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SYNAXIS IN DILECTIONE MEA
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IN DILECTIONE MEA
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QUADERNI DI SYNAXIS
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Attilio Gangemi
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Quadrimestrale dello Studio Teologico S. Paolo Catania
Attilio Gangemi
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NUMERO SPECIALE 4
EDIZIONI GRAFISER TROINA
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
QUADERNI DI SYNAXIS NUMERO SPECIALE 4
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Attilio Gangemi
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STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA 2015
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In copertina: Getsemani, Gerusalemme
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PRESENTAZIONE
La raccolta di saggi pubblicata da Attilio Gangemi in questo volume è esemplificativa di un percorso di ricerca e di docenza snodatosi nel corso di quarantadue anni. Due sono, senza alcun dubbio, le note prioritarie della sua attività: il servizio alla Chiesa, in un contesto particolare, quello dello Studio Teologico S. Paolo; la coscienza di vivere una peculiare forma del ministero sacerdotale, quello della trasmissione dell’amore alla Scrittura, da lui anzitutto acquisita proprio alla scuola della Scrittura. Alla Scrittura Gangemi ha dedicato tutte le sue energie, con gioia e passione, con una concentrazione che lo ha portato a privilegiarla su qualsiasi altro interesse. Il suo metodo di indagine biblica, con una connotazione di originalità segnata dalla sottomissione al testo, e per esso alla pregnanza del messaggio che trasmette, solo ad uno sguardo superficiale può lasciare adito a ritenerlo autonomo. È sufficiente scorrere le centinaia di pagine delle sue pubblicazioni per ritrovare nel loro apparato critico un vasto riferimento agli studi biblici italiani ed esteri, con i quali Gangemi entra in dialogo con il rigore della scientificità. Il rigore del suo metodo, inoltre, è stato sviluppato nel silenzio e nella rigida disciplina dello studio, ed egli si è tenuto lontano da ogni forma di ribalta e di pubblicità. La sua speciale attenzione si è concentrata sul Quarto Vangelo e sull’Apocalisse, passando per le lettere di Giovanni. L’evento Gesù di Nazareth registrato in tali testi, con tutta la forza dell’esperienza della fede nel Risorto da parte della comunità cristiana, nel cui contesto maturarono quei testi, è stato da Gangemi sviscerato in molte delle miriadi delle valenze teologiche
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Presentazione
ed esperienziali in esse contenute. La sua esegesi riconsegna una profondità di significati delle parole umane dell’evento della Parola in grado di fondare e alimentare la vita spirituale del singolo battezzato, come delle variegate forme dell’esperienza di fede in Gesù il Signore, e della stessa riflessione teologica. Una menzione particolare meritano i suoi quattro volumi in cinque tomi su I racconti post-pasquali nel vangelo di Giovanni. È auspicabile che, secondo il suo progetto, integri lo studio su quella narrazione con i progettati sette volumi sui racconti della passione sempre nel testo giovanneo. Così come i primi, certamente anche questi accompagnerebbero il cammino di presbiteri e laici, oltre che di molte comunità ecclesiali. Del suo diuturno ruminare i testi biblici hanno usufruito in primo luogo gli studenti dello Studio Teologico S. Paolo. Ad esso Gangemi è sempre rimasto fedele, pur avendo ricevuto sollecitazioni ad accettare proposte sicuramente allettanti da altre specialistiche e ben più note e prestigiose istituzioni accademiche. Fin dall’inizio della sua docenza, la sua presenza fisica nella Biblioteca dello Studio, come nella Sala dei Professori, per gli studenti è divenuta un sicuro punto di riferimento. Alle sue lezioni ha dato una chiara impronta didascalica, così da permettere a ciascun studente di compiere un percorso di studio commisurato alle proprie capacità e pervenire ad un risultato finale carico di personale significatività. Generazioni di alunni sono stati accompagnati ad apprendere un metodo di studio del testo biblico ma, in special modo, a porsi di fronte ad esso in modo scientifico e, al tempo stesso però, riverente, per balbettare con i limiti delle parole umane la bellezza e la potenza dell’incommensurabile ricchezza della Parola di Dio. In una modalità speciale ne abbiamo potuto usufruire quanti lo abbiamo avuto maestro personale e diretto avendolo scelto come relatore della tesi di Baccalaureato o di Licenza. L’insieme di queste tesi costituisce, oggi, un corpus eccezionale, per quantità di testi e per qualità dello sviluppo del tema trattato. La disponibilità di tempo, largamente profusa nel venire incontro agli studenti, e la relazione personale dal sapore pastorale e spirituale instauratasi nella fase redazionale della tesi, ha segnato e continua a segnare il ministero di molti presbiteri, così come la vita professionale, familiare e l’impegno ecclesiale di laici e laiche. Personalmente ho avuto il privilegio e il singolare dono di essergli stato alunno, sia per i corsi istituzionali che per la stesura della tesi di
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Presentazione
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Baccalaureato, in seguito di essergli stato collega nel corpo docente del S. Paolo e poi di averne ricevuto collaborazione e preziosi consigli nei quattro mandati della presidenza dello Studio. La gratitudine mia, di alunni e colleghi, si muti in invocazione allo Spirito perché continui a concedere ad Attilio abbondanza di sapienza e di intelligenza, per proseguire a consegnare alla Chiesa ulteriori opportunità di comprensione e di amore alla Scrittura. La sua intensa e diuturna attività di ricerca e di docenza sembra potersi riassumere nella prospettiva a cui è sollecitato il discepolo: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,10). Catania, 27 dicembre 2014, festa liturgica di San Giovanni Evangelista Mons. Prof. Gaetano Zito Preside emerito
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PREMESSA
Con questa “miscellanea” concludo il mio servizio, reso per 42 anni, come docente ordinario del NT, allo Studio Teologico “San Paolo” di Catania. Per questo dedico gli studi qui contenuti alle Sante chiese di questo Studio: Catania, Acireale, Caltagirone, Nicosia, Noto, Siracusa. Dedico ancora questi studi ai presidi che si sono succeduti in questi anni: a P. Reginaldo Cambareri O.P. già tornato alla casa del Padre, a Mons. Salvatore Consoli, a Mons. Gaetano Zito, a Mons. Maurizio Aliotta, attualmente in carica. Inoltre dedico ai Colleghi, docenti presso lo stesso Studio, e, altresì a tutti gli alunni, seminaristi e laici, ragazzi e ragazze, che si sono avvicendati in questi anni. Molti di essi da tempo collaborano, come presbiteri e diaconi, nelle varie Chiese, altri vivono con gioia la loro fedeltà coniugale, altri servono il Signore nella consacrazione religiosa, altri, infine, non numerosi, hanno già lasciato questo mondo e vivono nella gioiosa intimità con Dio. Tuttavia, benché con la qualifica accademica di docente emerito, continua ancora la mia collaborazione presso lo stesso Studio Teologico di Catania. Essa continuerà ancora fino a quando il Signore vorrà e fino a quando lo Studio avrà bisogno della mia collaborazione. Ho intitolato questa miscellanea “IN DILECTIONE MEA”; lo studio e l’insegnamento di tutti questi anni mi ha aiutato, infatti, a crescere e rimanere nell’amore di Gesù: quell’amore che si è fatto dono e chiede a tutti di concretizzarsi e manifestarsi nel servizio ai fratelli.
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Premessa
Gli studi contenuti in questa miscellanea sono, quasi tutti inediti; solo uno è stato già pubblicato nel passato, ma adesso è qui ripreso in maniera più sintetica e con anche qualche lieve precisazione. Tutti gli studi qui proposti, tredici in tutto, convergono verso tre unità tematiche: Il Rifiuto di Gesù, L’evento dell’a\gaépé h, Il discepolo di Gesù. Il piano dell’opera è il seguente: Il Rifiuto di Gesù 1. Il processo di Gesù davanti al sinedrio e il vangelo di Giovanni, 2. Dialogo tra Gesù ed Anna (Gv 18,19-24), 3. I tre rinnegamenti di Pietro nel Vangelo di Giovanni, L’evento dell’a\gaépé h 4. La presenza del Deuteronomio nel Vangelo di Giovanni, 5. La dimensione dell’amore nel Vangelo di Giovanni, 6. L’amore del Padre verso il Figlio nel Vangelo di Giovanni (Gv 15,9), 7. L’amore di Gesù verso i discepoli (Gv 13,1-5), 8. L’a\gaéph e la e\ntolhé nel Vangelo di Giovanni, 9. Il comandamento di Gesù ai discepoli negli scritti giovannei, Il discepolo di Gesù 10. L’utilizzazione del cap. 24 del Siracide nel Vangelo di Giovanni, 11. Pietro e il discepolo dal Getsemani al Calvario (18,15-16), 12. Il discepolo e la ricerca del traditore (13,22-25), 13. Il discepolo che Gesù amava Tutti questi studi, apparentemente eterogenei, in realtà presentano due caratteristiche. Anzitutto riguardano tutti il vangelo di Giovanni, vangelo definito, a ragione, il “vangelo dell’amore” e che, in questi anni, è stato ed è tuttora l’ambito privilegiato del mio studio e della mia ricerca. Inoltre, più o meno direttamente, essi mirano a delineare la figura del discepolo di Gesù, che diventa così lo sfondo unificante di tutti. Spero tanto che questi studi possano, in qualche modo, aiutare anche altri a riscoprire la dimensione del vero discepolo di Gesù, per “rimanere” anch’essi, mediante l’osservanza del comandamento dell’amore vicende-
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Premessa
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vole, “nel suo amore (Gv 15,10)”, nell’amore cioè di Gesù e, attraverso di esso, nell’amore del Padre. Sento il dovere, infine, di esprimere dei ringraziamenti. Anzitutto al Signore Dio, dal quale riceviamo ogni dono. Inoltre a Mons. Giuseppe Costanzo, arcivescovo emerito di Siracusa, che, giovane professore, fin dal lontano 1962, mi ha aperto al grande oceano delle Scritture; ai diversi vescovi, succeduti nella S. Chiesa di Acireale, che hanno favorito e sostenuto il mio servizio di studio e di insegnamento; a Mons. Gaetano Zito, preside emerito, per la sua affettuosa e lusinghiera presentazione di questa miscellanea; a don Francesco Aleo, docente di Patrologia, per averne guidato la pubblicazione; non ultimo al Dott. Ivano Mistretta per avere, con molta precisione e competenza, redatto il testo. L’ulivo in copertina si trova nel giardino attorno all’attuale chiesa del Getsemani in Gerusalemme. Ho scelto la sua immagine perché il luogo dove esso è piantato ha assistito ad un grande evento, tragico e gioioso insieme, spesso occultato dagli uomini; un evento nel quale il peccato umano è stata orientato alla realizzazione di un grande disegno di amore: la loro stessa redenzione. Attilio Gangemi
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parte prima
IL RIFIUTO DI GESÙ
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IL PROCESSO DI GESÙ DAVANTI AL SINEDRIO E IL VANGELO DI GIOVANNI
È noto come nella sua narrazione della passione di Gesù il quarto evangelista omette vistosamente due parti che rivestono una certa importanza nella narrazione dei vangeli sinottici: la preghiera di Gesù al Getsemani e il processo di Gesù davanti al Sinedrio. Al contrario, oltre più brevi episodi, egli aggiunge una parte più ampia di cui i vangeli sinottici non dicono nulla e che egli inserisce nel contesto dei tre rinnegamenti di Pietro, tra il primo e il secondo: il processo-dialogo tra Gesù e un certo sacerdote Anna o Anania o Anano. È spontanea perciò la domanda: perché il quarto evangelista omise questi episodi? Una risposta potrebbe essere il fatto che egli non li conosceva. La domanda quindi, che più a monte si pone, è se il quarto evangelista conosceva o meno questi episodi. Il dilemma allora è il seguente: il quarto evangelista conosceva o non conosceva questi episodi? Se non li conosceva, la domanda ha già trovato una sua risposta; se invece li conosceva, la domanda che si pone allora è la seguente: perché li omise. A riguardo della preghiera al Getsemani, abbiamo già osservato, in uno studio precedente, che egli la conosceva, ma che l’avrebbe smembrata e inserito i vari elementi in particolari contesti più idonei al suo scopo. La stessa cosa, come cercheremo di mostrare, in questo studio, si può dire del processo davanti al Sinedrio. Diversi elementi suggeriscono che egli lo conosceva; analogamente avrebbe smembrato i vari elementi, li avrebbe reinterpretati e li avrebbe inseriti in contesti secondo la sua prospettiva più confacenti.
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Articoliamo il presente studio nei seguenti punti: 1. Il processo davanti al sinedrio nei vangeli sinottici; 2. Il tempio distrutto e ricostruito; 3. I testi del cap. 5; 4. I testi del cap. 10; 5. Il Consiglio di Caifa in Gv 11,47-53; 1. Il processo davanti al sinedrio nei vangeli sinottici Secondo i vangeli sinottici, dopo la cattura al Getsemani, Gesù subì un processo davanti al Sinedrio, dal quale uscì carico di una sentenza di morte. 1.1. Il racconto dei vangeli Sinottici Notiamo però una differenza tra Matteo e Marco da una parte, e Luca dall’altra. Secondo Matteo e Marco1 Gesù fu condotto dal sommo sacerdote dove convennero i sinedriti, sacerdoti, anziani e scribi2, e si celebrò il processo, evidentemente, di notte. Notiamo però una peculiarità, che può essere significativa, tra il primo e il secondo evangelista. Marco menziona il sommo sacerdote (toèn a\rciereéa) ma non ne indica il nome: sia l’espressione toèn a\rciereéa con l’articolo sia la menzione immediatamente seguente del raduno (suneércontai) del Sinedrio, lasciano però concludere che si tratta del sommo sacerdote in carica, al quale è demandata la presidenza del Sinedrio, Caifa. Marco insinua così che si tratta di Caifa, ma esplicitamente non lo dice. Lo precisa invece, e questa è la sua peculiarità, il primo evangelista, il quale esplicitamente narra che Gesù, catturato (krathésantev), fu condotto «da Caifa il sommo sacerdote (proèv Kai=aéfan toèn a\ciereéa)». Secondo Matteo e Marco perciò Gesù, catturato, fu condotto dal sommo
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Cfr. Mt. 26,57; Mc 14,53.
Matteo menziona soltanto scribi e anziani.
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Il processo di Gesù davanti al Sinedrio e il vangelo di Giovanni
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sacerdote, per Matteo Caifa, dove3 convennero (sunhécqhsan)4 i sinedriti e si celebrò il processo. I primi due evangelisti presentano il seguente schema narrativo uguale: 1. Gesù, catturato, fu condotto dal sacerdote, dove si radunò il Sinedrio; 2. Pietro seguì da lontano fino alla casa del sacerdote e sedette fuori con gli altri servi5. Luca invece6 narra che Gesù fu condotto «nella casa del sacerdote (ei\v thèn oi\kòan tou% a\rciereéwv)». Il terzo evangelista appare ancora più vago rispetto ai primi due. L’espressione tou% a\rciereéwv, senza alcuna precisazione, potrebbe suggerire che il sacerdote dove Gesù fu condotto sia stato Caifa. Tuttavia il termine oi\kòan, che rimanda piuttosto ad una abitazione privata più che al luogo del raduno di un organo ufficiale quale il Sinedrio, e, inoltre, il fatto che non è menzionato il raduno del Sinedrio che, secondo il terzo evangelista invece avverrà soltanto al mattino seguente (v. 66), pongono il dubbio, o almeno non permettono di dedurre di conseguenza, che il sacerdote dove Gesù, arrestato, fu condotto, fosse stato realmente Caifa. Un terzo elemento che, stando alla narrazione lucana, pone il dubbio se il sacerdote dove Gesù fu condotto sia stato realmente Caifa, emergerà probabilmente, subito dopo, dal confronto della successione degli eventi tra i primi due evangelisti e il terzo. Secondo Matteo e Marco, la successione degli eventi, dalla cattura al Getsemani fino al processo davanti a Pilato, è la seguente: 1. Cattura e la conduzione di Gesù dal sacerdote (Matteo: Caifa) (Mt 26,57a; Mc 14,53a), 2. Raduno del Sinedrio (Mt 26,57b; Mc 14,53b), 3. Sequela di Pietro (Mt 26,58; Mc 14,54), 3 Matteo è ancora più esplicito: usa l’avverbio o$pou (dove), in casa di Caifa dove fu condotto Gesù. Marco invece usa la più generica particella kaò (e), ma lasciando ugualmente intendere che i sinedriti si radunarono presso il sacerdote dove su condotto Gesù. Dobbiamo concludere che la fonte di Matteo e Marco, benché fosse orientata su Caifa, lasciava però qualche margine di incertezza, che Matteo poi eliminò. 4
Marco usa il verbo all’indicativo presente: suneércontai.
Secondo Matteo per vedere come la vicenda si sarebbe conclusa (i\de_n toè teélov); Marco nota soltanto che si scaldava al fuoco (qermainoémenov proèv toè fw%v). 5
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Cfr. Lc 22,54.
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4. Processo davanti al Sinedrio (Mt 26,59-66; Mc 14,55-64), 5. Scherni (Mt 26,67-68; Mc 14,65), 6. Rinnegamenti e ravvedimento di Pietro (Mt 26,69-75; Mc 14,66-72), Secondo Luca, la successione degli eventi, dalla cattura al processo davanti a Pilato, è la seguente: 1. Cattura e la conduzione di Gesù nella casa del sacerdote (Lc 22,54a), 2. La sequela di Pietro (Lc 22,54b-55), 3. Rinnegamenti e ravvedimento di Pietro (Lc 22, 56-62), 4. Scherni (Lc 22,63-65), 5. Raduno del Sinedrio (Lc 22,66), 6. Processo davanti al Sinedrio (Lc 22,66-71), Emergono delle differenze importanti tra la narrazione di Matteo e Marco e quella di Luca. In Matteo e Marco i rinnegamenti di Pietro e gli scherni sono narrati prima del processo davanti al Sinedrio e, nell’ordine, prima gli scherni e poi i rinnegamenti di Pietro; in Luca invece sono narrati prima del processo e in ordine inverso: prima i rinnegamenti e poi gli scherni. Le differenze più importanti appaiono invece nelle due precisazioni, introdotte dal terzo evangelista entrambe nel v. 66: anzitutto che il sinedrio si radunò di giorno: «quando divenne giorno (w|v e\geéneto h|meéra)»: dunque il Sinedrio si radunò di giorno e nulla in Luca lascia pensare che sia già avvenuto un raduno di notte. Inoltre è importante l’espressione: «e lo condussero nel loro Sinedrio (kaì a\phégagon au\toèn ei\v toè suneédrion au\tw%n)». Luca così insinua una distinzione di luoghi. Secondo la narrazione lucana, Gesù fu condotto nella casa privata (ei\v thèn oi\kòan) del sacerdote, dove trascorse la notte, dove fu oggetto degli scherni e dei giochi crudeli delle persone che lo custodivano (oi| a"n" drev oi| suneécontev au\toén), e dove avvennero i tre rinnegamenti di Pietro. Al mattino poi si radunò il Sinedrio; Gesù vi fu condotto ed avvenne quel processo che, secondo Matteo e Marco, sarebbe avvenuto subito dopo la cattura. Luca così evita la difficoltà che non si poteva tenere un processo durante la notte. Secondo Luca, infatti, il processo non avvenne di notte, bensì di giorno. Luca così distingue due luoghi: la casa e il luogo dove si radunò il Sinedrio e dove fu condotto Gesù; come pure distingue due tempi: il tempo
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dalla cattura al mattino seguente, e il tempo del mattino. Emerge la domanda: distingue anche i personaggi, il sacerdote cioè nella cui casa Gesù fu condotto e quello che presiedeva il Sinedrio? In questo senso Luca appare assai incerto: lascia aperto il problema, forse anche influenzato dalla tradizione di Matteo e Marco che non distinguono. In ogni caso, nel contesto della narrazione della passione Luca non menzionerà mai Caifa7 e, dopo 22,54, non userà mai più il termine a\rciereuév al singolare, ma sempre ai plurale (oi| a\rciere_v)8. 1.2. Il racconto di Giovanni In Giovanni la cattura di Gesù è descritta in maniera più ampia. Troviamo infatti tre soggetti: la coorte (h| spe_ra), il tribuno (o| cilòarcov), i servi dei giudei (oi| u|phreétai tw%n I\ oudaòwn). Essi sono soggetti di tre verbi: “presero (suneélabon)”, “legarono (e"dhsan), “condussero (h"gagon)”. Notiamo un decrescendo negli oggetti: il primo verbo ha un oggetto nominale (toèn I\ hsou%n), il secondo verbo ha un oggetto pronominale (au\toén); il terzo verbo è senza oggetto, ma è seguito da un complemento di moto a luogo (proèv A " nnan prw%ton), Otteniamo il seguente schema: suneélabon toèn I\ hsou%n (presero Gesù), e"dhsan au\toén (lo legarono), h"gagon proèv A " nnan prw%ton (lo condussero da Anna prima) Si direbbe che Gesù vada progressivamente scomparendo, per annullarsi sempre più nella figura di Anna. Sia il primo verbo (suneélabon) come anche il terzo (h"gagon) richiamano la narrazione lucana, dove leggiamo il participio aoristo sullaboéntev. Possiamo stabilire il seguente parallelismo: Luca Giovanni: sullaboéntev suneélabon h"gagon […] h"gagon
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Lo menziona, assieme ad Anna, in Lc 3,2. Cfr. Lc 22,66; 23,4.10.13; 24,20.
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La terza espressione, h"gagon proèv "Annan prw%ton, richiama sia Matteo che Marco; possiamo infatti stabilire tra i tre evangelisti il seguente parallelismo: Matteo Marco Giovanni a\phégagon a\phégagon h"gagon proèv proèv proèv Kai=af é an toèn a\rciereéa toèn a\rciereéa A " nnan prw%ton
Questo confronto è molto importante. Esso infatti, mentre da una parte comincia a farci pensare che il quarto evangelista conobbe la tradizione sinottica, dall’altra ci informa che quel sacerdote, che, in Marco e Luca, resta innominato, e che, per Matteo, è Caifa, in realtà, secondo il quarto evangelista ha un nome preciso: Anna9. Possiamo allora concludere che i due evangelisti, Luca e Giovanni, si completano a vicenda. In Gv 18,24 leggiamo che Anna mandò Gesù legato a Caifa, evidentemente per essere processato davanti al Sinedrio. Entrambi gli evangelisti concordano nel fatto che la vicenda o il processo di Gesù davanti ai giudei, si svolse in due momenti, in casa di un sacerdote, di cui Giovanni ci indica anche il nome, Anna, e poi davanti al Sinedrio, nella forma avvenuta al mattino secondo Luca e anticipata subito dopo la cattura, di notte, secondo da Matteo e Marco. Giovanni segue lo stesso schema di fondo dei vangeli sinottici. Menziona anzitutto la cattura (vv. 12-13) con particolare sottolineatura dei soggetti e delle azioni; descrive poi la sequela di Pietro (vv. 15-16), relaziona ad un’altra figura, “un altro discepolo (a"llov maqhthév)”, narrando anche la vicenda di quest’ultimo e il modo come Pietro poté entrare nella casa del sacerdote; riferisce poi gli eventi accaduti nella casa di Anna (vv. 17-24), compresi i rinnegamenti di Pietro, fino all’invio a Caifa. Identificando con Anna l’anonimo sacerdote lucano dove Gesù fu condotto, e narrando che Anna lo inviò a Caifa, il quarto evangelista evita due cose: evita anzitutto, tranne che nei vv. 19-23, di definire Anna come
9 Possiamo anche pensare che il quarto evangelista abbia conosciuto ed abbia anche voluto chiarire l’incertezza dei sinottici.
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sacerdote, ma lo relaziona a Caifa10 a cui riferisce tale titolo11; evita inoltre di indicare il tempo quando Gesù fu condotto da Caifa12. Mettendo insieme Giovanni con i sinottici, soprattutto con Luca, possiamo dire che il processo di Gesù davanti ai giudei si svolse in due momenti: prima davanti ad Anna, nella sua casa, dove Gesù trascorse la notte in balia dei servi, e poi davanti al Sinedrio, presieduto da Caifa, nel luogo dove esso si radunò. Emerge però una notevole differenza tra i sinottici, soprattutto con Luca e Giovanni. Luca ambienta nella casa di Anna gli scherni atroci di quelli che custodivano Gesù (oi| suneécontev)13 e i tre rinnegamenti di Pietro, senza dire nulla di un eventuale incontro di Gesù con il sacerdote; poi ambienta al mattino, in diverso luogo dove condussero (a\phégagon)14 La descrizione giovannea, a riguardo, è molto articolata. Possiamo notare anzitutto una relazione tra il v. 13 e il v. 24, come appare dal seguente schema: v. 13: kaì h"gagon proèv A " nnan prw%ton 10
h&n gaèr penqeroèv tou% Kai=af é a o£v h&n a\rciereuèv tou% e\niautou% e\keònou v. 24: a\peésteilen ou&n au\toèn o| A " nnav dedemeénov proèv Kai=af é an toèn a\rciereéa
11 La relazione di Anna a Caifa è stabilita da un rapporto di parentela: Anna è suocero (penqeroév) di Caifa. Nei vv. 13b-14 l’evangelista propone però uno sviluppo, riguardante Caifa, in quattro elementi strutturati in maniera alternata: h&n gaèr penqeroèv tou% Kai=af é a
o£v h&n a\rciereuèv tou% e\niautou% e\keònou h&n deè Kai=af é av o| sumbouleuésav […].
A Caifa l’evangelista attribuisce due prerogative: una condizione personale ed una azione. Personalmente era sacerdote di quell’anno; in questa sua veste egli aveva consigliato (o| sumbouleuésav) che conviene (sumfeérei) che uno solo (e$na) muoia per il popolo e non perisca tutta la gente.
Matteo e Marco (Mt 27,1 e Mc 15,1) assegnano il tempo del mattino al secondo raduno del Sinedrio (Matteo: prwì=av deè genomeénhv; Marco: prwò=); Luca lo riferisce al primo raduno del Sinedrio (Lc 22,66): «Come fu giorno (w|v e\geéneto h|meéra)»; Giovanni lo riferisce al processo davanti a Pilato che concepisce come una “excalation” della luce, dall’alba (18,28: era mattino [h&n deè prwò=]) fino all’ora sesta (19,14: ora era circa sesta [w$rah&n w|v e$kth]). 12
13 14
Cfr. Lc 22,63. Cfr. Lc 22,66.
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Gesù, il processo ufficiale, davanti al Sinedrio: quel processo che Matteo e Marco narrano subito dopo la cattura, prima degli scherni e dei rinnegamenti di Pietro. Giovanni invece riferisce un dialogo tra Gesù ed Anna15, durante il quale, in seguito alla risposta di Gesù, un servo si sentì autorizzato a dare uno schiaffo a Gesù16. Di questo dialogo la tradizione sinottica non ha trasmesso nulla: non si ha infatti alcun accenno nei racconti attuali; forse di esso i sinottici non seppero nulla, ma non passò inosservato al testimone oculare, il quale forse poté essere anche presente. Al contrario, del processo davanti al Sinedrio il quarto evangelista non dice nulla. A differenza però dei vangeli sinottici che probabilmente ignorarono il dialogo tra Gesù ed Anna, diversi indizi17, che considereremo nel corso di questo lavoro, rivelano che il quarto evangelista non ignorò il processo davanti al Sinedrio, ma, come già per i racconti della preghiera al Getsemani18, lo smembrò nei vari elementi che inserì nel corso della sua narrazione evangelica. Né si può dire che il dialogo tra Gesù ed Anna19 sia la versione giovannea del processo davanti al Sinedrio: le due realtà appaiono distinte ed indipendenti. Né nel dialogo giovanneo tra Gesù ed Anna c’è alcun elemento che richiami il processo davanti al Sinedrio, né nei racconti sinottici c’è alcun elemento che richiami il dialogo giovanneo. Prima però di confrontare specificamente i vari elementi del vangelo di Giovanni con il processo di Gesù, narrato dai vangeli sinottici, riteniamo opportuno proporre, confrontata anche con i sinottici, una struttura del dialogo giovanneo tra Gesù ed Anna. La narrazione giovannea inizia prati15 16
Cfr. Gv 18,19-23. Cfr. Gv 18,22.
Già l’espressione di 18,24: «mandò dunque Lui (Gesù) Anna, legato, da Caifa il sacerdote», assai reticente, suggerisce che il quarto evangelista conosceva il processo davanti al sinedrio. 17
Cfr. A. Gangemi, La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni, in Synaxis 21 (2003) 215-281. 18
Non entriamo specificamente, in questo studio, nel dialogo tra Gesù ed Anna. Notiamo solo che appare più come un dialogo che come un vero processo, benché lo schiaffo del servo possa ricondursi ad una sentenza dopo un interrogatorio. 19
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camente con il v. 16b, dove leggiamo che il discepolo parlò con la portinaia ed introdusse Pietro. Possiamo proporre il seguente schema: (v. 17): leégei ou&n t§% Peétr§ h| paidòskh h| qurwroév, Mhè kaì suè (v. 18):
(vv. 19-24):
(v. 25a): (v. 25b):
e\k tw%n maqhtw%n eù tou% a\nqrwépou touétou; leégei e\ke_nov: ou\k ei\mò. ei|sthékeisan deè oi| dou%loi kaì oi| u|phreétai a\nqrakiaèn pepoihkoétev, o$ti yu%cov h&n, kaì e\qermaònonto: h&n deè kaì o| Peétrov met’au\tw%n e|stwèv kaì qermainoémenov, (v.19): o| ou&n a\rciereuèv h\rwéthsen toèn \Ihsou%n […] (v. 24): a\peésteilen ou&n au\toèn o| A " nnav dedemeénon proèv Kai=af é an a\rciereéa. h&n deè Sòmwn Peétrov e|stwèv kaì qermainoémenov. eùpon ou&n au\t§%: Mhè kaì suè e\k tw%n maqhtw%n au\tou% eù; h\rnhésato e\ke_nov kaì eùpen, Ou\k ei\mò.
Lo schema è chiaramente concentrico. Nei vv. 26-27 è narrato il terzo rinnegamento di Pietro, che segue non ad una domanda bensì ad una obiezione di un servo del sacerdote, il quale, di fronte alla persistente negazione di Pietro, gli obietta di averlo visto nell’orto con Gesù. Quel servo è stato testimone oculare di un fatto inoppugnabile: Pietro ha reciso l’orecchio e, per di più ad un suo parente. Il suo rinnegamento è ancora più paradossale, perché è sostenuto contro l’evidenza dei fatti. Tornando allo schema concentrico sopra proposto, il dialogo tra Gesù ed Anna è incluso direttamente tra due menzioni della posizione di Pietro: Pietro era al fuoco e si scaldava. Queste due indicazioni poi, a loro volta, sono incluse tra i primi due rinnegamenti di Pietro. Il racconto giovanneo si presenta ricco di significato. Esso però non è il diretto oggetto del nostro lavoro; prescindendo perciò dal dialogo peculiare giovanneo tra Gesù ed Anna, ci limitiamo soltanto a poche osservazioni, utili al nostro scopo.
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Anzitutto Giovanni concorda con i sinottici nell’indicare che Pietro, introdotto nella casa del sacerdote, prese posto con i servi20; concorda poi specificamente con Marco e Luca nel fatto che era stato acceso del fuoco e Pietro si scaldava. Giovanni sottolinea questo fatto ripetendolo due volte, nel v. 18 e nel v. 25a. Con i vangeli sinottici Giovanni concorda nel fatto stesso del rinnegamento e nel numero tre degli stessi rinnegamenti. Differisce però in diversi elementi, dei quali ne indichiamo soltanto tre: anzitutto Giovanni smembra i rinnegamenti introducendo tra il primo e il secondo l’indicazione della posizione di Pietro e il dialogo tra Gesù ed Anna; inoltre le prime due domande rivolte a Pietro riguardano il fatto se è discepolo; infine l’evangelista separa il terzo rinnegamento dai primi due ricollegandolo a diversa prospettiva tematica. 1.3. La sequenza degli eventi nel processo davanti al Sinedrio Consideriamo in questo paragrafo lo sviluppo strutturale tematico dei racconti del processo davanti al Sinedrio nei vangeli sinottici: Mt 26,5768; Mc 14,53-65; Lc 22,54-55.63-71. Già una prima lettura dei racconti dei tre evangelisti è sufficiente a cogliere due aspetti. Matteo e Marco anzitutto presentano uno sviluppo abbastanza parallelo, proponendo gli stessi episodi, Luca invece presenta uno sviluppo più autonomo, con delle trasposizioni, delle omissioni e anche con qualche aggiunta rispetto a Matteo e Marco. Inoltre, il racconto di Marco, pur procedendo parallelamente rispetto a quello di Matteo, appare talora più ampio, nella fraseologia, rispetto al primo evangelista. 1.3.1. La sequenza degli eventi in Matteo e Marco I primi due evangelisti sviluppano parallelamente il loro racconto in nove elementi: 20 Cfr. Mt 26,58 (e\kaéqhto metaè tw%n u|phretw%n); Mc 14,54 (sugkaqhémenov metaè tw%n u|phretw%n); Lc 22,55 (sugkaqisaéntwn e\kaéqhto).
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1. La cattura e la conduzione di Gesù (Mt 26,57; Mc 14,53)21; 2. La sequela di Pietro (Mt 26,58; Mc 14,54)22; Notiamo il seguente confronto tra i due evangelisti: Mt 26,57 Mc 14,53 21
oi| deè kaì a\phégagon krathésantev toèn }Ihsou%n toèn }Ihsou%n proèv a\phégagon toèn a\rciereéa proèv Kai=af é an kaì toèn a\rciereéa suneércontai o$pou paéntev oi| grammate_v oi| a\rciere_v kaì kaì oi| presbuéteroi oi| presbuéteroi sunhécqhsan kaì oi| grammate_v
Sostanzialmente i due racconti coincidono; si notano soltanto alcune differenze Matteo anzitutto sottolinea ancora, mediante il participio aoristo krathésantev (avendolo catturato), il fatto della cattura di Gesù; Marco omette questo participio. Inoltre entrambi presentano degli elementi identici, ma li introducono con diverso ordine, come appare dal seguente schema: Matteo Marco oi| deè […] kaì a\phégagon toèn }Ihsou%n toèn }Ihsou%n a\phégagon proèv proèv […] toèn a\rciereéa toèn a\rciereéa.
Ancora Marco lascia indeterminato il sacerdote; Matteo invece precisa che si tratta di Caifa. In Matteo poi il verbo suneércomai è posposto ai soggetti ed è formulato all’aoristo passivo (sunhécqhsan); in Marco invece precede i soggetti ed è formulato all’indicativo presente (suneércontai). Quanto poi ai soggetti stessi, Matteo menziona soltanto gli scribi e gli anziani; Marco menziona anche i sacerdoti. Inoltre il secondo evangelista introduce l’aggettivo paéntev, indicando così che il raduno del sinedrio è al completo. Infine i soggetti sono introdotti nei due evangelisti in maniera diversa. Matteo li introduce mediante l’avverbio di luogo o$pou (dove), indicando così che il sinedrio si radunò nella casa di Caifa. Marco invece introduce i soggetti mediante la congiunzione kaò (e), indicando così che si radunò il sinedrio in seguito alla venuta di Gesù, e anche a causa di quella venuta. L’elemento peculiare di Matteo è il nome “Caifa”; quello di Marco è la menzione del sinedrio al completo; per il resto, i due evangelisti procedono parallelamente coincidendo talora anche alla lettera. Notiamo il seguente confronto tra i due evangelisti: Mt 26,58 Mc 14,54 22
o| deè Peétrov
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kaì o| Peétrov
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3. La ricerca senza successo di una testimonianza (Mt 26,59-60a; 14,55-56)23; h\kolouéqei a\poè makroéqen au\t§% h\kolouéqhsen a\poè makroéqen au\t§% e$wv e$wv e"sw th%v au\lh%v ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv tou% a\rciereéwv kaì ei\selqwèn kaì e"sw e\kaéqhto h&n sugkaqhémenov metaè metaè tw%n u|phretw%n tw%n u|phretw%n i\de_n kaì toè teélov qermainoémenov proèv toè fw%v
La concordanza tra i due evangelisti è molto stretta. I primi quattro elementi presentano soltanto due differenze. Anzitutto Marco anticipa l’espressione a\poè makroéqen (da lontano) prima del verbo a\kolouqeéw. Il verbo a\kolouqeéw poi in Matteo è formulato all’imperfetto (h\kolouéqei), indicando così la continuità nel cammino; Marco invece usa l’aoristo, con valore completivo (h\kolouéqhsen), indicando così la totalità del cammino compiuto da Pietro dal Getsemani alla casa del sacerdote. Inoltre Matteo distingue, nel termine del cammino di Pietro, due momenti: il suo arrivo nel palazzo (e$wv th%v au\lh%v) e il suo ingresso all’interno (ei\selqwèn e"sw); Marco invece, mediante l’espressione e$wv e"sw ei\v thèn au\lhén (fin dentro nel cortile), introduce direttamente Pietro nel cortile del palazzo del sacerdote.Non pare che faccia molta differenza di senso l’imperfetto e\kaéqhto (sedeva) di Matteo e la perifrastica h&n sugkaqhémenov (era consedente) di Marco: entrambe le espressioni infatti descrivono una posizione continua di Pietro. I due evangelisti però divergono nello scopo che assegnano al fatto che Pietro sedeva coi i servi. Secondo Matteo Pietro sedeva “per vedere la fine”, l’epilogo cioè della vicenda di Gesù (i\de_n toè teélov)”; secondo Marco invece semplicemente Pietro si scaldava al fuoco (kaì qermainoémenov). Del fatto che Pietro si scaldava al fuoco Matteo non dice nulla. Stabiliamo un confronto tra i due evangelisti: Mt 26,59-60a Mc 14,55-56 oi| deè oi| deè 23
a\rciere_v a\rciere_v kaì toè suneédrion kaì o$lon o$lon toè suneédrion e\zhétoun e\zhétoun kataè tou%% }Ihsou% yeudomarturòan marturòan
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4. L’accusa relativa alle affermazioni a riguardo del tempio (Mt kataè tou%% }Ihsou% o$pwv ei\v au\toèn toè qanatw%sai qanatwéswsin au\toèn kaì kaì ou\k eu/ron ou\k eu$riskon pollw%n polloì gaèr proselqoéntwn e\yeudomartuéroun yeudomartuérwn kat’au\tou% kaì i"sai ai| marturòai ou\k h&san
La concordanza tematica tra i due evangelisti è totale. Essi concordano pure letterariamente in molti punti: presentano soltanto diverse mutazioni di ordine, facilmente constatabili nello schema sopra proposto. Notiamo tuttavia alcune peculiarità tra i due evangelisti. Anzitutto Matteo, dopo il verbo e\zhétoun, introduce il termine yeudomarturòan, mentre Marco usa soltanto il termine marturòan. Che la testimonianza resa fosse falsa, è indicato anche da Marco; usando però il termine yeudomarturòan dopo il verbo e\zhétoun, Matteo sembra voler dire che la testimonianza che i giudei cercavano era una testimonianza falsa, sapendo bene che non poteva essere resa alcuna testimonianza vera contro Gesù. Nello scopo poi per cui è cercata la testimonianza, i due evangelisti coincidono: avere un motivo per mettere a morte Gesù. Ciò indica che la decisione di uccidere Gesù era stata già presa: si cercava soltanto un appiglio per poter giustificare in qualche modo quella decisione. Dal punto di vista letterario, le due espressioni divergono: Matteo usa la costruzione con o$pwv e il congiuntivo (o$pwv au\ toèn qanatwéswsin) con valore finale; Marco invece, sempre con valore finale, preferisce la costruzione con ei\v e l’infinito (ei\v toè qanatw%sai). I due evangelisti concordano nel fatto che i sinedriti non trovavano questa testimonianza. Coincidono letterariamente anche nell’uso del verbo eu|ròskw, preceduto dall’espressione kaì ou\k. Matteo però usa il verbo all’aoristo: kaì ou\k eu/ron (non trovarono); Marco invece all’imperfetto: kaì ou\k eu$riskon (non trovavano). L’aoristo di Matteo ha valore completivo, quasi a dire che, nonostante la ricerca, alla fine non trovarono nulla. L’imperfetto di Marco sembra essere un imperfetto iterativo o di conato: quasi a dire che, nonostante che si ostinassero a cercare, di fatto non trovavano nulla. I due evangelisti inoltre concordano, dal punto di vista tematico, anche nel fatto che erano molti (polloò) quelli che si erano presentati a testimoniare il falso. Evidentemente le testimonianze, nonostante il numero elevato di quelli che testimoniavano, non reggevano. Né alcuna di esse poteva essere accettata: la falsità infatti non sarebbe passata inosservata. Marco aggiunge un’espressione che sembra contenere il motivo per cui quelle testimonianze si rivelavano false: «ma (queste) uguali (i"sai) non erano (ou\k h&san)». Nonostante alcune differenze, emerge tuttavia nei due evangelisti la concordanza di fondo, sia sul piano tematico come anche sul piano letterario.
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26,60b-61; Mc 14 57-59)24; 24 Anche su questo punto, almeno tematicamente, i due evangelisti concordano. Marco però presenta un racconto più articolato, ed anche, in alcuni punti, più precisato. Mt 26,60b-61 Mc 14,57-59
u$steron deè kaò tinev proselqoéntev a\nastaéntev duéo e\yeudomartuéroun eùpan: kat’au\tou% ou/tov leégontev e"fh, o$ti h|me_v h\kouésamen au\tou% leégontov duénamai o$ti e\gwè katalu%sai kataluésw toèn naoèn toèn naoèn tou%ton toèn ceiropoòhton tou% qeou% kaì kaì diaè triw%n diaè triw%n h|merw%n h|merw%n a"llon a\ceiropoòhton oi\kodomhésai oi\kodomhésw kaì ou\deé ou$twv i"sh h&n h| marturòa au\tw%n
Prescindendo dalle somiglianze, le differenze in Marco, rispetto al racconto di Matteo, sono di due tipi: le aggiunte e la diversa formulazione che introduce anche mutamenti sostanziali. Quanto alle aggiunte, esse sono soprattutto tre. Anzitutto, mentre in Matteo leggiamo la semplice espressione ou/tov e"fh (questi disse), in Marco troviamo l’espressione più ampliata h|me_v h\kouésamen au\tou% leégontov (non abbiamo udito costui dicente). In Marco l’affermazione appare più perentoria: i testimoni infatti si appellano alla loro diretta percezione. La formulazione di Matteo non impedisce di pensare che le parole di Gesù riferite possono essere state conosciute anche per sentito dire. Inoltre, e questa è la sua seconda aggiunta, Marco invece distingue tra “questo tempio fatto da mani umane (toèn naoèn tou%ton toèn ceiropoòhton)” e “un altro fatto non da mani umane (a"llon a\ceiropoòhton)”. Il primo sarà distrutto e il secondo ricostruito. Si tratta di due templi diversi. Matteo invece non sembra distinguere: per il primo evangelista la distruzione e la ricostruzione riguarda “il tempio di Dio (toèn naoèn tou% qeou%)”; possiamo dire che si tratti dello stesso tempio. In questo modo, sembra che la prospettiva nei due evangelisti sia diversa. A meno che Matteo, con l’espressione toèn naoèn tou% qeou% non pensi al corpo di Cristo, come in Gv 2,21, sembra che il primo evangelista voglia sottolineare o la
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5. L’intervento del sommo sacerdote e il silenzio di Gesù (Mt 26,6263a; Mc 14,60-61a)25; potenza di Gesù, o, cosa più probabile, la sua superiorità e il suo potere sullo stesso tempio di Dio. Marco invece sembra porre l’accento sui termini opposti ceiropoòhton (fatto da mani umane) e a\ceiropoòhton (non fatto da mani umane). Pare che il secondo evangelista voglia sottolineare che, con Gesù, si determina la fine di un ordine di indole terrena (fatto da mani umane) e l’inizio di un nuovo ordine non di indole terrena (non fatto da mani umane). La terza aggiunta di Marco riguarda l’espressione ou\deé ou$twv i"sh h&n h| marturòa au\tw%n (nemmeno così era uguale la loro testimonianza). Analoga espressione era stata già introdotta nel precedente v 56. Ancora una volta il secondo evangelista sembra voler sottolineare che la falsità emerge dal carattere contraddittorio delle testimonianze stesse. Quanto ai mutamenti, prescindendo da quelli più marginali di indole letteraria, ne indichiamo specificamente due. Anzitutto, mentre Marco non precisa il numero dei testimoni, i quali però sembrano essere diversi (tònev), Matteo invece precisa che si tratta di “due (duéo)”. In questo modo, il primo evangelista vorrebbe sottolineare la parvenza giuridica, il numero due, che caratterizza questa ulteriore testimonianza. La differenza maggiore tra i due evangelisti però sembra consistere nel fatto che Matteo usa il verbo duénamai (posso), che regge due infiniti (katalu%sai – oi\kodomh%sai). Ciò ancora conferma la prospettiva della potenza di Gesù o del suo potere sul tempio di Dio. Marco invece sostituisce mediante il pronome e\gwé (io) che regge due verbi al futuro (katalu%sw – oi\kodomh%sw). Il pronome e\ gwé è molto enfatico e, con esso, Gesù enfatizza la sua persona. Ciò sembra confermare la prospettiva, su indicata, di Gesù che pone fine ad un antico ordine di indole terrena e ne istaura un altro, di indole non terrena. Possiamo cogliere dallo schema sopra proposto anche le somiglianze e le differenze letterarie tre i due testi. Matteo usa il participio aoristo proselqoéntev (essendosi accostati), in Marco invece leggiamo il participio aoristo a\nastaéntev (essendosi alzati). Marco aggiunge l’espressione e\yeudomartuéroun kat’au\tou% leégontev (rendevano falsa testimonianza dicendo), che manca in Matteo: anche per questa seconda fase di testimonianza Marco precisa che si tratta di una falsa. Entrambi gli evangelisti menzionano il tempio (naoén), ma con le differenze sopra notate, ed entrambi hanno la stessa espressione diaè triw%n h|merw%n (in tre giorni). Entrambi gli evangelisti infine usano i due verbi kataluéw (distruggere) ed oi\kodomeéw (costruire), ma come abbiamo notato in diversa forma verbale. In Matteo entrambi sono al congiuntivo aoristo dipendenti dal verbo duénamai, il Marco entrambi sono al futuro, introdotti mediante il soggetto e\gwé. 25 Quasi a sostenere questa testimonianza, interviene il sommo sacerdote, che sollecita Gesù a rispondere, paventando anche tacitamente il fatto che la mancanza di difesa può confermare l’accusa. Mt 26,62-63a Mc 14,60-61a
kaì kaì a\nastaèv a\nastaèv o| a\rciereuèv o| a\rciereuèv ei\v meéson
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6. La domanda del Sommo sacerdote (Mt 26,63b; Mc 14,61b)26; e\phrwéthsen toèn }Ihsou%n eùpen leégwn: au\t§%: ou\deèn ou\k a\pokròn+; a\pokròn+ ou\deén; tò tò ou/toò sou ou/toò sou katamarturouésin; katamarturouésin; o| deè o| deè }Ihsou%v e\siwépa e\siwépa kaì ou\ a\pekrònato ou\deén
Anche in questo elemento i due evangelisti procedono parallelamente. Emerge tuttavia la tendenza di Marco a precisare dei particolari. Entrambi hanno la stessa espressione kaì a\nastaèv o| a\rciereuév (ed essendosi alzato il sacerdote); Marco però aggiunge l’espressione ei\v meéson (nel mezzo). Inoltre il secondo evangelista alla semplice espressione eùpen au\t§% (disse a lui) di Matteo sostituisce quella più precisa e\phrwéthsen toèn I\ hsou%n leégwn (interrogò Gesù dicendo). Per il resto, nelle parole del sacerdote i due evangelisti concordano quasi alla lettera. Possiamo notare, in entrambi, il pronome soué dopo il pronome ou/toi e prima del verbo katamarturou%sin. In questo modo il pronome soué riceve molta enfasi, quasi a sottolineare che quell’accusa è rivolta proprio contro Gesù e lui non può esimersi da una risposta. Al contrario, Gesù invece ostinatamente tace. In entrambi gli evangelisti l’espressione o| deè e\siwépa (egli taceva) è identica. Matteo però introduce il soggetto }Ihsou%v; Marco rimarca ancora il silenzio di Gesù mediante l’espressione kaì ou\k a\pekrònato ou\deén (e non rispose nulla). L’aoristo a\pekrònato di Marco, con valore completivo, vorrebbe forse sottolineare che il silenzio di Gesù, sul problema del tempio, è stato assoluto e definitivo. 26 La domanda del sacerdote, come vedremo, si legge, pur riferita ad altri soggetti, anche nel vangelo di Luca. Confrontiamo per ora soltanto Matteo e Marco. Mt 26,63b Mc 14,61b
kaì paélin o| a\rciereuèv o| a\rciereuèv eùpen e\phrwéta au\t§%: au\toèn e\xorkòzw se kaì leégei kataè au\t§% tou% qeou% tou% zw%ntov i$na
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7. La risposta di Gesù circa la sua identità e il suo futuro (Mt 26,64; Mc 14,62)27; h|m_n ei"p+v ei\ suè eù suè eù o| Cristoèv o| Cristoèv o| ui|ovè o| ui|ovè tou% qeou% tou% eu\loghtou%;
Stavolta è Matteo che propone degli ampliamenti. I due evangelisti concordano anzitutto nella precisa domanda di Caifa suè eù o| Cristoèv o| ui|oév («tu sei il Cristo, il figlio […]»), introdotta in Marco in forma diretta («tu sei»), e in Matteo in forma indiretta, oggetto del verbo ei"p+v, con valore condizionale («se tu sei»). Notiamo però una differenza: mentre Matteo scrive o| ui|oèv tou% qeou% (il figlio di Dio), in Marco leggiamo un’espressione più vicina all’uso rabbinico o| ui|oèv tou% eu\loghtou% (il figlio del Benedetto). La differenza maggiore tra i due evangelisti riguarda però la maniera con cui Caifa introduce la sua domanda. Marco usa l’imperfetto e\phrwéta (interrogava), indicando così che Caifa rivolse la sua domanda non una volta, ma ripetutamente. Secondo Matteo invece la domanda sembra essere stata rivolta una sola volta, come suggerisce l’aoristo eùpen (disse). Il primo evangelista fa precedere però la domanda da uno scongiuro molto solenne e\xorkòzw se kataè tou% qeou% zw%ntov (ti scongiuro per il Dio vivente), assente in Marco. Caifa chiede a Gesù una risposta sancita da giuramento: di fronte al Dio vivo, chiamato come testimone, Gesù non può mentire. Sembra che Caifa, come apparirà dalla sua reazione alle parole di Gesù, voglia estorcere una confessione dalla sua stessa bocca. Questa, garantita dal giuramento, costituirà un ottimo capo di accusa. Un altro ampliamento di Matteo, però di minore importanza, è l’espressione i$na h|m_n ei"p+v (che a noi dica). Caifa probabilmente, come appare dopo dalla sua reazione, non chiede a Gesù un’autorivelazione ma una pubblica confessione di colpevolezza. 27 La risposta di Gesù comprende due parti: la diretta risposta alla domanda di Caifa e il futuro del Figlio dell’uomo. La diretta risposta è molto breve. Sia in Matteo che in Marco essa comprende soltanto due parole. Mt 26,64a Mc 14,62a
leégei o| deè au\t§% }Ihsou%v o| }Ihsou%v: eùpen: suè e\gwè eùpav ei\mò.
Prescindendo dalla formula introduttiva, dove leggiamo, in Matteo, il verbo leégei e, in Marco, il verbo eùpen, ma dove, in entrambi, è espresso il soggetto o| }Ihsou%v, i due evangelisti concordano, tematicamente, soltanto nel fatto che Gesù risponde affermativamente alla domanda di Caifa. La formulazione letteraria però è diversa. Secondo Matteo, Gesù rispose: suè eùpav (tu hai detto). Caifa, nella sua domanda, ha pronunziato l’espressione “il
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8. L’accusa di bestemmia e la dichiarazione che Gesù è reo di morte (Mt 26,65-66; Mc 14,63-64)28; figlio di Dio”; Gesù dichiara che quello che Caifa ha detto è vero. Secondo Marco Gesù risponde con l’espressione e\gwé ei\mi (io sono). In questo modo egli risponde direttamente quasi con le stesse parole di Caifa. Quanto alla seconda parte, il futuro del Figlio dell’uomo, l’espressione, nei due evangelisti, è quasi identica: Mt 26,64b Mc 14,62b a\p’a"rti kaì o"yesqe o"yesqe toèn ui|on è toèn ui|on è tou% a\nqrwépou tou% a\nqrwépou kaqhémenon e\k dexiw%n e\k dexiw%n kaqhémenon th%v dunaémewv th%v dunaémewv kaì e\rcoémenon kaì e\rcoémenon e\pì metaè tw%n nefelw%n tw%n nefelw%n tou% ou\ranou% tou% ou\ranou%
Troviamo tra le due espressioni soltanto tre differenze che non sembrano nemmeno essere essenziali. La prima riguarda la formula con cui Gesù introduce le sue parole. In Matteo leggiamo l’espressione a\p’a"rti (da adesso); in Marco invece leggiamo soltanto la congiunzione kaò (e). L’espressione a\p’a"rti di Matteo conferisce una maggiore enfasi alle parole seguenti. Gesù sembra voler dire che, da quel momento, cioè in seguito a quel processo che si concluderà con una condanna, essi, i giudei, non avranno altra esperienza di lui se non quella di vederlo sedente alla destra di Dio e veniente sulle nubi del cielo. In Marco invece la congiunzione kaò sembra attribuire alle parole di Gesù il senso di conseguenza e di conferma della sua prerogativa di figlio del Benedetto. Egli è veramente il Figlio del Benedetto, e la conseguenza di ciò sarà il fatto che lo vedranno sedente alla destra della Potenza e veniente con le nubi del cielo. Tale esperienza servirà pure ai giudei come conferma del fatto che lui è il Figlio del Benedetto. La seconda differenza riguarda un’inversione di ordine di parole, come emerge dal seguente schema: Matteo Marco kaqhémenon e\k dexiw%n e\k dexiw%n kaqhémenon
Tale inversione non implica però alcun mutamento di significato. La terza differenza riguarda la particella con cui è introdotta l’espressione tw%n nefelw%n. In Matteo è introdotta dalla particella e\pò (e\pì tw%n nefelw%n: sulle nubi); in Marco invece è introdotta dalla particella metaé (metaè tw%n nefelw%n: con le nubi). L’espressione di Matteo corrisponde a Dn 7,13 (LXX); quella di Marco a Dn 7,13 (Th). 28 Con il gesto di stracciarsi le vesti Caifa esprime tutto il suo rammarico, che implica anche dolore e sdegno, di fronte a quelle parole.
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Mt 26,65a Mc 14,63a
toéte o| deè o| a\rciereuèv o| a\rciereuèv dieérrhxen diarrhéxav taèè i|maétia touèv citw%nav au\tou% au\tou% leégwn: leégei
Le due espressioni sono parallele e, in alcuni punti, concordano anche alla lettera. Notiamo soltanto due differenze. C’è anzitutto una inversione nelle forme verbali: il verbo diretto di Matteo (dieérrhxen: stracciò) diventa in Marco participio circostanziale (diarrhéxav: avendo stracciato); il participio circostanziale di Matteo (leégwn: dicendo) diventa poi verbo diretto in Marco (leégei: dice). Inoltre è il passaggio dal termine taèè i|maétia (le vesti) in Matteo al termine touèv citw%nav (le tuniche). I due termini però, almeno in questo caso, non sembrano riferirsi a diverso contenuto.Pure le parole con cui Caifa si rivolge ai sinedriti sono abbastanza parallele nei due evangelisti. Mt 26,65b Mc 14,63b.64a e\blasfhémhsen: tò e"ti tò e"ti creòan creòan e"comen e"comen martuérwn; martuérwn; i"de nu%n h\kouésate h\kouésate thèn blasfhmòan thèv blasfhmòav
Con queste parole Caifa si appella alla diretta percezione ed esperienza dei sinedriti delle parole di Gesù; ogni altra prova così diventa inutile. I due evangelisti presentano la stessa identica espressione tò e"ti creòan e"comen martuérwn (che bisogno ancora abbiamo di testimoni), e lo stesso verbo h\kouésate (avete udito), aoristo con valore ingressivo, seguito dallo stesso oggetto, pur in caso diverso. Notiamo però in Matteo due elementi peculiari e una differenza rispetto a Marco. La prima peculiarità è l’introduzione dell’aoristo e\blasfhémhsen (ha bestemmiato). Questo verbo, non unito ad alcun altro elemento, assume una notevole forza enfatica. Possiamo immaginare che esso sia stato pronunziato con un forte grido carico di sdegno e di scandalo. La seconda peculiarità di Matteo è l’introduzione dell’espressione i"de nu%n (ecco ora), che forse non introduce alcun concetto nuovo, ma serve a richiamare in maniera più forte l’attenzione degli ascoltatori su un fatto particolare. La differenza rispetto a Marco è nell’oggetto del verbo h\kouésate. Esso è lo stesso termine blasfhmòa, ma in caso diverso. In Matteo è all’accusativo (thèn blasfhmòan) e, in questo modo, l’attenzione è orientata sul contenuto della bestemmia stessa; in Marco è invece al genitivo (thèv blasfhmòav) e, in questo modo, l’attenzione è rivolta sulla persona di Gesù che l’ha pronunziata. Con una domanda esplicita, Caifa chiede ai sinedriti di esprimere un parere sulle parole dette da
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9. Gli scherni (Mt 26,67; Mc 14,35)29. Gesù, che egli ha caratterizzato come bestemmia e che loro stessi (h\kouésate) hanno potuto percepire. La domanda nei due evangelisti è quasi uguale: Mt 26,66a Mc 14,64b tò tò u|m_n u|m_n doke_; faònetai; Matteo usa il verbo doke_; Marco invece usa il verbo faònetai. Non sembra che tra i due
verbi ci sia una sostanziale differenza di senso. È evidente che sia l’azione del sacerdote di stracciarsi le vesti sia le sue parole orientano in un senso il giudizio dei sinedriti. A riguardo poi di questo giudizio i due evangelisti concordano nel senso e anche in diversi elementi letterari. Varia però lo sviluppo strutturale della frase. Mt 26,66b Mc 14,64c oi| deè oi| deè paéntev a\pokriqeéntev kateékrinan au\toèn eùpan: e"nocov e"nocon qanaétou eùnai e\stòn qanaétou Marco introduce l’aggettivo paéntev, sottolineando così l’universalità e la convergenza una-
nime dei sinedriti su un parere preciso. Le ultime tre parole, prescindendo dall’inversione di ordine degli ultimi due elementi, letterariamente sono identiche nei singoli elementi: Matteo Marco e"nocov e"nocon qanaétou eùnai e\stòn qanaétou In Matteo però il termine e"nocov (degno) è al nominativo perché tutta l’espressione è introdotta, come discorso diretto, mediante l’espressione a\pokriqeéntev eùpan (avendo risposto
dissero). In Marco invece è all’accusativo perché tutta l’espressione, introdotta come discorso indiretto, è apposizione del pronome au\toén (lui). Tutta l’espressione poi è una infinitiva, oggetto del verbo kateékrinan (giudicarono). Secondo Matteo, i sinedriti dissero: «degno (e"nocov) di morte (qanaétou) è (e\stòn)»; secondo Marco i sinedriti giudicarono (kateékrinan) lui (au\toén) degno (e"nocon) essere (eùnai) di morte (qanaétou). Dopo il giudizio espresso dal sinedrio, i due evangelisti descrivono gli scherni subiti da Gesù. Emessa infatti una sentenza di morte, Gesù ormai è diventato un oggetto e può essere perciò oggetto di scherno. Mt 26,67- 68 Mc 14,65 29
toéte kaì e\neéptusan h"rxantoé
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Possiamo allora concludere che i racconti dei due evangelisti svilup ei\v tinev toè proéswpon e\mptuéein au\t§% au\tou% kaì perikaluéptein kaì e\kolaéfisan au\tou% au\toèn toè proéswpon oi| deè e\raépisan kaì kolafòzein au\toèn leégontev: kaì leégein au\t§%: profhéteuson profhéteuson h|m_n kaì oi| u|phreétai Cristeé r|apòsmasin tòv e\stin au\toèn o| paòsav se e"labon
I due evangelisti concordano dal punto di vista tematico, e concordano letterariamente anche su alcuni elementi. Divergono però nella globale formulazione letteraria; inoltre in alcuni punti Marco appare più sviluppato, in altri invece appare Matteo. Entrambi gli evangelisti anzitutto concordano nell’uso del verbo e\mptuéw (sputare). L’espressione però è diversa. In Matteo leggiamo toéte e\neéptusan ei\v toè proéswpon (allora sputarono nella faccia); Marco invece scrive kaì h"rxantoé tinev e\mptuéein au\t§% (e cominciarono alcuni a sputare a lui). Matteo usa l’espressione ei\v toè proéswpon (nella faccia): sputarono nella faccia. Marco, in questo contesto, non usa questa espressione, ma la trasferisce poco dopo, legandola ad un altro verbo, il verbo perikaluéptein (nascondere), dipendente anch’esso dal verbo iniziale h"rxanto: h"rxanto […] perikaluéptein au\tou% toè proéswpon (cominciarono […] a nascondere il suo volto). Secondo Marco quindi un elemento degli scherni è il nascondimento del volto. Il motivo di tale nascondimento appare chiaro dal confronto con Matteo che pur non menziona tale nascondimento: entrambi gli evangelisti riferiscono la domanda rivolta a Gesù di indovinare ad occhi bendati: profhéteuson (profetizza). Entrambi gli evangelisti inoltre usano lo stesso verbo kolafòzein (schiaffeggiare), con analoga formulazione letteraria. Leggiamo infatti in Matteo l’espressione kaì e\kolaéfisan au\toén (e lo schiaffeggiarono); Marco invece scrive l’espressione kolafòzein au\toén, dipendente ancora dal verbo iniziale h"rxanto ([cominciarono] a schiaffeggiarlo). Matteo ancora scrive l’espressione oi| deè e\raépisan. Il verbo r|apòzw significa “colpire con un bastone o anche con il palmo della mano”: secondo Matteo, altri lo colpirono in questo modo. L’espressione oi| deé (altri) indica che, a colpire in questo modo, sono state altre persone, diverse da quelli che compirono gli scherni precedenti e lo schiaffeggiarono. Marco non ha l’espressione di Matteo, ma ne condivide il contenuto tematico; nota infatti alla fine, quasi a volere introdurre un elemento prima dimenticato, che «i servi a colpi (r|apòsmasin) presero lui». Anche Marco introduce un nuovo soggetto: i servi (oi| u|phreétai). I due evangelisti infine condividono lo stesso verbo imperativo profhéteuson (profetizza). Gesù è comandato di profetizzare, cioè
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pano la loro narrazione in maniera parallela. Tranne che in piccoli punti particolari, non si notano né trasposizioni, né aggiunte sostanziali, né omissioni. Appare abbastanza chiara così una ulteriore conclusione: i primi due evangelisti avrebbero seguito una fonte che già, nel contesto del processo davanti al Sinedrio, fissava l’ordine degli avvenimenti. Essi avrebbero ricevuto questa fonte e da essa non si sarebbero allontanati. Dal punto di vista letterario, abbiamo potuto individuare, in diversi punti, una concordanza, sia nei termini sia anche in alcune espressioni, riferite, quasi in maniera identica, dai due evangelisti. Abbiamo però notato pure delle differenze, e talora anche, in ciascuno, una certa libertà nella formulazione letteraria. Ciò induce anche a concludere che la fonte in alcuni punti fissava il racconto anche sul piano letterario e gli evangelisti avrebbero rispettato quella formulazione. In altri punti invece la fonte era meno precisata, o restava più nel vago. Ciascuno dei due evangelisti avrebbe precisato poi questi punti più generici. È possibile anche che ciascuno di essi abbia personalizzato la formulazione letteraria della fonte, adattandola al proprio stile e alla propria maniera sintattica di esprimersi. 1.3.2. Le peculiarità lucane Il racconto lucano del processo di Gesù davanti al Sinedrio (Lc 22,5455.63-71)30 presenta diverse somiglianze, ma anche non poche peculiarità rispetto a quello di Matteo e Marco. Possiamo distinguere in Luca delle peculiarità sia nel contesto sia anche nel processo in se stesso. Una peculiarità fondamentale lucana, come abbiamo già notato, è che egli ambienta cronologicamente il processo di Gesù davanti al sinedrio al mattino, a differenza di Matteo e Marco che invece lo ambientano di notte. di indovinare. Marco però non dice che cosa Gesù debba indovinare; lo dice invece Matteo che scrive l’espressione h|m_n, Cristeé, tòv e\stin o| paòsav se ([indovina] o Cristo, chi è che ti ha schernito). Quest’ultima espressione dev’essere stata omessa da Marco per un motivo che non appare chiaro. Essa si legge, come vedremo, anche in Luca; doveva essere perciò nella fonte. Il verbo profhéteuson, in Marco, rimane così alquanto vago. 30 I vv. 56-62 contengono la narrazione dei tre rinnegamenti di Pietro: da essi possiamo prescindere.
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Con Matteo e Marco, anche Luca ambienta cronologicamente durante la notte i tre rinnegamenti di Pietro. Qui però si determina una differenza rispetto ai primi due evangelisti: i tre rinnegamenti di Pietro, che, in Matteo e Marco, sono narrati dopo il processo, in Luca invece sono narrati prima. Un’altra peculiarità lucana riguarda gli scherni. Questi, secondo Matteo e Marco, avvengono dopo il processo ed appaiono anche come la conseguenza di una sentenza capitale che il sinedrio non poteva eseguire, ma che, pur avendo bisogno della convalida romana, poteva certamente pronunziare. In Luca invece sono introdotti prima del processo, tra i tre rinnegamenti di Pietro e il processo stesso. Si direbbe che, secondo il terzo evangelista, sia stato proprio Pietro, con i suoi rinnegamenti, a determinare gli scherni contro Gesù. Emerge così nel racconto lucano il seguente ordine: (vv. 54-55): Gesù è condotto nella casa del sacerdote e Pietro lo segue; (vv. 56-62): I tre rinnegamenti di Pietro; (vv. 63-65): Gli scherni; (vv. 66-71): Il processo davanti al Sinedrio. Subito dopo, nel v. 72, segue, nel racconto lucano, il trasferimento di Gesù dal sinedrio al pretorio di Pilato. Le peculiarità lucane nel contesto stesso del processo sono ancora più notevoli. Anzitutto, a differenza di Matteo e Marco, dove l’interlocutore fondamentale è il sommo sacerdote, il quale interroga Gesù e poi interpella i sinedriti, in Luca invece gli interlocutori sono gli stessi sinedriti. Il sommo sacerdote addirittura, nel contesto del processo, non viene mai menzionato. Nel racconto lucano gli interlocutori sono degli anonimi menzionati al plurale, evidentemente si tratta dei sinedriti, che interrogano Gesù e ai quali egli risponde. La seconda peculiarità lucana, ancora più vistosa, consiste nel fatto che è del tutto assente la ricerca di falsi testimoni; come pure è assente il problema posto da falsi testimoni sulla distruzione e ricostruzione del tempio. Il dialogo tra Gesù e i sinedriti verte, in due stadi, sulla domanda cruciale posta, in Matteo e Marco, alla fine dal sommo sacerdote, se cioè Gesù è il Cristo, il figlio di Dio. In questo senso, la somiglianza maggiore di Luca è con Matteo, secondo il quale Caifa chiede a Gesù se egli è il Cristo, il figlio di Dio. Mentre però
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in Matteo questi due titoli sono accostati, in Luca invece sono smembrati. La prima volta i sinedriti chiedono a Gesù se Egli è il Cristo; a questa domanda segue una lunga risposta di Gesù che non ha alcun parallelo negli altri due evangelisti. La seconda volta i sinedriti chiedono se Gesù è il figlio di Dio. Stavolta però Gesù afferma esplicitamente la sua identità. Come in Matteo e Marco, anche secondo Luca i sinedriti dichiarano di non avere bisogno di alcuna testimonianza, dal momento che essi possono esibire la diretta percezione uditiva (h\kouésamen). A differenza però che nei primi due evangelisti, in Luca Gesù esplicitamente non è accusato di bestemmia. Otteniamo così nel racconto lucano del processo davanti al sinedrio il seguente schema: 1. Il raduno del Sinedrio (v. 66); 2. La prima domanda dei sinedriti, se Gesù è il Cristo (v. 67a); 3. La lunga risposta di Gesù (vv. 67b-69), comprendente due parti: La convinzione dell’inutilità della sua risposta (vv. 67b-68); e Il futuro del Figlio dell’uomo (v. 69); 4. La seconda domanda dei sinedriti, se Gesù è il figlio di Dio (v. 70); 5. La dichiarazione dei sinedriti sulla non necessità della testimonianza e rimando alla loro esperienza immediata (v. 71). 1.3.3. Confronto dei singoli elementi lucani con Matteo e Marco Confrontiamo specificamente adesso, tra i primi due evangelisti e Luca, i seguenti elementi: la conduzione di Gesù e sequela di Pietro; gli scherni; il raduno del Sinedrio; le due domande dei sinedriti; la prima risposta di Gesù con il futuro del figlio dell’uomo; la seconda risposta di Gesù; il superamento della testimonianza e il rimando all’esperienza. A riguardo della conduzione di Gesù presso il sinedrio, l’espressione lucana è la seguente: sullaboéntev deè au\toèn h"gagon kaì ei\shégagon ei\v thèn oi\kòan tou% a\rciereéwv (avendolo preso, lo condussero e lo introdussero nella casa del sacerdote) (v. 54a). La descrizione lucana concorda sostanzialmente con quella degli altri due evangelisti. Con Matteo, anche Luca accenna alla cattura, usando però
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non il verbo krathésantev (avendolo tenuto), ma il più sfumato e meno crudo sullaboéntev (avendolo preso). Luca menziona pure la conduzione, non però con l’unico verbo a\phégagon, ma con i due verbi h"gagon (condussero) e ei\shégagon (introdussero). Con Marco, ma a differenza di Matteo, Luca evita di menzionare il nome del sommo sacerdote. In Marco però il sacerdote in questione sembra essere ancora Caifa; in Luca invece, come abbiamo già osservato, sembra distinguersi da lui. Luca infine non usa la particella proév ma ei\v: egli infatti menziona primariamente non una persona, ma un luogo: “la casa (oi\kòa) del sacerdote”. Matteo e Marco menzionano immediatamente il raduno del sinedrio; Luca invece lo menziona solo nel v. 66, dopo avere narrato i tre rinnegamenti e gli scherni. La sequela e tutta la vicenda di Pietro, previa ai tre rinnegamenti, è narrata da Luca nei vv. 54b-55: o| deè Peétrov h\kolouéqei makroéqen. periayaéntwn deè pu%r e\n meés§ th%v au\lh%v kaì sugkaqisaéntwn e\kaéqhto o| Peétrov meésov au\tw%n
(Pietro seguiva da lontano: avendo [essi] preparato del fuoco, sedeva Pietro in mezzo a loro). La descrizione lucana è più succinta rispetto a quella degli altri due evangelisti. Con Matteo e Marco, il terzo evangelista concorda nell’uso del verbo a\kolouqeéw e, con Matteo, anche nella forma all’imperfetto (h\kolouéqei). Condivide pure l’avverbio di luogo makroéqen, senza però la particella a\poé. Con gli altri due evangelisti anche Luca concorda nel fatto che Pietro sedeva con i servi. Luca però, mediante l’espressione meésov au\tw%n, sembra attribuire a Pietro una posizione preminente. Si direbbe che Pietro spiccava in mezzo agli altri, proprio nella posizione più in vista, ed era naturale che venisse interrogato. Con Marco, anche Luca menziona il fuoco, elemento assente in Matteo; non dice però che si scaldava. Luca sembra volere sottolineare la posizione centrale nella quale si trovava Pietro. Il fuoco era stato acceso infatti “nel mezzo del cortile (e\n meés§ th%v au\lh%v)”; Pietro poi era “in mezzo ad essi (meésov au\tw%n)”. Il termine meésov è ripetuto, in una breve frase, ben due volte. Luca man mano focalizza l’attenzione sulla persona di Pietro. Segue, nel racconto lucano, nei vv. 56-62, il racconto dei tre rinnegamenti di Pietro, che Matteo e Marco invece collocano dopo gli
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avvenimenti relativi al Sinedrio, prima del deferimento di Gesù a Pilato. Prescindendo dai rinnegamenti, segue nel racconto lucano (vv. 63-65), la narrazione degli scherni. La formulazione lucana è la seguente: kaì oi| a"ndrev oi| suneécontev au\toèn e\neépaizon au\t§% deérontev kaì perikaluéyantev au\toèn e\phrwétwn leégontev: profhéteuson tòv e\stin o| paòsav se kaì e"tera pollaè blasfhmou%ntev e"legon ei\v au\toén. (gli uomini che lo custodivano lo
schernivano colpendolo e avendo nascosto il capo, chiedevano: profetizza chi è che ti ha schernito e molte altre cose, bestemmiando, dicevano a Lui). Nella menzione degli scherni, Luca, pur concordando tematicamente con gli altri evangelisti, appare letterariamente più autonomo. Con Marco, Luca condivide il verbo perikaluéptw; non precisa però, con il secondo evangelista, che fu nascosta a Gesù la faccia, ma osserva soltanto che coprirono “lui (au\toén)”. Luca aggiunge il verbo e\phrwétwn (interrogavano). L’imperfetto rimanda ad un aspetto iterativo; non una volta perciò, ma continuamente quegli uomini interrogavano Gesù. Con Matteo e Marco, anche Luca condivide l’imperativo aoristo profhéteuson (profetizza). A differenza però di Marco, che non lega a questo verbo un oggetto, Luca presenta lo stesso oggetto di Matteo, tòv e\stin o| paòsav se (chi è che ti ha schernito), omettendo però sia il pronome h|m_n sia anche il vocativo Cristeé. L’ultima espressione (v. 65): e"tera pollaè blasfhmou%ntev e"legon ei\v au\toén è esclusiva di Luca. Quanto al raduno del Sinedrio, Matteo e Marco, come abbiamo già osservato, lo menzionano immediatamente dopo la conduzione: secondo questi due evangelisti, esso sarebbe avvenuto subito dopo la cattura e di notte. Luca invece lo menziona solo nel v. 66, dopo avere narrato i tre rinnegamenti e gli scherni. Tuttavia è possibile stabilire un confronto. Luca concorda con Matteo nell’uso dell’aoristo passivo di sunaégw, usato però al singolare (sunhécqh); con Marco, concorda nella menzione delle tre categorie del sinedrio: anziani, sacerdoti e scribi. Inoltre troviamo lo stesso verbo a\phégagon usato già all’inizio da Matteo e Marco. Luca presenta quindi una certa concordanza letteraria con gli altri due evangelisti. A riguardo delle due domande dei sinedriti, in Lc 22,67a.70, è utile stabilire anzitutto un confronto tra di esse. Nella prima domanda (v. 67a) i sinedriti chiedono a Gesù di dire loro (ei\poèn h|m_n) «se tu sei il Cristo (ei\ suè
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eù o| Cristoév)»; la seconda domanda (v. 70) suona: «tu dunque sei il figlio di Dio (suè ou&n eù o| ui|ovè tou% qeou%)»?
Notiamo tra le due domande tre differenze. Anzitutto la prima: la domanda riguarda il fatto se Gesù è il Cristo; la seconda invece se è il figlio di Dio. Inoltre nella prima domanda leggiamo, come apodosi, l’espressione ei\poèn h|m_n (dì a noi) preceduta dal contenuto della domanda, formulata come una protasi; tale espressione è assente nella seconda domanda. La prima domanda, infine, è reale: i sinedriti chiedono a Gesù di dire a loro se lui è il Cristo; la seconda domanda non è invece reale, ma, come indicano le parole suè ou&n eù (tu dunque sei), si tratta di una deduzione fatta dai sinedriti. In queste domande Luca appare più vicino a Matteo. Abbiamo già notato come il terzo evangelista smembra, in due stadi diversi, i due elementi o| Cristoév (il Cristo) e o| ui|ovè tou% qeou% (il figlio di Dio) che invece Matteo accosta31. Cambia l’ordine delle espressioni, ma i due elementi sono uguali. La prima risposta di Gesù, contenuta nei vv. 67b-69, ha due parti. Nella prima parte Gesù afferma, con due proposizioni condizionali parallele32, l’inutilità della sua risposta. Infatti egli dichiara: «se a voi dico (e\anè u|m_n ei"pw), non credete (ou\ mhè pisteuéshte); se interrogo (e\an è deè e\rwthésw), non rispondete (ou\ mhè a\pokriqh%te). Questa prima parte della risposta di Gesù non ha paralleli in Matteo e Marco. Più importante invece è la seconda parte, che permette di stabilire un confronto con i primi due evangelisti: Luca però omette la seconda parte delle parole di Gesù kaì e\rcoémenon metaè tw%n nefelw%n tou% ou\ranou% (ve-
31 Notiamo, nella prima domanda di Luca, il seguente parallelismo con Matteo: Luca Matteo i$na
h|m_n ei"p+v ei\ suè eù ei\ suè eù o| Cristoèv o| Cristoév ei\poèn h|m_n
Possiamo notare il seguente parallelismo: e\anè u|m_n ei"pw e\an è deè e\rwthésw 32
ou\ mhè pisteuéshte
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ou\ mhè a\pokriqh%te
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niente con le nubi del cielo). Nel testo poi che ha in comune agli altri due evangelisti, Luca introduce tre peculiarità33. Anzitutto introduce l’espressione iniziale a\poè tou% nu%n (da adesso). Inoltre non usa il verbo o"yesqe (vedrete) bensì il verbo e"stai (sarà), con la conseguenza che, nel testo lucano, tutto è espresso al nominativo34. Infine dopo il genitivo th%v dunaémewv il terzo evangelista introduce il genitivo tou% qeou% (di Dio), determinando così, come vedremo, uno spostamento di senso. La seconda risposta di Gesù, introdotta, nel v. 70b, mediante il verbo e"fh (disse), in seguito all’insistenza dei sinedriti che concludono che Gesù è il Figlio di Dio, presenta delle relazioni sia con il testo di Matteo che con quello di Marco. La prima parte dell’espressione lucana, u|me_v leégete (voi dite), richiama l’espressione di Matteo suè eùpav (tu hai detto), benché con diverso verbo e con diversa forma verbale, rispettivamente all’aoristo (Matteo) e al presente (Luca). La seconda parte dell’espressione lucana poi, o$ti e\gwé ei\mi (che io sono), introdotta dalla particella dichiarativa o$ti, richiama invece l’espressione di Marco e\gwé ei\mi (io sono). Come Matteo e Marco, anche Luca mette in bocca ai sinedriti l’affermazione che ormai non è più necessaria la testimonianza, dal momento che gia si dispone di una esperienza diretta uditiva, estorta dalla stessa 33 Possiamo proporre il seguente schema: Mt 26,64b Mc 14,62b Lc 22,69 a\p’a"rti kaì a\poè tou% nu%n deè
o"yesqe o"yesqe e"stai toèn ui|on è toèn ui|on è o| ui|ovè tou% a\nqrwépou tou% a\nqrwépou tou% a\nqrwépou kaqhémenon e\k dexiw%n kaqhémenov e\k dexiw%n kaqhémenon e\k dexiw%n th%v dunaémewv th%v dunaémewv th%v dunaémewv tou% qeou% kaì e\rcoémenon kaì e\rcoémenon e\pì metaè tw%n nefelw%n tw%n nefelw%n tou% ou\ranou% tou% ou\ranou%
Quanto al verbo lucano e"stai, Lagrange nota che, in questo modo, Gesù rende la realtà indipendente dai sinedriti: lo vogliano o no, il trionfo di Gesù avverrà, cfr M.J. Lagrange, Évangile selon Saint Luc, Paris 19487 , 572-573. 34
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bocca di Gesù. L’espressione lucana è la seguente: oi| deè eùpan: tò e"ti e"comen marturòav creòan; au\toì gaèr h\kouésamen a\poè tou% stoématov au\tou% (ma quelli dissero: che bisogno ancora abbiamo di testimonianza: noi stessi udimmo dalla sua bocca). Notiamo nel testo lucano diverse omissioni e qualche peculiarità. La prima peculiarità ancora è che in questo racconto non parla il sommo sacerdote, bensì i sinedriti. Ciò rende giustificabile il fatto che Luca ometta la scissione delle vesti da parte del sacerdote, riferita invece da Matteo e Marco. Con Matteo e Marco Luca però condivide, pur invertendo l’ordine di qualche elemento, l’espressione tò e"ti e"comen marturòav creòan (perché abbiamo ancora bisogno di testimonianza?): a differenza dei primi due evangelisti, Luca però non parla di “testimoni (martuérwn)”, bensì di “testimonianza (marturòav)”. Emerge però un vuoto in Luca: quando il terzo evangelista ha detto che si cercavano testimoni? Con Matteo e Marco, benché alla prima persona plurale (h\kouésamen), Luca condivide l’aoristo del verbo a\kouéw. A differenza però dei primi due evangelisti, che uniscono al verbo un oggetto: la bestemmia, Luca non offre alcun oggetto, ma introduce l’espressione a\poè tou% stoématov au\tou% (dalla sua bocca). Anche in Luca si dovrebbe presupporre un’accusa di bestemmia, ma il terzo evangelista esplicitamente non lo dice. Notiamo infine, nel testo di Luca, un’altra omissione vistosa. Prescindendo dal fatto che i sinedriti non vengono interpellati, e ciò è comprensibile, perchè sono loro a parlare, Luca omette ciò che invece appare importante in Matteo e Marco: la dichiarazione dei sinedriti che Gesù è degno di morte. 1.4. Conclusioni Il confronto con i primi due evangelisti ha evidenziato, nel terzo, un racconto molto più breve, in cui sono assenti degli elementi che appaiono invece fondamentali in Matteo e Marco. Secondo il racconto lucano, Gesù fu condotto davanti al Sinedrio e fu interrogato dagli stessi sinedriti sulla sua identità di Cristo e di Figlio di Dio.
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Emerge allora nei tre evangelisti, che pur concordano nello schema di fondo, uno schema immediato più diversificato: Nel racconto del processo davanti al Sinedrio di Matteo e Marco lo schema è il seguente: 1. Gesù è condotto davanti al Sinedrio; 2. Si cercano i testimoni per metterlo alla prova ma non si trovano; 3. Si fanno avanti alcuni che riferiscono le parole di Gesù sulla distruzione e ricostruzione del tempio; 4. Gesù è stimolato dal sacerdote a rispondere, ma lui tace; 5. È interrogato dal sommo sacerdote sulla sua identità di Cristo, Figlio di Dio; 6. Risponde positivamente rimandando al futuro con le parole del Sal 110,1 e di Dan 7,14; 7. Il Sacerdote si straccia le vesti; 8. Accusa Gesù di bestemmia; 9. Chiede il parere ai sinedriti; 10. Questi dichiarano che Gesù è reo di morte. Nel racconto lucano del processo davanti al Sinedrio lo schema invece è il seguente: 1. Gesù è condotto davanti al Sinedrio; 2. I sinedriti chiedono a Gesù di dire se è il Cristo; 3. Gesù risponde prima mostrando il suo scetticismo sui sinedriti e poi citando il Sal 110,1; 4. È ancora richiesto se è il Figlio di Dio; 5. Risponde affermativamente; 6. I Sinedriti concludono di non avere bisogno di testimoni, ma di avere udito dalla stessa bocca di Gesù. Non mancano, nel racconto lucano, dei punti di contatto letterari con il racconto degli altri evangelisti. Luca però nel suo racconto non aggiunge nulla rispetto agli altri. Qualche passaggio suo proprio, quale la dichiarazione di Gesù sull’inutilità della sua risposta dal momento che i sinedriti né credono né rispondono, proviene da una sua riflessione propria che non modifica sostanzialmente il racconto.
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La nostra conclusione allora è che il terzo evangelista, nella sua narrazione del processo davanti al sinedrio, riprende e parzialmente rielabora uno schema più antico, che comprendeva soltanto i punti sopra indicati. Matteo e Marco avrebbero ripreso un racconto più ampliato ed elaborato che comprendeva la ricerca di falsi testimoni, la falsa testimonianza riguardante il tempio, l’interrogatorio da parte del Sommo sacerdote, l’accusa di bestemmia, e la dichiarazione dei sinedriti che Gesù era degno di morte. In questo contesto possiamo collocare la risposta di Gesù riguardante il futuro del figlio dell’uomo. Matteo e Marco, come abbiamo già osservato, presentano due parti: la sessione alla destra di Dio e la venuta sulle nubi del cielo. Luca invece parla soltanto della sessione alla destra di Dio. È difficile stabilire se la menzione della venuta sulle nubi del cielo fosse contenuta nella fonte primitiva e sia stata omessa da Luca, oppure se era assente nella fonte e sia stata poi aggiunta nella fonte più elaborata, ripresa da Matteo e Marco. Siamo inclini a ritenere più probabile la seconda ipotesi, l’assenza nella fonte lucana. In ogni caso tuttavia la risposta di Gesù dev’essere letta nel contesto di ciascun singolo evangelista. 2. Il tempio distrutto e ricostruito Seguendo l’ordine della composizione evangelica, il primo testo che consideriamo è Gv 2,18-22 dove leggiamo della disputa tra Gesù e i giudei a riguardo del tempio distrutto e ricostruito. La disputa è inserita dopo l’episodio della purificazione del tempio, che, nei vangeli sinottici, si legge all’inizio del ministero di Gesù in Giudea35, ma che Giovanni anticipa quasi all’inizio del suo vangelo (Gv 2,14-17). In seguito a quell’episodio i Giudei chiedono a Gesù di mostrare (deiknuéeiv) un segno (tò shme_on) che riveli l’autorità di fare quelle cose che ha fatto. Gesù esorta a distruggere (luésate) “questo tempio (toèn naoèn tou%ton)” e Lui lo avrebbe “resuscitato (e\gerw%)” in tre giorni. I giudei obiettano che quel tempio fu “costruito (oi\kodomhqh)” in 46 anni e Gesù pretende di “resuscitarlo (e\gere_v)”. Nota l’evangelista (v. 21) che Egli par35
Cfr. Mt 21,12-13; Mc 11, 15-17; Lc 19,45-46.
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lava del tempio del suo corpo. Nota ancora l’evangelista che i discepoli se ne ricordarono quando resuscitò da morte (h\geérqh e\k nekrw%n) e credettero alla Scrittura e alla parola che Gesù disse. Il problema della sua pretesa di distruggere il tempio e ricostruirlo in tre giorni, come abbiamo visto, emerge, come capo di accusa contro Gesù, nel contesto della narrazione del processo davanti al Sinedrio, secondo Matteo e Marco36. Di ciò invece Luca non dice nulla. Già la prima lettura rivela le somiglianze e le differenze del racconto giovanneo con quello sinottico. Emerge allora la domanda: sono attestate due tradizioni diverse, oppure i sinottici e Giovanni riprendono la stessa tradizione, riferendola con diverso linguaggio ed adattata al proprio contesto e alla propria prospettiva? La risposta potrà venire da una lettura più attenta dei diversi testi. 2.1. Posizioni degli interpreti A riguardo del problema sopra indicato, le posizioni degli interpreti non sembrano convergenti. Brown37 spiega che il materiale di Gv 2,13-21 non è preso dai Sinottici, ma rappresenta una tradizione indipendente, che, come parallela a quella sinottica, ha i propri sviluppi teologici; e qualcuna delle strette somiglianze tra le due formulazioni, di Giovanni cioè e dei Sinottici, può essere spiegata, nel modo migliore, se entrambe dipendono da una forma precedente del racconto. Bultmann38 osserva che Giovanni pone all’inizio un episodio, quale la purificazione del tempio, e lo lega al problema della sua distruzione e ricostruzione. Secondo Bultmann non si può decidere quale fosse la forma più antica. Forse Giovanni e i Sinottici si radicano in antiche tradizioni che avrebbero dato adito in seguito a diverse interpretazioni.
36 37
Cfr. Mc 14,58; Mt 26,61.
Cfr. R.E. Brown, Giovanni, trad. it., Assisi 19995, 157.
Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, Göttingen 1985 (Rist. del 197820), 88-89 nota 7. 38
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Secondo Buse39 il fatto che Giovanni dati l’accaduto in maniera così differente dai Sinottici sembra condurre alla conclusione che in Giovanni sia implicata una fonte diversa da quella antica di Marco. Hoskyns-Davey40 pongono semplicemente il problema sulla relazione tra Giovanni e i Sinottici a riguardo del tempio. Secondo Kysar41 i detti attribuiti a Gesù nel c. 2 si trovano, nel processo davanti al Sinedrio, nella bocca dei falsi testimoni. Si può pensare che la tradizione giovannea abbia conservato come autentiche parole di Gesù ciò che la tradizione sinottica attribuisce invece agli oppositori. Leon-Dufour42 stabilisce un certo rapporto con Mc 14. Ciò conferma il carattere messianico della descrizione43. Esclude però che “i tre giorni” della costruzione del tempio richiamino i tre giorni che precedono la Resurrezione. Altrove44 tuttavia, a riguardo del tempio, osserva che le tradizioni possono essere di origine diversa. In ogni caso ci sono differenze tra Giovanni e i Sinottici. Plummer45 nota, a riguardo del tempio, la diversità tra Giovanni e i sinottici. I Sinottici mettono le parole in bocca agli accusatori; Giovanni li mette in bocca a Gesù, ma non menziona l’accusa. La coincidenza però non si può negare ed appare così la verità di entrambe le affermazioni. Schnackenburg46 pensa che le parole di Gesù siano storiche, e la loro storicità è confermata dai detti, nei Sinottici, in Mt 26,61 e Mc 14,58; le differenze sono riconducibili a volute distorsioni del pensiero di Gesù. Volere però ricostruire il tenore esatto delle sue parole è pura illusione, non fosse altro perché messe in bocca a falsi testimoni. 39 Cfr. I. Buse, The Cleansing of the Temple in the Synoptics and in John, in ExpTim 70 (1958-59) 22-24. 40 41
Cfr. E.C. Hoskyns –F.N. Davey, The Fourth Gospel, London 19472, 196. Cfr. R. Kysar, John, Minneapolis (Minnesota) 1986, 49.
Cfr. X. Leon-Dufour, Le signe du temple selon Saint Jean, in RSR 39-40 (19511952) 155-175: 162. 42
43
Cfr. ibid., 165.
Cfr. Id., Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, I, trad. it., Cinisello Balsamo 1990; 337-341. 44
45 46
Cfr. A. Plummer, The Gospel according to St. John, Cambridge 1912, 90.
Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, I, trad. it., Brescia 1973, 504.
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Schnelle47 nota semplicemente che il tempio di Gerusalemme sarà distrutto e il corpo del Crocifisso e Risorto sarà il nuovo tempio. Van Den Bussche48 stabilisce un confronto tra Giovanni e i Sinottici. Nota però che tale confronto pone dei problemi: la tradizione sinottica è frammentaria e confusa, mentre il racconto di Giovanni è vivo e colorato. 2.2. Il problema del tempio in Matteo e Marco Il problema del tempio nella narrazione della passione di Matteo e Marco è menzionato tre volte: la prima volta nel contesto del processo di Gesù davanti al Sinedrio49; la seconda volta nel contesto degli scherni sotto la croce50; la terza volta infine nella menzione, stavolta comune a tutti e tre gli evangelisti, della scissione del velo del tempio alla morte di Gesù51. Nel contesto del processo davanti al Sinedrio, i due evangelisti divergono nell’introduzione narrativa52. Secondo Marco quelli che riferiscono queste 47 48 49 50 51
Cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, Leipzig 1998, 195. Cfr. H. Van Den Bussche, Giovanni, trad. it., Assisi 1974, 171. Cfr. Mt 26,61; Mc 14,58. Cfr. Mt 27,40; Mc 15,29.
Cfr. Mt 27,51; Mc 15,38; Lc 23,45.
Per comodità di lettura riproponiamo il testo dei due evangelisti: Mt 26,61 Mc 14,58 kaò tinev a\nastaéntev e\yeudomartuéroun kat’au\tou% 52
leégontev u$steron deè proselqoétev duéo eùpan: o$ti h|me_v h\kouésamen au\tou% leégontov o$ti ou/tov e"fh: e\gwè duénamai katalu%sai kataluésw
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parole sono alcuni (tinev) non meglio precisati. Di essi si dice soltanto che testimoniavano il falso (e\yeudomartuéroun) contro Gesù (kat’au\tou%). Matteo invece, come al termine dell’affannosa ricerca (u$steron) di falsi testimoni, menziona due persone che si accostarono. Il numero due (duéo) è il numero della testimonianza: essa è valida se poggia sulla dichiarazione di due persone53. C’è anche una differenza nella maniera come i due evangelisti introducono le parole di Gesù. Matteo scrive soltanto le parole: ou/tov e"fh (costui disse). Si tratta di una affermazione alquanto lapidaria che ben si addice ad una dichiarazione di indole giuridica, fondata su due testimoni. Marco invece propone un’altra formulazione: «noi abbiamo udito lui (h|me_v h\kouésamen au\tou%) che diceva (leégontov)». Il valore giuridico stavolta poggia non sul numero due, bensì sulla diretta esperienza di quelli che riferiscono queste parole. Nelle parole stesse riferite i due evangelisti in parte concordano ma in parte anche divergono. Concordano anzitutto nell’uso del verbo kataluéw (distruggere), divergono però nella maniera come esso viene usato. In Matteo è usato all’infinito aoristo, dipendente dal verbo duénamai (duénamai katalu%sai): Matteo sottolinea non la volontà di Gesù di distruggere il tempio, bensì la sua capacità. Marco invece usa il verbo al futuro kataluésw (distruggerò); in questo modo il secondo evangelista sottolinea non la capacità bensì la decisa volontà di distruggere il tempio. L’oggetto del verbo kataluéw, in entrambi gli evangelisti è il termine toèn naoén (il tempio). Matteo però parla del “tempio di Dio (toèn naoèn tou% toèn naoèn toèn naoèn tou% qeou% touéton toèn ceiropoòhton kaì kaì diaè diaè triw%n triw%n h|merw%n h|merw%n a"llon a\ceiropoòhton oi\kodomh%sai oi\kodomhésw. 53 Tale legge è sancita da Dt 17,5 e 19,15; Matteo sembra voler dare a tale affermazione un carattere più marcatamente giuridico.
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qeou%)”; Marco invece parla di “questo tempio (toèn naoèn tou%ton)”. Marco poi amplia l’espressione introducendo l’aggettivo verbale toèn ceiropoòhton
(quello fatto da mani umane); il riferimento evidente è al tempio di Gerusalemme che, per quanto costruito in maniera sontuosa, resta sempre fatto da mani umane. È identica nei due evangelisti l’espressione diaè triw%n h|merw%n (lungo il tempo di tre giorni), che sembra avere il valore di tempo continuato: il tempio viene ricostruito man mano nel cammino temporale di tre giorni. Questa espressione, identica nei due evangelisti, doveva essere così anche nella fonte. Entrambi gli evangelisti infine concordano nell’uso del verbo oi\kodomeéw (costruire); differiscono però nella maniera con cui esso viene usato. Matteo lo usa all’infinito aoristo, dipendente, analogamente al verbo katalu%sai, dall’indicativo presente duénamai. Secondo Matteo perciò Gesù avrebbe affermato di essere capace (duénamai) di distruggere (katalu%sai) e di costruire (oi\kodomh%sai) il tempio di Dio. Marco, analogamente al precedente verbo kataluésw, usa al futuro anche il verbo oi\kodomhésw; anche per questo secondo verbo la prospettiva dell’evangelista non è la capacità, bensì la decisa volontà di Gesù di ricostruire il tempio. Possiamo pure notare che, nella formulazione di Matteo, il tempio da distruggere e da ricostruire è lo stesso tempio; nella formulazione di Marco invece altro è il tempio che viene distrutto, altro è quello che viene ricostruito. La distinzione tra i due templi da Marco è indicata mediante l’introduzione del pronome a"llon (un altro). I due templi poi, nella prospettiva del secondo evangelista, si distinguono anche dal punto di vista qualitativo. Il tempio che viene distrutto è definito da Marco: toèn ceiropoòhton: fatto (poòhton) da mani (ceiro); si intende fatto da mani umane, perché soltanto gli uomini hanno le mani. Il tempio che viene costruito invece è definito a\ceiropoòhton, cioè senza (a\) l’opera (poòhton) di mani (ceiro). Questo secondo tempio appartiene, evidentemente, non alla sfera umana, bensì a quella divina. Nonostante le differenze, l’espressione, nei due evangelisti, sostanzialmente coincide. Essa doveva avere ricevuto una certa formulazione letteraria già nella fonte. Ogni evangelista aggiunse e apportò delle precisazioni. Matteo specificò che si tratta del “tempio di Dio” e forse a lui è dovuta la formulazione con duénamai e i due infiniti aoristi. Marco poi, da parte sua,
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specificò che si trattava di due templi distinti: quello che Gesù avrebbe distrutto era quello fatto da mani umane; quello che invece avrebbe ricostruito era fatto non da mani umane. Per quanto riguarda il problema del tempio negli scherni sotto la croce, anche questo elemento è esclusivo di Matteo e Marco; compare rispettivamente in Mt 27,39-40 e Mc 15,29-30; non compare infatti negli scherni riferiti da Luca. Sotto la croce i passanti rinfacciano a Gesù di avere detto di potere distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni, ma di mostrarsi poi incapace a salvare se stesso scendendo dalla croce. Anche in questo aspetto Matteo e Marco sono paralleli. Entrambi attribuiscono queste parole ai passanti (oi| paraporeuoémenoi); in entrambi si dice che i passanti bestemmiavano (e\blasfhémoun) e scuotevano il capo (kinou%ntev taèv kefala%v au\tw%n); in entrambi la sfida a Gesù è quella di salvare se stesso (sw%son seautoén) e il modo è quello di scendere (katabaònw) dalla croce (a\poè tou% staurou%). I due evangelisti appaiono così strettamente paralleli54. Gli scherni sotto la croce richiamano l’accusa nel processo davanti al Sinedrio55. In tutti e quattro i testi leggiamo lo stesso verbo kataluéw, lo 54 Possiamo confrontare più direttamente le parole che ci interessano. Il confronto è il seguente: Matteo Marco
leégontev: leégontev: o| kataluéwn o| kataluéwn toèn naoèn toèn naoèn kaì kaì e\n trisìn oi\kodomw%n h|meéraiv e\n trisìn oi\kodomw%n h|meéraiv
I due testi sono identici; l’unica differenza è l’inversione degli elementi: Matteo pospone al complemento e\n trisìn h|meéraiv il participio oi\kodomw%n; Marco invece lo antepone. Evidentemente questa espressione doveva essere già fissata nella fonte. 55 Possiamo stabilire tra i quattro testi il seguente confronto: Matteo Marco Mt 26,61 Mt 27,40 Mc 14,58
Mc 15,29 e\gwè duénamai katalu%sai o| kataluéwn kataluésw o| kataluéwn toèn naoèn toèn naoèn toèn naoèn toèn naoèn
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stesso oggetto toèn naoén, la stessa menzione dei tre giorni, lo stesso verbo oi\kodomeéw. Le differenze però rispetto all’espressione del processo davanti al Sinedrio non mancano e sono le seguenti. Anzitutto è assente la distinzione marciana tra tempio “fatto da mani umane” e tempio “non fatto da mani umane”. Inoltre si parla soltanto del “tempio”, senza nemmeno la specificazione di Matteo come “tempio di Dio”. Infine la menzione dei tre giorni è introdotta non costruita con diaé e il genitivo, ma con e\n e il dativo. L’espressione con e\n e il dativo evidenzia di più l’aspetto materiale cronologico. Negli scherni dei passanti il riferimento è direttamente al tempio materiale, come se Gesù avesse voluto millantare una potenza smentita alla prova dei fatti. La terza menzione del tempio, secondo i vangeli di Matteo e Marco, nel racconto della passione, è nella scissione del velo del tempio56. Il velo del tempio è il drappo che separa il Santo dal Santo dei santi57. Matteo e Marco sono quasi identici. Matteo aggiunge soltanto l’avverbio i\doué; inoltre l’espressione ei\v duéo, che in Matteo è introdotta alla fine, in Marco tou% qeou% touéton toèn ceiropoòhton kaì kaì kaì kaì oi\kodomw%n diaè e\n diaè e\n triw%n trisìn triw%n trisìn h|merw%n h|meéraiv h|merw%n h|meéraiv a"llon a\ceiropoòhton oi\kodomh%sai oi\kodomw%n oi\kodomhésw. 56
Cfr. Mt 27,51; Mc 15,38; Lc 23,45.
Stabiliamo un confronto tra i tre testi: Mt 27,51 Mc 15,38 Lc 23,45 57
kaì i\douè kaì e\scòsqh toè katapeétasma toè katapeétasma toè katapeétasma tou% naou% tou% naou% tou% naou% e\scòsqh e\scòsqh meéson a\p’a"nwqen ei\v duéo e$wv a\p’a"nwqen kaétw e$wv ei\v duéo kaétw
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è anticipata all’inizio della descrizione della situazione del velo, dopo il verbo e\scòsqh. Evidentemente i due evangelisti dovettero trovare questa espressione già letterariamente formulata nella loro fonte. Inoltre la stessa fonte doveva precisare che tale scissione avvenne subito dopo la morte di Gesù. Luca condivide con i primi due evangelisti il verbo e\scòsqh, il sostantivo toè katapeétasma, e il genitivo tou% naou%. Il terzo evangelista riassume nell’unico termine meéson (nel mezzo) la descrizione più lunga di Matteo e Marco, che cioè il velo si scisse “in due”, “dall’alto verso il basso”. Probabilmente però non è Luca che riassume la descrizione di Matteo e Marco. Sembra, al contrario, che la tradizione seguita dai primi due evangelisti abbia ampliato un elemento riferito, in maniera più generica, dalla tradizione più antica, seguita dal terzo evangelista. La menzione della scissione del velo del tempo da parte del terzo evangelista, ma, insieme, l’omissione da parte di lui della menzione del tempio, nel processo davanti al Sinedrio e negli scherni, lasciano concludere che, in una fase più antica, la tradizione della passione, quella seguita da Luca, menzionava la scissione del velo ma non diceva nulla sul problema del tempio, sia nel contesto del processo davanti al sinedrio come anche nel contesto degli scherni. In una fase più avanzata, fu inserìto anche nel contesto del processo davanti al Sinedrio e nel contesto degli scherni, il problema del tempio che Gesù avrebbe distrutto ma che in tre giorni avrebbe ricostruito. Forse possiamo anche pensare che, all’origine, il ricordo del problema del tempio, poteva non appartenere alla narrazione della passione e che poi sia stato aggiunto in un secondo momento. Ciò potrebbe essere confermato anche da fatto che, nella narrazione del processo in Matteo e Marco, il problema del tempio distrutto e ricostruito appare menzionato senza uno scopo preciso. Esso infatti è presentato come un ulteriore sforzo di ricerca di una falsa testimonianza per mettere a morte Gesù, ma, stranamente, il motivo della condanna non fu il problema del tempio, bensì quella che, a giudizio del sommo sacerdote, era una bestemmia. Alla luce di tutte queste osservazioni, possiamo considerare il racconto giovanneo. Esso, come abbiamo già notato, non si legge nel contesto della
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narrazione della passione, ma all’inizio del vangelo, nel capitolo secondo, dopo l’episodio della purificazione del tempio. 2.3. Il problema del tempio in Giovanni (Gv 2,18-22) Per quanto riguarda il problema del tempio nel vangelo di Giovanni, bisogna distinguere tra le parole dirette e il contesto in cui sono inserite. Quanto alle parole dirette, stabiliamo anzitutto un confronto tra le quelle riferite da Giovanni e quelle riferite da Matteo e Marco. Mt 26,51 Mc 14,58 Gv 2,19 duénamai e\gwè kataluésai kataluésw luésate toèn naoèn toèn naoèn toèn naoèn tou% qeou% tou%ton tou%ton toèn ceiropoòhton kaì kaì kaì diaè diaè e\n triw%n triw%n trisìn h|merw%n h|merw%n h|meéraiv a"llon e\gerw% a\ceiropoòhton autoé oi\kodomh%sai oi\kodomhésw
Come possiamo constatare, tutta la dinamica della frase rende parallela l’espressione giovannea a quella dei primi due evangelisti. Non mancano tuttavia delle differenze e delle peculiarità58. Anzitutto notiamo l’uso del verbo luéw nella forma all’imperativo aoristo (luésate), con valore di futuro. La somiglianza con i vangeli sinottici consiste nel fatto che entrambi, i sinottici e Giovanni, usano un verbo dalla radice di luéw. La differenza però consiste nel fatto che, mentre i sinottici usano il verbo composto kataluéw, Giovanni invece usa il verbo semplice Beasley-Murray osserva che la risposta di Gesù alla domanda di un segno è data nella forma di un Mashal, un enigma che nello stesso tempo è di indole parabolica, cfr G.R. Beasley-Murray, John, Nashville 19992, 40. 58
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luéw. Il verbo kataluéw è più intensivo rispetto al verbo semplice luéw; il
senso fondamentale di “distruggere” rimane però invariato59. Inoltre il quarto evangelista, nell’espressione toèn naoèn tou%ton (questo tempio) concorda con Marco, che ha appunto la stessa espressione, diversamente da Matteo che scrive invece toèn naoèn tou% qeou%. Ancora Giovanni concorda con entrambi i Sinottici nella menzione dei tre giorni. C’è però una differenza: mentre Matteo e Marco usano la costruzione con diaé e il genitivo (diaè triw%n h|merw%n); Giovanni invece usa la costruzione con e\n e il dativo (e\n trisìn h|meéraiv). Infine la ricostruzione del tempio non è espressa con il verbo oi\kodomeéw, come nei vangeli sinottici, bensì con il verbo e\geòrw. Precisiamo però che il nostro evangelista non ignora il verbo oi\kodomeéw, ma introduce una distinzione rispetto ad esso usando anche il verbo e\geòrw60. Subito dopo infatti, nel v. 20, obiettando alle parole di Gesù, i giudei dichiarano: «In quarantasei anni fu costruito (oi\kodomhéqh) questo tempio e tu in tre giorni lo “resusciterai (e\gere_v)”?». In relazione al tempio materiale, quello costruito in quarantasei anni, è usato il verbo oi\kodomeéw61, in relazione a quello che Gesù dovrà ricostruire invece è usato il verbo e\geòrw. Tale uso 59
Matteo usa il verbo all’infinito aoristo (kataluésai), Marco al futuro (kataluésw).
Nota Kysar che il verbo e\geòrw è usato per la resurrezione, cfr R. Kysar, John, Minneapolis 1986, 49. 60
Non rientra nel nostro lavoro la determinazione dei quarantasei anni a cui alludono i giudei a riguardo la costruzione del tempio. Osserva Lagrange che, secondo Giuseppe Flavio (cfr G. Flavio, Ant. XV, 11,6) Erode cominciò la costruzione del tempio nel 18° anno del suo regno, cioè verso il 20/19 a.C.. Se si parte da questa data, i quarantasei anni del vangelo dovrebbero portare verso la pasqua del 28 d.C. Sappiamo ancora da Giuseppe Flavio (cfr G. Flavio, Ant. XX, 219) che nel 63 il tempio non era ancora finito, cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S.Jean, Paris 19487, 69. Inoltre anche C.K. Barrett, The Gospel According to St. John, London 1954; 167; J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, I, Edinburgh 1928, 96. Secondo Maier la costruzione sarebbe durata circa ottanta anni e sei mesi, cfr. G. Maier, Johannesevangelium, 2 voll, Neuhausen -Stuttgart 19892 (I), 102. Ellis pensa che la maggior parte dell’opera fu finita nei primi quarantasei anni, cfr. E.E. Ellis, The Genius of John, Collegeville 19842. Moloney nota che al numero quarantasei sono state date diverse spiegazioni simboliche, cfr. F.J. Moloney, The Gospel of John, Collegeville (Minnesota) 1998, 82. Fabris cita Agostino (In Joh. X,22), che moltiplica 45 X 6, ottenendo il numero di 276: il numero dei giorni per il tempo della formazione del corpo umano, cfr. R. Fabris, Giovanni, Roma 1992, 242. 61
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poi è giustificato dallo stesso evangelista, il quale, subito dopo, nel v. 21, spiega che Gesù «parlava del tempio del suo corpo»62. L’allusione alla resurrezione è evidente. Quanto poi al contesto in cui l’espressione giovannea è inserita, abbiamo già notato alcuni elementi contestuali; è utile però riproporli, in vista anche di un confronto più accurato con i vangeli sinottici. In tale confronto evidentemente ci riferiremo al processo davanti al Sinedrio. Notiamo anzitutto alcune differenze fondamentali con i vangeli sinottici. La prima è stata già indicata: il quarto evangelista introduce il problema del tempio non alla fine del vangelo, nel contesto della passione, bensì quasi all’inizio della sua narrazione evangelica. Inoltre egli lega il problema del tempio a quello della sua purificazione, anticipando ancora, quasi all’inizio, quello che invece nei vangeli sinottici è introdotto dopo l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. In questo modo, a riguardo del problema del tempio, il quarto evangelista sembra cambiare prospettiva rispetto ai vangeli sinottici. Secondo questi ultimi il problema del tempio distrutto e ricostruito è introdotto in un contesto giudiziario contro Gesù, il processo davanti al Sinedrio; in Giovanni invece è introdotto in un contesto quasi giudiziario contro i giudei: Gesù infatti, come appare già dall’episodio precedente, sovverte tutti gli elementi cultuali del loro tempio. Tre aspetti, che differenziano Giovanni dai sinottici, appaiono particolarmente importanti. Anzitutto il fatto che, in Giovanni, è Gesù a pronunziare queste parole. Nei due vangeli sinottici le parole riguardanti il tempio sono riferite a Gesù, ma non sono direttamente pronunziate da Lui. In Matteo infatti le parole sono introdotte mediante l’espressione ou/tov e"fh (questi disse); in Marco invece, in maniera ancora più soggettiva, con le parole: «noi abbiamo udito (h\kouésamen) lui dicente». In Mt 26,61 la versione latina, seguita dalla siriaca, dall’armena e da alcuni codici minuscoli, nota che si accostarono contro Gesù “due falsi testimoni”; secondo Mc 14,57 addirittura il testo greco, non corretto da 62 Osserva Beasley-Murray che la distruzione del tempio è completata nella distruzione del corpo di Gesù e la costruzione del tempio si attua nella resurrezione di Gesù. I giudei faranno la prima cosa, Gesù farà la seconda. Il tempio è precisamente il figlio di Dio, crocifisso e risorto, cfr. G.R. Beasley-Murray, John, cit., 41.
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alcuna variante testuale, scrive che «alcuni, essendosi alzati, falsamente testimoniavano (e\yeudomartuéroun)». Giovanni però smentisce che si tratta di falsa testimonianza. Secondo il quarto evangelista infatti Gesù pronunziò realmente quelle parole; anzi le disse come segno (shme_on), a riprova cioè, di avere autorità di fare ciò che ha fatto, di sovvertire tutti gli elementi cultuali del tempio. L’altro aspetto consiste nel fatto che in Giovanni è offerto un riferimento più preciso al mistero della morte e resurrezione di Gesù. Tale riferimento invero è contenuto anche nei vangeli sinottici. In Matteo esso appare molto timido, contenuto soltanto nell’espressione diaè triw%n h|merw%n; in Marco appare un po’ più chiaro, contenuto anche nell’espressione a"llon a\ceiropoòhton (un altro non fatto da mani umane); in Giovanni invece appare ancora più esplicito, oltre che per l’espressione e\n trisìn h|meéraiv, anche per il verbo e\geòrw e per l’esplicita menzione della resurrezione nel contesto. Infine, in Matteo e Marco il soggetto che distrugge è lo stesso Gesù: «posso distruggere (duénamai katalu%sai) (Matteo)»; «distruggerò (kataluésw)» (Marco). In Giovanni sono invece i giudei; Gesù comanda loro infatti “distruggete (luésate). Ciò corrisponde bene alla narrazione della passione, secondo la quale furono appunto i giudei che istigarono i romani a mettere a morte Gesù. Si aggiungono infine, come esclusive di Giovanni, nei vv. 21-22, le due osservazioni dell’evangelista, che Gesù parlava cioè del tempio del suo corpo, e che i discepoli dopo la resurrezione si ricordarono che Gesù diceva queste cose e credettero (e\pòsteusan) alla Scrittura. Anche in quest’ultimo elemento Giovanni discorda dai Sinottici. Secondo questi ultimi infatti, i giudei non solo non credettero ma anzi la menzione della Scrittura, da parte di Gesù, diede l’occasione per estorcere la confessione sulla sua identità, che fu ritenuta una bestemmia e fu la vera causa della condanna a morte. Possiamo però notare che Giovanni non contraddice i sinottici, ma esprime soltanto una contrapposizione. Chi credette (e\pòsteusen) alla Scrittura (t+% graf+%) e alla parola (t§% loég§) che disse Gesù, sono i discepoli (oi| maqhtaò). Mentre i sinottici sottolineano l’incredulità dei giudei che, in ultima analisi, è il vero motivo per cui Gesù fu condannato, Giovanni invece, in contrapposizione, sottolinea la fede dei discepoli.
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2.4. Conclusione Tutte le osservazioni proposte a riguardo delle parole di Gesù sulla distruzione e riedificazione del tempio, con le somiglianze e differenze rispetto alla narrazione dei Sinottici, non ci permettono né di pervenire alla conclusione certa che, in questo elemento, Giovanni riprenda il racconto sinottico del processo di Gesù davanti al Sinedrio, ma nemmeno escludere tale possibilità. Sia infatti il diverso scopo per cui riprende e il diverso contesto in cui il quarto evangelista colloca l’episodio del tempio distrutto e ricostruito, sia anche l’omissione di Luca nel contesto del processo davanti al Sinedrio, lasciano supporre che queste parole di Gesù circolassero indipendenti nella tradizione primitiva; la tradizione di Matteo e Marco le avrebbe poi inserite nel contesto della narrazione del processo davanti al Sinedrio, Giovanni invece le avrebbe poi inserite nel suo contesto specifico. In questa prospettiva, è possibile anche pensare che il quarto evangelista abbia ripreso, in maniera autonoma, una tradizione sulle parole di Gesù considerate, che circolavano in maniera libera nella tradizione primitiva, senza un preciso legame contestuale. Tuttavia qualche elemento inclina a pensare che il quarto evangelista, quando riferì le parole di Gesù riguardanti il tempio, avesse in mente il racconto di Matteo e Marco sul processo davanti al Sinedrio, che lui avrebbe inteso esplicitare, precisare, approfondire, contrapporre. Avrebbe esplicitato che con quelle parole, non capite dai giudei, Gesù parlava della sua morte e resurrezione; avrebbe mostrato, precisando, che Gesù realmente disse quelle parole; ne avrebbe approfondito il senso mostrando che Gesù aveva il potere di dichiarare la fine del culto giudaico; avrebbe infine contrapposto la fede dei discepoli all’incredulità di giudei. Se Giovanni poi realmente abbia ripreso la tradizione sinottica, emergerà in maniera più chiara dagli altri elementi che considereremo in seguito. 3. I testi del cap. 5 Consideriamo ancora un altro testo, da dove, assieme agli altri citati, può emergere la conoscenza, dal parte dell’autore del quarto vangelo, della
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tradizione sinottica del processo di Gesù davanti al Sinedrio. Ci riferiamo, specificamente, al cap. 5 del vangelo di Giovanni dove possiamo distinguere quattro parti: i vv. 1-9a; i vv. 9b-19, i vv. 19-30; i 31-47. In quest’ultima parte, benché in maniera non del tutto chiara, è possibile distinguere tra i vv. 31-38a, e i vv. 38b-47. In questo modo le parti che caratterizzano il cap. 5 sarebbero non più quattro, bensì cinque. Nei vv. 1-9a, la prima parte, l’evangelista narra un miracolo compiuto da Gesù: la guarigione del paralitico alla piscina di Betzata. Presso quella piscina, caratterizzata da cinque portici, sedeva una moltitudine di ammalati: ciechi, zoppi, aridi. Ad uno di essi, infermo da 38 anni, Gesù chiede se vuol essere guarito; questi rivela la sua difficoltà, ed anche la sua amarezza a gettarsi nell’acqua63; Gesù lo guarisce e gli comanda di prendere il lettuccio e camminare. 3.1. La seconda parte (vv. 9-18) I vv. 9b-18, la seconda parte del cap. 5, iniziano con l’indicazione cronologica, nel v. 9b, che quel giorno era sabato. La caratteristica di questa seconda parte è la menzione del sabato. Essa compare nel v. 9b (h&n deè saébbaton), nel v. 16 (tau%ta e\poòei e\n sabbaét§) e, infine, nel v. 18 (ou\ moénon e"luen toè saébbaton). Il termine saébbaton, in quest’ultimo testo, può costituire, con quello del v. 9b, una inclusione letteraria a questa seconda parte. In questi versi, dopo il v. 9b, possiamo individuare tre unità letterarie: vv. 10-13; i vv. 14-15; i vv. 16-18. Nei vv. 10-13 abbiamo il dialogo tra l’uomo guarito e i giudei; questi gli rimproverano il fatto di portare il lettuccio in giorno di sabato (v. 10); l’uomo si giustifica rimandando al comando di Gesù (v. 11); alla domanda poi (v. 12) dov’è Gesù, l’evangelista nota che l’uomo non lo sapeva. Nei vv. 14-15 è descritto l’incontro dell’uomo con Gesù; più specificamente, nel v. 14 c’è l’incontro con Gesù, nel v. 15 l’evangelista narra che l’uomo 63 Il v. 4 spiega il motivo per cui la moltitudine di infermi è lì presente: un angelo del Signore scendeva e smuoveva l’acqua: chi si gettava nell’acqua subito dopo l’azione dell’angelo restava guarito. Il v. 4 però è criticamente incerto: è attestato da alcuni codici, ma è omesso da altri (B S C* 33 W D ed altri codici e versioni).
