Documenti e studi 18

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DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS 18


DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS Pubblicazioni dello Studio Teologico S. Paolo - Catania


ANTONINO MINISSALE

BIBBIA E DINTORNI SAGGI ESEGETICI E SCRITTI D’OCCASIONE a cura di

DIONISIO CANDIDO

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA


Agli Alunni e alle Alunne del Seminario Arcivescovile dello Studio Teologico S. Paolo dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose S. Luca del Corso Teologico S. Euplio per la formazione ai ministeri e al diaconato in grato ricordo (Catania 1962-2005)


PREFAZIONE

Dietro ogni libro c’è il suo autore, che al contempo rivela e nasconde qualcosa di sé. Ogni libro è come una finestra aperta sulla personalità del suo estensore, come la Finestra dipinta da Chagall nel 1924 e scelta quale copertina del presente volume. Oltre il davanzale si schiude uno squarcio di campagna bretone: qui il coraggio di lanciare lo sguardo al di là delle imposte spalancate è ricompensato da un panorama armonioso di realtà e fantasia, dove i contorni delle cose sono al contempo delicatamente appannati e ben definiti. Persino la nuvola solitaria approssima il suo colore a quello della stanza, metafora di un equilibrio ormai conquistato tra interiorità ed esteriorità, tra centro e periferia, tra soggetto e relazioni, come tra la Bibbia e i suoi dintorni. Dietro questa miscellanea – come dietro la finestra di Chagall – ci sono i tratti insieme sfumati e limpidi di Antonino Minissale, uomo, presbitero e biblista, la cui biografia si intreccia chiaramente con la sua bibliografia. In occasione del 50° anniversario della sua ordinazione presbiterale (1957-2007), come tributo di affetto e stima, si è voluto quindi offrire uno spaccato bio-bibliografico che consentisse di gettare uno sguardo ideale sul contributo di scienza e di umanità che deriva dalla sua produzione intellettuale. Due sono le anime di questa raccolta: quella strettamente biblica di venti Saggi esegetici prevalentemente riguardanti l’Antico Testamento e quella che le fa da contorno di quattordici Scritti d’occasione su tematiche varie. La prima sezione, ben più corposa della seconda, contiene alcuni articoli di carattere squisitamente esegetico-biblico, scritti nell’arco di tempo che va dal 1966 al 2005. Ad una considerazione ravvicinata, si può notare come si tratti solo di un campione ristretto all’interno di una ben più vasta produzione esegetica, che consente tuttavia di saggiare a pieno la qualità di alcune acute riflessioni su temi a volte delicati ed attuali della Sacra Scrittura, come nel caso dell’articolo del 1970 dal titolo “Il ministero presbiterale nel Nuovo Testamento”. Non di rado, Minissale si è soffermato volentieri su questioni di ermeneutica, per mostrare l’intreccio misterioso e affascinante tra la Sacra Scrittura e la storia degli uomini: è il caso di “Bibbia sacra e Bibbia laica” del 1966, “La Bibbia: una storia per la vita”

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del 1989, “Versioni italiane della Bibbia: storia e tipologia” del 2001 e “La Bibbia libro esoterico? Un punto di vista cattolico” del 2004. La sua produzione esegetica, poi, ha saputo toccare alcuni gangli vitali dell’Antico Testamento: dal Pentateuco (“Elementi mitici in Gen 111. Implicazioni ermeneutiche” del 2000), ai libri storici (“Il rotolo di Ester: per una riscoperta del suo significato” del 2005), alla letteratura profetica (“La donna nei profeti” del 1975, “Le invettive d’Isaia come esempio di linguaggio profetico” del 1978, “Sacerdozio, corte e popolo nel libro di Geremia” del 1997), alla letteratura sapienziale (“I Salmi nel NT” del 1973, “La personificazione della Sapienza e la creazione” del 1996”, “La Settanta di Pr 10-11” del 1999, “Il Giobbe biblico” del 2004). Il filo rosso che attraversa questi saggi sembra essere quello di una metodologia progressiva di studio del testo biblico, che parte dall’analisi del lessico, passa attraverso la considerazione della sintassi e dei generi letterari, sino a coglierne sinteticamente le idee teologiche, nonché le sollecitazioni etiche e religiose. Se dunque il testo biblico viene in un primo tempo collocato nello spazio vitale in cui è sorto, in un secondo tempo ne vengono sempre offerti, con tanta discrezione quanta sapienza, i riverberi per l’oggi. Tra i lavori qui raccolti, inoltre, meritano senz’altro una nota a parte quelli dedicati al libro del Siracide: “A Descriptive Feature of the Greek Sirach: The Effect instead of the Cause” del 1997, “Il ruolo sociale del saggio-scriba secondo Ben Sira”, “La profezia come apologia nazionale e verifica della storia in Ben Sira” e “Some Uncommon Words in the Hebrew Text of Ben Sira” del 1999, “L’etica di Ben Sira” del 2003, “La metafora del ‘cadere’, chiave ermeneutica del Siracide” del 2004. Questi saggi costituiscono come la corona della tesi dottorale, discussa nel maggio 1992 al Pontificio Istituto Biblico e poi pubblicata nel 1995 con il titolo La versione greca del Siracide. Confronto con il testo ebraico alla luce dell’attività midrascica e del metodo targumico. Vi traspare la perizia del critico testuale, che sa mettere a confronto i testi per intercettare le dinamiche interne alle antiche tradizioni testuali bibliche. È la Parola di Dio che assume le parole degli uomini, un tema che attraversa l’intera opera di Minissale e che così riassumeva egli stesso durante la Prolusione dell’anno accademico 2000/01 dello Studio Teologico “S. Paolo”: «La Parola di Dio si fa insieme di parole che entrano in circolazione tra le parole umane, senza che essa perda la sua singolarità e la sua forza, che attrae e trasforma il cuore dell’uomo» (pag. 200). Il rapporto misterioso tra Parola di Dio e parole degli uomini è solo uno dei paradossi che lo studioso credente deve

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saper mantenere. Solo chi è abituato alla “mondanità” dell’Antico Testamento, alla Parola di Dio che ha il sapore dell’umanità e della terra, può sentire il profumo soave della Pasqua. La seconda sezione del volume, poi, riservata ad alcuni scritti d’occasione, consente al lettore di entrare in un clima più intimo e colloquiale, ripercorrendo con Minissale le strade della sua vita, a cominciare dai primi anni di sacerdozio (“Questa nostra messa” del 1958). È un itinerario intenso, durante il quale si incontrano persone e luoghi che, a titolo e in misura diversi, hanno segnato la sua persona. Un posto particolare, inevitabilmente, è riservato al padre Michele, su cui si riporta il discorso funebre (“Mio padre: l’ultima lezione” del 1973). E c’è spazio anche per padre Salanitri, suo educatore di Bronte, lontano maestro di ecclesialità e di umanità (“Ricordo di Padre Salanitri”, 1974). Da questo momento in poi gli articoli ci portano per le strade del mondo: da Catania a Roma, a Gerusalemme, alla Germania, con un passaggio negli Stati Uniti. E si finisce per convenire con Siracide, quando affermava che «chi ha viaggiato conosce molte cose» (Sir 34,9a). Non si è trattato semplicemente di toccare luoghi nuovi, quanto di vivere incontri con alcune personalità che hanno formato in Minissale un pensiero “ecumenico” (“La mia esperienza ecumenica” del 2004). Un nome su tutti è quello di Walther Zimmerli, docente di esegesi biblica presso la Facoltà evangelica di Teologia dell’Università di Gottinga, che con il suo raffinato stile personale sapeva associare la ricerca scientifica della Parola di Dio ad una fede solida, in un costante atteggiamento di dialogo con l’uomo contemporaneo (“Un Maestro di esegesi biblica: W. Zimmerli” del 1975). La Germania diventa nel tempo non solo un punto di riferimento per gli studi biblici, ma in generale una terra la cui storia e la cui cultura non possono non essere raccontate (“Berlino, ordine e solitudine: testimonianza su un Est che non c’è più” del 1990 e “A Weimar sulle tracce di Goethe” del 1999). Ma anche Washington, negli Stati Uniti, ha riservato un episodio da ricordare: si tratta dell’incontro con la psicoterapeuta Naomi Rosenblatt, autrice di un geniale commento ad alcuni brani del libro della Genesi, che si pone nel solco della lettura ebraica dell’Antico Testamento (“Un’estate a Washington per scoprire la Genesi” del 1997). Ma è soprattutto nella terra d’Israele – raggiunta per la prima volta nel 1961 – che Minissale ha raccolto i frutti migliori della sua esperienza di studio e di vita, entrando nelle pieghe della realtà di ogni giorno (“Visita ad un kibbutz religioso” del 1983). A Gerusalemme in particolare, nei

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corridoi dell’Università Ebraica e per le strade della città, si può percepire una commistione di sacro e profano unica al mondo (“Gerusalemme ieri e oggi” del 1985 e “Il fascino storico-mistico di Gerusalemme” del 2006). Qui lo studio della Sacra Scrittura ha potuto arricchirsi del contatto anche fisico con le testimonianze più significative dell’incontro tra Dio e l’uomo (“Studiare la Bibbia a Gerusalemme” del 1994). Sono questi solo alcuni dei viaggi, delle esperienze e delle persone, soprattutto della Mittel-Europa e del Mediterraneo, la cui eredità è filtrata con naturalezza negli scritti di Minissale in vista di una riuscita convergenza di rigore filologico germanico, creatività intellettuale ebraica e finezza letteraria italica. Grazie a questa sapiente apertura alle suggestioni esterne, la lettura della Bibbia non è condannata a restare estranea alla storia degli uomini, ma sa accogliere anche i contributi e le provocazioni che provengono dalle diverse forme di arte, dalla pittura (“La persistenza dell’implicito: l’opera di Riccardo Meli e la Bibbia” del 1989) alla musica (“Il Mosè di Rossini. L’opera che ha inaugurato la stagione lirica della Scala” del 2004). Lo spettro dei contributi scelti e delle fonti presso cui sono stati reperiti è dunque ampio. Ma è proprio una tale disomegeneità, volutamente mantenuta, ad esprimere bene la poliedricità e la versatilità di Minissale, biblista puntuale ma capace di variare il proprio registro di scrittura in base alle necessità concrete. Anche per questa ragione, i singoli contributi sono stati mantenuti nella forma editoriale originale e secondo l’ordine cronologico di pubblicazione, come per recuperare concretamente le tappe significative dell’iter umano e intellettuale dell’autore. Attraverso l’impegno lieto della cura di questo volume, chi scrive desidera restituire, sia pure in minima parte, quanto Minissale gli ha donato in questi anni con il suo insegnamento magistrale dentro e fuori delle aule di lezione. È un tributo dovuto, a perenne memoria di una significativa tappa umana nel continuo presente di Dio. Dionisio Candido

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PARTE I

BIBBIA …



1 BIBBIA SACRA E BIBBIA LAICA [1966]

In una serie di sei articoli, dovuti alla penna del prof. Adriano Buzzati-Traverso, L’Espresso di luglio ed agosto u.s. (nn. 30-35) ci ha regalato i primi capitoli della nuovissima «Bibbia Laica». L’autore intende descriverci in sintesi la suggestiva storia della formazione del cosmo, vuol narrarci «come è nato e come morirà l’universo», ci dice il sottotitolo. Ogni puntata comincia sistematicamente con una citazione del racconto della creazione di Gen. 1, dal quale si prende lo spunto per dimostrare che la concezione biblica è smentita dalle scoperte scientifiche. Non è nostro compito, ovviamente, criticare il prof. Traverso dal punto di vista scientifico; anzi crediamo che, su questo piano, il suo racconto può essere considerato un modello di sintesi divulgativa. Ci duole però che il suo procedimento stia tra l’ingenuità e la malafede; quando tocca la Bibbia non si prende cura di informarsi sulle posizioni della esegesi biblica, mancando di quella onestà intellettuale che pure manifesta riguardo agli studiosi delle discipline scientifiche. Il suo confronto tra la scienza e la Bibbia si basa su un equivoco, perché tralascia di informarsi sulla retta interpretazione del racconto genesiaco, così che, considerandolo come un presunto resoconto cronologico dei fatti, lo trova inesorabilmente incompatibile con gli attuali dati scientifici. L’esegesi moderna da lungo tempo ha stabilito che nella interpretazione del testo biblico bisogna tener conto della sua particolare indole letteraria. Le finalità e le modalità del linguaggio biblico sono tali, che esso mantiene la visione culturale propria del suo tempo, fino a quando questa non è in contrasto con le verità religiose che vuole insegnare. Per quanto riguarda il c. 1 della Genesi, la critica letteraria lo ha riconosciuto come opera di un autore sacerdotale del VI sec. a.C. Egli esprime il concetto tradizionale di Dio creatore, già attestato nel più antico racconto di Gen. 2, attraverso l’idea della settimana lavorativa, perché voleva ribadire il precetto religioso del riposo nel sabato. Quindi non è che l’uomo osservi il sabato perché Dio si è riposato nel settimo giorno, ma, viceversa, l’autore del primo racconto genesiaco ha fatto riposare Dio dopo i sei giorni perché

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l’uomo doveva osservare il riposo sabbatico. La distribuzione delle opere della creazione nei sei giorni ha un valore letterario, è fatta secondo un criterio intuitivo-convenzionale per cui si procede dall’elemento più semplice e più diffuso (la luce: primo giorno), agli elementi più specifici e più complessi (gli animali e l’uomo: sesto giorno). Naturalmente questo discorso dell’autore sulle cose create, comporta una concezione cosmologica che è quella del suo tempo. Egli ha una visione statica e geocentrica dell’universo, non evolutiva, perché le condizioni culturali del suo tempo riducevano le nozioni sul cosmo ai primi dati della comune osservazione empirica. Possiamo, perciò, distinguere tre ordini di verità, su cui si muove l’autore biblico: 1) verità di fede già nota: Dio è il creatore di tutto; 2) verità attinente all’ordinamento rituale giudaico: il sabato è giorno di riposo; 3) verità relative alla concezione cosmologica: l’elemento primordiale è acquoso, il sole gira attorno alla terra ed è più piccolo di essa, ecc. Probabilmente fa parte di tale concezione cosmologica la formazione simultanea di tutte le cose, che solo per ragioni didattiche l’autore ha pensato di dilazionare in sei giorni. Se si tien presente questa triplice distinzione, si capisce come sia possibile che la prima verità di fede venga ‘calata’ nella seconda verità ritualistica e nella terza verità cosmologica, senza che la sua validità dipenda da esse. Sicché, superata la verità cosmologica e rituale che l’autore assume dal suo ambiente storico, a noi resta possibile mantenere la verità di fede. Noi possiamo svincolarla dalla concezione cosmologica in cui è stata espressa, senza che essa ne sia compromessa, e possiamo agganciarla alla nuova cosmologia scientifica. L’effetto della creazione di Dio coincide, infatti, con ciò che la scienza ci dice intorno alla costituzione del mondo e alla sua origine. Di per sé l’idea della creazione non fa parte della concezione cosmologica moderna, come non faceva parte dell’antica. L’indagine empirica sul cosmo, sia essa scientifica o prescientifica, non giunge da sola, restando nel piano che le è proprio, all’ammissione del creatore. L’idea della creazione viene solo dalla rivelazione, e quindi dalla riflessione filosofica che accetta la validità della dimensione metafisica. Il piano scientifico, da solo, non richiede né esclude la creazione; non deve però precludere allo scienziato la possibilità di integrare la sua visione della realtà con la riflessione filosofica sulla finitezza dell’esistenza umana e di tutte le forze cosmiche. L’adesione della fede alla rivelazione rende più intellegibile il significato dell’uomo e del cosmo, perché essa ne indica l’origine e il termine. Non ci aspettavamo, perciò, dal prof. Buzzati-Traverso che ci

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parlasse della creazione nella sua sintesi scientifica; sarebbe eventualmente bastato che, come scienziato, avesse avuto coscienza dei limiti della sua indagine. Ci permettiamo, però, di rimproverargli il modo come egli considera ed interpreta la Bibbia, atteggiandosi a maestro, mentre mostra di non possedere un sia pur minimo senso esegetico. Nell’editoriale di presentazione L’Espresso dice: «… nasce una concezione dell’universo estremamente lontana da quella tradizionale, dalla quale è scomparsa sia la figura del creatore che l’atto della creazione, mentre l’antica e misteriosa angoscia del ‘Da dove veniamo e come finiremo’ è andata progressivamente cedendo il posto ad altri problemi meno metafisici ma non per questo meno inquietanti sulla nostra condizione umana» (n. 30 pag. 11). Il problema cosmologico conduce immancabilmente al problema antropologico: il mondo non ha senso senza l’uomo, e l’uomo non ha senso senza un rapporto profondo col suo principio e col suo fine. Così, andando oltre i dati — veri ma incompleti — della scienza, si avverte il presentimento del Creatore, che nella rivelazione si fa conoscere intimamente. «Tutto viene da lui, avviene grazie a lui e per lui» (Rom 11,36). Accanto alla critica che abbiamo fatto al prof. BuzzatiTraverso ammettiamo che la sua pubblicazione è stimolante per chi si dedica alla Bibbia in modo unilaterale. Ci offre la possibilità di renderci conto delle tendenze di una mentalità prevalentemente scientifica che sta per diventare il modo di pensare proprio dell’uomo moderno. Ci ricorda, ancora, i meriti che la scienza moderna ha acquisito nel far progredire l’esegesi biblica verso una posizione per cui è possibile ormai distinguere ciò che è elemento primario della rivelazione da quello che è elemento contingente e provvisorio, dovuto ad una particolare cultura prescientifica.

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2 IL MINISTERO PRESBITERALE NEL NUOVO TESTAMENTO [1970]

I. LA CRISI DEL SACERDOZIO OGGI La presente relazione1 apre una serie di incontri, che hanno lo scopo di considerare il senso della missione sacerdotale nella situazione del nostro tempo. Le profonde trasformazioni in corso nella nostra società hanno messo in crisi il ruolo tradizionale che vi svolgeva il sacerdote, ed hanno di conseguenza creato un diffuso stato di disagio interiore, caratterizzato soprattutto da un senso di sfiducia nella validità del ministero; ciò accade nei sacerdoti di tutte le età. Essi in modo diverso, o perché sono giovani o perché sono anziani o perché sono di mezza età, sentono sfuggirsi di mano quel mondo che sembrava molto integrato e molto omogeneo con la Chiesa, che ora vuole organizzarsi, con maggiore senso, di maturità su basi autonome e non più sacre. La crisi provocata dalla secolarizzazione del mondo moderno investe prima di tutto la Chiesa nella sua globalità, e quindi si ripartisce a tutti i livelli, producendo nello stesso tempo un senso di smarrimento ed un senso di liberazione. Però, il più delle volte si ha con più evidenza la sensazione di ciò che muore, ma non si avverte con uguale attenzione anche ciò che nasce. Il modo di presenza della Chiesa nel mondo, il tipo di relazione con cui essa si inserisce nella società deve cambiare, perché il mondo e la società stanno cambiando. La posizione di prestigio sociale che la Chiesa ha goduto nel passato rischia di soffocare la Chiesa stessa, se essa non se ne libera prontamente e di propria iniziativa. Questo problema di ristrutturazione dei rapporti della Chiesa con il mondo, trova un punto speciale di 1

Il presente articolo riproduce, rielaborato in qualche punto, il testo della conferenza tenuta per il clero in arcivescovado il 19 gennaio 1970. Gli studi di base di cui ci siamo serviti sono: J. BLANK, Le prêtre à la lumière de la Bible, in Bulletin d’informations de l’Institut pour l’Entraide Sacerdotale en Europe. «Le prêtre et le monde sécularisé». Compte rendu du Congres de Lucerne 18-22 Septembre 1967, Maastricht 1968, pp. 19-35; K. H. SCHELKLE, Ministeri e ministri nelle chiese dell’epoca neotestamentaria, in Concilium, n. 3, 1969, pp. 23-38.

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manifestazione e di esplosione nella coscienza del sacerdote, il quale deve ritrovare il suo ruolo non solo dentro la Chiesa, ma anche dentro la società. Ora il ruolo del sacerdote nella società è subordinato al ruolo della Chiesa nella società, e se è necessario modificare il ruolo della Chiesa nella società, ne segue che è necessario modificare anche il ruolo del sacerdote. Ci troviamo perciò in un momento di ricerca, perché il ruolo tradizionale non ci soddisfa, perché esso si è elaborato in una società cristiana, mentre oggi viviamo in una società secolare; le competenze del sacerdote in una società sacrale sono diverse da quelle che gli derivano in una società laicizzata e pluralistica, ferma restando la sua funzione essenziale che scaturisce dalla istituzione e dalla vocazione divina. È proprio nei momenti di grandi trasformazioni come il nostro che si avverte di più la componente storica, e quindi contingente e mutabile, di tante concezioni teologiche. La concezione teologica del sacerdote che si è elaborata nei secoli passati è stata sempre soggetta a vari condizionamenti dipendenti dal contesto storico e dalle diverse possibilità pastorali che di volta in volta venivano ad offrirsi2. Se consideriamo globalmente la storia della concezione del sacerdozio, vediamo come essa è legata e dipendente dalla storia dell’ecclesiologia, ed in particolare dal posto e dal senso attribuiti alla gerarchia all’interno della compagine totale della Chiesa. All’ingrosso si può dire che allorché si è costituita la società cristiana medioevale, la gerarchia ecclesiastica ha goduto pure di una rilevanza politica, sicché la sua distinzione di carattere teologico all’interno del popolo di Dio, ha avuto la sua trasposizione anche sul piano sociale. In questo clima ci si è ispirato volentieri alla costituzione del sacerdozio dell’A.T. e così il ministero sacerdotale si è concentrato di più nelle funzioni cultuali. Nel N. T. abbiamo invece una concezione del sacerdozio più comunitaria, più orientata sulla funzione della predicazione della Parola, e meno sacrale. La situazione presente, che richiede in fondo più slancio missionario e più fraternità umana, ci conduce ad una riscoperta della concezione originale del sacerdozio propria del N. T., elaboratasi in un tempo in cui le comunità cristiane costituivano una minoranza ed in cui l’unico mezzo possibile per offrire la testimonianza era il servizio. È la

2 Per un breve schizzo della storia dei vari modelli della figura sacerdotale nella tradizione cattolica cfr. Y. CONGAR, L’idée du sacerdoce dans le textes de Vatican II, in Verbum Caro 22 (1968), pp. 11-15.

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società cristiana medioevale che rende possibile, in seguito, il ricorso alle categorie proprie del regime teocratico dell’Antico Testamento. «I riferimenti all’Antico Testamento hanno contribuito a fissare il vocabolario sacerdotale e cultuale del cristianesimo antico, nel senso di distinzione di un clero e addirittura di uno stato clericale particolare… All’inizio dell’VIII sec. viene introdotta l’unzione delle mani nell’ordinazione dei sacerdoti fatta fino a quel tempo mediante la semplice imposizione delle mani, con riferimento alla traduzione latina di Es. 28, 41 e Num. 3, 3…3. Il gusto di trovare l’origine delle istituzioni cristiane nell’A.T. ha influito sulla concezione stessa del sacerdozio. San Girolamo aveva aperto la strada, ma è stato s. Isidoro di Siviglia a trasmettere al medioevo, del quale è stato uno dei maestri più influenti, l’idea che i diversi ordini (dal Vescovo agli ostiari) avevano avuto il loro tipo e la loro origine nel servizio cultuale mosaico… Spesso si opereranno delle semplificazioni; ci si limiterà ad affermare: ordo sacerdotii a vetere lege sumpsit exordium sc. a filiis Aaron. Ma i testi di Isidoro saranno trasmessi e ripetuti lungo tutto il corso del medioevo. Non c’è dubbio che essi hanno contribuito ad accentuare il carattere cultuale del Sacerdozio»4. In una società sacrale, in cui l’apriori religioso si pone come un dato ovvio che ispira più o meno il modo di pensare comune ed i costumi, il ministero sacerdotale è convogliato di più verso l’attività rituale-sacramentale e meno verso la predicazione e la testimonianza della Parola. «Nell’alto … Medioevo l’accento si pone molto di più sulla giurisdizione ed il potere di assolvere che sul ruolo del prete nell’eucarestia. Nel sec. XIII l’accento si pone nell’eucarestia, ma poco sulla Parola, sulla funzione profetica, infatti allora si ha un sacerdozio poco 3 In Es. 28, 41 nel contesto delle prescrizioni date a Mosè per i sacerdoti la Volgata dice: … Et cunctorum consecrabis manus, sanctificabisque illos, ut sacerdotio fungantur mihi. Il testo ebraico ha invece una lezione diversa: … li (i figli di Aronne) ungerai, riempirai la loro mano, li consacrerai e così saranno per me sacerdoti. L’espressione «riempire la mano» significa: consegnare le insegne o i diritti sacerdotali (così F. ZORELL, Lexicon hebraicum et aramaicum Veteris Testamenti, Roma 1957, s. v.). La Volgata omette il verbo «riempire» e fa dipendere le mani (al plurale!) dal verbo «ungere». In Num. 3, 3 il testo ebraico dice: Questi sono i nomi dei figli di Aronne, i sacerdoti unti, di cui era stata riempita la mano, per essere sacerdoti. Qui la Volgata introduce un verbo mancante nel testo ebraico: quorum repletae et consecratae manus ut sacerdotio fungerentur. I termini usati dalla Settanta nei due passi sono hierateus e hiereus che, come vedremo, non sono usati per indicare i ministeri nel N. T. 4 Y. CONGAR, Due fattori della sacralizzazione della vita sociale nel medioevo (occidentale), in Concilium, n. 7, 1969, pp. 72-73.

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colto … e a causa di questa situazione, la funzione profetica si esclude un poco dalla nozione ordinaria del sacerdozio che è essenzialmente cultuale. Si noti pure che in questa stessa epoca il clero è considerato come una classe sociologicamente privilegiata ed onorata, una categoria di notabili, idea contro la quale si eleverà Lutero»5. A conclusione di questa prima parte introduttiva, che ha cercato di caratterizzare la problematica del sacerdozio di oggi in rapporto alla storia del passato, possiamo affermare in sintesi quanto segue: 1) oggi si pone una crisi d’identità del ruolo del sacerdote nella Chiesa e nella società; 2) la funzione del sacerdote va definita in relazione con la comunità cristiana e con la comunità umana, e non astraendo dalla sua collocazione nel loro ambito; 3) c’è una relazione tra la funzione profetica e la funzione cultuale nel ministero sacerdotale.

II. IL SACERDOZIO DELL’ANTICO TESTAMENTO Esaminiamo ora il sacerdozio dell’A.T. e nel tardo Giudaismo, quale sfondo su cui si delinea l’orientamento originale del N.T. sul culto e sul ministero6. Per quanto riguarda l’A.T. ricordiamo tre punti fondamentali: a) Abbiamo l’organizzazione di una casta sacerdotale, a cui era affidato il diritto esclusivo del culto nel tempio. Si tratta di un sacerdozio professionale, analogo a quello che troviamo nelle altre religioni del mondo antico. Esso presenta nel corso dell’A.T., un’evoluzione di cui non è possibile stabilire con certezza le varie fasi, giacché i testi che lo riguardano non offrono spesso elementi sufficienti per una loro datazione. In linea di massima si può dire che è dopo l’esilio che il sacerdozio acquista un’importanza straordinaria, in quanto, mancando ormai il potere politico del re, il sommo sacerdote rappresenta la massima autorità della comunità giudaica. Questo sacerdozio aveva non solo un compito cultuale, ma anche un compito di insegnamento, che veniva però spesso trascurato, decadendo così nella pratica di un ritualismo privo di contenuto religioso. b) Abbiamo ancora la concezione di una dignità sacerdotale di tutto il popolo rispetto alle nazioni pagane. Nell’A.T., come troviamo una rela5 6

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Art. cit. alla n. 2, p. 12. Cfr. R. de VAUX, Les Institutions de L’Ancient Testament, vol. II, Parigi 1960, pp.


tivizzazione del potere politico del re, dovuto ad uno spiccato senso dell’eguaglianza fondamentale di tutti i membri del popolo, così abbiamo pure una relativizzazione del potere sacro dei sacerdoti in forza dell’estensione di una certa qualità sacerdotale a tutto il popolo (cfr. Es. 19, 6). c) Abbiamo per ultimo la polemica dei profeti contro la classe sacerdotale del loro tempo e quindi contro il culto da loro praticato. I profeti, ad eccezione di Ezechiele, non sono di origine e di formazione sacerdotale. Sopratutto i più grandi di essi — quali Amos, Osea, Isaia e Geremia — sono dei laici che non agiscono nel tempio, quanto piuttosto nel cuore della società, sentendone non solo i problemi religiosi, ma anche quelli politici e sociali. Essi condannano il culto perché lo si usa come pretesto per propiziarsi Dio senza la pratica della giustizia (cfr. Os. 6, 6 cit. in Mt. 9, 13). d) Nel tardo Giudaismo7 dell’epoca neotestamentaria, il fenomeno più caratteristico riguardante la situazione del sacerdozio è costituito dalla setta di Qumran. Essa è nata da un movimento religioso spiritualista di dissenso con il sacerdozio ufficiale del tempio di Gerusalemme, giudicato indegno, perché, essendo in mano ai Sadducei, era troppo compromesso negli intrighi del potere politico. Il sacerdozio del tempio, dedito ad un professionalismo cultuale troppo esclusivo, era incurante dell’istruzione del popolo, curata piuttosto dagli scribi e dai farisei. La comunità di Qumran rifiutava ogni tipo di sacrificio materiale e praticava soltanto i sacrifici spirituali della preghiera e dell’ascesi. Essa aveva i suoi sacerdoti che proclamavano le opere di Dio, davano il loro consiglio alla comunità e, come mediatori, intercedevano per essa la benedizione. A Qumran era viva l’attesa messianica che si esprimeva nella concezione singolare della venuta di un doppio messia, uno con funzioni politiche e perciò discendente da David, l’altro con funzioni sacerdotali e perciò discendente da Aronne. Alla fine dei tempi, cioè con la venuta dei due messia, tutta la comunità di Qumran sarebbe diventata una comunità sacerdotale. Tutti questi elementi, veterotestamentari e qumranici, ci forniscono il quadro da cui dobbiamo partire per meglio apprezzare i dati del N.T. Abbiamo notato, in sostanza, una triplice tensione: 1) classe sacerdotale: sacerdozio di tutto il popolo; 2) ministero sacerdotale: ministero profetico; 3) sacrifici materiali: sacrifici spirituali.

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Cfr. K. H. SCHELKLE, art. cit. alla n. 1, p. 24.

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III. IL SACERDOZIO NEL NUOVO TESTAMENTO Dobbiamo qui distinguere due tappe: prima e dopo la Pasqua.

A) Prima della Pasqua. a) Il Ministero terreno di Gesù. Nel N.T. Gesù viene indicato come sacerdote solo nell’Epistola agli Ebrei, ed in questo caso è considerato esclusivamente nell’atto della sua morte e della resurrezione8. Il ministero terreno di Gesù non viene presentato mai, dal punto di vista terminologico, come un ministero sacerdotale. In riferimento alle categorie dell’A.T. Gesù si inserisce più nella linea dei profeti che non in quella del sacerdozio. «Il Gesù storico o terrestre non si è mai designato come sacerdote e non ha niente a che vedere con il sacerdozio cultuale del giudaismo ufficiale. Gesù non apparteneva ad una famiglia sacerdotale e non era un levita; secondo il suo statuto giudaico era un laico»9. Già nel II sec. si fa strada l’esigenza di rendere sacerdotale la condizione sociale di Gesù e perciò negli apocrifi gli si attribuisce una discendenza dalla tribù di Levi, il più spesso senza menzionare Maria, qualche volta affermando anche che Maria era figlia di un sacerdote. Ma nei vangeli dell’infanzia abbiamo solo affermata la discendenza davidica che esclude quella levitica. Gesù si presenta nel suo ambiente come il predicatore ambulante del Regno di Dio, senza riferimento al tempio e al culto in esso svolto. Il Vangelo dell’infanzia di Luca rappresenta in questo senso un’eccezione che fa meraviglia, e ciò è dovuto al suo spiccato substrato veterotestamentario10. Fino all’inizio della predicazione, Gesù resta assorbito 8

J. LECUYER, Le sacerdoce dans le mystère du Christ, Parigi 1957, che presenta una visione organica del sacerdozio di Cristo, parla prima del mistero pasquale e dopo della incarnazione. «Il sacerdozio di Gesù è l’unico vero sacerdozio, poiché lui solo ha potuto, con la sua Passione e la sua Resurrezione, offrire il vero sacrificio che riconcilia l’uomo con Dio, penetrando con la sua umanità immolata e glorificata nel vero santuario dove risiede Dio» (ibid., p. 20). 9 J. BLANK, art. cit. alla n. 1, p. 24. 10 «L’autore di Lc 1-2... nel raccontare le esperienze dei suoi protagonisti o nell’annunziare la loro missione invece di affidarsi ai suoi ricordi storici (ai fatti) o alle risorse della propria fantasia (alla sua arte letteraria), si ispira largamente anche alle narrazioni analoghe del Vecchio Testamento o della letteratura giudaica contemporanea (ORTENSIO da SPINETOLI, Introduzione ai Vangeli dell’Infanzia, Brescia 1967, p. 77).

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nell’esercizio anonimo di un lavoro secolare, nella vita nascosta di Nazareth. L’unica affermazione di Gesù sullo stato sacerdotale è quella che ricorre nella parabola del samaritano (Lc. 10, 31), dove, come si sa, ha una sfumatura polemica nel senso che al sacerdote soddisfatto del servizio cultuale si contrappone il samaritano, che non solo è un laico ma è anche un infedele, che non poteva partecipare al culto del tempio. Così la carità viene contrapposta ad un certo culto. Vediamo Gesù nel tempio per scacciarvi i profanatori e così — sulla scia degli antichi profeti — entra in polemica con il modo con cui difatto il culto era praticato: però nel racconto di Giovanni l’episodio — che viene poi anticipato all’inizio della vita pubblica — riceve una interpretazione ancora più radicale, perché Gesù vi afferma che ormai il suo stesso corpo è il nuovo tempio di Dio, cioè l’unico luogo della vera presenza di Dio in mezzo agli uomini. Ed è proprio in Giovanni che troviamo l’affermazione di Gesù sul culto «in spirito e verità» (4, 21-24) che non ha più la sua sede né a Gerusalemme né sul monte Garizim. Lo stesso tema del tempio sarà poi applicato a tutti i cristiani che sono in comunione con Dio, per mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito Santo (1 Cor. 6, 19; 1 Petr. 2, 46). Accanto alla predicazione Gesù si dedica a beneficare gli uomini. Così il Regno di Dio non viene solo annunziato ma è anche realizzato. La liberazione dai mali temporali, attraverso i miracoli di Gesù, è il segno che il Regno di Dio ha una ripercussione effettiva anche nella realtà terrestre e mondana della vita degli uomini, La condotta di Gesù sarà considerata perfino irreligiosa, e lo si condannerà volentieri come uno che non osserva certe prescrizioni rituali relative al rispetto del sabato, alle purificazioni prima dei pasti, alla segregazione rispetto ai peccatori. Quando Gesù era in casa di Matteo «vennero molti pubblicani e peccatori e si posero a mensa insieme a Gesù e ai suoi discepoli. I farisei, avendo veduto ciò, dicevano ai suoi discepoli: “Perché il vostro Maestro mangia con i pubblicani e i peccatori?” Ora egli che aveva udito, disse: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate ad imparare cosa significa: Misericordia voglio e non sacrifici (Os. 6, 6). Non sono venuto infatti a chiamare i giusti ma i peccatori”» (Mt. 9, 10-13). Gesù stesso dovendo rimproverare i suoi contemporanei che lo respingono, esplicitamente metterà in contrapposizione la sua condotta col comportamento ascetico di Giovanni Battista dicendo: «È venuto Giovanni che non mangia e non beve e dicono: ha un demonio. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione ed un bevitore, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Mt. 11, 12-19). La relazione con il Padre si

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realizza nel compimento della missione in mezzo agli uomini e per gli uomini. Gesù sopprime la distinzione tra sacro e profano, nel senso che insegna che tutta la vita nella sua concretezza, va riferita alla signoria di Dio. Tutta la creazione, e quindi la storia, si deve considerare come il luogo della manifestazione di Dio e della sua azione. b) I dodici scelti da Gesù. Gli esegeti moderni, anche cattolici11, ritengono che il termine «apostolo» non risale a Gesù ma viene attribuito ai dodici solo nel periodo post-pasquale. Nelle redazioni lucane del Vangelo e negli Atti i «dodici» sono divenuti gli apostoli. Qui è importante richiamare qualche tratto che caratterizza l’insegnamento dato da Gesù a questi dodici quando sono ancora dei semplici discepoli, per vedere come il carisma, cioè un certo stile di vita, deve precedere l’ufficio. Ad essi Gesù inculca sopratutto lo spirito di servizio e di fraternità. Nel rovente discorso del c. 23 di Matteo contro gli scribi ed i farisei sono riportate anche queste frasi rivolte ai discepoli. «Sulla cattedra di Mosè si sono assisi gli scribi e i farisei … amano il primo posto nei banchetti e i primi seggi nelle sinagoghe, i saluti nelle piazze e di essere chiamati dagli uomini Rabbi. Voi invece non vi fate chiamare Rabbi; uno solo infatti è il vostro Maestro e tutti voi siete fratelli» (vv. 2, 6-8). Le distinzioni religioso-sociali del giudaismo non dovrebbero perpetuarsi nella comunità cristiana. In questa comunità ci saranno dei ruoli di responsabilità, però essi devono essere adempiti in spirito di servizio. «Sapete che quelli che hanno fama di guidare i popoli li tiranneggiano e i loro grandi li opprimono. Ma non è così tra di voi; chi infatti voglia diventare grande fra voi sia vostro servo e chi voglia essere primo fra voi sia lo schiavo di tutti, poiché anche il Figlio dell’uomo non venne per essere servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto di molti (Mc. 10, 42-45; Mt. 20, 25-28; Lc. 18,25-27). Gesù così esclude dalla sua comunità un’autorità che ricalchi sia i modelli dell’ambiente religioso giudaico sia quelli dell’ambiente politico pagano. Nei Vangeli non si parla espressamente nè di sacerdozio né di culto per quanto riguarda la comunità cristiana, ma se ci sono i dodici che sono preparati per avere poi un ruolo attivo nella generazione della comunità dopo la Pasqua, essi sono soprattutto caratterizzati per l’impegno particolare con cui devono esercitare — sull’esempio concreto di Gesù — la «diaconia» nei confronti degli altri. La

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Cfr. B. RIGAUX, I dodici apostoli, in Concilium, n. 4, 1968, pp. 17-27.


cena pasquale è l’unico gesto di Gesù che rientra nel rituale giudaico; però essa non si svolgeva nel tempio, ma era stata celebrata sempre come una festa domestica, officiata dal capofamiglia.

B) Dopo la Pasqua. Ora bisogna considerare il sacerdozio di Cristo ed il sacerdozio nella comunità cristiana. Dal punto di vista metodologico è necessario esaminare prima di tutto il vocabolario sacerdotale del N.T.12. La terminologia greca, già usata nella Settanta per indicare il sacerdozio, sia giudaico che pagano, non viene applicata mai nel N.T. agli apostoli, i quali avrebbero potuto ricoprire nella comunità cristiana il ruolo di sacerdoti secondo gli schemi delle varie religioni. La prerogativa del sacerdozio nel N. T. è attribuita solo al Cristo (nella sola Epistola agli Ebrei: hiereus, archiereus) o a tutta la comunità cristiana (hierateuma: 1 Petr. 2, 5-9; hiereis: Apoc. 1, 6; 5, 10; 20, 6). Il sacerdozio di Cristo viene partecipato innanzitutto a tutta la comunità cristiana, che è stata redenta (Apoc. 1, 6) che è chiamata a testimoniare la fede e ad offrire un culto spirituale (1 Petr. 2, 5-9). Nel N.T. perciò, coerentemente, si ha presente la condizione ed il destino di tutto il popolo di Dio. All’interno del popolo di Dio, in funzione del suo costituirsi e del suo svilupparsi, sono considerati i ministeri, per i quali non si usa il predicato del sacerdozio, riservato al Cristo e alla comunità intera, ma altri predicati che indicano il ruolo della predicazione della Parola e della direzione della comunità (apostoloi13, poimenes14, episkopoi15, presbyteroi16, diakonoi17. Il termine presbyteros è di origine giudaica; quello di episkopos che originalmente significa “sorvegliante” 12

Cfr. S. LYONNET, «Deus qui servio in spiritu meo», in Exegesis Epistulae ad Romanos 1-IV, Roma 1960, pp. 61-72. 13 Lo stesso concetto è applicato anche a Gesù, in quanto è inviato dal Padre, in Jo. 5, 36; 20, 21. 14 Eph. 4, 11; Act. 20, 28; Cristo stesso è chiamato pastore in 1 Petr. 2, 25; Hebr. 13, 20. 15 Act. 20, 28; Phil. 1, 1; 1 Tim. 3, 2; Tit. 1, 7; Cristo stesso è chiamato vescovo in 1 Petr. 2, 25. 16 Act. 11, 30 ed altre volte. Da Paolo il termine è usato solo nelle epistole pastorali, le quali riflettono uno stadio più recente: 1 Tim. 5, 1. 17. 19; Tit. 1, 5. Inoltre: Hebr. 12, 2; Jac. 5, 14; 1 Petr. 5, 1. 5. Questo titolo non è attribuito pure al Cristo. 17 Phil. 1, 1; 1 Tim. 3, 8.

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sembra di origine ellenistica. Riguardo a questi due ultimi uffici la terminologia è agli inizi ancora fluttuante: per cui in Act. 20, 17-28 i vescovi e i presbiteri si identificano mentre in Tit. 1, 5-7 si distinguono. Probabilmente la distinzione dei due uffici è una acquisizione più recente18. Per quanto riguarda il vocabolario cultuale, che costituisce un ambito correlativo a quello sacerdotale, si osserva in genere il fenomeno che i termini usati per il culto giudaico vengono applicati alla vita cristiana medesima, e non ad un culto rituale propriamente detto. Si passa così dalla ritualizzazione alla spiritualizzazione del culto, dal culto eseguito nel tempio, al culto realizzato nella vita19. L’Eucaristia non è presentata nel N.T. con le categorie veterotestamentarie del sacrificio rituale, come si è fatto soprattutto nella teologia post-tridentina20, la quale ha tanto sottolineato la presenza reale del Cristo nella materia consacrata e il potere consacratorio derivante dal sacramento dell’ordine da non considerare per nulla il suo carattere comunitario, che secondo il N.T. è essenziale. Così l’Eucaristia viene iniziata nel banchetto pasquale che per i Giudei era una celebrazione familiare, perciò Gesù la celebra con quelli che già egli aveva fatto suoi discepoli e che erano ormai suoi amici (Io. 15, 15); viene poi menzionata (come frazione del pane) dopo l’istruzione con la quale gli Apostoli fonda18

Cfr. K. H. SCHELKLE, art. cit. alla n. 1, p. 32. Citiamo tre esempi: 1) latreuo, latreia: in Rom. 1, 9 si indica il ministero della predicazione di Paolo; in Rom. 12, 1; Phil. 3, 3; Hebr. 12, 28 si indica la vita cristiana specialmente nella sua espressione di carità; negli altri casi questi vocaboli esprimono il culto pagano (Rom. 1, 25; Act. 7, 42) e quello israelitico (Lc. 2, 37). 2) leitourgeo, leitourgia indicano il mistero pasquale di Cristo (Hebr. 8, 6), il culto israelitico (Lc. 1, 23; Hebr. 9, 21; 10, 11), per tutti i cristiani la loro vita ispirata dalla fede (Phil. 2, 17). 3) thusia, che nel greco profano indica soltanto il sacrificio rituale, nel N. T. indica sia il sacrificio del culto israelitico (Lc. 2, 24) sia il sacrificio di Cristo (Eph. 5, 2; Hebr. 9, 23. 26; 10, 12. 26); negli altri casi la vita etica dei cristiani (Rom. 12, 1; Phil. 2, 17; 1 Petr. 2, 5). 20 È veramente significativo notare come l’argomentazione del BILLOT (De Ecclesiae sacramentis, Ed. VII, Roma 1932, pp. 582-623) per dimostrare che la Messa è sacrificio si basa prima su considerazioni ricavate dal diritto naturale e dall’A. T. (Ps. 109 (110), 4; Gen. 14, 18; Mal. 1, 10-11) e poi sulle parole dell’istituzione eucaristica, interpretate ormai secondo le categorie della religione veterotestamentaria. Molto diversa è l’impostazione di J. RATZINGER (L’eucaristia è un sacrificio?, in Concilium, n. 4, 1967, pp. 83-97) il quale sostiene il carattere sacrificale dell’eucaristia, non basandosi sugli elementi ritualistici del culto dell’A. T., ma sulla categoria biblica più fondamentale del «memoriale» che stabilisce un nesso tra l’eucaristia e la parola commemorativa. «Mentre Israele ricorda la storia della salvezza, la riceve come presente, entra in questa storia e partecipa alla sua realtà» (p. 94). 19

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vano ed alimentavano la comunità, e dopo la menzione della comunione di vita praticata dalla comunità (Act. 2, 42)21. Giovanni nell’ultima cena invece che parlare dell’istituzione della Eucaristia come i Sinottici, pone come equivalente la lavanda dei piedi (Jo. 13,1-20). L’Eucaristia presuppone la comunità e la fa crescere (1 Cor. 10, 17, dove si parla della koinonia con il sangue e il corpo di Cristo che fa di tutti un solo corpo). A questo punto si pone il problema dogmatico dell’esistenza e del significato del sacerdozio ministeriale. Se Cristo si identifica con tutto il suo corpo che è la Chiesa, nello stesso tempo questa resta di fronte a lui distinta ed in condizione di recettività. Il ruolo attivo della comunicazione di Cristo alla sua Chiesa viene rappresentato in essa in modo anche visibile e strutturale dal ministero sacerdotale22. Nella Chiesa c’è una compartecipazione di tutti alla medesima redenzione, ma c’è anche una distinzione di ruoli23. Nel N.T. non viene negata la distinzione dei ruoli, essi vengono però caratterizzati in modo un po’ diverso da come sono stati caratterizzati in seguito, per motivi storici, quando ci si è avviati ad una sacralizzazione istituzionale dei ministeri, che nel N.T. hanno presentato ancora una fluidità di forme ed un carattere più carismatico24. 21

Il termine koinonia ricorre negli Atti solo in questo passo. Mentre il testo greco enumera quattro elementi (l’istruzione e la koinonia, la frazione del pane e le preghiere) la Volgata fonde il secondo con il terzo elemento, banalizzando così il significato pregnante della koinonia usata in assoluto, che viene interpretata come comunione eucaristica: in communicatione fractionis panis. Invece con koinonia si intende l’unanimità degli spiriti (cfr. Act. 4, 32) che si esprime pure nella messa in comune dei beni. Cfr. J. DUPONT, L’union entre les premiers chrétiens dans les Actes des Apôtres, in Nouvelle Revue Theologique 101 (1969), pp. 897-915; in particolare p. 899. 22 «Nella comunità cristiana il prete ministeriale rappresenta il Cristo come colui che sta di fronte («comme vis-à-vis»); egli testimonia il fatto che tutto viene dall’alto e non dal basso»: Y. CONGAR, art. cit. alla n. 2, p. 15. 23 Dal punto di vista protestante anche ciò è energicamente affermato da G. SIEGWALT, Sacerdoce ministeriel et ministère pastoral d’après les livres symboliques lutheriens, in Verbum Caro 22 (1968), pp. 16-38, il quale afferma: «Non è solamente il semplice cristiano che è un prete, il pastore è pure prete. Egli però lo è in una maniera specifica. Egli lo è predicando la parola di Dio e amministrando i sacramenti, e ciò significa: egli lo è nel culto, nella cura d’anime, nel catechismo, in tutti gli aspetti del suo ministero. Il pastore è così prete come ogni cristiano; ma in più egli è un prete ministeriale. Il ministero del pastore è, in questo senso biblico, un sacerdozio ministeriale» (p. 33). 24 J. COLSON, Ministre de Jésus-Christ ou le sacerdoce de l’évangile. Étude sur la condition sacerdotale des mininistres chrétiens dans l’Eglise primitive, Parigi 1966, si prefigge di dimostrare che nonostante le innovazioni posteriori la sostanza neotestamentaria viene rispettata. L’autore si pone questo problema: «La Chiesa quando, a partire da una certa

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IV. PROSPETTIVE BIBLICHE SULLA SITUAZIONE ATTUALE 1) Basandoci su quello che abbiamo detto, ci pare possibile poter affermare che, nella situazione presente, occorre riproporzionare l’attività sacramentale sulla misura delle attività di evangelizzazione. Non è difficile riconoscere che qualche volta i gesti sacramentali sono senza contenuto spirituale — personale e comunitario —, non solo per le persone che vi ricorrono più per una tradizione religiosa che per una intima convinzione, ma anche per lo stesso sacerdote che non li fonda sulla maturazione dell’esperienza e delle circostanze ma li pone come puri fatti professionali. Il professionalismo sacramentale porta ad un’eccessiva accumulazione di riti che il sacerdote non può porre con un’autentica partecipazione personale25. Bisogna riconoscere che di fatto abbiamo spesso più fiducia nell’effetto ex opere operato del sacramento, che non nel rischio della Parola, che non solo si deve proclamare ma che anche si deve ripensare26. Il momento sacramentale, soprattutto quello eucaristico, deve essere preceduto dall’evangelizzazione. L’evangelizzazione non implica solo la predicazione, ma anche un impegno di partecipazione personale ai problemi umani, assunti però in una tensione profetica. Nella nostra tradizione la sacralizzazione dell’esistenza sacerdotale incentrata nel culto ha fatto sì che la Parola di vita diventasse gergo ecclesiastico, un po’ stereotipato ed assente dalle vicissitudini dell’umanità. Il sacerdote deve maturare nella e epoca nei secoli subapostolici riconoscerà ai suoi ministri un carattere sacerdotale e, finalmente, attribuirà loro i titoli di hiereis -sacerdotes, tradisce o, al contrario, prolunga, precisandolo, il pensiero apostolico?». A questa domanda Colson risponde in modo positivo, mettendo in rapporto i dati del N.T. con le esplicitazioni che si manifestano nell’ Epistola di Clemente Romano, nella Didachè, nell’Epistola di Barnaba, nelle Odi di Salomone, nel Pastore di Erma ed in Ignazio di Antiochia. Ciò non toglie che a questa evoluzione possa oggi seguire una nuova evoluzione corrispondente alle nuove circostanze storiche. 25 Cfr. E. PIN, La differenziazione dello funzione sacerdotale: analisi sociologica, in Concilium, n. 3, 1969, pp. 67.82. 26 Così pare significativo il tentativo di considerare il ministero sacramentale come il prolungamento del ministero della Parola. «Il Sacerdote è colui che, per incarico della Chiesa e quindi in forma ufficiale, annunzia ad una comunità, esistente almeno potenzialmente, la parola di Dio, per cui sono affidati a lui anche i sommi gradi d’intensità sacramentale di questa parola. In parole del tutto semplici, egli è il predicatore del Vangelo per incarico ed in nome della Chiesa. Il modo supremo di realizzazione di questa parola si ha nell’anamnesi della morte e resurrezione del Signore fatta dalla celebrazione eucaristica» (K. RAHNER, L’aggancio teologico per la determinazione dell’essenza del sacerdozio gerarchico, in

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attraverso la sua umanità il messaggio che gli viene affidato da Dio. Il ritorno al modello sacerdotale dell’A.T. ha portato all’ideale di un tipo di segregazione dal mondo che non pare in armonia con il movimento dell’Incarnazione. L’Epistola agli Ebrei che — come abbiamo già detto — è l’unico testo del N.T. che chiama Cristo sacerdote, è proprio quella che sottolinea anche il contrasto tra il sacerdozio di Cristo ed il sacerdozio giudaico, nel senso che il primo tende ad entrare nel mondo mentre il secondo tende ad uscire dal mondo27. 2) Un secondo richiamo ci sembra urgente, applicando l’insegnamento neotestamentario sopra evocato alla situazione presente: il senso dell’unità e della comunione nell’esercizio del sacerdozio ministeriale. Se nel primo punto abbiamo affermato la necessità di superare una certa separazione del sacerdote dal mondo, ora vogliamo richiamare la necessità di superare la separazione del sacerdote dalla comunità cristiana e dalla comunità presbiterale. La comunità si forma con il concorso specifico dei vari membri che la compongono. C’è una varietà di ruoli ma ci deve essere un’unità di ispirazione. Ogni sacerdote ha il dovere e il diritto di scoprire il proprio sacerdozio, e per questo l’inserimento vivo nella comunità cristiana e presbiterale gli fornisce una base permanente di verifica ed uno stimolo continuo per la ricerca della sua identità personale. «Ed egli stesso diede alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e dottori, per mettere i santi in grado di compiere un’opera di ministero (diakonia), per l’edificazione del corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del

Concilium, n. 3, 1969, pp. 106-113; in particolare pp. 111-112). Nella stessa prospettiva si pone pure A. M. ROGUET, La présence active du Christ dans la Parole de Diéu, in La Maison-Dieu, n. 82, 1965, pp. 8-28. 27 A. VANHOYE, Le Christ, grand prêtre selon Heb. 2, 17-18, in Nouvelle Revue Theologique 101 (1969), pp. 449-474: «Invece di effettuarsi per mezzo di separazioni rituali, la sua (del Cristo) elevazione presso Dio si compie grazie all’ accettazione di un integrale comunione di destino con i suoi fratelli» (p. 458). È curioso notare come, in una certa interpretazione corrente, la frase «Omnis namque pontifex ex hominibus assumptus …» (Hebr. 5, 1), che è detta del sacerdozio giudaico e non del sacerdozio di Cristo (cfr. P. TEODORICO DA CASTEL S. PIETRO, L’epistola agli Ebrei (La Sacra Bibbia), Torino 1952, pag. 98), è stata invocata per sostenere la necessità della segregazione dal mondo del sacerdote.

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Figlio di Dio, all’uomo compiuto, alla misura della maturità della pienezza (pleroma) di Cristo» (Eph. 4, 11-13; cfr. 1 Cor. 12, 27-30). L’importante è che la varietà dei ruoli non crei delle posizioni di privilegio; un ruolo che si presenta, anche senza volerlo, come un privilegio viene rifiutato28. In una società fondata, già dal punto di vista sociologico, per l’arretratezza culturale delle masse, sul principio di autorità, era facilitata sul piano religioso l’accettazione del sacerdozio ministeriale e gerarchico che si richiama all’investitura divina. Oggi al principio dell’investitura è subentrato quello della competenza, anzi delle competenze, le quali si possono acquistare solo attraverso l’esercizio continuato dello stesso ruolo specializzato29. Nessuno di noi può presumere più di quanto gli consente la propria competenza, anche se abbiamo il carattere sacramentale. Il sacerdozio ministeriale si fa accettare nella misura in cui si mantiene consapevole dei propri limiti umani e perciò accetta la dialettica della ricerca umana, fatta di dialogo, di integrazione, di confronto continuo. L’unità della comunione si manifesta nella diversità dei ruoli e dei carismi, e nella loro mutua collaborazione.

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Cfr. Y. CONGAR, Pour une Église servante et pauvre, Parigi 1963. Così E. PIN, art. cit., alla nota 27, p. 76.


3 I SALMI NEL NUOVO TESTAMENTO [1973]

A. Prospetto delle citazioni 1. Uso cristologico. a. dogmatico. a. Resurrezione: S. 2: 7 (cfr. Ebr, 1: 5; Atti, 13: 33); S. 8: 5-7 (cfr. Ebr. 2: 6-8); S. 16: 8-11 (cfr. Atti, 2: 25-28); S. 16: 10 (cfr. Atti, 13: 35); S. 45: 7-8 (cfr. Ebr 1: 8-9); S. 68: 19 (cfr. Ef. 4: 8); S. 97: 7 (cfr. Ebr. 1: 6); S. 102: 26-28 (cfr. Ebr. 1: 10-12); S. 104: 4 (cfr. Ebr. 1: 7); S. 110: 1 (cfr. Ebr. 1: 13; Atti, 2: 34-35; I Cor. 15: 25-26; Mt. 22: 44; Mc. 12: 36; Lc. 20: 42-43); S. 110: 4 (cfr. Ebr. 5: 6); S. 118: 22 (cfr. Atti, 4: 11; I Piet. 2: 7; Mt. 21: 42; Mc. 22: 10; Lc. 20: 17). b. Incarnazione: S. 22: 23 (cfr. Ebr. 2: 12); S. 40: 7-9 (cfr. Ebr. 10: 5-10); S. 82: 6 (cfr. Gv. 10: 34). b. biografico: S. 91: 11 (cfr. Mt. 4: 6); S. 69: l0a (cfr. Gv. 2: 17); S. 78: 2 (cfr. Mt. 13: 35); S. 78: 24 (cfr. Gv. 6: 31); S. 8: 3 (cfr. Mt. 21: 16); S. 41: 10 (cfr. Gv. 13: 18); S. 35: 19 (cfr. Gv. 15: 25); S. 22: 2 (cfr. Mt. 27: 46; Mc. 15: 34); S. 31: 6 (cfr. Lc. 23: 46). 2. Uso dogmatico non cristologico. a. peccato: S. 51: 6 (cfr. Rorn. 3: 4; 3: 10-18); S. 14: 1-3 (cfr. Rom. 3: 10-12); S. 5: l0b (cfr. Rom. 3: 13a-b); S. 140: 4b (cfr. Rom. 3: 13c); S. 10: 7 (cfr. Rom. 3: 14); S. 36: 2 (cfr. Rom. 3: 18); S. 143: 2b (cfr. Rom. 3: 20). b. giustificazione: S. 32: 1-2 (cfr. Rom. 4: 7-8). c. Israele e i Gentili: S. 69: 23-24 (cfr. Rom. 11: 9-10); S. 18: 50 (cfr. Rom. 15: 9); S. 117: 1 (cfr. Rom. 15: 11). 3. Uso parenetico: S. 4: 5 (cfr. Ef. 4: 26); S. 24: 1 (cfr. I Cor. 10: 26); S. 34: 13-17 (cfr. I Piet. 3: 10); S. 44: 23 (cfr. Rom. 8: 36); S. 69: 11 (cfr. Rom. 15: 3); S. 94: 11 (cfr. I Cor. 3: 20); S. 95: 11 (cfr. Ebr. 3: 7-11); S. 112: 9 (cfr. II Cor. 9: 9); S. 116: 10 (cfr. II Cor. 4: 13); S. 118: 6-7 (cfr. Ebr. 13: 6).

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4. Uso accomodato: S. 69: 26 (cfr. Atti, 1: 20); S. 109: 8 (cfr. Atti, 1: 20); S. 19: 5 (cfr. Rom. 10: 18). 5. Uso liturgico: S. 2: 1-2 (cfr. Atti, 4: 25-26).

B. Osservazioni critiche. Accanto al libro di Isaia i S. sono il libro dell’A.T. più citato nel NT. Dalla esposizione precedente redatta da A. M. di Nola, risulta che i S. sono stati concepiti originalmente come preghiere, sebbene sia difficile in molti casi stabilire una loro più precisa destinazione. Perciò fa meraviglia il constatare come essi non sono citati nel NT in funzione liturgica ma in funzione dogmatica, cioè come testi autoritativi che devono accreditare il nuovo kerigma cristiano. Solo in Atti 4: 25-26 il S. 2: 1-2 serve come preghiera di ringraziamento per la comunità, senza che manchi però un riferimento cristologico. 1. Uso cristologico. Circa la metà delle citazioni dei S. nel NT hanno una applicazione cristologica. In questo gruppo distinguiamo un uso dogmatico ed un uso biografico. Nel primo caso la citazione intende fondare la dignità di Cristo, nel secondo caso serve come commento ad un episodio della sua vita. a. Uso dogmatico. Conforme all’impostazione generale della cristologia più primitiva, si insiste più sulla resurrezione (o sulla esaltazione celeste) che sull’incarnazione di Cristo. I testi riguardanti la resurrezione derivano tutti o da Ebr. 1-2 o dai discorsi degli Atti (cc. 2, 4, 13); i S. più importanti sono: 2: 7 e 110: 1. Si tratta in entrambi i casi di S. reali: «Tu sei mio figlio: oggi io ti ho generato» (2: 7); «Oracolo di JHWH al mio signore: siedi alla mia destra, finché avrò posto i tuoi nemici a scanno dei tuoi piedi» (110: 1). Originalmente qui ci si riferisce all’intronizzazione del re, che è concepito in senso adozionistico come figlio di Dio, in quanto è il mediatore attraverso cui la benedizione divina giunge al popolo (II Sam. 7: 14). Con queste parole si esprime ora una realtà nuova non prevista nel senso originario. Si può constatare anche negli altri casi come i testi veterotestamentari sono

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citati non secondo il loro significato storicamente originario, ma in un modo accomodato, perché possano servire per far conoscere ai Giudei l’evento di Cristo e della sua resurrezione. Per essere più esatti, si deve osservare che negli Atti (13: 33; 2: 34-35) le due citazioni si riferiscono alla resurrezione, mentre in Ebr. 1-2 esse si riferiscono alla esaltazione di Cristo alla destra di Dio, per partecipare, dopo la sua morte in croce, al suo potere e alla sua dignità. In Ebr. 1-2 abbiamo ancora cinque casi in cui viene applicato al Cristo ciò che originalmente era detto di Dio creatore (S. 97: 7 in 1: 6; S. 102: 26-28 in 1: 10-12; 104: 4 in 1: 7), del re (S. 45: 7-8 in 1: 8-9) e dell’uomo in generale (S. 8: 5-7 in 2: 6-8). Il S. 16: 8-11 è usato due volte in Atti 2: 25-28 e 13: 35; con una concezione che esorbita la prospettiva ordinaria dell’AT, che non afferma esplicitamente la remunerazione dei giusti nell’altra vita, il pio autore del S. professa la fiducia di essere sempre con Dio, e quindi di non restare nello ¡ëôl. Con un approfondimento di significato il S. è applicato ora alla resurrezione di Cristo. Ebr. 5: 6 deriva dal S. 110: 4 la categoria del sacerdozio da applicare al Cristo, assente in tutto il resto del NT. Originalmente si tratta del re che unisce nella sua persona, teocraticamente, la funzione politica e quella religiosa. Due volte i S. sono citati nei sinottici, che forse seguono in questo gli Atti. Nel primo caso (Mt. 22: 44 e paral.) si tratta di una disputa di Gesù con i farisei, nel secondo di una conclusione secondaria della parabola dei vignaioli perfidi (Mt. 21: 42). Singolare è il caso di Ef. 4: 8 dove il S. 68: 19 è citato secondo una lezione diversa dal T. M. («sei salito in alto, hai portato la preda, hai preso doni tra gli uomini», {d)b) e dai LXX («essendo salito in alto, avendo depredato la preda, hai preso [elabev] doni tra gli uomini [en aqrwpw]». Il testo citato da Paolo («essendo salito in alto, ha depredato la preda, ha dato [edwken] doni agli uomini [toiv anqrwpoiv]»,) che si discosta dai LXX, deriva in questo caso dalla tradizione giudaica più recente. Originalmente si tratta di una processione militare al tempio di Gerusalemme dopo la vittoria con i prigionieri nemici catturati nella battaglia. Con un adattamento piuttosto libero, si pensa al Cristo che sale al cielo e che così sottomette le potenze spirituali ostili alla dominazione di Dio (cfr. Fil.. 2: 10; Col. 2: 15), e che quindi comunica i suoi doni spirituali, i quali perciò devono essere messi a profitto di tutta la comunità. Tre passi riguardano l’incarnazione di Cristo: a. S. 40: 7-9 in Ebr. 10: 5-10. Originalmente si ha un canto di ringraziamento, in cui si dice che Dio non vuole tanto sacrifici rituali da chi è stato da lui beneficato, ma un cuore docile nell’ osservanza della sua legge

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(libro). In Ebr. 10: 5 il passo si applica a Cristo che viene nel mondo per morire in croce, perciò vi si introduce una modifica, ed invece di ‘orecchie’ (T. M. e LXX) disposte all’ascolto degli ammonimenti divini, si ha il ‘corpo’ che deve essere sacrificato. b. Del S. 22, il cui v. 2 ricorrerà ancora in Mt. 22: 46 (Mc. 15: 34), viene applicato al Cristo in Ebr. 2: 12 il v. 23 che dice: «annunzierò il tuo nome ai miei fratelli». Originalmente si ha l’invocazione di un uomo tribolato il quale promette a Dio la lode di ringraziamento, che egli gli renderà nel tempio dopo la sua liberazione. La casuale menzione dei fratelli fornisce all’autore dell’epistola lo spunto per accennare alla solidarietà che unisce Cristo con tutti gli uomini. g. «Io ho detto: voi siete ‘elohim’ (LXX = qeoi). E figli dell’Altissimo» (S. 82: 6). Il contesto originario indica un rimprovero rivolto ai giudici ingiusti, che dovrebbero essere più consapevoli della loro dignità, giacché possono essere paragonati ai membri della corte celeste (Gen. 6: 1; I Re, 12: 19-23; Giob. 1: 6). In Gv. 10: 34 si cita il primo stico perché si riconosca la possibilità che il Cristo è il Figlio di Dio. b. Uso biografico. Caratteristica di Mt., a prescindere dai primi due capitoli del vangelo dell’infanzia (4: 6, prima tentazione; 13: 35, il parlare di Gesù in parabole; 21:16, ingresso a Gerusalemme) e di Gv. (2: 17, cacciata dei profanatori del tempio; 6: 31, evocazione della manna; 13: 18, indicazione del traditore; 15: 25: contro i giudei); si aggiungano inoltre le parole messe in bocca a Gesù morente che Mt. 27: 46 e Mc. 15: 34 prendono dal S. 22: 2 («Dio mio, perché mi hai abbandonato?» e che Lc. 23: 46 prende dal S. 31: 6 («Nelle tue mani rimetto il mio spirito»). In tutti questi casi si tratta di una applicazione più o meno accomodata, per lo più fondata sull’analogia delle situazioni descritte nei S. e nei Vangeli. 2. Uso dogmatico non cristologico. Si trova esclusivamente attestato in Rom., e serve ad illustrare il tema unitario di questa epistola nelle sue varie sfaccettature. a. Il peccato e la giustificazione. In Rom. 3: 4; 3: 10-18; 3: 20 si usano i S. per dimostrare l’universale condizione di peccato antecedente la redenzione di Cristo. Il S. 51: 6 (cit. in Rom. 3: 4) nel T.M. suona così: «di

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modo che tu sei giusto nel tuo parlare, e sei retto nel tuo giudicare». Si tratta di un salmo individuale di richiesta (cfr. v. 16); si riconosce il proprio peccato, per essere liberati dalla pena che per esso si subisce. Il salmista riconosce che la sua pena è stata giustamente meritata. Paolo cita il salmo secondo i LXX che avevano dato una nuova interpretazione del T.M. che dice così: «di modo che sei riconosciuto giusto nelle tue parole e vinci quando sei giudicato (senso passivo)». Si suppone che l’uomo intenta un giudizio contro Dio, ma che deve ammettere il suo torto per riconoscere la rettitudine di Dio. È difficile stabilire con quale preciso significato Paolo intenda la citazione fattane in Rom. 3: 4, data la densità dei vari termini e le diverse possibilità che ne derivano per il collegamento con il contesto immediato. Forse l’accento è posto sulle parole che Dio ha consegnato ad Israele con la rivelazione dell’AT, che mantengono ancora la loro perenne validità. In Rom. 3: 10-18 abbiamo un’antologia di passi derivati prevalentemente dai S. (eccezione: vv. 15-17 = Is. 59: 7-8; Prov. 1: 16) per descrivere l’universalità del peccato. Le citazioni dei S. sono cinque; di esse tre (S. 5: l0b; 140: 4b; 36: 2) sono di S. di domanda individuale ed i frammenti utilizzati da Paolo riguardano i nemici da cui il salmista chiede di essere salvaguardato, due (14: 1-3; 10: 7) sono di S. sapienziali e descrivono la differenza che c’è tra i giusti e gli empi. Il S. 14: 1-3 è un po’ cambiato per ottenere una serie di affermazioni sintatticamente indipendenti. Il S. 143: 2b cit. in Rom. 3: 20 riguarda ancora l’affermazione dell’universalità del peccato, e deriva dalla preghiera di domanda di un uomo perseguitato che riconosce davanti a Dio, per essere esaudito, la sua bontà, in contrapposizione con l’empietà di ogni uomo. Il S. 32: 1-2 è cit. in Rom. 4: 7-8 con un significato più generale e spiritualizzato, in quanto originalmente si tratta di un uomo che nell’avvenuta guarigione della sua malattia riconosce il perdono di Dio. b. Israele e i Gentili. L’accecamento di fatto d’Israele si descrive in Rom. 11: 9-10 con le parole con cui il salmista tribolato (S. 69: 23-24) chiede a Dio l’accecamento dei suoi nemici. Il v. 23 è completamente in sovrappiù e serve solo per introdurre il v. 24 che si adatta al contesto. I S. 18: 50 e 117: 1 sono cit. in Rom. 15: 9, 11 per raccomandare il rispetto nella comunità cristiana dei convertiti dal paganesimo.

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3. Uso parenetico. In questo caso ci si serve dei S. per una raccomandazione morale. All’elenco dello specchietto aggiungiamo solo due osservazioni particolari. Nel S. 4: 5 cit. in Ef. 4: 26 Paolo segue i LXX che traducono ‘adiratevi’ quanto andrebbe meglio tradotto ‘tremate’ (in ebr. rgz); un’altra differenza tra il T.M. e i LXX (= Paolo) si ha per il S. 116: 10 in II Cor. 4: 13: «ho creduto, perciò ho parlato»; ora Paolo sostiene che in forza della fede egli osa predicare. Invece, nel T.M. il senso pare essere questo: «Io ho continuato a credere anche quando ho dovuto dire: io sono molto umiliato». 4. Uso accomodato. In questi casi il testo del S. viene impiegato soltanto per il tenore materiale delle parole, prescindendo dal suo significato logico. In Atti 1: 20 si citano due frammenti di S. di maledizione contro i nemici (69: 26; 109: 8) per indicare la necessità di eleggere un sostituto di Giuda. In Rom. 10: 18 si cita S. 19: 5 che poeticamente parla della voce con cui il firmamento, il giorno e la notte narrano la gloria di Dio, per indicare la diffusione della predicazione degli apostoli nel mondo.

C. I S. nel culto cristiano primitivo Per tre volte si parla nel N.T. dell’uso dei S. fra i cristiani (I Cor. 14: 26; Ef. 5: 19; Col. 3: 16), e molto probabilmente non si tratta dei S. veterotestamentari, ma di nuovi S. cristiani, giacché, come abbiamo visto, quelli non sono usati come preghiere ma come testi dogmatici. Gli apostoli partecipando alla liturgia del tempio (Lc. 24: 53; Atti, 3: 1) devono aver pregato con i S., che vi erano usati o come accompagnamento del sacrificio o come canti di risposta alla lettura della Torah. Solo Luca fa esplicito riferimento ai S. (Lc. 20: 42; 24: 44; Atti 1: 20; 13: 33). Solo Mt. 26: 30 e Mc. 14: 26 riferiscono che Gesù ha cantato l’Hallel (S. 113-118) con gli apostoli alla fine della cena pasquale, prima di passare al Gethsemani. L’uso dei S. nel NT mostra efficacemente con quale metodo era interpretato ed utilizzato l’AT. nella predicazione della prima comunità cristiana. Si tratta di una nuova interpretazione che retrospettivamente cerca di discernere la presenza di Cristo nei testi che secondo il loro significato storico e

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letterale non la prevedevano. Questo procedimento si giustifica nella consapevolezza che la rivelazione di Dio nel N.T. è in continuità progressiva con quella dell’AT. Se Cristo è l’oggetto del NT egli è il fine dell’AT (Rom. 10: 4). Naturalmente non è legittimo usare questo principio teologico come metodo per l’esegesi storico-critica, che deve accertare prima di tutto il significato originario dei testi dell’AT.

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4 LA DONNA NEI PROFETI [1975]

Non è possibile estendere questa nostra ricerca a tutti i profeti. Ci limitiamo ai libri di Amos, Osea e Isaia, che sono i profeti-scrittori più antichi. Il libro di Isaia, però, considerato nella sua attuale estensione, ci consente di cogliere la testimonianza di secoli ancor più recenti, per avere un quadro storico abbastanza ampio entro cui seguire i vari modi in cui la figura della donna è stata presa in considerazione. Intanto, in maniera generale, si può dire che la donna viene alla ribalta nei nostri profeti da un punto di vista realistico e quindi da un punto di vista simbolico. Naturalmente l’elaborazione dell’aspetto simbolico presuppone un certo tipo di esperienza concreta, che deve essere da noi ricostruita nel suo più naturale realismo storico. Quello che colpisce, da questo punto di vista, è che la donna è considerata sotto il profilo domestico e sotto il profilo politico. Un altro fattore che va tenuto presente fin dal principio, per inquadrare già i testi che esamineremo, è l’ambito nazionale, perché si può trattare delle donne di Israele o delle donne dei popoli stranieri. AMOS Amos, il rude ex-pastore del villaggio di Tekòa nella Giudea, è chiamato a fare il profeta nella sontuosa città di Samaria, la capitale del regno secessionista d’Israele, durante il florido periodo del re Geroboamo II (783743 a. C.). La sua predicazione è caratterizzata da una violenta polemica contro gli abusi sociali e dalla minaccia dell’imminente giudizio di Jahvè. In questa prospettiva generale, gli accenni alla condizione e alla posizione della donna hanno un accento sinistro e crudele. Una sola volta si ha un sentimento di pietà, non delicato ma raccapricciante, nel rimprovero agli Ammoniti che «hanno sventrato le donne incinte di Gàlaad per allargare il loro confine» (1,13). Negli altri casi la nota dominante è la condanna, nel rimprovero e nella minaccia. Intanto, la donna è pure la vittima della sopraffazione sociale combattuta dal profeta: «Calpestano la testa dei poveri, fanno deviare il cammino dei miseri, padre e figlio vanno dalla stessa ragazza» (2,7). Può trattarsi qui di prostituzione

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(Dt 27,20) o di semplice incesto (Dt 23,19), ma il contesto sottolinea comunque cche la ragazza (na>árâ) è fatta prostituire da chi sfrutta i poveri. Le mogli dei ricchi hanno la loro corresponsabilità nei soprusi commessi dai loro mariti (4,1-3), per la loro ingordigia che inoculano nei mariti, costretti da loro a organizzare banchetti e festini. Il profeta le apostrofa «vacche di Basàn», che sono un simbolo di forza e di voracità. Queste donne amano le belle case, costruite con le speculazioni dei loro mariti, il lusso e i festini. Il tema delle case lussuose è ricorrente in Amos, e in esso sono coinvolte indirettamente le donne: «Gli Israeliti abitano a Samaria su un cantuccio di divano o su una coperta da letto» (3,12); «Demolirò la casa d’inverno assieme con la casa d’estate e andranno in rovina le case d’avorio e scompariranno i grandi palazzi» (3,15); «Voi che avete costruito case in pietra squadrata non le abiterete» (5,11); «Essi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani … canterellano al suono dell’arpa … bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati» (6,4-6); «Detesto l’orgoglio di Giacobbe, odio i suoi palazzi» (6,8); «Il Signore comanda di fare a pezzi la casa grande e quella piccola di ridurla in frantumi » (6,11). Così la pena corrisponde alla colpa; nel giudizio sarà distrutto quello che è il segno e il frutto delle ingiustizie rilevate e condannate. Nell’unico tratto autobiografico del libro, Amos, che a motivo della sua vocazione profetica ha dovuto lasciare il suo mestiere e la sua patria meridionale ed è ora senza famiglia e senza sicurezza economica, al sacerdote Amasia, che gli vuole interdire la sua attività a Betel, sede del santuario regio, dà una risposta spietata e terribile: «Tua moglie si prostituirà nella città, i tuoi figli e le tue figlie cadranno di spada … Israele sarà deportato in esilio» (7,17). Così dall’accusa dura e intransigente si passa alla predizione, spietata e sarcastica, del disastro: «Verranno per voi giorni in cui sarete prese con ami e le rimanenti di voi con arpioni da pesca. Uscirete per le brecce, una dopo l’altra e sarete cacciate oltre l’Ermon» (4,3); «In quel giorno appassiranno le belle fanciulle e i giovani per la sete » (8,13), dice ancora il profeta, senza rammarico né commozione. Solo una volta può cogliersi un po’ di commozione in quest’uomo costantemente feroce e impassibile, ed è quando contempla in anticipo il crollo d’Israele già avvenuto, per sciogliere un lamento in suo onore: «caduta, non si alzerà più, la vergine d’Israele; è stesa al suolo, nessuno la fa rialzare» (5,2). È questo l’unico caso in cui si ha in Amos l’uso simbolico della figura della donna, applicata a tutta la nazione.

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Seguendo Amos sul filone della tematica della donna, ritroviamo i caratteri generali di tutta la sua predicazione: un giudizio negativo sul suo tempo e l’attesa esclusiva del castigo finale. Solo alla fine del libro (9,1115) si ha un rovescio di prospettiva, nella promessa di una meravigliosa rinascita che deve considerarsi un’aggiunta posteriore. OSEA In Osea la tematica e la fraseologia attinente alla donna e alla femminilità è senz’altro predominante. Il tono, poi, è del tutto diverso rispetto ad Amos, perché è pervaso da una forte e appassionata sensibilità. L’epoca è la stessa di Amos, quella di Geroboamo re d’Israele. Quello che colpisce a prima vista è la frequenza veramente eccessiva della radice che significa «prostituirsi» nella forma verbale zanâ (13 volte) e nella doppia forma nominale, zenût (2 volte) e zenûnîm (5 volte). Siccome questo termine in genere ha un doppio significato, quello proprio e quello traslato, nel senso della apostasia da Dio, si pone il problema della scelta tra l’interpretazione realistica e quella simbolica. Questo problema spunta già all’inizio del libro, dove nei primi tre capitoli si parla del matrimonio del profeta. Si tratta qui di una semplice allegoria o di una reale esperienza del profeta? Sembra che il cap. 1 (in 3a persona) e il cap. 3 (in 1a persona) siano letterariamente paralleli e quindi non riferiscano due fasi successive di una vicenda, ma lo stesso fatto, narrato due volte. Questa ripetizione favorisce l’ipotesi che all’origine ci sia una reale esperienza del profeta, il quale avrebbe effettivamente sposato una donna normale che in seguito l’ha tradito e perciò merita la qualifica di «adultera» (3,1). Attraverso questa amara esperienza personale, il profeta ha capito il risentimento e poi la compassione di Jahvè per l’infedeltà di Israele. Il dramma della gelosia viene descritto con tale realismo psicologico, che presuppone un’esperienza vissuta personalmente. Al giudizio di Dio annunziato con distacco quasi feroce da Amos, subentra in Osea il tentativo di Dio di riconquistare il cuore della sua sposa infedele, traviata dai vari allettamenti degli amanti. Dio corteggia la sua donna così facilmente volubile, suggestionata dalla prospettiva di migliori vantaggi che le possono procacciare i suoi nuovi amanti, occasionali e, dopo tutto, meno redditizi. Così dalla realtà vissuta si passa alla dimensione simbolica, all’origine della quale bisogna sempre presupporre la storia personale del profeta, che diventa egli stesso messaggio al prezzo della propria vita. Il verismo della descrizione è quanto mai interessante dal punto di vista letterario: «Essa non è più mia moglie e

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io non sono più suo marito. Si tolga dalla faccia i segni delle sue prostituzioni e i segni del suo adulterio dal suo petto; altrimenti la spoglierò tutta nuda e la renderò come quando nacque» (2,4-5); «Inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà, li cercherà senza trovarli» (v. 9); «Scoprirò allora le sue vergogne agli occhi dei suoi amanti e nessuno la toglierà dalle mie mani. Farò cessare tutte le sue gioie» (vv. 12-13). La vendetta che qui si prende è l’espressione di un amore che non si rassegna ad essere sconfitto in questa concorrenza, in cui la posta in gioco è il consenso di una donna capricciosa e calcolatrice. Questa strategia, che alletta e che sferza, implacabile nella costanza, alla fine avrà la sua vittoria, colma di serenità: «La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore... Là canterà come nei giorni della sua giovinezza» (vv. 16-17). Il consenso non sarà alla fine il frutto di un tranello, ma una libera adesione. Fin qui il contributo più importante e più originale di Osea a proposito del nostro tema, nell’ambito dei capp. 1-3 del libro, Gli altri spunti sono più frammentari e più comuni. In un contesto di minaccia le espressioni richiamano Amos: «Saranno sfracellati i bambini, le donne incinte sventrate» (14,2; cf Am 1,13). Un accenno alla maternità si ha in chiave soltanto figurata: «Dolori di partoriente lo (= Efraim) sorprenderanno, ma egli è figlio privo di senno, poiché non si presenta a suo tempo all’uscire dal seno materno» (13,13). Paradossalmente più diretto è il riferimento alla maternità in un contesto violento che parla delle bestie femmine: «Li assalirò come un’orsa privata dei figli, spezzerò l’involucro del loro cuore, li divorerò come una leonessa» (13,8). Altrove l’immagine è senz’altro più tenera, anche se in funzione di rimprovero: «Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano...ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (11,3-4). I tratti qui evocati sono più materni che paterni, a parte una certa genericità, dovuta al fatto che questa descrizione serve solo per parlare direttamente dell’amore di Dio. ISAIA L’esame del libro di Isaia è più complesso, non solo per le sue vaste dimensioni, ma anche per la molteplicità delle epoche che vi si riflettono, non solo nei due blocchi più omogenei del Deuteroisaia (Is 40-55) e del Tritoisaia (Is 56-66), ma anche nell’ambito del Protoisaia (Is 1-39), dove si hanno numerose tracce di aggiunte posteriori. Per primo conviene considerare le donne nella società del tempo di Isaia (740-701 a.C.), a

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Gerusalemme. I1 loro ruolo è negativo. Con un senso di compassione verso il popolo malcapitato, il profeta arrabbiato e amareggiato esclama: «Un fanciullo lo tiranneggia e le donne lo dominano» (3,12). Poi alla denuncia segue subito la minaccia: «Poiché si sono insuperbite le figlie di Sion e procedono a collo teso, ammiccando con gli occhi, e camminano a piccoli passi facendo tintinnare gli anelli ai piedi, perciò il Signore renderà tignoso il cranio delle figlie di Sion, il Signore denuderà le loro tempie» (3,16-17). Un ultimo tentativo di scongiurare il pericolo imminente è fatto rivolgendo un’ammonizione alle donne: «Donne spensierate, suvvia ascoltate la mia voce; figlie baldanzose, porgete l’orecchio alle mie parole … Temete, o spensierate; tremate, o baldanzose. deponete le vesti, spogliatevi, cingete i fianchi di sacco» (32,9.11). La sventura prossima della città toccherà pure le donne, frustrate nel loro desiderio di maternità: «Sette donne afferreranno un uomo solo, in quel giorno, e diranno: ci nutriremo del nostro pane e indosseremo le nostre vesti; soltanto, lasciaci portare il tuo nome. Toglici la nostra vergogna» (4,1). Si parla pure delle donne straniere, vittime della devastazione che colpirà i loro paesi. Su Babilonia: «I loro piccoli saranno sfracellati davanti ai loro occhi; saranno saccheggiate le loro case, disonorate le loro mogli» (13,16); «Come un uccello fuggitivo, come una nidiata dispersa saranno le figlie di Moab ai guadi dell’Arnon» (16,1); «I suoi (di Gerusalemme? o della città nemica?) rami seccandosi si spezzeranno; le donne verranno ad accendervi il fuoco» (21,11). In un contesto sempre fosco, ambientato nella Giudea, si ha pure l’accenno ad un delicato momento della vita domestica: «Prima che il bambino sappia dire “papà e mamma”» (8,4). Con questo passo tocchiamo la vita personale del profeta, perché si tratta del proprio figlio, avuto dalla moglie chiamata in maniera generica «profetessa» (8,3). Ma questa donna resta di fatto nell’ombra; più importanti sono i figli i quali, con i nomi simbolici che ricevono, rispecchiano il messaggio del profeta nella sua ora storica. «Si sigilli questa rivelazione nel cuore dei miei discepoli … Ecco, io e i figli che il Signore mi ha dato, siamo segni e presagi per Israele da parte del Signore degli eserciti, che abita sul monte Sion» (8,16.18). Così anche la vita familiare del profeta è coinvolta nel suo ministero, non tanto attraverso la moglie, quanto attraverso i suoi figli, assimilati in qualche modo ai suoi discepoli che credono nella parola profetica anche nel momento dello sgomento e della solitudine. Un altro passo attinente al nostro tenia, ma estremamente controverso, è Is 7,14, il testo dell’Emmanuele: «la >almâ concepirà e partorirà un

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figlio, che chiamerà Emmanuele». Il termine >almâ significa «giovane donna», mentre per dire «vergine» si usa il vocabolo betûlâ. Nonostante la traduzione dei Settanta, che lo rendono con «vergine», e l’uso fatto del passo in Mt 1,23, sembra più corrispondente alla situazione storica del profeta pensare alla nascita naturale di un bambino, che riceve il nome di Emmanuele (= Dio con noi), in segno della provvisoria pace che regna in quel momento nel paese. I passi esaminati finora nel Protoisaia sono da prendere in senso realistico. C’è ora da ricordare, per concludere, una serie di espressioni affini, in cui si usa «figlia» in senso simbolico, come personificazione della città o del popolo, in varie combinazioni: «figlia di Sion»: Is 1,8; 10,32; 16,1 (ma anche Mic 1,13; 4,8.10.13; Sof 3,14; Zc 2,11.14; 9,9); «figlia del mio popolo»: Is 22,4; «vergine figlia di Sion »: 37,22; «figlia di Gerusalemme»: 37,22. L’espressione è usata pure per gli altri popoli: «vergine figlia di Sidone» (23,12) e «vergine figlia di Babilonia» (47,1, nel Deuteroisaia). Sion, il colle orientale di Gerusalemme, qui indica tutta la città. Per Isaia Sion esprime più l’aspetto religioso della città che quello politico. L’espressione sottolinea la protezione di Dio per la sua città e la responsabilità di questa per la sorte alla quale va incontro. DEUTERO E TRITOISAIA L’indole generale di queste due parti del libro di Isaia (capp. 40-55 e 56-66) è del tutto diversa rispetto alla precedente, perché vi domina il motivo della salvezza e perciò vi prevale l’uso simbolico della menzione della donna. Intanto abbiamo il paragone: quello che Dio opera è imprevedibile come il parto di una donna (45,10); il suo amore è più grande dell’amore di una madre (49,15; 66,13). Queste le immagini riguardanti la donna in quanto madre. C’è poi la donna in quanto moglie. Dio non può ripudiare definitivamente Gerusalemme (50,1; 54,6). Viene quindi l’aspetto della figlia, nel senso della «figlia di Sion» e simili (52,2; 62,11), ma anche nel senso più realistico delle figlie (al plurale) di Sion (43,6; 49,22; 60,4). I tratti più freschi si trovano proprio in quest’ultimo gruppo di testi, dove la visione dei giovani, uomini e donne, esprime lo slancio della restaurazione nazionale, dopo l’amara esperienza dell’esilio in Babilonia. In tutti e tre questi passi la menzione delle «figlie» è preceduta da quella dei «figli»: «Riporteranno i tuoi figli in braccio, le tue figlie saran portate sulle spalle» (49,22); «I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio» (60,4). Un ultimo cenno che deve essere ricordato, in tutt’altra

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chiave, si ha sulla bocca del Servo di Jahvè: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dalle viscere di mia madre ha pronunciato il mio nome» (49,1). CONCLUSIONE La nostra ricognizione esaustiva, anche se non approfondita, e limitata ai tre libri di Amos, Osea e Isaia, ci offre un quadro abbastanza vasto, ma non particolarmente significativo. Il discorso dei profeti su questo punto è limitato dalle condizioni proprie della società del loro tempo. Ma, a parte il carattere contingente e quindi la variabilità delle condizioni sociologiche caratteristiche delle diverse epoche storiche, permane una direttrice etica (le possibili partecipazioni della donna alle ingiustizie perpetrate dalla società) e religiosa (analogia tra il rapporto di Dio con l’umanità e il rapporto dell’uomo con la donna).

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5 LE INVETTIVE D’ISAIA COME ESEMPIO DI LINGUAGGIO PROFETICO* [1978]

Il ruolo profetico, come si sa, s’impernia essenzialmente sull’esercizio della parola: una parola proclamata, ancor prima che scritta, in circostanze storiche diverse, da quelle più ordinarie a quelle più straordinarie, ma in ogni caso con la consapevolezza travolgente d’investire i destinatati con il giudizio di Dio1. Questa consapevolezza ha impregnato tutta la personalità del profeta, e perciò anche il suo linguaggio, che per noi rimane l’unico elemento attraverso cui ci è accessibile l’eco più diretta del suo temperamento e della sua esperienza storica. Il suo discorso è veramente un «giuoco di parole», che attraverso il loro impeto ci fanno percepire l’ardore della sua * Nel corso di questo lavoro saranno citati col solo nome dell’autore i seguenti Commentari ad Isaia (in ordine cronologico): P. Auvray - J. Steinmann, Isaie (Bible de Jérusalem), 1951 (2° ed.: 1957). A. Penna, Isaia (La Sacra Bibbia), Torino-Roma 1958. G. Fohrer, Das Bucb Jesaja (Zürcher Bibelkommentare), I-II, Zürich-Stuttgart 1960-1962 (2ª ed.: 1966-1967). O. Kaiser, Der Prophet Jesaja (Kap. 1-12, Das Alte Testament Deutsch 17), Gottingen 1963. F. Montagnini, Il libro di Isaia (1-39), Brescia 1966. H. Wildberger, Jesaja (Biblischer Kommentar X), Neukirchen-Vluyn 1965-1972. S. Virgulin, Isaia (Nuovissima Versione della Bibbia), Roma 1968, (2° ed.: 1974). J. Vermeylin, Du prophète Isaie à l’apocalyptique. Isaie, I-XXXV, miroìr d’un demi-millénaìre d’exsperience religieuse en Israel (Etudes Bibliques), tome I, Paris 1977. 1 Ancora recentemente H. W. Wolff, Die eigentlicbe Botschaft der klassischen Propbeten, in Beiträge zur alttestamentlicben Tbeologie. Festscbrift für Walther Zimmerli, Göttingen 1977, pp. 547-557, ribadisce il carattere inesorabile, ormai incondizionato, della predicazione dei primi profeti classici (Amos, Osea, Isaia), i quali non hanno più di mira la conversione del popolo né prevedono una possibilità di salvezza. «Aprire proprio gli occhi per l’irruzione di Jahve, è questo, nel caos della storia, la precisa funzione della parola isaiana» (p. 554). Questa venuta del Signore punisce e purifica. Cfr. Idem, Bibbia. L’Antico Testamento, Brescia 1974: «La certezza della punizione imminente che si era loro imposta, portava i profeti a riconoscere i motivi per cui la generazione attuale veniva castigata. Nel processo conoscitivo dei profeti la prognosi (la certezza del minaccioso intervento di Jahve) precedeva quindi generalmente la diagnosi (il giudizio sul comportamento dei loro contemporanei)» (p. 81).

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passione e la veemenza del dibattito con il quale si è inserito, da protagonista, nella sua epoca. «Fra i profeti dell’Antico Testamento, in nessun altro più d’Isaia si può osservare con tanta evidenza come la sua lingua si sia forgiata nell’ardore dello spirito che incalza il predicatore. La trasparenza per il “Santo d’Israele”, che si ripresenta sempre all’uomo uscendo dal mistero della sua libertà, ma senza mai perderla anche nella parola più occasionale, è la caratteristica della lingua d’Isaia»2. Perciò il libro d’Italia si presta, in maniera tutta speciale, ad essere studiato nella sua lingua, quale riflesso del suo mondo interiore, dominato sì, come osserva Zimmerli, dall’idea della maestà di Dio, ma caratterizzato anche, per contrasto, da una straordinaria forza d’urto contro ciò che, sul piano umano, si oppone a Dio. Isaia, che riceve il compito di rendere «insensibile il cuore di questo popolo … finché non siano devastate le città … e la campagna resti deserta e desolata» (Is. 6, 10. 11), in realtà appare spietato, insensibile e quasi crudele. Naturalmente questa durezza non è il solo dato che fa spicco nel libro d’Isaia, perché ci sono momenti in cui il messaggio esprime piuttosto la prospettiva incoraggiante di un rinnovamento3. Ma a questo punto ci si trova di fronte ad una difficoltà critica di non facile soluzione, perché si ha il sospetto che questi passi che rivelano un atteggiamento positivo nei confronti del destino del popolo sembrano delle aggiunte posteriori, addirittura postesiliche4. Prescindendo da questo problema storico-critico, 2 W. Zimmerli, Verkündigung und Sprache der Botscbaft Jesajas, in Studien zur alttestamentlichen Theologie und Prophetie. Gesammelte Aufsätze II, München 1974, pp. 73-87, 73. 3 Le promesse di salvezza più caratteristiche del Protoisaia si trovano in 2, 2-5 (pellegrinaggio dei popoli a Gerusalemme); 9, 1-6 («Un bambino è nato per noi»), 11, 1-9 (il germoglio del tronco di Iesse). Il giudizio sulla loro autenticità varia tra gli autori. 1) 2,2-5: autentico per Penna, Wildberger, Montagnini, Virgulin; non autentico per Fohrer, Kaiser, Vermeylin (al tempo della riforma di Giosia); dubbio per Auvray-Steinmann. 2) 9,1-6 e 11,19: autentici per Auvray-Steinmann, Penna, Kaiser, Wildberger, Montagnini, Virgulin; non autentico per Fohrer, Vermeylin (durante il regno di Giosia). H. W. Wolff, La Bibbia. L’Antico Testamento, p. 92, accetta l’autenticità dei tre brani. 4 Per Fohrer, nella profezia classica domina l’accusa ed il richiamo della responsabilità del popolo nella determinazione del proprio destino, e non la promessa della salvezza gratuita da parte di Dio. Così i profeti preesilici vedevano ancora possibile la salvezza, ma solo se preceduta dalla conversione: «I profeti non volevano predire il lontano futuro, ma determinare e forgiare il loro presente. Perciò rimproveravano per la colpa, ammonivano per il disastro che a causa di essa sovrastava, richiamavano ad una nuova condotta di vita, portatrice di salvezza» (Geschichte der israelitìscben Religion, Berlin 1969, p. 275).

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possiamo scegliere le sole invettive che troviamo nel libro d’Isaia, tenendo presente che esse, in ogni caso, sono considerate come le parti più sicuramente autentiche (risalenti cioè allo stesso profeta da cui il libro prende il nome) del libro5. La nostra inchiesta si limita perciò al Protoisaia (cap. 135), ed alle sole parti polemiche di esso. Questa polemica è sferzante e violenta fino a sembrare cinica. Essa merita uno studio stilistico, che metta in evidenza il genio letterario del profeta anche nelle sue invettive6. Questo studio comprende tre parti: I. Selezione del vocabolario usato7, organizzata attorno ad alcune idee-base, che mettono in evidenza la ricchezza dei sinonimi e la varietà dei riferimenti. II. Esame stilistico di quattro passi, considerati nel loro insieme, scelti per l’espressività che vi si accumula, in modo da rilevare l’uso convergente del vocabolario considerato in maniera disintegrata. III. Valutazione finale che cerca di stabilire un rapporto vitale tra linguaggio e missione profetica. La ricchezza del linguaggio, ed il suo realismo, indicano una forte e intensa partecipazione del profeta alla vita del suo ambiente e del suo tempo.

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Per motivi pratici, abbiamo adottato il giudizio di Fohrer, che non accetta la paternità isaiana degli oracoli di salvezza che comunque esulano dal nostro tema. Fohrer, in questa tendenza riduzionistica si colloca sulla scia di B. Duhm, Das Buch Jesaia (Göttinger Handkommentar zunt AT, III, 1), Göttingen 1892 (4° ed. 1922, il primo a riconoscere il Tritoisaia) e di K. Marti, Das Buch Jesaja (Kurzer Hand-Kommentar zum AT, X), Tübingen 1900. Ma già il nuovo Commentario di Wildberger si discosta da questo indirizzo ipercritico (cfr. F. Dreyfus in «Revue Biblique» 81, 1974,116-118), che è seguito però ancor più recentemente da J. Vermeylin. Peraltro il Commentario di Fohrer è alla base della trattazione su Isaia in J. A. Soggin, Introduzione all’Antico Testamento, Brescia 21974, pp. 344-354. 6 La nostra ricerca si è ispirata a L. Spitzer, Critica stilistica e semantica storica, Bari 1966, che partendo dallo studio delle letterature romanze insiste sul rapporto tra la personalità dell’autore e il suo stile letterario, e quindi sulla necessità di unificare lo studio filologico e stilistico di un dato autore. 7 Un lavoro sistematico di indagine lessicografica è già stato fatto per Amos: V. Maag, Text, Wortschatz und Begriffswelt des Bucbes Amos, Leiden 1951. Su Isaia: J. Hempel, Hebräisches Wörterbuch zu Jesaja, Berlin 1965, più semplice, dà solo l’elenco alfabetico dei vocaboli di tutto il libro d’Isaia.

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I. IL VOCABOLARIO DELLE INVETTIVE Per questa rilevazione lessicale, sono stati schedati tutti i vocaboli usati nei brani polemici del Protoisaia8; di essi abbiamo selezionato solo quelli che si riferiscono più direttamente alla descrizione della distruzione, ordinati secondo il criterio logico della gradualità. Tutti questi vocaboli scelti si possono raggruppare intorno a sei parole-chiave che esprimono l’azione esterna della distruzione denunciata o minacciata: prendere, trattenere, calpestare, spaccare, colpire, finire. Altre due parole-chiave esprimono le reazioni soggettive di fronte a questi eventi terribili: piangere, avere vergogna. L’uso di questi vocaboli è diverso a seconda dei contesti. Nel contesto stesso delle invettive si deve distinguere un doppio uso: 1) nel rimprovero (o denuncia), quando gli agenti sono gli uomini stessi (israeliti o stranieri); nella minaccia, quando l’agente, esplicitamente o implicitamente, è Dio stesso. A ben guardare, la pena (inflitta da Dio) è omogenea con la colpa (commessa dagli uomini): la distruzione minacciata dal profeta in nome di Dio, è già iniziata con la condotta traviata del popolo9.

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Essi coincidono praticamente con i brani considerati autentici dal Fohrer. In un totale di 676 vv. contenuti nei capp. 1-35, questi vv. autentici sono 307. In questi 307 vv. abbiamo potuto registrare, a parte l’omissione di qualche glossa, e delle parti in prosa, ben 1032 vocaboli diversi. Da questi 1032 vocaboli la nostra selezione, sul tema della distruzione, ne ha distaccati 189, divisi in 8 gruppi. 9 «I profeti non hanno considerato semplicisticamente il giudizio di Jahve, da loro annunciato, come la pena stabilita giuridicamente per la colpa, tanto meno come arbitrio divino, capriccio o brutalità. Infatti la colpa si fonda nella falsa ricerca della sicurezza da parte dell’uomo e consiste nel fatto di vivere una esistenza che trova sicurezza in ciò che è creato, terreno, naturale e transitorio invece che nella fiducia e nella sottomissione alla volontà divina. Perciò la colpa conduce necessariamente al crollo e alla catastrofe, perché ciò che è terreno, in quanto creato, è transitorio. L’esistenza posta su falsi binari, per un’intrinseca consequenzialità, deve frantumarsi. Qualche volta peccato e giudizio si trovano così strettamente uniti che la colpa è propriamente già giudizio» (G. Fohrer, Geschichte der israelitischen Religion, pp. 273-274).

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1. Idea di «prendere»10 Intanto ci sono tre immagini tutte di carattere funesto: il mietitore prende gli steli e le spighe (17, 5), il leone la preda (5, 29); uno prende le uova abbandonate nel nido (10,14). Ma fuor di metafora si dice pure che il flagello prende il popolo (28,19). Diversi casi riguardano situazioni di disordine che si determinano (come colpa o come pena) all’interno del popolo: uno è afferrato per affidargli il potere (3, 6), o perché tolga la vergogna della non maternità a sette donne (4, 1), i poveri sono frodati dai capi (10,2), che si conservano la refurtiva (3,14). Per tre volte l’agente è Dio stesso: egli rade la testa (7,20) e toglie la barba (7,20), ma anche ha preso per mano il profeta (8, 11). Il sostantivo preda è collegato con il leone, immagine ora dell’invasore di Giuda (5, 29), ora del Signore stesso, che punisce l’Assiria (31,4). 2. Idea di «trattenere» (e «abbandonare »)11 II campo semantico coperto da questi vocaboli si riferisce prevalentemente all’invasione nemica, quindi degli Assiri, con il conseguente imprigionamento e la deportazione degli abitanti della Giudea (5,13; 7,16; 8,15; 10,6), in particolare dei suoi capi (10, 4; 22, 3). Il passo più intenso lo si trova in 10, 6: «Perché lo saccheggi (¡ålal), lo depredi (båzaz) e lo calpesti come fango di strada» (si noti anche la bella sequenza ternaria!), tenendo conto che ai due sinonimi così sovrapposti si aggiungono, come oggetto interno, intraducibile in italiano, i rispettivi sostantivi derivati (¡ålål, baz): li¡løl ¡ålål wëlåbøz baz. Al di là dell’invasore è Dio stesso che è chiamato «laccio e trabocchetto» (8,14) per gli abitanti di Gerusalemme. Solo una volta si tratta della situazione interna della città, dove i capi abusano del loro ufficio «per fare delle vedove la loro preda (¡ålål) e fare bottino (båzaz) a spese degli

10 Complessivamente undici vocaboli: <å˙az: 5, 29; <åsap: 4, 1; 10, 14 (2x); gåzal: 10, 2 e deriv. gëzŸlâ: 3, 14; gilla˙: 7, 20; ˙åzaq: 4,1; 8,11; ãerep: 5, 29; 31, 4; låqa˙: 28, 19; låqaã: 17, 5; såpâ: 7, 20; tåpa∞: 3, 6. 11 Sedici vocaboli: <åsar: 22, 3 (2x) e deriv. <åssªr: 10, 4; båzaz: 10, 2. 6 e deriv. baz: 8, 1. 3; 10, 6; gålâ: 5, 13 e deriv. gålût: 20, 4; yåqa¡: 8, 15 e deriv. môqŸ¡: 8, 14; låqad: 8, 15; nåãa¡: 2, 6; 32, 14; >åzab: 1, 16; 10, 3. 14; 17, 2; 18, 6; 32, 14; pa˙: 8, 14; ¡ëbª: 20, 4 (contro l’Egitto e l’Etiopia!); ¡ålal: 10, 6 e deriv. ¡ålål: 8, 1. 3. 4; 10, 2. 6; ¡åsâ: 10, 13.

