XXXVIII/2 - 2020
SEZIONE MONOGRAFICA IN MEMORIA DI ATTILIO GANGEMI
Studio Teologico S. Paolo Catania
Š 2020 Studio Teologico S. Paolo 95126 Catania viale Odorico da Pordenone, 24 tel. 095222654 synaxisredazione@studiosanpaolo.it www.studiosanpaolo.it Finito di stampare nel mese di dicembre 2020
95027 San Gregorio di Catania via Ticino, 10 klimax@klimaxedizioni.it www.klimaxedizioni.it
SOMMARIO Sezione monografica PRESENTAZIONE
Salvatore Consoli
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L’ASCOLTO DELLA PAROLA: DIMENSIONE PNEUMATOLOGICA ED ECCLESIALE
Carmelo Raspa
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L’articolo prende in esame la dimensione ecclesiale e pneumatologica dell’ascolto della Parola di Dio, mediante l’esame di alcuni passi della Scrittura e tenendo presenti le istanze della Dei Verbum e della Verbum Domini. Un tale ascolto si rivela “essenziale” per la Chiesa, la sua identità e missione. This article examines the ecclesial and pneumatological dimension of listening to the Word of God, by examining some passages of Scripture and reading the requests of Dei Verbum and Verbum Domini. Such listening is “essential” for the Church, its identity and mission. QUANDO LA VETUS LATINA SI FA PROSSIMA CASI TESTUALI IN EST 3
Dionisio Candido
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In chiave critico-testuale il presente studio mostra l’utilità della Vetus
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Latina per cogliere alcuni aspetti della trasmissione testuale del libro di Ester nelle tradizioni testuali ebraica e greca. In particolare emerge il suo ruolo nel determinare l’importanza del cosiddetto Testo Alpha in epoca antica, ben prima della sua attestazione manoscritta che risale a non prima del sec. XI d.C. From a critical-textual point of view, this study shows how Vetus Latina can be useful in order to grasp some aspects of the textual transmission of the book of Esther in the Hebrew and Greek textual traditions. In particular, one can realise its role in determining the importance of the so-called Alpha Text in ancient times, well before its handwritten attestation which goes back to no earlier than the XI century AD. FINCHÉ C’È MIRYAM, C’È SPERANZA SUGGESTIONI ESEGETICHE SU NM 12,1-16
Carmelo Russo
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Myriam, sorella di Aronne e Mosè, sebbene priva di discendenza, è colei che fa rinascere l’identità pasquale del popolo d’Israele. Il simbolo dell’acqua, sempre presente nelle narrazioni che la riguardano, è catalizzatore di speranza e di rigenerazione. Anche la difficile pagina di Nm 12,1-16, intesa comunemente come resa di conti sulla leadership profetica, viene interpretato alla luce di questa missione generativa di Myriam, fragile e necessaria. Grazie alla lebbra e alla sua temporanea estromissione dall’accampamento, Miryam capirà “sulla sua pelle” che i markers identitari del popolo sono, in ultima istanza, segnati dal dito di Dio e non dalle regole degli uomini o dalla genetica. Miriam, the sister of Aaron and Moses, although without descendants, is the one who revives the Pascal identity of the people of Israel. The symbol of water, ever present in narratives about her, is the catalyst of hope and regeneration. Also, the difficult passage of Nm 12,1-16, usually taken as an evaluation of prophetic leadership, is interpreted in the light of this generative mission of Miriam, fragile
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and necessary. Because of leprosy and her temporary banishment from the camp, Miriam understands first hand that the identity markers of the people, after all, are marked by the finger of God and not by the rules of men or genetics. CALENDARI E FESTE DI PELLEGRINAGGIO NEL PENTATEUCO
Giuseppe D’Anna
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Il presente saggio presenta le caratteristiche letterarie e teologiche delle tre feste di pellegrinaggio all’interno dei tre calendari liturgici del Pentateuco. Il fondamento teologico della legislazione biblica sta nel fatto che tutte le leggi che si trovano nella Torah, sono proclamate dallo stesso Dio allo stesso Mosè, sulla stessa montagna del Sinai/ Horeb. Le feste di pellegrinaggio sono destinate a ricordare verità religiose fondamentali: la Pasqua/Massot la dottrina dell’esistenza di Dio; la festa delle Settimane la sua rivelazione e la festa delle Capanne la sua provvidenza soccorritrice. Il codice dell’alleanza sostiene la riforma di Ezechia, il codice deuteronomico la riforma di Giosia e il codice sacerdotale la liturgia del giudaismo postesilico. Natura e storia, mondo agricolo e pastorale, lavoro e riposo, produzione e offerta, gratitudine e solidarietà, diventano luoghi della salvezza per il pellegrino israelita. This essay presents the literary and theological characteristics of the three pilgrimage feasts within the three liturgical calendars of the Pentateuch. The theological foundation of biblical legislation lies on the fact that all the laws found in the Torah are proclaimed by the same God to the same Moses, on the same mountain of Sinai/Horeb. Pilgrimage feasts are meant to recall fundamental religious truths: Easter/Massot the doctrine of God’s existence; the Feast of Weeks his revelation and the Feast of the Huts his saving providence. The code of the alliance supports the reform of Hezekias, the deuteronomic code the reform of Josiah and the priestly code the liturgy of postexile Judaism. Nature and history, agricultural and pastoral world,
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work and rest, production and offering, gratitude and solidarity, become places of salvation for the Israelite pilgrim. DI NASCOSTO
Maurizio Aliotta
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L’autore analizza l’uso dell’avverbio λάθρᾳ in due delle quattro occorrenze neotestamentarie, considerando in particolar modo il contesto giudaico negli episodi narrati dagli evangelisti Matteo e Giovanni. The author examines the use of the adverb λάθρᾳ in two of the four New Testament occurrences; he examines in particular the Jewish context of the episodes narrated by the evangelists Matthew and John. «MARIA ERA RIMASTA PRESSO IL SEPOLCRO, FUORI, PIANGENDO» (GV 20,11) ESEGESI PATRISTICA IN OCCIDENTE E IN ORIENTE (SECC. IV-VI)
Francesco Aleo
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Nel presente contributo l’autore presenta alcuni testi omiletici, appartenenti alla produzione di alcuni Padri della Chiesa d’Occidente e d’Oriente, fra il IV e il VI secolo. I testi esaminati sono di Agostino d’Ippona (354-430) e di Gregorio Magno (540-604), per l’Occidente, di Gregorio di Nazianzo (326-390 c.) e dello Pseudo Macario Egizio (IV sec.) per l’Oriente. L’autore dapprima mostra i caratteri della loro esegesi, quindi evidenzia il loro lavoro ermeneutico su Gv 20,11: «Maria era rimasta presso il sepolcro, fuori, piangendo». In this contribution, the author presents some homiletic texts, belonging to the production of some Fathers of the Western and Eastern Church, between the 4th and 6th centuries. The texts examined are by Agostino d’Ippo (354-430) and by Gregorio Magno (540-604), for the West, by Gregorio di Nazianzo (326-390 c.) and by the Egyptian
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Pseudo Macarius (4th century) for the East. First, the author shows the characters of their exegesis, then he highlights their hermeneutic work on Jn 20:11: «Mary stood without at the sepulchre weeping». IL CONGEDO NEGATO RIFLESSIONI SULL’ELABORAZIONE DEL DISTACCO TRA VIVI E DEFUNTI DAL MONDO CLASSICO ALL’EMERGENZA COVID-19
Donatella Puliga
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Questo articolo analizza il significato del congedo dai defunti nella cultura greco classica alla luce di quanto accaduto nella prima drammatica fase della pandemia del COVID-19. This article analyzes the significance of leave from the dead in classical Greek culture in the light of what happened in the first dramatic phase of the COVID-19 pandemic. Sezione miscellanea STORIA E MODELLI DI BIOPOLITICA II PARTE
Salvatore Rindone
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In epoca moderna la biopolitica ha rafforzato la sua logica economica ed utilitaristica mediante l’utilizzo dei mezzi di comunicazione che ha usato per agire e controllare il corpo-sociale. L’articolo prosegue con l’analisi delle nuove questioni di carattere filosofico che sono sorte in relazione al COVID-19. In modern times, biopolitics has strengthened its economic and utilitarian logic through the new media. They are used to control the social body. The article continues with the analysis of the new philosophical issues that have arisen in relation to COVID-19.
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L’ANNUNCIO DEL VANGELO NEL MONDO CONTEMPORANEO PER IL TRAMITE DEGLI STUDI ECCLESIASTICI UNA LETTURA DELLA COSTITUZIONE APOSTOLICA VERITATIS GAUDIUM Gianluca Belfiore 167
L’articolo tenta di indicare lo spirito della riforma degli Studi universitari alla luce del «radicale cambio di paradigma» che viene incoraggiato da papa Francesco. The article attempts to indicate the spirit of the reform of university studies in the light of the «radical paradigm shift» encouraged by pope Francis.
SYNAXIS XXXVIII/2 - 2020 (11-26)
PRESENTAZIONE SALVATORE CONSOLI*
Ho cominciato a scrivere questo profilo del prof. don Attilio Gangemi nel giorno della Memoria liturgica di san Girolamo, non appena appresa la notizia della pubblicazione della Lettera apostolica di papa Francesco Sacrae Scripturae affectus: un contesto unico che aiuta a capire l’attività di studioso, il ministero della docenza e la spiritualità biblica di don Attilio. La morte improvvisa del professore Gangemi coglie di sorpresa lo Studio Teologico S. Paolo mentre celebra il cinquantesimo di fondazione e ritengo che i colleghi e gli alunni possono applicare a don Attilio quanto scrive papa Francesco di san Girolamo: «un affetto per la Sacra Scrittura, un amore vivo e soave per la Parola di Dio scritta è l’eredità che… ha lasciato alla Chiesa attraverso la sua vita e le sue opere… e il suo grande amore per Cristo. Questo amore si dirama, come un fiume in tanti rivoli, nella sua opera di infaticabile studioso, traduttore, esegeta, profondo conoscitore e appassionato divulgatore della Sacra Scrittura; di raffinato interprete dei testi biblici; di ardente e talvolta impetuoso difensore della verità cristiana; di ascetico e intransigente eremita oltre che di esperta guida spirituale, nella sua generosità e tenerezza».
* Preside emerito dello Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Salvatore Consoli
CENNI BIOGRAFICI
Nasce a Randazzo (Catania) il 3 dicembre 1943 ed ivi viene ordinato presbitero il 16 luglio 1967. Da alunno dell’Almo Collegio Capranica di Roma, negli anni 1965-1971, ha compiuto gli studi accademici alla Pontificia Università Gregoriana e all’Istituto Biblico dove la preparazione scientifica si è indirizzata prevalentemente sull’Apocalisse e sul Vangelo di Giovanni. Alla Pontificia Università Gregoriana di Roma ha tenuto Seminari di studi su Esegesi del NT dal 1971 al 1974. Ha insegnato Esegesi del NT e altre discipline bibliche nello Studio Teologico S. Paolo dal 1972 al 2019. Ha insegnato Esegesi del NT alla Pontificia Università Urbaniana di Roma dal 1972 al 1977 e all’Istituto Teologico S. Giovanni Evangelista di Palermo dal 1974 al 1978. È stato rettore del Seminario vescovile di Acireale dal 1979 al 1992. Delegato vescovile per la formazione dei candidati al diaconato permanente dal 1981 al 2019. Stimato e apprezzato per la preparazione e fedeltà alla Parola di Dio, viene spesso invitato a tenere ritiri, conferenze ed esercizi spirituali in diocesi e in tutta l’Isola, diventando un sicuro punto di riferimento. Muore improvvisamente il 21 ottobre 2019 ad Aci Sant’Antonio (CT) presso l’Oasi Maria SS. Assunta, scelta come sua abitazione fin dal 1992 concluso il servizio di rettore del Seminario; la salma è tumulata nel cimitero di Randazzo, nella cappella della famiglia. BREVE PROFILO
La sua profonda umanità si esprimeva nella piena comprensione degli altri e nel tratto amichevole verso tutti, ma particolarmente nell’abitudine di rivolgersi a confratelli, a studenti e ai fedeli con “amici” che ancora risuona nelle orecchie di molti di noi.
Presentazione
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Uomo di grande generosità; quanto possedeva non lo conservava in banca ma lo donava: pagava la retta per i seminaristi che non potevano; la tassa accademica o i libri agli alunni che si trovavano in difficoltà; le offerte che riceveva da conferenze e incontri diventavano gesti di carità compiuti con discrezione e grande cuore. La generosità lo induceva a dire sì alle richieste di collaborazione, di conferenze, di incontri spirituali. Viveva da povero; era sobrio nell’abitazione e nel vestire: gli abiti nuovi erano quasi sempre dono di amiche che mal sopportavano vederlo un po’ trasandato o vestito sempre allo stesso modo. Persona umile; rifuggiva i primi posti: nelle sale da pranzo e da riunioni lo si trovava sempre in fondo, in mezzo agli alunni. Aborriva uffici o titoli d’onore; ha dovuto accettare malvolentieri il canonicato della cattedrale di Acireale perché era un ufficio tradizionalmente legato al rettorato: è stato felice quando finalmente il vescovo ne ha accettato la rinuncia più volte presentata. Il suo carattere schivo e riservato l’ha tenuto sempre lontano da ogni forma di eccessiva visibilità e dai vari riflettori. «Leggi spesso le Divine Scritture; anzi le tue mani non depongano mai il libro sacro»1 è un’affermazione di san Girolamo che può fare da icona per descrivere e ricordare don Attilio: chiara e lineare la sua attività di biblista, si è fatto capire nella scuola e nella vita; ha fatto una “lettura spirituale” della Bibbia perché leggeva in modo evangelico la sua vita e quella degli uomini. È stato un servo della Parola: da studioso ha lavorato sulla Parola, da cristiano si è lasciato lavorare dalla Parola. Significativamente, nei vari ricordi pronunciati o scritti in occasione della sua morte, il suo profilo è stato scolpito come Maestro, Testimone e Servo della Parola. UN PRESBITERO CONSACRATO ALLE SCRITTURE
Gangemi ha fatto della Scrittura il senso della vita; aveva chiara 1
Ep. 52, 7: CSEL 54, 426.
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Salvatore Consoli
la coscienza di essere chiamato a vivere una particolare forma del ministero presbiterale: trasmettere la conoscenza e l’amore alla Scrittura e ce l’ha messa tutta per assolverlo al meglio. Negli studi biblici e nell’amore verso la Bibbia, don Attilio ha investito il suo presbiterato: ha dedicato la maggior parte del suo tempo allo studio della Sacra Scrittura, in modo particolare agli scritti di Giovanni che, ritengo, conosceva a memoria. Ha dedicato il suo ministero presbiterale allo studio e all’insegnamento delle Scritture e alla predicazione della Parola di Dio: i suoi interventi, a qualsiasi livello e di qualsiasi genere, si fondavano sempre su fatti o brani biblici. Standogli accanto si percepiva chiaramente che Attilio pensava la Scrittura, pregava la Scrittura, insegnava la Scrittura e predicava la Scrittura. Portava sempre con sé il testo della Bibbia: per quanti gli siamo stati vicini è spontaneo ricordarlo con il testo del Nuovo Testamento in greco e gli immancabili fogli dove appuntava in modo del tutto personale (un modo rimasto incomprensibile agli altri) le sue note di esegesi. Don Attilio ha dedicato tutta la sua vita e le sue energie alla Parola di Dio, con amore, passione, competenza, intelligenza, privilegiandola su qualsiasi altro interesse; ha veramente incarnato la Parola di Dio e ha donato tutto se stesso all’insegnamento, rivolto a tutti: agli studenti, ai presbiteri, ai laici, ai consacrati, alla Chiesa. Era un amante della Bibbia e sapeva come far rivivere la Parola della Bibbia e farla risplendere in modo nuovo e inaspettato nel dialogo, anche con i non praticanti: sapeva adattarsi sempre alla capacità degli uditori. In lui la lettura della Bibbia era accompagnata da molta umanità, non è stato un ricercatore asettico e distante: ha comunicato e si è fatto capire nella scuola e nella vita, trovando in essa la risposta ai bisogni delle persone e alle loro domande. Accanto agli studi biblici, don Attilio spendeva il suo tempo, soprattutto nei giorni di domenica e di festa, nelle parrocchie dove poteva accostarsi alle persone semplici: anche da questa esperienza è derivata allo studioso la grande chiarezza espositiva e la capacità di dire cose profonde con parole semplici.
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Il docente Gangemi all’approfondimento esegetico abbina sempre l’aspetto pedagogico per la vita del cristiano; tutti i suoi studi hanno sempre dei risvolti di tipo esistenziale e spirituale. In un testo sulla risurrezione di Cristo esprime chiaramente la sua intenzione: «Spero tanto che queste pagine possano, in qualche modo, contribuire ad accrescere la fede nel Signore Gesù, alla cui resurrezione tocca a noi oggi…rendere testimonianza»2. Dopo avere parlato in modo chiaro e convincente dell’Eucaristia, delle Scritture e della carità quali ambiti principali nei quali il cristiano fa esperienza del suo coinvolgimento nel mistero di Gesù Risorto, conclude che «il cristiano è chiamato non a cercare prove sulla resurrezione di Gesù, ma a vivere il suo mistero, a partire dall’esperienza eucaristica. Ciò, in sintonia con la fede della Chiesa e sul fondamento della testimonianza apostolica, conferisce la certezza che il Signore è veramente risorto»3. Questa sua capacità di condurre il discorso con rigore scientifico e di farlo sfociare sempre, in modo semplice e chiaro, nella spiritualità di un’autentica vita cristiana spiega le continue e molteplici richieste a tenere corsi di esercizi spirituali, ritiri, giornate di spiritualità da parte di presbiteri, comunità religiose, gruppi d’impegno cristiano e di parrocchie. Don Attilio è stato uno studioso di grande chiarezza espositiva, caratterizzato dalla capacità di esporre concetti profondi con parole semplici. Vasta, chiara e lineare la sua attività di biblista: è presente a settimane bibliche, a corsi di esercizi, nell’insegnamento in seminari, facoltà, corsi biblici e teologici: la varietà delle richieste obbliga don Gangemi a spaziare su tutti i libri della Bibbia, ad applicare metodi diversi in base agli interlocutori. Attilio Gangemi ha vissuto in modo fecondo e intenso la sua vita dedicandola completamente allo studio della Scrittura: ritengo sia questa la testimonianza che lascia ai colleghi, agli alunni e agli amici. Assiduo l’impegno nello Studio: oltre a consacrarvi delle ore giornalmente, profittava degli intervalli tra le lezioni come pure delle 2 3
È Risorto secondo le Scritture, Acireale 2013, 15-16. Ibid., 141.
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pause nelle riunioni per dedicarsi alla lettura e a prendere appunti di esegesi, a volte anche durante qualche intervento che riteneva inutile o noioso; ritengo che si possa applicare a lui quanto si dice di Girolamo: «egli è tutto nella lettura, tutto nei libri; non riposa né giorno né notte; sempre legge o scrive qualcosa»4. Convinto del notissimo detto di Girolamo che «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo»5, Gangemi studia la Scrittura perché essa lo porta a conoscere sempre maggiormente Cristo. Grazie soprattutto allo studio dedicato in modo particolare agli scritti di Giovanni, si può applicare a Gangemi quanto Girolamo scriveva di Nepoziano: «Con la lettura assidua e la meditazione costante aveva fatto del suo cuore una biblioteca di Cristo»6; don Attilio con i suoi scritti insegna che cosa significhi l’amore di Cristo, amore che è indissociabile dall’incontro con la sua Parola. IL SUO IMPEGNO NELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
Rientrato da Roma ad Acireale viene inviato dalla diocesi come docente di esegesi biblica allo Studio Teologico S. Paolo di Catania, da poco inaugurato, il 13 ottobre 1969, e voluto dalle diocesi di Acireale, Catania, Noto e Siracusa come risposta all’indicazione del Vaticano II sulla necessità e opportunità che gruppi di chiese locali si uniscano per determinate iniziative: fra i campi in cui può esprimersi la comunione e la collaborazione fra di esse suggerisce quello dei Seminari7. Nel 1970 aderisce la diocesi di Nicosia e nel 1977 la diocesi di Caltagirone. Gangemi da subito ha apprezzato e sostenuto con profonda convinzione lo Studio Teologico S. Paolo come luogo di razionalizzazione delle energie, scambio di docenti e di esperienze, di possibilità di conoscersi e stimarsi per le future guide di comunità vicine geoSULPICIUS SEVERUS, Dialogus, I, 9, 5: SCh 510, 136-138. In Isaiam, Prol.: PL 24, 17. 6 Ep. 60,10: CSEL 54, 561. 7 Optatam totius, n. 7. 4 5
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graficamente e sociologicamente, di garanzia per la loro formazione più rispondente alle problematiche e alle esigenze dell’uomo d’oggi; e ancora, lo vede come possibilità di mettere a disposizione dei laici volenterosi una scuola teologica aggiornata, e come luogo di vicinanza con l’Università degli studi ove si esprime e ha origine la cultura. Per dedicarsi sempre maggiormente allo Studio Teologico S. Paolo ha lasciato gli impegni accademici che aveva altrove e ha rinunciato alle richieste che man mano lo raggiungevano. Ha sempre consigliato ai vescovi e ai responsabili delle curie diocesane l’opportunità di sostenere l’istituto; nei vari momenti decisionali o critici per la vita dello Studio è stato sempre propositivo e sempre di aiuto ai diretti responsabili con la fraterna vicinanza e con la saggezza dei consigli8. Sempre presente alle lezioni e alle varie riunioni statutarie; tante volte d’accordo con gli interessati aggiungeva delle lezioni di pomeriggio con singoli alunni, con gruppi o intere classi per approfondimenti e come preparazione agli esami o al tesario per l’esame di baccalaureato9. Ha insegnato Esegesi del NT, Greco biblico, Lingua greca, come docente dal 1972 al 1992; docente stabile dal 1992 al 2014; docente emerito dal 2014 al 2019. Ha animato i Corsi biblici in Terra Santa negli anni 1980, 2000, 2007; i Viaggi nell’oriente cristiano nel 1981, sulle orme di Paolo nel 2004, sulle orme di Mosè nel 2005. Ha tenuto Corsi di studio aperti al pubblico su La letteratura apocalittica nel 1974 e Il ritorno del Signore nel Nuovo Testamento nel 1975.
8 Nei miei lunghi anni di presidenza ho sempre goduto del dono della sua amicizia e vicinanza; attento ai miei umori è stato puntualmente generoso nel sostegno, nel conforto e nei consigli veramente appropriati; non c’era giorno che non passasse dall’ufficio per un saluto e lo scambio di qualche notizia o parola o, in mia assenza, lasciando qualcosa di scritto sull’agenda: segno ne è l’affetto espresso nel dedicarmi per il lungo servizio di Preside il volume Signore, tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. 9 Queste lezioni supplementari a volte le teneva all’Oasi Maria SS. Assunta ad Aci Sant’Antonio ove, a sue spese, offriva il pranzo agli studenti.
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Ha fatto parte del Consiglio di Presidenza, in rappresentanza dei docenti, dal 1976 al 1979; del Consiglio dello Studio, in quanto docente stabile, dal 1992 al 2014. Ha collaborato con Synaxis, rivista dello Studio, facendo parte del Comitato scientifico dal 1993 al 2014; del Comitato di redazione dal 1993 al 2011. Gangemi, pur avendo avuto delle proposte più allettanti di insegnamento in luoghi accademicamente più prestigiosi, è rimasto fedele allo Studio Teologico di Catania, cosciente di contribuire in tal modo allo sviluppo di una giovane istituzione frutto del Vaticano II a servizio delle Chiese locali di cui è espressione: ha prestato il suo servizio alla Chiesa e alla sua chiesa locale attraverso l’insegnamento nello Studio S. Paolo. La sua presenza fisica non è mai mancata anche nei giorni in cui non teneva lezioni: in Biblioteca o nella Sala dei professori è stato sempre a disposizione degli studenti o per consigli o per portare avanti la ricerca per le tesi di baccalaureato o di licenza. Ha curato molto la didattica: la severa logica del discorso, la chiarezza e la semplicità del linguaggio favorivano l’attenzione e l’apprendimento degli alunni. In casi particolari ha indicato e accompagnato dei percorsi commisurati alle capacità della singola persona. Nello Studio S. Paolo generazioni di alunni hanno appreso dal prof. Gangemi un metodo di studio del testo che li ha accompagnati, poi, nel ministero pastorale così come ha accompagnato nella vita professionale, familiare ed ecclesiale laici e laiche: si può ben dire che è stato “maestro” per tante generazioni di alunni che hanno attinto al suo sapere e hanno acquisito il suo metodo. In modo speciale hanno imparato a confrontarsi in modo scientifico con il testo biblico quanti lo hanno scelto come direttore per la tesi di Baccalaureato o di Licenza: ha diretto come Relatore ben 138 tesi di Baccellierato in Teologia dal 1974 al 2019; nonché 32 tesi di Licenza in Teologia morale dal 1993 al 2019, numeri che nessun altro relatore ha raggiunto. Le tesi da lui indicate e personalmente seguite costituiscono un vero patrimonio per quantità e per la qualità dello sviluppo del tema: il Relatore ha profuso disponibilità di tempo e grande attenzione alle persone nella redazione della tesi. Sarebbe au-
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spicabile che venissero pubblicate in una sorta di “miscellanea” raggruppandole per vicinanza di argomento nei vari tomi che la quantità richiederebbe: oltre ai contenuti certamente preziosi si potrebbe meglio cogliere il metodo esegetico dello studioso e pure le sue varie declinazioni nell’apprendimento degli alunni10. Attilio Gangemi attraverso la sua docenza al S. Paolo ha arricchito la Chiesa con le molteplici opportunità di comprensione e di amore alla Scrittura che ha offerto alle generazioni di alunni con vera sapienza, profonda intelligenza e generosa dedizione di tempo e d’impegno. I profondi sentimenti che lo hanno forgiato, animato e sostenuto nello Studio S. Paolo si trovano bene espressi nella premessa al volume In dilectione mea: «con questa “miscellanea” concludo il mio servizio, reso per 42 anni, come docente ordinario del NT, allo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Per questo dedico gli studi qui contenuti alle Sante Chiese di questo Studio… ai Presidi che si sono succeduti in questi anni… ai colleghi… a tutti gli alunni, seminaristi e laici, ragazzi e ragazze… benché con la qualifica accademica di docente emerito, continua ancora la mia collaborazione… fino a quando il Signore vorrà e fino a quando lo Studio avrà bisogno della mia collaborazione»11 e il fatto che sia morto prematuramente e in modo imprevisto già ad anno accademico iniziato indica che il Signore lo ha voluto a quel posto fino alla morte e lo Studio ne ha sempre avuto bisogno. Significativi sia la confessione personale sia l’auspicio espressi nella stessa premessa: «ho intitolato questa miscellanea “In dilectione mea”; lo studio e l’insegnamento di tutti questi anni mi ha aiutato, infatti, a crescere e rimanere nell’amore di Gesù: quell’amore che si 10 Ritengo significativo in tal senso il volume Sulle orme di Gesù dalla Quaresima alla Pasqua. Il ciclo domenicale liturgico dell’anno A, Quaderni di Prospettive 2, Edizioni Arca, Catania 2002, che raccoglie in maniera unitaria due tesi di Licenza in Teologia morale guidate dal prof. Gangemi: mentre il ciclo domenicale quaresimale é stato approfondito da Eugenio Tamà, quello domenicale pasquale da Rosario Scibilia, entrambi presbiteri della diocesi di Messina. I due lavori, uguali nell’impostazione e nel metodo di accostamento al testo biblico liturgico, sono naturalmente risultati due parti di un unico volume di indubbia utilità per la comprensione e la presentazione pedagogica del tempo liturgico più significativo per la vita dei cristiani. 11 In dilectione mea, Quaderni di Synaxis ns 4, Catania-Troina 2015, 9.
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è fatto dono e chiede a tutti di concretizzarsi e manifestarsi nel servizio ai fratelli… Spero tanto che questi studi possano, in qualche modo, aiutare anche altri a riscoprire la dimensione del vero discepolo di Gesù, per “rimanere” anch’essi, mediante l’osservanza del comandamento dell’amore vicendevole, “nel suo amore» (Gv 15,10), nell’amore cioè di Gesù e, attraverso di esso, nell’amore del Padre»12. GLI SCRITTI
Sono molteplici gli scritti esegetici di Attilio Gangemi, molti dei quali pubblicati sulla rivista dello Studio S. Paolo Synaxis, come pure nei Quaderni di Synaxis che contengono solitamente i contenuti dei Convegni di studio che lo Studio suole periodicamente celebrare con l’Università degli studi di Catania: qui mi limito ad una brevissima rassegna dei volumi esegetici su Giovanni, frutto del suo insegnamento, e a quelli sul sacerdozio nel NT legati al suo rettorato. Volumi esegetici
L’ opera che maggiormente ha impegnato don Attilio è I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni, quattro volumi in cinque tomi di complessive 2140 pagine: lavoro con il quale dice «è mio proposito offrire un contributo di ricerca sui racconti post-pasquali giovannei»13. Il primo volume «Gesù si manifesta a Maria Maddalena» (20,118) approfondisce dettagliatamente e in maniera ampia le vicende di Maria Maddalena al sepolcro per concludere che ella «appare come la figura ideale della Chiesa-Sposa. Il suo compito è duplice: cercare il Signore e annunziare di avere fatto esperienza di Lui, ovviamente 14
Ibid., 9-11. I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni, 1, Acireale 1989, 5. 14 I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni 1. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Documenti e Studi di Synaxis 2, Acireale 1989. 12 13
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dopo averLo trovato»15 nell’Eucaristia; ribadisce che «ho visto il Signore» di Maddalena costituisce «l’annunzio perenne della Chiesa, il suo messaggio fondamentale e definitivo. La Chiesa lo ha visto contemplando il suo mistero che, nei sacramenti, si celebra all’interno della sua stessa vita»16. Il secondo volume «Gesù appare ai discepoli» (20,19-31)17 analizza sia l’apparizione di Gesù ai discepoli, essendo chiuse le porte del luogo dove essi si trovavano, come pure la vicenda di Tommaso. Gangemi considera questa parte complementare a quella riguardante la Maddalena: «i vv. 1-18, mediante la vicenda della Maddalena e la sua esperienza, descrivono l’esperienza che del Signore risorto fa la Chiesa; i vv. 19-31 invece descrivono l’esperienza che del Signore risorto i discepoli fanno nella Chiesa. Le due esperienze però non sono indipendenti, ma complementari e subordinate… In entrambe le esperienze sembra soggiacere la stessa realtà: la manifestazione del Signore nell’Eucaristia; in essa il Signore si manifesta alla Chiesa e celebra con essa il mistero sponsale della nuova alleanza… i discepoli passano da morte a vita»18. Il terzo volume «Gesù si manifesta presso il lago» (Gv 21,1-14)19 analizza il racconto della pesca miracolosa presso il mare di Tiberiade mettendo in risalto sia l’intensità spirituale come pure la carica umana nelle parole che Gesù rivolge ai discepoli. Il Gesù che si manifesta sul mare è il Signore vittorioso sulle forze ostili, il Signore che ha vinto il mondo, è la sua manifestazione come Signore. E conclude, come è sua abitudine, con una indicazione per la vita della Chiesa: «il Risorto che appare nel pane, raduna attorno a sé la Chiesa e si manifesta come il Signore… Pane e Chiesa manifestano il Signore. Il Ibid., 277. Ibid., 281. 17 I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni 2. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Documenti e Studi di Synaxis 4, Acireale 1990. 18 Ibid., 285-286. 19 I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni 3. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Documenti e Studi di Synaxis 5, Acireale 1993. 15 16
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pane attraverso l’unità ecclesiale si manifesta come Signore, l’unità ecclesiale, fondata sul pane, permette al Signore di manifestarsi… Gv 21,1-14 costituisce la professione di fede che il nostro autore consegna alla Chiesa di sempre: il Risorto è il Signore. Il Risorto appare nel pane; il Pane perciò è il Signore»20. Il quarto volume «Pietro il pastore» (Gv 21,15-19)21 in due grossi tomi approfondisce la figura di Pietro il pastore, analizzando sia la parte dove Gesù interroga Pietro con la pressante domanda se egli lo ami e, dopo avere ottenuto risposta positiva, lo incarica di curare il suo gregge, sia la parte dove Gesù, dopo avere evocato i fatti della giovinezza, preannuncia a Pietro quelli della vecchiaia e lo invita alla sua sequela. Gangemi, convinto che il Vangelo di Giovanni è attuale per la riflessione ecclesiale odierna, dedica il volume «a Sua Santità Giovanni Paolo II» e si prefigge di potere offrire “un piccolo tassello” anche al problema posto dal papa sulla necessità di riflettere sulle concrete forme dell’esercizio del primato. Dopo una lunga e dettagliata analisi esegetica arriva alla conclusione che «coinvolto nel suo amore e divenuto con lui una cosa sola, Pietro condivide con Gesù la sua opera pastorale che si attua eminentemente nel dono della propria vita»22, evidenziando che non poteva ricevere tale incarico se non fosse radicato nel suo amore, se non fosse divenuto con lui una cosa sola, come una cosa sola Gesù è con il Padre. Sottolineato che Pietro è chiamato ad esercitare la pastorale a vantaggio di un gregge che non è suo ma di Gesù, precisa il triplice mandato dicendo che «Pietro è associato a Gesù nella promulgazione del comandamento agli agnellini, guida con il suo esempio le pecorelle nella attuazione concreta del comandamento, media alle pecore l’incontro con Gesù nel pane»23: la triplice opera pastorale delineata nei tre comandi indica il cammino nell’amore che comincia con il Battesimo e culmina nell’Eucaristia. Il primato di Pietro per Gangemi è un primato nell’amore Ibid., 506.509. I racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni 4. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Documenti e Studi di Synaxis 8, Siracusa 2003. 22 Ibid., 925. 23 Ibid., 955. 20 21
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sia attraverso il coinvolgimento nell’amore di Gesù, che include il dono della propria vita, sia aiutando il gregge a coinvolgersi progressivamente nel suo amore24. Altro studio esegetico sul Vangelo di Giovanni è il volume Signore, tu a me lavi i piedi?25 riguarda il capitolo 13,6-11 dove analizza il triplice dialogo tra Pietro e Gesù. Nella prima parte studia gli aspetti letterari: dopo aver fatto vedere l’unità letteraria e l’originalità dei vv 6-11, conclude che il dialogo tra Pietro e Gesù pur distinguendosi dai vv 1-5 è ad essi strettamente collegato. Nella seconda parte, molto ampia, fa una dettagliata analisi esegetica dei tre dialoghi tra Pietro e Gesù concludendo che i tre testi delineano che «Pietro ha accolto la parola di Gesù, è diventato anche lui katharòs, ha emesso la sua professione di fede»26. Dedica la terza parte a una sintesi globale del triplice dialogo; Pietro di fronte all’opera di Gesù passa dalla meraviglia al rifiuto e poi alla supplice implorazione e Gesù commenta i vari atteggiamenti del discepolo che vanno dall’ignoranza alla minaccia della separazione e poi alla dichiarazione che egli è già puro perché è stato raggiunto dalla parola che lo ha interamente lavato: «raggiunto nel cuore del suo rinnegamento dalla parola di Gesù… Pietro da discepolo deve compiere un cammino di sequela. Questo cammino culminerà nella dimensione del pastore e allora sarà chiamato da Gesù stesso a donare la propria vita. Per potere compiere questo cammino bisogna che Gesù prima gli lavi i piedi, che cioè lo abiliti ad esso»27. Ultimo frutto del suo studio esegetico del Vangelo di Giovanni è la miscellanea In dilectione mea28 pubblicata a conclusione del suo insegnamento come docente ordinario nello Studio S. Paolo. È un volume di 768 pagine che contiene tredici studi convergenti su tre Cfr. ibid., 967. Signore, tu a me lavi i piedi? Pietro e il ministero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13, 6-11, Documenti e Studi di Synaxis 7, Acireale 1999. 26 Ibid., 182. 27 Ibid., 213-214. 28 In dilectione mea, Quaderni di Synaxis ns 4, Catania-Troina 2015. 24 25
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unità tematiche: il rifiuto di Gesù, l’evento dell’agape e i discepoli di Gesù; studi che hanno in comune la caratteristica di essere profondamente ancorati al “vangelo dell’amore” e quella che tutti mirano a delineare la figura del discepolo di Gesù. Scopo del volume è aiutare il lettore a riscoprire la dimensione del vero discepolo di Gesù: “rimanere nel suo amore” e, attraverso di esso, nell’amore del Padre e nell’amore vicendevole. Libri sul presbiterato
Il suo ministero come rettore del Seminario di Acireale lo ha indotto a delle sintesi di teologia biblica sul sacerdozio di Cristo che prima ha divulgato sul Settimanale diocesano La Voce dell’Jonio e, poi, ha pubblicato in Il Sacerdote della Nuova Alleanza in tre volumi. Il primo volume Gesù sacerdote si propone di offrire alla comunità ecclesiale una serie di riflessioni sul presbiterato «a carattere divulgativo, che scaturiscono però da lunga ricerca sui testi biblici»29. Convinto che una delle cause del calo di vocazioni che si registra in quel periodo è la carenza di riflessione teologica sul sacerdozio ministeriale, Gangemi ritiene che «questa esposizione, anche se a carattere divulgativo, darà il suo contributo alla soluzione del problema delle vocazioni nella Chiesa»30. Con l’ascensione Gesù non è materialmente percepibile ma è presente alla Chiesa attraverso vari strumenti e tra questi il ministero ordinato attraverso cui «il Sacerdote grande, assiso sempre alla destra di Dio, continua il suo ruolo sacerdotale»31 di intercessione e di purificazione. Nel mistero di Cristo Gangemi coglie una linea discendente di Dio verso l’uomo e una linea ascendente dell’uomo verso Dio: «nella linea ascendente di Cristo e della Chiesa, si colloca il Sacerdozio, rispettivamente di Cristo e della Chiesa, da cui emerge il Sacerdozio ministeriale»32. Il Sacerdote della Nuova Alleanza 1. Gesù Sacerdote, Acireale 1985, 5. Ibid., 6. 31 Ibid., 73. 29 30
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Nel secondo volume Gesù pastore33 presenta Gesù come il pastore di cui aveva parlato l’AT che raduna il suo gregge e lo guida verso Dio e la pienezza della felicità. Mentre nel banchetto eucaristico ci fa pregustare il banchetto celeste dandoci nel pane il suo corpo da mangiare e nel vino il suo sangue da bere, la sua presenza di pastore è attuata dai ministri della Chiesa e «così il Pastore eterno, che Dio ha risuscitato da morte, è sempre presente con la sua Chiesa ed essa, fiduciosa può camminare attraverso la valle oscura della storia, sicura che giungerà alla meta gloriosa della Gerusalemme celeste»34. Lo scopo del volume è bene espresso nella dedica autografa che il rettore scrive nel farne omaggio ai seminaristi il Giovedì santo del 1988: «Ti auguro di diventare immagine autentica, nitida e luminosa di Colui che queste pagine si sforzano, per quanto è possibile a un uomo, di delineare». Il terzo volume Gesù Sposo35 si sofferma su una prerogativa di Gesù che Gangemi ritiene più centrale delle altre, quella dello “sposo”, che l’AT riferiva a Dio: «Egli, mediante l’offerta sacerdotale di se stesso, si è acquisito una sposa, che ha legato a sé mediante il vincolo della nuova alleanza fondata sul suo sangue»36. Dopo aver analizzato la metafora “sposo” nell’AT, don Attilio la considera nel NT dove Gesù l’applica a sé e conclude dimostrando come la profezia coniugale nel tempo della Chiesa viene realizzata variamente dall’unione coniugale, dal celibato presbiterale e dalla consacrazione religiosa, dato che la Chiesa «già è sposa di Cristo, ma non ancora manifestata come la sposa nella pienezza del suo splendore»37. Gangemi recupera per il presbitero l’icona «sposo» che solitamente la Liturgia e la letteratura spirituale riservano quasi esclusivamente al vescovo: «il presbitero è profezia di Gesù sposo che ama e si dona; nel presbitero la chiesa vede il suo sposo che nella sua esistenza conIbid., 17. Il Sacerdote della Nuova Alleanza 2. Gesù Pastore, Acireale 1988. 34 Ibid., 126. 35 Il Sacerdote della Nuova Alleanza 3. Gesù Sposo, Acireale 1992. 36 Ibid., 5. 37 Ibid., 185. 32 33
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creta la ama e per lei si dona… La spiritualità del presbitero è appunto amare sponsalmente la chiesa e donarsi per lei»38. Gangemi colloca l’esigenza del celibato in questa dimensione profetica del presbitero che non può avere altra sposa se non quella di Gesù: «esso non si fonda su una norma giuridica costantemente ribadita, bensì sull’istanza che la chiesa sposa pressantemente fa ai presbiteri di vivere fino in fondo la loro profezia sponsale riservando a lei sola il loro cuore, perché attraverso di loro possa sperimentare l’amore del suo Signore. Ai presbiteri, profezia del suo Sposo, chiede che la amino con cuore indiviso e a lei e per lei si donino»39. Il volume viene pubblicato nell’anno in cui don Attilio celebra il 25° dell’Ordinazione presbiterale mediante la quale è stato «scelto e consacrato… ad essere nella chiesa-sposa e per la chiesa-sposa profezia, cioè segno visibile, di Gesù sacerdote e sposo… imploro il dono della fedeltà, per tutto il tempo che mi vorrà ancora segno vivo e visibile del suo amore sponsale in mezzo al suo santo Popolo, la sua Sposa»40.