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andò a comunicare ai giudei che colui che lo aveva guarito era Gesù. Nei vv. 16-18 è descritta l’ostilità dei giudei verso Gesù. Fermiamo soprattutto la nostra attenzione sui vv. 16-18, la terza unità, dove possiamo individuare una struttura concentrica ed alternata insieme: 1. kaì diaè tou%to e\dòwkon oi| I\ ouda_oi toèn }Ihsou%n, 2. o$ti tau%ta e\poòei e\n sabbaét§ 3. o| deè [}Ihsou%v] a\pekrònato au\to_v: o| pathér mou e$wv a"rti e\rgaézetai ka\gwè e\rgaézomai
4. diaè tou%to ou&n ka%llon e\zhétoun au\toèn oi| I\ ouda_oi a\pokte_nai, 5. o$ti ou\ moénon e"luen toè saébbaton a\llaè kaì pateéra i"dion e"legen toèn qeoén, i$son e|autoèn poiw%n t§% qe§%.
In questo schema la frase più importante, e anche carica di problemi, è quella centrale. L’evangelista introduce dialogicamente, e come risposta (a\pekrònato), delle parole di Gesù ai giudei, in un contesto narrativo. Emerge allora una domanda, la cui risposta è da ricercare soltanto nello stile letterario dell’evangelista: quando Gesù disse quelle parole? Prescindendo da questa domanda, e anche da prospettive più teologiche, quali la relazione tra il Padre e Lui e l’operosità del Padre e quella sua, quelle parole di Gesù sono importanti perché fondano la trasgressione del sabato nell’operosità del Padre, ma, nello stesso tempo, ancora più a monte, stabiliscono un rapporto di paternità e figliolanza. Gesù e il Padre si trovano in uno stretto rapporto di paternità e figliolanza; tale rapporto fa sì che, se il Padre opera di sabato, anche il figlio deve operare in giorno di sabato64. Tornando poi all’aspetto della reazione dei giudei nei confronti di Gesù, notiamo un duplice progresso. Anzitutto nell’atteggiamento: i giudei passano dalla persecuzione (e\dòwkon) all’esplicita ricerca (e\zhétoun) della maniera come uccidere (a\pokte_nai) Gesù. Inoltre nell’imputazione: dalla violazione del sabato i giudei passano al fatto che Gesù chiama Dio (e"legen toèn qeoén) il proprio padre (e"legen toèn qeoén), facendo se stesso (e|autoèn poiw%n) uguale (i$son [t§% qe§]) a Dio.
64 Tale problema sulla violazione del sabato tornerà ancora in 9,14 a riguardo dell’episodio del cieco nato.
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In tutti i vangeli Gesù spesso è accusato dai giudei di violare, lui o i discepoli, il sabato65; mai però la violazione del sabato appare come accusa nel processo davanti al Sinedrio; compare invece l’accusa di essersi fatto figlio di Dio. Questa accusa è menzionata due volte: la prima volta appunto nel nostro testo (5,18); la seconda volta in 19,7 nel contesto del processo davanti a Pilato66. Possiamo notare come il testo di 5,18 è il primo in cui è menzionata la ricerca della morte di Gesù da parte dei giudei e 19,7 è l’ultimo67. Concludendo, in questa seconda parte dello sviluppo del cap. 5 del vangelo di Giovanni, emerge l’aspetto della ricerca della morte di Gesù, 65 Ciò appare sia nei vangeli sinottici sia pure in Giovanni, cfr. Mt 12,1.2.5.8.10.11.12; Mc 2,23.24.27.28; 3.2.4; Lc 6,1.2.5.6.7.9; 13,10.14.14.15.16; 14,1.3.5; Gv 5,9.10.16.18; 7,22.23; 9,14.16. 66
I due testi stanno in relazione, come appare dal seguente schema alternato: 5,18: diaè tou%to ou&n ma%llon e\zhétoun au\toèn oi| I\ ouda_oi a\pokte_nai (per questo ancor più cercavano i giudei di ucciderlo) o$ti […] pateéra i"dion e"legen toèn qeoén (poiché […] Padre proprio diceva Dio) 19,7 […] kataè toèn noémon o\feòlei a\poqane_n ([noi abbiamo una legge] e secondo la legge deve morire) o$ti ui|on è qeou% e|autoèn e\poòhsen (poiché si è fatto Figlio di Dio).
I testi di 5,18 e 19,7 concordano e si relazionano per il fatto che la morte è richiesta come condanna per la figliolanza divina. I testi di 11,51 e 18,14 si relazionano per il consiglio di Caifa che conviene che uno solo muoia per il popolo. I testi di 12,33 e 18,32 si relazionano perché menzionano le parole con cui Gesù significò il tipo di morte con cui doveva morire. Possiamo accostare questi testi, pur con la differenza di verbi (l’intransitivo a\poqn+éskein [morire] e il transitivo a\pokteònw [uccidere]). Otteniamo così il seguente schema: 5,18 La morte per la figliolanza divina 7,1.19.20.25; 8,22.37 Cercavano di ucciderlo 11,51 Il consiglio di Caifa 12,24 La morte del chicco di grano 12,33 La parola di Gesù che significa 18,14 Il consiglio di Caifa 18,32 La parola di Gesù che significa 19,7 La morte per la figliolanza divina Nello sfondo della morte reclamata per l’accusa di essersi fatto figlio di Dio emergono alcune contrapposizioni: alla ricerca di uccidere Gesù (7,1.19.20.25; 8,22.37) si contrappone la morte del chicco di grano che porta frutto; al consiglio di Caifa che bisogna che uno muoia per il popolo, si contrappongono le parole con cui Gesù significò il tipo di morte con cui doveva morire. 67
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a motivo del fatto della sua figliolanza divina. Questa è appunto l’autoaccusa estorta a Gesù da Caifa nel contesto del processo davanti al Sinedrio narrato dai vangeli sinottici. 3.2. La terza parte (vv. 19-30) I vv. 19-30 continuano e progrediscono oltre i temi introdotti nei precedenti vv. 17-18. il fatto cioè che il figlio opera perché il Padre opera e, più a monte, il fatto che Gesù chiama Dio suo Padre. Mentre però nei vv. 17-18 lo scopo era quello di spiegare perché Gesù opera di sabato: il Padre opera di sabato, e lui deve pure operare di sabato essendo Figlio, adesso, in questa parte, spiega qual è l’opera che il Padre gli ha affidato ed indica anche quale dev’essere la risposta degli uomini. Questa parte, pur essendo ricca di prospettive teologiche68, non contiene specifici elementi riguardanti il nostro tema. Ci limitiamo perciò soltanto ad indicare alcuni aspetti che in qualche modo possono essere utili al nostro scopo. Notiamo anzitutto una inclusione letteraria tra il v. 19 e il v. 30. In entrambi i testi Gesù afferma che il Figlio, cioè Lui, non può fare nulla da sé se non vede il Padre che agisce; nel v. 19 Gesù formula quasi un principio generale, nel v. 30 invece direttamente applica a sé quel principio69. In entrambi i versi inoltre troviamo un verbo di percezione70. Possiamo notare un radicale mutamento di prospettiva. Anticamente, dopo avere compiuto la sua opera di creazione, Dio, il settimo giorno, si riposò (Gen 2,2). Il riposo di Dio fonda, secondo Es 20,11, l’obbligo del riposo di tutti. Adesso però si è verificata in Cristo una nuova prospettiva: il sabato non è più il giorno del riposo di Dio, ma il giorno in cui Egli opera e, quindi, Gesù opera. 68
Possiamo notare la seguente relazione: v. 19: v. 30 ou\ duénatai (non può) ou\ duénamai (non posso) o| ui|ovè (il Figlio) e\gwè (io) poie_n (fare) poie_n (fare) a\f’e|autou% (da se stesso) a\f’e\mautou% (da me stesso) ou\deén (niente) ou\deén (niente) 69
70 Nel v. 19 il verbo di percezione è bleépw (e\anè mhé ti bleép+ [se non vede] toèn pateéra poiou%nta [che cosa il Padre fa]); nel v. 30 il verbo di percezione è invece a\kouéw (kaqwèv a\
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Nel v. 30, continuando il tema del Figlio che non può far nulla se non vede cosa fa (poie_) il Padre, Gesù dichiara che il Padre ama (file_) il Figlio e gli mostra (deòknusin) tutto ciò che Egli fa (poie_). Le azioni che il Padre compie e che ha dato al Figlio da compiere, sono due: dar la vita, vivificare (z§opoie_) e compiere il giudizio: («ogni giudizio [kròsin] diede al Figlio»). Nel v. 24 Gesù indica anche le condizioni per non venire in giudizio (ei\v kròsin ou\k e"rcetai) e passare da morte a vita (metabeébhken e\k tou% qanaétou ei\v thèn zwhén); queste sono due: ascoltare la parola di Gesù (toèn loégon mou a\kouéwn) e credere in colui che lo ha mandato (pisteuéwn t§% peémyantò me). I vv. 25.27 riprendono il tema dell’ascolto. Gesù annunzia che viene l’ora in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che avranno udito vivranno. Le due espressioni dei vv. 25.27, pur presentando qualche differenza letteraria, sostanzialmente concordano e appaiono anche parallele71. Nel v. 27 però non si legge l’espressione: «quelli che hanno (oi| a\kouésantev) udito vivranno (zhésousin)» che leggiamo invece nel v. 25. Segue infatti nel v. 27 un altro sviluppo riguardante un duplice orientamento di resurrezione. Tra queste due espressioni troviamo il v. 26, dove sono indicati i due poteri che il Padre ha dato al Figlio: avere la vita in se stesso e avere il potere di compiere il giudizio72. Si riprendono così i due poteri già trasmessi dal Padre al figlio, già menzionati nei vv. 21-22. kouéw krònw [come ascolto giudico]).
Possiamo stabilire il seguente confronto: v. 25 v. 27 e"rcetai w$ra (viene l’ora) e"rcetai w$ra (viene l’ora) kaì nu%n e\stin (ed è adesso) o$te (quando) e\n +/ (in cui) paéntev (tutti) oi| nekroì (i morti) oi| e\n to_v mnhmeòoiv (quelli che sono nei sepolcri) a\kouésousin (udranno) a\kouésousin (udranno) th%v fwnh%v (la voce) th%v fwnh%v (la voce) tou% ui|ou% tou% qeou% (del Figlio di Dio) au\tou% (di Lui). 71
72 Le due espressioni presentano un certo parallelismo: v. 26a v. 26b kaì t§% ui|§% (e al figlio) kaì e\xousòan (e potere) e"dwken (diede) e"dwken (diede) zwhèn (vita) au\t§% (a lui)
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Dei due poteri si parlerà ancora nel v. 29, dove è menzionata la resurrezione; stavolta però la resurrezione, come nella prospettiva di Dan 12,2, ha due aspetti: la resurrezione di vita (ei\v a\naéstasin zwh%v) per quelli che hanno fatto le cose buone (taè a\gaqaé), e la resurrezione di giudizio (ei\v a\naéstasin kròsewv) per quelli che hanno fatto cose cattive (taè fau%la)73. La riflessione del cap. 5 si chiude man mano in maniera negativa; nel v. 30 Gesù menziona la sua attività di giudizio: egli giudica così come ascolta (kaqwèv a\kouéw krònw) e prosegue notando che il suo giudizio (h| kròsiv ) è giusto, perché non cerca la sua volontà ma la volontà di colui che lo ha mandato. Concludendo, possiamo dire che in questa terza parte non c’è alcun elemento che direttamente si ricolleghi al processo di Gesù davanti al Sinedrio, quale è narrato dai vangeli sinottici. Forse però, a rileggere più attentamente lo sviluppo del cap. 5, soprattutto i vv. 19-30, adesso considerati, sembra che essi non descrivano alcun avvenimento, bensì la tacita istanza con cui Gesù, in quel processo, si presentò ai giudei. Egli è condannato come bestemmiatore, avendo dichiarato di essere Figlio di Dio. In realtà lui lo è, inviato dal Padre, con il duplice potere di dar la vita e di compiere il giudizio. La tacita istanza allora è quella di accogliere il Figlio di Dio nella fede e, in questo modo si aprono la strada verso la vita eterna. Se essi invece rimangono chiusi nella loro incredulità e tentano di eliminarlo, per loro il Figlio di Dio non potrà più essere fonte di vita eterna, bensì causa di un giudizio di condanna. e"cein (da avere) kròsin (giudizio) e\n e|aut§% (in se stesso) poie_n (di fare) 73
Possiamo stabilire così il seguente schema: vv. 21-22: Potere di dar la vita (v. 21) compiere il giudizio v. 23-24: onorare il Padre e il Figlio credere ascoltare la voce vv.25-28: potere di dar la vita potere di compiere il giudizio ascoltare la voce v. 29: resurrezione di vita resurrezione di giudizio.
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3.3. La quarta parte (vv.31-47) La quarta parte del cap. 5 va dal v. 31 al v. 47. Tuttavia, come abbiamo già osservato, essa è, a sua volta, divisibile in due sezioni: vv. 31-37a e vv. 37b-47. La divisione è determinata dalla prospettiva tematica in cui le due sezioni si collocano. La prima (vv. 31-37a) è caratterizzata dal tema della testimonianza74; la seconda (vv. 37b-47) invece è caratterizzata dalla fede o, più esattamente, dalla sua assenza75. 3.3.1. La prima sezione (vv. 31-37a) Nel v. 31 leggiamo una dichiarazione sorprendente: Gesù esclude che Egli testimonia (marturw%) di se stesso (perì e\mautou%); se così fosse, la sua testimonianza non sarebbe vera. Nel seguente v. 32 invece menziona la vera testimonianza: questa è resa, a suo riguardo (perì e\mou%), da un’altra persona, un misterioso a"llov, che l’evangelista ancora evita di identificare, ma che, alla luce del v. 37, sappiamo che è il Padre76. Nel v. 33 Gesù evoca quando i giudei inviarono a Giovanni e questi rese testimonianza (memartuérhken) alla verità (t+% a\lhqeòç). Gesù da una parte esclude tale testimonianza, dall’altra invece la ammette. La esclude per sé: egli infatti non riceve la testimonianza (thèn marturòan) da parte 74 Troviamo in questa parte il verbo martureéw che si legge sei volte, cfr. vv. 31.32 (bis).33.36.37; nella parte seguente però si legge anche nel v. 39; il termine marturòa si legge quattro volte, cfr. vv. 31.32.34.36.
Il verbo pisteuéw, positivamente o negativamente, si legge in questa parte quattro volte, nei vv. 38.44.46.47, e mai nella parte precedente.. 75
Il v. 37 è molto enfatico, come appare dalla ripetizione del verbo martureéw con il complemento perì e\mou%. Possiamo infatti notare il seguente schema: 76
a"llov e\stìn o| marturw%n perì e\mou% kaì oùda o$ti a\lhqhév e\stin h| marturòa h£n marture_ perì e\mou%.
Possiamo stabilire anche una relazione concentrica con l’espressione precedente. v. 31: h| marturòa mou ou\k e"stin a\lhqhév, v. 32: kaì oùda o$ti a\lhqhév e\stin
h| marturòa h£n marture_ perì e\mou%
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di un uomo (paraè a\nqrwépou). La ammette invece per i giudei, i quali, attraverso di essa, avrebbero potuto risalire a Gesù. Giovanni era la lucerna (o| luécnov) e, attraverso di lui, avrebbero potuto risalire alla Luce (to fw%v). Gesù ha menzionato la testimonianza di Giovanni perché i giudei, risalendo per mezzo di essa a Gesù, si fossero salvati (i$na u|me_v swqh%te). Purtroppo i giudei della testimonianza di Giovanni, della sua luce, hanno voluto godere soltanto per un breve momento (proèv w$ran). Gesù non esclude la testimonianza di Giovanni, ma egli, nei versi seguenti, si appella ad altre, specificamente due. Anzitutto alle opere (taè e"rga) (v. 36) che il Padre gli ha dato (deédwken): queste testimoniano a suo riguardo (perì e\mou%) appunto che il Padre (o| pathèr) lo ha mandato (a\peéstalken). La testimonianza più importante però è resa dal Padre; possiamo notare infatti l’espressione del v. 37: «e colui che mi ha mandato (o| peémyav me) il Padre (o| Pathér), Lui (e\ke_nov)77 ha reso testimonianza (memartuérhken) a mio riguardo (perì e\mou%)». Nel v. 39 è introdotta un’altra testimonianza. Gesù esorta i giudei a “scrutare (e\rauna%te)” le Scritture; aggiunge subito che sono quelle (e\ke_naò ei\sin) che rendono testimonianza (ai| marturou%sai) a riguardo di Lui (perì e\mou%). Riassumendo, Gesù esclude che Egli renda testimonianza di se stesso, ma cita altri testimoni. Non si appella alla testimonianza di Giovanni, che tuttavia non esclude, ma anzi richiama, perché ad essa si sono riferiti i giudei e partendo da essa avrebbero potuto salvarsi. Soprattutto i testimoni a cui si appella Gesù sono: 1. Le opere (taè e"rga) (v. 36), 2. Il Padre (o| Pathér) (v. 37), 3. Le Scritture (taèv grafaév) (v. 39). La menzione dei testimoni nel cap. 5 del vangelo di Giovanni suggerisce di ampliare la nostra prospettiva estendendola a tutto il vangelo. Possiamo considerare anzitutto il blocco dei vv. 13-18 del cap. 8 del vangelo di Giovanni, in un analogo contesto di disputa. Nel v. 13 i farisei obiettano a Gesù che la sua testimonianza non è valida, perché Egli testi77 Si può notare l’enfasi dell’aggettivo e\ke_nov dopo il sostantivo o| Pathér, quasi a dire: “proprio Lui”.
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monia di se stesso (perì seautou%). A differenza di 5,31, dove ha dichiarato che, se testimonia di se stesso, la sua testimonianza non è valida, in 8,14 invece dichiara che, se anche testimonia di se stesso, la sua testimonianza è valida perché sa da dove viene (e"rcomai) o dove va (u|paégw). Nei vv. 17-18 però dichiara che Egli non è solo a rendere testimonianza. La legge ritiene valida la testimonianza di due78; a suo riguardo sono appunto due che testimoniano: Lui e il Padre79. Un altro blocco di testi dove è descritta una testimonianza è Gv 1,7-37. Di Giovanni si dice che venne per rendere testimonianza (i$na marturhés+) alla luce (perì tou% fwtoév) perché tutti credessero per mezzo di lui (v.7); l’evangelista precisa (v. 8) che non era lui la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce. La testimonianza di Giovanni è menzionata ancora nei vv. 16.19, ma l’espressione culmine è nel v. 34, dove leggiamo: «Ed io ho visto (ka\gwè e|wré aka) ed ho reso testimonianza (kaì memartuérhka) che questi è (o$ti ou/toév e\stin) il Figlio di Dio (o| ui|ovè tou% qeou%)». La testimonianza di Giovanni è richiamata anche in 3,26: «(i discepoli) dissero a lui (a Giovanni): Rabbì, colui al quale tu hai reso testimonianza (memartuérhkav), ecco battezza». La testimonianza di Giovanni richiama, in 19,35, la testimonianza del discepolo presso la croce80. Il testo di 19.35 richiama quello di 21,2481. 78
Cfr. Dt 17,6; 19,15.
Il v. 18 è formulato con una certa enfasi. Possiamo notare anche la seguente struttura letteraria insieme alternata e concentrica: 79
e\gwé ei\mi o| marturw%n perì e\mautou% kaì marture_ perì e\mou% o| peémyav me pathér 80
81
Possiamo stabilire la seguente relazione: Giovanni: 1. (v. 7): i$na paéntev pisteuéswsin di’au\tou% 2. (v. 34): ka\gwè e|wré aka kaì memartuérhka Discepolo 3. (19,35): o| e|wrakwèv memartuérhken 4. (19,35): i$na kaì u|me_v pisteué[s]hte.
Possiamo stabilire la seguente relazione: 19,35: o| e|wrakwèv memartuérhken
a\lhqinhè au\tou% e\stin
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Possiamo notare che la prima testimonianza menzionata nel vangelo è quella di Giovanni, e l’ultima, menzionata, è quella del discepolo. La testimonianza delle opere è richiamata anche in 10,25, dove Gesù afferma: «Le opere che io faccio nel nome del Padre mio, queste testimoniano (marture_) a mio riguardo (perì e\mou%), ma voi non credete». C’è pure la testimonianza del Paracleto, a riguardo del quale, in 15,26, Gesù dichiara: «Quando verrà il Paracleto, lo Spirito di verità che viene dal Padre egli renderà testimonianza (marturhései) a me (perì e\mou%)». Il Paracleto però non è solo: alla sua è accostata anche la testimonianza dei discepoli; nel seguente v. 27 infatti Gesù continua: «anche voi mi rendete testimonianza (marture_te)». È pure citata la testimonianza di alcune persone particolari: anzitutto la donna samaritana, in 4,39, alla cui testimonianza (diaè toèn loégon th%v gunaikoèv marturouéshv) molti credettero in Gesù. In 12,17 è pure menzionata la testimonianza della folla, che era con Gesù, quando chiamò Lazzaro dal sepolcro e lo resuscitò da morte. Particolarmente importante però è la testimonianza resa non a Gesù, ma da Gesù. In 3,11 Gesù dichiara: «ciò che sappiamo diciamo e ciò che abbiamo visto testimoniamo (marturou%men)». Gesù sottolinea che la sua testimonianza è vera, ma i giudei non la accolgono. Nel seguente v. 32 ancora leggiamo: «ciò che ha visto e udito questo testimonia (marture_)»; con amarezza però Gesù sottolinea che nessuno riceve la sua testimonianza (thèn marturòan au\tou%). Nel v. 33 però ancora continua che «chi ha ricevuto la sua testimonianza (au\tou% thèn marturòan) ha sigillato che Dio è verace». Il testo più importante però evidentemente è quello di 18,37, dove, davanti a Pilato e come risposta alla sua domanda se Egli è re, Gesù afferma e spiega il senso della sua regalità: «Io per questo sono stato generato (gegeénnhmai) e per questo sono venuto (e\lhéluqa) nel mondo per rendere testimonianza (i$na marturhésw) alla verità». Gesù poi continua: «chi è dalla verità ascolta la mia voce». Possiamo riassumere allora notando come la testimonianza, nel vangelo di Giovanni, ha due aspetti: si tratta della testimonianza resa da Gesù e di quella resa da altri a Gesù. Possiamo proporre i seguenti punti: 21,24: o| martuw%n perì touétwn
a\lhqhèv au\tou% h| marturòa e\stòn
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1. Gesù è testimone: Egli è testimone e davanti a Pilato rende testimonianza alla verità (18,37); egli testimonia ciò che ha visto e udito, evidentemente presso il Padre (3,11.32). Testimonia anche che le opere del mondo sono cattive (7,7). Purtroppo la sua testimonianza non è accolta. 2. Egli è la verità (14,7); rendendo perciò testimonianza alla verità, Egli la rende a se stesso. I giudei non la accolgono dichiarando che, dato che testimonia di se stesso, la sua testimonianza non è vera (5,31; 8,13). 3. Gesù però non testimonia di se stesso, o, almeno, non è il solo a rendere questa testimonianza. Accanto a lui ci sono altri testimoni a suo favore. Questi, secondo l’ordine del vangelo, sono: Giovanni Battista (1,7.8.15.19.32.34; 3,26), La donna samaritana (4,39), Le opere (5, 36), Il Padre (5, 37), Le Scritture (5, 39), Il Padre (8,13-18), Le opere (10,25), La folla (12,17), Lo Spirito e i discepoli (15,26-27), Il discepolo (19,35; 21,24). Emerge tra i vari testimoni un certo schema concentrico, dove al centro sono menzionate le Scritture. Tutte le osservazioni, che abbiamo proposto in relazione alla testimonianza rivelano che il quarto evangelista avrebbe voluto riprendere e completare i vangeli sinottici proponendo l’aspetto opposto. Nei vangeli sinottici il tema della testimonianza ha poca importanza. Il verbo martureéw (testimoniare) si legge solo due volte, in Mt 23,31 e Lc 4,22; a Gesù è riferito soltanto il testo di Luca nella sinagoga di Nazaret: nota l’evangelista che tutti gli rendevano testimonianza e si meravigliavano per le parole di grazia che uscivano dalla sua bocca. Il termine marturòa (testimonianza) si legge solo quattro volte, in Mc 14,55.56.59 e Lc 22,71; tutte nel contesto del processo davanti al Sinedrio. Nota Marco (v. 55) che i sacerdoti e tutto il Sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù ma
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non ne trovavano. Molti testimoniavano (v. 56) falsamente contro Gesù, ma le testimonianze erano discordi. Secondo Marco (v. 59) erano discordi anche le testimonianze riguardanti il tempio. Luca, in 22,71, nota le parole dei sinedriti: «che bisogno abbiamo di testimonianza»: evidentemente l’avevano cercata ma invano. Il termine maértuv, infine, si legge, nei vangeli, cinque volte82, di cui solo due, Mt 26,65 e Mc 14,63, si leggono nel contesto dei racconti del processo davanti al Sinedrio: nelle parole di Caifa. «che bisogno abbiamo ancora di testimoni (martuérwn)?». Nei vangeli sinottici è usato anche, cinque volte83, il verbo yeudomartureéw; a Gesù è riferito soltanto in Mc 14,56.57, nel contesto del processo davanti al sinedrio: molti testimoniavano contro Gesù. Si legge pure, due volte, in Mt 15,19; 26,59, il termine yeudomarturòa: secondo il primo evangelista, cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, non potendone trovare una vera, ma non trovavano neppure quella. In Mt 26,62; 27,13; Mc 14,60 si legge il verbo katamartureéw (testimoniare contro); solo in Mt 26,60 leggiamo il termine yeudomaértuv (falso testimone) Secondo i vangeli sinottici non fu possibile trovare contro Gesù alcuna testimonianza, anche falsa. Le false che si presentavano si contraddicevano. Gesù infatti fu condannato dal Sinedrio non sulla base di una qualche testimonianza, anche falsa, ma sulla base di una propria confessione, iniquamente estorta e ingiustamente sfruttata. Il quarto evangelista completerebbe questo quadro: se non fu possibile trovare qualche testimonianza contro Gesù, se ne trovano tante a suo favore, e massimamente qualificate, attestanti la verità di Gesù, come colui che è venuto a testimoniare appunto la Verità, come Lui stesso ha dichiarato davanti a Pilato. I testimoni autentici a favore di Gesù sono: il Padre, lo Spirito, le opere, le Scritture, Giovanni, il discepolo, i discepoli, la donna samaritana, la stessa folla. In questa prospettiva, l’incredulità dei giudei, che non hanno voluto accogliere la testimonianza di Gesù, risulta massimamente colpevole; si escludono dal gregge di Gesù (10,26), il loro peccato rimane (9,41) e sono destinati a morire nei loro peccati (8,24). 82 83
Cfr. Mt 18,16; 26,65; Mc 14,63; Lc 11,48; 24,48. Cfr. Mt 19,18; Mc 10,19; 14,56.57; Lc 18,20.
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3.3.2. La seconda sezione (vv. 37b-47) Benché sia ancora menzionato nel v. 39, in relazione alle Scritture, in questa seconda sezione non è più centrale il tema della testimonianza, bensì quello della fede. Come abbiamo detto, in questa sezione il verbo pisteuéw, in forma negativa (non credere), torna84 sei volte. In questa parte Gesù esprime pesanti giudizi contro i suoi interlocutori: focalizza la loro incredulità e ne indica anche la causa. È difficile cogliere, in questa parte una precisa struttura letteraria. Si possono individuare delle brevi unità, che però scaturiscono da ciò che precede ed è difficile evidenziare una precisa demarcazione. Possiamo tuttavia individuare anzitutto una duplice inclusione letteraria. La prima, tra il v. 38 e il v. 47, è determinata dal verbo ou\ pisteuéete; la seconda, tra il v. 39 e il 46, è determinata, rispettivamente, dal sostantivo taèv grafaév (v. 39) e il verbo e"grayen (v. 46) 85. Possiamo individuare una prima unità nei vv. 38-42, caratterizzata da una struttura tematicamente concentrica, nel seguente modo: 1. kaì toèn loégon au\tou% ou\k e"cete e\n u|m_n meénonta, 2. o$ti o£n a\peésteilen e\ke_nov, touét§ u|me_v ou\ pisteuéete 3. e\rauna%te taèv grafaév, o$ti u|me_v doke_te e\n au\ta_v zwhèn ai\wn é ion e"cein: kaì e\ke_naò ei\sin ai| marturou%sai perì e\mou%
4. kaì ou\ qeélete e\lqe_n proév me i$na zwhèn e"chte 5. doéxan paraè a\nqrwépwn ou\ lambaénw, a\llaè e"gnwka o$ti thèn a\gaéphn tou% qeou% ou\k e"cete e\n e|auto_v.
Contro la testimonianza delle Scritture (3) i giudei non vogliono credere in Gesù (2) né andare a lui per avere la vita (4). Il motivo di ciò è che non hanno in sé la parola di Dio (1) e l’amore di Dio non è in loro (5). La prima frase: «la sua parola non avete in voi dimorante» si ricollega alle espressioni del v. 37b: «La sua voce non avete mai ascoltato (a\khkoéate), 84 85
Cfr. vv. 38.44.46 (bis).47 (bis).
Possiamo proporre così il seguente schema: 1. v. 38: ou\ pisteuéete, 2. v. 39: taèv grafaév, 3. v. 46: e"grayen, 4. v. 47: ou\ pisteuéete.
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né il suo volto avete mai visto (e|wraékate)». Alla base dell’incredulità dei giudei c’è perciò l’assenza della parola di Dio in loro, e tale assenza è dovuta al fatto che non hanno mai avuto alcuna esperienza di Dio. Possiamo individuare una seconda unità nei vv. 41.43-44. Il v. 41, che abbiamo inserito nell’unità precedente, di fatto richiama i vv. 43-44. Questi versi sono caratterizzati dal verbo lambaénw; i vv. 41.43 anzi si legano anche per lo stesso oggetto déoxé an, ripetuto due volte nel v. 44, costituendo così anche una inclusione letteraria. Abbiamo in questa unità le seguenti espressioni: 1. doéxan paraè a\nqrwépwn ou\ lambaénw, 2. […] ou\ lambaéneteé me a"llov […] e\ke_non lambaénete 3. doéxan paraè a\llhélwn lambaénontev […]. Ai giudei Gesù rimprovera il loro modo di fare: essi ricevono gloria vicendevole e non cercano quella che viene da Dio (3). La gloria che viene da Dio si ottiene nell’accoglienza di Gesù86; dal momento che essi non lo accolgono, vuol dire che ricevono gloria reciproca. In ciò si contrappongono a Gesù che invece non riceve la gloria degli uomini. La terza unità può essere individuata nei vv. 45-47, legati dalla menzione della figura di Mosè e dove si introduce il tema del giudizio, non ancora menzionato nei versi precedenti. Si introduce appunto la figura di Mosè87, al quale, non a Gesù, specificamente competerà compiere il giudizio. Il v. 45 si relaziona al v. 39 dove si parla delle Scritture. L’autore delle Scritture, come apparirà dal v. 46 seguente è Mosè. Nel 39 di esse si dice che testimoniano a riguardo di Gesù; nel v. 45 al loro Possiamo notare la seguente relazione concentrica: v. 43: «non accogliete me (ou\ lambaéneteé me)», «un altro […] quello accogliere (e\ke_non lambaénete)», v. 44: «gloria riceventi a vicenda (doéxan paraè a\llhélwn lambaénontev), «La gloria, quella dal solo Dio non cercate (ou\ zhte_te)», Da questo schema appare che non si cerca la gloria di Dio per il fatto che non si accoglie Gesù. Al contrario, si cerca la propria gloria per il fatto che si accoglie un altro che eventualmente viene (e\anè e"lq+). 86
Mosè è menzionato ancora nel vangelo in 1,17.45; 6,32; 7,19.22.23. In 9.28-29 i giudei stessi contrappongono Mosè a Gesù; dicono che a Mosè ha parlato Dio, di Gesù invece non sanno donde è. 87
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autore è riservato il compito di fare il giudizio. I giudei hanno confidato in Mosè per andare contro a Gesù; questi però non conferma la loro speranza, ma formula un giudizio di condanna88. Nei seguenti vv. 46-47 la figura di Mosè è menzionata in relazione alla fede. Ai giudei Gesù rimprovera la totale assenza di fede; tacitamente Egli presuppone la loro affermazione di credere in Mosè. Gesù però obietta che, se avessero creduto in Mosè, avrebbero creduto anche in Lui, perché di Lui l’antico mediatore scrisse. Dal momento però che i giudei non credono alle sue Scritture, non potranno mai credere in Gesù. Gesù si esprime in forma di interrogativa: «come potranno credere alle mie parole»89? Possiamo allora concludere che l’aspetto fondamentale di questa sezione è la fede, la cui assenza nei giudei Gesù deplora. Di fronte alla plurima e schiacciante testimonianza a favore di Gesù, la loro risposta avrebbe dovuto essere l’accoglienza e la fede. Proprio queste realtà sono mancate in loro. Nei vv. 37b-47 è indicata infatti una triplice incredulità dei giudei: a Dio (vv. 37b-42), a Gesù (vv. 41.43-44) e a Mosè (vv. 45-47). Al centro è menzionato Gesù Cristo, che è venuto nel nome del Padre suo, ma che i giudei non hanno accolto e nel quale non hanno creduto. Il motivo è indicato subito dopo: essi amano ricevere una reciproca gloria, non quella di Dio; per questo sono disposti ad accogliere chiunque, che viene nel proprio nome, ma non colui che viene nel nome del Padre. 88
Possiamo notare in questa unità due frasi parallele:
mhè doke_te o$ti e\gwè e"stin kathgorhésw o| kathgorw%n u|mw%n u|mw%n Mwu=sh%v proèv toèn pateéra ei\v o£n h\lpòkate 89
Nei vv. 46-47 è possibile individuare una struttura insieme concentrica e alternata:
ei\ gaèr e\pisteuéete Mwués = ei e\pisteuéete a!n e\moò perì gaèr e\mou% e\ke_nov e"grayen ei\ deè to_v e\keònou graémmasin ou\ pisteuéete, pw%v to_v e\mo_v r|hm é asin pisteuésete;
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Gesù è garantito dalla testimonianza del Padre e da quella delle Scritture, formate e tramandate da Mosè. Ma i giudei sono chiusi sia al Padre che a Mosè, per questo sono incapaci ad accogliere la loro testimonianza. A riguardo del rapporto dei giudei con il Padre Gesù dice che essi non hanno ascoltato la sua voce, né visto il suo volto: di conseguenza, non è, dimorante in loro, la Sua parola (v. 38a) né hanno il Suo amore (v. 42). A riguardo del rapporto dei giudei con Mosè Gesù dice che essi non gli hanno creduto, perché di Lui quegli scrisse90. Le Scritture dell’AT costituiscono la prefigurazione o la preparazione al mistero di Gesù; Gesù sembra argomentare che, non credendo in Mosè, che è la preparazione, è impossibile pervenire alla fede in Lui. L’incredulità dei giudei poggia ed è frutto di una triplice chiusura: verso il Padre, la cui voce non hanno udito e il cui volto non hanno visto; verso Gesù che non hanno accolto; verso Mosè che scrisse di Lui, nel quale non hanno creduto. 3.4. Conclusione Concludendo, nel cap. 5 del vangelo di Giovanni, possiamo evidenziare il seguente sviluppo tematico: 1. Gesù guarisce il paralitico (vv. 1-9a); 2. Il problema dell’identità di Gesù nel seguente progresso (vv. 9b-18): a. l’uomo guarito, rimproverato di trasgredire il sabato, rimanda a Gesù; b. I giudei perseguitano Gesù perché trasgredisce il sabato e Gesù rimanda al fatto che il Padre opera; c. Gesù è perseguitato perché definiva Dio suo Padre, facendosi come Dio. 3. Gesù è il Figlio di Dio che opera in stretta relazione con il Padre (vv. 19-30), soprattutto nelle due opere che il Padre gli ha mostrato: dar la vita e compiere il giudizio; 4. I testimoni di Gesù (vv. 31-37a); 5. L’incredulità dei giudei (vv. 37b-47). 90
Cfr. 1,45.
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Gesù ha guarito il paralitico in giorno di sabato, trasgredendo così il comandamento del riposo. Gesù rivendica invece la legittimità della sua opera, essendo il Figlio di Dio, al quale il Padre ha dato il potere di dare la vita e compiere il giudizio. La verità come Figlio di Dio è garantita da diverse testimonianze: soprattutto quella del Padre, delle sue opere e delle Scritture, senza omettere quella di Giovanni, al quale i giudei si sono riferiti, ma che ha reso pure la sua testimonianza. Nonostante testimonianze così schiaccianti, i giudei sono rimasti chiusi nel recinto della loro incredulità perché non si sono aperti alla voce del Padre, non hanno accolto Gesù, non hanno creduto a Mosè che scrisse di Lui. 4. I testi del cap. 10 Consideriamo in questo secondo paragrafo i testi del cap. 10, sia i vv. 19-30, sia anche i vv. 31-39. 4.1. Divisione del cap 10 È utile però considerare prima la divisione del cap. 10. Distinguiamo tra le varie posizioni degli interpreti e la nostra posizione. 4.1.1. Posizione degli interpreti Indichiamo, in questo paragrafo, alcune proposte, quelle, almeno a nostro parere, più significative, degli interpreti. Beasley-Murray91 propone la seguente divisione: parte prima (vv. 1-21): discorso sul pastore e sul gregge, divisa in due sezioni, i vv. 1-6: la parabola del pastore, del gregge e del ladro e i vv. 7-18: una meditazione sulla parabola; parte seconda (vv. 22-42): Gesù nella festa della dedicazione, divisa in tre sezioni, vv. 22-30: Gesù Messia; vv. 31-39: Gesù figlio di Dio; vv. 40-42: Gesù va in Transgiordania.
91
Cfr. G.R. Beasley-Murray, John, cit., 167.
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Beeckmann92 si limita soltanto a dividere il capitolo in due parti: i vv. 1-21: il buon pastore, e i vv. 22-42: la suprema testimonianza. Così anche Strachan93: i vv. 1-21: la parabola del buon pastore e i vv. 22-42: discorso e controversia nella festa della dedicazione. Belser94 propone nel cap. 10 tre parti, i vv. 1-21: il buon pastore, i vv. 22-39: il discorso di Gesù nella festa della dedicazione e i vv. 40-42: il ritorno di Gesù in Perea. Una divisione in tre parti è proposta anche da Ellis95, che considera anche il cap. 9: i vv. 9,1-10,21: l’uomo nato cieco e il buon pastore, i vv. 10,22-39: Gesù alla festa della dedicazione e i vv. 10,40-12,11: Gesù, resurrezione e vita. Bruce96 distingue pure tre parti i vv. 1-21: la parabola del buon pastore, i vv. 22-39: l’incontro nel tempio, i vv. 31-39. un rinnovato conflitto. Bruce ricollega i vv. 40-42 alla sezione seguente che si estende fino a 12,50. Hoskyns-Davey97 individuano invece due parti, i vv. 1-21: la parabola del pastore e dei briganti e i vv. 22-42: la dedicazione del tempio e la santificazione di Gesù come figlio di Dio. De Villiers98 distingue nei vv. 1-18 due parti, i vv. 1-5 e i vv. 7-18; nei vv. 1-5 distingue due brevi unità, i vv. 1-3a: l’ingresso del pastore nel recinto e i vv. 3b-5: ciò che fa il pastore; nei vv. 7-18 distingue ancora due unità i vv. 7-10: la spiegazione della metafora della porta e i vv 11-16: il buon pastore. Fabris99 mantiene l’unità del capitolo, che però divide in due parti, i vv. 1-21: il discorso sul buon pastore, e i vv. 22-42: il dibattito di Gesù con i giudei a Gerusalemme durante la festa della dedicazione. Divide poi la prima parte (vv. 1-21) in due sezioni, i vv. 1-6: la parabola del Cfr. P. Beeckmann, L’évangile selon Saint Jean d’après les meilleurs autheurs catholiques, Bruges 1951, 224.232. 92
Cfr. R.H. Strachan, The Fourth Gospel. Its Significance and Environment, London 19463, 121-127. 93
Cfr. J.E. Belser, Das Evangelium des Johannes übersetzt und erklärt, Freiburg in Br. 1905, 316-332. 94
95
Cfr. E.E. Ellis, The Genius of John, cit., 158-177.
Cfr. F.F. Bruce, The Gospel of John, Grand Rapids (Michigan) 1984 (ristampa), 223-233. 96
97 98 99
Cfr. E.C. Hoskyns –F.N. Davey, The Fourth Gospel, cit., 366-382.
Cfr. J.L. De Villiers, The Shepherd and his Flock, in Neot 2 (1968) 89-103: 91-101. Cfr. R. Fabris, Giovanni, cit., 581.
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pastore e i vv. 7-21: le esplicitazioni della parabola; divide poi la seconda parte (vv. 22-42) in tre sezioni, i vv. 22-30: il dibattito sull’identità di Gesù come Messia, i vv. 31-39: il dibattito sull’identità di Gesù come figlio di Dio e i vv. 40-42: Gesù si ritira oltre il Giordano. Lagrange100 distingue quattro parti, i vv. 1-21: il pastore e il gregge, i vv. 22-31: Gesù è uno con il Padre, i vv. 32-39: la filiazione divina, i vv. 40-42: Gesù oltre il Giordano. Lindars101 distingue pure nel cap. 10 quattro parti, i vv. 1-6: la parabola, i vv. 7-18: le allegorie, i vv. 19-21: la reazione dei giudei, i vv. 22-42: Gesù e il Padre sono una cosa sola. Distingue poi, in questa quarta parte, tre sezioni, i vv. 22-30: relazione di Gesù al Padre, i vv. 31-39: l’accusa di bestemmia, i vv. 40-42: il ritiro oltre il Giordano. Maier102 distingue ancora tre parti, i vv. 1-21: il discorso del pastore, i vv. 22-39: Gesù nella festa della dedicazione, i vv. 40-42: Gesù oltre il Giordano. Distingue poi i vv. 1-21 in tre parti, i vv. 1-6: discorso sul pastore, sul ladro e sulla porta, i vv. 7-18: Gesù buon pastore, i vv. 19-21: discussione tra i giudei sulle parole di Gesù. Manns103 distingue nei vv. 1-30 tre parti; nella prima parte (vv. 1-6), distingue poi tre unità, i vv. 1-2: il pastore e il ladro, i vv. 3-5: l’ atteggiamento del pastore a riguardo del gregge, il v. 6: nota redazionale; nella seconda parte (vv. 7-21) distingue quattro unità, i vv. 7-10: rilettura della parabola in prospettiva antigiudaica e soteriologia, i vv. 11-14104: rilettura della parabola in prospettiva ecclesiale, i vv. 15-18: rilettura della parabola in prospettiva cristologica, i vv. 19-21: parte redazionale; nella terza parte (vv. 22-30) distingue ancora quattro unità, i vv. 22-24: parte redazionale, i vv. 25-26: rilettura in una prospettiva di fede, i vv. 27-28: rilettura in prospettiva cristologica, i vv. 29-30: rivelazione dei rapporti tra Padre e Figlio.
100 101 102
Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, cit., 272-290.
Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, London 1986 (repr.), 355-377. Cfr. G. Maier, Johannesevangelium, I, cit., 439-456.
Cfr. F. Manns, Traditions targumiques en Jean 10,1-30, in RSR 60 (1986) 135-157: 139-145. 103
104
I vv. 11-14 oppongono. il buon pastore al mercenario, cfr. F. Manns, ibid.,139.
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Morris105 invece distingue quattro parti, i vv. 1-6: la parabola, i vv. 7-18: applicazione a Cristo, i vv. 19-21: la reazione dei giudei, i vv. 22-42: il rifiuto finale di Gesù; distingue poi, in questa quarta parte, tre sezioni, i vv. 22-30: l’unità del Padre e del Figlio, i vv. 31-39: l’accusa di bestemmia controbattuta, i vv. 40-42: il ritiro oltre il Giordano; i vv. 40-42 sono come un interludio. Plummer106 invece distingue cinque parti, i vv. 1-10: l’allegoria della porta e del gregge, i vv. 11-18: l’allegoria del buon pastore, i vv. 19-21: il risultato opposto all’insegnamento, i vv. 22-38: il discorso nella festa della dedicazione, i vv. 39-42: il risultato opposto del discorso. Schneider107 propone poi una divisione in cinque parti, i vv. 1-6: l’immagine, i vv. 7-18: la spiegazione dell’immagine, i vv. 19-21: lo scisma, i vv. 22-39: Gesù nella festa della dedicazione, i vv. 40-42: al di là del Giordano. Simoens108 considera una unità da 9,1 fino a 10,39. Distingue così tre fasi, i vv. 9,1-23: processo tra luce e tenebre, i vv. 9,2410,6: rovesciamento della situazione, i vv. 10,7-39: legittimazione della posizione assunta da Gesù; distingue poi, nella seconda fase (vv. 9,2410,6), tre unità: i vv. 9,24-34: attacco contro il cieco nato, i vv. 9,35-41: rovesciamento della situazione, i vv. 10,1-6: l’enigma del pastore e delle pecore; distingue pure, nella terza fase (vv. 10,7-39) tre unità: i vv. 7-18: lo sviluppo dell’enigma; i vv. 19-24: lo scisma tra i giudei; i vv. 25-39: argomentazione di Gesù per mezzo delle opere. Simonis109 divide il cap. 10 in cinque parti, i vv. 1-5, i vv. 7-10, i vv. 11-18, i vv. 25-30, i vv. 34b-38e. Distingue poi, nei vv. 1-5, quattro strofe: vv. 1b-2b; v. 3; v. 4; v. 5. Distingue pure quattro strofe nei vv. 11-18: vv. 12-13; vv. 14-15; v. 16; vv. 17-18. Tillmann110 divide il cap. 10 in due parti: 105 Cfr .L. Morris, The Gospel according to John, Grand Rapids (Michigan) 1971, 394-402. 106 107
Cfr A. Plummer, The Gospel according to St. John, cit., 210-224.
Cfr. J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, Berlin 19782, 199-209.
108 Cfr. Y. Simoens, Secondo Giovanni. Una traduzione e una Interpretazione, trad. it., Bologna 2000, 444-445. 109 Cfr. A.J. Simonis, Die Hirtenrede im Johannesevangelium. Versuch einer Analyse von Johannes 10,1-18 nach Entstehung, Hintergrund und Inhalt, Roma 1967, 24-25. 110
Cfr. F. Tillmann, Das Johannesevangelium, Bonn 19314, 121-169.
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i vv. 1-21, che costituiscono la sesta parte della sezione del terzo viaggio di Gesù verso Gerusalemme (7,1-10,21) e i vv. 22-42: la seconda volta a Gerusalemme, nella festa della dedicazione (vv. 22-39) e in Perea (vv. 40-42). Van den Busche111 infine divide pure il cap. 10 in tre parti: vv. 1-21: l’allegoria dell’ovile (vv. 1-6), della porta (vv. 7-10), del buon pastore (vv. 11-21); vv. 22-39: la festa della dedicazione; vv. 40-42: il ritorno al di là del Giordano. 4.1.2. La nostra divisione in due parti Prescindendo perciò dai vv. 40-42, che sono di transizione, e anche da 9,41, benché con questo verso cominci a parlare Gesù, possiamo individuare, in tutto lo sviluppo del cap.10, dal v. 1 fino al v. 39, due parti: i vv. 1-18 (prima parte) e i vv. 22-39 (seconda parte). La divisione in due parti è suggerita dai vv. 19-21, di indole narrativa. In questi versi l’evangelista riferisce della divisione (scòsma) che si è verificata, a riguardo di Gesù, tra i giudei. Sono riferite a riguardo di lui due posizioni opposte. Da una parte c’è chi dice che Gesù ha un demonio ed è impazzito; dall’altra ci sono quelli che timidamente difendono, limitandosi ad insinuare, obiettando, che le parole che Gesù ha pronunziato non possono essere quelle di un indemoniato, e si appellano anche al fatto che un demonio non può aprire gli occhi di ciechi. Possiamo notare che in questi versi non compare in alcun modo la tematica del pastore e delle pecore, che è stata già proposta nei vv. 1-18, ma che sarà ancora ripresa nei seguenti vv. 22-39. I vv. 19-21 sono di transizione, però si ricollegano ai seguenti vv. 22-39, di cui ne costituiscono lo sfondo. In questo paragrafo considereremo, in relazione al nostro tema, le allusioni cioè in Giovanni al processo davanti al Sinedrio da lui non narrato, ma narrato dai Sinottici, prima i vv. 19-30, poi i vv. 31-39. Considereremo, almeno come sfondo, anche la prima parte del cap. 10. i vv. 1-18. 111
Cfr. H. Van Den Bussche, Giovanni, cit., 377-390.
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4.2. Il dialogo tra Gesù e i giudei in 10,22-39 Un altro elemento del vangelo si Giovanni, che può richiamare il processo contro Gesù davanti al Sinedrio, narrato dai vangeli sinottici, è appunto il dialogo-disputa tra Gesù e i giudei contenuto nel testo di 10,22-39112. I vv. 22-39, come abbiamo detto, costituiscono la seconda sezione del cap. 10 del vangelo di Giovanni: tutto il cap. 10 infatti, prescindendo dai vv. 40-42, che sembrano costituire una transizione a ciò che segue, può essere diviso in due parti: i vv. 1-18 e i vv. 22-39113. Tra queste due parti si inseriscono i vv. 19-21, di indole totalmente narrativa, che offrono un camRiteniamo valida l’osservazione di Fabris, secondo cui si avverte nei dibattiti del c 10 una eco del processo istruttorio giuridico, riferito dai vangeli sinottici nella narrazione della passione, cfr. R. Fabris, Giovanni, cit., 596. 112
113 Uno dei problemi dibattuti tra gli autori riguarda l’ordine attuale del cap. 10, se cioè abbiamo questo capitolo come uscì dalle mani dell’evangelista oppure se ha subito manomissioni e trasposizioni. Bultmann (Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, cit., 276-278) ricostruisce il c 10 nel seguente modo: 10,11-13. 1-10. 14-18. 27-30. Schneider (Cfr. J. Schneiderr, Zur Komposition von Joh 10, in ConiNT 11 (1947) 220225) difende l’ordine attuale dei vv 1-18, però poi, sulla scia di Bultmann, fa seguire i vv 27-30 al v 18. Thompson (Cfr. J. M. Thompson, Accidental Dissaragement in the Fourth Gospel, in Exp 9 [1915] 421-437.) traspone i vv- 22-29 immediatamente dopo il cap. 9, inserendo poi i vv. 1-18 tra il v. 29 e il v. 30. Tale trasposizione è adottata da Bernard (Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, cit., XXIVs (I), 341-356 (II)) e da Wikenhauser (Cfr. A. Wikenhauser, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1962, 51), il quale però poi non la segue nel suo commento. La proposta di Thompson inoltre è ritenuta seducente da Schnackenburg (Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, II, cit., 465.), il quale però finisce poi per rinunziare di operare qualsiasi trasposizione. Si può notare che tale trasposizione salva in ogni caso l’unità dei vv. 1-18 essa perciò interessa meno al nostro lavoro. Simili trasposizioni sono state oggetto di critica da parte di Rodriguez Ruiz (Cfr. M. Rodriguez Ruiz, El discurso del buen Pastor [Jn 10,1-18]: coherencia teologico-literaria et interpretación, in EstB 48 [1990] 5-45), il quale propone un’ampia discussione a riguardo; egli, contro Bultmann (Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, cit., 276ss), Hirsch (Cfr. E. Hirsch, Studien zum vierten Evangelium, Tübingen 1936, 82-84), Schnelle (Cfr. U. Schnelle, Antidoketische Christologie im Johannes Evangelium, Göttingen 1987, 12-19), Schwartz (Cfr. E. Schwartz, Aporien im vierten Evangelium, III, Berlin 1908, 163-164) e Wellhausen (Cfr. J. Wellhausen, Das Evangelium Johannis, Berlin 1908, 47-50), sostiene l’unità dei vv. 1-18.
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biamento di scena e anche di prospettiva. Benché anche reciprocamente relazionate114, le due parti presentano uno sviluppo autonomo. 4.2.1. Divisione dei vv. 22-39 I vv. 22-39, dopo i vv. 19-21, di indole fondamentalmente narrativa, possono essere pure divisi in due sezioni: i vv. 22-30 e i vv. 31-39. Dopo i vv. 22-24a, che contengono una lunga introduzione narrativa, orientata verso il verbo e"legon, seguito dal pronome au\t§%, si introduce, nel v. 24b, la domanda dei giudei, che chiedono a Gesù: «fino a quando tieni sospesa la nostra anima? Se sei il Cristo, dì a noi». Nel v. 25a poi leggiamo la formula narrativa a\pekròqh au\to_v o| }Ihsou%v (rispose a loro Gesù), mediante la quale l’evangelista introduce la risposta di Gesù115. Questa risposta, dopo i vv. 25b-26, assume, nei vv. 27-30, anche il carattere di un monologo di Gesù, assai più breve dei precedenti, che si protrae appunto fino al v. 30. In ogni caso, l’evangelista introduce, nei vv. 25b-30, in maniera ancora ininterrotta, delle parole di Gesù. Possiamo allora concludere che i vv. 22-30 costituiscono la prima sezione della seconda parte (vv. 22-39) del cap.10. All’interno di questa sezione poi possiamo individuare due parti: la diretta risposta di Gesù, nei vv. 25-26, che riguarda specificamente la condizione degli interlocutori menzionati alla seconda persona plurale, e un monologo, nei vv. 27-30, che riguarda di nuovo le pecore (taè proébata), menzionate alla terza persona plurale. Nel v. 31 abbiamo di nuovo una espressione di indole narrativa. In esso l’evangelista ci informa che i giudei presero delle pietre per lapidare Gesù. Emerge la domanda se questa espressione narrativa concluda la parte precedente o introduca la parte seguente. Tre elementi inducono a ritenere la frase come l’introduzione alla sezione seguente. Anzitutto il verbo a\pekròqh, che introduce le parole seguenti di Gesù. Il verbo indica 114
I vv. 26-28 richiamano i vv. 3-4.
Otteniamo il seguente schema: v. 24b: v. 25b oi| }Iouda_oi a\pekròqh 115
kaì e"legon au\to_v au\t§% o| }Ihsou%v
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che le parole di Gesù sono da considerare come la sua risposta all’azione precedente dei giudei. Inoltre la duplice ripresa, nei vv. 32-33, del verbo liqaézw con cui l’evangelista, nel v. 31, ha descritto l’azione dei giudei. Infine l’espressione del v. 31: «presero pietre i giudei per lapidarlo» presenta una certa relazione tematica con il v. 39: «cercavano dunque di catturarlo». Le due espressioni, il v. 31 e il v. 39, che condividono la stessa indole narrativa, la stessa prospettiva tematica di ostilità e lo stesso avverbio paélin, sembrano costituire un’inclusione letteraria ai vv. 32-38, che contengono un duplice dialogo tra Gesù e i giudei e una lunga risposta di Gesù, caratterizzata tutta dalla seconda persona plurale. Possiamo allora individuare nei vv. 31-39 la seconda sezione della seconda parte (vv. 22-39) del cap. 10. la seconda sezione presenta delle analogie con la sezione precedente. In entrambe infatti le parole di Gesù sono determinate dalla domanda o da una azione dei giudei; assumono perciò il carattere di risposta, assente nelle due sezioni della prima parte (vv. 1-18), caratterizzate entrambe da un lungo monologo di Gesù. Troviamo però tre differenze tra la seconda sezione (vv. 31-39) e la prima (vv. 22-30). Anzitutto la seconda sezione è inclusa, come abbiamo notato sopra, da due espressioni di indole narrativa; la prima invece non presenta alcuna inclusione. Inoltre nella prima sezione abbiamo un solo intervento dei giudei, che formulano una richiesta, alla quale Gesù risponde; nella seconda invece gli interventi dei giudei sono due: una azione (v. 31) ed una dichiarazione (v. 33). Infine, mentre nella prima sezione possiamo distinguere tra la diretta risposta di Gesù, alla seconda persona plurale (vv. 25-26), e un monologo, alla terza persona plurale (vv. 27-30), nella seconda sezione tutto lo sviluppo delle parole di Gesù, nei vv. 34-38, costituisce la sua risposta, formulata tutta alla seconda persona plurale, alla dichiarazione dei giudei nel v. 33. Il nostro scopo però non è quello di considerare specificamente, e in maniera completa, queste sezioni della seconda parte del cap 10, bensì confrontarle, singolarmente con la narrazione del processo davanti al Sinedrio, nei vangeli sinottici.
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4.2.2. Peculiarità dei vv. 22-24a Narra in questi versi l’evangelista che era la festa della “dedicazione (taè e\gkaònia)” e Gesù camminava (periepaétei) nel tempio (e\n t§% i|er§%), nel portico di Salomone. Qui viene raggiunto e circondato (e\kuéklwsan) dai giudei che, ripetutamente, e anche con una certa insistenza (e"legon), lo esortano a dir loro se è il Cristo. In questa introduzione narrativa l’evangelista offre tre indicazioni. La prima indicazione è cronologica (v. 22); essa comprende due elementi: la menzione della festa della dedicazione (taè e\gkaònia), e il tempo di inverno (ceimwèn h&n). La festa della dedicazione, o la Chanuka, era di origine relativamente recente. Celebrava la restaurazione del culto israelita dopo la persecuzione di Antioco Epifane, che aveva profanato il tempio di Gerusalemme, imponendo il culto di Giove olimpico. Quando i Maccabei liberarono il tempio, non ritennero nulla di più urgente che purificarlo e ristabilire la liturgia israelita in tutta la sua purezza116. Tale festa di dedicazione si celebrò il 25 del mese di Casleu del 165 a.C117. La seconda indicazione (v. 23) riguarda invece la posizione di Gesù: egli camminava (periepaétei) nel tempio (e\n t§% i|er§%)118. L’evangelista nota anche il punto esatto dove Gesù si muoveva: il portico di Salomone (e\n t+% stoç% tou% Solomw%nov). La terza indicazione infine (v. 24a) si riferisce all’azione che i giudei compiono nei confronti di Gesù: essi lo circondarono (e\kuéklwsan ou&n au\toén) e dicevano (e"legon) a lui. Queste tre indicazioni ci dicono che la parte che comincia con il v. 22, pur gravitando attorno allo stesso tema, non continua direttamente quella precedente, ma determina un nuovo inizio. Gesù è ancora impegnato in una disputa con i giudei, ma questa non è più quella descritta nella parte precedente, bensì una nuova. 116
Cfr. 1 Mac 4,36.
Cfr. 1 Mac 4,56-59. Cfr. J. Giblet, Et il y eut la dedicace (Jn 10,22-39), in BiViChr 66 (1965), 17-25: 17. Cfr anche F.M. Abel, La fête de la Kanoucca, in Rb 53 (1946) 538546: 539; H. Höpfl, Das Chanukafest (Joh 10,22), in Bib 3 (1922)165-179: 165. 117
118 L’imperfetto periepaétei indica una azione abituale e continua compiuta da Gesù. L’evangelista però non precisa di più: non indica cioè lo scopo per cui Gesù camminava nel tempio. Forse voleva sottolineare il senso della padronanza con cui Gesù si muoveva nel tempio: ciò avrebbe provocato la reazione da parte dei giudei.
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4.3. La prima sezione (vv. 22-30) Prescindendo. almeno per il momento, dai vv. 22-24a, distinguiamo nei vv. 24b-30, la domanda rivolta a Gesù dai giudei (v. 24b) e la sua risposta che si estende, assumendo anche, come abbiamo già notato, il carattere di un monologo, fino al v. 30. 4.3.1. La domanda rivolta a Gesù (v 24b) La domanda ripetutamente119 rivolta a Gesù, in Gv 10,24b, suona nel seguente modo: «fino a quando (e$wv poéte) la nostra anima (thèn yuchèn h|mw%n) tieni sospesa (ai"reiv)? Se sei il Cristo (o| Cristoév), dillo a noi (ei\peè h|m_n) apertamente (parrhsòç)». La diretta domanda dei giudei, in se stessa, quella che più specificamente ci interessa, secondo la formulazione giovannea è la seguente: ei\ suè eù o| Cristoév, ei\peè h|m_n parrhsòç (se tu sei il Cristo, dì a noi apertamente). Possiamo confrontare questa domanda con altre, analoghe, quelle riferiteci, nel contesto del processo davanti al sinedrio, dai vangeli Sinottici. Ci riferiamo specificamente alla domanda che, secondo Matteo, fu rivolta a Gesù da Caifa; che, secondo Marco, fu rivolta dal sommo sacerdote, ovviamente Caifa, benché il secondo evangelista non lo menzioni per nome; che, secondo Luca, fu rivolta invece da alcuni sinedriti. In Mt 26,63 la domanda del sacerdote è introdotta in maniera molto solenne, mediante l’espressione: «ti scongiuro per il Dio vivente, che a noi dica». In Mc 14,61 la domanda del sacerdote è introdotta, in maniera molto più semplice, senza lo scongiuro, ma mediante l’espressione leégei au\t§% (dice a lui). Secondo Lc 22,67 infine la domanda non è posta specificamente da Caifa (Matteo), o dal sommo sacerdote (Marco) ma, dai sinedriti in genere, ed è introdotta dall’espressione participiale, ancora più semplice, leégontev (dicendo). In ogni caso, il contesto nei tre vangeli sinottici è identico: il processo subito da Gesù davanti al sinedrio dei giudei.
119
L’imperfetto e"legon sembra essere appunto un imperfetto iterativo.
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Possiamo confrontare le quattro espressioni: Matteo Marco Luca Giovanni
i$na h|m_n ei"p+v ei\ ei\ ei\ suè suè suè suè eù eù eù eù o| Cristoèv o| Cristoèv o| Cristoèv o| Cristoèv o| ui|ovè o| ui|ovè tou% qeou% tou% eu\loghtou% ei\poèn ei\peè h|m_n h|m_n parrhsòç L’espressione suè eù o| Cristoév è identica in tutti e quattro i vangeli. In
Marco essa è introdotta in forma di interrogativa diretta; in Matteo e Luca invece è introdotta, come interrogativa indiretta, nella maniera di una proposizione condizionale (ei\), la cui apodosi è costituita da una forma all’imperativo aoristo eùpon. Quest’ultimo verbo in Matteo però è espresso al congiuntivo aoristo, dipendente dalla particella i$na (i$na eùèp+v) ed è introdotto prima della protasi; in Luca invece è espresso all’imperativo aoristo (ei\poén) ed è posposto alla protasi. L’espressione giovannea, come appare dallo schema sopra proposto, è più vicina a quella lucana120; con il terzo evangelista infatti, Giovanni concorda nel fatto che pospone alla protasi l’imperativo aoristo che costituisce, in entrambi gli evangelisti, l’apodosi. Rispetto a Luca però il quarto evangelista introduce solo due peculiarità: all’imperativo usa non l’espressione ei\poén bensì ei\peé, senza però alcun mutamento di senso; inoltre aggiunge il Nota Barrett che, per questa frase, Giovanni può dipendere da Luca; ma l’insieme della sezione richiama il processo di Marco davanti al Sinedrio, con la domanda del sacerdote, l’accusa di bestemmia e la deliberazione della morte, cfr. C.K. Barrett, The Gospel According to St. John, cit., 167. Schnackenburg tuttavia ritiene poco probabile una dipendenza da Lc 22,68. Si potrebbe pensare piuttosto ad un contatto con la tradizione di cui disponeva Luca, cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, II, cit., 509. 120
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termine parrhsòç (apertamente). Il termine parrhsòç ricomparirà poi, in bocca a Gesù, nel contesto del processo davanti ad Anna, in 18,20121; dove egli, alle domande del sacerdote, dichiarerà di avere parlato “apertamente (parrhsòç)” al mondo. In entrambi gli evangelisti, Luca e Giovanni, l’imperativo è seguito dal pronome personale al dativo plurale h|m_n; In Matteo invece tale pronome precede il verbo al congiuntivo aoristo (ei"p+v), dipendente dalla particella i$na. Secondo Matteo, in 26,63, Caifa pone a Gesù due domande specifiche: non solo cioè se egli è il Cristo (o| Cristoév), ma anche se è il figlio di Dio (o| ui|ovè tou% qeou%)122. Marco pure, in 14,53, ha due domande come Matteo; la seconda domanda però contiene un’espressione analoga ma non identica. Secondo Marco infatti il sommo sacerdote, non menzionato per nome dal secondo evangelista, chiede a Gesù se Egli è il Cristo, “il figlio del Benedetto (tou% eu\loghtou%)”. Luca presenta delle differenze rispetto a Matteo e Marco. Secondo Luca anzitutto chi pone la domanda a Gesù non è il sommo sacerdote, bensì “tutti i sinedriti (eùpan deè paéntev)”. Inoltre, a differenza di Matteo e Marco, che pongono sotto una sola domanda due oggetti: Cristo e Figlio di Dio, Luca invece formula due domande distinte. Nella prima domanda (Lc 22,67a) i sinedriti, secondo Luca, chiedono a Gesù soltanto se egli è il Cristo, poi, dopo la risposta di Gesù, nei vv. 67b-69, insistono (v. 70): «dissero tutti: tu dunque sei (suè ou&n eù) il figlio di Dio (o| ui|ovè tou% qeou%)?» Nell’espressione o| ui|ovè tou% qeou% Luca coincide con Matteo, non con Marco. Mentre però in Matteo troviamo direttamente accostati due elementi: il termine Cristoév e l’espressione o| ui|ovè tou% qeou%, questi stessi due elementi, formulati in due domande distinte, ma pure non lontani, sono introdotti anche da Luca123. 121 122
Nei vangeli Sinottici il termine parrhsòç si legge soltanto in Mc 8,32.
Nel testo di Matteo prima leggiamo il termine o| Cristoév e poi l’espressione o| ui|ovè
tou% qeou%.
123 Otteniamo così in Luca due domande parallele: ei\
suè suè ou&n
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Questi due elementi, il termine Cristoév e l’espressione o| ui|ovè tou% qeou%, si trovano pure, ma smembrati, anche in Giovanni. In 10,24, nel contesto dei vv 24-30, la prima sezione cioè della seconda parte del cap.10, leggiamo il termine o| Cristoév; in 10,36, nel contesto dei vv. 31-39, la seconda sezione cioè della seconda parte del cap.10, troviamo invece l’espressione ui|ovè tou% qeou%. Gli elementi finora notati ci portano a concludere che il nostro evangelista, per questo aspetto, la domanda cioè rivolta a Gesù, dipenda meglio dal racconto lucano. Tuttavia la relazione anche a Matteo non può essere esclusa. Vedremo anzi come, per qualche elemento importante, Giovanni richiama meglio Matteo che non Luca. 4.3.2. La risposta di Gesù Nella risposta di Gesù alla domanda su indicata, i tre vangeli sinottici, pur con delle differenze, sostanzialmente coincidono. Sono più parallele però le espressioni che leggiamo in Matteo e in Marco. Nei primi due evangelisti infatti, la risposta di Gesù si articola in due parti: la diretta risposta alla domanda e il seguente annunzio, formulato con il linguaggio del Sal 109,1 e di Dan 7,14, dell’esperienza che i giudei avranno nel futuro del figlio dell’uomo. La diretta risposta, in entrambi gli evangelisti, è molto breve. In Matteo le parole dirette di Gesù sono soltanto due, introdotte dall’espressione leégei au\t§% o| }Ihsou%v (dice a lui Gesù): suè eùpav (tu hai detto) (Mt 26,64a); in Marco le parole di Gesù sono pure soltanto due, introdotte dall’espressione o| deè }Ihsou%v eùpen (Gesù disse): e\gwé ei\mi (io sono) (Mc 14,62). Secondo i primi due evangelisti, esplicitamente Gesù conferma di essere il Cristo. L’annunzio dell’esperienza poi, che i giudei avranno del figlio dell’uomo, introdotto specificamente da Matteo con l’espressione plhèn eù eù o| Cristoèv o| ui|ovè tou% qeou;% ei\poèn h|m_n
La prima domanda ha un carattere introduttivo; la seconda, come abbiamo già osservato, si presenta come una logica deduzione (ou&n) dalle precedenti parole di Gesù.
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leégw u|m_n, invece è quasi identico nei due evangelisti: o"yesqe toèn ui|on è tou% a\nqrwépou e\k dexiw%n kaqhémenon th%v dunaémewv kaì e\rcoémenon metaè nefelw%n tou% ou\ranou% (vedrete il figlio dell’uomo alla destra della Potenza sedente e
veniente con le nubi del cielo)124. In Luca la risposta invece è diversa. Prescindendo dall’annunzio dell’esperienza del figlio dell’uomo, più accorciato nel testo lucano e formulato quasi esclusivamente con il linguaggio del Sal 109,1, secondo il terzo evangelista Gesù non dà una vera risposta, ma propone una duplice osservazione in due parti parallele: e\an è u|m_n (se a voi) e\an è deè (se invece) ei"pw (dico) e\rwthésw (interrogo) ou\ mhè (non) ou\ mhè (non) pisteuéshte (credete) a\pokriqh%te (rispondete). Secondo Luca, Gesù obietta ai giudei che, se egli parla, essi non credono; se poi interroga, essi non rispondono. Giovanni pure presenta una risposta di Gesù. Essa però non riprende né il Sal 109,1 e Dan 7,14, ma contiene un’osservazione analoga alla prima parte della risposta di Gesù nel testo lucano: come Luca, anche Giovanni rimanda all’incredulità dei giudei. Possiamo stabilire tra i due evangelisti il seguente confronto: Luca: Giovanni: e\an è u|m_n (se a voi) eùpon (dissi) ei"pw (dico) u|m_n (a voi) ou\ mhè (non) kaì ou\ (e non) Gli elementi letterari che accostano i due evangelisti sono diversi: anzitutto una forma del verbo eùpon alla prima persona singolare; all’indicativo aoristo (eùpon) in Giovanni, al congiuntivo aoristo (ei"pw) in Luca; in entrambi gli evangelisti leggiamo il pronome dativo u|m_n; in entrambi leggiamo il verbo pisteuéw alla seconda persona plurale, al congiuntivo aoristo in Luca (pisteuéshte), all’indicativo presente in Giovanni (pisteuéete); 124
Matteo presenta tre differenze piuttosto marginali: introduce anzitutto la particella
plhén, inverte inoltre gli elementi e\k dexiw%n e kaqhémenon; usa infine la particella e\pò di Dan 7,14, secondo la versione greca dei LXX; Marco invece usa la particella metaé secondo la
versione greca di Teodozione.
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in entrambi il verbo è formulato in maniera negativa, in forma più enfatica (ou\ mhé) in Luca. Troviamo però nei due evangelisti una notevole differenza di prospettiva. In Luca anzitutto tale appello alla fede è semplicemente condizionale: se Egli parla i giudei non ascoltano, giudicando quasi inutile il suo parlare; in Giovanni invece esso appare come una precisa accusa: Gesù ha parlato, ma essi non credono. Emerge però un’altra differenza tra Luca e Giovanni: mentre in Luca segue il rimando alla Scrittura, indicando così che Gesù, nonostante il timore (e\ané ) dell’incredulità, praticamente dà una risposta pertinente, in chiave affermativa, in Giovanni invece non segue tale rimando alla Scrittura, bensì un particolare sviluppo dell’incredulità. Gesù spiega anche perché i giudei non credono: essi non appartengono alle sue pecore (v. 26); riprende il tema delle pecore (taè proébata) che aveva caratterizzato i vv. 1-18 e nota che esse ascoltano la sua voce e lo seguono (v. 27); ad esse Egli dà la vita eterna (v. 28a); sono nelle sue mani e nessuno le rapisce (v. 28b); sono nelle mani del Padre e nessuno potrà rapirle125. Implicitamente Gesù sta dicendo che i giudei, a causa della loro incredulità, da tutto ciò sono esclusi. Possiamo allora concludere che nella risposta di Gesù alla domanda dei giudei, nel testo di Gv 10, 24-30, troviamo un ulteriore elemento di relazione al processo davanti al Sinedrio narrato dai vangeli sinottici, sia a tutti e tre i vangeli sinottici per la domanda rivolta a Gesù se Egli è il Cristo, sia anche, in maniera più specifica, al racconto lucano per il rimando al tema dell’incredulità dei giudei. È evidente che Giovanni riprende tale elemento, comune con la tradizione sinottica, e lo colloca in un suo contesto e secondo un suo proprio sviluppo. Giovanni concorda con Luca anche in un altro elemento. Nella narrazione di Matteo la domanda se Egli è il Cristo gli è posta dal sommo sacerdote che il primo evangelista esplicitamente identifica con Caifa; pure secondo Marco la domanda è posta dal sommo sacerdote che il secondo evangelista non identifica ma che, nel contesto del Sinedrio, non può essere se non Caifa. Secondo Luca la domanda è posta invece da una pluralità: il A riguardo di queste parole di Gesù, Wilckens nota che esse suonano blasfeme perché in Gesù non si vede se non l’aspetto di un uomo di cui si conosce la famiglia e la patria; cfr. U. Wilckens, Das Evangelium nach Johannes, Göttingen 199817, 171. 125
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participio plurale leégontev deve riferirsi agli anziani del popolo, ai sacerdoti e agli scribi appena prima menzionati126. Come in Luca, anche in Giovanni la domanda è posta da una pluralità: giudei127. 4.3.3. L’introduzione narrativa dei vv 22-24a Pure importanti al nostro scopo sono i vv. 22-24a, quelli che abbiamo definito come introduzione narrativa al dialogo-monologo dei vv. 24b-30. Più direttamente ci interessano i vv. 22-23, ma anche il v. 24a ha la sua importanza. Nei vv. 22-23, come abbiamo già indicato, possiamo individuare quattro espressioni particolari, due temporali e due di luogo. Le due espressioni temporali sono: 1. «Ci fu allora la festa della dedicazione (taè e\gkaònia) in Gerusalemme»; 2. «era inverno (ceimwèn h&n)». Le due espressioni di luogo sono: 1. «e camminava Gesù nel tempio (e\n t§% i|er§%)»; 2. «nel portico (e\n t+% stoç%) di Salomone». I due gruppi di espressioni rimandano, entrambi, al tempio. Nel primo gruppo le espressioni riguardano direttamente il tempio: la festa della dedicazione infatti, istituita dai Maccabei, da celebrarsi annualmente128, è appunto la dedicazione del tempio, dopo la sua profanazione fatta da Antioco IV Epifanie. Nel secondo gruppo si sottolinea la relazione di Gesù ad esso: il tempio è menzionato esplicitamente e l’evangelista precisa che Gesù era nel portico di Salomone. Una prima conclusione ci sembra ovvia: la domanda, che i giudei rivolgono a Gesù nel v 24b, se lui è il Cristo, si colloca così nello sfondo del tempio. Non c’è alcuna contraddizione tra i primi due evangelisti e Luca: il sacerdote ha interrogato a nome di tutti. Possiamo però notare che a Caifa Gesù rivolge soltanto la prima parte della sua risposta; la seconda parte, anche in questi due evangelisti, è rivolta a tutti, Cfr. il verbo plurale o"yesqe (vedrete). 126
127 Cfr. l’uso dello stesso verbo leégw al plurale: Luca: leégontev, Giovanni: e"legon. 128
Cfr. 1Mac 4,59.
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Lo stesso sfondo del tempio appare anche nei primi due vangeli sinottici. Sia Matteo che Marco infatti, nel loro racconto, notano che, prima della domanda del sacerdote se era il Cristo, alcuni avevano testimoniato contro Gesù di avere detto che avrebbe, o avrebbe potuto, distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni. È strana, nel contesto dei racconti di Matteo e Marco, questa testimonianza riguardante il tempio: essa, nell’economia della ricerca di una accusa contro Gesù, non trova alcun seguito. Forse è introdotta per stabilire una relazione tra il tempio e il Cristo. Prescindendo però da questo problema, sia in Matteo e Marco, come anche in Giovanni, il problema se Gesù è il Cristo è collocato nello sfondo del tempio. Possiamo osservare in Gv 10,22 il termine taè e\gkaònia; esso rimanda ad una festa del tempio; tuttavia nelle prime due espressioni questo non è esplicitamente menzionato: tutto l’accento sembra così poggiare sull’aspetto della “novità (kainoév)”. Il tempio è menzionato nelle altre espressioni dove l’evangelista presenta Gesù che camminava, specificando anche che il luogo era il portico di Salomone. Sorprende pure l’indicazione dell’evangelista, che era inverno. La festa della dedicazione si celebrava nel mese di Casleu e questo corrispondeva al nostro mese di Dicembre e, perciò, in inverno. Emerge allora la domanda: perché il quarto evangelista menziona l’inverno in questo contesto? La risposta non è facile, tanto più che il termine ceimwén nel vangelo si legge solo qui. Sorprende inoltre il verbo e\kuéklwsan (circondarono), del tutto insolito, sia nel vangelo di Giovanni, sia anche nei vangeli sinottici129, non solo per indicare l’accostamento di qualcuno a Gesù130, ma anche qualsiasi altro uso. Dal momento che manca qualsiasi altro parallelo, è difficile stabilire il senso di questo verbo nel nostro contesto. Il tenore globale del testo però, polemico soprattutto nelle parole di Gesù, suggerisce un senso di ostilità: 129 Il verbo kukloéw, nel NT è raro: si legge soltanto quattro volte: Lc 21,20 (riferito al futuro assedio di Gerusalemme); Gv 10,24 (il nostro testo); inoltre in At 14,20 (Paolo circondato dai discepoli che lo ritenevano morto) ed Eb 11,30 (riferito all’antico assedio di Gerico).
I vangeli sinottici usano in genere il verbo proseércomai, che, nel vangelo di Giovanni, si legge una sola volta, in 12,21, per descrivere l’accostamento dei greci a Filippo, al quale chiesero di vedere Gesù. 130
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i giudei si sarebbero accostati ed avrebbero circondato Gesù in atteggiamento ostile. Possiamo però osservare che tale ostilità non è determinata da alcuna azione precedente di Gesù. Tuttavia, come abbiamo detto, essa è in sintonia con il seguente discorso di Gesù, che ritiene i giudei esclusi dal suo gregge e anche con le azioni seguenti dei giudei che presero delle pietre per scagliarle contro Gesù (v. 31) e cercavano di catturarlo (v. 39). In questa prospettiva possiamo chiederci se l’uso del verbo kukloéw non possa dipendere da qualche testo dell’AT. Ci riferiamo specificamente al Sal 21 (22),13, dove leggiamo (LXX): «mi circondarono (periekuéklwsaén me) tori numerosi; tori pingui mi accerchiarono (perieéscon); aprirono su di me la loro bocca, come leone che rapisce e ruggisce»; ancora alludiamo ai vv. 16-17 dello stesso Salmo, dove (LXX) il salmista lamenta: «si è seccata come un coccio la mia forza e la mia lingua si è incollata alla mia laringe e in polvere di morte mi hai condotto, poiché mi circondarono (e\kuéklwsan) molti cani e un raduno di operatori di male mi accerchiarono». Il salmista lamenta di essere stato circondato da persone che, come cani, cercavano di sbranarlo. Il Sal 21 (22) fu usato soprattutto nel contesto della narrazione degli eventi al Calvario131. Possiamo citare anche diversi passaggi del Sal 117 (118). Nel v. 10 il Salmista esclama: «tutti i popoli mi circondarono (e\kuéklwsan) ma nel nome del Signore li ho respinti»; ancora nel v. 11: «mi circondarono (kuklwéntev e\kuéklwsan), ma nel nome del Signore li ho respinti»; inoltre nel v. 12: «mi circondarono (e\kuéklwsan me) come api di un favo e bruciarono come fuoco nelle spine ma nel nome del Signore li ho respinti»132. I vv. 25-26 del Sal 117 (118) sono citati nei racconti dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme anche nel vangelo di Giovanni133. 131 Cfr. L’episodio della spartizione delle vesti (Sal 21 [22],19: Mt 27,35; Mc 15,24; Lc 23,34b; Gv 19,23-24), Sal 21 [22], 8 (Mt 27,39; Mc 15,29; Lc 23,35) soprattutto il v. 2 in Mt 27,46 e Mc 15,34. Il v. 9 del Salmo, infine, è ripreso da Mt 27,43.
132 Nel Sal 17 (18),3 il salmista lamenta: «dolori di Ade (w\d_nev ç$dou) mi circondarono (periekuéklwsaén me)». In 2Sam 22,6, che riprende il Salmo, leggiamo invece «dolori di morte (w\d_nev qanaétou) mi circondarono (periekuéklwsaén me)». In Dt 32,10 invece positivamente leggiamo: «lo circondò (e\kuéklwsen [Dio e il suo popolo] lo educò e lo custodì come pupilla del suo occhio». 133 Cfr, Mt 21,9; Mc 11,9; Lc 19,38; Gv 12,13. Sono citati poi i vv. 22-23 del Salmo nel contesto della parabola dei cattivi vignaioli (Mt 21,42; Mc 12,10-11; Lc 20,17).
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Se queste nostre osservazioni sono valide, possiamo avanzare un nostro tentativo di interpretazione. Troviamo nel testo di Giovanni quattro elementi disposti in maniera alternata: 1. Era la festa della dedicazione, 2. Era inverno, 3. Gesù camminava nel tempio nel portico di Salomone, 4. Lo circondarono i giudei. Il primo e terzo elemento appaiono positivi. Era la festa della dedicazione (taè e\gkainòa), ma l’evangelista non specifica di quale festa si tratta; colloca soltanto nel suo sfondo il fatto che Gesù camminava nel tempio. Si direbbe che la presenza e il camminare di Gesù nel tempio sia legato a quella festa; sembra che l’evangelista voglia stabilire una relazione tra la festa della dedicazione, o piuttosto la festa dell’inaugurazione di “qualcosa di nuovo134”, e la presenza di Gesù. Al contrario, il secondo e quarto elemento, la menzione dell’inverno e il fatto che Gesù è circondato dai giudei, appaiono negativi. Il termine ceimwén, unico nel vangelo di Giovanni, può richiamare l’altro termine affine yu%cov (freddo) che caratterizza il rinnegamento di Pietro in 18,18 ed entrambi possono ricondursi, per affinità, al termine skotòa o skoétov che rivela l’assenza della luce. Il verbo e\kuéklwsan poi si ricollega all’ostilità dei giudei. Benché non possiamo pervenire ad una conclusione certa, possiamo pensare che l’evangelista, simbolicamente, in qualche modo alluda al mistero del tempio, distrutto dai giudei135, e di quello nuovo ricostruito, o “resuscitato” da Gesù136. Il senso globale allora potrebbe essere il seguente: l’ostilità dei giudei porterà alla distruzione del tempio (il corpo di Gesù) e alla costruzione del nuovo. Per la loro stessa incredulità però i giudei resteranno fuori: essi sono esclusi dal gregge di Gesù e perciò anche dal cammino che conduce alla vita eterna e alle mani del Padre. 134 135
Cfr. il termine taè e\gkainòa.
Cfr. il secondo e quarto elemento (era inverno – circondarono).
Cfr. il primo e terzo elemento (la festa della dedicazione – Gesù camminava nel tempio). 136
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Se la nostra interpretazione è valida, troviamo, nei vv. 22-24a, del cap. 10, un ulteriore elemento di legame con il racconto del processo di Gesù davanti al Sinedrio, specificamente secondo la narrazione di Matteo e Marco. In ogni caso, tre elementi inducono a stabilire la relazione tra il testo di Gv 10,22-30 e i racconti sinottici del processo di Gesù davanti al Sinedrio: la tematica del tempio, la domanda rivolta dai giudei a Gesù se è il Cristo e anche, infine, l’allusione all’incredulità nei vv. 25-26. 4.4. La seconda sezione (Gv 10,31-39) Come abbiamo già osservato, i vv. 31-39 del c 10 si ricollegano ai precedenti vv. 22-30, costituendo i vv. 22-39 una unità. Motivi metodologici e di facilità di esposizione hanno indotto ad introdurre una separazione. 4.4.1. Analisi strutturale La sezione poi dei vv. 31-39, come abbiamo già pure notato, è inclusa, anzitutto, tra due espressioni che descrivono l’ostilità dei giudei nei confronti di Gesù. Nel v. 31 leggiamo infatti che i giudei presero pietre per lapidare Gesù; il v. 39 poi ci informa che i giudei cercavano (e\zhétoun)137 di catturarlo, ma egli uscì dalle loro mani. Possiamo infatti stabilire il seguente confronto: v. 31: e\baéstasan paélin lòqouv oi| }Iouda_oi i$na liqaéswsin autoén (presero infine pietre i giudei per lapidarlo); v. 39: e\zhétoun [ou&n] au\toèn paélin piaésai (cercavano infine di catturarlo). Tra le due espressioni l’unico elemento letterario comune è l’avverbio paélin, che indica probabilmente come quello dei vv. 31-39 è il dialogo che segna il punto culmine della polemica tra Gesù e i giudei. Per il resto, le due espressioni concordano soltanto dal punto di vista 137 Il verbo e\zhétoun è un imperfetto di conato che indica la ripetizione di tentativi non riusciti: i giudei ripetevano il tentativo di catturare Gesù senza riuscire nel loro intento.
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tematico: c’è la deliberazione dei giudei di voler lapidare Gesù, e c’è anche il tentativo (e\zhétoun) dei giudei di volerlo catturare. Tra le due espressioni dei vv. 31.39 si svolge un dialogo tra Gesù e i giudei, i cui elementi permettono di evidenziare una struttura secondo uno schema concentrico. Nel v. 32 Gesù chiede ai giudei per quale delle molte buone opere, che egli ha mostrato loro da parte del Padre, i giudei vogliono lapidarlo. Nel v. 33a i giudei rispondono che non lapidano Gesù per una buona opera, ma per la bestemmia. Troviamo in questi versi quattro elementi strutturabili secondo uno schema alternato: v. 32: pollaè e"rga kalaè […]
e\meè liqaézete v 33a: perì kalou% e"rgou […] liqaézomeén se.
Nel contesto dei vv. 32-33a troviamo ripetuto tre volte il termine e"rgon:
pollaè e"rga kalaè diaè po_on au\tw%n e"rgon periè kalou% e"rgou Il termine e"rgon è ripreso poi, ancora due volte, nei vv. 37-38, legato, però, stavolta al verbo pisteuéw (credere). Possiamo evidenziare, in questi
due versi, il seguente schema alternato e concentrico insieme: 1. ei\ ou\ poiw% taè e"rga tou% patroév mou 2. mhè pisteuéeteé moi 3. ka!n e\moì mhè pisteuéhte 4. to_v e"rgoiv 5. pisteuéete. I vv. 32-33a e i vv. 37-38 sono legati tra di loro mediante il termine e"rgon. Tra i vv. 32-33a e i vv. 37-38 troviamo inseriti i vv. 33b-36. Possiamo stabilire più particolarmente una relazione tra il v. 33b e il v. 36b. La relazione è data dal sostantivo blasfhmòav (perì blasfhmòav) nel v. 33b e dal verbo blasfhme_v nel v. 36. Inoltre essa è data da una espressione riguardante l’identità divina di Gesù. Possiamo stabilire allora il seguente schema alternato: v. 33b: perì blasfhmòav, poie_v seautoèn qeoén,
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v. 36: blasfhme_v, ui|ovè tou% qeou% ei\mò138. Al centro risaltano i vv. 34-36a, con la citazione della Scrittura, fatta da Gesù, del Sal 81 (82), 6 nel v. 34, e la dichiarazione che essa non può essere violata nel seguente v. 35. Otteniamo allora, nei vv. 31-39, il seguente schema strutturale globale: v. 31: e\baéstasan paélin lòqouv oi| }Iouda_oi i$na liqaéswsin autoén vv. 32-33a: pollaè e"rga kalaè […] e\meè liqaézete […] ou\ perì vv 33b: v. 34: v. 35: v. 36: v. 36b: vv 37-38:
kalou% e"rgou liqaézomeén se perì blasfhmòav, - poie_v seautoèn qeoén
Il Sal 81(82),6 L’evento della Parola di Dio e l’inviolabilità della Scrittura; blasfhme_v, - ui|ovè tou% qeou% ei\mò e\gwè eùpa, qeoò e\ste […] / ei\ ou\ poiw% taè e"rga tou% patroév mou mhè pisteuéeteé moi […] ka!n e\moì mhè pisteuéhte, to_v e"rgoiv pisteuéeteé
Alla luce dell’analisi strutturale sopra proposta, prima di stabilire un confronto con il racconto sinottico del processo di Gesù davanti al Sinedrio, possiamo evidenziare anche alcuni aspetti tematici. 4.4.2. Il tentativo di sopprimere Gesù Come abbiamo già osservato, tra queste due espressioni, quella del v 31 e quella del v 39, troviamo tre interventi dialogici, tutti introdotti dal verbo a\pekròqh o, al plurale, a\pekròqhsan, rispettivamente di Gesù (v. 32), dei giudei (v. 33) e ancora di Gesù (v. 34). Quest’ultimo intervento si prolunga fino al v. 38, seguito, nel v. 39, da una indicazione narrativa. 138 Possiamo notare il progresso dalla seconda espressione alla quarta: dal “fare se stesso” Dio, all’”essere” figlio di Dio. Possiamo notare tra le due espressioni anche una relazione strutturale concentrica:
poie_v seautoèn qeoén ui|ovè tou% qeou% ei\mò.
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Confrontando le due espressioni ostili, notiamo degli aspetti sorprendenti. Nel v. 31 leggiamo un verbo all’aoristo, e\baéstasan (presero) che indica una azione puntualizzata con valore ingressivo; nel v. 39 invece leggiamo un imperfetto, e\zhétoun (cercavano), che, come abbiamo già indicato, sembra essere un imperfetto di conato. I due verbi si leggono meglio all’inverso. L’espressione e\baéstasan lòqouv (presero pietre) infatti può costituire bene la fine di un tentativo ripetuto (e\zhétoun: cercavano) di catturare (piaésai) Gesù. Se i giudei presero delle pietre per lapidare Gesù, vuol dire che sono riusciti, in qualche modo, a catturarlo. Di un tentativo dei giudei di lapidare Gesù, dai vangeli sinottici non sappiamo nulla; lo sappiamo soltanto dal quarto evangelista. Questi menziona più di una volta tale tentativo. In 8,59, al termine di un dialogo-disputa, sviluppato per tutto il cap. 8, l’evangelista narra che «presero (h&ran) pietre (lòqouv) per gettarle (i$na baélwsin) contro di lui (e\p’au\toén)». In entrambi i casi, in 8,59 e 10,39, si dice che Gesù riuscì a sfuggire139. In 11,8, a Gesù che voleva andare in Giudea, i discepoli obiettano: «Rabbì, adesso cercavano i giudei di lapidarti (liqaésai) e di nuovo vai lì»? I discepoli si riferiscono probabilmente al tentativo di cui si parla in 10,31-33a. Sappiamo che la lapidazione era una pena ebraica, mentre la croce era pena romana. Il fatto che tale tentativo dei giudei di lapidare Gesù, attestato da Giovanni, sia ignorato dai vangeli sinottici e il fatto che, al tempo di Gesù, i giudei non potevano eseguire sentenze capitali, ci pone una domanda alla quale tuttavia è difficile dare una risposta: il tentativo di lapidare Gesù, di cui parla Giovanni è un tentativo reale, oppure simbolicamente, il quarto evangelista, vorrebbe dire soltanto che i giudei presero in cuor loro la decisione di uccidere Gesù e che certamente, appunto mediante la lapidazione, l’avrebbero eseguita se avessero potuto? 139 Troviamo nei due testi due frasi parallele: 8,59 10,39 \Ihsou%v (Gesù) e\kruébh (si nascose) kaì (e ) e\xh%lqen (uscì) e\xh%lqen (uscì) e\k tou% i|erou% (dal tempio) e\k th%v ceiroèv (dalla mano) au\tw%n (di essi)
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Possiamo notare però che altrove è usata l’espressione “gettare ([e\pi] baéllw) mano (taèv ce_rav) su Gesù”. Essa però esprime soltanto un aspetto
di ostilità che non implica necessariamente né la lapidazione, né, in maniera più generica, l’esecuzione di una sentenza capitale140. Diverso invece è il caso del verbo zhteéw (e\zhétoun), usato diverse volte nei vangeli per descrivere il tentativo dei giudei di catturare Gesù per metterlo a morte. Così in Mt 21,46 leggiamo che «(i giudei) nel tentativo di catturarlo (Gesù) (zhtou%ntev au\toèn krath%sai), temettero la folla»; cfr. inoltre anche Mc 11,18: «cercavano (e\zhétoun) come farlo perire (a\poleéswsin)»; 12,12: «cercavano (e\zhétoun) come catturarlo»; 14,1: «cercavano (e\zhétoun) i sacerdoti e gli scribi come catturarlo con inganno»; ancora Lc 19,47: «i sacerdoti e gli scribi cercavano (e\zhétoun) di farlo perire (a\poleésai)»; 20,19: «cercarono (e\zhéthsan) gli scribi e i sacerdoti di gettare su di lui le mani in quell’ora»; 22,2: «cercavano (e\zhétoun) i sacerdoti e gli scribi come ucciderlo (a\neélwsin)»141. Il verbo zhteéw si legge anche in Giovanni, unito a diverse forme verbali all’infinito: a\pokte_nai142, piaésai143, liqaésai144. Viceversa, il verbo piazwé, in relazione alla cattura di Gesù, è esclusivo giovanneo. Esso, nel NT, si legge complessivamente dodici volte, di cui otto in Giovanni, due volte nel libro degli Atti degli Apostoli, e inoltre in 2Cor 11,32 e Ap 19,20. Degli otto usi giovannei, ben sei sono riferiti alla cattura di Gesù145. Gli ultimi due146 sono riferiti alla cattura dei pesci nel contesto dell’episodio della pesca miracolosa. Concludendo, le osservazioni sopra proposte ci confermano l’inversione tematica nei vv. 31.39. Il v. 39, con l’imperfetto e\zhétoun, seguito dall’infinito piaésai (catturare) ci rimanda al tentativo dei giudei, prima della 140
Cfr. Mc 14,46; Lc 9,62; 20,19.
A riguardo di Giuda, in Mt 26,16, leggiamo che «cercava (e\zhétei) l’occasione per tradirlo»; cfr anche Mc 14,11: «cercava (e\zhétei) come tradirlo opportunamente». In Mt 26,59, a riguardo dei sinedriti, nel contesto del processo, si dice che «cercavano una falsa testimonianza contro Gesù». 141
142 143 144 145 146
Cfr. 5,18; 7,1.19.20.25; 8,37.40.
Cfr. 7,30; 10,39 (il nostro testo). Cfr. 11,8.
Cfr. Gv 7,30.32.44; 8,20; 10,39; 11,57. Cfr. 21,3.10.
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passione, di catturare Gesù. Il v. 31 invece, con l’espressione all’aoristo e\baéstasan lòqouv, rimanda meglio non ad un tentativo, ma ad una azione concreta che però non ha alcun riscontro nei vangeli sinottici. Su questo elemento preferiamo però tornare più avanti. 4.4.3. L’accusa di bestemmia Di fronte all’azione di prendere le pietre per lapidarlo, Gesù pone, nel v. 32, ai giudei la domanda per quale delle molte belle opere (perì po_on au\tw%n e"rgon) che egli ha mostrato da parte del Padre, vogliono lapidarlo. Nel verso seguente, v. 33, i giudei rispondono che non lo lapidano per una buona opera147, «ma per la bestemmia (perì blasfhmòav) e (kaò) perché tu (o$ti sué), uomo essendo (a"nqrwpov w!n), fai te stesso Dio (poie_v seautoèn qeoén)». La bestemmia è menzionata ancora nel v. 36b, stavolta in bocca a Gesù, che ribatte l’accusa rivoltagli di bestemmia: «voi dite che: bestemmi (o$ti blasfeme_v), poiché dissi: figlio di Dio sono». Sul contenuto della bestemmia, scorgiamo, nel v. 33, qualche difficoltà: le due espressioni, perì blasfhmòav (per la bestemmia) e “e (kaò) perché tu, uomo essendo, fai te stesso Dio” sono coordinate mediante la congiunzione kaò. Se fosse mancata la congiunzione kaò, la bestemmia, nel v. 33, avrebbe potuto essere facilmente identificata con il fatto che Gesù si fa Dio. La congiunzione kaò invece, mentre coordina, separa e distingue le due espressioni, di modo che la bestemmia non coincide più con il fatto che Gesù, essendo uomo, si fa Dio. Rimane allora la domanda: che cos’è, almeno nel v. 33b, la bestemmia di Gesù? Il v. 36, a riguardo, sembra più chiaro. Leggiamo le parole di Gesù: «voi dite che: bestemmi (blasfhme_v), poiché dissi: figlio di Dio sono». In questo secondo testo invece la bestemmia sembra coincidere con il fatto che Gesù ha detto di essere figlio di Dio. A riguardo della bestemmia di cui i giudei accusano Gesù, gli interpreti propongono diverse spiegazioni. Osserva anzitutto Beasley-Murray148 che 147 Cfr. l’espressione perì kalou% e"rgou con cui i giudei passano dal plurale di Gesù (perì po_on au\tw%n e"rgon) al singolare. Prescindiamo dal senso di questo passaggio. 148
Cfr. G.R. Beasley-Murray, John, cit., 175.
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l’accusa di bestemmia in Gv 10, 31-39 contro Gesù perché si fa Dio, è sulla stessa linea di Mc 14,61-64. Brown149 appunto spiega che la bestemmia in Giovanni è che Gesù si fa uguale a Dio. Bernard150 però osserva che il fatto che Gesù possa chiamare se stesso “Figlio di Dio”, potrebbe non essere blasfemo, avendo questo titolo dei riferimenti veterotestamentari. Tuttavia gli oppositori di Gesù, in maniera ingiustificata, potrebbero pensare che lui pretenda di esserlo. Bultmann151 ritiene che le parole “Figlio di Dio” non corrispondono né alle parole di Gesù né ad un rimprovero dei giudei. In ogni caso sono parole estranee al vangelo di Giovanni e sono dovute ad un redattore. Thyen152 vede, a riguardo dell’accusa di bestemmia contro Gesù, la connessione di Gv 10,31-33 con Mt 26,59 e Mc 14,55-56. La stessa connessione è indicata da Lindars153. Schnackenburg154 si chiede se, dal punto di vista della storia della tradizione, per Gv 10,33 non stia nello sfondo la scena che si svolge davanti al Sinedrio, secondo Mt 26,67 e Mc 14,64: dopo l’autoconfessione di Gesù infatti il sommo sacerdote dice: «avete udito la bestemmia?». Nel racconto lucano, le questioni della messianicità e della figliolanza divina di Gesù sono separate, conclude Schnackenburg che la bestemmia consiste nel fatto che Gesù si fa pari a Dio. Tale accusa stessa sarà ripresa poi anche davanti a Pilato (cfr. 19,7). Come possiamo constatare, gli interpreti, benché non tutti, a ragione sono inclini, in relazione alla bestemmia, a stabilire una relazione tra il nostro testo di Giovanni e il racconto sinottico del processo di Gesù davanti al Sinedrio. Di una accusa di bestemmia contro Gesù si parla anche altrove, in tutti e tre i vangeli sinottici. Soprattutto i tre evangelisti concordano in due circo-
149
Cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 157.
Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, I, cit., 368. 150
151 152 153 154
Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, cit., 297.
Cfr. H. Thyen, Das Johannesevangelium, Tübingen 2005, 345. Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit., 372.
Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 515.
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stanze particolari: nel contesto del miracolo della guarigione del paralitico e nel contesto del processo davanti al Sinedrio. Nel contesto della guarigione del paralitico la bestemmia consiste nel fatto che Gesù aveva detto all’uomo di avere fiducia perché gli erano rimessi i suoi peccati. In Mt 9,3 leggiamo la mormorazione che gli scribi facevano dentro di sé: «costui bestemmia (ou/tov blasfhme_)». In Mc 2,7 e Lc 5,21 si spiega perché Gesù è accusato di bestemmia: egli pretende di rimettere i peccati, non potendo rimettere questi se non Dio155. Dal momento che nessuno può rimettere i peccati se non Dio solo, e dal momento che Gesù pretende di rimettere i peccati, vuol dire che egli si fa o si ritiene Dio. Così facendo, egli bestemmia. In tale accusa possiamo notare degli aspetti particolari. Anzitutto essa non è esplicitamente dichiarata dagli scribi e dai farisei, ma è soltanto pensata interiormente. A Gesù non arriva una accusa esplicita, ma è lui che perviene alla conoscenza di ciò che è nel loro cuore. Inoltre non segue alcuna condanna di Gesù. Segue soltanto la narrazione del miracolo fisico della guarigione del paralitico, che Gesù opera come prova del fatto che ha il potere di rimettere i peccati. Nel contesto del processo contro Gesù davanti al Sinedrio, l’accusa di bestemmia, come abbiamo già osservato, è contenuta soltanto nella narrazione di Matteo e Marco (Mt 26,65; Mc 14,64). Avendo Gesù risposto positivamente alla domanda del sacerdote se era il figlio di Dio, avendo anzi rimarcato tale sua prerogativa divina riferendosi alle parole del Sal 109,1 e di Dn 7,14, il sommo sacerdote formulò l’accusa di bestemmia. Le conseguenze, stavolta, furono gravi. Il sommo sacerdote, dopo avere scisso le sue vesti, si appellò alla diretta esperienza uditiva dei sinedriti, i quali unanimemente (paéntev) giudicarono (kateékrinan) che Gesù era degno di morte (e"nokon eùnai qanaétou)156. In Gv 10,33 i giudei dichiarano che intendono lapidare Gesù non per la buona opera, ma per la bestemmia. Sia il termine blasfhmòa che il verbo blasfhmeéw si leggono nel vangelo di Giovanni soltanto una volta, nel nostro contesto. Gesù è accusato di bestemmia; essa però è indicata nel 155 156
Luca specifica: «se non Dio solo (moénov)». Mc 14,64, cfr. Mt 26,66.
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v. 36 mediante le stesse parole di Gesù: «dite che: bestemmi, poiché dissi (eùpon): figlio di Dio sono». Possiamo notare il verbo aoristo eùpon (dissi), che rimanda ad una azione passata. Emerge allora la domanda: quando Gesù ha detto di essere figlio di Dio? Una simile esplicita affermazione non si legge nel vangelo di Giovanni, ma si leggono espressioni analoghe. Possiamo infatti richiamare diversi testi, qualcuno anche già considerato. In 5,18 leggiamo che «i giudei ancora di più cercavano (e\zhétoun) di ucciderlo (a\pokte_nai) (Gesù), perché non solo violava il sabato, ma anche suo Padre diceva Dio, facendo se stesso (e|autoèn poiw%n) uguale a Dio (t§% qe§%)». In 10,33 inoltre leggiamo: «uomo tu essendo, fai te stesso (poie_v seautoén) Dio». In 10,36 ancora Gesù dichiara: «dite: “bestemmi”, poiché dissi: figlio di Dio sono». In 19,7, davanti a Pilato, i giudei portano un’accusa che non si legge nel contesto analogo dei vangeli sinottici: «noi abbiamo una legge, e secondo la legge deve morire (a\poqane_n) poiché figlio di Dio se stesso fece (e|autoèn e\poòhsen)». Al centro di questi testi ci sta 10,34157, dove Gesù cita il Sal 81(82),6, chiamandolo “legge (e\n t§% noém§ u|mw%n)”. Nei versi seguenti (vv. 35-36) Gesù nota l’assurdità della pretesa dei giudei di voler condannare lui, «colui che il Padre ha santificato e inviato nel mondo», mentre il Salmo chiama figli di Dio semplicemente «quelli ai quali fu rivolta la Parola di Dio». I testi sopra citati presentano tutti una costante: la decisione dei giudei di uccidere Gesù in seguito a quella da loro ritenuta una bestemmia. In 5,18 leggiamo infatti il verbo a\pokte_nai: i giudei cercano di uccidere Gesù; in 10,31-33 leggiamo del tentativo di lapidazione; in 19,7, davanti a Pilato, i giudei esigono la morte di Gesù come conveniente, o addirittura necessaria, alla loro legge (o\feòlei a\poqane_n). L’accusa di bestemmia contro Gesù da parte dei giudei nel nostro testo di 10,34-36, è dichiarata da Gesù stesso inconsistente. Nella lunga risposta, 157 Possiamo notare il seguente schema dei testi in cui è menzionata l’accusa di bestemmia contro Gesù: 5,18: e suo Padre diceva Dio, facendo se stesso (e|autoèn poiw%n) uguale a Dio (t§% qe§%)». 10,33: «uomo tu essendo, fai te stesso (poie_v seautoén) Dio». 10,36: «dite: “bestemmi”, poiché dissi: figlio di Dio sono». 19,7: secondo la legge deve morire (a\poqane_n) poiché figlio di Dio se stesso fece (e|autoèn e\poòhsen)».
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contenuta nei vv. 34-38, per confutare l’accusa dei giudei, egli si appella a tre testimoni: la Scrittura, il Padre e le opere, nel seguente modo: 1. La Scrittura (vv. 34-35); 2. Il Padre (v. 36); 3. Le opere (vv. 37-38). La Scrittura chiama “dei (qeoò e\ste)” quelli ai quali fu rivolta la parola di Dio158; a maggior ragione tale appellativo compete a colui che Dio ha consacrato e inviato nel mondo e che è la stessa Parola di Dio (1,1-3). Dal momento poi che Gesù è stato inviato da Dio, ne consegue che le opere che egli compie, le compie da parte di Dio. I tre aspetti, Scrittura, Padre e opere, descrivono una storia che possiamo indicare nel seguente modo: 1. La preparazione: la Scrittura; 2. L’attuazione: l’Invio del figlio nel mondo (Padre); 3. Gli effetti: Le opere che indicano la presenza di Gesù nel mondo. Emerge chiara così la risposta di Gesù all’accusa di bestemmia da parte dei giudei. In essa Gesù sottolinea soprattutto due aspetti: la sua identità e la sua azione. Quanto alla sua identità, come appare dal v. 36, egli è realmente il figlio di Dio che il Padre ha santificato e che ha inviato nel mondo; in questo senso l’accusa dei giudei di bestemmia, rivolta a Lui dai Giudei, diventa assurda e paradossale. La sua azione, il compimento delle opere da parte del Padre (e\k tou% patroév), poi mostra che il Padre è in lui ed egli è nel Padre, in un rapporto molto stretto di reciproca inabitazione159. I giudei vogliono lapidare Gesù non per una buona opera, bensì per la bestemmia; ma proprio la considerazione delle opere, che rivelano la sua stretta relazione con il Padre, avrebbe dovuto evitare l’accusa di bestemmia. Essi dalle opere avrebbero dovuto risalire all’identità di Gesù e alla sua stretta relazione con il Padre. Se persistono nell’accusa di bestemmia, vuol dire che non sono pervenuti a tale conoscenza, ma vuol dire anche che non hanno né ascoltato “la loro legge”, nel caso il Sal 81, né creduto alle sue opere. In forza di una presunta bestemmia, già nel v. 31, ma ancora nel v. 39, il tentativo dei giudei (e\zhétoun) è quello di sopprimere Gesù (piaésai). 158
Gesù cita il Sal 81 (82),6.
La relazione molto stretta tra Gesù e il Padre è indicata mediante l’espressione: «in me il Padre e io nel Padre (v. 38)». 159
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Essi però non riescono nel loro tentativo, perché Gesù uscì (e\xh%lqen) dalla loro mano (e\k th%v ceiroèv au\tw%n). Sul modo poi come Gesù sia sfuggito al tentativo dei giudei di sopprimerlo, il testo non dice nulla; l’evangelista si limita soltanto a dire che egli uscì. Il testo giovanneo concorda con i primi due sinottici, soprattutto con il testo di Matteo. Gesù, come in Matteo, è accusato di bestemmia perché ha dichiarato di essere “figlio di Dio”. Possiamo notare ancora che Giovanni, come Matteo, benché in ordine inverso, usi sia il sostantivo blasfhmòa che il verbo blasfhmeéw: Matteo Giovanni Blasfhmeéw blasfhmòa blasfhmòa blasfhmeéw 4.4.4. La condanna a morte A differenza di Luca, che chiude la sua narrazione con le parole dei sinedriti di non avere più bisogno di testimonianza perché loro hanno udito con le loro orecchie, i primi due evangelisti, dopo avere riferito la domanda rivolta a loro da Caifa, menzionano anche la loro risposta: questi dichiarano che Gesù è reo di morte160. Della morte di Gesù i primi due evangelisti hanno già parlato all’inizio del processo davanti al Sinedrio. Entrambi infatti, Matteo (in 26,59) e Marco (14,55), notano che i sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano (e\zhétoun) una testimonianza161 contro Gesù, per metterlo a morte. Entrambi gli evangelisti usano qui il verbo qanatoéw162. 160 Pur con diversa costruzione sintattica, i due evangelisti concordano nella risposta dei sinedriti: Matteo Marco e"nocov e"nocon
qanaétou eùnai e\stòn qanaétou 161 162
Matteo parla di “una falsa testimonianza (yeudomarturòan)”.
In Matteo leggiamo l’espressione o$pwv au\toèn qanatwéswsin; Marco invece scrive:
ei\v toè qanatw%sai au\toén.
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Il verbo qanatoéw, in Mt 26,59 e Mc 14,55, e il termine qaénatov, in Mt 26,65 e Mc 14,64, costituiscono, in entrambi gli evangelisti, una inclusione letteraria; come pure costituiscono una inclusione letteraria i termini yeudomarturòan e marturòan, rispettivamente in Mt 26,59 e Mc 14,55, e poi il termine uguale martuérwn, in Mt 26,66 e Mc 14,64. In entrambi gli evangelisti il processo davanti al sinedrio inizia poi con l’introduzione del verbo e\zhétoun: i sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza. Nel nostro testo giovanneo non si legge né il verbo qanatoéw, assente peraltro in tutto il vangelo, né il termine qaénatov. Notiamo però come la seconda sezione, cioè i vv. 31-39, inizia, nel v. 31, con l’indicazione che i giudei presero pietre (lòqouv) per lapidare (i$na liqaéswsin) Gesù e chiudono con l’informazione, nel v. 39, che cercavano (e\zhétoun) di catturarlo (piaésai). Il tentativo di lapidare Gesù, come abbiamo già notato, in tutti i vangeli è menzionato solo da Giovanni. Il quarto evangelista anzi ha riferito un tentativo analogo in 8,59, e ricorda tale tentativo ancora in 11,8: i discepoli si meravigliano che Gesù voglia andare ancora in Giudea, dal momento che i giudei avevano cercato di lapidarlo. L’allusione è appunto al nostro testo di 10,31. Nei vv. 32-33 si indica il motivo per cui i giudei vogliono lapidare Gesù: il fatto che ha bestemmiato. Troviamo così una relazione tra Matteo e Marco e Giovanni. Secondo i primi due evangelisti Gesù ha bestemmiato e la sua bestemmia è stata udita, e perciò è reo di morte; secondo Giovanni invece lo vogliono lapidare per la bestemmia. Possiamo relazionare i sinottici e Giovanni schematicamente nel seguente modo: Sinottici: 1. Gesù ha bestemmiato, 2. È reo di morte, Giovanni: 3. I giudei vogliono lapidarlo, 4. Perché ha bestemmiato. Questo schema accosta la dichiarazione di reità di morte nei Sinottici e il tentativo dei giudei in Giovanni di lapidare Gesù. Troviamo, pur con diverso linguaggio, una concordanza tra Giovanni e i sinottici. È noto che
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la pena inflitta per la bestemmia era la pena di morte per lapidazione163. In questo senso, Giovanni sembra ricollegarsi ai Sinottici: volendo lapidare Gesù, è chiaro che ne hanno decretato la morte. Il quarto evangelista però sembra andare anche oltre. Secondo Matteo e Marco i giudei si limitano soltanto a dichiarare la reità di Gesù meritevole di morte; Giovanni invece presenta i giudei che tentano di eseguire quella condanna a morte che essi hanno decretato164. Possiamo perciò concludere che il tentativo, secondo Giovanni, di lapidare Gesù, corrisponde ed esaspera la dichiarazione dei giudei, secondo Matteo e Marco, sulla reità di bestemmia di Gesù che è meritevole di morte. Considerando poi il tentativo di lapidazione come il corrispondente giovanneo della dichiarazione dei Sinottici che Gesù è reo di morte, notiamo una inversione di elementi. Il processo davanti al sinedrio in Matteo e Marco inizia con il verbo e\zhétoun e finisce con la dichiarazione che Gesù è reo di morte (qanaétou); Giovanni, al contrario, nei vv. 31-39, inizia, nel v. 31, con la menzione del tentativo di lapidazione e finisce, nel v. 39, con il verbo e\zhétoun. Possiamo proporre allora il seguente schema: Sinottici: e\zhétoun è reo di morte Giovanni: tentativo di lapidazione e\zhétoun
4.4.5. Confronto con i vv. 22-30 Come abbiamo già altrove osservato, i vv. 22-30 e i vv. 31-39 del cap. 10 del vangelo di, Giovanni, fanno parte di unità più ampia, i vv. 22-39, che può essere definita una grande disputa tra Gesù e i giudei. Tuttavia le due parti, come abbiamo anche mostrato, sono chiaramente distinte, ma 163
Cfr. Lev 24,16.
Come abbiamo già osservato, possiamo chiederci se questo tentativo di lapidare Gesù sia reale o non piuttosto metaforico. Le parole dei giudei, in 18,31, davanti a Pilato: «a noi non è lecito uccidere alcuno», dopo le precedenti sarcastiche parole di Pilato: «prendetelo e secondo la vostra legge giudicatelo», rivelano che già i giudei hanno fatto il loro giudizio ed hanno emesso anche una sentenza capitale, che però non possono eseguire. 164
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nello stesso tempo non sono senza reciproca relazione: i vv. 22-30 e i vv. 31-39 appaiono, anzi, complementari. Rievocando gli elementi di distinzione, prescindendo dai rispettivi contenuti, questa è determinata soprattutto da due elementi: anzitutto il nuovo elemento narrativo, che l’evangelista introduce nel v. 31, e che si lega, mediante il verbo liqaézw, agli inizi del dialogo seguente (vv. 32.33); inoltre la duplice menzione dell’ostilità contro Gesù, nei vv. 31.39, che costituisce una inclusione tematica a tutto il brano. È importante però stabilire tra le due parti, i vv. 22-30 e i vv. 31-39, anche gli elementi di relazione; ciò permetterà di stabilire, nel paragrafo seguente, la relazione tra i due titoli cristologici. Una prima relazione tra i vv. 25-26, la prima parte, e i vv. 37-38, la seconda parte, è stabilita dalla tematica della fede, dalla menzione delle opere e dalla menzione del Padre. Possiamo proporre il seguente confronto: vv. 25-26: «dissi a voi e non credete (ou\ pisteuéete); le opere (taè e"rga) che io faccio nel nome del Padre mio (tou% patroév mou), queste testimoniano a mio riguardo» (v. 25): «ma voi non credete (ou\ pisteuéete) perché non siete del mio gregge» (v. 26). Nei vv. 37-38: «se non faccio le opere (taè e"rga)» del Padre mio (tou% patroév mou), non credete a me (mhè pisteuéeteé moi) (v. 37); «ma se faccio, e se a me non credete (ka!n e\moì mhè pisteuéhte), alle opere credete (to_v e"rgoiv pisteuéete), perché conosciate (gnw%te) e permaniate nella conoscenza (kaì ginwéskhte) che in me il Padre (o| pathér) e io nel Padre (e\n t§% patrò) (v. 38). Entrambe le parti sono caratterizzate dal termine taè e"rga, dal verbo pisteuéw e dalla menzione del Padre (o| pathér). Un’altra relazione può essere stabilita tra i vv. 29-30, la prima parte, e il v. 32, la seconda parte; si parla in questi testi ancora del Padre che dona. I due testi esprimono una complementarietà tematica: nel v. 29 si parla del Padre “che ha dato (o£ deédwkeén moi)”; nel v. 32 si parla delle “opere (pollaè e"rga kalaé)” che Gesù “ha mostrato (e"deixa)” da parte del Padre (e\k tou% patroév).