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orfani» (10,2). I due verbi di significato opposto («abbandonare», e sim.), sono usati pure con un senso punitivo. Si deve abbandonare quanto si è ingiustamente accumulato (10,3; 32, 14). Due passi, poi, evocano in più il paesaggio di una campagna squallida: «le uova abbandonate» in un nido (10, 14) e la minaccia di essere «abbandonate agli avvoltoi dei monti e alle bestie selvatiche» (18,6). 3. Idea di «calpestare»12 Vittime di questa azione, che esprime insieme violenza e disprezzo, sono Gerusalemme (22,5; 28,18), Samaria (22,3) e tutta la Giudea che sarà calpestata dall’Assiria (10,6); ma quest’ultima sarà a sua volta calpestata da Dio stesso sui monti d’Israele per la salvezza del suo popolo (14,25). In connessione con queste azioni si trovano alcuni sostantivi: la polvere (5, 24; 29,5) sminuzzata (29,5), la pula (29,5) ed il fango (10,6; 29,16). Una volta tanto in 29,5, dove ricorrono ben tre termini del nostro gruppo, i malcapitati sono gli assalitori di Gerusalemme, che viene salvata dal Signore. Ma il Signore è ancor prima «pietra d’intoppo e sasso d’inciampo» (8,14) per lo stesso Israele. L’idea d’inciampare la si trova per tre volte in senso negativo ed in parallelo col verbo « cadere » (nåfal, v. sotto nel gruppo «finire»): 3,8; 8,15; 31,3 (sempre in polemica con Gerusalemme), mentre in 5,27 serve a descrivere l’irresistibile avanzata dell’invasore che non inciampa. Una menzione a parte merita l’uso una volta tanto pacifico che viene fatto di alcuni altri termini rientranti in questo ambito semantico, nell’evocazione sapienziale dei lavori agricoli (28,27-28): nella trebbiatura le granaglie non vengono stritolate ma soltanto battute. 4. Idea di «spaccare»13 In questa serie di vocaboli è frequente l’uso più o meno figurato con riferimento al paesaggio campestre: si tagliano i sicomori (9,9), i tralci e i 12 Quattordici vocaboli: <âbåq: 5, 24; 29, 5; bûs: 14, 25 e deriv. mëbûsâ: 18, 2; 22, 5; dû¡: 28, 27. 28 (3x); dåqaq: 28, 28 (2x) e deriv. daq: 29, 5; ˙åbaã: 28, 27; ˙ømer: 10, 6; 29,16; kå¡al: 3, 8; 5, 27; 8, 15; 31, 3 e deriv. mik¡ôl: 8, 14; møß: 29, 5; negep: 8, 14; råmaß: 1, 12 (l’inutile calpestìo del tempio!); 28, 3 e deriv. mirmås: 5, 5; 28, 18; 10, 6. 13 Ventisei vocaboli: bå>â: 30, 13; båqa>: 7, 6 (Hif) e deriv. bëqª>a: 22, 9; battâ: 7, 19; gåda>: 9, 9; gåzar: 9, 19; garzen: 10, 15; ˙åßab: 10, 15 ma in senso semplicemente tecnico

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pampini ( 18,5), si falciano le spighe (17,5), ci si rifugia – inutilmente – tra le spaccature (2, 21), nelle caverne (2,19; 32,14), negli antri (v. 19), nei crepacci delle rocce (v. 21), nei burroni e nelle fessure delle rocce (7,19). Si ricordano pure le costruzioni: il muro che si gonfia, si spacca, crolla, si demolisce, si dirocca (5,5; 22,59; 30,13. 14); il vaso di creta che si frantuma (30,14). Il soggetto, quando non è Dio, esplicitamente (9,13; 14, 25; 18,5) o implicitamente (10,15), sono gli uomini, o come nemici invasori (7,6; 10,7), o in quanto autori di ingiustizie interne, come in questo bozzetto piuttosto brutale: «Dilania (lett. “tagliare” qualcosa da mangiare) a destra, ma è ancora affamato, mangia a sinistra, ma senza saziarsi; ognuno mangia la carne del suo vicino» (9,19). Una volta poi si indica un oggetto fisico: «II Signore ha amputato a Israele capo e coda» (9,13), cioè dal più alto al più basso delle sue guide (senso figurato). Sono strumenti per tagliare: il rasoio (7,20), la spada (3,25; 22,2; 3,8 [3x]), la scure (10,15), la sega (10,15). 5. Idea di «colpire»14 Quest’idea si esprime attraverso una gradazione di diversi signifìcati particolari, che più o meno si avvicinano al nostro concetto-base. Intanto i capi stessi opprimono il popolo e pestano la faccia dei poveri (3,15). L’accanimento di Dio si dirige contro il popolo (5,25; 9,12), Gerusalemme (29,2), l’Assiria (30,31), e contro un singolo (22,19). In forma di ritornello si parla della prostrazione e dell’umiliazione dell’uomo (2,9.11.12.17; 5,15) o di Gerusalemme che, personificata, parla da terra (29,4). Ma anche il vino colpisce i gaudenti ubriachi di Samaria (28,1). Gli strumenti terribili con cui Dio colpisce sono: la grandine (28,17), l’uragano (5, 28; 29, 6), la tempesta (29,6), il turbine (28,2), il flagello (28,15. 18). L’attacco di Dio in 5, 2 e 22, 16 (2x); ˙ereb: 3, 25; 22, 2; 31, 8 (3x); kårat: 9, 13; 10, 7; 18, 5 ma nel senso tecnico dell’alleanza in 28, 15; kåtat: 30, 14; më˙illâ: 2, 19; më>årâ: 2, 19; 32, 14; ma∞∞ôr: 10, 15; nåqªq: 7, 19; miqrâ: 2, 21; sëªp: 2, 21 ma in altro senso in 17, 6; påraß: 5, 5; pereß: 30, 13; qåßar: 17, 5; qûr: 22, 5; ¡åbar: 8, 15; 14, 25. 29 e deriv. ¡eber: 30, 13. 14; ¡ånan: 5, 28; tåzaz (Hif): 18,5; ta>ar: 7, 20. 14 Ventidue vocaboli: dikka< (Pi): 3, 15; dårak: 5, 28; hådap: 22, 19; hålam: 28, 1; ãûl: 22, 17 e deriv. ãalãŸlâ: 22, 17; ãå˙an: 3, 15; yå>â: 28, 17; kåra>: 10, 4; lå>ag: 28, 11; nåkâ (Hif): 5, 25; 9, 12; 14, 29; 30, 31; sûpâ: 5, 28; 29, 6; së>årâ: 29, 6; >ø¡eq: 30, 12; qeãeb: 28, 2; qå¡â: 8, 21; råhab: 3, 5; ßûq: 29, 2. 7; ¡å˙a˙: 2, 9. 11. 17; 5, 15; 29, 4; ¡ôã: 28, 15. 18; ¡åpŸl: 2, 9. 11. 12. 17; 5, 15 (2x); 29, 4; ¡åraq: 5, 26; 7, 18.

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contro il suo popolo è reso più graffiante da due verbi che gli vengono attribuiti: egli lo insulta (28,11) e lancia un fischio agli invasori perché come mosche ed api si addensino nel paese (5,26; 7,18). In seguito all’invasione si è oppressi (8,21) o piegati (10,4). 6. Idea di «finire»15 Questa idea-base può essere espressa in due forme fondamentalmente diverse, al transitivo (o attivo) e all’intransitivo (o passivo). Il tema essenziale è questo: il castigo di Dio è un disastro che annienta. Perciò il Signore il più delle volte è il soggetto, esplicito (14,30; 22,19) o implicito, di questi verbi quando sono usati in senso attivo. In alcuni casi il linguaggio è figurato: la fioritura (18,5), la vendemmia (32,10) è finita, in un senso che non è puramente cronologico; le foglie diventano avvizzite (1,30) e i fiori appassiti (28,1.4). Divora la spada (1,20; 31,8), il fuoco (5,24; 9,17; 29,6; 30,27.30)16, ma anche gli Aramei e i Filistei divorano Israele (9,11). Molto espressivo è l’uso di «inghiottire», usato nel senso di distruggere (Pi: 3,12), di perdersi (Pu: 9,15), di mangiare con ingordigia il fico perché primaticcio (Q: 28, 4), e nella singolare inversione che si ha quando si dice che sono inghiottiti dal (ebr. min) vino per dire che si ubriacano (28,7). Così non c’è solo la distruzione compiuta da Dio, ma anche l’opera di autodistruzione 15 Ventitré vocaboli: <åbad: 29, 14; <åkal: 1, 20; 5, 24; 9, 11. 17; 29, 6; 30, 27. 30; 31, 8 («mangiare»: 5 volte il soggetto è il fuoco, 2 volte la spada. 1 volta una nazione straniera); båla>: 3, 12; 9, 15; 28, 4. 7; båtâ: 5, 6; hårag: 10, 4; 14, 30; 22, 13; håras: 14,17; 22, 19; ˙orbâ: 5, 17; kålâ: 31, 3; 32, 10 e sost. deriv. kålâ: 28, 22; mût: 8, 19; 14, 30; 22, 13. 14. 18 e deriv. mawet: 28, 15. 18; mak¡Ÿlâ: 3, 6; nåbŸl: 1, 30; 28, 1. 4; nåpal: 3, 8. 25; 8, 15; 9, 9; 10, 4; 30, 13; 31, 3. 8 e deriv. mappålâ: 17, 1; nåqâ: 3, 26; qûß: 7, 6; råßa˙: 1, 21; ¡ôd: 22, 4; ¡ô<â: 10, 3; ¡å˙aã: 22, 13; ¡åmad (Hif): 10, 7; ¡ammâ: 5, 9; tåmam: 18, 5. 16 Vale la pena segnalare il ricco vocabolario di Isaia attinente al campo semantico «fuoco-luce-oscurità-materiale combustibile» (32 vocaboli): Htp. <åbak (il sollevarsi in vortice de! fumo: 9, 17, hapax), <ûd (tizzone: 7, 4), <ôr (luce: 5, 20 [2x; 18,4), <ûr (fuoco: 31, 9), <Ÿ¡ (fuoco: 5, 24; 9, 17. 18; 29, 6; 30, 14. 27. 30. 33), bå>ar (accendere: 1, 31; 9, 17; 30, 27, 33), dålaq (accendere: 5, 11), hådår (splendore: 2, 10. 19. 21; 5, 14), ˙ø¡ek (tenebra: 5, 20 [2x), ˙á¡Ÿkâ (8, 22) e ma˙¡¡åk (29, 15); ˙á¡a¡ (paglia: 5, 24), ˙åtâ (prendere [il fuoco]: 30, 14), yåßat (bruciare: 9, 17), yåkad (ardere: 30, 14), kåbâ (spegnersi: 1, 31), kª (ustione: 3, 24), lahab (fiamma: 5, 24; 29, 6), låhaã (incendiare: 30, 30), lå¡ôn (lingua [di fuoco]: 5, 24; 30, 27), mëdûrâ (rogo: 30, 33), më>ûp (oscuramento: 8, 22), nªßôß (scintilla: 1, 31), në>øret (stoppa: 1, 31), >å¡Ÿn: (fumante: 7, 4), >å¡ån (fumo: 7, 17; 14, 31), Ni >åtam (bruciare: 9, 18), ßi˙eh (disseccato: 5, 13), ߟl (ombra: 30, 2. 3), qa¡ (stoppia: 5, 24), ∞årap (bruciare: 14, 29), tannûr (forno: 31, 9).

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compiuta dagli uomini a proprio danno. Si rimproverano i capi che distruggono la strada del popolo (3, 12), ma si sente come un oscuro presagio di morte quando si dice che i Samaritani sgozzano allegramente i buoi, dicendo con senso di sfida: « Si mangi e si beva, perché domani moriremo!» (22,13). Il profeta ribatte crudelmente: «Certo non sarà espiato questo vostro peccato finché non sarete morti» (v. 14). Ci sarà distruzione (5,6), rovina (3,6; 5,17), desolazione (5,9). 7. Idea di «piangere»17 Di fronte al disastro abbiamo menzionate una serie di reazioni soggettive che esprimono dolore e costernazione. Anche il colosso dell’Assiria proverà paura e confusione (30,31; 31,9). Ma si parla soprattutto dello spavento e del pianto di Gerusalemme (3,26; 22,4.5.12; 29,2). In essa ci saranno lamenti e gemiti (3,26), mentre le sue donne dovranno battersi il petto per il lutto (32,12). Di fronte all’invasione il profeta infierisce: «Urla, porta; grida, città; trema, Filistea tutta» (14,31). Questo tremore per lo spavento prende le donne di Gerusalemme (32,10.11) ed anche i monti (5, 25); si parla pure del tremore causato dal vino (28,7 [3x]; 29,9), e del tremore del Signore che infuria nella sua ira (28,21). Isaia ha il compito di ammonire: «Non temete ciò che esso (il popolo) teme e non abbiate paura. Il Signore degli eserciti … sia l’oggetto del vostro timore, della vostra paura» (8.12.13). Ma in senso più minaccioso si parla del «terrore di Jahve» (2,10.19.21), che deve però compiere una purificazione, perché «solo il terrore farà capire il discorso» (28,19; cfr. 29,13). Il timore, infine, può essere provocato o da nemici esterni (18,2; 29,5) o dalle prepotenze interne che provocano il grido del popolo (5,7). La tragedia di Gerusalemme, infine, è un giorno di panico e di smarrimento (22,5).

17 Venticinque vocaboli: <åbal: 3, 26; <ånâ: 3, 26 e deriv <ániyyâ: 29, 2 e ta<ániyyâ: 29, 2; bëkª: 22, 4. 12; hêlªl (Hif): 14, 31; zëwå>â: 28, 19; zå>aq: 14, 31; ˙åtat: 20, 5; 30, 31; 31, 4; yårŸ<: 7, 4; 8, 12; 18, 2 e deriv. yir<â: 7, 25; 29, 13 e môrå<: 8, 12. 13; mågôr: 31, 9; mëhûmâ: 22, 5; mûg: 14, 31; nû>a: 29, 9; såpad: 37, 12; >åra™: 2, 19. 21; 8, 12. 13 e deriv. >årª™. 29, 5; pûq: 28, 7; pa˙ad: 2, 10, 19. 21; ™åhal: 10, 30; ™ë>ååqâ: 5, 7; rågaz: 5: 25; 28, 21; 32, 10. ll; ¡ågâ: 28, 7 (2x).

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8. Idea di «vergogna»18 La pena farà sì che si provi vergogna per gli abusi perpetrati con tanta sfacciataggine e sicumera (1, 29 [2x]; 20, 5; 30, 3 [2x]. 5 [3x]). È vergogna la non maternità alla quale nel contesto del disastro nazionale saranno condannate le donne (4,1). L’umiliazione può essere accresciuta dal fatto che si può essere costretti ad andare nudi (3,17; 20, 3. 4 [ 2x]; 32,11 [2x]); si noti che due di questi passi si riferiscono specialmente alle donne di Gerusalemme (3,17; 37,11). Le parti del corpo menzionate in questo contesto sono: la testa che viene rasa (7,20), il cranio che sarà reso tignoso (7,17) o calvo (3,24) nella condanna delle donne, le natiche (20,4), le parti pudende sia maschili (7,20: «piedi» per eufemismo) sia femminili (3,17)19. Per concludere possiamo raccogliere a questo punto alcuni termini che indicano i rifiuti: vomito e sporcizia sulle tavole degli ubriachi (28, 8), spazzatura delle strade (5,25), marciume (3,24; 5,24).

II. DESCRIZIONI DEL DISASTRO Se finora abbiamo considerato il vocabolario scomposto nelle singole parole (verbi e sostantivi), vogliamo ora considerare alcuni passi per rilevarvi la costruzione dell’insieme, l’intensità che ne risulta per la giustapposizione dei termini usati, che abbiamo prima considerato isolatamente.

18 Ventuno vocaboli: bô¡: 1, 29; 20, 5; 30, 5; bø¡et: 30, 3.5; ˙åpar: 1, 29; ˙å∞ap: 20,4;30,14; ˙erpâ: 4, 1; 30, 5; këlimmâ: 30, 3; maq: 3, 2-1; 5, 24; sû˙â: 5, 25; >Ÿrâ (Pi): 3, 17 e in senso tra/18slato in 22, 6; >årôm: 20, 3. 4; >årar: 32, 11; på¡aã: 32, 11; pøt: 3, 17; ßø<â: 28, 8; qodqød: 3, 17; qª<: 28, 8; qor˙â: 3, 24; 22, 12; rø<¡: 7, 20; 9, 13; regel: 3, 16; 7, 20; 28, 3; ∞ippa˙: 3, 17; ¡Ÿt: 20, 4. 19 II significato del temine pøt, che ricorre ancora solo in 1Re 7,50, al plur. nel senso di «cardini», per Is. 3, 17 è molto controverso. F. Zorell, Lexicon hebraicum et aramaicum V.T., Roma 1957, s.v., traduce «margine laterale» (della capigliatura muliebre), ma osserva che molti moderni preferiscono il significato di «pudenda», suggerito anche da F. Brown, S. R. Driver, C. A. Briggs, A Hebrew and English Lexicon, Oxford 1966, s.v., e da J. Hempel, op. cit. (nota 7). Le traduzioni preferiscono «fronte»: Fohrer, Kaiser, Wildberger (Stirn), VirguJin; New Eglish Bìble, Bible TOB; oppure «tempie» (Bibbia CEI). Penna e Vermeylin preferiscono una diversa lezione: «la loro vergogna». Ma la Bible de Jerusalem ha «leur nudité».

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1. La vigna devastata (5,5b-6) 5b

6

«Toglierò la sua siepe e sarà un pascolo; demolirò il suo muro di cinta e sarà terra calpestata; la renderò una rovina – non potata né vangata – e vi cresceranno rovi e pruni ».

In questo « canto della vigna » all’enumerazione delle cure (5 verbi in 3ª persona) segue questa sequenza di tre verbi in 1ª persona, come se il profeta cedesse la parola a Dio stesso. Si noti la regolarità della struttura ed il crescendo che approda ad uno strano paesaggio ambiguamente tranquillo: da un lato l’idea di «crescere» ha una carica positiva, dall’altro la coppia «rovi e pruni» si collega minacciosamente col fuoco, come è indicato esplicitamente in 9,17, cioè con la distruzione. 2. La pianta sfiorita (5,24) 24

«Come una lingua di fuoco divora la stoppia e una fiamma consuma la paglia, così le loro radici diventeranno un marciume e la loro fioritura volerà via come polvere».

Qui la simmetria è abbastanza articolata, non solo per la sovrapposizione dovuta al paragone (come – così) ma anche per la duplicazione di ognuno dei suoi due elementi. L’uso dell’immagine è a sua volta sovrapposto, perché non si ha l’immagine soltanto nel fuoco e nella fiamma introdotti dal come, ma anche nel passaggio all’oggetto reale (così) ci troviamo ancora una volta di fronte ad un’immagine (radici, fioritura) che indica i malfattori dai piedi alla testa, perché saranno totalmente distrutti. 3. L’assalto inarrestabile (5,27-28) 27

«Nessuno fra essi è stanco o inciampa, nessuno sonnecchia o dorme; non si scioglie la cintura dei suoi fianchi e non si slaccia il legaccio dei suoi sandali.

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Le sue frecce sono acuminate e tutti i suoi archi sono appuntati, gli zoccoli dei suoi cavalli son come pietre e le ruote dei suoi carri son come turbine».

La descrizione degli invasori è incalzante e procede regolarmente per coppie (nessuno/ nessuno; non /e non; sue frecce/suoi archi; zoccoli dei suoi cavalli/ ruote dei suoi carri). Le prime due affermazioni, che considerano il valore personale dei combattenti, si sdoppiano ulteriormente (stanco/inciampa; sonnecchia/dorme), mentre tutto quello che segue descrive il loro equipaggiamento, secondo un ordine progressivo (cintura – più vicina al centro –, legaccio, frecce, archi, cavalli, carri). Il quadro si conclude con una coppia di immagini (pietre, turbine) che indicano la resistenza e la velocità. 4. Il crollo inevitabile (30,13b-14) 13b

14

«… come una breccia che minaccia di crollare, che fa pancia in un alto muro, il cui crollo avviene a un tratto, improvviso, e s’infrange come vaso di creta che uno frantuma senza pietà, tra i cui rottami neppur si trova un coccio per prendere il fuoco dal braciere o per attingere l’acqua dalla cisterna ».

Questo è lo sviluppo quanto mai calmo di una terribile immagine di distruzione, sviluppata meticolosamente per concludersi in una coppia di altre immagini di sapore casalingo (braciere, cisterna) che si rivelano squallide perché erano precedute da una negazione (non si trova). Ma a metà si svolta già verso una nuova immagine (vaso di creta) che acuisce il senso della violenza perché viene frantumato volontariamente dall’uomo (senza pietà), mentre il crollo del muro imponente sembra ineluttabile e casuale. Questi quattro passi ci mostrano nell’autore la capacità di un uso concentrico del suo ricco vocabolario, tutto teso ad esprimere il processo ineluttabile della decomposizione e della distruzione. La descrizione è molto accurata e rifinita, fino a tradire nell’autore

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un interiore compiacimento; egli non prova il minimo dubbio o un barlume di pietà di fronte al disastro, che ama raffigurarsi con colori forti e varietà di immagini20.

III. LINGUAGGIO E PROFETISMO Dicevamo all’inizio che l’analisi stilistica dei testi, una volta assicurata la loro autenticità in sede di critica storica, costituisce la via più diretta per cogliere al vivo la personalità di un profeta. Nel tentativo, poi, di esaminare questo rapporto tra la lingua e l’esperienza personale nel profeta Isaia, ci siamo limitati a studiare due fenomeni particolari del suo stile, riguardanti il lessico e la costruzione delle immagini. A livello di lessico, pur avendo selezionato un campione ristretto ma rappresentativo rispetto a tutto il libro, quello relativo al tema centrale della distruzione vista nei suoi vari aspetti e momenti, abbiamo rilevato un ricco uso di sinonimi. A livello della costruzione delle immagini, abbiamo notato una straordinaria capacità descrittiva. Ora dobbiamo tentare di stabilire un rapporto tra queste caratteristiche stilistiche e la missione profetica. Non è un caso che i profeti classici siano i grandi rappresentanti della poesia veterotestamentaria21. Ma l’essere poeti è profondamente legato al loro essere profeti. L’espressione poetica è funzionale rispetto alla missione profetica, che resta primaria sia per la coscienza stessa del profeta, sia per la percezione che ne ha avuto l’ambiente contemporaneo e la tradizione successiva. 20 Sulla scorta del Fohrer (v. sopra n. 4) e contro l’indirizzo del Wolff (v. sopra n. 1), H. W. Hoffmann, Die ìntention der Verkündigung Jesajas (BZAW 136), Berlin 1974, sostiene che l’intenzione fondamentale della predicazione di Isaia è quella di indurre il popolo alla conversione, per evitare il castigo di cui il profeta parla nelle sue minacce. Queste, implicitamente, contengono sempre l’invito alla conversione, in quanto essa è l’unica condizione richiesta per rendere inoperanti le minacce. 21 Sulla poesia ebraica cfr. recentemente D. N. Freedmann, Pottery, Poetry, and Prophecy: An Essay on Biblical Poetry, in «Journal of Biblical Literature» 96 (1977) 5-26. L’A. vede usata la forma poetica nelle più antiche composizioni di Gen. 49; Es. 15; Num. 23; 24; Deut. 32; 33; Gdc. 5, inglobate poi nei testi narrativi, e quindi nei profeti: «La più importante evidenza sui profeti come poeti proviene dal grande corpus dei profeti maggiori e minori. Sebbene una buona percentuale di prosa sia stata mescolata con la poesia, specialmente nei libri di Geremia ed Ezechiele o dei profeti postesilici come Zaccaria ed Aggeo, la maggior parte di questi profeti sono stati poeti, ed i loro oracoli sono stati espressi e sono stati tramandati in forma poetica … Dagli inizi della profezia in Israele fino almeno all’esilio, la poesia è stata lo strumento principale della profezia» (pp. 22-23).

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Il nostro esame, pur parziale, del linguaggio d’Isaia ci mostra un profeta di grande capacità espressiva, che sa registrare efficacemente gli ambiti più vari della vita, dalla guerra all’agricoltura, dalla vita di città alla vita di campagna, dalla politica internazionale alla situazione sociale del proprio popolo. La lingua d’Isaia è vigorosa, audace ed estesa. I toni sono foschi e minacciosi, evocatori di disordine e di distruzione; eppure dal discorso del profeta si sprigiona una carica di forza e di vitalità, che lo rendono, inconsapevolmente, testimone della storia e cantore della creazione. Nel vigore con cui parla della distruzione si rivela una sorprendente passione per la vita anche quando parla della morte. Il linguaggio di questo profeta ci sembra ricco, vario e sempre nuovo22, pur muovendosi nell’ambito di una tematica costante – il giudizio di Dio –, al punto che questa vivacità della forma riscatta in qualche modo la durezza del contenuto. Un linguaggio così ricco ed articolato23 non è frequente nell’A.T., dove prevalgono spesso le forme convenzionali, magari rappresentative in maniera impersonale di un certo ambiente e di una certa epoca. Così si può pensare, tanto per fare un confronto, alla letteratura nata nell’ambiente sacerdotale, che trova la sua espressione più caratteristica nel noto «Documento sacerdotale» (P) conglobato nel Pentateuco24. Anche se la sua origine ultima si colloca durante l’esilio, esso raccoglie una tradizione spirituale e letteraria più antica, lungamente maturata nell’ambiente del tempio di Gerusalemme prima dell’esilio. A parte l’abbondante materiale legislativo e ritualistico, inquadrato in un formulario fisso e ripetuto, anche nelle 22

«Isaia è per eccellenza il “poeta classico” della Bibbia. I Padri della chiesa e i critici moderni celebrano a gara la limpida bellezza dei suoi versi, la loro concisione, l’equilibrio della composizione dei suoi oracoli, la straordinaria novità delle sue immagini. Meno patetico e meno intimo di Geremia, meno diffuso e meno traboccante d’Ezechiele, Isaia li supera entrambi per la forza nervosa della sua poesia, per l’ampiezza del suo afflato, l’ironia mordace delle sue apostrofi e la genialità della sua parola appassionata» (Auvray-Steinmann, p. 12). 23 Questa capacità innovativa della lingua dei profeti, rispetto soprattutto alla tendenza conservatrice del linguaggio sacerdotale, è sottolineata anche da W. Zimmerli, II significato del linguaggio secondo l’A.T., in Rivelazione di Dio, Milano 1975, p. 263: «Ma nello stesso tempo essa (la lingua dell’A.T.) ha fatto saltare per mezzo della bocca dei profeti tutto quello che è stato definito convenzionalmente sacro per adottare nuove immagini e nuovi modi di dire, quando si trattò di annunziare quell’inaudita nuova irruzione di Jahve nella storia, con la quale egli avrebbe terribilmente riportato all’obbedienza il suo popolo diventato indocile». 24 Sull’«Opera sacerdotale» cfr. H. Cazelles – J. P. Bouhot, II Pentateuco, Brescia 1968, pp. 280-333; J. A. Soggin, Op. cit. (nota 5), pp. 191-203.

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parti narrative predomina la tendenza al linguaggio uniforme e stereotipato, al vocabolario monotono e convenzionale. Lo svolgersi della storia è visto in P in maniera ordinata e simmetrica, teso com’è alla santificazione d’Israele attraverso le istituzioni del culto. La ricchezza della lingua d’Isaia poggia invece in una diversa esperienza storica, che egli vive in pieno senza fughe e senza appoggi, partecipe della vita quotidiana della sua città25, attento a quanto accade in Assiria26, in Egitto, in Siria e nella Filistea. Perciò la sua lingua è ricca di concretezza, di colorito e di efficacia espressiva, anche se il suo mondo interiore è dominato dal rispetto di Dio e del suo mistero. La coscienza della missione profetica lo costringe a mescolarsi con la realtà del suo tempo, senza perdere di vista il suo Signore che l’ha inviato come suo porta-parola (6, 8). Questa impresa, che doveva renderlo battagliero ed instancabile accusatore della sua società27, gli avrebbe imposto 25 Sulla visione politica d’Isaia si hanno numerose monografie, da F. Küchler, Die Stellung des Propheten Jesaia zur Politik seiner Zeit. Tübingen 1906, che ne sottolinea il carattere non realista, inaccettabile per i pragmatici, ma valida perché sorretta solo dalla fede, fino a quelle più recenti: R. E. Nelson, Religion and Pofitics in Isaiah, Diss. Edinburgh 1966/67; H. Barth, Israel und das Assyrerreich in den nichtjesajanischen Texten des Protojesajabuches, Hamburg, 1974; F. Huber, Jahwe, Juda un die anderen Völker beim Propheten Jesaja (BZAW 137), Berlin 1976; W, Dietrich, Jesaja und die Politik, Miinchen 1976. Quest’ultimo insiste sull’unità dialettica che vige tra la fede e la politica, attestata in Isaia ed attuale anche per la cristianità d’oggi: «Così l’azione d’Isaia può essere considerata come archetipo di una energica opposizione contro la ingiustizia e l’ottusità dei politici: duro, ma mai con odio, di vasti interessi, eppure concentrato nel suo scopo. Una tale opposizione può essere senza successo, ma non può restare senza conseguenze» (p. 297). I principali temi politici toccati da Isaia sono quattro: 1. contro la classe ricca; 2. contro la politica filo-assira del re Acaz; 3. contro la politica indipendentista di Ezechia che cerca alleanze con i nemici dell’Assira; 4. contro 1’imperialismo degli Assiri. 26 Nel corso della sua attività Isaia passa da una posizione filoassira ad una posizione antiassira; i due passi contro l’Assiria 10, 5-19 e 30, 27-33 sono considerati da G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, vol. II, Brescia 1974, rispettivamente come «uno dei canti più possenti (gewaltigsten) di Isaia» (p. 193) e a uno dei testi più possentí (gewaltigsten) di Isaia» (p. 188). 27 Gli stessi motivi che secondo J. Coppens, Le messianisme royal (Lectio Divina 54), Paris 1968, p. 68, facevano negare a P. Volz, Die vorexilische Jahweprophetie und der Messias in ihrem Verhältnis dargastellt, Göttingen 1897, l’esistenza di una speranza messianica in Isaia riecheggiano in Vermeylin, che postdata l’oracolo di 11, 1-9 (cfr. n. 3), fra l’altro, con questa osservazione: «La promessa di un avvenire glorioso senza riferimento ad una esigenza di fede e di conversione è poco isaiana … Isaia lega sempre la realizzazione della promessa ad una attitudine di confidenza in Jahve» (p. 273).

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pure sofferte pause di silenzio e d’attesa, soprattutto nel momento in cui tutto il suo impegno per modificare il corso degli eventi politici sembrava naufragare nell’insuccesso più mortificante: «Si sigilli questa rivelazione nel cuore dei miei discepoli. Io ho fiducia nel Signore che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui» (8,16).

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6 LA BIBBIA: UNA STORIA PER LA VITA [1989]

Quando noi ci rivolgiamo alla Bibbia per cercarvi un’ispirazione sul nostro impegno nella «promozione e difesa della vita» partiamo già da una problematica che ci viene posta dalla nostra esperienza attuale e che non corrisponde per molti versi a quella che è presupposta nei testi biblici. Avendo coscienza di questa certa diversità di ambiente e di situazione che ci deve mettere in guardia da certe trasposizioni dirette e forzate, se esaminiamo la linea di fondo del pensiero della Bibbia vi troviamo una grande passione per la vita, giacché essa viene a coincidere con l’interesse che ha l’uomo per la sua storia e con l’amore che ha Dio per l’uomo in ogni momento di questa sua storia. Questa tendenza di fondo che incontestabilmente troviamo nella Bibbia, maturata in diverse fasi di una storia ora esaltante ed ora penosa, può offrirci sollecitazioni e suggestioni per il nostro impegno umano e cristiano di oggi. La Bibbia si presenta come una «storia per la vita» nella sua grande articolazione che comprende e riunisce l’Antico e il Nuovo Testamento. Sul tema della vita si dispiega in essi una linea di sviluppo che ora dobbiamo riprendere nei suoi tratti fondamentali, per ricordare quella che è stata la sua dinamica storica di una volta e quella che può essere la sua forza dirompente per il presente. In linea generale notiamo che c’è un contrasto di prospettiva tra l’Antico e il Nuovo Testamento proprio a proposito dell’idea della vita: mentre l’AT dà molta importanza alla vita terrena e presente, il NT sposta il suo centro d’interesse verso la vita futura ed ultraterrena. Ma siccome non dobbiamo vedere opposizione ma continuità tra la vita terrena e quella ultraterrena, sarà possibile unificare le diverse prospettive dell’A. e del NT in una visione d’insieme in cui dopo aver rilevato la loro diversità si dovrà cogliere la loro integrazione. Considereremo perciò prima l’AT nei suoi tre successivi momenti fondamentali: 1) Gli inizi con Abramo, 2) l’esperienza della terra dall’esodo all’esilio, 3) Le attese di una nuova vita dopo l’esilio. Passando poi al NT, vedremo pure tre fasi successive: 1) il ministero terreno di Gesù, 2) l’evento della sua morte e risurrezione, 3) la vita dello Spirito nei credenti.

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I ANTICO TESTAMENTO:

LA VITA DI UN POPOLO NELLA MORSA DELLA SUA

STORIA

L’AT si impernia sulla vicenda storica d’Israele, della quale ci vengono ricordate le fasi principali, con le loro situazioni concrete e con le loro cariche ideali. In questi Scritti non si parla tanto in astratto della vita, ma ci si presenta in modo abbastanza realistico e a volte patetico il vissuto di un popolo, nel suo ricco spessore di fatti, di sentimenti, di idee e di aspirazioni. Abbiamo così presentata innanzitutto una fenomenologia della vita nei suoi vari aspetti, che diventa sfondo e scenario della storia della salvezza e veicolo della rivelazione di Dio. 1) La vita di un popolo nella promessa fatta da Abramo La storia di Abramo rappresenta l’inizio della vita d’Israele. Questa si collega con quella attraverso la promessa divina che riguarda la moltiplicazione della discendenza e il possesso della terra. In questo modo il tema della vita è posto chiaramente al centro di questa storia fin dal principio, sia sotto l’aspetto della diffusione della vita e sia sotto l’aspetto della qualità della vita per via del possesso di una propria terra, sulla quale si potranno godere in libertà i frutti del proprio lavoro. Ad Abramo, ancora seminomade e senza dimora fissa che con poche persone percorre nei suoi successivi attendamenti il Canaan da nord a sud, il Signore fa questa promessa: «Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente. Tutto il paese che tu vedi, io lo darò a te e alla tua discendenza per sempre. Renderò la tua discendenza come la polvere della terra: se uno può contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti. Alzati, percorri il paese in lungo e in largo, perché io lo darò a te» (Gen 13,14-17). La stessa promessa viene rinnovata, con una variazione ancora più suggestiva, dopo che Abramo si è dimostrato pronto, nonostante il suo dramma tutto interiore, a sacrificare perfino Isacco, il figlio unico dal quale dipendeva la futura discendenza: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare, la tua discendenza si impadronirà della città dei nemici. Saranno benedette per la tua discendenza

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tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gen 22,16-18). L’elemento di conflittualità, che si infiltra già in questa promessa e prelude alle future lotte per la conquista della terra, dobbiamo considerarlo come uno stato di necessità per la vita di questa discendenza ad un dato momento della sua storia. Esso riaffiora, dal punto di vista di un popolo fratello d’Israele, quando si parla di Ismaele, il bambino di cui è incinta Agar, la schiava di Abramo scacciata nel deserto: Soggiunse poi l’angelo del Signore: «Ecco, sei incinta: partorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele, perché il Signore ha ascoltato la tua afflizione. Egli sarà come un onagro; la sua mano sarà contro tutti e la mano di tutti contro di lui e abiterà di fronte a tutti i suoi fratelli». (Gen 16,11-12). 2) L’esperienza della terra dall’esodo all’esilio La fase più centrale della storia d’Israele nell’AT coincide con la sua permanenza nella terra promessa, da quando vi si insedia all’esilio babilonese (587-538 a.C.), che stronca l’esperienza dell’indipendenza nazionale e statale fatta con la monarchia. L’ingresso nel Canaan è preceduto dall’uscita dall’Egitto, dove la discendenza di Abramo che si è moltiplicata secondo la promessa, è minacciata di sterminio, quando il faraone costringe gli ebrei ai lavori forzati e pretende che siano uccisi tutti i neonati maschi. Sullo sfondo di questa situazione disperata e senza via d’uscita, Mosè, che già da bambino era sfuggito alla morte e che poi aveva anche ucciso un egiziano per difendere un suo fratello ebreo (Es 2,22), nel deserto dove s’era rifugiato ascolta la voce di Dio che gli confida: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovanbo il Cananeo, l’Hittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo» (Es 3,7-8). Da questo momento inizia la vera nascita d’Israele come popolo, che deve prendere coscienza di sé, del suo scomodo diritto alla libertà politica e della sua particolare vocazione religiosa, ma faticosamente, tra ribellioni e mormorazioni sempre insorgenti contro Mosè, che ad un certo punto così dichiara a Dio il suo sconforto e la sua stanchezza: «Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi? Tanto che mi

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hai gravato col peso di tutto questo popolo? L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: Portalo in grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Da dove prenderei la carne da dare a tutto questo popolo? Perché si lamenta dietro a me, dicendo: Dacci da mangiare carne! Io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi; che io non veda più la mia sventura!» (Num 11,11-15). Ma dopo l’assestamento nella propria terra, l’esperienza del benessere e il contatto con la civiltà cananea provocano in Israele la dimenticanza del Signore che l’aveva salvato, al punto che il meritato castigo minaccia di stroncare la sua esistenza attraverso gli eserciti stranieri che ne invadono il suolo. Isaia paragona il popolo di Giuda, saccheggiato dagli Assiri, ad un corpo ferito ed ammalato: «Perché volete ancora essere colpiti, accumulando ribellioni? La testa è tutta malata, tutto il cuore langue. Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è in esso una parte illesa, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono ripulite, né fasciate, né curate con olio. Il vostro paese è devastato, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri» (Is 1,5-7). Poi la definitiva caduta di Gerusalemme sotto i Babilonesi nel 587 segna la fine della città, nella quale i superstiti vivono in condizioni disperate di miseria e di fame: «Si son consunti per le lacrime i miei occhi, le mie viscere sono sconvolte; si riversa per terra la mia bile per la rovina della figlia del mio popolo; mentre vien meno il bambino e il lattante nelle piazze della città. Alle loro madri dicevano: “Dov’è il grano e il vino?”. Intanto venivan meno come feriti nelle piazze della città; esalavano il loro respiro in grembo alle loro madri … È grande come il mare la tua rovina: chi potrà guarirti?» (Lam 2,11-13). 3) L’attesa di una nuova vita dopo l’esilio Eppure di fronte alla tragedia nazionale non ci si ferma rassegnati ed inerti. Superate l’iniziale sbigottimento ci si rimette all’opera. Già Geremia così scriveva, da Gerusalemme e Babilonia, ai giudei ivi condotti nella prima deportazione del 597: «Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie,

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scegliete mogli per i figli e maritatene le figlie; costoro abbiano figlie e figli. Moltiplicatevi lì e non diminuite« (Gen 29,5-6). La vita deve così riprendere, mentre l’intera nazione è paragonata da Ezechiele ancora ad un corpo morto, sgretolato in una distesa di ossa aride rinchiuse nei sepolcri. Occorre il soffio divino della vita che la rimetterà in piedi: «Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle … Io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele … Vi farò riposare nel vostro paese e saprete che io sono il Signore» (Ez 36,5.6.12.14). Ma perché questa vita ridata alla nazione abbia veramente senso e non resti mortificata negli stenti e nella precarietà del solo rimpatrio, è necessario che anche la terra riprenda vita con le sue coltivazioni e quindi sia allietata dall’abbondanza dei suoi frutti più caratteristici. Essa sarà così partecipe della rinascita del suo popolo: «Il Signore ha redento Giacobbe, perciò verranno e canteranno inni sull’altura di Sion, affluiranno verso i beni del Signore, verso il grano, il mosto e l’olio, verso i nati dei greggi e degli armenti … Allora si allieterà la vergine alla danza; i giovani e i vecchi gioiranno. Io cambierò il loro lutto in gioia, li consolerò e li renderò felici, senza afflizioni» (Ger 31,11-13). Anche lo stesso viaggio di ritorno dall’esilio è proiettato dal DeuteroIsaia in uno scenario esuberante di vita, nel quale non solo si rimuovono le sofferenze fisiche degli uomini ma anche gli ostacoli frapposti dall’ambiente geografico: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca le steppa … Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti … Si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il luogo riarso si muterà in sorgenti d’acqua … Ritorneranno i riscatti dal Signore e verranno in Sion con giubilo; … gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35,1.3.5.6.7.10). La ripresa della vita a Gerusalemme dopo la sua ricostruzione la renderà una città a dimensione umana, dove sarà piacevole abitare a tal punto che ne beneficierà la stessa salute dei cittadini, come possiamo vedere in questi passi di Zaccaria e del Trito-Isaia: «In quel giorno … ogni uomo inviterà il suo vicino sotto la sua vite e sotto il suo fico» (Zac 3,10); «Vecchi e vecchie siederanno ancora nelle

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piazze di Gerusalemme, ognuno con il bastone in mano per la loro longevità. Le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle, che giocheranno sulle sue piazze» (8,4s). «Così dice il Signore Dio: … Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo. Non si udranno più in essa voci di pianto, grida di angoscia. Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni … Fabbricheranno case e le abiteranno, pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto» (Is 65,19-21). In conclusione, possiamo dire che la linea di pensiero preponderante nell’AT sul tema della vita culmina e si concretizza in questa città ricostruita a misura d’uomo e veramente vivibile, dove il benessere materiale rispecchia un rinnovato impegno di «fedeltà e di giustizia» verso il Signore (cfr Zac 8,8). Ma parallelamente a questa visione collettiva e nazionale si sviluppa pure nel dopoesilio, anche se rimane una voce marginale, la presa di coscienza dell’«io» personale che scopre la grandezza della sua esistenza nel riconoscersi soggetto in dialogo con Dio, a cui egli deve la sua stessa origine: «Tu, o Signore, hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo. Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto … Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro» (Sal 139,13-16). La forza di questo rapporto con Dio, pieno di serenità e di confidenza, non vacilla neppure al pensiero della morte: «Io pongo sempre innanzi a me il Signore … anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita nel seplocro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 16,8-11).

II NUOVO TESTAMENTO: LA VITA FUTURA TRASFIGURA LA VITA PRESENTE Anche il NT presenta uno svolgimento storico che, sebbene concentrato in pochi anni rispetto a quello plurisecolare dell’AT, comprende fondamentalmente tre fasi, che sono rilevanti anche per il nostro tema della vita: 1) L’irruzione del regno di Dio nel ministero terreno di Gesù, 2) l’evento della sua morte e risurrezione, 3) il dono dello Spirito Santo nella vita dei suoi discepoli.

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1) Il ministero terreno di Gesù Il ministero terreno di Gesù viene riassunto nel NT in due aspetti complementari: le opere da una parte e le parole dall’altra (cfr At 1,1). Se c’è coerenza tra le parole di Gesù e le sue opere, nel senso della trasparenza della sua condotta, c’è pure un’intima connessione tra la sua predicazione e quella parte tanto significativa delle sue opere costituita dai miracoli. I miracoli incidono sulle condizioni fisiche della vita dell’uomo e sono una manifestazione privilegiata del regno di Dio annunziato da Gesù. Essi sono segni anticipatori del regno di Dio in questo mondo e prefigurazione della sua pienezza futura, quando – come dice la visione finale dell’Apocalisse – Dio «tergerà ogni lacrima dai loro occhi (cfr Is 25,8); non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4; cfr Is 35,10). I miracoli del Vangelo sono, così, affermazioni della vita, sia quelli che riguardano le guarigioni delle malattie e sia quelli che riguardano la natura (Mc 4,35-41; 6,30-44, 45-52; 8,1-10; 11,12-14.20-25 e par; Lc 5,111; Mt 17,24-27). Le guarigioni miracolose di cui si parla nei vangeli in modo più dettagliato, a parte le notizie generali sui miracoli inserite nei cosiddetti sommari (Mc 1,32-24.39; 3,7-12; 6,56 e par; Mt 4,23-25; 9,35; Lc 4,40 ecc.), si riferiscono a queste malattie: febbre (Mc 1,29-31), lebbra (Mc 1,40-45; Lc 17,11-19), paralisi (Mc 1-12; Mt 8,5-13), cecità (Mc 8,2226; 10,46-52), mancanza della parola e dell’udito (Mc 7,31-37; Mt 9,32-34), emorroidi (mc 5,25-34), epilessia (Mc 9,14-29), artrosi (Mc 3,1-6; Lc 13,1017), idropisia (Lc 14,1-6). A questi si devono aggiungere tre episodi di risurrezione di morti (Lc 7,11-14; Mc 5,24-43; Gv 11). La presenza dei miracoli nei vangeli è un dato abbastanza massiccio, eppure tale che non va assolutizzato in se stesso; essi sono come un prolungamento dell’insegnamento di Gesù, che può essere raccolto e compreso solo nella misura in cui si accoglie nella fede pure la sua parola. Eppure i miracoli si concentrano in massima parte nel primo periodo del ministero pubblico di Gesù, quando lui è ancora molto seguito dalla folla entusiasta, mentre si rarefanno nel secondo periodo orientato ormai alla meta della morte in croce a Gerusalemme. Il primo periodo può essere sintetizzato nella risposta di Gesù all’ambasciata di Giovanni: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. E beato è chiunque non sarà scanda-

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lizzato di me!» (Lc 7,22-23). Invece il secondo periodo culmina nell’insulto dei testimoni della sua crocifissione: «Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo» (Mc 15,31-32; cfr Mt 27,42; Lc 23,35). 2) La morte e la risurrezione di Gesù È vero, Gesù non ha voluto evitare la sua morte, perché essa doveva essere apportatrice di vita. Questa unità di vita e di morte nel mistero pasquale di Gesù, che i Vangeli ci presentano in maniera più descrittiva ed implicita, viene approfondita e sviluppata da san Paolo, il quale vi sottolinea soprattutto tre aspetti: la sua inscindibile concatenazione (a), la sua causalità rispetto alla nostra salvezza (b), la sua esemplarità in rapporto alla nostra vita e alla nostra morte (c). a) Gesù, uomo-Dio che da sempre è il Figlio di Dio in quanto alla sua divinità, dal punto di vista della sua umanità acquisisce la pienezza della vita solo con la risurrezione, che richiede inscindibilmente come suo presupposto la sua morte: «Cristo Gesù … pur essendo di natura divina…umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,5-9). E la lettera agli Ebrei afferma poi che noi vediamo Gesù «coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti» (Ebr 2,3) e che egli «pur essendo Figlio, imparò … l’obbedienza dalle cose che patì» (Ebr 5,8). b) In realtà la causa della nostra salvezza si trova insieme nella morte e nella risurrezione di Gesù, anche se spesso si mette in primo piano la sua morte, in quanto essa sottolinea più concretamente la sua offerta attiva all’amore salvifico di Dio. Infatti la nostra fede si dirige al Padre «che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è risuscitato per la nostra giustificazione» (Rom 4,25). E ancora: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi … Se … quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rom 5,8.10). c) Ma, senza dubbio, ciò su cui San Paolo insiste di più è la nostra partecipazione alla morte e alla vita di Gesù. Essa si comincia ad attuare già

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nel presente, con il rinnovamento morale della nostra condotta che si allontana dal peccato, mentre resta in attesa della piena assimilazione alla vita di Gesù nella risurrezione: «Noi crediamo che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui». (1 Tes 4,14). Ma, ferma restando questa prospettiva futura che si riferisce ai morti in senso fisico, il tema della morte viene sviluppato poi in senso morale, come morte al peccato: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che io vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Da questa confessione di sapore autobiografico San Paolo passa poi alla considerazione esplicita di tutti i cristiani. «Se …siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la risurrezione … Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui … Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù … Liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna … Il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore» (Rom 6,5.8.10.11.22.23). Però altre volte San Paolo si riferisce alla morte nel senso propriamente fisico, sia che lui senta la sua come imminente mentre si trova in carcere in attesa del giudizio, o sia che ne parli in termini più generali: «Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,20-21). «Nessuno di noi, infatti vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rom 14,7-9). E già nella sua più antica lettera l’apostolo aveva dichiarato: «Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo (= siamo in vita) sia che dormiamo (= siamo morti), viviamo insieme con lui» (1 Tes 5,9-10). Questa esperienza della morte viene in qualche modo anticipata per Paolo nelle difficoltà d’ogni genere che egli incontra nella sua vita apostolica: siamo «colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a

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causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesta nella nostra carne mortale» (2 Cor 4,9-11). Questa pazienza è possibile perché si tiene presente l’esempio di Gesù: «egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio. E anche noi che siamo deboli in lui, saremo vivi con lui per la potenza di Dio» (2 Cor 13,4). 3) Lo Spirito Santo come principio di nuova vita Questa trasformazione della vita del cristiano è più precisamente l’effetto dello Spirito che gli viene donato dal Padre. Innanzi tutto è la stessa umanità di Cristo che è risuscitata dal Padre inondandola con la pienezza dello Spirito, giacché egli è stato «costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dei morti» (Rom 1,4). In questo modo lo Spirito è insieme origine della vita comunicata con la risurrezione a Gesù e della santificazione con la quale egli dopo ci santifica. Così ora Cristo risorto ci può comunicare questa nuova vita che è superiore alla semplice vita naturale. Infatti «il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo (= Cristo) divenne spirito datore di vita» (1 Cor 15,45). Ma per lo più il dono dello Spirito è fatto derivare di nuovo dal Padre, mentre la vita di cui è portatore è considerata sia nella sua pienezza futura e sia nella sua manifestazione presente. Rispetto al nostro futuro lo Spirito è operatore della risurrezione. Infatti «se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rom 8,11). In ragione di questa sua funzione futura lo Spirito è chiamato caparra, mentre noi siamo considerati eredi e in condizione di avere la certezza che la nostra speranza non sarà delusa. Infatti: «È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2 Cor 1,21-22). «E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio» (Gal 4,6-7). «Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rom 8,16-17). «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio

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è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5,5). Ma lo Spirito che ci è stato donato richiede che la nostra condotta morale diventi sempre più compenetrata dalla sua presenza e sia caratterizzata dai suoi frutti che trasformano la nostra realtà umana più intima, già a livello degli stessi desideri: «Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (gal 5,25). «Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene» (Rom 8,6.9). «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé». (Gal 5,22). In questo modo è solo il dono dello Spirito che rende la nostra vita veramente viva e la trasforma per essere nel mondo testimonianza vissuta del Cristo risorto e prefigurazione della nostra futura risurrezione insieme con lui.

III CONCLUSIONE Abbiamo percorso a grandi linee tutta la Bibbia nella sua doppia articolazione di Antico e Nuovo Testamento. In realtà l’AT presenta un intenso sapore di terra, con il forte desiderio di godere veramente e in pienezza i suoi frutti in armonia con il grandioso programma iniziale «siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo» (Gen 1,28), anche se poi esso rimane come in sospeso e non veramente realizzato dopo l’esilio. Invece nel NT è la vita di Dio che irrompe attraverso il suo Spirito nella vita dell’uomo, proiettandola in una pienezza che gli può essere concessa solo dopo la morte, come assimilazione al mistero pasquale del Cristo morto e risorto. Ma così non ci stanno davanti due orizzonti di vita diversa. La vita, nella sua totalità è una nel suo pieno dispiegamento abbraccia il presente e il futuro. Il dono dello Spirito opera la fusione e la mescolanza delle due fasi e ciò che manifesta più di tutto il resto l’affinità e la sintonia tra la vita terrena e la vita celeste è la carità. «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse,

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non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode della ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia» (1 Cor 13,48.12a). Il giudizio finale che segna il passaggio tra la vita terrena e la vita celeste, filtra ciò che veramente vale e che rimane per sempre: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,35b-40).

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7 LA PERSONIFICAZIONE DELLA SAPIENZA E LA CREAZIONE (Pr 8, 22-31) [1996]

Si ammette comunemente che nel libro dei Proverbi siano state riunite nove diverse collezioni, ciascuna delle quali a sua volta si è formata autonomamente attraverso una graduale raccolta di diversi proverbi, chiamati in ebraico meshalim. La prima di queste raccolte che abbraccia i cc. 1-9, sembra la più recente1 e si distingue dalle altre perché non contiene dei proverbi propriamente detti ma delle “istruzioni”, cioè delle composizioni più lunghe caratterizzate da un tono intensamente esortativo. E a differenza delle collezioni più antiche, nelle quali i vari proverbi presentano delle osservazioni molto concrete sulla vita quotidiana, qui l’insegnamento sapienziale ha un carattere più generale e indefinito. Per lo più questo insegnamento si mette in bocca a un maestro di sapienza animato da una grande passione pedagogica verso i suoi ascoltatori e discepoli. Ma per tre volte (Pr 1,20ss; 8,1ss; 9,1ss) è la stessa Sapienza che parla, personificata in un personaggio femminile che vuole attirare a sé i giovani “inesperti” che possono facilmente seguire altre vie, in particolare le seduzioni della “donna straniera” (2,16; 5,3.20; 6,24; 7,5), figura reale e simbolica nello stesso tempo, che riunisce in sé le deviazioni dell’adulterio e dell’idolatria. Tra questi tre passi il c. 8 è quello che sviluppa con più ampiezza questa personificazione della sapienza, che in un discorso intriso di intenso lirismo rievoca la propria storia. Una analoga personificazione della sapienza si trova pure nel testo più recente del cap. 24 del Siracide, che se ne serve per ribadire quello che è il fulcro più caratteristico del suo pensiero, l’identificazione della sapienza con la legge di Mosè. Gli altri passi affini, dove però non si ha una vera e propria personificazione della 1 Così, secondo il giudizio della maggioranza degli studiosi che la situa nel V o IV sec., mentre non mancano coloro che la pongono addirittura nel primo periodo monarchico (per es. KAYATZ e LANG, v. sotto, nn. 35 e 34); cfr. Judith M. HADLEY, “Wisdom and the goddess”, in Wisdom in Ancient Israel: Essays in honour of J. A. Emerton (ed. J. DAY - R. P. GORDON - H. G. M. WILLIAMSON; Cambridge: University Press 1995), 234-243, 239.

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sapienza, ma solo l’esaltazione del suo valore che porta a metterala in rapporto con la complessità del mondo fisico e con la creazione, per sottolineare la sua inaccessibilità da parte dell’uomo che può ricerverne solo il dono per rivelazione di Dio, sono Gb 28; Bar 3,9-4,4 e Sap 7-9. Si tratta di testi recenti, un denominatore comune che fa pensare come questo tipo di tematizzazione della sapienza che si ramifica in diversi filoni, derivi da uno stesso contesto ideologico2. In questo articolo ci proponiamo di esaminare in particolare Pr 8,2231, soffermandoci quindi sul termine ’amôn contenuto in 30a e sulle sue implicazioni storico-religiose, per sottolineare in conclusione, oltre che la teologia della creazione soggiacente a questo passo, anche una importante questione metodologica più generale, quella dell’utilità dei paralleli extrabiblici per una migliore intelligenza dei testi biblici. In tutta questa trattazione il nostro apporto più specifico si limita all’analisi della struttura letteraria dei vv. 22-31 (par. 2) e alla considerazione teologica conclusiva (par. 5). Invece, per quanto riguarda l’interpretazione del termine ’amôn (par. 3) e l’identificazione più probabile dello sfondo storico-religioso per la personificazione della Sapienza (par. 4), ci preoccupiamo di fornire una piccola rassegna critica delle posizioni interpretative più in voga, sottolineando quella che ci sembra la più plausibile. All’inizio, per contestualizzare meglio la nostra analisi, daremo uno sguardo sintetico alla prima parte del cap. 8, alla quale si collegano organicamente i vv. 22-31 che ci interessano più direttamente.

1) Lo schema generale del cap. 8 Per contestualizzare i vv. 22-31 nell’insieme del cap. 8, ci limitiamo a riportare per intero il testo, segnalando l’articolazione delle sue varie parti3.

2

Per una recente messa a punto su questi passi, cfr. R. E. MURPHY, “The personification of Wisdom”, in Wisdom in Ancient Israel (n.1), 222-233. 3 Il testo biblico viene riportato, con qualche piccola modifica, secondo la traduzione della CEI (=BC).

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a) Presentazione della Sapienza personificata (vv. 1-3) La Sapienza, personificata, non sta ferma, ma gira gridando per la città, per diffondere il suo invito: 1

2

3

La Sapienza forse non chiama / e la prudenza non fa udir la voce? In cima alle alture, lungo la via, / nei crocicchi delle strade essa si è posta, presso le porte, all’ingresso della città, / sulle soglie degli usci essa esclama:

b) Discorso diretto con invito introduttivo (vv. 4-11) Il contenuto del messaggio non è specificato, ma il fatto che è generico fa pensare che si rimandi a qualcosa d’altro, probabilmente a tutti gli insegnamenti raccolti in Pr 10-31; ma è anche vero che qui viene enfatizzato il rapporto con la Sapienza stessa, che in qualche modo precede e supera le espressioni concrete dell’insegnamento sapienziale. 4

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10

11

A voi, uomini, io mi rivolgo, / ai figli dell’uomo è diretta la mia voce. Imparate, inesperti, la prudenza / e voi, stolti, fatevi assennati. Ascoltate, perché dirò cose elevate, / dalle mie labbra usciranno sentenze giuste, perché la mia bocca proclama la verità / e abominio per le mie labbra è l’empietà. Tutte le parole della mia bocca sono giuste; / niente vi è in esse di fallace o perverso; tutte sono leali per chi le comprende / e rette per chi possiede la scienza. Accettate la mia istruzione e non l’argento, / la scienza anziché l’oro fino, perché la scienza vale più delle perle / e nessuna cosa preziosa l’uguaglia.

c) La Sapienza: sua natura (vv. 12-21)

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La Sapienza parla della sua natura in funzione della sua autocomunicazione agli uomini, come risulta dalle due proposizioni finali del v. 21. Quando la Sapienza parla delle sue prerogative (12-14), vi inserisce pure le qualità contrarie (13). Parlando dei suoi doni, prima ricorda quelli che servono ai capi politici (15-16)4 e poi quelli che sono destinati a tutti (17-21): -le sue prerogative 12

13

14

Io, la Sapienza, possiedo la prudenza / e ho la scienza e la riflessione; [temere il Signore è odiare il male:]5 la superbia, l’arroganza, la cattiva condotta / e la bocca perversa io detesto. A me il consiglio e il buon senso, / io l’intelligenza, a me la potenza.

-i suoi doni 15

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18 19

20 21

4

Per mezzo mio regnano i re / e i magistrati emettono giusti decreti; per mezzo mio i capi comandano / e i grandi governano con giustizia. Io amo coloro che mi amano / e quelli che mi cercano mi troveranno. Presso di me c’è ricchezza e onore, / sicuro benessere ed equità. Il mio frutto val più dell’oro, dell’oro fino, / il mio provento più dell’argento scelto. Io cammino sulla via della giustizia / e per i sentieri dell’equità, per dotare di beni quanti mi amano / e riempire i loro forzieri.

Si noti come questo motivo ritorni, in maniera più sviluppata, in Sap 8,9-16; 9,12. Questo stico sembra un’aggiunta posteriore che disturba la simmetria dei due stichi del v. 12. 5

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2) Struttura letteraria dei vv. 22-31 Questo brano si distacca dai precedenti per la potenza dello scenario che viene evocato e per l’arditezza del suo contenuto, in quanto la Sapienza non si considera più soltanto in rapporto agli uomini, ma il suo significato si dilata nell’orizzonte di tutto il cosmo. La dinamica della descrizione si sviluppa nella combinazione di due coordinate, quella temporale (anteriorità, contemporaneità) e quella spaziale (terra in basso, cielo in alto): La Sapienza: la sua storia a) Affermazione generale introduttiva 22

Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività, / prima di ogni sua opera, fin d’allora.

b) in basso 23

Dall’eternità sono stata costituita, / fin dal principio, dagli inizi della terra.

c) in alto (le acque superiori) 24

Quando non esistevano gli abissi, io fui generata; / quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua;

d) in basso 25

26

prima che fossero fissate le basi dei monti, / prima delle colline, io sono stata generata. quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, / né le prime zolle del mondo;

d’) in alto (cieli e acque superiori) 27

quando egli fissava i cieli, io ero là; / quando tracciava un cerchio sull’abisso;

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28

quando condensava le nubi in alto, / quando fissava le sorgenti dell’abisso;

c’) in basso (acque terrestri) 29

quando stabiliva al mare i suoi limiti, / sicché le acque non ne oltrepassassero la spiaggia;

b’) in basso quando disponeva le fondamenta della terra, a’) Affermazione generale conclusiva 30

31

allora io ero con lui come architetto / ed ero la sua delizia ogni giorno, /dilettandomi davanti a lui in ogni istante; dilettandomi sul globo terrestre, / ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo.

In questo passo, tanto suggestivo e così bene articolato, si presentano le origini della Sapienza nel contesto della creazione cosmica. E nella prospettiva cosmica si percorre a grandi linee l’immensità dello spazio, visto per lo più dall’alto verso il basso (b, d, c’, b’), eccetto in due casi in cui, al contrario, lo sguardo muove dal basso verso l’alto, precisamente quando si parla delle acque superiori (c, d’)6. Nonostante questo movimento

6 L’“abisso” (v. 24: tehomot, plur.; vv. 27 e 28: tehom, sing.) può indicare (cfr. F. ZORELL, Lexicon hebraicum et aramaicum Veteris Testamenti [Roma: Pontificium Institutum Biblicum, 1957], s.v., 889) sia le acque del caos primordiale (Gen 1,2; Sal 104,6) e sia le acque dell’“oceano” sotterraneo (Gen 7,12; 8,2; 49,25; Ez 31,4.16; Am 7,4). Qui, secondo quanto si dice più chiaramente nei vv. 27-28 si tratta delle acque primordiali, che ora sono visivamente localizzate nei cieli, cioè in alto. Si ha così uno sviluppo dell’immagine spaziale indicata nel Sal 104,6, dove si dice che queste acque “coprivano” la terra, quindi stavano in alto rispetto ad essa. Diversamente J.-N. ALETTI, “Proverbes 8,22-31. Étude de structure”, Biblica 57 (1976), 25-37, spec. 33, e M. GILBERT, “Le discours de la Sagesse en Proverbes, 8. Structure et cohérence”, in La sagesse de l’Ancien Testament (BETL 51; ed. M. GILBERT; Leuven: University Press, 1990), 202-218, spec. 211s, i quali, pur sottolineando l’importanza della doppia direzione “basso/ alto”, mettono l’abisso di Pr 8, 24.27-28 in basso.

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irregolare, si può vedere in questo quadro uno schema chiastico7, come è indicato dalle lettere a, b, c, d, d’, c’, b’, a’, in quanto al centro si ha la bipartizione fondamentale terra-cielo (d, d’) incorniciata immediatamente dalla doppia menzione delle acque, prima quelle superiori (c) e poi quelle terrestri (c’). Qui l’autore del testo dà prova di una grande immaginazione, perché sa trasferirsi idealmente agli inizi della creazione, quando la Sapienza poteva scorazzare gioiosamente davanti a Dio in uno spazio immenso, che può essere ora idealmente ripercorso guardando verso le altezze del cielo e verso le più remote estremità della terra. Siccome si parte da Dio, predomina il movimento dello sguardo dall’alto verso il basso. In questo modo il cosmo viene considerato come una struttura simmetrica in modo da formare nel suo insieme un quadro ben articolato e ben definito. Il cap. 8 si chiude con quest’invito conclusivo, che fa capire come l’intenzione più profenda della descrizione precedente è parenetica, in quanto vuole suscitare negli uomini stessi l’accoglienza della Sapienza: 32 33 34

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Ora, figli, ascoltatemi: / beati quelli che seguono le mie vie! Ascoltate l’esortazione e siate saggi, / non trascuratela! Beato l’uomo che mi ascolta, / vegliando ogni giorno alle mie porte, / per custodire attentamente la soglia. Infatti, chi trova me trova la vita, / e ottiene favore dal Signore; ma chi pecca contro di me, danneggia se stesso; / quanti mi odiano amano la morte.

3) La qualifica della Sapienza nel v. 30 (’amôn) La personificazione della Sapienza, iniziata nel v. 1 culmina nella qualifica di “architetto” (30a: BC), che vuol indicare il tipo di collaborazione che essa presta accanto a Dio nell’opera della creazione. Il Testo Masoretico porta qui il termine ’amôn che ricorre ancora solo in Ger 52,15 dove è tradotto di solito “artigiano” (BC); ma in Pr 8,30 il suo significato 7 Anche R. J. CLIFFORD, Creation Accounts in the Ancient Near East and in the Bible (CBQMS 26; Washington, D.C.: Catholic Biblical Association, 1994), 183, riconosce nel brano uno schema chiastico, ma in una maniera diversa dalla nostra: a (vv. 22-23: Jahvè crea la Sapienza), b (vv. 24-26: la creazione descritta “negativamente”), b’ (vv. 27-30a: la creazione descritta “positivamente”), a’ (vv. 30b-31: intimo rapporto della Sapienza con Jahvè).

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viene elevato a quello di “architetto” o “capomastro” in ragione del contesto che esalta la posizione unica della Sapienza accanto a Dio creatore. Questa è anche la traduzione data dai dizionari (BDB8, HALAT9, DTAT10, Alonso Schökel11, Reymond12) e seguita dai traduttori (Vaccari13, Bible de Jerusalem14, TOB15) e dai commentatori (Ringgren16, de Savignac17, Bonnard18). Contro la precedente traduzione si propone, in alternativa, quella di “figlio/a o bambino/a prediletto/a”, ma cambiando la vocalizzazione di ’amôn in ’amûn, participio passato di ’aman che significa “nutrire, allattare, sostentare”, un verbo che ricorre come participio attivo femminile (“nutrice”) in 2Sam 4,4 e Rt 4,16 e maschile in Nm 11,12 (“balia”) e Is 49,23 (“tutore”). Questa seconda interpretazione si basa sulla traduzione 8 F. BROWN - S. R. DRIVER - C. A. BRIGGS, A Hebrew and English Lexicon of the Old Testament (Oxford: Clarendon Press, 1951), 54: “artificer, architect, masterworkman” per i soli due passi di Pr 8,30 e Ger 52,15. 9 W. BAUMGARTNER et al., Hebräisches und aramäisches Lexikon zum Alten Testament (Leiden: E. J. Brill, 1967), 60: “Handwerker”, con rimando all’accadico ummanu dello stesso significato; il Glossario accadico di R. BORGER, Babylonisch-assyrische Lesestücke, Heft I (Roma: Pontificium Institutum Biblicum, 1963), p. LXXXVI, traduce ummanu “Handwerker, Handwerksmeister”. 10 E. JENNI - C. WESTERMANN, Dizionario teologico dell’Antico Testamento (Torino: Marietti, 1978 [orig. ted. 1971]), 158: “artigiano, artefice”. 11 L. ALONSO SCHÖKEL, Diccionario bíblico hebreo-español (Madrid: Trotta, 1994), 71: “artesano, oficial, aprendiz”. 12 P. REYMOND, Dizionario di ebraico e aramaico biblici (Roma: Società biblica britannica & forestiera, 1995), 44: “artigiano, artefice”. 13 A. VACCARI, La Sacra Bibbia tradotta dai testi originali...,vol. V/2 (Firenze: Salani, 1958), 34: “quale architetto”. 14 La sainte Bible traduite en français sous la direction de l’École biblique de Jérusalem (Paris: Éd. du Cerf, 1961), 811: “comme le maître d’œvre”. 15 Traduction Œcuménique de la Bible. Ancien Testament (Paris: Éd. du Cerf - Les Bergers et les Mages, 1975), 1533: “maître d’œvre”; in nota: “D’autres traduisent: un enfant chéri”. 16 H. RINGGREN, Sprüche (ATD 16/1; Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1962), 39: “als Werkmeisterin” (fem.). 17 J. de SAVIGNAC, “Interpretation de Proverbes viii 22-32”, Congress Volume. Rome 1968 (VTS 17; Leiden: E. J. Brill, 1969), 196-203, 198: “artisane”, con riferimento ad una etimologia fenicia. 18 P.-É. BONNARD, “De la Sagesse personnifiée dans l’Ancien Testament à la Sagesse en personne dans le Nouveau”, in La sagesse de l’Ancien Testament (v. sopra, n. 6), 117-149, segue questa interpretazione ma applica il termine a Dio stesso, con un adattamento del suo significato fondamentale, per cui traduce “le Promoteur” (119s).

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greca di Aquila tiqhnoumenh, participio passivo femminile di tiqhnew “allattare, carezzare”, che perciò si riferirebbe ad una figura femminile infantile “allattata o accarezzata”. Questa interpretazione è sostenuta da von Rad19, Schmid20, Zimmerli21, Rüger22, Gilbert23. Sono diverse la traduzioni che la preferiscono, da sola (NEB24, EÜ25), o aggiungendo in nota l’altra traduzione alternativa (ZB26, RSV27 TILC28). La Settanta invece porta a armozou, participio attivo femminile di armozw “congiungere, adattare, costruire” (da cui deriva armonia “armonia, adattamento”), che dovrebbe essere tradotto “colei che adattava le cose” a Dio o al suo progetto29. In questo modo si può vedere come le due traduzioni greche citate riportano due diverse tradizioni interpretative, l’una di tipo “tecnico” (Settanta), che si riflette nella resa del 19

G. von RAD, Theologie des Alten Testamens I (München: Chr. Kaiser, 1961), 446: “Liebling” o “Hätschenkind”, tradotti nella Teologia dell’Antico Testamento I (Brescia: Paideia 1972), 502, rispettivamente “beniamino” e “prediletto”. 20 H. H. SCHMID, Wesen und Geschichte der Weisheit. Eine Untersuchung zur altorientalischen und israelitischen Weisheitsliteratur (BZAW 101; Berlin: A. Töpelmann, 1966), 150: “Liebling” Gottes. 21 W. ZIMMERLI, Grundriß der alttestamentlichen Theologie (Theologische Wissenschaft 3; Stuttgart: Kohlhammer, 1972): “als Kind”. 22 H. P. RÜGER, “’Amôn - Pflegekind. Zur Auslegungsgeschichte von Prov 8:30a”, in Übersetzung und Deutung. Studien zum Alten Testament und seiner Umwelt A. R. Hulst gewidmet von Freunden und Kollegen (Nijkerk: Callenbach, 1977), 154-163, riferisce in maniera dettagliata le posizioni degli autori antichi e moderni e difende la traduzione con “Pflegekind” (bambino accudito) per lo stesso ’amôn sulla base della tradizione ebraica, senza postulare un originario ’amûn; segue questa interpretazione anche E. OTTO, Theologische Ethik des Alten Testaments (Theologische Wissenschaft 3,2; Stuttgart-BerlinKöln: Kohlhammer, 1994), 164. 23 M. GILBERT, “Le discours de la Sagesse” (v. sopra, n. 6), 213: “nourrisson”. 24 The New English Bible with the Apocripha (Oxford University Press - Cambridge University Press, 1970): “his darling and delight”. 25 Die Bibel. Altes und Neues Testament. Einheitsübersetzung (Freiburg - Basel Wien: Herder, 1980): “als geliebtes Kind”. 26 Zürcher Bibel (Zürich: Verlag der Zwingli-Bibel, 1942), 655: “als Liebling”; in nota: “Werkmeister”. 27 The Bible. Revised Standard Version (The British & Foreign Bible Society, 1952), 512: “like a master workman”; in nota: “little child”. 28 Parola del Signore. La Bibbia. Traduzione interconfessionale in lingua corrente (Leumann - Roma: Elle Di Ci - ABU, 1985), 907: “come un bambino”; in nota: “come un architetto” o “un capomastro”. 29 Questa Lezione – ma non c’è bisogno di contrapporla a quella del TM – è preferita da G. BERNINI, Proverbi (NVB 19; Roma: Paoline, 1978), 185: “come ordinatrice”, precisando nella nota testuale: “coi LXX; il TM ha: come artefice”.

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termine ’amôn con “architetto” e simili, e l’altra di tipo “affettivo” (Aquila) che suppone la lettura dell’ebraico come ’amûn (o anche ’amôn, mantenendo la vocalizzazione masoretica)30 e che fa pensare ad una bambina ancora in età di allattamento31. Sulla stessa linea dell’interpretazione “tecnica” si mantengono due autori che aggiungono qualche nuova precisazione. Essi connettono il termine ’amôn ancora una volta con l’accadico ummanu che fondamentalmente significa artigiano (Handwerker), ma con la connotazione speciale che può pure avere l’architetto di corte, di confidente32 del re o addirittura di saggio33. Una terza ipotesi di traduzione, appellandosi al Targum, cambia la vocalizzazione di ’amôn in ’emûn, che significa “fedele” o “fedeltà”34. Ma complessivamente sono state riscontrate ben sei ipotesi35, tra le quali le tre ricordate sono le più sostenute.

4) Lo sfondo storico-religioso L’interpretazione che abbiamo definito convenzionalmente di tipo “affettivo” trova un ottimo riscontro storico-religioso negli antichi testi mitologici egiziani, che parlano della dea Maat, figlia del dio creatore Atum, e che sono stati studiati da Christa Kayatz proprio in funzione di

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Cfr. la nota 22. Nel Lexicon hebraicum et aramaicum di F. ZORELL (v. sopra, n. 6), 62, si riportano entrambe queste traduzioni, ma senza prendere posizione: artifex e parvulus, filiolus percarus. 32 W. McKANE, Proverbs. A New Approch (OTL; London: SCM Press, 1970), 223: “as his confidant”. 33 CLIFFORD, Creation Accounts (v. sopra, n. 6), 183: “a sage”. 34 J. LÉV QUE, “L’insegnamento dei saggi”, in L. MONLOUBOU et al., I Salmi e gli altri Scritti (Piccola Enciclopedia Biblica 5; Roma: Borla, 1991), 128, mentre scarta la traduzione di “figlio prediletto”, considera ugualmente probabile le altre due di “architetto” e di “fedele”. Quest’ultima interpretazione era preferita da P.-E. BONNARD, La sagesse en personne annoncée et venue: Jésus Christ (LD 44; Paris: Éd. du Cerf, 1966), 21s., ma applicandola a Dio stesso ( “auprès de lui, la fidélité même”); cfr. la posizione più recente di Bonnard, sopra, n. 18. 35 SCHMID, Wesen und Geschichte (v. sopra, n. 20), 150, nota 40, con relativa bibliografia. 31

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Pr 1-936. L’antica religione egiziana è politeistica e concepisce le varie divinità come “personificazioni” degli elementi naturali da una parte e di certe qualità morali dall’altra; i rapporti tra queste realtà si rappresentano perciò come rapporti interpersonali delle diverse divinità che le rappresentano. Così le osservazioni del mondo naturale si proiettano per mezzo di trasposizioni simboliche nel mondo divino. Il dio della creazione Atum è il dio Sole; il suo nome significa “tutto” e anche “nulla”. I suoi figli Shu (maschio) e Tefnut (femmina), che significano “aria” e “umidità”, procrearono il cielo e la terra37. Ma ad un certo momento dell’evoluzione della tradizione mitica, Tefnut, che indicava una realtà fisica, viene identificata con Maat, che indica invece una qualità morale, la giustizia o rettitudine. Il testo fondamentale utilizzato per questo accostamento si trova nei Testi dei Sarcofagi38: “Atum (il dio della creazione) diceva: questa è mia figlia, vita, Tefnut. Essa deve stare insieme a suo fratello Shu. Vita è il nome di lui, Maat è il nome di lei. Io vivo insieme ai miei due figli, i miei ‘piccoli’. Così io sono in mezzo a loro: uno di loro è avanti a me e uno dietro a me. Vita (= Shu) dorme insieme a mia figlia Maat … Io mi innalzavo sopra di loro, mentre le loro braccia erano (ancora) attorno a me … Nun (= le acque primordiali) diceva a Atum: bacia tua figlia Maat, dopo che l’hai posta sul tuo naso, allora il tuo cuore vivrà. Essa mai deve abbandonarti. Questa è tua figlia, Maat, e tuo figlio è Shu, il cui nome è vita. Tu mangerai da tua figlia Maat, mentre il tuo Shu si solleva in alto”39. Così commenta la Kayatz: “La Maat viene qui immaginata come una bambina, come una piccola che sta ‘davanti’ al dio. Con varie espressioni viene descritta l’affettuosa relazione che egli ha con la bambina Maat”40.

36 C. KAYATZ, Studien zu Proverbien 1-9. Ein form- und motivgeschichtliche Untersuchumg unter Einbeziehung ägyptischen Vergleichsmaterials (WMANT 22; Neukirchen-Vluyn: Neukirchener Verlag, 1966). 37 J. A. WILSON, “L’Egitto”, in La filosofia prima dei Greci. Concezioni del mondo in Mesopotamia, nell’antico Egitto e presso gli Ebrei (ed. H. e H. A. Frankfort; Torino: Einaudi, 1963), 72. 38 Cfr. E. BRESCIANI, Letteratura e poesia dell’antico Egitto (I millenni; Torino: Einaudi, 1969), 51s. 39 Nostra traduzione del testo tedesco della KAYATZ, Studien, 93s, che traduce a sua volta dall’editio princeps in inglese: A. DE BUCK - A. H. GARDINER, The Egyptian Coffin Texts (Oriental Institute Publications; Chicago: University of Chicago, 1935-61). 40 KAYATZ, Studien, 97. Nell’ultima sua opera Weisheit in Israel (Neukirchen-Vluyn: Neukirchener Verlag, 1970), 199 (tr. it. La sapienza in Israele, Casale Monferrato, Marietti,

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A proposito della Maat si può riportare la breve sintesi che ne traccia l’egittologo J. Assmann: “Antica dea egiziana della giustizia (verità, ordine). Sulla prua della ‘barca del Sole’ essa, fatta apparire ogni giorno di nuovo come giustizia cosmica, aiuta il dio Sole ad avere vittoria sulle potenze del caos che gli vanno contro come nemici (specialmente Apofis, il gigantesco serpente delle acque); come dea della prima ora del giorno essa porta in sé il principio della ‘salvezza del mattino’. Sulla terra essa viene ‘realizzata’ dal re come diritto degli dèi (costruzione dei templi, offerte cultuali), come diritto dei morti (offerte per i morti) e come diritto degli uomini (‘salvare i poveri dai forti’: giustizia come protezione dall’oppressione … Il culto regale del Sole viene qualificato come un ‘far sorgere la Maat’: la giustizia realizzata dal re contribuisce alla riuscita dell’ordine cosmico”41. Ma oltre alla precedente influenza egiziana42, che sembra la più convincente, si devono ricordare almeno altre due ipotesi, l’una che si rifà all’ambiente mesopotamico e l’altra a quello palestinese cananeo43. Entrambe si muovono nell’ambito del dibattito che si è sviluppato da qualche decennio sulla formazione del monoteismo nell’antico Israele. Prima della sua affermazione che si sarebbe raggiunta solo durante l’esilio, sono stati praticati dei culti idolatrici che in seguito sono stati sconfessati e trasformati per venire assimilati nella forma più ortodossa della fede jahvista44. Secondo B. Lang già nella prima età monarchica era stato intro1975, 141), G. von RAD aderisce all’ipotesi della Kayatz sull’influsso egiziano in Pr 8, così come ZIMMERLI, Grundriß (n. 21), 140. 41 J. ASSMANN, voce “Maat”, Neues Bibel-Lexikon, Lief. 9 (ed. M: GÖRG B. LANG; Düsseldorf: Benzinger, 1994), 681, che sintetizza qui la sua opera maggiore Ma’at, Gerechtigkeit und Unsterblichkeit im Alten Ägypten (München: C. H. Beck, 1990). 42 Secondo OTTO, Theologische Ethik (v. sopra, n. 21), 164, in Pr 8,22-30 si può alludere non solo alla Maat, ma anche alla dea Hathor, con rimando a O. KEEL, “Die Wisheit ‘spielt’ vor Gott”. Ein ikonographischer Beitrag zur Deutung des mesaheqet in Spr 8,30f”, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie 21(1974), 1-66, 31ss. 43 Nel loro consuntivo, a queste tre ipotesi MURPY, “Personification” (v. sopra, n.2), 223, e HADLEY, “Wisdom and the goddess” (v. sopra, n. 1), 235, aggiungono ancora rispettivamente l’uno, l’ellenistica Iside e una eventuale divinità gnostica, e l’altra, la mesopotamica Inanna e perfino una divinità persiana. 44 Su tutta questa questione cfr. N. LOHFINK, “Per una storia della discussione sul monoteismo nell’Israele antico”, in N. LOHFINK et al., Dio l’Unico. Sulla nascita del monoteismo in Israele (Quaestiones disputatae; Brescia: Morcelliana, 1991), 7-24, con l’ampia bibliografia curata da J. SCHABERT e riportata alla fine, 127- 147.

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dotto dalla Mesopotamia in Israele il culto della dea Sapienza; essa è stata poi “detronizzata” e in Pr 8 è stata ridotta alla pura raffigurazione letteraria di un attributo di Jahvè45. Secondo un’altra ipotesi, bisogna riferirsi all’ambiente cananaico preisraelitico, che dal punto di vista storico-religioso ci vien fatto conoscere soprattutto dai testi di Ugarit. Qui la divinità suprema è El, mentre la sua paredra è Ashera, che era chiamata anche “creatrice e madre degli déi” e “maestra degli déi in sagezza”46. Nel sincretismo religioso determinatosi in Israele deve essere penetrato anche il culto di questa dea; peraltro è più facile rilevare come alcuni tratti caratteristici del dio El, ed anche di Baal, il dio che era di fatto considerato il più attivo e perciò era il più venerato, sono stati assimilati nella stessa rappresentazione di Jahvè47. Il movimento profetico e deuteronomico si è poi impegnato energicamente per purificare la religione jahvista dalle contaminazioni cananaiche e perciò ha combattuto anche contro il culto di Ashera, il cui idolo era costituito da un palo sacro piantato nell’area del santuario o sulle colline48. Nel dopoesilio, lo sdradicamento del culto della dea Ashera avrebbe suggerito una sua sostituzione con la personificazione della Sapienza49. 45 B. LANG, voce “Wisdom”, Dictionary of Deities and Demons inthe Bible (ed. K. van der TOORN et al.; Leiden - New York - Köln: E. J. Brill, 1995), 184-195, dove riassume il suo libro Wisdom and the Book of Proverbs: A Hebrew Goddess Redefined (New York: Pilgrim, 1986), traduzione aggiornata del precedente Frau Weisheit. Deutung einer biblischen Gestalt (Düsseldorf: Patmos, 1975). 46 L. MONLOUBOU - F. M. Du BUIT, Dizionario Biblico storico/critico (Roma: Borla, 1987) 124; per una presentazione aggiornata della documentazione relativa a questa dea si veda N. WYATT, voce “Asherah”, Dictionary of Deities and Demons (v. sopra, n. 44) 184-195. 47 Secondo E. OTTO, “El und Jhwh in Jerusalem. Historische und theologische Aspekte einer Religionsintegration”, Vetus Testamentum 30(1980), 316-329, i caratteri di Baal, dio “vicino”, sono trasferiti in epoca israelitica a Jahvè, dopo che erano già stati integrati, nell’ambiente della Gerusalemme gebusea predavidica, nella figura di El, il dio “lontano”, in un periodo di decadenza politica in cui era diminuita l’importanza di Baal. 48 Lo stesso termine ’a¡erah, che ricorre nell’AT 40 volte, indica in ebraico sia la dea (per es. in 2Re 17,16; 21,3, ecc.) e sia il palo sacro (per es. Dt 7,5; 12,3; 16,21, ecc.) che la simboleggia: HALAT (v. sopra, n. 9), s.v., 96. 49 È questa la tesi di HADLEY, “Wisdom and the goddess” (v. sopra, n. 1), 243: “… the gradual eradication (or assimilation into Yahweh) of legitimate goddesses such as Asherah has prompted a counter-reaction where the femine needs to be expressed”. L’autrice annuncia l’imminente pubblicazione della sua opera principale Evidence for a Hebrew Goddess: The Cult of Asherah in Ancient Israel and Judah, Cambridge.

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5) Considerazione teologica Non deve stupirci questo ricorso alle altre religioni e culture da parte degli studiosi moderni, giacché di esse possiamo riscontrare a vario titolo numerose tracce nell’Antico Testamento, da quando si sono scoperte a loro riguardo numerose testimonianze archeologiche, letterarie ed epigrafiche già a partire dal secolo scorso. Così ci si rende conto del fatto che Israele è esposto a tante influenze esterne di vario genere, perché è profondamnete radicato nell’ambiente storico di cui fa parte. Tutto ciò dimostra la partecipazione effettiva del popolo di Dio alla storia dell’umanità, che mostra nelle diverse religioni i vari filoni della sua secolare riflessione sul mistero perenne dell’esistenza. La luce della rivelazione penetra lentamente e discretamente questo involucro di concezioni e simboli religiosi, assumendoli e purificandoli in modo che possano ora veicolare, nel discorso biblico, un messaggio che deriva più direttamente da Dio50. Così vediamo come la figura mitologica di una divinità femminile, che comunque rappresenta già un valore umano significativo (la giustizia, la sapienza, ecc.), lascia la sua impronta letteraria nel modo di parlare di un attributo di Jahvè, quello della sapienza con la quale egli ha creato il mondo. Non si sarebbe giunti a tanta vivacità e concretezza nella “rappresentazione” letteraria di questa prerogativa divina partendo dal solo “concetto” della sapienza di Dio, se non ci fosse stato l’influsso di certe figure mitologiche, che in varie forme affollavano l’animo religioso degli uomini di quel tempo. È vero che così si compie una demitizzazione, declassando il profilo di una dea a pura figura letteraria di un attributo di Jahvè, ma è anche innegabile che per questa via si riesce a dare ad esso più spessore e incisività. Se poi vogliamo riflettere ancora sull’idea teologica che si mette a fuoco in questa personificazione della Sapienza vista nella sua partecipazione all’opera della creazione, allora occorre riflettere sul rapporto che si può stabilire tra la creazione e la sapienza. A partire dall’esperienza concreta e quotidiana si scopre nel pensiero veterotestamentario l’importanza del comportamento saggio dell’uomo, che consiste soprattutto nel 50 Cfr. Th. C. VRIEZEN, “The study of the Old Testament and the History of Religion”, Congress Volume. Rome 1968 (VTS 17; Leiden: E. J. Brill, 1969), 1-24 e S. TALMON, “The ‘comparative method’ in biblical interpretation - principles and problems”, Congress Volume. Göttingen 1977 (VTS 29; Leiden: E. J. Brill, 1978), 320-376, che presentano, insieme all’indicazione di alcuni retti criteri metodologici, una ricca panoramica degli studi in questo campo.

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tener conto delle “regole” che in qualche modo si celano nella realtà del mondo, cioè nella creazione di Dio51.Ciò presuppone che anche Dio è sapiente, e manifesta la sua sapienza nella creazione. “Il Signore ha fondato la terra con la sapienza, ha consolidato i cieli con intelligenza, dalla sua scienza sono stati aperti gli abissi e le nubi stillano rugiada”, si diceva già in Pr 3,19-20. In realtà, nella creazione c’è un ordine che è il riflesso della sapienza di Dio. Quando l’uomo, nel suo pensiero e nella sua prassi, tien conto di questo ordine “creaturale” partecipa anche lui alla logica della stessa sapienza di Dio52. Ma grazie a questa confluenza, la sapienza, che dal punto di vista pratico è ricerca del bene, con la suggestiva descrizione lirica ricca di richiami cosmici che troviamo in Pr 8, diventa pure amore del bello. Cercando e seguendo la sapienza, l’uomo si sente a suo agio nel mondo creato, perfettamente integrato tra gli elementi fisici che lo compongono. Essi rivelano ai suoi occhi lo spettacolo di una grandiosità per nulla terrificante, ma affascinante, provvida e armoniosa.

51 Anche secondo E. OTTO, l’etica sapienziale dell’Antico Testamento si fonda nell’ordine della creazione, ciò che consente un confronto sia con il pensiero egiziano, incentrato sulla Maat come principio di ordine, e sia con quello mesopotamico, che è invece più sensibile al “disordine” del mondo: “Ethos und Schöpfungsordnung: Die Ethik der Weisheit”, in Theologische Ethik (v. sopra, n. 22), 117-152. 52 Cfr. G. A. YEE, “The Theology of Creation in Proverbs 8:22-31”, in Creation in the Biblical Traditions (CBQMS 24; ed. R. J. CLIFFORD - J. J. COLLINS; Washington, D. C., 1992), 85-96: “Divine and human wisdom find their unity in the personification of Woman Wisdom. Sustaining this mysterious unity, Woman Wisdom represents divine immanence in the created world of humanity. She is revelatory of God as well as of the human capacity to try to understand this God in the created world” (90).

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8 SACERDOZIO, CORTE E POPOLO NEL LIBRO DI GEREMIA [1997]

Introduzione storica Geremia è il profeta che riflette ed incarna nella sua vita il momento più drammatico della storia d’Israele nell’AT. Egli si trova a vivere a Gerusalemme negli anni in cui l’esperienza plurisecolare della monarchia nazionale volge al suo termine sotto i colpi della doppia capitolazione di Gerusalemme, a dieci anni di distanza l’una dall’altra, davanti all’esercito babilonese di Nabucodonosor. Dal 627 al 587, egli è il testimone solitario (15,17) e incompreso, per quaranta anni, di questo precipitare degli eventi verso la rovina totale di Gerusalemme e di Giuda, del tempio e della dinastia davidica. Il potere politico e quello religioso si dimostrano indifferenti ed ostili ai suoi moniti e ai suoi suggerimenti e così non riescono ad evitare la catastrofe da lui prevista e annunziata con appassionata e sofferta partecipazione. Eppure quello che colpisce in questo profeta deriso e sofferente è che mentre assiste lucido e impotente all’inesauribile rovina della nazione, alla fine ne annunzia pure la rinascita, con delle immagini ricche di prorompente e festosa vitalità che riguardano la ricostruzione della città e la rinnovata fecondità della campagna. Egli impersona ed interpreta nella sua storia, nel suo animo e nelle sue parole la densissima storia del suo popolo in questo singolare periodo. L’epoca di Geremia è ricca di avvenimenti, prima di tutto sul piano internazionale e, di riflesso, su quello nazionale. Nel 627, quando inizia la sua predicazione governa a Gerusalemme il re Giosia (640-609; cf. 2 Re 22-23, 29); questo lontano erede di Davide, approfittando dell’attuale indebolimento dell’Assiria persegue un programma di ripresa nazionale e religiosa con il tentativo di riannettersi parte del territorio settentrionale che era caduto appunto sotto la dominazione assira nel lontano 722, con la presa di Samaria, la capitale del regno settentrionale d’Israele. Nel 609 la morte precoce di Giosia in battaglia si consuma al centro dello scontro delle tre massime potenze politiche e militari del momento. Infatti egli viene ucciso in suolo palestinese dagli egiziani, mentre questi andavano in soccorso

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degli assiri attaccati dalla nascente potenza dei babilonesi, che si affermerà irresistibilmente con la sconfitta definitiva dei secondi nel 606 ad Harran, e con quella, soltanto provvisoria, dei primi nel 605 a Carchemish. Intanto Ninive, la capitale degli assiri, era già caduta sotto l’assalto dei babilonesi nel 625. D’ora in poi la scena internazionale sarà dominata dal re Nabucodonosor (605-562), che sarà l’artefice delle due successive conquiste di Gerusalemme nel 597 e del 587, con le conseguenti due deportazioni per l’esilio in Babilonia. Sullo sfondo di questa situazione internazionale prende corpo la vicenda politica e religiosa del piccolo regno di Giuda, nella cui capitale, Gerusalemme, il profeta Geremia vive gli anni culminanti della crisi finale. Siedono sul trono gli ultimi discendenti della dinastia davidica, ma già le loro convulse vicende registrano le pesanti interferenze straniere tipiche di questo travagliato periodo. Dopo la caduta di Giosia gli succede il figlio Ioacaz (2 Re 23,30-35), che solo tre mesi dopo è deposto dal faraone Necao e sostituito con il fratello Oiiakim (2 Re 23,36-24,7). Quando questi muore dopo dodici anni di regno, gli succede il figlio IoaKin (2 Re 24,8-17), che da Nabucodonosor fu deposto ed esiliato nella rpima deportazione del 597, per essere sostituito con lo zio Sedecia, Figlio del passato re Giosia (2 Re 24,18-25,21). Il contesto nazionale su cui si muove perciò Geremia è caratterizzato dai tre re che si succedono sul trono di giuda: Giosia, Ioiakim e Sedecia. Si tratta di tre re di indole diversa, che perciò condizionano diversamente il comportamento del profeta1. Dal punto di vista critico è difficile ordinare diacronicamente i materiali contenuti nel libro di Geremia, che ha avuto indubbiamente una gestazione redazionale varia e complessa, prolungatasi nella cerchia dei suoi discepoli che hanno pure rielaborato con delle aggiunte il suo messaggio originario. Tenendo conto di questa problematica storico-letteraria nel titolo della relazione si parla non di Geremia, nel senso del Geremia storico, ma del libro di Geremia, così come è nelle nostre mani2. 1 Per una visione d’insieme della storia di questo periodo, si veda S. Herrman, Storia di Israele, Queriniana, Brescia 1979, (orig. Ted. 1973), 351-380; J. A. Soggin, Storia d’iraele, Paideia, Brescia 1984, 362-379; H. Cazelles, Storia politica d’Israele, Borla, Roma 1985,179-190, nonché A. Malamat, “The Twilight of Judah: in the Egyptian-Babylonian Mealstrom”,Congress Volume Edinburgh 1974 (VTS 28), E.J.Brill, Leiden 1975, 123-1433. 2 La rassegna ctitica di R.P. Carrol, “Argiung about Jeremiah: Recent Studies and the Nature of a Prophetic Book”, Congress Volume Leuven 1989 (VTS 43), E. J. Brill, Leiden 1991, 222-235, mostra come I tre recenti commentary del libro di Geremia oscillano da una

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Il tema annunciato di questa relazione distingue tre soggetti diversi come referenti dell’attività e della predicazione di Geremia: il sacerdozio, la corte e il popolo. In esso abbiamo messo al primo posto il sacerdozio per tener conto dell’ottica di fondo di questo convegno che parte dal nostro tempo. In realtà, per l’epoca di Geremia si deve mettere al primo posto la corte, e cioè il potere politico rappresentato dal re, e dopo il sacerdozio, che era subordinato alla corte della quale il tempio era parte integrante. Accanto a questi due ambiti settoriali collochiamo la globalità del popolo, il cui destino, nelle parole del profeta, a volte si identifica con quello della corte e del tempio e a volte se ne distacca, per sopravvivere alla loro distruzione. La nostra esposizione si divide perciò in due parti: 1) le deficienze della corte e del sacerdozio; 2) colpa, castigo e rinascita del popolo.

1. LE DEFICIENZE DELLA CORTE E DEL SACERDOZIO Come abbiamo già detto, il contesto storico in cui si inquadra l’azione di Geremia è tracciato dal pe5riodo di regno dei tre re che gli sono successivamente contemporanei. L’atteggiamento del profeta nei loro confronti è, nella sua coerenza di fondo, di fatto diversificato, in quanto tien conto del loro diverso carattere e della diversa situazione storica nella quale essi operano3.

posizione più tradizionale a quella più critica, secondo questo orrdine: W.L. Holladay, Jeremiah 1: A Commentary on the Book of the prophet Jeremiah. Chapters 1-25; Jeremiah 2: A Commentary on the Book of the Prophet Jeremiah, Champters 26-52, Philadelphia 1986. 1989; W. McKane, A Critical and Exegetical Commentary on Jeremiah. Introduction and Commentary on Jeremiah I-XXV, Edinburg 1986; R.P. Carrol, Jeremiah: A Commentary, London and Philadelphia 1986. Sugli ultimi due si veda pure J.A. Soggin, “Due nuovi commentari a Geremia”, Prot. 42 (1987) 148-151. 3 Qui seguiamo lo schema storico proposto da A. Gelin, “Jérémie”, in A. Robert – A. Feuillet (dir.), Introduction à la Bible, I Tournai 1959,519-533; Gelin aveva già curato Geremia nel Supplément au Dictionnaire de la Bible, Paris 1948, 857-889, e ne La Bible de Jerusalem, Paris 1951. Le sue posizioni si trovano riassunte nell’introduzione e nelle note a Geremia nella Bibbia di Gerusalemme, Devoniane, Bologna 1974. pre una disposizione storica dei materiali del libro si veda anche G. Savoca, I Profeti di Israele voce del Dio vivente, Dehoiane, Bologna 1985, 114-144.

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a) Il re Giosia (640-609) Questo re è celebrato in 2 Re 22-23 per quella che nell’esegesi moderna si chiama la riforma deuteronomica, ispirata cioè al codice che costituisce il centro del libro di Deuteronico, nei cc. 12-26, e che si colloca nel 622. Essa intendeva sopprimere i culti idolatrici nel tempio di Gerusalemme ed abolire tutti gli altri santuari del territorio del regno, che dovevano a maggior ragione essere invischiati nell’idolatria. La centralizzazione del culto che ne conseguiva deve aver spinto Geremia, discendente dell’antica famiglia sacerdotale di Ebiatar che il re Salomone aveva espulso dal servizio del tempio regio (1 Re 2,26s), a trasferirsi a Gerusalemme dal suo villaggio di Anatot, situato soltanto 6 chilometri a nord della città, per continuarvi la sua predicazione già iniziata da qualche anno, nel 627 (1,1). Anche se la riforma religiosa del re Giosia, eseguita con metodi violenti e sommari, era ispirata dal motivo politico di riaffermare l’identità nazionale nel momento in cui si avvertiva la decadenza dell’Assiria, sempra verosimile che Geremia l’abbia approvata perché era in sintonia con la sua predicazione, che era da poco iniziata deplorando l’apostasia del popolo da Jahvè4. Tre passi del libro suggeriscono una certa simpatia di Geremia per l’opera riformatrice del re Gioisca: a) nell’invettiva rivolta contro il suo successore e figlio, Ioiakim, in 22,13-19, Geremia fa un elogio del padre; b) il discordo di Geremia sull’alleanza in 11,1-14 può collegarsi in qualche modo con la rinnovazione dell’alleanza promossa dal re Gioisca e il suo programma di riannessione del territorio settentrionale che poteva sottrarsi alla dominazione assira ormai in declino, si può collocare il primo nucleo delle promesse dei cc. 30-31, relativo alla riunificazione del residuo dell’antico regno d’Israele con il regno di Giuda. Però, nonostante questa convergenza tra Geremia e la politica religiosa di Gioisca, è sintomatico il fatto che essa rimane nell’ombra, nel senso che il profeta non figura chiaramente come un sostenitore ufficiale dell’iniziativa del re. Così si può spiegare perché né nel libro dei Re né in quello di Geremia si parli esplicitamente di una qualche implicazione del profeta nella riforma di Gioisca. Ma la caduta in battaglia del re compromette definitivamente il tentativo di realizzare una riforma religiosa attra4 Così anche R. Rendtorff, Introduzione all’Antico Testamento, Claudiana, Torino 1990 (orig. Ted. 1988), 274.

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verso l’intervento istituzionale del re, in modo che in seguito la guida religiosa del popolo sarà lasciata di fatto esclusivamente alla missione di due profeti, Geremia a Gerusalemme5 e Ezechiele a Babilonia6. b) Il re Ioiakim (609-597) Già abbiamo ricordato che Geremia ne dava un giudizio negativo rispetto al padre Giosia. Ioiakim è messo sul trono dal faraone Necao che depone il fratello Iocaz dopo solo tre mesi di regno, per mettere così il regno di Giuda sotto la sua tutela. Ma intanto cresce la potenza di Babilonia, la cui minaccia si fa sentire presto a Gerusalemme. Ioakim è costretto ad accettare un atto di sottomissione a Nabucodonosor, ma nello stesso tempo spera che potrà sottrarvisi con l’aiuto dell’Egitto. Da ora in poi questa tendenza filoegiziana della corte sarà contrastata da Geremia, che giudica cosa saggia assoggettarsi alla Babilonia, la cui potenza gli sembra inbattibile (25,17-38). Il popolo da parte sua confidava nel tempio come luogo sacro che garantisce la protezione divina sulla città. Contro questa falsa speranza Geremia predica all’ingresso del tempio che la salvezza della città non dipende dal luogo sacro, ma dalla condotta dei suoi abitanti (7,26). L’opposizione e l’indifferenza di Ioiakim di fronte a Geremia si manifesta sfacciatamente e penosamente quando taglia e brucia a poco a poco il rotolo su cui erano stati scritti i discorsi del profeta, aman mano che gliene veniva fatta la lettura (36,23). Avendo, infine, Ioiakim tentato di sottrarsi al dominio di Nabucodonosor, ne provoca con la sua ribellione un intervento repressivo, che dopo l’assedio e la capitolazione di Gerusalemme culmina nella prima deportazione, nella quale viene incluso pure il figlio Ioakin, che gli era succeduto sul trono solo da un anno. In sostituzione di lui, Nabucodonosor affida il trono di giuda allo zio Sedecia, che era figlio 5

Si può addirittura pensare che sullo sfondo della promessa della nuova alleanza scritta nei cuori direttamente da Dio (31,31-34) ci sia anche la delusione per il fallimento della riforma promossa dal re, come afferma R. Martin-Achard, “Quelques remarques sur la nouvelle alliance chez Jérémie”, Questions disputées d’Ancient Testament. Méthode et théologie (BETL 33), Leuven University Press, Louvain 1974, 141-164: “la nouvelle alliance de Jérémie est la résponse du prophète à l’échec da la réforme deutéronomiste » (163). 6 In analogia con la nuova alleanza di Geremia, Ezechiele (ca. 593-585) annunzia il dono del cuore nuovo: Ez 11,19-20; 36, 25-27; cfr. W. Zimmerli, Ezechiel. Gestalt und Botschaft (Bibliche Studien 62), Neukirchen-VluYn 1972, 116ss.

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di Gioisca; egli avrà un regno di dieci anni, tra la prima deportazione del 597 e la seconda del 587. c) Il re Sedecia (597-587) Sedecia, pur essendo stato messo in trono da Nabucodonosor, a causa del suo carattere debole soggiace agli intrighi della corte, che spera – come al solito – di ribellarsi a Babilonia con l’aiuto egiziano. Ma questa politica antibabilonese, apertamente osteggiata da Geremia, provocherà il secondo assedio di Gerusalemme che, con la caduta della città nel 587, porterà alla fine del regno, alla distruzione del tempio e all’esilio in Babilonia. Per tutto il tempo di Sedecia, Geremia, moralmente isolato nella città santa, guarderà con più fiducia ai giudei condotti in Babilonia nella prima deportazione del 597. A loro indirizza questa bella lettera di incoraggiamento: «Così dice il Signore degli esercita degli eserciti, Dio di Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusalemme a Babilonia: Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie; costoro abbiano figlie e figli. Moltiplicatevi lì e non diminuite. Cercate il benessere (shalom) del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere» (29,4-7)7. Ma a Gerusalemme la sua posizione favorevole alla sottomissione ai babilonesi diventerà più provocatoria durante l’assedio finale della città, quando egli propugna apertamente la resa di fronte agli assediamenti. Sembra peraltro che il re Sedecia avesse stima di Geremia, ma non riusciva ad accettarne il consiglio, perché era osteggiato dai suoi consiglieri nei quali prevaleva la fiducia nell’appoggio egiziano. Una prima volta è lo stesso Geremia a recarsi dal re per consigliargli la resa, che avrebbe salvato almeno la sua vita (34,1-5). Ma a causa di questa sua linea politica Geremia è considerato un disfattista e un traditore della patria, perciò è messo in prigione dove rimane fino alla capitolazione della città. Nel carcere egli ha un ultimo incontro con il re Sedecia, che questa volta prende l’iniziativa di andarlo a consultare in forma privata, mostrando ormai l’impotente tragicità della sua condizione che non può più evitare il peggio (38,14-28). 7 Questo invito al matrimonio e alla procreazione rivolto agli esuli in Babilonia risulta più impressionante in quanto è in contrasto con il celibato scelto da Geremia a Gerusalemme, per mostrare come la città e la sua popolazione non hanno futuro (16,1-9).

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Quando finalmente i babilonesi entrarono in città, il re cercò di fuggire con la famiglia di notte, ma fu raggiunto dai soldati di Nabucodonosor che, riavutolo, fece uccidere i suoi figli mentre a lui fece cavare gli occhi (39,410). Geremia fu liberato dal carcere dai babilonesi che ebbero per lui riguardo (39,11-14), ma poi fu condotto controforza da un gruppo di superstiti giudei in Egitto, dove si chiude la sua storia (cc. 42-44). d) Profeti e sacerdoti Vicino ai re, sul fronte opposto a Geremia, sono spesso menzionati insieme, con una formula stereotipata, i sacerdoti e profeti (2,8; 6,9; 5,31; 6,13; 8,1; 13,13; 14,18; 18,18; 23,23s; 26,7.11.16, ecc.). Questi ultimi sono i profeti che, a differenza di Geremia, illudevano il popolo annunziando la prossima disfatta dei babilonesi; perciò si chiamano convenzionalmente falsi profeti. Come falsi profeti sono ricordati per nome Anania (c. 28), Acab e Sedecia (29,21). Per quanto riguarda l’ambiente dei sacerdoti, si menziona in particolare Pascùr, sovrintendente-capo del tempio, che fa fustigare Geremia e lo fa mettere per un giorno ai ceppi nella prigione per il suo presunto disfattismo a favore dei babilonesi (20,1s).