Ibid., 198. L. c. 40 Ibid., 5. 38 39
SYNAXIS XXXVIII/2 - 2020 (27-43)
L’ASCOLTO DELLA PAROLA: DIMENSIONE PNEUMATOLOGICA ED ECCLESIALE CARMELO RASPA*
INTRODUZIONE
Papa Benedetto XVI, descrivendo sinteticamente i lavori della XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, celebratasi in Vaticano dal 5 al 26 ottobre 2008, avente per tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, al n. 4 della VD1 sottolinea come l’esperienza sinodale di ascolto e celebrazione della Parola di Dio abbia fatto emergere ciò che è proprio del dono e della ricezione della medesima Parola: «tutto questo ci ha reso consapevoli che possiamo approfondire il nostro rapporto con la Parola di Dio solo all’interno del “noi” della Chiesa, nell’ascolto e nell’accoglienza reciproca». La dimensione sinodale, costitutiva della Chiesa, è pertanto il luogo in cui porsi in ascolto della Parola e dei segni dei tempi che l’accompagnano: essa riflette un’effettiva ricezione del Vaticano II. A tal proposito G. Ruggieri rileva come la riscoperta della nota costitutiva della sinodalità da parte della Chiesa: «sarà possibile come esperienza della comunicazione di Dio nella storia concreta delle donne e degli uomini di tutti i tempi. I segni dei tempi, come cifra di questa comunicazione di Dio attraverso i desideri, le contraddizioni, gli * Docente di Esegesi biblica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. BENEDICTUS PP. XVI, Adhort. Apost. Postsyn. Verbum Domini in AAS 102 (2010) 681-798; traduzione italiana in http://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/apost_exhortations/documents/hf_ ben-xvi_exh_20100930_verbum-domini.html. 1
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L’eredità conciliare della riscoperta della sinodalità quale nota della Chiesa in ascolto della Parola e della storia ha, pertanto, caratterizzato il modo di sentire, il metodo ed i lavori dei Padri della XII assemblea sinodale, come nota lo stesso pontefice Benedetto XVI sempre al n. 4 della VD: «Nella XII Assemblea sinodale, Pastori provenienti da tutto il mondo si sono riuniti intorno alla Parola di Dio e hanno simbolicamente messo al centro dell’Assemblea il testo della Bibbia per riscoprire ciò che nel quotidiano rischiamo di dare per scontato: il fatto che Dio parli e risponda alle nostre domande. Insieme abbiamo ascoltato e celebrato la Parola del Signore. Ci siamo raccontati vicendevolmente quanto il Signore sta operando nel Popolo di Dio, condividendo speranze e preoccupazioni».
I Padri sinodali si sono, dunque, “raccontati”: il raccontarsi è proprio di un popolo che vede operare la Parola del Signore in mezzo alle sue vicende storiche, le grandi come le ordinarie. La Bibbia è il grande racconto di quanto Israele e la Chiesa vivono nella loro storia3 di fronte a Dio e con lui, in una presenza di Dio percepita e trasmessa in una pluralità di esperienze e di espressioni. 2 G. RUGGIERI, Cos’è stato il Vaticano II?, in D. BONIFAZI - E. BRESSON (curr.), A quarant’anni dal Concilio della speranza. L’attualità del Vaticano II. Atti del Convegno di Studi (Macerata 4-6 maggio 2006), Macerata 2008, 78-79. 3 Il Vaticano II ha riscoperto la dimensione della storia, propria della narrazione biblica e della fede viva di Israele e della Chiesa. Sulle questioni poste dalla categoria di “storia” alla riflessione teologica vedi G. RUGGIERI, L’unità della storia. Per una teologia fondamentale del fatto cristiano, in ID. (ed.), Enciclopedia di Teologia Fondamentale. Storia, progetto, autori, categorie, Genova 1987, I, 405467; E. CATTANEO, La categoria storia nel Vaticano II, in ID. (ed.), Il Concilio venti anni dopo. L’ingresso della categoria “storia”, Roma 1985, 11-32.
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FONDAMENTI
Il Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum4 ha affermato come la comunicazione che Dio opera di sé agli uomini avvenga attraverso eventi e parole intimamente connessi (cfr. DV 2: gestis verbisque intrinsece inter se connexis). Cristo è il compimento della Rivelazione (cfr. DV 2.7). La sacra Scrittura e la sacra Tradizione custodiscono e trasmettono gli eventi e le parole mediante le quali Dio si rivela agli uomini. Il n. 9 della DV definisce la loro natura, il loro rapporto, la loro ricezione nella Chiesa: «La sacra tradizione e la sacra scrittura sono dunque strettamente tra loro congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra scrittura è la parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito divino; la sacra tradizione trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; accade così che la chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola scrittura. Perciò l’una e l’altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e rispetto».
In realtà, il dettato della DV al n. 9 è il frutto di un lungo e laborioso percorso intrapreso dai padri conciliari a fronte delle controversie, sollevate prima e durante il Concilio, circa il rapporto tra Scrittura e Tradizione5. I Padri conciliari asseriscono: «Questa sacra tradizione dunque e la sacra scrittura dell’uno e dell’altro testamento sono come uno specchio nel quale la chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com’è (cfr. 1 Gv 3,2)» (DV 7). 4 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum (18.11.1965), in EV 1/872-911. 5 Sul rapporto tra Scrittura e Tradizione e sulle questioni ad esso inerenti, quali l’autorevolezza interpretativa della Bibbia propria del magistero, il compito dell’esegeta, il ruolo del popolo credente nell’interpretazione della Scrittura, vedi K. LEHMANN, Norma normans non normata? La Bibbia nel contesto fondante di teologia e magistero, in Il Regno Attualità 16 (2008) 563-572, che presenta una panoramica, ben documentata bibliograficamente, delle posizioni che animano la discussione in tal senso.
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Sacra Scrittura e Sacra Tradizione non sono, inoltre, da identificare con la Parola Dio, la quale è Dio stesso nell’atto di pronunciare il suo Verbo eterno, il Figlio, fatto carne nell’uomo Gesù, per mezzo del quale spira incessantemente lo Spirito Santo6. La condiscendenza di Dio ha comunicato agli uomini la sua Parola in parole umane, racchiuse e trasmesse da Scrittura e Tradizione. DV 13, riprendendo l’insegnamento del Crisostomo, così definisce la condiscendenza in rapporto alla Scrittura: «Nella sacra scrittura dunque, restando sempre intatta la verità e la santità di Dio, si manifesta l’ammirabile condiscendenza della eterna Sapienza, “affinché apprendiamo l’ineffabile benignità di Dio e quanto egli, sollecito e provvido nei riguardi della nostra natura, abbia contemperato il suo parlare”7. Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece simile agli uomini».
Il n. 7 della VD sottolinea il carattere analogico dell’espressione «Parola di Dio», riassumendo le affermazioni della DV: «Pertanto, la Parola di Dio è trasmessa nella Tradizione viva della Chiesa. Infine, la Parola di Dio attestata e divinamente ispirata è la sacra Scrittura, Antico e Nuovo Testamento. Tutto questo ci fa comprendere perché nella Chiesa veneriamo grandemente le sacre Scritture, pur non essendo la fede cristiana una “religione del Libro”: il cristianesimo è la “religione della Parola di Dio”, non di “una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente”. Pertanto la Scrittura va proclamata, ascoltata, letta, accolta e vissuta come Parola di Dio, nel solco della Tradizione apostolica dalla quale è inseparabile. Come hanno affermato i Padri sinodali, realmente ci troviamo di fronte ad un uso analogico dell’espressione “Parola di Dio”, di cui dobbiamo essere consapevoli. Occorre pertanto che i fedeli vengano maggiormente educati a cogliere i suoi diversi significati e a comprenderne il senso unitario. Anche 6 G. MONTALDI, Per una storia della ricezione di Dei Verbum: aspetto teologico-fondamentale, in RT 29 (2018) 1-2, 87-100 constata che «il testo in sé ha potuto essere interpretato riduttivamente ed è in qualche momento persino ambiguo, laddove pone sullo stesso piano verbum Dei e locutio Dei» (p. 97). Lo stesso alla nota 28 riporta il giudizio di A. VANHOYE, La parola di Dio nella vita della Chiesa. La ricezione della Dei Verbum, in La rivista del clero italiano 81 (2000) 244-265, secondo il quale il concetto di parola di Dio è stato frainteso in quanto identificato con la sacra Scrittura. 7 Così la nota (11) della DV 13 in EV 894: S. Ioannes Chrysostomus, In Gen 3,8 (Hom. 17,1): PG 53,134. “Attemperatio”, graece συγκατάβασιν.
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dal punto di vista teologico è necessario che si approfondisca l’articolazione dei differenti significati di questa espressione perché risplenda meglio l’unità del piano divino e la centralità in esso della persona di Cristo».
Ascoltare la Parola di Dio nella Tradizione viva della Chiesa significa pertanto nutrirsi delle Scritture, in quanto esse «contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio» (DV 24). La riflessione teologica, la predicazione, la catechesi sono fondate «sulla parola di Dio scritta, insieme con la sacra tradizione» (ibid.). In continuità con il precedente magistero petrino circa gli studi biblici, espresso da Leone XIII nell’enciclica Providentissimus Deus (18 novembre 1893) e da Benedetto XV nella Spiritus Paraclitus (15 settembre 1920), la DV esclama: «lo studio delle sacre pagine sia dunque come l’anima della sacra teologia». L’ascolto della Parola, depositata nelle Scritture e trasmessa dalla Tradizione viva della Chiesa, è, quindi, un evento che coinvolge primariamente la comunità di fede, Israele come la Chiesa. Esso accade sotto la guida dello Spirito, che ha presieduto la messa per iscritto della Parola e ne guida l’annuncio e la comprensione. ASCOLTO
L’ordine dell’ascolto impartito da Dio a Israele in Dt 6,4 è divenuto la confessione di fede del popolo ebraico: essa si esprime ogni giorno nella preghiera del mattino e della sera e proclama l’unicità di Dio in modo tale che l’orante sia configurato ad essa nell’unificazione della sua persona8. Il v. 4 o i vv. 4-5 del cap. 6 sembrano appartenere ad una redazione primitiva del Deuteronomio; secondo alcuni studiosi, inoltre, il libro del Deuteronomio probabilmente si apriva con il v. 4 dello stesso cap. 6. Se il testo primitivo del Deuteronomio sia da identificarsi con il cosiddetto “libro della legge”, rinvenuto a Gerusalemme sotto il regno di Giosia nell’anno 622-621 a.C. (cfr. 2 8 Per una descrizione dettagliata e ragionata della preghiera ebraica rappresenta un classico lo studio di J. HEINEMANN, Tefillot ha-qeva ve-ha-chovah shel shabbat ve-jom chol, Tel Aviv 1977; traduzione italiana: A. MELLO, La preghiera ebraica, Bose 19922.
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Re 22-23), è opinione discussa. La centralizzazione del culto, la teologia dell’alleanza (berît), la novità della festa di Pesaḥ, il passaggio dello shabbat da festa mensile lunare a festa settimanale, l’unicità di Dio e di Israele sono tutti elementi che depongono a favore di una redazione deuteronomista post-esilica del libro stesso del Dt: la memoria fondatrice dell’esodo e del cammino del deserto fino all’Horeb, espressa dal verbo zākar “ricordare” ( all’imperativo o al perfetto inversivo: Dt 5,15; 8,2.18; 9,7; 15,15; 16,12; 24,18.22; 32,7) si congiunge, nella riflessione teologica e nella scrittura, con l’esilio e con il tempo della liberazione e del ritorno in patria. Il deuteronomismo e i circoli sacerdotali celebrano l’alleanza del passato e del presente di Israele, riscrivendone la storia: la sua unicità discende da Dio, che è uno e unico, e si esprime nell’unicità sia del regno di ascendenza davidica sia del luogo di culto a Gerusalemme che delle feste, in particolare la pasqua ed il sabato9. Il comandamento dell’ascolto, espresso o dal sintagma «Ascolta, Israele» o semplicemente dall’imperativo “Ascolta” o dal perfetto inversivo “e ascolterai”, ricorre in Dt 4,1.30; 5,1.27; 6,3-4; 9,1; 12,28; 20,3; 27,9-10; 30,2.810. La struttura di Dt 6,4-5 sembra diffusa nel Vicino Oriente Antico ed il suo formulario esprime i trattati di alleanza. Essa consta di una premessa che giustifica il comando. La categoria di alleanza, come evidenziato, è acquisizione tipicamente deuteronomista. Israele è chiamato ad amare Dio in quanto dall’unicità di Dio, che Israele coglie nell’ascolto, deriva la sua stessa unicità, frutto di un’elezione motivata esclusivamente dall’amore (cfr. Dt 7,78). L’unicità di Dio e l’esclusività di Israele per lui si manifestano nelle opere che Dio ha compiuto per il popolo che ama e che dunque ha scelto e che il popolo è tenuto a ricordare. Dio ha ascoltato il suo popolo e, pertanto, adesso può chiedere a Israele di ascoltarlo. È Dio 9 Le problematiche inerenti alla stesura del libro del Deuteronomio sono delineate in modo chiaro nell’articolo introduttivo di G. BORGONOVO, Una “nuova” proposta: la singolarità del Deuteronomio rispetto alle antiche tradizioni, in ID. (cur.), Torah e storiografie dell’Antico Testamento, Leumann 2012, 193-214. Il testo costituisce il capitolo quinto del volume. Sempre nello stesso manuale è possibile consultare l’analisi esegetica svolta da G. BARBIERO, “Ascolta, Israele” (Dt 6,4-25), 533-572. 10 G. BORGONOVO, Una “nuova” proposta, cit., 193, rileva l’abbondanza del verbo šama’ anche nel libro del profeta Geremia.
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il primo ad eseguire il comando dell’ascolto che gli viene ingiunto dalla storia dell’uomo. Il Sal 130 (129),2 conserva il grido: «Signore, ascolta la mia voce (ebr. beqolî)». L’imperativo «ascolta» presenta in ebraico una he paragogica, che fornisce al tempo verbale la sfumatura deprecativa; inoltre, ciò che in italiano rappresenta un complemento oggetto «la mia voce» in ebraico è reso con la preposizione be locativa. In tal senso, l’orante chiede a Dio di ascoltare fortemente la sua storia, di entrare attraverso l’ascolto nella sua vicenda. Il Sal 66 (65),19 attesta l’avvenuto ascolto della preghiera da parte di Dio. Nel momento in cui Dio risponde all’ascolto, solo allora può chiedere all’uomo di ascoltare (cfr. Dt 6,4). In Es 3,7 Dio dichiara di aver ascoltato il grido di Israele: la dimensione dell’ascolto è, qui strettamente legata al vedere, sempre da parte di Dio, la miseria del suo popolo e al conoscere le sue sofferenze. Nel momento in cui al Sinai Dio stipula l’alleanza con Israele attraverso Mosè, il mediatore, e dona le dieci parole, è scritto che «tutto il popolo vide le voci» (Es 20,18). Il testo di Es 19-20, unitamente ad alcune sue probabili interpretazioni midrashiche, costituisce il pre-testo di At 2, lì dove Luca descrive la prima Pentecoste. La coniugazione delle dimensioni dell’ascolto e del vedere in riferimento alla Parola della vita è presente nel celebre incipit della 1 Gv ai vv. 1.3. L’ascolto si situa, dunque, in un atto di alleanza, alla quale Dio e l’uomo rimangono fedeli, nonostante le oscurità della storia pesino su questo rapporto d’amore (cfr. Ger 8; Is 54). Questa fedeltà11 configura l’ascolto come obbedienza. Gesù nella sua persona porta il peso e realizza fino al compimento la dimensione di alleanza, vissuta nell’ascolto e consumata nell’obbedienza: «Seguendo il racconto dei Vangeli, notiamo come la stessa umanità di Gesù si mostri in tutta la sua singolarità proprio in riferimento alla Parola di Dio. Egli, infatti, realizza nella sua perfetta umanità la volontà del Padre istante
11 FRANCESCO, Lettera apostolica in forma di Motu Proprio Aperuit illis (30 settembre 2019), al n. 6 afferma: «Cristo è il primo esegeta! Non solo le Scritture antiche hanno anticipato quanto Egli avrebbe realizzato, ma Lui stesso ha voluto essere fedele a quella Parola per rendere evidente l’unica storia della salvezza che trova in Cristo il suo compimento», in http://www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio-20190930_aperuit-illis.html.
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Carmelo Raspa per istante; Gesù ascolta la sua voce e vi obbedisce con tutto se stesso; egli conosce il Padre e osserva la sua parola (cfr. Gv 8,55); racconta a noi le cose del Padre (cfr. Gv 12,50); “le parole che hai dato a me io le ho date a loro” (Gv 17,8). Pertanto Gesù mostra di essere il Lògos divino che si dona a noi, ma anche il nuovo Adamo, l’uomo vero, colui che compie in ogni istante non la propria volontà ma quella del Padre. Egli “cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52). In modo perfetto, ascolta, realizza in sé e comunica a noi la Parola divina (cfr. Lc 5,1)» (VD 12).
Se Israele, accogliendo il dono della Torah, si impegna ad osservarla: «tutto ciò che il Signore ha detto noi lo faremo e lo ascolteremo» (Es 24,7), con un’inversione logica, ma corretta dal punto di vista della pratica, in quanto facendo la Parola, la si comprende (cfr. Mt 7,21-27), lo stesso Gesù vive al cospetto del Padre in ascolto obbediente: «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9). Le Scritture che contengono la Parola di Dio sono, infatti, definite il seper ha-berît (Es 24,7), il libro dell’alleanza. I credenti “entrano” in esse e, attraverso esse, vivono l’alleanza12. Per questo essi chiedono, come Salomone, un “cuore ascoltante” (cfr. 1 Re 3,9), per imparare ad accogliere nel cuore ed ascoltare con le orecchie (cfr. Ez 3,10) tutte le parole della Scrittura (cfr. DV 12), senza lasciarne cadere nessuna (cfr. 1 Sam 3,19). Il loro diviene un ascolto obbediente e perseverante di tutta la Scrittura, dalla quale la loro fede scaturisce (cfr. Rm 10,17) e si nutre (cfr. Ez 3,1-3; Ap 10,8-11); allo stesso tempo «l’intero testo sacro possiede una funzione profetica: essa non riguarda il futuro, ma l’oggi di chi si nutre di questa Parola» (VD 12). COMUNITÀ
«La Sacra Scrittura è ecclesiale proprio per la sua natura»13: tutti 12 J.-P. SONNET, Le Sinaï dans l’événement de sa lecture. La dimension pragmatique d’Ex 19-24, in NRT 111 (1989) 321-344. 13 CH. KANNENGIESSER, Come veniva letta la Bibbia nella chiesa antica: l’esegesi patristica e i suoi presupposti, in Concilium I (1991) 50-58: 52.
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i libri biblici sono opera di una comunità che, accogliendo le tradizioni e facendo memoria del passato, interpretando questo patrimonio alla luce della stessa fede di ieri e del presente, li redige e li trasmette. I libri sono diffusi, accolti, sottoposti di nuovo a interpretazioni, riscritti, rimaneggiati, citati in altri libri, che entrano essi pure nel canone, la lista ufficiale di testi che compone la Bibbia, riconosciuti portatori della fede della comunità, cioè ispirati. L’ecclesialità della Scrittura scaturisce dalla Parola che essi contengono e che, proveniente da Dio, è destinata al popolo come dono, a Israele ed alla Chiesa insieme14. In Es 19, attraverso Mosè, Dio elargisce la Torah a Israele come espressione e regola dell’alleanza. Ne 8 descrive la solenne lettura pubblica della Torah di fronte a tutto il popolo, bambini, giovani, adulti e anziani insieme, senza distinzioni di categorie, radunato come se fosse un solo uomo (cfr. Ne 8,1). I sommari lucani di Atti presentano una comunità concorde e assidua «nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli» (At 2,42; cfr. 4,33). Paolo a Troade celebra l’eucaristia il primo giorno della settimana, cioè il sabato sera secondo il modo ebraico di computare i giorni, e conversa davanti ad un’assemblea composita, come dimostra la vicenda di Eutico (cfr. At 20,1-12). La Parola è dunque rivolta al popolo credente, non ai singoli: il ministero dell’interpretazione e dell’insegnamento, come pure quello della predicazione, viene svolto a nome della comunità e in favore di essa. Il magistero interpreta autenticamente la Parola perché esso è esercitato dentro la Chiesa, in mezzo ai credenti, non al di sopra della Chiesa, allo stesso modo in cui non si trova al di sopra della Parola stessa, ma la serve (cfr. DV 10). Compito principale dei Vescovi è, infatti, l’insegnamento e l’esortazione con cui si rivolgono alla comunità credente mediante le parole di consolazione della Scrittura, secondo le raccomandazioni di Paolo a Timoteo che nel corso dei secoli hanno individuato i compiti essenziali legati al ministero episcopale: «dédicati alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento» (1 Tm 4,13). Allo stesso modo l’esegeta svolge 14 Sulla comunità credente quale q hal, ‘ dah, ekklesía in riferimento a Israele e la Chiesa come comunità di chiamati e di testimoni vedi M. NOBILE, Ecclesiologia biblica. Traiettorie storico-culturali e teologiche, Bologna 1996.
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un ministero ecclesiale: l’analisi dei testi e l’intelligenza che tramite essa ne ricava è rivolta alla comunità, dalla quale è stato riconosciuto il suo ministero e per la quale egli lo svolge15. Ciò non significa un venir meno alle istanze della ricerca scientifica in nome di un dogmatismo sterile e inesistente nella Tradizione ecclesiale. Il compito dell’esegeta è quello di ascoltare con onestà il testo e la pluralità dei metodi ermeneutici su di esso operati per giungere non alla definizione assertiva ultima sul senso del testo, ma per svelare la polisemia della Scrittura, segno della ricchezza della presenza di Dio che rimane comunque imprendibile, trascendente, proprio perché coinvolto nella complessa trama della storia e del linguaggio umano, tramite la sua Parola depositata nella traccia scritta di un foglio. In tal senso le istanze di DV ai nn. 12 e 23 e le problematiche poste da Benedetto XVI nella VD ai nn. 31-37 chiedono di essere approfondite non in un contesto ed attraverso un procedimento oppositivo, ma secondo quell’argomentazione sapienziale che è insita alla Scrittura stessa e che si risolve nell’ascolto attento di quanto onesto e corretto proviene da quanti ricercano, in diverso modo, la verità nella pluralità del dire e dell’interpretare degli uomini. La comunità credente si nutre quotidianamente della Scrittura nel senso materiali del cibarsi di essa, ri15 P. RICOEUr, Esquisse de conclusion, in R. BARTHES, Exégèse et herméneutique, Paris 1971, 295, sostiene che «è sempre sull’orizzonte di una comunità d’interpretazione che si distacca un lavoro individuale di esegesi». A tal proposito, un racconto conservato nel Talmud jerushalmi spiega chiaramente come l’ermeneutica operata dalla comunità credente costituisca il luogo in cui l’interprete svolge il suo lavoro e il quadro di riferimento cui volgere l’attenzione, specie nei casi dubbi: «Gli (a Rabbi Hillel) avevano domandato: Che cosa deve fare la gente se non ha portato i coltelli (per immolare la Pasqua, dal momento che non si potrebbe trasportare un coltello di sabato)? Egli disse loro: Questa halakah l’ho udita, ma l’ho dimenticata! Comunque lasciate fare a Israele: se non sono profeti, sono figli di profeti! E infatti, chi aveva un agnello come vittima pasquale, aveva infilato il coltello nella sua lana, e chi aveva un capretto glielo aveva infilato tra le corna, cosicché erano le vittime pasquali a portare con sé i coltelli! Quando vide questo fatto, si ricordò della halakah e disse: Così avevo sentito dire da Shemajah e Avtalion» (J. Pesachim 6,1; 33a) citato in A.C. AVRIL - P. LENHARDT, La lettura ebraica della Scrittura, Bose 19892, 77-78, libretto prezioso per introdursi alla natura e ai metodi dell’interpretazione ebraica della Scrittura. Su questa linea DV 12 raccomanda: «Per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede», dove per «viva tradizione di tutta la Chiesa» si intende anche l’interpretazione delle Scritture operata dai credenti ed espressa nelle azioni. GREGORIUS MAGNUS, Homiliae in Ezechielem, II, 2,1 riconosce: «Molte cose nella sacra Scrittura, che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli (coram fratribus meis positus intellexi)»: il testo è citato in E. BIANCHI, Ascoltare la Parola. Bibbia e Spirito: la “lectio divina” nella chiesa, Bose 2008, 65.
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spondendo in tal modo all’invito del salmista: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore» (Sal 34,9)16 e alla sua constatazione del fatto che le parole del Signore sono più dolci del miele (cfr. Sal 19,11; 119,103). La DV al n. 21 sottolinea: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli».
Il testo, pur se emendato rispetto agli schemi preparatori e alle versioni precedenti17, testimonia della tradizione ecclesiale che guarda alle Scritture allo stesso modo in cui concepisce l’Eucaristia18. Girolamo, commentando il testo del Qohelet19, scrive: «Poiché la carne del Signore è vero cibo e il suo sangue vera bevanda, secondo il senso anagogico, questo è l’unico bene nel mondo presente: cibarsi della sua carne e del suo sangue non solo nel mistero dell’altare, ma anche nella lettura delle Scritture. Vero cibo e vera bevanda, infatti, è quello che si riceve dalla parola di Dio, cioè la conoscenza delle Scritture».
E nel commento al Salmo 14720 esprime la stessa convinzione: «Noi leggiamo le sante Scritture. Io penso che il Vangelo è il Corpo di Cristo; io penso che le sante Scritture sono il suo insegnamento. E quando egli dice: 16 Il verbo “gustare” in ebraico implica propriamente la dimensione dell’assaporare, del mangiare; il verbo inoltre, come quello relativo all’ascolto, si trova accostato a quello di “vedere”: cfr. supra p. 31. 17 E. BIANCHI, Ascoltare la Parola, cit., 40, nota: «Il testo finale, purtroppo, ha molto affievolito il parallelismo tra Scrittura e corpo del Signore sostituendo il “velut” del textus denuo emendatus con “sicut et” per venire incontro a quei padri che temevano la troppo stretta assimilazione (nimis assimilare) della mensa della Parola e di quella dell’eucaristia», contro i quali rimanda all’«uso, almeno a partire da Origene, di uno stesso linguaggio simbolico e teologico per parlare dell’incarnazione, delle Scritture e dell’eucaristia» (ibid., 41). 18 Scrittura ed Eucaristia sono i luoghi in cui i credenti vivono l’alleanza con Dio per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito. Si esprime, in tal modo, una relazione viva. A tal proposito VD 7 ricorda: «Tutto questo ci fa comprendere perché nella Chiesa veneriamo grandemente le sacre Scritture, pur non essendo la fede cristiana una “religione del Libro”: il cristianesimo è la “religione della Parola di Dio”, non di “una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente”» e cita BERNARDUS CLARAVALLENSIS, Homilia super Missus est, IV, 11: PL 183, 86 B. 19 HIERONYMUS STRIDONIUS, Commentarii in Ecclesiasten, CCLS 72, 193-198. 20 ID., In Psalmum 147: CCL 78, 337-338, citato in VD 56.
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Carmelo Raspa Chi non mangerà la mia carne e berrà il mio sangue (Gv 6,53), benché queste parole si possano intendere anche del Mistero [eucaristico], tuttavia il corpo di Cristo e il suo sangue è veramente la parola della Scrittura, è l’insegnamento di Dio. Quando ci rechiamo al Mistero [eucaristico], se ne cade una briciola, ci sentiamo perduti. E quando stiamo ascoltando la Parola di Dio, e ci viene versata nelle orecchie la Parola di Dio e la carne di Cristo e il suo sangue, e noi pensiamo ad altro, in quale grande pericolo non incappiamo?».
La dimensione liturgica della Scrittura e dell’Eucaristia evita, pertanto, che si conceda più attenzione (nel senso spaziale e temporale) alla seconda, in termini quantitativi e qualitativi, rispetto alla prima. Su questo punto la conclusione della DV al n. 26 costituisce una parola definitiva21: «Come dall’assidua frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della Chiesa, così è lecito sperare nuovo impulso di vita spirituale dall’accresciuta venerazione per la parola di Dio, che “permane in eterno” (Is 40,8; cfr. 1 Pt 1,23-25)».
La liturgia eucaristica domenicale, l’ascolto della Parola attraverso lo studio orante delle Scritture nello studio esegetico e nella lectio divina, la preghiera che si nutre delle parole della Scrittura (i Salmi e la Liturgia delle Ore), il cibarsi del corpo mistico di Cristo, il fare la Parola nella vita fraterna e nella cura di chi ha bisogno, degli ultimi, dei poveri, sono tutte, in egual valore e in una loro distribuzione armonica spaziale e temporale, dimensioni della Chiesa che ha assunto e riflette lo stile sinodale proprio del Vangelo del Regno. SPIRITO
Lo Spirito presiede alla stesura della Scrittura, è presente nella comunità che la proclama e la ascolta, guida i credenti nella sua interpretazione, illumina nel metterla in pratica. L’ispirazione dei libri 21 La ricezione del dettato della DV a livello magisteriale, pastorale e accademico, specie per ciò che concerne il ruolo dell’esegeta e il suo procedere metodologicamente nel lavoro di interpretazione, è esaminata da L. MAZZINGHI, Parola di Dio e vita della Chiesa, in RivB LV (2007) 401-429.
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biblici è un concetto affermato nei due Testamenti: Is 34,16 presenta insieme i termini “la bocca del Signore” e “il suo spirito” in relazione a quello che è definito “il libro di Dio” (in ebr. si ha il Tetragramma sacro); Ne 9,20 attribuisce allo Spirito buono di Dio la funzione di istruire il popolo di Israele nel deserto; Mc 12,36 attribuisce la preghiera salmica di Davide allo Spirito (cfr. pure At 1,16; 4,25 dove lo Spirito è qualificato come Santo); Eb 3,7 introduce il Sal 95,7-11 con l’espressione «come dice lo Spirito Santo». I testi fondanti la dottrina dell’ispirazione sono 2 Tm 3,16 e 2 Pt 1,16-21. Il primo afferma che «ogni Scrittura è ispirata da Dio»: il testo, problematico dal punto di vista interpretativo, presenta un aggettivo verbale che costituisce un hapax legómenon nel greco biblico e può avere valore attivo o passivo. La stessa espressione «ogni Scrittura» senza articolo sembra riferirsi insieme alle Scritture di Israele e alle Scritture cristiane che si costituivano (la 1 Tm 5,18 cita come Scrittura Lc 10,7 e 2 Pt 3,16 accosta le Lettere di Paolo alle altre Scritture). Dal contesto si comprende come «il passo di 2 Tm 3,16 sottolinea l’ispirazione della Scrittura nella sua efficacia sui fruitori attuali. Questa fruizione però non è intesa come un atto individuale, privato, ma nel contesto di un insegnamento e di una formazione mediata dall’“uomo di Dio”. Si tratta in definitiva di un atto ecclesiale. Su come invece l’ispirazione debba essere concepita in se stessa e nel suo rapporto con l’agiografo, il passo di 2 Tm 3,16 non dà nessuna indicazione»22.
Il secondo testo difende anzitutto la verità dell’annuncio della potenza e del ritorno (in greco parousía) di Gesù Cristo, fondato sulla testimonianza oculare di chi ha assistito all’evento della trasfigurazione, lì dove il Padre rivela il Figlio come l’amato, e non su miti. Quindi, esprime l’importanza della parola profetica, che alcuni probabilmente screditavano giudicandola superata in virtù della venuta di Gesù Cristo. Infine, proclama l’orientamento cristologico delle Scritture nella loro totalità, sia delle Scritture di Israele sia di quelle cristiane che si costituivano (nel passo in questione “parola profetica” 22 E. CATTANEO, Il mistero delle Scritture. L’ispirazione, in R. FABRIS (cur.), Introduzione generale alla Bibbia, Leumann 20062, 499-542: 514.
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e “Scrittura” sono sinonimi), e la loro ispirazione, escludendo al tempo stesso la loro privata spiegazione, probabilmente da parte dei falsi maestri di 2 Pt 2,1. L’ispirazione è in relazione sia agli uomini che redassero le Scritture di Israele e della Chiesa nei suoi inizi, dei quali è scritto che furono «mossi dallo Spirito Santo», sia all’interpretazione della comunità dei credenti. L’essere mossi dallo Spirito non annulla la volontà degli autori sacri né le loro capacità intellettuali né le loro espressioni culturali; allo stesso modo, l’interpretazione spirituale non è di natura estatica o mantica, ma è presieduta dallo stesso Spirito presente al momento della redazione delle Scritture stesse, al fine di permettere alla comunità di cogliere il senso autentico della parola che Dio dona attraverso le Scritture medesime. La tradizione ecclesiale ha sempre ritenuto il dato scritturistico secondo il quale la Scrittura deve «esser letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (DV 12): i Padri, gli Scrittori ecclesiastici, la comunità ecclesiale, negli scritti e negli atti liturgici23, hanno ribadito con forza la necessità dell’assistenza e della guida dello Spirito nel momento in cui ci si accosta alla Scrittura. Questo perché lo Spirito, secondo la parola di Gesù, guiderà i credenti alla verità: «Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future» (Gv 16,13). A tal proposito la VD ai nn. 15-16, riprendendo il cap. III della DV, illustra la dimensione pneumatologica della Scrittura, descrivendo il rapporto tra Spirito e Parola e definendo il carattere rivelatorio della vita trinitaria della lettura spirituale della Scrittura stessa. Ancora, la VD al n. 30 cita il documento della Pontificia Commissione Biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa24 che in II, A, 2 afferma: «Il racconto biblico di questi eventi non può essere compreso pienamente dalla sola ragione. La sua interpretazione dev’essere guidata da alcuni pre-
23 Nell’Eucologio di Serapione (IV sec.) si invoca lo Spirito prima della proclamazione delle letture e prima dell’omelia, concordemente con la doppia epiclesi presente all’anafora: vedi E. BIANCHI, Ascoltare la Parola, cit., 93. 24 PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano 1993.
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supposti particolari, quali la fede vissuta in comunità ecclesiale e la luce dello Spirito. Con la crescita della vita nello Spirito cresce anche, nel lettore, la comprensione delle realtà di cui parla il testo biblico».
Lo stesso documento in II, B, 2 definisce «il senso spirituale, compreso secondo la fede cristiana, il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l’influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta. Questo contesto esiste effettivamente. Il Nuovo Testamento riconosce in esso il compimento delle Scritture. È perciò normale rileggere le Scritture alla luce di questo nuovo contesto, quello della vita nello Spirito».
Di seguito, si precisa come il senso spirituale non sia sganciato dal senso letterale e come non sia da «confondere con le interpretazioni soggettive dettate dall’immaginazione o dalla speculazione intellettuale. Esso scaturisce dalla relazione del testo con certi dati reali che non gli sono estranei, l’evento pasquale e la sua inesauribile fecondità, che costituiscono il vertice dell’intervento divino nella storia di Israele, a vantaggio di tutta l’umanità».
La lettura spirituale, fatta comunitariamente o individualmente, scopre un senso spirituale autentico solo se si mantiene in queste prospettive. Vengono allora messi in relazione tre livelli di realtà: il testo biblico, il mistero pasquale e le circostanze presenti di vita nello Spirito. CONCLUSIONE
Il celebre assunto geronominiano secondo il quale «l’ignoranza delle Scritture è, infatti, ignoranza di Cristo»25, citato da DV 25 in seno all’esortazione rivolta ai fedeli «ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture», esprime chiaramente la centralità dell’ascolto comunitario
25
HIERONYMUS STRIDONIUS, Commentarium in Isaiam, Prol.: PL 24,17.
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e personale della Parola, sotto la guida dello Spirito. La Parola è donata da Dio a Israele e alla Chiesa, ad una comunità credente26, nel corpo di pagine che sono state e vengono ancora trasmesse, ascoltate, annunciate e interpretate. L’opera dello Spirito27 è quella di permettere da un lato l’incarnazione della Parola, dall’altro il coinvolgimento in essa delle vite che la incrociano e in essa permangono. Israele svolge il testo della Torah, cuore della rivelazione sinaitica28; la Chiesa, nel corpo di Gesù di Nazareth, corpo che lo rivela Cristo e Signore nella sua umanità a partire dalla sua Pasqua, abbraccia le Scritture di Israele e le sue proprie, secondo un compimento di senso che si coglie nella pluralità di pagine. Il corpo a corpo che si ingaggia tra Scrittura e comunità è espresso dalla modalità con cui esse stesse chiedono di essere ascoltate, quella della lettura a voce alta: il termine ebraico miqra’ indica infatti il testo proclamato. La Scrittura convoca la comunità, la quale vede la Parola leggendola nei libri, la gusta e la tocca sfogliandola, l’ascolta con le orecchie assaporandone la musicalità, odora il profumo del Nome che essa rivela. L’incontro con le Scritture si definisce pertanto come un ingresso nell’alleanza: in termini antropologici, l’alleanza è una relazione d’amore. La comunità, assistita dallo Spirito che ha presieduto alla stesura dei libri sacri, interpreta la Scrittura, evitando, proprio perché sotto
26 E. BIANCHI, Ascoltare la Parola, cit., 130, ritiene che «solo all’interno di una reale esperienza ecclesiale, comunitaria, la Scrittura può essere letta e vivificata e risorgere a parola vivente di Dio per l’oggi storico dei credenti». 27 Ibid., 76, cita M.-J. RONDEAU, Actualité de l’exégèse patristique, in Les quatres fleuves 7 (1977) 98: «Opera dello Spirito, come l’umanità del Cristo, l’eucaristia e la chiesa, questi altri segni sensibili tramite i quali il Verbo si comunica agli uomini, anche la Scrittura esige, per essere compresa, che si raggiunga il suo dinamismo, quello dello Spirito. Solo una lettura spirituale della Scrittura permette di percepire nelle parole la Parola a cui queste rinviano, così come solo una comprensione spirituale dell’umanità di Gesù, dell’eucaristia e della chiesa permette di percepire nel rabbi giudeo, nel pane e nel vino, nel gruppo sociologico, la realtà di cui sono segno». 28 L’interpretazione midrashica delle lettere ebraiche nota che l’ultima parola del libro del Dt “Israele” finisce con la lettera lamed, mentre la prima parola del libro di Gen “In principio” inizia con la lettera bet. Le due lettere formano il termine “lēḅ”, cuore, evidenziando in tal modo, testualmente, come la Torah sia il cuore di Israele. Per questo, nella festa di Sukkot, precisamente durante Simḥat Torah i rotoli della Torah vengono portati in processione e con essi si danza: vedi R. VICENT, La festa ebraica delle capanne (Sukkot). Interpretazioni midrashiche nella Bibbia e nel giudaismo antico, Città del Vaticano 2001.