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Si può stabilire inoltre una relazione tra il v. 30. la prima parte, e il v. 38, la seconda parte: in entrambi i testi si evidenzia la relazione intima tra Gesù e il Padre. Nel v. 30 infatti leggiamo: «io e il Padre siamo una cosa sola»; nel v. 38 poi Gesù conclude il dialogo con le parole: «perché conosciate […] che in me il Padre e io nel Padre». Tutte le relazioni sopra indicate permettono così di stabilire una relazione antitetica tra i versi centrali della prima parte, i vv. 26-28, e quelli della seconda parte, i vv 33b-36. Nella prima parte Gesù parla delle sue pecore che ascoltano la sua voce, lo seguono ed egli dà ad esse la vita eterna; nella seconda parte, in contrapposizione alle pecore, è descritto invece l’atteggiamento di giudei che accusano Gesù di bestemmia e, in seguito a ciò, tentano di lapidarlo. Se tutte queste osservazioni sono vere, possiamo stabilire tra le due parti la seguente relazione concentrica: vv. 25-26: non credete alle opere fatte nel nome del Padre; vv. 26-28: le pecore che ascoltano la voce di Gesù; v. 29: Padre ha dato a Gesù v. 30: Gesù e il Padre: una cosa sola v, 32: le opere che Gesù ha mostrato da parte del Padre vv. 33b-36: i giudei che accusano di bestemmia e vogliono lapidare vv. 37-38a: credere almeno alle opere del Padre; v. 38b: il Padre è in Gesù e Gesù nel Padre Il primo, secondo e terzo elemento formano uno schema tematicamente concentrico con il quinto, sesto e settimo elemento. Il quarto e l’ottavo elemento concludono rispettivamente ciascuna parte, sottolineando il rapporto tra Gesù e il Padre. 4.4.6. Le prerogative di Gesù Il confronto sopra stabilito permette di confrontare le prerogative di Gesù in ciascuna delle due parti. Queste, nelle due parti, sono diverse. Nella prima
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parte (vv. 22-30) compare la prerogativa o| Cristoév, che si legge precisamente nel v. 24, nella domanda rivolta dai giudei a Gesù: «se tu sei il Cristo (o| Cristoév), dìllo a noi apertamente». Nella seconda parte invece (vv. 31-39) leggiamo non più la prerogativa o| Cristoév bensì quella di “figlio di Dio” o direttamente “Dio”, che l’evangelista introduce precisamente in tre frasi: v. 33: «tu uomo essendo, fai te stesso Dio (poie_v seautoèn qeoén)»; v. 34: Il Sal 81 (82),6: «Io dissi: dei siete (qeoò e\ste)», v. 36: «dite che “bestemmi”, poiché dissi: figlio di Dio sono (ui|ovè tou% qeou% ei\mi)». La prima espressione, quella del v. 33, è pronunziata dai giudei, che accusano Gesù di bestemmia; la seconda e terza frase, rispettivamente i vv. 34 e 36, sono invece pronunziate da Gesù. Emerge una differenza tra le due parti: a riguardo del titolo o| Cristoév, nella prima parte (vv. 22-30), i giudei pongono a Gesù una precisa domanda, se è il Cristo; nella seconda parte invece (vv. 31-39), non pongono invece alcuna domanda a riguardo della sua figliolanza divina, ma formulano direttamente, nel v. 33, un capo di accusa. Emerge allora la domanda: da dove i giudei sanno che Gesù è, o almeno pretende di essere, figlio di Dio? Da dove essi hanno dedotto che Egli fa se stesso Dio? La risposta sembra essere contenuta nei precedenti vv. 29-30. Nel v. 29 Gesù ha dichiarato: «il Padre mio (o| pathér mou), che ha dato a me, è migliore di tutti e nessuno può rapire dalla mano del Padre (tou% patroév)». Due cose soprattutto emergono in questa dichiarazione di Gesù: anzitutto che Dio è suo Padre e inoltre che il Padre ha dato a lui. Nel seguente v. 30 poi Gesù evidenzia la sua intima e profonda unità con il Padre, al punto da essere, i due, una cosa sola: «io e il Padre siamo una cosa sola (e$n e\smen)». Questi due testi giustificano la duplice accusa dei giudei contro Gesù, nel v. 33, che egli bestemmia facendosi Dio e dichiarando di essere figlio di Dio165. La bestemmia può ricondursi al fatto che Gesù chiama Dio suo Padre. I due testi dei vv. 29.30, possono richiamare, in maniera alternata, le espressioni del v. 33, nel seguente modo: v. 29: Gesù chiama Dio suo Padre; v. 30: «Io e il Padre siamo una cosa sola»; v. 33: La bestemmia; Gesù fa se stesso Dio. 165
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Possiamo inoltre notare come il termine o| Cristoév, introdotto nel v. 24, cioè nella prima parte, non si legge nei vv. 31-39; viceversa, la prospettiva della figliolanza divina, pur preparata nei vv. 29-30 e menzionata poi esplicitamente nei vv. 31-39, non è attestata nella prima parte. Ciò conferma la complementarietà dei due titoli. Le due prerogative: “Cristo “ e “Figlio di Dio”, costituiscono precisamente l’oggetto della domanda rivolta a Gesù, secondo Matteo e Marco, dal sommo sacerdote; secondo Luca invece dai sinedriti. Come abbiamo già notato, la domanda di Caifa è formulata in maniera molto solenne, secondo Matteo mediante anche uno scongiuro (e\xorkòzw) formulato in nome del Dio vivente. Caifa chiede a Gesù (Mt 27,63) se egli è il Cristo (o| Cristoév), il figlio di Dio (o| ui|ovè tou% qeou%). Anche secondo Marco (Mc 14,61) il sommo sacerdote rivolge a Gesù la stessa domanda che in Matteo; soltanto Marco non scrive o| ui|ovè tou% qeou% (il figlio di Dio), bensì o| ui|ovè tou% eu\loghtou% (il figlio del Benedetto). Prescindendo da quest’ultima differenza, i due evangelisti concordano in tre aspetti: in entrambi la domanda è rivolta a Gesù dal sommo sacerdote; in entrambi i due titoli sono accostati; in entrambi il secondo titolo, quello riguardante la figliolanza, è introdotto come apposizione del primo. In Luca (Lc 22,67.70) invece i due titoli sono smembrati e fatti oggetto di due domande diverse, introdotte rispettivamente nel v. 67, la prima, riguardante il Cristo, e nel v. 70, la seconda riguardante la figliolanza divina. Abbiamo notato come in Luca le due domande non sono poste dal sacerdote, bensì dai sinedriti, Non è chiaro però se entrambe le volte siano le stesse o diverse persone a interrogare. La prima domanda, v. 67, è posta dai sinedriti (v. 66), senza alcun limite, il presbiterio del popolo, i sacerdoti e gli scribi; la seconda domanda, nel v. 70, è posta invece da “tutti (eùpan deè paéntev)” . Non è chiaro se il termine “tutti” includa altre persone oltre quelle elencate nel v. 66. Possiamo allora concludere che le prerogative “Cristo” e “Figlio di Dio” che caratterizzano le due parti di Gv 10,22-30 e Gv 10,31-39, corrispondono alle due prerogative che costituiscono l’oggetto delle domande rivolte a Gesù, secondo tutti e tre i vangeli sinottici, nel processo davanti al Sinedrio nel contesto della narrazione della passione.
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Concludendo, non interessa in questo studio sviluppare il tema della figliolanza divina di Gesù, né stabilire il senso globale del dialogo di 10,22-39, specialmente nella relazione che l’evangelista stabilisce tra la figliolanza divina, l’invio da parte del Padre, il compimento delle opere e l’incredulità dei giudei che si tramuta in aperta ostilità contro Gesù. Il nostro scopo è soltanto quello di stabilire una eventuale relazione tra questo dialogo e il processo davanti al sinedrio, riferito dai vangeli sinottici, soprattutto da Matteo e Marco. Nei vv. 22-30 emergono tre elementi fondamentali di relazione con i racconti del processo davanti al Sinedrio: la domanda a Gesù se è il Cristo, la dichiarazione da parte di Gesù dell’incredulità dei giudei e, probabilmente, nei vv 22-24a, l’allusione al tempio distrutto e ricostruito. Il primo elemento, la domanda se Gesù è il Cristo, stabilisce una relazione tra il testo di Giovanni e tutti e tre i vangeli sinottici; il fatto dell’incredulità stabilisce una relazione soltanto con il racconto lucano; l’allusione al tempio distrutto e ricostruito, richiama probabilmente soltanto Matteo e Marco. Nei vv. 31-39 le relazioni appaiono più articolate: emergono tre elementi fondamentali: l’accusa di bestemmia, l’oggetto della bestemmia, che è la figliolanza divina, la deliberazione di uccidere Gesù, espressa mediante l’azione di prendere delle pietre e scagliarle contro di lui. Prescindiamo dal problema, probabilmente irrisolvibile, se il tentativo di lapidare Gesù sia simbolico o reale. Possiamo stabilire tra il racconto sinottico del processo davanti al Sinedrio, soprattutto con quello di Matteo e Marco, e il dialogo tra Gesù e i giudei di Gv 10,31-39, il seguente confronto: Processo davanti al Sinedrio Dialogo di Gv 10,31-39 Figliolanza divina, Tentativo di lapidazione, Accusa di bestemmia, Per la bestemmia, Deliberazione delle morte Che consiste nella figliolanza divina. Strutturando questi elementi in diversa maniera, possiamo ottenere una relazione secondo uno schema concentrico: 1. Processo davanti al Sinedrio 1. Figliolanza divina, 2. Accusa di bestemmia, 3. Deliberazione delle morte
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2. Dialogo di Gv 10,31-39 4. Tentativo di lapidazione, 5. Per la bestemmia, 6. Che consiste nella figliolanza divina. 4.5. Lo sfondo dei vv 1-18 L’analisi condotta precedentemente induce alla conclusione che lo sfondo del testo di Gv 10,22-39, la seconda parte cioè del cap. 10 riguardante il pastore, sia il processo davanti al Sinedrio che il quarto evangelista non narra, ma, come appare dai vari elementi fin qua notati, sembra non ignorare. Emerge allora la domanda: qual è lo sfondo dove si collocano i primi diciotto versi dello stesso capitolo? Diversi elementi inducono ad individuare lo sfondo di questi versi nel processo davanti ad Anna, narrato, nel contesto della storia della passione di Gesù, esclusivamente dal quarto evangelista, in 18,12-27. Secondo la narrazione giovannea infatti, Gesù, dopo la cattura al Getsemani, fu condotto “prima (prw%ton)” nel palazzo del sacerdote Anania o Anna, che l’evangelista presenta, nel v 13. 4.5.1. La divisione di Gv 10,1-18 Nell’ambito dei vv. 1-18 possiamo individuare anzitutto una prima parte nei vv. 1-6. Nel v. 1 l’evangelista, mediante l’espressione solenne a\mhèn a\mhèn leégw u|m_n, introduce delle parole di Gesù, che continuano, ininterrotte, fino al v. 5. Benché l’espressione a\mhèn a\mhèn leégw u|m_n segni un nuovo inizio, in realtà Gesù ha iniziato a parlare fin dal v. 41 del precedente cap. 9. In questi versi Egli non parla direttamente di se stesso, ma, in maniera più oggettiva, formula il suo discorso alla terza persona singolare o plurale. Nel v. 6 l’evangelista interrompe le parole di Gesù, per introdurre una sua osservazione, quasi un suo commento, di indole narrativa. Riferisce infatti che Gesù disse quella parabola (tauéthn thèn paroimòan) ai giudei, ma
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essi non conobbero (e"gnwsan) cosa era ciò che diceva a loro. Possiamo allora concludere che, introducendo il v. 6, di indole narrativa, l’evangelista intende stabilire un termine al monologo di Gesù, relativamente lungo, dei vv. 1-5. Ciò permette di individuare appunto, nei vv. 1-6, la prima sezione della prima parte (vv. 1-18) del cap. 10, riguardante il buon pastore166. L’intenzione dell’evangelista di voler concludere, con il v. 6, le parole di Gesù contenute nei vv. 1-5, fin da 9,41, è confermato dal v. 7a. In questo verso notiamo due elementi che permettono di individuare un nuovo inizio. Leggiamo anzitutto una formula introduttiva di indole narrativa: eùpen ou&n paélin o| }Ihsou%v (disse di nuovo Gesù); inoltre Gesù inizia le sue parole ripetendo la solenne formula a\mhèn a\mhèn leégw u|m_n, già introdotta nel v. 1. Con il v. 7, inizia un nuovo monologo di Gesù che, senza alcuna interruzione, si protrae fino al v. 18. Esso è il monologo più lungo di tutto il cap. 10, e non è interrotto né da alcuna frase narrativa dell’evangelista, né da interventi di eventuali altri interlocutori. Possiamo anzi notare, in questo secondo monologo, la totale assenza di interlocutori. Mentre infatti, in 9,41, in relazione al primo dialogo, questi sono menzionati mediante il pronome au\to_v: eùpen au\to_v o| }Ihsou%v, nel v. 7, nell’espressione eùpen ou&n paélin o| }Ihsou%v, non leggiamo alcun pronome che, in qualche modo, possa alludere ad eventuali interlocutori. Il genere narrativo torna poi nel v. 19. Sia la formula narrativa nel v. 7a sia l’indole narrativa dei vv. 19-21 ci permettono così di individuare, nei vv. 7-18, la seconda sezione della prima parte, i vv. 1-18, del cap. 10. Abbiamo così nella prima parte del cap. 10 (i vv. 1-18) due dialoghi, che finiscono, soprattutto il secondo, per diventare monologhi: i vv. 1-6 e i vv. 7-18: entrambi contengono infatti un monologo esclusivo ed ininterrotto di Gesù. I due monologhi, dal punto di vista formale, presentano tuttavia delle differenze. Queste sono specificamente due. Anzitutto, dal punto di vista della quantità, il primo monologo è più breve; il secondo invece è più lungo, oltre il doppio167. Inoltre, mentre nel primo monologo Gesù parla probabilmente di se stesso, ma soltanto in maniera indiretta, esprimendosi 166
Cfr. J.P. Martin, Jo 10,1-10, in Interpr 32 (1978) 171-175: 171.
Nel primo monologo, escludendo il v. 6 narrativo, contiamo 88 parole; nel secondo invece, escludendo la formula introduttiva narrativa del v. 7a, ne contiamo ben 207. 167
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alla terza persona singolare, nel secondo invece parla direttamente di se stesso, esprimendosi alla prima persona singolare Quanto poi ai vv. 1-6, Soubigou168 individua in essi tre punti tematici: il legittimo pastore in opposizione al ladro (vv. 1-3a); il legittimo pastore in opposizione allo straniero (vv. 3b-5); la non comprensione degli ascoltatori (v. 6). Individua poi nei vv. 7-10 quattro punti: annunzio del tema della porta delle pecore (v. 7), l’annunzio del tema del ladro (v. 8), lo sviluppo del tema della porta (v 9), lo sviluppo del tema del ladro (v. 10). De La Potterie169 individua una struttura in quattro elementi gravitante attorno al binomio “entrare - uscire”. Schenke170 caratterizza i vv. 1-5 come un enigma (Rätsel) e i vv. 7-18 come un discorso di rivelazione. I vv. 1-5 hanno poi tre unità: vv. 1-2: la funzione della porta che apre al recinto delle pecore; v. 3: il rapporto delle pecore al pastore e del pastore alle singole pecore; vv. 4-5: gli avvenimenti dentro il recinto. Robinson171 infine nota che c’è una chiara divisione tra la parabola (vv. 1-6) e la sua allegorizzazione (vv. 7ss). Pone nei vv. 1-5 una cesura tra il v. 3a e il v. 3b. Conclude che nel testo c’è la fusione di due parabole originariamente distinte172.
Cfr. L. Soubigou, Le pasteur, la porte et les brébis (Étude de Jean X,1-21), in AnnTh 7 (1946) 244-253: 244 - 246. 168
Cfr. I. De La Potterie, “Le bon pasteur”, in Populus Dei, II. Ecclesia, Studi in onore del Card. A. Ottaviani, Roma 1970, 927-968: 937. Lo schema è il seguente: v. 1: entrare vv. 2-3: entrare v. 4: uscire v. 5: uscire 169
Cfr. L. Schenke, Das Rätsel von Tür und Hirt; wer es löst, hat gewonnen, in ThZ 105 (1996) 81-100: 85. 170
Cfr. J.A.T. Robinson, The Parable of Jn 10,1-5, in ZNW 46 (1955) 233-240: 236240; in questo senso si esprime anche C.H. Dodd, La tradizione storica nel quarto vangelo, trad. it., Brescia 1983, 459. 171
172 Questa distinzione in due parabole originariamente distinte è ritenuta anche da Brown, Cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 512.
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Nell’ambito dei vv. 7-18, dove l’evangelista propone senza alcuna interruzione un lungo discorso di Gesù173, troviamo poi quattro autodefinizioni di Gesù: (v. 7): e\gwé ei\mi h| quéra tw%n probaétwn, (v. 9): e\gwé ei\mi h| quéra, (v. 11): e\gwé ei\mi o| poimhèn o| kaloév, (v. 14): e\gwé ei\mi o| poimhèn o| kaloév, Le prime due gravitano attorno al termine quéra: Gesù si autodefinisce due volte come “la porta”174; Le altre due gravitano invece attorno al termine poimhèn: Gesù si autodefinisce due volte come “il pastore”: non però semplicemente come “il pastore”, bensì come “il pastore (o| poimhén) quello buono (o| kaloév)”175. Benché tutto il brano dei vv. 7-18 costituisca un monologo unitario, tuttavia le quattro autodefinizioni permettono di individuare tre brevi unità tematiche. La prima unità comprende i vv. 7-10: essa gravita attorno alle due definizioni e\gwé ei\mi h| quéra, e si conclude con il v. 10, dove Gesù al ladro (o| kleépthv) contrappone se stesso (e\gwé). La seconda unità comprende i vv. 11-17: essa gravita attorno alle due definizioni e\gwé ei\mi o| poimhèn o| kaloév, e si conclude con il v. 16, dove Gesù parla di altre pecore che non sono “di questo ovile” e che Lui deve anche condurre. I vv. 17-18, pur continuando il monologo, non sembrano appartenere all’unità precedente; piuttosto esse sembrano sviluppare l’ultima caratteristica del pastore nel v. 15, che Gesù ha applicato a se stesso: porre la vita per le pecore. In questa terza unità Gesù colloca questa sua I vv 7-18 infatti sono inclusi dall’evangelista tra due frasi di indole narrativa, rispettivamente nei vv. 6.19. La prima frase (v. 6) conclude le parole dei vv. 1-5; la seconda frase (v. 19) introduce tutta la descrizione dei vv. 20ss. Tra queste due frasi il discorso di Gesù dei vv. 7-18 continua in maniera ininterrotta. 173
174 La prima volta (v. 7), in maniera più relativa, Gesù si autodefinisce “la porta delle pecore (h| quéra tw%n probaétwn)”; la seconda volta (v. 9), in maniera assoluta, come “la porta (h| quéra)”. 175 Si può notare l’enfasi della frase o| poimhèn o| kaloév determinata dal duplice articolo. Prescindiamo però dalla determinazione dell’aggettivo kaloév che non va certo inteso in senso estetico (bello). Siamo inclini però ad intenderlo non prima di tutto nel senso etico (buono) ma nel senso qualitativo (autentico).
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prerogativa nello sfondo del Padre:176 porre la vita per poi riprenderla è il comando (e\ntolhé) che Gesù ha ricevuto (e"labon) dal Padre (paraè tou% patroév mou), ma è anche il motivo (diaè tou%to) per cui il Padre (o| pathér) lo ama (a\gapç%). 4.5.2. I termini: au\lhé, qurwroév quéra Gli elementi a cui ci riferiamo, in questo confronto tra i vv. 1-18 e il dialogo tra Gesù ed Anna, sono contenuti soprattutto nei primi tre versi del cap. 10. Essi sono specificamente tre: il termine au\lhé (recinto o palazzo), il termine qurwroév (portinaio) e il termine quéra (porta). Accanto a questi termini considereremo anche i personaggi antitetici al pastore, definiti, nel cap. 10, con tre termini: kleépthv, l+sthév, misqwtoév. Il termine au\lhé può significare sia “cortile” come anche “palazzo”; può indicare anche un palazzo con un cortile all’interno. Esso nel NT non è molto frequente: complessivamente si legge dodici volte, di cui undici nel contesto delle narrazioni evangeliche. Il dodicesimo uso si legge poi in Ap 11,2, dove esso indica l’atrio esterno del tempio, che non dev’essere misurato, perché fu dato ai pagani, i quali dovranno calpestare la città santa per 42 mesi. Pure per il termine au\lhé gli interpreti hanno proposto varie spiegazioni. In maniera più materiale talora essa è riferita all’area in cui le pecore sono
Il termine costituisce una inclusione letteraria ai vv. 17-18: v. 17: diaè tou%toé me o| pathèr a\gapç% (per questo il Padre mi ama); v. 18: tauéthn thèn e\ntolhèn e"labon paraè tou% patroév mou (questo comando ricevetti dal Padre mio). Queste due espressioni si possono relazionare anche in mamiera concentrica: 176
diaè tou%toé me o| pathèr a\gapç% tauéthn thèn e\ntolhèn e"labon paraè tou% patroév mou..
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custodite177 o al cortile antistante la casa178. Altre volte è identificata con l’atrio del tempio179, con il suo vestibolo180 dove si radunano gli Israeliti181 o, più genericamente, con ciò che tiene uniti gli Israeliti182. Nei vangeli Sinottici il termine au\lhé si legge complessivamente otto volte: tre volte in Matteo183; tre volte in Marco184; infine due volte in Luca185. In Matteo esso indica il palazzo del sacerdote dove Gesù fu condotto e dove si radunò il Sinedrio. Leggiamo in 26,3 che «si radunarono i sacerdoti […] nel palazzo del sacerdote (ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv)»; poi, nel v. 58, leggiamo che Pietro «seguiva da lontano fino al palazzo del sacerdote (e$wv th%v au\lh%v tou% a\rciereéwv)»; nel v. 69 infine si dice che «Pietro era seduto fuori nel palazzo (e\n t+% au\l+%)». In Marco, nei vv. 14,54.66, il termine au\lhé indica il luogo fin dove Pietro segui Gesù, e dove egli si trovava: ancora cioè il palazzo del sacerdote. In 15,16 invece è riferito al palazzo di Pilato, dove, all’esterno, i soldati condussero Gesù. In Lc 22,55 poi il termine è riferito pure al palazzo del sacerdote, al cortile esterno, nel mezzo del quale fu acceso un fuoco; qui anche Pietro si mise a sedere. In 11,21 però il termine è usato nel contesto della metafora del forte armato che custodisce il proprio palazzo (thèn e|autou% au\lhén). 177 Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, I, cit., 349; R. Kysar, John, cit., 159, che rimanda anche ad una casa di abitazione (Gv 18,15) o ad un cortile (Mc 15,16); cfr. anche R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, II, cit., 467-468.
Cfr. W. Bauer, Das Johannesevangelium, cit., 138; H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1973., 272. 178
Cfr J. Mateos - J. Barreto, El Evangelio de Juan, Madrid 1979, 436; A.J. Simonis, Die Hirtenrede im Johannes-evangelium. cit., 121-127. 179
180 Cfr. I. De La Potterie, “Le bon pasteur”, cit., 939, che si basa sul fatto che ben 115 dei 177 usi del termine nei LXX si riferiscono al sagrato del tempio.
181 Sulla identificazione stessa con il tempio però De La Potterie rimane scettico, come pure Simoens, cfr. Y. Simoens, Secondo Giovanni. Una traduzione e una interpretazione, cit., 420. 182 183 184 185
Cfr. L. Schenke, Das Rätsel von Tür und Hirt, cit., 90. Cfr. Mt 26,3.58.69.
Cfr. Mc 14,54.66. 15,16. Cfr. Lc 11,21; 22,55.
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Benché da Marco sia riferito anche al palazzo di Pilato e da Luca al palazzo del forte armato, in tutti e tre i sinottici il termine au\lhé è riferito al palazzo del sacerdote dove Gesù fu condotto. Nel caso specifico del vangelo di Matteo il sacerdote in questione è Caifa; in Marco, benché non si legga il nome, la menzione del Sinedrio dice che esso ancora sia Caifa; in Luca infine l’identità di questo sacerdote rimane più vaga. L’uso dei vangeli Sinottici lascia pensare che il termine au\lhé fosse tradizionale per indicare la casa del sacerdote dove Gesù, dopo la cattura, fu condotto. In Giovanni tale termine si legge pure soltanto tre volte, di cui due volte nel contesto del nostro cap. 10, nei vv. 1.16. Esso può costituire un elemento di inclusione letteraria a tutta l’esposizione proposta nei vv 1-18. Il terzo uso è in 18,15, nel contesto della narrazione del processo di Gesù davanti ad Anna. Più esattamente, il termine non è riferito direttamente a Gesù, bensì al discepolo, del quale però si dice che «entrò insieme a Gesù (suneish%lqen t§% }Ihsou%) nel palazzo del sacerdote (ei\v thèn au\lhèn tou% a\rciereéwv)». Nell’uso e nel riferimento di questo termine, Giovanni rivela una concordanza con i vangeli sinottici. Il termine qurwroév , nel NT, può essere considerato come un termine giovanneo. Esso infatti si legge soltanto quattro volte, di cui tre nel vangelo di Giovanni. Il quarto uso è in Mc 13,34, nel contesto della metafora di un uomo che, avendo lasciato la sua casa, assegnò a ciascuno dei suoi servi il proprio compito e comandò al portinaio (t§% qurwr§%) di vegliare. Il testo di Marco non presenta alcuna relazione con il nostro testo. Qualche interprete186 identifica il portinaio con Caifa; altri invece187 non offrono alcuna identificazione ma ritengono che sia una allegoria senza alcun significato particolare188. Gli altri due testi, oltre il nostro, nel vangelo di Giovanni sono 18,16.17. Siamo perciò ancora nel contesto della narrazione del processo di Gesù davanti ad Anna. In questi due testi il termine qurwroév però è femminile, 186
Cfr. A.J. Simonis, Die Hirtenrede im Johannes-evangelium, cit., 121s.
Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, I, cit., 349; L. Morris, The Gospel according to John, cit., 502; L. Soubigou, Le pasteur, la porte et les brébis (Étude de Jean X,1-21), cit., 247. 187
188 Bultmann ritiene questo elemento come una aggiunta pittoresca, cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, cit., 283.
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e riferito ad una portinaia (h| qurwroév). Nel v. 16 si legge a riguardo del discepolo che entrò con Gesù nella au\lhé, mentre Pietro rimase fuori. Narra poi l’evangelista che il discepolo, uscito, parlò con la portinaia (t+% qurwr§%) e fece entrare Pietro. Nel v. 17 poi si legge che “la serva portinaia (h| paidòskh h| qurwroév)” si rivolse a Pietro provocando così il suo primo rinnegamento. Il quarto evangelista concorda con i vangeli sinottici nel fatto che la prima ad interrogare Pietro fu una serva (paidòskh); a differenza dei sinottici però egli precisa che si tratta della serva portinaia. Il termine qurwroév direttamente, in questo contesto, è relazionato a Pietro, così come il termine precedente au\lhé era principalmente riferito al discepolo che entrò con Gesù. Tuttavia troviamo un secondo elemento che si legge esclusivamente nel nostro testo del cap. 10 e nel contesto del processo davanti ad Anna. Il termine quéra invece in Giovanni non è usato in maniera esclusiva come i precedenti due termini. Nel Nuovo Testamento si legge 39 volte così ripartite: 14 volte nei Vangeli Sinottici189; 7 volte nel vangelo di Giovanni190; 10 volte nel libro degli Atti191; 3 volte nell’epistolario Paolino192; una volta nella lettera di Giacomo193; quattro volte nel libro dell’Apocalisse194. La peculiarità del termine quéra nel Vangelo di Giovanni non sta nella quantità ma nella posizione dei suoi usi all’interno del vangelo stesso. Ben quattro infatti sono concentrati nel cap. 10 in contesti alquanto ravvicinati: nei vv. 1.2.7.9. Prescindendo dai due usi dei vv 7.9, dove Gesù definisce se stesso come “la porta delle pecore (h| quéra tw%n probaétwn)”, i primi due usi sono riferiti a colui che non entra (o| mhè ei\sercoémenov) attraverso la porta (diaè th%v quérav) (v 1) e a colui che invece entra (o| ei\sercoémenov) attraverso la porta (diaè th%v quérav) (v. 2). Del primo si dice che è ladro e brigante (kleépthv […] l+sthév); del secondo invece si dice che è il pastore (poimhén) 189 Quattro volte in Matteo (6,6; 24,33; 25,10; 27,60); sei volte in Marco (1,33; 2,2; 11,4; 13,29; 15,46; 16,3); quattro volte in Luca (11,7; 13,24.25.25). 190 191 192 193 194
Cfr. Gv 10,1.2.7.9; 18,16; 20,19.26.
Cfr. At 3,2; 5,9.19.23; 12,6.13; 14,27; 16,26.27; 21,30. Cfr. 1Cor 16,9; 2Cor 2,12; Col 4,3. Cfr. Gc 5,9.
Cfr. Ap 3,8.20.20; 4,1.
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delle pecore. In questa prospettiva, il pastore è definito come colui “che entra attraverso la porta”. I due usi di 20,19.26 si leggono nel contesto dell’apparizione del Risorto ai discepoli. In entrambi i testi leggiamo la stessa espressione: tw%n qurw%n kekleismeénwn (essendo state chiuse le porte)” e in entrambi l’espressione è relazionata alla manifestazione del Signore. Nel v. 19 si dice che erano state chiuse le porte (tw%n qurw%n kekleismeénwn) del luogo dove erano i discepoli per paura dei giudei; nel v. 26 l’evangelista ancora ripete e narra che Gesù viene essendo state chiuse le porte (tw%n qurw%n kekleismeénwn). Al nostro scopo però interessa soprattutto l’uso di 18,16: esso è riferito alla posizione di Pietro nel palazzo (au\lhé) di Anna; narra infatti l’evangelista che «Pietro stava (ei|sthékei) presso la porta (proèv t+% quérç) fuori». L’evangelista sottolinea così il fatto che, mentre Gesù era entrato con il discepolo nella au\lhé di Anna, Pietro era rimasto fuori, ma proteso (proév) verso la porta (t+% quérç). Possiamo allora concludere che nello stesso contesto immediato dei vv. 15-16 del cap. 18 si leggono tutti i tre termini: au\lhé, qurwroév, quéra, che troviamo riferiti in 10,1-3 al pastore. I termini au\lhé e qurwroév poi si leggono esclusivamente nel cap. 10 del vangelo e nel contesto che prepara il processo davanti ad Anna (18,15-17). Il termine au\lhé è riferito sia al recinto delle pecore (10, 1.2.) come anche al palazzo di Anna (18,15); il termine qurwroév, al maschile (o| qurwroév), in 10,3, è riferito al portinaio che apre al pastore; al femminile (h| qurwroév), in 18,16.17, è riferito alla portinaia con la quale parla il discepolo, che fa entrare Pietro e che interroga Pietro, la prima volta, se è dei discepoli di Gesù. La prospettiva però nei due testi, di 10,1-3 e di 18,15-16, appare diversa. In 10,1-3 i tre termini au\lhé, qurwroév, quéra, sono direttamente riferiti al pastore, che entra nel recinto (au\lhé) attraverso la porta (diaè th%v quérav) e a lui il portinaio (o| qurwroév) apre. In 18,15-16 invece i tre termini non sono riferiti direttamente al pastore: nella au\lhé direttamente non entra Gesù, bensì il discepolo con lui; indirettamente però si dice anche che Gesù entra nella au\lhé. Gli altri due termini, qurwroév e quéra, non sono nemmeno riferiti direttamente a Gesù, bensì a Pietro. Lui sta alla porta, per lui il discepolo parla alla portinaia, e lui questa interroga. Sembra che nella descrizione di 18,15-
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16 sia rivolta un’istanza a Pietro perché riscopra il suo ruolo di pastore e, attraverso la porta, entri nel recinto delle pecore: a lui la portinaia apre195. Tuttavia questi elementi indirettamente possono essere riferiti a Gesù. La porta (quéra) verso cui Pietro è proteso è quella che Gesù ha varcato per entrare nella au\lhé di Anna. Inoltre a lui certamente la portinaia (h| qurwroév) ha aperto. Possiamo dire allora che, benché riferiti a Pietro e al discepolo nel contesto di 18,15-16, i tre termini au\lhé – qurwroév - quéra, indirettamente sono riferibili anche a Gesù. Gesù è colui al quale la portinaia ha aperto e che, attraverso la quéra, è entrato con il discepolo nella au\lhé di Anna. Possiamo dire, alla luce di 10,1-3, che Gesù, entrando nel palazzo di Anna, è entrato come il pastore nel recinto delle pecore. 4.5.3. I personaggi antitetici al pastore Come abbiamo già notato, i personaggi che si contrappongono al pastore sono definiti, nel cap. 10, con tre termini: kleépthv, l+sthév, misqwtoév. Sulla identificazione del ladro e del brigante gli interpreti attestano posizioni diverse. Alcuni196 si riferiscono a dei testi dell’AT; altri197 li identificano Cfr A. Gangemi, I Racconti postpasquali nel Vangelo di San Giovanni, IV/1. Pietro il Pastore, Catania 2003, 903-911, 195
Si richiama talora Ab 5, cfr. E.C. Hoskyns - F.N. Davey, The Fourth Gospel, cit., 372, e così anche W. Bauer, Das Johannesevangelium, Tübingen 19333, 139 che nota che il brano è ricco di reminiscenze veterotestamentarie. Fabris richiama Ab 5 e EpGer (LXX) 57 e pensa ai rapinatori violenti che minacciano le proprietà e le case, cfr. R. Fabris, Giovanni, cit., 589. 196
Cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 513; P. Dschulnigg, Der Hirt und die Schafe (Joh 10,1-18), in SNTU (1989) 5-24: 10: secondo Dschulnigg sono tutti coloro che hanno guidato indebitamente il popolo, essendo il pastore di Israele solo Dio e il suo Messia; F.F. Ellis, The Genius of John, cit., 168; G. Faccio, Christus ovium ostium et pastor, in VD 28 (1950) 168-175: 170, che pensa anche agli scribi e ai gerarchi perversi, anche Id., Il buon pastore (Joh 10,1-6), in TerS 23 (1948) 105-112: 110; J. Quasten, The Parable of the Good Shepherd (Jn 10,1-21), in CBQ 10 (1948) 1-12 (I), 151-169 (II): 160; L. Schenke, Das Rätsel von Tür und Hirt; wer es löst, hat gewonnen, cit., 83, che menziona anche i sacerdoti (ibid., 90); F. Tillmann, Das Johannes Evangelium, Bonn 19314, 199, che propende meno per i pretendenti messianici. 197
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con i farisei; altri198 con gli zeloti fautori di un messianesimo nazionale e violento; con il giudaismo contemporaneo guidato dai farisei o con tutti i capi di Israele che si oppongono alla fede in Gesù199; con la gerarchia giudaica di quel tempo200; con i capi di Israele operanti prima di Gesù ma attivi al tempo di Gesù che hanno preteso una posizione determinante nella comunità senza Gesù o contro di lui201; con i dirigenti del popolo con a capo Giuda che vogliono soggiogare Gesù202 Bauer203 ritiene insufficiente il rimando ai farisei e pensa meglio a quei profeti che alle origini del cristianesimo promettevano salvezza ai loro adepti. Bernard204 pensa che il riferimento, come suggerisce il presente ei\sòn, è a quei capi di rivolta del I secolo, alcuni dei quali ancora vivi. Bultmann205 spiega che, menzionando ladri e briganti, Gesù vuol presentarsi come l’unico rivelatore. Kiefer206 pensa che i ladri e i briganti non debbono essere identificati con personaggi concreti, ma sono solo le controfigure del pastore, benché l’evangelista chiami Giuda ladro e Barabba brigante. Kysar207 richiama Giuda e Barabba ma pensa meglio a quei capi religiosi che non hanno
Cfr. I. De La Potterie, “Le bon pasteur” cit., 939, secondo cui Barabba sarebbe stato un esponente degli Zeloti propugnatori di un falso messianesimo (ibid., 498); G. Maier, Johannesevangelium, I, cit., 440; A.J. Simonis, Die Hirtenrede im Johannes-evangelium. cit., 123. 198
199
Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, II, cit., 487.
Cfr. L. Morris, The Gospel according to John, cit., 506. George pensa ai responsabili di Israele contrari a Gesù: ad essi rimprovera che non sono veri pastori, cfr. A. George, Je suis la porte des brebis (Jn 10,1-10), in BiViChr 51 (1963) 18-25: 21. 200
201 202 203
Cfr. H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 270.
Cfr. J. Mateos - J. Barreto, El Evangelio de Juan, cit., 435 nota 1. Cfr. W. Bauer, Das Johannesevangelium, cit., 140.
Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, I., cit., 353. 204
205
Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, cit., 286.
Cfr. O. Kiefer, Die Hirtenrede. Analyse und Deutung von Joh 10,1-18, Stuttgart 1967, 53-55. 206
207
Cfr. R. Kysar, John, cit., 159, spiega però che è incerto chi fossero intesi all’origine.
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legittimo accesso ai credenti che sono nella casa di Cristo. Schneider208 nota che è difficile stabilire a chi pensa Gesù. Più genericamente ritiene che si tratta di quelli che sono entrati con violenza egoistica. Il termine kleépthv, nel vangelo di Giovanni, si legge quattro volte; tre volte nel cap. 10, nei vv. 1.8.10, e una volta in 12,16. Anche il termine l+sthév nel vangelo di Giovanni è assai raro; si legge soltanto tre volte, due volte nell’espressione di 10,1.8 e la terza volta nel testo di 18,40. Sia in 10,1 che in 10,8 leggiamo insieme i due termini, kleépthv […] kaì l+sthév, rispettivamente al singolare in 10,1 e al plurale 10,8. Nel v. 1 Gesù chiama “ladro e brigante (kleépthv e\stìn kaì l+sthév)” colui che non entra attraverso la porta nel recinto delle pecore, ma sale da altrove; nel v. 8 sono definiti “ladri e briganti” tutti quelli che vennero a posto di Gesù (proè e\mou%)209. 208
Cfr. J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, cit., 201.
L’espressione proè e\mou% pone un triplice problema: testuale, sintattico e di senso. Quanto al problema testuale essa non è attestata da tutti i codici. É riferita dal P66 )c A B D, da altri codici maiuscoli, K L W X P Y, e inoltre da alcuni codici minuscoli. Viceversa è omessa dal P75 e probabilmente anche dal P45, dal codice sinaitico nella prima mano, dal codice D, da diversi minuscoli, 28 892 1009 1010 1195 1242 2148, dalla volgata latina, dalla versione siriaca e inoltre da alcuni Padri: Basilio, Crisostomo, Agostino, Cirillo, Teofilatto, Eutimio. Emerge quindi il problema se l’evangelista scrisse o no questa espressione: l’espressione, assente nell’originale, fu aggiunta da alcuni codici oppure, essendo presente, fu depennata da altri? Nell’uno o nell’altro caso poi perché l’espressione fu aggiunta o tolta? L’espressione è omessa da Wellhausen (Cfr. J. Wellhausen, Das Evangelium Johannis, cit., 48 nota 1) che si appoggia sul fatto che essa manca nelle versioni Latina e Siro Sinaitica e, per lo stesso motivo anche da Lagrange (Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, cit., 277). La nostra conclusione è che, essendo essa presente nel testo, sia stata poi eliminata da alcuni codici. A questa valutazione inducono due motivi. Anzitutto il peso dei codici che attestano la presenza, essi sono i migliori ed esprimono la più genuina tradizione greca. Inoltre la frase è richiesta dal testo stesso: se infatti la togliamo, il verbo h&lqon rimarrebbe vago e indeterminato, parlerebbe soltanto di quelli che sono venuti ma non si capirebbe perché Gesù li definisce “ladri e briganti. Viceversa se riteniamo nel testo l’espressione proè e\mou%, il verbo h&lqon riceve una più specifica caratterizzazione. Perché allora diversi codici la omisero? Forse perché intesero la particella proé in senso locale e in questo senso trovarono strano che quelli che erano venuti prima di Gesù fossero definiti ladri e briganti. La particella proé invece, come diremo dopo, sembra avere qui un aspetto sostitutivo, di preferenza, e, in questo senso, si tratta non di quelli che sono venuti prima di Gesù ma di quelli che sono venuti al posto suo e a preferenza di lui. Questo senso giustifica la valutazione negativa che essi ricevono come ladri e briganti. Il secondo problema riguarda il valore sintattico 209
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Il quarto uso del termine kleépthv, oltre i tre di 10,1.8.10, in 12,6, è della particella proéé: essa deve essere intesa nel senso cronologico (prima) o sostitutivo (a posto di)? Possiamo notare anzitutto qualche posizione degli interpreti i quali, in genere, non si distaccano dalla posizione tradizionale, così Schnackenburg (Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, II, cit., 474, secondo cui l’espressione può essere intesa solo in senso temporale). Secondo Bover (Cfr. J.M. Bover, El Símil del buen Pastor (Jo 10,1-18), in EstB 14 [1955] 297-308: 301) l’espressione si riferisce a quelli che prima di Gesù si sono presentati come Messia. Faccio (Cfr. G. Faccio, Christus ovium ostium et pastor, cit., 169.) esclude il senso sostitutivo e ritiene il senso cronologico “prima di Gesù”; introduce però una precisazione “senza di lui”. In questo senso conclude che l’espressione non può riferirsi ai profeti. Hoskyns – Davey (Cfr. E.C. Hoskyns - F.N. Davey, The Fourth Gospel, cit., 374) in maniera più generica spiegano che chiunque nel passato e nel presente ha preteso di dare vita, eccetto Gesù, è distruttore di vita. In questa universale condanna non sono inclusi i patriarchi, Mosè e i profeti: Questi autori tengono il senso cronologico ma nella spiegazione proposta si avvicinano al senso sostitutivo. Maier (Cfr. G. Maier, Johannesevangelium, I, cit., 445) identifica quelli “prima” di Gesù con Giuda il Galileo e Teuda di cui si parla in At 5,36s. Westcott (Cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, Grand Rapids 1983, 153) pensa a coloro che propugnarono un falso messianesimo anticipando il momento della divina rivelazione. Ritiene riduttivo il senso “a posto mio”.Una più attenta valutazione di queste posizioni rivela però delle difficoltà. Anzitutto come si possono catalogare tra quelli “prima” di Gesù i capi giudei contemporanei di Gesù stesso a cui rimandano talora gli interpreti? Inoltre tra “quelli prima” di Gesù ci sono anche gli antichi patriarchi e i profeti; gli interpreti sopra citati escludono queste persone, ma il testo stesso non suggerisce alcuna delimitazione. Infine alcuni interpreti che sostengono il senso cronologico, quando debbono spiegare l’espressione, finiscono poi per scivolare insensibilmente nel senso sostitutivo. Emerge perciò la difficoltà di spiegare l’espressione in senso cronologico. Ci chiediamo perciò se la particella proé non possa avere un altro significato. Oltre il senso locale e temporale, è attestato, almeno nel greco classico, anche il senso preferenziale, sostitutivo (Cfr. H.G. Liddell - R. Scott, A Greek-English Lexicon, Oxford 1985 (repr. 19409), sub voce; L. Rocci, Vocabolario greco - italiano, Roma 1987, sub voce; F. Schelkl - F. Brunetti, Dizionario greco - italiano - greco, La Spezia 1990, sub voce.). Quest’ultimo senso nel NT però è abbastanza raro (Soltanto in Gc 5,12 e 1Pt 4,8; cfr. F. Blass - A. Debrunner, Grammatik des neutestamentlichen Griechisch, Göttingen 197614, 137 (213). Il senso preferenziale, sostitutivo, potrebbe applicarsi meglio al nostro contesto. In questo senso Gesù, con l’espressione “ladri e briganti”, alluderebbe, come già abbiamo notato, a quelle persone che i Giudei preferirono a lui, a Giuda e a Barabba. Ciò concorderebbe anche con il globale riferimento alla narrazione della passione a cui abbiamo già accennato. Emerge però una difficoltà nell’applicazione di tale senso: nel vangelo di Giovanni la particella proé ha sempre un valore cronologico (Cfr. 1,48; 5,7; 11,55; 12,1; 13,1.19; 17,5.24.), questo sarebbe l’unico caso in cui ha un valore preferenziale sostitutivo. Tuttavia non possiamo ignorare altre espressioni nel vangelo che confermerebbero tale senso preferenziale, sostitutivo. Ci riferiamo a 3,19 dove l’evangelista nota: “venne la luce nel mondo e gli uomini amarono (h\gaéphsan) la
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riferito a Giuda. Leggiamo infatti, in 12,6, il commento dell’evangelista alle parole con cui Giuda ha criticato l’azione di Maria che aveva usato una libbra di unguento di nardo prezioso per ungere i piedi di Gesù. Giuda aveva obiettato che quell’unguento si poteva vendere per 300 denari e dare questo ricavato ai poveri. L’evangelista commenta che a Giuda non interessavano i poveri, ma era ladro (kleépthv) e, avendo la cassa, prendeva ciò che vi veniva messo. Il terzo uso del termine l+sthév, oltre i due di 10,1.8, in 18,40, è poi riferito a Barabba. Leggiamo in questo testo che i giudei, interrogati da Pilato se volevano che fosse liberato “il re dei giudei”, drammaticamente gli indicano Barabba, senza che questi, secondo Giovanni, sia stato menzionato da Pilato. L’evangelista nota che Barabba era “brigante (l+sthév)”. In 10,10, l’evangelista menziona esclusivamente la figura del kleépthv, di cui, in contrapposizione a se stesso, Gesù dichiara che egli viene per rubare, uccidere e disperdere. Evidentemente l’evangelista vuol fermare la sua attenzione su questa figura. Ci saremmo però aspettati che, dopo avere focalizzato la figura del kleépthv, egli focalizzasse anche quella del l+sthév. Giovanni invece introduce, nel v 12, la figura del misqwtoév, mai prima di ora menzionata. Il termine misqwtoév indica una persona ingaggiata in un lavoro dietro compenso (misqoév). Questo termine, nel NT, è assai raro; si legge in tutto tre volte: due volte nel nostro contesto e la terza volta in Mc 1,20. In quest’ultimo testo il termine misqwtoév non è negativo; si riferisce ai servi (metaè tw%n misqwtw%n) che Giacomo e Giovanni, chiamati da Gesù, lasciarono con il padre Zebedeo nella barca. La figura del misqwtoév presenta, nel nostro testo di Gv 10,12, un certo parallelismo con il termine kleépthv introdotto nel precedente v. 8. Il termine misqwtoév può riferirsi ancora a Giuda; a suo riguardo infatti, Luca tenebra più che la luce”; inoltre 12,43: “amarono (h\gaéphsan) la gloria degli uomini più che la gloria di Dio”. Siamo inclini perciò a dare all’espressione proè e\mou% un senso preferenziale, sostitutivo. Quelli che i giudei nella passione preferirono al posto di Gesù, cioè Giuda e Barabba, come suggeriscono i due stessi termini, non sono veri pastori, ma ladri e briganti. Abbiamo così due caratterizzazioni dei ladri e dei briganti; essi, negativamente, sono quelli che non entrano attraverso la porta (v. 1) ma, positivamente, sono quelli che sono venuti al posto di Gesù e sono stati preferiti a lui (v. 8).
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mette in bocca a Pietro, in At 1,18, le parole: «questi (Giuda) comprò un campo con il prezzo (e\k misqou%) dell’iniquità». Che Giuda abbia ricevuto un prezzo per mettere Gesù nelle mani dei giudei, emerge dalle diverse narrazioni evangeliche. Matteo, in 26,14-16, narra come Giuda si sia presentato ai sacerdoti, chiedendo loro quanto gli volevano dare per consegnare a loro Gesù; questi gli assegnarono trenta denari di argento. Matteo poi, in 27,3-10, riferisce del rimorso di Giuda, della restituzione del denaro ai sacerdoti e come egli, spinto dal rimorso, andò ad impiccarsi. Analogo a Mt 26,14-16, è il racconto di Mc 14,10-11; il secondo evangelista però parla più genericamente di “denaro (a\rguérion)”, senza specificare che siano stati trenta denari di argento. Anche Lc 22,5 ci informa che i sacerdoti, alla proposta di Giuda, gioirono e decisero di dargli del denaro (a\rguérion dou%nai). Nemmeno Luca però parla dei trenta denari. Giovanni non parla di tale ricompensa. In 11,57 ci informa che i sacerdoti e i farisei avevano dato ordini (e\ntolaév) che se qualcuno sapeva dove Gesù dimorasse, lo indicasse per poterlo poi catturare. Giovanni non contraddice i sinottici. I sacerdoti avrebbero dato realmente quest’ordine; Giuda avrebbe messo a profitto la sua conoscenza degli usi di Gesù, richiedendo, in cambio, del denaro. Il fatto che Giovanni non dica che a Giuda fu pagato un prezzo, non significa che egli lo ignori. I trecento denari con cui Giuda, in Gv 12,5, valuta l’unguento di Maria, può alludere anche ai trenta denari che, secondo Matteo, i sacerdoti assegnarono a Giuda. In ogni caso, il termine misqwtoév di Gv 10,12 può richiamare la figura di Giuda. Il riferimento non è del tutto certo, ma è coerente con tutto il contesto sia di Giovanni che dei sinottici. I due termini kleépthv e misqwtoév richiamerebbero allora entrambi la figura di Giuda, al quale i giudei diedero effettivamente un “prezzo (misqoév)” per catturare Gesù. Giuda, a sua volta, si comportò da guida, nei confronti di Gesù per catturarlo al Getsemani. Ciò emerge sia dai Sinottici che, soprattutto, da Giovanni, secondo cui (18,3) Giuda ricevette la coorte e servi dai sacerdoti e farisei che guidò al Getsemani.
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4.5.4. Conclusioni a 10,1-18 Anche nei vv. 1-18 del cap. 10 nello sfondo ci sta la narrazione della passione. Gli elementi che abbiamo considerato infatti ci rimandano specificamente ad essa. È importante però, nell’ambito dei sei termini, introdurre legittimamente una distinzione tra i primi tre: au\lhé – qurwroév - quéra, e gli altri tre: kleépthv, l+sthév, misqwtoév. I primi tre elementi rimandano al processo davanti ad Anna. Il termine au\lhé infatti indica anzitutto sia il recinto delle pecore, nel cap. 10, dove, attraverso la porta, entra il pastore, sia anche, in 18,15, il palazzo di Anna, dove entrò Gesù e dove entrò anche il discepolo coinvolto in Lui (suneish%lqen). Pure il secondo elemento, il termine qurwroév, rimanda sia alla descrizione del recinto delle pecore in 10,3, sia al processo davanti ad Anna, in 18,16.17. In 10,3 il termine è usato al maschile (o| qurwroév) e non va oltre il piano metaforico: è inverosimile infatti la presenza di un portinaio in un recinto dove sono custodite le pecore. In 18,16-17 invece è usato al femminile (h| qurwroév) e tocca il piano storico: è del tutto verosimile infatti che una donna, in un palazzo, possa essere adibita all’ufficio di portinaia. Analogamente ai primi due termini, anche il terzo, quéra, rimanda al contesto del processo davanti ad Anna. A differenza però dei primi due, che si leggono soltanto nei due contesti indicati, questo terzo si legge anche altrove, in 20,19.26. Il recinto delle pecore nel cap. 10 e il palazzo di Anna, dove, catturato, entra Gesù, si richiamano reciprocamente. Il pastore che entra per la porta nel recinto delle pecore è Gesù: per farlo entrare, il portinaio, o la portinaia, dovette aprire la porta. Emerge allora nel racconto giovanneo una immagine molto singolare: Il Gesù catturato e legato, che entra nel palazzo del sacerdote, attraverso la porta, per comparire davanti a lui ed essere custodito in attesa del processo ufficiale, per fare entrare il quale certamente la portinaia dovette aprire, è il pastore che entra nel recinto dove sono rinchiuse le sue pecore e vi entra per farle uscire e condurle alla vita eterna. Purtroppo le pecore non sono uscite, sono rimaste chiuse nel loro recinto, anzi hanno cacciato via il pastore,
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Gli altri tre termini, kleépthv, l+sthév, misqwtoév, direttamente non rimandano al processo davanti ad Anna, ma, in maniera più generale, alla globale narrazione della passione. Il termine l+sthév, con riferimento a Barabba, rimanda al processo davanti a Pilato, quando i giudei, richiesti se era loro desiderio che venisse liberato il re dei giudei, indicarono invece il personaggio che il procuratore doveva liberare: Barabba, che Pilato, secondo Giovanni, non aveva menzionato. Se i termini kleépthv e misqwtoév poi rimandano a Giuda, questi, nel vangelo di Giovanni appare come colui che guidò i Giudei contro Gesù. Se leggiamo infatti il racconto giovanneo, in 18,2-5, specialmente il v. 5, Giuda appare come colui che guida il gruppo di quelli che erano venuti a catturare Gesù210. Emerge allora tutta la paradossalità colta da Giovanni. È venuto il pastore autentico e i segni di riconoscimento erano evidenti: è entrato per la porta (quéra) nel recinto (au\lhé) delle sue pecore e la portinaia (qurwroév) gli ha aperto. Le pecore invece hanno scelto altri pastori che non sono entrati nel loro recinto (au\lhé), non sono passati per la porta (quéra), ma sono venuti per altra via e a loro la portinaia (qurwroév) non ha aperto. Questi sedicenti pastori, di cui uno, Giuda, era stato assoldato per guidare da Gesù, e l’altro, Barabba, era stato indicato a Pilato da liberare, che si sono sostituiti a Gesù (proè e\mou%)211, in realtà erano un ladro e mercenario (Giuda) e un brigante (Barabba). 4.6. Conclusione L’analisi di Gv 10,1-18 non era direttamente l’oggetto del nostro lavoro; il nostro problema era collocare nello sfondo dei vv. 1-18, le considerazioni proposte a riguardo dei vv. 22-39 in relazione al processo davanti al 210 Possiamo notare nel v. 3 il verbo al singolare e"rcetai (viene). Giuda viene dopo avere coinvolto (labwén) sia i romani (thèn spe_ran) che i giudei (e\k tw%n a\rciereéwn kaì e\k tw%n farisaòwn u|phreétav). Nel v. 12 l’evangelista menziona anche il tribuno (o| cilòarcov). Questa caratteristica di Giuda come guida, è sottolineata anche dai vangeli sinottici, dove leggiamo pure il verbo al singolare: h&lqen (Mt 26,47); paragònetai (Mc 14,43); prohérceto (Lc 22,47). 211
Cfr. Gv 10,8.
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Sinedrio che, come abbiamo ripetutamente osservato, il quarto evangelista non narra ma non sembra ignorare. Per questo, a riguardo dei vv. 1-18, ci siamo infatti fermati a considerare soltanto alcuni elementi essenziali al nostro scopo. Gli stessi elementi considerati tuttavia ci confermano la presenza della narrazione della passione dietro il cap. 10 del vangelo di Giovanni: l’immagine del recinto delle pecore sembra richiamare ed avere come sfondo allusivo l’ingresso di Gesù nel palazzo di Anna. In questo modo, riteniamo di scorgere tra le due parti del cap. 10 del vangelo di Giovanni, i vv. 1-18 e i vv. 19-39, apparentemente distinte, oltre ad alcuni elementi letterari già indicati, anche un ulteriore elemento unificante, che non consiste in una tematica, bensì in una storia, la storia dei due processi subiti da Gesù da parte dei giudei, tra la cattura al Getsemani e il processo davanti a Pilato. I vangeli sinottici riferiscono il processo davanti al sinedrio; Giovanni invece parla di un dialogo tra Gesù e un sacerdote, certo Anania, Anano o Anna. Abbiamo man mano osservato come di questo dialogo tra Gesù ed Anna, riferito da Giovanni, la tradizione sinottica non doveva saperne nulla, o almeno, tranne qualche elemento in Luca, non abbiamo alcun indizio che riveli una conoscenza. Viceversa Giovanni, che pure non racconta il processo davanti al Sinedrio, rivela di non ignorarlo. Mettendo insieme le testimonianze dei Sinottici e di Giovanni, Gesù, prima di essere deferito a Pilato, subì due processi, uno più informale, davanti ad Anna, forse subito dopo la cattura, riferito da Giovanni, e uno ufficiale, forse all’alba, davanti al sinedrio, riferito dai vangeli sinottici. Su questi due processi Giovanni sembra quindi avere costruito il cap. 10 del suo vangelo. Nei vv. 1-18, la prima parte, lo sfondo è quello del processo davanti ad Anna e il tema specifico è quello del pastore che entra nel recinto delle pecore; nei vv. 19-39, la seconda parte, lo sfondo invece è quello del processo davanti al Sinedrio, dove la tematica specifica ancora è quella del pastore, ma soprattutto è quella del Cristo e del Figlio di Dio che si scontra con l’incredulità dei Giudei ed è accusato di bestemmia. Possiamo proporre allora il seguente schema: Gv 10,1-18: Processo-dialogo davanti ad Anna; Gv 10,19-39: Processo davanti al Sinedrio.
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5. Il Consiglio di Caifa in Gv 11,47-53 Il testo di Gv 11,47-53 segue all’episodio della resurrezione di Lazzaro, narrata dal quarto evangelista nei precedenti 44 versi. Più direttamente segue ai vv. 45-46 che hanno insieme il carattere di epilogo e di transizione. Questi versi costituiscono appunto un epilogo in quanto, specialmente il v, 45, narra che molti giudei vennero da Marta e, avendo visto ciò che Gesù aveva fatto, credettero in Lui. Costituiscono poi una transizione in quanto, specialmente il v. 46, narra che alcuni dei giudei andarono dai farisei e narrarono loro ciò che fece Gesù. In seguito a questa informazione (v. 47), i sacerdoti e i farisei radunarono (sunhégagon) un “sinedrio (suneédrion)” per discutere a riguardo di Gesù. Circa la relazione alla tradizione sinottica del testo di Gv 11,47-53, in cui il sacerdote “di quell’anno” “profetizzò (e\profhéteusen)” che era conveniente che uno solo morisse per il popolo, gli interpreti presentano diverse posizioni: alcuni affermano una relazione, altri invece la negano. Tra quelli che affermano citiamo Brown212, che così ritiene il testo di 11,47-53 parallelo con la scena dei Sinottici del processo davanti al Sinedrio; non è chiaro però se ne ammette la dipendenza. Anche altrove213 non esclude la somiglianza di questo testo giovanneo a Mt 26,1-2, ma evita di tirare ulteriori conclusioni circa una più precisa relazione. Eisler214 vede la fonte di Gv 11,47-53 nel detto di Mt 26,2-3; tale supposizione però è giudicata fantastica da Bultmann215. Tra quelli che negano citiamo Borgen216, secondo cui è naturale supporre che il racconto di Caifa e le sue dichiarazioni in Gv 11,47-53 si basino su una particolare tradizione e non siano costruite dall’evangelista in base
212 Cfr. R.E. Brown, La morte del Messia: dal Getsemani al sepolcro. Un commentario ai racconti della passione nei quattro vangeli, trad. it., Brescia 1999, 487. 213 214 215
Cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 576.
Cfr. R. Eisler, I\ hsou%v basileuèv ou\ basileuésav, II, Heidelberg 1930, 232. Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, cit., 313 nota 2.
Cfr. P. Borgen, John and the Synoptics in the Passion Narrative, in NTS 5 (1959) 246-259: 257. 216
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a Mt 26,3. Dodd217 ammette che la breve pericope di Gv 11,47-53 abbia un preciso significato teologico. Ritiene però difficile che Gv 11,47-53 possa essere uno sviluppo di Mt 26,3-5, benché il passaggio contenga il nome di Caifa e le parole e\bouleuésanto (…) a\pokteònwsin (decisero di ucciderlo). Grundmann218 sostiene che la scena giovannea del Sinedrio non dipende da quella dei Sinottici, ma si fonda su una particolare tradizione autonoma. Schnackenburg219 infine non esclude che l’evangelista abbia voluto ricostruire una scena basandosi su idee circolanti in quel tempo. Egli avrebbe ricostruito in maniera tale da avvicinarsi alla realtà. Non è necessario ritenere allora che l’evangelista disponesse di una tradizione su quella riunione segreta migliore di quella dei Sinottici. 5.1. Struttura del testo Il testo di Gv 11,47-53 si articola in quattro parti: 1. Il raduno e il dibattito nel sinedrio (vv. 47-48); 2. Il consiglio di Caifa (v. 49-50); 3. Il commento dell’evangelista al consiglio di Caifa (vv. 51-52); 4. L’epilogo narrativo (v. 53). 5.1.1. Il raduno e il dibattito nel sinedrio (vv. 47-48) Dopo avere descritto il raduno (sunhégagon) del sinedrio, rappresentato dai sacerdoti e dai farisei, l’evangelista passa a descrivere il dibattito. Esso è espresso nel testo in forma diretta ed è introdotto mediante l’imperfetto iterativo e"legon (dicevano). Ciò rivela che la discussione dovette essere alquanto prolungata e anche travagliata nella ricerca di una risposta. 217 Cfr. C.H. Dodd, The Prophecy of Caiaphas: John 11,47-53, in Neotestamentica et Patristica, Leiden 1962, 134-143: 134-135.
218 Cfr. Grundmann, Decision, 300-301. Riprendiamo Grundmann nel modo come è citato da Brown: cfr R.E. Brown, La morte del Messia, cit., 487. Non ci è stato possibile reperire e consultare direttamente l’opera. 219
Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, II, cit., 593.
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Il punto fondamentale del dibattito nel sinedrio è costituito dalla domanda tò poiou%men, che possiamo tradurre “cosa facciamo”. Il verbo poiou%men è un indicativo presente. Alcuni codici e versioni220 propongono la lettura al congiuntivo aoristo poihéswmen. Non si tratta però della più antica tradizione greca ma di una tradizione più parziale e forse, in parte, anche più recente, che ritenne di dovere leggere il verbo nella forma di un congiuntivo potenziale. A nostro parere l’indicativo presente si rivela più importante. Sembra che, con esso, i sinedriti si chiedano non cosa concretamente possono fare, ma quale atteggiamento essi debbono assumere. Il contesto seguente suggerisce che il loro dilemma è se intervenire nei confronti di Gesù, oppure lasciar correre. La causa che suscita la domanda (o$ti) dei sinedriti è certo il fatto che Gesù ha resuscitato Lazzaro; ma non soltanto questo. Esso è l’ultimo episodio che non permette più di ignorare un fenomeno divenuto ormai a largo raggio. Leggiamo infatti la seguente motivazione: «quest’uomo fa (poie_) molti segni»: l’indicativo presente poie_ indica una attività abituale e costante. Il seguente v. 48 mostra la presa di coscienza da parte del sinedrio di dovere in qualche modo intervenire. Tutta l’espressione è una condizionale con una protasi e tre apodosi consequenziali l’una all’altra. La protasi è la seguente: e\anè a\fw%men au\toèn ou$twv (se lasciamo lui così). La frase è indeterminata; essa però può essere ovviamente intesa nel senso di “lasciar fare”, cioè di lasciare Gesù a continuare a fare i segni che faceva. Le apodosi seguenti rivelano che lasciar fare Gesù, magari ignorandolo, è un’ipotesi che il Sinedrio intende scartare. Le tre apodosi sono le seguenti: 1. «tutti crederanno in Lui» 2. «e verranno i Romani» 3. «e prenderanno di noi il luogo e la gente». Queste tre espressioni esigerebbero di essere ulteriormente precisate dal punto di vista esegetico. Emergono infatti delle domande che esigono una Si tratta del P45, dei minuscoli 28 1093 397 249s, di alcuni codici dell’antica versione latina (e a b c fr), delle versioni siriaca (Sinaitica e Peshitta), armena e, in parte, della copta. 220
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risposta. Perché la fede in Gesù determina la venuta dei romani? Perché tale venuta è distruttiva? Al nostro scopo però non interessa precisare il senso di queste espressioni. Ci è sufficiente soltanto specificare due aspetti: anzitutto Giovanni ci informa che alla base di tutta la congiura contro Gesù c’è una convenienza politica: il Sinedrio teme che la fede in Gesù possa turbare l’equilibrio di convivenza raggiunto tra i giudei e i Romani. Inoltre le tre apodosi rivelano che il Sinedrio è già orientato ad intervenire contro Gesù, ma che non osa ancora formulare una soluzione drastica, quale invece sarà subito dopo consigliata da Caifa. 5.1.2. Il consiglio di Caifa (v 49-50) I vv. 49-50, che contengono il consiglio di Caifa, si articolano in due parti: il v. 49a e i vv. 49b-50. Nel v. 49a l’evangelista descrive Caifa; nei vv. 49b-50 evoca invece il suo consiglio o la sua ”profezia”. Caifa è menzionato qui la prima volta nel vangelo; sarà poi menzionato nel contesto della narrazione della passione. Caifa è presentato dall’evangelista con due prerogative. Anche lui anzitutto appartiene al collegio dei sinedriti; l’evangelista lo indica come “uno qualsiasi (eàv deé tiv) di loro”. Inoltre lo presenta nella sua caratteristica di sacerdote (a\rciereuèv w"n) di “quell’anno (tou% e\niautou% e\keònou)”. Si avverte in questa descrizione una notevole pregnanza teologica, dalla quale però prescindiamo in questo lavoro221. Prescindiamo anche dal carattere polemico con cui Caifa si rivolge ai membri del Sinedrio; osserviamo soltanto che le parole: «voi non sapete niente, né pensate» rivelano che non tutti nel Sinedrio erano ostili a Gesù, e forse c’era qualcuno che deve avere preso le sue difese222. Le parole di 221 Notano gli interpreti che non significa che Caifa sia stato sacerdote solo un anno: lo è stato infatti per 18 anni (dal 18 d.C al 36 d.C.), ma che era sacerdote in quell’anno memorabile della passione di Gesù, cfr. tra tanti altri C.K. Barrett, The Gospel According to St. John, cit.; 338; R. Fabris, Giovanni, cit., 919; R. Kysar, John, cit., 184. Ellis nota la forte ironia che emerge nel contrasto tra la prerogativa religiosa di Caifa e il fatto che pensi politicamente, cfr. E.E. Ellis, The Genius of John, cit., 188. 222
Cfr. in questo senso la disputa tra i farisei e Nicodemo in 7,47-52.
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Caifa appaiono densissime e cariche di contenuto; al di là del modo come Egli realmente le pronunziò, esse appaiono caricate dall’evangelista di profondo significato. Rileviamo soltanto due aspetti. Anzitutto Caifa delibera praticamente la morte di Gesù, superando la verosimile incertezza del Sinedrio. Inoltre mostra la convenienza (sumfeérei) che ai giudei deriva da quella morte: muore uno solo e così non perisce tutta la gente, come accadrebbe invece se si lasciasse Gesù continuare nella sua attività. 5.1.3. Il commento dell’evangelista (vv. 51-52); Il commento dell’evangelista, contenuto nei vv. 51-52, interessa meno al nostro scopo. Non senza un aspetto ironico, egli evidenzia il senso profondo delle parole di Caifa. Sono importanti due sue sottolineature. Anzitutto egli precisa che Caifa non parlò da se stesso (a\f’e|autou%), ma parlò nella sua qualità di “sacerdote di quell’anno”. Inoltre è importante il verbo e\profhéteusen: egli avrebbe potuto usare un qualsiasi altro “verbum dicendi”; il verbo e\profhéteusen sta ad indicare che quelle sue parole avevano un senso profondo, nascosto, che l’evangelista ora vuole mettere in luce: le parole di Caifa, forse suo malgrado, appunto perché pronunziate da una persona che era membro del Sinedrio, ma che insieme era sacerdote di quell’anno, assumevano paradossalmente un senso diverso da quello inteso da Caifa stesso. L’evangelista vede, nel suo commento, un duplice scopo progressivo delle parole di Caifa. Gesù doveva anzitutto morire a vantaggio della gente (u|peèr tou% laou%). Inoltre doveva morire per radunare in unità (ei\v e$n) i figli di Dio che erano stati dispersi (taè dieskorpismeéna). 5.1.4. L’epilogo narrativo (v 53) L’epilogo narrativo è molto semplice; esso è contenuto nelle parole: «da quel giorno dunque deliberarono (e\bouleuésanto) di ucciderlo (i$na a\pokteònwsin au\toén)». Il raduno del sinedrio si conclude quindi con la decisione di uccidere Gesù. Le parole di Caifa evidentemente hanno servito
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ad indurre il Sinedrio a superare qualsiasi titubanza e qualsiasi incertezza e pervenire a quella conclusione. Possiamo notare l’aoristo e\bouleuésanto, che può essere sia come un aoristo completivo sia anche come ingressivo. È aoristo completivo nel senso che esso indica la fine di ogni titubanza ed incertezza: il Sinedrio, che, come rivela l’imperfetto e"legon del v. 47, sembra essere stato dibattuto, è giunto ad una sua conclusione: si è deliberato di uccidere Gesù. È aoristo ingressivo nel senso che esso segna l’inizio di un processo che sarà pienamente completo soltanto quando Gesù salirà sulla croce e morirà. Tra la deliberazione del Sinedrio e la concreta morte di Gesù ci saranno infatti dei passaggi intermedi che il Sinedrio dovrà affrontare: la maniera anzitutto come catturare Gesù e inoltre anche il modo come convincere i romani a sancire quella condanna a morte che da tempo i giudei avevano decretato contro Gesù. 5.2. Aspetti tematici Gli aspetti tematici nel testo di Gv 11,47-53 sono diversi ed anche molto importanti dal punto di vista simbolico, teologico e spirituale. Basti evidenziarne soltanto qualcuno: la morte di Gesù, che sul piano politico appariva vantaggiosa per il popolo, lo era in realtà su un altro piano, quello spirituale. Inoltre la morte di Gesù, che nell’intenzione dei giudei doveva servire a impedire la distruzione del popolo per opera di romani, in realtà essa, nella prospettiva dell’evangelista, aveva come scopo teologico: il raduno in unità dei figli di Dio dispersi. Come abbiamo però già ripetuto, il nostro scopo non è quello di evidenziare tutti gli aspetti tematici contenuti in questo brano, bensì cogliere alcuni elementi che permettono di stabilire un confronto con il racconto sinottico del processo di Gesù davanti al Sinedrio. In questa prospettiva, possiamo evidenziare alcuni aspetti più utili al nostro scopo. Anzitutto il testo rivela, storicamente, la difficoltà in cui venne a trovarsi, o, almeno, credette che si sarebbe venuto a trovare il Sinedrio, in relazione ai Romani, a causa dell’attività di Gesù. In ogni caso,
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il Sinedrio temeva che l’entusiasmo suscitato da Gesù e dalle sue opere avrebbe potuto degenerare in una sommossa che i romani avrebbero immancabilmente represso, restringendo anche i margini di libertà concessi. Inoltre il testo suggerisce che la morte di Gesù era un fatto che forse tanti desideravano. Magari avevano paura di confessarlo apertamente, temendo la reazione della folla. Caifa rompe gli indugi: presenta ai sinedriti la morte di Gesù come vantaggiosa per il popolo. In questo modo, egli convince i sinedriti sulla convenienza e sul vantaggio che ne proviene a tutto il popolo dalla morte di Gesù. Ancora l’evangelista, non senza notevole ironia, vede nelle parole di Caifa “una profezia (e\profhéteusen)”, un senso nascosto portato alla luce; come sottolinea Caifa, la morte di Gesù gioverà certo al popolo, ma in diverso senso, più profondo: i figli di Dio, grazie a quella morte, saranno radunati in unità. In seguito al consiglio di Caifa, tutti saranno impegnati nell’attuazione della decisione presa, cioè nella ricerca della maniera concreta come mettere a morte Gesù. Queste osservazioni ci aiuteranno a stabilire un adeguato confronto tra il racconto del processo contro Gesù davanti al Sinedrio, secondo i vangeli sinottici, e il nostro testo di Gv 11,47-53. 5.3. La congiura contro Gesù nei vangeli sinottici Di una congiura contro Gesù parlano anche i vangeli sinottici, soprattutto i vangeli di Matteo e Marco. La prima volta se ne parla nei vangeli dopo l’episodio della guarigione dell’uomo dalla mano inaridita, avvenuta in giorno di sabato223. Di fronte all’uomo dalla mano inaridita, secondo Mt 12,10, a Gesù pongono, verosimilmente i farisei, la domanda se è lecito guarire in giorno di sabato; secondo Mc 3,4 è Gesù stesso che pone la domanda. Così anche secondo Lc 6,9 è Gesù che pone la domanda agli scribi e farisei, i quali stavano lì ad osservare allo scopo preciso di accusarlo. Gesù denunzia l’ipocrisia dei farisei e guarisce l’uomo dalla mano arida. 223
Cfr. Mt 12,14; Mc 3,6, cfr. Lc 6,11.
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Subito dopo i farisei, usciti, tennero consiglio sul modo come eliminare Gesù224. Di un’altra congiura contro Gesù si parla anche in Mt 22,15. Scrive infatti l’evangelista che «essendo andati i farisei, tennero consiglio (sumbouélion) per irretirlo (o$pwv au\toèn pagideuéswsin) nella parola (e\n loég§)». “Irretire nella parola” significa far parlare Gesù in maniera tale da trovare, nelle sue stesse parole, un motivo di condanna. Il verbo pagideuéw deriva dal sostantivo pagòv225. Quest’ultimo termine indica uno strumento con cui si catturano pesci o uccelli; esso può indicare un laccio, una trappola, un amo226. In senso metaforico indica una realtà mediante la quale gli uomini, con inganno diabolico sono lusingati ed istigati a peccare. I testi paralleli, in Marco e Luca, sono rispettivamente Mc 12,13 e Lc 20,20. In questi testi si parla del tentativo di prendere Gesù con l’inganno, mediante la sua stessa parola227. 224 Possiamo stabilire nel testo dei primi due evangelisti il seguente confronto: Mt 12,14 Mc 3,6
e\xelqoéntev deè kaì e\xelqoéntev oi| farisa_oi oi| farisa_oi eu\q \ uèv metaè tw%n H | r§dianw%n sumbouélion e"labon sumbouélion e\dòdoun kat’au\tou% kat’au\tou% o$pwv o$pwv au\toèn a\poleéswsin au\toèn a\poleéswsin
I due evangelisti sono quasi identici anche sul piano letterario. Differiscono soprattutto in due elementi: Marco menziona anche gli erodiani; inoltre per il secondo evangelista questo radunarsi per ricercare la maniera come perdere Gesù era un fatto ripetuto (e\dòdoun). Anche Luca parla di una congiura contro Gesù dopo la guarigione dell’uomo dalla mano inaridita; si limita però soltanto a dire che essi discutevano a vicenda che cosa avrebbero potuto fare (tò a!n poihésaien) a Gesù (Lc 6,11).
Il verbo pagideuéw di Mt 22,15 è unico in tutta la grecità profana precedente alla letteratura cristiana; nei LXX si legge soltanto in 1Sam 28,9 e Qo 9,12 Si legge però anche nella versione di Aquila (Ez 13,20.21); di Simmaco (Pr 6,1; Is 8,15); di Teodozione (Pr 11,15). Il sostantivo pagòv invece nel NT si legge cinque volte (Lc 21,35; Rm 11,9; 1Tm 3,7; 6,9; 2Tm 2,26); è presente anche nella grecità profana e nei LXX poi è usato sessantadue volte. 225
226
Cfr. F. Zorell, Lexicon graecum Novi Testamenti, Parisiis 19613, sub voce.
In Mc 12,13 leggiamo: «inviano a lui alcuni dei farisei e degli erodiani, per catturarlo (i$na au\toèn a\greuéswsin) con parola (loégw)»; in Lc 20,20 inoltre leggiamo che «mandarono 227
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Prescindendo dalla diversità di linguaggio, i tre evangelisti, dal punto di vista tematico, concordano nel fatto che i giudei cercavano di far parlare Gesù, allo scopo di fargli dire qualcosa che avrebbero potuto ritorcere contro di lui. Il testo di Matteo però presenta, in 22,15, una peculiarità, assente negli altri evangelisti: il primo evangelista parla di un “consiglio (sumbouélion)” che i farisei tennero per irretire Gesù nella sua stessa parola. Di tale consiglio gli altri due evangelisti non dicono nulla. Di una congiura contro Gesù i tre vangeli sinottici parlano anche all’inizio della narrazione della passione di Gesù. Possiamo stabilire un confronto tra i tre evangelisti. Leggiamo in Mt 26,1-5: «E avvenne quando finì Gesù tutte queste parole, disse ai suoi discepoli: sapete che fra due giorni viene la pasqua e il figlio dell’uomo è consegnato (paradòdotai) per essere crocifisso (ei\v toè staurwqh%nai). Allora si radunarono (sunhécqhsan) i sacerdoti e gli anziani del popolo nel palazzo del sacerdote detto Caifa e deliberarono (kaì sunebouleuésanto) di catturare Gesù con inganno (i$na toèn I\ hsou%n doél§ krathéswsin) e ucciderlo (kaì a\pokteònwsin). Dicevano: non nella festa, perché non ci sia tumulto (qoérubov) nel popolo». In Mc 14,1-2 ancora leggiamo: «Era la pasqua e gli azzimi dopo due giorni e cercavano i sacerdoti e gli scribi come avendo catturato lui con inganno (e\n doél§ krathésantev), uccidessero (a\pokteònwsin); dicevano infatti: non nella festa perché non ci sia tumulto (qoérubov) del popolo». In Lc 22,1-2 infine si legge: «si avvicinava la festa degli azzimi, quella detta pasqua e cercavano i sacerdoti e gli scribi come ucciderlo (toè pw%v a\neélwsin); temevano (e\fobou%nto) infatti il popolo». I tre testi, pur con delle diversità letterarie, sostanzialmente coincidono: i giudei si pongono il problema di come uccidere Gesù.Tutti e tre gli evangelisti concordano nel fatto di uccidere Gesù. Matteo e Marco concordano in altri due elementi: la cattura di Gesù servendosi dell’inganno, evitando perciò la forza, e l’esclusione del giorno della festa come il tempo per uccidere Gesù. In Matteo la deliberazione è duplice: catturare Gesù con inganno ed ucciderlo. Tutti e tre gli evangelisti sottolineano la preoccupazione dei giudei nei confronti della folla. Secondo Matteo e Marco essi vogliono evitare il giorno per osservarlo delle spie, che giudicavano se stessi essere giusti, per catturare lui in parola (i$na e\pilaébwntai au\tou% loégou), per consegnarlo all’autorità e al potere del governatore».
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di festa per non provocare tumulto in mezzo al popolo; secondo Luca i giudei studiavano la maniera come ucciderlo perché temevano la folla. Consideriamo pure un ultimo aspetto. Stranamente, dopo avere narrato il processo notturno davanti al Sinedrio, conclusosi con la dichiarazione unanime del Sinedrio che Gesù è reo di morte, i primi due evangelisti parlano di un raduno del Sinedrio al mattino, evidentemente distinto da quello notturno228. Luca non parla di tale raduno, perché, come abbiamo notato nel primo punto di questo studio, egli colloca al mattino il processo che, secondo Matteo e Marco, avvenne di notte229. I due evangelisti coincidono nel fatto che al mattino ci fu un raduno del Sinedrio. Emerge però la domanda: a che scopo tale raduno, dal momento che quello notturno si era concluso con una condanna a morte? Marco non attribuisce alcuno scopo a questo secondo raduno. Forse la maniera come il secondo evangelista si esprime indicherebbe che questo raduno ci sarebbe stato per inviare in maniera solenne ed ufficiale Gesù a Pilato. Marco infatti menziona tutti i membri del sinedrio e stabilisce un legame tra le seguenti forme verbali: sumbouélion e\toimaésantev (avedo preparato un raduno), dhésantev (avendo legato), a\phénegkan (condussero), kaì pareédwkan Pilaét§ (diedero a Pilato). Matteo invece indica uno scopo, che si rivela ancora sorprendente. Scrive infatti: w$ste qanatw%sai au\toén (per farlo morire). Questa motivazione del raduno mattutino appare strana perché era sembrato che nella seduta notturna il sinedrio fosse pervenuto ad una conclusione: la condanna 228
Cfr. Mt 27,1 e Mc 15,1.
Possiamo stabilire un confronto tra i due evangelisti: Mt 27,1 Mc 15,1 229
prwi^av deè genomeénhv kaì eu\quèv prwi' sumbouélion e"labon sumbouélion e\toimaésantev paéntev oi| a\rciere_v oi| a\rciere_v kaì oi| presbuteéroi tou% laou% meta tw%n presbuteérwn kaì grammateéwn kaì o$lon toè suneédrion kataè tou% }Ihsou% w$ste qanatw%sai au\toén dhésantev toèn }Ihsou%n a\phénegkan kaì pareédwkan Pilaét§
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a morte di Gesù. Forse però, nella mente di Matteo, il verbo qanatw%sai potrebbe significare non l’emissione della sentenza di morte, bensì l’attuazione concreta della deliberazione presa nella notte. L’attuazione concreta, data la contingente situazione della Giudea, prevedeva anche l’invio di Gesù a Pilato, cosa che realmente avvenne subito dopo. Prescindendo dal problema sopra indicato, altri testi, in cui si parla di un raduno del Sinedrio, ma meno utili al nostro scopo perché menzionati dopo il processo, sono Mt 27,7 e 28,12, entrambi perciò nel vangelo di Matteo. In Mt 27,7 leggiamo: «avendo preso consiglio (sumbouélion deè laboéntev), comprarono (h\goérasan) con essi il campo del vasaio per la sepoltura agli stranieri». Si tratta della destinazione del denaro che Giuda, spinto da rimorso, andò a gettare nel tempio e che i sacerdoti e gli anziani giudicarono non doversi mettere nel tesoro, essendo prezzo di sangue. In Mt 28,12 poi leggiamo: «e radunatisi insieme agli anziani e avendo preso consiglio (sumbouélion laboéntev)», diedero denaro adeguato ai soldati. Alla notizia della Resurrezione di Gesù, i sinedriti tentarono di corrompere i soldati perché dicessero che, mentre dormivano, i discepoli vennero e rubarono il corpo. 5.4. Confronto con Gv 11,47-53 Possiamo adesso confrontare il testo di Gv 11,47-53 con i testi evangelici sopra citati e chiederci se, in questo testo, il quarto evangelista si riferisce al processo davanti al Sinedrio oppure a qualcuna delle tradizioni riguardanti la congiura contro Gesù sopra indicate. Il racconto di Giovanni che stiamo considerando sembra più vicino al testo di Mt 26,1-2, esso anzi sembra riempire dei vuoti che emergono nel racconto del primo evangelista. 5.4.1. Relazioni letterarie Possiamo osservare che il racconto di Mt 26,2-5, sulla congiura contro Gesù, appare letterariamente più vicino al testo di Giovanni di quanto non siano i racconti degli altri evangelisti.
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L’espressione giovannea anzitutto sunhégagon ou&n oi| a\rciere_v kaì oi| farisa_oi suneédrion (radunarono i sacerdoti e i farisei un sinedrio) richiama meglio l’espressione di Mt 26,2: toéte sunhécqhsan oi| a\rciere_v kaì oi| presbuéteroi, che non quelle di Marco e Luca: kaì e\zhétoun oi| a\rciere_v kaì oi| grammate_v [toè] pw%v […].
Inoltre sia Matteo che Giovanni menzionano Caifa, benché in maniera diversa: Matteo nota che il Sinedrio si riunì nella casa di Caifa; Giovanni introduce esplicitamente parole di Caifa. L’espressione di Gv 11,53 infine richiama quella di Mt 26,4. Possiamo stabilire infatti il seguente confronto: Mt 26,4 Gv 11,53 a\p’e\keònhv ou&n th%v h|meérav sunebouleuésanto e\bouleuésanto i$na i$na toèn I\ hsou%n doél§ krathéswsin kaì a\pokteònwsin a\pokteònwsin au\toén
5.4.2. Complementarietà tematiche Matteo nota che si radunarono i sacerdoti e gli anziani del popolo nel palazzo del sacerdote detto Caifa e deliberarono di catturare Gesù con inganno e ucciderlo; Matteo però non dice nulla sul cammino seguito dal Sinedrio dal momento del raduno fino alla decisione di catturare Gesù con inganno e ucciderlo. Di questo cammino ci informa Giovanni, secondo il quale i sinedriti, avendo percepito il rischio che il popolo correva, da parte dei Romani, si sarebbero chiesti cosa fare di Gesù. La soluzione più ovvia appariva quella di eliminarlo, ma il Sinedrio doveva essere titubante perché temeva la reazione della folla. Leggendo tra le righe nel racconto giovanneo, sembra che
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il Sinedrio si sia trovato, in tale raduno, di fronte ad un dilemma: lasciar vivere ed operare Gesù e temere quindi la reazione dei romani, oppure uccidere Gesù e temere la reazione del popolo. Qui interviene il consiglio di Caifa, il quale, non senza un tono di rimprovero verso i sinedriti, fa notare che conviene che uno solo muoia per il popolo e non perisca tutta la gente. Dopo le parole di Caifa, l’evangelista introduce, con notevole ironia, il suo commento a quelle parole. Esse però sortirono sui sinedriti il loro effetto. Questi deliberarono da quel giorno di uccidere Gesù. Il racconto giovanneo qui si ferma e orienta tutta la sua attenzione sulla deliberazione della morte. Matteo invece, analogamente a Marco e Luca, rivela che in seno al Sinedrio dovette sorgere il problema di come attuare quella decisione. I sinedriti avrebbero contestualmente deliberato di prendere Gesù con inganno e nello stesso tempo avrebbero deciso di non attuare il loro progetto in giorno di festa. Di ciò, almeno in questo contesto, Giovanni non dice nulla. 5.5. Conclusione La nostra conclusione, in relazione al testo di Gv 11,47-53, è che il quarto evangelista, per questo testo, non si riconduce direttamente al processo davanti al Sinedrio, narrato dai vangeli sinottici, bensì al breve racconto della congiura, tramata dai giudei contro Gesù, prima della passione. Tutti e tre i vangeli sinottici, come abbiamo già osservato, ci informano che, nell’imminenza della pasqua, il Sinedrio si era radunato ed aveva deciso su tre punti specifici: 1. Catturare con inganno Gesù; 2. Ucciderlo; 3. Non però nel giorno di festa. In questo modo, si decide, in maniera definitiva, quello che, magari in forma più timida e forse senza una precisa volontà di attuazione, si era deliberato in altri raduni, di sopprimere Gesù. Adesso forse il problema si era fatto più urgente e bisognava pervenire ad una decisione con la precisa volontà di attuarla.
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Tutti gli aspetti sopra indicati appaiono anche in Marco e, benché in forma minore, anche in Luca. Tuttavia, come abbiamo già notato, il nostro evangelista si ricollega meglio alla narrazione di Matteo. Giovanni però evita di menzionare la cattura con inganno e il fatto di non agire nel giorno di festa; egli concentra tutta la sua attenzione soltanto sulle parole di Caifa che indicavano come opportuna la morte di Gesù. Sul modo come i sinedriti siano pervenuti alla decisione di uccidere Gesù, i vangeli sinottici non dicono nulla. Troviamo un vuoto nella narrazione che invece sembra essere riempito da Giovanni. Il Sinedrio sembra essere titubante; interviene però Caifa che mostra tutta la convenienza di quella morte. Caifa si esprime dal punto di vista politico; Giovanni invece coglie tutta la portata religiosa delle sue parole, fino alle sue ultime conseguenze: il raduno in unità dei figli di Dio dispersi. Le parole di Caifa per l’evangelista hanno una importanza notevole e decisiva. Egli appartiene al Sinedrio, ma le ha pronunziate nella sua prerogativa di “sacerdote di quell’anno”. L’evangelista rievocherà la figura di Caifa appunto come “sacerdote di quell’anno”, e anche sue parole, quelle pronunziate in 11,47-53, all’inizio della narrazione del processo-dialogo tra Anania o Anna e Gesù, quando avrà esigenza di stabilire una relazione, stavolta sul piano della parentela, tra Anna e Caifa. Ci poniamo però la domanda se realmente dal testo di Gv 11,47-53 sia esclusa del tutto una relazione al processo davanti al Sinedrio narrato dai Sinottici. Il confronto tra i due testi pone infatti qualche domanda: donde conobbe il quarto evangelista lo sviluppo del raduno da lui narrato, di cui i sinottici ci danno soltanto le ultime decisioni? Giovanni aveva qualche particolare conoscenza e riferisce un reale sviluppo storico di quel raduno, oppure si basa su una sua costruzione letteraria? La domanda è destinata a restare senza risposta. Possiamo tuttavia notare una coincidenza tra i due racconti: in entrambi domina la figura di Caifa che orienta l’assemblea verso una decisione. Nel racconto giovanneo Caifa orienta l’assemblea verso la decisione di uccidere Gesù, mostrando come opportuna e conveniente quella morte; nel racconto sinottico del processo davanti al Sinedrio, soprattutto in quello
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secondo Matteo, è ancora Caifa, con la sua domanda: «cosa vi sembra», che orienta l’assemblea verso la dichiarazione che Gesù è reo di morte. Tutte queste osservazioni, mentre da una parte non permettono di concludere con certezza che in 11,47-53 il quarto evangelista dipenda, o almeno abbia presente, dal racconto sinottico del processo davanti al Sinedrio, dall’altra non suggeriscono nemmeno di escluderlo. Ne affermiamo soltanto la possibilità senza tirare ulteriori conclusioni. CONCLUSIONE Dal presente lavoro, a riguardo del processo di Gesù davanti al Sinedrio, proviene una risposta analoga a quella dei racconti del Getsemani230: i testi che abbiamo considerato rivelano che anche il quarto evangelista seppe di quel processo e ricevette anche dalla tradizione quei racconti. Egli però non li inserì pedissequamente nella sua narrazione, ma, come aveva già fatto per la preghiera di Gesù al Getsemani, li smembrò nei vari elementi e li inserì qui e lì, dopo averli rielaborati, nel corso della sua più ampia narrazione evangelica. Possiamo rispondere anche alla domanda: perché l’evangelista non inserì questo episodio nel suo momento specifico? Egli, in 18,24, narra che Anna mandò Gesù legato a Caifa. A questo punto avrebbe potuto inserire la narrazione del processo davanti al Sinedrio. Riconosciamo di non avere una risposta certa alla domanda su indicata; ci accontentiamo perciò di avanzare soltanto qualche supposizione. Ne proponiamo specificamente tre. Anzitutto all’evangelista interessava introdurre l’episodio del processo-dialogo tra Gesù ed Anania, con il tema specifico della dottrina di Gesù e dei suoi discepoli. Non è casuale il fatto che egli colloca tale dialogo nello sfondo dei tre rinnegamenti di Pietro, che riguardano appunto l’essere discepoli di Gesù. Inoltre all’evangelista interessava presentare Caifa non come colui che aveva guidato e presieduto il processo davanti al Sinedrio e che, in certo senso, aveva condotto i suoi membri a formulare la decisione della condanna a morte, ma come colui che aveva “profetato” che conviene 230 Cfr. ancora A. Gangemi, La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni, cit., 215-281.
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che uno solo muoia per il popolo; non sembra casuale infatti il fatto che, in 18,14, Giovanni, mentre stabilisce una relazione tra Anna e Caifa, caratterizzi quest’ultimo mediante le parole che egli pronunziò in 11,49-50. Infine dobbiamo ritenere che all’evangelista interessava smembrare i vari elementi e introdurli, rielaborati, nei vari contesti dove essi attualmente si trovano. Il senso di ciascuna parte smembrata emerge però dall’analisi del contesto dove è inserita. I vari elementi che abbiamo potuto individuare, e che abbiamo sottoposto ad analisi, sono quattro, corrispondenti alle parti dalla seconda alla quinta in cui si articola il nostro lavoro. Essi sono: 1. Il problema del tempio distrutto e ricostruito; 2. La disputa tra Gesù e i giudei nel cap. 5, in seguito alla guarigione del paralitico alla piscina di Betzata, con l’accusa dei giudei di violare il sabato e con quella di farsi come Dio. In questa parte è importante l’elenco dei testimoni che Gesù cita a suo favore. 3. La disputa tra Gesù e i giudei nelle due parti del cap. 10 gravitanti rispettivamente attorno alla prerogativa di Gesù come il Cristo (Gv 10,22-30) e attorno a quella attorno alla prerogativa di “Figlio di Dio”, con l’accusa annessa di bestemmia. 4. Il raduno nel Sinedrio e l’intervento di Caifa in 11,47-53. C’è un altro episodio nel vangelo di Giovanni, dal quale però abbiamo preferito prescindere, perché a riguardo, i sinottici non dicono nulla. Leggiamo infatti, in Gv 7,32 che i sacerdoti e i farisei mandarono i servi per catturare Gesù. Nel v. 45 è narrato l’esito di tale spedizione: i soldati tornarono senza avere catturato Gesù. Alla domanda dei sacerdoti e dei farisei perché non lo hanno condotto, i servi rispondono che «mai parlò così uomo come parla quest’uomo». Di questo episodio però, come abbiamo detto, i sinottici non dicono nulla; non sappiamo perciò quando sia avvenuto. Non c’è dubbio che Giovanni, nel problema del tempio distrutto e ricostruito, nel cap, 2 del suo vangelo, dipenda dalla stessa tradizione che sta alla base dei racconti paralleli dei vangeli sinottici. Matteo e Marco riferiscono il problema del tempio distrutto e ricostruito nel contesto del processo davanti al Sinedrio. Evidentemente i primi due evangelisti ripresero una tradizione che già legava questo problema al processo davanti al Sinedrio.
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Tuttavia, l’assenza di questo problema nel racconto lucano, la sua posizione in un contesto del tutto differente nel vangelo di Giovanni e anche una certa artificialità di legame nello stesso racconto di Matteo e Marco231, suggeriscono che il problema del tempio, distrutto e ricostruito in tre giorni, all’origine doveva essere indipendente rispetto al racconto del processo davanti al Sinedrio. Giovanni può avere conosciuto questo problema in una fase più antica, quando non era ancora legato al processo. Questo elemento, da solo, non è sufficiente perciò a concludere che il quarto evangelista abbia ripreso il racconto sinottico del processo di Gesù davanti al Sinedrio. I testi che riteniamo invece più probanti e che ci permettono di concludere che il quarto evangelista abbia conosciuto, ripreso ed rielaborato il racconto sinottico del processo davanti al Sinedrio, sono il cap. 5 del vangelo e, soprattutto, Gv 10.22-39, che, nella parte analitica, guidati dal testo stesso, abbiamo preferito smembrare in due parti: i vv. 22-30 e i vv. 31-39. I due brani gravitano attorno a due prerogative fondamentali di Gesù, quella di “Cristo” e quella di “Figlio di Dio”. Attorno alla prerogativa di “Cristo” gravitano i vv. 22-30, leggiamo infatti la domanda dei giudei a Gesù: «se tu sei il Cristo (o| Cristoév), dì a noi apertamente». Attorno alla prerogativa di “figlio di Dio” gravitano invece i vv. 31-39: la pretesa figliolanza divina infatti è il motivo per cui i giudei volevano lapidare Gesù. L’accostamento dei due titoli, benché in maniera diversa, appare anche nel racconto del processo davanti al Sinedrio. Secondo Matteo e Marco il sacerdote chiede a Gesù se è il Cristo il figlio di Dio; secondo Luca invece i sinedriti prima chiedono a Gesù se è il Cristo, poi, quasi nella maniera di una conclusione, chiedono se è il Figlio di Dio. I vv. 22-30 iniziano con la domanda, su rievocata, se Gesù è il Cristo, rivolta a lui nello sfondo del tempio. Abbiamo a suo tempo notato come la domanda del v. 24, come anche la risposta di Gesù, nel v. 25, sono più vicini alla formulazione di Luca che non a quella di Matteo e Marco.
Abbiamo già notato come questo problema, nel racconto di Matteo e Marco, rimane senza seguito: non sono infatti le parole di Gesù riguardanti il tempio che determinano la sua condanna. 231
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L’accento del racconto giovanneo sta però sulla incredulità dei Giudei, ai quali Gesù contrappone le sue pecore che lo seguono, alle quali egli dà la vita eterna e alle quali apre la via al Padre. Partendo dalla domanda rivolta a Gesù dai Giudei, l’evangelista propone uno sviluppo, che culmina nel fatto che Gesù e il Padre sono una cosa sola, e perciò le pecore, nelle mani di Gesù, automaticamente sono nelle mani del Padre. I vv. 31-39, come abbiamo già osservato, gravitano attorno all’altra prerogativa di Gesù come Figlio di Dio. Abbiamo già notato come questi versi presentano, nei vv. 31-39, una inclusione tematica; in entrambi, infatti, è descritto un tentativo ostile da parte dei giudei nei confronti di Gesù. In questi versi troviamo tre elementi che caratterizzano il racconto sinottico del processo di Gesù davanti al Sinedrio: il tema della figliolanza divina, l’accusa di bestemmia, la decisione di sopprimere Gesù. Su quest’ultimo aspetto possiamo notare una divergenza tra i Sinottici e Giovanni. Nei Sinottici il tentativo di sopprimere Gesù è espresso mediante la dichiarazione dei sinedriti che Gesù è reo di morte; in Giovanni invece è espresso con l’azione concreta, poco importa se storica o simbolica, di prendere pietre per scagliarle contro Gesù. La disputa tra Gesù e i giudei nel cap. 5 presenta un aspetto opposto ai racconti del processo davanti al Sinedrio; si tratta di una inversione di prospettiva tra Giovanni e i Sinottici, a riguardo della testimonianza resa. I Sinottici riferiscono, nel contesto del processo di Gesù davanti al Sinedrio, da parte dei sinedriti, della ricerca di falsi testimoni contro Gesù, ma senza successo; in Giovanni invece Gesù elenca la lunga fila dei testimoni a suo favore. Si tratta di molti testimoni tutti autorevoli e autentici. Possiamo dire che in Giovanni Gesù risponda, con la lista dei suoi testimoni, al tentativo di ricercare falsi testimoni contro di lui, riferito dai Sinottici, specificamente dai vangeli di Matteo e Marco. Nel contesto del cap. 5, i testimoni sono: il Padre, le opere, le Scritture, ma anche Giovanni Battista. Altrove, nel vangelo, però sono menzionati anche altri testimoni: lo Spirito, il discepolo che Gesù amava, i discepoli, la donna samaritana, la folla. Un altro elemento giovanneo, nel cap. 5, che può ricondursi al processo davanti al sinedrio, nel senso cioè che Giovanni spiega il motivo dell’ostilità dei giudei contro Gesù, è il fatto dell’incredulità: essi non credono in
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Gesù, non lo hanno accolto perché non hanno udito né visto il Padre e non hanno creduto a Mosè che scrisse di lui. Abbiamo pure considerato, infine, anche il testo di 11,47-53, che si presenta abbastanza singolare; Esso, almeno nella maniera come Giovanni lo formula, non presenta alcun diretto parallelo nei Vangeli Sinottici. Tuttavia esso non è senza relazione a questi; la sua struttura però richiama meglio la congiura contro Gesù prima della passione, quale è formulata soprattutto da Mt 26,3-5. Oltre ad alcune somiglianze letterarie, il testo di Matteo e quello di Giovanni possono benissimo essere concordati: Giovanni infatti sembra riferire quello che il primo evangelista invece non dice. Matteo si limita soltanto a notare l’inizio e la fine, il fatto cioè del raduno e la decisione finale di mettere a morte Gesù; Giovanni invece riferirebbe quello che sarebbe intercorso tra il raduno e la decisione, la titubanza cioè dei giudei e l’intervento di Caifa che mostra la convenienza di quella morte. Tuttavia un’allusione al processo davanti al Sinedrio, quasi come una certa proiezione di esso, in questo testo non si può del tutto escludere. Essa è suggerita da due elementi: il fatto che, mentre nei racconti di congiura il problema riguarda come mettere a morte Gesù, in Giovanni, come nel processo davanti al Sinedrio, il problema invece riguarda il fatto stesso di mettere a morte Gesù. Inoltre nei racconti della congiura non è riferito alcun intervento di Caifa che, in qualche modo, guida e orienta i sinedriti, come nel nostro testo giovanneo e nel processo davanti al Sinedrio. In questo senso il racconto Giovanneo appare più vicino a quest’ultima tradizione. Riteniamo che nulla ci impedisce di pensare che, nel testo di 11,4753, il quarto evangelista abbia voluto creare un racconto, ricco della sua teologia, che mette assieme sia elementi dei racconti della congiura sia anche elementi del processo davanti al Sinedrio. Possiamo allora chiederci: a quali conclusioni perveniamo con il nostro lavoro? In relazione ai contenuti, le nostre conclusioni riguardano due aspetti: se Giovanni conobbe la tradizione del processo di Gesù davanti al Sinedrio e, in caso di risposta positiva, perché la smembrò dislocando le varie parti in punti diversi del suo racconto evangelico. Quanto alla prima domanda, la nostra risposta è affermativa: Giovanni conobbe la tradizione del processo davanti al Sinedrio. I vari indizi, a suo
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tempo indicati, rivelano che egli la conobbe soprattutto secondo quella tramandata da Matteo e Marco, ma non è esclusa una conoscenza della tradizione lucana. Il testo più chiaro, che rivela tale ripresa, è quello di Gv 10,22-39, nelle sue due parti, gravitanti attorno ai due titoli di “Cristo” e “figlio di Dio”. Alla luce di tale testo, appare più probabile la ripresa della tradizione del processo davanti al Sinedrio, anche in altri testi. Ci riferiamo soprattutto al problema della testimonianza, quale è presentato nel cap. 5 e a quello riguardante il tempio distrutto e ricostruito in tre giorni, nel cap. 2. Quanto alla testimonianza, riteniamo probabile che Giovanni, soprattutto nel cap. 5, abbia accentuato i testimoni veri a favore di Gesù in opposizione polemica, al tentativo fatto dal Sinedrio di ricercare falsi testimoni contro di Lui. Il Sinedrio faticò senza successo a cercare falsi testimoni contro Gesù; Gesù, con estrema facilità, ne esibisce non pochi, tutti autorevoli e veri, a suo favore. In questa maniera, il Sinedrio che pretese di giudicare e condannare Gesù, finisce per essere esso stesso giudicato e condannato. La colpa grave dei giudei è quella di non avere creduto in colui che Dio ha mandato e lui stesso ha garantito con la sua testimonianza232. Quanto poi alla tradizione del tempio distrutto e ricostruito in tre giorni, come abbiamo già notato, è possibile che il nostro evangelista l’abbia conosciuta quando non era ancora legata al racconto del processo davanti al Sinedrio. Nulla però vieta di pensare che egli abbia potuto conoscerla e riprendere quando già era unita al processo, nella tradizione di Matteo e Marco. Più complesso infine appare il problema riguardante il testi di 11,47-53. Non abbiamo infatti escluso, senza però poterlo esplicitamente affermare, che l’evangelista abbia messo insieme le due tradizioni, quella riguardante la congiura e quella riguardante il processo davanti al Sinedrio, soprattutto in relazione alla figura e al ruolo esercitato da Caifa. Possiamo allora concludere con relativa certezza che il nostro evangelista conobbe e riprese la tradizione del processo davanti al Sinedrio; e possiamo anche concludere che egli la riprese nella forma tramandata Ci chiediamo, ma senza poter dare una risposta, se l’evangelista, menzionando la testimonianza del Padre, non alluda ai racconti sinottici della trasfigurazione, dove appunto Dio presenta Gesù come suo Figlio ed invita ad ascoltarlo (cfr. Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35). 232
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da Matteo e Marco senza però escludere degli influssi anche da parte di quella lucana. Più difficile, se non impossibile, almeno per noi a questo momento, rispondere alla seconda domanda su indicata: perché l’evangelista smembrò la tradizione e collocò le varie parti in punti distinti? La risposta a questa domanda esigerebbe la considerazione specifica dei singoli testi e contesti giovannei dove le varie parti, riguardanti quella tradizione, sono inserite. Preferiamo perciò prescindere da questo problema. Possiamo tuttavia tirare un’altra conclusione, riguardante il problema più generale sull’indole dei vangeli. Questi non vogliono essere la biografia di Gesù, bensì desiderano delineare un itinerario che conduce alla sua riscoperta e porta al cuore del suo mistero. Per questo gli evangelisti non hanno difficoltà di adattare al loro contesto le tradizioni che ricevono. Per quanto riguarda Giovanni, il suo problema fondamentale è quello di introdurre nel mistero di Gesù, il Figlio di Dio inviato e testimoniato dal Padre e anche di evidenziare il grande dramma del popolo giudaico che non ha creduto in lui e lo ha anche rifiutato.
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DIALOGO TRA GESÙ ED ANNA (Gv 18,19-24)
Il quarto evangelista concorda con i vangeli sinottici nel fatto che Gesù, dopo essere stato catturato al Getsemani, e prima di essere tradotto davanti a Pilato, subì un processo da parte dei giudei. Due differenze fondamentali però, rispetto ai Sinottici, appaiono nel racconto giovanneo: anzitutto l’introduzione della persona di un sacerdote, un certo Anna, del tutto ignorato, almeno nel contesto della narrazione della passione, dai vangeli sinottici, ma a riguardo del quale l’evangelista non manca di stabilire la sua relazione a Caifa, e, inoltre, la quasi completa omissione nel suo racconto, del processo davanti al sinedrio, quale conosciamo dagli stessi Sinottici, e l’introduzione, con tematiche diverse, del dialogo tra Gesù e il sacerdote Anna. A queste differenze possiamo aggiungerne anche una terza, forse un po’ più marginale, ma non meno importante: come abbiamo indicato nello Studio precedente, il quarto evangelista non narra, come nei Sinottici, i tre rinnegamenti di Pietro in maniera direttamente successiva, ma introduce, tra il primo e il secondo, il processo-dialogo tra Gesù ed Anna. 1. Il problema del v. 24 Un problema fondamentale, che emerge in 18, 19-24, riguarda anzitutto l’espressione del v. 24, dove, alla fine del dialogo, leggiamo: «mandò lui Anna legato a Caifa il sacerdote (toèn a\rciereéa)»: Caifa è presentato non come “sacerdote”, ma come “il sacerdote (toèn a\rciereéa)”, con un’enfasi
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che deriva dalla sua stessa posizione finale nella frase. Si direbbe così che Caifa sia l’unico sacerdote. Il v. 24 forma una inclusione letteraria, praticamente a tutto il processo davanti ai giudei, con il v. 13, dove si legge che «condussero Gesù prima (prw%ton) da Anna»: l’evangelista spiega che Anna era suocero di Caifa, il quale, a sua volta, era “sacerdote di quell’anno (a\rciereuèv tou% e\niautou e\keònou)”. Nel v. 19 però leggiamo che «il sacerdote (o| ou&n a\rciereuév) interrogò Gesù»; nel v. 22, reprimendo con uno schiaffo Gesù per la sua risposta, a suo parere, insolente, un servo aggiunge le parole: «così rispondi al sacerdote (t§% a\rciere_)»? Emerge la domanda: chi è il sacerdote che interrogò Gesù? È Caifa, come suggeriscono i vv. 13.24, dove il termine è riferito a lui, oppure ad Anna, come suggerisce lo sviluppo attuale del testo, secondo cui Gesù fu inviato a Caifa da Anna stesso solo dopo il dialogo con lui? 1.1. Posizioni degli interpreti Il problema sarebbe stato sollevato dalla versione siriaca. La siro sinaitica sposta il v. 24 dopo il v. 13 e, inoltre sposta anche i vv. 16-18, il primo rinnegamento di Pietro, dopo i vv. 19-23, unendoli ai vv. 25b-27, restituendo così unità letteraria ai tre rinnegamenti di Pietro. Inoltre la siro heraclense, in lettura marginale, e alcuni manoscritti della versione siro palestinese, seguiti anche dal cod. 1195 e da Cirillo1, anticipano il v. 24 dopo il v. 13, ma lo lasciano anche, ripetuto, dopo i vv. 19-23 e prima dei vv. 25-27; il cod. 225 infine sposta il v. 24 tra il v. 13a e i vv. 13b-23. Tali tentativi, diversi, già rivelano il carattere secondario di questa trasposizione che sembra essere operata per due motivi: riservare soltanto a Caifa il titolo di a\rciereuév, e armonizzare Giovanni con i Sinottici, secondo i quali l’interrogatorio a Gesù, davanti al Sinedrio, sarebbe stato condotto da Caifa. 1 Cfr. Cirillo Alessandrino, Commento al Vangelo di Giovanni, III, trad. it. di Luigi Leone, Roma 1994, 394-395.
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Il problema è passato anche agli interpreti moderni: alcuni infatti, seguendo Cirillo Alessandrino, spiegano che il v. 24, deve essere spostato dopo il v. 13: Gesù fu condotto prima da Anna (v. 13) e questi, subito lo mandò a Caifa. Così Garvie2, che sposta il v. 24 prima del v. 19, Moffatt3, Spitta4. Altri interpreti poi avrebbero proposto delle spiegazioni più concordanti. Partendo dal presupposto, con Barrett5, Streeter6 ed altri, che “il sommo sacerdote” sarebbe Caifa e non Anna, perché nel quarto vangelo tale titolo sarebbe dato solo a Caifa7, Mahoney8 spiega che Gesù, dopo il suo arresto, sarebbe apparso davanti ad Anna, alla cui presenza sarebbe stato interrogato da Caifa9. Questa interpretazione accetta l’ordine tradizionale del testo ed identifica il sommo sacerdote con Caifa, come il testo esigerebbe. Tuttavia una difficoltà viene dal v. 24: “Anna mandò Gesù legato a Caifa”: se Caifa era presente al termine dell’interrogatorio, come si può dire logicamente che Anna mandò Gesù da lui? Perché il v. 24 possa fare senso, secondo Mahoney è necessario ammettere che Caifa10, dopo 2
Cfr. A.E.Garvie, Notes on the Fourth Gospel, in Exp series VIII, 8 (1914) 372-373.
Cfr. J.Moffatt, The Historical New Testament, Edinburgh 1901, 528-529, che propone il seguente ordine: vv. 13-14.19-24.15-18.25b-27. 3
Cfr. F. Spitta, Zur Geschichte und Litteratur des Urchristentums, I, Göttingen 19012, 168-170, che propone il seguente ordine: vv. 12.13.19-24.14-18.25b-27. 4
Cfr. Beeckmann , L’évangile selon S. Jean, d’après les meilleurs auteurs catholiques, Bruges 1951, 438.440. 5
6
Cfr. B.H. Streeter, The Four Gospels, London 1927; 382.
Winter però, seguendo Wellhausen e Loisy, ritiene che il nome Caifa sia interpolato, cfr. P. Winter, On Trial of Jesus, Berlin 1961, 35. 7
8 Cfr. A. Mahoney, A New Look at an Old Problem (Joh 18,12-14.19.24), in CBQ 27 (1966) 137-144: 140-141.
Cfr C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, London 19853, 438.440; J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, Edinburgh 1928, 599; F. Godet, Commentaire sur l’évangile de Saint Jean, II, Neuchâtel 19034; 235; B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, Grand Rapids 1983;, 256; Th. Zahn, Das Evangelium des Johannes, Wuppertal 1983 (ristampa dal 19215-6)., 623. Secondo Plummer chi interroga è Anna, cfr. A. Plummer, The Gospel according to St. John, Cambridge 1912 (ultima ristampa); 312. 9
10
Cfr. A. Mahoney, A New Look at an Old Problem, cit., 141.
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l’interrogatorio andò dove il Sinedrio era radunato e Anna gli mandò dietro Gesù legato. Quanto poi al participio perfetto dedemeénon, Mahoney pensa ad una dittografia; il participio sarebbe dovuto all'influsso del verbo deéw. All’origine ci sarebbe stata nel testo non la particella ou/n ma la particella deé (deè menwn); un copista avrebbe scritto due volte tale particella, ottenendosi cosi l’espressione dedemeénon, ritenuta plausibile anche per influsso del verbo e"dhsan nel v. 12. Secondo questa spiegazione, Caifa, interrogato Gesù, sarebbe andato via, Anna gli avrebbe mandato Gesù, mentre lui non andò al raduno del sinedrio, ma “rimase lì dov’era”. Beasley-Murray11 però spiega che tale correzione, benché possibile, è tuttavia non necessaria e nemmeno plausibile. Church12, dopo avere notato che analoghi mutamenti si trovano anche nell’evangeliario gerosolimitano e nella versione siriaca filoxeniana13, ricostruisce il testo nel seguente modo: vv. 12.13.24.14.19-23.15-18.25b-27; con quest’ordine non c’è dubbio che il sacerdote che interrogò Gesù sia stato Caifa e che i tre rinnegamenti senza alcuna interruzione siano avvenuti nello stesso posto. Secondo Church perciò, perché Giovanni possa concordare con Matteo e Marco, il v. 24 dovrebbe seguire direttamente al v. 1314. Lo stesso Church però riconosce che queste ricostruzioni, pur avendo il vantaggio di restituire l’unità dei tre rinnegamenti di Pietro, non tolgono l’ambiguità circa la persona che ha interrogato Gesù. Dopo avere notato, fin dall’inizio, che la descrizione giovannea pone diverse difficoltà, seguendo anche Lagrange, ritiene che bisognerebbe ammettere che il v. 24 fosse dopo il v. 1315: Gesù sarebbe stato condotto prima da Anna e questi, ovviamente subito, lo avrebbe rimandato da Caifa, che lo avrebbe interrogato. Emerge però una obbiezione a tale ricostruzione:
11
Cfr. G.R. Beasley-Murray, John, Waco (Texas) 1987, 325.
Cfr. W.R. Church, The Dislocation in the Eighteenth Chapter of John, in JBL 49 (1930) 375-383:375. 12
13 14 15
Cfr. ibid., 377. Cfr. ibid., 377. Cfr. ibid., 377.
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perché Gesù sarebbe stato condotto prima da Anna? In questo modo questa domanda sarebbe destinata a restare senza risposta Altri interpreti, che seguono questa opinione, sono: Beeckmann16, che ritiene più soddisfacente la ricostruzione, spiegando che Anna, avendo visto Gesù, avrebbe già soddisfatto la sua curiosità, o, aggiungiamo noi, forse anche la gioia, di vedere Gesù arrestato. Accettano la trasposizione anche Barrett17, Braun18, Calmes19, Fortna20, Lagrange21, Merx22, Schneider23: chi ha interrogato Gesù, sarebbe stato Caifa. Altri interpreti invece ritengono più sicuro e meno arbitrario lasciare il testo così com’è24 e giudicano di non dover seguire lo spostamento della SiroSinaitica25: chi interroga Gesù sarebbe allora Anna. Tra questi
16 Cfr. P. Beeckmann, L’évangile selon S. Jean, d’après les meilleurs auteurs catholiques, cit., 360. 17
Cfr. C.K. Barrett, The Gospel According to St. John, cit., 527.
Cfr. Braun F.M., La Passion de notre Seigneur Jésus Christ d’après Saint Jean, in NRT 60 (1933) 289-302 (I): 295, che accetta nel v. 24 la lettura a\peésteilen deé. 18
19
Cfr. Th. Calmes, Évangile selon S. Jean, Paris 19062, 419.
20 Cfr. R.T. Fortna, The Fourth Gospel and its Predecessor: from Narrative Source to present Gospel, Edinburgh 1989, 158.161; anche Id., The Gospel of Signs, Cambridge 1970, 119.121. 21
Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, Paris 19487, 468-469.
Cfr. A. Merx, Die vier Kanonischen Evangelien nach ihrem ältesten bekannten Texte, IV. Das Evangelium des Johannes, Berlin 1911, 428-429. 22
Cfr. J. Schneider, Zur Komposition von Joh 18,12-27, Kaiphas und Hannas, in ZNW 48 (1957) 111-119, passim. 23
Cfr. J. Becker, Das Evangelium nach Johannes, II, Würzburg 1979, 549; F. Godet, Commentaire sur l’évangile de Saint Jean, II, cit., 397. 24
Cfr. tra altri R.C.H. Lenski, The Interpretation of St. John’s Gospel, Columbus (Ohio) 1942, 1194; L. Morris, The Gospel according to John, Grand Rapids 19952, 754; J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, Berlin 19782, 296. 25
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possiamo citare: Beasley-Murray26, Belser27, Bernard28, Brown29, Bruce30, Carson31, Chevallier32, Culpepper33, Hendriksen34, Lauck35, Leon-Dufour36, Lindars37, G. Maier38, Plummer39, Sanders40, Schnelle41, Schwank42, Tillmann43, Vermes44, Weiss45, Wilckens46, Zahn47. 26
Cfr. G.R. Beasley-Murray, John, cit., 324.
Cfr. J.E. Belser, Das Evangelium des Johannes übersetzt und erklärt, Freiburg in Br. 1905, 472. 27
Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, cit., 599. 28
29 30
Cfr. R.E. Brown, Giovanni, trad. it., Assisi 19793, 1013.
Cfr. F.F. Bruce, The Gospel of John, Grand Rapids 1984 (ristampa), 345. 346.
Cfr. D.A. Carson, The Gospel according to John, Grand Rapids (Michigan) 1991, 581. 31
Cfr. M.A. Chevallier, La comparution de Jésus devant Hanne et devant Caiphe (Jean 18,12-14 et 19-24), in H. Baltenweiser – B. Reicke (edd.), Neues Testament und Geschichte, Zürich-Tübingen 1972, 179-188: 183-184. 32
33 34
Cfr. R.A. Culpepper, The Gospel and Letters of John, Nashville 1998, 222. Cfr. W. Hendriksen, The Gospel of St. John, London 19692, 385-388.
Cfr. W. Lauck, Das Evangelium und die Briefe des heiligen Johannes, Freiburg in Br. 1941, 415. 35
Cfr. X. Leon-Dufour, lettura dell’evangelo secondo Giovanni, IV, Cinisello Balsamo 1998, 73. 36
37 38 39
Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, Grand Rapids 1986, 544.
Cfr. G. Maier, Johannesevangelium, II., Neuhausen -Stuttgart 1986 (II), 253. Cfr. A. Plummer, The Gospel according to St. John, cit., 312.
Cfr. J.N. Sanders - B.A.Mastin, A Commentary on the Gospel according to S. John, London 1968, 390. 40
41 42 43
Cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, Leipzig 1998, 267.
Cfr. B. Schwank, Evangelium nach Johannes, II, Düsseldorf 1968, 432. Cfr. F. Tillmann, Das Johannesevangelium, Bonn 19314, 305.
44 Cfr. G. Vermes, La passione, trad. it., Brescia 2007, 43: l’interrogatorio di Anna doveva avere un carattere informale. 45 46 47
Cfr. B. Weiss, Das Johannesevangelium, Göttingen 1902, 483.
Cfr. U. Wilckens, Das Evangelium nach Johannes, Göttingen 199817; Cfr. Th. Zahn, Das Evangelium nach Johannes cit., 623.
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Zumstein48 si limita ad osservare che il v. 24 rimane un enigma storico. Bernard49 non vede il motivo della trasposizione: essa sarebbe dovuta al desiderio di accordare la narrazione giovannea a quella dei Sinottici. Bultmann50 ritiene più originale la successione attuale, altrimenti resterebbe senza scopo la comparsa davanti ad Anna. Schnackenburg51 nota le varie ricostruzioni; quella della Siro-Sinaitica che sposta il v. 24 dopo il v. 13, e anche i vv. 16-18, i primi due rinnegamenti di Pietro, dopo i vv. 1923, quella del Cod. 225: che sposta soltanto il v. 24 tra il v. 13a e il v. 13b, quella del Cod 1195, della sir.pal e di Cirillo che ripetono il v. 24, tradendo così l’imbarazzo dei copisti. Spiega Schnackenburg che simili ricostruzioni hanno il vantaggio di identificare il sacerdote con Caifa e di mettere assieme i tre rinnegamenti di Pietro. Esse però vanno incontro ad una triplice obbiezione: anzitutto la comparizione di Gesù davanti ad Anna rimarrebbe senza scopo, inoltre l’abbondanza dei codici greci non attesta tale spostamento, infine non si vede il motivo per cui non pochi copisti avrebbero spostato il v. 24 nel posto attuale: forse magari per una dimenticanza che conferma però la posizione originale. Quanto poi allo scopo di questo interrogatorio da parte di Anna, in genere gli interpreti, benché Barrett52 resti incerto, ritengono che Anna abbia condotto un interrogatorio preliminare, allo scopo di raccogliere notizie ed ottenere del materiale per una accusa formale contro Gesù. Si tratta di un interrogatorio preliminare che la tradizione sinottica non conobbe o non ritenne importante inserirla nella sua narrazione. In questo senso si
48 Cfr. J. Zumstein, L’évangile selon saint Jean (cc. 13-21), trad. Franc. Genève 2007,.214.
Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, cit., 592. 49
Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, Göttingen 1985 (rist. dal 197820), 498. 50
51 52
Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III., trad. it., Brescia 1981, 364. Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 440.
