Quaderni synaxis numero speciale 4b

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lavarsi i piedi, lui e quelli che erano con lui (wyflg : r a joxr : l i […]" }TiYwa )82. Poi gli fu posto innanzi da mangiare (v. 33). Così pure in Gen 43,24, nella casa di Giuseppe in Egitto, il maestro di casa fece portare acqua perché i fratelli di Giuseppe si lavassero i piedi. In Gdc 19,21 l’uomo di Gabaa, che accolse in casa sua il levita di passaggio, diede foraggio agli asini. Si legge poi che il levita e quelli che erano con lui si lavarono i piedi, mangiarono e bevvero83. In 1Sam 25,41 leggiamo la risposta di Abigail agli inviati di Davide che le notificarono il desiderio di Davide di averla in moglie: «ecco la tua serva, (per essere) come serva (ei\v paidòskhn) per lavare i piedi (nòyai touèv poédav) dei tuoi servi». Lavare i piedi ha qui chiaramente un senso metaforico: Abigail si dichiara serva, costituita tale allo scopo di lavare i piedi dei servi, esprimendo così la sua totale ed umile sottomissione a Davide84. Dai testi dell’AT sopra citati emergono due aspetti dell'azione di lavare o di lavarsi i piedi. Essa è anzitutto una esigenza di chi ha fatto un cammino: far lavare i piedi prima di mettersi a tavola a chi arriva da un cammino diventa così un gesto di ospitalità e di accoglienza. Dai testi appare però che non è né il padrone né un servo a compiere questo gesto, bensì probabilmente l’ospite stesso al quale è offerta acqua. Da 1Sam 25,41, nel caso di Abigail, lavare i piedi appare però come il compito di un servo: metaforicamente si esprime umile e totale sottomissione. Il NT ci offre pure un esempio in Lc 7,38-4685. A Simone il fariseo, che tra sé e sé critica la sua accoglienza della donna peccatrice; Gesù obietta che egli, Simone, non gli ha dato acqua ai suoi piedi, lasciando così inten82

Nemmeno Labano è il soggetto che lava i piedi (cfr. LXX: nòyasqai).

e\nòyanto: pare che a lavarsi i piedi siano gli stessi uomini che si misero poi a mangiare e bere. In Es 30,19 ad Aronne è prescritto di lavarsi mani e piedi prima di entrare nel santuario (cfr. v.21 e anche 40,31), ma questi ultimi testi non illuminano l’azione di Gesù. 83

84 Questo testo però potrebbe presentare una certa analogia con l’azione di Maria nei confronti di Gesù.

85 Recentemente I.G. Kitzberger, Love and Footwashing: John 13,1-20 and Luke 7,36-50 read intertextually, in BibInterpr 2(1994) 190-206, ha proposto una lettura intertestuale tra i due testi; simile lettura andrebbe però riproposta con diversi metodi e criteri: quella proposta rischia di non evitare delle confusioni.

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dere che Simone, direttamente o indirettamente, avrebbe dovuto non solo offrirgli acqua ma anche versarla sui suoi piedi86. È difficile ricollegare a qualcuno di questi testi la descrizione di Gv 13,5. Né infatti i discepoli sono reduci da un viaggio, né la lavanda dei piedi avviene prima del banchetto87. Soprattutto nei testi dell’AT l’accento sta nel fatto che all’ospite è offerta acqua senza dir nulla sulla persona che la usa: pare anzi che sia lo stesso ospite a usarla. Nel nostro testo invece l’accento sta proprio sulla persona stessa di Gesù che compie questo gesto88. Questi stessi testi però non mancano di suggerire qualche utile riflessione. Strack-Billerbeck89 affermano, adducendo delle testimonianze, che il lavoro degli schiavi non giudei prevedeva, tra l’altro, di lavare i piedi al loro signore; a ciò invece non era obbligato lo schiavo giudeo. Anche le mogli hanno il dovere di lavare i piedi dei loro mariti; ugualmente anche figli e figlie quelli del loro padre. Non si può escludere dal nostro testo, nell’azione di Gesù, l’aspetto del servizio, suggerito anche dal comando ai discepoli di fare altrettanto (i$na […] kaì u|me_v poih%te): ciò concorda con la prospettiva neotestamentaria di Gesù che assunse la forma di servo (Fil 2,5: morfhèn douélou), che è venuto non per essere servito ma per servire (Mt 20,28; Mc 10,45: diakonh%sai), che, a mensa tra i discepoli, siede come colui che serve (Lc 22,27: o| diakonw%n). Tuttavia nei testi sopra citati, sia quelli dell’AT sia soprattutto 86 Così suggerisce l’espressione u$dwr moi e\pì poédav ou\k e"dwkav: non si tratta perciò soltanto di offrire acqua per piedi, ma di darla sui piedi, cioè versarla.

87 Si pone il problema se leggere, in 13,2, il participio presente ginomeénou o il participio aoristo genomeénou. Benché la nostra propensione sia per il participio presente, prescindiamo dal problema testuale. Diciamo soltanto che, se si legge il participio presente ginomeénou, la lavanda dei piedi sarebbe avvenuta durante il banchetto, cosa molto strana; se si legge invece il participio aoristo genomeénou, l’azione sarebbe avvenuta alla fine del banchetto, cosa del tutto inutile, non essendo più finalizzata al banchetto che è già avvenuto. 88 Nemmeno è facile ricollegare il nostro testo a 1Sam 25,41 o a Lc 7,38ss: almeno dal punto di vista della donna, entrambi i testi si ricollegherebbero meglio all’azione di Maria a Betania che unse i piedi di Gesù. In tutti i testi citati però si possono recuperare gli aspetti più generici dell’accoglienza (Gen 18,4; 19,2; 24,32; 43,24; Gdc 19,21) e del servizio (1Sam 25,41). 89 Cfr. H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum neuen Testament aus Talmud und Midrash, II, München 1969, 557.

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Lc 7,38-46, non emerge la dimensione del servo, bensì quella del padrone di casa che, direttamente o indirettamente, compie il primo gesto di accoglienza dell’ospite, offrendogli dell’acqua, perché si faccia, o gli sia fatto, un pediluvio. Pur senza escluderla, la prospettiva del servizio non sembra univocamente cogente. 2.3.3. Aspetti strutturali L’azione di Gesù di lavare i piedi dei discepoli non può essere separata dal contesto in cui è strettamente inserita. Anzitutto il verbo infinito nòptein è coordinato all’altro verbo pure infinito e\kmaéssein ed entrambi i verbi dipendono dall’indicativo aoristo h"rxato90. Possiamo inoltre osservare che l’infinito nòptein è seguito dal complemento oggetto (touèv poédav), seguito questo, a sua volta, da un genitivo di specificazione (tw%n maqhtw%n). L’infinito e\kmaéssein invece è seguito da una espressione più articolata: un dativo di mezzo (t§% lentò§), seguito da una proposizione relativa ancora con un pronome di mezzo (§&), un soggetto sottinteso e un verbo passivo (h&n diezwsmeénov). Dal punto di vista quantitativo, il primo infinito è seguito da quattro parole, il secondo invece da cinque. Benché poi, nei vv. 12-20, l’attenzione sia rivolta all’azione di lavare i piedi, in 13,5 sembra che l’accento fondamentale stia non su quella di lavare, bensì su quella di asciugare. Possiamo inoltre osservare come, nell’espressione dell’infinito e\kmaéssein, strutturalmente è posta al centro la menzione dell’asciugatoio91. Sembra perciò che all’evangelista interessi non soltanto l’azione di asciugare, bensì di asciugare con l’asciugatoio (t§% lentò§ - §&). 90

h"rxato nòptein e\kmaéssein

Cfr. la seguente struttura concentrica: e\kmaéssein (verbo) t§% lentò§ (dativo di mezzo) §& (dativo di mezzo) h&n diezwsmeénov (verbo). 91

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Le due azioni poi di lavare (nòptein) i piedi e di asciugarli (e\kmaéssein), entrambe legate al verbo “cominciò (h"rxato)”, sono introdotte al culmine di una serie di azioni, di cui la prima è costituita dal verbo e\geòretai (si alza). Le azioni complessive sono le seguenti: 1. e\geòretai e\k tou% deòpnou (si alza dal banchetto), 2. kaì tòqhsin taè i|maétia (pone le vesti) a. kaì labwèn leéntion dieézwsen e|autoén (ed avendo preso un asciugatoio, cinse se stesso) 3. eùta baèllei u$dwr ei\v toèn nipth%ra (quindi versa acqua nel catino), b. h"rxato nòptein […] kaì e\kmaéssein (cominciò a lavare […] ed asciugare. Queste cinque azioni, di cui la quinta è smembrata nei due aspetti di lavare ed asciugare, non possono essere senza importanza: se infatti l’evangelista avesse voluto fermare l’attenzione soltanto sull’azione di lavare i piedi, probabilmente avrebbe omesso quella serie di azioni che sarebbero risultate inutili; il fatto di averle accuratamente e minuziosamente descritte indica che per lui esse rivestono, nella globale descrizione, una particolare importanza. Rimane il problema di determinare il senso di quelle azioni. Nemmeno è da trascurare il fatto che l’evangelista alterni forme al presente e all’aoristo: la prima, la seconda e la quarta azione sono espresse all’indicativo presente; la terza e la quinta invece all’aoristo. Si tratta di un semplice mutamento stilistico oppure con esso l’evangelista vuol sottolineare aspetti particolari? 2.3.4. L’azione di deporre le vesti (tòqhsin taè i|maétia) Il senso immediato dell’espressione tòqhsin taè i|maétia, da tutto il contesto, appare chiaro: Gesù pone le vesti, cioè “si spoglia”. Si può notare però che l'espressione tòqhsin taè i|maétia, nel senso specifico di “spogliarsi”, ma

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anche in se stessa, è del tutto insolita92: non si legge mai altrove né nel NT93, né nei LXX94. L'espressione stessa tòqhsin taè i|maétia richiama quella complementare del v. 12: e"laben taè i|maétia au\tou%95. Stanno così in relazione i due verbi tòqhmi e lambaénw. Il verbo lambaénw, nel v. 12, ha il senso di “prendere”, “riprendere le vesti”, “rivestirsi”. Dopo avere “posto le vesti (tòqhsin taè i|maétia)” (v. 4), dopo avere lavato i piedi dei discepoli, Gesù “prese (riprese) Gli interpreti vedono in questa azione ancora un gesto di umiliazione; Così AgoIn Joannis Evangelium Tract LV, in PL xxxv, col. 1787: prese la forma di servo (Agostino però richiama pure lo spogliamento prima della crocifissione); Beda Ven, In S. Joannis Evangelium expositio, .cit., col. 802: richiama la croce. Più materialmente J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to S. John, II, Edinburgh 1928, 459 spiega che Gesù si levò il mantello e apparve solo con la tunica; all’umiltà rimanda ancora Bonaventura, Commentarius in Evangelium S. Joannis, in S. Bonaventurae Opera, VI. cit., 424 (tangitur hic secundum, scilicet Christi humilitas). Secondo E.C. Hoskyns - F.N. Davey, The Fourth Gospel, cit., 437, l’azione di porre le vesti richiama il fatto di porre la vita; per B. Lindars, The Gospel of John, cit., 450: si tratta dell’azione di un servo; G. Maldonato, Commentarii in quatuor Evangelistas, II, cit., 842 spiega che Gesù prese un aspetto servile; secondo L. Morris, The Gospel according to John, cit.,, 615 n.15, Gesù agisce come uno schiavo; J.N. Sanders - B.A. Mastin, A Commentary on the Gospel according to S.John, cit., 306, invece rimandano, come azione simbolica, alla morte di Gesù; per J.N. Suggit, John 13,1-30. cit., 67 l’azione spiega il senso dell’incarnazione che culmina nella croce. 92

stino,

93 Nel senso di “spogliarsi” è usato talora il verbo e\kduéw (Mt 27,28.31; Mc 15,20; Lc 10,30; 2Cor 5,4); il verbo a\potòqhmi ha piuttosto il senso di “deporre”, allontanare” (Ef 4,22). Nel senso di “vestirsi”, sono usati e\nduéw (Mt 6,25; 22,11; 27,28.31; Mc 1,6; 15,20...), peribaéllw (Mt 6,29.31; 25,36.38.43; Mc 14,51; 16,5; Lc 12,27...).

Nei LXX, al contrario, il verbo tòqhmi, all’attivo, raramente e benché non direttamente, può richiamare il senso di “rivestire”, “rivestire qualcuno” (Sal 20[21],3; 68[69],11; Is 50,3). Pure nei LXX il verbo usuale, nel senso di “spogliarsi”, è e\kduéw (Gen 37,23; Lev 16,23.24; Nm 20,26.28; 1Sam 18,4; 19,24...), e\kdiduéskw (1Sam 31,8; Ne 4,23[17]; Zc 3,5[3]); periaireéw (Gen 38,14.19; Dt 21,13; Gdt 10,3), a\faireéw (Es 33,5; Pr 27,13; Est 4,4; Gb 19,9; 22,6; Os 2,11 [LXX]; Zc 3,4; Is 20,2; 22,17 [LXX]; Ez 26,16). 94

Le due espressioni presentano però delle differenze: v.4: tòqhsin taè; i|maétia v.12: e"laben taè i|maétia au\tou%. Nel v. 12 il verbo tòqhémi è espresso all’aoristo; il verbo baéllw al v.4 invece, è al presente; il termine taè i|maétia nel v. 4 è espresso in modo assoluto, nel v.12 invece è legato al pronome au\tou%. 95

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le sue vesti (e"laben taè i|maétia au\tou%)” (v. 12). Possiamo però osservare che nemmeno l’espressione lambaénein taè i|maétia, sia in se stessa, sia nel senso specifico di “spogliarsi” si legge mai nel NT o nei LXX96. Data la singolarità della frase, e dal momento che né l’AT né il NT aiutano nella sua comprensione, ricerchiamo nell’ambito stesso del vangelo. La relazione tra i due verbi tòqhmi del v.4 e il verbo baéllw del v.12, entrambi con lo stesso oggetto taè i|maétia, richiama una analoga relazione tra gli stessi verbi, ma con diverso oggetto, thèn yuchén, che l’evangelista stabilisce nel cap. 10, nel contesto di un lungo sviluppo gravitante attorno all’autodefinizione di Gesù come buon pastore97. In 10,11 Gesù, dopo essersi definito “il buon pastore (o| poimhèn o| kaloév)”, delinea di esso, in maniera più oggettiva, la sua caratteristica a partire dalla sua opera: il buon pastore “pone (tòqhsin)” la vita (thèn yuchén) per le pecore. Nel v. 15 poi applica a se stesso questa caratteristica: «la mia vita (thèn yuchén mou) pongo (tòqhmi) per le pecore (u|peèr tw%n probaétwn)». Il testo più importante però è costituito dai vv. 17.18, dove leggiamo non solo il verbo tòqhmi (porre) ma anche il verbo lambaénw (prendere). Spiega infatti Gesù che il motivo per cui il Padre lo ama è perché egli “pone la sua vita (tòqhmi thèn yuchén mou)” “per riprenderla (i$na paèlin laébw au\thén) poi di nuovo”. Precisa ancora (v. 18) che nessuno gliela toglie, ma 96 Nel senso di “vestirsi” nell’ AT sono usati i verbi e\nduéw (più frequente: Gen 3,21; 27,15; 38,19; 41,42; Es 28,27[41]; 29,5.8.30; 40,13.14...); peribaéllw ( Gen 24,65; 28,20; 38,14.19; Lv 13,45; Dt 22,12...); e\ndiduéskw (2Sam 1,24; 13,18; Gdt 9,1...); perizwénnumi (Es 12,11; 1Sam 2,18; 2Sam 3,31; 20,8; 1Re 21[20]; 32; 2Re 1,8; 3,21...); stolòzw (1Esd 1,2; 5,59; 7,9; 2Esd 3,18...).

97 Il richiamo al c.10 è ritenuto da diversi interpreti. Barrett spiega che più normale sarebbe stato infatti il verbo a\potòqhmi, C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 439. Cfr. anche R.E. Brown, Giovanni, cit., 655, che non esclude un parallelismo intenzionale a 10,11.15.17.18; su questo rapporto però R. Fabris, Giovanni, cit., 730, si interroga; per N. Guillemette, Hungri no more. John, cit., 170, l’allusione intenzionale (cfr. i verbi lambaénw-tòqhmi) ricollega la lavanda dei piedi alla morte di Gesù; inoltre R. Kysar, John, Minneapolis.Minnesota 1986, 208; L. Morris, The Gospel according to John, cit., 615 n.15, che ha già notato (614 n.10) la singolarità dell’espressione con tòqhmi; R.V.G. Tasker, The Gospel according to St. John, cit., 155.157, secondo cui si richiama il dono della propria vita da parte del pastore. La relazione a Gv 10 però è ritenuta fantastica da B. Lindars, The Gospel of John, .cit., 450.

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egli “la pone (tòqhmi) da se stesso”, affermando anche di avere il potere (e\xousòan) sia di porla (qe_nai au\thén) sia anche di riprenderla (labe_n). Questo stesso linguaggio, ma solo il verbo tòqhmi con l’oggetto thèn yuchén, tornerà in 13,37.38 e in 15,13. In 13,37-38 Pietro pretenziosamente dichiara a Gesù: «la mia vita (thèn yuchén) per te porrò (qhésw)»: Gesù ripete ironicamente quelle parole «la tua vita (thèn yuchén) per me porrai (qhéseiv)?» e gli annunzia il rinnegamento. In 15,13 Gesù dichiara che nessuno ha amore (meòzona tauéthv a\gaéphn) più grande di quello, di chi cioè la sua vita (thèn yuchèn au\tou%) pone (q+%) per gli amici (u|peèr tw%n fòlwn au\tou%). Da quest’ultimo testo deduciamo che “porre la vita per qualcuno” è la massima espressione di amore. Concludendo, viene l’idea che l’azione di Gesù di “porre le vesti” richiami il dono della sua vita: Gesù pone le vesti, cioè simbolicamente pone la vita. Si comprende allora la formulazione dell’espressione che acquisterebbe un carattere allusivo. L’allusione al dono della propria vita, mediante l’azione simbolica di porre le vesti, sarebbe confermata dalla relazione tra i verbi tòqhmi e lambaénw nei vv. 13,4.12 che richiama la stessa relazione in 10,17-18 e che stabilisce pure una relazione tra i due oggetti diversi: taè i|maétia e thèn yuchén; inoltre l’allusione è confermata dalla relazione tra le azioni di 13,4-5 e l’ei\v teélov h\gaéphsen che richiama analoga relazione tra il più grande amore e il dono della propria vita in 15,13. Al termine taè i|maétia dovremo ancora tornare; adesso ci siamo limitati soltanto a proporre una suggestione che potrà trovare conferma nella considerazione degli altri elementi che seguono. 2.3.5. L’azione di versare acqua nel catino (baéllei u$dwr ei\v toèn nipth%ra) L’azione di porre le vesti è immediatamente seguita da quella del cingersi Gesù (dieézwsen e|autoén) mediante un asciugatoio (leéntion) che ha preso (labwén). Benché sia immediatamente successiva, tale azione è formulata all’aoristo (dieézwsen e|autoén). Ciò lascia pensare che, non nella storia, ma nella prospettiva simbolica dell’evangelista, l’azione immediatamente seguente di Gesù sia quella di versare acqua nel catino, formulata

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anch’essa al presente indicativo (baéllei). Avremmo allora la seguente successione: “pone le vesti” - “versa acqua”. In questa nuova azione di Gesù è introdotto un ulteriore elemento: il catino, che non senza una certa enfasi, l’evangelista menziona con l’articolo (toèn nipth%ra), indicando così che si tratta di una realtà a lui ben nota. Emergono allora, oltre il senso dell’azione di versare acqua, altre domande: che cos’è il catino? che senso ha specificamente l’azione di versare acqua nel catino? In questo paragrafo ci limitiamo soltanto a ricercare nel primo aspetto: il senso dell’azione di Gesù di versare acqua. Questa nuova azione di Gesù è introdotta mediante la particella eùta, che determina una ripresa, quasi il passaggio ad un nuovo stadio di azione. Nel NT si legge solo 10 volte e nel vangelo di Giovanni solo tre98. L'espressione più singolare però è baéllei u$dwr, unica sia nel NT sia nei LXX99. Essa tuttavia può essere accostata a dei testi analoghi dove è usato il verbo baéllw, pur con diversi oggetti100. Tuttavia non può essere evitato un accostamento tra l’espressione di 13,2 e quella 13,5: 13,2: tou% diaboélou h"dh beblhkoétov ei\v thèn kardòan 13,5: baéllei u$dwr ei\v toèn nipth%ra In questo modo si determina una relazione, da precisare però, tra l’azione del diavolo che “getta (beblhkoétov)” nel cuore di Giuda di tradire e l’azione di Gesù che invece “getta (baéllei)” acqua nel catino. Quanto poi al termine u$dwr, abbiamo già notato come esso si legge 25 volte nel vangelo di Giovanni; 22 usi sono compendiati nei capp. 1-5, gli altri tre usi, introdotti in maniera equidistante, si leggono in 7,38; 13,5 19,34. In tutti e tre l’acqua è relazionata a Gesù: da lui scaturisce (7,38; 19,34) e lui la versa (13,5). In 7,39 l’acqua è identificata con lo Spirito; in 7,39 poi direttamente il dono dello Spirito, ma indirettamente anche l’acqua, sono relazionati all’esaltazione di Gesù; in 19,34 invece l’effusione dell’acqua è relazionata alla sua morte: era morto – non gli spezzarono le gambe – uno dei soldati aprì il costato – uscì sangue ed acqua. 98 99

Oltre il nostro testo, anche in 19,27 e 20,27.

I verbi usati nel LXX in relazione all’acqua sono: e\kceéw (Es 30,18; Nm 19,17...),

e\piceéw (2Re 3,11), r|an é w (Ez 36,25), periceéw (Gen 2,6). 100

Cfr. in Giovanni, 18,11 (th;n maécairan); 20,25 (toèn daéktulon).25 (thèn ce_ra).27.

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Il termine nipth%r (ei\v toèn nipth%ra) infine, presenta due problemi di critica testuale. Il cod D, i codici elencati da Ferrar (f) e la versione Siro-sinaitica leggono labwèn u$dwr baéllei; il P66 modifica il termine nipth%ra in podanipth%ra. Quanto alla prima modifica, il cod. D, gli altri codici e la Siro-Sinaitica vollero probabilmente colmare un vuoto logico: donde aveva Gesù quest'acqua? ovviamente la prese da qualche parte. Si volle perciò specificare che Gesù “prese (labwén)” quest’acqua, in analogia all’espressione precedente riguardante il leéntion dove l'evangelista specifica che lo “prese (labwén)” prima di cingersene. Quanto alla seconda modifica, osserviamo che il termine nipth%r, dal verbo nòzw (“lavare”, “purificare”)101, indica il recipiente dove tale azione di lavare avviene102: in tale recipiente Gesù versa acqua. Esso non si legge più nè nel NT nè mai nella bibbia greca e probabilmente nemmeno nella grecità, almeno prima del NT. Prescindendo dal problema se il termine nipth%r sia stato coniato dal nostro evangelista o se egli lo abbia mutuato da un certo uso popolare, bisogna concludere che esso deve avere per l’autore la sua importanza. Al contrario, il termine podanipth%r proposto dal P66 è attestato già nella letteratura greca profana, benchè assente sia nel NT che nella bibbia greca103. Si avverte la differenza tra i due termini: il poda(o)nipth%r è un recipiente destinato specificamente a lavare i piedi, il nipth%r, nella sua stessa etimologia, non indica una finalizzazione a lavare i piedi e, in assoluto, potrebbe 101 Cfr. L. Rocci, Vocabolario greco – italiano, Milano – Roma – Napoli – Città di Castello 197123, sotto nipth%r; anche F. Zorell, Lexicon Graecum Novi Testamenti, Parisiis 19613, sub nipth%r.

Secondo alcuni interpreti, C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 440; P. Beeckmann, L'évangile selon S. Jean, cit., 291, il nipth%r è un oggetto che deve trovarsi in tutte le case, donde l’uso dell’articolo; R.E. Brown, Giovanni, cit., 655 spiega che è un recipiente per lavare e l’articolo indica che è un utensile normale nelle case; nota anche che il termine ricorre solo in una iscrizione a Cipro dell’epoca romana; R. Kysar, John, cit., 208 osserva che il termine non si trova nella Koiné fuori di questo passaggio; secondo M.J. Lagrange, Évangile selon S.Jean, cit., 351 esso non doveva essere un recipiente destinato al pediluvio (podanipth%r), ma a lavare la biancheria e che doveva trovarsi in ogni casa. Più simbolicamente, secondo J.C. Thomas, Footwashing in John 13 and the Johannine Community, cit., 89, il catino usato da Gesù raffigura la funzione del servizio. 102

103 Per podanipth%r si cita però Erodoto 2,172, Amipsia 2, Plutarco 13, 151d., cfr. F. Montanari, Vocabolario della lingua greca, Trento 20042, sotto podanipth%r.

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indicare un recipiente qualsiasi destinato a lavare qualsiasi cosa. Difficilmente si può accogliere come originale la lettura del P66 podanipth%r: essa non è seguita da alcun altro codice; inoltre il termine podanipth%r ha una certa tradizione di uso nella lingua greca, assente, a quanto pare, dietro al termine nipth%r. In questo senso il termine nipth%r diventa la lectio difficilior e diventerebbe così incomprensibile il massiccio passaggio dei codici da un termine conosciuto nella letterarura greca (podanipth%r) ad un termine inusitato (nipth%r). Il contrario si spiega più facilmente: il copista del papiro avrebbe voluto mutare l'insolito nipth%r nel più conosciuto podanipth%r. Tuttavia la lettura del papiro è importante perchè induce a interrogarsi sulla sfumatura di senso contenuta nel giovanneo nipth%r. Sorprende però l'articolo davanti a nipth%r, che l’evangelista aveva omesso davanti al precedente leéntion. L’articolo rimanda ad una realtà precisa, determinata e concreta. Rimane però il problema se questa determinazione riguarda il piano materiale o quello simbolico. Prescindendo per il momento dall’immagine del catino dove Gesù versa acqua, e fermando l’attenzione sull’azione stessa di versare acqua, le osservazioni precedenti ci permettono di stabilire due relazioni. Anzitutto con 19,33-34. Se, come abbiamo indicato, l’azione di Gesù di porre le vesti (tòqhsin taè i|maétia) simbolicamente richiama la sua morte, e l’effusione di sangue ed acqua avviene, mediante il colpo di lancia, in seguito alla morte, possiamo stabilire allora la seguente relazione: 13,5: 19,33-34 Pone le vesti quando videro che era morto […] uno dei soldati aprì il costato Versa acqua uscì sangue ed acqua. L’effisione dell’acqua insieme al sangue, avvenuta in seguito alla morte di Gesù (19,33-34), in 13,5 è simbolicamente allusa nelle due azioni di porre le vesti e versare acqua. Alla luce però di 7,38-39, possiamo dire anche che tale effusione richiama il dono dello Spirito104. 104

Si stabilisce così anche una relazione con 19,30.34: (7,38): u$datov zw%ntov. (7,39): perì tou% pneuématov, (19,30): pareédwken toè pneu%ma, (19,34): uscì sangue ed acqua (u$dwr).

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La seconda relazione è stata già indicata: essa è stabilita, mediante il verbo baéllw, con 13,2, l’azione del diavolo su Giuda. La relazione che si stabilisce è antitetica: si contrappongono Gesù e il diavolo: questo “ha gettato (beblhkoétov)” nel cuore di Giuda Iskariota di tradire Gesù; egli invece “getta (baéllei)” acqua nel catino. La relazione tra questi due testi determina una relazione più ampia con tutta la narrazione della passione. Giuda infatti, dopo i testi di 13,26.29, dove, pur con linguaggio simbolico, è descritto il suo tradimento, non sarà più menzionato, almeno esplicitamente, fino a 18,2-5, dove egli appare alla guida di quelli che erano venuti ad arrestare Gesù. La menzione di Giuda sta così all’inizio della narrazione della passione, la fuoruscita dell’acqua dal costato di Gesù invece è menzionata quasi alla fine105. Queste due relazioni confermano il rimando dell’azione di Gesù di versare acqua alla fuoruscita dell’acqua dal suo costato al momento della morte, in seguito al colpo di lancia. Possiamo concludere allora che l’acqua che Gesù versa nel catino simbolicamente richiama quella sgorgata dal suo costato. Restano ancora da chiarire alcuni aspetti: Qual è il senso dell’azione di “lavare”? Perché tale azione è riferita specificamente ai piedi? Che cos’è il catino dove Gesù versa acqua? Quanto all’azione di Gesù di lavare, notiamo anzitutto l’uso del verbo nòptw. Esso è un verbo specificamente giovanneo. Dei 17 usi del NT ben 13 si leggono nel vangelo di Giovanni106, raggruppati però attorno a due episodi: la guarigione del cieco nato107, che Gesù comandò di andarsi a lavare alla piscina di Siloe e l’azione di Gesù che lavò i piedi ai discepoli (13,5), I può così stabilire il seguente schema: 13,2.5: 18,5, 19,34 Il diavolo ha gettato nel cuore di Giuda Giuda viene ad arrestare Gesù Gesù versa acqua Da Gesù fuorisce sangue ed acqua. 105

106 Gli altri quattro usi sono in Mt 6,17; 15,2; Mc 7,3, riferiti questi ultimi due ai farisei che lavano le mani, e in 1Tm 5,10. In quest’ultimo testo tra le qualità della vedova da eleggere ci dev’essere anche se ha lavato (e"niyen) i piedi (touèv poédav) ai santi. Il senso dell’azione di lavare i piedi, in questo testo, può essere vario e molteplice: accoglienza, sottomissione, umiliazione, servizio. Nulla però autorizza a stabilire una dipendenza dal vangelo di Giovanni. 107

Cfr. 9,7 (bis).11 (bis).15.

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seguita dal dialogo di Pietro con Gesù108 e dal comando ai discepoli109 di lavarsi reciprocamente i piedi110. Nei LXX il verbo nòptw si legge 25 volte e, quasi sempre, traduce il verbo jaxfr; riferito ai piedi; oltre i testi già considerati di Gen 18,4; Gen 24,32; 43,24, Gdc 19,21; 1Sam 25,41, è usato anche in Gen 19,2 (Lot ai due angeli giunti a Sodoma); in 2Sam 11,8 Davide comanda ad Uria l’Ittita di andare a casa e anche di lavarsi i piedi; in Ct 5,3 la sposa si è lavata già i piedi111. Il verbo pluénw si legge poi 51 volte e traduce, quasi sempre, il verbo sabfK in varie forme; ai piedi è riferito in Es 29,17; Lev 1,9.13; 8,21; 9,14: si tratta però delle zampe delle vittime da offrire in sacrificio. Infine il verbo louéw si legge 49 volte e traduce qusi sempre, come il verbo nòptw, il verbo jaxfr: mai però è usato in relazione ai piedi112. Superando la stretta espressione nòptei touèv poédav, altri testi ancora è utile considerare. Anzitutto Is 1,16, con il verbo louéw, e poi il Sal 50 (51) con il verbo pluénw. In Is 1,16 leggiamo l’esortazione di Dio per mezzo del profeta: «lavatevi (louésasqe), diventate puri (kaqaroì geénesqe), togliete le opere cattive dalle vostre anime davanti ai miei occhi». Gesù vede già realizzata, nei discepoli questa esortazione: leggiamo infatti in 13,10 «chi è stato lavato (o| leloumeénov) non ha bisogno se non che gli si lavino i piedi (touèv poédav nòyasqai) ed tutto puro (kaqaroév)». Pietro, assieme agli altri, è stato reso puro per mezzo della parola di Gesù (15,3), ma, per essere interamente (o$lov) puro ha bisogno che Gesù gli lavi i piedi. Possiamo ancora citare, ma con il verbo pluénw, il Sal 50 (51),4, dove il salmista invoca: «lavami (plu%noén me) […] e dai miei peccati purificami 108 109

Cfr. 13,6.8 (bis).10. Cfr. 13,12.14 (bis).

Nel NT l’azione di lavare è espressa anche con altri verbi: pluénw che si legge nel NT solo tre volte e mai in Giovanni (Lc 5,2; Ap 2,14; 22,14), e louéw che si legge nel NT sei volte, di cui una sola volta in Giovanni: Gv 13,10. Sul senso di questo testo cfr. A. Gangemi, “Signore, tu a me lavi i piedi?” Pietro e il mistero dell'amore di Gesù (Gv 13,6-11)», Acireale 1999 130-131. 110

111 Lavarsi i piedi, assieme alle mani, è prescritto, con il verbo nòptw, anche ai sacerdoti in Es 30,19.21; 38,27 (40,31.32). 112 È usato invece in relazione al “corpo (sw%ma)” (Lev 14,8; 15,11.13.16.21.27; 16,4.24.26.28; 22,6; Nm 19,7.8; Dt 23,11)

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(kaqaérisoén me)»; nel v. 9 la supplica ancora continua: «mi aspergerai con issopo e sarò purificato (kaqarisqhésomai), mi laverai (plune_v) e sarò più bianco della neve». Benché meno direttamente, anche il Sal 50 può essere richiamato da Gv 13,10. Nello sfondo di Gv 13,10, alla luce soprattutto di Is 1,16 ma anche del Sal 50, non si può escludere nella lavanda dei piedi un ulteriore aspetto, quello della purificazione; non si tratta però semplicemente della purificazione, bensì della piena e completa purificazione (kaqaroèv o$lov). Quanto alla azione di Gesù di lavare specificamente “i piedi”, è difficile ricollegarla a qualcuno dei testi o degli episodi analoghi dell’AT sopra citati. Possiamo però notare che in tanti testi soprattutto dell’AT, ma anche del NT, i piedi si ricollegano113 o evocano il cammino114. Qualche volta si parla anche di un intervento di Dio sui piedi, ma nel senso del conferimento di una capacità a camminare115. 2.3.6. Il testo di Ez 36 Un testo che può offrire una chiave di lettura dell’azione di Gesù nel nostro testo di Gv 13,5 è Ez 36, specificamente nei vv. 25-28. Nel v. 25 Dio, per mezzo del profeta, dopo avere dichiarato di volere santificare il suo Nome grande che il popolo ha profanato tra le genti dove è stato disperso (v. 23), e dopo avere anche annunziato di volere riprendere il suo popolo dalle genti, radunarlo da ogni terra e riportarlo nella sua terra (v. 113 Cfr. Gen 8,9; 29,12,28; Dt 28,65; 2Sam 15,16; Tb 11,10 (S); Gb 13,27; 18,8; 30,12; 31,5; 31,5; Sal 36(35),11; 56 (55),13; 115,7(113,15); 122(121),2; Pr 1,15.16; 3,23; Sap 15,15; 4,26.27; 5,5; 6,18; Sir 51,17; Qo 4,17; Is 41,3; 59,7; Ger 2,25; 14,10; 1Mac 5,48; Is 59,7: «i loro piedi corrono verso la malvagità».

Cfr. Mt 7,6; Mc 6,11; Lc 1,79; 9,5; 10,11; At 5,9; 13,51; Rom 3,15; Gen 33,14; Lev 11,42; Dt 8,4; 11,24; 29,5; Gs 1,3; 3,13; 4,9.18; 2Sam 2,16.18; 2Re 6,32; 21,8; 2Cr 33,8; Ne 9,21; Gb 31,7; 33,11; Sal 14(13),3; 73(72),2; 91(90),12; 94(93),18; 116(114),8; 119(118),59.101. 105; 121(120), 3; Pr 3,26; 7,11; Sir 40,25; Na 2,1; Ger 13,16. In Gb 19,15 leggiamo: «ero “i piedi” per lo zoppo»; Sal 14 (13),3 (LXX, BS): «veloci “i piedi” a spargere sangue» Is 52,7: «come (belli) “i piedi“ dell’anninziatore di pace». 114

115 Cfr. 2Sam 22,34: «rende i miei piedi come quelli delle cerve»; inoltre Sal 18(17),33; Ab 3,19; testi di uguale senso, ma con diversità letterarie nei LXX.

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24), annunzia anche, nel v. 25, che effonderà (r|anw%) su di esso (e\f’u|ma%v) acqua pura (u$dwr kaqaroén) e il popolo sarà purificato (kaqarisqhésesqe)116 da tutte le sue sozzure117 e da tutti i suoi idoli. Subito dopo (v. 26) Dio annunzia la sostituzione del cuore, cambiando il cuore di pietra in un cuore di carne, non più cioè un cuore freddo e insensibile come è la pietra, ma un cuore che vive, palpita, è caldo ed ama, qual è appunto un cuore di carne. Infine, nel v. 27, Dio annunzia il dono dello Spirito118. Ciò avrà come effetto119, che il popolo “nei suoi statuti” (di Dio cioè) camminerà (poreuéhsqe) e “i suoi precetti” (sempre di Dio) osserverà (fulaéxhsqe) e farà (poihéshte)120. Riassumendo, appare in Ez 36 la deliberazione di Dio che intende radunare e riportare il suo popolo nella sua patria. Egli però non vuole riportare, così semplicemente, in patria un popolo che contiene ancora dentro di sé il germe della cattiveria e che poi magari continuerà a peccare, ma vuol riportare in patria un popolo che non pecca. A questo scopo, egli compie due azioni, una di purificazione ed una di creazione. Il profeta accosta l’effusione dell’acqua al dono dello Spirito, suggerendo così una certa identificazione; tuttavia egli smembra i due elementi, assegnando all’acqua il ruolo di purificazione e allo Spirito quello della creazione. Mediante l’acqua Dio purificherà il suo popolo da tutte le sue sozzure e da tutti i suoi idoli; mediante lo Spirito gli creerà un cuore nuovo, di carne, che sostituisce quello precedente, di pietra. In seguito a questa duplice azione di Dio, si ottengono degli effetti, tre specificamente: il popolo sarà osservante delle leggi di Dio e “camminerà” 116 Il termine kaqaroév si legge in Gv 13,10.10.11; 15,3, in diretta connessione, nel cap. 13, al verbo louéw e nel contesto in cui Gesù dialoga con Pietro sulla necessità di lavargli i piedi. L’acqua (u$dwr) è stata menzionata nel v. 5. 117 118

Cfr. v. 25: a\poè pasw%n tw%n a\kaqarsiw%n.

Cfr. in Ez 36,27 (LXX) l’espressione: toè pneu%ma dwésw e\n u|m_n.

Cfr. in Ez 36,27 (LXX) l’espressione kaì poihésw che esprime successione e conseguenzialità. 119

Cfr. in Ez 36,27 (LXX) la successione dei tre verbi dipendenti dall’unico poihésw e introdotti mediante l’unica particella i$na: poreuéhsqe - fulaéxhsqe - poihéshte (camminare-osservare-fare). 120

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nei suoi statuti, Dio lo farà abitare nella sua terra, si potrà stabilire tra Dio e il popolo un rapporto di profonda ed intima appartenenza. Cogliamo nel testo di Ezechiele tre elementi importanti: l’effusione di acqua viva, la sua relazione allo Spirito, l’effetto che si ottiene: il popolo “camminerà” e metterà in pratica gli statuti e le prescrizioni di Dio. Si può aggiungere ancora un ulteriore quarto elemento: la realizzazione di un termine, in due aspetti; il popolo potrà tornare nella sua terra e si attuerà la piena comunione con Dio. Diversi elementi suggeriscono l’allusione al testo di Ezechiele da parte del nostro evangelista. Anzitutto, benché in maniera diversa, l’effusione dell’acqua121; inoltre la relazione dell’acqua al tema della purificazione; ancora la relazione tra acqua e Spirito122; infine la menzione del cuore123, nel contesto immediato di 13,2124. Il testo di Ezechiele non è distono rispetto al nostro testo e potrebbe costituire bene la base su cui l’autore giovanneo costruì la sua scena. Gli elementi di relazione tra Ezechiele e Giovanni125 perciò non mancano; l’evangelista però, se allude al testo profetico, non lo ricalca 121 In Ezechiele Dio riversa (r|anw%) acqua, in Giovanni Gesù versa (baéllei) acqua; inoltre in Ezechiele l’acqua è riversata sul popolo (e\f’u|ma%v), in Giovanni è versata “nel catino (ei\v toèn nipth%ra)”. L’azione però è analoga e l’oggetto è lo stesso: l’acqua.

Tale relazione è presente già in 3,5 (nascere da “acqua” e da “Spirito”), ma soprattutto è presente in 7,38-39 e in 19,34.19,30. Per quanto riguarda il dono dello Spirito, si possono accostare le due espressioni che si richiamano: Ez 36,27 (LXX): toè pneu%ma dwésw e\n u|m_n e Gv 19,30: pareédwken toè pneu%ma 122

123 Il termine kardòa, nel vangelo di Giovanni, si legge sette volte: 12,40 [bis]; 13,2; 14,1.27; 16,6.22. Nessuno però, tranne forse 13,2, come diremo, assume per il nostro scopo, particolare importanza.

124 Emergono però notevoli differenze. In 13,2 si legge che il diavolo “gettò (beblhkoétov)” nel cuore (ei\v thèn kardòan) di Giuda di Simone Iscariota di tradire (i$na parado_) Gesù. Non si tratta, in questo testo, già considerato per il verbo baéllw, di sostituzione del cuore, ma di una immissione in esso. In questo senso, il testo richiama meglio, ma in maniera antitetica, Ger 31,31-34. Secondo Geremia, Dio avrebbe iscritto la sua legge nel cuore degli uomini; stavolta però è Satana che iscrive un suo comando nel cuore di Giuda. 125 Prescindiamo da un confronto più ampio tra Ezechiele e il vangelo di Giovanni. Cfr. l'allusione al tempio di Ezechiele, in particolare a Ez 47, in Gv 7,37-39 e anche in 19,34 l’apertura del costato da cui sgorga acqua, può richiamare, tra l’altro, anche Ez 47, dove il profeta descrive la visione del tempio, dal cui lato orientale sgorga come un fiume;

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pedissequamente, ma vi apporta delle differenze126. In Ezechiele acqua e Spirito sono relazionati, ma ad ognuno il testo profetico assegna una propria funzione. La funzione dell’acqua, come abbiamo già detto, è negativa, di liberazione: purificare cioè dalle proprie sozzure e dai propri idoli; la funzione dello Spirito invece è positiva: creare un cuore nuovo e rendere possibile un cammino nei precetti del Signore. Il nostro evangelista non parla di purificazione: la presuppone previa alla lavanda dei piedi (cfr. 13,10.10.11), determinata dalla parola di Gesù (15,3). Attribuisce poi all’acqua una funzione particolare: lavare i piedi dei discepoli. Possiamo proporre allora il seguente confronto tra Ezechiele e Giovanni. In Ezechiele acqua e Spirito, pur accostati, sono distinti: l’acqua deve purificare e lo Spirito deve creare un cuore nuovo che permette di “camminare” nei precetti di Dio. Giovanni sembra accostare, in relazione di simbolo e realtà, l’acqua e lo Spirito. lo Spirito arriva altrove al credente come acqua da bere127; nel nostro testo invece arriva ai discepoli, come acqua che lava i piedi128. Secondo Ezechiele Dio, mediante lo Spirito, crea nel popolo un cuore nuovo e uno Spirito nuovo, rendendolo così capace di camminare nei suoi precetti; si stabilisce nel testo profetico la seguente relazione: dono dello Spirito – creazione di un cuore nuovo e di uno Spirito nuovo – capacità di camminare nei comandamenti di Dio. In Giovanni l’acqua, simbolo dello Spirito, raggiunge i discepoli direttamente nei piedi, organo del cammino. Alla luce del testo di Ezechiele, sembra perciò che, nel testo giovanneo, l’azione di Gesù di lavare i piedi esprima l’abilitazione dei discepoli a compiere un cammino. Lavando i piedi, Gesù appunto li rende capaci di fare questo cammino. in 2,21 l’evangelista nota che Gesù parlava del tempio del suo corpo. Cfr. il nostro studio, L’utilizzazione del capitolo 55 del Libro di Isaia nel Vangelo di Giovanni., cit., 41-42, nota 102. 126 127

Le differenze confermano l’allusione. Cfr. Gv 4,7-15 e anche 7,37-39.

Ma anche come acqua nella quale ci si immerge (cfr. 5,1-9) o ci si lava (cfr. 9,6.7). Quest’acqua deve diventare vino (cfr. 2,9: toè u$dwr oùnon gegenhmeénon anche 4,46: o$pou e\poòhsen toè u$dwr oùnon). 128

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Quale sia poi il cammino a cui, lavando loro i piedi, Gesù abilita i discepoli, forse non è difficile stabilirlo. Abbiamo già osservato come la serie di azioni da Gesù compiute, che culminano in quella di lavare i piedi dei discepoli e di asciugarli con l’asciugatoio di cui era cinto, globalmente costituiscono l’amore a compimento, l’ei\v teélov h\gaéphsen con cui Gesù ha amato i discepoli prima della festa di pasqua, nella coscienza che era giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre. In questa azione fondamentale rientra anche l’azione di lavare i piedi dei discepoli. Ciò induce a concludere che il cammino a cui i discepoli, mediante l’azione di Gesù di lavare loro i piedi, sono abilitati, è proprio un cammino nella via dell’amore. Nell’azione di lavare loro i piedi, l’amore di Gesù raggiunge, mediante lo Spirito, i discepoli e li rende capaci di camminare nella via dell’amore. Ciò può essere confermato dai due testi di 13,34 e di 15,12, dove Gesù promulga (13,34: dòdwmi) e spiega (15,12: e\stòn) qual è il suo comandamento, perseverare nell’amore vicendevole (i$na a\gapa%te a\llhélouv)129. Si può stabilire infatti, tra questi due testi e quello di 13.1-5, la seguente relazione concentrica: 13,1-5: ei\v teélov h\gaéphsen au\touév (a compimento amò essi) h"rxato nòptein touèv poédav (cominciò a lavare i piedi) 13,34; 15,12: i$na a\gapa%te a\llhélouv (che perseveriate nell’amore vicendevole) kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v (come amai voi). Possiamo notare anche come il testo di 13,34 si relaziona a 13,14, dove l’azione di Gesù di avere lavato i piedi fonda per i discepoli il dovere (o\ feòlete) di lavarsi i piedi l’un l’altro130. Il congiuntivo presente a\gapa%te non indica l’inizio di azione ma la continuità dell’azione: i discepoli non debbono iniziare ad amarsi, bensì persevare nella via dell’amore vicendevole. 129

130

Possiamo stabilire la seguente relazione concentrica: 13,14: ei\ ou&n e\gwè e"niya touèv poédav (se io dunque lavai i piedi), o\feòlete allhélwn nòptein touèv poédav (dovete a vicenda lavarvi i piedi) 13,34: i$na a\gapa%te a\llhélouv (che perseveriate nell’amore vicendevole), kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v (come amai voi).

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Possiamo citare, in questa prospettiva, anche Gv 15,9-10. Dopo avere infatti evocato l’amore del Padre verso di lui (kaqwèv h\gaéphseén me o| Pathér), Gesù dichiara ai discepoli di averli anche lui amati (ka\gwè u|ma%v h\gaéphsa). Segue subito un comando: «rimanete nel mio amore (meònate e\n t+% a\gaép+ t+% e\m+%)», Subito Gesù spiega il modo e la condizione che permetterà ai discepoli di rimanere nel suo amore: se osserveranno i suoi comandamenti (e\aèn taèv e\ntolaév mou thrhéshte) essi rimarranno nel suo amore (mene_te e\n t+% a\gaép+% mou). I discepoli, mediante l’osservanza dei suoi comandamenti, rimarranno nell’amore di Gesù allo stesso modo come Gesù rimane nell’amore del Padre, avendo osservato i suoi comandamenti. Menzionata tra l’amore di Gesù e il rimanere dei discepoli nel suo amore, l’osservanza dei comandamenti appare come la strada che, partendo dal suo amore, permette loro di pervenire e permanere nell’amore di Gesù131. Si intende che i comandamenti di Gesù sono in pratica uno solo, quello dell’amore vicendevole (13,34; 15,12). 2.4. L’azione di Gesù di asciugare con l'asciugatoio di cui è cinto (e\kmaéssein t§% lentò§ §// h&n diezwsmeénov) Consideriamo adesso l’altro aspetto dell’azione di Gesù, quella di asciugare i piedi dei discepoli. Tale aspetto in genere è trascurato nelle riflessioni esegetiche; eppure da esso non si può prescindere, essendo strettamente legato all’azione precedente di Gesù, quella di lavare i piedi132. L’espressione e\kmaéssein t§% lentò§ §// h&n diezwsmeénov sta in stretta relazione alla precedente nòptein touèv poédav tw%n maqhtw%n non solo perchè entrambe dipendono dall'unico verbo h"rxato di cui sono oggetto, ma 131

Possiamo notare il seguente schema strutturale: ka\gwè u|ma%v h\gaéphsa meònate e\n t+% a\gaép+ t+% e\m+% e\an è taèv e\ntolaév mou thrhéshte mene_te e\n t+% a\gaép+% mou

132

Le due azioni sono strettamente legate come appare dal seguente schema:

h"rxato nòptein kaì e\kmaéssein

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anche perchè presentano un certo parallelismo strutturale133, che si risolve poi anche in complementarietà134. Al verbo nòptw sta in relazione il verbo e\kmaéssw135. Il verbo e\kmaéssein, nel NT, è raro: si legge soltanto cinque volte: in Lc 7,38.44, riferito alla donna che unse i piedi di Gesù e li asciugò (e\xeémaxen) con i capelli; in Gv 11,2 e 12,3, riferito a Maria nell’unzione di Gesù a Betania (e\xeémaxen); infine in 13,5, riferito a Gesù che cominciò ad asciugare i piedi dei discepoli. Nei LXX il verbo e\kmaéssein è ancora più raro: si legge solo due volte, in testi senza alcun corrispondente ebraico: Sir 12,11 e EpGer 11.23136. Il suo significato immediato è quello di “asciugare”, “detergere”. Non senza una certa enfasi, l’autore riprende, nel v.5, due elementi del v.4: il termine leéntion e il verbo diazwénnumi137. L’enfasi maggiore però pare non stia sul termine leéntion ma sul verbo diazwénnumi; l’espressione §// h&n diezwsmeénov infatti appare come il culmine di tutto il dinamismo verso cui la frase tende. I quattro elementi che compongono la frase, e\kmaéssein - t§% lentò§ - §// - h&n diezwsmeénov, possono essere strutturati secondo uno schema

Entrambe le espressioni sono costituite da un infinito seguito da due elementi, rispettivamente, la prima, l’oggetto della cosa (touèv poédav) e il genitivo della persona (tw%n maqhtw%n), e, la seconda, il dativo di mezzo (t§% lentò§) seguito da una proposizione relativa (§// h&n diezwsmeénov). 133

134 Ogni espressione ha elementi diversi. Si può notare invece come in 11,2 e 12,3 i due verbi a\leòfw ed e\kmaéssw hanno entrambi un oggetto; in 12,3 addirittura l’oggetto touèv poédav è ripetuto due volte. In 11,2 i due oggetti sono toèn Kuérion - touèv poédav.

135 I due verbi nòptw ed e\kmaéssw sono correlativi, ma non reciprocamente necessari. Il verbo e\kmaéssw infatti in Lc 7,38. 44 sta in relazione in a breécw, e in 11,2 e 12,3 a a\leòfw.

136 Un terzo testo, EpGer 13.24, è indicato in E. Hatch - H.A. Redpath, A Concordance to the Septuagint and the other Greek Versions of the Old Testament, I, Graz 1975 (rist.), sub e\kmaéssw. 137 Possiamo notare, tra le due espressioni, un certo parallelismo: v. 4 v. 5 labwèn leéntion t§% lentò§

dieézwsen e|autoén

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§/ h&n diezwsmeénov

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concentrico138. Al centro ci sta la duplice menzione del leéntion139, alle estremità stanno invece i due verbi140. In questo modo si stabilisce una duplice relazione del leéntion, determinata attraverso i due verbi e\kmaéssein e h&n diezwsmeénov. Entrambi i verbi hanno come soggetto Gesù, ma in diversa maniera. Il primo verbo e\kmaéssein è attivo e Gesù è il soggetto attivo: esso presuppone un oggetto che, nel caso specifico, sono i piedi dei discepoli. Il verbo h&n diezwsmeénov invece è passivo: Gesù è il soggetto passivo, ma insieme l’oggetto logico dell’azione di cingere fatta dal leéntion. L’espressione e\kmaéssein t§% lentò§ §// h&n diezwsmeénov può essere letta sia dal punto di vista di Gesù che dal punto di vista del leéntion. Dal punto di vista di Gesù, egli è soggetto attivo del verbo e\kmaéssein: per mezzo del leéntion compie l’azione di asciugare; è soggetto passivo della perifrastica h&n diezwsmeénov: dal leéntion riceve l’azione di cingere. Dal punto di vista del leéntion, esso, al contrario, è strumento e, in certo senso, anche recettivo della azione di Gesù di asciugare, è agente attivo poi dell’azione verso Gesù di cingere. Abbiamo già osservato come le due azioni formulate all’infinito, nòptein ed e\kmaéssein, coordinate (kaò) ma dipendenti dall’unico verbo aoristo h"rxato, appaiono complementari, non soltanto per la loro reciproca relazione di “lavare” ed “asciugare”, ma anche per il diverso dinamismo che esse contengono. Nell’azione di “lavare i piedi” è descritto il cammino di Gesù che, mediente l’acqua, raggiunge i piedi dei discepoli e, in ultima analisi, i discepoli stessi, che egli abilita a compiere un cammino nella via dell’amore. Nell’azione di “asciugare con l’asciugatoio” è delineato invece il cammino dei discepoli verso Gesù. I piedi dei discepoli, per essere asciugati, sono quasi “accolti” nel leéntion e dal leéntion; ma questo cinge Gesù: attraverso di esso perciò i discepoli raggiungono Gesù. Il cammino dei discepoli è orientato così direttamente verso il leéntion: attraverso di esso, essi raggiungono Gesù. 138

e\kmaéssein t§% lentò§ §/ h&n diezwsmeénov

139

Il sostantivo t§% lentò§ e il pronome relativo §/.

140

L'infinito (e\kmaéssein) e la perifrastica (h&n diezwsmeénov).

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Si avverte una duplice funzione del leéntion: da una parte, in relazione al verbo e\kmaéssein, accoglie e contiene, mediante l’azione di asciugare, l’oggetto, i piedi cioè, che, in certo modo, Gesù gli affida; dall’altra, in relazione all’espressione h&n diezwsmeénov, cinge e, in certo senso, contiene Gesù stesso. Il leéntion appare così come un intermediario tra Gesù e i discepoli, come il passaggio obbligato che permette loro di raggiungere Gesù. Essi, nell’azione di asciugare, sono relazionati al leéntion, ma, siccome questo cinge Gesù, attraverso di esso raggiungono Gesù stesso. Emerge così un cammino da Gesù a Gesù. Questi, mediante l’acqua, raggiunge i discepoli; essi poi, attraverso il leéntion, giungono a Gesù141. Si intravede già il valore simbolico del leéntion, ma anche quello del toèn nipth%ra nel quale Gesù versa l’acqua con cui egli lava i piedi dei discepoli. Rimane ancora il problema dove i discepoli, attraverso il loro cammino nell’amore vicendevole, perverranno. 2.5. Il valore simbolico del leéntion e del toèn nipth%ra Le osservazioni precedenti sul leéntion e sul nipth%ra lasciano intravedere il loro valore simbolico, la cui determinazione diventa neccessaria per rispondere alla domanda dove giungerà il cammino dei discepoli. Si pongono perciò le domande: che cos’è il leéntion di cui Gesù si cinge e il toèn nipth%ra dove (ei\v) egli versa acqua? 2.5.1. Il diverso dinamismo dei due elementi Notiamo anzitutto, nei due elementi, un duplice diverso dinamismo, dal punto di vista del soggetto che compie l’azione e dal punto di vista dell’oggetto che la riceve. Dal punto di vista del soggetto, il leéntion 141 Si può riassumere tutta la descrizione nel seguente schema: Gesù L’acqua nel catino (toèn nipth%ra) I discepoli, I discepoli, il leéntion Gesù.

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presenta un dinamismo Gesù-centripeto: esso infatti egli prende (labwén) e di esso si cinge (dieézwsen); il toè nipth%r invece presenta un dinamismo Gesù-centrifugo: in esso (ei\v) egli versa acqua (baéllei u$dwr). Dal punto di vista dell’oggetto, il leéntion compie una azione attiva, nel senso cioè che cinge il soggetto che lo prende; il nipth%r invece compie una azione passivo-recettiva, nel senso cioè che riceve qualcosa dal soggetto. In altri termini, il leéntion è preso da Gesù, va a lui e lo cinge; il toè nipth%r riceve da Gesù acqua. Il termine leéntion, che si legge esplicitamente due volte in Gv 13,4-5 e, una volta, nel v. 5, è menzionato mediante un pronome relativo (§/), è unico in tutta la grecità biblica e profana almeno prima del NT142; esso è una grecizzazione del termine latino “linteum”. Pure il termine nipth%r, come abbiamo già notato, è unico almeno in tutta la Bibbia greca. 2.5.2. Il lentòon In relazione alla domanda precedente che cosa è il lentòon, per rispondere ad essa, ci sembra di individuare un punto di partenza, l’espressione del v. 4: tòqhsin taè i|maétia (pone le vesti). Mentre infatti il verbo tòqhsin ha suggerito la relazione alle azioni del pastore che “pone (tòqhsin)” la vita per il gregge, il termine taè i|maétia permette di stabilirne anche delle altre. Prescindendo da 13,12, queste specificamente sono a 19,23-24, dove l’evangelista narra la spartizione delle vesti (taè i|maétia) e la situazione della tunica (o| citwén)143.

Si citano degli usi negli “Apoftegmi dei Padri”, cfr. a\pofqeégmata pateérwn in PG 65, 237a, cfr. F. Montanari, Vocabolario della lingua greca, cit., sub leéntion. 142

143 Il termine i|maétion, nel vangelo di Giovanni, si legge soltanto sei volte: al plurale (taè i|maétia) in 13,4.12, al singolare (i|maétion) in 19,2.5; ancora al plurale (taè i|maétia) in 19,23-24.

Si ottengono così tre gruppi di usi, che confermano la legittimità della relazione di 13,4 con 19,23-24: taè i|maétia (al plurale): 13,4.12; i|maétion (al singolare): 19,2.5; taè i|maétia (ancora al plurale ) 19,23-24.

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Della spartizione delle vesti di Gesù, dopo la sua crocifissione, parlano, alla luce del Sal 21 (22),19, tutti gli evangelisti144. Giovanni aggiunge un elemento in più, assente nei sinottici: la sorte e la situazione della tunica (o| citwén). Narra il quarto evangelista che i soldati presero (e"labon) le vesti (taè i|maétia) e ne fecero quattro parti, una parte a ciascun soldato; per quanto riguarda poi la tunica, dopo averne descritto l’intrinseca unità, l‘evangelista riferisce la deliberazione dei soldati che decisero di non stracciarla (mhè scòswmen), ma di tirare a sorte per sapere di chi sarà (tònov e"stai). L’evangelista però né narra che i soldati tirarono a sorte né indica di chi è la tunica. Sembra che la narrazione giovannea rimanga senza seguito145. Una risposta però si potrebbe avere se, utilizzando il metodo ad incastro, tipico di Giovanni, inseriamo, prescindendo dalla citazione della Scrittura nel v.24b, l’episodio di 19,23-24a, tra le due espressioni di 13,4: tòqhsin taè i|maétia e labwèn leéntion dieézwsen e|autoén. Si ottiene così il seguente schema: 13,4a: (Gesù) tòqhsin taè i|maétia (pone le vesti) 19,23: (i soldati): e"labon taè i|maétia (presero le vesti), 19,24a: (i soldati): mhè scòswmen (non stracciamo) – tònov e"stai (di chi sarà) 13,4b: (Gesù) labwèn leéntion dieézwsen e|autoén (avendo preso un asciugatoio si cinse). Emerge bene la continuità tra queste espressioni: Gesù pone (tòqhsin) le vesti e i soldati le presero (e"labon); i soldati pongono il problema di chi sarà la tunica (tònov e"stai): la risposta è contenuta nell’immagine del leéntion: essa è di Gesù; egli la prese (labwén) e se ne cinse (dieézwsen e|autoén). I due testi, 13,4 e 19,23-24, concordano nella duplicità degli indumenti146, nell’identità in ambedue del primo (taè i|maétia), nell’antitesi in entrambi tra il 144

Per i vangeli sinottici cfr. Mt 25,35; Mc 15,25; Lc 23,34.

Una risposta si potrebbe avere nella descrizione della rete (toè dòktuon), in 21,11, alla quale la tunica è relazionata mediante i soli due usi, nel vangelo, del verbo scòzw, formulato entrambe le volte in maniera negativa: 19,24: (la tunica): mhè scòswmen, 21,11: (la rete): ou\k e\scòsqh. Cfr. il nostro Studio: I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni, III. Gesù si manifesta presso il (21,1-14), Acireale 1993, 325-344. 145

146 Possiamo stabilire la seguente relazione 13,4 19,23-24

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primo (taè i|maétia) e il secondo (leéntion - citwén)147. Sembra, concludendo, che sia il leéntion (l’asciugatoio) che il citwén, che coincidono sia nell’opposizione a taè i|maétia e anche nella diretta e positiva relazione a Gesù, rimandino, pur nella diversità dell’immagine evocata, alla stessa realtà. Si pone il problema allora di stabilire concretamente quale sia la realtà in essi contenuta. Una più diretta risposta a questa domanda, viene probabilmente dalla considerazione dell’immagine della tunica, contenuta in 19,23-24. 2.5.3. Il senso dell’immagine della tunica Tutta la descrizione di Gv 19,23-24 è inclusa nel termine stratiw%tai, seguito poi dal verbo e\poòhsan148. Nel v. 23a l’evangelista descrive la spartizione delle vesti; nei vv. 23b-24a descrive invece la situazione della tunica, caratterizzata da intrinseca unità. Nel v. 24b l’evangelista introduce la citazione del Sal 21 (22),19; conclude poi la sua narrazione, nel v. 24c, mediante l’espressione oi| meèn ou&n stratiw%tai tau%ta e\poòhsan (i soldati queste cose fecero). Come all’inizio, anche in questa espressione è indicata una azione dei soldati; a differenza però di quella iniziale, in questa seconda non si specifica cosa concretamente essi fecero. Il pronome tau%ta, dopo la citazione del Sal 21, che menziona sia la spartizione delle vesti sia il gettare la sorte sulla tunica, potrebbe riferirsi ad entrambe le cose: divisero le vesti e posero la sorte sulla tunica. La menzione della deliberazione dei soldati di non scindere la tunica ma di gettare le sorti, appena prima nel v. 24a, suggerisce che il tau%ta più direttamente si riferisca a queste ultime azioni, tanto più che la divisione delle vesti, narrata nel v. 23a, è praticamente isolata, inclusa tra i due termini stratiw%tai – stratiwét+. taè i|maétia leéntion

taè i|maétia citwén

In 13,4-5 Gesù pone le vesti e prende il leéntion; in 19,23-24 i soldati scindono le vesti, ma si fermano davanti al citwén che non viene scisso. 147

148

Si può stabilire il seguente rapporto letterario: v. 23: oi| stratiw%tai […] e\poòhsan teéssera meérh, v. 24: oi| stratiw%tai tau%ta e\poòhsan

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Riferendo l’espressione oi| meèn ou&n stratiw%tai tau%ta e\poòhsan (i soldati queste cose fecero) del v. 24c prioritariamente alla decisione dei soldati di non scindere la tunica ma di tirare a sorte di chi è, notiamo la particella correlativa meén, che richiama la particella deé del v. 25. Si stabilisce così, appunto per le particelle correlative meén…deé149, una relazione tra il v. 24c e il v. 25a, che permette di concludere che la tunica, che i soldati non stracciarono e su cui gettarono le sorti, sia appunto quella comunità di donne, che stava (ei|sthékeisan) presso la croce di Gesù, e che l’evangelista descrive appunto nel v. 25.L’identificazione della tunica con la comunità di donne presso la croce è suggerita anche dalla relazione tra il v. 23c e il v. 25150. Nel v. 23c l’evangelista descrive l’intrinseca unità della tunica; nel v.25 indica la posizione. Possiamo cogliere anche dal v. 23c al v, 25 il seguente sviluppo tematico concentrico: 1. Nel v. 23c l’evangelista descrive l’intrinseca unità della tunica, 2. I soldati decidono di non scinderla, 3. In ciò la Scrittura è portata a compimento, 4. I soldati fanno quanto hanno deliberato ed ha detto la Scrittura, 5. Essa (v. 25) appare in tutta la sua realtà. Nel v. 25 trovano così la risposta alle domande emerse nei vv. 23-24. Ad almeno due: Che cosa è la tunica? di chi è la tunica? La risposta alla prima domanda è che la tunica è appunto quella comunità di donne che sta presso la sua croce151.La risposta alla seconda domanda è che la tunica appartiene 149

Possiamo notare la seguente relazione: v. 24c: oi| meèn stratiw%tai tau%ta e\poòhsan v. 25a: ei|sthékeisan deè […]

150 Diversi elementi suggeriscono questa conclusione. Anzitutto la relazione tra l’espressione del v. 23b (h&n deé) e il v. 25 (ei|sthékeisan deé): entrambe le espressioni iniziano con un verbo stativo seguito dalla particella deé. Inoltre possiamo stabilire uno sviluppo che parte dal v. 23b e culmina nel v. 25, nel seguente modo: v. 23b: h&n deè o| citwén, v. 24a: la decisione dei soldati di non scindere e gettare le sorti, v. 24b: La conferma della Scrittura, v. 24c: I soldati fecero ciò. v. 25: ei|sthékeisan deè paraè t§% staur§%. 151 Prescindiamo da ulteriori domande che il testo pone: perché la tunica è intrinsecamente unitaria? Chi o che cosa l’ha resa tale?

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a Gesù: essa infatti sta, saldamente radicata (ei|sthékeisan) presso la sua croce; Le relazioni sopra indicate tra la tunica (o| citw%n) e il leéntion di 13,4-5 suggeriscono di riferire anche a quest’ultimo elemento lo stesso contenuto riferito alla tunica: si tratta della stessa comunità di donne (la comunità ecclesiale?), radunata presso la croce di Gesù: quella comunità è il leéntion che Gesù prende e di cui si cinge; è la tunica che appartiene a Gesù, che sta presso la sua croce, che è intrinsecamente unitaria e lo è, probabilmente, appunto perché è presso la croce di Gesà. 2.5.4. Il toèn nipth%ra In relazione all’immagine del toèn nipth%ra, è importante anzitutto rievocare la diversa dinamica che la caratterizza rispetto a quella del leéntion. La dinamica di quest’ultima è Gesù-centripeta, nel senso che egli prende l’asciugatoio e se ne cinge: c’è un movimento del leéntion verso Gesù. La dinamica del catino (toèn nipth%ra) invece è Gesù centrifuga, nel senso che Gesù versa acqua in esso: c’è quindi, mediante l’acqua, un movimento di Gesù verso il catino. Abbiamo già indicato la relazione, a riguardo dell’acqua, al testo di 19,34, dove si legge che da Gesù, in seguito al colpo di lancia, uscì sangue ed acqua. La relazione però a questo testo non è completa: in 13,1-5 non si fa alcuna menzione del sangue; in 19,34 non si dice che Gesù “versò” acqua ma che da lui, in maniera spontanea, essa uscì (e\xh%lqen). Prescindendo dall’elemento del sangue che determina altre relazioni con altri testi, l’aspetto di Gesù, che “versa” o “dona”, emerge invece in 19,30, dove si legge che Gesù, come soggetto, “donò (pareédwken)” lo Spirito. Data la relazione tra “acqua” e “Spirito”, possiamo riferirci, per l’espressione di 13,4, oltre che a 19,34 (“uscì acqua”) anche a 19,30 (“donò lo Spirito”). Si pone allora la domanda: a chi Gesù, nel contesto immediato di 19,30, “donò (pareédwken)” lo Spirito? La risposta può essere suggerita da qualche considerazione, benché fugace, sul testo di 19,28-30. In questo testo, l’azione di Gesù di donare

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lo Spirito, avendo reclinato (klònav) il capo (v. 30b), segue e conclude lo sviluppo dei vv. 28-30a, incluso tra due verbi teteélestai. In questo testo notiamo qualche elemento utile al nostro scopo. Anzitutto l’espressione introduttiva metaè tou%to (dopo ciò), con il pronome singolare neutro. Altre volte invece l’evangelista usa l’espressione al plurale metaè tau%ta (dopo queste cose)152. In tutti quei testi, tranne forse in 5,14 e 13,7, l’espressione metaè tau%ta sembra indicare non una stretta successione di eventi, bensì il passaggio ad una nuova fase di azione. Diverso invece sembra essere il caso dell’espressione metaè tou%to, che, nel vangelo di Giovanni, oltre il nostro testo di 19,28, si legge altre tre volte, in 2,12; 11,7.11, dove non indica un generico passaggio ad una nuova fase di azione, bensì il diretto passaggio all’azione successiva rispetto a quella immediatamente precedente. In questo senso, le azioni narrate in 19,28-30a seguono in maniera immediata e successiva a quelle narrate in 19,25-27. I vv. 28-30a appaiono così legati ai precedenti vv. 25-27. Un altro elemento sembra legare ancora i vv. 28-29a ai precedenti vv. 25-27. Nel v. 29 è descritta la scena dell’aceto: dopo la menzione della sete, avendo inzuppato una spugna nell’aceto, “offrirono (proshénegkan)” alla bocca di Gesù. Questa scena dell’aceto è narrata anche da tutti i sinottici. In Mt 27,48 colui che porge l’aceto imbevuto in una spugna è eùv e\x au\tw%n (uno di loro), cioè uno di quelli che erano lì presenti (e\ke_ e|sthkoétwn). In Mc 15,35 a porgere l’aceto è ancora un tale che corse (dramwèn deé tiv), probabilmente ancora uno di quelli presenti (tw%n paresthkoétwn) (v. 36). In Lc 23,36 infine sono i soldati (oi| stratiw%tai), che porgono l’aceto in tono di scherno. Chi è invece in Giovanni il soggetto del verbo plurale proshénegkan? La sua assenza è tanto più sorprendente per il fatto che il quarto evangelista non sembra essere, nelle sue narrazioni, parco ad indicare esplicitamente i soggetti delle varie azioni. Possiamo notare che, nei vv. 23-24, ben tre volte sono menzionati i soldati, e saranno ancora menzionati poi nel v. 32. Ad essi, menzionati nei vv. 23-24, non può riferirsi il verbo proshénegkan del v. 29: è troppo lontano; se l’evangelista pensava a loro, era opportuno menzionarli esplicitamente anche nel v. 29. Possiamo concludere che, anche se, nella storia, siano stati i soldati a porgere l’aceto, 152

Cfr. 3,22; 5,1.14; 6,1; 7,1; 13,7; 19,38.

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come indica Luca, non lo sono certo nella penna di Giovanni. L’unico soggetto plurale, tra le due menzioni dei soldati (vv. 23-24 e v. 32), è quello indicato in 19,25: la comunità di donne presso la croce e il discepolo affidato alla madre153. Dobbiamo concludere che è proprio la comunità di donne presso la croce ad offrire a portare l’aceto alla bocca di Gesù. Evidentemente siamo sul piano simbolico e l’evangelista non può dirlo esplicitamente perché andrebbe contro la storia: lo insinua soltanto attraverso la sua composizione letteraria. Non rientra nel nostro lavoro illuminare questo simbolismo. Al nostro scopo interessa una duplice conclusione: anzitutto i destinatari a cui Gesù dona (pareédwken) lo Spirito sono quelli stessi che offrirono (proshénegkan) l’aceto alla sua bocca154; inoltre le due scene dei vv. 25-27 e di 28-30 sono strettamente legate: ciò significa che le persone che portarono l’aceto alla bocca di Gesù e sulle quali Gesù riversò lo Spirito, sono appunto le donne, menzionate nel v. 25155. Possiamo allora concludere che, nella scena di Gv 19,25-27, le donne presso la croce di Gesù, hanno due funzioni: in relazione ai precedenti vv. 23-24, essi sono la tunica che appartiene a Gesù; in relazione ai seguenti vv. 28-30 essi sono il ricettacolo in cui Gesù effonde la Spirito. Il dinamismo di 19,25-27, in relazione ai vv. 23-24, è Gesù-centripeto, appunto come il leéntion di 13,4; in relazione ai vv. 28-30 è invece Gesù centrifugo, appunto come il nipth%r di 13,4. La comunità delle donne è la tunica che Gesù prende per sé (dinamismo Gesù-centripeto); la stessa comunità di donne è il ricettacolo dove Gesù effonde lo Spirito (dinamismo Gesù-centrifugo). In relazione alle immagini del leéntion e del nipth%r, entrambe le immagini convergono nella stessa realtà, descritta in 19,25-27: si tratta della 153

154

Si ottiene così il seguente schema: vv. 23-24: i soldati (spartizione delle vesti e deliberazione di non scindere la tunica) v. 25: le donne presso la croce v. 29: proshénegkan v. 32: i soldati (spezzarono le gambe). Si determina quasi un rapporto dialogico tra le due azioni espresse dai due verbi

proshénegkan (offrirono) - donò (pareédwken). 155

Si può stabilire una continuità tra i tre verbi: v. 25: ei|sthékeisan (stavano) v. 29: proshénegkan (offrirono) v. 30: pareédwken (donò).

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comunità ecclesiale di cui Gesù si cinge (leéntion), si tratta della stessa comunità ecclesiale nella quale Gesù riversa l’acqua dello Spirito (nipth%r). Tutto ciò può essere proposto, graficamente, nel seguente modo: 19,22-30 13,4-5 La tunica il leéntion Le donne presso la croce L’effusione dello Spirito il toèn nipth%ra La comunità delle donne presso la croce (19,25), nel contesto di 19,2230, sono la tunica che appartiene a Gesù (19,23-24) e sono anche l’ambito in cui Gesù riversa lo Spirito (19,28-30); nel contesto di 13,4-5 queste realtà sono, simbolicamente, il leéntion che Gesù prende e di cui si cinge e anche il toèn nipth%ra in cui Gesù versa acqua. 2.6. L’azione di asciugare Si pone adesso una domanda: in questo contesto come si situa e come può essere spiegata l’azione di Gesù di “asciugare” con il leéntion di cui era cinto, alla quale l’evangelista sembra annettere particolare importanza? Per rispondere a questa domanda, ci aiuterà ancora il testo di 19,25-27, nel quale tentiamo di cercare una risposta. Narra l’evangelista, in 19,25, che stavano (ei|sthékeisan) presso la croce di Gesù (paraè t§% staur§% tou% }Ihsou%), la madre di lui (h| mhéthr au\tou%) e la sorella della madre di lui (kaì h| a\delfhè th%v mhtroèv au\tou%), Maria di Klopa (Maròa h| tou% Klwpa%) e Maria Maddalena (kaì Maròa h| Magdalhnhé). L’evangelista propone così un lungo soggetto con quattro espressioni156, in ciascuna delle quali emerge, letterariamente, una particolare relazione. Iniziando dall’ultima espressione, abbiamo una

Storicamente le donne sono tre: tra la prima e la seconda espressione (la madre e la sorella della madre) c’è una congiunzione (kaò): evidentemente le donne si distinguono; tra la terza e la quarta (Maria di Klopa e Maria di Magdala) c’è pure una congiunzione: evidentemente ancora le donne si distinguono. Manca la congiunzione tra la seconda (la sorella di sua madre) e la terza espressione (Maria di Klopa): ciò indica che esse non si distinguono e che Maria di Klopa è la sorella della Madre. 156

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relazione ad un luogo (Maddalena), ad una persona umana (Klopa)157, una relazione diretta alla madre ed indiretta a Gesù (la sorella della madre di lui [Gesù]), una relazione diretta a Gesù (la madre di lui [Gesù]). Lette all’inverso, le quattro espressioni delineano un cammino progressivo verso Gesù. Le donne però non raggiungono direttamente Gesù: tra di loro e lui c’è la croce (paraè t§% staur§% tou% }Ihsou%): l’evangelista infatti non dice che “stavano presso Gesù”, ma che “stavano presso la croce di Gesù”, insinuando così che esse giungeranno a lui passando appunto attraverso la sua croce158. Subito dopo (v. 26) si introduce la prima azione di Gesù, che è quella di vedere (i\dwén), con due oggetti: la madre (thèn mhteéra) e il discepolo (toèn maqhrhén): di quest’ultimo si indica anche la posizione: “stante (parestw%ta)”. Emergono così due domande: chi è la madre? È semplicemente la prima nella lista precedentemente (v. 25) indicata? Qual è poi la posizione del discepolo? Quanto alla prima domanda, l’identità della madre a cui Gesù affida il discepolo, questa non sembra essere soltanto la madre di Gesù, menzionata, per prima, nella lista delle donne, ma tutta la comunità delle donne che assurge al ruolo di madre. Ciò è suggerito da due elementi. Anzitutto la duplice menzione in assoluto, senza alcun genitivo di specificazione, della madre (h| mhéthr); questa madre (thèn mhteéra) da Gesù è presentata al discepolo come “tua madre (h| mhéthr sou)”159. Inoltre le quattro espressioni del v. 25, riguardanti le donne, appaiono strettamente legate 157 Poco importa se Klopa fosse padre o sposo: importa soltanto l’aspetto dell’appartenenza ad una persona umana. 158

Prescindiamo però da questo aspetto che pur sembra avere la sua importanza.

Possiamo notare che il termine mhéthr, nel contesto dei vv. 25-27, è introdotto ben cinque volte: tre volte in maniera relativa e due volte in maniera assoluta, nel seguente modo: h| mhéthr au\tou% - tou% metroèv au\tou% (maniera relativa: “la madre di lui”, di Gesù), thèn mhteéra – t+% mhtrò (maniera assoluta: “la madre”), h| mhéthr sou (maniera relativa: “la madre di te”, del discepolo). Tra usi del termine mhéthr relativi si inseriscono degli usi in assoluto. L’evangelista non si rivela avaro nell’uso di pronomi possessivi; se avesse alluso soltanto a Maria, la ripetizione del pronome au\tou%, nel v. 26, nell’espressione i\dwèn thèn mhteéra, non sarebbe stata inopportuna. 159

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e ricondotte al binomio h| mhéthr - Maròa160. Tale binomio indubbiamente esalta la figura di Maria, ma insieme lega strettamente i vari soggetti, ricondotti poi in unità anche dall’unico verbo ei\sthékeisan. Nulla suggerisce, nel v. 26, di separare il primo soggetto (h| mhéthr au\tou%) dagli altri tre del v. 25161. Possiamo allora proporre la seguente conclusione. Senza negare il fatto che il discepolo è stato affidato da Gesù alla sua madre e senza venir meno alla lunga tradizione ecclesiale che ha visto fondata su Gv 19,25-27 la verità della maternità spirituale di Maria, riteniamo che “la madre” che Gesù ha visto e alla quale affida il discepolo162, sia appunto tutta la comunità delle donne. Se questa poi è simbolo della comunità ecclesiale, al discepolo è presentata come madre la comunità ecclesiale che sta presso la croce; a questa il discepolo è presentato come figlio. Quanto poi alla posizione del discepolo, essa è indicata nel termine parestw%ta. Questo termine è participio perfetto del verbo paròsthmi. Quest’ultimo è un verbo composto da paraé ed i$sthmi. Il richiamo all’espressione ei|sthékeisan paraè t§% staur§% tou% }Ihsou% del v. 25 è evidente163. I primi due elementi, h| mhéthr au\tou% kaì h| a\delfhè th%v mhtroèv au\tou%, sono legati dal termine mhéthr; gli altri due, Maròa h| tou% Klwpa% e kaì Maròa h| Magdalhnhé, dal termine Maròa. 160

Rimangono i problemi perché e come le donne sono radunate presso la croce di Gesù, posizione mai indicata, anzi in certo senso contraddetta dai vangeli sinottici, secondo i quali amici e parenti stavano da lontano. 161

162 Non pare invece fondata nel testo l’idea che Gesù, per motivi umanitari, affidi la madre al discepolo anche se non si può escludere, contenuto magari nell’espressione, più ampia però nel senso, ei\v taè i"dia (v. 27b) che Maria sia andata ad abitare nella casa del discepolo. 163

Tale richiamo è confermato dalla seguente relazione strutturale: v. 25: ei|sthékeisan

paraè t§% staur§% tou% }Ihsou% h| mhéthr [ktl] v. 26: }Isou%v ou&n i\dwèn thèn mhteéra kaì toèn maqhthèn paraè e|stw%ta In uno schema concentrico si situa uno schema alternato.

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Emerge una differenza tra la posizione delle donne e quella del discepolo. La posizione di esse è relativa (t§% staur§%)164, quella del discepolo è assoluta (parestw%ta). In discepolo “sta presso”, ma presso chi o che cosa? Forse presso le donne? L’evangelista non lo precisa. In ogni caso, il participio parestw%ta indica un aspetto e ne suggerisce anche un altro. Esso indica, nella sua indole statica, che il discepolo è giunto al termine di un cammino165, probabilmente quello iniziato in 18,15: egli è giunto e sta. Inoltre il participio parestw%ta, nella sua forma assoluta, suggerisce che il cammino del discepolo non si esaurisce nel parestw%ta, ma deve essere ancora completato: si esige cioè che egli da una posizione assoluta passi ad una posizione relativa, come le donne, che stia “presso qualcosa o qualcuno”, che cioè arrivi anche lui paraè t§% staur§% tou% }Ihsou%, presso la croce, dove sono le donne, e, attraverso la croce, presso Gesù. A tale scopo, provvede Gesù stesso, affidando precisamente il discepolo, come figlio, alla madre, della quale si dice appunto che “stavano presso la croce di Gesù (ei|sthékeisan paraè t§% staur§% tou% }Ihsou%)”. Si stabilisce così una duplice relazione: la madre è relazionata, per la sua posizione, alla croce di Gesù; il discepolo è relazionato alla madre come figlio. Il discepolo è relazionato alla madre e questa è relazionata alla croce di Gesù: anche il discepolo così, attraverso la madre, raggiunge la croce di Gesù e, quindi, Gesù stesso. Egli perciò non raggiunge direttamente Gesù, ma lo raggiunge attraverso la madre, alla quale è stato donato da Gesù come figlio166. Questa duplice relazione emerge, analoga, anche nell’azione di asciugare in 13,5: i piedi dei discepoli sono relazionati al leéntion dal quale sono accolti per essere asciugati, ma il leéntion è relazionato a Gesù, perché 164

Le donne sono relazionate alla croce e questa a Gesù.

Anche per le donne il verbo ei|sthékeisan suggerisce che si trovano al termine di un cammino, probabilmente quello delineato progressivamente nelle varie relazioni sopra indicate. 165

166 Possiamo riassumere tutto ciò nel seguente schema: Presso la croce di Gesù La madre La madre Il discepolo come figlio.

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da esso egli è cinto. Possiamo stabilire tra le due descrizioni il seguente schema concentrico: 13,5: e\kmaéssein

t§% leénti§ §/ h&n diezwsmeénov 19,25-27: ei|sthékeisan paraè t§% staur§% tou% }Ihsou% h| mhéthr h| mhéthr o| ui|ové sou Si coglie subito tra le due descrizioni un dinamismo parallelo: il leéntion accoglie i piedi dei discepoli; ma esso cinge Gesù: attraverso il leéntion i piedi dei discepoli si relazionano e raggiungono Gesù. Il leéntion esercita

quasi un ruolo di mediazione tra i piedi dei discepoli e Gesù: attraverso di esso i piedi dei discepoli giungono a Gesù. Analogamente il discepolo è affidato alla madre come figlio; ma, dal momento che la madre sta presso la croce di Gesù, attraverso di lei il discepolo si relaziona e raggiunge la croce di Gesù e, quindi Gesù stesso. Come il leéntion, anche la madre esercita un ruolo di mediazione tra il discepolo e Gesù. Tutto ciò porta alla conclusione che la comunità delle donne, in 19,2527, esercita una duplice funzione: in quanto è la tunica di Gesù, realizza la figura del leéntion di cui Gesù si cinge; in quanto raccoglie il dono dello Spirito, realizza la figura del toèn nipth%ra dove Gesù versa acqua. Ma realizza anche l’immagine del leéntion anche da un altro punto di vista: esercita cioè una mediazione tra i discepoli e Gesù: attraverso il leéntion i discepoli raggiungono Gesù; attraverso la madre il discepolo perviene a Gesù. 3. Il termine del cammino Il termine del cammino nella via dell’amore, al quale, lavando loro i piedi, egli ha abilitato i discepoli, ovviamente è Gesù. Ciò emerge sia nell’azione di asciugare i piedi, in 13,5, dove, come abbiamo già indicato, il leéntion con cui Gesù accoglie i piedi dei discepoli, cinge anche Gesù; ed

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emerge anche nel testo di 19,25-27, dove la madre, alla quale il discepolo è affidato come figlio, sta presso la croce di Gesù. Sia il leéntion come anche la madre esercitano una funzione di mediazione tra i discepoli/il discepolo e Gesù. 3.1. Gesù termine del cammino Che Gesù sia il termine, o, come preciseremo meglio più avanti, “un termine” del cammino dei discepoli, emerge anche dal testo di 15,9-10. Nei vv. 1-8 dello stesso capitolo Gesù ha esortato i discepoli a realizzare con Lui un rapporto di reciproca immanenza; in 15,4a leggiamo: «rimanete (meònate) in me ed io in voi»; dal v. 4b fino al v.7 e anche fino al v. 8, Gesù continua illustrando i vantaggi che toccano a chi rimane in lui e le gravi conseguenze in cui si imbatte chi invece da lui si separa e non rimane in lui. Nel v. 9 Gesù precisa ulteriormente tale rapporto di reciproca immanenza: si tratta di “rimanere nel suo amore (meònate e\n t+% a\gaép+ t+% e\m+%)”. Indica anche la condizione che permette ai discepoli di rimanere nel suo amore: l’osservanza dei comandamenti. L’espressione meònate e\n t+% a\gaép+ t+% e\m+% contiene però dei sottintesi, che forse vanno evidenziati: per potere “restare” in un luogo, bisogna prima giungervi, ma, per giungervi, bisogna compiere un cammino. Per poter “restare” nell’amore di Gesù, i discepoli prima debbono giungervi, ma, per potervi giungere, debbono prima compiere un cammino. Dal momento però che il testo non presenta altra condizione se non l’osservanza dei comandamenti (e\anè taèv e\ntolaév mou thrhéshte), questa, oltre la condizione per restare nell’amore di Gesù, implicitamente sembra essere anche la strada per giungervi e radicarsi in esso. Accanto al testo di 15,9-10, possiamo leggere anche quello di 15,14, dove Gesù dichiara: «voi amici di me siete (u|me_v fòloi moué e\ste), se fate ciò che io comando (e\nteéllomai) a voi». Il verbo e\nteéllomai richiama il termine e\ntolhé (cfr. vv. 12.17). Possiamo notare tra il testo di 15,10 e di 15,14 la seguente relazione concentrica: 15,10: e\anè taèv e\ntolaév mou thrhéshte

mene_te e\n t+% a\gaép+ mou

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15,14:

Attilio Gangemi u|me_v fòloi moué e\ste e\an è poih%te a£ e\gwè e\nteéllomai u|m_n

L’osservanza dei comandamenti permette così ai discepoli, sia attivamente, di pervenire all’amore (a\gaéph) di Gesù e di radicarsi in esso, sia anche, passivamente, di essere accolti da Gesù nella sua intimità come “amici (fòloi)”. Secondo i testi di 13,34 e di 15,12 e anche di 15,17, i comandamenti (e\ntolaò) si riducono ad uno solo (e\ntolhé): l’amore vicendevole. 3.2. Il Padre ultimo termine del cammino In realtà però il vero ed ultimo termine del cammino dei discepoli non è Gesù, bensi il Padre. Abbiamo già notato che tale termine è insinuato dall’espressione di 13,1, dove abbiamo stabilito una relazione tra l’espressione proèv toèn pateéra, riferita a Gesù, e l’altra ei\v teélov riferita all’azione di Gesù verso i discepoli. La tensione e l’orientamento di Gesù verso il Padre è attestato molte volte nell’ambito del vangelo. Gia nello stesso contesto di 13,1-3, l’evangelista menziona la duplice coscienza (ei\dwév) di Gesù che è giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre e che da Dio è uscito e a Dio va. In 16,28 poi Gesù specifica ulteriormente: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo: di nuovo lascio il mondo e vado al Padre». Diverse altre volte poi, nel vangelo, Gesù manifesta il suo orientamento e il suo cammino verso il Padre167. In questo cammino Gesù ha coinvolto anche i discepoli. Ciò appare gia nell’espressione di 1,18: «Dio nessuno mai ha visto: l’unigenito Dio, che è verso il seno del Padre (ei\v toèn koélpon tou% patroév), lui ci ha guidati 167 Già nel prologo possiamo stabilire una relazione tra due testi, che possono costituire anche una inclusione: 1,1 (o| loégov h&n proèv toèn qeoén) e 1,18 (o| w!n ei\v toèn koélpon tou% patroév). Con il verbo poreuéomai possiamo citare 14,12 (proèv toèn pateéra poreuéomai). 28 (poreuéomai proèv toèn pateéra). Con il verbo u|paégw possiamo citare ancora 7,33 (u|paégw proèv toèn peémyantaé me); 16,5 (u|paégw proèv toèn peémyantaé me). 10 (proèv toèn pateéra u|paégw). Con il verbo e"rcomai si possono citare i due testi del cap. 17: vv. 11.13 (proèv seè e"rcomai); con il verbo a\nabaònw inoltre il testo di 20,17 (a\nabeébhka [a\nabaònw] proèv toèn pateéra).

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(e\xhghésato)» : quel Dio, che nessuno mai aveva potuto vedere168, Gesù non solo lo ha visto, ma a lui è orientato, lui ha manifestato ed a lui ha anche guidato169. In 14,6 poi, con le parole: «nessuno viene (e"rcetai) al Padre (proèv toèn pateéra) se non per mezzo di me (di’e\mou%)», con le quali risponde a Tommaso, Gesù indica quattro cose: che lui va al Padre, che al Padre possono accedere anche i discepoli, che egli è la via e che è anche l’unica via. È importante anche il seguente v. 9, dove, rispondendo a Filippo che chiedeva di mostrare (de_xon) il Padre, Gesù risponde che «chi ha visto me (o| e|wrakwèv e\meé) ha visto (e|wré aken) il Padre»; l’esperienza di Gesù conduce immediatamente all’esperienza del Padre. Possiamo citare anche i testi che esprimono la mediazione di Gesù presso il Padre a vantaggio dei discepoli. In 14,16 egli promette, a chi lo ama ed osserva i comandamenti, di intercedere presso il Padre, il quale darà un altro Paracleto perché sia sempre con i discepoli; in 15,16 Gesù assicura i discepoli che il Padre darà loro tutto quello che chiederanno nel suo nome. In 14,28 leggiamo le seguenti parole di Gesù: «se mi amaste, gioireste perché vado al Padre, perché il Padre è più grande di me»; la gioia dei 168 L’allusione, nel contesto, sembra essere a Mosé (Cfr. Es 33,20), mediatore dell’antica alleanza.

169 Il verbo e\xhgeéomai, verbo composto (e\x) da h|geéomai assente nel vangelo di Giovanni, è un raro nel NT ed è un verbo piuttosto lucano; oltre Gv 1,18, si legge soltanto altre cinque volte, in Lc 24,35; At 10,8; 15,12.14; 21,19. In Lc 24,35, i due discepoli manifestavano (e\xhgou%nto) le cose (taé) (accadute) lungo la strada; in At 10,8 Cornelio inviò due persone a Pietro, dopo avere rivelato (e\xhghsaémenov) loro tutte le cose; In 15,12 Paolo e Barnaba rivelano (e\xhgoumeénwn) alla moltitudine. Lo stesso significato di “manifestare”, “spiegare”, “rivelare” del verbo e\xhgeéomai si trova in 15,14 (Pietro spiegò [e\xhghésato]) e in 21,19: Paolo spiegava (e\xhge_to). Questo senso di “rivelare”, “manifestare” può essere contenuto anche nel nostro testo di Giovanni: Gesù ha reso manifesto quel Dio che nessuno aveva mai visto. L’unico uso giovanneo però non obbliga a ritenere in maniera esclusiva questo significato. Possiamo intendere il verbo e\xhghésato in senso più etimologico. Il verbo h|geéomai, assente però in Giovanni, ha il senso di “condurre”, “guidare” (cfr. il termine h\gouémenov in Mt 2,6; Lc 22,26; At 7,10; 15,22; Eb 13,7.17.24; 2Pt 2,13), cfr. anche L. Rocci, Vocabolario greco – italiano, Milano – Roma – Napoli – Città di Castello 197123, sub h|geéomai. Il movimento del testo di 1,18 inoltre va in questo senso: si sottolinea infatti non l’orientamento di Gesù verso gli uomini, come avrebbe richiesto il senso di “rivelare”, bensì quello verso il seno del Padre. In questa prospettiva si addice meglio il senso di “guidare”, “condurre” (h\ghésato), dopo, ovviamente, avere fatto compiere ai discepoli un esodo.

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discepoli, per la partenza di Gesù, può essere motivata per il fatto che da essa dipende il dono dello Spirito, ma forse anche perché, andando al Padre, Gesù apre la via per andarvi anche loro. Il testo più importante al nostro scopo però sembra essere ancora 15,9-10, dove Gesù, dopo avere ricordato di avere amato i discepoli in seguito all’amore del Padre verso di lui ed averli esortati a rimanere nel suo amore, spiega che resteranno nel suo amore se osserveranno i suoi comandamenti. Il Gesù però, nel quale i discepoli, mediante l’osservanza dei comandamenti, sono chiamati a rimanere, a sua volta “rimane” nell’amore del Padre, avendone osservato i comandamenti: rimanendo in Gesù, i discepoli di conseguenza “rimarranno”, anche loro, nel Padre, essendo Gesù radicato nel Padre. Pure importante è il testo di 16,26-27, dove Gesù, mostrando quasi superflua la sua opera di mediazione, spiega che «Il Padre stesso accoglie voi (file_) perchè voi me avete accolto (pefilhékate) e avete creduto che da Dio sono uscito»: l’accoglienza di Gesù da parte dei discepoli determina la loro accoglienza da parte del Padre. Non è senza significato, infine, il testo di 20,17, dove Gesù conferisce alla Maddalena il comando di annunziare ai discepoli con le seguenti sue parole: «salgo (a\nabaònw) al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Dio non è soltanto Padre e Dio di Gesù, ma lo è anche dei discepoli. Gesù insinua, in questo modo, che anche loro saliranno, con lui, al loro Padre e al loro Dio. La stessa prospettiva della tensione e dell’orientamento dei discepoli verso il Padre attraverso Gesù, appare anche nello sviluppo del cap. 10. Possiamo stabilire infatti una relazione tra i vv.3-4 e i vv. 27-28170. Nei vv. 1-2, che precedono i vv. 3-4, il pastore è definito come colui che entra nel recinto (ei\v thèn au\lhén) delle pecore (tw%n probaétwn), nei vv. 3-4 si dice che 170 Nei vv. 3-4 abbiamo tre elementi: le pecore ascoltano la voce del pastore; egli le chiama per nome ed esse lo seguono; pure nel v. 27 troviamo tre elementi: le pecore ascoltano la voce di Gesù, egli le conosce, esse lo seguono. Possiamo proporre il seguente schema: vv. 3-4 v. 27

th%v% fwnh%v au\tou% a\kouéei, taè proébata taè e\maè th%v fwnh%v mou akouéousin kaì taè i"dia proébata fwne_ kat’o"noma ka\gwè ginwéskw au\taé proébata au\t§% a\kolouqe_. kaì a\kolouqou%sòn moi.

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esse ascoltano la sua voce, lui le fa uscire ed esse lo seguono (a\kolouqe_). Nel v. 27 Gesù, applicando a sé la metafora del pastore, torna a ripetere che le sue pecore ascoltano la sua voce, egli le conosce ed esse lo seguono; dopo questo verso, seguono i vv. 28-30, dove Gesù dichiara che le pecore sono in mano sua e poi anche nelle mani del Padre, perché egli e il Padre sono una cosa sola. Si ottiene così il seguente schema: vv. 1-2: il pastore entra nel recinto delle pecore, vv. 3-4: le pecore ascoltano la sua voce; chiama le sue pecore per nome ed esse lo seguono; v. 27: le pecore ascoltano la sua voce, egli le conosce ed esse lo seguono. vv. 28-30: le pecore sono in mano a Gesù e in mano al Padre e nessuno può rapirle dalle loro mani. La relazione tra i vv. 3-4 e il v. 27 stabilisce anche una relazione progressiva tra i vv. 1-2 e i vv. 28-30. Prescindendo dalle tematiche articolate nello svilppo intermedio, si può stabilire, nel cap. 10, un cammino progressivo dal recinto delle pecore dove entra il pastore (vv. 1-2) fino al Padre (vv. 28-30), dove egli conduce. Direttamente le pecore, uscite dal loro recinto, pervengono alle mani di Gesù, ma, essendo Gesù e il Padre una cosa sola, giungendo alle mani di Gesù, automaticamente giungono nelle mani del Padre. Questa è la meta ultima e definitiva. Emerge per le pecore, nel cap. 10, un cammino analogo a quello di Gesù, da questo mondo al Padre171. Infine la tensione dei discepoli verso il Padre è riscontrabile anche nel cap. 17, dove troviamo diversi elementi che possono richiamare elementi di 13,1-5, specificamente del v. 1172. Essi sono: anzitutto la prospettiva

Possiamo notare anche la relazione tra taè i"dia proébata (10,3), taè i"dia paénta (10,4), taè proébata i"dia (10,12) e i touèv i\dòouv touèn e\n t§% koésm§ (13,1). Possiamo così delineare un 171

quadruplice cammino: del pastore, di Gesù, delle pecore, dei discepoli: del pastore, di Gesù, delle pecore, dei discepoli dal recinto da questo mondo dal recinto nel mondo al Padre al Padre al Padre ei\v teélov.

172 Non proponiamo una analisi completa del cap. 17, ma ci limitiamo soltanto ad indicare gli elementi essenziali, utili al nostro scopo.

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dell’ora di Gesù in cui i due testi sono collocati173; inoltre gli uomini, presi dal mondo174, appartengono al Padre175 ed egli li ha dati a Gesù176; Gesù ha manifestato agli uomini, che egli gli ha dato, il nome del Padre177 e le sue parole178; inoltre quando era nel mondo egli le custodiva179 e ora prega non solo per essi ma anche per quelli che, per la loro parola, crederanno in lui180. Adesso però Gesù torna al Padre181 e i discepoli sono nel mondo; egli non chiede al Padre che li tolga dal mondo182, perché egli li ha mandati in esso183: chiede invece che li preservi dal maligno184, che li santifichi nella verità185; inoltre chiede che i discepoli permangano nell’unità186 e che siano anch’essi dove egli è, perché vedano la sua gloria187. 173 In 13,1 l’ora di Gesù è quella di passare da questo mondo al Padre; in 17,1 invece è quella della sua glorificazione. 174

Cfr. v. 6. ou£v e"dwkaév moi e\k tou% koésmou (che hai dato a me dal mondo)

Cfr. l’espressione del v. 6: soì h/san ka\moì au\touèv e"dwkav, (tuoi erano e a me li hai dati); v. 9 o$ti soò ei\sin; v. 10: kaì taè e\maè paénta saé e\stin. 175

176 Cfr. diverse espressioni da cui emerge la prospettiva del dono del Padre a Gesù; v. 3: i$na pa%n o| deédwkav au\t§%; v. 6: to_v a\nqrwépoiv ou£v e"dwkaév moi; v. 7: paénta o$sa deédwkaév moi; v. 11: §/ deédwkaév moi; v. 12: §/ deédwkaév moi. 177 178

Cfr. v. 6: e\faneérasaé sou toè o"noma; v. 26: kaì e\gnwérisa au\to_v toè o"nomaé sou.

Cfr. v. 6: taè r|hémata a£ e"dwkaév moi deédwka au\to_v; v. 14: e\gwè deéédwka au\to_v toèn

loégon sou 179 180

Cfr. v. 12: o$te h"mhn met’au\tw%n e\gwè e\théroun au\touév […] kaì e\fuélaxa.

Cfr. ou\ perì touétwn de e\rwtw% moénon, a\llaè kaì perì tw%n pisteuwéntwn diaè tou% loégou au\

tw%n ei\v e\meé. 181 182 183 184

Cfr. v. 13: nu%n deè proèv seè e"rcomai.

Cfr. v. 13: ou\k e\rwtw% i$na a"r+ au\touèv e\k tou% koésmou.

Cfr. v. 18: kaqwèv e\meè a\peésteilav ei\v toèn koésmon ka\gwè a\peésteila au\touèv ei\v toèn koésmon. Cfr. v. 15: ou\k e\rwtw% i$na a"r+ au\touèv e\k tou% koésmou, a\ll’ i$na thrhés+v au\touèv e\k tou%

ponhrou%. 185

Cfr. v. 17 a\gòason au\touèv e\n t+% a\lhqeòç: o| loégov o| soèv a\lhéqeiaé e\stin.

Cfr. v. 21: i$na paéntev e£n w&sin kaqwèv sué paéter, e\n e\moì ka\gwè e\n soò, i$na kaì au\toì e\n h|m_n w&sin i$na o| koésmov pisteué+ o$ti sué me a\peésteilav; Cfr. 23: i$na w&sin teteleiwmeénoi ei\v e$n. 186

187

Cfr. 24: i$na o$pou ei\mì e\gwè ka\ke_noi w&sin met’e\mou%, i$na qewrw%sin th%n doéxan thèn e\mhé,

h£n deédwkaév moi.

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I discepoli appartengono al Padre ed egli li ha dati a Gesù. Si direbbe che adesso egli, in procinto di lasciare il mondo, li riconsegna al Padre, affidandoli a lui, perché egli li custodisca nel mondo, nell’attesa di essere anche loro dove lui è. La tensione dei discepoli verso il Padre si attua nell’affidamento a lui da parte di Gesù, dovendo essi ancora restare nel mondo, al quale non appartengono, ma nel quale debbono compiere una missione. Quando i discepoli saranno dove Gesù è, condividendo la stessa gloria di Gesù, allora l’opera d’amore, che ha origine dal Padre e che è anteriore alla stessa fondazione del mondo, sarà completa. Emerge anche nel cap. 17 la stessa prospettiva che abbiamo già trovato in altri testi: Gesù deve orientare e condurre al Padre quelli che egli gli ha dato. Questa prospettiva già appare nei primi versi: secondo il v. 2 Gesù deve dare (dwés+) loro (au\to_v) la vita eterna (zwhèn ai\wné ion). Nel v. 3 però la vita eterna è definita; essa consiste nel «conoscere te (i$na ginwéskwsin seé) […] e colui che hai mandato Gesù Cristo». Gesù ha ricevuto dal Padre i discepoli che egli ha amato (v. 23) ma che sono nel mondo. Egli li ha sottratti al mondo, li ha radunati in unità, li ha orientati di nuovo al Padre ed ha aperto loro la strada per essere anch’essi dove lui, Gesù, è, cioè presso il Padre. Essi però ancora debbono restare nel mondo, perché in esso hanno una missione, condurlo, mediante la loro unità, alla conoscenza (v. 23) e alla fede (v. 21) che il Padre ha mandato lui. Il maligno farà di tutto per vanificare la loro opera, cercando di spezzare la loro unità. Gesù però li affida al Padre, al quale essi appartengono, perché egli li custodisca e li preservi dal maligno, nell’attesa di poter essere anche loro dove egli è (v. 24), cioè presso il Padre (v. 11). 4. Conclusione Ci riferiamo, in queste conclusioni, a tre aspetti: l’orientamento dei discepoli (ei\v teélov), l’opera di Gesù in ei\v teélov h\gaéphsen, ancora l’opera di Gesù in a\gaphésav.