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la guida dello Spirito, il rischio dell’omologazione. La pluralità di posizioni esprime la trascendenza della Parola che le Scritture contengono e l’imprendibilità della stessa che non si lascia racchiudere in nessuna pretesa umana di assolutezza veritativa. Al contrario, la fede spinge verso una parola che dica finalmente la Parola, come coglie bene A. Schoenberg nel suo Moses und Aron, quando Mosè oppone ad Aronne e alla sua considerazione circa l’oggettivazione della parola invisibile nella sua incisione sulle tavole di pietra il grido disfatto, accorato ed insieme aperto alla speranza: «O parola, parola, tu che mi manchi».
SYNAXIS XXXVIII/2 - 2020 (45-61)
QUANDO LA VETUS LATINA SI FA PROSSIMA CASI TESTUALI IN EST 3
DIONISIO CANDIDO*
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INTRODUZIONE
La storia della trasmissione dei testi biblici antichi ha nella Vetus Latina (VL) uno dei suoi esponenti più interessanti. Si tratta della prima traduzione in latino della nascente comunità cristiana, che si trova a vivere nel contesto storico dell’Impero romano e in quello geografico del bacino del Mediterraneo. Nell’ambito della Critica testuale dell’Antico Testamento la VL occupa poi un posto particolare. In genere, la manualistica classica la descrive come la prima traduzione in lingua latina dell’Antico Testamento in greco, compiuta già a partire dal sec. II d.C. È dunque considerata come un testimone secondario ma privilegiato della Settanta1. Il caso specifico del libro di Ester è particolarmente complesso e interessante, perché i testi greci che hanno giocato un ruolo importante nella storia della trasmissione testuale sono due: quello della Settanta, ovvero più precisamente del Greco Antico (GA)2, e quello * Docente di Esegesi biblica presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose San Metodio di Siracusa. ** Dedico questo contributo alla memoria grata di don Attilio Gangemi, che mi ha fatto dono dapprima del suo insegnamento di Esegesi del Nuovo Testamento e poi della sua amicizia come collega. 1 «Die Sonderstellung der altlat. Überlieferung innerhalb der Sekundär-Übersetzungen erfordert eine eingehendere Behandlung der Punkte, die für die Geschichte der erhaltenen griech. Überlieferung wesentlich sind» (R. HANHART, Esther, Septuaginta. Vetus Testamentum Graecum, Auctoritate Academiae Scientiarum Gottingensis editum, vol. VIII/3, Göttingen 19832, 20). 2 Con il termine Settanta (o LXX) si intende l’insieme dei libri dell’Antico Testamento in greco
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del cosiddetto Testo Alpha (TA)3. Il testo della VL di Ester è reperibile in una ventina di manoscritti, spesso frammentari: gli unici quattro manoscritti completi (109, 123, 130 e 151) rimontano ai secc. IX-XIII d.C. Nella sua edizione critica, Jean-Claude Haelewyck4 è riuscito ad identificare quattro tipi testuali, mostrando come il tipo cosidetto “R” sia da ritenersi il migliore, in quanto più antico e meno soggetto a modifiche successive alla luce dei testi greci. Le ipotesi sul ruolo della VL nella storia della trasmissione testuale del libro di Ester sono diverse. In particolare, ci si chiede quale posto ricopra la VL in relazione al Testo Masoretico (TM), al GA e al TA. Il presente studio intende offrire un contributo a questa questione aperta, attraverso una considerazione ravvicinata di alcune varianti del cap. 3 in cui la VL mostra particolari rapporti di prossimità con gli altri testimoni testuali. 1. PROSSIMITÀ ATTESE
In generale, il testo della VL segue da vicino quello del GA5. Si può parlare persino di una traduzione pedissequa, se si pensa a quante lezioni tra i due testi combacino pressoché letteralmente. A rafforzare questa idea vengono anche alcune lezioni condivise esclusivamente dalla VL e dal GA. 1.1. Lezioni condivise solo tra VL e GA 1.1.1. Est 3,2 nella loro forma finale. Indicando il testo greco più antico dei singoli libri, è preferibile parlare di Greco Antico (OG). 3 Quest’ultimo è conservato in quattro manoscritti: ms 19, sec. XII, Biblioteca Vaticana (Chigi R. VI 38), Roma; ms 93a, sec. XIII, British Museum, London; ms 108, sec. XIII, Biblioteca Vaticana (Vat. gr. 330), Roma; ms 319, anno 1021, Athos. 4 J.-C. HAELEWYCK, Esther. Fascicule 1 (Introduction), Vetus Latina. Die Reste der altlateinischen Bibel 7/3 (Freiburg im Breisgau 2003), 40-51. 5 Questa situazione di massima non si verifica sempre, ma si rilevano anche differenze materiali Questa situazione di massima non si verifica sempre, ma si rilevano anche differenze materiali evidenti tra il GA e la VL, soprattutto con minus di VL: ad esempio, in Est 3,10 il GA completa la frase dicendo che il re diede l’anello ad Aman, perché questi potesse sigillare lo scritto relativo ai Giudei: σφραγίσαι κατὰ τῶν γεγραμμένων κατὰ τῶν Ἰουδαίων. Subito dopo, in Est 3,11, la VL non ripete il soggetto e il destinatario dell’azione: ὁ βασιλεὺς τῷ Αμαν di GA.
Quando la Vetus Latina si fa prossima TM
GA
ki-ḵēn
οὕτως γὰρ
TA
sic enim
ṣiwwâ-lô
προσέταξεν
praeceperat
hammeleḵ
ὁ βασιλεὺς
rex
ποιῆσαι
fieri
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VL
Dalla prima parte del v. 3, che precede il testo sopra riportato, si apprende che tutti i funzionari del re si prostravano dinanzi ad Aman6. Il TM afferma che si trattava infatti di una prescrizione del re. IL GA presenta in più la lezione ποιῆσαι, forma verbale all’infinito retta da προσέταξεν: «aveva comandato di fare». In questo modo, il verbo ṣwh7 non è inteso in termini assoluti, ma diventa un verbum regens. La VL segue l’OG. Il verbo ṣwh occorre nove volte nel libro di Ester: tre volte è usato come verbum regens di un tempo infinito (Est 4,5.8) o finito (Est 2,10) e cinque volte in senso assoluto (Est 2,20; 3,2.12; 4,10.17; 8,9). Di queste ultime, tre volte il GA sembra intervenire con un ritocco funzionale al greco. In Est 2,20, alla semplice resa di ṣwh con ἐντέλλω il GA aveva aggiunto un’importante frase con un altro verbum rectum (φοβεῖσθαι τὸν θεὸν) per poi aggiungere ancora ποιῆσαι. In Est 4,10 sembra che il GA interpreti direttamente il verbo ebraico nel suo esito: non si limita infatti a tradurre letteralmente «comandò a lui [di andare] a Mardocheo» (wattᵉsawwēhû ʾel-mordoḵaȳ ), ma preferisce «Va’ da Mardocheo (Πορεύθητι πρὸς Μαρδοχαῖον)». Oltre ad Est 3,2, l’infinito ποιῆσαι occorre poi altre quattro volte nella porzione di testo condiviso tra il GA e il TM8: in Est 1,8, retto da ἐπιτάσσω (ysḏ), trova corrispondenza nell’inf. costr. la‘ᵃsoṯ; ancora in Est 1,15, retto da ἀπαγγέλλω, trova corrispondenza in la‘ᵃsoṯ; in Est 2,20 – come già notato – ποιῆσαι è retto da ἐντέλλω, ma non ha corrispondenza in ebraico; in Est 7,5, infine, retto da τολμάω (mlʾ). 6 Sul tema della prostrazione nel libro di Ester in confronto con il resto della letteratura biblica ed extra-biblica, cfr. H.M. WAHL, Das Buch Esther. Übersetzung und Kommentar, Berlin-New York 2009, 91-93. 7 Il GA rende differentemente il verbo ebraico ṣwh in greco all’interno del libro di Ester: προστάσσω (Est 3,2), con ἐντέλλω (Est 2,10.20; 4,8.17; 8,9), ἐπιτάσσω (Est 3,12), ποστέλλω (Est 4,5). 8 In Est A11 il verbo ποιῆσαι retto da βούλομαι non ha evidentemente riscontro nel TM.
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Dionisio Candido
In questo caso, si può ritenere che il verbum rectum ποιῆσαι sia dovuto alla translation technique del traduttore greco ovvero ad una traduzione libera, anche se non si può affatto escludere che la lezione appartenesse già alla sua Vorlage ebraica (la‘ᵃsoṯ). Di certo, la VL asseconda il GA. 1.1.2. Est 3,4 TM wᵉlō ʾ šāma‘
GA καὶ οὐχ ὑπήκουεν αὐτῶν
TA
VL et non obediret eis
Quotidianamente i funzionari di corte mettono sotto pressione Mardocheo per via del suo comportamento: in questo modo si chiarisce che essi non vogliono più avvertire Mardocheo del pericolo che sta correndo, ma che sono invidiosi del suo coraggio o estenuati dalla sua ostinazione9. Rispetto al TM, il GA esplicita che egli non voglia stare ad ascoltare proprio loro (αὐτῶν). In base al contesto, non equivocabile, il pronome di per sé è pleonastico10. La VL segue il GA riproducendo il pronome: eis. In questo caso, sembra che si sia di fronte ad un’aggiunta del GA per translation technique; tuttavia, non si può escludere che il pronome fosse già presente nella Vorlage ebraica, anche se in questo caso divergente dal TM. La VL segue il GA da vicino. 1.1.3. Est 3,10 TM
GA
TA
VL
wayyittᵉnah
ἔδωκεν
καὶ ἔδωκε
dedit
lᵉhāmān
τῷ Αμαν
τῷ Αμαν
Aman
εἰς χεῖρα
in manu
9 Cfr. L.B. PATON, A Critical and Exegetical Commentary on the Book of Esther, International Critical Commentary, Edinburgh 1992, 198. 10 Infatti la Vg, pur notoriamente incline alla resa libera dell’ebraico, legge: et ille nollet audire.
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Il contesto di questa lezione è quello della consegna dell’anello regale ad Aman. Immediatamente prima, il TM – senza corrispondenza né nel GA né nella VL – aveva detto che il re si era sfilato l’anello mē‘al yāḏô, «dalla sua mano». Il GA sposta l’immagine: la mano non è più quella del re da cui l’anello viene sfilato, ma quella di Aman a cui l’anello viene affidato. La VL segue in questo il GA. Una prima ipotesi da considerare è che il traduttore greco del GA abbia frainteso la preposizione composta mē‘al (ovvero min, “da” e al, “sopra”), traducendola non nel senso atteso di provenienza, ma di moto a luogo: εἰς, “verso”. Tuttavia, alcuni manoscritti origeniani e il Codex Sinaiticus corretto mantengono la traduzione εἰς χεῖρα, pur collocandola in diretta corrispondenza di mē‘al yāḏô cioè prima del verbo ἔδωκεν. Nulla vieta di riconoscere qui un caso di translation technique del traduttore greco, che ha voluto mettere in maggior rilievo il potere che era nelle mani di Aman. La VL si rivela testimone fedele di questa lezione del GA. 1.1.4. Est 3,12 TM
GA
TA
VL
ἀπὸ Ἰνδικῆς ἕως τῆς Αἰθιοπίας,
ab India usque in Ethiopiam,
ταῖς ἑκατὸν εἴκοσι ἑπτὰ
CXXVII
χώραις
regionibus
L’aggiunta del GA «dall’India fino all’Etiopia, a centoventisette province» specifica ulteriormente ed enfaticamente dove si trovano i satrapi del re e i governatori di ogni provincia, che sono destinatari della lettera. Sotto forme in parte diverse, questa espressione occorre ancora quattro volte nel libro di Ester secondo il GA11: è identica in Est B1; è invece simile in Est 1,1 (senza ἕως τῆς Αἰθιοπίας, mentre la VL conserva usque Ethiopiam), nonché in Est 8,9 e E1 (ma con il termine σατραπείαις = satrapis, anziché χώραις). Il TM presenta il 11 Al di fuori del libro si può menzionare Dn 3,1: ἀπὸ Ινδικῆς ἕως Αἰθιοπίας; oppure l’apocrifo 3Esd 3,2: ἀπὸ τῆς Ἰνδικῆς μέχρι τῆς Αἰθιοπίας ἐν ταῖς ἑκατὸν εἴκοσι ἑπτὰ σατραπείαις.
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suo testo completo (mēhōddû wᵉ‘aḏ-kûš šeḇa‘ wᵉ‘eśrim ûmē’â mᵉḏinâ) in Est 1,1 e Est 8,9, ma non in Est 3,12. Si può quindi pensare che il testo del GA presenti qui un ampliamento proprio di translation technique, dovuto ad un’armonizzazione tramite il parallelismo con i passi analoghi12. Ancora una volta la VL legge la medesima lezione. 1.2. Tendenza del GA (= VL) a semplificare le lezioni del TM
Una tendenza tipica del TM del libro di Ester è quella della reduplicazione, ovvero della ripetizione di termini per scopi narrativi13. Il TM di Est 3 presenta ben tre casi di lezioni doppie, a cui corrisponde una lezione singola nel GA14 e nella VL. Un primo riscontro è costituito dalla coppia di verbi ebraici sinonimi kr‘ e ḥwh del del TM, che torna in tre passi. Anzitutto in Est 3,2 del TM si legge: kōr‘im ûmištaḥᵃwim lᵉhāmān ki-ḵēn ṣiwwâ-lô hammeleḵ, «E tutti i ministri del re, che stavano alla porta del re, si inginocchiavano e si prostravano davanti ad Aman». Nel GA le due forme verbali participiali kōr‘im ûmištaḥᵃwim vengono unificate nella traduzione del solo imperf. προσεκύνουν, «si prostravano per ado12 Si può quindi concordare con Cavalier sul fatto che qui il GA e la VL offrano insieme «des alignements sur le chapitre 1». Tuttavia, la lezione «centoventisette province» – che Cavalier non traduce nel suo testo – non è esclusiva e originale di VL, ma deriva dal GA (cfr. C. CAVALIER, Esther, La Bible d’Alexandrie 12, Paris 2012, 162-163). 13 «Quanto si vuole ottenere non è di natura strettamente poetica, ma mira a creare un effetto ritmico che conferisce al flusso narrativo del racconto un andamento al tempo stesso fermo, per il ripetersi dello stesso elemento o di un altro simile, e movimentato per lo scatto sonoro dovuto alla sovrapposizione di due formule parallele» (A. MINISSALE, Ester. Nuova versione, introduzione e commento, I Libri Biblici. Primo Testamento 27, Milano 2012, 56). Talora però si verifica la situazione opposta a quella appena considerata: ovvero OG, seguito da VL, sembra raddoppiare le lezioni uniche del TM. In Est 8,17 la forma verbale miṯyahᵃḏim (partic. Hitpael di yhḏ) viene resa con: περιετέμοντο, καὶ ἰουδάιζον. Verosimilmente, si tratta di una traduzione letterale (ἰουδάιζον) a cui però si premette un altro verbo più noto, perché relativo alla pratica della circoncisione. 14 Nel resto del libro di Ester si ritrovano altri casi simili, che fanno pensare ad una vera e propria tendenza di GA a semplificare TM. Cfr., ad esempio, in Est 2,20 i due termini di TM môlaḏtah wᵉʾeṯ‘ammah, «la sua stirpe e il suo popolo», che corrispondono nel GA a τὴν πατρίδα αὐτῆς (neque patriam in VL); in Est 4,3 i due termini di TM dᵉḇar-hammeleḵ wᵉḏātô, «l’ordine e l’editto del re», che corrispondono nel GA a τὰ γράμματα; in Est 8,14 i due termini di TM mᵉḇōhālim ûḏᵉḥûp̱im, «premurosi e stimolati», che corrispondono nel GA a σπεύδοντες (festinanter in VL).
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rare». Parimenti, la VL presenta il solo verbo adorabant. Poco più avanti nello stesso v. 2, torna ancora nel TM la medesima coppia di verbi: lō ʾ yı̂kṟ a‘ wᵉlō ʾ yıštaḥᵃwê. Nuovamente, il GA traduce solo con οὐ προσεκύνει e la VL, coerentemente, con non adorabat. Infine in Est 3,5 del TM si trova: mordᵒḵay kōrēa‘ ûmištaḥᵃwê lô. Il GA prosegue nella sua tendenza ad unificare, leggendo qui προσκυνεῖ αὐτῷ Μαρδοχαῖος. La stessa cosa si può dire della VL: adorabat eum Mardocheus. Un caso per certi versi ancora più evidente è costituito dalla successione di tre verbi in in Est 3,13 del TM. Si tratta di tre infiniti con valore finale, che esprimono il motivo per cui il documento di sterminio dei Giudei viene inviato nelle diverse province dell’impero: lᵉhašmiḏ lahᵃrōg ûlᵉʾabbēḏ , «per distruggere, uccidere, sterminare». Il GA si limita qui alla lezione ἀφανίσαι, «distruggere», così come nella VL si legge il solo perire. 1.3. Rese libere tra il GA e la VL 1.3.1. Est 3,3 TM
GA
TA
VL
wayyō ʾmᵉrû
καὶ ἐλάλησαν
καὶ εἶπον
Et locuti sunt
‘aḇḏē hammeleḵ
οἱ παῖδες τοῦ βασιλέως
ʾᵃšer-bᵉša‘ar hammeleḵ οἱ ἐν τῇ αὐλῇ τοῦ βασιλέως lᵉmordᵒḵāy
τῷ Μαρδοχαίῳ Μαρδοχαῖε
qui erant in atrio regis, πρὸς τὸν Μαρδοχαῖον Mardocheo, dicentes
Tutti i testimoni testuali dividono Est 3,3 in due parti15: la prima spiega che i ministri del re si rivolgono a Mardocheo, mentre la seconda contiene il loro discorso diretto. Il GA e la VL condividono la presenza di una lezione in più rispetto al TM, posta all’inizio del discorso diretto dei ministri del re. Rispetto al TM, il GA presenta infatti 15 In realtà, AT premette un inciso che sottolinea il fatto che i servi del re constatano il comportamento disobbediente e quindi sovversivo di Mardocheo: καὶ εἶδον οἱ παῖδες τοῦ βασιλέως ὅτι ὁ Μαρδοχαῖος οὐ προσκυνεῖ τὸν Αμαν.
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un vocativo: Μαρδοχαῖε. In questo modo, il nome proprio si succede due volte: una in dativo («a Mardocheo») e subito dopo appunto in vocativo («Oh Mardocheo»). Nel testo del libro di Ester condiviso tra il TM e l’AT i nomi propri in vocativo sono abbastanza rari, anche se non assenti16. Si potrebbe quindi trattare di una scelta del GA di translation technique. In corrispondenza del vocativo Μαρδοχαῖε, la VL presenta invece il participio dicentes, retto dal verbo locuti sunt (perf. del verbo loquor). Visto il contesto della frase, anche il traduttore della VL potrebbe essere intervenuto, decidendo di andare per proprio conto nell’evitare l’inedita ripetizione del nome e introducendo al suo posto una forma verbale ben armonizzata con il resto della frase. 1.3.2. Est 3,4 TM
GA
wayyaggiḏû lᵉhāmān
καὶ ὑπέδειξαν τῷ Αμαν
TA
indicaverunt Aman
VL
Μαρδοχαῖον
quoniam Mardocheus
lirʾôṯ hᵃya‘amḏu diḇrē mordᵒḵay
τοῖς τοῦ βασιλέως λόγοις ἀντιτασσόμενον
non obaudit regi
Il TM non è semplicissimo da intendere: wayyaggiḏû lᵉhāmān lirʾôṯ hᵃya‘amḏû diḇrē mordᵒḵay, lett. «riferirono [il fatto] ad Aman, per vedere se le parole di Mardocheo sarebbero rimaste in piedi»17.
16 Altri due casi, identici tra loro, si ritrovano in Est 5,6 e 7,2. Si tratta della domanda che il re rivolge ad Ester: «Cosa desideri, regina Ester?». In Est 5,6 TM ha la domanda, ma non il vocativo: mâšᵉʾēlaṯēḵ; il GA presenta sia la domanda sia il vocativo: Τί ἐστιν, βασίλισσα Εσθηρ; VL ha la domanda ma non il vocativo, come il TM: quid petis. In Est 7,2 tutti e tre i testimoni concordano, leggendo sia la domanda sia il vocativo: TM legge mâ-šᵉʾēlaṯēk ʾestēr hammalkâ; il GA legge Τί ἐστιν, Εσθηρ βασίλισσα; VL legge quae est petitio tua Hester.
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L’espressione può essere intesa in due modi: o i ministri del re vogliono verificare se Mardocheo avrebbe persistito nel suo atteggiamento anche dopo che Aman ne fosse stato al corrente; oppure i ministri vogliono vedere se la sua condotta sarebbe stata tollerata o persino approvata dalle autorità18. IL GA diverge dal TM, forse anche alla ricerca di una forma sintatticamente più lineare: καὶ ὑπέδειξαν τῷ Αμαν Μαρδοχαῖον τοῖς τοῦ βασιλέως λόγοις ἀντιτασσόμενον, «e svelarono ad Aman che Mardocheo disobbediva alle parole del re». La VL segue il GA, sia pure non in modo del tutto servile: indicaverunt Aman quoniam Mardocheus non obaudit regi, «comunicarono ad Aman che Mardocheo non obbediva al re». In questo modo, non solo manca il riferimento alle “parole” del re, ma nel caso della lezione non obaudit per ἀντιτασσόμενον si può riconoscere anche una semplice traduzione antonimica da parte della VL19. 2. PROSSIMITÀ INATTESE
In tutti i casi sinora considerati la VL ha sempre mostrato di seguire, più o meno da vicino, il GA. Il capitolo 3 del libro di Ester, tuttavia, presenta anche casi in cui le lezioni della VL corrispondono inaspettatamente soltanto a quelle del TM o del TA. 2.1. Lezioni in cui la VL riflette solo il TM 2.1.1. Est 3,2 17 La King James Version e la New American Bible, traducono: «to see whether Mordecai’s matters would stand». La Bible de Jérusalem traduce: «pour voir si Mardochée persisterait dans son attitude». Traduction Oecuménique de la Bible traduce: «pour voir si les affirmations de Mardocochée tiendrait». La versione argentina de El libro del pueblo de Dios traduce: «para ver si Mardoqueo hacía valer sus razones». La Einheitzübersetzung traduce: «weil sie sehen wollten, ob Mordechai mit seiner Begründung Erfolg haben werde». 18 Cfr. L.B. PATON, A Critical and Exegetical Commentary on the Book of Esther, cit.,198. 19 «An antonymic translation is a transformation in which an SL [source language] element is rendered by its TL [target language] antonym plus a negation» (The A.W. VAN DER LOUW, Transformations in the Septuagint. Towards an Interaction of Septuagint Studies and Translation Studies, Contributions to Biblical Exegesis & Theology 47, Paris-Dudley, MA 2007, 65).
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TM
GA
TA
VL
kōr‘im
προσεκύνουν
καὶ προσκυνεῖν
adorabant
αὐτῷ·
αὐτῷ
Aman
ûmištaḥᵃwim lᵉhāmān
Il versetto illustra il diverso comportamento dei funzionari e di Mardocheo nei confronti di Aman. In Est 3,1 si era detto che quest’ultimo era stato elevato dal re alla massima dignità a corte: non si fornisce alcuna spiegazione della promozione di Aman, ma di certo essa stride con il mancato riconoscimento a Mardocheo per aver sventato la congiura di corte (cfr. Est 2,21-23)20. Il TM ne ripete il nome del neo-primo ministro, quando afferma che i funzionari regi si prostravano appunto lᵉhāmān, «ad Aman». IL GA, seguito dal TA, legge invece il pronome αὐτῷ21 al posto del nome proprio forse per translation technique. La VL questa volta ricalca però non la lezione del GA ma del TM: Aman22. Nella tradizione manoscritta greca, la lezione Αμαν si ritrova soltanto nel Codex Alexandrinus, le cui eventuali lezioni esaplariche non sono sicure23. Si può dunque immaginare qui che la VL non dipenda da una lezione esaplarica, ma che testimoni piuttosto la lezione della sua Vorlage greca già recensita nella direzione del TM. 2.1.2. Est 3,4 TM
GA
TA
VL
wayhi
Et factum est
bᵉʾomrām ʾēlāyw
cum dicerent ei24
Cfr. J.D. LEVENSON, Esther, OTL, Louisville (KY) 1997, 67-68. Alla fine del medesimo v. 2 il GA aggiunge ancora un αὐτῷ esplicativo, riferito cioè al re. Questa volta la VL segue il GA con la lezione eum. 22 Nella tradizione latina, la lezione Aman figura nei manoscritti di Lione 356 (sec. IX), Pechianus (sec. IX), di Parigi lat. 11549 (sec. XII) e di München Clm 6239 (sec. VIII-IX). 23 Hanhart riconosce la difficoltà legata in generale alla interpretazione delle lezioni del Codex Alexandrinus: «Der Textcharakter von A ist darum am schwierigsten zu bestimmen, weil diese Hs. einerseits mehrfach als Zeuge der hexaplarischen Überlieferung auftritt, anderseits aber auch unabhängig von der hexaplarischen Tradition von allen Unzialen die meisten Sonderlesarten überliefert» (Esther, 53). 20
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Anche in Est 3,4 si possono individuare lezioni condivise solo tra il TM e la VL. Entrambe le lezioni presentate qui sopra si collocano all’inizio di Est 3,4. Poco più avanti il GA presenta invece la lezione ἐλάλουν αὐτῷ. I manoscritti origeniani anticipano la lezione ελεγον δε αυτω, rivelando così chiaramente lo sforzo di avvicinare il testo greco a quello del TM. La lezione cum dicerent ei della VL potrebbe quindi essere debitrice di un testo greco esaplarico, benché si sia tentati di riconoscere dietro il sintagma latino di cum e il congiuntivo imperfetto (dicerent) il sintagma greco ἐν e infinito25. Resta invece da intendere la lezione et factum est della VL, corrispondente a wayhi del TM. In assenza di qualunque testimonianza esaplarica, anche questa lezione lascia intravedere un sottostante καὶ ἐγένετο (cfr. Est 1,1): vi si può cioè riconoscere la traccia di una Vorlage greca recensita in direzione del TM26. 2.1.3. Est 3,6 TM
GA
wayḇaqqēš
καὶ ἐβουλεύσατο
TA
καὶ παραζηλώσας. et cogitavit παραζηλώσας
hāmān
VL
ὁ Αμαν
Aman
lᵉhašmiḏ
ἀφανίσαι
ʾeṯ-kol-hayyᵉhûḏim
πάντας τοὺς
universos Iudaeos,
perdere
ʾᵃšer bᵉḵol-malḵuṯ ʾᵃḥašwērôš
ὑπὸ τὴν Ἀρταξέρξου βασιλείαν
qui erant in regno Artarxerxis
‘am mordᵒḵāy
βασιλείαν
et Mardocheum, et genus eius
regis Ἰουδαίους
24 Il termine ei è suggerito come congettura da Haelewyck (p. 192), contro la lezione et dell’autorevole manoscritto 151. In realtà, la lezione ei si ritrova negli altri manoscritti completi 109, 123 e 130. Inoltre, è proprio il parallelo con il TM a suggerire di andare in questa direzione. 25 Così è in Est 2,15: il TM legge ûḇᵉhaggia‘, il GA legge ἐν δὲ τῷ ναπληροῦσθαι, e la VL legge cum advenisset. 26 Cavalier si limita a presumerne la presenza nella sua Vorlage: «La formule d’ouverture du TM “et il advint” a disparu des deux formes grecques LXX et L, mais la VL atteste l’existence d’une version qui la comportait» (Esther, 159).
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Il v. 6 racconta dell’astio di Aman verso Mardocheo ed il suo conseguente proposito di mettere in atto un vero e proprio pogrom nei confronti di tutti i Giudei. Nella finale del versetto il sintagma ὑπὸ τὴν Ἀρταξέρξου βασιλείαν del GA si inserisce tra l’articolo τοὺς e il sostantivo Ἰουδαίους, in bello stile greco: questo potrebbe essere indice non tanto di una diversa Vorlage rispetto al TM, quanto di translation technique. Non a caso, i manoscritti origeniani semplicemente optano per una sintassi più aderente all’ebraico: τους ιουδαιους τους υπο την βασιλειαν αρταξερξου. Si può quindi immaginare che la lezione della VL universos Iudaeos, qui erant in regno Artarxerxis regis derivi da queste lezioni origeniane. Diversa invece sembra dover essere la valutazione relativa all’ultima lezione della VL: et Mardocheum, et genus eius. Qui mancano testimonianze esaplariche27, da cui la VL potrebbe dipendere. Resta così evidente la prossimità con la lezione del TM: ‘am mordᵒḵay. Diversi studiosi hanno suggerito di modificare la vocalizzazione masoretica da ‘am, «popolo», a ‘im, “con”: la nuova lezione «con Mardocheo» sarebbe infatti sintatticamente e semanticamente meglio integrata con il contesto28. In questo caso, sembra possibile concludere che si tratti di una lezione che rivela la tendenza della Vorlage greca della VL ad approssimarsi al TM. 2.2. Lezioni in cui la VL riflette solo l’AT 2.2.1. Est 3,1
27 In realtà, il GA non ignora questa lezione, che verosimilmente è stata solo spostata più avanti in Est 3,7: «Whereas in the MT, the Jews are identified in 3:6, in apposition to “all the Jews in the empire of Ahasueros,” as: ‘m mrdky, the people of Mordecai, the OG does not refer to “the people of Mordecai” in 3:6, but moves that designation to 3:7» (K. DE TROYER, «Writing and Rewriting in Esther 3 An Analysis of the Hebrew, Old Greek and Alpha Text», in D. CANDIDO - L. PESSOA DA SILVA PINTO (edd.), A Necessary Task. Essays on Textual Criticism of the Old Testament in Memory of Stephen Pisano, Analecta Biblica. Studia 14, Roma 2020, 149). 28 Cfr. C.A. MOORE, Esther. Introduction, Translation and Notes, AB 7B, New York City 19825, 33; 37.
Quando la Vetus Latina si fa prossima TM
GA
ʾaḥar haddᵉḇārim hā ʾellê
Μετὰ δὲ ταῦτα
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TA
VL
Καὶ ἐγένετο
Et factum est
μετὰ τοὺς λόγους τούτους
post haec verba
Il TM e il GA aprono con una espressione tipica (cfr. Est 2,1) per indicare l’avvio di un nuovo episodio: ʾaḥar haddᵉḇar̄ im hā ʾēllê, μετὰ δὲ ταῦτα, «dopo questi fatti». La VL e il TA fanno precedere questa lezione da un’altra assente nel TM e nel GA. Il TA si apre infatti con l’espressione καὶ ἐγένετο, che rimanda all’ebraico wayhi (cfr. quanto detto sopra nel par. 2.1.2., sempre a proposito di Est 3,4): questa volta la lezione et factum est della VL ricalca da vicino esclusivamente la lezione del TA. Dal punto di vista narrativo, una tale lezione del TA e della VL lascia intendere senza mezzi termini che sta per iniziare un nuovo episodio della narrazione. Dal punto di vista critico-testuale, si può invece ipotizzare che il TA abbia influenzato la Vorlage greca della VL. 2.2.2. Est 3,3 TM
GA
TA
VL
ʾattâ ‘ôḇēr
παρακούεις
σὺ παρακούεις
non audis
τοῦ βασιλέως
quae a rege dicuntur,
καὶ οὐ προσκυνεῖς τὸν
et non adoras Aman?
ʾēṯ miṣwat hammeleḵ
τὰ ὑπὸ τοῦ βασιλέως. λεγόμενα;
Αμαν;
Anche in questo versetto la VL e l’AT presentano una lezione condivisa. Alla domanda retorica29 iniziale che i cortigiani rivolgono a Mardocheo («Perché trasgredisci gli ordini del re?»), entrambi i testimoni testuali aggiungono un secondo membro con cui si sottolinea il fatto che egli non voglia prostrarsi dinanzi al grand vizir del re: καὶ οὐ προσκυνεῖς τὸν Αμαν;, et non adoras Aman?, «e non riverisci Aman». 29 «The question that the courtiers asked in verse 3 is repeated day after day. It is not a request for information, but rather a way to urge him to conform to the command. It is a rhetorical question» (A. BERLIN, Esther, The JPS Bible Commentary, Philadelphia 2001, 36).
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Dal punto di vista narrativo, questa lezione serve a sottolineare che anche i cortigiani sono consapevoli dell’atteggiamento indefettibile o ostinato di Mardocheo. Dal punto di vista critico-testuale, si può cogliere qui un’altra traccia della dipendenza della Vorlage greca della VL dal TA. 2.2.3. Est 3,8 TM
GA
wᵉḏāṯēhem
οἱ δὲ νόμοι αὐτῶν
šōnôṯ
ἔξαλλοι
TA
VL
ἔξαλλα
extraneas
νόμιμα ἔχων,30
leges habens,
τοῖς δὲ νομίμοις σοῦ,
legibus autem tuis non oboediens. Qui cognoscuntur in omni pestilentia,
βασιλεῦ, οὐ προσέχουσι γνωριζόμενοι mikkol-‘ām
παρὰ πάντα τὰ ἔθνη,
ἐν πᾶσι τοῖς ἔθνεσι
wᵉʾeṯ-dāṯē
τῶν δὲ νόμων
καὶ τὰ προστάγματά σου
et praecepta tua
hammeleḵ
παρακούουσιν
ἀθετοῦσι
spernunt
πρὸς καθαίρεσιν τῆς δόξης σου.
in diminutionem gloriae tuae
πονηροὶ ὄντες
ʾēnām ‘ōśim αρακούουσιν
Il v. 8b contiene il discorso diretto con cui Aman cerca di convincere il re della pericolosità dei giudei per la stabilità del regno persiano. In questo contesto, mentre il TM e il GA procedono appaiati, la VL rivela alcune lezioni prossime al TA. Anzitutto va rilevata la costruzione sintattica iniziale, là dove il TM e l condividono una frase nominale, ellittica quindi del verbo: wᵉḏāṯēhem šōnôṯ , οἱ δὲ νόμοι αὐτῶν ἔξαλλοι, «le loro leggi [sono] diverse». Si fa poi un confronto «rispetto a tutti gli altri popoli» (mik30 Hanhart pone qui una virgola, che tuttavia può essere rimossa se si considera che l’espressione τοῖς δὲ νομίμοις σοῦ è retta da ἔξαλλα νόμιμα.
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kol-‘ām, παρὰ πάντα τὰ ἔθνη). E alla fine compare una forma verbale (ʾēnām ‘ōsí m, παρακούουσιν), preceduta dal suo oggetto diretto (ʾeṯḏāṯē hammeleḵ , τῶν δὲ νόμων τοῦ βασιλέως): «infrangono le leggi del re». Il TA e la VL costruiscono l’intera frase in modo diverso ovvero in tre parti, con la prima e la terza che vede i due testimoni vicini tra loro. Nella prima parte compare subito il complemento oggetto, noto anche al TM e al GA: ἔξαλλα νόμιμα, extraneas leges, «leggi straniere». Il verbo, nella forma del participio presente, è correttamente coordinato con il sostantivo: [λαὸς] ἔχων, [genus] habens. Segue una esplicitazione: τοῖς δὲ νομίμοις σοῦ, legibus autem tuis, «rispetto alle tue leggi». Nella seconda parte, però, il TA e la VL divergono tra loro. Il TA introduce un vocativo e una nuova espressione di biasimo da parte di Aman verso i giudei: βασιλεῦ, οὐ προσέχουσι γνωριζόμενοι ἐν πᾶσι τοῖς ἔθνεσι πονηροὶ ὄντες, «o re, non vi pongono attenzione essendo noti tra tutti i popoli perché sono cattivi». La VL, invece, costruisce la frase anzitutto aggiungendo non obediens, «non obbedendo»: in questo modo legibus autem suis si riferisce a quanto segue e non a quanto precede. La punteggiatura riportata nel testo aiuta a distinguere i due membri: extraneas legens habens da una parte e legibus autem tuis non oboediens dall’altra. Nella terza ed ultima parte31, il TA e la VL tornano a presentare alcune lezioni parallele. Si tratta del pronome personale σου, tua anziché il sostantivo hammeleḵ del TM e τοῦ βασιλέως del GA. Ma la corrispondenza tra il TA e la VL è ancora più evidente nella frase finale, che indica la ragione o forse meglio la conseguenza diretta della disobbedienza dei giudei alle leggi regie secondo Aman: πρὸς καθαίρεσιν τῆς δόξης σου, in diminutionem gloriae tuae, «perché svanisca/diminuisca la tua gloria».
31 Poco prima la VL presenta un plus, che appare del tutto indipendente: qui cognoscuntur in omni pestlentia, lett. «costoro sono noti in ogni situazione malsana», ovvero «sono da ritenersi causa di ogni sciagura». Cavalier traduce: «Ils sont connus de chacun come un fléau» (Esther, 249). Ma in omni va ritenuto come concordato con pestilentia. In questo caso, sembra proprio che il traduttore latino della VL abbia voluto aggiungere una glossa rafforzativa..
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Nello stesso versetto, pertanto, si possono riconoscere diversi debiti della Vorlage greca della VL alle lezioni del TA. 2.2.4. Est 3,9 TM
GA
TA
VL
ʾim-‘al-hammeleḵ tôḇ
εἰ δοκεῖ τῷ βασιλεῖ,
εἰ δοκεῖ οὖν τῷ βασιλεῖ,
si ergo tibi placet rex,
καὶ ἀγαθὴ
et optimum est
ἡ κρίσις ἐν καρδίᾳ αὐτοῦ,
sensui tuo,
yı̂kkāṯēḇ
δογματισάτω
δοθήτω μοι
detur mihi
lᵉʾabbᵉḏām
ἀπολέσαι αὐτούς
τὸ ἔθνος εἰς ἀπώλειαν,
genus hoc in perditionem
Questa prima parte di Est 3,9 contiene la proposta di Aman di eliminare il popolo giudaico. Il TA e la VL presentano un certa prossimità, a cominciare dalla lezione καὶ ἀγαθὴ [ἡ κρίσις] ἐν καρδίᾳ αὐτοῦ, et optimo est sensui suo. L’espressione del TA compare quasi del tutto identica in 7,332: Εἰ δοκεῖ τῷ βασιλεῖ, καὶ ἀγαθὴ ἡ κρίσις ἐν καρδίᾳ αὐτοῦ. Potrebbe quindi trattarsi di una armonizzazione con un passo parallelo, richiamato a memoria dal traduttore del TA. Ma quello che impressiona è la quasi completa coincidenza del TA con la VL sia in queste lezioni autonome sia in quelle successive (δοθήτω μοι τὸ ἔθνος εἰς ἀπώλειαν, detur mihi genus [hoc] in perditionem, «mi si dia questo popolo per eliminarlo»), mentre il TM e il GA procedono insieme con lezioni diverse (yı̂kkāṯēḇ lᵉʾabbᵉḏām, δογματισάτω ἀπολέσαι αὐτούς, «si stabilisca di eliminarli»). Ancora una volta emergono lezioni che rivelano la dipendenza della Vorlage greca della VL da TA.
32
Mentre la VL ha una lezione differente: et si videtur animae tuae.
