratezza culturale ed economica del sistema agricolo pugliese. Tale condizione, insieme ad altre, è la causa della deriva etico-produttiva a cui si sta assistendo in questo contesto. Come si è detto, tali processi sono legati al lavoro dei migranti e al loro sfruttamento. «Tra Cerignola, Manfredonia, Lucera, San Severo, Lesina, Ascoli Satriano, Orta Nova, nel cuore di quel Tavoliere che fu il palcoscenico dell’ingresso nella Storia del bracciantato meridionale i frutti della terra continuano ad essere raccolti nello stesso identico modo. Secondo le stesse identiche leggi che presiedono da tempo immemorabile al mercato delle braccia e dei corpi» (Leogrande 2016)
In provincia di Foggia, in quello che viene ancora oggi chiamato Tavoliere delle Puglie a causa della conformazione morfologica particolarmente pianeggiante, tra campi a grano e serre a cielo aperto di dimensioni elevatissime, si raccolgono tutt’oggi la stragrande maggioranza degli alimenti ortofrutticoli riposti nelle cassette delle catene di grande distribuzione presenti su tutto il territorio italiano. In questo territorio emergono in modo radicale quei corpi e quegli spazi asserviti ad una produzione intensiva. A Borgo Mezzanone come a Cerignola, Orta Nova e altri borghi rurali dispersi nella piana foggiana si articola un sistema di insediamenti informali frammentato e con forme differenti che accoglie e testimonia la presenza dei lavoratori migranti irregolari impiegati nella raccolta ortofrutticola massiva che interessa questo territorio. Questi luoghi sembrano far parte a pieno titolo di quelle filiere produttive che articolano il capitalismo contemporaneo (Tsing 2021).
La rete produttiva che da anni articola queste dinamiche è ben rico-
Localizzazione | Borgo Mezzanone (FG)
Coordinate | 45.062754, 7.679149
Tipo produzione | Ortofrutticola
Numero di addetti | 118.500
Di cui stranieri | 78,2%
Numero di imprese | 3500
Quantià di prodotto | 22.000.000 quintali di pomodoro annui
Su una superfcie di | 26.000 ettari
Tipologia contratto | Stagionale per il 92,3% del totale dei lavoratori provenienti dai paesi comunitari e non comunitari
noscibile nel territorio che circonda e definisce Borgo Mezzanone entro una varietà di modi che coinvolgono anche lo spazio nei suoi caratteri materiali: la natura estrattiva delle modalità di produzione, sommata all’aumento dei flussi di rifugiati e profughi disposti a lavorare nelle campagne, ha la conseguenza diretta di ridefinire il suolo della campagna come qualcosa di fluido, instabile e precario, riarticolandone alcuni dei caratteri spaziali e sociali.
L’analisi del tipo di economia, del suo sviluppo e delle dinamiche che investono i processi di produzione, trasformazione e movimento (di prodotti, corpi e valori), rende possibile osservare il modo in cui tali forme di produzione costruiscano lo spazio e lo trasformino che è cosa diversa, anche se non scissa, dai modi con i quali la produzione costruisce relazioni di potere. Non per il tipo di coltivazione, per gli aspetti ambientali, per quelli produttivi, ma per come attorno a questa condizione, si costruisce una macchina articolata, solo parzialmente visibile e legale. È proprio nelle pieghe di tali azioni produttive, nelle ricadute spaziali e abitative che i sistemi di protezione e cura della vita emergono, annidati in pratiche e spazi informali che ad oggi vengono utilizzate in modo molto ricorrente per descrivere questi luoghi.
I racconti di Tropeano, riportati su un volume ormai introvabile, parlano di una Puglia del 1908, descrivono le giornate infinite dei contadini pugliesi, costretti a lavorare sotto il sole, ricordano quelli di Leonardo Palmisano che riportano le storie dei braccianti immigrati che popolano le campagne della Capitanata nei mesi della raccolta. La radice storica, politica, economica e sociale del fenomeno del caporalato, spiega Di Marzio (2017), trova spazio nella distanza che intercorre tra l’impresa che insiste su un appezzamento e i braccianti che su quelle terre piegano i loro corpi. Nella distanza di cui si parla si inserisce la figura del caporale, soggetto in grado di realizzare una mediazione fondata sulla messa a disposizione di servizi fondamentali alla vita dei braccianti.
Un territorio che sembra non avere più capacità di resistenza a questo tipo di dinamica produttiva estrattiva di valori ambientali e sociali, descritto e letto dalla cronaca attraverso il “mito” del caporalato, descritto attraverso racconti che rischiano di appiattirne la complessità in realtà porta con sé alcune piccole storie che nascono in opposizione ma anche paradossalmente grazie alle dinamiche descritte. Si tratta di piccole realtà che si distinguono per un’attenzione ad un tipo di produzione eticamente e ambientalmente
sostenibile (casa Sankara, Sfruttazero, …) o di associazioni o simili (che svolgono attività di volontariato) nate dall’attenzione mediatica che negli ultimi anni si sta sempre più accendendo in merito a queste dinamiche in questi luoghi (scuola Fatoma).
Sono tre i piani sovrapposti che sarebbe interessante guardare: un sistema produttivo intensivo (coprente), un sistema di insediamenti informali (puntuale, fluido ma allo stesso tempo molto duro), una rete di associazionismo a sostegno o in opposizione (puntuale, sconnessa, difficile da rintracciare).
È attraverso il mito della damnatio dell’illegalità che copre questo luogo che Borgo Mezzanone esce dalla ‘trappola’ dell’opacità e si imprigiona in quell’immagine immobile che oggi sembra connotalo.
Questo luogo come si diceva è molto di più, come molte sono le implicazioni e le interpretazioni su cui è possibile riflettere con un lavoro che ragioni più sulle discontinuità, sulle disconnessioni, sui paradossi che non sull’immagine definitiva che sembra ora ingabbiare questo luogo e di conseguenza tutto ciò che su di esso si può dire.
Bussi sul Tirino
Il fallimento del sogno della modernizzazione della città adriatica
di Luis Martin Sanchez
Bussi sul Tirino, piccolo comune di circa 2.000 abitanti all’incrocio tra la Val Pescara e la Valle del Tirino è un caso emblematico dei processi di industrializzazione dell’Italia di Mezzo durante il Novecento. La sua storia industriale inizia nel 1901 quando nella frazione di Bussi Offcine l’impresa Elettrochimica Volta avvia la produzione di energia elettrica attraverso il clorito sodico e l’acido cloridrico. Dal 1904 in poi, la storia industriale di questo luogo sarà dominata dal colosso italiano della chimica industriale Montecatini (successivamente Montedison e dal 1988 al 1991 Enimont) – di cui è stato uno degli stabilimenti più importanti, dando lavoro fino a 12.000 persone nel periodo di massimo splendore negli anni 60 – fino alla cessione nel 2002 degli impianti alla società belga Solvay. In questo modo, la storia produttiva di questo territorio s’intreccia con la grande narrazione dell’industrializzazione del Novecento italiano – una storia, nel caso di Bussi, di straordinaria innovazione – ma anche al fallimento del “capitalismo dei salotti buoni” e della “scomparsa dell’Italia industriale” (Gallino 2003) nel settore della chimica di base, verso la fine del secolo.
Nel 2007, con la scoperta nelle vicinanze degli impianti produttivi di una vasta discarica abusiva di rifiuti industriali – sarà definita la più grande d’Europa (130 mila metri cubi di rifiuti in 35mila metri quadrati) – si apre un nuovo capitolo per Bussi. Da allora, la questione centrale diventa la bonifica delle acque e dei suoli contaminati, con l’istituzione del Sito d’Interesse Nazionale (SIN) di Bussi sul Tirino, alle porte di due parchi nazionali (Gran Sasso e Majella). La prossimità del sito a due pozzi dell’acquedotto pescarese – che serve 700 mila abruzzesi – alimentati dal fiume Pescara, estende i potenziali effetti della contaminazione a un’area molto più ampia rispetto al solo sito industriale. Negli anni a venire la vicenda sarà protagonista di numerosi processi giudiziari e di un’inchiesta parlamentare. La storia recente di Bussi, ai pari di quella della raffineria di Falconara Marittima ma anche della crisi del turismo di massa nel medio adriatico, riflette in parte il fallimento del sogno della modernizzazione nella città adriatica ma anche della difficoltà – se non l’impossibilità – di gestire l’ingombrante eredità dell’industrializzazione di questo territorio dell’Italia di mezzo.