2. COLPA, CASTIGO E RINASCITA DEL POPOLO Sullo sfondo di questa storia pluridecennale di Geremia, possiamo ora rileggere alcuni tra quelli che ci sembrani i testi più caratteristici del suo rapportarsi con il popolo. È vero che in essi c’è la critica alla sua condotta, ma questa tradisce sempre l’intima sofferenza di chi si sente colpito in se stesso per lo stato di colpa che deve denunciare, come ancor più per la sventura conseguente che deve minacciare. Sullo sfondo dello sfacelo della nazione, che subisce le feroci crudeltà della guerra d’occupazione, al vergogna della capitolazione e dell’esilio in Babilonia e si conclude con la fuga di altri superstiti in Egitto, si leva alla fine il canto della speranza. Ascoltiamo ora cinque brani delle sue stesse parole. 1) Il peccato del popolo che ha abbandonato il suo Dio: «Recatevi nelle isole dei Kittìm e osservate, mandate pure a Kedàr e considerate bene; vedete se là è mai accaduta una cosa simile. Hai mai un popolo cambiato dèi? Eppure quelli non sono dèi! Ma il mio popolo ha commesso due

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iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua» (2,10s13).8 2) Il grido di dolore davanti all’invasione nemica: «Per lo strepito di cavalieri e di arcieri ogni città è in fuga, vanno nella folta boscaglia e salgono sulle rupi. Ogni città è abbandonata, non c’è rimasto un sol uomo. E tu, devastata, che farai? Anche se ti vestissi di scarlatto, ti adornassi di fregi d’oro e ti facessi gli occhi grandi con il bistro, invano ti faresti bella. I tuoi amanti ti disprezzano; essi vogliono la tua vita. Sento un grido come di donna nei dolori, un urlo come di donna al primo parto, è il grido sella figlia di Sion, che spasima e tende la mano: Guai a me sono affranta, affranta per tutti gli uccisi» (4, 29-31).9 3) Il pianto del profeta per le distruzioni della guerra: «I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare, perché la grande calamità è stata colpita la figlia del mio popolo, da una ferita mortale. Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti del mio popolo, da una ferita mortale. Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada; se percorro la città, ecco gli orrori della fame. Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno cosa fare» (14,17s). 4) La promessa della guarigione: «Così dice il Signore: La tua ferita è incurabile, la tua piaga è molto grave. Per la tua piaga non ci sono rimedi, non si forma nessuna cicatrice… Perché gridi per la ferita? Incurabile è la tua piaga. A causa della tua grande iniquità, dei molti tuoi peccati, io ti ho fatto questi mali … Farò cicatrizzare la tua ferita e ti guarirò dalle tue piaghe. Parola del Signore» (30,12-17). 5) E, infine, il canto della rinascita: «Ascoltate la parola del Signore, popoli, annunziatela alle isole lontane e dite: Chi ha disperso Israele lo raduna e lo custodisce come fa un pastore con il gregge, perché il Signore ha redento (padah) Giacobbe, lo ha riscattato (ga’al) dalle mani del più forte di lui. Verranno e canteranno inni sull’altura di Sion, affluiranno verso i beni del Signore, verso il grano, il mosto e l’olivo, verso i nati dei greggi e degli armeni. Essi saranno come un giardino irrigato, non languiranno. Io 8

Questo testo può riportarsi alla prima predicazione di Geremia, anteriore alla riforma di Giosia; cfr. Gelin, op. cit., 525. 9 Le due figure di donne qui stranamente accostate sono due diverse personificazioni di Gerusalemme colpita dall’invasione babilonese. Nella prima si presenta una prostituta, che ormai non può salvarsi anche se si rende bella, mentre nella seconda si tratta della donna colta dalle doglie del parto, che per il momento però non preludono ancora alla nuova nita; cfr. Caroll, Jeremiah, cit., 72ss.

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cambierò il loro lutto in gioia, li consolerò e li renderò felici, senza afflizioni. Sazierò di delizie l’anima dei sacerdoti e il mio popolo abbonderà dei miei beni. Parola del Signore» (31,10-14). A commento di questi brani, nei quali vediamo una straordinaria connessione tra il kemento iniziale e l’apoteosi finale, mi pare significativo citare quanto scrive il pensatore israelita André Neher: «È straziante leggere nel libro biblico di Geremia i capitoli della gioia e della salvezza. Sono numerosi, coloriti e diffusi in ogni pagina, quasi fossero lanciati dalla mano di un seminatore … Geremia non morirà a Gerusalemme. Scomparirà, nella deportazione, in Egitto, senza aver potuto rifarsi un’esistenza. Con altri, è stato sommerso. E la sua gioia è un canto sugli scogli. Essa non rinnega nessuna sofferenza, nessuna lacrima. Si nutre di prove e di tutte le rinunce. La sua forza le viene dalla tormenta che l’anima e l’esalta. A questo coro di gioia e di speranza partecipa soltanto chi, come lui, ha conosciuto la sofferenza, i poveri e gli abbandonati, i diseredati e gli affamati, coloro che muoiono nel deserto e quelli che vegliano nella tomba»10.

Conclusioni Alla fine di questa rievocazione fondamentalmente storica – anche se non storicamente critica – della vicenda di Geremia, che prima ancora che con la sua parola è stato profeta con la sua vita, rendendo la sua stessa persona cavia dolente del suo messaggio, ci chiediamo come la sua testimonianza si possa agganciare con l’ottica di questo convegno su “Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana”. Abbiamo visto in che modo Geremia è stato portatore, da parte di Dio, della sua parola di giudizio e di promessa, fino ad identificarsi con essa, ma anche fino ad identificarsi col popolo contro il quale e per il quale doveva parlare, imponendo financo violenza a se stesso11. A questo punto ci possiamo chiedere “dove” è che si trova concretamente la parola Dio nel tempo di Geremia, se è vero che essa, in quanto era affidata alla mediazione del profeta, corrisponde a quello che è per noi, in senso teologico e in senso storico-culturale, il Vangelo. La domanda suprema che ci possiamo porre mi pare che sia questa: la parola 10

A. Neher, L’essenza del profetiamo, Marietti, Casale Monferraro 1984, 188ss. Si veda in proposito il ciclo delle “confessioni” in 11,18-12,6; 15, 10ss 15-21; 17,14-18; 18,18-23; 20,7,18. 11

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di Dio sta solo dalla parte di Geremia, o non sta forse anche dalla parte del popolo? Dobbiamo rispondere che la parola di Dio rivolta contro il popolo e poi a favore del popolo attraverso la vita e la bocca del profeta, non è veicolata solo da lui. Infatti la sua parola non scende solo da Dio, né sgorga soltanto dalla passione del profeta, essa nasce anche dalla compassione per il suo popolo, dalla profonda immedesimazione che egli vive con la storia del suo popolo, facendosi carico del suo peccato e della tragedia nazionale di cui il popolo è pure vittima del suo peccato12. Dall’incontro e dallo scontro che si realizza nel suo cuore e nella sua vita tra l’amore esigente di Dio e l’amore per il suo popolo scaturisce la forza e la ricchezza della sua parola. Il popolo non è l’”oggetto” di fronte al quale il profeta si pone con le sue ammonizioni e con le sue promesse, ma è l’organismo collettivo principale di cui il profeta diventa emanazione e specchio, esso è il soggetto storico di cui il profeta, immedesimandosi nel suo destino e nella sua vocazione, è nello stesso tempo figlio e padre. Geremia sente in maniera fisiologica questa sua appartenenza e identificazione con il popolo. In questa ottica si comprende come deve essere importante per lui la stessa simbologia, più volte ricorrente, della donna, quale personificazione della disfatta e della rinascita del popolo: «Una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non sono più. Dice il Signore: Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene; essi torneranno dal paese nemico. C’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini» (31,15-17).

12 «Uomo della crisi, il profeta assume la contraddizione di rappresentare due forze che si oppongono. Conosciuto da Jahweh, egli impersona in un certo modo l’elezione di Israele … Tutta la sua vita sarà segno della situazione del popolo (16,1-13), chiamato a decifrare il suo proprio destino nell’esistenza del profeta» [J. Auneau, “Geremia”, in AA. Vv., I Profeti e i libri profetici, Borla, Roma 1987 (orig. Franc. 1985), 160-214,199].

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9 A DESCRIPTIVE FEATURE OF THE GREEK SIRACH: THE EFFECT INSTEAD OF THE CAUSE1 [1997]

Abstract: In my dissertation in which nearly all the differences between the Greek version (G) of Ben Sira and its Hebrew parent text (H) have been analyzed in the light of midrashic and targumic hermeneutics, I discovered a descriptive feature of the translator: the rendering of a cause through the effect or the preference to express the effect instead of the cause. This seems to be a personal and ideological characteristic of the translator, especially when those examples that achieve the same end by a change in the reading of H are taken into consideration. Against this feature can be also observed, even if in a very reduced proportion, the opposite phenomenon of stressing the cause instead of the effect, with or without a change in the reading of H. This paper is a presentation and classification of all these discrepancies between H and G, which are a testimony to the practical or parenthetic tendency of the translator. This feature fits well in the frame of the other descriptive differences in G, which we find in many instances where the text is more specific, generic, picturesque, or concrete rather than abstract, and vice versa.

After the discovery of the Hebrew Manuscripts (H) in the Cairo Geniza, the Greek Version of Ben Sira’s book (G) was principally studied according to nineteenth century text critical methods. According to this approach, the variant readings of G were often used to restore H which was viewed as clearly corrupted. However, since L. Zunz, another method has grown in popularity, that of stressing the interpretational attitude of the translator. This new approach grew out of a better understanding of the hermeneutic represented in the Targums, which are in a large part midrashic reworkings of the biblical traditions. In turn, awareness of this hermeneutic has impacted LXX studies, in that it has drawn attention to the translator’s 1 For more details, see: A. Minissale, La versione greca del Siracide Confronto con il testo ebraico alla luce deII’attività midrascica e del metodo targumico (Analecta Biblica 133), Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma, 1995.

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subjectivìty and cultural background. In the light of this approach, it is fitting to study the Greek translation of Ben Sira’s work by his grandson in Egypt for any influence of such midrashic and targumic conventions. In this case it is important to study the differences between the Greek version and its Vorlage to sketch a typology of the ideological and stylistic tendencies of the translator. However, from a methodological point of view one does well to precede this comparison with a text-critícal treatment of both the Hebrew and the Greek texts. Accordingly, in my dissertation I undertook a re-examination of the Greek translation of Ben Sira to ascertain whether or not the translator’s approach to the source text had been inspired by a midrashic/targumic type of hermeneutic. In the analysis, almost all the relevant differences between the Hebrew and the Greek texts were systematically analyzed and classified. To summarize, the two main areas of this classification concern thematic and descriptive differences between H and G. The thematic includes: regard for the transcendence of God; stressing the action of God but avoiding references to divine causality with respect to evil and natural phenomena, and avoidance of mythological allusions; a sympathetic treatment of biblical history; a critical attitude to the priesthood and to foreigners; an updated eschatology; some changes reflecting a different cultural milieu; and the personal character of the translator, who shows a rigorous attitude towards women. In the domain of descriptive differences, it appears that G is more specific, picturesque and even generic according to the cases, expressing the concrete instead of the abstract, and vice versa; or the effect instead of the cause, and vice versa. Finally, the last feature I present as typical of the translator is the rendering of a cause through the effect, or the preference to express the effect instead of the cause. This seems to be a personal and ideological characteristic of the translator, if we take into account the frequency of such a phenomenon. More specifically it is a testimony to his practical or parenthetic tendency. I first report the passages in which this feature is found, arranged topically; and second, I include the passages in which the opposite phenomenon is found, i.e. the cause instead of the effect. However, in this second case a parenthetic motivation is also observable. Some of these examples also imply a change in the reading of H by the translator (indicated by the siglum #). They also help to confirm the picture of the whole. In these

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passages other concurrent factors are to be noted also, which I can only allude to here: 1. textual corruption in 29, 30; 2. addition in 2, 6, 14; 3. omission in 4, 5, 45; 4. cultural adaptation in 7, 9, 21, 26; 5. influence of parallel hemistich in 39, 47; 6. the use of a favorite word in 27 (“fall”). Finally, there is the handling of the images by the Greek translator.

I. From cause to effect 1. Psychological experience 1. 37:17a The root (trq(: l. rq() of the deliberations is the heart -The heart is (= in t. h. we find) the trace (icnov = bq() of (each) mutation 2. # 43:4d And from its (i.e. the sun’s) light the eye is burned (hwkt) -And (the sun) flashing forth + beams makes dim (amauroi = hhkt) the eyes 3. # 43:24a Those who go down to the sea tell of its extent (whcq) -Those who sail on the sea tell of its danger(s) (kindunon authv = whqc) 2. From inner perception to external action 4. # 4:9 And let not your spirit dislike (jwqt) the right judgement -And do not be of little courage (oligoyuchs+v = rcqt) in your judging 5. 4:20a My son, be conscious of the time and be afraíd (dxpw) of evil -Consider the time and refrain (fulaxai) from evil 6. 7:26a Do you have a wife? Do not regard her as an abomination (hb(tt) -Do you have a wife + according to your desires? Do not send her away (ekbal+v authn)

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7. # 31:24a Whoever is miserly with food will be perturbed (zgry) at the gate (of the town) -The town shall grumble (diagoggusei = }gry) about he who is miserly with food 8. 32:16a Whoever fears the Lord understands (}yby) the (fitting) rule -They who fear the Lord will find (eurhsousin) the (fitting) rule 9. 37:30b And he who abuses (wine) could suffer nausea ()rz) -And gluttony could lead to colic (colerav) 10. 46: l lb All of those whose heart was not exalted ()&n) -Those whose heart were not prostituted (= to practice idolatry) (exeporneusen) 3. About knowledge 11. 8:9(a)b Do not reject the sayings (t(ym$b) of the elders, who have heard (w(m$) from their fathers -Do not dismiss the discourse of the elders, for they themselves learned (emaqon) from their fathers 12. 20:6b And it is a silent man because he is seeing (h)r) the (opportune) time -And it is a silent man, he who knows (eidwv) the (opportune/right) time 13. 37:23a And there is a wise man who became wise ({kxn) for his people -A wise man will instruct (paideusei) his people 4. About eating 14. 31:30a For the fool, the (fermented) wine (rmx) multiplies the snares ($qwm) -The drunkenness (meqh) intensifies +the anger (qumon) of the fool to (his own) stumbling (so that he shall stumble) (eiv proskomma) 15. 37:31a For lacking discipline (rswm) (in nutrition) many have died -Because of gluttony (aplhstian) many have died 16. 40:30a In the mouth of the glutton begging makes sweet (words) (qytmt) -In the mouth of the shameless (anaidouv) begging is sweet (glukanqhsetai)

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5. Relations with others 17. 42:3b And about the divisions (twqlxm) of inheritance and property -And about giving(delivering) (dosewv) the inheritance of the others 18. 42:8d and a shrewd ((wnc) man before all living people -And well tested (dedokimasmenov = vwrc) before all living people 6. From aesthetic to practical/ethical values 19. 3:21 Do not inquire into things too wonderful (tw)lp) for you -Do not inquire into things too difficult (calepwtera) for you 20. 13:22b and his (of the rich) indecent words are considered beautiful (}ypw[h]m) -if he says abominable things they also justify (edikaiwsan) him 21. 32:2c And for your gentle manners (rswm) you will acquire (an acknowledgment of your) prudence -and for the good organization (eukosmiav) you will acquire a crown 7. Local metaphor 22. 6:29a And her net will be for you a strong place (}wkm) -And her fetters will be for you a strong protection (skephn) 23. 11:12a There is one shattered and going as a lost (man) (db)w |khm)

-There is one sluggish and standing in need of help (prosdeomenov antilhmyewv)

24. 32:20a Try not to walk into a street (full) of snares (t#qwm) -Do not walk in a street where you may stumble (antiptwmatov) 8. Cultural/technical aspects 25. 11:34 Give lodging to a stranger and he will make strange your ways (|ykrd ryzhw) (your right conduct will appear strange to you) - ‌ and he shall upset you with his troubles (diastreyei se en taracaiv) 26. 44:5a Authors of rhythmic texts according to the rules (l( rwmzm qwx)

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-Composers of musical melodies (melh mousikwn) 9. G intensifies the representation of the negativity 27. 13:13b and do not walk with men of violence (smx y#n)) -since you are walking with your fall (ptwsewv) (your walking could bring about your fall) 28. 31:25b for the wine caused many to stumble (ly#kh) -for the wine had destroyed (apwlesen) many 29. 39:29a Fire and hail, ‘famine’ and pestilence (rbdw) -Fire and hail, famine and death (qanatov) 30. 40:9 This seems to be a very complicated passage, because behind textual corruption and misreadings it presents also a stríking change in the word order: rbd a ... a qanatov {dw b ... b kai aima rxrx c ... c kai eriv (= hrxt) (berox =) brxw d ... d kai romfaia (= berex) d# e ... h epagwnoi (= twkm) rb#w f ... g limov (l. b(r) h(r g ... f kai suntrimma twmw h ... e kai mastix (= +w#) -Pestilence and blood(shed) fiery heat and drought, plunder and ruin, ‘famine’ and death -Death and blood(shed) # quarrel and # sword # plagues, famine, fracture (ruin), #scourge 10. Relation of God to the world 31. 33:8a By the Lord’s wisdom (tmkxb) they were judged (w+p#n) -By the Lord’s knowledge (gnwsei) they were selected 32. 38:2a From God (comes that) the doctor is wise ()pwr {kxy) (comes the wisdom of the doctor) -From the Most High is (/comes) the (power of) healing (iasiv) 33. # 39:22a His blessing overflows (hpych) like the Nile -His blessing covers (epekaluyen = hpc) all like a (flooding) river 34. 43:26b And by his words he (= God) accomplishes (his) will (}wcr l(py)

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-And by his word all things are held together (sugkeitai ta panta)

II. From the effect to the cause 1. Psychological aspects 35. 9:8d And so she (the beautiful woman) burns her lovers with fire (#)b hybh)) -And thus the love (filia) (for her) burns like fire (wv pur) 36. 32:19e And after your deeds (|y#(m yrx)) you will have no regrets (vcqtt) -And during your acting (en tยง poihsai se) do not change your mind (metamelou) 37. 47:15a You covered the earth with your soul (|[#pn]b) -Your soul (h yuch sou) covered the earth 2. About money 38. # 11:12b lacking everything (lk) and abounding in poverty -lacking in strength (iscui = xk) and abounding in poverty 39. # 14:15a You should not leave your riches (|lyx) to others -You should not leave (the fruit ofl your labours (touv ponouv = |ylx) 40. # 31:10a Who is he who adhered (qbdn#) to it and acquired perfection? -Who is tested (edokimasqh) by it and acquired perfection? 41. 31:111) And the assembly shall recount his praise (wtlhtw) -And the assembly shall recount his acts of beneficence (tav elehmosunav autou) 42. 40:28a My son, do not live a life of (depending on) gifts (}tm) -Son, do not live a life of (depending on) begging (epaithsewv) 43. 42:5a And about bargaining (ryxmm) with a merchant for the price (rkmm) -About a profit from the sale (diaforou prasewv) due to the merchants 3. Nature 44. 14:18b Of which one fades (lbwn) and another sprouts (xmwc)

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-(of which) it rnakes some fall (ta men kataballei) and others sprout (alla de fuei) 45. # 43:4c The tongue of the luminary (= the sun) consumes the inhabited world (tb#wn) -breathing (ekfuswn = tp#wn) out fired vapours 46. # 43:21b And the meadows (hwnw) full of buds (the flowering meadows) as though by flame(s) -And withers (aposbesei = hbkw) the grass like fire 4. God 47. 16:26b And upon (= for) their life ({hyx

l()

[he assigned their

tasks] -And after making them (apo poihsewv autwn) he assigned their tasks 48. 35:25b And (God) gladdens them with his salvation (wt(w#yb) -And (God) gladdens them through his mercy (eleei)

Conclusion Although it may be that some of these deviations of G from H are not intentional, they contribute to a coherent picture of the translator. I am conscious that this holistic approach to the Greek text of Ben Sira has its weaknesses, because it requires many conjectural decisions in handling the differences between G and H. However, in every case it helps us to recognise the Greek version as a literary and theological work in its own right.

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10 IL RUOLO SOCIALE DEL SAGGIO-SCRIBA SECONDO BEN SIRA [1998]

Il modo migliore per vedere quale sia il ruolo dell’uomo nella società secondo Ben Sira, è quello di rilevare come lui stesso lo vive e lo concepisce nella propria persona. È questo un approccio limitato al solo suo scritto che poi dovrebbe essere completato con un esame di tipo storicosociologico che si basa sui dati esterni al libro, in modo che si possa verificare quale corrispondenza ci sia tra quanto pensa e scrive Ben Sira e la concreta società in cui lui vive ed opera1. Ma in questo contributo ci limitiamo al primo aspetto, per esaminare con una certa sistematicità quanto si dice su questo tema all’interno dell’opera del Siracide. Ora in base a quanto lui confessa in quel brano centrale del libro costituito dal cap. 24, nei vv. 30-34, la sua indentità in senso personale e sociale è caratterizzata dalla sua scelta di vita di “saggio esperto nella Scrittura”2. Questa qualifica, che è duplice e unitaria nello stesso tempo, definisce sia il ruolo da lui stesso rivestito nella società del suo tempo e sia il modello da lui elaborato in modo riflesso per testimoniarlo e presentarlo prima nel suo insegnamento e quindi nel suo libro.

1

Un buon tentativo in questo senso è fatto da Oda WISCHMEYER, Die Kultur des Buches Jesus Sirach (BZNW 77), Berlin - New York 1995, 49-69 (“Kapitel 3: Gesellschaft”). Le sue conclusioni sono però troppo critiche nel rilevare la poca aderenza del pensiero di Ben Sira ai bisogni della società del suo tempo (vedi sotto, n. 15). Un approccio del tutto diverso, che parte dall’interno del mondo giudaico lo si trova nel vecchio saggio di S. SCHECHTER, “A Glimpse of the Social Life of the Jews in the Age of Jesus the Son of Sirach”, in Studies in Judaism. Second Series, Philadelphia 1908, 55-101, il quale conclude così: “Looking back at this life, we feel that for the most part we have been moving in a world very much like ours, guided by the same motives, moved by the same passions, and on the whole striving after the same ideals” (101). 2 Riprendiamo questa designazione, che in seguito sarà abbreviata in quella di “saggio-scriba”, dallo studio di J. MARBÖCK, “Sir., 38,24-39,11. Der schriftgelehrte Weise. Ein Beitrag zu Gestalt und Werk Ben Siras”, in: M. GILBERT (ed), La sagesse de l’Ancient Testament (BETL; LI), Leuven 1990, 293-316, il quale sottolinea pure l’importanza di 38,2439,11 per comprendere tutta l’opera del Siracide.

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In realtà questo passo 24,30-34 si inserisce in un filone particolare che attraversa tutto il libro, dall’inizio alla fine, e che è costituito da una serie di passi che vi sono scaglionati al suo interno, corrispondenti alle cosiddette “pericopi sapienziali”: 1,1-10; 4,11-19; 6,18-37; 14,20-15,10; 24,1-34; 33,16-19; 34,9-13; 38,24-39,11; 51,13-303. Mentre nei passi antecedenti a 24,28-32 si parla in modo più generale di chi vuole mettersi, da discepolo, sulla via della ricerca della sapienza, a partire da 24,28ss si parla più direttamente, anzi in maniera autobiografica del ruolo proprio di chi insegna per professione la sapienza, con eccezione di 38,24-39,11, dove il riferimento autobiografico c’è sempre, ma in forma indiretta e implicita. La nostra esposizione si divide in due parti: I) Il profilo del saggio nelle suddette pericopi “sapienziali”; II) Gli altri ruoli sociali menzionati nel libro, per poter notare come si differenzi da essi quello del saggio, e in che modo si pensa della sua collaborazione con loro. Qui distinguiamo tre diversi paragrafi: 1) le persone, 2) le istituzioni, 3) il saggio-scriba in rapporto al suo lavoro e alla famiglia. Se nella I parte procediamo sulla base delle pericopi già indicate, che sono selezionate secondo il criterio tematico, nella II parte si segue piuttosto il metodo dell’esame dei termini usati, per rilevare, tenendo conto del contesto, in quale luce sono considerati dall’autore i ruoli sociali da essi indicati. Trattandosi di un’indagine di carattere generale, la nostra analisi si basa sulla versione greca, che ci offre un testo in qualche modo omogeneo oltre che completo, anche se vi si riflettono alcune speciali tendenze del traduttore4.

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O. RICKENBACHER, Weisheitsperikopen bei Ben Sira (OBO 1), Freiburg Göttingen 1973, omette rispetto alla nostra lista 33,16-19 e 34,9-13, ma aggiunge 1,11-27; 19,20-24; 20,27-31; 21,12-28; 37,9-26, che non sono importanti per l’aspetto che qui vogliamo approfondire. 4 Sulle peculiarità della versione greca rispetto al testo dei mss ebraici si veda A. MINISSALE, La versione greca del Siracide. Confronto con il testo ebraico alla luce dell’attività midraschica e del metodo targumico (AnBib 133), Roma 1965.

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I L’UOMO SAGGIO NELLE PERICOPI SAPIENZIALI 1. Sir 1,1-10 L’interesse fondamentale di Ben Sira in tutta la sua opera è quello della sapienza, a cui sono complementari in via subordinata la legge e il timor di Dio5. Per questo il libro comincia con una solenne considerazione sulla sapienza (1,1-10), dove si afferma che essa, proprietà esclusiva di Dio, è diffusa nella creazione ed è comunicata a quanti lo amano. In questo modo si traccia sin dall’inizio l’orizzonte fondamentale in cui si muove il pensiero di Ben Sira, che mette al centro delle sue preoccupazioni questa trasmissione della sapienza da Dio all’uomo, nel quadro della creazione e nella rivelazione della legge, come dirà meglio in 24,23-29. 2. Sir 4,11-19 Qui la Sapienza appare già personificata e degna di essere cercata (11), per i frutti che comunica (12-16). Ma per ottenerli occorre prima sottomettersi alla prova della sua pedagogia (17-19). Tra i suoi frutti quelli più concreti sono una casa tranquilla (15b) e la possibilità di trasmettere la stessa sapienza ai propri discendenti (16b). 3. Sir 6,18-37 In questa esortazione rivolta da Ben Sira al discepolo (18-19), prima si riprende il tema precedente del duro tirocinio che comprende ceppi, lacci, peso e legami, e che si deve attraversare prima di ottenere la sapienza (2031); poi si presentano alcune raccomandazioni sul metodo pratico da seguire per l’apprendimento della sapienza: frequentare gli anziani e i sapienti (34.36), avere attenzione per i comandamenti e i precetti (37).

5 Ciò è giustamente sottolineato da G. von RAD, Weisheit in Israel, Neukirchen Vluyn 1970, 311, contro J. HASPECKER, Gottesfurcht bei Jesus Sirach. Ihre religiöse Struktur und ihre literarische und doktrinäre Bedeutung (AnBib 30), Rom 1967, spec. 87ss, che in coerenza con il principale tema della sua ricerca considera piuttosto il timor di Dio come più centrale rispetto alla sapienza.

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4. Sir 14,20-15,10 Riprendendo il tema dei due brani precedenti sulla ricerca personale della sapienza, qui si sottolinea in modo speciale l’iniziativa che prendono, reciprocamente, da un lato l’uomo, che va alla ricerca della sapienza come un cacciatore (14,22-27), e dall’altro la stessa Sapienza, raffigurata con tratti materni (15,2-5). In 15,1 si trova una sintesi molto importante del pensiero di Ben Sira, perché si mettono in relazione tra loro il timor di Dio, la legge e la sapienza. 5. Sir 24,1-34 Il grande poema sulla sapienza nel c. 24 che costituisce l’introduzione alla seconda sezione della I parte del libro6, contiene due importanti precisazioni: da un lato l’identificazione della sapienza con la legge (23-29) e dall’altro la confessione autobiografica di Ben Sira che ha scelto lo studio di questa sapienza-legge come ideale della propria vita. Sebbene questo poema si ispiri a Pr 8, nel quale la stessa sapienza personificata parla della sua collaborazione con Dio nell’atto della creazione primordiale, in Sir 24, pur ripetendosi la forma del discorso fatto ancora una volta in 1a persona dalla sapienza personificata, la creazione si suppone già esistente; questa serve solo da sfondo per descrivere il movimento discendente che compie la sapienza che, uscita dalla bocca di Dio, si insedia, dopo aver percorso il giro del mondo, in Giacobbe, concentrando quindi la sua presenza sul monte Sion7. Questo movimento finora verticale diventa ora orizzontale, sviluppandosi in un corso d’acqua, che produce “sapienza” (sofia: 25), “intelligenza” (sunesiv: 26) e “istruzione” (paideia: 27) e che potenzia pure le facoltà personali del “pensiero” (dianohma) e del “consiglio”(boulh: 29).

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Noi preferiamo dividere il libro secondo questo schema simmetrico: I Parte (La sapienza nella vita dell’uomo): sezione 1 (1-23); sezione 2 (24-42,14). II Parte (La sapienza di Dio): 1) nella creazione (42,15-43,33); 2)nella storia (44-50). Similmente J. MARÖCK che distingue prima tre parti (1-23; 24,42,14; 42,15-51,30), ma poi suddivide la terza parte in 42,15-43,33 e 44-49.50 (in Neues Bibel-Lexikon, Lief. 8, Zürich 1992, 339). Invece A. DI LELLA, in P.W. SKEHAN - A.A. DI LELLA, The Wisdom of Ben Sira (AB 39), New York 1987, distingue solo queste due parti fondamentali: 1-23; 24-50 (137). 7 M. GILBERT, “L’éloge de la Sagesse (Siracide 24), RTL 5(1974), 326-348, parla di “un mouvement de descente et de concentration” (331).

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Ben Sira ha deciso di far entrare questo corso d’acqua nel suo orto, cioè nel suo animo. Qui la sapienza, venendo interiorizzata ed elaborata, si allarga, sempre come un corso d’acqua, fino a potersi effondere sugli altri come “dottrina” (paideia: 32) e come “insegnamento” (didaskalia\: 33), in modo da poter raggiungere gli ebrei delle plaghe più lontane e quelli delle generazioni future. In questo modo in Sir 24 viene enfatizzata la mediazione del saggio-scriba che mancava del tutto in Pr 8, dove era la sapienza stessa che assolveva la funzione del maestro. 6. Sir 33,16-19 A differenza del brano precedente, dove la confessione autobiografica seguiva l’identificazione della sapienza con la legge, qui quanto precede ha un rapporto meno diretto con la legge, perché riguarda più direttamente la riflessione sapienziale, caratterizzata da una forma di razionalizzazione che si muove comunque nell’orizzonte della fede nell’unico Dio creatore. Abbiamo qui difatti il primo di quella serie di inserti che riguardano la teodicea di Ben Sira, imperniata sul principio del duplice aspetto, positivo e negativo, della creazione. Nella conclusione, alla metafora dell’acqua del c. 24 si sostituisce ora quella della vendemmia. Ben Sira afferma di non aver racimolato solo per se, ma “per tutti quelli che cercano l’istruzione” (18). Per la prima volta Ben Sira aggiunge alla fine l’invito ad accogliere il suo insegnamento, rivolto direttamente ai “grandi del popolo” e a “quanti dirigono l’assemblea” (19). 7. Sir 34,9-13 In questa riflessione in stile autobiografico viene indicata una nuova fonte di “conoscenza” (sunesiv: 9.12), l’esperienza acquisita con i viaggi. Non sappiamo se questi viaggi fossero connessi con l’espletamento di una funzione pubblica, ma è importante notare come la ricerca della sapienza includa anche, secondo il Siracide, la conoscenza diretta delle diverse situazioni che si trovano fuori del proprio ambiente di vita. 8. Sir 38,24-39,11 L’attività del saggio-scriba (38,1; 39,1-11) è messa a confronto con quella del contadino (38,25-26), dell’artigiano (27), del fabbro (28) e del

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ceramista (29-30); tutti costoro sono utili alla società, ma non tanto quanto lo è il saggio. Solo lui è apprezzato nel consiglio del popolo, nell’assemblea e come giudice (32-34). Nel profilo che segue è condensato in modo molto concreto quello che riguarda la formazione del saggio, le sue prestazioni pubbliche, il metodo della sua vita personale. All’inizio si sottolinea il suo legame con la tradizione nei tre settori della legge, della sapienza e delle profezie, specificando poi in particolare le varie branche della sapienza a cui lui si dedica, caratterizzate da detti, parabole, proverbi ed enigmi8. Quindi si parla esplicitamente della carriera del saggio che collabora con i grandi e con i governanti9, svolgendo pure missioni diplomatiche presso i popoli stranieri (4). Si conclude con l’assicurazione che l’assemblea canterà le sue lodi (10). 9. Sir 51,13-30 Nel poema acrostico 51,13-30, dopo aver rievocato la passione con cui si è dedicato fin dalla giovinezza alla ricerca della sapienza10, l’autore proclama la sua gioia per averla ottenuta, invitando infine gli ignoranti a frequentare la sua scuola. La stessa passione con cui Ben Sira ha imparato la sapienza, lo anima nell’insegnarla agli altri.

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Oltre che una familiarità con la tradizione biblica si attribuisce a Ben Sira una conoscenza degli autori greci, in particolare gli Stoici, Omero, Teognide, la letteratura epidittica; è questo il giudizio d’nsieme espresso da J. G. GAMMIE, “The Sage in Sirach”, in: J. G. GAMMIE and L. G. PERDUE (ed.), The Sage in Israel and in the Ancient Near East, Winona Lake 1990, 355-372, 369, con rimando ai precedenti lavori di R. Pautrel, T. Middendorp, B. L. Mack, T. R. Lee. 9 Questo aspetto è ben apprezzato da D. J. HARRINGTON, “The Wisdom of the Scribe according to Ben Sira”, in: J. COLLINS - G. NICKELSBURG (ed.), Ideal Figures in Ancient Judaism: Profiles and Paradigms (SBLSCS 12), Atlanta, GE, 1980, 181-188, 184s. 10 A noi sembrano forzate e insostenibili le spiegazioni di J. A. SANDERS, “The Sirach 51 Acrostic”, Hommages à A. Dupont-Sommer, Paris 1971, 429-438, il quale vuole riconoscere una connotazione erotica nel testo ebraico che si sarebbe perduta nella traduzione greca.

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II LE CLASSI DOMINANTI E IL SAGGIO-SCRIBA Nelle pericopi “sapienziali” finora esaminate abbiamo potuto notare una certa coerenza nel modo come in esse si delinea la figura del saggio; questi deve prima assimilare nello studio, nei contatti con gli anziani e con altri popoli, nella riflessione e nella preghiera, la sapienza, per poi offrirla agli altri, non solo nei rapporti privati ma anche svolgendo un ruolo pubblico in cooperazione con gli altri soggetti influenti della società. Per vedere ancora meglio come Ben Sira considera questa collaborazione del saggio con essi, possiamo passare in rassegna i termini che indicano le diverse funzioni politiche e istituzionali della società. Noi non ci proponiamo qui di stabilire il preciso significato di questi termini, anche perché, come si può già dedurre dalle oscillazioni che si riscontrano nella traduzione greca rispetto al testo ebraico, essi non sono presi in senso rigorosamente tecnico, ma, data l’intenzione tipicamente sapienziale del libro, queste figure rivestono una funzione piuttosto emblematica. Ai sei termini greci da noi considerati corrispondono nel testo ebraico questi 19 vocaboli: ’dwn (41,18), ’¡ (45,25), g’h (10,14), gbrt (41,18), gdwl (8,1; 50,1[49,15]), kl (48,12), mw¡l (4,27; 7,6; 9,17; 10,24; 33,19), mlk (7,4.5; 10,3.10; 38,2; 45,3; 46,20; 48,6.8 [testo ebr. corretto]; 49,4), ngyd (46,13), ndyb (7,6; 8,2; 11,1; 13,9; 38,3), nsyb (46,18), n∞’ (11,6), n∞y’ (41,17), p’h (36,12),11 srn (46,18), qßyn (48,15), r’¡ (10,2.20; 35,1), ¡ltwn (4,7), ∞r (8,8; 10,3; 32,9; 41,17; 44,4), ¡wpt (8,14; 10,1.2.24; 46,11). 1. Le persone a) Il re Nella riflessione sapienziale di Ben Sira il “re” (basileuv) è considerato emblematicamente e convenzionalmente come un uomo ricco e fortunato, che tuttavia può improvvisamente morire (10,10), e che è costretto a dipendere dal medico e ad onorarlo (38,2). Ma il re è visto pure come un uomo che può essere tanto meschino dal punto di vista morale da preferire il proprio tornaconto alla giustizia (8,2); se è sregolato rovina il suo popolo (10,3). A prescindere comunque dalle eventuali debolezze morali del re, tenendo conto del fatto che egli rappresenta il vertice del potere, è bene che 11

Vedi sotto, nota 13.

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il saggio che gli deve o vuole stargli vicino, eviti in sua presenza di fare sfoggio della sapienza (7,5), illudendosi così di poter ottenere da lui magari una promozione di carriera (7,4). I casi più frequenti in cui si parla del re si trovano nella rievocazione della storia d’Israele, dove il concetto è usato nel senso più convenzionale della tradizione nazionale. Così si qualificano come re il Faraone dell’esodo (45,3), Saul (46,20), Davide; si parla dei re di Giuda (49,4) e della loro discendenza dinastica (45,25). Anche parlando di Elia (48,6.8) e di Isaia (48,23) si ricordano i loro fortuiti rapporti con i re del loro tempo. b) I grandi o notabili I “grandi” (megistanev) sono prima di tutto coloro tra cui ambisce trovarsi il saggio che vuol far carriera. Egli infatti impara perché poi possa offrire loro i suoi servizi (8,8); egli sarà da loro apprezzato (20,27), e così lo stare tra loro rappresenta l’apice della sua affermazione sociale (39,4). Questa meta può essere conseguita pure da un povero che è sapiente (11,1), ma in questo caso egli ha il dovere di non dimenticare le sue umili origini vergognandosi ora anche dei suoi genitori. Ben Sira si considera personalmente pervenuto a questa prestigiosa posizione sociale e perciò può proporre anche ai grandi il frutto delle sue riflessioni sulla teodicea (33,19). Si sottolinea volentieri come sia cosa importante essere tenuti in considerazione da parte dei grandi, come capita al medico (38,3). Ma davanti ai grandi si deve abbassare la testa (4,7) e non darsi autorità (32,9); ciò offrirà dei vantaggi sociali, giacché chi piace ai grandi trova discolpa al momento opportuno (20,28). Ma anche dei grandi si parla in modo negativo, quando si dice che, pur essendo essi onorati, chi teme il Signore è ancor più onorato (10,24), e che possono perdere tutto, qualora sono colpiti dalla calunnia (28,14). c) I governatori I “governatori” (hgoumenoi) sono menzionati per due volte in parallelo con i “grandi”, nel senso già rilevato nel paragrafo precedente, di coloro ai quali il saggio offre il suo insegnamento (33,19) e – proprio attraverso esso – il suo servizio (39,4). La loro figura viene precisata in senso politico quando si aggiunge la specificazione “del popolo” (9,17; 44,4) o “della città” (10,2), sottolineando quindi l’importanza che ha per loro la

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saggezza che sanno dimostrare nel parlare (9,12), oppure l’influsso positivo o negativo che il loro esempio può esercitare sulla condotta di tutta la cittadinanza (10,2). Perciò l’“egemonia” (hgemonia) esercitata da un governatore saggio sarà ordinata (10,1). A differenza d’Israele che deve essere governato direttamente dal Signore, ogni altro popolo ha il suo governatore politico (17,17), come si dice per Tiro (46,18). Questo termine si usa infine in senso non politico, parlando della funzione di guida esercitata da un fratello all’interno della famiglia (10,20), come era stato il caso di Giuseppe (49,15), oppure anche quando ci si riferisce all’onore attribuito a chi deve semplicemente presiedere un banchetto (32,1). d) I potenti Parlando di questa categoria prevalgono nel Siracide i riferimenti negativi. Il “potente” (dunasthv) può far sentire una forma di pressione e di soggezione tale che spinga il saggio ad allontanarsi dalla verità (4,27); perciò è meglio che questi eviti di diventare “giudice”, un ufficio nel quale le intimazioni del potente possono farlo deviare dalla giustizia (7,6). Tenendo conto di queste preoccupazioni etiche si comprende perché Ben Sira raccomandi al discepolo di stare attenti a tenere le proprie distanze, quando il potente cerca di avvicinarsi a lui e di invitarlo a casa sua (13,9). A questo punto si può ricordare anche l’intera pericope 13,1-24, nella quale si raccomanda di avere grande circospezione nei rapporti con i “ricchi” (plousioi), perché essi tendono a sfruttare quanti si avvicinano a loro. E inoltre, essendo consapevole il nostro autore di come i potenti perseguino i loro interessi senza scrupoli, consiglia di evitare di aver liti con loro, perché pretendono di aver ragione ad ogni costo (8,1). Riecheggiando le dure minacce dei profeti12, egli ricorda che anche i potenti sono soggetti a repentini cambi di fortuna (11,6), per cui si può concludere che quanti temono il Signore sono a loro superiori (10,24). Come dato di fatto si accetta comunque la loro autorità, al punto che si raccomanda di aver vergogna per l’inganno perpetrato nei riguardi dei “potenti” e dei “governatori” (41,17). In definitiva il giudizio etico e politico su di loro dipende dal loro comportamento, giacché come è vero che la stoltezza di un re può mandare in rovina un popolo, è anche vero che una città prospera con la saggezza dei potenti che la governano (10,3). 12

Si veda per esempio Am 3,9-11; 6,1-7; Is 5,8-9; Mic 6,9-15.

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e) I capi Per il termine di “capo” (arcwn), che ricorre sette volte traducendo ogni volta un diverso vocabolo ebraico, sembra prevalere una connotazione negativa. Esso si usa per i capi dei popoli stranieri, contro i quali si pongono di volta in volta Samuele (46,18) ed Eliseo (48,12), o di fronte alla cui minaccia prega lo stesso Ben Sira (36,12)13. Il loro trono, in quanto si presume che sia fondato sull’orgoglio, è rovesciato da Dio (10,14). Anche parlando della storia nazionale sembra che permanga questa connotazione negativa del termine, perché lo si usa una volta insieme per Saul e Davide (46,13), e poi per tutta la dinastia davidica del regno del Sud dopo la caduta del regno del Nord (48,15). In questo secondo caso il termine riflette il giudizio per lo più negativo che si dà già nella tradizione biblica dei re di Giuda. L’unico caso chiaramente positivo lo si ha in 41,18. Qui il testo G, spostando il discorso dall’ambiente domestico a quello pubblico, risulta totalmente diverso rispetto al testo H, perché parla insieme del capo e del giudice, invece che del “padrone e della signora”: si deve provare vergogna per l’errore commesso di fronte a loro. f) I giudici A meno che non risulti espressamente dal contesto, il termine “giudice” (krithv) si deve intendere non nel senso giudiziario, ma in quello più generico di “governatore”. Così, nelle due sentenze che abbiamo all’inizio del c. 10, nel v. 1, dove il termine è usato in parallelo con il “potente” si afferma che il giudice saggio educherà il suo popolo, mentre nel v. 2 si osserva che i suoi collaboratori ne seguiranno, nel bene e nel male, l’esempio; qui il termine è usato in antitesi con il re sregolato. Perciò in 10,24 la carica del giudice è posta sullo stesso piano, come se si trattasse di termini intercambiabili, con il “grande” e con il “potente”. Invece il termine si deve intendere in senso giudiziario in 8,14, quando si consiglia di evitare una lite (giudiziaria) con un giudice, perché in questo caso si deve presumere che la sentenza sarà data in suo favore, 13 Qui il testo ebraico riprende l’espressione metaforica p’ty mw’b “le tempie di Moab” da Num 24,17, dove già dalla LXX essa è tradotta con archgouv Mwab “principi di Moab”, un termine che ha la stessa radice di arcwn; cfr. HAL 858.

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anche se per questo si deve ledere la giustizia. Perciò, tenendo conto di questi possibili abusi, si consiglia di non voler fare il giudice, qualora non si è capaci di combattere l’ingiustizia (7,6). Infine, il termine usato per i Giudici della storia biblica (46,11) rimane non specificato, trattandosi di una traduzione convenzionale che si era ormai imposta nella versione dei Settanta. 2. Altri organismi istituzionali Per completare il quadro delle allusioni fatte al ruolo dell’uomo nella società nel libro del Siracide dobbiamo considerare pure i riferimenti che riguardano gli organi collegiali e la collettività nel suo complesso. Il termine di “assemblea” (ekklhsia) presenta nel Siracide due distinte accezioni: riguarda sia l’assemblea ristretta con poteri di governo e sia l’assemblea di tutto il popolo. Si ha il primo significato quando si dice che la sapienza apre la bocca del suo discepolo in mezzo all’assemblea (15,5), o che in essa è richiesta la parola del saggio (21,17). Solo il saggio-scriba può farne parte e non gli artigiani (38,33); perciò Ben Sira rivolge l’invito ad accogliere il suo insegnamento ai “governatori” dell’assemblea, ricordati insieme ai “grandi” del popolo (33,19). Davanti a questa assemblea deve essere condotta la donna adultera, perché si accerti la paternità della sua prole (23,24), ed è proprio al suo interno che vengono proclamate le beneficenze fatte dall’uomo ricco e generoso (31,11). Il significato più generale del termine come “assemblea” di tutto il popolo ricorre due volte in senso negativo, quando si parla di un “raduno” di folla di cui c’è da aver paura, insieme alla calunnia nella città e ad una falsa accusa (26,5), e quando nella rievocazione storica si ricorda la rivolta del popolo contro cui si opposero Giosuè e Caleb (46,7). Le altre volte il senso è positivo, sia quando si tratta dell’assemblea liturgica del popolo nel tempio (50,13.20) e sia quando si dice che la lode dello scriba (39,10) o degli uomini illustri (44,15) sarà cantata nell’assemblea. Una distinzione simile a quella notata per “assemblea” si ritrova a proposito dell’“adunanza” (sunagwgh). Il termine indica di fatto nel Siracide un gruppo particolare di persone, a volte non buone, come risulta dall’aggiunta della specificazione “di peccatori” (16,6), “di iniqui” (21,9) o dei seguaci di Core nella sua rivolta (45,18). Ma altre volte il senso è positivo, come quando si raccomanda di rendersi amabili, grazie alla generosità del dono fatto, con l’insieme delle persone che possono avere bisogno del

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proprio aiuto (4,7); si tratta di un gruppo particolare, quello appunto dei bisognosi, contrapposto al “grande” che detiene il potere. Lo stesso significato limitato si deve avere ancora in 41,18, quando questa “adunanza” è contraddistinta dal popolo considerato nel suo insieme, nella raccomandazione che si dà di avere vergogna di fronte ad entrambi per un misfatto. Qui l’“adunanza” può indicare l’istituzione giudiziaria, e può corrispondere alla stessa “assemblea” di 23,24 già considerata. Così entrambi i termini si possono riferire a quello che in maniera più precisa è chiamato in 38,32 “consiglio (boulh) del popolo”, nel cui seno si addice la presenza del saggio- scriba. Invece l’“adunanza” in altri casi si riferisce all’insieme del popolo: in essa saranno conosciute prima o poi le azioni che vengono compiute dallo stolto nel segreto (1,30), essa veniva giudicata da Samuele (46,14). Una volta il termine è usato al plurale: queste “sinagoghe” possono indicare già i diversi luoghi di riunione dei giudei nella diaspora. 3. Il saggio-scriba Sia parlando delle persone e sia parlando degli organismi istituzionali, è emersa l’importanza che Ben Sira attribuisce alla figura del saggio. Quando però vediamo concretamente la qualifica professionale che egli dà indirettamente di se stesso in 38,24, troviamo qui il termine chiave di “scriba” (grammateuv), che indica di per sé colui che si dedica allo studio della legge14. Questa qualifica si adatta a Ben Sira in forza della identificazione della sapienza con la Tora fatta in 24,23-29, ma non abbraccia direttamente l’ambito della riflessione sapienziale il cui interesse sembra nel suo libro preponderante rispetto a quello dimostrato per la legge. Di fatto in 38,24 si parla più precisamente della “sapienza dello scriba” (sofia grammatewv), estendendo così in questo caso il senso del secondo termine all’ambito sapienziale. Da qui si deve concludere che Ben Sira personalmente, secondo l’immagine che ci dà di sé nel suo libro è insieme un saggio e uno scriba, cioè un saggio esperto nella Scrittura, un saggio-scriba. Ed è la figura sociale di questo saggio-scriba che sta al centro dell’attenzione dell’autore del libro del Siracide. Questo termine “scriba” lo si incontra 14 GAMMIE, “The Sage”, ipotizza per Ben Sira addirittura la professione di “lay jurist, one of whose specialties was secular law” (365), basandosi sull’organizzazione giudiziaria dell’età allenistica.

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ancora in 10,5, dove, grazie al parallelismo, si può vedere ancora una volta l’importanza che la sua figura riveste in questo libro. Infatti, se da un lato si dice che è Dio a dirigere la riuscita (euodia) della vita di ogni uomo (5a), per lo scriba si riserva, a un titolo speciale, la “gloria” come il dono che più gli si addice. Giacché nella figura dello scriba Ben Sira fa cristallizzare la propria esperienza di vita, non solo in senso professionale ma anche in senso personale, possiamo aggiungere qui quanto egli dice in genere del lavoro e della famiglia, due ambiti nei quali si esprimono sicuramente i suoi convincimenti più intimi. Il proprio lavoro deve essere portato avanti non solo con modestia, ma anche con fierezza (10,28s), senza dispersione (11,10) e con perseveranza (11,20); l’agiatezza frutto del proprio lavoro è un dono di Dio (11,13.22). Per quanto riguarda la famiglia è l’uomo che deve amministrare il proprio patrimonio, senza lasciarsi dominare dal figlio o dalla moglie, dal fratello o dall’amico (33,20-24). Il desiderio di non veder compromessa questa indipendenza dell’uomo all’interno della sua famiglia, e soprattutto di fronte alla moglie, fa dire al Siracide che c’è “collera, vituperio e vergogna senza fine” quando il marito è mantenuto con il patrimonio della moglie (25,22). Una buona moglie è una grande fortuna per il marito, per la sua bellezza, per la sua parola aggraziata, per il calore accogliente che sa dare alla sua casa (36,27-31). Ma una moglie cattiva è causa di un grande disonore per il marito di fronte alla società (25,17-19). Viceversa, i figli bene educati, s’intende con una severa disciplina, saranno un motivo d’onore per il padre, anche dopo la sua morte (30,1-4; 25,7). Forse questa può essere considerata una visione “patriarcale” della famiglia, in quanto valuta la moglie e i figli in funzione del marito e del padre15; però si deve 15 Questo giudizio radicalmente negativo è espresso da Claudia V. CAMP, che analizza criticamente lo stesso contesto culturale (“mediterraneo”), fondato sul senso dell’onore dell’uomo a spese della donna, di cui Ben Sira è, anche incosapevolmente un’espressione (“Understanding a Patriarchy: Women in Second Century Jerusalem Through the Eyes of Ben Sira”, in: A.-J. LEVINE (ed.), “Women Like This”. New Perspectives on Jewish Women in the Greco-Roman World [Early Judaism and its Literature 1], Atlanta, Ga., 1991, 1-39). Ma ancora più critico sembra il giudizio di W.C. TRENCHARD, Ben Sira’s View of Women. A literary Analysis (Brown Judaic Studies 8), Chico, Calif, 1982, il quale ritiene che l’atteggiamneto negativo di Ben Sira nei confronti delle donne sarebbe dovuto non al contesto sociale, ma a un vero pregiudizio personale, secondo quanto ne riferisce A. DI LELLA, The Wisdom of Ben Sira, 90s. Contro questa interpretazione troppo riduttiva DI LELLA fa giustamente notare che bisogna piuttosto tener conto del tipo di società nella quale viveva Ben Sira e nella quale era da tutti condiviso il suo modo di vedere.

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osservare che Ben Sira rappresenta questo ideale in maniera serena e non problematica, in una concezione che è ben integrata con gli altri valori da lui sostenuti nell’impegno per il benessere della società e per l’educazione dei suoi membri più influenti16. CONCLUSIONE Possiamo dire che nel suo insieme la posizione ideologica di Ben Sira appare alquanto problematica, perché da un lato ritiene giusto che il saggioscriba occupi un posto importante nella società, ma dall’altro è consapevole del rischio etico che è insito nell’esercizio del potere, del quale si può abusare quando diventa predominante il proprio tornaconto. Tenendo insieme presenti questi due aspetti, dei quali l’uno è positivo e l’altro negativo, Ben Sira non cade in contraddizione, ma si dimostra sapienzialmente attento alla complessità del reale che non consente delle facili semplificazioni. Inoltre, pur rispettando la funzione legittima della classe dominante, ricorda spesso la precarietà degli onori che la circondano. In ogni caso, egli ha una visione positiva e serena del proprio ruolo sociale in quanto saggioscriba. Al suo entusiasmo manifestato nella ricerca della sapienza e nello studio della tradizione nazionale, corrisponde la fiducia che altri possano fruire ora del suo insegnamento. Egli ritiene che il saggio-scriba ha il dirittodovere di fare una dignitosa carriera nella società, che gli consentirà di offrire un servizio insostituibile per il suo buon funzionamento, e nello stesso tempo gli procurerà i vantaggi di una meritata agiatezza. Certo, quella che lui presenta è una visione statica della società del suo tempo, nella quale egli non sembra intravedere i segni premonitori dello scontro morale ed economico che sarebbe esploso di lì a poco con la rivolta dei Maccabei. 16 Almeno questo si può dire dal punto di vista delle intenzioni di Ben Sira. Ma sui limiti della sua impostazione culturale esprime un giudizio quanto mai critico Oda WISCHMEYER, che nella conclusione del suo studio scrive: “La cultura che il Siracide offriva ai giovani dell’antica classe benestante era umanistica nel senso che favoriva il ricordo del passato ma era poco attenta alla prassi, etica invece che politica, portata più a seguire invece che a dirigere, nazional-conservatrice invece che progressista secondo la mentalità internazionale dell’ellenismo, legata alla lingua ebraica invece che alla lingua greca, devota invece che intellettuale e filosofica, e nello stesso tempo elitaria invece che popolare...Era quindi una cultura che non poteva costituire una reale prospettiva professionale per i giovani che nutrivano delle serie aspirazioni in Gerusalemme e nella Giudea” (Die Kultur, 298s).

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11 LA PROFEZIA COME APOLOGIA NAZIONALE E VERIFICA DELLA STORIA IN BEN SIRA [1999]

Questo titolo, formulato in sede di programmazione del convegno, può includere due diversi aspetti del rapporto tra la storia e la profezia: 1) da un lato, si ha la storia passata che viene rinarrata in funzione del presente e, così facendo, le si conferisce una valenza profetica di ammaestramento e di incoraggiamento, nella speranza che l’attuale situazione storica si modifichi per mettersi in continuità con i tempi antichi, abbastanza idealizzati nella rievocazione celebrativa che se ne fa nel nuovo racconto; 2) dall’altro, si sa che nel passato si incontrano delle speciali parole profetiche, quelle dette dai profeti, che hanno accompagnato già allora lo svolgersi di questa storia; ma anche dopo, esse mantengono una loro forza ed attualità a cui un saggio, come Ben Sira, si può richiamare. Partendo da questa distinzione logica, che non è però aprioristica, ma che riflette le grandi linee della tradizione biblica, nel cui interno distinguiamo i libri storici e i libri profetici, troviamo che nella riflessione sapienziale di Ben Sira, saggio e scriba, si riflettono entrambi questi filoni che vengono ripensati e unificati nel suo pensiero, caratterizzato, come si sa, dall’identificazione della sapienza con la legge e dalla conseguente assunzione della storia nella tradizione sapienziale. Dovendo esaminare come si presenta in Ben Sira il rapporto tra la storia e la profezia, il procedimento più naturale da seguire mi sembra che sia quello di rilevare i criteri che lo ispirano nella rievocazione della storia nazionale (cc. 44-49), nella quale culmina la sua opera sapienziale. Questi sei capitoli finali trovano un ottimo riscontro e complemento in un passo precedente, nel quale lui fa esplicito appello alle antiche profezie, perché irrompano nel presente, risolvendo la situazione angosciosa nella quale si trova in questo momento la città santa di Gerusalemme (36,14s). Perciò la mia esposizione si divide in due parti fondamentali, ma di ampiezza disuguale. La prima, la più estesa, esamina i cc. 44-49; la seconda, li verifica alla luce di un passo tanto significativo per il nostro tema, il già citato

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36,14s, ma integrato con quanto si dice in 24,33 e 46,6.10-12; 49,10.1 Seguiremo di regola il testo ebraico (H), segnalando pure qualche volta le divergenze della versione greca (G).

I LA “LODE” DEI PADRI. Come si sa, la rievocazione della storia nei cc. 44-49 (Laus Patrum) si concretizza per Ben Sira nella presentazione delle diverse figure singolari che hanno caratterizzato le varie fasi del passato.2 Volendole ora esaminare, le possiamo distinguere, dal punto di vista logico, in tre gruppi fondamentali: i profeti, i sacerdoti, i re; a questi si deve aggiungere il quarto gruppo dei patriarchi della Genesi, e poi Giosuè e Samuele. 1) I profeti a) Elia (48,1-11). La rievocazione di Elia, il primo dei profeti ricordati, presenta un tono battagliero molto spiccato che, anche se ben attestato nella tradizione biblica che lo riguarda (1Re 17-2Re 1), tradisce molto bene le preoccupazioni che sono presenti nell’animo di Ben Sira. Gli avversari contro cui Elia combatte sono menzionati per ben tre volte (vv. 2. 6. 8), mentre a due riprese si parla del potere che egli esercita sulla natura, in quanto può trattenere la pioggia (v. 3a), provocando la carestia, e risuscitare un morto (v. 5). Il compiacimento con cui Ben Sira esalta questa storia 1

Queste opere di carattere generale saranno indicate nelle note con il solo nome dell’autore: D. BARTHÉLÉMY – O. RICKENBACHER, Konkordanz zum hebräischen Sirach, mit syrisch – hebräischem Index, Göttingen 1973; Z. BEN-HAYYIM (ed.), The Book of Ben Sira. Text, Concordance and an Analysis of the Vocabulary, Jerusalem 1973; I. LÉVI, L’ecclésiastique ou la sagesse de Jésus fils de Sira. Texte original hébreu, édité, traduit et commenté, Paris, I: 1898; II: 1901; N. PETERS, Das Buch Jesus Sirach oder Ecclesiasticus, Münster in Westf. 1913; M. Z. SEGAL, Sefer Ben Sira ha-⁄alem, Jerusalem 19733; P. W. SKEHAN – A. A. DI LELLA, The Wisdom of Ben Sira, New York 1987; R. SMEND, Die Weisheit des Jesus Sirach erklärt, Berlin 1906. 2 A parte la bibliografia che sarà citata nelle note seguenti, per una introduzione a questa Laus Patrum dei cc. 44-49(50) si veda J. MARBÖCK, “Das Gebet um die Rettung Zions Sir 36,1-22 (G: 33,1-13a; 36,16b-22) im Zusammenhang der Geschichtsschau Ben Siras”, in: J.B. BAUER – J. MARBÖCK, Memoria Jerusalem. Freundesgabe Franz Sauer zum 70. Geburtstag, Graz 1977, 93-115, che nelle pp. 93-102 offre uno “status quaestionis” a riguardo, e M. GILBERT, “Siracide”, DBS, XII, fasc. 71, c. 1431-1433.

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di violenza, è rimarcato emblematicamente dalla triplice menzione del fuoco, che scandisce tutta questa sequenza (vv. 1. 3. 9). Nel v. 4 si intercala una considerazione dello stesso Ben Sira che tradisce molto bene lo spirito con cui egli traccia il profilo del primo profeta di questa sua carrellata storica: “Quanto sei3 terribile, o Elia, e chi ha una gloria pari alla tua?”. La conclusione (v. 10), rimandando al passo di Mal 3,24a che parla dell’avvento di Elia prima del giorno del Signore, fa vedere come l’azione efficace dell’antico profeta non è esaurita nel passato, ma, essendo egli stato assunto in cielo, deve tornare sulla terra per svolgervi, però, questa volta una missione di redenzione: far rivolgere il cuore dei padri verso i figli4 e così ristabilire le tribù d’Israele. b) La presentazione di Eliseo (48,12-15) è un po’ più concentrata. Ben Sira richiama i numerosi miracoli che gli sono attribuiti in 2Re 2-13 (v. 12: ’otôt/môfetîm; v. 14: niflaôt), ma interpreta in senso improprio la domanda di Eliseo ad Elia, di trasmettergli il doppio del suo spirito (cf. 2Re 2,9). Se in origine si trattava della doppia parte rispetto agli altri eredi (cf. Dt 21,17), ora Ben Sira pensa al doppio del potere di compiere miracoli, rispetto allo stesso Elia. Questa idea di una superiorità di Eliseo riguardo ad Elia, non è piaciuta al traduttore G, che perciò omette i due stichi 12cd.5 Ma al di là di questi prodigi, Ben Sira sottolinea la volontà indomita del profeta, che non si sottomette a nessuno (v. 12ef). c) Isaia (48,20-25). La presentazione del primo profeta classico fatta da Ben Sira ci sembra molto riduttiva. È profeta in quanto vede il futuro (vv. 24-25); la sua parola, da un lato ha trovato nel pio re Ezechia un docile discepolo (v. 22) e dall’altro ha consolato gli afflitti di Sion in esilio (v. 24; cf. il Deutero-Isaia): è questo un riferimento storico al passato, che contiene un’allusione al presente.6 Di Isaia, ignorando le aspre accuse e 3

Qui è meglio intendere con LÈVI, I, 134, PETERS e SKEHAN la proposizione nominale di H al presente, contro SMEND che traduce al passato. Così Elia è considerato come un personaggio straordinario che può ancora sprigionare quella forza già dimostrata nel passato anche nel presente. Invece G, non solo ha il passato (e\doxaésqhv), ma per sfumare un riferimento violento, evita la traduzione letterale di nwr’ con l’aggettivo foberoév, già usato in 9,18 e 43,29; inoltre aggiunge e\n qaumasòoiv sou (“nei tuoi prodigi”). 4 G cambia il plurale in singolare, come fanno i LXX nel corrispondente passo di Mal 3,24. 5 Ammettono l’originalità di 48,12cd, riportato solo da H, SMEND, PETERS, SEGAL, SKEHAN, ad. loc, e LÉVI, I, 138. 6 Nei vv. 24-25 si allude esplicitamente al tema della consolazione di Is 40,1-2; 49,813; 61,1-3 e alle “cose nuove” di Is 42,9. Sembra che così la visione del futuro del profeta

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minacce rivolte ai contemporanei, si ricordano in particolare due fatti prodigiosi, la ritirata degli Assiri (v. 21; cf. 2Re 19,20-34) e la guarigione del re Ezechia (v. 23; cf. 2Re 20,1-11). d) Geremia (49,7). Si parla di Geremia in connessione con la distruzione di Gerusalemme da parte dei Babilonesi, in quanto si sottolinea che essa era stata predetta da questo profeta. Geremia è l’unico profeta di cui non si parla in termini trionfalistici, anzi si ricorda molto bene che è stato maltrattato dai suoi contemporanei. Per il resto Ben Sira se ne esce citando Ger 1,10, che con tre verbi negativi7 e due positivi sintetizza l’intera missione di Geremia, non trascurando così implicitamente la promessa della salvezza che si trova pure nel suo libro (cc. 31-32). e) Ezechiele (49,8-9). Per l’ultimo dei tre profeti maggiori si fa riferimento alla visione inaugurale del suo ministero, ma introducendo un elemento nuovo sviluppato nel giudaismo postbiblico, quello della merkabah8 (“carro con trono”): “Ezechiele ha visto una visione e ha descritto le varie forme9 della merkabah” (v. 8). Sembra che questa riduzione dell’opera di Ezechiele alla menzione della merkabah, voglia evidenziare semplicemente un elemento meraviglioso e straordinario che costituisce un motivo di vanto per il popolo d’Israele anche nel presente. Attraverso Ezechiele si introduce, infine, la menzione di Giobbe, come personaggio esemplare per la sua giustizia (v. 9). 2) I sacerdoti Aronne (45,6-22). Il personaggio a cui si dirigono le maggiori simpatie di Ben Sira è sicuramente Aronne. A parte la lunga descrizione del Isaia sia circoscritta agli occhi di Ben Sira all’epoca che cade nell’ambito del Deutero e del Trito Isaia. Quindi riguarda solo il passato, ma è pur sempre un fatto prodigioso, pari alle azioni taumaturgiche. 7 Qui Ben Sira omette il quarto verbo haras, d’accordo in questo con la LXX di Ger 1,10. 8 Il termine merkabah, che nell’AT indica di solito un carro militare, solo in 1Cr 28,18 è usato con riferimento alla visione dei Cherubini in Ez 1, dove però si parlava solo di “ruote”. Grazie all’introduzione di questo vocabolo, si completa l’immagine del “trasporto” della gloria di Dio, prima indicata dalle sole ruote. Dopo Sir 49,8 se ne riparla nella Mishna (Hag. 3,1), per indicare Ez 1, considerato ormai come un testo speciale. Cf. G. SHOLEM, in EncJud, vol. 11, Jerusalem 1972, c. 1386, e J. MARBÖCK, “Henoch – Adam – der Thronwagen. Zu frühjüdischen pseudepigraphischen Traditionen bei Ben Sira”, BZ 25(1981) 103-111, 109s. 9 LÉVI, I, 146, anche se mantiene nella traduzione zny (“les divers aspects”) preferirebbe leggere rzy “les mystères”.

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suo vestiario (vv. 8-12: 20 stichi su un totale di 63 stichi) e il riferimento un po’ sommario ai sacrifici (vv. 14-16: 6 stichi), si insiste in modo speciale sulla perpetuità del suo ufficio (vv. 7. 15cd), che non consiste solo nella celebrazione del culto, dove egli ha la funzione di benedire il popolo (v. 15a) e di espiare le colpe dei figli d’Israele (v. 16d), ma nell’insegnare ad essi i precetti e i comandamenti (v. 17). Una importante appendice (vv. 8-19) è dedicata al ricordo della rivolta di Datan, Abiron e Core (cf. Nm 16,1-17,5), che provoca la promulgazione dei diritti dei sacerdoti riguardo ai sacrifici, motivo per cui essi non avranno un proprio territorio (cf. Nm 18,20). A complemento della presentazione del sacerdozio di Aronne si parla di Pincas (vv. 23-26), che rappresenta il ramo legittimo della trasmissione del sacerdozio di Aronne fino ai giorni di Ben Sira. Di lui si mette in evidenza il coraggio nello stroncare il peccato del popolo (cf. Nm 25,7-13), che gli assicura la perpetuità del sommo sacerdozio alla guida del popolo. L’attualità di tutta questa rievocazione delle origini del sacerdozio è dimostrata dalla chiara corrispondenza che essa presenta con l’elogio del sommo sacerdote Simone II, figlio di Onia, al cap. 50. 3) La serie dei re di Giuda Dei re di Giuda si elogiano soltanto Davide, Ezechia e Giosia (49,4); in questo apprezzamento positivo non si includono Asa e Giosafat che pure erano stati elogiati nella storia deuteronomistica (cf. 1Re 15,11-14; 22,43). Nella presentazione di Davide (47,1-11) si ricorda all’inizio il suo strabiliante valore nella lotta contro gli animali feroci in difesa del suo gregge, per poi dare grande rilievo alla vittoria da lui riportata contro Golia (cf. 1Sam 17,40-54) e i Filistei (cf. 2Sam 5,17-25; 8,1). Ma subito dopo si esalta la sua opera rivolta all’organizzazione del culto (vv. 8-10), sulla scia del libro delle Cronache (cf. 1Cr 23).10 Si accenna in maniera generica all’adulterio con Betsabea (v 11a), per dire che Dio lo ha perdonato al punto che “ha innalzato per sempre la sua forza”, conferendogli il diritto alla regalità e stabilendo il suo trono in Gerusalemme. Di Salomone (47,12-22) si ricordano, in positivo, la costruzione del tempio, la sapienza, la ricchezza e la sua attività letteraria, ma si sottolinea 10 A proposito di quanto si dice di Davide nel v. 8a (“in ogni sua opera diede lode [a Dio, con la preghiera]”), nota giustamente DI LELLA, 526, che qui si ha “quanto meno una esagerazione” riguardo alla vera figura storica di Davide.

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di più la sua debolezza con le donne, che ha portato una vergogna sul suo letto matrimoniale, compromettendo così in qualche modo la promessa riguardante la discendenza dinastica, al punto che si sente dopo il bisogno di ribadire che essa non viene revocata (v. 22). Il rammarico di Ben Sira per la secessione delle tribù del Nord alla morte di Salomone, viene espresso con il disprezzo che mostra per il suo figlio Roboamo (47,23), responsabile del distacco del popolo dalla dinastia davidica. Di Ezechia (48,17-22) si ricordano le opere di fortificazione della città e la sua devota collaborazione con il profeta Isaia, mentre per Giosia (49,1-3) si menziona soltanto la sua sincera opera di riforma religiosa in seguito al ritrovamento del rotolo della legge (cf. 2Re 22-23). Del regno d’Israele si parla per due volte, ricordando la sua infausta origine alla morte di Salomone (47,24-25) e, dopo, a conclusione della sezione dedicata ad Elia ed Eliseo, che avevano in esso operato senza riuscire ad ottenerne la conversione, in modo che alla fine si realizza il castigo dell’esilio (48,15).11 Sulla scia dei re noi possiamo collocare i tre personaggi del dopoesilio, che pur non essendo collegati con la dinastia davidica, adempiono una funzione espletata prima dai re. Infatti, Zorobabele e Giosuè (49,11-12), che ricostruiscono il tempio, e Neemia (49,13), che ripara le mura di Gerusalemme, ricordano le figure di Salomone e di Ezechia. Dopo aver considerato successivamente i profeti, i sacerdoti e i re, possiamo dire che l’interesse di Ben Sira è rivolto soprattutto ai sacerdoti, che costituiscono ai suoi occhi il nerbo della vita nazionale, una volta che era cessata la monarchia e la profezia. Ciò viene esplicitamente affermato a conclusione della lunga pericope dedicata al sacerdozio nelle persone di Aronne (45,6-22) e di Pincas (45,23-26), quando nei vv. 24-24, anticipando la menzione di Davide del quale si parlerà soltanto dopo in 47,1-11, si fa un confronto tra le due alleanze stabilite da Dio con le due istituzioni, delle quali ora quella più recente (la monarchia) viene subordinata a quella più antica (il sacerdozio):

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Invece, riguardo a Giuda Ben Sira omette la menzione dell’esilio, limitandosi a ricordare la distruzione di Gerusalemme, come sottolinea R. A. F. MACKENZIE, “Ben Sira as Historian” in: T. A. DUNNE – J.- M. LAPORTE (ed.), Trinification of the World: A Festschrift in Honor of Frederick E. Crowe, Toronto 1978, 312-327, 323.

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“Perciò anche per lui (Pincas) ha stabilito (Dio) una disposizione, un’alleanza di salvezza (¡lwm)12 per provvedere al santuario, in modo che essa sia per lui e per la sua discendenza, (quale) sacerdozio sommo per sempre, ed anche la sua alleanza con Davide, figlio di Isai della tribù di Giuda (sott. ha stabilito per lui = Pincas): (è questa) un’eredità del fuoco davanti alla sua gloria, l’eredità di Aronne (che passa) alla sua discendenza”. In questo modo il testo H mostra una piena coerenza,13 anche se spesso si preferisce correggerlo secondo G, che presenta negli ultimi due stichi cd (in H: njlt ’v lPny KBwDw, njlT ’hrn lKl zr‘w) una versione molto diversa: “l’eredità di un re (che è a sua volta) figlio da un (precedente) figlio solo, l’eredità di Aronne (è) anche per la sua discendenza”.

4) Le altre figure della rassegna storica di Ben Sira Prescindendo da Enoch con cui si inizia e si conclude la rassegna storica di Ben Sira (44,16; 49,14), aggiungendo alla notizia biblica della sua pietà e della sua assunzione al cielo (cf. Gen 5,24) quella proveniente dal giudaismo postbiblico che ne ha fatto un “segno di scienza di generazione in generazione”,14 si parla ancora, da Noè a Samuele, di otto figure della L’espressione B+r’T v`lo< deriva da Nm 25,12. È questa l’interpretazione preferita, al seguito di P. C. BEENTJES, Jesus Sirach en Tenach. Een onderzoek naar en een classificatie van parallelen, met bijzondere aandacht voor hun functie in Sirach 45:6-26, Nieuwegein 1981, 188-192, da J. D. MARTIN, “Ben Sira’s Hymn to the Fathers: A Messianic Perspective”, OTS 24 (1986), 107-123, 113-115, e da J. MARBÖCK, “Die ‘Geschichte Israels’ als ‘Bundesgeschichte’ nach dem Sirachbuch”, in: E. ZENGER (ed.), Der neue Bund im alten. Studien zur Bundestheologie der beiden Testamente (QD 146), Freiburg i. B., 1993, 177-197, 188s, ma sostenuta ancor prima da SEGAL, 316. Di solito, appellandosi a 1Re 9,5, si considera ’v (“fuoco”) come equivalente a ’yv (“uomo”), per una scriptio defectiva: così SMEND, PETERS, SKEHAN, ad loc.; LÉVI, I, 108, corregge il testo sulla base di G e della vers. siriaca, in njlT <lK lBnw lBDw (“l’héritage du roi est à son fils seul”). 14 Nel libro etiopico di Enoc si dice che questo patriarca riceve delle rivelazioni riguardanti le leggi della natura e dell’astronomia per mezzo di sogni, visioni e angeli; cf. MARBÖCK, “Henoch”, 105-107, e L. ROSSO UBIGLI, “La fortuna di Enoch nel giudaismo antico: valenze e problemi”, AnStEs 1 (1984) 153-163. Ma G ha cambiato questa “scienza” 12 13

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preistoria d’Israele, che dobbiamo ora esaminare a conclusione di questa prima parte della nostra relazione. Dopo averlo qualificato come “giusto”, Ben Sira sottolinea il merito di Noè (44,17-18) come motivo della cessazione del diluvio. Così veniva assicurata la prosecuzione della vita sulla terra. Nella presentazione di Abramo (44,19-21) si fa perno soprattutto su Gen 17, nel quale il patriarca, pur essendo dichiarato “padre di una moltitudine di popoli” (v. 19a; cf. Gen 17,4), è colui che riceve l’ordine di praticare la circoncisione (v. 20bc; cf. Gen 17,9-14). Abramo viene inoltre elogiato, ma forzando così il senso del racconto originario, per il fatto che ha saputo evitare che la moglie Sara fosse disonorata (v. 19b; cf. Gen 12,10-20; 20,1-18), e poi ancora per la sua obbedienza in genere (v. 20a; cf. Gen 26,5), e in modo speciale per quella dimostrata quando Dio gli chiede di sacrificare il figlio (v. 20d; cf. Gen 22,1-14). Da questo ultimo gesto si fa dipendere, come da un merito, la promessa della benedizione dei popoli (v. 21ab; cf. Gen 22,18) e del dono della terra alla propria discendenza (v. 21ef; cf. Gen 15,18).15 Isacco e Giacobbe (44,22-23) sono considerati insieme, e questo indica come sia importante il legame che c’è tra una generazione e l’altra ai fini della trasmissione del privilegio dell’alleanza, e della duplice promessa della benedizione e del possesso della terra. Anche in Ben Sira, perciò, come già nella Genesi, riceve più attenzione Abramo, mentre i due successivi patriarchi sono visti come figure di passaggio, con cui si assicura alla fine il diritto alla terra delle dodici tribù d’Israele. L’altro momento fondante dopo Abramo lo si ha ancora con Mosè (45,1-5); è lui che riceve la legge, ma la sua trasmissione nell’insegnamento è delegata alla discendenza di Aronne, che costituisce la classe sacerdotale. Di Mosè si ricordano i “segni” compiuti in Egitto, ma si sottolinea pure la forza (’`max, j`zaq) che può dimostrare davanti al Faraone. Per Giosuè (46,1-8) si danno all’inizio due qualificazioni generali molto interessanti: 1) egli succede a Mosè nella guida carismatica degli israeliti; 2) egli combatte delle “guerre di vendetta” contro il nemico per far ereditare ad Israele la sua terra. Quindi si ricordano con particolare enfasi

in “esempio di conversione” (u|poédeigma metanoòav); cf. F. LUCIANI, “La funzione profetica di Henoch (Sir. 44,16b secondo la versione greca)”, RivB 30(1982)215-224. 15 Nel v. 21cd G aggiunge di proprio, per la discendenza di Abramo, le due immagini delle stelle (cf. Gen 15,5) e della polvere della terra (cf. Gen 13,16).

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due episodi: la battaglia per la conquista di Ai (v. 2; cf. Gs 8,18)16 e quella combattuta in soccorso dei Gabaoniti, con la celebre scena della fermata del sole (v. 4; cf. Gs 10,13). Nel primo caso, Ben Sira, con la sua insistenza sulla mano alzata per comandare al sole (senza il giavellotto di cui parla Gs 8,18), sembra che associ questo prodigio con l’altro di cui si parla in Es 17, quando è Mosè che, con le sua mani alzate sul monte, ottiene la vittoria di Giosuè che combatte nella valle. Sorprende l’ampiezza dello spazio dedicato a una figura secondaria come Caleb (46,7-10). In realtà, Ben Sira se ne serve per sviluppare una doppia lezione: quella del coraggio di chi si sa opporre alla viltà della folla che lo circonda (v. 7; cf. Nm 14,6-10),17 e quella della forza che Caleb dimostra quando è già vecchio (v. 9; cf. Gs 14,10-11). Uno spazio ancora maggiore ottiene Samuele (46,13-20), definito in generale profeta, giudice e sacerdote. Degli episodi particolari, oltre a quello politicamente molto rilevante del suo intervento per l’introduzione della monarchia (v. 13e; cf. 1Sam 9-12; 13,13) e l’unzione di principi (v. 13f; cf. 1Sam 10,1; 16,13 ), si ricordano tre fatti prodigiosi: il suo concepimento (v. 13bH; cf. 1Sam 1,27), la sua impressionante apparizione, dopo morte, a Saul che lo consulta (v. 20; cf. 1Sam 28,6-25) e, infine, la sconfitta ottenuta con il sacrificio offerto da lui (vv. 16-18; cf. 1Sam 7,9-13). Nella sommaria analisi della Laus Patrum (Sir 44-49) che abbiamo fatto finora, sono emerse soprattutto queste importanti indicazioni: 1) il ricordo della storia passata serve come esempio per l’oggi;18 2) tenendo conto della mentalità dell’autore e del clima culturale in cui egli vive, ciò che lui evidenzia nel passato è prima di tutto l’eroismo personale delle diverse figure storiche da lui ricordate. La storia nazionale, da epopea collettiva diventa ora una galleria

16 Mentre H parla nel v. 2b di una città (‘yr), G generalizza il riferimento particolare passando al plurale (poéleij). 17 Per il numero “seicentomila” (v. 8), cf. Nm 11,21. 18 In realtà, la Laus Patrum serve come conferma dell’insegnamento sapienziale raccolto nei cc. precedenti, come nota R. T. SIEBENECK, “May their Bones Return to Life! – Sirach’s Praise of the Fathers”, CBQ 21(1959)411-428; invece N. FERNÁNDEZ MARCOS, “Interpretaciones helenísticas del pasado de Israel”, Cuadernos de filología clásica 8(1975)157-186, sottolinea che questa rievocazione storica ha la funzione di contrastare l’attrazione dell’ellenismo: “El criterio de selección reside en el valor apologético que tiene el héroe para contrarrestar la atracción del helenismo” (165).

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di alcune personalità singole, ciascuna della quali rappresenta la sua epoca;19 3) l’eroicità di queste figure del passato che assurge a modello per il presente comporta pure l’ammissione ovvia di fenomeni straordinari e miracolosi;20 ma in essi si sottolinea ora – a fifferenza di quanto si faceva nella tradizione biblica precedente – l’intervento sovrano di Dio che premia la pietà di questi eroi; 4) il luogo dove si è coagulato l’intervento salvifico di Dio che si era reso visibile nell’azione carismatica degli eroi del passato, è ormai soltanto il tempio e il sacerdozio; 5) il ruolo dei profeti nella storia passata è visto in una maniera riduttiva, in quanto si trascura l’elemento che più li caratterizza, come annunciatori del giudizio di Dio prima e della sua salvezza dopo. I profeti sono stati assimilati e appiattiti nella dimensione degli altri eroi, che perciò sono degni di menzione più per qualche loro opera prodigiosa che non per il loro messaggio.21

II ALCUNI PASSI DEL SIR COME CHIAVE INTERPRETATIVA DEI CC. 44-49. 1) Sir 36,20-21 Il v. 36,20 appare molto importante quando lo si legge tenendo conto di questi presupposti. Il primo stico è in armonia con la linea di pensiero che predomina nella rievocazione storica: “Da’ testimonianza alle tue opere che (sono) dall’inizio” (T/ ‘DwT lmr’v m‘cy:). Queste opere sono quelle della storia passata che abbiamo ricordato parlando dei cc. 44-49: opere degne di Dio, che manifestano la sua presenza salvifica a favore d’Israele. Ora si 19 Ciò legittima l’accostamento della Laus Patrum al genere ellenistico dell’encomio, secondo la tesi di T. R. LEE, Studies in the Form of Sirach 44-50 (SBLDS 75), Atlanta 1986, riproposta, anche se con qualche restrizione, da MARBÖCK, “Die ‘Geschichte Israels’”, 182, che si basa piuttosto sull’analogia con Sap. Con tutto ciò, ha ragione SIEBENECK, “May their Bones”, 417, di sottolineare il teocentrismo della Laus Patrum. 20 Secondo FERNÁNDEZ MARCOS, “Interpretaciones helenísticas”, 165, si ha in questo, oltre che una caratteristica della più recente storiografia biblica, come si può vedere nel libro delle Cronache, l’influsso dell’aretalogia ellenistica. Il termine a|retalogòa (hapax nei LXX) compare in Sir 36,19 come “lode” di Dio. 21 Su questa riduzione della figura profetica richiama l’attenzione MACKENZIE, “Ben Sira as Historian”, 325.

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chiede a Dio che lui stesso renda testimonianza ad esse, nel senso che ne compia di nuove che siano omogenee ed in continuità con quelle, ricche come esse di una potente forza salvifica. Non ci si appella a delle parole, ma a delle opere, quelle già passate e quelle che si vorrebbe che si ripetano nel presente, in un momento drammatico di sofferenza per il popolo che abita a Gerusalemme sotto la dominazione dei Seleucidi. Invece il secondo stico (v. 20b) passa alle parole dette dai profeti nel passato e che provengono da una visione da loro avuta, che li ha indotti a parlare in nome di Dio: “e realizza la visione detta nel tuo nome” (wHqm jZ/ DBr Bvm:). Dio è invocato perché si decida a realizzare ora queste parole di salvezza date nel passato, che possono ribaltare miracolosamente la penosa situazione presente. Così, il v. 20b, considerando in questo modo le parole profetiche, conferisce loro un peso più specifico rispetto alla sottovalutazione che se ne fa in 44-49. Il seguente v. 21 rimane nella stessa prospettiva, sottolineando però di più il lato umano di questa salvezza che si attende da Dio: “Dai la ricompensa di (=a) quelli che sperano in te e i tuoi profeti siano resi degni di fede” (T/ ’T P‘lT qwwy: w/By’: y’mynw).22 Prima di tutto si parla di quelli che nell’adempimento della promessa divina hanno fondato la loro speranza; e ora questa speranza richiederebbe una adeguata corrispondenza, la sua meritata ricompensa. Solo così i profeti che hanno parlato promettendo la salvezza da parte di Dio, sarebbero confermati come degni di fede per quello che hanno detto. Questo ricco significato della parole profetica viene meccanicamente ribadito a proposito di Geremia (49,7cd), ma in maniera isolata, grazie alla citazione di un passo biblico (Ger 1,10), non armonizzato con il tenore generale di tutta la rievocazione storica e del modo come in essa vengono considerati i profeti.

22

Il verbo y’<’nw che sembra un Hifil deve essere letto come y’<nw (Nifal), giacché qui esso è usato nello stesso senso in cui lo si trova in Gen 42,20, come si rileva in S. SCHCHTER – C. TAYLOR, The Wisdom of Ben Sira. Portions of the Book Ecclesiasticus, Hebrew Text, Edited from Manuscripts in the Cairo Genizah Collection, Cambridge 1899 (rist. Amsterdam), 60. Così anche SEGAL, 225, BARTHÉLEMY, 30, BEN HAYYIM, 93, e, recentemente, D. J. A. CLINES (ed.), The Dictionary of Classical Hebrew, vol. I, Sheffield 1993, 315.

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2) Sir 24,33 Il saggio, convinto sostenitore dell’importanza del sacerdozio, è per Ben Sira l’erede dell’antico carisma profetico: “ancora l’insegnamento come profezia effonderò, e lo trasmetterò alle generazioni future” (e"ti didaskalòan w|v profhteòan e\kcew% kaìv kataleòyw au\thèn e\iv geneaèv a\\iwénwn) (24,33). Così dicendo Ben Sira teorizza quello che è lo spirito della sua prassi di maestro di sapienza; esalta la figura del saggio, perché in essa egli identifica implicitamente se stesso. Lui non è sacerdote, ma è un simpatizzante del sacerdozio e del culto del tempio, perché vede in esso il perno fondamentale dell’attuale assetto politico e istituzionale del suo popolo. 3) La parenesi di Ben Sira In quanto saggio Ben Sira reinterpreta la storia del passato e la attualizza intercalandovi le sue riflessioni parenetiche, con le quali recupera e ripropone lo spirito degli antichi profeti. Se già l’intenzione di Ben Sira emerge in maniera indiretta dal modo come egli conduce la sua rievocazione della storia passata, ci sono due passi tra loro vicini e simili dal punto di vista del contenuto, che manifestano concretamente in forma parenetica lo spirito di tutta questa sezione storica del suo libro. Commentando la vittoria sui diversi regni coalizzati contro Gabaon, Ben Sira fa questa osservazione: “perché sappiano tutti i popoli condannati all’interdetto che Jahvé vigila sulla loro guerra” (46,6). Naturalmente, questa ammonizione non è più rivolta, nonostante la sua formulazione, ai popoli stranieri che furono allora sconfitti, ma prima di tutto all’Israele presente, perché non abbia paura per gli stranieri che attualmente lo ostacolano. Invece l’altra simile ammonizione viene rivolta direttamente ad Israele, quando si ricorda la fedeltà di Caleb: “ perché sappia tutta la discendenza di Giacobbe che è cosa buona seguire pienamente il Signore” (46,10). È questa un’ammonizione che riguarda il presente, ma prendendo lo spunto dalla lezione del passato. Un altro concetto importante riguarda il significato delle sepolture come luogo speciale da cui si può trasmettere una certa energia spirituale degli antenati sui loro discendenti. Questo concetto lo si trova espresso per ben due volte, a proposito dei Giudici (46,12) e a proposito dei profeti minori (49,10). Esso costituisce perciò un denominatore comune a due categorie di eroi molto diverse fra di loro, ma che Ben Sira unifica, nel senso

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che la storia dei Giudici, fornendo una lezione per l’oggi possiede una dimensione profetica, mentre i profeti, che avevano manifestato la loro forza con la parola, sono assimilati ai Giudici, che si erano dimostrati forti con le armi. Questa sovrapposizione dei due diversi ruoli, militare e profetico, mostra come, appartenendo entrambi alla comune eredità del passato, hanno una identica funzione di rivitalizzazione del presente.23 Conclusione Abbiamo visto come tutta la rievocazione storica in Ben Sira presenta i tratti di una certa attualizzazione di tipo profetico, sia in quanto le storia viene stilizzata in una serie di figure esemplari, che possono essere un modello nel presente, e sia in quanto evidenzia la centralità del sacerdozio in corrispondenza alla situazione storica del suo tempo. Nella rievocazione delle diverse figure profetiche non si sottolinea abbastanza il loro ruolo di portatori della parola di Dio nella doppia dimensione della minaccia e della promessa, ma si accentua invece una loro caratteristica secondaria, la loro capacità di operare prodigi. Invece in 36,20-21 si afferma da un lato il carattere profetico della storia antica, in quanto Dio può ripetere anche oggi gli atti salvifici operati una volta, e dall’altro l’attesa del compimento della parola profetica, in quanto promette la salvezza d’Israele. Secondo 24,33 Ben Sira, in quanto saggio e scriba, si considera erede degli antichi profeti. In lui rivive lo spirito dei profeti nella didaskalia che rivolge ai suoi contemporanei, e che trova la sua forza e la sua fondazione negli eventi passati. In armonia con questo suo ruolo di responsabilità morale verso il suo popolo e verso la sua epoca, egli svolge nella sua scuola e presenta nel suo libro l’insegnamento sapienziale che ancor oggi vi leggiamo.

23 Questi due passi sarebbero addirittura la chiave interpretativa di tutta la Laus Patrum secondo SIEBENECK, “May their Bones”, che si ispira proprio ad essi nel titolo scelto per il suo articolo (cf. specialmente p. 419).

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12 LA SETTANTA DI PROVERBI 10-12 [1999]

La versione greca del libro dei Proverbi che troviamo nella Settanta è stata oggetto di dettagliati studi fin dalla seconda metà del secolo scorso1. Il giudizio che comunemente si dà a suo riguardo è che si tratta di una traduzione libera rispetto all’ebraico che troviamo nel Testo Masoretico2. In questo saggio noi vogliamo verificare questo suo carattere libero, limitandoci all’esame dei cc. 10-12, i primi tre capitoli con i quali inizia quella che si considera la più antica delle collezioni raccolte in questo libro (10,1-22,16)3. Nei tre capitoli presi in esame si hanno complessivamente 91 vv. con altrettanti proverbi; di essi, solo venticinque presentano una fondamentale corrispondenza nell’ebraico e nel greco, a parte alcune variazioni minori, di tipo formale che non intaccano il significato globale di ogni sentenza4. Noi vogliamo fermarci a considerare in particolare tre tipi di divergenze tra il testo ebraico e quello greco, che ci consentono di renderci conto in maniera molto concreta e diretta del metodo di lavoro seguito dal traduttore: 1) variazioni che si riscontrano nei due testi nel trattamento delle immagini; 2) preferenza del traduttore per la caratterizzazione bipolare degli uomini; 3) variazioni dovute ad una diversa lettura del testo ebraico, sia riguardo alle consonanti e sia riguardo alle vocali, da parte del traduttore5.

1 Sono questi, nell’ordine cronologico, gli studi più significativi, dal 1863 al 1997: de LAGARDE, BAUMGARTNER, MEZZACASA, KAMINKA, BERTRAM, TOV, COOK. 2 Cf. JELLICOE, 317S, CLIFFORD, 55. 3 SCHMIDT, 325. 4 Si tratta dei vv. 10,1.2.7.9.14.19.20.22.27,30.31; 11,2.11.12.13.17.24; 12,5.7.10.15.16.18.20.22. Essi non verranno più presi in considerazione nel nostro studio. 5 Negli esempi che seguono si cerca di dare una traduzione molto letterale, mantenendo pure lo stesso ordine delle parole. Si usano queste abbreviazioni, poste tra parentesi: acc.(usativo), agg.(ettivo), gen.(itivo), sogg.(etto, ettivo). Si indica in corsivo in G la parola cambiata o quella aggiunta (preceduta dal segno +).

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A) Variazioni nel trattamento delle immagini (16 casi) Nell’insegnamento sapienziale si ricorre facilmente all’uso delle immagini; proprio qui troviamo un campo privilegiato per una prima rilevazione dei cambiamenti introdotti da G in H. Conviene ordinare gli esempi secondo un criterio tematico, cominciando dalla nomenclatura che è attinente al mondo vegetale: foglie, radice, legno, bastone, trappola. In 11,14 G introduce di suo l’immagine delle “foglie” che poi, invece, elimina in 11,28: (1) “Senza buon governo cadrà un popolo, ma (si ha) salvezza nell’abbondanza di consiglieri > Coloro cui manca il buon governo cadono + come foglie, ma salvezza si ha con molto consiglio”(11,14); (2) “Chi confida nella sua ricchezza proprio lui cadrà6, ma come foglia i giusti germoglieranno > Chi confida nella ricchezza, questi cadrà, ma chi si preoccupa dei giusti, questi sorgerà”7(11,28). Parlando delle radici (sing. in H) dei giusti G preferisce usare il verbo “strappare”, che è più coerente con questa immagine, rispetto al verbo “vacillare” usato nell’ebraico: (3) “Non sarà stabile l’uomo (che sta) nell’empietà, ma la radice dei giusti non vacillerà> Non trarrà profitto l’uomo dall’empietà, ma le radici dei giusti non saranno strappate”(12,3). Il paragone, applicato alla cattiva moglie che è per il marito “come carie nelle ossa”, G lo traduce “come verme nel legno”: (4) “Una donna vigorosa (è) la corona di suo marito, ma come carie nelle sue ossa (è) quella che dà vergogna > Una donna virile (è) corona per suo marito, ma + come(fa) nel legno un verme, così il marito (acc.) perde la moglie malefica (sogg.)”(12,4). In G le due proposizioni antitetiche del distico vengono riferite allo stesso soggetto iniziale, unificando così la struttura sintattica dei due stichi: (5) “Nelle labbra dell’assennato si troverà la sapienza, ma (c’è) un bastone per la schiena dell’insensato > Colui che dalle labbra proferisce sapienza, colpisce con il bastone l’uomo insensato”(10,13). In questo modo si accentua la contrapposizione tra le due categorie di persone, secondo le tendenza che rileveremo più avanti, nel paragrafo B. L’immagine della “trappola”, una volta è introdotta da G: (6) “Con la bocca il miscredente distruggerà il suo 6 Non è il caso di correggere loPiy - confermato dal peseitai di G (McKANE, 37) – in loBiy “appassirà” per adattare il verbo all’immagine della foglia, secondo la congettura ricordata da BHS. 7 G mettendo “sorgerà” esplicita meglio l’antitesi con il precedente “cadrà”, come osserva GERLEMAN, 17.

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prossimo, ma con la scienza i giusti si liberano (Uc lfx y) > Nella bocca degli empi (c’è) una + trappola per i cittadini, ma l’intuito dei giusti (è) una via d’uscita (rad. xalfc)8”(11,9), ma un’altra volta è trasformata, passando dal pericolo che il malvagio costituisce per gli altri alla punizione che egli stesso subirà: (7) “Nella malvagità delle labbra (c’è) una trappola cattiva, ma uscirà dall’angustia il giusto > Con il peccato delle labbra + cadrà nelle trappole il peccatore, ma sfuggirà da esse il giusto”(12,13). Per tre volte ci si imbatte nell’uso metaforico della “mano”. Essa, una volta viene sostituita alla bocca, ma un’altra volta è alle mani che si sostituiscono le labbra: (8) “Sorgente di vita (è) la bocca del giusto, ma la bocca (sogg.) degli empi nasconderà violenza (acc.) > Sorgente di vita (è) nella mano del giusto, ma la bocca (acc.) dell’empio coprirà la perdizione (sogg.)”(10,11); (9) “Dal frutto della bocca l’uomo si sazierà ‘’9, e (così) la ricompensa delle mani dell’uomo tornerà10 a lui11 > Dai frutti della bocca + l’anima dell’uomo si sazierà di beni, ma la ricompensa delle sue labbra sarà data a lui”(12,14). È interessante, sempre a proposito della mano, notare l’interpretazione realistica di un’espressione metaforica: (10) “Mano alla mano, non sarà dichiarato innocente il cattivo, ma il seme/discendenza ((arez) dei giusti viene salvato > Chi con la (sua) mano le mani (altrui) + respinge ingiustamente non sarà impunito, (ma) colui che semina (( roz)12 giustizia riceverà salario fedele”(11,21). Qui un modo di dire convenzionale (“mano alla mano”), equivalente all’assicurazione “è proprio così”, viene trasformato ed ampliato in una frase che tutt’altro senso. L’immagine classica della “via” una volta è interpretata ricorrendo a un suo equivalente “il timore (del Signore)”: (11) “Fortezza per ‘l’integro’13 (è) la via di Jahvè14, ma (è) rovina per gli operatori di male > Fortezza del pio (è) il timore del Signore, ma (è) una rovina per quanti operano il male”(10,29), e un’altra volta è introdotta in sostituzione di 8

Metatesi segnalata da CLIFFORD, 54; cf. Num LXX 14,41. Si può omettere con la BHS il complemento bO+ “di bene”. 10 L. con la BHS il ketib bU$fy (forma qal) invece del qere byi$fy (forma hiphil). 11 S’intende che il frutto del lavoro manuale di un’altro uomo sarà la ricompensa della buona parola del saggio. 12 Lo stesso passaggio, ma all’inverso, lo si ha in 11,18 (C2). 13 l. con la BHS {fT invece di {oT “integrità”. 14 Preferisco questa costruzione con JBTHS, 1301, ma è pure possibile l’altra costruzione “fortezza per l’integro di via (= condotta) è Jahvè” preferita da RINGGREN, 45, MCKANE, 427, PLÖGER, 122; cf. il passo seguente (11,20). 9

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“cuore”: (12) “Abominio di Jahvè (sono) i contorti di cuore, ma suo compiacimento gli integri di via > Abominio del Signore (sono) le contorte vie, ma (sono) graditi a lui tutti gli integri nelle loro vie”(11,20), come suggerito dal parallelismo con lo stico seguente. Altre volte l’immagine è interpretata nel suo equivalente significato reale. Così l’espressione “(sono) un agguato di sangue” è resa con “(sono) ingannevoli”: (13) “Le parole degli empi (sono) agguato di sangue, ma la bocca dei retti li salverà > Le parole degli empi (sono) ingannevoli ma la bocca dei retti li salverà”(12,6), e la promessa “sarà fatta ingrassare”, riguardante la persona generosa, è resa, trasformando nello stesso tempo la struttura logica dell’intero stico, “(una persona) tutta semplice”, raggiungendo così un significato opposto, ma più moralistico: (14) “Un’anima di benedizione (=una persona generosa) sarà fatta ingrassare, e chi irriga abbondantemente anche lui sarà irrigato > Un’anima (è) benedetta (quando è) +tutta semplice, ma l’uomo irascibile non è aggraziato”15(11,25). Nel paragone “anello d’oro nel naso di un maiale”, questo diventa un monile più semplice, eliminando la menzione dell’oro: (15) “Anello d’oro nel naso di un maiale, (è) la donna bella che si allontana (dal) discernimento > + Come orecchino [] nel naso di un maiale, + così per una donna insensata (è) la bellezza”16(11,22). Infine, in un proverbio contro la pigrizia si perde del tutto il realismo legato ad una economia domestica di tipo agrario, per passare ad una metafora generica e moraleggiante che prescinde da un preciso contesto economico: (16) “Chi raccoglie nell’estate (è) un figlio prudente, chi si addormenta nella mietitura (è) un figlio che fa vergognare > Viene salvato dal caldo un figlio prudente, ma viene battuto dal vento un figlio iniquo”(10,5).

B) Caratterizzazione bipolare degli uomini (13 casi) Si sa che il pensiero sapienziale è solito classificare gli uomini in due opposte categorie fondamentali, l’una positiva e l’altra negativa, come saggio e stolto, giusto ed empio, ecc. Il traduttore G semplifica ulterior15

Secondo GERLEMAN, 16, c’è qui una trasformazione stilistica per enfatizzare il parallelismo. È questa una delle sei caratteristiche di G notate da CLIFFORD, 54 (“inventing or heightening antithetic parallelism”). 16 Qui si ha pure l’inversione degli ultimi due termini o concetti.

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mente questa polarizzazione, concentrando la sua preferenza su alcuni aggettivi particolari. In senso positivo predomina quello di “giusto”. Così, modificando la struttura logica della frase, “giusto” è sostituito a “giustizia”: (1) “(Chi) emetterà verità manifesterà giustizia (acc.), ma un testimone di menzogne (manifesterà) inganno > La manifesta verità dichiara il giusto (sogg.), ma il testimone di cose ingiuste è ingannatore” (12,17), ed è poi completamente aggiunto in 12,25, restringendo con ciò il senso di una sentenza riguardante l’uomo in generale: (2) “La preoccupazione nel cuore dell’uomo lo piegherà, ma la parola buona lo rallegrerà > Una terribile parola il cuore scuoterà dell’uomo + giusto, ma un messaggio buono lo rallegra”. Anche il peso “integro”, cioè non falsificato rispetto al valore dichiarato, è qualificato da G come “giusto”: (3) “Le bilance dell’inganno (sono) abominio di Jahvè, ma la pietra (= peso) integra (è) suo compiacimento > Le bilance ingannevoli (sono) abominio davanti al Signore, ma il peso giusto (è) accetto a lui”(11,1). Un’altra volta, capovolgendo in senso più parenetico l’affermazione dell’ebraico G fa diventare “giuste” le labbra menzognere: (4) “Chi nasconde l’odio (ha) labbra di menzogna17, e chi fa uscire calunnia, egli è stolto > Nascondono l’odio le labbra giuste, ma quanti divulgano calunnie sommamente stolti sono”(10,18); più in là, si preferisce la qualifica di “giusto” al posto di quella di “estraneo” di H, con uno slittamento di significato dell’intera frase che comporta pure uno scambio di due verbi dal significato diverso ma omonimi in ebraico, che significano rispettivamente “garantire” (barf( II) in H e “mescolarsi, farsi compagno” (barf( I) nell’interpretazione di G: (5) “Molto18 soffrirà perché ha garantito (per) un estraneo, ma chi odia quanti battono (la mano) assicura (se stesso) > Un cattivo fa il male quando si fa compagno di un giusto, infatti odia il suono della assicurazione (= garanzia)”19(11,15). Sul contrapposto versante negativo si deve partire da “stolto” (a!frwn), che è usato pure per tradurre il più raro aggettivo “animalesco”(ra(aB), detto dell’uomo che odia la correzione: (6) “Chi ama la disciplina ama la conoscenza, ma chi odia la correzione (è) animalesco > Chi ama la disciplina ama il discernimento, ma chi odia i rimproveri (è) 17

Non c’è una ragione plausibile di sostituire reqe$ con qedec “giustizia” basandosi sul di G, che dipende dal desiderio di rendere il testo più edificante (MCKANE, 44). 18 l. con BHS l’inf. ass. (or (valore intensivo) invece di (aar “cattivo” del TM, seguito dai LXX (ponhroèv). 19 G introduce un chiaro parallelismo antitetico (CLIFFORD, 55). divkaia

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stolto” (12,1). A lui solo si attribuisce il riso nel fare il male, riso che in H indicava la facilità con cui anche l’uomo assennato pratica la sapienza: (7) “Come un ridere (è) per lo stolto fare un danno, e (così) la sapienza per l’uomo di senno > Nel riso lo stolto fa il male, ma la sapienza +genera senno” (10,23). Cambiando il parallelismo sinonimico in antinomico, G sostituisce all’aggettivo positivo “saggio” quello negativo di “trasgressore”: (8) “Il frutto del giusto (è) albero di vita, e (così) prende (= conquista) le anime (= il cuore degli altri) il saggio20 > Dal frutto della giustizia + germoglia l’albero della vita, ma sono tolti di mezzo + prima del tempo le anime dei trasgressori” (11,30). Questo stesso concetto, ma nella forma del sostantivo astratto di “trasgressione”(paranomòa), era stato usato prima dal traduttore anche al posto dell’aggettivo “pigro”: (9) “Come aceto ai denti e come fumo agli occhi, così (è) il pigro per quelli che lo mandano (=gli affidano un compito) > Come l’aceto (è) ai denti + nocivo e il fumo agli occhi, così (è) la trasgressione per quanti la praticano”21(10,26). In realtà, questo passaggio da una condotta riprovevole dal punto di vista economico, quale è la pigrizia secondo H, ad una categoria etica e più generica la si riscontra diverse volte nel testo che stiamo esaminando. Così, la “rovina dei poveri” diventa “rovina degli empi”: (10) “L’abbondanza del ricco (è) la città della sua forza, (ma) rovina dei poveri (è) la loro penuria > La proprietà dei ricchi (è) città fortificata, ma la rovina degli empi è la penuria” (10,15). L’idea della pigrizia/inerzia, biasimata in H per ben tre volte, è sempre evitata in G, sostituendovi per due volte l’aggettivo “ingannatore” (12,24.27) e una volta il verbo “umiliare” (10,4): (11) “La mano dei diligenti governerà, ma l’inerzia sarà (= condurrà) al lavoro forzato > La mano degli eletti dominerà + facilmente, ma gli ingannatori saranno (= diventeranno) una preda”(12,24); (12) “Non arrostirà22 l’inerzia la sua caccia, ma

20 Questa sembra che possa essere la traduzione del TM mantenuto da RINGRENN, 49 (“und der Weise gewinnt Menschen (für sich)”), ma che viene corretto nel secondo stico, o nel testo consonantico cambiando {fkfx “saggio” in sfmfx “violenza” (MCKANE, 228: “but (the fruit) of him who takes life is violence”) o vocalizzando ax qol come xaqel “insegnamento” (PLÖGER, 133: “und Belehrung der Seelen (vermittelt) der Weise”). GERLEMAN, 16, interpreta diversamente la costruzione: “and he that winneth souls is wise”. 21 Come sottolineano giustamente GERLEMAN, 20, e MCKANE, 45, qui si manifesta una chiara tendenza di G a rendere il testo più religioso. 22 Il verbo |arfx è un hapax, inteso come “arrostire” (la cacciagione) da HAL; ma BDB traduce con “iniziare” (la caccia).