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4.1. L’orientamento dei discepoli (ei\v teélov) I testi che abbiamo considerato permettono di concludere che tutta la tensione dei discepoli è verso il Padre, al quale sono stati orientati dall’opera di Gesù. Si direbbe che questa è il primo e fondamentale scopo della missione di Gesù nel mondo: orientare e condurre al Padre i discepoli che egli, il Padre, ha amato ed ha donato a lui. In questa prospettiva abbiamo tentato di rileggere l’espressione di Gesù, in 13,1, riferita ai discepoli: ei\v teélov h\gaéphsen au\touév (a compimento li amò), li amò cioè di un amore tale che permise loro di pervenire al loro termine, cioè al Padre. Tale conclusione concorda con il contesto immediato: Gesù infatti compì quest’opera di amore nella coscienza (ei\dwév) che, per lui, era giunta l’ora (o$ti h&lqen au\tou% h| w$ra) di passare da questo mondo al Padre. Nel v. 3 poi l’evangelista, pur con linguaggio ancora un pò oscuro, manifesta un’altra, duplice, coscienza di Gesù, che il Padre gli ha dato tutto nelle mani e che da Dio è uscito e a Dio va. Questa interpretazione dell’ei\v teélov h\gaéphsen non esclude tuttavia altre interpretazioni, specificamente quelle cronologica ed intensiva, non però in maniera alternativa bensì complementare. Quella cronologica si comprende bene: siamo nell’ora di Gesù di passare da questo mondo al Padre; si tratta perciò del termine della sua vita terrena. Quella intensiva è pure comprensibile: dopo avere amato i discepoli per tutta la sua vita, Gesù adesso compie la sua suprema opera di amore. Entrambi gli aspetti concordano con il testo di 19,28.30, dove, per ben due volte, l’evangelista introduce il verbo teteélestai, che precede l’effusione dello Spirito. Rimane allora un duplice problema: in che modo, prima della festa di pasqua, Gesù amò i discepoli ei\v teélov? a quale momento si riferisce il participio aoristo a\gaphésav? 4.2. L’opera di Gesù (ei\v teélov h\gaéphsen) Quanto all’ei\v teélov h\gaéphsen, il suo contenuto simbolicamente è descritto nelle azioni dei versi seguenti (vv. 4-5), dove abbiamo distinto tra quelle espresse con dei verbi al presente (e\ge_retai – tòqhsin – baéllei

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u$dwr) e quelle indicate con dei verbi all’aoristo (dieézwsen – h"rxato nòptein […] kaì e\kmaéssein). La prima serie di azioni, quelle indicate al presente,

richiamano le opere di Gesù in assoluto e rimandano, specificamente la seconda e la terza, alla sua morte e alla conseguente fuoruscita di sangue ed acqua, che richiama, quest’ultima, a sua volta, il dono dello Spirito; la prima rimanda all’inizio del cammino della passione dal Getsemani o anche dalla cena: ciò concorda con i vangeli sinottici secondo i quali, in ultima analisi, il cammino della passione inizia appunto dalla cena. Siamo così rimandati, per queste azioni, alla narrazione della passione, specificamente agli eventi al Calvario e, in particolare, alla quinta scena (19,31-37), in riferimento anche alla quarta per la relazione “acqua- Spirito”. Le azioni espresse con il verbo all’aoristo hanno invece un carattere relativo; la prima (dieézwsen) è Gesù centripeta: Gesù relaziona a sé il leéntion che prese (labwén) e di cui si cinse (dieézwsen); la seconda (h"rxato) comprende due aspetti, lavare ed asciugare. L’azione di lavare (nòptein) è Gesù centrifuga: Gesù relaziona se stesso ai piedi dei discepoli che lava […]; l’azione di asciugare (kaì e\kmaéssein) invece è centripeta: Gesù relaziona i piedi dei discepoli al leéntion e, indirettamente, a se stesso. Sono pure relazionate le due immagini del leéntion e del nipth%r. La prima immagine, il leéntion, presenta un dinamismo centripeto: Gesù lo relaziona a se stesso e ad esso relaziona i discepoli. La seconda immagine, il nipth%r, è caratterizzato invece da un dinamismo centrifugo: in esso Gesù versa acqua. Particolari elementi hanno indotto, a riguardo del leéntion e del nipth%r, a riferirci ancora alla narrazione della passione, specificamente agli eventi al Calvario. Il termine i|maétia rimanda infatti a 19,23-24, dove è stabilita una relazione con il termine citw%n. Analoga relazione è stabilita anche in 13,25, tra il termine i|maétia e il termine leéntion. Ciò ha permesso di accostare il termine leéntion al termine citw%n. Abbiamo pure stabilito, in 19,24, una relazione tra il termine citw%n e la descrizione delle donne presso la croce (v. 25): abbiamo concluso che proprio quella comunità di donne è la tunica che appartiene a Gesù: Gesù poi, nell’immagine del leéntion, la prende e di essa si cinge. La relazione tra le i|maétia, il leéntion, il citw%n e le donne presso la croce, ha indotto a ricercare ancora nel contesto degli eventi al Calvario il senso

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del nipth%r dove Gesù versa acqua. Particolari elementi hanno suggerito che il luogo dove Gesù effonde lo Spirito (19,30) sia ancora quella comunità di donne presso la croce, descritta in 19,25. Questa comunità di donne, in relazione a 19,23-24, può essere definita come la tunica che appartiene a Gesù, che egli prende e se ne riveste; in relazione a 19,28-30, poi è l’ambito dove Gesù riversa lo Spirito, appunto il nipth%r di 13,4. Tutto ciò induce a concludere che, dietro le immagini del leéntion e del nipth%r si nasconde ancora quella comunità ecclesiale che, in 19,23-30, è la tunica di cui Gesù si riveste, come il leéntion, ed è anche l’ambito, come il nipth%r, dove Gesù versa l’acqua dello Spirito. Restano infine le due azioni di lavare (nòptein) i piedi dei discepoli e di asciugarli (e\kmaéssein) con l’asciugatoio, il leéntion, di cui Gesù era cinto. Quanto alla prima azione, non abbiamo escluso l’aspetto del servizio, ma non abbiamo nemmeno escluso, anzi abbiamo ancora più evidenziato, l’aspetto dell’accoglienza da parte del padrone di casa. Riferendoci ad Ez 36, abbiamo inoltre evidenziato l’aspetto dellla purificazione e del cammino. Abbiamo stabilito un confronto con i testi di 13,34 e di 15,13, e abbiamo pure osservato che i piedi sono l’organo del cammino. Abbiamo così concluso che nell’azione di Gesù di lavare i piedi, oltre la purificazione, si riassumono due aspetti, quello dell’amore di Gesù che, mediante lo Spirito, raggiunge i discepoli e quello dell’amore di Gesù che, raggiunti i discepoli, li abilita e li rende capadi di camminare nella via dell’amore. Più difficile è ancora da spiegare l’azione di Gesù di asciugare i piedi dei discepoli. Abbiamo evidenziato in questa immagine l’aspetto dell’accoglienza: Gesù che accoglie i discepoli nel leéntion e il leéntion che cinge, ed accoglie, Gesù. Per spiegare questa azione, ci siamo riferiti, ancora una volta, al testo di Gv 19,25-27, dove Gesù affida alla madre il discepolo come figlio. La madre però è ai piedi della croce di Gesù: attraverso la madre il discepolo raggiunge Gesù. Si stabilisce così una analogia tra la madre e il leéntion: la madre costituisce un intermediario tra il discepolo e Gesù; analogamente il leéntion costituisce un intermediario tra i discepoli e Gesù. Come il discepolo in 19,25-27 raggiunge Gesù attraverso la madre, così in 13,5 i discepoli raggiungono Gesù attraverso il leéntion. Abbiamo indicato l’indole ecclesiale del leéntion: ciò significa che i discepoli raggiungono Gesù nella chiesa e attraverso la chiesa.

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Mentre nell’azione di lavare i piedi è indicata la capacità dei discepoli di compiere un cammino, nell’azione di asciugare i piedi è adombrato invece il termine a cui pervengono i discepoli: essi giungono a Gesù, ma non direttamente, bensi attraverso la mediazione della chiesa, appunto il leéntion, nella quale e dalla quale essi sono accolti. Il vero termine del cammino dei discepoli, come già abbiamo sopra indicato, però non è nemmeno Gesù: egli è ancora un intermediario tra i discepoli e il Padre. Gesù è nel Padre: raggiungendo Gesù, i discepoli raggiungono il Padre. Questi perciò è l’ultimo termine del cammino dei discepoli, al quale sono stati orientati da Gesù. È lo stesso termine del cammino di Gesù; egli e i discepoli hanno lo stesso termine: il Padre, dal quale entrambi sono stati amati (17,23). Si compiono così le parole di Gesù: «perché dove sono io anche voi siate (14,3)». Possiamo allora riassumere nel seguente modo. L’ei\v teélov h\gaéphsen, con cui Gesù ha amato i discepoli, è un amore che permette ai discepoli di pervenire al termine del loro cammino. Esso si articola nei seguenti gradi: 1. Gesù intraprende il suo cammino di passione (e\geòretai e\k tou% deòpnou), 2. Dona la sua vita (muore) (tòqhsin taè i|maétia), 3. Dona lo Spirito (baéllei u$dwr), 4. Raduna la comunità ecclesiale e di essa si riveste (labwèn leéntion dieézwsen e|autoén), 5. In essa versa l’acqua che è lo Spirito (baéllei u$dwr ei\v toèn nipth%ra), 6. Con essa lava i piedi dei discepoli, li purifica cioè, mediante il suo Spirito li raggiunge con il suo amore e li abilita a compiere un cammino nella via dell’amore (forse il battesimo?). 7. L’azione di asciugare con il leéntion indica simbolicamente il termine del cammino dei discepoli: essi sono accolti nella comunità ecclesiale; in essa però c’è Gesù e, attraverso di essa (il leéntion di cui Gesù è cinto), raggiungono Gesù. 8. Gesù però non è l’ultimo termine del cammino. L’espressione ei\v teélov h\gaéphsen, nel v. 1, come anche la menzione nel v. 3 della coscienza di Gesù che da Dio uscì e a Dio va, e anche, infine, il contesto di tutto il vangelo, suggeriscono che l’ultimo stadio del cammino dei discepoli sia il Padre, al quale, grazie a Gesù, essi pervengono.

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L’amore di Gesù portato a compimento (ei\v teélov h\gaéphsen) perciò è quell’opera che gli ha permesso di orientare e condurre i discepoli in un cammino, analogo a quello suo, che parte da “questo mondo” e li conduce al Padre. Questo cammino, che si compie sulla via dell’amore vicendevole, conduce alla chiesa, nella quale c’è Gesù. Si giunge così a Gesù, ma non si ferma a lui: esso culmina nel Padre. Emergono così due mediazioni, quella della comunità ecclesiale tra i discepoli e Gesù e quella di Gesù tra i discepoli e il Padre. A Gesù si arriva attraverso la comunità ecclesiale, ma al Padre si arriva attraverso Gesù. 4.3. L’opera di Gesù (a\gaphésav) L’evangelista però, nell’azione di Gesù di amare, sembra distinguere, nell’espressione del v. 1, a\gaphésav […] ei\v teélov h\gaéphsen, due momenti. Il participio aoristo a\gaphésav sembra indicare un momento anteriore all’ ei\v teélov h\gaéphsen. Emerge così una domanda: come Gesù ha amato prima dell’ei\v teélov h\gaéphsen? Forse la risposta a questa domanda potrà essere suggerita dall’espressione del v. 3, paénta e"dwken au\t§% o| pathér ei\v taèv ce_rav, in cui è espressa la coscienza di Gesù che il Padre gli ha dato tutto nelle mani. Questa espressione ci rimanda alla preghiera di Gesù del cap. 17, nel quale probabilmente possiamo trovare la risposta alla nostra domanda. Il Padre ha dato tutto nelle mani di Gesù: gli ha dato potere su ogni carne, perché a quelli che gli ha dato, dia la vita eterna (17,3). L’azione di amare di Gesù però sembra avere due momenti, che possono corrispondere alla vita pubblica (a\gaphésav) e al dono supremo della sua vita (ei\v teélov h\gaéphsen). Nella vita pubblica Gesù amò i discepoli manifestando loro il nome del Padre (17,6), dando loro le parole che il Padre gli ha dato (17,8), custodendoli (17,11.12), dando loro la sua parola (17,14), dando loro la gloria che il Padre gli ha dato (17,22), rendendo noto a loro il nome del Padre (17,26). Dopo avere compiuto queste azioni, nella vita terrena, che si possono riassumere e compendiare nel participio a\gaphésav, adesso, nella croce, Gesù porta a compimento l’opera di amore, abilitando i discepoli a raggiungere il Padre (ei\v teélov h\gaéphsen).

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L’a\gaéph E LA e\ntolhé NEL VANGELO DI GIOVANNI

Nel vangelo di Giovanni troviamo una stretta relazione tra l’a\gaéph e la e\ntolhé nei suoi vari aspetti. Riteniamo importante allora, per quanto è possibile, illuminare questa relazione. 1. La e\ntolhé nel vangelo di Giovanni La e\ntolhé nel quarto vangelo è indicata sia appunto con il sostantivo e\ntolhé sia anche con il verbo e\nteéllomai. 1.1. Il sostantivo e\ntolhé Il sostantivo e\ntolhé si legge, nel quarto vangelo, 11 volte, con una certa sproporzione però tra le due parti: nella prima (capp. 1-12) si legge quattro volte, in Gv 10,18; 11,57; 12,49.50; nella seconda parte (capp. 13-21) si legge invece sette volte, in 13,34; 14,15.21.31; 15,10.10.12. 1.1.1. I testi della prima parte Nei quattro testi della prima parte (Gv 10,18; 11,57; 12,49.50) possiamo scorgere uno schema alternato: Gv 10,18: tauéthn thèn e\ntolhèn e"labon paraè tou% patroév mou

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Gv 11,57: Gv 12,49:

Attilio Gangemi dedwékeisan deè oi| a\rciere_v kaì oi| farisa_oi e\ntolaèv i$na e\an é tiv gn§% pou% e\stin mhnués+, o$pwv piaéswsin au\toén o| peémyav me pathèr au\toév moi e\ntolhèn deédwken tò ei"pw kaì tò lalhésw kaì oùda o$ti h| e\ntolhè au\tou% zwhè ai\wn é ioév e\stin.

Gv 12,50: Il primo (10,18) e il terzo (12,49) testo si riferiscono al comandamento che riguarda Gesù. Il testo di 10,18 evoca il comando che Gesù ha ricevuto (e"labon) dal Padre; esso ha un contenuto preciso, quello cioè di “dare la vita per poi riprenderla di nuovo (v. 18)”. Il testo di 12,49 evoca ancora il comandamento che il Padre ha dato (deédwken) a Gesù; esso invece ha un contenuto più generico, cosa cioè dire (tò ei"pw) o di che cosa parlare (tò lalhésw). Tuttavia in questo testo i due verbi, ei"pw e lalhésw, concordano nel fatto che si tratta della sua attività di parlare. Troviamo così due oggetti nel comando dato dal Padre a Gesù: la maniera di come parlare o cosa dire (tò) (12,49) e il dono della propria vita per poi riprenderla di nuovo (10,18). Tra i due testi di 10,18 e 12,49 possiamo scorgere una struttura concentrica ed anche una complementarietà tematica: Gv 10,18: 1. dar la vita per riprenderla poi di nuovo; 2. tauéthn thèn e\ntolhèn e"labon paraè tou% patroév mou Gv 12,49: 3. o| peémyav me pathèr au\toév moi e\ntolhèn deédwken 4. tò ei"pw kaì tò lalhésw. Nel secondo e terzo elemento è menzionata la e\ntolhé, nel primo e quarto elemento è indicato il contenuto della e\ntolhé, rispettivamente dar la

vita per prenderla di nuovo (I) e cosa dire e di che cosa parlare (IV). I due elementi centrali, rispettivamente il testo di 10,18b e quello di 12,49a, a loro volta, si relazionano in maniera concentrica, come appare dal seguente schema: 10,18b: tauéthn thèn e\ntolhèn e"labon

Gv 12,49a:

paraè tou% patroév mou o| peémyav me pathèr au\toév moi e\ntolhèn deédwken

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L’a\gaéph e la e\ntolhé nel vangelo di Giovanni

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Nelle espressioni centrali è menzionato il Padre; in quelle esterne invece è menzionata la e\ntolhé. La relazione, per la menzione del Padre e il termine e\ntolhé, tra i due testi è evidente. Benché il testo di 12,49, dal punto di vista della posizione nello sviluppo evangelico, segua a quello di 10,18, dal punto di vista tematico invece sembra precedere. Ciò specificamente per due motivi: anzitutto il verbo e"labon di 10,18b segue tematicamente meglio al verbo deédwken di 12,49a: si riceve (e"labon) quello che altri ha dato (deédwken); inoltre il contenuto della e\ntolhé in 12,49 si riferisce all’attività di parlare e può facilmente richiamare la vita e l’attività pubblica di Gesù, il contenuto della e\ntolhé in 10,18 invece chiaramente richiama il dono della vita da parte di Gesù ovviamente nella passione, a cui segue la resurrezione. Gli altri due testi, il secondo (11,57) e il quarto (12,50), contrappongono due comandi, quelli (e\ntolaév) dati (dedwékeisan) dai sacerdoti e dai farisei (oi| a\rciere_v kaì oi| farisa_oi) e quello dato dal Padre. Di quest’ultimo, già indicato nel verso precedente, si indica anche l’indole: è vita eterna. I comandi, evidentemente ripetuti1, che i sacerdoti e i farisei avevano dato a tutti coloro che conoscevano (i$na e\ané tiv gn§%) dove fosse Gesù, era di indicarlo (mhnués+), per poterlo poi essi catturarlo (o$pwv piaéswsin au\toén), evidentemente allo scopo di poterlo poi mettere a morte. L’indole del comandamento del Padre invece, da Gesù ben noto e conosciuto (oùda) è quello di essere, in se stesso (e\stòn), vita eterna (zwhè ai\wné ioév e\stin). Entrambi i comandamenti, quelli dei sacerdoti e dei farisei e quello del Padre, riguardano Gesù, ma appare bene la loro contrapposizione e si rivelano antitetici. Il comando del Padre è definito “vita eterna”: la sua osservanza perciò conduce alla vita, anche se, come appare da 10,17-18, immediatamente esso chiede a Gesù di donare la sua vita. Ciò significa che, dando la sua vita, Gesù si apre e perviene alla vita eterna. I comandi dei sacerdoti e dei farisei, che riguardano l’indicazione del luogo dove è Gesù, sono dati invece per potere poi essi infliggere la morte. Emerge così tra i due comandamenti una duplice antitesi: entrambi riguardano la morte di Gesù. I sacerdoti e i farisei mirano loro ad infliggere la morte, quello del Padre invece chiede a Gesù di dare lui la sua vita. Inol1 Come suggerisce il plurale, i comandi dati dai sacerdoti e dai farisei debbono essere stati ripetuti oppure rivolti a diverse persone.

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tre la morte inflitta dai sacerdoti e farisei mira ad eliminare Gesù, quello del Padre è aperto verso la vita eterna: Gesù non solo vivrà lui, ma sarà anche per altri fonte di vita eterna (Cfr. 3,14-16; 6,38-40). 1.1.2. I testi della seconda parte Nella seconda parte del vangelo (capp. 13-21) il termine e\ntolhé si legge sei volte o sette, se si include anche il testo di 14,31 (13,34; 14,15.21.[31]; 15,10.10.12)2. Nel contesto di 14,15-23, il termine e\ntolhé è ripetuto due volte, al plurale (e\ntolaév) specificamente nei vv. 15 e 21, paralleli e complementari, nei quali Gesù afferma che l’amore verso di lui si concretizza nell’osservanza dei suoi comandamenti. Pure nel contesto di 15,9-10 il termine e\ntolhé è ripetuto due volte, entrambe nel v. 10, riferito ai comandamenti di Gesù in relazione ai discepoli (v. 10a) e ai comandamenti del Padre in relazione a Gesù (v. 10b); se i discepoli osserveranno i comandamenti di Gesù rimarranno nel suo amore, come Gesù ha osservato i comandamenti del Padre e rimane nel suo amore. I due testi di 14,15.21 e di 15,10 concordano nel fatto che, in ciascuno, il termine e\ntolhé è ripetuto due volte; differiscono però nella relazione. I due usi di in 14,15.21 caratterizzano entrambi la relazione di amore dei discepoli a Gesù, quelli di 15,10 caratterizzano, rispettivamente, il rapporto dei discepoli a Gesù e di Gesù al Padre. Nel seguente v. 12 Gesù definisce (au$th e\stòn) il suo comandamento di amarsi a vicenda, che aveva promulgato in 13,34 (dòdwmi). Possiamo proporre il seguente schema, in certo modo concentrico: 1. Gv 13,34: e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n i$na a\gapa%te a\llhélouv 2 In 14,31 si pone infatti un problema di critica testuale: il P75 come sembra, seguito però dal codice Vaticano, dal codice maiuscolo L, dai minuscoli 0250 e 33, da altri codici, dalla versione latina e dalla versione protoboahirica, leggono e\ntolhèn e"dwken: il cod 33 legge il verbo al perfetto (deédwken); la lettura e\neteòlato invece, accettata anche da diverse edizioni critiche, è proposta dai codici Sinaitico, Alessandrino, dai maiuscoli Q e Y, dai codici recensiti da Ferrar, da diversi altri codici della recensione Koiné, dalle versioni siriache Peshitto e Sinaitica, dalla versione Bohairica. In entrambe le letture però il senso rimane identico.

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2. Gv 14,15:

e\an è a\gapa%teé me, taèv e\ntolaèv taèv e\maèv thrhésete […] Gv 14,21: o| e"cwn taèv e\ntolaév mou kaì thrw%n au\taé, e\ke_noév e\stin o| a\gapw%n me. 3. Gv 15,10.10: e\an è taèv e\ntolaév mou thrhéshte, mene_te e\n t+% a\gaép+ mou, kaqwèv e\gwè tou% patroév mou taèv e\ntolaèv tethérhka kaì meénw au\tou% e\n t+% a\gaép+ 4. Gv 15,12: au$th e\stìn h| e\ntolhè h| e\mhé, i$na a\gapa%te a\llhélouv.

Nel primo (13,34) e quarto (15,12) testo è proposto il comandamento dell’amore vicendevole; tra il secondo (14,15-24) e il terzo (15,10) emerge invece un progresso: chi ama Gesù deve osservare i suoi comandamenti, ma chi li osserva, rimane nel suo amore. 1.2. Il verbo e\nteéllomai Il verbo e\nteéllomai nel vangelo di Giovanni invece è meno frequente: nell’attuale vangelo si legge solo quattro volte, un 8,5; 14,31; 15,14-17. Il testo di 8,5 si trova nella prima parte, ma da esso prescindiamo perché si legge nel contesto di 8,1-11, l’episodio della donna adultera, sulla cui autenticità giovannea si discute; in ogni caso esso è riferito alla legge di Mosè, che comandò (e\neteòlato)3 di lapidare donne adultere colte sul fatto. Possiamo pure prescindere da 14,31, testo per altri aspetti molto importante; come abbiamo già sopra indicato, esso pone un problema di critica testuale, se bisogna leggere cioè e\neteòlato, come suggeriscono alcuni codici o e\ntolhèn e"dwken come indicano altri. Gli altri due usi si leggono entrambi nel contesto di 15,12-17, entrambi alla prima persona singolare, specificamente nel v. 14, dove Gesù dichiara ai discepoli: «voi sarete miei amici se fate ciò che vi comando (e\nteéllomai u|m_n)», e nel v. 17, dove Gesù ribadisce il suo comando: «questo vi comando (e\nteéllomai u|m_n) che vi amiate a vicenda». Tra il v. 14 e il v. 17 si può individuare una seconda parte nel contesto dei vv. 12-17, delimitata ed inclusa appunto dal verbo e\nteéllomai. 3

Cfr. Lev 20,10; Dt 22,22-24.

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2. La relazione tra la entolhé e la terminologia dell’amore In questo paragrafo tentiamo si stabilire, limitatamente al vangelo di Giovanni, una relazione tra la e\ntolhé e la terminologia dell’amore, indicata, quest’ultima, sia con il verbo a\gapaéw che con il verbo fileéw, sia anche con il sostantivo a\gaéph che con il sostantivo fòlov. 2.1. La terminologia dell’amore Come abbiamo già indicato in un altro studio, gli usi del verbo a\gapaéw, nel vangelo di Giovanni, prevalgono numericamente rispetto agli usi del sostantivo a\gaéph. Quest’ultimo si legge, in tutto il vangelo, solo sette volte, di cui una volta nei capp. 1-124 e sei volte nei capp. 13-215; il verbo a\gapaéw invece è usato 36 volte, di cui sette6 nei capp. 1-12 e 297 nei capp. 13-21. Accanto al verbo a\gapaéw e al sostantivo a\gaéph, il quarto evangelista usa, diversamente dal resto del NT, dove è molto più raro, anche il verbo fileéw8 e il sostantivo fòlov. Quest’ultimo è usato complessivamente sei volte, di cui due9 nei capp. 1-12 e quattro10 nei capp. 13-21. Il verbo fileéw si legge poi complessivamente 13 volte, di cui quattro11 nei capp. 1-12 e nove12 nei capp. 13-21.

4 5 6

Cfr. 5,42.

Cfr. 13,35; 15,9.10.10.13; 17,26.

Cfr. 3,16.19.35; 8,42; 10,17; 11,5; 12,43.

Cfr. 13,1.1.23.34.34.34; 14,15.21.21.21.21.23.23.24.28.31; 17,23.23.24.26; 19,26; 21,7.15.16.20. 7

15,9.9.12.12.17;

In tutto il resto del NT il verbo fileéw si legge soltanto 12 volte contro i 13 usi del solo vangelo di Giovanni. 8

9 10 11 12

Cfr. 3,29; 11,11.

Cfr. 15,13.14.15; 19,12.

Cfr. 5,20; 11,3.36; 12,25.

Cfr. 15,19; 16,27.27; 20,2; 21,15.16.17.17.17.

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2.2. I testi con relazione all’e\ntolhé Non interessa in questo studio proporre una trattazione completa sulla a\gaéph nel vangelo di Giovanni, ma soltanto illuminare la relazione tra essa e la e\ntolhé. Per questo non consideriamo tutti i testi dell’ a\gaéph, ma solo quelli in cui tale relazione appare chiara. Specificamente ci riferiamo, nei capp. 1-12, soltanto al testo di 10,17-18: nei capp. 13-21 invece ci riferiamo ai seguenti testi: 13,34; 14,21-24.31; 15,9-10; 15,12-1713. 2.2.1. Il testo di 10,17 Leggiamo in 10,17-18 il seguente testo:

Diaè tou%toé me o| pathèr a\gapç% o$ti e\gwè tòqhmi thèn yuéchén mou, i$na paélin laébw au\thén ou\deìv ai"rei au\thèn a\p’e\mou%, a\ll’e\gwè tòqhmi au\thèn a\p’e\mautou% e\xousòan e"cw qe_nai au\thén, kaì e\xousòan e"cw paélin labe_n au\thén: tauéthn thèn e\ntolhèn e"labon paraè tou% patroév mou.

La struttura di tutto questo brano è chiaramente concentrica. La seconda espressione è relazionata alla quarta14, come pure è relazionata la prima alla quinta. Al nostro scopo interessa specificamente quest’ultima. Al centro 13 In relazione alla specifica peculiarità dei due verbi a\gapaéw e fileéw, come amore di dono (a\gapaéw) e amore di accoglienza (fileéw), seguiamo un nostro studio anteriore, cfr. A. Gangemi, Il senso di a\gapaéw e fileéw nei LXX, e nel vangelo di Giovanni», in «Synaxis» XVI (1998) 7-114. 113-114.

Possiamo stabilire tra le due espressioni il seguente confronto: II IV 14

o$ti e\gwè e\xousòan e"cw tòqhmi qe_nai thèn yuéchén mou, au\thén, i$na kaì e\xousòan e"cw paélin paélin laébw labe_n au\thén au\thén:

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leggiamo l’espressione: ou\deìv ai"rei au\thèn a\p’e\mou%, a\ll’e\gwè tòqhmi au\thèn a\p’e\mautou% (nessuno la toglie da me, ma io la pongo da me stesso)15, Possiamo stabilire tra la prima e la quinta espressione la seguente relazione insieme alternata e concentrica:

Diaè tou%toé me o| pathèr a\gapç% tauéthn thèn e\ntolhèn e"labon paraè tou% patroév mou. Stanno in relazione i due verbi a\gapç% e e"labon, con lo stesso soggetto, rispettivamente, sintattico (o| pathér) e logico (paraè tou% patroév). Gesù è, rispettivamente oggetto sintattico, nella prima frase (me) e soggetto sintattico nella seconda frase (e"labon). L’azione del Padre è quella di amare (a\gapç%); quella di Gesù è accogliere il comando (tauéthn thèn e\ntolhèn e"labon). Troviamo però, tra i due

verbi, una differenza molto importante: l’azione del Padre è espressa all’indicativo presente (a\gapç%), quella di Gesù invece all’aoristo (e"labon). Si comprende bene che il secondo verbo, e"labon, precede il primo, a\gapç%: Gesù ha ricevuto un comando dal Padre e, di conseguenza, il Padre lo ama, ovviamente per il fatto che Gesù non solo ha ricevuto ed accolto il comando del Padre, ma soprattutto perché lo ha anche osservato. Altri elementi confermano tale lettura. Anzitutto l’espressione diaè tou%to che introduce il motivo, indicato a sua volta, subito dopo, mediante la particella causale o$ti, per cui il Padre ama Gesù: egli lo ama perché pone la sua vita per prenderla poi di nuovo. Inoltre il fatto poi di porre la vita per riprenderla di nuovo, è sviluppato subito dopo: nessuno toglie la vita a Gesù, ma lui la pone da se stesso ed ha il potere di porla e di riprenderla. 15 Possiamo cogliere, in questa espressione, due parti concentriche: ou\deìv a\ll’e\gwè

ai"rei tòqhmi au\thèn au\thèn a\p’e\mou%, a\p’e\mautou%

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Tale potere, ovviamente, scaturisce dal fatto che egli ha ricevuto tale comando (tauéthn thèn e\ntolhén) dal Padre. Possiamo allora rileggere, in maniera ascendente, il testo di 10,17-18, nei seguenti punti: 1. Gesù ha ricevuto dal Padre il comando (tauéthn thèn e\ntolhèn e"labon) di porre la vita per poi riprenderla di nuovo; 2. Dal comando del Padre scaturisce per Gesù il potere (e\xousòan) di porre (qe_nai) la vita e il potere (e\xousòan) di prenderla di nuovo (paélin labe_n); 3. Gesù pone (tòqhmi) la vita per riprenderla di nuovo (i$na paélin laébw), dopo avere però precisato che nessuno gliela toglie (ou\deìv ai"rei au\thèn a\p’e\mou%) ma la pone da se stesso (a\ll’e\gwè tòqhmi au\thèn a\p’e\mautou); 4. Per questo il Padre lo ama (diaè tou%toé me o| pathèr a\gapç%). Lo sviluppo del testo, riletto all’inverso, indica che il Padre ama Gesù perché pone la vita per riprenderla poi di nuovo. Il Padre ama Gesù perché ha accolto (e"labon) il suo comando e, senza alcuna costrizione, lo osserva, ponendo la vita per poi riprenderla. In ultima analisi, il motivo per cui il Padre ama Gesù non è il fatto materiale di avere posto e ripreso la vita, bensì di avere accolto il suo comandamento ed averlo in pratica messo in atto. Possiamo allora concludere che l’amore del Padre verso il Figlio, nel testo di 10,17-18, è conseguente all’osservanza del suo comandamento. 2.2.2. Il testo di 13,34 Dopo avere risposto alla loro domanda che, dove egli va, essi non possono venire, Gesù continua proponendo ai discepoli il suo comandamento dell’amore vicendevole. Leggiamo in 13,34 un lungo periodo, articolato in quattro espressioni strutturate in maniera alternata. e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n i$na a\gapa%te a\llhélouv, kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v i$na kaì u|me_v a\gapa%te a\llhélouv.

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La prima e la terza espressione riguardano la duplice azione di Gesù, di dare (dòdwmi) un comandamento nuovo e di avere amato (h\gaéphsa) i discepoli; la seconda e la quarta espressione, quasi identiche, riguardano il contenuto del comando proposto da Gesù ai discepoli: l’amore vicendevole. Il testo di 13,34, almeno nelle prime tre espressioni, trova un parallelo in 15,12, dove leggiamo: au$th e\stìn h| e\ntolhè h| e\mhé, i$na a\gapa%te a\llhélouv, kaqwèv h\gaépha u|ma%v. Le due espressioni, dalla particella i$na al pronome u|ma%v, sono identiche nei due testi; variano invece nelle parole introduttive: 13,34: e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n; 15,12: au$th e\stìn h| e\ntolhè h| e\mhé. Queste due espressioni coincidono nell’uso del termine e\ntolhé; si diversificano invece nella prospettiva: in 13,34 Gesù promulga per i discepoli (dòdwmi u|m_n) il suo comandamento; in 15,12 invece egli lo definisce (au$th e\stòn), indicandone anche il contenuto, peraltro già proposto in 13,34. I due testi, 13,34 e 15,12, presentano non pochi problemi, riguardanti soprattutto il contesto dove sono inseriti. Il testo di 13,34 si legge nel contesto del secondo monologo di Gesù ai discepoli, nel contesto del cap. 13, dopo l’uscita di Giuda (13,31-35); il testo di 15,12 invece si trova all’inizio di una sezione più breve del cap. 15, contenuta nei vv. 12-17 e che più direttamente si ricollega ai precedenti vv. 9-11 e, risalendo, ai vv. 1-8. Al nostro scopo immediato però interessa soltanto la relazione tra la e\ntolhé e l’a\gaéph, nel suo duplice aspetto: dall’amore di Gesù (h\gaépha) al comandamento che scaturisce per i discepoli, da questo poi al suo contenuto: l’amore vicendevole (i$na a\gapa%te a\llhélouv,). Mediante la particella kaqwév, Gesù stabilisce una relazione e conforma l’azione di amore vicendevole a quella sua verso di loro: essi debbono amarsi come Gesù li ha amati. La stessa analogia può essere stabilita tra l’azione di Gesù verso i discepoli e quella del Padre verso di lui. Quest’ultima relazione appare in 15,9, dove Gesù dice: «come (kaqwév) amò me il Padre così anch’io (ka\gwé) voi amai»16. 16 La stessa analogia tra l’azione del Padre verso Gesù e quella di Gesù verso i discepoli appare anche in altri testi. In 17,18 leggiamo: «come (kaqwév) me hai inviato nel mondo, così anch’io (ka\gwé) inviai essi nel mondo»; poi, in 20,21: «come (kaqwév) il Padre ha inviato me, anch’io (ka\gwé) mando voi».

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In tutti questi testi l’azione reciproca dei discepoli e quella di Gesù verso di loro, trova la sua causa esemplare, rispettivamente in quella di Gesù verso di loro e in quella del Padre verso Gesù. L’amore vicendevole è modellato sull’azione di Gesù verso i discepoli, come anche l’amore di Gesù verso i discepoli è modellato su quello del Padre verso di lui17. L’azione di amore di Gesù verso i discepoli è espresso con una forma del verbo a\gapaéw all’aoristo (h\gaéphsa). Si pone il problema se esso debba essere inteso aoristo completivo, nel senso cioè che indica una azione già completa o chiusa, oppure come aoristo ingressivo, nel senso cioè che esso indica l’inizio di un processo che troverà poi un seguito. Il verbo a\gapaéw, all’aoristo si legge, nel vangelo di Giovanni, diverse volte. Possiamo indicare 13 usi: tre nella prima parte (capp. 1-12) e tre nella seconda parte (capp. 13-21). Il primo uso all’aoristo, nella prima parte, è in 3,16, dove, dialogando con Nicodemo, Gesù afferma che «così Dio amò (h\gaéphsen) il mondo (toèn koésmon) così da dare (w$ste […] e"dwken) il figlio Unigenito». In questo testo l’aoristo h\gaéphsen può avere, dal punto di vista dell’azione concreta di inviare il figlio, il valore completivo; può avere però meglio il valore ingressivo in quanto l’amore di Dio continua e si manifesta nell’opera del figlio nel mondo. Nei due testi di 3,19 e di 12,43 l’aoristo h\gaéphsen ha più chiaramente il valore completivo. In 3,19 si legge che gli uomini «amarono (h\gaéphsan) più la tenebra che la luce»; in 12,43 poi si legge che i capi dei giudei, non confessando pur avendo creduto, «amarono (h\gaéphsan) più la gloria degli uomini che la gloria di Dio». L’amore per la tenebra o per la propria gloria è un fatto definitivo e irreversibile. Nella seconda parte il verbo a\gapaéw, all’aoristo, si legge in 13,1; 13,34b; 15,9.9,12; c, riferito, come soggetto, al Padre (15,9; 17,23.23.24.26) e a Gesù (13,1; 13,34b; 15,9.12). Già i soggetti stessi suggeriscono per il verbo a\gapaéw il valore di un aoristo ingressivo: se infatti fosse completivo dovremmo concludere che l’amore del Padre e di Gesù stesso sarebbero un fatto chiuso e finito, relegato nel passato. In realtà l’amore del Padre verso Gesù e verso i discepoli, evocato, nella preghiera, da Gesù stesso in In 13,15, a riguardo della lavanda dei piedi, Gesù dichiara di avere dato ai discepoli un modello (u|poédeigmai), perché «come (kaqwév) io ho fatto a voi anche voi (kaò u|me_v) facciate». 17

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17,23.23.24.26, alla luce del testo di 15,9, si prolunga nell’amore di Gesù verso i discepoli. Leggiamo infatti in 15,9: «come amò (h\gaéphsen) me il Padre anch’io (ka\gwé) voi amai (h\gaéphsa)». Gesù fa dell’amore del Padre verso di lui l’inizio e la causa esemplare del suo amore verso i discepoli. Il verbo h\gaéphs[a]en, poi, che indica l’amore di Gesù verso i discepoli, usato in maniera assoluta sia in 15,9 che in 13,1 (ei\v teélov h\gaéphsen), ha il valore completivo in relazione ad una azione concreta storica, descritta in 13,1-5, nella quale si è manifestato tale amore. Esso però, alla luce di 13,34b e di 15,12, deve avere il valore di un aoristo ingressivo: dall’amore di Gesù infatti parte e in esso trova anche a sua causa esemplare l’amore reciproco dei discepoli. Possiamo allora concludere che anche l’aoristo h\gaéphsa, che, in 13,34b e in 15,12, descrive l’amore di Gesù verso i discepoli (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v), ha un valore ingressivo e costituisce il punto di partenza e la causa esemplare dell’amore reciproco (i$na a\gapa%te a\llhélouv) dei discepoli. Una lettura più attenta delle parole con cui Gesù propone, in 13,35, il suo comandamento ai discepoli, rivela che l’amore con cui egli li ha amati (h\gaéphsa), non è soltanto la causa esemplare del loro amore vicendevole, ma anche il fondamento da cui sgorga la e\ntolhé e il punto di partenza del loro cammino di amore. Tutta l’espressione e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n, i$na a\gapa%te a\llhélouv, kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v (un comandamento nuovo do a voi, che vi amiate a vicenda come amai), si articola infatti in tre brevi espressioni. La prima espressione costituisce la promulgazione della e\ntolhé, la seconda, introdotta mediante la particella i$na, descrive il contenuto della e\ntolhé, la terza, introdotta mediante la particella comparativa kaqwèv, costituisce il termine di paragone, il cui valore, in relazione alla e\ntolhé, tentiamo adesso di determinare. La relazione tra la prima espressione e la seconda è evidente: la seconda, come abbiamo già indicato, costituisce il contenuto della e\ntolhé. Rimane però il problema se la e\ntolhé è kainhé (nuova) per il suo contenuto oppure per la persona che la promulga (Gesù) e per il suo fondamento (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v). Tre elementi soprattutto permettono di stabilire una relazione tra le due espressioni e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n e kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v:

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anzitutto lo stesso soggetto (Gesù), lo stesso oggetto (u|m_n/u|ma%v), lo stesso sviluppo strutturale: il verbo seguito da un pronome personale. Tra le due espressioni c’è però una differenza: la terza espressione ha il verbo all’aoristo (h\gaéphsa), la prima invece ha il verbo al presente (dòdwmi). La prima espressione, la promulgazione (dòdwmi) cioè della e\ntolhè, si colloca perciò in un rapporto di successione rispetto all’evento dell’amore di Gesù (h\gaéphsa u|ma%v). Gli elementi di relazione e la differenza su indicati induce a concludere che il fondamento da cui scaturisce la e\ntolhé dell’amore vicendevole sia proprio l’evento con cui Gesù, come indica l’aoristo, ha concretamente e storicamente amato i discepoli (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v). Il contesto permette probabilmente di precisare ancora di più. Il testo di 13,34, che contiene la promulgazione della e\ntolhè kainhé, si trova nel contesto dei vv. 31-35 che costituiscono, nello sviluppo dei cap. 13, il secondo monologo di Gesù ai discepoli18. Nel primo monologo (vv. 12-20) Gesù dà ai discepoli lo u|poédeigma, il modello, lo specimen, nel secondo monologo (vv. 31-35) invece egli dà ai discepoli la e\ntolhè kainhé, il comandamento nuovo19. In 13,12 Gesù richiama l’attenzione dei discepoli su quello che egli ha compiuto, lavando cioè loro i piedi. Nel seguente v. 13 direttamente Gesù non spiega la sua azione, ma ne tira le conseguenze. I discepoli lo riconoscono (fwne_teé me) “il maestro e il Signore”. Se lui, “il Signore e il maestro”, ha lavato ai discepoli i piedi, anch’essi debbono “a vicenda 18 Il primo monologo è contenuto nei vv. 12-20. Si può notare nel cap. 13, dopo la parte narrativa dei vv. 1-5, uno sviluppo strutturale concentrico: Parte narrativa (vv. 1-5), 1. Dialogo tra Pietro e Gesù (vv. 6-11), 2. Monologo di Gesù ai discepoli (vv. 12-20), 3. Il problema del traditore (vv. 21-30), 4. Monologo di Gesù ai discepoli (vv. 31-35), 5. Dialogo tra Pietro e Gesù (vv. 36-38). 19 Si può notare una relazione tra le due espressioni: v. 15 v. 34 u|poédeigma gaèr (un modello) e\ntolhèn kainhèn (un comandamento nuovo) e"dwka (ho dato) dòdwmi (dò) u|m_n (a voi) u|m_n (a voi).

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(a\llhélwn) lavare (nòptein) i piedi (touèv poédav)”. Spiega Gesù, nel v. 15, che «un modello (u|poédeigma) infatti ho dato a voi che, come (kaqwév) io ho fatto a voi, anche voi facciate». Gesù ha mostrato (de_gma), con la sua azione, mettendolo sotto (u|poé) gli occhi dei discepoli il modello del loro comportamento reciproco. L’azione di Gesù di lavare i piedi dei discepoli trova la sua spiegazione nel comandamento dell’amore vicendevole20; come l’amore fino a compimento (ei\v teélov h\gaéphsen) di Gesù (v. 1) si è concretizzato nell’azione di lavare loro i piedi (vv. 2-5), adesso il loro reciproco (a\llhélwn) lavarsi i piedi è espressione concreta del loro amarsi a vicenda (a\llhélouv)21. Possiamo allora concludere che, come dall’azione di Gesù di avere lavato i piedi scaturisce, per il discepoli, il dovere (o\feòlete) di lavarsi reciprocamente i piedi, analogamente dall’azione di Gesù di amare scaturisce per i discepoli il comandamento di amarsi a vicenda. Gesù si appella al fatto che i discepoli lo chiamano, e perciò lo riconoscono, come “il maestro e il signore” (v. 13). Benché tali prerogative siano direttamente relazionate al fatto che i discepoli debbono lavarsi a vicenda i piedi, la relazione sopra indicata tra il dovere di lavarsi i piedi e il comandamento di amarsi a vicenda, indica che la duplice prerogativa di Gesù, di signore e maestro, debba riferirsi ad entrambe le cose. 20

21

Possiamo notare tra le varie espressioni la seguente relazione strutturale: v. 15: u|poédeigma gaèr (un modello infatti) e"dwka u|m_n (ho dato a voi) i$na (che) kaqwèv e\gwè e\poòhsa u|m_n (come io ho fatto a voi) kaì u|me_v poih%te (anche voi facciate). v. 35. e\ntolhèn kainhèn (un comandamento nuovo) dòdwmi u|m_n (dò a voi) i$na (che) a\gapa%te a\llhélouv (vi amiate a vicenda) kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v (come amai voi). Possiamo notare la seguente relazione strutturale: Gesù: ei\v teélov h\gaéphsen au\touév

(v.1)

h"rxato nòptein touèv poédav (v.5) discepoli: a\llhélwn nòptein touèv poédav (v. 14) i$na a\gapa%te a\llhélouv (v. 34).

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Possiamo però notare che il compito del maestro più specificamente è quello i dare un insegnamento e, in questo senso, il termine u|poédeigma, riferito al dovere di lavarsi i piedi, si relaziona meglio alla prerogativa del maestro, senza però escludere quella del signore. Al contrario, il compito del signore più specificamente è quello di dare un comando e, in questo senso, il termine e\ntolhé, riferito al dovere di amarsi a vicenda, si relaziona meglio alla prerogativa del signore, senza però escludere quella del maestro. Gesù ha lavato i piedi ai discepoli, ed essendo il maestro, ha dato loro un insegnamento, ha posto sotto i loro occhi, come a scuola, una bella copia da imitare; essendo però anche il signore, ha dato anche un comando. I discepoli che riconoscono Gesù come maestro e signore, non possono esimersi dall’accogliere il suo insegnamento ed imitarlo. Ma Gesù ha amato i discepoli, ed essendo il signore, ha dato loro un comando: il suo amore risuona come un comando a cui obbedire: essi debbono amarsi a vicenda ed amarsi nella maniera come ha amato Gesù. Possiamo allora concludere che la e\ntolhé dell’amore vicendevole, data da Gesù ai discepoli, scaturisce appunto dalla sua stessa azione di avere amato. Gesù ha amato, ma ha amato come il signore: la sua azione perciò costituisce un comando per i discepoli di amarsi a vicenda; ma ha amato anche come maestro: la sua azione mira a mostrare ai discepoli che debbono amarsi ed amarsi nella maniera come lui ha amato. In questa prospettiva, la particella kaqwév assume un significato più profondo; essa non indica soltanto una causalità esemplare ma anche una causa efficiente; il vero comando dell’amore vicendevole è primariamente contenuto non nelle parole ma nell’azione di Gesù. I discepoli debbono amarsi perché Gesù ha amato e per il fatto che ha amato (il Signore). Inoltre Gesù, con la sua opera di amore, ha mostrato ed insegnato ai discepoli che bisogna amare ed amare anche nella maniera come lui ha amato (il maestro). Dietro questa prospettiva sembra anche nascondersi quella che diverse volte troviamo attestata anche nell’AT: dietro i comandamenti che Dio dà si nasconde un evento che li fonda e li giustifica. Si tratta dell’evento dell’esodo, in forza del quale Dio dà i suoi comandamenti22. 22

31,32.

Cfr. Es 12,17; 13,9; Lv 19,36; 22,33; Nm 15,41; Dt 4,20; 5,15; 16,1; anche Ger

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Ci riferiamo soprattutto al decalogo, dove, in Es 20,2 e Dt 5,6, Dio stabilisce il fondamento della legge che egli promulga per il suo popolo. In Es 20, 2 Dio introduce la sua legge mediante le parole: «Io (sono) il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire (!yit)¢cowh) dalla terra di Egitto». In questa espressione sono accostati due aspetti: l’identità di Dio come Dio del popolo (!yeholE) hfwh:y) e l’evento di salvezza, avere fatto uscire cioè dalla terra di Egitto. È difficile, almeno da questo testo, stabilire quale dei due aspetti preceda e l’uno sia causa dell’altro, se cioè Dio ha fatto uscire quel popolo dalla terra di Egitto perché è il suo Dio, oppure se si è rivelato e, in certo modo, anche costituito Dio di quel popolo, avendolo fatto uscire dal paese di Egitto. Probabilmente i due aspetti sono ugualmente presenti. e, in certo senso, anche interagiscono. Seguono subito dopo i comandamenti; entrambi gli aspetti costituiscono così il loro fondamento: Dio li ha dati perché è il Dio di quel popolo a favore del quale ha compiuto un’opera di salvezza, liberandolo dall’Egitto. Liberandolo poi dall’Egitto, ha dato prova di essere il Dio di quel popolo. Adesso chiede al popolo di appartenere a lui e gli indica, allo scopo, la via concreta: l’osservanza dei comandamenti che egli stabilisce. Espressione identica a quella di Es 20,2 si legge anche in Dt 5,6, e introduce la seconda redazione del decalogo. Nei versi precedenti (vv. 1-5) Mosè esorta ad “ascoltare ((am:$)” “i precetti ({yiQuxah) e gli statuti ({yi+fP:$iMah)” che lui insegna, volendo il Signore Dio sancire un patto (tyir:Bah), al momento presente, con il suo popolo. Una prospettiva analoga e complementare era stata già indicata in Es 19,4-5: «voi avete visto ciò che ho fatto agli egiziani, come vi ho condotto su ali di aquila e vi ho fatto venire a me; adesso se ascoltate la mia voce (yiloq:B), e osserverete il mio patto (yityir:B-te)) voi sarete a me possesso peculiare tra tutti i popoli, poiché mia è la terra». Dio è sceso in Egitto e, mediante l’evento di salvezza, si è scelto un popolo e lo ha orientato a sé; adesso chiede al popolo di appartenere a lui mediante l’osservanza dei comandamenti. Possiamo allora concludere che il fondamento dei comandamenti che Dio dà al suo popolo, nell’AT, è duplice: l’identità di Dio come Dio del popolo e l’evento di salvezza che Egli ha attuato facendo uscire il popolo

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dalla schiavitù dell’Egitto. I comandamenti sono dati per stabilire un rapporto di reciproca appartenenza tra Dio e il suo popolo. Emerge un rapporto di somiglianza, ma anche delle differenze tra gli eventi dell’esodo e la prospettiva giovannea. In entrambi i testi è affermata anzitutto una identità: nei racconti dell’esodo l’identità di Dio è quella di “vostro Dio”, il Dio cioè del popolo; l’identità di Gesù è quella di essere “il Signore e il maestro”, come tale chiamato e riconosciuto dai discepoli. Inoltre nei racconti dell’esodo l’evento di salvezza è avere Dio fatto uscire il suo popolo dalla terra di Egitto; nel racconto giovanneo invece questo è il fatto che Gesù ha amato i discepoli. In entrambi i racconti l’identità di Dio o di Gesù e l’evento di salvezza da loro operato, costituiscono il fondamento da cui sgorgano, rispettivamente, i comandamenti di Dio e il comandamento di Gesù; entrambi sono orientati ad uno scopo: l’appartenenza a Lui. Pur nello sfondo di una analoga prospettiva, emergono però, tra i due racconti, notevoli differenze; ci limitiamo ad indicarne soprattutto due. Nei racconti dell’esodo l’evento di salvezza è distinto dal contenuto dei comandamenti; nel racconto giovanneo il comandamento, l’amore vicendevole, si pone sulla stessa linea dell’evento di salvezza. Questa differenza evidenzia anche la seconda: mentre nei racconti dell’esodo i comandamenti mirano a coinvolgere il popolo nell’alleanza da Dio offerta e ad istaurare con Lui un rapporto di reciproca appartenenza; nel racconto giovanneo il comandamento, come emergerà in seguito, mira a coinvolgere i discepoli nella storia dell’a\gaéph che parte dal Padre e culmina nel Padre (Gv 15 9-10). Il contenuto della e\ntolhé, che Gesù propone (dòdwmi) ai discepoli, è introdotto mediante la particella i$na, che regge il congiuntivo, ed è costituito dall’espressione a\gapa%te a\llhélouv (vi amiate a vicenda), ripetuta due volte23, in 13,34, e riproposta, identica (i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v), come predicato del pronome au$th, in 15,12. 23

La formulazione letteraria di 13,34 si articola in quattro espressioni:

e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n, i$na a\gapa%te allhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v i$na kaì u|me_v a\gapa%te allhélouv.

La prima e la terza espressione riguardano Gesù come soggetto; la seconda e la quarta espressione invece riguardano i discepoli. Nella quarta espressione le parole kaì u|me_v

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Non interessa in questo paragrafo una completa considerazione di questa espressione; interessa soltanto notare il presente a\gapa%te, che non implica l’inizio dell’azione, che, più opportunamente sarebbe stato espresso da una forma del verbo a\gapaéw all’aoristo, bensì la sua continuità. In questo modo, dobbiamo concludere che, con la sua e\ntolhé, Gesù non comanda ai discepoli di iniziare ad amarsi, bensì di perseverare nella via dell’amore. La relazione tra l’indicativo aoristo h\gaéphsa, riferito a Gesù, e il congiuntivo presente a\gapa%te, riferito ai discepoli, suggerisce che l’inizio del cammino dei discepoli, nella via dell’amore, non è determinato da loro, bensì da Gesù24: essi soltanto debbono perseverare in questo cammino. Ancora una volta, sembra nascondersi, nelle pieghe dei testi di 13,34 e di 15,12, la prospettiva dell’esodo. Anticamente Dio, per mezzo di Mosè, scese in Egitto, liberò il suo popolo dalla schiavitù degli egiziani e lo incamminò attraverso il deserto. Adesso l’evento dell’amore di Gesù (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v) ha raggiunto i discepoli e li ha resi idonei a camminare nella via dell’amore. Rimane il problema in che modo l’evento dell’amore di Gesù ha raggiunto i discepoli e li ha inoltrati, rendendoli capaci a camminare nella via dell’amore vicendevole. Un ultimo elemento di confronto con gli avvenimenti dell’esodo forse possiamo cogliere, implicitamente allusi, nell’espressione: i$na a\gapa%te a\llhélouv. Gesù sa che il cammino nella via dell’amore vicendevole non esclude momenti di stasi o di stanchezza. Leggendo infatti la globale storia dell’esodo, soprattutto quella contenuta nei libri dell’Esodo e dei Numeri, fin dall’inizio il popolo, di fronte alle difficoltà del cammino, non apprezzò la salvezza che Dio compiva, rimpianse l’Egitto e desiderò tornare nella sua schiavitù. Ciò avvenne, per esempio, quando, inseguito dagli egiziani, il popolo si trovò davanti il mare (Es 14,12-14): ma Dio suggeriscono che essa non è una semplice ripetizione della seconda; dal senso di essa però adesso prescindiamo.

Analoga prospettiva sembra essere contenuta in 17,21-22: i$na paéntev e£n w&sin […] i$na au\toì e\n h|m_n e£n w&sin […] i$na w&sin e£n kaqwèv h|me_v e$n (perché tutti una cosa sola siano 24

[…] perché essi in noi una cosa siano […] perché siano una cosa sola come noi una cosa sola). La triplice ripetizione del congiuntivo presente w&sin suggerisce che i discepoli sono chiamati non a formare l’unità, che invece ha formato Gesù (11,52), bensì a perseverare in essa, evitando tutto ciò che può in qualche modo comprometterla.

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aprì il mare; avvenne anche quando il popolo non ebbe da mangiare (Es 16): ma Dio donò pane e carne; inoltre quando si vide privo di acqua (Es 17), ma Dio fece scaturire acqua dalla roccia; ancora quando Mosè tardava a scendere dal monte e il popolo indusse Aronne a fabbricare un vitello di metallo fuso (Es 32); quando tornarono gli esploratori (Nm 14); quando provò la fatica del cammino e rinfacciò a Dio e a Mosè il fatto di essere uscito dall’Egitto: Dio mandò i serpenti velenosi (Nm 21,1-8). Con l’espressione i$na a\gapa%te a\llhélouv, sembra che Gesù comandi ai discepoli di non cadere nel peccato dell’antico esodo e di perseverare nella via dell’amore che lui ha tracciato. 2.3. Il testo di 14,15-24.31 Il testo di 14,15-24 è abbastanza complesso nel suo intreccio tematico25; al nostro scopo però interessa considerare soltanto la relazione tematica tra la e\ntolhé e l’a\gaéph. In questa prospettiva i versi a cui ci riferiamo sono il v. 15, il v. 21, il v. 23 e il v. 24. ci riferiamo pure al v. 31, benché più lontano dai versi precedenti. Proponiamo anzitutto il testo dei versi su indicati: v. 15. e\anè a\gapa%teé me, taèv e\ntolaèv taèv e\ma%v thrhésete v. 21. o| e"cwn taèv e\ntolaév mou kaì thrw%n au\\taèv e\ke_noév e\stin o| a\gapw%n me:

v. 23. e\ané tiv a\gapç% me toèn loégon mou thrhései, v. 24. o| mhè a\gapw%n me touèv loégouv mou ou\ thre_. v. 31. a\ll’i$na gn§% o| koésmov o$ti a\gapw% toèn pateéra, kaì kaqwèv e\neteòlatoé moi o| pathér ou$twv poiw%, e\geòresqe, a"gwmen e\nteu%qen.

I primi quattro testi (vv. 15.21.23.24) riguardano i discepoli nella loro relazione a Gesù; l’ultimo testo invece, il v. 31, riguarda Gesù nella sua relazione al Padre.

25 L’unità letteraria di 14,15-24, determinata dal verbo a\gapa%n, è evidenziata da Lattke, cfr. M. Lattke, Einheit im Worth. Die spezifische Bedeutung von “agape””agapan” und filein” im Johannesevangelium, München 1975, München 1975, 222; cfr. anche R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, Göttingen 197820, 473 (rist.).

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2.3.1. I testi riguardanti i discepoli Possiamo relazionare i quattro testi riguardanti i discepoli nella loro relazione a Gesù, in diversa maniera. Anzitutto essi sono tutti legati mediante l’uso del verbo a\gapaéw, nelle sue varie forme e anche mediante il verbo threéw, anch’esso in diverse forme. Inoltre essi si relazionano in maniera alternata: il primo testo (v. 15) si relaziona al terzo (v. 23) e il secondo (v. 21) si relaziona al quarto (v. 24). Il primo testo si relaziona al terzo per la stessa forma condizionale, espressa, nella protasi, con e\ané e il congiuntivo (e\ané a\gapa%te/ e\ané tiv a\gapç%) e, nell’apodosi, con il verbo threéw al futuro (thrhésete/ thrhései)26. Troviamo però delle differenze fondamentali, riguardanti sia la protasi che l’apodosi. Nella protasi: Gesù, nel v. 15, si rivolge direttamente ai discepoli (a\gapa%te), nel v. 23 invece si esprime in maniera più generica (e\ané tiv a\gapç%). Nell’apodosi poi, il verbo threéw, nel v. 15, è formulato ancora alla seconda persona plurale (thrhésete), rivolto ai discepoli, nel v. 23 invece, in maniera ancora generica, è riferito a colui che ama (thrhései). Il secondo testo (v. 21) e il quarto (v. 24) si relazionano soprattutto per la formulazione del verbo a\gapaéw al participio reso sostantivato mediante l’articolo, al positivo, nel v. 21 (o| a\gapw%n me), e al negativo, nel v. 24 (o| mhè a\gapw%n me). Possono essere stabilite, tra le quattro espressioni, diverse relazioni. Anzitutto, per la maniera come, nei quattro testi, è usato il verbo a\gapaéw, possiamo proporre il seguente schema alternato: v. 15. e\ané a\gapa%teé me v. 21. o| a\gapw%n me v. 23. e\ané tiv a\gapç% me v. 24. o| mhè a\gapw%n me Il verbo a\gapaéw ha un solo oggetto: Gesù (meé); Il verbo threéw invece non ha un solo oggetto. 26 Possiamo proporre il seguente confronto: v. 15 v. 23

e\an è a\gapa%teé me, e\an é tiv a\gapç% me taèv e\ntolaèv taèv e\ma%v toèn loégon mou thrhésete thrhései,

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Dal punto di vista dell’oggetto del verbo threéw, possiamo pure relazionare i quattro testi in maniera abbinata: il primo (v. 15) si relaziona al secondo (v. 21) e il terzo (v. 23) al quarto (v. 24). L’oggetto del verbo threéw, nel primo e secondo testo, è il termine e\ntolhé27, entrambe le volte al plurale (taèv e\ntolaév) 28; quello nel terzo e quarto testo, è il termine loégov, 27 Nota Maggioni che Giovanni non usa il termine noémov, riservato alla legge di Mosé, realtà positiva, ma ora superata; la e\nolhé invece è la rivelazione di Dio, e non solo la sua volontà, ed è insieme progetto, incarico e missione, cfr. B. Maggioni, Amatevi come io vi ho amato, in Parole, Spirito e vita , 11 (1985) 158-167: 159.

28 Prescindiamo dalla specifica considerazione della differenza tra il singolare (e\ntolhé) e il plurale (e\ntolaò); ci limitiamo a riferire soltanto qualche posizione degli interpreti a riguardo del plurale e\ntolaò. Von Wahlde riferisce l’espressione e\ntolaèv thre_n all’osservanza dei due comandamenti giovannei, cfr. U.C. Von Wahlde, The Johannine Commandments, New York 1990, 32; tale spiegazione è però ritenuta da Augenstein senza alcun appoggio nel testo e disconosce l’uso di e\ntolaèv thre_n come locuzione formata (geprägte Wendung), cfr. J. Augenstein, Das Liebesgebot im Johannes-evangelium und in den Johannesbriefen, Stuttgart-Berlin-Köln 1993, 65 nota 207. Lincoln spiega che i comandamenti immediatamente in vista sono lavarsi i piedi e amarsi gli uni gli altri, benché il comandamento di credere in Gesù non sarebbe ignorato, cfr. A.T. Lincoln, The Gospel according to Saint John, London 2005, 393; secondo Kysar per “comandamenti” si intende tutto il messaggio di Gesù, nel suo insieme, cfr. R. Kysar, John, Minneapolis 1986, 227; Secondo Moloney, come è opinione assai diffusa, “la Parola”, “le parole”, “i comandamenti” si riferiscono tutti al credere nella rivelazione di Dio, manifestata in e per mezzo della parola di Gesù, Moloney cita Segovia (Cfr. F.T. Segovia, Love Relationship in the Johannine tradition, Chico [CA], 94-95), cfr. F.J. Moloney, Il vangelo di Giovanni, trad. it., Leumann-TO 2007, 354; secondo Pancaro le e\ntolaò costituiscono le particolari manifestazioni e realizzazioni in cui è contenuta “in nuce “ e riflessa l’unica ed indivisibile missione, oggetto della e\ntolhé, cfr. S. Pancaro, The Law in the Fourth Gospel, Leiden 1975, 442; Plummer pensa al vangelo nella sua interezza, cfr. A. Plummer, The Gospel according to St. John, Cambridge 1912 (rist.); per Sanders si tratta dell’intero messaggio di Gesù, cfr. J.N. Sanders –B.A. Mastin, A Commentary on the Gospel according to S. John, A Commentary on the Gospel according to S. John, London 1968, 332. In genere però gli interpreti escludono che si tratti di comandamenti etici o una raccolta casistica di singoli comandamenti, cfr. G.M. Behler, Die Abschiedsworte des Herrn: Joh 13-17, Salzburg 1962, 117; R.E. Brown, Giovanni, trad. it., Assisi 19793, 767; I. De La Potterie, I precetti morali nel loro riferimento a Cristo secondo S. Giovanni, in AA.VV. Fondamenti iblici della teologia morale Brescia 1973 329-344: 332; W. Langbrandtner, Weltferner Gott oder Gott der Liebe, Frankfurt a.M. – Bern – Las Vegas 1977, 67 (il globale insegnamento di Gesù); M. Lattke, Einheit im Worth, cit., 231; W. Prunet, La morale chrétienne d’après les ecrits johanniques, Paris 1957, 25; J. Schneider, Die Abschiedsreden Jesu, in G. Lanczkowski et Al (curr.), Gott und die Götter, Fs. E. Fascher, Berlin 1958, 103-112

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al singolare nel terzo testo (v. 23) (toèn loégon mou)29, e al plurale nel quarto testo (v. 24) (touèv loégouv mou)30. Gli oggetti, nei quattro testi, sono tutti seguiti da un pronome possessivo o personale. Per l’uso dell’oggetto del verbo threéw, nei quattro testi, possiamo proporre il seguente schema abbinato: v. 15. taèv e\ntolaèv taèv e\ma%v, v. 21. taèv e\ntolaév mou v. 23. toèn loégon mou v. 24. touèv loégouv mou 2.3.2. Relazione specifica tra il primo e il secondo testo È possibile stabilire, tra il primo e il secondo testo, rispettivamente tra l’espressione del v. 15 e quella del v. 21, una relazione strutturale concentrica, nel seguente modo: v. 15. e\anè a\gapa%teé me,

taèv e\ntolaèv taèv e\ma%v thrhésete v. 21. o| e"cwn taèv e\ntolaév mou kaì thrw%n au\t\ aèv e\ke_noév e\stin o| a\gapw%n me:

(sono riassunte nell’unico comando dell’amore vicendevole); H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1973, 347-348

Nota Augenstein che l’espressione thre_n toèn loégon risale al concetto veterotestamentario di custodire i comandamenti come è espresso nella letteratura deuteronomista. Nell’AT l’espressione thre_n toèn loégon si riferisce al dono della legge al Sinai, che Dio proclama attraverso la sua parola. Cfr. J. Augenstein, Das Liebesgebot cit., 59. Osserva Beasley-Murray che l’interscambio tra “i miei comandamenti”, “la mia parola”, “le mie parole” suggerisce che esse includono la pienezza della rivelazione dal Padre e non semplicemente istruzioni etiche, cfr. G.R. Beasley-Murray, John, Waco (Texas) 1987, 256; Lagrange sembra identificare “le parole” con “i comandamenti”: colui che non custodisce le parole di Gesù è colui che non osserva i suoi comandamenti, cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, Paris 19487, 356. 29

30 Pancaro rifiuta di equiparare le due formule (thre_n taèv e\ntolaév e thre_n touèv loégouv [toèn loégon]). Esse esprimono aspetti correlativi ma distinti di discepolato: thre_n touèv loégouv (toèn loégon) è direttamente riferito alla fede, thre_n taèv e\ntolaév è direttamente

riferito all’amore e ai suoi obblighi, cfr. S. Pancaro, The Law in the Fourth Gospel, cit., 450; da Brown invece sono ritenute equivalenti, cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 772.

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La prima frase del v. 21 aggiunge, rispetto alla seconda del v. 15, l’espressione participiale o| e"cwn (colui che ha), alla quale lega, come oggetto, il termine taèv e\ntolaév, assegnando poi al participio coordinato thrw%n un oggetto pronominale (au\t\ aév). Pur concordando negli elementi, i due testi divergono nella prospettiva. Nel v. 15 l’osservanza dei comandamenti deve scaturire, come conseguenza logica, dal fatto che si ama Gesù: chi lo ama, deve osservare i suoi comandamenti; si passa cioè dall’amore all’osservanza dei comandamenti. Nel v. 21 invece la prospettiva appare inversa: l’osservanza dei comandamenti appare come criterio di riconoscimento di colui che ama Gesù: chi osserva i suoi comandamenti, questi è colui (e\ke_noév e\stin) che lo ama. La relazione tra l’osservanza dei suoi comandamenti e l’amore verso Gesù appare così molto stretta: chi ama Gesù, deve osservare i suoi comandamenti, ma chi li osserva, si manifesta come colui che ama Gesù. Da questa relazione tra l’amore verso Gesù e l’osservanza dei suoi comandamenti, scaturisce una duplice conseguenza, quasi una duplice risposta, rispettivamente, da Gesù stesso, nel v. 16 in relazione al v. 15, e poi dal Padre, nel v. 21. La risposta di Gesù, nel v. 16, è la preghiera al Padre, finalizzata ad ottenere da lui, e di fatti lo ottiene (dwései), il dono del Paracleto. Gesù farà una preghiera di richiesta al Padre, che troverà sicuro esaudimento31. Emergono due dinamismi: ascendente, da Gesù al Padre, al quale egli rivolge la preghiera, e poi dal Padre ai discepoli, ai quali (u|m_n) egli dona il Paracleto. La risposta del Padre, nel v. 21, è sostanzialmente discendente: chi ama Gesù (o| deè a\gapw%n me), a sua volta, sarà amato (a\gaphqhésetai) dal Padre. Gesù stesso poi si unirà alla risposta del Padre, amando pure lui (a\gaphésw au\toén) colui che lo ama e manifestandosi anche (e\mfanòsw au\t§% e\mautoén) a lui. 31

Possiamo notare tra le due espressioni del v. 16a una relazione strutturale concentrica:

ka\gwè e\rwthésw toèn pateéra kaì a"llon paraéklhton dwései u|m_n.

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Le due risposte, rispettivamente dei vv. 15 e 21, che vedono uniti insieme Gesù e il Padre nella richiesta (v. 15) e nell’amore (v. 21), nelle due frasi che le compongono, possono essere relazionate in maniera concentrica: v. 15: ka\gwè e\rwthésw toèn pateéra

kaì a"llon paraéklhton dwései u|m_n v. 21: a\gaphqhésetai u|poè tou% patroév mou, ka\gwè a\gaphésw au\toèn kaì e\mfanòsw au\t§% e\mautoén.

Le azioni del Padre sono quelle di donare il Paracleto ed amare colui che ama Gesù; quelle di Gesù sono pregare il Padre e amare a sua volta colui che lo ama e manifestarsi a lui. 2.3.3. Relazione specifica tra il terzo e il quarto testo La relazione tra il terzo e quarto testo è diversa rispetto ai primi due, non più concentrica, ma alternata; inoltre non complementare ma antitetica; si considera infatti la situazione di chi eventualmente ama (}Eaén tiv a\gapç% me) e di chi, invece, non ama (o| mhè a\gapw%n me). Possiamo stabilire la seguente relazione alternata tra il secondo e quarto testo: v. 23: }Eaén tiv a\gapç% me

toèn loégon mou thrhései,

touèv loégouv mou ou\ thre_

v. 24. o| mhè a\gapw%n me

La conseguenza, o la risposta, che ne scaturisce riguarda soltanto colui che ama: chi non ama, di conseguenza, non osserva nemmeno la parola di Gesù e, perciò, a lui non può venire alcuna risposta. Simile persona, non osservando la parola di Gesù, praticamente rifiuta Gesù; ma, rifiutando Gesù, rifiuta anche il Padre, la parola che Gesù pronunzia e che i discepoli ascoltano da lui, è del Padre che lo ha mandato. A colui che ama Gesù invece viene una risposta dal Padre: è la stessa che troviamo nel v. 21, formulata all’attivo (o| pathér mou a\gaphései); nemmeno qui Gesù è assente: la sua azione però non è quella di amare a sua volta e manifestarsi, bensì quella di condividere con il Padre la venuta in

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colui che ama (proèv au\toèn e\leusoémeqa) e fare dimora presso di lui (monhèn par’au\t§% poihsoémeqa). 2.3.4. Relazione tra le quattro conseguenze o risposte Dopo avere relazionato i quattro testi, il primo con il secondo e il terzo con il quarto, confrontiamo adesso globalmente le quattro conseguenze o le quattro risposte che ottiene colui che, mediante l’osservanza dei comandamenti, ama Gesù. Possiamo stabilire tra le quattro conseguenze il seguente confronto: v. 16. ka\gwè e\rwthésw toèn pateéra kaì a"llon paraéklhton dwései u|m_n i$na meq’u|mw%n ei\v toèn ai\wn % a +&. v. 21. o| deè a\gapw%n me a\gaphqhésetai u|poè tou% patroév mou, ka\gwè a\gaphésw au\toèn kaì e\mfanòsw au\t§% e\mautoén.

v. 23. kaì o| pathér mou a\gaphései au\toèn kaì proèv au\toèn e\leusoémeqa kaì monhèn par’au\t§% poihsoémeqa. v. 24. kaì o| loégov o£n a\kouéete ou\k e"stin e\moèv a\llaè tou% peémyantoév me patroév.

Più direttamente la relazione si stabilisce tra la seconda e terza conseguenza che, pur in diversa forma grammaticale e sintattica, rispettivamente al passivo (a\gaphqhésetai u|poè tou% patroév mou) e all’attivo (o| pathér mou a\gaphései au\toèn), concordano nel fatto che il Padre ama colui che ama Gesù e concretizza il suo amore nell’osservanza dei suoi comandamenti32. Variano invece nell’opera di Gesù, pur concordando nel fatto che, in entrambi, è descritto il suo coinvolgimento nell’opera del Padre: secondo il v. 21 Gesù si coinvolge amando anche lui chi lo ama, in seguito al fatto che il Padre ama, e manifestandosi a lui; nel v. 23 invece Gesù è unito al Padre nel fatto di venire e prendere dimora presso chi lo ama. Tra la prima conseguenza e la quarta invece non è stabilita alcuna relazione, e ciò per il carattere antitetico dei due testi. Anche le conseguenze

Le due espressioni presentano anche uno schema concentrico: v. 21: a\gaphqhésetai

v. 23:

32

u|poè tou% patroév mou kaì o| pathér mou a\gaphései au\toèn.

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sono opposte. Nel primo testo (vv. 15-16) si stabilisce, mediante l’osservanza della sua parola, una relazione tra colui che ama Gesù e Gesù stesso: attraverso Gesù, specificamente, la sua preghiera, si raggiunge il Padre e dal Padre si ottiene il dono del Paracleto. Nel quarto testo invece (v. 24), venendo meno l’amore e la conseguente osservanza della sua parola, ogni relazione con Gesù è interrotta e, conseguentemente, anche con il Padre perché la parola che Gesù ha detto non è sua ma del Padre che lo ha mandato. Al nostro scopo però è importante la conseguenza del secondo e terzo testo: l’amore del Padre verso colui che ama Gesù, l’amore da parte di Gesù, con la sua conseguente manifestazione, e inoltre la venuta e la dimora che il Padre e Gesù prendono in colui che ama. 2.3.5. L’esempio di Gesù (vv. 30-31) Dal v. 24, ultimo testo sopra considerato, fino al v. 30, intercorrono sei versi, nei quali si sviluppa un particolare intreccio, la cui considerazione non rientra specificamente nel nostro lavoro. I vv. 30-31, soprattutto il v. 31, presentano però delle chiare relazioni ai testi dei vv. 15-24 sopra considerati. Nel v. 30 Gesù annunzia la venuta del principe del mondo (o| tou% koésmou a"rcwn), che però non ha nulla a che fare con lui. Il v. 31, pur con qualche oscurità, sembra indicare che Gesù subirà una certa ostilità; essa però non proviene dal principe del mondo, bensì dal Padre, il cui comando Gesù ha liberamente accettato, spinto dall’amore verso di lui33. Soprattutto nel v. 31 possiamo individuare i seguenti elementi: 1. Gesù ama il Padre (a\gapw% toèn pateéra): si tratta di una verità che egli afferma; 2. È espresso il comando del Padre, formulato con il verbo e\nteéllomai; 3. Gesù lo esegue, spinto dall’amore verso di lui e, in tale esecuzione, coinvolge (e\geòresqe) anche i discepoli; 4. Eseguendo il comando del Padre, Gesù mostra al mondo che egli lo ama. Sulla relazione di questo testo alla narrazione della venuta di Giuda, secondo i vangeli sinottici, rimandiamo al nostro Studio: La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni, in «Synaxis» XXI (2003), 215-281: 253-260. 33

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Emergono in questa descrizione diversi elementi di relazione sia letterari che tematici con i vv. 15-24. Dal punto di vista letterario notiamo lo stesso verbo a\gapaéw e il verbo e\nteéllomai che richiama il termine entolhé dei vv. 15-24. Dal punto di vista tematico emergono i due aspetti della relazione tra amare Gesù ed osservare i suoi comandamenti, sopra indicati: Gesù ama il Padre e, di conseguenza osserva i suoi comandamenti (cfr. v. 16); il fatto poi che egli osserva i suoi comandamenti, mostra al mondo, e stimola questo anche a pervenire ad una conoscenza (a\ll’i$na gn§%), che egli ama il Padre. Nei vv. 15-24, due volte, nei vv. 15.23, è espressa una condizionale e non si fa alcuna affermazione; come pure nei vv. 21.24 non si fa alcuna affermazione, ma si esprime un principio generale. L’affermazione, in cui Gesù dichiara di amare il Padre e di fare come gli comanda, è contenuta appunto nel v. 31: si direbbe che in esso Gesù proponga il modello di se stesso nell’osservanza del comandamento del Padre come espressione e concretizzazione dell’amore verso di lui. Come Gesù in relazione al Padre, così anche i discepoli, in relazione a lui, debbono osservare, come espressione di amore, il comandamento. In questa maniera saranno amati dal Padre, Gesù li amerà anche e Gesù e il Padre verranno in loro e dimoreranno in loro. Il testo di 14,15-31 appare complesso per il suo intreccio tematico. Al nostro scopo interessa però soltanto evidenziare la relazione tra l’aspetto tematico di amare Gesù e quello di osservare la sua e\ntolhé. In questo senso l’aspetto fondamentale è quello di amare Gesù mediante l’osservanza dei suoi comandamenti o della sua parola. Chi ama Gesù deve osservare i suoi comandamenti, ma chi osserva i suoi comandamenti, mostra di amare Gesù. Ancora in questo aspetto Gesù si presenta come modello; egli infatti, ha concretizzato il suo amore verso il Padre, mediante l’osservanza dei comandamenti, ma, osservando i suoi comandamenti, ha mostrato di amare il Padre. 2.4. Il testo di 15,9-10 Alla relazione tra la e\ntolhé e l’a\gaéph, l’evangelista torna ancora in 15,9-10: Gesù esorta a “restare (meònate)” nel suo amore, indicandone

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anche la maniera: mediante cioè l’osservanza dei comandamenti. Il testo di 15,9-10 si relaziona, mediante il verbo meénw, al precedente testo di 15,1-8, in cui Gesù, servendosi della metafora della vite e dei tralci, ha mostrato ai discepoli la necessità di “rimanere” in lui; solo infatti chi rimane in lui, porta molto frutto. In 15,9-10 si tratta invece di “rimanere” nel suo amore: il testo di 15,9-10 approfondisce e precisa ulteriormente il testo di 15,1-8. 2.4.1. Struttura letteraria di 15,9-10 Il testo di 15,9-10 comprende tre parti: 1. Una storia che possiamo definire “discendente”: essa parte dal Padre, passa attraverso Gesù e giunge ai discepoli, kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér, ka\gwè u|ma%v h\gaéphsa. (come amò me il Padre, anch’io voi amai). 2. Il comando-esortazione da parte di Gesù ai discepoli di “rimanere” nel suo amore, meònate e\n t+% a\gaép+ t+% e\m+% (rimanete nel mio amore). 3. La condizione indispensabile per restare nell’amore: l’osservanza dei comandamenti; in maniera “ascendente”: i discepoli in relazione a Gesù, come anche Gesù in relazione al Padre, e\anè taèv e\ntolaév mou

thrhéshte, mene_te e\n t+% a\gaép+ mou, kaqwèv e\gwè taèv e\ntolaèv tou% patroév mou tethérhka kaì meénw au\tou% e\n t+% a\gaép+ (se i miei comandamenti

osserverete, rimarrete nel mo amore, come io i comandi del Padre mio ho osservato e rimango di lui nell’amore). Il brano, nella prima e terza parte, contiene due dinamismi, rispettivamente “discendente“ e “ascendente”. Il dinamismo discendente parte dal Padre, giunge a Gesù, riparte poi da Gesù e giunge ai discepoli. Quello ascendente parte dai discepoli e risale a Gesù, riparte poi da Gesù e giunge al Padre. I due dinamismi costituiscono, assieme, una parabola globale che parte dal Padre e giunge al Padre. In questi due dinamismi Gesù sta al centro tra il Padre e i discepoli. Nel dinamismo discendente, Gesù è, rispetto al Padre, il punto di arrivo, rispetto ai discepoli invece, è il punto di partenza. Nel dinamismo ascendente poi Gesù è il punto di arrivo in relazione ai discepoli; è invece il punto di partenza in relazione al Padre.

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2.4.2. Il testo di 15,9ab Nel testo di 15,9ab, che contiene il dinamismo discendente dal Padre ai discepoli attraverso Gesù, possiamo distinguere due parti, relazionate in forma di comparativa di uguaglianza mediante le particelle kaqwév…kaò. Le due parti sono le seguenti: kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér, ka\gwè u|ma%v h\gaéphsa.

Esse si relazionano secondo uno schema concentrico: kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér, kaì e\gwè u|ma%v h\gaéphsa.

Al centro ci stanno i due soggetti, il Padre (o| pathér) e Gesù (e\gwé); in posizione intermedia sono indicati i due oggetti, rispettivamente, Gesù (meé) e i discepoli (u|ma%v), ai lati ci sta il verbo a\gapaéw all’aoristo, formulato prima alla terza persona singolare (h\gaéphsen), riferito al Padre, e poi alla prima (h\gaéphsa), riferito da Gesù a se stesso. Tutto il brano di 15,9-10 contiene, in maniera schematica, un globale dinamismo che può essere, opportunamente, definito “la storia dell’a\gaéph”; donde deduciamo che l’a\gaéph non è considerata, o almeno non soltanto, come un sentimento, bensì come una storia. In questa storia il Padre è soltanto soggetto; Gesù invece è, rispetto al Padre, oggetto e, rispetto ai discepoli, soggetto, i discepoli invece sono soltanto oggetto: sono soggetto nell’osservanza dei comandamenti. Notiamo il duplice verbo a\gapaéw all’aoristo. La stessa formulazione all’aoristo indica che esso rimanda direttamente non ad un sentimento bensì ad un evento storico: se si fosse trattato di un sentimento sarebbe stata opportuna una forma verbale al presente. Il Padre ha compiuto una azione mediante la quale ha concretizzato il suo amore verso Gesù; Gesù poi ha compiuto una azione mediante la quale ha concretizzato il suo amore verso i discepoli. Emergono qui delle domanda, dalle quali però, in questo studio, prescindiamo: qual è stata l’azione che il Padre ha compiuto

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nei confronti di Gesù, e quale quella di Gesù nei confronti dei discepoli? Qual è inoltre la relazione tra l’azione del Padre nei confronti di Gesù e quella di Gesù nei confronti dei discepoli, come suggerisce la comparativa di uguaglianza tra le due azioni? La duplice formulazione all’aoristo del verbo a\gapaéw pone anche il problema sul valore dell’aoristo stesso. Si tratta di un aoristo ingressivo o di un aoristo completivo? Il fatto che l’amore del Padre verso Gesù è legato, mediante la comparativa di uguaglianza, all’amore di Gesù verso i discepoli, e il fatto che l’amore di Gesù verso i discepoli, sfocia nell’esortazione a loro a “rimanere” nell’amore di Gesù, indica che entrambe le forme di aoristo siano un aoristo ingressivo. L’amore del Padre verso Gesù dà inizio ad un dinamismo che prosegue nell’amore di Gesù verso i discepoli; l’amore di Gesù verso i discepoli dà inizio per i discepoli ad un dinamismo, specificamente l’osservanza dei comandamenti, che permette loro di restare nel suo amore. 2.4.3. Il testo di 15,9c Il testo di 15,9c contiene l’esortazione di Gesù ai discepoli meònate e\n t+% a\gaép+ t+% e\m+% (rimanete nell’amore quello mio). In questa espressione soprattutto attirano l’attenzione sia il verbo meònate sia anche il pronome possessivo t+% e\m+%. A riguardo del verbo meònate notiamo soprattutto due aspetti, la sua formulazione all’imperativo aoristo e l’uso stesso del verbo meénw. Quest’ul-

timo già era stato usato ben sette volte nei precedenti vv.1-7, in cui Gesù, servendosi appunto della metafora della vite e dei tralci, aveva esortato a “rimanere” in lui, come condizione indispensabile per portare frutto. Nel vangelo di Giovanni il verbo meénw è usato un numero di volte più alto rispetto agli altri libri del NT34, 40 usi, sparsi in tutti i capitoli, benché più concentrati appunto nel cap. 15 (undici volte). 34 Nei vangeli sinottici il verbo meénw si legge, complessivamente 12 volte, di cui sei in Luca; 13 volte negli Atti degli Apostoli, 23 volte nell’epistolario paolino, inclusa la lettera agli Ebrei, 26 volte nell’epistolario giovanneo e appena tre volte negli altri libri del NT. Mettendo insieme il quarto vangelo e le lettere giovannee, gli usi giovannei superano complessivamente gli altri usi del NT (66 usi contro i 51 del NT).

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Considerando globalmente tutti gli usi nel NT, soprattutto quelli giovannei, il verbo meénw indica una posizione statica in un determinato luogo, nel quale bisogna rimanere. L’azione di “rimanere” però presuppone anche quella di “giungere”; quest’ultima poi presuppone un cammino: per rimanere in un luogo bisogna giungervi, ma, per giungervi, bisogna camminare. Né dell’azione di “giungere” né di quella di “camminare” il presente testo giovanneo dice nulla, né al momento interessa precisare questi aspetti. Possiamo soltanto dire che l’amore di Gesù, descritto nell’azione precedente, ha raggiunto i discepoli e dobbiamo pensare anche che li ha indotti a compiere un cammino al cui termine sono giunti e, adesso, sono esortati a “rimanere”35. La forma all’aoristo, in cui è formulato l’imperativo meònate, è chiaramente ingressiva: Gesù non esorta a continuare a rimanere nel suo amore, ma, essendovi giunti, a non tornare indietro, bensì a rimanere in esso. È pure importante l’espressione t+% e\m+%, alla quale l’articolo (t+%) conferisce particolare enfasi: l’a\gaéph di cui si parla non è infatti una qualsiasi, o una delle tante alla quale i discepoli preferenzialmente debbono giungere, ma è quella specifica ed esclusiva di Gesù, proprio quella dalla quale i discepoli sono stati raggiunti. Gesù li ha amati, i discepoli sono stati raggiunti dal suo amore; possiamo anche pensare che essi lo hanno accolto e in esso si sono coinvolti. Adesso Gesù comanda loro di restare radicati e di non allontanarsi da esso36. 2.4.4. Il testo di 15,10 Nel seguente v. 10 Gesù indica la maniera come restare nel suo amore: è quella stessa che egli ha attuato e che gli ha permesso di restare nell’amore Spiega Beasley-Murray che si tratta di “rimanere” mediante l’obbedienza, cfr. G.R. Beasley-Murray, John, cit., 273. 35

La pregnanza del verbo meénw è stata evidenziata da De La Potterie (Cfr. I. De La Potterie, L’emploi du verbe “demeurer” dans la mystique johannique, in NRT 117 (1995) 843-859); alla fine, riassumendo (ibid., 859), De La Potterie conclude che l’espressione meénein e\n ha in Giovanni due livelli di interiorità: il primo è quello della fede (“dimorare nella parola”), il secondo è quello della comunione (“dimorare nel figlio e nel Padre”); questo secondo è quello della mistica giovannea. 36

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del Padre. Si tratta dell’osservanza dei comandamenti, rispettivamente quelli di Gesù per i discepoli e quelli del Padre per Gesù. Troviamo due espressioni parallele che è utile mettere a confronto: I discepoli per Gesù Gesù per il Padre e\an è taèv e\ntolaév kaqwèv e\gwè taèv e\ntolaèv mou tou% patroév mou thrhéshte, tethérhka mene_te kaì meénw e\n t+% a\gaép+ mou, au\tou% e\n t+% a\gaép+

I due testi sono perfettamente paralleli: i discepoli dovranno agire, nei suoi confronti, in maniera identica37 a come egli ha agito nei confronti del Padre. Egli ha osservato i comandamenti del Padre e rimane nel suo amore; allo stesso modo i discepoli debbono osservare i comandamenti di Gesù e restare nel suo amore. L’ultima espressione au\tou% e\n t+% a\gaép+ chiude tutta la descrizione. La posizione del pronome au\tou% prima dell’espressione e\n t+% a\gaép+ enfatizza entrambi gli elementi: il pronome au\tou% sottolinea la figura del Padre, l’espressione e\n t+% a\gaép+, in posizione finale, sottolinea di più la dimensione dell’amore. L’inversione degli elementi nell’ultima frase determina anche una inclusione letteraria. La prima parola, dopo la comparativa kaqwév, è il verbo a\gapaéw, l’ultima parola è e\n t+% a\gaép+. Possiamo stabilire anche una relazione concentrica tra la prima espressione e l’ultima: v. 9. h\gaéphseén me

o| pathér, v. 10. au\tou% e\n t+% a\gaép+

Emerge una nuova funzione delle e\ntolaò: l’osservanza di quelle di Gesù deve permettere ai discepoli di rimanere nell’amore di lui; come L’unica differenza è nell’ultima espressione, dove gli elementi sono invertiti, assumendo così, insieme, una forma strutturale concentrica: e\n t+% a\gaép+ 37

mou au\tou% e\n t+% a\gaép+.

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l’osservanza di quelle del Padre deve permettere a Gesù di rimanere nell’amore di lui. Rimane il problema quali sono i comandamenti di Gesù che i discepoli debbono osservare e quelli del Padre che Gesù ha osservato. 2.4.5. Relazione tra i due dinamismi I due dinamismi, quello discendente, quello dal Padre ai discepoli, e quello ascendente, dai discepoli al Padre, messi insieme, permettono di evidenziare, come abbiamo già notato, un dinamismo unico. Possiamo stabilire anzitutto una relazione strutturale concentrica: kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér, ka\gwè u|ma%v h\gaéphsa e\an è taèv e\ntolaév mou thrhéshte, mene_te e\n t+% a\gaép+ mou kaqwèv e\gwè taèv e\ntolaèv tou% patroév mou tethérhka kaì meénw.

La prima e la quarta espressione riguardano la relazione tra il Padre e Gesù: il Padre ha amato Gesù e Gesù, osservando i suoi comandamenti, rimane nel suo amore. La seconda e la terza espressione riguardano la relazione tra Gesù e i discepoli: Gesù ha amato i discepoli e questi, osservando i suoi comandamenti, debbono rimane nel suo amore. Emergono due storie, incastonate, a cerchi concentrici, l’una nell’altra. La prima storia, quella esterna, è più ampia: essa va dal Padre al Padre e riguarda direttamente Gesù. Il Padre lo ha amato e Gesù, mediante l’osservanza dei suoi comandamenti, rimane nel suo amore. La seconda storia, quella più interna, è più ristretta: essa va da Gesù a Gesù e riguarda direttamente i discepoli. Gesù li ha amati ed essi, mediante l’osservanza dei suoi comandamenti, debbono rimanere nel suo amore. La storia riguardante Gesù, dal Padre al Padre, diventa modello nella storia riguardante i discepoli, da Gesù a Gesù. Gesù deve amare i discepoli “come (kaqwév)” il Padre ha amato lui; i discepoli, mediante l’osservanza dei comandamenti, debbono rimanere in Gesù “come (kaqwév)” Gesù rimane nel Padre. In ultima analisi si tratta di una storia unica, di un disegno storico che vede coinvolti insieme il Padre, Gesù e i discepoli, destinati a diventare,

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nella dimensione unificante dell’a\gaéph, una cosa sola. L’espressione centrale meònate e\n t+% a\gaép+ t+% e\m+% indica che l’obiettivo fondamentale sono i discepoli, i quali, raggiunti, attraverso Gesù, dall’amore del Padre, sono chiamati, sempre attraverso Gesù, a coinvolgersi in esso. Essi dovranno salire e rimanere, attraverso l’osservanza dei suoi comandamenti, nell’amore di Gesù. Dal momento però che Gesù “rimane” nell’amore del Padre, i discepoli, raggiungendo Gesù e rimanendo in lui, automaticamente raggiungeranno il Padre e rimarranno nel suo amore. Sulla base dell’e\ntolhé dell’a\gaéph, si realizza così una profonda unità tra il Padre, Gesù e i discepoli. 2.5. Il testo di 15,12-17 Nel seguente v. 12, fino al v. 17, Gesù torna ancora alla sua e\ntolhé. Il v. 11 appare come un verso di transizione tra i vv. 9-10 e i vv. 12-17; Gesù dichiara tau%ta lelaélhka u|m_n i$na h| caraè h| e\mhè e\n u|m_n +/ kaì h| caraè u|mw%n plhrwq+% (queste cose ho detto a voi, perché la gioia, quella mia, in voi sia e la vostra gioia sia portata a pienezza). Emerge la duplice domanda quale sia la gioia di Gesù che sarà nei discepoli e in che modo la loro gioia sia portata a pienezza. Posta tra i due blocchi, la gioia di cui si fa menzione, sembra ricevere luce sia da ciò che precede (vv. 9-10) sia anche da ciò che segue (vv. 1217). Ci riferiamo in particolare a ciò che precede. La gioia di Gesù sembra consistere nel suo essere nell’amore del Padre. Tale gioia egli comunica ai discepoli, permettendo loro di pervenire anch’essi e “rimanere” nell’amore del Padre. In questo modo, rimanendo cioè anch’essi nell’amore del Padre, i discepoli perverranno al termine del loro cammino, alla pienezza cioè della loro gioia. 2.5.1. Struttura del testo Tuttavia il v. 11 non è senza relazione a ciò che segue. Possiamo infatti stabilire una relazione tra il v. 11 e il v. 17, che può costituire anche una inclusione letteraria.

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v. 11: Tau%ta lelaélhka u|m_n, v. 17: tau%ta e\nteéllomai u|m_n La vera relazione però si stabilisce tra l’espressione del v. 12 e quella del v. 17, che possono costituire anche una vera inclusione letteraria. La relazione è la seguente: v. 12. v. 17. au$th e\stìn tau%ta h| e\ntolhè e\nteéllomai h| e\mhé, u|m_n i$na a\gapa%te a\llhélouv i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v.

Non mancano le differenze, ma sono evidenti anche le somiglianze. Nel v. 13 l’evangelista specifica ulteriormente l’amore vicendevole, introdotto nel v. 12, menzionando anche la meòzona […] a\gaéphn, al di sopra della quale non ce ne può essere altra: questa consiste nel porre la propria vita per gli amici (u|peèr twèn fòlwn au\tou%). Si introduce così, nel v. 13, un elemento nuovo, quello degli “amici (fòloi)”, presentati come coloro per i quali si pone la vita. Nel v. 14 poi Gesù applica la categoria degli “amici” ai discepoli: essi sono (fòloi moué e\ste) suoi amici, a una condizione però, se fanno (e\an è poih%te) ciò che egli comanda loro (a£ e\gwè e\nteéllomai u|m_n). Nel v. 15 Gesù torna a parlare della nuova condizione dei discepoli come “suoi amici”. Nel v. 14a dichiara di non chiamarli più (ou\keéti) “servi (douélouv)” e ne spiega anche il motivo (o$ti): il servo non sa cosa fa il suo padrone; al contrario (deé), egli li ha dichiarati (ei"rhka) amici per il fatto che a loro ha reso noto (e\gnwérisa) tutto ciò (paénta a$) che egli ha udito (h"kousa) dal Padre, Troviamo nei vv. 13-15 quattro espressioni gravitanti attorno alla nuova condizione dei discepoli come amici. Esse, tranne la terza (v. 15a), condividono tutte il termine fòloi. Esse non hanno quasi altro elemento letterario che permetta di stabilire una relazione. Tuttavia possiamo stabilire tra di esse, dal punto di vista tematico, una relazione concentrica. La prima (v. 13) e la quarta frase (v. 15b) descrivono l’opera di Gesù verso gli amici: rispettivamente, ha manifestato loro ciò che ha udito dal

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Padre (v. 15b) e per loro, nella dimensione di un più grande amore, formulato magari come un principio generale, ha dato per loro la vita (v. 13). La seconda (v. 14) e terza frase (v. 15a) descrivono invece, in forma di contrapposizione (deé), la condizione dei discepoli: questi non sono più “servi (douéloi)”, ma “amici (fòloi)”. Le due espressioni condividono lo stesso verbo poieéw, che serve ad esprimere, rispettivamente, un diverso modo di essere o di agire: il servo (o| dou%lov) non sa ciò che (tò poie_) fa il suo padrone (v. 15a); i discepoli invece, per essere suoi “amici” debbono fare (e\anè poih%te) tutto ciò che Gesù comanda (v. 14). Possiamo allora proporre il seguente schema concentrico: v. 13. meòzona tauéthv a\gaéphn ou\deìv e"cei, i$na tiv thèn yuchèn au\tou% q+%

u|peèr twèn fòlwn au\tou% v. 14. u|me_v fòloi moué e\ste e\an è poih%te a£ e\gwè e\nteéllomai u|m_n v. 15a. ou\keéti leégw u|ma%v douélouv, o$ti o| dou%lov ou\k oùden tò poie_ au\tou% o| kuériov v. 15b. u|ma%v deè ei"rhka fòlouv, o$ti paénta a£ h"kousa paraè tou% patroév mou e\gnwérisa u|m_n. Il v. 16 introduce altri aspetti tematici: non si menziona più né la e\ntolhé, né si parla più dei fòloi, né è ribadito più il comando dell’amore vicende-

vole. Si introducono invece tre aspetti tematici progressivi: la scelta operata non dai discepoli ma da Gesù38, lo scopo della scelta: portare frutto; la richiesta al Padre esaudita nel nome di Gesù. Possiamo proporre allora una struttura globale, tematicamente concentrica dei vv. 12-17: (v. 12): Il comandamento di amarsi a vicenda (i$na a\gapa%te a\llhélouv), (vv. 13.15): gli amici (fòloi), 38 Possiamo notare nel v. 16a una espressione strutturata secondo uno schema alternato e concentrico insieme:

ou\c u|me_v me e\xeleéxasqe, a\ll’e\gwè e\xelexaémhn u|ma%v,

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(v. 16):

la scelta fatta da Gesù (a\ll’e\gwè e\xelexaémhn u|ma%v), (v. 17): Il comandamento di amarsi a vicenda (i$na a\gapa%te a\llhélouv). All’interno dei vv. 12-17 si può individuare una struttura più delimitata nei vv. 14-17, stabilita dal verbo e\nteéllomai, che acquista così una più specifica importanza: v. 14: e\nteéllomai, v. 15: fòloi, v. 16: e\xelexaémhn, v. 17: e\nteéllomai. Gesù ha scelto i discepoli (e\xelexaémhn) e li ha introdotti nella condizione di “amici (fòloi)”; essi però lo saranno a condizione che facciano ciò che lui comanda (e\nteéllomai). 2.5.2. Le relazioni di 15,12-17 Il testo di 15,12-17 presenta due relazioni, una per antitesi ed una per continuità. La relazione per antitesi si stabilisce con i vv. 18-19 seguenti, quella per continuità si stabilisce invece con vv. 9-10 precedenti. Cominciando dalla relazione per antitesi, nei vv. 18-19 Gesù ammonisce i discepoli a non meravigliarsi se il mondo li odia: prima di loro questo ha odiato lui. Spiega poi Gesù che se essi, i discepoli, fossero stati del mondo, questo avrebbe amato ciò che è suo (a!n toè i"dion e\fòlei). Essi però non sono del mondo, avendoli Gesù scelti (e\xelexaémhn) dal mondo. Si ottiene così uno schema alternato: (vv. 13-15): gli amici (fòloi) di Gesù, (v. 16): Gesù ha scelto (e\xelexaémhn) i discepoli, (v.19a): il mondo avrebbe amato (a!n toè i"dion e\fòlei), (v. 19b): Gesù ha scelto (e\xelexaémhn) i discepoli. Il mondo avrebbe creduto di potere coinvolgere i discepoli nella sua intimità (e\fòlei)39, ma Gesù, scegliendoli (e\xelexaémhn), li ha sottratti ad 39 Forse l’allusione è alla fuga dei discepoli al Getsemani, che Giovanni non narra ma che sembra non ignorare?

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esso e li ha introdotti nella sua intimità come amici (fòloi), a condizione però che essi osservano il suo comandamento. La relazione per continuità si stabilisce soprattutto tra il v. 10a e il v. 14; possiamo infatti stabilire il seguente schema concentrico: v. 10a: «se i miei comandamenti (taèv e\ntolaév mou) osserverete», «rimarrete (mene_te) nel mio amore (e\n t+% a\gaép+ mou)», v. 14: «voi siete miei amici (fòloi)», «se fate ciò che io comando a voi (a£ e\gwè e\nteéllomai u|m_n)». L’osservanza dei comandamenti di Gesù determina, nei discepoli, due effetti: essi “rimarranno” nell’amore di Gesù e saranno suoi “amici”. I due aspetti appaiono complementari. Rimanere nell’amore di Gesù implica un dinamismo attivo da parte dei discepoli: essi perverranno e rimarranno nell’amore di Gesù; essere suoi amici invece implica, da parte dei discepoli, un dinamismo passivo: essi saranno accolti nell’intimità di Gesù come amici. I due aspetti, forse, possono anche essere messi assieme nel seguente modo: sottratti al mondo, scelti da Gesù e introdotti, “come amici”, nell’intimità di Gesù, essi, mediante l’osservanza dei comandamenti, debbono rendere stabile (e\steé) questa posizione in cui sono stati introdotti. Divenuti amici di Gesù, essi, sempre mediante l’osservanza dei comandamenti, debbono definitivamente “rimanere (mene_te)” nel suo amore. 2.6. Osservazioni conclusive Rileggendo globalmente tutti i testi considerati nei paragrafi precedenti, possiamo concludere anzitutto che esiste, nel vangelo di Giovanni, una relazione molto stretta tra la e\ntolhé (comandamento) e la dimensione dell’amore, espressa anche con il sostantivo a\gaéph (amore), ma soprattutto con il verbo a\gapaéw (amare). In tale relazione, benché in maniera diversa, sono coinvolti sia il Padre, che Gesù e i discepoli. Il Padre è soggetto sia della e\ntolhé che dell’a\gaéph: nel senso che lui dà un comando (e\ntolhé) e da lui parte quella che abbiamo definito “la storia dell’a\gaéph”. Gesù è insieme oggetto della e\ntolhé che gli ha dato il Padre ed è oggetto anche del suo amore (h\gaéphseén me); nello stesso tempo è anche

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L’a\gaéph e la e\ntolhé nel vangelo di Giovanni

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soggetto di una e\ntolhé che egli propone ai discepoli ed è anche soggetto di amore verso di loro. I discepoli sono infine oggetto della e\ntolhé di Gesù e anche della sua azione di amore (h\gaéphsa); ma, in certo sono anche soggetto di una azione di amore. Il Padre ha amato Gesù e gli ha dato un comando. Gesù ha ricevuto il comando del Padre ma anche la sua azione di amore; egli però, a sua volta ha dato un comando ai discepoli ed ha compiuto, verso di loro, una analoga azione di amore. Infine i discepoli ricevono il comando di Gesù e compiono una azione di amore reciproco. In tale azione di amore essi sono insieme oggetto e soggetto: infatti, nella reciprocità, ricevono dagli altri una azione di amore e insieme verso gli altri la compiono. Nel rapporto tra la e\ntolhé e l’a\gaéph, la priorità è di quest’ultima: la e\ntolhé scaturisce dall’a\gaéph. Il Padre ha amato Gesù e da questa azione scaturisce per Gesù una e\ntolhé: si direbbe che la vera e\ntolhé si manifesta non tanto con parole, ma è insita nella stessa azione di amare. Analogamente Gesù ama i discepoli e da questa azione scaturisce ancora, per i discepoli, la e\ntolhé dell’amore vicendevole. Appunto perché scaturisce dall’a\gaéph, la e\ntolhé ha due caratteristiche: è anzitutto una risposta all’amore ricevuto e inoltre il suo contenuto è ancora sulla stessa linea dell’ a\gaéph. Il Padre ha amato Gesù e questi deve rispondere a tale azione osservando la sua e\ntolhé che consiste nell’amare i discepoli. Gesù ha amato i discepoli e questi devono rispondere a tale azione osservando la sua e\ntolhé che consiste nell’amarsi gli uni gli altri. Gesù è stato amato dal Padre e ciò contiene e costituisce per lui il comando di amare i discepoli; questi sono stati amati da Gesù e ciò contiene e costituisce per loro il comando di amarsi gli uni gli altri. In altri termini, essendo stato amato dal Padre, Gesù deve amare i discepoli; questi, essendo stati amati da Gesù, debbono amarsi a vicenda. Sia per Gesù che per i discepoli, la e\ntolhé è un comando di amore e scaturisce dall’evento di amore ricevuto; analogamente ai comandamenti dell’antica alleanza, scaturenti, e proposti al popolo come risposta, dall’evento di salvezza, operato da Dio nell’esodo dall’Egitto: scaturenti i comandamenti, in ultima analisi, dallo stesso amore e dalla stessa fedeltà di Dio. Benché sia la e\ntolhé del Padre a Gesù che quella di Gesù ai discepoli, si riconducano al comune denominatore di amare, tuttavia essa ha dei

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contenuti concreti. In un altro studio avanziamo l’ipotesi che il Padre ha amato Gesù dando, fin dall’eternità, ogni cosa nelle sue mani. Gesù deve amare i discepoli dicendo loro ciò che il Padre gli ha comandato (12,49), ma soprattutto, dando la vita per loro (10,17-18). I discepoli si ameranno a vicenda mediante un’opera di accoglienza e di servizio, indicata nell’azione di lavarsi i piedi a vicenda (13,13-15). Emerge così una triplice funzione della e\ntolhé in relazione all’a\gaéph. Essa riguarda l’origine, il cammino concreto, il termine del cammino. Quanto all’origine, per Gesù la e\ntolhé scaturisce dall’amore del Padre e per i discepoli dall’amore di Gesù. Quanto al cammino concreto, per Gesù coincide con il dono della propria vita con tutte le conseguenze che ne derivano; per i discepoli coincide con il diuturno e continuo amore vicendevole nella vita concreta. Quanto al termine, infine, l’osservanza della e\ntolhé conduce Gesù e lo radica stabilmente nell’amore del Padre; essa conduce poi i discepoli nell’intimità di Gesù e li radica stabilmente nel suo amore e, attraverso di lui, nell’amore del Padre. La sintesi di tutto ciò, benché assai schematica, è contenuta in 15,9-10, dove, l’una dentro l’altra, sono delineate due storie: una più ampia, dal Padre al Padre, e una più delimitata, da Gesù a Gesù. Quest’ultima parte da Gesù, giunge ai discepoli, riparte da essi e giunge a Gesù; quella più ampia parte dal Padre, giunge a Gesù; riparte da Gesù e giunge ai discepoli; risale poi dai discepoli a Gesù e da questi giunge al Padre. Attraverso la osservanza della e\ntolhé si realizza così una unità di amore, nella quale sono coinvolti sia il Padre, sia Gesù, sia anche i discepoli. Questa sembra costituire quella “conoscenza” del Padre e di colui che egli ha mandato, Gesù Cristo e che coincide con la vita eterna (17,3) e questa sembra essere quell’unità nella quale i discepoli, vivendo nel mondo, debbono permanere (17,21a), e mediante la quale debbono mostrare al mondo che il Padre ha veramente inviato Gesù (17,21b.23).