La scomparsa dell’Italia industriale
Nel 2003, nel suo celebre saggio La scomparsa dell’Italia industriale, il
sociologo Luciano Gallino scriveva: «Dal 1960 il nostro paese ha perduto o ridimensionato drasticamente la propria capacità produttiva in settori industriali nei quali aveva occupato a lungo un posto di primo piano a livello mondiale. È il caso dell’informatica, della chimica, dell’industria farmaceutica, dell’elettronica di consumo, dell’aeronautica civile e dell’high tech».
La vicenda industriale di Bussi sul Tirino è un esempio perfetto di quanto descritto da Gallino all’inizio del nuovo secolo. Si tratta di una parabola che racchiude sia il successo sia il declino della grande industria italiana nel corso del Novecento. Emblematica perché gli impianti di Bussi Officine si intrecciano con i grandi nomi dell’industria chimica italiana: Montecatini, che dal 1969 divenne Montedison, e successivamente Enimont, tra il 1988 e il 1991.
La Società Montecatini, fondata a Milano nel 1888, durante gli anni del boom economico contava circa 160 stabilimenti e oltre 55.000 dipendenti. Leader del settore chimico in Italia, la Montecatini era, in quegli anni, una delle prime cinque aziende del settore a livello mondiale, escludendo gli Stati Uniti. A metà degli anni ‘60, la fusione tra Montecatini ed Edison — un altro storico nome del “salotto buono” dell’imprenditoria italiana — sotto la regia di Enrico Cuccia, allora presidente di Mediobanca, portò alla nascita della Montedison. Questo nuovo gigante dell’industria chimica controllava il 20% del mercato europeo delle materie plastiche, il 10% delle fibre sintetiche e il 15% dei prodotti intermedi.
Questa storia di grande innovazione e successo imprenditoriale si sarebbe però interrotta nel giro di pochi anni, a causa di investimenti errati, elevato indebitamento, episodi di corruzione, perdita di competitività e scarsi livelli di innovazione (Gallino 2003). Nel 1986-87, il Gruppo Ferruzzi di Ravenna acquisisce il controllo della Montedison, rilevando il 40% delle azioni. Nel 1989, sotto la guida dell’Amministratore Delegato Raul Gardini, il gruppo costituisce con l’Eni una nuova società: la Enimont, che mirava a posizionarsi tra le prime dieci aziende chimiche a livello mondiale. Tuttavia, la sua esistenza fu breve, durando appena quattro anni. Nel 1991, Eni acquisì il controllo totale di Enimont, per poi gradualmente dismettere le proprie attività nel settore chimico negli anni successivi, segnando così la fine della storia della grande industria chimica in Italia. Nel 2002 l’impianto di Bussi
Localizzazione | Bussi sul Tirino (PE)
Coordinate | 42.197279, 13.844399
Tipo di produzione | Chimica di base
Inizio delle attività produttive | 1901
Addetti anni ‘60| 12.000
Proprietà dello stabilimento | Montedison, poi Solvay (dal 2002), succesivamente Società Chimica Bussi (dal 2016)
Inizio della bonifca | 2001
Superfcie della discarica abusiva | 35.000m2
Istituzione del SIN Bussi sul Tirino | 2008
Officine sarebbe stato acquistato dalla società belga Solvay Group.1
Bussi Ofcine: una storia industriale
Nel 1901, a Bussi, la Società Franco-Svizzera di Elettricità, successivamente Società Italiana di Elettrochimica, ottenne la concessione per la costruzione di impianti destinati alla produzione di cloro.La presenza del fiume Tirino era fondamentale perché forniva l’acqua necessaria per le esigenze idriche dell’industria e alimentava la produzione di energia elettrica, contribuendo così alla nascita dello stabilimento di Bussi Officine.Nel 1907, Bussi divenne il primo sito in Italia a produrre alluminio mediante il processo elettrochimico.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, il polo industriale di Bussi si concentrò su produzioni strategiche come il ferro-silicio (utilizzato per corazze navali), clorati (per esplosivi), fosgene (da tetracloruro di carbonio per gas asfissianti), ioduro e cloruro di benzile (gas irritanti e lacrimogeni), e acido benzoico (irritante). Questo periodo fu caratterizzato dalla veloce industrializzazione dell’Alta Val Pescara. Già tra il 1887 e il 1888, era stata realizzata una linea ferroviaria che attraversava Bussi, collegando L’Aquila con Pescara attraverso il tracciato Sulmona-Popoli e Terme-Scafa-Chieti Scalo e a Piano d’Orta, a pochi chilometri da Bussi, nel 1900 era nato lo stabilimento della Società Italiana di Elettrochimica “Volta” per la produzione d’azoto (rilevato dalla Montecatini nel 1904 e dismesso nel 1965). Nel 1921, lo stabilimento di Bussi fu acquisito dalla Società Elettrochimica Novarese, una controllata della Montecatini, che successivamente ne assunse il controllo diretto, segnando una svolta definitiva nel processo di industrializzazione dell’Alta Val Pescara. Il villaggio operaio di Bussi Officine fu completato nel 1926, con le abitazioni situate all’ingresso principale della fabbrica.
Nel biennio 1939-1940, durante la Seconda Guerra Mondiale, la produzione di iprite, noto anche come gas mostarda, aumentò di circa 400 tonnellate in Italia. L’idea di Mussolini era di ottenere un vantaggio bellico utilizzando gas tossici, in violazione delle disposizioni della Convenzione di Ginevra del 1925. Lo stabilimento di Bussi, in collaborazione con la società Dinamite Nobel, si affermò come uno dei principali produttori di agenti
1 Dal 2016 la Società Chimica Bussi è proprietaria e gestore degli impianti.
chimici aggressivi in Italia. Durante il conflitto, infatti, l’impianto si distinse nella produzione di iprite e difosgene. In tutta la Val Pescara, venivano prodotte giornalmente tonnellate di iprite tecnica, oltre a una tonnellata di fosgene e una tonnellata di difosgene. Per questa ragione, tra il 1943 e il 1944, gli stabilimenti industriali della Val Pescara, tra cui quello di Bussi Officine, furono ripetutamente bombardate dagli alleati.
Nel dopoguerra Bussi Officine torna protagonista a livello nazionale del settore chimico con la produzione di idrogeno e di azoto. A partire dal 1960, lo stabilimento si specializzò nella produzione di cloro, clorometani, cloruro ammonico, piombo tetraetile e trielina. Nel luglio del 1966 venne costituita a Bussi Officine la SIAC (Società Italiana Additivi per Carburanti) controllata della Montecatini che assunse, nel gennaio del 1967, la gestione del settore produttivo piombo-alchili. Successivamente, tra il 1989 e il 1994 furono potenziati gli impianti per l’acqua ossigenata e per il clorometano, mentre nel 1995 fu installato un nuovo impianto per la produzione di detergenti domestici. Nel 2002, lo stabilimento fu acquisito da Solvay, che lo destinò alla produzione di cloro-soda.
Cinque anni dopo, il Corpo Forestale scoprì nella stessa area la più grande discarica abusiva d’Europa.
Territori del collasso (o della catastrofe)
Negli anni ‘80, Montedison ottenne dalla Regione Abruzzo l’autorizzazione a depositare rifiuti nei terreni situati poco a monte delle fabbriche, noti come discariche 2A e 2B. Da tempo, tuttavia, si sospettava che molte sostanze pericolose utilizzate all’interno del sito venissero scaricate nei fiumi. Questi sospetti furono confermati nel 2007, quando le indagini condotte dalla Procura di Pescara e dal Corpo Forestale portarono alla luce una vasta quantità di rifiuti industriali interrati. IIl terreno adibito a discarica abusiva, di proprietà di Edison, si trovava poco a valle dello stabilimento, vicino alla confluenza tra i fiumi Pescara e Tirino. Successivamente, quest’area divenne nota come la discarica abusiva di Tre Monti, considerata “la più grande d’Europa”. La discarica conteneva circa 130.000 metri cubi di rifiuti distribuiti su 35.000 metri quadrati.