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la ricchezza preziosa (è) (per) l’uomo23 diligente > Non raggiungerà24 l’ingannatore le fiere, ma un possesso prezioso (è per gli altri) l’uomo puro”(12,27); (13)“Povero25 fa (= rende) la palma dell’inerzia, ma la mano dei diligenti fa arricchire > La povertà (sogg.) l’uomo (acc.) umilia, ma le mani dei vigorosi arricchiscono”(10,4). Probabilmente, in questo mancato biasimo per la pigrizia si riflette l’ambiente dell’ellenismo cosmopolita, in cui è più difficile il successo economico rispetto alla situazione che si aveva nell’antico villeggio agricolo della Palestina. Gerleman vi scorge l’influsso della cultura ellenistica, quale si era concretizzata nello stoicismo26. C) Variazioni dovute ad una diversa lettura del testo ebraico (17 casi) Questo terzo tipo di variazioni sembrano dovute ad un fattore casuale e anche involontario, perché dovrebbero derivare da una svista pura e semplice in cui è incorso il traduttore nel leggere il testo da tradurre. Queste sviste possono riguardare sia le consonanti del testo ebraico e sia la sua vocalizzazione, che ancora mancava quando è stata effettuata la traduzione. A quest’ultima motivazione di una diversa vocalizzazione rispetto a quella che poi troviamo nel Testo Masoretico, si possono addebitare ben sette discrepanze concettuali tra H e G. “L’integrità dei retti” diventa “morendo il giusto”: (1) “L’integrità (taMuT) dei retti li guiderà, ma la perversione dei ribelli li distruggerà” > Morendo (tOm:B)27 il giusto ha lasciato + rimpianto, ma + repentina avverrà e + derisibile degli empi la perdizione” (11,3); il participio “chi semina” usato in senso metaforico, diventa il sostantivo “seme” nel senso della discendenza fisica: (2) “L’empio fa (= ottiene) una ricompensa di menzogna, ma (per) chi semina (a( rOz:w) giustizia (c’è) un salario di verità > L’empio fa (= compie) opere28 ingiuste, ma il seme/discendenza ((arez)29 23

l. con BHS {fdf):l rfqfy invece di rfqfy {fdf). Secondo BHS i LXX (e\piteuéxetai) avrebbero letto |yir:day, lezione considerata come preferibile a |orAxya . 25 Si può mantenere il partic. $)fr (RINGRENN, 44; PLÖGER,120) senza cambiarlo nel sost. r) r povertà appellandosi a G (BHS e MCKANE, 36). 26 GERLEMAN, 24. 27 Così KAMINKA, 178. 28 Doppio significato di hfL(u P: , che indica sia l’opera e sia il salario per essa. Così anche in 10,16. 29 Caso analogo in 11,21 (vedi sopra, A10). 24

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dei giusti (è esso/a stesso/a) un salario di verità” (11,18); il sostantivo “la collera” diventa il verbo “perisce”: (3) “Il desiderio dei giusti (è) proprio buono, la speranza degli empi (è) la collera (hfr:be() > Il desiderio dei giusti (è) tutto buono, ma la speranza degli empi perisce (hfr:bf(30)”(11,23). Gli altri quattro esempi sono simili ai precedenti: (4) “Secondo (yip+:l) il suo senno sarà lodato un uomo, ma chi è contorto di cuore (b l-h wA(an:w) sarà da disprezzare > “La bocca (heP) dell’assennato sarà lodata dall’uomo, ma il lento di cuore (nwqrokaérdiov = b l-h bA(an:w)31 viene deriso”(12,8); (5) “Migliore (è) chi viene disprezzato e ha un servo (debe()32, di chi si glorifica e manca di pane > Migliore (è) + l’uomo nel disonore che lavora (d bo() per se stesso, di chi si cinge con onore e manca di pane”(12,9); (6) “L’uomo astuto nasconde (hesoK) la conoscenza, ma il cuore degli stolti proclama ()frqf ) follia” > “L’uomo riflessivo (è) un trono () SiK) del discernimento, ma il cuore degli stolti s’incontrerà (hfrfq) con le maledizioni” (12,23); (7) “Il labbro di verità sarà saldo per sempre (da(fl), ma finché (da(:w) io farò passare (= solo per) un istante (è = dura) la lingua di menzogna” > “Le labbra di verità confermano la testimonianza (hfd (), ma il testimone (d (:w)33 precipitoso ha una lingua ingiusta”(12,19). Per quattro volte si può constatare lo scambio tra due consonanti simili dalet e resh: (8) “Come un passare di tempesta e non c’è (più) l’empio, ma il giusto (è/ha) fondamento (dOs:y) stabile > Passando la tempesta svanisce l’empio, ma il giusto, evitandola, (rUsfy)34 +è salvo per sempre”(10,25); (9) “Le labbra del giusto pascoleranno (U(:riy) molti ({yiBar), ma gli stolti per la penuria di cuore moriranno > Le labbra dei giusti comprendono (U(:dfy) le cose alte ({yimra)35, ma gli stolti nella penuria muoiono”(10,21); (10) “Il giusto dall’angoscia (hfrfCim) è stato liberato, ed è subentrato l’empio al suo posto > Il giusto dalla caccia (hfd Cim/diYaCim)36 30

La diversa vocalizzazione rende in maniera più convenzionale il contrasto tra il giusto e l’empio (MCKANE, 35). 31 Questa corrispondenza, notata dalla BHS, può essere casuale (cf. MCKANE, 39); nwqrokaérdiov è hapax l. nei LXX. 32 Questa sembra la costruzione più logica seguita da MCKANE, 444, e PLÖGER, 145, mentre RINGGREN, 52, interpreta H secondo G. 33 Questa è l’unico cambio di lettura notato nel v. da MCKANE, 44, il quale sottolinea che così G conferisco alla frase un senso forensico di contro al carattere più generico di H. 34 Solo KAMINKA, 174, fa notare questo cambio di lettura, mentre MCKANE, 45, nota che così G risulta più attento alla teodicea. 35 MCKANE, 39, rileva solo il primo cambio, invece KAMINKA, 174, li nota entrambi. 36 KAMINKA, 176.

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sfugge, ma al suo posto è consegnato l’empio”(11,8); (11) “Ha desiderato l’empio la rete (dOc:m) dei cattivi, ma la radice dei giusti ‘sarà salda’ > I desideri degli empi (sono) cattivi, ma le radici dei pii (sono) nelle fortezze (sing. 37 rOcfm) ”(12,12). Abbiamo ancora lo scambio tra altre due consonanti simili, la h\ e la j\T: (12) “Non farà affamare Jahvè l’anima del giusto, ma il desiderio a w: ) degli empi respingerà > Non farà affamare il Signore l’anima giusta, (taUh ma la vita (taYax:w)38 degli empi sconvolgerà”(10,3); (13) “Nella morte dell’uomo empio perirà la speranza, e l’attesa (telexOT) delle (posta nelle) opere empie è perita > Morendo l’uomo giusto + non si perde la speranza, ma il vanto (talih:T)39 degli empi si perde”40(11,7). Per due volte si osserva una inversione tra due lettere nella stessa parola: (14) “Chi desidera (r xo$) il bene cercherà il gradimento, ma chi ricerca il male, (esso) verrà su di lui > Chi fabbrica/macchina ($ rox)41 cose buone cerca il + buon gradimento, ma chi cerca cose cattive, (queste) lo prenderanno”(11,27); (15) “Ecco, il giusto nella terra (promessa) (jerf)fB) sarà ripagato, quanto più l’empio e il peccatore > Se il giusto a stento (hfrfCaB)42 si salva, []l’empio e il peccatore + dove apparirà?”(11,31). Le due consonanti q”f-B\T sono lette come q”f-j\T: (16) “Chi rifiuta il grano (lo) maledirà (Uhub:Qiy) il popolo, ma la benedizione (è) per il capo di chi fa comprare (= mette in vendita) > Chi accumula il grano possa lasciarlo (Uh xfQiy) ai popoli, ma la benedizione (è) per il capo di chi dona”(11,26); infine, ken è letto come ben: (17) “Così (} K) la giustizia (è) per la vita, ma chi insegue il male (è = lo fa) per la sua morte” > “Il figlio (} B)43 giusto + viene generato per la vita, ma l’inseguimento dell’empio (gen. sogg.) (è) per la morte”(11,19). Naturalmente il cambio di una sola parola provoca altri cambi minori, e in ogni caso conferisce un nuovo significato a tutta la frase nella quale essa si trova inserita. Per gli altri casi di divergenza tra H e G, possiamo limitarci, a conclusione di questa comunicazione, a fornire alcune sommarie osserva37

KAMINKA, 176, rimanda a de LAGARDE. KAMINKA, 176 e 177. 39 KAMINKA, 176; MCKANE, 44, dà come sola motivazione il desiderio in G di accentuare l’antitesi. 40 Così in G si sottolinea il parallelismo antitetico (CLIFFORD, 55). 41 CLIFFORD, 54. 42 MCKANE, 438; questo v. è riprodotto secondo G in 1Pet 4,18 (eccetto meén). 43 MCKANE, 435, e KAMINKA, 176. 38

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zioni: il testo G sembra più originale (10,10; 12,28), in tre casi G presenta un versetto in più (11,1644; 12,11; 12,26), mentre il v. 11,4 e 11,10b.11a non si trovano in G; per due volte si osserva l’inversione tra il soggetto e il complemento oggetto (10,6; 10,17)45, e per ben sei volte l’inversione tra causa ed effetto ((10,24; 10,28; 10,3246; 11,5; 11,6) o viceversa (12,21). Al di là di tutte queste differenze, si devono segnalare, negli stessi vv. già considerati, molti casi di aggiunte di singole parole in G come glosse esplicative, e un caso in cui G ripete nello stico b la stessa parola chiave dello stico a (10,17: paideòa). Le divergenze osservate non debbono necessariamente rimandarci al contesto culturale ellenistico, ma si spiegano a sufficienza come dovute ad una generale tendenza più moralizzante ed edificante che, nel passaggio – a distanza di secoli – dalla Palestina ad Alessandria d’Egitto, incosciamente si allontana dalle situazioni di vita concreta in cui i proverbi erano nati. In ogni caso, gli esempi che abbiamo esaminato ci fanno comprendere l’importanza dello studio minuzioso della versione dei Settanta, perché solo così possiamo comprendere in maniera globale le caratteristiche più importanti del loro mondo spirituale ed ideologico.

Nota bibliografica A. J. BAUMGARTNER, Étude critique sur l’état du texte du livre des Proverbes d’après les principales traductions anciennes, Imprimerie Orientale W. Drugulin, Leipzig 1890. G. BERTRAM, “Die religiöse Umdeutung altorientalischer Lebensweisheit in der griechischen Übersetzung des AT.s”, ZAW, N.F. 13 (1936) 153167. R. J. CLIFFORD, “Observations on the Text and Versions of Proverbs”, in M.L. Barré (ed.), Wisdom, You Are My Sister: Studies in Honour of Roland E. Murphy on the Occasion of His Eithieth Birthday (CBQMS 29), Washington 1997, 47-61. 44

Cf. MCKANE, 44, e TOV, 46. Abbiamo già riscontrato questo fenomeno in 10,11 (A8), 12,4 (A4), 12,17 (B1). 46 “Conosceranno” (}U(:d y) è reso con “distilla(no)” (a\postaézw), ripreso dal v. precedente (CLIFFORD, 54); cf. anche MCKANE, 38. 45

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J. COOK, “Hellenistic Influence in the Book of Proverbs (Septuagint)?, BIOSCS 20 (1987) 30-42. ID., “The Septuagint Proverbs as a Jewish Hellenistic Document”, in L. Grenspoon – O. Munnich (ed.), VIII Congress of the IOSCS (SBLSCS 41), Scholars Press, Atlanta 1995, 277-299. ID., “Aspects of the Translation Technique Followed by the Translator of LXX Proverbs”, JNSL 22/1 (1996) 143-153. ID., The Septuagint of Proverbs and/or Hellenistic Proverbs? (VTS 69), J. Brill, Leiden 1997. G. GERLEMAN, “The Septuagint Proverbs as a Hellenistic Document”, OTS 8 (1950) 15-27. ID., Studies in the Septuagint III. Proverbs (LUA 52, 3), Gleerup, Lund 1956. S. JELLICOE, The Septuagint and Modern Study, Oxford 1968 (rist. 1978). JBTHS: The Jewish Bible. Tanakh: The Holy Scriptures, PhiladelphiaJerusalem 1985. A. KAMINKA, “Septuaginta und Targum zu Proverbia”, HUCA 8/9 (1931/2), 169-191. P. A. de LAGARDE, Anmerkungen zur griechischen Übersetzung der Proverbien, Brockhaus, Leipzig 1863. W. McKANE, Proverbs. A New Approch (Old Testament Library), London 1970; G. MEZZACASA, Studio critico sulle aggiunte alessandrine dei Proverbi di Salomone, Roma 1908. ID., Il libro dei Proverbi di Salomone: Studio critico sulle aggiunte grecoalessandrine, Isituto Biblico Pontificio, Roma 1913. O. PLÖGER, Sprüche Salomos. Proverbia (BKAT XVII), Neukirchen Vluyn 1984; H. RINGGREN, Sprûche (ATD 16/1), Göttingen 1980 (3a ediz.; 1a ediz. 1962); W. H. SCHMIDT, Einführung in das Alte Testament, Berlin - New York 1979, 325. H. B. SWETE, An Introduction to the Old Testament in Greek, Cambridge 1914 (rist. 1989) E. TOV, “Recensional Differences between the Masoretic Text and the Septuagint of Proverbs”, in H. W. Attridge – J.J. Collins – Th. H. Tobin (ed.), Of Scribes and Scrolls. Studies on the Hebrew Bible, Intertestamental Judaism, and Chrstian Origins, Presented to John

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Strugnell on the Occasion of his sixtieth Birthday (College Theology Society Resources in Religion 5), University Press of America, Lanham – New York – London 1990, 43-56.

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13 SOME UNCOMMON WORDS IN THE HEBREW TEXT OF BEN SIRA* [1999]

If on one hand the discovery of hebrew Mss of Sir in 1896 (= H), has pushed scholars to compare them with the old Greek (= G) and Syriac (= S) versions of the book, on the other hand, as an indispensable preliminary condition for that comparison, it has also required the direct study of the Hebrew language as schown in the Mss1. From the beginning this language has been recognized as representative of a transitional phase from the Biblical to the Mishnaic Hebrew2 and, in any case, closer to the Biblical Hebrew of the more recent writings, characterised by a growing precence of aramaisms3. The historical approach to the language in a particular period, including orthography, morphology and especially the syntax4, recognises above all in the lexicon the field in which it is possible to point out the major innovations and transformations of the language5. Conscious * For the English translation of the paper I acknowledge the competent and generous help of Dr. Susan Whitehouse Zappalà. In this paper the Dictionaries are cited according to the conventional abbreviations. 1 D. STRAUSS, Sprachliche Studien zu den hebräischen Sirachfragmenten, in Schweizerische Theologische Zeitschrift 17 (1900) 65-80; C.H. TOY, Remarks on the Hebrew Text of Ben-Sira, in JAOS 23 (1902) 38-43; G.R. DRIVER, Hebrew Notes on the “Wisdom of Jesus Ben Sirach”, in JBL 53 (1934) 273-290. 2 Cf. recently, A. HURVTZ, The Linguistic Status of Ben Sira as a Link between Biblical and Mishnaic Hebrew: Lexicographical Aspects, in T. MURAOKA – J.F. ELWOLDE (eds.), The Hebrew of the Dead Sea Scrolls and Ben Sira. Proceedings of a Symposium held at Leiden University 11-14 December1995 (STDJ 26), Leiden 1997, 72-91. 3 S.WAGNER, Die lexikalischen und grammatikalischen Aramaismen im alttestamentlichen Hebräisch (BZAW 96), Berlin 1966, lists as aramaisms in the OT 333 words (pp. 17121), belonging to pre- and postexilic writings. Among them 50 are occurring in Sir, if we include ht), {yskn, (tn, }Ot$(, qt(, \rc, }ynq, not referred by Wagner to Sir. 4 Cf. S.E.FASSBERG, On the Syntax of Dependent Clauses in Ben Sira, e W.Th. van PEURSEN, Periphrastic Tenses in Ben Sira, in MURAOKA-ELWOLDE, The Hebrew of the Dead Sea Scrolls and Ben Sira (n. 2), respectively pp. 56-71- and 158-173. 5 P. JOÜON – T. MURAOKA, A Grammar of Biblical Hebrew (Subsidia biblica 14/I-II), Roma 1991, p. 9: “The variations in vocabulary and phraseology between one period and another, and one writer and another are the most significant”.

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of the importance of the lexical novelty for the characterization of the Ben Sira language, the first students of the Mss used to give a list of new words found in them. These novelties regarded mostly shadings of meaning or formations coming from roots already known in the Old Testament6. In this way some lists have been prepared, as an appendx to their major publications, by S. R. Driver (1897)7, Margoliouth (1899)8, Strack (1903)9, Lévi (1904)10, Peters (1905)11, Smend (1906)12 and thereafter in an article of comparative philology by G. R. Driver (1934)13; Segal also gives us a list of his own, not in a appendix, but to the introduction on his commentary14. I believe that it would be interesting to check the words in these lists comparing the explanation given by the authors and the treatment made by the great Hebrew Dictionaries, published in the meantime: BDB, Zorell15, HALE (and HAL), DCH and Alonso Schökel16, and also Dalman17 and Jastrow18 for the post-biblical literature. For the moment I intend to consider only five words starting with alef; which let us review, even in a limited manner, a significant trajectory of the biblical studies in this century. 6

Besides the exemplary treatment by HURVITZ, The Linguistic Status (n. 2), cf. also N.M. BRONZNICK, An Unrecognized Denotation of the Verb HSR in Ben-Sira and Rabbinic Hebrew, in R. AHARONI (ed.), Biblical and Other Studies in Memory of S.D.Goitein = HAR 9 (1985) 91-105. 7 S. R. DRIVER, Glossary of Words, in A.E. COWLEY – A. NEUBAUER, The Original Hebrew of a Portion of Ecclesiasticus (XXXIX.15 to XLIX.11), Oxford, 1897, pp. XXXIXXXVI. 8 G. MARGOLIOUTH, The Original Hebrew of Ecclesiaticus XXXI.12-31, and XXXVI.22-XXXVII.26, in JQR 12 (1899) 1-33. 9 H. L. STRACK, Die Sprüche Jesus’, des Sohnes Sirachs. Der jüngst gefundene hebräische Text mit Anmerkungen und Wörterbuch, Leipzig, 1903. 10 I. LÉVI, The Hebrew Text of the Book of Ecclesiasticus, Leiden, 1904. 11 N. PETERS, Liber Jesu filii Sirach sive Ecclesiasticus hebraice, Freiburg i.B., 1905. 12 R. SMEND, Die Weisheit des Jesus Sirach, erklärt, Berlin, 1906; ID., Die Weisheit des Jesus Sirach, hebräisch und deutsch. Mit einem hebräischen Glossar, Berlin, 1906. 13 G.R.DRIVER, Hebrew Notes (n. 1). 14 M. S. SEGAL, {l$h )rs-}b rps, Jerusalem 19723, p. 22. 15 F. ZORELL, Lexicon hebraicum et aramaicum Veteris Testamenti, Roma, 1957. 16 L. ALONSO SCHÖKEL, Diccionario bíblico hebreo-español, Madrid, 1994. Among these Dictionaries only Zorell, Alonso Schökel e DCH intend to include the Hebrew text of Ben Sira. 17 G.H. DALMAN, Aramäisch-neuhebräisches Handwörterbuch zu Targum, Talmud und Midrasch, Frankfurt a. M., 1897 (reprinted Hideshaim, 1967). 18 M. JASTROW, A Dictionary of the Targumim, the Talmud Babli and Yerushalmi, and Midrashic Literature, t. I-II, New York, 1893 (reprinted 1967).

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THE VERB

db)

(11,12)

The verb db), recurring in Sir 8,2.12; 11,12; 14,9; 20,22; 30,40; 41,2.6; 46,18; 49,7, appears in the Lévi and Peters19 lists for its occurrence in 11,12, where the entire verse says: $n[w]) rtwyw lk rsx \lhm dabo)w $$or $y But in this verse, even before db) we find a real difficulty in $$or, for which two diverse interpretations are given fundamentally: e 1) $”$or, considered by BBST as the only recurrence of the verb $$r in Sir (part. Q), seems that it should be identified with the verb $$r (BDB: Polel, “beat down, shutter”; HALE: “smash, batter to pieces, shatter”, HAL: zerschlagen), that occurs in the OT only in Jer 7,17 and Mal 1,4. Treating this verb under the same entry, Alonso Schökel gets it closer to these passages, although, even translating it with arrasar in Jer 5,15 and Mal 1,4, he proposes empobrecerse, arruinarse for Sir 11,12, making you think of the better known $wr “be in want, poor” (BDB), as has been done in the second interpretation, rather than of $$r. Also the adjective $y$r recurring in 4,19 (hapax) is connected with this $$r, and according to the root and the context this must signify “(morally) destroyed, listless, lazy”. This interpretative line is followed in 11,12 by Smend20, Peters21, Skehan and Di Lella22. 2) Others consider $$r as a “parallel form”23 of the verb $wr “to be poor”. In this way Lévi, who after having explained in 4,29 that the use of the verb $wr, from which $y$r would be derived, as lazy (peureux), is

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LÉVI, The Hebrew Text (n. 10), p. 77: poor | arm 11,12; PETERS, Liber Jesu filii Sirach (n. 11), p. 153: miser 11,12; but in the translation says: marcidus. The verb db) occurs in the OT 184 times, and 7 times in the Aramaic portions (A. EVEN-SHOSHAN, A New Concordance of the Bible, Jerusalem, 1982, s.v.). 20 SMEMD, Die Weisheit des Jesus Sirach (n. 12), p. 79: schlaff 11,12; the same in the translation, p. 19. 21 N. PETERS, Das Buch Jesus Sirach oder Ecclesiasticus, Münster i.W., 1913, p. 96: Schwächling. 22 P.W. SKEHAN – A.A. DI LELLA, The Wisdom of Ben Sira (AB 39), New York, 1987. Cf. SKEHAN, p. 235: “broken-down”; in the commentary DI LELLA notes: lit. “beaten down” (p. 239). 23 G.R. DRIVER, Hebrew Notes (n. 1), p. 275,

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unusual24, in 11,12 translates directly with “poor” (pauvre). Also Segal explains $$r as an intransitiv verb or as adjective “very poor” (lwdg $r)25. Going back now to db) we notice that Lévi interprets this as synonym of the previous $$r that, as we have said, he connects with the root $wr. However, Peters, who follows his interpretation of db), but not the one of $$r, moves further apart from him for the collocation of \lhm, interpreted by both as part. Pi. of \lh: with it Peters, togheter with the others, concludes the hemistich a, while Lévi starts the hemistich b, as we can see from their respective translations: “Tel est pauvre et misérable, Va dénué de tout et riche (seulement) en souffrance” (Lévi)26; “Da ist ein Schwächling und wandernder Unglücklicher/ der Mangel an ‘Kraft’ und Überfluß an Schwäche hat” (Peters)27. But for \lhm, BBST justly proposes reading it as 28 |flh A m a , a substantive already attested in Ezek 42,4; Jonah 3,3; Zech 3,7. But a is united to the verb db), this can keep its ordinary meaning, without if |flhA m the need to hypothesize the special meaning registered by Lévi and Peters for Sir 11,12. The syntagma |flAham dabo) 29 thus means “who is lost on the way”. This is the translation given by DCH, even if it wrongly follows Lévi for the previous $$r; in fact, it translates \lhm db)w $$r in this way thus: “poor (!) and about to die, lit. about to perish in respect of his (life-) journey”, after having given as meaning of db) “die, be destroyed, disappear, be lost”; HALE: “become lost, go astray, perish, be carried off”. THE PLURAL

{ynw)

(42,2a)

The two divergent readings of the Mss B and M at the beginning of the hemistich appear contradictory; it therefore seems convenient to treat them first separately, and to try to achieve their composition only at the end. In Ms B we read: hmc( rsxw {ynw) $y)l. {ynw) can be plural of }ewf) or of }O),

24

I. LÉVI, L’ecclésiastique ou la sagesse de Jésus fils de Sira. Texte original hébreu édité, traduit et commenté, t. II, Paris, 1901, p. 22; he explains this uusual meaning by the hypothesis of a retroversion from the Syriac. 25 SEGAL, {l$h )rs-}b rps (n. 14), p. 70. 26 LÉVI, L’ecclésiastique, t. II (n. 24), p. 75. 27 PETERS, Das Buch Jesus Sirach (n. 21), p. 96. 28 Thus also SMEND, Die Weisheit des Jesus Sirach (n. 12), p. 105, and SEGAL, {l$h )rs-}b rps (n. 14), p. 69. 29 This vocalisation given in the Ms indicates the construct state (cf. BDB, s.v.)

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that express two opposite concepts, respectively “sorrow” and “wealth”30. As to the context which talks of the suffering man that finds in death a liberation, we should prefer the plural of }ewf) and thus translate: “for the man of sorrows (= that suffers) and that lacks vigour”. This is the interpretation of Peters31, who, differently from Lévi and Smend, keeps the text, referring to Gen 35,18 and Hos 9,4, two passages that BDB puts under }ewf) , translating them respectively “son of my trouble or sorrow” (yinO)-}eB) and “bread of trouble, sorrow”, or “mourning” ({yinO) {exel). Peters is followed by Segal who also goes back to Gen 35,18 and Hos 9,4 and furthermore explains in the same way {yinO): r(cw }wgy lkb {d)32. Zorell also recognises }ewf) in Gen 35,18 and Hos 9,4, but does not mention Sir 41,2 neither here nor under }O). Alonso Schökel instead unifies the two words in one single stem, pointing out that with the different vocalization the positive (}O): fortuna) and negative (}ewf): desgracia) aspect is specified; in this last includes Gen 35,18 and Hos 9,4, but without mentioning Sir 41,2 neither in the one nor the other. While recognising that {ynw) should be interpreted according to Hos 9,4, Smend reads in the Ms {ynn) (“moanings”) instead of {ynw) (eschange between w and n) imagining in this way a word not attested elsewhere33, deriving from the verb }n) Hitpolal, which recures only in Num 11,1 and Lam 3,39, and also in Sir 10,25. But Lévi34 prefers to derive {ynw) from }O) “wealth”, underlining the parallelism with hmc(; but to be coherent with the context he corrects $y)l into }y)l, makimg reference to Isa 40,29b: heB:ray hfm:cf( {yinO) }y):lU “and to those who have not wealth (God) increases the vigor”. Finally, the different reading of Masada {ynyw) }y)l, correcting the obvious orthographic error {ynyw) to {ynw), confirms Lévi’s suggestion35. In any case, considering the ambivalence of {ynw) that can indicate both a 30 According to the calculation of EVEN-SHOSHAN, the first occurs 77 times, the second 13 times; but he distinguishes an }O)II for Gen 35,18; Deut 26,14; Hos 9,4. 31 PETERS, Das Buch Jesus Sirach (n. 21), p. 344: “für den unglücklichen und kraftlosen Menschen”. 32 SEGAL, {l$h )rs-}b rps (n. 14), p. 276. 33 SMEND, Die Weisheit des Jesus Sirach (n. 12), p. 72: “dem Manne, der seufzt (={ynn)) und kraftlos ist”; p. 61: {yin:no) Traurigkeit 41,2. 34 I. LÉVI, L’ecclésiastique ou la sagesse de Jésus fils de Sira. Texte original hébreu édité, traduit et commenté, t. I, Paris, 1898, p. 33: “À qui est dénuè de force et privé de vigeur”. 35 Y. YADIN, The Ben Sira Scroll from Masada, Jerusalem, 1965, properly remarks: “The Scroll reading confirms Lévi’s suggestion…which was rejected by all other commentators”(p. 18 hebr. = p. 17 engl.).

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negative and a positive concept, if it is put before the negation (}y)l) we also get a meaning that is in accordance with the context, provided that the plural of }O) is read and not that of }ewf). Even if G initially seems to concord with B ($y)l = a\nqrwép§) it substantially coincides with M ({ynw) }y)l = e\pideomeén§ “[to the man] who has needs”). But if, after all, even in B you want to find the fundamental reading of M, where surely, given the presence of the initial negation, we get the plural of }O), then, substituting }O) with }ew)f we get this adversative meaning: “ to a man of (who has) wealth, and that (yet) lacks vigour”. Differentiating the two positive concepts of wealth and health in this way, since the wealth positivity is cancelled by the lack of health, we get a meaning coherent with the context. DCH introduces this passage under }O) translating B: “man of strenghth(s)”, but adds also the other (negative) possibility, returning however not to }ew)f but to heno) “distress” (root. hn) “mourn”) that recognizes in Gen 35,18 and Hos 9,4, for which HALE, instead, proposes the substantive yinO)36, making it derive from the same root. In any case, even if from the testual - critical point of view the two divergent readings of B and of M must be reconciled, it does not seem correct to harmonize them both under the same stem }O) as done in BBST37. THE HITPAEL OF

rx)

The particularity in the use of the verb raxf) in Sir consists in the fact that it is used for thr first time in the form of the Hitpael in 7,34; 11,11; 32,11, while twice more iit is used in the Piel form, following the more common use of the Old Testament. To better understand the meaning of this Hitpael it is worth to examining first the use of the verb raxf) in the Old Testament (17 times: 1 time Qal, 15 times Piel, 1 time Hifil). In order to initially determine the meaning of the verb, we have to refer to that of the more common adverb/preposition raxa)/y”rAxa) “behind, after”38 that is stated in a spatial or temporal sense. The first thing that strikes us in the use of rax)f in the Old Testament is the fact that it is used only in the temporal sense of “to be late”(intr.) and to “detain” (trans.) to various degrees, depending on the context. The use of this verb in its intensive form Piel can be explained 36 37 38

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Thus EVAN-SHOSHAN’s }O)II corresponds to heno) by DCH, and to yinO) by HALE. BBST, p. 77. According to EVAN-SHASHAN rx) occurs in the OT 96 times and yrx) 619 times.


with the fact that this “to be late” implies a tension in the person being late – the subjet of the verb – and also in the person waiting for him. Examining the treatment of this voice in the various Dictionaries a certain diversity in the organization of the various paragraphs is noticeable, also for the only form Piel. BDB divides the 15 occurrences in two distinct fundamental fields: 1) intensive sense, as indicated by the Piel, and 2) causative sense. Also Zorell distinguishes two fundamental areas: transitive sense (3 occur.) and intransitive sense (12 occur.). But, since the distinction criterion changes there is no correspondence between the two areas of the two dictionaries. HALE, instead, renounces a basic classification of a formal type and distinguishes simply four meanings between which all the 15 occurrences of the verb are distributed. The first two consider the cases in which the verb has as direct object 1) a person (Gen 24,56: “detain”) or 2) a thing (Exod 22,28: “hold back, give hesitantly”), a condition that makes them coincide, except for Deut 7,10, with Zorell’s transitive sense. The other two meanings regard the cases in which there is not a direct object governed directly by the verb: 3) “linger (late)” (Prov 23,30; Ps 127,2); 4) “delay, hesitate” (Deut 7,10; Judg 5,28; Isa 5,11; 46,13; Hab 2,3; Ps 40,18; 70,6; Dan 9,19; including the cases with l + infinitive: Gen 34,19; Dt 23,22; Qoh 5,3). DCH goes back to Zorell’ classification, distinguishing for the Piel the intransitive use (Judg 5,28; Is 5,11; 46,13; Hab 2,3; Deut 7,10; Prov 23,30; Ps 40,18; Dan 9,19) from the transitive one (Gn 24,56; Exod 22,28). Then it adds in the par. 3 all the cases in which rax)f governs an infinitive verb with (Gen 34,19; Deut 23,20; Qoh 5,3) or without l (Ps 127,2). A circumstance not pointed out in the dictionaries is that rax)f in the Piel is always preceded by the negative particle la)/)ol except when it refers to an action negative in itself, as in Ps 127,2; Isa 5,11; Judg 5,28 (here the interrogative particle ( a UDam) precedes. This means that “to be late” is perceived as a negative fact, that it becomes positive when it is preceded by a negation. In addition to to the Piel’ s cases already examined there are two other occurrences, one in Qal (Gen 32,5) and one in Hifil (2 Sam 20,5). In Gen 32,5 Jacob, coming back from Haran, sends a message to Esau: hfT(f -da( rax”)fw yiTr: Ga }fblf -{i(, “with Laban I have been staying and was delayed till now”. Here raxf) corresponds to the use of damf( in Gen 45,9; Jos 10,19; 1 Sam 20,38 (cf. BDB 3.a: “tarry, delay”). Jacob simply states something that already happened, even if the intention is to appease his brother Esau, reminding him of the past vicissitudes; therefore the narrator makes him talk in the Qal of raxf), also in parallel with the Qal of rUG (yiT:raG). Instead, in

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2 Sam 20,5 we have the Hifil (remarked causality) because it is an intentional waste of time which was meant to hinder the adversary plan (very appropriately, BDB: “shewed, exibited delay”). Besides the last two cases taken into consideration, we have the more ordinary use of rax)f – as already mentioned – in the Piel; and also in Sir this verb is used twice in the Piel followed by l and infinitive: bw$l rx)t l) wyl), “Do not postpone to go back to him” (5,7); hkyl$hl rx)y )lw “ And (the fool) shall not delay to throw it (= wisdom) away” (32,17). Once again raxf) is preceded by the negation particle (l), )lw), and is followed by the infinitive as in Gen 34,19; Deut 23,22; Qoh 5,3; Ps 127,3. In the two cases of Sir 5,7 and 32,17 the sense is “temporal” and indicates the lenghtening of an action’s duration, as in all the 17 occurrences of raxf) in the Old Testament. Instead, in all other cases of Sir in which the Hitpael is used the “spatial” sense prevails: {ykwbm rx)tt l) “Do not draw aside from those who weep” (7,34); rx)tm )wh }k ydkw jrw (gyw lm( $y, “One labours, grows weary and runs, and remains more behind (= away from the target)” (11,11). Coherent with the general rule, this Hitpael adds the reflexive value to the usual sense of Piel39, underlining the inconvenience and the misfortune of an action that closes the subject in itself. Also, in the other case in which the Hitpael of raxf) has a “temporal” sense, as it always happens in its 17 occurrences in the Old Testament that we have examined above, i.e. rx)tt l) in 32,11, the reflexive aspect is evidenced. The fundamental meaning is similar to what we have in rx)t l), referring to God in Ps 40,18; 70,6; Dan 9,19; the difference is that here – talking about God – we do not have the reflexive and blameworthy sense which we find instead in Sir 32,11, where it is supposed that “to be late” is an unpleasant action40. THE SUBSTANTIVE hpk) in 46,5b (hapax) From a grammatical point of view hpk) is considered either verb (inf. Qal: Smend, Zorell, Alonso Schökel, HALE) or substantive, vocalised, 39 JOÜON – MURAOKA, A Grammar of Biblical Hebrew (n. 5), p. 159; W. GESENIUS – E. KAUTZSCH, Gesenius’ Hebrew Grammar (tr. A.E. Cowley), Oxford 19102, p. 149. 40 R. ALCALAY, The Complete Hebrew-English Dictionary, Ramat Gan – Jerusalem 1981, s.v., translates rx)th “to came late”, an expression that implicitly possesses a negative connotation.

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in turn, as hpki) (Peters, Lévi, Strack, S.R.Driver) and as hpka) (Dalman, Jastrow, Segal, BBST) respectively. The lacuna present in the Ms therefore, is differently reconstructed according to G, beeing totally absent in S: [bybsm (Smend: wyby); Peters, Segal) {ybyw)/ (Lévi) {yrc w]l hpk)k According to Segal hpki) is a feminine form of the veke) noun which is found in Job 33,7. Nevertheless, he argues that, in this way, the noun results badly connected with the subject of the sentence. In addition, he notes that the G’s verbal construction (e\n tw% ql_yai au\toèn e\cqrouèv kukloéqen) could correspond either to a suffixed infinitive form hfp:kf):K or to the perfect form Up:kf):K41. According to Lévi’s suggestion, hpk)k is an infinitive form, even though he points out that the paragogical h, in this case, is not explainable42; therefore, in his “glossary” the hpki) noun only is given43. If the noun form is preferred, a nominal clause should be supposed, as it has been rightly translated by DCH under the stem hfP:ka): “when enemies around were pressure to him”. Peters translates the noun in a slight different way: “als in der Not war, Feinde waren ringsum”44. Moreover he relies on S. R.Driver45 for the reading hfP:ki). With respect to dictionaries, BDB records the vak)f verb “press, urge”, which is found in Prov 16,26 only, and its derivative [veke)] “pressure”, which is used in Job 33,7 only. Zorell, Alonso Schökel and HALE all recognize in Sir 46,5 the verbal form. Moreover, BDB and Zorell report both the use of this root as well in Aramaic/Syriac as in Arabic sources, whilst HALE only mentions the Accadic parallel; in addition, this labels as Middle Hebrew what BDB qualifies as Mishnaic. The most comprehensive documentation is offered, instead, by Wagner46. Alcalay records the verb vak)f “to force, press, compel, burden, weigh on, enforce”, also used in Piel (to saddle), Nifal (to be enforced), Hifil (to enforce), as well as all the following derivatives: vfKu), hfPka), }OpfKu), tUnfpfKu), taPki), yiTaPki), tUyiTaPki). In conclusion, it is possible to affirm that this noun has been incorrectly interpreted as a verb, on the basis of G, which, as known, often translates freely.

41 42 43 44 45 46

SEGAL, {l$h )rs-}b rps (n. 14), p. 318. LÉVI, L’ecclésiastique, t. I (n. 34), p. 111. LÉVI, The Hebrew Text (n. 10), p.77. PETERS, Das Buch Jesus Sirach (n. 21), p. 393. DRIVER, Glossary of Words (n. 7), p. XXXI. WAGNER, Aramaismen (n. 3), p. 24, who however postulates in Sir 46,5 a verb.

155


THE CORRADICALS

sanf)

and

seno)

The root sn) occurs two times in Sir; as verb in 31,21 and as noun in 20,4. In the Old Testament it is attested only once as part. Qal in Esther 1,8. HALE considers it an Aramaic loan word (HAL: aramäisches Lehnwort), and refers to Wagner who, in turn, outlines a detailed profile of the root47. In BDB the verb (“compell, constrain”) is treated as hapax l. with regard to Esther 1,8, whilst HALE cites Sir, both 20,4 and 31,21, under the verbal stem occurring in Esther 1,8. Because of their use in Middle Hebrew, both Dalman e Jastrow record both the verb (1. Zwingen, gewaltsam tun; 2. Notzüchtigen: “to bend, force; to do violence; to outrage”) as well as the noun (1. Zwang; 2. Todesfall: “compulsion, force; unavoidable interference, accident”). With regard to the verb it is worthy of note that it is used in Sir i < : h a w: 31,21 within the banqueting context, in tune with Esther 1,8: tfDka hfYt s”no) }y”), “And drinking was according the law, no one was compelled” (= RSV; but lit.: “compelling”). Sir 31,21a says: {ym(+mb hts)n {) {gw, “and if you are forced with (= to eat) dainties”. The difference consists in the fact that during the meal in Esther 1,8 the “pressure” was avoided as, by contrast, was appreciated according to Sir 31,21a! The use of the noun, absent in the Old Testament, occurs in 20,4: hlwtb {( }fl }m)n }k +p$m snw)b h&w( }k, “He who imposes (his) right(s) through violence, is like a eunuch passing the night with a virgin”. From a logical point of view the sequence of two hemistichs must be reversed, and we have to amend the reading }m)n }k in }m)nk (Segal48, whereas Peters49 conjectures }m)n dmx; Smend holds the two possibilities50); also the first }k must be deleted (dittography). In addition to the noun senO), which, even if it is new, is rather evident in its meaning because of its root, the term }m)n has drawn much attention. Its meaning, evident as part. Nifal }m) (“faithfull, trustworthy”), is translated by G and S specifically as “eunuch”: G eu\nou%cov, S }myhm. According to Lévi, the present hemistich must have been re-translated from the Syriac into Hebrew, and the translator, misunderstanding the double meaning of }myhm as eunuque and as 47

WAGNER, Aramaismen (n. 3), p. 27. SEGAL, {l$h )rs-}b rps (n. 14), p. 120. 49 N. PETERS, Der jüngst wiederaufgefundene hebr. Text des Buches Ecclesiasticus, Freiburg i.Br., 1898, p. 393. 50 SMEND, Die Weisheit des Jesus Sirach (n. 12), p. 21. 48

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véridique, fidèle, would have erroneously chosen the latter giving exactily }m)n and not syrs, which in Hebrew is the specific term to indicate the eunuch. But, as Smend observes, it is not necessary to recur to the Syriac, since in Hebrew too it is possible that the derivative of the same root has undergone the same semantic evolution by acquiring the present special meaning, since the eunuch was also a trust man in prince’s court. However, the Lévi’s hypothesis has been accepted by Segal, whilst Peters prefers to follow Smend. Finally, with respect to the noun seno) from which we started, it is possible to conclude by noting that its use in 31,21 is analogous to that of its corradical verb in 20,4, since in both cases it is a question of “violence” connected with a pleasure: here the table pleasure and there the sexual pleasure. CONCLUSIONS Five words selected from the lists of somewhat new words encountered in the Hebrew text of Ben Sira have been analysed. As a matter of fact, all them were not completely new with respect to the Old Testament. 1. In the syntagma \lhm db) the verb db) maintains its fundamental meaning “lose, be lost”, against the holding of Lévi and Peters, 2. With regard to {ynw), it is not possible to attribute to it the same meaning if it is preceded by $y)l (Ms B) or by }y)l (Ms M). But, besides the two opposite derivations, either from }O) or from }ewf), the knowledge of a possible yinO) or heno) has meanwhile been acquired, having both the negative sense attributed first to }ewf). 3. With respect to the first appearance of rax)f in Hitpael, this use even though not attested before, falls within the general rule regarding the reflexive meaning of Piel. 4. The lacuna of the H text in 46,5b reconstructed according to G, does not justify the hypothesis that we have to suppose the verbal form which we find in this translation, is also in H. Therefore, it is resonable to intend hpk) as a noun, even though not present yet according to this form in the Old Testament. 5. The new noun seno) is used with the same nuance of meaning intended by the verbal root in both 31,21 and Esther 1,8. In full agreement with van Peursen’ statement that “in any discussion of the language of Ben Sira, one of the main problems is the relationship of the Hebrew of Ben Sira to Biblical Hebrew, Mishnaic Hebrew and

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Aramaic”51, I have limited this paper to show only some aspects of this characterization. In conclusion, it seems fitting to stress that the balanced position between tradition and innovation generally observed in Ben Sira’s thought, is also confirmed with respect to the language he used, in a transitional phase from the Biblical to the Mishnaic Hebrew.

Bibliographical Appendix Alcalay, R., The Complete Hebrew-English Dictionary, Ramat Gan – Jerusalem 1981. Alonso Schökel, L., Diccionario bíblico hebreo-español, Madrid 1994; BDB = F. Braun – S.R. Driver – C.A. Briggs, A Hebrew and English Lexicon of The Old Testament, Oxford 1906 (repr. 1951) Dalman, G.H., Aramäisch-neuhebräisches Handwörterbuch zu Targum, Talmud und Midrasch, Frankfurt a. M. 1897 (rist. Hideshaim 1967); DCH = D.J.A. Clines (ed.), The Dictionary of Classical Hebrew, I, Sheffield 1993; Driver, S. R., Glossary of Words, in A.E.Cowley – A. Neubauer, The Original Hebrew of a Portion of Ecclesiasticus (XXXIX.15 to XLIX.11), Oxford 1897, pp. xxxi-xxxvi; Even-Shoshan, A., A New Concordance of the Bible, Jerusalem 1982 HAL = W. Baumgartner et al., Hebräisches und aramäisches Lexikon zum Alten Testament, I-IV, Leiden 1967-1990. HALE = The Hebrew & Aramaic Lexicon of the Old Testament. The new Koehler-Baumgartner in English, I, Leiden 1994. Jastrow, M., A Dictionary of the Targumim, the Talmud Babli and Yerushalmi, and Midrashic Literature, I-II, New York 1093 (rist. 1967) Lévi, I., L’ecclésiastique ou la sagesse de Jésus fils de Sira. Texte, original hébreu, édité, traduit et commenté, Paris, I: 1898; II: 1901(=Lévi I e Lévi II); Lévi, I., The Hebrew Text of the Book of Ecclesiasticus, Leiden 1904 (= Lévi, Text); Margoliouth, G., The Original Hebrew of Ecclesiaticus XXXI.12-31, and XXXVI.22-XXXVII.26, in JQR 12(1899) 1-33; 51

158

VAN

PEURSEN, Periphrastic Tenses (n. 5), p. 158.


Peters, N., Der jüngst wiederaufgefundene hebr. Text des Buches Ecclesiasticus, Freiburg. Br. 1898 (= Petres 1); Peters, N., Liber Jesu filii Sirach sive Ecclesiasticus hebraice, Freiburg B. 1905 (= Peters 2); Peters, N., Das Buch Jesus Sirach oder Ecclesiasticus, Münster in Westf. 1913; Segal, M.S., {l$h )rs-}b rps, Jerusalem 19723; Skehan, P.W. – Di Lella, A.A., The Wisdom of Ben Sira (AB 39), New York 1987; Smend, R., Die Weisheit des Jesus Sirach erklärt, Berlin 1906; Smend, R., Die Weisheit des Jesus Sirach, hebräisch und deutsch. Mit einem hebräischen Glossar, Berlin 1906 (= Smend 2) Strack, H. L., Die Sprüche Jesus’, des Sohnes Sirachs. Der jüngst gefundene hebräische Text mit Anmerkungen und Wörterbuch, Leipzig 1903; Yadin, Y., The Ben Sira Scroll from Masada, Jerusalem 1965; Zorell, F., Lexicon hebraicum et aramaicum Veteris Testamenti, Roma 1957.

159



14 ELEMENTI MITICI IN GEN 1-11. IMPLICAZIONI ERMENEUTICHE [2000]

Certamente, i primi undici capitoli della Genesi che, staccati dalla storia dei patriarchi d’Israele (Gen 12-50), costituiscono la “storia delle origini”, rappresentano quella parte della Bibbia Ebraica nella quale si riscontrano i maggiori contatti con la cultura mesopotamica1. È questo un dato che ha attratto l’attenzione degli studiosi fin dalla prima scoperta dei testi assiro-babilonesi, nella seconda metà del sec. XIX2. In questo saggio vogliamo riconsiderare i dati di base su cui si impernia il confronto tra il testo biblico e i testi accadici, per tentare alla fine una riflessione ermeneutica, dal punto di vista degli studi vetero-testamentari, riguardante il mito e l’applicazione che, a partire dalla letteratura mesopotamica, se ne può fare nell’interpretazione della Bibbia Ebraica3. La nostra analisi comprende tre parti: I) Composizione letteraria e contenuti di Gen 1-114; II) Alcuni miti mesopotamici più attinenti alle tematiche di Gen 1-11; III) Implicazioni ermeneutiche sull’uso del mito nei due complessi di testi. I COMPOSIZIONE LETTERARIA DI GEN 1-11 Secondo l’opinione critica più comune si ritiene che in Gen 1-11 si hanno due filoni di tradizioni ben rinoscibili per il loro diverso stile e per la coerenza del loro rispettivo contenuto: quello dell’autore jahvista (= J) e quello dell’autore sacerdotale (= P). Nell’esame di Gen 1-11 la distinzione degli elementi J da quelli P si rivela di grande aiuto per una migliore

1

Per esempio, nel lungo articolo di PLESSIS una buona parte della trattazione (cc. 714-774) è dedicata ai paralleli mesopotamici relativi a Gen 1-11. 2 Si veda l’opera pioneristica di SMITH. 3 ROGERSON traccia la storia degli studi su questo tema dalla fine del sec, XVIII al 1970, insistendo da parte sua sulla valenza simbolica del mito. 4 Per i nomi propri del testo biblico si segue la trascrizione datane nella Bibbia CEI (1971).

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comprensione del testo, perché permette di seguire più da vicino la logica interna propria a ognuna delle due tradizioni5. A) Il testo jahvista in Gen 1-11 Gli elementi propri di J in Gen 1-11 sono costituiti da questi passi: 1) creazione e caduta (Gen 2,4b-3,24); 2) genealogia antidiluviana iniziata da Caino e Abele (4,1-24); 3) l’origine dei giganti e il diluvio (6,1-4.5-8; 7,1-10. 12. 16b. 17b. 22-23; 8,2b-3a. 6-12. 13b. 20-22); 4) genealogia postdiluviana iniziata con l’ubriacatura di Noè (9,18-27; 10,1b. 8-19. 21. 24-30); 5) dalla torre di Babele alla genealogia di Abramo (11,1-9. 28-30). Si hanno così cinque sezioni, in ognuna delle quali c’è un episodio di “peccato”, messo sempre all’inizio, eccetto nella prima dove la caduta sta dopo la creazione. Esaminiamo ora successivamente queste cinque sezioni, mettendo in evidenza in particolare la loro articolazione. 1) Creazione e caduta (2,ab-3,24) L’articolazione del racconto nel cap. 2 si può indicare sommariamente in questo modo: non si aveva vegetazione per mancanza di pioggia (4b-5), ma una “sorgente”6 irrigava la terra (6); JHWH forma l’uomo, pianta un giardino in Eden e vi pone l’uomo, fa germogliare gli alberi, tra cui si segnalano l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male (7-9). Inserzione a se stante: dall’Eden usciva un fiume che si divideva in quattro corsi d’acqua (10-14). Seconda notizia (cf. 8b) della collocazione dell’uomo nell’Eden e divieto per l’uomo di mangiare dell’albero della conoscenza (15-17). Formazione degli animali a cui l’uomo impone il nome e “costruzione” della donna dalla costola dell’uomo, che riceve in consegna la donna, dove trova quello che aveva cercato invano negli animali (18-24). Notazione sulla loro innocente nudità (25). Nel cap. 3 predominano i dialoghi: dialogo tra il serpente e la donna, nel quale si precisa che il divieto divino riguarda l’albero che è al centro del 5 Per la distinzione di J e P seguiamo la sinossi di EISSFELDT, che almeno per Gen 1-11 rimane valida, anche di fronte alle recenti discussioni sull’origine del Pentateuco e sulla datazione delle diverse tradizioni in esso contenute. 6 Il termine ‘@d, che ricorre ancora in Gb 36,27 nel significato derivato di “vapore”, deriva dall’accadico edu e indica un corso d’acqua dolce che affiora dal suolo (unterirdische Süsswasserstrom: HAL, s.v.).

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giardino (cf. 2,9). Infrazione del divieto da parte della donna e dell’uomo che, vergognandosi dopo della loro nudità, si fanno dei “grembiali”7 con foglie di fico (6-7). Dialogo di JHWH con l’uomo, in cui si evidenzia il nesso tra l’infrazione e l’insorgere della vergogna per la propria nudità (811), e quindi con la donna (12-13). Condanna del serpente (12-13), della donna che non viene maledetta (16) e dell’uomo per il quale viene maledetta la terra (17-19). Conclusione positiva: l’uomo dà il nome alla donna in riconoscimento della sua destinazione alla maternità e rivestimento di entrambi da parte di Dio con una tunica di pelle. Conclusione negativa: cacciata dall’Eden perché l’uomo non abbia accesso all’albero della vita (22-24)8. 2) Caino e Abele, genealogia antidiluviana (c. 4) I discendenti diretti della prima coppia umana sono Caino, agricoltore, ed Abele, pastore: il primo uccide il secondo, e dopo va ad abitare ad oriente di Eden (1-16). Anche con Caino JHWH mostra un segno di pietà, parlandogli (6-7) e anche legittimando la violenza che sarà usata per la sua difesa (15). Con i suoi discendenti sono collegati gli inizi di alcune attività umane; si ha così questa successione (17-24): Caino > Enoch (la prima città: 17) > Irad > Mecuiaèl > Metusaèl > Lamech > Iabal (“abitatore di tenda e bestiame”: 20) > Iubal (“suonatore di cetra e di flauto”: 21) > Tubalkàin (“lavoratore di rame e ferro”: 22). Lamech è il personaggio più negativo e più importante della serie: con lui si aggrava la violenza iniziata con Caino (24). Si torna quindi ad Adamo: > Set > Enosh e inizio del culto di JHWH (25-26). 3) Nascita dei giganti e diluvio (cc. 6-8*) L’antefatto del diluvio è fornito da una leggenda mitologica9 che parla di una grave perversione per cui i figli degli dèi si accoppiano con le figlie degli uomini, perché attratti dalla loro bellezza; cosi hanno origine i 7

SOGGIN, p. 80. Anche se è possibile distinguere ancora all’interno di 2,3b-3,24 almeno due diverse tradizioni precedenti, a noi basta considerare nella sua unitarietà redazionale l’attuale testo J (cf. ZIMMERLI, 109). 9 de VAUX, p. 56. 8

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giganti (1-4)10. JHWH decreta il diluvio per distruggere l’uomo sulla terra, essendo deluso dalla sua condotta. Solo Noè sarà risparmiato, ma non per suo merito (5-8). Senza che si parli prima della costruzione dell’arca, si dice che Noè vi entra con tutta la sua famiglia introducendovi sette paia degli animali mondi e un paio di quelli immondi; dopo sette giorni comincia la pioggia che dura per 40 giorni; JHWH chiude l’arca, l’acqua s’innalza sempre di più (7,1-5.7ac.10. 12. 16b. 17b). Tutto muore, eccetto Noè e quanto era con lui nell’arca (22-23a). La pioggia si ferma, e l’acqua comincia a decrescere (8,2b-3a). Noè invia per tre volte una colomba11: la prima e la seconda tornano, ma non la terza non torna, segno che l’acqua si è prosciugata (6-12); quindi Noè scoperchia l’arca (13b) e offre il sacrificio, cui segue la promessa di JHWH di non distruggere più l’uomo; a lui si rivolge così, ancora una volta, una forma di accondiscendenza misericordiosa (20-22). 4) Ubriacatura di Noè e genealogia postdiluviana (cc. 9-10*) Ora Noè, l’eroe del diluvio, è presentato in un’altra veste, quella del primo viticoltore, e il racconto della sua ubriacatura offre il pretesto per la maledizione dei Cananei, nella persona del figlio Cam, dimostratosi irrispettoso verso il padre a differenza degli altri due figli, Sem e Iafet (9,1827). La genealogia che segue in J risulta composta da due frammenti inseriti nello schema genealogico di P. Da Cam (P) seguono tre capostipiti: 1) Kush (=Etiopia) > Nimrod (regna in Babel, Erek, Accad, Kalne; Assur [Ninive, Rehovot-Ir, Kalah]); 2) Misraim (Egitto) > Luditi, Anamiti, Lehabiti, Naftuhiti, Patrusiti, Kasluhiti, Kaftoriti (>Filistei)12; 3) Canaan > Sidone, Het, Gebuseo, Amorreo, Girgaseo, Hivvita, Archita, Sinita, Arvadita, Zemarita, Hamatita (dispersione dei Cananei) (10,1b. 8-19; notizia fram10 Nell’attuale redazione J, questo episodio, anche se originalmente indipendente, costituisce “l’antefatto” del diluvio, come ammette SPEISER, 46, e perciò non è un semplice “intermezzo” (SOGGIN, p. 119). Anche de VAUX, p. 56s, lo stacca dal diluvio, inquadrandolo nella sezione precedente “La creazione e la caduta” (1,1-6,4). 11 La menzione del “corvo” in 8,7 disturba lo schema convenzionalmente completo del triplice invio della colomba. Perciò si può considerare con WESTERMANN, p. 597, “residuo di una variante”, mentre von RAD, p. 149, l’attribuisce a P, e ZIMMERLI, p. 290, la considera un’aggiunta posticcia. 12 La menzione dei Filistei in 10,14, che segue nel TM i Kasluhiti, si deve spostare dopo i Kaftoriti (SKINNER, p. 213; WESTERMANN, p. 665; SPEISER, p. 68; cf. BHS).

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mentaria su Sem > Eber: 21). Da Sem (P) seguono: Arpacsad > Selach > Eber > Peleg + Joktam > Almodad, Selef, Asarmavet, Ierach, Adòram, Uzal, Dikla, Obal, Abimaèl, Saba, Ofir, Avìla, Iobab (24-30)13. 5) Torre di Babele e genealogia di Abramo Contrariamente a quanto si è mostrato prima nei cc. 9-10, mostrando le diverse ramificazioni dei popoli, qui (11,1-9) si immagina che l’umanità si trovi ancora raccolta in un solo luogo e parli una sola lingua. L’ambizioso progetto della costruzione della “torre” che tocchi fino al cielo, vuole essere una dimostrazione della propria forza costituita dall’unione di tutti i popoli cementati dal fatto che parlano ancora una sola lingua. JHWH confonde (balal) la loro lingua; il luogo di questa empia impresa si identifica con Babilonia (babel)14. Un frammento J presenta, infine, la genealogia Terach > Abram + Nacor + Aran (28-30). B) Il testo sacerdotale (P) in Gen 1-11 Il testo P si presenta in Gen 1-11 in modo più lineare che non quello jahvista finora esaminato; vi si trova addirittura una struttura simmetrica basata sugli unici due episodi ricordati, quello della creazione (1,1-2,4a), e quello del diluvio (6,9-22; 7,6. 11. 13-16a. 17a. 18-21. 24; 8,1-2a. 3b-5. 13a. 14-19; 9,1-17. 28-29), collegati tra loro da una prima genealogia (5,128a.30-32). Il tutto si conclude con una seconda genealogia (Iafet e Cam: 10,1a. 2-7.20), che a sua volta presenta dopo un doppione per la genealogia di Sem: a)10,22-23. 31-32 (insieme agli altri due fratelli); b)11, 10-27. 3132 (da solo, dopo l’episodio J della torre di Babele). Il termine caratteristico toledot rimarca l’inizio delle genealogie di Adamo (5,1), Noè (6,9), i figli di Noè (10,1.32), Sem (11,10), nonché la conclusione della creazione (2,4). 1) La creazione in P Il racconto P della creazione apre tutta la Bibbia (1,1-2,4a), ma si riconosce subito che il suo scopo principale è quello di parlare del sabato, e del riposo sabbatico, in vista del quale le otto opere della creazione sono 13 14

J non parla della discendenza di Iafet. J ha presentato già altre eziologie etimologiche in 2,23; 3,20; 4,1; 4,25; 5,29.

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distribuite nei sei giorni della settimana lavorativa. Una serie di formule stereotipate si ripetono per ogni giorno, mentre si determina pure una corrispondenza tra le opere dei primi tre giorni e quelle degli altri tre, secondo questo schema: 1) luce (3-5) 4) astri (14-19) 2) firmamento (6-8) 5) pesci e uccelli (20-23) 3) a)terra/mare (9-10) 6) a) bestiame (24-25) b)vegetazione (11-13) b) uomo e donna (26-31) Qui la creazione è presentata come un’opera di “separazione” della luce dalle tenebre, delle acque inferiori dalle acque superiori, del mare dalla terra, prima, e di “riempimento”, dopo, con vegetazione, astri, pesci e uccelli, bestiame, coppia umana; ad essa è infine affidato quanto è stato prima creato (28). Per quanto riguarda l’alimentazione dell’uomo, in questo primo ordinamento del mondo si predispone un sistema vegetariano che riguarda le piante che producono seme (piante coltivate) e frutto; invece agli animali si assegna la vegetazione spontanea (29-30). A parte il leitmotiv che conclude ogni opera «Dio vide che era cosa buona» (4. 12. 18b. 21. 25b. 31 [molto buona])15, si deve notare l’importanza della “benedizione”, connessa con la trasmissione della vita per gli animali (22) e per gli uomini (28), e poi anche con il sabato (2,3). 2) La genealogia prediluviana In tutto si presentano dieci nomi (5,1-28a.30-32), ognuno dei quali è inserito ogni volta in un formulario fisso che riguarda il computo degli anni in rapporto alla generazione del primo figlio/successore e alla morte16: Adamo, Set, Enosh, Kenan (Caino), Maalaleèl (Mecuiaèl), Iared (Irad), Enoch, Matusalemme (Metusaèl), Lamech, Noè. 3) Il diluvio In termini generali si osserva all’inizio che mentre la terra era corrotta per il crescere della violenza, Noè era giusto e integro, e perciò 15

Questo letmotiv manca per le due separazioni, verticale (6-8) e orizzontale (9-10), delle acque. 16 Questa genealogia corrisponde a quella di J nel c. 4, con alcune variazioni nell’ordine dei nomi e con delle varianti “in massima parte ortografiche” (SOGGIN, p. 114).

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meritava di essere risparmiato. Quindi Dio gli dà le istruzioni per la costruzione dell’arca, specificando che deve introdurre dentro l’arca un paio di animali d’ogni specie (6,9-22). Noè ha 600 anni (7,6). Data esatta dell’inizio del diluvio (11). Le varie specie di animali raccolti (13-16a), l’arrivo del diluvio (mabbul: 17a)17. I vari livelli dell’acqua montante (18-21) e sua durata (24). Abbassamento delle acque (8,1-2a). Indicazioni cronologiche e del luogo dove l’arca si posa (3b-5). Uscita dall’arca (14-19) e alleanza conclusiva senza sacrificio18, simboleggiata dall’arcobaleno e costituita dall’impegno di Dio a non far ripetere il diluvio e dalla concessione fatta all’uomo di poter mangiare la carne di un animale ucciso, a condizione che sia senza il sangue; si ribadisce però proibizione dell’omicidio (9,1-17). Conclusione su Noè (28-29). 4) Genealogia postdiluviana I tre figli di Noè: Sem, Cam, Iafet (10,1a) Da Iafet: Gomer (> Askenaz, Rifat, Togarma), Magog, Madai, Iavan (> Elisa, Tarsis, i Kittim, i Rodanim), Tubal, Mesech, Tiras (2-5). Da Cam: Kush (= Etiopia) (> Seba, Avìla, Sabta, Raama [> Saba, Dedan], Sàbteca), Misraim (= Egitto), Put, Canaan (6-7). Segue la prima inserzione J (8-19). Conclusione della genealogia di Cam (20) Da Sem: Elam, Assur, Arpacsad, Lud, Aram (> Uz, Cul, Gheter, Mas) (22-23). Segue la seconda inserzione J (24-30). Conclusione della genealogia di Sem e dei figli di Noè (31-32). Dopo l’intermezzo della torre di Babele (J) P aggiunge una seconda genealogia di Sem con 10 nomi simile a quella prediluviana di 5,1-28a. 3032: Sem, Arpacsad, Selach, Eber, Peleg, Reu, Serug, Nacor, Terach, Abram (11,10-26). Un indizio della loro diversità dal punto di vista dell’intenzione di P lo si può avere nel fatto 10,32 Arpacsad è considerato come un popolo, mentre in 11,10-13 è considerato come un individuo19. Con le toledot di Terach > Abram + Nacor + Aran (> Lot) in 27. 31-32 si 17 La specificazione dei “quaranta giorni” in 7,17a (cf. 7,4. 12: J) è in P una glossa armonizzante del redattore che li considera qui non più riferiti all’intera durata del diluvio, come in J, ma solo a una sua parte (SKINNER, pp. 154 e 165). 18 Per P i sacrifici saranno legittimi solo a partire dalla legislazione sinaitica (cf. Lv 1-7; 17). 19 WESTERMANN, p. 745.

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inizia la storia di Abramo, che prima della morte del padre si sposta da Ur a Carran, in attesa di raggiungere il Canaan (12,4b-5). C) Osservazioni esegetiche su Gen 1-11 La diversa struttura d’insieme che presentano J e P in Gen 1-11 ci offre l’opportunità di fare alcune osservazioni importanti sul significato di questi testi. Il racconto di J è contrassegnato dal tema della maledizione (3,14.17; 8,21a) ed è scandito da una serie di episodi di “peccato” i quali non sono collegati tra loro da un vero rapporto cronologico e tanto meno da un nesso di causalità: si tratta di esemplificazioni riguardanti lo stesso tema evidenziato due riprese nei testi chiave 6,5-6 e 8,21b (l’insopprimibile cattiveria del cuore umano). Ma ciò nonostante, anche all’interno di Gn 2-11 si nota più volte la pietà di JHWH verso l’uomo: 3,21; 4,15; 8,21; 11,5-720.Questa sequenza intende soprattutto far da sfondo alla storia della benedizione che per J comincerà solo con Abramo (12,3). Il racconto di P invece semplifica l’impianto narrativo della storia delle origini condensandola in due quadri contrapposti, la creazione che era buona, e il diluvio che, dopo la deteriorazione costituita dalla diffusione della violenza, consente di ripartire da una creazione rinnovata, premessa per l’alleanza con Noè. La benedizione conclusiva, intesa ad assicurare la trasmissione della vita, segna l’apice essenzialmente positivo di entrambi gli episodi (1,22. 28; 2,3; 9,1). Se si legge il racconto della creazione P (1,1-2,4a) in stretta continuità con il seguente racconto J di 2,4b-3,24, senza tener conto delle loro rispettive intenzionalità, si falsa la prospettiva di entrambi. In realtà, l’intonazione positiva del racconto P è stata vista nella tradizione esegetica antica come la premessa dell’episodio negativo di J (2,3b-3,24), interpretato come una “caduta” che ha provocato la perdita di quell’innocenza presupposta in P e che sarebbe stata indicata soprattutto dall’espressione dell’uomo creato “ad immagine e somiglianza di Dio” (1,27). In Gen 3-11 più che parlare ogni volta di un preciso peccato storico, si riflette sulla peccaminosità dell’uomo, come tendenza costante della sua natura. Questa peccaminosità o malignità può essere mostrata solo presentandola in azione, con un prima e un poi richiesti dalla logica della trama 20

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Ciò è sottolineato particolarmente da von RAD, pp. 110, 123, 142, 176.


narrativa; in realtà questi momenti successivi evidenziano la compresenza simultanea delle due possibilità di bene e di male che caratterizzano la condizione morale di ogni uomo21. La sottolineatura riguardante la nudità e il senso della vergogna può essere un’allusione al turbamento psicologico, inevitabilmente bivalente in quanto composto di attrazione e di frustrazione, legato alla prima esperienza sessuale. Nella rielaborazione jahvista questa non è ciò che costituisce direttamente la colpa della prima coppia, ma qualcosa che serve a ricordare emblematicamente il rimorso che nasce dalla diffidenza dimostrata dall’uomo nei confronti di JHWH22. Il fatto che sia la donna ad essere tentata per prima, serve semplicemente alle esigenze descrittive dell’autore, che così crea una tensione narrativa nel suo racconto. In realtà si tratta della fallibilità di ogni essere umano, che viene sdoppiata nella curiosità della donna e nella condiscendenza dell’uomo, per rispecchiare così le forme della loro reciprocità, quale la si sperimenta nella vita quotidiana di sempre23. La sessualità, che determina e specifica la differenza dell’uomo e della donna, è vista nella doppia valenza dell’integrazione e della reciprocità da un lato, e della possibile perversione del loro rapporto dall’altro. 21 Questo concetto è ripetutamente sottolineato da RICOEUR II, che, con un approccio filosofico al testo biblico, distingue logicamente ciò che l’uomo è in quanto creatura da ciò che lui diventa con la sua perversione. I due stati d’innocenza e di peccato si devono concepire «non tanto in successione, ma in sovrapposizione (surimpression); il peccato non succede all’innocenza, ma, nell’Istante, la perde. Nell’Istante io sono creato, nell’Istante io decado (déchois). Nell’Istante io sono creato: in effetti, la mia bontà primitiva, è essa il mio statuto d’essere creato; ora io non cesso d’essere creato, altrimenti cesserei d’essere; dunque io non cesso d’essere buono. Perciò “l’evento” del peccato fa finire l’innocenza nell’Istante; esso è, nell’Istante, la discontinuità, la frattura tra il mio essere creato e il mio divenire cattivo. Il mito mette in successione ciò che è contemporaneo e non può non essere tale» (p. 235); cf. anche pp. 161, 191, 219, 225, 231. 22 GUNKEL, p. 14s, a proposito di 2,25 rileva come queste allusioni si riferiscano al passaggio dall’infanzia alla maturità sessuale che a sua volta coincide con la capacità del giudizio su ciò che è bene e ciò che è male. Con finezza stoolinea come ciò sia riferito dal narratore solo come “esempio” (Beispiel). Secondo OTZEN «sexual motifs enjoy a prominent place throughout the entire narrative» (p. 49); la psicoterapeuta ebreo-americana N. ROSENBLATT, p. 34, identifica nel frutto proibito il “risveglio della sessualità” (Awakening sexuality). 23 «Eva non dunque la donna in tanto che ‘secondo sesso’; ogni donna e ogni uomo sono Adamo; ogni uomo e ogni donna sono Eva; ogni donna pecca ‘in’ Adamo, ogni uomo è sedotto ‘in’ Eva» (RICOEUR II, p. 239).

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Ancora una volta non si tratta di un armonia che c’era prima e che si sarebbe perduta con la colpa. Si tratta piuttosto di potenzialità che di fatto possono svilupparsi per il meglio o per il peggio, impegnando la libertà dell’uomo e della donna coinvolta nella dinamica del loro rapporto24. Per quanto riguarda il diluvio, sembra che questa tradizione riguardi all’origine le inondazioni devastanti verificatesi nella pianura mesopotamica25. Trapiantata in Israele, viene diversamente incorniciata da J e da P. Per J il diluvio è il castigo dell’arroganza che si è manifestata con gli amori che hanno dato origine ai giganti, mentre per P esso è dovuto alla crescita della violenza sulla terra. Nella conclusione, se J parla del sacrificio di Noè e della stabilizzazione delle stagioni che consentono il regolare svolgimento della vita agricola, P vi connette la facoltà di mangiare la carne degli animali, a condizione che siano macellati togliendo loro il sangue. In conclusione si può dire che P non solo semplifica la storia delle origini rispetto a J, ma tralascia gli elementi mitologici che ancora vi affiorano in maniera consistente. II MITI MESOPOTAMICI Passiamo ora a considerare sei testi a vario titolo di genere mitologico, non per farne una analisi specifica, ma semplicemente per abbozzare una sommaria comparazione con Gen 1-11: Enuma Elish, Gilgamesh, Atrahasis, Adapa Etana, Erra26. Dopo averne riferito in sintesi il contenuto (A), rileveremo alcuni topoi o motivi ricorrenti che riaffiorano in qualche modo in Gen 1-11 (B). Questi motivi più significativi vengono prima, in A, indicati in corsivo e con l’aggiunta di un numero progressivo, in modo che vi si può fare riferimento nel riepilogo logico che ne facciamo poi in B.

24 J. BRIEND nota che nei testi mesopotamici non si ha la stessa sottolineatura sull’importanza della coppia umana che si riscontra nel racconto J (in ATCT, p. 270). 25 Cf. SOGGIN, p. 139. 26 Questa esemplificazione, a parte l’Enuma Elish e Atrahasis, viene indicata da CAGNI 1975, per mostrare “quanto grande fosse l’impegno filosofico e teologico dei Mesopotamici in rapporto ai problemi dell’esistenza” (p. 256)

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A) Presentazione dei testi a) Enuma Elish Il mito di Enuma Elish, è stato considerato sin dalla sua scoperta come il poema babilonese della creazione, anche se di fatto la creazione vi viene raccontata in funzione della glorificazione del dio Marduk27. Al principio il dio Apsu, che rappresenta le acque dolci, e la dea Tiamat, la MadreAbisso che rappresenta le acque salate del mare, creano gli dèi, che però poi con il loro tumulto (1) li disturbano. Avendo allora l’insofferente Apsu deliberato la loro repressione (2), viene ucciso per tempo dal dio Ea (3), dalla cui unione con la moglie Damkina nasce Marduk. Ma a questo punto è la superstite dea Tiamat ad essere insofferente, e perciò decreta di fare una guerra. Gli dèi si dividono in due gruppi (4), quelli che patteggiano per Tiamat e quelli che patteggiano per Marduk, il dio-eroe di questo mito. Quando si affrontano in battaglia è naturalmente Marduk che vince Tiamat: la uccide e dal suo cadavere forma il cielo con gli astri da una parte e la terra con quanto essa contiene dall’altra (5). Marduk, riconosciuto ora come il capo supremo degli dèi, fonda prima Babilonia e poi decide la creazione degli uomini, dandone incarico al dio Ea (6). Questi forma l’umanità con il sangue (7) ricavato dal corpo dei vinto Qingu, amante e collaboratore militare della sconfitta e già uccisa Tiamat. Agli uomini viene imposto di eseguire ormai il lavoro svolto fino ad allora dagli dèi (8). Il racconto culmina alla fine con la costruzione del santuario di Babilonia e con la definitiva investitura di Marduk, che viene celebrato con cinquanta denominazioni come il potente e munifico benefattore degli dèi e degli uomini. b) Gilgamesh Il problema della morte costituisce il tema centrale dell’epopea di Gilgamesh28, un movimentato racconto che parla con struggente melanconia della sua ineluttabilità. Il protagonista, Gilgamesh, è il violento re 27 Testo con commento in BOTTÉRO – KRAMER, pp. 640-722; cf. anche FURLANI, pp. 3-107; ANET, pp. 60-72 (E. A. Speiser); ATCT, pp. 243-246 (M. – J. Seux); COS, pp. 389-402 (B. R. Foster); si veda pure l’analisi fatta da CLIFFORD, pp. 82-93. 28 Testo in ATCT, pp. 305-392 (F. Malbran-Labat; introduzione di A. Marchadour, pp. 306-309); FURLANI, pp. 111-282; ANET, pp. 72-99 (E. A. Speiser); BOTTÉRO – KRAMER, pp. 605-613; COS, pp. 458-460 (B. R. Foster). Cf. PETTINATO 1992.

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della città di Uruk, che stringe una grande amicizia con Enkidu, dopo che l’ha sfidato a singolar tenzone. Questi era in origine un uomo selvaggio, che era stato reso poi civile dagli amori di una prostituta (1). Siccome la forza che scaturisce dalla loro amicizia ingelosisce gli déi (2), essi fanno cadere ammalato Enkidu, che quindi muore lasciando l’antico Gilgamesh in un inconsolabile sgomento. Egli è ora assalito dal pensiero della sua prossima morte (3) e perciò pensa di recarsi da Utanapishtim, l’unico uomo che, dopo esser sfuggito, grazie alla protezione del dio Ea (4), al diluvio decretato dal dio Enlil (5), era stato insieme alla moglie innalzato al rango degli dèi, conseguendo così l’immortalità. Avendogli chiesto quale sia il segreto dell’immortalità, o meglio del solo prolungamento della vita29, questi gli dice che esso si trova in una certa pianta spinosa (6). Gilgamesh, finalmente rasserenato, ha ora la pianta nelle sue mani; ma avendo sostato ad una fonte d’acqua fresca per lavarsi, un serpente (7), uscito silenziosamente dalla terra, gliela porta irrimediabilmente via. Mangiandola, il serpente rinnova le sue squame. Ma già prima l’ostessa Siduri, incontrata nel suo avventuroso viaggio alla ricerca di Utanapishtim, gli aveva detto: “Gilgamesh, dove vai così a caso? La Vita che tu cerchi non puoi trovarla: quando gli dèi crearono l’umanità, la morte stabilirono per gli uomini, mentre la Vìta tennero nelle loro mani! Tu, Gilgamesh, appaga il tuo ventre, ricerca giorno e notte il piacere, ogni giorno fa festa (8), giorno e notte danza a suon di musica, indossa vestiti puliti, la tua testa sia lavata e, tu, bagnato d’acqua; guarda il figlio che ti tiene per mano; una sposa venga a rallegrasi nel tuo seno; questa (soltanto) è la sorte dell’uomo!”30. c) Atrahasis Il mito di Atrahasis31, rappresenta il parallelo mesopotamico più completo a Gen 1-11 perché riunisce in un’unica trama i due episodi fondamentali della storia biblica delle origini: la creazione e il diluvio. Contro il dio cattivo Enlil, che detiene la giurisdizione della terra, si dirige una 29

Così precisa CAGNI 1992, p. 69, contro quanto si dice in ATCT, p. 308 (introduzione di Marchadour) 30 X, III, 10-28, in ATCT, p. 370. CAGNI 1994 lo definisce «uno dei più famosi passi del poema e della teologia ed antropologia mesopotamiche» (p. 39). 31 LAMBERT – MILLAR, 1969; BOTTÉRO – KRAMER, pp. 560-600; CAGNI 1975. Per una comparazione di questo mito con Gen 2-11, cf. CLIFFORD, 1994, pp. 74-82. Alcuni frammenti di questo mito erano riportati già in ANET, pp. 104-106 (E. A. Speiser).

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rivolta degli dèi inferiori (1), gli Igigi, perché si sono stancati del lavoro che, non essendoci ancora gli uomini, essi erano tenuti ad assolvere sulla terra, in modo che con i suoi prodotti si provvedesse all’alimentazione degli altri dèi (2). Allora il dio buono Enki, dio della sapienza, provvede alla creazione degli uomini (3), impastando argilla con il sangue del dio (4) che aveva capeggiato la rivolta; ad essi si affidano i lavori svolti sinora dai ribelli Igigi (5). Ma essendosi troppo moltiplicati, gli uomini provocano un tale frastuono (6)32 sulla terra che disturba i sonni del dio Enlìl (7), il quale perciò decide di distruggere gli uomini con il diluvio (8). A questo punto l’astuto intervento del dio Enki fa sì che ne sia salvato il suo devoto Atrahasis (9). Fallito così il disegno di Enlil di distruggere tutti gli uomini, gli dèi decidono insieme di frenare la loro eccessiva moltiplicazione con tre distinti provvedimenti (10): 1) una parte delle donne saranno naturalmente sterili; 2) tanti bambini moriranno in tenera età; 3) le sacerdotesse, rimanendo nubili, non potranno procreare. d) Etana Etana33, il primo re della città di Kish, viene affidato alla protezione di un’aquila e di un serpente (1), che con un patto di collaborazione si impegnano a non violare i limiti stabiliti dal dio Shamash. Ma l’aquila tradisce il patto, mangiando i piccoli del serpente nel suo nido. Questo allora la accusa davanti a Shamash, che gli consiglia come vendicarsi. Deve uccidere un toro, spaccargli lo stomaco, e poi attendere, stando in agguato, che anche l’aquila, insieme agli altri uccelli, venga a beccare la carne della carcassa. Quando questa vi giunge, il serpente la afferra e la butta in un pozzo profondo dopo averle strappato le ali, in modo che non ne possa più uscire. Etana, che era privo di prole, si rivolge a Shamash (2) per ottenere da lui la pianta della nascita (3). Il dio gli dice che per averla deve liberare l’aquila e insegnarle di nuovo a volare. Essa lo porterà in cielo dalla dea 32 PETTINATO 1968 sostiene che non si tratta di un semplice “frastuono” ma di un “grido di rivolta” (ein Lärm der Empörung), p. 190; ma contro questa interpretazione di tipo “etico” MORAN 1971 ribadisce per il termine accadico rigmu il significato generico di din (“frastuono”) e cry (“grido”), preferito pure da CLIFFORD, che sulla scia di MORAN difende la semplice traduzione con noise, p. 81. L’interpretazione di Pettinato è respinta pure da MÜLLER, p. 116s. 33 Testo in COS, p. 453-457 (S. Dalley); ANET, p. 114-118 (E. A. Speiser)

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Ishtar, dove – nonostante la lacuna finale – si può presumere che abbia ottenuto la pianta agognata, giacché si parla altrove del suo erede al trono. e) Adapa Adapa34 stava pescando per il tempio di Ea; travolto dal vento del sud, egli gli spezza l’ala attraverso uno scongiuro. Così questo vento non soffia più. Allora Anu cerca l’occasione per punire Adapa (1) per quello che ha fatto. Ma il suo dio protettore Ea (2) gli dà prima istruzioni su come comportarsi davanti al dio Anu, che lo ha chiamato a rapporto. Deve presentarsi vestito a lutto, spiegando che intende ricordare in questo modo la scomparsa dalla terra di due dèi, Tammuz e Gizida, gli stessi che sarebbero stati presenti all’interrogatorio davanti ad Anu; essi, lusingati per questo presunto cordoglio, avrebbero allora preso le sue difese (3). Infine Ea lo ammonisce a non accettare né il pane né l’acqua offertagli nel cielo da Anu, come cibo di vita (4), perché questo sarebbe stato di fatto un cibo di morte. Giunto davanti ad Anu, Adapa si dimostra docile alle istruzioni avute: beneficia dell’intercessione di Tummuz e di Gizida, ma rifiuta il pane e l’acqua offertigli (5), per tornare, da mortale (6), sulla terra. f) Erra In questo testo35 si parla di una fase storica recente, la cui decadenza sul piano politico, economico, militare e sociale, è fatta risalire alla nefasta iniziativa di Erra, il violento ed insaziabile dio della guerra. Mentre egli se ne stava a riposo, i Sette suoi consiglieri militari, lo aizzano ad intraprendere una feroce campagna militare che gli deve fornire l’occasione di dimostrare il suo valore (1) e di conseguire così la gloria che si merita. Ma per poter fare questo deve prima convincere con l’inganno Marduk (2) ad abbandonare temporaneamente il suo tempio di Babilonia, perché solo in sua assenza lui può avere mano libera per realizzare il suo progetto di una devastazione generale del paese. Alla fine, dopo tre ondate successive di crescente violenza (3), Erra, ormai soddisfatto, può decretare un nuovo periodo di prosperità per Babilonia. 34

Testo in ANET, pp. 101-103 (E. A. Speiser); COS, p. 449 (B. R. Foster) BOTTÉRO – KRAMER, pp. 723-773; l’edizione più completa e più recente è quella di CAGNI 1968. 35

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B) I motivi più caratteristici Nonostante le loro diversità, i testi presentati mostrano un loro fondo culturale comune che è bene sintetizzare evidenziandone le componenti più caratteristiche, che hanno un qualche riscontro, anche lontano ed indiretto con Gen 1-11. Il mondo divino è rappresentato da diverse divinità antagoniste, le cui passioni si riflettono poi nelle vicende del mondo umano. Così si ha il dio cattivo Enlil: contro di lui si dirige la rivolta degli Igigi (c1); disturbato nel suo sonno dal frastuono degli uomini (c7), decreta il diluvio per farli morire (b6, c8). Ma c’è anche il dio Anu, che è quello che vuol punire Adapa (f1) ed Erra che semina la distruzione (g1). Di contro, il dio buono Enlil (o Ea) crea gli uomini (a6, c3), protegge il suo devoto Utanapishtim (Ea: b4), Atrahasis (c9), Adapa (Ea: f2), mentre Tammuz e Gizida prendono le difese di Adapa (f3); Shamash protegge Etana (d2), la dea Ishtar fornisce la pianta della nascita (d4). Si parla quindi di una esplicita conflittualità fra gli dèi: Ea uccide Apsu (a3), che aveva prima deliberato la repressione degli dèi che lo disturbavano con il loro tumulto (a1, a2), mentre gli Igigi si ribellano ad Enlil (c1) ed Erra deve ingannare Marduk per aver mano libera contro Babilonia (g2). La stessa creazione del cielo e della terra si opera spaccando il corpo di Tiamat, la dea sconfitta da Marduk, dopo una lotta che ha diviso gli déi in due fazioni opposte (a4, a5). Il dio Ea crea gli uomini (a6; Enki: c3); l’uomo è formato con il sangue di un dio ucciso (a7), impastato con l’argilla (c4). Gli dèi sono gelosi dell’amicizia di Gilgamesh con Enkidu (b2), mentre il dio Enlil è disturbato nel suo sonno dal frastuono degli uomini (c6). Gli uomini sono creati per sostituire gli dèi inferiori nel lavoro di cui questi si sono stancati (a8, c5) e che è peraltro finalizzato al mantenimento degli dèi con le offerte da farsi nei loro santuari (c2). Altri motivi minori sono pure da segnalare: l’ansia della morte che incombe sull’uomo (b3), la ricerca di un rimedio in un cibo particolare (b6), d3, f4), l’importanza del serpente che ruba la pianta della vita a Gilgamesh (b7) o che, viceversa, insieme all’aquila deve proteggere Etana e perciò parla (d1). Analoga alla motivazione del diluvio, attribuito al corruccio di un dio (c8), è quella di una crescente violenza che si abbatte su Babilonia per la crudele ambizione di Erra (g3, g1). C’è poi Adapa che supera la prova non mangiando il cibo che con l’inganno gli viene offerto dal dio Anu (f5). Il motivo dell’esperienza sessuale come espediente per conseguire la civi-

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lizzazione del selvaggio Enkidu (b1) può avere un certo qual rapporto con la vergogna per la loro nudità che Adamo ed Eva sperimentano dopo la disobbedienza36. Il tema della morte, che è bene accettare come un dato costitutivo della condizione umana (f6), è connesso pure con alcuni dati di carattere naturale o culturale (c10), anche se in Atrahasis esso viene affrontato dal punto di vista (consolatorio) dell’opportunità di contenere l’incremento demografico dell’umanità. Infine, in una espressione di Siduri si può cogliere un’indizio molto importante sulla funzione e sul senso di queste varie affabulazioni mitiche: “ogni giorno fa’ festa” (b8). Questa precisazione ci fa capire che esse nascono dalla ricerca del significato di ciò che si accade nella vita di ogni giorno. III IMPLICAZIONI ERMENEUTICHE Esaminando diacronicamente le due tradizioni bibliche dell’autore jahvista e dell’autore sacerdotale, abbiamo potuto osservare come, nel passaggio dal primo al secondo, la presentazione della storia primordiale subisce una riduzione dell’elemento mitico-narrativo, per raggiungere così una maggiore concentrazione dell’elemento dottrinale fondamentale. Invece la breve rassegna dei miti mesopotamici ci ha portato ancora più indietro, presentandoci l’ambiente d’origine di quei motivi mitico-narrativi recepiti in modo più diretto nel più antico racconto biblico dell’autore J. Solo a partire da questo quadro d’insieme si può porre in maniera sufficientemente corretta il problema dell’interpretazione del discorso mitico nella Bibbia; essa deve essere analoga a quella che si dà per i miti mesopotamici, che ne sono da un certo punto di vista all’origine. Nella più antica interpretazione di Gen 1-11 era invalso il postulato della fondamentale storicità del racconto biblico di contro a quelle che potevano sembrare le stravaganze della mitologia mesopotamica. Ma è possibile ribaltare la logica di questa ingiusta contrapposizione, introducendo alcune distinzioni che ci sembrano di fondamentale importanza dal punto di vista ermeneutico. 1) È giusto considerare con rispetto e simpatia i miti mesopotamici perché in essi si riflette una presa di coscienza di fronte al problema esisten36

Quanto dice BAILEY ci sembra utile più per lo “status quaestionis” che fornisce che non per la sua tesi negativa che difende. Con tutte le differenze che ci sono tra i due testi, si tratta di riconoscere soltanto la comunanza di un certo motivo che viene sviluppato diversamente nei due casi.

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ziale dell’uomo di tutti i tempi. È un puro dovere di “umanità” sentirci chiamare in causa in questa forma di filosofia dell’uomo mesopotamico. Nei suoi racconti mitici si cristallizzano percezioni e riflessioni che sorgono spontanee nell’animo umano di fronte all’enigma dell’esistenza e alle sue innegabili contraddizioni37. Perciò per interpretare questi miti occorre in qualche modo risalire dall’impianto immaginario che si cristallizza nelle varie forme narrative, al senso che si cerca di intravedere nella vita di ogni uomo, costituita non solo dai suoi comportamenti volontari o casuali, ma anche da ciò che gli capita e che configura il suo destino. In realtà, sia le domande come le risposte in questa ricerca di senso non sono chiare ed univoche, ma costituiscono solo dei tentativi di lettura e di interpretazione della vita, che anche per l’uomo moderno si presenta con le stesse caratteristiche costanti, quali la nascita e la morte, la violenza e la sconfitta, l’ambizione e il fallimento. L’uomo è nello stesso tempo tiranno e vittima, non solo degli altri ma anche di se stesso. Il racconto di alcune storie esemplari, nelle quali si riflettono e si cristallizzano queste situazioni universali, trasmette a chi le ascolta l’emozione e l’inquietudine della presa di coscienza che le ha generato; questi sentimenti si ripetono incessantemente non solo nell’ascoltatore e nel lettore che viveva integrato nello stesso sistema culturale di una volta, ma anche in che vive a distanza di tempo nell’ambito di altre culture. In questi miti noi abbiamo recuperati e delineati alcuni tratti caratteristici dell’Uomo, dell’uomo universale. 2) Il passaggio all’ambiente d’Israele di questo groviglio di racconti mitici, che facevano corpo unico con il mondo divino proprio dell’antica religione mesopotamica, comporta qui un assorbimento che seleziona gli elementi narrativi e aneddotici dei miti per incorporarli nella propria visione religiosa38. Questa matura lungo tutta l’esperienza storica nella quale Israele scopre e riconosce di tenere una posizione ambigua di fronte al suo Dio: chiamato ad un rapporto di alleanza con lui, si ritrova sempre mancante di 37

Osserva giustamente CAZELLES: «Per quanto sia trascendente il messaggio biblico, esso è troppo radicato (plonge) nell’ambiente letterario orientale perché non si esprima nelle forme utilizzate da questo ambiente…Il mito è la forma letteraria che esprime il bisogno che ha l’uomo di conoscere la divinità, non secondo una forma astratta e metafisica, ma in maniera personale e concreta…il mito esprime il carattere personale delle forze che si esercitano sull’uomo nella e da parte della natura» (p. 252). 38 Su ciò insiste CANCIK, che nota: «Nell’attuale formulazione dei testi biblici i motivi mitici sono sempre combinati con temi non mitici…La storia del sincretismo israelitico è nello stesso tempo la storia di una ‘demitizzazione’» (p. 869).

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fronte alle esigenze che da essa scaturiscono. Se ha chiara la coscienza della propria elezione, avverte anche in maniera acuta e persistente il senso di una responsabilità che non riesce ad assolvere i propri compiti, e che si ritrova nella condizione permanente dell’inadempienza. È proprio questa presa di coscienza che nel racconto jahvista delle origini viene tematizzata in maniera narrativa, riprendendo per questo i materiali forniti dalla tradizione mesopotamica. Da questa specie di “filtraggio” che si opera nell’assimilazione del materiale mitologico più antico, derivano due caratteristiche fondamentali che risaltano nella comparazione dei racconti biblici delle origini con i miti mesopotamici: a) Nei racconti biblici si ritrovano residui degli antichi miti che sono stati scorporati dal loro precedente contesto. Ma con questa riutilizzazione non viene ad essi conferito un valore “storico” nuovo, essendone già privi nella loro prima “invenzione”; essi mantengono il loro precedente statuto epistemologico. Ora fungono da raffigurazioni concrete nelle quali si deve leggere in filigrana un riflesso dell’esperienza che Israele fa ogni giorno del suo rapporto con JHWH. b) La diversità più specifica dei racconti biblici rispetto a quelli mesopotamici si trova nel modo di concepire il mondo divino che, abbandonato il modello politeistico, si concentra nell’unico Dio, di fronte al quale Israele deve rispondere delle sue infedeltà e della sua disobbedienza39. 3) La trama narrativa che comporta uno svolgimento con un prima e un dopo è la trasposizione di una presa di coscienza che ripartisce in momenti successivi quelli che sono i diversi aspetti contraddittori dell’unico atto dell’esistenza. L’uomo si scopre colpevole rispetto a un precedente momento in cui non lo era, ma questa sua colpevolezza realizza una sua innata possibilità di colpa, o anche un’inclinazione, che coesiste con l’atto stesso della colpa. In realtà, l’uomo si trova sempre a metà strada tra finito e infinito, tra innocenza e colpa e, stando all’esperienza che conti-

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McKENZIE 1973, sintetizza bene questo punto di vista anticipato in maniera meno netta in McKENZIE 1959: «Ciò che distingue questi passi dell’AT dagli antichi miti non sono i modelli di pensiero e di linguaggio che sembrano essere identici da ogni punto di vista, ma l’idea ebraica del Dio che viene conosciuto attraverso la rivelazione che lo stesso fa da sé…Se noi confrontiamo i procedimenti di pensiero dell’AT con i procedimenti del mito semitico, vediamo che l’AT rifiuta tutti gli elementi che sarebbero discordanti rispetto al Dio che essi conoscevano. Ma …i rapporti di Dio con il mondo e con l’uomo venivano intuiti ed espressi per mezzo degli stessi modelli e procedimenti che altrove noi chiamiamo mitici” (p. 627).

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nuamente si ripete, è inevitabile che passi dall’una all’altra condizione40. Nel modo come si rappresenta Adamo e gli altri uomini in Gen 2-3 si riflettono emblematicamente aspetti dell’esperienza fatta continuamente da ogni uomo; perciò, dalla costante dell’errare dell’uomo dipende il modo come si concepisce l’attimo dell’errare di Adamo, e non viceversa. E le “conseguenze” della colpa della prima coppia umana, consistenti nei dolori della gravidanza per la donna e nella fatica del lavoro per l’uomo, come anche nella minaccia della morte, non sono che aspetti complementari della finitezza e della fallibilità dell’uomo, che caratterizzano nel loro insieme la sua condizione storica di ogni tempo41.

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40 RICOEUR I caratterizza bene questa condizione fondamentale dell’uomo quando dice che lo si deve considerare a partire «dalla relazione finito-infinito», spiegando quindi che «Si deve dunque partire dal tutto dell’uomo, voglio dire dalla visione globale della sua non-coincidenza con se stesso, della sua sproporzione, dalla mediazione che egli opera in quanto esistente” (p. 24). Alla fine precisa che «l’immaginazione dell’innocenza non è altro che la rappresentazione d’una vita umana che realizzerebbe tutte le sue possibilità fondamentali senza nessuno scarto tra la sua destinazione originaria e la sua manifestazione storica. L’innocenza sarebbe la fallibilità senza il fallo e questa fallibilità non sarebbe che fragilità, che debolezza, ma non decadimento (déchéance). Poco importa che io non possa rappresentarmi l’innocenza senza ricorrere al mito, come uno stato realizzato ‘altrove’ e ‘una volta’ in luoghi e in tempi che non trovano posto nella geografia e nella storia dell’uomo razionale. L’essenziale del mito dell’innocenza è di dare un simbolo dell’originario che tras-pare nel decadimento ed esso lo denuncia come decadimento; la mia innocenza è la mia costituzione originaria, proiettata in una storia fantastica. Questa immaginazione non ha nulla di scandaloso per la filosofia; l’immaginazione è un modo indispensabile d’investigazione del possibile” (pp. 160s). 41 Osserva giustamente GUNKEL che queste conseguenze, espresse in 3,14-21 sotto forma di maledizioni, costituiscono lo scopo e l’acme di tutto il racconto J in Gen 2-3 (p. 20).

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15 VERSIONI ITALIANE DELLA BIBBIA: STORIA E TIPOLOGIA* [2001]

La prerogativa più singolare della Bibbia dal punto di vista umano, è che essa ci mette davanti ad un fenomeno storico, letterario e linguistico, ininterrotto, che abbraccia ormai tremila anni. Se già la sua stessa formazione nelle lingue originali, è un imponente processo dinamico e graduale che occupa i primi mille anni, i successivi due millenni ci presentano un incessante pullulare di versioni in altre lingue, che mettono in contatto il messaggio iniziale con i nuovi destinatari, sempre più diversi e numerosi, raggiunti dalla predicazione cristiana e dalla diaspora ebraica. Già nel lungo millennio della produzione dell’AT si succede in seno allo stesso popolo d’Israele l’uso della lingua ebraica, dell’aramaico e, infine, del greco; poi, per quanto riguarda il NT, il messaggio originario di Gesù predicato nella lingua popolare della Palestina del suo tempo, che era l’aramaico, viene tradotto nel greco cosiddetto della koinè, quale si era sviluppato nell’età ellenistica, in modo che i Vangeli e tutto il resto del NT sono stati scritti in greco. La Bibbia si presenta perciò, fin dal suo nascere, come un fenomeno linguistico estremamente ricco e incrociato, che già a livello delle stesse parole che vengono via via utilizzate o anche coniate, rispecchia in qualche modo la vita e la storia dei popoli dell’antichità, come i sumeri e gli assiri, i babilonesi e gli egiziani, i fenici e i persiani, i greci e i romani1. Così la Bibbia risulta essere un crogiolo e un crocevia di quanto di più nobile gli uomini possono via via produrre, vale a dire quelle parole con le quali esprimono i sentimenti e le idee che passano nel loro animo, mentre si riflettono in esse anche le loro stesse condizioni di vita, economiche, sociali e religiose. In realtà, la Parola di Dio si incarna nelle parole umane, le assume e le trasfigura, senza sottrarle al flusso della storia che percorre e unisce *

Testo della Prolusione all’Anno accademico 1200-1201 tenuta il 17 novembre

2000. 1 Per una visione d’insieme delle lingue antiche che interessano lo studio dell’Antico Testamento si veda M. NOTH, Die Welt des Alten Testaments. Einführung in die Grenzgebiete der alttestamentlichen Wissenschaft, Berlin 1962, 200-209.

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diacronicamente le diverse fasce dell’umanità, orientale ed occidentale, antica e medievale, moderna e contemporanea. Così questa Parola, trascendente per la sua origine e incarnata nel linguaggio umano, è fisicamente antica e ognora contemporanea, perché, attraverso le traduzioni che si moltiplicano e si rinnovano, si rende presente, anche a distanza di millenni, in un modo sostanzialmente identico a quello in cui risuonava sulla bocca e tra le mani dei primi autori biblici. Nel lungo ed interminabile processo della traduzione della Bibbia si rinnova così, quasi all’infinito, l’evento prodigioso della comunicazione e di un incontro con un mondo lontano che ci ridiventa vicino e che avvolge nel suo orizzonte la nostra esistenza. Come si sa, da più anni, e precisamente dal 1988, la Conferenza Episcopale Italiana ha preso l’iniziativa di una terza edizione della Versione della Bibbia che era stata pubblicata nel 1971 e poi in 2a edizione nel 1974, perché servisse come testo ufficiale per i lezionari liturgici2. Si sperava che questa revisione potesse essere pubblicata nell’anno del Giubileo 2000, ma di fatto la conclusione dei lavori è dovuta slittare, perché si avesse ancora tempo per le ultime verifiche di dettaglio. Nel desiderio di far conoscere il significato di questa iniziativa che è importante per la Chiesa italiana e che ha pure una indubbia rilevanza teologica, si è scelto come tema della prolusione di quest’anno accademico la questione della traduzione della Bibbia in italiano, che comporta anche una considerazione metodica sulla traduzione in generale, che io ho pensato di illustrare esaminando due aspetti tra loro complementari di questo straordinario fenomeno letterario e teologico, che riguardano, come recita il sottotitolo della conferenza, “la storia e la tipologia” di queste versioni. L’uno e l’altro aspetto saranno illustrati attraverso una panoramica storica nella quale sceglieremo gli esempi più significativi che ci aiutano a valutare la grossa posta in gioco che abbiamo di fronte, quando si prende l’iniziativa di una traduzione della Bibbia. Questa posta in gioco ha senz’altro un primo aspetto di carattere linguistico e tecnico, ma comporta pure un importante aspetto di carattere ecclesiale, perché nell’impegno richiesto per una traduzione della Bibbia si manifesta l’attenzione che la Chiesa dedica ad essa nel quadro dei suoi fondamentali compiti pastorali. Inoltre, attorno alla grande questione della traduzione della Bibbia si è giocata per diversi secoli una grossa battaglia 2 Si veda per un primo bilancio provvisorio: C. BUZZETI – C. GHIDELLI (a cura di), Conferenza Episcopale Italiana – Ufficio Liturgico Nazionale: La Traduzione della Bibbia nella Chiesa italiana. Il Nuovo Testamento, Cinisello Balsamo 1998.

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confessionale, prima nel senso della polemica e poi nel segno della collaborazione, tra cattolicesimo e protestantesimo. Quando è scoppiata la Riforma protestante si è posto al centro dello scontro dottrinale e disciplinare fra i due fronti proprio la centralità e l’interpretazione della Scrittura, con il ripudio della Volgata latina da parte protestante, e il rinnovato attaccamento ad essa da parte cattolica, attaccamento che era agevolato dal fatto che la Volgata continuava ad essere usata nella liturgia. Ma l’abbandono della Volgata metteva in auge il ricorso al testo originale della Bibbia, il greco e l’ebraico, anzi l’ebraico più del greco, rientrando il secondo già nel piano degli studi classici, a differenza dell’ebraico, che era più legato alla specifica competenza degli studi teologici. San Girolamo Vale la pena richiamare all’inizio del nostro schizzo storico proprio la figura di San Girolamo, che senza volerlo, è diventato poi, dal tempo della Riforma, il simbolo di una mentalità tradizionalista, che proprio lui a suo tempo aveva coraggiosamente superato3. Infatti, la decisione di ripartire dall’ebraico per una nuova traduzione dell’AT è stata tutta sua, giacché papa Damaso, del quale egli era stato segretario, gli aveva chiesto soltanto una revisione dal greco della versione latina in uso nella liturgia limitatamente al NT o forse ai soli Vangeli. Riguardo all’AT, la traduzione dall’ebraico non gli fu commissionata da nessuno, anzi andava contro corrente, perché era allora abbastanza affermata ed apprezzata l’Antica Latina (Vetus Latina), che derivava non direttamente dall’ebraico, ma dalla versione greca dei Settanta, prodotta dai giudei alessandrini nei sec. III e II a. C. Volendo ora ricordare San Girolamo, mi pare importante segnalare due aspetti della sua personalità e della sua opera: il suo curricolo di studi e il suo metodo di traduzione. 1) Il curricolo. In un’epoca in cui non c’erano dei corsi istituzionali, egli studia seguendo la sua inclinazione, però non da autodidatta ma frequentando maestri di elezione4. Egli era un appassionato studioso e ammiratore degli autori classici greci e latini, in particolare Virgilio e Cicerone, al punto da sentire anche il rimorso per l’attrazione che 3

Cfr J. GRIBOMONT, L’église et les versions bibliques, in La Maison-Dieu, 1969, n.

2, 41-68. 4

Vedi B. ALTANER, Patrologia, Torino 1968, 409-420.