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IL COMANDAMENTO DI GESÙ AI DISCEPOLI NEGLI SCRITTI GIOVANNEI

Nel vangelo di Giovanni, gli usi del termine e\ntolhé, come anche il verbo e\nteéllomai, tranne che in 11,571, gravitano attorno a Gesù, sia come destinatario di un comando che egli riceve da parte del Padre, sia come soggetto di un comando che egli propone ai discepoli. In relazione a Gesù destinatario di un comando del Padre, il termine e\ntolhé si legge in 10,18; 12,49-50; 14,312 e, infine 15,10b. In relazione poi a Gesù, soggetto di un comando, invece, il sostantivo e\ntolhé si legge in 13,34; 14,15.21; 15,10a.12. Prescindendo da 14,31, incerto, il verbo e\nteéllomai, nei due usi certi di 15,14.17, è sempre riferito a Gesù come soggetto. Sia in relazione a Gesù, destinatario di un comando da parte del Padre, sia anche in relazione ai discepoli, destinatari di un comando da parte di Gesù, il termine e\ntolhé è usato al plurale (e\ntolaò) quando non è unito ad una concreta determinazione, mentre è usato al singolare (e\ntolhé) quando è riferito ad un comando specifico. In relazione a Gesù destinatario, il termine e\ntolhé è usato al singolare in 10,18 e in 12,49-50, mentre è usato al In questo testo il termine è riferito ai comandi (e\ntolaév) dati (dedwékeisan) dai sacerdoti e farisei (deè oi| a\rciere_v kaì oi| farisa_oi), ovviamente al popolo, che, se qualcuno venisse a conoscenza dove si trovava Gesù, lo comunicasse, per poterlo poi catturare, 1

In questo testo c’è però un problema di critica testuale: i codici Sinaitico, Alessandrino, i codici maiuscoli Q e Y, i codici recensiti da Ferrar, la tradizione della Koinè, la versione Siriaca e Bohairica leggono e\neteòlatoé moi o| Pathér; il P75, il codice Vaticano, il codice maiuscolo L, i codici minuscoli 0250. 33, altri codici, la versione Latina e, in parte, quella Bohairica, leggono e\ntolhèn e"dwken [deédwken il cod. 33] o| Pathér. Tale problema però, al nostro scopo attuale, è irrilevante. 2

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plurale in 15,10b; in relazione ai discepoli destinatari, il termine è usato al singolare in 13,34 e in 15,12, mentre è usato al plurale in 14,15.21; 15,10a. 1. Il comandamento i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v Il comandamento che Gesù propone ai discepoli è quello dell’amore vicendevole (i$na a\gapa%te a\llhélouv), alla stessa maniera come (kaqwév) lui li ha amati (h\gaéphsa u|ma%v)3. 1.1. L’espressione nel vangelo di Giovanni In questa espressione, i due testi di 13,34 e 15,12, inclusa anche la particella i$na, sono identici; variano però i contorni. In 13,34, mediante l’espressione e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n (un comandamento nuovo dò a voi), Gesù promulga il suo comandamento; in 15,12 poi, mediante l’espressione au$th e\stìn h| e\ntolhè h| e\mhé (questo è il mio comandamento), la definisce. In 13,34 però troviamo una peculiarità: il comandamento dell’amore vicendevole appare ripetuto due volte, come emerge dal seguente schema alternato: e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v i$na kaì u|me_v a\gapa%te a\llhélouv

3 Osserva Grasso che il modello dell’amore che i discepoli debbono scambiarsi consiste nella relazione tra Padre e Figlio. L’AT conosceva la legge dell’amore (Es 23,45; Lev 19,17-18, Dt 22,1-4) e a Qumran l’amore divino è il fondamento della vita dei compagni della comunità (1QS 1,3; DC 8,15.17-18; 1QH 14,26; 16,7.13). L’amore e l’odio di Dio sono la base per l’amore e l’odio degli altri (1QS 3,26-4,8; 1QH 14,10-11; 17,24). A differenza di Qumran, nel vangelo non si parla mai di odio verso qualcuno. L’amore che essi sperimentano nell’incontro con Gesù fa supporre che sia identico a quello del Padre nei confronti del Figlio. Si crea così un rapporto circolare nonché reciproco di amore, Cfr S. Grasso, Il vangelo di Giovanni, Roma 2008, 577-578. Secondo Schnelle, nella situazione della partenza di Gesù, indica come i discepoli, e con ciò la comunità eterna possono restare uniti a Gesù, cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, Leipzig 1998; 226. J. Frey, Die Johanneische Eschatologie, 3 voll. Tübingen 1997-2000: II, 312s.

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Il comandamento di Gesù ai discepoli negli scritti giovannei

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La quarta espressione richiama la seconda. Essa però non pare essere una semplice ripetizione: le aggiunte della particella kaò e del pronome u|me_v sembrano introdurre una nuova sfumatura che tenteremo di evidenziare in seguito. Nel seguente v. 35, cioè immediatamente dopo, l’evangelista cambia espressione: non scrive più i$na a\gapa%te a\llhélouv, bensì e\anè a\gaéphn e"chte e\n a\llhéloiv

1.2. Confronto con i vangeli sinottici Nei vangeli sinottici mai si legge il comandamento dell’amore vicendevole, con l’espressione a\gapa%n a\llhélouv; ripetutamente invece è proposto l’altro comandamento, quello che segue all’amore verso Dio, di amare cioè il prossimo (toèn plhsòon) come se stessi (w|v seautoén). In Mt 5,43 questo comandamento è completato dalla controparte: «odierai il tuo nemico», che Gesù corregge, prescrivendo l’amore anche verso il nemico (v. 44) e spiegando che non c’è alcuna ricompensa (misqoén) se si amano quelli che ci amano (v. 45). In Mt 19,19 il comandamento di amare il prossimo come se stessi si legge nella lista dei comandamenti che Gesù propone al giovane ricco, che chiedeva quali essi fossero. In Mt 22,39 ancora, questo comandamento, assieme al primo, di amare cioè Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima (v. 37), è proposto al dottore della legge (nomikoév) che gli chiedeva quale fosse il più grande comandamento della legge. Gesù poi spiega che “in questi due comandamenti” poggia (kreématai) tutta la legge e i profeti. Anche Marco, parallelamente a Mt 22,34-40, riferisce, in 12,28-34, il dialogo di Gesù con uno scriba (eàv tw%n grammateéwn) che gli chiedeva quale fosse il comandamento che sta prima di tutti gli altri. Gesù richiama, in maniera più ampia, anzitutto il comandamento di amare Dio; poi aggiunge anche il secondo (deuteéra): amare il prossimo come se stessi. Spiega infine che non c’è altro comandamento migliore di questi. Lo scriba ripete, assieme a quello di amare Dio, anche il comandamento di amare il prossimo, elogiando Gesù per avere parlato bene (v. 32) e precisando che amare Dio e il prossimo, vale più di tutti gli olocausti e sacrifici (v.33). Gesù dichiara allo scriba che non è lontano dal Regno di Dio (v. 34).

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In Lc 6,27-35, Gesù ripropone l’insegnamento dell’amore verso i nemici (a\gapa%te touèv e\cqrouèv u|mw%n). Esso è menzionato nel v. 27 ed è ripetuto anche nel v. 35. In questo testo però, a differenza del testo parallelo di Matteo, non si parla esplicitamente di amore verso il prossimo e l’amore verso il nemico non è una specificazione dell’amore verso il prossimo. Il comandamento di amare il prossimo (toèn plhsòon sou) come se stessi (w|v seautoén), dopo quello di amare Dio, è riferito da Luca in 10,27, ancora nel contesto di un dialogo tra Gesù e un dottore della legge (nomikoév tiv). A differenza però di Matteo e Marco, che mettono i due comandamenti in bocca a Gesù, Luca invece li mette in bocca allo stesso scriba. Il terzo evangelista introduce però una ulteriore domanda del dottore della legge: «chi è il mio prossimo (tòv e\stòn mou plhésion)?». Tale ulteriore domanda determina l’introduzione della parabola del buon Samaritano (vv. 30-36). Il comandamento di amare il prossimo è menzionato anche da Paolo, in Rm 13,9 e in Gal 5,14. In Rm 13,9 l’apostolo spiega che ogni altro comandamento si riassume nella parola: «amerai il prossimo tuo (toèn plhsòon sou) come te stesso (w|v seautoén)». Possiamo notare che, nel contesto (13,8), l’Apostolo menziona anche l’amore vicendevole (toè a\llhélouv a\gapa%n), come l’unico debito che si è contratto verso gli altri («a nessuno niente dovete se non […]») Anche in Gal 5,14 Paolo dichiara che tutta la legge (pa%v noémov) in una sola parola è stata portata a pienezza (peplhérwtai), cioè nel (comandamento) a\gaphéseiv toèn plhsòon sou w|v seautoén. Nel testo di Gal 5,14 l’amore verso il prossimo è relazionato al servizio reciproco (douleuéete a\llhéloiv), mediante l’amore (diaè th%v a\gaèphv), menzionato appena prima: «per mezzo dell’amore servitevi a vicenda»4. L’ultimo testo neotestamentario, dove è menzionato il comandamento dell’amore verso il prossimo, è Gc 2,8; in questo testo il comandamento è definito “legge regale (noémon […] basilikoén)”, cioè come legge più importante e più nobile. Nel vangelo di Giovanni mai è menzionato il comandamento dell’amore verso il prossimo; lo stesso termine plhsòon, in Giovanni, si legge soltanto in 4,5, riferito in forma avverbiale alla città della Samaria detta (legomeénh) 4 Un testo analogo potrebbe essere Ef 4,25, dove l’apostolo esorta «a dire la verità ciascuno con il suo prossimo (metaè tou% plhsòon au\tou%)».

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Il comandamento di Gesù ai discepoli negli scritti giovannei

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Sichar, prossima (plhsòon) al campo che diede Giacobbe a Giuseppe suo figlio. Inoltre il termine è assente anche in tutto l’epistolario giovanneo. L’espressione a\gaphéseiv toèn plhsòon sou w|v seautoén si legge, identica, in Lev 19,18: si tratta di un comandamento che Dio propone in maniera perentoria. In Dt 10,18 inoltre leggiamo l’espressione a\gapç% toèn proshéluton (ama il proselito); ma il cod. A, al posto di proshéluton, legge il termine plhsòon. Concludendo, nei vangeli sinottici leggiamo, ripresa esclusivamente, l’espressione di Lev 19,18 a\gaphéseiv toèn plhsòon sou w|v seautoén; mai si legge l’altra a\gapa%n a\llhélouv. Nei testi paolini sopra citati invece è menzionato sia l’amore verso il prossimo, sia anche l’amore vicendevole. Al contrario, in Giovanni, sia nel vangelo come anche nelle lettere, l’amore verso il prossimo non è mai menzionato, ma soltanto l’amore vicendevole. Rimane il problema sulla relazione tra il comando di “amare il prossimo”, prevalente nei vangeli sinottici e quello di “amarsi a vicenda”, tipico, benché non esclusivo, del vangelo di Giovanni. 1.3. L’espressione a\gapa%n a\llhélouv nel NT Come abbiamo già osservato sopra, l’espressione a\gapa%n a\llhélouv è tipica della letteratura giovannea, benché non esclusiva. Nel quarto vangelo si legge infatti quattro volte (13,34.35; 15,12.17); in 13,34 poi si legge l’espressione e\aèn a\gaéphn e"chte e\n a\llhéloiv (se amore avete a vicenda). Nell’epistolario giovanneo si legge poi sei volte (1Gv 3,11.23; 4,7.11.12; 2Gv 5). Oltre gli scritti giovannei, l’espressione, nel NT, è molto rara. Essa si legge soltanto tre volte, in Rm 13,8, in 1Ts 4,9 e in 1Pt 1,22. In Rm 13,8, già sopra citato, Paolo scrive: «niente a nessuno (mhdenì mhdeén) dovete (o\feòlete) se non l’amare vicendevole (ei\ mhè toè a\llhélouv a\gapa%n)». Paolo definisce un dovere, e questo è l’unico, quello di amarsi a vicenda. In 1Ts 4,9 Paolo scrive: «a riguardo dell’amore fraterno (perì deè th%v filadelfòav) non avete bisogno che vi scriva: voi stessi infatti siete istruiti da Dio (qeodòdaktoi) ad amarvi a vicenda (ei\v toè a\gapa%n a\llhélouv)». Paolo afferma che, per quanto riguarda l’amore vicendevole, i suoi cristiani

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sono direttamente da Dio istruiti. L’espressione ei\v toè a\gapa%n a\llhélouv è alquanto generica; essa può riferirsi sia al fatto stesso di amarsi a vicenda, sia sulla maniera stessa come amarsi. In 1Pt 1,22 l’apostolo esorta i cristiani: «dopo avere purificato le proprie anime nell’obbedienza alla verità, per un amore fraterno (ei\v filadelfòan) senza simulazione (a\nupoékriton), con cuore puro (e\k [kaqara%v] kardòav) a vicenda amatevi (a\llhélouv a\gaphésate) intensamente». Da questo testo appare che l’amore fraterno è possibile solo se si è purificato il cuore mediante l’obbedienza alla verità. La rarità dell’espressione a\gapa%n a\llhélouv, nel NT, oltre gli scritti giovannei, rivela che essa non doveva essere usuale nella comunità primitiva, ma che doveva essere più comune, come appare anche dai vangeli sinottici, quella riconducibile a Lev 19,18. L’espressione a\gapa%n a\llhélouv invece doveva essere più frequente nella comunità giovannea. Gli usi paolini, benché rari, suggeriscono tuttavia che tale espressione, che esorta all’amore non verso il prossimo ma a quello vicendevole, non sia nata nella comunità giovannea, ma che, in qualche modo, doveva cominciare a rendersi presente nella più ampia comunità primitiva; essa avrebbe poi trovato uno sviluppo più ampio di applicazione in ambiente giovanneo. Il testo di Rm 13,8-10, che menziona, accostandoli, sia l’amore vicendevole sia quello verso il prossimo, potrebbe in certo modo attestare un passaggio di riflessione dall’espressione a\gaphéseiv toèn plhsòon sou w|v seautoén, che sembra prevalere nel testo paolino, a quella di a\gapa%n a\llhélouv menzionata nel v. 8. Il passaggio non sarebbe difficile: l’amore verso il prossimo infatti non è unilaterale, ma si riferisce a tutti i cristiani a vicenda, perché ciascuno è prossimo dell’altro e deve vedere nell’altro il suo prossimo. L’amore verso il prossimo diventa così un fatto reciproco che può tradursi facilmente nell’amore vicendevole. Alcuni testi del NT potrebbero anche indicare tale evoluzione. Ci riferiamo specificamente a Rm 12,9; 2Cor 6,6; Gal 5,13; Ef 1,15; 4,2; Col 1,4; 1Ts 3,12; 1Pt 5,14; 2Pt 1,7. In Rm 12,9 Paolo, mediante l’espressione h| a\gaéph a\nupoékritov, esorta ad una carità senza alcuna falsità: evidentemente si tratta di una carità che

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Il comandamento di Gesù ai discepoli negli scritti giovannei

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si attua reciprocamente; così anche in 2Cor 6,6, dove l’apostolo, dopo avere esortato a presentarsi come ministri di Dio in ogni cosa (v. 4), elenca i vari modi finalizzati a questo scopo. Tra questi c’è anche una carità che non dev’essere falsa (e\n a\gaép+ a\nupokròt§). In Gal 5,13 Paolo esorta: «per mezzo della carità (diaè th%v a\gaéphv), servitevi a vicenda (douleuéete a\llhéloiv)». In questo testo è presente la reciprocità, legata però al servizio; La carità tuttavia non è esclusa: essa è vista come un mezzo, mediante il quale è possibile realizzare il servizio reciproco. In Ef 1,15 Paolo incessantemente ringrazia il Signore e fa memoria degli Efesini nella sua preghiera per avere sentito parlare della loro fede nel Signore Gesù e della carità (thèn a\gaéphn) che hanno verso tutti i santi (thèn ei\v paéntav touèv a|gòouv); analogo ringraziamento, per lo stesso motivo, Paolo rivolge a Dio in Col 1,4. In Ef 4,2 Paolo esorta i fedeli a camminare nella vocazione a cui sono stati chiamati. Tra i modi indicati a questo scopo c’è anche quello di accogliersi a vicenda (a\necoémenoi a\llhélouv) in carità (e\n a\gaép+). In 1Pt 5,14 l’apostolo esorta a salutarsi a vicenda (a\spaésasqe a\llhélouv) con un bacio di amore (e\n filhémati a\gaéphv) e, in 2Pt 1,7 infine esorta ad accrescere (e\picorhghésate) la carità (thèn a\gaéphn) nella fraternità (e\n t+% filadelfòç). Benché esplicitamente in questi testi non si legga l’espressione a\gapa%n a\llhélouv, tuttavia la carità (a\gaéph) entra a caratterizzare tra i fedeli i rapporti reciproci. In questo senso essi possono, in certo modo, preparare la formulazione dell’espressione a\gapa%n a\llhélouv. 1.4. Il pronome di reciprocità a\llhélwn Per caratterizzare ulteriormente l’espressione a\gapa%n a\llhélouv, è utile considerare anche, in se stesso, nei suoi usi vetero e neotestamentari, il pronome di reciprocità a\llhélwn. Tale pronome, nel NT, è usato con relativa frequenza, 110 volte. In Matteo si legge tre volte5; in Marco cinque

5

Cfr. Mt 24,10 (bis); 25,32.

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volte6; in Luca undici volte7; otto volte nel libro degli Atti degli Apostoli8; 41 volte nell’epistolario paolino9; sette volte nell’epistolario giovanneo10; dieci volte nelle altre lettere del NT11. Nel vangelo di Giovanni si legge infine 15 volte12. Talora il termine a\llhélwn è riferito ad una azione che è compiuta vicendevolmente. Così Gesù, in Mt 24,10, prevede, per il tempo escatologico che a vicenda (a\llhélouv) gli uomini si tradiranno e si odieranno a vicenda (a\llhélouv). In Mt 25,32 poi leggiamo che, nel giudizio, il Signore dividerà le genti separandole gli uni dagli altri (a\p’a\llhélouv). In Mc 9,50 il Signore esorta ad avere pace gli uni con gli altri (e\n a\llhéloiv). Luca ci informa che Erode e Pilato divennero vicendevolmente (met’a\llhélwn) amici (Lc 23,12). In Gal 5,17 poi Paolo ricorda che ciò che brama la carne e ciò che brama lo Spirito si oppongono a vicenda (a\llhéloiv a\ntòkeitai)13. Talora l’espressione proèv a\llhélouv è riferita ad un dialogo vicendevole14. Limitandoci soltanto agli usi che riguardano la vita cristiana, possiamo citare anzitutto diversi testi della lettera ai Romani. In 12,5 l’apostolo, dopo aver detto, nel verso precedente, che nel corpo vi sono molte membra ma non tutte hanno la stessa funzione, applica la metafora ai cristiani, i quali, pur essendo molti, formano un solo corpo in Cristo, essendo ciascuno membro dell’altro a vicenda (kaq’eàv a\llhélwn meélh). Nel seguente v. 10 l’Apostolo continua: «amanti con affetto fraterno a vicenda (t+% filadelfòç ei\v a\llhélouv filoéstorgoi), gareggianti a vicenda nell’onore (t+% tim+% ei\v a\llhélouv prohgouémenoi)»; nel v. 16 poi aggiunge: «avendo gli stessi sentimenti (toè 6 7 8

Cfr. Mc 4,41; 8,16; 9,34.50; 15,31.

Cfr. Lc 2,15; 4,36; 6,11; 7,32; 8,25; 12,1; 20,14; 23,12; 24,14.17.32. Cfr. 4,15; 7,26; 15,39; 19,38; 21,6; 26,31; 28,4.25.

Cfr. Rm 1,12.27; 2,15; 12,5.10 (bis).16; 13,8; 14,13.19; 15,5.7.14; 16,16; 1Cor 7,5; 11,33; 12,25; 16,20; 2Cor 13,12; Gal 5,13.15 (bis).17.26 (bis); 6,2; Ef 4,2.25.32; 5,21; Fil 2,3; Col 3,9.13; 1Ts 3,12; 4,9.18; 5,11.15; 2Ts 1,3; Tt 3,3; Eb 10,24. 9

10 11 12 13

Cfr. 1Gv 1,7; 3,11.23; 4,7.11.12; 2Gv 5.

Gc 4,11; 5,9. 16 (bis); 1Pt 1,22; 4,9;; 5,5 (b9s).14; Ap 6,4; 11,10.

Cfr. 4,33; 5,44; 6,43.52; 11,56; 13,14.22.34.34.35; 15,12.17; 16,17.19; 19,24. Cfr. anche Lc 7,32; 12,1; At 7,26; 15,39; 21,6; 28,25.

Cfr. Mc 4,41; 8,16; 9,34; 15,31; Lc 2,15; 4,36; 6,11; 8,25; 20,14; 24,14.17.32; At 4,15; 26,31; 28,4. 14

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au\toé […] fronou%ntev) a vicenda (ei\v a\llhélouv)». Ancora, in 14,13, l’apostolo esorta a non giudicarsi a vicenda (mhkeéti ou&n a\llhélouv krònwmen), ma

a badare come non porre al fratello inciampo o scandalo e, nel seguente v. 19, esorta a perseguire (diwékwmen) le cose orientate verso la pace e verso l’edificazione vicendevole (th%v ei\v a\llhélouv). In 15 5 Paolo implora per i suoi cristiani il dono di sentire (frone_n) la stessa cosa (toè au\toé) a vicenda (e\n a\llhéloiv) secondo Gesù Cristo. Nel seguente v. 7 esorta all’accoglienza reciproca (proslambaénesqe a\llhélouv) come anche Cristo accoglie; nel v. 14 poi elogia i romani come capaci anche di correggersi a vicenda (a\llhélouv nouqete_n). Infine, in 16,16, chiudendo la sua lettera, Paolo esorta a salutarsi a vicenda (a\spaésasqe a\llhélouv) con un bacio santo (e\n filhémati a|gò§). La stessa esortazione poi Paolo rivolge in 1Cor 16,20 e in 2Cor 13,12. In 1Cor 7,5 Paolo esorta il marito e la moglie a non “defraudarsi” l’un l’altro (mhè a\postere_te a\llhélouv), e, in 11,33, esorta, quando ci si raduna per la cena, ad aspettarsi a vicenda (a\llhélouv e\kdeécesqe); in 12,25 esorta le varie membra a curare la stessa cosa a vantaggio reciproco (u|peèr a\llhélwn). In Gal 5,13 poi esorta a servirsi reciprocamente (douleuéete a\llhéloiv) per mezzo della carità (diaè th%v a\gaéphv); in 5,27 inoltre esorta a non cercare la vana gloria, provocandosi a vicenda (a\llhélouv prokalouémenoi), a vicenda invidiandosi (a\llhéloiv fqonou%ntev); Infine in 6,2 l’apostolo esorta a portare gli uni i pesi degli altri (a\llhélwn taè baérh bastaézete), adempiendo così la legge di Cristo. Pure importanti sono i testi della lettera agli Efesini. In Ef 4,2 Paolo esorta ad accogliersi a vicenda in carità (a\necoémenoi a\llhélwn e\n a\gaép+), con umiltà, mitezza e longanimità. Nel seguente v. 25 l’apostolo continua esortando a dire, deposta la menzogna, ciascuno la verità con il proprio prossimo, essendo a vicenda membra (del corpo) (a\llhélwn meélh). Ancora in 4,32 esorta ad essere benevoli gli uni verso gli altri (ei\v a\llhélouv crhstoò). Infine in 5,21 parla della reciproca sottomissione (u|potassoémenoi a\llhéloiv) nel timore di Cristo. Anche nelle altre lettere della prigionia troviamo analoghe esortazioni. In Fil 2,3 Paolo esorta a ritenersi a vicenda (a\llhélouv), con umiltà, superiori a se stessi. In Col 3,9 leggiamo l’esortazione a non mentirsi a vicenda (ei\v a\llhélouv). Nel seguente v. 13 della stessa lettera poi esorta a sopportarsi a vicenda (a\necoémenoi a\llhélwn).

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Sono pure significativi gli auspici e le esortazioni dell’apostolo nelle due lettere ai Tessalonicesi. In 1Ts 3,12 augura che il Signore faccia crescere ed abbondare nell’amore vicendevole (t+% a\gaép+ ei\v a\llhélouv); ringrazia perché cresce l’amore di ciascuno a vicenda (ei\v a\llhélouv); inoltre esorta a consolarsi a vicenda (parakale_te a\llhélouv) (4,18; 5,11), a perseguire il bene a vicenda (ei\v a\llhélouv) e verso tutti (5,15). In Tt 3,3 l’apostolo ricorda il tempo quando ci si odiava a vicenda (misou%ntev a\llhélouv); In Eb 10,24 l’autore esorta a stimolarsi a vicenda (katanowémen a\llhélouv) nell’emulazione della carità (a\gaéphv) e delle buone opere; Giacomo poi esorta a non sparlare (4,11) gli uni degli altri (mhè katalale_te a\llhélwn), a non lamentarsi gli uni degli altri (kat’a\llhélwn) (5,9), a confessare a vicenda (a\llhéloiv) i propri peccati e pregare gli uni per gli altri (u|peèr a\llhélwn) (5,16). Anche Pietro propone analoghe esortazioni: ad essere ospitali gli uni gli altri (ei\v a\llhélouv) (4,9), ad essere sottomessi agli anziani e a tutti a vicenda (paéntev deè a\llhéloiv) (5,5), a salutarsi a vicenda (a\llhélouv) con un bacio di carità (a\gaéphv), Tutti questi testi rivelano che fa parte della vita cristiana un particolare rapporto vicendevole15. Il fondamento di ciò forse è indicato in Rm 12,5: siamo gli uni membra degli altri, appartenenti tutti ad un unico corpo che è quello di Cristo; in 1Cor in 12,25 Paolo esorta, come abbiamo già osservato, le varie membra ad avere cura reciproca, appunto perché membra dello stesso corpo, come l’apostolo dirà poi in tutto il contesto del cap. 12. In questa prospettiva possiamo collocare anche l’espressione a\gapa%n a\llhélouv; l’amore vicendevole, come le altre realtà sopra indicate, appare come un elemento fondamentale che caratterizza i rapporti bilaterali della vita cristiana. Non si tratta più di una realtà unidirezionale, come potrebbe essere l’amore verso il prossimo, bensì di una realtà bilaterale. In questo 15 Barrett cita esempi dal libro apocrifo dei dodici patriarchi, cfr. R.H. Charles (Ed.), The Apocrypha and Psudepigrapha of the Old Testament. II: Psudepigrapha, Oxford 1977 (repr. of 1913), 282-367: cfr. T. Simeon 4,6f; Benjamin 4,3; Gad 6,1; cita anche Giuseppe Flavio (Bellum II, 119) che osserva che gli esseni sono particolarmente filaéllhloi, (cfr. 1QS 8,2), cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, London 19853 , 458.

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scambio il cristiano, donando e ricevendo l’a\gaéph, cresce e fa crescere nella dimensione cristiana. Nei LXX il pronome di reciprocità (a\llhélwn) è molto più raro; si legge in tutto 48 volte, usi quantitativamente molto più limitati, a differenza del NT. Spesso è usato in azioni reciproche ma profane. Così Abramo (Gen 15,10) divise gli animali e collocò le due metà l’una di fronte all’altra (a\ntiproéswpa a\llhéloiv); i fratelli di Giuseppe (Gen 42,28) si turbarono l’uno verso l’altro (e\taraécqhsan proèv a\llhélouv). Ornamenti del tempio erano uniti l’uno all’altro (Es 26,3.5.6; 39,4 [36,11]; 38,15 [37,17]); i figli di Ammon e di Moab insorsero a distruggersi a vicenda (ei\v a\llhélouv) (2Cr 20,23); Ioas re di Israele ed Amasia re di Giuda e si incontrarono (w"fqhsan a\llhéloiv) in Bet-Shemesh (2Cr 25,21). Il pronome a\llhélwn è usato pure nel senso di baciarsi l’un l’altro: così Mosè ed Aronne (katefòlhsan a\llhélouv) (Es 4,27). Oppure anche nel senso di “salutarsi a vicenda (kaì h\spaésanto a\llhélouv)” (Es 18,7; Tb 5,9 [codd B A]). Possiamo notare ancora alcuni testi dai libri didattici; Gb 1,4: i figli di Giobbe si incontravano l’uno presso l’altro (proèv a\llhélouv); Gb 4,11: i figli dei leoni si lasciarono l’un l’altro (e"lipon a\llhélouv); Pr 22,2: ricco e povero si incontrarono l’un l’altro (sunhénthsan a\llhélouv): entrambi li fece il Signore; Pr 29,13: il povero e l’usuraio si incontrarono (a\llhéloiv sunelqoéntwn): di entrambi si fa vigilante il Signore; Sap 18,23: i morti ammucchiati gli uni sugli altri (e\p’a\llhélouv). Inoltre notiamo ancora altri testi profetici. In Am 4,3: (alle vacche di Basan) si preannunzia che saranno condotte nude l’una davanti all’altra (kateénanti a\llhélwn); in Is 34,15 si dice che i cervi (e"lafoi) si radunarono e videro le loro facce a vicenda (taè proéswpa a\llhélwn). A riguardo dei quattro esseri animati, si dice che le loro ali erano spiegate verso l’alto: ciascuno ne aveva due e si congiungevano a vicenda (sunezeugmeénai proèv a\llhélouv). Infine in Ez 37,17, nell’azione simbolica dei due legni, il profeta riceve l’ordine di accostarli l’uno all’altro (proèv a\llhélouv) per formare un solo bastone (ei\v r|abé don mòan). Pure nei libri dei Maccabei il pronome a\llhélwn indica una azione compiuta da due persone reciprocamente. 1Mac 4,34: (Giuda e Lisia) si scontravano a vicenda (suneéballon a\llhélouv); 7,29: (Giuda e Nicanore) si salutarono a vicenda (h\spaésanto a\llhélouv) in pace; 10,56: Tolomeo

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ed Alessandro si diedero appuntamento a Tolemaide per vedersi l’un l’altro (o$pwv i"dwmen a\llhélouv); 11,6: Gionata andò incontro a Tolomeo a Giaffa con sfarzo, si salutarono (h\spaésanto a\llhélouv) e dormirono lì; 2Mac 7,5: i sette fratelli, sul punto di subire il martirio, si esortavano a vicenda (a\llhélouv parekaéloun) con la madre. Inoltre 2Mac 14,26: l’intesa reciproca (thèn proèv a\llhélouv eu"noian); 3Mac 5,49: si baciavano a vicenda (katefòloun a\llhélouv). Altri usi del pronome a\llhélwn (a\llhélouv) sono in 4Mac 13,8.13.23.25. Nel libro di Daniele, nella storia di Susanna, il pronome a\llhélwn caratterizza la reciproca relazione dei due vecchi, entrambi presi dalla passione per Susanna: non comunicavano a vicenda (a\llhéloiv) la loro passione (v. 10 [Th]), si spiavano a vicenda (a\llhéloiv) (v. 12 [LXX]), si separarono a vicenda (a\p’allhélwn) (v. 13 [Th]); inoltre vv. 37 (LXX).38 (LXX). 51 (LXX-Th). 54 (Th).58 (LXX-Th); In 2,43 (LXX) si dice che ferro e argilla, metaforicamente riferiti a due regni, non si fonderanno l’uno con l’altro (a\llhéloiv); in 7,3 (Th) si dice che le bestie erano differenti l’una dall’altra (diafeéronta a\llhélwn). Questa breve indagine, che ha abbracciato praticamente tutti gli usi del pronome a\llhélwn nei LXX, mostra che mai, nell’AT, si caratterizza, con tale pronome, un rapporto religioso – spirituale tra gli uomini. Ciò induce a concludere che tale reciproco rapporto spirituale tra cristiani, evidenziato nel NT, non dipende dall’AT, ma, probabilmente, dalla nuova condizione della vita cristiana. Forse questa nuova condizione, almeno per quanto riguarda gli usi paolini, è quella del corpo mistico. I cristiani formano un solo corpo e sono membra gli uni degli altri. In questo modo, come membra di un unico corpo, essi si appartengono e sono chiamati a vivere un rapporto dinamico di reciprocità, caratterizzato appunto mediante il pronome a\llhélwn. 2. Il comandamento dell’ a\gapa%n a\llhélouv nella prima lettera di giovanni Pur essendo il nostro obiettivo, specificamente, il vangelo di Giovanni, ci riferiamo, in questo paragrafo, anche all’epistolario giovanneo: ciò aiuterà a cogliere meglio la particolare prospettiva della e\ntolhé dell’a\gapa%n a\llhélouv nel vangelo di Giovanni.

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2.1. Il termine e\ntolhé Il termine e\ntolhé, nella prima lettera di Giovanni, si legge un numero di volte abbastanza alto; relativamente il più alto nel NT: 14 volte in soli cinque capitoli, o 19 volte se aggiungiamo anche i cinque usi nella seconda lettera. Nel vangelo di Giovanni il termine e\ntolhé si legge 11 volte: numero che resta anche relativamente alto, se teniamo presenti i 16 usi complessivi del vangeli sinottici, l’unico uso del libro degli Atti (At 17,15) e i 22 di tutto il resto del NT, compreso anche l’epistolario paolino. Fermando la nostra attenzione soprattutto sulla prima lettera di Giovanni, possiamo individuare quattro blocchi. Il primo è nel cap. 2 (sei volte: vv. 2.3.7[ter].8); il secondo è nel cap. 3 (quattro volte: vv. 3,22.23 [bis].24); il terzo è nel cap. 4 (l’unico uso di 4,21); il quarto è nel cap. 5 (tre volte: vv. 2.3[bis]). Nella prima lettera possiamo distinguere tra gli usi del termine e\ntolhé al plurale (e\ntolaò) e quelli al singolare (e\ntolhé). Gli usi al plurale sono in 2,3.4; 3,22.24; 5,2.3 (bis); quelli al singolare sono in 2,7 (ter).8; 3,23 (bis); 4,2116. Gli usi del termine e\ntolhé al plurale sono tutti legati al tema della loro osservanza, mediante il verbo threéw,; tranne in 5,2, dove è usato non il verbo threéw bensì il verbo poieéw (poiw%men), e anche in 5,3b, dove l’autore nota che i comandamenti del Signore non sono pesanti (bare_ai ou\k ei\sòn). In relazione agli usi del termine e\ntolhé al plurale, mai si indica in che cosa essi consistano. In altri termini, l’autore non dice quali siano concretamente le e\ntolaò da osservare. Diverso invece è il caso degli usi del termine e\ntolhé al singolare, in relazione al quale l’autore indica quale esso sia e in che cosa esso consista. In Sembra che gli usi del termine e\ntolhé, al plurale e al singolare, siano stati collocati con cura, come appare dal seguente schema: 16

e\ntolaò e\ntolhé

2,3.4; 2,7 (ter).8; 3,22;. 3,23 (bis); 3,24; 4,21 5,2.3 (bis);

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2.7-8 precisa anzitutto che la e\ntolhé, di cui scrive ai suoi cristiani o alla sua comunità, non è nuova (ou\k e\ntolhèn kainhén), ma è antica (palaiaén): è la parola che hanno udito (o| loégov o£n h\kouésate); questa tuttavia è presentata (v. 8) come nuova (kainhén). In questi testi però l’autore definisce l’indole, non il contenuto della e\ntolhé; una certa identificazione con la parola udita resta ancora nel vago. Una definizione della e\ntolhé più concreta e precisa si trova in 3,23, dove leggiamo le seguenti quattro espressioni: kaì au$th e\stìn h| e\ntolhè au\tou% i$na pisteuéswmen t§% o\noémati tou% ui|ou% au\tou% }Ihsou% Cristou% kaì a\gapw%men a\llhélouv kaqwèv e"dwken e\ntolhèn h|m_n17.

Ciò che sorprende in questo testo, è il fatto che sotto un termine (e\ntolhé), al singolare, sono inserite due realtà: credere in Gesù ed amarsi a vicenda. Prescindiamo da una analisi più dettagliata di questo testo. Ci limitiamo soltanto a rilevare tre aspetti: anzitutto che il comandamento è uno solo; inoltre che questo è prima di tutto la fede in Gesù, da cui, come conseguenza, scaturisce l’amore vicendevole; infine, che anche l’amore vicendevole, benché conseguenza della fede in Gesù, rientra pure nella e\ntolhé. Il singolare del termine si spiega per la stretta relazione tra la fede in Gesù e l’amore vicendevole, al punto che essi, strettamente uniti e scaturendo l’amore vicendevole dalla fede in Gesù, non appaiono due comandamenti distinti, bensì uno solo con due aspetti. In 4,21 troviamo un’altra concretizzazione della e\ntolhé al singolare. Leggiamo infatti: «questo comando (tauéthn thèn e\ntolhén) abbiamo 17 In queste quattro espressioni il termine e\ntolhé, nella prima e quarta, costituisce quasi una inclusione letteraria. Abbiamo qui due espressioni parallele: kaì au$th

e\stìn kaqwèv e"dwken h| e\ntolhè au\tou% e\ntolhèn h|m_n

Queste due espressioni richiamano il quarto vangelo. Possiamo notare infatti il seguente rapporto concentrico con Gv 13,34 e Gv 13,34: 1Gv 3,23a: kaì au$th e\stìn h| e\ntolhè au\tou% 1Gv 3,23b: kaqwèv e"dwken e\ntolhèn h|m_n Gv 13,34: e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n Gv 15,12: kaì au$th e\stìn h| e\ntolhè h| e\mhé.

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(e"comen) da Lui che, chi ama Dio (o| a\gapw%n toèn qeoén), ami anche il suo fratello (a\gapç% kaì toèn a\delfoèn au\tou%)». Questo testo è la conclusione di uno sviluppo più largo, contenuto nel v. 20, dove l’autore dichiara che chi dice di amare Dio e non ama il suo fratello, è un bugiardo; egli infatti si chiede che, se non si ama il fratello che si vede, come è possibile amare Dio che non si vede? Questa seconda concretizzazione della e\ntolhé, che richiama il duplice comandamento di amare Dio e amare il prossimo, indicato nei vangeli sinottici (cfr. Mc 12,29-32), richiama parallelamente quello di 3,23. In quest’ultimo, più vicino a Giovanni, i due aspetti erano: credere in Gesù e amarsi a vicenda; in 4,21 invece i due aspetti sono: amare Dio e amare il fratello18. Emergono delle somiglianze e differenze con il vangelo di Giovanni. Come il quarto vangelo, anche la prima lettera usa il termine e\ntolhé al plurale e al singolare. Gli usi al plurale (14,15.21; 15,10.10) sono relazionati alla istanza della loro osservanza, espressa, in entrambi gli scritti, con lo stesso verbo threéw. Gli usi al singolare invece sono legati ad un comandamento concreto. Le differenze però sono pure evidenti. Nella prima lettera di Giovanni il contenuto della e\ntolhé è più ampio e riguarda la fede in Gesù, l’amore verso il fratello e l’amore vicendevole; il soggetto che propone il comandamento nella prima lettera sembra essere soltanto Dio e i destinatari invece i discepoli. Nel vangelo di Giovanni invece si nota tendenza inversa. I soggetti che danno la e\ntolhé sono due, il Padre in relazione a Gesù (10,18; 12,49; 15,12; 14,31) e Gesù in relazione ai discepoli (13,34; 15,10.12); analogamente i destinatari che la ricevono sono due: Gesù da parte del Padre e i discepoli da parte di Gesù. Il comandamento che il Padre dà a Gesù, secondo Gv 12,49-50, è cosa dire e come parlare; secondo Gv 10,18 invece, più specificamente, è porre la vita per poi riprenderla di nuovo. Il comandamento concreto poi che Gesù dà ai discepoli è uno solo: che si amino vicendevolmente come lui 18 Possiamo proporre il seguente schema di confronto: 3,23 4,21 Credere in Gesù amare Dio Amarsi a vicenda amare i fratelli. Prescindiamo però da un ulteriore confronto tra i due aspetti dei due testi.

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ha amato loro; a questo però può essere relazionato anche quello che Gesù dice in 13,15, che i discepoli facciano come lui ha fatto a loro, che cioè si lavino i piedi a vicenda, per il fatto che egli li ha lavati a loro. 2.2. Il contenuto della e\ntolhé Come abbiamo già indicato, concludendo il paragrafo precedente e prescindendo da 2,7-8, dove la e\ntolhé non è definita ma soltanto caratterizzata come insieme “antica (palaiaé)” e nello stesso tempo “nuova (kainhé)”, i testi della prima lettera di Giovanni, dove la e\ntolhé è esplicitamente definita, sono 3,23 e 4,2119. In 3,23, come abbiamo indicato, sotto il termine e\ntolhé al singolare sono inseriti due elementi: la fede in Gesù Cristo e l’amore vicendevole. In 4,21 sotto il termine e\ntolhé al singolare è inserito un solo elemento: ancora l’amore, non più però l’amore vicendevole, ma quello verso il fratello, che necessariamente è richiesto dall’amore verso Dio, al punto che chi dice di amare Dio ma non il fratello, è definito bugiardo (yeuésthv) (v. 20). Il tema di amare il fratello era stato già espresso precedentemente nel contesto della lettera in diversi gruppi di testi. Il primo gruppo è in 2,9-11, dove l’autore parla non solo di colui che ama, ma soprattutto, negativamente, di colui che odia (misw%n) il fratello. Spiega che chi odia il suo fratello non è nella luce, mentre è nella luce chi ama (o| a\gapw%n) il fratello20. Un altro gruppo di testi è nel cap. 3. In 3,10 egli dichiara che non è da Dio chi non opera (o| mhè poiw%n) la giustizia e non ama (o| mhè a\gapw%n) il suo fratello. Positivamente, amare il fratello significa operare la giusti19 Il testo di 4,21 appare come l’epilogo di uno sviluppo contenuto in tutto il cap. 4. Nel v. 7 l’autore esorta ad amarsi gli uni gli altri per il fatto che l’amore è da Dio; nel v. 11 spiega ancora che, se «così Dio ci ha amato (ei\ ou$twv h\gaéphsen h|ma%v) anche noi dobbiamo (o\feòlomen) amarci gli uni gli altri (a\llhélouv a\gapa%n)». Infine, nel v. 12, l’ultimo testo in cui è menzionato l’amore vicendevole, l’autore ne indica le conseguenze: «se ci amiamo a vicenda, Dio rimane in noi». 20 L’accento sembra poggiare sul tema dell’odio verso il fratello; possiamo notare infatti il seguente schema: o| […] toèn a\delfoèn au\tou% misw%n

o| a\gapw%n toèn a\delfoén o| deè misw%n toèn a\delfoèn au\tou%.

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zia. Nel v. 11 menziona però ancora l’amore vicendevole; ma, nel v. 12, introducendo la menzione dell’esempio negativo di Caino, l’autore torna ancora all’amore verso il fratello, la cui concreta attuazione mostra di essere noi passati da morte a vita (v. 14). Chi non ama non ha operato tale passaggio; anzi, chi odia il fratello è positivamente dichiarato un omicida (a\nqrwpoktoénov) ed ogni omicida non ha in sé la vita eterna (v. 15). L’amore verso il fratello non può restare però soltanto sul piano teorico, ma deve tradursi in pratica. L’esempio di Cristo, alluso nel v. 16, indica la maniera come amare il fratello: “quello (e\ke_nov) (v. 16)”, cioè Cristo, ha dato per noi la vita (u|peèr h|mw%n); anche noi perciò dobbiamo dare la vita per i fratelli (u|peèr tw%n a\delfw%n). Il testo però indica, nel v. 17, anche un altro modo concreto come amare i fratelli, che però l’autore formula in maniera negativa: non rimane l’amore di Dio in colui che, pur avendone la possibilità21, chiude il cuore al fratello che si trova nel bisogno. Così l’autore infine può concludere (v. 18) esortando a non amare (mhè a\gapw%men) soltanto a parole né con lingua, ma con opera (e\n e"rg§) e verità (a\lhqeòç). L’ultimo testo, infine, dove è menzionato l’amore verso il fratello, è appunto 4,20-21, dove l’autore relaziona, sia in maniera negativa che in maniera positiva, l’amore verso Dio e l’amore verso il fratello. Negativamente, è un bugiardo chi dice di amare Dio e poi odia il fratello; positivamente poi indica il comando che chi ama Dio deve amare anche il fratello22. A questi testi possiamo aggiungere anche 5,2, dove l’autore scrive che «in questo conosciamo che amiamo i figli di Dio (taè teékna tou% qeou%)», quando amiamo Dio e i suoi comandamenti (taèv e\ntolaèv au\tou%) osserviamo (thrw%men). L‘osservanza dei comandamenti è la maniera come amare Dio; questa poi sembra concretizzarsi nell’amore verso i figli di Dio. 21

Cfr. l’espressione toèn bòon tou% koésmou: i beni del mondo.

Possiamo notare, tra le espressioni del v. 20, una relazione insieme alternata e concentrica: […] o$ti }Agapw% toèn qeoén 22

kaì toèn a\delfoèn au\tou% mis+% yeuésthv e\stòn […] Kaì tauéthn e\ntolhèn e"comen a\p’au\tou% I$na o| a\gapw%n toèn qeoèn a\gapç% kaì toèn a\delfoèn au\tou%

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2.3. Il fondamento della e\ntolhé nella prospettiva della prima lettera di Giovanni Non interessa proporre in questo studio una trattazione completa delle tematiche della prima lettera di Giovanni, ma soltanto evidenziare quegli elementi che permettono di illuminare i fondamenti da cui scaturisce e su cui poggia il comandamento dell’amore vicendevole. Scorgiamo nella lettera anzitutto un dinamismo discendente, il cui punto di partenza risale a Dio stesso. Già nel prologo (vv. 1-4), pur in maniera più generica, l’autore ha indicato questo punto di partenza. Dopo avere infatti descritto l’esperienza concreta, anche in maniera tangibile (v.1), della vita, l’autore dichiara (v. 2) che la vita (h| zwhé) si è manifestata: si tratta di quella vita eterna (thèn zwhèn ai\wné ion), quella (h$tiv) che era orientata verso il Padre (proèv toèn pateéra) e che si è manifestata a noi (v. 2b). L’esperienza di questa realtà della vita eterna divenuta palpabile, non rimane un fatto personale, ma diventa oggetto di annunzio (v. 3), perché si crei una comunione (h| koinwnòa) tra l’annunziatore e colui che riceve l’annunzio. Attraverso questa comunione, si risale a quella con il Padre e il figlio suo Gesù Cristo. I vv. 1-4 presentano così una duplice parabola. Anzitutto discendente: da Dio è venuta la vita eterna, che si è resa percepibile a noi; inoltre anche ascendente: attraverso questo cammino di comunione, con l’annunziatore e, con questi, con il Padre e il Figlio, poi si risale a Dio. Due espressioni fondamentali poi sono importanti nella prima lettera di Giovanni: due definizioni di Dio, che stabiliscono il vero punto di partenza della riflessione dell’autore. La prima definizione è contenuta in 1,5, dove leggiamo: o| qeoèv fw%v e\stin (Dio è luce); la seconda definizione è in 4,8b: o| qeoèv a\gaéph e\stin (Dio è luce), ripetuta identica, in 4,16b. Non si può nemmeno trascurare un’altra definizione che non riguarda più però Dio, bensì noi: in 3,2 infatti l’autore scrive: «adesso figli di Dio (teékna qeou%) siamo (e\smen)». L’autore commenta la prima definizione, o| qeoèv fw%v e\stin, specificando che in lui non c’è alcuna tenebra. Ciò significa che, avere comunione con Dio ma camminare nella tenebra è contradditorio e chi afferma di avere comunione con Lui ma cammina nella tenebra, è un bugiardo. Al contrario,

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camminare nella luce significa avere comunione vicendevole ed ottenere la purificazione mediante il sangue di Cristo. La menzione della purificazione mediante il sangue di Cristo determina l’introduzione di uno sviluppo in questo senso (1,8-2,2), dove Gesù è definito paraéklhtov (intercessore) e i\lasmoév (vittima sacrificale); la menzione della koinwnòan […] met’allhélwn (comunione vicendevole) determina, in 2,3-17, lo sviluppo sulla osservanza della e\ntolhé, definita, in 2,7-8, insieme antica (palaiaé) e nuova (kainhé). La e\ntolhé ha due aspetti, positivo e negativo: positivamente, essa è descritta nei vv. 9-11 e consiste nell’amare (o a\gapw%n) e non odiare (o| misw%n) il fratello (toèn a\delfw%n); negativamente poi, è descritta nei vv.15-17 e consiste nel non amare il mondo (mhè a\gapa%te toèn koésmon). Amare il fratello significa essere (eùnai) e rimanere (meénei) nella luce (2,10); odiare il fratello significa invece essere (e\stòn) e camminare (peripate_) nella tenebra (2,11). Nel precedente v. 9 l’autore ha già scritto che «chi dice di essere nella luce ed odia il suo fratello, nella tenebra è fino adesso» (v. 9). Spiega poi, nel v. 11b, che la tenebra, in colui che odia, ha accecato i suoi occhi. Possiamo allora concludere che, in questa prospettiva, l’amore verso il fratello è la conseguenza logica del fatto di essere stati raggiunti e coinvolti nella luce che è Dio stesso. Implicitamente l’autore stabilisce qui una equazione: luce – amore, tenebra – odio. Questa luce ci è stata manifestata e ci ha raggiunti in Gesù e, in questo modo, si è manifestata a noi la vita eterna (1,3); per questo l’autore, in forma negativa, scrivendo cioè che l’anticristo è colui che nega Gesù Cristo (2,22), esprime la necessità della fede in lui. Appena dopo infatti, in 2,25, stabilendo quasi una inclusione letteraria con 1,2, conclude che «questa è la promessa che ci ha fatto (quanto cioè ha descritto da 1,2 fino a qui): la vita eterna (thèn zwhèn thèn ai\wné ion)»23. Passiamo adesso alla seconda definizione di Dio, contenuta in 4,8 e ripetuta in 4,16b: o| qeoèv a\gaéph e\stòn (Dio è amore). Nei vv. 7-8 l’autore propone uno sviluppo a risalire. Dopo avere esortato ad amarsi a vicenda Possiamo stabilire la seguente relazione: 1,2: a\paggeéllomen u|m_n thèn zwhèn thèn ai\wn é ion. 2,25: h| e\paggelòa h£n au\toèv e\phggeòlato u|m_n, thèn zwhèn thèn ai\wné ion. Possiamo notare l’assonanza letteraria tra il verbo a\paggeéllomen e il verbo e\phggeòlato. 23

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(a\gapw%men a\llhélouv), egli risale al motivo di tale comando (o$ti): l’amore è da Dio. Esso proviene da Dio perché Dio stesso è amore. Per potere amare però è necessario prima essere stati generati (gegeénnhtai) da Dio; chi non ama invece non ha fatto mai esperienza di Dio (ou\k e"gnw toèn qeoén) e, perciò, non è stato mai raggiunto dall’amore di Dio. Nei vv. 9-10 l’autore spiega come si è manifestato nella storia degli uomini l’amore di Dio: attraverso Gesù, inviato nel mondo come vittima di espiazione (i|lasmoév) per i nostri peccati, per mezzo del quale (di’au\tou%) torniamo anche a vivere (i$na zhéswmen). Il fatto che Dio ci ha amato, implica per noi un dovere (o\feòlomen), di amarci gli uni gli altri (a\llhélouv a\gapa%n), ma, nell’amore vicendevole, Dio rimane in noi. Più avanti, nel v. 16b, l’autore spiegherà che, chi rimane nell’amore (o| meénwn e\n t+% a\gaép+), rimane in Dio (e\n t§% qe§% meénei) e Dio rimane in lui (kaì o| qeoèv e\n au\t§% meénei). Importanti sono pure i vv. 19-21 del cap. 4. Nel v. 19 ancora l’autore insiste nel fatto, come nel v. 11, che Dio ha amato, precisando però stavolta che Egli ha amato per primo (prw%tov). L’amore vicendevole scaturisce perciò non solo dal fatto che Dio ha amato ma anche che ha amato per primo. Nel v. 20 l’autore spiega che, chi dice di amare Dio, ma poi odia il fratello, è un bugiardo: non si può infatti amare Dio che non si vede se non si ama il fratello che si vede. Conclude poi, nel v. 21, che «da Lui (a\p’au\tou%) (cioè da Dio), abbiamo ricevuto il comando (thèn e\ntolhén) che chi ama Dio (o| a\gapw%n toèn qeoén) deve amare anche il fratello (a\gapç% kaì toèn a\delfoèn au\tou%)24». Si introduce in questi versi un nuovo elemento: amare Dio, che però non si ama senza l’amore verso il fratello; Dio stesso ha comandato che, chi lo ama, deve amare anche il fratello. Nell’amore verso il fratello si concretizza così l’amore verso Dio. Possiamo allora concludere che, secondo la prospettiva dell’autore della prima lettera di Giovanni, l’amore verso il fratello trae origine dal fatto che Dio per primo ha amato, anzi dal fatto che Dio stesso è amore. Appunto perché amore, la priorità nell’azione di amare è di Dio. In 4,10 l’autore infatti precisa che non siamo stati noi ad amare Dio (ou\c o$ti h|me_v 24 Il verbo a\gapç%, in 4,21, come anche quello del seguente verso 5,1, può essere inteso come un congiuntivo esortativo

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h\gaphékamen toèn qeoén): l’origine dell’amore non è in noi, ma in Dio che ha

lo concretizzato inviando il suo figlio come vittima di espiazione. All’uomo però tocca rispondere. Raggiunto in Cristo dall’amore di Dio, egli deve, a sua volta, riamarlo; Dio stesso però, dando la sua e\ntolhé, ha indicato il modo come essere amato, attraverso l’amore verso il fratello. Il testo di 5,1 sembra sintetizzare questa prospettiva25: chi crede in Gesù è stato generato da Dio, ma chi è stato generato da Dio deve amare chi lo ha generato (toèn gennhésanta) e colui che è stato generato (toèn gegennhmeénon). La generazione da Dio determina così la fratellanza e il fratello diventa così oggetto di amore. Tale amore verso il fratello poi non può rimanere teorico, ma deve trovare una applicazione pratica. Tale applicazione è indicata, duplice, in 3,16-18. Nel v. 16 leggiamo che abbiamo conosciuto l’amore nel fatto che “quello (e\ke_nov)”, cioè Gesù26, ha posto (e"qhken) la sua vita (thèn yuchèn au\tou%) per noi (u|peèr h|mw%n); l’esempio di Gesù diventa un dovere (o\feòlomen) e criterio di azione verso il fratello: a vantaggio (u|peér) del quale bisogna porre (qe_nai) le proprie vite (taèv yucaév). Subito dopo, nel v. 17, l’autore introduce un secondo elemento: se qualcuno ha dei beni del mondo e vede il fratello nel bisogno (creòan e"conta) e gli chiude il proprio cuore (kleòs+ taè splaégcna au\tou%), in costui non può “rimanere (meénei)” l’amore di Dio. Porre la propria vita ed aiutare nel bisogno sono i due modi come concretizzare l’amore verso il fratello. Sembra però che i due modi non siano distinti, ma il secondo, più concreto, si colloca nello sfondo, più generico, del primo. L’aiuto al fratello nel bisogno non è una semplice benevola elargizione, ma un dovere più specifico che si colloca e concretizza quello più ampio di porre la vita sull’esempio di Gesù. 25 Possiamo stabilire una relazione strutturale tra 4,21 e 5,1, come appare dal seguente schema: 4,21 5,1 I$na o| a\gapw%n pa%v o| a\gapw%n

toèn qeoèn toèn gennhésanta a\gapç% a\gapç% kaì [kaì] toèn a\delfoèn toèn gegennhmeénon autou% e\x au\tou% 26

Cfr. Gv 10,17-18; 15,13.

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Sembra però che ci sia ancora un terzo modo come attuare l’amore fraterno e questo è nella richiesta a Dio. Leggiamo infatti, in 5,16, che, se qualcuno vede il fratello che pecca con un peccato che non è orientato verso la morte (mhè proév qaénaton), chiederà (ai\thései) e darà (dwései)27 a lui vita (zwhén)28. Nel precedente v. 14 l’autore ha detto che Dio ci ascolta se chiediamo secondo la sua volontà. Ciò significa che la preghiera per il fratello che pecca di un peccato che non conduce alla morte, rientra nella volontà di Dio. Possiamo adesso chiederci sulla relazione e sul senso dei due oggetti del verbo a\gapaéw, riferito ad uomini, a\llhélouv e toèn a\delfoén. Notiamo anzitutto che questi due oggetti possono indicare due differenti relazioni dell’autore della prima lettera di Giovanni, sia al quarto vangelo (a\llhélouv) che alla tradizione sinottica (toèn a\delfoén). In questo secondo caso l’autore della lettera avrebbe operato un passaggio dal termine plhsòon al termine a\delfoév29. Sembra però che i due oggetti, a\llhélouv e toèn a\delfoén, accostati in maniera ravvicinata, in 3,10b.1130, servano all’autore per evocare due pro27 Prescindiamo dal problema circa il soggetto di questo verbo, se Dio o il fratello che dona la vita.

28 L’autore insiste a riguardo del peccato che non conduce alla morte, come appare dal seguente schema: toèn a\delfoèn au\tou%

a|martaénonta a|martòan mhè proèv qaénaton ai\thései kaì dwései au\t§% zwhén, to_v a|martaénousin mhè proèv qaénaton

Per il peccato che conduce alla morte l’autore non dice di pregare

29 Possiamo tuttavia notare che, mentre il termine plhsòon non si legge mai nella prima lettera di Giovanni, il termine a\delfoév, in senso cristiano è invece frequente nei vangeli sinottici, soprattutto nel vangelo di Matteo (Mt 5,22 [bis].23.24.47; 7,3.4.5; 18,15 [bis].21.35; 23,8; 25,40, 28,10), e anche nel vangelo di Luca (Lc 6,41.42 [ter]; 17,3). Se l’autore della prima lettera ha qualche dipendenza dalla tradizione sinottica, è possibile che il mutamento possa essere stato suggerito dai vangeli sinottici, benché in questi il termine a\delfoév mai appare legato, come oggetto, al verbo a\gapaéw. 30

Cfr. la seguente relazione: 3,10b: o| mhè a\gapw%n toèn a\delfoèn au\tou% 3,11: i$na a\gapw%men a\llhélouv.

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spettive diverse. L’oggetto a\llhélouv può essere spiegato alla luce di 1,7 ed evocherebbe l’aspetto comunionale dei cristiani31; l’oggetto toèn a\delfoén poi può essere spiegato alla luce dei testi che evocano la generazione da parte di Dio32: colui che ama è stato generato da Dio e, perciò, quelli che sono stati generati da Dio, sono fratelli, figli dello stesso Padre (cfr. 3,1). Possiamo però pensare anche, per contrapposizione, all’esempio di Caino, menzionato in 3,12, che uccise il fratello (toèn a\delfoén). Chi è stato generato da Dio non può odiare il fratello, altrimenti come Caino sarebbe omicida (3,15), e non può avere in sé, dimorante, la vita eterna. I due aspetti però sembrano relazionarsi e reciprocamente integrarsi. L’amore vicendevole si concretizza nell’amore verso il fratello ed è richiesto dalla stessa condizione di fratelli, generati da Dio; al contrario, l’amore verso il fratello non è unilaterale, ma scambievole perché tutti da Dio generati. La terza definizione, o la seconda nell’ordine dello sviluppo letterario, si legge in 3,1 e non riguarda più Dio, ma si riferisce al cristiano e alla sua condizione. Leggiamo infatti: «vedete quale amore (potaphèn a\gaéphn) ha dato (deédwken) a noi il Padre da essere chiamati figli di Dio (i$na teékna qeou% klhqw%men) e (lo) siamo (kaì e\smeén)». I cristiani non solo sono chiamati figli di Dio, ma lo sono realmente. Tale dono della figliolanza è concreta manifestazione dell’amore di Dio. Nel v. 2 tuttavia l’autore osserva che, pur essendo noi già al presente (nu%n) figli di Dio, tuttavia ancora non si è manifestato (ou"pw e\fanerwéqh) che cosa saremo nel futuro (tò e\soémeqa). Tale condizione futura prevede che noi saremo simili a “lui (o$moioi au\t§%)” (Dio o Cristo), poiché lo vedremo come è. Per il futuro perciò è prevista la piena realizzazione, e, perciò, la totale manifestazione, della nostra figliolanza divina. Nel tempo intermedio (v. 3), caratterizzato dalla speranza di questa condizione futura, il cristiano deve operare una continua purificazione 31 I cristiani, che camminano nella luce, come Lui (Dio) è luce, hanno comunione (koinwnòan) a vicenda (met’a\llhélwn). Possiamo notare che il termine a\llhélwn, in 1,7, è l’unico caso, nella prima lettera di Giovanni, in cui non è legato, come oggetto, al verbo a\gapaéw. Il codice Alessandrino sembra leggere met’au\tou%, insieme ad altri codici latini, ma forse tale lettura è dovuta ad una assimilazione al precedente v. 6. 32 Cfr. gli usi del verbo gennaéw in 2,29; 3,9 (bis); 4,7; 5,1.4.18 (bis) e anche del sostantivo teékna in 3,1.2.4.18 (bis).

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(a|gnòzei), sul modello di “quello (kaqwèv e\ke_nov)” (Dio o Cristo) che è puro (a\gnoév e\stin). I versi seguenti indicano in che maniera egli deve purificarsi. Il primo modo di come attuare tale purificazione è non commettere peccato: chi commette il peccato, infatti, è dal diavolo, peccatore fin dall’inizio (v.8), ma chi è stato generato da Dio, proprio a causa di tale generazione, non può permanere nel peccato. Il contrario di commettere il peccato è operare la giustizia33. Nel v. 10, quasi in forma riassuntiva, l’autore stabilisce chi sono i figli di Dio (taè teékna tou% qeou%) e chi i figli del diavolo (taé teékna tou% diaboélou). Esplicitamente però egli definisce i figli del diavolo: questi sono quelli che non fanno (o| mhè poiw%n) la giustizia (dikaiosuénhn) e quelli che non amano (o| mhè a\gapw%n) il fratello (toèn a\delfoén)34. Implicitamente però, in contrapposizione, sono definiti anche i figli di Dio: questi sono quelli che fanno la giustizia e che amano il fratello. Le due espressioni del v. 10, o| poiw%n mhè dikaiosuénhn e kaì o| mhè a\gapw%n toèn a\delfoèn au\tou%, hanno diversa funzione: la prima (o| poiw%n mhè dikaiosuénhn) conclude la descrizione precedente, la seconda (kaì o| mhè a\gapw%n toèn a\delfoèn au\tou%) apre invece quella seguente; dal v. 11 in poi, infatti, in contrapposizione a Caino che uccise il fratello. Nel v. 23, dello stesso cap. 3, l’autore conclude che l’amore vicendevole è il comandamento (e\ntolhé) che Dio ha dato (edwken) a noi (h|m_n). Possiamo allora concludere che fare la giustizia e amare il fratello è proprio dei figli di Dio, di chi cioè è stato da Lui generato. Se qualcuno non ama il fratello vuol dire che non trae la sua origine da Dio, ma trae la sua origine dal diavolo. Rimane però qui il problema perché chi è figlio di Dio deve amare il suo fratello e perché amarsi a vicenda è la caratteristica dei figli di Dio.

33

34

Possiamo stabilire infatti una relazione tra le seguenti due espressioni, nei vv. 7.8: v. 7: o| poiw%n thèn dikaiosuénhn dòkaioév e\stin; v. 8; o| poiw%n thèn a|martòan e\k tou% diaboélou e\stin. Possiamo notare, nel v. 10b, il seguente schema concentrico:

o| mhè poiw%n dikaiosuénhn ou\k e\stin e\k tou% qeou% kaì o| mhè a\gapw%n toèn a\delfoèn au\tou%.

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Possiamo allora proporre qualche conclusione sul fondamento del comandamento dell’amore verso il fratello o dell’amore vicendevole nella prima lettera di Giovanni. Abbiamo già ripetuto che il nostro scopo non era quello di considerare ed illuminare tutti gli aspetti del complesso e ricco intreccio tematico della lettera stessa, ma soltanto di individuare il fondamento del comandamento dell’amore. Questo dev’essere individuato nella stessa realtà di Dio che l’autore ha definito come “Luce (1,5)” e come “amore (4,8.16b)”, e nella stessa condizione dei cristiani, che l’autore definisce come “figli di Dio (3,1)” essendo stati da Lui stesso generati nella fede in Gesù. Il fondamento più immediato però è la realtà di Dio come “amore (a\gaéph)”. Essendo amore, da Lui parte l’amore. Egli infatti ha amato per primo ed ha concretizzato il suo amore nel fatto di avere inviato nel mondo il suo figlio Unigenito, come vittima di espiazione e come mezzo attraverso il quale potere noi vivere. Avendo Dio amato, la risposta non può essere se non di amore; bisogna amare Dio, ma Dio stesso ha indicato il modo, dando un comando, quello appunto dell’amore verso il fratello e quello vicendevole. Il fratello però non si ama a parole, bensì in maniera concreta, aiutandolo nelle concrete necessità, nello sfondo però di un più grande e più ampio modo, il dono cioè della propria vita. Attraverso l’amore verso il fratello ci si coinvolge nell’amore di Dio e in Dio stesso: Egli rimane in colui che ama e questi rimane in Dio. L’amore di Dio ha determinato anche la nostra figliolanza divina35 e, insieme, anche, si è manifestato a noi come luce e vita. Dall’amore di Dio, attraverso l’opera di Cristo, noi siamo raggiunti e in esso ci coinvolgiamo mediante l’amore fraterno. L’amore fraterno contiene in sé delle conseguenze, Anzitutto ci manifestiamo come figli di Dio; inoltre l’amore fraterno mostra che siamo passati da morte a vita. Come pure, infine, l’amore verso il fratello permette di rimanere nella luce dalla quale si è stati raggiunti36, essendo Dio stesso Luce37. 35 Prescindiamo dal problema in che maniera l’amore di Dio ha determinato la nostra figliolanza divina. 36

L‘autore però direttamente non spiega in che maniera siamo stati raggiunti dalla luce

L’autore accosta tre elementi particolari ricondotti a Dio: vita eterna, Luce e Amore. Stabilisce tra di essi una relazione, ma, direttamente non spiega in che cosa essa consiste. 37

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3. Il comandamento dell’a\gapa%n a\llhélouv nel quarto vangelo Nel vangelo di Giovanni dell’amore vicendevole si parla in due blocchi di testi, in 13,34-35 e in 15,12-17. In entrambi i blocchi esso è presentato come il comandamento (e\ntolhé) di Gesù; mentre però, in 13,34, all’inizio del primo blocco Egli lo promulga (dòdwmi), in 15,12, all’inizio del secondo blocco invece lo definisce (e\stòn). In 13,34-35 leggiamo due volte l’espressione i$na [kaì u|me_v] a\gapa%te a\llhélouv (che [anche voi] amiate gli uni gli altri) e, alla fine (v.35b) troviamo l’espressione e\aèn a\gaéphn e"chte e\n a\llhéloiv (se amore avete gli uni gli altri). In 15,12-17 leggiamo ancora due volte l’espressione i$na a\gapa%te a\llhélouv, all’inizio (v. 12) e alla fine (v. 17), dipendente però qui dal verbo e\nteéllomai, introdotto quest’ultimo già nel v. 14 (a£ e\gwè e\nteéllomai u|m_n). Riferiamo soprattutto la nostra attenzione al testo di 13,34-35. 3.1. Valutazione degli interpreti Diversi interpreti ritengono che i vv. 34-35 non si inseriscano bene nel complesso dei vv. 31-38 e li attribuiscono all’opera di un redattore. Della vita eterna ne parla all’inizio (1,1.2 [bis]), al centro (2,25; 3,14.15) e poi, soprattutto alla fine (5,11.12.13.16.20); della Luce parla soltanto in 1,5.7 (bis); 2,8.9.10; dell’a\gaéph, infine parla all’inizio (2,5.15), in relazione alla luce, al centro (3,1.16.17), pure in relazione alla vita, e soprattutto, frequentemente, in 4,7-18; inoltre il verbo a\gapaéw si legge negli stessi contesti, rispettivamente, in 2,10.15 (bis), in 3,10.11.14 (bis).18.23; in 4,7 (bis).8.10 (bis).11 (bis).12.19.20 (ter).21 e in 5,1-2. Si potrebbe proporre il seguente schema tematico concentrico di tutta la lettera: Vita (1,1.2 [bis]), al centro (2,25; 3,14.15), Luce (1,5.7 (bis); 2,8.9.10), Vita (1,5.7 (bis); 2,8.9.10), a\gaéph (in 4,7-18), Vita (5,11.12.13.16.20). Tra le tre menzioni della vita sarebbe inserito il tema di Dio-luce e di Dio- a\gaéph. Tutti e tre le tematiche sarebbero, inoltre, legate dalla comune relazione al comandamento dell’amore fraterno; così, per la vita, citiamo 3,14; per la Luce, 2,10; per l’a\gaéph, 4,11.12.21; per la figliolanza divina inoltre, anche 3,10.11. Infine le tematiche della vita e dell’a\gaéph condividono il rimando allo stesso mediatore, Gesù, cfr. soprattutto 1,1-4; 4,9 e 4,11.

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Cerfaux38 menziona alcuni interpreti; altri sono menzionati da Becker39; una rilettura sono ritenuti i vv. 34-35 da Dettwiler40; Dietzfelbinger li ritiene pure una aggiunta tardiva nel testo di Giovanni41; ad una inserzione redazionale pensa anche Leon Dufour42; Porsch43 non esclude che, nei vv. 34-35, possa trattarsi di una aggiunta, ma osserva che hanno qui un profondo significato; Schnackenburg44 adduce ben sei motivi per ritenere che il comandamento dell’amore sia stato inserito dalla redazione benché esso sia giusto e risponda allo spirito dell’evangelista45. Altri interpreti invece ritengono che i vv. 34-35 appartengano al contesto attuale. Osserva Carson46 che, poiché il tema di questi versi è ripreso 38 Cfr. L. Cerfaux, La charité fraternelle et le retour du Christ (Jo 13,33-38), in ETL 24 (1948) 321-332: 321. Cita Bauer, Bultmann, Loisy.

39 Cfr. J. Becker, Das Evangelium nach Johannes, II, Würzburg 1979, 447. Cita Heitmüller, Richter, Schnackenburg, Wellhausen. 40

Cfr. A. Dettwiler, Die Gegenwart des Erhöhten, Göttingen 1995, 63.129.

Ein später eingefügten joh. Text, cfr. Chr. Dietzfelbinger, Der Abschied des Kommenden, Tübingen 1997, 26f. 41

42 Cfr. X. Leon Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, trad. it., Cinisello Balsamo 1995, 103. 43 44

89-90.

Cfr. F. Porsch, Johannes-Evangelium, Stuttgart 1988, 149.

Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III., trad. it., Brescia 1981,

I motivi sono i seguenti: 1. La risposta di Pietro (v. 36) si collega direttamente al v. 33 ed ignora il comandamento di Gesù. 2. Neppure nel discorso di addio del cap. 14 viene più fatto riferimento al comandamento dell’amore. 3. Del “nuovo comandamento” si riparla, e questa volta tematicamente, in 1Gv 2,7s (cfr 2Gv 5); 4. il linguaggio è tipico della prima lettera di Giovanni (1Gv 2,3-5; 3,16.19.24; 4,2.13; 5,2), mentre nel vangelo si trova soltanto qui; 5. Colpisce la costruzione del v. 34 che ha i migliori paralleli in 13,35, ossia nella seconda spiegazione della lavanda (i$na kaqwèv … kaì u|me_v), attribuita alla redazione, e in 17,21 (i$na kaqwèv […] i$na kaò), che sembra una aggiunta redazionale; 6. Il paéntev di Gv 13,35, richiama l’attenzione su estranei, ciò che non avviene in alcun altro passo del vangelo, ma che si verifica però in 1Gv dove la comunità si considera contrapposta al mondo (cfr. soprattutto 4,4-6). L’amore vicendevole domina nella lettera al punto da diventare, accanto alla fede, l’esortazione fondamentale (cfr. 1Gv 3,11.23). Di qui si può comprendere l’interesse a sottolineare il comandamento dell’amore come disposizione neotestamentaria di Gv 13,34s, cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 89-90. 45

46

Cfr. D.A. Carson, The Gospel according to John, Grand Rapids 1991, 483.

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ancora in 15,9-16, alcuni interpreti hanno argomentato che la sua presenza qui è il risultato di un pezzo disadattato di manipolazione redazionale, Al contrario, essi fanno perfettamente buon senso: avendo annunziato la sua partenza e avendo insistito che ora i discepoli non possono venire con lui (v. 33), Gesù comincia a indicare ciò che egli si attende da loro mentre egli è via. Lincoln47 non nega che questi versi possano essere stati inseriti in una più antica forma del discorso; osserva però che, nel testo attuale, la loro posizione non è totalmente inappropriata. Schnelle48 ritiene del tutto discutibile l’attribuzione dei vv. 34-35 ad una redazione tardiva: spiega che il comandamento: nella situazione della partenza di Gesù, indica come i discepoli, e con ciò la comunità eterna possono restare uniti a Gesù49. Spicq50 osserva che dei critici51 constatano in Gv 13,33-38, una mancanza di coesione e degli elementi giustapposti e concludono che la pericope è un conglomerato letterario e appartengono allo stato secondario della redazione. Egli però, citando Cerfaux52 e Noack53, nota la coerenza di quei versi con il contesto, dove in realtà tutto il pensiero è dominato dalla prospettiva della separazione imminente di Gesù. Senza ignorare le argomentazioni di chi ritiene i vv. 34-35 una aggiunta posteriore, ci uniamo a quelli che sostengono la coerenza di questi versi nel contesto: senza di essi, infatti, il testo resterebbe senza un suo epilogo. In realtà, dilazionando loro il tempo in cui potranno venire, Gesù, come 47 48

Cfr. A.T. Lincoln, The Gospel according to Saint John, London 2005, 387. Cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, cit., 255

Cfr. anche J. Frey, Die Johanneischen Eschatologie, II, Tübingen 2000, 312s. Schnelle cita anche U. Wilckens, Der Paraklet und die Kirche, 187; U. Schnelle, Abschiedsreden, 66, cfr. l.c. 49

50 51

Cfr. C. Spicq, Agapè dans le Nouveau Testament, III, Paris 1959, 170. Menziona Bauer, Bultmann, Loisy.

Cfr. L. Cerfaux, La charité fraternelle cit., 332. Conclude Cerfaux che l’unità letteraria della sezione di Gv 13,33-38 è più profonda che non lo suppongono gli esegeti. Non soltanto questo pezzo non è un agglomerato di pezzi uniti, ma questi pezzi, con il loro legame, appartengono al fondo tradizionale dell’insegnamento di Gesù e delle riflessioni della comunità cristiana primitiva. Gesù, annunziando la sua partenza, ha chiesto ai discepoli di mantenere l’unità tra essi –che sarebbe così unità con lui- mediante la carità fraterna, 52

53

Cfr. B. Noack, Zur Johanneischen Tradition, Copenhagen 1854, 30ss.

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diremo in seguito, indica ai discepoli la strada che essi dovranno percorrere per poterlo raggiungere: questa è appunto l’amore vicendevole. 3.2. Il testo di 13,34-35 In questo testo, come abbiamo detto sopra, Gesù promulga (dòdwmi), ripetendolo due volte, il suo comandamento (e\ntolhé) dell’amore vicendevole. Egli lo presenta non soltanto come un “comandamento”, bensì come un “comandamento nuovo (e\ntolhèn kainhén)”. I vv. 34-35 si leggono nel contesto più ampio dei vv. 31-35, che contiene, senza alcuna interruzione, un monologo di Gesù ai discepoli, parallelo a quello contenuto nei vv. 12-20; l’unico elemento narrativo, in entrambi i monologhi, è l’espressione iniziale54, che costituisce anche lo sfondo in cui il monologo di Gesù si colloca. Per quello di 31-35 lo sfondo è l’uscita di Giuda: si direbbe che tale uscita rende storicamente possibile tutta la storia che, attraverso l’evangelista, Gesù stesso, per sommi capi, delinea nei versi seguenti. Dopo la menzione narrativa dell’uscita di Giuda, il discordo di Gesù, in 13,31-35, si articola in due parti quantitativamente sproporzionate. Nella prima parte, i vv. 31b-32, in forma più oggettiva, Gesù dichiara già realizzata (nu%n), nell’uscita di Giuda, la glorificazione sua (e\doxaésqh)55 e, in lui, anche quella del Padre; nella seconda parte, i vv. 33-35, mediante il vocativo teknòa, Gesù si rivolge più direttamente ai discepoli. In questa seconda parte possiamo distinguere alcuni quadri, specificamente tre: anzitutto applica ai discepoli le parole dette precedentemente ai giudei, che lo cercheranno, ma che dove lui va essi non possono seguirlo (v. 33); inoltre dà loro il comandamento nuovo dell’amore vicendevole (vv. 34-35); infine apre l’amore vicendevole ad una dimensione missionaria: 54

Possiamo notare nei due monologhi un analogo inizio, sintatticamente uguale: 13,12: o$te ou&n e"niyen (quando ebbe lavato i piedi di essi [dei discepoli]), 13,31: o$te ou&n e\xh%lqen (quando uscì [Giuda]).

Spiega Bauer che Gesù intende la sua morte, che è la porta verso la gloria, cfr. W. Bauer, Das Johannesevangelium, Tübingen 19333, 176; anche J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, Berlin 19782, 254. 55

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tutti conosceranno, a partire dall’amore vicendevole, che i discepoli sono discepoli di Gesù. Nel v. 34, quello che più direttamente consideriamo, distinguiamo poi quattro espressioni, strutturate secondo uno schema alternato: 1. e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n (un comandamento nuovo do a voi), 2. i$na a\gapa%te a\llhélouv (che vi amiate a vicenda), 3. kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v (come amai voi), 4. i$na kaì u|me_v a\gapa%te a\llhélouv (che anche voi vi amiate a vicenda). La prima e terza espressione, con il verbo alla prima persona singolare (dòdwmi/h\gaéphsa), riguardano Gesù; la seconda e la quarta, con il verbo alla seconda persona plurale (a\gapa%te) riguardano invece i discepoli. La terza espressione, relazionata alla prima, sembra costituire il vero comando di Gesù. Egli adesso lo esprime a parole, ma lo ha già promulgato mediante la sua azione. Come apparirà meglio dalla considerazione della particella comparativa kaqwév, Gesù ha promulgato il suo comandamento al momento stesso in cui, con la sua azione, ha amato i discepoli. In ogni caso, il comandamento dato ai discepoli scaturisce dall’evento dell’amore di Gesù. La seconda e quarta espressione, riferite ai discepoli, includono la terza espressione riferita a Gesù. La quarta espressione potrebbe apparire una ripetizione della seconda; l’evangelista però introduce le parole nuove kaì u|me_v (anche voi), che determinano una diversa sfumatura si senso. 3.3. Gli elementi del v. 34 Prescindendo dal verbo dòdwmi, che può richiamare l’aspetto del Dio legislatore56, consideriamo specificamente i seguenti elementi: l’aggettivo kainhén riferito alla e\ntolhén, la duplice forma del verbo a\gapaéw, rispettivamente all’aoristo (h\gaéphsa) e al presente (a\gapa%te), la particella kaqwév, l’espressione kaì u|me_v nella seconda formulazione del comandamento. Cfr. Ne 9,13.14; Ez 20,15.25; soprattutto Ger 38 (31),33 (didouèv dwésw). Cfr. in questo anche G. Maier, che cita Dt 6,1.20, cfr. G. Maier, Johannesevangelium, II, Neuhausen -Stuttgart 1986, 93. 56

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3.3.1. L’aggettivo kainhé L’aggettivo kainhé, riferito alla e\ntolhé (e\ntolhèn kainhén), è esclusivo, nel NT della letteratura giovannea. Nel vangelo l’espressione e\ntolhèn kainhén si legge soltanto qui; si legge poi anche nella prima e seconda lettera di Giovanni, rispettivamente in 1Gv 2,7.8 e in 2Gv 5. In 1Gv 2,7.8, come abbiamo già osservato, l’autore, da una parte, sembra correggere, o almeno mitigare, l’espressione e\ntolhèn kainhén; dichiara infatti di non scrivere una legge nuova, ma una legge antica (palaiaén), posseduta fin dall’inizio (a\p’a\rch%v) e già udita; precisa però, subito dopo (v. 8), che questa legge che scrive è anche nuova (kainhén)57. Quale sia questa legge e\ntolhèn kainhén e perché sia tale, l’autore della prima lettera, almeno immediatamente, non lo dice: si limita a dire che ciò è vero da parte sia di Dio (e\n au\t§%) che dei cristiani (e\n u|m_n). Alla luce del testo seguente però possiamo capire che si tratta dell’amore al fratello e questo è “novità” per la nuova condizione in cui si manifesta e che esprime: essere cioè nella luce (e\n t§% fwtì eùnai). Appare così che la novità non consiste in un aspetto cronologico, ma qualitativo, determinato dalla nuova condizione che si è verificata58. In 2Gv 5 è ancora menzionata la e\ntolhèn kainhén. Stavolta si tratta dell’amore vicendevole (i$na a\gapw%men a\llhélouv). Osserviamo però che la prospettiva non è quella di affermare una “novità”, bensì di escluderla: l’autore dichiara di scrivere a riguardo del comandamento (e\ntolhèn e\laébomen) ricevuto dal Padre non come un comandamento nuovo (e\ntolhèn kainhén), ma come uno che si aveva fin da principio (h£n ei"comen a\p’a\rch%v). Nel seguente v. 6 poi dichiara che l’amore consiste nel “camminare (peripatw%men)” secondo i suoi comandamenti. Emerge, in questa seconda lettera, la prospettiva cronologica. Probabilmente ci troviamo di fronte ad un duplice senso del termine kainoév, che non si legge più nella prima lettera di Giovanni, rispettivamente cronologico e qualitativo. L’autore esclude il senso cronologico: quella di cui scrive è una legge antica. La ripropone però come una novità qualitativa. 57

58 La nuova condizione è indicata nel precedente v. 8, dove l’autore spiega che «la tenebra (h| skotòa) è già passata e la luce vera (toè fw%v toè a\lhqinoén) già splende». In questa condizione si colloca l’amore verso il fratello, la cui attuazione mostra di essere nella situazione di luce, mentre chi lo odia è ancora nella situazione di tenebra (v. 11).

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Nel vangelo di Giovanni, la e\ntolhèn kainhén è menzionata soltanto in 13,34. Lo stesso termine kainoév è abbastanza raro: è usato solo due volte; l’altro uso è in 19,41, riferito al sepolcro dove Gesù fu deposto, situato in un giardino; tale sepolcro è definito “un sepolcro nuovo (mnhmeòon kainoén)”59. L’espressione e\ntolhèn kainhén, come abbiamo già notato, oltre gli scritti giovannei, è assente dal resto del NT. Tuttavia in esso non è assente la prospettiva della novità che, con Gesù, si è verificata. Nei vangeli sinottici Gesù dichiara che il vino nuovo (neoén) deve essere posto in otri nuovi (kainouév)60, o anche una stoffa nuova non dev’essere apposta ad un vestito vecchio61. Mc 1,27 riferisce l’osservazione della folla che dichiara “dottrina nuova (didachè kainhé)” quella di Gesù, e i discepoli parleranno con “lingue nuove (kaina_v) (Mc 16,17). La vera novità nei sinottici però riguarda l’alleanza, stipulata nel contesto. Matteo e Marco, in Mt 26,28 e Mc 14,24, menzionano l’alleanza stipulata nel sangue di Gesù, ma il termine kainh%v, presente nella versione latina, è criticamente incerto, assente in diversi codici e versioni, tra cui anche il Vaticano e il Sinaitico. Viceversa, questi due evangelisti, proiettandosi in prospettiva escatologica, fanno dire a Gesù che non berrà più del frutto della vite, finché non lo berrà nuovo nel regno di Dio (Mt 26,29; Mc 14,25). Lc 22,20, seguito da Paolo in 1Cor 11,25, parla esplicitamente di “nuova alleanza (kainhè diaqhékh)” stipulata nel sangue di Gesù. Della nuova alleanza parleranno ancora Paolo, in 2Cor 3,6, dove dichiara di essere stato ritenuto da Dio degno (i|kaénwsen) di essere annoverato tra i ministri (diakoénouv) di essa, e nella lettera agli Ebrei, dove l’autore, dopo aver citato Ger 31 (38),31-34 (Eb 8,8-12) afferma che Gesù è mediatore (mesòthv) di essa (Eb 9,15). Di una novità in Cristo, parla ancora Paolo. In 2Cor 5,17 egli afferma che «se qualcuno (è) in Cristo, è nuova creazione (kainhè ktòsiv)» e spiega Benché l’espressione mnhmeòon kainoén, in 19,41, debba essere letta nel suo contesto e nella globale prospettiva giovannea, tuttavia essa non aiuta a spiegare la nostra espressione e\ntolhèn kainhén. Nella menzione di “un sepolcro nuovo” Giovanni sembra dipendere dalla tradizione sinottica; Mt 27,60 infatti ci informa che il sepolcro di Giuseppe, dove egli depose il corpo di Gesù, era nuovo (e\n t§% kain§% au\tou% mnhmeò§). 59

60 61

Cfr. Mt 9,17; Mc 2,21; Lc 5,38. Cfr. Mc 2,21; Lc 5,36.

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che le cose antiche sono passate e ne sono venute di nuove (kainaé). Di una nuova creazione (kainhè ktòsiv), l’apostolo parlerà ancora in Gal 6,5; inoltre, in Ef 2,15 parlerà dell’unico “uomo nuovo (kainoèn a"nqrwpon)” (cfr. anche 4,24). La novità, infine, è menzionata dall’Apocalisse, che parla di “un nome nuovo (o"noma kainoén)” (2,17; 3,12), della nuova (kainhé) Gerusalemme (3,12; 21,1), di “un canto nuovo (§\dhèn kainhén)” (5,9; 14,3), di un cielo nuovo (kainoén) e di una terra nuova (kainhé) (21,1; cfr. 2Pt 3,12). In 21,5 infine, il Signore Dio che siede in trono, annunzia di “far nuove (kainaé) tutte le cose”. Il tema neotestamentario della “novità” affonda però le sue radici nell’AT, dove è prevista, per il futuro, la realizzazione di “cose nuove”. Prescindendo dai testi dei Salmi dove si legge che a Dio è elevato un canto nuovo (ç&sma kainoén)62, ci riferiamo specificamente ai testi del deutero-Isaia, dove Dio annunzia che farà “cose nuove (kainaé)”63. Inoltre Dio annunzia di dare un nome nuovo, di creare cieli nuovi e terra nuova64; in Ger 31 (38), 31-34 è annunziata la stipulazione di un nuovo patto. In Ez 36,26, Dio promette di dare “un cuore nuovo ed uno spirito nuovo” (cfr. anche 11,19). Benché l’espressione e\ntolhèn kainhén, oltre gli scritti giovannei non si legga mai più né nell’AT né nel NT, essa tuttavia si colloca in tutto il contesto vetero e neo testamentario sopra delineato, dove è preannunziata e realizzata una novità che Dio opera. I testi del NT poi, quasi come un comune denominatore, sottolineano che tale novità è attuata in Cristo. Evidenziata la peculiarità e anche l’esclusività giovannea dell’espressione e\ntolhè kainhn, emerge la domanda: in che senso si può parlare, e l’evangelista parla di “legge nuova” nel suo vangelo? L’unicità dell’espressione, e gli stessi usi assai rari del termine kainhé in Giovanni, inducono a interrogare e cercare una risposta nello stesso testo di Gv 13,34. È stato osservato che tale novità non può essere cronologica perché già l’AT, in Lev 19,18, prescriveva l’amore verso il prossimo; possiamo 62 63 64

Cfr. Salmi 32 (33),3; 39 (40),3; 95 (96),1; 97 (98),1; 143 (144),9, anche Is 42,10. Cfr. Is 42,9; 43,19; 48,6. Cfr. Is 65,17; 66,12.

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osservare però che il testo del Levitico non contiene l’aspetto della reciprocità, la quale invece, come abbiamo rilevato sopra, in questo studio, appare piuttosto come una caratteristica del NT. 3.3.2. La particella comparativa kaqwév Proponendo ai discepoli il comandamento dell’amore vicendevole, Gesù indica anche il modello al quale, in tale amore, essi debbono riferirsi: essi debbono amarsi reciprocamente alla stessa maniera come (kaqwév) egli ha amato loro65. Emerge la domanda: come egli, Gesù, ha amato (h\gaéphsa) i discepoli? E, specificamente, qual è il valore della particella kaqwév? Pure la particella è stata oggetto di attenzione da parte degli interpreti66. Augenstein67 spiega che, anche se gli argomenti per kaqwév come paragone sono importanti, tuttavia non si può escludere il suo senso causale. Bultmann68 osserva che, con questo avverbio kaqwév, che esprime la relazione dell’a\llhlouv a\gapa%n all’amore sperimentato di Gesù, non è descritto il grado o l’intensità dell’amore, e nemmeno soltanto il modo o la maniera come quella del servire, ma con esso è indicato il fondamento stesso dell’a\gapa%n. Fabris69 nota la duplice valenza dell’avverbio greco kaqwév, “come” e “perché”. Maggioni70 ritiene che l’avverbio kaqwév può essere tradotto sia con “come”: l’amore di Gesù per i discepoli è la norma e il modello del nostro 65 Possiamo notare anche la stretta relazione strutturale tra le due espressioni: a\gapa%te a\llhélouv

kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v

Il doppio senso di “come” è stato oggetto di uno studio approfondito in un rimarcabile studio di O. De Dinechin, “kathos”: La similitude dans l’Évangile selon saint Jean, in RSR (58) (1970) 195-236. 66

Cfr. J. Augenstein, Das Liebesgebot im Johannesevangelium und in den Johannesbriefen, Stuttgart-Berlin-Köln 1993. 24. 67

68 Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, Göttingen 1985 (rist. dal 197820), 403. 69

Cfr. R. Fabris, Giovanni, Roma 20032, 588.

Cfr. B. Maggioni, Amatevi come io vi ho amato, in Parole, Spirito e Vita , 11 (1985) 158-167: 161. 70

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amore fraterno; sia anche con “poiché”: l’amore di Gesù è il motivo e la ragione dell’amore fraterno. Maier71 attribuisce alla particella kaqwév i seguenti significati: “così come”, “nella misura che”, “poiché”. Tutti questi significati confluiscono nell’espressione giovannea di 13,34. Schnackenburg72, osserva che essa passa, come avviene spesso nel vangelo di Giovanni, dal significato di “come” comparativo, a quello causale di “in corrispondenza al fatto che”, “perché”73. Sul fondamento e nella misura dell’amore di Gesù nasce il dovere dei discepoli. Spicq74 nota che tutti sono d’accordo per non intendere kaqwév nel senso di grado o di intensità di affetto: nessuno saprebbe amare con lo stesso fervore e la stessa santità di Gesù; in ogni caso, una copia è sempre inferiore al modello; ma si tratta di un amore della stessa qualità o della stessa natura, di essere attaccati ai propri fratelli e di votarsi al loro servizio allo stesso modo che il maestro e che è specificamente differente da ogni altro amore umano (Cfr. Gv 14,27: ou\ kaqwév); aggiunge inoltre che kaqwév non indica un semplice confronto, una analogia più o meno lontana o una somiglianza superficiale “alla maniera di”, ma una conformità profonda, perché l’esempio di Gesù è anche la norma dell’amore e il suo fondamento, come lo suggerisce la ripresa i$na kaì u|me_v75. Partiamo anzitutto dalla particella kaqwév. Essa, nel NT, si legge con notevole frequenza, 180 volte. Nei sinottici è più rara: 28 volte76; nell’epistolario paolino si legge 87 volte77; 35 volte negli altri libri del

71 72

Cfr. G. Maier, Johannesevangelium, II, cit., 93.

Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III., cit., 91.

Schnackenburg cita F. Blass - A. Debrunner, Grammatik des neutestamentlichen Griechisch, Göttingen 197614, § 453,2; cfr. anche C. Spicq, Agapè, III, cit., 173s. Con questo kaqwév il rapporto dei discepoli con Gesù è allargato anche alla relazione di Gesù con il Padre suo, cfr. 6,57; 10,15; 17,18.21ss. cfr. R. Schnackenburg, ibid., nota 17. 73

74 75 76

Cfr. C. Spicq, Agapè, III, cit., 173. Cfr. ibid. 176.

Matteo: tre volte; Marco otto volte; Luca 17 volte.

Romani: 18 volte; prima ai Corinti: 19 volte; seconda ai Corinti 12 volte; Galati: tre volte; Efesini 10 volte; Filippesi: tre volte; Colossesi: cinque volte; prima ai Tessalonicesi: 13 volte; seconda ai Tessalonicesi: due volte; prima a Timoteo: una volta. 77

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NT78; 31 volte nel vangelo di Giovanni. In proporzione, gli usi giovannei superano quelli degli altri scritti; possiamo dire così che essa è alquanto caratteristica di questo vangelo. Mediante questa particella, Gesù propone ai discepoli la sua stessa azione, come punto di riferimento per la loro azione. Essi debbono agire sulla scia dell’azione di Gesù. Gli interpreti le attribuiscono particolari sfumature. Fabris79 include in essa anche la connotazione causale, nel senso di “dal momento che”, “poiché”; dal momento che Gesù ha agito così, anche i discepoli debbono agire nella stessa maniera. Secondo Lagrange80, essa equivale all’espressione “ad instar”; bisogna agire alla stessa maniera di Gesù, cioè fino alla morte, se le circostanze dovessero richiederlo. Secondo Leon Dufour81 la particella kaqwév stabilisce un legame intrinseco, quasi una relazione “genetica”. Osserva che quando essa è seguita non da ou$twv ma da kaò, può avere il senso di “fondazione”, di “generazione”82. Notano Sanders-Mastin83 che uno scolaro deve lavare i piedi del suo maestro84: se il maestro lava i piedi, essi debbono seguire la strada del suo umile servizio. Spiega Wilckens 85 che, nell’azione di Gesù, i discepoli debbono vedere un modello: pur essendo il loro Signore e maestro, egli ha compiuto l’azione dello schiavo di lavare i piedi. Il senso fondamentale di questa particella è quello della comparativa di uguaglianza, assumendo poi varie sfumature in base ai singoli contesti dove essa è usata. Il più delle volte essa è usata da sola: in questo caso Atti: 11 volte; Prima di Pietro: una volta; seconda di Pietro: due volte; prima di Giovanni: 9; seconda di Giovanni: due volte; terza di Giovanni: due volte. 78

79 80 81

Cfr R. Fabris, Giovanni, cit., 734.

Cfr M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, Paris 19487, 356.

Cfr X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, cit., 47.

In tale osservazione Leon Dufour si riferisce a Blass-Bebrunner, cfr F. Blass - A. Debrunner, Grammatik des neutestamentlichen Griechisch, cit., 453,2. 82

83 Cfr J.N. Sanders –B.A. Mastin, A Commentary on the Gospel according to S. John, London 1968, 309.

84 Questi autori citano per questo elemento Strack-Billerbeck, cfr. H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum neuen Testament aus Talmud und Midrash, II, München 19562, 557. 85

Cfr U. Wilckens, Das Evangelium nach Johannes, Göttingen 199817, 209.

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essa introduce un fatto o un comportamento che è conforme ad un altro fatto, ad un modello, ad una parola, specificamente alla Scrittura, ad una convenienza86 Talora introduce un fatto che avviene sull’esempio di una persona87. Altre volte essa è unita alla particella avverbiale ou$twv; stabilisce così, in questo caso, l’uguaglianza tra due azioni88. Talora si relaziona alla particella kaò, introducendo così un’azione compiuta da un soggetto sul modello della stessa azione compiuta da un altro soggetto89. In Giovanni, come abbiamo già notato, gli usi della particella kaqwév sono numerosi; essa assume diverse sfumature di senso in base ai contesti in cui è inserita90. Al nostro scopo interessa però soltanto la relazione che A questa prima classificazione si riconducono la maggior parte degli usi. Cfr Mt 21,6; 26,24; 28,6; Mc 1,2; 4,33; 9,13; 11,6; 14,16.21; 15,8; 16,7; Lc 1,2.55.70; 2,20.23; 5,14; 19,32; 22,13; 24,24.39; At 2,4.22; 7,17.42.44.48; 11,29; 15,14.15; 22,3; Rm 1,17; 2,24; 3,8.8.10; 4,17; 8,36; 9,13.29.33; 10,15; 11,26; 15.3.9.21; 1Cor 1,31; 2,9; 4,17; 8,2; 12,11.18; 15,38; 2Cor 6,16; 8,15; 9,3.9; Gal 5,21; Fil 1,7; 2,12; 3,17; Col 1,6.7; 2,7; 1Ts 1,5; 2,2.5.13; 4,1.6.11; 2Ts 1,3; Eb 3,7; 4,3.7; 8,5; 10,25; 11,12; 1Gv 2,18.27; 3,23; 2Gv 4.6; 3Gv 2.3. 86

Cfr Lc 6,36; 11,1; 17,28; At 15,8; Rm 1,28; 15,7; 1Cor 1,6; 5,7; 10,6.7.9; 11,2; 15,49; 2Cor 4,1; 9,7; Gal 2,7; 3,6; 1Ts 4,1.13; 1Tm 1,3; 1Pt 4,10; 1Gv 3,2.3.7.12. 87

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Cfr Lc 11,30; 1Cor 1,5; 2Cor 8,6; 10,7; Col 3,13; 1Ts 2,4; Eb 5,3.

Cfr Rm 1,13; 2Cor 1,14; 1Gv 2,6; 4,17. Possiamo notare l’espressione ka\gwé in bocca a Gesù: cfr Lc 21,19; 15,9. 89

90 Negli usi assoluti, si sottolinea anzitutto la conformità alla Scrittura. In 1,23 si sottolinea la conformità dell’annunzio del Battista alla Scrittura: «preparate la via del Signore, come (kaqwév) disse Isaia il profeta». Possiamo citare anche 6,31: «i nostri padri mangiarono la manna nel deserto, così come (kaqwév) è stato scritto: pane dal cielo diede ad essi da mangiare». Possiamo citare anche 7,38: «chi crede in me, come (kaqwév) disse la Scrittura, fiumi dal suo seno escono di acqua viva» (cfr. anche 12,14). Inoltre si evidenzia talora la conformità di un’azione ad un’altra. In 5,23 leggiamo: «perché tutti onorino il figlio come (kaqwév) onorano il padre»; v 30: «come ascolto, giudico». Inoltre anche 8,28: «da me stesso non faccio niente, ma come (kaqwév) insegnò a me il Padre, queste cose dico» (cfr anche 6,57; 17,11.14.16; 19,40). In forma negativa, citiamo anche 6,58: «non come (kaqwév) mangiarono i padri e morirono»; anche 14,27: «non come (ou\ kaqwév) il mondo dà, io do a voi». Gli usi in relazione alla particella ou$twv stabiliscono la conformità di un’azione seguente ad una precedente. Così leggiamo in 3,14: «come (kaqwév) Mosè innalzò il serpente nel deserto, così (ou$twv) dev’essere innalzato il figlio dell’uomo». L’innalzamento del figlio dell’uomo è in conformità all’innalzamento del serpente. Inoltre citiamo ancora il testo di 12,50, dove Gesù dichiara: «ciò che io dico così come (kaqwév) ha detto (ei"rhkeén me) a me il Padre, così (ou$twv) io parlo (lalw%)». Ancora in 14,31 Gesù dichiara: «ma perché conosca il mondo che io amo il Padre e come (kaì kaqwév) ha detto a me il Padre così (ou$twv) io faccio […]». In 15,4 ancora

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essa, in 13,34, stabilisce tra l’amore a cui sono esortati i discepoli e l’evento dell’amore di Gesù. Tale relazione è espressa anche in 15,12, dove si parla ancora di e\ntolhé, ma non più di e\ntolhè kainhé. Analoga relazione è espressa pure nella prima lettera di Giovanni; essa però è stabilita non con l’evento dell’amore di Cristo, bensì con quello dell’amore di Dio: i cristiani debbono amarsi perché Dio ha amato91. La relazione tra l’amore tra gli uomini e l’evento dell’amore di Cristo è evidenziato anche nell’epistolario paolino. In Ef 5,2 l’apostolo esorta i cristiani a “camminare nell’amore (peripate_te e\n a\gaép+)” e continua: «come anche (kaqwèv kaò) Cristo amò noi (h\gaéphsen h|ma_v) e donò (pareédwken) se stesso per noi»; nel v. 25, riferita all’amore dei mariti verso le mogli, leggiamo un’espressione quasi identica: «mariti, amate (a\gapa%te) le mogli, come anche (kaqwèv kaò) Cristo amò (h\gaéphsen) la chiesa e diede (pareédwken) se stesso per lei»92. leggiamo le parole di Gesù: «come (kaqwév) il tralcio non può portare frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così (ou$twv) neanche voi se non rimanete in me». Gli usi della particella kaqwév, in relazione alla particella kaò, pongono l’azione precedente (kaqwév) come modello (kaò) dell’azione seguente. Per questa categoria ci riferiamo anzitutto al testo di 10,15, dove Gesù dichiara: «come (kaqwév) conosce me il Padre, anch’io (ka\gwé) conosco il Padre e la mia vita pongo per le pecore». In 13,33, Gesù si rivolge ai discepoli con le seguenti parole: «figlioli […] come (kaqwév) dissi ai giudei che dove io vado non potete venire, anche (kaò) a voi dico ora». Ancora in 17,18, rivolgendosi al Padre, Gesù dichiara: «come (kaqwév) me hai mandato nel mondo, anch’io (ka\gwé) mandai essi nel mondo». Nel seguente v 21 Gesù ancora continua: «perché tutti siano una cosa sola, come (kaqwév) tu, Padre, in me, anch’io (ka\gwé) in te». Infine in 20,21 Gesù, apparendo ai discepoli dopo la sua resurrezione, li incarica di una missione con le seguenti parole: «come (kaqwév) ha mandato me il Padre, anch’io (ka\gwé) mando voi». 91 In 1Gv 4,17 l’amore vicendevole (a\llhélouv a\gapa%n) scaturisce, come un dovere (o\ feòlomen), dal fatto che Dio ci ha amato (ei\ ou$twv o| qeoèv h\gaéphsen h|ma%v): manca la particella kaqwév, ma la relazione tra l’evento dell’amore di Dio e la conseguenza dell’amore vicen-

devole, che da esso, come una conseguenza, ne scaturisce, è analoga. Della prima lettera possiamo citare anche altri passaggi, non riferiti all’amore, ma dove, mediante la particella kaqwév, comportamenti umani trovano in Dio il loro dovere e la loro causa esemplare. Ci riferiamo a 1Gv 2,6: «chi dice di rimanere (meénein) in lui, deve (o\feòlei), come (kaqwév) quello ha camminato (periepaéthsen), anche egli camminare (peripate_n)»; ancora 3,3: «chiunque ha questa speranza su di lui, purifica (a|gnòzei) se stesso, come (kaqwév) quello puro è (a|gnoév e\stin)»; 3,7: «chi fa la giustizia è giusto (dòkaioév e\stin), come (kaqwév) quello è giusto (dòkaioév e\stin)». 92 Benché non riferito all’amore, si può citare, in relazione al comportamento umano modellato su quello divino, anche Col 3,13: «Così come (kaqwèv kaò) il Signore fa fatto

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In questi testi, l’espressione kaqwèv kaò (come anche) sottolinea di più la causalità esemplare: Cristo tra i cristiani è modello in due aspetti: nel fatto di avere amato e nella maniera come ha amato. Dal momento che Cristo ha amato, anche i cristiani debbono amarsi; essi poi debbono amarsi nella maniera come Cristo ha amato, dando se stesso per gli altri. In questa prospettiva di causalità esemplare è tacitamente contenuto anche l’aspetto del comando. Esso è implicito nell’oggetto del verbo riferito a Cristo. Cristo non ha amato in genere, ma, specificamente, ha amato noi (h|ma%v) (Ef 5,2) ed ha amato la chiesa (thèn e\kklhsòan) (Ef 5,25): chi è stato raggiunto dall’amore di Cristo, non può esimersi dall’amare come lui ha amato93; si affaccia tacitamente anche un’altra prospettiva: quella della risposta all’evento ricevuto94. Alla luce dei testi della lettera di Paolo agli Efesini, la prospettiva dell’amore dei discepoli, fondato sull’evento dell’amore di Cristo, non appare esclusiva giovannea, ma si riconduce ad una prospettiva più ampia del NT. Tuttavia il quarto evangelista, sia in 13,34 che in 15,12-17, presenta l’amore vicendevole, sul fondamento dell’amore di Cristo, come un “comandamento (e\ntolhé)” e, specificamente in 13,34, come “un nuovo comandamento (e\ntolhèn kainhén)”. Benché nell’espressione giovannea kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v non possa essere escluso l’aspetto della causalità esemplare, in essa tuttavia è contenuto e da essa scaturisce l’aspetto del comando che Gesù esplicita mediante l’espressione i$na a\gapa%te a\llhélouv. Rimane ancora il problema in che senso l’amore vicendevole possa essere definito “comandamento (e\ntolhé)” e, per di più, “comandamento nuovo (e\ntolhèn kainhén)”.

grazia a voi, così (fate) anche voi (kaì u|me_v)».