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esprimono anche Brown53, Lenski54, Lindars55, Marsh56, Morris57, Schick58, Strachan59, Tenney60, Westcott61. Altri interpreti ritengono che la domanda di Anna può riferirsi ad eventuali cospirazioni62; egli vorrebbe conoscere l’estensione e il punto cruciale del gruppo incriminato63, conoscere magari le idee che Gesù professa64. Barclay65 osserva che Anna violò la legge giudaica, secondo la quale non si può condannare una persona in base alla sua confessione. Barclay si appella a Maimonide. Beasley-Murray66 nota che la domanda di Anna mira ad indurre Gesù a incriminare se stesso. Gesù comprende ciò e sposta il problema orientando la sua risposta sul carattere pubblico della rivelazione. Egli non ha parlato in segreto, e perciò non ha incitato il popolo. Beeckmann67 spiega che lo scopo dell’interrogatorio è quello di mostrare che Gesù è un sedizioso
53 54 55 56 57 58
Cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 1027.
Cfr. R.C.H. Lenski, The Interpretation of St. John’s Gospel, cit., 1197. Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit., 545.
Cfr. J. Marsh, The Gospel of St. John, London 19712, 590.
Cfr. L. Morris, The Gospel according to John, cit., 758.
Cfr. E. Schick, Das Evangelium nach Johannes, Würzburg 1956, 157-158.
Cfr. R. H. Strachan, The Fourth Gospel, its Significance and Environment, London 19463, 307. 59
60
Cfr. M.C. Tenney, The Gospel of John, Grand Rapids 1981, 170.
Secondo gli interpreti, la domanda di Anna può riferirsi ad eventuali cospirazioni, vuol conoscere l’estensione e il punto cruciale del gruppo incriminato, vuol conoscere le idee che Gesù professa, cfr. F. Westcott, The Gospel according to St. John, cit., 256. 61
62 63 64 65 66
Cfr. D.A. Carson, The Gospel according to John, cit., 583.
Cfr. U. Wilckens, Das Evangelium nach Johannes, cit., 275. Cfr. B. Schwank, Evangelium nach Johannes, cit., 433.
Cfr. W. Barclay, The Gospel of John, Edinbourgh 20013; Cfr. G.R. Beasley-Murray, John, cit., 325.
Cfr. P. Beeckmann, L’évangile selon Saint Jean d’après les meilleurs autheurs catholiques, cit., 366. 67
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ed un bestemmiatore. Lindars68 si limita ad osservare che tale domanda rispecchia il linguaggio e il pensiero di Giovanni. Secondo Bruce69, Anna sospetta Gesù di parole ed azioni sovversive: egli doveva conoscere quanta gente vi fosse implicata e qual era la natura di questa sovversione. Kysar70 suppone che la domanda sui discepoli nasconde la preoccupazione che Gesù abbia un gruppo di insurrezionisti; quella sulla sua dottrina può riflettere le domande poste alla chiesa di Giovanni dai membri della sinagoga. La paradossalità e la drammaticità del dialogo tra Gesù ed Anna è sottolineata molto bene da De La Potterie71. Nota l’autore che, nel dialogo tra Gesù ed Anna è rievocata e presa di mira la parola universale e rivelatrice di Gesù. Lo schiaffo del servo riveste perciò un significato simbolico e tipologico. In certo qual modo il sacerdote diventa il rappresentante di quelli che hanno respinto la parola rivelatrice al mondo. I giudei hanno detto di no alla parola rivelatrice di Gesù. Secondo Lagrange72 le domande del sacerdote si spiegano perché, se si voleva rinfacciare a Gesù un complotto contro l’autorità romana, bisognava sapere chi erano i complici e quali erano i progetti. Dal punto di vista strutturale, secondo Loisy73 Gesù è interrogato sullo scopo che ha perseguito radunando i discepoli. Mahoney74 ritiene che Giovanni ricordò soltanto un interrogatorio privato, informale, di Caifa alla presenza di Anna. Morris75 rimanda pure alla illegalità di un processo: un prigioniero non è tenuto a incriminare se stesso. Moloney76 osserva che, mentre Anna chiede prima sui discepoli e poi sulla dottrina, Gesù risponde, al contrario, 68 69 70
Cfr. B.Lindars, The Gospel of John, cit., 550.
Cfr. F.F. Bruce, The Gospel of John, cit., 345. Cfr. R. Kysar, John, Minneapolis 1986, 272.
Cfr.I. De La Potterie, La passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, trad. it., Cinisello Balsamo 1988, 63. 71
72 73 74 75 76
Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, cit., 464.
Cfr. A. Loisy, Le quatrième évangile, Paris 19212, 460.
Cfr. A. Mahoney, A New Look at an Old Problem (Joh 18,12-14.19.24), cit., 144.
Cfr. L. Morris, The Gospel according to John, cit., 758.
Cfr. F. J. Moloney, The Gospel of John, Collegeville (Minnesota) 1998, 195.
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prima menziona la dottrina e poi i discepoli (touèv a\khkooétav). Secondo Strachan77 l’esame sui discepoli e sulla dottrina indica che Anna, come anche Caifa, credeva che il nuovo movimento fondato da Gesù avrebbe destabilizzato l’ordine stabilito dal tempio e dal sacerdozio. Secondo Schneider78 si trattò di una udienza preliminare che non sortì però alcun effetto concreto. Tillmann79 poi ritiene che lo scopo di Anna era quello di poter presentare Gesù come un sedizioso e un cospiratore. Al contrario, Ellis80 ritiene che Giovanni, nel narrare questo dialogo, aveva lo scopo di mostrare l’innocenza di Gesù. Infine secondo Westcott81 l’interrogatorio di Anna è un esame preliminare allo scopo di ottenere materiale per formulare poi un’accusa formale. 1.2. La nostra posizione Riteniamo valide le obiezioni contro la manomissione del testo; se si sposta il v. 24 dopo il v. 13, resterebbe senza alcuna spiegazione il fatto che Gesù fu condotto da Anna e poi il fatto che questi lo avrebbe mandato a Caifa. Inoltre non si comprenderebbe lo scopo per cui dei copisti avrebbero poi spostato il v. 24 da dopo il v. 13 al suo posto attuale, dopo il v. 23. È possibile pensare ad una dimenticanza, ma questo potrebbe essere il caso di pochi codici non di quasi la loro totalità. Possiamo inoltre osservare che nulla indica, nel resoconto giovanneo, che il dialogo con Anna sia la sua versione del processo davanti al sinedrio quale conosciamo dai Sinottici: i due processi, davanti ad Anna e davanti al sinedrio, appaiono del tutto diversi ed autonomi. Anna, o Anania o Anano, come ci informa Giuseppe Flavio82, fu sacerdote, fatto da Quirino, dal 6 al 15 a. C; dopo, come ancora ci informa Giuseppe Flavio, Anna era riuscito a far eleggere al sommo sacerdozio i 77 78 79 80 81 82
Cfr. R. H. Strachan, The Fourth Gospel, its Significance and Environment, cit., 308. Cfr. J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, cit., 296-298. Cfr. F. Tillmann, Das Johannesevangelium, cit., 306.
Cfr. F.F. Ellis, The Genius of John, Collegeville 19842, 256.
Cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, cit., 256. Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, XVIII, 2,2.
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suoi cinque figli e poi il genero Caifa. Brown83 osserva che i testi rabbinici tradiscono un particolare astio nei confronti della casa di Anna, probabilmente a causa della sua avidità e delle sue angherie. Belser84 ritiene, non senza una qualche ragione, che sia stato proprio lui ad avere indotto Pilato a mandare i soldati romani a catturare Gesù in quella notte85. Anna, benché deposto, dovette continuare ad esercitare un influsso tra i giudei ed essere ritenuto sommo sacerdote86. Di Anna, o Anania, nel NT, oltre il nostro testo, si parla anche in Lc 3,2 ed At 4,6. In questi due testi Luca si limita soltanto a menzionarlo; in Lc 3,2 il terzo evangelista, senza ulteriori spiegazioni, introduce le due figure di Anna e Caifa sotto l’unico titolo al singolare e\pì a\rciereéwv, il primo però ad essere menzionato è Anna (e\pì a\rciereéwv A $ nna kaì Kai=af é a); pure in At 4,6 Anna è direttamente definito o| a\rciereuév ( A $ nnav o| a\rciereuév) e subito è menzionato anche Caifa87. Sembra che, per il narratore lucano, sacerdote ce ne sia uno solo e questo è Anna, al quale, magari per motivi storici, è stato associato Caifa. 83 Cfr. R.E. Brown, La morte del Messia. Un commentario dei racconti della passione nei quattro vangeli, trad. it., Brescia 1999; 468, che cita Strack-Billerbeck e Gächter, cfr. H.L. Strack-P. Billerbeck, Kommentar zum neuen Testament aus Talmud und Midrash, II; München 19695, 569-571; inoltre O. Gächter, The Hatred of the House of Annas, in TS 8 (1947) 3,34. 84
Cfr. J.E. Belser, Das Evangelium des Johannes übersetzt und erklärt, cit., 1905, 470.
L’opinione di Belser non sembra inverosimile; egli poteva ben essere il mandatario della spedizione al Getsemani: ciò spiegherebbe perché Gesù sia stato condotto prima da lui. 85
Cfr. J.C. Fenton, The Passion according to John, London 1961, 33; W. HendrikThe Gospel of St. John, cit., 387; E.C. Hoskyns - F.N. Davey, The Fourth Gospel, London 19472, 511: fonti rabbiniche riferiscono che Anna fosse intrigante ed amante del denaro; Cfr. A. Janssen de Varebeke, La Structure des scene du recit de la Passion en Joh XVIII-XIX, cit., 508 M.J., Lagrange, Évangile selon saint Jean, cit., 455; R.C.H. Lenski, The Interpretation of St. John’s Gospel, cit., 1191. 86
sen,
Nota Brown che non è impossibile che, chiamando Anna “sommo sacerdote”, Luca mantenga un titolo di cortesia dato agli ex sommi sacerdoti. Può darsi che i giudei ultra ortodossi si rifiutassero di riconoscere la deposizione di sommi sacerdoti fatta dai romani e considerassero Anna come legittimo sacerdote. Forse anche l’astuto Anna maneggiava ancora il potere dietro le quinte mentre i suoi parenti detenevano concretamente il titolo, cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 1006. 87
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Nel quarto vangelo Anna è menzionato con il nome proprio ben due volte. La prima volta in 18,13, dove, subito dopo, dall’evangelista è presentato come “suocero (penqeroév) di Caifa”, di cui poi egli dirà che era sacerdote di quell’anno88. La seconda volta è menzionato alla fine, appunto nel v. 24, dove è ricordata la sua azione di avere mandato Gesù a Caifa. È importante però considerare anche il termine a\rciereuév, che, in Giovanni, è introdotto con una certa frequenza. Anzitutto, diverse volte, in maniera indefinita, al plurale, è riferito a esponenti generici della classe sacerdotale89 (a\rciere_v) ed introdotto talora insieme ai farisei90. Al singolare, si legge anzitutto in 11,49.51, esplicitamente riferito a Caifa, di cui l’evangelista nota che era “sacerdote di quell’anno (tou% e\niautou% e\keònou)”; inoltre, con la stessa caratterizzazione di “sacerdote di quell’anno”, Caifa è menzionato in 18,13. Infine è menzionato in 18,24, dove leggiamo l’espressione molto enfatica: proèv Kai=af é an toèn a\rciereéa (da Caifa il Sacerdote). Ci sono però, nel contesto della narrazione della passione, diversi usi, sette specificamente, in cui si parla di “il sacerdote”, in assoluto, senza alcuna specificazione del nome (18,10.15 [bis].16.19.23.26). In 18,10 si legge che, al Getsemani, Pietro colpì l’orecchio di un servo “del sacerdote (tou% a\rciereéwv)”: non si specifica chi è questo sacerdote. In 18,15 leggiamo che il discepolo era “noto al sacerdote (t§% a\rciere_)” ed entrò nel palazzo del sacerdote (tou% a\rciereéwv); poi, nel seguente v. 16, l’evangelista aggiunge che il discepolo, “noto del sacerdote (tou% a\rciereéwv)”, uscì. Nemmeno qui è indicato chi è questo sacerdote; se si spostasse il v. 24 dopo il v. 13, allora sarebbe Caifa: ma proprio questo è appunto il problema. Nel v. 19 leggiamo che “il sacerdote (o| a\rciereuév)” interrogò Gesù sui discepoli e sulla dottrina; nel v. 23 leggiamo le parole del servo: «così rispondi “al sacerdote (t§% a\rciere_)”?». Infine nel v. 26 è menzionato ancora “uno dei servi “del sacerdote (tou% a\rciereéwv)” e presentato come «cognato di colui al quale Pietro recise l’orecchio». 88 Nota Borgen che la relazione di parentela tra Anna e Caifa rimanda poi a 11,47-49 ed esprime un tema basilare: Gesù deve morire per il popolo, cfr. P. Borgen, John and the Synoptics in the Passion Narrative, in NTS 5 (1959) 246-259: 257. 89 90
Cfr. 12,10; 18,35; 19,5.16.21. Cfr. 7,32.45; 11,47.57; 18,3.
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Tutti questi usi permettono di stabilire un particolare schema strutturale concentrico, nel seguente modo: 18,10: un servo del sacerdote (tou% a\rciereéwv) (Pietro ne colpì l’orecchio), 18,13: Anna, suocero di Caifa, che era sacerdote di quell’anno, 18,15 (bis)-16: t§% a\rciere_ (v. 15a), tou% a\rciereéwv (v. 15b), tou% a\rciereéwv (v. 16): relazione del discepolo al sacerdote, 18,19.23: o| a\rciereuév (v. 19), t§% a\rciere_ (v. 23): relazione del sacerdote a Gesù, 18,24: Anna mandò Gesù legato a Caifa il sacerdote, 18,26: “Uno dei servi del sacerdote”, cognato di colui a cui Pietro recise l’orecchio. La relazione di 18,10 a 18,26 è evidente: in entrambi è menzionato l’intervento armato di Pietro; come pure è evidente la relazione di 18,13 a 18,24: sono menzionati insieme, con il nome proprio, Anna e Caifa; è chiara infine la relazione di 18,15b-16 a 18,19.26: il discepolo relazionato al sacerdote - il sacerdote relazionato a Gesù. Oltre le motivazioni, valide, addotte dagli interpreti contrari allo spostamento del v. 24, e oltre il fatto che l’accostamento del v. 24 al v. 13 presenterebbe delle inutili ripetizioni, la struttura sopra indicata appare perfetta e anche ben studiata: essa non può essere il frutto di uno spostamento testuale, ma deve essere uscita dalla mano dell’evangelista. In questa prospettiva, il sacerdote, al cui servo Pietro recise l’orecchio (v. 10), e il sacerdote, il cui servo era cognato di colui al quale Pietro recise l’orecchio, è Anna. Pertanto il v. 24 appare al suo giusto posto strutturale. Questo schema suggerisce così che “il sacerdote (o| a\rciereuév)” per antonomasia, per il quarto evangelista, non è Caifa, bensì Anna. Caifa però non è senza una funzione. Questa è contenuta, come diremo, nell’espressione “di quell’anno”. Egli è il sacerdote ufficiale, al quale compete una funzione che Anna, pur rappresentante di tutto il giudaismo, non può assolvere. L’evangelista stabilisce però una duplice relazione di Anna a Caifa: una relazione di parentela ed una relazione di funzione, inviando a lui Gesù.
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2. I sacerdoti Anna e Caifa Notiamo anzitutto i verbi con cui il quarto evangelista descrive la cattura di Gesù al Getsemani. Essi sono tre: suneélabon (presero), e"dhsan (legarono), h"gagon (condussero). Il primo e il terzo verbo hanno una certa relazione con i vangeli sinottici; il secondo verbo, e"dhsan (legarono), invece, almeno qui, è proprio di Giovanni91. 2.1. Gli eventi dopo la cattura Il verbo e"dhsan è proprio di Giovanni, ma solo in questo contesto. Esso è assente nella narrazione lucana; Matteo e Marco invece lo usano nel passaggio di Gesù dal sinedrio al pretorio di Pilato: «avendolo legato (dhésantev), lo condussero (a\phégagon)». Il quarto evangelista lo usa ancora una volta, in 18,24, nel passaggio da Anna a Caifa: «lo mandò Anna legato (dedemeénon) da Caifa il sacerdote». Sembra appunto che Giovanni voglia includere, con questo verbo, tutto il processo-dialogo di Gesù con il sacerdote Anna. Catturato, Gesù fu condotto in casa del sacerdote Anna. Qui, come abbiamo già detto, appare una fondamentale differenza con i vangeli sinottici. Questi rivelano una qualche incertezza nell’identificazione di questo sacerdote: essi infatti non menzionano mai Anna92, anzi finiscono per propendere per Caifa. Tale incertezza emerge più chiaramente se leggiamo, all’inverso, i tre sinottici. Secondo Lc 22,54, Gesù, catturato, fu condotto nella casa del sacerdote (ei\v thèn oi\kòan tou% a\rciereéwv); Luca non dice chi è questo sacerdote e nemmeno menzionerà più un sommo sacerdote in tutta la sua narrazione. Il primo verbo, suneélabon, pur in diversa forma, è comune anche a Luca (sullaboéntev); il terzo verbo, si legge, in forma semplice, anche in Luca, in forma composta in tutti e tre i sinottici. Si può proporre il seguente schema: Matteo Marco Luca Giovanni 91
Krathésantev sullaboéntev e"dhsan a\phégagon a\phégagon h"gagon h"gagon. 92
Anna è menzionato, in diverso e più lontano contesto, in Lc 3,2 ed At 4,6.
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Mc 14,53 si rivela ancora più incerto; scrive infatti: «condussero Gesù dal sacerdote e si radunano tutti i sacerdoti e gli anziani e gli scribi»: la connessione tra la menzione del sacerdote e il raduno del sinedrio, suggerirebbe, benché non necessariamente, che Marco pensi a Caifa. Mt 26,57 precisa la narrazione di Marco indicando esplicitamente che tale sacerdote è Caifa, nella cui casa si sarebbe radunato il sinedrio di cui egli era presidente. Giovanni invece ci informa esplicitamente che tale sacerdote è Anania o Anna, che distingue ma che anche accuratamente relaziona a Caifa. La prima relazione, in 18,13b, è di parentela: Caifa è genero (penqeroév) di Anna; la seconda relazione, in 18,24, è di funzione; Anna mandò Gesù legato a Caifa: evidentemente Anna non ha un potere decisionale o a procedere contro il condannato. Sul sacerdote Anna diremo più avanti in relazione al suo dialogo con Gesù. Al nostro scopo adesso interessa Caifa, a riguardo del quale l’evangelista offre alcune caratterizzazioni. In 18,13, oltre la relazione di parentela con Anna, indica due prerogative, una situazione ed una azione. La situazione è che «era sacerdote di quell’anno», l’azione è il fatto che lui aveva consigliato ai giudei che conviene (sumfeérei) che un solo uomo (e$na a"nqrwpon) muoia per il popolo. In 18,24 la caratteristica di Caifa è una sola, indicata, in maniera molto enfatica, alla fine dell’espressione: proèv Kai=afa%n toèn a\rciereéa (da Caifa il sacerdote). Benché l’evangelista non narri il processo davanti al Sinedrio, Caifa tuttavia non è assente; le prerogative sopra indicate mostrano anzi che, anche per il quarto evangelista, egli eserciti un ruolo importante nel processo di Gesù. La prerogativa di 18,24, (toèn a\rciereéa [il sacerdote]), segna il passaggio da una posizione relativa ad una assoluta. La relativa, in 18,13, è il fatto che Caifa è “sacerdote (a\rciereuév) di quell’anno (tou% e\niautou% e\keònou)”, la prerogativa assoluta, in 18,24, espressa con l’articolo e senza alcuna precisazione, è che era “il sacerdote (toèn a\rciereéa)”. Le due prerogative di 18,13 ci rimandano al testo di 11,49-51, dove due volte si dice che Caifa era “sacerdote di quell’anno”93. Nello sfondo di questa prerogativa, e anche in forza di essa, due volte ripetuta, l’evange93
In 11,49-51 possiamo notare uno schema alternato: (v. 49) eàv deé tiv e\x au\tw%n Kai=af é av,
a\rciereuèv w!n tou% e\niautou% e\keònou,
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lista riferisce l’indicazione di Caifa ai sinedriti, che “conviene (sumfeérei) che uno solo (eàv a"nqrwpov) muoia per il popolo e non perisca tutta la gente”. L’evangelista dietro queste parole, che, in se stesse, come appare dal testo stesso, non avevano se non un chiaro scopo politico, scorge un senso più profondo: inconsciamente Caifa ha pronunziato una profezia (e\profhéteusen) ed ha indicato che Gesù doveva morire per la gente. Inoltre Caifa era “sacerdote di quell’anno”. Ciò non vuol dire che egli sia stato sacerdote un solo anno: sappiamo infatti che fu sacerdote dal 18 d.C. al 36 d. C. per 18 anni. L’allusione probabilmente è alla liturgia annuale dell’espiazione quando, una volta all’anno (a$pax tou% e\niautou%)94, il sacerdote compie l’espiazione “per il popolo (perì tou% laou%)”. Virtualmente Caifa è il sacerdote che celebra la liturgia dell’espiazione, che ne indica la convenienza, implicitamente designa anche la vittima e anche virtualmente la immola95. Questi aspetti di Caifa sono ripresi dall’evangelista in 18,13; ad essi, in ultima analisi, mediante un rapporto di parentela con Caifa, egli fa risalire la figura di Anna96, e alla loro luce bisogna anche leggere, in 18,24, il fatto che Anna mandò Gesù legato a Caifa “il sacerdote”.
(v. 51) 94
eùpen au\to_v, {Ume_v ou\k oi"date ou\deén, (v. 50) ou\deè logòzesqe o$ti sumfeérei u|m_n i$na eàv a"nqrwpov a\poqaén+ u|peèr tou% laou% kaì mhè o$lon toè e"qnov a\poélhtai. Tou%to deè a\f}e|autou% ou\k eùpen, a\llaè a\rciereuèv w!n tou% e\niautou% e\keònou e\profhéteusen o$ti e"mellen }Ihsou%v a\poqn+éskein u|peèr tou% e"qnouv
Cfr. Lev 16,34.
Probabilmente, nella caratterizzazione di Caifa entrano le allusioni, fuse insieme, al sacrificio di espiazione di Lev 16 e al quarto canto del servo di Jahvè (Is 53). Al nostro scopo è importante stabilire il fatto che, secondo l’evangelista, Caifa è “il sacerdote di quell’anno” ed è quello che ha consigliato (o| sumbouleuésav) ai giudei che conviene che un solo uomo muoia per il popolo. Caifa è “il sacerdote di quell’anno”, al quale compete immolare la vittima di espiazione, e Caifa virtualmente la immola. Si può richiamare il processo davanti al Sinedrio, dove Caifa, secondo Matteo e Marco, raccoglie il parere dei sinedriti che Gesù è reo di morte (Mt 26,66; Mc 14,64). 95
96 Si ottiene il seguente crescendo: Anna è relazionato a Caifa mediante il rapporto di parentela, di Caifa si rievoca il suo consiglio: Anna – Caifa – consiglio.
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2.2. Il testo di 18,24 Il testo di 18,24 conclude, in maniera narrativa, il processo-dialogo tra Gesù ed Anna. Nota l’evangelista che «mandò (a\peésteilen) lui (au\toén) Anna (o| A $ nnav) legato (dedemeénon) da Caifa (proèv Kai=af é an) il sacerdote (toèn a\rciereéa)». Questo testo presenta una struttura molto interessante. Assumono particolare enfasi sia il verbo a\peésteilen, messo all’inizio prima del soggetto, sia anche il predicato toèn a\rciereéa, messo alla fine. Dopo il verbo a\peésteilen, possiamo notare, nei cinque elementi che seguono, la seguente struttura concentrica: a\peésteilen au\toén o| A $ nnav dedemeénon proèv Kai=af é an toèn a\rciereéa».
Al centro risalta il participio perfetto medio dedemeénon, incluso tra due nomi propri, o| A $ nna e proèv Kai=af é an; queste relazioni suggeriscono anche quella tra il pronome au\toén e il predicato toèn a\rciereéa, entrambi in caso accusativo. Gesù è mandato da Anna, legato, a Caifa. È ripetuto lo stesso verbo introdotto all’inizio. Gesù è prigioniero e, come tale, deve essere legato. Probabilmente è rimasto legato tutto il tempo dalla cattura all’invio a Caifa, ma l’evangelista riserva questo verbo solo in questi due casi, in relazione al processo davanti ai giudei. Quando Anna mandò Gesù legato a Caifa, il testo non lo precisa. Pare inverosimile durante la notte; probabilmente è da accogliere l’indicazione di Lc 22,66, secondo il quale “quando venne il giorno” si radunò il sinedrio: questo perciò si sarebbe radunato in concomitanza dell’invio di Gesù, avvenuto verosimilmente verso l’alba97. 97 Forse bisogna ammettere una certa confusione nella tradizione seguita da Matteo e Marco, secondo la quale il sinedrio si sarebbe radunato di notte ed avrebbe deciso, in quella circostanza, la morte di Gesù. I due evangelisti poi, Mt 27,1 e Mc 15,1, presuppongono un altro raduno del sinedrio che, in nessun modo, fa riferimento a quello avvenuto di notte.
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L’invio di Gesù a Caifa, da parte di Anna, è facilmente comprensibile. Si può ben pensare che Anna abbia condotto un dialogo preliminare, alla ricerca di precisi capi di accusa, da proporre poi al sinedrio. Di simili capi di accusa però il racconto giovanneo non dice nulla. In ogni caso, il dialogo tra Gesù ed Anna non può avere un carattere ufficiale, non essendo Anna sacerdote in carica. Il carattere ufficiale di un processo poteva venire soltanto da un organismo anch’esso ufficiale, benché limitato nei poteri, quale il sinedrio. L’evangelista però non dice nulla del processo davanti al sinedrio; tutta la forza perciò, e la stessa motivazione dell’invio a Caifa, nella sua penna, risiede appunto nella frase stessa di 18,2498. Al centro di questa espressione, come abbiamo già osservato, c’è il participio perfetto passivo dedemeénon; Gesù è legato, quasi in una situazione Emerge qui un’altra discrepanza tra la narrazione di Matteo e Marco e quella di Luca, secondo la quale (Lc 22,66-71) il sinedrio si sarebbe radunato al mattino e, in quel raduno, si sarebbe verificato il processo che Matteo e Marco collocano nella notte. Mettendo insieme i quattro evangelisti, forse gli eventi si sarebbero svolti nel seguente modo: catturato, Gesù fu condotto da Anna, dove avrebbe subito un primo interrogatorio, succintamente riferito da Giovanni; poi, al mattino, Gesù sarebbe stato inviato al sinedrio, dove avrebbe subìto il processo, quello ambientato di notte da Matteo e Marco e di giorno da Luca. Matteo e Marco avrebbero avuto una notizia soltanto vaga di questo incontro notturno e lo avrebbero trasferito al sinedrio, ambientandolo così nella notte. Trasferito il processo al tempo di notte, quello del mattino, pur non ignorato, rimane senza un preciso contenuto e, nel racconto evangelico, appare così vuoto. Ci si può chiedere perché il quarto evangelista ometta il processo davanti al Sinedrio. A questa domanda gli interpreti hanno risposto in diversa maniera. Secondo Ellis (Cfr. F.F. Ellis, The Genius of John, cit., 257) il motivo poteva essere duplice: o perché presupponeva che i suoi lettori lo conoscessero, oppure che il suo scopo primario non era quello di dare dettagli, ma di mostrare l’adempimento della profezia di Gesù nel triplice rinnegamento di Pietro. Lindars (Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit., 546) ritiene che la narrazione del processo davanti al Sinedrio doveva essere nella fonte di Giovanni. Egli lo omise per suoi motivi teologici; tuttavia, come appare dal cap 10, egli non lo ignora. Osserva Schnelle (Cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, cit., 267) che l’evangelista conosce una comparizione davanti al Sinedrio, benché non la narri. Giovanni non ignora il processo davanti al sinedrio, ma, coma ha fatto già con la preghiera al Getsemani (Cfr. il nostro Studio, La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni, in Synaxis 21 (2003), 215-281), smembra quel processo nei vari elementi, per introdurli, reinterpretati, qui e lì, nel suo vangelo. 98
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di coartazione. Tale situazione è espressa e determinata dai due nomi tra i quali c’è il pronome au\toén riferito a Gesù. Anna e Caifa sembrano costituire, in certo modo, “i carcerieri”, che tengono Gesù stabilmente fermo in quella condizione di coartazione. Ma l’evangelista nota che Caifa è il sacerdote: sarà appunto questa prerogativa che, in ultima analisi, condurrà Gesù in piena libertà alla gloria della croce. Il predicato toèn a\rciereéa, riferito a Caifa, nella struttura sopra indicata, presenta una relazione al pronome au\toén, riferito a Gesù. In questa maniera, Caifa e Gesù stanno in una relazione di sacerdote e vittima. Caifa decreterà la morte di Gesù e, virtualmente, immolerà la vittima del sacrificio. Egli avrebbe voluto, con la sua decisione, eliminare Gesù: in realtà egli immola la vittima del sacrificio, permettendo così a Gesù di realizzare tutti gli effetti di salvezza e di vita che, da quel sacrificio, sarebbero scaturiti. L’espressione del v. 24 può essere letta però anche in diversa maniera. Dei sei elementi che la compongono, tre si riferiscono a dei personaggi, due dei quali esplicitamente menzionati per nome, Anna e Caifa, l’altro, Gesù, indicato mediante il semplice pronome au\toén. Si può proporre la seguente relazione strutturale: a\peésteilen au\toén o| A $ nnav dedemeénon proèv Kai=af é an toèn a\rciereéa». Il pronome au\toén è legato al verbo a\peésteilen; il nome proprio o| A $ nnav è legato al participio perfetto dedemeénon, il nome proprio proèv Kai=af é an al predicato toèn a\rciereéa. Emergono due diversi motivi per cui, secondo
l’evangelista, Gesù è inviato da Anna a Caifa, contenuti, rispettivamente, nel participio dedemeénon e nel predicato toèn a\rciereéa. Da Anna Gesù è inviato legato (dedemeénon): la persona a cui è inviato, Caifa, è sacerdote (toèn a\rciereéa). Anna è relazionato ad una azione passiva, di coartazione, compiuta su Gesù; Caifa invece è relazionato ad una azione attiva, implicitamente contenuta nel termine toèn a\rciereéa, che egli compirà nei confronti di Gesù. Emerge qui una profonda ironia giovannea. Gesù, coartato al Getsemani (e"dhsan), rimane ancora coartato (dedemeénon) tra i giudei.
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2.3. Il cammino verso il pretorio Così coartato, Gesù da Anna è inviato a Caifa, evidentemente per confermare ufficialmente la coartazione. Ma Caifa è il sacerdote: la sua azione perciò, che mirerebbe a sopprimere Gesù, in realtà diventa l’immolazione di una vittima, che gli apre la strada verso la sua liberazione. Caifa però potrà immolare solo virtualmente la vittima. Come essi stessi confesseranno in 18,31, i giudei sanno di essere stati privati dello jus gladii; hanno perciò bisogno, per uccidere Gesù, della collaborazione romana. È importante l’espressione di 18,28: a"gousin ou/n toèn }Ihsou%n a\poè tou% Kai=af é a ei\v toè praitwérion (conducono dunque Gesù da Caifa al pretorio), dove sembra che tutti gli elementi abbiano un loro particolare valore. Notiamo anzitutto il verbo a"gousin. Esso è indicativo presente ed è un plurale senza soggetto: esso è lo stesso verbo che leggiamo, nella forma di aoristo (h"gagon), in 18,13; la forma al presente, in 18,28, indica che questa è l’ultima tappa del cammino di Gesù. I soggetti quindi debbono essere gli stessi di quelli indicati in 18,13: la coorte, il tribuno e i servi dei giudei. Questi condussero (h"gagon) Gesù da Anna prima (prw%ton), poi lo conducono (a"gousin) nel pretorio che appare così il diretto luogo dove è orientato Gesù. Possiamo notare le seguenti frasi che delineano il cammino di Gesù: 18,13: h"gagon proèv A $ nnan prw%ton (condussero da Anna prima); 18,24: a\peésteilen ou&n au\toèn o| A $ nnav dedemeénon proèv Kai=afa%n toèn a\rciereéa (inviò dunque lui Anna legato da Caifa il sacerdote); 18,28: a"gousin ou/n toèn }Ihsou%n a\poè tou% Kai=af é a ei\v toè praitwérion (conducono dunque Gesù da Caifa al pretorio). Emerge così il seguente schema: 18,13: Anna, 18,24: Anna – Caifa Caifa – Pretorio. La prima tappa del cammino di Gesù, dopo la cattura al Getsemani, è Anna; ma la seconda non è Caifa, bensì il pretorio. Non si dice infatti che Gesù si sia fermato da Caifa; di costui invece si indicano le caratteristiche: è “sacerdote di quell’anno”, specificamente “il sacerdote”, colui che ha dato il consiglio che conviene (sumfeérei) che un solo uomo muoia per il
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popolo. Caifa è la persona a cui Anna è strettamente relazionato: di Caifa Anna è suocero e a Caifa Anna invia Gesù. Tuttavia Caifa ha, nel racconto giovanneo, una fondamentale importanza. I giudei davanti a Pilato chiedono che Gesù venga soppresso come un criminale (18,30): hanno bisogno della sua opera non avendo essi il potere di uccidere alcuno (18,31), chiedono ripetutamente che venga crocifisso (19,6), rivendicano il fatto che, secondo la legge, Gesù deve morire perché si è fatto figlio di Dio (19,7). Davanti a Pilato a Gesù preferiscono prima Barabba (18,40) e poi Cesare (19,15). Il Gesù, coartato nel palazzo di Anna, secondo i giudei, è condotto da Pilato per essere ucciso. Ma Gesù, andando da Anna al pretorio, passa attraverso Caifa il sacerdote. Al pretorio di Pilato perciò Gesù non giunge, come vogliono i giudei, come il malfattore o il blasfemo che deve essere eliminato, ma, e qui sta la paradossalità e l’ironia giovannea, come la vittima sacrificale da essere immolata. Il pretorio di Pilato appare così come il luogo dove la vittima sacrificale sarà immolata99. Potremmo anche notare la maniera come Gesù è menzionato in 18,14 e come è menzionato in 18,28. Nel primo testo egli lo è con un semplice pronome au\toén (a\peésteilen ou&n au\toèn), che meglio si adatta alla prospettiva della coartazione; nel secondo testo invece con il nome proprio toèn }Ihsou%n (a"gousin ou/n toèn }Ihsou%n), che meglio si adatta ad un cammino di liberazione che parte dal pretorio di Pilato e che culminerà poi nello splendore della croce. 3. Dialogo tra Gesù ed Anna (vv. 19-24) Nello sfondo di tutti gli elementi sopra indicati, consideriamo adesso il dialogo tra Gesù ed Anna: in esso appare bene l’originalità giovannea100. Possiamo notare qui, nella narrazione giovannea, un mutamento di prospettiva. Finora l’evangelista ha detto che Gesù è stato condotto da persone concrete, da Anna (18,13); da Anna a Caifa (18,24). Ci saremmo aspettati ugualmente, in 18,28, “da Caifa a Pilato”, come in Mt 27,2; Mc 15,1; Lc 23,1; invece l’evangelista scrive che lo condussero da Caifa al pretorio. Evidentemente all’evangelista interessa non la persona di Pilato, quanto piuttosto il luogo dove l’azione si svolge. Si direbbe che Gesù, vittima designata, è condotto nel luogo della sua immolazione. 99
100 Buse nota che, nel processo davanti al sacerdote, appaiono le differenze con Marco: il sommo sacerdote interroga Gesù invece di cercare i testimoni, che sembrano essere esclusi
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Di questo dialogo è opportuno anzitutto notare la struttura letteraria, che appare abbastanza articolata, ed eventuali problemi di critica testuale. 3.1. Struttura letteraria La struttura letteraria dei vv. 19-24 è stata notata anche da altri interpreti, dai quali sostanzialmente non ci distacchiamo101. Tutto il dialogo tra Gesù ed Anna è incluso tra i due termini a\rciereuév; la prima volta infatti si legge, nel v. 19, o| ou&n a\rciereuév, l’ultima si legge nel v. 24, toèn a\rciereéa. Possiamo distinguere, in tutto il dialogo, cinque unità, di cui le dispari (v. 19 [I]; v. 22 [III]; v. 24 [V]) sono narrative, le pari invece (vv. 20-21 [II]; v. 23 [IV]) sono dialogiche. Le unità pari contengono parole di Gesù rivolte, rispettivamente, al sacerdote Anna e al servo che ha dato lo schiaffo. Esse iniziano entrambe con la stessa espressione a\pekròqh au\t§% }Ihsou%v (rispose a lui Gesù). Le unità dispari, tra la seconda e la terza delle quali si inseriscono le parole con cui il servo accompagna lo schiaffo, presentano una triplice caratteristica: anzitutto sono di indole narrativa, inoltre sono introdotte da particelle, rispettivamente ou&n (I. v. 19), deé (III. v. 22), ou&n (V. v. 24), assenti nelle unità dialogiche; infine tutte e tre sono caratterizzate dal termine a\rciereuév, assente anch’esso nella parti dialogiche. In queste tre parti narrative il termine a\rciereuév sta all’inizio (I), alla fine (III) e ancora alla fine (V), nel seguente modo: I. (v. 19): o| ou&n a\rciereuév […], III. (v. 22): […] t§% a\rciere_, V. (v. 24): […] toèn a\rciereéa. Ogni singola parte presenta una sua particolare struttura interna, che sarà proposta al momento opportuno.
dal v 21: (e\rwéthson touèv a\khkooétav ), cfr. I. Buse, St. John and the Marcian Passion Narrative, in NTS 4 (1957- 58) 215-219: 217. 101 Cfr. I. De La Potterie, Passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni. cit., 58. F.F. Ellis, The Genius of John, cit., 253.
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3.2. Critica testuale I problemi di critica testuale, in questa parte, non sono molti; alcuni hanno anche un carattere secondario. Per questo riteniamo non necessario affrontarli tutti; al nostro scopo è sufficiente considerarne soltanto tre: due indicati dalla edizione critica del Nestle102 e una indicata dalla edizione critica del Merk103. Il primo problema riguarda il verbo lelaélhka nel v. 20. Alcuni codici, quali il P66, il codice C nella terza correzione, il codice D, i maiuscoli W Q, il minuscolo 0250, i codici recensiti da Ferrar e molti della Koiné, leggono il verbo laleéw nella forma all’aoristo e\laélhsa; la forma al perfetto, lelaélhka, invece, è attestata dai codici Sinaitico, Alessandrino, Vaticano, dal codice C nella prima mano, dai maiuscoli L N D Y, dai codici recensiti da Lake, dai minuscoli 33. 565. 579 ed altri. La forma al perfetto però si impone, non solo per la qualità dei codici, ma anche perché è più facile spiegare il passaggio dal perfetto all’aoristo che non viceversa. Leggendo il perfetto lelaélhka, infatti, alcuni copisti avrebbero voluto assimilare questo perfetto a tutta la serie di verbi all’aoristo nel contesto; se invece la lettura originale fosse stata all’aoristo, più difficilmente si sarebbe spiegato il passaggio al perfetto, a meno che i copisti non abbiano voluto esprimere, passando dall’aoristo al perfetto, una particolare idea teologica, ben comprensibile, come vedremo, nella prospettiva del quarto evangelista, ma meno attendibile nella loro mente. Il secondo problema è ancora nel v. 20; dopo l’avverbio o$pou, il codice C nella terza correzione, i maiuscoli D e Y, il minuscolo 0250, diversi codici della recensione Koiné, il codice latino q, la versione Siro Heraclense, aggiungono l’altro avverbio paéntote. Tale avverbio è assente in molti altri codici anche importanti, quali il Sinaitico, l’Alessandrino, il Vaticano ed altri. Appare bene come esso sia una aggiunta, determinata dallo stesso avverbio presente nel testo appena nove parole prima; introdotto nello stesso contesto, esso appare una inutile ripetizione. Forse qualche copista avrebbe dimenticato di averlo già inserito nel testo. 102 103
Cfr. E. Nestle - K. Aland (curr.), Novum Testamentum graece, Stuttgart 199527, 308. Cfr. A. Merk (cur.), Novum Testamentum graece et latine, Romae 199211, 379.
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Il terzo problema che consideriamo è ancora nel v. 20 e riguarda il verbo suneércontai; alcuni minuscoli, il Diatessaron di Taziano italico ed olandese, e la versione armena leggono all’imperfetto (sunhérconto). Tale lettura non è attestata dalla più ampia tradizione greca; l’imperfetto può essere dovuto al tentativo di alcuni copisti di adattare anche questo verbo a tutta la serie di tempi storici nel contesto. Vedremo come l’indicativo presente suneércontai ha nel contesto una particolare importanza teologica. 3.3. Sviluppo del testo Nel tentativo di cogliere il senso del dialogo tra Gesù ed Anna, partiamo dalla lunga risposta di Gesù, contenuta nei vv. 20-21. Essa è molto solenne e grave104. 3.3.1. Valutazione degli interpreti Notiamo a riguardo qualche posizione degli interpreti. Anzitutto Hoskyns-Davey105 ritengono che essa sia, nei vv. 20-21, un ampliamento del detto sinottico al momento dell’arresto (Mc 14,49 e parall.). Ellis106 osserva che nella sua risposta Gesù mostra di non avere niente a che vedere 104 Ciò induce a dissentire del tutto da quanto scrive Blinzler (Cfr. J. Blinzler, Il processo di Gesù, tra, it., Brescia 1966, 109.) che Giovanni non avrebbe narrato il processo davanti al Sinedrio perché ne avevano parlato ampiamente i sinottici ma soprattutto perché i lettori pagano-cristiani erano poco interessati ai dibattiti processuali ebraici. Al contrario, sapeva di una breve udienza davanti all’ex sommo sacerdote Anna, della quale nessuno dei suoi predecessori ne aveva tenuto conto. Scrive Blinzler (L.c.): «Nonostante la sua scarsa importanza oggettiva, egli la riferisce perché essa gli fornisce l’opportunità di collocare la negazione di Pietro che egli non sa dove inserire (sic!) avendo soppresso l’udienza presso Caifa […]». In realtà, contro Blinzler, i rinnegamenti di Pietro, come appare anche da Luca, avvennero nel palazzo di Anna e il dialogo con Anna per il quarto evangelista è di massima importanza per i temi del discepolo, della dottrina e del “Dio maestro (e\gwé)”. A questa tematica l’evangelista, facendogli chiedere se è dei discepoli (maqhtw%n), orienta gli stessi rinnegamenti di Pietro. 105 106
Cfr. E.C. Hoskyns - F.N. Davey, The Fourth Gospel, cit., 511. Cfr F.F. Ellis, The Genius of John, cit., 257.
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con l’entusiasmo che portò la folla a fare di Lui un messia politico. Lo scopo giovanneo è quello di mostrare che Gesù è innocente. Secondo Schneider107 Gesù direttamente non risponde alle domande di Anna, ma si limita a rimandare al carattere pubblico del suo insegnamento. Chevallier108 individua nella risposta di Gesù tre aspetti successivi: la sua rivelazione non è stata un insegnamento riservato a pochi discepoli, ma a tutti; adesso non è più utile parlare perché ha detto tutto ciò che aveva da dire; fa comprendere ad Anna e dichiara nettamente che il loro atteggiamento, suo e degli altri, manifesta un rifiuto ad ascoltare. Quanto poi all’uso del verbo laleéw, Chevallier109 nota che tutta la risposta di Gesù ad Anna ruota attorno al verbo laleéw, usato da Gesù tre volte nei vv. 20.21, e poi nel v. 23, nella replica all’uomo che lo ha colpito: laleéw “è parlare il linguaggio della rivelazione”110. Giovanni dà a questo verbo qui un senso forte; d’altronde didaéskein, che risponde direttamente alla domanda di Anna (perì th%v didach%v ), è usato una sola volta (v. 20), mentre laleéw compare nel contesto immediato quattro volte, che mostrano che il nostro episodio ha per tema il ruolo di Gesù come rivelatore. Ciò che rende singolare la conversazione con Anna è che essa è l’ultima della serie. Essa indica la risposta finale. Il gran sacerdote rappresenta il popolo, Gesù significa che non ha più niente da dire; l’unica possibilità che resta ai giudei è quella di rivolgersi ai testimoni. Gesù poi tacerà e nessuno dei “giudei” intenderà la sua voce. La schiaffo assume il valore di segno di opposizione al lale_n di Gesù. De La Potterie111 osserva che nelle parole di Gesù i verbi tecnici e caratteristici sono i verbi didaéskein (insegnare) e lale_n (parlare). Fabris112, che si muove sulla stessa linea, nota che questi due verbi riassumono l’intera 107
Cfr. J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, cit., 235.
Cfr. M.A. Chevallier, La comparition de Jésus devant Hanne et devant Caïphe (Jean 18,12-14 et 19-24), cit. 180-181. 108
109
Cfr. l.c.
Cfr. F.M.Braun, Jean le théologien, III, Paris 1966, 119; J. Dupont, Gnosis. La connaissance religieuse dans les épîtres de Saint Paul, Louvain-Paris 1949, 222-230, spec 228; H. Jaschke, lale_n bei Lukas, in BZ n.f. 15 (1971), 109-114. 110
111 112
Cfr. I. De La Potterie, La passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, cit., 59. Cfr. R. Fabris, Giovanni, Roma 20032, 932.
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attività di Gesù: si tratta di una rivelazione pubblica ed universale che ormai si è conclusa. Secondo Hoskyns-Davey113 le parole di Gesù davanti ad Anna sono lo sviluppo giovanneo delle parole che egli, secondo i vangeli sinottici, pronunziò al momento dell’arresto. In maniera più semplicistica. Bouyer114, nota che Gesù, davanti ad Anna, avrebbe semplicemente eluse le domande che gli erano state da lui poste. 3.3.2. Le parole stesse di Gesù Esse sono le seguenti: v. 20: e\gwè parrhsòç lelaélhka t§% koésm§
e\gwè paéntote e\dòdaxa e\n sunagwg+% kaì e\n t§% i|er§%, o$pou paéntev oi| }Iouda_oi suneércontai kaì e\n krupt§% e\laélhsa ou\deén. v. 21: Tò me e\rwtç%v;; e\rwéthson touèv a\khkooétav tò e\laélhsa au\to_v: i"de ou/toi oi"dasin a£ eùpon e\gwé.
Tutta la risposta di Gesù è inclusa tra due pronomi e\gwé, di cui l’ultimo assume una notevole forza enfatica. Il primo pronome e\gwé è ripetuto nell’espressione seguente: sono così tre i pronomi e\gwé, tutti caratterizzati da particolare enfasi. La ripetizione del secondo pronome e\gwé dopo la prima frase introduce una relazione, ma anche una separazione tra la prima, e\gwè parrhsòç lelaélhka t§% koésm§ (io apertamente ho parlato al mondo), e tutto il resto delle parole di Gesù; ciò conferma la peculiarità del perfetto lelaélhka nello sfondo dei diversi aoristi. Tutto il brano può essere diviso in due parti e la divisione è determinata dal verbo e\rwtaéw, ripetuto due volte: e\rwtç%v; ed e\rwéthson. Possiamo proporre allora il seguente schema: e\gwè parrhsòç lelaélhka t§% koésm§ […] kaì e\n krupt§% e\laélhsa ou\deén. 113 114
Cfr. Hoskyns E.C. - Davey F.N., The Fourth Gospel, cit., 513. Cfr. L. Bouyer, Le quatrième évangile, Paris 1938, 221.
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Tò me e\rwtç%v; e\rwéthson touèv a\khkooétav […] i"de ou/toi oi"dasin a e£ ùpon e\gwé.
Le due parti sono quantitativamente sproporzionate. Nella prima parte Gesù evoca la sua attività di parlare; nella seconda parte egli rimanda ai testimoni. La prima parte delle parole di Gesù rivolte ad Anna possono essere strutturate nel seguente modo: e\gwè parrhsòç lelaélhka t§% koésm§ e\gwè paéntote e\dòdaxa e\n sunagwg+% kaì e\n t§% i|er§%, o$pou paéntev oi| }Iouda_oi suneércontai kaì e\n krupt§% e\laélhsa ou\deén.
Tutto il brano gravita attorno a quattro verbi diretti: un perfetto (lelaélhka), un aoristo (e\dòdaxa), un presente (suneércontai), ancora un aoristo (e\laélhsa). Il secondo aoristo (e\dòdaxa) si relaziona al seguente presente suneércontai: entrambi i verbi infatti si riferiscono alle stesse persone, i giudei, che si riuniscono (suneércontai) dove (o$pou) Gesù ha sempre insegnato (e\dòdaxa), cioè in sinagoga (e\n sunagwg+%) e nel tempio (kaì e\n t§% i|er§%,); il perfetto lelaélhka richiama invece, per lo stesso carattere generale e per l’antitesi, l’ultimo aoristo (e\laélhsa), dallo stesso verbo laleéw. I quattro verbi permettono così di stabilire il seguente schema concentrico: 1. lelaélhka 2. e\dòdaxa 3. suneércontai 4. e\laélhsa. 3.4. Le parole di Gesù rivolte al mondo Gesù dichiara anzitutto di avere parlato apertamente al mondo: e\gwè parrhsòç lelaélhka t§% koésm§. Questa espressione richiama l’ultima delle
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parole di Gesù rivolte al sacerdote: kaì e\n krupt§% e\laélhsa ou\deén (e nel nascondimento dissi nulla). Il “mondo”, in questo contesto, in quanto cioè destinatario di una parola di Gesù, non sembra avere quel carattere negativo che assume spesso nel vangelo di Giovanni. In questo senso si esprimono anche diversi interpreti, tra i quali Bruce115, De La Potterie116, Hendriksen117, Marsh118. Secondo Becker119 invece l’evangelista, con il termine o| koésmov, si riferirebbe ai giudei che rappresentano quel mondo ostile di fronte alla rivelazione. Loisy120 poi ritiene che l’evangelista si riferisca all’umanità rappresentata da giudei121. Prescindendo, per il momento, dal fatto che, nella prima espressione, il verbo laleéw è usato al perfetto (lelaélhka) e nell’ultima all’aoristo (elaélhsa)122, le due espressioni si presentano parallele e complementari123. Nella prima Gesù afferma di avere parlato apertamente (parrhsòç) e in maniera universale (t§% koésm§), nella seconda Egli esclude di avere detto qualcosa (ou\deén) nel nascondimento (e\n krupt§%). 115 116 117
Cfr. F.F. Bruce, The Gospel of John, cit., 346: “mondo” qui si intende “in ogni luogo”.
Cfr. I. De La Potterie, La passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, cit., 59. Cfr. W. Hendriksen, The Gospel of St. John, cit., 397.
Cfr. J. Marsh, The Gospel of St. John, cit., 592: Giovanni concepisce la storia come legata al mondo intero. 118
Cfr. J.Becker, Das Evangelium nach Johannes, II, cit., 554: Becker nota che la passione di Gesù è un giudizio cosmico. 119
120 121
Cfr. A. Loisy, Le quatrième évangile, cit., 461.
Cfr. anche C.K. Barrett, The Gospel According to St. John, cit., 528.
Osserva De La Potterie che il verbo è uno dei termini tecnici che indicano la rivelazione divina, cfr. De La Potterie, La passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, trad. it., Cinisello Balsamo 1988, 55. 122
123
Possiamo notare il seguente parallelismo:
e\gwè parrhsòç kaì e\n krupt§% lelaélhka e\laélhsa t§% koésm§ ou\deén
Nel terzo elemento il parallelismo non è preciso. Forse nella prima frase l’espressione t§% koésm§ vuol sottolineare la totale ampiezza dell’affermazione, nella seconda invece l’espressione ou\deén vuol sottolineare la totale esclusione.
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Le due espressioni, insieme, richiamano anzitutto il testo di Is 45,1819124. Leggiamo in esso, secondo la versione greca dei LXX: «così dice il Signore che ha fatto i cieli, egli il Dio che ha plasmato le terra e l’ha fatta, egli l’ha fondata (au\toèv diwérisen au\thén); non a vuoto (ei\v kenoén) l’ha fatta, ma perché fosse abitata (katoike_sqai). Io sono (}Egwé ei\mi) e non è altri. Non in nascondimento (e\n kruf+%) ho parlato (lelaélhka), né in un luogo della terra oscuro (e\n toép§ gh%v skotein§%); non dissi alla discendenza di Giacobbe: invano (maétaion) cercatemi […]. (v. 19b): Io sono (e\gwé ei\mi), io sono Signore (e\gwé ei\mi kuériov) che parla (lalw%n) giustizia ed annunzia (a\naggeéllwn) verità […]; (v. 21b) Io Dio (}Egwè o| qeoév) e non è altro oltre che me (plhèn e\mou%): giusto e salvatore (swthér) non è fuori di me (paérex e\mou%)». Il TM, almeno nelle espressioni che ci interessano, sostanzialmente corrisponde a quello dei LXX: (v. 19a): |e$ox jere) {owq:miB yiT:raBiD ret"Sab )ol (non in maniera occulta ho parlato, in un luogo della terra di oscurità) (v. 19b): yinU$:Qab UhoT boqA(ay (arer:l yiT:ramf) )ol (non dissi alla discendenza di Giacobbe: invano cercatemi). Un testo analogo è Is 48,16 dove Dio ancora insiste: «accostatevi a me ed udite queste cose: non dall’inizio (a\p’a\rch%v) in nascondimento (e\n kruf+%) ho parlato (e\laélhsa), né in un luogo della terra oscuro (e\n toép§ gh%v skotein§%)». Il TM differisce, nella seconda parte, dal testo dei LXX, che riprende alla lettera Is 45,18. Leggiamo infatti in esso yinf) {f$ HftowyEh t"("m iT:raBiD ret"SaB $)or"m )ol (Non dall’inizio in maniera occulta ho parlato, dal tempo che ciò era, là io). In ogni caso, in entrambi i testi, Dio praticamente afferma di avere sempre parlato in maniera chiara e non oscura. 124 I testi del libro di Isaia sono richiamati anche da Bernard, cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, cit., 601. Is 48,16 è richiamato anche da altri, cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 528; R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, cit., 450, nota 6; e anche J. Marsh, The Gospel of St. John, cit., 592.
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Il testo di Is 45,18 apre un lungo monologo di Dio, in cui egli ripetutamente afferma la sua divinità. Leggiamo infatti, nel contesto, secondo la versione greca dei LXX, le seguenti espressioni: e\gwé ei\mi kaì ou\k e"stin e"ti (v. 18b) (TM: dow( }y"):w hfwh:y yinA)) e\gwé ei\mi, e\gwé ei\mi kuériov (v. 19b) (TM: hfwh:y yinA)) e\gwè o| qeoév kaì ou\k e"stin a"llov plhèn e\mou% (v. 21b) TM: ({yiholE) dow(-}y"):w hfwh:y yinA) )owlAh) e\gwé ei\mi o| qeoév kaì ou\k e"stin a"llov (v. 22) (TM: dow( }y"):w l")-yinA)). Nel v. 21 emerge qualche differenza tra il testo dei LXX e il TM. Nei LXX leggiamo: «se annunzieranno (ei\ a\naggelou%sin) si avvicinino (e\ggisaétwsan), affinché conoscano insieme chi (tòv) ha fatto udibili (a\koustaè e\poòhsen) queste cose fin da principio (a\p’a\rch%v). Allora sarà annunziato (a\naggeélh) a voi: io Dio e non è altro oltre che me». Queste parole, nei LXX, probabilmente si riferiscono a quelli che portano un legno scolpito e pregano divinità che non possono salvare. Nel TM leggiamo: «annunziate ed avvicinatevi, pure consigliatevi insieme: chi ha fatto udire (a(yim:$ih yim) ciò (t)oz) da principio ({edeQim)? Non forse io (sono) il Signore (hfwh:y yinA) )owlAh) e non (c’) è altro Dio ({yiholE) dow(-}y"):w) fuori di me» (yadf(:laBim). Queste parole, probabilmente nel TM, si riferiscono al popolo. In tutto il brano dei vv. 18-22 il tema centrale non è il fatto che Dio ha parlato non nell’oscurità, ma che Egli è Dio e che gli idoli non sono nulla. Avere parlato non nell’oscurità e avere annunziato ciò che doveva accadere è una prova della sua divinità. In Is 48,16 la prospettiva è analoga: Dio afferma la sua esclusiva divinità. Nei precedenti vv. 12-15, dopo avere dichiarato che Lui è il primo (prw%tov) e lui in eterno (ei\v toèn ai\wn% a) Dio evoca due sue opere: il fatto di avere posto le fondamenta della terra ed avere con la sua destra disteso i cieli, e il fatto di avere chiamato Lui colui (Ciro) che compirà il suo volere. Tre elementi inducono a stabilire una relazione di dipendenza del nostro testo di Giovanni dai due testi di Isaia sopra citati, soprattutto dal testo di Is 45,18: il pronome e\gwé, introdotto in entrambi i testi con molta enfasi, il verbo laleéw al perfetto (lelaélhka [yiT:raBiD]), l’esclusione dell’oscurità (e\n kruf+% [ret"Sab]) come luogo in cui Dio ha parlato.
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Non mancano però delle differenze, e anche molto importanti, che, pur senza escludere la dipendenza dai testi di Isaia e dalla loro prospettiva, mostrano anche l’originalità e la peculiarità del testo giovanneo. Ci riferiamo specificamente al termine parrhsòç e al destinatario t§% koésm§, che non compaiono nei testi di Isaia, ma che assumono, nel testo giovanneo, particolare enfasi. Il primo elemento che, nel testo di Gv 18.19-24, attira l’attenzione è il pronome e\gwé che, come abbiamo notato, è ripetuto anche nella frase seguente, relazionando. ma anche separando così la prima frase, e poi inserito alla fine, costituendo così una inclusione letteraria. In questo modo, il pronome e\gwé assume, nel testo giovanneo, come abbiamo detto, una particolare forza enfatica. Tale enfasi, come abbiamo sopra indicato, è presente anche nel testo di Isaia. Con questo pronome Dio afferma energicamente, contro gli idoli, la sua identità divina; questa stessa identità divina è così suggerita dallo stesso pronome e\gwé nel nostro testo giovanneo125. Il pronome e\gwé, nel nostro testo, richiama anche altri usi enfatici, sempre riferiti a Gesù, nel vangelo di Giovanni. Così possiamo citare 4,26: alla donna samaritana Gesù si rivela come Messia con le parole: e\gwé ei\mi, o| lalw%n soi (io sono, colui che parla a te). Pure in altri testi, soprattutto del cap. 8, Gesù, con questo pronome, sembra richiamare la sua identità divina: così in 8,24: «se non credete che “io sono (e\gwé ei\mi)”, morirete nei vostri peccati»; 8,28: «quando innalzerete il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che “io sono (e\gwé ei\mi)”»; 8,58: «prima che Abramo fosse “io sono (e\gwé ei\mi)”». Tale enfasi si può riscontrare anche nel cap. 18, nella risposta che Gesù dà a quelli che erano venuti ad arrestarlo: alla risposta di questi che cercavano “Gesù nazareno”, Gesù replica: «io sono (e\gwé ei\mi)»: alla semplice
125 I testi dove il pronome e\gwé (yinA)) è riferito all’identità divina, nell’AT, sono numerosissimi, cfr. per es. Es 12,12; 14,4.18; 15,26; 16,12; 20,2.5; 29,46; 31,13; 34,14; Lev 19,2.3.4.10.12.14.16.18; 20,7.8.24.26; 21,12.15; 22.3.8.9); inoltre l’espressione e\gwè kuériov lelaélhka torna diverse volte nel libro di Ezechiele (5,13;.15.17; 6,10; 12,25; 17,21.24; 21,22.37; 23,34; 26,5.14; 30,12; 34,24; 35,36).
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dimensione umana con cui lo cercano, Gesù contrappone la sua identità divina126. Sorprende poi il perfetto lelaélhka, il primo di una serie di verbi tutti, nel contesto, all’aoristo. Esso, per la sua forma verbale, richiama il participio perfetto touèv a\khkooétav e il verbo oi"dasin, entrambi nel seguente v. 21. Il perfetto lelaélhka si legge anche in Is 45,18 (LXX) (lelaélhka); il suo uso però nel nostro testo non dipende dai LXX, rispetto ai quali l’evangelista mostra anche una notevole liberta. Su questo aspetto torneremo ancora più avanti; notiamo adesso che il perfetto indica una azione iniziata nel passato che, in se stessa o nei suoi effetti, dura ancora al presente. Fin da ora però possiamo dire che, secondo il nostro evangelista, la parola rivolta al mondo dura ancora ed è tuttora presente; è stata pronunziata nel passato, ma non è un fatto passato. La peculiarità di questa forma al perfetto emergerà ancora dal confronto con gli aoristi seguenti. Il termine dativo parrhsòa, che, nel nostro testo, è usato in forma avverbiale (parrhsòç), etimologicamente, indica la libertà di ciascuno, sia esterna che interiore, di dire qualsiasi cosa (pa%n r|hsòa)127. Nel NT il termine non è né raro né frequente: complessivamente si legge 31 volte. Nei vangeli sinottici si legge soltanto in Mc 8,32; negli Atti degli Apostoli si legge cinque volte128; nell’epistolario paolino, inclusa la lettera agli Ebrei, si legge 12 volte129; nel resto del NT si legge soltanto quattro volte, nella prima lettera di Giovanni130. Nei vari contesti il termine può avere diverse sfumature. Può indicare libertà (Ef 3,12; Eb 10,19; 10,35), costanza (At 4,13), fiducia (2Cor
Tale enfasi può essere riscontrabile anche nel discorso della montagna, in Mt 5,22.28.32.34. 39.44; inoltre anche in Mt 14,27; Mc 6,50; Lc 16,9; 21,15. 126
Spiega Maggioni che la parresia è la libertà di chi si rapporta agli altri con sincerità e senza maschera: Gesù ha manifestato pubblicamente la sua identità, cfr. B. Maggioni, Amatevi come io vi ho amato, in Parole, Spirito e vita , 11 (1985) 158-167: 158. 127
128
Cfr. At 2,29; 4,13.29.31; 28,31.
Cfr. 2Cor 3,12; 7,4; Ef 3,12; 6,19; Fil 1,20; Col 2,15; 1Tim 3,13; Fm 8; Eb 3,6; 4,16; 10,19.35. 129
130
Cfr. 1Gv 2,28; 3,21; 4,17; 5,14.
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3,12; Fil 1,20; 1Gv 2,28), sicurezza (1Gv 3,21; 4,17; 5,14). Negli stessi contesti poi può essere suscettibile di diverse sfumature131. Fermando la nostra attenzione soltanto sul vangelo di Giovanni, il termine parrhsòa si legge in esso nove volte e quasi sempre in forma avverbiale o nel senso di complemento di modo al dativo semplice (parrhsòç)132; in Gv 7,4 e 16,29 il termine è formulato con la particella e\n e il dativo (e\n parrhsòç). Anche all’interno del vangelo di Giovanni, il termine può avere diverse sfumature: apertamente, (7,4.13.26; 16,25), con chiarezza e senza reticenze (10,24; 11,14; 16,29), pubblicamente (11,54). Al verbo laleéw il termine dativo parrhsòç è legato altre tre volte133: 7,13 (ou\deìv meéntoi parrhsòç e\laélei perì au\tou%). 26 (i"de parrhsòç lale_); 16,29 (i"de nu%n parrhsòç lale_v). Prescindendo per il momento dal testo di 7,4, in 7,13 l’evangelista nota che nessuno parlava (e\laélei) di lui (perì au\tou%) apertamente (parrhsòç) per paura dei giudei. In 7,26 il termine si riferisce a Gesù: «ecco apertamente (parrhsòç) parla (lale_) e nessuno gli dice niente». In 10,24 i Giudei chiedono a Gesù di dir (ei\peè h|m_n) loro apertamente (parrhsòç) se egli è il Cristo: Gesù risponde di averlo fatto (eùpon u|m_n), ma essi non credono (kaì ou\ pisteuéete): lo ha fatto mediante le opere (v. 25b). In 11,14 Gesù stesso dichiara apertamente (parrhsòç) che Lazzaro è morto. In 11,54 l’evangelista narra che Gesù non più apertamente (parrhsòç) camminava tra i giudei. In 16,25 Gesù promette ai discepoli di annunziare loro apertamente (parrhsòç) a riguardo del Padre. In 16,29 i discepoli dicono a Gesù che adesso apertamente (parrhsòç) parla e non usa alcuna parabola. Appare così come, nello stesso vangelo di Giovanni, il termine parrhsòa ha diverse applicazioni. Il testo più vicino al nostro però è 7,4, In forma avverbiale, al dativo (parrhsòç), il termine si legge nel vangelo di Giovanni e in Mc 8,32 (parrhsòç toèn loégon e\laélei); altre volte è formulato con la particella metaé e il genitivo (metaè parrhsòav: At 2,29; 4,29.31; 28,31; Eb 4,16), con e\n e il dativo (e\n parrhsòç: Ef 6,19; Fil 1,20; Col 2,15). Con il verbo laleéw, oltre gli usi giovannei, il termine è usato in Mc 8,32; At 4,29. 31; con il verbo eùpon in At 2,29; con il verbo didaéskw in Mt 28,31. 131
132 133
Gv 7,13.26; 10,24; 11,14.54; 16,25; 18,20.
Anche in Mc 8,32; At 4,29.31; in At 2,29 c’è l’infinito ei\pe_n.
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con il quale è anche possibile stabilire una relazione strutturale, come possiamo rilevare dal seguente schema: 7,4: ou\deìv gaér ti e\n krupt§% poie_
kaì zhte_ au\toèv e\n parrhsòç eùnai ei\ tau%ta poie_v, faneérwson seaut§% t§% koésm§ 18,20: e\gwè parrhsòç lelaélhka t§% koésm§ […] kaì e\n krupt§% elaélhka ou\deén
L’accostamento appare chiaro e si stabilisce tra i due testi anche una relazione insieme alternata e concentrica. Quelli che pronunziano le parole di 7,4, sono “i fratelli (oi| a\delfoò)”, forse i parenti: di essi infatti si dice, nel v. 5, che «nemmeno i fratelli credevano in lui». Prescindiamo dal senso del testo del cap. 7 che esigerebbe la considerazione di tutto il capitolo. Possiamo notare soltanto lo sfondo di incredulità che lo caratterizza e che rimane fino alla fine, anche dopo le parole di Gesù dei vv. 37-39. Possiamo notare in questo capitolo il seguente progresso: Gesù sale a Gerusalemme di nascosto (w|v e\n krupt§%) (v. 10), alcuni dei gerosolimitani riconoscono che Gesù è colui che vogliono uccidere ma che parla (lale_) apertamente (parrhsòç) e non gli dicono niente (v. 26), nell’ultimo giorno della festa Gesù invita a venire da lui a bere, perché fiumi di acqua viva scorreranno dal suo seno (vv. 37-39), i soldati inviati a catturarlo tornano senza condurre Gesù dichiarando che nessuno a mai parlato “come parla quest’uomo (v. 46)”. Il cap. 7 sembra presentarci un progresso di manifestazione di Gesù, fino al giorno della grande festa, ma che non è colta dai giudei perché rimangono nella loro incredulità e non riconoscono che Gesù è il Cristo (v. 26). A riguardo sono importanti le parole dei vv. 16-17 alle quali forse dovremo tornare a proposito della domanda di Anna: «se qualcuno vuol fare la sua volontà (di colui cioè che ha mandato Gesù), conoscerà sulla dottrina se è da Dio o se io (Gesù) parlo da me stesso». In questa prospettiva le parole di Gesù: «Io ho parlato apertamente al mondo», rivolte direttamente ad Anna, sembrano essere anche una risposta alle parole dei fratelli di 7,4, o forse anche Anna può essere annoverato tra “i fratelli” che non credono. Questi chiedono a Gesù di manifestare se stesso al mondo; Gesù risponde di avere parlato apertamente al mondo. Se
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la sua parola non è stata percepita, il motivo è il fatto della loro incredulità. Si pone adesso il problema: quando e come Gesù ha parlato apertamente al mondo. Gli usi del termine parrhsòç con il verbo laleéw e la relazione con l’espressione kaì e\n krupt§% e\laélhsa ou\deén suggeriscono, per il termine parrhsòç, il senso di “apertamente”, “pubblicamente”, con chiarezza e senza alcun sottinteso o reticenza: la parola detta al mondo è stata una parola pubblica, chiara, udibile da tutti. Emergono allora due caratteristiche della parola detta al mondo, una suggerita dal termine parrhsòç, l’altra dal verbo lelaélhka: essa è una parola pubblica, aperta, chiara, pronunziata davanti a tutti (parrhsòç), ma, nello stesso tempo, è una parola che rimane ed è tuttora presente (lelaélhka). Il termine parrhsòç direttamente non deriva, almeno secondo la versione dei LXX, dai testi di Isaia sopra citati; deriva invece, almeno parzialmente, l’espressione e\n krupt§%. Nei LXX però leggiamo non l’espressione e\n krupt§% bensì l’espressione e\n kruf+%. Nel NT il termine krufhé dei LXX si legge in assoluto una sola volta, in Ef 5,12 (taè gaèr kruf+% ginoémena), come anche nei LXX non è un termine frequente: si legge soltanto 14 volte134. Nel senso modale esso traduce l’espressione ret"¢SaB135. Al contrario, il termine kruptoév136 e, specificamente, l’espressione e\n t§% krupt§%, è più frequente; quest’ultima si legge otto volte, soprattutto nel vangelo di Matteo137. Nei LXX il termine parrhsòa è raro: si legge soltanto dodici volte e solo in Lev 26,13 traduce un termine ebraico tUYim:mowq (metaè parrhsòav). Nessuno degli altri usi138, esclusivi dei LXX, presenta una qualche corrispondenza o questa è tale da permettere una qualche allusione ad essa 134 Cfr. Gen 31,26 (27); Es 11,2; Dt 28,57; Gdc 4,21; 9,31; Rut 3,7, 4,1; 1Sam 19,2, Gb 13,10; Sal 138 (139),15; Sap 18,9; Is 29,15. In Is 29,15 il profeta lancia un “guai” contro coloro che nel segreto (e\n kruf+%) progettano un piano (boulhèn poiou%ntev).
Si legge pure il termine krub+% (2Sam 12,12; 3Mac 4,12), come lettura variante in Gen 31,26 (27); Rut 3,7; 1Sam 19,2. 135
136
Il termine kruptoév complessivamente si legge 18 volte.
Mt 6,4 (bis). 6 (bis); inoltre Rm 2,29; gli altri tre usi, senza articolo (e\n krupt§%), sono appunto nel vangelo di Giovanni. 137
138 Gli altri testi sono: Es 8,13; Gb 27,10; Pr 1,20; 10,10; 13,5; Sap 5,1; Sir 26,25; 1Mac 4,18; 3Mac 4,1; 7,12; 4Mac 10,5.
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da parte del nostro evangelista nei testi citati. Forse si può richiamare Pr 1,20, dove vi legge che la Sapienza «nelle piazze (e\n deè plateòaiv) grida (parrhsòan a"gei)». Rimane perciò il problema che cosa poté suggerire all’evangelista il termine parrhsòa. Forse una risposta ci viene dal seguente dativo di termine, al mondo (t§% koésm§), destinatario della parola aperta e pubblica, tuttora permanente. Quando poi Gesù, in maniera stabile, ha parlato al mondo, non possiamo con chiarezza dedurlo dai testi giovannei. Forse però possiamo citare 8,26, dove Gesù dichiara ai giudei: «molte cose ho, a vostro riguardo, da dire (lale_n) e giudicare (krònein), ma colui che mi ha mandato è veritiero ed io ciò che ho udito (h"kousa) da lui (par’au\tou%) queste cose dico (lalw%) al mondo (ei\v toèn koésmon)». Questo testo suggerisce che Gesù, in tutto il suo ministero, ha parlato al mondo: questo, almeno in questo testo, indicherebbe una realtà universale e senza confini. Analogamente, in 17,13, nella prospettiva del suo ritorno al Padre, Gesù dichiara di parlare (lalw%) al mondo (e\n t§% koésm§). Davanti a Pilato Gesù dichiarerà di essere stato generato (gegeénnhmai) e di essere venuto (e\lhéluqa) nel mondo (ei\v toèn koésmon) per rendere testimonianza alla verità. La prospettiva può essere ulteriormente allargata: Gesù non solo ha parlato, ma ha anche agito. Egli è l’Agnello che toglie il peccato del mondo (tou% koésmou) (1,29); è il dono dell’amore di Dio ad esso (3,16) ed è stato mandato non per giudicare il mondo ma per salvarlo (i$na swq+%) (3,17). Egli stesso è il salvatore del mondo (4,42) ed è il profeta che deve venire nel mondo (6,14). Inoltre Egli dà la vita al mondo (6,33.51); è la luce del mondo (8,12; 9,5; 12,46). In 14,31 Gesù comanda ai discepoli di alzarsi e andare, evidentemente a compiere una azione che permetterà al mondo di pervenire e anche permanere nella conoscenza (gn§%) che Gesù ama il Padre e fa come Egli gli ha comandato139. Una attenzione particolare merita però anche il testo di 1,10, dove l’evangelista narra: «nel mondo (e\n t§% koésm§) era (h&n) e il mondo (o| koésmov) per mezzo di lui (di’au\tou%) divenne (e\geéneto) e il mondo (o| Secondo 17,21.23 sarà l’unità dei discepoli e anche l’unità di Gesù con essi e del Padre con Gesù che dovrà indurre il mondo a pervenire e permanere nella fede (pisteué+) e nella conoscenza (ginwésk+) che il Padre ha mandato Gesù. 139
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koésmov) lui non conobbe (ou\k e"gnw)». Abbiamo tre espressioni in parallelo: la prima indica la presenza (h&n) della Parola nel mondo, la seconda indica il fatto che questa era antecedente (e\geéneto) ad esso ed intervenne
nella sua creazione, la terza infine drammaticamente indica ciò che ne seguì: il mondo non la conobbe (ou\k e"gnw). La Parola era nel mondo, sulla cui creazione aveva esercitato una diretta causalità, ma il mondo non l’ha conosciuta. Prescindendo da ulteriori riflessioni su questo testo, appare in esso l’incidenza della Parola nella creazione. Emergono così tre aspetti nella relazione di Gesù al mondo: l’incidenza della Parola nella sua creazione, la sua opera di salvezza nel mondo, il fatto di avere parlato al mondo. Né il resto del NT né l’AT offrono migliori elementi per interpretare la nostra espressione. Per il NT si può citare qualche testo analogo a quelli giovannei sopra indicati. Ci riferiamo a 1Tm 1,15140 e a 1Gv 2,2141. Per l’AT forse oltre Pr 1,20, già citato, possiamo citare anche il Sal 32 (33),6, dove si afferma a riguardo della Parola che essa ha avuto una incidenza nella creazione: «con la Parola del Signore furono distesi i cieli »142. Anche il Sal 118 (119), 89-90 accosta la Parola, che rimane nel cielo, e la terra che Dio ha fondato e che rimane. Abbiamo citato Is 45,18. Nel v. 21 (LXX) leggiamo: «se annunzieranno (ei\ a\naggelou%sin) si avvicinino (e\ggisaétwsan), affinché conoscano insieme chi (tòv) ha fatto udibili (a\koustaè e\poòhsen) queste cose fin da principio (a\p’a\rch%v)». Se Dio ha reso udibili delle cose fin dal principio, vuol dire che ha parlato fin da principio. Possiamo proporre, almeno per il momento e soltanto in maniera parziale, una prima conclusione: Gesù ha parlato apertamente al mondo in tre modi: intervenendo, come Parola di Dio, nella creazione, agendo come salvatore in esso, annunziando ad esso ciò che egli ha udito dal Padre. 140 1Tm 1,15: «Cristo Gesù venne nel mondo (ei\v toèn koésmon) a salvare (sw%sai) i peccatori (a|martwlouév)». 141 1Gv 2,2: «Egli è la vittima di espiazione per i nostri peccati, non per i nostri soltanto, ma per (quelli) del mondo intero (perì o$lou tou% koésmou)».
142 Cfr. v. 9: «egli disse (eùpen) e divennero (e\genhéqhsan), egli comandò (e\neteòlato) e furono create (e\ktòsqhsan)».
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Possiamo però stabilire ancora un altro confronto, con i testi, letti all’inverso, di 8,58.28.24 e il testo di 19,17-22. Nei testi del cap. 8 possiamo stabilire, sempre all’inverso, la seguente relazione: 1. 8,58: «Prima che Abramo fosse, io sono (e\gwè ei\mò)»; 2. 8,28: «Quando innalzerete il Figlio dell’uomo, conoscerete che io sono (e\gwè ei\mò)»; 3. 8,24: «se non credete che io sono (e\gwè ei\mò), morirete nei vostri peccati». Nell’esaltazione (8,28) Gesù si manifesterà per quello che era fin dall’eternità (8,58). L’esaltazione diventa allora una parola che Gesù rivolge e che esige una risposta di fede, altrimenti si muore nei propri peccati (8,24). In 19,17-22 abbiamo l’episodio del titolo della croce. Questo titolo ha tre caratteristiche: anzitutto è pubblico, molti giudei infatti lo lessero perché era vicino alla città; è universale e infatti è scritto in ebraico, latino e greco; è definitivo, e infatti Pilato dichiara: «ciò che ho scritto (geégrafa) ho scritto (geégrafa)». Possiamo stabilire con il nostro testo il seguente confronto: 18,19: e\g\ wè lelaélhka parrhsòç t§% koésm§
19,17-22: Dalla città molti lessero: era vicino Ebraico, latino e greco Geégrafa geégrafa La croce così è una parola pubblica e definitiva rivolta da Gesù al mondo. Possiamo allora concludere che, davanti al sacerdote Anna, non sta soltanto il concreto uomo Gesù di Nazaret, bensì l’eterna Parola di Dio, che ha parlato al mondo fin dalla sua creazione, che ancora è presente nel mondo e che dovrà pienamente manifestarsi sulla croce. Adesso questa Parola è nel cuore del giudaismo, in un clima di rifiuto e di coartazione; la domanda di Anna, come diremo più avanti, si rivela paradossale e, in certo senso, si ritorce e anche costituisce il capo di accusa contro di lui.
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3.5. Le parole di Gesù in sinagoga e nel tempio Segue subito dopo un’altra espressione, introdotta ancora dal pronome di prima persona singolare e\gwé, che stabilisce una relazione, ma che, nello stesso tempo, determina anche una separazione da ciò che precede. La seconda espressione in parte è parallela ma in parte differisce anche dalla precedente. Possiamo stabilire infatti il seguente confronto: A B e\gwè e\gwè parrhsòç paéntote lelaélhka e\dòdaxa t§% koésm§ e\n sunagwg+% kaì e\n t§% i|er§% o$pou paéntev oi| }Iouda_oi suneércontai Prescindendo dal pronome iniziale e\gwé, in entrambe le frasi segue un avverbio: nella prima troviamo un avverbio di modo, parrhsòç (apertamente), nella seconda invece un avverbio di tempo, paéntote (sempre).
Seguono poi in entrambe un complemento; nella prima segue un semplice dativo di termine (t§% koésm§), nella seconda invece un duplice complemento di luogo (e\n sunagwg+% kaì e\n t§% i|er§%), ampliato da una proposizione relativa, interrogativa indiretta, che caratterizza il complemento di luogo: resta il problema se si riferisce ad entrambi i luoghi o soltanto all’ultimo menzionato (e\n t§% i|er§%). In ogni caso, sinagoghe e tempio non sono i destinatari dell’insegnamento, bensì i luoghi; i destinatari dovrebbero essere i giudei che, in esso, si radunano; essi però sono relazionati al luogo, ma l’evangelista non presenta nemmeno essi come i diretti interlocutori ai quali questo insegnamento è rivolto. Tutta la seconda espressione suscita delle perplessità e pone delle domande. La prima perplessità riguarda i due complementi di luogo, e\n sunagwg+% kaì e\n t§% i|er§%, entrambi al singolare, il primo però è senza articolo e il secondo, invece, con l’articolo. Il parallelismo avrebbe esigito che anche il primo elemento, e\n sunagwg+%, avesse l’articolo; la storia poi avrebbe esigito che esso fosse al plurale. In altri termini, ci saremmo aspettati l’espressione e\n ta_v sunagwga_v kaì e\n t§% i|er§% (nelle sinagoghe
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e nel tempio), come in At 14,12 a riguardo di Paolo: Gesù infatti, nella sua attività parlò ed insegnò in diverse sinagoghe e nell’unico tempio143. Le domande poi che l’espressione suscita sono diverse e riguardano, anzitutto, il passaggio dal verbo laleéw al verbo didaéskw, inoltre dalla forma al perfetto (lelaélhka) a quella all’aoristo (e\dòdaxa), ancora l’assenza, nella seconda espressione, di un preciso, diretto ed esplicito destinatario, inoltre ancora la relazione con l’espressione precedente, la relazione infine tra l’aoristo e\dòdaxa e il presente suneércontai. A queste domande, per quanto sarà possibile, tenteremo di dare una risposta. Il termine sunagwghé, anzitutto, nel NT, si legge complessivamente 56 volte, di cui nove in Matteo144, otto in Marco145, 15 in Luca146, 19 negli Atti degli Apostoli147, una in Giacomo148 e due in Apocalisse149. Sorprendentemente, oltre il nostro testo, il termine sunagwghé, in Giovanni, si legge soltanto un’altra volta, in 6,59, riferito alla sinagoga di Cafarnao150. Prescindendo da quello dei Samaritani, il tempio in Israele poi era uno solo, quello di Gerusalemme, le sinagoghe invece, anche nelle stesse città, 143 Ne conosciamo esplicitamente almeno due: Nazaret (Mt 13,54; Mc 6,2; Lc 4,16.20.28); e Cafarnao (Mc 1,21.23.29; 3,1; Lc 4,33.38; 7,5; Gv 16,59 forse anche Mt 12,9): Cfr. in genere, al plurale, Mt 4,23; 9,35; Lc 4,15; Lc 3,44; 13,10. 144 145 146
Mt 4,23; 6,2.5; 9,35; 10,17; 12,9; 13,54; 23,6.34. Mc 1,21.23.29.30; 3,1; 6,2; 12,39; 13,9.
Lc 4,15.16.20.28.33.38.44; 6,6; 7,5; 8,41; 11,43; 12,11; 13,10; 20,46; 21,12.
Cfr. At 6,9; 9,2.20; 13,5.14.43; 14,1; 15,21; 17,1.10.17; 18,4.7.19.26; 19,8; 22,19; 24,12; 26,11. 147
148 149
Cfr. Gc 2,2.
Cfr. Ap 2,9; 3,9.
All’insegnamento nella sinagoga di Cafarnao rimandano Barrett (Cfr. C..K. BarThe Gospel According to St. John, cit., 528) e Lindars (Cfr. B.Lindars, The Gospel of John, cit., 550). Morris (Cfr. L. Morris, The Gospel according to John, cit., 756, nota 43.) pensa alla sinagoga in genere. Secondo Bernard (Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, cit., 600; cfr. anche P. Schanz, Kommentar über das Evangelium des heiligen Johannes, Tübingen 1885, 538) Gesù si riferisce anche all’insegnamento sinagogale in Galilea. Schnackenburg (Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni, III, cit., 374) rimanda, per il parlare in sinagoga, a Gv 6,59, mentre rimanda, per il parlare nel tempio, a Gv 7,14.28; 8,20 (Cfr. anche R.E. Brown, Giovanni, cit., 1014; J.Mateos – J.Barreto, Il vangelo di Giovanni, trad.it., Assisi 1982, 713). 150
rett,
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potevano essere molteplici. Ciò spiega perché tante volte, sia nei vangeli che negli Atti, il termine è usato al plurale151. Negli Atti degli Apostoli le sinagoghe sono talora luogo dell’attività apostolica; nei vangeli sinottici sono menzionate, anche in maniera generale, come luogo dell’attività e dell’insegnamento di Gesù. Leggiamo in Mt 4,23 che Gesù insegnava (didaéskwn) nelle loro sinagoghe (e\n ta_v sunagwga_v au\tw%n), così anche in Mt 9,35152. In Mt 12,9 si legge che Gesù entrò “nella loro sinagoga”, ma non si precisa di quale luogo si tratta153; in Mt 13,54 invece si tratta della sinagoga di Nazaret, dove Gesù insegnava (e\dòdasken)154. In Mc 1,21 si legge che Gesù entrò di sabato nella sinagoga di Cafarnao e lì insegnava e operava guarigioni155. In Giovanni, come abbiamo già osservato, il termine sunagwghé si legge soltanto in 6,59 in una sorprendente formulazione: «queste cose disse in sinagoga (e\n sunagwg+%) insegnando (didaéskwn) in Cafarnao (e\n Kafarnaouém)». Sorprende infatti, nell’espressione e\n sunagwg+%, l’assenza dell’articolo e sorprende anche il fatto che, come diretto luogo dell’insegnamento, l’evangelista menzioni Cafarnao. Avrebbe potuto più semplicemente dire: didaéskwn e\n t+% sunagwg+% tou% Kafarnaouém. Dal punto di vista storico, è facile dedurre che Gesù abbia tenuto il suo discorso sul Pane nella sinagoga di Cafarnao; la formulazione letteraria dell’espressione, soprattutto l’assenza dell’articolo, suggerisce però un’altra prospettiva che cercheremo di evidenziare. Il termine i|eroén invece è menzionato più volte sia nel NT che nel vangelo di Giovanni. Complessivamente è usato 70 volte ed, eccetto in 1Cor 9,13, si legge solo nei quattro vangeli e nel libro degli Atti degli Apostoli: 11 volte in Matteo, otto in Marco, 14 in Luca, 11 in Giovanni, 25 negli Atti. Che Gesù avesse insegnato nel tempio è ricordato, nei vangeli sinottici, da lui stesso al momento della cattura al Getsemani. In Mt 26,55 dichiara 151 Cfr. Mt 4,23; 6,2.5; 9,35; 10,17; 23,6.34; Mc 1,39; 12,39; 13,9; Lc 4,15.44; 11,43; 12,11; 13,10, 20,46; 21,12; At 9,2.20; 13,5; 15,21; 22,19; 24,12; 26,11.
152 Per la generica menzione delle sinagoghe, al plurale, dove Gesù insegnava, cfr. anche Mc 1,39; Lc 4,15.44; 13,10 (e\n mòa tw%n sunagwgw%n). 153 154 155
Così anche in Mc 3,1 e Lc 6,6, dove si legge il verbo didaéskein. Così anche in Mc 6,2; soprattutto Lc 4,16.20.28. Cfr. anche vv. 23.29; Lc 4,33.
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che ogni giorno (kaq}h|meéran) sedeva insegnando (didaéskwn) nel tempio (e\n t§% i|er§%) e non lo avevano catturato, così anche in Mc 14,49. L’insegnamento di Gesù nel tempio poi è ricordato dagli stessi evangelisti; in Mc 12,35 leggiamo: «diceva insegnando (didaéskwn) nel tempio (e\n t§% i|er§%)», così anche Lc 19,47; 20,1; 21,37-38. In Giovanni l’insegnamento di Gesù nel tempio è ricordato tre volte. In 7,14 leggiamo: «Già a metà della festa Gesù salì al tempio (ei\v toè i|eroén) e insegnava (e\dòdasken)»; nel seguente v. 28 poi leggiamo: «gridò nel tempio (e\n t§% i|er§%) insegnando (didaéskwn) Gesù». Alla fine poi delle parole di 8,12-20, appunto nel v. 20, l’evangelista conclude. «queste parole disse Gesù […] insegnando (didaéskwn) nel tempio (e\n t§% i|er§%)». Più facile allora, concludendo, è l’espressione e\n t§% i|er§, più difficile invece è l’espressione e\n sunagwg+%. Per comprendere il senso dell’espressione e\n sunagwg+%, senza articolo e al singolare, forse può aiutarci l’uso del termine nei LXX. Nella versione greca, seguendo le concordanze curate da Hatch.- Redpath156, il termine sunagwghé si legge 225 ed è, traducendo, soprattutto, il termine hfd¢( e anche lfhfq, attestato in quasi tutti i libri, benché in maniera non proporzionata. Esso è attestato cinque volte nel libro della Genesi, 20 volte nel libro dell’Esodo, 20 volte nel Levitico, 90 nel libro dei Numeri, due volte nel Deuteronomio, 14 volte in Giosué, cinque volte nel libro dei giudici, tre volte nel primo libro dei Re, una volta nel secondo libro delle Cronache, una volta nel secondo libro di Esdra, una volta nel libro di Ester, 12 volte nei Salmi, due volte nei Proverbi, 10 volte nel libro del Siracide, una volta rispettivamente nei profeti Obdia, Sofonia e Zaccaria, cinque volte in Isaia, sei volte in Geremia, 10 volte nel libro di Ezechiele, nove volte in Daniele (LXX), due in Susanna (Th), quattro volte nel primo libro dei Maccabei. Appare così che oltre metà degli usi (circa 130) sono concentrati nei libri dell’Esodo, del Levitico e dei Numeri. Includendo anche il Deuteronomio e il libro di Giosuè, ed escludendo qualche uso con altri riferimenti, ben 141 usi riguardano la vita del popolo nel deserto. Degli altri 80 usi, attestati in tutti gli altri libri, solo 22, a nostro parere, possono essere riferiti al po156 Cfr. E Hatch.- H.A. Redpath, A Concordance to the Septuagint and the other Greek Versions of the Old Testament, II, Graz 1975, sub sunagwghé.
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polo157. Viene spontanea allora la conclusione che l’evangelista, scrivendo e\n sunagwg+%, al singolare e senza articolo, non pensi ad un luogo materiale concreto, ma ad una situazione, precisamente quella del popolo nel deserto che si costituiva in assemblea, l’assemblea dei figli di Israele, l’assemblea del Signore, radunata per ascoltare la parola del Signore. Se questa lettura è valida, nelle due espressioni e\n sunagwg+% kaì e\n t§% i|er§% avremmo indicate due epoche della storia di Israele, quella e\n sunagwg+% e quella e\n t§% i|er§%, l’epoca cioè del deserto (e\n sunagwg+%), quando Israele si radunava in assemblea, e l’epoca sedentaria (e\n t§% i|er§%), caratterizzata dalla presenza del tempio. Una conferma di questa prospettiva potremmo averla dai testi dove le due espressioni, nel contesto del vangelo, si leggono riferite a Gesù. L’espressione e\n sunagwg+%, in assoluto, si legge soltanto in 6,59; l’espressione e\n t§% i|er§%, riferita a Gesù, si legge invece diverse volte: nel tempio Gesù trova i venditori e caccia tutti (2,14-15), nel tempio Gesù insegnava (7,14.28; 8,20) e da lì esce (8,59), nel tempio Gesù è raggiunto ed è interrogato se è il Cristo; soprattutto sono importanti i tre testi legati al verbo didaéskw. Il testo di 6,59, di cui abbiamo già indicato il carattere sorprendente, segna il culmine dei discorso sul Pane di vita. In esso si stabilisce una relazione con la manna del deserto (vv. 31.48). Gesù, presentandosi come il Pane della vita, in certo modo si identifica con quella manna, ma la supera, presentandosi come il Pane, quello vero (v. 32: toèn a\lhqinoén), che non lascia nella morte, ma dà la vita. L’espressione conclusiva di 6,59: tau%ta eùpen e\n sunagwg+% didaéskwn e\n Kafarnaouém (queste cose disse Gesù in sinagoga insegnando in Cafarnao) sembra richiamare ed applicare al momento presente la situazione dell’antico popolo radunato (e\n sunagwg+%) nel deserto: adesso Gesù promette il pane vero, in analoga situazione di raduno (e\n sunagwg+%), ma in Cafarnao. La proposta di Gesù però, per essere accolta, esigeva la fede (vv. 29.35.40.47), che però non è seguita: i giudei mormoravano (v. 41), altri altercavano (v. 52), molti discepoli se ne andarono (v. 66). Rimane Cfr. Gdc 20,1; 21,10.13; 1Re 8,5; 12,20.21; 2Cr 5,6; Sal 39 (40),10; 61 (62),8; 73 (74),2; 105 (106),17; 110 (111),1; Pr 5,14; Sir 4,7; 24,23; 43,20; 45,18; Ger 33 (26),17; Sus 28.41.59.60. 157
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soltanto, e ciò è importante, Pietro con la sua professione di fede (v. 69); ma anche tra i dodici c’è una defezione: uno è diavolo, Giuda di Simone Iskariota (v. 71). In 7,14.28 l’evangelista presenta Gesù che insegna nel tempio e il suo insegnamento culmina nell’invito all’assetato a venire a Lui e bere, perché dal suo seno158 escono fiumi di acqua viva. L’allusione è alla visione del tempio di Ezechiele, dal cui lato destro scorre come un fiume. In 8,20 è menzionato ancora l’insegnamento di Gesù nel tempio, relazionato alla Luce; ma l’epilogo è assai drammatico e di rifiuto; esso è descritto in 8,59: presero pietre per scagliarle contro Gesù, ma lui uscì (e\xh%lqen) dal tempio (e\k tou% i|erou%). Gesù perciò ha insegnato “in situazione di sinagoga (e\n sunagwg+%) (6,59) e nel tempio (e\n t§% i|er§%) (7,14.28; 8,20)”. L’insegnamento “in sinagoga”, evocato a Cafarnao, ha relazione con l’epoca del deserto; quello “nel tempio” appunto con la presenza del tempio. I giudei hanno rifiutato entrambi gli insegnamenti. L’insegnamento “in sinagoga” è legato al Pane, quello “nel tempio” all’acqua e alla Luce. Essi, in altri termini, hanno rifiutato sia il Pane che l’acqua di Gesù e la sua Luce; in una parola, hanno rifiutato la vita eterna. Si capisce allora l’aoristo e\dòdaxa e, più avanti, nello stesso verso, l’aoristo e\laélhsa. Entrambi, alla luce anche del precedente perfetto lelaélhka, non possono avere altro valore se non quello di un aoristo completivo. Gesù ha insegnato ed ha parlato in sinagoga e nel tempio; davanti ad Anna, Gesù dichiara che quell’insegnamento, non essendo stato accolto, è ormai un fatto passato. Ciò è confermato da 7,30, dove la risposta dei giudei si concretizza nel tentativo di catturare (piaésai) Gesù, e così anche in 8,20, benché l’evangelista noti che nessuno poté catturarlo (e\pòasen), perché non era ancora giunta la sua ora. In 8,59 però l’evangelista conclude che presero pietre per scagliarle contro di lui. Drammaticamente egli nota che «Gesù si nascose (e\kruébh) ed uscì (e\xh%lqen) dal tempio (e\k tou% i|erou%)». Gesù dal tempio se n’è andato e lì non c’è più. 158 Dal seno di Gesù, non da quello del credente, cfr. A. Gangemi, L’utilizzazione di Is 55 nel vangelo di Giovanni, in Synaxis 7 (1989) 7-90: 36-40.
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3.6. Il raduno dei giudei Segue l’ultima espressione o$pou paéntev oi| }Iouda_oi suneércontai (dove tutti i giudei convengono). L’avverbio o$pou è un avverbio di luogo, ma pone la domanda a che cosa esso si riferisce, se all’espressione e\n sunagwg+% o all’altra e\n t§% i|er§% o ed entrambe. Due elementi suggeriscono che esso debba riferirsi ad entrambe. Anzitutto come ad entrambe si riferisce il verbo e\dòdaxa, così ad entrambe deve riferirsi il secondo verbo suneércontai; inoltre, una particolare relazione strutturale suggerisce che il pronome o$pou, debba riferirsi ad entrambe159. Tuttavia la relazione più diretta è al tempio, sia perché è l’ultimo elemento menzionato, sia anche perché nel presente momento storico è il tempio il luogo dove i Giudei abitualmente si radunano. Emerge però la domanda: perché, come indica la forma presente del verbo suneércontai, i giudei continuano ancora adesso a radunarsi nel tempio? qual è lo scopo del loro convenire in esso? Gli usi del verbo suneércomai, nel vangelo di Giovanni non offrono alcuna risposta: essi sono infatti soltanto due e l’altro, oltre il nostro, è in 11,33, dove sono menzionati i giudei che si erano radunati presso Maria sorella di Lazzaro. Non resta allora se non sfruttare lo stesso verbo suneércontai. Esso, secondo le parole di Gesù, descrive una azione fine a se stessa, senza alcuna finalizzazione ad uno scopo, senza un preciso motivo; si direbbe che i giudei compiono una azione, quella di radunarsi, che però si esaurisce in se stessa. Il verbo parallelo e\dòdaxa però può illuminare il verbo suneércontai: tutti i giudei si radunano nel tempio verosimilmente per essere istruiti160, ma non raggiungono lo scopo perché né “in sinagoga” né “nel tempio” c’è più chi li istruisca. 159
Possiamo stabilire la seguente relazione strutturale alternata e concentrica insieme:
e\gwè e\dòdaxa e\n sunagwg+% kaì e\n t§% i|er§% o$pou paéntev oi| }Ioudaòoi suneércontai.
160 Si può citare anche Lc 5,15 dove si legge che molte folle si radunavano attorno (sunhérconto) a Gesù per “ascoltare (a\kouéein) ed essere guariti”.
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Gesù insegnava “in sinagoga” (6,59), ma i giudei se ne sono andati e Gesù è rimasto solo con i dodici; insegnava nel tempio (7,14), ma in esso ha trovato ostilità, lo hanno minacciato con pietre e da esso è uscito (8,59; 10,29). I giudei continuano a radunarsi in sinagoga e nel tempio, ma non c’è più la Parola che li istruisca. Possiamo anche dire che, non avendo un punto di riferimento attorno a cui radunarsi, ai giudei non resta che ripiegarsi su se stessi. Quando poi, per l’ennesima volta, rifiuteranno Gesù, a loro non resterà se non ripiegarsi prima su Barabba (18,40) e poi su Cesare (19,15). 3.7. La domanda di Anna In questa prospettiva possiamo tornare a rileggere la domanda o le domande di Anna. Egli interrogò Gesù su due aspetti fondamentali: i suoi discepoli (perì tw%n maqhtw%n) e la sua dottrina (perì th%v didach%v). Lo scopo per cui Anna interroga è chiaramente ostile: egli pretende di indagare allo scopo di giudicare e forse magari per trovare, eventualmente, dei capi di accusa contro Gesù e preparare così il processo davanti al sinedrio. Evidentemente Anna non sa nulla né dei discepoli di Gesù né della sua dottrina161. Il paradosso è altissimo: alla luce della risposta di Gesù, Anna, che interroga, si rivela altamente colpevole. Con la sua risposta Gesù mostra che egli è uno di quelli che, al presente, continuano a radunarsi (suneércontai), ma per i quali l’insegnamento di Gesù ormai è un fatto passato (e\dòdaxa). Il testo di 7,16 evidenzia tutta la gravità della colpevolezza di Anna. In questo testo, ai giudei, che chiedono come egli (Gesù) sa di lettere non avendo studiato, Gesù risponde che «la mia dottrina (h| e\mhè didaché) non è mia, ma di colui che mi ha mandato. Se qualcuno vuole la sua volontà fare (toè qeélhma au\tou% poie_n) conoscerà della dottrina (perì th%v didach%v) se è da Dio o se io da me stesso parlo». 161 Secondo Brown l’interrogatorio di Anna può essere un riflesso della vera preoccupazione dei capi religiosi circa il fatto che Gesù era un falso profeta e può avere avuto lo scopo di raccogliere notizie per la procedura della “grande giuria” davanti al sinedrio.; cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 1027.
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Chiedendo sulla dottrina di Gesù, Anna si autoaccusa: egli si presenta come uno che non ha fatto la volontà di Dio e perciò non sa nulla della dottrina che viene da lui. Quale sia poi la volontà di Dio a riguardo degli uomini, è indicato già in 6,29, dove Gesù dichiara che l’opera (toè e"rgon) di Dio è che credano (i$na pisteuéhte) in colui che Egli ha mandato. Più avanti, nel v. 40, più esplicitamente, Gesù dichiara che questa è la volontà (toè qeélhma) di Colui che lo ha mandato, che chiunque vede (o| qewrw%n) il Figlio e crede (pisteuéwn) in Lui, abbia la vita eterna. Anna perciò in Gesù non ha creduto, non ha fatto la volontà di Dio e non sa nulla della dottrina di Gesù che proviene da Dio. Qualcosa di analogo si può dire anche in relazione della prima domanda, perì tw%n maqhtw%n. Se Anna interroga a riguardo dei discepoli di Gesù, vuol dire che egli ad essi non appartiene. A riguardo, senza ulteriori approfondimenti, possiamo citare qualche altro testo illuminante. Anzitutto 15,8, dove Gesù dichiara: «In ciò è stato glorificato il Padre mio che portiate molto frutto e diveniate miei discepoli». Anna non è divenuto discepolo di Gesù e, di conseguenza, non ha nemmeno glorificato il Padre. Possiamo ancora citare 9,27, dove, alla domanda del cieco guarito se vogliono diventare anche loro discepoli di Gesù, i giudei rifiutano appellandosi a Mosè e adducendo, come motivazione, il fatto di non sapere donde Gesù è. Si può citare forse anche 6,66, dove, in seguito al discorso del Pane, l’evangelista nota che molti dei discepoli si ritirarono indietro e non più andavano con lui. Tutto ciò porta a concludere che, in quell’interrogatorio, le parti si sono capovolte. Gesù dovrebbe essere l’imputato interrogato ed Anna il vero giudice che interroga. Il vero giudice in realtà è Gesù che rivela la grave colpevolezza di Anna e di tutto il giudaismo con lui, di cui è il sacerdote. 3.8. Rilettura sintetica Possiamo adesso sinteticamente rileggere questa prima parte del dialogo tra Gesù ed Anna. Stanno di fronte due personaggi, il sacerdote, chiaramente Anna, e Gesù. Anna, in piedi o seduto, verosimilmente seduto, si mantiene in un atteggiamento di superiorità. Egli interroga Gesù sui suoi
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discepoli e sulla sua dottrina: questo interrogatorio, riferito sommariamente dall’evangelista, per l’indole stessa delle domande, deve essersi protratto più a lungo. Gesù è un prigioniero, che dava molto fastidio e sul quale si è riusciti finalmente a mettere mano. Che Gesù sia stato legato al Getsemani e che sia stato inviato legato a Caifa, è indicato dallo stesso evangelista; anzi è del tutto verosimile che sia rimasto legato per tutto il tempo intermedio, almeno per tutto il tempo dell’interrogatorio. Gesù ormai è in potere del sacerdote e questi ha tutto il diritto di rivolgergli qualsiasi domanda e di sapere tutto di lui e da lui, anche per preparare il processo formale davanti al Sinedrio presieduto da Caifa. Questo quadro storico può essere facilmente immaginabile. Mentre questo quadro è del tutto verosimile sul piano esterno, su un piano più profondo invece le parti si invertono ed emerge tra i due personaggi una enorme sproporzione: dietro Anna e Gesù si nascondono e stanno a confronto realtà più profonde. Il sacerdote, per la sua stessa realtà di sommo sacerdote (a\rciereuév), rappresenta tutto il giudaismo; Gesù invece, come appare dalla allusione a Is 45,18, è il Dio che ha parlato non nel segreto, in un angolo oscuro della terra, che esorta a ripudiare gli idoli e a guardare a Lui come unico salvatore. Gesù è l’eterna Parola di Dio, personale, preesistente ed eterna (1,1), che ha esercitato una causalità nella creazione, che il Padre ha mandato nel mondo e che è divenuta carne (1,14). Stanno perciò a confronto non Gesù ed Anna, ma tutto il giudaismo, che continua ancora a radunarsi, e l’eterna Parola di Dio. Anna pretende di giudicare Gesù, interrogando sui suoi discepoli e sulla sua dottrina; la risposta di Gesù capovolge però la situazione. Alla luce delle sue parole, le domande di Anna si rivelano una tremenda autoaccusa. Con le sue domande il sacerdote mostra sia di non sapere nulla sui discepoli di Gesù, sia di ignorare la dottrina di Gesù e ciò lo rende massimamente colpevole, perché avrebbe dovuto conoscere tutto ciò. Gesù dichiara di avere parlato apertamente al mondo e di avere insegnato in sinagoga e nel tempio. Il mondo è il destinatario di una parola e la situazione sinagogale e il tempio sono l’ambito in cui quella parola
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detta al mondo è risuonata. Questo ambito è quello dove tuttora i giudei si radunano. Sembra delinearsi una storia in quattro tappe: 1. La parola rivolta il mondo, 2. La parola insegnata in situazione sinagogale, 3. Quella insegnata nel tempio, 4. Il momento presente che vede il raduno dei giudei. Gesù, come eterna Parola di Dio, ha esercitato, come la Sapienza (Pr 8,22-23; Sir 24,1-3), una causalità nella creazione e la parola detta al mondo sembra coincidere con la stessa creazione. Questa Parola detta al mondo, specificamente, si è fatta maestra (e\dòdaxa) nella storia del popolo del Signore, sia quando era in situazione sinagogale nel tempo del deserto, sia nella storia seguente, caratterizzata dalla presenza del tempio. Nel tempo del deserto era stata data la manna: oggi quella Parola si è presentata come il vero Pane disceso dal cielo; nel tempio quella parola adesso si è presentata come luce e fonte di acqua viva. Ma notiamo le forme verbali, esse sono: 1. Un perfetto (lelaélhka), 2. Un duplice aoristo (e\dòdaxa- e\laélhsa), 3. Un presente (suneércontai), 4. Ancora un aoristo (e\laélhsa). Seguiranno poi, nella seconda parte delle parole di Gesù ad Anna, un participio perfetto (touèv a\khkooétav), un aoristo (e\laélhsa), un perfetto con valore di presente (oi"dasin), ancora un aoristo (eùpon). La parola detta al mondo è caratterizzata da un verbo al perfetto: ciò significa che quella parola, allora pronunziata, oggi ancora rimane e continua a risuonare; la parola detta in sinagoga e nel tempio invece è caratterizzata da verbi all’aoristo che, alla luce di tutte le osservazioni precedenti, non possono avere altro valore se non quello completivo; ciò significa che quella parola, allora pronunziata, oggi non c’è più; in situazione sinagogale infatti Gesù dai giudei è stato abbandonato, dal tempio egli è uscito. I giudei continuano ancora a radunarsi, ma la parola, negli ambiti del loro raduno, non c’è più. Rimane invece soltanto la parola detta apertamente al mondo. Emergono allora diverse terribili conseguenze. Anzitutto, non essendo stata accolta, la Parola di Gesù, e Gesù stesso, se ne è andata. I giudei
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continuano a radunarsi, magari alla ricerca di essa perché li istruisca, ma questa non c’è più. Le conseguenze di ciò sono gravissime, ed indicate in 7,34: «mi cercherete, ma non troverete». In 8,21 ancora Gesù aggiunge: «Io vado: mi cercherete, ma nel vostro peccato morirete»; e, infine, nel v. 24: «Se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati». Si è verificato quello che Dio aveva detto per mezzo del profeta Amos (Am 8,11-12): «Ecco io manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma di ascoltare la Parola del Signore. Allora andranno da un mare all’altro e vagheranno da settentrione ad oriente per cercare (zhtou%ntev) la Parola del Signore, ma non la troveranno (ou\ mhè eu$rwsin)». Per i giudei è risuonata, attraverso Gesù, la parola di Dio, ma essi non l’hanno accolta, hanno commesso il grave peccato di non aver creduto in lui (16,8): a loro non resta perciò se non morire nei loro peccati. Inoltre, come abbiamo già notato, le parti si sono invertite: il vero giudice nella penna dell’evangelista non è Anna bensì Gesù, come anche il vero imputato non è Gesù bensì Anna. Anna, che già a priori ha condannato Gesù, è alla ricerca di un capo di accusa contro di Lui, per questo chiede sui discepoli e sulla dottrina. Le sue stesse domande però lo accusano: egli non sa niente né dei discepoli di Gesù né della sua dottrina. In questo modo egli mostra di non avere fatto la volontà di Dio che voleva che si credesse in Gesù, e non ha glorificato il Padre facendosi discepolo di Lui. Anna risulta altamente colpevole. Alludendo poi alla storia passata, Gesù indica che il rifiuto attuale si pone sulla stessa linea ed è conforme alla storia globale dei giudei, una storia di infedeltà e di peccato. I profeti lamentavano spesso il fatto che il popolo non ha ascoltato la voce del Signore. In Is 65,12 Egli annunzia una punizione: «vi consegnerò alla spada»; la motivazione è indicata subito dopo: «poiché vi ho chiamato e non avete obbedito, vi ho parlato (e\laélhsa) e avete trasgredito e avete fatto il male davanti a me»; la stessa cosa si legge in Is 66,4: «li ho chiamati e non hanno obbedito, ho parlato (e\laélhsa) e non ascoltarono e hanno fatto il male davanti a me». In Ger 7,13 troviamo la stessa lamentela da parte di Dio: «poiché avete fatto queste opere, vi ho parlato (e\laélhsa) e non avete ascoltato, vi ho chiamato e non avete risposto»: a causa di ciò Dio annunzia, per mezzo del profeta, la distruzione del suo santuario. Ancora Ger 22,21: «ti
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ho parlato (e\laélhsa) nella tua caduta, ma hai detto: non ascolterò». Il popolo non ha ascoltato nonostante che Dio abbia inviato ripetutamente i suoi profeti (Ger 25,4-8), fin da quando il popolo uscì dall’Egitto (Ger 7,25-26). Inoltre anche Ger 6,10; 37(44),2; 42(49),19; 44(51),16; Bar 2,20.24; Ez 16 e Ez 20.23. Infine, il processo davanti ad Anna, che si concluderà per Gesù in una tacita sentenza di condanna, come indica l’invio a Caifa, da parte di lui legato (dedemeénon), in realtà, come abbiamo già notato, è un giudizio di condanna per Anna e per tutto il giudaismo con lui. Ciò si deduce chiaramente dalle parole di Gesù in 12,48-49: «chi disprezza me e non accoglie le mie parole, ha chi lo giudica: la parola che ho detto (e\laélhsa) essa lo giudicherà nell’ultimo giorno. Poiché da me stesso non ho parlato (e\laélhsa), ma il Padre che mi ha mandato Egli ha dato a me il comando cosa debbo dire (tò ei"pw) e come debbo parlare (tò lalhésw) e so che il suo comando è vita eterna. Ciò che io dico (lalw%) così come ha detto a me (ei"rhken) il Padre, così io parlo (lalw%)». 3.9. Il rimando ai testimoni Tuttavia Gesù non chiude, per così dire, definitivamente la porta. Lui se n’è andato, ma rimangono i suoi testimoni. Non ha più senso perciò interrogare lui, ma adesso bisogna interrogare quelli. Quanto all’identità dei testimoni, Hoskyns-Davey162 ritengono che l’evangelista voglia dire che l’insegnamento di Gesù può essere conosciuto attraverso l’attestazione dei discepoli che, guidati dallo Spirito Santo, preservano ed interpretano le sue parole. Secondo Kysar163 Gesù richiede i testimoni nel processo. Per Leon-Dufour164 Gesù evoca non solo i discepoli attuali ma anche i futuri credenti. Westcott165 pensa che il participio, assieme al pronome ou/toi, sembra puntare a persone presenti o vicine, che possono parlare per diretta conoscenza. 162 163 164 165
Cfr. Hoskyns E.C. - Davey F.N., The Fourth Gospel, cit., 514. Cfr. R. Kysar, John, cit., 273.
Cfr. X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, IV, cit., 64. Cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, cit., 257.
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Tutta l’espressione del v. 21a ha una struttura concentrica: tò me e\rwtç%v; e\rwéthson touèv a\khkooétav tò e\laélhsa au\to_v
Stanno a confronto, in relazione di continuità, Gesù (meé) e quelli che hanno udito (touèv a\khkooétav): questi ultimi bisogna appunto interrogare, non Gesù166. Il verbo e\rwtaéw è relativamente frequente nel vangelo di Giovanni: si legge 29 volte, riferito a diversi soggetti e a diversi oggetti: i giudei interrogano Giovanni (1,19.21.25); i giudei il paralitico sull’identità dell’uomo che lo ha guarito (5,12); i discepoli Gesù a riguardo del cieco nato (9,2); i giudei il cieco nato a riguardo di colui che lo ha guarito (9,15), o i genitori (9,19); i discepoli vorrebbero interrogare Gesù (16,19). Il verbo ha talora anche il senso di “chiedere”, “pregare”167. Anna ha interrogato (h\rwéthsen) Gesù (18,19), ma egli rimanda ai testimoni. Questi sono testimoni non oculari, ma auricolari: la forma al participio perfetto (touèv a\khkooétav) indica che si tratta di coloro che hanno materialmente udito la parola, ma, come nella parabola del seme dei vangeli sinottici, questa non è rimasta in loro a livello epidermico, sulla strada, ma è stata accolta nell’intimo e permane in loro come parola ascoltata. Il verbo a\kouéw, mentre, nella forma di aoristo (h"kousen), in 3,32, è legato alla testimonianza resa da Gesù168, nella forma al perfetto (a\khkoéamen) si legge soltanto in 4,42, in bocca ai samaritani, nella loro professione di fede. Gesù indugia a descrivere, con quattro espressioni alternate, queste persone “che hanno udito”: touèv a\khkooétav tò e\laélhsa u|m_n
166 Il duplice pronome tò ha un diverso valore: il primo ha il valore avverbiale causale, ed ha il senso di “perché”; il secondo ha piuttosto ha il valore di un pronome indefinito, ed ha il senso di “che cosa”. 167 168
Cfr. 4,31.40.47; 16,23.26.30; 17,9.15.20; 19,31.38. Cfr. 5,30; 8,26.40.47; 15,15.
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[…] ou/toi oi"dasin
a£ eùpon e\gwé.
La prima e la terza frase riguardano quelli che hanno udito; la seconda e la quarta riguardano le azioni di Gesù. Tra la prima e la terza frase troviamo un progresso: in coloro nei quali, udita, dimora stabilmente, la parola ha prodotto un effetto duraturo: essi sono pervenuti ad una conoscenza che ormai, in loro è pure stabile e duratura. Il verbo oùda è anch’esso una forma di perfetto dal verbo o|raéw (vedere), che però assume il significato, al presente, di “sapere”: chi ha visto, attualmente sa. A differenza del verbo ginwéskw, che indica una conoscenza esperienziale, il verbo oùda indica una conoscenza ben acquisita e posseduta169. In colui, nel quale ciò che ha detto Gesù rimane come una realtà ascoltata, si determina una conoscenza ben acquisita e interiormente radicata, tale che non può essere dimenticata. La seconda e la quarta frase presentano un parallelismo strutturale: tò a£ e\laélhsa eùpon u|m_n e\gwé
I primi due elementi sono perfettamente paralleli: abbiamo un duplice oggetto pronominale (tò - a£) e un duplice verbo, nella forma di aoristo, alla prima persona singolare con soggetto Gesù (e\laélhsa - eùpon). Il terzo elemento stabilisce soltanto una relazione più generale: entrambi sono un pronome personale (u|m_n - e\gwé). Questi ultimi due pronomi, specialmente il secondo che, enfaticamente, conclude tutto il discorso, sono molto importanti: ancora una volta mettono a confronto Gesù e i Giudei. Gesù ribadisce di avere, proprio lui (e\gwé), parlato ai Giudei: si tratta di un fatto che in nessun modo i giudei possono negare, o ignorare e dimenticare. Sono importanti però i due verbi e\laélhsa ed eùpon; assistiamo infatti ad un ulteriore decrescendo: dal perfetto lelaélhka si passa all’aoristo e\dòdaxa, da questo poi al meno intenso e\laélhsa e quindi ad eùpon. Se è lecito usare una immagine, si ha l’impressione di un sole che va a poco a poco a tramontare: il fatto che Gesù ha parlato e ciò che egli ha detto diventano sempre più un fatto passato, fino a scomparire. 169 Cfr. I. De La Potterie, oùda et ginwéskw. Les deux modes de la connaissance dans le quatrième évangile, in Bib 40 (1959) 709-725: 724.
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Ormai la parola detta da Gesù non c’è più; ci sono però quelli che hanno udito e sanno ciò che egli ha detto. È offerta perciò un’ultima possibilità di raggiungere la parola di Gesù, non più però ormai direttamente, ma attraverso testimoni che hanno udito. Questa seconda parte delle parole di Gesù ad Anna, mediante le quali egli rimanda a coloro che hanno udito, trova un parallelo in 4,42, in cui sono contenute le parole che i samaritani rivolgono alla donna: «non più per la tua parola (diaè thèn shèn lalòan) crediamo: noi stessi infatti abbiamo udito (a\khkoéamen) e sappiamo (oi"damen) che questi è veramente il Salvatore del mondo (o| swthèr tou% koésmou)». Prescindendo dal senso di tale parallelismo, ci limitiamo soltanto a stabilire il confronto e a notare qualche differenza. 4,42 18,21 ou\keéti e\rwéthson diaè thèn shèn lalòan pisteuéomen au\toì gaèr a\khkoéamen touèv a\khkooétav kaì oi"damen i"de ou/toi oi"dasin o$ti ou/toév e\stin a\lhqw%v a£ eùpon e\gwé o| swthèr tou% koésmou
Gesù rimanda a quelli che hanno udito e sanno ciò che egli ha detto; i samaritani dichiarano di avere udito e di sapere non ciò che Gesù ha detto, ma che Egli è veramente il Salvatore del mondo. Evidentemente i samaritani hanno udito, sono venuti a conoscenza di ciò che Gesù ha detto, hanno dedotto che Gesù è veramente il salvatore del mondo. 3.10. La reazione del servo In seguito alle parole appena considerate170, un servo interviene dando uno schiaffo a Gesù. L’evangelista descrive l’azione e riferisce le parole che la accompagnano, nel v. 22, dove possiamo distinguere quattro elementi: Possiamo notare l’espressione tau%ta de èau\tou% ei\poéntov, al genitivo assoluto, che sottolinea non tanto l’azione di avere parlato (ei\poéntov), ma ancora una volta il soggetto che ha parlato. 170
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tau%ta deè au\tou% ei\poéntov eàv paresthkwèv tw%n u|phretw%n e"dwken r|ap é isma t§% }Ihsou% ei\pwén: ou$twv a\pokròn+ t§% a\rciere_; Prescindendo dal participio ei\pwén, che serve ad accompagnare l’azione e
ad introdurre le parole del servo, le quattro espressioni si compongono ciascuna di tre elementi. Nelle prime due riceve particolare enfasi l’elemento centrale, rispettivamente il pronome au\tou% e il participio paresthkwév, posto tra il pronome eàv e il suo genitivo partitivo tw%n u|phretw%n; nelle altre due invece riceve enfasi l’elemento finale, cioè i due dativi di persone, rispettivamente t§% }Ihsou% e t§% a\rciere_. Quanto al participio paresthkwév, esso è participio perfetto attivo dal verbo paròsthmi. Nel NT questo verbo si legge 41 volte: una sola volta in Matteo171, sei in Marco172, tre in Luca173, due in Giovanni174, 13 nel libro degli Atti175, 16 nell’epistolario paolino176. Esso può essere sia transitivo177, nel senso di porre (i$sthmi) presso (paraé), offrire, presentare, sia anche intransitivo178, nel senso di stare (i$sthmi) presso (paraé), trovarsi in un luogo o in una situazione, essere presente. In senso intransitivo il verbo paròsthmi può significare talora semplicemente “essere presente”179, talora invece può anche implicare una relazione ad una persona o ad un luogo180. 171 172 173 174 175
Cfr. Mt 26,53.