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CONCLUSIONE
In chiave critico-testuale, il presente studio ha mostrato l’utilità della VL per cogliere alcuni aspetti della trasmissione testuale del libro di Ester. Restando nell’ambito del solo capitolo 3 del libro di Ester, si è notato anzitutto come sia possibile andare al di là della tesi comunemente diffusa della dipendenza della VL dal GA. Quando la VL condivide in modo esclusivo alcune lezioni con il GA (cfr. le quattro lezioni del par. 1.1.), si può apprezzare la translation technique di quest’ultimo. In particolare, nel caso di lezioni doppie o triple, ovvero di due o tre sinonimi che si susseguono, la VL mostra di seguire il GA, sia quando unifica le lezioni plurime, sia quando moltiplica le lezioni singole (cfr. le due fattispecie del par. 1.2). Infine, la VL e il GA presentano poi lezioni sì esclusive, ma non del tutto identiche (cfr. le due lezioni del par. 1.3): in questi casi si può apprezzare la translation technique anche del traduttore latino. Est 3, tuttavia, presenta anche casi nei quali le lezioni della VL si distanziano da quelle del GA e corrispondono inaspettatamente soltanto a quelle del TM o del TA. Quando la VL condivide una lezione esclusivamente con il TM (cfr. le tre lezioni del par. 2.1.) si può immaginare che la Vorlage della VL sia stata soggetta ad un processo di recensione del GA verso il TM: si può quindi ipotizzare che tale Vorlage sia da collocare in un’epoca antica, di poco successiva alla stesura del GA, solitamente datato al 77-78 a.C.33 Infine, nei casi in cui la VL condivide una lezione esclusivamente con il TA (cfr. le quattro lezioni del par. 2.2) si può riconoscere il debito che la Vorlage greca della VL paga anche alla forma testuale greca del TA34: sarebbe questo un indice della importanza del TA in epoca antica, ben prima della sua attestazione manoscritta che risale a non prima del sec. XI d.C.
Cfr. E.J. BICKERMAN, «The Colophon of the Greek Book of Esther», JBL 63 (1944) 339-362. «Die Partien, in denen La mit dem L-Text zusammengeht, ergeben für die ohnehin geringen Wandlungen des L-Textes wenig» (HANHART, Esther, 25). 33 34
SYNAXIS XXXVIII/2 - 2020 (63-77)
FINCHÉ C’È MIRYAM, C’È SPERANZA SUGGESTIONI ESEGETICHE SU NM 12,1-16
CARMELO RUSSO*
In questo periodo di pandemia calza a pennello l’occasione di intrattenersi sulla storia di Miryam1, sorella di Mosè e Aronne, che ci incoraggia a cantare il quotidiano bisogno di liberazione e di guarigione, anche nel deserto afono delle nostre quarantene. Non a caso, Filone d’Alessandria, nel suo trattato De Somniis, attribuisce a Miryam il nome simbolico di ἐλπὶς (= speranza)2. Tra i vari episodi che riguardano la vita di Miryam3, avevo deciso di affrontare più diffusamente la sua prima (anonima) apparizione nel brano di Es 2,1-10, in cui un fine narratore presta ai lettori * Docente di Esegesi biblica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Non insisto sulle sottigliezze filologiche della pronuncia “Miryam” scelta dal Testo Masoretico. Quello che appare certo, anche ad avviso di É. Puech, è che la fonetica originaria sia “Mariam”, così come conservata dai LXX. Il nome, dalla radice RWM potrebbe significare “colei che è stata esaltata”. Altre etimologie propongono la radice MRH (“essere ribelle”) o MRR (“essere amaro”). 2 Cfr. FILONE, De Somniis, II, 142: διὰ τοῦτο καὶ τὴν Μωυσέως ἀδελφὴν – ἐλπὶς δὲ παρ’ἡμῖν τοῖς ἀλληγορικοῖς ὀνομάζεται – φασὶν ἀποσκοπεῖν μακρόθεν (Exod. 2, 4) οἱ χρησμοί, πρὸς τὸ τοῦ βίου δήπου τέλος ἐμβλέπουσαν, ἵνα αἴσιον ἀπαντήσῃ, τοῦ τελεσφόρου καταπέμψαντος αὐτὸ ἄνωθεν ἀπ’οὐρανοῦ. «Per questo motivo gli oracoli [le scritture] riferiscono che anche la sorella di Mosè – Speranza è chiamata da noi, secondo i modi allegorici – spiava a distanza, tenendo ovviamente gli occhi fissi sulla fine della vita, affiché potesse accadere una buona sorte, del finalizzatore che l’ha inviata dall’alto, dal cielo». 3 Si contano quattro episodi principali: quando appare innominata sulle sponde del Nilo, mentre accompagna il fratello Mosè nel suo “naufragio” (cfr. Es 2,1-10); quando, come «profetessa», canta il passaggio del Mare (cfr. Es 15,20-21); quando con Aronne si oppone a Mosè, a motivo della moglie etiope (cfr. Nm 12,1-2), e viene punita con la lebbra e bandita dall’accampamento (cfr. Nm 12,10-12); quando muore a Kadesh (cfr. Nm 20,1). Al di fuori della Torah è menzionata solo due volte, in 1 Cr 5,29 (una genealogia sacerdotale come Nm 26,59) e in Mi 6,4 (l’unico testo del corpus profetico che menziona una profetessa per nome). 1
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gli occhi stessi della sorella per spiare la sorte del “naufrago” Mosè, alla deriva dentro una cesta sulle acque del Nilo. Gli eventi di questi tempi, tuttavia, mi hanno spinto ad aggiungere il canto del Mare (Es 15,20-21) e ad approfondire l’episodio della “quarantena” di Miryam, punita con la lebbra e cacciata fuori dall’accampamento (Nm 12,116). 1. MIRYAM: SIMBOLO DI SPERANZA E MADRE DELLA FEDE
Miryam ha un ruolo di primaria importanza tra le figure femminili della bibbia. Ella rappresenta il prototipo di ogni madre ebrea e, in un certo senso, di ogni maternità cristiana. Miryam è il fattore di possibilità di ogni speranza. È lei che prende l’iniziativa, si presenta davanti alla figlia del faraone, che aveva raccolto Mosè dalle acque, e le favorisce l’aiuto di una nutrice ebrea (Es 2,7-8). Su questo ironico ritorno del bimbo tra le braccia della sua vera madre, alla quale era stato sottratto dall’editto del faraone, viene nutrita anche la speranza della liberazione del popolo. Mosè diventerà il salvatore grazie a Miryam, salvatrice del salvatore. L’audacia e la scaltrezza di una donna diventano, dunque, promessa di salvezza per tutti. Più in generale, parlare di femminilità nella bibbia significa toccare il cuore dell’identità ebraica. Nella tradizione rabbinica l’appartenenza religiosa passa, appunto, per via matrilineare, da madre in figlio/a4. Come mai, in un mondo declinato al maschile e che usa massicciamente le genealogie patrilineari per garantire la continuità nazionale, la trasmissione delle promesse di Dio appartiene geneticamente alla donna? Tale questione è ancora più intrigante se si pensa che, ormai da duemila anni, è venuto meno il culto templare, monopolio maschile della tribù di Levi. La ritualità domestica, che rappresenta ormai il cuore del culto del giudaismo moderno, prevede che sia la donna – per così dire, della “tribù di Miryam” – la legittima “liturga” del tempo sacro dello shabbat.
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Cfr. TALMUD, Kiddushin, 66b; cfr. anche Dt 7,1-5; Lv 24,10; Esd 10,2-3.
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Seguendo la suggestione di una teologa americana5, vorrei raccontare un “midrash moderno” su Miryam, per tentare di capire meglio la ragione di questo compito così importante, affidato alle madri ebraiche. Dai racconti del Pentateuco sappiamo che Mosè, protagonista della saga esodale, abbia voluto dare continuità alla sua leadership, affidando le incombenze civili e religiose, rispettivamente a due personaggi della comunità post-pasquale raminga nel deserto: Giosuè avrebbe continuato il compito di guida militare del popolo, una volta entrati nella Terra Promessa; Aronne (seguito, poi, dal figlio Eleazaro), invece, si sarebbe occupato della mediazione sacerdotale, una volta che il baricentro della Presenza si sarebbe spostato dal Sinai alla Tenda. In questa provvista mosaica, qualcosa sembra passare in sottordine, quasi dato per scontato: difatti, sia il governo che la religione richiedono un popolo custodito nella sua identità etnica e di fede. Ora, chi avrebbe assicurato lungo i secoli questa identità? Chi avrebbe custodito lo spartito del cantus firmus che fa memoria del “passaggio” del popolo verso la libertà? Chi avrebbe, cioè, continuato a rompere le acque dei “Mari Rossi” della storia per generare nuovi figli d’Israele? Ecco, allora, il midrash moderno: Mosè, sul Nebo, in punto di morte, si duole profondamente per non aver pensato a questo compito così decisivo per la sopravvivenza del popolo appena liberato. Dio, però, non resta insensibile e provvede personalmente a sopperire alla negligenza del grande liberatore. Così, per dono diretto di Dio (non per successione mosaica!), Miryam e tutte le madri ebraiche dopo di lei avrebbero ricevuto il compito di garantire, trasmettere e coltivare la fede esodale del popolo d’Israele. Questo dono che passa direttamente dalle mani di YHWH avrebbe comportato un grande vantaggio storico rispetto alle altre due “istituzioni” mosaiche. Infatti, il ruolo di Giosuè verrà presto reso inattuale dalla perdita d’indipendenza politica sulla Terra promessa. Allo stesso modo, distrutto il tempio, viene meno anche il ruolo di Aronne. Il ruolo di Miryam e delle madri ebraiche, invece, mai potrà 5 Cfr. il saggio suggestivo di CAROL OCHS, “Miryam’s Way”, Cross Currents 45 (l995) 493-509. Vedi anche https://www.myjewishlearning.com/article/remembering-Miryam/ [ultimo accesso: 5 marzo 2020].
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perdere di attualità. Il compito di Miryam, il più prezioso, consiste nel rendere “contemporaneo” il Dio del Mar Rosso, superando la precarietà storica delle istituzioni politiche e religiose, persino andando oltre le contraddizioni e le distruzioni dei secoli. Miryam avrà il compito di conservare la memoria della salvezza, quasi un fattore epigenetico, ossia quell’istinto primordiale per cui appare evidente che non ci si può salvare da soli. Quando il popolo perde tutto – re, terra, tempio, … – resta indelebile il carattere originario di “liberato”, l’identità intrinsecamente “pasquale” di ciascuno. La salvaguardia dell’identità pasquale è, dunque, irrinunciabile: Miryam è la garante “simbolica” dell’esperienza del “passaggio”, colei che genera nessi di continuità tra l’evento salvifico puntuale e il suo memoriale rinnovato lungo i secoli. Nella femminilità di Miryam, di Maria di Nazaret e della Chiesa si trovano i nessi per riattualizzare l’esperienza di “una volta” e, così, farla diventare salvezza di “ogni volta”. Gestare una storia, custodendone il valore simbolico, ci aiuta a riattualizzare l’evento salvifico. Ecco, Miryam è la prima a raccontare la pasqua. A differenza del tono aulico del salmo di Mosè (Es 15,118), Miryam utilizza una comunicazione popolare: parole semplici, ritmo e danza. La prima catechista è una donna. Non a caso è descritta come profetessa. E la forma di questa comunicazione – che è insieme kerygmatica, catechetica e liturgica – non poteva essere che il canto, le parole in musica. Allora Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un tamburello: dietro a lei uscirono le donne con i tamburelli e con danze. Maria intonò per loro il ritornello: Cantate al Signore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare! (Es 15,20-21).
Secondo l’esegesi critica il canto di Miryam (Es 15,20-21) è più antico di quello di Mosè (Es 15,1-18). Il testo consegna alla femminilità una chiara leadership nel custodire la memoria della liberazione. Il rito inaugurato da Miryam al di là del Mare diventerà un
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memoriale per “traghettare” alla libertà ogni generazione. Questo canto di esultanza risuonerà ancora nel Magnificat di Maria di Nazaret, anch’ella puerpera di una nuova ed eterna liberazione. In qualche modo, possiamo dire che quello che avviene nel battesimo per noi cristiani, per un ebreo avviene nel parto, ogni volta che “si rompono le acque” nel grembo di una madre ebrea6. A un cristiano, tuttavia, è chiesta anche la professione di fede, ossia l’adesione cordiale al Dio liberatore, non come volontà di carne, ma con un moto interiore, frutto dello Spirito. Non si nasce cristiani: si diventa. Per sottolineare ancora meglio la figura di Miryam come simbolo della gestazione dell’identità narrativa di un popolo, vorrei concludere questa prima parte con una favola7, che ben si addice a questo periodo di emergenza sanitaria. Un giorno, la comunità del rabbino Baal Shem Tov, fondatore del chassidismo nell’Europa orientale del XVIII secolo, fu scossa da una grave calamità. Il rabbino, allora, chiamò il suo discepolo e disse: «Vieni, andiamo nei boschi». E andarono insieme in un posto particolare del bosco, che il maestro sembrava conoscere molto bene, e qui accesero un fuoco con alcuni accorgimenti particolari. Quindi, Baal Shem Tov levò una speciale preghiera: «Oh Dio, queste persone si trovano in uno stato di terribile bisogno. Per favore, aiutaci in questo momento di angoscia…». Quando finì di pregare, si rivolse al suo discepolo e aggiunse: «Adesso è tutto a posto. Andrà tutto bene». Ritornarono nel villaggio e scoprirono che, in effetti, la calamità che prima li minacciava si era provvidenzialmente allontanata. Baal Shem Tov morì e il suo discepolo divenne la guida della generazione successiva. In quei tempi, allo stesso modo, un altro disastro di grandi proporzioni minacciò di spazzar via la comunità. Come aveva fatto il suo maestro, anch’egli s’impegnò a intercedere per il suo popolo. Prese con sé il suo discepolo e, insieme, s’incamminarono verso i boschi. Purtroppo, aveva dimenticato dove si trovasse il posto esatto del bosco in cui svolgere il rito, ma ricordava come accendere il fuoco. Così disse: «Oh Dio, io non so bene dove sia il posto, ma tu sei ovunque, perciò concedimi di accendere il fuoco qui. La tua gente ha bisogno di te, la calamità ci minaccia. Per favore, aiutaci». 6 Non a caso i proseliti dovevano battezzarsi. Il battesimo del Battista era molto diverso dal battesimo che veniva praticato sui proseliti che, appunto, entravano dentro l’esperienza della liberazione pasquale attraverso il rito dell’immersione. 7 Cfr. l’inesauribile saggio di G. SCHOLEM, Major Trends in Jewish Mysticism, New York, NY 1995, 349-350 (ed. orig. 1941).
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Carmelo Russo Dopo la preghiera, si voltò verso il suo discepolo e disse: «Va tutto bene adesso». E, quando tornarono nel villaggio, vennero salutati con buone notizie: la minaccia era stata sventata. Qualche tempo più tardi, quel discepolo divenne il rabbino della generazione successiva e, di nuovo, arrivarono momenti difficili per la comunità. Anche questa volta, fu lui a uscire dal villaggio col suo discepolo. Non aveva la minima idea dove fosse il posto più adatto e aveva dimenticato anche come preparare il fuoco, ma si ricordava ancora la preghiera e disse: «Dio, non conosco il posto, ma tu sei ovunque. Non so come fare il fuoco, ma tutti gli elementi sono nelle tue mani. La tua gente ha bisogno di te. Chiediamo il tuo aiuto». Finita la preghiera, si voltò verso il suo discepolo e disse: «Adesso va tutto bene. Possiamo tornare». Tornarono al villaggio ed, effettivamente, tutto andava veramente bene. Col passare delle generazioni, la comunità venne messa in pericolo da numerose calamità e i vari rabbini riproposero sempre la preghiera di Baal Shem Tov. Dimenticarono tanti dettagli dell’antico rito, ma mai si dimenticarono di ricordare. E tutto andò bene.
Mi sia concesso un riferimento alla cronaca. Il ritornello della favola, “tutto andò bene”, non ha niente a che vedere con l’hashtag #andràtuttobene, che ha scandito la comunicazione distrattiva dei primi mesi di pandemia. Nella prospettiva mistica di questo racconto, in realtà, è già andato tutto bene per coloro che hanno osato invocare il nome di Dio. Bisogna solo ricordarcene. Oggi non conosciamo il bosco. Non sappiamo più come fare il fuoco. Non sappiamo nemmeno con quali parole pregava Baal Shem Tov. Tutto quello che possiamo fare è ricordarci di ricordare, raccontare la storia, cantare con Miryam la liberazione di un tempo e sperare che, in qualche modo, il fatto stesso di raccontarla ci aiuti in quest’ora di bisogno. Forse sarà più utile attivare un processo di purificazione della memoria che riconsideri seriamente i sistemi ingiusti e violenti a cui abbiamo delegato la nostra idea di “civiltà”. 2. MIRYAM E LA SUA FRAGILE MISSIONE GENERATIVA
Passo, ora, a un altro episodio che si colloca negli anni difficili della marcia del popolo nel deserto: la malattia della pelle di Miryam, che viene spesso tradotta con “lebbra”. Sembrerebbe un fatterello
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marginale, ma non lo è. Secondo la tradizione rabbinica, infatti, vi sono sei eventi biblici da ricordare ogni giorno8 e la punizione di Miryam è uno di questi. In Nm 12 Aronne e Miryam si lasciano prendere dalla gelosia e dall’invidia nei confronti del fratello a causa della donna kushita (etiope?) che Mosè aveva sposato. Non si capisce bene dal racconto se si tratti di una seconda moglie o della stessa Zippora (cfr. Es 2,21; 3,1; Nm 10,29; Gdc 1,16; 4,11). In realtà, non è chiaro neppure se ci sia davvero un biasimo nei confronti della donna kushita: infatti, l’astio sembrerebbe rivolto piuttosto nei confronti di Mosè «a proposito»9 della donna kushita che aveva presa. Secondo l’esegesi critica, questo capitolo è il risultato di una stratificazione di tradizioni. In origine, sarebbe esistita solamente una critica di Miryam contro la moglie di Mosè10. A ben vedere, non è neppure sicuro che si tratta di una critica alla donna kushita, perché l’intervento di Miryam potrebbe anche interpretarsi come una forma di solidarietà femminile nei confronti della cognata. Se così fosse, il pronome di prima persona plurale di Nm 12,2 («non ha forse parlato anche a noi?») potrebbe riferirsi a Miryam, a Zippora e, più in generale, ad una pretesa di autenticità profetica da parte delle donne11. Preferisco seguire l’interpretazione più comune, secondo cui si tratta, in origine, di un racconto legato all’insubordinazione di Miryam contro l’esogamia del fratello. Questo canovaccio sarebbe stato arricchito, successivamente, dal concorso di Aronne e dalla rivendicazione della competenza profetica contro l’unicità della mediazione di Mosè: «YHWH ha forse parlato per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?» (Nm 12,2). Non è chiaro per quale 8 Tre positivi (l’Esodo, la promulgazione dei dieci comandamenti, il sabato) e tre negativi (ricorda cosa ti fece Amaleq, ricorda cosa fece il Signore a Miryam, ricorda il peccato del vitello d’oro). 9 L’espressione ebraica ‘al ’odôt stabilisce un nesso, ma non s’impegna a stabilire se positivo o negativo. 10 Nonostante compaia anche Aronne, la forma grammaticale del verbo in Nm 12,1 (terza femminile singolare del verbo “parlare:wattEdabber) non lascia lascia dubbi sul fatto che sia Miryam a prendere l’iniziativa della protesta. Cfr. N.GRAETZ, “Miriam, Guilty Or Not Guilty?”, Judaism 40 (1991) 184-192. 11 È questa, sostanzialmente, l’interpretazione proposta da NICHOLAS ANSELL, «“If Her Father Had but Spit in Her Face…”. Rethinking the Portrayal of Miryam in Numbers 12», Canadian Theological Review 3 (2014) 28-51.
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motivo la pretesa di autorità profetica di Miryam e Aronne sia stata connessa con la protesta di Miryam contro l’esogamia di Mosè, che sembra essere solo un pretesto. Non è evidente neanche l’improvvisa laus di Nm 12,3 a Mosè, «molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra». La tensione tra Mosè, Aronne e Miryam si risolve davanti alla tenda del convegno. Dio parla ad Aronne e Miryam, confermando Mosè come profeta particolare. Non nega la possibilità di altra profezia, sia maschile che femminile, ma Mosè resta l’«uomo di fiducia», a cui Dio parla «bocca a bocca» e non per enigmi. Certo, in questo discorso c’è qualcosa di strano e ironico, proprio perché, almeno in questa situazione, YHWH si rivolge direttamente ad Aronne e Miryam, parlando senza enigmi e in maniera chiara. Tra l’altro, poco prima, in Nm 11,29, Mosè aveva esclamato: «fossero tutti profeti nel popolo di YHWH e volesse YHWH dare loro il suo spirito!»12. Intanto, Dio va via, la nube scompare e Miryam si ammala, afflitta da una lebbra che rende la sua pelle «bianca come la neve» (Nm 12,10; cfr. 2 Re 5,27 nell’episodio di Naamàn e Giezi): una sorta di contrappasso per aver criticato la moglie di Mosè, etiope e, dunque, dalla pelle scura? Difficile dirlo. Aronne, in tutto questo, sembra passarla liscia. Infine, grazie all’intervento di Aronne e all’intercessione del fratello Mosè, subisce solo una temporanea scomunica dall’accampamento, per sette giorni. È importante la sottolineatura di Nm 12,15: il popolo restò ad aspettare il suo rientro prima di ripartire. Questa punizione sarà ricordata da Dt 24,9, in cui il Targum pseudo-Jonathan aggiunge anche la ragione della punizione: aver supposto in Mosè un atteggiamento che non gli apparteneva. Comunque si voglia considerare la mancanza di Miryam, dal racconto emerge l’intento programmatico di voler rimettere Mosè al posto di comando, punendo ogni tentativo di erosione della sua unicità come profeta e mediatore di YHWH.
12 Risuona in questi passaggi qualcosa che meriterebbe un maggior approfondimento alla luce di 1 Cor 13,12: «Adesso infatti vediamo come per mezzo di uno specchio, in enigma, ma allora vedremo a faccia a faccia; ora conosco in parte, ma allora conoscerò proprio come sono stato conosciuto».
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Come possiamo comprendere questo episodio, per certi aspetti enigmatico? Purtroppo, alcune letture unilaterali hanno sciupato la ricchezza ermeneutica di questo testo, bollandolo come un prodotto “maschilista”. Anche una certa lettura sociologica, che ha voluto riassumere l’episodio in un mero rapporto di forza, non mi sembra adeguata a dispiegare bene i sensi nascosti in quest’episodio. Vorrei, allora, mettere l’accento sul brano finale di Nm 12,13-14 che, a mio avviso, ci fornisce la chiave per comprendere bene il senso di tutta la strana vicenda di Miryam13. Aronne manifesta a Mosè la sua preoccupazione per la sorella; poi Mosè si rivolge a Dio per chiedere la guarigione di Miryam; infine, Dio risponde ratificando la temporanea scomunica di Miryam. Aronne disse a Mosè: «Ti prego, mio signore, non farci portare la pena di un peccato che abbiamo stoltamente commesso e di cui siamo colpevoli. Ti prego, che lei non sia come il bimbo nato morto, la cui carne è già mezza consumata quando esce dal seno materno!». Così Mosè gridò a YHWH, dicendo: «Guariscila, o Dio, te ne prego!»14. Allora YHWH rispose a Mosè: «Se suo padre le avesse sputato in viso, non sarebbe forse nella vergogna per sette giorni Sia dunque isolata fuori dell’accampamento sette giorni; dopo ciò sarà di nuovo ammessa» (Nm 12,13-14).
In queste poche righe Miryam è paragonata a un aborto (così Aronne definisce sua sorella) e a una figlia svergognata dallo sputo del padre (così afferma Dio). Entrambi i paragoni, comunque, riferiscono di una figlia “riuscita male”. È molto strano che questo tema, così diffusamente articolato in tre versetti, sia passato in sottordine persino nei commentari, mentre si enfatizza l’aspetto punitivo della lebbra. 13 Mi lascio liberamente ispirare da N. Ansell, “«If Her Father Had but Spit in Her Face…». Rethinking the Portrayal of Miryam in Numbers 12”, Canadian Theological Review 3 (2014) 28-51. 14 Alcuni esegeti, emendando la vocalizzazione, leggono il grido di Mosè in senso negativo: «Non la guarire!». L’iniziale ’el del grido di Mosè in Nm 12,13 potrebbe essere vocalizzato come una particella negativa ’al. Mosè agirebbe in questa circostanza da vero levita (cfr. Es 32,29) che non guarda in faccia nessuno. Ma Dio non la pensa come Mosè e decide di guarire Miryam anche contro la pronuncia di condanna di suo fratello. Emendare il testo, tuttavia, non è mai una soluzione, anche se si tratta della sola vocalizzazione. Tra l’altro, sarebbe troppo grande lo stridore tra un Mosè appena lodato per essere l’uomo più mite sulla terra e un Mosè cinico che condanna senz’appello la sorella.
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Che cosa significa, dunque, la metafora dell’aborto? Chi intende evocare la risposta di Dio a Mosè: «se suo padre gli avesse sputato in viso…»?15 A chi allude l’analogia del «padre»? Secondo Ansell16, sarebbe Ietro/Reuel, ossia il padre della donna kushita, legittimato, in quanto padre della persona offesa, al gesto dello sputo disonorante contro Miryam. Milgrom, autore di un eccellente commentario al libro dei Numeri, sostiene che Dio chieda con questo paragone il riconoscimento di un ruolo, quello di un padre che corregge la propria figlia con lo sputo del disonore17. Si capirebbe bene, allora, lo stigma su questo brano da parte dell’esegesi femminista. Davvero YHWH intende confrontarsi con il ruolo di un padre che sputa contro la figlia? La domanda non può trovare una soluzione in queste righe. Cionondimeno, va notato che la metafora della paternità di Dio è molto rara nell’Antico Testamento e certamente non sembra Nm 12,14 il luogo migliore per recuperarla. Tra l’altro, il capitolo immediatamente precedente ci offre, piuttosto, un’immagine “materna” di Dio. Ecco come Mosè intercede per il popolo che si lamenta della marcia forzata nel deserto: Allora Mosè disse a YHWH: «Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho io trovato grazia ai tuoi occhi, da porre il peso di tutto questo popolo su di me? Sono forse stato io a concepire tutto questo popolo? O sono forse stato io a darlo alla luce, perché tu mi dica: «Portalo nel tuo grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri?» (Nm 11,11-12).
Nelle parole di Mosè c’è un’implicita consegna a Dio di un ruolo materno: è YHWH che ha concepito e dato alla luce il popolo e, pertanto, deve occuparsene lui! Ad avvalorare questa “maternità” di Dio, si aggiunga la strana lectio di Nm 11,15, in cui Mosè si rivolge a YHWH con un pronome di seconda femminile singolare (’at)! Per il gesto disonorante dello sputo in volto, cfr. Dt 25,9; Is 50,6; Gb 30,10. N. Ansell, “«If Her Father Had but Spit in Her Face…». Rethinking the Portrayal of Miryam in Numbers 12”, in Canadian Theological Review 3 (2014) 28-51. 17 «If a human father’s rebuke by spitting entails seven days of banishment, should not the leprosy rebuke of the Heavenly Father at least require the same punishment?» (J. MILGROM, Numbers, JPS Torah Commentary, Philadelphia, PA 1989, 98). 15 16
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Ritornando a Nm 12,10.12, sembra che questa metafora del parto venga ripresa ancora una volta, ma in senso peggiorativo, per descrivere la situazione di Miryam che diventa «bianca come la neve» (Nm 12,10), simile alla carne morta di una nascita prematura (Nm 12,12). Ci sono almeno altri due episodi biblici in cui si parla, rispettivamente, (1) di pelle «bianca come la neve» e (2) di aborto, e in entrambi i casi quella che appare in un primo momento come punizione si evolve in un rito di passaggio, nell’assunzione di una nuova consapevolezza. Il primo caso è legato alla vocazione di Mosè. In Es 4,1-9 Dio abilita a Mosè a compiere tre prodigi con cui convincere il popolo di essere veramente l’inviato di Dio. Il secondo prodigio (Es 4,6-7) consiste nel mostrare la propria mano «bianca come la neve» dopo averla introdotta nel «grembo» e nella reversibilità di questo processo. Ci troviamo in un punto della vita di Mosè in cui è chiamato a fare delle scelte importanti, è spronato a identificarsi con l’opera di Dio e ad assumere la sua nuova vocazione e missione. Anche in Nm 12, Dio sembra voler suscitare la corresponsabilità di Mosè, affinché anch’egli affini ancora una volta, sempre di più, la sua missione, quella di imitare la guida di YHWH stesso. La pro-vocazione di YHWH nei confronti del suo servo Mosè è uno sprone alla sua vocazione, come lo era stato sin dal suo esordio. Il secondo caso riguarda Giobbe, che impreca contro il giorno della sua nascita, preferendo per sé la sorte di un bambino nato morto: «come aborto nascosto, più non sarei, o come i bambini che non hanno visto la luce» (Gb 3,16). Tra l’altro, Giobbe sembra vittima di una malattia simile alla lebbra e anche lui subisce l’infamia del disprezzo e dello sputo in volto (cfr. Gb 30,10). Sappiamo come va a finire la storia e come dalla misteriosa malattia scaturisca il rîb contro Dio e la visione finale… quasi un novello Mosè che incontra Dio nel turbine, faccia a faccia, non più per sentito dire, ma perché i suoi occhi lo vedono. Facendo un salto indebito, potremmo aggiungere a questo proposito anche l’esperienza di Paolo che rilegge la sua vita passata come un «aborto» (cfr. 1 Cor 15,8). Se raccogliamo queste indicazioni, possiamo affermare che anche nell’episodio di Nm 12 si manifesta la storia di una rinascita,
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di una presa di coscienza che passa attraverso una disperata sterilità. Mai si dice esplicitamente che Dio punisce Miryam con la lebbra. Piuttosto, si racconta che Dio s’accese d’ira e che, poi, se ne andò (Nm 12,9). Con questo ritirarsi di Dio iniziano i guai di Miryam, la quale imparerà che la sua arte maieutica proviene dalla costante esposizione alla Presenza, fonte di ogni generatività. Lontano da lui si diventa “figli non riusciti”, aborti, incapaci di generare vita, meritevoli dello sputo di disonore, come fa un padre con un figlio che non prende sul serio la sua vocazione. Aronne parlava di un aborto. Dio, attualizzando quell’espressione, fa riferimento a una figlia che, seppure adulta, non riesce a nascere alla vera vita. Insomma, qui non c’è niente di “misogino”. Al contrario, c’è un impeto “femminista” di Dio che forza Miryam a prendere coscienza della propria femminilità. Il padre che sputa a un figlio o a una figlia era il gesto della sanzione contro un comportamento sbagliato, un ultimo accorato appello alla responsabilità del figlio o della figlia in vista di un cambiamento di vita. Dio, nel citare questa usanza umana, non si mette in analogia con questa usanza, ma afferma che la malattia di Miryam non è per la morte, ma per la vita. Ammettiamo pure che l’ira di Dio sia determinata dalla critica alla moglie kushita: qual sarebbe, dunque, la colpa di Miryam? A mio avviso, Miryam fallisce nella sua accoglienza di madre; il suo utero non è stato abbastanza elastico nel prendere la forma della vita che gesta; anzi, finisce per essere “sterilizzante” nei confronti della comunità, rifiutando la moglie di Mosè che era diventata ormai parte del popolo. Permettendo la lebbra, Dio intende spronare Miryam a prendere sul serio la sua leadership di madre della patria. La sua vocazione – “generare ebraicità” – non può essere rinchiusa dentro le regole endogamiche ed etniche. Miryam deve comprendere l’importanza di dover estendere l’alleanza oltre ai confini genetici. “Sulla sua pelle” è costretta a sperimentare che è Dio, e non la carne, a realizzare le promesse fatte ai patriarchi. Grazie alla sua temporanea “scomunica” capirà che i confini “dentro-fuori” e i markers identitari sono, in ultima istanza, segnati dal dito di Dio e non dalle regole degli uomini o dalla genetica.
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In questo senso, allora, anche per gli ebrei vale il discorso che è ben tematizzato per i credenti in Cristo: popolo dell’alleanza si diventa, non si nasce. Sullo sfondo di questa narrazione, evidentemente, si intravedono le preoccupazioni della comunità post-esilica che si apre ai proseliti, cioè a non-ebrei che aderiscono all’alleanza non in base ad un merito della carne, ma attraverso una professione di fede. Il rito di passaggio – troppo frettolosamente interpretato come punizione – consiste nella temporanea “sterilizzazione” di Miryam, affinché si realizzi un piano salvifico per tutto l’accampamento d’Israele. Quando Dio, principio di ogni maternità e generatività, si ritira, ecco che Miryam, madre della comunità, viene estromessa dall’accampamento; anzi, ella stessa diventa come un aborto. Paradosso ricco di suggestioni: aborto è il grembo, non il suo frutto. L’aspetto straordinario del racconto è la conclusione: l’accampamento si ferma in attesa che Miryam esca dalla “quarantena”. Nessuno parta senza la Madre! Solo quando Miryam è riaccolta nell’accampamento, allora ci si rimette in marcia verso la Terra Promessa. Miryam dunque fu isolata fuori dell’accampamento sette giorni; e il popolo non si mise in cammino finché Miryam non fu riammessa nell’accampamento. Poi il popolo partì da Hatseroth e si accampò nel deserto di Paran (Nm 12,15-16).
I sette giorni le sono serviti ad approfondire la sua vocazione, a rinascere di nuovo, a ritornare ancora fertile. D’altra parte, lo sputo, quand’anche fosse da parte di Dio, sarebbe un fluido vitale come l’acqua. Il droplet dell’alito divino è azione creatrice. Ce lo insegna il valore terapeutico della saliva nei racconti evangelici (cfr., ad esempio, Gv 9,1-7). 3. LA MORTE DI MIRYAM E LA SETE DEL POPOLO
È interessante questo legame simbolico tra Miryam e l’acqua, simbolo di vita e di speranza. La storia di Miryam è sempre “acqua-
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tica”, dall’inizio alla fine: appare per la prima volta tra i giunchi del Nilo (Es 2,1-10); manifesta la sua competenza “catechistica” nel canto al di là del Mare (Es 15,20); quando muore a Kadesh, il popolo resta senz’acqua (Nm 20,1-3). La descrizione di questa morte è “asciutta”, senza cordoglio18. E, difatti, subito dopo mancherà l’acqua nell’accampamento israelita. Il popolo, senza la placenta nutriente della Madre, sperimenta la sete e avverte un irrefrenabile impulso a “regredire” in Egitto: «Perché ci avete fatti uscire dall’Egitto…?». L’assenza dell’elemento femminile viene immediatamente avvertita dal severo risentimento del popolo verso Mosè. Dio ordina di «parlare» alla roccia per far uscire l’acqua (Nm 20,7). Mosè, invece di parlarci, la colpisce con due colpi di bastone. C’è un nesso tra la morte di Miryam e la disobbedienza di Mosè? Forse anche Miryam meritava di essere raggiunta da parole invece di essere “colpita” dalla lebbra? Lo shock alle acque di Meriba segna la rovina di Mosè e Aronne, che vengono sanzionati per la loro mancanza di fiducia (Nm 20,1213). Se Miryam non potrà mai raggiungere la Terra Promessa, neppure i suoi fratelli saranno ammessi a questo premio. Infatti, Aronne muore alla fine di questo stesso capitolo (Nm 20,22-29), mentre Mosè morirà sul Nebo alle soglie della Terra Promessa (Dt 34). Il profeta Michea (cfr. 6,4) presenta Mosè, Aronne e Miryam come tre guide del popolo. Forse uscendo fuori dalle righe dell’esegesi tradizionale, possiamo dire che la missione di Gesù riattualizzi e completi quello che le tre guide d’Israele hanno mancato di realiz18 È strana la mancata segnalazione di un qualche tipo di cordoglio. Giuseppe Flavio, nel riportare la morte di Miryam, aggiunge il grande dolore e cordoglio dell’intero popolo (Ant. Iud., IV, 4, 6). Il Talmud insegna che, come i suoi due fratelli, Miryam è morta, non a causa dell’angelo della morte, ma attraverso un dolce «bacio della morte» da parte di Dio (TALMUD, Bava Batra, 17a). Le Déaut sottolinea, in un articolo del 1966, come tutta la tradizione giudaica del periodo romano e del primo periodo rabbinico mostri una tendenziale preoccupazione a riabilitare la figura di Miryam. Girolamo pensa che la tomba di Miryam si trovi a Petra, il cui nome antico era Sela’ (= roccia): «Cades, ubi fons judicii: est et Cadesbarne in deserto, quae conjungitur civitati Petrae in Arabia: ibi occubuit Maria: et Moses, rupe percussa, aquam sitiendi populo dédit. Monstratur ibidem usque in praesentem diem sepulcrum Mariae» (De situ et nominibus, 183, PL 23,885). A differenza di Aronne e Mosè, Miryam muore senza “successiori”. Bisogna, dunque, recuperare quel “midrash moderno”, cui abbiamo accennato all’inizio: il carisma di Miryam, difficilmente “istituzionalizzabile”, non cade mai in successione, perché diventa un carattere diffuso di tutto il popolo, in particolare delle madri ebree.
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zare: secondo Origene, né la Legge sapienziale (Mosè), né la Profezia generativa (Miryam), né il Sacerdozio santificante (Aronne) potranno condurci alla vera Terra Promessa; Gesù solo, dopo essere comparso davanti al volto del Padre per intercedere in nostro favore (Eb 7,2225; 9,24), può condurre il suo popolo dentro il Regno19 e dare a tutti la speranza della vita eterna. Concludendo, vorrei sottolineare ancora una volta il tema della maternità, della speranza e della generazione della fede. C’è un’immagine molto strana nei vangeli, in cui Gesù stesso arroga a sé queste abilità femminili: «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia la sua nidiata sotto le ali, e voi non avete voluto!» (Lc 13,34; cfr. Mt 23,37). Questo brano è sostanzialmente un ennesimo annuncio della sua passione, ma con la particolarità che questa passione assumerà i tratti teneri della gestazione e della cura della vita neonatale. Dal momento del tradimento al Getsemani, i racconti della passione ci trasmettono un progressivo protagonismo dell’elemento “femminile” nella storia di Gesù sofferente, fino al grido «ho sete» (Gv 19,28) e al totale abbandono al Padre sulla croce, fino a quel fianco squarciato che rinnova le acque rotte del Mar Rosso e la nascita della Chiesa.
19 Cfr. ORIGENE, Omelie su Giosuè, 1,3; 2,2; 5,2. A proposito di Nm 12 Origene notò una certa disunità tematica tra il v. 1 e il v. 2 e, pertanto, ritenne necessaria un’interpretazione allegorica oltre a quella letterale. Infatti, se fosse stato scritto per essere preso alla lettera, allora il v. 2 avrebbe continuato le critiche espresse al v. 1, magari suggerendo che Mosè avrebbe dovuto prendere una moglie israelita, preferibilmente una figlia di Levi. Invece, il passaggio ad un altro tema (la contestazione dell’unicità dell’ufficio profetico di Mosè) dimostra che è necessaria una lettura allegorica. Nella lettura allegorica cristiana di Origene Mosè rappresenta la legge spirituale, mentre la donna kushita la chiesa dei gentili. Miryam rappresenta la nazione ebrea sostituita, mentre Aronne rappresenta il sacerdozio secondo la carne.