93 In Ef 5,25 i mariti debbono amare le proprie mogli come Cristo ha amato la sua chiesa. Si stabilisce una duplice relazione tra mariti-Cristo e mogli-chiesa. Sembra emergere un aspetto sacramentale, dal quale però prescindiamo.

94 Tale prospettiva sembra essere presente anche in altri testi. Possiamo citare la parabola dei due debitori, riferita in Mt 18,21-35; in Mt 18,33 il padrone rimprovera il servo con le parole: «non era necessario (ou\k e"dei) che anche (kaò) tu avessi compassione (e\leh%sai) del tuo conservo, come io (w|v ka\gwé) ho avuto compassione (h\leéhsa) di te»?

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3.3.3. La relazione a 13,12-20 Per rispondere alla domanda sopra indicata, probabilmente ci aiuta anche l’insegnamento proposto da Gesù nell’altro monologo, in 13,12-20, dove Egli spiega l’azione di avere lavato i piedi dei discepoli, descritta in 13,5, e ne tira per loro le conseguenze. Nel v. 13 Gesù si rivolge direttamente ai discepoli, ricordando loro che essi lo chiamano “il Signore e il maestro” e li approva, perché egli è tale (ei\mì gaér). Nei vv. 14-15, dalla maniera come i discepoli lo chiamano, tira una conseguenza: «se dunque io lavai i vostri piedi, il Signore e il maestro, anche voi (kaì u|me_v) dovete (o\feòlete) gli uni gli altri (a\llhélwn) lavarvi i piedi (nòptein touèv poédav). Un modello (u|poédeigma) infatti ho dato a voi (e"dwka u|m_n) che (i$na), come (kaqwév) io ho fatto a voi (e\poòhsa u|m_n), anche voi (kaì u|me_v) facciate (poih%te)»95. I vv. 14-15, in maniera particolare il v. 15, presentano una relazione con il v. 3496: in entrambi infatti Gesù, in forza della sua azione, propone ai di95

I vv. 14-15 si articolano in sei espressioni

Ei\ ou&n e\gwè e"niya u|mw%n touè poédav o|| Kuériov kaì o| didaéskalov kaì u|me_v o\feòlete a\llhélwn nòptein touèv poédav u|poédeigma gaèr e"dwka u|m_n i$na kaqwèv e\gwè e\poòhsa u|m_n kaì u|me_v poih%te.

La prima, seconda, quarta e quinta espressione riguardano l’azione di Gesù; la terza e la sesta riguardano invece l’azione dei discepoli. La quattro espressioni riguardanti Gesù presentano uno schema concentrico. La prima e la quinta, caratterizzate da un verbo all’aoristo (e"niya / e\poòhsa) e legate dal pronome soggetto e\gwé, indicano l’azione di Gesù: egli ha fatto loro qualcosa (quinta), ha lavato loro i piedi (prima). La seconda e la quarta presentano rispettivamente le prerogative di Gesù (il Signore e il maestro) e la sua azione, diremmo, magistrale, di dare un “modello (u|poédeigma). La terza e la sesta espressione, legate dalle parole kaì u|me_v e da una forma verbale al presente (o\feòlete / poih%te) riguardano invece le azioni dei discepoli: essi debbono “fare anche loro (sesta )”, debbono cioè lavare i piedi gli uni agli altri. Malatesta indica che tre elementi sono comuni ai due passaggi (vv. 14-15 e v. 34): la somiglianza di comportamento dei discepoli e quello di Gesù (“voi anche”), la reciprocità delle azioni che deve caratterizzare i discepoli (“gli uni gli altri”), l’atteggiamento di insieme sorgente e modello delle loro azioni (“come”)::chiunque vuole essere discepolo di Gesù deve imitarlo, cfr. E. Malatesta, Entraide fraternelle par la communion avec Jésus, in Christ 23 (1976), 209-223: 213. 96

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scepoli qualcosa, rispettivamente lavarsi i piedi l’un l’altro ed amarsi l’un l’altro. L’accostamento di questi versi stabilisce così anche una relazione tra lo u|poédeigma (modello) del v.15 e la e\ntolhèn kainhén (comandamento nuovo) del v. 3497. Excursus su u|poédeigma Il termine u|poédeigma, come tutti i termini finenti in ma, indica una realtà concreta. Esso deriva dal verbo composto u|podeòknumi, che, a sua volta, significa “mostrare (deòknumi)” qualcosa mettendola “sotto (u|poé)” gli occhi di qualcuno. In questo senso, il termine indica una realtà che viene mostrata mettendola sotto gli occhi. Da qui il senso di “modello” o anche di “esempio”. Il sostantivo u|poédeigma, nella grecità biblica, non è frequente; possiamo dire anzi che è abbastanza raro. Nel NT, incluso anche il nostro testo, esso si legge in tutto sei volte; nei LXX è ancora più raro: si legge in tutto cinque volte. Altri due usi sono attestati nella versione di Aquila, in Dt 4,1198 e Ez 8,10. Gli interpreti sostanzialmente concordano nel senso del termine u|poédeigma. Notano talora che esso si trova già nel greco della Koiné in sostituzione del classico paraédeigma. In questo senso, Barrett99 intende il termine come “mo97

Possiamo stabilire tra i due versi anche la seguente relazione strutturale: v. 15: u|poédeigma gaèr e"dwka u|m_n i$na

kaqwèv e\gwè e\poòhsa u|m_n kaì u|me_v poih%te v. 34: e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v

Tra la seconda, terza, quinta e sesta espressione si stabilisce una relazione strutturale concentrica, La seconda e sesta espressione si relazionano per la particella comparativa kaqwév, per il verbo aoristo alla prima persona (e\poòhsa / h\gaéphsa) e per il pronome di seconda persona plurale (u|m_n / u|ma%v). La terza e la quinta si relazionano per l’analogo verbo al congiuntivo presente (poih%te / a\gapa%te). La prima e la quarta si relazionano per lo stesso sviluppo strutturale (oggetto-verbo-dativo), per l’uso del verbo dòdwmi (e"dwka / dòdwmi), per il pronome dativo finale u|m_n, e per l’espressione apposizionale introdotta da i$na e il congiuntivo, che dà un contenuto sia allo u|poédeigma che all’ e\ntolhé. 98 99

Nei LXX l’espressione corrispondente è u|poè toè o"rov.

Cfr C.K. Barrett The Gospel According to St. John, cit., 368.

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dello”, “esempio”, “istanza”; Bauer100 spiega poi che esso, nel nostro testo, è la manifestazione dell’umile servizio. Secondo Lagrange101 si tratta di un atto che deve servire come modello e lezione. In genere gli interpreti attribuiscono al termine il senso di “modello”. Braun102 spiega che esso indica un modello a cui ispirarsi nell’esercizio del dimenticare se stessi; secondo Bultmann103 esso è un modello o un esempio posto davanti agli occhi; secondo Fabris104 esso indica il modello che deve stare alla base dei rapporti tra i discepoli; Culpepper105 intende il termine nel senso di “esempio” da imitare. Osserva Ellis106 che, nel dare la u|poédeigma, Gesù progredisce nell’azione iniziata nei vv 1-5, presentando ai discepoli la lezione sulla lavanda dei piedi. Secondo Leon Dufour107 il termine ha una connotazione nettamente visiva. Esso significa “modello” e non indica soltanto un esempio in campo morale da imitare o seguire più o meno. Esso infatti deriva dal verbo deòknumi che, in Giovanni, ha un valore teologico. Gesù non presenta questo esempio come un modello esteriore da imitare, ma come un dono che genera il comportamento futuro dei discepoli. Moloney108 osserva che, dietro l’uso del termine u|poédeigma, ci sta il tema della morte: l’esortazione di Gesù non è sul piano morale, ma vuole esortare al dono di se stessi. Tillmann109, che intende il termine nel senso di “esempio”, spiega che Gesù ha dato un esempio di abbassamento e di servizio da schiavi, indicando così una maniera di amare che si attua nel servizio ai fratelli. Nel NT, il termine u|poédeigma, oltre il nostro testo di Gv 13,15, si legge tre volte nella lettera agli Ebrei (4,11; 8,5; 9,23); inoltre soltanto in Gc 5,10 e in 2Pt 2,6. In Eb 4,11 l’autore esorta ad avere cura di entrare nel riposo di Dio: «sì da non cadere qualcuno nello stesso esempio (e\n t§% au\t§% tiv u|podeògmati) di disobbedienza». L’esempio di disobbedienza che i cristiani hanno davanti 100 101

Cfr W. Bauer, Das Johannesevangelium, cit., 170.

Cfr M.J. Lagrange, Évangile selon S.Jean, cit., 356.

Cfr F.M. Braun, Évangile selon Saint Jean, in L. Pirot-A. Clamer, La Sainte Bible X, Paris 19502;421. 102

103 104

Cfr R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, cit., 362 nota 4. Cfr R. Fabris, Giovanni, cit., 734.

Cfr R.A. Culpepper, The Johannine hupodeigma. A Reading of John 13, in Semeia 53 (1991) 133-152: 142-143; cita 2Mac 6,31; 4Mac 17,22-23; Sir 44,16. 105

106 107 108 109

Cfr E.E. Ellis, The Genius of John, Collegeville (Minnesota) 19842, 214.

Cfr X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, cit., 41.

Cfr F.J. Moloney, The Gospel of John, Collegeville (Minnesota) 1998, 376. Cfr F. Tillmann, Das Johannesevangelium, Bonn 19314, 201.

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agli occhi è quello del popolo di Israele nel deserto, evocato dal Sal 94 appena prima citato. In 8,5 l’autore definisce la realtà, a cui il sacerdote levitico serve secondo la legge, u|poédeigma kaì skòa delle cose celesti (tw%n e\pouranòwn). Qui il termine u|poédeigma può significare “modello”. L’autore però definisce, con il termine seguente, il termine u|poédeigma: esso è soltanto skòa, cioè “ombra”, “schizzo”, “abbozzo”. I culti dell’AT erano modello delle realtà celesti, ma soltanto come immagine, come uno schizzo prefigurativo, cioè non come realtà da copiare, bensì da completare. La stessa caratterizzazione di quei culti compare ancora in 9,23, che l’autore definisce taè meèn u|podeògmata tw%n e\n to_v ou\rano_v (le immagini delle cose nei cieli). Sembra emergere una differenza di senso tra l’uso del termine u|poédeigma in 4,11 e i suoi due usi in 8,5 e 9,23. In 4,11 lo u|poédeigma è un esempio da, o da non, imitare: quello che viene prima costituisce il modello di quello che viene dopo, che invece è soltanto una copia. In 8,5 9,23 invece il termine u|poédeigma, precisato in 8,5 dal temine skòa, è soltanto lo schizzo, l’abbozzo della vera realtà che invece viene dopo. In questi testi perciò lo u|poédeigma non è soltanto un modello da copiare, ma anche uno schizzo da completare110. In Gc 5,10 l’autore esorta i cristiani a prendere (laébete) come modello (u|poédeigma) di sopportazione dei mali (kakopaqòav) e di pazienza (makroqumòav) i profeti, i quali parlarono nel nome del Signore. Essi perciò sono degni di essere esibiti come modelli e perciò di essere imitati. In 2Pt 2,6 infine l’autore ricorda come Dio condannò alla distruzione Sodoma e Gomorra, avendo così posto (teqeikwév) un modello, un esempio (u|poédeigma) di quelli che avrebbero agito empiamente (melloéntwn a\sebe_n). La sorte di Sodoma e Gomorra fu posta da Dio come il modello della sorte che sarebbe toccata a quelli che, come quelle città, avrebbero, in futuro, agito empiamente. Il termine u|poédeigma, nel nostro testo, come anche indicano le parole seguenti: «perché anche voi facciate come io ho fatto a voi», e la precedente menzione dell’o| kuériov kaì o| didaéskalov, più che esempio da imitare, indica meglio il modello da cui copiare. Gesù ha messo sotto gli occhi dei discepoli un modello di comportamento, dal quale essi non possono allontanarsi, avendolo riconosciuto e professato come “il Signore e il Maestro”. In questo senso, il significato del termine u|poédeigma, nel nostro testo, si avvicina soprattutto a quello di Gc 5,10. Giacomo propone come modello i profeti, così come Gesù propone la sua stessa azione. Cfr A. Vanhoye, Prêtres anciens, Prêtre nouveau selon le Nouveau Testament, Paris 1980, 201 nota 3: «”figuration rudimentaire” c’est la traduction exacte de l’endiadys hupodéigma kaì skia, littéralement: “indication et ébauche”.» 110

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Come abbiamo già notato, nei LXX il termine u|poédeigma si legge soltanto cinque volte111, In Sir 44,16, a proposito di Enoch, si dice che «piacque a Dio e fu trasferito (meteteéqh), come esempio (u|poédeigma) di conversione (metanoòav) per le generazioni (ta_v genea_v)». L’allusione è a Gen 5,24. In questo testo, il termine u|poédeigma può significare sia “esempio” che “modello”. Di Enoch si dice che egli fu u|poédeigma per tutte le generazioni. Il testo però non dice in che senso Enoch fu modello e infatti l’essere gradito a Dio e inoltre essere rapito sono conseguenze di un particolare comportamento meritorio di cui però il testo non dice nulla. In 2Mac 6,28 leggiamo parte delle parole con cui il vecchio Eleazaro risponde a quelli che lo esortavano a simulare l’adesione agli idoli. Nel v. 27 ha dichiarato che egli, lasciando virilmente (a\ndreòwv) la vita, apparirà (fanhésomai) degno (a"xiov) della vecchiaia (tou% meèn ghérouv). Prosegue poi, nel v. 28, con le parole: «avendo lasciato (kataleloipwév) ai giovani un nobile esempio (u|poédeigma genna_on) perché affrontino la morte nobilmente e generosamente per le sante leggi». Eleazaro così intende restare per le giovani generazioni un esempio da imitare e un modello da copiare di generosa e nobile prontezza ad andare incontro alla morte pur di restare fedeli alle sante leggi di Dio. Il v. 31 dello stesso capitolo sesto, quasi ricapitolando tutta la storia del vecchio Eleazaro, conclude che «egli morì avendo lasciato (katalipwén) non solo ai giovani, ma anche alla maggior parte del popolo, la propria morte (toèn e|autou% qaénaton) come modello (u|poédeigma) di generosità (gennaioéthtov) e ricordo di fortezza (mnhmoésunon a\reth%v)». In questi due testi del secondo libro dei Maccabei, il termine u|poédeigma, riferito alla morte del vecchio Eleazaro, indica sia un modello da ricopiare sia anche un esempio da seguire ed imitare. Nella stessa prospettiva è il testo di 17,23 del quarto libro dei Maccabei, che, quasi concludendo la narrazione, osserva che il tiranno, avendo visto la nobiltà e la forza di coloro che avevano dato la vita, propose come modello (ei\v u|poédeigma) la loro costanza. Notiamo infine anche il testo di Ez 42,14, nel contesto in cui è narrata la misurazione, da parte di un uomo che accompagna il profeta, del tempio che egli vede in visione. Leggiamo nel TM che l’uomo fece uscire il profeta per la porta che guarda verso oriente. Il seguito del testo è alquanto confuso 112. 111 Cfr. Sir 44,16; Ez 42,15; 2Mac 6,28.31; 4Mac 17,23. Prescindiamo dai due usi nella versione di Aquila

112 Leggiamo infatti l’espressione byibfs byibfs owdfd:mU (e le sue misure attorno attorno). La Bibbia Stuttgartense (Cfr. R. kittel - P. Kahle [curr.] Biblia Hebraica Stuttgartensia, Stuttgart 196614, ad locum.) propone di leggere byibfs byibfs dadfmU (e misurò attorno attorno). I LXX traducono invece kaì diemeétrhsen toè u|poédeigma tou% oi"kou

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Anche il verbo u|poédeòknumi nel NT, come abbiamo notato, è raro, anche se non rarissimo: si legge in tutto solo sei volte, di cui cinque nell’opera lucana: Lc 3,7; 6,47; 12,5; At 9,16; 20,35. Il sesto uso è in Mt 3,7, parallelo al testo di Lc 3,7. Nei LXX il verbo è più frequente. Esso si legge circa 56 volte, benché qualche testo sia criticamente incerto113. Di questi usi ben 37 sono attestati nei libri deuterocanonici. Al nostro scopo riteniamo sufficiente considerare gli usi del NT. Negli usi di questo verbo emerge talora la prospettiva del maestro. Rimproverando infatti i farisei, Giovanni Battista, in Mt 3,7 e Lc 3,7, dichiara: «chi vi ha mostrato (tòv u|peédeixen u|m_n) (il modo come) sfuggire (fuge_n) all’ira ventura?». Giovanni chiede chi ha messo sotto gli occhi, e quindi chi ha insegnato, la maniera come sfuggire all’ira ventura. In questa espressione l’aspetto didascalico non è assente. L’aspetto didascalico è pure presente anche in Lc 6,47. In questo testo Gesù infatti dichiara: «chiunque viene a me e ascolta le mie parole mostrerò (u|podeòxw) a voi a chi è simile». Gesù metterà sotto gli occhi dei suoi ascoltatori un’immagine che permetterà loro di comprendere chi è colui che viene a lui ed ascolta le sue parole. Analoga prospettiva si trova anche in Lc 12,5, dove Gesù dichiara: «mostrerò a voi chi dovete temere». Gesù intende mettere sotto gli occhi dei suoi ascoltatori la persona che essi debbono temere. Ancora in At 9,16, apparendo in visione, Gesù dice ad Anania a riguardo di Paolo: «gli mostrerò quante cose è necessario che patisca per me». Gesù intende mettere sotto gli occhi di Paolo tutte le cose che è necessario che egli patisca per lui. Infine in At 20,35, parlando agli anziani di Efeso, Paolo dichiara di avere loro mostrato (u|peédeixa) come “così faticando (ou$twv kopiw%ntev)”, cioè faticando con le proprie mani, bisogna venire incontro a quelli che sono infermi. In tutti questi testi il verbo u|podeòknumi indica l’azione di mettere sotto gli occhi di qualcuno una realtà mediante la quale egli possa pervenire ad una conoscenza, possa avere un modello a cui ispirarsi, avere un esempio da imitare. L’aspetto di insegnamento, in questi testi, non è assente; probabilmente però non è in tutti ugualmente presente. Esso emerge di più nelle parole di Giovanni kukloéqen (e misurò l’aspetto della casa attorno). In questo testo il termine u|poédeigma

probabilmente vorrebbe riferirsi all’aspetto esteriore, all’immagine globale esterna della casa. In ogni caso il senso del termine in questo testo discorda da quello riscontrato negli altri testi. Forse il termine tradisce la difficoltà dei LXX a tradurre un testo che, per tanti aspetti, si rivela oscuro. 113 In Tb 4,20 il cod B legge e\pideiknuéw; Lettura incerta è anche in Tb 5,7.8; 7,10; 8,14; 19,8.9; 12,6.11; Es 2,9; 3,13.

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ai farisei in Mt 3,1 e Lc 3,7 e anche nelle parole di Paolo agli anziani di Efeso, in At 20,35. Possiamo allora concludere che sia il termine u|poédeigma che il verbo u|podeòknumi rimandano ad un esempio, ad un modello concreto che serve agli altri da ricopiare. Nel nostro testo il modello messo sotto gli occhi dei discepoli è proposto da Gesù stesso. Nel compiere l’azione di lavare i piedi dei discepoli, Gesù si è comportato come il maestro: egli ha messo sotto i loro occhi diremmo la bella copia di come i discepoli debbono comportarsi.

3.3.4. Le azioni di Gesù L’accostamento di questi versi stabilisce così una relazione tra le due azioni di Gesù: lavare i piedi dei discepoli (vv. 14-15) ed amare (v. 34). La prima azione è presentata come un u|poédeigma, modello cioè da ricopiare, la seconda azione invece è presentata come la e\ntolhé definita kainhé, come un comando cioè a cui obbedire e da osservare. I due elementi, lo u|poédeigma, come modello da ricopiare e la e\ntolhé, come comandamento a cui obbedire, facilmente richiamano le due prerogative che Gesù dichiara, nel v. 13, essergli attribuite dai discepoli, o| didaéskalov kaì o| kuériov, e da cui tira poi (ou&n) (v. 14) le conseguenze. Il termine u|poédeigma, come modello da ricopiare, richiama l’aspetto del “maestro (o| didaéskalov)”, il termine e\ntolhèn come comandamento a cui obbedire, richiama l’aspetto del “signore (o| kuériov). Gesù è il maestro e, come tale, ha messo sotto gli occhi dei discepoli un modello (u|poédeigma) che essi debbono ricopiare; inoltre egli è il Signore e, come tale, ha dato ai discepoli un comando (e\ntolhé) a cui essi debbono obbedire114. Le due azioni compiute da Gesù, lavare i piedi ed amare appaiono così strettamente collegate115, come due aspetti di un’unica realtà, e pure inteLe due espressioni riguardanti, rispettivamente lo u|poédeigma (v. 15) e la e\ntolh (v. 34) presentano uguale sviluppo strutturale: v. 15 v. 34 u|poédeigma gaèr e\ntolhèn kainhèn 114

e"dwka dòdwmi u|m_n u|m_n

115 Scrive Barrett che l’immediato riferimento dell’azione di Gesù di amare è alla lavanda dei piedi, ma poiché questa, a sua volta orienta alla croce, questa deve essere guar-

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ragiscono l’uno nell’altro116. Gesù ha lavato i piedi dei discepoli e così ha compiuto un’opera di amore; li ha amati, ma non sentimentalmente, bensì precisamente lavando loro i piedi. Tale interazione è importante e anche necessaria anche per i discepoli. L’azione di lavare i piedi è concreta, ma può restare soltanto sul piano esterno e formale; l’azione di amare, a sua volta, può restare soltanto sul piano teorico, sentimentale. L’azione di amare conferisce un’anima a quella concreta di lavare i piedi; quest’ultima poi conferisce all’amore un contenuto concreto, impedendogli così di restare sul piano semplicemente sentimentale. I discepoli dovranno lavarsi i piedi l’un l’altro e, con tale azione, esprimeranno il loro amore vicendevole; questo poi deve tradursi in azione concreta: appunto lavarsi i piedi l’un l’altro117. Le azioni compiute da Gesù, e"niya u|mw%n (v. 14), e\poòhsa u|m_n (v. 15), h\gaéphsa u|ma%v (v 34) sono tutte formulate all’aoristo: esse perciò rimandano ad un’azione concreta storica, che Gesù ha compiuto. In tutti e tre i casi l’aoristo può essere completivo o ingressivo118. È completivo dal punto di vista dell’azione stessa di Gesù: essa, in quanto azione concreta, è già un fatto passato. È ingressivo invece dal punto di vista dei discepoli: esso infatti segna l’inizio dell’azione nella quale essi debbono perseverare. data come ultimo modello dell’amore cristiano, cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 458.

116 Possiamo notare il seguente sviluppo delle azioni di Gesù: e"niya u|mw%n (v. 14), e\poòhsa u|m_n (v. 15), h\gaéphsa u|ma%v (v 34). Si può stabilire una linea che, dal verbo e"niya, culmina nel verbo h\gaéphsa.

117 Osserva Lagrange che la legge della carità fraterna non è come gli uomini possono concepirla, ma come Gesù l’ha approvata, cfr M.J. Lagrange, Évangile selon S.Jean, cit., 367. Nota Wilckens che il rapporto vicendevole deve misurarsi sul modello di Gesù. L’amore di Gesù è per i discepoli il fondamento e la fonte da dove soltanto l’amore vicendevole trae forza. Il comandamento di Gesù è il suo testamento e, come tale, anche il suo dono. Chiaramente nel v. 34 abbiamo l’interpretazione della lavanda dei piedi nei vv. 12-15, cfr. U. Wilckens, Das Evangelium nach Johannes, cit., 218.

Secondo Barrett l’aoristo h\gaéphsa indica il globale atto di amore che Gesù portò a compimento nella morte, cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 463. Lindars nota che l’aoristo indica un riferimento alla passione, cfr. B. Lindars, The Gospel of John, London 1986, 464. Secondo Westcott invece la forma all’aoristo indica che l’opera di Gesù è idealmente finita, cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, Grand Rapids 1983, 198. 118

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Emerge allora una domanda: qual è l’azione concreta, storica, nella quale Gesù ha manifestato ai discepoli il suo amore e che simbolicamente ha indicato loro nell’azione concreta di lavare i piedi? 3.3.5. L’azione di amore di Gesù verso i discepoli Per rispondere alla domanda come Gesù abbia amato i discepoli, stabiliamo anzitutto qualche relazione. La prima è con il testo di 15,12, dove Gesù indica qual è (au$th e\stòn) il suo comandamento (h| e\ntolhè h| e\mhé): si tratta ancora dell’amore degli uni verso gli altri, come Lui ha amato (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v). La relazione di 15,12 a 13,34 è evidente. Emerge però una differenza tra i due testi. In 13,34 Gesù propone la sua e\ntolhé come kainhé, ma non offre alcuna altra indicazione; in 15,12 invece omette il termine kainhé ma propone ancora una ulteriore spiegazione. In forma di principio generale, Gesù, nel v. 13, osserva che «nessuno ha amore più grande di questo (meòzona tauéthv a\gaéphn ou\deìv e"cei), di chi pone la sua vita (i$na tiv thèn yuchèn au\tou% q+%) per i suoi amici (u|peèr tw%n fòlw%n au\tou%)». Questa espressione, di carattere generale, si riferisce certo a Gesù (cfr. 10,1718), ma si riferisce anche ai discepoli che debbono amarsi alla sua stessa maniera. Gesù ha amato dando la propria vita per gli amici; i discepoli dovranno amarsi dando la loro vita gli uni per gli altri. La relazione tra 13,34 e 15,12-13 si colloca però nello sfondo di una relazione più ampia. Se consideriamo infatti le forme del verbo a\gapaéw riferite a Gesù, espresse all’aoristo (h\gaéphsen / h\gaéphsa), possiamo notare il seguente sviluppo alternato: 13,1: ei\v teélov h\gaéphsen au\touév, 13,34: kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v, 15,9: ka\gwè u|ma%v h\gaéphsa, 15,12: kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v. Nel secondo e quarto testo (13,34; 15,12) l’amore di Gesù è proposto come fondamento e modello dell’amore vicendevole dei discepoli; nel terzo testo è indicato il modello e il fondamento dell’amore stesso di Gesù: quello del Padre verso di lui. Nel primo testo, il verbo h\gaéphsen è seguito, nei vv. 2-5, da un lungo sviluppo in cui è descritta la maniera concreta

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con cui Gesù ha amato i discepoli: lavando loro i piedi. Gesù ha amato i discepoli per il fatto che è stato lui raggiunto dall’amore del Padre ed ha concretizzato il suo amore lavando i piedi dei discepoli; i discepoli debbono amarsi gli uni gli altri per il fatto che sono stati raggiunti dall’amore di Gesù. Possiamo però restringere ulteriormente le relazioni riferendoci al cap. 13, dove possiamo individuare il seguente schema: 13,1: Gesù ha amato i discepoli (ei\v teélov h\gaéphsen au\touév), 13,2-5: ha lavato loro i piedi (v. 5: h"rxato nòptein), 13,14-15: i discepoli debbono lavarsi (allhélwn nòptein) i piedi l’un l’altro, 13,34: debbono amarsi (i$na a\gapa%te a\llhélouv) l’un l’altro. In uno studio precedente119, che, in forma più sintetica riproponiamo anche in questa miscellanea120, abbiamo tentato di mostrare che l’espressione di 13,1 non si riferisce prima di tutto al tempo o all’intensità dell’azione di Gesù, ma indica un amore tale che permette ai discepoli di giungere al loro termine (ei\v teélov). In questa prospettiva, l’azione di Gesù di lavare i piedi, seguita da quella non meno importante di asciugarli, implica ma non si esaurisce nel solo dono della propria vita; essa include anche la trasmissione dell’amore che coinvolge i discepoli in esso e li abilita a camminare nella via dell’amore vicendevole, rendendoli così capaci di raggiungere Gesù e, attraverso di Lui, raggiungere il Padre (cfr. 15,9-10). Gesù ha donato la vita; mediante il dono dello Spirito, che da lui è sgorgato (19,34), il suo amore ha raggiunto i discepoli, li ha coinvolti in esso, li ha abilitati a camminare nella via dell’amore vicendevole, orientandoli così a se stesso e, attraverso di lui, al Padre. In questa prospettiva, si capisce il senso del comandamento dell’amore vicendevole. Esso, reso possibile dall’evento dell’amore di Gesù, costituisce il cammino attraverso il quale i discepoli debbono passare per giungere

119 Cfr. A. Gangemi, La Lavanda dei piedi (Gv 13,1-5): il coinvolgimento dei discepoli nell'esodo di Gesù mediante l'amore, in «Synaxis» XIV/2 (1996) 27-120 (I); XV/1 (1997) 7-87 (II), passim. 120

Cfr. Studio: L’amore di Gesù verso i discepoli.

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a Gesù e, attraverso di Lui, al Padre. Se i discepoli non perseverano121 in questo cammino di amore vicendevole, inevitabilmente vanificano l’amore di Gesù e semplicemente non pervengono al Padre. Rivolgendosi ai discepoli, Gesù ribadisce quello che essi già professano: egli è il maestro e il Signore. Come maestro, egli offre un modello (u|poédeigma), come Signore, propone un comando (e\ntolhé). Egli lega la prospettiva del Maestro alla lavanda dei piedi, e quella del Signore all’amore vicendevole. Nella lavanda dei piedi però non è esclusa la prospettiva del Signore, come suggerisce il verbo o\feòlete (13,14); nell’amore vicendevole poi non è esclusa quella del Maestro, come suggerisce, in 13,34, l’aggiunta kaì u|me_v nell’espressione i$na kaì u|me_v a\gapa%te a\llhélouv122. Si capisce, in questa prospettiva il congiuntivo presente i$na a\gapa%te di 13,34 e 15,12. Il presente indica azione continua; Gesù così non comanda di “iniziare” ad amarsi: l’inizio è stabilito dalla sua stessa opera (h\gaéphsa). Egli comanda di perseverare in questo cammino; il testo sembra così insinuare che in esso si trovano difficoltà, dalle quali però non bisogna lasciarsi condizionare. Il punto di partenza così è l’opera di Gesù (h\gaéphsen); il termine è indicato in 15,10: «se osserverete i miei comandamenti (taèv e\ntolaév), rimarrete nel mio amore (mene_te e\n t+% a\gaèp+ mou)». Si ottiene così il seguente schema: 1. Gesù ha amato (h\gaéphsa): punto di partenza; 2. amore vicendevole (i$na a\gapa%te a\llhélouv): cammino intermedio; 3. rimanere (mene_te) nell’amore di Gesù: termine del cammino. L’evento dell’amore di Gesù segna per i discepoli l’inizio di un cammino; questi, attraverso la via dell’amore vicendevole, giungeranno e si radicheranno stabilmente (mene_te) nell’amore di Gesù e, attraverso Gesù, nell’amore del Padre, perché Gesù è radicato nell’amore del Padre (meénw au\tou% e\n t+% a\gaép+). Si avverte una tacita allusione agli eventi dell’esodo che, schematicamente possiamo proporre nel seguente modo: Esodo Giovanni Dio, per mezzo di Mosè, scese in Egitto L’amore di Gesù ai discepoli (h\gaéphsa) Incamminò il popolo attraverso il deserto l’amore vicendevole dei discepoli (i$na a\gapa%te a\llhélouv) Fino alla terra promessa. rimanere (mene_te) nell’amore di Gesù. Si avverte anche una tacita contrapposizione al cammino dell’esodo. In questo, durante il tempo del deserto, il popolo ripetutamente, bramò di tornare in Egitto; Gesù invece comanda ai discepoli di perseverare nel cammino dell’amore vicendevole, che parte da lui e li conduce a lui e che, in ultima analisi, parte dal Padre e giunge al Padre. 121

122 L’espressione kaì u|me_v, nei vv. 14-15, si legge due volte, includendo anche il termine u|poédeigma: kaì u|me_v

u|poédeigma

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Raggiunti dall’amore di Gesù, i discepoli debbono camminare nella via dell’amore. Questo comando e questo insegnamento hanno ricevuto da Gesù. Essi dovranno amarsi reciprocamente perché questo è in comando del Signore, insito nella sua azione stessa di amare; dovranno amarsi però come Gesù stesso, con il suo esempio e modello, messo sotto i loro occhi, ha insegnato: lavandosi reciprocamente i piedi, servendosi e donando l’uno per l’altro la propria vita, trasmettendo cioè concretamente l’amore che hanno ricevuto da Gesù. In questo modo, diranno e permetteranno a tutti di pervenire alla conoscenza di essere essi discepoli di Gesù e mostreranno qual è il vero insegnamento di Gesù maestro. Inoltre, attraverso il reciproco scambio dell’amore, i discepoli perverranno e rimarranno in quella unità che deve permettere al mondo di conoscere e credere che il Padre ha mandato Gesù (17,21.23). 3.4. La e\ntolhè kainhé In 13,34 l’e\ntolhé che Gesù propone ai suoi discepoli è definita nuova; si pone perciò il problema in che senso e perché il comandamento che Gesù dà può essere definito “nuovo”. 3.4.1. Valutazioni degli interpreti Gli interpreti hanno tentato di evidenziare tutti gli aspetti della novità insita nel comandamento dell’amore vicendevole. In genere si nega che essa consista nella sua materialità, proponendo già l’AT il precetto di amare il prossimo (Lev 19,18). Gli aspetti proposti presentano diverse angolature, ma tutte culminano, sostanzialmente nel modello di Gesù, esplicitamente

kaì u|me_v.

Essa è legata all’aspetto dello u|poédeigma. In 13,34 l’espressione i$na a\gapa%te allhélouv sta al centro di due espressioni che evocano, rispettivamente, la dimensione del signore (i$na a\gapa%te a\llhélouv) e quella del maestro (i$na kaì u|me_v a\gapa%te a\llhélouv).

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affermato. Osserva Bernard123 che il nuovo comandamento è ispirato da un nuovo motivo: Filadelfòa, “alla quale deve essere aggiunta l’a\gaéph, l’amore che è simile all’amore di Dio; ma l’amore del discepolo cristiano per il discepolo cristiano è una virtù nuova perché ispirata da un nuovo motivo: il comune amore che Gesù ha per i suoi, e che li lega ciascuno gli uni agli altri. Per Bultmann124 il comandamento dell’amore di Gesù è nuovo, in quanto è la legge della comunità escatologica, per la quale “nuovo” non è una particolarità storica, ma un predicato essenziale; “Nuovo” è il comandamento dell’amore fondato nell’amore del “Rivelatore” ricevuto, come un fenomeno del mondo nuovo che Gesù ha introdotto. Brown125 osserva che la novità del comandamento dell’amore è connessa al tema dell’alleanza nell’ultima cena: il “comandamento nuovo” in Gv 13,34 è la stipulazione fondamentale della nuova alleanza di Lc 22,20. L’amore è un dono, e come tutti gli altri doni dell’economia cristiana, viene dal padre per mezzo di Gesù a quelli che credono in lui126. Questa nuova alleanza sarebbe stata interiorizzata e contrassegnata dall’intimo contatto del popolo con Dio e dalla sua conoscenza di Lui, una conoscenza che è l’equivalente dell’amore ed è una virtù dell’alleanza. I temi dell’intimità, dell’inabitazione e della conoscenza reciproca ricorrono in tutto l’ultimo discorso127. Brown nota ancora che il comandamento può dirsi nuovo anche per un altro motivo, perché la generosità dell’amore di Dio non poteva essere pienamente conosciuta fino a quando egli non avesse dato il proprio figlio: è nuovo perciò l’amore cristiano che proviene da Gesù. 123 Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, I, Edinburgh 1928, 526. 124 125

Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, cit., 404-405. Cfr. R.E. Brown, Giovanni, trad. it., Assisi 19793, 734.

126 Brown (cfr. ibid. 736) cita Schwank, cfr. B. Schwank, Der Weg zum Vater (13,3114,11), in SeinSen 28 (1963), 100-114: 103-104, che confuta l’idea che il comandamento giovanneo sia nuovo per contrasto col comandamento veterotestamentario.

Spiega, a conferma, che non è un caso che la comunità di Qumran parli di se stessa e della sua vita come di “l’alleanza di grazia” (1QS 1,8: desfx tyir:biB)), e della “nuova alleanza” (CD 6,19; 20,12: hf$Axah tyir:Bah), cfr. Ibid., 737. 127

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Osserva Carson128 che è possibile che qui ci sia una allusione al nuovo patto inaugurato nell’ultima cena (1Cor 11,25; cfr. Lc 22,20)129; tuttavia il comandamento è destinato a riflettere la relazione di amore che esiste tra il Padre e il figlio. Secondo Cerfaux130 il comandamento è nuovo perché riguarda la nuova comunità, il popolo nuovo e perché riposa su un principio nuovo: l’amore che il Cristo ha avuto per noi, sorgente della nostra carità: ”Come io […]”131. Si vedrà nella carità dei discepoli la manifestazione della loro qualità di discepoli. La carità è anche l’occupazione normale dei cristiani nell’attesa della parusia e per prepararsi al giudizio132. La separazione da Gesù non è che momentanea: il tempo della separazione provvisoria sarà riempito dall’esercizio della carità133. Grasso134 si riferisce all’esperienza di amore che i discepoli hanno avuto con Gesù135. Al contesto cristologico-escatologico rimanda anche Furnish136, secondo cui la novità del comandamento di amarsi gli uni gli altri consiste nel contesto cristologico- escatologico in cui esso è dato. Colui che comanda simile amore è il portatore della nuova età, che rende l’amore possibile e

128

Cfr. D.A. Carson, , The Gospel according to John, cit., 483-484.

Si tratta del nuovo patto che ha promesso la trasformazione del cuore e della mente (Ger 31,29-34; Ez 36,24-26), cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit., 463. 129

130

Cfr. L. Cerfaux, La charité fraternelle, cit., 326

Cerfaux cita Behm, cfr. J. Behm, kainoév, in F. Montagnini et al (curr.), Grande Lessico del Nuovo Testamento, IV, trad. it. Brescia 1968: 1343-1352: 1351. 131

132 Cerfaux vede nel comandamento giovanneo dell’amore vicendevole, l’equivalente giovanneo delle parabole di Matteo delle 10 vergini (Mt 25,1-13), dei talenti (Mt 25,14-30) e della descrizione del giudizio (Mt 25,31-46), cfr. ibid., 326-329. 133 134

Cfr. ibid., 331.

Cfr. S. Grasso, Il vangelo di Giovanni, cit., 578

Spiega Grasso che Il modello dell’amore che i discepoli debbono scambiarsi consiste nella relazione tra Padre e Figlio. L’amore che essi sperimentano nell’incontro con Gesù fa supporre che sia identico a quello del Padre nei confronti del Figlio.… Si crea così un rapporto circolare nonché reciproco di amore, cfr. l.c. 135

136

Cfr. V.P. Furnish, The Love Command in the New Testament, Nashville 1972, 137-138.

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pieno di significato137. Kysar138 nota tre aspetti che permettono di parlare di “comandamento nuovo”: Il modello e la fonte che è la morte di Gesù, sua suprema espressione di amore; la relazione di amore tra il Padre e il Figlio (14,21 e 15,9); la sua funzione, espressa nel v. 35. Serve come rivelazione della relazione con Cristo. Lagrange139 osserva che Gesù, lui, vuole che la società religiosa che egli fonda abbia per cemento l’amore, tale che gli uomini debbono comprenderlo nella luce della sua incarnazione e i sentimenti del suo cuore. In ciò il comandamento è veramente nuovo. Leon Dufour140 osserva che l’aggettivo qualificativo kainoév caratterizza nella Bibbia le realtà della salvezza escatologica, sia che esse siano attese, o, secondo il NT, ormai presenti. Il suo impiego in 13,34 può essere spiegato, in primo luogo, per indicare che “il comandamento nuovo” è quello dell’alleanza definitiva portata a compimento da Gesù, ma la novità consiste anche nella natura dell’amore che i discepoli debbono avere gli uni per gli altri, che è l’amore di Gesù stesso che si esprime in essi. Viene inaugurata un’era nuova: è attraverso i discepoli del figlio che l’amore rivelato è ormai presente nel mondo. Spiega Maggioni141 che il comandamento dell’amore fraterno è definito “nuovo” da Gesù: non si tratta di una novità cronologica, una novità nel tempo, ma una novità qualitativa, una novità teologica, cristologica e escatologica142. Pure secondo Lindars143 “nuovo” qui si riferisce alla nuova situazione che è creata dal sacrificio di Cristo, in cui le condizioni dell’età futura sono già anticipate. Il reciproco amore dei discepoli è la regola per la nuova era 137 Cfr. G. Schrenk, e\nteéllomai - e\ntolhé, in F. Montagnini et al (curr.), Grande Lessico del Nuovo Testamento, III, trad. it. Brescia 1968, 579-614. 138 139 140 141

Cfr. R. Kysar, John, Minneapolis 1986, 217.

Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, cit., 367

Cfr. X. Leon Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, cit, 107-108. Cfr. B. Maggioni, Amatevi come io vi ho amato, cit., 159.

Cfr. anche S. Pancaro, The Law in the Fourth Gospel, Leiden 1975, 443, secondo cui la novità è che l’amore dei discepoli gli uni per gli altri è il riflesso e il risultato dell’amore di Gesù per loro. Cfr. in questo senso anche G. Schrenk, e\ntolhé, cit.: 606. Anche W. Prunet, La morale chrétienne d’après les ecrits johanniques, Paris 1957, 96-97: il comandamento è nuovo perché fondato sull’esempio di Gesù. 142

143

Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit., 464.

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quando il Padre e il figlio sono glorificati l’uno nell’altro e così costituisce la controparte terrestre alla loro relazione; la novità, Secondo Loisy144, la novità del precetto consiste nella perfezione fino allora sconosciuta, del suo compimento, nell’imitazione della carità del Cristo, fino all’ultimo termine dell’amore, il sacrificio assoluto di sé. Questo comandamento nuovo sarebbe l’equivalente giovanneo della “nuova alleanza nel sangue” o “del sangue della nuova alleanza”, che è, nei sinottici e in Paolo, la definizione del memoriale eucaristico. G. Maier145 indica tre motivi per cui il comandamento è definito “nuovo”: viene espressamente inglobato nel nuovo patto che inizia con la passione di Gesù; regola i rapporti vicendevoli e con ciò determina la struttura della nuova comunità; diventa regola di quell’amore che divenne chiaro pochi momenti prima nella lavanda dei piedi. Secondo Porsch146 esso è nuovo perché posto in un nuovo rapporto di Gesù verso gli uomini e nella sua morte e poiché in entrambi ha la sua misura. Michaels147 intende “nuovo”, riferito al comandamento, in due modi: focalizza anzitutto l’attenzione non sul “prossimo (definito nei sinottici così ampiamente da includere il nemico), ma piuttosto sui credenti o discepoli, così accentuando l’amore vicendevole; inoltre, e forse più importante, il comandamento è esplicitamente fondato nell’amore di Gesù per i “suoi propri” discepoli (v. 1), basato questo, a sua volta, nell’amore del Padre per il suo figlio (3,35, 5,20; 15,9).Al comandamento della nuova alleanza rimanda invece anche Muñoz Leon148. Schnackenburg149 osserva inoltre che il comandamento dell’amore vicendevole è nuovo perché assume un profilo caratteristico ad opera di Gesù, mediante il suo servizio (la lavanda dei piedi) e il suo volontario abbassamento alla morte (cfr. Gv 15,13; 1Gv 3.16). Infatti in lui, che è il 144 145 146 147

Cfr. A. Loisy, Le quatrième évangile, Paris 19212 , 735. Cfr. G. Maier, Johannesevangelium, II, cit., 93. Cfr. F. Porsch, Johannes-Evangelium, cit., 150.

Cfr. J.R. Michaels, John, Peabody 1989 (rist.), 759.

Cfr. D. Muñoz Leon, La novedad del Mandamiento del amor en los escreto de San Juan: intentos modernos de solucuón, in La Etica biblica, XXIX semana biblica española, Madrid 1971, 193-231: 230-231, che cita a conferma M.L.Ramlot, Le nouveau commandament de la nouvelle alliance, in LumVie 44 (1959) 9-36. 148

149

Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 90.

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figlio di Dio, Dio stesso ci ha mostrato il suo estremo, insuperabile amore. Spiega ancora150 che l’amore donatoci premurosamente da Dio ci dischiude un nuovo ambito di vita151, nel quale possiamo e dobbiamo amare i fratelli in un modo nuovo. Spicq152 propone diversi motivi per la novità del comandamento dell’amore vicendevole: è tra gli elementi specifici della “nuova alleanza”, che soppianta, nel tempo e nello spazio, in eccellenza “l’antica” che è vetusta153; amare il prossimo, precetto secondario nell’antica alleanza, ora ha ricevuto un posto fondamentale e quasi unico; il comando dell’amore vicendevole è determinato non più dai legami del sangue ma dalla fede; ma soprattutto perché il modello come bisogna amare è la maniera come Cristo ha amato154; di conseguenza l’amore vicendevole è di origine e di qualità divina; non si tratterà più solamente di “fare il bene” e di pregare (Mt 5,44; Lc 6,35), ma di votarsi e sacrificarsi alla maniera del Salvatore; finalmente, mediante la formulazione di questo “precetto nuovo”, Gesù definisce la “giustizia”perfetta che aveva annunziato nel discorso della montagna (Mt 5,20): La sua e\ntolhé dell’amore è anche costitutiva della chiesa e resterà come il segno della sua presenza. Per Sanders155, il comandamento 150

Cfr. ibid, 91

Cita tra altri Harrisville (Cfr. R.A. Harrisville, The Concept of Newness in the New Testament, in JBL 74 [1955] 69-79: 78s), secondo cui il comandamento nuovo è la regola della nuova comunità ecatologica), e anche Prunet (Cfr. O. Prunet, La morale chrétienne d’après les écrits johanniques, Paris 1957, 96-107, che sottolinea l’aspetto cristologico, ecclesiologico ed escatologico). Cfr. anche N. Lazure, Les valeurs morales de la théologie johannique, Paris 1965, 29.229s. 151

152

Cfr. C. Spicq, Agapè, dans le Nouveau Testament, III, Paris 1959, 178.

In questo senso Spicq cita Warfield (cfr. B.B. Warfield, On the biblical Notion of “Renewal”, in Biblical and Theological Studies, Philadelphie 1952, 351-374), Michel (cfr. O. Michel, Das Gebot der Nächstenliebe in der Verkündigung Jesu, in N. Koch, Zur sozialen Entscheidung, Tübingen 1947, 76), Winterswyl (cfr. L. A. Winterswyl, Mandatum novum, Colmar 1941, 10). 153

Spicq nota che questa è l’interpretazione dominante da Crisostomo a Lenski (Cfr. C. Spicq,, Agapè, dans le Nouveau Testament, III,, cit., 178, nota 1), cfr. anche O. Prunet, La morale chrétienne d’après les Ecrits johanniques, Paris 1957, 24s; 96s, 154

155 Cfr. J.N. Sanders –B.A. Mastin, A Commentary on the Gospel according to S. John, cit., 317.

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dell’amore vicendevole, proposto nel contesto dell’ultima cena, è nuovo perché richiama il patto o testamento nuovo. Strathmann156 spiega che il comandamento dell’amore potrebbe benissimo essere chiamato “nuovo comandamento”, perché soltanto da Gesù ha ricevuto il suo prevalente significato etico ed il suo contenuto più profondo. Secondo Warnach157 l’amore fraterno è nuovo perché il suo modello e fonte è l’amore di Dio. Zevini158 osserva che l’amore verso i fratelli in realtà è un precetto antico (Lev 19.18), ma Gesù lo ripropone con una novità inaudita. Indica diversi aspetti di tale novità: è il cuore e la sintesi della nuova alleanza, fondata sull’amore di Gesù per l’umanità; caratterizza la quotidianità della comunità cristiana che sperimenta l’urto con l’egoismo del mondo; riproduce nel mondo l’amore che Cristo nutre per i suoi in modo sempre straordinario; è nuovo perché “segno e caparra dei “cieli nuovi e della terra nuova”, essendo l’amore la vera novità escatologica. All’indole cristologica del comandamento nuovo rimandano infine anche altri interpreti. Secondo Lincoln159 il comandamento è nuovo non perché differisce nel contenuto da ciò che si trova nelle Scritture giudaiche (Lev 19,18), ma perché costituisce una parte della nuova relazione e del nuovo ordine che viene con Gesù. Esso è perciò fondato nel suo proprio amore per i suoi seguaci che implica la sua morte ed è formato da essa e partecipa nella relazione di amore tra Gesù e il Padre. Così anche Morris160: la novità appare nel fatto che l’amore vicendevole è motivato dal grande amore di Cristo per loro161. Spiega Tillmann162 che agli occhi dei discepoli risplende un modo di fratellanza che fino a quel momento essi non hanno 156

Cfr H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1973, 339-340.

Cfr.V. Warnach, Agapé. Die Liebe als Grundmotiv der neutestamentlichen Theologie, Düsseldorf 1951, 157. Così anche R. Bultmann, Aimer son prochain, commandement de Dieu, in RHPhilRel 10 (1930) 222-241; 233. 157

158 159 160

Cfr. G. Zevini, Vangelo secondo Giovanni, Roma 20098, 403.

Cfr. A.T. Lincoln, The Gospel according to Saint John, cit., 387.

Cfr. L. Morris, The Gospel according to John, Grand Rapids 19952, 562.

161 In nota 75: Morris richiama Plummer, secondo cui non è nuovo il comandamento ma la motivazione, poiché Cristo ci ha amato 162

Cfr. F. Tillmann, Das Johannesevangelium, cit., 258.

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conosciuto, un amore, che ha trovato nell’amore del Signore fondamento e proporzione, modello e forza di vita. 3.4.2. La nostra riflessione Possiamo notare che in 13,34 Gesù direttamente non spiega perché il suo comandamento è nuovo; tale connotazione di novità inoltre non è ripetuta in 15,12 dove Gesù ripropone la sua e\ntolhé dell’amore vicendevole. Lo stesso aggettivo kainoév, come abbiamo già notato, nel vangelo di Giovanni è usato soltanto due volte; la seconda volta, in 19,41, è riferito al sepolcro di Giuseppe di Arimatea dove Gesù fu posto: un sepolcro nuovo (mnhme_on kainoén); tale indicazione di novità del sepolcro, come abbiamo già notato, non è esclusiva di Giovanni, ma si legge anche in Matteo che, in 27,60, riferisce pure che il sepolcro di Giuseppe era nuovo. Matteo poi, insieme a Marco (Mc 15,46), nota che era scavato nella pietra; Luca poi (Lc 23,53) è più preciso, specificando che in esso ancora nessuno era stato posto. Né Marco né Luca perciò precisano che quello di Giuseppe era un sepolcro nuovo. In ogni caso, in nessun modo, la menzione del “sepolcro nuovo”, sia per la distanza, sia per la diversità di contenuti, sia anche per l’assenza di qualsiasi elemento esplicativo, può, in qualche modo, gettare luce su quella di “comandamento nuovo”. Non resta allora se non interrogare l’espressione stessa di 13,34, dove Gesù indica qual è il suo “comandamento nuovo” con le parole “che vi amiate gli uni gli altri come amai voi”. Nella considerazione di questa espressione ci aiuta ancora il testo parallelo di 15,12, dove Gesù, dopo avere menzionato di nuovo il suo comandamento, precisa che “nessuno ha amore più grande di questo di chi pone la vita per i suoi amici.”. Gli interpreti hanno tentato di spiegare in vari modi questo aspetto di “novità” della e\ntolhé. Spiega Barrett163 che l’amore vicendevole dei discepoli è differente da qualsiasi altro; esso è modellato sopra, e in certa misura rivela, il mutuo amore del padre e del figlio, poiché è una parte della divina eccellenza che ciascuno, Padre e Figlio, ami l’altro. Similmente è dell’essenza della vita cristiana che tutti quelli che sono cristiani debbono 163

Cfr C.K. Barrett The Gospel According to St. John, cit., 458

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amarsi gli uni gli altri. Tenney164 osserva che la più grande istruzione che Gesù lasciò per gli undici è questo “nuovo comandamento” dell’amore vicendevole. “Nuovo (kainhén) implica “freschezza”, “novità” o l’opposto di “consumato”, piuttosto che semplicemente “recente” o “differente. L’atteggiamento di amore sarebbe il legame che avrebbe tenuto uniti i discepoli e sarebbe la prova convincente che questi hanno condiviso lo Spirito e il proposito di Gesù. Riteniamo pertanto che il termine kainoév, riferito alla e\ntolhé, non si riferisca ad un solo aspetto, ma abbracci una pluralità di aspetti. Specificamente essi sono: il soggetto che promulga la e\ntolhé, il fondamento di tale promulgazione, il suo contenuto, la modalità dell’attuazione, l’allusione, come suggerisce il contesto della cena, alla nuova alleanza. Quanto al soggetto che promulga la e\ntolhé,é questo è Gesù. La legge dell’AT era stata promulgata da Dio; adesso il legislatore è Gesù, che però parla ed agisce così come ha udito dal Padre (8,24) e così come il Padre gli ha comandato di dire (12,49). In Gesù sembrano riassumersi le due figure del Dio legislatore e del nuovo mediatore. Si può richiamare in questo senso anche Gv 1,17: «la legge fu data (e\doéqh) per mezzo di Mosè; la grazia e la verità divennero (e\geéneto) per mezzo di Gesù Cristo». In questa prospettiva possiamo anche concludere che la promulgazione da parte di Gesù del comandamento dell’amore vicendevole rientra in quella “grazia e verità” che si sono attuate in Gesù Cristo. Il fondamento e il motivo, da parte di Gesù, che gli permette di promulgare il comandamento dell’amore vicendevole, è il fatto che egli ha amato (13.34; 15,9.12). Egli ha amato come “il Signore e il Maestro”. La sua opera di amore verso i discepoli è stata per loro un comando a cui obbedire (il Signore) e un insegnamento da ricopiare (il Maestro). Gesù però ha amato i discepoli sul fondamento dell’amore del Padre verso di lui (15,9), amore che affonda le sue radici nella stessa eternità di Dio (17,24). In ultima analisi il fondamento è lo stesso amore del Padre, che ha raggiunto Gesù e che, ripartendo da Gesù, ha raggiunto i discepoli. In questa prospettiva, il comando che i discepoli ricevono non può non essere sulla stessa linea.

164

Cfr. M.C. Tenney, The Gospel of John, Grand Rapids 1981, 142.

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I discepoli, che sono stati raggiunti dall’amore di Gesù, non possono non riamare e proprio in questo senso sono comandati. La modalità dell’attuazione è l’esempio di Gesù, non ancora manifestato nell’AT. Gesù ha amato i discepoli fino al dono totale della propria vita, come lui stesso ha dichiarato, in 15,13, che nessuno ha amore più grande di chi pone (tòqhsin) la propria vita per i suoi amici. Gesù, come pastore, ha posto la vita (10,11.15): appunto questo comando (e\ntolhé) egli ha ricevuto dal Padre (10,17-18). I discepoli, che debbono amare “come Lui ha amato”, debbono pure amare fino al dono della propria vita. Ciò, nella storia della chiesa, si è verificato, anche nei nostri giorni. Il contenuto del comandamento è l’amore vicendevole. Abbiamo già notato che l’aspetto della reciprocità tra i cristiani è una realtà preponderante nel NT, fondata in Paolo sulla realtà delle molteplici membra dell’unico corpo di Cristo. In Giovanni lo scambio reciproco dell’amore è fondato sull’evento dell’amore di Gesù e, indirettamente, sull’amore del Padre. In Lev 19,18 l’amore verso il prossimo è più in prospettiva unidirezionale, che sottintende anche l’amore vicendevole, ma che esplicitamente non è indicato. In Giovanni, come anche nei testi relativi del NT, l’accento poggia invece sullo scambio reciproco dell’amore. Come abbiamo già accennato sopra, e come anche suggeriscono alcuni interpreti, non può essere escluso un riferimento alla nuova alleanza preannunziata dal profeta Geremia165. In Ger 31,31-34, Dio, per mezzo del profeta, annunzia la stipulazione di una nuova alleanza, che prevede (didouèv dwésw), come prima cosa, la legge (noémouv mou) scritta nel cuore e nell’intimo dell’uomo. Direttamente in Geremia non si parla di “legge nuova”, ma di “nuova alleanza (TM: hf$fdAx tyir:B; LXX: diaqhékhn kainhén)”. Gesù dichiara realizzata questa nuova alleanza nel contesto della cena, quando, secondo Luca e Paolo, presenta il calice la nuova alleanza: «questo calice la nuova alleanza (h| kainhè diaqhékh [1Cor.: e\stòn]) nel mio

165 Osserva Schlatter che l’espressione e\ntolhèn kainhén corrisponde all’espressione ebraica hf$fdAx tyir:B. Il “comandamento nuovo caratterizza, d’ora in poi, i rapporti di Dio con gli uomini, cfr A. Schlatter, Der Evangelist Johannes, Wie er spricht, denkt und glaubt, Stuttgart 1939, 288.

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sangue»166.Un possibile rimando alla nuova alleanza, preannunziata da Geremia e esplicitamente indicata da Luca e Paolo è possibile, suggerita dallo stesso contesto della cena. Non mancano però delle differenze che, ancora una volta rivelano la peculiarità giovannea dell’espressone ed indicano non decisivo il rimando alla nuova alleanza. Prescindendo dal fatto che il termine diaqhékh non si legge mai in Giovanni e il termine e\ntolhé mai nei racconti dell’istituzione, notiamo una differenza fondamentale tra Geremia e Giovanni: il profeta parlava di legge “scritta nei cuori e nell’intimo”, Giovanni parlerebbe di una sostituzione della legge stessa167. Il rimando da parte di Giovanni alla nuova alleanza di Geremia e alla sua menzione nella cena, è possibile, ma non risponde alla domanda perché Giovanni parli non di “alleanza (diaqhékh)” ma di legge (e\ntolhé), e, soprattutto, perché la definisce nuova (kainhé). Gli elementi che possono spiegare il carattere di “novità (kainhé)” della e\ntolhé sembrano così non uno solo, ma diversi, non singolarmente, bensì tutti convergenti e reciprocamente interagenti. Scorgiamo però un aspetto che, a nostro parere, può anche, e forse meglio, spiegare il carattere di novità della e\ntolhé che Gesù promulga: essa è nuova per il fine che essa realizza. Tale aspetto è suggerito dal contesto più largo in cui la e\ntolhé di Gesù è menzionata ed anche dal testo di Gv 1,17-18 sopra citato. Considerando insieme gli usi del termine e\ntolhé al singolare (e\ntolhé) e al plurale (e\ntolaò), possiamo distinguere, nel comandamento dell’amore vicendevole, tre aspetti, l’origine da cui proviene, il cammino intermedio che esso implica, il termine a cui è orientato. L’origine è espressamente indicata in 13,34 e 15,12: questo è l’amore di Gesù: dal fatto che Gesù ha amato, scaturisce per i discepoli il comandamento dell’amore vicendevole. Il cammino intermedio è indicato dai testi di 14,15.21, che hanno anche il Cfr. Lc 22,20; 1Cor 11,25. Mt 26,28; Mc 14,24 usano una espressione analoga: «questo è il mio sangue dell’alleanza». In questi due evangelisti il termine kainh%v, non riferito dalle edizioni critiche, è criticamente incerto; probabilmente nei codici che lo attestano è una armonizzazione al testo lucano paolino. 166

167 In ciò il quarto evangelista concorderebbe anche con Paolo che, in Rm 5,5, parla dell’amore di Dio effuso nei nostri cuori; in Gal 4,6 scrive Paolo che Dio ha mandato lo Spirito del figlio suo nei nostri cuori, e, in Ef 3,17, che Cristo abiti mediante la fede nei nostri cuori. In questi testi si notano i due aspetti: la sostituzione della legge e il fatto di essere scritta nei cuori.

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carattere di una risposta all’evento dell’amore di Gesù: i discepoli debbono riamarlo, ma lo ameranno concretamente mediante l’osservanza dei suoi comandamenti. Possiamo notare in questi testi, come anche nei seguenti vv. 23.24, le forme al presente del verbo a\gapaéw, che indicano una azione abituale e continua; tali forme al presente, specificamente il congiuntivo presente (a\gapa%te), caratterizzano anche il comandamento dell’amore vicendevole (i$na a\gapa%te); si tratta di una azione abituale e continua che assume il carattere di un cammino costante nella via dell’amore vicendevole. Il termine del cammino è indicato in 15,10, dove Gesù dichiara: «se osserverete i miei comandamenti (taèv e\ntolaév mou), rimarrete (mene_te) nel mio amore (e\n t+% a\gaép+ t+% e\m+%)». Per “rimanere” nell’amore di Gesù bisogna prima “giungere” ad esso, ma per “giungervi” bisogna camminare. I testi di 13,34-15,12; di 14,15.21.23.24 e di 15,19-10 sono tutti legati dal termine e\ntolhé: attraverso di essi è possibile ricostruire il globale cammino dell’a\gaéph, che parte da Gesù e culmina in Gesù, ma anche, in maniera più larga, parte dal Padre e culmina nel Padre. Il Padre ha amato Gesù e Gesù ha amato i discepoli; amati da Gesù e ricevuto il suo comandamento, i discepoli debbono compiere un cammino nella via dell’amore vicendevole; questo cammino li conduce a Gesù e permette loro di raggiungerlo e di radicarsi (meénein) nel suo amore; dal momento però che Gesù “rimane” nell’amore del Padre, attraverso Gesù i discepoli giungono e si radicano nell’amore del Padre. Nel fatto che esso sia un cammino che parte da Gesù e culmina in Gesù e, più ampiamente, parte dal Padre e culmina nel Padre e che sia anche la condizione indispensabile per giungere a Gesù e, con lui, al Padre, ci sembra che consista la vera novità del comandamento di Gesù dell’amore vicendevole. In questo senso, in un altro studio, abbiamo inteso anche il senso dell’ei\v teélov h\gaéphsen di 13,1. Ci sembra inoltre di trovare conferma nel testo di 1,17-18, già citato, dove l’evangelista stabilisce un confronto antitetico tra la legge che fu data (e\doéqh) per mezzo di Mosè e la grazia e la verità che avvennero (e\geéneto) per mezzo di Gesù Cristo. L’evangelista stabilisce un confronto tra due economie: quello della legge e quello della “grazia e verità”, nella quale può anche rientrare il comandamento di Gesù dell’amore vicendevole. Le due economie hanno conseguenze

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opposte, indicate subito dopo168. L’economia della legge non permette di vedere Dio; nell’economia della grazia e della verità non solo è possibile vedere Dio, ma addirittura giungere a lui169. Senza ignorare tutti gli altri aspetti sopra indicati, il comandamento di Gesù dell’amore vicendevole è “nuovo” rispetto alla legge antica, perché ha la capacità di fare giungere a Gesù e al Padre. 3.5. Relazione al contesto di 13,31-35 L’ultimo problema che si pone, a riguardo del comandamento dell’amore vicendevole, è la sua relazione al contesto immediato. Sembra infatti che esso non sia preparato prima e che, tranne che nel v. 35, non trovi un adeguato seguito dopo. Ciò spiega perché diversi interpreti abbiano ritenuto che questi versi siano stati inseriti in seguito, trovando invece una buona connessione tra il v, 33 e i vv. 36-38. Uscito Giuda e dopo avere visto attuata, in quella uscita, la sua glorificazione (vv. 31-32), Gesù annunzia ai discepoli, interpellandoli affettuosamente (teknòa), che ancora per poco tempo (e"ti mikroén) egli sarebbe stato con loro (meq’u|mw%n ei\mi); essi lo avrebbero cercato (zhthéseteé me), ma riferisce a loro le parole che, altrove, ha detto ai giudei: « e come dissi ai giudei che dove io vado (o$ti o$pou e\gwè u|paégw), voi non potete venire (u|me_v ou\ duénasqe e\lqe_n) […]». In 1,17-18 troviamo quattro espressioni che possono essere relazionate secondo un parallelismo alternato: o| noémov diaè Mwu=seéwv e\doéqh (la legge fu data per mezzo di Mosè), h| caériv kaì h| a\lhéqeia diaè }Ihsou% Cristou% e\geéneto (la grazia e la verità divennero per mezzo di Gesù Cristo), Qeoèn ou\deìv e|wr é aken pwépote (Dio nessuno ha visto giammai), monogenhèv Qeoèv o| w!n ei\v toèn koélpon tou% patroèv, e\ke_nov e\xhghésato (l’Unigenito Dio, che è verso il seno del Padre, lui ci ha guidati). 168

169 Il verbo e\xhgeéomai è unico in Giovanni; altrove si legge soltanto cinque volte nell’opera lucana (Lc 24,35; At 10,8; 15,12.14; 21,19). In Luca può avere il senso di “manifestare”, “rivelare”; in Giovanni, come suggerisce anche il complemento di moto a luogo (ei\v toèn koélpon), si legge meglio in maniera etimologica: Gesù ha condotto (h|geéomai) dopo avere operato un esodo (e\x). Tale senso si adatta molto bene con il cap. 10: Gesù-pastore, dopo avere fatto uscire dal recinto le pecore (vv. 1-5), le conduce alla vita eterna (v. 28), cioè al Padre (v. 29).

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Queste parole, nel contesto del vangelo, erano state già dette ai giudei due volte: la prima volta in 7,33, ripetute poi dagli stessi giudei nel seguente v. 36; la seconda volta poi in 8,21. 3.5.1. Le parole ai giudei In 7,33 Gesù si rivolge ai ministri inviati dai principi dei sacerdoti e dai farisei per catturarlo. A loro dichiara: «ancora per poco tempo (e"ti croénon mikroén) sono con voi (meq’u|mw%n ei\mi) e vado a colui che mi ha mandato». Continua ancora Gesù. «mi cercherete (zhthéseteé me) ma non mi troverete (kaì ou\c eu|rhéshte [me]), e dove sono io (kaì o$pou ei\mò e\gwé) voi non potete venire (u|me_v ou\ duénasqe e\lqe_n)». I giudei si chiedono dove egli andrà perché essi non lo potranno trovere (ou\c eu|rhésomen) e si chiedono se non va nella diaspora dei greci per insegnare a loro (v. 34-35). Nel v. 36 si chiedono ancora sul senso delle parole: «mi cercherete (zhthéseteé me) e non mi troverete (ou\c eu|rhéshte [me]) e dove sono io voi non potete venire (kaì o$pou ei\mò e\gwè) u|me_v ou\ duénasqe e\lqe_n)». I contatti letterari con 13,33 sono evidenti ed anche notevoli. Non mancano pero, anche notevoli, le differenze. Notiamo anzitutto l’incomprensione dei giudei: essi non sanno dove va Gesù ed ipotizzano che vada nella diaspora di greci; eppure Gesù ha detto chiaramente dove va: a colui che lo ha mandato (proèv toèn peémyantaé me). Come ai giudei, anche ai discepoli Gesù dice che lo cercheranno, ma, a differenza dei giudei, non dice loro che non lo troveranno. Ai giudei poi Gesù dichiara che essi non possono “venire (e\lqe_n)” “dove lui è (o$pou ei\mò e\gwé)”: il verbo e\lqe_n implica un cammino, l’espressione o$pou ei\mò e\gwé richiama meglio il termine del cammino: i giudei sembrano così esclusi dal luogo dove Gesù è sia dal cammino verso di esso. In relazione ai giudei Gesù esclude due cose: che lo trovino e che vengano anch’essi dove lui è. In relazione ai discepoli invece Gesù prevede che lo cercheranno, ma non esclude che lo troveranno; inoltre per i discepoli è preclusa la possibilità non di venire “dove lui è (o$pou ei\mò e\gwé)”, ma “dove lui va (o$pou e\gwè u|paégw)”. La preclusione dei discepoli sembra perciò riguardare non solo il termine del cammino, bensì il cammino stesso.

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In 8,21 poi, rivolgendosi ai farisei, già menzionati in 8,13 ed allusi, nel v. 21, mediante il pronome au\to_v, Gesù dichiara loro: «Io vado (e\gwè u|paégw) e mi cercherete (kaì zhthéseteé me), ma nei vostri peccati morirete (a\poqane_sqe); dove io vado (o$pou e\gwè u|paégw) voi non potete venire (u|me_v ou\ duénasqe e\lqe_n)». Questo testo presenta delle somiglianze ma anche delle differenze rispetto al testo precedente di 7,33-36, come appare dal seguente confronto: 7,33-36 8,21 u|paégw e\gwè u|paégw proèv toèn peémyantaé me zhthéseteé me kaì zhthéseteé me kaì ou\c eu|rhéseteé [me] e\n t+% a|martòç u|mw%n a\poqane_sqe kaì o$pou ei\mì e\gwè o$pou e\gwè u|paégw u|me_v ou\ duénasqe e\lqe_n u|me_v ou\ duénasqe e\lqe_n

Notiamo soltanto le differenze più importanti; esse sono soprattutto due: in 7,33 la ricerca culmina nel fatto che non troveranno Gesù (kaì ou\c eu|rhéseteé [me]); in 8,21 invece culmina nella morte nei propri peccati (e\n t+% a|martòç u|mw%n a\poqane_sqe); inoltre secondo 7,33s i giudei sono inabili ad andare dove Gesù è (o$pou ei\mì e\gwè), in 8,21 invece dove Gesù va (o$pou e\gwè u|paégw). I due testi presentano una complementarietà; in particolare, se si incastonano le parole di 8,21, e\n t+% a|martòç u|mw%n a\poqane_sqe: o$pou e\gwè u|paégw, tra le espressioni: kaì ou\c eu|rhéseteé [me] e kaì o$pou ei\mì e\gwè di 7,34s170, ci danno una storia completa. I giudei perciò cercheranno Gesù, ma non lo troveranno (7,34) e perciò moriranno nei loro peccati (8,21); dove Gesù va (8,21) essi non potranno andare (7,34). Prescindendo dall’incomprensione dei giudei delle parole di Gesù, espressa in entrambi i testi171, Gesù stesso tuttavia, in 8,24, indica una maniera come evitare la morte; leggiamo infatti in questo testo: «dissi a voi che morirete (a\poqane_sqe) nei vostri peccati; se infatti non crederete (e\anè 170

7,34: kaì ou\c eu|rhéseteé [me] 8,21: e\n t+% a|martòç u|mw%n a\poqane_sqe 8,21: o$pou e\gwè u|paégw 7,34: kaì o$pou ei\mì e\gwè

171 In 7,35 i giudei si chiedono se Gesù non andrà nella diaspora dei greci; in 8,22 se egli, Gesù, non ucciderà se stesso (a\poktene_ e|autoén).

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gaèr mhè pisteuéshte) che io sono, morirete (a\poqane_sqe) nei vostri peccati».

Nella fede, al momento dell’esaltazione, in Gesù i giudei potranno evitare di morire nei loro peccati172. Allo stesso modo che ai giudei, anche ai discepoli, in 13,33, Gesù dichiara che essi lo cercheranno (zhthéseteé me), ma dove lui va (o$pou e\gwè u|paégw) essi non possono venire (u|me_v ou\ duénasqe e\lqe_n). Le parole di Gesù ai discepoli sono quasi identiche a quelle dette ai giudei, soprattutto in 8,21. Ma, a differenza dei giudei, ai discepoli Gesù non dice né che non lo troveranno (7,34), né tanto meno che moriranno nei loro peccati (8,21). Aggiunge però per i discepoli l’espressione: kaì u|m_n leégw a"rti (e a voi dico adesso). 3.5.2. L’espressione kaì u|m_n leégw a"rti Emerge la domanda: qual è il senso di questa espressione? qual è l’oggetto preciso del verbo leégw? che cosa dice Gesù ai discepoli adesso173? I sensi dell’espressione possono essere due, in base al diverso oggetto assegnato al verbo leégw: se l’oggetto sono le parole dette ai giudei, il senso allora sarebbe che Gesù dice ora (a"rti) ai discepoli quello che, in altri momenti, ha detto ai giudei; se l’oggetto è il fatto che i discepoli non possono seguire, il senso sarebbe che i discepoli non possono venire ora (a"rti), ma è sottinteso che potranno venire in altri momenti. Il primo senso si adatta male al contesto: non si capirebbe perché Gesù applichi ai discepoli una situazione che altre volte, in maniera del tutto 172 Il testo è molto più ampio e va a finire fino a 8,58. Leggendo all’inverso, possiamo cogliere il seguente progresso: 1. Gesù fin dall’eternità, prima che Abramo fosse, possiede l’identità divina (e\gwè ei\mò) (8,58); 2. Si manifesterà con questa identità nell’esaltazione e i giudei ne avranno una conoscenza: «quando innalzerete il figlio dell’uomo, allora conoscerete che “Io sono (o$ti e\gwé ei\mi) (8,28)»; 3. A questa manifestazione e conoscenza bisogna rispondere con la fede («se non credete che io sono (o$ti e\gwé ei\mi)»), altrimenti si muore nei propri peccati («morirete nei vostri peccati») (8,24).

Nota Kysar che i discepoli non sono ora capaci di seguire Gesù nel regno di Dio, ma questi possono realizzare in questo mondo una caratteristica del regno: possono amarsi gli uni gli altri, cfr. R. Kysar, John, cit., 217. 173

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Il comandamento di Gesù ai discepoli negli scritti giovannei

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negativa, ha riferito ai giudei; inoltre, l’espressione: «e a voi dico ora» non avrebbe nel contesto alcun seguito, ma resterebbe del tutto inspiegata. Il secondo senso invece si adatta bene al contesto: Gesù, annunziata la sua glorificazione, lascia intendere ai discepoli che egli dovrà intraprendere un cammino e i discepoli resteranno soli (“mi cercherete”): egli deve andar via da solo e i discepoli non possono venire; ciò però sarà soltanto momentaneamente. Ciò concorda con quanto leggiamo nel seguente dialogo di Pietro con Gesù; a Pietro Gesù dilaziona la sequela: egli adesso (nu%n) non può seguire, ma seguirà dopo (u$steron). All’insistenza di Pietro che chiede perché non può seguire ora (a"rti), Gesù contrappone il rinnegamento. Pietro non può seguire ora, perché nel suo cammino, come Gesù stesso prevede, si imbatterà nel rinnegamento. Superato questo, egli potrà seguire (21,19). 3.6. Altri passaggi evangelici Il fatto che i discepoli non possono seguire ora, e che, implicitamente, resteranno soli nell’assenza di Gesù, concorda con diversi altri passaggi del vangelo stesso. In 14,1-11, in un monologo-dialogo, segnato dalle domande prima di Tommaso poi di Filippo, Gesù annunzia che va a preparare per i discepoli un posto; poi tornerà e li prenderà con sé, perché anch’essi siano dove lui è (o$pou ei\mì e\gwé) e del luogo dove lui va (o$pou [e\gwè] u|paégw) essi conoscono la via (thèn o|doén). Dal dialogo con Tommaso emerge che la via è lui (v. 6); dal dialogo con Filippo appare che il luogo dove Gesù è, è il Padre (v. 10). Da questo testo appare anche che, quando Gesù tornerà, dopo la sua assenza, i discepoli potranno andare dove lui, da solo, adesso va (u|paégw). Più sotto, nel v. 18 dello stesso cap. 14, Gesù stesso dichiara di non lasciare i discepoli orfani: egli tornerà da loro (e"rcomai proèv u|ma%v); nel v. 28 poi aggiunge che essi lo hanno udito dire: «vado (u|paégw) e vengo a voi (e"rcomai proèv u|ma%v)», meravigliandosi del fatto che i discepoli non gioiscono dal momento che lui va al Padre. Nel cap. 16,5-6 Gesù nota che, all’annunzio della sua partenza, il cuore dei discepoli si è riempito di tristezza. Spiega però che è opportuno (sumfeérei) che lui vada; la sua partenza infatti permetterà l’invio e la

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venuta del Paracleto (v. 7). Nel v. 16 Gesù aggiunge parole misteriose che suscitano la perplessità dei discepoli (vv. 18-19): «ancora un poco e non più mi vedete (qewre_teé me), e poi ancora un poco e mi vedrete (o"yesqeé me)». Nei versi seguenti (vv. 20-22) Gesù spiega ai discepoli, esemplificando con l’immagine della partoriente, che il tempo della sua assenza sarà tristezza per loro (luphqhésesqe) e gioia per il mondo (carhésetai), ma Gesù poi li vedrà (o"yomai u|ma%v) e gioirà il loro cuore (carhésetai u|mw%n h| kardòa). In 17,11 Gesù chiede al Padre di custodire i discepoli; egli motiva la sua richiesta con il fatto che non è più nel mondo (ou\keéti ei\mì e\n t§% koésm§), essi invece sono nel mondo (kaì au\toì e\n t§% koésm§ ei\sòn); al Padre Gesù non chiede di togliere i discepoli dal mondo (v. 15), ma di preservarli dal maligno. Tutti questi testi illuminano abbastanza bene il testo di 13,33, dove Gesù dilaziona la venuta dei discepoli verso il luogo dove lui va. A differenza dei giudei ai quali è definitivamente impedito che vengano dove Gesù va, ai discepoli la venuta è soltanto dilazionata: i discepoli non possono venire dove Gesù va, ma solo per il momento (a"rti)174. Essi un giorno verranno dove va Gesù, cioè al Padre. Egli lo ha già promesso in 12,26: «se qualcuno mi serve, me segua, e dove sono io (o$pou ei\mì e\gwé) anche il mio servo sarà»; anche in questo testo il termine di Gesù è il Padre: «se qualcuno mi serve, lo onorerà il Padre». Ma soprattutto è importante il testo di 17,24, dove, al termine della sua preghiera nella quale gli ha affidato i discepoli, Gesù manifesta al Padre la sua volontà (qeélw): egli vuole che quelli che il Padre gli ha dato, anch’essi siano dove lui è (o$pou ei\mì e\gwé) perché vedano la sua gloria. Tutti questi testi ci dicono che c’è un tempo quando Gesù andrà via, non sarà con i discepoli e questi resteranno soli: essi adesso (a"rti) non possono venire dove lui va. In questo tempo di separazione Gesù andrà a preparare loro un posto; la sua partenza renderà possibile la venuta del Paracleto che Lui stesso invierà; in questo tempo essi sperimenteranno l’ostilità del mondo e saranno tristi come la partoriente, ma, come la stessa partoriente al momento della nascita, quando cioè Gesù li vedrà, la loro Forse a questa prospettiva bisogna ricondurre l’episodio del Getsemani, dove Gesù chiede a quelli che erano venuti ad arrestarlo, di lasciar andare via i discepoli (18,8) dal momento che cercano lui. 174

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Il comandamento di Gesù ai discepoli negli scritti giovannei

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tristezza si muterà in gioia. Anch’essi saranno dove è Gesù, ma debbono ancora restare nel mondo perché in esso debbono assolvere una missione: per questo Gesù li affida al Padre perché li preservi dal maligno. In questo sfondo possiamo collocare il comandamento dell’amore vicendevole che Gesù propone ai discepoli in 13,34. Esso costituisce la loro attività, la strada che Gesù offre a loro, la missione che essi, nell’assenza di Gesù, debbono compiere nel mondo. È la loro attività come discepoli: il suo svolgimento li rende tali ancor di più e li conferma nella loro prerogativa di discepoli di Gesù. È la via in quanto l’amore vicendevole permette loro di giungere a Gesù, radicarsi nel suo amore e, attraverso di lui, giungere al Padre. In questo senso, si può comprendere perché Gesù nel dialogo con Tommaso si propone come “via” (14,6) e, soprattutto, in quello con Filippo, addita il Padre come termine del suo cammino e come luogo dove lui è. Infine è la loro missione perché tutti, mediante il loro amore vicendevole, dovranno conoscere che essi sono discepoli di Gesù. Quest’ultimo aspetto richiama il testo di 17,21-23, e forse i due testi, 13,35 e 17,21-23, possono anche reciprocamente integrarsi, tanto più che in 17,21-23 è ripetutamente menzionata l’a\gaéph. In 17,21 Gesù auspica che tutti (paéntev) (i discepoli) permangano nell’unità (e£n w&sin), perché il mondo creda (pisteué+) che il Padre lo ha mandato. Nel seguente v. 23 Gesù auspica ancora che siano resi perfetti nell’unità (i$na w&sin teteleiwmeénoi ei\v e$n), perché il mondo permanga nella conoscenza (ginwésk+) che il Padre lo ha mandato. Dicevamo come i due testi possono reciprocamente richiamarsi. I discepoli debbono reciprocamente amarsi e, mediante il loro amore, debbono pervenire e permanere nell’unità. Mediante il loro amore reciproco, i discepoli si manifesteranno come discepoli di Gesù; mediante la loro unità, essi diranno al mondo che Gesù è colui che il Padre ha inviato. Tutto ciò conferma ancora ulteriormente la prospettiva di “novità” che riveste il comandamento dato da Gesù ai discepoli di amarsi gli uni gli altri. Lungi poi dall’essere una aggiunta posteriore, la menzione del comandamento nuovo dell’amore vicendevole, in 13,34-35 si rivela un aspetto fondamentale del testo di 13,31-35. Il tradimento di Giuda determina il cammino di Gesù dalla passione verso la gloria. I discepoli ancora non possono seguirlo in questa strada: giungeranno in seguito

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dove lui è, come Gesù stesso ha richiesto al Padre nella sua preghiera. Nel frattempo essi dovranno praticare l’amore vicendevole, come la loro attività da svolgere, il cammino da percorrere, la missione da compiere nel mondo175.

175 Diversi interpreti intendono il comandamento dell’amore vicendevole come la disposizione testamentaria, lasciata da Gesù ai discepoli per il tempo della sua assenza, Cfr. tra altri: Fabris (cfr. R. Fabris, Giovanni, cit., 588); G. Maier, (Cfr. G. Maier, Johannesevangelium, II, cit., 94; Inoltre: P. Perkins, Love Commands in the New Testament, New York 1982, 106-107; R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III., cit., 89; H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 339-340; U. Wilckens, Das Evangelium nach Johannes, cit., 277.

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parte terza

IL DISCEPOLO DI GESÙ

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L’UTILIZZAZIONE DEL CAP. 24 DEL SIRACIDE NEL VANGELO DI GIOVANNI

È noto come il quarto evangelista, nella composizione del suo vangelo, si riferisca talora, come schema, alla letteratura sapienziale. Evidentemente egli vide prefigurate in essa la figura e l’opera di Gesù1. Ricollegandoci a questa tradizione, consideriamo, limitatamente, in questo studio, la ripresa

Citiamo alcuni tra i tanti studi a riguardo: J. Ashton, The Trasformation of Wisdom. A Study of the Prologue of John’s Gospel, in Nts 32 (1986) 161-186; C. K. Barrett, The OT in the Fourth Gospel, in Jts 48 (1947) 155-169; M.E. Boismard, Le prologue de Saint Jean, Paris 1953; F.M. Braun, St. Jean, la Sagesse et l’histoire, in Neotestamentica et Patristica, Leiden 1962, 121-133; E.D. Freed, Old Testament Quotations in the Gospel of John, Leiden 1965; J.R. Harris, The Origin of the Prolog to St. John’s Gospel, in Expositor 12 (1916) 147-160 (I). 161-170 (II). 314-320 (III). 388-400 (IV). 415-426 (V); P. Heinisch, Das “Wort” im alten Testament und im alten Orient, Münster 1922; E. May, The Logos in the Old Testament, in cbq 8 (1946) 438-447; H.B. Möller, Wisdom Motifs and John’s Gospel, in BEvTSoc 6,3 (1963) 92-110; R. Pereira, And the Word Made Fleish and Dwelt Among Us, in Biblebhashyam 8 (1982) 181-188; C. Spicq, Le Siracide et la structure littéraire du prologue de S. Jean, in Mémorial Lagrange, Paris 1950, 183-195; M.C. Tenney, III. Literary Keys to the Fourth Gospel; the OT and the Fourth Gospel, in Bs 120 (1963) 300-308; T.H. Tobin, The Prologue of John and Hellenistic Jewish Speculation, in cbq 52 (1990) 251-269; G. Ziener, Weisheitsbuch und Johannesevangelium, in Bib 38 (1957) 396-418; 39 (1958) 37-60. 1

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da parte del quarto evangelista del cap. 24 del Siracide2. Ci riferiamo specificamente a tre passaggi di questo capitolo: il v.3; il v. 8; il v. 173. 1. Sir 24,3 e il vangelo di Giovanni Il primo testo del Siracide, che consideriamo, è 24,3 dove leggiamo:

e\gwè a\poè stoémati u|yòstou e\xh%lqon kaì w|v o|mòclh katekaéluya gh%n («Io dalla

bocca dell’Altissimo uscii e come nuvola ho ricoperto la terra »). Chi parla 2 Prescindiamo dalla specifica considerazione del libro del Siracide; rimandiamo, per essa, ai seguenti testi: Cfr. L. Alonso-Schökel, Proverbios y Eclesiastico, Madrid 1970; H. Duesberg – I. Fransen, Ecclesiastico, trad. it., Torino 1966; A. Minissale, Siracide, Roma 1980; W.O.E. Osterley, Ecclesiasticus, Cambridge 1912, 157: E. Osty –J. Trinquet, Le livre de l’Ecclésiastique, Lausanne 1971; N.B. Pereira, Sirácida ou Eclesiastico, Petropolis 1991; O. Schilling, Das Buch Jesus Sirach, Freiburg 1956; J.G. Snaith, Ecclesiasticus or the Wisdom of Son of Sirah, Cambridge 1974; C. Spicq, L’Ecclesiastique, Paris 1946; B. Vawter, The Book of Sirach, New York 1956.

Distinguiamo, dopo i vv 1-2 introduttivi, sei parti così caratterizzate: la prima storia della Sapienza (vv 3-8); la seconda storia della Sapienza (vv 9-12); lo splendore della Sapienza (vv 13-17); l’invito ad accostarsi alla Sapienza (vv 19-23); i tre versi participiali (vv 25-27); gli ultimi versi (vv 28-32). In genere gli interpreti distinguono, dopo i vv. 1-2, narrativi, con cui il sapiente che racconta introduce le parole della Sapienza, sei parti. Alonso distingue le prime quattro parte dalle altre due. Nelle prime quattro parti parla la Sapienza (Origine della Sapienza e la sua funzione cosmica; la scelta di un popolo dove la sapienza deve abitare; la descrizione della Sapienza e della sua crescita con immagini vegetali; invito agli uomini). Nelle altre due parti parla il sapiente (parla della legge; parla di se stesso), cfr. L. Alonso-Schökel, Proverbios y Eclesiastico, cit., 227. Pure Minissale, dopo i vv. 1-2 introduttivi, distingue sei parti: la Sapienza nella creazione (vv. 3-6), la sua dimora in Israele (vv. 7-11), la sua lode con paragoni presi dal mondo vegetale (vv. 12-17); il suo invito pressante agli uomini (vv. 18-21); l’identificazione della Sapienza con la legge data ad Israele (vv. 22-27); la confidenza autobiografica di Ben Sirah, discepolo e maestro di sapienza (vv. 28-32), cfr. A. Minissale, Siracide, cit., 124. Pereira infine divide il cap. 24 del Siracide in due parti: nella prima parte la Sapienza si presenta (vv. 1-22); nella seconda parte invece il sapiente commenta. Pereira divide la prima parte poi in quattro strofe: origine della Sapienza e sua funzione cosmica (vv. 3-6); la dimora terrena della Sapienza (vv. 7-11); le qualità della Sapienza, espresse con immagini della flora palestinese (vv. 12-17); Convito e offerta a quelli che desiderano la Sapienza (vv. 18-23); la seconda parte, dopo il v. 24 che è una glossa, comprende poi due strofe: l’immagine di fiumi che inondano (vv. 25-29); il servo della Sapienza (vv. 30-34), cfr. N.B. Pereira, Sirácida ou Eclesiastico, cit., passim. 3

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L’utilizzazione del cap. 24 del Siracide nel vangelo di Giovanni

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è la Sapienza, menzionata già nel v 1, dove leggiamo la seguente introduzione: «La Sapienza (h| sofòa) loderà (ai\neései) la sua anima (yuchèn au\th%v) e nel mezzo del suo popolo si glorierà (kauchésetai)». Essa è presentata come una realtà personificata, che si autoelogia e compie anche delle particolari azioni. I testi del vangelo, che possono essere richiamati sono diversi; specificamente quattro: 8,42; 13,3; 16,27-30; 17,8. 1.1. Confronto con Gv 8,42 In Gv 8,42 leggiamo le parole con cui Gesù risponde ai giudei. Essi nel verso precedente (v. 41) avevano affermato di non essere nati da fornicazione, ma di avere un solo Padre, Dio. A questa affermazione, Gesù risponde: «Se Dio Padre vostro fosse, amereste anche me. Io infatti da Dio (e\k tou% qeou%) uscii (e\xh%lqon) e vengo (h$kw). Né infatti da me stesso sono venuto, ma Quegli (e\ke_nov) mi ha mandato». Fermandoci soltanto alla prima parte del testo giovanneo, che più interessa, in Sir 24,3 leggiamo l’espressione: e\gwè a\poè stoémati u|yòstou e\xh%lqon (Io dalla bocca dell’Altissimo uscii)4. Tra i due testi possiamo stabilire delle somiglianze, ma anche delle differenze. La prima somiglianza di fondo è la maniera di esprimersi alla prima persona singolare: In Sir 24,3 è la Sapienza che parla; in Gv 8,42 è invece Gesù che parla. In entrambi i testi inoltre, oltre il pronome di prima persona singolare e\gwé, troviamo stesso verbo, e\xh%lqon, all’aoristo; in entrambi i testi ancora è espresso un complemento di origine, che coincide anche nel fatto che, in entrambi, esso riguarda Dio. Non mancano tuttavia, almeno sul piano letterario, delle differenze. Nel testo del Siracide il complemento di origine è espresso con la particella 4 Possiamo stabilire la seguente relazione tra questo testo di Sir 24,3 e il nostro testo di Gv 8,42: Sir 24,3 Gv 8,42 e\gwè (io) e\gwè gaèr (io infatti) a\poè stoémati (dalla bocca) e\k tou% qeou% (da Dio) u|yòstou (dell’Altissimo) e\xh%lqon (uscii) e\xh%lqon (uscii) h$kw (vengo)

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a\poè e il genitivo; in Giovanni invece, con e\k e il genitivo. Queste differenti

particelle suggeriscono però, nei due testi, anche una diversa prospettiva. In Siracide, la particella a\poé, più facilmente esprime il valore di moto da luogo; in Giovanni invece, la particella e\k assume piuttosto il carattere di origine. Tuttavia, il senso di fondo rimane uguale: sia la Sapienza come anche Gesù provengono da Dio. Un’altra differenza tra i due testi riguarda Dio stesso, menzionato col termine u|yòstou (dell’Altissimo) in Sir 24,3; in Gv 8,42 invece è indicato con il termine qeoév. Nel testo del Siracide poi è introdotta la menzione della bocca: Dio non è indicato direttamente, ma è soprattutto indicata la sua bocca (a\poè stoématov u|yòstou). Infine, Giovanni aggiunge il verbo venire h$kw (vengo), che non si legge nel testo del Siracide. Nel testo di Giovanni però, il discorso di Gesù appare più complesso. Il fatto che Egli è uscito da Dio è inserito tra due espressioni, che indicano, rispettivamente, la conseguenza e il motivo. Abbiamo infatti le seguenti espressioni: 1. «Se Dio, Padre vostro fosse, amereste me»; 2. «Io infatti da Dio sono uscito e vengo»; 3. «Ne infatti da me stesso sono venuto (e\lhéluqa), ma Quegli mi ha mandato». La conseguenza che Gesù è uscito da Dio, avrebbe dovuto essere il fatto che i giudei lo avrebbero amato; ma se essi non lo amano, vuol dire che Dio non è loro Padre. Il motivo poi per cui Gesù è uscito da Dio, è il fatto che il Padre lo ha mandato (me a\peésteilen). Nemmeno quest’ultimo verbo si legge nel testo del Siracide; tuttavia non è assente l’aspetto tematico. In Sir 24,8 infatti si legge il comando che Dio dà alla Sapienza: fissare la sua tenda in Giacobbe e prendere in eredità Israele. Ciò equivale al fatto di essere inviata. Nel v. 10, poi, la Sapienza stessa dichiara di avere eseguito questo comando; leggiamo infatti: «Mi sono stabilita in Sion». Poi, nel v. 12, la Sapienza continua: «Ho messo le mie radici (e\rròzwsa) fra un popolo glorificato (e\n la§% dedoxasmeén§)». Le somiglianze e le differenze, tra il testo di Siracide e quello di Giovanni, suggeriscono due conclusioni. Le somiglianze anzitutto ci dicono che il testo del Siracide sembra essere presente nella mente dell’autore del quarto Vangelo, che lo usa e lo riferisce, applicandolo, a Gesù. Le differenze,

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poi dicono, che l’evangelista, pur riprendendo questo testo, lo utilizza in maniera alquanto libera. Sia Gesù, in Gv 8,42, che la Sapienza, in Sir 24,3, concordano nel fatto che entrambi sono stati mandati da Dio. Gli elementi fondamentali, perciò, sono il verbo e\xh%lqon (uscii) e la provenienza da Dio. Soprattutto è importante il verbo e\xh%lqon. Esso è una forma di aoristo secondo dal verbo e\xeércomai (uscire). Questo verbo nel vangelo di Giovanni si legge ben trenta volte. Al nostro scopo, però, interessano non tutti i testi, bensì quelli soltanto dove il soggetto è Gesù. Essi sono: 1,43; 4,43; 8,42; 8,59; 10,39; 13,3; 16,27.28.30; 17,8; 18,1.4. Ma nemmeno tutti questi ci interessano; sono importanti al nostro scopo soltanto quelli dove si parla di una uscita di Gesù da Dio. I testi a riguardo sono 8,42; 13,3; 16,27-28.30; 17,8, che considereremo, in questo paragrafo, al momento opportuno. In 8,42 il verbo e\xeércomai è unito ad altri verbi, specificamente quattro, di cui esso è il primo. Questi sono: e\xh%lqon (uscii), h$kw (vengo), e\lhéluqa (sono venuto), a\peésteilen (mandò). Il primo e quarto verbo, presentano una complementarietà tematica progressiva. Essi hanno in comune anche la stessa forma verbale all’aoristo. Il quarto verbo spiega il primo: Gesù è uscito da Dio perché il Padre lo ha mandato. Il secondo e terzo verbo presentano invece una relazione inversa: Gesù è venuto (e\lhéluqa), ha compiuto cioè un’azione iniziata nel passato ma che dura tuttora al presente. Il verbo h$kw, indica invece una venuta al presente, attuale. I verbi possono essere ricostruiti nel seguente modo: a\peésteilen (mandò), e\xh%lqon (uscii). e\lhéluqa (sono venuto), h$kw (vengo). Questi quattro verbi, messi assieme, delineano tutta la storia di Gesù. Egli è stato mandato da Dio (a\peésteilen) e perciò da Dio è uscito (e\xh%lqon); essendo uscito da Dio, egli è venuto (e\lhéluqa) e ora viene al presente (h$kw). Di questi quattro verbi, soltanto il secondo, e\xh%lqon, si legge in Sir 24; nessuno degli altri tre, invece, è attestato; soprattutto è assente il verbo a\peésteilen. In Sir 24,8, la Sapienza poi evocherà l’ordine che le diede il Creatore dell’universo, quello cioè di fissare la propria tenda in Giacobbe e di essere ereditata in Israele. Quest’ordine, che considereremo in seguito più attentamente, può corrispondere all’idea di essere mandati, però il verbo stesso a\posteéllw (mandare) in Sir 24 non si legge mai. Nemmeno si legge

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il verbo corrispondente h$kw, che significa anche “venire” e che pure è usato nel Vangelo di Giovanni. Questo secondo verbo addirittura è del tutto assente nel libro del Siracide. Possiamo allora concludere, che dei quattro elementi verbali, che si leggono in Gv 8,42, soltanto il secondo si riconduce al testo del Siracide. Sembra che il testo di Gv 8,42, pur riconducendosi, almeno schematicamente, a Sir 24,3, propone in realtà una riflessione più ampia, più conforme alla realtà di Gesù. 1.2. Confronto con Gv 13,3 Un secondo testo che vogliamo considerare è Gv 13,3 dove l’evangelista narra: «Sapendo che tutto diede a lui (Gesù) il Padre nelle mani e che da Dio uscì (a\poè qeou% e\xh%lqen) e a Dio va (proèv toèn qeoèn u|paégei)». Il contesto cronologico è “prima della festa di Pasqua”; il contesto di azione è ciò che Gesù si appresta a compiere sui discepoli: depone cioè le sue vesti e lava loro i piedi. Troviamo, in questo testo, una duplice parabola che delinea tutto il cammino di Gesù: rispettivamente una parabola discendente (a\poè qeou% e\xh%lqen) e una ascendente (proèv toèn qeoèn u|paégei). La parabola discendente corrisponde al testo del Siracide5. Due elementi di relazione emergono nel confronto tra i due testi. Anzitutto leggiamo lo stesso verbo e\xeércomai, nella stessa forma all’aoristo, rispettivamente, alla prima persona singolare (e\xh%lqon) in Sir 24,3, riferito però alla Sapienza (e\gwé), e alla terza persona singolare in Gv 13,3, riferito a Gesù6. Il secondo elemento di somiglianza tra Sir 24,3 e Gv 13,3 è il com5 Possiamo infatti stabilire tra i due testi il seguente confronto: Sir 24,3 Gv 13,3 ei\dwèv […] o$ti e\gwè (io) a\poè stoémati (dalla bocca) a\poè qeou% (da Dio) u|yòstou (dell’Altissimo) e\xh%lqon (uscii) e\xh%lqen (uscì) kaì proèv toèn qeoèn (e a Dio) u|paégei (va) 6

Cfr. v. 1: o| I\ hsou%v.

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plemento di moto da luogo, espresso in entrambi i testi mediante la costruzione con a\poè e il genitivo. Mentre però nel testo di Siracide l‘espressione è a\poè stoémati u|yòstou (dalla bocca dell’Altissimo), nel testo di Giovanni invece è a\poè qeou% (da Dio). Pur con diversa espressione, troviamo tuttavia analoga prospettiva. Tra i due testi però emerge una differenza molto importante. Essa consiste nel fatto che, mentre nel testo di Giovanni si parla anche di un ritorno a Dio da parte di Gesù, nel testo della Sapienza invece di tale ritorno non si dice nulla. Secondo il testo del Siracide, la Sapienza, che esce dalla bocca di Dio, ha un solo movimento, quello discendente, verso gli uomini; Gesù invece ne ha due. Nel testo di Gv 13,3 l’evangelista indica soltanto il punto di partenza (a\poè qeou%) e il punto di arrivo (proèv toèn qeoén) del cammino di Gesù, senza indicare né il punto di arrivo nel cammino discendente, da Dio, né il punto di partenza nel cammino ascendente, verso Dio. L’evangelista lo dirà altrove, in altri testi; sappiamo però che il cammino di Gesù è un cammino da Dio al mondo degli uomini, e poi da questo di nuovo verso Dio. Il nostro testo indica soltanto la coscienza (ei\dwév) di Gesù di essere impegnato in un cammino parabolico, che parte da Dio e torna a Dio. Egli non solo è uscito da Dio, ma deve tornare anche a Dio. Nella prospettiva di questo grande ritorno, Egli compie le azioni seguenti, descritte nei vv. 4-5, che globalmente costituiscono il compimento dell’opera di amore (ei\v teélov h\gaéphsen au\touév). 1.3. Confronto con Gv 16,27-28 Un altro testo ancora è Gv 16,27-28. Nel v. 27 leggiamo: «lo stesso Padre infatti (au\toèv gaèr o Pathér) ama voi (file_ u|ma%v), poiché voi me avete amato (e\meè pefilhékate) ed avete creduto (kaì pepisteuékate) che da Dio uscii (o$ti e\gwè paraè [tou%] qeou% e\xh%lqon)». Distinguiamo, in questo testo, tra il v. 27 e il v. 28.

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1.3.1. Il v. 27 In questo verso Gesù introduce la motivazione di una sua precedente (v. 26) negazione. Egli non dice che chiederà al Padre per i discepoli: mostra che, in certo senso, la sua mediazione è inutile. I discepoli sono già arrivati al Padre e il Padre stesso li accoglie (file_ u|ma%v). Il motivo per cui il Padre li accoglie è perché essi, a loro volta, hanno accolto Gesù (e\meè pefilhékate)7. In questo verso troviamo quattro espressioni: au\toèv gaèr o| pathèr file_ u|ma%v o$ti u|me_v e\meè pefilhékate kaì pepisteuékate o$ti e\gwè paraè qeou% e\xh%lqon.