Cfr. Mc 4,29; 14,47.69.70; 15,33.39. Cfr. Lc 1,19; 2,22; 19,24. Cfr. Gv 18,22; 19,26.
Cfr. At 1,3.10; 4,10.26; 9,39.41; 23,2.4.24.33; 24,13; 23,23.24.
Cfr. Rm 6,13.13.16.19 (bis); 12,1; 14,10; 16,2; 1Cor 8,8; 2Cor 4,14; 11,2; Ef 5,27; Col 1,22.28; 2Tm 2,15; 4,17. 176
177 Cfr. Mt 26,53; Lc 2,22; At 1,3; 9,41; Rm 6,13.13.16.19 (bis); 12,1; 2Cor 11,2; Ef 5,27; Col 1,22.28; 2Tm 2,15.
178 Cfr. Mc 4,29; 14,47.69.70; 15,35.39; Lc 1,19; 19,24; Gv 18,22; 19,26; At 1,10; 4,10.26; 9,39; 23,2.4.24; 24,13; 27,23.24; Rm 14,10; 16,2; 1Cor 8,8; 2Cor 4,14; 2Tm 4,17. 179
In questo senso possiamo citare Mc 4,29; 14,47.69.70; 15,35.39; Lc 19,24; At 23,4.
In questo secondo senso possiamo citare Lc 1,19, dove Gabriele si definisce come colui che sta (o| paresthkwév) davanti a Dio (e\nwépion tou% qeou%). Inoltre At 1,10 (pareisthékeisan au\to_v); 4,10.26; 9,39; 23,2; 27,23; 14,10; Col 1,22; 2Tm 4,17. 180
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Nel vangelo di Giovanni il verbo paròsthmi, come abbiamo già indicato, si legge solo due volte, nel nostro testo e, dopo, in 19,26. In quest’ultimo testo il participio perfetto parestw%ta è riferito al discepolo che Gesù amava. Non si dice dove il discepolo era “stante” e, in questo senso, il participio potrebbe avere il senso più debole di “essere presente”; alla luce della frase del precedente v. 25, ei|sthékeisan deè paraè t§% staur§% (stavano presso la croce) riferita alle donne, si può vedere però, contenuta nel participio parestw%ta, una tensione verso la croce, che il discepolo però raggiungerà passando attraverso l’affidamento alla madre. Nel nostro testo il participio paresthkwév, in forma più ampliata ed enfatica, riferito al servo, ha ancora il senso più generico di “essere presente”. Il suo uso assoluto tuttavia, come anche l’azione e le parole seguenti, suggeriscono che quel servo aderisce ed radicato nel sacerdote. Il servo è legato al sacerdote, di cui prende le difese, e dà lo schiaffo a Gesù. In questo senso lo schiaffo a Gesù non appare soltanto come una semplice reprimenda per l’insolenza, che egli ha avuto, a dire quelle parole al sacerdote, ma anche come un rifiuto di tutto quello che Gesù ha detto e anche della sua stessa persona. In questo senso stanno così in relazione di confronto antitetico il servo paresthkwév e il discepolo parestw%ta. Il secondo, presso la croce, opta per Gesù, e ne riceve in dono la madre; il primo invece opta per il sacerdote e compie un gesto di rifiuto verso Gesù Il termine r|apé isma indica un colpo inferto con il dorso della mano181. Esso è un termine molto raro nel NT. Si legge solo tre volte: oltre il nostro testo, si legge anche in Mc 14,65 e Gv 19,3. In Mc 14,65 il contesto è la conclusione del processo davanti al Sinedrio dove Gesù è stato dichiarato reo di morte. Divenuto ormai un oggetto, nell’attesa del processo davanti a Pilato, Gesù subisce ogni sorta di scherno, compreso il fatto di essere preso a schiaffi (r|apòsmasin au\toèn e"labon). In Gv 19,3 il contesto è il processo davanti a Pilato; Gesù, incoronato di spine, rivestito di un mantello di porpora e salutato come re dei giudei, riceve dai soldati degli schiaffi, In questi testi gli schiaffi hanno il senso dello scherno e del maltrattamento; Dal punto di vista materiale, lo schiaffo sarebbe un colpo con la palma della mano, cfr. P. Beeckmann, L’évangile selon Saint Jean d’après les meilleurs autheurs catholiques, cit., 366; J.E. Belser, Das Evangelium des Johannes übersetzt und erklärt, cit., 473. 181
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l’unico schiaffo del servo in Gv 18,22, invece indica punizione e anche repressione e rifiuto. Pure le parole del servo ou$twv a\pokròn+ t§% a\rciere_ (così rispondi al pontefice) sono importanti. Gesù, davanti al sacerdote, ha affermato tutta la sua superiorità e ha anche mostrato la colpevolezza di lui. Il servo segue invece movimento inverso: con lo schiaffo abbassa Gesù e con le parole innalza il sacerdote. Rimane il problema, legato piuttosto ai tre rinnegamenti di Pietro, perché, in seguito alle parole di Gesù, il servo ha agito in questo modo. Al gesto del servo gli interpreti danno diversi significati. Spiega De La Potterie182 che esso è un gesto di rifiuto. Secondo Becker183 lo schiaffo è la reazione del servo che si aspettava riverenza e obbedienza al sacerdote, oppure, come pensa Loisy184, è il gesto di chi vuole rendersi gradito al suo padrone. Secondo Lindars185 si tratta di una reprimenda che ha un parallelo nel caso di Paolo in At 23,2-5. Morris186 considera il gesto come un’ulteriore illegalità. Altri interpreti richiamano Is 50,6187. Nota ancora Leon-Dufour188 che lo schiaffo del servo sottolinea il disprezzo che circonda Gesù; Van den Busche189 osserva che la guardia rappresenta il giudaismo: essa, in nome del sacerdote, sanziona la mancanza di rispetto. Notano Hoskyns-Davey190 che Gesù, con la sua risposta, mostra al servo che la sua azione è stata del tutto ingiustificata.
182 183 184
Cfr. I. De La Potterie, La passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, cit., 63. Cfr. J. Becker, Das Evangelium nach Johannes, II, cit., 554. Cfr. A. Loisy, Le quatrième évangile, cit., 462.
Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit. 551; Cfr anche F.F. Bruce, The Gospel of John, cit., 347. 185
186
Cfr. L. Morris, The Gospel according to John, cit., 755.
Cfr. C.K. Barrett, The Gospel According to St. John, cit., 528; J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, cit., 600; C.H. Dodd, L’interpretazione del quarto Vangelo, trad. it., Brescia 1974, 246. 187
188 189 190
Cfr. X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, IV, cit., 66. Cfr. H. Van den Bussche, Giovanni, trad. it., Assisi 1974, 570. Cfr. Hoskyns E.C. - Davey F.N., The Fourth Gospel, cit., 514.
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3.11. Le parole di Gesù al servo Gesù riceve l’azione del servo, ma non la lascia senza una qualche sua osservazione: al servo rivolge una parola in risposta al suo gesto. Le parole rivolte a questi sono introdotte alla stessa maniera con cui sono introdotte le parole rivolte al sacerdote: a\pekròqh au\t\ §% o| }Ihsou%v (rispose a lui Gesù). Le parole di Gesù al servo hanno ancora due parti, esprimenti un dilemma tra bene e male. Stanno a confronto due opinioni antitetiche: quella del servo che, con lo schiaffo, ha dichiarato che Gesù ha detto male (kakw%v), e quella di Gesù che invece ha la certezza di aver detto bene (kalw%v). Le due parti stanno in parallelo: le protasi sono entrambe una condizionale, le apodosi invece sono, rispettivamente, un imperativo (martuérhson) e una interrogativa (tò me deéreiv). Otteniamo il seguente schema:
ei\ kakw%v e\laélhsa martuérhson % perì tou% kakou
ei\ deè kalw%v tò me deéreiv;.
Nella prima condizionale, Gesù lancia una sfida al servo; egli, con il suo gesto, ha dichiarato che Gesù ha parlato male: Gesù lo esorta a rendere testimonianza, cioè a mostrare dove sta il male nelle sue parole. Analoga sfida è contenuta, stavolta però sul piano dell’azione, nella domanda ripetutamente rivolta (e"legen) da Pilato ai Giudei in Mc 15,14 e ripetuta anche da Lc 23,22: tò gaèr e\poòhsen kakoén (che cosa ha fatto di male). Questa domanda di Pilato corrisponde all’affermazione dei giudei, che leggiamo in Gv 18,30: «se non fosse costui un malfattore (kakoèn poiw%n), non te lo avremmo consegnato». Analoga reprimenda, riguardante però Paolo, è descritta in At 23,1-5; nel v. 2: il sacerdote Anania comanda di colpire Paolo nella bocca, Paolo replica che invece Dio deve chiuderla a lui. Accusato dai presenti di avere maledetto il sacerdote, Paolo risponde di non sapere che quella persona fosse il sacerdote. Egli sa benissimo che non bisogna dir male del sacerdote: cita a riguardo (v. 5) la prescrizione di Es 22,27: a"rcontav tou% laou% sou ou\ kakw%v e\re_v (dei capi del popolo non dirai male)191. Si stabilisce cosi una analogia tra Gesù e Paolo: Gesù è represso da un servo presente 191
Paolo cita al singolare (a"rcontav) e inverte gli ultimi elementi (ou\k e\re_v kakw%v).
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(paresthkw%v), i presenti (parestw%tev) rimproverano a Paolo di aver detto male del sacerdote. Nella prima apodosi troviamo un imperativo: martuérhson (testimonia): il servo è comandato di provare che Gesù ha detto male. È importante il verbo martureéw: esso sembra contenere forse una allusione al processo davanti al Sinedrio che Giovanni non narra, ma che, come abbiamo mostrato nello studio precedente, in questa raccolta, da diversi indizi mostra di non ignorare. Leggiamo in Mc 14,55-59192 che cercavano una falsa testimonianza (marturòan) contro Gesù. Molti testimoniavano falsamente (e\yeudomartuéroun) contro di lui, ma le loro testimonianze (marturòai) non erano uguali (i"sai). Nemmeno era uguale (i"sh) la testimonianza (marturòa) dei due falsi testimoni (v. 59) che dichiaravano che Gesù aveva detto di volere distruggere il tempio e costruirne un altro non fatto da mano umana. Come sappiamo perciò dai sinottici, nel processo davanti al Sinedrio non si riuscì a trovare plausibile nemmeno una falsa testimonianza, tanto che Gesù finì per essere condannato per quella che fu ritenuta bestemmia, provocata dal sacerdote stesso. Nel nostro testo Gesù sfida il servo; questi non può testimoniare che Egli abbia detto male. Gesù può allora concludere di aver detto bene (ei\ deè kalw%v). Giunti allora alla conclusione che Gesù ha detto bene, l’azione del servo che ha dato lo schiaffo si rivela del tutto gratuita ed ingiustificata. Fermando l’attenzione sull’espressione ei\ deè kalw%v (se invece bene), essa è una frase alquanto comune, presente anche in altri testi evangelici. Possiamo citare Mt 15,7: «bene (kalw%v) profetò (e\profhéteusen) di voi Isaia», cfr. Mc 7,6. In Mc 12,28 poi leggiamo: «avendo visto (lo scriba) che (Gesù) bene (kalw%v) rispose (a\pekròqh) a loro», più sotto lo scriba approva Gesù: «bene (kalw%v), Maestro» (v. 32). Anche secondo Lc 20,39 alcuni degli scribi dissero a Gesù: «Maestro, bene (kalw%v) hai detto (eùpav)». Analogamente, in Giovanni, talora è Gesù che loda quelli che hanno parlato. Alla samaritana Gesù dice: «bene (kalw%v) hai detto (eùpav) che “non ho marito”»; in Gv 13,13 ai discepoli Gesù dice: «voi mi chiamate Signore e Maestro e dite bene (kalw%v leégete)». Si possono citare ancora altri testi con diverso riferimento. In Gv 8,48 a riguardo di Gesù i giudei 192
Cfr. 26,60.62; Lc 22,71.
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dicono: «non diciamo bene (kalwèv leégomen) che sei un samaritano?» In Lc 6,26 ai discepoli Gesù dice: «guai quando tutti gli uomini bene (kalw%v) diranno (ei"pwsin) di voi»; e in At 28,25 Paolo dichiara: «bene (kalwév) lo Spirito Santo disse (e\laélhsen) per mezzo di Isaia». Alla luce di tutti questi testi, potremmo concludere che le parole di Gesù al servo non avrebbero se non un senso comune: Gesù chiede di mostrare se ha parlato bene o male. Ci chiediamo però, alla luce anche di alcuni testi dello stesso vangelo di Giovanni, se quelle parole non nascondano pure un senso più profondo. Ci riferiamo specificamente all’aggettivo kaloév, che in Giovanni ha un uso particolare. Esso è usato sette volte, sempre relazionato a Gesù. In 2,10 (bis) si parla del “vino buono (kaloèn oùnon)”, che tutti danno all’inizio; quello cambiato dall’acqua da Gesù, invece, è stato riservato per la fine. In 10,32 Gesù chiede per quale delle buone opere (e"rga […] kalaé) che ha compiuto da parte dal Padre, i giudei vogliono lapidarlo; nel v. 33 questi precisano che lo lapidano non per una buona opera (perì kalou% e"rgou ou\ […]) ma per la bestemmia. Soprattutto sono importanti i tre testi che presentano Gesù come “il pastore quello buono (o| poimhèn o| kaloév)” (10,11 [bis].14). Possiamo allora pensare che, rivendicando il fatto di avere parlato bene, Gesù voglia dire di avere parlato come il pastore? Lasciamo sospesa per il momento la domanda: altri indizi forse ci permetteranno di giungere ad una conclusione più certa. Diciamo soltanto che, se ciò è vero, lo schiaffo del servo ha assunto il significato del misconoscimento, o addirittura, del rifiuto del pastore. Subito dopo, nel v. 24, si legge che Anna mandò Gesù legato al sacerdote Caifa. Spiega Lauck193 che Anna, vedendo che non riesce a far nulla con Gesù, e dal momento che, nel frattempo, si era radunato il Sinedrio, lo manda a Caifa. In questo senso si esprime, più o meno, anche Plummer194. In tutto il dialogo con Anna, come ha osservato De La Potterie195, due aspetti teologici emergono: Gesù rivelatore e il rifiuto degli uomini di accettare 193 194 195
59.62.
Cfr. Lauck W., Das Evangelium und die Briefe des heiligen Johannes, cit., 420. Cfr. Plummer A., The Gospel according to St. John, cit., 31.
Cfr. I. De La Potterie, La passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, cit.,
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questa rivelazione. Quanto al primo aspetto, tutte le domande vertono sul tema: discepoli, dottrina, insegnare e i verbi usati sono didaéskein e lale_n. Il rifiuto degli uomini è da vedere nello schiaffo che riveste un significato simbolico e tipologico: il servo del sommo sacerdote in certo senso rappresenta tutti quelli che hanno respinto la parola rivelatrice di Gesù al mondo; emerge un contrasto tra dentro e fuori: Gesù afferma dentro di essere il rivelatore, Pietro nega di avere qualcosa a che fare con questa vicenda. Pure Schnackenburg196 osserva che Gesù nella sua passione rimane, per Giovanni, il rivelatore; si capisce allora il fatto che egli risponde al servo: egli rende testimonianza di sé e, in pari tempo, mette dalla parte del torto i suoi avversari. Abbiamo già proposto la struttura letteraria di questo verso, a nostro parere, molto importante. Al centro, tra due nomi propri, troviamo il participio dedemeénon (legato), riferito a Gesù; Gesù stesso quasi scompare: menzionato, l’ultima volta con il nome proprio, nel v. 23, in quest’ultima frase, il v. 24, è indicato soltanto con il pronome au\toén. Il participio dedemeénon è inserito tra due nomi propri, o| A " nnav, che invia Gesù, e Kai=af é an al quale Gesù è inviato. Come abbiamo già notato, pur legato con corde materiali, Gesù appare piuttosto moralmente coartato, quasi prigioniero, dai due personaggi indicati. Emerge la domanda: perché Anna manda Gesù a Caifa? Abbiamo già, almeno in parte, indicato la risposta. Essa viene dai vangeli sinottici, che narrano il processo davanti al Sinedrio, presieduto dal sommo sacerdote in carica, cioè appunto Caifa: il sinedrio dovrà configurare l’accusa da presentare poi al procuratore ed ottenere da lui la sentenza di condanna. Giovanni però, come è noto, non narra né il processo davanti al Sinedrio né, almeno in questo contesto, menziona lo stesso sinedrio. Come appare dal participio dedemeénon, che conferma l’arresto di Gesù, l’invio a Caifa è ostile: Caifa orienterà il Sinedrio a riconoscere che Gesù è reo di morte a causa della bestemmia. L’invio a Caifa appare però come il culmine di un processo di ostilità contro Gesù. Anna interroga Gesù sui discepoli e sulla dottrina; davanti a lui Gesù sta come la Parola che, nelle varie situazioni è stata maestra (e\dòdaxa), ma che è stata rifiutata; il servo, con lo 196
Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 377.
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schiaffo, ha smentito Gesù, il quale replica alludendo alla sua posizione di “pastore autentico (o| kaloév)”. Anna lo invia a Caifa, implicitamente come uno che ha detto “male (kakwév)”. A Pilato Gesù sarà presentato appunto come uno che “fa il male (kakoèn poiw%n)” (v. 30). Paradossalmente Pilato restituirà Gesù ai giudei come il “loro re” (19,14).
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I TRE RINNEGAMENTI DI PIETRO NEL VANGELO DI GIOVANNI
In sintonia con tutti e tre i vangeli sinottici, anche il quarto evangelista narra i tre rinnegamenti di Pietro, sia nelle predizioni di Gesù sia soprattutto nella loro concreta attuazione. Emergono però, nella narrazione giovannea, sia delle somiglianze come anche delle differenze. 1. Confronto con i vangeli sinottici Proponiamo anzitutto qualche riflessione riguardante, in maniera più generale, i tre rinnegamenti di Pietro. 1.1. Osservazioni generali nella valutazione degli interpreti Prescindendo dalla storia delle tradizioni ricostruita da Klein1 e anche dalla storia dell’interpretazione proposta da Herron2, che direttamente non rientrano nel nostro lavoro, le osservazioni proposte dagli interpreti riguarCfr. G. Klein, Die Verleugnung des Petrus. Eine traditionsgeschichtliche Untersuchung, in ZTK 58 (1961) 285-328; cfr. in questo senso anche T.E. Bomershine, Peter’s Denial as Polemic or Confession: The Implications of Media Criticism for Biblical Hermeneutics, in Semeia 39 (1987) 47-68 e N. Walter, Die Verleugnung des Petrus, in Theologische Versuche 8 (1977) 45-61. A Klein però risponde Linnemann, cfr. E. Linnemann, Die Verleugnung des Petrus, in Ztk 63 (1966) 1-32. 1
2 Cfr. R.W.Jr. Herron, Mark’s Account of Peter’s Denial of Jesus: A History of Its Interpretation, New York 1981, passim.
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dano la storicità dei rinnegamenti, l’unità letteraria dei racconti stessi, i motivi per cui Pietro rinnegò, il confronto tra gli evangelisti, lo scopo per cui i rinnegamenti di Pietro furono narrati. A riguardo della storicità dei rinnegamenti di Pietro, gli interpreti in genere concordano. Bonnard3 osserva che essi, nell’insieme, hanno il carattere di verosimiglianza storica; non si vede infatti quale avrebbe potuto essere l’origine cultuale o apologetica di tali racconti4. Boyd5 poi nota che soprattutto il racconto di Marco rivela un progresso nel grado della defezione di Pietro così psicologicamente vero, che deve ricondursi ad un avvenimento reale e non ad una costruzione letteraria. Tuttavia Thompson6, pur concordando nella globale storicità dell’avvenimento, ritiene più storico il racconto giovanneo, per il fatto che nel quarto Vangelo manca il pentimento di Pietro. In genere poi gli interpreti non fanno problema a riconoscere che, nei vangeli sinottici, il racconto dei tre rinnegamenti di Pietro costituisce una unità letteraria. Limitandoci in maniera esemplificativa soltanto a qualche autore, Pesch7 nota che il racconto sinottico dei rinnegamenti costituisce una unità non scomponibile. Osserva tuttavia che il testo attuale però non consente di dedurre che la storia del rinnegamento fosse, all’origine, una unità narrativa che circolava separatamente e, solo in un secondo momento, sarebbe stata introdotta nel contesto. Altrove lo stesso autore8 specifica che il racconto del rinnegamento non è né una unità isolata dalla narrazione della passione, né è costituita da unità separate. Taylor9 osserva pure che la storia del rinnegamento di Pietro forma una unità letteraria, in 3
Cfr. P. Bonnard, L’évangile selon Saint Matthieu, Paris 19702, 391.
4 Cfr. anche in questo senso D. Hill, The Gospel of Matthew, Grand Rapids-London 1972, 347. 5 Cfr. W.J.P. Boyd, Peter’s Denial – Mark 14,68; Luke 22,57, in ExpTim 67 (195556) 340-342: 341. 6 7
Cfr. J.R. Thompson, Saint Peter’s Denials, in ExpTim 47 (1935-1936) 381-382: 382. Cfr. R. Pesch, Il Vangelo di Marco, II, trad. it., Brescia 1982, 655.
Cfr. Id., Die Verleugnung des Petrus. Eine Studie zu Mk 14,54.66-72 (und Mk 14,26-31), in J. Gnilka (cur.), Neues Testament und Kirche, Freiburg 1974, 42-62: 53. 8
9
Cfr. V. Taylor, Marco, trad. it., Assisi 1977, 571.
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cui l’interesse si apre verso una conclusione drammatica. Wilcox10 però, a riguardo di Marco, osserva che, nel c. 14, anche il v. 54 faceva parte di un blocco della storia del rinnegamento, nei vv. 66-72, interrotto poi dalla narrazione del processo davanti al Sinedrio. Quanto poi al mescolamento di paralleli e differenze tra Giovanni e i Sinottici, che troviamo nei racconti dei rinnegamenti, Fortna11 ritiene che ciò probabilmente è il prodotto di tradizioni parallele ma distinte, relativamente non toccate dall’attività redazionale degli evangelisti. Nel problema della storicità dei rinnegamenti può rientrare anche quello della loro fonte. Da dove partì la tradizione nella chiesa dei rinnegamenti di Pietro? Morris12, giustamente a nostro parere, osserva che essa poteva provenire soltanto da Pietro. Pietro poi avrebbe narrato i suoi rinnegamenti perché la chiesa doveva sapere che aveva un capo debole e peccatore, che certo aveva peccato, ma che tuttavia si era pentito e il Signore lo aveva condotto in alto. I motivi per cui Pietro rinnegò, sono facilmente comprensibili. È lo stesso motivo per cui i discepoli, al momento della cattura al Getsemani, fuggirono tutti. Possiamo supporre che Pietro, quasi sfidando se stesso, volle darsi coraggio e, pur da lontano, seguì Gesù. Poi però, nel cortile del sacerdote, di fronte alla realtà dei fatti, sarebbe stato sopraffatto dalla paura. Gardiner13 però spiega, forse alquanto gratuitamente, che Pietro sapeva che, se si fosse presentato come discepolo, sarebbe stato cacciato dal posto dove invece egli voleva trovarsi. Morris14 invece ritiene che Pietro rinnegò, non perché attualmente era oggetto di ostilità, ma perché quello non era il momento di correre rischi. Cfr. M. Wilcox, The Denial Sequence in Mark 14,26-31.66-72, in NTS 17 (19701971) 426-436: 433. 10
Cfr. R.T. Fortna, Jesus and Peter at the High Priester’s House. A Test Case for the Question of the Relation between Mark’s and John’s Gospels, in NTS 24 (1978) 371-383: 382. 11
12
Cfr. L. Morris, The Gospel according to Matthew, Grand Rapids 1992, 688.
Cfr. W.D. Gardiner, The Denial of St. Peter, in ExpTim 26 (1914-1915) 424-426: 424-425. 13
14
Cfr. L. Morris, The Gospel according to Matthew, cit., 687.
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Confrontando poi il racconto dei quattro evangelisti, Guyot15 conclude che essi concordano nei seguenti punti: Pietro rinnega tre volte, prima del canto del gallo, e, perciò, durante la notte; il contesto remoto, il processo davanti ai giudei, è uguale; le divergenze riguardano particolari minimi, quali: la determinazione del posto preciso e il posto dei rinnegamenti; i rinnegamenti sono tre; tuttavia gli evangelisti differiscono tra di loro in relazione alle persone che interrogano, alle domande proposte a Pietro e alle sue risposte. Mac Eleney16 poi, per spiegare nei rinnegamenti le differenze di Matteo e di Luca, nei dettagli, rispetto a Marco, rimanda a tecniche letterarie dei tre evangelisti, senza essere, pertanto, necessario ricorrere a fonti particolari. Lo scopo infine per cui i rinnegamenti di Pietro furono narrati nella chiesa primitiva, non può essere certamente quello di denigrare, o comunque, di gettare ombra sulla figura di colui che Gesù aveva costituito capo della sua chiesa. Nulla, in ogni caso, suggerisce tale scopo nelle narrazioni stesse; né alcun interprete propone una simile motivazione. Piuttosto lo scopo sembra essere catechetico. Così, secondo Keener17, includendo il racconto del rinnegamento nella narrazione della passione, la tradizione primitiva avrebbe voluto mettere in guardia i discepoli contro l’apostasia nel tempo della persecuzione; Matteo, ma anche gli altri evangelisti, vogliono indicare due possibilità che i cristiani hanno nella loro caduta, o piangere con Pietro, oppure suicidarsi come Giuda. Ortensio da Spinetoli18 poi osserva che la chiesa doveva già registrare dei casi di apostasia. Il ricordo della caduta e della conversione di Pietro poteva essere anche per gli attuali apostati un invito alla resipiscenza e alla speranza. 1.2. Peculiarità giovannee Come i vangeli sinottici, anche il quarto vangelo riferisce, nel contesto della narrazione della passione, i tre rinnegamenti di Pietro. Il quarto 15
Cfr. G.H. Guyot, Peter Denies His Lord, in CBQ 4 (1942) 111-118. 117-118.
Cfr. N.J. Mac Eleney, Peter’s Denial’s – How Many? To Whom? In CBQ 52 (1990) 467-472: 471-472. 16
17 18
Cfr. C.S. Keener, Matthew, Downers Grove (Illinois) 1960, 379. Cfr. O. Da Spinetoli, Matteo, Assisi 19935, 723.
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evangelista, nonostante delle peculiarità, sostanzialmente concorda con i vangeli sinottici. Ciò conferma la loro storicità. Quanto alle predizioni, Giovanni anzitutto è più in sintonia con Luca. Secondo Matteo e Marco, infatti, Gesù predisse a Pietro il suo rinnegamento lungo il cammino dal cenacolo al Getsemani (Mt 26,34; Mc 14,30); secondo Luca e Giovanni invece la predizione sarebbe stata fatta da Gesù durante la cena, nel cenacolo (Lc 22,31-34; Gv 13,36-38). Tutti e quattro gli evangelisti concordano però nel fatto che Gesù predisse a Pietro un suo triplice rinnegamento che si sarebbe verificato prima del canto di un gallo. Per quanto poi riguarda l’attuazione del rinnegamento, i quattro vangeli concordano in diversi elementi. Anzitutto nel fatto stesso che Pietro rinnegò, inoltre che rinnegò nel contesto del processo contro Gesù davanti ai giudei, che rinnegò tre volte, e che, infine, rinnegò prima del canto di un gallo; ciò significa che Pietro rinnegò durante la notte19. Non mancano però delle differenze. Prescindendo da quelle riguardanti più direttamente i singoli elementi, ne notiamo alcune più generali. Anzitutto il momento e il luogo in cui Pietro rinnegò: secondo Matteo e Marco, egli avrebbe rinnegato dopo il processo davanti al sinedrio (Mt 26,69-75; Mc 14,66-72), dopo cioè che il Sinedrio avrebbe emesso una sentenza di morte e, perciò, nella casa del sacerdote, esplicitamente identificato da Matteo con Caifa (26,57), dove si sarebbe radunato il sinedrio. Secondo Luca (22,54-62), invece, i rinnegamenti sarebbero avvenuti prima del processo, nella casa di un sacerdote che l’evangelista non bene identifica, ma che sembra essere distinto da quello che presiede il sinedrio. Secondo Giovanni (18,17-18.2527), i rinnegamenti sarebbero avvenuti nella casa del sacerdote Anania o Anna, dove Gesù, dopo l’arresto, fu subito condotto, e dove subì, secondo Giovanni, un primo ed unico interrogatorio da parte dei giudei20. Guyot, che colloca i rinnegamenti nella casa di Caifa, (113) pensa che è naturale supporre che il primo rinnegamento sarebbe avvenuto subito dopo l’ingresso; gli altri rinnegamenti tra le 2 e le 5 del mattino cfr. G.H. Guyot, Peter Denies His Lord, cit., 113-114. Secondo Guyot almeno il primo rinnegamento sarebbe avvenuto verso la mezzanotte o l’una: esso sarebbe così determinato dall’arresto di Gesù e dalla sua conduzione nella casa di Anna. 19
Emergono qui tre problemi, dai quali però, in questo studio, prescindiamo: dove fu condotto Gesù appena catturato? Chi era il sacerdote nella cui casa fu subito condotto? Caifa come indica Matteo o Anna come attesta Giovanni? Quando avvenne il processo 20
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Un’altra differenza fondamentale tra Giovanni e i sinottici riguarda lo sviluppo dei rinnegamenti. I vangeli sinottici, pur introducendo qualche mutamento di luogo e di tempo, li presentano come un blocco unico, in maniera direttamente successiva21; il quarto evangelista invece interrompe la successione dei tre rinnegamenti introducendo, tra il primo e il secondo (18,19-24), il dialogo tra Gesù ed Anna, seguito dallo schiaffo inflitto da un servo a Gesù, e dall’invio di lui, da parte di Anna, al sacerdote Caifa. Un’ultima differenza fondamentale riguarda il canto del gallo: secondo i tre vangeli sinottici (Mt 26,74b-75; Mc 15,72; Lc 22,60b-72), il canto del gallo, per così dire, risvegliò Pietro, determinando in lui il ricordo delle parole di Gesù e il pianto amaro di dolore per il rinnegamento; Giovanni menziona pure, benché in maniera assai laconica (18,27b), il canto del gallo, ma non dice nulla sul pentimento e sul pianto di Pietro: si direbbe che, per Giovanni, quel canto è quasi una conferma del rinnegamento. 2. Struttura letteraria di Gv 18,12-27 Come abbiamo già osservato, mentre nei vangeli sinottici i tre rinnegamenti sono proposti in maniera successiva, costituendo quasi un blocco a sé stante, lo smembramento proposto dal quarto evangelista e l’inserimento del dialogo con Anna tra il primo e il secondo, colloca, più strettamente che nei sinottici, i tre rinnegamenti nello sviluppo globale della narrazione dei vv. 12-27. Proponiamo perciò la struttura letteraria di questa seconda parte della narrazione della passione giovannea, che, nel c. 18, si estende dal v. 12 al v. 27. Il v. 11 infatti è ambientato ancora al Getsemani; con il v. 28 inizia il processo davanti a Pilato. davanti al sinedrio: di notte, come indicano Matteo e Marco, o di giorno come vuole Luca? Infine il dialogo giovanneo tra Gesù ed Anna è riconducibile al processo davanti al Sinedrio di cui parlano i vangeli sinottici?
21 Giustamente nota Morris che è inverosimile che essi siano avvenuti in stretta successione. Gli stessi evangelisti offrono degli indizi che permettono di concludere che tra l’un rinnegamento e l’altro deve essere intercorso un certo lasso di tempo. Cfr L. Morris, The Gospel according to Matthew, cit., 687; cfr. anche Id., Luke, Grand Rapids 19892, 315.
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Janssen de Varebeke22 divide tutto il testo di 18,1-27 in sette scene, di cui le prime tre (v. 1; vv. 2-3; vv. 4-11) riguardano il Getsemani. La quarta (vv. 12-16a) serve da transizione alle altre tre, la parte che più direttamente ci riguarda. Le tre parti sono: Pietro è introdotto, rinnega e si scalda (16b18); Gesù è schiaffeggiato da un servo perché ha rimandato a quelli che conoscono la sua dottrina (vv. 19-24); Pietro si scalda, rinnega ancora due volte, e il gallo canta (vv. 25-27). Possiamo distinguere in questa seconda sezione della narrazione giovannea (18,12-27) due parti, contenute rispettivamente nei vv. 12-16 e 17-27. All’interno dei vv. 12-16 possiamo distinguere due brevi unità, contenute, rispettivamente, nei vv. 12-14 e i vv. 15-16. I vv. 12-14 narrano prima la cattura di Gesù, poi orientano l’attenzione su due personaggi; Anna e Caifa; i vv. 15-16 sono poi incentrati attorno alla figura di Pietro e del discepolo. Dopo avere menzionato, nei vv. 12-14, le figure, con le loro specifiche caratteristiche e funzioni, di Anna e Caifa, l’evangelista introduce, nel v. 15, intrecciata con la figura e la vicenda del discepolo, quella di Simon Pietro. A riguardo di quest’ultimo, nei vv. 15-16, leggiamo tre espressioni: 1. h\kolouéqei deè t§% }Ihsou% Sòmwn Peétrov (Seguiva Gesù Simon Pietro), 2. o| deè Peétrov ei|sthékei proèv t+% quérç e"xw (Pietro stava alla porta fuori), 3. o| maqhthèv […] ei\shégagen toèn Peétron (il discepolo […] introdusse Pietro). Emerge in queste tre frasi un progresso che sarà utile evidenziare in seguito e che aiuterà anche ad illuminare la figura e la vicenda di Pietro. Il progresso stesso però si articola in tre elementi, nel seguente modo: Pietro segue, giunge alla porta ed è proteso (proév) verso di essa, entra nel palazzo del sacerdote, grazie alla mediazione del discepolo. Conosciamo però il racconto seguente: entrato nel palazzo del sacerdote, e ripetutamente interrogato se era dei discepoli di Gesù, Pietro, con progressiva forza ed insistenza, nega. Fermando specificamente la nostra attenzione sui tre rinnegamenti proponiamo la struttura globale dei vv. 17-18.25-27 nel seguente modo: 22 Cfr. A. Janssen De Varebeke, La structure des scènes du récit de la Passion en Joh XVIII-XIX, in Etl 38 (1962) 504-522.
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1. leégei ou&n t§% Peétr§ h| paidòskh h| qurwroév:
mhè kaì suè e\k tw%n maqhtw%n eù tou% a\nqrwépou touétou: leégei e\ke_nov: ou\k ei\mò 2. ei|sthékeisan deè oi| dou%loi kaì oi| u|phreétai a\nqrakiaèn pepoihkoétev, o$ti yu%cov h&n kaì e\qermaònonto: h&n deè kaì o| Peétrov met’au\tw%n e|stwèv kaì qermainoémenov
3. (vv. 19-24) 4. h&n deè Sòmwn Peétrov e|stwèv kaì qermainoémenov 5. eùpon ou&n au\t§%:
mhè kaì suè e\k tw%n maqhtw%n au\tou% eù; h\rnhésato e\ke_nov kaì eùpen: ou\k ei\mò 6. leégei eàv e\k tw%n douélwn tou% a\rcieérewv, suggenhèv w!n ou/ a\peékoyen Peétrov toè w\tòon: ou\k e\gwè se eùdon e\n t§% khép§ met}au\tou%; paélin ou&n h\rnhésato Peétrov kaì eu\qeéwv a\leéktwr e\fwénhsen.
Possiamo così evidenziare il seguente schema tematico (v. 17): Il primo rinnegamento, (v. 18): la posizione di Pietro, (vv. 19-24): il dialogo tra Gesù ed Anna, (v. 25a): la posizione di Pietro, (v. 25b): Il secondo rinnegamento, (vv. 26-27): Il terzo rinnegamento. Emerge, in questo schema, una duplice relazione, insieme alternata e concentrica. È alternata23 se consideriamo, almeno nei primi due rinnegamenti, soltanto le domande e le risposte; è concentrica24 se consideriamo anche l’indicazione della posizione di Pietro. 23
24
Notiamo la seguente struttura: 1. leégei […] mhè kaì suè e\k tw%n maqhtw%n eù tou% a\nqrwépou touétou: 2. leégei e\ke_nov: ou\k ei\mò 3. eùpon ou&n au\t§%: mhè kaì suè e\k tw%n maqhtw%n au\tou% eù; 4. h\rnhésato e\ke_nov kaì eùpen: ou\k ei\mò
Notiamo la seguente struttura: 1. leégei […] mhè kaì suè e\k tw%n maqhtw%n eù tou% a\nqrwépou touétou: 2. leégei e\ke_nov: ou\k ei\mò 3. ei|sthékeisan […] h&n deè kaì o| Peétrov met’au\tw%n e|stwèv kaì 4.
qermainoémenov h&n deè Sòmwn Peétrov e|stwèv kaì qermainoév
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3. I tre rinnegamenti nella narrazione giovannea Narra il quarto evangelista che Gesù, catturato, fu condotto “prima (prw%ton)” da Anna. Di questo personaggio i vangeli sinottici non sanno nulla; come anche Giovanni si limita a menzionarlo, magari diverse volte (18,13.14.24.28), senza attribuirgli però, almeno nel contesto della narrazione della passione, alcuna diretta funzione specifica25. Come già, due volte, in 11,49.51, anche in 18,13 il quarto evangelista definisce Caifa come “sacerdote di quell’anno (tou% e\niautou% e\keònou)”26. Per quanto riguarda Anna, l’evangelista stabilisce una relazione di parentela tra lui e Caifa: quest’ultimo doveva essere suo “genero (penqeroév)” ed Anna suo suocero27. Emerge una notevole differenza tra Giovanni e i Sinottici. Secondo Mt 26,57, Gesù, catturato, fu condotto “da Caifa il sacerdote”, dove si radunò il sinedrio. Secondo Mc 14,53, Gesù fu condotto “dal sacerdote (proèv toèn a\rciereéa)”, e si radunò il Sinedrio: il secondo evangelista non menziona Caifa, ma la menzione del raduno del Sinedrio lascia intendere che egli, benché con minore sicurezza di Matteo, pensasse a lui. Lc 22,54 pure ci informa che condussero Gesù “nella casa del sacerdote (ei\v thèn oi\kòan tou% a\rciereéwv)”; nemmeno il terzo evangelista identifica tale sacerdote, tuttavia la menzione del raduno del Sinedrio trasferito al mattino e l’espressione «condussero Gesù nel loro Sinedrio», nel v. 66, non obbliga necessariamente a ritenere che Luca pensasse a Caifa. Il quarto evangelista invece è molto esplicito: menziona Anna; secondo il racconto attuale, sarebbe stato lui quello che, secondo Giovanni, interrogò Gesù (18,19-23) e in casa sua, non nella casa di Caifa. Emerge il 5. eùpon ou&n au\t§%: mhè kaì suè e\k tw%n maqhtw%n au\tou% eù; 6. h\rnhésato e\ke_nov kaì eùpen: ou\k ei\mò
In 18,14 l’evangelista identifica Caifa come colui che aveva consigliato (o| sumbouleuésav) ai giudei che conviene (sumfeérei) che un solo uomo muoia per il popolo. Il 25
richiamo a 11,49-50 è evidente.
Nel v. 24 l’evangelista dirà che Anna mandò Gesù legato a Caifa e, nel v. 28 leggiamo poi che «conducono Gesù da Caifa al pretorio», cioè da Pilato, 26
A riguardo di Caifa l’evangelista non indica alcuna sua diretta azione, ma offre tre indicazioni: era genero di Anna, era sacerdote di quell’anno, aveva consigliato ai giudei che conviene che un solo uomo muoia per il popolo 27
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problema come conciliare Giovanni con i Sinottici. Riguardo di questo problema le posizioni degli interpreti sono varie, ad esse dedichiamo il paragrafo successivo. 3.1. Le posizioni degli interpreti Nelle varie posizioni degli interpreti, distinguiamo specificamente due aspetti: qualche osservazione generale sui rinnegamenti, la conduzione di Gesù ad Anna. Ci sarebbe inoltre il problema se i rinnegamenti di Pietro siano avvenuti nella casa di Anna o in quella di Caifa come esplicitamente indica Matteo, come implicitamemte anche Marco e come, verosimilmente, forse anche Luca. Secondo Giovanni invece essi si sarebbero verificati nella casa di Anna. È stato sollevato però il problema se il posto originale del v. 24 sia quello attuale o se esso non abbia subito qualche spostamento: specificamente se il suo posto originale era dopo il v. 23 o non debba essere spostato dopo il v. 13. Nel v. 24 leggiamo: «mandò lui (Gesù) Anna legato a Caifa il sacerdote». Se il v. 24 segue il v. 23, allora chi ha interrogato Gesù è Anna e nella sua casa avvennero i tre rinnegamenti di Pietro; se invece il v. 24 si sposta dopo il v. 13, in questo caso è stato Caifa che ha interrogato Gesù e i rinnegamenti di Pietro sarebbero avvenuti nella sua casa. Dal momento che, nel testo attuale, il v. 24 conclude il dialogo tra Gesù ed Anna, preferiamo porre il problema di questo testo nello studio seguente riguardante specificamente quel dialogo. In questo studio ne presupponiamo però le conclusioni: nella narrazione del quarto evangelista il dialogo si è svolto tra Gesù ed Anna; inoltre i tre rinnegamenti si sarebbero verificati nella casa di Anna. 3.1.1. Qualche osservazione generale sui rinnegamenti Bernard28, a riguardo di tutta la narrazione, nota che, in certi punti, Giovanni deve essersi basato su conoscenze di prima mano che gli altri 28 Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, Edinburgh 1928, 593.
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non avevano. Brown29 osserva che Giovanni, rendendo i tre rinnegamenti contemporanei alla difesa di Gesù, davanti ad Anna, ha prodotto un contrasto drammatico: Gesù affronta coraggiosamente i suoi inquisitori, e non nega niente; Pietro invece trema davanti ai servi e nega tutto. Altrove30 lo stesso autore nota che il cuore del racconto è l’antitesi tra l’altro discepolo e Pietro. Spiega Chevallier31 che Giovanni spezza i rinnegamenti per sottolineare, in maniera assai crudele, il contrasto tra il discepolo che rifiuta di confessare pubblicamente la sua fede e il maestro che ha sempre parlato apertamente e che adesso deve poter contare su testimoni. Secondo Dauer32 Pietro rinnega certo per mancanza di coraggio e viltà, ma la vera spiegazione è in 13,36-38: non si può seguire Cristo senza la fede nel Rivelatore. Anche De La Potterie33 sottolinea il contrasto tra quello che avviene dentro e quello che avviene fuori: Gesù, il rivelatore e il maestro, afferma con insistenza di avere parlato al mondo; Pietro, uno dei discepoli, nega di avere a che fare con lui. Fabris34 osserva che il montaggio letterario, l’intreccio cioè dell’interrogatorio di Gesù davanti ad Anna con i rinnegamenti, crea l’effetto del contrasto. Da una parte c’è Gesù che, davanti alla suprema autorità ebraica, rimanda alla sua pubblica e coraggiosa opera di rivelatore e fa appello alla testimonianza di quelli che hanno ascoltato e sanno ciò che egli ha detto; dall’altra c’è Pietro, che cerca di seguirlo, ma poi di fatto, davanti alla portinaia, non ha il coraggio di riconoscersi come suo discepolo e nega. Sulla stessa linea è anche Kysar35: i rinnegamenti di Pietro sono giustapposti alla 29
Cfr. R.E. Brown, Giovanni, trad. it., Assisi 19793, 1035.
30 Cfr. Id., La morte del Messia. Un commentario ai racconti della passione nei quattro vangeli, trad. it., Brescia 1999, 678.
31 Cfr. M.A. Chevallier, La comparution de Jésus devant Hanne et devant Caïphe (Jean 18,12-14 et 19-24), in Neues Testament und Geschichte, Fs O. Cullmann, Zürich-Tübingen 1972, 179-188: 182. 32
Cfr. A. Dauer, Die Passionsgeschichte im Johannesevangelium, München 1972, 315.
Cfr. De La Potterie I., La passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, trad. it., Cinisello Balsamo 1988, 64-65. 33
34 35
Cfr. R. Fabris, Giovanni, Roma 20032, 932.
Cfr. R. Kysar, John, Minneapolis (Minnesota) 1986, 274.
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situazione di Gesù; Pietro non può ammettere di essere stato discepolo di un prigioniero. In maniera più spirituale, Lightfoot36 spiega che Pietro, negando di avere qualsiasi legame con Gesù, mostra che egli né conosce il Signore (13,7), né sa dove va il suo maestro (13,36). Secondo Schwank37 Giovanni vuol mettere a confronto Pietro e Gesù, forza e debolezza, altezza e povertà, fedeltà e infedeltà38. Strachan39 osserva che Pietro nega di essere discepolo al momento stesso in cui Gesù è interrogato circa i suoi discepoli. 3.1.2. La conduzione di Gesù da Anna Gli interpreti cercano di concordare in qualche modo la discrepanza tra i Sinottici e Giovanni. Secondo Giovanni, Gesù fu condotto prima da Anna40. Questi fu insediato sommo sacerdote da Quirino nel 6 d.C. e rimase in carica fino al 15 d.C.41, quando fu deposto poi dal procuratore Valerio Grato42. Benché deposto dalla carica, egli dovette continuare ad esercitare un influsso43.
36 37 38
Cfr. R.H. Lightfoot, St. John’s Gospel, Oxford 1956, 307.
Cfr. B. Schwank, Evangelium nach Johannes, St. Ottilien 1996, 433.
Cfr. anche U. Wilckens, Das Evangelium nach Johannes, Göttingen 199817, 276.
Cfr. R.H. Strachan, The Fourth Gospel. Its Significance and Environment, London 19463,, 310. 39
Belser spiega che l’evangelista vuol dire qualcosa a riguardo di Anna, cfr. J.E. Belser, Das Evangelium des Johannes übersetzt und erklärt, Freiburg in Br. 1905, 470. Lenski osserva che probabilmente Anna e Caifa vivevano nella stessa casa, cfr. R.C.H. Lenski, The Interpretation of St. John’s Gospel, Columbus (Ohio) 1942, 1190. 40
41 42
Cfr. R.Kysar, John, cit., 274;
Cfr. W. Hendriksen, The Gospel of St. John, London 1969 (repr. of 1959), 387.
Cfr. F.F. Ellis, The Genius of John, Collegeville - Minnesota 19842, 255; G. Maier, Johannesevangelium, II, Neuhausen -Stuttgart 1986, 246; G. Schiwy, Das Evangelium nach Johannes. Die Apostelgeschichte, Würzburg 19682, 138; F. Tillmann, Das Johannesevangelium, Bonn 19314, 306. 43
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Giuseppe Flavio ci informa che chi aveva esercitato un ufficio, lo conservava poi per tutta la vita44. Sappiamo che, presso i giudei, il sommo sacerdozio era a vita e, come osserva Morris45, la deposizione fatta dai romani non era ritenuta legale. L’astuto uomo sarebbe riuscito a conservare il sacerdozio nella sua famiglia, esercitando così di fatto il potere reale. Anna è sconosciuto alla tradizione di Matteo e di Marco; è conosciuto invece da Luca, che lo menziona, assieme a Caifa, in Lc 3,2 ed At 4,6. Tuttavia anche Luca lo ignora nella narrazione della passione. Il quarto evangelista però precisa che Gesù fu condotto “prima (prw%ton)” da Anna; ciò indica che ci sarà una seconda volta in cui sarà condotto da Caifa46. Lenski47 riferisce che un figlio di Anna fu l’immediato predecessore di Caifa, e un altro fu suo successore. Fino al 66 d.C. presero l’ufficio tre figli e un nipote; si può così parlare di dinastia sacerdotale nella casa di Anna. Anche dopo la sua deposizione doveva essere un uomo di tremenda influenza tra i sadducei e il Sinedrio. Belser48 ritiene che sia stato proprio Anna ad indurre Pilato ad inviare, in quella notte, una forza militare per catturare Gesù e consegnarlo alle gerarchie giudaiche. Westcott presuppone che il palazzo dove Gesù fu condotto, era quello di Caifa, ma poi fu Anna ad interrogarlo49. Da queste informazioni giovannee possiamo tirare anche una conseguenza di ordine storico: se Gesù fu condotto nella casa di Anna, questi
Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, citato da E. Schick, Das Evangelium nach Johannes, Würzburg 1956, 157. 44
45
Cfr. L. Morris, The Gospel according to John, Grand Rapids (Michigan) 1971, 749.
Cfr. in questo senso anche L. Morris, The Gospel according to John, cit., 750; U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, Leipzig 1998, 266; U. Wilckens, Das Evangelium nach Johannes, cit, 275. 46
47 Cfr. R.C.H. Lenski, The Interpretation of St. John’s Gospel, Columbus (Ohio) 1942, 1191. 48 Cfr. J.E. Belser, Das Evangelium des Johannes übersetzt und erklärt, Freiburg i.Br., 470.
49 Cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, Grand Rapids (Michigan) 1983 (rist. dal 1953) 257.
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deve avere avuto un ruolo influente nella sua cattura50. Nulla vieta di pensare che sia stato proprio lui ad ordire la congiura contro Gesù. In ogni caso, il nostro evangelista mentre da una parte non trascura di menzionare la figura di Anna, dall’altra si affretta anche a stabilire il suo legame con Caifa. 3.2. L’articolazione dei rinnegamenti Nell’articolazione dei primi due rinnegamenti distinguiamo diversi elementi. Anzitutto le persone che interrogano, le domande rivolte a Pietro, la risposta di Pietro, sia nelle parole introduttive, sia nella sua stessa risposta. 3.2.1. Le persone che interrogano Quanto alle persone che interrogano Pietro, proponiamo anzitutto un confronto con i vangeli sinottici. Il seguente schema aiuterà a cogliere la peculiarità giovannea. Matteo Marco Luca I mòa paidòskh mòa tw%n paidiskw%n paidòskh tiv tou% a\rciereéwv II a"llh h| paidòskh e$terov III oi| e|stw%tev oi| parestw%tev a"llov tiv Nei vangeli sinottici la prima domanda è proposta da una “serva (paidòskh)”; la concordanza tra i vangeli sinottici mostra che questo personaggio, che, per primo, interrogò Pietro, era già indicato nella primitiva tradizione evangelica. Il secondo personaggio appare invece incerto. Secondo Matteo, il secondo, in maniera generica è “un’altra (a"llh)”, una donna; pure secondo Marco si tratta ancora di una donna: il secondo evangelista però la identifica con la stessa serva che fece la prima domanda (h| paidòskh); Luca si esprime ancora in maniera generica, secondo lui però si tratta invece di un servo maschio (e$terov). A riguardo della relazione di Anna e Caifa al potere romano, Schnelle cita Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, 18,26.34.35.95, cfr. U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, cit., 266. 50
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Pure il terzo personaggio è espresso, nei tre vangeli, in maniera generica. Secondo Matteo e Marco quelli che interrogano sono, genericamente, gli astanti (oi| e|stw%tev) o i presenti (oi| parestw%tev); secondo Luca si tratta ancora di un altro servo, maschio, presentato anch’esso in maniera molto vaga e generica (a"llov tiv)51. Secondo Matteo perciò quelli che interrogano Pietro sono: una serva (mòa paidòskh), un’altra (serva) (a"llh), gli astanti (oi| e|stw%tev); secondo Marco sono: una delle serve del sacerdote (mòa tw%n paidiskw%n tou% a\rciereéwv), la serva (h| paidòskh), probabilmente la stessa, quelli che erano presenti (oi| parestw%tev); secondo Luca sono una serva (paidòskh tiv), un altro (e$terov) (servo), un altro ancora (a"llov tiv). Giovanni in parte concorda con i sinottici, ma presenta anche notevoli discordanze con essi. Concorda con i sinottici anzitutto nella prima persona che interroga: anche per il quarto evangelista si tratta di una serva52; egli però precisa che si tratta della serva portinaia (h| qurwroév) 53. Pure il quarto evangelista lascia del tutto indeterminato il secondo personaggio, forse ancora più dei sinottici, limitandosi soltanto a formulare un generico “dissero (eùpon)”. Ad interrogare perciò sarà stato uno dei tanti lì presenti, oppure, forse, coralmente, diverse persone. Il quarto evangelista identifica invece, con molta precisione, la terza persona; di lui offre una duplice precisa relazione: al sacerdote anzitutto, di cui è uno del servi (eùv e\k tw%n douélwn), inoltre al servo al quale, al Getsemani, Pietro recise l’orecchio, di cui è un congiunto (suggenhèv w"n). Il quarto evangelista offre così una duplice precisazione, riguardante il primo e il terzo personaggio. In questa maniera egli si rivela testimone oculare dei fatti e delle persone; inoltre lascia trapelare l’idea che quei 51 Morris nota che, in Matteo, la persona che interroga negli altri due rinnegamenti, è indeterminata. Forse si trattava di un gruppo di servi che ciarlava attorno al fuoco, e perciò tutti partecipavano alla discussione, cfr. L. Morris, The Gospel according to Matthew, cit., 687; cfr. anche Id., Luke, cit., 315.
52 Ramsay spiega che il fatto che c’era una donna alla porta, cosa insolita per i giudei, può essere un antico uso ebraico che i sacerdoti ancora mantenevano, anche quando era caduto in disuso nel popolo. Cfr. W.M. Ramsay, The Denials of Peter, in ExpTim 27 (19151916) 410-413 (I): 413. 53
Nota Schnackenburg che questa è una precisazione dell’evangelista, cfr R. SchIl vangelo secondo Giovanni, III, cit., 372.
nackenburg,
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personaggi, con le loro caratterizzazioni, esercitino un ruolo specifico ed abbiano per lui una importanza particolare. 3.2.2. Le domande rivolte a Pietro Quanto alle domande che i vari personaggi rivolgono a Pietro, per cogliere la peculiarità giovannea, è utile, ancora, un confronto con i vangeli sinottici. 3.2.2.1. Le domande nei vangeli sinottici Proponiamo a riguardo ancora il seguente schema: Prima domanda: Matteo: kaì suè h&sqa metaè }Ihsou% tou% Galilaòou (anche tu eri con Gesù il Galileo) Marco: kaì suè metaè tou% Nazarhnou% h&sqa tou% }Ihsou% (anche tu con il Nazareno eri Gesù) Luca: kaì ou/tov suèn au\t§% h&n (anche questo con lui era) Seconda domanda: Matteo: ou/tov h&n metaè }Ihsou% tou% Nazwraòou (questi era con Gesù il Nazareno) Marco: ou/tov e\x au\tw%n e\stin (questi di quelli era) Luca; kaì suè e\x au\tw%n eù (anche tu di essi sei) Terza domanda: Matteo: a\lhqw%v kaì suè e\x au\tw%n eù (veramente anche tu di essi sei) Marco: a\lhqw%v e\x au\tw%n eù (veramente di essi sei) Luca: e\p’a\lhqeòav kaì ou/tov met’au\tou% h&n (questi con lui era).
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Quanto alle domande rivolte a Pietro, anche all’interno dei vangeli sinottici appaiono delle somiglianze e anche delle differenze. Troviamo infatti due tipologie di domande; la prima, formulata con la particella preposizionale metaé e il genitivo (con suén e il dativo nella prima domanda di Luca), riguarda “l’essere con” Gesù; la seconda, formulata con la particella preposizionale e\x e il genitivo, riguarda “l’essere dei discepoli”, cioè l’appartenenza al gruppo dei discepoli di Gesù. Possiamo proporre il seguente schema riassuntivo: Matteo Marco Luca Prima domanda: metaé metaé suén Seconda domanda: metaé e\x e\x Terza domanda: e\x e\x metaé Le prime due domande, in Matteo, riguardano l’essere con (metaé) Gesù; la terza invece riguarda la sua appartenenza (e\x) al gruppo dei discepoli. In Marco, al contrario, la prima domanda riguarda l’essere con (metaé) Gesù; la seconda e la terza riguardano invece l’appartenenza (e\x) al gruppo dei discepoli. In Luca la prima e la terza domanda, pur formulate in diversa maniera letteraria, rispettivamente con suén la prima e con metaé la terza, riguardano ancora l’essere con Gesù; la seconda domanda invece riguarda l’appartenenza (e\x) al gruppo dei discepoli. Possiamo notare anche un’altra differenza tra i tre evangelisti. Secondo Matteo e Marco, la prima e terza volta le domande sono rivolte direttamente a Pietro e formulate alla seconda persona singolare; la seconda volta invece non è formulata una vera domanda, ma si tratta di una osservazione, espressa alla terza persona singolare, fatta da un tale ad un gruppo di circostanti, a riguardo di Pietro. In Luca invece la diretta domanda rivolta a Pietro è la seconda; la prima e la terza volta non si tratta di una diretta domanda rivolta a lui, ma di una osservazione riguardante il suo essere con Gesù; la diretta domanda riguarda invece la sua appartenenza al gruppo dei discepoli. Tutti e tre gli evangelisti, la terza volta, indicano l’elemento da cui quelli che interrogavano hanno dedotto che egli apparteneva al gruppo dei discepoli oppure che era con Gesù: la sua origine galilaica. Matteo precisa che è proprio il suo modo di parlare (h| lalòa) a renderlo manifesto (dh%lon); Marco e Luca specificamente notano che Pietro è un galileo (galila_ov).
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3.2.2.2. Le espressioni giovannee Le espressioni giovannee invece sono le seguenti: I. mhè kaì suè e\k tw%n maqhtw%n eù tou% a\nqrwépou touétou; (Non forse anche tu dei discepoli sei di quest’uomo) II. mhè kaì suè e\k tw%n maqhtw%n au\tou% eù; (Non forse anche tu dei discepoli di lui sei) III. ou\k e\gwé se eùdon e\n t§% khép§ met’au\tou%; (Non io te vidi nel giardino con lui). Nella prima parte, nell’espressione cioè mhè kaì suè e\k tw%n maqhtw%n eù, le prime due domande sono identiche; variano soltanto nella menzione di Gesù, con la lunga espressione tou% a\nqrwépou touétou la prima volta; con il semplice pronome au\tou%, la seconda volta54. Troviamo nel vangelo di Giovanni, a riguardo delle domande rivolte a Pietro, gli stessi due aspetti che caratterizzano le stesse domande nei vangeli sinottici. Le prime due domande gravitano attorno all’aspetto dell’appartenenza alla cerchia dei discepoli di Gesù, espressa con la particella e\k e il genitivo; la terza domanda invece gravita attorno al secondo aspetto, quello dell’essere con (metaé) con Gesù. 3.2.3. La peculiarità giovannea Abbiamo già notato la peculiarità fondamentale nelle prime due domande rivolte a Pietro, secondo la narrazione giovannea, che sembra essere costituita dall’espressione e\k tw%n maqhtw%n (dei discepoli); a Pietro è chiesto se non sia anche lui dei discepoli di Gesù. Entrambe le volte la domanda è formulata in maniera di interrogativa retorica negativa (mhè kaì sué), alla quale probabilmente dovrebbe seguire Notiamo nella seconda parte anche una inversione negli elementi, che determina anche una relazione strutturale concentrica: Prima domanda: eù 54
tou% a\nqrwépou touétou Seconda domanda: au\tou% eù
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una risposta affermativa55, e questa risposta forse si attenderebbero gli interlocutori56; Pietro invece, in maniera laconica, nega57. A riguardo di queste domande, soprattutto a riguardo della prima, gli interpreti propongono delle osservazioni. Secondo Kysar58 la domanda della serva non andrebbe oltre il piano della semplice curiosità. Secondo Schneider59 la serva mette Pietro di fronte ad una decisione. Tillmann60 pensa che la serva chiede a Pietro se anche (kaò) lui, come il discepolo, non appartenga alla cerchia dei “discepoli di quell’uomo”61. La particella kaò infatti stabilisce un confronto con un’altra persona. A riguardo poi di questa persona con cui la serva stabilisce il confronto, la comune opinione degli interpreti è che lei alluda all’altro discepolo62 o ai discepoli che stavano con Gesù al momento dell’arresto63. Belser64 però propone una spiegazione sorprendente, quanto meno gratuita, che cioè la 55 Secondo Lindars l’espressione mhè kaì sué sarebbe una cauta affermazione della serva, cfr. B. Lindars, The Gospel of John, London 1986 (repr.), 548. Secondo Barrett ci si dovrebbe attendere una risposta negativa, ma probabilmente qui il mhé è una cauta affermazione, Cfr. C.K. Barrett, The Gospel According to St. John, cit., 526.
Secondo Leon-Dufour la domanda della serva con il mhé è dubitativa, cfr. X. LeLettura dell’evangelo secondo Giovanni, IV, trad. it., Cinisello Balsamo 1998, 79, che cita Blass-Debrunner, cfr. F. Blass - A. Debrunner, Grammatik des neutestamentlichen Griechisch, Göttingen 197614, 427,2.440. 56
on-Dufour,
57 Altri interpreti direbbero che l’espressione mhè kaì sué presuppone invece una risposta negativa, cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, cit., 593; F.F. Bruce, The Gospel of John, Grand Rapids 1984 (ristampa), 345; R. Kysar, John, cit., 272; A. Plummer, The Gospel according to St. John, Cambridge 1912 (ultima ristampa), 311. Secondo Tenney il mhè kaì sué implica che la fanciulla avrebbe riconosciuto sia Pietro che il discepolo non nominato come seguaci di Gesù, cfr. M.C. Tenney, The Gospel of John, Grand Rapids (Michigan) 1981, 172. 58 59 60
Cfr. R. Kysar, John, cit., 272.
Cfr. J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, Berlin 19782, 298. Cfr. F. Tillmann, Das Johannesevangelium, Bonn 19314, 307.
61 Secondo Lenski il kaò indica che la serva riconobbe Pietro come discepolo di Gesù, cfr. R.C.H. Lenski, The Interpretation of St. John’s Gospel, cit., 1195. 62 63 64
Cfr. F. Godet, Commentaire sur l’évangile de Saint Jean, II, cit., 398. Cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 1012.
Cfr. J.E. Belser, Das Evangelium des Johannes übersetzt und erklärt, cit., 471-472.
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serva alluderebbe a Giuda che, in quella notte, si presentò come uno dei discepoli, chiedendo di entrare, perché egli aveva qualcosa di importante da dire al sacerdote. È utile confrontare ancora i due interventi con le risposte di Pietro: essi in larga parte sono identici; presentano però delle differenze che appaiono significative. Proponiamo anzitutto il seguente confronto: Primo intervento Secondo intervento leégei eùpon ou&n t§% Peétr§ au\t§ h| paidòskh h| qurwroév: mhè mhè kaì suè kaì suè e\k tw%n maqhtw%n e\k tw%n maqhtw%n eù au\tou% tou% a\nqrwépou eù tou%tou; h\rnhésato leégei e\ke_nov: e\ke_nov: kaì eùpen: ou\k ei\mò ou\k ei\mò Notiamo anzitutto l’espressione identica kaì sué (anche tu). A Pietro
non è chiesto se è dei discepoli, ma se “anche lui” sia dei discepoli. La particella kaò presuppone la presenza di altri discepoli, che però, nel testo immediato, non sono menzionati. Forse la particella kaò può richiamare gli altri discepoli in genere; ma può anche richiamare, e forse in maniera più naturale, la figura specifica, menzionata nel contesto, presentata dall’evangelista appunto come maqhthév, e che, come tale, deve essersi dichiarato nel palazzo di Anna65. Questa seconda spiegazione concorda con la descrizione del discepolo nei vv. 15-16, menzionato due volte con l’aggettivo a"llov (un altro). Il discepolo così è descritto come “l’altro discepolo”: il primo non può essere 65 Cfr. l’espressione enfatica di Gv 9,28, nel racconto del cieco nato: «tu discepolo sei (suè maqhthèv eù) di quello».
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se non Pietro66. Il secondo è stato interpellato, ha risposto affermativamente ed è uscito; ora tocca al primo fare la sua dichiarazione. Le differenze più importanti, nelle due formulazioni sono soprattutto due: il modo come è menzionato Gesù, e il modo come l’evangelista introduce le parole di rinnegamento di Pietro. Possiamo proporre il seguente schema: La figura di Gesù: tou% a\nqrwépou tou%tou au\tou%,
L’introduzione dell’evangelista: leégei e\ke_nov:
h\rnhésato e\ke_nov kaì eùpen
Nelle introduzioni dell’evangelista, man mano sembra progredire il rinnegamento, la figura di Gesù invece tende a scomparire. Man mano che progredisce il rinnegamento, la figura di Gesù sbiadisce, fino a scomparire. 3.3. Le risposte di Pietro Distinguiamo nelle risposte di Pietro tra la formula introduttiva, dovuta all’evangelista, e tra le dirette parole di Pietro. Nella formula introduttiva alle tre risposte notiamo un progresso. Nella prima espressione troviamo soltanto il verbo leégei (leégei e\ke_nov); poi, nella seconda espressione, troviamo una formula più enfatica: si introduce il verbo a\rneéomai e, mediante il verbo eùpen, anche le parole con cui Pietro rinnega (h\rnhésato e\ke_nov kaì eùpen); nella terza espressione infine abbiamo soltanto il verbo h\rnhésato, al centro, tra l’avverbio paélin e il nome proprio Peétrov, ma senza che sia pronunziata da lui alcuna parola (paélin
Cfr. le espressioni: a"llov maqhthév (v 15a) e o| maqhthèv o| a"llov (v 16a). Le due espressioni si relazionano in maniera concentrica: 66
a"llov maqhthév o| maqhthèv o| a"llov
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h\rnhésato Peétrov): si indica, in questo modo, che la negazione di Pietro è
ormai definitiva67. Possiamo notare schematicamente il seguente progresso68: v. 17: leégei e\ke_nov: ou\k ei\mò. v. 26: h\rnhésato e\ke_nov kaì eùpen: ou\k ei\mò. v. 27: paélin ou&n h\rnhésato Peétrov Le varie espressioni determinano un effetto che potremmo, in certo modo, descrivere anche in maniera visiva: man mano che il rinnegamento di Pietro progredisce, la figura di Gesù tende a scomparire: Pietro man mano cresce e Gesù man mano scompare, a differenza del Battista che, invece, decresce di fronte a Gesù (3,30). Le concrete parole poi con cui Pietro risponde, sono un breve, laconico ma decisivo ou\k ei\mò (non sono). Queste parole, nei vangeli sinottici, si leggono soltanto in Lc 22,58, nella seconda risposta di Pietro: alla domanda di un secondo personaggio, egli risponde semplicemente a"nqrwpe, ou\k ei\mò. Queste parole, in Giovanni, appaiono ancora più forti per il fatto che sono la prima, ripetuta la seconda volta, ma la sola risposta di Pietro; nella terza domanda infatti questi non offre alcuna risposta. Possiamo notare che, nei vangeli sinottici, il verbo a\rneéomai è usato: in Matteo, nella prima e seconda risposta (26,70.72); in Marco, nella prima e seconda risposta (14,68.70); in Luca nella prima (22,57). 67
Analogo progresso nella formula introduttiva appare anche nei vangeli sinottici, soprattutto in Matteo: 26,70: o| deè h\rnhésato e"mprosqen paénqwn leégwn: ou\k oàda tò leégeiv. 26,72: kaì paélin h\rnhésato metaè o$rkou o$ti ou\k oùda toèn a"nqrwpon. 26,74: toéte h"rxato kataqematòzein kaì o\mnuéein o$ti ou\k oàda toèn a"nqrwpon. La prima volta si dice che Pietro negò davanti a tutti; la seconda volta che negò con giuramento; la terza volta che cominciò a giurare e spergiurare. Gli interpreti non hanno mancato di sottolineare la gravità del rinnegamento di Pietro, data appunto dal fatto che essa avviene davanti a tutti, cfr. W.F. Albright - C.S. Mann, Matthew, Garden City 1971, 337, che vedono un richiamo a Mt 10,33; R. Fabris, Matteo, Roma 19962, 557; D.A. Hagner, Matthew, II, Dallas (Texas) 1995, 804-805. In Luca invece si nota un regresso di intensità: 22,57: o| deè h\rnhésato leégwn: ou\k oùda au\toén, guénai. 22,58: o| deè Peétrov e"fh: a\nqrwpe, ou\k ei\mò. 22,60: eùpen deè o| Peétrov: a"nqrwpe, ou\k oùda o£ leégeiv. La prima volta è usato il verbo h\rnhésato seguito dal participio leégwn, la seconda volta è usato soltanto il verbo e"fh:, la terza soltanto il verbo eùpen. 68
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Queste parole di Pietro, che nega di appartenere ai discepoli di Gesù, contrastano con altre risposte nel vangelo, date, rispettivamente, da Giovanni Battista e da Gesù stesso69. Le risposte di Giovanni sono pure negative. Alla domanda dei sacerdoti e dei leviti venuti da Gerusalemme «tu chi sei», Giovanni «confessò, non negò (ou\ h\rnhésato) e confessò che non sono io il Cristo (e\gwè ou\k ei\mò o| Cristoév)». Affermò anche di non essere (ou\k ei\mò) Elia o il profeta (v. 21). In 3,28 Giovanni ripete la sua negazione: ricorda ai discepoli di avere detto loro che «non sono (ou\k ei\mò) il Cristo», precisando la sua vera missione: essere stato mandato davanti a lui. Giovanni nega di essere quello che in realtà non è. Ancora importanti sono le dichiarazioni positive di Gesù, che afferma anzitutto quello che egli è (e\gwè ei\mò): il messia (4,26), il pane della vita (6,35.41.48.51), la luce del mondo (8,12; 9,5), la porta delle pecore (10,7.9), il buon pastore (10,11.14), figlio di Dio (10,36), la resurrezione e la vita (11,25), la via, la verità e la vita (14,6), la vite vera (15,1.5). Nega inoltre quello che non è (ou\k ei\mò): non è di questo mondo (8,23; 17,14.16). Si definisce inoltre semplicemente come “io sono (ou\k ei\mò)” (8,24.28.58; 13,19) e ai giudei che cercano “Gesù Nazareno”, egli risponde “Io sono (ou\k ei\mò) (18,5.6.8). Emerge allora maggiormente, in questo contesto, la paradossalità delle risposte di Pietro: Giovanni nega di essere quello che da altri gli si attribuisce ma non lo è, relegandosi al suo vero ruolo; Gesù nega quello che non è: non è di questo mondo; afferma quello che invece è; si presenta inoltre con una espressione che richiama l’identità divina: “Io sono” (Is 43,10); Pietro invece nega quello che dovrebbe essere70. 69 Notano Mateos-Barreto che la dichiarazione di Pietro “non sono” si oppone a quella di Gesù al Getsemani “Io sono”, cfr. J. Mateos - J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, trad. it., Assisi 1982, 712.
70 Ellis, riflettendo su questo verbo, ritiene che il peccato di Pietro nasce da timore e, in ciò, si distingue da quello di Giuda; nondimeno ha pure il carattere di apostasia, Cfr. E.E. Ellis, The Gospel of Luke, Grand Rapids 1983 (rist. dal 19742), 260. Secondo Gerardson il verbo a\rne_sqai implica un proprio attaccamento; Pietro così dichiara di non avere alcuna relazione con Gesù. Egli nega di avere Gesù come suo signore e maestro; nega pure il suo attaccamento a Gesù e anche di conoscerlo, cfr. B. Gerardson, Confession and Denial before Men: Observations on Matt 26,57-27,2, in JSNT 13 (1981) 46-66: 54.
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3.4. Peculiarità giovannee nelle domande rivolte a Pietro Fermando l’attenzione sulle prime due domande, emergono tre aspetti peculiari: anzitutto Pietro non è interrogato se appartiene, in modo generico, a quelli della cerchia di Gesù, ma, specificamente se appartiene alla cerchia dei suoi discepoli (e\k tw%n maqhtw%n); inoltre entrambe le domande sono introdotte mediante la particella mhé, di cui bisogna determinare il valore. Infine leggiamo la particella kaò (anche) che rivela che Pietro non è il primo a cui quelle domande sono state poste, ma che sono state rivolte a qualche altro: questi, dal contesto, non può essere se non l’altro discepolo che seguiva con lui Gesù dal Getsemani al palazzo di Anna ed entrò con Gesù nel palazzo. Oltre che mediante un parallelismo strutturale, l’evangelista, anche mediante questa particella, stabilisce una relazione di Pietro all’altro discepolo. Quanto al termine maqhthév, che caratterizza le prime due domande rivolte a Pietro, esso non può non essere accostato e relazionato alla figura “dell’altro discepolo” che entrò con Gesù e poi uscì, e anche alla domanda del sacerdote a Gesù riguardante i suoi discepoli. Questi accostamenti tuttavia saranno fatti ancora più opportunamente nella rilettura sintetica dei tre rinnegamenti. L’aspetto più sorprendente è indicato invece dalla particella negativa mhé, che pone il problema se la domanda rivolta a Pietro sia una domanda reale o una domanda retorica, da cui, chi la pone attende una risposta negativa. Essa corrisponderebbe alla particella latina “num”71. Il problema, che adesso poniamo, induce a considerare l’uso di questa particella nelle proposizioni interrogative, sia nel quarto vangelo, sia anche nel resto del NT. Nel vangelo di Giovanni la particella negativa mhé, nelle proposizioni interrogative, si legge nei seguenti testi: Gv 3,4; 4,12.33; 6,67; 7,31.35.41.47.48. 52; 8,53; 9,27.40; 10,21; 21,5. In questi testi, benché qualcuno di essi possa apparire più incerto72, la risposta che colui che Cfr. W. Bauer, Griechisch - Deutsches Wörterbuch, Berlin - New York 19886, sub voce, L. Rocci, Vocabolario greco – italiano, Milano – Roma – Napoli – Città di Castello 197123, sub voce; F. Zorell, Lexicon Graecum Novi Testamenti, Parisiis 19613, sub voce. 71
72 Ci riferiamo a 4,33, dove i discepoli si chiedono se qualcuno non abbia portato (mhé tiv h"negken) a Gesù da mangiare; anche a 6,67, dove Gesù chiede ai discepoli se anche
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interroga si attende, è negativa73. Anche nel NT si introduce, mediante la particella mhé, una domanda che attende una risposta negativa74. In questa prospettiva è difficile cogliere il senso esatto delle domande rivolte a Pietro. Esse possono essere domande reali che mirano a conoscere l’identità di un personaggio insolito in quel luogo e in quella cerchia, ma possono essere anche delle domande che desiderano una risposta negativa e che, forse, non senza magari un aspetto intimidatorio, mirano anche a provocarla. Benché non si possa escludere il primo aspetto, diversi elementi rivelano più plausibile il secondo aspetto, cioè le domande a Pietro mirerebbero ad ottenere da lui o anche a provocare una risposta negativa. Anzitutto l’uso della particella mhé, che, come appare da diversi esempi sia del vangelo di Giovanni come anche del resto del NT, prelude una risposta negativa. Inoltre la particella kaò che, nel contesto, richiama la figura del discepolo, che
loro non vogliono andarsene (mhè kaì u|me_v qeélete u!p| aégein;).
73 In Gv 3,34, alla proposta di Gesù di rinascere dall’alto, Nicodemo obietta: «forse che (mhé) (un uomo) può entrare nel grembo della madre e rinascere?»;in 7,41, a riguardo dell’origine del Cristo, alcuni dicevano: «forse (mhé) che dalla Galilea viene il Cristo?». si attende anche qui una risposta negativa. Analoga risposta negativa si attende in 4,12; 7,47.48.51.52; 8,53; 9,27.40 («forse che [mhé]» anche noi siamo ciechi?); 10,21 («forse che [mhé] un demonio può aprire occhi di ciechi»?); possiamo citare, in questo senso, anche 21,5 dove Gesù risorto, apparendo ai discepoli, chiede loro: «forse che non avete (mhé ti) companatico»? Una risposta positiva invece è attesa alla domanda del servo in 18,26: ou\k e\gwé se eùdon e\n t§% khép§ met}au\tou% (non io ti vidi nel giardino con lui?), ma essa è introdotta con la semplice particella negativa ou\k. Risposta positiva è attesa nella domanda introdotta con le due negazioni ou\ mhé; in Giovanni, l’unico caso, e assai importante, è 18,11, dove Gesù dice a Pietro: «Il calice che il Padre mi ha dato, forse che non (ou\ mhé) lo beva (pòw au\toé)». 74 Possiamo citare diversi testi a riguardo; Mt 7,9.10; 9,15; 11,23; Mc 2,19; Lc 5,34; 10,15; 11,11.12; 17,9; 22,35; At 7,28.42; 10,47; 25,27; Rm 3,3.5; 9,14.20; 10,18.19; 11,1.11; 13,3; 1Cor 1,13; 9,4.5.8.9; 10,22; 11,22; 12,29.29.29.29.30.30.30.30; 2Cor 3,1; 12,17. Altri testi sembrano più incerti: Mc 12,14; Gv 4,33; Rm 13,3. Una risposta negativa è attesa anche nelle domande introdotte dall’espressione mhéti. In Giovanni possiamo citare 18,35, dove Pilato chiede: «forse che io (mhéti) sono giudeo?»; più incerti appaiono forse Gv 4,29 e 8,22; Cfr. anche Mt 7,16; 12,23; 26,22.25; Mc 14,19; Lc 6,39; 9,13; Gv 4,29; 8,22;; At 10,47; 2Cor 1,17; 12,18; Gc 3,11.
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entrò e poi uscì75. Possiamo supporre anche che su quel discepolo, noto al pontefice, sia stata applicata la sanzione stabilita dai giudei che, chiunque avesse confessato lui, Gesù, come il Cristo, doveva essere allontanato dalla sinagoga (a\posunaégwgov geénhtai) (9,22)76. Questo aspetto può essere confermato anche dall’enfasi con cui l’evangelista descrive la posizione di Pietro con i servi attorno al fuoco, dopo il primo rinnegamento e prima del secondo. Avendo rinnegato Gesù, Pietro trova un posto in quella casa, a differenza del discepolo che, avendo rinnegato, da quella casa deve uscire. 3.5. La posizione di Pietro Dopo avere narrato il primo rinnegamento, l’evangelista ferma la sua attenzione (v. 18) sulla posizione di Pietro: egli stava con i servi e si scaldava. Alla stessa posizione l’evangelista allude ancora nel v. 25, prima del secondo rinnegamento, dopo avere narrato il dialogo tra Anna e Gesù. Le due descrizioni della posizione di Pietro, nei vv. 18 e 25a, sono incluse tra il primo e il secondo rinnegamento di Pietro e, a loro volta, includono direttamente il dialogo tra Gesù ed Anna77. La prima descrizione, nel v. 18, ha due parti; nella prima è descritta l’azione dei servi che stavano e
75 Alla luce della vicenda di Pietro possiamo anche leggere e comprendere quella del discepolo. Egli entrò con Gesù e si può supporre che a lui siano state poste le stesse domande che a Pietro. Il discepolo avrebbe confessato e sarebbe stato costretto ad uscire da quel luogo.
Così l’evangelista spiega la reticenza dei genitori a riguardo del cieco nato, se è loro figlio. In 12,42 l’evangelista nota che molti dei capi credettero in Gesù, ma non confessavano per non essere cacciati dalla sinagoga (a\posunaégwgoi geénwntai). 76
77 Nota Westcott che Pietro, essendo un estraneo, attirò l’attenzione quando Gesù, dopo il dialogo con Anna, fu condotto nel cortile, cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, cit., 257; pure Strachan osserva che, seduto al braciere, Pietro è esposto ad ulteriori domande, cfr. R.H. Strachan, The Fourth Gospel. Its Significance and Environment, cit., 310.
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si scaldavano, avendo fatto dei carboni78, poiché era freddo; nella seconda è descritta la posizione di Pietro79. Sul fatto stesso della posizione di Pietro concordano tutti e quattro gli evangelisti, concordano pure sulla sua compartecipazione alla posizione dei servi dei sacerdoti; Pietro era: “con loro (met’au\tw%n)” (Giovanni), “con i servi (metaè tw%n u|phretw%n)” (Matteo-Marco), “nel mezzo di essi (meésov au\tw%n)” (Luca). Divergono però nei particolari concreti. Matteo (26,58) si limita a dire che Pietro sedeva (e\kaéqhto) con i servi (metaè tw%n u|phretw%n) per vedere la fine (i\de_n toè teélov); il primo evangelista non parla del fuoco attorno a cui Pietro sedeva. Del fuoco invece parlano gli altri evangelisti. Marco (14,54) scrive che Pietro «stava seduto (h&n sugkaqhémenov) con i servi (metaè tw%n u|phretw%n) e si scaldava (kaì qermainoémenov) al fuoco (proèv toè fw%v)»: secondo Marco il fuoco doveva essere già acceso. Secondo Luca (Lc 22,55) invece i servi accesero il fuoco: «avendo acceso il fuoco (periayaéntwn deè pu%r) in mezzo al cortile (e\n meés§ th%v au\lh%v) e, sedendo assieme (kaì sugkaqisaéntwn), Pietro sedeva (e\kaéqhto) in mezzo a loro (meésov au\tw%n)». L’espressione giovannea ha due parti: nella prima si indica la posizione dei servi; nella seconda parte di descrive invece quella di Pietro. La prima parte comprende quattro frasi, di cui la prima e la quarta sono caratterizzati da verbi coordinati diretti, la seconda e terza sono invece espressioni dipendenti. 78 Il termine a\nqrakòa, usato soltanto qui e in 21,9, indica un fuoco di carboni in un braciere, che non fa fiamma, cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, cit., 598; E.C. Hoskyns –F.N. Davey, The Fourth Gospel, London 19472, 513; A. Plummer, The Gospel according to St. John, cit., 311; B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, cit., 256.
79 Westcott ritiene l’elemento del fuoco inverosimile; essendo caldo, il tempo primaverile in Palestina, cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, cit., 256. Altri interpreti ritengono invece che agli inizi di Aprile ci doveva essere freddo a Gerusalemme, essendo a circa 780 metri sul mare, cfr. F.M. Braun, Évangile selon Saint Jean, Paris 19502, 456; M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, Paris 19487, 464; E. Schick, Das Evangelium nach Johannes, cit., 157; R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 373; M.C. Tenney, The Gospel of John, cit., 172: F. Tillmann, Das Johannesevangelium, cit., 308.
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Possiamo così evidenziare nel testo la seguente struttura: ei|sthékeisan deè oi| dou%loi kaì oi| u|phreétai (principale) a\nqrakiaèn pepoihkoétev (circostanziale) o$ti yu%cov h&n (causale) kaì e\qermaònonto: (principale coordinata) I servi e i ministri (oi| dou%loi kaì oi| u|phreétai) sono l’unico soggetto dei due verbi diretti ei|sthékeisan e e\qermaònonto che sono coordinati: essi stavano e si scaldavano; il primo verbo principale è “stavano (ei|sthékeisan)”, a cui si collega, in rapporto di consequenzialità, il secondo verbo diretto “si scaldavano (e\qermaònonto)”. Al centro ci stanno le due espressioni dipendenti. La prima delle due (a\nqrakiaèn pepoihkoétev,), o la seconda in assoluto, è una espressione participiale che indica la circostanza dell’azione di stare; la seconda delle due, o la terza (o$ti yu%cov h&n), contiene il motivo per cui si scaldavano: faceva freddo; ma contiene anche il motivo (o$ti) per cui i servi e i ministri avevano fatto la brace. Il verbo ei|sthékeisan è proprio giovanneo; Matteo e Marco non indicano la posizione dei servi; Luca invece la indica con l’espressione “sedendo assieme (kaì sugkaqisaéntwn)”. I tre vangeli sinottici indicano invece, con il verbo kaéqhmai, la posizione di Pietro: Matteo e Luca con il verbo all’imperfetto (e\kaéqhto), Marco con l’espressione perifrastica h&n sugkaqhémenov. Tutti notano che stava seduto con i servi: anche i servi perciò sedevano. In Giovanni non solo è usato diverso verbo (ei|sthékeisan) ma esso è usato anche in maniera assoluta. Avendo fatto una brace e scaldandosi, è evidente che i servi stavano presso di essa; l’evangelista però esplicitamente non lo dice: usa così il verbo in maniera assoluta. In questo modo, si sottolinea la posizione dei servi, radicati in un certo luogo e in una certa situazione80. Nell’espressione circostanziale a\nqrakiaèn pepoihkoétev,, soprattutto attira l’attenzione il termine a\nqrakiaén. Esso indica un cumulo di carboni, un fuoco fatto di carboni. Tale termine, un singolare collettivo, nel NT, si legge soltanto due volte, sempre nel vangelo di Giovanni: nel nostro testo Non è soltanto in questo testo che il verbo i$sthmi, nelle sue varie forme, è usato in maniera assoluta. Possiamo citare in questo senso anche, 1,35; 3,29 (o| e|sthkwèv kaì a\kouéwn), 7,37, 11,56; 12,29; 18,5.16; 19,25 (ei|sthékeisan); 20,11.14.19.26; 21,4 (e"sth). 80
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e in 21,9. Nei LXX si legge solo due volte, in Sir 11,32 e in 4Mac 9,20; inoltre si legge nel Sal 119 (120),4 secondo la versione di Aquila. Non pare che qualcuno degli usi dell’AT appena indicati possa illuminare, in qualche modo, il nostro testo. Osserviamo però che, nel contesto di usi rarissimi, i due usi del vangelo di Giovanni, a distanza relativamente ravvicinata, appaiono anche troppi. Il termine a\nqrakiaé non è coniato dal nostro evangelista, ma forse egli poté avere qualche motivo per usarlo. In 21,9 leggiamo che i discepoli, con la rete dei pesci, «salirono alla terra e vedono (bleépousin) brace (a\nqrakiaén) giacente (keineénhn) e pesce sopragiacente (o\yaérion e\pikeòmenon) e pane (a"rton)». Non entriamo nel merito di 21,981, notiamo soltanto che tutto il contesto suggerisce che sia stato Gesù a preparare quel mucchio di carboni con ciò che vi è sopra. Segue infatti nel v. 10 il comando di Gesù stesso a portare dei pesci che hanno preso; nel v. 11 Pietro tirò la rete con i 153 grossi pesci; nel v. 12 c’è l’invito di Gesù a venire e mangiare. Ci sembra di scorgere una certa contrapposizione tra il termine a\nqrakiaé usato in 18,18 e lo stesso termine usato in 21,9. Nel primo testo sono i servi e i ministri che hanno fatto quel cumulo di brace, in 21,9, invece, sembra essere stato Gesù. In entrambi i testi Pietro appare relazionato al cumulo di carboni: in 18,18 a quello fatto dai servi nel quale, in certo senso, appare sottomesso, in 21,9 a quello fatto da Gesù, al quale egli conduce. Secondo 18,18 Pietro passivamente “era stante (h&n […] e|stwév)”, in 21,9-12 invece egli è colui che, attivamente, tira (ei$lkusen) la rete con i 153 pesci82. 81 A riguardo ci permettiamo di rimandare al nostro Studio, I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni, III. Manifestazione di Gesù presso il lago, Acireale 1993, 255-283.
82 Sembra emergere allora una contrapposizione tra due stati di Pietro, legati a due situazioni diametralmente opposte, quella legata ai rinnegamenti attorno ad un punto di riferimento, un fuoco preparato dagli uomini in un luogo ostile a Gesù, e quella legata, superato il rinnegamento, alla sua missione di pescatore, verso un altro punto di riferimento, un fuoco preparato da Gesù, dove c’è il pane e il pesce che lui dona. Possiamo dire probabilmente che i due usi del termine a\nqrakiaé indichino i due momenti, iniziale e finale della storia di Pietro, dal coinvolgimento nella situazione dei servi del sacerdote alla dimensione del pescatore che porta la rete a Gesù.
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Il motivo (o$ti) per cui i servi e i ministri fecero la brace, è indicato subito dopo: “era freddo (yu%cov h&n)”. Tale motivazione è ovvia: c’è freddo, infatti, a Gerusalemme, in una notte di inizio di primavera, in un luogo aperto quale può essere un cortile. È normale allora che, quelli che dovevano stare all’aperto, accendessero il fuoco per scaldarsi. Emerge però la domanda: perché Marco e Luca, che menzionano il fuoco, specialmente Luca che menziona l’accensione (periayaéntwn deè pu%r), non indicano questa motivazione? Si tratta, quella di Giovanni, di una semplice indicazione atmosferica oppure nasconde un significato più profondo? Dallo stesso termine yu%cov non possiamo dedurre nulla; esso infatti, nel vangelo di Giovanni si legge soltanto nel nostro testo di 18,18; in tutto il NT poi si legge soltanto altre due volte, in At 28,2 e in 2Cor 11,27. In At 28,2 Luca ricorda come i maltesi riservarono ai naufraghi, tra cui c’era anche Paolo, grande accoglienza, preparando un grande fuoco sia per la pioggia sopraggiunta sia per il freddo. In 2Cor 11,27 Paolo, tra le tante difficoltà sostenute, ricorda anche il freddo e la nudità. L’indicazione che “era freddo” forse può richiamare però altre indicazioni analoghe nel vangelo di Giovanni. In 10,22 l’evangelista nota che era la festa della dedicazione ed era inverno (ceimwèn h&n): in questa circostanza Gesù passeggiava nel tempio e i giudei gli chiesero di dire apertamente se egli era il Cristo. Segue un lungo discorso, che si conclude però con il tentativo dei giudei di lapidare Gesù. In 13,30, all’uscita di Giuda, l’evangelista nota che “era notte (h&n deè nuéx)”; la notte è il tempo quando nessuno può operare (9,4), in cui chi vi cammina inciampa (11,10), in cui i discepoli non presero nulla (21,3). Tutte queste categorie: freddo, inverno, notte, possono forse richiamare e ricondursi a quella primordiale di skotòa (tenebra). Si può richiamare anche 18,3 dove si legge che Giuda e gli altri vennero a catturare Gesù con lanterne, fiaccole ed armi. In Lc 22,30 il terzo evangelista fa dire a Gesù: «questa è la vostra ora e il potere delle tenebre (tou% skoétouv)». Al contrario, possiamo citare anche testi e immagini positive. In 18,28 si legge che “era mattino” ed i giudei non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e mangiare la pasqua. In 19,14 leggiamo che «era la parasceve della pasqua, ora era circa sesta» e Pilato proclama: «ecco il vostro
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re». Inoltre in 1,39 l’ora decima è l’ora in cui i due discepoli rimasero con Gesù. Inoltre richiamiamo 4,6 (“ora era circa sesta”); 5,1 (“era la festa dei giudei”); 5,9 (“era sabato”); 6,4 (“era vicina la pasqua, la festa dei giudei”); 7,2 (“era vicina la festa dei giudei, i tabernacoli”); 9,14 (“era sabato”); 11,55 (“era vicina la pasqua dei giudei”). Queste indicazioni andrebbero considerate ciascuna individualmente, ci possiamo chiedere però se, almeno alcune, analogamente a quelle precedenti ricondotte alla categoria delle tenebre, non possano ricondursi alla categoria della luce (fw%v). Se queste considerazioni sono vere, possiamo concludere che l’indicazione “era freddo” di 18,18 rivela che la situazione dei servi e ministri e, più genericamente, la situazione nella casa di Anna, è quella “del freddo” che dev’essere smorzato dalla brace, come la situazione “di tenebre (18,3)” che dev’essere smorzata da fonti di luce. I servi sono in situazione di freddo; hanno bisogno perciò di farsi della brace (a\nqrakiaén). In questa situazione entra Pietro e la sua posizione è identica a quella dei servi e ministri. Possiamo infatti stabilire il seguente parallelismo: Servi e ministri Pietro
h&n deè kaì ei|sthékeisan o| Peétrov deè oi| dou%loi kaì oi| u|phreétai met’au\tw%n e|stwèv kaì e\qermaònonto: kaì qermainoémenov Tra il verbo h&n e il participio e|stwév, che si appartengono, l’evangelista introduce tre elementi: la particella kaò (anche), il nome proprio o| Peétrov (Pietro), il complemento met’au\tw%n (con loro). Al centro è menzionato
Pietro, che si è così integrato nella posizione dei servi e dei ministri. Possiamo notare che questa indicazione della posizione dei servi e della cooptazione di Pietro in essa, è menzionata dopo il primo rinnegamento; dobbiamo perciò concludere che è stato proprio il primo rinnegamento ad avvicinare e coinvolgere Pietro nella situazione e posizione dei servi e dei ministri del sacerdote. Nel v. 25 è ancora descritta la posizione di Pietro. Essa è in parte identica alla precedente, ma presenta anche delle differenze rispetto al v. 18. In
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particolare le differenze sono quattro: tre omissioni e una aggiunta, come si rileva dal seguente schema: v. 18: h&n deè kaì o| Peétrov met’au\tw%n e|stwèv kaì qermainoémenov v. 25: h&n deè --- Sòmwn Peétrov -------- e|stwèv kaì qermainoémenov. Le tre omissioni sono: la menzione della situazione dei servi, la particella kaò (anche) e l’espressione met’au\tw%n (con loro). L’aggiunta è il nome Sòmwn che enfatizza il nome di Pietro (Sòmwn Peétrov). Tutte queste osservazioni indicano che Pietro, la seconda volta, non è più partecipe della situazione dei servi e ministri, ma è rimasto del tutto solo e al centro di quella situazione. Si direbbe che quella situazione è diventata profondamente sua. Troviamo così un progresso nella posizione di Pietro tra i giudei, dalla compartecipazione alla totale solitudine nel cuore di quella posizione. Possiamo anche chiederci, ma in parte abbiamo già indicato la risposta, da che cosa essa è stata determinata; notiamo per il momento che tra le due descrizioni (v. 18 e v. 25) ci sono i vv. 19-24: il dialogo cioè tra Gesù ed Anna. In questo dialogo probabilmente deve essere cercata la risposta. 4. La terza domanda La terza domanda, rivolta a Pietro nella casa del sacerdote, è caratterizzata, nella narrazione giovannea, da diverse peculiarità rispetto a quella corrispondente riferita dai vangeli sinottici. La prima peculiarità, anzitutto, riguarda la persona che interroga. Nei vangeli sinottici, come abbiamo già osservato, quelli che interrogano la terza volta Pietro sono personaggi generici: gli astanti (oi| e|stw%tev) secondo Matteo, i presenti (oi| parestw%tev) secondo Marco, un altro non ben identificato (a"llov tiv) secondo Luca. In Giovanni invece, dopo il generico plurale (eùpon), a cui è attribuita la seconda domanda, il terzo che interroga è un personaggio molto concreto e determinato: si tratta di “uno dei servi del sacerdote (eàv e\k tw%n douélwn tou% a\rciereéwv)”, non però di uno qualsiasi, bensì, specificamente, di “quello che era cognato (suggenhèv w!n)”, di colui del quale (ou/) tagliò (a\peékoyen) Pietro l’orecchio destro (toè w\taérion toè dexioén) (18,10).
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A riguardo di questo servo, Kysar83 osserva che la sua menzione con la menzione dell’azione al Getsemani, mostra la crescente futilità di Pietro a nascondere la sua identità. Leon-Dufour84 nota che si tratta di un testimone oculare. Lindars85 spiega che quel servo, che aveva visto Pietro al chiarore delle torce, adesso lo vede al chiarore del fuoco. Plummer86 deduce che tale precisione è possibile solo se “l’altro discepolo” è lo stesso evangelista. Secondo Schnackenburg87, nel terzo rinnegamento, Giovanni segue una tradizione speciale. Osserva Tenney88 che, alla sua domanda, il servo si attende una risposta positiva, basandosi sulla sua esperienza. Pietro invece nega. Secondo Westcott89 si tratta di un dettaglio che evidenzia la conoscenza dei servi da parte dell’evangelista. Menzionando questo servo, il quarto evangelista stabilisce una precisa relazione con l’episodio al Getsemani, con l’azione di Pietro cioè che recise l’orecchio di un servo, e anche con la persona stessa a cui Pietro recise l’orecchio, il cui nome era Malco90. Probabilmente, alla luce di Giovanni, i fatti sarebbero andati nel seguente modo: dopo la domanda della serva portinaia e la conseguente risposta, Pietro si mescolò con gli altri servi; in quel gruppo, persone non ben definite gli rivolsero la domanda, in esso si trovava appunto anche il cognato di Malco, anche lui al Getsemani, che poté così contestare facilmente a Pietro, con la sua testimonianza oculare (ou\k e\gwé se eùdon), le sue risposte91. 83
Cfr. R. Kysar, John, cit., 274.
Cfr. X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, IV, trad. it., Cinisello Balsamo 1998, 79. 84
85 86 87 88 89
Cfr B. Lindars, The Gospel of John, cit., 555.
Cfr. A. Plummer, The Gospel according to St. John, cit., 313.
Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, trad. it., Brescia 1981, 372. Cfr. M.C. Tenney, The Gospel of John, cit., 173.
Cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, cit., 257.
Osservano Hoskyns-Davey che, con la terza domanda, il servo rimanda alla presenza e all’azione di Gesù al Getsemani. Appare così davanti a tutti la falsità e l’infedeltà di Pietro, Cfr. E.C. Hoskyns –F.N. Davey, The Fourth Gospel, cit., 514. 90
91 Nota Bernard che il pronome e\gwé è molto enfatico, quasi a dire “con i miei propri occhi”., Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel accor-
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Una seconda peculiarità riguarda il contenuto della domanda. Come abbiamo già osservato, questa terza non è una nuova domanda rivolta a Pietro come nei vangeli sinottici, bensì una obbiezione alle sue precedenti risposte. Questi ha negato due volte di essere discepolo di Gesù, adesso il servo gli contrappone la sua testimonianza oculare: anch’egli era al Getsemani ed era pure cognato di colui al quale Pietro recise l’orecchio. Egli non solo ha visto Pietro al Getrsemani, ma ha assistito pure al suo grottesco intervento in difesa di Gesù. Tuttavia l’intervento del servo non è senza una certa relazione con le domande dei vangeli sinottici. Le prime due domande, se Pietro è dei discepoli di Gesù, richiamano le domande dei Sinottici se egli appartiene al gruppo di quelli che seguivano Gesù; il terzo intervento invece richiama le domande dei Sinottici, se Pietro era con (metaé) con Gesù. Stavolta a Pietro non è posta alcuna domanda: egli era con Gesù e, a riguardo, c’è un testimone oculare che può affermarlo. Altre peculiarità, come abbiamo già notato, sono la duplice relazione, sia al fatto avvenuto al Getsemani, sia anche alla persona che subì quell’intervento di Pietro. Da queste relazioni prescindiamo: è sufficiente soltanto osservare che, nel terzo intervento, quello del servo cognato, Pietro è smentito nel suo rinnegamento ed è anche affermato, da parte di quel servo, il suo essere con Gesù. 5. Il canto del gallo Tutti e quattro gli evangelisti narrano che, dopo il terzo rinnegamento, un gallo cantò. Esso, secondo i vangeli sinottici, segna l’inizio del pentimento92. Possiamo stabilire tra gli evangelisti il seguente confronto: ding to St. John, II, cit., 603.
92 Secondo Gächter (cfr. P. Gächter, das Matthäusevangelium, Innsbruck 1962, 893.), è verosimile che si tratti di un solo canto del gallo; così anche secondo Wenham (cfr. J.W. Wenham, How Many Cock-Crowings? The Problem of Harmonistic Text-Variants, in NTS 25 (1978-1979), 523-525. Brady (cfr: D. Brady, The Alarm to Peter in Mark’s Gospel, in JSNT 4 (1979) 42-57), al contrario, ritiene originale in Marco il duplice canto del gallo. Lattey (cfr. C. Lattey, A Note on Cock-Crow, in Script 6 (1953) 53-55.) osserva poi che l’interesse per il canto del gallo nacque nella tradizione primitiva in relazione alla
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Mt 26,74
Mc 14,72
Lc 22,60
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Gv 18,27
Kaì eu\qeéwv Kaì eu\quèv kaì paracrh%ma Kaì eu\qeéwv e"ti lalou%ntov au\tou% e\k deuteérou e\fwénhsen a\leéktwr a\leéktwr a\leéktwr a\leéktwr e\fwénhsen e\fwénhsen e\fwénhsen
Matteo e Giovanni sono quasi identici; Marco aggiunge l’espressione
e\k deuteérou (per la seconda volta): il secondo evangelista infatti presup-
pone due canti del gallo; Luca coincide, pur invertendoli, nei due elementi e\fwénhsen a\leéktwr; usa però l’espressione kaì paracrh%ma (e improvvisamente) e anche aggiunge l’espressione e"ti lalou%ntov au\tou% (mentre ancora parlava). Giovanni è identico a Matteo; in questo elemento il quarto evangelista concorda con la tradizione sinottica. I vangeli sinottici però, dopo la menzione del canto del gallo, narrano anche la reazione di Pietro in quattro elementi: il ricordo, la rievocazione delle parole di Gesù in concomitanza con il canto del gallo, l’uscita di Pietro e il pianto amaro. Quanto al ricordo, Matteo, in 26,75, scrive: «e ricordò (kaì e\mnhésqh) Pietro della parola (tou% r|hm é atov) di Gesù (}Ihsou%) che aveva detto (ei\rhkoétov)»; Marco, in 14,72b, scrive: «e ricordò (kaì e\mnhésqh) Pietro la parola (toè r|hm % a) come disse a lui (w|v eùpen au\t§%) Gesù (}Ihsou%)»; Luca, in 22,61b, scrive: «e si ricordò (kaì u|pemnhésqh) Pietro della parola del Signore (tou% loégou tou% kuròou) come disse a lui (w|v eùpen au\t§%)». Sostanzialmente i tre evangelisti, soprattutto Matteo e Marco, concordano; Luca aggiunge, nel v. 61a, la menzione dello sguardo del Signore93: al canto del gallo, il Signore, voltatosi, guardò Pietro. profezia del rinnegamento di Pietro. il tempo del canto non si può determinare, forse tra le ore tre e le cinque del mattino. Una proposta singolare, quanto meno da verificare, è stata avanzata da Mayo (Cfr. C.H. Mayo, St. Peter’s Token of the Crock-Crow, in JTS 22 (1921) 367-370.): secondo tutti gli interpreti, il gallo, al cui canto inizia la conversione di Pietro, è il comune animale volatile; Mayo però ritiene che il segno dato da Gesù, e poi riconosciuto da Pietro, non era il canto di un gallo domestico che si era svegliato, ma il “gallicinium”, il suono della bucina cioè che segna la fine della terza veglia e determina il cambio di guardia.
93 Lo sguardo di Gesù e il suo significato è stato evidenziato da quasi tutti gli interpreti del racconto lucano, che si chiedono anche in quale momento e dove sia avvenuto. Marshall
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Quanto alle parole di Gesù, possiamo stabilire il seguente confronto: Mt 26,75b Mc 14,72b Lc 22,61b o$ti o$ti o$ti prìn prìn prìn a\leéktora a\leéktora a\leéktora fwnh%sai fwnh%sai fwnh%sai dìv
(Cfr. J.H. Marshall, The Gospel of Luke, Exeter 1978, 844) nota che il particolare dello sguardo di Gesù è ritenuto da alcuni come invenzione lucana (Menziona Dibelius, Leaney, Klein, Schneider) o come un elemento pre-lucano (Menziona Catchpole); ritiene però che è possibile che ciò avvenne quando Gesù fu condotto da Anna a Caifa, oppure quando egli si trovava nel cortile. Lagrange (Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon Saint Luc, Paris 19487, 570) ritiene lo sguardo di Gesù molto bello, e nulla autorizza a dubitare della sua storicità. Matteo e Marco lo omettono forse perché avevano detto che Gesù era stato condotto dentro; Luca invece non lo ha detto, dando così l’impressione che Gesù era lì con i soldati. Secondo Schweizer (Cfr. E. Schweizer, Il vangelo secondo Luca, trad. it., Brescia 2000, 328) Luca presuppone che Gesù si trovasse nello stesso cortile dove si trovava anche Pietro, oppure che, essendo in casa, era visibile da Pietro magari attraverso una finestra aperta. Emerge subito una domanda: quando Gesù, sul piano storico, poté essere in grado di guardare Pietro, se egli era all’interno della casa e Pietro era fuori? Wiefel (Cfr. W. Wiefel, Das Evangelium nach Lukas, Berlin 1987, 383.) si chiede in quale momento poté avvenire lo sguardo di Gesù. Qualche risposta è stata già ipotizzata dagli interpreti sopra citati. Morris (Cfr. L. Morris, Luke, cit., 316.) ipotizza tre possibilità: Gesù era nel cortile, era sopra in una stanza che permetteva di guardare giù, durante il trasferimento da Anna a Caifa. In ogni caso, Gesù era in un posto in cui poteva vedere Pietro.Secondo Plummer (Cfr. A. Plummer, The Gospel according to S. Luke, Edinbourgh 19225, 517.) probabilmente Pietro era nel cortile e Gesù era dentro: è improbabile che Gesù fosse dentro quando Pietro rinnegò. Egli può essere stato visibile attraverso porte e finestre, ma difficilmente può avere sentito. Una risposta potrebbe esserci suggerita da Giovanni. Narra il quarto evangelista che Anna mandò legato Gesù da Caifa (Gv 18,24). Per potere essere trasferito dalla casa di Anna a Caifa, Gesù dovette uscire fuori e verosimilmente attraversare il cortile dove era Pietro. Fu in questa circostanza che lo sguardo di Gesù incrociò quello di Pietro? Quando avvenne tale trasferimento? Avvenne quando Gesù fu oggetto di scherno da parte dei servi del sacerdote, stando fuori? In realtà forse all’evangelista non interessa nemmeno precisare il tempo e il luogo dove lo sguardo di Gesù poté incrociare quello di Pietro. A lui interessa soltanto stabilire una relazione di dipendenza del pentimento di Pietro dallo sguardo di Gesù. Secondo il terzo evangelista non fu il canto del gallo a risvegliare il ricordo di Pietro e indurlo al pianto penitente, bensì lo sguardo di Gesù che, voltatosi (strafeòv), lo fissò (e\neébleyen) in maniera quasi penetrante e molto significativa. Di analogo sguardo da parte di Gesù si legge nell’episodio di Zaccheo in Lc 19,5.
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shémeron trìv trìv a\parnhés+ a\parnhés+ me me me a\parnhés+ trìv
In questo elemento i tre evangelisti sono quasi identici. Prescindendo dall’inversione degli ultimi tre elementi, Marco aggiunge l’avverbio numerale dòv (due volte)94; Luca aggiunge l’avverbio di tempo shémeron (oggi). Queste parole sono la rievocazione di ciò che Gesù preannunziò a Pietro, che si vantava di non scandalizzarsi mai, sulla via verso il Getsemani in Matteo e Marco (Mt 26,34; Mc 14,30), o nel cenacolo secondo Luca e Giovanni (Lc 22,34; Gv 13,38b). Quanto poi all’uscita di Pietro e al pianto amaro, possiamo confrontare insieme, per la loro brevità questi due elementi nei tre evangelisti: Mt 26,75c Mc 14,72c Lc 22,62 Kaì kaì kaì e\xelqwèn e\pibalwèn e\xelqwèn e"xw e"xw e"klausen e"klaien e"klausen pikrw%v pikrw%v
Matteo e Luca sono identici; Marco presenta invece delle differenze: il verbo e\pibalwén, participio aoristo da e\pibaéllw, non sembra evocare l’uscita, bensì l’irrompere violentemente in pianto95: «avendo irrotto (in pianto) (e\pibalwén) piangeva (e"klaien)». L’imperfetto e"klaien indica poi una azione continua: scoppiato in pianto, Pietro dovette piangere anche a lungo96. Solo Marco, nella predizione del rinnegamento da parte di Gesù, parla di un duplice canto del gallo. L’attestazione testuale è abbastanza ampia: solo i codici ) D W, diversi codici dell’antica versione latina, le versioni armena ed etiopica depennano in Mc 14,30 l’avverbio numerale dòv, intendendo così un solo canto. 94
95
Cfr. F. Zorell, Lexicon graecum Novi Testamenti, cit., sub e\pibaéllw.
È difficile tradurre in buon italiano questo participio. Parafrasando, possiamo dire che Pietro irruppe in un pianto improvviso e violento. Esso caratterizza l’inizio della reazione di Pietro a cui fa seguito l’azione continua espressa dall’imperfetto e"klaien. Questo imperfetto esprime continuità (cfr. C.S. Mann, Mark, Garden City, New York 1986, 632.). Marco in questo modo vorrebbe sottolineare che Pietro si abbandonò ad un pianto violento e prolungato. L’espressione marciana, per il suo carattere stereotipato, si rivela alquanto 96
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In tutti e tre i vangeli sinottici, il canto del gallo ha lo scopo di rievocare a Pietro le parole di Gesù, e tale rievocazione determinò in lui un pianto prolungato (Marco) e amaro (Matteo e Luca); si direbbe che esso segni in Pietro l’inizio del processo del suo ravvedimento. Forse possiamo anche dire che il canto del gallo, che rievoca a Pietro le parole di Gesù, porta a lui le sue parole; non sarebbe perciò esso a determinare il ravvedimento di Pietro, benché ne sia l’inizio, bensì, in ultima analisi, la parola di Gesù da esso veicolata, che, così, raggiunge Pietro. Il vero soggetto, nel ravvedimento di Pietro, secondo i sinottici, è così non il canto del gallo, bensì la parola di Gesù. Giovanni menziona il canto del gallo, ma non ha nulla di tutto quello che, a riguardo di Pietro, dicono i sinottici. Il quarto evangelista non menziona né il ricordo delle parole di Gesù, né l’uscita, né il pianto. Con il canto del gallo, in 18,27, l’evangelista conclude la sua narrazione del
complessa. Gli interpreti non hanno mancato di discutere anche su di essa. Una panoramica delle diverse interpretazioni è proposto da Brown, (Cfr. R.E. Brown, La morte del Messia; cit., 691-692). Anderson (Cfr. H. Anderson, The Gospel of Mark, Grand Rapids / London 1976, 333.) riferisce al verbo e\pibaéllw, nel testo di Marco, diversi significati: coprire la propria testa, gettarsi nei propri vestiti, anche precipitarsi fuori. Danson (Cfr. J.M. Danson, The Fall of St. Peter, in ExpTim 19 (1907-1908) 307-308.) traduce: «quando pensò a ciò (when he thought thereon), piangeva». L’espressione tradisce la carica emotiva di Pietro che ricordò, anche in seguito, le parole di Gesù. Cole (Cfr. R.A. Cole, Mark, Grand Rapids 19892, 232.) traduce semplicemente «cominciò a pensare»; così, più o meno, anche Evans (Cfr. C.A. Evans, Mark 8,27-16,20, Nashville 2001, 466.). Herron (Cfr. R.W.Jr. Herron, Mark’s Account of Peter’s Denial of Jesus: A History of Its Interpretation, cit., 141.) ritiene, con Moulton, che la frase esprime l’iniziale parossismo e la lunga continuazione. In questa stessa prospettiva di inizio è anche Lee (Cfr. G.M. Lee, St. Mark 14,72: e\pibalwèn e"klaien, in ExpTim 61 [1949-1950] 160; cfr Id., Mark 14,72: e\pibalwèn e"klaien, in Bib 53 (1972) 411-412.), che traduce “cominciò a piangere”, “si accinse a piangere”. Spiega che tale traduzione è suffragata da Diogene Laerzio (VI,27), il quale ha l’espressione e\peébalen teretòzein (cominciò a fischiettare). Secondo Lagrange (Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon Saint Marc, Paris 19294, 409) il verbo indica la crisi di pianto che scoppia improvvisamente, ma non esclude il senso di inizio. Secondo Pesch (Cfr. R. Pesch, Il Vangelo di Marco, II, cit., 662.) il verbo equivale al latino “aggredior (porre mano a qualcosa)”. L’identità della formulazione in Matteo e Luca suggerisce che l’espressione era già così formulata nella fonte. Il primo e terzo evangelista l’avrebbero conservata perché già esprimeva bene l’intensità del dolore di Pietro.
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processo-dialogo tra Anna e Gesù, iniziato nel v. 12: nel seguente v. 28 inizia infatti il processo davanti a Pilato che si protrae poi fino a 19,16a. In questa prospettiva, sembra che il canto del gallo, nella narrazione del quarto evangelista, non abbia il duplice senso di confermare il rinnegamento di Pietro e segnare, nello stesso tempo, l’inizio della conversione, come nei sinottici, ma abbia un solo senso: confermare il rinnegamento97. Pietro ha apertamente rinnegato e il gallo, con il suo canto, lo conferma, dichiarando anche realizzata, in questo modo, la parola di Gesù che lo aveva preannunziato (13,38)98. 6. Il senso dei rinnegamenti di Pietro Possiamo adesso tentare di cogliere globalmente il senso dei tre rinnegamenti di Pietro nella narrazione giovannea. Due elementi soprattutto ci sembra importante riproporre: la struttura letteraria e il termine maqhthév. La struttura letteraria, già indicata, sinteticamente è la seguente: 1. Primo rinnegamento, 2. Posizione di Pietro tra i servi e i ministri, 3. Dialogo tra Gesù ed Anna, 4. Posizione di Pietro in assoluto, 5. Secondo rinnegamento. 6. Obbiezione e terzo rinnegamento Da questa struttura, come abbiamo già notato, appare chiaro che il quarto evangelista vuole includere, tra i primi due rinnegamenti, il dialogo tra Gesù ed Anna. Quanto poi al termine maqhthév, esso è usato tre volte, nei vv. 15-16, riferito al discepolo, poi nella prima domanda a Pietro (v. 17), e quindi all’inizio della narrazione del dialogo tra Gesù ed Anna (v. 19), poi ancora nella seconda domanda a Pietro (v. 25). 97 Osservano Mateos-Barreto che il canto del gallo è il grido di vittoria delle tenebre. Quando Pietro ha rinnegato, rinunciando alla vita, ed è integrato con il gruppo dei giudei, la tenebra ha trionfato, cfr. J. Mateos - J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, cit., 716.
Nota Schwank che il punto culmine del racconto Giovanneo è il canto del gallo, cfr. B. Schwank, Evangelium nach Johannes, cit., 433. 98
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Limitatamente al riferimento a Pietro, esso costituisce il diretto oggetto delle prime due domande rivolte a lui e uno dei due espliciti argomenti su cui Anna fa vertere il suo dialogo con Gesù. Per l’elemento del maqhthév e per la struttura letteraria, la relazione tra i primi due rinnegamenti e il dialogo tra Gesù ed Anna appare evidente. Emerge allora la domanda sul senso di tale relazione. Per potere rispondere ad essa, forse bisogna tornare a rileggere il dialogo. Anna interroga Gesù su due realtà: i suoi discepoli (perì tw%n maqhtw%n) e la sua dottrina (perì th%v didach%v). Gesù dà ad Anna, all’inverso, due risposte: la prima riguarda la sua dottrina (v. 20), la seconda riguarda i discepoli (v. 21)99. Quanto al contenuto della sua dottrina, Gesù non dice nulla. La sua risposta però mostra la colpevolezza di Anna. Gesù ha parlato apertamente (e\gwè parrhsòç lelaélhka) al mondo e questa parola rimane; ma la parola, detta in sinagoga e nel tempio, è ormai un fatto passato100. I giudei continuano ancora a radunarsi (suneércontai), ma essa non c’è. Quanto poi ai discepoli, Gesù li definisce testimoni auricolari (touèv a\khkooétav): essi hanno udito e, perciò, sanno. Gesù rimanda a loro da interrogare; essi sembrano così costituire una tavola, forse l’ultima, di salvezza. Gesù esorta Anna ad interrogare (e\rwéthson) i discepoli. Sembra, a questo punto, che l’evangelista crei un sottile filo ideale tra dentro e fuori. Dentro Gesù fa l’istanza di interrogare quelli che hanno udito; idealmente, fuori, questi vengono interrogati, specificamente il discepolo e Pietro. Il discepolo, come abbiamo detto e diremo ancora, ha confessato ed è uscito fuori. Anche Pietro è interrogato: gli è chiesto se è discepolo, ma, ahimè!, egli nega. Manca così la testimonianza di due101. Pietro, in questo modo, negando di essere discepolo, smentisce Gesù; egli non ha udito e perciò non sa che cosa Lui ha detto. 99
Si ottiene così il seguente schema concentrico:
perì tw%n maqhtw%n perì th%v didach%v
risposta sulla dottrina, risposta sui discepoli. Il secondo e terzo elemento sono legati, rispettivamente dai termini didach%v e e\dòdaxa. 100 101
Cfr. gli aoristi e\dòdaxa ed e\laélhsa.
Cfr. Mt 18,16; Dt 19,15.; anche Dt 17,6.