Le analisi del terreno, del sottosuolo, delle falde e delle acque dei
fiumi rivelarono livelli di contaminazione superiori alla norma per diverse sostanze pericolose, in particolare arsenico, piombo e mercurio. Lo Studio Sentieri del 2007, parte del Programma strategico nazionale “Ambiente e salute” e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, evidenziò la contaminazione degli ecosistemi e un aumento dei decessi legati a patologie respiratorie e digestive, oltre a un numero di ricoveri superiore alla media regionale.
La commissione parlamentare che esaminò il caso negli anni successivi osservò: «È plausibile pensare che, nel corso degli anni, la popolazione sia stata esposta agli effetti di sostanze tossiche di origine industriale per un lungo periodo senza che vi fosse evidenza analitica».2
In seguito alla scoperta delle aree con rifiuti industriali abusivamente depositati, fu istituito e perimetrato, con decreto ministeriale del 29 maggio 2008, il Sito di Interesse Nazionale (SIN)3 di Bussi sul Tirino, che inizialmente comprendeva circa 234,6 ettari.Con il decreto ministeriale n. 237 del 10 agosto 2016, il perimetro fu ridefinito escludendo un’area non contaminata di circa 2,6 ettari situata a monte dello stabilimento. Successivamente, con il decreto ministeriale n. 49 del 27 gennaio 2021, fu inclusa un’ulteriore porzione di circa 4 ettari in località Piano d’Orta, nel Comune di Bolognano, portando il perimetro totale del SIN a circa 236 ettari. È in attesa una proposta della Regione Abruzzo per includere ulteriori aree a Piano d’Orta con rifiuti simili a quelli già rilevati.
Il percorso di bonifica del sito, avviato nel 2001, è stato gestito inizialmente dal Comune di Bussi (2001-2007), successivamente dalla Regione Abruzzo (2007), e infine dal Ministero dell’Ambiente dal 2008. Con la Legge di Stabilità del 2016, sono stati implementati interventi di bonifica e messa in sicurezza e il Commissario delegato è stato autorizzato a utilizzare risorse finanziarie disponibili per riqualificare il sito. Tuttavia, la vicenda si è protratta fino ai giorni nostri, con il Ministero dell’Ambiente e della
2 Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifuti e su illeciti ambientali ad esse correlati. Relazione sulla situazione delle bonifche dei siti contaminati: il SIN di Bussi sul Tirino. XVII Legislatura, Camera dei Deputati, Senato della Repubblica.
3 In Italia, la defnizione di SIN è stata formalizzata con l’entrata in vigore del Codice dell’Ambiente (D.Lgs. n. 152/2006), che stabilisce che la bonifca dei siti si basa su caratteristiche specifche, quantità e pericolosità degli inquinanti, impatto ambientale, rischio sanitario ed ecologico, e pregiudizio per beni culturali e ambientali (art. 252). I SIN rivestono un’importanza cruciale per la tutela ambientale e la salute pubblica e sono identifcati tramite decreto del Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, in collaborazione con le regioni.
Sicurezza Energetica che, nel gennaio 2024, ha firmato il decreto direttoriale e il contratto con l’Associazione Temporanea di Imprese (ATI) per le opere di bonifica. La bonifica del SIN di Bussi sul Tirino è tuttora in corso, e si attende anche l’adozione della Proposta di Direttiva per il monitoraggio e la resilienza del suolo, nota come Soil Monitoring Law, con l’obiettivo di garantire suoli sani in tutta l’Unione Europea entro il 2050.
Il fallimento del sogno della modernità (nella città adriatica)
La vicenda di Bussi, caratterizzata dall’alternanza tra successo e declino industriale e, infine, disastri ambientali, rappresenta un caso esemplare all’interno della più ampia narrazione del fallimento della modernizzazione della città adriatica. I segni di questo fallimento, legati alla gestione del complesso retaggio della modernizzazione e dell’industrializzazione di questo territorio dell’Italia di mezzo, includono i suoli gravemente inquinati nono solo della Val Pescara, ma anche della raffineria di Falconara, della Bassa Valle dell’Esino e del Porto di Ancona, nelle Marche. Inoltre, c’è la crisi del turismo di massa, modello che ha caratterizzato questo territorio nella seconda metà del Novecento già raccontato durante la XIII Triennale di Milano nel 1964 dal titolo “Tempo libero”. Un altro segnale del fallimento del sogno del Moderno nella città adriatica è la crisi che ha colpito alcuni sistemi distrettuali locali, che hanno avuto maggiori difficoltà rispetto a quelli del Nord Italia nel riposizionarsi all’interno di un contesto economico globale che dagli anni ‘90, ma soprattutto dopo la crisi del 2007, è radicalmente mutato.
La città adriatica che lungo la seconda metà del Novecento è stata al centro del dibattito culturale ed economico italiano da anni non lo è più. È diventato un territorio sempre più marginale, segnato da un declino economico e infrastrutturale un territorio che si è gradualmente trasformato in una vasta periferia di altre, e talvolta lontane, aree metropolitane. Le regioni adriatiche sembrano configurarsi così come un’Italia lenta, l’altra faccia della medaglia dell’Italia ad alta velocità che scorre sul versante tirrenico. Sembrerebbe delinearsi così una questione adriatica con regioni che dall’inizio del nuovo secolo si sono fortemente impoverite, tendenza che ha anche esasperato orientamenti elettorali senza precedenti in questi territori.
Carrara
Un sito di ricchezza valorizzato dalla cultura della celebrità e attraversato dal confitto
di Edin Barbi Cinti, Laura Cardino, Alessia Carlone
La città di Carrara è situata tra il litorale tirrenico e le Alpi Apuane, nel punto di confluenza delle tre vallate di Gragnana, Torano e Bedizzano. Osservando il territorio dalla costa, l’immagine dei rilievi marmorei bianchi che sovrastano la città è particolarmente suggestiva e ne enfatizza la sua vocazione produttiva, conferendole l’identità di «città del marmo» (Giorgieri 1992: 2).
Le prime notizie sul territorio carrarese risalgono al IX secolo a.C., quando l’area era contesa da Romani e Liguri per via della sua conformazione geomorfologica che la rende un porto naturale. Con la conquista romana si ha la fondazione dell’importante città portuale di Luni, divenuta fino al XIII secolo centro amministrativo, politico e religioso dell’intera regione. Vi era la necessità di una strada che assicurasse il controllo della città, ma l’impossibilità di attraversare il litorale paludoso obbligò il passaggio nella zona interna, permettendo l’eccezionale scoperta dell’«oro bianco»: le cave marmifere. A seguito delle bonifiche romane, il centro urbano della città va gradatamente conformandosi nei secoli, essendo luogo di transito per i blocchi di marmo che dalle cave raggiungevano il mare per essere esportati. L’attività si sviluppa esponenzialmente nei secoli, assistendo nel XVIII secolo all’aumento del numero di cave, che passano da 37 a 441. Per governare e regolare l’attività marmifera, nel 1751 la duchessa Maria Teresa Cybo Malaspina emana un editto che si muove nella direzione di sancire i privilegi dell’oligarchia mercantile, rendendo legittima la proprietà privata delle cave e, di conseguenza, rafforzando il potere delle poche e antiche «famiglie del marmo» (Ivi: 75).
A tale editto, ancora oggi, si appella il 32% dei cavatori, i quali si rifiutano di pagare le tasse di concessione, continuando a sfruttare il bene estimato di proprietà e negando al comune una somma pari a 4 milioni di euro l’anno. Oltre alla tassa di concessione, i proprietari devono pagare una tassa per l’estrazione che va dagli 8 ai 60 euro a tonnellata. Sebbene le somme di queste tasse siano irrisorie se paragonate al ricavo delle aziende – ma ancora di più se confrontate al danno riportato dall’estrazione del materiale – gli imprenditori hanno sempre cercato di eluderle. I vari enti amministrativi hanno tentato di porre fine alle concessioni perpetue e di rendere le cave nuovamente patrimonio pubblico, cercando di invalidare l’editto ormai secolare. Proprio con questa finalità nel 2015 la Regione Toscana emana
una legge, ritenuta però incostituzionale dal governo Renzi. L’annullamento dell’editto spetterebbe al Parlamento, che ancora oggi, tuttavia, non ha preso provvedimenti.