Troviamo in questo testo quattro espressioni strutturate secondo uno schema concentrico. La seconda e quarta sono introdotte mediante la stessa particella o$ti, benché essa, nelle due frasi, abbia diverso valore8. La prima espressione, benché introdotta da un gaér esplicativo che la lega a ciò che precede, ha tuttavia il carattere di una proposizione principale. La seconda e terza espressione sono legate dalla stessa particella causale o$ti (poiché), che spiega il motivo per cui il Padre accoglie i discepoli. Le due espressioni, oltre che mediante la particella o$ti, sono legate anche dallo stesso soggetto (u|me_v), i discepoli, e dallo stesso oggetto (e\meé), Gesù. Inoltre esse condividono la stessa forma verbale: un perfetto attivo alla seconda persona plurale (pefilhékate - pepisteuékate). Il secondo perfetto (pepisteuékate), benché coordinato e quindi appartenente alla precedente proposizione causale introdotta dalla particella o$ti, ha anche il carattere di una proposizione principale; esso infatti introduce una proposizione dichiarativa introdotta pure mediante un’altra particella o$ti.

7 Per il senso di “amore di accoglienza” del verbo fileéw rimandiamo ad uno studio precedente, cfr. A. Gangemi, Il senso di a\gapaéw e fileéw nei LXX, nel NT e nel vangelo di Giovanni, in Synaxis 16 (1998) 7-114: 112-114. 8

Causale nella seconda espressione e oggettivo nella quarta.

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1.3.2. Il v. 28 Il v. 28 presenta un ampliamento. Esso infatti riprende l’ultima frase del verso precedente9 e da essa parte uno sviluppo riguardante la vicenda di Gesù, da Dio a Dio. La menzione dell’uscita di Gesù da Dio costituisce il punto di partenza di una storia più ampia, che può essere articolata in quattro parti, strutturate secondo uno schema concentrico, nel seguente modo: 1. e\xh%lqon paraè tou% patroév (uscii dal Padre), 2. kaì e\lhéluqa ei\v toèn koésmon (e sono venuto nel mondo), 3. paélin a\fòhmi toèn koésmon (di nuovo lascio il mondo), 4. kaì poreuéomai proèv toèn pateéra (e vado al Padre). La prima e la quarta frase, menzionano, rispettivamente, l’uscita di Gesù dal Padre e il suo cammino di ritorno verso il Padre; la seconda e la terza invece, menzionano la venuta di Gesù nel mondo e poi la sua partenza dal mondo10. 1.3.3. Relazione tra il v. 27 e il v. 28 I vv. 27-28 anzitutto si collocano nella prospettiva del Padre, che Gesù, o l’evangelista per lui, ha menzionato già nel v. 26. Il termine pathér costituisce, tra il v. 26 e i vv. 27-28, un legame letterario; inoltre, menzionato all’inizio del v. 27 e alla fine del v. 28, costituisce ad entrambi i versi una sorta di inclusione letteraria. Il v. 27 definisce la relazione dei discepoli al Padre, subordinata e anche dipendente dalla loro relazione a Gesù. Il v. 28 descrive invece la relazione 9 Possiamo notare la seguente relazione concentrica tra l’ultima espressione del v. 27 e la prima del v. 28:

e\gwè paraè [tou%] qeou% e\xh%lqon e\xh%lqon paraè tou% patroév

L’unica differenza è il passaggio da qeou% a patroév.

10 Possiamo notare come la prima e ultima frase hanno come ultima parola il Padre, mentre la seconda e terza frase, hanno come ultima parola il termine mondo.

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di Gesù al Padre. I due versi appaiono legati; possiamo anche stabilire infatti tra di loro una particolare relazione concentrica, nel seguente modo: v 27: 1. au\toèv gaèr o| pathèr file_ u|ma%v 2. o$ti h|me_v e\meè pefilhékate 3. kaì pepisteuékate 4. o$ti e\gwè paraè qeou% e\xh%lqon. v. 28: 5. e\xh%lqon paraè tou% patroév 6. kaì e\lhéluqa ei\v toèn koésmon 7. paélin a\fòhmi toèn koésmon 8. kaì poreuéomai proèv toèn pateéra. La quarta e la quinta frase menzionano l’uscita di Gesù dal Padre: la loro relazione è evidente. La prima e l’ottava frase menzionano l’accesso al Padre, rispettivamente dei discepoli (prima frase) e di Gesù (ottava frase). Emerge ancora più chiaramente la doppia parabola del cammino di Gesù. C’è anzitutto la parabola discendente: “dal Padre (paraè tou% patroév)” “al mondo (ei\v toèn koésmn)”; segue poi la parabola ascendente: “dal mondo (a\fòhmi toèn koésmon)” “al Padre (proèv toèn pateéra)”11. Confrontando il testo di Gv 16,27-28 con quello di Sir 24,3, emergono le somiglianze che permettono di stabilire una relazione; ma emergono anche le differenze. Con il testo di Sir 24,3, Giovanni, in 16,27-28, concorda nell’uso del verbo e\xh%lqon (uscii); come pure concorda nel complemento di moto da luogo, anche se nei due testi esso è diverso12. Nemmeno qui dal Siracide l’evangelista riprende l’immagine della bocca (a\poè stoémati): il quarto evangelista infatti, non dice che Gesù è uscito dalla bocca dell’Altissimo, bensì da Dio (13,3) oppure dal Padre (16,28). Emerge ancora la differenza rispetto al testo del Siracide già indicata altrove: mentre per la Sapienza il dinamismo è uno solo, discendente, da Dio agli uomini, anche in questo testo del c 16 si dice che quello di Gesù è anche ascendente, dagli uomini cioè a Dio. 11 Possiamo proporre il testo anche nel seguente modo: 1. paraè tou% patroév 4. proèv toèn pateéra 2. ei\v toèn koésmon 3. paélin a\fòhmi toèn koésmon

Nel testo del Siracide, abbiamo la particella a\poé con il genitivo. In Giovanni invece leggiamo la particella paraé con genitivo. La particella a\poé però non è assente nel vangelo: si legge infatti in Gv 13,3. 12

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1.4. Il testo di 17,8 Possiamo infine citare anche il testo di 17,8, dove Gesù, nel contesto della preghiera che rivolge al Padre, si esprime nel seguente modo: «le parole che desti (e"dwkav) a me ho dato (deédwka) a loro, ed essi accolsero e conobbero veramente che da te uscii (e\xh%lqon), e credettero che tu mi hai mandato (a\peésteilav)». Troviamo in questo testo quattro proposizioni principali, di cui la prima, preceduta da una proposizione relativa (a£ e"dwkaév moi), è riferita a Gesù (deédwka au\to_v); le altre tre invece sono riferite ai discepoli. La seconda e la terza sono ampliate da una proposizione oggettiva introdotta dalla particella dichiarativa o$ti13. L’espressione che direttamente ci interessa è la prima oggettiva, dopo il verbo e"gnwsan: o$ti paraè sou% e\xh%lqon: i discepoli hanno conosciuto che Gesù è uscito da Dio. Questa espressione richiama il testo di 16,27-28 già considerato14. Benché ci siano delle differenze tra i due testi, notiamo una somiglianza per l’uso del verbo pisteuéw e per l’espressione paraè sou% e\xh%lqon15.Tranne il passaggio dal termine qeou% al pronome di seconda 13

Possiamo stabilire il seguente schema:

o$ti taè r|hm é ata a£ e"dwkaév moi deédwka au\to_v kaì au\toì e"labon kaì e"gnwsan a\lhqw%v o$ti paraè sou% e\xh%lqon kaì e\pòsteusan o$ti sué me a\peésteilav.

14 Possiamo anche stabilire tra i due un certo parallelismo: 16,27 17,8

kaì pepisteuékate o$ti paraè sou% e\xh%lqon o$ti e\gwè paraè qeou% e\xh%lqon kaì e\pòsteusan o$ti sué me a\peésteilav 15 A riguardo di quest’ultima espressione, possiamo notare il parallelismo tra i due testi: 16,27 17,8

e\gwè paraè qeou% paraè sou% e\xh%lqon e\xh%lqon

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persona sou%, i due testi sono paralleli. Valgono perciò, anche per 17,8, le stesse osservazioni proposte a riguardo di 16,27. 1.5. Il dinamismo ascendente Emerge nei testi giovannei sopra citati uno sviluppo che non troviamo nel Libro del Siracide. In quest’ultimo, a riguardo della Sapienza si dice che essa è uscita dalla bocca di Dio e che ha posto le sue radici in mezzo agli uomini, ma non si dice in nessun modo che essa ha operato un ritorno a Dio. Presso gli uomini essa ha posto una stabile dimora. Il testo del Siracide vuol dire che la Sapienza è la realtà donata dal Signore al suo popolo e che lo accompagna. Questa non è una semplice realtà umana, ma è una realtà personificata che trae origine da Dio che l’ha creata. Si può richiamare a riguardo anche la preghiera di Salomone, formulata in 1Re 3,4-14, riproposta in 2Cr 1,7-12 e, soprattutto, riformulata in Sap 9, 1-18, in cui il re, succeduto sul trono al Padre Davide, chiede a Dio non ricchezze o la vita del nemici, bensì la sua sapienza. Possiamo soprattutto citare specificamente Sap 9,4: «donami la Sapienza che siede accanto a te in trono e non escludermi dal numero dei tuoi figli». Nel v. 10 ancora Salomone continua: «mandala (la Sapienza) dai cieli santi, mandala dal tuo trono glorioso, perché […] mi faccia conoscere ciò che a Te è gradito». In Giovanni tale dinamismo discendente è evidente, ma è fondamentale anche, e forse soprattutto, quello ascendente. Senza pretendere di volere sviluppare in maniera sistematica questo aspetto, citiamo ancora, oltre 13,3 e 16,27-28 citati, altri testi. Possiamo anzitutto riferirci al prologo. In 1,1 l’evangelista scrive: e\n a\rc+% h/n o| loégov kaì o| logov h/n proèv toèn qeoén (in principio era la parola e la parola era verso Dio). L’espressione e\n a\rc+% h/n o| loégov esprime la permanenza della Parola nell’essere: facilmente l’espressione richiama la sua preesistenza eterna come realtà increata. L’espressione seguente o| logov h/n proèv toèn qeoén lega il o| logov ad un complemento di moto a luogo che non può essere ridotto a semplice complemento di stato in luogo: (era

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presso Dio)16. Piuttosto, come apparirà da tutto lo sviluppo del prologo, queste due espressioni rappresentano l’inizio e il culmine della “storia della Parola”, che affonda le sue radici nell’eternità di Dio, compie un’opera nella storia, ed proiettata verso Dio. La storia intermedia della Parola poi è descritta nei vv. 3-5 e soprattutto nei vv. 14-18. Nel v. 18 inoltre a riguardo dell’”Unigenito Dio (monogenhèv qeoév)” si dice che è (o| w"n) verso il seno del Padre (ei\v toèn koélpon), orientato verso di esso. In 13,1 leggiamo l’espressione: «Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo (ei\dwév) che era giunta la sua ora di passare (i$na metab+%) da questo mondo (e\k tou% koésmou touétou) al Padre (proèv toèn pateéra), avendo amato i suoi che nel mondo, a compimento li amò (ei\v teélov h\gaéphsen)». Nel v. 3, come abbiamo già notato, abbiamo una espressione analoga17. Le due espressioni sono legate anche mediante la forma participiale ei\dwév, di cui costituiscono l’oggetto, introdotto mediante la particella o$ti18. Le due espressioni, messe assieme, incastonando le espressioni del v. 1 in quelle del v. 319, danno allora un senso completo: Gesù è uscito da Dio; porta a compimento nel mondo l’opera di amore a vantaggio dei discepoli (ei\v teélov h\gaéphsen), dopo può tornare a Dio. Del suo ritorno al Padre Gesù stesso parla anche in Gv 14,12.28; 16,17; 17,11.13. Non possiamo, né forse è qui opportuno, commentarli 16 17

Cfr. in questo senso la versione latina: «et verbum erat apud Deum».

Tra le due espressioni si può stabilire anche una relazione strutturale concentrica: v 1. i$na metab+%

v 3.

e\k tou% koésmou touétou proèv toèn pateéra, proèv toèn qeoèn

u|paégei 18

Il v. 3 presenta, nelle tre frasi, il seguente sviluppo:

o$ti paénta e"dwken au\t§% o| pathér kaì o$ti a\poè qeou% e\xh%lqen kaì proèv toèn qeoèn u|paégei 19

Possiamo ricostruire, incastonando, nel seguente modo:

kaì o$ti a\poè qeou% e\xh%lqen ei\v teélov h\gaéphsen i$na metab+% […] proèv toèn patera kaì proèv toèn qeoèn u|paégei

la quarta frase è parallela e complementare alla prima.

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singolarmente. Ci limitiamo soltanto ad indicarli, essendo il nostro scopo infatti mostrare la prospettiva propria del quarto vangelo che parla non solo della venuta di Gesù nel mondo, ma anche del suo ritorno al Padre. In Gv 14,12 leggiamo le seguenti parole: «io vado al Padre (e\gwè proèv toèn pateéra poreuéomai)». Nel v. 28 poi Gesù ancora continua: «se mi amaste, gioireste per il fatto che io vado (poreuéomai) al Padre (proèv toèn pateéra)». In 16,17 i discepoli si chiedono: «che cosa è questo che dice a noi: ancora un poco e non mi vedrete e di nuovo un poco e mi vedrete e (il fatto) che vado (u|paégw) al Padre (proèv toèn pateéra)?». In 17,11 Gesù si rivolge al Padre nel seguente modo: «e (io) non più sono nel mondo, ed essi nel mondo sono, e io (ka\gwé) a te (proèv seé) vengo (e"rcomai)». Nel v. 13, infine, continuando, Gesù dice: «e ora a te (proèv seé) vengo (e"rcomai) e queste cose dico nel mondo perché abbiano la mia gioia portata a pienezza (peplhrwmeénhn) in essi». La conclusione allora è ovvia. In relazione al testo di Sir 24,3, dove si parla dell’uscita della Sapienza dalla bocca dell’Altissimo e della sua venuta nel mondo, il vangelo di Giovanni, in relazione a Gesù, concorda in questa prospettiva: Gesù è uscito da Dio ed è venuto nel mondo. È possibile perciò che il vangelo di Giovanni, in questo aspetto, si riferisca al cap. 24 del libro del Siracide. Tuttavia da questo solo elemento non possiamo pervenire ad una certezza, tanto più che il vangelo di Giovanni presenta una prospettiva più ampia rispetto a quella del Siracide. La storia di Gesù, come quella della Sapienza, parte da Dio e giunge nel mondo; ma, a differenza della Sapienza, essa non si ferma al mondo. Gesù infatti, dopo avere compiuto un’opera nel mondo, torna a Dio. Di tale ritorno, a riguardo della Sapienza, né il testo del Siracide, né altri passaggi dei libri sapienziali dicono nulla. Non possiamo escludere perciò, nel vangelo di Giovanni, la presenza di Sir 24,3; esso però, da solo, non è sufficiente a spiegare la vicenda di Gesù. Dobbiamo perciò riferirci ad altre prospettive che individuiamo in Is 55,10-11, con cui stabiliamo un confronto.

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1.6. Il testo di Is 55,10-11 In Is 55,10-11 il profeta stabilisce un paragone di uguaglianza tra la pioggia e la neve e la Parola del Signore20. Sia la pioggia e la neve che la Parola di Dio presentano tre dinamismi che possiamo definire: discendente, orizzontale e ascendente. I dinamismi della pioggia e della neve sono i seguenti: scendono dal cielo (discendente), impregnano e rendono feconda la terra, sicché essa dia seme al seminatore e pane da mangiare (orizzontale), tornano in cielo. I dinamismi della Parola sono i seguenti: esce dalla bocca di Dio (discendente), compie ciò per cui Dio l’ha mandata (orizzontale), torna a Dio (ascendente). L’opera che la Parola deve compiere, uscendo dalla bocca di Dio, nel testo di Isaia rimane vaga; sarà poi il quarto evangelista a definirla. La considerazione di questo aspetto però esula dal nostro lavoro. I dinamismi della pioggia e della neve sono indicati con le seguenti espressioni: Pioggia e neve: katab+% e\k tou% ou\ranou% ({iyamf<ah-}im d"r"y) (discendente), a\postraf+% (bU$fy) (ascendente), Parola: e\xeélq+ e\k tou% stoématoév mou (yiPim )"c"y re$A)) (discendente), a\postraf+% (bU$fy) (ascendente). Il dinamismo ascendente è espresso, per entrambi, con lo stesso verbo a\postreéfw (bU$); quello discendente invece è diverso, rispettivamente: katab+% e\k tou% ou\ranou%: (pioggia e neve) e e\xeélq+ e\k tou% stoématoév mou (Parola) Nel dinamismo discendente Is 55,10-11 e Sir 24,3 presentano una relazione: possiamo infatti istituire tra i due testi il seguente confronto: Is 55,10-11 Sir 24,3 e\xeélq+ (esce) a\poè stoématov (dalla bocca) e\k tou% stoématoév (dalla bocca) u|yòstou (dell’Altissimo) mou (di me) e\xh%lqon (uscii) 20 Ci riferiamo ad un nostro studio precedente, cfr. L’utilizzazione di Is 55 nel vangelo di Giovanni, in Synaxis 7 (1989) 7-90.

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Le due espressioni, dal punto di vista letterario, fondamentalmente coincidono. Troviamo infatti lo stesso verbo, pur in diversa forma grammaticale e sintattica21; in entrambe è menzionata la bocca, in entrambe al genitivo (stoématov) dipendente da una particella di moto da luogo; questa, però, è differente nei due testi22. Il genitivo stoématov è seguito, a sua volta, da un altro genitivo, diverso però nei due testi: In Is 55 ad esso segue il pronome personale mou% (di me); in Sir 24,3 segue invece il genitivo u|yòstou (dell’Altissimo). Quest’ultima differenze è facilmente spiegabile per la diversa prospettiva in cui i due testi si collocano. In Is 55,10 è Dio che parla e deve perciò necessariamente dire «dalla mia bocca (e\k tou% stoématoév mou)». In Sir 24,3 invece è la Sapienza che parla. Essa perciò deve necessariamente parlare di Dio alla terza persona: (u|yòstou, l’Altissimo). Non mancano però delle differenze di prospettiva tra i due testi; ne indichiamo specificamente tre. La prima differenza è stata già indicata; in Is 55,10-11 si parla della Parola di Dio, in Sir 24,3 invece si parla della Sapienza: entrambi escono “dalla bocca” di Dio. Inoltre, mentre in Sir 24 la Sapienza è descritta in se stessa, nella sua storia e nel suo cammino da Dio agli uomini, in Is 55 la storia della Parola è invece confrontata e paragonata con la storia della pioggia. Infine, e questa è la differenza più importante, in Is 55, come abbiamo già osservato, si parla non solo della discesa dal cielo della pioggia e della Parola, ma anche del loro ritorno, rispettivamente, al cielo e a Dio. Diversi elementi suggeriscono la presenza e l’utilizzazione di Is 55,1011 da parte dell’autore del quarto vangelo: l’espressione katabaònein e\k tou% ou\ranou% legata anche alla menzione del pane da mangiare (a"rton ei\v brw%sin), la menzione della volontà di Dio (h\qeélhsa), la presenza del dinamismo ascendente, e anche l’aspetto del compimento (e$wv a!n suntelesq+%).

21 In Is 55 il verbo e\xeélq+ è un congiuntivo aoristo e si legge nel contesto di una proposizione condizionale. Nel testo del Siracide, invece, il verbo e\xh%lqon costituisce il verbo diretto e perciò è usato all’indicativo aoristo. 22

In Is 55,10 abbiamo la particella a\poé; in Siracide invece abbiamo la particella e\k.

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L’aspetto del dinamismo discendente è stato già considerato. L’espressione katabaònein e\k tou% ou\ranou% si legge diverse volte nel vangelo di Giovanni: in 3,1323; 6,4224; in diversi testi l’espressione è legata al pane25. È importante soprattutto questo accostamento tra il “pane” e il fatto di “scendere dal cielo”. Sono infatti ripresi, in maniera inversa, i due elementi che costituiscono l’inizio e la fine della vicenda del pane in Is 55,1026. In un testo del cap. 6 il fatto che Gesù è sceso dal cielo è legato al compimento della volontà di Dio. Ci riferiamo specificamente a 6,38, dove leggiamo: «sono sceso dal cielo (katabeébhka a\poè tou% au\ranou%) non per fare la mia volontà (toè qeélhma toè e\moén), ma la volontà (toè qeélhma) di colui che mi ha mandato (tou% peémyantoév me)»27. Quanto infine all’aspetto del compimento, espresso in Is 55,11 con il verbo suntelesq+%28, possiamo richiamare l’espressione di Gv 13,1, dove si legge che Gesù “a compimento amò (ei\v teélov h\gaéphsen)”, portò cioè al massimo grado la sua opera di amore. Possiamo inoltre citare Gv 19,28.30, dove leggiamo due volte il perfetto passivo teteélestai, dal verbo teleéw. La prima volta (v. 28) nella penna dell’evangelista e la seconda volta (v. 30) in bocca a Gesù. 23 Cfr. 3,13: «nessuno è salito al cielo se non il figlio dell’uomo che è disceso dal cielo (o| e\k tou% ou\ranou% katabaév)». Questa espressione però riprende e adatta Pr 30,4 (tòv a\neébh ei\v toèn ou\ranoèn kaì kathébh;).

In 6,42 i giudei si scandalizzano perché Gesù ha dichiarato: «sono sceso dal cielo (e\k tou% ou\ranou% karabeébhka)». 24

25 Possiamo citare a riguardo diversi testi: 6,33: «il pane di Dio (o| gaèr a"rtov) è colui che scende dal cielo (o| katabaònwn e\k tou% ou\ranou%)»; 6,41: «Io sono il pane (o| a"rtov) che è disceso dal cielo (o| katabaèv e\k tou% ou\ranou%)»; 6,50: «questo è il pane (ou/toév e\stin o| a"rtov) che dal cielo scende (o| e\k tou% ou\ranou% katabaònwn)»; 6, 51: «io sono il pane vivo (o| a"rtov) che è disceso dal cielo (o| e\k tou% ou\ranou% katabaév)»; 6,58: «questo è il pane (ou/toév e\stin o| a"rtov) che dal cielo è sceso (o| e\k tou% ou\ranou% katabaév)».

Possiamo stabilire il seguente schema: Is 55,10 testi giovannei e\an è katab+% […] e\k tou% ou\ranou% o| a"rtov 26

a"rton ei\v brw%sin.

e\k tou% ou\ranou% katabaònwv

L’aspetto della “Parola che è inviata” non compare però nel testo dei LXX di Is 55,11, bensì nel TM (wyiT:xal:$: l’ho inviata). 27

28

(fare).

Stavolta però ci riferiamo al testo dei LXX; Nel tm leggiamo infatti il verbo hf&f(

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Possiamo allora concludere che, nella prospettiva dell’uscita di Gesù da Dio, il nostro evangelista può dipendere, sia dal testo di Sir 24,3 sia anche da Is 55,10-11. Il testo del Sir 24,3 però da solo non basta: l’evangelista infatti introduce anche la prospettiva del ritorno a Dio, riconducibile però non a Sir 24,3, bensì a Is 55,10-11. I due testi coincidono nel fatto che sia la Sapienza come la Parola di Dio sono usciti dalla bocca di Dio. Il testo del Siracide però non era sufficiente ad esprimere in maniera completa la vicenda di Gesù che parte dal Padre e culmina nel Padre. Il testo di Is 55,10-11 propone invece una vicenda completa della Parola che parte da Dio e torna a Dio. In questo senso, il testo di Isaia era più adatto a descrivere tutta la storia di Gesù che parte dal Padre, si svolge nel mondo e risale di nuovo al Padre. 2. Il testo di Sir 24,8 1 e il vangelo di Giovanni Un secondo testo del c 24 del libro del Siracide, che consideriamo in relazione al vangelo di Giovanni, è il v. 8, dove leggiamo: «Allora comandò (e\neteòlato) a me il Creatore di tutte le cose e colui che mi creò fece riposare la mia tenda, stabilì la mia dimora (thèn skhnhén mou) e disse: in Giacobbe poni la tua tenda (kataskhénwson) e in Israele sii eredità». Tutto il v 8 si articola in quattro frasi, disposte in maniera parallela. e\neteòlatoé kaì o| ktòsav kaì eùèpen: kaì

moi me e\n Iakwb e\n Israhl

ktòsthv a|paéntwn kateépausen thèn skhnhén mou kataskhénwson kataklhronomhéqhti

La prima e la seconda frase sono legate da un termine della stessa radice, rispettivamente o| ktòsthv e o| ktòsav. Inoltre sono legate dal fatto che in entrambe troviamo un’azione di Dio. Questa, nella prima frase, è quella di avere dato un comando (e\neteòlato); nella seconda frase invece è quella di avere fatto riposare (kateépausen). Nella prima frase il termine o| ktòsthv è legato ad un’azione che precede: e\neteòlatoé moi o| ktòsthv; nella seconda

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frase invece il termine o| ktòsav è legato ad un’azione che segue: o| ktòsav me kateépausen29. La terza e quarta frase, dopo il verbo eùpen della terza, si articolano invece in due parti parallele kaì eùèpen: e\n Iakwb kataskhénwson

kaì e\n Israhl kataklhronomhéqhti

Esse presentano un duplice legame: anzitutto i due nomi Iakwb e Israhl e, inoltre, le due forme verbali all’imperativo aoristo, rispettivamente attivo (kataskhénwson) e passivo (kataklhronomhéqhti). Giacobbe e Israele sono due nomi che si riferiscono alla stessa persona30. Diversi invece sono i verbi corrispondenti, che pur condividono la particella iniziale kataé: il verbo kataskhnoéw significa “porre la tenda”, il verbo kataklhronomeéw significa invece “ereditare”. Dio perciò, comanda alla Sapienza di porre la propria tenda, di fissare cioè la propria dimora in Giacobbe; non però come in un luogo qualsiasi, ma come una realtà da cui deve essere ricevuta in eredità e a cui perciò essa anche appartiene. Ma se la Sapienza appartiene a Giacobbe e a Israele, è anche vero, di conseguenza, che anche questi appartengono a lei. Le due azioni interagiscono: la Sapienza è ricevuta in eredità ed essa accetta di appartenere a quel popolo prendendo possesso di esso, piantando cioè la propria tenda in mezzo ad esso. In ogni caso, si esprimono e si integrano due aspetti: Giacobbe e Israele appartengono, come possesso, alla Sapienza; la Sapienza, attua da parte sua, questa appartenenza ponendo in esso la propria dimora. Due aspetti quindi emergono nel testo di Sir 24,8, particolarmente importanti al nostro scopo: essi sono contenuti nella prima e terza frase. 29

Si ottiene la seguente struttura concentrica: e\neteòlatoé moi o| ktòsthv o| ktòsav me kateépausen

Secondo Gen 32,28, Giacobbe, secondogenito di Isacco, dopo la sua lotta con l’angelo, fu chiamato dall’angelo stesso, Israele. Nella tradizione biblica però, soprattutto nei testi del Deuteroisaia (Is 40,27; 41,1; 44,21.23), Giacobbe e Israele designarono il popolo. 30

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Anzitutto il fatto che Dio ha dato un comando alla Sapienza (e\neteòlato) e inoltre il fatto anche che questo comando si riferisce al porre la propria tenda (kataskhénwson) in Giacobbe. Questi due aspetti sembrano smembrati in Giovanni: il comando che il Padre ha dato a Gesù, come vedremo, ha altri contenuti; non manca però il fatto di porre la propria tenda, benché esso non sia ricollegato ad un comando. Appunto perché il nostro evangelista li smembra, consideriamo questi aspetti separatamente, prima il verbo e\nteéllomai e poi il verbo kataskenoéw. 2.1. Il comando (e\neteòlato) In Sir 24,8 la Sapienza, che parla nel contesto, dichiara di avere ricevuto un comando da parte di Colui che ha creato tutte le cose (o| ktòsthv a\paéntwn). Si dice anche nel testo quale sia il comando, quello di porre in Giacobbe la propria dimora. Il verbo e\neteòlato è una forma di aoristo primo asigmatico, dal verbo e\nteéllomai, che significa “comandare”. Da questo verbo proviene anche il termine e\ntolhé che significa “comandamento”. Il verbo e\nteéllomai nel NT si legge sedici volte, di cui otto nei Vangeli Sinottici31. Inoltre si legge due volte nel Libro degli Atti32, e, infine due volte nella lettera agli Ebrei33. Gli altri quattro usi, che considereremo specificamente, sono nel vangelo di Giovanni, in Gv 8,5; 14,31; 15,14.17. Il sostantivo e\ntolhé è molto più frequente. Esso complessivamente è usato 69 volte, di cui sedici nei Vangeli sinottici34, undici nel vangelo di Giovanni35, una sola volta nel Libro degli Atti36, quattrordici volte nell’epistolario paolino37, 31 32 33

Cfr. Mt 4,6; 15,4; 17,9; 19,7; 28,20; Mc 10,3; 13,34; Lc 4,10. Cfr. 1,2 e 13,47. Cfr. 9,20 e 11,2.

Cfr. Mt 5,19; 15,3; 19,17; 22,36.38.40; Mc 7,8.9; 10,5.19; 12,28.31; Lc 1,6; 15,29; 18,20; 23,56. 34

35 36

Cfr. Gv 10,18; 11,57; 12,49.50; 13,34; 14,15.21.31; 15,10.10.12. Cfr. At 17,15.

Cfr. Rm 7,8.9.10.11.12.13; 13,9; I Cor 7,19; 14,37; Ef 2,15; 6,2; Col 4,10; 1Tm 6,14; Tt 1,14. 37

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diciannove usi nell’epistolario giovanneo38. Infine altri otto usi sono in altri testi del NT39. Nel Vangelo di Giovanni il verbo si legge quattro volte, in 8,5; 14,31; 15,14 e 15,17. Prescindiamo dal testo di 8,5 che si trova nel contesto del racconto dell’adultera: gli scribi e i farisei accusavano una donna di essere stata sorpresa mentre adulterava; essi fanno presente a Gesù che, nella legge, Mosè comandò (e\neteòlato) loro di lapidare simili donne. Questo testo non interessa al nostro scopo, non solo perché il racconto dell’adultera, benché contenuto in Gv 8,1-11, probabilmente non è proprio del quarto evangelista, ma soprattutto perché in questo testo non è Dio che dà un comando, bensì Mosè. Nel testo di Siracide invece è Dio che dà un comando alla Sapienza. Al nostro scopo perciò interessano soltanto quei testi dove si parla di Dio che da un comando. Con il verbo e\nteéllomai un testo importante da considerare è quello di 14,31. Questo testo si ricollega al precedente v. 30, dove Gesù dichiara: «Non più ancora parlerò con voi. Viene infatti il principe di questo mondo, ma in me non ha niente, ma affinché conosca il mondo che amo il Padre e come comandò a me (e\neteòlatoé moi) il Padre, così faccio, alzatevi, andiamo da qui». L’espressione che direttamente ci interessa è kaqwèv e\neteòlatoé moi o| pathér. Il verbo e\neteòlato è una forma di aoristo alla terza persona singolare, dal verbo e\nteéllomai, il verbo che stiamo considerando. Questa frase però pone un problema di critica testuale. Essa è attestata soltanto dai codici Sinaitico, Alessandrino, dai codici maiuscoli Q Y, dai codici minuscoli elencati da Ferrar, da molti codici della tradizione Koiné, dalle siriache sinaitica, peshitta, heraclense e dalla versione bohairica. Altri codici invece leggono diversamente, cioè leggono e\ntolhèn e"dwken, con il verbo dòdwmi all’aoristo40. Questa seconda lettura è attestata, probabilmente, dal P75, dal codice Vaticano, dal codice maiuscolo L, da alcuni codici minuscoli, dalla versione latina e in parte dalla versione bohairica. Emerge allora il problema, quale sia 38 Di questi diciannove usi, quattordici sono contenuti nella prima Lettera di Giovanni (cfr. 1Gv 2,3.4.7[bis].8; 3,22.23.23.24; 4,21; 5,2.3[bis]). Gli altri cinque usi sono nella seconda Lettera (Cfr. vv 4.5[bis].6[bis]). 39 40

Cfr. Eb 7,5.16.18; 9,19; 2Pt 2,21; 3,2; Ap 12,17; 14,21. Il codice minuscolo 33 legge però al perfetto deédwken.

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stata la frase che realmente abbia scritto il nostro evangelista. Forse la lettura migliore è quella con il verbo e\neteòlato, attestata dalla prima serie di codici. Il motivo è che nella seconda lettura, e\ntolhèn e"dwken, i copisti possono essere stati influenzati dal testo di 12,49 dove leggiamo l’espressione: e\ntolhèn e"(deé)dwken. I copisti avrebbero adattato su questo testo anche quello di 14,31. Accettando la lettura con il verbo e\neteòlato, consideriamo brevemente il testo di 14,31. Il soggetto del verbo e\neteòlato è chiaramente il Padre e la persona che riceve il comando è Gesù. Emerge a questo punto un duplice problema: quando il Padre diede il comando a Gesù? e in cosa consiste questo comando? Il testo, direttamente, non risponde a nessuna delle due domande. Dal punto di vista strutturale, abbiamo nel v. 31 un lungo periodo introdotto dalla particella a\llaé (ma). Con questa particella si introduce un discorso in contrapposizione a quello che l’evangelista ha detto nel verso precedente. Segue la particella i$na, che introduce il verbo gn§% al congiuntivo aoristo (a\ll’i$na gn§%)41. L’evangelista sta costruendo un periodo con una determinata azione. Il soggetto del verbo gn§% è il mondo. L’oggetto di questa conoscenza è introdotto dalla particella dichiarativa o$ti. Esso è costituito da due verbi coordinati: a\gapw% toèn pateéra, kaqwèv e\neteòlatoé moi o| pathèr ou$twv poiw%. L’oggetto alla cui conoscenza il mondo deve pervenire perciò è duplice, che Gesù ama il Padre e che egli fa così come il Padre gli ha comandato. Possiamo notare la successione dei due verbi a\gapw% e ginwéskw (amo e faccio). Gesù agisce così come il Padre gli ha comandato e agisce in questo modo perché egli ama il Padre. Cosa il Padre ha comandato a Gesù, come abbiamo già detto, direttamente il testo non lo dice. Leggiamo però, subito dopo, un’espressione con la quale egli rivolge un comando ai discepoli: e\geòresqe, a"gwmen enteu%qen (Alzatevi, andiamo da qui). In questa frase dev’essere contenuta una allusione al comando che il Padre ha rivolto a Gesù e che Gesù compie perché lo ama. Nel tentativo di comprendere quale sia questo comando, stabiliamo un confronto con i vangeli sinottici. Ci riferiamo specificamente a Matteo e 41

Il verbo gn§% è congiuntivo aoristo dal verbo ginwéskw (conoscere).

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Marco, i quali, rispettivamente in Mt 26,46 e Mc 14,42, riferiscono, al termine della preghiera al Getsemani, il comando: e\geòresqe a"gwmen i\douè h"ggiken o| paradidouév me42. Dopo avere rimproverato i discepoli la terza volta perché dormivano, Gesù annunzia loro che è giunta l’ora e il Figlio dell’Uomo è consegnato in mano ai peccatori. Segue subito il su citato comando di alzarsi (e\geòresqe) e andare (a"gwmen). Il comando è motivato con il fatto che è giunto colui che tradisce. Mentre ancora Gesù parlava, ecco Giuda, uno dei dodici, venne e con lui molta folla. Gesù perciò comanda di andare incontro al traditore43. Tutte queste osservazioni inducono a concludere che il comando che, secondo il testo di 14,31, il Padre ha dato a Gesù, sia appunto quello di andare incontro al principe di questo mondo, cioè di andare incontro alla passione. Gesù però dichiara che, se egli ci va, certo non è è vittima del 42 Il testo nei due evangelisti è identico. Troviamo soltanto un mutamento di ordine negli elementi: in Matteo il verbo (h"ggiken) è prima del soggetto (o| paradidouév me), in Marco invece è dopo. Sia in Matteo che in Marco, l’espressione su citata, rivolta da Gesù ai discepoli, si trova nello stesso contesto, il racconto del Getsemani, dopo il suo terzo viaggio verso di loro, dopo la preghiera. 43 Possiamo stabilire un confronto tra questi due testi, quello dei vangeli sinottici e quello di Giovanni: Mt 26,46 Mc 14,42 Gv 14,30-31

e"rcetai gaèr o| tou% koésmou a"rcwn […] e\geòresqe, e\geòresqe e\geòresqe, a"gwmen a"gwmen a"gwmen e\nteu%qen i\douè i\douè h"ggiken o| paradidouév me o| paradidouév me h"ggiken

La relazione tra i testi dei Vangeli sinottici e quello del vangelo di Giovanni, si percepisce bene, nonostante che vi siano delle differenze tra i due testi. Giovanni aggiunge l’avverbio e\nteu%qen (da qui), che manca nei sinottici. Inoltre, notiamo un’inversione: Giovanni parla prima della venuta del “principe di questo mondo” e poi menziona il comando; i sinottici, al contrario, prima menzionano il comando e poi parlano della venuta di Giuda. Ma la differenza maggiore sta nel fatto che il quarto evangelista reinterpreta la figura di Giuda: egli parla del “principe di questo mondo”; questo “principe di questo mondo”, che, secondo 12,31, sarà gettato fuori, può essere Giuda o può essere anche colui che ha sobillato Giuda (13,2) e ne ha preso possesso (13,27).

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principe di questo mondo: precisa anzi che questo non ha niente a che vedere con lui, ma va verso di lui perché ama il Padre e in forza di tale amore, egli fa così come il Padre gli ha comandato. Il testo che abbiamo considerato è l’unico, nel vangelo di Giovanni, in cui il verbo e\nteéllomai è riferito a Gesù. Gli altri due testi in cui è usato, non si riferiscono a lui, in relazione al comando del Padre, bensì ai discepoli, in relazione al comando di Gesù. Leggiamo infatti in 15,14 l’espressione: «Voi sarete miei amici se fate ciò che vi comando (e\nteéllomai)». Poco dopo poi, in 15,17, Gesù ribadisce ancora: «Questo vi comando (e\nteéllomai), che vi amiate gli uni gli altri». Più importanti sembrano essere gli usi con il sostantivo e\ntolhé (comandamento). Questo termine, nel vangelo di Giovanni, è usato dieci volte. Gli usi però, riferiti a Gesù, sono soltanto quelli di 10,18; 12,4950; 15,10. Iniziando da 12,49 Gesù dichiara: «Da me stesso non ho parlato, ma colui che mi ha mandato, il Padre, Egli ha dato a me un comando (e\ntolhén): che cosa debba dire o cosa debbo parlare». In questo testo, il comandamento del Padre riguarda il parlare di Gesù: Egli afferma che non può parlare da se stesso, ma deve parlare così come il Padre gli ha comandato. Tuttavia, il testo non dice in che cosa consiste ciò che Gesù deve dire in conformità all’insegnamento del Padre. Nel v. 50, immediatamente seguente, Gesù dichiara di essere profondamente cosciente (oùda) che il comandamento del Padre è vita eterna: ben lungi dal condizionarlo, questo gli apre invece la strada verso la vita eterna, perché esso stesso è vita eterna. In 10,18 leggiamo l’espressione tauéthn thèn e\ntolhèn e"labon paraè tou% patroév mou (questo comando ho ricevuto dal Padre mio). Questo testo di Giovanni presenta una relazione tematica con il testo di Sir 24,844: In Stabiliamo il seguente confronto: Sir 24,8 Gv 10,18 toéte (allora) e\neteòlatoé (comandò) : tauéthn thèn e\ntolhèn (questo comado) e"labon (ricevetti) moi (a me) o| ktòsthv (io creatore) paraè tou% patroév mou (dal Padre mio) a|paéntwn (di tutte le cose) 44

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L’utilizzazione del cap. 24 del Siracide nel vangelo di Giovanni

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entrambi infatti, si parla di un comandamento dato, rispettivamente, dal Creatore (o| ktòsthv) alla Sapienza e dal Padre (paraè tou% patroév mou) a Gesù. C’è anche in comune l’elemento letterario: in Sir 24,8 infatti, si legge il verbo aoristo e\neteòlato; in Gv 10,18 invece si legge il termine e\ntolhén. Si può notare, però, anche una complementarietà tematica. Nel testo di Siracide, la prospettiva è attiva, cioè il Creatore (soggetto) positivamente ha dato un comando (e\neteòlato) alla Sapienza; in Gv 10,18 invece, la prospettiva è piuttosto passiva: è Gesù infatti che ha ricevuto (e"labon) un comandamento (e\ntolhén) da parte del Padre. Emerge ancora nel testo giovanneo il problema quale sia il comandamento che Gesù ha ricevuto dal Padre. Prima però di affrontare questo problema, riteniamo utile confrontare globalmente i testi riguardanti il comandamento di Gesù e stabilirne poi il senso. In 15,10 infine leggiamo l’espressione: «come io ho osservato i comandamenti (taèv e\ntolaév) del padre mio e rimango nel suo amore». In questo testo il termine e\ntolhé è al plurale; Gesù non indica quali siano questi comandamenti del Padre: si limita soltanto a dichiarare che la loro osservanza gli ha permesso di pervenire e rimanere nell’amore del Padre. Confrontando i vari testi del vangelo di Giovanni che abbiamo considerato (Gv 10,18; 12,49; 14,31; 15,10) con il testo di Sir 24,8, il primo elemento che emerge è la precisa identità del soggetto che dà il comandamento. In Sir 24,8 esso è “Il Creatore di tutte le cose”; nei testi di Giovanni, invariabilmente è il Padre. Il testo letterariamente più vicino al testo di Sir è 14,3145. In entrambi c’è lo stesso verbo e\neteòlato; in entrambi segue un pronome di prima persona singolare al dativo (moò); in entrambi segue il soggetto: il Creatore (o| ktòsthv) e il Padre (o| Pathér). 45 Possiamo infatti stabilire la seguente relazione letteraria: Gv 14,31 Sir 24,8

kaqwèv toéte e\neteòlatoé e\neteòlatoé moi moi o| Pathèr o| ktòsthv ou$twv a|paéntwn poiw

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Il contenuto del comando però, nei due testi è diverso. Conosciamo dal testo stesso di Sir 24,8 quale sia il comando dato dal Creatore alla Sapienza: ella deve porre la sua tenda in Giacobbe e deve essere ereditata in Israele. Il comando dato dal Padre a Gesù, nel vangelo di Giovanni, appare invece più complesso Notiamo anzitutto, una relazione tra il primo e il quarto dei testi sopra citati, cioè tra 10,18 e 15,10. In entrambi, il soggetto è Gesù e in entrambi è espresso un atteggiamento diverso, ma complementare, rispetto al comandamento del Padre: in 10,18 è quello dell’accoglienza del comandamento da parte di Gesù (e"labon), in 15,10 invece è quello della sua osservanza (tethérhka). In 12,49 il comando riguarda ciò che Gesù deve dire o di cui deve parlare: non si specifica però concretamente ciò che Gesù deve dire. In 14,31 non è espresso nemmeno cosa sia il comando del Padre, l’evangelista però insinua che esso consista nell’andare incontro al principe di questo mondo. Il vero contenuto del comando che Gesù ha ricevuto dal Padre è descritto invece nel testo di 10,17-1846. Notiamo, anzitutto, in questi versi una inclusione letteraria, determinata dalle espressioni me o| pathér e tou% patroév mou. La prima espressione è legata ad una forma di indicativo presente: a\gapç% (ama). La seconda espressione è legata ad una forma di aoristo, e"labon (ricevetti). La relazione tra il presente a\gapç% e l’aoristo e"labon, induce a rileggere all’inverso le due espressioni: e individuare nel verbo all’aoristo e"labon la causa dell’azione espressa al presente a\gapç: il Padre ama Gesù perché egli ha accolto il suo comandamento.

46

Distinguiamo in questo testo tra il v 17 e il v 18. v. 17. diaè tou%toé me o| pathèr a\gapç% o$ti e\gwè tòqhmi thèn yuchén mou, i$na paèlin laébw au\thén (Per questo il Padre mi ama, poiché pongo la mia vita, per prenderla di nuovo) v 18. ou\deìv ai"rei au\thèn a\p’e\mou%, a\ll’e\gwè tòqhmi au\thèn a\p’e\mautou%. e\xousòan

e"cw qe_nai au\thèn kaì e\xousòan e"cw labe_n au\thén. tauéthn e\ntolhèn e"labon paraè tou% patroév mou. (nessuno prende essa da me, ma io pongo essa da

me stesso. Potere ho di porre essa e potere ho di prendere essa. Questo comando ricevetti dal Padre mio).

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Tra queste due espressioni, cioè tra il presente a\gapç% e l’aoristo e"labon, troviamo una serie di tre distici47. Il primo distico si relaziona al terzo per la connessione dei verbi tòqhmi48 e lambaénw49. Il secondo distico è diverso rispetto al primo e al terzo: non troviamo più la relazione tòqhmi - lambaénw, bensì ai"rw (prendere) e tòqhmi (porre)50. Soprattutto la peculiarità di questo secondo distico consiste nel fatto che, mentre nel primo e nel terzo le frasi sono in continuità, in questo secondo le due frasi, relazionate mediante la particella a\llaé, sono in opposizione. Il comando che Gesù ha ricevuto dal Padre è contenuto nei verbi relazionati, soprattutto quelli del primo e terzo distico. Osserviamo però una differenza: nel primo distico Gesù parla del fatto di porre la vita per prenderla di nuovo: egli realmente pone la vita, per poi riprenderla. Nel terzo distico, invece, Gesù non descrive il fatto, ma soltanto il potere (e\xousòa), la capacità di compiere quel fatto. E di fatti, entrambe le frasi sono caratterizzate dal termine e\xousòa. Il Padre ha dato un comando a Gesù e, in forza di questo comando, egli ha un potere. Questo potere scaturisce dal fatto che il Padre ha dato un comando e Gesù lo ha accolto. Egli lo ha accolto in 47

I tre distici sono:

o$ti e\gwè tòqhmi thèn yuchén mou, i$na paélin laébw au\thén ou\deìv ai"rei au\thèn a\p’e\mou%, a\ll’e\gwè tòqhmi au\thèn a\p’e\mautou%. e\xousòan e"cw qe_nai au\thèn kaì e\xousòan e"cw labe_n au\thén

(poiché pongo la mia vita) (per prenderla di nuovo) (nessuno prende essa da me) (ma io pongo essa da me stesso) (potere ho di porre essa). (potere ho di prendere essa).

48 Nel primo distico il verbo tòqhmi è all’indicativo presente (tòqhmi); nel terzo distico invece è all’infinito aoristo (qe_nai).

49 Nel primo distico il verbo lambaénw è al congiuntivo aoristo (laébw); nel terzo distico invece è all’infinito aoristo (labe_n).

Le due espressioni presentano un preciso parallelismo: A B ou\deìv a\ll’e\gwè 50

ai"rei tòqhmi au\thèn au\thèn a\p’e\mou%, a\p’e\mautou%.

Le due espressioni, oltre che essere parallele, presentano anche elementi identici: specificamente il pronome au\thén e la particella a\poé, seguita da un pronome, di prima persona al genitivo.

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atteggiamento di profonda libertà. Ciò concorda con il testo di 18,11 dove Gesù si oppone all’intervento di Pietro con la spada, mediante le parole: «Il calice che il Padre mi ha dato, forse che non lo beva?». Gesù non può rifiutare il calice, proprio perché è il Padre che glielo ha dato. Il testo considerato rivela che non sono stati gli uomini a determinare la sua morte: egli invece, come buon pastore, ha posto la sua vita in piena libertà. Il testo però sottolinea che Gesù non “pose” semplicemente la sua vita; Egli la pose invece nella prospettiva di prenderla di nuovo. Il Padre ha dato al suo figlio un comando, quello di porre la vita per poi riprenderla di nuovo. Gesù ha accolto ed ha fatto suo il comando del Padre ed ha posto la propria vita; ha dato la sua vita. L’ha ripresa di nuovo e, di conseguenza, per il fatto che ha osservato i suoi comandamenti, il Padre lo ama. 2.2. Il verbo kataskhénwson Il contenuto del comando rivolto da Dio alla Sapienza, nel testo del Siracide è duplice: porre la propria tenda (kataskhénwson) ed essere ereditata (kataklhronomhéqhti). La seconda azione non interessa: nel vangelo di Giovanni è assente non solo il verbo composto kataklhronomeéw, ma anche il verbo semplice klhronomeéw. Ci riferiamo perciò soltanto all’imperativo kataskhénwson. Il verbo kataskhnoéw è un verbo composto, da kataé più skhnoéw. Il verbo skhnoéw si ricollega poi al termine skh%nov, che richiama il termine skhnhé. Il termine skh%nov nella Bibbia greca si legge soltanto in Sap 9,15; skhnhé nei LXX si legge circa 500 volte, traducendo più frequentemente i termini leho) e }fK:$im, nel NT si legge venti volte. Il verbo composto kataskhnoéw nel NT si legge solo quattro volte51 Nei LXX il verbo composto ricorre con una certa relativa frequenza: circa sessantasei volte, traducendo il verbo }akf$ nelle sue varie forme. Il verbo semplice skhnoéw nel NT si legge solo 51

Cfr. Mt 13,32; Mc 4,32; Lc 13,19; At 2,26. Nei tre testi dei vangeli sinottici, il verbo

kataskhnoéw è usato nel contesto della parabola del granello di senapa, di cui si dice che divenne un grande albero e gli uccelli del cielo poterono dimorare (kataskhnou%n) sui suoi rami. In At 2,26 il verbo kataskhnoéw è usato nel contesto della citazione del Salmo 15,9 (LXX): «pure la mia carne dimorerà sulla speranza (kataskhnwései e\p’elpòdi)».

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cinque volte52. Nei LXX il verbo semplice è molto raro: si legge appena cinque volte, traducendo quattro volte il verbo }akf$ e una volta il verbo lahf). Nel vangelo di Giovanni si legge soltanto il verbo semplice skhnoéw. Abbiamo perciò un solo testo nel vangelo di Giovanni con cui stabilire un confronto; questo però sembra essere di fondamentale importanza. Stabiliamo perciò, un confronto con Gv 1,14. A riguardo del verbo e\skhénwsen in Gv 1,14, gli interpreti rimandano talora alla Sapienza, quale è descritta appunto in Sir 24,8. Bauer53 pensa appunto alla Sapienza. Brown54 cita Sir 24,8 e osserva che la Parola agisce al modo della Sapienza. Secondo Schnackenburg55 è evidente l’affinità tra Giovanni e Sir 24,8. Alla Sapienza rimandano anche Barrett56, Holzmann57, Kysar58, Schneider59, Schnelle60, benché non escludono un richiamo alla tenda del deserto. Alla tenda dell’AT invece rimandano altri autori quali Ellis61, Galopin62, Pereira63, Vosté64. Tillmann65 stabilisce un paragone con 1Re 8,10, dove si legge che anticamente la gloria di Dio riempì la tenda e

52 53 54 55 56 57 58 59 60

Oltre Gv 1,14, si legge in Ap 7,15; 12,12; 13,6; 21,3.

Cfr. W. Bauer, Das Johannesevangelium, Tübingen 19333, 24. Cfr. R.E. Brown, Giovanni, trad. it., Assisi 19793, 46.

Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, I, trad. it., Brescia 1973, 340. Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, London 19853, 192. Cfr. H.J. Holtzmann, Evangelium des Johannes, Tübingen 19083, 43.

Cfr R. Kysar, John, Minneapolis (Minnesota) 1986, 32.

Cfr. J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, Berlin 19782, 61.

Cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, Leipzig 1998, 40.

Cfr. F.F. Ellis, The Genius of John, Collegeville - Minnesota 19842, 25: rimanda ad Es 40,34-38. 61

Cfr. P.M. Galopin, Le Verbe témoin du Pére, Jn 1,1-18, in BiViChr 53 (1963) 16-34: 29. 62

63 Cfr. R. Pereira, And the Word Made Fleish and Dwelt Among Us, in Bible Bhashyam 8 (1982) 181-188: 184.

64 Cfr I.M. Vosté, De prologo S. Johannis et logo, Romae 1925, 31: rimanda ad Es 33,8 e 40,31-33. 65

Cfr F. Tillmann, Das Johannesevangelium, Bonn 19314, 61.

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il tempio. Bernard66 cita il Targum di Lev 26,12: «Io porrò la gloria della mia Shekinah tra voi e la mia parola sarà con voi»67. Alla gloria divina nel tabernacolo pensano anche Durand-Huby68, che richiamano anche il nome “Emmanuele”. Feuillet69 spiega che il verbo e\skhénwsen richiama qui non il carattere transitorio della dimora del Logos in terra, ma il tema veterotestamentario di Dio che abita con il suo popolo. Médebielle70 ritiene che l’allusione più probabile sia al tabernacolo veterotestamentario, a cui successe il tempio dove Dio abitava in mezzo al suo popolo71. Confrontando il testo di Sir 24,8 con Gv 1,1472, notiamo quattro differenze: due riguardano il verbo, una riguarda la struttura e una riguarda la costruzione con e\n e il dativo. Dal punto di vista del verbo, le differenze sono: anzitutto il passaggio dal verbo composto kataskhnoéw al verbo semplice skhnoéw; inoltre, il passaggio da una forma di imperativo aoristo (kataskhénwson) ad una forma di indicativo aoristo (e\skhénwsen). L’imperativo indica un comando; l’indicativo indica invece l’attuazione di un fatto. Si direbbe che in Giovanni si ha l’esecuzione di quello che in Siracide è stato comandato. La differenza strutturale, riguarda un’inversione: in Siracide abbiamo prima il complemento di stato in luogo (e\n Iakwb), e poi il verbo (kataskhénwson). In Giovanni invece, abbiamo prima il verbo (e\skhénwsen) e poi il complemento (e\n h|m_n). Per quanto riguarda infine il complemento con e\n e il dativo, notiamo il passaggio da “Giacobbe (Iakwb)” a “noi (h|m_n)”. L’autore del quarto vangelo amplia la prospettiva: 66 Cfr J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, I, Edinburgh 1928, 20. 67 68 69

Cfr L. Morris, The Gospel according to John, Grand Rapids 1971, 104.

Cfr J. Durand - J. Huby, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Roma 1966, 92-93. Cfr A. Feuillet, Le prologue du quatrième évangile, Paris 1968, 100.

Cfr A. Médebielle, Et verbum Caro factum est (Joh 1,14), in VD 2 (1922) 137144:138-139. 70

71

Médebielle cita Es 25,8; Lv 26,11; 2Sam 7,6.

Possiamo stabilire tra i due testi il seguente confronto: Sir 24,8 Gv 1,14 72

e\n Iakwb e\skhénwsen kataskhénwson e\n h|m_n

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non si tratta soltanto del popolo di Israele, ma di tutti coloro che credono “nel suo nome”, cioè nel nome di Gesù (cfr. v 12)73. 2.3. Conclusione Possiamo allora concludere che l’autore del quarto vangelo riprende fondamentalmente due elementi dal testo di Sir 24,8: il verbo e\nteéllomai e il verbo kataskhnoéw. Introduce però delle differenze: accanto al verbo e\nteéllomai, usa anche il sostantivo e\ntolhé; inoltre non usa il verbo composto kataskhnoéw bensì il verbo semplice skhnoéw. Accanto a queste differenze, nel confronto globale tra Sir 24,8 e Giovanni, ne troviamo anche altre: il quarto evangelista non parla di “creatore di tutte le cose” bensì di “Padre”; inoltre l’evangelista non riprende il verbo katapauéw, la menzione di Giacobbe e di Israele, e il verbo kataklhronomeéw. Lo stesso verbo skhnoéw nel vangelo non è più usato all’imperativo, come nel testo del Siracide, bensì all’indicativo: non si esprime più così un comando, bensì si descrive un evento. Il verbo skhnoéw rivela una particolare importanza, ma anche un uso differente rispetto al vangelo, nei quattro testi di Apocalisse: 7,15; 12,12; 13,6; 21,3. In 7.15 il soggetto è “Colui che siede sul trono”, che “dimorerà (skhnwései) su di loro (e\p’au\touév)”, cioè su quelli che vengono dalla grande tribolazione ed hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello: Dio li copre con la sua ombra. In 12,12 l’autore rivolge una esortazione a gioire sia ai cieli come anche a quelli che abitano in essi (oi| e\n au\to_v skhnou%ntev). In 13,6 l’autore descrive l’attività blasfema della bestia: essa bestemmia il nome di Dio e “la sua tenda (thèn skhnhèn au\tou%)”: in maniera apposizionale l’autore aggiunge: «coloro che dimorano in cielo (touèv e\n t§% ou\ran§% skhnou%ntav)». I santi dimorano in cielo e globalmente costituiscono la dimora di Dio. Infine in 21,3 l’autore presenta la Gerusalemme celeste che scende dal cielo come la “dimora (h| skhnhé)” di Dio con gli uomini; aggiunge subito dopo l’espressione «e dimorerà con essi (kaì skhnwései met’au\tw%n)». I quattro testi si relazionano, tematicamente, secondo uno schema concentrico. Il primo e quarto testo, 7,15 e 21,3, riguardano Dio, che “dimora” sui santi (7,15) o con essi (21,3); il secondo e il terzo testo, 12,12 e 13,6, riguardano invece i santi che dimorano nel cielo. L’Apocalisse presenta uno sviluppo più complesso. Il testo più vicino a Sir 24,8 sembra essere 21,3: la Sapienza che dimora tra gli uomini è identificata con la Gerusalemme celeste o, meglio, è Dio stesso che, nella città, dimorerà con gli uomini. Nel vangelo di Giovanni invece la Sapienza che pone la sua tenda è identificata con la Parola che era in principio (1,1). 73

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La differenza maggiore tra i due testi però consiste nella maniera come l’autore riprende i due elementi: il verbo e\nteéllomai e il verbo kataskhnoéw. Nel testo del Siracide essi sono strettamente relazionati: il comando che la Sapienza riceve (e\nteéllomai) è appunto quello di porre la propria dimora (kataskhnoéw) in Giacobbe: l’azione espressa con il verbo kataskhnoéw è l’oggetto del comando espresso con il verbo e\nteéllomai. Il quarto evangelista invece smembra questi elementi. Egli parla del loégov che pose la sua dimora in noi (e\skhénwsen e\n h|m_n) (1,14), non dice però che questo era il comando che aveva ricevuto da Dio. In senso più largo, alla luce di tutto il vangelo, si può dire anche che pure il “dimorare in noi” era il comando che il loégov ricevette dal Padre: non avrebbe potuto infatti, divenuto “carne (saérx)” dare la sua vita se non avesse prima “posto la sua dimora” in noi. L’autore però esplicitamente non lo indica. Non possiamo però dimenticare che, nell’espressione di 1,14: «E la Parola divenne carne e pose la sua dimora in mezzo a noi», oltre che la prospettiva di Sir 24,8, sembrano confluire anche altre tradizioni, soprattutto quella di Dio che, con la sua tenda, dimora in mezzo al suo popolo. Quest’ultimo aspetto però non rientrava direttamente nel nostro studio. Quanto poi al comando che Gesù ha ricevuto dal Padre, in 14,31 questo sembra essere andare incontro al “principe di questo mondo”; in 12,49, in maniera più generica, è dire e parlare (tò ei"pw kaì tò lalhésw) così come il Padre ha comandato. Il comando specifico però sembra essere quello delineato in 10,17-18: porre la vita per poi riprenderla di nuovo, la cui osservanza ha permesso a Gesù di rimanere (tethérhka) nell’amore del Padre (15,10)74. 3. Sir 24,17 e il vangelo di Giovanni Un ultimo aspetto che prendiamo in considerazione in questo studio è la metafora della vite, introdotta nel testo del Siracide al v. 17 e nel vangelo di Giovanni in 15,1-8. La metafora giovannea della vite e dei tralci però può essere collocata in uno sfondo biblico veterotestamentario più ampio. 74 Abbiamo già notato la relazione tra l’aoristo e"labon di 10,18 e il perfetto tethérhka di 15,10.

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3.1. Posizioni degli interpreti Gli interpreti si preoccupano spesso di definire questo sfondo in cui il testo può collocarsi. Barrett75 così cita Is 5,1-7; 27,2-4; Ger 2,21; 12,10-12; Ez 15,1-8; 19,10-14; Sal 79 (80), 9-16. Osserva però pure che nel tardo giudaismo la metafora fu riferita anche alla Sapienza e al Messia; per la Sapienza indica appunto Sir 24,17. Bauer76 rimanda a Ger 2,21, Ez 15,1-6; 19,10-14; Sal 79 (80),9-16. Bernard77 riferisce i seguenti testi: Sal 79 (80), 8-13; Os 10,1; Is 5,1; Ger 2,21; Ez 15,2; 19,10. Osserva che in tutti questi la metafora della vite è usata sempre per indicare Israele degenere. Borig78 cita pure diversi testi, quali il Sal 79 (80),9-10 e i vv. 15.17.19 di Ezechiele; pure lui osserva79 che l’immagine della vite o della vigna è usata, nell’AT, sempre in senso negativo: Israele, per la mancanza di frutto, ha deluso Jahvé. Questo interprete però non nega80 che un impulso per l’applicazione dell’immagine a Gesù possa essere venuto da Sir 24. Secondo Bultmann81 l’immagine della vite si ricollegherebbe al mito dell’Albero della vita; Dodd82 richiama il Sal 79 (80), ma in un altro punto della sua opera richiama anche Is 5,1-7. Gli stessi testi, più o meno, sono citati anche da Ellis83, Hoskyns-Davey84, Fabris85. Leon-Dufour86 osserva 75 76 77

Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 472. Cfr. W. Bauer, Das Johannesevangelium, cit., 189.

Cfr. J.H. Bernard, The Gospel according to St. John, cit., 447.

Cfr R. Borig, Der wahre Wienstock. Untersuchungen zu Jo 15,1-10, München 1967, 95-96. 78

79 80

Cfr. ibid., 97.

Cfr. ibid., 106.

Cfr. Bultmann R., Das Evangelium des Johannes, Göttingen 197820 (rist. 1985), 407 nota 6. 81

82 83 84 85

Cfr C.H. Dodd, L’interpretazione del quarto vangelo, trad. it., Brescia 1974, 502-503. Cfr F.F. Ellis, The Genius of John, cit., 227.

Cfr. E.C. Hoskyns - F.N. Davey, The Fourth Gospel, London 19472, 474. Cfr. R. Fabris, Giovanni, Roma 1992, 815.

Cfr X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, trad. it., Cinisello Balsamo 1995, 203. 86

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che nei LXX si trovano sia il termine a"mpelov (ceppo di vigna)87 che il termine a\mpelw%n (piantagione di viti)88. Scegliendo a"mpelov, l’evangelista volle conservare la singolarità di Gesù, pur implicando la pluralità dei tralci in lui. Moloney89 osserva che l’immagine è usata per parlare di Israele, sia in senso positivo90 che in senso negativo91. Per il simbolismo della vigna nel giudaismo, Morris92 rimanda ai testi citati da Strack-Billerbeck93. Tragan94 poi nota che l’immagine della vite non si trova a Qumran, ma negli scritti apocrifi95. Zevini96 infine osserva che, nella maggioranza dei casi, la metafora della vigna o della vite evidenzia il contrasto tra l’amore di Dio e l’infedeltà di Israele. Questa rassegna delle posizioni degli interpreti mostra come lo sfondo in cui può essere collocata l’immagine giovannea è molto ampio; non si può tuttavia negare un riferimento anche al cap. 24 del Siracide, in particolare al v. 17. 3.2. I testi del Siracide e di Giovanni Leggiamo in Sir 24,17 le seguenti parole: e\gwè w|v a"mpelov e\blaésthsa caérin (Io, come una vite, ho prodotto grazia). Leggiamo ancora subito dopo: kaì taè a"nqh mou kaérpov doéxhv kaì plouétou (E i miei fiori [sono] frutto di gloria e di ricchezza). La Sapienza si paragona (w|v) ad una vite 87 88 89 90 91 92

Cfr. Os 10,1; Ger 2,21; Ez 17,6-10; Sal 79 (80),7-9. Cfr. Is 5,1.3-4.5.7; 27,2; Ct 1,4.

Cfr. F.J. Moloney, The Gospel of John, Collegeville (Minnesota) 1998, 422 nota 1.

Cfr. Is 27,2-6; Ez 19,10-11; Sal 79 (80),18-19;Qo 24,27; 2Bar 39,7. Cfr. Ger 2,21; Ez 19,12-14.

Cfr L. Morris, The Gospel according to John, cit., 668.

Cfr. H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum neuen Testament aus Talmud und Midrasch, II, München 19695, 563. 93

94 Cfr. P.R. Tragan, Jn 15,1-2. Testimoni d’una eclesiologia antiga: reflexions exegètiques i teologiques, in RCatalT 14 (1989) 223-240: 231. 95

Tragan cita 4Esd 3,22; 7,21-22.

Cfr. G. Zevini, La vita di comunione tra Gesù e i suoi: la vera vite e i tralci, in Il mistero e il ministero della Koinonia, in PSV 31 (1995) 93-109: 100. 96

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(a"mpelov), ma non semplicemente ad una vite, bensì ad una vite che produce e fa germogliare (e\blaésthsa) fiori e frutti. L’espressione del Siracide comprende due parti, benché non perfettamente parallele97. Nella prima parte troviamo un soggetto (e\gwé), un’espressione comparativa (w|v a"mpelov), e il verbo (e\blaésthsa), seguito da un oggetto (caérin); nella seconda parte abbiamo un soggetto (kaì taè a"nqh mou), seguito da un predicato (kaérpov) che regge due genitivi, rispettivamente doéxhv (di gloria) e plouétou (di ricchezza). Nella prima parte la Sapienza paragona se stessa ad una vite che fiorisce grazia; nella seconda parte la Sapienza paragona i suoi fiori a frutti di gloria e di ricchezza. In Gv 15,1-8 leggiamo la metafora della vite e del tralci, possiamo distinguere due parti: i vv. 1-5 e i vv. 5-8. Il v. 5, che si trova al centro, può essere unito sia ai versi che precedono sia anche a quelli che seguono. Nel v. 1, Gesù definisce (e\gwé ei\mi) se stesso come “la vite vera (h| a"mpelov h| a\lhqinhé)”. Nello stesso v. 1 definisce ancora il Padre come “l’agricoltore (o| gewrgoév e\stin)”. Nel v. 5 poi definisce, ancora una volta, se stesso (e\gwé ei\mi) come “la vite (h| a"mpelov)”, omettendo però stavolta l’attributo “vera”; inoltre definisce i discepoli come “i tralci (u|me_v taè klhémata)”98. Nel v. 1 Gesù si relaziona al Padre che definisce “l’agricoltore (o| gewrgoév e\stin)”; nel v. 5 si relaziona ai discepoli che definisce “i tralci (taè klhémata)”. Tra il v. 1 e il v. 5 leggiamo i vv. 2-4. In questi versi Gesù si esprime in maniera oggettiva. Nel v. 2 Egli considera il caso sia del tralcio che non porta frutto (mhè feéron karpoén), sia anche di quello che porta frutto (pa%n toè karpoèn feéron). La sorte è diversa: il Padre, come agricoltore, recide (ai"rei) il tralcio che non porta frutto; mentre pota (kaqaòrei) il tralcio che porta frutto, perché porti maggiore frutto (karpoèn pleòona). Nel v. 3 Gesù si rivolge ai discepoli e dichiara che essi sono puri (u|me_v kaqaroò e\ste) a causa della parola (diaè toèn loégon) che Egli ha detto (o£n lelaélhka) a loro (u|m_n).Nel v. 4a Gesù si 97 Le due parti sono: e\gwè kaì taè a"nqh mou w|v a"mpelov kaérpov e\blaésthsa caérin doéxhv kaì plouétou 98

I vv. 1 e 5 possono costituire una inclusione letteraria: v. 1 e\gwé ei\mi h| a"mpelov h| a\lhqinhé v. 5. e\gwé ei\mi h| a"mpelov.

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rivolge ancora ai discepoli, rivolgendo loro il comando a rimanere in Lui «rimanete (meònate) in me (e\n e\moò) e io in voi (e\n u|m_n)». Nel v. 4b, mediante le particelle comparative di uguaglianza “come (kaqwév)” e “così (ou$twv)”, Gesù stabilisce una analogia tra il tralcio e i discepoli: il tralcio non può portare frutto (ou\ duénatai karpoèn feérein) da se stesso se non rimane (e\aèn mhè meén+) nella vite; analogamente i discepoli non possono portare frutto (ou\deè u|me_v) se non rimangono in Gesù (e\aèn mhè e\n e\moì meénhte). Il v. 5a, come abbiamo sopra già notato, può concludere la prima parte, ma può anche aprire la seconda; Gesù infatti si definisce ancora una volta come “la vite”. Dopo il v. 5a, seguono tre brevi unità, rispettivamente nei vv. 5b.6.7, riguardanti, la prima (v. 5b) e la terza (v. 7), direttamente i discepoli; la seconda, v. 6, riguardante invece, in maniera più oggettiva, colui che non rimane in Gesù. La seconda e terza unità sono introdotte mediante la stessa particella condizionale e\aén, e presentano analogo inizio, rispettivamente negativo e positivo99. La prima unità (v. 5b) si ricollega ai vv. 4a.b100. In entrambe le espressioni si sottolinea la necessità di restare in Gesù. Nella prima espressione si sottolinea l’impossibilità di portare frutto se non si rimane nella vite, nella seconda invece si sottolinea la conseguenza positiva per chi rimane in Gesù. La seconda unità (v. 6) descrive le conseguenze negative per chi non rimane in Gesù e, di conseguenza, non porta frutto. Esso, come il tralcio, sarà gettato fuori (e\blhéqh e"xw), con quattro ulteriori conseguenze descritte in maniera decisa nei verbi seguenti101. La terza unità (v. 7) considera le 99

100

Cfr. le seguenti espressioni: v. 6. e\anè mhé tiv meén+ e\n e\moì v. 7. e\anè meònhte e\n e\moò

Possiamo infatti stabilire la seguente relazione in parallelismo alternato: v 4a. meònate e\n e\moì ka\gwè e\n u!m_n v 4b. kaqwèv toè klh%ma ou\ duénatai karpoèn feérein a\f’e|autou% e\an è m+è men+ e\n t+% a\mpeél§, ou$twv ou\deè u|me_v e\an è mhè e\n e\moì meénhte v 5b. o| meénwn e\n e\moì ka\gwè e\n au\t§% v 5c. ou/tov feérei karpoèn poluén o$ti cwrìv e\mou% ou\ duénasqe poie_n ou\deén

101

In maniera concentrica abbiamo il seguente sviluppo:

e\xhraénqh (si seccò),

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conseguenze di chi invece rimane in Gesù. Notiamo un rapporto bilaterale determinato dalla seguente espressione kaì taè r|hm é ataé mou e\n u|m_n meòn+ (e le mie parole in voi rimangono). La conseguenza è che si realizzerà (genhésetai u|m_n) per i discepoli tutto ciò (o£ e\anè qeélhte) che essi chiederanno (ai\thésasqe). I discepoli sono esortati a chiedere e possono avere fiducia a chiedere ciò che vogliono, perché otterranno. Possiamo concludere osservando che, mentre nei vv. 2-4 l’accento stava sulla necessità di portare frutto a condizione che si rimane in Cristo come il tralcio nella vite, nei vv. 5b-7 l’accento sta sulla necessità di restare in Gesù. Il senso globale è chiaro: i discepoli debbono portare frutto; ma per portare frutto, debbono necessariamente restare in Gesù. Si sottolineano così due necessità: quella di portare frutto e quella di restare in Gesù per potere portare frutto. Il v. 8 è conclusivo. Esso menziona ancora il Padre, di cui indica in che cosa consiste la Sua glorificazione: «in questo è stato glorificato (e\doxaésqh) il Padre mio». Il v. 8 stabilisce una inclusione letteraria con il v. 1, sia per la menzione del Padre, non più evocato nel contesto intermedio, sia anche per la menzione del frutto (karpoén)102. 3.3. Confronto tra Sir 24,17 e Gv 15,1-8 Fermando per il momento la nostra attenzione su Sir 24,17, possiamo notare quattro elementi che suggeriscono una relazione con il vangelo di Giovanni; essi sono i termini a"mpelov, karpoév, caériv, doéxa. Altri termini, kaì sunaégousin (lo raccolgono), ei\v toè pu%r baéllousin (nel fuoco gettano), kaòetai (brucia) Il primo e quarto verbo sono al singolare passivo, il secondo e terzo al plurale attivo. Si può proporre pe la menzione del Padre la seguente relazione: v. 1. o| pathér mou, gewrgoév e\stin v. 8. e\n touét§ e\doxaésqh o| pathér mou Le due espressioni presentano anche uno schema concentrico: 102

o| pathér mou, gewrgoév e\stin e\n touét§ e\doxaésqh o| pathér mou.

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quali a"nqov e plouétov e anche il verbo blastaénw non si leggono mai nel vangelo. È possibile inoltre stabilire un confronto più ampio tra la prospettiva del Siracide e quella del vangelo. Per quanto riguarda il termine a"mpelov, possiamo notare una relazione tra Sir 24,17 e Gv 15,1.5103. Le somiglianze appaiono chiare; esse sono specificamente due: il pronome personale e\gwé e il termine a"mpelov (vite), relazionato, in una maniera o nell’altra, al soggetto pronominale e\gwé. Anche le differenze però sono pure evidenti. Anzitutto il termine a"mpelov è introdotto diversamente: nel testo del Siracide il soggetto e\gwé (la Sapienza) è semplicemente paragonato (w|v) ad una vite; nel testo di Giovanni Gesù si identifica invece (ei\mò) con la vite: l’identificazione è rafforzata mediante l’aggettivo h| a\lhqinhé (quella vera). Da questa differenza ne scaturisce un’altra fondamentale: mentre nel testo di Giovanni l’accento poggia sul termine a"mpelov, cioè sul fatto che Gesù è la vite vera, nel testo del Siracide invece poggia sul verbo e\blaésthsa, ma soprattutto sull’oggetto caérin: poggia cioè sul fatto che la Sapienza ha fruttificato “grazia (caérin)”. Pure il termine karpoév è comune ai due testi. In Siracide si legge nell’espressione kaì taè a"nqh mou kaérpov doéxhv kaì plouétou (i miei fiori [sono] frutto di gloria e ricchezza). La somiglianza, oltre che quella letteraria, nell’uso cioè dello stesso termine, è anche nella prospettiva: sia la Sapienza “come vite”, sia Gesù “vite vera” portano un frutto. Le differenze però non mancano. Ne indichiamo specificamente tre: anzitutto nel Siracide la Sapienza produce direttamente un frutto, in Giovanni invece Gesù non produce direttamente il frutto, ma soltanto indirettamente: lo producono cioè i tralci, i discepoli, che rimangono radicati in Lui; inoltre in Giovanni si parla direttamente di “frutto” che i tralci debbono portare; nel Siracide non si parla direttamente di “frutto”, ma dei fiori (taè a"nqh), caratterizzati come frutto; infine in Giovanni “il frutto (o| karpoév)” è Possiamo confrontare i due testi: Sir 24,17 Gv 15,1-8 103

e\gwè e\gwé w|v a"mpelov ei\mi e\blaésthsa h| a"mpelov caérin h| a\lhqinhé

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menzionato in maniera diretta e assoluta, senza ulteriore specificazione, per cui il testo, almeno esplicitamente, non specifica cosa sia questo frutto, nel testo del Siracide invece si specifica che si tratta di “frutti di grazia e di ricchezza”. Mentre in Giovanni l’accento sta sul fatto stesso di portare frutto, nel testo del Siracide l’accento sta invece sull’indole del frutto che bisogna portare: non un frutto qualsiasi, ma un frutto di grazia e di ricchezza. Il termine caériv appartiene, assieme a plouétov (ricchezza), al tipo di frutti che la Sapienza deve portare. Esso non si legge nel testo di Gv 15,1-8 ma non è assente nel resto del vangelo. Forse possiamo capire il motivo: la caériv, che il testo del Siracide riferisce, come frutto, alla Sapienza, non può essere il frutto che i discepoli, i tralci, debbono portare. Essa infatti è una realtà che, altrove, è riferita direttamente a Gesù104. Secondo il testo del Siracide, la caériv è il frutto che la Sapienza produce, secondo i tre testi di Giovanni sopra citati la caériv invece si è manifestata attraverso Gesù Cristo. Di questa caériv anzitutto assieme alla “verità (a\lhéqeia)” lui è pieno (plhérhv) (1,14); noi l’abbiamo ricevuta (e\labomené) dalla sua pienezza (e\k tou% plhrwématov au\tou%) (1,16); attraverso di Lui si è realizzata (e\geéneto) (1,17). La relazione tra Gesù Cristo e la Sapienza nell’aspetto della caériv è diretta. 104 Nel vangelo di Giovanni il termine caériv si legge in tre testi particolari, in 1,14.16.17. In 1,14 esso è usato in relazione al loégov divenuto saérx, che si è manifestato «pieno (plhérhv) di grazia (caéritov) e di verità (kaì a\lhqeòav)». In 1,16 inoltre leggiamo l’espressione e\k tou% plhrwématov au\tou% h|me_v paéntev e\laébomen kaì caérin a\ntì caéritov (dalla sua pienezza [cioè dalla pienezza del loégov divenuto saérx] abbiamo ricevuto grazia su grazia). Nel seguente v. 17 infine l’evangelista stabilisce una relazione tra la legge (o| noémov) e la grazia e la verità (h| caériv kaì h| a\lhéqeia). Prescindiamo dall’indole di tale relazione; ci limitiamo soltanto a stabilirla letterariamente e strutturalmente; possiamo notare il seguente parallelismo: o| noémov h| caériv kaì h| a\lhéqeia

diaè Mwu=seéwv diaè I\ hsou% Cristou% e\doéqh e\geéneto

Al nostro scopo è sufficiente osservare che, a differenza della legge la cui promulgazione (e\doéqh) si riconduce a Mosé (diaè Mwu=seéwv), la manifestazione (e\geéneto) della grazia e della verità si riconducono a Gesù Cristo (diaè I\ hsou% Cristou%). Possiamo stabilire su questo punto una relazione più ravvicinata e più stretta tra il testo di Sir 24,17 e i tre testi di Giovanni sopra citati: dal punto di vista della caériv la prospettiva del Siracide e di Giovanni infatti sembra coincidere.

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Il quarto elemento che prendiamo in considerazione è il termine

doéxa. In Sir 24,17, a riguardo di se stessa, la Sapienza dice che i suoi fiori sono frutto di gloria e di ricchezza (kaì taè a"nqh mou kaérpov doéxhv kaì plouétou). Troviamo, in questo testo, accostati due termini: “gloria (doéxhv) e “ricchezza (plouétou)”. Prescindendo dal termine plouétou, che non si legge mai nel vangelo di Giovanni, il termine doéxa invece appare più frequentemente nel vangelo. Il verbo doxaézw si legge ventidue volte; il sostantivo doéxa invece si legge venti volte. Non interessa sviluppare in

questo studio il tema della glorificazione o della gloria di Gesù. Interessa soltanto mostrare come, benché sia possibile il riferimento a diversi altri testi dell’AT, tuttavia non è esclusa l’allusione al testo del Siracide. In questo senso ci limitiamo a richiamare soltanto tre testi che, in qualche modo, possono ricondursi ad esso. Anzitutto Gv 15,8, dove Gesù dichiara che, nel fatto che i discepoli portano molto frutto (poluèn karpoèn feérhte) è stato glorificato (e\doxaésqh) il Padre. In questo modo Giovanni preciserebbe che “il frutto di gloria” della Sapienza si concretizza nella glorificazione del Padre. Inoltre 1,14, dove, del loégov divenuto saérx, si dice che “abbiamo visto la sua gloria (thèn doéxan au\tou%)”. Questa “gloria” è quella dell’Unigenito dal Padre, pieno di “grazia (caériv)” e di verità105. Infine Gv 2,11, dove l’evangelista, concludendo l’episodio di Cana, spiega che, operando quel segno, Gesù manifestò la sua gloria (e\faneérwsen thèn doéxan au\tou%). La manifestazione della gloria attraverso il segno può ricondursi, in qualche maniera, anche al fatto che i frutti della Sapienza sono frutto di “gloria” e di “ricchezza”. Confrontando globalmente i due testi, Sir 24,17 e Gv 15,1-8, emergono, come abbiamo notato, delle somiglianze e differenze. La somiglianza consiste soprattutto nel fatto che sia la Sapienza che Gesù, in una maniera o nell’altra si relazionano all’immagine di una vite, l’una paragonandosi e l’altro identificandosi. Inoltre entrambi sono relazionati a dei frutti da portare: la relazione della Sapienza è diretta, i suoi fiori infatti sono frutti di gloria e ricchezza; La relazione di Gesù invece è indiretta: non è lui a portare direttamente i frutti, bensì i discepoli che, come i tralci, portano frutti, per il fatto che sono radicati nella vite. 105 Possiamo notare a riguardo l’accostamento, in 1,14, dei due termini doéxan e caériv, quale appare, in ordine inverso, anche in Sir 24,17.

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Pure le differenze sono importanti. Prescindendo dal fatto sopra già indicato che la Sapienza si paragona alla vite, mentre Gesù si identifica con essa, la differenza maggiore sembra consistere nel fatto che la metafora giovannea prevede i tralci (taè klhémata) che invece sono assenti in Sir 24,17106. Sembra che nel testo giovanneo il problema sia quello dei discepoli che sono chiamati a portare frutto, ma non possono portarlo se non rimangono radicati in Gesù, appunto come i tralci alla vite. Emerge allora una domanda: da dove l’evangelista fece derivare l’immagine dei tralci107? La menzione dei tralci suggerisce che l’evangelista, riferendo ed applicando a Gesù la metafora della vite, oltre il testo di Sir 24,17, abbia presenti anche altri testi che gli permettono di riprendere a riferire ai discepoli anche la metafora dei tralci (taè klhémata). 3.4. La metafora della vite nell’AT In relazione all’AT108, possiamo citare diversi testi che, in qualche modo, possono avere concorso a formare la metafora giovannea. Ci rife106 Leggiamo infatti nel v. 16: «io, come terebinto, ho stesso i miei rami (klaédouv mou) e i rami miei (oi| klaédoi mou) (sono) rami (klaédoi) di gloria (doéxhv) e di grazia (kaì caéritov)». Possiamo però notare anzitutto che cambia l’immagine: non si parla di “tralci (taè klhémata)”, ma di “rami (klaédoi)”. Inoltre non abbiamo ancora la metafora della vite,

bensì quella del terebinto.

107 Nel contesto di Sir 24, alla Sapienza è riferita non soltanto l’immagine della vite. Nel v. 13, Essa si paragona, nella sua crescita, ad un cedro del Libano e ad un cipresso sul monte Hermon. Sia il cedro del Libano, sia i cipressi sul monte Hermon, evocano l’aspetto della grandezza e anche della bellezza. Nel v. 14, la Sapienza si paragona invece ad una palma in Engaddi. Altri paragoni poi sono: all’ulivo maestoso della pianura, al cinnamomo, alla mirra scelta. Nel v. 16, si paragona ad un teberinto e i suoi rami sono rami di grazia.

108 Nel NT leggiamo sia il termine “vite (a"mpelov)” (sei volte oltre gli usi del vangelo di Giovanni), sia anche il termine “vigna (a\mpelwén)”, che, eccetto che in 1Cor 9,7, si legge esclusivamente nei vangeli sinottici. Nel NT la metafora della vite (a"mpelov) non sembra però avere particolare importanza come l’ha invece nel cap. 15 del vangelo di Giovanni. Nei vangeli sinottici il termine a"mpelov si legge soltanto tre volte, nei tre testi paralleli di Mt 26,29; Mc 14,25; Lc 22,18, dove Gesù, nel contesto della cena, dichiara che non berrà più del frutto della vite (e\k tou% genhématov th%v a\mpeélou), finchè non ne berrà uno nuovo nel Regno di Dio. In Gc 3,12 l’autore ricorda che non può una vite (a"mpelov) fare fichi

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riamo specificamente al Sal 79 (80),9.15; Os 10,1; Gl 2,22; Zc 8,12; Is 5,2; Ger 2,21; 8,13; Ez 17,6.7.8109. Nel Sal 79 (80),9, il salmista ricorda a Dio di avere egli una volta divelto una vite (a"mpelov) dall’Egitto, per trapiantarla nella terra dei popoli che Egli stesso aveva cacciato. In questo terreno la vite ha affondato le sue radici ed ha raggiunto una massima altezza fino al punto da coprire le montagne ed estendersi fin sopra i più alti cedri. I suoi tralci (klhém é ata) si estendevano fino al mare e i suoi germogli arrivano fino al fiume, cioè l’Eufrate. In questo Salmo, la vite indica metaforicamente il popolo d’Israele. Nel v. 15, il salmista chiede a Dio di visitare ancora questa vite divenuta ormai preda dell’animale selvatico. In Os 10,1 il profeta descrive, mediante la metafora della vite, la colpa di infedeltà d’Israele. Leggiamo infatti l’espressione: «vite (a"mpelov) rigogliosa (eu\klhmatou%sa) (era) Israele, il suo frutto (o| karpoèv au\th%v) abbondante. Secondo l’abbondanza dei suoi frutti (tw%n karpw%n) moltiplicava gli altari». La denunzia del profeta è amara. Egli paragona Israele a una vite rigogliosa dai frutti abbondanti. Paradossalmente però la sua idolatria era direttamente proporzionata all’abbondanza dei suoi frutti. Non mancano le somiglianze tra questo testo e il nostro di Giovanni. Esse, in particolare, sono due: il termine a"mpelov e il termine karpoév, usato quest’ultimo più di una volta nel contesto. Tuttavia le differenze sembrano maggiori delle somiglianze. Anzitutto il termine a"mpelov è riferito ad Israele, in Giovanni (su%ka). Nell’Apocalisse poi il termine si legge due volte, in 14,18.19; nel v. 18 un angelo comanda a quello che aveva la falce di vendemmiare i grappoli della vite della terra; nel v. 19 è descritta l’esecuzione: l’angelo gettò la falce e vendemmiò la vite della terra. Più importanti, ma comunque distanti dal nostro di Giovanni, sono quei testi in cui si parla di una vigna (a\mpelwén). Il termine a\mpelwén, in Matteo, si legge cinque volte in relazione alla parabola dei servi chiamati ed inviati a tutte le ore per lavorare nella “vigna” del padrone (Mt 20,1.2.4.7.8). Si legge inoltre in Mt 21,28 nel contesto della parabola dei due figli. In tutti e tre i vangeli sinottici inoltre il termine si legge in relazione alla parabola dei cattivi vignaioli che non diedero i frutti al momento opportuno, anzi maltrattarono i servi e uccisero il figlio (Mt 21,28-41; Mc 12,1-9; Lc 20,9-16). In Lc 13,6 poi si parla di un fico che un padrone piantò nella sua vigna. 109 Inoltre possiamo citare anche Gen 40,9-10; Dt 32,32; Ct 2,13; 6,11; 7,9; 7,13; Ger 6,9. Non ci sembra però che la nostra metafora abbia con essi una relazione diretta. Forse possono avere costituito lo sfondo più ampio veterotestamentario. Ci limitiamo perciò soltanto ad indicarli, senza considerarli in maniera specifica.

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invece è riferito a Gesù, mentre ai discepoli è riferito il termine klh%ma. Un’altra differenza ancora sembra più decisiva: i frutti che Israele, secondo Os 10, ha portato, sono negativi; i frutti che i discepoli debbono portare, rimanendo in Gesù, sono invece positivi. In Zc 8,11, Dio, rivolgendosi al resto del suo popolo, dichiara che Egli non sarà più come era stato prima; annunzia in meglio cioè un cambiamento di atteggiamento. Gli effetti di tale mutamento sono descritti, nel v. 12, con diverse immagini. Nel TM è menzionato “un seme della pace”. Alla pace è legata la prosperità e il benessere che il profeta descrive con tre frasi: La vite produrrà il suo frutto (h| a"mpelov dwései toèn karpoèn au\th%v): La terra darà i suoi prodotti (kaì h| gh% dwései taè genhémata au\th%v); Il cielo darà la sua rugiada (kaì o| ou\ranoèv thèn droéson au\tou%). Queste tre frasi del testo di Zaccaria descrivono uno stato di benessere che Dio promette. Al nostro scopo però interessa soltanto la prima frase: «La vite darà il suo frutto (Hfy:riP }¢TiT }epeGah)110». Troviamo in questo testo due termini che caratterizzano la metafora giovannea della vite e dei tralci: a"mpelov e karpoév. Manca invece il termine klh%ma. Un testo più importante al nostro scopo potrebbe essere quello di Is 5,1-7, noto come “la parabola della vigna”. In essa il profeta caratterizza, appunto con l’immagine della vigna (a\mpelwén; tm: {ereK)111, in maniera polemica e in uno sfondo giudiziario, la situazione del popolo. Notiamo però che in tutto il contesto dei vv. 1-7 troviamo un solo elemento che può richiamare il testo di Giovanni: il termine a\mpelwén. Non si legge mai infatti né il termine klh%ma nè il termine karpoév.. Inoltre nel testo di Isaia si parla di (a\mpelwén – tm: {ereK) (vigna), mentre nel nostro testo si parla di a"mpelov (vite)112. 110 La versione greca traduce alla lettera: h| a"mpelov dwsei toèn karpoèn au\th%v (La vite darà il suo frutto). 111

Così nei vv 1.1.3.4.5.6.7, dove il termine greco è a\mpelwén che traduce il termine

{ereK. In Is 5,2 leggiamo invece il termine femminile a"mpelov (e\fuéteusa a"mpelon swrhék), che traduce il termine ebraico q"ro&.

112 A riguardo di questo testo di Isaia, possiamo tuttavia osservare che esso è importante anche per una sua particolare ripresa nel NT, nella parabola dei cattivi vignaioli (Mt 21,33-46; Mc 12,1-12; Lc 20,9-19). In questi testi evangelici però c’è un certo lieve spostamento tematico rispetto alla parabola originale di Isaia. Anzitutto leggiamo nella parabola evangelica il termine karpoév (Mt 21,34.34.41; Mc 12,2; Lc 20,10), assente nella parabola

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Il contesto di Ger 2,21 è un rimprovero accorato, ma affettuoso, che Dio, per mezzo del profeta rivolge al suo popolo dell’antico regno di Israele, in seguito alla sua infedeltà, che gli costò l’esilio in terra di Assiria.. Nel v. 14 dello stesso cap. 2, Dio, per mezzo del profeta, ricorda al popolo il suo peccato. Egli ha commesso due iniquità: ha abbandonato Lui, sorgente di acqua viva e si è scavato cisterne screpolate che non tengono acqua. Il senso delle immagini della sorgente e della cisterna è chiaro: Israele ha abbandonato il suo Signore, la sorgente che dona acqua, ed ha aderito agli idoli, la cisterna screpolata che non tiene quella che vi si versa. Nel v. 21 poi Israele è paragonato ad una vigna, di cui Dio stesso, o il profeta per lui, evoca la storia. Dio dichiara al suo popolo: «Io ti avevo piantato come vite generosa»113. Subito dopo Dio rivolge però una domanda di rimprovero: «Come ti sei cambiata in amarezza (ei\v pikròan)?». La vigna non ha portato il frutto che Dio si attendeva. Anche in questo testo troviamo due elementi, che possono, in qualche modo, richiamare il nostro testo di Giovanni: il termine a"mpelov e il termine karpofoérov, che richiama il termine karpoév del testo giovanneo. Notiamo però che in questo testo di Geremia non si menzionano i tralci; la vite poi è una metafora che si riferisce al popolo. Un altro uso della nostra metafora si trova in Ger 8,13, in un contesto giudiziario di minaccia. In riferimento al popolo, Dio annunzia «Li mieto e li anniento». La conseguenza dell’intervento punitivo di Dio è espressa con la metafora: «non c’è più uva nelle viti (stafulhè e\n ta_v a\mpeéloiv), né fichi sui fichi (su%ka e\n ta_v suka_v)». Questo testo potrebbe essere più utile al nostro scopo, giacché la situazione del popolo è descritta con la metafora di una vite dove però non c’è alcun frutto. La terminologia tuttavia è diversa: l’unico termine comune è a"mpelov114; gli altri elementi sono assenti. Inoltre la prospettiva è negativa: questa vite non ha portato alcun frutto. di Isaia; inoltre il problema nella parabola evangelica non è quello di portare frutti buoni o frutti cattivi, come in Isaia, bensì quello di dare o non dare frutti.

Il TM scrive: q"ro& |yiT( : + a n : yikon) f w: (e io ti ho piantato vite generosa). È interessante però la traduzione greca dei LXX, dove leggiamo: e\gwè deè e\fuéteusaé se a"mpelon karpofoéron (Io ti piantai vite che porta frutto). Con questa frase evidentemente Dio evoca tutto il cammino dell’esodo, dall’uscita dalla terra di Egitto fino all’ingresso della terra promessa. 113

114

Nel TM leggiamo il termine }epeG.

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In Ez 17,5-8 la metafora della vite (a"mpelov) sembra riferirsi al popolo nel tempo tra le due deportazioni in Babilonia, il 597 e il 586. Nel testo di Ezechiele si parla di un germoglio, che un’aquila grande scelse e che depose in un campo da seme perché diventasse una grande vite (v. 5). Questo germoglio (v. 6) divenne una vite (ei\v a"mpelon) che fece crescere i tralci (taè klhémata) e distese i rami. L’allusione probabilmente è a Sedecia, che Nabuccodonosor mise sul trono di Giuda dopo la deportazione di Joaqin. Nel v. 7 poi si legge che c’era un’altra aquila grande verso cui «quella vite (h| a"mpelov au$th) […] rivolse le radici […] e tese i suoi tralci (taè klhémata)». Probabilmente quest’altra aquila grande è l’Egitto a cui Sedecia si rivolse per attuare la sua ribellione contro Babilonia115. Leggiamo in questo testo quattro volte il termine a"mpelov (vite)116. Inoltre leggiamo pure, due volte, il termine klh%ma al plurale (taè klhémata: tralci), nei vv 6.7. Infine , nel v 9, leggiamo soltanto una volta, il termine karpoév (frutto). Nei testi dell’AT sopra citati l’immagine della vite o della vigna è prevalentemente riferita al popolo, in maniera però negativa. Talora, servendosi di essa, Dio o un profeta rimproverano al popolo il fatto di non avere portato quei frutti che invece avrebbe dovuto portare. Nel Sal 79 (80) è riferita a Dio l’azione positiva di avere divelto quella vite dall’Egitto per trapiantarla nella terra dei popoli. Nel Salmo però il problema non è l’assenza dei frutti, ma la domanda perché Dio, dopo avere trapiantato e fatto prosperare quella vite, adesso ne ha abbattuto la cinta e l’ha lasciata alla mercè dei viandanti, del cinghiale del bosco e degli animali selvatici. In nessuno dei testi sopra citati però la terminologia appare completa. In Os 10,1; Zc 8,12; Ger 2,21 troviamo soltanto due dei tre termini usati in Giovanni: a"mpelov e karpoév; manca il termine klh%ma. In Ger 8,3 e Is 5,12 troviamo soltanto il termine a"mpelov; mancano gli altri due termini karpoév e klh%ma; quest’ultimo si legge nel Sal 79 (80),11 e in Ez 17,6.7. In questi testi la metafora della vigna o della vite, nell’AT, è riferita al popolo in cui tralci si estendevano fino al mare (Sal 79); al popolo che non porta frutto (Os 10,1; Ger 2,21; 8,13; Is 5,12), e perciò la vite dev’essere divelta. In maniera più positiva, in Zc 8,12 la metafora della vite che porta frutto è 115 116

Cfr v. 15 e 2Re 24,10-20.

Nei vv. 6. 6. 7. 8. Il termine ebraico corrispondente è sempre }epeG.

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riferita al futuro benessere del popolo. Nessuno dei testi considerati può costituire il fondamento, almeno quello esclusivo, della nostra immagine giovannea della vite riferita a Gesù. Dall’altra parte Gesù non dice genericamente di essere “una vite” ma, specificatamente, di essere “la vite quella vera” (h| a"mpelov h| a\lhqinhé). Questi testi però possono costituire lo sfondo veterotestamentario in cui si colloca la metafora della vite e dei tralci, usata da Gesù per definire se stesso e il rapporto dei discepoli verso di lui. Tornando alla metafora della vite in Sir 24, le somiglianze man mano indicate permettono di concludere che il nostro evangelista, riferendo a Gesù questa metafora, aveva in mente anche il testo di Sir 24. Questo sembra essere stato il testo fondamentale a cui egli si è ispirato. Le differenze però tra i due testi sono notevoli; ciò indica che il nostro evangelista, anche se riprese l’immagine dal cap. 24 del Siracide, la elaborò in maniera autonoma. La differenza maggiore riguarda l’applicazione stessa dell’immagine. Come abbiamo notato, in Sir 24,17, nell’espressione e\g\ wè w|v a"mpelov (Io come vite) la Sapienza si paragona (w|v) ad una vite, ma non si identifica con essa, mentre Gesù si identifica con essa117. Pur riprendendo l’immagine di Sir 24,17, l’evangeliusta la supera profondamente: non solo la vite si identifica con Gesù, ma Egli non è una vite qualsiasi, bensì “la vite vera” 118. 4. Riflessioni conclusive Lo studio che abbiamo condotto mostra come l’autore del quarto vangelo riprese, per caratterizzare la figura di Gesù, elementi e aspetti propri della Sapienza nel cap. 24 del libro del Siracide. Questi elementi, presi in maniera isolata, probabilmente non hanno un assoluto valore dimostrativo e qualcuno di essi può anche avere diversa spiegazione. Essi però ricevono forza dalla loro connessione e, insieme, sono riconducibili al testo del Siracide. Gli elementi riconducibili al cap. 24 del libro del Siracide soprattutto sono tre: il fatto della Sapienza che “uscì dalla bocca dell’Altissimo” nel v. 117 118

Cfr. l’espressione “Io sono”.

Cfr. l’articolo davanti al termine a"mpelov.

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3; il comando che essa ha ricevuto (v. 8); l’immagine della “vite (a"mpelov)” con cui la sapienza è paragonata nel v. 17. Avremmo potuto individuare anche un quarto elemento; esso però eventualmente si relaziona al quarto vangelo non per continuità ma per opposizione. Si tratta del testo di Sir 24,21, dove leggiamo le parole della Sapienza: «quelli che mangiano di me avranno ancora fame e quelli che bevono di me avranno ancora sete». In Gv 6,35, al contrario, Gesù dichiara: «chi viene a me non avrà più fame; chi crede in me non avrà più sete»119. In 4,14 inoltre alla donna samaritana Gesù dichiara: «chi beve dell’acqua che io darò non avrà più sete in eterno». Le somiglianze tra i tre testi, Sir 24,3; Sir 24,8; Sir 24,17, e il vangelo di Giovanni, sono ben constatabili; non mancano però, altrettanto constatabili, le differenze che mostrano la peculiarità della nuova realtà a cui i testi sono riferiti, cioè a Gesù. Quanto anzitutto al v. 3 di Sir 24, la somiglianza con il vangelo sta nell’uso del verbo e\xeércomai, riferito sia alla Sapienza che a Gesù, e anche nel complemento di moto da luogo che, in un modo o l’altro, richiama Dio. Le differenze sono specificamente tre: anzitutto la Sapienza è uscita “dalla bocca” dell’Altissimo, Gesù invece è uscito direttamente da Dio: si sottolinea così la relazione più stretta tra Gesù e il Padre; inoltre nel vangelo Dio non è chiamato “l’Altissimo” bensì è indicato direttamente come “il Padre (16,28)” o “Dio (13,3)”; La differenza maggiore però sta nel fatto che, mentre per la Sapienza il dinamismo è soltanto verticale discendente, cioè da Dio agli uomini, per Gesù invece il dinamismo è anche ascendente: egli è uscito da Dio e torna a Dio. Possiamo stabilire il seguente confronto tra i due testi: Sir 24,21 Gv 4,14 oi| e\sqòonteév o| e\rcoémenov 119

me proèv e\meè e"ti peinaésousin ou\ mhè peinaés+ kaì oi| pònonteév kaì o| pisteuéwn. me ei\v e\meè e"ti ou\ mhè diyhései diyhésousin pwépote

La struttura dei due testi è la stessa, ma la prospettiva è diversa. Quella del quarto vangelo richiama Ap 7,16, dove leggiamo: «non avranno più fame (ou\ peinaésousin e"ti) né avranno più sete (ou\deè diyhésousin e"ti)». Il testo di Apocalisse però si riconduce meglio a Is 49,10.

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Il testo di Sir 24 8 parla di un comando, espresso con il verbo

e\nteéllomai, dato da Dio alla Sapienza. Esso ha un duplice oggetto: porre la propria dimora (kataskhénwson) in Giacobbe e lasciarsi ereditare (kataklhronomhéqhti) in Israele. Il nostro evangelista non riprende il verbo kataklhronomeéw, ma usa sia il verbo e\nteéllomai, riferito a Gesù con soggetto il Padre, sia il sostantivo e\ntolhé; come pure, in 1,14, usa il verbo semplice skhnoéw. L’evangelista però smembra i due elementi: il comando

che Gesù ha ricevuto dal Padre, come appare soprattutto da Gv 10,17-18, non è quello di “porre la tenda”, bensì quello di dare la propria vita. Quanto poi al verbo skhnoéw di 1,14, l’evangelista si limita soltanto a notare il fatto, senza dir nulla, almeno esplicitamente, di un possibile comando, dato dal Padre al Figlio, di dare la propria vita. Tuttavia nel comando di porre la vita implicitamente è contenuto anche quello di porre la propria tenda (e\skhénwsen) “in noi (e\n h|m_n)”, mediante l’assunzione della nostra carne umana. Avendo preso la nostra carne e avendo posto la sua dimora in noi, Gesù ha potuto attuare il vero comando datogli dal Padre, per realizzare il quale è sceso dal cielo (6,38-40). Quanto infine al v. 17, la somiglianza tra i due testi sta nell’uso del sostantivo a"mpelov (vite). Esso è riferito sia alla Sapienza sia anche a Gesù. La differenza però dell’uso del termine nei due testi è notevole. La Sapienza, in Sir 24,17, è soltanto paragonata ad “una vite (e\gwè w|v a"mpelov)”; Gesù invece, in 15,1, si identifica (e\gwé ei\mi) con la vite, e per di più con quella vera (h| a"mpelov h| a\lhqinhé). Identificandosi in questa maniera, e definendosi come “la vite quella vera”, Gesù indica che la “vite vera” è una sola e questa coincide con la sua persona. Nello stesso v. 17 di Sir 24 alla Sapienza sono riferite anche altre realtà, quali quelle evocate dai termini: frutto (karpoév), grazia (caériv), gloria (doéxa): La Sapienza produce grazia (caérin) e i suoi fiori sono frutto (karpoév) di gloria (doéxhv) e di ricchezza. Anche a Gesù sono riferiti nel vangelo questi elementi. Notiamo però una differenza particolare: il termine karpoév (frutto) non è riferito a Lui, bensì ai discepoli, che fruttificano, a condizione però che rimangono attaccati alla vite. Nel Siracide la Sapienza è la vite (a\m \ pelov) che porta frutto (karpoév); in Giovanni Gesù è soltanto la vite: il frutto sarà portato dai discepoli, definiti “i tralci (taè klhémata)”, che rimangono in Lui.

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Accanto al testo del Siracide sembra però che il quarto evangelista alluda ed anche riprenda altri testi dell’AT, che si fondono con esso. In relazione al verbo e\skhénwsen di Gv 1,14, non tutti gli interpreti richiamano il verbo composto kataskhnoéw, talora invece essi rimandano alla tenda del deserto o anche alla divina Shekinah. Quanto poi al verbo e\neteòlato, non pare che il nostro autore esplicitamente alluda anche ad altri testi dell’AT. L’unico parallelo al testo evangelico sarebbe appunto il nostro di Sir 24,8. Se si considera però l’aspetto di Gesù che ha compiuto la volontà di Dio120, l’allusione potrebbe essere al Sal 39 (40),8: «allora dissi: ecco vengo: […] a fare (tou% poih%sai) la tua volontà (toè qeélhmaé sou)». Si può richiamare anche Is 55,11: «finché non compirà tutto ciò che ho voluto (o$sa h\qeélhsa)»121. Per quanto riguarda poi la metafora della vite, come abbiamo notato, non tutti gli interpreti rimandano al testo di Sir 24. Diversi autori infatti citano anche altri testi, benché, come abbiamo notato, il testo fondamentale, che sta alla base di Gv 15,1-8, sia appunto quello di Sir 24,17. Il testo dell’AT però, che più direttamente si fonde con Sir 24, è Is 55,10-11. Come abbiamo già osservato, il testo di Sir 24,3 non è in grado di esprimere la globalità del mistero di Gesù. Sia Sir 24,3 che Is 55,10-11 concordano rispettivamente nel fatto che entrambi, la Sapienza e la Parola, sono usciti da Dio; entrambi inoltre concordano nel fatto che, uscendo da Dio, hanno raggiunto il mondo degli uomini. Il testo del Siracide non dice nulla sul cammino ascendente, il ritorno cioè dal mondo al Padre e Dio, rispettivamente della pioggia, della neve e della Parola di Dio, dopo avere compiuto la missione da Lui affidata. Tale aspetto del ritorno invece è espresso bene dal testo di Is 55,10-11. il quale sia per la pioggia e la neve sia anche per la Parola di Dio, prevede un cammino ascendente, rispettivamente della pioggia al cielo e della Parola a Dio. Il cap. 24 del libro del Siracide non sembra essere l’unico testo di indole sapienziale presente nel quarto vangelo. È possibile infatti individuare, o almeno ritenere probabile, l’allusione ad altri passaggi da parte del nostro 120 121

Cfr. Gv 4,34; 6,38-40.