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Sembra che l’evangelista crei ancora un sottile filo ideale tra fuori e dentro. Fuori Pietro è interrogato e smentisce, annullando così la testimonianza. Idealmente la risposta è portata dentro; Gesù appare così un falso millantatore e il servo perciò si sente autorizzato a dare lo schiaffo. Emerge drammaticamente, in tutta la sua realtà, la figura del sacerdote, il quale così ha vinto su Gesù. Se questa nostra lettura è valida, sembra che Giovanni voglia insinuare che, se il giudaismo, attraverso il gesto del servo a nome del sacerdote, ha rifiutato Gesù, in ultima analisi, la colpa, almeno in parte, dovrebbe ricadere su Simon Pietro, il quale non ha reso la sua testimonianza e, in pratica, ha smentito Gesù.. 7. Il discepolo e Simon Pietro Possiamo adesso mettere a confronto le due figure, quella del discepolo e quella di Pietro. Tale confronto probabilmente permetterà di colmare dei vuoti che l’evangelista sembra lasciare soprattutto a riguardo del discepolo. Possiamo stabilire anzitutto un confronto: discepolo Pietro Entrò entrò negò uscì non uscì Il discepolo era noto al pontefice ed entrò con Gesù; quello che era “il noto” del pontefice poi uscì. Non si dice esplicitamente che cosa egli abbia fatto nella casa del sacerdote e perché sia uscito: emerge così una lacuna a riguardo del discepolo. In un altro studio, condotto più specificamente sulla figura del discepolo in questo contesto, indichiamo che il testo stesso di 18,15-16, letto più attentamente, e anche il confronto con l’episodio del cieco nato (cap. 9) però hanno suggerito che il discepolo, pur essendo noto al pontefice, e quindi con una certa relazione a lui, in realtà entrò solidale con Gesù, confessò Gesù e poi uscì. Pietro invece, che stava alla porta (v. 16), poi entra, a sua volta, grazie all’intervento del discepolo sulla portinaia. Appena entrato però, alla domanda rivoltagli dalla stessa portinaia se è discepolo di Gesù, egli nega,
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come anche nega alla stessa domanda postagli da alcuni personaggi non definiti, nel v. 25b. Nega infine all’obbiezione del servo, che contesta la sua negazione, asserendo di averlo visto nel giardino con Gesù. A differenza dei vangeli sinottici, specificamente Matteo e Luca, secondo i quali egli uscì, Giovanni lascia Pietro nel palazzo di Anna, profondamente coinvolto in esso, come suggerisce la seconda descrizione della sua posizione “stante e scaldandosi”. Pietro è solo in quella posizione. Il confronto tra la vicenda del discepolo e quella di Pietro, mentre conferma quanto abbiamo detto a riguardo del discepolo che, entrato, confessò Gesù e poi uscì, permette di cogliere qualche aspetto paradossale nella vicenda dei due. Il discepolo, familiare nella casa del sacerdote, al punto di potervi liberamente entrare in un momento critico, da quella casa, per il fatto di avere confessato Gesù, deve uscire; l’oscuro Pietro che, come dicono i Sinottici, è riconosciuto come un galileo (Mc 14,70; Lc 22,59), che è tradito dal suo stesso modo di parlare (Mt 26,73) e che, pertanto, è estraneo in quella casa, per il fatto di avere sconfessato Gesù, in essa acquista una posizione. Emerge la paradossalità: il discepolo familiare, che confessa, deve uscire, Pietro, estraneo a quella casa, che però nega, acquista in essa una posizione. Queste osservazioni mostrano che Pietro e discepolo erano chiamati a rendere testimonianza a Gesù nella casa del sacerdote. Uno però, il discepolo, affermando, confessa, l’altro, Pietro, negando, sconfessa. La testimonianza, alla quale Gesù stesso si appella, non c’è più; Egli è smentito nelle sue stesse parole, appare, come abbiamo detto, come un millantatore che sfida il sacerdote, ed è ben comprensibile lo schiaffo del servo che mira così a reprimere e punire l’insolenza di Gesù. 8. L’epilogo di Pietro102 Come abbiamo già indicato, il quarto evangelista non ci informa che Pietro, dopo i tre rinnegamenti, sia uscito dal palazzo di Anna e, mediante Cfr. Per questo aspetto riproponiamo adesso alcuni elementi già proposti in A. Gangemi, I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni, IV. Pietro il Pastore (Gv 21,15-25)», Siracusa 2003, passim. 102
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il pianto, abbia superato la situazione in cui era caduto. Anzi egli lo lascia spiritualmente nel cuore di quella casa dove Gesù è rifiutato. Ma veramente definitiva è la separazione di Pietro da Gesù? Per lui non c’è salvezza? Ma la salvezza c’è anche per Pietro. Gli interpreti rimandano a 21.15-17 dove è presupposto il rinnegamento103. Nota Schwank104 che il punto culmine del racconto giovanneo dei rinnegamenti di Pietro è il canto del gallo. Leon –Dufour105 osserva che la sorte di Pietro sarà definita nel c. 21. Secondo Strathmann106 tale silenzio prepara l’incontro di Gesù nel c. 21. Nel cuore della sua posizione tra i giudei Pietro è raggiunto dalla parola di Gesù, che lo sveglia dal suo torpore e gli offre la strada per uscire dalla sua situazione. Questo l’evangelista esplicitamente non lo dice, ma lo insinua in diversi racconti che, pur fugacemente, cercheremo di considerare nel capitolo seguente. Tuttavia, benché non lo dica esplicitamente, il quarto evangelista sa benissimo che in quella posizione Pietro non è rimasto. Se così avesse detto, egli avrebbe contraddetto apertamente sia i vangeli sinottici, sia anche tutta quanta la storia contemporanea, sia quella della chiesa che ha sempre professato il pentimento di Pietro e la sua riabilitazione a pastore. In diversi testi del suo vangelo il quarto evangelista descrive il superamento del rinnegamento di Pietro. In un altro studio, abbiamo posto attenzione, anzitutto, al verbo e\xh%lqen di 20,3, al singolare, ma con due soggetti, Pietro e il discepolo, riferito però primariamente e direttamente a Pietro107. Questi, all’annunzio della Maddalena, “uscì”, lui e il discepolo che Gesù amava, verso il sepolcro: il discepolo corse avanti, ma Pietro entrò per primo nel sepolcro. In 21,7 l’evangelista narra l’azione di Pietro che, all’annunzio del discepolo che “Gesù è”, si gettò nel mare, descrivendo così simbolicamente 103 Citiamo soltanto Westcott, Cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, cit., 257. 104 105 106
Cfr. B. Schwank, Evangelium nach Johannes, cit., 433.
Cfr. X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, IV, cit., 80.
Cfr. H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1973, 395.
Cfr. A. Gangemi, I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni, I. L'apparizione di Gesù a Maria Maddalena, Acireale 1989, 85-87.106-107. 107
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il dono che egli, come pastore, sarebbe stato chiamato a fare della propria vita108. Ma soprattutto è importante il triplice dialogo con Gesù, con la triplice confessione di amore (21,15-17), seguito dall’annunzio della morte (vv. 18-19). Possiamo citare ancora Gv 13,9 dove Pietro implora che Gesù gli lavi non solo i piedi, ma anche le mani e il capo109. In 6,69-70 Pietro è presentato agli antipodi di Giuda; questi è diavolo, Pietro invece ha riconosciuto che solo Gesù ha parole di vita eterna, ed ha professato che egli è il Santo di Dio. Ma già nello stesso racconto del rinnegamento, appunto in 18,12-27, se lo leggiamo, nei suoi elementi, in maniera inversa, appare insinuato il cammino che Pietro deve compiere verso il superamento del rinnegamento. Notiamo anzitutto i vv. 15-16 dove troviamo particolari elementi che richiamano specificamente la figura del pastore. Ci riferiamo al termine au\lhé, nei suoi due sensi di “palazzo” e di “recinto” che si legge soltanto in 10,1.16 e in 18,15; Gesù è entrato, assieme al discepolo, nella au\lhé di Anna (18,15): in 10,1 egli afferma che «chi non entra attraverso la porta nel recinto delle pecore (ei\v thèn au\lhèn tw%n probaétwn), ma sale da altrove, è ladro e brigante»; nel v. 16 poi parla di altre pecore che non appartengono “a questo ovile (e\k th%v au\lh%v tau%thv)”: anch’esse bisogna che egli conduca. Ci riferiamo pure al termine quéra che si legge anche in 10,1.2.7.9: nel v. 1, citato sopra, Gesù dichiara che non è pastore chi non entra attraverso la porta (diaè th%v quérav), mentre è pastore colui che entra attraverso di essa (diaè th%v quérav), nei seguenti vv. 7.9 poi Gesù si definisce, rispettivamente, h| quéra tw%n probatwn (v. 7) e semplicemente h| quéra (v. 9)110. Ci riferiamo infine al termine. qurwroév che si legge soltanto in 10,3, al maschile (o| qurwroév), e in 18,16.17 al femminile (h| qurwroév). Pur stimo108 Cfr. A. Gangemi, I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni, III. Gesù si manifesta presso il lago, Acireale 1993, 169-205.
Cfr. A. Gangemi, Signore, tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell'amore di Gesù (Gv 13,6-11), Acireale 1999, 87-99. 109
Nel cap. 20 due volte l’evangelista nota che Gesù risorto entrò dove erano i discepoli “a porte chiuse (tw%n qurw%n kekleismeénwn)”. Emerge ancora l’immagine del pastore che entra attraverso la porta nel recinto dove le pecore sono state chiuse, quasi imprigionate, dal timore (diaè toèn foébon) incusso loro dai giudei, cfr. A. Gangemi, I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni, II. Gesù appare ai discepoli (Gv. 20,19-31)», Acireale 1990, 25-32. 110
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lata dal discepolo, la portinaia fa entrare Pietro; si direbbe che, secondo 10,3, il portinaio, o la portinaia, apre al pastore. È pure importante, nei vv. 18,17.25, benché Pietro neghi di essere uno di essi, il termine maqhthév (discepolo) riferito positivamente ben tre volte, nei vv. 15-16°, al discepolo; come pure appare importante, l’obbiezione del servo, nel v. 26b, di avere visto, nel giardino, Pietro con Gesù (met’au\tou%). Prescindendo dal senso specifico dell’azione di Pietro al Getsemani e dalla sua rievocazione da parte del servo, possiamo proporre il seguente schema concentrico: 1. (18,10): Pietro recise nel giardino l’orecchio del servo al Getsemani; 2. (18,15a): Seguiva (h\kolouéqei) Gesù Pietro e l’altro discepolo (maqhthév) 3. (18,16a): Pietro stava alla porta (quéra) fuori; 4. (18,16b): la portinaia (qurwroév) fa entrare Pietro; 5. (18,17.25b): Pietro nega di essere discepolo (maqhthév); 6. (18,26): il servo cognato ricorda a Pietro di averlo visto nel giardino con Gesù. Il primo elemento sta in relazione al sesto: Pietro recise l’orecchio del servo (1), ma negò di essere stato con Gesù (6); il secondo elemento sta in relazione al quinto: Pietro seguiva Gesù (2), ma negò di essere suo discepolo (5); il terzo elemento sta in relazione al quarto: Pietro giunse alla porta (3), ma sarebbe rimasto fuori senza l’intervento del discepolo (4). Con il suo rinnegamento, Pietro ha agito in distonia con i fatti accaduti: era al Getsemani ma lo ha negato; seguiva Gesù, ma ha negato di essere suo discepolo; ma sono gli stessi eventi che, letti all’inverso, tacitamente delineano il suo cammino. Pietro deve tornare al giardino e riprendere il suo cammino “con Gesù”, seguire Gesù ed essere suo discepolo, pervenire, grazie anche alla mediazione del discepolo, alla dimensione del pastore, che entra nella au\lhé e al quale la portinaia (qurwroév) apre. Questo stesso cammino è insinuato nelle tre professioni di amore, lette anch’esse in maniera inversa, ascendente. Pietro, raggiunto da Gesù, da lui, nella terza domanda, è invitato rinnovare la sua opzione (file_v me), non in favore della sua vita (cfr. 12,25) ma in favore di Gesù. Rinnovata la sua opzione in favore di Gesù (filw% se), Pietro, con la seconda domanda, è invitato da Gesù a riscoprire verso di lui l’amore
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del discepolo (a\gapç%v me), per pervenire, come indica la prima domanda, all’amore del pastore (a\gapç%v me pleoén touétwn). Questo stesso cammino di Pietro sembra pure tacitamente delineato nel dialogo con Gesù, descritto dall’evangelista in 13,36-38. Pietro chiede a Gesù dove va, ma egli gli dilaziona la sequela. All’insistenza di Pietro e alla domanda perché non può seguirlo ora, dichiarandosi disposto di dare la sua vita per lui, Gesù risponde preannunziando il rinnegamento. Emergono in questo dialogo i tre aspetti sopra indicati che, letti all’inverso, insinuano ancora il cammino di Pietro: rinnegamento, porre la vita, seguire Gesù. 9. Conclusione Possiamo allora concludere che il testo di 18,12-27, la seconda parte della narrazione giovannea della passione di Gesù, il processo-dialogo cioè nella casa di Anna dove è stato condotto, drammaticamente descrive il confronto antitetico tra Gesù-l’eterna Parola divenuta carne (1,14) e il giudaismo, riassunto nella persona del sacerdote Anania o Anna. Sembra che, nella casa di Anna, si attua quello che l’evangelista ha indicato in 1,11: «venne tra le sue cose (ei\v taè i"dia) ma i suoi (oi| i"dioi) non lo accolsero (e"labon)111» Come abbiamo notato in un altro studio, nel palazzo di Anna, Gesù, come il pastore attraverso la porta, è entrato nel recinto delle pecore, ed è entrato anche come il maestro. Come però appare dalle domande di Anna, né i giudei sono suoi discepoli, né sanno nulla sulla sua dottrina: lo schiaffo del servo indica che i giudei hanno decisamente rifiutato il loro maestro. Inoltre, se il pastore è entrato nel recinto delle pecore, è stato allo scopo di farle uscire e condurle verso la vita eterna (10,27); le pecore però non hanno seguito il pastore, non sono uscite dal loro recinto, anzi hanno lo 111 Possiamo attribuire a questo aoristo il valore completivo: il rifiuto è stato totale e definitivo.
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mandato via: Anna “mandò” Gesù legato a Caifa, che aveva profetizzato che conviene (sumfeérei) che l’uno che muoia per il popolo. Nel palazzo di Anna però Gesù è entrato con due testimoni. Uno, il discepolo, che, verosimilmente interrogato, ha reso testimonianza e, benché fosse noto al pontefice, dalla casa del sacerdote dovette uscire; l’altro, Pietro, che esplicitamente interrogato, ha negato. La testimonianza non sussiste più e, in certo senso, a causa di Pietro, il rifiuto è legittimato. Il testo di Gv 18,12-27 descrive così un duplice cammino di Pietro. Esplicitamente, in maniera discendente, da Gesù, al suo coinvolgimento, attraverso i tre rinnegamenti, nel mondo dei giudei che rifiutano Gesù; implicitamente poi e allusivamente, in maniera ascendente, dal cuore del giudaismo a Gesù. Sembra che il gallo, con il suo canto, abbia ancora la funzione tacita di evocare la parola di Gesù, che però a Pietro arriva direttamente attraverso altri personaggi, il servo o cognato di colui al quale Pietro recise l’orecchio che, tacitamente, lo invita a riprendere il cammino con Gesù, gli anonimi e la portinaia che, ancora tacitamente, esortano a riscoprire la dimensione del discepolo, il discepolo che lo immette nella dimensione del pastore. Anche Gesù, rifiutato, riprende il suo cammino; è inviato da Caifa, da cui è stato designato come vittima di espiazione (11,50-52). Da Caifa Gesù sarà condotto al pretorio, dove, attraverso l’opera di Pilato, sarà immolato, ma anche innalzato e proclamato “Re dei giudei”.
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parte seconda
L’EVENTO DELL’a\gaééph
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LA PRESENZA DEL DEUTERONOMIO NEL VANGELO DI GIOVANNI
Nella prospettiva giovannea, sulla relazione tra la e\ntolhé e l’a\gaéph, si avverte un richiamo a quella analoga del Deuteronomio. Tale richiamo è stato evidenziato già da Beutler che, citando Lohfink1, osserva come le espressioni “amare Dio” e “osservare i suoi comandamenti” sono di fondamentale importanza per la teologia del Deuteronomio. Beutler nota però anche che queste stesse espressioni risalgono al tempo antico di Israele: la più antica attestazione si trova nel decalogo, in connessione con il primo comandamento; Dio risponde con la sua fedeltà e la sua benedizione a quelli che lo amano e osservano i suoi comandamenti (Es 20,6; Dt 5,10). Questo campo di espressioni, di fondamentale importanza per la teologia del Deuteronomio, può risalire ulteriormente anche all’antico mondo orientale nella prassi del vassallaggio, nel quale un re vassallo si faceva dovere di amare il grande re e osservare i suoi comandi2. L’importanza di questa presentazione per gli scritti giovannei è stata mostrata da Malatesta3. I testi più importanti per “amare Dio” e “custodire i suoi comandamenti” nel Deuteronomio sono Dt 5,10 (Decalogo); 7,9; 10,12s; 11,1.13.22; 19,9 e 30,6.16.20. Il testo fondamentale ovviamente è Dt 6,4ss, con il comando di 1 Lohfing definisce, soprattutto per i capp. 5-11, “Il comandamento fondamentale (Das Hauptgebot), cfr. N. Lohfink, Das Hauptgebot: eine Untersuchung literarischer Einleitungsfragen zu Dtn 5-11, Roma 1963, 108-112.
2 Cfr. D.J. Mc Carthy, Treat and Covenant: a Study in Form in the Ancient Oriental Documents and in the Old Testament, Roma 19782, 81.160. 3
Cfr. E. Malatesta, Interiority and Covenant, Roma 1978.
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“amare Dio”, con l’osservanza dei suoi comandamenti nell’introduzione di Dt 6,1-3, come anche nel testo stesso di 6,4ss, come fedeltà alle parole del Signore. Il legame con il tema del patto appare in Dt 7,9: «tu confesserai: Il Signore tuo Dio è Dio; egli è il Dio fedele; custodisce il suo patto per mille generazioni e manifesta la sua benevolenza a quelli che lo amano e osservano i suoi comandi». Questo linguaggio fu ripreso dalla scuola deuteronomista e da testi posteriori4. Al Deuteronomio rimandano pure altri interpreti. Leon Dufour5 si riferisce anche al tema della memoria, che in Giovanni proviene dal primo testamento e in particolare dal Deuteronomio6. Al Deuteronomio rimandano inoltre, tra altri, anche Augenstein7, Maggioni8, Pancaro9, Thyen10 però Cfr. Gs 22,5; 1Re 3,3; Neh 1,5; Dan 9,4. Un uso sapienziale appare in Sir 2,15s e, inoltre in testi del tardo giudaismo (cfr. Jub 20,7; 36,5ss; TestBen 3,1); nella comunità di Qumran Dt 7,9 è riferito direttamente alla comunità (DC 19,1s; cfr. 20,21s; 1QH 16,7.13.17). Cfr. J. Beutler, Das Johannesevangelium, Freiburg – Basel – Wien, Freiburg i.B. 2013, 406-427; queste osservazioni erano state proposte già in Id., Das Hauptgebot im Johannesevangelium, in Kertelge K (hrg.), Das Gesetz im neuen Testament, Freiburg i.B. – Basel – Wien 1986, 222-236; cfr. anche Id., habt keine Angst. Die erste johanneische Abschiedsrede (Joh 14), Stuttgart 1984, 55-62; Id. Do not Be Afraid: the First Farewell discourse in John’s Gospel (Jn 14), Frankfurt a.M. 2011, 52-58. 4
Cfr. X. Leon Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, trad. it. Cinisello Balsamo 1995, 168. 5
Per la memoria Leon Dufour cita Michel (cfr. O. Michel, mimn+éskomai ktl, in F. Montagnini et Al (ed.), in GLNT VII, trad. it Brescia 1971 299-322). I testi citati in appoggio da Michel sono Dt 5,15; 7,18; 8,2.18; 9,7; 15,15; 16,3.12; 24,18.20.22; 32,7. 6
Cfr. J. Augenstein, Das Liebesgebot im Johannes-evangelium und in den Johannesbriefen, Stuttgart-Berlin-Köln 1993, 65: come nella letteratura deuteronomista, l’espressione “osservare i comandamenti” non rimanda all’osservanza di singole prescrizioni, ma esprime l’obbedienza alla volontà di Dio. 7
8 Cfr. B. Maggioni, “Amatevi come io vi ho amato”, in Parole, Spirito e Vita, 11 (1990) 158-167: 159.
9 Cfr. S. Pancaro, The Law in the Fourth Gospel, Leiden 1975, 445. Spiega poi (cfr. ibid., 448-449) che il parallelo tra Giovanni e il Deuteronomio è sorprendente e ci permette di capire la linea di continuità con la tradizione giudaica, di percepire l’originalità di Giovanni e capire lo scopo che egli perseguie.
Cfr. H. Thyen, Niemand hat grössere Liebe als die, dass er sein Leben für seine Freunde hingibt (joh 15,15), in C. Andersen & G. Klein (Edd.), Theologia Crucis – Signum Crucis, Fs. E. Dinkler, Tübingen 1979, 467-481: 475. 10
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forse sembra meno incline a vedere dietro il comandamento dell’amore il rimando al Deuteronomio. Possiamo a riguardo riferirci a diversi aspetti e a diversi testi11. 1. L’amore di Dio Ci riferiamo in questo paragrafo sia, soggettivamente, all’amore di Dio verso il suo popolo, sia anche, oggettivamente, all’amore del popolo verso Dio, come risposta all’amore primordiale di Dio che ama il suo popolo. 1.1. Dio ama Anche nel Deuteronomio il punto di partenza è l’amore di Dio. Leggiamo infatti in 4,37: «Poiché ha amato (diaè toè a\gaph%sai) i tuoi Padri, ha scelto (e\xeleéxato) la loro discendenza dopo di loro e ti ha fatto uscire dall’Egitto con la sua presenza e con la sua grande potenza». L’amore di Dio è quello manifestato ai padri che ora si attua nella elezione dei loro figli. A questo atto di amore, il popolo deve rispondere mediante l’osservanza dei comandamenti: «Osserva (fulaéx+) dunque le sue leggi (taè dikaiwémata au\tou%) e i suoi comandi (kaì taèv e\ntolaèv au\tou%), che io ti comando (e\nteéllomai) oggi ». In 7,8 leggiamo: «egli si è legato a voi e vi ha scelti (e\xeleéxato) […] perché il Signore vi ama (paraè toè a\gapa%n kuérion u|ma%v) ed ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri […], vi ha riscattati dalla condizione servile […] Egli è il Dio fedele […]. Osserverai (v. 11) (kaì fulaéx+) dunque, mettendoli in pratica, i comandi (taèv e\ntolaév), le leggi (kaì taè dikaiwémata) e le norme (taè kròmata) che oggi ti prescrivo (e\nteéllomai)». 11 In riferimento al libro del Deuteronomio, soprattutto per la relazione tra “amare Dio” ed “osservare i suoi comaandamenti, è stata occasionalmente indicata dagli interpreti. Michaels spiega che l’espressione “i miei comandamenti” evoca il linguaggio del patto nella bibbia ebraica, in cui il popolo di Israele è ripetutamente presentato come colui che ama Dio e custodisce i suoi comandamenti (in nota 78 Michaels cita Es 20,6, e anche Dt 5,10; 7,9; 11,1; anche Dt 6,4-6, cfr. J.R. Michaels, John, Peabody 1989 (rist.). Soprattutto, in maniera sistematica, la relazione tra amare Dio ed osservare i suoi comandamenti, è stata evidenziata dagli studi di Beutler,
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In questo testo il fondamento dell’opera di salvezza è l’amore verso il popolo e il giuramento fatto ai padri. Ancora il popolo deve rispondere mediante l’osservanza dei comandamenti. Ancora in 10,15 torna la stessa prospettiva di 4,37: «il Signore predilesse soltanto i vostri padri, li amò (a\gapa%n au\touév) e dopo di loro ha scelto (e\xeleéxato) tra tutti i popoli la loro discendenza»; il popolo, come sua risposta, deve circoncidere il proprio cuore (v. 16) e temere il Signore e servirlo (v. 20). Infine in 23,6 l’amore di Dio verso il popolo si è concretizzato nel fatto di non avere voluto ascoltare Balaam e di avere mutato la maledizione in benedizione: «Il Signore tuo Dio ti ama (o$ti h\gaéphseén se)». L’amore di Dio appare in questi testi come il fondamento dell’opera di salvezza. Egli ha amato i padri ed ha scelto i loro figli liberandoli dalla schiavitù dell’Egitto; ma ha amato anche il popolo, scegliendolo e liberandolo dalla sua condizione servile. Il popolo deve rispondere temendo Dio e aderendo ed osservando i suoi comandamenti e le sue leggi. 1.2. Amare Dio Diverse volte leggiamo nel Deuteronomio l’esortazione rivolta da Mosé al popolo a rispondere all’amore di Dio amandolo, non a parole, ma concretizzando tale amore nell’osservanza dei suoi comandamenti. Leggiamo infatti in 5,10 le parole di Dio stesso al popolo: «Io, il Signore, tuo Dio, sono Dio geloso che […] dimostra la sua benevolenza fino a mille generazioni per quelli che mi amano (to_v a\gapw%sòn me) e osservano (kaì to_v fulaéssousin) i miei comandamenti (taè prostaégmataé mou)». Ancora è importante il testo di 6,5, dove Mosè esorta il popolo con le seguenti parole: «Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è lui solo; tu amerai (kaì a\gaphéseiv ) il Signore tuo Dio con tutto il cuore […]; questi precetti (taè r|hm é ata) che oggi ti do (e\nteéllomaò soi) ti siano fissi nel cuore […]». Ancora in 7,9 leggiamo: «Riconosci dunque il Signore tuo Dio; egli è Dio, il Dio fedele, che mantiene (o| fulaésswn) l’alleanza e la benevolenza per mille generazioni con coloro che lo amano (to_v a\gapw%sin au\toén) e
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osservano (kaì fulaéssousin) il suoi comandamenti (taèv e\ntolaév au\tou%)»; nei precedenti v. 7-8, sopra citati, si era parlato della elezione da parte di Dio, sul fondamento del suo amore e della fedeltà al giuramento fatto ai padri: «Il Signore […] vi ha scelti (e\xeleéxato) […] perché vi ama (paraè toè a\gapa%n kuérion u|ma%v) e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri». Possiamo ancora citare 10,12: «E ora, Israele, che cosa ti chiede il Signore tuo Dio, se non che tu tema (fobe_sqai) il Signore tuo Dio, che cammini per le sue vie, che tu lo ami (a\gapa%n au\toén), che tu serva (latreuéein) il Signore […] che tu osservi (fulaéssesqai) i comandi (taèv e\ntolaév) del Signore e le sue leggi (taè dikaiwémata) che oggi ti do (e\nteéllomaò soi) per il tuo bene?»; nel seguente v. 15, sopra citato, si menziona l’amore di Dio: «il Signore predilesse soltanto i vostri padri, li amò (agapa%n au\touév) e, dopo di loro ha scelto (e\xeleéxato) fra tutti i popoli la loro discendenza». Ancora, in 11,1 leggiamo l’esortazione: «ama (kaì a\gaphéseiv) dunque il Signore tuo Dio e osserva (fulaéx+) ogni giorno le sue leggi (taè fulaégmata), le sue norme (taè dikaiwémata) e i suoi comandi (taèv kròseiv)»; nel seguente v. 13 continua l’esortazione: «se obbedirete diligentemente ai comandi (taèv e\ntolaév) che oggi ti do (e\nteéllomaò soi) amando (a\gapa%n) il Signore vostro Dio e servendolo (latreuéein) di tutto cuore, io darò alla vostra terra la pioggia al suo tempo […]»; infine nel v. 22: «se ascolterete diligentemente (a\ko+% a\kouéshte) tutti questi comandi (taèv e\ntolaév) che vi do (e\nteéllomaò soi) e li metterete in pratica, amando (a\gapa%n) il Signore vostro Dio, camminando nelle sue vie e tenendovi uniti a lui, il Signore scaccerà davanti a voi […]». In 13,4, a proposito del falso profeta da non seguire, si legge l’esortazione: «tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta […], perché il Signore vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate (ei\ a\gapa%te) il Signore vostro Dio […]»; nel seguente v. 5 l’esortazione ancora continua: «Seguirete il Signore vostro Dio, temerete lui, osserverete i suoi comandi (taèv e\ntolaèv au\tou% fulaéxesqe), ascolterete la sua voce, lo servirete e gli resterete fedeli». In 19,9 leggiamo: «se osserverai (e\anè a\koués+v poie_n) tutti questi comandi (taèv e\ntolaèv tauétav) che oggi ti do (e\nteéllomaò soi), amando
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(a\gapa%n) il Signore tuo Dio e camminando sempre secondo le sue vie, allora aggiungerai altre tre città alle prime tre». Ancora in 30,6: «Il Signore tuo Dio circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu possa amare (a\gapa%n) il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima e la tua vita»; nel v. 8 poi si legge «ascolterai la voce del Signore e metterai in pratica (poihéseiv) tutti questi comandi (taèv e\ntolaèv au\tou%) che oggi ti do (e\nteéllomaò soi)». Nel seguente v. 16 leggiamo analogo comando: «se ascolterai i comandi (taèv e\ntolaèv au\tou%) del Signore […] che oggi ti comando (e\nteéllomaò soi) di amare (a\gapa%n) il Signore tuo Dio, di camminare nelle sue vie, di osservare (fulaéssesqai) i suoi comandi (taè dikaiwémata), le sue leggi (taèv kròseiv)»; analoga esortazione ad amare (a\gapa%n) il Signore si legge nel seguente v. 20. Al libro del Deuteronomio fa eco anche il libro di Giosuè. In Gs 22,5, di indole deuteronomista, Giosuè esorta: «abbiate cura di eseguire (fulaéxasqe poie_n) i comandamenti (taèv e\ntolaév) e la legge (toèn noémon) che Mosè, servo del Signore vi ha dato (e\neteòlato h|m_n poie_n): amare (a\gapa%n) il Signore vostro Dio, camminare in tutte le sue vie, osservare (fulaéxasqai) i suoi comandamenti (taèv e\ntolaév), aderire a lui e servirlo con tutto il cuore e con tutta la vostra anima». In 23,11 Giosuè esorta ancora «curate (fulaéxasqe) di amare (tou% a\gapa%n) il Signore vostro Dio» 1.3. Dio amerà: In 7,13, sopra citato, si legge della conseguenza che si verificherà per chi ama il Signore ed osserva i suoi comandamenti: «se avrete dato ascolto a queste norme (taè dikaiwémata) e le avrete osservato (fulaéxhte) e messo in pratica […], egli ti amerà (a\gaphései) ti benedirà e ti moltiplicherà […]». Infine, in 10.18-19 si parla di Dio che ama (a\gapç%) il forestiero e gli dà pane e vestito. In seguito al fatto che Dio ama il forestiero, anche il popolo deve amarlo: «amate (a\gaphésete) dunque il forestiero poiché anche voi foste forestieri in terra di Egitto».
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1.4. Qualche testo riassuntivo Proponiamo in questo paragrafo qualche testo particolare in cui appaiono, accostati, i vari aspetti sopra indicati. Ci riferiamo specificamente a Dt 4,37, a Dt 7,7-16 e a Dt 10,15. In Dt 4,37 troviamo tre aspetti successivi: l’amore (diaè toè a\gaph%sai) di Dio verso i Padri e la scelta (e\xeleéxato) della loro discendenza verso di loro come punto di partenza, che risalgono alla libera iniziativa e libera scelta di Dio. Dio ha concretizzato il suo amore operando l’evento di salvezza, facendo cioè uscire, con la sua presenza e con grande potenza, il suo popolo dalla schiavitù di Egitto. Il popolo deve rispondere all’opera di Dio mediante l’osservanza dei suoi comandamenti e delle prescrizioni che Mosè propone al popolo. Anche nel Deuteronomio il punto di partenza è l’amore di Dio. Leggiamo infatti in 4,37 che «ha amato (diaè toè a\gaphésaI) i tuoi Padri, ha scelto (e\xeleéxato) la loro discendenza dopo di loro e ti ha fatto uscire dall’Egitto con la sua presenza e con la sua grande potenza». L’amore di Dio è quello manifestato ai padri che ora si attua nella elezione dei loro figli. A questo atto di amore, il popolo deve rispondere mediante l’osservanza dei comandamenti: «Osserva (fulaéx+) dunque le sue leggi (taè dikaiwémata au\tou%) e i suoi comandi (kaì taèv e\ntolaèv au\tou%), che io ti comando (e\nteéllomai) oggi». Il testo di Dt 7,6-16, specificamente nel v. 6 ricorda anzitutto la peculiarità del popolo, che il Signore Dio ha preferito (proeòlato), per essere per lui un popolo peculiare tra le genti ha chiamato ad essere un popolo santo; nel seguente v. 7 si spiega che il Signore Dio ha preferito (proeòlato) ed ha scelto (e\xeleéxato) questo popolo, non perché fosse più numeroso, ma perché lo ama (paraè toè a\gapa%n) e conserva (diathrw%n) il giuramento che giurò ai padri e, in forza di tale amore, fece uscire quel popolo con mano potente e braccio alzato e lo liberò dalla casa di servitù (e\x oi"kou douleòav), dalla mano del faraone, re di Egitto. Da questo evento deve scaturire per il popolo una duplice conseguenza, indicata con due congiuntivi aoristi, una conoscenza cioè ed una azione. La conoscenza (gnwés+, v.9) riguarda il fatto che Dio è il Dio fedele, che
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conserva (o| fulaésswn) l’alleanza e la benevolenza per quelli che lo amano (to_v a\gapw%sin au\toèn) e per quelli che custodiscono (kaì to_v fulaéssousin) i suoi comandamenti (taèv e\ntolaév) per mille generazioni. L’azione (v. 11), che deve scaturire dalle premesse precedenti, è quella di custodire (fulaéx+) le sue leggi (taèv e\ntolaév), i suoi precetti (taè dikaiwémata), le sue norme (taè kròmata) «che oggi ti comando (e\nteéllomaò soi) di fare (poie_n)». L’osservanza dei comandamenti, da parte del popolo, appare, nel v. 11, come la conseguenza di tutte le azioni precedenti di Dio; nel v.12 invece appare come il punto di partenza di ulteriori opere. Leggiamo infatti, nel v. 12a, «e sarà, se ascolterete (a!n a\kouéshte) tutti questi precetti (paénta taè dikaiwémata) e li custodite (fulaéxhte) e li fate (poihéshte)». Le conseguenze sono descritte ampiamente nei versi seguenti: «custodirà (diafulaéxei) il Signore tuo Dio l’alleanza e la benevolenza che giurò ai vostri padri». Nel v. 12b sono ancora descritte le conseguenze: «ti amerà (kaì a\gaphései se), ti benedirà (eu\loghései se) e ti moltiplicherà (plhqune_ se)». Nei vv. 13-15 le conseguenze riguardano la fertilità del gregge e l’abbondanza dei frutti della terra, la benedizione al di sopra di tutti i popoli, la liberazione da qualsiasi malattia, che farà cadere su quelli che lo odiano (touèv misou%ntaév se), il godimento dei frutti della terra. Il punto di partenza in questa breve storia è l’amore di Dio e il giuramento fatto ai padri; in forza di tale amore e di tale giuramento Dio ha operato la salvezza liberando il suo popolo dall’Egitto; in seguito a tale azione, il popolo deve amare Dio e concretizzare il suo amore nell’osservanza dei comandamenti; l’osservanza dei comandamenti determinerà ancora, da parte di Dio, ulteriore amore, benedizione e abbondanza dei beni. Un altro testo dove è possibile individuare una breve sintesi è Dt 10,1215. Nel testo leggiamo l’esortazione a Israele a ricordare ciò che il Signore chiede da esso: camminare nelle vie del Signore, amarlo (a\gapa%n), servirlo (latreuéein), custodire (fulaéssesqai) i comandi del Signore (taèv e\ntolaèv kuròou), i suoi giudizi (taè dikaiwémata), tutto ciò che Mosè comanda (e\nteéllomai) oggi, perché sia bene ad esso (vv. 12-14). Nel seguente v. 15 si ricorda come il Signore preferì (proeòlato) i padri amandoli (a\gapa%n au\touév) e scelse (e\xeleéxato) la loro discendenza dopo di loro, cioè “voi (u|ma%v)”, il popolo.
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Il punto di partenza è sempre la libera iniziativa di Dio, che preferì i padri amandoli e scelse i loro figli. Il popolo deve rispondere a Dio amandolo, servendolo e custodendo i suoi comandi. Nel v. 16 si insiste ancora sulla risposta da dare a Dio. Stavolta il popolo è chiamato a circoncidere (periteme_sqe) la durezza del proprio cuore ed è esortato a non indurire (ou\ sklhrune_te) oltre la propria cervice e a ricordare che il Signore è il proprio Dio ed è un Dio grande, forte e terribile. 2. Relazione del quarto vangelo al libro del Deuteronomio Un attento confronto tra la prospettiva del libro del Deuteronomio sopra delineata e quella del quarto vangelo mostra che i due scritti in diversi aspetti coincidono. Possiamo anche pensare che, nella tematica dell’a\gaéph il quarto evangelista, pur restando libero nel suo adattamento, si sia ispirato, o, in parte, anche dipenda dal libro del Deuteronomio. 2.1. Confronto terminologico Confrontiamo in questo paragrafo diversi elementi letterari caratteristici sia del Deuteronomio sia del quarto vangelo. 2.1.1. Il verbo a\gapaéw (b¢hf)) Il primo elemento di confronto è il verbo a\gapaéw12, più o meno presente in quasi tutti i libri dell’AT, e che, nel Deuteronomio, si legge 26 volte. Esso è riferito, come soggetto, a Dio che ha amato i padri13, che ama il suo popolo14, che amerà (a\gaphései) ancora il popolo (seé) che osserva le sue prescrizioni e i suoi decreti, che ama, infine, il proselito15. 12 13 14 15
Nel libro del Deuteronomio mai si legge il sostantivo a\gaéph. Cfr. Dt 4,37; 10,15. Cfr. Dt 7,8; 23,6. Cfr. 10,18.
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Inoltre è riferito, sempre come soggetto, al popolo che deve amare Dio16 e, a quelli che lo amano17, Dio conserva la sua benevolenza fino alla millesima generazione; deve pure amare il proselito appunto perché Dio lo ama18. Altri usi sono meno importanti al nostro scopo. In 15,16 il verbo a\gapaéw è riferito al servo che, pur potendo ottenere la libertà, preferisce restare dov’è, perché ha amato (e\gaéphken) il padrone e la sua casa. Inoltre in 21,15-16 si parla di due donne, una amata (h\gaphmeénh) ed una odiata (misoumeénh). Infine in Dt 33,12 si parla di Beniamino, “amato (h\gaphmeénov) dal Signore (u|poè kuròou)”. Nel vangelo di Giovanni il verbo a\gapaéw si legge 37 volte. Esso è riferito anzitutto, come soggetto, a Dio che amò il mondo (3,16) fino a donare il suo figlio Unigenito, che ha amato (h\gaéphsen)19 ed ama (a\gapç%) il figlio (3,35; 10,17), i discepoli (17,23), i discepoli che amano Gesù (14,21.23). Inoltre è riferito, sempre come soggetto, a Gesù, l’oggetto del cui amore sono anzitutto il Padre (a\gapw%) (14,31), inoltre i discepoli (h\gaéphsa[en])20, il discepolo (h\gaépa)21, che amava Marta, sua sorella e Lazzaro (11,5). Ancora il verbo a\gapaéw è riferito, come soggetto, ai discepoli, i quali debbono amare Gesù22; tra di essi c’è anche Pietro, esplicitamente richiesto da Gesù se lo ama (21,15.16). Inoltre essi debbono amarsi a vicenda23. Segnaliamo anche due usi del verbo, tematicamente negativi, riferiti agli uomini che amarono più la tenebra che la luce (3,19) e che amarono più la gloria degli uomini che quella di Dio (12,43). Essi appartengono alla riflessione propria dell’evangelista. Notiamo infine come il quarto evangelista usa, nel senso di “amare”, anche il verbo fileéw che, nel Deuteronomio (LXX), non ricorre mai. Nel 16 17 18 19 20 21 22 23
Cfr. Dt 6,5; 10,12; 11,1.13.22; 13,3; 19,9; 30,6.16.20. Cfr. Dt 5,10; 7,9. Cfr. Dt 10,19.
Cfr. Gv 15,9; 17,23.24.26.
Cfr. Gv 13,1.1.31; 14,21.24.28; 15,9.12. Cfr. Gv 13,23; 19,26; 21,7.20. Cfr. Gv 8,42; 14,15.21.23. Cfr. Gv 13,34; 15,12.17.
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vangelo di Giovanni il verbo fileéw si legge 13 volte, riferito al Padre che ama (file_) il figlio (5,20), che ama i discepoli (16,27); a Gesù che ama Lazzaro (11,3.36) e il discepolo (20,2); ai discepoli che hanno amato (pefilhékate) Gesù (16,27) e a Pietro che professa di amare (21,15.16.17.17.17). Altri due usi sono meno pertinenti al nostro scopo: in 12,25 Gesù parla di colui che ama (o| filw%n) la sua vita e, perciò, la perde; in 15,19 è riferito al mondo che avrebbe amato (a!n […] e\fòlei) ciò che è suo se i discepoli fossero stati dal mondo. 2.1.2. Il verbo e\nteéllomai (hfwfc) Un altro elemento di confronto è il verbo e\nteéllomai, anch’esso più o meno presente in quasi tutti i libri dell’AT; nel Deuteronomio si legge 85 volte. In quest’ultimo libro esso è riferito sia a Mosè24 come a Dio25; come anche a Dio è spesso riferito nell’AT. Il verbo e\nteéllomai non è frequente nel NT; esso si legge 16 volte ed è tipico dei vangeli26, soprattutto in quello di Matteo27. Nel vangelo di Giovanni, prescindendo da 8,5, in cui il verbo si legge nel contesto dell’episodio della donna adultera, si legge tre volte 14,31; 15,14.17. L’uso di 14,31 (e\neteòlato), riferito a Dio, però non è del tutto criticamente certo: nel codice Vaticano, seguito da diversi minuscoli e dalla versione latina, leggiamo l’espressione e\ntolhèn e"dwken. I due usi del cap. 15, entrambi riferiti a Gesù, sono usati alla prima singolare (e\nteéllomai); in questo modo, alla prima persona singolare del presente indicativo, nel NT si legge soltanto in questi due testi.
24 Cfr. Dt 1,18; 2,4; 3,18.21.28; 4,2.2.40; 6,2.6; 7,11; 8,1.11;10,13; 11,8.13.22.27.28; 12,11.14.21.28; 13,1; 15,11.15; 18,18; 19,9; 24,8.18.22; 27,1.4.10.11; 28,1.13.14.15; 30,2.8.11.16; 31,5.23.25.29; 33,4. 25 Cfr. Dt 1,3.19.41; 2,37; 4,5.13.14; 5,12.16.32.33; 6,1.3.17.20.24.25; 9,12.16; 10,5; 13,6.19; 20,17; 26,13.14.16; 28,45; 34,9. 26
Nel resto del NT si legge soltanto quattro volte, in At 1,2; 13,47 e in Eb 9,20; 11,22.
Nel vangelo di Matteo si legge 5 volte (4,6; 15,4; 17,9; 19,7; 28,20) contro le due di di Marco (10,3; 13,34) e l’unica di Luca (4,10). 27
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Il verbo e\nteéllomai, alla prima persona singolare del presente indicativo, è tipico del Deuteronomio, dove si legge oltre 35 volte28, sempre riferito a Mosè che trasmette, a nome di Dio, i comandamenti al popolo. Emerge una relazione, oltre che letteraria, alla prima persona singolare dell’indicativo presente, anche tematica tra gli usi del verbo e\nteéllomai, nel Deuteronomio, e nei due testi giovannei (15,14.17). Nel Deuteronomio il verbo e\nteéllomai, alla prima persona singolare (e\nteéllomai), ha per soggetto Mosè, il quale però comanda al popolo di osservare le leggi e le prescrizioni che il Signore ha dato; nei due testi giovannei il verbo e\nteéllomai, sempre alla prima persona singolare (e\nteéllomai), ha per soggetto Gesù, il quale propone autonomamente il suo comandamento. Viene da pensare che nei due usi giovannei del verbo e\nteéllomai in Gv 15,14.17, si richiamino e si compendiano le due figure del Dio legislatore e di Mosè legislatore. Più direttamente la figura di Gesù sembra richiamare e attuare la figura di Mosè legislatore nel Deuteronomio. 2.1.3. Il verbo e\kleégomai (raxfB) Il verbo e\kleégomai, usato, nel NT, 22 volte e sempre nella forma media, appare piuttosto un termine lucano: si legge infatti quattro volte29 nel terzo vangelo e sette volte negli Atti degli Apostoli30. Nel vangelo di Giovanni il verbo e\kleégomai si legge cinque volte (6,70; 13,18; 15,16.16.19)31. Esso è sempre riferito, come soggetto, a Gesù, la cui azione (e\xelexaémhn) è sempre riferita alla scelta dei dodici (6,70). In 13,18, in contrasto con il traditore menzionato subito dopo, Gesù dichiara di conoscere quelli che ha scelto (e\xelexaémhn); in 15,16 Gesù precisa che Altrove, nell’AT, il verbo e\nteéllomai, alla prima persona singolare dell’indicativo presente, si legge raramente, sette volte (Gen 27,8; Es 7,2; 34,11; Pr 6,3; Am 9,9; Zc 1,6; Ger 27 [50],21). A Dio il verbo è riferito in Es 7,2; 34,11; Am 9,9; Zc 1,6; Ger 27 [50],21. 28
29 30 31
Cfr. Lc 6,13; 9,35; 10,42; 14,7.
Cfr. At 1,2.24; 6,5; 13,17; 15,7.22.25.
Gli altri usi sono; Mc 13,20; 1Cor 1,27.27.28; Ef 1,4; Gc 2,5.
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non sono stati i discepoli a scegliere (e\xelexaésqe) lui, ma lui ha scelto (e\xelexaémhn) loro e li ha scelti dal mondo (15,19)32. Nel libro del Deuteronomio, il verbo e\kleégomai si legge 25 volte, usato, quasi sempre, in relazione, come soggetto, a Dio, con diversi oggetti: alla discendenza dei padri, cioè al popolo33, al luogo che Dio ha scelto per farvi abitare il suo nome34, al principe35, al levita36. In 30,19 infine il popolo è esortato a scegliere la vita37. Tuttavia il verbo e\kleégomai è usato anche, con relativa frequenza e con diversi oggetti, in diversi altri libri dell’AT38. Negli altri testi del NT l’oggetto della scelta è più vario. In Mc 13,20 leggiamo che Dio abbrevierà della tribolazione a causa degli eletti che ha scelto. Luca, nel terzo vangelo, parla della scelta da parte di Gesù dei “dodici” (Lc 6,13); di Maria che ha scelto la parte migliore (10,42), dei commensali che sceglievano i primi posti (14,7). Nel libro degli Atti degli Apostoli si parla degli Apostoli che Gesù scelse (e\xeleéxato) per mezzo dello Spirito Santo (1,2); in 1,24 la comunità primitiva chiede a Dio di mostrare quello che ha scelto; in 6,5 è indicata la scelta dei diaconi; ad Antiochia Paolo ricorda l’elezione dei Padri da parte di Dio; in 15,22.25 è ricordata la scelta da parte della comunità primitiva delle persone da inviare alla comunità di Antiochia con Paolo e Barnaba. In 1Cor 1,27-28 Paolo dichiara che Dio ha scelto (e\xeleéxato) le cose stolte (taè mwraé), le cose inferme (taè a\sqenh%), le cose ignobili (taè a\genh%) del mondo. In Ef 1,4 Paolo dichiara che Dio ha scelto (e\xeleéxato) gli efesini (u|ma%v) prima della fondazione del mondo; secondo Gc 2,5 Paolo afferma che Dio ha scelto (e\xeleéxato) i poveri in relazione al mondo ma ricchi in relazione alla fede. Nel NT l’aspetto della elezione da parte di Dio non è assente, ma si nota, diversamente dal quarto vangelo, in relazione al verbo e\kleégomai, una varietà di soggetti e di oggetti. 32
33
Cfr. 4,37; 7,7; 10,15; 14,2.
Cfr. 12,5.11.14.18.21.26; 14,23.24.25; 15,20; 16,2.6.7.7.11.15.16; 17,8.10; 18,6; 26,2; 31,11. 34
35 36 37
Cfr. 17,15.
Cfr. 18,5; 21,5. Cfr. 30,19.
Si pone anzitutto, in Nm 16, 6.7, in relazione alla ribellione di Core, Dotan e Abiron, il problema di sapere chi da Dio è stato scelto. Inoltre gli oggetti, da Dio scelti, sono: Eli (2Sam 2,28), Saul (1Sam 10,24), Davide (2Sam 6,21; 1Re 8,16; 11,13.32.34, 2Cr 6,6; Sal 77 [78],70), il popolo (1Re 3,8; Sal 32 [33],12), Gerusalemme (1Re 11,13.32.36; 14,21; 2Re 21,7; 23,27; 2Cr 6,6.34.38; 12,13; 33,7), i leviti (1Cr 15,2), la casa di Davide (1Cr 28,5), Salomone (1Cr 28,4), il tempio (2Cr 7,12.16; Ne 1,9; 1Mac 7,37), Abramo (Ne 9,7), la tribù di Giuda (Sal 77 [78], 68), Aronne (Sal 104 [105],26; Sir 45,16), Sion (Sal 131 [132],13), Giacobbe (Sal 134 [135],4; Is 41,8.9), Mosè (Sir 45,4), Israele (Is 14,1; 44,1.2), il servo (Is 43,10; 49,7). Altri usi sono nel Sal 46 (47),4; 64 (65),4. Il tema della elezione ripercorre trasversalmente tutto l’AT, ma appare più insistente nel libro del Deuteronomio. 38
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2.1.4. Il verbo threéw Nel vangelo di Giovanni leggiamo pure, 18 volte, il verbo threéw. Esso è usato con diversi oggetti: il vino nuovo nelle nozze a Cana (2,10), la parola (toèn loégon) di Gesù (8,51.52.55; 14,23; 15,20), dei discepoli (15,20) e del Padre (17,6), parole (14,24) di Gesù, il sabato (9,16), i discepoli (17,6,11.12,15); in 12,7 l’oggetto è un poco oscuro: forse è l’unguento nell’unzione a Betania; ma soprattutto i comandamenti (taèv e\ntolaév) (14,15.21; 15,10.10). Gli oggetti del verbo threéw, negli altri libri del NT, sono diversi. Essi sono: i comandamenti (taèv e\ntolaév) (Mt 19,17; 1Gv 2,3.4; 3,22.24; Ap 12,17; 14,12) o il comandamento (thèv e\ntolhév) (1Tm 6,14); ciò che Gesù ha comandato (e\neteilaémhn) (Mt 28,29); la legge di Mosè (toèn noémon tou% Mwu=sewv) (At 15,5); la legge (toèn nomoén) (Gc 2,10); la parola (toèn loégon) (1Gv 2,5; Ap 3,8); la parola di perseveranza (toèn loégon th%v u|pomonh%v) di Gesù (Ap 3,10); le parole della profezia (touèv loégouv th%v profhteòav) (Ap 22,7); le parole del libro (touèv loégouv tou% biblòou touétou) (Ap 22,9). Nei LXX il verbo threéw non è molto frequente: complessivamente si legge circa 50 volte e traduce in genere due verbi: racfn e ramf$. Possiamo notare come, nel Deuteronomio, il verbo non si legge mai e anche raramente è usato in riferimento a “parole (loégouv)”: custodire cioè parole (1Sam 15,11), o anche in riferimento alla “legge (toèn noémon)” (Tb 14,9), alle “parole (r|hémata)” (Pr 3,1) e anche “le leggi (e\ntolaév)” (Sir 29,1). Al contrario, nel Deuteronomio leggiamo, frequentemente, oltre 50 volte, in riferimento ai comandamenti39, il verbo fulaéssw, che traduce, quasi sempre, il verbo ebraico ram$ f , tradotto talora dai LXX anche con threéw. Nel vangelo di Giovanni, il verbo fulaéssw si legge solo tre volte, in 12,25, riferito alla propria vita (thèn yuchén) che, chi la odia in questo mondo, la conserva per la vita eterna; in 12,47 è riferito alle parole di Gesù ascoltate ma non custodite; infine in 17,12 è riferito a quelli che il Padre gli ha dato, che Gesù non ha perduto nessuno. Prescindiamo dal senso specifico dei due verbi fulaéssw e threéw nel vangelo di Giovanni; al nostro scopo interessa soltanto il riferimento al Cfr. Dt 4,2.6.9.15.40; 5,1.10.12.15.29.32; 6,2.3.17.25; 7,9.9.11.12.; 8,1.2.6.11; 10,13; 11,1.8.32; 12,1.28.32; 13,4.18; 15,5; 16,1.12.20; 17,10.19; 23,9.23; 24,8.8; 26,16.17.18; 27,1; 28,1.13.15.45; 29,9; 30,10.16; 32,46; 33,9. 39
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Deuteronomio; si nota tra i due libri l’inverso: nel Deuteronomio è usato sempre il verbo fulaéssw e mai il verbo threéw; nel vangelo di Giovanni invece il verbo threéw è usato più frequentemente, mentre è più raro il verbo fulaéssw. Prescindiamo dal fatto perché il quarto evangelista abbia preferito il verbo threéw; possiamo forse supporre che, nella scelta di questo verbo, il quarto evangelista sia stato indotto dal fatto che entrambi i verbi greci si ricollegano allo stesso ebraico ramf$. 2.1.5. Altri verbi nel Deuteronomio Nel Deuteronomio ancora leggiamo altri verbi. Anzitutto il verbo composto diathreéw, usato diverse volte nei LXX, ma che nel Deuteronomio si legge soltanto due volte, in 7,8, riferito al giuramento (toèn o$rkon), che traduce il verbo ramf$, e in 33,9, riferito all’alleanza (thèn diaqhékhn), che traduce il verbo racfn. Questo verbo composto non si legge mai nel vangelo di Giovanni. Inoltre il verbo composto diafulaéssw, usato anch’esso alcune volte nei LXX, ma che, nel Deuteronomio si legge soltanto due volte, in 7,12, riferito all’alleanza (thèn diaqhékhn), dove traduce il verbo ramf$, e in 32,10, riferito al popolo (au\toén) che Dio custodì come la pupilla dei suoi occhi, dove traduce il verbo racfn. Nemmeno questo verbo si legge mai nel vangelo di Giovanni. Notiamo ancora il verbo eu\logeéw (benedire); esso, nei LXX, si legge con una certa frequenza. Pure nel Deuteronomio è usato con relativa frequenza40; indica la benedizione promessa, come ricompensa, a chi osserva i comandamenti del Signore41. Esso quasi sempre traduce il verbo |arfB. Nel vangelo di Giovanni si legge soltanto in 12,13, nel contesto della citazione del Sal 117,26, riferito a Gesù (eu\loghmeénov) che entra in Gerusalemme. 40
Circa 34 volte.
Cfr. Dt 1,11; 2,7; 7,13.13; 12,7; 14,24.29; 15.4.6.10.14.18; 16,10.15; 23,20; 24,13.19; 28,3.3.4.5.6.6.12; 30,9.16. 41
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Per indicare la ricompensa da parte del Signore, per chi osserva i comandamenti, il Deuteronomio usa talora42 anche il verbo plhquénw (moltiplicare, far abbondare), frequente nei LXX: il Signore farà crescere il popolo e lo farà abbondare nel bestiame e nei beni della terra43. Il verbo plhquénw traduce quasi sempre il verbo hfbfr nelle sue varie forme. Il verbo plhquénw, raro nel NT, è del tutto assente nel vangelo di Giovanni. Leggiamo infine, tre volte, nel Deuteronomio, il verbo proaireéomai (proeòlato), raro nei LXX, con cui si esprime la preferenza, da parte del Signore, per Israele44 e per i padri45. Il verbo proaireéomai traduce, in 7,6, il verbo ratfB e, in 7,7 e 10,15, il verbo qa$fx. Il verbo proaireéomai, in tutto il NT, si legge soltanto in 2Cor 9,7. 2.2. I termini La terminologia usata per indicare i comandamenti del Signore, nel Deuteronomio è molto varia. 2.2.1. Il termine e\ntolhé Il primo termine che indichiamo è e\ntolhé, al plurale ai\ e\ntolaò. Esso, nella versione dei LXX, si legge con una certa frequenza; in genere, traduce il termine ebraico hfw:cim. Nel libro del Deuteronomio si compendiano il numero più alto di usi: 44 usi (taèv e\ntolaév: tow:cim-te))46; eguaglia soltanto il libro dei Salmi, con i suoi 45 usi, di cui però 39 si leggono solo nel Sal 118. Nel NT il termine si legge oltre 70 volte; nel vangelo di Giovanni si legge undici volte. Prescindendo dall’uso di 11,57, che con esso si 42 43 44 45
Il verbo plhquénw si legge, nel Deuteronomio, complessivamente 15 volte. Cfr. Dt 1,10; 6,3; 7,13.22; 8,13.13.13.13; 13,18; 28,11.63. Cfr. 7,6 (seé). 7 (u|ma%v).
Cfr. 10,15 (touèv pateérav).
Cfr. Dt 4,2.40; 5,29.31; 6,1.2.17.24.25; 7,9.11; 8,1.6.9.11; 10,13; 11,1.8.13.22.27.28; 13,4.19; 15,5; 16,12; 17,19.20; 19,9; 26,13.13.18; 27,1.10; 28,1.13.14.15.45; 30,8.10.11.16.16; Gs 5,16; Gs 22,3.5.5. 46
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menziona il comando dato dai sacerdoti e dai farisei di indicare dove fosse Gesù, il termine si riferisce al comando dato dal Padre a Gesù (Gv 10,18; 12,49.50), al comando dato da Gesù ai discepoli (13,34; 15,12); ai comandamenti con la cui osservanza Gesù concretizza il suo amore verso il Padre (14,31), i discepoli il loro amore verso Gesù (14,15.21), ai comandamenti la cui osservanza permette ai discepoli di restare nell’amore di Gesù (15,10) e che ha permesso a Gesù di restare nell’amore del Padre (15,10). 2.2.2. Il termine taè dikaiwémata (qox
hfQux)
Anche il termine taè dikaiwémata ({yiQuxah) si legge con una certa frequenza nell’AT secondo la versione greca dei LXX, circa 140, nei diversi libri, di cui però 28 volte nel Deuteronomio47, superati soltanto dal libro dei Salmi con i suoi 35 usi, di cui 29 soltanto nel Sal 118. Nel NT il termine dikaiwémata è raro: si legge complessivamente 10 volte, di cui una sola volta nel vangelo di Luca (1,6), cinque nella lettera ai Romani (1,32; 2,26; 5,16.18; 8,4), due nella lettera agli Ebrei (9,1.10) e due, infine, nell’Apocalisse (15,4; 19,8). Esso è del tutto assente nel vangelo di Giovanni. 2.2.3. Il termine taè prostaégmata (5v.) Pure il termine taè dikaiwémata è usato con relativa frequenza nella versione greca dei LXX, complessivamente 180 volte, attestato in diversi libri, dove traduce diversi termini ebraici. Nel Deuteronomio però si legge soltanto cinque volte: in 5,10, dove traduce il termine hfw:cim (tow:cim), e, in 11, 32 e 12,1, dove traduce il termine qox ({yiQuxah) infine 15,2 e 19,4, dove traduce il termine rfbfD. Questo termine è del tutto assente non soltanto nel vangelo di Giovanni, ma anche in tutto il NT. 47 Cfr. 4,1.5.6.8.14.40.45;5,1.31; 6,1.2.4.17.20.24; 7,11.12; 8,11; 10,13; 11,1; 17,19; 26,16.17; 27,10; 28,45; 30,10.16; 33,10.
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2.2.4. Il termine taè fulaégmata Il termine taè fulaégmata nei LXX, è molto raro: si legge appena otto volte e, nel Deuteronomio, soltanto una volta in Dt. 11,1 (owT:ram:$im). Tranne che in Sof 1,12, dove non ha alcun corrispondente nel TM, il termine fulaégmata traduce sempre il termine ebraico terem:$im. Questo termine è del tutto assente non soltanto nel vangelo di Giovanni, ma anche in tutto il NT. 2.2.5. Il termine taè kròmata (+apf$/+fP:$im) Possiamo anche segnalare il termine kròma (taè kròmata), che, nei LXX, si legge oltre 250 volte. Limitando la nostra osservazione al Deuteronomio, esso si legge in questo libro 16 volte, traducendo, quasi sempre48, il termine ebraico +fP:$im. In questi testi del Deuteronomio il termine taè kròmata è usato talora anche in connessione ad altri termini che rimandano alle prescrizioni del Signore mediate da Mosè: dikaiwémata (4,8; 5,31; 6,1.20; 7,11; 8,11), e\ntolaév (6,24), prostaégmata (12,1). Nel NT si legge 28 volte ed indica una azione o una sentenza giudiziaria. Lo stesso significato appare nell’unico uso del vangelo di Giovanni, in 9,39, dove Gesù dichiara di essere venuto a compiere una azione giudiziaria (kròma). 2.2.6. Il termine kròsiv Accanto al termine kròma c’è anche il termine kròsiv (taèv kròseiv), attestato oltre 350 volte nella versione greca dei LXX, dove traduce, in genere, il termine +fP:$im. Nel Deuteronomio è attestato 25 volte, traducendo nella maggior parte dei casi, lo stesso termine ebraico ({yi+fP:$im).
48
In Dt 6,24 traduce il termine qox ({yiQuxah).
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Non tutti gli usi però si riferiscono alle prescrizioni date al popolo; in tale senso il termine è usato in 4,5.14; 11,1.32; 12,1; 30,10.16; 32,4; negli altri testi esso indica il giudizio49. Nel NT il termine si legge 46 volte, di cui 11 nel vangelo di Giovanni50. Mai, a quanto sembra, si riferisce, nel NT, alle prescrizioni date da Dio. Specificamente, nel vangelo di Giovanni, esso si riferisce al giudizio, e talora anche al giudizio di condanna51. 2.2.7. Il termine noémov Il termine noémov, che traduce, in genere, il termine hfrowt, è abbastanza frequente nella versione greca dei LXX: si legge quasi 500 volte; non altrettanto abbastanza frequente nel libro del Deuteronomio, dove si legge 25 volte52, traducendo sempre, tranne che in 32,4553, il termine hfrowt. Il senso del termine noémov,però nel Deuteronomio, come del resto in tutto l’AT, è positivo: Mosè presenta al popolo, da osservare, tutte le prescrizioni di “questa legge”. Diversa invece appare la prospettiva del termine noémov,nel vangelo di Giovanni. Prescindendo da tutti gli usi neotestamentari, e limitandoci soltanto al vangelo di Giovanni, esso, in questo vangelo si legge 14 volte. In essi appare una continuità, ma più spesso anche una contrapposizione, con l’insegnamento e con l’opera di Gesù54.
Ci riferiamo ai seguenti testi: 1,17.17; 10,18; 16,18.19; 17,8.8.8.8.8.9.11; 18,3; 19,6; 25,1; 24,17; 27,19; 33,21. 49
50 51
Cfr. Gv 3,19; 5,22.24.27.29.30; 7,24; 8,16; 12,31; 16,8.11. Cfr. 5,24.29; 12,31; 16,11.
Cfr. Dt 1,5; 4,8.44; 17,11; 24,8; 27,3.8.26; 28,58.61; 29,20.21.29; 30,10; 31,9.11.12.24.26; 32,44.45.46; 33,4.10. 52
53
Il termine però, in 32,45, è aggiunto soltanto dal cod. A.
Tale contrapposizione appare soprattutto nella narrazione della passione, dove i giudei, in nome della loro legge, reclamano la morte di Gesù (cfr. 19,7 [bis]). 54
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2.2.8. Altri termini Talora i comandamenti sono indicati, nel Deuteronomio, anche con altri termini. Anzitutto, benché raramente, con il termine martuérion (taè marturòa): in Dt 4,45; 6,17.29 e in 9,15, dove traduce il termine hfd¢( (tod¢(fh). Il termine martuérion è del tutto assente nel vangelo di Giovanni. Altre volte i comandamenti sono indicati con il termine r|héma (taè r|hémata)55, dove traduce il termine rfbfD. In 4,10 Mosè riferisce le parole di Dio che esorta il popolo ad ascoltare le sue parole (a\kousaétwsan taè r|hémataé mou: yfrfb:D-te) {¢i(im:$a):w. Questo testo potrebbe essere richiamato da Gv 12,47, dove Gesù prospetta il giudizio a colui che ascolta le sue parole (e\aèn tòv mou a\koués+ tw%n r|hmaétwn) e non le custodisce (mhè fulaéx+)56. Possiamo infine indicare anche il termine noémimov, che traduce i termini qox e hfQux. Esso tuttavia si legge prevalentemente nei libri dell’Esodo e del Levitico; ma è assente nel Deuteronomio e in tutto il NT. 2.3. Conclusione Come possiamo constatare, prescindendo dal verbo a\gapaéw (bahf)) e dal termine noémov (hfrowt), tre termini soprattutto sembrano stabilire un rapporto letterario tra il libro del Deuteronomio e il vangelo di Giovanni: il verbo e\nteéllomai (hfwfc), il verbo e\kleégomai (raxfB) e il termine e\ntolhé (hfw:cim). Si potrebbe pensare anche al verbo fulaéssw che, in Giovanni, si legge soltanto tre volte, in 12,25, in 12,47 e in 17,12. Soprattutto si potrebbe pensare ad esso per il testo di 12,47, come abbiamo ipotizzato sopra. Il quarto evangelista però usa abitualmente il verbo threéw, con un senso analogo a quello che ha il verbo fulaéssw nel Deuteronomio. In questo caso, la relazione sarebbe stabilita sul testo ebraico: entrambi i verbi greci infatti convergono nello stesso verbo ebraico ramf$.
55 56
Cfr. così in Dt 4,1.10.13; 5,5; 6,6; 10,2; 11,18; 28,58; 29,19.29; 30,1; 31,9.
Possiamo notare qui l’uso del verbo fulaéssw che richiama quelli del Deuteronomio.
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Quanto poi alla terminologia della legge, prescindendo dal termine
noémov, con il quale l’evangelista si pone talora in continuità ma talora
anche in contrapposizione, contro la molteplicità dei termini usati dal Deuteronomio, l’evangelista ne utilizza soltanto uno: e\ntolhé. Possiamo concludere per la dipendenza del vangelo di Giovanni dal Deuteronomio? Forse gli elementi letterari, che tuttavia non sono assenti, potrebbero essere, da soli, non decisivi. Una risposta più decisiva potrà venire probabilmente anche dal confronto della prospettiva tematica in cui quella terminologia si colloca nei due libri. 2.4. Confronto tematico Al confronto letterario sopra condotto, non può non seguire un confronto tematico tra gli elementi e la prospettiva sia del Deuteronomio sia del vangelo di Giovanni. I due confronti si illuminano infatti e si completano a vicenda. 2.4.1. Mosè e Gesù Il primo elemento di confronto riguarda le figure di Mosè e di Gesù. Emerge quasi una certa dualità, forse anche una certa contraddizione, a riguardo della figura di Mosè: da una parte questi appare come colui che, con sua propria autorità, esorta il popolo ad osservare i comandamenti che egli trasmette, dall’altra afferma che quei comandamenti provengono da Dio. Gesù invece, nel comandamento che trasmette ai discepoli, appare del tutto autonomo: il comandamento che egli propone è “il suo” comandamento, che egli promulga nella sua prerogativa di Signore e maestro. Egli però non è senza relazione al Padre; dal Padre pure lui ha ricevuto un comandamento (10,18; 12,49) e lo esegue (14,31); egli, che comanda ai discepoli di amarsi gli uni gli altri (13,34; 15,12), a sua volta, è stato raggiunto dall’amore del Padre (15,9; 17,23-26); dal Padre, per avere osservato il suo comandamento, è amato (10,17) e “rimane” nell’amore del Padre.
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2.4.2. L’evento primordiale: l’amore di Dio Sia il Deuteronomio che il quarto vangelo concordano nel fatto che il fondamento di tutta l’opera di salvezza è l’amore di Dio. Entrambe le opere infatti individuano l’evento primordiale nel fatto che Dio concretamente ha amato. Secondo il Deuteronomio, Dio ha amato i Padri (Dt 4,37; 10,15) e, in forza di questo amore,. Dio ha scelto i loro figli. Ma Dio ha amato i loro figli, il popolo al quale adesso Mosè parla (7,8; 23,6). Anche il vangelo di Giovanni individua l’evento primordiale nell’amore di Dio. Dio ha amato il mondo (3,16); ha amato Gesù (5,9). Secondo 17,23-26, insieme a Gesù, Dio ha amato anche coloro che gli ha dato, i discepoli. Nel vangelo di Giovanni l’evento primordiale non è soltanto l’amore di Dio rivolto, secondo 5,9, a Gesù, ma anche, in maniera subordinata, l’amore di Gesù verso i discepoli (cfr. anche 13,1). In 17,23 Gesù e i discepoli sono oggetto coeguale di un amore che è prima della fondazione del mondo; in 15,9 troviamo poi, in maniera subordinata, i due amori: quello del Padre verso Gesù e quello di Gesù verso i discepoli. 2.4.3. L’evento di salvezza Sia il Deuteronomio come anche il vangelo di Giovanni sottolineano, concordando, che l’amore primordiale di Dio o di Gesù non rimangono semplicemente allo stato teorico, ma si concretizzano in un evento che costituisce appunto l’evento di salvezza. Si può dire anche il contrario: l’evento di salvezza, da Dio operato, per mezzo di Mosè, nell’AT e da lui stesso operato in Cristo, e compiuto da Cristo stesso, nel NT, trovano la loro ultima motivazione nel mistero dell’amore di Dio e di Cristo. Possiamo anche dire che l’opera di salvezza da Dio compiuta, sia secondo il libro del Deuteronomio che secondo il vangelo di Giovanni, affondano le loro radici nel mistero dell’amore di Dio. Il testo di Dt 4,37 propone tre azioni di Dio consequenziali l’una dall’altra: Dio ha amato i Padri, ha scelto la loro discendenza, l’ha fatto uscire con grande potenza dall’Egitto. L’evento concreto di salvezza è la
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liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, che Dio ha compiuto avendo scelto la discendenza dei Padri che ha amato. Analoga prospettiva appare dal testo di 7,8. L’evento concreto di salvezza è ancora la liberazione dalla schiavitù e dalla condizione servile in terra di Egitto. Il fondamento di tale liberazione è ancora l’amore di Dio, orientato però stavolta non verso i padri, ma verso il popolo stesso; ai padri ha fatto un giuramento, che, ora, nella sua fedeltà, mantiene liberando i loro figli dalla mano del faraone, il re di Egitto. Il testo di 10,15 presenta una prospettiva più limitata. Il fondamento è ancora l’amore di Dio verso i padri; l’evento di salvezza, che scaturisce da quell’amore però, è limitato soltanto alla scelta della loro discendenza, come popolo peculiare tra tutti i popoli. Infine in 23,6 l’amore di Dio verso il popolo, come abbiamo già notato, si è concretizzato nel fatto di non avere ascoltato Balaam e di avere mutato la maledizione in benedizione. Nel vangelo di Giovanni, gli eventi che scaturiscono dall’amore fondamentale di Dio, sono diversi rispetto al libro del Deuteronomio; sono pure diversi tra di loro, ma tutti concomitanti e progressivi. L’amore di Dio verso il mondo, menzionato in 3,16, si è concretizzato nel dono dell’Unigenito. Proprio questo dono, che è il massimo che egli può offrire, mostra l’ampiezza (w$ste) dell’amore di Dio verso il mondo. Più difficile è determinare l’evento che concretizza l’amore di Dio verso Gesù. In uno studio precedente, contenuto in questa raccolta57, abbiamo tentato, guidati anche dal testo di 3,35, di individuarlo in 13,3: il Padre ha messo tutto nelle mani del figlio. Infine l’amore di Gesù verso i discepoli, che in ultima analisi risale all’amore di Dio (15,9), si è concretizzato, nel modo di 15,13. Il testo di 13,2-5 descrive, mediante l’azione simbolica della lavanda dei piedi, una azione di Gesù, che include certo il dono della propria vita, ma che si apre ad una prospettiva più ampia: Gesù ha coinvolto i discepoli in un cammino che li conduce fino al Padre. Riassumendo, secondo il libro del Deuteronomio, l’evento di salvezza, che scaturisce e risale all’amore di Dio verso i Padri e verso il popolo 57
15,9).
Cfr. Studio Nove: L’amore del Padre verso il Figlio nel vangelo di Giovanni (Gv
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stesso, è la loro liberazione dalla schiavitù in Egitto; secondo il vangelo di Giovanni, come avremo modo di dire meglio in seguito, è invece il coinvolgimento dei discepoli nell’amore stesso di Gesù58. 2.4.4. L’epilogo dell’evento di salvezza La liberazione dalla schiavitù di Egitto è soltanto l’aspetto negativo dell’evento di salvezza. Dio ha liberato da quella schiavitù per uno scopo positivo, diverse volte indicato nel libro del Deuteronomio. Esso è l’ingresso nella terra promessa, quella terra che Dio, con giuramento, aveva promesso ai Padri di dare alla loro discendenza59. Si tratta della terra buona stillante latte e miele60, la terra dove non si mangia il pane (Dt 8,7-9) con scarsità e dove non manca nulla. Questo orientamento verso la terra, come scopo della liberazione dall’Egitto, era stato già indicato da Dio a Mosè, quando gli comandò di scendere in Egitto: avendo udito i gemiti del suo popolo, Dio scende per liberarlo e condurlo verso la terra buona stillante latte e miele (Es 3,8)61. Diverso invece è l’orientamento dell’evento della salvezza nel vangelo di Giovanni. In diversi testi si sottolinea che tutta l’opera di Gesù è orientata verso il conferimento della vita eterna, che si ottiene appunto mediante la fede in lui (3,16; 6,33.38-40; 10,28; 11,25, 17,2). Più specificamente, in 13,1 si legge che Gesù «a compimento li amò (ei\v teélov h\gaéphsen au\touév)», cioè i discepoli. Come avremo occasione di dire, questo amore a compimento è tale che permette ai discepoli, coinvolti nell’amore di Gesù, di pervenire, assieme a lui, al loro compimento, cioè al Padre. 58 Cfr. il nostro Studio, La Lavanda dei piedi (Gv 13,1-5): Il coinvolgimento dei discepoli nell'esodo di Gesù mediante l'amore, in «Synaxis» XIV/2 (1996) 27-120 (I); XV/1 (1997) 7-87 (II); 59 Cfr. Dt 1,8.21.25.35.36; 2,29; 3,12; 4,22.38; 5,31; 6,1.10.18.23; 7,1; 8,1; 9,4.5.6.23; 11,8.21.29. 31; 12,1.29; 16,20; 17,14; 18,9; 19,1.8; 25,19; 26,1; 27,3; 28,8; 30,5; 31,20.21.23; 34,4. 60
Cfr. Dt 4,1; 6,3; 8,7; 26,9.10 (LXX).15; 31,20.
Cfr. L’orientamento verso la terra è menzionato anche in Es 3,17; 6,8; 13,5.11; 23,20; Lv 24,20; 23,10; Nm 14,8.16.24.30; 15,2; 16,13.14; 32,11.32; 33,53.54; 34,2; 36,2. 61
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In 15,9-10, il compimento dell’opera di amore di Gesù nei confronti dei discepoli è che questi pervengano e permangano nell’amore di Gesù; così come Gesù è pervenuto e rimane radicato nell’amore del Padre. Implicitamente ne consegue che, coinvolti nell’amore di Gesù, i discepoli pervengano e rimangano anch’essi nell’amore del Padre. In 15,14 si dice che i discepoli, se fanno quando Gesù ha comandato, pervengono, come amici (fòloi), nell’intimità di Gesù; secondo 16,27 però il Padre stesso li accoglie nella sua intimità (file_) avendo essi accolto nella loro intimità (e\meè pefilhékate) Gesù. Infine, in 17,24 Gesù manifesta al Padre la sua volontà (qeélw) che quelli che gli ha dato, cioè i discepoli, siano con lui dove egli è, perché vedano la sua gloria. La stessa cosa era stata già annunziata da Gesù in 12,26, dove era stato anche menzionato l’onore che il “servo (o| diaékonov)” di Gesù avrebbe ricevuto dal Padre. 2.4.5. La risposta di amore da parte dei discepoli All’amore di Dio o di Cristo, la risposta da parte dei destinatari di questo amore, ovviamente, non può essere se non una risposta di amore. Ciò appare sia nel libro del Deuteronomio sia anche nel vangelo di Giovanni. I testi del Deuteronomio, a riguardo, sono numerosi. Abbiamo citato precedentemente quelli di 5,10; 6,5; 7,9; 10,12; 11,1.13.22; 13,4; 19,9; 30, 6.20. Ci siamo anche riferiti ai testi di Gs 22,5 e di 23,11. In tutti questi il popolo è esortato ad amare Dio. Tutto il contesto del libro del Deuteronomio suggerisce che l’amore verso Dio, richiesto al popolo, sia appunto una risposta al fatto che Dio ha amato per primo ed ha concretizzato il suo amore nella fedeltà al giuramento e nell’attuazione della sua liberazione. Analogamente il popolo, chiamato ad amare Dio, non può farlo soltanto a parole, ma lo concretizzerà nell’osservanza dei suoi comandamenti e di tutte le prescrizioni che Mosè sta presentando. L’osservanza dei comandamenti appare così la risposta di amore a Dio da parte del popolo. Analoga prospettiva appare anche nel vangelo di Giovanni. A riguardo è importante il cap. 14. In 14,15, rivolgendosi ai discepoli, Gesù dichiara: «se mi amate (e\anè a\gapa%teé me) osserverete i miei comandamenti», nel v.
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21 Gesù continua. «chi ha i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama (o| a\gapw%n me)»; nel v. 23 ancora afferma: «se qualcuno mi ama (e\ané tiv a\gapçé me) osserverà la mia parola» e, infine, nel seguente v. 24 ammonisce: «chi non mi ama (o| mhè a\gapw%n me) la mia parola non osserva». Analogamente, per Gesù, nella sua relazione al Padre, possiamo citare il v. 31 dello stesso cap. 14: «perché il mondo sappia che io amo (a\gapw%) il Padre e così come il Padre mi ha comandato, così faccio». Emergono nel vangelo di Giovanni due prospettive analoghe al libro del Deuteronomio: all’amore di Dio, segue, da parte di Gesù, una risposta di amore; all’amore di Gesù, segue, da parte dei discepoli, una risposta di amore. Inoltre sia per Gesù in relazione al Padre, sia per i discepoli in relazione a Gesù, tale amore di risposta si concretizza nell’osservanza dei comandamenti, rispettivamente del Padre per Gesù e di Gesù per i discepoli. 2.4.6. L’epilogo dell’osservanza dei comandamenti Quanto all’epilogo dell’osservanza dei comandamenti, prescindendo dai diversi testi del Deuteronomio, dove si legge che Dio benedirà il popolo, lo moltiplicherà e lo farà abbondare dei suoi beni nella terra dove lo introdurrà, indichiamo un solo testo: 7,13, già citato. Leggiamo infatti in questo testo che Dio amerà (a\gaphései), benedirà e lo moltiplicherà se il popolo ascolterà la sua voce e metterà in pratica i suoi comandamenti. È importante, in questo testo, il verbo al futuro, che non riguarda più l’amore previo di Dio, bensì quello conseguente. Possiamo riassumere tutta la prospettiva del Deuteronomio nel seguente schema: Dio ha amato. Ha operato la sua salvezza, Il popolo dovrà amarlo Osservando i comandamenti Dio amerà. L’evento di salvezza, da parte di Dio, e l’osservanza dei comandamenti da parte del popolo, sono inclusi tra due atti di amore da parte di Dio, quello previo (h\gaéphsen) e quello conseguente (a\gaphései).
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Analoga prospettiva appare anche nel vangelo di Giovanni. I testi più diretti sono 14,21 e 14,23. In 14,21 Gesù afferma che, chi lo ama (o| deè a\gapw%n me), ovviamente mediante l’osservanza dei comandamenti, sarà amato (a\gaphqhésetai) dal Padre suo. Non soltanto dal Padre però, ma anche da Gesù (ka\gwè a\gaphésw au\ton), che concretizzerà questo suo amore nella sua manifestazione (kaì e\mfanòsw au\t§% e\mautoén). Nel v. 23 poi ancora Gesù continua: «se qualcuno mi ama (e\ané tiv a\gapçé me), la mia parola custodirà e il Padre mio lo amerà (a\gaphései)». Gesù però non è escluso: Padre e Gesù infatti concretizzeranno il loro amore nella venuta e nell’inabitazione, proèv au\toèn e\leusoémeqa kaì monhèn par’au\t§% poihsoémeqa: (a lui verremo e dimora presso di lui faremo). A riguardo poi di Gesù, possiamo citare 10,17-18: «Il Padre mi ama (a\gapç% me), poiché io pongo la mia vita […] tale comando ricevetti (e"labon) dal Padre». La relazione tra il presente a\gapç% me (mi ama) e l’aoristo e"labon (ricevetti) suggerisce, nel testo, una lettura inversa: Gesù ha ricevuto un comando dal Padre; lo ha eseguito donando la propria vita; in conseguenza di ciò, il Padre lo ama. Nel vangelo di Giovanni però si aggiunge ancora un altro aspetto, assente nel libro del Deuteronomio, ma descritto in 15,9-10. Se osservano i comandamenti di Gesù, i discepoli rimarranno (mene_te) nel suo amore (e\n t+% a\gaép+ mou), come Gesù che, avendo osservato i comandamenti del Padre, rimane (meénw) nel suo amore (au\tou% e\n t+% a\gaép+). L’osservanza dei comandamenti permette a Gesù di pervenire e rimanere nell’amore del Padre, così come la stessa osservanza permette ai discepoli di pervenire e rimanere nell’amore di Gesù. Il testo di 15,10 permette però, a riguardo dei discepoli, una relazione con il testo di 15,14, come appare dal seguente schema concentrico: v. 10: «Se i miei comandamenti osserverete (e\anè taèv e\ntolaév mou terhéshte)», «rimarrete nel mio amore (mene_te e\n t+% a\gaép+ mou)». v. 14: «sarete miei amici (u|me_v fòloi moué e\ste)», «se fate ciò che vi comando (e\anè poih%te a£ e\gwè e\nteéllomai u|m_n)». Mediante l’osservanza dei comandamenti, i discepoli non solo rimarranno nell’amore di Gesù, ma entreranno, come amici, nella sua intimità.
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3. Conclusione Gli elementi sopra indicati portano alla conclusione che, nei capp. 1416, soprattutto in 14,15-24 e 15, 9-17, l’evangelista si ispira, o almeno ha presente, il libro del Deuteronomio. Ciò è suggerito da tre aspetti convergenti: letterario, strutturale e tematico. 3.1. Aspetto letterario Dal punto di vista letterario, sono presenti, in entrambi i libri, i seguenti elementi: il termine e\ntolhé (comandamento), al plurale, il verbo a\gapaéw (amare) nelle sue varie forme, il verbo e\nteéllomai (comando), usato in entrambi appunto alla prima persona singolare, il verbo e\kleégomai (scegliere), usato, in entrambi i libri, all’aoristo, ma, nel vangelo di Giovanni, alla prima persona singolare (e\xelexaémhn) e. nel Deuteronomio, alla terza persona singolare (e\xeleéxato). Non mancano però delle differenze. I termini, usati per indicare i comandamenti, nel Deuteronomio, sono diversi; nel vangelo di Giovanni, invece prescindendo dal termine noémov, che non manca, nel vangelo, anche di un aspetto antitetico, l’unico termine usato è e\ntolhé. Un’altra osservazione si pone anche a riguardo del verbo che esorta all’osservanza dei comandamenti. Nel Deuteronomio (LXX) il verbo usato quasi esclusivamente è fulaéssw; nel vangelo di Giovanni invece è threéw. Possiamo notare che il verbo threéw, nel Deuteronomio, non si legge mai; nel vangelo di Giovanni, al contrario, il verbo fulaéssw è abbastanza raro. Gli usi di 12,25 e di 17,12, riferiti, rispettivamente, alla vita (yuché) e ai discepoli, come abbiamo già osservato, non hanno alcun legame con il Deuteronomio; forse un legame può essere stabilito con il testo di 12,47, riferito alle parole (r|hmaétwn) di Gesù. I due verbi, fulaéssw e threéw, prescindendo da eventuali specifiche sfumature, nel loro significato di fondo, appaiono equivalenti. Non è chiaro però perché il quarto evangelista abbia preferito il verbo threéw al più comune verbo fulaéssw dei LXX; notiamo però che entrambi i verbi, abitualmente fulaéssw e in parte anche threéw, traducono il verbo ebraico
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ramf$;
viene così da pensare che il quarto evangelista abbia avuto presente, almeno in questo caso, questo verbo comune ramf$ presente nel TM. 3.2. Aspetto strutturale Dal punto di vista strutturale la prospettiva del vangelo di Giovanni, nei testi sopra citati dei discorsi nel cenacolo, appare analoga a quella del libro del Deuteronomio. In quest’ultimo Mosè è in mezzo al popolo al quale trasmette i comandamenti di Dio; nel quarto vangelo Gesù è in mezzo ai discepoli, ai quali propone il suo comandamento. Appare però, tra i due libri, qualche differenza di prospettiva. Nel libro del Deuteronomio sembra emergere una qualche discrepanza, anche a distanza ravvicinata. Da una parte Mosè appare come soggetto promulgatore di comandamenti; dall’altra invece Mosè appare come colui che trasmette i comandamenti di Dio. Basti notare gli usi del verbo e\nteéllomai; talora esso è usato alla prima persona singolare (e\nteéllomai), con soggetto Mosè: egli esorta il popolo ad osservare ciò che lui comanda62; dall’altra è usato alla terza persona singolare (e\neteòlato), con soggetto Dio: Mosè appare come colui che media al popolo i comandamenti di Dio63. Nel vangelo di Giovanni il soggetto che propone il comandamento è duplice: nei confronti dei discepoli esso è chiaramente Gesù che indica loro, anche direttamente mediante l’uso del verbo e\nteéllomai, il suo comandamento. Nei confronti di Gesù invece chi propone il comandamento è il Padre. Possiamo notare che mai il Padre è presentato direttamente come colui che dà un comando a Gesù: è invece Gesù stesso che dichiara, sia con il verbo e\nteéllomai64, sia con il termine e\ntolhé65, di avere ricevuto un comandamento dal Padre. Il testo di 15,9 poi suggerisce che il comandaCfr. Dt 4,2.2.10; 6,2.6; 7,11; 8,1.11; 10,13; 11,8.13.22.27.28; 12,11.14.28.32; 13,18; 15,5.11.15; 19,7.9; 24,18.20.22; 27,1.4.10; 28,1.13.14.15; 30,2.8.11.16. 62
Cfr. Dt 1,3.19.41; 2,37; 4,5.13.14; 5,12.16.32.33; 6,1.3.17.20.24.25; 9,12.16; 10,5; 13,5; 20,17; 26,16; 27,11; 28,45; 29,1; 34,9. 63
64 65
Cfr. Gv 14,31, benché il verbo e\nteéllomai sia criticamente incerto. Cfr. Gv 10,18; 12,49.50; 14,31 (l.v.); 15,10.
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mento che Gesù propone ai discepoli, consegue e, in certo senso, anche dipende, da quello che egli ha ricevuto dal Padre. 3.3. Aspetto tematico L’aspetto tematico, o, meglio, gli aspetti tematici, si presentano più complessi e anche più articolati. Esso appare analogo nei due testi, il Deuteronomio e il vangelo di Giovanni. Ci sono infatti delle somiglianze, ma appaiono anche delle differenze, Il primo aspetto è quello dell’amore di Dio: Egli per primo ha amato e il suo amore è stato la causa dell’evento di salvezza. Emergono però delle differenze: nel Deuteronomio l’amore è uno solo quello di Dio, che ha amato i Padri ed ama anche il popolo: mai Mosè è presentato come soggetto di amore. Nel vangelo di Giovanni, in 17,23-26, l’amore è uno solo, quello del Padre che, prima ancora della fondazione del mondo, ha amato sia Gesù come i discepoli. Poi, in 15,9, i soggetti dell’amore si distinguono e sono due: il Padre che ha amato Gesù e Gesù che ha amato i discepoli. Infine, in 13,1; 13,34 e in 15,12,l’unico soggetto che ama è Gesù. In ogni caso nello sfondo del comandamento che Gesù ha ricevuto ed ha osservato, c’è l’amore del Padre verso di lui; nello sfondo del comandamento che Gesù propone ai discepoli c’è il suo amore verso di loro. Il secondo aspetto è la relazione tra l’amore di Dio e l’evento, o l’opera, di salvezza. Secondo il libro del Deuteronomio, Dio ha amato i Padri e, in forza di quell’amore, ha fatto a loro, con giuramento, una promessa, che ora mantiene nei loro figli, liberandoli dalla schiavitù di Egitto e orientandoli verso una terra buona stillante latte e miele. Nello sfondo, e come ultima motivazione, di tutta l’opera di Dio che salva, dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà nella terra promessa, ci sta l’amore di Dio. Egli è intervenuto nella storia del suo popolo perché ha amato i Padri ed ama i loro figli, il suo popolo. Nel vangelo di Giovanni. la relazione tra l’amore di Dio o di Cristo appare più complessa. Dio ha amato Gesù ed ha concretizzato tale amore, fin dall’eternità, mettendo tutto nelle sue mani; Gesù ha amato i discepoli mediante il dono della propria vita, come appare sia dalle azioni simbo-
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liche di lavare ed asciugare i piedi dei discepoli (13,2-5), sia anche dalle stesse parole di Gesù che nessuno ha amore più grande di chi pone la sua vita per i suoi amici (15,13). Mediante il dono della propria vita Gesù certo ha compiuto un atto di liberazione: ha sottratto i discepoli al mondo (cfr. 15,19), ma soprattutto li ha introdotti nella sua intimità (15,14-15). Nell’evento stesso di salvezza sembra emergere poi una differenza di prospettiva tra il vangelo di Giovanni e il Deuteronomio. Secondo quest’ultimo, l’evento di salvezza è la liberazione dall’Egitto e l’orientamento e l’imminente introduzione nella terra promessa; tale evento, come abbiamo detto, ha una sola motivazione: l’amore di Dio verso i Padri e verso il popolo stesso. Nel vangelo di Giovanni la prospettiva sembra essere inversa: l’evento di salvezza è lo stesso amore di Dio che, amando, ha raggiunto Gesù. Gesù poi, amando, ha raggiunto i discepoli. Non si tratta perciò di un’opera concreta e storica di salvezza, fondata e motivata sull’amore di Dio, ma dello stesso amore di Dio che con una azione concreta, ha raggiunto Gesù e da Gesù, mediante una azione concreta, ha raggiunto i discepoli. Diremo poi che l’evento di salvezza, in ultima analisi, è il coinvolgimento dei discepoli nell’amore e la loro unità con Gesù e, attraverso Gesù, con il Padre66. Il terzo aspetto è la risposta di amore. Raggiunti dall’amore di Gesù, la risposta fondamentale che bisogna dare è una risposta di amore. In questo senso, troviamo una somiglianza tra la risposta di amore che il popolo, nel Deuteronomio deve dare a Dio, tra quella che Gesù ha dato al Padre e che i discepoli sono esortati da dare a Gesù. Per tutti, il popolo a Dio nel Deuteronomio, Gesù al Padre e i discepoli a Gesù, la risposta è una sola: l’accoglienza e l’osservanza dei comandamenti. Mosè esorta il popolo, a nome di Dio, che egli lo ami osservando i suoi comandamenti; Gesù dichiara che egli fa come il Padre gli ha comandato e il mondo deve saperlo (14,31); ai discepoli Gesù dice che, se lo amano, debbono osservare i suoi comandamenti (14,15.21) o la sua parola (14,23). L’amore verso Dio mediante l’osservanza dei suoi comandamenti, scaturisce per il popolo del Deuteronomio dal fatto che Dio lo ha liberato in forza del suo amore; l’amore verso il Padre scaturisce per Gesù dal
66
Cfr. Gv 11,52; 12,32; soprattutto i versi del cap. 17 (vv. 3.11.21.22.26).
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fatto che il Padre lo ha amato (15,9); l’amore verso Gesù scaturisce per i discepoli dal fatto che Gesù li ha amati (13,34; 15,12). Il quarto aspetto riguarda i comandamenti che ciascun soggetto deve osservare. Per il popolo del Deuteronomio questi sono le concrete prescrizioni, compreso il Decalogo del cap. 5, che Mosè “dice alle loro orecchie ({eky¢n:ze):B r¢boD)”; per Gesù il comandamento, indicato in 10,17, è porre la vita per riprenderla di nuovo, e poi anche in 12,49, cosa dire e come parlare (tò ei"pw kaì tò lalhésw); per i discepoli infine il comandamento di Gesù è amarsi a vicenda (13,34; 15,12-17). L’ultimo aspetto infine è l’epilogo. Secondo il Deuteronomio, se il popolo ama Dio osservando i suoi comandamenti, il suo epilogo è la sua benedizione, la sua moltiplicazione, il benessere nella terra che il Signore dà. Per Gesù l’epilogo è indicato, da lui stesso, in 15,10: rimanere nell’amore del Padre. Per i discepoli l’epilogo è indicato da Gesù stesso, sia in 15,10: rimanere nel suo amore, sia in 15,15: entrare, come amici, nella sua intimità. Dal momento però che Gesù rimane nell’amore del Padre, rimanendo nell’amore di Gesù, i discepoli automaticamente si trovano radicati e rimangono nell’amore del Padre. Possiamo allora concludere che gli aspetti letterario, strutturale e tematico, sopra indicati, confermano la relazione del vangelo di Giovanni al Deuteronomio. Questo sembra servire da schema, riletto ovviamente alla luce delle nuove realtà che si sono manifestate in Cristo.
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LA DIMENSIONE DELL’AMORE NEL VANGELO DI GIOVANNI
Il vangelo di Giovanni può essere definito, a buon diritto, il “vangelo dell’amore”. Troviamo infatti diversi soggetti che amano e diversi oggetti a cui l’amore dei soggetti è rivolto1. Leggiamo dell’amore del Padre verso il mondo2, verso il Figlio3, verso i discepoli4, verso quelli che amano Gesù5. Inoltre dell’amore di Gesù 1 Per questo studio rimandiamo ad un nostro precedente lavoro con bibliografia annessa, cfr. Il senso di "agapaéw" e "fileéw" nei LXX, nel NT e nel vangelo di Giovanni, in Synaxis 16 (1998) 7-114. Indichiamo tuttavia alcuni studi più significativi: Mr. Cope, On storghé, e"rwv, file_n a\gapa%n, in JPhil 1 (1868) 88-93; H. Highfield, a\gapaéw and fileéw. A rejoinder, in ExpTim 38 (1926-27) 525; R. Joly, Le vocabulaire chrétien de l’amour est-il original? a\gapa%n et file_n dans le Grec antique, Bruxelles 1968; M. Lattke, Einheit im Wort: Die spezifische Bedeutung von a\gaéph, a\gapa%n und file_n in Johannesevangelium, München 1975; M. Paeslack, Zur Bedeutungsgeschichte der Wörter file_n (lieben), filòa (Liebe, Freundschaft), fòlov (Freund), in der Septuaginta und in neuen Testament, in Theologia Viatorum V, Berlin 1953-54, 51-142; H. Preisker, Die Urchristliche Botschaft von der Liebe Gettes, Giessen 1930; T. Söding, Das Wortfeld der Liebe in paganen und biblischen Griechisch; Philologischen Beobachtungen an die Würzel AGAP, in ETL 68 (1992) 284-330; C. Spicq, Agapè dans le Nouveau Testament, 3 Voll. Paris 1958-1959 ; Id., Le verbe a\gapa%n et ses dérivés dans le grec classique, in RB 60 (1953) 372-397; Id., Agapè. Prolégomènes à une étude de Théologie néotestamentaire, Louvain 1955; B.B. Warfield, The Terminology of Love in the New Testament, in PrincTR 16 (1918) 1-45. 2 3 4 5
Cfr. 3,16.
Cfr. 3,35; 10,17; 15,9a; 17,23b.24.26. Cfr. 17,23.
Cfr. 14,21b.
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verso il Padre6, verso i discepoli7, verso un discepolo specifico, quello che egli “amava (h\gaépa)”8, verso colui che lo ama9, verso Marta, sua sorella e Lazzaro10. I discepoli poi debbono amare Gesù11, sono chiamati ad amarsi a vicenda12; Simon Pietro infine è interrogato se ama Gesù13. In questo studio consideriamo soltanto due aspetti: anzitutto la terminologia dell’amore nel NT e nel vangelo di Giovanni e, ampliando ulteriormente, anche nella versione dei LXX, e, inoltre, la posizione strutturale della stessa terminologia nel vangelo di Giovanni. 1. La terminologia dell’amore La terminologia dell’amore sia nel NT che nell’AT è costituita fondamentalmente dal verbo a\gapaéw, con il sostantivo corrispondente a\gaéph, e, in maniera molto più limitata, anche dal verbo fileéw. 1.1. Il verbo a\gapaéw Il verbo a\gapaéw, nel NT, è abbastanza frequente, si legge complessivamente 144 volte. Specificamente poi si legge 27 volte nei vangeli sinottici, di cui otto volte nel vangelo di Matteo14, sei volte nel vangelo di Marco15, 13 volte poi nel vangelo di Luca16. 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16
Cfr. 14,31.
Cfr. 13,1; 15,9b.12b.
Cfr. 13,23; 19,26; 21,7. Cfr. 14,21c. Cfr. 11,5.
Cfr. 14,15.21.21.
Cfr. 13,34a.c; 15,12.17; 20. Cfr. 21,15.16.
Cfr. 5,43.44.46 (bis); 6,24; 19,19; 22,37.39. Cfr. 7,6; 10,21; 12,30.31.33 (bis).
Cfr. 6,27.32 (quater).35; 7,5.42.47 (bis); 10,27; 11,43; 16,13.
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Nell’epistolario paolino il verbo a\gapaéw si legge 34 volte, di cui otto nella lettera ai Romani17, due nella prima lettera ai Corinti18 e quattro nella seconda19, due volte nella lettera ai Galati20, 10 nella lettera agli Efesini21, due nella lettera ai Colossesi22, due nella prima lettera ai Tessalonicesi23 e due nella seconda24, due nella seconda lettera a Timoteo. Nel resto del NT, il verbo a\gapaéw si legge complessivamente 15 volte: due nella lettera agli Ebrei25, tre nella lettera di Giacomo26, quattro nella prima lettera di Pietro27 e una nella seconda28, una nella lettera di Giuda29 e quattro, infine, nell’Apocalisse30. Nell’opera giovannea, quarto vangelo e lettere, esclusa l’Apocalisse, il verbo a\gapaéw si legge complessivamente 68 volte, 37 volte cioè nel vangelo31, 28 volte nella prima lettera32, due volte nella seconda33 e una sola volta nella terza34. In proporzione, il numero più alto è nella prima
17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30
Cfr. 8,28.37; 9,13.25 (bis); 13,8 (bis).9. Cfr. 2,9; 8,3.
Cfr. 9,7; 11,11; 12,15 (bis). Cfr. 2,20; 5,14.
Cfr. 1,6; 2,4; 5,2.25 (bis); 5,28 (ter); 6,24. Cfr. 3,12.19.
Cfr. 1,4; 4,9. Cfr. 4,8.10.
Cfr. 1.9; 12,6.
Cfr. 1,12; 2,5.8.
Cfr. 1,8.22; 2,17; 3,10. Cfr. 2,15. Cfr. v. 1.
Cfr. 1,5; 3,9; 12,11; 20,9.
Cfr. 3,16.19.35; 8,42; 10,17; 11,5; 12,43; 13,1 (bis).23.34 (ter). 35; 14,15.21 (quater). 23 (bis). 24.28.31; 15,9 (bis).12 (bis). 17; 17,23 (bis).24.26; 19,26; 21,7.15.16.20. 31
Cfr. 2,10.15.15; 3,10.11.14.14.18.23; 4,7.7.8.10.10.11.11.12. 19.19.20.20.20.21.21; 5,1.1.2.2. 32
33 34
Cfr. vv. 1.5. Cfr. v. 1.
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lettera, con i suoi 28 usi in soli cinque capitoli, contro i 37 usi del vangelo nell’arco di 21 capitoli. Tuttavia i 37 usi del vangelo restano un numero assai alto, se lo confrontiamo con i 34 usi in tutto l’epistolario paolino. Nello stesso vangelo però notiamo una sproporzione: i 34 usi non sono distribuiti in maniera uniforme; nei capp. 1-12 se ne trovano soltanto sette35; altri quattro usi si trovano nel cap. 2136; un solo uso si legge in 19,26; gli altri 25 usi sono contenuti nei capp. 13-1737. Possiamo allora concludere che il verbo a\gapaéw è caratteristico della sezione dei capp. 13-17, che così, possono essere definiti “la sezione dell’a\gaéph”. Nei LXX il verbo fondamentale di amare resta ancora il verbo a\gapaéw, che si legge ben 270 volte, traducendo, circa 180 volte, il verbo ebraico bah) f ; mentre altri usi del verbo a\gapaéw, nei LXX, circa 60, non hanno alcuna corrispondenza nel TM. Altri usi del verbo a\gapaéw traducono altri verbi ebraici38: rimane però fondamentale il verbo bahf), il cui significato, in tutti i suoi aspetti, dal più spirituale a quello materiale, i LXX videro contenuto nel verbo a\gapaéw. 1.2. Il sostantivo a\gaéph Accanto al verbo a\gapaéw, troviamo, nel NT, il sostantivo a\gaéph che, complessivamente si legge 111 volte: gli usi del verbo a\gapaéw e del sostantivo a\gaéph, nel NT, dal punto di vista quantitativo, praticamente si equivalgono. Nei vangeli sinottici il sostantivo è rarissimo, appena due 35 36
Cfr. 3,16.19.35; 8,42; 10,17; 11,5; 12,43. Cfr. 21,7.15.16.20.
Cfr. 13,1 (bis).23.34 (ter); 14,15.21 (quater). 23 (bis).24.28.31; 15,9 (bis).12 (bis).17; 17,23. (bis).24.26. 37
)owb (hi: 2Sam 7,18; 1Cr 17,16); rakfz (hi: Ct 1,4); )f+fx (Os 8,11); j"pfx (Es 6,9; Sal 50 [51],6); tUdyid:y (Is 12,7); dyidfy (Dt 33,12; Is 5,1.1; Ger 11,15); dyixfy (Pr 4,3); }Uru$:y (Dt 32,15; 33,5.26; Is 44,2); &U&fm (Ger 30 [49], 25); tUs (hi: 2Cr 18,2); hf&f( (Sal 118 (119),166); hftfP (Sal 77 (78) 36); hfnfq (Pr 16,3 [15,32]); {axfr (qal: Sal 17 [18],1); (piel: Os 2,23; Zc 10,6; Is 60,10); (pual: Pr 28,13; Os 2,23); hfcfr (1Cr 29,17); ramf$ (Pr 28,4); (a(f$ (Pilpel 93 [94] 19); {yi(u$A(a$ (Is 5,7). 38
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volte, in Mt 24,12 e Lc 11,42. Nell’epistolario paolino si legge 76 volte, di cui nove nella lettera ai Romani39, 14 nella prima lettera ai Corinti40, nove nella seconda41, tre nella lettera ai Galati42, 10 nella lettera agli Efesini43, quattro nella lettera ai Filippesi44, cinque nella lettera ai Colossesi45, cinque nella prima lettera ai Tessalonicesi46, tre nella seconda47, cinque nella prima lettera a Timoteo48, quattro nella seconda49, due nella lettera a Tito50, tre nella lettera a Filemone51. Nel resto del NT, eccetto che negli scritti giovannei, il sostantivo a\gaéph si legge appena cinque volte, tre nella lettera di Giuda52 e due nell’Apocalisse53. Negli scritti giovannei, il termine a\gaéph presenta un uso disuguale: si legge appena sette volte nel quarto vangelo54 e 21 volte nelle lettere55, di cui 18 nella prima56. Anche per gli usi del sostantivo a\gaéph troviamo, nel vangelo di Giovanni, una discrepanza: nei capp. 1-12 il termine si legge soltanto una volta, in 5,42; nei capp. 13-16 invece si legge ben sei volte. Dalle osservazioni precedenti deduciamo che gli autori che trattano dell’amore, sia con il verbo a\gapaéw che con il sostantivo a\gaéph, sono Gio39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56
Cfr. 5,5.8; 8,35.39; 12,9; 13,10.10; 14,15; 15,30.
Cfr. 4,21; 8,1; 13,1.2.3.4.4.4; 13,8.15.15; 14,1; 16,14.24. Cfr. 2,4.8; 5,14; 6,6; 8,7.8.24; 13,11.13. Cfr. 5,6.13.22.
Cfr. 1,4.15; 2,4; 3,18.19; 4,2.15.16; 5,2; 6,23. Cfr. 1,9.16; 2,1.2.
Cfr. 1,4.8.13; 2,2; 3,14.
Cfr. 1,3; 3,6.12; 5,8.13: Cfr. 1,3; 2,10; 3,5.
Cfr. 1,5.14; 2,15; 4,12; 6,11. Cfr. 1,7.13; 2,2; 3,10. Cfr. 2,2.10.
Cfr. vv. 5.7.9.
Cfr.vv. 2.12.21. Cfr. 2,4.19.
Cfr. 5,42; 13,35; 15,9.10.10.13; 17,26. Cfr. 2Gv 3.6; 3Gv 6.
Cfr. 2,5.15; 3,1.16.17; 4,7.8.9.10.12.16.16.16.17.18.18.18; 5,3.
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vanni e Paolo; C’è però una differenza, Giovanni preferisce il più dinamico verbo a\gapaéw, che, negli usi complessivi del vangelo e delle lettere, si legge ben 68 volte, contro i 34 dell’epistolario paolino o i contro i 76 usi di tutto il NT; Paolo invece preferisce il più statico sostantivo a\gaéph, che usa complessivamente 119 volte, contro le 28 volte della letteratura giovannea. Nell’ambito del vangelo poi il vocabolario dell’amore, sia con il verbo che con il sostantivo, è attestato, nei capp. 13-17, 31 volte, contro le otto dei capp. 1-12. Possiamo concludere che i capp. 13-17 del vangelo di Giovanni possono essere definiti “la sezione dell’a\gaéph”. Nei LXX l termine a\gaéph è molto raro, rispetto al verbo a\gapaéw. Si legge in tutto solo 20 volte, traducendo, nei testi dove il testo greco coincide con il TM, sempre il termine hfbAha)57. Troviamo nella versione greca dei LXX anche il termine a\gaéphsiv, che in essa si legge un numero di volte ancora minore rispetto al termine precedente: si trova 11 volte e traduce ancora il termine hfbAha). 1.3. Il verbo fileéw Il verbo fileéw, nel NT, è molto meno frequente, quasi raro: si legge complessivamente 25 volte. Nei vangeli sinottici si legge otto volte, di cui cinque nel vangelo di Matteo58, una volta sola in Marco59 e due in Luca60. In tutto il resto del NT, prescindendo dal vangelo di Giovanni, si legge soltanto quattro volte61. In tutto, nel NT si legge dodici volte. Nel vangelo di Giovanni invece il verbo si legge 13 volte, oltre la metà degli usi complessivi del resto del NT: già il numero rivela che esso deve avere una particolare importanza per il quarto evangelista62. Manca nel TM un corrispondente in Pr 24,50 (30,15); Sir 40,20; 48,11; In Ab 3,4 il termine a\gaéph traduce il termine }owy:bex. 57
58 59 60 61
Cfr. 6,5; 10,37 (bis); 23,6; 26,48. Cfr. 14,44.
Cfr. 20,46; 22,47.
Cfr. 1Cor 16,22; Tt 3,15; Ap 3,19; 22,15.
Si legge, nel NT, sei volte, anche il verbo composto katafileéw; sempre però nel senso di “baciare”, Mt 26,49; Mc 14,45; Lc 7,38.45; 15,20; At 20,37. Questo verbo non si 62
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Prescindendo dal termine fòlhma, che ha il senso di “baciare”63, leggiamo anche, una volta sola, in Gc 4,4, il termine filòa; inoltre leggiamo, 29 volte, il termine fòlov (amico), termine piuttosto lucano, usato 15 volte nel terzo vangelo e anche tre volte negli Atti degli Apostoli. Nel vangelo di Giovanni il termine fòlov si legge sei volte64, in testi anche di una certa importanza; altrove si legge soltanto quattro volte, due nella lettera di Giacomo65 e due nella terza lettera di Giovanni66. Il verbo fileéw, nei LXX si legge 33 volte e traduce, dieci volte il verbo bahf); otto usi non hanno alcun corrispondente nel TM: quattordici volte traduce invece il verbo qa$fn. Una volta, in Lam 1,2, il verbo fileéw corrisponde al termine a("r. 1.4. Altri verbi Altri verbi, con il senso di “amare”, presenti nella grecità profana, quali
steérgw ed e\raéw, sono del tutto assenti nel NT. Rimane così, fondamentale, il verbo a\gapaéw; non è assente però, soprattutto nell’uso del quarto evangelista, anche il verbo fileéw.
Nei LXX, benché del tutto sporadici, si leggono pure i due verbi usuali nella grecità profana. Il verbo steérgw si legge solo in Sir 27,17 e poi, anche, in Dt 15,7 (Th). Il verbo e\ra%sqai si legge appena tre volte: in 1Esd 4,24; Est 2,17; Pr 4,6. Evidentemente questi verbi erano già scomparsi nell’uso dei LXX. Altri termini nei LXX sono: il sostantivo, filòa, 38 volte, e traduce in genere il termine hfbAha); inoltre c’è sei volte il verbo filiaézw; due volte il sostantivo fòlhma (Pr 27,6; Ct 1,2); 19 volte il verbo katafileéw che traduce quasi sempre il verbo qa$fn. Infine troviamo nel LXX anche il termine fòlov che ricorre 190 volte e traduce diversi termini, quali b"hf), vULf), ("r"m, rabAx, ("r"m, ("r, (y"r, {owlf$ (Ger 20,10). legge mai negli scritti giovannei. 63 64 65 66
Cfr. Lc 7,45; 22,48; Rm 16,16; 1Cor 16,20; 2Cor 13,12; 1Ts 5,26; 1t 5,14. Cfr. 3,29; 11,11; 15,13.14.15; 19,12. Cfr. 2,23; 4,4.
Cfr. v. 15 (bis).
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2. La terminologia dell’amore nel vangelo di Giovanni Nel vangelo di Giovanni leggiamo perciò i seguenti verbi: anzitutto il verbo a\gapaéw, che ricorre complessivamente 37 volte, di cui sette volte nella prima parte (capp. 1-12) e 30 nella seconda parte (capp. 13-21). Inoltre il sostantivo a\gaéph, che è usato sette volte, di cui solo una volta, in 5,42, nella prima parte del vangelo, e sei volte nella seconda parte. Il verbo fileéw si legge poi nel vangelo di Giovanni 13 volte, di cui quattro nella prima parte e nove nella seconda parte. Si legge poi il termine fòlov, appena sei volte, di cui solo due nella prima parte e poi quattro nella seconda parte. Possiamo proporre il seguente schema del vocabolario dell’amore nel vangelo di Giovanni: a\gapaéw: Parte prima (sette volte): 3,16.19.35; 8,42; 10,17; 11,5; 12,43. Parte seconda (trenta volte): 13,1.1.23.34.34.34; 14,15.21.21.21. 21.23.23.24.28.31; 15,9.9.12.12.17; 17,23.23.24.26; 19,26; 21,7.15.16.20. a\gaéph: Parte prima (una volta): 5,42. Parte seconda (sei volte): 13,35; 15,9.10.10.13;17,26. fileéw: Parte prima (quattro volte): 5,20; 11,3.36; 12,25. Parte seconda (nove volte): 15,19; 16,27.27; 20,2; 21,15.16.17. 17. 17. fòlov: Parte prima (due volte): 3,29; 11,11. Parte seconda (quattro volte): 15,13.14.15; 19,12. 2.1. La terminologia nella prima parte del vangelo (capp. 1-12) Nella prima parte del vangelo leggiamo tutti i termini sopra indicati. Si legge 7 volte il verbo a\gapaéw, una sola volta il sostantivo a\gaéph, quattro volte il verbo fileéw e due volte il termine fòlov. Il primo uso del verbo a\gapaéw è in 3,16, dove, dialogando con Nicodemo, Gesù afferma che «così Dio amò (h\gaéphsen) il mondo (toèn koésmon) da dare (w$ste […] e"dwken) il figlio Unigenito». Questo testo presenta quattro caratteristiche: anzitutto è il primo in assoluto dove è usata la
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terminologia dell’amore; inoltre presenta una triplice massima ampiezza: nel soggetto che ama, Dio; nell’oggetto amato, il mondo; nel dono, l’Unigenito. Dall’ampiezza del dono si può percepire l’ampiezza dell’amore di Dio per il mondo. Possiamo notare che l’Unigenito, che, in questo testo appare come dono di Dio al mondo, nei testi seguenti, apparirà come oggetto e destinatario dell’amore di Dio. Questo testo sembra costituire lo sfondo tematico dove si colloca tutto lo sviluppo dell’a\gaéph nel vangelo di Giovanni. C’è un evento primordiale: l’amore di Dio verso il mondo, che egli ha concretizzato nel dono dell’Unigenito. Il secondo uso del verbo a\gapaéw, in 3,19, è negativo: «la luce è venuta (toè fw%v e\lhéluqen) nel mondo, ma (kaò) amarono (h\gaéphsan) gli uomini più la tenebra (toè skoétov) che la luce». La venuta della luce nel mondo appare come la concretizzazione del dono dell’Unigenito, indicato appena tre versi prima. Gli uomini però hanno operato una opzione ed hanno preferito la tenebra. In questo modo essi hanno rifiutato non solo il dono dell’Unigenito, ma anche l’amore di Dio che è la causa del dono. Nel seguente v. 35, viceversa, si parla dell’amore di Dio verso il Figlio. L’espressione si rivela alquanto singolare; leggiamo infatti: «Il Padre ama (a\gapç%) il Figlio e tutto ha dato (deédwken) nella sua mano». Benché la particella kaò sembri legare, in un rapporto di successione, i due verbi a\gapç% e deédwken, cosicché il verbo deédwken, che indica il dono, appaia come conseguenza del verbo a\gapç% che menziona invece l’amore di Dio, in realtà la forma al presente del verbo a\gapç% e quella al perfetto del verbo deédwken, suggeriscono lettura inversa. Dio ha dato tutto in mano al Figlio; questi deve avere compiuto un’opera, in seguito alla quale il Padre, in maniera stabile ed abituale, lo ama. Il quarto testo, nella prima parte, è 8,42, dove Gesù pronunzia parole alquanto oscure, che al nostro scopo attuale non interessa chiarire: «se Dio fosse (h&n) vostro Padre amereste me (h\gapa%te a!n e\meé)». L’espressione, che si legge nel contesto di una polemica contro i giudei, stabilisce una relazione tra il fatto che Dio è Padre e l’amore verso Gesù. I giudei non amano Gesù perché in realtà, nonostante le loro affermazioni, Dio non è loro Padre. In 10,17 ancora Gesù parla dell’amore del Padre verso di lui. Leggiamo infatti: «Per questo il Padre mi ama (a\gapç%), perché pongo (tòqhni) la mia
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vita per prenderla di nuovo». Secondo questo testo, l’amore del Padre verso Gesù scaturisce e consegue al fatto che Gesù, in forza del comando che ha ricevuto (e"labon) dal Padre, pone la sua vita per riprenderla poi di nuovo. In 11,5 il soggetto dell’amore è Gesù e l’oggetto dell’amore sono Marta, sua sorella e Lazzaro. Leggiamo infatti in questo testo: «amava (h\gaépa) Gesù Marta e sua sorella e Lazzaro». Si tratta di un amore abituale e continuo di Gesù verso persone umane. L’ultimo testo, in questa prima parte, dove si legge il verbo a\gapaéw, è 12,43, dove l’evangelista, a riguardo dei “molti capi” che avevano creduto in Gesù, ma che, a motivo dei farisei non confessavano per non essere cacciati dalla sinagoga, in maniera molto drammatica conclude: «amarono (h\gaéphsan) la gloria degli uomini più che la gloria di Dio». Per quanto riguarda il sostantivo a\gaéph, esso, nella prima parte, si legge in 5,42, dove Gesù, a riguardo dei giudei, esprime un giudizio molto duro: «vi ho conosciuto che l’amore (thèn a\gaéphn tou% qeou%) di Dio non avete in voi stessi». Nel precedente v. 41 Gesù ha affermato: «gloria da parte di uomini non ricevo». Contro i giudei Gesù formula due giudizi: essi ricevono la gloria da parte di uomini e non hanno in se stessi l’amore di Dio. Quanto poi al verbo fileéw, esso, nella prima parte del vangelo, si legge quattro volte. In 5,20, nel contesto di un discorso ai giudei, Gesù afferma: «Il Padre ama (file_) il Figlio e gli mostra (deòknusin) le cose (a$) che egli fa». In 11,3, a riguardo di Lazzaro, le sorelle mandano a dire a Gesù: «ecco colui che ami (o£n file_v) è infermo». Nel v. 36 poi dello stesso capitolo, vedendo il pianto di Gesù sulla tomba di Lazzaro, esclamano: «ecco come lo amava (e\fòlei au\toén)». I due usi del verbo fileéw nel cap. 11 caratterizzano il rapporto di Gesù verso Lazzaro. Infine, in 12,25, leggiamo «chi ama (o| filw%n) la sua vita, la perde; chi odia (o| misw%n) la sua vita in questo mondo per la vita eterna la custodisce». In questo testo l’espressione o| filw%n è un participio sostantivato, che è lo stesso soggetto, il cui oggetto è appunto la propria vita. Considerando soltanto il verbo a\gapaéw e il sostantivo a\gaéph, dopo il testo di 3,16: «Dio ha così amato il mondo da donare il figlio unigenito», possiamo stabilire delle relazioni particolari. Così il testo di 3,19, dove si legge che gli uomini «amarono (h\gaéphsan) più la tenebra che la luce», richiama il testo di 12,43, dove si legge che i capi dei giudei, non confessando
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pur avendo creduto, «amarono (h\gaéphsan) più la gloria degli uomini che la gloria di Dio».I due testi coincidono nel fatto che degli uomini scelsero una realtà antitetica alla vera realtà, la tenebra alla luce, la gloria degli uomini alla gloria di Dio. Entrambi i testi concordano nell’uso del verbo a\gapaéw all’aoristo, alla terza persona plurale (h\gaéphsan). Una seconda relazione può essere stabilita tra 3,35 e 10,17. In 3,35 Gesù, o forse anche Giovanni Battista, dichiara che il Padre ama (a\gapç%) il figlio e tutto ha dato nella sua mano; in 10,17 Gesù, in forma di discorso diretto, dichiara: «per questo il Padre mi ama (a\gapç%), perché pongo la mia vita per prenderla di nuovo». Prescindendo da una relazione e complementarietà tematica più stretta tra i due testi, tre elementi, oltre l’uso del verbo a\gapaéw, determinano tra di essi una relazione: il fatto che il soggetto del verbo è il Padre, il fatto poi che l’oggetto è il Figlio, l’uso del verbo a\gapaéw alla terza persona singolare dell’indicativo presente (a\gapç%). Una terza relazione può essere stabilita tra il testo di 5,42 e 8,42 e il testo di 11,5. Si tratta tra questi testi di una relazione antitetica. In 5,42 Gesù accusa i giudei di non avere l’amore di Dio e in 8,42 Gesù dichiara ai giudei che se Dio fosse loro Padre amerebbero (h\gapa%te) anche Gesù. Emerge così un progresso tra 5,42 e 8,42: i giudei non hanno in sé l’amore di Dio, Dio non è loro Padre e quindi non amano Gesù. Al contrario, secondo 11,5, Gesù amava (h\gaépa) Marta, sua sorella e Lazzaro. L’antitesi, più direttamente, sarebbe tra 8,42 e 11,5; i due testi inoltre concordano nel fatto che, in entrambi, il verbo a\gapaéw è usato all’imperfetto (h\gapa%te / h\gaépa). Tra 5,42 e 8,42 può essere evidenziato un progresso. Emerge così nei testi con il verbo a\gapaéw, nei capp. 1-12, dopo il testo di 3,16, una struttura insieme concentrica e alternata; possiamo proporre il seguente schema: 3,16: Dio ha amato il mondo, 3,19: gli uomini amarono (h\gaéphsan) le tenebre, 3,35: Il Padre ama (a\gapç%) il Figlio e tutto ha dato nella sua mano; 5,42: i giudei non hanno l’amore di Dio in loro, 8,42: non amano (h\gapa%te) Gesù 10,17: Il Padre ama (a\gapç%) Gesù,
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11,5:
Gesù amava (h\gaépa) Marta, sua sorella e Lazzaro 12,43: I capi amarono (h\gaéphsan) la gloria degli uomini. Questo schema suggerisce che l’evangelista in maniera avveduta, e ben studiata, abbia inserito i vari testi e abbia stabilito le varie relazioni. Nello sfondo dell’amore di Dio verso il mondo, emergono due prospettive, rispettivamente positiva e negativa. La prospettiva negativa è stabilita da due elementi: l’opzione degli uomini per la tenebra e per la gloria umana e il fatto che i giudei non hanno amato Gesù, non essendo Dio il loro padre e non avendo essi, in se stessi, l’amore di Dio. La prospettiva positiva è stabilita dai due testi di 3,35 e di 10,17, dove si parla dell’amore del Padre verso Gesù; inoltre è stabilita dal testo di 11,5, dove, in contrapposizione a 8,42, si parla del fatto che Gesù invece amava delle persone concrete. In questo schema non rientrano i testi con il verbo fileéw ed affini. Essi però possono presentare una propria relazione strutturale. In 3,29 Giovanni si definisce “l’amico dello sposo (o| fòlov tou% numfòou)”; in 11,11 Gesù definisce Lazzaro “il nostro amico (o| fòlov h|mw%n)”. In 5,20 Gesù dichiara che il Padre “ama (file_)” il Figlio e gli mostra (deòknusin) tutto ciò che egli fa; in 11,3.36 è Lazzaro oggetto dell’amore di Gesù; nel v. 3 le sorelle mandano a dire a Gesù che «colui che ami (file_v) è infermo»; nel v. 36 i giudei, vedendo Gesù piangere, affermano: «vedi come lo amava (e\fòlei)». Un ultimo testo, dove si legge il verbo fileéw, è 12,25, dove Gesù dichiara che «chi ama (o| filw%n) la propria vita, la perde». Questo testo è particolare perché l’oggetto dell’amore è la propria vita e non presenta alcun parallelo con altri testi. Si può stabilire così uno schema alternato, in cui il testo di 12,25 resta fuori: 3,29: Giovanni, “l’amico dello sposo (o| fòlov tou% numfòou)” 5,20: Il Padre ama (file_) il figlio, 11,11: Lazzaro “il nostro amico (o| fòlov h|mw%n)”, cioè di Gesù 11,3.36: Gesù amava (file_v / e\fòlei) Lazzaro 12,25: chi ama (o| filw%n) la propria vita. Anche dal punto di vista del verbo fileéw e del termine fòlov pare che si possa scorgere una precisa struttura, che permette di concludere che l’evangelista inserì, in maniera avveduta e studiata, i vari testi.