Nel 2042, sulla base di una convenzione stipulata con il comune, i cavatori, esclusi i diretti proprietari delle cave (32%), dovranno partecipare ad una gara europea per poter rinnovare la propria concessione. Fino ad allora si impegnano a mantenere l’attività produttiva al 50% e a realizzare 19 progetti per la città con un budget di 25 milioni di euro in un tempo pari a 18 anni (12 per la progettazione e 6 destinati alla realizzazione). Un’azione che è soltanto un abbaglio per il territorio di Carrara: se si pensa alla cifra investita per i lavori su un arco temporale così lungo, ci si rende conto che questi progetti sono un’enorme illusione ad opera dei “magnanimi” imprenditori che decidono le sorti delle montagne e anche della città della città di cui saranno sostanzialmente padroni.
Come è chiaro da tempo, le cave sono una fonte inesauribile di ricchezza. Se nei secoli passati il marmo aveva conferito rilievo al mercato locale, per via del capitalismo e della globalizzazione contemporanei il materiale è oggi direttamente inserito all’interno di filiere internazionali (Garro 2023: 136): gran parte di esso viene esportato grezzo e poi lavorato negli Stati
Uniti, in Canada, in Cina e nei Paesi arabi.1 L’export dei blocchi marmorei e dei suoi detriti – in particolar modo del carbonato di calcio (Di Mauro, Vialardi 2022: 86) – produce un’incommensurabile ricchezza ai concessionari – o proprietari – delle cave. Se prima le concessioni erano di proprietà locale, ad oggi la metà di queste sono controllate dalla famiglia Bin Laden (Ivi: 79), prima uno dei principali acquirenti esteri del marmo. Un monitoraggio svolto da Legambiente su 76 cave attive (che esclude le cave di cui non sono esaminabili i dati specifici), evidenzia che annualmente vengono estratte da 105.000 a oltre 175.000 tonnellate di materiale.2 Numeri smisurati che permettono alle società che gestiscono le cave di ottenere un guadagno utile pari al 40% dei ricavi totali, rendendo il mercato del marmo di Carrara superiore a quello delle maisons di alta moda.
1 Camera di Commercio Toscana Nord-Ovest. Andamento dell’export nel 2022 a Lucca, Pisa e Massa-Carrara
2 Legambiente. Trasparenza, legalità e corretta gestione delle risorse naturali: il monitoraggio civico delle cave di marmo nel territorio di Carrara.
Localizzazione | Carrara (MS)
Coordinate | 44.095202, 10.128292
Tipo produzione | Marmo
Altitudine | 100m slm
Popolazione | 59.793 ab
Tasso di disoccupazione provinciale | 6,1%
Variazione demografca (ultimi 5 anni) | -2,6%
Numero di imprese (estrazione, segagione, lavorazione del marmo) | 29
Fatturato annuo medio | 9.314.982,66 €
Numero di adetti medio per impresa | 12,44
Negli anni l’attività di estrazione e commercio del marmo ha subito una grande espansione, determinata sia dalla domanda mondiale (dipendente dal mutare dei gusti delle società) sia dalle scoperte tecnologiche che hanno consentito una più rapida estrazione del materiale qualificando Carrara come una vera e propria «macchina estrattiva» (Garro 2023: 17), scolpita dalla «forza di levare» (Di Mauro, Vialardi 2022: 19). Il territorio si è, infatti, configurato per «sottrazione» (Ivi: 29). Il termine permette di indicare in primo luogo l’irreversibile azione di rimozione di parte della montagna, che gradualmente ha mutato l’immagine e il paesaggio delle Alpi Apuane. In secondo luogo, indica invece l’egemonia che la cava ha sulla città di Carrara, che risulta, al giorno d’oggi, sottratta da ogni altra tipologia di interesse economico e sociale. Se prima il nucleo urbano era in qualche modo legato ancora al marmo, che quotidianamente attraversava il centro cittadino e veniva lavorato in edifici specializzati – oggi abbandonati e rappresentativi dei lasciti dell’industria marmifera – con la costruzione della Strada dei Marmi e la crescita delle esportazioni, il distacco tra il grande impero del marmo e Carrara è sempre più evidente. E ancor più manifesta è la frattura tra gli imperatori del marmo e gli abitanti del territorio.
La domanda sempre più aggressiva ha fatto sì che l’economia del territorio si sia orientata esclusivamente sul miglioramento delle attività legate all’estrattivismo, facendo sì che tutto il resto sia stato lasciato in stato di deterioramento, accompagnando così l’abbandono della città (Garro 2023: 135) . Difatti, se le strade per il trasporto del marmo risultano essere tra le più innovative in Europa, le altre infrastrutture sono in stato di totale degrado (Ivi: 151). Il maggior problema del territorio è l’assente ridistribuzione delle ricchezze provenienti dal mercato del marmo alle istituzioni locali. Ci si trova di fronte a una vera e propria forma di oligarchia, che prevede l’arricchimento dei pochi a fronte dell’impoverimento degli abitanti e del territorio. Si parla oggi di Carrara come una «città dormitorio» (Bertolucci 2023), che sta affrontando un lungo processo di disoccupazione e di spopolamento causati dall’ampio disagio sociale che pervade gli abitanti (Garro 2023: 151). Da dati ISTAT, infatti, la popolazione residente nel comune di Carrara è in continua decrescita (59.793 persone nel 2024 a fronte di 61.561 nel 2019), con un’età media di circa 50 anni e un alto tasso di disoccupazione giovanile.
Carrara è un caso emblematico di Italia di mezzo: un contesto la
cui essenza trova fondamento nella produzione, ormai lacerato da una forma estrema di capitalismo, che produce tagli profondi su molteplici piani tematici nella società e nel territorio, estremamente impoveriti dallo sviluppo del marmo (Di Mauro, Vialardi 2022: 71). L’industria marmifera è quindi elemento problematico, che grava su un luogo che evidentemente fatica a sopravvivere. Ripulendo la patina dell’illusione, si scopre infatti un luogo complesso, teso, sul quale gravano gli spettri della speculazione e della rassegnazione, conseguenza diretta di un paradigma politico brutale, al quale Carrara risulta decisamente assoggettata.
Da un punto di vista ambientale, le criticità indotte dall’attività estrattiva nelle cave sono lampanti. Negli anni 2003, 2012 e 2014, fenomeni alluvionali critici hanno danneggiato gravemente il territorio e tra le cause si ritrovano proprio gli scarti dell’industria del marmo. La marmettola è la polvere prodotta durante i tagli che, depositandosi sul fiume, ne rende il letto impermeabile – alterando la capacità di portata – e le acque non potabili. La stessa presenza di alcune cave all’interno del Parco delle Alpi Apuane dimostra la sottomissione del luogo al mercato marmifero, per il quale non si pongono confini o limitazioni al fine di mantenerlo competitivo e si è disposti alla totale riplasmazione delle vette e dei versanti montani. Si tratta di un mercato in cui difatti le dinamiche e le caratteristiche sono mutate nel tempo: «se prima buona parte del marmo estratto era usato per opere d’arte, oggi si trovano stime che l’utilizzo artistico sia meno dell’1% del totale mentre circa l’80% andrebbe all’industria del carbonato [di calcio ndr.]» (Bertolucci 2023), utile alle aziende farmaceutiche. L’aulicità del materiale, che tanto compone l’iconografia e l’immaginario di questi luoghi, decade nel processo che porta all’immediata polverizzazione dei blocchi, finalizzata all’ottenimento di ciò che ora risulta maggiormente vendibile. La disgiunzione tra marmo e Carrara si rivede quindi nell’annullamento di quell’interazione metabolica (Stoffwechsel) tra corpo umano e biosfera richiamata da Marx all’interno del primo capitolo del Capitale, evidenziando un paradosso cruciale che vede la politica estrattivista mettere in crisi il territorio da cui essa stessa dipende.