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sentiva verso questi scrittori pagani5. Solo in seguito scopre la necessità di studiare l’ebraico, e per questo si cerca privatamente dei maestri ebrei a pagamento. Egli non sarà un teologo sistematico, ma un erudito, cultore delle tre lingue latina, greca ed ebraica (vir trilinguis) ed inquieto viaggiatore che gira per l’Europa e in Oriente, fino a stabilirsi alla fine a Betlemme, dove passa gli ultimi anni della sua vita, dopo che aveva visitato in lungo e in largo la stessa Palestina. Perciò si mostrerà poi ben informato sulla geografia e sugli usi del paese della Bibbia, consultando per questo anche i rabbini. Proveniente da una famiglia benestante che gli aveva permesso di coltivare i suoi interessi di studio, fu attratto dall’ideale ascetico e monastico, dotandosi pure di una buona biblioteca di manoscritti, utili per il suo lavoro esegetico. 2) Riguardo al metodo della sua traduzione, si può dire che, sebbene esso non sia costante ma mostri una certa evoluzione da un libro all’altro, l’attenzione minuziosa ad ogni parola dell’originale ebraico non lo rende schiavo della parola, ma mira a rendere soprattutto il senso della frase, espressa in un bel latino6. Per quanto può, egli evita di tradurre allo stesso modo un’espressione ebraica che si ripeteva a breve distanza, cercando così di creare una variazione stilistica. Il latino della sua traduzione manifesta la forte tempra dello scrittore capace di rendere il suo testo con eleganza e musicalità. Ci basti riportare il giudizio competente di un grande poeta moderno, Paul Claudel, che ha scritto: “Noi abbiamo la gioia di possedere nella Volgata una traduzione dei libri santi che è un monumento poetico, che io non esiterei personalmente a considerare un capolavoro della lingua latina. Se non è ispirata nel senso teologico, certamente è ispirata nel senso letterario”7. La sua traduzione osteggiata agli inizi, per la novità del suo stile quando l’orecchio era abituato all’Antica Latina, s’impone a fatica e lentamente nelle Chiese d’Occidente, e si guadagna il titolo di Volgata solo nel sec. XIII, titolo che prima era riservato alla sua concorrente, l’Antica Latina.

5 F. AUER, Der hl. Hieronimus im Spiegel seiner Vulgata, in Festschrift Landersdorfer, Passau 1953, 11-24. 6 Su Girolamo come traduttore vedi H.F.SPARKS, Jerome as Biblical Scholar, in The Cambridge History of the Bible, I, Cambridge 1970, 510-541 e nella Enciclopedia Judaica, Jerusalem, le voci “Bible” (vol. IV, c. 857: B. Kedar-Kopfstein) e “Jerome” (vol. IX, 137678: D. Flusser). 7 P. CLAUDEL, J’aime la Bible, p. 55, cit. da J. Gribomont in A. di Berardino, Patrologia, III, Torino 1978, 215.

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Sec. XIII-XV. N. Malermi Ma proprio nel corso del sec. XIII si manifesta in Italia per la prima volta l’esigenza di tradurre dal latino la Bibbia nella nascente lingua italiana, inizialmente solo per le parti che erano usate nella liturgia8. Pezzi di queste antiche traduzioni italiane, nelle quali primeggia il toscano, seguito in alcuni casi dal veneziano, ci sono oggi accessibili grazie ai manoscritti del sec XIV e XV che si conservano a Firenze, Venezia, Siena, Roma e Parigi9. Esse derivano dal latino ma fanno trapelare pure un’influenza delle versioni francesi che le hanno precedute. I traduttori sono anonimi, i libri più tradotti sono i Vangeli e i Salmi, ma si mostra interesse anche per i libri sapienziali dell’AT. Sembra che questo interesse alla traduzione della Bibbia nella lingua parlata sia influenzato dai movimenti ereticali, in particolare di origine valdese, che, appellandosi all’autorità della Bibbia, suscitano uno speciale interesse presso i laici cattolici, che ciò nonostante non abbandonano la Chiesa. Costoro, nella loro riscoperta della Bibbia, vengono assecondati, specialmente nelle città, dai domenicani e dai francescani. Dopo un certo tempo, i frutti di questa attività di traduzioni parziali della Bibbia, finora anonime, confluiscono nella prima versione completa del Malermi, che venne stampata a Venezia nell’agosto del 1471 pochi anni dopo l’invenzione della stampa avvenuta nel 145410. Questo Nicolò Malermi, o Malerbi (c. 1420-1481) è stato abate di diversi monasteri dell’ordine camaldolese a Venezia, e nella prefazione dichiara di aver traducto tutto testo de la Biblia, aggiugendovi dei piccoli commenti ricavati dai Padri e dai più celebri teologi. In realtà, sembra piuttosto che egli non abbia fatto una nuova traduzione ma si sia limitato a raccogliere e unificare quelle precedenti, adattando l’ortografia toscana a quella veneziana, e a controllare il tutto sul testo della Volgata11.

8 Un’ottima sintesi, dal medioevo all’Ottocento, si trova in S. MINOCCHI, Italiennes (versions) de la Bible, in Dictionnaire de la Bible, III, 1909, 1012-1038. 9 K. FOSTER, Vernacular Scriptures in Italy, in The Cambridge History of the Bible, II, Cambridge 1969, 452-543. 10 Biblia dignamente vulgarizzata per il clarissimo religioso duon Nicolao de Malermi Venetiano. Alla fine del secondo volume si dice: Impresso…negli anni M.CCCC.LXXI. in Kalende de Augusto. 11 MINOCCHI, Italiennes (versions), cit., 1023.

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A. Brucioli Questo doppio registro, cattolico e riformato, ancora latente nella Bibbia del Malermi, diventa più evidente nella traduzione di tutta la Bibbia per opera di Antonio Brucioli (†1566), che si può considerare la Bibbia italiana del sec. XVI12. Egli era nato e viveva a Firenze, dove era amico di Nicolò Macchiavelli ma anche un dichiarato oppositore dei Medici. Per questa sua insofferenza politica è espulso dalla città e ripara a Lione, dove viene a contatto con le idee luterane penetrate dalla Germania, subendone l’influsso, ma senza abbandonare la Chiesa cattolica. Trasferitosi poi a Venezia, continua, frequentando i rabbini, l’apprendimento dell’ebraico, già iniziato a Lione. Qui, partecipe della vita culturale della città, diventa amico di Piero Aretino e pubblica nel 1532 la sua Bibbia, giusto due anni prima che fosse pubblicata in Germania da Lutero la prima edizione della sua traduzione completa del 153413. M. Lutero Ci imbattiamo così in Lutero, pur parlando delle versioni italiane della Bibbia, e non possiamo non fare, a questo punto, una digressione su di lui, che come traduttore è senz’altro un altro grande maestro del calibro di san Girolamo. Fra tutti i numerosi scritti dottrinali lasciati da Lutero, la sua traduzione della Bibbia è l’opera nella quale egli ha voluto profondere il suo più zelante e prolungato impegno14. Dopo aver tradotto per primo il NT dal greco, aveva più difficoltà ad affrontare l’ebraico dell’AT, perciò ha costituito un gruppo di lavoro col quale si riuniva periodicamente, avvalendosi dei diversi contributi di chi conosceva meglio l’ebraico e anche di chi lo consigliava sulle sfumature del tedesco15. E difatti la sua genialità si 12

Cfr C. CRIVELLI, in Enciclopedia Cattolica, III, 1949, 130. “Il Brucioli era di spiccate tendenze protestanti, sebbene ufficialmente no si staccasse dalla Chiesa, e la sua versione, divenuta ben presto comune per i protestanti italiani esuli, fu messa all’Indice nel 1559; quanto alla sua indole letteraria, è versione rozza e incolta…Fu ristampata più volte, anche con commenti del Brucioli in cui più chiaramente appaiono le sue tendenze protestanti”(G. RICCIOTTI, Bibbia. Versioni moderne, in Enciclopedia Cattolica, II, 1949, 1556-1563: 1558). 14 La prima edizione della traduzione della Bibbia di Lutero è del 1534, ma l’edizione definitiva è del 1545. 15 Sul metodo di lavoro di Lutero si veda R. GARCIA – VILLOSLADA, Martin Lutero, vol. II: In lotta contro Roma, Milano 1976, 450. 13

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manifesta di più nell’espressione tedesca che egli forgia e che contribuirà in modo determinante alla formazione della lingua nazionale. Vale la pena di riportare qui qualche osservazione sulla sua esperienza di traduttore. Quanto al linguaggio da adottare nella traduzione, Lutero dice: “Non si deve chiedere alle lettere della lingua latina come si deve parlare in tedesco …, ma si deve domandarlo alla madre di casa, ai ragazzi nella strada, al popolano al mercato, e si deve guardare la loro bocca per sapere come parlano e quindi tradurre in modo conforme. Allora comprendono e si accorgono che parliamo con loro in tedesco”16. E poi precisa: “Tuttavia nella mia traduzione non mi sono allontanato troppo liberamente dalla lettera, anzi nell’esame di ogni passo mi sono molto preoccupato, insieme ai miei collaboratori, di rimanere il più possibile aderente al testo, senza discostarmene con eccessiva libertà”17. Altrove dice: “Sudore ci costa mettere in lingua vernacola i profeti. Dio, che gran lavoro e fatica costringere gli scrittori ebraici a parlare in tedesco! … È come costringere l’usignolo a dimenticare il suo elegantissimo gorgheggio per imitare il monotono canto del cuculo”18. E poi ancora osserva: “Mi sono molto applicato a tradurre in tedesco puro e chiaro. Mi è capitato ben spesso di cercare e chiedere durante quindici giorni, tre o quattro settimane, una sola parola, senza per il momento poterla trovare. Traducendo il libro di Giobbe, abbiamo lavorato in modo tale che M. Filippo, Aurogallus ed io, abbiamo talvolta potuto appena terminare tre righe in quattro giorni: mio caro, ora è tradotto in tedesco ed è pronto, chiunque può leggere ed esaminare il testo; lo si può percorrere con gli occhi per tre o quattro pagine senza incontrare alcune difficoltà; non ci si accorge delle grosse pietre e dei ceppi che c’erano prima, perché ora vi si passa sopra come su di una tavola spiallata. Ma abbiamo dovuto sudare e preoccuparci non poco per liberare il cammino da simili pietre e ceppi e renderlo facilmente transitabile”19. Lutero una volta fece uccidere in sua presenza alcuni agnelli affinché un macellaio tedesco gli indicasse il nome di ogni parte dell’animale20. In realtà, da un certo punto di vista, si può osservare una qualche somiglianza tra san Girolamo e Lutero, sia per quanto riguarda il loro temperamento 16 Epistola sull’arte del tradurre e sulla intercessione dei santi, in Scritti religiosi di Martin Lutero (a cura di V. Vinay), Torino 1967, 708. 17 Ibid., 712. 18 Cit. in GARCIA – VILLOSLADA, Martin Lutero, cit., 543. 19 Epistola, cit., 707. 20 GARCIA – VILLOSLADA, Martin Lutero, cit., 545.

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irruente e passionale, certamente più aristocratico nel primo e più popolare nel secondo, e sia perché entrambi, con motivazioni diverse ma analoghe, hanno considerato, ad un certo punto della loro vita, la traduzione della Bibbia come il principale compito a cui dedicare il proprio tempo e le proprie energie. Inoltre, entrambi si dimostrano scrittori originali e geniali nelle loro rispettive lingue, il latino del V e il tedesco del XVI secolo. Il testo biblico da loro creato, penetra poi nella musica, per diventare, quello dell’uno, preghiera nelle nitide antifone latine del canto gregoriano, e quello dell’altro, evocazione celebrativa nelle melodie tedesche, ora tenere e ora possenti, del grande Johan Sebastian Bach. G. Diodati Ma quella che sarebbe diventata la Bibbia dei protestanti italiani porta lo stampo calvinista e non luterano. È La Bibbia cioè i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, nuovamente traslati in lingua italiana da Giovanni Diodati di nascita Lucchese, che è stata pubblicata nel 1607 a Ginevra21. La sua famiglia, originaria di Lucca, dopo essersi qui convertita al protestantesimo, per la propaganda luterana svoltavi da mercanti tedeschi, era emigrata a Ginevra, considerata allora come la città santa della riforma di Calvino, che offriva rifugio ai convertiti provenienti dai paesi cattolici dell’Europa. Pur essendo nato a Ginevra nel 1576, apprese l’italiano come lingua materna tra le mura domestiche insieme al francese; quindi frequentò l’accademia teologica di Calvino, divenendone, a soli 23 anni, professore di ebraico, forse, come qualcuno ha maliziosamente pensato, per riguardo alla generosità del padre verso la comunità22. Uomo seriamente impegnato negli studi e nell’azione pastorale, Giovanni Diodati voleva produrre una traduzione della Bibbia che ricalcasse il più possibile la forma del testo originale. Osserva il Luzzi che ne ha curato la revisione pubblicata nel 1924: “Il vero merito, il merito grande, grandissimo del Diodati consiste in questo: che egli tradusse la Bibbia dagli originali, e con una fedeltà che spesso rasenta lo scrupolo, e lo scrupolo eccessivo … La 21 Su Diodati ho potuto utilizzare la tesi molto documentata di R. COISSON, Giovanni Diodati e la sua attività ecclesiastica, diss. dattil. Facoltà Valdese di Teologia (rel. Valdo Vinay), Roma 1964, che mi è stata messa a disposizione dal dr. Valdo Bertalot, segretario generale della Società Biblica in Italia, Roma. 22 Ibid., 33.

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sua lingua è spesso dura e qua e là infrancesata, il suo periodare è non di rado intralciato, contorto, faticoso”23. L’atmosfera della Ginevra del suo tempo possiamo coglierla da questa testimonianza del 1858, che è opportuno riportare per ricordare l’ambiente concreto nel quale matura l’opera letteraria e teologica del Diodati. “A quell’epoca il culto pubblico non era, come oggigiorno, limitato alle questioni puramente religiose; il pulpito diventava una tribuna dove tutte le questioni della vita quotidiana venivano affrontate … i pastori intrattenevano il loro uditorio su tutti gli argomenti che alimentano oggigiorno la stampa quotidiana. Elezioni, tasse, istruzione, beneficenza, scandali vari, questioni di finanze, di pace e di guerra, tutto trovava posto sulla bocca dei predicatori. La censura morale non conosceva nessuna eccezione di persona, e dal sovrano fino al più umile artigiano, tutte le classi della società vi erano inesorabilmente fustigate”24. A. Martini Ma un secolo e mezzo dopo la traduzione del Diodati viene pubblicata in campo cattolico la versione dell’abate Antonio Martini, condotta sulla Volgata latina25. Nato a Prato nel 1720, a 28 anni si era laureato in lettere all’Università di Pisa, per trasferirsi tre anni dopo a Torino, dove il re Carlo Emanuele III lo aveva nominato preside della Congregazione dei 12 sacerdoti addetti alla Basilica di Superga. Qui inizia la sua traduzione cominciando dal NT. Avendo chiesto la dispensa dall’ufficio di preside, particolarmente gravoso per la poca disciplina della comunità, per potersi dedicare alla sua opera, ottiene nel 1765 dal re, con il titolo di consigliere di stato, una pensione sull’abbazia di S. Giacomo di Bessa. Questa versione, munita di commento, viene pubblicata in più volumi dal 1769 al 23

G. LUZZI, La Bibbia in Italia. L’eco della Riforma nella repubblica lucchese. Giovanni Diodati e la sua versione italiana della Bibbia, Torre Pellice s.d., 58, cit. da COISSON, Giovanni Deodati, cit., 148s. Il Luzzi ha pubblicato La Sacra Bibbia ossia L’Antico e il Nuovo Testamento. Versione Riveduta, Roma 1924. Nel 1995 è stata pubblicata dalla Società Biblica Britannica & Forestiera, Roma, La Sacra Bibbia. Versione Nuova Riveduta, a cura di B. Corsani, B. Costabel, S. Rapisarda. 24 J. GABEREL, Histoire de l’Eglise de Genève depuis le commencement de la Réformation jusqu’à nos jours, Genève 1858, 3 vol.,II, 20., cit. da COISSON, Giovanni Deodati, cit., 16. 25 Cfr G. PIOVANO, La versione e il commento della Bibbia di Antonio Martini, in La Scuola Cattolica 67 (1929, II) 337-347; P. DE AMBROGGI, Martini, Antonio, in Enciclopedia Cattolica, VIII, 1952, 210s.

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1781, anno in cui viene nominato arcivescovo di Firenze, dopo che era stato proposto da Vittorio Amedeo III all’episcopato di Bobbio, una piccola città in provincia di Piacenza, celebre per il suo monastero con annessa biblioteca. Morirà a Firenze alla veneranda età di 89 anni nel 1809. Da arcivescovo cura l’edizione definitiva della sua opera in 23 volumi, dal 1782 al 1792, cominciando dal Vecchio Testamento. Questa traduzione fu dichiarata “testo di lingua” dall’Accademia della Crusca il 28 luglio del 1885. Ma abbastanza presto, nel 1778-79 essa era stata stampata proprio a Catania, nella Stamperia del Vescovil Seminario, con un’edizione in 6 tomi per il Nuovo Testamento26 e, qualche anno dopo, nel 1781-84 si erano aggiunti ben 11 tomi per l’Antico Testamento27. A proposito della traduzione del Martini nota il Vaccari nel 1930: essa “è fedele senza servilità, di una discreta eleganza, non vigorosa, ma nel complesso degna del favore che gode per tutta Italia. Essa contribuì moltissimo a far rivivere fra noi gli studi biblici”28. Quasi per due secoli, infatti, la versione del Martini è stata la Bibbia cattolica degli italiani. Da parte sua aggiunge il Ricciotti nel 1949 che il Martini “fece opera del tutto nuova e per i suoi tempi degnissima… Accolta dai più con lode, da taluni con ostilità così accanita che si cercò perfino di farla proibire dalla Chiesa, la versione del Martini fu elogiata da un breve di Pio VI, indirizzato all’autore il 17 maggio 1778; cercarono però d’impadronirsene i giansenisti toscani iniziandone una edizione contraffatta, la quale si limitò al Nuovo Testamento e a minima parte del Vecchio”29. Nella prefazione del Martini colpiscono in particolare due idee che egli sottolinea e che sono caratteri26

Riporto dall’esemplare che si conserva nella Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Catania: Nuovo Testamento del Signor Nostro Gesù Cristo secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana e di annotazioni arricchito. Seconda edizione giusta l’esemplare di Torino. Tomo I. In Catania MDCCXXVIII. Nella Stamperia del Vescovil Seminario. A spese di Giovanni Riscica. E si vende al suo Negozio. Alla grandezza di Monsignor D. Salvatore Ventimiglia, Arcivescovo di Nicomedia, Inquisitore Generale nel Regno di Sicilia, già Vescova di Catania &c.&c. L’Editore. La Versione Turinese delle divine Scritture uscendo in Sicilia per la prima volta alla luce, pregiasi di portare in fronte il vostro rispettabile nome, Monsignore, per più ragioni. 27 Il Pentateuco o sia i cinque libri di Mosè secondo la Volgata Tradotti in lingua italiana e con annotazioni illustrati. Prima edizione Siciliana giusta l’esemplare di Torino. Tomo II. In Catania MDCCLXXXI. Nella Stamperia di Francesco Pastore con Licenza de’ Superiori. A Spese di Giovanni Riscica. 28 A. VACCARI, Bibbia, in Enciclopedia Italiana, VI, 1930, 899-903: 902. 29 G. RICCIOTTI, Bibbia. Versioni moderne, cit., 1560s.

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stiche del suo tempo: da un lato egli è consapevole che la fede è grazia, ma ciò è visto da lui in chiave apologetica per contrapporsi alle “dubbiezze” e agli errori dello spirito umano; dall’altro, egli insiste sulla continuità della storia della salvezza, ma in realtà essa è vista in maniera troppo dottrinale e poco storica. Sul primo punto egli scrive: “(Il cristiano) si conoscerà felice (come egli veramente lo è) per essere stato graziato da Dio di un dono sì grande, e con umile cordiale gratitudine offrirà al Donatore celeste i suoi perenni ringraziamenti”30. Riguardo al secondo tema leggiamo: “Queste verità capitali, per così dire, e sulle quali posa tutta la religione, queste verità annunziate nel Pentateuco di Mosè son ripetute costantemente in tutti i libri dell’antica e della nuova alleanza; e con ammirabil concerto dalla Genesi fino alla Apocalisse tutti i nostri scrittori sacri concordano negli stessi dommi da credere, concordano nelle stesse massime di morale, e negli stessi fatti fondamentali che stabiliscono la religione”31. In realtà, le opzioni teologiche del Martini che si esprimono in genere nel commento ci sembrano piuttosto prudenti e tradizionaliste, se si tien conto dei fermenti culturali del suo tempo32. Il sec XIX Nel corso dell’Ottocento la Società Biblica Britannica e Forestiera, un’istituzione protestante fondata a Londra nel 1804 per la stampa e la diffusione della Bibbia, ha esteso presto la sua attività in Italia alleandosi 30

Cito dall’edizione più antica che mi è stato possibile reperire, in possesso del Pontificio Istituto Biblico: La Sacra Bibbia o sia Vecchio e Nuovo Testamento secondo la Volgata. Traduzione ed Annotazioni di Monsignore Antonio Martini Arcivescovo di Firenze, Volume primo: Genesi, Esodo, Levitico, Milano, Per Giovanni Silvestri, M.LCCC.XXVII, p. XIII. 31 Ibid., p. XX. 32 È significativo questo giudizio critico dato da uno storico: «Era prevalso nell’abate pratese il movente apologetico antiprotestantico… Per calcolo o per istinto il Martini rifuggiva da terminologia religiosa comune ai riformatori a lui coevi. Il suo eloquio toscano, terso, lineare, alquanto freddo, obbediva alle regole della Crusca e preferiva attingere espressioni, oltre che al Deodati, a scrittori del ’400 e ’500 toscano. La visione teologica che presentava, era quella eclettica insegnata all’università di Torino, tra agostinismo e tomismo; esplicita era la chiusura alle istanze ireniche verso i protestanti…In definitiva, istanze e linguaggio che sono riconoscibili nell’illuminismo cattolico coevo furono disattesi, sottaciuti o resi in forme evanescenti sia nella versione della Bibbia che nella rimanente produzione letteraria del Martini» (P. STELLA, “Produzione libraria religiosa”, in M.ROSA (a cura di), Cattolicesimo e Lumi nel Settecento italiano, Roma 1981, 99-125: 108 e 111.

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con i movimenti risorgimentali che aspiravano a cacciare le varie Case regnanti a favore dell’unità d’Italia. In questo contesto fu facile mettersi anche contro lo Stato pontificio, che impediva la penetrazione della sua propaganda nella città di Roma33. Nel breve intervallo della Repubblica romana (1849), mentre Pio IX si era rifugiato a Gaeta, si stampò un’edizione di 4000 copie del NT nella traduzione del Diodati. Una copia venne consegnata pure a Giuseppe Mazzini dal curatore, il pastore francese Theodore Paul, che aveva preso alloggio nel 1848 in Campidoglio nei locali dell’ambasciata di Prussia presso la Santa Sede. Il pastore, un non violento che non condivideva del tutto Mazzini per l’appello alle armi, rilevava compiaciuto che questi aveva “raccomandato fortemente in un discorso al popolo di Roma che si leggesse il Vangelo”. Nello stesso 1849, approfittando della cacciata del Granduca Leopoldo II, la Società Biblica fece stampare a Firenze 3000 copie del NT nella traduzione del Martini. Ma al suo ritorno, il sovrano fece sequestrare 2000 copie non ancora distribuite, ordinando di bruciarle. Riguardo alla nostra città, si può ricordare in questo contesto la fondazione della comunità valdese a Catania nel 186134. Quando invece nel 1870 si ebbe la breccia di Porta Pia, insieme ai bersaglieri entrarono a Roma anche sei colportori (venditori ambulanti) con un carretto carico di Bibbie e di Nuovi Testamenti nella traduzione del Diodati, che erano stati inviati nella città eterna dall’agenzia toscana della Società Biblica. Ma la convulsa storia del Risorgimento italiano si riflette ancor di più nell’autore della prima traduzione cattolica della Bibbia in italiano eseguita sul testo ebraico35. Essa è stata pubblicata a Palermo in due volumi nel 1859 e nel 1862 dal sacerdote Gregorio Ugdulena. Quest’opera è rimasta incompiuta per le traversie politiche del suo autore, ed abbraccia soltanto i libri del Pentateuco e di Giosuè, Giudici, Samuele, Re. È stata definita, per quanto riguarda gli studi biblici, “l’opera più originale e più grandiosa del

33 M. CIGNONI, La Bibbia a Roma nel Risorgimento, in Domenica della Riforma 1993, 5-9; ID., La Diodati: piccola storia di una grande Bibbia, in La Parola 1994, n. 2, Supplemento, 6-16. 34 G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (18671894), Acireale 1987, 30. 35 La Sacra Scrittura in volgare riscontrata nuovamente con gli originali ed illustrata con breve commento da Gregorio Ugdulena prete termitano, Vecchio Testamento, Vol. I, Palermo, dalla Tipografia di Francesco Lao, MDCCCLIX.

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sec. XIX in Italia”36, e pertanto costituisce una gloria del clero siciliano. Infatti, questo Gregorio Ugdulena è nato nel 1815 a Termini Imerese e a 28 anni (1843) ottiene la cattedra di ebraico e Sacra Scrittura all’Università di Palermo. A causa delle sue idee politiche a sostegno dell’unità d’Italia, partecipò, unendosi ai garibaldini, all’insurrezione contro i Borboni del 1848 e perciò fu confinato per sei anni nell’isola di Favignana, dove il 1 aprile 1850 dava inizio alla sua traduzione. Per le sue posizioni risorgimentali, insolite nell’ambiente cattolico del suo tempo, fu accusato perfino di ateismo, mentre il papa Pio IX aveva addirittura pensato di nominarlo vescovo. Viene eletto per due volte deputato del Regno nel collegio di Marsala e, con il non improbabile appoggio della massoneria, diventa prima professore di greco a Firenze nel 1867-68 e, poi nel 1870, professore di ebraico nella Facoltà di lettere dell’università di Roma. È morto a Roma due anni dopo, a soli 58 anni (1872), si sospetta per avvelenamento. Il Ricciotti dà questo giudizio abbastanza equo sulla sua opera: “Questa parte pubblicata è chiara e fedele nella traduzione, nutritissima di scienza filologica e storica nel commento che mira al senso letterale, ed è aggiornata per gli studi più recenti del suo tempo. Lodatissimo da A. Manzoni e incoraggiato da Pio IX, l’Ugdulena si lasciò invece distrarre dalla politica e abbandonò la sua impresa”37. Possiamo concludere il ricordo dell’Ottocento con una nota di campanilismo, forse doverosa, per menzionare, qui cito testualmente il frontespizio, il “sacerdote Francesco Corsaro, professore della lingua ebraica nel Seminario della città di Catania”, che ha pubblicato nel 1839 una grammatica ebraica, stampata a Napoli “dai torchi di Raffaele Miranda”. Con una lettera ridondante di ampollosità tipiche del suo tempo, l’autore dedica i suoi Elementi grammaticali della lingua santa “a Sua Eccellenza il Signor D. Giuseppe Ferrara, reverendissimo canonico della chiesa cattedrale e rettore del vescovil seminario di Catania”, ma soprattutto

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PLACIDO DA SORTINO, Gregorio Ugdulena orientalista e biblista italiano, in Rivista Biblica 14(1966)159-179: 159. 37 RICCIOTTI, Bibbia. Versioni moderne, cit., 1561. Molto preciso è il giudizio di VACCARI, Bibbia, cit., 902: «Più che novelle versione essa è una revisione del Diodati sui testi originali, compresi con la scienza filologica e storica del sec. XIX; il pregio principale sta nel commento, che per conoscenza di lingue, di storia, degli scrittori più recenti, non è inferiore ai più dotti del suo tempo».

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nipote dell’arcivescovo Mons. Orlando, da poco defunto, che “aveva eretto la Cattedra, me elegendo a Precettore”38. Il sec. XX Nel corso del sec. XX sono ben tredici le nuove traduzioni italiane della Bibbia, di cui solo due vengono ancora eseguite dalla Volgata, mentre le altre dieci si basano sui testi originali. Sono fatte sulla Volgata quella di Eusebio Tintori, edita dalle Edizioni Paoline nel 1931, e quella diretta e commentata da Giuseppe Ricciotti, con la collaborazione di diversi traduttori, edita dalla Salani nel 194039. D’ora in poi tutte le traduzioni pubblicate si vantano di essere eseguite dai testi originali, a partire da quella più popolare e diffusa, pubblicata dalle Ed. Paoline nel 195840, e diventata “la Bibbia di mille lire”. Una traduzione di più alto livello è invece quella eseguita dal Vaccari e collaboratori, pubblicata in vari volumi presso Salani negli anni 1957-58, e poi riunita anche in un sol volume. Nel 1948 si inizia la grande serie dei commentari della cosiddetta Bibbia del Garofalo, presso l’editrice Marietti, che ha raggiunto i 32 volumi senza essere completata. Ma nel 1960 lo stesso Garofalo ha diretto una edizione completa in tre volumi41, con una nuova traduzione e con un commento più succinto. Nella premessa si dice: “Lo scopo di questi volumi è stato quello di rendere in italiano anche il sapore della lingua originale: si è cercato – per quanto è stato possibile – di essere fedeli non soltanto alle parole ma anche al periodo e allo

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Elementi grammaticali della Lingua Santa esposti in tavole sinottiche da apprendersi in ventidue lezioni anche senza precettore…compilati dal Sacerdote Francesco Corsaro professore della lingua ebraica nel Seminario della città ci Catania. Ad uso di detto seminario, Napoli, Dai torchi di Raffaele Miranda, 1939, 4. 39 La Sacra Bibbia, Traduzione di G. Bonaccorsi, G. Castoldi, G. Giovannozzi, G. Mezzacasa, F. Ramorino, G. Ricciotti, G.M. Zampini. Introduzione e note di Giuseppe Riccioti, Firenze 1940. 40 La Sacra Bibbia, Traduzione dai testi originali di F. Nardoni, G. Robaldo, G.Castoldi, F. Pasquero, Alba 1958. 41 La Sacra Bibbia tradotta dai testi originali e commentata, A cura e sotto la direzione di Mons. Salvatore Garofalo. Il Vecchio Testamento, I (Pent.-Macc.), II (Giob.-Profeti Min.), III: Il Nuovo Testamento (Collaboratori: di L. Algisi, D. Baldi, G. Castellino, P. Colella, Emanuele da S. Marco, M. Erbetta, E. Galbiati, S. Garofalo, L. Moraldi, G. Nolli, N. Palmarini, A. Penna, G. Rinaldi, A. Romeo, G. Saldarini, F. Spadafora, Teodorico da Castel S. Pietro, F. Vattioni, C. Zedda), Casale Monferrato 1960-61.

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spirito”. Nello stesso anno usciva pure la traduzione di Fulvio Nardoni42. Frattanto anche le Case editrici laiche si sono preoccupate di avere una nuova traduzione della Bibbia di loro edizione: la UTET (1963)43, la Garzanti (1964)44, e la Mondadori (1968)45. E quando al seguito del Concilio Vaticano II, s’impone la necessità di avere una traduzione italiana per la liturgia, di cui deve farsi carico e garante la Conferenza episcopale nazionale, si sceglie come testo base proprio quello della Bibbia della UTET, perché, debitamente rivisto da una commissione in vista delle esigenze della proclamazione liturgica, si possa avere la prima edizione del 1971 della Bibbia della CEI46. Per la verità, questa soluzione è stata un ripiego dopo che era naufragato l’iniziale progetto di produrre una nuova Bibbia ufficiale in italiano con la collaborazione dei protestanti, secondo un auspicio che era stato formulato nel Concilio. Ma il lavoro in comune si è allora bloccato nel suo inizio, per la difficoltà di accettare da parte protestante l’espressione “piena di grazia”, di Luc 1,28, che, derivata immediatamente dal latino della Volgata, era irrinunciabile per i cattolici. Ma propriamente si ha nel testo solo il participio perfetto passivo “graziata” (kecharitomene)47. Ad ogni modo, la Bibbia CEI del 1971 viene recepita nei Lezionari del 1973 e nella Bibbia di Gerusalemme, pubblicata dalle 42 La Parola di Dio scritta in volumi detti La Bibbia, Traduzione di F. Nardoni dai testi originali, Firenze 1960. 43 La Sacra Bibbia tradotta dai testi originali e commentata. I: Libri Storici, a cura di E. Galbiati; II: Libri sapienziali e profetici, a cura di A. Penna; III: Nuovo Testamento, a cura di P. Rossano, Torino 21964. 44 La Sacra Bibbia, tradotta dai testi originali a cura dei professori di S. Scrittura o.f.m., sotto la direzione del rev. P. B. Mariani, Milano 1964. 45 La Bibbia concordata: tradotta dai testi originali con introduzioni e note a cura della Società Biblica Italiana; I: Pentateuco, Libri storici, Libri poetici; II: Libri profetici, Nuovo Testamento, Milano 1968. I collaboratori sono ebrei, cattolici, ortodossi e protestanti. 46 La Sacra Bibbia. Conferenza Episcopale Italiana, Roma 1071. 47 Questo particolare veniva riferito ai primi di settembre 1977 nell’ambito del seminario organizzato a Roma per preparare la futura Traduzione interconfessinale in lingua corrente. L’arc. Mons. Ezio D’Antoni accenna in maniera velata alle difficoltà incontrate con queste parole: «Fu un’esperienza interessante, ma si rivelò faticosa e fece prevedere tempi lunghi: la natura della versione, destinata all’uso liturgico, non consentiva l’accoglienza di alcune richieste imprescindibili per i protestanti, e l’urgenza di arrivare quanto prima possibile alla pubblicazione della Bibbia per predisporre la stampa dei Lezionari consigliarono di rinviare ad altro momento la versione “comune” o, come poi fu chiamata, “in lingua corrente”» (Motivi e vicende di una iniziativa postconciliare, in BUZZETTI – GHIDELLI, Traduzione della Bibbia, cit., 99-105: 101).

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Dehoniane nel 197448. Ma già nel 1974 se ne pubblica una seconda edizione, leggermente rivista. Intanto le Edizioni Paoline curavano negli anni 1967-80 la collana “Nuovissima Versione della Bibbia” in 46 volumetti, ridotti in un sol volume nel 198349. Invece, sul fronte della collaborazione ecumenica, dopo il fallimento di quel primo tentativo, già accennato, non si è rinunciato al progetto di una traduzione fatta insieme da cattolici e protestanti, e così una commissione mista ha preparato la Traduzione interconfessionale in lingua corrente, di cui sono usciti nel 1976 il NT50 e, poi, l’edizione completa nel 198551. In questa traduzione si segue il cosiddetto metodo delle “equivalenze dinamiche”52, che mira a rendere il senso della frase e non quello dello singole parole dell’originale, preferendo invece modi di dire più accessibili ad un pubblico secolarizzato, poco abituato ad un certo linguaggio religioso; perciò si dice nel titolo “in lingua corrente”. La difficoltà che si era incontrata in Luc 1,28 viene qui risolta traducendo: “Ti saluto, Maria! Il Signore è con te: egli ti ha colmata di grazia”. Questa è stata una soluzione che ha mediato fra la tradizione cattolica e l’istanza degli evangelici; infatti il verbo passivo è reso con l’equivalente attivo, esplicitando con l’aggiunta del pronome il soggetto agente che è Dio53. Solo tre anni dopo, nel 1988, parte dalla CEI il progetto di una revisione della sua Bibbia, che doveva rappresentare la terza edizione. Nel 1997 esce il volume provvisorio del NT54, in attesa delle osservazioni che sarebbero state recepite nell’edizione definitiva, che deve contenere l’Antico e il Nuovo Testamento. Perché si prepara questa nuova edizione? Per una prima risposta che rimane approssimativa, possiamo contentarci di citare 48

Per la precisione, come è detto nella Presentazione, La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 1974, riprende il testo biblico dalla Bibbia CEI del 1971, mentre traduce dal francese le introduzioni e le note della nuova ediz. de La Bible de Jerusalem, Parigi 1973 (19611), preparata dalla “Scuola Biblica” dei domenicani di Gerusalemme. 49 La Bibbia, Nuovissima versione dai testi originali, con introduzioni e note di A. Girlanda, P. Gironi, F. Pasquero, G. Ravasi, P. Rossano, S. Virgulin, Roma 1983. 50 Parola del Signore. Il Nuovo Testamento. Traduzione interconfessionale in lingua corrente, Leumann (To) – Roma 1976. 51 Parola del Signore. La Bibbia in lingua corrente, Leumann (To) – Roma 1985. 52 Questo metodo, teorizzato de E. NIDA, Toward a Science of Translating, Leiden 1964, è discusso in C.BUZZETTI, La Parola tradotta, Brescia 1973, 137-156. 53 Cfr. C. BUZZETTI, “Traducendo kexaritwmeénh”, in Testimonium Christi: Scritti in onore di Jacques Dupont, Brescia 1985, 111-116. 54 La Sacra Bibbia. Nuovo Testamento. Conferenza Episcopale Italiana, Roma 1997.

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qualche indicazione che veniva fornita nella lettera del 15 ottobre 1988, inviata al gruppo dei revisori: “La Bibbia CEI è destinata essenzialmente all’uso liturgico: proclamazione e canto. Il suo linguaggio dovrà dunque essere quello di un testo liturgico, indirizzato a persone adulte, di cultura storico-letteraria medio-bassa, che usano frequentare la chiesa. Fare in modo che il testo biblico risulti comprensibile da sé. Evitare espressioni che non appartengono alla lingua italiana. Tener presente, infine, l’utilizzazione catechistica. A livello lessicale sono da evitare termini elevati e difficili o troppo bassi. Si abbia cura particolare nella traduzione di termini portanti come ‘alleanza’, ‘terra’, ‘predicare’. A livello di struttura sintattica, periodi lunghi e complessi sono da spezzare in frasi brevi e più semplici. Le scelte già operate dalla Bibbia CEI allo scopo di maggiore scioltezza, incisività, chiarezza vanno in via di massima conservate”55. In questa nostra rassegna storica siam partititi da Girolamo e dal XIII sec. della storia d’Italia, quando si avviava l’affermazione del toscano come lingua nazionale. Poi abbiamo potuto ricordare una traduzione per ogni secolo, a partire dall’invenzione della stampa: Malerbi (s. XV), Brucioli (sec. XVI), Diodati (sec. XVII), Martini (sec. XVIII), Ugdulena (Sec. XIX), e infine la Bibbia CEI, che fa spicco tra le tante versioni del XX secolo. Se vogliamo ora raccogliere in sintesi i criteri metodologici via via emersi, possiamo dire che nella traduzione si pone fondamentalmente il problema del rapporto che si stabilisce tra due poli, da un lato il testo di partenza, e dall’altro il testo d’arrivo. Questi due poli non sono per nulla due realtà fisse, perché può migliorare, da un lato, la comprensione del testo originale e, dall’altro, si evolve la lingua nazionale nella quale si vuol tradurre l’antico testo. Di fatto capita che si oscilla sempre fra la traduzione letterale, che privilegia il testo di partenza, ed una traduzione più o meno libera che tiene conto delle esigenze non solo lessicali, ma anche stilistiche del testo d’arrivo. Per quanto riguarda la Bibbia della CEI, è giusto che una traduzione ufficiale tenga una via di mezzo, soprattutto quando non porta la firma di un solo traduttore, ma è frutto di un lavoro collegiale.

55

La lettera porta la firma del p. Giuseppe Danieli, segretario della commissione dei

revisori.

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Conclusione Possiamo concludere a questo punto con una riflessione. Tutto questo lavoro ininterrotto di traduzioni della Bibbia, non rimane lettera morta nella carta, ma si prolunga e si vivifica nella lettura personale e nella proclamazione liturgica della Parola, che rinnova incessantemente il suo appello e apre nuovi orizzonti di vita. La Parola di Dio si fa insieme di parole che entrano in circolazione tra le parole umane, senza che essa perda la sua singolarità e la sua forza, che attrae e trasforma il cuore dell’uomo. Il processo della traduzione continua nell’evento dell’ascolto di fede. Ma in questo evento di fede che fonda la vita della Chiesa è coinvolto pure il traduttore, poiché anche lui prima ascolta e poi riesprime e ricrea il sacro testo nella lingua del suo tempo e della sua gente. Egli cerca di trasmettere, cioè di tradurre, le vibrazioni e gli echi grandiosi che la parola letta, studiata e meditata, suscitano nella sua mente e nel suo animo. Perciò, anche quello del traduttore è un ministero ecclesiale, che richiede di coltivare senza sosta, con cura e con amore, lo studio dell’ebraico e del greco, restando sempre in “piena immersione” nel mondo e nell’orizzonte della Bibbia.

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16 L’ETICA DI BEN SIRA [2003]

È sintomatico che un libro come quello di Ben Sira1, la cui origine si pone quasi alla fine del lungo percorso storico dell’antico Israele, sia stato concepito dal suo autore come un’opera sapienziale. Ma in questa riflessione sapienziale, consapevole di essere l’erede di tutta la tradizione di Israele che si era espressa prima nei diversi ricordi della sua storia e nelle varie voci dei suoi profeti, viene metabolizzato quanto di meglio era via via maturato per essere tradotto ora nella proposta di una condotta di vita che fosse ispirata alla legge. In questa ripresentazione sapienziale dei contenuti e del significato della legge predomina più la motivazione che il precetto considerato nel suo nudo contenuto materiale. Il ripensamento della legge in chiave sapienziale si preoccupa in modo speciale di renderla attraente e gratificante, mostrando in essa una certa coincidenza tra la legge che si richiama alla rivelazione sinaitica e quella che si può scoprire attraverso l’esperienza e l’osservazione dei buoni risultati che essa procura a chi indirizza la sua vita secondo i suoi principi. Si può dire perciò che l’insegnamento etico di Ben Sira è caratterizzato da un’armonia tra fede e ragione, nel senso che quanto viene prescritto dalla prima trova una sua convalida nella seconda. In questa prospettiva di fondo si inquadra l’etica di Ben Sira, caratterizzata da equilibrio e serenità, anche se per certi aspetti non è esente da qualche condizionamento culturale derivato dall’epoca del suo autore.

Finalità etiche di Ben Sira secondo il prologo È interessante fare attenzione al modo in cui il traduttore indica il metodo seguito dal nonno e la finalità per la quale la sua opera può essere 1 Le citazioni del testo biblico in italiano sono tratte da A. MINISSALE, Siracide (Ecclesiastico), (NVB 23), Paoline, Roma 1980.

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utilizzata, al punto che gli è sembrato conveniente tradurla in greco. Essa viene indicata nel desiderio di promuovere “una condotta secondo la legge” (evvómou bióseos, r. 14) o di insegnare “a vivere secondo la legge” (ennómos bioteúein, r. 35). Questa centralità della legge viene confermata dal posto che le viene assegnato proprio nel capitolo 24, che, posto al centro del libro, la fa coincidere con la sapienza personificata che ha preso dimora in Sion: Tutto ciò è il libro dell’alleanza del Dio Altissimo, la legge che ci ha comunicato Mosè e forma l’eredità delle adunanze di Giacobbe. Essa trabocca di sapienza… perché i suoi pensieri sono più vasti del mare” (24,22ss). Per quanto poi riguarda il metodo per poter assimilare questa sapienza che deve tradursi in una condotta ispirata alla legge, si insiste molto sulla conoscenza che si acquista attraverso la lettura dei libri sacri e si trasmette con l’insegnamento (paidéia: r. 3, 12, 29). Ben Sira era una scriba “che si è dedicato per tanto tempo alla lettura della legge, dei profeti e degli altri libri nazionali, avendone conseguito una notevole competenza”. In coerenza con quanto viene sostenuto nell’opera sulla libertà dell’uomo, diventa naturale considerare il problema della corretta prassi etica come un problema di conoscenza, da perseguire attraverso la familiarità con i libri sacri e beneficiando dell’insegnamento degli esperti che ne diventato l’eco con la parola e con lo scritto. In questo modo ricaviamo già una prima indicazione molto importante sull’etica di Ben Sira: per realizzare nella propria vita una prassi che sia in consonanza con la legge, è importante conoscerla, come si sottolineerà poi tanto nella tradizione rabbinica. La conoscenza è il presupposto dell’azione morale. Giustamente si preciserà nel libro che lo scriba “consacra se stesso a meditare nella legge dell’Altissimo. Ricerca la sapienza di tutti gli antichi e si occupa delle profezie...manifesta la dottrina imparata con la studio e va fiero della legge dell’alleanza del Signore” (39,1-2.8), non meno del medico per il quale si dice che “la sua scienza lo fa camminare a testa alta” (38,3).

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Fondazione dell’etica in Ben Sira Visione sapienziale, dunque, e non legalistica della legge in Ben Sira, che viene inquadrata e fondata in una concezione religiosa della vita personale, della storia nazionale e della stessa creazione. Per la prima volta, con Ben Sira, la tradizione sapienziale si connette con la storia nazionale, anche se essa viene emblematicamente riassunta nei suoi personaggi chiave rievocati da Enoch a Neemia in 44,16-49,13, giacché essi fanno un tutt’uno con i “molti e straordinari insegnamenti, per i quali è giusto ammirare Israele quanto a dottrina e sapienza” (Prol. r. 3). Questa coscienza nazionale che lo porta a contrastare moderatamente l’influsso culturale dell’ellenismo a Gerusalemme tra il III e il II sec. a. C., non gli impedisce di fondere in un’unica prospettiva teologica l’ordine universale della creazione con quello che scaturisce in maniera particolare per Israele dalla rivelazione del Sinai. Infatti, mentre prima, con riferimento a tutti gli uomini, Ben Sira dice Li riempì con giudizio ed intelligenza, e mostrò loro il bene e il male. Pose nei loro cuori il suo timore per mostrare la grandezza delle sue opere (17,6-7), passando impercettibilmente ad Israele aggiunge: Ha dato loro l’intelligenza, li ha dotati con la legge della vita. Stabilì con loro un’alleanza eterna e mostrò loro i suoi giudizi. I loro occhi videro lo splendore della sua gloria, il loro orecchio udì la meraviglia della sua voce (9-11)2. In questa rievocazione della rivelazione sinaitica si nota un entusiasmo che permea poi, come un sottofondo costante, i vari suggerimenti etici che Ben Sira veicola nel suo insegnamento morale.

2 P. SKEHAN – A. A. DI LELLA, The Wisdom of Ben Sira (AB 39), Doubleday, New York 1987, 282.

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Ma dopo, inserito tra il blocco delle sue istruzioni nei primi 41 capitoli e la rievocazione storica dei cc. 44-50, si ha un interludio dove si canta la sapienza del Creatore che rivela la sua gloria nel cosmo: Egli sonda l’abisso ed il cuore dell’uomo, ne comprende i vari raggiri… Ha disposto nell’ordine le meraviglie della sua sapienza, egli solo esiste prima del tempo e per l’eternità (43,18. 21). In questa visione storica e cosmica di Ben Sira si inserisce in maniera organica, armoniosa e beatificante, la prassi dell’uomo saggio ispirata dalla legge e animata dal timore del Signore, perché essa si realizza nella comunione con Dio e con tutte le creature.

I singoli temi etici Per dare un’idea sommaria delle tematiche pratiche affrontate da Ben Sira, possiamo partire da questo elenco3, che ci fa vedere come esse si presentano non in modo sistematico, ma occasionale e frammentario, indizio ben chiaro di un approccio concreto e diretto alle varie sfaccettature della realtà della vita: a) vita familiare (3,1-16; 7,18-28; 30,1-13; 42,9-14); b) moglie e donne (9,1-9; 23,16-27; 25,12-26,18; 36,21-27); c) economia e ricchezza (11,10-28; 14,3-19; 31,1-11; 33,20-24); d) uso della parola (5,9-6,1; 11,7-9; 19,4-17; 20,1-8. 18-26; 23,715; 27,11-29; 28,8-26; 34,7-18); e) relazioni con gli altri e amicizia (6,5-17; 9,10-18; 11,29-12,7; 12,8-13,1; 13,2-24; 19,13-17; 22,19-26; 27,14-21; 37,1-6; 38,115); f) aiuto agli altri/poveri (3,29-4,10; 7,32-36; 18,15-18; 29,1-20; 3511-36,17; g) il mangiare (29,21-28; 31,12-32,13; 37,27-31); h) attività politica (10,1-18); i) culto e sacerdoti (7,29-31; 34,18-35,10); 3 A. MINISSALE, Siracide. Le radici nella tradizione (LoB 1.17), Queriniana, Brescia 1988, 18-19.

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l) vere e false vergogne (41,14-42,8); m) virtù varie (1,19-2,18; 3,17-28; 4,20-28; 10,26-11,6; 13,25-14,2; 18,19-29; 22,16-18; 30,14-25; 33,25-33; 36,18-20; 36,18-20; 40,28-41,4); n) vizi vari (6,2-4; 18,30-19,3; 21,1-22,15; 22,27-23,6).

La preghiera Ma Ben Sira parla pure della preghiera. Una volta che è stata evidenziata la fondazione religiosa dell’etica in Ben Sira, non meraviglierà l’importanza che lui assegna alla preghiera, che prima di tutto è per lui preghiera di lode: Nel glorificare il Signore, esaltatelo quanto più potete: ne sopravanza sempre; per esaltarlo raccogliete le vostre forze, non stancatevi, perché non finirete mai (43,30). In 18,1-14 si ha una meditazione che è un inno a Dio misericordioso e in 39,12-35 una lode per il Creatore che dispone armonicamente e con sapienza il bene e il male. Ma il passo più importante lo troviamo nella descrizione del programma di vita dello scriba che inizia la sua giornata con la preghiera, per chiedere perdono dei propri peccati e per implorare dall’alto il dono della sapienza (39,5-6). Infine, l’intimo rapporto personale dell’uomo con Dio è espresso con accenti commossi e convinti in modo speciale quando si raccomanda la fiducia in lui nelle prove della vita (2,1-18). Dovendo ora fare una selezione tra le varie tematiche sopra segnalate, possiamo sottolineare soprattutto il senso della dignità personale, della famiglia, della ricchezza e dell’amicizia.

La dignità personale Come Ben Sira si mostra fiero e attento per la propria identità nazionale, così lo vediamo pure ben consapevole della dignità personale:

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Figlio, sii modesto ma pensa al tuo onore, fatti valere secondo il tuo merito: Chi riparerà al male che uno fa a se stesso, e chi l’onorerà se egli si disonora? (10,28-29). Questo consiglio che egli dà riguardo all’indipendenza che si deve avere nell’amministrazione del proprio patrimonio, ha un valore ben più generale che può considerarsi tipico della stessa personalità di Ben Sira: È meglio infatti che i figli chiedano a te e non esser tu a guardare le loro mani. In tutte le opere mantieni la superiorità, non esporre al biasimo la tua dignità (33,22-23). In vista di questa dignità personale si raccomanda la prudenza nel parlare, il dominio dell’ira, l’astensione dal bere troppo vino. Si dà pure importanza a come l’uomo si manifesta nell’espressione del suo volto: I sentimenti modificano il volto dell’uomo, sia per il bene sia per il male. Il viso contento è segno di cuore soddisfatto, ma i proverbi si scoprono con riflessione e fatica (13,23-24). Ben Sira parla pure dell’impegno nel lavoro: Persevera nel lavoro scelto, ad esso àpplicati, invecchia nel tuo mestiere (11,20), dopo che aveva dato questa coraggiosa raccomandazione: Non rinnegare te stesso per riguardo agli altri, non essere timido quando rischi la rovina… Non sottometterti allo stolto e non aver soggezione del potente. Lotta per la verità sino alla morte e il Signore Dio combatterà al tuo fianco” (4,22.27-28).

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La famiglia Più volte Ben Sira parla della famiglia considerando il rapporto dell’uomo con la moglie, con i figli, con le figlie e con il patrimonio familiare. Dobbiamo ammettere fin dall’inizio che la sua è una prospettiva che oggi si qualifica come maschilista, ma si può capire questo fatto se si tiene conto che i suoi discepoli erano soltanto maschi e che questa era la concezione predominante nel suo tempo. Verso la donna in generale Ben Sira presenta un atteggiamento per nulla sentimentale o goliardico, ma piuttosto pratico, prudente e realistico, sia essa una estranea, o la moglie o la figlia: Non consegnare l’anima alla tua4 donna, perché non svilisca le tue forze… Allontana l’occhio dalla donna avvenente e non mirare le bellezze d’una estranea; molti ha sedotto la bellezza d’una donna, il suo amore brucia come un fuoco (9,2.8); All’uomo sensuale ogni pane è soave, non si stanca fino a quando muore. L’uomo che tradisce il letto coniugale dice tra sé: Chi mi vede? (23,17c-18a). Preferisco abitare col leone e il dragone che abitare con una donna perfida… Non t’affascini la bellezza d’una donna, né ti prenda passione per essa (25,15.20). La donna sensuale ha gli occhi sfacciati, la si riconosce dalle palpebre. Vigila severo sulla figlia testarda, se trova debolezza ne approfitta (26,9-10). Segreta preoccupazione è per il padre una figlia, il curarla porta via il sonno; 4

Il possessivo manca in H e in G, ma sembra richiesto dal contesto (v.1).

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quando è nubile, perché non passi il fiore dell’età, da sposata, perché non venga odiata; quando è vergine perché non sia violata e diventi incinta nella casa paterna, quando ha il marito, perché non sbagli, e dopo il matrimonio, per paura che sia sterile. Sulla figlia indocile esercita una custodia irremovibile, perché non ti renda ridicolo ai nemici e non si mormori nella città e nel popolo sul tuo conto (42,9-11). Ma Ben Sira sa essere pure sensibile per i vantaggi di un matrimonio riuscito e anche per la bellezza di una buona moglie: La grazia della donna rallegra il marito, il suo senno gli rimpolpa le ossa… Come sole che sorge nel cielo del Signore la bellezza di una buona moglie adorna la casa. Lucerna che brilla sul sacro candelabro è un bel volto su solido corpo. Colonne d’oro su base d’argento sono le belle gambe sui talloni armoniosi (26,13.16-18). La bellezza d’una donna rallegra il volto, supera ogni altro desiderio dell’uomo… Chi acquista una moglie comincia la sua fortuna, ha un aiuto che gli è simile e una colonna d’appoggio. Dove manca la siepe, la proprietà è saccheggiata, così dove non c’è moglie, l’uomo erra e geme (36,22.24-25). Con tutto ciò, egli ci tiene a raccomandare l’indipendenza economica del marito dalla moglie: “C’è collera, vituperio e vergogna senza fine per l’uomo mantenuto dalla moglie” (25,21)5.

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Cf. R. EGGER-WENZEL, «“Denn harte knechtscaft und Schande ist es, wenn eine Frau ihren Mann ernärt (Sir 25,22)», in R. EGGER-WENZEL – I. KRAMMER (edd.), Der Einzelne und seine Gemeinschatf bei Ben Sira(BZAW 270), W. De Gruyter, Berlin – New York 1998, 23-49.

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La ricchezza Per quanto riguarda la ricchezza, Ben Sira riconosce i vantaggi che essa procura, anche per uno scriba. Essa può essere una benedizione di Dio, ma può essere frutto e poi anche causa di prevaricazione, perché la si può procurare con gli imbrogli e poi può diventare un motivo per essere arroganti. Personalmente, egli si mostra fiero della funzione pubblica della sua professione di scriba, una carriera che fornisce onori e gratificazioni: In mezzo ai grandi offrirà i suoi servizi e sarà visto dinanzi ai governanti; visiterà le terre di popoli stranieri per provare il bene e il male fra gli uomini (39,4). Egli non predica la povertà, raccomanda di mettere i mezzi per evitarla, in teoria ha stima della giusta ricchezza, ma di fatto è diffidente verso i ricchi e i potenti, che naturalmente tendono a strumentalizzare chi dà più importanza alla ricerca della sapienza: Sia un ricco e un nobile che un povero può vantarsi del timore del Signore. Principe, giudice, potente: anche se onorati, sono meno di chi teme il Signore (10,22.24). La sapienza solleva la testa del povero e lo fa sedere in mezzo ai grandi (11,1). Non sollevare un peso troppo grande per te, e non frequentare chi è più forte e più ricco di te. Perché accostare la brocca con la pentola? Se l’una cozza, l’altra si spezza. Il ricco fa l’ingiustizia e poi anche minaccia, il povero subisce l’ingiustizia e chiede perdono. Se gli sei utile, ti sfrutta, se hai bisogno ti abbandona… Buona è la ricchezza senza il peccato, la povertà è maledetta in bocca all’empio (13,2-4.24).

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L’amicizia Per quanto riguarda, infine, l’amicizia, che era già un tema tradizionale sia in Egitto come anche in Grecia6, Ben Sira si dimostra circospetto, guardingo e discriminante nella scelta degli amici. Ma, dopo tutto, questa cautela indica la consapevolezza delle difficoltà e delle insidie che minacciano per tanti versi le relazioni umane, e perciò troviamo Ben Sira molto preoccupato per le amicizie che si dissolvono lasciandosi dietro strascichi amari e penosi. In ogni caso vi leggiamo osservazioni di sapore negativo unite a quelle chiaramente positive e ottimiste. Fra le prime: Prima di farti un amico, mettilo alla prova, non confidarti subito con lui… C’è l’amico che diventa nemico e rivela agli altri i vostri litigi. C’è l’amico compagno dei banchetti, che si dilegua nella tribolazione… Chi teme il Signore è cauto nelle sue amicizie: come è lui, tali saranno i suoi amici (6,7.9-10.17). Per quanto puoi pondera i tuoi vicini, e consigliati con quelli che sono saggi (9,14). Per gli apprezzamenti di carattere positivo, possiamo citare: L’amico fedele è solido rifugio, chi lo trova, trova un tesoro (6,14). Non lasciare il vecchio amico perché quello nuovo non l’eguaglia; l’amico è come il vino nuovo: lo bevi con gioia quando è invecchiato (9,10). Appura con l’amico quello che spesso è una calunnia, e non credere a tutto quello che senti (19,15). 6 J. CORLEY, Ben Sira’s Teaching on Friendship (Brown Judaic Studies 316), Brown Judaic Studies, Providence, RI, 2002, 7-11.

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Affezionati all’amico e restagli fedele, ma se hai svelato i suoi segreti non ricercarlo più; come infatti si perde un morto tu hai perduto la sua amicizia; come ti sfugge un uccello di mano hai perduto l’amico e non puoi riprenderlo più (27,17-19). Alla fine egli giunge addirittura a questo consiglio disinteressato e ardito: Perdi pure l’argento per il fratello e l’amico, invece che la ruggine lo consumi sotto la pietra (29,10).

Conclusione Dopo aver passato sinteticamente in rassegna i principali filoni tematici dell’insegnamento etico di Ben Sira insieme alle motivazioni teologiche che li sostengono, si può fare riferimento in conclusione al suo stile, nel quale si riverbera lo spirito accattivante e convinto con il quale esso viene proposto. La precettistica che è nella natura stessa dell’etica, si stempera in Ben Sira anche in toni e motivi lirici che affiorano qua e là nella sua opera. Così si può rilevare nella sua riflessione etica una nota piena di ammirazione e di entusiasmo che vi è sottesa e la sorregge. Le sue convinzioni etiche, pur nella loro fermezza, presentano in modo del tutto naturale e spontaneo un carattere di duttilità, di freschezza e di libera adesione. Possiamo notare a conferma come, per esempio, viene utilizzato l’elemento della “brina”, una volta in senso naturalistico e una volta in senso metaforico. In 43,19 se ne fa una commossa descrizione insieme alla neve, alla pioggia, al vento e al mare: “La brina egli (Dio) versa come sale sopra la terra; quando essa gela è tutta punte di spine”: Ma prima il momento del suo scioglimento ha offerto a Ben Sira una metafora molto calzante per parlare del perdono dei peccati: La compassione per il padre non sarà dimenticata, sarà un tesoro per espiare i peccati;

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nel giorno della tua7 tribolazione sarà ricordata, e come brina8 si scioglieranno i tuoi peccati (3,14-15). Così anche la natura inanimata, misteriosa e affascinante, viene coinvolta nella vicenda esistenziale dell’uomo, che in quanto essere libero e responsabile ne costituisce l’apice.

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Così con Rahlfs, contro Ziegler, che omette il possessivo sou con H. Con H (kpwr, gr. páchne) che letteralmente dice: «Come bel tempo sopra gelo (pagetós)»; cf. A. MINISSALE, La versione greca del Siracide. Confronto con il testo ebraico alla luce dell’attività midrascica e del metodo targumico (AnBi 133), Pontificio Istituto Biblico, Roma 1995, 155 e 194. 8

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17 LA BIBBIA LIBRO ESOTERICO? IL PUNTO DI VISTA DEL CATTOLICESIMO [2004]

Alla memoria del Prof. Francesco Erasmo Sciuto

Il tema di questo convegno, annunziato nei titoli in tono provocatorio con una doppia domanda retorica basata sul presupposto che la Bibbia sia un libro di tutti e che non è perciò un libro esoterico riservato ad una cerchia più o meno larga di iniziati, non è affatto, da un punto di vista cattolico, un dato ovvio e scontato. Infatti, i documenti ecclesiastici attinenti alla Bibbia, a partire dallo stesso Concilio Vaticano II, la considerano da un punto di vista ecclesiale e confessionale, e quindi discriminante, secondo cui essa è vista come punto di riferimento importante per la vita dei credenti e per le elaborazioni dei teologi. Non c’è dubbio che il principio che la Bibbia sia libro di tutti è una conquista della coscienza laica moderna, che si afferma in Europa con l’Illuminismo nel Settecento, il quale per i suoi effetti epocali è diventato da allora una componente caratteristica dell’evoluzione generale della cultura che abbraccia la filosofia, la letteratura, le scienze empiriche e le discipline umanistiche. Come si sa, questo grande movimento culturale e storico si afferma sul piano religioso nella forma di una emancipazione della ragione, quale requisito proprio di ogni uomo, dalla sudditanza della teologia e dei dogmatismi delle diverse Chiese. Infatti, anche l’ortodossia luterana e quella calvinista, dopo l’iniziale rottura libertaria con il cattolicesimo, si erano sclerotizzate in sistemi dogmatici abbastanza rigidi, che vengono presi di mira, insieme alla tradizione cattolica, dalla rivendicazione del diritto che deve avere la ragione di discernere ciò che serve al bene dell’umanità appellandosi alla capacità intellettuale ed etica di cui l’uomo è naturalmente dotato. Possiamo citare a questo proposito la celebre definizione dell’Illuminismo data da E. Kant (1724-1804) nel 1784:

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«L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria ragione senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria ragione»1.

Dopo che son trascorsi circa tre secoli da quegli inizi, non ci sorprenderà il constatare che tutto questo clima culturale ha avuto le sue immancabili ripercussioni e ricadute nello sviluppo degli studi biblici, sia per l’Antico e sia per il Nuovo Testamento, con effetti molteplici e variegati a seconda delle diverse appartenenze denominazionali e delle diverse aree geografiche e culturali2. Tentando ora un bilancio retrospettivo di questo grande processo plurisecolare, vi si possono riscontrare delle vicende alterne ed ambigue, che solo con il passare degli anni si sono rivelate feconde e positive, dopo che si sono decantate dei loro inizi acerbi e dissacranti. Perciò, per quanto riguarda il cattolicesimo, il riconoscimento del principio che la Bibbia è 1 «Aufklärung ist der Ausgang des Menschen aus seiner selbstverschuldeten Unmündigkeit. Unmündigkeit ist das Unvermögen, sich seines Verstandes ohne Leitung eines Anderen zu bedienen. Selbstverschuldet ist diese Unmündigkeit, wenn die Ursache derselben nicht am Mangel des Verstandes, sondern der Entschliessung und des Mutes liegt, sich seiner ohne Leitung eines Anderen zu bedienen. Sapere aude! Habe Mut, dich deines eigenen Vestandes zu bedienen! Ist also der Wahlspruch der Aufklärung», cit. in P. HENRICI, Testi – chiave del pensiero moderno, (ad instar manuscripti), Pontificia Università Gregoriana, Roma 1973-74, 332. 2 Con particolare riferimento al Nuovo Testamento, dal quale noi in realtà prescindiamo, è interessante il giudizio che esprime uno storico statunitense (cattolico) sulla positiva “decantazione” delle posizioni dogmatiche delle diverse Chiese, grazie allo studio critico dei testi che così costituisce una base comune per il superamento di certe contrapposizioni confessionali troppo rigide ed unilaterali del passato: «L’esegesi protestante ed anglicana contemporanea è contrassegnata da una vera e propria ritirata di fronte alle posizioni critiche più negative dell’esegesi liberale. Essa risente dei movimenti dottrinali e liturgici che agitano il protestantesimo moderno, e segna un progresso nei confronti dei Riformatori. Infatti, certe posizioni di questi ultimi urtano con l’evidenza storica, come dimostra uno studio oggettivo del NT. Esiste perciò una possibilità di dialogo tra esegeti cattolici e protestanti per una fecondazione reciproca dei loro metodi e delle loro conclusioni scientifiche» (G. H. TAVARD, Esegesi protestante [Principi della] in Enciclopedia della Bibbia, Torino – Leumann, III, 1970, cc. 71-78, 78).

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libro di tutti si inquadra nel più ampio contesto storico e teoretico dei rapporti della Chiesa cattolica con il mondo moderno. In questo quadro si deve pure inserire lo sviluppo dei rapporti ecumenici che hanno consentito il passaggio di tante nuove acquisizioni storiche e letterarie dall’esegesi protestante all’esegesi cattolica, di solito incline ad atteggiamenti culturalmente più conservatori. Nel contesto di questa prospettiva generale vogliamo proporre, a titolo esemplificativo, l’interpretazione data all’albero della conoscenza del bene e del male del quale si parla in Gen 2-3, nel commentario di Hermann Gunkel del 1910, ripresa e sviluppata con una documentazione di tipo etnologico e psicoanalitico nella poderosa opera di Eugen Drewermann in tre volumi apparsi dal 1976 al 1978, Strukturen des Bösen. Ma per meglio comprendere la mentalità di Gunkel, che con il suo grande commentario segna una pietra miliare nell’interpretazione della Genesi, occorre risalire al pensatore a cui egli si ispira che è Herder, il quale a sua volta si richiama a Spinoza e si confronta con Lessing. Parleremo perciò, secondo l’ordine cronologico, di Spinoza, Lessing, Herder, Gunkel e Drewermann, dando più spazio soprattutto a quest’ultimo. La svolta fondamentale che si determina con questi autori è che mentre prima nella tradizione patristica e medioevale la Bibbia era considerata principalmente come parola di Dio, ora viene accostata come parola dell’uomo soggetta all’interpretazione propria di ogni opera umana.

1. SPINOZA (1632-1677) La riflessione filosofica di Baruch Spinoza è focalizzata sulla fondazione razionale dell’etica umana che ha il suo modello nell’ordine stesso di Dio, coincidente per lui con lo stesso ordine della natura. Spinoza proviene da una famiglia che si è trasferita ad Amsterdam in seguito alla cacciata degli ebrei dal Portogallo. Frequenta una scuola rabbinica, ma poi sviluppa il suo pensiero in maniera indipendente dalla sinagoga e anche in opposizione alla maggioranza calvinista che ha un forte peso politico in Olanda. Secondo lui, l’etica razionale deve essere libera dalla paura e dall’ignoranza nella quale si fonda la religione, ridotta a pura superstizione. Questa, a sua volta, serve a rendere il popolo succube del potere, mentre invece esso dovrebbe istruirsi in modo da poter esercitare una libertà sufficientemente illuminata con la quale può contribuire responsabilmente all’assetto della

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società secondo il parere espresso dalla maggioranza. Il suo Trattato Teologico Politico del 16703, partendo da questi presupposti generali, si interessa in maniera specifica dell’interpretazione della Bibbia, ponendo le basi del metodo storico critico che caratterizzerà l’esegesi biblica in epoca moderna e contemporanea. Egli rivendica il diritto di chiunque a interpretare la Bibbia4, perché essa deve essere esaminata con un procedimento empirico e razionale analogo a quello seguito nell’osservazione dei fenomeni della natura. Perciò si devono interpretare le varie espressioni bibliche confrontandole tra di loro, senza il ricorso a delle autorità esterne alla Bibbia. Come antico allievo della scuola rabbinica sottolinea pure l’importanza dello studio dell’ebraico. Riprendiamo le sue stesse parole con tre citazioni: 1) «Per racchiuderlo qui in poche parole, dico che il metodo di interpretazione della Scrittura non differisce dal metodo di interpretazione della natura, ma concorda del tutto con questo […] in questo modo chiunque […] procederà senza alcun pericolo di errare e potrà discorrere delle cose che superano la nostra capacità con la stessa sicurezza con cui discorriamo delle cose che conosciamo con il lume naturale»5. 2) «… dalle cose sopra dette concludo che bisogna lasciare a ciascuno la libertà di giudizio e la facoltà di interpretare a modo suo i fondamenti della fede, e che bisogna giudicare la fede, se sia pia o empia, soltanto dalle opere; così tutti potranno obbedire a Dio con animo integro e libero, e soltanto la giustizia e la carità saranno da tutti tenute in pregio»6. 3) «E poiché tutti gli scrittori così dell’Antico come del Nuovo Testamento furono ebrei, è certo che la storia della lingua ebraica è prima di tutto necessaria non solo alla comprensione dei libri dell’Antico Testamento, che furono scritti in questa lingua, ma anche del Nuovo, poiché, sebbene siano stati divulgati in altre lingue, risentono tuttavia dell’ebraico»7.

3 B. SPINOZA, Trattato Teologico-Politico. Testo latino a fronte (a cura di Alessandro Dini), Milano 2001. 4 R. SMEND, Encyclopedia Judaica, XV, Jerusalem 1972, 282. 5 B. SPINOZA, cit., cap. VII, 98, 280-81. 6 Prefazione, ibid., 55. 7 Cap. VII, 100, ibid., 285.

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2. LESSING (1729-1781) Gotthold Ephraim Lessing8 è il principale rappresentante dell’illuminismo tedesco nel sec. XVIII, che lui vuole che sia sganciato dall’influsso di quello francese. Figlio di un parroco luterano, studia per un anno teologia, per passare poi alla filologia e alla storia della letteratura. Conosce bene la Bibbia e sa usarla opportunamente già da quando ha 13 anni. Spirito indipendente e appassionato cultore degli studi storici, difende la Bibbia contro i suoi commentatori che sono dei teologi, e sono perciò troppo preoccupati di questioni dogmatiche. Rinuncia alla carriera accademica per dedicarsi liberamente alle questioni che via via lo interessano. Dice che la ricerca della verità lo interessa più della stessa verità. Si preoccupa della comunicazione con la gente e perciò sceglie il teatro come veicolo più efficace delle sue idee. Dice di sé: “Io non sono un teologo, né un dotto. Mi basta, nel migliore dei casi, aver usato un libro dotto”. È significativo questo consiglio che dà, nel 1754, sulla lettura della Bibbia: «La Bibbia, io ti consiglio di leggerla senza nessun aiuto (da parte di altri). Tuttavia tu non devi occuparti sempre di essa; il tempo più adatto per farlo è quando il cielo è cattivo e melanconico, oppure quando sei stanco del tuo lavoro e non sei in grado di occuparti diversamente. Sfuggi tutti i commentatori; poiché, credi a me, nessuno di loro è libero da pregiudizi […] Ma leggi la Bibbia stessa con attenzione e con riflessione; senza quello stupido rispetto che si chiama devozione […] Leggi la Bibbia non altrimenti di come leggi Livio, Froschmäusler o di come leggeresti i poeti bucolici alla contessa di Bernbrock. Qualcosa l’ammiri, qualcosa la salti, qualcosa vorresti che fosse detta altrimenti. Ancora si nasconde molto nella Bibbia, che nessuno ha mai notato o portato alla luce; e ciò attende la tua mano o quella di un altro. Molti passi dovrebbero essere commentati in tutt’altro modo. Molte volte un montone segue l’altro, e così un commentatore ripete l’altro»9. 8

Seguo la conferenza di R. SMEND, Lessing und die Bibelwissenschaft, tenuta a Wolfenbüttel il 24.8.1977, nel quadro del Congresso dell’International Organisation for the Study of the Old Testament tenuto in quei giorni all’Università di Gottinga e pubblicata in SVT 29 (1978) 298-319. 9 «Die Bibel rate ich dir, ohne alle Hülfe zu lesen. Doch brauchst du nicht immer darüber zu liegen; aufs höchste bei garstigem und traurigen Wetter, oder wenn du von der Arbeit müde und zu andern Verrichtungen ungeschickt bist. Fliehe alle Ausleger; denn glaube mir, kein einziger ist von Vorurteilen frei […] Die Bibel selbst aber lies mit Sorgfalt und Überlegung; nicht mit jener sinnlosen Ehrfurcht, die man Andacht zu nennen pflegt […] Lies die

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Ma il testamento spirituale di Lessing è il dramma Natan il saggio, del 1779. È questi un ebreo assai stimato che ha allevato a Gerusalemme, per spirito di carità, una fanciulla cristiana affidatagli dopo la morte della madre. Un templare cristiano che l’ha salvata se ne invaghisce, ma poi si scopre che entrambi erano figli di un musulmano. Così si auspica la tolleranza fra le tre religioni monoteistiche, come ideale etico a cui spingono sia la ragione e sia il sentimento umano, al di là dei pregiudizi e delle loro diffidenze reciproche10.

3. HERDER (1744-1803) A differenza di Lessing, Johann Gottfried Herder è un teologo che Goethe (1749-1832) farà chiamare nel 1776 a Weimar, dove resterà fino alla morte, come superintendente della chiesa luterana. Herder propugna l’orientamento romantico nello studio della letteratura in genere e della Bibbia in particolare. Ha studiato teologia protestante a Königsberg, dove ha anche frequentato le lezioni di filosofia tenute da Kant, ed è stato anche parroco dal 1771 al 1776. Nella sua riflessione privilegia l’Antico Testamento rispetto al Nuovo, attirato da quello che lo storico Kraus chiama l’umanesimo ebraico11, o forse meglio il senso di umanità della Bibbia Ebraica. Combatte le idee dell’Illuminismo in quanto sottolinea di più l’importanza del sentimento rispetto alla ragione, ma attratto dall’idea dell’immanenza divina nell’animo umano specialmente quando è nello stadio della semplicità primitiva, diventerà uno degli ispiratori della teologia liberale dell’80012. Uomo geniale e di vasti interessi, ha pubblicato nel 1782-83 Bibel nicht anders, als du Livius, Froschmäusler oder der Gräfin von Bembrok (Pembroke) Arkadien liesest. Einiges davon lobst du; einiges übergehst du; von einigem wolltest du, daß es lieber anders, als so heißen möge. Es steckt auch noch vieles in der Bibel, das noch niemand bemerkt oder an den Tag gebracht hat; und das entweder auf deine oder auf eines andern Hand wartet. Viele Stellen sollten ganz anders ausgelegt werden. Bei vielen folgt ein Schöps dem andern, und ein Ausleger dem andern»» (citazione in R. SMEND, ibid., 306). 10 Dizionario letterario Bompiani. Opere, V, Milano 1951, 15-16. 11 H.-J. KRAUS, Geschichte der historisch-kritischen Erforschung des Alten Testaments, Neukirchen-Vluyn, 1969, 114-17 (trad. it. L’Antico Testamento nella ricerca storico-critica dalla Riforma ad oggi, Bologna 1975, 183-87). 12 Il significato storico di Herder per l’impulso determinante dato allo studio dell’Antico Testamento va al di là di qualche riserva che è stata espressa nei suoi confronti. Si possono ricordare questi due giudizi: Con «la sua interpretazione del Vecchio Testamento

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un’opera intitolata Lo spirito della poesia ebraica, ma poco prima, nel 1780-81, aveva scritto una serie di 50 Lettere sullo studio della teologia13, delle quali mi sembra importante riportare qualche brano che calza di più con l’impostazione del nostro discorso. Lettera I: «Sia ben chiaro, mio caro, che il miglior studio della teologia è lo studio della Bibbia, e che la migliore lettura di questo libro divino deve essere umana. Io intendo questa parola nella sua più ampia accezione e nel suo significato più rigoroso. La Bibbia deve essere letta alla maniera umana (menschlich), poiché essa è un libro scritto dagli uomini per gli uomini: umana è la lingua, umani sono gli strumenti attraverso cui essa è stata scritta e conservata; umano è infine anche il senso con cui essa può essere compresa, ogni sussidio con cui la si spiega, come pure tutta la finalità e l’uso che se ne deve fare. Voi potete perciò sicuramente credere che quanto più leggete la parola di Dio in maniera umana (nel senso migliore della parola), tanto più vi approssimate alla finalità del suo Autore, il quale ha creato gli uomini a sua immagine e si comporta per noi alla maniera umana, in tutte le opere e i benefici con cui si dimostra come Dio»14. Lettera II: «La storia del paradiso e del primo peccato non deve essere altro, secondo me, che un canto allegorico, una favola morale. Paradiso, albero della tentazione, serpente non sono mai esistiti [...] Questo è stato così come creazione poetica del genio popolare d’Israele […] Herder rigetta il concetto di soprannaturale» (B. THUM in Enc. Catt., VI, 1951, 1413 e 1415; «Il tragico di Herder consiste nel fatto che egli è diventato vittima della posizione da cui voleva liberarsi, cioè del tentativo di superare l’illuminismo sul suo proprio terreno» (G. ROHRMOSER in LThK, V, 1960, 244). 13 Utilizzo l’edizione, in 18 voll., che si trova nella Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Catania: Johann Gottfried von Herder’s saemtiliche Werke. Zur Religion und Theologie, Stuttgart und Tübingen, in der J. G. Gotta’schen Buchhandlung, 1827-30; le Lettere si trovano nei voll. 13-14, del 1829. 14 «Es bleibt dabei, mein Lieber, das beste Studium der Gottesgelehrsamkeit ist Studium der Bibel, und das beste Lesen dieses göttlichen Buchs ist menschlich. Ich nehme dieß Wort im weitesten Umfange und in der andringendsten Bedeutung. Menschlich muß man die Bibel lesen: denn sie ist ein Buch durch Menschen für Menschen geschrieben: menschlich ist die Sprache, menschlich die äußern Hülfsmittel, mit denen sie geschrieben und aufbehalten ist; menschlich endlich ist ja der Sinn, mit dem sie gefaßt werden kann, jedes Hülfsmittel, das sie erläutert, so wie der ganze Zweck und Nutzen, zu dem sie angewandt werden soll. Sie können also sicher glauben, je humaner (im besten Sinne des Worts) Sie das Wort Gottes lesen, desto näher kommen sie dem Zweck seines Urhebers, der Menschen zu seinem Bilde schuf, und in allen Werken und Wohlthaten, wo er sich uns als Gott zeigt, für uns menschlich handelt» (vol. 13, 11; citato anche da KRAUS, cit., 117; trad. it., 187).

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immaginato (gedichtet) per mostrare agli uomini sotto il velo della favola un insegnamento attraente su come ha avuto origine il peccato e su come Dio punisce i peccati, rendendolo nello stesso tempo un bel velo. Con un approccio estetico e poetico si dà al testo quanto gli veniva tolto considerandolo storico e reale. Io vi chiedo, o mio caro, se al vostro intuito giovanile ancora non prevenuto non si sia rivelato, come prima impressione, in questo racconto tanto semplice un vero canto, una favola ben immaginata e ben rifinita»15. Lettera III: «È interessante notare come i bambini leggono o ascoltano qualcosa che si presenta con questo stile. Perciò accade che essi leggono volentieri questi racconti e li ricordano. Lutero dice di se stesso che egli da monaco non riusciva a comprendere che cosa Dio intendesse dire nella sua Bibbia con questo chiacchiericcio domestico. Ma quando poi divenne marito e padre lo poté capire, e così si diede a commentare la Genesi fin quasi al giorno della sua morte. Quanti sono funzionari statali, semplici eruditi e rovistatori di libri, o addirittura gente dall’animo terribilmente inaridito, continuano a ingannarsi sempre di nuovo su questo libro ed hanno accumulato in qualche modo molte assurdità; io son contento che voi non siete uno di questi; leggete, perciò, anche questo libro biblico, come tutti gli altri, facendo volentieri a meno dei commentari eruditi, e avvaletevi della loro interpretazione solo nei passi più difficili che non riuscite a comprendere (da solo). Il miglior commento l’avete quando, nei racconti di viaggio in Oriente, venite a contatto con la vita dei Semiti, i loro usi e costumi, e così da essi potete dedurre l’ingenuità e il vigore che li caratterizzavano anche nei tempi più antichi»16. 15

«Die Geschichte des Paradieses und der ersten Sünde soll z. E. nichts als ein allegorisches Lied, eine moralische Fabel seyn. Paradies, Baum der Versuchung, Schlange habe es nie gegeben; das sey nur so gedichtet, um den Menschen eine schöne Lehre, wie Sünde entstehe? und wie Gott Sünden strafe? unter der Hülle des Mährchens zu zeigen, und natürlich macht man es sodann zur schönen Hülle. Man gibt dem Text ästhetisch und poetisch, was man ihm und dem Zusammenhange historisch, natürlich nahm. – Ich frage Sie, mein Lieber, ob ihrem unverrückten Jugendsinn, dem ersten Eindruck nach, je ein solches Lied, eine schön erdachte, dazu schön vollendete Fabel, in dieser einfältigen Erzählung erschienen ist?» (ibid., 22). 16 «Es ist sonderbar, wie gerne Kinder etwas in solchem Tone lesen oder hören, daher sie auch diese Geschichte so gerne lesen und behalten. Luther sagt von sich, er habe als Mönch nicht begreifen können, was Gott mit diesem häuslichen Geschwätz in seiner Bibel wolle und habe? Als er Ehemann und Water wurde, lernte er’s begreifen, und kommentirte das erste Buch Moses fast bis an den Tag seines Todes. Staatsleute, bloße Gelehrte und Bücherkrämer oder gar üppige, verdorbene Gemüther irren sich noch immer an diesem Buch

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Lettera XII: «Voi vedete, amico mio, come questi libri sono per me sacri e sublimi, e come io mi sento tanto giudeo (per riprendere l’ironia di Voltaire) quando li leggo. Infatti, non dobbiamo essere greci e romani, quando leggiamo autori greci e romani? Ogni libro deve essere letto secondo il suo spirito, e così anche il libro dei libri, la Bibbia; e poiché qui esso è chiaramente lo spirito di Dio, dall’inizio alla fine, che ne determina il tono e il contenuto, spingendoli ora verso l’alto e ora verso il basso, noi non potremo fare niente di peggio che leggere gli Scritti di Dio secondo lo spirito di satana, cioè abbellendo la più antica sapienza con i fronzoli della più recente vanità, una semplicità tutta celestiale con quello che è un offensivo sarcasmo diventato di moda. Si leggono così gli scritti di Omero, di Platone, le tradizioni di Pitagora, lo storico Erotodo e chi altri mai? È questo un abuso che capita solo con questi libri, poiché essi sono i più antichi e i più diversi rispetto agli altri libri, poiché essi parlano la lingua di Dio e non quella degli uomini»17. «Fuggite, amico mio, i capricci e le fantasticherie degli scolastici, la spazzatura delle antiche scuole barbariche che vi offusca spesso la migliore e la più naturale impressione dello spirito di questi Scritti»18.

und haben zum Theil vielen Unsinn darauf gehäufet; ich freue mich, daß Sie in dieser Zahl nicht sind: Lesen Sie also auch dieses, wie alle biblishen Bücher, am liebsten ohne gelehrte Kommentare, und suchen nur bei Schwierigkeiten und unverstandenen Stellen Verständniß. Der beste Kommentar ist, wenn Sie in Reisebeschreibungen des Orients das Leben der Sceniten, ihre Sitten und Gebräuche lesen, und von ihnen in diese so ältern Zeiten der Unschuld und Stärke schließen.» (ibid., 48-49). 17 «Sie sehen, mein Freund, wie heilig und hehr mir diese Bücher sind, und wie sehr ich (nach Voltaire’s Spott) ein Jude bin, wenn ich sie lese; denn müssen wir nicht Griechen und Römer seyn, wenn wir Griechen und Römer lesen? Jedes Buch muß in seinem geist gelesen werden, und so auch das Buch der Bücher, die Bibel; und da dieser in ihm offenbar Geist Gottes ist, von Anfang bis zum Ende, der seinen Ton und Inhalt von der höchsten Höhe bis zur tiefsten Tiefe stimmet, so können wir wohl nichts Widersinnigeres thun, als Gottes Schriften im Geist des Satans lesen, d.i. die älteste Weisheit mit dem jüngsten Dünkel, himmlische Einfalt mit neckendem Modewitz verbrämen. Lese man so die Schriften Homers, Plato’s, die Traditionen von den Geschichtschreiber Herotod und wen man wolle; es ist der nämliche Mißbrauch, der nur bei diesen Büchern mehr auffällt, weil sie die ältesten und die von allen andern Büchern verschiedensten sind, da sie Sprache Gottes reden und nicht der Menschen» (ibid., 158). 18 «Fliehen Sie, mein Freund, die scholastischen Grillen und Grübeleien hierüber, den Auskehricht alter barbarischen Schulen, der Ihnen oft den besten, natürlichsten Eindruck des Geistes dieser Schriften verdirbt» (ibid., 160).

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«È cosa che merita di essere sommamente biasimata che noi ci comportiamo con questi Scritti sempre diversamente da come usiamo fare con gli altri scritti buoni, belli ed umani; poiché questi, per quel tanto che dobbiamo leggere e comprendere, sentire ed utilizzare, sono stati scritti in maniera pienamente umana, per occhi, orecchi e capacità del cuore e dell’anima che sono umani. Lo spirito di Orazio, di Omero, di Sofocle, di Platone io lo lascio agire in me a partire dai loro scritti; essi mi parlano, cantano, mi insegnano; io mi occupo di loro, leggo nel loro cuore, nella loro anima; solo così un loro libro mi è comprensibile, solo così io possiedo, oltre alle testimonianze forniteci dalla storia, la migliore garanzia che questi scritti derivano da loro, poiché il loro mondo interiore esercita su di me un’impressione, proprio rendendosi presente e vivo. Non è possibile che io sia riempito da uno spirito ancora più alto proprio di questi scritti sacri e che io sia convinto della loro divinità, se non in questo modo»19. «Quanto più l’opera e la parola di Dio si concepiscono in maniera umana, cioè corrispondente all’intimo dell’uomo, a lui congeniale e naturale, tanto più si può essere certi che l’uomo pensa in una maniera che è autentica, nobile e divina. Tutto ciò che è innaturale non è divino. Ciò che è sommamente soprannaturale e divino diventa massimamente naturale, poiché Dio si adatta a colui al quale parla e per il quale opera. Egli realizza attraverso le più nascoste e più piccole ruote le cose più impressionanti e più grandi»20.

19 «Sonderbar und äußerst zu bedauern ist’s, daß wir bei diesen Schriften immer anders verfahren, als bei allen andern guten, schönen, menschlichen Schriften; da diese doch auch, so fern wir sie lesen, und verstehen, und empfinden, und anwenden sollen, völlig menschlich, für menschliche Augen, Ohren, Herzens- und Seelenkräfte geschrieben sind. Den Geist Horaz, Homers, Sophokles, Plato’s lasse ich aus ihren Schriften auf mich wirken: sie sprechen zu mir, sie singen, sie lehren mich: ich bin um sie, lese in ihr Herz, in ihre Seele; so allein wird mir ihr Buch verständlich, so allein habe ich auch, mit den Zeugnissen der Geschichte, das beste Siegel, daß diese Schriften von ihnen sind, weil ihr inneres Bild nämlich, ihr mir gegenwärtiger, lebendiger Eindruck auf mich wirket. Unmöglich kann ich von dieser heiligen Schriften eigenem und höherem Geist erfüllt, und von ihrer Göttlichkeit überzeugt werden, als auf diese nämliche Weise» (ibid., 161). 20 «Je menschlicher, d.i. menscheninniger, vertrauter, natürlicher man sich also Werk und Wort Gottes denkt, je gewisser kann man seyn, daß man sich’s ursprünglich, edel und göttlich denke. Alles Unnatürliche ist ungöttlich; das übernatürlich Göttlichste wird am meisten natürlich; denn Gott bequemet sich dem, zu dem er spricht, und für den er handelt. Er wirkt durch die geheimsten, kleinsten Räder das Augenscheinlichste, das Größeste» (ibid., 163).

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4. LA “NUDITÀ” DELL’UOMO E DELLA DONNA SECONDO GUNKEL Dopo aver ricordato le posizioni di Spinoza, Lessing ed Herder, si può meglio inquadrare nelle sue giuste coordinate culturali l’interpretazione di un noto passo della Bibbia proposta dal Gunkel21 e più recentemente dal Drewermann. Herman Gunkel22 applica a livello specialistico dell’esegesi l’approccio romantico all’AT proposto da Herder23 arricchendolo con numerose testimonianze ricavate dai miti degli altri popoli dell’antichità, con i quali Israele condivide tanti spunti e simboli tradizionali che gli forniscono materiali da assimilare ed integrare nella sua riflessione teologica. Il modo di raffigurare la condizione ideale del primo uomo, ponendolo in un giardino meraviglioso chiamato paradiso terrestre, costituisce lo sfondo di cui si serve il narratore biblico in Gen 2-3 per abbozzare una lettura emblematica della condizione umana, vista da lui come segnata da una contraddizione, quella di stare vicino a Dio e nello stesso tempo di voler sfuggire dalla sua presenza che risulta imbarazzante perché portatrice di un comando. Questo comando divino qui si concretizza nella proibizione di mangiare il frutto del cosiddetto albero della conoscenza del bene e del male, la cui infrazione porta alla scoperta della nudità dell’uomo e della donna nel loro stare insieme. L’esegesi di Gunkel a questo racconto è attenta a tutti i particolari che ai suoi occhi acquistano rilievo e verosimiglianza se il testo vien letto con quella ingenuità e meraviglia con cui lo ascoltavano i primi destinatari. In questa scena, se l’albero è certamente una figura simbolica che rimanda ad altro, l’esperienza della nudità deve essere presa non più in senso metaforico ma reale, è un particolare che ci induce a intravedere nel frutto proibito un’azione che riguarda l’esperienza sessuale della donna e dell’uomo 21

Hermann Gunkel (1862-1932) è stato successivamente professore di Antico Testamento nella Facoltà di Teologia evangelica di Gottinga, Berlino, Giessen e Halle. La sua esegesi, che ha lasciato un segno notevole nello studio della Genesi e dei Salmi, fu considerata all’inizio anche nell’ambiente dei teologi luterani come contraria ai principi della Riforma. «Dans leur grande majorité les theologiens protestants de vieille école s’elevèrent avec force contre les théories de Gunkel. Ils lui reprochaint avec raison de laïciser la Bible (sottolineatura d. r.), de la vider de son contenu religieux et de saper par la base les fondaments même des croyances de la Reforme» (L. HENNEQUIN, Gunkel, SDB, III, 1938, cc. 13741377, 1376). 22 HERMANN GUNKEL, Genesis, Göttingen, 19646 (=19103; 19022, 19011). 23 Gunkel dichiara di voler tenere conto nel suo commento del “testamento del grande Herder” che riguarda l’importanza del “racconto” (Erzählung), ibid., V-VI.

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considerati nella loro reciprocità. Da parte sua il Gunkel, accettando questa linea interpretativa già adombrata nei miti di altri popoli, la specifica nel senso che si può addirittura pensare che si rispecchi qui confusamente la prima conturbante esperienza sessuale di due bambini o adolescenti, in seguito alla quale i loro occhi si aprono nel senso che prendono una nuova consapevolezza del proprio corpo scoprendo nello stesso tempo il senso del pudore e della riservatezza. «Il conoscere o il non conoscere, che qui si deve prendere in considerazione riguarda in primo luogo la differenza dei sessi. Il modello da cui sono stati ripresi questi tratti è chiaramente la condizione dei bambini (Kinder) che ancora non hanno il senso della vergogna; una circostanza questa, che in Oriente, dove i bambini vanno in giro nudi, si può osservare in ogni vicolo. Questo non sapere di maschio e di femmina non è però il tutto nel racconto del paradiso, ma solo un esempio particolarmente significativo: il narratore vuole mostrare plasticamente attraverso questo particolare l’intera condizione spirituale dei bambini»24.

Il narratore «vuol indicare con la conoscenza ciò che i grandi hanno più dei bambini, la consapevolezza, la ragione, di cui fa parte anche la conoscenza dei sessi»25. «Ammetto che qui secondo l’opinione del narratore (finale) si commette un peccato, ed egli descrive in maniera magistrale come dai primi impulsi del dubbio e del desiderio si sia giunti all’atto peccaminoso, in maniera tanto esemplare che il peccato qui descritto può essere compreso come tipo di ogni peccato; ma il mito (originario) è molto lontano dal voler dare una 24 «Das Wissen oder nicht-Wissen, das hier in Betracht kommt, ist also in erster Linie das um den Unterschied der Geschlechter. Das Vorbild, aus dem diese Züge genommen sind, ist deutlich der Zustand der Kinder, die sich noch nicht schämen: ein Zustand, den man im Morgenland, wo die Kinder nackend gehen, auf jeder Gasse beobachten kann. Dies Nichtwissen um Mann und Weib ist aber in der Paradiesesgeschichte nicht das Ganze, sondern nur ein besonders hervortretendes Beispiel: der Erzähler will den ganzen geistigen Zustand der Kinder an diesem einen Zuge veranschaulichen». 25 «Er versteht also unter der ‘Erkenntnis’ das, was die Erwachsenen mehr haben als die Kinder, die Einsicht, die Vernunft, zu der auch das Wissen um den Unterschied der Geschlechter gehört» (ibid., 14).

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dottrina sul ‘peccato’. Simili considerazioni teologiche di principio distruggono l’ingenua bellezza dell’antico racconto»26.

5. L’INTERPRETAZIONE PSICOANALITICA DI EUGEN DREWERMANN Il Derwermann27, che realizza la sua analisi 70 anni dopo quella di Gunkel, ne riprende i punti di vista più caratteristici, ma li integra con quelli degli altri commentatori tedeschi più recenti, specialmente von Rad e Westermann28. In realtà, la trattazione esegetica del I vol. gli serve come premessa all’analisi psicoanalitica del II vol., e filosofica del vol. III, nella quale si confronta con le posizioni di E. Kant, G.W. Hegel, J.P. Sartre e S. Kierkegaard. Ma la parte più originale della sua opera è costituita dal vol. II, nella quale egli presenta un approfondito esame della parte jahvista di Gen 2-11 alla luce della psicoanalisi, elaborata da Freud e da Jung, ma anche da K. Abraham e O. Rank. Drewermann prende così decisamente posizione contro i limiti dell’esegesi storico-critica, in quanto si prefigge di evidenziare il senso che il testo aveva secondo l’intenzione del suo autore nel passato, mentre lui vuole indagare con l’aiuto della psicologia del profondo il senso che il testo ha ora per l’uomo considerato nell’immutabilità della sua psiche. In particolare egli si basa sull’interpretazione psicoanalitica dei miti dei popoli primitivi a noi contemporanei, che vivono ancora in Africa, India, Malesia, 26 «Allerdings wird hier nach Meinung des Erzählers eine Sünde begangen, und meisterhaft beschreibt er, wie es dazu gekommen ist, ‘von den ersten Regungen des Zweifels, der Begierde bis zur sündigen Tat’ (Meinhold 80), so meisterhaft, daß diese geschilderte Sünde als Typus der Sünde verstanden werden kann; aber der Mythus ist davon entfernt, eine Lehre über ‘die Sünde’ geben zu wollen. Dergleichen prinzipielle theologische Betrachtungen zerstören die naive Schönheit der alten geschichte» (ibid., 18). 27 EUGEN DREWERMANN, Strukturen des Bösen (Paderborner Theologische Studien), Ferdnand Schöningh, Paderborn – München – Wien - Zürich, I: Die jahwistische Urgeschichte in exegetischer Sicht, 19845, pp. 413 (19761); II: Die jahwistische Urgeschichte in psychoanalytischer Sicht 19855, pp. 680 (19771); III: Die jahwistische Urgeschichte in philosophischer Sicht 19834, pp. 656 (19781). Nel II vol. l’autore tratta la questione su “Il serpente e la problematica sessuale” (69-124), da cui prendiamo le citazioni riportate in seguito. 28 Nella premessa si dice che l’interpretazione globale della “Urgeschichte” da parte di Westermann che vi vede soprattutto la progressiva manifestazione delle abilità dell’uomo, risulta eccessivamente ottimistica rispetto alla più drammatica propria di J, che è stata meglio recepita da von Rad (I, 5).

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America centro – meridionale. I loro miti ci rivelano una sensibilità più vicina all’uomo di sempre che non le culture antiche più avanzate di Egitto, Mesopotamia e Canaan, alle quali di solito ricorrono i biblisti per uno studio comparato. Si deve ancora sottolineare che per Drewermann i tre volumi della sua opera sono complementari e convergenti in un progetto di teologia sistematica, nel quale le intenzioni teologiche dell’autore Jahvista vengono attualizzate alla luce delle scienze umane del nostro tempo. L’idea base che ispira il suo saggio è che la defezione da Dio produce nell’uomo una paura o angoscia (Angst), i cui connotati corrispondono a quelli rilevati dalla psicanalisi ed approfonditi esistenzialmente in modo speciale da Kierkegaard. Per rimanere nell’ambito dell’interpretazione sessuale della “colpa originale” già riscontrata in Gunkel, ci soffermiamo in particolare sulla II parte dell’opera di Drewermann, dedicata alla dimensione psicoanalitica di Gen 2-3, che si condensa in modo speciale in Gen 3,1-5(6-7). L’intuizione della perdita dell’ingenuità sessuale dei bambini avanzata da Gunkel, che però la vedeva come un fatto ordinario e per nulla drammatico, trova ora uno sviluppo teologicamente molto più profondo, dominato dall’idea dell’angoscia che noi possiamo sintetizzare, citando le stesse parole dell’A., in questi sei punti: dopo una sintesi introduttiva (a), vedremo i richiami agli archetipi infantili (b), al complesso di Edipo (c) e alla regressione della sessualità alla fase orale (d), la particolare attenzione riservata al simbolo del serpente (e) e, infine, un’importante osservazione generale sulla eterogeneità dei diversi motivi mitici utilizzati e reinterpretati dallo Jahvista (f). a) Ecco una sintesi della sua interpretazione presentata dallo stesso Drewermann: «Cogliendo il senso del simbolo noi possiamo dire che qui (in Gen 3,1-5, ndr) si tratta di una tentazione di tipo sessuale, che viene fatta alla donna da parte del desiderio del maschio (il serpente). La donna reagisce alla tentazione, come abbiamo già osservato nell’analisi esegetica, con angoscia (Angst). Questa si esprime simbolicamente nel fatto che il tema genitale viene sostituito con quello orale. Riguardo al mangiare dall’albero noi abbiamo originalmente a che fare con un concetto che ci fornisce l’esplorazione della sessualità infantile, ma ancor di più, con una regressione, nella fantasia, della sessualità al livello orale. Per la paura (Angst) provata di fronte alla sessualità maschile si ritorna regressivamente alla oralità. In questo modo noi comprendiamo il serpente, l’albero, i frutti, il trovarsi

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insieme del serpente con l’albero, il mangiare dei frutti, come anche il comportamento della donna che rivela simultaneamente di aver paura e di essere affascinata, e infine anche il motivo del sapere o del conoscere: tutti questi motivi si lasciano comprendere come simboli sessuali, che in forza di una regressione dovuta alla paura, fanno rivivere le immaginazioni sessuali infantili in corrispondenza con gli impulsi paleoantropologici»29.

b) Il richiamo dell’età infantile è importante per Drewermann sotto diversi aspetti: «Congiuntamente alla tematica sessuale si trova il motivo del conoscere […] quello che è sicuro è che nell’età tra i 3 e i 5 anni, la cosiddetta età delle domande, i bambini, per un senso di incertezza sulla loro stessa esistenza, cominciano, spesso anche a causa della nascita di un fratellino o sorellina, a richiamare l’attenzione su di sé ponendo tutte le possibili e in parte simboliche domande, per assicurarsi così dell’amore dei genitori come pure della loro stessa origine, con la speranza di impedire l’arrivo di un nuovo fratellino e di raggiungere di nuovo il momento della loro nascita. È questa la prima grande “attività intellettuale” dei bambini al “servizio dell’esplorazione sessuale”»30. 29 «Entsymbolisiert können wir sagen, daß es hier um eine sexuelle Versuchung geht, die der Frau von seiten des männlichen Verlangens (der Schlange) angetragen wird. Die Frau reagiert, wie wir bereits in der exegetischen Untersuchung herausgearbeitet haben, mit Angst auf die Versuchung. Diese drückt sich symbolisch darin aus, daß das genitale Thema durch das orale ersetzt wird. Wir haben es ursprünglich bei dem Essen vom Baum zwar mit einer Vorstellung der infantilen sexualforschung zu tun, aber, wesentlicher noch, mit einer Regression der Sexualtät auf die Stufe der oralen Konzeptionsphantasie. Aus Angst vor der männlichen Sexualität wird regressiv die Oralität wiederbelegt. Auf diese Weise verstehen wir die Schlange, den Baum, die Früchte, das Nebeneinander von Schlange und Baum, das Essen von Früchten sowie das gleichermaßen angstvolle wie faszinierte Verhalten der Frau und schließlich auch das Motiv des Wissens bzw. des Erkennens: all diese Motive geben sich als sexuelle Symbole zu verstehen, die auf dem Wege einer angstbesetzten Regression infantile Sexualvorstellungen entsprechend den paläoanthropologischen Bahnungen wiederbeleben» (II, 115). 30 «Mit der sexuellen Thematik in Verbindung steht das Motiv des Erkennens […] sicher ist, daß im Alter zwischen 3-5 Jahren, dem sog. Fragealter, die Kinder beginnen, in einem Gefühl der Unsicherheit ihrer eigenen Existenz, oft auch wegen der Ankunft eines neuen Geschwisterchens, mit allen möglichen z.T symbolischen Fragen auf sich aufmerksam zu machen, um sich der Liebe der Eltern ebenso wie ihrer eigenen Herkunft zu versichern und um die Geburt eines neuen Geschwisterchens zu verhindern bzw. die eigene rückgängig zu machen. Es ist dies die erste groß angelegte ‘intellektuelle Tätigkeit’ der Kinder im ‘Dienst der Sexualforschung’» (II, 103).