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2.2. La terminologia seconda parte del vangelo (capp. 13-17) Nella seconda parte del vangelo, nei capp. 13-17, il verbo a\gapaéw si legge ben 25 volte, concentrato, sei volte, nei vv. 1-34 nel cap. 13, 10 volte nei vv. 15-31 del cap. 14, cinque volte nei vv. 9-17 del cap. 15 e, infine quattro volte nei vv. 23-26 del cap. 17. Infine il verbo a\gapaéw si legge cinque volte nei capp. 19-21. Il termine a\gaéph poi si legge una volta nel cap. 13 (13,35), quattro volte, nei vv. 9-13 del cap. 15 e, infine, una volta, in 17,26. Il verbo fileéw si legge, nei capp. 13-17, nove volte, di cui una volta in 15,19, due volte nel v. 27 del cap. 16. Si leggerà poi, una volta, in 20,2 e, cinque volte, nei vv. 15-17 del cap.21. Il termine fòlov si legge tre volte nei vv. 13-15 del cap. 15. Si leggerà poi, riferito a Pilato, in 19,12. 2.2.1. Gli usi del verbo a\gapaéw all’aoristo (h\gaéphsa / h\gaéphsen) A riguardo del verbo a\gapaéw, possiamo notare i dieci usi del verbo all’aoristo, in 13,1(bis); 13,34b; 15,9(bis).12 e in 17,23(bis).24.26. Nell’ambito di questi testi, stabiliamo anzitutto una relazione tra i testi in cui l’evento dell’a\gaéph è presentato, sempre con una forma all’aoristo del verbo a\gapaéw (h\gaéphsa / h\gaéphsen), in maniera diretta. Ci riferiamo a 13,1 a 15,9 e a 17,23-26 In 13,1 scrive l’evangelista: «Prima della festa di Pasqua, sapendo Gesù che giunse la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato (a\gaphésav) i suoi che nel mondo a compimento li amò (ei\v teélov h\gaéphsen au\touév)». Il participio aoristo è circostanziale rispetto al verbo principale h\gaéphsen, il cui soggetto è Gesù. Prescindendo in questo studio da qualsiasi altra considerazione esegetica, notiamo anzitutto la forma verbale all’aoristo (h\gaéphsen), che rimanda ad un evento concreto storico, inoltre notiamo anche che l’unico soggetto è Gesù e il solo oggetto sono i discepoli. Il testo di 15,9-10 può essere definito una sintesi essenziale di tutta la tematica dell’a\gaéph nel vangelo di Giovanni. In esso troviamo due volte il verbo a\gapaéw all’aoristo, tre volte il sostantivo a\gaéph e, relazionato a questo tema, anche quello dell’osservanza dei comandamenti, con il duplice uso del termine e\ntolhé. Al nostro scopo adesso interessano soltanto
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i due usi all’aoristo, nell’espressione: «come amò (h\gaéphsen) me il Padre anch’io (ka\gwé) voi amai (h\gaéphsa)». L’espressione, strutturata in maniera concentrica67, presenta due storie di amore parallele e subordinate, quella del Padre verso il figlio e quella del Figlio verso i discepoli: il figlio ha amato i discepoli come il Padre ha amato lui. Gesù è insieme oggetto di amore in relazione al Padre, ma è soggetto di amore in relazione ai discepoli. Rimangono i problemi in che maniera il Padre ha amato Gesù, in che maniera Gesù ha amato i discepoli e qual è la relazione dell’amore del Padre verso Gesù e quello di Gesù verso i discepoli, stabilita dalle particelle comparative kaqwév…kaò. Infine in 17,23 il verbo aoristo si legge due volte, riferito, entrambe, come soggetto, al Padre. Gli oggetti sono due: i discepoli, indicati con il pronome au\touév, e Gesù, indicato con il pronome meé68. I due oggetti sono legati mediante una particella comparativa di uguaglianza. Nel v. 24 ancora, rivolto al Padre, Gesù continua: o$ti h\gaéphsaév me proè katabolh%v koésmou (poiché mi hai amato prima della fondazione del mondo). Infine, nel v. 26, Gesù conclude: i$na h| a\gaéph h£n h\gaéphsaév me e\n au\to_v +/ ka\gwè e\n au\to_v (affinché l’amore con cui hai amato me in essi sia ed io in essi). In questi tre testi dei vv. 23-26 l’unico soggetto è il Padre; gli oggetti dell’azione di amare da parte del Padre poi sono due, coeguali, Gesù e i discepoli. Confrontando insieme i tre testi, di 13,1; di 15,9 e di 17,23-26, notiamo in essi un progresso. In 13,1 l’unico soggetto che ama è Gesù e l’oggetto sono i discepoli. In 15,9 i soggetti sono due, subordinati, il Padre e Gesù. 67
Possiamo evidenziare la seguente struttura concentrica:
kaqwèv h\gaéphseén me o| Pathèr kaì e\gwè u|ma%v h\gaéphsa. 68
Nell’espressione del v. 23 possiamo individuare uno schema concentrico:
h\gaéphsav au\touèv kaqwèv e\meè h\gaéphsav.
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L’azione di amore del Padre ha come oggetto Gesù; l’azione di Gesù ha come oggetto i discepoli. Gesù, come abbiamo già notato, è insieme oggetto nei confronti dell’azione del Padre, ed è soggetto della sua azione verso i discepoli. In 17,23-26 l’unico soggetto è il Padre, la cui azione di amare ha due oggetti coeguali, il Padre e i discepoli. Si ottiene il seguente progresso, che parte da Gesù e giunge al Padre: 13,1: Gesù 15,9: Il Padre – Gesù 17,23-26: Il Padre la tensione di questi testi è verso il Padre. In 13,34b 15,12, dove Gesù promulga il suo comandamento (13,34) e dove lo definisce (15,12), leggiamo ancora il verbo all’aoristo (h\gaéphsa), il cui soggetto è Gesù, che presenta il suo amore come fondamento e modello dell’amore vicendevole tra i discepoli. Si può stabilire tra i due testi la seguente relazione: 13,34 15,12 e\ntolhèn au$th kainhèn e\stìn dòdwmi u|m_n h| e\ntolhè h| e\mhé, i$na a\gapa%te a\llhélouv i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v h\gaéphsa u|ma%v
In questi due testi l’evento dell’amore di Gesù verso i discepoli, formulato all’aoristo (h\gaéphsa), diventa punto di riferimento per l’amore vicendevole dei discepoli, formulato, come diremo ancora, al congiuntivo presente (a\gapa%te). Pur nella diversa prospettiva, rispettivamente di promulgazione (13,34) e di definizione (15,12), i due testi sono chiaramente paralleli, identici anche nella seconda parte. Mettendo insieme i tre testi di 13,1; 15,9; 17,23-26 con i due testi di 13,34 e di 15,12, otteniamo il seguente schema concentrico: 13,1: L’amore di Gesù verso i discepoli, 13,34: Il comandamento l’amore vicendevole sul fondamento dell’amore di Gesù (promulgazione)
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15,9: 15.,13: 17,23-26:
L’amore di Gesù verso i discepoli sul modello dell’amore del Padre verso di Lui, Il comandamento l’amore vicendevole sul fondamento dell’amore di Gesù (definizione), L’amore del Padre sia verso Gesù che verso i discepoli.
2.2.2. Gli usi del verbo a\gapaéw al presente Con il verbo a\gapaéw al presente indicativo non si esprime più, in maniera discendente, l’evento dell’amore, che, partendo dal Padre o da Gesù, raggiunge, rispettivamente, Gesù e i discepoli e che, secondo 3,16, partendo da Dio, ha raggiunto il mondo. Si esprime piuttosto, in maniera ascendente, la risposta degli uomini e di Gesù stesso, rispettivamente a Gesù e al Padre. In questa prospettiva, possiamo anzitutto indicare il gruppo di testi del cap. 14, dove, nei vv. 15.21.23.24, è introdotto il verbo a\gapaéw e Gesù, lui stesso oggetto del verbo (e\meé), indica, in essi, la maniera come i discepoli debbono amarlo, mediante cioè l’osservanza dei suoi comandamenti (e\ntolaév) e della sua parola (loégon) o parole (loégouv). Si tratta evidentemente della risposta che i discepoli sono chiamati a dare in seguito all’evento dell’amore di Gesù descritto già in 13,1 e 13,34. Nei versi su indicati del cap. 14 possiamo perciò individuare, nel quadruplice uso del verbo a\gapaéw, un duplice schema, alternato e abbinato. Alternato, in base alla maniera come è usato il verbo a\gapaéw, abbinato in base all’oggetto del verbo threéw, che si legge in tutti e quattro i testi. Dal punto di vista degli usi del verbo a\gapaéw, questo, nel primo e terzo testo, rispettivamente nei vv. 15 e 23, è formulato come protasi di una condizionale (e\anè a\gapa%teé me / e\ané tiv a\gapç%), nel secondo e quarto, rispettivamente nei vv. 21e 24, è formulato in forma di sostantivata, al participio con l’articolo (o| [mhè] a\gapw%n me). In questa prospettiva, i quattro testi si relazionano in maniera alternata69. 69
Otteniamo il seguente schema alternato: v. 15: e\anè a\gapa%teé me, v. 21: o| a\gapw%n me,
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Dal punto di vista dell’oggetto del verbo threéw, che indica la maniera come amare Gesù, nel primo e nel secondo testo, rispettivamente i vv. 15 e 21, questo è il termine taèv e\ntolaév; nel terzo e nel quarto testo, rispettivamente i vv. 23 e 24, questo è il termine loégov, rispettivamente al singolare nel v. 23 (toèn loégon) e al plurale nel v. 24 (touèv loégouv). In questa prospettiva, i quattro testi si relazionano in maniera abbinata70. Nello schema alternato, i quattro testi presentano, nella loro reciproca relazione, uno schema strutturale, rispettivamente, alternato (il primo e terzo)71 e concentrico (il secondo e quarto)72; nello schema abbinato, i quattro testi si relazionano, rispettivamente in maniera concentrica (il primo e il secondo)73 e in maniera alternata (terzo e quarto)74. v. 23: e\ané tiv a\gapç% me, v. 24: o| a\gapw%n me. 70
71
Otteniamo il seguente schema abbinato: v. 15: taèv e\ntolaèv,, v. 21: taèv e\ntolaév, v. 23: toèn loégon, v. 24: touèv loégouv.
Possiamo stabilire la seguente relazione alternata: v. 15: e\anè a\gapa%teé me
taèv e\ntolaèv taèv e\maèv thrhésete
toèn loégon mou thérhsei.
v. 23: e\ané tiv a\gapçé me 72
Possiamo stabilire la seguente relazione concentrica: v. 21: o| ecwn taèv e\ntolaév mou kaì thrw%n au\taè
v. 24: 73
e\ke_noév e\stin o| a\gapw%n me o| mhè a\gapw%n me touèv loégouv mou ou\ thre_
Possiamo stabilire la seguente relazione concentrica: v. 15: e\anè a\gapa%teé me
taèv e\ntolaèv taèv e\maèv thrhésete
e\ke_noév e\stin o| a\gapw%n me
v. 21: o| ecwn taèv e\ntolaév mou kaì thrw%n au\taè 74
Possiamo stabilire la seguente relazione alternata: v. 23: e\ané tiv a\gapçé me
toèn loégon mou thrhései
touèv loégouv mou ou\ thre_.
v. 24: o| mhè a\gapw%n me
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Troviamo ancora nel cap. 14 un ultimo testo, relativamente distante dai quattro sopra considerati, ma che, per diversi elementi, può essere relazionato con questi precedenti. Ci riferiamo al testo di 14,31, dove è ancora Gesù che parla, ma che, a differenza dei precedenti, non si rivolge più ai discepoli per esortarli a stabilire un rapporto di amore con lui mediante l’osservanza dei comandamenti, ma parla di se stesso, non in tono di esortazione, ma di affermazione e non nel rapporto dei discepoli con lui, bensì nel suo rapporto con il Padre. Leggiamo in questo testo: «viene il principe di questo mondo che in me non ha nulla, ma perché conosca il mondo che amo (a\gapw%) il Padre e che così come il Padre mi ha comandato (e\neteòlatoé moi)75 così faccio. Alzatevi, andiamo da qui». Troviamo qui, affermati nel suo rapporto con il Padre, i due elementi che Gesù ha indicato ai discepoli nel loro rapporto con lui: amare e fare ciò che il Padre ha comandato. Il parallelismo di questo testo con i quattro precedenti è evidente. Il rapporto che Gesù ha con il Padre, un rapporto di amore, è quello che Gesù chiede ai discepoli che abbiano con lui. Come Gesù concretizza il suo amore verso il Padre nel compimento di ciò che Egli ha comandato, allo stesso modo, nell’osservanza dei suoi comandamenti, Gesù indica ai discepoli la maniera come essi debbono amarlo. 2.2.3. Gli usi del verbo a\gapaéw al futuro Nel contesto dei vv. 15-24, sopra considerati, in cui Gesù esorta i discepoli ad amarlo mediante l’osservanza dei suoi comandamenti, leggiamo tre usi del verbo a\gapaéw, con soggetto il Padre e oggetto i discepoli. Ci riferiamo ai due usi del v. 21 e all’uso del v. 23. Nel v. 21, a riguardo di colui che lo ama (o| a\gapw%n), Gesù annunzia che egli “sarà amato (a\gaphqhésetai)” dal Padre e Gesù stesso (ka\gwé) lo amerà (a\gaphésw) e si manifesterà a lui (e\mfanòsw). Come conseguenza e risposta 75 Diversi codici, tra cui principalmente il Vaticano, il codice maiuscolo L, il codice X, diversi minuscoli, tra cui i codd. 33 565 1s 1321 379 e la versione latina, non hanno il verbo e\neteòlato bensì l’espressione e"ntolhèn e"dwken. Il senso però è lo stesso; il problema testuale perciò al nostro scopo si rivela indifferente.
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al fatto che i discepoli amano Gesù, essi saranno amati dal Padre e, in maniera subordinata, anche da Gesù, il quale concretizzerà tale suo amore, nella sua manifestazione a colui che lo ama. Nel v. 23 ancora Gesù torna, come conseguenza per colui che lo ama, al fatto che il Padre lo amerà (a\gaphései au\toén). Non parla però anche del suo amore, come nel v. 21, bensì di una duplice azione, l’una successiva all’altra, compiuta insieme dal Padre e da Gesù stesso: «verremo (e\leusoémeqa) a lui e dimora (monhén) faremo presso di lui». I due testi concordano nel fatto che il Padre ama, ma divergono nelle azioni successive, che assumono anche un carattere di complementarietà. Il v. 21 menziona anche l’amore di Gesù, il v. 23 descrive l’azione concorde del Padre e del Figlio, che verranno e prenderanno dimora76. Questi usi del verbo a\gapaéw al futuro, che sembrano costituire il culmine di un dinamismo progressivo di amore, probabilmente aiutano ad illuminare la figura, tipicamente giovannea, del discepolo che Gesù amava (h\gaépa). 2.2.4. Gli usi del verbo fileéw Il verbo fileéw che, nella prima parte del vangelo (capp. 1-12), si legge quattro volte, nella seconda parte si legge nove volte. Di questi nove usi tre si leggono nel contesto dei capp. 13-17; degli altri sei, uno si legge in 20,2, a riguardo del discepolo “che Gesù amava (e\fòlei)” e cinque nel dialogo tra Gesù e Pietro (21,15-17), tre, rispettivamente, nelle tre risposte di Pietro, e due nella terza domanda di Gesù. In questo nostro intervento ci limitiamo soltanto agli usi nella sezione dei capp. 13-17. Che si riducono a tre, quello di 15,19 e i due nel cap. 16 (16,27.27). Prescindiamo anche dall’uso di 15,19: in esso Gesù considera l’ipotesi irreale dell’appartenenza dei discepoli al mondo. Se i discepoli Si può stabilire tra i due testi il seguente confronto: v. 21 v. 23 76
a\gaphqhésetai o| pathér mou u|poè tou% patroèv a\gapphései au\toèn ka\gwè a\gaphésw au\toén kaì proèv au\toèn e\leusoémeqa kaì e\mfanòsw au\t§% e|mautoén kaì monhèn par’au\t§% poihsoémeqa
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avessero tratto origine dal mondo o avessero appartenuto ad esso (ei\ e\k tou% koésmou h&te), questo non avrebbe mancato di accogliere nella sua intimità (a!n […] e\fòlei) ciò che gli è proprio (toè i"dion). I discepoli invece non appartengono al mondo perché Gesù li ha sottratti ad esso (e\gwè e\xelexaémhn e\k tou% koésmou) (15,19) e, risalendo in maniera inversa, li ha orientati verso la sua amicizia (u|me_v fòloi moué este) (15,14). In 16,27 invece leggiamo il seguente testo: o| Pathèr file_ u|ma%v, o$ti u|me_v e\meè pefilhékate kaì pepisteuékate o$ti e\gwè paraè [tou%] qeou% e\xh%lqon
(Il Padre vi accoglie poiché voi me avete amato ed avete creduto che da Dio sono uscito. In uno studio precedente77, concludendo, abbiamo suggerito di dare al verbo a\gapaéw il senso di “amore di dono” e al verbo fileéw il senso di “amore di accoglienza”. Con il verbo a\gapaéw si esprimerebbe allora un amore che dona o si dona al suo oggetto; con il verbo fileéw si esprimerebbe invece un amore che accoglie il proprio oggetto, da parte del soggetto, nella sua intimità. In questo senso, si può delineare, in 16,27, in maniera inversa, una storia che parte dal fatto che Gesù uscì (e\xh%lqon) da Dio; i discepoli vi hanno creduto e lo hanno accolto (pefilhékate kaì pepisteuékate). In seguito al fatto che essi hanno accolto Gesù nella loro intimità (pefilhékate), il Padre accoglie loro (file_) nella sua intimità. Pur con diverso verbo, il testo di 16,27 presenta un certo parallelismo con il testo di 14,21.23, soprattutto con il v. 21. Si può infatti stabilire, risalendo, la seguente relazione strutturale concentrica: 16,26: o| Pathèr file_ u|ma%v,
14,21:
o$ti u|me_v e\meè pefilhékate o| deè a\gapw%n me a\gaphqhésetai u|poè to%u% patroév mou.
In questa prospettiva i due testi appaiono paralleli; il cambiamento del verbo poi suggerisce complementarietà di prospettiva, dall’accoglienza (file_) al dono (a\gaphqhésetai). I discepoli hanno accolto Gesù (e\meè pefilhékate) e il Padre li accoglie (file_); i discepoli amano Gesù (o| deè a\gapw%n) e il Padre li amerà (a\gaphqhésetai). 77
Cfr. il nostro Studio: Il senso di "agapaéw" e "fileéw" cit., 113-114.
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2.2.5. Gli usi del termine fòlov Il termine fòlov, nella seconda parte del vangelo (capp. 13-21), si legge quattro volte, in 15,13.14.15 e poi in 19,12. In quest’ultimo testo il termine è riferito a Pilato, al quale i Giudei obiettano che, se libera Gesù non è “amico di Cesare (fòlov tou% Kaòsarov)”. Prescindiamo da questo testo, che pur potrebbe essere parallelo e antitetico a Gv 3,29, dove il Battista si definisce “l’amico dello sposo (o| deè fòlov tou% numfòou)”. e fermiamo la nostra attenzione soltanto sui tre testi del cap. 15, rispettivamente i vv. 13.14.15. Questi tre testi possono essere letti in progresso inverso, nel seguente modo: v. 15: u|ma%v deè ei"rhka fòlouv, v. 14: u|me_v fòloi moué e\ste, v. 13: i$na tiv thèn yuchèn au\tou% q+% u\peèr tw%n fòlwn au\tou%. Gesù “ha detto” i discepoli “amici”, essi sono “amici”, per gli amici Gesù, per amore, ha dato la sua vita. Il testo di 15,12-17 è incluso tra due espressioni analoghe e parallele: v. 12: au$th e\stìn h| e\ntolhè h| e\mhé, i$na a\gapa%te a\llhélouv, v. 15: tau%ta e\nteéll$ omai u|m_n i$na a\gapa%te a\llhélouv. Si può anche individuare una breve inclusione più secondaria mediante il verbo e\nteéllomai: v. 14: a£ e\gwè e\nteéllomai u|m_n, v. 17: tau%ta e\nteéllomai u|m_n. Si può stabilire anche una relazione, pur con diversa terminologia, tra il precedente v. 10 e il v. 14, nel seguente modo: v. 10: e\anè taèv e\ntolaév mou thrhéshte mene_te e\n t+% a\gaép+ mou, v. 14: u|me_v fòloi moué e\ste e\an è poih%te a£ e\gwè e\nteéllomai u|m_n. In entrambi i testi l’osservanza dei comandamenti opera nei discepoli effetti complementari, rispettivamente, rimanere nell’amore (e\n t+% a\gaép+) di Gesù, ed essere introdotti, come amici (fòloi moué e\ste), nella sua intimità. In questo modo, il testo presenta tre relazioni: al v. 19 non solo per il verbo fileéw (e\fòlei) e il termine fòlov, ma anche per il verbo e\kleégomai, usato,
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oltre che nel v. 19 (e\xelexaémhn), anche, due volte, nel v. 16, rispettivamente tra il verbo e\xeleéxasqe e il verbo e\xelexaémhn; inoltre, tra il v. 12 e il v. 13,34, per l’espressione h| e\ntolhè h| e\mhé, i$na a\gapa%te a\llhélouv. infine ha relazione con 15,10 per l’analoga prospettiva a cui perviene chi osserva i comandamenti di Gesù. 2.3. Struttura degli usi dei capp. 13-17 Alla luce delle osservazioni sopra proposte, possiamo proporre il seguente schema strutturale della terminologia dell’amore nei capp. 13-17 del vangelo di Giovanni: 1. (13,1): […]: a\gaphésav touèv i\dòouv touèv e\n t§% koésm§, ei\v teélov h\
gaéphsen au\touév, a. (13,34): e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n i$na a\gapa%te a\llhélouv, kaqwèv h\gaphsa u|ma%v. b. (14,15): e\an è a\gapa%teé me, (14,21): o| a\gapw%n me a\gaphqhésetai u|poè tou% patroév mou, (14,23): e\ané tiv a\gapç% me, (14,24): o| mhè a\gapw%n me. 2. (15,19-10): kaqwèv h\gaéphseén me o| Pathér, ka\gwè u|ma%v h\gaéphsa […] a1. (15,12): au$th e\stìn h| e\ntolhè h| e\mhé, i$na a\gapa%te a\llhélouv, kaqwèv h\gaphsa u|ma%v. b1. (16,26): o| Pathèr file_ u|ma%v, o$ti u|me_v e\meè pefilhékate 3. (17,23): h\gaéphsav au\touév kaqwèv e\meè h\gaéphsav […]; o$ti h\gaéphsaév me proè katabolh%v koésmou.[…], (v. 24): i$na h| a\gaéph h£n h\gaéphsaév me e\n au\to_v +& ka\gwè e\n au\to_v.
Si ottiene così una struttura insieme concentrica e alternata. I testi di 13,1; 15,9 e 17,23-26 si relazionano per l’uso all’aoristo del verbo a\gapaéw: essi stanno rispettivamente all’inizio (13,1), al centro (15,9) e alla fine (17,23-26) dei capp. 13-17. In questo modo, essi costituiscono i punti fondamentali attorno a cui gravita tutto lo sviluppo dei capp. 13-1778. I testi 78
(13,1): (15,9):
a\gaphésav […], ei\v telov h\gaéphsen au\touév;, kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér, ka\gwè u|ma%v h\gaphsa,
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di 13,34 e di 15,12 si relazionano per la menzione del comandamento ai discepoli dell’amore vicendevole (i$na a\gapa%te a\llhélouv) sul fondamento e sul modello dell’amore di Gesù verso di loro (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v)79. Stanno pure in relazione i testi di 14,15.21.23.24 e quello di 16,27: benché con diverso verbo, rispettivamente con a\gapaéw nei testi del cap. 14 e con fileéw in 16,27, entrambi i gruppi esprimono l’amore dei discepoli verso Gesù. Nei testi del cap. 14 si indica la maniera come amare Gesù, mediante l’osservanza del comandamento, e anche la conseguenza: essere amati dal Padre e da Gesù stesso; in 16,27 la conseguenza di avere accolto Gesù è essere accolti dal Padre. Al centro troviamo il testo di 15,9-10 che, oltre che essere al centro, contiene una sintesi di tutta la prospettiva dell’a\gaéph del vangelo di Giovanni. È utile perciò considerare specificamente la struttura di questo testo. 2.4. Struttura di 15,9-10 Nel testo di 15,9-10 possiamo distinguere tre parti, rispettivamente narrativa, esortativa e condizionale. La prima parte (narrativa) è costituita dall’espressione kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér, ka\gwè u|ma%v h\gaphsa (come amò me, così anch’io voi amai). Essa contiene due brevi storie; la prima parte dal Padre e giunge a Gesù; la seconda parte da Gesù e giunge ai discepoli. Il Padre è soltanto il soggetto di una azione di amare che giunge a Gesù; Gesù è insieme oggetto dell’azione del Padre ma anche soggetto dell’azione verso i discepoli. I discepoli sono soltanto oggetto dell’azione di amare di Gesù. Le due storie si relazionano
(17,22-26):
h\gaéphsav au\touév kaqwèv e\meè h\gaéphsav […]; o$ti h\gaéphsaév me proè katabolh%v koésmou.[…] v. 24: i$na h| a\gaéph h£n h\gaéphsaév me e\n au\to_v +& ka\gwè e\n au\to_v.
79 (13,34): e\ntolhèn kainhèn dòdwmi u|m_n, i$na a\gapa%te a\llhélouv, kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v, (15,12): au$th e\stìn h| e\ntolhè h| e\mhé, i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h|gaéphsa u|ma%v.
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in forma di comparativa di uguaglianza, mediante le particelle kaqwév … kaò: Gesù deve amare i discepoli così come il Padre ha amato lui80. La seconda parte (esortativa) è molto breve: essa è costituita soltanto dall’espressione meònate e\n t+% a\gaép+ t+% e\m+% (rimanete nel mio amore), mediante la quale Gesù esorta i discepoli a rimanere nel suo amore. Questa esortazione si ricollega all’azione precedente di Gesù: ka\gwè u|ma%v h\gaéphsa. Essa però presuppone delle azioni intermedie: raggiunti dall’amore di Gesù, i discepoli anzitutto debbono accoglierlo, poi orientarsi verso di esso, andare ad esso, giungervi e rimanere radicati in esso. La terza parte (condizionale) comprende una condizionale ed una evocazione storica. La condizionale riguarda la relazione dei discepoli a Gesù: e\anè taèv e\ntolaév mou thrhésete, mene_te e\n t+% a\gaép+ mou (se i miei comandamenti osserverete, rimarrete nel mio amore): i discepoli rimarranno nell’amore di Gesù se osserveranno i suoi comandamenti. L’evocazione storica riguarda la relazione di Gesù al Padre: kaqwèv e\gwè taèv e\ntolaèv tou% patroév mou tethérhka kaì meénw au\tou% e\n t+% a\gaép+ (come io i comandamenti del Padre mio ho osservato e rimango di lui nell’amore): Gesù ha osservato i comandamenti del Padre suo e rimane nel suo amore. La prima e la terza parte si relazionano per diversi elementi; entrambe comprendono due storie, reciprocamente relazionate in rapporto di comparativa di uguaglianza81. Le due storie della prima parte si sviluppano in un dinamismo discendente: dal Padre a Gesù e da Gesù ai discepoli; il Padre ha amato Gesù e, allo stesso modo (kaqwév) anche (kaò) Gesù ha amato i discepoli. Le due storie della terza parte si sviluppano invece in maniera 80
Tutta l’espressione si struttura secondo uno schema concentrico:
kaqwèv h\gaéphseén me kaì o| pathér, e\gwèè u|ma%v h\gaéphsa.
Al centro ci stanno i due soggetti; in posizione intermedia gli oggetti pronominali; agli estremi lo stesso verbo, rispettivamente, alla terza persona singolare (h\gaéphsen) e alla prima (h\gaéphsa). 81
In entrambe leggiamo la particella comparativa kaqwév.
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ascendente: dai discepoli a Gesù e da Gesù al Padre; i discepoli dovranno salire e rimanere nell’amore di Gesù mediante l’osservanza dei suoi comandamenti, allo stesso modo come (kaqwév) Gesù, avendo osservato i suoi comandamenti, è pervenuto e rimane nell’amore del Padre82. Tutto il brano di 15,9-10, incluso tra il verbo a\gapaéw (h\gaéphsen) e il sostantivo a\gaéph (e\n t+% a\gaép+), presenta due storie, incastonate l’una nell’altra. La prima è più ampia e va dal Padre al Padre e riguarda Gesù: specificamente parte dal Padre e giunge a Gesù, riparte poi da Gesù e giunge al Padre. Il Padre ha amato Gesù; questi, attraverso l’osservanza del comandamento, ha risposto al Padre, è risalito a lui, si è radicato e rimane nel suo amore. La seconda storia è più ristretta e va da Gesù a Gesù e riguarda i discepoli: precisamente essa parte da Gesù e giunge ai discepoli, deve poi ripartire dai discepoli e giungere a Gesù. Gesù ha amato i discepoli; essi, attraverso l’osservanza dei suoi comandamenti, debbono rispondere a Gesù, risalire a lui e radicarsi e rimanere nel suo amore83. 2.5. Relazione tra la prima parte (capp. 1-12) e la seconda (13-17) Benché i testi riguardanti l’a\gaéph, nella prima parte, siano meno numerosi, tuttavia essi presentano una prospettiva più ampia, che sarà poi ristretta nella seconda parte. In 3,16 leggiamo che Dio ha così amato (h\gaéphsen) il mondo da dare il suo Figlio Unigenito. Il destinatario dell’amore di Dio, secondo questo Le due storie della terza parte si relazionano in maniera parallela, nel seguente modo: I discepoli Gesù Osservanza dei comandamenti Osservanza dei comandamenti Rimanere nell’amore di Gesù Rimanere nell’amore del Padre. 82
83 Si può presentare tutto il brano graficamente nel seguente modo: Il Padre Gesù I discepoli Gesù Il Padre. Al centro sono menzionati i discepoli, ai quali, in forma di comando, Gesù prospetta il termine di un cammino che essi debbono compiere: pervenire e rimanere nel suo amore.
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testo, è direttamente il mondo: non si dice nulla né dell’amore del Padre verso l’Unigenito né dell’amore dell’Unigenito verso il mondo. Questi aspetti invece emergono nei testi della seconda parte, soprattutto in 15,984, dove è menzionato l’amore di Dio verso Gesù e l’amore di Gesù stesso. Inoltre il destinatario non è il mondo, ma, in maniera più ristretta, sono i discepoli85. Possiamo notare inoltre come nella prima parte la prospettiva appare negativa, quella del rifiuto; dopo 3,16 infatti tutti i testi sono inclusi tra i due di 3,19 e 12,43, dove, rispettivamente, si afferma che gli uomini amarono (h\gaéphsan) le tenebre anziché la luce (3,19) e amarono piuttosto la gloria degli uomini anziché quella di Dio. Destinatario dell’amore di Dio, il mondo ha rifiutato tale amore ed ha fatto altre scelte. Di simile rifiuto, nella seconda parte, non si dice nulla: anzi questa parte, in certo senso, può essere definita come il coinvolgimento dei discepoli nell’amore di Gesù e, attraverso di esso, nell’amore del Padre86. La prospettiva negativa appare anche in 5,42, dove ai giudei Gesù dichiara che non hanno l’amore di Dio in loro; e appare anche in 8,42, dove le parole di Gesù: «se Dio fosse vostro padre amereste me» rivelano che né Dio è padre per i giudei né essi amano Gesù. Tuttavia non manca, in questa prima parte, una luce che manifesta un aspetto positivo: leggiamo in 11,5 che Gesù amava (h\gaépa) Marta, sua sorella e Lazzaro. Questa indicazione, e anche la forma verbale all’imperfetto, suggeriscono che c’è stato qualcuno a cui è stato offerto e che ha accolto l’amore di Gesù. Il verbo imperfetto stabilisce una relazione tra le figure di Marta, sua sorella e Lazzaro e il discepolo, anche lui oggetto dell’amore di Gesù espresso con il verbo all’imperfetto h\gaépa. 84 Il testo di 3,16 condivide con 15,9, ma anche con 13,1.34; 15,12 e 17,23-26 lo stesso verbo formulato all’aoristo attivo.
Oltre il restringimento di prospettiva dal mondo a Gesù e poi ai discepoli, si può notare anche, uno slittamento in relazione al soggetto. Benché nei testi citati di 13,1.34; 15,12 e 17,23-26 ci sia, nello sfondo, l’amore del Padre, il soggetto principale sembra essere Gesù nella sua relazione ai discepoli. 85
86 Forse tale rifiuto può essere contenuto nel fatto del boccone offerto da Gesù a Giuda; in 13,27, dove si legge che «dopo il boccone, entrò in lui (Giuda) Satana». Si può vedere forse anche, ma solo momentaneo, nei rinnegamenti di Pietro, come possiamo dedurre dal fatto che poi egli si aprirà e sarà reinserito nell’amore di Gesù.
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La dimensione dellʼamore nel vangelo di Giovanni
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Sembra, concludendo, che le due parti presentino diversa prospettiva. Nella prima parte (capp. 1-12) la prospettiva è quella dell’amore di Dio al mondo ma, drammaticamente rifiutato: nel dramma del rifiuto, emerge l’aspetto positivo dell’amore di Gesù, offerto e accolto da Marta, sua sorella e Lazzaro. Nella seconda parte, nei capp. 13-17, ma anche fino alla triplice professione di amore di Pietro (21,15-19) la prospettiva è quella del coinvolgimento dei discepoli nell’amore di Gesù, nello sfondo dell’amore del Padre verso di lui. In questa prospettiva positiva, se si accetta l’implicita allusione in 13,27, emerge il dramma del rifiuto definitivo da parte di Giuda che diventa, così, possesso da parte di Satana.
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«COME AMÒ ME IL PADRE […]» (GV 15,9) L’amore del Padre verso il Figlio nel vangelo di Giovanni
Nel vangelo di Giovanni i due verbi di amare, a\gapaéw e fileéw, negli usi in cui il soggetto è Dio, sono riferiti, come oggetto, anche a Gesù1. Con il verbo a\gapaéw, infatti gli oggetti dell’amore di Dio sono: il mondo2, i discepoli3, Gesù4; con il verbo fileéw gli oggetti sono ancora i discepoli5 e Gesù6. Il fatto che Gesù esplicitamente, ed anche con una certa insistenza, è indicato come oggetto dell’amore del Padre appare come una peculiarità Giovannea; mai infatti, negli altri scritti del NT, si dice, in maniera diretta, che il Padre ama Gesù. Tuttavia la tematica dell’amore del Padre verso Gesù nel NT non è assente. Essa è affermata, mediante l’aggettivo verbale a\gaphtoév, nei racconti del battesimo di Gesù al Giordano7 e della sua trasfigurazione8, Per la distinzione dei due verbi e per il senso specifico di ciascuno rimandiamo ad uno studio precedente, cfr. A. Gangemi, Il senso di a\gapaéw e fileéw nei LXX, nel NT e nel vangelo di Giovanni, in Synaxis 16 (1998) 7-114. 1
2 3 4 5 6 7
Cfr. 3,16.
Cfr. 14,21.23: 17,23.
Cfr. 3,35; 10,17; 15,9; 17,23.24.26. Cfr. 16,27. Cfr. 5,20.
Cfr. Mt 3,17; Mc 1,11; Lc 3,22.
Cfr. Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35; 2Pt 1,17. In Lc 9,35 troviamo però una lettura variante, e\klelegmeénov, attestata dai P45.75, dai codici Sinaitico e Vaticano, dai codici maiuscoli L e X, dai minuscoli 892; 1241. 8
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da Dio stesso che dichiara Gesù9, o lo presenta agli uomini10, come suo figlio diletto11. Il termine a\gaphtoév non si legge mai tuttavia nel vangelo di Giovanni. Possiamo notare una differenza tra il quarto evangelista e il resto del NT: mentre in quest’ultimo il termine a\gaphtoév, tranne che nella parabola dei cattivi vignaioli12, è pronunziato dal Padre, i testi del vangelo di Giovanni sono invece quasi tutti in bocca a Gesù13: emerge chiara la sua coscienza di essere oggetto dell’amore del Padre. 1. I testi del vangelo di Giovanni I testi del vangelo di Giovanni, in cui, con il verbo a\gapaéw, Gesù stesso, o Giovanni in 3,35, dichiara di essere oggetto dell’amore del Padre, sono perciò i seguenti: 3,35; 10,17; 15,9; 17,23.24.26. I testi poi con il verbo fòlew sono uno solo, 5,20. Fermando principalmente l’attenzione sui testi con il verbo a\gapaéw, notiamo subito una distinzione: in 3,35 e 10,17 il verbo è all’indicativo presente (a\gapç%); in 15,9 e 17,23.24.26 invece è all’indicativo aoristo, alla terza persona singolare in 15,9 (h\gaéphsen) e alla seconda in 17,23.24.26 (h\gaéphsav). I testi con l’indicativo presente sono i seguenti: 3,35: «Il Padre (o| Pathér) ama (a\gapç) il Figlio e tutto (paénta) ha dato (deédwken)»; 10,17: «per questo il Padre (o| Pathér) mi ama (a\gapç%), perché io pongo (tòqhmi) la mia vita, per riprenderla di nuovo». Questi due testi condividono lo stesso soggetto (o| Pathér), lo stesso oggetto (Gesù) e lo stesso verbo a\gapaéw all’indicativo presente (a\gapç%): si tratterà di stabilire la loro relazione. 9 10
Cfr. l’espressione suè eù (tu sei) in Mc 1,11; Lc 3,22.
Cfr. l’espressione ou/toév e\stin (egli è) in Mt 3,17; 9,7; Lc 9,35; 2Pt 1,17.
L’espressione caratterizza inoltre, in Mc 12,6 e Lc 20,13, il figlio nella parabola dei cattivi vignaioli. In Mt 12,18 si legge poi nel contesto di una particolare citazione di Is 42,1-4. 11
12 In Lc 20,13 il termine a\gaphtoév si trova però in bocca al padrone della vigna, che, nel contesto parabolico, può richiamare la figura del Padre.
13 Tranne che in 3,35, dove i vv. 31-36 sembrano costituire ancora parole di Giovanni Battista.
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«Come amò me il Padre […]» (Gv 15,9)
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I testi con l’indicativo aoristo poi sono anzitutto 15,9: «come amò me (h\gaéphseén me) il Padre, anch’io voi amai (h\gaéphsa)»; inoltre i testi del cap. 17 che possono essere considerati come uno solo: il v. 23: «li hai amati (h\gaéphsa) come hai amato me (h\gaéphsaév me)», il v. 24: «mi hai amato (h\gaéphsaév me) prima della fondazione del mondo», il v. 26; «perché l’amore (a\gaéph) con cui hai amato me (h\gaéphsaév me) sia in essi ed io in essi». I testi con il verbo a\gapaéw all’indicativo presente si leggono nella prima parte del vangelo; quelli con l’indicativo aoristo si leggono invece nella seconda parte. Tutti i testi sono espressi in forma narrativa, tranne quelli del cap. 17 in cui, in forma di un monologo, nel contesto di una preghiera, Gesù si sta rivolgendo al Padre. Emergono allora diverse domande. In che modo anzitutto il Padre ha amato Gesù? Questa domanda si pone soprattutto per i testi in cui il verbo a\gapaéw è formulato all’aoristo: la stessa forma verbale specificamente rimanda non ad un sentimento, bensì ad un evento concreto; la domanda allora può essere formulata nel seguente modo: quale è stato l’evento nel quale il Padre ha concretizzato il suo amore verso il Figlio, e quando esso è avvenuto? Inoltre qual è la relazione tra le forme verbali al presente e quelle all’aoristo del verbo a\gapaéw? Nel tentativo di rispondere a queste domande, consideriamo allora i singoli testi. 2. I testi con il verbo a\gapaéw all’indicativo aoristo Consideriamo anzitutto i testi con il verbo a\gapaéw all’indicativo aoristo, perché la stessa forma verbale, come abbiamo già indicato, ci riporta ad un evento che si è già verificato nel passato. 2.1. Il testo di 15,9 Leggiamo in 15,9 l’espressione iniziale kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér ka\gwè u|ma%v% h\gaéphsa (come amò me il Padre, così anch’io voi amai). Essa si trova all’inizio di uno sviluppo più ampio, contenuto nei vv. 9-1014.
14 Nota Maier che il v. 9 mostra una catena di amore dal Padre a Gesù e da Gesù ai discepoli, cfr. G. Maier, Johannesevangelium, II, Neuhausen -Stuttgart 1986, 150; scrive
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2.1.1. Lo sviluppo strutturale In questo sviluppo possiamo distinguere quattro parti: 1. La relazione di amore di Gesù ai discepoli, sul modello della relazione del Padre a Lui: kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér ka\gwè u|ma%v% h\gaéphsa (v. 9a); 2. L’esortazione di Gesù ai discepoli di rimanere nel suo amore: meònate e\n t+% a\gaép+ mou (v. 9b)15; 3. La condizione o il cammino indicato da Gesù ai discepoli per pervenire e rimanere nel suo amore, l’osservanza dei suoi comandamenti: e\an è taèv e\ntolaév mou thrhéshte, mene_te e\n t+% a\gaép+ mou (v. 10a); 4. Sul modello del cammino da Lui compiuto per pervenire e rimanere nell’amore del Padre16, l’osservanza del suo comandamento: kaqwèv
e\gwè taèv e\ntolaèv tou% patroév mou tethérhka kaì meénw au\tou% e\n t+% a\gaép+ (v. 10b)17.
In queste quattro parti emerge una duplice parabola, rispettivamente discendente ed ascendente18. La parabola discendente parte dal Padre, Fabris che la corrente dell’amore, espresso con il verbo a\gapaéw, ha la sua fonte nel Padre e si riversa sui discepoli tramite Gesù, cfr. R. Fabris, Giovanni, Roma 19932, 624.
15 Westcott legge però il verbo a\gapaéw al perfetto, cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, Grand Rapids 1983.
Spiega Morris che “rimanere nell’amore” non è una mistica esperienza, bensì obbedienza e osservanza dei comandamenti, cfr. L. Morris, The Gospel according to John, Grand Rapids 19952, 597. 16
Queste quattro parti si relazionano secondo uno schema concentrico: 1. kaqwèv h\gaphseén me o| pathér ka\gwè u|ma%v% h\gaéphsa (v. 9a); 2. meònate e\n t+% a\gaép+ mou (v. 9b); 3. e\an è taèv e\ntolaév mou thrhéshte, mene_te e\n t+% a\gaép+ mou (v. 10a); 4. kaqwèv e\gwè taèv e\ntolaèv tou% patroév mou tethérhka kaì meénw au\tou% e\n t+% a\gaèp+ (v. 10b). Il primo e quarto elemento sono introdotti mediante la particella comparativa kaqwév e riguardano, rispettivamente la relazione del Padre a Gesù, modello della sua relazione ai discepoli (1), e la relazione di Gesù al Padre (4); il secondo e terzo elemento riguardano la relazione dei discepoli a Gesù, rispettivamente, il comando di restare nel suo amore (2) e la maniera come restarvi, mediante l’osservanza dei comandamenti. 17
Spiega Simoens che i vv. 9-10 offrono un’ottima possibilità di struttura concentrica, cfr. Y. Simoens, Secondo Giovanni. Una traduzione e una Interpretazione, trad. it., Bologna 2000, 612. 18
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passa attraverso Gesù, e giunge ai discepoli: il Padre ama Gesù e Gesù poi ama i discepoli. La parabola ascendente parte dai discepoli, passa attraverso Gesù e culmina nel Padre: i discepoli, mediante l’osservanza dei comandamenti, debbono giungere e permanere nell’amore di Gesù; questi poi permane nell’amore del Padre, avendo osservato i suoi comandamenti. Nel testo di 15,9-10 è delineata così una storia, la storia dell’a\gaéph, dal Padre al Padre: essa parte dal Padre, passa attraverso Gesù e giunge ai discepoli; da essi poi, passando ancora attraverso Gesù, risale ancora al Padre19. Al nostro scopo interessa direttamente il v. 9a, dove Gesù propone, rivolgendosi ai discepoli, due affermazioni in forma di comparativa di uguaglianza: kaqwèv h\gaphseén me o| pathér ka\gwè u|ma%%v h\gaéphsa (come amò me il Padre anch’io voi amai) (v. 9a). Egli stabilisce così una relazione strettissima tra l’evento del Padre che ha amato Lui e il fatto di avere Lui amato i discepoli20. Possiamo però osservare che l’espressione fondamen19 Spiega Ellis che l’amore dal Padre a Gesù, da Gesù ai discepoli, e poi dai discepoli a Gesù e da Gesù al Padre è un circolo completo e tutto poggia su un amore reciproco che sgorga dal Padre, cfr. E.E. Ellis, The Genius of John, Collegeville 19842, 463. Secondo G. Maier i verbi all’aoristo, nell’espressione, mostrano la catena dell’amore che dal Padre va verso il Figlio e dal Figlio ai discepoli, cfr. G. Maier, Johannesevangelium, II, cit., 157.
20 La stretta relazione emerge anche dallo schema concentrico che è possibile stabilire tra le due espressioni: kaqwèv h\gaéphseén
me o| pathér kaì e\g\ wè u|ma%v% h\gaéphsa Il kaò è contenuto nell’espressione ka\gwé che risulta dalla fusione della particella kaò e dal pronome di prima persona singolare e\gwé. L’ordine u|ma%v% h\gaéphsa non è ritenuto da
tutti i codici. Esso è attestato dal P75, dal codice B, dal codice D nella prima mano, dai codici maiuscoli L Y, dai codici minuscoli 1.33, dal lezionario 844, da pochi altri codici e dall’antica versione latina detta Italica. L’ordine inverso (h\gaéphsa u|ma%v% ) invece è ritenuto dal P66, dal codice Sinaitico e Alessandrino, dal codice D nella seconda correzione , dal codice maiuscolo Q, da molti codici della recensione detta koinè e dalla versione latina. Le due letture dal punto di vista dei codici si equivalgono. Riteniamo però originale la lettura u|ma%v% h\gaéphsa; dei copisti infatti avrebbero potuto invertire l’ordine dei termini in parallelo alla frase precedente (h\gaéphseén me).
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tale non è la prima: kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér, bensì la seconda: ka\gwè u|ma%%v h\gaéphsa: Gesù dichiara ai discepoli di averli amati allo stesso modo come il Padre (kaqwév) ha amato Lui. L’espressione kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér è il secondo termine di paragone: l’amore del Padre verso di Lui costituisce il modello al quale Gesù conforma il suo amore verso i discepoli. La peculiarità del testo di 15,9a consiste nella dichiarazione, da parte di Gesù, che il suo amore verso i discepoli è modellato su quello del Padre verso di Lui ed egli li ha amati in seguito al fatto che il Padre ha amato Lui. Dell’amore di Gesù verso i discepoli l’autore ha già parlato in 13,1, dove ha narrato che Gesù, avendo amato (a\gaphésav) i suoi che nel mondo, li amò fino al compimento (ei\v teélov h\gaéphsen au\touév); le azioni compiute da Gesù e contenute nei vv. 4-5, simbolicamente descrivono quelle vere, mediante le quali Egli portò a compimento la sua opera di amore. Concretamente in 13,1-5 è descritto l’amore di Gesù verso i discepoli e delineato anche il suo contenuto21. In 13,1-5 l’autore descrive l’amore di Gesù verso i discepoli e mostra in che cosa esso consiste; in 15,9 invece dichiara che esso è stato compiuto in seguito e sul modello dell’amore del Padre verso di Lui. Non rientra nello scopo di questo studio fermare l’attenzione sull’amore di Gesù verso i discepoli, peraltro chiaramente descritto nel vangelo di Giovanni; al nostro scopo interessa caratterizzare il contenuto e la maniera dell’amore del Padre verso il Figlio, non indicato nel testo di 15,9. In questa prospettiva si pongono però diversi problemi già parzialmente indicati: in che cosa consiste l’amore del Padre verso Gesù? Quando e in che modo il Padre lo ha amato? In che senso l’amore del Padre verso Gesù costituisce il modello per l’amore di Gesù verso i discepoli? Qual è il valore dell’aoristo h\gaéphsen? Tenteremo nello sviluppo seguente di rispondere a queste domande. 21 Non rientra nello scopo di questo studio la considerazione specifica di Gv 13,1-5, che riguarda esclusivamente l’amore di Gesù per i discepoli. Ci permettiamo a riguardo di rimandare ad uno studio precedente, cfr. A. Gangemi, la lavanda dei piedi. Il coinvolgimento dei discepoli nell’Esodo di Gesù mediante l’amore, in Synaxis 14/2 (1996) 27-120 (I); 15/1 (1997) 7-87 (II).
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2.1.2. Il valore dell’aoristo h\gaéphs(a)en Partendo dalla domanda sul senso e sul valore dell’aoristo h\gaéphsen, con cui è caratterizzato il rapporto del Padre verso il Figlio, gli interpreti hanno proposto diverse spiegazioni. Per l’aspetto di “rimanere” nell’amore, Bauer22 cita Sap 3,923. Heise24 osserva che, nell’aoristo h\gaéphsa si fonda il fatto che si debba parlare di un meénein: poiché i discepoli sono già nell’amore, il problema poi è rimanere in esso. Il comandamento è l’amore vicendevole, ma il plurale indica che è inclusa anche la fede in Gesù come rivelatore. Brown25 ritiene che l’aoristo rimandi all’atto supremo dell’amore. Secondo Ellis26 i vv. 9-10 del cap. 15 offrono un sommario perfetto della teologia basilare di Giovanni: scaturendo dal Padre fino ai discepoli, il circolo dell’amore è completo. Lagrange27 specifica che il legame che unisce i discepoli a Cristo è un legame di amore. In relazione al senso, Braun28 spiega che l’amore che Cristo porta ai discepoli ha per modello l’amore che il Padre porta a Lui. Hoskyns-Davey29 osservano che il verbo non rimanda al segreto ed eterno amore del Padre per il Figlio, ma indica quell’amore che è diretto agli uomini. Secondo Kysar30 l’aoristo suggerisce la storicità del singolo atto del divino, senza però escluderne la continuità31; inoltre spiega l’autore che la relazione del Padre verso il Figlio è modello per la relazione di amore di Gesù verso i discepoli. Mateos-Barreto32 intendono il verbo aoristo nel senso di “di22 23 24
89-90 25 26 27
Cfr. W. Bauer., Das Johannesevangelium, Tübingen 19333, 191. Cfr. Sap 3,9: oi| pistoì e\n a\gaép+ prosmenou%sin au\t§%.
Cfr. J. Heise, Bleiben: menein in den Johanneischen Schriften, Tübingen 1967, Cfr. R.E.Brown, Giovanni, trad. it., Assisi 19995, 799. Cfr. F.F. Ellis, The Genius of John, cit., 229.
Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, Paris 19487, 148.
Cfr. F.M. Braun, Évangile selon Saint Jean, in L. Pirot-A.Clamer, La Sainte Bible, 10, Paris 19502, 436. 28
29 30 31 32
Cfr. E.C. Hoskyns – F.N. Davey, The Fourth Gospel, London 19472, 477. Cfr. R. Kysar, John, Minneapolis 1986, 239.
Cfr. in questo senso anche R.E.Brown, Giovanni, cit., 799.
Cfr. J. Mateos - J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, trad. it., Assisi 1982, 620.
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mostrare il proprio amore”. Secondo Schnackenburg33 l’aoristo sembra presupporre la morte. Tasker34 osserva pure che amore e obbedienza vanno di pari passo: Gesù obbedisce al Padre perché c’è un mutuo e permanente amore tra di loro; similmente i discepoli possono obbedire a Gesù solo quando risponderanno all’amore che Egli ha mostrato a loro. Quanto poi al valore dell’aoristo h\gaéphsen, alcuni interpreti ritengono che esso sia completivo. Secondo Barrett35 l’aoristo denota l’intero atto di amore compiuto da Gesù che culmina nell’amore. Bernard36 osserva che l’aoristo conferisce una sicurezza della profondità dell’amore di Gesù. Carson37 ritiene che l’aoristo indica probabilmente la perfezione, il compimento dell’amore del Padre verso il Figlio, includendo il suo amore per Lui prima della creazione; Gesù descrive il suo amore come una realtà concreta, avendo davanti agli occhi anche la croce. Spiega Lagrange38 che esso indica un comportamento globale, ma potrebbe anche esprimere una anteriorità assoluta in rapporto all’esistenza dei credenti. Secondo Lindars39 l’aoristo, inteso ancora come completivo, rimanda ad un evento di salvezza già compiuto, nel quale è stato espresso l’amore del Padre verso Gesù e l’amore di Gesù verso i discepoli. Mateos-Barreto parlano di un aoristo “manifestativo”40. Spiega Plummer41 che, in questo modo, l’opera di Gesù è vista come un tutto compiuto, già completa in se stessa. Fabris42 poi preferisce tradurre l’aoristo h\gaéphsen al presente: “ama”. Sanders43 33 34 35
Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, trad. it., Brescia 1981, 168. Cfr. R.V.G. Tasker, The Gospel according to St. John, London 19922, 177. Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, London 19853, 396.
Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, I, Edinburgh 1928, 483. 36
37 38 39 40 41 42
Cfr. D.A. Carson, The Gospel according to John, Grand Rapids 1991, 520. Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, cit., 401.
Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, Grand Rapids 1986, 490.
Cfr. J. Mateos – J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, cit., 620: «manifestò il suo amore» Cfr. A. Plummer, The Gospel according to St. John, Cambridge 1912, 289. Cfr. R. Fabris, Giovanni, cit., 817.
Cfr. J.N. Sanders – B.A. Mastin, A Commentary on the Gospel according to S. John, London 1968, 339. 43
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ritiene che l’aoristo indica un amore senza tempo. Altre spiegazioni sono proposte da Hoskyns-Davey44, Lattke45, Leon-Dufour46. Per conto nostro, riteniamo che entrambi gli aoristi, sia quello con soggetto il Padre (h\gaéphsen) sia anche quello con soggetto Gesù (h\gaéphsa), abbiano valore ingressivo. Ciò è suggerito dal fatto che ogni azione è seguita da un’altra compiuta da soggetto diverso; l’azione precedente costituisce così l’inizio da cui prende avvio l’azione seguente. L’azione di amore del Padre dà inizio ed è seguita dall’azione di Gesù verso i discepoli su cui si modella (kaqwév); l’azione di Gesù verso i discepoli poi è seguita dal suo comando di “rimanere” nel suo amore. Se i verbi h\gaéphsen / h\gaéphsa fossero un aoristo completivo, avremmo dovuto concludere che l’amore del Padre verso il Figlio sono un fatto già concluso e passato e che, al presente, né il Padre ama più Gesù né Gesù ama più i discepoli. Analogo problema si porrebbe anche per il testo di 13,1, dove il compimento dell’amore di Gesù verso i discepoli è espresso con un verbo all’aoristo (ei\v teélov h\gaéphsen). Il problema si porrebbe pure per 3,1647 dove Gesù dichiara che «così Dio amò (h\gaéphsa) il mondo, da dare il suo Figlio Unigenito»: anche in questo caso, se l’aoristo fosse completivo, ne seguirebbe che, al presente, Dio non ama più il mondo. Dal momento però che l’amore di Dio è legato al dono dell’Unigenito, ne seguirebbe pure che non ci sarebbe più nemmeno quel dono, espresso, anch’esso, con un verbo all’aoristo (e"dwken). Anche in 13,34 e 15,12 il verbo 44 Cfr. E.C. Hoskyns - F.N. Davey, The Fourth Gospel, cit., 477: l’aoristo denota non il segreto ed eterno amore del Padre per il Figlio, ma quello che si manifestò nella vita, opere e morte di Gesù, rivolto agli uomini.
Cfr. M. Lattke, Einheit im Wort. Die spezifische Bedeutung von “agape”“agapan” und “filein” im Johannesevangelium, München 1975, 181: L’aoristo non ha alcuna particolare importanza: si spiega, in maniera letteraria e fittizia, con la situazione di addio. 45
Cfr. X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, Cinisello Balsamo 1995, 220 nota 35: L’aoristo è completivo; indica cioè un comportamento globale; può esprimere un amore di Dio sempre in atto, ma può esprimerne l’anteriorità assoluta in rapporto all’esistenza dei credenti. 46
47 A riguardo di 3,16, Beeckmann spiega che l’aoristo non indica un fatto passato, ma vuol dire che l’amore di Dio è giunto al suo culmine mediante il dono dell’Unigenito, cfr. P. Beekmann, L’évangile selon Saint d’après les meilleurs autheurs catholiques, Bruges 1951, 71.
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h\gaéphsen ha valore di aoristo ingressivo: l’espressione kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v costituisce infatti il fondamento e si prolunga nel comandamento ai
discepoli dell’amore vicendevole. Tutto ciò porta alla conclusione che il verbo a\gapaéw, usato all’aoristo e riferito a Dio o a Gesù, nel vangelo di Giovanni, ha un valore ingressivo. Solo nei due usi, non riferiti a Dio o a Cristo, in 3,19 e 12,43, l’aoristo ha valore completivo. Si tratta infatti degli uomini che amarono (h\gaéphsan) più la tenebra che non la luce, e dei capi che amarono (h\gaéphsan) più la gloria degli uomini che non la gloria di Dio. Si tratta qui di un fatto definitivo. Inoltre possiamo anche osservare che il verbo a\gapaéw, all’aoristo, con soggetto Dio o Cristo, non rimanda ad un semplice sentimento dell’animo: nel qual caso sarebbe stata più opportuna una forma al presente, ma deve rimandare ad un evento storico, che scaturisce da un sentimento, ma nel quale il sentimento stesso si concretizza. È facile individuare l’evento storico con cui Gesù ha attuato il suo amore verso i discepoli: come abbiamo già indicato, esso si concretizza nella serie di azioni simboliche descritte in 13,4-5. Più difficile invece è individuare l’evento storico in cui si è concretizzato l’amore del Padre verso Gesù. Di esso, come abbiamo già notato, l’evangelista non offre alcuna descrizione almeno esplicita, a differenza dell’amore di Dio verso il mondo (3,16), che ha trovato una precisa concretizzazione storica nel dono dell’Unigenito. Nota Barrett48 che la missione del Figlio era la conseguenza dell’amore del Padre. 2.1.3. La particella comparativa di uguaglianza kaqwév Nel tentativo di ricercare tale evento, consideriamo la particella comparativa kaqwév, con cui, in 15,9, Gesù introduce la menzione dell’amore del Padre verso di Lui: esso costituisce un modello per il suo amore verso i discepoli. Si stabilisce nello stesso tempo un rapporto di uguaglianza tra l’amore del Padre verso di lui e l’amore suo verso i discepoli. 48
Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 180.
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Tale rapporto di uguaglianza, espresso mediante le particelle comparative kaqwév […] kaiè, oppure kaqwév […] ou$twv, si legge anche altrove nel vangelo di Giovanni, specificamente nei seguenti testi: 6,5749; 10,1550; 15,451. A riguardo di questa particella, secondo Leon-Dufour52 la particella kaqwév ha qui il senso di “fondamento”, “generazione”. Moloney53 rimanda a Blass-Debrunner54 e traduce kaqwév: “Nella misura in cui”: i discepoli debbono riprodurre nei loro rapporti con Gesù ciò che Egli ha sempre avuto con il Padre: una reciprocità di amore dimostrata mediante l’osservanza dei comandamenti. Il testo più vicino al nostro è 17,18, dove si stabilisce una comparativa di uguaglianza tra l’agire del Padre verso Gesù e l’agire di Gesù nei confronti dei discepoli: Gesù infatti dichiara: «come me hai mandato nel mondo, così anch’io ho mandato essi nel mondo». Gesù afferma di avere mandato i discepoli nel mondo allo stesso modo come il Padre ha mandato Lui55. Troviamo così due testi dove Gesù stabilisce una relazione di uguaglianza tra l’azione del Padre verso di Lui e l’azione sua verso i discepoli56. Queste In questo testo Gesù dichiara «come (kaqwév) inviò me il Padre vivente, anch’io (ka\gwé) vivo a causa del Padre». La comparativa però riguarda un rapporto reciproco tra Gesù e il Padre. 49
50 In questo testo abbiamo ancora uguale comparativa; Gesù dichiara: «come (kaqwév) conosce me il Padre, anch’io (ka\gwé) conosco il Padre»
In questo testo Gesù stabilisce un rapporto di uguaglianza tra il tralcio, in relazione alla vite, e se stesso, in relazione, ai discepoli; infatti, dichiara «come il tralcio non può portare frutto se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me». 51
52 53
Cfr.. X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, cit., 220 nota 35. Cfr. F.J. Moloney, Il vangelo di Giovanni, trad. it., Leumann-TO 2007, 370.
Cfr. F. Blass - A. Debrunner, Grammatik des neutestamentlichen Griechisch, Göttingen 197614, 282, par. 453,2. 54
55 Cfr. in questo senso anche P. Beekmann, L’évangile selon Saint d’après les meilleurs autheurs catholiques, cit., 327.
56 Holtzmann spiega che l’amore di Gesù per i discepoli è tanto grande che può essere spiegato solo con il modello dell’amore del Padre su di Lui, cfr. H.J. Holtzmann, Evangelium des Johannes, Tübingen 19083, 256; nota Wilckens che Gesù ha amato i discepoli così come il Padre ha amato Lui, cioè fino alla pienezza, cfr. U. Wilckens, Das Evangelium nach Johannes, Göttingen 199817, 240.
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azioni sono due: avere amato e avere inviato nel mondo57. Il Padre ha amato Gesù e allo stesso modo Gesù ha amato i discepoli58. Il Padre ha inviato Gesù nel mondo e allo stesso modo Gesù invia i discepoli nel mondo59. Emergono allora diverse domande: come il Padre ha amato il Figlio? Come l’ha inviato? Perché l’amore del Padre verso il Figlio è modello dell’amore di Gesù verso i discepoli? Perché inoltre l’invio del Figlio da Secondo Van den Bussche l’amore del Padre verso il Figlio di cui si parla non è unità di essere , cosa già presupposta, bensì la missione del Figlio nel mondo, cfr. H. Van Den Bussche, Giovanni, trad. it., Assisi 1974, 204. 57
58 Spiega Moloney che i discepoli debbono riprodurre nei loro rapporti con Gesù ciò che Egli ha sempre avuto con il Padre: una reciprocità di amore dimostrata mediante l’osservanza incondizionata dei comandamenti, cfr. F.J. Moloney, Il vangelo di Giovanni, cit., 370. Lattke osserva che il rapporto di Gesù ai suoi è parallelo a quello del Padre a Gesù: non si tratta di un amore etico, ma di stabilire una comunione di essere mediante la rivelazione, cfr. M. Lattke, Einheit im Wort, cit., 181. Secondo Lincoln il divino amore tra il Padre e il Figlio è ora l’amore che il Figlio estende ai discepoli, cfr. A.T. Lincoln, The Gospel according to St. John, London 2005, 405
Possiamo stabilire un parallelismo tra il testo di 15,9 e di 17,18: 15,9 17,18 59
kaqwèv kaqwèv h\gaéphseén e\meè me a\peésteilav o| pathér ei\v toèn koésmon ka\gwè ka\gwè u|ma%v a\peésteila h\gaéphsa au\touèv ei\v toèn koésmon
Notiamo una relazione tra l’azione del Padre di amare Gesù e quella di inviarlo; le due espressioni infatti, possono essere costruite secondo uno schema concentrico: h\gaéphseén me e\meè a\peésteilav.
Analogamente possiamo stabilire una relazione tra l’azione di Gesù di amare i discepoli e quella di inviarli nel mondo, le due espressioni infatti, possono relazionarsi secondo uno schema concentrico: u|ma%v h\gaéphsa a\peésteila au\touèv
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parte del Padre diventa modello dell’invio dei discepoli da parte del Figlio? Prescindendo dall’aspetto dell’invio e fermandoci all’aspetto dell’a\gaéph, rispondiamo per momento alla domanda perché l’amore del Padre verso il Figlio sia modello dell’amore di Gesù verso i discepoli. Per rispondere a questa domanda, non abbiamo altra strada se non riferirci all’amore di Gesù verso i discepoli, in 13,34 e 15,1260. Entrambi i testi presentano una comparativa. In 13,34 Gesù dichiara ai discepoli: «vi dò un comandamento nuovo che vi amiate gli uni gli altri (i$na a\g\ apa%t% e a\l\ lhélouv) come amai voi (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v% ) ». In 15,12 Gesù poi dichiara: «questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri (i$na a\g\ apa%t% e a\l \ lhélouv) come amai voi (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v% )»61. Prescindendo dalla diversa sfumatura che contengono, i due testi condividono l’espressione i$na a\g\ apa%t% e a\l \ lhélouv e l’espressione kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v% . In entrambi i testi l’evento dell’amore di Gesù è modello dell’amore vicendevole dei discepoli. Possiamo allora proporre il seguente schema progressivo: 1. kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér 2. ka\gwè u|ma%v h\gaéphsa 3. kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v% 4. i$na a\g\ apa%t% e a\l \ lhélouv 60 Entrambi i testi hanno relazione con il nostro testo di 15,9, come appare dal seguente schema: 1. (13,34): i$na a\g\ apa%t% e a\l \ lhélouv
kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v% 2. (15,9): kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér ka\gwè u|ma%v h\gaéphsa 3. (15,12): i$na a\g\ apa%t% e a\l \ lhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v%
Emerge chiaramente da questo schema il duplice ruolo dell’amore di Gesù verso i discepoli: da una parte esso si fonda e scaturisce dall’amore del Padre verso di Lui; dall’altra fonda l’amore vicendevole. Possiamo notare le varie forme verbali del verbo a\gapaéw. Per quanto riguarda l’amore del Padre verso Gesù abbiamo una forma all’aoristo (h\gaéphsen), come pure una forma all’aoristo abbiamo per quanto riguarda l’amore di Gesù verso i discepoli. Diversa è la forma verbale in relazione all’amore vicendevole dove abbiamo un congiuntivo presente. 61
(e\stòn).
In 13,34 Gesù promulga il suo comandamento (diédwmi), in 15,12 invece lo definisce
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Emerge chiaramente da questo schema il duplice ruolo dell’amore di Gesù verso i discepoli: da una parte si fonda e scaturisce dall’amore del Padre verso di Lui; dall’altra fonda l’amore vicendevole. In entrambi i testi, 13,34 e 15,12, l’amore vicendevole è relazionato alla e\ntolhé proposta e promulgata da Gesù. Questi due testi, e soprattutto quello di 13,34, rimandano al testo di 13,15, dove ai discepoli è proposta una azione sul modello di quella compiuta a loro da Gesù. In 13,15 infatti leggiamo: «Un modello (u|poédeigma) infatti ho dato a voi che come io ho fatto a voi (kaqwèv e\gwè e\poiéhsa u|mi%n% ), anche voi facciate (kaiè u|mei%v% poih%te)». Gesù ha lavato i piedi ai discepoli e, adesso spiega di avere dato a loro un modello (u|poédeigma). Dal momento che Gesù evoca il fatto che i discepoli lo riconoscono Maestro e Signore, ne consegue che la sua azione di avere lavato loro i piedi per loro è un insegnamento (Maestro) e un comando (Signore). Il termine u|poédeigma però rimanda più specificamente alla prerogativa di Maestro62. Gesù inizia la spiegazione del suo gesto ai discepoli ricordando loro che essi gli riconoscono e gli attribuiscono la duplice prerogativa di Maestro e di Signore. Egli tira allora le conseguenze: se Lui, il Signore e il Maestro, ha lavato i piedi, anche i discepoli debbono lavarsi i piedi l’un l’altro63. I vv. 13-15 stanno in rapporto parallelo con il testo di 13,3464, dove Gesù, dal fatto che ha amato, deduce la conseguenza che anche i disce62 Il termine u|poédeigma evoca la bella copia che il maestro mostra (de_gma) ai discepoli, mettendola sotto (u|poé) i loro occhi, perché essi la imitino fedelmente.
63 Possiamo notare nel monologo di Gesù dei vv. 13-15, dopo la menzione della sua duplice prerogativa, uno sviluppo di quattro elementi introdotti in maniera alternata: «voi mi chiamate il Maestro e il Signore […]»; 1. «Se io il Signore e il Maestro ho lavato i piedi» 2. «anche voi (kaiè u|mei%v% ) dovete lavarvi i piedi l’un l’altro»; 3. Un modello (u|poédeigma) ho dato a voi», 4. «perché come io ho fatto a voi, anche voi (kaiè u|mei%v% ) facciate». 64
Possiamo notare la seguente relazione parallela: v. 15: «Un modello (u|poédeigma) ho dato a voi (e"dwka u|m_n), che (i$na) come (kaqwév) io ho fatto a voi anche voi (kaiè u|mei%v% ) facciate» v. 34: «un comandamento (e\ntolhén) nuovo dò a voi (dòdwmi u|m_n che (i$na) vi amiate gli uni gli altri
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poli debbono amarsi gli uni gli altri. Benché nel v. 34 prevalga l’aspetto del Signore, evocato dal termine e\ntolhé, anche l’azione di avere amato i discepoli si colloca nella duplice prerogativa di Gesù di Maestro e di Signore. Nella duplice prerogativa di Maestro e di Signore, Gesù ha compiuto due azioni strettamente relazionate65, ha lavato i piedi dei discepoli e li ha amati. La prima azione più direttamente evoca l’aspetto del maestro ed è presentata come un modello, una copia da imitare (u|poédeigma); la seconda invece specificamente evoca l’aspetto del Signore ed è presentata come un comando (e\ntolhé) a cui essere sottomessi. I discepoli hanno ricevuto da Gesù l’insegnamento e il comando di amarsi gli uni gli altri. Trasferendo le prerogative di Gesù nella sua relazione ai discepoli, di Signore e Maestro, al Padre nella sua relazione a Gesù, dobbiamo concludere che il Padre, amandolo, ha dato a Gesù, come maestro, un modello da imitare e, come signore, un comando da eseguire. Gesù ha ricevuto dal Padre l’insegnamento e il comando di amare i discepoli. Tutto ciò spiega perché Gesù debba amare i discepoli nella maniera come il Padre ha amato Lui: Egli è stato amato dal Padre e in ciò ha ricevuto da Lui un insegnamento e un comando: egli dovrà amare i discepoli perché così il Padre, amandolo, gli ha insegnato e gli ha comandato. Alla stessa maniera Gesù, amandoli, impartisce ai discepoli un insegnamento e dà a loro il comando di amarsi gli uni gli altri. Gesù dovrà amare i discepoli per il fatto che il Padre lo ha amato (Signore) e nella maniera come il Padre lo ha amato (Maestro). Allo stesso modo, i discepoli dovranno amarsi per il fatto che Gesù li ha amati e nella maniera come Egli li ha amati. Rimane però ancora senza risposta il problema: come concretamente il Padre ha amato Gesù. 65
come (kaqwév) io voi amai che (i$na) anche voi (kaiè u|mei%v% ) vi amiate gli uni gli altri».
Possiamo notare il seguente schema concentrico: v. 1: ei\v teélov h\gaéphsen, v. 5: h"rxato nòptein touèv poédav tw%n maqhtw%n v. 14: kaì u|me_v o\feòlete a\llhélwn nòptein touèv poédav v. 34: i$na a\gapa%te a\llhélouv
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2.2. I testi di 17,23.24.26 I vv. 23.24.26 del cap. 17 ci riportano verso la fine della preghiera di Gesù cosiddetta “dell’ora”, iniziata nel v. 1 e continuata, senza alcuna interruzione, fino al v. 26. Dopo avere pregato perché i discepoli rimanessero saldi nell’unità (i$na w&sin e$n) analoga a quella di Lui con il Padre (kaqwèv h|me_v e$n), Gesù risale alla causa e al fondamento di tutto: l’amore del Padre. Leggiamo nei versi su citati le seguenti espressioni: (v. 23): h\gaéphsav au\touèv kaqwèv e\meè h\gaéphsav (li hai amati come hai amato me), (v. 24): o$ti h\gaéphsaév me proè katabolh%v koésmou (poiché mi hai amato prima della fondazione del mondo), (v. 26): o$ti h| a\gaéph h£n h\gaéphsaév me e\n au\to_v +& ka\gwè e\n au\to_v (perché l’amore con cui hai amato me in essi sia ed io in essi). 2.2.1. L’espressione di 17,23 Nell’espressione di 17,23, h\gaéphsav au\touèv kaqwèv e\meè h\gaéphsav, troviamo anzitutto un problema di critica testuale. Le edizioni critiche e gli interpreti leggono, in genere, entrambi i verbi alla seconda persona singolare (h\gaéphsav): in questo modo, il soggetto di entrambi è il Padre a cui Gesù si sta rivolgendo. I soggetti dell’amore del Padre così sono due: i discepoli (au\touév) e Gesù (e\meé). Alcuni codici66 invece leggono il primo verbo alla prima persona singolare (h\gaéphsa): in questo modo si avrebbe non più un solo soggetto, ma due: Gesù che ama i discepoli (au\touév) e il Padre che ama Gesù (e\meé). Prescindendo dal fatto che i codici che attestano la lettura del verbo alla prima persona singolare sono pochi e non appartengono alla più antica tradizione greca, la struttura stessa della frase esige che si tratti dello stesso soggetto del verbo precedente a\peésteilav, anch’esso alla seconda persona
Le edizioni critiche citano, attestanti tale lettura, il codice D, i codici minuscoli 0141. 892s ed altri pochi, l’antica versione latina ed alcuni codici della Volgata, la versione siro peshitta ed heraclense, in parte anche la versione bohairica. 66
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singolare e dipendente dall’unico soggetto67. Se la lettura originale fosse stata inoltre h\gaéphsa, avremmo avuto un cambiamento di soggetto che probabilmente sarebbe stato opportuno esprimere. In realtà la lettura del primo verbo alla prima persona singolare potrebbe essere stata suggerita a qualche antico traduttore o copista dal testo di 15,968, al quale avrebbe adattato il nostro testo di 17,2369. Riteniamo allora di poter concludere che entrambi i verbi debbono essere letti alla seconda persona singolare (h\gaéphsav); il soggetto è lo stesso, il Padre, che ha amato due oggetti: i discepoli (au\touév) e Gesù (e\meé). 67 Nel v. 23b, introdotta dalla particella causale o$ti, abbiamo una lunga espressione con un solo soggetto iniziale espresso (sué) e tre proposizioni composte da un oggetto e un verbo:
o$ti suè me a\peésteilav kaì h\gaéphsav au\touèv kaqwèv e\meè h\gaéphsav
Emerge la stretta relazione tra le tre proposizioni, dove, nella prima e terza, l’oggetto precede il verbo, mentre lo segue nella seconda. Se il secondo verbo fosse alla prima persona singolare, avremmo una distonia: il primo e il terzo verbo avrebbero, come soggetto, il pronome sué, mentre nella seconda avremmo dovuto presupporre un diverso soggetto.
Cfr. B.M. Metzger, A Textual Commentary on the Greek Testament, Stuttgart 19942, 214. Inoltre anche R Bultmann., Das Evangelium des Johannes, Göttingen 1985 (rist. dal 197820), 397. Lindars dubita che la lettura proposta dal cod. D e seguita dalla versione Siro-peshitta sia quella intesa dall’evangelista, cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit., 531; R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 309. Al contrario, la lettura del cod. D è ritenuta originale da Barrett, cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 429. 68
69 Avremmo avuto la seguente relazione: 15,9 17,23
kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér ka\gwè u|ma%v h\gaéphsa h\gaéphsa au\touèv kaqwèv e\meè h\gaéphsav
Si otterrebbe anche uno schema concentrico: 15,9 kaqwèv h\gaéphseén me o| pathér
17,23:
ka\gwè u|ma%v h\gaéphsa h\gaéphsa au\touèv kaqwèv e\meè h\gaéphsav
La ricostruzione sarebbe allettante tuttavia non sembra essere adeguata al testo giovanneo.
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Dal punto di vista strutturale la frase con i due verbi h\gaéphsav è costruita secondo uno schema concentrico, che mette al centro, ed in certo senso anche enfatizza, la particella comparativa kaqwév70. In questo modo sono strettamente relazionati i due amori del Padre, sia quello verso Gesù sia anche quello verso i discepoli: il Padre ha amato i discepoli così come ha amato il Figlio. La comparativa di uguaglianza kaqwév da una parte suggerisce che l’amore del Padre verso i discepoli è uguale a quello del Padre verso il Figlio; dall’altra indica che l’amore del Padre verso il Figlio è anteriore e costituisce il modello dell’amore verso i discepoli. Spiega Carson71 che i cristiani stessi sono coinvolti nell’amore del Padre per il Figlio; Hoskyns-Davey72 poi osservano che la perfezione della carità è nell’attuazione dell’unità: l’amicizia con il Padre e il Figlio è resa perfetta nell’amicizia di tutti i credenti. Si pone il problema in che senso l’amore del Padre verso il Figlio sia modello dell’amore verso i discepoli. Nasce pure la domanda se l’amore del Padre verso il Figlio non costituisca il fondamento e la causa del suo amore verso i discepoli. Queste domande però esulano dal nostro scopo che è soltanto quello di chiarire l’amore del Padre verso il Figlio; da esse perciò prescindiamo. Tuttavia in relazione al nostro scopo notiamo soltanto che evangelista, nel testo di 17,23b, non dice nulla sulla maniera particolare e sull’evento con cui il Padre ha concretizzato l’amore verso il Figlio. Possiamo però notare che l’amore del Padre verso il Figlio sta alla base di una particolare storia della salvezza. L’espressione h\gaéphsav au\touèv kaqwèv e\meè h\gaéphsav infatti si lega a quella precedente me a\peésteilav. Si
70
Lo schema allora è il seguente:
h\gaéphsav au\touèv kaqwèv e\meè h\gaéphsav 71 72
Cfr. D.A. Carson, The Gospel according to John, cit., 569.
Cfr. E.C. Hoskyns - F.N. Davey, The Fourth Gospel, cit., 505.
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ottengono così tre frasi dipendenti dall’unica espressione o$ti sué73. Lette all’inverso, queste tre frasi delineano una storia della salvezza. Il punto di partenza è l’amore del Padre verso Gesù, segue poi l’amore del Padre verso i discepoli e quindi l’invio del mondo. È facile comprendere la relazione tra l’amore del Padre verso i discepoli e l’invio del Figlio: Egli li ha amati ed ha inviato il Figlio a coinvolgerli nel suo amore. Difficile invece è comprendere la relazione tra l’amore del Padre verso Gesù e quello del Padre verso i discepoli: ci chiediamo infatti se l’amore del Padre verso Gesù, come abbiamo detto, non eserciti una causalità sull’amore verso i discepoli. Lasciamo però, come abbiamo già indicato, aperto questo problema perché non direttamente pertinente al nostro scopo. 2.2.2. L’espressione di 17,24 L’espressione o$ti h\gaéphsav me proè katabolh%v koésmou, nel seguente v. 24, ripropone ancora il tema dell’amore del Padre verso Gesù. In questo testo però si introduce un aspetto nuovo: il fatto cioè che tale amore affonda le sue radici nella stessa eternità di Dio. L’espressione proè katabolh%v koésmou infatti indica che esso era già presente prima della stessa fondazione del mondo. Essa non si legge mai altrove nel quarto vangelo; si legge però in altri testi nel NT74.
73
Si ottiene così il seguente schema già indicato:
o$ti suè me a\peésteilav kaì h\gaéphsav au\touèv kaqwèv e\meè h\gaéphsav.
Con la particella proé (proè katabolh%v koésmou), come in Gv 17,24, si legge in Ef 1,4; 1Pt 1,20; con la particella a\poé (a\poé katabolh%v koésmou) si legge in Mt 13,35 (l.v.); 25,34; Eb 4,3; 9,26; Ap 13,8; 17,8. Hauck distingue tra le due espressioni; la prima (proè katabolh%v koésmou) si eleva ad esprimere l’azione di Dio anteriore al mondo; la seconda (a\poé katabolh%v koésmou) è usata per indicare l’eternità del divino consiglio salvifico, cfr. F. Hauck, katabolhé, in glnt V, trad. it., Brescia 1969, 231-234: 232. 74
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Nel nostro testo l’espressione proè katabolh%v koésmou può richiamare il v. 575, dove Gesù chiede al Padre di glorificarlo presso di Lui con la stessa gloria che aveva prima che il mondo fosse. La conclusione è chiara: l’evento dell’amore del Padre verso Gesù si è verificato nella stessa eternità di Dio76. Dodd77 spiega che Cristo era preesistente prima di apparire sulla terra. Lindars78 richiama la preesistenza della Sapienza; spiega Segalla79 che l’amore eterno del Padre per il Figlio è fondamento anche di quell’amore che si è rivelato nella missione storica di Gesù, fino alla sua glorificazione. Zahn80 osserva che il Figlio, come colui che è amato dal Padre fin dalla fondazione del mondo, esprime davanti al Padre la sua volontà. Tutta l’espressione, introdotta mediante la particella o$ti, ha un valore causale. Essa si riferisce certo all’ultima espressione h£n deédwkaév moi81, però, caratterizzata da una forma del verbo dòdwmi, richiama la prima espressione dello stesso verso, caratterizzata ancora da una forma dello stesso verbo dòdwmi. L’espressione o$ti h\gaéphsav me proè katabolh%v koésmou si riferisce 75 In questo senso cfr.anche W. Bauer., Das Johannesevangelium, cit., 263; anche D.A. Carson, The Gospel according to John, cit., 569. 76 Cfr. J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, Edinburgh 1928, 580: l’amore eterno è l’eterna gloria. H.J. Holtzmann, Evangelium des Johannes, cit., 256: l’amore del Padre verso il Figlio è concepito in senso stretto come anteriore al mondo; B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, Grand Rapids 1983, 248: l’amore del Padre per il Figlio appartiene all’ordine eterno. 77 78
Cfr. C.H. Dodd, L’interpretazione del quarto vangelo, trad. it., Brescia 1974, 325. Cfr. B. Lindars, The Gospel of John, cit., 521.
Cfr. G. Segalla, La preghiera di Gesù al Padre (Gv 17). Un addio missionario, Brescia 1983, 144-145. 79
80
Cfr. Th. Zahn, Das Evangelium des Johannes, Wuppertal 1983 (rist. dal 19215-6), 615.
Il secondo verbo al perfetto, deédwkav, presenta qualche problema testuale. Alcuni codici maiuscoli, tra i quali il codice Vaticano e i codici K N G Q, il codice minuscolo 209 ed altri, Clemente, leggono non il perfetto (deédwkav) ma l’aoristo (e"dwkav). È difficile optare per l’una o per l’altra forma, attestate entrambe da buoni codici. Potrebbe essere originale la forma all’aoristo: alcuni copisti avrebbero però letto al perfetto sotto l’influsso del primo perfetto deédwkav nel verso. Potrebbe essere però anche originale la forma al perfetto: alcuni copisti infatti avrebbero potuto leggere all’aoristo sotto l’influsso del verbo aoristo immediatamente seguente h\gaéphsav. Propendiamo per questa seconda ipotesi: ritenendo originale la forma al perfetto; l’aoristo h\gaéphsav infatti è più vicino al secondo perfetto deédwkav di quanto non sia il primo perfetto deédwkav. 81
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perciò, come proposizione causale, a tutta la sezione del v. 24 inclusa tra i due verbi deédwkav al perfetto82. Il Padre ha dato (deédwkav), come oggetto, due realtà al suo Figlio. La prima è espressa mediante il pronome neutro o$, che è riferito evidentemente agli uomini83; la seconda realtà poi è la gloria. Questo duplice dono, espresso con il duplice perfetto deédwkav, come appare dal carattere di proposizione causale (o$ti) dell’espressione seguente, caratterizzata dal verbo aoristo h\gaéphsav, si presenta come la conseguenza del fatto che il Padre ha amato Gesù84. 82 Le due espressioni con il verbo al perfetto e la nostra con il verbo aoristo possono essere relazionate in maniera parallela: o£ h£n
deédwkaév deédwkaév h\gaéphsaév moi moi me
83 Spiega Lagrange che “quello che mi hai dato” sono coloro che hanno creduto in Gesù e gli appartengono, Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, cit., 452. Alcuni codici maiuscoli, quali l’Alessandrino e i codici maiuscoli C L Y, il codice minuscolo 33, molti codici della recensione detta “Koinè”, le versioni Latina e Siro Peshitta leggono all’accusativo plurale ou$v. Il pronome neutro singolare o$ sembra essere invece la lettura originale, attestata da buoni codici: è più facile infatti che alcuni copisti chiariscano un testo più oscuro che non rendano oscuro un testo già chiaro. Sul carattere secondario della lettura ou$v cfr. anche B.M. Metzger, A Textual Commentary on the Greek Testament, cit., 214 e anche C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 429. 84
Otteniamo in tutto il v. 24 il seguente schema
o£ deédwkaév moi (ciò che hai dato a me) qeélw (voglio) i$na […] i$na […] h£n deédwkaév moi (che hai dato a me) o$ti h\gaéphsaév me proè katabolh%v koésmou (poiché mi hai amato prima
della fondazione del mondo). Troviamo in questo testo una duplice azione che si radica nel passato: l’amore del Padre verso il Figlio (h\gaéphsaév) e il duplice dono del padre (deédwkaév), e un orientamento futuro, espresso con un verbo al presente (qeélw) seguito da due oggetti proposizionali introdotti dalla duplice particella i$na: Gesù vuole che gli uomini siano (w&sin) dove Egli è e che vedano (qewrw%sin) la sua gloria; cfr. F.F. Ellis, The Genius of John, cit., 244; anche L. Morris, The Gospel according to John, cit., 737: la gloria che il Padre dà al Figlio sgorga dall’amore con cui lo ha amato prima della fondazione del mondo.
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In questo testo si stabilisce una relazione tra l’amore del Padre verso Gesù, espressa con una forma verbale all’aoristo (h\gaéphsav) e il duplice dono formulato con il duplice perfetto deédwkav. A questo testo dovremo ancora tornare; è sufficiente indicare adesso due aspetti emergenti: anzitutto l’amore del Padre verso il Figlio affonda le sue radici nella stessa eternità di Dio e data fin da prima della fondazione del mondo; inoltre tale amore si è concretizzato nel duplice dono, sia degli uomini (o$) che della gloria (h$n). Egli ha ricevuto in dono gli uomini e, mediante la preghiera rivolta al Padre, li orienta verso il suo secondo dono: la gloria. Rimane il problema in che modo Gesù orienterà gli uomini verso la sua gloria. 2.2.3. L’espressione di 17,26 Nel v. 26 leggiamo poi il seguente testo: kaì e\gnwérisa au\to_v toè o"nomaé sou kaì gnwròsw i$na h| a\gaéph h$n h\gaéphsaév me e\n au\to_v +& ka\gwè e\n au\to_v (e ho reso noto a loro il tuo nome e (lo) renderò noto, perché l’amore con cui hai amato me in essi sia ed io in essi). Esso è l’ultimo testo in cui si parla dell’amore del Padre verso Gesù: Gesù stesso evoca l’amore del Padre verso di Lui ed esprime il suo desiderio che quell’amore, con cui il Padre lo ha amato (h$n h\gaéphsaév me) sia nei discepoli (e\n au\to_v +&) e Lui in essi (ka\gwè e\n au\to_v). Questo è lo scopo (i$na) per cui Gesù ha manifestato (e\gnwérisa) loro l’amore del Padre e lo manifesterà ancora (gnwròsw)85. Emerge in questo testo il seguente schema: Il Padre ha amato Gesù; Gesù ha reso noto ai discepoli e renderà ancora noto il nome del Padre, Perché quell’amore sia anche in essi e Lui in essi. Il punto di partenza è l’amore del Padre verso Gesù; Egli rende noto ai discepoli quell’amore, perché esso raggiunga anche loro, li coinvolga e, con esso, coinvolga in loro anche Gesù86. Caba specifica che l’amore del padre nei credenti è mediante la rivelazione di Gesù, cfr. J. Caba, Cristo ora al Padre. Estudio exegético-teológico de Jn 17, Madrid 2007, 523. 85
Thüsing spiega che, attraverso la manifestazione della gloria, l’amore con cui il Padre ha amato Gesù, dev’essere nei discepoli, cfr. W. Thüsing, Die Erhöhung und Verherrlichung Jesu im Johannesevangelium, Münster 1959, 215. 86
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Lo schema però può essere ulteriormente ampliato, tenendo conto anche del precedente v. 25, dove leggiamo : «Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto (e"gnw), ma questi hanno conosciuto (e"gnwsan) che tu mi hai mandato (a\peésteilav)». In questo testo Gesù contrappone i discepoli al mondo. Questo non è pervenuto ad alcuna conoscenza del Padre (e"gnw)87; i discepoli invece vi sono pervenuti (e"gnwsan)88. Direttamente però i discepoli non sono pervenuti alla conoscenza del Padre, bensì al fatto che Egli ha mandato Gesù. Attraverso questa conoscenza, essi potranno pervenire alla conoscenza del Padre. Come essi perverranno a tale conoscenza, è indicato nel seguente v. 26, il nostro, che pare delineare una breve storia che sembra intrecciarsi con il precedente v. 25. Essa parte dal fatto che il Padre ha amato Gesù e lo ha mandato nel mondo. Ai discepoli Gesù ha fatto conoscere (e\gnwérisa) e farà conoscere (gnwròsw) il nome del Padre. Questi hanno compreso che Dio lo ha mandato ed hanno creduto in Lui. In questo modo Gesù li ha coinvolti nell’amore del Padre ed Egli rimane in loro. Riconosciamo che questa nostra lettura dei vv. 25-26 è piuttosto generica ed emergono diversi problemi che però al nostro scopo non interessa approfondire ulteriormente o dare ad essi una risposta. É sufficiente perciò soltanto averli indicati: come Gesù manifesterà il nome del Padre? Come i discepoli perverranno alla conoscenza che il Padre lo ha mandato? Come, attraverso tale manifestazione e conoscenza, Gesù potrà trasmettere loro l’amore con cui il Padre ha amato Lui? Come egli potrà rimanere nei discepoli? In relazione al nostro scopo, notiamo soltanto che in 17,26 si afferma l’evento dell’amore del Padre verso Gesù, l’evangelista però non spiega in che modo il Padre lo ha amato. Tuttavia possiamo stabilire una relazione tra i due verbi, nel contesto il cui soggetto è il Padre e il cui oggetto è Gesù: il verbo a\peésteilav (hai mandato) (v. 25) e il verbo h\gaéphsav (hai
87 L’aoristo e"gnw, riferito al mondo, deve avere un valore completivo: in nessun modo il mondo è pervenuto, né ormai potrà più pervenire alla conoscenza del Padre. 88 L’aoristo e"gnwsan, riferito ai discepoli, deve avere invece un valore ingressivo: i discepoli sono pervenuti ad una conoscenza.
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amato) (v. 26), entrambi all’aoristo89. Emerge allora la domanda alla quale tenteremo di dare una risposta in seguito: se c’è una relazione, e qual è, tra il fatto che il Padre ha amato Gesù e che lo ha mandato. 2.2.4. Rilettura sintetica dei testi del cap 17 Prescindendo dal globale sviluppo strutturale e tematico del cap 17, più complesso nella sua articolazione, ma che esula dal nostro lavoro, i vv. 23.24.26, dove leggiamo, complessivamente, quattro volte il verbo a\gapaéw e una volta il sostantivo a\gaéph, sono collocati nella breve unità letteraria dei vv. 22-2690. Nel v. 23 notiamo due particolari aspetti tematici. Anzitutto sono accostati due oggetti dell’unico soggetto che ama, il Padre: Gesù e i discepoli; pur con una certa subordinazione: i discepoli infatti sono oggetto di amore come lo è il Figlio. L’amore del Padre verso Gesù e verso i discepoli ha determinato l’invio (a\peésteilav) del Figlio da parte del Padre. Il Figlio deve Possiamo stabilire tra i due versi la seguente relazione alternata: v 25: «Padre giusto, il mondo […], ma questi hanno conosciuto (e"gnwsan) che tu mi hai mandato (a\peésteilav)» ; v. 26 : «e ho reso noto (kaì e\gnwérisa) a loro il tuo nome e (lo) renderò noto, perché l’amore con cui mi hai amato (h\gaéphsaév me) […]. Questo schema stabilisce una relazione, ovviamente da approfondire, tra l’espressione «mi hai mandato (me a\peésteilav)» e l’altra «mi hai amato (h\gaéphsaév me)». Tale relazione è confermata dal seguente schema concentrico : me 89
a\peésteilav h\gaéphsaév me.
Possiamo infatti stabilire, tra i due versi, la seguente relazione strutturale e tematica: v. 22 v. 26 thèn doéxan h| a\gaéph 90
h£n h£n deédwkaév moi h\gaéphsaév me deédwka e\n au\to_v au\to_v +&
Si stabilisce in questo modo una relazione tra “la gloria” e “l’agape”, dalla quale però prescindiamo in questo lavoro.
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realizzare un’opera di intima comunione tra i discepoli, Lui e il Padre91: Lui nei discepoli (e\gwè e\n au\to_v) e il Padre in Lui (suè e\n e\moò)92. Da questa intima comunione scaturiscono due conseguenze: i discepoli sono resi perfetti nell’unità (teteleiwmeénoi ei\v e$n) e il mondo deve pervenire e permanere (ginwésk+) nella conoscenza che il Padre ha mandato Gesù. Come abbiamo già indicato, in relazione al nostro tema, rimangono tre aspetti tematici da chiarire ulteriormente: qual è la relazione tra l’amore del Padre verso Gesù e quello verso i discepoli? L’amore del Padre verso i discepoli si concretizza nel fatto di avere mandato il Figlio, ma in che cosa consiste e si concretizza l’amore del Padre verso il Figlio ? Qual è la relazione tra l’amore del Padre verso il Figlio e il fatto di averlo mandato nel mondo? Il v. 24 si presenta relativamente più facile. Dopo il vocativo Paéter, segue uno sviluppo incluso tra due espressioni identiche deédwkaév moi (hai dato a me). Entrambe le espressioni sono precedute da un pronome relativo, rispettivamente un accusativo singolare neutro (o$) e un accusativo singolare femminile (h$n). Quest’ultimo pronome è facilmente identificabile: esso è riferito al precedente termine doéxan93; rimane indeterminato invece il primo pronome neutro o$94. Subito, mediante la particella o$ti, è introdotta una proposizione causale; in essa Gesù, o l’evagelista per Lui, dichiara che l’amore del Padre verso il Figlio è anteriore alla fondazione 91 L’espressione principale, nel v. 23, è e\gwè e\n au\to_v kaì suè e\n e\moò. Seguono quattro proposizioni dipendenti, introdotte, le prime due, in maniera subordinata, mediante la duplice particella i$na, e, le altre due, in maniera coordinata, mediante l’unica particella o$ti: e\gwè e\n au\to_v kaì suè e\n e\moò, i$na w&sin teteleiwmeénoi ei\v e$n
ina gnwés+ o| koésmov o$ti sué me a\peésteilaav kaì h\gaéphsav au\touév kaqwèv e\meè h\gaéphsav
Possiamo notare il parallelismo tra le due espressioni: e\gwè kaì suè 92
e\n au\to_v e\n e\moò
93 Possiamo notare la relazione strutturale tra le due espressioni: thèn doéxan h£n
thèn e\mhén deédwkaév moi 94
Abbiamo già indicato il problema testuale che si pone a suo riguardo.
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del mondo (proè katabolh%v koésmou) e, perciò, affonda le sue radici nella stessa eternità di Dio. Soprattutto nel v. 24, come abbiamo già prima indicato, l’evangelista stabilisce una relazione tra l’amore eterno del Padre verso Gesù e il fatto che a Lui il Padre ha dato due cose: un oggetto indeterminato, espresso con un pronome neutro (o$) e la gloria (thèn doéxan). Emergono così, in relazione al nostro tema, nel v. 24, due problemi particolari: che cos’è anzitutto quel pronome neutro al quale Gesù ha dato 95? e qual è la relazione tra l’amore eterno del Padre (h\gaéphsav) e il fatto che gli ha donato (deédwkav)96. Nel v. 26, alla fine della sua preghiera, Gesù dichiara al Padre di avere reso noto (e\gnwérisa) il suo nome e di render(lo ancora) (gnwròsw), e conclude indicando lo scopo per cui lo ha rivelato: «perché l’amore (i$na h| a\gaéph) con cui hai amato me (h£n h\gaéphsaév me) sia in essi (e\n au\to_v +&) ed io in essi (ka\gwè e\n auto_v)». In quest’ultima espressione sembra essere contenuta una storia, di cui l’evangelista indica l’inizio e la fine. L’inizio è l’amore del Padre; la fine, o il punto culmine, è l’amore del Padre nei discepoli e Gesù stesso in loro97. Anche in questo testo, come abbiamo già
Si tratta evidentemente di persone umane, come emerge dal seguente pronome plurale maschile (ka\ke_noi) e dai pronomi analoghi nei versi precedenti (au\to_v-au\touév). 95
È possibile stabilire una relazione a incastro tra il v. 23 e il v. 24, il v. 23 nel v. 24, nel seguente modo: v. 24: h£n deédwkaév moi v. 23: o$ti sué me a\peésteilav v. 23: kaì h\gaéphsav au\touèv kaqwèv e\meè h\gaéphsav v. 24: o$ti h\gaéphsaév me proè katabolh%v koésmou. Rileggendo all’inverso questi elementi, otteniamo una coerente storia progressiva: il Padre ha amato il Figlio fin dall’eternità; come ha amato Lui, ha amato anche i discepoli; in seguito a tale amore verso i discepoli ha mandato il Figlio nel mondo (cfr. 3,16); in seguito a ciò il Figlio ha ottenuto una gloria nella quale sono coinvolti anche quelli che il Padre gli ha dato. Restano però ancora i problemi sopra indicati. 96
97 Possiamo stabilire un confronto tra questo testo e il nostro di 15,9-19: 15,9-10 17,26
kaqwèv h\gaèphseén me o| Pathér meneòte e\n t+% a\gaép+ mou e\n au\to_v
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h| a\gaéph h£n h\gaéphsaév me +& ka\gwè e\n auto_v
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osservato, troviamo una relazione tra l’amore con cui il Padre ha amato Gesù, espressa nel v. 25, e il fatto che lo ha inviato, espresso nel v. 2698. 2.3. Rilettura sintetica dei testi con a\gapaéw il verbo all’aoristo In questa rilettura sintetica distinguiamo tra gli usi della prima parte del vangelo, i cc. 1-12, e quelli della seconda parte, i cc. 13-21. Nella prima parte il verbo a\gapaéw, all’aoristo, si legge soltanto tre volte, in 3,16, in 3,19 e in 12,43; nella seconda parte il verbo a\gapaéw, all’aoristo, si legge invece, prescindendo dal participio aoristo di 13,1 (a\gaphésav), nove volte, in 13,1.23; 15,9 (bis).12; 17,23 (bis).24.26. 2.3.1. Gli usi dei cc. 1-12 Come abbiamo già indicato, in questa prima parte il verbo a\gapaéw, all’aoristo, si legge tre volte. Il primo testo, in assoluto, è 3,16, il cui soggetto è Dio (o| qeoév), a riguardo del quale Gesù dichiara che «così amò (h\gaéphsen) il mondo che diede (w$ste […] e"dwken) il suo Figlio Unigenito». L‘amore di Dio per il mondo trova attuazione concreta nel dono dell’Unigenito99. Ciò indica, da una parte, la grandezza dell’amore di Dio, colmabile soltanto da tale dono; inoltre indica anche il carattere definitivo di tale amore, perché mai Dio si è ritirato questo dono: l’Unigenito è sempre con gli uomini. Emerge tra i due testi una complementarietà : in 15,9-10 il culmine del cammino dei discepoli è il loro rimanere nell’amore di Gesù; il culmine del loro cammino, in 17,26 è ancora l’amore del Padre e Gesù stesso che rimane in loro. 98
Riproponiamo la relazione tra le due espressioni già indicata: v. 25: me a\peésteilav v. 26: h\gaéphsaév me
99 Nota Schnackenburg che, scrivendo e"dwken in 3,16, Giovanni pensa in primo luogo all’invio del Figlio nel mondo, con cui però è dato l’avvio al dramma della morte in croce, cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, I, cit., 568. Così anche Brown secondo cui il verbo si riferisce certo all’incarnazione, ma anche alla crocifissione; nello sfondo c’è Is 53,12, cfr. R.E. Brown, Giovanni, trad. it., Assisi 19793, 176.
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Gli altri due testi sono 3,19 e 12,43, il cui soggetto non è più Dio, bensì gli uomini. In 3,19 leggiamo che «amarono (h\gaéphsan) gli uomini più la tenebra che la luce»; in 12,43, a riguardo di “molti capi (e\k tw%n a\rcoéntwn polloò)”, che pur credettero in Gesù, ma che non confessavano per non essere cacciati dalla sinagoga, si dice che «amarono (h\gaéphsan) la gloria degli uomini più che la gloria di Dio». Possiamo notare come questi due testi, dopo il primo di 3,16, si trovano, rispettivamente, all’inizio e alla fine di tutti gli usi del verbo nella prima parte del vangelo (cc. 1-12)100. Possiamo concludere che, di fronte all’amore di Dio per il mondo, avendo amato le tenebre e non la luce (3,19) e più la gloria degli uomini che non quella di Dio, gli uomini hanno risposto negativamente, aprendosi però, in questo modo, la strada ad un giudizio di condanna (kròsiv)101. 2.3.2. Gli usi dei cc. 13-21 Gli usi di questa seconda parte appaiono più complessi. Possiamo anzitutto notare i due testi, in parte identici, di 13,34 e di 15,12, dove, rispettivamente, Gesù promulga102 e definisce103 il suo comandamento Possiamo proporre il seguente schema, che sembra studiato da parte dell’evangelista: 3,16: «così amò (h\gaéphsen) il mondo da dare (w$ste […] e"dwken) il suo Figlio Unigenito». 3,19: «amarono (h\gaéphsan) gli uomini più la tenebra che la luce»; 3,35: «Il Padre ama (a\gapç%) il Figlio»; 8,42: «Se Dio fosse vostro Padre, amereste (h\gapa%te a"n) anche me»; 10,17. «Per questo il Padre mi ama (a\gapç%)»; 11,5: «amava (h\gaépa) Gesù Marta […]»; 12,43: «amarono (h\gaéphsan) la gloria degli uomini che la gloria di Dio». I quattro versi intermedi si strutturano in maniera alternata. Il primo e il terzo (3,35; 10,17) si relazionano per identità tematica: l’amore del Padre verso il Figlio espresso all’indicativo presente (a\gapç%); il secondo e il quarto (8,42; 11,5) si relazionano per contrapposizione: all’assenza di amore verso Gesù si contrappone il suo verso Marta, Maria e Lazzaro. 100
101 102 103
Cfr. 3,19.
Cfr. 13,34: «un comandamento (e\ntolhén) nuovo dò (dòdwmi) a voi».
Cfr. 15,12: «questo è (au$th e\stòn) il mio comandamento (h| e\ntolhè h| e\mhé)».
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(e\ntolhé). Nell’espressione i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v (che vi amiate a vicenda come io amai voi) i due testi sono identici. Il testo di 13,34 si trova tra 13,1 e 15,9-10; il testo di 15,12 si trova inoltre tra 15,9-10 e 17,23-26. Nei tre testi di 13,1; 15,9-10 e 17,23-26 abbiamo una diversità di soggetti ed oggetti. In 13,1 il soggetto del verbo h\gaéphsen, alla terza persona singolare, è esclusivamente Gesù, come oggetto esclusivo sono i discepoli (au\touév): avendo amato i suoi che nel mondo, prima della festa di pasqua Gesù li amò a compimento (ei\v teélé ov h\gaéphsen), portò cioè a compimento la sua opera di amore verso di loro. In 15,9 il soggetto non è esclusivamente Gesù, ma è anche il Padre. Gesù è insieme oggetto e soggetto di amore. È oggetto di amore in relazione al Padre (kaqwèv h\gaéphseén me o| Pathér); è invece soggetto di amore in relazione ai discepoli (ka\gwè u|ma%v h|gaéphsa). Egli riceve amore da parte del Padre e, a sua volta, lo dona ai discepoli. In 17,23-26 infine l’unico soggetto che ama è il Padre. L’oggetto fondamentalmente è uno: Gesù, oggetto dell’amore del Padre fin dall’eternità; sul modello del suo amore verso Gesù, il Padre ama anche in discepoli. Benché in maniera subordinata, gli oggetti dell’amore del Padre sono così due: Gesù e i discepoli. Questi tre testi possono essere letti sia in maniera progressiva che in maniera inversa. In maniera progressiva è suggerito un cammino ascendente: da Gesù (13,1), passando attraverso di Lui si giunge al Padre (15,9); si è oggetto del suo amore (17,23). In maniera inversa invece è suggerito un cammino discendente: Il Padre ama (17,23-26); trasmette il suo amore attraverso Gesù (15,9-10); Gesù ama (13,1). L’amore di Gesù verso i discepoli poi non si esaurisce in se stesso, ma si apre all’amore vicendevole: i discepoli infatti debbono amarsi come Gesù li ha amati. Anche gli usi del verbo a\gapaéw all’aoristo, nella seconda parte del vangelo, sembrano strutturati secondo uno schema ordinato e organico, che possiamo proporre nel seguente modo: (13,1): ei\v teélov h\gaéphsen au\touév, (13,34): i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v (15,9): kaqwèv h\gaéphseén me o| Pathér ka\gwè u|ma%v h|gaéphsa
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(15,12):
Attilio Gangemi i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v aqabolh%v koésmou; (17,24): h\gaéphsaév me proè k; (17,23): h\gaéphsav au\touèv kaqwèv e\meè h\gaéphsav; (17,26): h| a\gaèph h£n h\gaéphsav104.
2.3.3. Sintesi delle due parti Mettendo insieme le due parti, possiamo notare anzitutto una inclusione tematica. Il primo testo dell’amore del Padre è riferito al mondo e si concretizza nel dono dell’Unigenito (3,16); l’ultimo testo è 17,23-26, dove si parla ancora dell’amore del Padre, riferito però non più al mondo bensì a Gesù e, sul suo modello, ai discepoli. Le due parti appaiono tematicamente opposte ma anche complementari. La prima parte presenta uno sviluppo negativo: all’amore di Dio il mondo ha opposto un rifiuto: gli uomini infatti hanno preferito le tenebre ed hanno cercato la gloria degli uomini. Nella seconda parte invece il punto di partenza va ricercato in 17,24, dove si parla dell’amore eterno del padre verso il Figlio. Tale amore, come appare da 17,23, ha determinato l’amore verso i discepoli, che si è concretizzato nell’invio del Figlio. Gesù, oggetto dell’amore del Padre, ha amato, a sua volta, i discepoli (15,9; 13,1) e, da questo amore, è scaturito il comando dell’amore vicendevole (13,34; 15,12). Lo schema può essere ulteriormente ampliato tenendo conto dei testi di 14,15-31, dove si parla dell’amore dei discepoli verso Gesù e dell’amore di Gesù verso il Padre. Questi testi stanno in relazione con 16,27, dove però non si legge il verbo a\gapaéw bensì il verbo fileéw. Si ottiene allora il seguente schema: (13,1): ei\v teélov h\gaéphsen au\touév, (13,34): i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v (14,14-31): l’amore (a\gapaéw) dei discepoli a Gesù e di Gesù al Padre; (15,9): kaqwèv h\gaéphseén me o| Pathér ka\gwè u|ma%v h|gaéphsa (15,12): i$na a\gapa%te a\llhélouv kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v (16,27): l’amore (pefilhékate) dei discepoli verso Gesù; (17,23): h\gaéphsav au\touèv kaqwèv e\meè h\gaéphsav; (17, 24): h\gaéphsav meéè proè kaqabolh%v koésmou; (17,26): h| a\gaèph h£n h\gaéphsav. 104
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L’epilogo, per i discepoli, è contenuto in 15,10: essi pervengono e permangono nell’amore di Gesù. É contenuto anche in 15,14, dove Gesù dichiara che essi saranno suoi amici (fòloi moué) se faranno quanto Egli comanda loro; ma è contenuto anche in 17,26 dove Gesù, concludendo, chiede al Padre che l’amore con cui Egli ha amato Lui sia nei discepoli e Lui in loro. 3. I testi con il verbo a\gapaéw all’indicativo presente I testi con il verbo a\gapaéw all’indicativo presente, in cui Gesù appare oggetto dell’amore del Padre, sono specificamente due, entrambi nella prima parte del vangelo, 3,35 e 10,17. In 3,35 il soggetto logico, probabilmente Giovanni Battista, a riguardo di Gesù, dichiara: «Il Padre ama (a\gapç%) il Figlio e tutto (paénta) ha dato (deédwken) nella sua mano»; in 10,17 poi Gesù stesso dichiara: «per questo il Padre mi ama (a\gapç%), perché pongo la mia vita per riprenderla di nuovo». 3.1. Il testo di 3,35 Il testo di 3,35 si colloca nel contesto più ampio dei vv. 31-36; in esso sono contenute delle parole che, senza alcun cambiamento di soggetto, si ricollegano a quelle chiaramente pronunziate da Giovanni nei vv. 27-31; donde deduciamo che si tratta dello stesso soggetto. Più direttamente si può individuare un contesto nelle parole dei vv. 3336a, che, in maniera strutturata, possono essere proposte nel seguente modo: 1. «chi ha accolto (o| labwén) di Lui la testimonianza […]; 2. Colui che mandò (a\peésteilen) Dio 3. Le parole di Dio dice (lale_): non infatti con misura dà (dòdwsin) lo Spirito; 4. Il Padre ama (a\gapç%) il Figlio 5. E tutto ha dato (deédwken) nella sua mano. 6. Chi crede (o| pisteuéwn) nel Figlio ha vita eterna». Il primo e il sesto elemento si relazionano letterariamente perché entrambi sono espressi con un participio sostantivato e, inoltre, temati-
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camente, riguardano gli uomini che accolgono la testimonianza di Gesù: avere accolto e credere. Il secondo e quinto elemento si relazionano perché entrambi descrivono un’opera del Padre verso il Figlio, espressa con un tempo storico, rispettivamente un aoristo (a\peésteilen) ed un perfetto (deédwken)105. Il terzo e quarto elemento, infine, si relazionano, tematicamente, in certa maniera dialogica: stanno a confronto le opere del Figlio, che dice le parole di Dio e dà, ma non in misura, lo Spirito, e un’opera del Padre, che ama il figlio; dal punto di vista letterario poi i due elementi si relazionano per il fatto che in entrambi le forme verbali sono al presente, rispettivamente lale_/dòdwsin e a\gapç%. Il primo e sesto elemento sono caratterizzati da una forma di participio sostantivato; il secondo e il quinto da un tempo storico; il terzo e il quarto infine da una forma verbale al presente106. Il perfetto deédwken, che esprime una azione passata ma che continua al presente, deve cronologicamente collocarsi dopo l’aoristo a\peésteilen che, in se stesso, sembra avere un valore completivo: indica perciò una azione già conclusa nel passato. Delle azioni al presente, quelle che continuano meglio l’azione del Padre espressa al perfetto (deédwken), sono quelle comTroviamo qui la stessa relazione, all’inverso, tra il verbo a\peésteilen e il verbo deédwken, al perfetto, che abbiamo già indicato per 17,24. Possiamo stabilire infatti la se105
guente relazione schematica concentrica: 3,35: a\peésteilen
deédwken 17,24: deédwkav / deédwkav a\peésteilav In 3,35 il verbo deédwken ha un oggetto generico: paénta, i due verbi deédwkav di 17,24 hanno invece due oggetti specifici: gli uomini indicati con il pronome relativo neutro (o$) e la gloria, indicata con il sostantivo e un pronome relativo neutro (thèn doéxan thèn e\mhén, h$n). Il
Padre ha mandato il Figlio e gli ha dato tutto: resta da chiarire tale passaggio dall’invio al dono. 106
Possiamo proporre il seguente schema:
o| labwén participio sostantivato a\peésteilen tempo storico lale_ forma al presente a\gapç% forma al presente deédwken tempo storico o| pisteuéwn participio sostantivato.