SYNAXIS XXXVIII/2 - 2020 (79-93)
CALENDARI E FESTE DI PELLEGRINAGGIO NEL PENTATEUCO GIUSEPPE D’ANNA*
I tre calendari liturgici nel Pentateuco presentano tre feste1 durante le quali tutti gli uomini si recano al santuario spazio sacro, sperimentano l’appartenenza solidale della fraternità, esprimono gratitudine e rispetto verso il Signore per i benefici ricevuti o da ottenere2. Il termine generale per festa è mo’ed e designa un luogo o un tempo fissato, un’assemblea di festa. Ma si incontra pure hag che si applica alle tre grandi feste annuali la cui radice significa celebrare, festeggiare, partecipare a un pellegrinaggio3. È difficile fissare luogo e data di origine dei cataloghi festivi4, tuttavia il nostro contributo fonda la sequenza storica dei calendari liturgici a partire dal Libro del Patto (Es 24,7) o Codice dell’Alleanza perché ritenuto il più antico e a fondamento dello sviluppo teologicoliturgico degli altri calendari, deuteronomico e sacerdotale, e vuole evidenziare le peculiarità teologiche delle tre feste di pellegrinaggio. * Docente di Sacra Scrittura presso l’Istituto Teologico “G. Guttadauro” di Caltanissetta. Cfr. Y.L. PERETZ - A. SHOLEM, Le feste ebraiche, Milano 2000; G. GALVAGNO - F. GIUNTOLI, Dai frammenti alla storia. Introduzione al Pentateuco, Torino 2014, 310-320. 2 Cfr. F.L. CARDINI, «Il pellegrinaggio. Una nota storica», in L. ANDREATTA (ed.), Pellegrinaggio, sentiero di pace, Casale Monferrato 2003, 87-155. 3 Lesetre fa derivare hag dalla radice hgg con il significato di celebrare una festa solenne e pubblica: H. LESETRE, Fêtes juives, in Dictionnaire de la Bible II, col. 2218. Di parere diverso è il De Vaux che individua il significato del termine hag in «danzare, girare in tondo» (R. DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Torino 1964, 454); U. CASSUTO, A commentary of the Book of Exodus, Jerusalem 1967, 302. Entrambi i significati sono presenti in F. ZORELL, hgg, in Lexicon Hebraicum Veteris Testamenti, Roma 1984, 222. 4 B. KEDAR-KOPFSTEIN, hag, in Theologisches Wörterbuch zum Alten Testament II, Stuttgart 1977, col. 741. 1
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Il fondamento teologico della legislazione biblica sta nel fatto che tutte le leggi che si trovano nella Torah, sono proclamate dallo stesso Dio allo stesso Mosè, sulla stessa montagna del Sinai/Horeb. Il libro del patto inizia con la legge sull’altare (Es 20,22-26) e termina con le leggi cultuali di Es 23,10-19: le leggi sul culto fungono da cornice nei codici5. Il Codice deuteronomico parla dell’unico altare e della centralizzazione del culto in Dt 12,1-28 e si conclude con alcune leggi sulle primizie e la decima (26,1-11.12-15). Il Codice di santità inizia con alcune prescrizioni sull’altare sul quale si immolano gli animali e si sparge il sangue (Lv 17,3-15) e si conclude con indicazioni che vietano di fabbricare oggetti sacri e con precetti sul sabato e sul santuario (26,1-2). 1.1 Il Calendario liturgico nel Codice dell’Alleanza
Le leggi di Es 20,22-23,33 presuppongono l’avvenuto ingresso nel paese di Canaan e insieme al decalogo fanno parte della Teofania del Sinai con la proposta e la conclusione dell’alleanza6. Il libro del patto indica le norme (mišpatim 24,3) date da JHWH a Israele per servirlo in tutti i settori dell’esistenza: è una raccolta composita che raggruppa sia sentenze di diritto civile e penale sia leggi cultuali e morali: «Queste prescrizioni sono importanti per la preoccupazione di uguaglianza di tutti davanti alla Legge, per la costante preoccupazione di bandire da Israele ogni distinzione di classi sociali, per la loro estrema delicatezza di fronte ai più poveri, per la loro motivazione religiosa»7. 5 L’epilogo parenetico (23,20-33), che alterna promesse e avvertimenti, è considerato un’aggiunta successiva. Cfr. F. GARCÌA LÒPEZ, Il Pentateuco, Brescia 2004, 164-167. La parte centrale del libro del patto si distingue in due parti soprattutto per lo stile (21,1-22,16 e 22,17-23,9). 6 Cfr. V. LOPASSO, L’esperienza religiosa di Israele al Sinai (Es 19-24), in Vivarium 2 (1994) 371-390; F. CRÜSEMANN, La torà, Brescia 2008, 143-250, (ed. orig. ted. 1992); L.SCHWIENHORST-SCHÖNBERGER, Das Bundesbuch (Es 20,22-23,33), Studien zur seiner Entstehung und Theologie (BZAW 188), Berlin-New York 1990; J. VAN SETERS, Cultic Laws in the Covenant Code (Ex 20,22b-23,33) and their Relationship to Deuteronomy and Holiness Code, in M. VERVENNE (ed.), Studies in the Book of Exodus. Redaction- Reception- Interpretation, (BETL 126), Leuven 1996, 319-345; J.L. SKA, The Law of Israel in the Old Testament, in J.L. SKA (ed.), The Exegesis of the Pentateuch, Tübingen 2009, 196-220.
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Il destinatario delle leggi esodali è un pastore (si nomina bue, asino, agnello) e un agricoltore (vigna, campo, covoni, spighe, olivo) che ha disponibilità di denaro da dare e di ricevere pegni (22,24-25); la gente vive in piccoli villaggi (non ci sono disposizioni relative al commercio né alla vita cittadina); la sacralità della vita prevale sul diritto di proprietà che è all’origine delle differenze fra classi sociali; la Legge protegge le categorie sociali più deboli (straniero, vedova, orfano, povero, schiavi e schiave); l’assenza di sanzioni e lo stile parenetico fanno appello ad educare non ad impaurire8. Se J. Van Seters sostiene una datazione postesilica del libro del patto e una sua dipendenza dal Deuteronomio stesso, la maggior parte degli studiosi ritiene che il libro del patto costituisca una delle fonti principali del codice deuteronomico e che gli sia dunque anteriore9. In genere gli studi più recenti propendono per la seconda metà dell’VIII sec a.C.10 o per l’inizio del VII, dopo la caduta di Samaria (722/21). Le varie ipotesi orientano la redazione del codice a Gerusalemme durante il regno di Ezechia (716-687 a.C.)11. Durante questo regno ci furono attività letterarie di raccolta (cfr. Pr 25,1); i problemi sociali, soprattutto dopo la caduta del regno del Nord (722/21) che videro parte della popolazione rifugiarsi al Sud (Gerusalemme si espande), sono testimoniati dai profeti (Am 2,6-8; 5,10-12; 8,4-8; Is 5,8); si comincia a cogliere l’influenza assira con le sue leggi, la riforma religiosa ha bisogno di affermare l’esclusività del culto di JHWH e la proibizione delle immagini.
7 G. VANHOOMISSEN, Cominciando da Mosé. Dall’Egitto alla terra promessa, Bologna 2004, 183, (ed. orig. franc. 2002). 8 Cfr. J.L. SKA, Antico Testamento 2. Temi e letture, Bologna 2015, 102-104.144-147; ID., Il Diritto Veterotestamentario. Introduzione, Dispense PIB, Roma 2011-2012. 9 M. PRIOTTO, Esodo, Milano 2014, 413, n. 61. Il codice deuteronomico (cfr. Dt 12-26) si presenta nel suo insieme come una revisione del libro del patto e la legge di santità (cfr. Lv 17-26) riprende e prolunga il lavoro di interpretazione e attualizzazione in vari punti. 10 F. GARCÌA LÒPEZ, Il Pentateuco, cit., 273; M. PRIOTTO, Esodo, cit., 412 (412-414); F. CRÜSEMANN, La Torà, cit., 231. Più generico è J. BLENKINSOPP, Il Pentateuco. Introduzione ai primi cinque libri della Bibbia, Brescia 1996, 228-236, (ed. orig. ingl. 1992): «i due secoli precedenti la caduta del 722», (232). 11 Cfr. B.G. BOSCHI (cur.), L’epoca di Ezechia: alle origini della letteratura religiosa di Israele, in RSB 2 (1993).
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1.2 Le haggìm in Es 23,14-17
«Tre volte l’anno farai festa in mio onore: celebrerai-osserverai la festa degli azzimi; mangerai azzimi durante sette giorni, come ti ho ordinato, nella ricorrenza del mese di Abib, perché in esso sei uscito dall’Egitto. Non si dovrà comparire davanti a me a mani vuote. Celebrerai la festa della mietitura, delle primizie dei tuoi lavori, di ciò che semini nel campo e la festa del raccolto, al termine dell’anno, quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. Tre volte l’anno ogni tuo maschio comparirà alla presenza del Signore Dio» (Es 23,14-17). I nomi delle tre feste annuali sono hag hammassót, hag haqqàsìr e hag hà’àsif. Il contesto precedente è la trattazione del sabato (23,1013)12, mentre susseguente è un racconto in cui si parla del futuro d’Israele (23,20-33). Il testo può essere suddiviso in due parti: i vv. 14-17, inquadrati in una inclusione (regalim ha il senso di “volta” ed è sinonimo di pe’àmìm13), come calendario festivo improntato al mondo agricolo, di cui seguono i tempi e le modalità; i vv. 18-1914 sono prescrizioni cultuali aggiunte e legate soprattutto al mondo dei pastori per dare un’interpretazione pasquale al rituale celebrato, perché durante le feste si offrivano sacrifici o si portavano offerte ai santuari15. La prima hag è quella degli Azzimi: per sette giorni i fedeli si 12 Cfr. A. WÉNIN, Il sabato nella Bibbia, Bologna 2006; J.A SOGGIN, Israele in epoca biblica. Istituzioni -feste-cerimonie-rituali, Torino 20172, 127-135. 13 R. DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, cit., 455. Al v. 17 il Testo Masoretico ha «Signore JHWH»; LXX e Sir: «JHWH tuo Dio»; Sam: «l’arca di JHWH». Il v. 17 fa un sommario della legge e usa la terza persona. 14 Alcuni vedono in Es 23,18 un «rituale che prescriveva ai fedeli come fare la Pasqua»: B.N. WAMBACQ, Les origines de la pesah israelite, in Biblica 57 (1976) 315; probabilmente (la tesi è contestata) la proibizione del v. 19b era contro una cerimonia cananita connessa con i culti di fertilità: B. S. CHILDS, Exodus, London 1974, 486; M. NOTH, Esodo, Brescia 1977, 239, (ed. orig. ted. 1959). 15 Di parere diverso Priotto secondo il quale ognuna delle frasi (v. 14 e v. 17) introduce il calendario delle feste e le prescrizioni cultuali relative a queste feste: M. PRIOTTO, Esodo, cit., 450. Riguardo ai partecipanti: tutto il discorso è rivolto da un soggetto singolare ad un tu (voi nelle varianti) non specificato e ai suoi maschi. «Stupisce l’alternanza senza motivo tra la presenza di JHWH alla prima persona (vv. 14.15.18) e quella alla terza persona (vv. 17.19a)»: M. NOTH, Esodo, cit., 239. Il Testo Masoretico al v. 14 ha “festeggerai”, mentre LXX, Sir, Vulg,Targ, il plurale. Per Auerbach questo versetto non è originale, ma «interpolato dal codice sacerdotale». Manca, infatti, nel parallelo di Es 34 e la stessa ingiunzione è ripetuta due volte (vv. 14 e 17) per cui l’uno o l’altro è originale: E. AUERBACH, Die Feste im alten Israel, in Vetus Testamentum 8 (1958) 15.
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cibano del pane del nuovo raccolto senza il vecchio lievito16. Si ha una indicazione di calendario: il mese di Abib17 specificando che in esso è avvenuta l’uscita dall’Egitto (non si parla di Pasqua18 festa tipica dei pastori). Conseguenza di tale ricordo e maniera dignitosa di celebrare questa festa per tutti gli uomini è il non presentarsi davanti a Dio a mani vuote. Si tratta di un’azione di grazie a Dio per la fecondità della terra19. La seconda hag è la festa della mietitura del frumento (qàsir), delle primizie20 dei tuoi lavori, di ciò che semini nel campo; la terza è la festa del raccolto-vendemmia e olive (‘àsif), con una indicazione di tempo molto generale: al termine (all’uscita) dell’anno. All’ordine per ogni maschio di presentarsi tre volte all’anno davanti al Signore Dio, seguono quattro prescrizioni (vv. 18-19= Es 34,25-2621): tre ne16 Cfr. J. VAN GOUDOEVER, Fêtes et calendriers Israelites, Paris 1967, 27-31. Olavarri non assegna agli azzimi una origine agricola: «Non si tratta di due feste separate (Wellhausen), ma c’è un vincolo con la celebrazione pasquale unita sia per la motivazione storica, come per il precetto di accompagnare pane azzimo con la vittima sacrificale»: F. OLAVARRI, La celebracion de la Pascua y Acimos en la legislacion del Antiguo Testament, in Estudios Biblicos 30 (1971) 268. «Massot sembra derivare dalle radicali mss significante essere senza gusto, né dolce né amaro, dunque insipido come il pane senza lievito»: R. MARTIN-ACHARD, Essai biblique sur les fêtes d’Israel, Geneve 1974, 33 (53-76). «La Volgata rende Massah tanto con azzimo, quanto con senza fermento»: J. THOMAS, Azyme, in DB, 1, col. 1311. 17 Per Auerbach hodes va tradotto con novilunio. Unito a mô’ed indica un giorno stabilito per la festa, mentre il Codice sacerdotale l’ha inteso come «mese». Il testo antico di Es 23,15 era: «osserva la festa degli azzimi per il giorno della festa del novilunio di Abib». Così il novilunio è una data degli azzimi non della Pasqua come in Dt. La festa degli azzimi, quindi, era distinta e seguiva immediatamente la Pasqua. Cfr. E. AUERBACH, Die Feste im alten Israel, cit., 7-8. 18 L’omissione del ricordo della Pasqua sembra indicare uno sviluppo separato dalla tradizione del pane non lievitato fino al Deuteronomio. Anche se il testo non fa riferimento esplicito al sacrificio della Pasqua, «è possibile che l’autore sacro cercasse di stabilire una connessione tra il pane non lievitato e la pasqua» (B.S. CHILDS, Exodus, cit., 484-485). Perché Es 23,14-19 non nomina la festa di Pasqua? All’inizio la Pasqua, festa di origine nomade, non era legata agli azzimi, festa di carattere agricolo, verosimilmente improntata ai cananei dopo l’ingresso nella terra promessa. Solo successivamente (con il Dt) la legge religiosa imponeva di venire al tempio allo stesso tempo (primavera), stesso rito, legame con lo stesso avvenimento di salvezza: l’uscita dall’Egitto. Cfr. R. DE VAUX, Les sacrifices de l’Ancien testament, 24-25; J. HENNINGER, Les Fêtes de printemps chez les semites et la Pâque Israelite, Paris 1975, 53-58; H. HAAG, Pâque, in DBS, VI, coll. 1120-1149. 19 Cfr. M. PRIOTTO, Esodo, cit., 450-452. 20 “Primizie (re’šit) è suscettibile di senso cronologico (primo nel tempo) e di un senso d’eccellenza (primo in qualità). Nel pensiero ebraico è il primo che era il migliore; qui ha un senso cronologico con riferimento a Lv 23,10”: H. CAZELLES, Études sur le Code de l’Alliance, Paris 1946, 100. 21 Probabilmente Es 34 rappresenta uno sviluppo letterario di Es 23: così Eissfeldt il quale sostiene che c’è una somiglianza di terminologia tra Es 23,14-19 ed Es 34,14-26 e il primo anticipa il secondo. O. EISSFELDT, Introduzione all’Antico Testamento, II, Brescia 1980, 113; B.S. CHILDS, Exodus,
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gative di tonalità sacrificale (proibizione del fermentato, distruzione dei resti del sacrificio e proibizione di bollire un capretto nel latte di sua madre) e una offerta positiva di carattere agricolo (le primizie del suolo) con un’indicazione di luogo: la casa di Dio22. Il Dio di Israele si manifesta come il Signore della natura e della storia: il pellegrinaggio, come il sabato (Es 23,12), aiuta a riconoscere che tutto è dono di Dio. Il culto (davanti a me, davanti al Signore JHWH, alla casa di JHWH tuo Dio), nella sua dimensione offertoriale, è gratitudine e professione di fede in JHWH liberatore, è rigetto dell’idolatria (Es 23,13), è profondamente radicato nelle professioni umane (mondo agricolo e pastorale). Non viene indicata alcuna data poiché tutto dipende dal lavoro agricolo23, né il rituale della cerimonia. È importante sottolineare il legame tra vita naturale ed evento di salvezza (uscita dall’Egitto). Le prescrizioni cultuali riguardano i maschi, ma nella prassi è tutta la famiglia (uso del singolare e del plurale nei comandi del TM e delle versioni) che è coinvolta nel pellegrinaggio (es. 1 Sam 1,3-4). 2.1 Il Calendario liturgico nel Codice deuteronomico
Il Deuteronomio rielabora e aggiorna il Codice dell’Alleanza. Rispetto alla molteplicità dei santuari locali Dt promuove l’unico luogo e l’unico altare per tutto Israele nel contesto della cosiddetta riforma giosiana24; ci presenta una società più urbanizzata e stratificata, le attività sono più variegate, tratta dell’organizzazione della giustizia (16,18-17,13), dei diversi poteri (17,14-18,22), della guerra (20,1-20), del commercio (25,3-16), contiene diverse leggi sulla famiglia (22,15-21; 22,13-23; 24,1-4). L’importanza di questo calencit., 614. Di parere diverso è Cazelles secondo cui «l’autore ha completato alla fine del primo codice ciò che si trovava nel secondo e ciò che non era stato già detto nel primo»: H. CAZELLES, A propos d’une étude ‘stylistique’ du livre de l’Exode, in Autour de l’Exode (études), Paris 1987, 347. 22 Per Noth l’espressione indica un santuario locale: M. NOTH, Esodo, cit., 239. 23 R. DE VAUX, Les sacrifices de l’Ancien Testament, Paris 1964, 23. 24 Cfr. 2 Re 22-23 e 2 Cr 34-35. Cfr. T. RÖMER, Dal Deuteronomio ai libri dei Re. Introduzione storica, letteraria e sociologica, Torino 2007, 51-57, (ed. orig. ingl. 2005). «Tutto ciò corrisponde alla cosiddetta riforma di Giosia e alla centralizzazione del culto nell’unico santuario di Gerusalemme, verso il 622 a.C. Siamo in una cultura più urbana, ove il popolo comprende una serie di grandi proprietari terrieri e allevatori»: J.L. SKA, Antico Testamento. 1. Introduzione, Bologna 2015, 145.
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dario festivo consiste nel fatto che per la prima volta è espressa la menzione della festa di Pasqua unita a quella degli Azzimi. Il verbo šmr è riferito nel Dt normalmente ai comandamenti, alle prescrizioni e alle leggi divine. Soltanto qui viene riferito ad una azione cultuale come anche in Es 23,15. Secondo Merendino si tratta «di una formulazione legislativa apodittica, ma che ha anche carattere di esortazione, di ammonimento omiletico»25. 2.2 Le haggìm di Dt 16,1-1726
Dopo la trattazione del sabato (Dt 15,1-18), Dt 16,1 usa la frase «fare Pasqua» nel mese di Abib con la stessa motivazione che in Es 23,15 è riferita agli Azzimi. La parola «notte» è redazionale, è un’aggiunta posteriore che troviamo soltanto qui e che riguarda la tradizione sacerdotale del racconto pasquale (anche Es 12,6.12.30-31). Il v. 2 coglie la novità più importante del rituale deuteronomico: la Pasqua da celebrazione familiare diventa nazionale da festeggiare al santuario centrale. Cambiata di luogo, la celebrazione cambia nel rituale: si ci adatta al cerimoniale del santuario legato al sacrificio e all’uso del bestiame minuto e grosso (l’espressione «immolare la Pasqua» è ripetuta nei vv. 2.5 e 6). Secondo Dt 16,7 la carne degli animali sacrificati deve essere cotta o bollita (bšl= secondo Es 12,9 l’animale deve essere arrostito). Il riferimento storico è l’uscita dall’Egitto per cui anche il mangiare pane azzimo è legato al ricordo dell’afflizione della schiavitù. Al v. 7 è detto che, una volta immolata la Pasqua, si può all’indomani ritornare alle proprie tende: la festa della Pasqua sarebbe durata un giorno. Ma al v. 3 è prevista, in concordanza con la Pasqua, la consumazione degli Azzimi per sette giorni consecutivi sul luogo del santuario. Per questo motivo c’è chi pensa che ci siano due redazioni; la prima riguardante la Pasqua (vv. 25 P. MERENDINO, Corso esegetico sulla centralizzazione del culto israelitico secondo Dt 14,2229; 15,19-23 e 16,1-17, Roma 1970-71, 68. 26 Cfr. G. PAPOLA (cur.), Deuteronomio. Introduzione, traduzione e commento, Cinisello Balsamo 2011, 199-205; S. PAGANINI, Deuteronomio, Milano 2011, 277-283; G. BRAULIK, Leidensgedächtnisfeier und Freudenfest. «Volksliturgie» nach dem deuteronomischen Festkalender (Dtn 16,1-17), in G. BRAULIK (ed.), Studien zur Theologie des Deuteronomiums (SBAB 2), Stuttgart 1988, 95-121; T. VEIJOLA, The History of the Passover in the Light of Deuteronomy 16,1-8, in ZAR 2 (1996) 53-75.
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l.2.4b-7) e l’altra gli Azzimi (vv. 3.4a.8). Infatti, la formulazione del testo di Dt 16,827, fa supporre che il ciclo settimanale si concludesse al sabato con un’adunanza liturgica e il riposo. Alle origini si trattava di mangiare pane azzimo28 il cui significato veniva collegato all’afflizione della schiavitù. Questa usanza, secondo la prassi dei popoli sedentari, indicava la volontà di non mescolare il nuovo raccolto con il lievito tratto dal vecchio raccolto, nel senso che con il nuovo raccolto doveva cominciare una vita veramente nuova. La festa delle settimane29 (vv. 9-12) è presentata così: «we’àsità hag’sàbu’ót la’adonay eloheka (farai la festa delle settimane per il Signore tuo Dio)». La festa si celebra dopo sette settimane dal mettere la falce nella messe, si gioisce dinanzi al Signore comunitariamente (figlio, figlia, schiavo, schiava, levita, orfano e vedova) offrendo con generosità al Signore nel luogo da lui stabilito e condividendo la benedizione del Signore con i poveri. Per il giudaismo è chiara la peculiarità e il senso della festa: «da un lato è espressione di riconoscenza per la benedizione del raccolto e dall’altro [...] esprime la fede nell’origine divina della Torah, nella divina rivelazione»30. La festa delle capanne31 (vv. 13-15) viene presentata in questo modo: «hag hassukkot ta’aseh leka (la festa delle capanne-tende farai per te)». In Dt 16,13-14 la festa va fatta nel tempo della raccolta dei rifiuti dell’aia e del torchio: due termini che abbracciano la raccolta di tutti i prodotti agrari di tutto l’anno (cfr. Os 9,1). Questa formula «tutto il lavoro annuale agricolo» fa supporre che in origine fosse l’unica vera festa agraria e cultuale dell’anno con il carattere di gioia e di ringraziamento verso JHWH che aveva donato i frutti del campo e degli alberi. Al v. 15 la festa, che ha la stessa durata (sette giorni), è fatta per il Signore nel luogo da lui scelto. La caratteristica di questa festa è la gioia allargata alla famiglia e ai poveri della città. È pure presente una istruzione catechistica riguardante le tre feste (hag) annuali di Israele (cfr. Dt 16,16)32 nella quale viene ribadita la centraIl TM al v. 8 ha «alcun lavoro»; la LXX aggiunge «eccetto ciò che si deve fare per vivere». B.N. WAMBACQ, Le massot, in Biblica 61 (1980) 50. 29 Cfr. J.A SOGGIN, Israele in epoca biblica, cit., 99-105. 30 G. FÖHRER, Fede e vita nel giudaismo, Brescia 1984, 137. 31 J.A SOGGIN, Israele in epoca biblica, cit., 110-113. 27 28
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lizzazione del luogo scelto da JHWH per presentare le offerte e la generosità in misura della benedizione divina ricevuta. In questo modo, l’idea dell’offerta al santuario, risonanza delle istruzioni dell’Esodo (23,15.17) è «collegata alla dimensione di giustizia sociale, di conferimento di dignità e di sostentamento, mediante un dono che è direttamente proporzionale alla ricchezza del singolo… riconosciuta come dono di Jhwh»33. 3.1 Il Calendario liturgico nel Codice sacerdotale
La legge di santità (Lv 17-26) codifica e aggiorna le attività di un popolo che vive ormai attorno al Tempio ricostruito dopo il ritorno dall’esilio babilonese. In Lv 23,1-44 troviamo un calendario liturgico che contiene le disposizioni rituali per le singole feste: il Sabato (v. 3); la Pasqua e la festa dei Pani azzimi (vv. 4-8); la festa delle Primizie (vv. 9-14); la Pentecoste (vv.15-22); il Capodanno (vv. 23-25); la festa dell’Espiazione (vv. 26-32); la festa delle Capanne (vv. 33-36.3943)34. I capitoli 23-25 sono dedicati alla determinazione del tempo sacro dedicato a Dio e allo spazio (‘ohel mó’ed - tenda del convegno) in cui ci si incontra con il Signore. Non ci sono denominazioni di mesi ma numeri progressivi che manifestano un cambiamento del calendario di cui non si accettano i nomi. Il sacerdote appare nella presentazione del primo covone e nella festa delle settimane. Le feste, a datazione fissa, si concentrano nel primo e settimo mese. Sotto questo profilo Noth sostiene che «per la “legge di santità” è importante soprattutto il proclama e il riposo dal lavoro il primo e l’ultimo giorno della festa degli Azzimi che durava sette giorni»35. È da notare, dunque, l’insistenza sul numero sette.
32 «Dt 16,16 non ha inventato le feste, ma le ha fatte coincidere con i pellegrinaggi confermando l’obbligo di andare al santuario tre volte all’anno […]. Dopo Giosia sarebbe avvenuta la centralizzazione» (E. AUERBACH, Die Feste im alten Israel, cit., 16-17). 33 S. PAGANINI, Deuteronomio, cit., 281. 34 A.M. LUPO, Il significato del giorno ottavo nella Torah, in Riv. Bibl. LXVII/2 (2019) 223-224. 35 M. NOTH, Levitico, Brescia 1989, 215; cfr. G. DEIANA, Levitico, Milano 2005, 244-258.
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3.2 Le haggìm in Lv 23
In Lv 23,5-8 si nominano la Pasqua e gli Azzimi36. Il testo ha un carattere tradizionale e conservatore sugli Azzimi: «devono sopravvivere non solo i suoi riti, non solo i suoi giorni, ma la festa come tale con il suo vecchio nome e con la sua vecchia indipendenza dalla festa della Pasqua»37. Lv 23 non menziona l’Esodo, non prescrive alcun sacrificio, ci sono adunanze e riposo assoluto, spicca il carattere familiare della festa. C’è una preoccupazione particolare a specificare le date: la Pasqua, che non è chiamata hag, sarà il primo mese, il quattordicesimo giorno, al tramonto del sole, in sintonia con Es 12,6. La hag degli Azzimi è per la prima volta fissata il giorno dopo, il quindici. Si specificano i riti: si mangia pane senza lievito per sette giorni, si offrono sacrifici38, il primo e il settimo giorno ci sono convocazioni sacre e non si fanno lavori servili39. Il codice sacerdotale corregge le disposizioni del Deuteronomio40. La tradizione postdeuteronomica è dunque caratterizzata da una datazione fissa che non corrisponde più al ciclo settimanale, ma dal legame stretto che c’è tra la Pasqua e gli Azzimi e dell’importanza che vi acquistano i sacrifici e i riti del tempio. Del carattere agrario degli Azzimi non vi è più traccia. Qui abbiamo la completa trasformazione di una celebrazione di carattere agrario in una situazione di carattere cultuale e liturgica. 36
Al v. 5 il Sam, LXX e Vulg aggiungono «giorno»; il Targum al v. 8 ad ‘iššeh (offerta) aggiunge
‘olah. A. CHOLEWINSKI, Levitico 17-26. Codice di santità, Roma 1984, 141. Nm 28,16-25 riprende Lv 23,5-8 e dà delle indicazioni più precise sui riti dei sacrifici da compiersi durante questi sette giorni con accentuazione della dimensione espiatoria. 39 Scompare l’obbligo di comparire tre volte all’anno individualmente. Il Codice sacerdotale alleggerisce l’invito utopico di Dt: E. AUERBACH, Die Feste im alten Israel, cit., 18. 40 Es 12,1-20 pur non trovandosi all’interno di un calendario liturgico delle feste di pellegrinaggio, tuttavia è importante perché pone la celebrazione della Pasqua-Azzimi in contrasto con le indicazioni del Deuteronomio. Es 12 precisa: 1) in 12,6 la data (al quattordici non al novilunio); 2) non nel mese di Abib ma al primo mese dell’anno (l’utilizzo del calendario babilonese numerale); 3) il sacrificio viene immolato in casa e non nel tempio; 4) la carne non è cotta come in Dt, ma arrostita al fuoco (cfr. Es 12,9); 5) mentre Dt parla di pecora o bue quali animali da sacrificare, il codice sacerdotale parla di agnello o capretto; 6) Es 12,15.16.18 parla di sette giorni per gli Azzimi con assemblea al primo e al settimo giorno, dal quattordici al ventunesimo giorno del primo mese. Il codice sacerdotale corregge Dt 16,3-4 (cfr. E. AUERBACH, Die Feste im alten Israel, cit., 5-6) e cancella l’immolazione dell’agnello pasquale che deve essere fatta nel tempio (cfr. Dt 16,1-8). Le prescrizioni sembrano risalire al tempo dell’esilio secondo A. GANGEMI, La religiosità popolare e la Bibbia, in AA.VV., Liturgia e religiosità popolare, Bologna 1979, 61. 37 38
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La festa delle settimane41 (23,15-22) non ha un nome ma soltanto una indicazione generica, perché la celebrazione della festa è dipendente dalla maturazione del grano, per cui per effettivamente celebrarla si contano sette settimane complete. È rimasta festa agraria senza legame con i grandi fatti della storia della salvezza; in Lv il carattere agrario è legato al rito dell’omer e all’offerta del pane lievitato42. Un elemento caratteristico di questo testo è dato dalla precisazione del rituale, dei momenti della celebrazione e dalla formulazione delle tariffe obbligatorie per le offerte. L’offerta centrale è quella delle primizie del nuovo pane fatto con il frumento. Il pane deve essere lievitato – unico caso in tutto il rituale israelitico – e ad esso si aggiungono altre offerte secondarie: un olocausto con le rispettive offerte vegetali e libagioni43. È presente un accenno alla solidarietà intesa come attenzione al povero e al forestiero (cfr. v. 22). Questo vuol dire che i proprietari dei campi non devono mietere tutto il raccolto, ma lasciare i margini del campo per la spigolatura dei poveri. Dall’origine agraria si passa al rinnovamento dell’Alleanza del dono della legge e della rivelazione44. La festa di sukkot45 (vv. 33-43) presenta due legislazioni: nella prima (vv. 33-36) la festa è fissata il quindici del settimo mese e dura sette giorni con offerta di sacrifici; nella seconda (vv. 39-43) si aggiunge l’ottavo giorno e il riposo assoluto. È importante sottolineare 41 Non è chiamata hag. «L’aspetto del pellegrinaggio può essere implicito nella prescrizione: “porterete dai luoghi dove abiterete” (v. 17). Anche se non si definisce il luogo, tutto lascia pensare a un pellegrinaggio verso un tempio» (G. DEIANA, Levitico, cit., 250). 42 Cfr. R. MARTIN-ACHARD, Essai biblique sur les fêtes d’Israel, cit., 52-53. 43 Gli altri sacrifici di cui si parla in Lv 23,18-19 sembrano essere stati aggiunti dopo l’esilio e inseriti in questo contesto per uniformare la legislazione di di Lv 23 con quella di Nm 28,27.30: cfr. A. CHOLEWINSKI, Levitico 17-26, cit., 144-145. 44 Cfr. M. DELCOR, Pentecôte, in DBS, VII, coll. 860 e 879; E. LOHSE, Pentecostes, in GLNT, Brescia 1974, coll. 1483-1486; F. COCCHINI, L’evoluzione storico-religiosa della festa di Pentecoste, in Riv. Bibl. 25 (1977) 301. 45 «Il termine sukkot è tradotto impropriamente con tende e con il latino tabernacoli» (R. MARTIN-ACHARD, Essai biblique sur les fêtes d’Israel, cit., 76). La festa del raccolto sembra derivare da una radice verbale skk che evoca l’idea del coprire e dell’intrecciare: F. ZORELL, skk, in Lexicon Hebraicum Veteris Testamenti, cit., 553. Della dimensione agraria ci informa l’antichissimo testo di Giudici 21,19ss dove si parla delle figlie di Silo che danzano tra le vigne in onore di JHWH (cfr. Gdc 9,27). In Dt 31,913 si riporta un’altra tradizione riguardante lo svolgimento di questa festa: si dice che ogni sette anni nella ricorrenza della festa delle capanne la legge divina deve essere letta a tutto il popolo e ciò era legato al rinnovamento dell’Alleanza (cfr. Gs 24).
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l’ottavo giorno come festa speciale, straordinaria. La prima legislazione aveva a che fare con la raccolta della frutta e dei rami di palme e degli altri alberi dal denso fogliame. La seconda specifica le modalità della celebrazione della festa dimorando nelle capanne-tende durante i sette giorni della festa per ricordare la peregrinazione nel deserto (v. 43). Il simbolismo dei sacrifici esprime l’atto di ringraziamento per i benefici e la ricchezza che il Signore dona. Gli olocausti sono più numerosi che l’ordinario. Il numero sette presiede al computo delle vittime. Il capro offerto ogni giorno unifica l’idea di penitenza a quella di ricorrenza, poiché gli israeliti molto spesso si sono mostrati infedeli e ingrati. Il simbolismo delle foglie, improntato a degli alberi rimarcabili gli uni per la frutta, gli altri per la verdura, richiama da un lato la ricchezza dei frutti che il Signore assicura e dall’altro il riposo con la sicurezza della benedizione di Dio. La festa assume due fondamentali significati: 1) il ricordo del deserto con gli interventi di JHWH a favore del suo popolo; 2) l’azione di grazie per la raccolta. La festa termina con un giorno chiamato aseret che conclude le feste dell’anno. In essa si riassumono tutti i sentimenti di adorazione, d’azione di grazie, si completa ciò che manca e si ripara ciò che era stato difettoso nelle solennità precedenti46. La capanna ricorda il riparo e l’aiuto divino come guida e provvidenza. La capanna è anche «simbolo della imperfezione e della transitorietà dell’uomo che vive su questa terra. Essa ricorda che tutto ciò che è terreno, ogni gioia e felicità, sono realtà passeggere che appassiscono presto come le foglie dei rami delle capanne»47. Durante l’esilio esse significheranno «il riposo sabbatico, la penitenza, l’appello a Dio, il richiamo dei suoi voleri e del suo potere»48.
46 Cfr. H. LESETRE, Tabernacles, in DB, V, coll. 1961-1966; G. RAVASI, Strutture teologiche della festa biblica, in La Scuola Cattolica 110 (1982) 154. 47 G. FÖHRER, Fede e vita nel giudaismo, cit., 143. 48 H. CAZELLES, La fête des tentes en Israël, in Bible et vie chretienne 65 (1965) 41.
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4.1 Dimensione teologica delle feste di pellegrinaggio
Le feste di pellegrinaggio «sono destinate a ricordare verità religiose fondamentali: la Pasqua/Massot la dottrina dell’esistenza di Dio; la festa delle Settimane la sua rivelazione e la festa delle Capanne la sua provvidenza soccorritrice»49. La caratterizzazione agricola delle feste ebraiche è quella che spicca nei momenti centrali dell’anno: primavera e autunno. La vita religiosa dell’uomo segue il ritmo della natura. Si assiste ad un intersecarsi di lavoro e di riposo, di produzione e di offerta, di consuetudini quotidiane e di feste-pellegrinaggio. L’attenzione sulle primizie costituisce per il mondo agricolo da un lato il riconoscimento che la fertilità della terra deriva da Dio e non dagli dei pagani, dall’altro sottolinea la qualità dell’offerta come segno di gratitudine per la benedizione e la protezione divina. L’offerta è accompagnata dalla dichiarazione di fede con la quale l’uomo riconosce di poter realizzarsi in quanto libertà, solo per un dono di Dio e interpellandosi come rimando a lui. Accanto ai prodotti agricoli emergono e poi si affermano i riferimenti al mondo pastorale del quale si acquisiscono le norme alimentari e successivamente le usanze liturgiche stabilite dai circoli sacerdotali. Affiora così un mondo religioso che si identifica in semplici e discrete azioni legate ai campi e agli animali, come due anime che incarnano il modello nomadico e il modello sedentario. Lo spostamento di attenzione dal mondo agricolo al mondo pastorale e cultuale trova una ideale continuità nell’aggancio ai fondamenti storico-salvifici delle tre feste: la liberazione dall’Egitto, il dono della Legge e la peregrinazione nel deserto. Così il Dio d’Israele non è legato soltanto alla terra, ai suoi cicli e alla sua fertilità, ma acquista una dimensione personale liberando il popolo dalla schiavitù e offrendo l’Alleanza sul monte Sinai. Il moltiplicarsi dei sacrifici, sotto l’influenza della cultura sacerdotale, esprime oltre la gratitudine la richiesta di perdono per le infedeltà all’alleanza. L’attenzione al riposo, alle assemblee sacre, alla qualità dell’offerta, qualificano l’identità di questo popolo che deve impegnare la sua libertà nel «servire» il Signore con gioia. Il Dio di 49
G. FÖHRER, Fede e vita nel giudaismo, cit., 117.
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Israele, manifestando la sua unicità nelle opere della salvezza, realizza la sua signoria sul tempo e sullo spazio. Il tempo è particolarmente importante. Tutti i calendari più recenti sottolineano la durata delle celebrazioni con sacre convocazioni di gioia e riposo. Lo spazio, che appartiene a Dio in quanto è il luogo della sua presenza, acquista importanza per il popolo non solo come spostamento geografico (lasciare le proprie abitudini: casa, lavoro), ma anche come rinnovato e coerente impegno di fedeltà ai comandamenti di Dio. La festa diventa così «memoriale di un intervento preciso nella storia, acquista una dimensione presenziale per cui la celebrazione diventa non solo attualizzazione salvifica dell’evento passato, ma anche impegno etico ed esistenziale per il presente, e speranza messianica ed escatologica, santificazione del tempo e dello spazio»50. Pertanto, la gioia del ringraziamento che si esprime nella festa di pellegrinaggio non è la gioia meschina ed egoistica del singolo che si «gode» il suo pezzo di terra, ma gratitudine di tutti e di ciascuno per un dono da condividere. Questo vuol dire che «dal culto deve nascere una società “alternativa”, dove non ci devono essere più poveri e nessuno deve tenere schiavi gli altri»51. È vero che il panorama culturale di origine cananea che emerge dalle feste è quello agricolo e pastorale fondato sul lavoro e sui suoi prodotti, tuttavia l’evoluzione delle feste ci rivela una cultura che sa modificarsi attraverso eventi storico-nazionali, coniugando il mistero della natura con le usanze e le tradizioni dei popoli circostanti, discernendo gli aspetti validi e universali di tali culture, specificando e chiarendo le motivazioni e il significato dell’intervento di JHWH a favore del suo popolo, cogliendolo nella storia e nella vita come guida, assistenza e provvidenza. Concepire la vita come cammino, rivivere i grandi eventi sacri della storia della salvezza che manifestano un Dio provvidente e soccorritore, insegnare il distacco dal mondo, la gioia del sacrificio, la solidarietà verso i poveri, la preghiera e il canto con gli altri, sono i frutti più importanti delle feste di pellegrinaggio. G. RAVASI, Strutture teologiche della festa biblica, cit., 180-181. A. BONORA, Dalla storia e dalla natura alla professione di fede e alla celebrazione (Dt 26,115), in PSV 25 (1992) 38. 50 51
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4.2 Le feste di pellegrinaggio tra professione di fede, cultura e solidarietà
Nelle feste di pellegrinaggio Israele ha colto una visione unitaria della natura e della storia, percepite e vissute come luoghi della salvezza. Già i testi più antichi ci hanno rivelato la graduale capacità di Israele di sviluppare le antiche celebrazioni a carattere agrario in forme più evolute e specifiche di istituzioni a carattere cultuale e liturgico. Le riletture, pur svolgendosi in ambiti e momenti diversi, sono il frutto della capacità di aggiornamento alle mutate situazioni storiche e diventano un fondamento per le riforme: 1) il codice dell’alleanza si colloca al tempo della riforma di Ezechia; il codice deuteronomico sostiene la riforma di Giosia52; il codice sacerdotale specifica i rituali del giudaismo postesilico con l’attenzione ai sacrifici e al tema dell’espiazione. Il Dio biblico è connesso allo spazio sacro dei santuari, legato al culto in cui efficacemente si rende presente, vincolato alla ritualità degli uomini. È anche santo mostrandosi come il liberatore esodico, il difensore dei poveri, l’artefice della giustizia e della solidarietà.