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«Il mangiare dall’albero a cui il serpente spinge è chiaramente da intendere, nei miti di questo tipo, come immagine del rapporto sessuale. La questione che sorge è solo di stabilire dove la formazione di un tale simbolo ha il suo fondamento. La sostituzione della sessualità con un’immagine di tipo orale, che dal punto di vista psicoanalitico costituisce il vero problema, sembra che si rifaccia al livello dello studio della sessualità infantile. Secondo Freud si deve includere tra le tre più tipiche teorie sessuali (accanto alla teoria della nascita vista come una cloaca e della concezione sadica del coito) anche la supposizione che i bambini attraverso il mangiare, quindi per via orale, approderebbero nel grembo materno»31.

c) La problematica della sessualità infantile viene identificata in particolare con il complesso edipico: «La proibizione che “Dio” ha dato è, intesa così, una proibizione edipica dell’incesto. Se noi teniamo conto del fatto che il mito è sognato dal punto di vista della ragazza, allora si tratta del desiderio nostalgico della bambina di ricevere un figlio dal padre e di diventare come la madre. Ciò è proibito. E in questa proibizione si infrange il rapporto della bambina con i suoi genitori. Lei si deve separare da loro come oggetti originari della libido. Proibizione e cacciata troverebbero così la loro spiegazione. Sono entrambe inevitabili. Così il simbolo fallico del serpente e dell’albero dovrebbe identificarsi alla fine con il padre […] La tentazione della donna da parte del serpente consisterebbe in questo modo nella spinta ad avere un rapporto incestuoso con il padre»32. 31

«Das Essen von dem Baum, zu dem die Schlange auffordet, ist in Mythen dieser Art offenkundig als ein Bild für den sexuellen Verkehr zu verstehen. Die Frage ist nur, worin eine solche Symbolbildung ihren Grund hat. Die Ersetzung der Sexualität durch ein orales Bild, die psa das eigentliche Problem darstellt, scheint auf die Stufe der infantilen Sexualforschung zurückzugreifen. Nach Freud zählt zu den drei typischen Sexualtheorien (neben der Kloakentheorie von der Geburt und der sadistischen Auffassung vom Koitus) auch die Annahme, daß die Kinder durch Essen, also durch orale Konzeption, in den Mutterleib gelangt seien» (II, 108). 32 «Das Verbot, das “Gott” erlassen hat, ist, so verstanden, ein ödipales Inzestverbot. Gehen wir davon aus, daß der Mythos aus der Sicht des Mädschens geträumt ist, so handelt es sich um den sehnlichen Wunsch des kleinen Mädchens, vom Vater ein Kind zu bekommen und es der Mutter gleichzutun. Dies ist verboten. Und an diesem Verbot zerbricht die Beziehung des Kindes zu seinen Eltern. Es muß sich von ihnen als ursprünglichen Libidoobjekten trennen. Verbot und Ausweisung fänden somit ihre Erklärung. Beide sind unvermeidbar. So müßte das phallische Symbol der Schlange und des Baumes letztlich mit

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«La cosa più importante è chiaramente la polivalenza dei simboli. L’albero da cui la donna mangia, può essere inteso come simbolo fallico (del padre); i frutti, che la donna passa dallo stesso albero all’uomo, possono valere come immagine dell’albero materno della vita, quindi come rappresentazione del lato maschile del complesso di Edipo […] La valenza simbolica maschile e quella femminile dell’albero si presentano perciò l’una accanto all’altra, e permettono così una confluenza della prospettiva sessuale dell’uomo come di quella della donna in un racconto riguardante l’unico e medesimo oggetto del desiderio umano»33. «Ciò a cui il serpente spinge l’uomo come la donna è l’albero, che nel linguaggio sessuale del simbolo può significare in senso edipico per l’uomo la madre e per la donna il padre, ma per entrambi rappresenta (oralmente) l’albero materno della vita»34.

d) La regressione alla fase orale viene sottolineata ripetutamente dall’A.: «Il serpente, cioè il trasporto verso il fallo dell’uomo, induce la donna alla tentazione di mangiare dall’albero; questo, al di là del simbolo, starebbe prima di tutto come segno dell’organo genitale maschile; i frutti dell’albero potrebbero apparire come il regalo promesso dal serpente o come i testicoli. La domanda che quindi sorge, è soltanto di vedere come potremmo pensare unite nell’immagine del mangiare dall’albero l’oralità e la sessualità, cioè dobbiamo intendere la concomitanza stessa del simbolismo orale e sessuale»35. dem Vater identifiziert werden […] Die Verführung der Frau durch die Schlange bestünde demnach in der Aufforderung zum inzestuösen Verkehr mit dem Vater» (II, 116). 33 «Das wichtigste ist offenbar die Polivalenz der Symbole. Der Baum, von dem die Frau ißt, kann als phallisches Symbol (des Vaters) verstanden werden; die Früchte, die die Frau von demselben Baum dem Manne reicht, dürfen als Bild des mütterlichen Lebensbaumes, also als Darstellung der männlichen Seite des Ödipuskomplexes gelten […] Die männliche und die weibliche Symbolik des Baumes kommen also nebeneinander vor und erlauben daher eine Verzahnung der sexuellen Perspektive des Mannes wie der Frau zu einer Erzählung über ein und dasselbe Objekt des menschlichen Begehrens» (II, 117). 34 «Das, worauf die Schlange Mann wie Frau verweist, ist der Baum, der in der sexuellen Symbolsprache ödipal für den Mann die Mutter, für die Frau den Vater bedeuten kann, für beide aber (oral) den mütterlichen Lebensbaum darstellt» (II, 118). 35 «Die Schlange, d. h., das phallische Streben des Mannes, führt die Frau in der Versuchung, von dem Baum zu essen; dieser stünde zunächst entsymbolisiert als Zeichen für das männliche Genitale; die Baumfrüchte könnten als das verheißene Geschenk der Schlange

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«Il simbolo orale del mangiare dell’albero si potrebbe comprendere come un meccanismo di difesa e una regressione dal campo genitale dello sviluppo sessuale alla fase orale. Così noi possiamo concordare in sintesi con F. Riklin, quando egli riconosce, a proposito di Gen 3,1-7, nel serpente, nel frutto, nell’albero e nel mangiare una accumulazione del simbolismo della fecondazione»36.

e) Già all’inizio Drewermann si sofferma in particolare sul simbolo del serpente: «La considerazione del serpente nella mitologia della natura mostra che una molteplicità di fenomeni naturali sono posti in collegamento con il serpente, o meglio, che vengono percepiti come serpentini, per il fatto che presentano una posizione incurvata (l’arcobaleno, la via lattea), o dei movimenti serpentiformi (lampi, addensamenti di nembi, polvere portata dal vento, corsi d’acqua), o il venire inghiottiti (del sole, della luna) nelle immense fauci (della notte, del mare, dei precipizi della terra, del caos primordiale)»37. «Il potere che per es. la tenebra esercita sull’uomo, deriva non dalla notte come tale, ma dalla notte considerata come dotata di psiche umana; l’immaginazione della lotta tra il dio sole e il serpente della pioggia proviene non dalla considerazione dei fatti naturali in se stessi, ma deriva dalla proie-

bzw. als die Hoden erscheinen. Die Frage, die sich dann ergibt, ist nur, wie wir uns in dem Bild vom Essen des Baumes die Oralität und Sexualität vereinigt denken können, wie wir also das Zusammentreten von oraler und sexueller Symbolik selbst verstehen sollen» (II, 107). 36 «Das orale Symbol vom Essen des Baumes gäbe sich mithin als ein Abwehrvorgang und eine Regression aus dem genitalen Bereich der Sexualentwicklung auf die orale Stufe zu verstehen. So können wir zusammenfassend F. Riklin zustimmen, wenn er in Gn 3,1-7 in Schlange, Frucht, Baum und Essen eine “Kumulation” der “Befruchtungsymbolik” (F. RIKLIN: Wunscherfüllung und Symbolik im Märchen, Lepzig – Wien 1908, 72) erkennt» (II, 113). 37 «Die Betrachtung der Schlange in der Naturmythologie zeigt, daß eine Vielzahl von Naturphänomenen mit der Schlange in Verbindung gebracht oder, besser, als schlagenhaft apperzipiert wird, in denen eine gekrümmte Stellung (der Regenbogen, die Milchstraße), schlängelnde Bewegungen (Blitze, Regensäulen, Windstaub, Flußläufe) oder das Verschlungenwerden (der Sonne, des Mondes) im weitgeöffneten Rachen (der Nacht, des Meeres, der Erdschluchten, des Urzeitchaos) eine Rolle spielen» (II, 88).

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zione di una lotta interiore tra la luce e l’oscurità dell’animo umano e si basa sulle corrispondenti personificazioni di fenomeni umani che si osservano all’esterno»38. «Quando il pensiero mitico intravede nel serpente una analogia con l’organo della fecondità proprio di ogni corpo umano, cioè con il fallo, allora verrebbe più facile credere che nella natura il serpente appare come un organo della fecondità cosmica, e perciò costituisce un ponte, una rappresentazione concreta, che congiunge insieme la fecondità dell’uomo e quella della natura; ed anche la singolare posizione del serpente fra tutti gli animali troverebbe una certa spiegazione se si suppone che l’organo maschile della fecondazione come fonte e sede di particolari sensazioni di piacere susciti a priori un interesse molto forte. In modo speciale la connessione del serpente con l’acqua della fertilità sembra totalmente pensata in analogia con la procreazione umana, e precisamente nel senso che l’acqua non era propriamente percepita come un simbolo, ma come l’equivalente dello sperma o delle urine. L’acqua è considerata nel mito non come simbolo dello sperma, ma è lo sperma del cielo»39.

f) Un richiamo finale sottolinea il carattere eterogeneo dei diversi motivi mitici ripresi dallo Jahvista: «Perciò è certamente possibile riconoscere motivi “incestuosi” nel comportamento di Adamo e di sua moglie, ma non è possibile vedervi in maniera assoluta il motivo dell’incesto e a partire da esso interpretare tutte le altre

38 «Die Macht, die z.B. das Dunkel auf den Menshen ausübt, geht nicht vom Nachthimmel als solchem, sondern von der Nacht in der menschilichen Psyche aus; die Vorstellung des Kampfes zwischen dem Sonnengott und der Regenschlange leitet sich nicht von der Betrachtung der Naturgegebenheiten an sich her, sondern entstammt der Projektion eines inneren Kampfes zwischen dem Licht und dem Dunkel der menschlichen Seele und basiert auf den entsprechenden Personificationen der angeschauten Naturphänomene» (II, 89). 39 «Wenn aber in der Schlange das mythische Denken eine Analogie zum körpereigenen Organ der Fruchtbarkeit, zum Phallus, erblickt, so fiele es schon wesentlich leichter zu glauben, daß in der Natur die Schlange als ein Organ kosmischer Fruchtbarkeit auftritt und also eine Brücke, eine anschauliche Formel bildet, welche die Fruchtbarkeit des Menshen und die Fruchtbarkeit der Natur miteinander veknüpft; und auch die herausragende Sonderstellung der Schlange unter allen anderen Lebewesen fände damit eine gewisse Erklärung, darf man doch annehmen, daß das männliche Zeugungsorgan als Quelle und Sitz besonderer Lustempfindungen apriori ein höchstes Interesse auf sich vereinigt. Insbesondere die Verbindung der Schlange mit dem Wasser der Fruchtbarkeit scheint ganz und gar in

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immagini del “racconto J della caduta” o, viceversa, trascurarle completamente. Specialmente la intercambiabilità dell’azione della donna (Gen 3,15) e di Adamo (Gen 3,6-7) e la componente specificamente orale del racconto perderebbero il loro valore se ci attenessimo ad una pura interpretazione edipica. Il problema dell’interpretazione psicoanalitica di Gen 2-3 consiste precisamente nel fatto che J non ha ripreso o rielaborato una visione mitica in sé conclusa, ma ha messo insieme dei motivi mitici ripresi in forma frammentaria per farli confluire nel mosaico del tutto singolare e nuovo che esprime una concezione teologica che si pone al di là dei miti […] In ordine di principio lo scopo dei nostri tentativi d’interpretazione psicoanalitica non è quello di voler ricostruire un unico tipo originario del mito che sta dietro ai racconti dello Jahvista»40.

6. UNA LETTURA “A SFONDO SESSUALE” DI GEN 2-3 Ci siamo dilungati su Drewermann perché rappresenta un caso emblematico ed attuale, anche se problematico e controverso, del principio che “la Bibbia è libro di tutti”, nel senso che può essere interpretato secondo punti di vista differenti, facendovi emergere delle verità che riguardano l’umanità di tutti, inclusa pure la sessualità che deve essere considerata una componente importante dell’identità più profonda dell’uomo e della donna di ogni tempo. Da parte nostra senza volerci identificare con la posizione di Drewermann41, che è probabilmente eccessiva, siamo convinti che il nucleo Analogie zur menschlichen Zeugung gedacht zu sein, und zwar so, daß das Wasser nicht eigentlich als Symbol, wohl aber als Äquivalent des Spermas bzw. des Urins apperzipiert wurde. Das Wasser gilt mythisch nicht als Symbol des menschlichen Spermas, sondern es ist das Sperma des Himmels» (II, 91). 40 «Es ist also wohl möglich, in dem Tun Adams und seiner Frau “inzestuöse” Motive wiederzuerkennen, aber es ist nicht möglich, das Inzestmotiv absolut zu setzen und von ihm her alle anderen Bilder der J “Sündenfallerzählung” umzudeuten oder völlig zu vernachlässigen. Insbesondere die Wechselseitigkeit des Tuns der Frau (Gn 3,1-5) und Adams (Gn 3,67) und die spezifisch orale Komponente der Erzählung ginge bei einer reinen “Ödipus – Deutung” unter. Das Problem der psa Auslegung von Gn 2-3 liegt gerade darin, daß J nicht eine in sich geschlossene mythische Anschauung übernimmt oder umformt, sondern mythische Motive in fragmentierter Form zu dem völlig singulären und neuartigen Mosaik einer theologischen Aussage jenseits der Mythen zusammengesetzt hat […] Prinzipiell ist es nicht das Bemühen unserer psa Deutungsversuche, einen ursprünglichen Mythentyp hinter den j Erzählungen rekonstruiren zu wollen» (II, 120-21). 41 La posizione di Drewermann è spiegata e approvata da B. LANG, Die Bibel neu entdecken: Drewermann als Leser der Bibel, Kösel Verlag, München 1995 (= Eugen

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tradizionale che sta alla base del racconto elaborato poi in senso più “teologico” (come disobbedienza) dall’autore Javista in Gen 2-3 contenga, come filo conduttore che lo attraversa in filigrana dall’inizio alla fine, il tema della sessualità considerata nei suoi diversi aspetti, senza che si voglia incriminare il suo esercizio che assolve la funzione fondamentale della trasmissione della vita42. La visione della condizione umana tratteggiata dallo Jahvista è drammatica perché segnata da contraddizioni e sofferenze, dai dolori del parto per la donna alla sofferenza connessa con il lavoro dei campi per l’uomo, alla stessa morte. Ma al di là di questi limiti biologici e fisici c’è anche la realtà psicologica che viene intravista con tanta profondità dallo Jahvista: il bisogno che l’uomo ha della donna per colmare la sua iniziale solitudine e l’attrazione che la donna sente verso l’uomo, dando origine ad un rapporto del quale si può abusare giacché esso può sfociare nel domino dell’uno sull’altro, esemplificato qui in quello dell’uomo sulla donna. L’uomo e la donna sono destinati a diventare “una sola carne” (2,24). Se il racconto nel suo insieme presenta un tono amaro per l’incoscienza dei due protagonisti e le ambiguità del loro rapporto, ciò nonostante finisce con un inno alla vita e alla donna, quando si osserva che «l’uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi» (3,20)43, parole che fanno eco a quelle rivolte prima alla donna: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli» (3,16). In coerenza con queste allusioni al tema della sessualità, che lo Jahvista subordina allo schema teologico del “trasgressione”, si deve riconoscere che i frutti dell’albero sono una metafora dell’amore che la donna offre all’uomo come in Ct 4,1213; 5,1, e che viceversa la “nudità” (Gen 3,7) non vuole essere intesa metaforicamente ma in senso realistico, come conseguenza psicologica dell’intimità sessuale. Si deve aggiungere che il senso del “conoscere” a cui si richiama l’albero della conoscenza (2,17), deve intendersi alla luce del significato sessuale che questo verbo riveste nell’immediato contesto (cfr 4,1 e 4,17).

Drewermann, interprète de la Bible, Cerf, Paris 1994), ma è contestata decisamente da P. GRELOT, Réponse à Eugen Drewermann, Cerf, Paris 1994, soprattutto per le applicazioni fatte al NT, che noi non abbiamo considerato. 42 A. MINISSALE, Alle origini dell’universo e dell’uomo (Genesi 1-11). Interrogativi esistenziali dell’antico Israele, Cinisello Balsamo 2002, 74-77. 43 In questa affermazione di tipo eziologico si gioca sull’assonanza che si ha tra il nome Eva (ebr. ˙awwåh) e “vivente” (˙åy).

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7. CONCLUSIONE L’itinerario percorso nella storia dell’interpretazione dell’Antico Testamento, ci ha mostrato come in forza di alcune premesse poste nell’Illuminismo44 e nel Romanticismo si è potuto giungere ad una lettura molto umana di Gen 2-3, nella quale si vede emergere un’esperienza che più o meno è comune a tutti gli uomini. Quindi la Bibbia è libro di tutti perché vi si trova di volta in volta un riflesso della condizione umana. Di fatto le Chiese non sono giunte a questa ammissione da sé, ma in quanto provocate dall’esterno, con una rivendicazione di libertà da parte della ragione umana che, secondo un certo paradigma teologico allora imperante, era da contrapporre alla fede. Provvidenzialmente, il cammino faticoso ed incerto della cultura si è trovato un varco nelle coscienze tra le diffidenze iniziali suggerite dalle concezioni più tradizionali che sembravano immutabili ed assolute. Per quanto riguarda il risvolto cattolico di tutto questo enorme processo anche negli studi biblici, più che riferirci ai documenti che riguardono direttamente lo studio della Bibbia, mi sembra più pertinente accogliere l’indicazione di metodo che ci viene indirettamente e analogicamente da altri due documenti. a) Parlando della questione politica Giovanni XXIII nella Pacem in terris fa questa osservazione: «Pertanto, può verificarsi che un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non opportuno o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa diventare domani» (n. 85). Per quanto ci riguarda, se il filone esegetico proposto poteva essere inficiato all’origine di un certo panteismo (Spinoza ed Herder) e razionalismo (Lessing e Gunkel), le acquisizioni raggiunte nell’interpretazione concreta e positiva dei testi possono essere valide indipendentemente da queste premesse generali di tipo filosofico. b) Da parte sua il Vaticano II, dopo aver rilevato nella Gaudium et spes che «i più recenti studi di psicologia spiegano con maggiore profondità l’attività umana» e che «le scienze storiche giovano assai a far considerare le cose sotto l’aspetto della loro mutabilità ed evoluzione» (n. 54), esorta a che «I fedeli dunque vivano in strettissima unione con gli uomini

44 Si può sottoscrivere l’osservazione di R. OSCULATI, La teologia cristiana nel suo sviluppo storico, II, Cinisello Balsamo 1997, 425: «Quel movimento culturale che si sarebbe chiamato illuminismo aveva pure una forte componente teologica e cristiana».

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del loro tempo, e si sforzino di penetrare perfettamente il loro modo di pensare e di sentire, di cui la cultura è espressione» (n. 62). Se si accetta il principio che la Bibbia è libro di tutti, si deve accettare come conseguenza che essa sia aperta alle diverse letture che se ne possono fare partendo da nuove domande che sono suggerite all’interprete dagli sviluppi delle scienze umane e dalle nuove condizioni storiche. Credo che si deve arrischiare su questo fronte, in un confronto che fa paura solo quando lo si vede dall’esterno e da lontano, come se appartenesse ad una sfera profana della società e del mondo che deve essere più esorcizzata che assimilata. Ma se si ama l’uomo e tutto ciò che costituisce la sua vita in questa terra, questi esperimenti di studio ci aiutano a scoprire, al di là di qualche possibile esagerazione, i molteplici ed imprevedibili segni della presenza di Dio nelle più recondite pieghe del suo cuore.

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18 IL GIOBBE BIBLICO [2004]

È sorprendente notare con quanta scrupolosità Luigi Dallapiccola, coadiuvato in questo dalla moglie Laura che procurava i libri che poi leggevano insieme, ha voluto studiare il testo biblico di Giobbe prima di farne una bella sintesi molto pertinente nel libretto da lui stesso composto per poi musicarlo. Il testo di Dallapiccola coglie nel segno il significato del libro di Giobbe, ed ha inoltre una sua suggestiva musicalità come testo letterario, scritto volutamente in uno stile arcaico e poetico. Egli si è preparato a questa creazione studiando 34 diverse edizioni del testo biblico di Giobbe in varie lingue (latino, italiano, francese, inglese e tedesco) e con diversi commentari. Si tratta, mostrando in questo una fine sensibilità culturale aperta ed ecumenica, di pubblicazioni protestanti, ebraiche e cattoliche. Possiamo immaginare che l’attenta lettura del testo giobbiano in varie lingue, avesse per lui il valore di un’esperienza acustica e sonora, abbastanza stimolante da costituire già il germe della sua stessa invenzione musicale. In realtà, il libretto di Dallapiccola ha già in sé una sua autonoma dignità letteraria ed artistica; però è chiaro che sorge spontaneo il bisogno di risalire al testo stesso della Bibbia, giacché esso è stato la fonte della sintesi che ne ha fatto l’artista. Dal punto di vista linguistico, l’originale ebraico del libro di Giobbe presenta una grande quantità di vocaboli rari e di costrutti ellittici, elementi tutti che spiegano le diversità di resa che si riscontrano tra le diverse traduzioni. Il nucleo narrativo fondamentale del poema biblico, abbastanza lungo da comprendere ben 42 capitoli, presenta Giobbe come un uomo ricco e patriarcale, a capo di una famiglia molto unita, che, in seguito ad un accordo tra Dio e Satana, viene improvvisamente spogliato dei suoi beni e dei suoi figli, sette maschi e tre femmine. Poco dopo è colpito nel suo corpo da un «morbo maligno» non meglio identificato, che lo affligge «dalla pianta dei piedi alla cima del capo» (Giobbe 2,7). Nel libretto è chiamato «lebbra» per il fatto che Giobbe «si grattava con un coccio» ed è costretto a «star seduto in mezzo alla cenere» dell’immondezzaio del suo villaggio, dopo che la moglie che irrideva la sua pietà, l’aveva scacciato di casa. In

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questo luogo pubblico viene visitato dai tre amici, Elifaz, Baldad e Zofàr, che cercano di consolarlo. In realtà, si tratta di una situazione immaginaria creata apposta per fornire lo spunto ad un complesso dialogo che si svolge tra il protagonista, Giobbe, e i suoi tre visitatori. Il dialogo si configura come un vero e proprio dibattito, portato avanti da posizioni contrapposte e inconciliabili. Rispecchiando una idea che si presentava con l’autorevolezza del buon senso e della tradizione, i tre pensano di aiutare Giobbe prospettandogli quella che secondo loro è l’unica via d’uscita dalla sua sofferenza. Egli dovrebbe confessare a Dio il suo peccato e solo così sarà liberato dalla tribolazione che, sempre secondo loro, non può che essere la conseguenza di una sua colpa, peraltro occulta. Lui deve avere il coraggio di riconoscerla. Nel testo di Dallapiccola si riassume bene questa tesi di fondo dei discorsi dei tre amici attraverso un ritornello che si ripete, in maniera implacabile, per ben tre volte: «Non c’è morte senza peccato, né sofferenza senza colpa». Ma Giobbe si sa innocente e perciò considera fuorviante ed inutile l’insinuazione ribadita dagli amici nei loro consigli e il presupposto sul quale essa si basa. Essi, in fondo, ripetono un teorema proprio del buonsenso tradizionale, senza pensare di immedesimarsi veramente nello stato d’animo che affligge Giobbe, a cui cercano di offrire, secondo la fredda ragione, un valido aiuto che in realtà è falso ed inefficace. Perciò Giobbe non intende deflettere dalla consapevolezza, ferma e dolente, che la prova da lui subita sia immeritata ed ingiusta. Presentato così il tema di fondo, possiamo passare a percorrere il filo essenziale degli sfoghi e dei lamenti di Giobbe, riportando alcune citazioni del testo, tra quelle che ci sembrano più significative e più intense. Pur respingendo le accuse maligne degli amici, Giobbe è d’accordo con loro nell’ammettere che il suo male, anche se ingiustificato, viene da Dio. Così egli si sente maltrattato e da Dio e dagli amici, con i quali per primi polemizza fieramente e decisamente: «Per la vita di Dio, che mi ha privato del mio diritto, per l’Onnipotente che mi ha amareggiato l’animo, finché ci sarà in me un soffio di vita, e l’alito di Dio nelle mie narici, mai le mie labbra diranno falsità e la mia lingua mai pronunzierà menzogna! Lungi da me che io mai vi dia ragione; fino alla morte non rinunzierò alla mia integrità. Mi terrò saldo nella mia giustizia senza cedere, la mia coscienza non mi rimprovera nessuno dei miei giorni» (27,2-6); «Voi siete raffazzonatori di menzogne, siete tutti medici da nulla. Magari taceste del tutto! sarebbe per voi un atto di sapienza! Ascoltate dunque la mia riprensione e alla difesa

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delle mie labbra fate attenzione. Volete forse in difesa di Dio dire il falso e in suo favore parlare con inganno? Vorreste trattarlo con parzialità e farvi difensori di Dio?» (13,4-8); «Tacete, state lontani da me: parlerò io, mi capiti quel che capiti. Voglio afferrare la mia carne con i denti e mettere sulle mie mani la mia vita. Mi uccida pure, non me ne dolgo; voglio solo difendere davanti a lui la mia condotta! Questo mi sarà pegno di vittoria, perché un empio non si presenterebbe davanti a lui. Ascoltate bene le mie parole e il mio esposto sia nei vostri orecchi. Ecco, tutto ho preparato per il giudizio, son convinto che sarò dichiarato innocente» (13,13-18); «Fino a quando mi tormenterete e mi opprimerete con le vostre parole? Son dieci volte che mi insultate e mi maltrattate senza pudore. E` poi vero che io abbia mancato e che persista nel mio errore? Non è forse vero che credete di vincere contro di me, rinfacciandomi la mia abiezione? Sappiate dunque che Dio mi ha piegato e mi ha avviluppato nella sua rete. Ecco, grido contro la violenza, ma non ho risposta, chiedo aiuto, ma non c’è giustizia!»(19,2-7). Sì, non c’è giustizia agli occhi di Giobbe! Già all’inizio, prima che la disgrazia si abbattesse su di lui, egli era stato presentato come «uomo integro e retto, che temeva Dio ed era alieno dal male» (1,1). Ora, nello strazio delle sue sofferenze egli ricorda le opere buone verso i bisognosi a cui non ha fatto mancare il suo soccorso: «Mai ho rifiutato quanto brama il povero, né ho lasciato languire gli occhi della vedova; mai da solo ho mangiato il mio tozzo di pane, senza che ne mangiasse l’orfano… Se mai ho visto un misero privo di vesti o un povero che non aveva di che coprirsi, se non hanno dovuto benedirmi i suoi fianchi, o con la lana dei miei agnelli non si è riscaldato; se contro un innocente ho alzato la mano, perché vedevo alla porta chi mi spalleggiava, mi si stacchi la spalla dalla nuca e si rompa al gomito il mio braccio…Ho gioito forse della disgrazia del mio nemico e ho esultato perché lo colpiva la sventura, io che non ho permesso alla mia lingua di peccare, augurando la sua morte con imprecazioni? Non diceva forse la gente della mia tenda: “A chi non ha dato delle sue carni per saziarsi?”. All’aperto non passava la notte lo straniero e al viandante aprivo le mie porte» (31,16-17.19-22.29-32) Di fronte a questa condotta così esemplare, Giobbe si sente più che giustificato a ricordare le malefatte dei malvagi che prosperano restando impuniti nel mondo, a differenza di quanto accade a lui: «I malvagi spostano i confini, rubano le greggi e le menano al pascolo; portano via l’asino degli orfani, prendono in pegno il bue della vedova … Rapiscono con violenza l’orfano e prendono in pegno ciò che copre il povero …

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Quando non c’è luce, si alza l’omicida per uccidere il misero e il povero; nella notte si aggira il ladro e si mette un velo sul volto … Nelle tenebre forzano le case, di giorno se ne stanno nascosti: non vogliono saperne della luce … Egli maltratta la sterile che non genera e non fa del bene alla vedova … Anche Dio gli concede sicurezza ed egli sta saldo, ma i suoi occhi sono sopra la sua condotta» (24,2-3.9.14.16.21.23). Ma all’autore del poema biblico preme di più il problema teologico dell’apparente ingiustizia di Dio, che il destino di Giobbe, come innocente che soffre, inevitabilmente pone, e questo problema glielo fa gridare in faccia a Dio stesso, il quale a lui, prostrato dal dolore, appare come un avversario implacabile, che lo assale per distruggerlo: «Dirò a Dio: Non condannarmi! Fammi sapere perché mi sei avversario. È forse bene per te opprimermi, disprezzare l’opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi? … Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte; vorresti ora distruggermi? Ricordati che come argilla mi hai plasmato e in polvere mi farai tornare. Non m’hai colato forse come latte e fatto accagliare come cacio? Di pelle e di carne mi hai rivestito, d’ossa e di nervi mi hai intessuto» (10,2-3.8-11); «Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta. Tu sei un duro avversario verso di me e con la forza delle tue mani mi perseguiti; mi sollevi e mi poni a cavallo del vento e mi fai sballottare dalla bufera. So bene che mi conduci alla morte, alla casa dove si riunisce ogni vivente»(30,20-23). Questa avversità di Dio nei suoi confronti, Giobbe la sente come una vera aggressione che lo rende un bersaglio e una preda per il suo Avversario: «Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la saliva? Se ho peccato, che cosa ti ho fatto, o custode dell’uomo? Perché m’hai preso a bersaglio e ti son diventato di peso? Perché non cancelli il mio peccato e non dimentichi la mia iniquità? Ben presto giacerò nella polvere, mi cercherai, ma più non sarò!» (7,19-21); «Dio mi consegna come preda all’empio, e mi getta nelle mani dei malvagi. Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha rovinato, mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri mi circondano; mi trafigge i fianchi senza pietà, versa a terra il mio fiele, mi apre ferita su ferita, mi si avventa contro come un guerriero. (16,11-14)»; «Mi ha sbarrato la strada perché non passi e sul mio sentiero ha disteso le tenebre. Mi ha spogliato della mia gloria e mi ha tolto dal capo la corona. Mi ha disfatto da ogni parte e io sparisco, mi ha strappato, come un albero, la speranza. Ha acceso contro di me la sua ira e mi considera come suo

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nemico. Insieme sono accorse le sue schiere e si sono spianata la strada contro di me; hanno posto l’assedio intorno» (19,8-12) Ma spossato da questa lotta con la sofferenza fisica e dalla contesa con il suo prepotente Aggressore, Giobbe si dà quasi per vinto fino a desiderare la morte: «Preferirei essere soffocato, la morte piuttosto che questi miei dolori! Io mi disfaccio, non vivrò più a lungo. Lasciami, perché un soffio sono i miei giorni» (7,15-16); «Il mio spirito vien meno, i miei giorni si spengono; non c’è per me che la tomba!» (17,1). Questa sconsolata sensazione di morte è resa con una delle più belle immagini del libro: «Ohimè! come un monte finisce in una frana e come una rupe si stacca dal suo posto, e le acque consumano le pietre, le alluvioni portano via il terreno: così tu annienti la speranza dell’uomo. Tu lo abbatti per sempre ed egli se ne va, tu sfiguri il suo volto e lo scacci. Siano pure onorati i suoi figli, non lo sa; siano disprezzati, lo ignora! Soltanto i suoi dolori egli sente e piange sopra di sé» (14,18-22) Ma al di là della percezione comprensibilmente insofferente di questa misteriosa aggressione, affiora in Giobbe una reazione più nobile e più ambiziosa, quella di un appello che chiede di ottenere giustizia di fronte ad un impossibile tribunale in cui dibattere la sua lite con Dio, il quale però da accusato, in mancanza di un’istanza superiore, deve paradossalmente trasformarsi in arbitro: «Poiché non è uomo come me, che io possa rispondergli: “Presentiamoci alla pari in giudizio”. Non c’è fra noi due un arbitro che ponga la mano su noi due» (9,32-33); «Ancor oggi il mio lamento è amaro e la sua mano grava sopra i miei gemiti. Oh, potessi sapere dove trovarlo, potessi arrivare fino al suo trono! Esporrei davanti a lui la mia causa e avrei piene le labbra di ragioni. Verrei a sapere le parole che mi risponde e capirei che cosa mi deve dire. Con sfoggio di potenza discuterebbe con me? Se almeno mi ascoltasse! Allora un giusto discuterebbe con lui e io per sempre sarei assolto dal mio giudice» (23,2-7). Si deve ammettere che in fondo l’aggressività verbale con cui Giobbe reagisce all’aggressione di Dio della quale è una vittima dopo tutto inerme, non raggiunge la violenza della bestemmia e si mantiene dentro dei limiti che lui non osa oltrepassare. In realtà, la sua rivolta ondeggia tra l’accusa indignata e l’attesa umile di un giudizio tanto agognato che può essere emesso solo da Dio: «In verità io so che è così: e come può un uomo aver ragione innanzi a Dio? Se uno volesse disputare con lui, non gli risponderebbe una volta su mille. Saggio di mente, potente per la forza, chi s’è opposto a lui ed è rimasto salvo? … Tanto meno io potrei rispondergli,

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trovare parole da dirgli! Se avessi anche ragione, non risponderei, al mio giudice dovrei domandare pietà. Se io lo invocassi e mi rispondesse, non crederei che voglia ascoltare la mia voce. Egli con una tempesta mi schiaccia, moltiplica le mie piaghe senza ragione, non mi lascia riprendere il fiato, anzi mi sazia di amarezze … Allontani da me la sua verga sì che non mi spaventi il suo terrore: allora io potrò parlare senza temerlo, perché così non sono in me stesso» (9,2-3.14-18.34-35). L’acme dell’opera è costituito da una possente teofania nella quale Dio, accusato da Giobbe e sfidato a dare le sue ragioni se non a dargli ragione, prende sovranamente la parola rispondendo alle domande di Giobbe non in maniera diretta, ma eludendole perfino con ironia, per far intuire che la spiegazione di questo gravissimo problema sta al di là della logica umana. Così Dio rilancia la sfida e risponde a Giobbe ponendogli una nuova domanda: «Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti? Cingiti i fianchi come un prode, io t’interrogherò e tu mi istruirai. Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza!» (38,2-4); «Cingiti i fianchi come un prode: io t’interrogherò e tu mi istruirai. Oseresti proprio cancellare il mio giudizio e farmi torto per avere tu ragione? Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua? Ornati pure di maestà e di sublimità, rivestiti di splendore e di gloria; diffondi i furori della tua collera, mira ogni superbo e abbattilo, mira ogni superbo e umilialo, schiaccia i malvagi ovunque si trovino» (40,7-12). La risposta finale di Giobbe sarà una umile resa, nella quale lui ammette il suo errore di valutazione della condotta di Dio e, con ciò, anche della sua stessa condotta; egli, con una certa dose di presunzione che l’ha reso temerario, aveva giudicato prima la sua vita come pura e innocente: «Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. “Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu istruiscimi”. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere» (42,2-6). Questa è la conclusione più alta e più matura che si dà nel libro di Giobbe al problema del male, lungamente dibattuto nei dialoghi precedenti che così culminano nella sottomissione e nel silenzio. Ma poi si sovrappone ad essa, subito dopo, un’altra conclusione che è, se la si considera attentamente, di tenore abbastanza diverso. Invece del silenzio si ha una dimostra-

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zione visibile e clamorosa della giustizia di Dio che riabilita Giobbe restituendogli il doppio degli armenti che erano stati distrutti ed altri dieci figli, che rimpiazzano quelli che, senza che qualcuno li piangesse, erano morti in un sol giorno: «Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. Ebbe anche sette figli e tre figlie» (42,1213). Sinceramente, questa conclusione a lieto fine è troppo ingenua e piuttosto banale. Contrasta con tutta la tensione drammatica dei dialoghi e con il silenzio di Giobbe con cui essi si erano conclusi. Perciò gli studiosi riconoscono, a ragione, che le due diverse conclusioni sono indizio di due diversi strati dell’opera, di cui il più antico è proprio quello che conclude il racconto con il “risarcimento” di Giobbe (sec. X-IX a.C.), mentre la conclusione che sottolinea il silenzio finale di Giobbe è frutto di una ripresa (sec. V) più approfondita e più problematica del tema della sofferenza, che in qualche modo “corregge” la precedente soluzione, avvertita come insufficiente e semplicistica. In questo modo si ravvisano nel libro di Giobbe due diverse concezioni sovrapposte e concorrenti tra loro, la più antica delle quali lo presenta come un uomo paziente mentre la seconda ne fa un uomo impaziente e impetuoso, che solo alla fine si acquieta nel più puro silenzio della fede. La prima visione ci mostra un Dio soggetto alla logica umana della convenienza, invece la seconda un Dio imprevedibile e inspiegabile, del quale l’uomo solo nella fede può riconoscere il mistero della sua giustizia e del suo amore. Il tema del giusto sofferente è un problema che inquieta l’uomo di tutti i tempi, perciò non meraviglia il fatto che nello studio del libro di Giobbe si sono cercati paralleli nell’antichità, in Mesopotamia, in Egitto, e in Grecia (il Prometeo di Eschilo), per non parlare dell’India. Qui possiamo limitarci a ricordare un testo mesopotamico in lingua accadica, che è stato definito il «Giobbe babilonese», una composizione del II millennio a.C., riportata in quattro tavolette del VII sec a.C. e intitolata dalle parole iniziali Ludlul bel nemeqi (“io voglio ringraziare il signore della saggezza”, il dio Marduk). Un principe ringrazia il dio perché è stato guarito da una malattia, che l’aveva fatto precipitare in una situazione umiliante e disperata, privo di forza e disprezzato dai suoi stessi sudditi. Egli descrive quale era stata la sua religiosità: «Mi consacrai soltanto alla preghiera ed alla supplica … I giorni di lode agli dei, erano la delizia del mio cuore … Istruii la gente del mio podere perché vi si osservasse il rito degli dei». Ma ciononostante «La malattia copre il mio corpo come una

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veste, il sonno mi avvolge come una rete, i miei occhi fissano senza vedere, le mie orecchie sono aperte ma non odono, la debolezza ha ghermito il mio corpo … Colui che male mi augurava lo seppe ed il suo volto s’illuminò». Nonostante la sua devozione, egli è stato trattato come un empio. Eppure riconosce che l’uomo non può comprendere le ragioni degli dei, per cui deve continuare a sperare nel loro aiuto: «Ciò che a noi pare lodevole, per gli dei è spregevole, ciò che al nostro cuore sembra male, è bene al cospetto del dio. Chi penetrerà la mente degli dei nella profondità del cielo? I pensieri di un dio sono come acqua profonda, chi potrebbe conoscerli?». Si descrive pure la precarietà costitutiva della condizione umana: «Colui che ieri nacque, oggi è morto. In un istante l’uomo è gettato nella tristezza, d’un subito è schiantato: Per un momento canterà di gioia, ed entro un istante gemerà in lamenti Tra l’alba e il tramonto può mutare l’umore degli uomini, quando hanno fame il loro corpo diventa cadaverico, quando sono satolli rivaleggiano con il loro dio». Comunque, questo monologo si conclude con la liberazione dal male prima lamentato, e difatti esso è un canto di ringraziamento nel quale si rievoca l’angoscia passata. A confronto con il Giobbe biblico, qui non c’è un dialogo con il dio, si ha un contesto politeista, si ricorre a riti magici di medicina e di divinazione; infine, le colpe riguardano delle infrazioni involontarie nelle esecuzioni dei riti, mentre per Giobbe si tratta della colpevolezza intravista dalla coscienza etica dell’uomo. Tornando ora al libretto di Dallapiccola, il compositore è riuscito ad abbozzare la trama del libro biblico basandosi soprattutto sull’inizio e sulla fine, da cui riporta alla lettera alcune frasi. Per il resto, ha colto l’ossatura logica delle argomentazioni degli amici attraverso alcune delle espressioni più emblematiche del libro biblico scelte con fine intuito. Quanto alla conclusione, che noi abbiamo considerato, dal punto di vista della critica letteraria, come un duplicato con cui si delineano due diverse risoluzioni del dramma, qui si segue la via più semplice che le armonizza, una volta che il testo biblico le ha sovrapposte unificandole. Siccome Giobbe, finalmente, riconosce che non può comprendere e che deve tacere, Dio lo premia. Dopo che Job dice «Signore, molto di Te finora avevo udito … oggi alfine il mio occhio Ti ha veduto», conclude lo storico: «E Iddio restituì Job al suo primiero stato … E Iddio benedisse gli ultimi giorni di Job più dei primi». La prima intuizione che lo spinse alla composizione del suo Job, Dallapiccola la ebbe vedendo al teatro Harald Kreutzberg che danzava Giobbe lotta con Dio.

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A proposito di trasposizioni letterarie e artistiche della storia di Giobbe, che dopo è stato ricordato nella memoria collettiva più per la sua pazienza che per la sua rivolta, si deve osservare che essa non ha avuto molta attenzione nella tradizione ebraica per il fatto che questo personaggio è presentato nella Bibbia come un abitante della «terra di Uz», che, dovendosi situare in Edom, lo rende straniero ad Israele. Ma, in realtà, perché straniero, è sovranazionale ed universale. Eppure, nell’ambiente ebraico moderno, l’eterno tema del Giobbe biblico ha trovato alcune trasposizioni letterarie originali ed ardite. Ne vogliamo ricordare, in conclusione, due, che presentano un indubbio carattere emblematico. La più nota è quella, in chiave romanzesca, dovuta al un grande scrittore ebreo Joseph Roth (1894-1939), il quale pubblicò nel 1930 Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (nell’originale tedesco Hiob. Roman eines einfachen Mannes). Radicato culturalmente nella Russia degli Zar e nella Vienna dell’Impero austro-ungarico, Roth inventa un personaggio con una storia che incarna il destino di tanti uomini devoti e indomiti, quindi profondamente intrisa dei valori più tipici degli ebrei dell’Europa orientale; egli emigra in America, dove, dopo tante disgrazie, troverà alla fine fortuna e consolazione. Questo Mendel Singer era stato un umile e coscienzioso maestro elementare che nella sua casa aveva insegnato a tanti ragazzi a leggere leggendo la Bibbia. Le disgrazie che si abbattono sulla sua famiglia gli fanno perdere la fede. Ridotto in povertà e avvilito, deve condurre in America una vita grama, dove si mantiene svolgendo piccoli lavori occasionali e ricevendo delle elemosine. Finalmente incontra il figlio, una volta handicappato, che, al colmo della disperazione aveva lasciato in patria, ed ora, miracolosamente guarito, è diventato un musicista di successo che si prende cura di lui. Quattro amici vengono a fargli visita e uno di essi, il più assennato di tutti, gli dice: «Mendel, siamo venuti a vederti nella tua felicità, come ti abbiamo visto nell’infelicità. Ti rammenti com’eri abbattuto? Noi ti consolavamo, ma sapevamo che era tutto inutile. Ora sperimenti su te stesso un miracolo. Come allora eravamo tristi insieme con te così oggi, insieme con te, godiamo. Grandi sono i miracoli che l’Eterno compie ancora oggi, come alcune migliaia di anni fa. Lodato sia il Suo nome!». Il secondo esempio riguarda il dramma «Le sofferenze di Giobbe» (Yissure Yob) di Hanokh Levin, rappresentato per la prima volta a Tel Aviv nel 1981. Il racconto biblico è riletto nella sua dimensione soltanto umana ed in chiave volutamente provocatoria, dissacrante e grottesca. Con una velata allusione al linguaggio evangelico ma ribaltandone totalmente il

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messaggio, Giobbe esclama: «Ed io vi dico: che non vi è proprio nulla nella sofferenza, tranne la sofferenza stessa! Ed io vedo che il mondo è colmo solo di dolore!». Alla fine, mentre un gruppo di pagliacci da circo esegue una danza macabra, Giobbe è infilzato su un palo (chiaro richiamo alla croce), mentre il coro finale dei defunti canta la tesi di fondo di Levin: «C’è misericordia nel mondo e noi troveremo riposo». Le sofferenze di Giobbe sono accomunate a quelle di Cristo, ma queste, oltre che evocare le tante assurde sofferenze che affliggono gli uomini, nella visione cristiana le sublimano e misteriosamente le redimono.

Nota bibliografica Opere citate o consultate: La Sacra Bibbia della CEI, Roma 1971; Samuel Terrien, Job, Delachaux – Niestlé, Neuchatel 1963; H. e H.A. Frankfurth e.a., La filosofia prima dei greci, trad. it. di Elémire Zolla, Ed. Einaudi, Torino 1963 Marvin H. Pope, Job (Anchor Bible 159, Doubleday, New York 1965; Jean Lévêque, Job et son Dieu, I-II, Éd. J. Gabalda, Paris 1970; AA.VV., “The Book of Job”, in Encyclopaedia Judaica, vol. 10, coll. 111129, Jerusalem 1972; Pio Fedrizzi, Giobbe (La Sacra Bibbia), Marietti, Torino – Roma 1972; Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, trad. it. Di Laura Terreni, Ed. Adelphi, Milano 1977; G. Moscati Steindler, “Il racconto biblico e la sua funzione nel teatro ebraico contemporaneo”, in Angelo Vivian (ed.), Biblische und judaistische Studien. Festschrift für Paolo Sacchi (Judentum und Umwelt 29), Peter Lang, Frankfurt am Main 1990, pp. 177-191; Mario Ruffini, L’opera di Luigi Dallapiccola. Catalogo ragionato, Ed. Suvini Zerboni, Milano 2002.

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19 LA METAFORA DEL “CADERE” CHIAVE ERMENEUTICA DEL LIBRO DEL SIRACIDE [2004]

INTRODUZIONE Lo studio delle metafore ci serve a capire non solo lo stile, ma anche il pensiero di un autore. Se, come nel caso del Siracide o Ben Sira, più che per qualunque altro libro della Bibbia Ebraica, abbiamo a che fare con un autore dall’identità ben definita, lo studio sistematico di una metafora che attraversa tutta la sua opera, ci aiuta a scandagliare l’indole della sua personalità e la particolare sensibilità di cui è intriso il suo pensiero. L’azione del “cadere” indica prima di tutto un fatto fisico, che può riguardare le cose o le persone. Ma quando l’idea del cadere si usa in senso traslato o come metafora, noi siamo introdotti in maniera concreta nel mondo ideale ed immaginario di un autore e ai presupposti del suo linguaggio. Il cadere inteso in senso metaforico ci rimanda al modo come è percepita la realtà che ci circonda, al senso della mobilità di tutte le cose e alla loro possibile instabilità, un dato basilare dell’esperienza che ha l’uomo di se stesso e del mondo in cui vive. I concetti che si possono riferire all’area semantica del “cadere” sono diversi e comprendono vari aspetti come: scivolare, inciampare, vacillare, tremare, cadere; mettere una trappola, ordire un’insidia o cadere in un tranello; e ancora, in senso contrario, trovare appoggio o sostegno. Per reperire i passi attinenti a questa area semantica partiamo dal testo greco che è il più completo e scegliamo come griglia di partenza tredici vocaboli che si rifanno a cinque diverse radici; essi vengono qui di seguito indicati con l’aggiunta di una traduzione generica e convenzionale: 1) pivptw “cadere” (11x), ptw`siõ “caduta” (12x); ejmpivptw “cadere in” (9x), prospivptw “cadere contro” (1x); ajntivptwma “ciò che fa cadere” (2x); 2) proskovptw “inciampare” (4x), provskomma “ostacolo, inciampo” (5x), ajprovskopoõ “senza ostacoli” (1x); 3) ojlisqavnw “scivolare” (7x), ojlivsqhma “scivolone” (1x);

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4) skandalivzw “insidiare, far cadere” (3x), skavndalon “insidia” (2x); 5) ptaivw “trovare intoppo” (2x). Per risultare più completa, l’indagine deve tenere pure conto della nomenclatura ebraica per raggiungere anche quei passi nei quali il traduttore non utilizza i vocaboli greci sopra indicati. Si tratta di lpn “cadere”, lvk e lqt “inciampare”, fwm “vacillare”, vqy “insidiare”, v[r “tremare”, con i loro corradicali, dei sostantivi jp “laccio”, tvr “rete”, hdwxm “trappola”, degli antonimi ÷[v “appoggiarsi” e ÷[vm “appoggio”. Attraverso tutti questi termini, sia greci che ebraici, abbiamo messo insieme settantotto passi del libro del Siracide che saranno l’oggetto della nostra analisi. In linea generale si deve precisare fin dall’inizio che il “cadere” presenta un doppio aspetto, che si può riassumere in questi nostri due modi di dire: cadere in errore e cadere in disgrazia. Nel “cadere in errore”, o in un comportamento comunque disdicevole e sconsigliato, si sottolinea un’azione di cui l’uomo è responsabile in senso attivo. Invece, nel “cadere in disgrazia” si sottolinea una situazione spiacevole che l’uomo subisce in senso passivo, e che, senza volerlo, gli cade addosso. Nel pensiero sapienziale tradizionale, e in Ben Sira in modo speciale, si ritiene che il male che l’uomo subisce è conseguenza di un male da lui prima compiuto. Perciò il cadere in disgrazia è l’effetto del cadere in errore1. L’uomo è la causa delle sue disgrazie e della sua sfortuna, come anche del suo benessere e della sua tranquillità. Ma dato il carattere sentenzioso delle affermazioni del Siracide, non risulta immediatamente chiaro se il “cadere” riguarda l’azione errata in se stessa o le conseguenze che se ne devono subire. Nella nostra esposizione di base procediamo secondo un ordine tematico che di fatto ci offre un campionario significativo dei contenuti del libro del Siracide, nel quale si affrontano i più diversi aspetti della vita e della corrispondente condotta morale. I passi reperiti attraverso la schedatura dei vocaboli greci ed ebraici che abbiamo indicato si possono raggruppare secondo questi ambiti tematici: 1) lingua, 2) donna, 3) nemici, 4) ricchi e poveri, 5) vizi e virtù, 6) comportamento a tavola, 7) Dio 1 È questo il noto principio del nesso che gli antichi intravedono tra l’azione e la sua conseguenza (Der Tun-Ergehen- Zusammenhang), illustrato con molta finezza da von Rad, Weisheit, 165-181 (“Ursachen und Wirkungen”), il quale sottolinea pure come i saggi, nonostante lo schematismo di questo concetto, avevano coscienza della polisignificanza (Mehrdeutigkeit, 165) dei fenomeni.

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e la triade teologica sapienza, legge e timore di Dio. Accenniamo quindi all’uso idiomatico e non metaforico del verbo “cadere” (8). Infine, consideriamo i casi in cui G introduce la metafora a motivo di una presumibile idiosincrasia per quanto detto da H (9). Dopo un consuntivo tabellare (10), proporremo in conclusione un’ipotesi di interpretazione globale del pensiero di Ben Sira (11).

1. LA LINGUA Sono quattordici i passi2 che vertono sul tema della lingua, specialmente sul suo abuso. Li passiamo in rassegna iniziando da questa appassionata domanda con cui si apre la “Preghiera per la disciplina delle passioni” contenuta in 22,27-23,6: [1]3 “Chi porrà una custodia sulla mia lingua/ e sulle mie labbra un sigillo adatto a tutte le necessità (panou`rgon), perché non cada (pivptw) a causa loro e la mia lingua non mi mandi in rovina? (ajpovllumi)” (22,27 G). Ben Sira è cosciente della diffusione di questo grave difetto, perché osserva: [2] “Molti sono caduti (pivptw) col taglio della spada, ma non come (quanti che) sono caduti (pivptw) per opera della lingua” (28,18 G). Il cattivo uso della lingua intacca profondamente la onorabilità dell’uomo nella società: [3] “Gloria e disonore (sono) in mano di chi parla, e la lingua dell’uomo (è ciò che) lo fa cadere (hlpm4)” (5,13 H) – “Gloria e disonore nel (modo di) parlare, e la lingua dell’uomo (è) per lui (causa di) caduta (ptw`siõ)” (5,13 G). Il disordine nell’uso della lingua è tanto grave che si mette in diretto rapporto con l’abbandono del Signore. Qui si usa il composto ejmpivptw con eijõ, nel senso che il “cadere sulla” lingua ne rovina il buon uso quasi schiacciandola; ne segue una specie di contrappasso, perché essa brucia il responsabile, in quanto lo distrugge socialmente: [4] “Quelli che abbandonano il Signore cadranno (ejmpivptw) su (eijõ) di essa (= la lingua: ), ed (essa) li brucerà e non si spegnerà” (28,23 G). Secondo la logica dell’immagine, quando troviamo i due concetti in coppia, la caduta è preceduta dallo “scivolone”, sempre nello stesso ordine: 2 Il testo ebraico (= H) e quello della versione greca (= G) vengono riportati rispettivamente secondo le edizioni di Ben – Hayyim, The Book of Ben Sira, e di Ziegler, Sapientia Iesu Filii Sirach. 3 Il numero tra parentesi quadre, posto all’inizio dei passi analizzati, indica l’ordine progressivo in cui essi sono proposti nel nostro studio. 4 Mantenendo wtlpm (Ms A) contro wfylpm “lo salva” (Ms C).

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[5] “Lo scivolone (ojlivsqhma)(provocato) dal terreno (è) preferibile a quello (provocato) dalla lingua, così la caduta (ptw`siõ) dei cattivi verrà in fretta” (20,18 G); [6] “Bada a non scivolare (ojlisqavnw) con essa (= lingua), per non cadere (pivptw) davanti a chi muove un agguato” (28,26 G). Ma lo scivolare può essere evocato da solo e in questo caso si vuole attenuare la gravità di un comportamento comunque riprovevole: [7] “C’è chi scivola (ojlisqavnw) ma non (mosso) dall’animo, e chi è che non ha peccato con la sua lingua?” (19,16 G); [8] “Si riconosce da lontano chi è presuntuoso (dunatovõ) con la lingua, ma chi riflette è cosciente di (poter) scivolare (ojlisqavnw)” (21,7 G); [9] “Beato chi abita con una moglie comprensiva e che non è scivolato (ojlisqavnw) con la lingua” (25,8 G). L’uso incauto della lingua risulta particolarmente rischioso di fronte ai nemici, o a coloro che comunque sono persone non affidabili: [10] “Così non si moltiplicheranno i miei errori e non s’accresceranno i miei peccati, non cadrò (pivptw) dinanzi ai miei oppositori e non si rallegrerà di me il mio nemico” (23,3 G); [11] “Il peccatore resterà impigliato con le sue labbra e in esse troveranno un’insidia (skandalivzw, pass.) l’invidioso e il superbo” (23,8 G); [12] “Davanti ai tuoi occhi addolcirà la sua bocca e mostrerà meraviglia per le tue parole, ma dopo modificherà la sua bocca e troverà un’insidia (skavndalon) nelle tue (stesse) parole” per ritorcerle contro di te (27,23 G). L’ammonizione [13] “Non litigare con un uomo grande, per non cadere (lpn5) nella sua mano (= in suo potere)” (8,1 H) viene specificata nella traduzione ricorrendo al verbo composto: “Non litigare con un uomo potente per non cadere (a picco) nelle (ejmpivptw eijõ) sue mani” (8,1 G). Il caso più innovativo per G, l’abbiamo in connessione con la tristezza: [14] “Beato l’uomo la cui bocca non gli ha dato (motivo di) tristezza (wbx), e non ‘ha portato’ su di lui ‘afflizione’6 il suo cuore” (14,1 H) – “Beato l’uomo che non è scivolato (ojlisqavnw) con la sua bocca e che non è afflitto dalla pena del peccato (aJmartiva)” (14,1 G). Nei quattordici passi esaminati abbiamo incontrato questi cinque termini della griglia di partenza: ojlisqavnw (6x), pivptw (5x), ptw`siõ (2x), ejmpivptw (2x), skandalivzw (1x), skavndalon (1x). Ma la somma delle loro occorrenze è di diciassette, perché un termine vi si può incontrare più di una sola volta. Nei passi che si hanno in ebraico si incontra due volte la radice lpn, tradotta per il sost. hlpm con ptw`siõ (5,13)[3], e per la forma verbale con 5 6

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Si preferisce lwpt a bwvt “tornare” riportato nel duplicato dello stesso Ms A. Si corregge hba in abh e ÷yd in ÷wd (Skehan – Di Lella, 252).


ejmpivptw (8,1)[13]. G evita la ripetizione dello stesso concetto, ricorrendo la prima volta alla nostra metafora con ojlisqavnw, e poi aggiunge la nozione

del peccato, accentuando così il valore parenetico della sentenza. Come qui, anche in tutti gli altri casi il “cadere” riguarda l’azione stessa del cattivo uso della lingua, non la sua conseguenza. Nove dei quattordici passi considerati ricorrono all’interno delle unità letterarie dedicate al tema della lingua: “Il buon uso della lingua” (5,9-6,1), “Cautela nella lingua” (19,4-17), “Il parlare intempestivo e bugiardo” (20,18-26), “La disciplina della lingua” (23,7-15), “Il parlare falso” (27,22-29), “Errori nel parlare” (28,8-26)7.

2. LA DONNA Più volte Ben Sira ritorna sul tema della donna, considerata sotto vari aspetti, ma sempre dal punto di vista dell’ambiente tipicamente maschile della sua scuola. I sei passi nei quali ricorre la metafora del “cadere” si trovano nell’ambito delle unità che riguardano le “Donne pericolose” (9,19), “La moglie perfida” (25,13-26) e “La scelta della moglie” (36,26-31). Il tema tradizionale della donna “straniera” (Pr 2,16; 5,3.20; 7,5; 22,14; 23,27) è ripreso da Ben Sira nella genericità di questa denominazione, la quale può essere interpretata come riferita alla donna che non è la propria moglie, ed è perciò “estranea”, o alla donna che si prostituisce e che può essere pure etnicamente straniera; a questa seconda figura si avvicina di più la “etera”8 che incontriamo nella specificazione data da G: [15] “Non avvicinarti a una donna straniera (hrz hva), per non cadere (lpn) nelle sue trappole (hdwxm)” (9,3 H)9 – “Non avvicinare una donna cortigiana (eJtairivzomai)10, per non cadere (ejmpivptw) nei suoi lacci (pagivõ)” (9,3 G). Ma anche la normale ragazza vergine suscita in Ben Sira una messa in guardia per i suoi allievi: [16] “Non pensare troppo ad una vergine, perché non resti intrappolato (cqy Ni) nelle multe per lei” (9,5 H) – “Non stare ad osservare una vergine, per 7 I titoli e le divisioni delle pericopi, come pure, con qualche ritocco letterale, la traduzione italiana di G, sono ripresi da A. Minissale, Siracide (Ecclesiastico). 8 Il sostantivo fem. eJtaivra viene tradotto da La Magna – Annatore “amica, compagna; amante, etéra, cortigiana” (503). 9 Così con il primo distico del duplicato del Ms A. 10 LEH traduce questo verbo con to be a courtesan (183); Wagner rileva che esso è “sicuramente meno sospetto e più delicato” (der unverfänglichere und feinere Ausdruck, 207) di quanto non sia porneuvw, il cui corradicale povrnh “prostituta” si usa poco dopo nel v. 6.

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non essere intrappolato (skandalivzw, pass.) nelle multe per lei” (9,5 G). Viene quindi presa in considerazione anche la donna sposata, di fronte alla quale si deve essere coscienti delle conseguenze tragiche che possono derivare da un momento di ebbrezza (vino: v. 9b) che fa perdere il controllo di sé: [17] “… per non far dirigere (hfn Hi) verso di lei il cuore e tu ti debba (poi) dirigere (hfn Q) nel sangue alla fossa (tjv)” (9,9cd H) – “… perché la tua anima non si pieghi (ejkklivnw) verso di lei e tu scivoli (ojlisqavnw) col tuo sangue nella perdizione” (9,9cd G); qui è G che introduce la nostra metafora, evitando così la ripetizione dello stesso verbo che si ha in H. In realtà, al saggio maestro preme sottolineare non tanto l’eventuale malizia della donna, quanto la responsabilità dell’uomo: [18] “Non cadere (lpn) davanti alla bellezza di una donna e non desiderare quanto possiede” (25,21 H)11 – “Non cadere (sbattendo) (prospivptw) davanti alla bellezza di una donna e non desiderare una donna” (25,21 G); questo ammonimento viene accentuato da G con l’uso del verbo composto12 e in più con la ripetuta menzione della “donna” che in questo modo viene meglio focalizzata, lasciando da parte “quanto possiede” e accentuando così la sua pericolosità. Nella seconda pericope dedicata alla donna, si constata unilateralmente la sfortuna di un uomo che vive in una situazione matrimoniale che non lo rende felice: [19] “Afflosciamento delle mani e causa d’inciampo (÷wlvk) per le ginocchia la moglie che non rende felice suo marito” (25,23 H); G semplifica interpretando la metafora: “Mani paralizzate e ginocchia disciolte (paraluvw) (provoca) colei che non rende felice suo marito” (25,23 G). Ma alla fine, nell’ambito della pericope 36,26-31 si esalta l’importanza di una scelta riuscita della moglie, perché con essa il marito non sperimenta la caduta, ma il suo opposto, il “sostegno” che premunisce dalla caduta: [20] “Chi acquista una moglie (è al) sommo di un (buon) acquisto; (essa è) ‘aiuto’13 e fortificazione e colonna di sostegno (÷[vm)” (36,29 H) – “Chi acquista una moglie comincia (l’accumulo) della sua proprietà: (ha) un aiuto (che sta) presso di lui14 e una colonna (su cui avere) riposo (ajnavpausiõ)” (36,29 G: si accentua così l’aspetto positivo). 11

Testo lacunoso nel Ms A, così ricostruito da Lévi, Segal, e Vattioni. Questa è l’unica volta che prospivptw ricorre in Sir. 13 Con Ms B (rz[), contro Bm e Ms C (ry[). 14 un aiuto (che sta) presso di lui: la traduzione con bohqon kat ’ auton è influenzata da Gen 2,18 LXX che interpreta così l’ebraico wdgnk rz[ “un aiuto (che sia) come di fronte a lui, come il suo di fronte”. 12

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Nei sei passi considerati, tutti presenti in H e G, si deve notare la doppia specificazione apportata da G che traduce con ejmpivptw per la caduta nelle trappole tese dalla donna straniera (9,3) e con il più forte prospivptw per la suggestione che una vergine bella può esercitare nell’uomo che vi si “imbatte” (25,21). Incontriamo due nuovi verbi relativi all’area semantica del “cadere”, vqy (skandalivzw) e hfn (ojlisqavnw), ed ancora i due sostantivi antonimi ÷wlvk (25,23) e ÷[vm (25,29). Questa volta, a differenza di quanto abbiamo osservato nella tematica della “lingua”, la metafora del “cadere” indica più direttamente la conseguenza di un errore commesso con la lingua, eccetto il caso del “cadere” in quanto si resta impressionati dalla bellezza di una vergine (25,21).

3. I NEMICI Le relazioni sociali sono pervase in Ben Sira da un atteggiamento tanto cauto che giunge facilmente ad essere sospettoso. Abbiamo già visto come è questo l’atteggiamento con cui lui affronta, mosso da preoccupazioni pedagogiche rivolte ai maschi, il discorso sulla donna; ora lo ritroviamo pure nella variegata casistica che nasce dai rapporti con tutti gli altri. Perciò i dieci passi che li riguardano possono essere accomunati sotto l’etichetta dei “nemici”. Mentre Ben Sira crede da un lato all’importanza dell’amicizia, si mostra dall’altro molto preoccupato dei rischi che essa comporta15. Perciò occorre rendersi conto in tempo dei falsi amici, per non fidarsi ingenuamente di loro: [21] “Fino al tempo che ‘tu’ starai in piedi, lui non si fa vedere, ma se ‘tu’ vacilli (fwm) lui non resiste” (12,15 H)16 – “Resterà (pure) un’ora con te, ma se tu vacilli (ejkklivnw), lui non resiste” (12,15 G). Al contrario, il vero amico sa essere di valido aiuto nel momento del bisogno: [22] “Con il cui cuore (c’è quanto è) come il tuo cuore e se inciampi (lvk) ‘si dispiacerà con te’17” (37,12cd H) – “Che nella sua anima (è) come la tua anima e se inciampi (ptaivw) si dispiacerà con te” (37,12cd G).

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J. Corley, Ben Sira’s Teaching on Friedschip, spec. 45-50, 214-217. Con il secondo distico del Ms A, ma correggendo dm[ in dm[t e fwmn in fwmt (Skehan – Di Lella, 245). 17 Variante ûb rk[y (Bm), contro ûyla [ygy “si avvicinerà a te” (Ms B). 16

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Di fronte ai nemici personali Ben Sira si augura di poterli vedere caduti in disgrazia: [23] “Nove cose penso felici nel (mio) cuore, e la decima la dirò con la lingua: un uomo rallegrato dai figli che vive fino a vedere la caduta (ptw`siõ) dei propri nemici” (25,7 G). Nell’appendice finale il saggio autore innalza un canto di ringraziamento al Signore per essere sfuggito addirittura ad un pericolo mortale: [24] “Mi hai aiutato secondo l’abbondanza della tua misericordia (per liberarmi) dalla trappola (vqwm) di quanti stanno in agguato sulla rupe ([ls)18 e dalla mano di quelli che attentano alla mia vita, dalle molte tribolazioni mi hai salvato” (51,3 H) – “Sei stato il mio aiuto e mi hai salvato, secondo l’abbondanza della tua misericordia e (la grandezza) del tuo nome, dai lacci (brovcoõ) preparati per (rendermi loro) pasto (brw`ma), dalla mano di quanti insidiavano alla mia vita, dalle molte tribolazioni che ho avuto” (51,3 G). I propri nemici sono qualificati come “empi” e per essi si attende volentieri un tipo di sventura analoga a quella che immeritatamente aveva colpito i pii, provocando nei primi una soddisfazione che manifestava la loro cattiveria: [25] “Quelli che godono per la caduta (ptw`siõ) dei pii saranno presi nel laccio (pagivõ) e il dolore li consumerà prima della loro morte” (27,29 G). In quest’ottica si inquadra bene quanto si dice nella seguente sentenza che manca in G: [26] “Se inciapate (lvk), (è) per una gioia durevole e se morite (è) per la maledizione” (41,9 H). Poco prima, dopo aver riconosciuto le benemerenze del medico e della sua arte, Ben Sira non riesce a trattenere il risentimento che lo oppone al “peccatore”, al quale augura di dovervi ricorrere, s’intende perché colpito da una meritata malattia: [27] “Colui che pecca davanti al suo Fattore ‘sia consegnato nelle mani’19 del medico” (38,15 H); G esplicita nel suo consueto linguaggio: “Colui che pecca davanti a Chi l’ha fatto cada nelle (ejmpivptw eijõ) mani del medico” (38,15 G). Infine, le relazioni con gli altri sono viste anche nella loro proiezione politica, dove è importante saper mantenere la propria indipendenza e distanza di fronte ai poteri superiori: [28] “Non chiedere di diventare governatore (lvwm) se non hai la forza di far cessare l’insolenza, perché non abbia

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Segal, 354. Con Bm (ydy l[ rgwtsy) seguito da Smend, 342, e Peters, 314, contro ynpl rbgty (Ms B), preferito da Skehan – Di Lella, 443. 19

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timore di fronte a un potente (bydn) e venga (così) inferto un colpo ([xb)20 alla tua integrità” (7,6cd H); G interpreta: “Non cercare di diventare giudice (krithvõ) se non hai la forza di estirpare le ingiustizie, perché non ti mostri timido di fronte a un potente (dunavsthõ) e ponga un’insidia (skavndalon) sulla (via della) tua integrità” (7,6cd G). Ma occorre scansare pure una sentenza a proprio danno: [29] “Sta’ lontano da chi ha il potere di uccidere e (così) non incorrerai nelle paure della morte, e se ti sei avvicinato non incorrere in una colpa, perché lui non si prenda il tuo respiro: sappi che procedi tra lacci (jp) e che passeggi sopra una rete (tvr)” (9,13 H); G cambia la seconda metafora, passando dalla “rete” che fa cadere ai “bastioni” dai quali si può cadere: “sappi che procedi in mezzo a lacci (pagivõ) e che passeggi sui bastioni (e[palxiõ) della città” (9,13 G). Ma bisogna ugualmente mantenere secondo G l’indipendenza della propria coscienza di fronte ad una facile tentazione di tipo populista: [30] “Non sbagliare contro la moltitudine della città e non far cadere (katabavllw) te stesso (troppo) a favore del popolo” (7,7 G); in H si aveva un atteggiamento più neutrale: “Non renderti empio nella riunione della porta ‘’21 e non far cadere te stesso (lpn Hi) (sbagliando) nell’assemblea” (7,7 H). I termini nuovi inclusi nella tematica del “cadere” si riferiscono agli strumenti che fanno cadere: jp (pagivõ) e tvr (trasformato in G in ejpavlxeiõ povlewõ), entrambi in 9,13[29]. Data la natura esterna del pericolo, nei passi qui considerati a proposito dei “nemici” la metafora del “cadere” si riferisce al “cadere in disgrazia” come conseguenza di un errore precedente.

4. RICCHI E POVERI Sebbene Ben Sira goda di una posizione sociale prestigiosa che comporta una stretta collaborazione con le classi benestanti della Gerusalemme del suo tempo22, egli è critico verso i ricchi e si mostra sensi20 Qui [xb non è usato nel senso ordinario di “ingiusto guadagno” ma come equivalente di [xp “colpo, ferite, infamia”; così Elwolde, 31, e già Lévi, 78 (fault, blemish, discredit). 21 Si legge r[v invece di la yr[v, ampliamento dovuto ad una dittografia con il seguente law (Skehan – Di Lella, 198). 22 Ciò è più volte sottolineato, ma in senso critico, da Wishmeyer, Die Kultur: “Così, il principale interesse del Sracide è a favore delle classi alte della società. Da qui si reclutano i suoi allievi. Qui egli stesso è ben ambientato” (Dabei gilt Sirachs Hautinteresse den

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bile nei confronti della dignità e del disagio dei poveri. Da questo punto di vista sono cinque i passi che si possono ora esaminare, ugualmente attestati in H e G. Quando si è invitati a pranzo da un ricco bisogna evitare di prendersi troppa confidenza con lui e nello stesso tempo si deve agire in modo da essere rispettati: [31] “Non avvicinarti (brq Htp) (troppo) per non essere allontanato e non allontanarti (troppo) per non essere odiato (anct)” (13,10 H); G precisa: “Non cadere (buttandoti dentro) (ejmpivptw) per non essere respinto, non stare lontano per non essere dimenticato (ejpilanqavnw) (G legge hcnt)” (13,10 G). Il buon senso che caratterizza Ben Sira gli fa osservare con rincrescimento che il ricco, qualora venga a trovarsi in una stato di bisogno, trova facilmente chi l’aiuta, a differenza del povero: [32] “Il ricco (che) ‘vacilla’23 (ufwm) è sostenuto dall’amico, mentre il povero (che) vacilla (fwmn) è rinviato dall’amico all’amico” (13,21 H); G precisa: “Il ricco che è (appena) scosso (saleuvw, pass.) è sostenuto dagli amici, invece il povero che cade (pivptw) è respinto ancor di più dagli amici” (13,21 G: ripete l’espressione precedente “dagli amici”). Il povero, non solo non viene aiutato, ma, con freddo cinismo, si fa di tutto per peggiorare il suo stato di disagio: [33] “Parla il povero: Chi è? Oberschichten. Hierher rekrutieren seine Schüler. Hier ist er selbst beheimatet, 50). Questa collocazione sociale spiega secondo la Wischmeyer l’impostazione conservatrice e poco attuale per il suo tempo dell‘insegnamento di Ben Sira: “La comprensione fondamentalmente conservatrice e aristocratica della società in Ben Sira è fin dal principio evidente” (Das konservativ – aristokratische Grundverständnis der sozialen Welt bei Jesus Sirach ist also von Anfang an deutlich, 52). “Infatti Ben Sira insegnava a figli della classe alta. Solo questi avevano tempo per affrontare l’educazione prolungata e ambiziosa di Ben Sira e potevano permettersi (il costo di) questa formazione” (Denn Sirach unterrichtete Söhne aus der Oberschicht. Nur diese hatten Zeit, sich der langwierigen und ansprchsvollen Erziehung Sirachs auszusetzen und konnten sich diese Bildung leisten, 298). “L’ideale di questa formazione era quello di coltivare nel privato lo spirito, una cosa che, nonostante tutto l’impegno pedagogico di Ben Sira doveva sempre rimanere l’ideale dei più anziani, i quali non potevano o non volevano intraprendere un’azione politica e sarebbero pure stati poco idonei per questo, se teniamo anche conto della loro mentalità modellata in modo unilaterale dalla cultura nazionale d’Israele” (Es war das Bildungsideal der privaten Kultivierung der Seele, das trotz aller pädagogischen Bemühung Sirachs immer das Ideal älterer Männer bleiben mußte, die nicht mehr direkt in das politische Geschehen eingreifen konnten oder wollten und aufgrund ihrer einseitigen Prägung durch die nationale Kultur Israels auch nur sehr begrenzt dazu fähig gewesen wären, 299). 23 Correggendo fwm (Ms A) in fwmn, in parallelo con il seguente fwmn, e ûmsm (Ms a) in ûsmn (= G sthrivzetai).

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– dicono; se inciampa (lqt)24 essi pure lo sbattono a terra (¹dh)” 13,23 H); G in modo equivalente: “Parla il povero e dicono: Chi è costui? Se inciampa (proskoptw) lo spingono ancora a terra (prosanatrevpw)” (13,23 G). Quest’ultimo verbo presenta una bella allitterazione con il precedente proskovptw. Nei confronti del povero, non solo si raccomanda di essere sensibili al suo bisogno, ma si nutre la certezza che il bene a lui fatto troverà una ricompensa, nell’eventualità che il suo benefattore venga a trovarsi a sua volta nel bisogno: “Colui che fa il bene lo incontrerà (poi) nelle sue vie e nel tempo del suo vacillare (ufwm) troverà un sostegno (÷[vm)” (3,31 H); G interpreta: [34] “Chi ricambia i favori (ajntapodidou;õ25 cavritaõ) (ricevuti da Dio, manifestandosi poi generoso con i bisognosi) è ricordato anche dopo e nel tempo della (sua) caduta (ptw`siõ) (nel bisogno) troverà un sostegno (sthvrigma)” (3,31 G). In seguito, si ritorna sullo stesso tema con altre parole: [35] “E la bontà (di un uomo verso il prossimo) non ‘vacillerà’ (ufwm)26 mai e la (sua) giustizia (hqdx) (manifestata nell’aiuto offerto al povero) durerà per sempre” (40,17 H); G interpreta: “La bontà (è) come un giardino (paravdeisoõ: poi anche nel v. 27, con H ÷d[) (ricco) di benedizioni (ejn eujlogivaiõ) e l’elemosina (eJlehmosuvnh) rimarrà per sempre” (40,17 G). Notiamo in conclusione che nei cinque passi considerati la metafora del “cadere”, riferendosi a delle condizioni sociali verificabili, indica il “cadere in sfortuna”.

5. VIZI E VIRTÙ La tradizione sapienziale riguarda la condotta morale, che viene di solito descritta in maniera semplificata contrapponendo le virtù ai vizi, 24 Il verbo lqt, non attestato nell’Antico testamento, proviene dall’aramaico ed è recepiro nella Mishna; così Segal, 86, che lo considera, come Jastrow (A Dictionary, 1691), equivalente all’ebr. lvk. In realtà, esso traduce lvk in Mal 2,8 ma vqy in Dt 7,25; 12,30 (Dalman, Handwörterbuch, 447). lqt è attestato a Qumran (Beentjes, 58) e ricorre in Sir 13,23[33]; 15,12[54]; 32,20[46], mentre in 31,7[53] si ha il corradicale hlqt. 25 Il soggetto sottinteso può essere Dio o l’uomo, come nota Fritzsche, 27, che non conosceva l’ebraico, dal quale è stata confermata la seconda opzione già preferita da questo autore. 26 Con Ms B (fwmy 3a masch.), mentre Ms M ha trkt (fem.) “(non) sarà distrutta”, nonostante che il sogg. dsj sia masch.

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come anche presentando il saggio/giusto in contrasto con lo stolto/empio. Tutto il libro del Siracide in massima parte (1,1-42,14) propone degli insegnamenti che illustrano come comportarsi saggiamente e in armonia con la legge, animati dal timore di Dio, nelle più diverse circostanze della vita. Anche da questo punto di vista la metafora del “cadere” ci offre un piccolo campionario dell’intero libro. Esaminiamo qui undici passi dei quali due soltanto non si trovano in H, ma solo in G (1,22; 1,30). A un livello più intimo, prima ancora che di virtù, si parla di sentimenti, per esempio del sentimento della speranza: [36] “Beato l’uomo il cui desiderio (vpn) non lo lascia insoddisfatto e la cui speranza (tljwt) non è cessata (tbv)” (14,2 H); G interpreta: “Beato colui la cui coscienza (yuchv) non lo rimprovera, e che non è caduto (pivptw) dalla sua speranza” (14,2 G). Questa mancanza di speranza sembra caratterizzare la vecchiaia: [37] “O morte, come è buono il tuo decreto per chi è senza vigore e mancante di forza, un uomo che inciampa (lvk) e sbatte (cqy Ni) su tutto, che si ribella e perde la speranza (hwqt)” (41,2 H) – “O morte, quanto è bello il tuo decreto per chi è bisognoso e indebolito nel vigore, avanzato negli anni (ejscatoghvrwõ) e ansioso (perispavw) in tutto e che è sfiduciato ed ha perso la pazienza (uJpomonhv)” (41,2 G). Oltre alla mancanza della speranza, come condizione psicologica negativa si ricorda pure la tristezza: [38] “Non dare la tua anima alla ‘tristezza’27 e non inciampare (lvk) (assorbito) dalla tua riflessione” (30,21 H); G elimina la metafora perché la interpreta: “Non dare la tua anima alla tristezza e non affliggerti (qlivbw) con la tua riflessione (boulhv)” (30,21 G). Ma ci sono altri atteggiamenti meno scusabili, che sono veri e propri vizi, come la collera e l’orgoglio: [39] “La collera ingiusta non potrà essere giustificata; perciò l’eccesso della collera di uno sarà per lui una caduta (ptw`siõ)” (1,22 G); [40] “Non innalzare te stesso, per non cadere (pivptw) e portarti addosso il disonore” (1,30 G). Questo orgoglio deve essere contrastato con energia anche nell’educazione del figlio: [41] “Educa tuo figlio ed aggrava il suo giogo, perché nella sua stoltezza non si insuperbisca28 contro di te” (30,13 H); G introduce la metafora rendendo in maniera più diretta:

27

Leggendo ÷wd al posto di ÷yd (Ms B) e preferendo ûtx[b (Bm) a ûnw[ “dalla tua colpa”

(Ms B). 28 Leggendo con Bm l[ty (forma sincopata di hl[ty Segal) al posto di [lty (B), giudicato “unintelligible” da Skehan – Di Lella, 375.

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“Educa tuo figlio ed occupati di lui, perché tu non inciampi (proskovptw)29 (cadendo in disgrazia) per la sua depravazione” (30,13 G). Nella specifica prospettiva storica di Ben Sira l’orgoglio assume una particolare connotazione religiosa e culturale nel senso che per esso si può cedere alla seduzione intellettuale dell’ellenismo30: [42] “Perché sono molte le elucubrazioni dei figli dell’uomo e le immaginazioni cattive (li) fanno fuorviare (h[t Hi)” (3,24 H); G interpreta introducendo la metafora: “Molti ha ingannato la loro presunzione e la cattiva illusione ha fatto scivolare (ojlisqavnw) i loro pensieri” (3,24 G). Questa tolleranza benevola e cedevole verso la cultura straniera si rivelerà dannosa verso se stessi: “Non essere benevolo a tuo danno ‘e non essere preso da vergogna per (incorrere) in una tua scivolata’ (lwvkm)31” (4,22 H); G mantiene la metafora accentuandola: [43] “Non essere benevolo a tuo danno e non essere preso da vergogna per (incorrere) in una tua caduta (ptw`siõ)” (4,22 G). Anche nella rievocazione storica del passato affiora la metafora dell’inciampo, come deviazione dalla retta norma religiosa: [44] “Geroboamo … che ha peccato e ha fatto peccare Israele e ha posto (davanti) a Efraim un’inciampo (lwvkm)” (47,23ef); G, interpretando la metafora, la elimina: “… fece peccare Israele e istituì per Israele una via di peccato (oJdo;n aJmartivaõ)”. In connessione con lo zoppicare che in questa caratterizzazione del vecchio può avere una connotazione ironica, si parla pure del pudore: [45] “(Non devi vergognarti…) del castigo per lo sciocco e per lo stolto, e per il vecchio zoppicante (lvk) che si occupa di oscenità (twnz)” (42,8 H); G interpreta: “(della correzione) del vecchio decrepito (ejscatoghvrwõ)32 che gareggia (con i giovani) in fatto di fornicazione (porneiva)” (42,8 G). E infine, in un senso generale, la metafora del “cadere” si adatta bene per raccomandare la cautela, tanto cara a Ben Sira: [46] “Nella via (munita) di trappole (vqwm) non andare e non inciampare (lqt) nello (stesso) ‘ostacolo’33 due volte” (32,20 H); G aggiunge un’altra metafora: “Nella via (munita) di trappola (ajntivptwma) non andare e non inciampare su (terreni) pietrosi (ejn 29

Secondo Segal, 184, il traduttore G avrebbe letto lqt, che ha lo stesso significato. Smend, 31. 31 Preferendo nello stico b ûl lwvkml vwbt law (Ms C) a ûylwvkml lvkt law “e non scivolare per le tue scivolate” (Ms B). 32 Con questo stesso aggettivo composto, esclusivo di Sir, è stato già tradotto lvk in 41,2[37]; cfr. Wagner, 206-207. 33 Preferendo ¹gnb (Ms B) a ûrdb “nella strada” (Ms E) che è una ripetizione (Minissale, Versione greca, 80-81). Questa lezione è preferita pure da Beentjes, 59. 30

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liqwvdesin)”. Come in questo caso, anche negli altri esempi considerati a proposito di “vizi e virtù” si tratta degli atteggiamenti personali che fanno “cadere in errore”.

6. BANCHETTI E PROFITTI Le insidie del vizio si concretizzano in modo speciale nell’abuso del cibo, in particolare del vino, e nell’eccessiva ricerca del profitto. Possiamo illustrare questo tema con sette passi, due dei quali li troviamo solo in G (29,19; 29,20). Trattando della “Moderazione nel mangiare e nel bere” (31,12-30), Ben Sira trova l’occasione per sconsigliare l’ingordigia nel contesto di un banchetto al quale si è stati invitati: [47] “Finisci per primo a motivo dell’educazione, ‘e non essere ingordo per non renderti ripugnante (l[g)’34” (31,17 H); G specifica ricorrendo alla metafora: “Finisci per primo a motivo dell’educazione, e non essere ingordo, per non inciampare (proskovptw)” (31,17 G)”. Questa raccomandazione diventa più insistente per il vino: [48] “Ed anche quanto al vino non fare il forte, perché il mosto ha fatto inciampare (lvk Hi) molti” (31,25 H) – “Col vino non fare il virile, poiché il vino ha rovinato (ajpovllumi) molti” (31,25 G: interpreta); [49] “Mal di testa, amarezza e disonore (è) il vino bevuto nell’irritazione e nell’ira (s[k)” (31,29 H) – “Amarezza dell’anima (è) il molto vino bevuto nell’irritazione e in ciò che fa cadere (ajntivptwma)” (31,29 G: aggiunge la metafora); [50] “L’abbondanza di vino frizzante (è) una trappola (vqwm) per lo stolto, sminuisce la forza e moltiplica la ferita” (31,30 H) – “L’ubriachezza accresce l’ira dello stolto per (fargli da) trappola (provskomma), diminuendo la forza e accrescendo le ferite” (31,30 G). Come è sconveniente la voracità a tavola, così è da biasimare, in un senso più generale, l’avidità con la quale si pretende di ottenere più di quanto spetta nella divisione di una eredità che deve essere condivisa con altri: [51] “Per l’occhio di chi inciampa (lvk)35 è piccola cosa la sua parte, 34

Tenendo conto del duplicato offerto dal v. 16 nel Ms B, come stico del v. 17b in H deve essere scelto quello che corrisponde al v. 16, perché più vicino a G: l[gt ÷p f[t law. Essendo l[g un verbo relativamente raro (Lev 26,11.15. 30. 43. 44; 2Sam 1,21; Ger 14,19; Ez 16,45. 45; Gb 21,10) e in più con un senso indecente, può aver suggerito al traduttore il ricorso a proskovptw. 35 Smend, 132, basandosi su G, vorrebbe leggere come termine ebraico corrispondente a pleonekthõ (vocabolo esclusivo di Sir, cfr. Wagner, 270-271), [xwb, nonostante che

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ma chi prende la parte del suo compagno perde la sua parte” (14,9 H); G interpreta; “L’occhio di chi è avido (pleonevkthõ) non si sazia con la (sua) parte, ma l’iniqua ingiustizia (gli) dissecca l’anima” (14,9 G). Nel vasto campo delle operazioni finanziarie viene dedicata una particolare attenzione ai rischi che corre chi fa garanzia, mosso dall’illusione di un profitto; ma, in ogni caso occorre contemperare la prudenza con la generosità: [52] “Il peccatore cadrà nel (ejmpivptw eijõ) (far) garanzia e chi insegue i profitti cadrà (ejmpivptw) (trascinato) nei tribunali. Preoccupati del prossimo secondo la tua disponibilità, però pensa a te stesso per non cadere(ci) (ejmpivptw)” (29,19-20 G). Infine, Ben Sira mette in guardia contro la brama dell’oro: [53] “Poiché esso è inciampo (hlqt) per lo stolto ed ogni ingenuo vi resterà impigliato (vqy Ni)” (31,7 H) – “È legno d’inciampo (provskomma) per quanti ne sono infatuati ed ogni stolto ne sarà preso (aJlivskw)” (31,7 G). Volendo tentare una precisazione del senso della metafora nei passi esaminati, si può osservare che essa qui si pone a metà strada tra un atteggiamento errato e le sue estreme conseguenze, perché si tratta di azioni che innescano un processo negativo e pericoloso, intravisto nella sua globalità.

7. DIO E IL TIMORE DEL SIGNORE La metafora del “cadere” ricorre in vari modi anche nel discorso più strettamente religioso, giacché l’esperienza umana viene considerata sempre nella luce di Dio. Sono dodici i passi che vi si possono riferire, sette presenti in H e G, cinque solo in G. Per prima cosa, Ben Sira ribadisce che non si deve attribuire a Dio la responsabilità del male, che deriva invece dall’uomo: [54] “Non dire: Egli (= Dio) mi ha fatto inciampare (lqt Hi), perché lui non ha ‘bisogno’36 di uomini violenti (smj)” (15,12 H) – “Non dire: Egli mi ha ingannato (planavw); infatti lui non ha bisogno dell’uomo peccatore (aJmartwloõ)” (15,12 G: prima interpreta e poi generalizza). Invece, riguardo ai pii si afferma che c’è una particolare protezione divina a loro riguardo: [55] “Le vie delle persone integre saranno appianate, così per gli estranei saranno ingombrate (con pietre) (lls Htp)” (39,24 H) – “Le esso in Sir abbia il significato di “calunniatore” e non di “estortore” (vedi sopra, nota 19). Perciò è meglio mantenere lvk (Ms A). 36 Leggendo ûrwx (Ms A), confermato da Bm, contro pj yl “(non è) a me compiacimento” (Ms B).

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sue (= di Dio) vie (sono) diritte per i pii, così (piene di) insidie (provskomma) per gli empi” (39,24 G sostituisce la metafora delle pietre con quella che gli è più abituale). Passando ad una terminologia non inclusa nella nostra griglia di partenza, ricordiamo come invece sul piano della natura, evocando lo scenario delle teofanie, l’azione di Dio è percepita da Ben Sira come più diretta e impressionante: [56] “Persino le estremità dei monti e le fondamenta della terra, quando egli li guarda, tremano (v[r) con tremore” (16,19 H) – “Anche i monti e le fondamenta della terra, quando egli li guarda, si agitano (susseivw) con tremore” (16,19 G). Per quanto riguarda il rapporto personale con Dio, esso può essere riassunto in particolare nel tema del timore del Signore37, che è ciò che esprime nel modo più vitale la fede in lui: [57] “Quanti temete il Signore, attendete la sua misericordia, non allontanatevi, per non cadere (pivptw)” (2,7 G). Subito dopo si usa ancora la metafora con un altro termine per ribadire la certezza della ricompensa divina: [58] “Quanti temete il Signore, confidate in lui, e la sua ricompensa non troverà intoppo (ptaivw)” (2,8 G). Paradossalmente, cadendo nelle mani del Signore, si trova in lui un valido sostegno che preserva dalla caduta: [59] “Cadiamo (buttandoci) nelle (ejmpivptw eijõ) mani del Signore e non nelle mani degli uomini” (2,18 G); [60] “Col timore del Signore non c’è indigenza e con esso non c’è da cercare (altro) sostegno (÷[vm)” (40,26cd H) – “Col timore del Signore non c’è indigenza e con esso non c’è da cercare (altro) aiuto (bohvqeia)” (40,26cd G: interpreta la metafora). Questa idea viene condensata ancora meglio così: [61] “Gli occhi del Signore (sono) su quelli che lo amano: (egli è) difesa di (forte) potenza e sostegno (sthvrigma) di (grande) forza, riparo dal calore e ombra dal (sole di) mezzogiorno, custodia dall’inciampo (provskomma) e aiuto dalla caduta (ptw`siõ)” (34,19a-d G). Ma anche sulla via del ritorno al Signore si può richiamare un aspetto della nostra metafora: [62] “Torna al Signore e abbandona i peccati, prega alla (sua) presenza e diminuisci l’ostacolo (provskomma)” (17,25 G). Le modalità del rapporto con Dio si proiettano per analogia nel rapporto che il discepolo d\\e instaurare con la sapienza: [63] “Ed egli si u ÷[v Ni / G sthrivzw, pass.)u su di lei e non vacillerà (H u fu wm / G appoggerà (H klivnwu), e in lei confiderà e non sarà deluso” (15,4 HG). Nel rapporto con la legge si evidenziano due opposti atteggiamenti: [64] “Chi odia la legge non

37

262

Haspecker, Gottesfurcht, spec. 337-339.


diventa saggio, ma viene sbattuto (fu wm Htp) ‘come nave dalla tempesta’38” (33,2 H) – “L’uomo saggio non odia la legge, ma chi finge con essa (è) come nave in tempesta” (G interpreta); [65] “Chi scruta la legge ne trarrà (conoscenza), ma chi è folle (hlhl Htp) vi resta intrappolato (vqy Ni)”(32,15 H) – “Chi scruta la legge ne sarà ripieno, ma chi finge (uJpokrivnomai) ne sarà intrappolato (skandalivzw, pass.)” (G). Mentre mantiene la metafora, G interpreta il primo verbo, molto raro, con un vocabolo più comune.

8. USO IDIOMATICO E USO NON METAFORICO La metafora del “cadere” la si incontra anche in alcune espressioni idiomatiche che di per sé hanno lo stesso significato in H e G. Prima di tutto questo verbo viene usato in riferimento alla “sorte”, perché così si evoca la procedura del sorteggio con il quale, facendo cadere qualcosa equivalente ai dadi, si assegnava ad ognuno la propria parte: [66] “Poco male è come il male di una donna: la sorte del peccatore cadrà (lpn/ejpipivptw) su di essa” (25,19 H-G), nel senso che lui la sceglierà, ingannandosi a proprio danno, come moglie. Altrove si osserva che non è saggio fidarsi di qualsiasi consigliere che può cercare il vantaggio proprio e non quello di colui che chiede consiglio: [67] “Poiché anche lui penserà a se stesso (chiedendosi): perché questo deve cadere (a vantaggio) per lui?” (37,8cd H) – “Infatti anche egli consiglierà a suo favore, perché non getti (bavllw) la sorte (klh`roõ) a tuo favore” (37,8cd G: cambia il verbo perché aggiunge il complemento “sorte”). La metafora si usa ancora in rapporto all’impegno che si prende facendo una promessa, nella logica dell’immagine che considera la sua realizzazione come un “farla sorgere” (qûm, Hi) e il suo non mantenimento con il movimento opposto: [68] “Dio non ha rinnegato la sua misericordia e non ha fatto cadere (lpn Hi ) a terra (hxra) (nessuna) delle sue parole” (47,22 H) – “Il Signore non ha rinnegato la sua misericordia e non ha rovinato (diafqeivrw) (nulla) dalle sue parole” (47,22 G: interpreta). Un ultimo uso idiomatico del “cadere” si riferisce al morire: [69] “Un accenno di malattia fa rasserenare il medico: (uno è) oggi re, e domani cadrà (lpn) (morto)” (10,10 H); G interpreta: “Una grave malattia irride il medico: e (uno è) oggi re, e domani morirà (teleutavw)” (10,10 G). 38

La lacuna finale del Ms B viene restaurata facendovi confluire le lezioni di Bm e del Ms E, corrette secondo G: h/yna hr[smk.

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Solo per indicare il rito della prostrazione, il “cadere” è inteso in senso non metaforico nella descrizione finale della solenne liturgia del tempio: [70] “Tutte (le persone di) carne insieme si affrettavano e cadevano (lpn) sulle loro facce a terra (hxra)” (50,17 H) – “Allora tutto il popolo si affrettava e cadeva (pivptw) sulla faccia (propria) sopra la terra (ejpi; th;n gh`n)” (50,17 G); [71] “(Tutti) riprendevano a cadere (lpn) per la seconda volta ‘per ricevere la benedizione’39 dal suo (= di Dio) cospetto” (50,21 H) – “(L’assemblea) ripeteva la prostrazione (proskuvnhsiõ) per ricevere la benedizione dall’Altissimo” (50,21 G: interpreta ricorrendo ad un termine tecnico).

9. IDIOSINCRASIE DEL TRADUTTORE G Dopo aver passato in rassegna tutti i casi in cui ricorre la metafora del “cadere” in H e/o G, rimangono da considerare ad un titolo tutto speciale sei passi nei quali sembra che il traduttore G abbia trasformato intenzionalmente il testo a motivo di un disagio temperamentale o culturale che gli fa evitare i riferimenti alla violenza e alla nudità. a. La violenza La metafora del “cadere” è uno stratagemma di comodo a cui ricorre il traduttore per evitare l’impaccio della traduzione letterale. Quando la Sapienza minaccia: [72] “Se lui si allontana, io l’abbandonerò e lo consegnerò agli aggressori (µyddvl)” (4,19 H), G modifica l’espressione violenta ed evita il discorso diretto: “Se lui si allontana, essa l’abbandonerà e lo consegnerà nelle mani della sua caduta (ptw`siõ)” (4,19 G); [73] “Sta’ attento e sii cauto, e non camminare con gli uomini violenti (smj yvna)” (13,13 H); questa qualifica si riferisce alla pericolosità dei rapporti intessuti con i ricchi, e G la modifica sostituendola meccanicamente con un’espressione innaturale e piuttosto goffa: “Sta’ attento e sii molto cauto, perché passeggi con la tua caduta (ptw`siõ)” (13,13 G), cioè correndo il rischio di cadere come vittima della loro cattiveria. [74] “Nella via non sentirti sicuro dalla rapina (¹tjm), ma fai attenzione nei tuoi sentieri (Jytjra)” (32,21 H); qui G non solo evita l’idea violenta della rapina, ma cambia pure il termine chiave del secondo 39

554.

264

Testo supplito da G nella lacuna del Ms B, secondo Skehan – Di Lella, 547. 548.


stico: “Non fidarti di una via che sembra senza trappola (ajprovskopoõ), ma guardati pure dai tuoi figli (ajpo; tw`n tevknwn sou)” (32,21 G); sembra che “figli” sia frutto di una diversa lettura per il passaggio da Jytjra a Jtyrja (lett. “la tua posterità”). I lavori intrapresi sotto il governo del sommo sacerdote Simone per rendere più sicura Gerusalemme avevano una doppia finalità: [75] “Egli si preoccupava (di proteggere) il suo popolo dal predone (¹tjm) e fortificava la sua città (per la difesa) dal nemico (rxm)” (50,4 H); G elimina ancora una volta il riferimento all’immagine violenta dei predoni, che per di più poteva sembrare irriverente verso Gerusalemme, e preferisce parlare della capitolazione della città di fronte all’assalto esterno dei nemici: “Egli si preoccupava del suo popolo (per proteggerlo) dalla caduta (ptw`siõ) e fortificava la città con un recinto urbano (ejn poliorkhvsei)” (50,4 G). b. Nudità ed erotismo Il traduttore mostra un carattere piuttosto puritano e ricorre alla metafora preferita, per ben due volte, con lo scopo di evitare l’allusione alla nudità: [76] “Come uccello (predatore) nella gabbia (è) il cuore del superbo; e come un esploratore (lgrmkw) vedrà la nudità (hwr[)” (11,30 H), qualora venga introdotto ingenuamente nell’intimità della casa; G ha inteso il vocabolo nel senso della nudità fisica, invece esso indica metaforicamente i disagi della famiglia che non appaiono all’esterno e che devono restare nascosti, e perciò ricorre alla metafora della caduta, intesa ora in senso militare; da qui deriva pure l’immagine nuova della sentinella: “Pernice adescatrice nella gabbia, così (è) il cuore del superbo; e come sentinella (kai; wJõ oJ katavskopoõ) vede dall’alto la caduta (ptw`siõ)” (11,30 G). Anche nel secondo caso la nudità viene evitata perché non è compresa in senso metaforico, ma in senso fisico: [77] “Chi fa ciò non arricchirà, e chi disprezza le piccole (perdite) sarà spogliato completamente (r[r[ Htp) (di ciò che possiede)” (19,1 H); G modifica: “Il lavoratore che s’ubriaca non arricchirà, e chi disprezza le piccole (perdite) in poco (tempo) cadrà (pivptw) (in rovina)” (19,1 G). L’ultimo caso è più vago, perché parla sì della passione, quella dell’orgoglio che porta alla maldicenza, ma G pensa alla passione in senso erotico: [78] “Non cadere (lpn) in potere della tua passione (vpn) in modo che (essa) faccia crescere (hb[tw)40 la tua energia (arrogante) su di te” 40

hb[ ricorre solo in Dt 32,15; 1Re 12,10/1Cr 10,10. Qui si ha un Pi causativo (Joüon,

52d).

265


(6,2); in G si abbandona la metafora del “cadere” e si introduce quella del toro: si determina così una differenza a cui si aggiunge un curioso costrutto: “Non innalzare (ejpaivrw) te stesso nell’opinione che hai (di te) nel tuo animo, affinché non venga abbattuta la tua forza come (quella di) un toro (i[na mh; diarpagh`/ wJõ tau`roõ hJ ijscuvõ sou)” (6,2 G)41.

10. CONSUNTIVO TABELLARE Riprendendo i vocaboli greci della nostra griglia di partenza, possiamo ora includervi, dove occorrono, le equivalenze del testo ebraico; all’indicazione del passo si aggiunge, tra parentesi quadre, il numero progressivo della nostra esposizione. a) A partire dal testo greco: 1) pivptw (11x): 1,30[40]; 2,7[57]; 13,21[32](fwm); 14,2[36] (tbv); 19,1[77](r[r[); 22,27 [1]; 23,3[10]; 28,18 [2].26[6]; 50,17[70] (lpn); ptw`siõ (12x): 1,22[39]; 3,31[34](fwm); 4,19[72] (µyddv).22[43] (lwvkm); 5,13 [3] (hlpm); 11,30[76] (hwr[); 13,13[73] (smj yvna); 20,18 [5]; 25,7[23]; 27,29[25]; 34,19[61]; 50,4[75] (¹tj); ejmpivptw (9x): 2,18[59]; 8,1[13] (lpn); 9,3 [15](lpn); 13,10[31] (brq); 28,23 [4]; 29,19-20[52]; 38,15[27] (rgs); ejpipivptw (1x): 25,19[66] (lpn); prospivptw (1x): 25,21[18] (lpn); ajntivptwma (2x): 31,29[49] (s[k); 32,20[46] (vqwm); 2) proskovptw (4x): 13,23[33] (lqt); 30,13[41] (hl[); 31,17 [47](l[g); 32,20[46] (lqt); provskomma (5x): 17,25[62]; 31,7[53] (hlqt). 30[50] (vqwm); 34,19[61]; 39,24[55] (lls);. ajprovskopoõ (1x): 32,21[74](¹tj); 3) ojlisqavnw (7x): 3,24[42] (h[t); 9,9[17] (hfn2); 14,1[14] (bx[); 19,16 [7]; 21,7 [8]; 25,8 [9]; 28,26 [6]; 41 G, interpretando vpn non come desiderio, ma come “anima”, legge il raro hb[ (vedi nota prec.) come l’aramaico h[b “cercare, cercare il cibo, brucare, distruggere”, con la conseguente aggiunta del nuovo soggetto “toro”. (Minissale, Versione greca, 44).

266


ojlivsqhma (1x): 20,18 [5]; 4) skandalivzw (3x): 9,5[16] (vqy); 23,8 [11]; 32,15[65] (vqy); skavndalon ( 2x): 7,6[28] ([xb); 27,23 [12]; 5) ptaivw (2x): 2,8[58]; 37,12[22] (lvk).

b) A partire dal testo ebraico42: lpn (12x): pivptw (50,17) ejmpivptw (8,1; 9,3), epipivptw (25,19), prospivptw (25,21); 6,2[78] (epaivrw); 7,7[30] (katabavllw); 10,10[69] (teleutavw); 37,8[67] (bavllw); 47,22[68] (diafqeivrw); 50,21[71](proskuvnhsiõ); hlpm: ptw`siõ (5,13); lvk (8x): ptaivw (37,12); 14,9[51] (pleonevkthõ); 30,21[38] (qlivbw); 31,25[48] (ajpovllumi); 41,2[37] (ejscatogevrwõ); 41,9[26] (solo H); 42,8[45] (ejscatogevrwõ); - ÷wlvk (2x): 13,23[3] (prosanatrevpw); 25,23[19] (paraluvw); - lwvkm (1x): 47,23[44] (oJdo;n aJmartivaõ); lqt (3x): proskovptw (13,23; 32,20); 15,12[54] (planavw); Hlqt: provskomma (31,7); fUwm (7x): pivptw (13,12), ptw`siõ (3,31); 12,15[21] (ejkklivnw); 13,21[32] (saleuvw); 15,4[63] (klivnw); 33,2[64] (upokrivnomai); 40,17[35] (ejn eujlogivaiõ); vqy (5x): skandalivzw (9,5; 32,15);; 31,7[53] (alivskw); 41,2[37] (perispavw); - vqwm (2x): ajntivptwma (32,20); 31,30[50](provskomma); 51,3[24] (brovcoõ);. v[r (1x): 16,19[56] (susseivw); ÷[v (1x): 15,4[63](sthrivzw); - ÷[vm (3x): 3,31[34](sthvrigma); 36,29 [20] (ajnavpausiõ); 40,26[60] (bohvteia); jp (1x): 9,13[29] (pagivõ); tvr (1x): 9,13[29] (e[palxiõ); hdwxm (1x): 9,3[15](pagivõ).

42

I termini greci riportati all’inizio in corsivo si riferiscono alla precedente lista a.