Cfr. anche Is 44,28, citato da At 13,22.

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evangelista. Non abbiamo inteso nel nostro lavoro, né intendiamo ora, proporre una trattazione completa sull’utilizzazione dei libri sapienziali nel vangelo di Giovanni; ci fermiamo adesso soltanto a proporre qualche suggestione. In particolare ci riferiamo al testo di Pr 8,22-23 e ai testi di Sap 9,1 e 18,14-15. Il testo di Pr 8,22 presenta anzitutto un problema di critica testuale. Nella versione dei LXX leggiamo: kuériov e"ktiseén me a\rchèn odw%n au\tou% (Il Signore creò me fondamento delle sue vie). Il testo dei LXX corrisponde al TM: owK:raD tyi$)"r yinfnfq hfwh:y. La versione siriaca, il Targum, la Volgata e Girolamo leggono però non tyi$)"r (principio) bensì tyi$)"r:b (in principio). Nel v. 23 poi leggiamo, nella versione dei LXX, sempre in relazione alla Sapienza, l’espressione e\qemelòwseén me e\n a\rc+% (fondò me in principio). Nel TM leggiamo l’espressione jerf)-y"m:daQim $)or"m. Non è improbabile che Giovanni, scrivendo in 1,1: e\n a\rc+% h&n o| loégov, oltre che a Gen 1,1, possa avere alluso anche a Pr 8,22-23, tanto più che l’espressione e\n a\rc+% si legge poi nel seguente v. 23. Se ciò è vero, possiamo stabilire il seguente progresso tra tre testi legati dall’espressione e\n a\rc+%: 1. Gen 1,1: «in principio (e\n a\rc+%) Dio creò (e"ktisen) il cielo e la terra»; 2. Pr 8,22-23: «in principio (e\n a\rc+%) Dio creò (e"ktisen) la Sapienza», come realtà creata prima di tutte le altre opere; 3. Gv 1,1: «in principio (e\n a\rc+%) era (h&n) la Parola», come realtà increata preesistente. I due testi del libro della Sapienza, Sap 9,1 e 18,14-15 sopra indicati, poi parlano entrambi del loégov, che appare già come una realtà personificata e presente presso Dio. Il testo di Sap 9,1 è l’inizio della preghiera di Salomone, che riprende e rielabora quella riferita in 1Re 3, da lui formulata davanti a Dio a Gabaon. Nel testo di Sap 9,1 leggiamo le seguenti parole: «Dio dei Padri e Signore di misericordia, che hai fatto (o| poihésav) tutte le cose (taè paénta) con la tua parola (e\n loég§ sou) e con la tua sapienza (t+% sofòç sou) hai formato (kataskeuaésav) l’uomo (a"nqrwpon)». Possiamo notare anzitutto la relazione stabilita nel testo tra “la Parola” e “la Sapien-

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za”122. Sembra che Sapienza e Parola si identifichino. In ogni caso la loro relazione appare molto stretta. Si può confrontare questo testo, almeno nella prima parte, con Gv 1,3, nel seguente modo: Gv 1,3 Sap 9,1 paénta o| poihésav di’au\tou% taè paénta e\geéneto e\n loég§ sou

La somiglianza appare evidente, nonostante le innegabili differenze. Si direbbe che Giovanni rifletta su quanto in Sap 9,1 si legge a riguardo della Sapienza. Il testo di Sap 18,15 è pure importante, sebbene appaia più lontano dal testo giovanneo, di quanto non lo sia il testo precedente. Leggiamo infatti in esso la seguente espressione: «mentre un assoluto silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo proprio corso, l’onnipotente tua parola (pantoduénamoév sou loégov) dal cielo (a\p’ou\ranw%n), dal tuo trono regale, guerriero implacabile, nel mezzo della terra di sterminio scese (h$lato)». Questo testo riprende e reinterpreta probabilmente il testo di Es 12,29-36, la strage dei primogeniti degli egiziani. Secondo il testo di Esodo contro gli Egiziani intervenne l’angelo sterminatore, secondo il testo di Sap 18,15 invece intervenne la Parola di Dio. Due elementi di contatto con il vangelo di Giovanni possiamo cogliere in questo testo: il termine loégov che rimanda alla Parola personificata, e l’aspetto della discesa dal cielo. Per quanto riguarda però la discesa dal cielo, in Giovanni è usato in genere il verbo katabaònw123: Il riferimento migliore perciò è ancora a Is 55,10 dove esso è usato per la pioggia e la 122 Notiamo come tutta l’espressione è strutturata secondo uno schema alternato e concentrico insieme: che hai fatto (o| poihésav) tutte le cose (taè paénta) con la tua parola (e\n loég§ sou) e con la tua sapienza (t+% sofòç sou) hai formato (kataskeuaésav) l’uomo (a"nqrwpon)». 123

Cfr. 6,37.38.41.

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neve che scendono dal cielo. Forse il testo di Sap 18,14-15 è più utile per la personificazione della Parola. In questo modo possiamo comprendere che la personificazione della Parola era anteriore a Giovanni ma che l’evangelista passò soltanto da una realtà creata ad una increata. Possiamo allora concludere il nostro studio sull’utilizzazione del cap. 24 del libro del Siracide nel vangelo di Giovanni osservando che il nostro evangelista vide delineata e preannunziata nella vicenda della Sapienza del testo del Sir 24 il mistero del Figlio di Dio e che questo stesso testo offrì un linguaggio idoneo a potere poi esprimere adeguatamente questo mistero. Ci sono però delle somiglianze ed anche delle differenze tra la Sapienza, quale appare in Sir 24, e il Figlio di Dio: la realizzazione in Cristo supera infatti l’immagine dell’AT. Le somiglianze sono che entrambi, la Sapienza e Cristo, sono usciti da Dio; entrambi hanno ricevuto un comando; entrambi sono caratterizzati con la metafora della vite. C’è però una differenza fondamentale tra la Sapienza e Gesù come Parola di Dio. Entrambi sono realtà personali; mentre però la Sapienza, benché creata prima di tutte le altre opere, rimane sempre una realtà creata (Pr 8,22), la Parola di Dio invece, incarnata in Gesù di Nazaret, è una realtà preesistente in assoluto, increata, eterna. Sia la Sapienza come anche Gesù concordano in un dinamismo verticale discendente, in un cammino cioè che entrambi debbono compiere da Dio agli uomini. Mentre però il cammino della Sapienza giunge e si ferma agli uomini, come suo termine, con i quali ella deve abitare, il cammino di Gesù invece non si ferma negli uomini: dopo essere sceso infatti dal cielo e dopo avere compiuto un’opera in mezzo agli uomini e a loro vantaggio, Gesù deve tornare al Padre che lo ha mandato. Ciò è apparso nella manifestazione concreta e storica del mistero di Gesù. Dopo essersi incarnato e avere sostenuto la passione e la croce, Gesù, risorto, è salito al cielo. Per esprimere la globalità di questo mistero quindi non era più sufficiente il testo del cap. 24 del Siracide. La Provvidenza ne aveva preparato un altro, non ignorato dal quarto evangelista: il testo di Is 55,10-11. Abbiamo notato, a suo tempo, l’aggancio letterario e tematico tra i due testi. In Is 55,10-11 è delineato il triplice dinamismo della Parola di Dio, analogo a quello della pioggia e della neve. La pioggia e la neve scendono

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dal cielo, fecondano la terra e poi tornano in cielo. Analogamente la Parola esce dalla bocca di Dio, compie l’opera per cui Egli l’ha mandata, torna poi a Lui. Il testo di Is 55,10-11 appare così più idoneo rispetto a Sir 24 per esprimere il mistero di Gesù; per questo esso fu ripreso dal quarto evangelista e costituì come lo schema del suo vangelo124. Nel vangelo di Giovanni la prospettiva della Sapienza che dimora con gli uomini sembra essere ripresa, ma solo parzialmente: in 1,14 infatti leggiamo kaì e\skhénwsen e\n h|m_n (dimorò in noi). Sembra invece che nel vangelo sia presente la prospettiva inversa: non è Gesù che dimora con gli uomini, ma sono gli uomini ad essere chiamati a giungere nel luogo dove è Gesù (cfr. 14,3; 17,24). L’aspetto della presenza presso gli uomini sembra invece essere riservato al Paracleto. Leggiamo infatti in 14,16: «ed io pregherò il Padre ed un altro consolatore darà a voi, perché con voi (meq’u|mw%n) in eterno (ei\v toèn ai\wn % a) sia (+&)». Si tratta dello Spirito della Verità che il mondo non può ricevere. Emerge così la fondamentale differenza tra Gesù e la Sapienza. Quest’ultima ha soltanto il compito di stare con gli uomini e di guidarli in ciò che è giusto e conforme alla volontà di Dio. La missione di Gesù invece è diversa. Egli è venuto a prendere gli uomini: raggiungerli nel mondo, radunarli attorno a sé e condurli a Dio, appunto nel luogo dove lui è. I discepoli però, prima di giungere nel luogo dove Gesù è, debbono restare nel mondo dove hanno una missione da compiere. Essi saranno accompagnati dallo Spirito che li introdurrà in tutta la verità (cfr. 16,13) e saranno sostenuti dalla preghiera che Gesù ha rivolto al Padre perché li preservi dal maligno (cfr. 17,15).

124

Cfr. A. Gangemi, L’utilizzazione di Is 55 nel vangelo di Giovanni, cit., 7-90, passim.

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PIETRO E IL DISCEPOLO DAL GETSEMANI ALLA CASA DEL SACERDOTE (18,15-16)

Narra il quarto evangelista che, dopo la sua cattura al Getsemani, Gesù fu condotto prima da Anna (v. 12); di costui egli stabilisce una relazione di parentela con Caifa, indicato come “sacerdote di quell’anno” (v. 13). Di Caifa inoltre l’evangelista ricorda il consiglio che aveva dato ai giudei (cfr. 11,49-52) che «è opportuno (sumfeérei) che un solo uomo (e$na a"nqrwpon) muoia (a\poqane_n) per il popolo (u|peèr tou% laou%)» (v. 14). Subito dopo, nei vv. 15-16, l’evangelista passa a descrivere i personaggi che seguivano Gesù. Leggiamo infatti, nel v. 15: «seguiva (h\kolouéqei deé) Gesù (t§% }Ihsou%) Simon Pietro (Sòmwn Peétrov) e un altro discepolo (kaì a"llov maqhthév)». Continua ancora l’evangelista che «quel discepolo (o| deè maqhthèv e\ke_nov) era noto (gnwstoév ) al pontefice (t§% a\rciere_) ed entrò (kaì suneish%lqen) con Gesù (t§% I\ hsou%) nel palazzo del sacerdote (ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv); Pietro stava proteso verso la porta (proèv t+% quérç) fuori (e"xw). Uscì (e\xh%lqen) quindi quell’altro discepolo (o| maqhthèv o| a"llov) e disse alla portinaia (eùpen t+% qurwr§%) ed introdusse (ei\shégagen) Pietro» Dopo la cattura di Gesù, come leggiamo in Matteo e Marco, tutti i discepoli fuggirono1. Gli stessi evangelisti2, però, seguiti anche da Luca e da Giovanni3, ci informano che, benché, secondo i sinottici, “da lontano”, Pietro seguì Gesù, ovvero il corteo che lo aveva catturato, Nasce spontanea 1 2 3

Cfr. Mt 26,56; Mc 14,50. Cfr. Mt 26,58; Mc 14,54.

Cfr. Lc 22,54b; Gv 18,15.

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la domanda se Pietro non sia fuggito, oppure, come sembra più verosimile, dopo essere fuggito come gli altri, tornò indietro e seguì il corteo. Il testo non permette di dare alcuna risposta a questa domanda. Il racconto giovanneo, pur concordando sostanzialmente con i sinottici, in relazione alla sequela, presenta delle peculiarità. Anzitutto il quarto evangelista evita di dire che tale sequela avveniva “da lontano4; inoltre, in questa sequela, Pietro però non è solo: accanto a lui, accomunato nella stessa azione, è introdotto appunto un altro personaggio, indicato come “un altro discepolo (a"llov maqhthév)”, che rimane però nell’anonimato5. Dal v. 15b, per tutto il v. 16. l’evangelista descrive le azioni di questo discepolo. Di lui evita di dire il nome limitandosi ad indicarlo con l’espressione indeterminata “un altro discepolo”. Ci informa però che era “noto al pontefice” e perciò poté entrare nel suo palazzo; poi, ripetendo sorprendentemente il fatto della conoscenza da parte del pontefice, narra che egli uscì. Di Pietro, oltre il fatto della sequela, l’evangelista si limita a dire altre due cose: che stava (ei|sthékei), proteso verso la porta (proèv t+% quérç), fuori (e"xw); inoltre che egli entrò (ei\shégagen) grazie all’intervento del discepolo presso la portinaia6. Emerge nel testo, a riguardo di Pietro, la seguente relazione di azioni, che potrà aiutare, in un altro studio, a comprendere il senso della sua vicenda in questo contesto. Le azioni sono tre, introdotte tematicamente in maniera progressiva: la sequela di Pietro, l’arrivo ad un termine, la porta (h| quéra), verso cui egli è proteso, l’ingresso nella au\lhé, attraverso la porta, grazie all’azione congiunta della portinaia (h| qurwroév) e del discepolo (o| maqhthév). 4

Matteo e Marco: a\poè makroéqen; Luca: makroéqen.

Notiamo in 18,15 il verbo h\kolouéqei al singolare; dopo il dativo oggetto, t§% }Ihsou%, esso è seguito dalla menzione di due soggetti: Sòmwn Peétrov (Simon Pietro) e a"llov maqhthév (un altro discepolo). In relazione a due soggetti, ci saremmo probabilmente aspettati un verbo al plurale (h\kolouéqoun); troviamo invece il verbo al singolare. La forma al singolare del verbo e la sua più diretta relazione strutturale a Pietro suggeriscono che più specificamente su quest’ultimo sembra poggiare l’attenzione dell’evangelista. 5

6 Non è chiaro chi sia il soggetto del verbo ei\shégagen, se il discepolo (o| maqhthév) o la portinaia (h| qurwroév). Forse l’ambiguità del verbo è provocata dallo stesso evangelista, indicando così che nell’ingresso di Pietro intervengono sia il discepolo che la portinaia. La portinaia apre la porta, il discepolo, parlandole, la sollecita.

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In questo studio, fermiamo specificamente la nostra attenzione “sull’altro discepolo” anonimo, a riguardo del quale però si pone subito una prima ed immediata domanda: è la stessa persona che poi, caratterizzata come il discepolo che Gesù amava, troveremo presso la croce (19,26)? Se la risposta è affermativa, emerge l’ulteriore domanda sulla relazione sulle due descrizioni, e l’ulteriore ancora sul cammino intermedio che il discepolo deve compiere, dal momento che il verbo e\xh%lqen di 18,16 sembra indicare l’inizio di un cammino, mentre il participio perfetto parestw%ta di 19,26 ne indicherebbe meglio il termine? Fermando per il momento l’attenzione sulle vicende, esclusivamente giovannee, di quell’altro discepolo, in 18,15-16, osserviamo di avere a che fare con un racconto apparentemente semplice, ma che, ad una lettura più attenta, nasconde non pochi problemi e pone diverse domande. Ci troviamo infatti di fronte ad un racconto abbastanza particolareggiato, ma, nello stesso tempo, anche vuoto. In particolare, le domande emergenti sono: è lo stesso discepolo che, altrove, è caratterizzato come “il discepolo che Gesù amava”? è Giovanni il figlio di Zebedeo? Quale era, e come l’ha acquisita, quella conoscenza con il pontefice, che, in quel momento critico e, verosimilmente, assai circospetto, della conduzione di Gesù arrestato, non solo non gli ha sbarrato, come a Pietro, il passo, ma gli ha permesso anzi di entrare nel recinto dell’abitazione del pontefice e di influire sulla portinaia? Che cosa fece all’interno? Perché uscì subito dopo? Perché, anche in relazione all’uscita, l’evangelista ripete che era noto del pontefice? Perché la seconda volta, al termine gnwstoév, egli fa seguire non un dativo (t§% a\rciere_), ma un genitivo (tou% a\rciereéwv)? Che cosa fece e dove andò dopo essere uscito? Qual è lo scopo della sua menzione in questo contesto? Possiamo tuttavia notare che, nella descrizione stessa, l’evangelista, a riguardo del discepolo, ci offre diversi elementi positivi, importanti per l’interpretazione: la sua identità: era discepolo (maqhthév); la sua quadruplice azione: entrare (suneish%lqen), uscire (e\xh%lqen), parlare (eùpen) con la portinaia, introdurre (ei\shégagen) Pietro; la sua quadruplice relazione: a Gesù (t§% I\ hsou%) con il quale entrò, al sacerdote (t§% a\rciere_ / tou% a\rciereéwv) da cui è conosciuto; alla portinaia (t+% qurwr§%), alla quale parlò; a Pietro (t§% Peétr§), che introdusse nel palazzo.

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Forse non sarà possibile rispondere a tutte le domande sopra indicate: ci limiteremo soltanto a considerare i seguenti aspetti: la relazione del discepolo al sacerdote, la relazione a Gesù, la relazione al discepolo presso la croce, il senso delle azioni del discepolo nel contesto della seconda parte della narrazione giovannea della passione di Gesù, tra la cattura al Getsemani e il processo davanti a Pilato (18,12-27), che include anche il processo-dialogo davanti ad Anna e i tre rinnegamenti di Pietro. I. Le posizioni degli interpreti I problemi che abbiamo sopra indicato non sono sfuggiti all’attenzione degli interpreti. La letteratura però che può essere citata è così ampia e le posizioni degli interpreti sono così varie, che preferiamo indicarle tutte all’inizio di questo studio. 1.1. Il problema dell’identità dell’“altro discepolo (a"llov maqhthév)” Il primo, e forse fondamentale, problema che si pone nella riflessione degli interpreti, riguarda la figura “dell’altro discepolo (a"llov maqhthév)”, se cioè debba essere identificato o distinto dal discepolo “che Gesù amava”, di cui si parla altrove nel vangelo7. Osserva F.J. Moloney8 che c’è considerevole differenza di opinioni sulla possibilità di tale identificazione. Il dibattito a riguardo è descritto, in maniera esaustiva, da J.H. Charlesworth9; una presentazione di una discussione più antica circa il tema è proposta da Bernard10. una più recente invece è proposta da R.E. Brown11. Una discussione poi a riguardo

7 8

Cfr. 13,23-26; 19,26; 21,7.20-25.

Cfr. F.J. Moloney, Il vangelo di Giovanni, trad. it., Leumann-TO 2007, 490.

Cfr. J.H. Charlesworth, The Beloved Disciple. Whose Witness Validates the Gospel of John?, Valley Forge, 336-359. 9

10 11

Cfr. J.H. Bernard, The Gospel according to St. John, II, Edinbourgh 1928, 592-597. Cfr. R.E. Brown, Giovanni, trad. it., Assisi 19793, 1008-1010.

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del termine gnwstoév, è proposta inoltre da Barrett12. L’“enorme” quantità di letteratura riguardante l’identità del discepolo è menzionata anche da Matera13, che cita l’ampia ricerca compiuta da Neirynck14. Per rendere, nella loro prospettiva, il testo più coerente, degli interpreti operano, nel suo interno, delle trasposizioni, che risultano talora anche arbitrarie. Sia sufficiente, a riguardo citare soltanto Fortna15, secondo il quale i vv. 15-16 preparerebbero l’episodio dei rinnegamenti di Pietro; in questo senso, essi sarebbero fuori posto e non doveva essere quello attuale il loro posto nella fonte16. Fortna ricostruisce nel seguente modo: colloca i vv. 15-16a dopo il v, 24 e prima del v. 19; colloca poi i vv. 16b-18 dopo il v. 23 e prima del v. 25b, avendo già trasferito il v. 24 dopo il v. 13. Si ottiene così la seguente ricostruzione: 13.24.15-16a.19.23.16b-18.25b. Nulla autorizza ad operare nel testo simili trasposizioni. Si pone nell’espressione a"llov maqhthév di 18,15, notato dagli interpreti17, un problema di critica testuale. Diversi codici, tra cui il Sinaitico nella seconda correzione, i codici C L N O G D Q, quelli recensiti da Lake e da Ferrar, il codice 33, altri codici e versioni, premettono all’aggettivo a"llov l’articolo (o| a"llov); in questo modo, il compagno di Pietro nella sequela è identificato con il discepolo amato, che, in 20,2, è presentato come “l’altro discepolo (toèn a"llon maqhthén)”, caratterizzato come “colui che Gesù amava (o£n e\fòlei o| I\ hsou%v)”. L’aggiunta dell’articolo non è fatta dai codici più antichi18; essa è ritenuta in genere secondaria dagli inter-

12 13

Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, London 19853, 438. Cfr. F.J. Matera, Jesus Before Annas, in ETL 66 (1990) 38-55: 48-51.

Cfr. F. Neirynck, The Other Disciple in Jn 18,15-16, in ETL 55 (1975) 113-141: 113-126. 14

15 16

Cfr. Fortna, The Gospel of Signs, Cambridge 1970, 119. Cfr. ibid., 121.

Cfr. J.H Bernard., A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, cit., 592-593. 17

18 C Q tradizione egiziaca, pl. Invece i codici più antichi attestano la lezione senza articolo: P60vid, P66, S* B A pc.

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preti19: manifesta infatti la tendenza a identificarlo con il discepolo che Gesù amava (13,23)20. Per quanto riguarda poi l’identificazione di questo anonimo discepolo con quello che Gesù amava gli interpreti sono divisi21. Alcuni ritengono che il discepolo di cui si parla in 18,15-16, sia, o almeno è probabile che sia, appunto il discepolo amato. Così Barrett22, Bauer23, Beasley-Murray24, Beeckmann25, Culpepper26, Ellis27, Fenton28, Hoskyns-Davey (presumibilmente)29, Kragerud30, Loisy31, Schick32, Schneider33, Schnelle34, secondo

Cfr. A. Plummer, The Gospel according to St. John, Cambridge 1912, 311; R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, trad. it., Brescia 1981, 370. 19

20

Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 371.

Caballero dichiara semplicemente che l’autore si astiene dal menzionarsi, cfr. J.A. Caballero, El discipulo amado en el evangelio de Juan, in EstBib 60 (2002) 311-336: 334. 21

22

Cfr. C.K Barrett., The Gospel according to St. John, cit., 438.

Cfr. W. Bauer, Das Johannesevangelium, Tübingen 19333; 211: nota che la maggior parte dei Padri (cita Cirillo, Crisostomo, Efrem, Teodoro) operano tale identificazione. 23

24

Cfr. G.R. Beasley-Murray, John, Waco (Texas) 1987, 324

Cfr. P. Beeckmann, L’évangile selon S. Jean, d’après les meilleurs auteurs catholiques, Bruges 1951, 363. 25

26 27 28 29 30 31 32 33

Cfr. R.A. Culpepper, The Gospel and Letters of John, Nashville 1998, 222. Cfr. F.F. Ellis, The Genius of John, Collegeville 19842, 256.

Cfr. J.C. Fenton, The Passion according to John, London 1961, 34.

Cfr. E.C. Hoskyns – F.N. Davey, The Fourth Gospel, London 19472, 513. Cfr. A. Kragerud, Der Lieblingsjünger im I.E., Oslo 1959, 25s. Cfr. A. Loisy, Le quatrième évangile, Paris 19212, 459.

Cfr. E. Schick, Das Evangelium nach Johannes, Würzburg 1956, 161. Cfr. J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, Berlin 19782, 298.

Cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, Leipzig 1998, 266: per l’identificazione parla anche la concorrenza a Pietro. 34

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cui questo discepolo sarebbe testimone sotto la croce, Stibbe35, Strathmann36, Westcott37, Wilkens38, Contrari all’identificazione dell’anonimo con il discepolo che Gesù amava, limitandoci agli interpreti moderni, sono, tra altri, Bernard39, Bultmann40, Hartmann41, Roloff42, Schiwy43. Schnackenburg44 osserva che tale identificazione viene spontanea, se si vede specialmente nel discepolo Giovanni, figlio di Zebedeo; nota però anche le notevoli obbiezioni contro questa identificazione. Tale identificazione è criticata da Dauer45 e da Lindars46. La nostra indicazione di autori è solo esemplificativa; altri autori, favorevoli o contrari all’identificazione sono indicati da Neirynck47 che propende però per l’identificazione48, osservando che il confronto di Gv 18,15-16 non dev’essere stabilito soltanto con 20,2, ma con tutto il racconto di 20,2-10. I motivi contro l’identificazione a cui rimandano gli interpreti,

35 Cfr. M.W.G. Stibbe, John as Storyteller: Narrative Criticism and the Fourth Gospel, Cambridge 1992, 98-99 (che identifica però il discepolo amato con Lazzaro). 36 37 38 39

Cfr. H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1973, 239,

Cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, Grand Rapids 1983, 255.

Cfr. W. Wilkens, Die Entstehungsgeschichte des 4 Evangeliums, Zollikon 1958, 81. Cfr J.H. . Bernard, A Critical and Exegetical Commentary, II, cit, 193.

Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, Göttingen 1985 (rist. dal 197820), 499 nota.6. 40

41 Cfr. G. Hartmann, Die Vorlage der Osterberichte in Joh 20, in ZNW 55 (1964) 197-220: 210s.

42 Cfr. J. Roloff, Der joh. “Lieblingsjünger” und der Lehrer Gerechtigkeit, in NTS 15 (1968) 129-151: 131s. 43 44

Cfr. G. Schiwy, Das Evangelium nach Johannes, Würzburg 19682;

Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 371.

Cfr. A. Dauer, Die Passionsgeschichte im Johannesevangelium; eine traditions-geschichtliche und Theologische Untersuchung zu Joh 18,1-19,30, Munich 1972, 73-75. 45

46 47 48

Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, Grand Rapids 1986, 548.

Cfr. F. Neirynck, The “Other Disciple” in Jn 18,15-16, cit. 113-126. Cfr. ibid, 141.

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sostanzialmente sono quelli indicati da Schnackenburg49; i motivi addotti dagli interpreti favorevoli all’identificazione si riducono sostanzialmente a due: il confronto con gli altri passaggi riguardanti il discepolo, soprattutto il testo di 20,2, e la relazione a Pietro che, tranne 19,26, caratterizza tutti gli altri testi riguardanti il discepolo, compreso 20,2-10. Al nostro scopo l’identificazione dell’ “altro discepolo” di 18,15-16 con il discepolo che Gesù amava interessa solo indirettamente; interessa invece direttamente stabilire, come tenteremo di fare, se il discepolo di 18,15-16 sia quello che troveremo “stante” presso la croce di Gesù in 19,26. Prescindiamo però, almeno in questo studio, dal diretto confronto con 20,2, che presenta una sua specifica problematica, non ultimo il fatto che il discepolo è caratterizzato non con il verbo a\gapaéw (h\gaépa), bensì, unico, con il verbo fileéw (e\fòlei). Tra il testo di 18,15-16 infatti e quello di 20,2 c’è quello di 19,26, dove Pietro è assente. 1.2. Lo scopo della menzione del discepolo La tradizione sinottica menziona unanimemente Pietro alla sequela di Gesù dopo la cattura, fino alla dimora del pontefice. Il 4^ evangelista, assieme a Pietro, menziona, unito nella sequela, anche quest’altro discepolo, del tutto ignorato dai sinottici. Emerge tra gli interpreti la domanda: perché introduce anche questa figura? È guidato soltanto dall’amore della storia oppure si prefigge qualche altro scopo? 49 Gli argomenti sono; La mancanza dell’articolo che non consente un riferimento a 13,23; non si vede il motivo per cui l’anonimo, già presentato come “il discepolo che Gesù amava”, anche qui non sia caratterizzato allo stesso modo; il suo rapporto di conoscenza con il sommo sacerdote che non solo esclude quasi sicuramente la sua identità con Giovanni, il figlio del pescatore del lago di Genezaret, ma sarebbe molto strano per uno che è intimo di Gesù. È vero che questo non è un argomento serio contro il discepolo che Gesù amava, perché il vangelo di Giovanni conosce altri discepoli di Gesù in Giudea (7,3), chiama Giuseppe di Arimatea “discepolo occulto (19,38)” e riferisce altri particolari sulle relazioni di Gesù con Gerusalemme e la Giudea (Cfr. Nicodemo, Betania, Efraim [11,54]), però non si comprende come l’evangelista non abbia parlato anche qui del discepolo che Gesù amava se era lui quest'altro discepolo, cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 371.

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Agourides50 pensa che il quarto evangelista abbia voluto cambiare il tono della narrazione marciana. Gesù non fu solo seguito magari da un discepolo che poi lo rinnegò tre volte, ma fu seguito anche dal discepolo amato che lo accompagnò addirittura fin nella casa del sacerdote. La presenza del discepolo sortì anche l’effetto di rendere ancora peggiore il rinnegamento di Pietro. Haenchen51 si chiede se la comparsa del discepolo, che poi scompare subito dopo, non sia finalizzata allo scopo di spiegare come mai Pietro poté entrare nel recinto del palazzo del sacerdote. Matera52 ritiene inverosimile l’idea che il discepolo sia stato introdotto nella narrazione per essere un autentico testimone degli eventi verificatisi nella casa del sacerdote. Piuttosto, riferendosi a Neirynck53, nota che il suo ruolo e funzione nella narrazione ha a che fare con l’ingresso di Pietro nel cortile del sommo sacerdote. Dauer54 pensa pure allo scopo di spiegare come Pietro poté entrare nel palazzo del Sacerdote; secondo Kragerud55 invece, che assegna tutti e sette i testi riguardanti il discepolo allo stesso autore, ritiene che l’evangelista abbia voluto sottolineare la superiorità del discepolo. Allo scopo di spiegare l’ingresso di Pietro nel palazzo del sacerdote, pensano anche Calmes56, Haenchen57, Hoskyns-Davey58, Lindars59, Mi-

50

Cfr. S. Agourides, Peter and John in the Fourth Gospel, in StEv IV, 3-7: 6.

Cfr. E. Haenchen, Historie und Geschichte in den johanneischen Passionsberichten, in Die Bibel und wir, Tübingen 1968, 187. 51

52 53 54 55 56 57 58 59

Cfr. F.J. Matera, Jesus Before Annas, cit. 48.

Cfr. F. Neirynck, The Other Disciple in Jn 18,15-16, cit., 356.

Cfr. A. Dauer, Die Passionsgeschichte im Johannesevangelium, cit., 75. Cfr. A. Kragerud, Der Lieblingsjünger im I.E., cit., 26ss..

Cfr. Th. Calmes, Évangile selon S. Jean, Paris 19062, 126-127. Cfr. E. Haenchen, Der Weg Jesu, Berlin 1968, 506s.

Cfr. Cfr. E.C. Hoskyns – F.N. Davey, The Fourth Gospel, cit., 513. Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit., 548.

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chaels60, Schnackenburg61, Schneider62, Wengst63, Wilckens64. Allo scopo di mostrare la superiorità del discepolo su Pietro pensa Leon-Dufour65, Fenton66 propone entrambi i motivi: mostrare la superiorità del discepolo e spiegare l’ingresso di Pietro. Michaels67 pensa anche al fatto che l’evangelista, oltre Pietro, intende offrire un testimone oculare, garante della tradizione giovannea; così anche Barrett68, Haenchen69, Schnelle70. Riassumendo dalle varie posizioni degli interpreti sostanzialmente si deducono due scopi perché l’evangelista introdusse, accanto a Pietro, la figura dell’altro discepolo: mostrare la sua superiorità rispetto a Pietro, e facilitare, con il suo intervento, l’ingresso di quest’ultimo nel cortile del sacerdote. Si può aggiungere un terzo scopo, meno presente però nella riflessione degli interpreti: mettere accanto al discepolo un altro testimone oculare dei fatti compiuti all’interno del palazzo di Anna. 1.3. La conoscenza del discepolo da parte del sacerdote Il problema più importante della narrazione del testo di Gv 18,16-16 tuttavia e, in certo senso, più cruciale, è costituito dall’indicazione dell’evangelista che quel discepolo, che seguì Gesù assieme a Pietro, era “noto (gnwstoév) al pontefice. Emerge subito la domanda: perché e in che modo quel discepolo era noto al pontefice? 60 61 62 63 64

Cfr. J.R. Michaels, John, Peabody 1989 (rist.), 898.

Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 372. Cfr. J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, cit., 298.

Cfr. K. Wengst, Das Johannesevangelium, II, Stuttgart-Berlin-Köln 2001, 207. Cfr. U Wilckens., Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 2002; 346.

CFr. X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, IV, trad. it., Cinisello Balsamo 1998; 65

66 67 68 69 70

Cfr. J.C. Fenton, The Passion according to John, cit., 34. Cfr. J.R. Michaels, John, cit., 898.

Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit. 438.

Cfr. E. Haenchen, Der Weg Jesu, cit. 506s.

Cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, Leipzig 1998, 266:

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La risposta a questa domanda è legata e, in certo senso, dipende da un’altra: chi è, nella sua identità concreta, questo discepolo, se si tratta di un anonimo discepolo? Se è un anonimo gerosolimitano, è più facile congetturare una risposta; se si tratta invece di Giovanni, il figlio di Zebedeo, il problema diventa più complesso: in che modo il figlio di Zebedeo, pescatore nel lago di Tiberiade, poteva godere da parte del sommo sacerdote, di una conoscenza tale che gli permise di entrare senza alcuna difficoltà nel palazzo del sacerdote? Possiamo anche osservare che chi regolava, in quella notte, l’accesso nella casa del sacerdote, come appare dalla menzione della serva portinaia, dovevano essere dei servi. Il discepolo pertanto doveva essere conosciuto non solo dal sommo sacerdote, ma anche dai servi: ciò significherebbe che egli abitualmente soleva andare dal sacerdote. Prescindendo da quelle posizioni che ritengono il discepolo soltanto come una figura simbolica71 e anche dalla sorprendente identificazione, risalente probabilmente a Mercken72 e recentemente ripresa anche da Brodie73, con Giuda Iscariota, che, almeno, negli ultimi giorni, doveva recarsi spesso dal sacerdote per preparare il rinnegamento, indichiamo soltanto qualche proposta di identificazione. Ad uno sconosciuto discepolo di Gesù rimanda Belser74. Dodd75 non esclude la possibilità che tale discepolo possa essere stato un parente76 del sacerdote o anche lui di origine sacerdotale Cfr. tra altri, T. Lorenzen, Der Lieblingsjünger im Johannesevangelium, Stuttgart 1971, 79 (cfr. pp.77.82), secondo il quale il discepolo sarebbe un personaggio della chiesa proiettato nel vangelo. Sul problema se la figura del discepolo sia storica o simbolica, rimandiamo a L. Simon, Petrus und der Lieblingsjünger im Johannesevangelium. Amt und Autorität, Frankfurt-Berlin-Bern 1994, 25-29, con bibliografia ivi citata. Simon sembra ritenere che si tratti di una figura storica esaltata però in maniera simbolica. Kügler vede nel discepolo amato una fittizia autorità storica, cfr. J. Kügler, Der Jünger den Jesus liebte, Stuttgart 1988, pp.474-488. 71

72 Indicato da Neirynck, Cfr. F. Neirynck, The Other Disciple in Jn 18,15-16, cit., 121 nota 41. 73 74 75

Cfr. T.L. Brodie, The Gospel according to John, New York – Oxford 1993, 529.

Cfr. J.E. Belser, Das Evangelium des heiligen Johannes, Freiburg in Br. 1905, 471. Cfr C.H. Dodd, La tradizione storica, trad. it., Brescia 1983, 115-116.

In questo senso si esprime anche Lenski, cfr. R.C.H. Lenski, The Interpretation of St. John’s Gospel, Columbus (Ohio) 1942, 1193. 76

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e, comunque, appartenente alla sua cerchia. Hengel77 pensa a Giovanni il presbitero, un giudeo appartenente alla classe sacerdotale. Maier78 ritiene che quel discepolo fosse un discepolo gerosolimitano, non uno dei dodici, e, perciò, come tale, poteva essere facilmente conosciuto dal sacerdote. Stibbe79 inoltre pensa a Lazzaro. Anche Wilckens80, che pensa ad un discepolo gerosolimitano occulto come Nicodemo81 e Giuseppe di Arimatea82. Marsh83 inclinerebbe a vedere in questo discepolo un membro del Sinedrio, ma, se fosse Giovanni, la conoscenza si spiegherebbe con la sua appartenenza, per famiglia, alla classe sacerdotale. Mateos-Barreto84 pensano ad un discepolo che ha rotto con l’istituzione giudaica (era prima discepolo del Battista), ma poi ha seguito Gesù e vive con lui. Strachan85 rimanda ad un membro del partito del sadducei. Winandy86 pensa ad un sacerdote Gerosolimitano, divenuto un membro attivo della prima comunità cristiana, forse quel Giovanni, compagno di Pietro, che compare anche negli Atti degli Apostoli. Ad un giudeo rimandano anche Culpepper87, Zumstein88, 77 78

Cfr. M. Hengel, Die johanneische Frage, Tübingen 1993, 202-215. 219-224. 306ss. Cfr. G. Maier, Johannesevangelium, II, Neuhausen -Stuttgart 1986, 249.

Cfr. M.W.G., Stibbe, John as Storyteller, in: Narrative Criticism and the Fourth Gospel, cit., 98-99. 79

80

Cfr. U. Wilckens., Il vangelo secondo Giovanni, cit., 346.

A Nicodemo pensa appunto Tindall, cfr. E.A.Tindall, John XVIII,15, in ExpTim 28 (1916-1917) 283-284. 81

Ad un discepolo gerosolimitano occulto pensano anche autori meno contemporanei, quali G. Calvino, M. Bucer. Luca Brugense, U. Grozio, citati da Fabris, cfr. R. Fabris, Giovanni, Roma 20032, 698. Tra quelli che rimandano a Giovanni figlio di Zebedeo, citiamo anche R.C.H. Lenski, The Interpretation of St. John’s Gospel, cit., 1193; Zahn identifica con Giacomo anch’egli figlio di Zebedeo, cfr. Th. Zahn, Das Evangelium des Johannes, Wuppertal 1983 (ristampa dal 19215-6), 627. 82

83 84

Cfr..J. Marsh, The Gospel of St. John, 19712, 588.

Cfr. J. Mateos.- J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, trad. it., Assisi 1982, 709.

Cfr. R.H. Strachan, The Fourth Gospel, its Significance and Environment, London 19413, 84-87 85

Cfr. J. Winandy, Le disciple que Jésus aimait pour une vision élargie du problème, cit., 75. 86

87 88

Cfr. R.A. Culpepper, John, the Sohn of Zebedee, Columbia 1994, 61.84.

Cfr. J. Zumstein, Le disciple bien-aimé, in FoiVie, 86,5 (1987) 47-58: 51.

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Se invece il discepolo è Giovanni figlio di Zebedeo89, diversi interpreti riprendono la spiegazione riproposta da Nonno90: il legame di conoscenza del sacerdote era di tipo commerciale, mediato magari dalla servitù della casa: Giovanni soleva portare il pesce nella casa del sacerdote Anna o Caifa91. Tale spiegazione si legge anche in un manoscritto medievale, “Historia passionis Domini” e risale probabilmente al Vangelo dei Nazareni92. Tale spiegazione è ritenuta da Edwards93, Fenske94, Weiss95. Carson96 osserva che Zedebeo doveva essere ricco abbastanza per avere degli operai (Mc 1,19-20). Benché sia un legame esile, Barrett97 preferisce non scartare l’ipotesi di un rapporto di parentela. Hendriksen98 però osserva che sia il rapporto di parentela che quello commerciale sono semplici supposizioni; resta però inspiegabile come Anna conobbe Giovanni. Anche Westcott99 osserva che nessuna tradizione sembra abbia conservato la natura di tale connessione tra Giovanni e il sacerdote, né è possibile tirare una conclusione soddisfacente 89 Così inoltre Plummer, benché osservi che tale opinione non è una certezza, cfr. A. Plummer, The Gospel according to St. John, cit., 311. Inoltre a Giovanni pensano gli antichi interpreti come Cirillo di Alessandria, Giovanni Crisostomo, Teofilatto, Eutimio, Girolamo, citati da Fabris, cfr. R. Fabris, Giovanni, cit., 698. A Giovanni ancora pensano anche Carson (cfr. D.A. Carson, The Gospel according to John, Grand Rapids 1991, 582); Goguel (cfr. M. Goguel Did Peter deny, in HarwTheolRev 25 [1932], 9); Zevini (cfr. G. Zevini, Vangelo secondo Giovanni, Roma 20098, 498).

Cfr. Nonni Panopolitani, Paraphrasis in Joannem, in PG 43, col 892: «et juvenis alius socius, qui piscatoris ex arte cognitus (o£v i|cquboélou paraè teécnhv gnwstoèv e\wné ), existens manifestus consueto pontifici». 90

Cfr. E. Hennecke, New Testament Apocrypha, Philadelphia 1963, 152; cfr. anche W. Drum, The Disciple Known to the High Priest, in ExpTim 25 (1913-14) 381-382; Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit., 548.. 91

92 93 94 95 96 97 98 99

Cfr. R.A. Culpepper, John, the Sohn of Zebedee, cit., 61.

Cfr. E.A.L., Edwards, The Gospel according to S. John, London 1954, 137-138.

Cfr. W. Fenske, Der Lieblingsjünger. Das Geheimnis um Johannes, Leipzig 2007, 105. Cfr. B. Weiss, Das Johannesevangelium, Göttingen 19029, 566. Cfr. D.A. Carson, The Gospel according to John, cit., 582.

Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, , cit, 439.

Cfr. W. Hendriksen, The Gospel of St. John, London 19602, 390.

Cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, cit.; 255.

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dall’indicazione di Policrate che sia Giovanni che Giacomo portavano il peétalon. Tenney100 ritiene possibile sia il legame commerciale (la fornitura del pesce) sia quello di parentela; ammette però che le motivazioni sono molto tenui. Un’altra spiegazione proposta è l’appartenenza di Giovanni, per motivi familiari, alla classe sacerdotale: la sua madre, Salomè, era sorella della madre di Gesù, la quale, a sua volta, era parente di Elisabetta, di stirpe sacerdotale (Lc 1,5); si troverebbe così una conferma di tale appartenenza nella testimonianza di Policrate, vescovo di Efeso nel 2^ secolo, riferita da Eusebio101, che Giovanni, divenuto sacerdote, portò il petalon, insegna del sommo sacerdote ebraico. Tale spiegazione è tenuta anche da Morris102, nell’ipotesi però che quel discepolo sia Giovanni figlio di Zebedeo. Il rimando alla conoscenza sulla base del commercio del pesce è sostenuta particolarmente da Smaltz103, secondo cui Zebedeo non era un semplice pescatore ma un mercante di pesci, che aveva una casa a Gerusalemme, dove esercitava il suo commercio; aveva perciò una posizione sociale elevata e doveva anche essere rispettato. Su questa stessa linea, più o meno, Wüllner104 spiega che il padre di Giovanni, Zedebeo, che assumeva per la pesca dei servi (Mc 1,20) e la sua madre, che nutriva delle ambizioni sui figli (Mc 10,35-45), non dovevano essere di bassa condizione sociale; ciò rende plausibile un rapporto di amicizia con il sommo sacerdote. Un’ulteriore spiegazione è data dal fatto che in quel tempo, in Giudea, la differenza delle classi sociali non era molto evidenziata; non sorprende perciò, come Beeckmann105 nota, che un pescatore di Galilea abbia potuto 100

Cfr. M.C. Tenney, The Gospel of John, Grand Rapids 1981, 172.

Cfr. Eusebio di Cesarea Storia Ecclesiastica, III, 31,3; V, 24,3, trad. it., a cura di S. Borzì e F. Migliore, Roma 2001, 179.300, Cfr. L.M. Rigato, L’apostolo ed Evangelista Giovanni, “sacerdote” Levitico, in RBIt 38 (1990), 451-483. 101

102 103

Cfr. L. Morris, The Gospel according to John, Grand Rapids 19952; 752. Cfr. W.M. Smaltz, John Son of Zebedee, AnglTR 35 (1933) 8-17.

Cfr. W. Wüllner, The Meaning of “fishers” of Men, Philadelphia-Westminster 1967, citato da Brown, (Cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 1009). 104

105 Cfr. P. Beeckmann, L’évangile selon S. Jean, d’après les meilleurs auteurs catholiques, cit., 364.

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avere contatti con il sommo sacerdote. Il questo senso si esprimono anche Braun106 e Lagrange107. 1.4. Osservazioni riassuntive Emerge lo sforzo degli interpreti di spiegare una indicazione evangelica, assai problematica, che “l’altro discepolo”, unito a Pietro nella sequela di Gesù, era noto al pontefice, e non di una generica e vaga conoscenza, bensì con un rapporto di intimità, che si distingue, ma che si avvicina alla parentela. Tale conoscenza non doveva limitarsi alla sola persona del sacerdote, ma a tutta la sua casa, compresa la servitù, al punto che nessuno dovette avere difficoltà, in quella notte circospetta a far entrare quest’altro discepolo. Tale facilità indica che quel discepolo era abituale frequentatore di quella casa. Emergono allora diversi interrogativi: quel discepolo coincide e si identifica con il discepolo che Gesù ama? Chi è poi questo discepolo che Gesù ama? È un gerosolimitano, appartenente magari alla classe sacerdotale? In questo caso la familiarità con il sommo sacerdote sarebbe facilmente spiegabile. Il problema invece si acuisce se si identifica questo discepolo non solo con il discepolo che Gesù amava, ma anche con Giovanni108 il figlio di Zebedeo. La domanda che emerge allora è la seguente: come un pescatore di Galilea, come è presentato dai sinottici (Mc 1,16-20) poteva godere di simile amicizia con il sommo sacerdote? Sono state avanzate sostanzialmente tre riposte: Zebedeo forniva e Giovanni portava il pesce alla casa del sacerdote: da ciò però non segue una conoscenza a più alto livello in una casa. Si dice inoltre che Giovanni appartenesse alla classe sacerdotale, spiegata passando attraverso la madre Salome, la sorella Maria, la parente Elisabetta; nasce però il problema se l’indicazione di Policrate che Giovanni portasse il petalion sia una con106 Cfr. F.M. Braun, Évangile selon Saint Jean, in L. Pirot-A. Clamer, La Sainte Bible X, Paris 19502; 456-455. 107

Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, Paris 19487, XVI.

Zahn identifica quel discepolo con il fratello Giacomo; il problema però rimane invariato. 108

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ferma o una deduzione dalle relazioni sopra indicate. Si dice, infine, che le classi sociali anticamente, in Giudea, non erano vistosamente marcate. Smartz e Wüllner cercano di salvare tutti gli aspetti spiegando che Zebedeo non era un semplice pescatore ma un commerciante di pesci, che risiedeva anche a Gerusalemme e godeva di una posizione sociale elevata. Dal momento che il testo non offre ulteriori indicazioni, tutte queste risposte sono destinate a restare sul piano della semplice supposizione. Benché guardiamo con simpatia alla posizione di chi identifica il discepolo amato con un gerosolimitano, un discepolo magari occulto, appartenente alla classe dei capi e farisei (12,42) e benché non ci sembri inverosimile la supposizione di Colson109 che fosse lui il padrone della casa a Gerusalemme, messa a disposizione di Gesù per la cena110 e offerta come punto di riferimento per i discepoli111, specificamente non entriamo nei problemi sopra indicati; al nostro scopo è sufficiente prendere atto che egli era discepolo di Gesù112, che era anche noto al pontefice e che si identifica con quel discepolo che Gesù amava che era presso la croce (19,26). 109 Cfr. J. Colson, L’énigme du disciple que Jésus aimait, Paris 1969, 109. La stessa posizione, più o meno, sembra essere espressa da Winandy, secondo cui tutto sembra orientarci a vedere nel compagno di Pietro, quale negli Atti degli Apostoli, e senza dubbio anche nel Giovanni della lettera ai Galati, come anche nel discepolo amato del 4° vangelo, un sacerdote gerosolimitano, divenuto un elemento attivo nella prima comunità cristiana, cfr. J. Winandy, Le disciple que Jésus aimait: pour une visione élargie du Probleme, in RB 105 (1998), 70-75: 75; l’opinione tradizionale che fosse Giovanni figlio di Zebedeo non poggia se non sulla testimonianza di Ireneo, cfr. ibid.,. 72.75. 110

legiata.

Ciò spiegherebbe la sua presenza alla cena (13,21-26) in posizione anche privi-

Ci chiediamo se questo discepolo non possa coincidere con la figura enigmatica, presente nei vangeli sinottici, alla quale Gesù mandò i discepoli per annunziare che presso di lui avrebbe celebrato la pasqua (cfr. Mt 26,18; Mc 14,14; Lc 22,11). Simile figura, magari dimenticata dalla tradizione evangelica, doveva essere familiare nella vita terrena di Gesù, se egli, Gesù, potè facilmente disporre della sua casa per una attività impegnativa quale la cena pasquale. Possiamo notare che, in tutti e tre gli evangelisti, il termine con cui Gesù si auto definisce, per bocca dei discepoli, è proprio o| didaéskalov e non in maniera relativa (il nostro maestro), ma in maniera assoluta (il maestro). Ciò indicherebbe che Gesù si sente maestro anche di quel personaggio. 111

Questo personaggio, verosimilmente autore del vangelo, di cui ignoriamo il nome, era legato, in qualsiasi modo, alla classe sacerdotale, ma, insieme, era, come Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, discepolo di Gesù. 112

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Come abbiamo già indicato, al nostro scopo interessano direttamente gli elementi offerti dall’evangelista; del resto, se egli nota alcuni elementi e ne tace altri, vuol dire che vuol orientare l’attenzione su quelli che indica. Questi elementi sono: anzitutto le due definizioni, contrastanti, del discepolo: che era discepolo (maqhthév) e che era noto (gnwstoév) al pontefice e del pontefice. Interessano inoltre le sue relazioni: al sacerdote da cui è conosciuto e a Gesù con cui entra. Interessano pure le sue azioni: entrare con Gesù e uscire determinando l’ingresso di Pietro, In uno studio più ampio interesserebbero anche gli elementi della au\lhé, della quéra e della qurwroév, che si leggono nel cap. 10. Interessa infine il problema se quel discepolo sia quello che troviamo poi presso la croce di Gesù (19,26). 2. Confronto con i vangeli sinottici Tutti e tre i vangeli sinottici concordano nel fatto che Simon Pietro, dopo la cattura, seguiva Gesù nel suo cammino verso la casa del sacerdote. In questo senso, possiamo stabilire un confronto tra i vari evangelisti: Mt 26,58 Mc 14,54 Lc 22,54 Gv 18,15 o| deè Peétrov kaì o| Peétrov o| deè Peétrov h\kolouéqei deè h\kolouéqei a\poè makroéqen h\kolouéqei au\t§% h\kolouéqhsen makroéqen a\poè makroéqen au\t§%

t§% }Ihsou% Sòmwn Peétrov kaì a"llov maqhthév

Tutti e tre i vangeli sinottici concordano nella menzione esplicita di Pietro, nell’uso del verbo a\kolouqeéw, all’imperfetto (h\kolouéqei) in Matteo e Luca e all’aoristo in Marco (h\kolouéqhsen)113; Matteo e Marco hanno il pronome dativo au\t§%114; tutti e tre hanno l’avverbio makroéqen (lontano, a distanza), preceduto, in Matteo, dalla particella a\po114. Matteo e Marco poi specificano che Pietro seguì Gesù «fino al palazzo del sacerdote (e$wv th%v au\lhèv [Matteo]; ei\v thèn au\lhén [Marco] tou% Alcuni codici maiuscoli (G W Q Y) e minuscoli (565. 700), inoltre i codici recensiti da Ferrar e da Lake ed altri pochi, leggono il verbo all’imperfetto. Probabilmente però si tratta di una armonizzazione agli altri due evangelisti 113

114 In Matteo la particella è omessa da diversi codici maiuscoli (C F L D) tra cui anche il codice Sinaitico, dai codici recensiti da Lake e da qualche codice minuscolo (33. 892).

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a\rciereéwv)»; Matteo inoltre precisa che Pietro «entrato dentro (ei\selqwèn e$sw)», sedeva; Marco poi specifica che egli (seguì) “fin dentro (e$wv e$sw)”.

Tutti e tre gli evangelisti specificano che Pietro sedeva115 con i servi116; Marco nota che si scaldava (qermainoémenov) al fuoco (proèv toè fw%v); Luca precisa che (i servi) avevano acceso (periayaéntwn) il fuoco (deè pu%r) e sedevano assieme (sugkaqisaéntwn) e Pietro sedeva in mezzo ad essi (meésov au\tw%n). Matteo non menziona il fuoco: si limita a precisare che Pietro sedeva con i servi per vedere (i\de_n) la fine (toè teélov). I tre evangelisti, pur con delle differenze letterarie, concordano nel fatto che Pietro seguì Gesù fin dentro il palazzo del sacerdote e lì si era messo a sedere con i servi. Tutti e tre sembrano seguire una tradizione comune, ripresa però in maniera originale. Matteo indica lo scopo per cui Pietro entrò: vedere quale sarebbe stata la fine della vicenda; Marco e Luca non indicano lo scopo, ma specificano la posizione di Pietro: si scaldava con gli altri servi. In questa narrazione il quarto evangelista in parte concorda, ma in parte anche diverge dalla tradizione sinottica, completandola con dei particolari che sembrano rivelarlo testimone oculare. Concorda in alcuni elementi essenziali, nel fatto stesso cioè della sequela di Pietro e nell’uso del verbo a\kolouqeéw all’imperfetto (h\kolouéqei)117. Prescindendo poi dall’uso dell’espressione più lunga Sòmwn Peétrov, il quarto evangelista discorda soprattutto in due elementi fondamentali: positivamente nella menzione dell’altro discepolo, non ben identificato, coinvolto nella sequela, e, negativamente, nel fatto che omette l’indicazione che Pietro seguiva Gesù da lontano. Benché, anche nel suo racconto, l’accento sembri poggiare soprattutto su Simon Pietro, il quarto evangelista introduce così anche la figura di un Matteo e Luca usano il verbo e\kaéqhto; Marco scrive che h&n sugkaqhémenov (era consedente): entrambi sottolineano la continuità dell’azione. 115

116

Matteo e Marco hanno l’espressione metaè tw%n u|phretw%n (con i servi)

Secondo Westcott l’imperfetto vede l’azione nel suo progresso, cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, cit., 255. Secondo Plummer l’imperfetto ha valore descrittivo, cfr. Cfr. A. Plummer, The Gospel according to St. John, cit., 311; così anche Tenney, Cfr. M.C. Tenney, The Gospel of John, cit., 172. 117

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discepolo, di cui i Sinottici non dicono nulla. Accomuna così nella sequela di Gesù due personaggi. Quanto poi all’ingresso di Pietro nel palazzo del Sacerdote, il quarto evangelista, nei vv. 15b-16, presenta un racconto molto più articolato. Egli fa entrare il discepolo e lascia Pietro fuori; poi, in sintonia con i vangeli sinottici, fa entrare anche Pietro, però con la mediazione del discepolo, introducendo anche la figura della portinaia (h| qurwroév), del tutto ignorata dai vangeli sinottici. Entrato anche lui nella au\lhé del sacerdote, specificamente Anna, Pietro esprimerà il primo dei tre rinnegamenti davanti alla serva portinaia (v. 17) che lo interroga; poi, stando (e!stwév) con gli altri servi e scaldandosi (qermainoémenov) anche lui (vv.18b.25), consumerà gli altri due rinnegamenti (vv. 25-27a). Con i vangeli sinottici, pure il quarto evangelista menzionerà il canto del gallo (v. 27b), ma, a differenza di essi, non dirà nulla sul pentimento di Pietro, né cioè che uscì né che pianse amaramente. Così, dopo il rinnegamento, il quarto evangelista lascia Pietro nella au\lhé del sacerdote. 3. L’altro discepolo La vicenda di Pietro e quella dell’anonimo discepolo appaiono, nella narrazione del quarto evangelista strettamente legate e l’una getta luce sull’altra. Fermando però, per il momento, la nostra attenzione soltanto sull’anonimo discepolo; l’evangelista, dopo averlo presentato accomunato a Pietro nella sequela, passa subito, nei vv. 15b-16, a narrare la sua vicenda. Troviamo in questi versi una descrizione esclusiva del quarto evangelista; in parte alquanto particolareggiata, ma in parte anche vuota, perché priva di ulteriori particolari, che invece si desidererebbero118. La figura del discepolo giovanneo che seguiva assieme a Simon Pietro, è difficilmente accostabile alla figura di “un certo giovane (neanòskov tiv)”, rivestito di una sindone, che seguiva pure (sunhkolouéqei), di cui parla Mc 14,51; le due figure appaiono del tutto opposte: il discepolo giovanneo segue Gesù fino al palazzo del sacerdote e, come vedremo, si tratta di una figura che resta legata a Gesù; il “giovane” di Marco invece, al momento della cattura, lasciata la sindone, fugge nudo e ovviamente abbandona Gesù. 118

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3.1. Struttura letteraria La struttura letteraria dei vv. 15b-16, che narrano la vicenda del discepolo, è insieme concentrica e alternata. Dopo l’espressione o| deè maqhthèv e\ke_nov il testo può essere strutturato nel seguente modo: o| deè maqhthèv e\ke_nov h&n gnwstoèv t§% a\rciere_ kaì suneish%lqen t§% }Ihsou% ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv o\ deè Peétrov ei|sthékei proèv t+% quérç e"xw e\xh%lqen ou&n o| maqhthèv o| a!llov o| gnwstoèv tou% a\rciereéwv kaì eùpen t+% qurwr§% kaì ei\shégagen toèn Peétron

Lo schema è concentrico in relazione all’esclusiva vicenda del discepolo, è invece alternato in relazione anche alla menzione di Pietro. In relazione alla vicenda esclusiva del discepolo, lo schema sarebbe il seguente: h&n gnwstoèv t§% a\rciere_ kaì suneish%lqen t§% }Ihsou% ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv e\xh%lqen ou&n o| maqhthèv o| a!llov o| gnwstoèv tou% a\rciereéwv kaì eùpen t+% qurwr§%

3.2. L’espressione h&n gnwstoèv t§% a\rciere_ Due volte è menzionato il fatto che il discepolo era noto (gnwstoév) al pontefice. La prima volta, in relazione all’ingresso; la seconda volta in relazione all’uscita. Entrambe le volte il termine gnwstoév è messo esplicitamente in rapporto al sacerdote, menzionato però, la prima volta al dativo (t§% a\rciere_), la seconda volta al genitivo (tou% a\rciereéwv). La prima volta, il dativo t§% a\rciere_ deve avere il valore di un dativo di relazione o anche di termine; la seconda volta, invece, il genitivo tou% a\rciereéwv non sembra poter avere altro valore se non quello di possesso o di appartenenza119. Nota però Brown che tra le due espressioni non c’è differenza di significato e la seconda espressione è dovuta probabilmente alla mano di un redattore, Cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 1011. 119

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Che il discepolo, in quella notte quando la circospezione doveva essere anche notevole, poté entrare nella casa del sacerdote perché gli era noto, è una spiegazione molto soddisfacente; possiamo però notare che, concretamente, la vera e diretta causa dell’ingresso non è la conoscenza da parte del sacerdote, bensì da parte dei servi: erano essi infatti, specificamente la portinaia, che, in quella notte particolare, dovevano selezionare l’ingresso nella sua casa; nessuno dovette essere sorpreso della sua presenza e nessuno gli avrebbe sbarrato il passo. Ciò indica che quel discepolo era da tutti conosciuto e ben noto in quella casa. La seconda espressione, o| gnwstoèv tou% a\rciereéwv, è invece del tutto sorprendente; l’evangelista anzi sembra caricarla di maggiore enfasi per cinque motivi: 1. Anzitutto anche il termine gnwstoév ha l’articolo (o| gnwstoév); 2. Inoltre tutta l’espressione o| gnwstoèv tou% a\rciereéwv di per sé sarebbe inutile perché l’evangelista ha già parlato di tale conoscenza: se la ripropone, vuol dire che essa, in relazione all’uscita, per lui è un fatto molto importante; 3. Ancora è comprensibile la relazione di tale conoscenza all’ingresso del discepolo nella casa del sacerdote: se poté entrare, è perché era conosciuto; non si comprende invece la relazione alla sua uscita da essa; 4. Inoltre ancora tutta l’espressione o| gnwstoèv tou% a\rciereéwv è apposizionale rispetto all’espressione precedente o| maqhthèv o| a!llov, si direbbe che essa costituisce quasi una definizione: quell’altro discepolo è definibile come colui che è noto del sacerdote; 5. Il termine tou% a\rciereéwv infine è al genitivo: non esprime perciò una semplice relazione, ma una vera e propria appartenenza; Il fatto che il discepolo «era noto al sacerdote (h&n gnwstoèv t§% a\rciere_)» e che è definito “il noto del sacerdote (o| gnwstoèv tou% a\rciereéwv)” appare così un fatto assai importante per l’evangelista, non solo in relazione all’ingresso, ma soprattutto in relazione all’uscita. Emerge allora la domanda: perché l’autore sottolinea tale relazione di conoscenza? Ma, prima ancora, che si intende con il termine gnwstoév?

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Barrett120 fa notare che nei LXX il termine è riferito ad un amico intimo, non ad un parente121; così pure Bruce122. Pure Carson123 nota che il termine gnwstoév indica più di una semplice amcizia; secondo Kysar124 il termine può avere la forza di “amico” o di “congiunto”. Secondo Schlatter125 però non indica necessariamente un amico, ma soltanto una persona non sconosciuta. Il termine gnwstoév è aggettivo verbale del verbo ginwéskw. Esso, nel NT, non è frequente: è usato complessivamente 15 volte, ed è un termine prevalentemente lucano: si legge infatti 12 volte nell’opera lucana: due volte nel terzo vangelo126 e 10 volte negli Atti degli Apostoli127. Poi si legge una sola volta nell’epistolario paolino, in Rm 1,19, e due volte, nei nostri due testi giovannei, che caratterizzano la relazione del discepolo al sacerdote. Negli Atti degli Apostoli il termine è usato il più delle volte al neutro. In 1,19 esso si riferisce al fatto di Giuda, che è divenuto noto (gnwstoén) agli abitanti di Gerusalemme. In 2,14 Pietro desidera che sia noto a tutti (tou%to u|m_n gnwstoèn e"stw) il senso degli eventi, riguardanti Gesù, verificatisi a Gerusalemme; così anche in 4,10, in 13,38, in 19,17, in 28,28. In 4,16 si parla di un segno conosciuto (gnwstoén) compiuto per mezzo degli Apostoli e già divenuto noto (faneroén) a tutti gli abitanti di Gerusalemme: la guarigione dello storpio. Inoltre in 9,42 si parla del fatto di Tabita resuscitata da Pietro, divenuto noto (gnwstoén) in tutta Ioppe. In 15,18 le “cose note (gnwstaé) da sempre” sono quelle predette dal profeta Amos, di cui, nei precedenti vv. 16-17, si citano i vv. 9,11-12. Mai, negli Atti degli Apostoli, il termine gnwstoév è riferito o caratterizza persone. In Rm 1,19, nell’espressione toè gnwstoèn tou% qeou%, il termine toè gnwstoén sembra avere un senso più 120

Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 439.

Cfr. A. Loisy, Le quatrième évangile, cit., 459; P. Schanz, Kommentar über das Evangelium des heiligen Johannes, Tübingen 1885, 537. 121

122 123 124

Cfr. F.F. Bruce, The Gospel of John, Grand Rapids (Michigan) 1984, 344-345. Cfr. D.A. Carson, The Gospel according to John, cit. 581-582. Cfr. R. Kysar, John, Minneapolis 1986, 272.

Cfr. A. Schlatter, Der Evangelist Johannes. Wie er spricht, denkt und glaubt, Stuttgart 1930, 332. 125

126 127

Lc 2,44; 23,49.

At 1,19; 2,14; 4,10.16; 9,42; 13,38; 15,18; 19,17; 28,22.28.

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passivo: “ciò che è conoscibile” di Dio. Il genitivo tou% qeou avrebbe un valore oggettivo. I soli testi, utili al nostro scopo, sono i due del terzo vangelo, dove il termine gnwstoév è riferito a persone. In Lc 2,44, nel contesto dell’episodio dello smarrimento di Gesù, Giuseppe e Maria cercavano (a\nezhétoun) Gesù tra i parenti (e\n to_v suggeneu%sin) e le persone conosciute (kaì to_v gnwsto_v). In questo testo le persone conosciute si distinguono dai parenti, ma sono ad essi relazionate; queste persone “conosciute” dovevano godere di una certa familiarità con la famiglia di Gesù, se si riteneva possibile che egli si fosse unito a loro. In Lc 23,49 l’evangelista ci riporta al Calvario e scrive che «stavano (ei|sthékeisan) tutti i suoi conoscenti (paéntev oi| gnwstoò) da lontano e le donne che lo avevano seguito dalla Galilea guardando queste cose». In questo testo il termine oi| gnwstoò, che distingue alcune persone dalle donne presenti, sembra abbracciare una gamma di persone molto ampia, comprendente non solo semplici conoscenti, ma anche amici, in un certo grado di intimità, e anche parenti: tutti coloro che, in diversi modi, potevano relazionarsi a Gesù. I due testi lucani suggeriscono che il termine gnwstoév abbia nel suo contenuto una certa ampiezza. Esso specificamente non indica il parente, dal quale, come appare da Lc 2,44, sembra distinguersi, ma non indica nemmeno un qualsiasi conoscente, magari soltanto di vista o con cui si è avuto un qualche contatto sporadico; indica invece qualcuno con cui si è avuta una certa familiarità, e con il quale, come appunto suggeriscono i due testi lucani, si ha potuto avere probabilmente anche una certa intimità di rapporti. Anche nei LXX il termine gnwstoév è alquanto raro: si legge in tutto 23 volte e traduce una forma del verbo (adyf ; come sostantivo si legge però soltanto cinque volte: in 2Re 10,11; 2Esd 15,10 (LXX); Sal 30 (31),12; 87 (88),8.18. In 2Re 10,11 si legge che Ieu uccise tutti i superstiti della famiglia di Acab, in Iezreel, i suoi grandi, i suoi conoscenti (touèv gnwstouév), i suoi sacerdoti. In 2Esd 15,10 (LXX), gli oi| gnwstoò sono relazionati agli oi| a\delfoò (i fratelli). Nel Sal 30(31), 12 (LXX) il salmista lamenta di essere assai divenuto obbrobrio dei suoi nemici e vicini, e orrore (foébov) per i suoi conoscenti (to_v gnwsto_v). Nel Sal 87(88), 8 (LXX) ancora il salmista lamenta davanti

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a Dio di avere Egli allontanato (e\maékrunav) da lui i suoi conoscenti (touèv gnwstouév) e questi lo hanno reso un orrore; nel v. 19 poi, sempre secondo la versione dei LXX, leggiamo: «hai allontanato da me amico (fòlon) e vicino (plhsòon) e i miei conoscenti (touèv gnwstouév) a motivo della miseria (a\poè talaipwròav)». In tutti questi testi il sostantivo o| gnwstoév non indica un conoscente qualsiasi, ma una persona con la quale si ha, o si è avuto, un rapporto di amicizia, o, comunque, una certa familiarità e intimità. Nel nostro testo di Giovanni, il termine gnwstoév, in base ai testi sopra citati e anche alla descrizione delle circostanze, sembra avere un valore molto ampio. Il dativo t§% a\rciere_ indica che quel discepolo non era soltanto un semplice conoscente del sacerdote, ma che doveva avere con lui anche un rapporto diretto, che non può essere nemmeno la condizione di menager del pesce a Gerusalemme, presupposta da qualche interprete. Si tratta meglio si una persona che doveva avere una certa familiarità con il sacerdote. Forse apparteneva anche lui alla classe sacerdotale? Forse era un amico intimo? Il testo non permette però precisare meglio: tutta l’enfasi poggia sulla particolare relazione del discepolo al sacerdote. In ogni caso, il discepolo doveva essere una persona che godeva di una certa familiarità con il sacerdote e doveva avere anche libero e frequente accesso in quella casa, tanto da potere facilmente entrare in essa in un momento che doveva essere circondato da massima circospezione e cautela, quale appunto quello dell’arresto di Gesù e della sua conduzione nella casa del sacerdote. I fatti seguenti, indicati dall’evangelista, sembrano confermare tale prospettiva. Una conferma anzitutto sembra provenire dal fatto che Pietro rimane fuori: era con il discepolo, ma a lui, oscuro e sconosciuto galileo, evidentemente, dovettero sbarrargli il passo e, chiusa la porta, lasciarlo fuori. Una conferma inoltre viene anche dal fatto che il discepolo, uscendo, poté intervenire presso la portinaia e mediare così l’ingresso di Pietro. È evidente che questa fece entrare Pietro in forza della sua parola e, come ci viene anche da pensare, sulla sua garanzia. In ogni caso, la particolare relazione di questo discepolo al sacerdote appare molto evidente. La seconda espressione o| gnwstoèv tou% a\rciereéwv, come abbiamo già osservato, è ancora più sorprendente, perché relazionata all’uscita, e più enfatica nella sua formulazione mediante il genitivo tou% a\rciereéwv: il di-

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scepolo che esce non solo è relazionato al sacerdote, ma il genitivo suggerisce che egli appartenga a lui e, in certo senso, a lui è anche sottomesso128. Emerge allora la domanda: perché l’evangelista menziona ancora una volta la relazione o, addirittura, l’appartenenza del discepolo al sacerdote in rapporto alla sua uscita? 3.3. L’espressione kaì suneish%lqen t§% }Ihsou% ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv Il senso immediato di questa espressione appare abbastanza evidente: quel discepolo era noto al pontefice e, di conseguenza, conosciuto verosimilmente anche dai servi, in quella casa. Presentatosi perciò alla porta, pur in un momento particolarmente difficile e, come abbiamo già detto, comprensibilmente circospetto, nessuno ebbe difficoltà a farlo entrare e poté facilmente avere libero accesso nella casa del sacerdote. Tuttavia l’espressione, ad una lettura più attenta, suscita qualche perplessità e pone qualche domanda. In particolare ci si può chiedere se essa, oltre il senso immediato sopra indicato, non contenga anche un altro significato ed una prospettiva più profonda oltre quella più concreta e contingente. Tutta l’espressione contiene quattro elementi: il verbo diretto (kaì suneish%lqen), un dativo di termine, o di relazione o di compagnia (t§% }Ihsou%), un complemento di moto a luogo (ei\v thèn au\lhén), un genitivo di possesso (tou% a\rciereéwv). Il verbo suneish%lqen è strutturalmente relazionato a Gesù (t§% }Ihsou%), l’espressione ei\v thèn au\lhén invece è relazionata al sacerdote (tou% a\rciereéwv) a cui appartiene. L’azione di entrare, compiuta dal discepolo, è quindi relazionata a Gesù; essa però è compiuta in un luogo appartenente al sacerdote. Si può allora proporre il seguente schema strutturale:

kaì suneish%lqen t§% }Ihsou%

ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv

Si possono confrontare, in questo stesso senso, diversi altri genitivi: “Simone di Giovanni (21,15-17)”, “Giuda di Simone Iskariota (6,71;13,2.26)”, “Maria di Kleopa (19,25)”; “i (figli) di Zebedeo (21,2)”. 128

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Il luogo (ei\v thèn au\lhén) è del sacerdote (tou% a\rciereéwv), ma l’azione (kaì suneish%lqen) è compiuta in relazione a Gesù (t§% }Ihsou%). Si avverte una certa antitesi tra Gesù e il sacerdote. Possiamo anche osservare che tutta l’espressione contiene probabilmente anche degli elementi non necessari: così non era necessario il verbo doppiamente composto suneish%lqen, ma era sufficiente il verbo composto una volta sola ei\sh%lqen; come pure non era necessario il dativo t§% }Ihsou%: sarebbe stato sufficiente che l’evangelista avesse detto che il discepolo era noto al pontefice e, di conseguenza (kaò), entrò nel suo palazzo. In questa prospettiva, oltre il verbo doppiamente composto, risultano esuberanti non solo il dativo t§% }Ihsou% ma anche il genitivo tou% a\rciereéwv129. Queste osservazioni pongono allora due domande: perché l’evangelista usa il verbo doppiamente composto suneish%lqen e non il verbo composto una sola volta ei\sh%lqen, seguito magari da una particella di compagnia quale metaé o suén? Qual è il valore della particella iniziale kaò? Nel senso immediato quest’ultima particella ha un valore consecutivo: il discepolo era noto al pontefice e, di conseguenza (kaì), entrò nel suo palazzo; può avere però anche un altro senso? Quanto al verbo suneish%lqen, il verbo suneiseércomai, nel vangelo di Giovanni, si legge soltanto due volte: nel nostro testo di 18,15 e in 6,22, a differenza del verbo una sola volta composto ei\seércomai, che si legge, nel vangelo, ben 15 volte. Possiamo anche notare che i due usi del verbo suneiseércomai sopra indicati sono i soli anche in tutto il NT. Tuttavia questo verbo doppiamente composto non è creazione di Giovanni; esso, benché raramente, è attestato anche nella grecità classica e nel greco dei LXX. In questi ultimi si legge cinque volte: in Est 2,13e Gb 22,4 traduce l’espressione ebraica {i( )owb; inoltre in Es 21,3, Sir 39,2; 1Mac 12,48. In Est 2,13 e Gb 22,4 è costruito con il dativo di compagnia, in Es 21,3 con metaé e il genitivo. 129 Si può pure dire che il dativo t§% }Ihsou% risulta in più anche dal punto di vista strutturale, come appare infatti dalla seguente relazione:

h&n gnwstoèv kaì suneish%lqen t§% }Ihsou% t§% a\rciere_ ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv

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In Gv 6,22 leggiamo l’espressione ou\ suneish%lqen to_v maqhta_v au\tou% o| }Ihsou%v ei\v toè plo_on (non venne con i suoi discepoli Gesù nella barca). Abbiamo ancora una forma del verbo doppiamente composto suneiseércomai, seguito da un dativo di compagnia; Gesù non era salito sulla barca con i suoi discepoli, ma questi erano andati via soli. Possiamo allora concludere che il senso primo e immediato dell’espressione di 18,15 kaì suneish%lqen t§% }Ihsou% ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv è che il discepolo, essendo noto al pontefice, entrato Gesù nel suo palazzo, poté entrare anche lui. In questo senso la congiunzione kaò, come abbiamo già osservato, ha un significato consecutivo. Tuttavia alla luce di tutto quanto il contesto, tutta l’espressione sembra contenere, o almeno sembra essere suscettibile di un altro significato. Abbiamo già osservato come l’espressione t§% }Ihsou% non era necessaria; sembra anzi contraria alla storia: il discepolo noto al pontefice infatti, per potere facilmente entrare, avrebbe dovuto probabilmente presentarsi staccato da Gesù. Possiamo inoltre notare che tutta l’espressione kaì suneish%lqen t§% }Ihsou% si trova tra due espressioni particolari: h&n gnwstoèv t§% a\rciere_ e ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv. Otteniamo così il seguente schema: h&n gnwstoèv t§% a\rciere_ kaì suneish%lqen t§% }Ihsou% ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv.

La prima e la terza espressione contengono una relazione al sacerdote: il discepolo è noto al sacerdote e il palazzo è del sacerdote. Tra queste due espressioni si trova quella che esprime invece relazione a Gesù. Queste osservazioni suggeriscono una antitesi tra il sacerdote e Gesù. Tutta l’espressione kaì suneish%lqen t§% }Ihsou% può avere allora anche un altro significato. Il verbo suneish%lqen esprime comunanza di azione (suén): Gesù e il discepolo compiono la stessa azione di entrare. Il dativo t§% }Ihsou%, inoltre può essere non solo un dativo di compagnia, bensì anche un dativo di relazione. Il discepolo è noto al pontefice ed entra in un luogo che appartiene al pontefice, ma lui stesso non è relazionato al pontefice, non è solidale con lui, ma è relazionato a Gesù, orientato a Gesù, solidale con Lui, coinvolto in Lui. In questo senso, la congiunzione kaò può assumere

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anche un valore avversativo, “ma”. Il discepolo è noto al pontefice, ma entra nel suo palazzo solidale non con lui, bensì con Gesù. Se questa nostra considerazione è giusta, l’espressione kaì suneish%lqen t§% }Ihsou% è suscettibile allora di due letture, che possiamo definire, rispettivamente, storica e spirituale. In prospettiva storica, l’espressione avrebbe un senso consequenziale: il discepolo era noto al pontefice e perciò (kaò) poté liberamente entrare con Gesù nel suo palazzo, senza che alcuno gli impedisse l’accesso; in prospettiva spirituale, l’espressione avrebbe invece un senso avversativo: il discepolo era noto al pontefice ma (kaò) entrò con Gesù, solidale non con il sacerdote, bensì con Gesù, di cui è divenuto discepolo (maqhthév). In questa seconda prospettiva, l’espressione indicherebbe la totale separazione del discepolo dal sacerdote. Il discepolo si è separato dal sacerdote. Tale separazione emerge ancora più netta e radicale nella seconda menzione della conoscenza, quella relazionata all’uscita. Abbiamo ripetutamente indicato l’enfasi della seconda espressione o| gnwstoèv tou% a\rciereéwv (il noto del pontefice), quella relazionata al verbo e\xh%lqen, che indica ancora di più l’appartenenza di quel discepolo al sacerdote: nonostante che appartenesse strettamente al sacerdote, quasi a lui sottomesso, quel discepolo tuttavia uscì dalla sua casa. Perché uscì da quella casa? Gli interpreti spiegano per far entrare Pietro130. L’evangelista non offre alcuna spiegazione: lascia però pensare che il discepolo uscì da essa perché non gli competeva più stare in essa: quello non era più il suo posto. In realtà l’espressione e\xh%lqen o| maqhthv, nel senso spirituale come già l’abbiamo letta, sembra, tra le righe, contenere anche il motivo per cui il Beeckmann spiega che Pietro attendeva non alla porta ma sulla strada; Giovanni, sospettando che il suo compagno era impaziente di vedere il suo maestro, si incaricò di farlo entrare, cfr. P. Beeckmann, L’évangile selon S. Jean, d’après les meilleurs auteurs catholiques, cit., 364. Inoltre osserva G. Maier che, non avendo Pietro alcuna chance per entrare, affrontò il rischio e parlò con la portinaia, cfr. G. Maier, Johannesevangelium, II, cit., 249. Così anche L. Morris, The Gospel according to John, cit.; 752 e Zahn, secondo cui Giacomo (con cui è identificato il discepolo), accortosi che non si era lasciato entrare Pietro, tornò indietro, scambiò qualche parola con la portinaia e gli riuscì di far entrare Pietro, cfr. Th. Zahn, Das Evangelium des Johannes, Wupprtal 1983 (rist. dal 19215-6), 627. 130

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discepolo uscì dalla casa del sacerdote. Possiamo infatti notare anche la seguente struttura letteraria: h&n gnwstoèv t§% a\rciere_ kaì suneish%lqen t§% }Ihsou% ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv e\xh%lqen o| maqhthv o| gnwstoèv tou% a\rciereéwv

Questo schema suggerisce che il discepolo, noto al pontefice, che apparteneva strettamente a lui, è entrato nella sua casa solidale non con lui ma con Gesù; ma ne è anche uscito, perché è diventato ed è discepolo (o| maqhthév) di Gesù. Questa spiegazione apparirà ancora più chiara se confrontiamo, per continuità, la vicenda del discepolo con quella del cieco nato, delineata dall’evangelista nel cap. 9, e, per antitesi, con quella anche di Pietro, nello stesso contesto del processo-dialogo di Gesù davanti ad Anna, il pontefice. Stabiliamo adesso un confronto con il cieco nato; confronteremo poi la vicenda del discepolo con quella di Pietro, dopo avere considerato specificamente quest’ultima. 3.4. La vicenda del cieco nato (cap. 9) Confrontiamo la vicenda del discepolo con quella del cieco nato. Si tratta non di considerare tutto il cap. 9, bensì di stabilire soltanto una analogia nelle linee essenziali: nulla però autorizza a identificare il discepolo di 18,15-16 con il cieco nato del cap. 9131. In 9,12, dopo avere narrato il miracolo del cieco che, grazie a Gesù e alla sua azione, ha recuperato la vista (vv. 1-7) e dopo avere riferito la questione sorta tra alcuni se l’uomo guarito fosse lo stesso di colui che era 131 Tuttavia l’analogia tra le due vicende non impedisce di pensare che dietro la vicenda del cieco nato l’evangelista possa avere nascosto la sua biografia spirituale. Si apre il problema sulla relazione tra il discepolo, l’evangelista, il cieco nato. Da tale problema però prescindiamo.

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cieco e che mendicava (vv. 8-11), l’evangelista conclude con la domanda rivolta al cieco guarito: «dove è quello?», cioè Gesù; l’uomo risponde: «non so (ou\k oùda)». Del luogo dove Gesù è non possiede alcuna conoscenza. Il racconto seguente si sviluppa alla luce di questa domanda: dal momento che non si sa dove Gesù è, bisogna mettersi alla sua ricerca. Per trovare Gesù il cieco guarito deve mettersi sulle sue tracce e compiere un cammino. Nel v. 13 si legge infatti che «conducono (a"gousin) lui (il cieco che ormai vede) dai farisei»132; inizia così un cammino del cieco, alla ricerca di Gesù: questo passa attraverso il tribunale dei farisei. Dal v. 14 fino al v. 33 segue una lunga disputa tra il cieco e i farisei, dove sono coinvolti anche i suoi genitori. I farisei fanno di tutto per indurre il cieco guarito a sconfessare Gesù, quello invece ne prende le difese e progredisce sempre più nella sua conoscenza. Nel v. 27 il cieco chiede ai farisei se anche loro vogliono essere “discepoli (maqhtaò)” di Gesù: questi lo maledicono e ribattono che lui invece è discepolo: «tu discepolo (maqhthév) sei di quello» (v. 28). La disputa culmina nel v. 34 dove l’evangelista narra che i farisei cacciarono fuori (e\xeébalon au\toèn e"xw) il cieco. Cacciato fuori, questo è incontrato da Gesù, il quale si fa riconoscere da lui e gli dichiara la sua identità, determinando così la professione di fede del cieco guarito (vv. 38). Emergono quattro punti nel racconto del cieco nato, confrontabili con la vicenda del discepolo nel nostro testo: il cieco è condotto dai farisei, confessa ed è riconosciuto discepolo di Gesù, è cacciato fuori, è incontrato da Gesù. Possiamo allora stabilire il seguente confronto tra il cieco nato e guarito e il discepolo: Il cieco Il discepolo Conducono dai farisei entrò (suneish%lqen) È riconosciuto discepolo È cacciato fuori uscì (e\xh%lqen) È incontrato da Gesù Il discepolo presso la croce133. Il verbo a"gw, benché in forma all’aoristo (h"gagon), è usato, in 18,13, riferito alla conduzione di Gesù dal Getsemani al palazzo di Anna; è usato però all’indicativo presente (a"gousin), in 18,28, nella conduzione di Gesù da Caifa a Pilato. 132

133 Sul problema se il discepolo di 18,15-16 sia quello stesso che troviamo presso la croce (19,26), torneremo più avanti; adesso ne presupponiamo soltanto l’identità.

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Alla luce di tale analogia, possiamo dedurre che il discepolo, noto al pontefice, entrò nella casa di questi solidale, non però con lui bensì con Gesù, in essa si professò suo discepolo (maqhthév), fu riconosciuto tale, fu cacciato fuori e dovette uscire. Tutto ciò può richiamare un altro elemento del racconto del cieco nato. I genitori del cieco, interrogati se quello era il loro figlio e come adesso ci vede, risposero evasivamente, rimandando all’età adulta di quello perché avevano paura dei giudei (9,19-21): questi avevano stabilito (suneteéqeinto) (v. 22) che, se qualcuno confessasse Gesù come Cristo, doveva essere estromesso dalla sinagoga (a\posunaégwgov geénhtai). Tutto ciò concorda con quanto riferisce l’evangelista stesso in 12,42, che cioè molti dei capi credettero in Gesù, ma non solevano confessare (ou\k w|moloégoun) a motivo dei farisei (diaè touèv farisaòouv) per non essere estromessi dalla sinagoga (a\posunaégwgoi geénwntai). In questa prospettiva appare assai verosimile, in 18,16, che il discepolo, noto al pontefice, avendo confessato Gesù e essendo stato riconosciuto come suo discepolo, nonostante la sua stretta relazione con il pontefice, sia stato cacciato via e sia uscito. La vicenda di Pietro, alla quale ci riferiamo subito dopo, benché in maniera antitetica, confermerà tutto ciò. 4. La vicenda di Pietro in 18,15-25 Non entriamo specificamente adesso nella globale vicenda di Pietro quale si è verificata nel palazzo di Anna. Ci limitiamo soltanto ad indicare degli elementi utili al nostro confronto Abbiamo già indicato quanto l’evangelista narra in 18,15-16: Pietro, assieme all’altro discepolo seguiva Gesù. A differenza però dei vangeli sinottici, secondo i quali Pietro, giunto nella casa del sacerdote, entrò immediatamente in essa, il quarto evangelista narra che egli rimase fuori, essendo entrato con Gesù soltanto l’altro discepolo. Poi questi uscì, parlò (eùpen) con la portinaia (t+% qurwr§%), e mediò, in questo modo, l’ingresso (ei\shégagen) anche di Pietro (v. 16). Segue subito (v. 17), la prima domanda a Pietro, rivoltagli proprio dalla portinaia, se

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anche lui è dei discepoli di Gesù. Questa domanda provoca il suo primo rinnegamento. In sintonia con i vangeli sinottici, pur con notevoli differenze, anche il quarto evangelista narra i tre rinnegamenti di Pietro nella casa del sacerdote. Una differenza fondamentale tra i Sinottici e Giovanni consiste nel fatto che quest’ultimo, a differenza di essi, non narra i tre rinnegamenti in blocco, susseguenti immediatamente l’uno all’altro, ma, tra il primo (v. 17) e il secondo (v. 25b), introduce la duplice menzione della posizione di Pietro che si scaldava (vv. 18.25a) e, soprattutto il dialogo tra Gesù e il sacerdote (vv. 19-24)134. Un’altra differenza fondamentale tra Giovanni e i Sinottici consiste nel fatto che solo in Giovanni, le prime due volte, Pietro è interrogato se è dei “discepoli (e\k tw%n maqhtw%n)” di Gesù. La prima e la seconda volta Pietro appunto nega di essere discepolo di Gesù. È importante pure notare che Anna interrogò Gesù (18,19) sui suoi discepoli (perì tw%n maqhtw%n au\tou%) e sulla sua dottrina (perì th%v didach%v au\tou%). Gesù rimanda ai testimoni auricolari (18,21: touèv a\khkooétav). Pietro, interrogato appunto se è discepolo, nega, prendendo così le sue distanze da Gesù e, in certo senso, anche smentendolo. La terza differenza fondamentale consiste nel fatto che, mentre, secondo i Sinottici, al canto del gallo, Pietro ricordò le parole di Gesù135, e, uscito fuori, pianse, secondo Matteo e Luca anche amaramente136, Giovanni, che pur menziona il canto del gallo (18,27), non dice nulla né sul fatto che Pietro uscì, né, tanto meno, che pianse amaramente; egli lascia Pietro dentro il palazzo di Anna, con il suo rinnegamento. Nel quarto vangelo il canto del gallo sembra assumere un significato diverso: non segna l’inizio 134 Si ottiene il seguente schema concentrico: Primo rinnegamento (v. 17), Posizione di Pietro (v. 18), Dialogo tra Gesù e il sacerdote (vv. 19-24), Posizione di Pietro (v. 25a), Secondo rinnegamento (v. 25b).

135 Luca aggiunge anche che Pietro fu raggiunto pure da uno sguardo di Gesù (cfr. Lc 22,61a). 136

Cfr. Mt 26,65 (e"klausen pikrw%v); Mc 14,72 (e"klaien); Lc 22,62 (e"klausen pikrw%v).

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del ravvedimento di Pietro, bensì contiene la conferma della parola di Gesù (13,38) e sancisce il rinnegamento. Riassumendo, possiamo dire che, nel palazzo di Anna, Pietro, interrogato se è discepolo di Gesù, nega e da lì non esce. Simon Pietro appare così allineato con il sacerdote. Possiamo stabilire allora il seguente confronto tra il discepolo e Pietro: discepolo Pietro entrò entrò negò di essere discepolo uscì non uscì Emerge allora chiaro il contrasto tra il discepolo e Pietro. Si direbbe che, avendo rinnegato, Pietro acquisisce il diritto a restare in quella casa, la cui caratteristica, come confermerà lo schiaffo del servo in difesa del sacerdote (18,22), sembra essere appunto quella di rifiutare Gesù. La vicenda di Pietro conferma quanto abbiamo già detto a riguardo del discepolo. Se questi uscì dalla casa del sacerdote, vuol dire che, all’interno di quel palazzo, confessò Gesù dichiarandosi, appunto come il cieco nato, di essere suo discepolo. Fin da principio infatti, come abbiamo già osservato, l’evangelista aveva detto che il discepolo, pur essendo “noto” al pontefice, entrò nel suo palazzo solidale con Gesù. Emerge allora un contrasto assai stridente tra le due figure del discepolo e di Pietro: il discepolo, che era “di casa (gnwstoév)” in quel palazzo, avendo confessato Gesù, in esso non ha più il diritto di restare e, perciò, da esso deve uscire; l’oscuro Pietro invece, che, dai sinottici, è identificato come galileo137 e che, perciò, con quella casa non ha nulla a che fare, avendo rinnegato Gesù, ne acquisisce il diritto a restarvi. 5. Relazione di Gv 18,15-16 a Gv 19,25-27 Poniamo, in questo paragrafo, il problema se il discepolo che, assieme a Pietro, seguì Gesù dal Getsemani, dove ovviamente, al momento della cattura, doveva essere presente, fino al palazzo del sacerdote, la cui vicenda, in quel palazzo, è schematicamente descritta in 18,16-17, sia lo stesso discepolo 137

Cfr. Mc. 14,70; Lc 22,59.

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menzionato, assieme alle donne, presso la croce di Gesù (19,26), al quale egli donò la madre e che, come figlio, da Gesù stesso fu donato alla madre. Diversi interpreti negano l’identità, adducendo, come motivo, il fatto che quel discepolo, in 18,15-16, non è presentato come il discepolo “che Gesù amava”, ma semplicemente come a"llov maqhthév (un altro discepolo) e poi come o| deè maqhthèv e\ke_nov (quel discepolo). Altri interpreti invece ne affermano l’identità. 5.1. Identità del discepolo Il fatto che, in 18,15, il discepolo non sia presentato come colui “che Gesù amava”, non può, a nostro parere, indurre legittimamente ad escludere l’identità con quello menzionato, in 19,26, presso la croce: l’evangelista infatti può avere riservato la qualifica “che Gesù amava”, al discepolo solo al termine, come meta raggiunta, del suo cammino di sequela, iniziato appunto in 18.15-16 e concluso in 19,26-27. Diversi elementi invece inducono a ritenere che il discepolo, che Gesù amava e che Egli affida, come figlio, alla madre, sia lo stesso di quello di cui si dice che, dopo la cattura, insieme a Simon Pietro, seguiva Gesù. Anzitutto il discepolo che Gesù amava è sempre menzionato, nel vangelo, assieme a Pietro. Così, oltre 18,15-16, anche in 13,21-25; in 20,2-8, in 21,7; in 21,20-24. L’unico testo in cui il discepolo è menzionato senza Pietro è appunto in 19,26-27. Ciò è comprensibile: Pietro infatti è rimasto indietro, ritardato dal suo stesso rinnegamento. Inoltre la figura del discepolo è introdotta all’inizio del cammino della passione di Gesù, cioè dopo la sua cattura, e poi alla fine, quasi al termine del cammino, quando Gesù stesso è pervenuto ed ha raggiunto il suo termine: la croce. La figura del discepolo costituisce quasi una inclusione a tutto il cammino della passione: dal Getsemani alla croce. Ancora le due descrizioni appaiono complementari: in 18,15-16 è sottolineato il rapporto del discepolo verso Gesù, con il quale, solidale, entra nel palazzo di Anna; in 19,26-27 invece è sottolineato il rapporto di Gesù al discepolo, che ne fa oggetto di amore, che dona alla Madre come figlio e al quale dona la Madre come sua madre. Emerge così quasi un rapporto

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dialogico: il discepolo a Gesù (18,15-16) e Gesù al discepolo (19,26-27). Si direbbe che la madre sia la ricompensa, da parte di Gesù, al discepolo che lo ha seguito. Ancora le due descrizioni ci offrono quasi il cammino globale del discepolo. Egli è coinvolto in Gesù e deve uscire dalla cerchia del sacerdote (18,15-16); Gesù lo fa oggetto del suo amore e lo introduce, come figlio, in un’altra comunità, quella radunata attorno a Lui. Emerge così un triplice passaggio del discepolo, dalla sua appartenenza al sacerdote all’essere oggetto dell’amore di Gesù; dall’appartenenza alla comunità del sacerdote all’affidamento alla comunità radunata attorno a Gesù; dall’essere gnwstoév (noto) del sacerdote, che si contrappone a Gesù, all’essere ui|ové (figlio) della madre che sta invece davanti a Lui. Possiamo aggiungere anche un ulteriore elemento: una analogia antitetica tra il traditore e il discepolo che, nel testo di 13,21-30, appaiono agli antipodi. Per entrambi i personaggi è usato lo stesso verbo e\xh%lqen, rispettivamente, in 13,30 per il traditore e in 18,16b per il discepolo. Il traditore uscì dalla comunità di Gesù e piombò nella notte; il discepolo invece uscì dall’ambito del sacerdote e giunse a Gesù. Infine il parallelismo che abbiamo stabilito tra il discepolo e la figura del cieco nato in Gv 9 conferma l’identità della persona del discepolo. Possiamo ampliare il parallelismo già proposto nel seguente modo: Il cieco nato il discepolo si mette alla ricerca di Gesù, segue Gesù; Gesù trova (eu|rwén) il cieco (9,35) Gesù vede (i\dwén) il discepolo (19,26). Possiamo dire allora che la connotazione “che Gesù amava” è propria del termine del cammino, sia di Gesù che del discepolo che lo segue. La croce infatti è il momento quando Gesù manifesta, in pienezza (15,12), l’a\gaéph, dove con essa raggiunge i discepoli e li coinvolge in essa, dove i discepoli, a loro volta, si coinvolgono in Gesù accogliendo il suo comandamento dell’amore vicendevole e, di conseguenza, Gesù li ama (14,21) (h\gaépa)138. 138 Questa prospettiva appare anche in altri testi del discepolo, specificamente in 13,23 e in 21,20. Prescindendo dal testo di 20,2, peculiare per l’uso dell’imperfetto e\fòlei, in 13,23 il discepolo che Gesù amava (h\gaépa) è quello che “era giacente (h&n a\nakeòmenov)” sul fianco di Gesù: Gesù lo amava perché “era giacente”. In 21,20 l’espressione o£n h\haépa

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5.2. Il cammino del discepolo Stabilita l’identità tra l’anonimo discepolo che, in 18,15, seguiva Gesù con Simon Pietro e quello che, in 19,26, “Gesù amava”, che era “parestw%ta” e che Egli affidò come figlio alla madre e al quale additò la madre come sua madre, tentiamo adesso di evidenziare il cammino da lui compiuto. L’aspetto del testo di 18,15-16, come abbiamo detto, è dinamico: la sequela del discepolo passa attraverso il tribunale di Anna, dal cui palazzo però egli uscì, essendovi entrato coinvolto in Gesù. L’aspetto di 19,2627 invece è statico: egli è “stante”, come chi è giunto al termine del suo cammino, ed è lì, nell’attesa di essere affidato alla madre. Il discepolo che, dal Getsemani, ha seguito Gesù, al Calvario è giunto al termine del suo cammino. Benché da 18,16 fino a 19,26 l’evangelista non parli più di lui, possiamo pensare che egli lo abbia seguito in tutte le sue tappe. È entrato con lui nel palazzo di Anna e, verosimilmente, lo ha anche seguito fino al pretorio di Pilato e, da lì, fino al Calvario139. L’evangelista però menziona soltanto la sequela e il termine del cammino: ciò significa che sono questi gli elementi che a lui interessava o| I\ hsou%v si ricollega meglio, in rapporto dialogico, all’espressione o£v kaì a\neépesenen e\n t§% deòpn§ e\pì toè sth%qov, anch’essa proposizione relativa: o£n h\haépa o| I\ hsou%v o£v kaì a\neépesenen e\n t§% deòpn§ e\pì toè sth%qov

Il discepolo “reclinò” su petto di Gesù e Gesù lo amava Il testo di 21,20 può essere ricostruito nel seguente modo: a\kolouqou%nta (sequela), o£v kaì a\neépesenen e\n t§% deòpn§ e\pì toè sth%qov (termine del cammino), o£n h\ap é a o| I\ hsou%v (risposta di Gesù), ou\k a\poqnhéskei (situazione negativa del discepolo), qeélw meéneun (situazione positiva) Abbiamo così tutta una storia del discepolo, dalla sequela di Gesù al “rimanere (meénein)”. In 21,7 il discepolo che Gesù amava è relazionato a Pietro. Questo testo, come abbiamo già altrove suggerito, può idealmente continuare quello di 19,26: Pietro che era rimasto indietro nel palazzo di Anna, arriva anche lui alla croce e il discepolo gli indica che “il Signore è”; cfr. il nostro studio, i racconti postpasquali, III: Gesù si manifesta presso il lago, Acireale 1993, 168-189. Possiamo notare il verbo a\kolouqeéw all’imperfetto (h\kolouéqei). Esso indica una azione abituale e continua. Per Pietro il cammino di sequela, iniziato al Getsemani, finisce nel palazzo di Anna, dal quale egli non esce; per il discepolo, che non si è fermato in quel palazzo ma da esso è uscito, forse tale cammino ancora continua. Il discepolo esce e riprende il cammino di sequela, tanto più che anche Gesù da lì esce, per andare prima da Caifa (18,24) e poi da Pilato (18,28), e per andare poi, da lì, al Calvario (19,16b). 139

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sottolineare del discepolo: il fatto cioè che seguiva e che la sua sequela lo ha condotto ad un termine. Non è nuova, nel vangelo di Giovanni, la prospettiva di un cammino giunto ad un termine. L’evangelista usa diverse volte il verbo a\kolouqeéw140. Prescindendo da 11,31 dove si legge che i giudei seguirono Maria al sepolcro di Lazzaro, e prescindendo anche 13,36-37, dove le dichiarazioni di Pietro culminano nell’annunzio del rinnegamento, e, infine, pure, da 20,6, dove si legge che Pietro segue il discepolo al sepolcro, il primo testo è quello di 1,37-39 dove l’evangelista narra di due discepoli che “udirono” da Giovanni e seguirono (h\kolouéqhsan) Gesù; l’epilogo della loro sequela è espresso con il verbo meénw: «videro dove Gesù rimane (meénei) e rimasero (e"meinan) presso di lui (v. 39) quel giorno». Nel v. 43 leggiamo l’invito di Gesù a Filippo: «seguimi (a\kolouéqei moi)». Possiamo stabilire una relazione tra il testo di 1,37-39 e quello di 18,1519,26 nel seguente modo: i due discepoli (1,37-39) il discepolo (18,15-19,26) Seguirono (h\kolouéqhsan) (v. 37) seguiva (h\kolouéqei) (18,15) Rimasero (e"meinan) (v. 39) stante (parestw%ta) (19,26). I due discepoli di Giovanni e il discepolo sono accomunati nell’azione di seguire (a\kolouqeéw) ed hanno un termine analogo: i due “rimangono”, il discepolo “sta”. Benché formulati in maniera diversa, i due termini del cammino concordano nel fatto che entrambi pervengono ad una posizione statica141. Si può notare che il termine del cammino del discepolo, anche lui impegnato, in 21,20, in un cammino di sequela (a\kolouqou%nta), in 21,22-23 è ancora indicato con il verbo meénw. Si possono considerare ancora anche gli altri testi. In 6,2, per la numerosa folla che seguiva (h\kolouéqei) Gesù, il termine del cammino sembra essere il pane che Gesù dona. In 8,12 il termine che Gesù promette a chi lo segue (o| a\kolouqw%n) è la luce della vita (toè fw%v th%v zwh%v). La sequela delle pecore, in 10,4.5, culmina poi nella vita eterna (v. 27). In 12,26, al servo che lo segue (a\kolouqeòtw), Gesù promette che sarà dove Lui è; il luogo 140

19 volte.

Questa concordanza nella sequela e questa analogia nel suo termine non autorizza perciò ad identificare, in 1,37-39, l’altro discepolo, non nominato (il primo è Andrea, cfr. 1,40), con il discepolo che Gesù amava. 141

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dove Gesù è, alla luce delle parole seguenti (v. 26b), sembra essere il fatto che il Padre lo onora. Emergono allora le seguenti mete del cammino di sequela: 1. rimanere (meénein) (1,37-40), 2. il pane (6,2), 3. la luce della vita (8,12), 4. la vita eterna (10,27), 5. dove Gesù è (12,26), 6. parestw%ta (19,26), 7. rimanere (meénein) (21,20-23). Il verbo “rimanere (meénw)” sembra costituire quasi una inclusione a tutto il vangelo. Forse gli altri intermedi, escludendo il pane (6,2), possono essere letti in maniera abbinata. La luce della vita si abbina alla vita eterna; il luogo dove Gesù è (12,26) può abbinarsi al participio parestw%ta (19,26). Possiamo dire che il discepolo, che segue Gesù, giunge alla vita; in essa egli si radica e lì rimane. In ultima analisi la sequela culmina nell’essere radicati in Gesù: in 1,39 leggiamo l’espressione par’au\t§% (presso di lui); in 12,26 chi lo segue giunge nel luogo dove Gesù è; in 21,22-23 il discepolo “rimane” radicato nel fianco di Gesù (e\pì toè sth%qov au\tou%). Nel nostro testo, il discepolo che ha seguito Gesù (18,15), giunge presso la croce di Gesù e “sta (parestw%ta)” radicato in essa.

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IL DISCEPOLO E LA RICERCA DEL TRADITORE (13,22-25)

L’autore del quarto vangelo dedica i vv. 21-30 al problema del traditore. In essi possiamo distinguere tre parti tematiche: l’annunzio del tradimento da parte di Gesù (v. 21); la ricerca del traditore fino all’indicazione da parte di Gesù stesso (vv. 22-26a); la descrizione e l’epilogo del traditore (vv. 26b-30)1. La formula con cui, secondo Giovanni, Gesù annunzia: eùv e\x u|mw%n paradwései me (uno di voi tradirà me), è identica a quella proposta da Matteo e Marco2. Giovanni, prima dell’annunzio, menziona il turbamento di Gesù (e\taraécqh t§% pneuémati)3. Al nostro scopo interessa delineare soltanto la figura e la funzione, in questo contesto, del discepolo che Gesù amava. Limitiamo perciò la nostra Bultmann ritiene che Gv 13,21-30 derivi dalla tradizione, ma non si può dimostrare che il quarto evangelista abbia usato qualcuno dei vangeli sinottici, cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, Göttingen 1985 (rist. dal 197820), 366. Secondo Lorenzen i vv. 21-30 sarebbero una composizione del quarto evangelista, sulla base di un materiale pregiovanneo, vicino alla tradizione sinottica, cfr. T. Lorenzen, Der Lieblingsjünger im Johannesevangelium. Eine redaktionsgeschichtliche Studien Stuttgart 1971, 13. 1

2

Cfr. Mt 26,21; Mc 14,18.