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piute dal Figlio: il Padre gli ha dato tutto nelle mani107 e il Figlio esercita tale potere dicendo le parole di Dio e donando abbondantemente lo Spirito. Il Padre, di conseguenza, lo ama. A riguardo di questo testo le riflessioni degli interpreti sono molteplici ma sostanzialmente coincidono: il potere che il Padre ha dato al Figlio poggia su una relazione di amore108. Barrett109 poi specificamente osserva che la relazione tra il Padre e il Figlio, che, rivestito di autorità, obbedisce al Padre, è un fatto di amore. Brown110 vede in Mt 11,27 e Lc 10,22 uno stretto parallelo. Spiega Carson111 che, a motivo del suo amore per il Figlio, il Padre gli ha dato lo Spirito senza limiti ed ha posto ogni cosa nelle sue mani; pure la storia redentiva trova la sua ultima fonte nella relazione di amore tra Padre e Figlio. Secondo Leon-Dufour112 l’amore del Padre per il Figlio è l’ultima parola della rivelazione. L’azione del Padre che ama sembra essere allora il culmine di un cammino che prevede le seguenti tappe: il Padre mandò (a\peésteilen) il Figlio; ha dato (deédwken) ogni cosa nelle sue mani; il Figlio dice (lale_) le parole di Dio e dà (dòdwsin) lo Spirito; il Padre lo ama (a\gapç%). In questo testo così l’amore del Padre verso il Figlio non sta all’inizio di una storia, bensì al suo compimento. Nel testo restano aperti però alcuni problemi; per quel che riguarda il nostro scopo, ne indichiamo soltanto due: quando il Padre “ha dato” tutto nelle mani di Gesù? Perché Egli lo ama? Osserva Feuillet che l’azione del Padre di mettere tutto nelle mani del figlio, richiama Dan 7,13-14, cfr. A. Feuillet, Le mystère de l’amour divin dans la théologie johannique, Paris 1972: 41. 107
108 Cfr. F.F. Ellis, The Genius of John, cit., 63; H.J. Holtzmann, Evangelium des Johannes, cit., 98; L. Morris, The Gospel according to John, cit., 247; U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, Leipzig 1998, 82; H. Van Den Bussche, Giovanni, cit. 204; U. Wilckens, Das Evangelium nach Johannes, cit., 77; Th. Zahn, Das Evangelium des Johannes, cit., 229. 109 110 111
Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 190. Cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., 214.
Cfr. D.A. Carson, The Gospel according to John, cit., 214.
Cfr. X. Leon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, I (capp. 1-4) Cinisello Balsamo 1990, 443. 112
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3.2. Il testo di 10,17-18 In questo testo, che fa parte della descrizione più ampia del buon pastore nel cap. 10, possiamo distinguere sei espressioni, relazionate in maniera concentrica: 1. diaè tou%toé me o| pathèr a\gapç% 2. o$ti e\gwè tòqhmi thèn yuchén mou i£na paélin laébw au\thén: 3. ou\deìv ai"rei au\thèn a\p’e\mou% 4. a\ll’e\gwè tòqhmi au\thèn a\p’e\mautou% 5. e\xousòan e"cw qe_nai au\thèn kaì e\xousòan e"cw paélin labe_n au\thén 6. tauéthn thèn e\ntolhèn e"labon paraè tou% patroév mou Iniziando dal centro, stanno in relazione, sia strutturale che letteraria, le espressioni centrali, specificamente la terza e la quarta113. Stanno pure in relazione, sia strutturale che letteraria, la seconda e quinta espressione114. Si relazionano infine, per affinità letteraria, la prima e la sesta espres113
Possiamo stabilire tra le due espressioni la seguente relazione strutturale:
ou\deìv a\ll’e\gwè ai"rei tòqhmi au\thèn au\thèn a\p’e\mou% a\p’e\mautou%
Le due espressioni inoltre hanno lo stesso oggetto pronominale au\thén e analogo complemento costruito con a\poé e il genitivo pronominale alla prima persona. Le due espressioni inoltre si relazionano in un rapporto di contrapposizione, determinata dalla particella a\llaé. 114 Possiamo stabilire tra le due espressioni il seguente confronto parallelo: II: V:
o$ti e\gwè e\xousòan e"cw tòqhmi qe_nai thèn yuchén mou au\thèn i£na kaì e\xousòan e"cw paélin paélin laébw labe_n au\thén: au\thén
Nelle due espressioni leggiamo lo stesso verbo, seguito da un oggetto, rispettivamente un sostantivo (thèn yuchén mou) e pronome (au\thén); in entrambe le espressioni troviamo l’avverbio paélin, una forma di aoristo del verbo lambaénw, rispettivamente un congiuntivo (laébw) ed un infinito (labe_n), seguito dallo stesso oggetto pronominale (au\thén). Nella prima espressione si indica il compimento del fatto; nella seconda espressione, mediante il termine e\xousòan, si indica invece il diritto di compierlo.
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sione115. Quest’ultima relazione è particolarmente importante sia perché in entrambe le espressioni leggiamo un verbo diretto, rispettivamente al presente (a\gapç%)116 e all’aoristo (e"labon), sia perché in entrambe è menzionato il Padre117. Dal momento che i due verbi diretti sono il primo (a\gapç%) all’indicativo presente e il secondo all’indicativo aoristo (e"labon), si leggono meglio all’inverso: Gesù ha compiuto nel passato l’azione di accogliere (e"labon) il comando del Padre118; questi, di conseguenza, tuttora, lo ama (a\gapç%). Secondo Beasley-Murray119 l’amore del Padre per il Figlio è legato alla morte per il mondo; questo evento però non è presentato come l’origine dell’amore, ma come la sua suprema manifestazione. Spiegano Hoskyns-Davey120 che l’amore del Padre è diretto verso il Figlio perché, mediante la sua morte volontaria, la sua obbedienza, è stata compiuta 115 Confrontiamo le due espressioni: I: VI: diaè tou%toé
me tauéthn thèn e\ntolhèn o| pathèr e"labon a\gapç% paraè tou% patroév mou Dopo le parole diaè tou%toé, nella prima frase seguono un oggetto (meé), un soggetto (o| pathér) e un verbo (a\gapç%); nella seconda frase invece il soggetto è sottinteso; troviamo però un oggetto (tauéthn thèn e\ntolhén), il verbo (e"labon) e un complemento di origine (paraè tou% patroév mou).
Westcott preferisce però, in 10,17, il verbo al perfetto, cfr. B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, cit., 150. 116
117
Possiamo cogliere pure, tra le due espressioni la seguente relazione concentrica:
o| pathèr a\gapç% e"labon paraè tou% patroév mou.
Si determina tra le due espressioni anche un rapporto dialogico: Gesù ha ricevuto, e anche accolto, dal Padre, il Padre lo ama. Strachan osserva che si richiama, almeno parzialmente Mc 8,31, cfr. R. H. StraThe Fourth Gospel, its Significance and Environment, London 19463, 227.
118
chan,
119 120
Cfr. G.R. Beasley-Murray, John, Waco 1987, 171.
Cfr. E.C. Hoskyns - F.N. Davey, The Fourth Gospel, cit., 379.
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la salvezza degli uomini. Morris121 osserva che tale amore del Padre è il riconoscimento, da parte sua, della perfetta armonia che si realizza nell’accettazione della sua volontà. Altri interpreti evidenziano, a riguardo dell’amore del Padre menzionato in 10,17, altri aspetti particolari: l’amore del Padre per il Figlio è essenziale per la vita eterna122; il Padre ama il Figlio per la sua disponibilità a fare la sua volontà123; lo ama perché pone la vita124, per l’obbedienza e la carità che lo anima125. Ellis126 osserva che, in questo testo si rifiuta la prospettiva giudaica che Gesù sia morto come un criminale. Spiega Schnackenburg127 che l’amore del Padre è qui menzionato per mettere in luce l’opera del Figlio. Le tre espressioni intermedie sono tematicamente legate e la seguente spiega la precedente; esse possono essere lette in maniera inversa: Gesù ha il potere (e"xousòa) di porre la vita per poi riprenderla; di conseguenza nessuno gliela toglie, ma lui la pone da se stesso. Al contrario, leggendo in maniera progressiva, possiamo proporre il seguente sviluppo: Gesù pone la vita per poi riprenderla; nessuno gliela toglie ma lui la pone da se stesso; la pone perché ha il potere sia di porla che di riprenderla. Tale potere affonda le sue radici nel comando (e\ntolhé) che il Padre gli ha dato. Possiamo proporre allora il seguente sviluppo tematico: 1. Il Padre ha dato a Gesù un comando (e\ntolhén) ed Egli lo ha accolto (e"labon): si tratta del comando di porre (qe_nai) la vita (thèn yuchén) per poi riprenderla di nuovo (i$na paélin laébw); 2. Il comando ricevuto dal Padre conferisce a Gesù, davanti agli uomini, il potere (e"xousòan) di porre la vita; 3. Egli la pone da se stesso (a\p’e\mautou): nessuno gliela toglie; 121 122 123 124
Cfr. L. Morris, The Gospel according to John, cit., 512.
Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 313. Cfr. F.F. Bruce, The Gospel of John, Grand Rapids 1984, 228. Cfr. M. Mullins, The Gospel of John, Dublin 2003, 250.
Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, cit., 292. In questo senso, più o meno, si esprimono D.A. Carson, The Gospel according to John, cit., 388; B. Lindars, The Gospel of John, cit., 364. 125
126 127
502.
Cfr. F.F. Ellis, The Genius of John, cit., 169.
Cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, II, trad. it., Brescia 1977,
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4. Egli la pone (tòqhmi) per poi riprenderla (i£na paélin laébw) di nuovo; 5. Per questo il Padre lo ama (a\gapç%). 3.3. Relazione tra 3,35 e 10,17 I due testi hanno in comune la dichiarazione che il Padre ama Gesù. Il soggetto è identico: o| pathér, come pure identico è il verbo: a\gapç%; diverse invece sono le determinazioni a cui si accompagnano i due testi. Il testo di 3,35 è unito, legato mediante la congiunzione kaò, alla precisazione che il Padre ha dato tutto nelle mani del Figlio; quello di 10,17 invece alla causale, introdotta mediante la particella o$ti, che Gesù pone la sua vita per prenderla di nuovo. Otteniamo così il seguente schema: 3,35: o| pathèr a\gapç% toèn ui|oné
kaì paénta deédwken e\n t+% ceirì au\tou%
10,17: diaè tou%toé me o| pathèr a\gapç%
o$ti e\gwè tòqhmi thèn yuchén mou i£na paélin laébw au\thén: La prima espressione, quella di 3,35, kaì paénta deédwken e\n t+% ceirì au\tou%, appare come una conseguenza: il Padre ha dato tutto nelle mani
del suo Figlio. Tuttavia, come abbiamo già osservato, il verbo al perfetto (deédwken) deve esprimere una azione anteriore a quella di amare, al presente (a\gapç%): il Padre ha dato tutto in mano al Figlio e lo ama. La seconda espressione, quella di 10,17, o$ti e\gwè tòqhmi thèn yuchén mou i£na paélin laébw au\thén, è una causale: indica cioè il motivo per cui il Padre ama il Figlio. Egli lo ama perché pone la sua vita per prenderla poi di nuovo, ma, in ultima analisi, lo ama perché ha accolto il suo comandamento. La relazione tra le due espressioni che indicano l’amore del Padre verso il Figlio pone il problema sulla relazione tra le due espressioni che ad esse si uniscono, specificamente il fatto che il Padre ha posto tutto nelle sue mani e il fatto che Gesù pone la sua vita per prenderla poi di nuovo. Queste ultime due espressioni, mentre concordano nella loro relazione all’amore del Padre, divergono nella particolare indole. La seconda espressione, in 10,17, contiene la causa per cui il Padre ama il Figlio: il fatto di avere accolto ed attuato il suo comandamento; la prima invece, quella di
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3,35, dovrebbe esprimere, come abbiamo detto, la conseguenza: il Padre ama il Figlio e, di conseguenza, gli ha messo tutto nelle mani. Abbiamo però già osservato che il perfetto deédwken sembra essere anteriore al verbo presente a\gapç%: il Padre ha dato (deédwken) tutto nelle mani del Figlio e lo ama (a\gapç%). Al contrario, avere messo tutto nelle mani può costituire la risposta del Padre al fatto che il Figlio ha accolto e compiuto il suo comandamento. Il verbo può esprimere e riassumere tutta una vicenda che comprende sia l’accoglienza da parte del Figlio del comandamento del Padre, sia anche la risposta del Padre di avere messo tutto nelle sue mani. Possiamo allora ricostruire nel seguente modo: 1. Il Padre ha dato al Figlio il comando di porre la propria vita per poi riprenderla di nuovo; 2. Il Figlio ha posto la sua vita; 3. Il Padre ha posto tutto nelle sue mani; 4. Il Padre lo ama. 3.4. Le specifiche relazioni di 3,35 e di 10,17 Possiamo però andare oltre nella nostra ricerca e constatare che i due testi in cui si parla dell’amore del Padre verso Gesù con il verbo a\gapaéw al presente (a\gapç%), trovano delle relazioni nell’ambito del vangelo stesso. Il testo di 3,35 richiama 13,3; il testo di 10,17 richiama invece 14,15-21. 3.4.1. Relazione di 10,17 a 14,15-21 In 14,15 leggiamo l’espressione: «se mi amate (e\an\ a\gapa%teé me), i miei comandamenti (taèv e\ntolaèv taèv e\maév) osserverete (thrhésete)». I discepoli debbono concretizzare il loro amore verso Gesù mediante l’osservanza dei suoi comandamenti. Nel v. 21 Gesù ancora continua. «chi ha i miei comandamenti (taèv e\ntolaév mou) e li osserva (kaì thrw%n au\taèv), questi è colui che mi ama (o| a\gapw%n me)»128. 128 Le due espressioni sono complementari e si relazionano anche strutturalmente. Possiamo stabilire infatti la seguente relazione concentrica e alternata insieme: v. 15: e\anè a\gapa%teé me
taèv e\ntolaèv taèv e\maèv
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Nello stesso v. 21 però Gesù ancora continua: «chi mi ama (o| deè a\gapw%n me) sarà amato dal Padre mio (a\gaphqhésetai u|poè tou% patroév mou) ed io lo amerò (ka\gwè a\gaphésw au\toèn) e mi manifesterò a lui». Nel v. 23 inoltre Gesù ancora continua: «e il Padre mio lo amerà (a\gaphései au\toén) e a
lui verremo e dimora presso di lui faremo»129. Emerge in questi testi la seguente prospettiva: chi ama Gesù osserva i suoi comandamenti; ma colui che ha i suoi comandamenti e li osserva, questi è colui che lo ama. La nozione di e\ntolhé permette di ampliare ulteriormente la prospettiva. Accostando infatti tre testi: 13,34; 14,15.21; 15,10, possiamo, in relazione ad essa, evidenziare un triplice aspetto: la e\ntolhé sgorga, per i discepoli, dall’evento dell’amore di Gesù130; nella sua osservanza essi concretizzeranno il loro amore verso Gesù131; la e\ntolhé costituisce infine il cammino che permette ai discepoli di giungere all’amore di Gesù e permanere in esso132 ed entrare pure, come “amici”, nella sua intimità133. thrhésete v. 21: o| e"cwn taèv e\ntolaév mou kaì thrw%n au\taèv e\ke_noév e\stin o| a\gapw%n me
129 Tutto il brano dei vv. 15-24 costituisce una unità gravitante attorno a quattro espressioni parallele: v. 15: e\anè a\gapa%teé me, taèv e\ntolaèv taèv e\maèv thrhésete v. 21: o| e"cwn taèv e\ntolaév mou kaì thrw%n au\taèv, e\ke_noén e\stin o| a\gapw%n me v. 23: e\ané tiv a\gapç% me, toèn loégon mou thrhései v. 24: o| mhè a\gapw%n me touèv loégouv mou ou\ thre_. Le quattro espressioni, legate dal verbo threéw, dal punto di vista dell’inizio letterario, presentano uno schema alternato: la prima e la terza infatti iniziano con la particella condizionale e\ané ; la seconda e la quarta invece con una forma di participio sostantivato (o| e"cwn e o| mhè a\gapw%n). Dal punto di vista degli oggetti presentano invece uno schema abbinato: nei vv. 15.21 infatti troviamo il sostantivo e\ntolhé; nei vv. 23.24 troviamo invece il sostantivo loégov, al singolare (toèn loégon) nel v. 23 e al plurale (touèv loégouv) nel v. 24. 130 Cfr. 13,34: «vi dò un comandamento (e\ntolhén) nuovo, che vi amiate gli uni gli altri, come io amai (h\gaéphsa) voi», cfr. anche 15,12. 131 Cfr. 14,15: «se mi amate (e\anè a\gapa%teé me) osserverete i miei comandamenti (taèv e\ntolaèv taèv e\maèv)» v. 21: «chi ha i miei comandamenti (o| e"cwn taèv e\ntolaév mou) e li osserva questi è colui che mi ama (o| a\gapw%n me)»
132 Cfr. 15,10: «se osserverete i miei comandamenti (taèv e\ntolaév) rimarrete nel mio amore (e\n t+% a\gaép+ mou)». 133
Cfr. 15,14: «voi amici (fòloi) miei siete se fate ciò che vi comando (e\nteéllomai)».
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Secondo i testi, sopra citati, di 14,21 e di 14,23, chi ama Gesù, appunto mediante l’osservanza dei suoi comandamenti, sarà amato dal Padre, Gesù stesso lo amerà e si manifesterà a Lui; secondo il v. 23, Gesù e il Padre verranno da Lui e prenderanno dimora in Lui. Ciò che abbiamo sopra delineato nella relazione tra Gesù e i discepoli, si può dire nella relazione tra il Padre e Gesù. Possiamo infatti citare diversi testi a riguardo. In 15,9 Gesù dichiara: «come il Padre amò me, così anch’io voi amai»; in 13,34 e 15,12 Gesù manifesta il suo comandamento che i discepoli si amino gli uni gli altri come “Lui ha amato loro”. Dall’amore di Gesù verso i discepoli è scaturito il comandamento dell’amore vicendevole; analogamente dall’amore del Padre verso di Lui è scaturito per Gesù il comandamento che, secondo 10,17, consiste nel porre la propria vita per poi riprenderla di nuovo. Raggiunto dall’amore del Padre, Gesù deve rispondere riamandolo a sua volta. Leggiamo in 14,31: «perché il mondo sappia che io amo (a\gapw%) il Padre e che così come mi comandò (e\neteòlato) il Padre io faccio (poiw%)». Gesù, analogamente ai discepoli che rispondono al suo amore mediante l’osservanza del comandamento (14,15), risponde all’amore del Padre facendo ciò che Egli ha comandato. Infine, analogamente ai discepoli che, se osservano il suo comandamento, rimangono (mene_te) nel suo amore, Gesù, mediante l’osservanza del comandamento del Padre, rimane (meénw) nel suo amore (15,10). Analogamente ai discepoli, che concretizzano il loro amore verso Gesù nell’osservanza del suo comandamento, anche Gesù concretizza il suo amore verso il Padre nell’osservanza del suo comandamento. Per lui si verifica quello che si verifica per i discepoli se questi lo amano: essi saranno amati dal Padre e Gesù stesso li amerà (14,21). Analogamente, avendo amato il Padre mediante l’osservanza del comandamento, Gesù rimane nel suo amore, ma anche da Lui è amato. Rileggendo allora il testo di 10,17, possiamo dire che per Gesù è scaturito dall’evento dell’amore del Padre un comandamento: dare la vita134. 134 Osserva Thyen che anche la scena dell’arresto di Gesù (18,1-10), dove la triplice confessione “Io sono” si oppone ai tre rinnegamenti di Pietro, rende evidente il fatto che la morte in croce, con il grido teteélestai, debba essere intesa nel senso di pienezza di amore di Gesù per i suoi, cfr. H. Thyen, Niemand hat grössere Liebe als die, dass Er sein
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Egli lo ha osservato, come risposta, a quell'amore135. Così facendo, Egli si è radicato nell’amore del Padre e il Padre lo ama. Si comprende allora in che senso il Padre ama Gesù per il fatto che pone la sua vita per riprenderla di nuovo. Questo è il comandamento ricevuto dal Padre, scaturito dall’evento del suo amore, nella cui osservanza Gesù manifesta il suo amore verso il Padre. In questo modo, come appare da 15,10, Gesù rimane nell’amore del Padre e, come appare da 14,21, il Padre lo ama. 3.4.2. Relazione di 3,35 a 13,3 La seconda relazione, nell’ordine della nostra esposizione, è quella che il testo di 3.35 stabilisce con 13,3136. Possiamo infatti evidenziare, tra i due testi, il seguente parallelismo: 3,35 13,3 o| Pathèr ei\dwèv o$ti a\gapç% toèn ui|on è kaì paénta deédwken paénta e"dwken au\t§% o| Pathèr e\n t+% ceirì au\tou% ei\v taèv ce_rav
Il parallelismo è chiaro. Il soggetto è lo stesso: il Padre, e le azioni sono uguali. Non si può dire però che le azioni nei due testi siano esattamente le stesse: troviamo infatti delle differenze che le diversificano. Esse soprattutto sono due: in 13,3 il verbo dòdwmi è all’aoristo (e"dwken)137, con evidente Leben für seine Freunde hingibt (Joh 15,13), in C. Andersen & G. Klein (Edd.) Theologia crucis-Signum crucis, Fs. E. Dinkler, Tübingen 1979, 467-481: 480. 135
Cfr. anche 14,31.
I due testi di 3,35 e di 10,17 presentano così una relazione alternata: 3,35 13,3 10,17 14,15.21. 136
La forma all’aoristo però è criticamente incerta. Essa è attestata dai codici Sinaitico, Vaticano, dai maiuscoli K L W, dai minuscoli 070. 1. 579, dal lezionario 844 e da altri pochi. Leggono invece al perfetto i P66.75, i codici maiuscoli A D Q Y, i codici minuscoli recensiti 137
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valore ingressivo; in 3,35 è invece al perfetto (deédwken). Inoltre in 13,3 il complemento, costruito con ei\v e l’accusativo, è moto a luogo (ei\v taèv ce_rav); in 3,35 invece, costruito con e\n e il dativo, è stato in luogo (e\n t+% ceirì au\tou%). La differenza tra l’aoristo e il perfetto è facilmente spiegabile. Il perfetto indica un’azione iniziata nel passato che perdura ancora al presente e forse questo può essere stato anche il motivo per cui alcuni copisti mutarono l’aoristo nel perfetto: avrebbero voluto, in questo modo, sottolineare che l’azione del Padre di dare al Figlio era una realtà duratura. Nel nostro testo invece l’aoristo non può avere un valore completivo altrimenti indicherebbe che, al presente, il Padre non ha dato più in mano a Gesù; esso invece ha meglio il senso di un aoristo ingressivo. Quanto poi al complemento seguente, abbiamo già indicato che quello di 13,3, ei\v taèv cei%rav, è un complemento di moto a luogo; quello di 3,35, e\n t+% ceirì, è invece un complemento di stato in luogo. Il complemento di 13,3 esprime un movimento verso: tutte le cose sono orientate dal Padre verso le mani di Gesù; il complemento di 3,35 esprime invece il termine di un cammino: tutte le cose, date dal Padre a Gesù, si trovano nelle sue mani in maniera stabile e definitiva. Una terza differenza tra le due espressioni riguarda lo stesso pronome personale au\toév, formulato grammaticalmente però in diversa maniera. al dativo (au\t§%) in 13,3 e al genitivo (au\tou%) in 3,35. Infine le due espressioni presentano anche un diverso ordine strutturale, in 13,3 il pronome personale dativo precede l’espressione ei\v taèv cei%rav138, in 3,35 il pronome personale genitivo segue l’espressione e\n t+% ceirò139. Il cambiamento di ordine determina anche un diverso dinamismo140: in 13,3 da Ferrar, il minuscolo 33 e altri codici della Koinè. Dal punto di vista dei codici è difficile decidere se la lettura migliore sia all’aoristo o al perfetto. Possiamo però pensare che la lettura migliore sia all’aoristo e che un copista abbia mutato l’aoristo in perfetto magari sotto l’influsso del testo di 3,35, dove si legge un’altra forma di perfetto criticamente certo. Possiamo supporre che qualche copista abbia mutato l’aoristo al perfetto, volendo esprimere, in questo modo, l’azione di Gesù in maniera stabile e definitiva. La lettura all’aoristo è seguita dalle varie edizioni critiche. 138 139
Cfr. l’espressione: au\t§% [...] ei\v taèv ce_rav. Cfr. l’espressione: e\n t+% ceiriè au\tou%.
Si stabilisce tra le due espressioni anche uno schema concentrico che determina anche una più stretta relazione: 140
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tutta l’espressione tende verso il complemento ei\v taèv cei%rav, in 3,35 invece tende verso il pronome genitivo a\utou%. Secondo il testo di 13,3 tutte le cose sono orientate verso una posizione nelle mani di Gesù; secondo quello di 3,35 sono invece orientate al possesso da parte di Gesù. Alla luce delle osservazioni sopra proposte possiamo allora concludere che l’azione di dare nelle mani, da parte del Padre, a Gesù, in 13,3, ha soltanto il carattere di un inizio: Gesù cioè ha ricevuto dal Padre in maniera incipiente; il perfetto indica invece che ha ricevuto in maniera stabile e definitiva: in 3,35 tutte le cose, in mano a Gesù, hanno assunto una posizione stabile e definitivo. Secondo 13,3 tutte le cose sono orientate verso le mani di Gesù in maniera incipiente; secondo 3,35 invece esse hanno già ricevuto, nelle mani di Gesù, un carattere stabile e definitivo: il dono dato dal Padre ha ricevuto, nelle mani di Gesù, una posizione stabile e definitiva. Emerge allora la domanda: cosa ha determinato tale passaggio di tutte le cose da un orientamento incipiente verso le mani di Gesù, espresso in 13,3, al possesso stabile e definitivo espresso in 3,35? Per rispondere a questa domanda ci riferiamo anche al testo di 10,28-29. 3.5. Il testo di 10,28-29 Questo testo, nel contesto del cap. 10 di Giovanni, riguardante il Buon Pastore, è il terzo insieme a 3,35 e 13,3 dove si parla di qualcosa nelle mani di Gesù. Nel v. 28 infatti leggiamo: «e io dò ad esse la vita eterna e non periranno mai e non le rapirà alcuno dalla mia mano (e\k th%v ceiroév mou)». Nel v. 29 Gesù menziona il Padre e si esprime ancora con il verbo dòdwmi al perfetto; continua infatti: «il Padre mio (o| pathér mou ) che ha dato a me (o$v deédwkeén moi)141 è più grande di tutti».
au\t§% […] ei\v taèv ce_rav e\n t+% ceiriè au\tou%.
In questa espressione il problema testuale, dal quale però possiamo prescindere, riguarda il pronome relativo, se debba essere letto al neutro (o$) o al maschile (o$v). Non riguarda invece il perfetto deédwken, per il quale non è indicata alcuna variante testuale. 141
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Questo testo di 10,28-29 presenta delle relazioni sia con 13,3 sia anche con 3,35. Con 13,3142 la relazione è stabilita da tre elementi: la menzione delle mani143, la menzione del Padre144, il verbo dòdwmi, espresso, in 13,3, all’aoristo (e"dwken). Con 3,35 la relazione è stabilita pure da tre elementi145: la menzione del Padre, il verbo deédwken al perfetto, la menzione delle mani. I due testi permettono una relazione ma si collocano pure in diversa prospettiva: in 3,35 Gesù dice che il Padre ha dato nella sua mano; 142 Possiamo proporre tra i due testi la seguente relazione: 10,28-29 13,3
ou\c a|rpaései paénta tiv e!dwken au\taè au\t§% e\k th%v ceiroév o| pathér mou ei\v taèv cei%rav o| pathér mou o$v deédwkeén moi paéntwn meiézwn e\stién kaiè ou\deièv duénatai a|rpaézein e\k th%v ceiroèv tou% patroév
Si può stabilire anche tra i due testi il seguente schema concentrico: ou\c a|rpaései tiv au\taè e\k th%v ceiroév mou o| pathér mou o$v deédwkeén moi paénta e!dwken au\t§% o| pathér ei\v taèv cei%rav
143 in forma di moto da luogo in 10,28 (e\k th%v ceiroév) e in forma di moto a luogo (ei\v taèv cei%rav) in 13,3. In entrambi i testi si tratta delle mani di Gesù; in 13,3 le mani sono
menzionate in prospettiva positiva (dare nelle mani), in 10,28 sono invece menzionate in prospettiva negativa: (nessuno rapisce dalla mano di Gesù).
144 In entrambi i testi il Padre compie la stessa azione, quella di “dare”; il destinatario di quest’azione è sempre Gesù.
Possiamo proporre tra i due testi la seguente relazione: 10,28 3,35 145
kaiè ou\c a|rpaései paénta tiv deédwken au\taè e\k th%v ceiroév e\n t+% ceiriè mou a\utou% o| pathér mou o$v deédwkeén moi
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in 10,28-29 si dice che nessuno può rapire dalla sua mano. Subito dopo aggiunge che nessuno può rapire dalla mano del Padre: ciò significa che dalle mani di Gesù si passa alle mani del Padre. Nel precedente v. 27 Gesù però ha dichiarato che le pecore ascoltano la sua voce, lo seguono ed Egli dà loro la vita eterna, e aggiunge poi che nessuno può rapire dalla sua mano. Sembra, in questo modo, che la vita eterna consista nell’essere nelle mani di Gesù e del Padre. Il testo di 10,28, pur avendo relazione anche con 13,3, tematicamente consegue meglio al testo di 3,35. In quest’ultimo infatti leggiamo che il Padre ha dato tutto nelle mani di Gesù; in 10,28 leggiamo che nessuno può rapire dalla sua mano. Il Padre gliele ha date e di conseguenza nessuno può rapirle dalla sua mano. Si pone ancora la domanda: quando il Padre diede tutto nella mano di Gesù? La risposta emerge ancora dalla relazione che possiamo stabilire tra 3,35 e 10,17.28-29. I due testi coincidono nel fatto che entrambi parlano del Padre che ama Gesù; mentre però il testo di 3,35 è legato alla dichiarazione che il Padre ha dato tutto nelle mani, il testo di 10,17 è legato al fatto che Gesù ha accolto il comandamento del Padre e ha posto la sua vita; nei vv. 28-29 poi si dice che le pecore sono in mano a Gesù e nessuno può rapirle dalla sua mano e poi sono nella mano del Padre. Possiamo proporre il seguente confronto: 3,35 10,17-18 o| pathèr a\gapç% toèn ui|onè diaè tou%toé me o| pathèr a\gapç% o$ti e\gwè tòqhmi thèn yuchén mou i$na paélin laébw au\thén. ou\deìv ai"rei au\thèn a\p’e\mou% a\ll’e\gwè tòqhmi au\thèn a\p’e\mautou% e\xousòan e"cw qe_nai au\thén, kaì e\xousòan e"cw labe_n au\thén: tauéthn thèn e\ntolhèn e"labon paraè tou% patroév mou
10,28-29
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ka\gwè dòdwmi au\to_v zwhèn ai\wn é ion kaì ou\ mhè a\poélwntai ei\v toèn ai\wn % a kaì ou\c a|rpaései tiv au\taè
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kaì paénta deédwken e\k th%v ceiroév mou. e\n t+% ceirì au\tou% o| pathér mou o£ deédwkeén moi paéntwn me_zoén e\stin kaì ou\deìv duénatai a\rpaézein e\k th%v ceiroèv tou% patroév
Il testo di 3,35b si colloca bene tra 10,17 e 10,28-29; tematicamente si colloca dopo 10,17 e prima di 10,28-29. Possiamo allora proporre il seguente sviluppo tematico: 1. Il Padre ha dato al Figlio il comando di porre la propria vita per poi riprenderla ed il Figlio l’ha posta. 2. Il Padre gli ha dato tutto nelle mani; 3. Gesù ha le sue pecore nella sua mano e nessuno le rapisce; 4. Il Padre lo ama. 3.6. Relazione tra 15,9 e 13,3 Alla luce di tutte le osservazioni precedenti possiamo tornare a rileggere il testo di 15,9, dove Gesù dichiara che il Padre lo ha amato (h\gaéphsen). Abbiamo già osservato come l’evento che si nasconde dietro il verbo aoristo h\gaéphsen e nel quale il Padre ha concretizzato il suo amore eterno verso il Figlio può essere individuato in 13,3 e, poi ancora in 17,23-26. Leggiamo in 13,3 che Gesù, cosciente (ei\dwév) che il Padre (o| pathér) tutto (paènta) gli diede (e"dwken au\t§%) nelle mani (ei\v taèv ceòrav) e che da Dio è uscito e a Dio va, compie la serie di azioni dirette descritte nei seguenti vv. 4-5. In queste serie di azioni si concretizza quell’amore portato al suo compimento (ei\v teélov h\gaéphsen) di cui l’evangelista ha parlato nel v. 1146. 146 Possiamo infatti proporre il seguente schema: v. 1 v. 2-5
proè deè th%v e|wrth%v tou% paésca kaì deòpnoi ginomeénou ei\dwèv o$ti h/lqen […] tou% diaboélou h"dh beblhkoétov a\gaphésav ei\dwèv o$ti paénta […] ei\v teélov h\gaéphsen e\geòretai tòqhsin
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Questa serie di azioni, che costituisce il compimento del suo amore verso i discepoli, è attuata nella coscienza che tutto il Padre diede a Gesù nelle sue mani. In tale azione possiamo vedere la maniera concreta con cui il Padre ha amato Gesù. Il Padre ha amato Gesù mettendo tutto nelle sue mani, ma in maniera incipiente,147; Egli deve rendere stabile ogni cosa nelle sue mani: lo farà amando Egli i discepoli e concretizzando il suo amore nel dono della sua vita. Il fatto che il Padre lo ha amato mettendo tutto nelle sue mani, costituisce per Gesù un comando ad amare Lui i discepoli. Al comando del Padre Egli risponde amando i discepoli, concretizzando così il suo amore nel dono della propria vita e compiendo, in loro favore, la serie di azioni descritta nei vv. 4-5 del cap.13. 4. Rilettura sintetica Rileggiamo adesso, in maniera sintetica, i testi giovannei, nei quali è delineato l’amore del Padre. In tutti tale amore è espresso con il verbo a\gapaéw, tranne che in 5,20, dove leggiamo il seguente testo: «Il Padre (o| pathér) ama (file_) il Figlio e tutto mostra (paénta deòknusin) a Lui ciò che Egli fa (a£ au\toèv poie_)». In questo testo, parallelo, in certo senso, a quello di 3,35148, troviamo non il verbo a\gapaéw, bensì il verbo fileéw: non si indica perciò un amore […] dieézwsen baéllei u$dwr h"rxato nòptein
Questo schema è stato già proposto in A. Gangemi, La lavanda dei piedi (I), cit., 33. 147
Possiamo stabilire tra 13,3 e 15,9 la seguente relazione concentrica: 13,3: ei\v teélov h\gaéphsen: ei\dwèv o$ti paénta e"dwken au\t§% o|| pathèr ei\v taèv ce_rav 15,9: kaqwèv h\gaéphseén me o| phthér
ka\gwè u|ma%v h\gaèphsa
Possiamo anche notare la relazione tra i due aoristi alla terza persona singolare: e"dwken (diede) e h\gaéphsen (amò). Possiamo stabilire tra i due testi il seguente confronto parallelo: 3,35 5,20 o| pathèr o| pathèr 148
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attivo di dono, bensì un amore di accoglienza nella propria intimità149. Avendo così accolto il Figlio, il Padre gli mostra tutto ciò che Egli fa150. Quanto poi al verbo a\gapaéw, in relazione a Gesù, con soggetto il Padre, esso è usato in diversi testi: in alcuni però nella forma al presente (a\gapç%) e in altri nella forma all’aoristo (h\gaéphs[av]en). I testi con a\gapa+w all’indicativo presente sono 3,35 e 10,17, entrambi nella prima parte del vangelo; a\gapç% file_% toèn ui|on è toèn ui|on è kaì paénta kaì paénta deédwken deòknusin e\n t+% ceirò au\t§% au\tou% a£ au\toèv poie_
Oltre il diverso verbo di “amare”, le differenze sono soprattutto due: la diversa azione del Padre che, stavolta, non è dare nelle mani, bensì mostrare ciò che Egli fa, e inoltre la diversa forma verbale, al perfetto (deédwken) in 3,35 e al presente (deòknusin) in 5,20. In 3,35 l’azione di dare nelle mani, per la forma al perfetto, sembra essere anteriore a quella di amare; in 5,20 l’azione di mostrare sembra essere successiva a quella di amare. 149 Rimandiamo ad un nostro strudio a riguardo, cfr. A. Gangemi, Il senso di a\gapaéw e fileéw nei LXX, nel NT e nel vangelo di Giovanni, cit., 112-114. In questo stesso studio sono indicate le varie posizioni degli interpreti sul valore e sulla reciproca relazione dei due verbi, cfr. ibid., 9-22. Bruce però osserva che il fatto che l’evangelista usi in 5,20 fileéw, mostra la sua propensione per i sinonimi, cfr. Cfr. F.F. Bruce, The Gospel of John, cit., 228.
150 Oltre il testo di 5,20, mai più altrove il verbo fileéw è usato, in relazione a Gesù, con soggetto il Padre; è usato invece cinque volte in 21,15-17 con soggetto Pietro. L’unicità di questo testo nel vangelo rende più difficile la sua interpretazione. Lo spieghiamo in analogia alla relazione tra Gesù e i discepoli in 15,14: «voi amici (fòloi) miei siete se fate ciò che vi comando (e\nteéllomai)». Il ricorso a tale analogia può essere confermato dalla seguente relazione strutturale: 15,10: e\anè taèv e\ntolaév mou thrhéshte, mene_te e\n t+% a\gaép+ mou
Kaqwèv e\gwè taèv e\ntolaèv tou% patroév mou tethérhka kaì meénw au\tou% e\n t+% a\gaép+ 15,14: u|me_v fòloi moué e\ste e\anè poih%te a£ e\gwè e\nteéllomai u|m_n.
L’osservanza da parte dei discepoli di ciò che Gesù comanda, porta a due conseguenze: rimanere nel suo amore (15,10) e diventare fòloi, cioè essere introdotti nella sua intimità (15,14). Nello sfondo di questi due effetti, per Gesù ne è indicato, nel v. 10, uno solo: rimanere nell’amore del Padre. Si può sottintendere l’altro effetto: essere accolto nella propria intimità, che invece è menzionato appunto in 5,20. In seguito a tale accoglienza, il Padre mostra al Figlio ciò che Egli fa e il Figlio lo fa pure (v. 19). Due sono le opere, nel contesto, che il Padre mostra al Figlio e che il Figlio fa: resuscitare i morti e compiere il giudizio (vv. 19-20).
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i testi con all’indicativo aoristo sono 15,9-10 e 17,23-26, nella seconda parte del vangelo. Gli usi all’aoristo si collocano all’inizio di una storia nel rapporto tra il Padre e il Figlio; gli usi al presente si collocano al culmine di questa storia; di essa possiamo proporre le varie tappe nei seguenti punti. Anzitutto il Padre ha amato (h\gaéphsaév me) il Figlio fin dalla fondazione del mondo (proè katabolh%v koésmou)151 (17,24); la concretizzazione di tale amore dev’essere poi cercata in 13,3, dove si dice che il Padre diede (e"dwken) a Lui, cioè al Figlio, tutto nelle mani (ei\v taèv ce_rav). Dio lo ha amato fin dall’eternità dando a Lui, in maniera incipiente e come programma da attuare, tutte le cose. Il Padre però non ha amato soltanto il Figlio: in 17,23 si dice che Egli ha amato (h\gaéphsav) anche i discepoli, così come ha amato il Figlio. Alla luce del seguente v. 24, possiamo dire che il Padre ha amato anche i discepoli fin dall’eternità. Allo stesso modo, in 3,16, si legge che Dio amò (h\gaéphsen) anche il mondo al punto da donare l’Unigenito. Possiamo notare come, nel vangelo, il primo oggetto menzionato in assoluto dell’amore del Padre, in 3,16, è il mondo; l’ultimo invece, oltre il Figlio, in 17,23-26, sono anche i discepoli. Forse possiamo spiegare la concomitanza dell’amore verso il mondo e verso i discepoli con quella del Figlio alla luce di 1,3, dove leggiamo: «tutto (paénta) per mezzo di Lui divenne (e\geéneto)»152. Dio ha concretizzato l’amore per il mondo nel dono (e"dwken)153 dell’Unigenito (3,16) e nell’invio (a\peésteilav) di Lui nel mondo154. Il fatto di avere messo tutto nelle mani del Figlio, mentre concretizza l’amore di Dio verso di Lui, costituisce, per Lui, anche un comando ad amare quello che il Padre gli ha messo nelle mani. Questo aspetto può Nota Maier che l’amore di Dio, che sta alla base del suo dono, risale a prima della creazione, cfr. G. Maier, Johannesevangelium, II, cit., 231. 151
Si possono accostare le tre espressioni, legate dall’oggetto paénta, 1,3 13,3 3,35 paénta paénta paénta di’au\tou% e"dwken deédwken e\geéneto au\t§% […] e\n t+% ceirò […] 152
153 Cfr. anche Sap 11,24: «Ami (a\gapç%v) tutte le cose che sono (taè o"nta paénta), e niente disprezzi di ciò che hai fatti; né, se avessi odiato qualcosa l’avresti fatta (kateskeuéasav)». 154
Cfr. 17,8.21.
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essere bene contenuto nell’espressione di 15,9: «Come il Padre amò me anch’io voi amai»: l’amore di Gesù verso i discepoli è relazionato ed anche dipende dall’amore del Padre. Possiamo notare che, a differenza del Padre il cui amore è rivolto sia al mondo che ai discepoli, quello di Gesù invece è rivolto soltanto ai discepoli. Ciò è manifestato esplicitamente da Gesù a riguardo della preghiera155; Gesù per esso non prega: forse perché il mondo non lo ha accolto156. Tale comando del Padre si manifesta nel fatto che Egli ha inviato il Figlio. I discepoli “hanno conosciuto (e"gnwsan)” ciò157; essi, mediante la loro perfezione (teteleiwmeénoi) nell’unità (ei\v e$n), debbono far sì che il mondo pervenga e permanga (ginwésk+) in questa conoscenza158. Gesù risponde all’amore del Padre; accoglie il suo comandamento e ama i discepoli; in questo modo, Egli rimane nell’amore del Padre159. La risposta di Gesù all’amore del Padre mediante l’accoglienza del suo comandamento è espressa in 14,31: «Perché il mondo conosca che io amo (a\gapw%) il Padre e che come il Padre mi ha comandato (e\neteòlato) così io faccio (poiw%)». L’amore di Gesù verso i discepoli, nel suo culmine (ei\v teélov), è descritto, concretizzato, nella serie di azioni presentate nei vv. 4-5 del c. 13, che vanno dall’alzarsi da tavola fino ad asciugare i piedi dei discepoli, dopo averli, ovviamente, lavati. Più specificamente, il comando (e\ntolhén) che Gesù ha ricevuto (e"labon) dal Padre (paraè tou% patroév mou), come appare da 10,17, è quello di porre la propria vita per poi riprenderla di nuovo. Raggiunti dal suo amore, i discepoli dovranno rispondere a Gesù amandolo. Come appare da 14,15.21, essi dovranno concretizzare il loro amore mediante l’osservanza dei suoi comandamenti160; questi si ricon155
Cfr. 17,9: «Io per essi prego, non per il mondo prego, ma per coloro che mi hai dato».
Cfr. 1,10: «nel mondo era e il mondo per mezzo di Lui divenne e il mondo non lo conobbe». 156
157 158
Cfr. v. 25. Cfr. v. 23.
Cfr. in questo senso E. Schick, Das Evangelium nach Johannes, Würzburg 1956, 139; J Schneider, Das Evangelium nach Johannes, Berlin 19782, 269; U. Schnelle, Das Evangelium nach Johannes, cit., 242. 159
Cfr. 14,15: «se mi amate (e\anè a\gapateé me) i miei comandamenti (taèv e\ntolaèv taèv e\maév) osserverete»; vv. 21: «chi ha i miei comandamenti (taèv e\ntolaév mou) e li osserva, questi è colui che mi ama (o| a\gapw%n me)». 160
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«Come amò me il Padre […]» (Gv 15,9)
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ducono ad uno solo: l’amore vicendevole161. Attraverso l’osservanza di questo comandamento, i discepoli perverranno e rimarranno nell’amore di Gesù162, entreranno nella sua intimità163, saranno dati, in maniera stabile164, da parte del Padre, nelle sue mani, e saranno definitivamente nelle sue mani di pastore165. Radicati nell’amore di Gesù, i discepoli giungeranno al Padre, perché Gesù rimane nel Padre. Tutta quest’opera del Figlio si riconduce ad un solo denominatore comune: l’amore; con essa Egli ha risposto all’amore del Padre ed ha concretamente amato il Padre. A Lui si possono applicare, in relazione al Padre, le conseguenze che Gesù, in 14,21.23, indica per i discepoli che lo amano: il Padre lo ama (a\gapç%)166, così come il Padre e Gesù stesso amano quelli che amano Gesù167; Gesù si manifesterà a Lui168. 161 Cfr. 13,34: «Un comandamento nuovo (kainhèn e\ntolhén) dò a voi, che vi amiate gli uni gli altri (i$na a\gapa%te a\llhélouv) come amai voi (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v)»; 15,12: «questo è il mio comandamento (h| e\ntolhè h| e\mhé), che vi amiate gli uni gli altri (i$na a\gapa%te a\llhélouv) come amai voi (kaqwèv h\gaéphsa u|ma%v)».
Cfr. 15,10: « Se i miei comandamenti osserverete (e\anè taèv e\ntolaév mou thrhéshte), rimarrete (mene_te) nel mio amore (e\n t+% a\gaép+ mou)». 162
163
a voi».
Cfr. 15,14; «voi amici miei (fòloi mou) siete, se fate ciò che io comando (e\nteéllomai)
Cfr. 3,35: «Il Padre ama (a\gaépç%) il Figlio e tutto ha dato (deédwken) nella sua mano (e\n t+% ceirì au\tou%)»; 17,24: «Padre, ciò che hai dato a me (o£ deédwkaév moi), voglio che dove sono io anch’essi siano con me». 164
165
Cfr. 10,28: «non periranno in eterno: e non le rapirà alcuno dalla mia mano (e\k th%v
ceiroév mou)»
Cfr. 3,35: «Il Padre ama (a\gapç%) il Figlio e tutto ha dato nella sua mano»; 10,17: «Per questo il Padre mi ama (a\gapç%), perché il pongo la mia vita per prenderla di nuovo». 166
Cfr. 14,21: «chi mi ama (o| deè a\gapw%n me) sarà amato (a\gaphqhésetai) dal Padre mio e anch’io lo amerò (ka\gwè a\gaphésw au\toén) e mi manifesterò a lui»; 14,23: «se qualcuno mi ama (e\ané tiv a\gapç% me), la mia parola custodirà e il Padre mio lo amerà (a\gaphései au\toén) e a lui verremo e dimora presso di lui faremo». 167
168 Cfr. ancora 14,21: «chi mi ama (o| deè a\gapw%n me) […] e mi manifesterò a lui (e\mfanòsw au\t§% e\mautoén)». Forse a questo testo, analogicamente, si può ricondurre il testo di 5,20, dove l’amore del Padre verso Gesù è indicato con il verbo fileéw e la conseguenza è che il Padre gli mostra tutto ciò che fa: «Il Padre ama (file_) il Figlio e tutto mostra (deòknusin) a Lui di quello che Egli fa (a£ au\toèv poie_)».
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Si conclude in questo modo tutta una storia che parte dal Padre, passa attraverso Gesù e giunge ai discepoli; poi, risalendo, parte da Gesù, passa attraverso i discepoli e culmina nel Padre. In questa storia il protagonista fondamentale è il Padre, il cui amore determina una storia di salvezza nella quale è coinvolto primariamente Gesù e poi anche i discepoli attraverso l’amore vicendevole.
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L’AMORE DI GESÙ VERSO I DISCEPOLI
Dopo avere precedentemente tentato di caratterizzare l’amore del Padre verso Gesù, consideriamo adesso l’aspetto dell’amore di Gesù verso i discepoli o anche, più genericamente, verso gli uomini. I due amori, del Padre e di Gesù, sono strettamente relazionati: in 15,9 infatti si stabilisce una relazione di uguaglianza tra l’amore del Padre verso Gesù e quello di Gesù verso i discepoli. 1. I termini L’amore di Gesù verso gli uomini è formulato, nel vangelo di Giovanni, sia con il verbo a\gapaéw che con il verbo fileéw. L’amore con il verbo a\gapaéw è espresso, nell’ordine, in 11,5; 13,1.1.23.34; 14,21; 15,9.12; 19,26; 21,7.20; quello con il verbo fileéw in 11,3.36; 20,2; 21,17ab1. Il verbo fileéw, con soggetto Gesù, è riferito sempre a persone concrete: a Lazzaro anzitutto, a riguardo del quale le sorelle mandarono a dirgli: «ecco colui che tu ami (file_v) è infermo» (11,3) e davanti alla cui tomba Gesù pianse provocando il commento dei giudei: «ecco come lo amava (e\fòlei)» (11,36); inoltre al discepolo, a riguardo del quale, in 20,2, l’e1 Usiamo in questo studio i due verbi a\gapaéw e fileéw nella diversa prospettiva indicata in A. Gangemi, Il senso di a\gapaéw e fileéw nei LXX, nel NT e nel vangelo di Giovanni», in Synaxis XVI (1998) 7-114. In questo studio abbiamo concluso che il verbo a\gapaéw è “soggetto-centrifugo”, nel senso che il soggetto si apre e si orienta verso il suo oggetto, al quale, nel caso di una persona, dona e si dona; il verbo fileéw invece è “soggetto-centripeto”, nel senso che il soggetto attira a sé l’oggetto e, nel caso di persona, lo coinvolge nella sua intimità.
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vangelista scrive o£n e\fòlei. Il verbo a\gapaéw, con soggetto Gesù, all’aoristo (h\gaéphsa[en]), è usato in 13,1.1. 34; 15,9. 12 ed è riferito sempre ai discepoli; all’imperfetto (h\gaépa) è usato in 11,5; 13,23; 19,26; 21,7.20 ed è riferito a persone concrete, specificamente a «Marta e sua sorella e Lazzaro» (11,5) e al «discepolo che Gesù amava (h\gaépa)» (13,23; 19,26; 21,7.20); infine, al futuro (a\gaphésw), è riferito a colui che ha i comandamenti di Gesù e li osserva: «(questi) sarà amato (a\gaphqhésetai) dal Padre mio e anch’io lo amerò (a\gaphésw) e mi manifesterò a lui». Ci limitiamo, in questo studio, a considerare i testi in cui Gesù appare come soggetto di amore, espresso con il verbo a\gapaéw all’aoristo; essi sono: 13,1.1; 13,34; 15,9, 15,12. La forma verbale all’aoristo rimanda non ad un atteggiamento abituale dell’animo o a un sentimento, bensì ad un preciso evento storico, nel quale tale sentimento si è concretizzato e si è manifestato. Emerge allora l’esigenza di precisare quale sia tale evento. Né i testi di 13,34 e 15,12 né quello 15,9, che pur menzionano l’evento dell’amore di Gesù verso i discepoli, precisano quale sia tale evento. Il testo di 15,9 ci informa che l’evento dell’amore di Gesù verso i discepoli è analogo a quello del Padre verso di Lui e, in certo senso, da esso scaturisce ed è anche causato. Dichiara infatti Gesù: «come amò me (h\gaéphseén me) il Padre, anch’io (ka\gwé) voi amai (u|ma%v h\gaéphsa)». Emerge la domanda sulla relazione tra l’evento dell’amore del Padre verso Gesù e quello dell’amore di Gesù verso i discepoli: da essa però in questo studio prescindiamo. Nei testi di 13,34 e 15,12 poi l’evento dell’amore di Gesù verso i discepoli costituisce il modello e anche il fondamento del loro amore vicendevole; Gesù infatti comanda loro che «perseveriate nell’amore gli uni gli altri (i$na a\gapa%te a\llhélouv), come (io) voi amai (h\gaéphsa u|ma%v)»2. Emerge ancora la domanda sulla relazione tra l’evento dell’amore di Gesù verso i discepoli e il comando che essi ricevono dell’amore vicendevole. Lasciamo aperti così in questo studio due problemi, che tuttavia esigerebbero di essere considerati: la relazione dell’amore di Gesù verso i discepoli all’amore del Padre verso di lui che ne è il fondamento e la La forma al presente (a\gapa%te) rimanda non all’inizio dell’azione ma alla sua continuità; l’inizio è costituito dall’evento dell’amore di Gesù; Gesù lo ha iniziato: i discepoli debbono continuare perseverando in esso. 2
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relazione dell’amore di Gesù verso i discepoli all’amore vicendevole tra di loro, che ne è la conseguenza. 2. Il testo di Gv 13,1-5 Il testo invece che descrive e caratterizza l’evento dell’amore di Gesù verso i discepoli è 13,1-5. In questo studio ci limitiamo specificamente a considerare questo testo, sia il v. 1, dove l’evangelista narra che Gesù, prima della festa di Pasqua, amò (h\gaéphsen) i discepoli a compimento (ei\v teélov), sia anche il suo sviluppo nei vv. 2-5, dove l’evangelista presenta la serie di azioni da Gesù compiute3. 2.1. Il testo di 13,1 Il testo che menziona l’amore di Gesù verso i discepoli in se stesso, senza cioè alcuna relazione, almeno immediata, all’amore del Padre e a quello vicendevole dei discepoli, come abbiamo già osservato, è 13,1. Di esso dobbiamo considerare, oltre l’espressione in se stessa anche la sua relazione alle seguenti azioni di Gesù, descritte nei seguenti vv. 2-5. In testo di 13,1 è il seguente: Proè deè th%v e|orth%v tou% paésca ei\dwèv o| }Ihsou%v o$ti h&lqen au\tou% h| w$ra i$na metab+% e\k tou% koésmou touétou proèv toèn pateéra, a\gaphésav touèv i\dòouv touèv e\n t§% koésm§, ei\v teélov h\gaéphsen au\touév
(prima della festa di pasqua, Gesù, sapendo che era giunta di lui l’ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che [erano] nel mondo, a compimento li amò). Dal punto di vista della critica testuale, non sono indicati particolari problemi, ma solo qualcuno più marginale. Le edizioni critiche4 segnalano 3 Riproponiamo in questo studio, a grandi linee, riassunto, ma anche in qualche punto ulteriormente precisato, omettendo pure la considerazione specifica dei vv. 2-3, quanto in maniera più ampia abbiamo già proposto in uno studio precedente: La Lavanda dei piedi (Gv 13,1-5): Il coinvolgimento dei discepoli nell’esodo di Gesù mediante l’amore, in Synaxis XIV/2 (1996) 27-120 (I); XV/1 (1997) 7-87 (II). 4 Cfr. A. Merk (cur.), Novum Testamentum graece et latine, Romae 199211, in 13,1; E. Nestle – K. Aland (curr.), Novum Testamentum graece, Stuttgart 199527, in 13,1.
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il mutamento, in alcuni codici, dell’aoristo h&lqen, ovviamente ingressivo, nel perfetto e\lhéluqen5; l’edizione critica di Nestle-Aland riferisce poi la trasposizione, da parte del P66, del pronome touétou prima del genitivo tou% koésmou. La lettura al perfetto può essere stata suggerita dal testo di 12,23 (e\lhéluqen h| w$ra) e anche di 17,1 (e\lhéluqen h| w$ra); la trasposizione del pronome touétou può essere dovuta ad una dimenticanza scribale del genitivo tou% koésmou. 2.1.1. Struttura letteraria di 13,1 Dal punto di vista strutturale, dopo l’indicazione cronologica proè deè th%v e|orth%v, il lungo v. 1 comprende due participi circostanziali (ei\dwév - a\gaphésav), di cui il primo è seguito dal soggetto o| }Ihsou%v e da un
lungo sviluppo riguardante gli eventi di Gesù stesso, e dal verbo diretto h\gaéphsen6. Prima della festa di Pasqua, nella coscienza che era giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre e dopo avere amato i suoi che (erano) nel mondo, Gesù li amò a compimento. Dal punto di vista tematico, dopo l’indicazione cronologica del tempo prima della festa di Pasqua, tutto il verso presenta due parti: la prima riguarda direttamente gli eventi di Gesù, che deve passare da questo mondo al Padre; la seconda riguarda invece la sua relazione ai discepoli che sono nel mondo: dopo averli amati, li amò al compimento. La seconda parte, quella riguardante la relazione di Gesù ai discepoli, presenta una struttura insieme alternata e concentrica7; quella concentrica 5 6
Il Merk indica i codici che leggono all’aoristo h&lqen, cfr. l.c. Troviamo così nel testo il seguente schema:
Proè deè th%v e|orth%v tou% paésca ei\dwèv o| }Ihsou%v […] a\gaphésav […] ei\v teélov h\gaéphsen au\touév.
7 Appare una tensione verso quest’ultimo verbo h\gaéphsen au\touév.: La struttura alternata riguarda le espressioni a\gaphésav touèv i\dòouv e h\gaéphsen au\touév. Si ottiene il seguente schema strutturale:
a\gaphésav touèv i\dòouv.
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accosta, al centro, i due complementi, di stato in luogo (e\n t§% koésm§) e di orientamento (ei\v teélov)8. La seconda parte però non è senza relazione con la prima, come appare dal seguente schema: Parte prima (Gesù) Parte seconda (i discepoli)
e\k tou% koésmou touétou proèv toèn pateéra
e\n t§% koésm§ ei\v teélov Di Gesù si dice che deve “passare (i$na metab+%)” da “questo mondo”; dei
discepoli invece che “(sono) nel mondo”; di Gesù si dice che è orientato verso il Padre; dei discepoli si dice soltanto che Gesù li amò ei\v teélov. La relazione tra le due espressioni e\k tou% koésmou touétou e e\n t§% koésm§ suggerisce che l’amore di Gesù, in procinto di lasciare questo mondo e rivolto ai discepoli che sono nel mondo, permetterà anche a loro di operare un esodo dal mondo in cui essi si trovano. La relazione poi tra le due espressioni proèv toèn pateéra e ei\v teélov, entrambe costruite con una particella di moto a luogo, suggerisce che l’amore di Gesù, orientato verso il Padre, determinerà anche per i discepoli un orientamento che ancora l’evangelista esplicitamente non descrive ma che, in maniera più generica, indica soltanto mediante l’espressione ei\v teélov. In questo senso, infine, l’accostamento strutturale tra le due espressioni e\n t§% koésm§ e ei\v teélov e la posizione di quest’ultima prima del verbo, suggeriscono che l’espressione ei\v teélov non si riferisce e non riguarda, o almeno non riguarda soltanto, l’azione di Gesù di amare (h\gaéphsen), ma anche, e forse soprattutto, la condizione dei discepoli che “ (sono) nel mondo”. Ci sembra così di poter concludere che, secondo il testo di 13,1, Gesù, nella prospettiva di passare, prima di pasqua, da questo mondo al Padre, compirà nei confronti dei discepoli, che sono nel mondo, un’opera di amore, che permetterà anche a loro di operare un esodo da questo mondo e che li orienterà verso un termine, ei\v teélov. In 13,1 però l’evangelista espli
h\gaéphsen au\touév. 8
Possiamo proporre la seguente struttura completa:
a\gaphésav touèv i\dòouv touèv e\n t§% koésm§, ei\v teélov h\gaéphsen au\touév
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citamente non indica quale sia questo termine; tuttavia la relazione, sopra indicata, tra le due espressioni proèv toèn pateéra e ei\v teélov lascia intuire che il termine verso cui Gesù orienterà i discepoli sarà ancora il Padre. 2.1.2. L’espressione ei\v teélov L’espressione ei\v teélov è stata oggetto di ampia discussione tra gli interpreti. Alcuni, pochi, hanno evidenziato il senso cronologico9: Gesù, dopo avere amato i discepoli, si intende in tutta la sua convivenza terrena con loro (a\gaphésav), li amò fino alla fine, fino cioè al termine della sua vita terrena. Altri, più numerosi, ne hanno rilevato il senso intensivo10: prima Il senso esclusivamente cronologico, suggerito anche dalla Volgata latina (in finem), è ritenuto da pochi interpreti. Tra gli antichi possiamo citare Bruno D’Asti, Commentarius in Joannem, in PL 165, 555: fino alla fine Gesù mostrò con quanto amore aveva amato; tra i moderni possiamo citare P. Joüon , L’évangile de notre Seigneur Jésus Christ, Paris 1930, 542; inoltre anche R.C.H. Lenski, The Interpretation of St. John’s Gospel, Columbus (Ohio) 1942, 902, che però osserva che il testo va oltre il singolo atto, includendo tutto ciò che Gesù fece per i discepoli fino alla fine. 9
10 Tra gli autori antichi possiamo citare Ammonio Alessandrino, Fragmenta in S. Joannem, in PG LXXX, col 1481: Gesù manifestò perfettamente il suo amore verso gli uomini; Bonaventura, Commentarius in Evangelium S. Joannis, in S. Bonaventurae Opera Omnia, VI, Ad Claras Aquas 1893, 424: tunc praecipua signa dilectionis ostendit; Ruperto di Deutz, Commentarius. in Joannem., in PL 169, col 677: portò l’amore al punto massimo, cioè la morte; Teofilatto, Enarratio in Evangelium Joannis, in PG 124, 145: ritiene intensità ma in altro senso, nel senso cioè che non omise niente di ciò che conviene fare. Tra gli autori moderni segnaliamo:R.M. Ball, John and the Institution of the Eucharist, in JSNT 23 (1985) 59ss; J.E. Belser, Das Evangelium des heiligen Johannes, Freiburg in Br. 1905, 286: al più alto grado (cita Polibio e la lettera di Barnaba [19,11]); J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, Edinburgh 1928, 454-455: nota che il senso cronologico (“fino alla fine”), coincide con Matteo (cfr. Mt 10,20); L.Cl. Fillion, La Sainte Bible commentée d’après la Vulgata et les textes originaux, Tome VII, Paris 19034, 556 : jusqu’à la perfection; J. Gnilka, Johannesevangelium, Würzburg 1983, 106: bis zur Vollendung; F. Godet, Commentaire sur l’évangile de Saint Jean, II, Neuchâtel 19034, 227-278 : il senso intensivo è quello più corrispondente alla grecità; W. Hendriksen, Exposition of the Gospel according to John, 2vols., London 1969 (repr): fino al massimo; E.C. Hoskyns - F.N. Davey, The Fourth Gospel, London 19472, 436: l’amore di Dio trova completa espressione nella morte del Figlio; J. Huby, Le discours de Jésus après la cène, Paris 1932,14; I. Knabenbauer, Commentarius in Evangelium secundum Joannem, Parisiis 19062, 412:
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della festa di pasqua, dopo averli amati in tutta la vita, diede loro una più intensa, massima, prova di amore. Altri interpreti11 privilegiano l’aspetto intensivo, senza però escludere quello cronologico; altri12 infine ritengono eximium dedit amoris documentum (cfr. p. 413); N. Lazure, Les valeurs morales de la théologie johannique. Évangile et Épîtres, Paris 1965, 43: perfezione e pienezza; G. Maier, Johannesevangelium, II, Neuhausen -Stuttgart, 1986, 63: nella lavanda dei piedi si esprime una profondità di amore mai raggiunta; J.R. Michaels, John, Peabody 1989 (rist.) 242: the Full extent of his love; A. Schlatter, Der Evangelist Johannes. Wie er spricht, denkt und glaubt, Stuttgart 1930, 278: nella pienezza dell’amore Giovanni vede il senso e il frutto della crocifissione di Gesù; J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, Berlin 19782, 242; G. Segalla, Giovanni, Roma 19907, 363: fino al compimento; H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1973, 325: Gesù porterà a compimento l’amore nel “consummatum est”; R.V. G. Tasker, The Gospel According to St. John. An Introduction and Commentary, London 1960 (repr 1992), 154: li amò completamente donando la vita.
11 Tra gli antichi indichiamo anzitutto Agostino, In Ioannis evangelium tractatus 55, in PL 35, 178, che scrive: «(aspetto intensivo)…quia tantum dilexit eos ut moreretur propter eos…», però poi aggiunge. «(aspetto cronologico): ita sane non prohibemus intelligi…usque ad mortem illum dilectio ipsa perduxit»; più o meno come Agostino, anche Beda Venerabile, In Joannis Evangelium expositio, in PL 92, cap. 13, col 800. Tra i moderni possiamo citare C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, London 19853, 438; P. Beeckmann, L’évangile selon S. Jean, d’après les meilleurs auteurs catholiques, Bruges 1951, 289, che, per il senso cronologico, cita P. Joüon L’évangile de notre Seigneur Jésus Christ, cit., 542, ma che, preferisce, con Lagrange e Huby (Le discours de Jésus après la céne, 14), l’aspetto intensivo («le comble de l’amour au terme de l’existence»); F.F. Ellis, The Genius of John, Collegeville 19842, rist. 1985, 212213; M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, Paris 19487 (repr. 1964), 348: nell’idea di perfezione è contenuta anche quella cronologica; A. Plummer, The Gospel according to St. John, Cambridge 1912 (ultima ristampa), 261; R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, trad. it., Brescia 1981, 32. 12 Tra gli autori antichi possiamo citare: G. Crisostomo, In Joannem Homil 88, in PG 59, hom LXX (al LXIX), col 383: Gesù niente trascurò di ciò che un amante deve fare. Perseverò nell’amore e questo è il segno di amore fervente; W. Strabone, Glossa Ordinaria: Evangelium secundum Joannem, in PL 114, col 404. Tra i moderni segnaliamo: R.E. Brown, Giovanni, trad. it., Assisi 19793, 653; F.F. Bruce, The Gospel of John, Grand Rapids (Michigan) 1984 (repr.), 278; C.H. Dodd, L’interpretazione del quarto vangelo, trad. it., Brescia 1974, 496; R. Fabris, Giovanni, Roma 20032 727, la sovrapposizione dei due sensi è suggerita dalla ripresa di questa terminologia al momento della morte (cfr. 19,28-30); N.M. Flanagan, The Gospel according to St. John and the Johannine Epistles Collegeville-Minnesota 1983, 64; J. Gnilka, Johannesevangelium, Würzburg 1983; F. Godet, Commentaire sur l’évangile de Saint Jean, II, cit., 233; N.
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ugualmente possibili, e anche coesistenti, i due aspetti: a quest’ultima categoria appartiene un numero relativamente più alto di interpreti. L’espressione ei\v teélov, che leggiamo in 13,1, è unica in tutto il vangelo di Giovanni; nel NT però essa si legge anche in altri testi. In Mt 10,22; 24,12 e Mc 13,13 si legge nella frase identica nei due evangelisti: o| deè u|pomeònav ei\v teélov ou/tov swqhésetai. Tutti e tre i testi si leggono nel contesto dell’annunzio delle tribolazioni escatologiche; in questo senso l’espressione ei\v teélov potrebbe essere intesa nel senso cronologico: i discepoli, se vogliono essere salvati, devono perseverare per tutto il tempo che esse durano. L’assenza dell’articolo però suggerisce anche l’aspetto intensivo: qualunque sia, anche grave, la tribolazione che essi debbono affrontare, essi debbono essere perseveranti nella loro fede. In Lc 18,5 l’espressione si legge nel contesto della parabola del giudice iniquo e della vedova molesta; il giudice decide di farle giustizia perché, venendo essa all’indefinito (ei\v teélov), non continui ad importunarlo; il senso dell’espressione, in questo contesto, è insieme cronologico e intensivo. Il senso intensivo può emergere anche in 1Ts 2,16: sui giudei, che gli impediscono di parlare ai pagani perché siano salvi, Paolo dichiara che è manifestata intensamente (ei\v teélov) l’ira di Dio, alla stessa maniera come essi hanno attuato sempre i loro peccati. In 2Cor 3,13, leggiamo l’espressione, con l’articolo, ei\v toè teélov, riferita al genitivo seguente tou% katargoumeénou: si tratta del velo che copriva il volto di Mosè, fino alla sua fine, fino a quando cioè non sarebbe stato distrutto. Esso è stato distrutto in Cristo, ma ancora rimane per gli Ebrei quando si legge l’antica alleanza13. Guillemette, Hungri no more. John, Makati 1989; J. Huby, Le discours de Jésus après la cène, cit., 14; R. Kysar, John, Minneapolis 1986, 207; B. Lindars, The Gospel of John, Grand Rapids 19862, 448; J. Marsh, The Gospel of St. John, Baltimore-London 19712, 483; J. Mateos.- J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, trad. it., Assisi 1982, 549; Michaels J.R., John, cit., 245; L. Morris, The Gospel according to John, Grand Rapids 19952, 614, n. 8. è un esempio del doppio senso tipico di Giovanni; G. Schiwy, Das Evangelium nach Johannes, Würzburg 19682, 114:B. Weiss, Das Johannesevangelium, Göttingen 19029, 248 nota 1; A. Wikenhauser, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1962, 342;
13 Leggiamo pure nel NT delle espressioni analoghe: e$wv teélouv in 1Cor 1,8; 2,13; meécri teélouv in Eb 3,6.14; a"cri teélouv in Eb 6,11 e Ap 2,26. Esse sembrano oscillare tra
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Nei LXX leggiamo l’espressione con relativa frequenza, sia senza articolo (ei\v teélov) sia anche con l’articolo (ei\v toè teélov). L’espressione senza articolo, ei\v teélov, è introdotta talora nel testo dei LXX senza alcuna corrispondenza nel testo ebraico14; talora traduce diversi termini quali: hoLuk (universalità)15, h""LaK (fine)16, hflfk:l (alla fine)17, xacen (perpetuo)18, xacen:l (in perpetuo)19, da(:l (fino a)20, {fMuT-da( (fino a compimento)21, heLak:l-da( (fino alla fine)22. L’espressione con l’articolo, ei\v toè teélov, che traduce, in Dan 11,13 (Th), il termine j"q (fine)23, traduce in genere l’espressione ax"can:mal24, soprattutto nell’introduzione ai Salmi. Prescindiamo dall’espressione con l’articolo ei\v toè teélov, che, come abbiamo indicato si legge quasi sempre nell’introduzione dei Salmi. Il suo significato però rimane incerto25. Ci fermiamo soprattutto sull’espressione ei\v teélov, che si legge in diversi contesti e traduce diverse espressioni ebraiche. l’aspetto cronologico e quello intensivo.
14 Cfr. Gen 46,5; 1Cr 29,19; Gb 6,9; 20,28; 23,3; Gdt 7,30; 14,13; Sir 10,13; 12,11; Salmi 17 (18),35; 29 (30) tit; 42 (43) tit; 72(73),6; Am 9,8; Ab 3,13; Ez 15,4.5; 22,30; Dan (Th) 2,34; 3,19; Dan (LXX-Th), 3 (34). 15 16 17 18
Cfr. Ez 20,40; 36,10. Cfr. Sal 73 (74),11. Cfr. 2Cr 12,12.
Cfr. Salmi 12 (13,1); 15 (16),11; 73 (74),3.
Cfr. Gb 14,20; 20,7; Salmi 9,6.18.32; 43 (44),23; 48 (49),9; 51 (52),5; 67 (68), 16; 73 (74),1.10. 19; 76 (77),8; 78 (79),5; 88 (89),46; 102 (103),9; Ab 1,4. 19
20 21 22 23
Cfr. 1Cr 28,9; Sal 9,18 (AB2). Cfr. Dt 31,24.30; Gs 8,24.
Cfr. Nm 17,13 (28); Gs 3,16. Cfr. Dan (Th) 11.
Cfr. Salmi 4, tit. 5 tit. 6 tit. 8 tit. 9 tit; 10 (11), tit; 11 (12), tit, 12 (13), tit; 13 (14), tit; 17 (18), tit; 18 (19), tit; 19 (20), tit; 20 (21), tit; 21 (22), tit; 30 (31), tit; 35 (36), tit; 38 (39), tit; 39 (40), tit; 41 (42), tit; 43 (44), tit, 44 (45), tit; 45 (46), tit; 46 (47), tit; 48 (49), tit; 50 (51), tit; 51 (52), tit; 53 (54), tit; 54 (55), tit. 24
25 Non è chiaro se questa espressione debba riferirsi allo strumento musicale o a colui che deve eseguire il canto. Secondo lo Zorell, l’espressione dei LXX può significare “ad executionem musicalem”, cfr. F. Zorell, Lexicon hebraicum et aramaicum Veteris Testamenti, Roma 1984, sub xacfn (Pi).
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Negli usi dell’espressione ei\v teélov, sia che traduce qualche espressione ebraica, sia anche che è introdotta nel testo dei LXX senza alcun corrispondente ebraico, ci sembra di scorgere due aspetti fondamentali: sia intensivo, nel senso cioè che una azione è portata al suo pieno compimento26, sia cronologico, non nel senso che una azione è protratta fino ad un certo momento, ma nel senso che una azione si proietta, in maniera indefinita, illimitata, verso il futuro: in questo secondo aspetto, l’espressione ei\v teélov avrebbe il senso di “per sempre”27. Talora, benché più raramente, l’espressione può significare “fino alla fine”28. 26 Possiamo citare, in questo senso, diversi testi: Gdt 14,13 (distruggerci completamente [ei\v teélov])»; 2Mac 8,29: (riconciliarsi pienamente (ei\v teélov) con i suoi servi); Sal 17 (18), 36: («la tua destra mi ha raddrizzato pienamente [a\nwérqwseén me ei\v teélov])»; Sal 72 (73), 6: («li ha afferrati l’arroganza interamente [h| u|perhfanòa ei\v teélov, omesso da BS1])»; Ez 22,30: («per non distruggerla (la terra) interamente [tou% mhè ei\v teélov e\xaleòyai au\thén]»). Dan (Th) 2,34: («e li frantumava (i piedi della statua) del tutto [e\leéptunen au\touév ei\v teélov])».Inoltre anche Gen 46,4; Dan (Th) 3,19; 1Cr 29,19: («portare a compimento [e\pì teélov] la costruzione della tua casa»); Gb 6,9: («avendo cominciato, il Signore mi ferisca, ma completamente non mi uccida [ei\v teélov deè mhé me a\neleétw]»; Gb 20,28: («attiri la sua casa distruzione completa [a\pwéleia ei\v teélov]»); Am 9,8: «tranne che non del tutto sradicherò la casa (ou\k ei\v teélov e\xarw% toèn oùkon) di Giacobbe»); ancora Ez 15,4 (ei\v teélov: interamente); Ez 15,5 (ei\v teélov: interamente);2Cr 12,12: («si ritirò da lui l’ira del Signore e non per distruzione interamente [ei\v teélov]»; Sal 73 (74),3: (alza le tue mani sulla loro tracotanza pienamente [ei\v teélov]»); Gs 8,24: («li passarono a fil di spada completamente [ei\v teélov]: fino all’ultimo)» Nm, 17,13 (28): («fino al compimento (cioè tutti) [(ei\v teélov) dobbiamo morire]? Gs 3,16: «le acque si staccarono completamente (ei\v teélov: fino alla fine)».
27 Possiamo citare, anche in questo senso, diversi testi: Sal 73 (74),11: («perché allontani la tua mano […] per sempre [ei\v teélov»]?); Gdt 7,30: («non ci abbandonerà per sempre (ei\v teélov)»; Si 10,13: («per questo il Signore esaltò le miserie […] li distrusse per sempre [kateéstreyen ei\v teélov au\touév])»; Sir 12,11: Dan (LXX-Th) 3, (34): («non ci abbandonare per sempre [ei\v teélov] a causa del tuo nome)»; Sal 12 (13),1: («fino a quando, Signore, mi dimenticherai, per sempre [ei\v teélov]?)»; Sal 15 (16),11: («mi riempirai di gioia con il tuo volto, soavità nella tua destra per sempre [ei\v teélov])»; Gb 14,20; 20,7: («allora perirà per sempre [ei\v teélov])»; Salmi 9,6. 19 (AB2): («poiché non per sempre (ei\v teélov) sarà dimenticato il povero»); Inoltre: Sal 9,32; Sal 43 (44),23; Sal 48 (49),9; Sal 51 (52), 7; Sal 67 (68),17; Sal 73 (74),10; Sal 73 (74),1.19; Sal 76 (77),8; Sal 78 (79),5; Sal 88 (89), 46; Sal 102 (103),9; Ez 20,40; Abaq 1,4. 28 Cfr. Gs 8,24: («li passarono a fil di spada completamente [ei\v teélov] fino all’ultimo)»; Gs 10,13: «(il sole) non corse al tramonto fino alla fine (ei\v teélov) di un giorno»; Nm, 17,13
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Ci possiamo chiedere se questi usi dei LXX dell’espressione ei\v teélov non possano, in qualche modo, illuminare quella di Gv 13,1; osserviamo tuttavia che la sua sola considerazione, anche alla luce degli usi neotestamentari e della versione greca, non sono sufficienti a coglierne il suo significato; il testo di 13,1 stabilisce infatti delle relazioni che permettono di precisarne ulteriormente il senso. 2.2. Le relazioni di 13,1 Le relazioni che l’espressione di Gv 13,1 permette di stabilire sono anzitutto con i seguenti vv. 2-5; inoltre con il testo di 19,28-30, con quello di 7,39 e 19,34, con 18,3-4 e, infine, anche con 12,1-829. 2.2.1. La relazione a 13,2-5 La prima relazione, la più importante, è al testo di 13,2-5, cioè a quello immediatamente seguente. Tale relazione si stabilisce anche sul piano letterario, ma soprattutto essa emerge chiara dal punto di vista strutturale. Il v. 1 infatti si articola nei seguenti elementi: 1. Una indicazione cronologica: proè deè th%v e|orth%v tou% paésca, 2. Due proposizioni participiali: ei\dwèv o| }Ihsou%v o$ti h&lqen […] proèv toèn pateéra a\gaphésav touèv i\dòouv touèv e\n t§% koésm§,
3. Una proposizione principale con il verbo diretto: ei\v teélov h\gaéphsen au\touév. Analoga struttura emerge nei vv. 2-5, dove troviamo: (28): «fino alla fine, cioè tutti [ei\v teélov]) dobbiamo morire?»); Gs 3,16: «le acque si staccarono completamente [ei\v teélov: fino alla fine])»; Dt 31,24: Mosè scrisse le parole della legge nel libro fino alla fine [e$wv ei\v teélov: cioè tutte le parole del libro]; Dt 31,30: e cantò Mosé le parole di questo canto fino alla fine [e$wv ei\v teélov].. 29 Prescindiamo però in questo studio dalla relazione più complessa con quest’ultimo testo, 12,1-8.
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1. una indicazione cronologica: kaì deòpnou ginomeénou, 2. Due proposizioni participiali: tou% diaboélou h"dh beblhkoétov […] }Iskariwétou ei\dwèv o$ti paénta […] proèv toèn pateéra 3. Una serie di verbi diretti: e\geòretai e\k tou% deòpnou tòqhsin taè i|maétia labwèn leéntion dieézwsen e|autoén eùta baéllei u$dwr kaì h"rxato nòptein […] kaì e\kmaéssein […].
Possiamo accostare anzitutto le due indicazioni cronologiche: la prima (proè deè th%v e|orth%v tou% paésca) ci riporta ad un tempo prima di pasqua in un momento non ulteriormente precisato; la seconda (kaì deòpnou ginomeénou) ci riporta nel cuore del banchetto30. Sono pure accostabili, in maniera concentrica, le proposizioni participiali: le prime due alle altre due. La prima del v. 1 (ei\dwév) si relaziona con la seconda del v. 2 (ei\dwév); esse hanno in comune lo stesso verbo ei\dwév e tematicamente si relazionano in rapporto di continuità31. Inoltre la seconda del v. 1 (a\gaphésav) si relaziona con la prima del v. 2 (beblhkoétov), in un rapporto di antitesi: all’opera di Gesù che ha amato i discepoli si contrappone quella del diavolo che spinge Giuda ad alienare (i$na parado_) Gesù32. 30 Scegliamo, con diversi codici, la lettura al presente ginomeénou e non all’aoristo ginomeénou; le motivazioni di tale scelta sono indicate nel nostro studio: La Lavanda dei
piedi (Gv 13,1-5):Il coinvolgimento dei discepoli nell'esodo di Gesù mediante l'amore, I, in «Synaxis» XIV/2 (1996) 27-120: 65-68. Possiamo soltanto osservare che il soggetto di questa espressione non sono i discepoli che mangiano, come spesso si traduce (“mentre mangiavano”), bensì il banchetto che diviene, che progredisce. Del mangiare si parlerà poi soltanto in 21,12-14.
La coscienza di Gesù che è giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre si colloca nello sfondo più ampio della duplice coscienza di Gesù che tutto il Padre gli ha dato nelle mani e che da Dio è uscito e a Dio va. 31
32
Si ottiene così la seguente relazione strutturale: v. 1. ei\dwèv o| }Ihsou%v o$ti h&lqen […] proèv toèn pateéra
v. 2-3.
a\gaphésav touèv i\dòouv touèv e\n t§% koésm§, tou% diaboélou h"dh beblhkoétov […] }Iskariwétou ei\dwèv o$ti paénta […] proèv toèn pateéra.
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Le relazioni sopra indicate permettono, di conseguenza, di stabilire anche una relazione tra l’unico verbo diretto del v. 1 (ei\v teélov h\gaéphsen) e la serie di verbi diretti, in forma intrecciata al presente e all’aoristo, dei vv. 3-5. Su questi verbi e sul loro significato, magari fugacemente, torneremo più avanti. Per ora notiamo soltanto che il parallelismo indicato suggerisce che in essi deve essere cercato l’ei\v teélov h\gaéphsen del v. 1. 2.2.2. Le altre relazioni La seconda relazione del v. 1 è con il testo di 19,28-20. Essa è stabilita per il termine teélov, in 13,1, e per il duplice uso del verbo corrispondente teleéw, al perfetto medio (teteélestai), in 19,28-30. Tale relazione è confermata dal fatto che il termine teélov, in tutto il vangelo di Giovanni, si legge soltanto in 13,1 e il verbo teleéw, sempre nel vangelo di Giovanni, si legge soltanto due volte, appunto nel contesto di 19,28-3033. Il termine teélov, nell’espressione ei\v teélov, caratterizza, in 13,1, il verbo h\gaéphsen che lo precede; il verbo teleéw, nella forma al perfetto teteélestai, in 19,28, precede le parole dirette di Gesù: diyw%; in 19,30 invece precede le parole dell’evangelista: pareédwken toè pneu%ma (donò lo Spirito)34. Ciò suggerisce che il contenuto e il senso dell’espressione ei\v teélov h\gaéphsen debba essere ricercato anche in 19,28-30, cioè nell’esclamazione di Gesù diyw% e nelle parole dell’evangelista pareédwken toè pneu%ma, cioè nella sete di Gesù e nel conseguente dono dello Spirito. La relazione con i testi di 7,39 e 19,34 non è stabilita direttamente con l’espressione di 13,1, ma con l’azione di Gesù, in 13,5, di versare Nella prima e quarta espressione la relazione è per continuità; nella seconda e terza è per antitesi. 33
Nel vangelo si legge pure, cinque volte (4,34; 5,36; 17,4.23; 19,28), il verbo
teleioéw. Esso si ricollega meglio all’aggettivo teéleiov, che però è assente in tutto il vangelo.
Si ottiene così la seguente relazione strutturale: 13,1 19,28-30 Ei\v teélov teteélestai 34
h\gaéphsen diyw% teteélestai pareédwken toè pneu%ma
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acqua (baéllei u$dwr), specificamente per il termine u$dwr. Tale termine è abbastanza frequente nel vangelo di Giovanni35, ma è introdotto in esso in maniera alquanto sproporzionata: si legge infatti tre volte nel cap. 136, tre volte nel cap. 237, tre volte nel cap. 338, nove volte nel cap. 439, 4 volte nel cap. 540. Dopo il cap. 5, il termine u$dwr si legge solo tre volte, in posizione equidistante, in 7,38; 13,5; 19,34. In tutti e tre i testi si evidenzia il fatto che l’acqua scaturisce da Gesù: chiaramente in 19,34; in 13,5 è lui che la versa dal catino; in 7,38 la koilòa, da cui scaturisce l’acqua, identificata con lo Spirito (v. 39), è quella di Gesù41. Trovandosi così al centro tra 7,38-39 e 19,34, il testo di 13,5 non può non essere letto se non alla luce di essi42. 35 36 37 38
25 volte: quasi un terzo degli usi complessivi del NT (80 volte). Cfr. vv. 1,26.31.33, riferiti al battesimo “in acqua” di Giovanni. Cfr. vv.2,7.9.9, riferiti all’acqua divenuta vino.
Cfr. vv.5.8.23, riferiti, tranne il v. 23, alla nascita da acqua e Spirito.
Cfr. vv. 7.10.11.13.14 (ter).15.46, tutti, tranne il v. 46, nel contesto del dialogo con la donna samaritana. 39
40 Cfr. vv. 3.4 (bis).7, nel contesto dell’episodio della guarigione del paralitico alla piscina di Betzata. 41 Cfr. il nostro studio con annessa bibliografia: L'utilizzazione del capitolo 55 del Libro di Isaia nel Vangelo di Giovanni, in «Synaxis» VII (1989) 7-90: 36-39, nota 91: Il testo di 7,38-39 può essere relazionato sia a 19,34 che a 19,30, secondo uno schema concentrico: 7,38: Fiumi dal suo seno sgorgheranno di acqua viva 7,39: Ciò disse dello Spirito, 19,30: Donò lo Spirito 19,34: Uscì sangue ed acqua.
42 Ai testi di 19,30.34 sembrano convergere, in maniera concentrica, anche i racconti di Cana e della Samaritana. Si può stabilire infatti la seguente relazione tra il cap. 2 e 19,34; 2,9: L’acqua Divenuta vino 19,34: Uscì sangue Ed acqua. Si può stabilire inoltre, secondo un modo di composizione ad incastro, la seguente relazione tra il testo di 19,28-30 e il racconto della Samaritana, nel seguente modo: 19,28: ho sete 4,7: dammi da bere 4,15: Signore, dammi quest’acqua, 19,30: donò lo Spirito,
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Un altro elemento di relazione è costituito dal participio ei\dwév che, nel contesto di 13,1-3, si legge due volte. Il verbo oùda, nel vangelo di Giovanni, si legge con notevole frequenza (85 volte); si legge pure, diverse volte, riferito a Gesù come soggetto di conoscenza43. Il participio ei\dwév si legge poi sei volte; al nostro scopo interessano soltanto gli usi di 13,1.3; 18,4; 19,2844. Gli usi di 18,4 e di 19,28 in certo modo includono la narrazione della passione. In 18,4 leggiamo che Gesù “conosceva (ei\dwév)” le cose che dovevano accadere su di lui; in 19,28, leggiamo che Gesù, «sapendo (ei\dwév) che tutto era stato portato a compimento disse: ho sete». Scorgiamo un progresso da 18,4 fino a 19,28. In 18,4, nella conoscenza di ciò che doveva accadere su di lui, Gesù inizia un cammino andando incontro a quelli che erano venuti a catturarlo; in 19,28 invece Gesù ha la coscienza che il cammino è stato compiuto e compie l’ultimo atto donando lo Spirito. Il testo di 19,28 poi presenta una duplice relazione con 13,1, non solo per il verbo ei\dwév, ma anche per il termine teélov, che richiama il duplice teteélestai. di 19,28.30. Tra 13,1 e 19,28 si può notare un progresso ed anche un restringimento di prospettiva: il progresso consiste nel fatto che l’espressione di 13,1 ei\v teélov h\gaéphsen ha un valore ingressivo: indica cioè l’inizio di una azione o di un cammino; il duplice verbo teteélestai di 19,28.30 si riferisce ad una azione già portata a compimento e che tuttora perdura. Forse una relazione può essere stabilita anche tra il testo di 13,3 e quello di 18,4, tra i quali, oltre il verbo ei\dwév, non c’è altra relazione né letteraria né di prospettiva, ma soltanto una certa analogia tematica: in 13,1, nella coscienza che tutto il Padre gli ha dato nelle mani e che da Si ottiene così la seguente relazione globale concentrica: 2,9 (Cana): L’acqua divenuta vino, 4,7-15 (La Samaritana) il dono dell’acqua 19,30: Il dono dello Spirito 19,34: L’uscita di sangue ed acqua. 43
Cfr. 3,11; 4,22; 5,32; 6,6.64;7,29; 8,14. 55a.55c; 13,18.
Gli altri due usi sono in 6,61 e in 21,12. L’uso di 6,61 è riferito ancora a Gesù che seppe (ei\dwév) che mormoravano a riguardo di ciò che aveva detto sul pane; l’uso di 21,12 è riferito ai discepoli che sapevano (ei\doétev) che “Gesù è”. 44
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Dio è uscito e a Dio va, Gesù compie la serie di azioni di cui, la prima, è quella di alzarsi (e\geòretai) dal banchetto; in 18,4, nella coscienza di ciò che doveva accadere su di lui, egli uscì (e\xh%lqen) incontro a quelli che erano venuti, capeggiati da Giuda, ad arrestarlo. Se questa relazione è valida, in 18,4 si avrebbe l’inizio dell’attuazione della missione per cui Gesù è uscito dal Padre. Se questa relazione ancora è valida, potremmo stabilire la seguente relazione concentrica: 13,1: nella consapevolezza (ei\dwév) dell’ora giunta, Gesù a compimento amò (ei\v teélov h\gaéphsen); 13,3: Nella consapevolezza (ei\dwév) di essere uscito da Dio e di andare a Dio, Gesù compie la serie di azioni sui discepoli; 18,4: Nella consapevolezza (ei\dwév) di ciò che doveva accadere su di lui, Gesù va incontro a quelli che debbono catturarlo; 19,28.30: Nella consapevolezza (ei\dwév) che tutto è stato portato a compimento, Gesù esprime la sua sete e dona lo Spirito. Non insistiamo ulteriormente su queste relazioni, che appaiono anche abbastanza tenui; esse però ci permettono di concludere che il contenuto dell’ei\v teélov h\gaéphsen, di cui si parla in 13,1, dev’essere cercato non solo in 13,2-5 e non solo in 19,28-30, ma in tutta la narrazione della passione. Un’ultima relazione del racconto di 13,1-5, benché da essa e da ulteriori approfondimenti, come abbiamo indicato, in questo studio preferiamo prescindere, infine è anche con quello di 12,1-8: l’unzione di Gesù, da parte di Maria, sorella di Lazzaro, a Betania. Maria, trovandosi Gesù nella sua casa, prese dell’unguento prezioso e, con esso, unse i piedi a Gesù e li asciugò con i capelli. Le somiglianze sono evidenti, ma sono evidenti anche le differenze. Anzitutto Gesù non è soggetto di azione bensì oggetto: non compie una azione ma la riceve. Inoltre egli è relazionato non ai discepoli che ricevono l’azione ma ad una donna che la compie. Ancora non si tratta di lavare (nòptein) i piedi (touèv poédav), ma di ungerli (h"lòeiyen). Infine essi sono asciugati (e\xeémaxen) non con un asciugatoio (t§% lentò§) ma con i capelli (ta_v qrixòn) di Maria.
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Questo episodio non aiuta a comprendere l’ei\v teélov h\gaéphsen di 13,1, ma indica che l’azione di Gesù di lavare i piedi ai discepoli è solo una parte di un evento molto più ampio, dove Gesù, sia come oggetto che come soggetto, è al centro. Possiamo allora concludere che le varie relazioni, che sia il testo di 13,1 che tutta la descrizione di 13,2-5 permettono di stabilire, rivelano un senso più profondo dell’azione di Gesù che può costituire il contenuto dell’ei\v teélov h\gaéphsen che Gesù attuò prima della festa di Pasqua. Poniamo perciò adesso il problema sul significato dell’azione di Gesù di lavare i piedi dei discepoli. 2.3. L’azione di Gesù di lavare i piedi dei discepoli Cominciamo da questa azione di Gesù perché è quella che è ha attirato maggiormente l’attenzione degli interpreti. Narra l’evangelista che Gesù Cominciò a lavare (h"rxato nòptein...) i piedi. 2.3.1. Le posizioni degli interpreti45 Questa azione di Gesù è stata variamente interpretata e non è facile classificare le varie posizioni degli interpreti perché talora le diverse prospettive si intrecciano46. Possiamo però ricondurre le varie posizioni a tre aspetti fondamentali: morale, soteriologico, sacramentale.
Per le varie posizioni degli interpreti circa l’azione di Gesù di lavare i piedi, riproponiamo quanto abbiamo già proposto, magari con qualche aggiornamento, nello studio sulla lavanda dei piedi, in Synaxis XV/1 (1997) 7-87: 42-54. 45
Un quadro delle varie interpretazioni è stato offerto da J. Beutler, Die Heilbedeutung des Todes Jesu im Johannesevangelium nach 13,1-20, in: K. Kertelge (hrg), Der Tod Jesu, Freiburg-Basel-Wien 19822, 188-204; da G. Richter, Die Fusswaschung im Johannesevangelium. Geschichte ihrer Deutung, Regensburg 1967, 287-320; da F.F. Segovia, John 13,1-20. The Footwashing in the Johannine Tradition, cit., 31-51; anche da A. Corell, Consummatum est, London 1958, 69ss. 46
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In senso morale, l’azione di Gesù di lavare i piedi è stata interpretata come un esempio e una lezione di umiltà47; come un gesto di umiltà48, Cfr. Ammonio Aless, Fragmenta in S.Joannem, cit., col. 1481; C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 440; G.R. Beasley-Murray, John, Waco-Texas 1987, 233; P. Beeckmann, L'évangile selon S. Jean, cit., 290; J.H. Bernard, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, cit., 459s; R.E. Brown, Giovanni, cit., 670, Th. Calmes, Évangile selon S. Jean, Paris 19062, 132: la lezione di umiltà è dovuta alla disputa riferita da Lc 22,24-27; Cirillo Aless, In Joannis Evangelium, lib XII, in PG lxxiv, col 114; P. Fiebig, Die Fusswaschung, in Angelos 3 (1930) 121-128; F. Godet, Commentaire sur l'évangile de Saint Jean, II, cit., 233: Gesù vuole insegnare che la condizione per entrare nel regno di Dio è abbassarsi; W.K. Groussow, A Note on John 13,1-3, in NT 8 (1966) 124-131; I. Hastings, St. John, II, Edinburgh 1912, 4; G.A.F. Knight, Feet-washing, in Encycl. of Religion and Ethics, 10, 815: dal momento che mancavano i servi e nessuno era disposto a fare questo servizio, Gesù dà una lezione di umiltà; M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean, cit., 356; W. Lauck, Das Evangelium und die Briefe des heiligen Johannes, Freiburg i.Br. 1941, 321; R.C.H. Lenski, The Interpretation of St. John's Gospel, cit., 908; J. Michl, Der Sinn der Fusswaschung, in Bi 40 (1959) 697-708; L. Morris, The Gospel according to John, cit., 615; S.M. Schneiders, The Footwashing (John 13,1-20). An Experiment in Hermeneutics, in CBQ 43 (1981) 72-96, distingue tra l'aspetto storico (gesto di umile servizio) e aspetto morale, R.H. Strachan, The Fourth Gospel, London 19463, 264: volontaria umiliazione, come senso profondo dell'Eucaristia la cui istituzione da Giovanni non è narrata; Teofilatto, Enarratio in Evangelium Joannis, cit., coll. 147.148. H. Van Den Bussche, Les discours d'adieux de Jésus, Tournai 1959. 47
48 Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 436, spiega che è l’umile servizio del figlio dell’uomo portato a narrazione. Aggiunge anche che non è impossibile che l’episodio si trovasse nella tradizione pre-giovannea, ma nella forma attuale reca l’impronta di Giovanni; Bonaventura, Commentarius in Evangelium Sancti Joannis, cit., 424; P. Comestor, In Evangelia, in PL CXV, VIII, col. 1616; Crisostomo, In Joannem homil LXX, cit., col. 803; Eutimio Zig, Comment in Joannem, in PG CXXIX, coll. 1375-1379; J. Huby, Le discours de Jésus après la Céne, cit., 14; J. Mateos - J. Barreto, Il vangelo di Giovanni, trad. it., Assisi 1982, 555: lavando i piedi Gesù insegna cosa è l’amore leale, prestare servizio all’uomo fino a dare la propria vita per lui; L. Newbigin, The Light has come. An Exposition of the Fourth Gospel, Grand Rapids 1982, 167-168; A. Schlatter, Der Evangelist Johannes, cit., 280 (cita Mekh a Es 21,3); G. Segalla, Giovanni, cit., 362.365: si esprime simbolicamente il supremo servizio di Gesù che, iniziato nell’incarnazione, culmina nella croce; W. Temple, Reading in St John's Gospel, II, London 1945 (complete Edition, repr.1950) 209; J.C. Thomas, Footwashing in John 13 and the Johannine Community, Shéffield 1991, 89; F. Tillmann, Das Johannesevangelium, Bonn 19314, 200; B.F. Westcott, The Gospel according to St. John, Grand Rapids (repr.) 1981, 190.
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di servizio49; l’opera di uno schiavo50; richiama Lc 22,2751; un esempio da imitare52; una richiesta di solidarietà53; il modello dell’amore che si
Cfr. J. Blank, El evangelio según San Juan, Tomo Segundo, trad. sp. Barcelona 1984, 35; J. Gnilka, Johannesevangelium, Würzburg 1983, 106s; J.M. Hum, La manifestation de l’amour selon Saint Jean, in VieSpir 88 (1953) 235, n.19; J.R. Michaels, John, cit., 242; J. Réville, Le quatrième évangile, son origine et sa valeur historique, Paris 19022, 241; M. Sabbe, The Footwashing in Jn 13 and its Relation to the Synoptic Gospels, in ETL 68 (1982) 279-307; E. Schick, Evangelium nach Johannes, Würzburg 1956, 123; G. Schiwy, Das Evangelium nach Johannes, cit., 114. 49
50 Cfr. W. Bauer, Das Johannesevangelium, Tübingen 19333, 168.169, cita Erodoto (VI,19), Plutarco e anche Giuseppe Flavio (Ant VI,13,8), per la letteratura rabbinica cita Schlatter (Sprache und Heimat des 4^ Evangeliums, 125); Bauer vede anche l'influsso di Lc 22,27; G.R. Basley- Murray, John, cit., 233; F.F. Bruce, The Gospel of John, cit., 280, richiama Lc 22,24-27 e anche Fil 2,6; una interpretazione alquanto artificiale è proposta da J.D.M. Derrett, The Footwashing in John XIII and the Alienation of Judas Iscariot, in RIDA 24 (1977) 3-19: forzando i discepoli ad accettare il suo servizio, Gesù li rende comproprietari di se stesso; essi adesso sono capaci di concepirlo come loro schiavo. Giuda aliena la sua parte; cfr. dello stesso autore, Domine, tu mihi lavas pedes? In BibOr 21 (1979) 13-42. Inoltre R. Kysar, John, cit., 208; A. Plummer, The Gospel according to St. John, cit., 261; J. Schneider, Das Evangelium nach Johannes, cit., 243-244; H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 325, tale gesto è indispensabile per avere comunione con Gesù. Tuttavia C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 400, ritiene che questo aspetto non debba essere esasperato, perché anche le mogli solevano lavare i piedi dei mariti e i figli quelli dei genitori. 51 Cfr. W. Bauer, Das Johannesevangelium, cit., 168-169; F.F. Bruce, The Gospel of John, cit., 280; Th. Calmes, Évangile selon S. Jean, cit., 132; C.H. Dodd, L’interpretazione del quarto vangelo, cit., 480, la lavanda dei piedi è una versione drammatica di Lc 22,27; L. Morris, The Gospel according to John, cit., 615 n.15; R.V.G. Tasker, The Gospel According to St. John. cit., 154, lavando i piedi, Gesù volle enfatizzare le parole: «sono come colui che serve». 52 Cfr. F.M. Braun, Le lavement des pieds et la réponse de Jésus à Saint Pierre, in RB 44 (1935) 22-33, ma solo spiritualmente. 53 Cfr. J.A.T. Robinson, The Significance of the Foot-Washing, in Neotest et Patr, Leiden 1962, 147.
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fa servo54; il simbolo dell’amore55; un gesto di accoglienza56; il simbolo della purificazione dei discepoli57; il simbolo dei benefici che sgorgheranno per i discepoli dalla croce58. In senso soteriologico si dice anzitutto che la lavanda dei piedi è simbolo-profezia della morte di Gesù59; azione simbolica che rimanda alla 54
Cfr. H.H. Wendt, Das Johannesevangelium, Göttingen 1900, 171.
Cfr. R.H. Lightfoot, St John’s Gospel, Oxford 1956, repr. 1983, 272: lavando i piedi, Gesù mostra il senso dell’incarnazione e della morte (p. 273); C. Niemand, Die Fusswaschungserzählung des Johannesevangeliums, Roma 1993, 189: un simbolo dell’essere e dell’agire del Salvatore che ha come motivo l’amore; G. Schiwy, Das Evangelium nach Johannes, cit.,114: umiliando se stesso nella lavanda dei piedi, Gesù offre il suo amore, dall’incarnazione alla morte. Specificamente secondo R. Eisler, Zur Fußwaschung am Tage vor dem Passah, in ZNW 14 (1913) 268-271, Gesù, da "Servus servorum Dei", lava i piedi alla sua mistica sposa, la chiesa primitiva. 55
Cfr. R. Fabris, Giovanni, cit., 731, gesto che si colloca più sulla linea dell’amore che del servizio. Fabris cita in questo senso: Agostino (epist LV,18); Ambrogio (De Sacr. III,4; De Myst. VI,31-33; De Spiritu Sancto, I,12-15), Cromazio, (Sermo XV,6); Bernardo, (Sermo in Coena Domini, in PL CLXXXIII, 273-274); C. Niemand, Die Fusswaschungserzählung, cit., 179-180, offre una presentazione dell’uso greco ed ebraico, secondo cui lavare i piedi è proprio dello schiavo, ma presenta anche un’altra tradizione (pp. 180-187) secondo cui lavare i piedi è onorare l’ospite e dimostrare amore. All’ospitalità escatologica rimanda A.J. Hultgren, The Johannine Footwashing (13,1-11) as Synbol of Eschatological Hospitality, in NTS 28 (1981) 539-546. 56
Cfr. Alcuino, Commentariorum in Joannem, in PL C, col. 925, la purificazione mediante il sangue; C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 436, la purificazione dei discepoli dal peccato mediante il sangue di Cristo; R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, Göttingen, 1985 (rist. dal 197820), 359.360; J.D.G. Dunn, The Washing of the Disciples’Feet in John 13,1-10, in ZNW 61 (1970) 247-252; Origene, Comment. in Joannem, Tomus XXXII, in PG xl, coll. 741.742, lavare i piedi esprime la purificazione necessaria per quelli che prendono parte all’ultima cena; questa purificazione può essere fatta da Gesù solo, perché l’acqua indica la parola; J.N. Sanders - B.A. Mastin, A Commentary on the Gospel according to S. John, London 1968, 306s; F. Spitta, Das Johannesevangelium, als Quelle der Geschichte Jesu, Göttingen 1910, 289, simbolo di morale purificazione; G. Spörri, Das Evangelium nach Johannes, II, Zürich 1950, 37.38; Th. Zahn, Das Evangelium des Johannes, Leipzig 19215-6, rist. Wuppertal 1983, 530. 57
58
J.D.G. Dunn, The Washing of the Disciples’Feet in John 13,1-10, cit., 247-252.
Così C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 436, l’umiliazione della lavanda dei piedi prefigura l’umiliazione della croce; G.R. Beasley - Murray, John, cit., 233; J. Becker, Das Evangelium nach Johannes, II, Gütersloh et Würzburg 1981, 421; R.E. Brown, Giovanni, cit., 670, nota però che a questo aspetto fu poi intrecciato un 59
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croce come dono di sè60; parabola vissuta della morte61; simbolo dell'umile servizio della croce62. Il senso sacramentale talora è indicato dagli interpreti in modo generico63, talora è visto nel suo aspetto rituale64; altri autori rimandano
simbolismo secondario battesimale, introducendo i vv.10b-11; F.F. Bruce, The Gospel of John,. cit., 280s; P.F. Ellis, The Genius of John, cit., 213; E. Hänchen, Das Johannesevangelium. Ein Kommentar, Tübingen 1980; R.A. Henderson, The Washing of the Feet: A New Interpretation (St John 13,1-17), in TLond 10 (1925) 126-133, la lavanda dei piedi prefigura l’amore che redime e il potere della croce; E.C. Hoskyns - F.N. Davey, The Fourth Gospel, cit., 437s; R. Kysar, John, cit., 208, un atto prefiguratore della crocifissione; R.H. Lightfoot, St. John’s Gospel, cit., 273; J.R. Michaels, John, cit., 242, il maestro che lava i piedi è il pastore che dà la vita per le pecore; G. Richter, Die Fusswaschung Joh 13,1-20, cit.,13-26; R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, trad. it., Brescia 1981, 33. Tale senso soteriologico però è escluso da C. Niemand, Die Fusswaschungserzählung des johannesevangeliums, cit., 177. 60 Così R.A. Culpepper, The Johannine Hypodeigma. A Reading of John 13, in Semeia 53 (1991) 133-152; W.K.Groussow, A Note on John 13,1-3, cit. 124-131; G. Maier, Johannesevangelium, II, cit., 71; J. Marsh, The Gospel of St. John, Baltimore-London 19712, 483; A. Niccacci, L’unità letteraria di Gv 13,1-38, in EuntDoc 29 (1976) 291-323; J.A.T. Robinson, The Significance of the Foot-Washing, cit., 138-141; R. Schnackenburg, Pietro nel vangelo di Giovanni, in MiscFranc 74 (1974) 273-287; H. Weiss, Footwashing in the Johannine Community, in NT 21 (1979) 298-325.
Cfr. L. Morris, The Gospel according to John, cit., 613; anche R.V.G. Tasker, The Gospel According to St. John, cit., 154. 61
Cfr. N. Guillemette, Hungri no more. John, cit., 168; J. Marsh, The Gospel of St. John, cit., 483; Ruperto Di Deutz, Commentarius in Joannem, cit., col. 680; Von W. Rohden, Die Handlungslehre nach Johannes 13, in TVers 7 (1976) 84 (81-89); A. Wikenhauser, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1962, 345. 62
63 Cfr. Bernardo Di Chiaravalle, Sermo in Coena Domini, 4, in S.Bernardi Opera V. Sermones, II, Romae 1968, 273.274, parla di un sacramento della lavanda dei piedi che non riguarda i peccati gravi (cfr. 13,10), ma gli affetti dell’anima dai quali non si può essere del tutto puri; secondo R.V.G. Tasker, The Gospel According to St. John, cit., si tratta di una azione sacramentale che mira a mostrare la forza purificatrice della morte di Gesù. 64
221.
Cfr. B.W. Bacon, The Sacrament of Footwashing, in ExpTim 43 (1931.1932) 218-
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esplicitamente al battesimo65, specificamente al battesimo degli apostoli66; altri ancora vedono nella lavanda dei piedi una allusione all’eucaristia67, alla penitenza68, all’ordinazione sacerdotale degli apostoli69. 65 Cfr. W. Barclay, The Gospel of St. John, Philadelphia 19562, 164-165; N. Lazure, Le lavement des pieds, in AssSeig 38 (1967) 45 (40-51), simboleggia la purificazione del battesimo cristiano; F.J. Moloney, A Sacramental Reading of John 13, 1-38, in CBQ 53 (1991) 248 (237-256); J.N. Sanders - B.A. Mastin, A Commentary on the Gospel according to S. John, cit., 306s; W. Strabone, Glossa Ordinaria, Evang Joan, cit., col. 405, nel v.10 però l’allusione è alle impurità dopo il Battesimo; Von H. Campenhausen, Zur Auslegung von Joh 13,6-10, in ZNW 33 (1934) 259-271. L’allusione al battesimo invece, secondo Teodoro Di Mopsuestia, In Evangelium Joannis Commentarii, fragmenta, in PG LXVI, col. 771, è esclusa da Gesù stesso nel v.10.
66 Cfr. M.É. Boismard, Le lavement des pieds (Jn 13,1-17), in RB 71 (1964) 5-24; J. Obersteiner, Kann die Fusswaschung die Jesus an den Aposteln vorgenommen hat, als sacramentale Taufe der Aposteln betrachtet werden? In KathKirchenZtgD, 73 (1933) 116, vi vede il battesimo degli apostoli, è criticato però nella stessa rivista da A. Wimmer, Die "Lotio pedum" als "Sakramentale Taufe der Apostel", ibid., 146. Ma già alla lavanda dei piedi come battesino degli apostoli aveva pensato Tertulliano, De Baptismo adversus Quintillam liber, cap. XII, in PL I, coll. 1321-1323.
Così W. Bauer, Das Johannesevangelium. cit., 172; J.E. Belser, Das Evangelium des heiligen Johannes, cit., 395; L. Bouyer, Le quatrième évangile, Paris 1938, 19552, 190-191; Th. calmes, Évangile selon S. Jean. cit., 131; O. Cullmann, Urchristentum und Gottesdienst, Zürich 1950; M. Goguel, Jésus et les origines du Christianisme, III, l’église primitive, Paris 1950; M.D. Goulder, The Liturgical Origin of St. John's Gospel, in StEv 7 (1982) 215.217 (205-221), as deliberately replacing the institution of the Eucharist; A.J.B. Higgins, The Lord’s Supper in the New Testament, London 1952, repr. 1954, 84; A. Loisy, Le quatrième évangile, Paris 19212, 383, accetta la prospettiva eucaristica, ma è criticato da M. Lepin, La valeur historique du quatrième évangile, I, Paris 1910, 423-450, che vede nel gesto di Gesù un gesto di umiltà con il retroscena di Lc 22,26-28; W.L. Knox, John 13,1-30, in HarvTR 43 (1950) 161-163; G.H.E. Mac Gregor, The Eucharistie in the Fourth Gospel, in NTS 9 (1962-63) 111-119; W.S. Reilly, The Gospel according to St. John, in: C. Lattey - J. Keating, The New Testament, II, London-New York-Toronto 1936, 72; E. Renan, Vie de Jésus, Paris 18632, 401; J.N. Suggit, John 13,1-30. The Mystery of the Incarnation and of the Eucharist, in Neotest 19 (1985) 67.68 (64-70). 67
68 Cfr. W. Koch, Zur Einsetzung des Bußsakrament, in TQ 130 (1950) 296-310, in relazione soprattutto al v.10, a cui però A. Fridrichsen, Bemerkungen zur Fusswaschung Joh 13, in ZNW 38 (1939) 94-96, attribuisce solo il senso di una più generale purificazione; alla penitenza per i peccati dopo il battesimo, rimanda, sulla scia di Cipriano, G. Maldonato, Commentarii in quatuor Evangelistas, II, ed. J.M.Raich, Moguntiae 1874, 842. 69
Cfr. E. Lohmeyer, Die Fusswaschung, in ZNW 38 (1939) 79-94.
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Altri autori infine ammettono la possibilità di un duplice senso: accoglienza e servizio70; umiltà e amore71; lezione di umiltà e allusione al battesimo72; aspetto cristologico ed esempio da imitare73; purificazione
70 Cfr. J. Becker, Das Evangelium nach Johannes, II, cit., 421; X. Leon-Dufour Lettura dell’Evangelio secondo Giovanni, III, Cinisello Balsamo 1995, 36-37: azione ospitale compiuta però da un servo.
Cfr. M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean,. cit., 348.349; R.A. Wimmer, Die "Lotio pedum" als "Sakramentale Taufe der Apostel", cit., 147, Gesù volle dare un esempio di quella umiltà e amore che aveva nel cuore. 71
Cfr. Ambrogio, De Mysteriis VI, 31-33, in PL XVI, col. 398; anche Id. De Sacramentis, Lib III, c.1, in PL XVI, col. 432.433; W. Barclay, The Gospel of St. John, II, cit., 164.165; M.É. Boismard, Le lavement des pieds (Jn 13,1-17), cit., 5-24, prefigura il battesimo (v.5) ed è un esempio di umiltà e soprattutto di amore (vv.12-15); E. Malatesta, Entraide fraternelle par la communion avec Jésus, in Christ 23 (1976) 216 (209-223). 72
Cfr. J. Becker, Das Evangelium nach Johannes, II, cit., 423-425, aspetto salvifico (vv. 4-9)-esempio da imitare (vv.12-15); R.J. Beutler, Die Heilsbedeutung des Todes Jesu im Johannesevangelium nach 13,1-20, cit., il primo aspetto è nei vv. 2-11 (pp. 192-200): pur senza escludere una allusione battesimale, la lavanda dei piedi presenta la morte di Gesù che rende possibile la salvezza. Il secondo aspetto è nei vv.12-20 e presenta la lavanda dei piedi come espressione di amore e perciò come modello per i discepoli da imitare; R. Kysar, John, cit., 208; G. Richter, Die Fusswaschung Joh 13,1-20, cit. 13-26; H. Thyen, Johannes 13 und die "Kirchlische Redaction" des vierten Evangeliums, in Tradition und Glaube. Das frühe Christentum in seiner Umwelt, für K.G. Kuhn, Göttingen 1971, 350 (343-356). 73
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spirituale e umile servizio74; umiltà e segno75; servizio ed esempio di servizio76; aspetto cristologico e umiltà77; atto di sacramentale comunione con
74 Agostino, In Joannis Evangelium Tract LV, cit., col. 1787, la lavanda dei piedi denota l’ufficio del servo, ma anche la purificazione dopo il battesimo; così anche Beda Ven, In Joannis Evangelium expositio, cit., col. 800; R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, cit.; purificazione mediante la parola (p. 360), esempio di servizio (p. 361); D.A. Carson, The Gospel according to John, Grand Rapids 1991, 458, simbolo della purificazione spirituale (vv.8-11) ed esempio di umile servizio (vv.12-17). Lavando i piedi (cfr. p. 463), Gesù mostrò di essere uno che serve; W.L. Knox, John 13,1-30, cit., 161-163, dopo avere notato il “caos” (!) nella narrazione del c.13, nota che nei vv.6-11 si esprime la necessità della purificazione dei peccati che non conducono alla morte prima di accedere alla Eucaristia, richiamata dalla lavanda dei piedi; nei vv.12ss la lavanda dei piedi appare invece come esempio di umiltà e di umile servizio; M.J. Lagrange, Évangile selon S. Jean,. cit., 348.349, segue Ambrogio, Bernardo e Origene; H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 325, mentre si esprime l’alienazione che Gesù fa di se stesso, fino a compiere il servizio di uno schiavo non israelita, si esprime anche la costante purificazione dei discepoli che avviene nell’Eucaristia; Th. Zahn, Das Evangelium des Johannes, cit., il servizio che il servo o la serva rende all’ospite del suo signore (p. 527), ma è anche la purificazione di cui si ha sempre bisogno nella vita (p. 530). 75 Cfr. C.H. Dodd, L’interpretazione del quarto vangelo, cit., 480, la lavanda dei piedi esprime umiltà ed è segno dell’incarnazione; è pure un mezzo offerto ai discepoli per avere parte con Gesù.
Cfr. R.C.H. Lenski, The Interpretation of St. John's Gospel, cit., 908; A. Schlatter, Der Evangelist Johannes, cit., 281, cita Mekh a Es 21,1, l’esempio della madre del Rabbì al quale, al ritorno dalla sinagoga vuole lavargli i piedi, in segno di onore, ma questi lo impedisce; S. Schulz, Das Evangelium nach Johannes, Göttingen 197812, 171, servizio offerto da Gesù ai suoi (nei vv. 4.5.6-11), è un esempio di servizio per i discepoli (nei vv.12-20). 76
Cfr. F.F. Segovia, John 13,1-20.The Footwashing in the Johannine Tradition, in ZNW 73 (1982) 32-34 (31-51), la lavanda dei piedi è un semeion della potenza e della glorificazione di Gesù (vv.1a.5a-10a.10b-11), nell’aggiunta (vv.1b-4.12-17.18-20) diventa atto di amore ed esempio di umile servizio; J.N. Suggit, John 13,1-30, cit., 67- 68, l’azione mostra l’umile servizio di Gesù e la condiscedenza alla parola di Dio nell’incarnazione e nel dono di sé alla croce. 77
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Lʼamore di Gesù verso i discepoli
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Gesù ed esempio morale78; senso cristologico con valore sacramentale79; altri autori propongono altri aspetti più articolati80. 2.3.2. Alcuni esempi dalla Scrittura Di una azione di lavare i piedi si parla in diversi testi dell’AT e anche del NT. In Gen 18,4, nell’episodio dei tre personaggi che visitano Abramo, essa si inserisce, per così dire, in un rituale di accoglienza: dopo aversi lavato i piedi agli ospiti infatti è proposto loro il riposo a cui dovrà seguire il banchetto. É ben comprensibile che, dopo un viaggio fatto a piedi, si ha bisogno di un buon pediluvio, e questa è la prima attenzione che bisogna avere verso un ospite. Si può notare però che non è Abramo a lavare i piedi: egli si limita soltanto a far portare acqua ({iyam-+a(:m )fn-xaQuy) e a suggerire ai tre personaggi che si lavino i piedi81. Il comando stesso di Abramo non sembra andare oltre l’aspetto dell'accoglienza e dell’ospitalità. In Gen 24,32 leggiamo che Labano dopo avere accolto in casa sua l’uomo inviato da Abramo a cercare una moglie ad Isacco, suo figlio, offrì acqua per
78 Cfr. J. Wellhausen, Das Evangelium Johannis, Berlin 1908, 59, il senso di atto sacramentale di comunione con Gesù è nel v.5, il senso di esempio morale è nel v.12.
79 Cfr. C.K. Barrett, The Gospel according to St. John, cit., 436, il senso battesimale ed eucaristico però è solo secondario; W. Bauer, Das Johannesevangelium, cit., 172, il senso profondo è nella morte di Gesù, suprema opera di amore, il cui sangue purifica nel battesimo e nel banchetto eucaristico.
Cfr. G. Maier, Johanesevangelium, II, cit., propone tre aspetti sul fondamento della purificazione (v.10): il rimando alla croce dove il sangue di Cristo purifica tutti i peccati - la purificazione quotidiana interscambiabile per i discepoli - il servizio di Gesù reso alla croce; F. Mussner, Die Fusswaschung (Joh 13,1-17), in GL 31(1958) 28-30 (25-30), propone pure tre sensi: esempio di umiltà - esigenza non di un nuovo battesimo, ma di una seconda penitenza per i peccati dopo il battesimo - segno del profondo servizio di Gesù mediante la passione e la morte. 80
81 Cfr. l’espressione {eky"l:gar UcAxar:w. Nei LXX l'espressione niyaétwsan touèv poédav, attiva senza soggetto espresso, ha un carattere indefinito. Secondo il TM sono i tre personaggi che debbono lavarsi i piedi (UcAxar), secondo i LXX sono altri, non ben definiti, che debbono lavarli. Cfr. la stessa espressione in Gen 19,2, riferita ai due angeli accolti da Lot; anche secondo i LXX loro stessi debbono lavarsi i piedi (nòyasqe touèv poédav u|mw%n).
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