52 Gangemi ritiene importante considerare le riforme di Ezechia, Giosia e le revisioni durante l’esilio per meglio evidenziare il processo evolutivo delle feste in Israele: A. GANGEMI, La religiosità popolare e la Bibbia, cit., 64.
SYNAXIS XXXVIII/2 - 2020 (95-114)
DI NASCOSTO MAURIZIO ALIOTTA*
«L’avverbio è una parte invariabile del discorso, la cui funzione è determinare il significato di un verbo (dorme saporitamente), un aggettivo (molto buono) o un altro avverbio (troppo duramente)»1.
Le considerazioni che seguono tentano di interpretare l’uso dell’avverbio λάθρᾳ che ricorre solo quattro volte negli scritti neotestamentari: due volte in Matteo (1,19 e 2,7), una volta in Giovanni (11,28) e una in Atti (16,37). Mi soffermerò in particolare su Mt 1,19 e Gv 11,28. Nel primo caso si narra della decisione di Giuseppe di rinviare Maria «in segreto», nel secondo di Marta che «di nascosto» dice a sua sorella Maria che il Maestro la chiama2. L’interesse iniziale per l’uso di questo avverbio mi è sorto dalla lettura del cap. 11 del Vangelo secondo Giovanni dove si narra della morte di Lazzaro, fratello di Marta e Maria, e di come fu risuscitato da Gesù. L’evangelista dopo aver riportato un dialogo tra Marta e Gesù afferma che «dopo queste parole [Marta] se ne andò a chiamare di nascosto (λάθρᾳ) Maria, sua sorella, dicendo: «Il Maestro è qui e ti chiama» (11,28). Perché Marta andò a chiamare sua sorella Maria «di nascosto»?3 * Docente di Storia della teologia e Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. http://treccani.it/enciclopedia/avverbi_(La-grammatica-italiana) [accesso del 20 maggio 2020]. La traduzione italiana dei testi della Scrittura, quando non detto diversamente, è quella della versione CEI 2008. 1 2
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Alla domanda non ho trovato, nel tempo, nei commentari moderni una risposta che soddisfacesse pienamente la mia curiosità. A volte semplicemente ignorano questo particolare4 o danno delle risposte che si fermano al contesto letterario e storico immediato5. Il mio tentativo è di intraprendere una interpretazione teologica del fatto (Marta che dice qualcosa «di nascosto» a Maria) e della forma narrativa di esso6, considerando dapprima Mt 1,19, per passare poi a Gv 11,28. L’USO DI MATTEO «Giuseppe suo sposo (ὁ ἀνὴρ αὐτῆς), che era giusto (δίκαιος: ṣaddîq in ebr.)7 e non voleva ripudiarla, decise (ἐβουλήθη) di licenziarla (ἀπολῦσαι) in segreto (λάθρᾳ)» (1,19)8.
3 Comprensibile l’imbarazzo di sant’Agostino commentando Gv 11,28, poiché la versione latina che egli legge traduce λάθρᾳ con silentio: «Et cum haec dixisset, abiit, et vocavit Mariam sororem suam silentio, dicens: Magister adest, et vocat te. Advertendum est quemadmodum suppressam vocem silentium nuncupavit. Nam quomodo siluit, quae dixit: Magister adest, et vocat te? Advertendum etiam quemadmodum Evangelista non dixerit ubi vel quando vel quomodo Mariam Dominus vocaverit, ut hoc in verbis Marthae potius intellegeretur, narrationis brevitate servata» (In evangelium Ioannis tractatus centum viginti quatuor, tr. 49,16). 4 Cfr. la traduzione italiana del commentario di R.F. BROWN, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, con presentazione di Carlo Martini, Assisi 19913, traduce λάθρᾳ con “bisbigliò” senza alcun commento. 5 «Il messaggio recato a Maria a bassa voce denota l’ostilità che regnava contro Gesù negli ambienti ufficiali, ai quali appartenevano, almeno come simpatizzati, i giudei che erano andati a visitare le sorelle (11,19). Insinua al tempo stesso l’esistenza di comunità clandestine in ambienti nemici» (J. MATHEOS J. BARRETO, Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Assisi 19902, 477). Questa osservazione descrive una situazione verosimilmente reale, ma non soddisfa pienamente le implicazioni che il particolare può contenere, soprattutto in riferimento all’uso specifico dell’avverbio. Diversamente da J. Matheos J. Barreto, D. MOODY SMITH, La teologia del Vangelo di Giovanni, Brescia 1991, ritiene che questo episodio contrasta con il prevalente contesto polemico perché in questo caso «la controversia sia assente e i giudei (abitanti della Giudea) che vi compaiono mostrano simpatia per gli amici di Gesù» (p. 56). 6 Non ignoro, naturalmente né la storia della redazione del testo, né la storia delle forme; intendo tuttavia considerare la redazione finale del Vangelo così come si presenta al lettore attuale per tentare di cogliere precisamente il messaggio che il redattore finale vuole trasmettere alla sua comunità. Proprio questa finalità giustifica la considerazione del retroterra religioso dei testi in questione, nello specifico quello giudaico. 7 In Gen 6,9 di Noè si dice che era «un uomo giusto». 8 In 2,7 leggiamo: «Allora Erode, chiamati segretamente (λάθρᾳ) i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella».
Di nascosto
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Questo versetto, apparentemente semplice, pone in verità non poche questioni interpretative. Giuseppe è chiamato “sposo” (ὁ ἀνὴρ αὐτῆς) e “giusto” (δίκαιος), dunque presumibilmente osservante della Torah9. Come si deve comportare un uomo giusto nel caso in cui la sua sposa sia trovata incinta «prima di andare a vivere insieme»? L’evangelista dice che Giuseppe «giunse a pensare» (ἐβουλήθη) di «rinviare» (ἀπολῦσαι) Maria, perché non voleva «accusarla pubblicamente», cioè deferirla in tribunale (δειγματίσαι) e ripudiarla. Ciò significa che aveva già scritto il libello di ripudio per poi ritirarlo e questo, secondo la legge, poteva essere fatto? Era possibile rinviarla «in segreto»? non era in ogni caso una decisione che sarebbe stata conosciuta da altri, se già era il «suo uomo» (ὁ ἀνὴρ αὐτῆς)? Possiamo ragionevolmente pensare che il retroterra storico del messaggio teologico di Mt 1 riflette la mentalità giudaica di quel tempo10 e che Giuseppe conseguentemente pensava e agiva come un giudeo del suo tempo. Le sue scelte e le sue azioni devono dunque comprendersi in quella prospettiva11. Il forte legame di Matteo con l’ambiente giudaico è evidente per il ricorso costante alla Bibbia ebraica, che costituisce il riferimento ultimo, da cui Gesù trae la sua autenticità e la sua legittimazione. Anche se Matteo cita la Scrittura nella versione greca dei LXX e traducendo lui stesso liberamente «un testo che conosceva quasi a memoria come tutti gli uomini istruiti di Israele, l’autore è sicuramente impregnato di ebraismo. Si sente ad ogni parola: anche se scrive in greco, anche se conosce bene l’aramaico, pensa innanzi tutto nella lingua della Bibbia, in ebraico»12.
9 Dt 6,25 – è il noto capitolo dello šema – dichiara giusto chi osserva i comandi di YHWH: «La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore, nostro Dio, come ci ha ordinato». La LXX traduce sedaqah con ἐλεημοσύνη: καὶ ἐλεημοσύνη ἔσται ἡμῖν ἐὰν φυλασσώμεθα ποιεῖν πάσας τὰς ἐντολὰς ταύτας ἐναντίον κυρίου τοῦ θεοῦ ἡμῶν καθὰ ἐνετείλατο ἡμῖν κύριος. 10 Per la complessità della questione rinvio a J.P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. 1. Le radici del problema e della persona, Brescia 20084, 210-238. 11 L’opinione non unanime ma prevalente degli esegeti è che il Vangelo secondo Matteo nasce in un ambiente giudaico-cristiano; qualcuno suggerisce Antiochia in Siria. 12 A. CHOURAQUI, Le Nouveau Testament, traduit e présénte par André Chouraqui, Turnhout 1984, 15.
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Nell’interpretazione della Torah, la legge scritta, che si sedimenta nella Mišna a partire dalla prima metà del II secolo d.C. e forse già nel I secolo e che comunque eredita gli insegnamenti che si fanno risalire alla “prima Mišna”, troviamo alcuni elementi utili per rispondere alle domande prima poste. Una prima indicazione la troviamo in Gittin13 1.6, 4.1 e 6.1 dove si dichiara che era possibile ritirare il libello di ripudio prima di consegnarlo alla moglie. Gittin 4.1 lo chiarifica bene: «Se qualcuno manda una lettera di divorzio a sua moglie e supera il messaggero o spedisce un altro messaggero dopo di lui e gli dice [al primo messaggero] che “la lettera di divorzio che ti ho dato è cancellata [o abolita, sospesa]”, allora è cancellata. Se sua moglie la riceve prima o se manda un altro messaggero a lei e gli dice “La lettera di divorzio che ti ho inviato è cancellata”, allora è cancellata. [Ma] se [la notizia della cancellazione arriva] dopo [la lettera di divorzio] giunge nelle sue mani, non è possibile cancellarla».
Nel caso di Giuseppe, perciò, se Maria avesse ricevuto la lettera il divorzio non poteva essere annullato. Altra questione che si può porre alla luce di Mt 1,19 è se il marito poteva risposare la moglie dopo il divorzio. Gittin 4.7 dichiara: «Se uno divorzia da sua moglie a causa della sua cattiva fama [per es. dovuta all’adulterio], non può ritirare il divorzio». Perciò, se questo si applica alle fidanzate oltre che alle spose, a Giuseppe non sarebbe mai stato permesso di sposare Maria se avesse comunicato il divorzio (Sanhedrin 7.9 suggerisce che se qualcuno ha avuto rapporti sessuali con una vergine fidanzata (bethulah) che viveva ancora a casa doveva essere lapidato. Il testo non dice nulla sulla fidanzata. Altro problema posto dalla decisione di rinviare Maria «in segreto» (λάθρᾳ): possibile che fosse noto solo a Giuseppe e Maria? Molte Mishnayoth aiutano a rispondere a questa domanda. Innanzi tutto, Kethuboth 4.4 dichiara che «Il padre ha autorità sulla figlia riguardo al suo matrimonio… e riceve il libello di divorzio». Gittin 6.2 chiarifica e confonde insieme questa immagine: «Quando una ragazza (na‘arā) è fidanzata, lei o il padre riceve la lettera di divorzio». 13
Una versione inglese è consultabile in http://halakhah.com/gittin/index.html.
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Qui na‘arā piuttosto che bt è usato per indicare la ragazza. Jastrow suggerisce che na’ar sia riferito a una ragazza «tra i dodici e i dodici anni e mezzo di età» (2.922). Questo non si può applicare a Maria (sebbene Matteo non indica la sua età al momento del fidanzamento). Kethuboth 4.4 confonde ancora di più il quadro perché stabilisce che il padre debba ricevere il libello, mentre Gittin 6.2 suggerisce che ciò è facoltativo e non obbligatorio (sebbene rabbi Giuda ha una opinione diversa, concordando con Kethuboth 4.4), Così non si può affermare con certezza che Giuseppe avesse inviato il libello di divorzio al padre di Maria. Vi è poi il problema della validità del libello. In Gittin 9.4 si dice: «Ci sono tre generi di lettere di divorzio invalide… Se uno scrive di suo pugno ma non vi sono testimoni, se vi sono testimoni ma non vi è la data, se vi è la data ma con la firma di un solo testimone». Una variante di ciò la offre Rabbi Eliezer: «Anche se non vi sono le firme dei testimoni, ma [il marito] lo ha consegnato in presenza di testimoni è valido (kšr)». In entrambi i casi la presenza di testimoni è necessaria perché il libello di divorzio abbia valore legale. Perciò, sebbene Giuseppe desiderava divorziare da Maria segretamente, egli doveva coinvolgere almeno altri due e possibilmente il padre. In sintesi, se Giuseppe aveva inviato un libello di divorzio a Maria, non poteva essere ritirato se l’avesse raggiunta, perché l’avrebbe esposta ad un atto immorale. Sebbene desiderasse divorziare segretamente, almeno due persone avrebbero saputo la cosa. Ma poiché egli solamente desiderava e non l’aveva attuato, la dignità di Maria era preservata. Nel caso di Mt 1,19 la “segretezza” è legata, in verità, ad un desiderio più che ad un’azione compiuta o da compiere. Tre sono gli elementi da considerare: la “giustizia” di Giuseppe, la sua “decisione” di licenziare Maria, la “volontà” di non ripudiarla. Mettendo tra parentesi le questioni giuridiche prima considerate alla luce della Mishnah, possiamo in modo essenziale far emergere le dinamiche antropologiche e teologiche contenute nel testo. Vi è l’elemento primario della giustizia che orienta la decisione e dunque l’azione. È ovvio, ma è bene esplicitarlo, che “giusto” e “giustizia” sono da intendersi nel loro significato biblico e per quello che significava per i destinatari di Matteo, e non nel significato forense odierno.
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Questo atteggiamento fondamentale dell’uomo è criterio di discernimento tra il bene e il male nella situazione concreta. Fare il bene è osservare la “legge”, ma evitare il male lo è altrettanto. Come operare il discernimento? La dimensione etica dell’agire, evidentemente, ha un fondamento antropologico e teologico, nel caso di Giuseppe il suo essere “giusto”. Anche in questo caso, assumere il punto di vista ebraico può aiutare a cogliere la pregnanza di senso del testo. Nelle Scritture ebraiche abbiamo diversi casi in cui per osservare la legge bisogna “trasgredirla”. Il caso più eclatante, nonché probabilmente più noto, è la vicenda di Tamar, che sta tra l’altro all’origine del re David e, conseguentemente, entra nella genealogia di Gesù14. I fatti che riguardano Tamar sono narrati in Gen 38, un racconto incastonato entro quello di Giuseppe venduto dai fratelli. Uno di essi, Giuda, dopo la vendita di Giuseppe ai Madianiti si separò dagli altri e «si stabilì presso un uomo di Adullam, di nome Chira» (Gen 38,1). Da una donna cananea, di nome Sua, ebbe tre figli: Er, Onan, Sela. «Giuda scelse per il suo primogenito Er una moglie, che si chiamava Tamar» (38,6). Ora accadde che Er «primogenito di Giuda, si rese odioso agli occhi del Signore, e il Signore lo fece morire. Allora Giuda disse a Onan: “Va’ con la moglie di tuo fratello, compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità a tuo fratello”. Ma Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva il seme per terra, per non dare un discendente al fratello. Ciò che egli faceva era male agli occhi del Signore, il quale fece morire anche lui. Allora Giuda disse alla nuora Tamar: “Ritorna a casa da tuo padre, come vedova, fin quando il mio figlio Sela sarà cresciuto”. Perché pensava: “Che non muoia anche questo come i suoi fratelli!”. Così Tamar se ne andò e ritornò alla casa di suo padre» (38,7-11). Giuda evidentemente non ha alcuna intenzione di osservare la legge del levirato temendo per la vita del suo terzogenito. Trascorso del tempo Tamar viene a sapere che il suocero si trova a Timna per la tosatura del gregge.
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Cfr. Mt 1,1-17: Tamar è menzionata al v. 3.
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«Allora Tamar si tolse gli abiti vedovili, si coprì con il velo e se lo avvolse intorno, poi si pose a sedere all’ingresso di Enàim, che è sulla strada per Timna. Aveva visto infatti che Sela era ormai cresciuto, ma lei non gli era stata data in moglie. Quando Giuda la vide, la prese per una prostituta, perché essa si era coperta la faccia. Egli si diresse su quella strada verso di lei e disse: “Lascia che io venga con te!”. Non sapeva infatti che era sua nuora. Ella disse: “Che cosa mi darai per venire con me?”. Rispose: “Io ti manderò un capretto del gregge”. Ella riprese: “Mi lasci qualcosa in pegno fin quando non me lo avrai mandato?”. Egli domandò: “Qual è il pegno che devo dare?”. Rispose: “Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano”. Allora Giuda glieli diede e si unì a lei. Ella rimase incinta. Poi si alzò e se ne andò; si tolse il velo e riprese gli abiti vedovili. Giuda mandò il capretto per mezzo del suo amico di Adullàm, per riprendere il pegno dalle mani di quella donna, ma quello non la trovò. Domandò agli uomini di quel luogo: “Dov’è quella prostituta che stava a Enàim, sulla strada?”. Ma risposero: “Qui non c’è stata alcuna prostituta”. Così tornò da Giuda e disse: “Non l’ho trovata; anche gli uomini di quel luogo dicevano: ‘Qui non c’è stata alcuna prostituta’”. Allora Giuda disse: “Si tenga quello che ha! Altrimenti ci esponiamo agli scherni. Ecco: le ho mandato questo capretto, ma tu non l’hai trovata”. Circa tre mesi dopo, fu portata a Giuda questa notizia: “Tamar, tua nuora, si è prostituita e anzi è incinta a causa delle sue prostituzioni”. Giuda disse: “Conducetela fuori e sia bruciata!”. Mentre veniva condotta fuori, ella mandò a dire al suocero: “Io sono incinta dell’uomo a cui appartengono questi oggetti”. E aggiunse: “Per favore, verifica di chi siano questo sigillo, questi cordoni e questo bastone”. Giuda li riconobbe e disse: “Lei è più giusta di me: infatti, io non l’ho data a mio figlio Sela”. E non ebbe più rapporti con lei» (Gen 38,14-26).
«Lei è più giusta di me»: Giuda riconosce che Tamar è “giusta” e non lui, perché trasgredendo la legge (Lv 18,15 proibisce i rapporti tra nuora e suocero perché incestuosi) in realtà l’ha adempiuta. Il testo di Genesi, infatti, considera legittimo l’inganno messo in opera da Tamar per sedurre il suocero per riparare alla promessa non mantenuta di Giuda di consentirle di avere una discendenza. «La storia le permette di prendere in mano la situazione e di violare le norme sessuali»15. La storia di Tamar si ricollega a quella di Rut, dal punto di vista storico e per motivi ideologici, la legittimazione della dinastia davidica di fronte ai popoli sottomessi, ma contiene anche un profondo
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D. BIALE, L’eros nell’ebraismo. Dai tempi biblici ai nostri giorni, Firenze 2003, 40.
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significato teologico. L’affinità dei due racconti è data da alcuni tratti rilevanti nell’economia della narrazione. Ambedue i racconti iniziano con la morte di due fratelli e rinviano alla legge del levirato (Dt 25,510), in base alla quale il fratello o, in assenza di fratelli, il parente più prossimo del defunto (come nel caso di Rut) doveva sposare la vedova per assicurargli una discendenza. In ambedue i casi le vedove devono escogitare uno stratagemma perché ciò accada, in quanto il levir16 non vuole ottemperarvi. Lo stratagemma in questione si spinge fino a comportare una trasgressione sessuale. È stato osservato che la stessa legge del levirato è di fatto una violazione dei limiti sessuali imposti dalla Torah. Levitico 18,16 e 20,21 contengono la proibizione dell’incesto includendovi i rapporti tra cognati e tra suoceri e nuore. «Il levirato e le leggi sull’incesto sembrano pertanto essere consapevolmente immagini speculari l’uno delle altre: come l’usanza del levirato entrava in vigore soltanto se il fratello defunto era senza figli, così i rapporti sessuali con la moglie di quel fratello in vita causavano la sterilità del trasgressore. Nel primo caso la pratica del levirato sospende le normali leggi sull’incesto, la violazione della legge sull’incesto genera l’interruzione della discendenza del trasgressore»17. Vi è anche un diretto legame letterario, perché alla fine del racconto al lettore si svela che Booz discende da Fares, figlio di Giuda e della nuora Tamar. A sua volta, Rut la moabita discende da Moab, frutto dell’incesto tra Lot e la sua figlia maggiore. «Le due storie gettano delle lunghe ombre sulla legittimità della storia di David, sia da un punto di vista strettamente legale che da un più ampio punto di vista culturale. Nessuna delle due narrazioni viene, tuttavia, presentata come una polemica di una apologia, il che indica che l’intento era quello di enfatizzare il sovvertimento piuttosto che nasconderlo»18. Queste ed altre trasgressioni, che ricorrono nelle Scritture ebraiche, hanno il paradossale scopo di attuare «la Legge […] attraverso Il parente che sostituisce il defunto. D. BIALE, L’eros nell’ebraismo, cit., 40. 18 Ibid., 41. 16 17
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la disobbedienza e il tradimento»19. È un fatto che la Bibbia evidenzi che dall’unione di due stirpi “trasgressive”, attraverso Giuda e Tamar, Booz e Rut discenderà il re David20 e dalla casa di David sorgerà il Messia. Vi è perciò qualcosa di più della semplice osservanza legale della Torah. Su questo sfondo storico-teologico che determina l’autocoscienza di Israele si collocano gli avvenimenti che accadono con la dominazione romana della Palestina. I dominatori romani praticavano quello che oggi chiameremmo uno stupro etnico. Questa pratica di violenza dei dominatori romani fu anche l’occasione per screditare i cristiani da parte di una importante tradizione rabbinica coeva alle comunità cristiane delle origini. Gesù era un “bastardo” nato dalla violenza subita da Maria da parte di un legionario romano. Non mi soffermo su questo21 per richiamare, invece, una più recente valutazione da parte ebraica dei fatti che li sottrae dalla sfera della polemica giudaica anticristiana delle origini, aprendo un orizzonte di comprensione interessante per una rilettura “cristiana” di quegli avvenimenti. Innanzi tutto, viene sottolineato che la pratica degli stupri etnici perpetrata dalle legioni romane in Palestina portò al cambiamento della patrilinearità con la matrilinearità. Ora si attendeva un Messia che non “redimesse” Israele dal dominio straniero con la riacquistata autonomia, «ma si voleva soprattutto qualcuno che potesse riscattare il padre – cioè la nazione – senza seme. Questo a motivo dello stupro delle donne ebree da parte dei soldati romani. […] Era necessario creare una nuova concezione che preservasse la discendenza di Israele. Non si trattava della mancanza di figli per un padre, ma di figli senza paternità. Qualcuno doveva assumere la paternità di questi figli che, a differenza dei bastardi, costituissero la speranza di trasformare una situazione di tragedia in un miracolo. Spettava a Dio – e a nessun altro che non fosse il Creatore, il padre di tutti – assumere questa paternità»22. N. BONDER, L’anima immorale. Tradimento e tradizione attraverso il tempo, Troina 2003, 90. Per non parlare della discendenza di David! 21 Rinvio ancora a J.P. MEIER, Un ebreo marginale, cit., 210-238. 22 N. Bonder, L’anima immorale, cit., 93. 19 20
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Solo in questo modo si poteva garantire la continuazione della genealogia del Messia, sulla scia di Tamar e Rut. Scrive il rabbino Nilton Bonder di Maria: «[Miriam] al contrario delle sue antenate, era totalmente protetta dalla trasgressione poiché l’immacolata concezione nascondeva un fatto curioso: il padre di Gesù è il Padre di tutti. E quindi, era padre anche di Miriam e lei diede alla luce un vero discendente di Moab – di mio padre –, come aveva fatto la figlia di Lot, la prima della genealogia del Messia»23. Lo stesso autore ritiene che «non è una mera coincidenza il fatto che Gesù sia nato durante la festa delle luci, ad hannukah, in pieno solstizio d’inverno. La notte più oscura dell’anno produce la festa della speranza, la festa in cui si accendono le luci in mezzo all’oscurità. Questa luce non è reale, ma è una creazione della speranza umana e, in certa misura, la trasgressione della condizione naturale della notte. Rappresenta, soprattutto, la possibilità che dalle tenebre, dalla profanazione, sorga la luce che condurrà alla primavera e anche al sacro. […] Il giorno più lungo dell’anno non produce l’effetto di speranza che la notte più lunga dell’anno può produrre. Questa è la prospettiva del potere marginale presente nella cultura ebraica: il più piccolo, il più debole, colui che più ha sperimentato i rigori della vita e dell’ingiustizia, questi è in realtà il superuomo»24. Ai piccoli e, quindi, a coloro che appaiono deboli agli occhi dei forti si rivela la salvezza: «In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”» (Lc 10,21); «Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo (μικρότερος) nel regno di Dio è più grande di lui» (Lc 7,28)25; «Chi infatti è il più piccolo (μικρότερος) fra tutti voi, questi è grande» (Lc 9,48). 23 Ibid., 94; l’autore qui fonda evidentemente la sua argomentazione su una errata interpretazione del dogma cattolico dell’«immacolata concezione», confondendolo con il concepimento verginale di Maria. Ciò non fa venir meno il senso della sua interpretazione. L’inizio della genealogia non si riferisce evidentemente alla genealogia di Gesù, riconosciuto dai suoi seguaci come il Messia, ma al messia atteso da Israele. Matteo inizia la genealogia di Gesù da Abramo. Diversa la prospettiva di Luca, che per via patrilineare risale fino ad Adamo. 24 Ibid., 94-95.
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In questo contesto la “trasgressione” di Giuseppe è conseguenza del suo essere “giusto”. Si assume la responsabilità della paternità, inserendo Gesù nella discendenza davidica e legittimandolo come Messia26. È “giusto” nella prospettiva paolina: è nella giusta posizione dinanzi a Dio e, conseguentemente, nella giusta posizione dinanzi agli uomini27. La sua figura, così poco valutata nella prima tradizione cristiana, ne esce rafforzata. Egli agisce “di nascosto” non per paura, bensì spinto dal coraggio del “giusto” che assume fino in fondo il progetto di Dio e lo vive nella debolezza e piccolezza della quotidianità. Giuseppe appartiene a quei “piccoli” del regno di Dio di cui parla Gesù. Un regno che si caratterizza propriamente per esser “nascosto”, sebbene già operante nella storia28. Un cenno all’uso dell’avverbio nel libro degli Atti può essere utile per sottolineare la peculiarità di Matteo e Giovanni: «Ma Paolo disse alle guardie: “Ci hanno percosso in pubblico (δημοσίᾳ) e senza processo, sebbene siamo cittadini romani, e ci hanno gettati in prigione; e ora ci fanno uscire di nascosto (λάθρᾳ)? No davvero! Vengano di persona a condurci fuori!”» (At 16,37).
Qui λάθρᾳ è opposto di δημοσίᾳ e si ha l’impressione che l’accento è posto soprattutto su δημοσίᾳ perché la protesta di Paolo è diretta precisamente a correggere questa pubblicità. L’arresto ingiusto, 25 ⸀λέγω ὑμῖν, μείζων ἐν γεννητοῖς γυναικῶν ⸀Ἰωάννου οὐδείς ἐστιν· ὁ δὲ μικρότερος ἐν τῇ βασιλείᾳ τοῦ θεοῦ μείζων αὐτοῦ ἐστιν. 26 Su questo ruolo di Giuseppe c’è un sostanziale accordo tra i commentatori cattolici anche di diversa impostazione esegetica, cfr. a solo titolo di esempio R. Fabris, Gesù il “Nazareno”, Assisi 2011, 190-196; J.P. MEIER, Un ebreo marginale, cit., 212, n. 48; J. RATZINGER-BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano 2012, 51. 27 «Dopo la scoperta che Giuseppe ha fatto [della gravidanza di Maria] si tratta di interpretare ed applicare la legge in modo giusto. Egli lo fa con amore: non vuole esporre Maria pubblicamente all’ignominia. Non incarna quella forma di legalità esteriorizzata che Gesù denuncia in Matteo 23 e contro la quale lotta Paolo. Egli vive la legge come vangelo, cerca la via dell’unità tra diritto e amore. E così è interamente preparato al messaggio nuovo, inatteso e umanamente incredibile, che gli verrà da Dio» (J. RATZINGER-BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, cit., 51). 28 «Il regno di Dio viene secondo la stessa modalità dell’agire di Dio: per lo più silenziosamente e sempre in incognito; potremmo anche dire: con una rivoluzione “silenziosa”, di cui molti neanche si rendono conto. Dio non viola la libertà dell’uomo. Del resto Gesù mostra di esserne consapevole: parla, infatti, della nascita silenziosa e impercettibile del seme (Mc 4,26-29)» (G. LOHFINK, Alla fine il nulla? Sulla risurrezione e sulla vita eterna, Brescia 2020, 112).
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perché senza processo andando così contro il diritto romano, è avvenuto pubblicamente dinanzi alla folla, quindi per ripararvi non si può lasciar cadere la cosa, liberandoli “di nascosto”, così che nessuno veda e in qualche modo sia “salva la faccia” dei magistrati. Paolo e Sila furono umiliati in pubblico, in pubblico dovrebbero essere riabilitati. Così non è, λάθρᾳ ha dunque una connotazione chiaramente negativa, riferendosi ad una azione che reclama invece il suo opposto. L’atteggiamento di Paolo non è quello che i magistrati si aspettavano e perciò li coglie di sorpresa. L’intento dell’apostolo non è quello di mettere a tacere il “caso” ma di renderlo pubblico, come pubblica ne fu l’occasione. L’avverbio allora denota un atteggiamento sbagliato per mettere in luce esattamente il suo contrario29. Se consideriamo l’uso complessivo dell’avverbio dovremmo concludere che il contesto ne determina il significato. Ritorna allora la domanda del perché Marta “di nascosto” avverte Maria. Solo per l’ostilità di alcuni verso Gesù? O sono possibili altre possibili spiegazioni? L’USO IN GIOVANNI
Seguirò un percorso analogo a quello fatto per Matteo, in considerazione del retroterra giudaico di Giovanni30. Come ho anticipato 29 Cfr. J. RIUS-CAMPS - J. READ-HEIMERDINGER, El mensaje de los Hechos de los Apostoles en el Codice Beza. Una comparacion con la tradicion alejandrina. Tomo II: De Antioquia a los confines de la tierra, Estella 2010, 320 (or.: The Message of Acts in Codex Beza. A Conparison with the Alexandrine Traditio, 2007). 30 Sono noti i maggiori studi sulle relazioni del Quarto Vangelo con l’ambiente giudaico, quello gnostico e quello ellenistico, oltre naturalmente con gli altri scritti neotestamentari. Non è mia intenzione entrare in queste complesse questioni, solamente accolgo i risultati delle ricerche che mostrano come Giovanni si radichi nel cristianesimo di radice giudaica: «La religione biblica è stata il terreno sul quale è cresciuto il cristianesimo, anche quello giovanneo, e non vi sono giustificazioni sufficienti per cercare altrove il contesto del vangelo, in particolare se si considera il vangelo stesso e la nostra conoscenza del giudaismo ad esso contemporaneo» (D. MOODY SMITH, La teologia del Vangelo di Giovanni, Brescia 1991, 78); cfr. pure l’ampia Introduzione in R.F. Brown, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, cit.; lo afferma anche con una immagine suggestiva Chouraqui: «Il genio di Giovanni consiste giustamente nell’usare il greco per esprimere il mistero di una visione ebraica. Vi è riuscito creando una lingua nuova, una sorta di ebraico-greco dove il cielo ebraico si riflette in uno specchio ellenistico» (André
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introducendo queste considerazioni, tento una interpretazione teologica del testo finale così come la comunità cristiana lo recepisce. A questo proposito vorrei notare che l’esegeta americano John P. Meier, applicando i suoi criteri per delineare il profilo del Gesù storico e distinguere la tradizione della redazione di Giovanni 11, ritiene plausibile sostenere che l’evangelista abbia utilizzato la figura di Marta «come portavoce di determinate prospettive teologiche e che i suoi [di Marta] incontri con Gesù (vv. 21-27 e vv. 39-40) sono creazioni dello stesso evangelista» e giunge alla conclusione che «si apre la possibilità che la presenza stessa della donna [Marta] nel racconto sia un elemento secondario»31. In altri termini, abbiamo qui una conclusione paradossale, vale a dire che proprio la centralità della figura di Marta in Gv 11 deporrebbe per il suo inserimento redazionale e che il testo originario avrebbe contemplato la sola figura di Maria e suo fratello Lazzaro. Meier nota infatti che «Maria è menzionata prima di Marta al v. 1 (dove di Marta si parla come di “sua sorella”) e l’intero racconto termina con la strana formulazione del v. 45: “Perciò molti dei giudei che erano venuti da Maria e avevano visto quello che egli [Gesù] aveva fatto, credettero in lui”»32. La centralità di Marta nel testo che noi leggiamo esprimerebbe, dunque, la teologia dell’evangelista, precisamente ciò che a me interessa indagare. Chouraqui, Le Nouveau Testament, traduit e présénte par André Chouraqui, Turnhout 1984, 210). La discussione sulle influenze gnostiche è ancora aperta; a mio giudizio però una possibile influenza della gnosi, intesa come movimento spirituale dai tratti propri, non è facilmente dimostrabile, né semplicemente contestabile, a motivo dell’ampiezza del fenomeno e della datazione delle fonti disponibili. Per un primo approccio allo gnosticismo, cfr. G. FILORAMO, L’attesa della fine. Storia della gnosi, Bari 1987 (in particolare il cap. 1 offre una puntuale ricognizione della storia del ritrovamento all’inizio del Novecento delle fonti originali a Nag Hammadi, vicino all’antica Chenoboskion). 31 J.P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, 2. Mentore, messaggio e miracoli, Brescia 20124, 917. 32 Ibid., 917; questo autore considera Gv 11,21-27 «uno dei capolavori teologici del quarto vangelo e questo tanto più in quanto si tratta di un capolavoro teologico in miniatura». A proposito del primato di Marta o di Maria, è interessante notare che un apocrifo arabo di Giovanni, il cui testo originale risale al IX secolo, risolve la questione, mettendole sullo stesso piano: «Mentre essi [Gesù e i suoi discepoli, dopo il battesimo di Gesù] tenevano questo discorso [sulla morte di Lazzaro], uscirono di casa le sorelle di Al-Azar, Maria e Marta, piangendo, per venire incontro a Cristo. E gli dissero: “Nostro fratello è morto. Se tu fossi stato con noi non sarebbe morto”. Rispose Gesù: “Io sono la risurrezione, io sono la vita, e colui che crede in me non morirà; anche se sarà morto, è vivo. Credete in questo?” Maria e Marta risposero: “Crediamo, Signore nostro, che tu sei il Cristo figlio del Dio vivo, eterno, e lo stesso redentore del mondo”» (trad. italiana in L.MORALDI, Vangelo arabo apocrifo dell’apostolo Giovanni. Da un manoscritto della biblioteca Ambrosiana, Milano 1992, 125).
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In Matteo e Atti l’avverbio rimanda a situazioni concrete (la decisone di “rinviare” Maria; la paura che Erode ha del bambino; la volontà di Paolo di rendere pubblica l’ingiustizia subita), in Giovanni rinvia a ciò che Marta dice alla sorella. La domanda iniziale resta perché Marta parla a Maria di nascosto, ma bisogna anche considerare cosa Marta ha detto: «Il Maestro è qui e ti chiama (Ὁ διδάσκαλος πάρεστιν καὶ φωνεῖ σε)». In realtà nei versetti precedenti non si dice che Gesù abbia chiamato Maria, si deve supporre33. In ogni caso le parole di Marta manifestano il desiderio di Gesù di incontrare Maria. La domanda, allora, è perché Marta comunica «di nascosto» a Maria che Gesù la «chiama»? Il verbo φωνέω non ha lo stesso peso teologico del verbo “seguire”. Tuttavia, nello stesso Giovanni nel contesto che precede l’episodio della morte/risurrezione di Lazzaro, si riportano le parole di Gesù, che ci dicono qualcosa di più: «Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori» (10,3). Le pecore riconoscono la voce e seguono il pastore. Il chiamare dunque rinvia ad una relazione profonda tra il “pastore” e le “pecore” e d’altronde «quella [Maria], udito ciò, si alzò in fretta e andò da lui» (v. 29). Maria non ode direttamente la voce di Gesù, ma per il tramite di Marta, tuttavia «in fretta si alzò» per andare da lui. Si può pensare ad un ruolo di mediazione di Marta messo in evidenza proprio dall’avverbio: l’invito ad andare incontro a Gesù non è iniziativa di Marta, ma dello stesso Gesù. Altro particolare significativo che orienta in questo senso è l’appellativo usato da Marta per indicare Gesù, διδάσκαλος-“maestro”. Nel dialogo tra Gesù e Marta riportato in Gv 11, Gesù è sempre chiamato Κύριoς-“Signore”. Ambedue i titoli sono rivolti a Gesù, come lui stesso ricorda ai suoi: «ὑμεῖς φωνεῖτέ με Ὁ διδάσκαλος καὶ Ὁ κύριος, καὶ καλῶς λέγετε, εἰμὶ γάρ (“Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono”)» (Gv 13,13). Gesù è chiamato Κύριoς dalla Samaritana (Gv 4,11.15.19), dal funzionario del re che gli chiede la guarigione del figlio (Gv 4,49) e 33 Il fatto che il desiderio di Gesù di incontrare Maria non sia espresso con un discorso diretto nella narrazione stride con il verbo φωνέω che contiene l’idea di chiamare ad alta voce.
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dal malato della piscina di Betzaida (Gv 5,7). La folla desiderosa di pane a buon mercato e poi anche Pietro in quel medesimo contesto si rivolgeranno a Lui chiamandolo Κύριoς (6,34.68; per Pietro vedi anche 21,15-21), come d’altronde gli altri discepoli, per esempio Tommaso (14,5; 20,28), Filippo (14,8), Giuda Taddeo (14,22), altri «discepoli» (20,20.25), il discepolo «che Gesù amava» (21,7). Pure la donna adultera di Gv 8,11 si rivolge a lui chiamandolo Κύριoς, ma nel contesto polemico che ne segue gli scribi e i farisei lo interrogano come διδάσκαλος. Ambedue i titoli sono utilizzati da Maria di Magdala quando lo incontra come Risorto (Signore in 20,2.13.18 e Rabbunì in 20,16). In definitiva, quando a Gesù è richiesto un “segno” (in genere di guarigione) o quando si è in un contesto di “professione di fede”, egli è il Signore. In contesti di insegnamento, ovviamente, o di polemica è il “Maestro” (Rabbi/didaskalos). Ora, Marta rivolgendosi direttamente a Gesù lo chiama «Signore»; quando parla di lui a Maria lo chiama «Maestro». È solo un segno di deferenza? Può essere, ma non solo; lo chiama Signore nella sua professione di fede, quando lo riconosce come Messia, lo chiama Maestro rivolgendosi a Maria che «stava seduta in casa» (⸀Μαρία δὲ ἐν τῷ οἴκῳ ἐκαθέζετο [«Maria invece stava seduta in casa»]: Gv 11,20). Questa espressione è un semitismo per dire che Maria era rimasta a casa. Tuttavia, alcune considerazioni possono nascere se si tiene conto del fatto che nella tradizione lucana si dice che «mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola (⸀Μαριάμ, ἣ καὶ ⸂παρακαθεσθεῖσα πρὸς⸃ τοὺς πόδας τοῦ ⸀Ἰησοῦ ἤκουεν τὸν λόγον αὐτοῦ)» (Lc 10,38-39). Luca presenta Marta come la donna che “ospita” e serve, Maria come la donna che “ascolta”; quest’ultima rappresenta il “tipo” del discepolo che ascolta l’insegnamento del maestro. In Gv 11 Marta si fa portavoce del maestro che chiama, è colei che introduce il/la discepolo/a presso il Maestro. Lo fa di nascosto, o come traduce Brown “bisbigliando”, perché non è lei che chiama, è solo la portavoce del Maestro.