Tra Carrara e le cave insiste una relazione di proporzionalità inversa: ad un’espansione fisica della macchia bianca, che intacca i rilievi montuosi come metastasi su un organo, corrisponde l’affievolimento di un centro urbano, l’indebolimento della sua capacità a resistere una struttura fortemen-
te verticale in favore di una orizzontale. In un contesto in cui i vantaggi per il territorio sembrano quasi introvabili se paragonati alle criticità, l’industria del marmo estremizza il binomio padrone-proletariato nella sua forma più insostenibile. L’incongruenza risiede proprio nella pressoché mancante corrispondenza biunivoca di benefici tra la produzione e il luogo che la permette.
In una città in cui l’andamento demografico è sempre dipeso dalle fortune dell’industria marmifera, la quale monopolizzava il contesto in termini economici e sociali, nella storia moderna «il numeroso proletariato apuano, suddiviso nelle varie categorie di mestiere riguardanti l’escavazione, la lavorazione, il trasporto e il caricamento del marmo» (Vatteroni 1999) si è sempre confrontato con una borghesia industriale invalicabile, che fino agli anni ‘20 del Novecento gestiva le paghe in base alle condizioni meteorologiche, per cui in condizioni di cattivo tempo gli operai non venivano retribuiti per via della giornata poco proficua. I moti reazionari, di matrice principalmente rossa e anarchica, di gran lunga attivi sull’impegno ad abbattere la privatizzazione degli spazi delle cave, sono stati troncati dall’avvento del ventennio fascista. Ad oggi a Carrara, oltre ad una paradossale tradizione amministrativa polarizzata a sinistra, rimangono attivi gruppi come Athamanta che, distanti da dinamiche legate alla lotta di classe, nutrono il dibattito inserendosi tra quelle fratture complesse e forse irrisolvibili.
Cervia
Il disastro ecologico capovolge il senso della salina e la restituisce depotenziata: una vasca di espansione popolata da fenicotteri.
di Natalia Migliore
La città di Cervia è situata sulla costa romagnola in provincia di Ravenna e porta ancora avanti, in una forma per certi versi residuale, una produzione antica, quella del sale. Questa produzione, se vogliamo dire anacronistica, tramite atti politici e sociali di resistenza ha continuato a dare significato identitario e culturale ad un luogo che nel tempo più recente ha però seguito desideri e volontà differenti.
Da sempre luogo deputato alla produzione del sale, prima in epoca etrusca in forma embrionale e poi in maniera strutturata a partire dall’età romana, Cervia nasce alle origini come un unicum, una realtà sovrapposta tra quello che è l’insediamento civile e quello produttivo, sia dal punto di vista spaziale che dal punto di vista identitario. Gli interessi politici ed economici hanno avuto nel dispiegamento temporale un ruolo primario nel plasmare questi territori, che di per sé hanno da sempre mostrato una particolare vocazione data dalla loro conformazione geomorfologica (Guarnieri, Cremonini, Rizzieri 2021), ovvero una pianura valliva dove entrano in contatto acque dolci e salate.
La scissione fisica tra la vita produttiva e quella cittadina avviene in epoca relativamente recente: alla fine del ‘600 per motivi legati all’insalubrità delle acque salmastre, il nucleo urbano viene traslato nel lembo di terra che sorge tra la salina e il mare Adriatico (Foschi 1997). Quest’opera ex novo lascia tracce antiche legate alla produzione salifera ancora leggibili nel tessuto edilizio: ad esempio il quadrilatero, primissimo nucleo di fondazione costituito dalle case dei salinari; i magazzini del sale oggi sede del MU.SA. (Museo del Sale di Cervia), la torre di San Michele, testimonianza dell’antica linea di costa prima della sua migrazione a est, per citarne alcuni. A questa prima scissione fisica ne seguirà un’altra, due secoli dopo circa, con un riassetto della struttura economica e sociale e ricadute spaziali risalenti perlopiù ai primi anni del ‘900.
Questa radicale trasformazione racconta della ricerca di nuovi modelli economici. Cervia, infatti, reindirizza la sua identità e la sua economia verso il turismo balneare, costruendo un nuovo tipo di immaginario fatto da nuovi segni sul territorio, principalmente sul territorio naturale e urbano costiero.1 Questo riassetto e risignificazione della pratica salifera è dovuto principalmente ad un cambio dell’economia globale. A partire dal ‘700
1 Polis: idee e cultura nelle città. N. 14 – Cervia. Milano: Koinè, 1998.
durante la rivoluzione industriale in Europa e lo sviluppo della tecnologia, il sale smette di essere alla base del consumo alimentare (nel 1975 ridotto al 9% degli usi sul totale, si pensi all’impiego di nuove tecnologie per la conservazione dei cibi, come l’inscatolamento e il trattamento a freddo) per diventare invece bene fondamentale dell’industria capitalistica, principalmente chimica e tessile. Ad oggi il 60% del sale è infatti impiegato nelle lavorazioni industriali (D’Angelo 2005). In aggiunta bisogna tener conto anche del moltiplicarsi dei luoghi di produzione e dello smantellamento delle vecchie “vie del sale”, con una produzione ormai legata all’estrazione più redditizia dalle cave di salgemma.
La produzione salifera, dapprima primaria e identitaria, è divenuta dunque a Cervia una produzione minore, seppure nello spazio occupi ancora 1/3 della superfice municipale. Ha assunto però un nuovo significato in quanto pratica artigiana legata alla tutela e al valore del paesaggio e all’ambiente.
La salina rispetto ad altri luoghi circoscritti deputati a pratiche produttive non è definibile come mera macchina produttiva in senso stretto. È importante ricordare che si tratta di un sistema/macchina ibrido che mette in relazione un peculiare sistema ecologico, biotico e abiotico, e una pratica produttiva, in funzione della quale trova spazio. Inoltre, sebbene si tenda a far funzionare questi luoghi come tasselli indipendenti, per facilitarne la gestione entro logiche di tutela, le saline sono fondamentali per il mantenimento degli equilibri naturali e come “zone tampone” per gli apporti terrestri (Crisman 1999). La Convenzione Ramsar, riconoscendone l’importanza, le inserisce tra le zone umide che formano un vero e proprio “sistema linfatico” degli ecosistemi a livello internazionale.
Le saline sono quindi habitat definibili forse come post-naturali, potenzialmente disfunzionali se abbandonati a loro stessi, poiché gran parte di questi e la biodiversità qui presente sono legati al delicato regime idrico, che bilancia acque dolci e salmastre, attualmente gestito proprio attraverso l’attività della salicoltura.
Queste due realtà distanti (la produzione lenta del sale e quella massiccia e rapida del turismo balneare), su cui si prova a ragionare nelle politiche recenti in un’ottica di sintesi (vedi la spinta per dirottare la pressione massiccia sulla costa verso pratiche legate al turismo naturalistico slow, etc.), appa-
Localizzazione | Cervia (RA)
Coordinate | 44.261667, 12.358889
Tipo produzione | Salicoltura
Gestione | Dal 2003 gestita da “Parco della Salina di Cervia srl”
Addetti | 21 (al 2024)
Fatturato | 1.225.690,00€ (2023)
iono oggi slegate e in antitesi sia fisicamente che ideologicamente. La salina si appoggia alla città come una “d panciuta” (Carvelli 2022), una sorta di bolla. Appare immobile rispetto al ritmo veloce dei flussi e delle pratiche turistiche. Eppure, all’interno di quella bolla non c’è immobilità. C’è un ritmo, certamente differente e discreto. Un lento processo ciclico, ma mai banale. Non banale ancora di più oggi, quando ciò che condiziona le pratiche produttive – le condizioni climatiche – perdono stabilità e prevedibilità nel tempo.