Secondo Kragerud, il carattere parallelo tra i sinottici e la versione giovannea, si snoda nel seguente modo: 1. L’annunzio che uno dei discepoli avrebbe tradito Gesù (Mc 14,18; Gv 13,21); 2. La perplessità dei discepoli a causa di ciò (Mc 14,19; Gv 13,22), a ciò segue, come particolarità giovannea, sopra inserita, l’intermezzo tra Pietro, il discepolo e Gesù (Gv 13,23-25); 3. Con lo svelamento del traditore finiscono entrambi i racconti (Mc 14,20; Gv 13,26); cfr. A. Kragerud, Der Lieblingsjünger im Johannesevangelium. Ein exegetischer Versuch, Oslo 1959; 21-25. 3

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riflessione ai soli vv. 22-26a, introdotti tra l’annunzio del tradimento (v. 21) e la descrizione del traditore (vv. 26b-30). 1. La struttura di Gv 13,22-26a I vv. 22-26a si trovano nel contesto più ampio dei vv. 21-30; questi, a loro volta, si leggono nel contesto più ampio del cap. 13 del vangelo di Giovanni. Questo capitolo si articola poi in sei parti o, più precisamente, in una parte seguita da altre cinque. La prima parte, i vv. 1-5, tutta di indole narrativa, descrive l’azione di Gesù, il quale, prima della festa di pasqua, portò a compimento il suo amore (ei\v teélov h\gaéphsen) verso i discepoli, lavando loro i piedi, con l’acqua versata nel catino, e asciugandoli con l’asciugatoio di cui era cinto. Le cinque parti seguenti si relazionano secondo una struttura concentrica; vv. 6-11: Dialogo tra Pietro e Gesù; vv. 12-20: monologo di Gesù verso i discepoli (u|poédeigma); vv. 21-30: il traditore; vv. 31-35: monologo di Gesù verso i discepoli (e\ntolhé); vv. 36-38: Dialogo tra Pietro e Gesù. Dopo la menzione del suo turbamento da parte di Gesù, tra l’annunzio del tradimento (v. 21) e la descrizione del traditore (vv. 26b-30) come abbiamo già indicato, sono introdotti i vv. 22-26, esclusivamente govannei4. Essi si sviluppano in quattro paragrafi, strutturati, tematicamente, e anche dal punto di vista dei personaggi, secondo uno schema alternato. Nel v. 22 il soggetto sono “i discepoli (oi| maqhtaò)”, dei quali si dice che si guardavano (e"blepon) a vicenda (ei\v a\llhélouv). Nel v. 23 il soggetto è il discepolo, indicato con l’espressione eàv e\k tw%n maqhtw%n (uno dei disceMoloney divide e caratterizza i vv. 21-38 nel seguente modo: introduzione al dono del boccone a Giuda (vv. 21-26a); il dono del boccone e le parole di Gesù a Giuda (vv. 26b30); L’interpretazione di Gesù e un secondo dialogo tra Simon Pietro e Gesù (vv. 31-38), cfr. J.F. Moloney, The structure and Message of John 13,1-38, in AusBibRev 34 (1986) 1-16: 5. Wilcox vede nei vv. 21-30 tre strati: a). uno strato basilare, rappresentato, nei vv. 21-30, solo dalla parole nuéx (notte), b). una collezione di detti di Gesù, c). altro materiale composto liberamente dall’autore o proveniente, forse meglio, da tradizioni orali, cfr. M. Wilcox, The Composition of Jo 13,21-20, in E.E. Ellis (ed.), Neotestamentica et Semitica, Fs. M. Black, Edinburgh 1969, 143-156: 155-156. Ancora, secondo Wilcox, i vv. 23-25 costituiscono una più stretta unità e contengono materiale peculiare a Giovanni, cfr. ibid., 148. 4

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poli) e caratterizzato, dopo, mediante l’espressione o£n h\gaépa o| }Ihsou%v (che amava Gesù); di lui l’evangelista descrive la posizione in relazione a Gesù. Nel v. 24 il soggetto è Pietro, che fa cenno (neuéei) al discepolo, al quale rivolge la domanda, da trasmettere poi a Gesù, sulla identità del traditore: ei\peè tòv e\stin perì ou| leégei (dì chi è del quale parla)5. Nelle parole che Pietro rivolge al discepolo notiamo un problema di critica testuale. Il testo sopra citato, nel v. 24, cioè le parole ei\peè tòv e\stin perì ou/ leégei (dì chi è del quale parla) è attestato dal codice Vaticano, dai codici C L e da diversi minuscoli; il P66 corretto, il codice Alessandrino, i codici K W D Q, diversi altri codici della tradizione antiocheno costantinopolitana, le versioni siriaca, armena, georgica e copta leggono:invece puqeésqai tòv a!n ei"h perì ou/ leégei.(per interrogare chi fosse [colui] del quale parla). Il codice Sinaitico mette insieme le due letture e scrive: puqeésqai tòv a!n ei"h perì ou/ leégei kaì leégei aut§% ei\peè tòv e\stin (per interrogare chi fosse [colui] del quale parla e dice a lui: dì chi è ): evidentemente il codice sinaitico si è trovato davanti ad ambedue le letture e, non sapendo decidere quale tra le due fosse quella originale, le mise insieme entrambe. La prima lettura, ei\peè tòv e\stin perì ou/ leégei, è attestata da codici meno numerosi, tra i quali però c’è il codice Vaticano ed appare più in sintonia con lo stile giovanneo; la seconda lettura, puqeésqai tòv a!n ei"h perì ou/ leégei, è attesta da codici più numerosi, ma appare più ricercata, meno in sintonia con lo stile dell’evangelista e più in sintonia con lo stile lucano: analoga espressione infatti si legge in Lc 15,26; 18,36; At 21,33. In Giovanni invece il verbo punqaénomai si legge solo in 4,52. Non è facile decidere quale sia la lettura originale, anche perché le edizioni critiche sono divise. Il TGNT e l’edizione critica del Nestle-Aland (cfr. K. Aland et Al. [curr.], The Greek New Testament, Stuttgart 19883, ad locum; E. Nestle – K. Aland [curr.], Novum Testamentum graece, Stuttgart 199527, ad locum) seguono la lettura puqeésqai tòv a!n ei"h perì ou/ leégei; l’edizione critica del Merk (cfr. A. Merk [cur.], Novum Testamentum graece et latine, Romae 199211, ad locum.) e la Sinossi greca di Aland (cfr. K. Aland [cur.], Synopsis quattuor Evangeliorum, Stuttgart 19696, ad locum.) seguono invece la lettura ei\peè tòv e\stin perì ou/ leégei. Alla divisione delle edizioni critiche corrisponde anche la divisione degli interpreti. Brown, in 13,24, sostiene la lettura del P66 e dell’Alessandrino, cfr. R.E. Brown, Giovanni, trad. it., Assisi 19793, 686. Brown cita Boismard che ha analizzato tutte le varianti e conclude che l’originale leggesse semplicemente; «Simon Pietro gli fece cenno». I copisti avrebbero ampliato la frase in due modi diversi, o «domandare di chi parlava» o «gli disse: dì, chi è». Anche Kysar ritiene che la lettura puqeésqai tòv a!n ei"h sia uno sforzo scribale per armonizzare il verso con ciò che è detto del discepolo nell’ultima frase, cfr. R. Kysar, John, Minneapolis 1986, 213;. Schnackenburg sembra optare per la prima lettura, spiegando che l’ottativo (ei"h) sarebbe singolare nel vangelo di Giovanni, cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, trad. it., Brescia 1981, 56. Bernard osserva che la lettura puqeésqai tòv a!n ei"h che egli segue, (472) è seguita pure da molti moderni editori ed ha in suo favore che neuéein è seguito da una infinitiva, come è nel solo altro testo dove ciò avviene, in At 24,10. Inoltre puqeésqai è una parola giovannea che si trova in 4,52. La sola obbiezione che si muove a 5

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Nel v. 25 l’evangelista torna ancora al discepolo, a riguardo del quale dice due cose: descrive anzitutto l’assunzione di una posizione (a\napeswén) nei confronti di Gesù e riferisce inoltre la domanda (leégei au\t§%) che egli, stimolato da Pietro, rivolge a Gesù. Otteniamo così il seguente schema: 1. Descrizione della situazione dei discepoli (v. 22); 2. Descrizione della posizione del discepolo (v. 23); 3. La domanda di Pietro al discepolo (v. 24); 4. Nuova posizione del discepolo e la sua domanda a Gesù (v. 25). Il discepolo così è descritto due volte: la prima volta dopo la menzione dei discepoli; la seconda volta poi dopo la menzione di Pietro. Appaiono così non una ma due descrizioni del discepolo: la prima è fatta in relazione ai discepoli; la seconda volta poi in relazione a Pietro. questa lettura è che il modo ottativo (ei"h) è assai raro nel NT, divenendo esso inusitato in quel periodo e giammai si trova ancora in Giovanni, cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, 2 voll., Edinburgh 1928, 472. Lücke osserva che Pietro si rivolge al discepolo pensando che egli sapesse chi è il traditore. Non lo sa e prima deve informarsi. Riflettendo su ciò, deve essersi formata la lettura puqeésqai tòv a!n ei"h. Cita Schulz secondo cui “non alio uno loco Jo usus est optativo”; cfr G.Ch.F. Lücke, Commentar über das Evangelium des Johannes, I, Bonn 1840, 566. Benché la nostra preferenza vada per la prima lettura, sia perché attestata dal codice Vaticano, sia perché la seconda appare più di indole lucana e meno consona allo stile giovanneo, preferiamo lasciare aperto il problema, tanto più che, in ultima analisi, le due letture sostanzialmente concordano nel senso. Brown, in 13,24, sostiene la lettura del P66 e dell’Alessandrino, cfr. R.E. Brown, Giovanni, trad. it., Assisi 19793, 686. Secondo la lettura adottata dal TGNT e da Nestle-Aland, Pietro chiede al discepolo di indagare (puqeésqai) di chi parla Gesù; secondo la lettura adottata da Merk e che noi facciamo nostra, Pietro chiede al discepolo di dire (a Gesù) chi è colui di cui parla. In questa lettura il verbo imperativo ei\peé: appare ambiguo; l’assenza di qualsiasi pronome pone il problema se il discepolo deve chiedere a Gesù chi è il traditore, o se questi deve “dire” a Pietro dopo avere interrogato Gesù. La lettura ei\peè tòv e\stin perì ou/ leégei.è seguita pure da C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, London 19853, 446; da A. Plummer, The Gospel according to St. John, Cambridge 1912 (ultima ristampa), 267. La domanda seguente che il discepolo rivolge a Gesù e la stessa risposta di Gesù suggeriscono la prima ipotesi: Pietro “dice” al discepolo di chiedere a Gesù chi è il traditore. È possibile però anche l’altra ipotesi: benché non sia indicata la risposta del discepolo, Pietro chiede a lui di dirgli chi è il traditore; il discepolo però potrà rispondere soltanto dopo avere interrogato Gesù.

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La relazione del discepolo ai discepoli esplicitamente non è indicata; essa però è suggerita dalla particella deé che introduce la prima descrizione. La situazione dei discepoli, come appare dall’espressione e"blepon ou&n ei\v a\llhélouv, è caratterizzata da un loro dinamismo; quella del discepolo, come è suggerito dall’espressione h&n a\nakeòmenov, è caratterizzata invece da una sua posizione statica. Possiamo dire che al dinamismo dei discepoli si contrappone la staticità del discepolo. La relazione del discepolo a Pietro è diversa rispetto a quella precedente: l’evangelista non propone una contrapposizione, come tra i discepoli e il discepolo, ma stabilisce un progresso in due gradi: Pietro, con la sua domanda, si orienta verso il discepolo; il discepolo poi, con la sua domanda, si orienta verso Gesù. Possiamo dire che, attraverso il discepolo, Pietro risale a Gesù. 2. Le osservazioni degli interpreti A riguardo dell’episodio narrato in 13,22-26a, gli interpreti riflettono particolarmente su diversi aspetti: la disposizione della tavola, l’indole dell’episodio, la situazione privilegiata del discepolo, la sua relazione a Pietro. 2.1. La disposizione a tavola Quanto alla disposizione della tavola, Brown, cita Prat6, che ha studiato le disposizioni a tavola e i posti di onore tra i giudei contemporanei di Gesù. Egli pensa che la disposizione a tavola, in questa cena, fosse quella del triclinium romano, cioè tre divani disposti a forma di ferro di cavallo quadrato attorno ad una tavola centrale. Se con Gesù erano presenti i dodici, ci possono essere stati cinque discepoli su ciascuno dei divani laterali e due discepoli con Gesù al centro (posto d’onore) sul divano centrale o lectus medius. Sebbene ci si potesse aspettare che il secondo posto di onore fosse 6 Cfr. F. Prat, Les places d’honneur chez les Juifs contemporains du Christ, in: RSR 15 (1925) 512-22: 518-522.

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alla destra di Gesù (Sal 110,1), Prat7 sostiene che in tale disposizione esso era alla sinistra di Gesù. Ora, dalla testimonianza del vangelo risulta chiaro che il discepolo prediletto è raffigurato alla destra di Gesù, in modo che, quando egli reclinava la testa all’indietro questa si trovava alla destra di Gesù. Se si intende il v. 24 nel senso che Pietro facesse segno al discepolo prediletto senza parlargli, allora può darsi che Pietro fosse ad una certa distanza da Gesù, e ciò si accorderebbe con il fatto che egli stesso, Pietro, non fece la domanda. Poiché Pietro poteva essere visto dal discepolo prediletto, egli va raffigurato probabilmente sul letto a destra, forse all’estremità più lontana, se fu l’ultimo a ricevere la lavanda dei piedi. La disposizione della tavola e la posizione dei commensali nei banchetti è descritta da Strack-Billerbeck8 e ad essa rimandano quasi tutti gli interpreti9; notano anche che nel banchetto pasquale la posizione sdraiata era obbligatoria10. 7

Cfr. ibid., 519.

Cfr. H.L.Strack- P. Billerbeck, Ein altjüdisches Gastmahl, in Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, IV, Exkurs 24, München 1961, 611-639: 625-627; altrove, in Id,. Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, II, München 1969, 559, a riguardo appunto di Gv 13,23, questi autori, a partire dall’indicazione giovannea che il discepolo giacque a tavola sul petto di Gesù, e presupposto l’ordine usuale dei posti a tavola, notano che il cuscino di Giovanni era davanti (a destra di) a quello di Gesù e dal basso ci si sollevava, cosicché il capo dell’apostolo si trovava all’altezza del petto di Gesù 8

Cfr. tra altri C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 446, R. BultDas Evangelium des Johannes, Göttingen 1985 (rist. dal 197820), 367, nota 5; J. Mateos - J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, trad. it., Assisi 1982, 567; M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, Paris 19487, 360, L. Morris, The Gospel according to John, Grand Rapids 19952, 556; A. Plummer, The Gospel according to St. John, cit., 267; J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, Berlin 19782, 249; H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1973, 332; F. Tillmann, Das Johannesevangelium, Bonn 19314, 253; A. Wikenhauser, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1962, 349; Bauer cita Plinio (Epist, IV, 22,4): «Cenabat Nerva cum paucis, Veiento proximus atque etiam in sino recumbebat»; Bauer commenta che Nerva prende il posto di Gesù; Veiento quello del discepolo amato, cfr W. Bauer, Das Johannesevangelium, Tübingen 19333, 173. 9

mann,

Carson cita Pesahim 108a, cfr. D.A. Carson, The Gospel according to John, Grand Rapids (Michigan) 1991, 473; Lindars cita l’haggadah pasquale: «in tutte le altre notti noi mangiamo sia seduti che reclinati, ma in questa notte noi recliniamo», cfr. B. Lindars, The 10

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2.2. La posizione del discepolo e di Pietro Quanto alla posizione a tavola del discepolo, a meno che non lo si intenda, con alcuni interpreti come una figura soltanto simbolica11, la descrizione evangelica che lo presenta reclinato sul petto di Gesù, suggerisce che egli era accanto a lui. Ciò è evidenziato anche dagli interpreti i quali non trascurano di notare anche la posizione privilegiata e la stretta relazione del discepolo a Gesù12. Spiega Lindars13 che una persona importante sta sempre alla destra dell’ospite. Wilckens14 ritiene anche che il discepolo aveva un posto di onore. Osserva poi Leon-Dufour15 che la posizione del discepolo, è pensata, dalla mente dell’evangelista, in maniera senza dubbio intenzionale, ad immagine cioè di quella del Figlio rivolto verso il seno del Padre. La figura del discepolo, con ogni verosimiglianza, non è fittizia, destinata a rappresentare il discepolo ideale. Nel presente contesto il discepolo prediletto Gospel of John, Grand Rapids 1986, 458; cfr. anche J.N. Sanders - B.A. Mastin, A Commentary on the Gospel according to S. John, New York 1969, 312;

11 Secondo Schnelle in nessun modo il discepolo è una persona storica, ma «ganz und gar eine Fiktion», cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, Leipzig 1998, 219-221. Schnelle cita Kragerud, cfr. A. Kragerud, Der Lieblingsjünger im Johannesevangelium, cit., 149. Schnackenburg cita anche Loisy (395s), Bultmann (369); Käsemann (in ZTK 48 [1951]), cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit, 56, nota 84. L’interpretazione ideale simbolica, benché non condivisa, è riferita anche da Simon, che cita Mahoney e anche Drewermann (Tiefenpsicologie, 412s), cfr. L. Simon, Petrus und der Lieblingsjünger im Johannesevangelium, Frankfurt a.M. 1994, 27-28. 12 Cfr. S. Agourides, Peter and John in the Fourth Gospel, in StEv IV, 3-7: 5; C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 447; G.R. Beasley-Murray, John, Waco 1987, 238; R.E. Brown, Giovanni, cit., 691, R.A. Culpepper, John, the Son of Zebedee, Columbia, Il, 1994, 61; R. Fabris, Giovanni, Roma 20032, 564; S. Grasso, Il vangelo di Giovanni, Roma 2008, 558; R. Kysar, John, cit., 213; A. Loisy, Le quatrième évangile, Paris 19212 , 726; J. Mateos - J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, cit. 569, R. Schnackenburg, vangelo secondo Giovanni, III, cit., 56. U. Wilckens, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 2002, 271. 13 14

Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit., 458.

Cfr. U. Wilckens, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 271.

Cfr. X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, trad. it., Cinisello Balsamo 1995, 58. 15

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appare come il contrappeso di Giuda: di fronte, e in contrapposizione, al traditore, l’evangelista pone il vero credente, inseparabile dal suo Signore. Secondo Mateos-Barreto16 occupare il posto accanto a Gesù è la situazione tipica del discepolo e la vicinanza è dovuta al fatto che egli si sente amato da lui […]. Tale discepolo è il confidente di Gesù, a cui questi non occulta i suoi segreti, perché l’altro è capace di percepirli. La figura di questo discepolo si contrappone a quella di Simon Pietro. Accetta l’amore di Gesù e gli risponde con la sua vicinanza. Secondo G. Maier17 la diretta vicinanza a tavola implica una particolare relazione delle rispettive persone l’una all’altra. Verosimilmente Gesù ha tirato Giovanni nella sua vicinanza, perché era il più giovane tra i dodici, e, inoltre, lo stesso evangelista dice: “che Gesù lo amava”. Agourides18 ritiene che il fatto che il discepolo amato che era reclinato dopo Gesù, giacendo nel suo fianco e che a lui solo Gesù smaschera il traditore, indubitabilmente esprime il suo speciale affetto per lui. Alla speciale intimità di Gesù, come motivazione della peculiare posizione a tavola del discepolo, rimanda anche Culpepper19. Diverso invece è il caso di Pietro. Nota Morris20 che, di lui, la posizione non è indicata. Così probabilmente egli era altrove. Noi non abbiamo modo di conoscere come erano seduti il gruppo apostolico; non possiamo pensare però che egli fosse dall’altro lato di Gesù, altrimenti avrebbe potuto interrogare lui stesso Gesù21. Non sembra però inverosimile, secondo Morris, che Giuda, per il suo ruolo di cassiere, fosse in un posto principale. Dal racconto di Matteo sembra chiaro che Gesù poté parlare a lui senza essere udito dagli altri (Mt 26,25). È anche possibile che il fatto di dare a Giuda questo posto era l’ultimo appello di Gesù al traditore.

16 17 18

Cfr.. J. Mateos - J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, cit., 568-569.

Cfr. G. Maier, Johannesevangelium, II, Neuhausen -Stuttgart 1986, 82. Cfr. S. Agourides, Peter and John in the Fourth Gospel, cit., 4.

Cfr. R.A. Culpepper, Anatomy of the Fourth Gospel, Philadelphia 1983, 121-122; anche Id., John, the Son of Zebedee, cit., 61. 19

20 21

Cfr. L. Morris, The Gospel according to John, cit., 556.

Cfr. in questo senso anche M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, cit., 360.

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Loisy22 però osserva che forse è intenzionale che non si noti il posto di Pietro; come capo degli apostoli, egli avrebbe dovuto avere quello che è preso dal discepolo amato: l’evangelista non osa assegnargli un posto inferiore. Pietro non può essere a sinistra di Gesù, perché non si può supporre che egli comunichi con il discepolo amato sulla testa del Salvatore; egli sarebbe piuttosto a destra del discepolo, nella stessa posizione, in rapporto a lui che il discepolo in rapporto a Gesù; se lo si suppone allontanato, dall’altro lato della tavola, egli non potrà fare segno al discepolo né parlargli senza essere visto e udito da diversi altri. Concludendo, gli interpreti, in genere, spiegano il fatto che il discepolo era accanto a Gesù per la sua familiarità ed intimità e anche per il fatto che Egli, Gesù, lo amava. Ci potrebbe essere però un’altra spiegazione, che cioè il discepolo, avendo ceduto a Gesù il posto centrale, fosse accanto a lui nella sua posizione di padrone di casa23. 2.3. L’indole del testo di 13,22-26a Gli interpreti pongono talora, più o meno esplicitamente, la domanda anche sull’indole di questa descrizione, che l’evangelista inserisce nel contesto dell’annunzio e dell’identificazione del traditore e che non trova paralleli nei vangeli sinottici. Essa non può prescindere dalla figura del discepolo che appare, dopo Gesù, come la centrale, e non può prescindere nemmeno dalla sua posizione, che era quella di essere “giacente nel fianco di Gesù (e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou%)”. Su quest’ultimo elemento ora indicato, Brown24 osserva che forse la ragione per cui non abbiamo sentito parlare del discepolo prima è che 22

Cfr. A. Loisy, Le quatrième évangile, cit. , 726.

23 Prescindiamo, almeno in questo studio, dal problema complesso circa l’identità del discepolo che Gesù amava. Attira però la nostra attenzione la proposta di Colson che fosse un gerosolimitano, padrone del luogo, messo a disposizione di Gesù per la cena, cfr. J. Colson, L’énigme du disciple que Jésus aimait, Paris 1969, 108-110 : ciò ampiamente spiegherebbe, dal punto di vista storico e prescindendo da tutti i motivi simbolici, la sua posizione accanto a Gesù a tavola. 24

Cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 691.

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l’evangelista voleva introdurlo ora, come antitetico a Giuda, per mostrare così gli estremi, buono e cattivo, del discepolato. Secondo Kragerud25 l’evangelista, con questo episodio, mira a caratterizzare il discepolo come discepolo, ma anche per indicarlo come mediatore dell’autentica comprensione della parola enigmatica di Gesù. Per questo sta egli in una posizione privilegiata nella comunità dei discepoli di Gesù. Spiega ancora Leon-Dufour26 che, nel presente contesto il discepolo prediletto appare, di fronte al traditore, come il contrappeso di Giuda: l’evangelista intende mostrare la figura del vero credente, inseparabile dal suo Signore. Osserva anche Schnelle27 che il discepolo, per la sua peculiare posizione, nel seno di Gesù, è un particolare interprete di Gesù come Gesù, nel suo seno, lo è del Padre28. Nota Schnackenburg29 che la scena nella sala della cena è talmente allusiva da far pensare che siano state motivazioni particolari che hanno indotto ad introdurre e descrivere il discepolo a questo posto. Egli durante la cena è seduto vicino a Gesù, precisamente “in grembo” a Gesù. 3. Le varie situazioni Emergono così, nel testo di Gv 13,22-26a, diverse situazioni: quella dei discepoli, quella del discepolo, di Pietro, del traditore. Prescindendo dal traditore, consideriamo, in questo studio, specificamente quelle dei discepoli, del discepolo e di Pietro30. Cfr. A. Kragerud, Der Lieblingsjünger im Johannesevangelium. Ein exegetischer Versuch, cit. 22. 25

26

Cfr. X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, cit., 58.

Cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, cit., 219. Secondo Schnelle in nessun modo il discepolo è una persona storica, ma «ganz und gar eine Fiktion», cfr. ibid., 221. 27

28 29

Cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, cit., 221.

Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 56.

Fabris nota che, nel contesto attuale, il discepolo prediletto è posto in relazione, da una parte, con Simon Pietro e dall’altra con Gesù. In breve, egli fa da tramite nella comunicazione tra i due. Sullo sfondo di questa relazione triangolare tra Gesù, il discepolo e Pietro, sta l’enigmatica figura del traditore. Dietro il traditore, Giuda di Simone Iskariota, 30

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3.1. La situazione dei discepoli (v. 22) Il v. 22 descrive la situazione dei discepoli, o, piuttosto, la loro reazione all’annunzio di Gesù. Essi si guardavano a vicenda (e"blepon ei\v a\llhélouv) incerti (a\porouémenoi), e anche smarriti, a riguardo di chi (perì tònov) (Gesù) parlasse (leégei). Il senso immediato dell’espressione emerge bene: Gesù ha detto che uno di loro lo avrebbe tradito ma non ha detto esplicitamente chi fosse costui; adesso i discepoli, colti dall’annunzio, si guardano a vicenda nel tentativo di scorgere, ciascuno sul volto dell’altro, un qualche indizio che possa tradirlo e rivelarlo come quel traditore di cui parla Gesù. Dal punto di vista strutturale31, l’espressione del v. 22 si articola secondo uno schema concentrico: e"blepon verbo ei\v a\llhélouv complemento oi| maqhtaò soggetto a\porouémenoi apposizione participiale perì tònov complemento leégei verbo Al centro risaltano così sia i discepoli (oi| maqhtaò), sia anche la loro condizione espressa dal participio a\porouémenoi; si relazionano pure i due complementi ei\v a\llhélouv e perì tònov che esprimono una duplice relacompare l’avversario, “satana”. Quest’ultimo non ha un rapporto diretto con Gesù, che invece comunica con il traditore Giuda. Questi, nel suo progetto, è ispirato dal diavolo e, alla fine, è dominato interamente da Satana. (Gv 13,27). Gli altri discepoli fanno da cornice e restano estranei a questa rete di comunicazione tra i personaggi che si muovono in primo piano nel dramma della cena (Gv 13,28-29), cfr R. Fabris, Giovanni, cit., 565. Non si può dire però che i discepoli rimangano fuori dal circolo indicato da Fabris: anche a loro è relazionato il discepolo. Osserva Zumstein che l’espressione “uno dei suoi discepoli quello che Gesù amava” indica anzi la sua posizione particolare nella cerchia dei discepoli: egli è quello che Gesù ha distinto e al quale egli accorda il suo affetto, cfr. J. Zumstein, Le disciple bien-aimé, in FoiVie, 86,5 (1987) 47-58: 50; l’espressione però indica anche che il discepolo è pure coinvolto nella cerchia dei discepoli.

31 Dal punto di vista della critica testuale, dopo il termine oi| maqhtaò, il P66, i codici recensiti da Ferrar e pochi altri codici minori introducono il pronome personale au\tou%.% L’esiguità dei codici che attestano la presenza di tale pronome, lascia pensare meglio ad una aggiunta che non ad una omissione: si comprende bene infatti che si tratta dei discepoli di Gesù.

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zione dei discepoli, quella reciproca (ei\v a\llhélouv) e quella al traditore (perì tònov). 3.1.1. L’espressione e"blepon ei\v a\llhélouv L’espressione e"blepon ei\v a\llhélouv caratterizza la reazione dei discepoli all’annunzio di Gesù. Kragerud32 spiega che, rispetto a Marco, nel racconto giovanneo, questa circostanza è espressamente sottolineata: “i discepoli si guardavano l’un l’altro, perplessi, a riguardo di chi egli pensasse”. La situazione, che offre il punto di contatto per l’inserzione giovannea nel racconto tradizionale, è dunque la perplessità dei discepoli circa le parole di Gesù, il suo discorso è per loro un enigma ed essi hanno bisogno di una spiegazione del mistero. Marco (e dopo di lui Matteo) progredisce senza interruzione: Gesù scioglie lui stesso senz’altro l’enigma. In Giovanni invece nella situazione di perplessità dei discepoli entra il discepolo come mediatore. Nota Fabris33 che, alla reazione spirituale di Gesù (e\taraécqh), esternata nella sua dichiarazione davanti ai discepoli, corrisponde lo smarrimento e lo sconcerto di questi ultimi. Osservano Mateos-Barreto34 che la dichiarazione di Gesù coglie di sorpresa i discepoli; la sua dichiarazione provoca in loro inquietudine e crea un diffuso reciproco sospetto35. Wilckens36 osserva che, a differenza di quanto avviene in Mc 14,19 par., i discepoli non reagiscono con la domanda angosciata (“triste”) “sono io?”, ma si fanno muti e, guardandosi tra loro sconcertati, si chiedono a chi di loro pensasse Gesù.

Cfr. A. Kragerud, Der Lieblingsjünger im Johannesevangelium. Ein exegetischer Versuch, cit. 22; 32

33 34

Cfr. R. Fabris, Giovanni, cit., 564.

Cfr. J. Mateos - J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, cit., 568-569.

Cfr. nel senso di smarrimento, tra altri anche A. Bisping, Erklärung des Evangeliums nach Johannes, Münster 18692, 339; R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, cit., 367; J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, cit, 249; H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1973, 332. 35

36

Cfr. U. Wilckens, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 271.

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Conclude Zumstein37 che il terribile annunzio getta i discepoli nella perplessità; essi ignorano di che si tratta. Se il Cristo giovanneo si impone per la sua conoscenza, i discepoli invece si impongono per la loro ignoranza e il loro imbarazzo. Essi non hanno la percezione del dramma che si prepara; paradossalmente, la loro incomprensione, che aumenterà nel corso della scena, è la prova della loro innocenza. L’imperfetto e"blepon descrive un’azione continua e prolungata; esso può riferirsi alla prima e immediata reazione dei discepoli che si guardarono a lungo interrogandosi silenziosamente l’un l’altro; ma può riferirsi pure al fatto che anche dopo quel momento iniziale i discepoli continuarono ancora a scrutarsi nel tentativo di cogliere sul volto dell’altro qualche segno rivelatore. In ogni caso ciò che all’evangelista interessa evidenziare è che la reazione dei discepoli non si è esaurita in un momento ma è stata duratura, prolungata o ripetuta. Attraverso l’azione di vedere, i discepoli si relazionano (ei\v) reciprocamente. La particella ei\v esprime infatti un movimento ed introduce anche il termine verso cui è orientata l’azione del soggetto, descritta dal verbo e"blepon. In questo senso i discepoli sono reciprocamente non soltanto oggetto di visione ma anche termine di relazione. L’oggetto della visione, o il termine di relazione, è costituito dal pronome a\llhélouv che esprime reciprocità: i discepoli perciò si guardavano a vicenda e, mediante lo sguardo, si relazionavano l’un l’altro. L’espressione bleépein ei\v a\llhélouv del nostro testo è unica in tutta la Bibbia greca. La sola ’espressione ei\v a\llhélouv, che esprime reciproca relazione, invece si legge già diverse volte nel NT38. Oltre l’uso del nostro testo con ei\v e l’accusativo, il pronome a\llhélwn si legge, nel vangelo di Giovanni, con relativa frequenza39 e in diverse forme: all’accusativo (a\llhélouv)40, al genitivo (a\llhélwn)41, con la par37

Cfr. J. Zumstein, L’évangile selon saint Jean (cc. 13-21), trad. Fr. Genève 2007, 37.

Soprattutto nell’epistolario paolino; cfr. Rm 1,27; 12,10.16; 14,19; Ef 4,32; Col 3,9; 1Ts 3,12; 5,15; 2Ts 1,3; inoltre 1Pt 4,9. 38

39 40 41

15 usi complessivi incluso anche il nostro di 13,22. Complessivamente quattro usi: 13,34.34; 15,12.17. Un solo uso: 13,14.

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ticella e\n e il dativo (e\n a\llhéloiv)42, con la particella proév e l’accusativo (proèv a\llhélouv)43, con la particella metaé e il genitivo (met’a\llhélwn)44, con la particella paraé e il genitivo (par’a\llhélwn)45. Dal punto di vista dei suoi usi, il pronome a\llhélouv, nel vangelo di Giovanni, appare più concentrato nel contesto appunto del cap. 13, dove nell’ambito dei vv. 14-35, nello stesso contesto cioè, esso è usato ben cinque volte46; prima infatti è usato solo cinque volte, dislocato qui e lì nel contesto dei cap. 4-1147; poi è usato due volte nel contesto del cap. 1548; infine è usato altre tre volte nel contesto dei capp. 16-1949. L’uso del nostro testo, in 13,22, è preceduto dall’uso di 13,14, dove Gesù dichiara ai discepoli che, in forza dell’azione da lui compiuta, scaturisce per essi il dovere (o\feòlete) di lavarsi i piedi l’un l’altro (a\llhélwn); è seguito poi dai tre usi dei vv. 34 (bis) e 35 dove Gesù propone ai discepoli il suo comandamento di amarsi gli uni gli altri (a\gapa%te), concludendo poi che tutti riconosceranno che essi sono suoi discepoli se hanno amore vicendevole (e\n a\llhéloiv). Emerge chiara nel contesto la contrapposizione tra le indicazioni di Gesù e la reale situazione dei discepoli50. Un’ultima osservazione ci sembra importante a riguardo del pronome a\llhélwn nel nostro testo. Esso è costruito con la particella ei\v e l’accusa42 43 44 45 46 47 48 49

Un solo uso: 13,36.

Complessivamente quattro usi: 4,33; 6,52; 16,17; 19,24. Complessivamente tre usi: 6,43; 11,56; 16,19. Solo in Gv 5,44 in tutto il NT. Cfr. vv. 14.22.34.34.35.

Cfr. vv. 4,33; 5,44; 6,43.52; 11,56. Cfr. vv. 12.17.

Due volte nel contesto del cap. 16 (vv. 17.19) e in 19,24.

Emergono così gli usi del pronome a\llhélwn, nel cap. 13, tematicamente unitari. Essi richiamano i due usi del cap. 15 (vv 12.17) dove Gesù propone ancora il suo comando dell’amore vicendevole. I primi cinque usi nel vangelo hanno un carattere più generico e sono introdotti da diverse particelle: proév (4,33), paraé (5,44), metaé (6,43), proév (6,52), metaé (11,56); pure un carattere generico hanno gli ultimi tre usi, introdotti ancora da diverse particelle: proév (16,17), metaé (16,19), proév (19,24). Emergono così gli usi del cap. 13 e del cap. 15, soprattutto quelli del cap. 13, nel cui contesto si trova l’uso del nostro testo in 13,22. 50

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tivo (ei\v a\llhélouv); tale costruzione, come abbiamo già notato, è unica nel vangelo di Giovanni51. I discepoli appaiono orientati così gli uni verso gli altri, non in atteggiamento di amore vicendevole, bensì in atteggiamento di dubbio e di sospetto. 3.1.2. Il participio a\porouémenoi Dei discepoli si indica, mediante il participio a\porouémeni, anche una circostanza modale, legata al verbo e"blepon: essi si guardavano incerti. All’incertezza possiamo anche aggiungere lo smarrimento: incerti sulla persona, e smarriti per il fatto. È importante però l’uso del verbo a\poreéw (a\porouémenoi), che, a sua volta, si riconduce al termine poérov. Quest’ultimo termine, in senso più generale, significa “via”, “strada”. Nella lingua greca, in maniera più specifica, significa anche “passaggio”, “guado”, “stretto di mare” 52. Nota Moloney53 che i rari usi di tale termine si riferiscono alla perplessità54. Esso metaforicamente esprime anche ignoranza, confusione e incomprensione. Il verbo a\poreéw indica allora, etimologicamente, la condizione di chi si trova senza (a) una strada (poérov), e, perciò, è dubbioso sul cammino che deve percorrere55. Da qui anche il senso traslato del verbo di “essere incerto”, “dubbioso”. Il verbo a\poreéw del nostro testo è unico nel vangelo di Giovanni. Nel NT esso è alquanto raro: oltre il nostro testo, si legge soltanto altre cinque

Per esprimere il reciproco dinamismo di una persona verso l’altra nel vangelo è usata anche la particella proév (proèv a\llhélouv) (4,33; 6,52; 16,17; 19,24). 51

Cfr. H. Liddell - R. Scott, A Greek - English Lexicon, Oxford 1968 (rist.), sub voce; L. Rocci, Vocabolario greco - italiano, Roma 1987, sub voce. 52

53 54

Cfr. F.J. . Moloney, Il vangelo di Giovanni, trad. it., Leumann-TO 2007, 383. Cfr. Mt 6,20; Lc 24,4; At 25,20; 2Cor 4,8; Gal 4,20.

Il termine poérov è assente nel NT e nei LXX è attestato, soltanto in alcuni codici, in 1Mc 12,40 (e\zhétei [poéron tou%] sullabe_n); in 1Re 10,28 la lettura migliore sembra e"mporoi (i mercanti). É assente pure nelle altre versioni greche. 55

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volte56, sia in forma attiva, nel senso di “dubitare”57, sia in forma intransitiva passiva, nel senso di “essere di animo dubbioso”58. Pure nei LXX59 il verbo a\poreéw è pure raro; si legge complessivamente 14 volte, sia in forma attiva60, sia in forma medio passiva61, e traduce diversi verbi ebraici62. Nel nostro testo di Gv 13,22 il participio a\porouémenoi immediatamente esprime l’incertezza63 dei discepoli sulla identità del traditore (perì tònov) di cui Gesù parla (leégei). I discepoli non sanno di chi parla Gesù; essi sospettano gli uni degli altri e, scrutandosi a vicenda (e"blepon ei\v a\llhélouv), 56

Cfr. Mt 6,20; Lc 24,4; At 25,20; 2Cor 4,8; Gal 4,20.

Nel NT solo in Mc 6,20: di Erode si dice che, avendo ascoltato Giovanni, dubitava di molte cose (pollaè h\poérei), aveva cioè molti dubbi. 57

58 Tutti gli altri usi neotestamentari: Lc 24,4: i due uomini, in vesti splendide, colgono le donne nel loro stato di confusione e dubbio (e\n t§% a\pore_sqai) per il fatto che al sepolcro non trovarono il corpo di Gesù); in At 25,20 Festo si dichiara incerto (a\porouémenov) sulle accuse dei Giudei contro Paolo; in 2Cor 4,8 Paolo dice di sé e degli altri apostoli di essere incerti (a\porouémenoi) ma non disperati (e\xaporouémenoi); in Gal 4,20 Paolo è incerto a riguardo dei Galati (a\porou%mai e\n u|m_n) e vorrebbe essere in mezzo a loro. 59 Si legge pure raramente nelle versioni di Simmaco (Gb 11,8; Pr 20,13; Qo 4,14; Ct 6,12; Ger 19,8) e di Teodozione (1Sam 30,6). 60

a"rtwn).

Nel senso di “mancare di qualcosa”, cfr. Pr 31,11; Sap 11,5.17; Sir 10,27 (a\porw%n

Nel senso di “essere dubbioso”, “esitante” cfr. Gen 32,8; Sir 18,7; Ger 8,18; 1Mac 3,31; “trovarsi nell’indigenza”, cfr. Lev 25,47; Is 8,22(Lxx); 24,19; 51,20; 2Mac 8,20; “essere privo di” cfr.Os 13,8. 61

62 Nei LXX si legge anche il termine a\poròa nel senso fondamentale di “indigenza” (Lev 26,16; Dt 28,22; Pr 28,27; Sir 4,2; Ag 2,18; Is 5,30; 8,22; 24,19; Ger 8,21), con diverse sfumature nei vari contesti, cfr. J.F. Schleusner, Novus Thesaurus philologico - criticus: sive Lexicon in LXX et reliquos interpretes graecos, I, Londini 1822, sub voce; questo termine è attestato nel NT solo in Lc 21,25, nel senso di “ansia”, “incertezza”. Il termine a"porov (“povero”, “misero”) è assente sia nel NT sia anche nei LXX, ma si legge solo nelle versioni di Aquila (1Sam 18,23; Pr 28,3), Simmaco (1Sam 18,23; Ec 8,14), Teodozione (1Sam 18,23; Pr 28,3).

Secondo Morris il participio a\porouémenoi, che è una forma media con significato attivo, suggerisce piuttosto perplessità, più che un dubbio, cfr. L. Morris, The Gospel according to John, cit., 555, nota 51. Nota Schlatter che il verbo a\poreoémai, con il genitivo, indica che si manca di qualcosa, cfr. A. Schlatter, Der Evangelist Johannes. Wie er spricht, denkt und glaubt, Stuttgart 1930, 285. Nel nostro caso, l’oggetto di cui si manca è contenuto, metaforicamente nell’etimologia stessa del termine: la strada. 63

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iniziano quasi una reciproca indagine per cogliere, come dicevamo, sul volto dell’altro qualche indizio tale da permettere di identificare in qualche modo in lui il traditore. Possiamo osservare che sia l’espressione e"blepon ei\v a\llhélouv sia anche l’espressione perì tònov rivelano che la domanda sull’identità del traditore, che ciascuno pone, non riguarda se stessi ma gli altri; ciascun discepolo cioè non si chiede se il traditore non possa essere lui ma invece chi degli altri lo è. In questo senso la reazione giovannea dei discepoli all’annunzio del tradimento concorda con quella descritta da Luca64. Matteo e Marco invece presentano due differenze di prospettiva: secondo questi vangeli i discepoli non si scrutano a vicenda ma interrogano Gesù; inoltre non chiedono chi degli “altri” può essere il traditore, ma ognuno chiede se non possa essere lui il traditore65. La peculiarità giovannea sta nel fatto che l’evangelista sottolinea l’aspetto dell’incertezza espresso dal participio a\porouémenoi. Rimane però il problema perché il nostro evangelista abbia introdotto, in forma participiale, il verbo a\poreéw. 3.2. La posizione del discepolo (v. 23) Nel v. 23 l’evangelista non continua più la descrizione della reazione dei discepoli, proposta nel v. 22, ma introduce la descrizione della posizione del discepolo. Di lui egli scrive che «era giacente (h&n deé a\nakeòmenov) uno 64 Cfr. Lc 22,23 dove leggiamo che i discepoli cominciarono a ricercare nell’ambito di se stessi (h"rxanto suzhte_n proèv e|autouév) chi fosse (toè tòv a"ra ei"h) di loro (e\x au\tw%n) colui che avrebbe fatto ciò (o| tou%to meéllwn praéssein). All’espressione lucana h"rxanto suzhte_n proèv e|autouév corrisponde l’espressione giovannea e"blepon ei\v a\llhélouv; all’espressione lucana toè tòv a"ra ei"h e\x au\tw%n corrisponde l’espressione giovannea perì tònov leégei. Giovanni inoltre aggiunge il participio a\porouémenoi. Pur con diversa formulazione letteraria, i due evangelisti tematicamente coincidono.

Cfr. l’espressione mhtò e\gwé ei\mi, Kuérie in Mt 26,22; Mc 14,19 scrive solo mhtò e\gwé. Sia Matteo che Marco menzionano la tristezza intensa che colse i discepoli a tale annunzio; di tale tristezza Luca e Giovanni non dicono nulla. 65

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dei discepoli di lui (eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou%) nel fianco di Gesù (e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou%), che amava Gesù (o£n h\gaépa o| }Ihsou%v)». 3.2.1. Confronto con il v. 22 Come abbiamo già precedentemente osservato, la descrizione della posizione statica del discepolo si contrappone alla situazione dinamica dei discepoli nel verso precedente. Tale contrapposizione appare ancora più chiara se confrontiamo la descrizione dei discepoli, nel v. 22, con quella del discepolo nel v. 23. I due testi infatti presentano un parallelismo. Notiamo anzitutto come entrambe le descrizioni, letterariamente legate dal termine maqhthév, si articolano in quattro elementi ciascuna: un verbo diretto, un soggetto, un complemento di luogo, una espressione che caratterizza il soggetto. Possiamo proporre il seguente confronto parallelo: v. 22 v. 23 e"blepon h&n a\nakeòmenov ei\v a\llhélouv eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou% oi| maqhtaì e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou% a\porouémenoi perì tònov leégei o£n h\gaépa o| }Ihsou%v

Notiamo, nel v. 23, una inversione tra il secondo (complemento di luogo) e il terzo (soggetto) elemento rispetto al v. 2266. Le somiglianze appaiono evidenti, ma appaiono notevoli anche le differenze. Notiamo anzitutto i verbi diretti: essi sono un imperfetto e"blepon (v. 22) ed una perifrastica pure all’imperfetto h&n a\nakeòmenov (v. 23). Concordando nella forma all’imperfetto, i due verbi esprimono così, entrambi, una azione continuata. Più precisamente, il verbo e"blepon esprime meglio una azione iterata: i discepoli ripetutamente posavano lo sguardo sul volto dell’altro, il verbo h&n a\nakeòmenov invece esprime una situazione abituale e continuata: il discepolo “sta continuamente”. Il verbo e"blepon esprime così una azione dinamica, il verbo h&n a\nakeòmenov (v. 23) invece descrive una 66

Si ottiene anche il seguente schema concentrico: v. 22: ei\v a\llhélouv

v. 23:

oi| maqhtaì eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou% e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou%.

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situazione statica. Dei discepoli l’evangelista nota l’azione, del discepolo invece nota la posizione. Il soggetto nelle due descrizioni: oi| maqhtaò (v. 22) e eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou% (v. 23) è caratterizzato, come abbiamo già notato, dal termine maqhthév. Mentre però nel v. 22 il termine si riferisce ai “discepoli (oi| maqhtaò)”, senza alcuna limitazione, e, perciò, a tutti, nel v. 23 invece è considerata una sola (eàv) figura che emerge (e\k) dal gruppo (e\k tw%n maqhtw%n), quella appunto del discepolo. Possiamo inoltre notare che il termine maqhthév, di per sé esprime relazione ad un maestro; nel v. 22 esso è usato in maniera assoluta (oi| maqhtaò), senza alcuna relazione: l’evangelista infatti non specifica di chi i discepoli sono tali; nel v. 23 invece l’autore introduce, dopo il termine maqhtw%n, il pronome personale au\tou%: in questo modo egli specifica che quel discepolo è uno dei discepoli “di Gesù”67. Quanto poi ai complementi di luogo: ei\v a\llhélouv (v. 22) e e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou% (v. 23), la loro differenza è duplice. Anzitutto il complemento ei\v a\llhélouv è un complemento di moto a luogo ed è perciò coerente con il verbo e"blepon che esprime una azione dinamica: attraverso quella di guardarsi: i discepoli sono orientati l’uno verso l’altro. Il complemento e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou% invece è un complemento di stato in luogo ed è perciò coerente con il verbo h&n a\nakeòmenov che esprime invece una posizione ed uno stato. I discepoli con lo sguardo sono orientati l’uno verso l’altro, il discepolo invece occupa una precisa posizione nel seno di Gesù. La seconda differenza, già accennata, riguarda le persone a cui il complemento di luogo è legato: nel v. 22 esso è relazionato ai discepoli in maniera reciproca: mediante l’azione di vedere, infatti, essi sono orientati e relazionati l’uno verso l’altro; nel v. 23 invece il complemento di stato in luogo è legato al seno di Gesù dove il discepolo era giacente. Nel v. 22 i discepoli sono orientati e relazionati gli uni verso gli altri; nel v. 23 invece il discepolo è direttamente relazionato a Gesù nel cui seno egli è giacente. L’introduzione del pronome au\tou%, nel v. 23, sorprende: sarebbe stata più logica la sua introduzione nel v. 22 e la sua omissione nel v. 23. Ciò sembra appunto suggerire una distanza dei discepoli da Gesù e la vicinanza invece a Lui del discepolo. 67

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Quanto, infine, all’espressione che caratterizza i soggetti: a\porouémenoi perì tònov leégei (i discepoli) nel v. 22 e o$n h\gaépa o| ’Ihsou%v (il discepolo),

nel v. 23, la differenza maggiore tra le due descrizioni sta nella diversa, e, in certo senso, anche opposta, caratterizzazione. Gli oi| maqhtaò sono caratterizzati da una proposizione participiale (a\porouémenoi), l’eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou% invece è caratterizzato da una proposizione relativa (o$n h\gaépa). Le due caratterizzazioni presentano una dinamica diversa e quasi opposta. Anzitutto i discepoli si trovano nella condizione di chi è senza una strada e vaga verso l’incerto; il discepolo invece appare, al contrario, come al termine di un preciso cammino che Gesù compie verso di lui (h\gaépa), dopo avere raggiunto una posizione statica in lui (h&n a\nakeòmenov […] e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou). Inoltre i discepoli, in questa situazione di smarrimento, sono protesi verso colui di cui parla Gesù (perì tònov leégei), di cui Egli ha annunziato il tradimento; il discepolo invece, al contrario, è oggetto di un preciso orientamento da parte di Gesù verso di lui. Possiamo allora concludere che, nel v. 22, i discepoli appaiono come il soggetto da cui parte un duplice dinamismo: verso se stessi a vicenda (ei\v a\llhélouv) e verso il traditore di cui parla Gesù (perì tònov leégei). Al contrario, nel v. 23, il discepolo si trova in una relazione bilaterale, quasi dialogica, in cui l’unico interlocutore è Gesù. Nei confronti di Gesù egli è insieme soggetto e oggetto di una duplice relazione; è soggetto in quanto “è giacente (h&n a\nakeòmenov)” sul suo fianco, è oggetto in quanto Gesù lo ama (h\gaépa). Mentre i discepoli sono orientati verso se stessi e poi, insieme, sono orientati verso colui di cui parla Gesù, cioè il traditore, il discepolo invece giace nel fianco di Gesù e Gesù lo ama. I discepoli sono caratterizzati da una duplice relazione unilaterale, a se stessi reciprocamente e al traditore, il discepolo invece è caratterizzato da una sola relazione bilaterale tra lui e Gesù. Nelle quattro espressioni, che caratterizzano il v. 2368, possiamo scorgere una progressiva manifestazione della persona di Gesù. Si può notare 68

Le quattro espressioni sono: h&n a\nakeòmenov eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou%,

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infatti dalla prima alla quarta espressione un progresso in cui la figura di Gesù emerge sempre più come centrale. Nella prima espressione infatti (h&n a\nakeòmenov) non troviamo alcun elemento che rimandi a Gesù; nelle altre tre invece Gesù è progressivamente alluso in posizione finale: nella seconda espressione, cioè il soggetto (eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou%), Gesù è semplicemente alluso con un pronome al genitivo (au\tou%)69; nella terza espressione, cioè il complemento di stato in luogo (e\n t§% koélpè § tou% ’Ihsou%), Gesù è menzionato esplicitamente con il suo nome proprio, ma in caso genitivo; nella quarta espressione infine, la proposizione relativa (o$n h\gaépa o| ’Ihsou%v.), Gesù è menzionato ancora con il nome proprio, ma stavolta, come soggetto, in caso nominativo70. 3.2.2. L’espressione h&n a\nakeòmenov L’espressione h&n a\nakeòmenov è una perifrastica formata dall’imperfetto del verbo ei\mò e dal participio presente del verbo a\naékeimai. Essa, come abbiamo già notato, stabilisce nel testo una relazione con l’imperfetto e"blepon del precedente v. 22; per questo ci saremmo aspettati una forma all’imperfetto dal verbo a\naékeimai anche nel v. 2371. Usando invece la forma perifrastica, l’evangelista sottolinea ancora di più la posizione stabile e\n t§% koélp è § tou% ’Ihsou%, o$n h\gaépa o| ’Ihsouv%.

Abbiamo già notato la singolarità di questo pronome. Esso più opportunamente avrebbe potuto essere introdotto dopo il termine oi| maqhtaò nel v. 22. Introdotto invece nel v. 23, esso diventa ancora più singolare per il fatto che si trova assai distanziato dall’ultima menzione del nome di Gesù nel v. 21, da cui è separato da ben 32 parole. Ciò rivela l’intenzione dell’evangelista di volere riservare a questo verso, in cui descrive il discepolo, qualsiasi menzione di Gesù, lasciando così la descrizione dei discepoli priva di qualsiasi menzione di lui. Inoltre l’uso del pronome au\tou% nella seconda frase rivela poi l’intenzione di volere introdurre nella descrizione del discepolo la figura di Gesù in un crescendo dinamico, quale abbiamo ora delineato. 69

70

Otteniamo il seguente crescendo: au\tou% tou% }Ihsou% o| }Ihsou%v

71

La forma avrebbe potuto essere a\neékeito.

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del discepolo: egli era in maniera stabile e costante (h&n) nella posizione di “giacente (a\nakeòmenov)”. Il verbo a\naékeimai è composto dal verbo ke_mai (giacere) ed indica la posizione di chi “giace (ke_mai) sopra (a\naé) qualcosa”, per esempio “sopra” un letto72. Dato poi l’uso antico di prendere i pasti sdraiati, facilmente questo verbo passò a significare l’azione di mettersi a tavola o di stare a tavola in relazione al pasto; in questo senso il verbo è abitualmente usato nel NT73; in questo modo, gli a\nakeimeénoi sono coloro che stanno a tavola per mangiare74. Nel vangelo di Giovanni il verbo a\naékeimai si legge quattro volte75, tre oltre il nostro testo (v. 23), in 6,11; 12,2; 13,28, sempre nel senso fondamentale di “stare a tavola” o per mangiare, o anche, in maniera più generale, “stare seduti” per mangiare76. É interessante pure la maniera come l’evangelista introduce nei quattro testi il verbo a\naékeimai. In 6,11 e in 13,28, cioè nel primo e nel quarto Cfr. Mc 5,40: riferito alla fanciulla (toè paidòon): Gesù entra dove era la fanciulla (toè paidòon) che era giacente (a\nakeòmenon) sopra un letto morta. Questo participio in Mc 5,40 però è criticamente incerto; è omesso da diversi codici sia greci () B C L D D ) che latini 72

(e a b ff); per questo non è riportato da alcune edizioni critiche quali il Nestle-Aland e il TGNT, (Cfr. E. Nestle - K. Aland [curr.], Novum Testamentum graece, cit., ad locum; K. Aland Et al [curr.], The Greek New Testament, cit., ad locum.); da altre poi, quali il Merk (cfr. A. Merk [cur.], Novum Testamentum graece et latine, cit., ad locum) è riportato tra parentesi.

73 Cfr. Mt 9,10; 22,10.11; 26,21; Mc 6,26; 14,18; Lc 22,27.27 e probabilmente anche Mt 26,7 e Mc 16,14. Nel NT il verbo a\naékeimai non è frequente. Esclusi quelli del vangelo di Giovanni, i suoi usi si riducono a questi citati, complessivamente a dieci, tutti contenuti nei vangeli sinottici. Accanto al verbo a\naékeimai troviamo, sempre esclusivamente nei vangeli sinottici, il verbo doppiamente composto sunanaékeimai (Mt 9,10; 14,9; Mc 2,15; Lc 7,49; 14,10.15). Nei LXX il verbo a\naékeimai è assai raro; si legge solo due volte, in 1Esd 4,10 e Tb 9,6 e non si legge mai nelle altre versioni greche.

In questo senso, in forma participiale, il verbo è usato in Mt 22,10.11; Mc 6,26; in Lc 22,27 l’o| a\nakeòmenov è colui che sta a mensa e si contrappone all’o| diakonw%n (colui che serve). Altre volte è usato sempre in forma participiale ma con valore circostanziale (Mt 9,10; 26,7; Mc 14,18; 16,14). Solo in Mt 16,21 è usato all’imperfetto (a\neékeito) con valore di azione continua. 74

75

Il verbo semplice ke_mai, nel senso di “giacere”, è più frequente: si legge sette volte.

Quest’ultimo aspetto emerge nel testo di 6,11 dove la folla non sta a tavola ma seduta sull’erba verde. 76

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testo, il verbo è usato al participio con l’articolo, in maniera perciò sostantivata77. Anche in 12,2 il verbo è usato in modo sostantivato (ei\v e\k tw%n a\nakeimeénwn), riferito a Lazzaro; in 13,23 è usato nell’espressione perifrastica h&n a\nakeòmenov. 3.2.3. l’espressione eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou%. Il soggetto che era giacente è descritto con l’espressione partitiva eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou%. In genere il complemento partitivo, unito al pronome numerale eàv, nel NT è formulato con il genitivo semplice78; non mancano, benché meno frequenti, degli usi con e\k e il genitivo79. La costruzione partitiva del pronome eàv con e\k e il genitivo, è invece caratteristica sia del vangelo di Giovanni80 sia dell’Apocalisse81. Essa è riferita dal nostro evangelista a diversi soggetti; l’espressione specifica poi eàv e\k tw%n maqhtw%n82 è usata altre volte: in 6,8 riferita ad Andrea ed in 12,483 riferita a Giuda84. Evidentemente in questi testi l’evangelista ha interesse a sottolineare che questi personaggi appartengono (Andrea) o appartenevano (Giuda) alla cerchia dei discepoli. 77

Cfr 6,11: to_v a\nekeimeénoiv; 13,28: tw%n a\nakeimeénwn.

Salvo errore si possono contare 46 casi in cui il pronome eàv è seguito da un partitivo al genitivo semplice; tale uso si riscontra soprattutto nei vangeli sinottici. 78

Cfr. Mt 10,29; 18,12; 22,35; 26,21; 27,48; Mc 14,18; Lc 12,6; 15,4; 17,15; 22,50; At 1,24; 11,28. 79

Nel vangelo di Giovanni si legge 12 volte (1,40; 6,8.70.71; 7,50; 11,49; 12,2.4; 13,21.23; 18,26; 20,24); benché la lettura nei testi di 12,2.4 sia incerta; solo due volte poi si legge la costruzione con il genitivo semplice (18,22; 19,34). 80

81 Otto volte (5,5; 6,1.1; 7,13; 13,3; 15,7; 17,1; 21,9). In Ap 21,21 troviamo invece la costruzione con il genitivo semplice.

Altre volte l’evangelista usa l’espressione eàv e\k tw%n dwédeka, in 6,71 e 20,24, rispettivamente riferita a Giuda e a Tommaso. In contesto dialogico e in relazione ai discepoli, in 6,70 egli mette in bocca a Gesù l’espressione e\x u|mw%n eàv. 82

83

Abbiamo però già notato come in questo testo la particella e\k è criticamente incerta.

In 12,4, nel contesto dell’unzione operata da Maria sui piedi di Gesù a Betania, l’evangelista crea un forte contrasto tra questa espressione e il fatto che Giuda stava per tradire Gesù. 84

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Nel nostro testo il discepolo appare come uno che appartiene alla cerchia dei discepoli ma che, nello stesso tempo, da essa emerge: egli appartiene a quella cerchia, ma in essa si distingue e, in un certo senso, anche da essa si separa. Questi due aspetti, dell’appartenenza e della distinzione, emergono anche dal confronto tra la nostra espressione eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou% e l’espressione oi| maqhtaò del verso precedente. Il termine maqhthév lega il discepolo alla cerchia degli altri discepoli, egli è infatti uno di loro; il pronome au\tou%, che, come abbiamo notato, avrebbe potuto essere più opportunamente introdotto nel v. 22, invece lo separa: egli appare come uno che ha relazione con Gesù (au\tou%), a differenza degli altri di cui si dice soltanto che erano come chi aveva smarrito la strada (a\porouémenoi) e di cui si tace qualsiasi relazione a Gesù. 3.2.4. L’espressione e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou% La terza espressione indica il luogo dove il discepolo era giacente: e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou%: giaceva così nel petto di Gesù. L’espressione appare assai strana; verosimilmente si tratta del discepolo che, a tavola, è posizionato accanto a Gesù, magari ad una distanza minima. L’espressione però dà l’idea di un discepolo totalmente giacente nel petto di Gesù e che questo fosse per lui come un letto in cui egli stava adagiato. Il termine koélpov indica la parte anteriore del corpo, il seno, il petto85. Nel NT è un termine abbastanza raro ed è esclusivamente lucano e giovanneo. Si legge infatti quattro volte nell’opera lucana86 e due volte nel vangelo di Giovanni, nel nostro testo e in 1,18. Nei LXX questo termine è più frequente87; traduce quasi sempre il termine qy"x88, evocando anche diversi aspetti. 85 86 87

Cfr. anche J. Mateos - J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, cit., 567. Cfr. 6,38; 16,22.23; At 27,39. Circa 42 volte.

Altre volte traduce i termini }epox (il cavo della mano) (Pr 30,4[24,27]), }ecox (Sal 129[128],7: il grembo in cui si raccolgono oggetti da portare); Is 49,22: (il grembo in cui si portano i bambini), taxaLac (Pr 19,24; 26,15: il piatto). 88

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Nel vangelo di Giovanni, come abbiamo detto, il termine koélpov si legge due sole volte, cioè una sola volta ancora oltre il nostro testo, in 1,18, riferito però “all’Unigenito Dio”, che è (o| w"n) proteso verso (ei\v) il petto (toèn koélpon) del Padre. Così i due usi giovannei si riferiscono rispettivamente al Padre e a Gesù; in 1,18 il koélpov è quello del Padre in relazione all’Unigenito, cioè a Gesù; in 13,23, il nostro testo, è invece quello di Gesù in relazione al discepolo. A riguardo possiamo notare qualche riflessione degli interpreti89. Osserva Brodie90 che il discepolo, nel fianco di Gesù, è ciò che Gesù è nel fianco del Padre. Si crea in 13,23 un contrasto tra la progressiva possessione diabolica del traditore e la progressiva intimità con Gesù del discepolo. In Giuda c’è tutto ciò che è negativo, nel discepolo tutto ciò che è esaltante; Giuda è da Satana, il discepolo è nella piena libertà con Gesù. Osserva Barrett91 che il discepolo è nella sua relazione a Gesù allo stesso modo come Gesù lo è nella sua relazione al Padre. Spiega Brown92 che il discepolo riposa nel seno di Gesù come Lui nel seno del Padre; in altre parole, il discepolo è intimo di Gesù come Lui lo è del Padre. Così anche ritiene Beasley-Murray93. Secondo Grasso94 l’espressione con il termine koélpov, vuol sottolineare l’eccezionale relazione di intimità tra il discepolo e Gesù e tra Gesù e il Padre95. Spiega ancora Leon-Dufour96 che la posizione del discepolo, nella mente dell’evangelista, è senza dubbio intenzionale, ad immagine di quella del Figlio rivolto verso il seno del Padre. Osserva questo interprete che la figura del discepolo, con ogni verosimiglianza, non è fittizia, destinata a rappresentare il discepolo ideale. Nel presente contesto il discepolo prediletto Ci limitiamo soltanto a qualche esempio: la relazione a 1,18 è, in genere, indicata da quasi tutti gli interpreti. 89

90 91 92 93 94

Cfr. T.L. Brodie, The Gospel according to John, New York – Oxford 1993, 453. Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 372. Cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 690.

Cfr. G.R. Beasley-Murray, John, cit., 238.

Cfr. S Grasso, Il vangelo di Giovanni, cit., 558.

Grasso cita Jb 22,26, dove si legge che Giacobbe dormiva sul petto del nonno Abramo, cfr. ibid., 559, nota 38. 95

96

Cfr. X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, cit., 58.

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appare come il contrappeso di Giuda: di fronte al traditore, e in contrasto con lui, l’evangelista pone il vero credente, inseparabile dal suo Signore. Spiega Lindars97 che una persona importante sta sempre alla destra dell’ospite. Wilckens98 spiega che, come in principio, secondo 1,18, il figlio unigenito di Dio era “nel seno del Padre” e da quella fidata vicinanza ha portato agli uomini l’annunzio della rivelazione, così ora altrettanto familiare ed immediata è la vicinanza tra Gesù e “il discepolo che egli amava”. Osserva infine Schnelle99 che il discepolo è nel seno di Gesù così come Gesù è nel seno del Padre100. In questo modo, il discepolo diventa un particolare interprete di Gesù come Gesù lo è del Padre101. I due testi giovannei di 1,18 e 13,23 sembrano costituire come due parti di un tutto. Gesù, nei due testi, è insieme soggetto e oggetto. Ë soggetto in relazione al petto del Padre; è oggetto, con il suo petto, in relazione al discepolo. Gesù è proteso verso il seno del Padre, ma il discepolo era giacente nel petto di Gesù. Rileggendo i due testi all’inverso, si può stabilire un progresso ascendente: il discepolo era giacente “sul petto di Gesù (13,23)”, ma Gesù è proteso “verso il seno del Padre (1,18)”. Si direbbe che, attraverso il petto di Gesù, il discepolo arriva a quello del Padre102. 97 98

Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit., 458.

Cfr. U. Wilckens, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 271.

Cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, cit., 219. Secondo Schnelle in nessun modo il discepolo è una persona storica, ma «ganz und gar eine Fiktion», cfr. ibid., 221. Schnelle cita Kragerud, cfr. A. Kragerud, Der Lieblingsjünger im Johannesevangelium, cit., 149. 99

100 Cfr. anche F.J. Moloney, Il vangelo di Giovanni, cit., 387; U. Wilckens, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 213.

101 Inoltre anche R.E. Brown, Giovanni, cit., 690; R. Fabris, Giovanni, cit., 564; A.T. Lincoln, The Gospel according to St. John, London 2005, 377; J. Mateos - J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, cit., 567: il discepolo è “accanto” a Gesù (13,23), Gesù è orientato verso il Padre (1,18); L. Morris, The Gospel according to John, cit., 555; J.N. Sanders - B.A. Mastin, A Commentary on the Gospel according to S. John, cit. 312, nota 51; K. Wengst, Das Johannesevangelium, II, Stuttgart-Berlin-Köln. 2001, 102; J. Zumstein, L’évangile selon saint Jean (cc. 13-21), cit., 37; anche Id., Le disciple bien-aimé, cit., 50. 102 I due testi, di 1,18 e 13,23, pur relazionati mediante il termine koélpov, per la loro diversa formulazione, con ei\v e l’accusativo (ei\v toèn koélpon: moto a luogo) in 1,18 e con e\n e il dativo (e\n t§% koélp§: stato in luogo) in 13,23, presentano prospettive diverse, che però possono riassumersi in un rapporto di complementarietà.

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Letterariamente poi le due espressioni sono parallele: entrambe sono costituite da una proposizione participiale, da un complemento di luogo e da un genitivo possessivo103. Emerge però subito tra i due testi una differenza: in 13,23, a riguardo del discepolo in relazione al petto di Gesù, è usato il complemento di stato in luogo (e\n t§% koélp§) e ciò è in sintonia con il precedente verbo stativo participiale h&n a\nakeòmenov; in 1,18 invece, a riguardo di Gesù in relazione al petto del Padre, è usato il complemento di moto a luogo (ei\v toèn koélpon), ma ciò invece in distonia con il verbo stativo participiale o| w"n che avrebbe esigito meglio un complemento di stato in luogo104. L’azione del discepolo suscita il problema sul suo posto concreto, quello da lui occupato, alla mensa. Secondo Barrett105 il posto occupato dal discepolo doveva essere quello riservato all’amico più fedele. Osserva Morris106 che il posto del discepolo era un posto di onore, tale da potere egli reclinare sul petto di Gesù. Secondo Hoskyns-Davey107 pare che il discepolo fosse alla destra di Gesù; reclinando così sul suo braccio sinistro, poteva essere capace di parlare con lui. Così anche Lindars108, il quale aggiunge non solo che il discepolo si trovasse in una posizione privilegiata, tale da potere avere una parola privata con Gesù, ma anche che egli era tutto ciò che Giuda non era: un compagno fidato che comprende la mente del suo maestro. 3.2.5. L’espressione o$n h\gaépa o| ’Ihsou%v Infine, mediante una proposizione relativa, l’evangelista caratterizza questo discepolo come colui che (o$n) amava (h\gaépa) Gesù (o| ’Ihsou%v). Il parallelismo emerge bene dal seguente schema: 1,18 13,23 103

o| w!n h&n a\nakeòmenov ei\v toèn koélpon e\n t§% koélp§ tou% patroév tou% ’Ihsou% 104

Prescindiamo però nel nostro lavoro dal senso che il complemento di moto a luogo

ei\v toèn koélpon assume nel contesto di 1,18. 105 106 107 108

Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 372. Cfr. L. Morris, The Gospel according to John, cit., 556.

Cfr. E.C. Hoskyns - F.N. Davey, The Fourth Gospel, London 19472, 442. Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit., 458.

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Come abbiamo indicato fin da principio, questa non è l’unica volta che l’evangelista caratterizza il discepolo in questo modo, ma soltanto la prima109: egli infatti ripeterà in maniera quasi identica l’espressione o$n h\gaépa o| ’Ihsou%v in 19,26; 21,7; 21,20110. Prescindendo per il momento dal contenuto specifico di questa espressione e limitandoci soltanto a caratterizzare l’atteggiamento di Gesù verso il discepolo, notiamo subito, alla luce di essa, come tutto il v. 23 si articola in due parti, quantitativamente sproporzionate111, ma che si concludono, entrambe, con il nome proprio ’Ihsou%v. La prima parte riferisce l’atteggiamento del discepolo verso Gesù; la seconda parte invece descrive l’atteggiamento di Gesù verso il discepolo. Ciò induce a concludere che questa seconda parte, oltre che caratterizzazione del discepolo, costituisce anche, e forse soprattutto, la risposta di Gesù a lui. Al di là della quantità, le due parti presentano un parallelismo che possiamo proporre nel seguente modo: h&n a\nakeòmenov o£n eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou% h\gaépa e\n t§% koélp§ tou% ’Ihsou% o| ’Ihsou%v

Tale parallelismo può essere proposto meglio nel seguente modo: h&n a\nakeòmenov (verbo) eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou% (soggetto) e\n t§% koélp§ tou% ’Ihsou% (complemento) o£n (complemento) h\gaépa (verbo) o| ’Ihsou%v (soggetto) 109 In assoluto però la prima volta l’espressione h\gaépa o| ’Ihsou%v era stata già usata in 11,4, in relazione però a Marta, sua sorella e Lazzaro. Si può notare però nella formula di 11,4 una inversione di elementi rispetto a quella riferita al discepolo. Nella formula riferita al discepolo l’ordine è: oggetto (o$n), verbo (h\gaépa), soggetto (o| ’Ihsou%v); nella formula invece di 11,4 l’ordine è: verbo (h\gaépa), soggetto (o| ’Ihsou%v), oggetto (Marta e sua sorella e Lazzaro). 110 Solo in 19,26 il soggetto o| ’Ihsou%v è separato dal resto dell’espressione o£n h\gaépa, ed è introdotto all’inizio di tutto il periodo, come diretto soggetto non però del verbo h\gaépa ma del verbo leégei.. 111

La prima parte comprende ben 13 parole, la seconda parte invece soltanto quattro.

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Verbo e soggetto stanno in rapporto alternato; al centro troviamo i due complementi, rispettivamente di stato in luogo (e\n t§% koélp§ tou% ’Ihsou%) e oggetto (o$n). Il rapporto alternato tra verbo e soggetto può essere proposto nel seguente modo: h&n a\nakeòmenov (verbo) eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou% (soggetto) h\gaépa (verbo) o| ’Ihsou%v (soggetto). Stanno così a confronto la situazione statica del discepolo verso Gesù, che era giacente, e l’azione dinamica da parte di Gesù verso il discepolo, che lo amava. L’espressione riferita al discepolo, h&n a\nakeòmenov, e l’azione di Gesù, h\gaépa, concordano nel fatto che entrambe sono all’imperfetto: esprimono ambedue una situazione abituale e continua: il discepolo in maniera abituale giace in Gesù e Gesù, senza interruzione, lo ama. Proprio questa situazione di continuità evidenzia ancora di più il carattere dialogico della posizione del discepolo in Gesù e l’azione di amarlo: possiamo dire che Gesù ama il discepolo proprio per il fatto che egli “è giacente”. Resta però da illuminare questo rapporto che sembra andare oltre il piano materiale: una persona infatti, che sta poggiata sul petto di un’altra, specialmente a tavola, può non determinare amore ma suscitare anche fastidio perché impedisce i movimenti. Si avverte il carattere simbolico di tutta la descrizione, che però, come abbiamo detto sopra, evitiamo di illuminare adesso. Possiamo però notare ancora la relazione tra i due soggetti: stanno a confronto “uno dei suoi discepoli” e Gesù. Tale relazione suggerisce che stanno a confronto uno, che può essere definito “vero discepolo” di Gesù, e Gesù maestro. Si intravede già una prima indicazione dell’aspetto simbolico a cui si è sopra accennato: il discepolo che giaceva sul petto di Gesù e che Gesù amava è il suo vero discepolo. Da Lui non solo ha imparato ma con Lui ha stabilito anche un rapporto di intimità personale, al punto da potersi permettere di giacere sul suo petto. Gesù accoglie questo rapporto personale e risponde in maniera adeguata. Il discepolo, imparando da Lui, ha raggiunto l’intimità del maestro e questi a lui si dona in atteggiamento di amore.

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A questo punto possiamo andare ancora oltre e riprendere le osservazioni proposte a riguardo del termine koélpov. L’esclusività dei due usi di questo termine nel vangelo di Giovanni, suggerisce di richiamare ancora il testo di 1,18, dove si legge che Gesù è orientato verso il petto (ei\v toèn koélpon) del Padre. Il discepolo, che poggia sul petto di Gesù, condivide la stessa direzione di Gesù: anche lui, assieme a Gesù, è orientato verso il Padre. 3.2.6. Conclusione Possiamo tirare una prima conclusione circa il confronto tra il v. 22 e il v. 23, cioè tra la posizione stabile del discepolo nel petto di Gesù (v. 23) e la condizione di sbandamento, disorientamento e di perdita di una strada da parte dei discepoli. Tra i discepoli e il discepolo, accomunati nella stessa dimensione di maqhtaò, si può stabilire allora un rapporto, che appare antitetico, nel seguente modo: Discepoli discepolo e"b " lepon h&n a\nakeòmenov ei\v a\llhélouv e\n t§% koélp§ tou% ’Ihsou% perì tònov legei o£n h\gaépa. o| }Ihsou%v.

Si direbbe che i discepoli vivono sotto l’incubo delle parole di Gesù: «uno di voi mi tradirà» e sono assaliti dalla domanda di chi parla Gesù; ciò significa che ognuno può sentirsi potenzialmente traditore. Si sentono come imprigionati in una situazione nella quale cercano una via di uscita. Ma essi appaiono chiusi in se stessi: vorrebbero venire fuori; ma si trovano senza una strada (a\porouémenoi) che permetta loro di uscire e la cercano nel loro interno, a vicenda (ei\v a\llhélouv). Si direbbe che i discepoli, senza la strada, sarebbero destinati a restare per sempre nella loro prigione ed avere su di sé il marchio del traditore. I discepoli però non rimangono senza speranza: il discepolo che Gesù amava indica che c’è una strada che permette loro di uscire, raggiungere Gesù ed essere amati da Lui.

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Quale sia questa strada, il testo esplicitamente non lo dice; riteniamo però che l’evangelista lo suggerisce nel contrasto tra il termine assoluto oi| maqhtaò e l’espressione relativa eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou%. Il termine oi| maqhtaò, pur in assoluto, rivela che i discepoli non hanno ancora perduto la loro condizione di discepoli; soltanto debbono tornare ad essere discepoli di Gesù (au\tou%). Questa è la via che il discepolo indica e che permette agli altri di uscire fuori dalla loro situazione e raggiungere Gesù. Allude a qualcosa l’evangelista? Forse dovremmo rispondere in maniera positiva: tutto lo sviluppo infatti lo suggerisce. Si tratta però di un problema molto lungo che è impossibile esaurire in queste pagine. Ci limitiamo perciò ad avanzare una semplice suggestione. Narrano Matteo e Marco112 che, al Getsemani, al momento della cattura, i discepoli, avendo lasciato solo Gesù, fuggirono tutti. Giovanni sembra dire esattamente il contrario; scrive infatti in 18,8: «se dunque cercate me, lasciate che questi vadano». Secondo Giovanni non sarebbero stati i discepoli a fuggire, ma Gesù a farli andare. Forse però, mettendo insieme i sinottici, Matteo e Marco, e Giovanni, si possono ipotizzare i seguenti avvenimenti: i discepoli, come vogliono Matteo e Marco, sarebbero realmente fuggiti, i soldati li avrebbero inseguiti, ma Gesù ferma gli inseguitori e dice loro, come vuole Giovanni, di lasciarli andare, dal momento che essi cercano lui. Checché ne sia della concreta situazione storica, Giovanni sottolinea che è stato Gesù a farli andare via, ma egli non ignora, benché non lo dica, che essi siano realmente fuggiti. Forse è questa la situazione che l’evangelista presuppone nel nostro testo. Per questo motivo, a causa cioè della loro fuga, i discepoli potrebbero essere definiti, dei traditori: nonostante le loro promesse, essi hanno lasciato solo Gesù (16,32). La situazione dei discepoli però è diversa. Come ci dicono Matteo e Marco113, Gesù aveva preannunziato loro che, nella notte in cui il pastore sarebbe stato colpito, avrebbero patito scandalo e si sarebbero dispersi. Ma Gesù, risorto, li avrebbe preceduti in Galilea e di nuovo li avrebbe radunati. 112 113

Cfr. Mt 26,56; Mc 14,50.

Cfr. 26,31-32; Mc 14,27-28.

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Giovanni non ignora tutto ciò: i discepoli realmente non hanno superato lo scandalo e si sono dispersi. Si sono ritrovati imprigionati, chiusi in se stessi, in atteggiamento di reciproca accusa, senza una strada, e, perciò, destinati a morire con il marchio dei traditori. A differenza però di Matteo e Marco, che attribuiscono a Gesù il raduno dei discepoli in Galilea, Giovanni lo attribuisce invece al discepolo. Egli indica agli altri la strada che lui stesso ha battuto, che lo ha portato nell’intimità di Gesù (e\n t§% koélp§) orientandolo poi a quella del Padre, e che ha ricevuto, in maniera definitiva, una risposta di amore da parte di Gesù. Il discepolo così si propone, per gli altri discepoli come termine di un cammino. 3.3. L’azione di Pietro (v. 24) Nel v. 24 l’evangelista introduce l’azione di Pietro. Specificamente tali azioni sono due, espresse con due verbi all’indicativo presente, sotto, appunto, l’unico soggetto, Sòmwn Peétrov: neuéei touét§ e leégei au\t§%. Queste due azioni presentano un certo parallelismo: in entrambe infatti i verbi sono seguiti da un pronome dativo: neuéei leégei touét§ au\t§%. La prima espressione, neuéei touét§, è seguita dalla menzione del soggetto: Sòmwn Peétrov; la seconda invece introduce le dirette parole di Pietro. I due pronomi al dativo, touét§, e au\t§%, si riferiscono alla stessa persona,

il discepolo che Gesù amava, descritto nel verso precedente. La particella ou&n, legata al verbo neuéei, suggerisce che le descrizioni precedenti, riguardanti i discepoli e il discepolo, preparavano la descrizione dei vv. 24-25, dove Pietro si orienta al discepolo e il discepolo a Gesù. Tutta l’espressione, che descrive l’azione di Pietro, pur nella sua linearità, presenta una particolare struttura letteraria composta di cinque elementi: due verbi, due dativi, riferiti alla stessa persona, e un soggetto. Emerge così la seguente relazione strutturale alternata e concentrica insieme: neuéei (fa cenno) touét§ (a costui) Sòmwn Peétrov (Simon Pietro)

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kaì leégei (e dice) au\t§% (a lui).

Al centro troviamo il nome proprio Sòmwn Peétrov. I verbi sono due, neuéei e leégei; i dativi sono pure due, touét§ e au\t§%, entrambi riferiti al discepolo. Emerge, in maniera molto enfatica, al centro, la persona di Pietro. 3.3.1. Il verbo neuéw Il verbo neuéw significa “accennare”, “fare un cenno”, “significare con un cenno”. Nel NT esso non è frequente, anzi abbastanza raro: si legge infatti due volte soltanto, una sola cioè oltre il nostro testo, in At 24,10. In quest’ultimo testo si legge che Paolo prende la parola, «avendo fatto un cenno (neuésantov) a lui il procuratore»114. Anche nella versione greca dei LXX il verbo neuéw è molto raro: si legge infatti due sole volte, entrambe nel libro dei Proverbi (Pr 4,25 e 21,1); si legge però qualche volta in più nella versione di Aquila115 e una sola volta anche in quella di Simmaco116. Di tale azione di Pietro gli altri evangelisti non dicono nulla, anzi nessuno dei Sinottici presenta Pietro non solo che interroga, ma anche che, in qualche modo, si interroga sul traditore. Sul piano storico, il verbo neuéw rivela che, con un cenno, Pietro intese attirare a sé l’attenzione del discepolo per potergli poi parlare117, nella speranza magari di non essere scorto o udito dagli altri. In ogni caso, è 114 Osserva Kysar che il gesto indica più della parola, cfr. R. Kysar, John, cit., 214. Da ciò Barrett deduce che Pietro, evidentemente, non era nella posizione di chiedere, cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 373.

Le concordanze di Hatch – Redpath indicano nove usi: Es 16,10; Dt 1,40; 1Sam 13,18; Sal 45 (46),6; Is 13,14; 53,6; Lam 1,15; Ez 10,11; Mal 2,13, cfr. E. Hatch - H.A. Redpath, A Concordance to the Septuagint and the other Greek Versions of the Old Testament, II, Graz 1975, sub voce. 115

116

Cfr. Mal 2,13.

Michaels dal fatto del segno, conclude che tra Pietro e il discepolo doveva esserci una più stretta relazione; ciò implica anche che Pietro non era seduto dall’altro lato accanto a Gesù, cfr. J.R. Michaels, John, Peabody 1989 (rist.), 751. 117

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interessante il fatto che Pietro si rivolge al discepolo118: cosa che non fanno tutti gli altri. Kuhn119 rileva che nei pasti degli esseni e a Qumran120 si poteva parlare solo nel dovuto ordine. In base a questa analogia, egli conclude che il discepolo prediletto doveva trovarsi in un posto superiore a quello di Pietro ed avere il diritto di parlare prima di Pietro. Ma osserva Brown che l’azione di Pietro si può spiegare più semplicemente se egli era ad una certa distanza e non voleva fare una simile domanda gridando121. L’azione di Pietro è marcata dal duplice verbo neuéei e leégei; la sua relazione specificamente è al discepolo. Pure interessante è il primo pronome touét§, che acquista pure una certa enfasi: Pietro si rivolge non soltanto alla persona del discepolo nella sua concreta individualità, ma al discepolo nella globalità delle caratteristiche che circondano la sua persona. In altri termini, Pietro si è rivolto proprio a quel discepolo che era giacente nel fianco di Gesù e che Gesù amava. 3.3.2. Le parole di Pietro Le parole che Pietro rivolge al discepolo sono le seguenti: «dì (ei\peé), chi è colui (tòv e\stin) di cui (perì ou/) parla (leégei)»122. Pietro cioè esorta a dire chi è colui di cui parla Gesù123. Emerge però un problema, al quale abbiamo già accennato: a chi il discepolo deve dire chi è colui di cui Gesù parla? Si tratta di Gesù al quale il discepolo, sollecitato da parte di Pietro, deve chiedere chi è colui a cui Osserva Zumstein che, in questo modo, il discepolo è elevato di fatto al ruolo di mediatore tra Cristo e i suoi aderenti, J. Zumstein, L’évangile selon saint Jean, cit., 37. 118

Cfr. K.G. Kuhn, The Lord’s supper and the Communal Meal at Qumran, in K. Stendahl (Ed) The Scrolls and the New Testament, New York, 1957, 69. 119

Kuhn cita Giuseppe Flavio (Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, II, VIII, 5, # 132) e anche 1QS VI,10, l.c.. 120

121

Cfr. cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 686.

Abbiamo precedentemente indicato già il problema testuale in questa espressione e anche la nostra scelta. 122

123 Osserva Kysar che Giovanni mette in bocca al discepolo ciò che i Sinottici mettono in bocca agli altri, cfr. R. Kysar, John, cit. 214.

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egli si riferisce, oppure si tratta di Pietro che chiede al discepolo di dirgli chi è colui a cui Gesù si riferisce? Questa ambiguità nasce dal fatto che, dopo l’imperativo ei\peé, non segue alcuna forma di dativo di termine. L’azione seguente del discepolo suggerirebbe che il riferimento sia a Gesù; la forma stessa all’imperativo assoluto ei\peé, suggerirebbe invece che il riferimento sia a Pietro. Lasciando da parte questa ambiguità, tutta l’espressione comprende quattro elementi, di cui il primo e il quarto sono un verbo, rispettivamente ei\peé e leégei; il secondo e terzo elemento sono, rispettivamente, una proposizione interrogativa indiretta (tòv e\stin) e un complemento di argomento (perì ou/). Possiamo proporre allora il seguente schema: ei\peé leégei

tòv e\stin perì ou/

Questa espressione poi presenta un parallelismo con la frase precedente, come appare dal seguente schema: neuéei touét§ ei\peé Sòmwn Peétrov; tòv e\stin perì ou/ leégei au\t§% leégei.

Esse condividono due particolarità: iniziano e finiscono entrambe con un verbo diretto, e, inoltre, entrambe terminano con lo stesso verbo leégei, benché riferito a persone diverse, rispettivamente al discepolo e a Gesù. Le relazioni tra queste due espressioni sopra indicate, che stabiliscono pure una relazione tra le espressioni centrali Sòmwn Peétrov e tòv e\stin perì ou/, suggeriscono che anche Pietro può essere identificato con il traditore: la domanda di Pietro al discepolo di dire chi è colui di cui parla, suggerisce appunto che anche Pietro sente di essere, un pò, traditore. In questa prospettiva sembra più coerente intendere il verbo ei\peé rivolto non a Gesù bensì a Pietro; questi chiede al discepolo di dirgli chi è colui di cui Gesù parla, nella segreta speranza, forse, di sentirsi dire che non è lui il traditore. Il discepolo non potrà rispondere se non si rivolge a Gesù e cerca in lui la risposta. Ma perché Pietro teme di essere lui traditore? Anche qui forse dobbiamo richiamare una situazione storica; prima però è importante considerare la

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reazione del discepolo: il suo orientamento verso Gesù e la domanda che egli gli rivolge. 3.4. La reazione del discepolo (v. 25) La reazione del discepolo, cioè il suo orientamento verso Gesù e la domanda che egli gli rivolge, sono descritte nel v. 25: «essendosi reclinato (a\napeswén) quello (e\ke_nov) così sul petto di Gesù (e\pì toè sth%qov tou% }Ihsou%), dice (leégei) a Lui: Signore (Kuérie), chi è (tòv e\stin)»? 3.4.1. L’orientamento verso Gesù Il verbo principale, in questa espressione, è il verbo leégei, preceduto dal participio circostanziale a\napeswén124. Questo participio esprime l’orientamento del discepolo verso Gesù. Esso è un aoristo e, in relazione all’indicativo presente leégei, esprime una azione antecedente125: il discepolo prima reclinò sul petto di Gesù, poi, in quella posizione, gli rivolse la sua domanda126. Il participio a\napeswén però sorprende, perché descrive una azione inattesa. Nel precedente v. 23 l’evangelista, staticamente, aveva detto che il discepolo era giacente (h&n a\nakeòmenov) nel fianco di Gesù (e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou%); ora invece, dinamicamente, egli indica un movimento del discepolo, che si è orientato su Gesù. 124 La lettura a\napeswén, dal verbo a\napòptw, è ritenuta dal cod B, dal cod C, da altri codici, dalla versione Siro Sinaitica e da Origene; altri codici, tra cui il P66, i codd. ) D Q W ed altri leggono e\pipeswén, dal verbo e\pipòptw. Probabilmente il verbo e\pipeswén è introdotto sotto l’influsso della seguente particella e\pò e ne anticipa anche il senso; inoltre il verbo a\napeswén stabilisce una maggiore relazione con il precedente participio . a\nakeòmenov. Nota Plummer che, con il verbo a\napeswén si indica un cambiamento di posizione, cfr. A. Plummer, The Gospel according to St. John, cit., 268.

Pure Morris spiega che l’aoristo indica probabilmente un cambiamento di posizione, cfr. L. Morris, The Gospel according to John, cit., 556. 125

126

Le due azioni presentano anche un certo parallelismo:

a\napeswén e\ke_nov e\pì toè sth%qov tou% }Ihsou% leégei au\t§%.

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Dal punto di vista storico, forse possiamo immaginare che, dato l’uso di mangiare sdraiati, il discepolo era accanto a Gesù (a\nakeòmenov), ovviamente ad una certa distanza; poi, per potergli rivolgere la domanda, si sarebbe accostato (a\napeswén) in maniera tale da appoggiare la testa sul petto. La formulazione dell’evangelista però, h&n a\nakeòmenov e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou%, lascia supporre che il fianco di Gesù fosse proprio il luogo dove il discepolo era giacente; in questa prospettiva suona strana l’espressione che descrive invece un movimento del discepolo, praticamente nello stesso luogo dove già era giacente. Il verbo a\napòptw, nel NT, si legge soltanto nei vangeli, dodici volte, nel seguente ordine quantitativo: una volta in Matteo (Mt 15,35), due volte in Marco (Mc 6,40; 8,6), quattro volte in Luca (Lc 11,37; 14,10; 17,7; 22,14), cinque in Giovanni (Gv 6,10 [bis]; 13,12.25; 21,20. Esso esprime un movimento dall’alto verso il basso, un “cadere (pòptw)” “dall’alto (a\naé)”, donde anche il senso di “adagiarsi”, “mettersi a giacere”, o anche quello più specifico di “mettersi a tavola”. A riguardo sono significativi degli usi neotestamentari. In Mt 15,35 è descritto il comando di Gesù alla folla di adagiarsi (a\napese_n) a terra (e\pì thèn gh%n)127: il contesto è il secondo racconto della moltiplicazione dei pani. Analogamente, in Mc 6,40 leggiamo che «si adagiarono (a\neépesan) a gruppi di cento e di cinquanta»: il contesto è invece il primo racconto dei pani. In Mc 8,6 si legge del comando (paraggeéllei) di Gesù alla folla, nel contesto del secondo racconto dei pani, di adagiarsi (a\napese_n) sulla terra (e\pì th%v gh%v). In Lc 11,37 il verbo a\napòptw è riferito a Gesù, invitato a pranzo da un fariseo; entrato, Gesù si mise a tavola (a\neépesen) senza avere fatto il bagno. Pur in diverso contesto, il verbo si riferisce ad una particolare posizione in relazione al mangiare. Analogamente, in Lc 14,10, ancora nel contesto di un banchetto, Gesù insegna, o anche comanda, che quando si è invitati bisogna mettersi (a\naépese) all’ultimo posto. In Lc 17,7 Gesù cita il fatto che nessuno dice al servo, che torna dal lavoro, di mettersi a tavola (a\naépese), ma gli comanda di preparare per sé. Infine in Lc 22,14 l’evan127

La costruzione con e\pò e l’accusativo evoca meglio il complemento di moto a luogo.

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gelista narra che «quando venne l’ora, (Gesù) si mise a tavola (a\neépesen) e gli apostoli con lui». Come possiamo constatare, il verbo a\napòptw, nei vangeli sinottici, indica una azione relazionata al mangiare. In Matteo e Marco indica la posizione che la folla deve assumere per ricevere il pane di Gesù, deve cioè adagiarsi a terra; in Luca si riferisce sempre al prendere posto in un banchetto. In Giovanni, i due usi di 6,10 si riferiscono alla posizione che la gente deve assumere nella moltiplicazione dei pani; leggiamo infatti: «disse Gesù: fate adagiare (poihésate […] a\napese_n) gli uomini; […], si adagiarono (a\neépesan) gli uomini». In 13,12 il verbo è riferito a Gesù che, quando ebbe lavato i piedi dei discepoli, «prese le vesti e sedette (a\neépesen) di nuovo»: il testo di 13,25 è il nostro e quello di 21,20 è la sua ripresa. Gli usi giovannei si rivelano consoni a quelli di Matteo e Marco: anche in Giovanni il verbo si riferisce all’adagiarsi a terra prima della moltiplicazione dei pani, poi si riferisce al mettersi a tavola in un banchetto128. Il nostro testo però presenta una peculiarità: esso è l’unico del NT in cui il verbo a\napòptw, almeno immediatamente, non è usato in relazione a mangiare: il discepolo infatti non si mette a tavola, ma poggia, reclina, sul petto di Gesù. Il petto di Gesù è il luogo dove il discepolo “scende”; la domanda allora si pone sul senso del termine sth%qov su cui il discepolo reclina. Il termine sth%qov, nel NT, si legge cinque volte, in Lc 18,13; 23,48; Gv 13,25; 21,20; Ap 15,6. In Giovanni si legge soltanto nel nostro testo e nella sua ripresa in 21,20. In Lc 18,13 il termine è riferito al pubblicano che, nel tempio, stando lontano, si batteva il petto (e"tupten toè sth%qov) implorando il perdono di Dio. In Lc 23,28 è riferito alle folle che, dopo avere assistito alla crocifissione, tornavano battendosi i petti (tuéptontev sthéqh). In Ap 15,6 è riferito ai sette angeli con le sette coppe, che erano cinti attorno ai petti (perì taè sthéqh) di fasce d’oro. In questo testo di Apocalisse il termine sembra indicare non solo il petto davanti ma anche le spalle corrispondenti di dietro. Nei LXX il verbo a\napòptw è raro: si legge solo 7 volte. È usato nel senso di mettersi a tavola (Tb 2,1; 7,8; Gdt 12,16), ma anche nel senso più generale di sdraiarsi (Gen 49,9), sedersi (Sir 25,18), cadere (Sir 35[32],2); giacere sessualmente (DanSus 37). 128

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Nei LXX il termine sth%qov si legge nove volte129. In Gb 39,20; Pr 6,10; 24,48 (33) si legge soltanto nel testo del LXX; negli altri testi traduce i termini: }owxfG (Gen 3,14); yidAx (Dan 2,32); b"l (Es 28,23 [29], 26 [30] [bis]). In Gen 3,14 si riferisce al ventre del serpente; in Dan 2,32 si riferisce alla statua di Nabuccodonosor, il cui petto (sth%qov) e le braccia erano d’argento; in Es 28,23 (29), 26 (30) (bis) si riferisce al petto di Aronne (TM: cuore), dove egli deve portare i nomi dei figli di Israele e gli Urim e i Tummim. Nei due testi del libro dei Proverbi si tratta di cingere i petti (sthéqh) con le mani. 3.4.2. Le parole La parole che il discepolo rivolge a Gesù in parte concordano, ma in parte anche divergono, da quelle precedenti. Possiamo proporre il seguente prospetto sinottico: Discepoli (v. 22): perì tònov leégei Pietro (v. 24). tòv e\stin perì ou/ leégei Discepolo (v. 26): Kuérie, tòv e\stin Dei discepoli si dice soltanto che si guardavano incerti «a riguardo di chi dice»; Pietro chiede «chi è di cui dice»; il discepolo chiede «Signore, chi è». Forse queste tre espressioni, concordanti e differenti, possono essere spiegate tenendo conto delle relazioni di ciascuno dei personaggi. I discepoli sono relazionati a se stessi (e"blepon ei\v a\llhélouv); Pietro è relazionato al discepolo (neuéei au\t§%); il discepolo è relazionato a Gesù (a\napeswèn […] e\pì toè sth%qov). Prima di tentare una spiegazione di queste espressioni, poniamo però un’altra domanda: può essere Pietro il traditore? Allude l’evangelista, nella vicenda di Pietro, a qualche situazione particolare? La risposta non sarebbe difficile: Pietro ha su di sé il peso del rinnegamento. Ha dichiarato nel palazzo del sacerdote, davanti alla serva portinaia (18,17), nonostante le sue promesse, di non essere dei discepoli e, in questo senso, si può dire che è traditore. 129 Cfr. Gen 3,14; Es 28,23 (29), 26 (30) (bis); Gb 39,20; Pr 6,10; 24,48 (33); Dan 2,32 (lxx-Th).

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Il nostro testo però sembra descrive un cammino: Pietro si apre al discepolo, risale a lui e questi poi risale a Gesù. Si direbbe che, attraverso il discepolo, Pietro può uscire dalla propria condizione e di nuovo raggiungere Gesù. In questa prospettiva, forse le tre espressioni sopra indicate possono esprimere tre situazioni diverse. La prima, perì tònov leégei, riguardante i discepoli, può indicare che essi, chiusi in se stessi, ciascuno di loro, possono essere i traditori; la seconda, tòv e\stin perì ou/ leégei, riguardante Pietro può indicare che egli, pur potendosi definire traditore, in realtà, aprendosi al discepolo, da quella figura si è distaccato; la terza, Kuérie, tòv e\stin, dove Gesù è definito Kuérie, indicherebbe che il discepolo è del tutto distante dalla figura del traditore. 4. Rilettura sintetica Proponiamo in quest’ultimo paragrafo del nostro studio una rilettura sintetica di quanto abbiamo fin qua indicato. Proponiamo tale rilettura da due punti di vista: quello del traditore e quello della funzione, in questo contesto, del discepolo che Gesù amava. 4.1. La figura del traditore Il punto di partenza di tutto il brano è l’annunzio di Gesù, nel v. 21, che uno dei discepoli lo avrebbe tradito. Possiamo dire che nel testo giovanneo scatta quasi un meccanismo alla ricerca del traditore, non tanto però della sua figura concreta, storica, quanto piuttosto della figura di colui che, con le sue caratteristiche, può definirsi tale. Nel v. 26 Gesù stesso poi identificherà il traditore: questi è colui per il quale egli intinge (baéyw) il boccone (toè ywmòon) e lo darà (dwésw) a lui. Narra l’evangelista che Gesù, avendo intinto (baéyav) il boccone, lo prende (lambaénei) e lo dà (dòdwsin) a Giuda di Simone Iscariota130. In maniera Nota Strathmann che in sé non aveva niente di strano che il capotavola offrisse ad un ospite, al quale voleva mostrare di avere un particolare riguardo, un pezzo di pane o di carne, dopo averlo intinto in un piatto che era sul tavolo,. Ma la descrizione di Giovanni dà 130

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altissimamente tragica, l’evangelista poi nota che, dopo il boccone (metaè toè ywmòon), Satana entrò in lui. L’evangelista stabilisce una stretta concomitanza tra il boccone e l’ingresso di Satana in Giuda. Specificamente, nel v. 26, l’evangelista introduce l’avverbio toéte: Satana entrò “proprio allora” dopo il boccone. Si direbbe che il boccone sia per Giuda un fatto passato (metaè toè ywmòon): egli è rimasto libero e Satana può prendere possesso di lui. Emerge nel testo un vuoto, o forse un terribile sottinteso: se il boccone è un fatto passato e Satana è entrato in Giuda, vuol dire che egli, Giuda, ha rifiutato quel boccone che Gesù ha intinto per lui, che ha preso e che gli ha dato. L’evangelista evita di descrivere tale rifiuto che sembra essere la massima espressione di incredulità. Come abbiamo ripetutamente osservato, non rientra nel nostro lavoro caratterizzare direttamente la figura del traditore, la cui vicenda si conclude nel fatto che esce e piomba nella notte (v. 30); interessa soltanto caratterizzare la figura del discepolo che esercita un ruolo fondamentale anche in questo problema. Abbiamo notato nel testo tre tipi di relazione: i discepoli relazionati a se stessi, ai quali però l’evangelista contrappone la figura e la situazione del discepolo; Pietro che si relaziona al discepolo; il discepolo che è relazionato a Gesù. Questa molteplicità di relazioni, suggerisce che l’evangelista, nella ricerca del traditore, voglia procedere per esclusione: voglia cioè escludere dalla categoria di traditori alcune persone, che potrebbero anche essere indicate come tali. Sono traditori i discepoli che hanno recepito l’annunzio di Gesù? Certo potrebbero esserlo. Abbiamo ipotizzato nella descrizione della situazione dei discepoli una tacita allusione alla loro vicenda al Getsemani, che l’evangelista direttamente non narra, ma che certo non ignora131. Essi all’atto una accentuazione provocatoria: Gesù rende impossibile un’ulteriore permanenza di Giuda, con la conseguenza che Satana si impadronisce totalmente di lui, cfr. H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 332. Cfr. A Gangemi, La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni, in Synaxis 21 (2003), 215-281, passim. 131

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sono fuggiti e, in certo senso, possono essere anche loro dei traditori. Si sono però smarriti, si sono ritrovati chiusi in se stessi, prigionieri, privi di qualsiasi strada. Ma il discepolo rivela la strada ed indica anche quale sarà l’epilogo dei discepoli. Essi sono “discepoli”, ma debbono tornare ad essere “discepoli di Gesù”, come lo è il discepolo. Questa è la strada che a loro viene indicata: se la battono, raggiungeranno quella situazione di stabilità, indicata dal discepolo, che «era giacente nel fianco di Gesù». Essi raggiungeranno Gesù, si radicheranno in Lui e, attraverso di Lui, giungeranno al Padre. Si pone però la domanda: come i discepoli potranno tornare ad essere “discepoli di Gesù”? Per quale via giungeranno a Gesù e si radicheranno in Lui? In questo contesto immediato l’evangelista non dà alcuna risposta. Ma forse essa può emergere dal contesto più ampio del cap. 13. I vv. 21-30, il cui problema è quello del traditore, sono inclusi tra due sezioni, i vv. 12-20 e i vv. 31-35, entrambe riguardanti i discepoli. Nei vv. 12-20 Gesù offre, da maestro, un esempio, meglio, un modello da imitare (v. 15: u|poédeigma), che essi, i discepoli, si lavino reciprocamente i piedi come lui li ha lavati a loro. Nei vv. 31-35 invece egli, come Signore, dà ai discepoli un comando che definisce “nuovo” (v. 34: e\ntolhèn kainhén): essi debbono amarsi come lui li ha amati. In questa maniera i discepoli torneranno ad essere discepoli di Gesù, troveranno la via per arrivare a Lui; giungeranno a Lui e, come il discepolo, potranno anche loro radicarsi stabilmente in Lui. Possiamo concludere che i discepoli non sono i traditori: si sono impantanati soltanto in una situazione dalla quale, grazie all’esempio e al modello del discepolo, potranno uscire. È Pietro il traditore? Certo anche lui potrebbe esserlo. La sua situazione apparentemente è più semplice, ma in realtà è ancora più grave. Dopo la cattura, anche lui, assieme agli altri, fuggì, ma poi tornò indietro e, benché, secondo i sinottici, “da lontano” ([a\poè] makroéqen)132 seguì Gesù. Poi però, in maniera ancora più plateale, lo rinnegò nel palazzo del sacerdote, davanti ad una serva.

132

Cfr. Mt 26,58; Mc 14,54; Lc 22,54.