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L’incongruenza letteraria tra il dire “di nascosto” (λάθρᾳ) e l’essere chiamati “a voce alta” (φωνεῖ σε) richiama quell’altra che troviamo in un testo molto noto di 1 Re 19. Il profeta Elia per sfuggire alle cattive intenzioni di Gezabele si rifugia sul monte Oreb dove ha una manifestazione di Dio descritta nei vv. 11-12: «Gli disse: “Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore”. Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera [qol demama daqqa; i LXX traducono φωνὴ αὔρας λεπτῆς]». La traduzione letterale del testo ebraico è: una voce di silenzio (demama) sottile. Evidentemente per sciogliere la contraddizione di una “voce di silenzio sottile” la versione greca dei LXX traduce demama (silenzio) con “brezza” dando così un senso alla frase che diversamente sarebbe difficilmente comprensibile, essendo demama l’esatto contrario di qol (voce, grido). Così pure la versione italiana della Cei 2008 e in genere le versioni moderne della Bibbia34. È arbitrario pensare che Gv 11,28 sia un versetto teofanico? Non lo suggerirebbe questo parallelismo tra 1 Re 19,12 e Gv 11,28: qol (voce, grido) // foné (voce, grido) - demama (silenzio) // lathra (di nascosto, in segreto)? Inoltre, l’alternarsi di Kyrios e Didaskalos non potrebbe confermarlo? “Signore” e “Maestro” sono due titoli di Gesù che nella nostra pericope si riferiscono a due aspetti importanti della prassi di Gesù: i segni, come annuncio del Regno che Lui ha inaugurato, e l’insegnamento il cui contenuto apre i discepoli alla conoscenza, non come dato intellettuale ma vitale, come suggerisce il dialogo tra Gesù e i discepoli dei vv. 7-16. Di questo dialogo dal contenuto teologico ricchissimo evidenzio solo la metafora dell’opposizione luce-tenebre. Sappiamo che la metafora luce-tenebre riveste un ruolo non secondario nel Quarto Vangelo, è presente infatti fin dal Prologo e cul34 Una perspicace analisi della formula qol demama daqqa e la sua interpretazione nel contesto dell’esperienza “mistica” di Elia è in M. MASSON, Elia l’appello del silenzio, Bologna 1993, 13-24.
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mina nel cap. 12. In Gv 11 ve ne è un’eco significativa perché il contesto del capitolo, che rappresenta il vertice della predicazione pubblica di Gesù, ha il suo centro nel rapporto tra fede e vita, spiegato con l’uso della metafora dell’opposizione tra luce (vita) e tenebre (morte). Nella morte di Lazzaro è rappresentata la condizione del credente che vive nelle tenebre (morte) perché non ancora illuminato dalla luce (vita) che è Gesù. Nel Prologo si dice che «in lui [il Lògos] era la vita (ἐν αὐτῷ ζωὴ ἦν) e la vita era la luce degli uomini (καὶ ἡ ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων)» (1,4). Il Lògos è la luce degli uomini. L’evangelista pone sulla stessa bocca di Gesù l’affermazione di essere la luce del mondo: «Io sono la luce del mondo (Ἐγώ εἰμι τὸ φῶς τοῦ κόσμου) …» (8,12). Il discorso di Gesù è introdotto dall’avverbio πάλιν, a conclusione dell’incontro con l’adultera, «… chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12). Seguendo Gesù, l’adultera esce dalle tenebre e cammina nella luce, fa l’esperienza della misericordia (la luce) per non peccare più (le tenebre). Nel colloquio con Nicodemo Gesù lo aveva chiarito: «Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengono riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (3,20-21). Gesù è venuto nel mondo come luce, perché chi crede in lui non rimanga nelle tenebre (cfr. 12,46). Seguire Gesù è camminare «nella luce del giorno» (11,9); fuori di metafora, la sequela implica scegliere il bene e rifiutare il male. L’interpretazione di Gv 11 nella prospettiva della conoscenza che illumina è ben attestata in alcune correnti della tradizione spirituale dell’antico Oriente cristiano, ove la metafora della luce è utilizzata sia in un orizzonte mistico sia in quello etico. Così Giovanni di Carpato (o Carpazio)35 in uno scritto rivolto a monaci dell’India afferma che «la luce, con il suo crescere e poi di nuovo decrescere, ci mostra la struttura dell’uomo che ora fa il bene, ora pecca: poi, mediante la penitenza, riprende la corsa verso la vita virtuosa. Dunque, 35
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Monaco e poi vescovo di Karpathos, vissuto secondo la notizia di alcuni codici tra il V e il VII
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l’intelletto di chi è caduto non è perduto, come ritiene qualcuno presso di voi: proprio come non è il corpo della luce che decresce, ma la luce. L’uomo riacquista di nuovo la propria luminosità mediante la penitenza, come la luna, dopo il decrescere da sé si riveste della luce. Chi infatti crede in Cristo, anche se muore vivrà (Gv 11,26), e saprà – è detto – che, io il Signore, ho parlato e farò»36. Niceta Studita, discepolo di Simeone il Nuovo Teologo, interpreta Gv 11 in chiave simbolica e nella prospettiva di una gnosi teologica: «Quando il Verbo di Dio viene come nella città di Betania nell’anima caduta, per risuscitare l’intelletto morto per il peccato e sepolto nella corruzione delle passioni, allora gli vanno incontro la prudenza e la giustizia, come donne immerse nell’afflizione spirituale per la morte dell’intelletto, che fanno lamento e dicono: Se tu fossi stato qui con noi a proteggerci e a custodirci, il nostro fratello intelletto non sarebbe morto per il peccato. Quindi la giustizia si affretta a nutrire il Verbo con molte cure e operosità di virtù, e si dà un gran da fare per porgli davanti una mensa variata e molteplice di patimenti. La prudenza, invece, senza fare alcun conto di ogni altra preoccupazione e dei penosi patimenti, sceglie di sedersi e disporsi all’attività spirituale attenta ai movimenti del Verbo e all’ascolto dei concetti della sua contemplazione»37. Questa interpretazione simbolica potrebbe essere intesa come una conferma dell’opinione che vede una influenza gnostica su Giovanni38. 36 GIOVANNI CARPAZIO, Ai monaci dell’India, in La filocalia, I, a cura di Nicodimo Aghiorita e Macario di Corinto, Traduzione, Introduzione e note di M. Benedetta Artioli e M. Francesca Lovato, Torino 1982, 401. 37 NICETA STUDITA, Seconda centuria. Capitoli naturali, in La filocalia, III, a cura di Nicodimo Aghiorita e Macario di Corinto, Traduzione, Introduzione e note di M. Benedetta Artioli e M. Francesca Lovato, Torino 1985, 456. Il suo maestro Simeone il Nuovo Teologo (tra il 949 e il 1022 c.) nelle sue Catechesi, afferma che gli uomini sono come lampade che non servono a illuminare la notte se sono spente, tuttavia non si possono accendere da se stesse, ma dall’esterno; hanno bisogno di partecipare della luce divina (cfr. Catechesi, Roma, 472). Il tema del Verbo vivificante si trova attestato nella tradizione patristica, si veda per esempio CIRILLO DI ALESSANDRIA, Explanatio in Epistolam II ad Corinthios, V, 5: «infatti brillando a noi il Monogenito, siamo trasformati nel Lògos stesso che tutto vivifica / γάρ ήμίν τοΰ Μονογενούς, μετεστοιχειώμεθα πρoς τoν τά πάντα ζωοποιούντα Αόγον» (PG 74, 941). 38 Come è noto agli studiosi, un esponente di rilievo di tale convinzione è stato, negli anni Cinquanta del Novecento, R. BULTMANN, Das Evangelium des Johannes, Göttingen 196810; il retroterra gnostico, a giudizio di Bultmann, giustificherebbe alcune somiglianze tra Paolo e Giovanni (Teologia del Nuovo Testamento, tr. it., Brescia 1985, 340, ed. orig. ted. 1953).
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La critica più recente l’ha messa in discussione, ribadendo la collocazione storica del Quarto Vangelo nel giudaismo antico e nel cristianesimo primitivo. L’interpretazione simbolica non si sostituisce, ovviamente, all’analisi storico-critica, anzi la dovrebbe supporre considerandola sempre un punto di partenza imprescindibile. Non c’è simbolo senza un sostrato oggettivo e una realtà storica. Lo stesso simbolo non è che una tappa della comprensione della verità delle cose. Così, nell’interpretazione teologica del testo non basta determinare se Marta e Maria sono figure “storiche” o frutto dell’intervento dell’agiografo. Il testo le presenta come persone concrete, donne con una precisa personalità. Storicità dei personaggi e loro valenza simbolica non si contrappongono. In realtà, ciò che è detto dei/delle discepoli/e storici/che è detto anche per i discepoli attuali. In particolare, nel Vangelo secondo Giovanni il simbolismo è iscritto in un quadro narrativo. Pensiamo ai tanti particolari che lo contraddistinguono: giorni, ore, numeri, luoghi. L’intenzione teologica dell’evangelista utilizza questi particolari, questi dettagli storici. Storicità non significa qui il nudo “dato anagrafico”, ma carattere di concretezza di vita. Cosa ci dicono i tratti della personalità di Marta e Maria? Già i loro nomi, nella loro concretezza, sono simbolici. Maria rinvia ad altre Miryam le cui storie personali sono inserite a titolo unico nella storia della salvezza, dalla sorella di Mosè alla madre di Gesù. L’etimologia più probabile dell’aramaico Mrt rinvia alla radice che significa “signora”, padrona di casa (anche nell’ebraico moderno mr significa “signore”), titolo che le si addice perfettamente indicando il suo essere “donna dell’ospitalità”. I titoli che Marta rivolge a Gesù, «Signore» e «Maestro», rinviano all’aspetto cognitivo della fede: credere in Gesù significa conoscerlo. Non si tratta, però, di una conoscenza di natura puramente intellettuale, ma di una conoscenza che implica una relazione, per questo in Maria avviene un cambiamento all’udire la sorella Marta; da seduta che era, si alza e va dal Maestro «in fretta»39. 39 Su questo atteggiamento di Maria vedi le interessanti annotazioni che si leggono nella parafrasi a Giovanni di Nonno di Panopoli, cfr. A. ROTONDO, Ascoltare, vedere, credere. Itinerarium fidei nella parafrasi di Nonno di Panopoli, Soveria Mannelli 2017, 173-175.
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È Marta che “introduce” Maria all’incontro con Gesù, facendosi sua portavoce. La relazione con il Didaskalos esprime la fede in lui e apre alla conoscenza. Questo tema è ben attestato nell’intera Bibbia e non è perciò semplicemente attribuibile ad un influsso gnostico. A solo titolo di esempio rinvio ai testi di Ger 1,5 e Is 1,3; in Ezechiele il conoscere è un motivo ricorrente. In Giovanni la conoscenza di Dio passa da Gesù40 (cfr. 14,6). Incontrare Gesù e conoscerlo sono due momenti della stessa esperienza di fede. Il rapporto tra conoscere e credere trova la sua concretizzazione nelle figure di Marta e Maria. Marta che, secondo la tradizione del Quarto Vangelo, crede e conosce Gesù può esserne la fedele portavoce assommando in sé i due aspetti che la tradizione lucana ha assegnato distintamente alle due sorelle.
40 «εἰ ἐγνώκειτέ με, καὶ τὸν πατέρα μου ⸂ἂν ᾔδειτε⸃· ⸀ἀπ’ ἄρτι γινώσκετε αὐτὸν καὶ ἑωράκατε ⸀αὐτόν / Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto» (Gv 14,7).
SYNAXIS XXXVIII/2 - 2020 (115-131)
«MARIA ERA RIMASTA PRESSO IL SEPOLCRO, FUORI, PIANGENDO» (GV 20,11) ESEGESI PATRISTICA IN OCCIDENTE E IN ORIENTE (SECC. IV-VI)
FRANCESCO ALEO*
PREMESSA
La sacra Scrittura occupa un posto assolutamente centrale nel cristianesimo antico ed in quanto frutto della rivelazione divina, tutta la Chiesa è chiamata a trarne beneficio. Ad essa veniva riferito e raffrontato ogni atto della vita cristiana sia a livello individuale che comunitario, dalla dottrina, alla disciplina, alla liturgia. Il continuo richiamo alla Scrittura, attraverso la Tradizione – auspice il Concilio Vaticano II – dovrebbe avvenire in ogni tempo ed in ogni luogo, soprattutto nel nostro tempo, nella vita della Chiesa, in forma rinnovata1. Con Scrittura, però, si intende un complesso di scritti eterogenei per argomento, forma, cronologia, a volte non facilmente accessibili, per diversi motivi. Ciò comportava, in antico, parecchie difficoltà per la loro conoscenza da parte dei cristiani, in vista della fruizione e della loro assimilazione, nella loro vita. I testi biblici comportano un lavoro ermeneutico piuttosto complesso, questo faceva sì che la loro comprensione – ieri come oggi – non fosse così evidente per i cristiani e per chi a quei testi volesse accostarsi. I Padri dei primi * Docente di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. A. POLLASTRI - F. COCCHINI, Bibbia e storia nel cristianesimo latino, Roma 1988; E. NORELLI (cur.), La Bibbia nell’antichità cristiana. Da Gesù a Origene, Bologna 1993; S.A. PANIMOLLE, La parola di Dio, anima della Chiesa, in A. BONATO et al., Parola di Dio - S. Scrittura, Tradizione nei Padri dei secoli IV e V, Dizionario di Spiritualità Biblico-Patristica 48, Roma 2008, 9-48. 1
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secoli del cristianesimo intrapresero proprio questo lavoro ermeneutico ovvero l’esegesi, allo scopo di rendere accessibili questi testi alla comunità cristiana e di dar luogo ad una loro interpretazione esplicita e diretta, originando una spiegazione del testo sacro e servendosi di forme o di generi letterari, diversi fra loro, come l’Omilìa, il Sermo, il Lògos, il Commentarium, il Tractatus esegetico, l’Erotapòkrisis, le Quaestiones et responsiones o le Catechesi mistagogiche2. L’esegesi fu anche implicita e indiretta, originando un’interpretazione del testo sacro con lo scopo di trovarne l’applicazione alle varie finalità della vita comunitaria, dal momento che non si trattava solamente di procedere ad una semplice spiegazione al popolo, ma piuttosto, di penetrarne il significato ed il valore3. In questo caso, veniva in aiuto dei Padri la retorica con la sua tecnica raffinata ed il suo registro comunicativo collaudato che consentiva di rinvenire non soltanto il senso della lettera della Scrittura ma di permetterne la fruizione e di farne comprendere il valore al popolo, poiché la finalità retorica spesso si congiungeva allo scopo di impartire un insegnamento morale. INTRODUZIONE: ESEGESI ALESSANDRINA ED ESEGESI ANTIOCHENA
L’esegesi cristiana, sorta e praticata ad Alessandria, intorno al III secolo, è stata definita allegorica. Il termine greco allegorìa significa «dire una cosa per un’altra», vale a dire che un significato che appare evidente ne nasconde, in realtà, uno diverso e recondito. Più precisa2 Tractatus indica principalmente l’insegnamento orale, il sermone, l’omelia, la predica esegetica che fa seguito alla lettura di un testo biblico e si rivolge a un pubblico di fedeli, ma può designare talora anche il commento scritto a passi della sacra Scrittura, vedi G. BARDY, Tractare, Tractatus, in Recherches de Sciences Religieuses 33 (1946) 211-235; D. RUIZ, La homilìa como forma de predicaciòn, in Helmantica 7 (1956) 79-111; C. MOHRMANN, Praedicare-Tractare-Sermo. Essai sur la terminologie de la prédication paléochrétienne, in Études sur le latin des chrétiens 2 (70-71), Roma 1961, 63-72; V. LOI, La predicazione liturgico-didattica in età patristica, in Rivista Liturgica 57 (1972) 632-640; L.E. ROSSI, I generi letterari nella patristica, in Augustinianum 14 (1974) 381-699; P.C. BORI, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Bologna 1987; L. PERRONE, Iniziazione alla Bibbia nella letteratura patristica, in Cristianesimo nella Storia 12 (1991) 1-27; A. OLIVAR, La predicaciòn cristiana antigua, Barcelona 1991; R. GREGOIRE, Sermo, in Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, 2, Casale Monferrato 1983, 3157-3163. 3 M. SIMONETTI, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Introduzione, Roma 1985, 9-10.
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mente, l’allegorìa era un procedimento ermeneutico dell’Ellenismo (III-II secc. a.C.) quando non si credeva più agli antichi miti e si dava un significato filosofico – in particolare etico – alle persone ed ai fatti della mitologia greca. Applicata dai Greci ai testi dell’Iliade e dell’Odissea, la Bibbia dei pagani4, l’esegesi allegorica ebbe una grandissima fortuna, per tutto il cristianesimo antico e nel Medioevo, ma insieme alle tesi origeniane fu condannata, intorno alla metà del VI secolo, con l’origenismo. Fondatore e principale maestro della scuola esegetica alessandrina fu Origene d’Alessandria (185-253/254), di cui ci parla il Libro VI dell’Historia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. Origene, Didàskalos a capo del Didaskaléion, nella prima metà del III secolo, stabilitosi in seguito a Cesarea, dedicò vent’anni della sua vita agli Éxapla, colossale opera sinottica della Bibbia, ad uso degli studiosi, recante su colonne il testo ebraico dell’Antico Testamento5, quello ebraico traslitterato in greco, la versione greca della Settanta6 e quelle greche dei giudei Aquila (Aq), Simmaco (Sym) e Teodozione (Thz)7. Ciò fa comprendere come Origene tenesse ben presente nel suo lavoro ermeneutico ed esegetico la lettera della Scrittura, egli, pertanto, è il primo grande teologo nella storia della Chiesa antica, poiché, quale pensatore e ricercatore della fede, cercò di penetrare i sensi della parola di Dio nel testo scritturistico e di mediare i dogmi cristiani, nella cultura del suo tempo. Sebbene Origene sia stato definito l’allegorista per eccellenza, l’allegorìa non nasce con lui, nota a Filone d’Alessandria e all’apostolo Paolo, il suo impiego da parte dell’Alessandrino è però inusitato. Egli intende l’allegorìa a partire e in funzione delle istanze teologiche ed ecclesiologiche della 4 A.J. DROGE, Homer or Moses? Early Christian interpretations of the history of culture, Tübingen 1989; D. DAWSON, Allegorical Readers and Cultural Revision in Ancient Alexandria, Berkeley 1992; G. AGOSTI, Interpretazione omerica e creazione poetica nella Tarda Antichità, in A. KOLDE - A. LUKINOVIC, Koruphaio andrì. Mélanges, Genève 2005, 19-32; ID., Cristianizzazione della poesia greca e dialogo interculturale, in Cristianesimo nella Storia XXX (2009) 2, 313-335: 331. M. NIEHOFF, Jewish Exegesis and Homeric Scholarship in Alexandria, Cambridge - New York 2011; ID. et al., Homer and the Bible in the Eyes of Ancient Interpreters, Leiden-Boston, MA 2012 (Jerusalem Studies in Religion and Culture 16). 5 D’ora in poi, AT. 6 D’ora in poi, LXX. 7 A. GRAFTON - M. WILLIAMS, Come il Cristianesimo ha trasformato il libro, Roma 2011, 89132.
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sua opera, essa sarebbe così una metafora da scoprire nella Lettera, attraverso l’«ascesi della Scrittura», allo scopo di fornire, ma soprattutto di scoprire, nel testo scritturistico, un senso cristologico, dunque cristiano. Egli non volle dare delle norme esegetiche codificate, l’unica e vera norma era per lui la predicazione degli apostoli (regula fidei), piuttosto, egli trovò ed elaborò dei procedimenti tecnici da applicare nel suo lavoro ermeneutico e rendere possibile l’esegesi scritturistica. Il primo è quello dell’«utilità» (ophèleia) dell’interpretazione che, investigando i misteri della fede nella Scrittura, deve anche giovare spiritualmente a chi la interpreta. Il secondo è quello dell’anagogìa (anagoghé) da anà, «sopra» e agoghé «condurre», che trae fuori dalla materialità della lettera il senso allegorico – o tipologico (typos) – dei testi biblici, in tal modo, la Scrittura si spiega con la Scrittura. Ad allegorico, Origene spesso preferiva mistico (mystikòs), «nascosto» oppure anagogico, ma anche spirituale (pneumatikòs), i termini riguardano propriamente il senso escatologico, cristiano delle Scritture. Queste, in quanto profetiche, prefigurano il regno di Dio da manifestarsi alla Parousìa. Tre sono i livelli dell’esegesi origeniana: letterale, morale, allegorico. Il senso letterale è il senso materiale; quello morale riguarda i costumi da correggere ed emendare; quello allegorico è il senso nascosto e profondo della Scrittura. Il senso redazionale della storia o il senso teologico che per noi moderni, educati con il metodo storico-critico, è il senso letterale, per Origene è quello allegorico. Così, il cristiano con il corpo, da «semplice» (aploùsteros), accede alla lettera; con l’anima, da «iniziato» (prokoptòn), all’edificazione morale; con lo spirito, da «perfetto» (teléios), al senso allegorico della Scrittura. Origene fece dell’ermeneutica biblica una vera e propria scienza, condizionando tutta l’esegesi patristica successiva, compresa quella dei suoi avversari, esponenti della scuola antiochena. I continuatori dell’allegorìa si allontanarono dai presupposti e dai procedimenti tecnici origeniani e si concessero licenze interpretative tali da screditare l’esegesi alessandrina. La reazione a quest’ultima fu l’esegesi antiochena, per la quale il vero senso della Scrittura era quello letterale dell’agiografo, nel contesto storico (historìa) in cui testi biblici furono da lui redatti. Gli antiocheni ammettevano come profetici solo alcuni testi scrittu-
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ristici per i quali negavano la presenza di un senso allegorico, piuttosto, vi riconoscevano la «contemplazione» o theorìa. Questi erano solo quei brani dell’Antico Testamento e i Salmi (Salterio), interpretati o reinterpretati in senso messianico ed escatologico, nel Nuovo Testamento8. Principale rappresentante dell’esegesi antiochena e suo fondatore fu Diodoro di Tarso (primo quarto IV sec. - prima del 392)9. Secondo Manlio Simonetti, sarebbe improprio parlare di una scuola antiochena, a differenza di Alessandria, dove esisteva una istituzione o struttura di scuola quale il Didaskaléion – a somiglianza del celebre Mousàion dei Toloméi – incrementato ed organizzato da Origene. Si deve quindi pensare ad un gruppo di esegeti e teologi, radunati ad Antiochia, fra i quali Diodoro, Giovanni Crisostomo (349 c. - 407) e Teodoro di Mopsuestia (350-428)10, suoi discepoli. Eusebio di Cesarea (prima del 264/265-339/340) è ispiratore se non importante iniziatore dell’esegesi di Diodoro e della scuola antiochena, ma è innegabile il suo debito nei confronti di Origene11. La scuola antiochena si sviluppò ad Antiochia tra la seconda metà del III e la prima metà del IV secolo, oltre a reagire agli eccessi dell’allegorési, raccoglieva le tendenze antiallegorizzanti dell’esegesi giudaica e rabbinica12. Diodoro, per esempio, integrava il testo della LXX con le versioni giudaiche in greco della Bibbia, ricorrendo alla lingua D’ora in poi, NT. A. VACCARI, La θεωρία nella scuola esegetica di Antiochia, in Biblica 1 (1920) 3-36; ID., La teoria esegetica antiochena, in Biblica 15 (1934) 94-101; P. TERNANT, La θεωρία d’Antioche dans le cadre des sens de l’Écriture, in Biblica 34 (1953) 135-158; 354-383; 456-486; M. SIMONETTI, Sul significato di alcuni termini tecnici nella letteratura esegetica greca, in C. CURTI et al., La terminologia esegetica nell’antichità. Atti del I Seminario di antichità cristiane (Bari 25 ottobre 1984), Bari 1987, 25-58; E. PRINZIVALLI, Didimo il Cieco e l’interpretazione dei Salmi, L’Aquila-Roma 1987; J. DANIELOU, Origene. Il genio del cristianesimo, Roma 1991; G. RINALDI, Diodoro di Tarso, Antiochia e le ragioni della polemica antiallegorista, in Augustinianum 33 (1993) 408-430; A. LE BOULLUEC, Le sens caché des Écriture selon Jean Chrysostome et Origène, in Studia Patristica 24 (1993) 1-26; L. PERRONE, «Quaestiones et responsiones» in Origene. Prospettive di un’analisi formale dell’argomentazione esegetico-teologica, in Cristianesimo nella Storia 15 (1994) 1-50; M. SIMONETTI, Esegesi biblica e storia del cristianesimo, in Vetera Christianorum 41 (2004) 5-20; ID., Origene esegeta e la sua tradizione, Brescia 2004. 10 M. SIMONETTI, Lettera e/o allegoria, cit., 156, n. 185; S. ZINCONE, Parola di Dio, Sacra Scrittura e Tradizione nei Padri greci (IV-V sec.), in A. BONATO et al., Parola di Dio - S. Scrittura, Tradizione nei Padri dei secoli IV e V, 49-109: 49-53, su Eusebio di Cesarea; 69-73, su Diodoro di Tarso; 74-87, su Giovanni Crisostomo; 90-96, su Teodoro di Mopsuestia. 11 M. SIMONETTI, Lettera e/o allegoria, cit., 125. 12 Ibid., 158. 8 9
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ebraica per spiegare certi termini il cui senso e significato non era così evidente13. In realtà, l’insistenza degli antiocheni a trar fuori dalla lettera della Scrittura la theorìa, senza trascurare o vanificare la lettera e la sua conoscenza, li accostava proprio ad Origene. LAVORO ERMENEUTICO DEI PADRI SU GV 20,11
Nel presente contributo, presenteremo almeno un breve testo omiletico per ciascuno, appartenenti alla produzione di alcuni Padri della Chiesa d’Occidente e d’Oriente, fra il IV e il VI secolo, accennando prima brevemente alla loro esegesi. Di Agostino d’Ippona (354-430) e di Gregorio Magno (540-604), per l’Occidente, di Gregorio di Nazianzo (326-390 c.) e dello Pseudo Macario Egizio (IV sec.)14, per l’Oriente, evidenzieremo quindi il loro lavoro ermeneutico su Gv 20,11: «Ma Maria era rimasta presso il sepolcro, fuori, piangendo». AGOSTINO D’IPPONA
Le Confessiones confermano che l’iniziazione al NT di Agostino comincia dalla lettura del Vangelo secondo Giovanni15 e delle Epistolae paoline16. Decisiva fu su di lui l’influenza di Ambrogio di Milano dal quale apprese l’esegesi allegorica ed imparò a valorizzare i significati dell’AT. Sotto il profilo ermeneutico, la parola di Dio va interpretata, quindi l’interpretatio è la spiegazione letterale, quale traduzione letterale e grammaticale del testo. All’interpretatio segue la sua intelligenza o explanatio, consistente nell’intelligere e nel comprehendere della citazione o della pericope biblica, letta nel suo contesto17. Ibid., 165. D’ora in poi, Ps. Macario Eg. D’ora in poi, Gv. 16 AGOSTINO AURELIO D’IPPONA, Le Confessioni, testo latino dell’edizione di M. Skutella riveduta da Michele Pellegrino, traduzione e note di Carlo Carena, introduzione di Agostino Trapè, indici di Franco Monteverde, Roma 20007 (Augustini Aurelii Opera I), 11,8,10. 17 G. RIPANTI, Agostino teorico dell’interpretazione, Brescia 1980, 54; V. GROSSI, Leggere la Bib13 14 15
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AGOSTINO D’IPPONA SU GV 20,11
L’esegesi di Agostino su Gv non può definirsi letterale né allegorica, quanto piuttosto spirituale18. I Tractatus in Ioannis Evangelium raccolgono 124 tractatus, composti dopo il 411 e pronunziati al popolo, nel corso dell’anno 416. In essi, si osserva l’opera dell’esegeta e del teologo da cui emerge l’attenzione preliminare del vescovo e del pastore per gli aspetti letterari e contenutistici del racconto giovanneo. Su Gv 20,11, Agostino pone la seguente interpretazione: «Tornati via gli uomini (Pietro e Giovanni), il sesso più debole rimase legato a quel luogo da un affetto più forte. Gli occhi che avevano cercato il Signore e non lo avevano trovato, si empirono di lacrime, dolenti più per il fatto che il Signore era stato portato via dal sepolcro, che per essere stato ucciso sulla croce, perché ora di un tal maestro, la cui vita era stata loro sottratta, non rimaneva neppure la memoria. Era il dolore che teneva la donna avvinta al sepolcro»19.
La domanda che Agostino pone al testo evangelico e che guida il suo lavoro ermeneutico riguarda il motivo per il quale la Maddalena rimanga presso il sepolcro vuoto. Questo motivo, a suo avviso, risiede nel dolore di Maria, perché, dopo aver pianto Gesù crocifisso fino alla sua morte, una volta deposto dalla croce, ora, presso la tomba, non ha più nemmeno il suo corpo sul quale piangere e sul quale ancora riversare il suo affetto. Sotto la croce, ella aveva pianto, presso il sepolcro vuoto senza il corpo, si abbandona ora ad un pianto ancor bia con s. Agostino, Brescia 1999, 78s.; I. BOCHET, “Le firmament de l’Écriture”: l’herméneutique augustinienne, Paris 2004; A. BONATO, Agostino esegeta della Scrittura e testimone della Tradizione, in ID. et al., Parola di Dio - S. Scrittura, Tradizione nei Padri dei secoli IV e V, 260-337: 270-271; 288; 331. 18 M. SIMONETTI, Lettera e/o allegoria, cit., 352; G. LETTIERI, Il Vangelo di Giovanni nell’esegesi di Agostino, in M. NALDINI, La Bibbia nei Padri della Chiesa. Il Nuovo Testamento, Bologna 2000, 5791: 72s. 19 AGOSTINO AURELIO, Commento al Vangelo di San Giovanni, testo latino dell’edizione maurina. introduzione a cura di Agostino Vita, traduzione e note di Emilio Gandolfo, revisione di Vincenzo Tarulli, indici di Franco Monteverde, Roma 19852 (Augustini Aurelii Opera XXIV/1), Tractatus 121,1, 15701571: «Viris enim redeuntibus, infirmiorem sexum in eodem loco fortior figebat affectus. Et oculi qui Dominum quaesierant et non invenerant, lacrymis iam vacabant, amplius dolentes quod fuerat de monumento ablatus, quam quod fuerat in ligno occisus; quoniam magistri tanti, cuius eis vita subtracta / fuerat, nec memoria remanebat. Tenebat itaque ad monumentum iam dolori ste mulierem».
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più disperato. L’affectus della Maddalena per Gesù è più forte della debolezza del suo sesso, così, mentre gli apostoli si allontanano, ella rimane, perché, implicitamente, con il suo dolore che potenzia il suo affectus ella vuole mantenere e conservare la memoria della vita di quel maestro che non è più fra loro. Dopo l’esperienza della vita di Gesù, strappata all’affectus di lei e dei suoi discepoli (vita subtracta), ora Maria deve sperimentare quella del suo corpo sottratto alla tomba (monumentum) vuota. Allora, il desiderio di stare accanto al corpo del suo Signore, di ungerlo con gli aromi, si congiunge all’apprensione ed al dolore, rinnovato dall’assenza di quel corpo, dal non sapere dove sia e chi lo abbia trafugato. Qui, Agostino dispiega la sua esegesi di Gv 20,11, giovandosi della conoscenza della psicologia femminile e del suo spirito di osservazione. Piuttosto che un’esegesi letterale o allegorica, l’Ipponate tende ad esaminare le motivazioni degli uomini e delle donne del racconto giovanneo per giungere ad un’esegesi che dal piano psicologico si elevi a quello spirituale. Conclude che Pietro e Giovanni siano andati via, dovendo essi credere al racconto ed alla convinzione della Maddalena, per la quale il corpo è stato trafugato. Così, dopo aver trovato e visto le bende ed il sudario, i due apostoli non possono far altro che tornarsene a casa. La Maddalena, invece, rimane. È un dato di fatto che smentisce la debolezza del suo sesso e mostra, piuttosto, la resa ed il limite degli apostoli, la loro deliberazione di andar via, di fronte all’ineluttabilità della morte e di quella del loro maestro. È su questo rimanere di Maria che Agostino fonda la sua interpretazione, portata avanti nel seguito del Tractatus. L’Ipponate vi intravede una motivazione soggiacente, la quale non è chiara, al momento, nemmeno alla stessa Maddalena. Maria rimane e «gli occhi che avevano cercato il Signore e non lo avevano trovato, si empirono di lacrime». Perché piange la Maddalena? Perché ha cercato il Signore nel sepolcro, ma non lo ha trovato. La Maddalena rimane perché vuole cercare, intenta non ad un’attività esterna, quanto piuttosto interiore. La Maddalena è tutta protesa nel cercare, è in questo cercare che i suoi occhi vedranno ciò che gli altri e lei stessa prima non hanno visto ovvero gli angeli entro il sepolcro, come viene spiegato di seguito.
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GREGORIO MAGNO
La Scrittura per Gregorio Magno è pervasa da un dinamismo spirituale, poiché, come egli stesso affermava, cresce con chi la legge. Non avendo in sé soltanto una profondità verticale, egli ne afferma la trascendenza – rispetto agli altri libri ed ai saperi parziali – riconoscendovi un processo di crescita con i «piccoli», posti in relazione con i «forti». Inoltre, l’«aspetto dimesso» della lettera può congiungerci alle «cose oscure» della Scrittura, spingendoci, da «deboli» a diventare «forti», con un significato celato da mettere in luce20. Ciò non vuol dire che l’accesso al testo biblico ed al senso scritturistico sia riservato a pochi, ma che occorre piuttosto disporsi ad un accesso adeguato alla sua natura complessa e dinamica21. Gregorio, così, rivendica per l’esegeta una certa libertà nell’interpretazione e nell’uso dei sensi della Scrittura, quali quelli consegnati da Origene e dalla tradizione della scuola esegetica alessandrina22. GREGORIO MAGNO SU GV 20,11
Le XL Homiliarum in Evangelia Libri duo contengono omelie pronunziate al popolo, a partire dall’Avvento, fra il 590 e il 592, nelle messe della domenica e delle festività, il cui testo, rifinito e messo a punto, fu inviato da Gregorio a Secondino, vescovo di Taormina, nel 593. Proprio Gv 14,23-31 offre a Gregorio l’occasione di meditare sul rapporto esistente tra il visibile e l’invisibile, in virtù del simbolo e della sua realtà23. Così, dopo aver riconosciuto che Maria di Mag20 Cfr. GREGORIO MAGNO, Commento morale a Giobbe/3 (XIX-XXVII), a cura di Paolo Siniscalco, traduzione di Emilio Gandolfo, Roma 1994 (Gregorii Magni Opera I/3), XX,I,1, 86-87; Omelie su Ezechiele/2, a cura di Vincenzo Recchia, introduzione e indici di Vincenzo Recchia, traduzione di Emilio Gandolfo, Roma 1993 (Gregorii Magni Opera III/2), X,1, 266-267. 21 V. RECCHIA, La memoria di Agostino nella esegesi biblica di Gregorio Magno, in Augustinianum 25 (1985) 405-434; P.C. BORI, L’interpretazione infinita, cit., 172s. 22 Cfr. GREGORIO MAGNO, Commento morale a Giobbe/1 (I-VIII), a cura di Paolo Siniscalco, introduzione di Claude Dagens, traduzione di Emilio Gandolfo, Roma 1992 (Gregorii Magni Opera I/1), Epistola 4, 86-89. 23 GREGORIO MAGNO, Omelie sui Vangeli, a cura di Giuseppe Cremascoli, Roma 1994 (Gregorii Magni Opera II), II, XXX,10, 394-395: «Pur non potendo in ogni caso vedere Dio, possiamo fare qualcosa per dar inizio a un cammino nel quale l’occhio della nostra intelligenza possa giungere sino a Lui. […]
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dala, «piena di ardore per l’intensità dell’affetto», accorse al sepolcro vuoto e chiamò gli apostoli, su Gv 20,11, osserva: «Sulla base di questi dati occorre riflettere all’intensità dell’amore divampato nell’anima di questa donna, che non si staccava dal sepolcro del Signore anche dopo che i discepoli se ne erano allontanati. Continuava a cercare, in pianto, Colui che non aveva trovato e, ardente d’amore per Lui, ardeva di desiderio ritenendo che fosse stato portato via. Avvenne, perciò, che potesse vederlo lei sola, rimasta per cercarlo; perché si sa che la virtù tipica dell’opera buona è la perseveranza… (cfr. Lv 22,17s.)»24.
L’esegesi gregoriana di Gv 20,11 fa riferimento e continua, approfondendola, quella agostiniana del medesimo versetto giovanneo. Anzi, Gregorio assume, nel suo lavoro ermeneutico, un dato da lui accertato (qua in re pensandum est) e da Agostino soltanto quasi postulato: la Maddalena rimane presso il sepolcro vuoto, poiché desidera cercare il suo Signore. In Maria, il «cercare» (exquirebat, inquirendo) si congiunge al «desiderio», Maria «ardeva di desiderio» (ardebat desiderio). Desiderium, per Gregorio, è sinonimo di «amore» (amor), così, la Maddalena «ardeva di desiderio», poiché in lei agiva la «forza» (vis), nel testo, letteralmente, era «accesa dal fuoco del suo amore» (amoris sui igne succensa). È la forza dell’amore (vis amoris), con una chiara reminiscenza virgiliana del Libro IV dell’Eneide25, che impone e consente alla Maddalena di rimanere presso il sepolcro e di cercare senza stancarsi, venendo in aiuto alla debolezza del suo sesso. In tal modo, Gregorio si riferisce implicitamente alla lettura di Agostino, ma, in confronto all’Ipponate, ancor più chiaramente, questo «cercare» si attua nel «rimanere» (remansit) di Per le realtà invisibili dobbiamo orientarci secondo quanto avviene per quelle corporee»; e Introduzione, ibid., 21. 24 Ibid., II, XXV, 1, 310-311: Qua in re pensandum est, hujus mulieris mentem quanta vis amoris accenderat, quae a monumento Domini, etiam discipulis recedentibus, non recedebat. Exquirebat quem non invenerat, flebat inqirendo, et amoris sui igne succensa, ejus quem ablatum credidit, ardebat desiderio. Unde contigit, ut eum sola tunc videret, quae remansit ut quaereretnimirum: quia nimirum virtus boni operis perseverantia est. 25 Non si può non pensare a Didone, regina di Cartagine, vinta dall’amore per Enea, cfr. C. GNILKA, Chrêsis, il concetto di retto uso. Il metodo dei Padri della Chiesa nella ricezione della cultura antica, Brescia 2020, 146-156.