Un evento di crisi recente ha denunciato lo stato di fragilità del territorio dell’Emilia-Romagna. Nel cervese durante l’alluvione di maggio 2023 i danni sono stati contenuti soprattutto dalla salina, che ha assolto involontariamente il ruolo di una gigantesca vasca di espansione, dopo la rottura degli argini del fiume Savio presso Castiglione di Cervia. Tuttavia, questa soluzione non preventivata ha portato danni non solo all’economia della salina, con la perdita della produzione di un intero anno e di quelli successivi, ma soprattutto all’ecosistema, come evidenziato già fragile.
Questo stato di fragilità dei territori è legato in parte alla loro stessa natura: una natura valliva, depressa di gran parte del territorio regionale, unita a fenomeni di subsidenza (naturali e no, dovuti a pressioni antropiche), suoli peculiari (prevalentemente a grana fine, argillosa, piuttosto impermeabili), rischi idrogeologici più forti e diffusi rispetto ad altri territori italiani e pratiche plurali che frammentano suoli e habitat rendendo il territorio poco resiliente rispetto ai fenomeni citati in precedenza. Emerge il problema del rischio legato alla vita: in questo caso legato principalmente alla scarsa capacità del territorio di drenare l’acqua, nonostante gli ingenti lavori di bonifica che lo hanno strutturato nel tempo, con un fitto reticolo idrico secondario per incanalare l’acqua verso l’Adriatico. Questa incapacità viene stressata se si tiene conto dell’aumento di suolo impermeabilizzato e della ridotta capacità di conducibilità idraulica satura del suolo libero, dovuta perlopiù ai valori di argilla presenti in questi suoli sono molto elevati (40-70%).2 La mancanza di percezione del rischio indotto da anni climaticamente stabili ha favorito inoltre l’aumento di aree impermeabilizzate. Motivo per cui anche la portata e le piene calcolate in fase di progetto risultano sottodimensionate, con successivo fallimento delle opere adottate dai vari piani per la previsione e gestione del rischio. Inoltre, la messa in sicurezza del territorio tramite stru-
2 Tarocco, P., Marchi, N., e Staflani, F., a cura di. Carta della conducibilità idraulica satura dei suoli della pianura emiliano-romagnola: Note illustrative. Servizio geologico sismico dei suoli, 2018.
menti rigidi delocalizza il problema senza risolverlo, ma anzi irrigidendo la capacità di resilienza del territorio stesso, bloccandone il “respiro” in relazione alle condizioni esterne. Un altro “dispositivo” critico su cui bisognerebbe riflettere è la rete fluviale e di scolo, in quanto risulta in alcuni suoi tratti sottodimensionata rispetto allo sviluppo urbano degli ultimi decenni, poiché le portate idriche aumentano entrando in collisione sia con le sezioni fisiche inadeguate, sia con il deflusso dell’acqua verso il mare ostacolato dai flussi delle mareggiate.
La perdita di suolo comporta ripercussioni a scale molto diverse. Nonostante la frammentazione dei suoli sia legata all’aumento della densità di copertura artificiale, anche le aree rurali presentano un grado di frammentazione almeno intermedio, in parte poiché incide la presenza di ambiti urbani radi o industriali, definiti dal fenomeno dello sprawl. Anche il comparto agricolo, soprattutto intensivo della pianura e della collina, comporta un effetto “distrofico” (letteralmente, “difficile a nutrirsi”, perdita delle funzioni). A conferma di ciò, secondo il rapporto Carta della Natura 2021 (ISPRA, SNPA), il 56% del territorio, perlopiù di pianura impiegata a colture di seminativi, frutteti e vigneti, ha un Valore Ecologico basso o molto basso.3
I processi di progettazione e le politiche territoriali, dalle azioni di bonifica ai piani più recenti ma di vecchio stampo di disegno del paesaggio consistono nell’istituire una certa resistenza dai fenomeni indotti dall’acqua. Il tentativo di costruire il ragionamento e il progetto entro confini rigidi, astraendo e disconnettendo alcune realtà, rendendole un patrimonio che vale in sé, immutabile, può davvero essere un utile paradigma quando ciò che ci viene richiesto è di essere flessibili? Le aree definite da politiche territoriali di tutela risultano spazi conclusi, separati rispetto alla trama continua di campi agricoli e agglomerati urbani e industriali e solo in parte riescono a dialogare con il circostante, a fronte di un alto tasso di frammentazione.
È invece sulla resistenza, peculiarità che ha caratterizzato sotto certi aspetti la società emiliana-romagnola, che bisogna porsi delle domande. Se resistenza vuol dire mantenimento, immobilità e ipostasi dello status attuale, o una resistenza che nasce dalla capacità di re-immaginare scenari futuri, dove questa bolla possa diventare parte in dialogo con un sistema territoriale molto più ampio.
3 ISPRA e SNPA, a cura di. Carta della Natura della Regione Emilia-Romagna. Rapporto 354/2021, 2021.
Terni
Una società stritolata dal declino della fabbrica. Come risuonano delusioni e risentimento?
di Ianira Vassallo
La città dell’acciaio
Terni è da sempre considerata la ‘città dell’acciaio’. Per questa ragione affronta uno stato di crisi perpetuo dagli anni ’80 ad oggi. Prima la crisi industriale, che diventa crisi economica e sociale, fino a diventare crisi politica…di fondo c’è la perdita della propria identità.
Terni infatti è stata spesso definita la Manchester italiana, un soprannome che se da un lato dichiara una notorietà internazionale dovuta alla vocazione prettamente industriale, dall’altro parla di una “monocoltura in grado di bloccare ogni possibile via di sviluppo ” (Corvino Gallo 1989).
Il simbolo di questa storia indelebile è la Grande pressa da 12mila tonnellate, che entrò in funzione nel 1935, simbolo della modernità e dell’innovazione produttiva e che fu dismessa nel 1993 (realizzata dalla Davy Brothers Ltd e dalla società Terni), per poi diventare una macchina-monumento, grazie ad un acquisto del Comune e di alcuni enti territoriali nel 1999, posizionata nel piazzale davanti alla stazione ferroviaria come porta di ingresso alla città.
La Fabbrica come infrastruttura territoriale
Dalla fine dell’800 in poi Terni è stata la protagonista indiscussa in Italia di una forma di fordismo ‘minore’, aggettivo eloquente solo se legato alle dimensioni della città (non certo paragonabile ad esempio alla Torino della FIAT) e al conseguente numero di addetti della Terni Acciaierie, ma non di certo all’impatto che questo ha avuto sul territorio. L’industria infatti non si è insinuata solo nella costruzione del tessuto urbano della città ma ha tutt’ora un campo d’azione molto più ampio.
La città infatti è situata in una conca di origine tettonica che si estende tra l’imbocco della Valnerina e gli insediamenti di Narni Scalo. La valle è sempre stata molto fertile grazie ad un clima temperato e all’abbondanza di fiumi. Infatti alla vigilia dell’industrializzazione erano già in funzione: 36 mulini da grano, 46 mole da olio, 1 ferriera, 2 ramiere, 1 lanificio, 1 contonificio e diverse concerie, segnerie, gualcherie. Proprio in relazione a queste attività pre-indusriali si deve, in qualche modo, la realizzazione di diversi canali di derivazione come, ad esempio, il Sersimone, il Cervino, lo Staino, il Pantano, il Pennarossa, il canale delle Murelle, il Raggio Vecchio, il Raggio
Nuovo, il Nerino. Ed è proprio grazie alle ricchezze e le infrastrutture idriche che Terni viene indicata (1871) come il luogo ideale per insediare uno stabilimento di proprietà dello stato per la realizzazione di armi. Da quel momento in poi, l’infrastruttura naturalistica si esprime solo più a servizio della Grande Impresa (prima delle armi, poi dopo la Seconda Guerra Mondiale dell’acciaio).
La stessa cosa succede a livello sociale.
Qui infatti i socialisti, nel 1920, con l’avvento delle acciaierie, raggiunsero il 73% dei consensi, prima del fascismo. Alessandro Portelli in una biografia di Terni del 1997 ha raccontato la forte identità operaia del territorio che ha portato alla nascita di vere e proprie leggende (fatte di eroi e martiri) all’interno del movimento operaio locale e di organizzazioni sindacali rilevanti su scala nazionale.