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Ma nemmeno Pietro è il traditore. I vangeli sinottici ci informano che, dopo il suo rinnegamento, egli uscì fuori e pianse amaramente. Il quarto evangelista non narra nemmeno questo ritorno, ma certo non lo ignora. Dal suo rinnegamento Pietro però è uscito, e l’evangelista lo suggerisce in 13,9133, in 20,2-8134; in 21,2-3.7-8135, e soprattutto in 21,15-19136. Nemmeno a riguardo di Pietro l’evangelista, nel contesto immediato, spiega di più. Emergono anche a suo riguardo delle domande: come Pietro, attraverso il discepolo, troverà la strada? Qual è la strada che a lui è proposta? Ancora una volta sarà il discepolo ad indicarla. Questa poi apparirà chiara in 21,15-17: è la via dell’amore, che lo condurrà a donare la vita per il gregge (21,18-19)137. In ogni caso, la conclusione è una sola. Dopo l’annunzio di Gesù, in 13,21, bisogna ricercare il traditore e stabilire anche chi può dirsi tale. In questa individuazione il discepolo è del tutto escluso: la sua distanza dal traditore è diametrale e totale; egli infatti è ben radicato in Gesù. Possono essere i discepoli, ma non lo sono perché troveranno la strada che li conduce a Gesù; può essere anche Pietro, ma non lo è: attraverso il discepolo egli giungerà a Gesù. 4.2. La figura del discepolo Prescindendo dalla relazione fondamentale a Gesù, del discepolo che Gesù amava, in 13,22-25, l’evangelista descrive una duplice relazione. La prima, nel v. 23, è in rapporto alla situazione dei discepoli; la seconda, nel v. 25, è in rapporto alla situazione di Pietro. Dal testo sembra anche Cfr. A. Gangemi, “Signore, tu a me lavi i piedi?” Pietro e il mistero dell'amore di Gesù (Gv 13,6-11), Acireale 1999, 87-99. 133

Cfr. A. Gangemi, Racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni, I. L'apparizione di Gesù a Maria Maddalena», Acireale 1989, 101-104. 134

135 Cfr. A. Gangemi, I Racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni, III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Acireale 1993, 191-199. 136 Cfr. A. Gangemi: I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni, IV/1. Pietro il Pastore (Gv 21,15-19), Siracusa 2003, passim. 137

Cfr. ibid., passim.

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emergere una relazione di totale contrapposizione con il traditore, specificamente poi nei vv. 25-26. Le due relazioni sopra indicate, ai discepoli e a Pietro, presentano un parallelismo, che può essere presentato nel seguente modo: v. 23 v. 25 h&n deè a\nakeòmenov a\napeswèn eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou% e\ke_nov ou$twv e\n t§% koélp§ e\pì toè sth%qov tou% }Ihsou% tou% }Ihsou% leégei au\t§% o£n h\gaépa Kuérie, o| }Ihsou%v tòv e\stin;

Il parallelismo tra le due espressioni appare chiaro. Stanno specificamente in relazione l’espressione perifrastica h&n deè a\nakeòmenov e il participio a\napeswén. Abbiamo già indicato la sorpresa che queste due espressioni suscitano; la prima infatti è statica e non esigerebbe alcun movimento, la seconda invece è dinamica: il participio a\napeswén infatti indica un movimento. Può essere facile, e ne abbiamo già suggerito anche la maniera, conciliare storicamente queste due espressioni: il discepolo, a tavola, era giacente non proprio nel fianco di Gesù, ma accanto, poi, per formulare la sua domanda, si sarebbe spostato fino ad appoggiare la testa sul petto di Gesù. L’evangelista però formula la prima espressione in maniera tale da suggerire che egli giaceva sul petto di Gesù; in questo senso, la conciliazione tra le due espressioni diventa più difficile. Né ci vengono in aiuto i due termini koélpov e sth%qov: koélpov infatti si legge ancora soltanto in 1,18, in relazione al Padre, e sth%qov si legge ancora in 21,20 dove è ripreso il nostro testo. Inoltre, entrambi i termini si riferiscono alla parte anteriore del corpo. Forse, come suggerisce 1,18, potremmo supporre che koélpov rimandi a tutta la persona di Gesù, mentre sth%qov soltanto alla parte specifica del petto: si tratta però soltanto di una supposizione. Potremmo però forse rileggere le due espressioni all’inverso: l’azione espressa con il participio a\napeswén precederebbe quella con la perifrastica h&n deè a\nakeòmenov: il discepolo si è reclinato sul petto di Gesù e rimane giacente sul suo petto.

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Un’altra relazione, in queste stesse espressioni, è importante però prima considerare. L’espressione con la perifrastica, nel v. 23, è seguita dall’espressione o£n h\gaépa o| }Ihsou%v che indica una relazione di amore, e perciò di continuità, tra Gesù e il discepolo: Gesù ama il discepolo. L’espressione participiale a\napeswén invece è seguita da una espressione, Kuérie, tòv e\stin, che, come abbiamo suggerito, indicherebbe la totale opposizione e la distanza del discepolo dal traditore. Se questa ricostruzione è vera, possiamo rileggere, in maniera inversa, le varie espressioni nel seguente ordine: Kuérie, tòv e\stin (Signore, chi è?) a\napeswén e\pì toè sth%qov (reclinatosi sul petto) h&n deè a\nakeòmenov (era giacente) e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou% (bel seno di Gesù) o£n h\gaépa o| }Ihsou%v. (che amava Gesù). Otteniamo in questo ordine tutta una storia che offre l’identikit del discepolo. 1. Egli è colui che si è distanziato dal traditore e riconosce in Gesù il Kuériov, oppure, all’inverso, ha riconosciuto in Gesù il Kuériov e, pertanto, ha preso le sue distanze dal traditore; 2. Ha compiuto un cammino verso Gesù, reclinando (a\napeswén) sul petto; 3. Ha trovato posizione stabile in Lui, diventando così “il giacente (a\nakeòmenov)” sul suo fianco; 4. Gesù, come risposta, lo ama, attuandosi così quanto Gesù stesso, in 15,4, ha comandato ai discepoli: «rimanete (meònate) in me ed io in voi»138. Il termine koélpov, in 1,18 suggerisce che l’epilogo del discepolo non è soltanto essere radicato nell’amore di Gesù, ma anche pervenire con Gesù al Padre, verso cui Egli è orientato (ei\v toèn koélpon). Si può stabilire, tra 15,4 e il nostro testo la seguente relazione: 15,4 13,23.25 Rimanete (meònate) h&n a\nakeòmenov in me e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou% e io o£n h\gaépa in voi }Ihsou%v 138

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In questa prospettiva forse possiamo anche tentare di spiegare, in qualche modo, nell’espressione a\napeswén e\pì toè sth%qov, gli usi sia del verbo a\napòptw, riservato in Giovanni, e anche nel NT, alla posizione nel mangiare, sia anche del termine sth%qov, che direttamente richiama il petto. Tale terminologia suggerirebbe un confronto antitetico più specifico del discepolo con il traditore, descritto nel seguente v. 26. Al traditore Gesù dà (dòdwsin) il boccone; il discepolo invece è colui che spontaneamente si è messo a tavola (a\napeswén). Il traditore inoltre, come rivela la menzione di Satana che prende possesso di lui, ha rifiutato quel boccone; il discepolo invece si è posto all’origine, alla fonte da cui quel boccone è sgorgato: toè sth%qov: il petto di Gesù. Se il boccone è il simbolo che racchiude tutta l’opera di amore di Gesù, il traditore sarebbe colui che ha rifiutato tale opera; il discepolo invece è colui che si è collocato all’origine di essa: il petto di Gesù. Forse il toè sth%qov, dove reclina il discepolo, menzionato ancora in 21,20, richiama l’apertura del costato in 19,34? Concludendo, il discepolo che Gesù amava, nel testo di Gv 13,21-26 presenta molteplici relazioni; specificamente quattro: a Gesù, ai discepoli, a Pietro, al traditore. La relazione a Gesù è strettissima e presenta anche una connotazione dialogica. Il discepolo è orientato verso Gesù: verso di lui reclina e su di lui anche giace, come profondamente radicato in lui. Gesù poi, da parte sua, compie l’azione di amare. La posizione del discepolo è continua e stabile (h&n a\nakeòmenov), ma continuo e stabile è anche l’amore di Gesù (h\gaépa). Il discepolo è stabilmente radicato in Gesù: questi stabilmente lo ama. In relazione ai discepoli, il discepolo si presenta come un termine da raggiungere. Questi sono smarriti, disorientati, come coloro che, avendo smarrito la strada, si ritrovano chiusi in se stessi. Essi si sono ritrovati in quella condizione e potrebbero essere anche quei traditori di cui Gesù ha parlato. Essi non sono i traditori: hanno soltanto smarrito la strada. A costoro il discepolo indica la meta a cui pervenire e tacitamente indica anche la strada: riscoprire cioè la loro condizione di discepoli che permetterà loro di giungere a Gesù e radicarsi in lui. In relazione a Pietro, il discepolo si presenta come la via concreta. Pietro si rivolge al discepolo e questi si rivolge a Gesù. Egli si presenta come

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la strada attraverso la quale Pietro potrà giungere a Gesù. Anche Pietro potrebbe essere il traditore: emerge infatti nel testo una tacita allusione al suo rinnegamento. Ma nemmeno Pietro è il traditore: egli deve riscoprire, sul modello del discepolo e attraverso di lui, la via del discepolato, che gli permetterà poi di giungere a Gesù, al quale poi, in 21,15-17, dovrà professare il suo amore ed essere costituito da lui pastore del suo gregge. La relazione al vero traditore, quello al quale Gesù ha dato il boccone è del tutto opposta: i due, discepolo e traditore appaiono agli antipodi. L’uno è radicato in Gesù l’altro invece lo ha tradito; l’uno è amato da Gesù nell’altro invece è entrato Satana. Il discepolo appartiene a Gesù; il traditore appartiene invece a Satana.

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IL DISCEPOLO CHE GESÙ AMAVA

La figura del discepolo che Gesù amava (h\gaépa) è tipica e anche esclusiva del quarto vangelo; essa, almeno con questa caratterizzazione, non compare mai infatti, altrove, nella letteratura neotestamentaria. Nel vangelo di Giovanni poi tale figura è esplicitamente menzionata, e descritta anche nella sua azione, in cinque testi: in 13,22-25; in 19,26-27; in 20,2-8; in 19,7; 21,20-24. È stato suggerito che tale figura coincide con uno dei due discepoli che, all’annunzio di Giovanni Battista, seguirono Gesù (1,35-40), essendo il primo identificato esplicitamente con Andrea fratello di Simon Pietro (1,3740)1. Analogamente è stato anche detto che tale figura è da ricercare in uno di quei due discepoli non nominati, in 21,2. Nulla, in questi testi, suggerisce però che, dietro gli anonimi di 1,35ss e di 21,22, si nasconda il discepolo Cfr. tra altri, H.J. Kuhn, Christologie und Wunder. Untersuchungen zu Joh 1,3551, Regensburg 1,35-51, 128-129. Lo studio di Kuhn è discusso però da Neyrinck, che conclude che i paralleli addotti da Kuhn non sono in grado di sostenere l’identificazione del discepolo anonimo con il discepolo che Gesù amava, cfr.F. Neyrinck, The Anonymous Disciple in John 1, in ETL 66 (1990) 5-37: 37. A questa identificazione sembra inclinare anche Braun, cfr. F.M. Braun, Jean le théologien et son évangile dans l’église ancienne, Paris 1959, 301; A. Kragerud, Der Lieblingsjünger im Johannesevangelium, Oslo 1959, 12-13. Pure Simon conclude, in relazione a 1,35ss, che da questo testo non può essere dedotta alcuna identificazione del discepolo anonimo con il discepolo che Gesù amava, cfr. L. Simon, Petrus und der Lieblingsjünger im Johannesevangelium. Amt und Autorität, Frankfurt-Berlin-Bern 1994, 119. 1

2 Gli interpreti hanno cercato di identificare in diversi modi i due discepoli non menzionati, cfr. il nostro studio, I racconti postpasquali nel vangelo di San Giovanni, 3. Gesù si manifesta presso il lago, Acireale 1993, 82-83. Alcuni interpreti poi hanno voluto vedere, in uno dei due il discepolo che Gesù amava, che compare poi improvvisamente, nel v. 7,

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che Gesù amava; in ogni caso, rimarrebbe sempre la domanda perché l’evangelista nasconda, in questi testi, dietro l’anonimato un personaggio che invece, in altri punti del vangelo, emergerà come una figura di primo piano. Diverso invece sembra il caso di un discepolo, ancora però anonimo (a"llov maqhthév) che, in 18,15, assieme a Simon Pietro, seguiva Gesù dal Getsemani, dopo la cattura, fino alla casa del sacerdote, dove entrò ma da dove, poco dopo uscì e mediò presso la serva portinaia l’ingresso di Pietro. Degli indizi suggeriscono che tale discepolo debba essere identificato con il discepolo che Gesù amava che, in 19,26, stava presso la croce e che, in 21,7, disse a Pietro che «il Signore è». Tuttavia, in questo studio, anche da questo a"llov maqhthév prescindiamo. Limitandoci perciò soltanto ai testi in cui l’evangelista esplicitamente menziona questo discepolo, oggetto dell’amore di Gesù, espresso con il verbo a\gapaéw (h\gaépa), e anche, in 20,2, con il verbo fileéw (e\fòlei), notiamo che, a suo riguardo, sono stati sollevati diversi problemi. Anzitutto se tale discepolo debba identificarsi con Giovanni il figlio di Zebedeo o con un altro personaggio; in questo secondo caso ci si è chiesti, sono state avanzate diverse supposizioni, sulla sua identità. Inoltre, conseguente a questa prima domanda, se ne pone ancora un’altra: in 21,24 questo discepolo è definito come “colui che testimonia (o| marturw%n) queste cose e che le ha scritte (o| graéyav)”: il discepolo che Gesù amava si presenta così come l’autore del vangelo stesso. La domanda allora è la seguente: è Giovanni, il figlio di Zebedeo, l’autore del quarto vangelo, oppure esso è da attribuire a qualche altro personaggio? per scomparire poi subito dopo. Così, tra altri citiamo: G.R. Beasley-Murray, John, Waco (Texas) 1987, 398; R. Kysar, John, Minneapolis 1986, 312, B. Lindars, The Gospel of John, Grand Rapids 1986, 625; A. Richardson, The Gospel according to St John, London 1964, 215; J.N. Sanders - B.A. Mastin, A Commentary on the Gospel according to S. John, New York 1969, 443, secondo cui gli altri due discepoli possono essere stati introdotti deliberatamente per nascondere l’identità del discepolo amato; Nota Barrett che la presenza dei due discepoli non nominati rende possibile il fatto che il discepolo che Gesù amava non fosse un figlio di Zebedeo, cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, London 19853, 481. Pure Grass si chiede se uno dei due discepoli non nominati non possa essere il discepolo apparso nel v. 7; spiega però che, in questo caso, il discepolo non sarebbe più da ricercare tra i figli di Zebedeo, cfr. H. Grass, Ostergeschehen und Osterberichte, Göttingen 19643, 75-76.

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In questo studio prescindiamo da tre aspetti problematici: anzitutto se l’altro discepolo anonimo di 1,37 e uno dei due anonimi di 21,2 sia il discepolo che Gesù amava3; inoltre se questo discepolo debba identificarsi sia Giovanni il figlio di Zebedeo o con qualche altro personaggio e, in questo 3 Ci limitiamo qui a riferire soltanto qualche posizione degli interpreti. Un sommario di interpretazioni è proposto da L. Simon, Petrus und der Lieblingsjünger im Johannesevangelium. Amt und Autorität, cit., 26-27. Alcuni interpreti hanno sottolineato la storicità di questa figura (Cfr. G. Segalla, Il discepolo che Gesù amava e la tradizione giovannea, in Teol 14 [1989] 217-244, secondo cui egli sta all’origine della tradizione giovannea e fu percepito come guida e maestro spirituale della stessa comunità); altri hanno identificato questo personaggio con Lazzaro, di cui si parla nel cap. 11 (Cfr. F. Filson, Who was the Beloved Disciple, in JBL 68 [1949] 83-88; B.G. Griffith, The Disciple whom Jesus loved, in ET 32 [1920/21] 379-381; J. Hendry, Lazarus= John?, in ExpTim 32 [1929-21] 474-475; H. Rigg, Was Lazarus the Beloved Disciple?, in ExpTim 33 [1921/22] 232-234; F.W. Lewis, The Disciple whom Jesus loved in ExpTim 33 [1921/22] 42; J. Phillips, The Disciple whom Jesus Loved, La Grange 2000, passim; J.N. Sanders, Who was the Disciple whom Jesus loved, in Studies in the Fourth Gospel, London 1957, 72-82); altri ancora con il giovane ricco di cui si parla in Mc 10,17-22 (Cfr. H.B. Swete, The Disciple whom Jesus Loved, in JTS 17 [1916] 373-374); altri ancora con Giovanni Marco (Cfr. L. Johnson, who was the Beloved Disciple, in ExpTim 77 [1966] 157-158; J.R. Porter, Who was the Beloved Disciple), ExpTim 77 [1966] 213-214); altri poi, non pochi, difendono la posizione tradizionale che si tratta dell’apostolo Giovanni (Cfr. P. Arenillas, El discipulo amado, modelo perfecto del discipulo de Jesus, segun el IV Ev., in CiTom 89 [1962] 3-68: passim; J.A. Caballero, El discipulo amado en el evangelio de Juan, in EstBib 60 [2002] 311-336: 311, che scrive l’articolo per mostrare le incongruenze che derivan dal fatto di non identificare il discepolo con Giovanni il figlio di Zebedeo; P. Iafolla, Giovanni, il figlio di Zebedeo, “il discepolo che amava” e il IV° vangelo, in BibOr 28 [1956] 95-110. 143-155, passim; H.L. Jackson, The Problem of the Fourth Gospel, Cambridge 1918, 151-171; W.H. Brownlee, Whence the Gospel according to John?, in H. Charlesworth [Ed.], John and Qumran, London 1972, 191-193; N.E. Johnson, The Beloved Disciple and the Fourth Gospel, in CBQ 167 [1966] 278-291: 278-282; D. G. Roger, Who was the Beloved Disciple?, in ExpTim 77 [1966] 214). Roloff (Cfr. J. Roloff, Der joh “Lieblingsjünger” und der Lehrer der Gerechtigkeit, in NTS 15 [1968] 129.151) stabilisce una relazione tra questo discepolo e il maestro di giustizia e non esclude che l’autore possa essersi ispirato ad essa. Secondo Titus (Cfr. E.L. Titus, The Identity of the Beloved Disciple, in JBL 69 [1950] 323-328) questo discepolo amato sarebbe Mattia, quello subentrato a Giuda (At 1,23), che poi il redattore avrebbe identificato con Giovanni il Battista. Spiega O’Grady (Cfr. J.F. O’Grady, The Role of the Beloved Disciple, in BTB 9 [1979] 58-65) che questo discepolo è l’emblema del credente; né è necessario identificarlo con uno dei dodici; si tratta di un personaggio storico idealizzato, il cui compito è rendere testimonianza. Zumstein (Cfr. J. Zumstein, Le disciple bien-aimé, in FoiVie, 86,5 [1987]

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secondo caso, chi egli potrebbe essere; infine, problema consequenziale al primo, se l’autore del quarto vangelo sia l’apostolo Giovanni o qualche altro personaggio magari della sua scuola4. Non nascondiamo la nostra simpatia, già espressa in un altro studio, per la supposizione di Colson5, secondo la quale questo discepolo sarebbe un gerosolimitano, probabilmente anche lui un sacerdote6, padrone di una casa a Gerusalemme, che avrebbe messo a disposizione di Gesù per 47-58) nega che si tratti di una finzione letteraria, ma la sua stessa dimensione simbolica postula la storicità. Più interessante sarebbe la proposta di Colson (Cfr. J. Colson, L’énigme du disciple que Jésus aimait, Paris 1969, 107-114), secondo cui il discepolo che Gesù amava sarebbe un sacerdote Gerosolimitano, padrone anche del cenacolo, che si sarebbe convertito: doveva chiamarsi pure Giovanni e poi da Ireneo sarebbe stato confuso con Giovanni il figlio di Zebedeo. Altri studi, riguardanti la figura del discepolo, sono P. Arenillas, El discipulo amado, modelo perfecto del discipulo de Jesus, segun el IV Ev, cit., 3-68; G.W. Broomfield, The Beloved Disciple, in Id., John, Peter, and the Fourth Gospel, London 1934, 146-161; R.E. Brown, The Community of the Beloved Disciple, Ramsey/London 1979; J.E. Bruns, Ananda, The Fourth Evangelists Model for the “Disciple whom Jesus loved?, in SR 3 (1973) 236-243; H.M. Draper, The Disciple whom Jesus loved, in ET 32 (1920/21) 428429; H.E. Edwards, The Disciple who Wrote there Things, London 1953; A.E. Garvie, The Beloved disciple, London 1922; D.J. Hawkin, The Function of Beloved-Disciple-Motif in the Johannine Redaction, in LTP 33 (1977) 135ff.; M. De Jonge, The Beloved Disciple and the Date of the Gospel of John, Fs M. Black, Cambridge 1979, 99-114; G.D. Kilpatrick, What John tells us about John, in Studies in John for J.N. Sevenster, Leiden 1970, 75-87; A. Kragerud, Der Lieblingsjünger im johannesevangelium, Oslo 1959; W.F. Lofthouse, The Disciple whom Jesus Loved, London 1934; T. Lorenzen, Der Lieblingsjünger im J.E, Stuttgart 1971; P.S. Minear, The Beloved Disciple in the Gospel of John – Some Clues and Conjectures, in NT 19 (1977) 105-123; L. Morris., Was the Author of the Fourth Gospel an Eyewitnes?, in Id, Studies in the Fourth Gospel, Grand Rapids 1969, 139-214; P. Parker, John and John Mark, in JBL 79 (1960), 97-110; R. Russell, The Beloved Disciple and the Resurrection, in Script 8 (1956) 57-62; B. De solages, Jean, Fils de Zébédée et l’énigme du disciple que Jésus aimait, in BLE 73 (1973) 41-50; R. Schnackenburg, Der Jünger den Jesus liebte, in EKK V 2 (1970) 97-117; H. Thyen, Entwicklungen innerhalb der joh Theologie und Kirche, im Spiegel von Joh 21 und der Lieblingsjüngertexte des Evangeliums, in BEThL 44 (1977) 259-299; 4

5

Cfr. J. Colson, L’énigme du disciple que Jésus aimait, cit., 109.

Ciò spiegherebbe la sua familiarità (gnwstoév) con il sommo sacerdote, indicata in 18,15, e anche il fatto che, in un momento verosimilmente assai circospetto, poté facilmente entrare nella sua casa. Doveva godere addirittura anzi di una certa autorità se poté mediare l’ingresso di Pietro (v. 16). 6

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la cena7 e l’avrebbe offerta poi come punto di riferimento per i discepoli8, Preferiamo però, almeno in questo studio, prescindere dai problemi su indicati, per due motivi. Anzitutto perché l’evangelista stesso non offre elementi tali che permettano di pervenire ad una conclusione certa, o almeno probabile9; inoltre perché, se egli, non certo parco di identificazioni10, menziona questo discepolo non con il nome proprio ma con l’appellativo: “il discepolo che Gesù amava”, vuol dire che su di essa egli intende attirare l’attenzione. Siamo anzi convinti che ogni tentativo di identificazione storica, con un qualche personaggio concreto, vada contro l’orientamento stesso dell’evangelista che, ribadiamo, se ha nascosto il suo nome concreto, lo ha fatto certo per far risaltare le due caratteristiche fondamentali che lo distinguono: è discepolo di Gesù (maqhthév) ed è oggetto del suo amore (o£n h\gaépa o| }Ihsou%v). Di questo discepolo evidentemente l’evangelista vuole sottolineare la sua relazione dialogica con Gesù: egli ha relazione con lui, di cui è discepolo; Gesù ha relazione con lui e lo ama. La relazione di amore di Gesù è espressa sia con il verbo a\gapaéw (h\gaépa), in 13,23; 19,26; 21,7; 21,20, sia con il verbo fileéw (e\fòlei) in 20,2. 7 Ciò spiegherebbe perché sia introdotto esplicitamente nel vangelo dal cap.13 in poi; inoltre spiegherebbe anche sia la sua presenza nella cena (13,21-26) sia anche la sua posizione in un posto privilegiato accanto a Gesù, essendo egli il padrone di casa. 8 Come abbiamo detto altrove, ci chiediamo se questo discepolo non possa coincidere anche con la figura enigmatica, di cui parlano i vangeli sinottici, alla quale, con molta sicurezza, Gesù mandò i discepoli per annunziare che presso di lui avrebbe celebrato la pasqua (cfr. Mt 26,18; Mc 14,14; Lc 22,11). Simile figura, familiare nella vita terrena di Gesù, non dovette godere di maggiore attenzione nella tradizione sinottica; doveva godere però di una certa familiarità con Gesù, se egli, Gesù, poté facilmente disporre della sua casa nel momento molto solenne della cena pasquale. Possiamo notare che, in tutti e tre gli evangelisti, in termine con cui Gesù, in relazione a questo discepolo, si auto definisce, per bocca degli altri discepoli, è proprio o| didaéskalov e non in maniera relativa (il nostro maestro), ma in maniera assoluta (il maestro). Ciò indicherebbe che Gesù si sente maestro anche di quel personaggio.

9 Siamo convinti che i problemi su indicati sono destinati a restare senza una precisa e sicura risposta. 10 Basti pensare ai vari discepoli qui e lì menzionati per nome e, soprattutto, alla identificazione del servo a cui Pietro recise l’orecchio, un certo Malco (18,10).

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1. La figura del discepolo La prima domanda che suscita la figura del “discepolo che Gesù amava” riguarda, come abbiamo detto, la sua identità: chi è questo discepolo? In relazione a questa domanda, l’evangelista mostra di non avere alcun interesse per il nome o l’identità concreta, ma a lui interessa il fatto che è “discepolo” e, per di più, discepolo che Gesù amava. Un discepolo dice relazione ad un maestro, al quale si riferisce e dal quale egli impara. In relazione al discepolo perciò Gesù è il maestro, e quegli impara da lui. Ci sembra di trovare qui la risposta perché Gesù lo ami, appunto perché si fatto discepolo di Gesù, riconosce in lui il maestro e impara da lui. Gesù amava quel discepolo appunto perché da lui quegli aveva imparato. 1.1. Il discepolo in 8,30-31 e a 13,35 Il termine maqhthév, nel vangelo di Giovanni, è abbastanza frequente: i suoi usi complessivamente sono 78, riferiti talora ai concreti discepoli di Giovanni11 ma il più delle volte ai discepoli di Gesù12. Tra questi emerge la figura del discepolo che Gesù amava13. Al nostro scopo però interessano soltanto quei testi che permettono di definire il discepolo di Gesù. Ci riferiamo specificamente a due testi, a 8,30-31 e a 13,35. In 8,30-31, dopo avere notato che molti credettero (e\pòsteusan) in lui, l’evangelista riferisce una esortazione che Gesù soleva rivolgere (e"legen) costantemente ai Giudei che avevano creduto (pepisteukoétav) a lui: «se voi rimanete (meònete) nella mia parola (e\n t§% loég§ t§% e\m§%), veramente discepoli di me (maqhtaò mou) siete (e\steé)». Emerge in questo testo un cammino al termine del quale si ottiene la condizione (e\steé) di discepoli ed è possibile allora definirsi tali. 11

Cfr. 1,35.37; 3,25

Cfr. 2,2.11.12.17.22; 3,22; 4,1.2.8.27.31.35; 6,3.8.12.16.22.22.24.60.61.66; 7,3; 9,2; 11,7.8.12. 54; 12,16; 13,5.22; 16,17.29; 18,1.12.17.19.25; 20,10.18.19.20.25.26.30; 21,1.4.8.12.14. 12

13

Cfr. 13,23; 19,26.27.27; 20,2.3.4.8; 21,7.20.23.24.

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Questo cammino ha tre gradi: credere in maniera incipiente (e\pòsteusan), credere in maniera stabile (pepisteukoétav), pervenire e permanere (meònete) nella parola di Gesù. La condizione di discepoli però ha anche delle conseguenze; due specificamente, di cui la seconda consegue alla prima: conoscere la Verità (gnwésesqe thèn a\lhéqeian) e, in seguito a questa conoscenza, essere dalla Verità resi liberi (e\leuqerwései u|ma%v). Prescindendo dal senso di queste ultime due conseguenze, da questo testo possiamo dedurre che il discepolo è colui che, pervenuto stabilmente alla fede, permane nella parola di Gesù. In questa posizione, egli conosce la Verità. Emergono in questo testo due dinamismi, quello dei discepoli e quello della Verità. I discepoli conosceranno la Verità e la Verità renderà liberi14. In 13,35, dopo avere promulgato (dòdwmi) il comandamento dell’amore vicendevole, Gesù conclude: «In questo (e\n touét§) conosceranno tutti (gnwésontai paéntev) che discepoli miei (emoì maqhtaò) siete (e\steé), se amore avete (a\gaéphn e"chte) a vicenda (e\n a\llhéloiv)». Emerge in questo testo un’altra prospettiva: dall’amore vicendevole dei discepoli tutti perverranno ad una conoscenza esperienziale che essi sono (e\steé) veramente tali, cioè discepoli di Gesù. Se sono suoi discepoli, vuol dire che essi hanno imparato da lui. L’insegnamento di Gesù ai discepoli è contenuto nel verso precedente (v. 34), nel comando cioè di amarsi a vicenda, sul fondamento del suo amore verso di loro. Il fatto che Gesù li ha amati costituisce per i discepoli il comando, ma anche l’insegnamento di amarsi a vicenda15. Se si amano, 14 Si può stabilire una certa analogia con l’espressione “il discepolo che Gesù amava”, come appare dal seguente confronto: Conoscenza della verità Il discepolo La Verità renderà liberi che amava Gesù

I due aspetti di comando e di insegnamento dell’azione di Gesù emergono dalla stessa particolare struttura del testo del v. 34: e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n 15

i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v i$na kaì u|me_v a\gapa%te a\llhélouv. L’azione di Gesù (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v) è inclusa tra due espressioni riferite all’amore vicendevole (i$na a\gapa%te a\llhélouv). La prima espressione (i$na a\gapa%te a\llhélouv), dopo la precedente (e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n), si riconduce meglio alla prospettiva del comando;

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vuol dire che essi hanno imparato da Gesù. Il fatto di amarsi gli uni gli altri perciò li costituisce discepoli e li rivela a tutti (paéntev) come tali. I due testi, 8,31 e 13,35, messi assieme, presentano una particolare relazione strutturale concentrica e appaiono anche, nella loro peculiare prospettiva, complementari: 8,31: 1. e\anè u|me_v meònhte e\n t§% loég§ t§% e\m§%, 2. a\lhqw%v maqhtaò moué e\ste 13,35: 3. e\n touét§ […] o$ti e\moì maqhtaò e\ste 4. e\anè a\gaéphn e"chte e\n a\llhéloiv. La seconda e terza espressione, quelle centrali, riguardano l’essere discepoli: la prima di esse sottolinea la verità (a\lhqw%v) di tale condizione, la seconda indica l’ambito (e\n touét§) dove tale condizione si manifesta16. La prima espressione (e\anè u|me_v meònhte e\n t§% loég§ t§% e\m§%,) indica la relazione del discepolo alla Parola di Gesù: egli deve rimanere (meònhte) in essa; la seconda espressione, o la quarta nel testo (e\anè a\gaéphn e"chte e\n a\llhéloiv), indica la relazione reciproca che deve esistere (e"chte) tra i discepoli: amarsi vicendevolmente. La prima condizione è statica (meònhte) e riguarda la relazione alla parola di Gesù; la seconda condizione è dinamica (e"chte) e riguarda la relazione vicendevole di amore. Emerge tra le due condizioni una complementarietà: sembra che la prima sia il fondamento della seconda: il rimanere nella parola di Gesù rende possibile l’amore vicendevole; si può però dire anche il contrario: attraverso l’amore vicendevole si perviene e si rimane nella parola di Gesù. È possibile allora proporre una completa definizione del discepolo: questi è colui che, rimanendo nella parola di Gesù, si apre e attua l’amore vicendevole; o, anche, al contrario, il discepolo è colui che, attraverso l’amore vicendevole, perviene e rimane nella parola di Gesù. la seconda (i$na kaì u|me_v a\gapa%te a\llhélouv), aggiungendo le parole kaì u|me_v, si riconduce meglio alla prospettiva dell’insegnamento. 16

Possiamo notare, tra di esse anche una relazione strutturale concentrica:

a\lhqw%v maqhtaò moué e\ste e\n touét§ […] o$ti e\moì maqhtaò e\ste

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1.2. I testi del “discepolo che Gesù amava” Consideriamo adesso i testi riguardanti specificamente il “discepolo che Gesù amava”, sia quelli con il verbo a\gapaéw (h\gaépa): 13,23; 19,26; 21,7; 21,20, sia anche l’unico con il verbo fileéw (e\fòlei): 20,2. 1.2.1. Il testo di 13,21-26 Di questo testo interessano specificamente il v. 23 e il v. 26. Nel v. 23, in contrapposizione (deé) ai discepoli che si guardavano l’un l’altro smarriti (v. 23), di questo discepolo si dice che «era giacente (h&n deè a\nakeòmenov) uno dei discepoli di lui (eùv e\k tw%n maqhtw%n au\tou%) nel fianco di Gesù (e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou%,), che amava Gesù (o£n h\gaépa o| }Ihsou%v)». Al dinamismo dei discepoli si contrappone la situazione statica del discepolo. Troviamo in questo testo quattro espressioni gravitanti, in maniera non proporzionata, attorno a due soggetti diversi: le prime tre riguardano il discepolo nella sua relazione a Gesù, la quarta invece riguarda Gesù nella sua relazione al discepolo17. Le tre espressioni riguardanti il discepolo sono rispettivamente: la sua posizione statica: era giacente (h&n deè a\nakeòmenov), la sua descrizione: era uno dei discepoli (eùv e\k tw%n maqhtw%n), il luogo della posizione: nel fianco di Gesù (e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou%). Il soggetto è menzionato tra una indicazione statica e un complemento di stato in luogo. Questo discepolo giaceva nel fianco di Gesù. L’azione di Gesù invece è dinamica: egli amava il discepolo. Questi (o$n) era oggetto dell’amore (h\gaépa) di Gesù (o| }Ihsou%v). Le due descrizioni, rispettivamente la posizione statica del discepolo e l’azione dinamica di Gesù, presentano, strutturalmente, una relazione, che può essere proposta nel seguente modo: h&n deè a\nakeòmenov eùv e\k tw%n maqhtw%n au\tou% e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou%, o£n

17 Possiamo notare come sia le prime tre come la quarta espressione finiscono con l’esplicita menzione di Gesù (tou% }Ihsou% - o| }Ihsou%v).

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h\gaépa o| }Ihsou%v

Troviamo uno schema strutturale insieme alternato18 e concentrico19. Emerge tra il discepolo e Gesù una relazione quasi dialogica: il discepolo è radicato, giace cioè sul fianco di Gesù; Gesù invece lo ama. Sembra che il motivo per cui Gesù ami il discepolo consista proprio nel fatto che questi giace nel suo fianco; l’amore di Gesù verso di lui appare così come una risposta appunto al fatto che questi giace nel suo fianco. Nel v. 25 l’evangelista torna ancora a parlare del discepolo, non più però descrivendo la sua posizione statica, bensì riferendo una sua duplice azione dinamica nei confronti di Gesù; a\napeswèn e\ke_nov ou$twv e\pì toè sth%qov tou% }Ihsou%, leégei au\t§%: (essendosi reclinato quello sul petto di Gesù, dice a lui). Nei confronti di Gesù il discepolo compie due azioni: una previa, essendosi reclinato (a\napeswén), e una diretta: dice (leégei). Emerge un dinamismo non più bilaterale: non il discepolo orientato a Gesù e questi al discepolo, bensì soltanto unilaterale: il discepolo orientato verso Gesù. Sorprende questa descrizione dinamica dopo quella precedente statica. Forse la spiegazione è suggerita dagli ambiti dove si realizza la posizione del discepolo. Egli, staticamente, “era giacente” nel fianco (e\n t§% koélp§) di Gesù; da quella posizione egli compie una azione dinamica che lo relaziona in maniera più stretta a Gesù: reclina (a\napeswén) sul suo petto (e\pì toè sth%qov) e, in quella posizione, rivolgerà poi a lui la domanda che gli ha suggerito Pietro. 18

Lo schema alternato è il seguente:

h&n deè a\nakeòmenov eùv e\k tw%n maqhtw%n au\tou% e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou%, o£n h\gaépa o| }Ihsou%v. 19

Lo schema concentrico è il seguente:

h&n deè a\nakeòmenov eùv e\k tw%n maqhtw%n au\tou% e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou%, o£n h\gaépa o| }Ihsou%v.

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Al nostro scopo attuale però non interessa chiarire specificamente la relazione tra la precedente posizione statica (h&n deè a\nakeòmenov) e la seguente azione dinamica (a\napeswén), bensì cogliere semplicemente il fatto che l’evangelista accosti la posizione statica (h&n deè a\nakeòmenov) del discepolo e l’azione dinamica (h\gaépa) di Gesù. Come abbiamo già osservato, sembra che l’azione dinamica di Gesù che ama il discepolo sembra essere una risposta al fatto che questi, staticamente giaceva nel suo fianco. 1.2.2. Il testo di 19,26 Il secondo testo, in cui l’evangelista nota che Gesù amava quel discepolo, è 19,26, ambientato presso la croce. Il testo è il seguente: «Gesù dunque, avendo visto (i\dwén) la madre e il discepolo stante (parestw%ta) che amava (o£n h\gaépa)». Gesù è menzionato all’inizio, al centro è menzionato il discepolo, alla fine è introdotta l’espressione che descrive l’azione di amore di Gesù verso il discepolo. Benché sia menzionata pure la madre, sembra che l’attenzione maggiore sia rivolta al discepolo. In questa descrizione, il discepolo appare al centro di due relazioni, alla madre e a Gesù. Alla madre egli si relaziona per il fatto che entrambi sono oggetto dell’azione di “vedere (i\dwén)” di Gesù20; a Gesù poi si relaziona perché egli, specificamente, è oggetto di una sua azione, appunto quella di essere da lui amato. Tra le due espressioni riguardanti la relazione tra il discepolo e Gesù si può stabilire anche un certo parallelismo: toèn maqhthèn o£n parestw%ta h\gaépa

Emerge ancora quasi un rapporto dialogo: il discepolo ha una posizione statica (parestw%ta) e Gesù compie una azione dinamica (h\gaépa). Sembra I due oggetti thèn mhteéra e toèn maqhthén sono inclusi tra due participi. Si può stabilire anche una relazione strutturale concentrica: i\dwèn participio thèn mhteéra oggetto kaì toèn maqhthèn oggetto parestw%ta participio 20

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appunto che Gesù ami il discepolo appunto perché egli è “stante”, benché l’evangelista non specifichi dove “sta” il discepolo. Possiamo così concludere che sia il testo di 13,23 come anche quello di 19,26 hanno in comune l’indicazione della posizione statica del discepolo, rispettivamente h&n deè a\nakeòmenov (13,23) e parestw%ta (19,26). A questa descrizione statica segue l’azione dinamica di Gesù che amava il discepolo. Sembra così che l’azione di amare (h\gaépa) segua ed è quasi la risposta di Gesù alla posizione statica del discepolo. Emerge così il problema di stabilire quale sia questa posizione statica del discepolo. 1.2.3. Il testo di 21,20-24 Prescindiamo in questo paragrafo dai testi di 20,2-8 e di 21,7. In 20.2-8 l’amore di Gesù verso il discepolo è espresso con il verbo fileéw (e\fòlei). In questo testo il discepolo, stimolato dalla Maddalena che non sa dove hanno posto il corpo di Gesù, assieme a Pietro si mette alla sua ricerca. Nella vicenda seguente il discepolo corre avanti a Pietro, ma poi, al sepolcro, entra dopo di lui. In questo testo, il fatto che era oggetto dell’amore di Gesù appare come la motivazione per cui il discepolo in quella ricerca è unito a Pietro. Non si dice nulla però riguardo al motivo per cui egli è oggetto dell’amore di Gesù. Ugualmente, in 21,7 poi, il discepolo, compare improvvisamente nel corso della narrazione della manifestazione di Gesù presso il lago di Tiberiade. Il fatto di essere il discepolo che Gesù amava forse sembra essere il motivo che lo rende idoneo di dire a Pietro che lo sconosciuto sulla riva del lago è il Signore. Nemmeno in questo testo si dice nulla del motivo per cui tale discepolo è oggetto dell’amore di Gesù. Questo discepolo, almeno nel contesto immediato, poi scompare con lo stesso silenzio con cui è entrato. In 21,20-24, prescindendo da una trattazione completa e limitandoci soltanto a qualche elemento essenziale, leggiamo, all’inizio, che Pietro vede il discepolo che Gesù amava (o£n h\gaépa o| }Ihsou%v) che seguiva (a\kolouqou%nta). Riprendendo poi gli elementi di 13,23-26, l’evangelista aggiunge che «quegli (o$v) anche reclinò (kaì a\neépesen) nel banchetto sul petto di Gesù e disse: Signore chi è colui che ti tradisce?». Pietro quindi

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pone il problema sul futuro di questo discepolo: l’evangelista si preoccupa poi di precisare il vero senso delle parole di Gesù, che non disse che (quel discepolo) non muore (ou\k a\poqn+éskei), ma che a Pietro non interessava se lui voleva che il discepolo “rimanesse (qeélw meénein)” fino al suo ritorno. Emergono in tutta la descrizione, a riguardo del discepolo, quattro elementi positivi: o£n h\gaépa o| }Ihsou%v (che Gesù amava) a\kolouqou%nta (seguente) o$v kaì a\neépesen […] (che anche reclinò […]) qeélw meénein (voglio che rimanga). Troviamo in queste quattro espressioni uno schema alternato: la prima e la terza sono due proposizioni relative, introdotte dallo stesso pronome relativo, pur in diverso caso; la seconda e la quarta espressione indicano, rispettivamente, il cammino del discepolo di sequela (a\kolouqou%nta) e il termine del cammino (qeélw meénein). Queste espressioni possono essere lette in diverse maniere. Anzitutto possono essere accostate le due proposizioni relative, caratterizzate, rispettivamente, da un verbo all’imperfetto (h\gaépa) e da un verbo all’aoristo (a\neépesen). La successione dell’imperfetto, come azione continua, e dell’aoristo, come azione puntualizzata, suggerisce di leggere le due espressioni in maniera inversa: il discepolo reclinò (a\neépesen) e Gesù lo amava (h\gaépa). Emerge una prospettiva analoga a quella di 13,23: il discepolo ha raggiunto una posizione statica nel confronti di Gesù e Gesù conseguentemente lo ama. I quattro elementi sopra indicati possono essere letti anche in maniera progressiva: Gesù amava il discepolo (o£n h\gaépa o| }Ihsou%v) e questo è il motivo per cui il discepolo lo segue (a\kolouqou%nta); il discepolo giunge ad un termine: il petto di Gesù dove reclinò (o$v kaì a\neépesen) e Gesù vuole che egli lì, sul suo petto, rimanga (qeélw meénein), per assolvere poi la missione di testimone (o| marturw%n perì touétwn). I quattro elementi sopra indicati infine possono essere letti anche in maniera concentrica. Il secondo e terzo elemento delineano il cammino del discepolo: egli segue (a\kolouqou%nta) e giunge al termine di un cammino (o$v kaì a\neépesen); il primo e quarto elemento indicano invece l’atteggiamento di Gesù verso di lui: lo amava (o£n h\gaépa o| }Ihsou%v) e

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vuole che rimanga (qeélw meénein). Il discepolo che segue Gesù giunge al termine di un cammino: Gesù lo ama e vuole che rimanga lì dove è giunto, cioè in lui. 1.3. Conclusione Gli elementi che abbiamo fin qua considerato ci permettono di proporre alcune conclusioni. Anzitutto ci siamo posti la domanda chi è il discepolo di Gesù. Abbiamo dedotto una risposta alla luce dei testi di 8,31 e a 13,35. Il testo di 8,31 ha suggerito che il discepolo è colui che “rimane (meònete)” nella parola di Gesù; da quello di 13,35 invece abbiamo dedotto che questi è colui che pratica l’amore vicendevole. La prospettiva di 8,31 è statica (rimanere); quella di 13,35 è piuttosto dinamica. Abbiamo anche osservato che le due prospettive possono interagire: si pratica l’amore vicendevole se si “rimane” nella parola di Gesù; ma si rimane nella parola di Gesù se si pratica l’amore vicendevole. Ci siamo posti poi una seconda domanda: perché Gesù amava quel discepolo? qual è il fondamento dell’amore di Gesù verso il discepolo? Il testo di 13,23 ha indicato il fatto che il discepolo”era giacente (h&n deè a\nakeòmenov)” sul fianco di Gesù; quello di 19,26 il fatto che “stava (patrestw%ta)”; quello infine di 21,23 il fatto che il discepolo si era reclinato (o$v kaì a\neépesen) nel petto di Gesù. Questi aspetti, differenti in se stessi, coincidono, come un denominatore comune, nel fatto che indicano una posizione statica del discepolo, quasi un termine al quale egli è pervenuto. A questa posizione statica segue l’azione dinamica di amare di Gesù. Emerge la domanda se questa posizione statica del discepolo può essere ulteriormente determinata. Il fatto infine di essere “il discepolo che Gesù amava” permette forse a questi di compiere, quasi come un titolo, ulteriori azioni: trasmettere a Gesù la domanda di Pietro circa l’identità del traditore (13,24-25), essere indicato come figlio e di accogliere la madre nella propria intimità (19,2627), di mettersi, assieme a Pietro, alla ricerca di Gesù (20,2-8), indicare a

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Pietro la presenza di Gesù (21,7), “rimanere” nel petto di Gesù ed essere testimone (21,20-24). 2. L’amore di Gesù verso il discepolo Delineata, almeno parzialmente, la figura del discepolo, la sua caratterizzazione non sarebbe completa se non si considera l’azione specifica di Gesù che lo amava. Un elemento che emerge dalle considerazioni precedenti è che l’azione di Gesù di amare si compie in seguito ad una posizione statica, quasi come una risposta, che il discepolo raggiunge in Gesù o in relazione a lui. Abbiamo già notato come in 13,23;19,26, 21,7.20 tale amore di Gesù è espresso con il verbo a\gapaéw (h\gaépa), in 20,2 invece con il verbo fileéw (e\fòlei). Emerge la domanda: perché l’evangelista, nel testo di 20,2, che sta al centro dei testi indicati, muta verbo? 2.1. I testi con il verbo a\gapaéw È noto che il verbo a\gapaéw, riferito a Gesù, è usato, nel vangelo di Giovanni, in tre forme verbali, all’aoristo (13,1.34; 15,9.12), al futuro (14,21), all’imperfetto (13,23; 19,26, 21,7.20 in relazione al discepolo, e, in 11,5, riferito a Marta, sua sorella e Lazzaro). In questa nostra riflessione partiamo dalle forme al futuro: ciò è suggerito dalla stessa espressione che presenta l’amore di Gesù verso il discepolo non come una situazione previa al suo essere discepolo, ma come la risposta di Gesù al fatto che è discepolo; inoltre ciò è suggerito anche dal fatto che è più facile che una azione futura si apra alla continuità propria dell’imperfetto che non una azione all’aoristo, che, in se stessa, appare circoscritta al passato e anche conclusa. 2.1.1. Il testo di 14,21-24. Il primo testo dove il verbo a\gapaéw, riferito a Gesù, si legge al futuro, è 14,21, dove troviamo parole di Gesù: «chi mi ama sarà amato dal Padre mio

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e anch’io lo amerò (ka\gwè a\gaphésw au\toén)». Esso fa parte di una sezione più ampia che si sviluppa dal v. 15 fino al v. 24. In questa sezione troviamo quattro espressioni, riferite all’amore dei discepoli verso Gesù, strutturate in maniera alternata, che costituiscono anche il telaio della sezione stessa. Le quattro espressioni sono: (v. 15): e\anè a\gapa%teé me, taèv e\ntolaèv taèv e\maèv thrhésete (se mi amate, i miei comandamenti osserverete); (v. 21): o| e"cwn taèv e\ntolaév mou kaì thrw%n au\taév, e\ke_noév e\stai o| a\gapw%n me

(chi ha i miei comandamenti e li osserva questi è colui che mi ama);

(v. 23): e\ané tiv a\gapç% me, toèn loégon mou thrhései (se qualcuno mi ama, la mia parola custodirà); (v. 24): o| mhè a\gapw%n me touèv loégouv mou ou\ thre_ (chi non mi ama, la mia parola non custodisce). La prima e terza espressione (vv. 15.23) sono introdotte mediante la protasi, con e\ané e il congiuntivo, di una condizionale; la seconda e la quarta sono introdotte mediante una proposizione participiale, rispettivamente positiva (o| e"cwn:v. 21) e negativa (o| mhè a\gapw%n: v. 24). L’apodosi della prima condizionale (v. 15) menziona l’osservanza dei comandamenti: se i discepoli ameranno Gesù, osserveranno i suoi comandamenti. Quest’ultima avrà pure una conseguenza per loro: Gesù pregherà il Padre, il quale darà un altro Consolatore, perché rimanga con loro per sempre. La seconda espressione, la prima participiale (v. 21), ha pure una conseguenza: chi ama Gesù (o\ deè a\gapw%n me), ovviamente mediante l’osservanza dei suoi comandamenti, sarà amato dal Padre di Gesù (a\gaphqhésetai u|poè tou% patroév mou) e Gesù stesso lo amerà (ka\gwè a\gaphésw au\toèn) e si manifesterà a lui (kaì e\mfanòsw au\t§% e\mautoén). L’apodosi della seconda condizionale (v. 23) menziona l’osservanza (threései) della parola di Gesù (toèn loégon mou): se i discepoli ameranno Gesù, dovranno osservare la sua parola. Quest’ultima avrà pure una conseguenza: il padre li amerà (o| pathér mou a\gaphései au\toén) e Gesù e Padre verranno da lui (kaì proèv au\toèn e\leusoémeqa) e faranno dimora presso di lui (monhèn par’au\t§% poihsoémeqa).

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L’ultima espressione, la seconda participiale (v. 24), è negativa: considera il caso di colui che non ama Gesù (o\ mhèè a\gapw%n me): di costui si dice che non osserva le sue parole (touèv loégouv mou ou\ thre_), ma, in questo modo, trascura anche le parole del Padre, perché la parola che i discepoli ascoltano, non è di Gesù, bensì del Padre che lo ha mandato. Al nostro scopo interessano soprattutto la prima proposizione participiale (v. 21) e la seconda condizionale (v. 23), nelle quali la conseguenza, fatta in tono di promessa, per chi osserva il comandamento di Gesù e la sua parola, è essere riamato dal Padre ed anche da Gesù. La prima conseguenza, cioè l’essere amato dal Padre, è comune ad entrambe le espressioni, sia quella del v. 21 che quella del v. 2321; varia invece la conseguenza riguardante Gesù: nel v. 21 è indicata una duplice azione da lui compiuta: amare (ka\gwè a\gaphésw au\toén) e manifestarsi (kaì e\mfanòsw au\t§% e\mautoén); nel v. 23 invece, oltre l’amore da parte del Padre, è indicata anche una azione congiunta del Padre e di Gesù: «a lui verremo (kaì proèv au\toèn e\leusoémeqa) e dimora presso di lui faremo (monhèn par’au\t§% poihsoémeqa)»22. Al nostro scopo interessa perciò specificamente il v. 21. 2.1.2. Il testo di 14,21 Il testo di 14,21 si articola in otto espressioni tematicamente progressive, divise dall’espressione participiale o| a\gapw%n me ripetuta, al centro, due volte: o| e"cwn taèv e\ntolaév mou (chi ha i miei comandamenti) kaì thrw%n au\taév, (e li osserva) Possiamo notare tra le due espressioni una inversione di ordine, che stabilisce tra di esse anche uno schema concentrico: v. 21 a\gaphqhésetai 21

v. 23.

u|poè tou% patroév mou o| pathér mou a\gaphései au\toén

Troviamo qui due espressioni parallele: kaì proèv au\toèn kaì monhèn par’au\t§% 22

e\leusoémeqa poihsoémeqa.

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(quello sarà) (colui che mi ama) (colui che mi ama) (sarà amato dal Padre mio) (ed io lo amerò) (e manifesterò a lui me stesso). Le prime tre espressioni riguardano il discepolo verso Gesù; le ultime tre riguardano il Padre e Gesù verso il discepolo. La prima delle due espressioni o| a\gapw%n me stabilisce il termine del cammino del discepolo che, dal fatto che ha (o| e"cwn) e osserva (thrw%n) i comandamenti di Gesù, apparirà (e\stai) come colui che ama Gesù23; la seconda invece stabilisce l’inizio del cammino, o della risposta, del Padre e di Gesù: chi ama Gesù sarà amato dal Padre e Gesù stesso lo amerà e gli si manifesterà. Si determina così un cammino globale che parte dall’osservanza dei comandamenti e culmina nella manifestazione da parte di Gesù. Il passaggio dall’amore di Gesù, nella penultima espressione (ka\gwè a\gaphésw au\toén), alla sua manifestazione (kaì e\mfanòsw au\t§% e\mautoén) a colui che egli ama appare evidente e progressivo: Gesù si manifesta a colui che è oggetto del suo amore. Meno evidente invece è il passaggio discendente dall’amore del Padre a quello di Gesù; ci saremmo aspettati il contrario: un passaggio ascendente dall’amore di Gesù a quello del Padre; l’oggetto diretto dell’amore del discepolo infatti è Gesù. L’evangelista invece suggerisce che la diretta conseguenza dell’amore verso Gesù è l’amore del Padre; Gesù ama in seguito al fatto che ama il Padre. Prescindiamo, almeno per il momento, da quest’ultimo aspetto e poniamo la nostra attenzione sul punto di partenza: l’osservanza dei comandamenti (taèv e\ntolaév). e\ke_noév e\stai o| a\gapw%n me: o\ deè a\gapw%n me a\gaphqhésetai u|poè tou% patroév mou, ka\gwè a\gaphésw au\toèn kaì e\mfanòsw au\t§% e\mautoén.

Nel v. 15 invece l’amore verso Gesù appare come la causa che determina l’osservanza dei comandamenti. Possiamo stabilire tra le due espressioni la seguente relazione concentrica: v. 15: e\anè a\gapa%teé me, 23

v. 21:

taèv e\ntolaèv taèv e\maèv thrhésete o| e"cwn taèv e\ntolaév mou kaì thrw%n au\taév, e\ke_noév e\stai o| a\gapw%n me: o\ deè a\gapw%n me.

L’osservanza dei comandamenti trova la sua causa nell’amore verso Gesù; nello stesso tempo mostra chi è colui che ama Gesù.

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2.1.3. L’osservanza della e\ntolhé Il termine e\ntolhé, riferito ai discepoli si legge in 13,34; 14,15.21; 15,10.12, e determina aspetti differenti. In 13,34 e 15,12 la e\ntolhé di Gesù consiste nell’amore vicendevole (i$na a\gapa%te a\llhélouv) e scaturisce dal fatto che egli ha amato (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v)24. In 14,15.21 la sua osservanza concretizza e manifesta l’amore del discepolo verso Gesù. In 15,10, la sua osservanza appare come la condizione indispensabile per giungere e rimanere nell’amore di Gesù25. Emerge così un triplice aspetto dell’osservanza della e\ntolhé di Gesù da parte dei discepoli: essa sgorga dall’evento dell’amore di Gesù (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v), concretizza inoltre (e\an è a\gapa%teé me) e manifesta (e\ke_noév e\stai o| a\gapw%n me) l’amore verso Gesù, permette infine di pervenire e rimanere nell’amore di Gesù (mene_te e\n t+% a\gaép+ mou). Gesù ha amato i discepoli e questi rispondono amando a loro volta Gesù, non in maniera teorica ed astratta, ma, concretamente, osservando i suoi comandamenti. Attraverso questa osservanza, essi pervengono e rimangono nell’amore di Gesù, ma dal momento che Gesù rimane nell’amore del Padre avendo osservato i suoi comandamenti, i discepoli giungono e rimangono nell’amore del Padre. Quest’ultimo aspetto appare importante e pertinente al nostro scopo. Possiamo stabilire infatti tra il testo di 14,21 e quello di 15,10, letti all’inverso, la seguente relazione concentrica: 15,10: rimanere nell’amore di Gesù, rimanere nell’amore del Padre, 14,21: essere amati dal Padre, Gesù ama e si manifesta. Possiamo allora ricostruire tutto il cammino nel seguente modo: i discepoli, mediante l’osservanza dei comandamenti, pervengono e rimangono 24 25

In 15,14.17, sempre riferito ai discepoli, leggiamo il verbo e\nteéllomai.

Si può stabilire tra i vari testi il seguente schema concentrico: 13,34: La e\ntolhé dell’amore vicendevole, 14,15.21: amare Gesù mediante l’osservanza dei comandamenti, 15,10: rimanere, mediante l’osservanza dei comandamenti, nell’amore di Gesù, 15,12: La e\ntolhé dell’amore vicendevole.

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nell’amore di Gesù; attraverso Gesù pervengono e rimangono nell’amore del Padre, rimanendo Gesù nell’amore del Padre; il Padre li ama e in conseguenza di ciò anche Gesù ama e si manifesta. Il testo di 15,10 è completato così da quello di 14,21. 2.1.4. Il discepolo che Gesù amava Nello sfondo di tutte le osservazioni precedenti, possiamo tornare a considerare la figura del discepolo che Gesù amava e definire la sua identità spirituale. Ci sembra, alla luce di quanto abbiamo fin qua osservato, di poter concludere che l’espressione “il discepolo che Gesù amava” definisca l’ultimo stadio di tutto il cammino del discepolo. Questi, raggiunto dall’amore di Gesù ed avendo accolto il suo comandamento scaturito da quell’amore, come risposta, ha amato Gesù mediante l’osservanza del suo comandamento. La stessa osservanza gli ha permesso di giungere a Gesù e di radicarsi e rimanere nel suo amore. Rimanendo nell’amore di Gesù, il discepolo è pervenuto anche all’amore del Padre perché Gesù, avendone osservato il comandamento, è radicato e rimane nel suo amore. Giunto così al Padre, il discepolo da lui è amato; in seguito all’amore del Padre, anche Gesù lo ama e gli si manifesta. Il discepolo diventa così “il discepolo che Gesù amava”, modello e prototipo dei discepoli di Gesù pervenuti all’ultimo stadio del loro cammino. L’espressione “che Gesù amava” indica così il culmine di un cammino che, in maniera ascendente, raggiunto dall’amore di Gesù, il discepolo compie. Emerge così, nel vangelo di Giovanni, in relazione all’a\gaéph, un triplice “cammino”, che possiamo definire, singolarmente: “discendente”, “ascendente” e ancora “discendente”. Il cammino discendente parte dal Padre, che amò (h\gaéphsen) Gesù, giunge a Gesù che amò (h\gaéphsa) i discepoli, giunge ai discepoli che debbono amarsi (a\gapa%te) vicendevolmente. L’amore vicendevole è la e\ntolhé che i discepoli, raggiunti dall’amore di Gesù, debbono osservare; qui inizia il loro cammino ascendente: attraverso l’osservanza del comandamento dell’amore vicendevole, i discepoli risponderanno all’amore di Gesù, saliranno a lui perverranno al suo amore e si radicheranno in esso; radicati nell’amore di Gesù, i discepoli

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si radicheranno nell’amore del Padre, perché Gesù è nel Padre. Qui inizia il nuovo cammino discendente: raggiunto, attraverso Gesù, l’amore del Padre, da lui i discepoli sono amati26, anche Gesù27, conseguentemente28, li ama: i discepoli diventano “quelli che Gesù amava”. L’evangelista riassume e compendia tutto nella figura del “discepolo che Gesù amava”, che appare così al termine di questo triplice cammino, divenendo in questo modo modello ed emblema di quanti vogliono essere discepoli di Gesù. Questi non appare perciò come l’oggetto di particolare predilezione umana da parte di Gesù, bensì come colui che è giunto all’apice di un cammino, attuando così una profonda intimità con lui. A conferma di ciò, è possibile stabilire anche un certo confronto, benché parziale, con il testo di 1,37-39, dove si parla di due discepoli che, avendo udito l’annunzio di Giovanni: «ecco l’Agnello di Dio, seguirono Gesù». Essi potranno sapere e “vedere” dove Gesù “rimane (pou% meénei)” al termine del cammino al quale Gesù li invita (e"rcesqe kaì o"yesqe). Narra l’evangelista che essi «vennero, videro (eùdan) dove (Gesù) rimane (meénei) e rimasero (e"meinan) presso di lui quel giorno». Il testo presenta dei vuoti che esigono di essere riempiti. L’uso del verbo meénw, alla luce di 15,9-10, suggerisce la seguente ricostruzione. Al termine del cammino, i due videro dove Gesù “rimane (meénei)”, cioè radicato nell’amore del Padre. In quella e da quella sua posizione, Gesù promulga il suo comandamento, la cui osservanza permette ai due discepoli di “rimanere (e"meinan)” “presso Gesù (par’au\t§%)”. Le considerazioni sopra proposte, possono anche completare il cammino dei due discepoli: Giunti e “rimasti” nell’amore di Gesù, i due pervengono all’amore del Padre, da lui poi sono amati e anche Gesù li ama. I testi del discepolo, completati anche dallo sviluppo di 1,37-39 permettono di ricostruire l’iter completo del discepolo, dall’annunzio del testimone ricevuto fino al divenire “il discepolo che Gesù amava”. Il testo di 21,24 poi permette di completare ulteriormente: il discepolo che Gesù 26

au\toén). 27

Cfr. 14,21 (a\gaphqhésetai u|poè tou% patroév mou), e anche 14,23 (o| pathér mou a\gaphései Cfr.14,21 (a\gaphésw au\toén).:

Cfr. l’espressione ka\gwé, che leggiamo anche in 15,9 e che esprime consequenzialità rispetto all’azione del Padre. 28

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amava diventa o| marturw%n, cioè il discepolo che ha fatto esperienza di Gesù e, anche mediante lo scritto, continua a rendergli testimonianza. 2.1.5. Il testo di 11,5 Un altro uso del verbo a\gapaéw all’imperfetto (h\gaépa) si legge in 11,5, con lo stesso soggetto Gesù (o| }Ihsou%v), ma con diverso oggetto, non più il discepolo, bensì il gruppo thèn Maérqan kaì thèn a\delfhèn au\th%v kaì toèn Lazaron (Marta e la sorella di lei e Lazzaro). Emerge la domanda se questa forma all’imperfetto, in questo testo, riferito a questi oggetti, ha lo stesso senso che abbiamo evidenziato a riguardo del discepolo. Non è facile dare una risposta; forse essa potrebbe venire dalla considerazione del contesto. Nel v. 1 l’evangelista narra di un certo infermo (tiv a\sqenw%n), Lazzaro, di cui indica la provenienza locale da Betania (a\poè Bhqanòav); attraverso questa indicazione di luogo (e\k th%v kwémhv) egli stabilisce una relazione con due donne: Maria e Marta. La relazione di Marta a Maria è molto stretta: essa è sua sorella (th%v a\delfh%v au\th%v); Maria poi è menzionata al centro29. Nel v. 5 l’evangelista torna a menzionare ancora i tre personaggi, oggetto dell’amore di Gesù, ma in ordine inverso: prima Marta e ultimo Lazzaro: thèn Maérqan kaì thèn a\delfhèn au\th%v kaì toèn Lazaron (Marta e la sorella di lei e Lazzaro). Benché non esplicitamente menzionata con il nome proprio, ma con la sua prerogativa di “sorella”, al centro c’è Maria30. 29 Si ottiene così il seguente schema strutturale: Laézarov

a\poè Bhqanòav e\k th%v kwémhv Maròav kaì Maérqav th%v a\delfh%v au\th%v. 30

Emerge tra i vari nomi nei due testi una relazione strutturale concentrica: v. 1: Laézarov Maròav kaì Maérqav th%v a\delfh%v au\th%v. v. 5: thèn Maérqan kaì thèn a\delfhèn au\th%v kaì toèn Lazaron.

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Nel v. 2 l’evangelista evoca l’azione di Maria nei confronti di Gesù: ungerlo con unguento ed asciugare i piedi con i capelli. In maniera sorprendente, queste azioni sono indicate, mediante due forme di participio aoristo (a\leòyasa – e\kmaéxasa), come già avvenute, mentre saranno narrate soltanto nel seguente cap. 12. Nello stesso verso Lazzaro è relazionato alle due donne mediante il termine o| a\delfoév (il fratello); nel verso seguente (v. 3) sono le due donne relazionate a Lazzaro mediante il termine ai| a\delfaò (sorelle). Il termine a\delfoév (hé) relaziona così le due sorelle tra di loro e con Lazzaro. Di Lazzaro si dice che era infermo31; di Maria è menzionata l’azione di ungere e di asciugare; di Marta invece non è menzionata alcuna azione specifica, ma, assieme alla sorella (ai| a\delfaò), manda a dire (leégousai) a Gesù che colui che egli ama è infermo. Gesù dichiara che la malattia di Lazzaro non è orientata alla morte ma è finalizzata alla gloria di Dio e alla stessa glorificazione di Gesù. Dalla descrizione di 11,1-6 sembrano emergere così diversi aspetti: anzitutto la stretta unità dei tre personaggi; la preoccupazione delle sorelle per la malattia di Lazzaro, che si affrettano ad informare Gesù; l’azione di Maria che ha unto i piedi a Gesù; un progresso di azione da Maria a Gesù: Maria unge i piedi a Gesù e questi orienta la malattia di Lazzaro alla gloria di Dio e alla sua glorificazione. Maria è orientata verso Gesù e Gesù orienta alla gloria di Dio la malattia di Lazzaro. Di Lazzaro, Marta e Maria l’evangelista torna a parlare in 12,1-8, nel contesto dell’episodio dell’unzione a Betania, soprattutto nei vv. 1-3, assegnando a ciascuno un proprio ruolo differenziato: quello di Marta è di servire (dihkoénei), quello di Lazzaro è stare a mensa con Gesù (eàv h&n e\k tw%n a\nakeimeénwn suèn au\t§%), quello di Maria è ungere i piedi (h"leiyen touèv poédav) di Gesù. Tutti e tre i ruoli dicono relazione a Gesù: Lazzaro siede a mensa con Gesù, Maria gli unge i piedi; Marta invece serve: secondo 12,26, chi serve Gesù sarà onorato dal Padre. Al centro di ciascuna espressione è menzionata Maria; anche con il termine thèn a\delfhén, al centro di tutta la relazione strutturale invece è menzionata Marta. 31

La menzione della malattia lega i primi sei versi: a\sqenw%n (v. 1), h\sqeénei (v. 2), a\

sqene_ (v. 3), h\ a\sqeéneia (v. 4), a\sqene_ (v. 6).

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I due participi aoristi, a\leòyasa e e\kmaéxasa, suggeriscono, nei due testi del cap.11 e del cap. 12, una lettura inversa che permette forse di concludere che nella posizione di Lazzaro e nelle azioni delle due sorelle starebbe anche il motivo per cui Gesù li amava. In questo senso emergerebbero due motivi dell’amore di Gesù verso Marta, sua sorella e Lazzaro. Il primo motivo sarebbe indicato in 11,1-6: l’unità tra i tre personaggi nella loro reciproca relazione: Lazzaro è relazionato a Marta e Maria essendo dallo stesso villaggio; Marta e Maria sono relazionate come sorelle; Marta e Maria sono legate a Lazzaro come sorelle. In secondo motivo sarebbe indicato in 12,1-3: si tratta della loro personale relazione a Gesù, Lazzaro è uno dei commensali; Marta serve, Maria unge i piedi. Emergerebbe così nella comunità di Betania una duplice prospettiva: l’unità nella reciproca relazione e la loro specifica relazione a Gesù. In questo senso, il verbo h\gaépa, in 11,5, che descrive la sua azione, può costituire la risposta di Gesù. Questo verbo h\gaépa può aiutarci a leggere retrospettivamente le azioni dei tre personali e scorgere anche una tacita prospettiva. Attraverso l’amore vicendevole, nella loro reciproca relazione, i tre personaggi sono giunti a Gesù e, pur in diversa maniera, si sono relazionati a lui. Pur in diversa maniera, il verbo h\gaépa, riferito a Marta, sua sorella e Lazzaro, presenta analoga prospettiva rispetto a quella riferita al discepolo. Questo, nella sua maniera, è giunto a Gesù e Gesù lo amava (h\gaépa); Marta, sua sorella e Lazzaro, comunitariamente e singolarmente sono giunti a Gesù e Gesù li amava (h\gaépa). 2.2. I testi con il verbo fileéw In 20,2, come abbiamo già notato, il discepolo è ancora indicato come colui che Gesù amava; stavolta però non con il verbo a\gapaéw (h\gaépa), bensì con il verbo fileéw (e\fòlei). Emerge allora la domanda: perché l’evangelista in questo testo muta il verbo? Tale mutamento è ancora più sorprendente per il fatto che si trova al centro di quattro espressioni con il verbo a\gapaéw: 13,23; 19,26; 19,7; 21,20.

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2.2.1. I termini Il verbo fileéw, nel vangelo di Giovanni, si legge 13 volte32, riferito a diversi personaggi sia come soggetto che come oggetto. Riferito però a Gesù che ama (file_) una persona umana, si legge soltanto tre volte: in 11,3.36, riferito a Lazzaro, e in 20,2 riferito al discepolo. A riguardo di Lazzaro, in 11,3 le sorelle mandano a dire a Gesù: «Signore, ecco colui che tu ami (o£n file_v) è infermo»; in 11,36, i giudei, vedendo Gesù piangere al sepolcro, osservano: «ecco come lo amava (pw%v e\fòlei au\toén)». Sia per il verbo a\gapaéw come anche per il verbo fileéw troviamo così accostate le due figure di Lazzaro e del discepolo. Accanto al verbo fileéw, troviamo nel vangelo anche il sostantivo fòlov, usato sei volte33. Gli usi presentano un certo schema concentrico34; tra l’uso di 3,29, riferito al Battista che si definisce “l’amico dello sposo (o| fòlov tou% numfòou)” e quello di 19,12, dove i giudei dichiarano a Pilato che, se libera Gesù, non è “amico di Cesare (fòlov tou% Kaòsarov)”, troviamo gli usi di 11,11 e di 15,13.14.15 che si muovono sulla stessa linea: in 11,11 Gesù definisce Lazzaro come “suo amico (o| fòlov h|mw%n)”, in 15,13-15 ancora Gesù parla dei “suoi amici (fòlouv)”. Possiamo osservare che a Lazzaro, nel cap. 11, è riferito sia il verbo fileéw (11,3.36), sia anche il termine fòlov (11,11); al discepolo invece è riferito soltanto, in 20,2, il verbo fileéw (20,2). Tuttavia anche per questa terminologia si stabilisce una relazione tra Lazzaro e il discepolo35. Sembra però che questa terminologia caratterizzi più specificamente Lazzaro36. Egli stabilisce così una duplice relazione: per il verbo fileéw 32 33 34

5,20; 11,3.36; 12,25; 15,19; 16,27.27; 20,2; 21,15.16.17.17.17. 3,29; 11,11; 15,13.14.15; 19,12.

3,29: o| fòlov tou% numfòou; 11,11: o| fòlov h|mw%n; 15,13: (u|peèr tw%n fòlwn au\tou%). 14: (fòloi mou e\steé). 15: (u|ma%v ei"rhka fòlouv); 19,12: fòlov tou% Kaòsarov.

Da ciò però non segue che il discepolo che Gesù amava debba essere storicamente identificato con Lazzaro.; come il veggente (o| e|wrakwév) di 19,35, verosimilmente ancora il discepolo (cfr. 21,24), non può identificarsi con Giovanni Battista (1,34) 35

36 Il verbo fileéw stabilisce nel cap. 11 anche una inclusione letteraria a quasi tutto il racconto:

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(20,2), con la figura del discepolo che Gesù amava; per il termine fòlov con gli amici di Gesù in 15,13-15. 2.2.2. Relazione per il verbo fileéw I due racconti, quello di Lazzaro, chiamato da Gesù dal suo sepolcro (11,1-44) e quello del discepolo che, stimolato, assieme a Pietro, dalla Maddalena, corre al sepolcro alla ricerca del corpo di Gesù (20,1-8), condividono diversi elementi uguali, ma presentano anche delle differenze che possono essere ricondotte a complementarietà. Gli elementi uguali sono: anzitutto entrambi sono oggetto di un amore da parte di Gesù; inoltre, per entrambi, tale amore è formulato con il verbo fileéw; entrambi infine sono relazionati ad un sepolcro (mnhmeòon). Quest’ultimo elemento, il sepolcro, segna però anche delle differenze, apparentemente opposte, ma che possono essere ricondotte a complementarietà. Nel racconto di Lazzaro (cap. 11) il sepolcro è quello di Lazzaro: in esso Lazzaro è rinchiuso da quattro giorni e Gesù va ad esso a risvegliarlo; nel racconto del discepolo (cap. 20) il sepolcro è quello di Gesù: Gesù però non è in esso e il discepolo va tuttavia verso di esso. Non interessa al nostro scopo illuminare ulteriormente questa relazione e complementarietà; interessa soltanto caratterizzare l’amore di Gesù, espresso con il verbo fileéw, sia verso Lazzaro sia anche verso il discepolo. Possiamo osservare che tale amore è menzionato, in entrambi i testi, all’inizio dell’azione stessa e, in certo senso, anche la determina. 11,3: o£n file_v a\sqene_ 11,36: i"de pw%v e\fòlei au\toén. Questo schema può essere completato nel seguente modo: 11,3: o£n file_v a\sqene_ 11,11: Laézarov o| fòlov h|mw%n 11,36: ide pw%v e\fòlei au\toén. Si ottiene così il seguente schema completo: 11,3: o£n file_v a\sqene_ 11,5: h\gaèpa […] toèn Laézaron, 11,11: Laézarov o| fòlov h|mw%n 11,36: i"de pw%v e\fòlei au\toén.

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Gesù amava (file_v – e\fòlei) Lazzaro e ciò lo spinge ad accogliere quanto gli dicono le sorelle, a recarsi al sepolcro, a piangere su di esso, ad ordinare a Lazzaro di uscirne fuori. Gesù amava (e\fòlei) il discepolo e, probabilmente questo è il motivo che spinge la Maddalena a recarsi anche da lui e spinge il discepolo a recarsi al sepolcro alla ricerca del corpo di Gesù. 2.2.3. Relazione per il termine fòlov Le osservazioni precedenti tuttavia non ci riportano ancora nel cuore del senso del verbo fileéw; esse appaiono piuttosto come delle conseguenze che sgorgano da esso. Una risposta probabilmente ci viene dall’uso del termine fòlov, con cui Gesù, in 11,11, tra i due verbi, caratterizza il suo rapporto con Lazzaro e che richiama gli usi dello stesso termine in 15,13-1537. In 15,13-15 i fòloi di Gesù sono menzionati tre volte e in tre prospettive diverse: essi sono coloro ai quali Gesù ha donato la propria vita, manifestando così il suo massimo amore (v. 13); i discepoli saranno fòloi di Gesù a condizione che faranno (e\anè poih%te) ciò che egli comanda (e\nteéllomai) a loro (v. 14). Gesù infine ha dichiarato (ei"rhka) i suoi discepoli non più servi (douélouv) ma amici (fòlouv) avendo manifestato (e\gnwérisa) loro ciò che egli ha udito dal Padre. Nel v. 16 Gesù ancora continua dichiarando ai discepoli: «non voi avete scelto (e\xeleéxasqh) me ma io ho scelto (e\xelexaémhn) voi»: Gesù rivendica la priorità della sua scelta di essi, rispetto a quella fatta essi di lui. Lo stesso verbo e\xelexaémhn è ripetuto ancora, alla prima persona, nel v. 19, dove leggiamo una espressione con cinque frasi, caratterizzate ciascuna dal termine koésmov38. Il senso che emerge è il seguente: se i discepoli fossero stati 37

Ci riferiamo alla prospettiva già indicata nel nostro studio: A. Gangemi, Il senso di

agapaéw e fileéw nei LXX, nel NT e nel vangelo di Giovanni», in Synaxis XVI (1998) 7-114:

112-114.

38 Cfr. ei\ e\k tou% koésmou h&te o| koésmov a!n toè i"dion e\fòlei o$ti deè e\k tou% koésmou ou\k e\steé a\ll’e\gwè e\xelexaémhn u|ma%v e\k tou% koésmou diaè tou%to mise_ u|ma%v o| koésmov

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dal mondo o avessero avuto origine da esso, questo non avrebbe mancato di introdurli nella sua intimità39, ma Gesù, scegliendoli, li ha sottratti al mondo, li ha dichiarati amici (fòloi) rendendo loro noto ciò che ha udito dal Padre (v. 15): i discepoli saranno realmente (e\steé) “amici (fòloi)” se faranno ciò che Gesù comanda (e\nteéllomai) loro (v. 14); ad essi ha manifestato il più grande amore donando loro la sua vita. Il testo di 15,13-15, per l’uso del verbo e\nteéllomai, stabilisce una relazione con il testo appena precedente di 15,10, dove Gesù dichiara: «se osserverete i miei comandamenti (taèv e\ntolaév mou) rimarrete nel mio amore (mene_te e\n t+% a\gaép+ mou)». L’osservanza dei comandamenti ottiene così due effetti: permette attivamente di pervenire e radicarsi nell’amore di Gesù, ottiene passivamente l’accoglienza, come amici (fòloi), nell’intimità di Gesù. 2.2.4. Rilettura sintetica dei due testi Alla luce delle osservazioni precedenti, tentiamo adesso di spiegare in che senso il verbo fileéw è riferito, come soggetto a Gesù e, come oggetto, sia a Lazzaro come anche al discepolo. Dal momento che i testi specifici non offrono ulteriori elementi, riconosciamo di non poter andare oltre la semplice supposizione. Notiamo anzitutto come il verbo fileéw è un verbo dinamico e, in relazione a Gesù soggetto, è detto soltanto di Lazzaro e del discepolo. Al contrario, il termine fòlov esprime una posizione statica ed indica una posizione che si ha presso una persona. Giovanni, come “amico dello sposo (o| fòlov tou% numfòou)” (3,29), è in intimità con lo sposo; Pilato, come “amico di Cesare (fòlov tou% Kaòsarov)”, è, o aspira ad essere, nell’intimità imperiale (19,12); i discepoli, sottratti al mondo, sono stati introdotti, come 39 In un altro studio abbiamo avanzato la supposizione che, in tale descrizione, come anche in 16,32, l’evangelista abbia presente un fatto, narrato da Matteo e Marco (Mt 26,56; Mc 14,50), ma che lui, pur non riferendolo, sembra non ignorare: al Getsemani i discepoli fuggirono tutti ed abbandonarono Gesù. Il mondo avrebbe creduto che essi fossero passati dalla sua parte. Se così fosse stato, li avrebbe introdotti nella sua intimità (a!n toè i"dion e\fòlei). Gesù invece li ha sottratti ad esso e li ha introdotti nella sua intimità come amici (fòloi), cfr. A. Gangemi, La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni, in «Synaxis» 21 (2003), 215-281: 260-263.

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“amici (fòloi)”, nell’intimità di Gesù (15,13-15). Lazzaro, amico di Gesù (o| fòlov h|mw%n), dev’essere perciò nell’intimità di Gesù. Sembra che tra il termine fòlov, riferito agli amici di Gesù, e il verbo fileéw con soggetto Gesù, ci sia quasi una relazione dialogica: i discepoli, attraverso l’osservanza di ciò che Gesù comanda, hanno raggiunto la posizione di fòloi e Gesù li ha accolti in maniera stabile ed abituale, nella sua intimità (e\fòlei). Emerge una prospettiva analoga a quella espressa con il verbo a\gapaéw, più attiva con questo verbo, più passiva con il verbo fileéw. I discepoli, raggiunto, mediante l’osservanza del comandamento, l’amore di Gesù e radicatisi in esso, da Gesù sono amati, in maniera stabile ed abituale (h\gaépa); raggiunta poi, sempre mediante l’osservanza dei comandamenti, la posizione di fòloi, i discepoli, in maniera stabile ed abituale, da Gesù sono accolti nella sua intimità (e\fòlei). Lazzaro e il discepolo perciò sono arrivati alla posizione di fòloi e Gesù li accoglie nella sua intimità (e\fòlei). Da questa condizione però scaturisce un dovere, descritto, in maniera complementare, sia nel racconto di Lazzaro (Gv 11,1-44) che in quello del discepolo (20,2-8). Tale dovere riguarda, rispettivamente, sia Gesù che accoglie (Lazzaro) sia anche colui che è accolto da Gesù. Gesù accoglie nella sua intimità: tale accoglienza lo obbliga, come nel caso di Lazzaro, a correre al suo sepolcro e a resuscitarlo; Gesù accoglie nella sua intimità: tale accoglienza obbliga colui che è accolto a mettersi alla ricerca e a pervenire, alla luce delle Scritture, alla conoscenza acquisita (ou\deépw gaèr +"deisan) e alla fede nella resurrezione. Mettendo insieme i due racconti, forse possiamo dire che colui che è nell’intimità di Gesù è orientato verso la resurrezione: la fede nella resurrezione di Gesù (il discepolo), l’esperienza della propria resurrezione (Lazzaro). Abbiamo già osservato che, a riguardo di Lazzaro, l’accento sta sul verbo fileéw; l’unico uso del verbo a\gapaéw è in 11,5, dove però egli non è oggetto esclusivo dell’amore di Gesù, ma lo condivide assieme a Marta e sua sorella. Per il discepolo invece l’accento sta sul verbo a\gapaéw, riferito a lui, come oggetto, ben altre quattro volte. Emerge nei due personaggi, in relazione a Gesù, prospettiva diversa ma complementare. La prospettiva

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di Lazzaro sembra essere piuttosto passiva: Gesù lo accoglie nella propria intimità (fileéw), quella del discepolo piuttosto attiva: Gesù lo ama (h\gaépa). Anche gli effetti nei due personaggi appaiono diversi e complementari. Quelli dell’accoglienza (fileéw) appaiono piuttosto passivi: Lazzaro fa esperienza della resurrezione, quelli dell’amore (a\gapaéw) appaiono piuttosto attivi: il discepolo, oggetto dell’amore di Gesù, ha un ruolo da assolvere. Limitandoci alla figura del discepolo, come oggetto dell’accoglienza da parte di Gesù (e\fòlei), egli ha un dovere verso di lui: mettersi alla sua ricerca e pervenire alla fede nella sua resurrezione; come oggetto dell’amore di Gesù (h\gaépa) egli deve indicare ai discepoli e a Pietro la via a Gesù (13,22-24), deve manifestare a Pietro la presenza del Signore (21,7), ma soprattutto egli deve “rimanere”, radicato nell’amore di Gesù, e rendere testimonianza (o| marturw%n) (21,24).

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SIGLE E ABBREVIAZIONI

Sigle AnglTR AnnTh AusBibRev BEThL BEvTSoc Bib BibInterpr BibOr Biblebhashyam BiViChr BLE BTB BS BZ CBQ CiTom Christ EKK EstBib ET ETL

Anglican Theological Review. Evanston L’Année Théologique. Paris Australian Biblical Review. Melbourne Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium. Louvain Bulletin of the Evangelical Theological Society. Wheaton Biblica. Roma Biblical Interpretation. Leiden Bibbia e Oriente. Genova Bible bhashyam. Kottayam (Kerala) Bible et Vie Chrétienne. Maredsous Bulletin de Littérature Ecclésiastique. Toulouse Biblical Theological Bulletin. Jamaica Bibliotheca Sacra. Dallas Biblische Zeitschrift. Paderbon Catholic Biblical Quarterly. Washington Ciencia Tomista. Salamanca Christus. Paris Evangelisch-Katholischer Kommentar zum Neuen Testament. Neukirchen Estudios Biblicos. Madrid Evangelische Theologie. München Ephemerides Theologicae Lovanienses. Louvain

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EuntDoc Exp ExpTim FoiVie GL HarvTR Interpr JBL JPhil JSNT JTS KathKirchenZtgD LavThéolPhil LumVie MiscFranc Neot NRT NT NTS PrincTR PSV RB RBIt RCatalT RHPhilRel RIDA RSR Script SeinSend StEv SNTU SR Teol TerS

Sigle e abbreviazioni

Euntes Docete. Roma The Expositor. London Expository Times. Edinburgh Foi et Vie. Paris Geist und Leben. Würzburg Harvard Theological Review. Cambridge (Mass.) Interpretation. Richmond Journal of Biblical Literature. Atlanta Journal of Philology. London and Cambridge Journal for the Study of the New Testament. Shéffield Journal of Theological Studies. Oxford Katholische Kirchenzeitung für Deutschland. München Laval Théologique et Philosophique. Québec Lumière et Vie. Lyon Miscellanea Francescana. Roma Neotestamentica. Pretoria Nouvelle Revue Théologique. Louvain Novum Testamentum. Leiden New Testament Studies. Cambridge Princeton Theological Review. Princeton Parola, Spirito e Vita Revue Biblique. Paris Rivista Biblica Italiana. Brescia Revista Catalana de Teología. Barcelona Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuse. Strasbourg Revue International de Droits de l’Antiquité. Bruxelles, Revue des Sciences Religieuses. Strasbourg Scripture. London Sein und Sendung. Werl Studia Evangelica. Berlin Studien zum Neuen Testament und seiner Umwelt. Linz Studies in Religion / Sciences Religieuses. Waterloo (Ontario) Teologia. Milano Terra Santa. Jerusalem

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Sigle e abbreviazioni

TheolVers TLond TQ TS ThZ VD VieSpir ZNW ZTK

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Theologische Versuche. Berlin Theology. London Theologische Quartalschrift. Tübingen Theological Studies. Woodstock Theologische Zeitschrift. Basel Verbum Domini. Roma Vie Spirituelle. Paris Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft. Berlin Zeitschrift für Theologie und Kirche. Tübingen

Abbreviazioni AT Antico Testamento cap. capp. capitolo, capitoli cur. curr. curatore, curatori Ed. Edd. editore, editori Fs Festschrift Ibid. Ibidem Id. Idem ktl kaì taè loipaé (e il resto) l.c. loco citato n.s. Nova series Par. Paralleli TA testo aramaico Th versione greca di Teodozione (Daniele) TM Testo Masoretico trad. it. traduzione italiana LXX versione greca dei LXX v. vv. versetto, versetti voll. volumi

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INDICE

PRESENTAZIONE

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PREMESSA

9 parte prima

IL RIFIUTO DI GESÙ IL PROCESSO DI GESÙ DAVANTI AL SINEDRIO E IL VANGELO DI GIOVANNI 1. Il processo davanti al sinedrio nei vangeli sinottici 1.1. Il racconto dei vangeli Sinottici 1.2. Il racconto di Giovanni 1.3. La sequenza degli eventi nel processo davanti al Sinedrio 1.3.1. La sequenza degli eventi in Matteo e Marco 1.3.2. Le peculiarità lucane 1.3.3. Confronto dei singoli elementi lucani con Matteo e Marco 1.4. Conclusioni 2. Il tempio distrutto e ricostruito 2.1. Posizioni degli interpreti 2.2. Il problema del tempio in Matteo e Marco 2.3. Il problema del tempio in Giovanni (Gv 2,18-22) 2.4. Conclusione 3. I testi del cap. 5 3.1. La seconda parte (vv. 9-18) 3.2. La terza parte (vv. 19-30) 3.3. La quarta parte (vv.31-47) 3.3.1. La prima sezione (vv. 31-37a) 3.3.2. La seconda sezione (vv. 37b-47) 3.4. Conclusione

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16 16 19 24 24 36 38 43 45 46 48 54 58 58 59 62 65 65 71 74

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Indice

4. I testi del cap. 10 4.1. Divisione del cap 10 4.1.1. Posizione degli interpreti 4.1.2. La nostra divisione in due parti 4.2. Il dialogo tra Gesù e i giudei in 10,22-39 4.2.1. Divisione dei vv. 22-39 4.2.2. Peculiarità dei vv. 22-24a 4.3. La prima sezione (vv. 22-30) 4.3.1. La domanda rivolta a Gesù (v 24b) 4.3.2. La risposta di Gesù 4.3.3. L’introduzione narrativa dei vv 22-24a 4.4. La seconda sezione (Gv 10,31-39) 4.4.1. Analisi strutturale 4.4.2. Il tentativo di sopprimere Gesù 4.4.3. L’accusa di bestemmia 4.4.4. La condanna a morte 4.4.5. Confronto con i vv. 22-30 4.4.6. Le prerogative di Gesù 4.5. Lo sfondo dei vv 1-18 4.5.1. La divisione di Gv 10,1-18 4.5.2. I termini: au\lhé, qurwroév quéra 4.5.3. I personaggi antitetici al pastore 4.5.4. Conclusioni a 10,1-18 4.6. Conclusione 5. Il Consiglio di Caifa in Gv 11,47-53 5.1. Struttura del testo 5.1.1. Il raduno e il dibattito nel sinedrio (vv. 47-48) 5.1.2. Il consiglio di Caifa (v 49-50) 5.1.3. Il commento dell’evangelista (vv. 51-52); 5.1.4. L’epilogo narrativo (v 53) 5.2. Aspetti tematici 5.3. La congiura contro Gesù nei vangeli sinottici 5.4. Confronto con Gv 11,47-53 5.4.1. Relazioni letterarie 5.4.2. Complementarietà tematiche 5.5. Conclusione Conclusione DIALOGO TRA GESÙ ED ANNA (Gv 18,19-24) 1. Il problema del v. 24 1.1. Posizioni degli interpreti 1.2. La nostra posizione

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75 75 75 79 80 81 83 84 84 87 90 94 94 96 99 104 106 108 112 112 116 121 127 128 130 131 131 133 134 134 135 136 140 140 141 142 144 151 152 160

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Indice 2. I sacerdoti Anna e Caifa 2.1. Gli eventi dopo la cattura 2.2. Il testo di 18,24 2.3. Il cammino verso il pretorio 3. Dialogo tra Gesù ed Anna (vv. 19-24) 3.1. Struttura letteraria 3.2. Critica testuale 3.3. Sviluppo del testo 3.3.1. Valutazione degli interpreti 3.3.2. Le parole stesse di Gesù 3.4. Le parole di Gesù rivolte al mondo 3.5. Le parole di Gesù in sinagoga e nel tempio 3.6. Il raduno dei giudei 3.7. La domanda di Anna 3.8. Rilettura sintetica 3.9. Il rimando ai testimoni 3.10. La reazione del servo 3.11. Le parole di Gesù al servo I TRE RINNEGAMENTI DI PIETRO NEL VANGELO DI GIOVANNI 1. Confronto con i vangeli sinottici 1.1. Osservazioni generali nella valutazione degli interpreti 1.2. Peculiarità giovannee 2. Struttura letteraria di Gv 18,12-27 3. I tre rinnegamenti nella narrazione giovannea 3.1. Le posizioni degli interpreti 3.1.1. Qualche osservazione generale sui rinnegamenti 3.1.2. La conduzione di Gesù da Anna 3.2. L’articolazione dei rinnegamenti 3.2.1. Le persone che interrogano 3.2.2. Le domande rivolte a Pietro 3.2.2.1. Le domande nei vangeli sinottici 3.2.2.2. Le espressioni giovannee 3.2.3. La peculiarità giovannea 3.3. Le risposte di Pietro 3.4. Peculiarità giovannee nelle domande rivolte a Pietro 3.5. La posizione di Pietro 4. La terza domanda 5. Il canto del gallo 6. Il senso dei rinnegamenti di Pietro 7. Il discepolo e Simon Pietro 8. L’epilogo di Pietro 9. Conclusione

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755 164 164 167 170 171 172 173 174 174 176 177 189 195 196 197 201 204 208 213 213 216 218 221 222 222 224 226 226 228 228 230 230 233 236 238 244 246 251 253 254 258

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Indice parte seconda

L’EVENTO DELL’a\gaépé h LA PRESENZA DEL DEUTERONOMIO NEL VANGELO DI GIOVANNI 1. L’amore di Dio 1.1. Dio ama 1.2. Amare Dio 1.3. Dio amerà: 1.4. Qualche testo riassuntivo 2. Relazione del quarto vangelo al libro del Deuteronomio 2.1. Confronto terminologico 2.1.1. Il verbo a\gapaéw (b¢hf)) 2.1.2. Il verbo e\nteéllomai (hfwfc) 2.1.3. Il verbo e\kleégomai (raxfB) 2.1.4. Il verbo threéw 2.1.5. Altri verbi nel Deuteronomio 2.2. I termini 2.2.1. Il termine e\ntolhé 2.2.2. Il termine taè dikaiwémata (qox hfQux) 2.2.3. Il termine taè prostaégmata (5v.) 2.2.4. Il termine taè fulaégmata 2.2.5. Il termine taè kròmata (+apf$/+fP:$im) 2.2.6. Il termine kròsiv 2.2.7. Il termine noémov 2.2.8. Altri termini 2.3. Conclusione 2.4. Confronto tematico 2.4.1. Mosè e Gesù 2.4.2. L’evento primordiale: l’amore di Dio 2.4.3. L’evento di salvezza 2.4.4. L’epilogo dell’evento di salvezza 2.4.5. La risposta di amore da parte dei discepoli 2.4.6. L’epilogo dell’osservanza dei comandamenti 3. Conclusione 3.1. Aspetto letterario 3.2. Aspetto strutturale 3.3. Aspetto tematico

265 265 266 268 269 271 271 271 273 274 276 277 278 278 279 279 280 280 280 281 282 282 283 283 284 284 286 287 288 290 290 291 292

LA DIMENSIONE DELL’AMORE NEL VANGELO DI GIOVANNI 1. La terminologia dell’amore 1.1. Il verbo a\gapaéw 1.2. Il sostantivo a\gaéph

296 296 298

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Indice 1.3. Il verbo fileéw 1.4. Altri verbi 2. La terminologia dell’amore nel vangelo di Giovanni 2.1. La terminologia nella prima parte del vangelo (capp. 1-12) 2.2. La terminologia seconda parte del vangelo (capp. 13-17) 2.2.1. Gli usi del verbo a\gapaéw all’aoristo (h\gaéphsa / h\gaéphsen) 2.2.2. Gli usi del verbo a\gapaéw al presente 2.2.3. Gli usi del verbo a\gapaéw al futuro 2.2.4. Gli usi del verbo fileéw 2.2.5. Gli usi del termine fòlov 2.3. Struttura degli usi dei capp. 13-17 2.4. Struttura di 15,9-10 2.5. Relazione tra la prima parte (capp. 1-12) e la seconda (13-17) «COME AMÒ ME IL PADRE […]» (GV 15,9) L’amore del Padre verso il Figlio nel vangelo di Giovanni 1. I testi del vangelo di Giovanni 2. I testi con il verbo a\gapaéw all’indicativo aoristo 2.1. Il testo di 15,9 2.1.1. Lo sviluppo strutturale 2.1.2. Il valore dell’aoristo h\gaéphs(a)en 2.1.3. La particella comparativa di uguaglianza kaqwév 2.2. I testi di 17,23.24.26 2.2.1. L’espressione di 17,23 2.2.2. L’espressione di 17,24 2.2.3. L’espressione di 17,26 2.2.4. Rilettura sintetica dei testi del cap 17 2.3. Rilettura sintetica dei testi con a\gapaéw il verbo all’aoristo 2.3.1. Gli usi dei cc. 1-12 2.3.2. Gli usi dei cc. 13-21 2.3.3. Sintesi delle due parti 3. I testi con il verbo a\gapaéw all’indicativo presente 3.1. Il testo di 3,35 3.2. Il testo di 10,17-18 3.3. Relazione tra 3,35 e 10,17 3.4. Le specifiche relazioni di 3,35 e di 10,17 3.4.1. Relazione di 10,17 a 14,15-21 3.4.2. Relazione di 3,35 a 13,3 3.5. Il testo di 10,28-29 3.6. Relazione tra 15,9 e 13,3 4. Rilettura sintetica

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757 300 301 302 302 307 307 310 312 313 315 316 317 319

324 325 325 326 329 332 338 338 341 344 346 349 349 350 352 353 353 356 359 360 360 363 365 368 369

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Indice

L’AMORE DI GESÙ VERSO I DISCEPOLI 1. I termini 2. Il testo di Gv 13,1-5 2.1. Il testo di 13,1 2.1.1. Struttura letteraria di 13,1 2.1.2. L’espressione ei\v teélov 2.2. Le relazioni di 13,1 2.2.1. La relazione a 13,2-5 2.2.2. Le altre relazioni 2.3. L’azione di Gesù di lavare i piedi dei discepoli 2.3.1. Le posizioni degli interpreti 2.3.2. Alcuni esempi dalla Scrittura 2.3.3. Aspetti strutturali 2.3.4. L’azione di deporre le vesti (tòqhsin taè i|maétia) 2.3.5. L’azione di versare acqua nel catino (baéllei u$dwr ei\v toèn nipth%ra) 2.3.6. Il testo di Ez 36 2.4. L’azione di Gesù di asciugare con l'asciugatoio di cui è cinto (e\kmaéssein t§% lentò§ §// h&n diezwsmeénov) 2.5. Il valore simbolico del leéntion e del toèn nipth%ra 2.5.1. Il diverso dinamismo dei due elementi 2.5.2. Il lentòon 2.5.3. Il senso dell’immagine della tunica 2.5.4. Il toèn nipth%ra 2.6. L’azione di asciugare 3. Il termine del cammino 3.1. Gesù termine del cammino 3.2. Il Padre ultimo termine del cammino 4. Conclusione 4.1. L’orientamento dei discepoli (ei\v teélov) 4.2. L’opera di Gesù (ei\v teélov h\gaéphsen) 4.3. L’opera di Gesù (a\gaphésav)

417 420 420 421 423 425 428 432 433 434 439 440 440 444

L’a\gaéph E LA e\ntolhé NEL VANGELO DI GIOVANNI 1. La e\ntolhé nel vangelo di Giovanni 1.1. Il sostantivo e\ntolhé 1.1.1. I testi della prima parte 1.1.2. I testi della seconda parte 1.2. Il verbo e\nteéllomai 2. La relazione tra la e\ntolhé e la terminologia dell’amore 2.1. La terminologia dell’amore 2.2. I testi con relazione all’e\ntolhé 2.2.1. Il testo di 10,17

445 445 445 448 449 450 450 451 451

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375 377 377 378 380 385 385 387 391 391 399 402 403 406 412

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Indice 2.2.2. Il testo di 13,34 2.3. Il testo di 14,15-24.31 2.3.1. I testi riguardanti i discepoli 2.3.2. Relazione specifica tra il primo e il secondo testo 2.3.3. Relazione specifica tra il terzo e il quarto testo 2.3.4. Relazione tra le quattro conseguenze o risposte 2.3.5. L’esempio di Gesù (vv. 30-31) 2.4. Il testo di 15,9-10 2.4.1. Struttura letteraria di 15,9-10 2.4.2. Il testo di 15,9ab 2.4.3. Il testo di 15,9c 2.4.4. Il testo di 15,10 2.4.5. Relazione tra i due dinamismi 2.5. Il testo di 15,12-17 2.5.1. Struttura del testo 2.5.2. Le relazioni di 15,12-17 2.6. Osservazioni conclusive

759 453 463 464 466 468 469 470 471 472 473 474 475 477 478 478 481 482

IL COMANDAMENTO DI GESÙ AI DISCEPOLI NEGLI SCRITTI GIOVANNEI 1. Il comandamento i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v 486 1.1. L’espressione nel vangelo di Giovanni 486 1.2. Confronto con i vangeli sinottici 487 1.3. L’espressione a\gapa%n a\llhélouv nel NT 489 1.4. Il pronome di reciprocità a\llhélwn 491 2. Il comandamento dell’ a\gapa%n a\llhélouv nella prima lettera di giovanni 496 2.1. Il termine e\ntolhé 497 2.2. Il contenuto della e\ntolhé 500 2.3. Il fondamento della e\ntolhé nella prospettiva della prima lettera di Giovanni 502 3. Il comandamento dell’a\gapa%n a\llhélouv nel quarto vangelo 510 3.1. Valutazione degli interpreti 510 3.2. Il testo di 13,34-35 513 3.3. Gli elementi del v. 34 514 3.3.1. L’aggettivo kainhé 515 3.3.2. La particella comparativa kaqwév 518 3.3.3. La relazione a 13,12-20 524 Excursus su u|poédeigma 525 3.3.4. Le azioni di Gesù 530 3.3.5. L’azione di amore di Gesù verso i discepoli 532 3.4. La e\ntolhè kainhé 535 3.4.1. Valutazioni degli interpreti 535 3.4.2. La nostra riflessione 542

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Indice 3.5. Relazione al contesto di 13,31-35 3.5.1. Le parole ai giudei 3.5.2. L’espressione kaì u|m_n leégw a"rti 3.6. Altri passaggi evangelici

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parte terza

IL DISCEPOLO DI GESÙ L’UTILIZZAZIONE DEL CAP. 24 DEL SIRACIDE NEL VANGELO DI GIOVANNI 1. Sir 24,3 e il vangelo di Giovanni 1.1. Confronto con Gv 8,42 1.2. Confronto con Gv 13,3 1.3. Confronto con Gv 16,27-28 1.3.1. Il v. 27 1.3.2. Il v. 28 1.3.3. Relazione tra il v. 27 e il v. 28 1.4. Il testo di 17,8 1.5. Il dinamismo ascendente 1.6. Il testo di Is 55,10-11 2. Il testo di Sir 24,8 1 e il vangelo di Giovanni 2.1. Il comando (e\neteòlato) 2.2. Il verbo kataskhénwson 2.3. Conclusione 3. Sir 24,17 e il vangelo di Giovanni 3.1. Posizioni degli interpreti 3.2. I testi del Siracide e di Giovanni 3.3. Confronto tra Sir 24,17 e Gv 15,1-8 3.4. La metafora della vite nell’AT 4. Riflessioni conclusive

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PIETRO E IL DISCEPOLO DAL GETSEMANI ALLA CASA DEL SACERDOTE (18,15-16) I. Le posizioni degli interpreti 1.1. Il problema dell’identità dell’“altro discepolo (a"llov maqhthév)” 1.2. Lo scopo della menzione del discepolo 1.3. La conoscenza del discepolo da parte del sacerdote 1.4. Osservazioni riassuntive 2. Confronto con i vangeli sinottici 3. L’altro discepolo 3.1. Struttura letteraria

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3.2. L’espressione h&n gnwstoèv t§% a\rciere_ 3.3. L’espressione kaì suneish%lqen t§% }Ihsou% ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv 3.4. La vicenda del cieco nato (cap. 9) 4. La vicenda di Pietro in 18,15-25 5. Relazione di Gv 18,15-16 a Gv 19,25-27 5.1. Identità del discepolo 5.2. Il cammino del discepolo

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IL DISCEPOLO E LA RICERCA DEL TRADITORE (13,22-25) 1. La struttura di Gv 13,22-26a 2. Le osservazioni degli interpreti 2.1. La disposizione a tavola 2.2. La posizione del discepolo e di Pietro 2.3. L’indole del testo di 13,22-26a 3. Le varie situazioni 3.1. La situazione dei discepoli (v. 22) 3.1.1. L’espressione e"blepon ei\v a\llhélouv 3.1.2. Il participio a\porouémenoi 3.2. La posizione del discepolo (v. 23) 3.2.1. Confronto con il v. 22 3.2.2. L’espressione h&n a\nakeòmenov 3.2.3. l’espressione eàv e\k tw%n maqhtw%n au\tou%. 3.2.4. L’espressione e\n t§% koélp§ tou% }Ihsou% 3.2.5. L’espressione o$n h\gaépa o| ’Ihsou%v 3.2.6. Conclusione 3.3. L’azione di Pietro (v. 24) 3.3.1. Il verbo neuéw 3.3.2. Le parole di Pietro 3.4. La reazione del discepolo (v. 25) 3.4.1. L’orientamento verso Gesù 3.4.2. Le parole 4. Rilettura sintetica 4.1. La figura del traditore 4.2. La figura del discepolo

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IL DISCEPOLO CHE GESÙ AMAVA 1. La figura del discepolo 1.1. Il discepolo in 8,30-31 e a 13,35 1.2. I testi del “discepolo che Gesù amava” 1.2.1. Il testo di 13,21-26 1.2.2. Il testo di 19,26 1.2.3. Il testo di 21,20-24

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1.3. Conclusione 2. L’amore di Gesù verso il discepolo 2.1. I testi con il verbo a\gapaéw 2.1.1. Il testo di 14,21-24. 2.1.2. Il testo di 14,21 2.1.3. L’osservanza della e\ntolhé 2.1.4. Il discepolo che Gesù amava 2.1.5. Il testo di 11,5 2.2. I testi con il verbo fileéw 2.2.1. I termini 2.2.2. Relazione per il verbo fileéw 2.2.3. Relazione per il termine fòlov 2.2.4. Rilettura sintetica dei due testi

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BIBLIOGRAFIA

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