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c) Il traduttore G La metafore del “cadere” è molto frequente nel libro del Siracide, come risulta dai settantotto passi sopra considerati; di essi ben sessantadue sono attestati, oltre che in G, anche in H: Dal confronto che si può stabilire in questi casi tra H e G, si può meglio qualificare il comportamento del traduttore di fronte alla sua Vorlage ebraica, distinguendo i casi in cui la metafora è introdotta da G (a), quelli in cui viene soppressa (b) e, infine quelli in cui viene (più o meno) mantenuta. a) La metafora è introdotta da G: 1) ptw`siõ (4x): 4,19[72] (µyddv); 11,30[76] (hwr[); 13,13[73] (smj yvna); 50,4[75] (¹tj); pivptw (2x): 14,2[36] (tbv); 19,1[77](r[r[); ejmpivptw (2x): 38,15[27] (rgs); 13,10[31] (brq); ajntivptwma (1x): 31,29[49] (s[k); 2) proskovptw (2x): 30,13[41] (hl[); 31,17 [47](l[g); provskomma (1x): 39,24[55] (lls);. ajprovskopoõ (1x): 32,21[74](¹tj); 3) ojlisqavnw (3x): 3,24[42] (h[t); 9,9[17] (hfn2); 14,1[14] (bx[); 4) skavndalon ( 2x): 7,6[28] ([xb); Il vocabolo a cui si ricorre di più è ptw`siõ, segnalato già da Ziegler come uno dei vocaboli prediletti (Lieblingswörter00), insieme a ojlisqavnw, dal traduttore greco43. b) La metafora viene soppressa da G: Un po’ meno sono i casi (14) in cui la metafora viene soppressa, per lo più perché interpretata, dal traduttore G: In essi il testo H presenta questi termini caratteristici: lpn (3x): 47,22[68] (diafqeivrw); 10,10[69] (teleutavw); 6,2[78] (ejpaivrw); 43

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Ziegler, “Zum Wortschatz des griechischen Sirach”, 284.


lvk (5x): 14,9[51] (pleonevkthõ); 30,21[38] (qlivbw); 31,25[48] (ajpovllumi); 41,2[37] (ejscatogevrwõ); 42,8[45] (ejscatogevrwõ); - ÷wlvk (1x): 25,23[19] (paraluvw); - lwvkm (1x): 47,23[44] (o•do;n a•martivaõ); lqt (1x): 15,12[54] (planavw); fUwm (2x): 33,2[64] (u•pokrivnomai); 40,17[35] (ejn eujlogivaiõ); vqy (1x): 41,2[37] (perispavw); ÷[vm (3x): 40,26[60] (bohvteia);

c) La metafora viene mantenuta da G: Nella maggioranza dei casi (20x), la metafora viene mantenuta dal traduttore G che vi può pure apportare delle specificazioni: 1) lpn (6x): ejmpivptw (2x): 8,1[13]; 9,3 [15]; ejpipivptw (1x): 25,19[66]; prospivptw (1x): 25,21[18]; bavllw (1x): 37,8[67]; katabavllw (1x): 7,7[30]; - hlpm: ptw`siõ (5,13)[3] 2) vqy (2x): skandalivzw (2x): 9,5[16]; 32,15;; - vqwm (3x): 31,30[50] (provskomma); 32,20[46] (ajntivptwma); 51,3[24] (brovcoõ); 3) fwm (2x): 12,15[21] (ekklivnw); 13,21[32](upivptw) 4) lqt (2x): 13,23[33]( proskovptw); 32,20[46]( proskovptw); - hlqt (1x) 31,7[53](provskomma); 5) lvk (1x): ptaivw (37,12)[22]; - lwvkm (1x): 4,22[43](ptw`siõ); 6) ÷[vm (1x): 36,29 [20] (ajnavpausiõ); 7) jp (1x): 9,13[29] (pagivõ) 11. SCHIZZO CONCLUSIVO: IL “CADERE” NELLA VISIONE TEORETICA DI

BEN SIRA

Si è detto che Ben Sira è l’uomo della tradizione, la quale nella sua riflessione viene unificata, fusa e attualizzata. Noi osserviamo come nella

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sua opera confluiscono la legge e i profeti, che vengono ripensati e riformulati secondo il modello delle sentenze sapienziali. Perciò possiamo immaginare Ben Sira come un uomo di equilibrio e di mediazione che ripropone per il suo tempo l’ancoraggio nell’antica tradizione e la sua permanente validità, senza peraltro chiudere gli occhi di fronte a certi valori dell’ellenismo di cui lui riesce ad appropriarsi, assimilandoli e metabolizzandoli nel patrimonio spirituale del suo popolo44. Egli riprende così il passato in maniera creativa senza cristallizzarlo in una riedizione mummificata e angusta che ignora i problemi del suo tempo. Lui è l’uomo dell’incontro del passato con il presente, che si colloca al punto di confluenza dei diversi filoni spirituali che percorrono l’Antico Testamento e proprio così diventa il rappresentante emblematico di quella Gerusalemme che nel passaggio tra il III e il II secolo a. C. è crocevia di diverse esperienze culturali e di molteplici stili di vita. Posto di fronte a questi diversi impulsi intellettuali, egli elabora una sua visione della realtà, in cui tra l’altro si connettono, per la prima volta nel pensiero sapienziale, la natura con la storia, l’etica individuale con la prospettiva collettiva e nazionale del pensiero più tipico dell’antico Israele. In questa visione del mondo che cerca l’armonia e il superamento delle fratture, la metafora del “cadere” assuma una forte valenza simbolica ed emblematica che costituisce una spia importante per penetrare nel vivo del suo pensiero e della sua personalità. Ben Sira aspira, per temperamento e per formazione culturale, ad un mondo che vuole essere armonico in senso cosmologico, storico e religioso. Il “cadere” è ciò che infrange e compromette questa armonia, perché l’infrazione morale, frutto dell’empietà dell’uomo, incrina l’equilibrio del mondo che si regge sulla sapienza di Dio comunicata all’uomo con la legge. Sarebbe facile imputare a Ben Sira una ideologia reazionaria, in quanto ripiegato in una visione statica del mondo e pago di contemplare l’assetto delle cose acquisito una volta per tutte. Egli intende in qualche modo riparare la crisi di pensiero espressa, in maniera corrosiva e dissacrante, da Giobbe e da Qohelet, per ricomporre l’unità del mondo, il quale nei suoi due predecessori era diventato problematico, inospitale e arbitrario. Così teorizza una teodicea logica e tranquilla, perché sa interdire alla ragione di oltrepassare i suoi limiti, in modo che, professando l’unità tra la fede e la ragione, riesce a dare al suo pensiero un’impronta profondamente 44 Questo giudizio positivo su Ben Sira può essere ancora dato nonostante la critica mossagli dalla Wishmeyer (vedi sopra, nota 21).

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serena e ottimista, che regge pure davanti alla morte, sebbene non sia pervenuto all’idea di una vita ultraterrena. Egli riesce ad osservare la vita presente con un certo distacco razionale, ma postula alla sua base la giustizia e confida nel possibile raggiungimento della tranquillità dello spirito. Per Ben Sira Dio è il fondamento della bellezza e dell’armonia dell’universo, il criterio che regola la vita morale dell’uomo, caratterizzata della sua libertà. Egli dall’uomo risale a Dio e da Dio discende all’uomo inglobando in questa relazione, per lui ovvia e naturale, la complessità del mondo e della storia. In questa visione del mondo e dell’uomo, che è nello stesso tempo di natura fisica e spirituale, il “cadere” diventa davvero un evento estremamente traumatico e decisivo per qualificare la condizione dell’uomo e determinare la sua sorte in questa vita. Dio, invocato con fede da chi corre il rischio di cadere, è il solo che può preservare o risollevare dalla caduta perché è l’unico fondamento che garantisce la stessa saldezza del mondo. Così si afferma più volte nei Salmi; e per concludere, ne citiamo qualche esempio: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore? Quando mi assalgono i malvagi per straziarmi la carne, sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere (wlpnw wlvk)” (Sal 27,1-2); “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere (lpnl), ma il Signore è stato mio aiuto. Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza” (118,13-14); “Chi confida nel Signore è come il monte Sion: non vacilla (fwmyu), è stabile per sempre” (125,1). Questa fede rimane, per l’Antico Testamento, fondamento, quanto meno implicito, della cultura e della politica.

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20 IL ROTOLO DI ESTER: PER UNA RISCOPERTA DEL SUO SIGNIFICATO [2005]

L’Antico Testamento ci presenta le diverse fasi storiche attraverso cui si forma gradualmente e si consolida la coscienza e l’identità del popolo d’Israele. In questa identità confluiscono e si fissano con valore paradigmatico anche le esperienze storiche maturate attraverso i contatti che via via si sono avuti con le diverse potenze politiche che hanno dominato l’area del Vicino Oriente fin dalla fine del II millennio a.C., quando il nucleo germinale d’Israele è uscito dall’Egitto. Poi, anche durante la permanenza sulla propria terra come nazione politicamente indipendente, i figli d’Israele hanno subito prima le incursioni degli Assiri nel sec. VIII a.C., e dopo quelle dei Babilonesi a cavallo tra il VII e VI sec., le quali ultime culminano nella conquista di Gerusalemme e nella distruzione del tempio nel 587. Ha ora inizio l’esilio a Babilonia che avrà ufficialmente termine nel 538, quando Ciro, il fondatore dell’impero persiano dà il colpo di grazia al declino dell’egemonia babilonese, conquistandone la capitale e autorizzando subito il ritorno in patria degli ebrei e la conseguente ricostruzione del tempio. L’egemonia persiana sulla popolazione ebraica si estende fino alla conquista di Gerusalemme nel 333 da parte di Alessandro Magno, il quale inaugura quell’età ellenistica che finirà per la Palestina con l’arrivo dei Romani nel 63 a.C. Il racconto di Ester1 si situa nel contesto politico dell’impero persiano durante il quale oltre alla comunità giudaica raccolta attorno al tempio di Gerusalemme si ha una diaspora orientale formata da quegli ebrei che, trovandosi ormai ben ambientati in terra straniera, avevano rinunziato 1 Il testo biblico è citato nella versione ufficiale italiana della CEI (1971), che combina insieme il testo ebraico con le sei aggiunte della Settanta inserite nel corpo del libro. L’edizione critica del testo ebraico di riferimento è la Biblia Hebraica Stuttgartensa, ed. da K. Elliger e W. Rudolf, Stuttgart 1967/77. L’edizione critica della Settanta è quella di R. Hanhart, indicata nella bibliografia.

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ad avvalersi del diritto di abbandonare i luoghi del loro esilio. Il problema teorico ed etico che si affronta nella vicenda di Ester è, per l’appunto, quello di mostrare come sia possibile mantenere viva la propria identità religiosa e nazionale in terra straniera, privati di una autonoma sovranità territoriale. Possiamo ora richiamare in sintesi il contenuto del libro di Ester. Il dramma2 si svolge a Susa, una delle tre capitali dell’impero persiano, assieme ad Ecbàtana e Babilonia. Alla corte del re Assuero, che corrisponde a Serse I (486-465), la regina Vasti osa ribellarsi alla volontà del marito che le chiede di presentarsi nella sala dove si trovavano i dignitari del regno da lui invitati per un banchetto di 180 giorni. Profondamente indispettito, il re, descritto come un despota orientale volubile e capriccioso, accetta la proposta dei suoi consiglieri che gli suggeriscono di ripudiare Vasti e di cercarsi una nuova moglie-regina. Si indice perciò un vero concorso di bellezza al quale partecipano le più attraenti ragazze vergini di tutto il regno. È così che compare sulla scena Ester, una sconosciuta ragazza ebrea che, prudente oltre che bella, mantiene rigorosamente l’incognito. Grazie a queste sue qualità essa sarà la protagonista di tutta la vicenda. Orfana di padre e di madre, era stata adottata dal cugino Mardocheo, il quale ora la presenta fra le candidate, seguendola poi a distanza con i suoi consigli, tempestivi e pressanti. Alle ragazze in attesa di presentarsi al re, era prescritto di sottoporsi per la durata di dodici mesi ad una vera cura di bellezza a base di cosmetici. Quando giunge per Ester il turno di passare la notte con il re, lei gli piace più di tutte le altre, sicché la sceglie come sua sposa e regina. Intanto scoppia una persecuzione contro gli ebrei, perché il primo ministro Aman, venuto a collisione con Mardocheo che gli rifiuta la riverenza prescritta, pensa di vendicarsi dell’affronto ricevuto estendendo il suo risentimento contro tutto il popolo al quale egli appartiene. Così Aman ottiene dal re l’autorizzazione a decretare lo sterminio di tutti gli ebrei del regno, che deve essere eseguito dovunque nello stesso giorno, il 13 del mese di Adar (febbraio/marzo). Quando Mardocheo ne ebbe notizia, al colmo della costernazione “si stracciò le vesti, si coprì di sacco e di cenere e uscì in mezzo alla città, mandando alte e amare grida” (4,1). Quindi si preoccupa di far sapere ad Ester che lei, in quanto ebrea e regina, 2 Anche se Ester non presenta una rigorosa struttura teatrale, la ricorda in particolare per il cambio di scena che inducono per esempio M. V. Fox distinguervi dodici atti, per ognuno dei quali cambia la scena (p. 13).

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deve far di tutto per ottenere dal re la revoca dell’ingiusto decreto di sterminio che minaccia la vita di tutto il suo popolo. Mardocheo conclude con questo severo ammonimento: “Non pensare di salvare solo te stessa fra tutti i Giudei, per il fatto che ti trovi nella reggia. Perché, se tu in questo momento taci, aiuto e liberazione sorgeranno per i Giudei da un altro luogo; ma tu perirai insieme con la casa di tuo padre. Chi sa che tu non sia stata elevata a regina proprio in previsione d’una circostanza come questa?” (4,13-14). Ora il tentativo di ottenere la revoca del decreto mortale contro gli ebrei si intreccia con una nuova insidia di Aman, che prepara addirittura il palo per impiccare l’insopportabile Mardocheo. Inaspettatamente, un imprevisto rimorso del re mette in posizione di vantaggio Mardocheo, il quale, scoprendo tempo prima una congiura di palazzo contro di lui, gli aveva salvato la vita. Richiamato al dovere della riconoscenza, il re decide di ricompensare il suo benefattore, e sarà proprio Aman a suggerirgli, rispondendo ad una sua enigmatica domanda, gli onori più eccezionali, che quegli riteneva ingenuamente destinati a se stesso. Così al danno si aggiunge la beffa, giacché, chiarito l’equivoco, il povero Aman riceve l’ordine di condurre come un umile scudiero il cavallo regale cavalcato da Mardocheo, che indossa per l’occasione il mantello e la corona del re. Intanto Ester, nel tentativo di strappare al re la revoca del decreto che autorizzava lo sterminio degli ebrei, lo invita per due volte a un banchetto riservato a lui e ad Aman; dopo aver suscitato in lui una ben comprensibile curiosità lasciata in sospeso nel primo incontro, approfittando del secondo banchetto per esporgli finalmente il suo cruccio, gli rivolge questa supplica: “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, o re, e se così piace al re, la mia richiesta è che mi sia concessa la vita e il mio desiderio è che sia risparmiato il mio popolo. Perché io e il mio popolo siamo stati venduti per essere distrutti, uccisi, sterminati” (7,3-4). Quindi, approfittando della buona disposizione del re, incalza fino a pronunziare quel nome che l’affligge da tempo: “L’avversario, il nemico, è quel malvagio di Amàn” (7,6). A questo punto il dramma si volge in farsa, per un equivoco con cui Aman mette goffamente alla prova la gelosia del re, che si era per un momento assentato: “Il re incollerito si alzò dal banchetto e uscì nel giardino della reggia, mentre Amàn rimase per chiedere la grazia della vita alla regina Ester, perché vedeva bene che da parte del re la sua rovina era decisa. Poi tornò dal giardino della reggia nel luogo del banchetto; intanto Amàn si era prostrato sul divano sul quale si trovava Ester. Allora il re esclamò:

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Vuole anche far violenza alla regina, davanti a me, in casa mia?” (7,7-8). Qui il lettore, interpretando maliziosamente l’allusione volutamente equivoca dell’espressione “prostrato sul divano sul quale si trovava Ester”, prova un sentimento di divertita soddisfazione, perché vede risolversi al meglio la sorte delle vittime con le quali si era identificato sin dell’inizio. A questo punto il cattivo Aman viene impiccato nel palo che egli stesso aveva preparato per il suo nemico Mardocheo, mentre questi prende il suo posto di primo ministro. Alla fine Ester e Mardocheo, concordi nel perseguire la salvezza del loro popolo che vive tra una popolazione che gli è ostile, revocano ufficialmente il decreto di morte degli ebrei, e inoltre autorizzano che siano invece loro ad uccidere i loro nemici, con una determinazione che sembra più spietata in Ester che non in Mardocheo. Una volta festeggiata la vittoria, entrambi dispongono che ogni anno si celebri con gioia ed allegria la festa dei Purim in ricordo di questo scampato pericolo, cui il malvagio Aman aveva esposto tutti gli ebrei del regno. In questa occasione si legge nella sinagoga ogni anno il Rotolo di Ester, il cui racconto fornisce ormai l’eziologia della festa. Per il carattere popolare e buffonesco, che comporta pure il travestimento delle persone con le maschere, la festa dei Purim somiglia al nostro carnevale. Se consideriamo ora il racconto nella sua globalità, possiamo confermare quanto detto all’inizio, che cioè la tendenza che spicca di più nel racconto è il senso dell’identità ebraica che deve essere affermata con vigore in un ambiente straniero che preferirebbe vederla cancellata. Questo rischio è qui colto dall’interno di una comunità minoritaria per l’ambiente in cui vive e che a maggior ragione deve trovare in se stessa le ragioni della propria distinzione. La conflittualità evocata nel racconto deve essere vista prima di tutto a livello psicologico, come riflesso dei meccanismi di difesa che un gruppo umano mette istintivamente in atto quando sente minacciata la cancellazione della propria identità, che in realtà si rinsalda quando prende coscienza del pericolo comune e riesce di conseguenza a potenziare in questo modo il senso dell’appartenenza tra i propri membri. Dopo l’esperienza dell’Olocausto suonano sinistramente profetiche le parole rivolte da Aman al re Assuero per dare inizio all’azione drammatica del nostro libro: “Vi è un popolo segregato e anche disseminato fra i popoli di tutte le province del tuo regno, le cui leggi sono diverse da quelle di ogni altro popolo e che non osserva le leggi del re; non conviene quindi

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che il re lo tolleri. Se così piace al re, si ordini che esso sia distrutto” (3,89). Ed è questa sovrapposizione di situazioni storiche che rende oggi delicata l’interpretazione di questo libro biblico. Per diversi secoli esso è stato trascurato dai commentatori cristiani della Bibbia, che lo trovavano poco religioso, perché non vi si nomina Dio, e immorale in quanto sembra esaltare l’uso di una violenza eccessiva e ingiustificata. Il primo commentario cristiano completo ad Ester è stato scritto da Rabano Mauro (780-856)3; egli risolve lo scandalo suscitato dal suo contenuto, interpretando il libro in maniera allegorica. Ester è il tipo della Chiesa sposa di Cristo ed è anche figura della Chiesa che giustamente perseguita i suoi nemici. Mardocheo è figura dei maestri che operano nella Chiesa; il re Assuero, sebbene risulti per noi una figura di uomo insicuro e vanitoso ma alla fine anche benevolo, è per Rabano figura di Cristo. Nel commentario di Ruperto di Deutz (ca. 1070-1129)4 si dice che il palo preparato da Aman per impiccare Mardocheo è immagine della croce di Cristo, preparata dal diavolo; ma come il palo non servì per impiccare Mardocheo ma lo stesso Aman, così la croce segnerà la sconfitta del suo ideatore, il diavolo, e proclamerà la vittoria di Cristo. Ugo di s. Vittore (†1141)5 interpreta i banchetti di cui si parla spesso nel libro, come i conviti spirituali di Cristo a cui tutti i popoli sono invitati. Più tardi Lutero, che peraltro ha il merito di prendere molto sul serio l’Antico Testamento, appunto per questo è portato a dare un giudizio severo sul libro di Ester, assieme a quello di 2Mac. Egli dice: “Io sono così contrario al libro [2Macc] e ad Ester, che avrei voluto che essi non ci fossero; infatti essi giudaizzano (judenzen) e hanno molta cattiveria (Unart) pagana”6. Nella Riforma e nella Controriforma il libro di Ester offre la materia per molti rifacimenti teatrali di varia tendenza. Una tesi presentata a Vienna nel 1955 ne ricorda ben 158, a partire dal Rinascimento. Accanto alla finalità della catechesi biblica, a volte prevale pure la strumentalizzazione polemica, dei protestanti che lo usano contro i cattolici e dei cattolici che lo usano contro i Turchi. Ancora recentemente un esegeta luterano (Kuhl, 1953) afferma: “Il libro di Ester 3

G. Gerleman, p. 2, con rimando a Migne PL 109, 635-670. G. Gerleman, p. 3, con rimando a Migne PL 169, 1379-1400. 5 G. Gerleman, p. 4, con rimando a Migne PL 177, 1183-1191. 6 Così, nella traduzione di E. Zenger; questo giudizio di Lutero è riportato pure da L. B. Paton, p. 96, e da G. Gerleman, 40, con rimando a Tischreden in WA 22, 2080. 4

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non ha da dire nulla al cristiano dal punto di vista religioso”7. Ma oggi occorre rivedere questa posizione negativa, che si rivela ingiusta ed arbitraria se teniamo conto dell’autocomprensione che ha l’ebraismo di se stesso e di come esso legge questo piccolo libro che la rispecchia in modo abbastanza emblematico. Possiamo limitarci a riportare a questo proposito alcune testimonianze abbastanza rappresentative di ebrei contemporanei. La prima questione riguarda la non storicità della vicenda, che per tanto tempo si credeva di poter dimostrare confrontando le notizie fornite dal libro di Ester sulle abitudini dei persiani con le testimonianze greche di Erodoto, di Senofonte, di Ctesia e di Eschilo. Uno storico ebreo, il russo – americano Elias Bickerman, traccia questo bilancio di tutto questo sforzo concordistico inaugurato già da Joannes Drusius (1550-1616)8: “In realtà, parecchi di questi particolari sono piuttosto caratterizzazioni fisse del dispotismo orientale … Certe cerimonie di corte sono rimaste sostanzialmente immutate per millenni … la conoscenza che l’autore ha della corte persiana non è del tutto precisa”9. Questo giudizio è valido non solo per Bickerman che pone la composizione del libro in età ellenistica tra il III e il II sec.10, ma anche per chi la anticipa collocandola nell’ultima fase della stessa età persiana11. Comunque sia, quello che conta è che una volta sgombrata la questione storica12, si può meglio comprendere lo spirito con cui il libro è 7

K. Kuhl, Die Entstehung des Alten Testaments, München 1953, p. 294; citato da E. Zenger, p. 470. 8 G. Gerleman, p. 4. 9 E. J. Bickerman, pp. 220-221. Si può aggiungere il giudizio finale a cui perviene L. B. Paton, p. 75: Sembra inevitabile concludere che “il libro di Ester non è storico e che è perfino dubbio che un nocciolo storico soggiaccia al suo racconto”. Da parte sua M. V. Fox, p. 139, osserva che qui “l’immagine del regno di Serse è tratteggiata secondo il modello di leggende, romanzi e romanzi storici che erano popolari nel mondo ellenistico”. Invece A. Rofé, che riconosce pure il carattere fittizio e comico del racconto, ammette che il pogrom di cui si parla nel libro può essere storico, ma territorialmente limitato (p. 107). 10 Pensa al periodo ellenistico anche M. V. Fox, A. Rofé, sec, III (p. 108), e L. B. Paton, addirittura pensa al periodo successivo alla crisi maccabaica degli anni 175-165 (p. 61). 11 C. A. Moore, p. lviii, opta per “il quarto secolo, o il periodo persiano”. 12 Lo stesso C. A. Moore, p. xlvi, dopo aver ricordato le obiezioni in se stesse non decisive che si portano contro la storicità di Ester, ritiene che lo diventano se si tien conto che di queste due circostanze, “che un certo numero di elementi nel racconto di Ester mostrano una somiglianza impressionante con certi racconti leggendari dell’antico Vicino Oriente come Le mille e una notte, e che si ha un sospetto legittimo che Purim in origine era una festa pagana adottata ad un certo momento, con degli adattamenti, dagli ebrei”.

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percepito dalla tradizione ebraica; ne è una buona testimonianza il succoso libretto di Giacoma Limentani, la quale fa due interessanti osservazioni sia a proposito del travestimento con le maschere e sia a proposito dell’identità mantenuta con impegno in terra straniera. Lei scrive: “Non un travestimento qualsiasi sceglierà … chi davvero voglia celebrare questa ricorrenza, bensì quello più atto a mostrare l’opposto di tutto quanto crede, pensa, teme oppure spera di essere … Mettendo allo scoperto le più intime verità individuali, il vino di Purim aiuterebbe anche a esternare paure e rancori, e quindi a sublimare gli istinti aggressivi operando sull’anima una terapia vera e propria nonché, almeno secondo Itzhaq Luria, una catarsi dei sentimenti pari a quella dello Jom Qippur”. Ma vi si può vedere anche “un temporaneo sollievo… dalle severe regole di vita che l’ebraismo impone, e che rischierebbero di diventare insopportabili se le legittime sregolatezze del Purim non venissero ad infrangerle anno dopo anno”13. Parlando poi del mantenimento dell’identità la Limentani aggiunge: “Non di rado l’adeguamento (in una nuova patria) è reso ancora più arduo dalla diffidenza che gli stranieri possono ispirare agli indigeni, in special modo istintiva e palese trattandosi di stranieri deportati da un paese sconfitto e quindi contro il quale si è combattuto: un paese che è stato considerato nemico. La sindrome da nemico è dura da debellare. Il bisogno di attenuarla per non essere condannati alla totale emarginazione, può far sì che l’imperativo ad adeguarsi sfoci in una più o meno consapevole imitazione dei gesti quotidiani, preludio di un’omologazione, per non dire di un’assimilazione magari formale, ma non estranea al nascondimento di sé connesso alla rinuncia del proprio nome: di quel nome proprio con il quale l’ebreo totale estrinseca il suo più intimo e autentico io: la sua personalissima identità”14. Diverso è l’accento del discorso che si trova sviluppato in maniera più articolata nel commentario dell’ebrea americana Adele Berlin, che analizza il libro di Ester soprattutto come creazione letteraria. Esso non solo rientra nel genere letterario del romanzo storico, ma anche in quello più specifico della commedia, addirittura della farsa e della burla. Sia Ester e Mardocheo, come Assuero ed Aman, sono figure fantoccio che servono a creare ironia e divertimento com’è richiesto dall’atmosfera tipica dei Purim. Basti questa citazione: “L’autore non pensava di scrivere storia (history), o di convincere i suoi destinatari sulla storicità del suo racconto (story) (anche se i 13 14

G. Limentani, pp. 11-13. G. Limentani, pp. 33-34.

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lettori posteriori l’abbiano inteso in questo senso). Egli vuole presentare piuttosto il lato burlesco della storiografia. Egli imita il modo di scrivere la storia che era noto dai libri più antichi della Bibbia e forse dagli storici greci (i cui giudizi sui Persiani sono da lui condivisi). Lo stile archivistico, come pure lo stile della comunicazione diretta (the verbal style), rende il racconto sapientemente serio e allegro, grave ed impertinente nello stesso tempo – e questo è precisamente ciò che è richiesto per un tale libro. Tutti questi elementi stilistici confermano la sensazione che il racconto è una farsa. Conferiscono una nota comica e burlesca alla descrizione della corte persiana e a tutto ciò che accade al suo interno”15. Ancora nello stesso anno 2001 Alessandro Rofé, professore italo – israeliano dell’Università Ebraica di Gerusalemme, sostiene che Ester è un romanzo satirico con valore paradigmatico, secondo lo stereotipo dei racconti ambientati nelle corti che parlano di rivalità tra i cortigiani e degli intrighi con cui esse si risolvono. Grazie a questi intrighi Ester, una concubina diventata moglie del re, si vendica poi dei suoi nemici16. A questo punto ci viene da chiedere se dobbiamo vedere in Ester un racconto edificante o scandaloso17. Prima di rispondere a questa domanda mi pare opportuno citare anche quanto dice l’esegeta cattolico tedesco Erich Zenger, il quale riconosce che il libro di Ester “contiene un giudizio terribile sul cristianesimo stesso, che nella storia ha ricoperto spesso il ruolo di Aman. Per questo aspetto oscuro della storia della chiesa, la lettura del libro di Ester è un necessario esame di coscienza e un invito alla conversione”18. A conclusione di questa retrospettiva storica che comprende l’origine del libro di Ester, nonché le sue molteplici e variegate interpretazioni, la lezione che si può trarre per il presente è che dobbiamo cercare di comprendere ogni cultura considerandola nella sua autoreferenzialità, in modo che si possa tener conto dell’identità che è ad essa sottesa. In realtà il libro di Ester ben compreso non solo ci testimonia l’attaccamento alla propria identità da parte di un popolo che è minoranza in una società etnicamente diversa, ma anche la capacità che esso dimostra di mettere radici 15

A. Berlin, p. XXVIII. A. Rofé, pp. 106-110. 17 Vale la pena ricordare il giudizio di L. B. Paton, p. 96: “Non si ha nel libro un solo personaggio che sia moralmente nobile. Dal punto di vista morale Ester cade molto in basso rispetto al livello ordinario dell’Antico testamento”. 18 E. Zenger, p. 470. 16

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là dove si trova, perché qui sa scoprire gli elementi comuni della stessa umanità, sui quali poi sa anche ironizzare e ridere. A parte questo umanissimo elemento dell’ironia19, possiamo concludere con le parole con le quali Geremia aveva ammonito gli ebrei esuli a Babilonia, ancora agli inizi del loro esilio: “Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie; costoro abbiano figlie e figli. Moltiplicatevi lì e non diminuite. Cercate il benessere (shalom) del paese (lett. “della città”) in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso/a, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere” (Ger 29,5-7). Se vogliamo, questa capacità di vivere in un mondo aperto alle immigrazioni, come già prima alle trasmigrazioni dei nomadi, è quanto ci mostra tutto l’Antico Testamento e, al suo interno, in maniera straordinaria, il piccolo libro di Ester.

Bibliografia Berlin A., The JPS Bible Commentary. Esther, Philadelphia 2001/5761. Bickerman E., Quattro strani libri della Bibbia: Giona – Daniele – Kohelet – Ester, Bologna 1979 (orig. Four Strange Books of the Bible, New York 1967). Fox M.V., Character and Ideology in the Book of Esther (Studies on the Personalities of the Old Testament 6), Grand Rapids, MI, 20012. Gerleman G., Esther (BKAT 21), Neukirchen – Vluyn 1973. Hanhardt R., Esther. Septuaginta (Vetus Testamentum graecum auctoritate academiae scientiarum gottingensis editum, VII/3), Göttingen 19832 (19661). Limentani G., Regina o concubina? Ester, Milano 2001. Moore C.A., Esther (AB 7B), Garden City, NY, 1971.

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Merita qui riportare la considerazione con cui J. A. Soggin, p. 527, conclude la sua breve esposizione sul libro di Ester: “Storicamente l’opera è interessante anche perché ci testimonia d’una voce poco conosciuta nell’Antico Testamento: quella del nazionalismo. Si tratta di un motivo che non deve essere però neanche esagerato: lo stesso collegamento con una festa carnevalesca tende a mostrare piuttosto il lato assurdo, ridicolo, umoristico che quello più truce della vicenda. D’altra parte la storia del popolo d’Israele c’insegna che spesso il passo dall’umorismo alla tragedia non è molto lungo”.

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Paton L. B., A Critical and Exegetical Commentary on the Book of Esther (ICC), Edimburgh 1908. Rofé A., Introduction to the Historical Literature of the Hebrew Bible, Jerusalem 2001 (in ebraico) Soggin J. A., Introduzione all’Antico Testamento, Brescia 19742. Zenger E. “Il libro di Ester”, in E. Zenger (ed.), Introduzione all’Antico Testamento, Brescia 2005, 457-470 (orig. Einleitung in das Alte Testament, Stuttgart 1995, 20045).

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PARTE II

… E DINTORNI

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21 QUESTA NOSTRA MESSA [1958]

«Ha preso messa?», ci si chiede per sapere se abbiamo ricevuto l’ordinazione. Agli occhi di chiunque è noto come l’azione più caratteristica del sacerdote è la sua messa; ognuno istintivamente ed a ragione percepisce l’equivalenza tra sacerdozio e messa, sentendo che il punto in cui il sacerdote si distacca e si differenzia dagli altri è quella misteriosa potestà che egli esercita solitario sull’altare nel silenzio sacro della Chiesa. Ed è vero: il prete è per la messa prima di tutto. Dire messa è l’esclusiva facoltà del sacerdote che non può essere ceduta a nessuno. Per la messa principalmente si giustifica la sua esistenza, con la messa egli dispiega la sua massima utilità. Qui la presenza di Dio è più forte che altrove; qui si assolve il debito essenziale ed universale di tutta l’umanità di fronte a Dio: l’adorazione, il ringraziamento, la propiziazione; e qui l’implorazione a Dio diventa più toccante, più efficace più infallibile. Non può essere un’abitudine dire una messa; non si può rivolgere a Dio, senza pensarci bene, un discorso che Egli piglia sul serio; si sente la trepidazione di trovarci tanto intimamente a tu per tu con Lui; ci sentiamo spinti come su un vertice, troppo avanzati in una solitudine gravida di responsabilità. Eppure abbiamo il coraggio di ripetere questa immersione soprannaturale ogni giorno, nonostante la nostra impurità e le nostre contaminazioni: ingenui della confidenza che ci ispira la benevolenza di Dio che, prediligendoci, ci ha chiamato al sacerdozio. Così il sacerdote si sente scivolare da una messa all’altra in mezzo alle dissipazioni del mondo per trovare il suo punto fermo, il suo appoggio quotidiano nella mezz’ora di messa del mattino, stabilendo come una saldatura costante tra il Dio invisibile ed il grigio molteplice succedersi delle diverse occupazioni. Il prete deve essere disposto ad essere inghiottito dalla sua messa, per identificarsi con la sua funzione sacramentale, per scottarsi al contatto immediato e rinnovato di un fuoco divino.

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Noi sacerdoti sappiamo che la nostra precipua responsabilità verso i fedeli è quella di promuovere la loro santificazione nella scoperta amorosa della presenza eucaristica di Dio in mezzo a noi, consci che l’impulso più poderoso alla estensione attiva della Redenzione nel mondo lo diamo con la nostra messa.

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22 MIO PADRE: L’ULTIMA LEZIONE Testo del discorso pronunciato al termine della liturgia funebre [1973]

Un uomo che muore, ci lascia vivo il ricordo della sua presenza, anche quando non è più fra noi. Chi è stato padre ha dato la vita, ed essa continua anche dopo la sua morte. Mio padre mi è stato padre non solo perché mi ha dato la vita, ma anche perché mi ha dato il suo insegnamento: mi è stato padre in senso fisico, ed in senso morale. Mi ha trasfuso qualcosa della sua anima, delle sue idee e della sua sensibilità. Gli ultimi due mesi passati all’ospedale sono stati per me come una vacanza passata insieme con lui sulle soglie dell’eternità. Fin dall’inizio della sua malattia, egli ebbe la sensazione dell’avvicinarsi della sua fine. Diceva allora, ripetendo, forse senza saperlo, una frase della Bibbia (cfr. Sal 89,10): «La vita normale di un uomo è di settanta anni, io ne ho già settantuno, perciò posso considerare la mia vita compiuta». Ma nonostante questa percezione della morte avuta fin dall’inizio, guardò sempre intensamente alla vita, durante i due lunghi mesi del suo declinare, nel letto dell’ospedale. La sua abituale vitalità l’ha accompagnato anche nella sua malattia, ed in quella posizione semieretta e di immobilità, manteneva inesauribile la sua loquacità e la sua espansività. Il suo letto sembrava a volte come una piccola cattedra, ed il suo pigiama come la divisa di uno che sta al servizio del prossimo anche quando deve pensare a curare la propria malattia. I suoi occhi erano particolarmente vivi, esprimevano insieme una profonda fierezza ed una indicibile tenerezza. Sul letto della sua malattia si è invecchiato a vista d’occhio. I suoi movimenti diventavano più lenti, per la debolezza che andava inesorabilmente assottigliando le sue membra prima vigorose, e questa lentezza, che faceva contrasto con la prontezza del suo sguardo, gli conferiva gradualmente la solennità dell’età senile. Diventò vecchio tutto d’un colpo, nella sua ultima malattia. E la vecchiaia lo invadeva, non solo facendogli venir meno le forze fisiche, ma

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anche nel suo discorso, che aveva sprazzi di saggezza e di profonda compassione. A volte pensava però al suo ritorno nella vita, alla sua guarigione, e perciò progettava ingenuamente viaggi e comitive. Così la sua malattia trascorreva tra il pensiero della morte e quello della vita, con serena rassegnazione nel primo caso, e con grande passione per la socievolezza nel secondo. Nei suoi ultimi giorni si sono così alternati momenti in cui si sentiva più vicino alla morte e momenti in cui si sentiva più vicino alla vita, momenti in cui si sentiva vecchio, e momenti in cui era come un bambino che sentiva il bisogno della protezione e che cedeva ad altri le sue responsabilità. Standogli accanto, mi sentivo più di prima suo figlio, ma nello stesso tempo sentivo che era lui che mi diventava un po’ figlio, me nello stesso tempo sentivo che era lui che mi diventava un po’ figlio. A volte mi ricordava qualcosa del suo passato; aveva dei rimpianti ma aveva avuto pure delle soddisfazioni. Le cose che gli avevano dato più soddisfazione erano, dopo tutto, delle buone azioni, in cui aveva potuto esprimere la sua generosità, la sua cordialità e la sua fiducia verso gli altri. Gli stavano soprattutto a cuore i rapporti sinceri, e questo lo rendeva qualche volta spregiudicato ed imprudente. Aveva perciò anche i suoi lati negativi: non rinunziava a certi giudizi pesanti sulle persone e a certi puntigli. Ma negli ultimi giorni aveva un desiderio di riconciliazione con tutti, come chi alla fine cede le armi di fronte ai contrasti che si possono superare solo nel perdono. Dopo tre settimane di ospedale, in seguito ad un disturbo, lui stesso ci ha chiesto la comunione e l’olio degli infermi. Ci ha fatto fretta allora, perché voleva evitare di ricevere l’estrema unzione dopo aver perduto la coscienza. È stato questo un gesto che mi ha sorpreso e mi ha commosso. Io, volutamente, per non condizionare la sua spontaneità avevo deciso in cuor mio che non gli avrei mai chiesto di confessarsi, e così mi ha dato ancora una volta l’esempio di una religiosità semplice e non bigotta, fatta soprattutto di lealtà anche di fronte alla morte. Così mio padre ha vissuto i giorni della sua ultima malattia come un’esperienza spirituale, avendo in essi l’occasione di manifestare il meglio di se stesso. Ed ora ci ha lasciato, ed in questo momento in cui celebriamo l’eucaristia, ce lo sentiamo vicino, perché è con Dio nella vita eterna.

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23 RICORDO DI PADRE SALNITRI (1874-1953) [1974]

Ho conosciuto Padre Salanitri nella sua vecchiaia, durante gli ultimi dieci anni della sua vita, perciò all’incirca dal 1943 al 1953. Cominciai infatti a frequentare il Piccolo Seminario subito dopo i bombardamenti, nell’anno scolastico 1943-44, per farvi la quarta elementare. Lo ricordo ora, perciò, come l’ho conosciuto da ragazzo, ma la sua memoria la inquadro nella mia esperienza successiva, e nella nostra epoca diversa da quella in cui lui visse. Il suo fisico dava già un’idea adeguata del suo carattere. Un uomo alto, sostenuto, vigoroso, solido, ma, nello stesso tempo, dolce e flessibile. L’espressione del suo volto, dei suoi occhi soprattutto, era quella di un uomo concentrato e deciso, ma insieme tranquillo e disteso. Aveva un tratto di signorilità connaturata e di una bonarietà spontanea, di solennità e di semplicità. Il suo viso, solcato da rughe, era abbondante, pieno fin sotto il mento, e dava così l’idea di un uomo che si sente a suo agio, e che è capace di mettere gli altri a proprio agio. Qualche volta si faceva tagliare i bianchi capelli lasciando solo il ciuffetto irsuto e ribelle, che gli conferiva un’aria indomita, vivace e perfino sbarazzina. Portava con sé una lucida ed antica tabacchiera d’argento, da cui estraeva con estrema naturalezza e con compiacimento, ad intermittenza piuttosto regolare, quella polverina color giallo-oscuro che qualche volta lo faceva starnutire. Non era soltanto alto; era anche ampio: era così un uomo fatto per far da vedetta, per stare sulle frontiere, per trattenere e per accogliere, per contrastare e per proteggere. Ed ha combattuto infatti le sue battaglie ideali, con fermezza e senza asprezza, disposto a pagare di persona. Che cosa ricorderò ora del suo carattere e della sua figura morale? Ricordo Padre Salanitri soprattutto come uomo di Chiesa e come uomo di mondo. Forse in questo binomio si esprime, meglio che con tante parole, l’aspetto più essenziale della sua personalità. E sono queste le due facce della sua testimonianza sulle quali mi voglio oggi soffermare. Padre Salanitri fu un uomo di Chiesa, innanzi tutto. E come tale fu uno stratega. Aveva il senso dell’onore della Chiesa, dell’avvenire della

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Chiesa, della storia della Chiesa, dell’universalità della Chiesa, anche se la Chiesa per i suoi tempi coincideva più che oggi con il clero. La fondazione del Piccolo Seminario, col preciso scopo di preparare dei sacerdoti in particolare per Bronte, che da tanti anni non ne aveva più avuti, è nata da una robusta responsabilità di Chiesa. Della Chiesa aveva un’idea grandiosa, eppure non trionfalistica. Egli, sorretto da un grande amore, contribuiva a costruire questa Chiesa, dopo tutto, con mezzi modesti, con un impegno concreto, alle prese con le necessità più ordinarie della vita quotidiana. Era contento che i suoi ragazzi, oltre che al Seminario di Catania, andassero nelle varie famiglie religiose. Ne era non solo contento, ma addirittura fiero. Lo ricordo pure in chiesa ed in sacrestia. Si preoccupava dell’olio della lampada del Sacramento, come della sostanziosità e della chiarezza delle prediche che ci teneva, a noi ragazzi insieme con la gente del vicinato che veniva nella Chiesa della Catena per la messa e per le devozioni. Spesso amava intrattenerci in piccolo gruppo, raccontandoci le sue vicende passate. È proprio in queste chiacchierate senza contagocce che rivedo Padre Salanitri nel suo ruolo precipuo di educatore e di maestro. I suoi ricordi erano impregnati di saggezza, ed erano veicolo efficace di idee che penetravano nel mio animo plasticamente ed impercettibilmente. Era come se ci facesse una consegna. Ci parlava delle lotte affrontate a Bronte in tempi di duro anticlericalismo. Egli era stato sulla breccia, con scaltrezza anche, ma senza dimenticare che era prete per tutti, anche per quelli che militavano nel fronte opposto. Ci parlava delle missioni e dei protestanti, del Papa e di Roma. Io non posso dimenticare come parlava del protestanti, già a quei tempi. Pur esprimendo il suo ecumenismo nelle categorie di allora, nel ritorno a Roma dei fratelli separati egli vedeva soprattutto un fatto di comunione, una gioia di famiglia. Così ci comunicava il senso della Chiesa e ci preparava a diventare sacerdoti. Ma Padre Salanitri era pure un uomo di mondo. Non nel senso che per metà era uomo di Chiesa e per metà uomo di mondo. Era sacerdote con umanità ed era uomo con sacerdotalità. Questi due aspetti della sua personalità non erano sovrapposti né separabili, erano fusi. Lo ricordo come un uomo con i piedi per terra, concreto, di una concretezza che non spegneva però l’idealità, ed idealista di una idealità che si incarnava nella concretezza. Visse praticamente sempre a Bronte, tranne che per il periodo degli studi al Seminario di Catania, per il servizio militare e per qualche raro viaggio di cui conservava dei vivi ricordi. La storia di Bronte, spicciola e

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meno spicciola, l’ha vissuta in prima persona, con dedizione e con un senso di partecipazione e di appartenenza tale che gli consentiva poi, fra l’altro, di capire le varie situazioni familiari dei suoi ragazzi. Egli doveva pensare ai soldi per costruire il Piccolo Seminario, alla raccolta dei pistacchi e delle olive, alla scuola, alla formazione religiosa, ai giuochi, al culto nella chiesa, dalle processioni della Madonna della Mercede alla quarantore. In ognuna di queste mansioni vi si ritrovava senza estraneità e senza approssimazione evasiva. Per la scuola era particolarmente sensibile, ed è sotto questo profilo che io ricordo soprattutto la sua dimensione umana. Le sue materie erano la matematica e l’italiano. Nell’italiano aveva una particolare attenzione allo studio del vocabolario ed alla cura dell’espressione. Il suo stesso conversare, anche dal punto di vista della lingua, rilevava accuratezza e gusto di espressione. Quando leggeva dei brani letterari dall’antologia, vi si immedesimava, qualche volta fino a commuoversi, mettendo in evidenza lo stile descrittivo dei paesaggi e le notazioni riguardanti le diverse sfumature dei sentimenti umani. Forse non lo si può chiamare un intellettuale, e certamente non uno studioso. Però era un uomo che sapeva leggere i suoi libri, che percepiva i fermenti del suo tempo, e che viveva di idee rapportate costantemente alla vita. E così giunse all’ultima malattia, conservando una visione intensa della vita, un profondo senso di soddisfazione per essa, il ricordo di un itinerario percorso con fedeltà, con continuità e con magnanimità.

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24 UN MAESTRO DI ESEGESI BIBLICA: WALTHER ZIMMERLI (1907-1983) [1975]

Questi saggi esegetici di Walther Zimmerli1, professore ordinario dal 1951 di esegesi veterotestamentaria nella Facoltà evangelica di Teologia dell’università di Gottinga, che erano stati pubblicati in tedesco per la prima volta nel 1963, rispecchiano una storia che deve essere ora richiamata, perché si possa meglio valutare il loro significato e la loro portata. Questa storia riguarda sia i saggi stessi qui pubblicati, sia il resto dell’opera del loro autore, nel cui contesto essi coerentemente si situano. 1. Una semplice scorsa ai titoli del presente volume mostra come in diversi casi si tratta di studi riguardanti il libro di Ezechiele: dal primo, in ordine di tempo, del 1951 su «La parola di Dio in Ezechiele» (cap. IV) al più recente del 1960 su «Il ‘nuovo esodo’ nella predicazione dei due grandi profeti dell’esilio» (cap. VII). Tra questi due limiti cronologici si inseriscono rispettivamente gli studi dei capp. II (1954), e VI (1957). Questi studi su Ezechiele sono serviti di preparazione al grande Commentario che è stato pubblicato, inizialmente a fascicoli separati, dal 1955 al 19692. Questo 1 È nato nel 1907 a Schiers (Graubünden, Svizzera), dal 1925 al 1929 ha studiato teologia a Zurigo, Berlino e Gottinga, dal 1933 al 1935 è stato parroco della Chiesa Riformata in Aarburg (Aargau, Svizzera); ha pubblicato nel 1932 la sua tesi: Geschichte und Tradition von Beerseba im A.T. Ha insegnato prima a Zurigo e poi a Berlino. È stata fatta una presentazione abbastanza dettagliata di questa raccolta di saggi esegetici insieme a quelle analoghe di M. Noth, (Gesammelte Studien zum Alten Testament, ThB 6, 1957) e di G. von Rad ( Gesammelte Studien zum Alten Testament, ThB 8, 1958) in M. Metzger, «Gesammelte Studien zum AT», in Verkündigung und Forschung 11, 1966, pp. 6-43. Merita di essere segnalata la recensione di C. Westermann in ThLZ 91, 1966, c. 181-185. Sono da ricordare pure le due recensioni italiane di J.A. Soggin in Protestantesimo 20, 1965, pp. 175-176 e di G. Rinaldi in Bibbia e Oriente 8, 1966, pp. 128-129. 2 W. Zimmerli, Ezechiel (Biblischer Kommentar A.T., XIII), vol. 1-2, Neukirchen, 1955-1969, pp. 1-130, 1-1285. Oltre alle numerose recensioni, per un apprezzamento critico, cfr.: H Bardtke, «Der Prophet Ezechiel in der neuen Forschung. Zum Ezechielkommentar von W. Zimmerli» in ThLZ 96, 1971, c. 721- 734. I frutti del lavoro del commentario sono sintetizzati in: W. Zimmerli, Ezechiel. Gestalt und Botschaft (Biblische Studien 62),

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Commentario rappresenta l’opus vitae di W. Zimmerli e presenta un’analisi approfondita e minuziosissima del testo biblico, dal punto di vista filologico, letterario, storico e teologico. È nel Commentario che in genere il metodo esegetico di una scuola o di un autore trova la sua applicazione più integrale ed esemplare, e quello che colpisce nel vasto Commentario ezechielico di Zimmerli è la fusione dell’indagine letteraria con la riflessione teologica. Per quanto riguarda l’indagine letteraria, essa si svolge su un doppio piano, quello della storia della forma e quello della storia della tradizione. È opportuno illustrare a questo punto questi due concetti fondamentali della moderna esegesi biblica, perché non solo stanno alla base del Commentario succitato, ma caratterizzano anche molti degli studi raccolti in questo volume. Nella ricerca della storia della forma o del genere letterario, si rileva la struttura del brano in questione e, mettendola a confronto con brani simili, si riesce ad individuare in essa una forma consueta e convenzionale del dire, derivata all’autore biblico dal suo ambiente più immediato. La forma è però collegata con una certa situazione della vita della comunità (per es. il culto, la prassi giudiziaria o militare), e da essa il linguaggio adibito nel singolo caso acquista particolari consonanze e pregnanze che non sfuggivano ai primi destinatari. Così ogni brano biblico esaminato viene etichettato in una speciale forma letteraria. Per quanto riguarda Ezechiele, nel Commentario di Zimmerli si enumerano ben quindici forme diverse in cui è possibile catalogare tutto il materiale letterario del libro omonimo. L’identificazione della forma e della situazione originaria permette poi di precisare meglio il senso e la portata dei singoli termini usati nel discorso profetico. Nella ricerca di storia della tradizione si conduce un esame tematico del testo ezechielico, e così si mette in evidenza in quale maniera personale il profeta riprende e sviluppa un argomento attestato nella tradizione precedente3. In questo modo è possibile cogliere il preciso messaggio del profeta Neukirchen 1972. Altre pubblicazioni di Zimmerli su Ezechiele, oltre a quelle raccolte in questo volune: «Ezechiel», in ThLZ 82, 1957, c. 333-340; «Israel im Buche Ezechiel», in VT 8, 1958, pp. 74-90; «Deutero – Ezechiel? », in ZAW 84, 1972, pp. 501-516. 3 Un chiaro esempio di questo metodo lo si trova in W. Zimmerli, «Form- und Traditionsgeschichte im Dienst der Verkündigung», in Zeitschrift für Katholische Theologie 92, 1970, pp. 72-81; Id., «The Special Forrn- and Traditio-Historical Character of Ez’s Profecy», in VT 15, 1965, pp. 515-527.

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nel suo momento storico, ed osservare così il modo singolare in cui egli è portatore della parola di Dio per i suoi contemporanei. Zimmerli sottolinea più volte come il profeta viva nel suo oggi e come rifletta nella sua parola il giudizio attuale di Dio sulla sua epoca, senza preoccuparsi di parlare di Dio secondo i criteri di un sistema concettuale. Per quanto riguarda l’applicazione del metodo storico-critico al libro di Ezechiele, Zimmerli rifiuta certi estremismi (per es. Hölscher, 1924) che negavano ad Ezechiele la paternità di tanti brani del libro che ne porta tradizionalmente il nome, ma ammette un processo di crescita nella formazione di esso, che si compie anche dopo il profeta nella cerchia dei suoi discepoli. Oltre ai saggi riguardanti il libro di Ezechiele, il presente volume ne contiene altri due riguardanti i profeti (capp. III e IX): in entrambi i casi si analizza il linguaggio profetico e l’evoluzione di alcune sue formulazioni4. Questa attenzione al linguaggio, che è nello stesso tempo di natura grammaticale, stilistica e lessicale, ha la sua importanza teologica e trova una sua diretta trattazione nel cap. XII. Da Ezechiele è facile il passaggio allo Scritto sacerdotale (Priestercodex = P), per ragioni di prossimità cronologica ed ideologica, e ad esso è dedicato uno studio approfondito, e divenuto già famoso, che vi esamina il concetto di alleanza (cap. VIII). Così l’interesse è passato dai profeti alla Legge. Ed alla Legge, in quella particolare espressione del Decalogo sono dedicati i due studi dei capp. I e X, mentre nel cap. XI si ha una trattazione teologica del suo ruolo di fondo nell’ambito di tutto l’Antico Testamento5. Oltre la Legge e i profeti, viene toccato il terzo settore del Canone veterotestamentario nell’importante studio del cap. XIII dedicato alla Sapienza. Si tratta dello studio più recente (1962) di quelli raccolti in questo volume. In esso si presenta un’interpretazione teologica molto rigorosa del

4 Sui profeti, al di fuori di Ezechiele, si può ancora ricordare: Die Boschaft der Propheten heute (Calwer Hefte 44), Stuttgart 1961; «Vier oder fünf Thronnamen des messianischen Herrschers von Jes. IX 5b. 6», in VT 22, 1972, pp. 249-252; «Die Bedeutung der großen Schriftprophetie für das alttestamentliche Reden von Gott», in VT Suppl. 23, 1972, pp. 48-64. Zimmerli ha curato inoltre l’edizione di J. Begrich, Studien zu Duterojesaja (ThB 20), München 1963. 5 Il tema verrà ripreso in Das Gesetz und die Propheten, Göttingen 1963 (Cfr. sotto n. 20).

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fenomeno sapienziale che presenta già una sua aporia all’interno stesso dell’AT6. Solo l’ultimo saggio del cap. XIV prende lo spunto dal Nuovo Testamento, ma si riallaccia chiaramente al substrato veterotestamentario già illustrato nel cap. VI. Così si rileva una linea direttrice unitaria nei vari studi raccolti in questo volume, che è frutto di una continuità di metodo esegetico e di impegno teologico. È importante che il lettore avverta in ogni saggio, scritto ciascuno in occasione diversa, il riemergere dello stesso metodo e dello stesso stile, che non si concede facili divagazioni, ma che è misurato nel suo procedere e nel suo disegno, per cui da un problema di partenza si giunge ad una conclusione, senza forzature, ma attraverso l’ordinato accumularsi di osservazioni basate esclusivamente sul testo. In genere esula dagli interessi del nostro Autore l’indagine propriamente storica7, mentre si mira alla rilevazione del messaggio teologico attraverso la minuziosa analisi letteraria. 2. La produzione di Zimmerli è proseguita al di là dei saggi del presente volume, pubblicato in prima edizione, come si è detto, nel 19628. Più volte egli ha avuto occasione di presentare e difendere la sua visione globale dell’Antico Testamento. Nel 1952 in occasione della programmazione dell’imponente collana del Biblischer Kommentar diretto prima da M. Noth (†1968)9 e poi da M.W. Wolff, a cui Zimmerli avrebbe dato il suo importante contributo con i due volumi su Ezechiele sopra menzionati, si aprì un dibattito sulla rivista Evangelische Theologie riguardante la metodologia esegetica dell’AT10. Ad esso partecipò Zimmerli, accanto a M. Noth e a G. von Rad, con l’articolo Verheissung und Erfüllung, in cui sostiene la 6 Sul problema della sapienza, ancor più recentemente: W. Zimmerli, «Die Weisheit Israels», in Ev. Theol. 31, 1971, pp. 680-695, dove si fa una critica di G. von Rad, Weisheit in Israel, 1970. 7 Fanno in qualche modo eccezione: «Ezechieltempel und Salomostadt», in Festschr. W. Baumgartner, VT Suppl. 16, 1967, pp. 389-414; «Planungen für den Wiederaufbau nach der Kathastrophe von 587», in VT 18, 1968, pp. 229-235. Si ricordi pure uno studio di storia comparata delle religioni: Der Prophet im A.T. und im Islam, 1943. 8 L’autore stesso non ha incluso in questa raccolta: «Zur Struktur der alttestammentlichen Weisheit», in ZAW 51, 1933, pp. 177-204. 9 Zimmerli ne ha scritto il necrologio: «In memoriam Martin Noth», in VT 18, 1968, pp. 409-413. 10 Cfr. H.J. Kraus, Geschichite der historisch-kritischen Erforschung des Alten Testaments, 2a ed., Neukirchen, 1969, pp. 497-503.

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legittimità dell’interpretazione teologica dell’AT fondata sull’eventoCristo, compimento della promessa11. Nel 1962 Zimmerli scrive l’articolo «Offenbarung im AT»12 in risposta a R. Rendtorff13. Rendtorff era giunto a due conclusioni fondamentali (pp. 38-41): la rivelazione non si manifesta in una storia operata da Dio in maniera speciale ma nella storia comune, ed è leggibile da ogni uomo di buona volontà, senza essere riservata ad Israele. In secondo luogo, la parola (profetica) non è veicolo della rivelazione accanto alla storia che da essa deve essere interpretata perché vi risulti la rivelazione che vi è contenuta. Per Zimmerli invece nell’AT si ha una comprensione della storia tale per cui essa viene in alcuni casi mossa da Dio in favore del (o contro il) suo popolo, ed in più si aggiunge l’invio da parte di Dio di un mediatore che profeticamente la interpreti attraverso la sua parola (per es. Mosé). Così la rivelazione avviene attraverso l’evento e la parola. Mentre l’interpretazione di Rendtorff sembra riduttiva nei confronti della specificità della rivelazione dell’AT, Zimmerli insiste a ragione sulla sua derivazione attuale da uno speciale intervento di Dio, e dalla sua presenza attiva in mezzo ad Israele e nella testimonianza dei suoi profeti. Un anno appresso Zimmerli ha esposto il suo pensiero sui compiti di una Teologia dell’AT recensendo14 i due volumi di G. von Rad15. Von Rad ricostruisce nella loro varietà storica le concezioni religiose di Israele attestate negli scritti dell’AT. Egli rinunzia a tentare una sintesi a partire da Dio, ma esamina le espressioni della fede a partire dalla coscienza di Israele. Zimmerli rimprovera a von Rad di trascurare di far dipendere le concezioni 11

Ev. Theol. 12, 1952-1953, pp. 34-59, riportato in: C. Westermann (ed.), Probleme alttestamentlicher Hermeneutik (ThB 11), 2a ed., München 1963, pp. 69-101, che riporta pure i contributi di G. von Rad (pp. 11-17) e di M. Noth (pp. 54-68). Cfr. sulla questione la rassegna critica: K. Schwarzwäller, «Das Verhältnis Altes Testament-Neues Testament im Lichte der gegenwärtigen Bestimmungen», in Ev. Theol. 29, 1969, pp. 281-307. 12 Ev. Theol. 22, 1962, pp. 15-31. 13 «Die Offenbarungsvorstellungen im Alten Israel», nel volume collettivo diretto da W. Pannenberg, Offenbarung als Geschichte, 3a ed., 1965, pp. 21-41 (traduz. it., Rivelazione come storia, Ed. Dehoniane, Bologna). 14 In VT 13, 1963, pp. 100-111. 15 Theologie des Alten Testaments. I, Die Theologie der geschichtlichen Überlieferungen, München 1957; II, Die Theologie der prophetischen Überlieferungen, 1960 (traduz. it., Teologia dell’Antico Testamento, vol. I, Ed. Paideia, Brescia, 1972; vol. II, ibid. 1974). Cfr. R. De Vaux, «Peut-en écrire une ‘Théologie de l’Ancien Testament’?», in Bible et Orient, Paris, 1967, pp. 59-71.

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religiose di Israele dai fatti che li precedono e che provengono dallo stesso Dio, in modo che la fede di Israele viene considerata in maniera troppo soggettiva, sganciata dai fatti storici che la provocano. Limitandosi a rilevare le variazioni dell’atteggiamento religioso nella storia di Israele, von Rad, secondo Zimmerli, trascura di rilevare l’elemento della continuità che proviene dalla fedeltà di Dio. «Questa impostazione di una Teologia non porta a farla diventare in fondo una antropologia, nella quale non si tiene più conto delle azioni proprie di Dio per disperdersi soltanto nel considerare la testimonianza umana in tutta la sua varietà?» (Art. cit., p. 104). La questione della differenza tra una teologia dell’AT ed una storia della fenomenologia religiosa dell’AT, si è così accesa ed obbliga a prendere coscienza degli orientamenti di fondo che animano la propria ricerca esegetica16. L’indirizzo di Zimmerli sulla Teologia dell’AT si è potuto ora concretizzare in un manuale pubblicato nel 1972, che dovrebbe essere l’abbozzo di un’opera più vasta17. Qui risulta chiara la diversità rispetto all’opera di G. von Rad. La disposizione è di tipo tematico: Jahvé, Dio di Israele a partire dall’Egitto, il dono di Jahvè, il comando di Jahvè, la vita al cospetto di Jahvè, la crisi e la speranza. Il libro termina con un paragrafo su «L’apertura della predicazione dell’AT», nel senso che essa rimane sospesa su un evento futuro che deve ancora compiersi. Nell’esposizione si segue però il metodo storico e positivo, con il quale si rivive l’esperienza di Israele di fronte al Dio vivo. 3. Più volte Zimmerli ha avuto occasione di fare opera di seria divulgazione. Cominciò nel 1943 con un esteso commento dei primi 11 capitoli della Genesi18, ripubblicato in terza edizione nel 1967, in cui si unisce il 16 La questione sullo spirito e sul metodo della teologia dell’Antico Te-stamento è attualmente molto dibattuta. Cfr. E. Jacob, Grundfragen alttestamentlichen Theologie (Franz-Delitzsch-Vorlesungen 1965), Stuttgart 1970; R.B. Laurin, Conternporary OT Theologians, London 1970; H.-J. Kraus, Die Biblische Theologie. Ihre Geschichte und Problematik, Neukirchen 1970; E. Würtwein, «Zur Theologie des Alten Testaments», in ThR (NF) 36, 1971, pp. 185-208; R. Martin-Achard, «La théologie de l’Ancien Testament après les Travaux de G. von Rad» in ETRel. 47, 1972, 219-266; W.H. Schmidt, «‘Theologie des. Alten Testaments’ vor und nach Gerhard von Rad», in Verkündigung und Forschung 17, 1972, pp. 1-25. 17 Grundriß der alttestamentlichen Theologie, Stuttgart, 1972. 18 I. Mose I-II. Die Urgeschichte, Zürich 1943; 3a ed., 1967. Sulla prospettiva pasto-

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rigore dello studioso con l’intenzione pastorale19. Ma essa si è potuta esprimere in maniera più matura in tre serie di 11 lezioni tenute rispettivamente negli anni 1962, 1967 e 1970 per gli studenti di tutte le Facoltà dell’Università di Gottinga. In esse si presentano in maniera magistrale delle vere sintesi su tutto l’AT, partendo da un problema particolare. Nella tematica del 1962 si esamina il significato dell’AT a partire dalla tensione che in esso si manifesta tra la Legge e i Profeti e si mostra la sua complementarietà con il Nuovo Testamento20. Nelle lezioni del 1967 si prende lo spunto dall’interpretazione della speranza nella Bibbia in senso esclusivamente intramondano proposta da E. Bloch21, per ribadire la compresenza della dimensione trascendente nell’escatologia biblica22. Nel terzo ciclo la ricerca è volta a superare la contrapposizione proposta da R. Bultmann tra l’AT come libro rale dell’esegesi scientifica: W. Zimmerli, «Die historisch-kritische Bibelwissenschaft und die Verkündigungsaufgabe der Kirche», in Ev. Theol. 23,1963, pp. 17-31. 19 Non è senza interesse riportare le prime parole dell’introduzione, che hanno un significato programmatico e profetico (siamo nel 1943!): «La comunità cristiana vive della parola di Dio. Non è dalla sua devota intimità, e neppure dalla considerazione del miracolo della natura, che essa attinge le forze dalle quali vive. Essa conosce il miracolo con il quale Dio ha rotto il silenzio ed ha parlato al mondo. Dio ha parlato al popolo dell’antica alleanza e, per mezzo della sua parola, lo ha chiamato nella sua prossimità. Ma in tutta questa parola soggiace un’attesa ed una spinta nascosta verso una realtà più grande che deve ancora apparire. Nel suo figlio Gesù Cristo, Dio ha rivolto al mondo la sua parola intera e totale. Allora risuona l’acclamazione per lo sposo (Mt. 9,15), allora si rilegge la parola veterotestamentaria e si attesta: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi” (Lc. 4,21). Di questa parola, che ha trovato in Gesù Cristo il suo centro ed il suo compimento, vive la comunità. Quando questa si è allontanata da essa, è diventata – forse anche godendo di un grande fasto esteriore – povera; quando le si è riaccostata di nuovo, allora ne ha sperimentato vitalità e riforma. La Chiesa cristiana riconosce oggi, sotto la bufera dei tempi, come molto di quanto prima considerava vitalmente necessario non è necessario per la sua vitalità. L’ascoltare rettamente la parola è, al contrario, l’ultima ed incondizionata necessità vitale della Chiesa» (op. cit., p. 11). 20 Das Gesetz und die Propheten. Zum Verständnis des Alten Testaments, Göttingen 1963; 2a ed., 1969 (cfr. sopra n. 5) Riduzione in inglese: The Law and the Prophets (James Sprunt Lectures 1963), New York 1965. 21 E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt am Main 1959; Id., Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell’Esodo e del Regno, Ed. Feltrinelli, Milano 1971. 22 Der Mensch und seine Hoffnung im Alten Testament, Göttingen 1968; Man and his Hope in the Old Testament, London, 1971. Così ne scrive R. Tounay: «Come ci si doveva attendere da parte di uno dei migliori esegeti dell’A.T., l’autore sa congiungere la profondità con la chiarezza, la precisione tecnica con l’eleganza letteraria» (RB 66, 1969, p. 459). Cfr. sotto n. 27.

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della ‘mondanità’ ed il NT come libro della ‘demondanizzazione’, per mostrare come l’AT si muove nel segno di quella stessa sovranità e dedizione di Dio all’uomo che trova la sua massima espressione nel Cristo23. In queste pubblicazioni divulgative emerge chiaramente il tipo di impegno teologico che anima l’opera esegetica di Zimmerli24. Essa porta costantemente due caratteristiche. Innanzi tutto abbiamo una indagine letteraria del testo abbastanza precisa, che viene esposta in maniera molto ordinata e tale da cogliere le questioni essenziali e da riferire in breve le posizioni più rappresentative sull’argomento trattato. In tutto questo lavoro, si ha la coscienziosità dello studioso che sfugge le facili generalizzazioni, la essenzialità del maestro che evita l’erudizione dispersiva, l’eleganza ed il garbo dell’esposizione propria dell’uomo di lettere che è accurato nella sua espressione linguistica. Quindi si sfocia nella sintesi teologica. Il testo biblico viene ascoltato in profondità, situandolo discretamente in quella prossimità di Dio che l’ha originato in una particolare circostanza storica. 4. Per completare il quadro dell’attività del nostro Autore, merita di essere ricordata a parte la sua opera di collaborazione a diverse iniziative editoriali e di studio. Egli è membro del comitato di direzione delle due più importanti riviste di studi veterotestamentari, la Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft (Berlin) e la Vetus Testamentum (Leiden). Costantemente presente ai Congressi internazionali della International Organization for the study of the Old Testament, vi ha presentato un contributo nella sessione di Roma del 196825. Frequente è la sua partecipazione nelle Festschriften, per es. in quelle pubblicate in onore di A. Weiser26,

23 Die Weltlichkeit des Alten Testaments, Göttingen, 1971 (ed. it. La mondanità dell’Antico Testamento, Jaca Book, Milano 1973). 24 Si possono aggiungere, a titolo esemplificativo, altri scritti minori di carattere divulgativo: «Gericht und Heil im at. Prophetenwort», in Der Anfang. Zehlendorfer Vorträge 11, 1949, pp. 21-46; «Ich bin, der ich bin. Glaube an Gott im A.T. », in Deutsches Pfarrerblatt 68, 1968, pp. 152-157; «Zur Exegese von Gen 4,1/16», in Der evangelische Erzieher 20, 1968, pp. 200-203; E. Wachter, Genesis. Das Gesicht der Urväter in 101 Lithographien und 4 mebrfarbigen Aquarellen. Einführung von W. Zimmerli, Frankfurt 1970. 25 «Zur Vorgeschite von Jes 53», in VT Suppl. 17, 1969, pp. 236-244. 26 «Der Warheitserweis Jahwes nach der Botschaft der beiden Exilspropheten», in Festschr. A. Weiser, Göttingen 1963, pp. 133-151.

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T.C. Vriezen27, W. Baumgartner28, L. Rost29, K. Galling30, W. Eichrodt31, M. Doerne32, G. von Rad33, A. Dupont-Sommer 34, W. F. Albright35, A. Jepsen36, J. Ziegler37. Non è inutile far notare come diversi studi pubblicati nel presente volume hanno avuto un’analoga origine: L. Köhler (1950, cap. IX), A. Bertholet (1950, cap. X), A. Alt (1953, cap. I), A. Robert (1957, cap. III), W. Baumgartner (1957, cap. VI), G. Schrenk (1959, cap. XIV); mentre i capp. XII e XIII sono stati occasionati da due convegni di studio. Inoltre va segnalata la collaborazione di Zimmerli al Theologisches Wöterbuch zum Neuen Testament38, e nella serie dei Commentari Das Alte Testament Deutsch dove ha curato con una appassionata trattazione il libro dell’Ecclesiaste39. Tutta questa opera, che si è costantemente sviluppata nel corso di vari decenni, rivela, quando la si considera a distanza ed unitariamente, continuità di impegno e coerenza di impostazione. Essa è stata nello stesso tempo servizio credente verso la Parola di Dio e professione di cultura, che ha congiunto insieme la meticolosità del ricercatore e la vivacità dell’uomo che vive esistenzialmente i problemi del suo tempo. Questo programma ha 27 «Der Mensch und seine Hoffnung nach den Aussagen des A.T. », in Festschr. T. C. Vriezen, Vageningen 1966, pp. 389-402. Cfr. sopra n. 22. 28 «Ezechieltempel und Salomostadt», Cfr. sopra n. 7. 29 «Abraham und Melchisedek» (Gen 14), in Das ferme und nahe Wort. Festschr. L. Rost, BZAW 105, 1968, pp. 255-264. 30 «Das ’Gnadenjahr des Herrn’», in Festschr. K. Galling, Tübingen 1970, pp. 321332. 31 «Erwägungen zum‚ Bund’. Die Aussagen über die Jahwe-berît in Ex 19; 34», in Festschr. W. Eichrodt (ATANT 59), 1970, pp. 171-190. 32 «Verkündigung und Sprache der Botschaft Jesajas», in Festschr. M. Doerne, Göttingen, 1970, pp. 441-454. 33 «Alttestamentliche traditionsgeschichte und Theologie», in Probleme biblischer Teologie. Festschr. G. von Rad, München 1971, pp. 634-647. 34 «Haesed im Schriftum von Qumran», in Hommages à André Dupont-Sommer, Paris, 1971, pp. 439-449. 35 «Erstgeborene und Leviten», in Festschr. W. F. Albright, 1971, pp. 459-469. 36 «Das Bildverbot in der Geschichte des alten Israel», in Schalom. Studien zu Glaubei und Geschichte Israel. Festschr. A. Jepsen, 1971, pp. 86-96. 37 «Zwillingspsalmen», in Wort, Lied und Gottesspruch, Wüzburg 1972, pp. 105-113. 38 Art. pa_v qeou vol. v, 1954, c. 653-676; estratto in inglese: Zimmerli and Jeremias, The Servant of God (Studies in Biblical Theology 20), London 1957; art. caériv, vol IX, c. 366377 (tr. it. Ed. Paideia, Brescia). 39 Das Buch des Predigers Salomo (ATD 16), Göttingen, 1962. Già prima: Die Weisheit des Predigers Salomo, 1936.

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trovato la sua esplicita espressione in un piccolo libro del 1956, Das Alte Testament als Anrede (L’Antico Testamento come voce che interpella). L’AT è visto vitalmente e religiosamente in una suggestiva dimensione dialogica, che muove all’ascolto del messaggio ma rende estremamente attenti, anche impiegando con arte consumata i più raffinati metodi critici, alla materialità della parola. Non voglio chiudere queste note senza ricordare il calore umano che caratterizza la personalità del prof. Zimmerli. Egli ha fatto dello studio dell’AT un programma di vita ed un’occasione permanente di incontro con gli uomini, sia nell’ambito della sua scuola, sia in quello più ampio dei colleghi, che egli ama incontrare nei Congressi internazionali e nella patriarcale ospitalità della sua casa. E ciò costituisce un motivo di particolare soddisfazione per introdurre nell’ambiente italiano, attraverso questa traduzione, un’opera fra le più significative di questo esegeta-teologo.

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25 VISITA AD UN KIBBUTZ RELIGIOSO [1983]

Grazie all’interessamento di qualche amico ebreo, mi è stato possibile passare due settimane in un kibbutz, a conclusione del mio soggiorno di un anno e mezzo a Gerusalemme. Avrei avuto così, finalmente, l’opportunità di conoscere un po’ più da vicino l’ambiente ebraico, che a Gerusalemme mi restava piuttosto lontano, dato che vivevo nel quartiere arabo-cristiano della città vecchia. Il mio interesse era quello di venire a contatto, simultaneamente, sia con la realtà israeliana e sia con la spiritualità giudaica. Tenendo conto di questa seconda esigenza, abbiamo fatto di tutto perché potessi essere accolto in un kibbutz religioso, che abbina l’organizzazione caratteristica del kibbutz con gli usi e le esigenza dell’ebraismo ortodosso. Tenterò ora di tracciare un profilo sommario di questa esperienza, basandomi sulle mie impressioni e sulle indicazioni che ho potuto raccogliere dalle numerose conversazioni informali avute con diversi membri del kibbutz.

La fondazione Quando si arriva al kibbutz dopo due ore di autobus da Gerusalemme, dalla fermata si vede solo un fitto conglomerato di alberi alti e densamente verdi, senza che si possa avere il minimo sospetto dei tanti fabbricati che vi si annidano all’interno e dell’intensa vita laboriosa che vi si conduce. A soli 7 Km si trova la zona araba di Gaza; da qui la strada procede per Ber-sheva (a 40 Km), il centro propulsore della fertilizzazione del Negev. Saad, è questo il nome del nostro kibbutz, confina, perciò, con il deserto o, forse meglio, con quanto era una volta deserto. Il suo nome compare sulla carta geografica d’Israele come se fosse un comune, ma è solo un kibbutz, si direbbe una comune. Il kibbutz è stato fondato nel 1950, quando qui non c’era ancora nessun albero. La famiglie che vi abitano costituiscono una popolazione di circa 700 unità. La generazione dei veterani è costituita in maggioranza da immigrati provenienti dalla Polonia,

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Romania, Germania, sfuggiti in tempo all’olocausto. Alcuni hanno fatto pure l’esperienza del campo di concentramento. Ascoltando la loro storia, si rivisita l’Europa centro-orientale della fine degli anni ’30, ma la popolazione non è omogenea, quanto all’origine. C’è pure gente che proviene dagli Stati Uniti, Russia, Irlanda, Yemen, Austria. Si ritrova, così, rappresentata nel microcosmo del kibbutz tutta la varietà etnica che caratterizza la popolazione israeliana.

L’organizzazione La vita sociale del kibbutz realizza un equilibrio molto bilanciato tra i momenti in cui prevale l’elemento collettivo-comunitario e quelli in cui è rilevante l’elemento privato della struttura familiare. Il modello sociale su cui si basa la vita del kibbutz gioca proprio sull’alternanza e sull’integrazione tra l’istanza collettiva e quella privata; quest’ultima si identifica quasi del tutto col quadro dell’unità familiare. Detto principio emerge chiaramente anche nella disposizione dei fabbricati. Un grande fabbricato centrale, dalle linee agili e geometriche, contiene tre grandi sale da pranzo e gli uffici. Da qui passano tre volte al giorno tutti gli operatori del kibbutz per i pasti, che si consumano al selfservice. Si prende posto nelle tavole o insieme ai compagni di lavoro, o incontrando gli altri membri della famiglia. Per la cena, comunque, ogni famiglia si riunisce nella stessa tavola. Protette dall’ombra degli alberi e separate tra di loro da ridenti prati verdi, si trovano distribuite grosso modo a semicerchio, a partire dal fabbricato centrale, le varie case, ciascuna delle quali contiene diversi appartamenti familiari. Ogni appartamento è piccolo, due stanze, una come soggiorno e l’altra come camera da letto, più i servizi. Spesso, almeno un’intera parete del soggiorno è piena di libri. Davanti alle due stanze c’è una veranda coperta, che dà sul vialetto antistante, dove si tiene pure il frigorifero. Qui nel giorno del riposo si prende, al pomeriggio, il caffè con gli ospiti e si consuma la rituale torta del sabato, che ciascuna donna prepara per la sua famiglia. L’altro semicerchio dell’area abitata è occupato da grandi capannoni: le stalle per le mucche e per il pollame, l’officina per la riparazione delle macchine agricole e dei vari impianti interni, la falegnameria, impegnata attualmente a costruire le aperture per i nuovi appartamenti in via di ulti-

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mazione. Da poco tempo funziona pure una fabbrica di materie plastiche che occupa circa 22 persone e che esporta i suoi prodotti anche all’estero. Essa è stata impiantata da una ditta di Milano. C’è inoltre la piscina, la scuola con un piccolo giardino zoologico, la lavanderia centralizzata per l’intera popolazione del kibbutz, e infine, trattandosi di un kibbutz religioso, la sinagoga.

La vita familiare I bambini e i ragazzi non pernottano nel piccolo appartamento familiare, ma in gruppi distinti per età, ciascuno in un proprio fabbricato. I figli stanno con i genitori dalle quattro del pomeriggio fino a dopo la cena che, come ho già detto, ogni famiglia consuma in un tavolo distinto nei saloni del fabbricato centrale. Anche i lattanti dormivano, fino a poco tempo fa, nella loro casa comune, staccati dai genitori e accuditi da vigilatrici. Ora è stato deciso che i genitori li trattengono con loro durante la notte. Per questo i nuovi appartamenti in costruzione sono già più grandi, ed è previsto l’allargamento degli appartamenti già esistenti. Con tutto ciò, ho notato un forte senso della famiglia. Per le ore che li hanno con sé, i genitori, alleggeriti già dalle altre preoccupazioni grazie all’organizzazione comunitaria, si dedicano molto ai figli. Questi, peraltro anche se vivono nelle diverse case comuni, non hanno l’impressione di vivere fuori dell’abitazione familiare, perché esse stanno a due passi da questa. I ragazzi vi si ritrovano quando i genitori sono tornati dal lavoro. Il numero dei figli è relativamente elevato.

Il lavoro Per quanto riguarda l’aspetto umano del lavoro, ho notato un grande senso di responsabilità. Tutti sentono che non lavorano per un’ altro, e che la prosperità del kibbutz rifluisce su ciascuno. Tutta la programmazione della vita e dell’economia del kibbutz è decisa dall’assemblea di tutti i membri, che si riunisce ogni settimana. Le cariche direttive sono assegnate per votazione e si rinnovano periodicamente. Nei posti di lavoro ci sono compiti fissi, legati alla competenza e alla specializzazione di ciascuno, ma è possibile, se lo si vuole, cambiare attività. Così un

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insegnante mi ha detto che ha chiesto di lavorare per un anno in fabbrica. Il lavoro comincia alle 6,30 e finisce alle 15,30, tolte le pause della colazione e del pranzo, per le quali ci si reca, da qualunque posto dell’intera area del kibbutz, compresi i campi, nella sala da pranzo comune. Nell’organizzazione del lavoro si distingue il lavoro destinato alla produzione e quello destinato ai servizi. Il lavoro per la produzione deve impegnare il 40% delle forze di lavoro. Il resto è assorbito dai servizi, nei quali è compreso, oltre il lavoro della cucina, lavanderia e amministrazione, anche quello della falegnameria, officina, edilizia e scuola. Ci sono dei membri che lavorano fuori del kibbutz, come insegnanti nelle scuole vicine, come tecnici nei servizi consorziali di zona, come responsabili nell’organizzazione centrale dei kibbutz religiosi. Tre membri insegnano pure all’Università del Negev, nella vicina Ber-sheva. Tutti gli stipendi percepiti presso gli altri enti, compreso lo stato, entrano nella cassa comune del kibbutz. Ci sono pure dei lavoratori esterni, annuali, specialmente nella falegnameria e nell’edilizia, e giornalieri, per certi lavori stagionali. Così lavorano nel kibbutz pure degli arabi che vengono ogni mattina da Gaza. Essi ricevono tutta la loro paga regolare. Per ogni membro del kibbutz si stanzia una somma all’anno uguale per tutti, destinata al vestiario e alle altre spese di carattere personale. In base all’incremento economico generale si decidono delle migliorie nei servizi di cui ognuno o ogni famiglia ne beneficia. Così, per esempio, ma con notevole ritardo rispetto allo standard di vita del resto della nazione, si è introdotta la televisione in ogni famiglia. Attualmente si sta lavorando per mettere il telefono in ogni casa. Il kibbutz paga ad ogni membro alcuni giorni delle ferie in albergo, ma solo in territorio nazionale. Si spera che per il futuro si avrà la possibilità di qualche vacanza all’estero, una cosa che gli israeliani amano molto, nonostante la controraccomandazione del ministro del tesoro. Ma c’è già qualcuno che va all’estero in missione di lavoro. Un problema più delicato è quello del diritto agli studi universitari. Le domande sono molte rispetto alle possibilità di accettazione. Come principio generale e vincolante si è fissato il tetto del 3% dell’intero capitale di giornate lavorative, da utilizzare per gli studi. Esso viene distribuito tra i beneficiari, in maniera però che ciascuno dispone per lo più solo di due o tre giorni alla settimana per frequentare, viaggiando o no, le lezioni universitarie. Le altre giornate le dedica al suo lavoro fisso nel kibbutz. Anche i ragazzi della scuola media dedicano qualche ora al giorno al lavoro nella fattoria. Nei momenti di crisi economica o in vista di nuovi investi-

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menti, tutti sanno che devono fare qualche sacrificio per accordarsi con la situazione generale del kibbutz.

Gli ospiti Il kibbutz rappresenta una grossa struttura lavorativa basata sulla corresponsabilità. Esso può accogliere perciò altra gente di fuori a titolo diverso, a parte i lavoratori esterni di cui abbiamo già parlato. Esistono almeno cinque tipi di ospiti. C’è «nahal»: un periodo di lavoro passato nel kibbutz come parte del servizio militare d’Israele. In questa categoria c’era un gruppo di 14 ragazze, che hanno chiesto di venire in un kibbutz religioso. C’è il «servizio nazionale» per altri ragazzi che non fanno ancora il servizio militare. Ci sono i «volontari», per lo più giovani stranieri, ebrei e non, che così, pur non immigrando o in vista dell’immigrazione, possono partecipare per un certo tempo all’esperienza d’Israele. C’è poi un servizio sociale che il kibbutz offre a dei ragazzi esterni che hanno difficoltà familiare. C’è, infine, un corso preparatorio per i convertiti al giudaismo, in concomitanza con la festa di Purim. In complesso i 700 abitanti del kibbutz assorbono ancora, in queste diverse categorie, ma in maniera fluttuante, circa altre 100 unità. In questo modo, si attua un’irradiazione educativa del kibbutz, ma anche un’osmosi di esperienze ed un’internazionalizzazione dell’ambiente.

La vita religiosa Su alcune centinaia di kibbutz secolari, i kibbutz religiosi sono solo 16. Essi si sono stanziati in diverse concentrazioni territoriali per poter avere dei servizi comuni, specialmente sul piano educativo. Costituiscono senz’altro un luogo privilegiato per avere un approccio con la spiritualità dell’ebraismo, perché essa si può pure incarnare nel lavoro e nelle istituzioni comunitarie. Il culto che si svolge nella luminosa ed ampia sinagoga che sorge in mezzo al verde nella zona centrale del kibbutz, alimenta, con i suoi ritmi periodici ed esatti, la vita e l’attività di questi uomini e di queste donne. Ogni mattina o ogni sera c’è la preghiera. Il tempo più suggestivo è quello del sabato; allora tutto si ferma nel kibbutz. Per singolare coincidenza, i due giorni del capodanno ebraico hanno preceduto quest’anno il

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sabato, e così abbiamo avuto un triduo intero di riposo. Il primo giorno del capodanno la preghiera è durata dalle 7,30 alle 12, il secondo giorno dalle 7,30 alle 11,45. Il sabato mattina solo un’ora e mezza. C’è stata poi la preghiera della vigilia di non meno di un’ora. Gli uomini indossano per tutto il giorno della festa la camicia bianca. I padri si portano con loro nella sinagoga i figli maschi e anche qualche bambina piccola. Lo stile della preghiera giudaica sorprende e forse, a prima vista, scandalizza. Pare che ci sia un’eccessiva quantità di formule, che vengono recitate con troppa fretta e con una certa cantilena un po’ disordinata, che solo qualche volta prende delle variazioni melodiche e diventa toccante. Facilmente si chiacchiera d’altro. Durante la preghiera si nota insieme serietà, naturalezza e distensione. In effetti questo sistema di preghiera ha una sua logica ed un suo ritmo, che incide beneficamente sull’animo di chi vi partecipa. Perciò si spiega il fatto che, fuori della sinagoga, l’atmosfera generale del kibbutz sia caratterizzata da correttezza e serenità. In questa preghiera tutta l’assemblea è protagonista. Quelli che pregano qui sono tutti uomini e riempiono la sinagoga per intero, occupando ciascuno il suo posto stabilito. Le donne partecipano numerose al culto nelle due strette navate laterali, separate da una sequenza di leggiadre grate bianche, che ne impediscono la vista diretta. Buona parte della preghiera è costituita da salmi biblici o è ispirata da essi. La cosa che mi stupisce è vedere con quanta disinvoltura questa gente, che incontro ogni giorno nei vari posti di lavoro, legge e rilegge la Bibbia in ebraico, divenendo capace, a lungo andare, di percepire tante sfumature recondite del testo biblico, che riecheggia tanti vocaboli e tante espressioni della lingua quotidiana, usata nei campi o nell’officina. Nel culto non c’è una vera predicazione, perché nel kibbutz non c’è un rabbino. Ma, in ogni giornata festiva, ci sono sempre delle «lezioni» su soggetto religioso, nelle quali si fa riferimento non solo alla Bibbia ma anche alle fonti della letteratura rabbinica. Allora la sinagoga si trasforma in aula, si può intervenire con domande da parte di tutti ed anche le donne possono parteciparvi mescolate con gli uomini. Con queste note ho voluto ricordare l’esperienza del kibbutz secondo le impressioni dirette ed immediate che ne ho riportate. Si dovrebbero fare pure delle osservazioni critiche, ma ciò esula dallo scopo di questo articolo. Mi sembrano almeno due le possibili linee di approfondimento critico: 1) Il valore del kibbutz in rapporto al suo ambiente esterno nella società israeliana. 2) Il significato del kibbutz in rapporto ad un ambiente non ebraico,

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e confronto con possibili realtà analoghe, esistenti o possibili in altri contesti culturali. Chiudo con una nota bibliografica, nella quale riporto i titoli dei libri che ho potuto rintracciare negli ultimi giorni passati in Israele.

Indicazione bibliografica 1) Opere di carattere generale Melford E. Spiro, Kibbutz. Venture in Utopia, Schocken Books, New York 1956 (1970). AA.VV., Kibbutz. A new Society? An Antology, Ichud Hebonim, Tel Aviv, 1971. Reuven Choen, The Kibbutz Settlement. Principles and Process, Hakibbutz Hameuchad Publishing House, 1972 (trad. dall’ebr.). Shalom Lilker, Kibbutz Judaism. A New Tradition in the Making, diss. Hebrew Union College, New York 1973. Paula Rayman, The Kibbutz Community and Nation Building, Princeton University Press 1981. Shalom Lilker, Kibbutz Judaism. A New Tradition in the Making, Cornwall Books, New York-London 1982. Ernest Krausz (ed.), The Sociology of the Kibbutz, Studies of Israeli Society II, Transaction Kooks, New Brunswick (USA)-London 1983. 2) Opere riguardanti l’infanzia e l’educazione Melford E. Spiro, Children of the Kibbutz, A Study in Child Training and Personality, Schocken Books, New York 1958 (1970). Bruno Bettelheim, The Children of the Dream, Collier-Macmillan Ltd., London 1969 (trad. ital. ed. Mondadori). A. I. Rabin, Growing up in the Kibbutz. Comparison of the personality of children brought up in the kibbutz and family-reared children, Springer Publishing Company Inc., New York 1965. A. I. Rabin – Bertha Hazan (ed.), Collective Education in the Kibbutz from Infancy to Maturity, Springer Publishing Company Inc., New York 1973.

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Peter P. Neubauer (ed.), Children in Collectives. Child-rearing Aims and Practices in the Kibbutz, Charles C. Thomas Publisher, Springfield, Illinois. 3) Sulla vita familiare Yonina Talmon, Family and Community in the Kibbutz, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1972 (1974). 4) La posizione della donna nel kibbutz Liolel Tiger – Joseph Shepher, Women in the Kibbutz, Harcourt Brace Jovanovich, New York-London 1975. Melford E. Spiro, Gender and Culture. Kibbutz Women revisited, Schocken Books, New York 1980. 5) Sui kibbutz religiosi Aryel Fishman (ed.), The Religious Kibbutz Movement. The Revival of the Jewish Religious Community, Jewish Agency, Jerusalem 1957. 6) Monografie su kibbutz particolari Yosef Criden and Saadia Gelb, The Kibbutz Experience. Dialogue in Kfar Blum, Schocken Books, New York 1974 (1976). Annie Lieblich, Kibbutz Makom, Pantheon Books, New York 1981. 7) Pubblicazione bibliografica Shimon Shur, Kibbutz Bibliography, Higher Education and Research Authority of the Federation of Kibbutz Movements, Jerusalem 1972 (contiene 1288 titoli).

P.S.: Esprimo il mio ringraziamento al prof. Alexander Rofé dell’Università Ebraica di Gerusalemme e alla signora Shoshanna EvronCassuto del kibbutz Saad che, con la loro iniziativa e disponibilità, mi hanno reso possibile il soggiorno nel kibbutz. (A.M.).

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26 GERUSALEMME IERI E OGGI [1985]

I miei ricordi della pasqua a Gerusalemme sono intrecciati con quelli relativi a tutto l’ambiente della città, che ho avuto modo di conoscere un poco nel corso di alcuni prolungati soggiorni che vi ho fatto per motivi di studio. Durante la pasqua, infatti, veniva alla ribalta, in maniera più manifesta, quella realtà nascosta e sotterranea con la quale ci si imbatteva continuamente, si avvertiva in modo più prepotente del solito quell’atmosfera caratteristica della vita di ogni giorno, formata da un diffuso misticismo sottile e latente da un lato, ed insieme da un’esperienza delle lacerazioni etniche e religiose, che manifestano al vivo le contraddizioni perenni della condizione umana e quelle proprie del nostro tempo. E’ questo lo sfondo storico ed esistenziale nel quale si situa l’esperienza della pasqua a Gerusalemme, soprattutto per chi non vi si trova di passaggio per qualche giorno della festa, ma vi rimane per qualche tempo, come straniero certo, ma sempre come osservatore partecipe e come testimone consapevole. La folla dei pellegrini cristiani formicola soprattutto nelle vie strette ma diritte della città vecchia, dove si trova il più importante santuario cristiano del mondo, il Santo Sepolcro. E’ una folla cosmopolita, che vi si muove ora con devozione ora solo con curiosità, formata da gruppi di pellegrini o anche da singoli. Tutte le botteghe sono aperte, e i mercanti arabi, poliglotti addestrati nel loro mestiere, invitano, con modi accattivanti e familiari, la gente che passa e che guarda incuriosita le loro mercanzie. Il venerdì santo è anche un succedersi continuo di gruppi che nelle varie lingue celebrano la via crucis, percorrendo la «via dolorosa» che termina sul Calvario, contenuto dentro la stessa basilica del Santo Sepolcro. La sera del giovedì santo la chiesa del Getsemani si riempie di gente raccolta, che tra pause di silenzio ascolta delle brevi letture bibliche pronunciate nelle diverse lingue. Ma poi ci sono le liturgie celebrate per le diverse confessioni cristiane nelle varie chiese nazionali. I cattolici tedeschi, sempre numerosi, per esempio, si danno convegno per tutta la settimana santa nella Abbazia benedettina della Dormizione della Vergine per partecipare a delle liturgie

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impeccabili ed austere, nel corso delle quale diversi cori, venuti dalla Germania, sciolgono il loro voto di cantare le polifonie della «Passione» di Bach nella stessa città dove Cristo è stato crocifisso. Molto vicino al Santo Sepolcro si trova, linda e compatta, la chiesa tedesca luterana, che organizza affollate liturgie e concerti d’organo e di corali. Poi c’è la chiesa degli Scozzesi, e ancora delle vere cattedrali: cattolico-latina, anglicana, russa, senza contare i tanti centri delle varie sette cristiane, per lo più di estrazione anglo-americana. Un momento molto bello è quello della processione della domenica delle palme, organizzata dal Patriarcato latino, che scende da Betfage, percorrendo il Monte degli olivi, fin dentro la parte orientale della città vecchia, per concludersi, attraversata la Porta aurea prospiciente la valle del Cedron, nel cortile del convento di sant’Anna, tenuto dai padri Bianchi. Dire processione è, forse, improprio e riduttivo. E’ come un corteo o una sfilata fatta in campagna, di un flusso interminabile di gente che, portando rami d’ulivo e palme, canta o prega nelle varie lingue, in un atteggiamento devoto sì, ma anche estroverso e disinvolto. Qui si danno convegno obbligato tutte le componenti della comunità cattolica non solo della città, ma anche dei paesi arabi vicini, e vi confluiscono anche gruppi e pellegrini protestanti di varie nazionalità. La fanfara dei boy-scouts cattolici, con una divisa che somiglia a quella dei soldati della Giordania, aggiunge una nota di vivacità e di folclore, assurgendo nello stesso tempo a simbolo di una gioventù il cui ardimento trova qui pochi sbocchi lavorativi ed è costretta ad emigrare all’estero. Nel villaggio di Betfage, le famiglie musulmane, ricche di bambini, stanno affacciate dalle loro terrazze e partecipano incuriosite alla festa, resa più colorita dagli alberi fioriti della campagna circostante. Al termine della discesa si passa davanti ad un verde cancello chiuso di un piccolo giardino pieno di pioppi, dove si intravedono le guglie flessuose della chiesa di S. Maddalena, curata da certe suore russe, che per lo più silenziose si incontrano qualche volta in città, riconoscibili a distanza oltre che per la loro lunga veste nera, anche per le loro caratteristiche cuffie appuntite. La visita al Santo sepolcro per diversi pellegrini si presenta a prima vista un po’ deludente. Quando c’è calca di gente c’è solo il disagio della folla. Ma quando c’è calma e ci sono pochi visitatori, si ha netta l’impressione di entrare in un luogo gestito in condominio: cattolici, greco-ortodossi, armeni, siriani, copti e, in una chiesa accanto ma attaccata allo stesso edificio, abissini. Varietà di usi, di lingua, di rito, di gestione. Stili orientale,

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occidentale e africano si mescolano e si sovrappongono. Ognuno visita l’unico sepolcro del Signore alla sua maniera, come quando nel cimitero ogni famiglia si ritaglia il suo spazio affettivo sulla tomba del proprio morto. Ma qui si tratta della stessa tomba, e soprattutto dello stesso Morto. Anche qui si sono avuti i litigi degli eredi. Le divisioni e le attenzioni che si condensano in questo luogo riflettono in realtà due mila anni di storia del cristianesimo nei suoi vari sviluppi spirituali e culturali. Così, per la parte che ci riguarda più da vicino anche dal punto di vista nazionale, l’amore per Cristo di Francesco d’Assisi è qui presente nella dedizione discreta e generosa dei frati della Custodia di Terra Santa. Anche la data della pasqua è diversa per i greco-ortodossi. Questo consente una migliore agibilità della basilica, perché così gli ammassamenti dei pellegrini possono alternarsi nell’accesso al Santo Sepolcro. Per la pasqua dei greci si vedono molti gruppi di anziani, uomini con baffi e donne vestite di nero, che provengono da Cipro o dalla Grecia e vengono alloggiati alla buona nei monasteri dipendenti dal Patriarcato ortodosso. Colpisce lo sguardo fermo e devoto di questa gente. Si dice che molti desiderano fare questo viaggio a Gerusalemme come preparazione alla morte. Così la sensazione globale che lascia nell’animo la pasqua di Gerusalemme è quella di un’umanità in movimento, unita e divisa nello stesso tempo, con divisioni che sono frutto ora di sedimentazioni plurisecolari, ora di contese più recenti, come il conflitto arabo-israeliano, per esempio. Alle porte della città vecchia, a concentrazione araba, si estende e si sviluppa la città nuova, abitata dagli ebrei. Passare dall’una all’altra è come passare il confine tra due nazioni diverse, in stato di perpetua belligeranza. Il confine qui, dal punto di vista politico, è stato abolito nel 1967, quando i soldati israeliani, con un combattimento serrato che si è avuto nella guerra lampo dei sei giorni, hanno conquistato la città vecchia, per giungere al Muro del pianto, che si situa sotto la grande Moschea della Roccia, il più importante luogo sacro dei musulmani dopo la Mecca. Gli ebrei che vengono a pregare al Muro del pianto sono guardati con tacita insofferenza dagli arabi che li considerano ancora come invasori. Perciò rimane profondo il confine dal punto di vista psicologico. Ma nella città nuova si avverte meno questa tensione. Anche qui, qualche giorno prima della nostra pasqua, gli ebrei celebrano la loro pasqua. Questa pasqua ebraica aiuta a comprendere la cena pasquale di Gesù nel giovedì santo. La famiglia si riunisce ed invita i parenti e gli amici che vengono dall’America e dall’Europa per la festa. Le bevande e i cibi

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seguono le prescrizioni del rito stabilite dalla tradizione. Mentre si mangia si legge cantando il testo della Agagda di pasqua. Il bambino più piccolo chiede: «Perché questa notte è diversa da tutte le notti?». Il capo famiglia, che presiede il rito ed è garante della continuità della tradizione, ricorda Mosè e la liberazione dall’Egitto. Nella memoria di tanti è sempre incancellabile il ricordo dell’olocausto. Il rito, che riflette la condizione della diaspora, si conclude con queste parole struggenti: «L’anno prossimo a Gerusalemme!», come per dire che Israele sente l’aspirazione a ricomporsi unito nella città santa. Di fatto anche dentro la società israelitica ci sono tensioni interne di carattere religioso e sociale tra ashkenaziti e sefarditi, tra religiosi e laici, tra i recenti immigrati dall’Africa del nord e gli immigrati dall’Europa. Così Gerusalemme è divisa e senza pace. Ma proprio questo è il suo fascino, perché le divisioni che qui si scoprono non sono semplici, hanno radici profonde, investono tutta la storia del mondo. Qui si vive il dramma del venerdì santo, in cui si spacca e si frantuma tutta l’umanità, nella luce presente e discreta, ma non ancora folgorante, della resurrezione pasquale.

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27 LA PERSISTENZA NELL’IMPLICITO L’opera pittorica di Riccardo Meli e la Bibbia [1989]

Il linguaggio dell’uomo, nella parola come nella pittura, proietta e produce i segni che delineano quello che lui sente nelle sue viscere più profonde: ora i suoi smarrimenti, ora le sue trepidazioni, ora i suoi abbandoni soffusi di serena confidenza. Anche l’esperienza ineffabile dell’incontro con Dio, il Signore che salva e che giudica, dà origine nella Bibbia alla produzione di un discorso, che riproduce nelle parole l’eco discreta e persistente di quella esperienza, ora prostrante ed ora esaltante. La Bibbia racconta sì dei fatti, ma soprattutto definisce un clima in cui quei fatti prendono corpo e significato, perché essi diventano tramite e canovaccio della rivelazione del Dio trascendente, che scendendo appunto dalla sua altezza e superando in qualche modo la sua alterità, si mescola con il vissuto dell’uomo e crea la singolare intelaiatura della storia di Israele. Con la costituzione di questo orizzonte spirituale, che è nello stesso tempo materiale e fantastico, tutti i fatti dell’esperienza storica o semplicemente quotidiana acquistano una trasparenza ed una forza evocativa che rimandano al Vivente, a Colui che sta dietro e al di sopra degli esseri a cui dà la vita. In questo modo si crea un giuoco incrociato di referenze, per cui il bello e il brutto che si incontrano nell’esperienza della vita sono sentiti come gradini e specchi che rimandano e fanno risalire al Principio e al Fine di tutto, all’Amore e alla Giustizia che tutto attrae e pondera. «Ora vediamo come in uno specchio», dirà poi san Paolo (1Cor 13,12). Perciò la stessa dimensione estetica della descrizione narrativa ricorre pure alle metafore ed alle comparazioni ma non si esaurisce in esse, perché li vede subordinate a questo immenso «Tu», che l’uomo biblico percepisce sempre come posto in cima all’esperienza che egli fa nell’incontro con il mondo esterno e con la sua stessa vicenda personale. Allora quanto di più intenso e significativo si incontra sul piano dell’esperienza naturale, viene assunto e proiettato per evocare l’incontro, dopo tutto sfuggente e misterioso, con il Signore, che l’uomo può rappresentarsi solo ricorrendo, nella consape-

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volezza di un grande rispetto e soggezione, agli antropomorfismi più teneri ed audaci. Metafore, immagini, paragoni, simboli, antropomorfismi, sono tutti tentativi di far scendere lo sguardo di Dio nelle fibre più recondite delle sue creature e di lanciare tutte le schegge dell’esperienza umana, trasfigurandole, nell’ambito del rapporto che lega l’uomo con il suo Dio. Ci basti citare alcuni esempi: «Io li traevo con legami di bontà, / ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, / mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,4). «Io che apro il grembo materno, non farò partorire? / Io che faccio generare, chiuderei il seno? / Sfavillate di gioia con Gerusalemme, / voi tutti che avete partecipato al suo lutto, / così succhierete al suo petto, / deliziandovi all’abbondanza del suo seno. / Come una madre consola un figlio così io vi consolerò» (Is 66,9-13). «Sei tu che hai creato le mie viscere / e mi hai tessuto nel seno di mia madre. / Non ti erano nascoste le mie ossa / quando venivo formato nel segreto, / intessuto nelle profondità della terra. / Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi / e tutto era scritto nel tuo libro» (Sal 139,13-16). Ma all’improvviso questo paesaggio scintillante di confidente speranza si oscura per far posto al lamento che dà voce a struggenti ansie e paure. «Si dissolvono in fumo i miei giorni / e come brace ardono le mie ossa. / Il mio cuore abbattuto inaridisce come l’erba, / dimentico di mangiare il mio pane. / Sono simile al pellicano del deserto, / sono come un gufo tra le rovine. / Veglio e gemo come uccello solitario sopra un tetto» (Sal 102,4-8). «Come acqua sono versato, / sono slogate tutte le mie ossa. / Il mio cuore è come cera, / si fonde in mezzo alle mie viscere. / È arido come un coccio il mio palato, / la mia lingua si è incollata alla gola, / un branco di cani mi circonda» (Sal 22,15-17). «Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli / e ci hai avvolti di ombre tenebrose. / Per te ogni giorno siamo messi a morte, / stimati come pecore da macello. / Samo prostrati nella polvere, / il nostro corpo è steso a terra» (Sal 44,20.23.26). Guardando le tele di Riccardo Meli mi son sentito rituffare nell’orbita limpida e cavernosa della simbologia biblica, anche se in lui rimane pittoricamente più implicito il rimando a questo sovrano Interlocutore, di fronte al quale la poesia biblica si trova sempre situata. Ma con questa

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persistenza nell’implicito si vuole meglio scavare e scandagliare, a volte perfino per via negativa e come per un voluto contrasto paradossale, nella sacralità che è insita e immanente nelle cose del mondo e della vita e si tenta di ri-scoprire il disegno arcano iscritto nelle loro pieghe da Colui che rimane il polo d’attrazione più insistente dell’anelito dell’uomo, nel quale, anche quando si ripiega in se stesso, sembra insopprimibile il bisogno di continuarLo a cercare.

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28 BERLINO, ORDINE E SOLITUDINE Testimonianza su un Est che non c’è più [1990]

Nel lontano 1969 ho trascorso a Berlino un’intera settimana ai primi di giugno. L’università di Heidelberg, che stavo frequentando per il semestre estivo, aveva organizzato un soggiorno di studio nell’ex capitale, divisa e lontana, per gli studenti stranieri, perché potessimo prendere direttamente coscienza del dramma politico ed umano di quella città, accerchiata dalla Germania comunista. Nella comitiva, cosmopolita e sufficiente per riempire un pulman, c’erano studenti delle diverse facoltà, provenienti dalla Francia, dalla Scandinavia, dall’India, dal Giappone, ecc. Un pomeriggio abbiamo attraversato il muro, e ci siamo sentiti di colpo in un altro mondo. Visitammo, come simbolo emblematico del regime, il monumento al soldato russo dalle forme grandiose ed austere, che, con la linearità delle masse e l’ampiezza degli spazi esprimevano, in modo plastico e netto, il clima che si percepiva già nel centro della città: ordine e solitudine. Ma qua e là si vedeva pure qualche antico edificio polveroso e semidistrutto, non ancora ricostruito. Qualche grande scritta sui muri ricordava gli slogan populisti del regime, ripresi anche negli opuscoli dell’ufficio turistico. Il giorno appresso ci sono tornato da solo ed allora la scoperta di un altro regime politico e di un diverso stile di vita è stata per me ancora più impressionante e più indimenticabile. Appena espletate le formalità della dogana in un ufficio disadorno e tuttavia pignolo, mi son trovato in mezzo a strade larghe, dritte e solitarie. Pochissime le persone che le attraversavano. Davano l’impressione di correre a rintanarsi nelle loro case, come se si sentissero sempre sorvegliate. Avendo attraversato un viale deserto con il semaforo rosso, un passante si è premurato a rimproverarmi puntigliosamente per l’innocua infrazione. Ad un certo punto mi son trovato davanti all’università e, incuriosito, ho varcato il portone d’ingresso. Ma di dentro il passaggio era bloccato da un gruppetto di studenti che dovevano avere l’incarico della sorveglianza.