Inerzie - Il Progetto di riconversione e riqualifcazione di Terni-Narni
Come già detto la crisi di Terni è assimilabile alle numerose e intense crisi delle città industriali europee più o meno piccole: nonostante ciò non solo nella cronaca locale ma anche nei programmi politici nazionali la città non cessa di riprodurre la stessa immagine di se stessa. Un territorio in cerca di una nuova impresa; nonostante l’era della manifattura sia da tempo finita, sopratutto in Italia.
La crescente disoccupazione, la micro-criminalità emergente, lo spopolamento, la povertà sociale in aumento sembrano avere una sola risposta: il ripristino del comparto produttivo industriale. A rimarcare questa unica possibilità di “ripresa” del territorio, nel 2018, con un Accordo di Programma, il Ministero dello sviluppo economico (DGPICPMI e DGIAI), l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, il Ministero delle infrastrutture, il Ministero dell’ambiente, la Regione Umbria, il Comune di Terni, il Comune di Narni e Invitalia si sono impegnati ad attuare un Progetto di riconversione e riqualificazione industriale (PRRI) della zona industriale di “Terni-Narni”. L’Accordo ha previsto l’impiego di risorse pubbliche per 58,25 milioni di euro (20 milioni di euro nazionali e 38,25 milioni di euro regionali) ed è stato elaborato e coordinato da Invitalia con le seguenti finalità: rafforzare il
Localizzazione | Terni (TR)
Coordinate | 42.557727, 12.646965
Tipo di produzione | Industria siderurgica
Abitanti | 106 679 ab
Numero addetti delle imprese attive | 54. 810 di cui impiegati in piccole/medie imprese | 39.375
tessuto produttivo esistente, attrarre nuovi investimenti e sostenere il reimpiego dei lavoratori espulsi dal mercato del lavoro.
Al fine di proseguire nell’attuazione del PRRI, con Atto Integrativo del 9 agosto 2022 sono state assegnate ulteriori nuove risorse finanziarie nazionali (10 milioni di euro) ed è stata prorogata al 30 marzo 2024 la durata dell’Accordo di Programma.
L’idea è di attirare investitori e imprese con incentivi nazionali e regionali, politiche sul lavoro, aree industriali immediatamente fruibili dagli investitori, miglioramento e completamento dei collegamenti stradali e ferroviari e favoritismi con il sistema creditizio.
Un programma che fa eco al Piano Industriale per Mirafiori del 1995 a Torino (da cui nasce la società pubblico privata TNE) e che ancora oggi (a vent’anni di distanza) mostra la sua totale inefficacia.
Segnali, scricchiolii
Sempre nel 2018 però, alle elezioni amministrative, inaspettatamente e in contraddizione con ciò che si è dato nell’ultimo secolo, il partito più votato nella città di Terni è stato la Lega, che per la prima volta ha vinto in un grande centro al di fuori del suo cuore settentrionale. (Fino al 1990 i comunisti erano il partito più grande: oggi le forze di sinistra esistono a malapena.) Oltre ad aver perso il ruolo di città dell’acciaio Terni deve dire addio anche al riconoscersi nella città-operaia?
L’ultimo libro di Portelli, Dal rosso al nero (Donzelli 2023), usa questo fatto politico per raccontare di un leggero mutamento dovuto ad una “svolta a destra della città operaia”.
Questa repentina “svolta” ci fa intravedere una rottura con il suo passato. Niente di eclatante, soprattutto se si pensa che il cambiamento tanto inaspettato è legato ad un modello di organizzazione e identificazione della società ormai obsoleto in tutta Europa.
Le ragioni politiche di questo risultato elettorale inoltre sono inevitabilmente legate all’astensionismo elettorale su scala nazionale che certo non risparmia Terni, ma anche ad un’eredità di sacrifici e di continue denunce per la salute e la sicurezza sul lavoro rimaste senza risposta.
Un’altro dei motivi è sicuramente il forte calo dei posti di lavoro nell’industria siderurgica e l’incapacità di arrestare una serie di ridimensionamenti e privatizzazioni cominciata negli anni ottanta. E poi ancora “dieci anni di lotte operaie straordinarie” e inascoltate: dallo sciopero del 2004 contro la chiusura del reparto specializzato nella produzione d’acciaio magnetico sotto i nuovi proprietari della ThyssenKrupp allo sciopero di 44 giorni del 2014.
Nonostante le condizioni “di fondo” il dato elettorale rimane comunque un fatto significativo per comprendere che l’accusa di aver abbandonato Terni non è rivolta solo ai neoliberisti, ma anche alle storiche rappresentanze della città (dai sindacali, alle associazioni di categoria, ai partiti di sinistra).
Portelli racconta di una perdita del “linguaggio degli operai”. I lavoratori delle acciaierie, che un tempo erano “l’avanguardia del cambiamento sociale”, si ritrovano oggi ad essere semplici soggetti da compatire: i “deboli”, i “fragili”, “‘gli ultimi’ in una società intrinsecamente e inevitabilmente disuguale”.
Spazi del quotidiano. Biografe del cambiamento
Se il dato elettorale del 2018 è stato in grado di mostrare uno slittamento rispetto alla narrazione omogenea e totalizzante della città operaia alla ricerca di una nuova Fabbrica, alcuni altri piccoli segnali ci raccontano di come Terni oggi abbia una biografia più complessa.
Filippo Rossi, nel suo lavoro di esplorazione urbana della Terni contemporanea (Terni Atlas 2020), usa la cartografia come lente per mettere a fuoco una diversa narrazione del territorio. Nelle sue immagini la Fabbrica finora protagnonista indiscussa del discorso ternano diventa una condizione di fondo. Emergono invece: la vivacità associativa, il carattere di multiculturalità dei suoi abitanti, spazi del quotidiani minuti e interstiziali all’interno dei rioni residenziali, appropriazioni e rivendicazioni di usi pubblici nell’importante infrastruttura naturalistica dei parchi fluviali, costellata di orti e giardini.
Lo spazio del quotidiano diventa uno spazio di resistenza, di una società che fuori dalla retorica mediatica, ripensa se stessa nella quotidianità e nelle forme dell’abitare.
III. Prime considerazioni di sintesi
Cave di Carrara. Fotografa di Stefano Garro, 2023.
Iconografe
a cura di Camilla Rondot
L’iconografia è la strategia essenziale di una descrizione non ritualizzata del territorio dell’Italia di mezzo, nonostante si potrebbe dire la sua inattualità.
Iconografie come strumenti in grado di “produrre realtà” attraverso processi che si danno nel tempo attraverso intrecci, inciampi, sfridi, zone di opacità. L’obiettivo sempre più chiaro dopo la lettura di queste icone è quello di discutere il ruolo dello spazio nella costruzione di un’iconografia.
Quali iconografie dunque?
Borgo Mezzanone. Il colasso della visione coloniale in un territorio che non ha più capacità di resistenza e sul quale si innesta il mito negativo del caporalato.
Biella. La “natura industriale”: un’iconografia non più moderna che capitalizza l’irruzione vegetale.
Bussi. Iconografia della perdita e del lutto, in un territorio che non si rigenera.
Carrara. La macchina estrattiva scolpita dalla “forza di levare” e dalla polverizzazione letterale di una merce di lusso.
Cervia. Il disastro ecologico capovolge il destino della salina e la restituisce depotenziata: una vasca d’espansione popolata da fenicotteri.
Terni. Il fordismo minore nutre i hidden champions.
Si potrebbe riflettere sulla capacità che hanno le questioni qui alluse in termini sintetici di strutturare una sensibilità pubblica ampia (qualcosa di simile, anche se forse non coincidente con l’opinione pubblica nell’accezione di Habermas).
Désafliation
a cura di “Désaffiliation è la transizione dell’individuo dall’inclusione all’esclusione sociale”
R. Castel, 2015
La Désaffilitiation è per Robert Castel un processo complesso che segue due distinte dinamiche con conseguenze convergenti: da un lato l’aumento della vulnerabilità, dall’altro l’indebolimento dei corpi intermedi e l’infittirsi delle reti associative. Le sei situazioni che abbiamo indagato sembrano per alcuni aspetti un buon campo entro il quale mettere alla prova l’ipotesi di Castel.
Terminata l’epoca dei corpi sociali generalisti (attraversati da un’idea romantica della difesa della cittadinanza) hanno voce le minoranze più agguerrite, le corporazioni, le lobbies di maggior influenza capaci di oscurare questioni generali.
IV. Fino a qui
Saline di Cervia. Fotografa di Natalia Migliore, 2024.
Lo studio condotto nel primo anno della ricerca sui sei luoghi dell’Italia di mezzo ci porta a individuare due ampie tematiche sulle quali vorremmo concentrare gli sforzi nei prossimi mesi, nella convinzione che offrano strumenti concettuali e pratici (oltre a forti sollecitazioni culturali) per indagare quella vasta porzione del territorio italiano che continuiamo a chiamare Italia di mezzo. Ritorniamo brevemente sulle due tematiche in questi rapidi cenni di chiusura per offrirle alla discussione collettiva della ricerca e per indicare in quali direzioni vorremmo muoverci.
La prima tematica attiene il ruolo che assume l’iconografia nelle singole realtà locali nel definire quelle tante e diverse «storie di sviluppo, quasi sempre colte “in ritardo” dai saperi forti» (Lanzani 2024). Vorremmo insistere sul ruolo dell’iconografia nel definire le storie di quei luoghi, il loro evolvere, le loro memorie continuamente riscritte e, nel contempo, il ruolo nel legittimare e sostenere politiche sociali, ambientali, territoriali e il loro confronto con una sempre più urgente e sempre più difficile riconversione ecologica.
Ne abbiamo parlato, convinti che la dimensione territoriale dei fenomeni sociali e produttivi che riguardano i nostri sei luoghi deve ritrovare gli strumenti adatti per essere indagata. Non possiamo lamentare sempre l’assenza del territorio (più comunemente: “dello spazio”) nelle indagini sociali, economiche, politiche e poi riproporre percorsi tradizionali, evidentemente poco capaci di incrociare altri orientamenti. Non bastano indagini quantitative; passeggiate; sopralluoghi; repertori di politiche, elenchi degli attori. Bisogna «stare in agguato» come esortava a fare Deleuze e cercare di calibrare il proprio punto di vista.
Il nostro «stare in agguato» ha coinciso con la messa in gioco della categoria di icona-iconografia. Abbiamo già detto che la assumiamo in modo spurio, come una categoria operante. Ci interessa come le iconografie sono prodotte: una complessa costruzione che va ben oltre il marketing urbano. Da chi lo sono (si pensi all’iconografia in formazione di Borgo Mezzanone che sta consolidando la sua forma di damnatio memoriae ad opera dei media nazionali e internazionali, non solo degli attori locali; si pensi alla ridefinizione dell’iconografia virtuosa, seducente e consensuale di Biella che vuol far fronte con buone dosi di natura al declino dell’icona moderna e muscolare del distretto produttivo). Ci interessa come queste iconografie possono essere
decrittate, studiate, osservate “in azione”. Questa ricerca è (anche) un esercizio per accumulare materiali in risposta a queste domande.
Insistiamo su alcuni punti: le iconografie producono realtà anche se vogliono raccontare miti. Sono esito di processi plurali, esito di intenzioni, desideri, interessi, interpretazioni della società locale. Rendono visibile un’idea di quel luogo, un rapporto di forza, un proposito morale, qualche volta una luce intellettuale. Ci comunicano una rappresentazione della vita che, come un basso continuo, un comune denominatore, un’atmosfera comune, uguaglia i più, al di là delle differenze dei singoli. C’è come un’oralità che vuole conservare un nesso con l’ambiente di vita, vuole raccontarlo, vuole essere eco di un dialogo comune, partecipe dei discorsi e delle forme di vita generali e specifiche. Entro questo garbuglio, un fondo di emozioni, passioni, desideri, conflitti, speranze. E naturalmente, di relazioni di potere.
Ora, se obiettivo del Prin è «rappresentare un’Italia di mezzo in deficit di rappresentazione», non si può bypassare lo scoglio delle icone. Questa l’ipotesi dalla quale vorremmo ripartire. Nella consapevolezza che, al contrario di quel che il termine icona potrebbe far pensare, una lettura di questo tipo ha una sostanza materiale, corporale, somatica. Non sono comportamenti scorporati quelli di cui l’icona racconta. Abbiamo già detto la nostra lontananza dal tono figurale, geometrico, liturgico classico dell’icona: immagine scorporata per definizione. Ribaltando a nostro uso il riferimento, nella lettura che proponiamo. Non si tratta di sottomettere la vita all’icona, ma nell’icona, vedere una forza al servizio della vita. Non annullare il desiderio, ma sostenerlo. In questo senso consideriamo questa ricerca sui territori dell’Italia di mezzo, capace di interloquire con gli studi degli ultimi anni sui rapporti tra corpi e spazi.
La scommessa del proseguo della ricerca è intrecciare la riflessione teorica sull’iconografia (con quella venatura corporale che gli riconosciamo), con una riflessione critica circa il fare urbanistica oggi, ovvero con le pratiche dei numerosi attori che interagiscono nel complesso della riconfigurazione del territorio. Questa è un’altra sfida per il prosieguo della ricerca.
La seconda vasta tematica torna con forza su uno snodo classico, quello delle differenze e diseguaglianze, rileggendolo nell’Italia di mezzo.
Le prime esplorazioni che abbiamo condotto sulle condizioni struttu-
rali entro le quali prende corpo (dal punto di vista normativo e burocratico, ma anche delle relazioni di potere e di sapere) la possibilità d’azione degli attori coinvolti (Bourdieu avrebbe detto: prende corpo la strutturazione del campo), è emerso, come era facile aspettarsi, il rilievo e il diverso profilo delle vulnerabilità sociali, territoriali, ecologiche. Una condizione che vorremmo esplorare più da vicino, con il ricorso al pensiero di Robert Castel, sociologo che ha dedicato a questo i suoi studi più noti.
La vulnerabilità è drammaticamente aumentata contemporaneamente all’indebolimento dei corpi intermedi e all’infittirsi delle reti associative: fattori rilevanti in quel processo che Robert Castel (2015) ha definito “disaffiliazione”. Termine che vuole indicare la transizione dell’individuo dall’inclusione all’esclusione sociale. Una transizione, un processo, qualcosa di mobile, non di statico, un mutare della capacità contrattuale che lascia fuori i più fragili, invisibili alle politiche.
Le letture territoriali di questi territori (Biella; Terni, Carrara, Cervia, Bussi – in modo diverso la Capitanata) descrivevano una società che in passato si raccontava con riferimento a gruppi, magari non omogenei, ma ben riconoscibili: ricchi e poveri; élites e quadri; minoranze e maggioranza. Tutto questo si è indebolito, come discute un’ormai enorme letteratura. La strutturazione per gruppi si è articolata, fessurata, indebolita e nel contempo le diseguaglianze sono aumentate. Non ci sono più classi, ma divisioni e diseguaglianze crescenti, drammatiche, di cui nessuno sembra avere cura (dichiarando in questo modo anche la caduta di un pensiero critico). I gruppi che popolavano queste situazioni in passato erano portatori di culture politiche e di visioni del pubblico come promotore di giustizia sociale. O di diritti (il tema delle minoranza e della loro tutela, fino alle posizioni queer). Soprattutto contrastavano un’idea naturalistica delle diseguaglianze. Indeboliti i gruppi, nel pieno di quella transizione descritta da Castel, come si dà la rappresentanza? Come vi incidono le nostre competenze?
Innovare letture territoriali decostruendo nuove e vecchie icone, leggere la disaffiliazione nel franare della rappresentanza: su questi due ampie tematiche che ricorrono negli studi urbani riformulandosi continuamente, vorremmo riprendere a lavorare nel secondo anno della ricerca attraverso due seminari pubblici con i partecipanti delle altre unità locali della ricerca, con studiosi e ricercatori, con attori delle sei situazioni indagate.
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