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In seguito alle mie insistenze mi vien concesso di visitare l’interno, però accompagnato da una ragazza, che sembrava ricoprire, rispetto agli altri, un ruolo di responsabilità. Abbiamo percorso qualche corridoio e salito una scala. Il silenzio era generale. Si è aperta una porta ed è uscita una ragazza con l’impermeabile e la borsa, senza dire una parola né fare un saluto. Non c’erano manifesti, né scritte sui muri, né volantini in giro, com’era d’uso in quell’anno accademico 1968-69 nelle università della Germania occidentale. La mia accompagnatrice mi spiega con molta convinzione che l’università opera per contribuire alla produttività della nazione e che gli studi sono perciò coordinati con gli obiettivi della politica. La compostezza dell’ambiente e della ragazza mi danno l’impressione di trovarmi in un monastero o forse in una caserma. Nel bar del teatro, dove si dà «Maria Stuarta» di Schiller, durante la pausa trovo una certa animazione, ma dimessa e controllata. Un avviso stampato in certe etichette metalliche ammonisce: «L’abbandono di questo locale con le sigarette o i sigari accesi è proibito dalla polizia». Nella strada un ragazzo mi aveva chiesto delle monete occidentali, credo come una reliquia dell’altra Germania che non per bisogno di denaro. Ma il ricordo più bello, anzi più struggente, lo devo ad un altro incontro, pure casuale. Dopo l’uscita dalle mura puritane dell’università, scorgo finalmente sotto un portico, mentre cominciava a piovigginare, una coppietta di studenti, biondi e con gli occhiali. Sorpreso per tanta audacia, mi avvicino e mi dicono, con mia meraviglia ed ammirazione, che studiano teologia. Lui voleva diventare pastore luterano e lei era la sua fidanzata. Abbiamo subito fraternizzato e ho potuto cogliere dal loro atteggiamento e dalle loro parole più che una critica al regime la consapevolezza di impegnarsi insieme in un compito difficile ma esaltante. La sera mi sono rivisto con lui per la cena in una trattoria. Abbiamo parlato a lungo della situazione politica e della Chiesa. Poco prima della mezzanotte mi accompagnò alla dogana. Percorremmo insieme un viale completamente vuoto e rischiarato con alti fari da entrambi i lati. Mi lasciò in tempo per non essere visto in mia compagnia dal controllo militare. Un abisso ormai ci separava quando mi ritrovai dall’altra parte. Le vetrine dei negozi della città occidentale rigurgitavano di lusso e di abbondanza. Qualche ubriaco si aggirava solo per le strade. Si avvertiva nell’aria la licenziosità di un eccessivo benessere.

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29 STUDIARE LA BIBBIA A GERUSALEMME [1994]

Ho avuto l’opportunità, trovandomi già a Gerusalemme per motivi di studio, di partecipare in parte nell’agosto 1993 al viaggio ecumenico del Meic, e ora mi si chiede una testimonianza sul tema indicato dal titolo. Cerco così di tracciare un quadro d’insieme richiamando quelle che mi sembrano le notizie e le impressioni per me più significative a questo riguardo. Gerusalemme è stata la sede originaria di buona parte degli eventi di cui parla l’Antico Testamento, e quindi anche il luogo privilegiato nel quale sono confluite anche le tradizioni attinenti agli eventi svoltosi nelle altre parti della Terra Santa. Essa è diventata una città israelitica solo a partire da Davide, che volle conquistarla proprio perché, per la sua posizione strategica, la vedeva particolarmente adatta per farne la capitale del suo regno. Con la costruzione del tempio da parte di Salomone cresce l’importanza della città dal punto di vista religioso, nonostante gli elementi sincretistici ed idolatrici che si insinuano anche nel suo culto e che vengono deplorati dai profeti. È soprattutto a partire dall’esperienza della distruzione del tempio e del successivo esilio sotto i Babilonesi che cresce nella coscienza d’Israele l’importanza della città santa, considerata sempre più in prospettiva come il centro religioso del mondo a cui confluiscono in pellegrinaggio non solo i giudei della diaspora, ma anche i popoli stranieri attratti dal bisogno di incontrare qui la Legge del Signore. Anche Gesù, che pure vive a Nazaret e svolge la maggior parte del suo ministero pubblico nella Galilea, pone in Gerusalemme il culmine della sua vita terrena, perché qui muore e da qui risorge. E qui si ha l’inizio della Chiesa con la pentecoste. La distruzione del Tempio nel 70 d.C. per opera dei romani segna l’inizio delle più diverse alternanze nel dominio religioso e culturale della città. Si possono ricordare l’imperatore Adriano che ne programma una rigida romanizzazione pagana, poi i Bizantini che costruiscono diverse Basiliche cristiane, quindi la conquista mussulmana contro cui muoveranno dall’Europa le Crociate. Segue l’epoca dei Mamelucchi (1291-1516) e poi

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il lungo periodo turco-ottomano (1516-1917), a cui succede il Mandato britannico che finisce nel 1948, anno della fondazione dello Stato d’Israele. Ma nell’attuale città di Gerusalemme si trovano ormai sovrapposte e mescolate non solo le vestigia di queste diverse epoche e culture, ma anche le più varie istituzioni religiose ed accademiche che rispecchiano i più diversi indirizzi spirituali e culturali che sono nati frattanto in Europa e nel resto del mondo. Gerusalemme presenta uno spaccato estremamente ricco e variegato del mondo d’oggi, che ripropone qui, come in una magica trasposizione mistica e fisica nello stesso tempo, le sue divisioni e le sue convergenze. Il cielo di un azzurro intenso, il verde coltivato e selvaggio dei suoi giardini, la pietra bianca e squadrata delle sue costruzioni comunicano in questa città un senso di limpida ebbrezza ad una massa umana che non è cosmopolita solo per la presenza di numerosi pellegrini e turisti, ma anche per le più disparate provenienze etniche e nazionali della sua stessa cittadinanza. Intorno alla metà del secolo XIX inizia l’esplorazione archeologica della Palestina che comprende pure la stessa Gerusalemme, ma che comunque stabilisce a Gerusalemme il suo quartiere generale e che sarà massimamente incrementato durante il Mandato britannico con una intensa partecipazione di studiosi inglesi, americani, tedeschi e francesi, affiliati alle più prestigiose istituzioni accademiche dei rispettivi paesi d’origine, per lo più di matrice protestante. In seguito anche nella stessa Gerusalemme sorgono diversi istituti nazionali di origine statunitense, inglese, tedesca, svedese, spagnola, ecc., che ospitano studiosi e studenti che vengono iniziati sul luogo all’esplorazione archeologica e geografica della Palestina. Già nel 1925 era stata fondata l’Università Ebraica a Monte Scopus, che dal ’48 al ’67 si è dovuta spostare nel settore ebraico della città e che avrebbe sempre più acquistato importanza per lo studio della giudaistica, dell’archeologia, della lingua ebraica e della letteratura biblica; e anche dell’orientalistica in generale. Ma pure nelle altre facoltà (giurisprudenza, medicina, botanica…) si coltivano importanti agganci con la tradizione biblica. In campo cattolico, la più antica e prestigiosa istituzione è l’“École Biblique”, fondata dai domenicani francesi nel 1890, dalla quale proviene – come opera di solida divulgazione a raggio internazionale – la benemerita “Bibbia di Gerusalemme”. C’è quindi lo “Studium Biblicum Franciscanum”, che ha curato soprattutto l’esplorazione archeologica dei reperti di origine cristiana in Palestina, e ancora la succursale dell’Istituto Biblico di Roma e l’Istituto Ratisbonne, che è impegnato in particolare nel

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dialogo con l’ebraismo. Ma la presenza cattolica a Gerusalemme si esprime ampiamente attraverso conventi, monasteri, scuole, ospedali, pensionati, delle più diverse congregazioni religiose, oltreché attraverso le comunità locali dei diversi riti (latino, melchita, maronita, siriano, armeno). Se si va a studiare la Bibbia a Gerusalemme si trovano qui, sia per l’Antico come per il Nuovo Testamento, delle condizioni ideali uniche al mondo. Prima di tutto, la conoscenza geografica: ma in ciò si deve includere non solo il territorio fisico con le sue distanze, i rilievi e il clima, che sono essenzialmente quelli di una volta, ma anche l’ambiente umano riccamente composito che vi si trova: arabi, greci, beduini, americani, europei, russi… Soprattutto per l’Antico Testamento è importante il contatto con l’ambiente ebraico, accostato nella sua tradizione del passato e nella sua situazione attuale. E qui tutto “crea atmosfera” per far rivivere l’epopea biblica, soprattutto la lingua che ha fatto “risuscitare” l’antico ebraico. Ma poi anche la musica, la pittura e la scultura, la letteratura e la saggistica, la cronaca dei giornali e della televisione, i musei ben curati, le diverse biblioteche specializzate, il culto della sinagoga, il calendario delle diverse feste religiose, tutto è impregnato di Bibbia. Così lo studio della Bibbia a Gerusalemme avviene a contatto con la natura e con la storia, a contatto con il passato e con il presente, a contatto con i monumenti e con le persone. Si rivisita la Bibbia nel suo nascere e nelle sue molteplici recezioni successive, qui rappresentate dalle diverse fedi religiose e confessioni cristiane. Si incontra qui un universo umano, che non sa non essere religioso, che respira religione come si respira l’aria e come si beve l’acqua, che venera i libri sacri sentendoli immersi nel flusso plurisecolare della vita dei popoli e delle diverse culture nazionali. Un universo umano riunito ma non irreggimentato intorno allo stesso Libro, eppure liberamente e misteriosamente attratto da una sua segreta ricchezza che non viene imbalsamata nelle pietre e nei rotoli che pure lo attestano, ma che diventa alimento inesauribile di vita e di ispirazione per tanti uomini e tante donne che qui, in maniera unica e privilegiata, riscoprono così il senso di una comunione che si irradia nel mondo. E qui all’improvviso si scopre, per un cattolico, una nascosta connessione spirituale con Roma.

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30 UN’ESTATE A WASHINGTON PER SCOPRIRE LA GENESI [1997]

Nei tre giorni passati a New York e dedicati soprattutto alla visita dei più importanti musei della città e del Palazzo delle Nazioni Unite, ciò che mi aveva colpito di più erano stati i grattacieli e la simmetria delle strade, che avevano il loro asse nella celebre “Fifth Avenue”, sulla quale avevo potuto fare un’ultima, tranquilla passeggiata nella mattina della mia partenza per Washington, la meta di questa mia prima estate americana. Visitando due giorni dopo il centro di Washington, mi colpiva per contrasto l’altezza ridotta e costante dei palazzi monumentali di questa capitale: sembravano dei cubi disposti a scacchiera sulle strade ampie e diritte che dal centro si diramano nelle diverse direzioni con una numerazione delle porte che arriva ordinariamente fino a diverse migliaia. La grandiosità di Washington è diversa dalla grandiosità di New York; è più classicheggiante, più distesa, forse più aristocratica, a causa delle tante ambasciate che la costellano e della leggiadra e imponente cupola del Capitol (Campidoglio), la sede del Senato, che guarda a distanza la Casa Bianca, chiusa da una lunga inferriata e protetta pure da una fitta cinta di alberi. Ma Washington è inoltre una città con molte Università, fra le quali c’è pure la “Catholic University of America”, con 3.600 studenti, istituzione simbolo del cattolicesimo americano e meta principale del mio soggiorno americano. Eppure l’incontro più significativo è stato per me quello che ho avuto con la signora Naomi Rosenblatt, una psicoterapeuta ebrea, che ha pubblicato nel 1995 un libro sulla Genesi molto originale e suggestivo, che ho scoperto e letto durante la mia permanenza a Washington. Mi sono imbattuto nel suo nome e nel suo metodo per caso, leggendo nel supplemento letterario domenicale del Washington Post una sua recensione su un libro scritto pure da un ebreo, professore di letteratura moderna nell’ Università della California, che rilegge con genialità e spregiudicatezza alcuni episodi della Bibbia per lo più evitati, perché giudicati scabrosi per il loro crudo realismo relativo alla sessualità e alla violenza. Nel libro della Rosenblatt il testo biblico della Genesi, riportato in ampi frammenti, viene inquadrato

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e integrato dal “commento” dell’autrice che li collega e li approfondisce alla sua maniera. Come si sa, il filo conduttore del racconto biblico è quello della storia di diverse coppie e famiglie, a cominciare da Adamo ed Eva. Segue Noè, Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, Giacobbe e le sue quattro mogli tra le quali Rachele è quella più amata, Giuseppe e i suoi fratelli. La Rosenblatt evidenzia in tutti questi personaggi la presenza di quelle stesse conflittualità che turbano anche oggi i rapporti tra moglie e marito, tra genitori e figli, tra fratelli e parenti in genere, e che si risolvono nella Genesi lentamente, offrendoci così, nella sua antica saggezza, un modello valido anche per noi moderni che ci troviamo inevitabilmente nelle stesse situazioni esistenziali e psicologiche degli antichi. A volte lei fa anche riferimento ai problemi presentati dai suoi pazienti, e aggiunge pure qualche esperienza personale, fornendoci così alcuni squarci di vita americana e anche israeliana, essendo lei nata e vissuta in Israele (Haifa) fino all’età di 18 anni, la data del suo matrimonio che l’ha fatta trasferire negli Stati Uniti, dove ha vissuto prima a New York e poi a Washington. Qui tiene pure degli incontri biblici settimanali al Campidoglio, che sono seguiti da senatori di entrambi i partiti. A questo punto si può anche riferire il lungo titolo del libro, che dice molto sul suo contenuto: “Lottando con angeli: Ciò che la Genesi ci insegna sulla nostra identità spirituale, sessualità e relazioni personali” (Wrestling with Angels: What Genesis Teaches Us about our Spiritual Identity, Sexuality, and Personal Relationships, pp. 400). Esso allude alla lotta di Giacobbe con l’angelo (Genesi 32), considerandola come un simbolo della condizione di ogni uomo che ha da lottare con angeli e con demoni interiori per raggiungere la sua più autentica realizzazione, secondo l’immagine di Dio che è in lui. Questa presa di coscienza costituisce quella che qui si chiama “identità spirituale”. Il libro, nonostante la sua laicità, si inserisce nel solco della tradizione ebraica, che ha cercato sempre di attualizzare il testo biblico mettendolo in relazione con le nuove situazioni storiche e con le tendenze culturali delle diverse epoche. Ma in ogni caso si è sempre sottolineato il valore “terreno” della Bibbia Ebraica, una dimensione che noi come cristiani facciamo ancora fatica a riconoscere e a valorizzare in quello che chiamiamo Antico Testamento. Questo libro, che si pone tra il saggio e il romanzo, è scritto con uno stile leggero ed accattivante, e lo si legge con interesse e curiosità. Spero che sarà tradotto al più presto in italiano. In esso traspare la pazienza ed il rispetto con cui l’autrice suole ascoltare i suoi pazienti. Ma anche un grande

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amore per le tante risorse e sfide che la vita ci offre ogni giorno e che vanno affrontate con fantasia e coraggio. Son queste le qualità umane che ho notate personalmente in Naomi Rosenblatt quando l’ho potuto incontrare in un pomeriggio eccezionalmente piovoso del mese di agosto, durante il mio soggiorno a Washington.

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31 A WEIMAR SULLE TRACCE DI GOETHE [1999]

Grazie a diverse trasmissioni televisive, scoperte all’inizio per caso, ero rimasto suggestionato dal mito di Weimar, patria d’elezione di J.W. Goethe, che vi abitò per 52 anni, dal 1775 al 1832, data della sua morte all’età di 83 anni. L’epoca d’oro di questa città, allora governata da un sovrano assoluto ed illuminato, l’amico duca Carlo Augusto (1757-1828), coincide appunto con la presenza di Goethe che la rende un centro culturale di primo piano a livello europeo. A Weimar confluiscono allora numerosi intellettuali ed artisti, desiderosi d’incontrare il poeta e d’essere ammessi nel famoso salotto letterario della bella e colta Duchessa madre Anna Amelia (1739-1807), che lei riuniva settimanalmente nella sua casa. Su iniziativa di Goethe, vengono ad abitare a Weimar prima (1776) J.G. Herder (1744-1803), teorico della visione romantica della storia, nominato dal Duca predicatore di corte; poi (1799) F. Schiller, storico e drammaturgo, che vi muore nel 1805 all’età di 45 anni, dopo aver appena terminato il “Guglielmo Tell”. Le statue di bronzo di Goethe e di Schiller, assunte a simbolo di Weimar, campeggiano dal 1857 la piazza del Teatro Nazionale, mentre il monumento di Herder domina dal 1850 la piazza antistante la chiesa luterana ss. Pietro e Paolo, dove lui predicava, chiamata oggi chiesa di Herder. Weimar è stata dichiarata significativamente “Città europea della cultura 1999” in coincidenza con il 250° anniversario della nascita di Goethe (28 agosto 1749 a Francoforte, da famiglia luterana). Ciò ha intensificato il flusso turistico verso questa città, già molto consistente. Weimar conta attualmente 61.000 abitanti; ma il centro storico, ricco di edifici che ricordano il suo glorioso passato, è molto piccolo e ben conservato. Qui si trova il castello della residenza ducale, dove l’ampio cortile rustico chiuso dal quadrilatero degli edifici ricorda bene i tempi passati. Ad esso si attacca la punta settentrionale del grandioso parco che costeggia solo da un lato, attraverso il lungo e diritto viale del Belvedere, la città, in modo da formare un grande spazio verde con prati all’inglese spezzati qua e là da imponenti filari di querce e di tigli. Tuffata in questo verde, attraversato a sua volta dal fiume Ilm, si trova la casa di campagna

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di Goethe, dove lui ha trascoso soprattutto gli ultimi anni della sua vita, a preferenza della casa di città che è ora l’edificio più visitato del centro storico. Mi è stato facile raggiungere Weimar in macchina dal luogo della mia vacanza estiva, attraversando quello che fino a dieci anni fa costituiva l’impenetrabile confine che divideva la Germania occidentale dalla Repubblica democratica tedesca (comunista). Ma pur essendo abolito il confine politico, permangono ancora evidenti le differenze che il regime ha impresso nella vita e nell’animo della gente e di riflesso anche nello stesso ambiente geografico. Tutto qui è più austero e trasandato. Le strade sono più strette che in occidente, sono molti gli edifici non verniciati di fresco; perfino il verde delle campagne mi sembra più cupo e più selvaggio. Sono andato a Weimar per assistere alla rappresentazione del “Faust”, che per tutto l’anno si ripete ogni settimana nel Teatro Nazionale. Questo dramma, definito dal suo autore una tragedia, è considerato il vertice della letteratura tedesca che consacra Goethe come poeta nazionale, analogamente a Dante per l’Italia. Esso si divide in due parti disuguali, di cui la prima è la più breve e la più semplice, mentre la seconda gioca molto sull’elemento immaginario e simbolico. Goethe vi rappresenta l’avventura dell’uomo dominato da un insaziabile anelito alla conoscenza del mistero del mondo, che lo spinge a tentare le più audaci esperienze, per scoprire alla fine il presentimento della realtà invisibile e divina che lo sovrasta. Questo tema metafisico, in parte tradizionale, si compone in Goethe con quello dell’amore, incarnato da due figure femminili molto diverse alle quali si lega successivamnete il protagonista: l’umile ed innocente Grethe (I Parte) e la famosa Elena dei poemi omerici, richiamata magicamente in vita dall’antica Grecia (II Parte). La soglia dell’amore supera per Goethe quella della conoscenza e del potere politico, ma anch’essa alla fine si rivela limitata e provvisoria; perciò nella conclusione si rimanda all’“eternofemmineo”, che attrae a sé e spinge simultaneamente oltre, verso l’alto. Il regista M. Gruner ha voluto offrire un’interpretazione teatrale modernizzata del testo letterario di Goethe, accorciandolo di molto soprattutto nella II Parte e concentrando lo spettacolo sull’azione dei personaggi; giocando sul contrasto tra la luce e l’oscurità ha ottenuto una serie di effetti scenici molto suggestivi. Ricordo in particolare la scena in cui Grethe, emergente da un piano bianco e luminoso pone a Faust la famosa domanda sulla fede. In questa apertura religiosa Goethe sembra riflettere di più la reli-

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giosità cattolica, conosciuta nel suo viaggio in Italia (1786-8), che non l’educazione luterana della sua infanzia. Sono molti i musei e le mostre temporanee allestite per il 1999. Ho visitato quella dedicata a “Nascita e caduta del moderno”. In due ricche raccolte di originali conservati in massima parte nel museo di Berlino, si presenta l’arte promossa rispettivamente dal regime hitleriano prima e da quello comunista dopo nella DDR. Nonostante la loro dichiarata contrapposizione ideologica, la propaganda politica affida all’arte, in entrambi i casi, il compito di esaltare il tema sociale del lavoro, ostacolando le varie correnti moderne che sottolineano invece la soggettività individuale dell’artista. Come si sa, Weimar è legata anche alla carriera politica di Hitler. In seguito all’abdicazione del Granduca si era istituita nel 1920 la Repubblica di Weimar. Ma qui nel 1932 ebbe la sua prima vittoria il Partito Nazionalsocialista, trasformatasi nell’anno seguente nella presa del potere da parte di Hitler che si sarebbe poi estesa a tutta la Germania. Una mostra fotografica ricorda le grandi parate organizzate in occasione delle frequenti visite del Führer a Weimar. In continuità ideale con tutta questa storia, il mio pellegrinaggio storico-letterario si è concluso a Buchenwald, il famigerato campo di concentramento di Hitler dal 1937 al 1945, a 8 km. da Weimar. Qui sono stati internati 250.000 uomini e donne di 35 diverse nazioni, di cui ben 56.000, in maggioranza ebrei, sono finiti nei forni crematori che si possono ancora osservare. Il colle ricoperto da una fitta e regolare vegetazione è molto bello, ma questa bellezza si tinge di una patina sinistra e funerea per i resti del campo, accentuata nel pomeriggio in cui vi sono giunto, da un cielo nuvoloso che di tanto in tanto diventava piovigginoso. La tragedia letteraria qui è diventata tragedia storica. Opportunamente la giornata commemorativa della nascita di Goethe, che ricorreva il 28 agosto, è culminata in un imponente concerto all’aperto che ha visto riuniti, sotto la direzione del maestro ebreo Zubin Mehta, l’Orchestra Filarmonica d’Israele, l’Orchestra e il coro dell’Opera bavarese di Monaco, il Coro Filarmonico di Praga e quello ceco di Brno, per eseguire la Sinfonia nr. 2 c-moll (“Risurrezione“) di Gustav Mahler. Così si è voluto dare un segno di riconciliazione alla soglia del nuovo millennio.

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32 LA MIA ESPERIENZA ECUMENICA (1958-2003) Conferenza tenuta al Serra Club il 10 gennaio 2004 Seminario Arcivescovile di Catania [2004]

«Chi ha viaggiato conosce molte cose» Siracide 34,9a

Sono grato per l’opportunità che mi vien data di parlare al Serra Club della mia esperienza ecumenica. È inevitabile che parli seguendo il genere del racconto autobiografico che certamente ha dei limiti, ma esso offre pure il vantaggio di far toccare con mano i problemi teorici ad esso sottesi. E poi mi pare giusto ricordare tante persone che mi hanno fatto il dono della loro amicizia. Ho avuto infatti la fortuna di avere tanti incontri, nei luoghi più disparati, con persone e situazioni sconosciute che mi hanno permesso di conoscere dall’interno dei mondi spirituali dei quali avevo prima una conoscenza solo indiretta e non scevra di pregiudizi. Gli studi teologici di base (1953-58) espletati non solo a Catania ma anche alla Gregoriana di Roma, mi avevano dato una visione cattolica unilaterale, che poi ho potuto dilatare ed integrare maturando un atteggiamento più elastico e più comprensivo, attento ai diversi aspetti della realtà umana e spirituale e quindi disposto ad accogliere e valorizzare altri stili di vita, che riflettono non solo la molteplice ricchezza dell’animo umano, ma anche onorano il mistero trascendente ed umanissimo di Cristo che richiede da noi rinnovate forme di sequela e di testimonianza. 1) Gli inizi Comincerò con gli studi al Pontificio Istituto Biblico dove sono approdato nell’ottobre del 1958. Qui la maggior parte dei libri di testo erano

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protestanti e per questo si chiedeva un esame extracurriculare all’anno di francese, inglese e tedesco, in modo da essere capaci di leggere gli autori stranieri, per lo più non cattolici. Il corso che dal punto di vista ecumenico mi ha più sbalordito ed affascinato è stato quello del p. Stanislas Lyonnet, che spiegava con grande competenza la lettera ai Romani, mettendo a confronto i commenti che ne avevano fatto s. Tommaso, Lutero e Calvino per mostrare una loro sostanziale convergenza di fondo che poteva servire a nutrire la vita spirituale di tutti i credenti. Da allora, la prospettiva ecumenica e lo studio delle lingue antiche e moderne al servizio della Bibbia, sono diventati le costanti di fondo che mi hanno guidato nella mia vita. E proprio per studiare il tedesco, già nel 1960, mi sono recato per la prima volta in Germania, dove sono stato ospite del parroco di un piccolo centro bavarese. Lì, un giorno sono stato colpito da un bel canto che proveniva dalla chiesa sebbene non fosse in programma alcuna funzione parrocchiale. Incuriosito, entrai in chiesa e vidi un giovane pastore biondo e robusto che parlava ad un piccolo gruppo di fedeli. Ho saputo dopo che la comunità luterana del luogo utilizzava regolarmente la chiesa cattolica per il suo culto, cosicché mi fu facile farmi coraggio per chiedere al confratello di andar a fare visita al pastore luterano. Giunto a casa sua, non mi pareva vero di trovarmi di fronte ad un seguace di quel Lutero che ci era stato presentato negli studi come il nemico e l’antagonista del papa. Trovai un uomo sereno e gentile, con moglie e figli, che dimostrava tanto interesse per le questioni teologiche ed era contento di riceverci. Allora ho pensato: Non è giusto che pretendiamo la conversione di un uomo che fa il pastore con tanta serietà e che così mantiene pure la sua famiglia. Lui servirà per tutta la sua vita il Signore restando al suo posto da luterano. Fu questo l’inizio di una lenta rivoluzione mentale che senza traumi si innescava già allora, per continuare con gradualità e naturalezza negli anni avvenire. Ho capito che quello che possiamo fare è intanto conoscersi e stimarsi, senza secondi fini e sempre grati al Signore per il bene che possiamo incontrare dovunque nel mondo, anche nei luoghi ritenuti tradizionalmente più sospetti. Nel febbraio del ’61 andai a Gerusalemme per passarvi il semestre conclusivo degli studi romani. Il viaggio si faceva allora per nave, e nella sosta fatta a Cipro visitammo l’ex cattedrale di Famagosta trasformata in moschea, giusto nel momento in cui vi si teneva la preghiera del mezzogiorno. Vedemmo pochi uomini che pregavano mentre c’era intorno un grande silenzio, reso più solenne dalle stuoie e dai tappeti che coprivano l’intero pavimento. Allora mi venne spontanea questa domanda: la loro

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preghiera a chi può essere rivolta se non al nostro stesso Dio? In seguito non ho avuto rapporti con i musulmani, una cosa di cui ho provato sempre rammarico, perché ogni volta che mi trovavo a Gerusalemme dove si potevano avere delle occasioni di contatti con loro, non ne potevo approfittare perché ero più impegnato nei contatti con gli ebrei. Solo l’anno scorso, in occasione della presentazione dell’edizione congiunta della Bibbia con il Corano, lanciata dalla Casa editrice De Agostini, ho avuto come partner un musulmano colto e religioso venuto da Milano che, sinceramente, mi ha edificato per il suo modo genuino, semplice e pieno di fede con cui citava e parlava del Corano. A Gerusalemme ho scelto nel ’61 di frequentare una scuola dove si insegnava l’ebraico moderno ai nuovi immigrati, che nella mia classe provenivano per più dalla Romania, ma poi anche dal Sud Africa, dal Sudan, dalla Russia (una sola compagna che era la prima persona russa che vedevo, quando la Russia era ancora per noi un mondo misterioso e terrificante!); tra i compagni di classe c’era una ballerina, un imprenditore, ma per la maggior parte si trattava di ebrei in attesa di un primo impiego in Israele dove erano giunti sprovvisti di tutto ed erano obbligati a studiare una lingua che i loro figli imparavano con più facilità. Ho fraternizzato con tutti questi compagni di classe che erano i primi ebrei che incontravo nella mia vita. La scuola, oltre che la conoscenza della lingua, voleva fornire una vera iniziazione alla vita nazionale nella nuova patria. Così, si fece la preparazione alla festa dei Purim, simile al nostro carnevale, e alla pasqua, soprattutto imparando i canti tradizionali che trasmettevano lo spirito di quello che si viveva febbrilmente nelle famiglie e nelle strade di Gerusalemme. Non ho avuto allora nessuna crisi d’identità, anzi la confidenza che si era stabilita fra di noi mi faceva sentire come un monaco che poteva parlare con tutti. La città era ancora divisa e quando, utilizzando addirittura un secondo passaporto, son potuto andare nel quartiere arabo dove si trovava allora il Muro del pianto che gli ebrei non potevano visitare, e lì ho avuto la possibilità di scattare alcune foto di quel luogo tanto agognato ma proibito, portandole poi in classe, sono state accolte come un grande regalo. Passavamo insieme a scuola ogni giorno cinque ore per imparare l’ebraico che si parlava nelle strade e nelle famiglie e che diventava sempre di più la lingua delle nostre conversazioni, dei nostri piccoli temi e delle nostre gite. Proprio a scuola mi sono imbattuto per la prima volta con la tragedia per me ignota dell’olocausto, del quale a vario titolo i miei compagni avevano delle dolorose esperienze personali. Ogni tanto capitava che al suono di una

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sirena che echeggiava per tutta la città, si facesse una pausa di silenzio in memoria delle vittime che qualcuno ricordava pure con un sommesso pianto. Mi sembra opportuno riferire a questo punto il piccolo discorso con il quale mi sono congedato dalla classe il 31 aprile 1961, e che avevo battuto la stessa mattina in una vecchia macchina da scrivere, provvista dei caratteri ebraici, all’Istituto biblico: «Al termine delle lezioni alle quali ho preso parte alla scuola Ulpan Ezion, io voglio dire tre cose: grazie, scuse, auguri. Innanzitutto io dico grazie alle insegnanti Sara e Shoshanna per avermi insegnato la lingua ebraica, e dico grazie anche a tutti voi, compagne e compagni, perché anche voi mi avete insegnato cose che per me sono molto importanti. Per due mesi noi siamo stati ogni giorno nella stessa classe. In essa ognuno ha ascoltato quanto gli altri compagni dicevano. Anche se noi dovevamo parlare solo per imparare la grammatica attraverso gli esercizi della lingua, io ho potuto conoscere ed amare la vostra vita per il fatto che, in molte conversazioni che si sono avute in classe, molte volte ognuno ha avuto l’occasione di raccontare quali erano le sue preoccupazioni e le sue speranze. Io che sono un giovane senza problemi tanto difficili, ho potuto ricevere da tutti voi un esempio importante per la mia vita. Perciò desidero oggi dire grazie a tutti voi per questa esperienza. E ancora grazie per l’amicizia che ho trovato da parte vostra. Veramente, è stata per me ogni giorno una grande gioia venire nella nostra classe, perché la vostra era una compagnia tanto bella che vi sentivo un’aria di famiglia. In secondo luogo devo chiedere scusa. In verità, io penso che alcune volte non sono stato sempre bravo per la maestra. Perciò devo chiedere perdono alla maestra se non ho studiato sempre come si doveva. Io devo chiedere perdono a tutti voi, compagne e compagni, per quelle volte in cui ho parlato quando sarebbe stato meglio tacere e invece sono rimasto in silenzio nel momento in cui sarebbe stato meglio parlare. In terzo ed ultimo luogo, io auguro a tutti che possiate proseguire con soddisfazione la vita che abbiamo iniziato insieme nella terra d’Israele, giacché voi vi sentite ora nella vostra patria» Queste, tra il ’58 e il ’61, ancor prima del Concilio Vaticano II che si è tenuto dal 1962 al 1965, sono state le esperienze ecumeniche degli inizi con le quali si è aperto nel mio spirito un cantiere che da allora è rimasto sempre aperto ed attivo soprattutto sul fronte ebraico-gerosolimitano e su quello tedesco-luterano, i due poli che hanno costituito il contesto perma-

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nente dei miei studi di Antico Testamento e che poco a poco si sono caricati di una dimensione simbolica per il ricordo dell’Olocausto, del quale mi facevo idealmente carico studiando con uguale passione sia l’ebraico ed sia il tedesco, che son diventate alternativamente la mia seconda lingua dopo l’italiano. 2) Il polo Gerusalemme Il soggiorno di quattro mesi a Gerusalemme nel ’61 ha costituito il mio vero “battesimo” biblico, sia per la visita di tutti i siti più significativi della Terra santa fatta con escursioni settimanali organizzate insieme ai compagni preti dell’Istituto Biblico, dove eravamo in 13 di 12 nazioni diverse, e sia, ancor di più, per i contatti stretti che avevo con gli ebrei attraverso la scuola ebraica. Quando son tornato a Gerusalemme dopo 21 anni, nel 1982-83, ho potuto riprendere lo studio e la pratica dell’ebraico, frequentando addirittura la stessa Università Ebraica e avendo inoltre molte occasioni di immersione piena nella vita della gente del luogo ai diversi livelli. Ora era possibile non tanto visitare Gerusalemme, ma vivere a Gerusalemme e nella terra d’Israele, avendo modo di partecipare dall’interno alla vita popolare e culturale del Paese nelle sue varie manifestazioni. Ricordo in particolare l’esperienza che ho potuto fare di partecipare alla cena pasquale in casa del prof. Alexander Rofé, mio maestro ed amico. Mi commuoveva soprattutto il pensiero che questo era il Paese di Gesù, dove potevo percorrere a piedi le strade da lui percorse e frequentare i luoghi da lui frequentati. Il paesaggio che avevo davanti agli occhi era quello stesso in cui erano maturate le esperienze collettive ed individuali che si sono cristallizzate nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Lentamente ho capito che non si può studiare l’Antico Testamento senza tener conto della testimonianza passata e presente del popolo d’Israele, comprendendone la psicologia, la cultura, il folclore, la mistica, ed assaporando il clima e il paesaggio della sua terra. In realtà, il popolo d’Israele, a Gerusalemme come altrove, fa conoscere innanzitutto se stesso come collettività variegata e composita che nella sua coscienza attuale porta l’impronta di una storia plurimillenaria e che con l’intreccio del suo cosmopolitismo è presente in tutto il mondo. Sono stato a Roma e sono stato a Gerusalemme, ma devo confessare che l’universalismo di Gerusalemme è stato per me più impressionante e più incisivo di quello che ho sperimentato a Roma. Gli ebrei che sono natural-

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mente poliglotti e che abitano a Gerusalemme, formano un vero mosaico di lingue e di nazionalità con ramificazioni così molteplici da raggiungere le più diverse parti del mondo. 3) Il polo Germania Come si sa, gli studi biblici moderni sono stati in massima parte influenzati dai professori delle Facoltà teologiche luterane della Germania. Perciò è importante conoscere bene il tedesco per leggerne le opere. Ma non basta neppure conoscere la loro lingua, occorre calarsi nel loro mondo concettuale e spirituale, assimilare la loro metodologia di lavoro e intuire la loro mentalità. La dimestichezza con un mondo spirituale estraneo alle abitudini mentali del mondo culturale nel quale siamo cresciuti, consente di muoversi con una certa libertà negli studi che provengono da quell’ambiente, che oltre tutto è più austero e più metodico del nostro. Nel ’68-69, dopo solo tre anni dalla conclusione del Concilio, ho potuto studiare nelle Facoltà luterane delle Università statali di Gottinga ed Heidelberg (196869), mentre abitavo in entrambi i casi in canonica con dei bravissimi sacerdoti, che mi hanno offerto tanto sostegno spirituale per non “sbandarmi” nel clima libertario del ’68 che si respirava allora a pieni polmoni in quelle città molto secolarizzate. Grazie al clima caloroso che trovavo in parrocchia, anche le novità più forti e positive del nuovo ambiente si rendevano assimilabili senza eccessive fratture con il mio passato. Di quell’anno tedesco devo ricordare in maniera del tutto particolare il prof. Walter Zimmerli di Gottinga, che è diventato il mio modello per la professionalità dello studio e la passione con cui si lasciava guidare dall’Antico Testamento anche nella quotidianità della vita, pur tenendo presente il fondamento cristiano della nostra fede. Sono stato più volte ospite a casa sua e ho potuto constatare come tutto in lui portava l’impronta della Bibbia, dal senso dell’ospitalità al rigore nello studio, dalla preghiera da lui detta prima dei pasti al tratto signorile e rispettoso che lo distingueva. Ma ancor prima, nel 1963 avevo conosciuto il pastore Enno Haase, del quale riferirò ancora alla fine, e che da allora è rimasto come un punto di riferimento costante per la frequentazione che ho potuto mantenere con lui grazie all’ospitalità che tante volte ho ricevuto dalle Suore Orsoline di Duderstadt, vicino a Gottinga, la cittadina in cui lui è stato per molti anni parroco della comunità luterana. Nelle tante conversazioni che ho potuto

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avere con lui ho trovato un osservatorio privilegiato per cogliere gli orientamenti via via dominanti nel luteranesimo tedesco. Ancora un terzo ricordo. Quando sono stato nel 1999 alla Facoltà di teologia cattolica dell’Università di Münster l’unica famiglia con cui sono stato in contatto è stata quella di un collega della Facoltà di teologia evangelica. Egli mi invitava volentieri a casa sua, dove la signora mi cucinava ogni volta le cose che sapeva di mio maggior gradimento. Quando mi ha invitato la prima volta egli mi ha detto: “Mi piace che, venendo a casa mia, tu conosca una tipica famiglia luterana”. E veramente ho avuto modo di constatare il grande affiatamento che c’era tra loro e con i loro tre ragazzi. 4) Le esperienze francesi e inglesi Nel 1965 sono giunto per la prima volta a Taizè, vicino a Lione, la comunità che aveva ripristinato il monachesimo nella Chiesa che si richiama alla riforma di Calvino, proprio nel giorno in cui si celebrava il XXV della fondazione. Quello che mi colpì nella bella chiesa moderna della Riconciliazione non ancora finita e sgombra di sedie e di banchi, fu la grande massa di giovani che stavano seduti ordinatamente per terra. Il canto dei monaci che indossavano una tunica bianca e il suono dell’organo, a tratti s’interrompevano per far posto ad un profondo silenzio meditativo. Fu proprio questo silenzio la più importante lezione che mi ha dato allora Taizè e che mi ha aiutato più di ogni altra cosa a comprendere lo spirito della riforma liturgica avviata dal Vaticano II. Paradossalmente, è questo silenzio prolungato ed assaporato che dà il senso della partecipazione più attiva da parte di tutti i presenti. Nei primi anni Settanta ho preso più volte parte ad Oxford ad un corso di aggiornamento biblico nel quale ho avuto modo di conoscere i più noti biblisti protestanti dell’Inghilterra, soprattutto anglicani. La preghiera del mattino e della sera era composta e tranquilla, e veniva introdotta ed accompagnata da un suono di pianoforte, marziale e squillante, molto gradevole anche se insolito per le nostre abitudini. Dei due soggiorni estivi avuti oltre l’Atlantico, voglio ricordare, oltre alla partecipazione al culto sabbatico nella sinagoga, l’ambiente del Seminario nazionale metodista a Washington, dove frequentavo abitualmente la biblioteca, e la visita che ho fatto al pastore battista che aveva la sua chiesa vicino alla nostra parrocchia, a Toronto. Questi era giovane e si mostrò sorpreso per la mia iniziativa che gradì moltissimo. Abbiamo avuto

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una conversazione spirituale molto sincera e ci siamo augurati a vicenda buon lavoro nel servizio del Signore. A questo punto, non è fuor di luogo ricordare che la mia tesi al Pontificio Istituto Biblico di Roma (1992) sul confronto tra la versione greca del Siracide e i manoscritti ebraici scoperti solo dalla fine del sec. XIX, ha potuto trarre beneficio da tutte queste esperienze, per il fatto che mantenendosi principalmente sul piano filologico, mi obbligava a lavorare in cooperazione con autori protestanti, ebrei e cattolici. Il p. Roger Le Déaut, grande specialista nello studio delle Versioni aramaiche della Bibbia (Targum) nonché autorevole propugnatore del dialogo dei cristiani con gli ebrei, che per tanti anni mi è stato vicino da Roma come direttore della tesi, mi ha dato una testimonianza esemplare nel sottolineare l’importanza dello studio tenace e rispettoso delle fonti. Solo attraverso questo studio di base si creano le premesse per una migliore conoscenza reciproca aperta al mondo spirituale di cui ciascuno vive. 5) Conclusione Spero che questo racconto poco dottrinale abbia messo in evidenza lo stile con cui si è sviluppata questa mia esperienza ecumenica, della quale ho scelto solo alcuni dei momenti più salienti. Ricapitolandola, posso dire che essa è stata ispirata da un senso di curiosità, che vuol guardare con interesse agli altri e che è accompagnata da un atteggiamento di ingenuità. Veramente, curiosità ed ingenuità sono stati i criteri-guida di questa esperienza. Ma non si tratta di due qualità soltanto umane. La curiosità può essere pure un atteggiamento teologale, in quanto ci fa intravedere la presenza del Signore negli altri, mentre l’ingenuità ci mantiene nella consapevolezza dei nostri limiti personali. C’è da aggiungere, in terzo luogo, il senso dell’adattamento che mi è stato particolarmente necessario quando ha potuto risiedere, ogni volta per una settimana, in un seminario luterano in Germania (1965), in un seminario anglicano in Inghilterra (1972) e in un kibbuz in Israele (1983). A suggello di tutto questo racconto mi permetto di riportare il testo della lettera che ho inviato nel mese di settembre 2003 al pastore Haase nella ricorrenza del suo Cinquantesimo di ordinazione e di matrimonio, celebrato nella scorsa estate. Nella lunga risposta che mi ha inviato lui mi dice che «Io non mi sono soltanto rallegrato per la sua lettera. Di tutte le lettere di auguri che ho ricevuto essa è la più cara e la più importante! Essa contiene nello

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stesso tempo un riassunto di tutti i nostri incontri … Io l’ho letta a tante persone». Quindi io penso che posso ora farla conoscere anche a voi. «Caro pastor Haase, è stato meglio che io abbia avuto notizia in agosto dei due suoi Cinquantesimi di quest’anno soltanto tra il primo e il secondo di essi, quello del matrimonio. Così ora posso mandare i miei auguri solo in vista della prossima ricorrenza del 4 ottobre, che considero più significativa, in quanto io l’ho conosciuta non solo come pastore, ma anche come marito e padre di famiglia. Io L’ho incontrata per la prima volta nell’estate del 1963 come insegnante di religione delle alunne evangeliche dalle Orsoline di Duderstadt. Allora lei mi ha addirittura permesso di assistere alle sue lezioni, che mi hanno consentito di mettermi a contatto in maniera viva ed esemplare con il pensiero evangelico e di poterla apprezzare come uno zelante pastore e teologo. Subito mi ha invitato a casa, dove ho conosciuto sua moglie Lisbet e i vostri figli. Da allora ha avuto inizio una serie ininterrotta di visite e di serate passate insieme, che spesso si protraevano fino a tarda notte. Attraverso le conversazioni appassionate che abbiamo avuto mentre sedevamo allo stesso tavolo, io ho imparato molte cose, e così lei è diventato per me il partner di un dialogo mai interrotto che ha inciso nella mia formazione spirituale. Una sera ho avuto il piacere di assistere nella vostra casa canonica ad un tipico concerto familiare, nel quale ciascuno suonava un diverso strumento. Il momento più importante delle nostre relazioni è stato il semestre invernale 1968-69 nella Facoltà luterana di teologia di Gottinga, per il quale lei ha dato il primo suggerimento e ha trovato un contributo. Esso poi è culminato nell’insolito invito a tenere il sermone nel culto domenicale nella sua chiesa di s. Servazio il 6 marzo 1969. Tutto questo è stato per me un insieme di grandi esperienze di vita, per le quali io debbo e voglio ora ringraziarla. Ancora nella mia ultima visita nella Biblioteca della Facoltà teologica di Gottinga il 18 agosto scorso io mi sentivo profondamente commosso per il fatto che riviveva in me la familiarità allora acquisita e così mi sentivo un po’ di casa anche lì. Certamente, in tutte queste occasioni noi abbiamo sperimentato e testimoniato la nostra comune fede in Gesù Cristo, per cui io voglio oggi ringraziare il Signore, mentre auguro ed invoco per lei e per la sua famiglia l’abbondanza della benedizione di Dio. Cordialissimamente, Don Antonio».

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Questa lettera rievoca solo una parte della mia esperienza ecumenica, ma son sicuro che ne indica nella maniera pi첫 efficace lo spirito e la bellezza.

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33 IL MOSÈ DI ROSSINI L’opera ha inaugurato la stagione lirica della Scala [2004]

Ho avuto modo di assistere all’ultima replica dell’opera “Mosè e Faraone” di Gioacchino Rossini con la quale il 7 dicembre scorso, tradizionale festività di Sant’Ambrogio, si era inaugurata la stagione lirica della Scala 2003-2004. La città di Milano era nel caos provocato dallo sciopero dei trasporti urbani e la folla, che assiepava i larghi marciapiedi del Corso Buenos Aires e del Corso Venezia con i negozi aperti e le vetrine scintillanti, rendeva bene l’atmosfera prenatalizia di quella fredda serata. Come si sa, a causa dei lavori di restauro, la Scala si è trasferita per il secondo ed ultimo anno, lontano dal centro, nel moderno teatro degli Arciboldi, che contiene 2500 posti, ognuno dei quali era munito di un piccolo schermo chiamato video-libretto, che andava mostrando il testo del melodramma in simultanea con le voci dei cantanti e del coro che si succedevano sulla scena. L’opera veniva eseguita nell’originale francese della sua prima esecuzione avvenuta a Parigi nel 1827, ma era possibile optare nel display anche per la versione inglese o italiana. Sono tre le cose su cui credo di poter focalizzare le mie impressioni, cominciando dal testo del libretto. Già il titolo ”Mosè e Faraone” sottolinea come nel dramma, anche se si evoca il racconto biblico dell’esodo, esso viene incentrato su alcuni personaggi che si trovano in una posizione conflittuale. Infatti, Mosè è la figura che incarna il destino degli Ebrei che anelano alla liberazione dalla schiavitù d’Egitto, mentre Faraone è il suo antagonista dal quale dipende la decisione che può autorizzare la loro partenza. Ma anche se Mosè, il basso Abdrazakob (russo) è il personaggio che domina di più la scena, i veri protagonisti del dramma, con la loro struggente storia di un amore impossibile, sono il figlio di Faraone, Amenofi (il tenore Giuseppe Filianoti) e la giovane ebrea Anaide (il soprano Barbara Frittoli), figlia della sorella di Mosè, Maria. Attorno a questo nucleo estremamente avvincente, si costruisce l’intervento degli altri personaggi e dei due cori degli Ebrei e degli Egiziani. La tensione drammatica nasce dal

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fatto che l’amore della giovane Anaide per Amenofi è combattuto tra la fedeltà verso Dio, che le vieta il matrimonio con un pagano, e il suo legame sincero e riconoscente con il figlio di Faraone, il quale, se respinto, si vendicherà facendo revocare il consenso già promesso per l’uscita degli Ebrei dall’Egitto. In seguito alla difficile scelta della ragazza di abbandonare il suo amato per seguire la fede del suo popolo, si giunge alla decisione, quanto mai rischiosa, di fuggire dall’Egitto, anche se inseguiti e minacciati dall’esercito di Faraone, corrucciato e pentito per la promessa che aveva fatto. Nel momento di maggiore pericolo le onde del Mar Rosso si aprono per far passare all’asciutto gli Ebrei, ma quando subito dopo vi entrano gli Egiziani esse si richiudono per inghiottirli nel loro vortice. È questo il nocciolo della trama, la quale, pur non ricalcando per nulla il racconto biblico, ne esemplifica in maniera essenziale ed efficacissima lo spirito, facendo rivivere l’atmosfera spirituale ad esso soggiacente e imperniata sulla solidarietà del popolo d’Israele e sul valore di una fede incrollabile nel proprio Dio. Il secondo punto che posso sottolineare riguarda la scenografia. Come colori vi dominavano il bianco e il nero nelle loro diverse sfumature, in modo da concentrare, con il concorso delle luci ora intense ora fioche, ancora di più l’attenzione sul canto e sulle musiche dell’orchestra. Inoltre era notevole la composizione ben bilanciata tra la massa indistinta del coro (in nero) che faceva da cornice ai solisti i quali si spostavano con movimenti cadenzati e solenni nel centro, per lo più vestiti di bianco ad eccezione di Mosè che indossava una tunica nera, sulla quale spiccava una barba corta e maestosa. L’insieme degli attori era disposta su un piano scosceso che, riducendo la dimensione della profondità, dava la sensazione armoniosa e riposante di trovarsi di fronte ad un grandioso bassorilievo. La figura poi di un enorme organo che dominava lo sfondo del palco e che assumeva varie forme nei diversi atti, voleva rendere plasticamente – mi pare – l’idea di una sacralità che indirizza verso il cielo le voci e le musiche di questo possente e delicato melodramma. E ora la musica, come terzo punto. Bellissimi i cori, gli intervalli dei pieni musicali, i duetti, teneri e dolenti. Dolcissimo l’effetto sonoro quando si fondono e si sovrappongono le voci maschili e le voci femminili, negli assolo e nei cori. Questa sovrapposizione delle voci, che possono addirittura recitare un testo diverso, diventa straziante quando nel duetto che si ha all’inizio del quarto atto i due innamorati, prossimi a separarsi, riaffermano inutilmente il loro inseparabile amore. Mentre Anaide , rivolta al Dio

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«possente e clemente», gli grida «imploro il tuo favore, abbi pietà del mio dolore, ah! compiangi la mia infelicità» (in francese malheur, parola che fa rima con la precedente, douleur, dolore), Amenofi, dopo aver invocato i suoi dèi «protettori dell’innocenza», scongiura così la sua amata: «Non più timori, non più ansie; Anaide, asciuga le tue lacrime, vieni a condividere la mia felicità». La preghiera finale «Dal tuo stellato soglio (in francese: Des cieux où tu résides), gran Dio, che ci sei guida, accogli i voti trepidi di un popolo che geme», nella quale si alternano Mosè, gli Ebrei, Eleazaro e Maria, rispettivamente fratello e sorella di Mosè, è meritatamente il brano più famoso e più rappresentativo di tutta l’opera. Vi si coglie abbandono, implorazione, adorazione e solidarietà di un popolo che è stato cementato dalla tribolazione e, ancora sotto la minaccia incalzante degli inseguitori, è già proteso verso la terra promessa della sua libertà. La messa in scena di quest’opera, scelta con coraggio e determinazione dal direttore musicale Riccardo Muti, era affidata alla regia di Luca Ronconi.

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34 IL FASCINO STORICO-MISTICO DI GERUSALEMME [2006]

Il cuore della Terra Santa è Gerusalemme, non solo per l’Antico ma anche per il Nuovo Testamento, sebbene pure la Galilea abbia avuto un’importanza capitale per la predicazione di Gesù, che si è svolta per buona parte nello scenario del suo «mare», il lago di Genezaret. Perciò l’itinerario che si segue di solito nel pellegrinaggio cristiano in Terra Santa comincia con la Galilea, focalizzandovi Nazaret, il lago con la memoria delle Beatitudini, della moltiplicazione dei pani e del primato di Pietro, e poi ancora Cana e il Tabor. Culmina quindi a Gerusalemme, con le visite al Getsemani, al Cenacolo, al Santo Sepolcro e a Betlemme, poco distante dalla capitale, ma molto dislocata da Nazaret, dove si era ricordata prima l’annunciazione a Maria della nascita di Gesù. Rievocare nel dettaglio il pellegrinaggio in Terra Santa qui non è possibile e neanche utile, ma quello che credo più importante è cercare di riferire e condividere alcune delle sensazioni e delle riflessioni che ho in qualche modo interiorizzato durante il pellegrinaggio ed il conseguente soggiorno di una settimana a Gerusalemme nel luglio del 2006. Giusto mentre infuriavano già i combattimenti tra Israele e gli Hezbollah del Libano meridionale. Paradossalmente, questa temperie frenetica della guerra, vissuta nel resto del Paese, nonostante i rischi, con l’atteggiamento apparentemente tranquillo della normalità, ricrea e fa rivivere in maniera molto diretta e realistica lo spirito aspro e robusto dell’epopea nazionale e religiosa dell’Antico Testamento, che costituisce per sempre la parte quantitativamente più rilevante della Bibbia cristiana. I bollettini di guerra e i resoconti dei danni, dei morti e dei feriti, ripetuti in forma martellante e quasi asettica nei comunicati della radio, della televisione e della stampa, richiamavano spontaneamente le pagine più crude della Bibbia nelle quali si parla delle incursioni degli antichi Egiziani, degli Assiri e dei Babilonesi nella terra di Israele, che hanno avuto il loro acme più emblematico nella distruzione del Tempio (586 a.C.) e nell’esilio che ne è seguito in Babilonia. Sì, questa è una terra attraversata sempre da minacce di morte e distruzione, ma anche da sogni di speranza e di rinascita; una terra di «rovi e pruni»

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(Is 7,24), dove solo idealmente «scorre latte e miele» (Es 3,8). È proprio nel crogiuolo drammatico e lacerante di questa Terra promessa agli antichi Ebrei all’uscita dall’Egitto, che, a prezzo di disastri e di morti senza numero, emerge e prende corpo l’utopia della pace (cf. Is 2,4), più un miraggio dell’anima che una constatazione degli occhi. Eppure Gerusalemme esercita un fascino straordinario e arcano se la si percorre con l’atteggiamento amoroso del pellegrino che si scommette nel farsi discepolo sia della grande Storia, sia della quotidianità più spicciola. Gerusalemme apre orizzonti di freschezza mattutina e di meriggi caldi e luminosi, ma non pesanti per l’umidità, e che perciò non offuscano la limpidezza del suo cielo. Gli edifici, di forme vagamente geometriche, sono rigorosamente rivestiti con la pietra locale di colore bianco–calcareo e sono immersi in chiazze verdi di ulivi, cipressi, pini, eucalipti, oleandri, carrubi. La pianificazione urbanistica delle nuove opere si rivela flessuosa e razionale, attenta a far risaltare le ondulazioni delle colline sulle quali sorge la città. È stata ottimizzata la circolazione delle auto nella città attraverso tunnel, ponti e strade allargate, che non hanno affatto alterato le caratteristiche dell’ambiente naturale. Le architetture, specialmente quelle di alcuni edifici d’avanguardia, fondono insieme la tradizione con la modernità, l’irrinunciabile impronta orientale con l’influsso del design occidentale, sia europeo che americano. È soprattutto nei Salmi, il cuore lirico di tutta la Bibbia ebraica, che si mette a tema l’approccio visionario dell’esperienza esaltante della «salita» a Gerusalemme; questo viaggio offre l’opportunità di poter sostare almeno per qualche giorno accanto al Tempio: «Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore! Ed ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme» (Sal 122,1-2). È questo un impatto senza dubbio trasognato con l’allora piccola città di Gerusalemme che oltre al Tempio includeva tra le sue mura anche le istituzioni più caratteristiche dell’ordinamento giuridico dell’antico Israele: «Gerusalemme è costruita come città salda e compatta… là sono posti i seggi del giudizio della casa di Davide» (vv. 3.5). Questo incantamento di fronte a Gerusalemme non si appaga col fermarsi sul presente, ma si proietta in modo accorato sul futuro per diventare auspicio ed intercessione: «Domandate pace per Gerusalemme (in ebraico sha’alu shelom yerushalaim)»; l’allitterazione scoppiettante con cui è formulato questo invito comunica in maniera efficace il fremito di

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speranza che anima il salmista. Ma subito dopo, questa intercessione per Gerusalemme diventa pure generosa invocazione per i lontani da Gerusalemme, perché anche su di loro si irradi dalla città santa la sua pace: «Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: Su di te sia pace (shalom)» (v. 8). Così l’incantesimo di Gerusalemme contiene in sé due dimensioni, la concentrazione verticale e l’espansione orizzontale, che poi viene specificata ed allargata nel Sal 87 in una visione molto ardita: «Ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati» (v. 4). Anche se in Gerusalemme trovano spazio gli altri popoli lontani, prima nemici e qui riconciliati, non si accetta l’equivalenza reciproca con gli altri luoghi, al punto che si protesta: «Come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni altra mia gioia» (Sal 137,4-6). In realtà, in Gerusalemme si riverbera il mondo con le sue diversità e con le sue contraddizioni non ancora riconciliate. Per noi cristiani Gerusalemme è il luogo dove culmina la vicenda di Gesù, con la sua morte e risurrezione. Egli, «quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace! Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte» (Lc 19,41-43). Poi alla vigilia della Pentecoste, prendendo commiato dai discepoli sul monte degli Ulivi, il Cristo dirà «mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Al termine del nostro pellegrinaggio, mentre sostiamo in preghiera ed in silenzio davanti al suo sepolcro, il Risorto ci rimanda alle nostre città in tutto il mondo con questa visione che era il propellente decisivo della missione di Paolo: «Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2 Cor 5,15). Con una profonda intuizione di fede, l’antica tradizione giudeo-cristiana ha situato sul fianco est del Calvario la cosiddetta «Grotta di Adamo» che Cristo avrebbe visitato, nella sua discesa agli Inferi, per redimerlo come rappresentante di tutta l’umanità. In verità, nel Calvario si intersecano la particolarità dell’evento e l’universalità della sua efficacia; da qui defluisce e qui di nuovo rifluisce la fede dei cristiani, sparsi nel mondo. A Gerusalemme si trasmette e si riproduce pure la ricchezza polimorfica delle Chiese cristiane, le quali nei vari continenti

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testimoniano il messaggio di Gesù che è partito dalla Galilea e il messaggio su Gesù, salvatore e redentore, che è partito da Gerusalemme. E per concludere, possiamo ricordare che l’unica fede in Gesù di Nazaret, Messia e Figlio di Dio, si rifrange diversamente nei vari ambienti cristiani e cattolici coagulati a Gerusalemme, a seconda che si viva più a contatto con la componente araba o con quella ebraica di questa Città, santa e lacerata.

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PERIODICI E COLLANE CITATI NELLA BIBLIOGRAFIA Acta PIB: Acta Pontificii Istituti Biblici Aevum AnBi: Analecta Biblica ArchTeolGran: Archivo Teológico Grandino Asprenas Avvenire BETL: Biblioteca ephemeridum theologicarum Lovaniensium Bib: Biblica Bibbia e Oriente BIOSCS: Bulletin of the International Organization for Septuagint and Cognate Studies BollEcclCat: Bollettino ecclesiastico dell’arcidiocesi di Catania Brown Judaic Studies BZAW: Beihefte zur ZAW CBQ: Catholic Biblical Quarterly CBQ MS: Catholic Biblical Quarterly Monographs Series CivCatt: Civiltà Cattolica Collana Teologica Communio Comunità Coscienza Crescere insieme Cr St: Cristianesimo nella Storia Divinitas EncRel: Enciclopedia delle Religioni Euntes Docete Famiglia Cristiana FAT: Forshungen zum Alten Testament Gazzetta del Sud GdT: Giornale di teologia Greg: Gregorianum HBS: Herders Bibliche Studien Henoch Ho theologos Humanitas «i quaderni»- Istituto Leonardo da Vinci - Catania

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IRBS, vedi IZBG Istituto Orientale di Napoli. Dip. Studi Asiatici IZBG: Internazionale Zietschriftenschau für die Bibelwissenschaft und Grenzgebiete (dal vol. 47[2000-2001]: IRBS = International Review of Biblical Studies) JSOTSS: Journal for the Study of the Old Testament. Supplement Series JSJ: Journal for the Study of Judaism La Bibbia nelle nostre mani Laós La Sicilia L’Eco del Seminario di Catania LOB: Leggere oggi la Bibbia L’Osservatore Romano NTA: New Testament Abstracts NVB: Nuovissima Versione della Bibbia OTA: Old Testament Abstracts Pagine Aperte ParVi: Parole di vita Presenza del Vangelo Prospettive Protestantesimo Quaderni di Synaxis RdT: Rassegna di Teologia RevAg: Revista Agustiniana Riforma RivB: Rivista Biblica RivClIt: Rivista del Clero italiano Rivista di Studi Crociani Rivista di teologia morale RSB: Ricerche Storico Bibliche RTL: Revue théologique de Louvain Salesianum SBLSCS: Society of Biblical Literature. Septuagint and Cognate Studies Scripta Theologica Segno Servizio della Parola Studi Biblici Studia Biblica

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Studia Patavina Siculorum Gymnasium SuppRivB: Supplementi alla Rivista Biblica Synaxis TemiPred: Temi di predicazione Teatro Massimo Bellini Teologia VT: Vetus Testamentum VTS: Vetus Testamentum Supplements ZAW : Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft ZKT : Zeitschrift für Katholische Theologie

BIBLIOGRAFIA DI ANTONINO MINISSALE N. B. I numeri in grassetto rimandano all’ordine in cui i testi sono riportati in questo volume. 1956 Un passo, in L’Eco del Seminario di Catania, ott. - nov. 1956, 4-5. 1958 [21] Questa nostra messa, in L’Eco del Seminario di Catania, lugl.- agost. 1958, 4-5. 1962 Prof.ssa Maria Galateoto, in L’Eco del Seminario di Catania, nov.- dic. 1962, 17. 1964 Recens. A. PARROT, Le Musée du Louvre et la Bible, 1957; H.MICHAUD, Sur la pierre et l’argille, 1958, in ParVi 9 (1964) 156-158. 1965 Collab. Rivista delle Riviste (per ZKT), in RivB 13/14 (1965/1966). 1966 [1] Bibbia sacra e bibbia laica, in ParVi 11(1966) 425-428.

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1967 Collab. Rivista delle Riviste (per ZKT), in RivB 15 (1967). 1968 Il VI congresso degli Studi dell’Antico Testamento a Roma, in RivB 16(1968) 335-336. Collab. Rivista delle Riviste (per ZKT), in RivB 16 (1968). 1970 [2] Il ministero presbiterale nel Nuovo Testamento, in BollEcclCat 73 (1970) 96-107. Adamo nella Bibbia, in EncRel 1 (1970) 34-40. Geremia nel NT, in EncRel 2 (1970) 1719-1720. Adamo nella Bibbia, in EncRel 1 (1970) 34-40. Trad. d. ted. ed Editoriale: H. HAAG, Dottrina biblica della creazione e dottrina ecclesiastica del peccato originale (GdT 47), Queriniana, Brescia 1970. Collab. Rivista delle Riviste (per ZAW), in RivB 18 (1970). 1971 Giacobbe nel NT, in EncRel 3 (1971) 156 -157. Giona nel NT, in EncRel 3 (1971) 263. Giuseppe nel NT, in EncRel 3 (1971) 458. Collab. Servizio della Parola, n. 29, 1971: Domenica 15 ‘per annum’ (11 luglio 1971), 60-63; Domenica 16 ‘per annum’ (18 luglio 1971), 6669; Domenica 17 ‘per annum’ (25 luglio 1971), 74-77. Collab. Rivista delle Riviste (per ZAWt), in RivB 19 (1971). La speranza nella Bibbia (Quaderni di Azione Cattolica diocesana – Catania), Catania 1971. 1972 Michea nel NT, in EncRel 4 (1972) 357-358. Mosè nel NT, in EncRel 4 (1972) 881-885. Noè nel testo biblico, in EncRel 4 (1972) 1067-107. Osea nel NT, in EncRel 4 (1972) 1119-1120. Recens. W. KORNFELD, Religion und Offenbarung in der Geschichte Israels, Innsbruck – Wien – München 1970, in RivB 20 (1972) 181-182.

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1973 [3] I Salmi nel Nuovo Testamento, in EncRel 5 (1973) 743-747. Rut nel NT, in EncRel 5 (1973) 416. Salomone nel NT, in EncRel 5 (1973) 754-755. [25] Mio padre: l’ultima lezione (fascicolo pubblicato in proprio), Bronte (CT) 1973. Trad. d. ted. e Nota di edizione: W. ZIMMERLI, La mondanità dell’Antico Testamento (Teologia 16), Jaca Book, Milano 19731. Collab. Rivista delle Riviste (per ZAW), in RivB 21 (1973). 1974 [23] Ricordo di Padre Salanitri, in Centenario della nascita del Sac. Giuseppe Salnitri (Bronte 1874-1974), Piccolo Seminario Arcivescovile (numero unico), Bronte (CT) 1974, 8-11. Trad. d. ted. e Introduzione: H. OBERMAYER e.a., Piccolo Dizionario Biblico, Paoline, Roma 1974, 71997. Collab. Rivista delle Riviste (per ZAW ), in RivB 22(1974). Trad. d. ted.: W. ZIMMERLI, Geremia, il profeta sofferente, in Communio n. 17/4(1974) 3-12 (= 1081-1090). 1975 [4] La donna nei profeti, in ParVi 20 (1975) 419-432. [27] Nota di Edizione in: trad. d. ted. e cura di W. ZIMMERLI, Rivelazione di Dio. Una teologia dell’Antico Testamento (Teologia 25), Jaca Book, Milano 1975, 7-142. Lo Spirito Santo e l’evangelizzazione, in AA.VV., Ecumenismo ed evangelizzazione. Atti della XII Sessione ecumenica del S.A.E., A.V.E., Roma 1975, 45-48.

1

Recensioni in Asprenas 22(1975) 442-444 (A. Rolla); CBQ 35(1973) 132-133 (C. A. Moore); CivCatt 125 (1974) 410 (U. De Mielosi); Divinitas 27(1983) 351 (T. Stramare); Euntes Docete 34(1981) 473-474 (F. Ciccimarra); Humanitas 30(1975) 253-254 (F. Momtagnini); Rivista di Teologia Morale 6(1974) 537-538 (F. D’Agostino); Salesianum 45(1983) 210-211 (R. Della Casa); Studia Patavina 21(1974) 671-672; ZAW 83(1971) 436437 (G. Fohrer). 2 Recensioni in Bib 55(1974 577-578 (J. Harvey); Bibbia e Oriente 8(1966) 128-129 (G. Rinaldi); Protestantesimo 20(1963) 175-176 (J. A. Soggin); Salesianum 37(1975) 865 (A. Amato)

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1976 Gesù, il maestro, in Crescere insieme 3/7(1976) 1. Recens. C. LEPRE, Qohelet: traduzione ritmica dall’originale ebraico e note, in Rivista di Studi Crociani 11 (1976) 8-12. 1977 Introduzione ai vangeli domenicali (Luca), in CHIESE DI SICILIA, Calendario liturgico 1977. Congresso a Gottinga sull’Antico Testamento: Gli studi biblici e le Chiese, in Avvenire 1977, n. 121, 5. 1978 [5] Le invettive d’Isaia come esempio di linguaggio profetico, in AA.VV., Ministeri e ruoli sociali (Collana Teologica), Marietti, Torino 1978, 69-80. L’Introduzione all’Antico Testamento, in RClerIt 159 (1978) 271-279. La problematica storica dell’Antico Testamento. Rassegna critica degli attuali indirizzi di studio, in RivClIt 159 (1978) 464-470. Introduzione ai vangeli domenicali (Matteo), in CHIESE DI SICILIA, Calendario liturgico 1978. 1979 La Teologia dell’Antico Testamento. Rassegna critica e bibliografica, in “RClerIt 160 (1979) 179-186. La Bibbia nell’Enciclica Redemptor Hominis, in Segno, n. 4 (1979) 11-14. Introduzione ai vangeli domenicali (Marco), in CHIESE DI SICILIA, Calendario liturgico 1979. 1980 Siracide (Ecclesiastico) (NVB 23), Paoline, Roma 19803. 1981 Trad. d. ted. e cura W. H. SCHMIDT, Dizionario Biblico. Teologia dell’Antico Testamento, Jaca Book, Milano 1981.

3 Recensioni in RivB 28(1980) 475-476 (G. Ghiberti); cfr. ParV 48(2003) 52 (L. Mazzinghi).

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Il X congresso internazionale degli Studi di Antico Testamento, in RivB 29 (1981) 250-253. Collab. alla IZBG XXVII/1980-81, Patmos Verlag, Düsseldorf 1981. 1982 I Dizionari di teologia biblica. Rassegna bibliografica in chiave ecumenica, in RClerIt 63 (1982) 181-188. L’utopia della pace nell’Antico Testamento, in Segno 8 (1982). Collab. alla IZBG XXVIII/1981-82, Patmos Verlag, Düsseldorf 1982. Recens. G. FOHRER, Storia D’Israele. Dagli inizi ad oggi, Brescia 1980, in RivB 30 (1982) 232-233. 1983 [28] Visita ad un kibbutz religioso, in Segno 9 (1983) 67-72. Collab. alla IZBG XXIX/1982-83, Patmos Verlag, Düsseldorf 1983. Recens. F. MONTAGNINI, La prospettiva storica della Lettera ai Romani (Studi Biblici 54), Brescia 1980, in Aevum 57 (1983) 169-170. Recens. M. HENGEL, Ebrei, Greci e Barbari. Aspetti dell’ellenizzazione del giudaismo in epoca precristiana (Studi Biblici 56), Brescia 1981, in RivB 30 (1983) 243-245. 1984 Collab. alla IZBG XXX/1983-84, Patmos Verlag, Düsseldorf 1984. 1985 [29] Gerusalemme ieri e oggi, in Prospettive 1 (1985), n. 1, 3. Incontri nella Parrocchia s. Maria della Salute: Riscoprire la Bibbia, in Prospettive 1 (1985), n. 14, 4. Collab. alla IZBG XXXI/1984-85, Patmos Verlag, Düsseldorf 1985. 1986 Questo campeggio tanto decantato, in Costruiamo la pace 4/1 (1986) 11-12. Collab. alla IZBG XXXII/1985, Patmos Verlag, Düsseldorf 1986. 1987 Il V convegno di studi veterotestamentari, in RivB 35 (1987) 532-535. Collab. alla IZBG XXXIII/1985-86, Patmos Verlag, Düsseldorf 1987. Recens. G. BARBAGLIO (a cura di), Schede Bibliche pastorali, in RivB 15 (1987) 520-522.

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Recens. M. CIMOSA, Il vocabolario di preghiera nel Pentateuco greco dei LXX (Quaderni di Salesianum), Roma1985, in ParVi 32 (1987) 443-445. 1988 Siracide. Le radici nella tradizione (LoB 1.17), Queriniana, Brescia 19884. Un antico maestro: il Siracide, in «i quaderni» Istituto Leonardo da VinciCatania, 1987-1988, 28. Collab. alla IZBG XXXIV/1986-87, Patmos Verlag, Düsseldorf 1988. 1989 [6] La Bibbia: una storia per la vita, in AA.VV., Promozione e difesa della vita: un nuovo spazio di impegno per l’UNITALSI. Atti del XV Convegno nazionale, Loreto 17/19 novembre 1988, Unitalsi, Roma 1989, 23-32. [30] L’opera di Riccardo Meli e la Bibbia: La persistenza nell’implicito, in Prospettive 5(1989), n.14, 3. Il Congresso dell’Organizzazione Internazionale per lo Studio dell’Antico Testamento. Lovanio: quello stretto rapporto tra la ricerca biblica e la vita, in Prospettive 5 (1 ott.1989), n. 36, 3. Collab. a Servizio della Parola, n. 206/207, 21(1989): Santissima Trinità (21 maggio 1989), 115-119; Corpo e Sangue di Cristo (28 maggio 1989), 125-130. Collab. a Servizio della Parola n. 209 (1989): Trasfigurazione del Signore (6 agosto 1989), 35-40. Recens. L. MONLOUBOU-F. M. DU BUIT, Dizionario biblico. Storicocritico, in RivB 17(1989) 107-109. Recens. M. MASINI, Filippesi-Colossesi-Efesini-Filemone. Le lettere della prigionia (LoB 2.9), in RivB 17 (1989) 115-116. 1990 [28] Testimonianza su un Est che non c’è più. Berlino, ordine e solitudine, in Prospettive 6(1990), n. 2, 12. 4 Recensioni in Asprenas 36(1989) 108-109 (A. Rolla); Bibbia e Oriente 30(1988) 124-125; Studia Patavina 37(1990) 391-392 (M. Milani). Traduzioni in brasiliano (Sirácida. As raízes na tradição, trad. di Benôni Lemos e Patrizia G.E. Collina Bastianetto, rev. H. Dalbosco, Edições Paulinas, Sãn Paulo, 1993) e in coreano di Y.-S. Johan Pahk (Catholic University of Corea, Puchon City).

360


La XXXI Settimana Biblica della Pontificia Università Gregoriana, in Prospettive 6(30 set. 1990), n. 36, 3. Il Regno di Dio: attesa e realtà, in Presenza del Vangelo 14(1990) 4-8. Gli esercizi spirituali del clero a Mascalucia: un’esperienza di vita comune, in BollEcclCat 93(1990) 388-389. ‘Cultura e coscienza civile nel Mezzogiorno d’Italia’. Un convegno nel clima di rilancio della pastorale della cultura,in BollEcclCat 93(1990) 600-601. Recens. F. RAURELL, Der Mythos vom männlichen Gott, in RivB 38(1990) 105-106. Collab. alla IZBG XXXV/1987-88, Patmos Verlag, Düsseldorf 1990. 1991 Settimana diocesana del clero. Rinnovarsi sul fondamento, in BollEcclCat 94 (1991) 455-457. Collab. alla IZBG XXXVI/1988-90, Patmos Verlag, Düsseldorf 1991. 1992 Incontro con il professor Alfredo Carlo Moro. Alla ricerca della moralità perduta, in Prospettive 8 (1992), n.5, 4. Pastorale della cultura. Convegno su ‘Crisi del senso della legalità e impegno per il suo ricupero, in BollEcclCat 95 (1992) 140-143. Settimana di aggiornamento del clero, in BollEcclCat 95 (1992) 415-417. Il cammino economico del popolo di Israele, in Comunità 19/5 (1992) 6-7. Collab. alla IZBG XXXVII/1990-91, Patmos Verlag, Düsseldorf 1992. Recens. B.G.WRIGHT, No Small Difference. Sirach’s Relationship to Its Hebrew Parent Text (SBSSCS 26), Atlanta, Georgia, 1989, in RivB 40 (1992) 232-235. Recens. CAVEDO, 1-2 Cronache. Esdra e Neemia (LoB 1.9/10), Brescia 1991, in RivB 40 (1992) 3, 353-355. 1993 L’annuale convegno della pastorale culturale. Riscoprire i valori, in Prospettive 9 (24 gen. 1993), n. 3, 11. A proposito di un articolo del Corriere della sera: Giobbe, Magris e il dolore, in Prospettive (14 feb. 1993), n. 6, 2. Incontro a Catania con una donna ‘pastora’della chiesa luterana: Ecumenismo dalla Finlandia”, in Prospettive 9 (25 apr. 1993), n. 16, 11.

361


Convegno diocesano della pastorale della cultura: Per una maturità dei laici nella Chiesa e nella società, in BollEcclCat 96 (1993) 121-124. Al corso di aggiornamento del clero: Una panoramica dei temi più attuali di teologia morale, in BollEcclCat 96 (1993) 431-432. Cominciando dalla Galilea… Giorno per giorno l’itinerario dei pellegrini in Terra santa, in BollEcclCat 96 (1993) 439-442 (con M. Licciardello). Collab. alla IZBG XXXVIII/1991-92, Patmos Verlag, Düsseldorf 1993. 1994 [29] Studiare la Bibbia a Gerusalemme, in Coscienza 1 (1994) 10-11. La pastorale della cultura: IV convegno annuale, in Prospettive 10 (1994), n. 5, 17. Cultura: cinque anni d’entusiasmo, in Prospettive 10 (1994), n. 17, 20. Israele tra il nuovo e l’antico, in Prospettive 10 (1994), n. 20, 15. Critica biblica e tradizione ebraica, in Prospettive 10 (1994), n. 22, 15. Itinerari della pastorale della cultura, in BollEcclCat 97 (1994) 167-170. Esercizi spirituali del presbiterio diocesano, in BollEcclCat 97 (1994) 315-316. Collab. alla IZBG XXXIX/1992-93, Patmos Verlag, Düsseldorf 1994. Recens. J.W.ROGERSON, W.M.L. de Wette Founder of Modern Biblical Criticism: An Intellectual Biography (JSOTSS 126), Sheffield 1992, in RivB 42 (1994) 4, 363-365. Recens. J. GUILLET, Habiter les Écritures. Entretiens avec Charles Ehlinger (Les interviews), Centurion, Paris 1993, in RivB 42 (1994) 4, 485-486. 1995 La versione greca del Siracide. Confronto con il testo ebraico alla luce dell’attività midrascica e del metodo targumico (An Bi 133), Pontificio Istituto Biblico, Roma 1995, pp. X-3345. 5

Recensioni e servizi in: Acta PIB 9/8(1992) 731-732; ArchTeolGran 59(1996) 315316 (J. Vílchez); Bib 78/1(1977) 120-121 (F. Raurell); Cr St 19(1988) 180-184 (A. Nicacci); Gazzetta del Sud 12.7.1996, p. 3 (S. Nibali); Greg 79/1(1998) 173-176 (G. L. Prato); Hen 18(19969 315-316 (P. Sacchi); JSJ 28/3(1997) 343-345 (P.C. Bentjes); NTA 40/2(1996) 380; OTA 19 (1996) 352-353 (A. A Di Lella); L’Osservatore Romano, 1 novembre 1995, 8 (P. Puca); Prospettive 17.12. 1995, 15 (C. Crimi); RevAg 37(1996) 858-859 (S. Selugal); RdT 38(1997) 125-127; RTL 24 (1993) 542 (M. Gilbert); ScrTh 28(1996) 617 (J. Jarne); La Sicilia

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Trad. dall’ebraico moderno e postfazione: A. ROFÈ, Introduzione alla letteratura profetica Studi (Studi Biblici 111), Paideia, Brescia 19956. Il libro del Siracide: da epigono a protagonista (Prolusione all’Anno accademico 1994-1995, ISSR San Luca, Catania), in Laós 2 (1995) 2, 3-197. Per una economia più umana e più efficiente, in Prospettive 11 (1995), n. 3, 15. Riflessione sul discorso del Papa al mondo della cultura catanese: Cultura, verità e vangelo, in Prospettive 11 (1995), n. 6, 15. A Cambridge l’Antico Testamento, in Prospettive 11 (1995), n. 34, 15. Collab. alla IZBG XLI/1993-94, Patmos Verlag, Düsseldorf 1995. 1996 Lessico e spiritualità nel Salmo 119, in Siculorum Gymnasium. Rassegna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania. Studi in ricordo di Francesco Erasmo Sciuto 49 (1996) 167-186. [7] La personificazione della Sapienza e la creazione, in Laós 3 (1996) 1, 31-44. Riflettendo sull’allungamento della vita umana, in Prospettive 12 (1996), n. 5, 16. Ricordo di Sergio Quinzio, in Prospettive 12 (1996), n. 14, 18. Convegno in Olanda sul Siracide: Testimonianza esemplare, in Prospettive 12 (1996), n. 34, 16. IV Domenica di Pasqua (28 apr. 1996), in TemiP 40/5 (1996) 44-49. XXIV Domenica del Tempo Ordinario (15 set. 1996), in TemiP 40/7 (1996) 94-99. XXXI Domenica del Tempo Ordinario (3 nov. 1996), in TemiP 40/8 (1996) 63-68. N.S.G. Cristo Re dell’Universo (14 nov. 1996), in TemiP 40/8 (1996) 111-116. La danza della Sapienza, in La Bibbia per la famiglia. Supplemento a Famiglia Cristiana 28 (1996) 31-33.

3.7.1996, p. 19 (R. Pistone); Synaxis 13/2(1995) 515-516 (C. Crimi); ZAW 108/2(1996) 311 (J. A. Soggin); ZKTh 119/1(1997) 89-90 (Georg Fischer). 6 Recensioni in: VT 50/2(2000) 277-278; IZBG 42(1995-1996) nr. 522, 84. 7 Scheda in OTA 19(1996) nr. 1656, 463 (C. T. Begg).

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«Con la Bibbia un ponte fra i popoli». Intervista a Mons. Antonino Minissale di Maria A. Boemi, in La Sicilia 11 giugno 1996, 17. Il centenario della scoperta. Due ricche signore scozzesi e i manoscritti ebraici del Siracide, in La Sicilia 23 settembre 1996, 13. Recens. A. WÉNIN, L’homme biblique. Anthropologie et éthique dans le Premier Testament (Théologies bibliques), Les Éditions du Cerf, Paris 1995, in Synaxis 14 (1996) 1, 373-376. Collab. alla IZBG XLI/1994-95, Patmos Verlag, Düsseldorf 1996. 1997 [8] Sacerdozio, corte e popolo nel libro di Geremia, in AA.VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana (Quaderni di Synaxis 12), Cinisello Balsamo (Mi) 1997, 145-155. [9] A Descriptive Feature of the Greek Sirach: The Effect instead of the Cause, in B.A. TAYLOR (ed.), IX Congress of the International Organization for Septuagint and Cognate Studies. Cambridge, 1995 (SBLSCS 45), Scholars Press, Atlanta, GE, 1997, 421-429. [30] Per scoprire la Genesi. Un’estate a Washington, in Prospettive 13(1997), n. 35,16. Epifania del Signore (6 gen. 1997), in TemiP 41/9 (1997) 172-176. III Domenica del Tempo Ordinario (26 gen. 1997), in TemiP 41/11 (1997) 46-50. Veglia pasquale (29 mar. 1997), in TemiP 41/12 (1997) 140-145. Convegno internazionale su Ben Sira, in RivB 45 (1997) 121-125. Recens. Jutta HAUSMANN, Studien zum Menschenbild der älteren Weisheit (FAT 7), J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1995, pp. X-415, in Cr St 18 (1997) 441-444. Recens. J. CRAGHAN, Ester – Giuditta – Tobia – Giona (LoB 1.11), Queriniana, Brescia 1995, in RivB 45 (1997) 89-90. Recens. R.J.CLIFFORD, Deuteronomio (LoB 1.6), Queriniana, Brescia 1995; ID., Creation Accounts in the Ancient Near East and in the Bible (CBQ MS 26), Washington, DC, 1994, in RivB 45 (1997) 353-356. Recens. J. HAUSMANN, Studien zum Menschenbild der älteren Weisheit (Spr 10ff) (FAT 7), J.C. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1995, in Synaxis 15 (1997) 368-372. Recens. J.A.EMERTON (ed.), Congress Volume. Paris 1992 (VTS 41), E.J.Brill, Leiden – New York – Köln 1995, in Synaxis 15 (1997) 359-364.

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Recens. PH. REYMOND, Dizionario di ebraico e aramaico biblici, Soc. Biblica britannica & forestiera, Roma 1995, in Synaxis 15 (1997) 364-368. Collab. alla IZBG XLII/1995-96, Patmos Verlag, Düsseldorf 1997. 1998 [10] Il ruolo sociale del saggio-scriba secondo Ben Sira, contributo pubblicato in tedesco: Ben Siras Selbstverständnis in Bezug auf Autoritäten der Gesellschaft, in R. EGGER-WENZEL u. I. KRAMMER (edd.), Der Einzelne und seine Gemeinschaft bei Ben Sira (BZAW 270), Berlin – New York 1998, 103-116 (traduz. in tedesco di Ingrid Iller-Foti). La struttura formale e logica dei meshalim in Pro 10, in S. MANFREDI – A. PASSARO (edd.), Abscondita in lucem. Scritti in onore di Mons. Benedetto Rocco (= ho theologos 16 [1998], n. 2-3 ), Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta 1998, 89-102. A Oslo per l’Antico Testamento, in Prospettive 14 (20 set.1998), n. 33, 16. I Domenica di Quaresima (1 mar. 1998), in TemiP 42/21 (1998) 14-18. SS. Pietro e Paolo (29 giu. 1998), in TemiP 42/23 (1998) 42-46. Il XVI Congresso dell’IOSOT ad Oslo, in Synaxis 16 (1998) 701-707. Corso di aggiornamento per il clero “Credo in Dio Padre”, in BollEcclCat 101 (1998) 533-536. Recens. F.V.REITERER (ed.), Freundschaft bei Ben Sira. Beiträge des Symposions zu Ben Sira. Salzburg 1995 (BZAW 244), Berlin – New York 1996; P.C.BEENTJES (ed.), The Book of Ben Sira in Modern Research. Proceedings of the First International Ben Sira Conference 28-31 July 1996, Soesterberg Netherlands (BZAW 255), Berlin – New York 1997, in Synaxis 16 (1998) 314-321. Recens. N.H. ROSENBLATT, Wrestling with Angels: What Genesis Teaches Us about our Spiritual Identity, Sexuality, and Personal Relationships, Delta Paperbacks, New York 1997, in Synaxis 16 (1998) 318-321. Collab. alla IZBG XLIII/1996-97, Patmos Verlag, Düsseldorf 1998. 1999 [11] La profezia come apologia nazionale e verifica della storia in Ben Sira, in: G.L. PRATO (ED.), La profezia apologetica di epoca persiana ed ellenistica. La manipolazione divinatoria del passato a giustificazione del presente.

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Atti del X Convegno di Studi Veterotestamentari (Rocca di Papa, 8-10 Settembre 1997), in RSB 11 (1999) 85-95. [12] La Settanta di Proverbi 10-11, in G.BELLIA – A. PASSARO (edd.), Libro dei Proverbi. Tradizione, redazione, teologia, Piemme, Casale Monferrato 1999, 109-121. [13] Some Uncommon Words in the Hebrew Text of Ben Sira, in N.CALDUCH-BENAGES and J.VERMEYLEN (edd.), Treasures of Wisdom. Studies of Ben Sira and the Book of Wisdom. Festschrift M. Gilbert (BETL 143), University Press, Leuven 1999, 3-13. [31] Viaggio a Weimar. Sulle tracce di Goethe, in Prospettive 15 (1999), n. 33, 17. L’Antico Testamento a Münster, in Prospettive 15 (1999), n. 30, 17. XXII Domenica del Tempo Ordinario (29 ago. 1999), in TemiP 43/33 (1999) 49-52. XXIII Domenica del Tempo Ordinario (5 set. 1999), in TemiP 43/33 (1999) 63-66. Studi veterotestamentari: problemi e prospettive, in RivB 47 (1999) 205213. Simposio a Münster su ‘Giustizia e misericordia di Dio nell’AT, in RivB 47 (1999) 494-495. Lavoro e riposo nella Bibbia, in Synaxis 18/1 (1999) 21-31. Linguaggio mitico e racconti biblici delle origini, in. R.PUCCI e G.RUGGIERI (edd.), Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto (Quaderni di Synaxis 13), Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, 125-140. Recens. N.H. ROSENBLATT, Wrestling with Angels: What Genesis Teaches Us about our Spiritual Identity, Sexuality, and Personal Relationships, Delta Paperbacks, New York 1997, in RivB 47 (1999) 110-112. Recens. J.A.EMERTON (ed.), Congress Volume. Cambridge 1995(VTS 66), Brill, Leiden – New York – Köln 1997, in Synaxis 17 (1999) 160-164. Collab. alla IZBG XLIV/1997-98, Patmos Verlag, Düsseldorf 1999. 2000 [14] Elementi mitici in Gen 1-11. Implicazioni ermeneutiche, in Simonetta GRAZIANI (ed.), Studi sul Vicino Oriente Antico dedicati alla memoria di Luigi Cagni (Istituto Orientale di Napoli. Dipartimernto di Studi Asiatici), Napoli 2000, 1811-1834. Il lessico della preghiera nel I libro dei Salmi (1-41): compenetrazione dei diversi generi letterari, in R.FABRIS (ed.), Initium Sapientiae. Scritti

366


in onore di Franco Festorazzi nel suo 70° compleanno (SupplRivB), Bologna 2000, 95-112. XXVIII Domenica del tempo ordinario (15 ottobre 2000), in TemiP 44/43 (2000) 75-78. XXIX Domenica del tempo ordinario (22 ottobre 2000), in TemiP 44/43 (2000) 90-93. Ossevatorio bibliografico. Convegni e studi su Ben Sira: F.V.REITERER (ed.), Freundschaft bei Ben Sira. Beiträge des Symposions zu Ben Sira: Salzburg 1995 (BZAW 244), Berlin – New York 1996; ID. (ed.), Bibliographie zu Ben Sira (BZAW 266), Berlin – New York 1998; P.C. BEENTJES (ed.), The Book of Ben Sira in Modern Research. Proceedings of the First International Ben Sira Conference: 28-31 July 1996, Soesterberg, Netherlands (BZAW 255), Berlin – New York 1997; R. EGGER-WENZEL u. I. KRAMMER (edd.), Der Einzelne und seine Gemeinschaft bei Ben Sira(BZAW 270), Berlin – New York 1998, in RivB 48 (2000) 211-217. Lettere da Münster, in L’Eco del Seminario di Catania, 2000, 30-31. Recens. E.ZENGER, Il Primo Testamento. La Bibbia ebraica e i cristiani (GdT 248), Queriniana, Brescia 1997, in RivB 48 (2000) 98-100. Recens. J.A.EMERTON (ed.), Congress Volume. Cambridge 1995 (VTS 66), Brill, Leiden – New York – Köln 1997, in Synaxis 17 (1999) 160-164 e in RivB 48 (2000) 353-356. Collab. alla IZBG XLV/1998-99, Patmos Verlag, Düsseldorf 2000. 2001 [15] Versioni italiane della Bibbia: Storia e tipologia (Prolusione all’anno accademico 2000-2001 Studio S. Paolo)”, in Synaxis 19/1 (2001) 7-23. Heidelberg ha ricordato il grande Gerhard von Rad. L’Antico Testamento e la cultura della modernità, in Prospettive 17 (2001), n. 43, 17. SS. Trinità (10 giugno 2001), in TemiP 45/49 (2001) 113-116. XXVIII Domenica del Tempo ordinario (14 ottobre 2001), in TemiP 45/53 (2001) 155-158. XXIX Domenica del Tempo ordinario (21 ottobre 2001), in TemiP 45/53 (2001) 169-172. Collab. alla IZBG – IRBS XLVI/1999-2000, Brill, Leiden 2001.

367


2002 All’origine dell’universo e dell’uomo (Genesi 1-11). Interrogativi esistenziali dell’antico Israele (La Bibbia nelle nostre mani 36), San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 20028. XV Domenica del Tempo ordinario (14 luglio 2002), in TemiP 46/60 (2002) 84-87. XVI Domenica del Tempo ordinario (21 luglio 2002), in TemiP 46/60 (2002) 98-101. XVII Domenica del Tempo ordinario (28 luglio 2002), in TemiP 46/60 (2002) 113-116. Status quaestionis della ricerca sull’AT, in RivB 50 (2002) 445-453. Recens. Roberto OSCULALTI, L’evangelo di Giovanni, Milano 2000, pp. 209, in ParVi 47(2002) 61-62 e in Synaxis 20/3 (2002) 686-687. Collab. alla IZBG – IRBS XLVII/2000-2001, Brill, Leiden – Boston 2002. 2003 [16] L’etica di Ben Sira, in ParVi 48 (2003) 31-38. III Domenica di Quaresima (23 marzo 2003), in TemiP 47/66 (2003) 47-52. SS. Pietro e Paolo (29 giugno 2003), in TemiP 47/69 (2003) 8-13. XXV Domenica del Tempo ordinario (21 settembre 2003), in TemiP 47/70 (2003) 98-103. Natale notte (25 dicembre 2003), in TemiP 48/72 (2003) 86-89. Natale del Signore (aurora) (25 dicembre 2003), in TemiP 8/72 (2003) 9495. Natale del Signore (giorno) (25 dicembre 2003), in TemiP 48/72 (2003) 101-103. Collab. alla IZBG – IRBS XLVIII/2001-2002, Brill, Leiden – Boston 2003. 2004 [17] La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista cattolico, in G. RUGGIERI (ed.), La Bibbia libro di tutti? Atti del Convegno di studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalle Facoltà di Lettere e Filosofia, Lingue e Letterature straniere dell’Università di Catania 3-4 aprile 2003 (Quaderni di Synaxis 17), Firenze 2004, 105-128. 8 Recensioni in: Laós 9/2(2002) 99-100 (L. Calambrogio); Pagine Aperte 16/3(2002) 32; Riforma, 30 agosto 2002, 5 (S. Rapisarda); Synaxis 20/3(2002) 675-681 (Franco Conigliaro); ZAW 115(2003)312 (Rainer Kessler).

368


[18] Dall’antico Testo alle molteplici trasposizioni letterarie. La lezione universale del Giobbe biblico, in Il Prigioniero/Job. Luigi Dallapiccola, Teatro Massimo Bellini, Stagione lirica 2004, 113-123. [19] La metafora del ‘cadere’ chiave ermeneutica del Siracide, Convegno di Studi biblici, Facoltà Teologica di Sicilia, Palermo, 2-3 aprile 2004; pubblicazione degli Atti in: G. Bellia – A. Passaro, Il Libro del Sieacide. Tradizione, redazione, teologia (Studia Biblica 5), Città Nuova, Roma (in stampa). Traduzione in inglese del volume presso l’Editore de Gruyter di Berlino. [32] La mia esperienza ecumenica (1958-2003). Conferenza al Serra Club di Catania (10 gennaio 2004) (stampato in proprio). [33] L’opera ha inaugurato la stagione lirica della Scala. Il Mosè di Rossini, in Prospettive 20 (12004), n. 3, 17. A cento anni dalla nascita. Karl Rahner: un bilancio della teologia, in Prospettive 20 (2004), n. 12, 18. Domenica delle Palme (4 aprile 2004), in TemiP 48/72 (2004) 99-104. In ascolto di Luca. L’eredità delle Scritture, in Coscienza 56/3-4 (2004) 61-62. Recens. J. CORLEY, Ben Sira’s Teaching on Friendship (Brown Judaic Studies 316), Providence, Brown University, 2002, pp. xv-197, in Bib 85 (2004) 432-435. Recens. N. BOMBACI, Ebraismo e cristianesimo nel pensiero di Martin Buber, Universitaria, Napoli 2001, pp. 213, in Synaxis 22/3 (2004) 173-176. Recens. Maria MARTELLO, Oltre il conflitto. Dalla mediazione alla relazione costruttiva, McGraw-Hill, Milano – New York 2003, pp. 261, in Synaxis 22/3 (2004) 176-179. Collab. alla IZBG – IRBS XLIX/2002-2003, Brill, Leiden – Boston 2004. 2005 XXVII Domenica del Tempo ordinario (3 Ottobre 2005), in TemiP 49/84 (2005) 162-166. Beato te, Simone figlio di Giona, in Coscienza 57/3 (2005) 43-45. La scomparsa del prof. Salvatora Finocchiaro, in Prospettive 13 Novembre 2005. Coll. alla IZBG – IRBS L/2003-2004, Brill, Leiden – Boston 2005. [20] Il Rotolo di Ester: per una riscoperta del suo significato. Lezione tenuta alla Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Catania il

369


18 aprile 2005; pubblicata con il titolo Il dramma politico di Ester, in Segno 33/285-286 (2007) 59-66. Recens. D. CANDIDO, I testi del libro di Ester. Il caso dell’‘Introitus’ TM 1,1-22 – LXX A1-17; 1,1-22; Ta A1-118; 1,1-21 (An Bi 160), Ed. Pont. Istituto Biblico, Roma 2005, pp. Iv-484, in Synaxis 23/3 (2005) 239-241. 2006 [34] Il fascino storico-mistico di Gerusalemme, in Coscienza 58/4 (2006) 57-58. Recens. F.-L. HOSSFELD – L. SCHWIENHORST-SCHÖNBERGER (edd.), Das Manna fällt auch heute noch. Beiträge zur Geschchte und Theologie des Alten, Ersten Testaments (HBS 44), pp. 693, in Cr St 27 (2006) 645-653. 2007 La Festschrift Erich Zenger e l’ermeneutica del Primo Testamento, in RivB 45 (2007) 71-111. I “Vangeli”. Una edizione critica di Einaudi, in Coscienza 59/3 (2007) 54-55. Come presentare I Vangeli oggi, in Segno, n. 291 (2008)… (in stampa) In preparazione: Ester. Nuova versione, introduzione e commento, Paoline, Milano.

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INDICE PREFAZIONE .

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5

PARTE I – BIBBIA… .

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9

1 BIBBIA SACRA E BIBBIA LAICA [1966]

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11

2 IL MINISTERO PRESBITERALE NEL NUOVO TESTAMENTO [1970]

15

3 I SALMI NEL NUOVO TESTAMENTO [1973] .

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29

4 LA DONNA NEI PROFETI [1975]

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37

5 LE INVETTIVE D’ISAIA COME ESEMPIO DI LINGUAGGIO PROFETICO [1978]. . . . . . .

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45

6 LA BIBBIA: UNA STORIA PER LA VITA [1989]

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61

7 LA PERSONIFICAZIONE DELLA SAPIENZA E LA CREAZIONE(PR 8, 22-31) [1996]. . .

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73

8 SACERDOZIO, CORTE E POPOLO NEL LIBRO DI GEREMIA [1997] . . . .

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89

9 A DESCRIPTIVE FEATURE OF THE GREEK SIRACH: THE EFFECT INSTEAD OF THE CAUSE [1997] .

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99

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107

11 LA PROFEZIA COME APOLOGIA NAZIONALE E VERIFICA DELLA STORIA IN BEN SIRA [1999]

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121

12 LA SETTANTA DI PROVERBI 10-12 [1999]

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135

13 SOME UNCOMMON WORDS IN THE HEBREW TEXT OF BEN SIRA [1999] . . . . .

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147

14 ELEMENTI MITICI IN GEN 1-11. IMPLICAZIONI ERMENEUTICHE [2000] . . .

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161

15 VERSIONI ITALIANE DELLA BIBBIA: STORIA E TIPOLOGIA [2001] . .

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183

16 L’ETICA DI BEN SIRA [2003]

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201

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10 IL RUOLO SOCIALE DEL SAGGIO-SCRIBA SECONDO BEN SIRA [1998] . .

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371


17 LA BIBBIA LIBRO ESOTERICO? IL PUNTO DI VISTA DEL CATTOLICESIMO [2004]

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213

18 IL GIOBBE BIBLICO [2004]

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237

19 LA METAFORA DEL «CADERE» CHIAVE ERMENEUTICA DEL LIBRO DEL SIRACIDE [2004] . . .

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247

20 IL ROTOLO DI ESTER: PER UNA RISCOPERTA DEL SUO SIGNIFICATO [2005] . . .

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275

PARTE II – … E DINTORNI .

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285

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287

22 MIO PADRE: L’ULTIMA LEZIONE Testo del discorso pronunciato al termine della liturgia funebre [1973]

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289

23 RICORDO DI PADRE SALNITRI [1974].

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291

24 UN MAESTRO DI ESEGESI BIBLICA: WALTHER ZIMMERLI [1975] . .

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295

25 VISITA AD UN KIBBUTZ RELIGIOSO [1983] .

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305

26 GERUSALEMME IERI E OGGI [1985] .

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313

27 LA PERSISTENZA NELL’IMPLICITO L’opera pittorica di Riccardo Meli e la Bibbia [1989]

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317

28 BERLINO, ORDINE E SOLITUDINE [1990]

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321

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323

30 UN’ESTATE A WASHINGTON PER SCOPRIRE LA GENESI [1997]

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327

31 A WEIMAR SULLE TRACCE DI GOETHE [1999]

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331

32 LA MIA ESPERIENZA ECUMENICA (1958-2003) [2004]

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335

33 IL MOSÈ DI ROSSINI [2004]

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345

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349

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353

21 QUESTA NOSTRA MESSA [1958]

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29 STUDIARE LA BIBBIA A GERUSALEMME [1994]

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34 IL FASCINO STORICO-MISTICO DI GERUSALEMME [2006] BIBLIOGRAFIA DI ANTONINO MINISSALE

372

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Synaxis «NUMERI MONOGRAFICI»

Synaxis XIII/1 - 1995

«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 Synaxis XIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgico-celebrative


S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa

Synaxis XV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale


Synaxis XVI/2 - 1998

«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare Synaxis XVII/1 - 1999

«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia


P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione Synaxis XVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna


Synaxis XVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia


Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli Synaxis XX/2 - 2002

«Chiesa locale e istituti di vita consacrata» F. CONIGLIARO, Il presbiterio: un ministero per la Chiesa locale R. FRATTALLONE, I presbiteri “religiosi” e la pastorale diocesana A. NEGLIA, Il carisma degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica nella Chiesa locale C. TORCIVIA, Partecipazione dei membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica al progetto pastorale diocesano


Synaxis XX/3 - 2002

«Per una spiritualità del Vaticano II» P. HÜNERMANN, Esiste una spiritualità del Vaticano II? G. ALBERIGO, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II G. ALBERIGO, Lo spirito e la spiritualità del Vaticano II Synaxis XXIII/1 - 2005

«Dimensioni della ritualità» G. RUGGIERI, Introduzione A. COCO, Riflessioni su storia, struttura e rito nella cultura del secondo Novecento R. OSCULATI, Rito ed etica. Per una lettura dell’evangelo di Marco B. FRONTERRÉ, Il tema del sacrificio nella prima agiografia martiriale (II-III sec.). Appunti per una storia della morte nel cristianesimo antico A. LONGHITANO, Ritualità e dinamica del potere nella festa di S. Agata a Catania G. ZITO, Ritualità e conflitti sociali nella festa di S. Agata a Catania dopo l’Unità A. GRILLO, La ritualità della penitenza ecclesiale. intrecci e interferenze tra dimensione rituale, giuridica e teologica della esperienza del perdono R.M. MONASTRA, Fede e Bellezza e la confessione romantica A. ROTONDO, Un cuore pensante… balsamo per molte ferite


Collane di Synaxis «QUADERNI DI SYNAXIS» AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito) AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190


AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427 AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240 AA. VV., Magia, superstizione e cristianesimo, Giunti, Firenze 2004, pp. 240 AA. VV., La Bibbia libro di tutti?, Giunti, Firenze 2004, pp. 312 AA. VV., Euplo e Lucia. 304-2004. Agiografia e tradizioni cultuali in Sicilia, Giunti, Firenze 2006, pp. 424 AA. VV., Io sono l’altro degli altri. L’ebraismo e il destino dell’Occidente, Giunti, Firenze 2006, pp. 312 AA. VV., Repraesentatio. Sinodalità ecclesiale e integrazione politica, Giunti, Firenze 2007, pp. 240


«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS»

G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288. P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158. A. G ANGEMI , I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524. G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418. A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Edizioni Arca, Catania 2003, pp. 1032.


G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere, Edizioni Arca, Catania 2004, pp. 240. F. BRANCATO, La questione della morte nella teologia contemporanea. Teologia e Teologi, Giunti, Firenze 2005, pp. 168. F. BRANCATO, “L’ultima chiamata”. Giovanni Paolo morte, Giunti, Firenze 2006, pp. 240.

II

e la

G. SCHILLACI, Essere come dis-inter-esse. Dalla corporeità alla carità, Giunti, Firenze 2006, pp. 120. L. SARACENO, La vertigine della libertà. L’angoscia in Sören Kierkegaard, Giunti, Firenze 2006, pp. 216. F. CONIGLIARO, Proceduralità e trascendentalità in J. Habermas. Una tensione non-contemporanea e il suo significato antropologico, etico e politico, Giunti, Firenze 2007, pp. 360. Sezione della collana: Ricerche per la Storia delle Diocesi di Sicilia S. DI LORENZO, Laureati e Baccellieri dell’Università di Catania. I. Il fondo Tutt’Atti dell’Archivio Storico Diocesano (1449-1570), Giunti, Firenze 2005, pp. 168. A. PLATANIA, La musica sacra a Catania tra Ottocento e Novecento. L’archivio musicale del Seminario arcivescovile di Catania, Giunti, Firenze 2006, pp. 360.



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