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Maria, presso il sepolcro, Maria «non si stacca» dal sepolcro, meglio ancora «non recede» (non recedebat), a differenza degli apostoli che se ne sono allontanati. Gregorio, così, evidenzia il limite o la resa degli apostoli, notata già da Agostino, ma, rispetto a lui, passa dal piano psicologico e dal senso spirituale, al senso morale, vedendo, nel rimanere di Maria presso il sepolcro, la virtù della perseveranza, che, come si dice nel prosieguo del testo, coglie il suo frutto ed il suo premio. Gregorio, però, suggerisce quasi la superiorità della Maddalena non tanto sugli apostoli, quanto piuttosto sul sesso maschile – ricorrendo anche a figure letterarie – destinato ad andar via se non a «recedere», mentre Maria, rimasta sotto la croce, rimane anche presso il sepolcro. Il «cercare» di Maria, però, non si attua nel movimento, bensì nel pianto: è il pianto che pone la Maddalena in ricerca. Qui Gregorio si discosta da Agostino, poiché mentre questi poneva il motivo del pianto nella sottrazione del corpo di Gesù, Gregorio vede nel pianto il segno e la manifestazione esterna del «cercare» di Maria. GREGORIO DI NAZIANZO
Gregorio di Nazianzo avverte il pericolo, nel lavoro ermeneutico sulla Scrittura, di un atteggiamento squilibrato fra stretto letteralismo e forzature allegorizzanti26. In chiave polemica verso i pagani, egli insiste sul fatto che nulla di quanto è riportato nella Scrittura è senza un’intenzione precisa, perché gli esempi del passato, in essa contenuti, servono come modelli di comportamento, al fine di fuggire il male e scegliere il bene27.
26 GREGORIO DI NAZIANZO, Tutte le orazioni, a cura di Claudio Moreschini, traduzione italiana con testo a fronte e note di Chiara Sani e Maria Vincelli, Milano 20022 (Bompiani il pensiero occidentale), Lògos XLV, 12, 1146-1149: «(la prima attitudine [quella letterale] è, in un certo senso, tipica dei Giudei e senz’altro meschina, la seconda [quella allegorica] più simile all’interpretazione dei sogni: sono, comunque, l’una e l’altra condannabili)». 27 K. DEMOEN, Pagan Exempla and Biblical in Gregory Nazianzen. A Study in Rhetoric and Hermeneutics, Turnholti 1996; C. MORESCHINI, Nuove considerazioni sull’origenismo di Gregorio Nazianzeno, in M. GIRARDI - M. MARIN (edd.), Origene e l’alessandrinismo cappadoce (III-IV secolo), Bari 2000, 207-218; ID., Introduzione, in GREGORIO DI NAZIANZO, Tutte le orazioni, IX-XXXV; S. ZINCONE, Parola di Dio, Sacra Scrittura e Tradizione nei Padri greci (IV-V sec.), 59-61.
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GREGORIO DI NAZIANZO SU GV 20,11
Il Lògos o Oratio XLV fu pronunciato da Gregorio nella sua Nazianzo, in occasione della Pasqua del 9 aprile del 383, per spiegare al popolo le origini ed il significato di questa festa. Egli, in realtà, riprende due parti dell’Oratio XXXVIII e le inserisce in questa nuova. È un’analisi minuziosa dei rituali della Pasqua ebraica e dei loro significati, in Esodo28. L’alterità di Gregorio, emotivo e dall’acuta intelligenza, fu da lui vissuta, nella difficile convivenza, entro di sé, di theorìa e pràxis29. Su Gv 20,11, il nazianzeno osserva: «Se sei Maria, o l’altra Maria, se sei Salome o Giovanna, piangi sul far del giorno. Fa’ in modo di vedere tu per primo la pietra spostata, e magari anche gli angeli e lo stesso Gesù. Tu di’ qualcosa; ascolta la voce. Se sentirai dire: “Non toccarmi (cfr. Gv 20,17)”, rimani lontano, venera il Lògos ma non essere afflitto. Sa, infatti, da chi è stato visto la prima volta. Celebra il rinnovarsi della resurrezione»30.
Gregorio di Nazianzo è teso ad offrire all’uditorio che lo ascolta una esegesi simbolica di Maria Maddalena ma anche delle altre donne, presenti con lei sotto la croce ed accorse con lei, al sepolcro. Si riferisce, tuttavia, alla Maddalena, quando esorta il popolo a piangere come lei «sul far del giorno». Probabilmente, allude alla preghiera del primo mattino, esortando il popolo a pregare: la Maddalena, allora, diventa quasi il simbolo del popolo o della Chiesa che veglia nella preghiera. Ciò che fa Maria, deve farlo anche chi ascolta per «vedere» ciò che ha visto Maria. Gli ascoltatori o il popolo sono anche esortati a dire qualcosa come la Madalena e ad ascoltare la voce del maestro, come ha fatto lei. Maria è il symbolon che unisce e congiunge l’umanità alla divinità, la Chiesa al suo Signore, il popolo e ciascuno di noi a Cristo31. Tuttavia, per quanto sta a noi, a difC. SANI, GREGORIO DI NAZIANZO, Tutte le orazioni, Prefazione, LXXXI-LXXXII. C. CRIMI, GREGORIO DI NAZIANZO, Tutte le orazioni, Notizia biografica, XCII-XCIII. 30 Ibid., XLV, 24, 1162-1163: Κἂν Μαρία τις ᾖς κἂν ἡ ἄλλη Μαρία κἂν Σαλώμη κἂν Ἰωάννα δάκρυσον ὀρθρία. Ἴδε πρώτη τὸν λίθον ἡρμένον τυχὸν δὲ καὶ τοὺς ἀγγέλους καὶ Ἰησοῦν αὐτόν. Φθέξαι τιː φωνῆς ἄκουσον. Ἂν ἀκούσῃς. Μή μου ἅπτου πόῤῥω στῆθι σεβάσθητι τὸν Λόγον ἀλλὰ μὴ λυπηθῇς. Οἶδε γὰρ οἷς ὀφθῇ πρῶτον. Ἐγκαίνισον τὴν ἀνάστασιν. 28 29
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ferenza della Maddalena, non dobbiamo piangere, ma, come lei, rimanere a debita distanza dal Verbo risorto. Proprio il Verbo sa ormai da chi è stato visto e riconosciuto ovvero dalla Maddalena, è quindi grazie a lei che ora il Verbo può riconoscerci, così, ogni volta, in Maria di Magdala, per mezzo di lei e per grazia di lei, possiamo celebrare la risurrezione di Cristo. In virtù e grazie all’esperienza unica, vissuta dalla Maddalena, l’umanità – pur tenendosi a debita distanza dal mistero – può dunque entrare in relazione con il Verbo, la cui risurrezione compie la sua incarnazione. Se dunque Maria, la madre di Gesù, ci porta all’incarnazione ed alla Chiesa, è la Maddalena, sua discepola, che con la sua esperienza unica ci porta in maniera simbolica e peculiare alla risurrezione ed alla vita cristiana che non può prescindere dalla celebrazione comunitaria della Pasqua e dei suoi riti, argomento proprio di questa Omelia. PSEUDO MACARIO EGIZIO
Tutto ciò che conosciamo di questo «anziano», «guida» (odegòn) di una comunità o fraternità ascetica, localizzabile nei pressi di una polis, civitas o colonia tardoromana del pieno IV secolo, in un’area periferica della pars orientis dell’Impero romano, prossima al limes parthicum, ci proviene dai suoi lògoi, homilìai, epistolae, erotapokrìseis, che la tradizione manoscritta ci ha fatto pervenire in quattro collezioni32. I suoi scritti insistono tanto su temi ascetici quanto sull’interpretazione e la comprensione comunitaria della Scrittura33, in 31 Ci riferiamo qui al significato etimologico di su/mbolon, da sumba/llw che significa «segno di accordo e di patto». 32 J. MEYENDORFF, Messalianism or Antimessalianism? A Fresh Look at the “Macarian” Problem, in P. Granfield - J.A. JUNGMANN, Kyriakon. Festschrift Johannes Quasten, 2, Münster 1970, 585590; V. DESPREZ, Le Ps.-Macaire, in Studia Anselmiana 70 (1977) 172-221; J. MEYENDORFF, St. Basil, Messalianism and Byzantine Cristianity, in St. Vladimir’s Theological Quarterly 244 (1980) 219-234; F. ALEO, Macario Alessandrino e Macario Egizio, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, Genova-Milano 2006, 2, 2949-2950; 2950-2952; ID., Spirito Santo e Chiesa. Basilio di Cesarea e lo Ps. Macario Egizio: due prospettive ecclesiologiche a confronto, Firenze-Catania 2009; Città terrena e città celeste nel Corpus macarianum. La Polis tardo-antica negli scritti dello Pseudo-Macario Egizio, in V. LOMBINO - A. ROTONDO (cur.), I cristiani e la città, Trapani 2017, 125-159. 33 F. ALEO, Le erotapokrìseis nel Lògos II (Coll. I) del Corpus macarianum. «Maria seconda Eva»: considerazioni su un orientamento ermeneutico, in Synaxis 31 (2013) 2, 35-74; ID., Donna e matrimonio
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tutti, però, vi predomina l’esperienza dell’inabitazione personale dello Spirito Santo nell’anima, santificata dalla grazia. PSEUDO MACARIO EGIZIO SU GV 20,11
Negli scritti del Corpus macarianum, la Scrittura raramente vi viene citata letteralmente e per esteso, numerose sono le citazioni a memoria con ‘parole chiave’, nate dall’associazione di versetti fra loro, combinati e rielaborati insieme34. L’esegesi dello Ps. Macario svela alla luce di Cristo risorto il senso vero delle Scritture, la lettura e la meditazione di Gv 14,23b gli fa porre attenzione all’inabitazione divina e personale dello Spirito Santo, nell’asceta, nel monaco, destinatari principali dei suoi lògoi, specie di quelli in forma di erotapokrìseis. Vi si coglie, però, la presenza di un uditorio ampio, se non di una comunità allargata a uomini e donne in ascolto, molto probabilmente, membri a pieno titolo della comunità35. Si coglie allora un complesso lavoro ermeneutico sui testi biblici, su quelli giovannei e su quelli paolini in particolare, individuandovi ed isolandovi una pista esegetica, quella del cuore o dell’anima, che orienta l’uditorio tutto verso l’orizzonte ermeneutico dell’inabitazione divina. La parola di Dio, accolta nel cuore, opera l’illuminazione; lo Spirito Santo guida l’anima con una esperienza dai forti accenti mistici, tanto da far pensare ad influenze di movimenti eterodossi come quello dei messaliani, insistenti sull’esperienza sensibile dello Spirito Santo. Nel Lògos III della Collezione I, ove è impossibile fissare una cronologia o una datazione dei testi ivi contenuti, su Gv 20,11, lo Ps. Macario fa osservare: «Allo stesso modo, Maria che stava presso il Signore crocifisso, piangeva gridando (edàkrue klàiousa), per il tormento del suo amore e sembrava crocifissa insieme con lui […]. Come allora, per la potenza di Dio, la pietra fu rotolata via dal sepolcro (Mt 28,2) e Maria vide il Signore (Gv 20,14), così,
fra allegoria e realtà nel Corpus macarianum (secolo IV d.C.), in P. DALENA - C. URSO (curr.), Ut sementem feceris, ita metes. Studi in onore di Biagio Saitta, Acireale-Roma 2016, 591-610. 34 F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, cit., 81s. 35 S.K. BURNS, Cappadocian Encratism and the Macarian Community, Leuven 2001, 27-32.
«Maria era rimasta presso il sepolcro, fuori, piangendo» (Gv 20,11) 129 per la potenza e la visita dello Spirito Santo, la pietra posta sull’anima è rotolata via, il velo (cfr. 2 Cor 3,15-16) del peccato è tolto di mezzo e l’anima diventa degna di vedere il volto di Cristo, di riposare nel suo Spirito, sciolta e liberata dalla pietra del peccato posta su di lei»36.
Il particolare lavoro ermeneutico dello Ps. Macario si avvarrebbe dei contributi interpretativi dei membri della comunità, radunata attorno all’«anziano», esegeta della parola di Dio. È la parola di Dio a compiere l’edificazione dell’anima di chi ascolta l’«anziano», il quale diviene «guida spirituale», nella misura in cui è «ministro» (diàkonos) di questa parola37. Su Gv 19,25, «Maria» sotto la croce non si distingue dalla madre del Signore, da Maria di Cléopa o dalla Maddalena, tuttavia, klàiousa è ‘parola chiave’ di Gv 20,11, indicante proprio la Maddalena piangente. Più avanti, si coglie l’esito esegetico di avvenuti passaggi interpretativi, assenti nel testo del lògos, dei quali la Maddalena piangente è l’anima e l’ispirazione. Le involute affermazioni finali mostrano un lavoro ermeneutico non del tutto chiaro. Così, la Maddalena, «piangente», ‘parola chiave’, di Gv 20,11, evoca, a motivo della sua prossimità al sepolcro, Mt 28,2, la cui «pietra», sua ‘parola chiave’, evoca a sua volta 2 Cor 3,15-16 con il «velo», sua ‘parola chiave’. La «pietra» è accostata al peccato, rimosso dall’anima come dal sepolcro, rimosso come il «velo», così l’anima «diventa degna di vedere» ove «vedere» è ‘parola chiave’, evocante la Maddalena di Gv 20,14. La Maddalena di Gv 20,11 diviene allora figura (typos) dell’anima che col suo pianto, tutto interiore, libera sé stessa e l’anima dal peccato che la potenza dello Spirito Santo ri-
36 PSEUDO-MACAIRE, Oeuvres spirituelles, I. Homélies propres à la Collection III, Introduction, Traduction et notes (avec le texte grec) par Vincent Desprez, Paris 1980 (Sources chrétiennes, 275), Lògos, III,1,3.4,13-16.25-31,84-87: καὶ ὃν τρόπον Μαρία τοῦ κυρίου σταυρομένου παρεστῶσα ἐδάκρυε κλάιουσα διὰ τὸ τοῦ πόθου κέντρον καὶ συσταυροῦσθαι ἐδόκει […] καὶ ὡς τότε τῇ δυνάμει τοῦ θεοῦ ὁ λίθος ἀπεκυλίσθε τοῦ μνημείου καὶ εἶδε Μαρία τὸν κύριον οὕτω δυνάμει καὶ ἐπισκέψει τοῦ ἁγίου πνεύματος ὁ λίθος ὁ ἐπικείμενος τῇ ψυχῇ "τὸ κάλυμμα" τῆς ἁμαρτίας ἀποκυλίεται καὶ ἐκ μέσου αἴρεται καὶ καταξιοῦται ἡ ψυχὴ τὸ πρόσωπον τοῦ Χριστοῦ ἰδεῖν καὶ ἀναπαῆναι ἑν τῷ πνέυματι αυτοῦ λυθεῖσα καὶ ἐλευθερωθεῖσα τοῦ τοῦ ἐπικειμένου λίθου τῆς ἁμαρτίας. Vedi PSEUDO-MACARIO, Discorsi, Introduzione, traduzione, note e indici a cura di Francesco Aleo, Roma 2009, Discorso II,1,3.4,63-64, per la versione italiana. 37 Ibid., Lògos, X,2,3,28-32,158-159 e F. ALEO, Pseudo-Macario. Discorsi, VII,2,3,98, per la versione italiana.
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muove come la pietra dal sepolcro di Mt 28,2 e le consente, successivamente di vedere il risorto. La Maddalena piangente sotto la croce (Gv 19,25) è quella piangente presso il sepolcro (Gv 20,11) ed è proprio qui che diviene figura dell’anima, quale «sepolcro» vuoto dal peccato che era in lei, peccato rimosso come la «pietra» (Mt 28,2), come il «velo» (2 Cor 3,15-16), vedendo di lì a poco il volto di Cristo risorto (Gv 20,14), per opera dello Spirito Santo, agente in lei. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Le nostre sparse considerazioni hanno voluto gettare uno sguardo ravvicinato su: un Tractatus di Agostino d’Ippona, un’Homilia di Gregorio Magno, un Lògos o Oratio di Gregorio Nazianzeno, infine, un Lògos dello Ps. Macario Eg. e sul loro lavoro ermeneutico, posto su Gv 20,11. L’esegesi di Agostino d’Ippona individua lo stato psicologico della Maddalena piangente e le motivazioni del suo comportamento, presso la tomba vuota. Quella di Gregorio Magno si sofferma sull’atteggiamento interiore della Maddalena, la quale, proprio a motivo del suo pianto e del suo amore invincibile per il Signore, «cerca» ed alla fine «vede» e trova. Riprendendo ed approfondendo, in tal modo, l’esegesi spirituale di Agostino, Gregorio la porta verso un senso morale. L’esegesi di Gregorio Nazianzeno si pone sul piano della cohortatio o dell’esortazione ai fedeli, avente carattere liturgico, all’immedesimazione con la Maddalena piangente, capace di unire, per suo tramite, l’umanità al Verbo eterno. Il Nazianzeno porta, dunque, la sua esegesi di Gv 20,11 verso un senso teologico. Infine, l’esegesi dello Ps. Macario Eg., con il suo carattere ‘comunitario’ ed il suo tono ascetico, pone su Gv 20,11 un lavoro ermeneutico particolare, per cui lo «stare» della Maddalena presso il sepolcro, continuazione del suo «stare» sotto la croce, compie l’identificazione di lei con l’anima. La Maddalena diviene il sepolcro: come da questo viene rimossa la pietra, così dall’anima o dalla Maddalena viene rimosso il peccato. Se, dunque, presso la tomba vuota, con il pianto, la Maddalena si libera dal suo dolore, quale sepolcro vuoto e
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vede il risorto, è con la potenza dello Spirito Santo che l’anima si libera dal suo peccato38.
38 Mi sovviene il grato e commosso ricordo di don Attilio Gangemi, docente stimato, amico e padre spirituale che mi ha accompagnato con la sua competenza nei miei studi di Sacra Scrittura, cui devo la conoscenza e l’amore per il Vangelo secondo Giovanni. La sua opera I racconti post-pasquali nel Vangelo di S. Giovanni rimane una miniera preziosa e una fonte di sagace lavoro ermeneutico ed esegetico per quanti vogliono accostarsi allo studio serio del Quarto Vangelo. A lui con affetto dedico questo contributo.
SYNAXIS XXXVIII/2 - 2020 (133-142)
IL CONGEDO NEGATO
RIFLESSIONI SULL’ELABORAZIONE DEL DISTACCO TRA VIVI E DEFUNTI DAL MONDO CLASSICO ALL’EMERGENZA COVID-19
DONATELLA PULIGA*
Non sembri improprio – nel contribuire ad un numero della rivista in ricordo di Attilio Gangemi – partire dalla memoria recente di una omelia di papa Francesco, durante una delle Eucaristie celebrate nella cappella di Santa Marta e trasmesse in diretta televisiva nel periodo della chiusura (oggi – dobbiamo dire purtroppo – della prima chiusura) dovuta alla pandemia da COVID-19. Era una mattina di aprile del 2020. Il Santo Padre si era soffermato sulla necessità che i credenti non si lasciassero scoraggiare dagli eventi dolorosi che percorrevano il mondo, e non diventassero preda dell’accidia. Apprezzai allora in modo particolare la scelta di questo termine, che scomodava il novero dei “peccati capitali”, per definire lo stato di prostrazione unito a senso di rinuncia e di rifiuto della vita potenzialmente in agguato per tante persone. Queste parole cadevano in un momento in cui tutti avevamo da poco assistito, attraverso gli schermi dei nostri onnipresenti device, allo snodarsi, lungo le strade della Lombardia, dei carri funebri improvvisati, quelli in cui erano stati trasformati i camion dell’esercito, che trasportavano, come in una lunga processione, i feretri dei morti. Mentre, dall’altra parte del mondo, ci giungevano le immagini delle fosse comuni in cui venivano deposti altri cadaveri per i quali, in America Latina, non si trovava più spazio nei cimiteri. * Docente di Lingua e letteratura latina presso l’Università di Siena.
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Cosa potevano avere a che fare questi eventi con l’accidia? Solo una lettura superficiale della realtà antropologica – e della lingua che a sua volta la definisce – può indurre a considerare questi piani come separati tra loro. Merita allora risalire brevemente alla storia di questo termine1, che compare già negli scritti ippocratici del V secolo a.C.: questi testi spiegano l’akédia come stato di tristezza, per alcuni aspetti simile alla malinconia, dovuto ad un eccessivo passaggio di bile nell’organismo2. Se andiamo poi all’etimologia della parola3, troviamo che quest’ultima è costituita da un alfa privativo cui si unisce kédos, uno dei numerosi termini greci inerenti alla sfera del dolore: in particolare il sostantivo kédos indica il dolore inteso come preoccupazione e affanno per gli altri, ma anche, in senso più specifico, il lutto e il cordoglio per la morte, specialmente di un familiare. Per estensione infatti il termine kédos può indicare anche il rito funebre. Quindi l’akédia, nel senso linguistico originario, si può spiegare come la negazione della partecipazione emotiva al dolore, una sorta di indifferenza e apatia verso quella dimensione di affetti familiari rispetto alla quale ci si attende una forma di cordoglio più profondamente sentito, in quanto naturalmente connesso con il legame di sangue4. Legame che – come è noto – era fondativo della ritualità che circondava la morte. Ora, di questa qualità costitutiva del lutto, oggi non si è potuto (o – mi permetto di pensare – almeno in alcuni casi non si è voluto fino in fondo) tenere conto in maniera imprescindibile. Sì, perché lo spazio del congedo ha un valore antropologico immenso, non tanto e non solo per chi muore, ma soprattutto per chi resta da questa parte del tempo. E la negazione di questa dimensione dilata a dismisura lo strappo che ogni morte, la morte del singolo, nella sua irrepetibilità, reca con sé. Che il rapporto con la morte sia tratto distintivo di ogni cultura è, del resto, fin troppo evidente. E non è un caso che la prima forma di quelli che oggi definiamo “diritti umani” sia costi1 Per una panoramica generale sull’argomento, rinvio a S. BENVENUTO, Accidia, Bologna 2008 e a G. BOUNGE, Akédia, trad. it. G. Benedetti, Teolo 1992. 2 Corpus Hippocraticum, De glandulis 12. 3 P. CHANTRAINe, Dictionnaire étimologique de la langue grecque. Histoire des mots, Paris 1968. 4 Mi permetto di rinviare a D. PULIGA, La depressione è una dea. I romani e il male oscuro, Bologna 2017 (in particolare 219 ss.).
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tuita proprio – nel mondo classico – non dal diritto di un vivo, ma da quello di un cadavere: il diritto a una degna sepoltura, che consegna per sempre chi ha lasciato l’esistenza ad una dimensione definitivamente altra5. Nella visione degli antichi, almeno per quanto riguarda il mondo occidentale – già a partire dalle testimonianze letterarie che ci vengono dai poemi omerici6 – il rito funebre è essenziale, in prima istanza perché l’anima del defunto non sia condannata a vagare senza pace, perseguitando quanti non abbiano osservato l’obbligo degli onori funebri, che consentono appunto al morto di passare compiutamente nel regno dell’aldilà. Ma questo è solo uno degli aspetti che rendono imprescindibile il tributo degli onori funebri a chi ha lasciato la vita: la ritualizzazione del cordoglio è infatti altrettanto indispensabile a chi resta, perché i congiunti, la famiglia, la comunità sociale possa tornare alla quotidianità ordinaria dopo aver dimorato nella condizione liminare – fisica e psichica – di sospensione tra la vita e la morte7. In questa prospettiva, i meccanismi psicologici del lutto acquistano una valenza che è anche collettiva: è la comunità che sorregge e sostiene l’elaborazione del dolore. E lo fa mettendo in atto una vera e propria grammatica rituale, fatta di gesti, di voci, di presenze: che integrano la morte in un orizzonte cognitivo e aiutano il singolo a superare l’evento traumatico che essa di per sé rappresenta. Il congedo dal defunto si articola come un lungo addio, costituito da una serie di tappe ineliminabili, pena lo stravolgimento dell’ordine sociale e psichico della comunità. Proviamo allora a ripercorrere almeno a grandi linee alcune di queste tappe, anche per poter cogliere, nel confronto tra il nostro mondo e un mondo così “altro” come, per 5 Esemplare in questo senso la trama dell’Antigone di Sofocle, la tragedia incentrata sulla ostinata volontà della protagonista di dare sepoltura al corpo del fratello, colpevole di tradimento nei confronti della patria e quindi condannato dalla legge della città a non ricevere gli onori funebri. Sul tema dei diritti umani nel mondo classico: M. BETTINI, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Torino 2019. 6 Si veda almeno Iliade, II, 391–393; Iliade, IV, 235.39; Iliade, XIII, 824–832. La sorte minacciata al nemico prima di affrontarlo, nell’Iliade, è quella di essere lasciato in pasto ai cani e agli uccelli: segno dell’accanimento dell’avversario che vede il compianto e la sepoltura come privilegio del vincitore, e prospetta invece allo sconfitto una sorta di “antifunerale”. 7 Riferimento essenziale sul tema resta E.R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, Milano 2003 (ed. orig. The Greeks and the Irrational, Berkeley-Los Angeles 1951).
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cominciare, quello presupposto dai poemi omerici8, il nucleo irriducibile intorno al quale si agglutina l’evento della morte. Occorre innanzitutto tener presente che, nonostante la grande varietà dell’immaginario relativo all’aldilà, cioè al destino delle anime dopo la morte, le società antiche mostrano un atteggiamento piuttosto stabile e compatto per quello che riguarda i riti di congedo dal defunto9. Tali riti si articolano in momenti precisi10 il primo dei quali è la prothesis, cioè l’esposizione del cadavere. Atti preliminari a questo momento sono la chiusura degli occhi e della bocca per mano dei familiari, il lavaggio11 e l’unzione del corpo, la vestizione del cadavere sul quale viene infine steso l’epiblema, una sorta di sudario che lo terrà coperto durante il trasporto al luogo della sepoltura. Durante la prothesis il defunto ha i piedi verso la porta, a indicare il luogo attraverso il quale inizierà il suo cammino verso il regno che da questo momento gli appartiene, quello dei morti12, e viene salutato dai componenti maschili della famiglia, con il gesto del braccio destro alzato, il palmo della mano rivolto verso l’esterno. Un gesto che si ripeterà anche in momenti successivi del rito, fino all’ultimo, e che viene accompagnato dall’invocazione – ancora per bocca degli uomini – del nome del defunto. Non sembri questo un elemento puramente accessorio, in una società per la quale il nome rappresenta l’essenza della persona, nella sua irrepetibile individualità13. Ma è innegabile che un ruolo determinante nei rituali del congedo era svolto dalle donne, depositarie di una grammatica della gestualità e legittimate alle manifestazioni di dolore incontrollato, considerate proprie della loro Sul tema del pianto nell’Iliade e nell’Odissea, vedi M. NUCCI, Le lacrime degli eroi, Torino 2013. M.S. MIRTO, La morte nel mondo greco: da Omero all’età classica, Roma 2007. Per una visione d’insieme su questo tema: C. RENFREW - M.J.BOYD - I.MORLEY, Death rituals, social Order and the Archaeology of Immortality in the Ancient World: "Death shall have no Dominion", New York 2016. 11 Le abluzioni sono del resto caratteristiche di molti riti di passaggio, per cui resta fondamentale A. VAN GENNEP, Riti di passaggio, la cui prima edizione risale al 1909, ma che ora è disponibile nella traduzione a cura di M. L. Remotti, Torino 2012. 12 Sul tema dell’aldilà nel mondo greco, si veda D. FABIANO, Senza paradiso. Miti e credenze dell’Aldilà greco, Bologna 2019. 13 Su questo aspetto, e seppure il lavoro si concentri sul senso del nome proprio in particolare nella società romana, interessanti considerazioni in M. LENTANO, Nomen, Bologna 2019. 8 9
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emotività14. A loro15 è affidato il lamento (goos), accompagnato da una accentuata mimica che prevede lo scioglimento delle chiome, il battito ritmico del petto e della testa (kopetos) durante la veglia funebre. Queste manifestazioni disordinate del dolore sono segni parlanti del caos che la morte ha portato nell’esistenza e nella compagine degli affetti familiari16, e conosceranno una significativa attenuazione – pur senza mai venir meno – nel passaggio dall’età arcaica, testimoniata dai poemi omerici e dalla lirica17, all’età classica, quella della tragedia e della filosofia del V-IV secolo a.C. Come una sorta di cerniera tra la fase privata e quella pubblica del funerale, l’ekphorà è la processione che accompagna il cadavere dallo spazio domestico al luogo della sepoltura. In età classica questa parte del rituale, che si svolgeva nel giorno successivo alla veglia funebre, doveva compiersi prima del sorgere del sole, alla luce delle fiaccole, e doveva essere limitata ai familiari più intimi. Erano vietate anche le soste per deporre il feretro agli incroci delle strade, perché lo spazio pubblico non venisse contaminato dalla morte18. Si procedeva infine alla sepoltura che avveniva o dopo la cremazione del cadavere o dopo la sua inumazione. Se l’incinerazione predomina in età arcaica (come testimoniato dai poemi omerici), nelle epoche successive le due diverse modalità di sepoltura sono sostanzialmente compresenti, mentre in età ellenistica, cioè a partire dal III sec. a.C., prevale decisamente l’inumazione. Se non è questa la sede per esaminare in dettaglio le varie tappe del “lungo addio”19, ci sembra interessante sottolineare un elemento che possiamo dedurre dalle testimonianze iconografiche sugli arredi 14 E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino 2000, (prima ed. 1958). 15 Unica, significativa eccezione è costituita, nei poemi omerici, dal lamento di Achille sul cadavere di Patroclo (Iliade, XXIII 17-23): in questo caso il goos è anche elemento propulsivo di una promessa di vendetta da parte dell’eroe verso l’amico ucciso da Ettore. 16 Sul pianto delle donne e sulla limitazione progressiva delle emozioni legate al dolore per la morte resta un punto di riferimento il saggio di N. LORAUX, Le madri in lutto, Bari 1991. 17 Seppure già nella legislazione di Solone (594 a.C.) si intenda limitare il lusso degli apparati e l’eccesso di manifestazioni eccessive di dolore. Cfr. C. AMPOLO, Il lusso funerario e la città antica, in Aion(archeol) 6 (1984) 71-102. 18 M.S. MIRTO, La morte nel mondo greco, cit., 73-74. 19 Ibid., 56.
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tombali di importanti necropoli risalenti già all’VIII secolo a.C.: la presenza dei bambini sia alla prothesis20 che all’ekphorà. Rappresentati per mano alla madre o sulle sue ginocchia, al cospetto del defunto, richiamano per contrasto – in una prospettiva di comparazione antropologica – la totale sparizione dell’orizzonte della morte dall’educazione dei bambini nella società contemporanea, almeno per quanto riguarda la nostra cultura. Considerata esclusivamente un trauma dal quale tenere lontani i piccoli, e non una ineludibile componente della vita, la morte viene sistematicamente rimossa fino a riproporsi nelle modalità più distorte e meno naturali sotto forma di angoscia, fobia, rifiuto21. Anche nella società romana, lo schema del rituale di congedo resta sostanzialmente immutato, pur nella presenza di alcune peculiarità22. Resta vero che pure i romani non consideravano ancora la morte fisica come la realtà definitiva della morte: essa costituiva la prima tappa di un passaggio che soltanto nel funus trovava il suo compimento. Senza la serie di cerimonie che si collocavano dal momento del decesso ai riti che seguivano la sepoltura, il congedo non poteva considerarsi compiuto, la frattura non ricomposta. Funestus era tutto ciò che, connesso al funus, comportava l’idea della contaminazione prodotta dalla presenza di un cadavere: contaminazione della casa, della famiglia e delle attività ad essa collegate. Una contaminazione che aveva i suoi tempi e i suoi modi per essere smaltita. Le prime fasi della cerimonia funebre si svolgevano all’interno e nelle immediate vicinanze della domus del defunto: alla constatazione della morte, seguiva il gesto della chiusura degli occhi (oculos condere), del bacio sulla bocca23, della conclamatio ad alta voce del suo nome. A partire da quel momento, il corpo del defunto veniva af20 Ad esempio, i crateri tombali provenienti dalla necropoli del Dypilon, nella regione dell’Attica, conservati al Metropolitan Museum di New York. 21 Su questo tema: F. CAMPIONE, La domanda che vola. Educare i bambini alla morte e al lutto, Bologna 2012. 22 Interessante panorama in F. HINARD (cur.), La mort au quotidien dans le monde romain, Paris 1995. 23 Il bacio di addio, attestato variamente nelle fonti, veniva dato sulla bocca perché si riteneva che da qui uscisse l’anima: cfr. C. DE FILIPPIS CAPPAI, Imago mortis. L’uomo romano e la morte, Napoli 1997, 50.
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fidato alla cura delle donne della famiglia: che ne lavavano il corpo nudo, lo ungevano con oli profumati, lo vestivano dopo averlo collocato sul letto funebre. Questa cura minuziosa del cadavere lo rendeva più vicino all’immagine di un essere vivente di quanto non lo fosse quella di coloro che piangevano la sua scomparsa, ai quali era prescritto di indossare la toga pulla o atra (detta anche sordida) , che li collocava in uno scenario di squallore, quasi fossero dei morti viventi. Per i romani, in modo assolutamente sistematico, al lutto si addicono le lacrime. Lacrime che scorrono in abbondanza, come testimonia anche la grande varietà lessicale del vocabolario latino in proposito: i verbi flere, deflere, lacrimare, plorare, complorare, deplorare, implorare dicono la molteplicità di sfumature del pianto. E soprattutto, per quanto attiene alla sfera della morte, lugere (da cui deriva luctus, lugubris, e che contiene in sé l’idea di “spezzare”) e flere (da cui deriva flebilis, aggettivo che caratterizza la voce come sottile e lamentosa)24. L’atteggiamento nei confronti delle manifestazioni del dolore è fondato, fin dall’alba della legislazione romana, sul divieto di un lutto smodato ed eccessivo, di cui ben si comprende il senso, come sottolinea ancora la Rey25, a partire dalla prospettiva della Roma repubblicana, in cui il funerale costituiva l’occasione per le famiglie aristocratiche di mettersi in luce26, instaurando una vera e propria gara fatta di lamentazioni e di una processione (la pompa funebris) in cui ogni gens dispiegava i propri mezzi economici ed esibiva la propria ricchezza, oltre che la grandezza del proprio defunto. Anche a Roma, comunque, il lutto costituisce il più significativo dei riti di passaggio, che viene percepito a tal punto fondante di una cultura, da essere ritenuto un tratto sulla base del quale si valutano e si caratterizzano gli altri popoli. Il modo di piangere i defunti è insomma considerato – a patto che si realizzi in modo codificato e ri24 Interessante per quanto riguarda l’emotività nel mondo romano il recentissimo S. REY, Le lacrime di Roma. Il potere del pianto nel mondo antico, Torino 2020. 25 Ibid., 3ss. 26 Si veda M. BETTINI, Antropologia e cultura romana. Parentela, tempo, immagini dell’anima, Roma 1986 e L. DESCHAMPS, Rites funéraires de la Rome républicaine, in F. HINARD (cur.), La mort au quotidien dans le monde romain, cit., 171-180.
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spettoso delle regole – criterio di valutazione di una civiltà. Basti pensare alla descrizione che, nel trattato politico-etnografico La Germania, Tacito ci offre sul tema della gestione del lutto in quella terra: «Ai funerali, nessuno sfarzo. L’unica cosa a cui tengono è che i cadaveri degli uomini importanti vengano arsi con legni pregiati. Non mettono sul rogo né abiti né profumi. Invece, collocano vicino a ognuno le armi che gli appartengono e in alcuni casi bruciano sul rogo anche il suo cavallo. Innalzano la tomba con zolle di terra, e rifiutano l’onore di monumenti massicci e pesanti, perché li considerano soffocanti per i defunti. Abbandonano presto lamenti e lacrime, abbandonano tardi il dolore e la tristezza. Alle donne si addice piangere, agli uomini ricordare»27.
Anche a Roma28, come in Grecia, il cadavere viene esposto (è l’atto della collocatio), dopo essere stato preparato, lavato e profumato, ed è pronto a questo punto a ricevere i servigi dei “professionisti della morte”, in genere schiavi cui ben volentieri si delegava il contatto con gli aspetti più contaminanti della morte stessa29: soprattutto i pollinctores (equivalenti dei nostri necrofori), i fossores ( addetti allo scavo della fossa) e gli ustores (addetti alla cremazione). C’erano poi le praeficae, donne remunerate per intonare le neniae, vere e proprie lamentazioni funebri che risuonavano nella casa fino a costituire, per chi vi passasse accanto, un chiaro avvertimento della presenza di un defunto. Ed è interessante l’etimologia che già Varrone30 fornisce del termine praefica: così sarebbe definita la donna messa a capo (quae praeficeretur) di un gruppo di ancelle per istruirle sul modo di fare le lamentazioni. Se da un lato è abbastanza sorprendente che praefica e praefectus (= colui che è messo a capo), due termini che sembrano titolari di spazi totalmente distanti tra loro (quello privato del cordoglio funebre e quello pubblico di una funzione istituzionale) possano essere accomunati, dall’altro questa parentela linguistica dice non poco del ruolo anche “pubblico” dell’elemento TACITO, Germania XXVII, 1–4. La traduzione è mia. J.M.C. TOYNBEE, Morte e sepoltura nel mondo romano, Roma 1993 (prima ed. London 1971). 29 V.M. HOPE, Contempt and respect. The treatment of the corpse in ancient Rome, in V.M. HOPE - E. MARSHALL (curr.), Death and disease in the ancient city, London-New York 2000, 104–127. 30 VARRONe, De lingua latina, VII, 70. 27 28
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femminile31 in ambiti che riguardavano il legame con la vita: sia nel suo inizio32 che nel suo venir meno. E ancora, l’espressione rituale delle emozioni dice l’interazione e la coesione della comunità, che deve in un certo senso riorganizzare l’assenza, ridefinendo il tessuto delle relazioni interpersonali tra coloro che sono rimasti in vita. Ora, questo modello antropologico ha certamente una tenuta che, nel nostro presente, va al di là di qualunque visione si possa avere della morte: che la si legga in una prospettiva sorretta dalla fede, o la si consideri l’ultima parola del racconto di ogni vita, la morte chiede lo spazio per essere ospitata, per essere profondamente accolta. Ospite inquietante per la dimora di chi resta da questa parte, ha bisogno che i vivi possano contemplarla nei tratti di chi se ne è andato, possano, una volta tornati alla vita di prima che non sarà mai più come prima, fare memoria dei momenti del congedo, ripercorrerne gli istanti, la fatica, la dolcezza, l’ineffabile silenzio. Tutto questo è mancato – e soprattutto mancherà – a moltissime persone per le quali la separazione fisica definitiva dai propri cari è stata siglata – nei casi più fortunati – dalla sbrigativa consegna di un sacchetto di effetti personali appartenuti al defunto. Si fa strada nella mente il fondato timore che questo addio negato possa produrre frutti di dolore nei giorni che verranno33. Di quel dolore sordo che sfocia appunto – per tornare al punto da cui siamo partiti – nella accidia: senso di negazione della vita che deriva, come abbiamo visto, dalla privazione del lutto, dalla sua sospensione ad infinitum. E allora ci permettiamo di sperare che sarà possibile, quando l’incubo della pandemia sarà alle nostre spalle, immaginare e soprattutto realizzare una nuova gestualità della cura rivolta alle persone che hanno sperimentato questa impossibilità del congedo: se i loro cari sono stati numeri per le statistiche, non smettono certo di essere uomini e donne con cui il dialogo silenzioso potrà essere ancora fecondo. Restituire alla compassione34 lo spazio che le è stato sottratto, 31 Su questo tema, interessante il volume miscellaneo a cura di A. FRASCHETTI, Roma al femminile, Roma-Bari 1994. 32 Cfr. M. BETTINI, Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, Torino 20182. 33 Su questo aspetto, cfr. l’intervento di V. SIRONI, Coronavirus. Così pandemia e lockdown fanno ammalare la mente, in Avvenire del 16 ottobre 2020.
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accogliere a ritroso le parole, pronunciate o taciute, sulla soglia del transito all’altra riva, può essere un canto di autentica resistenza alla sparizione e, insieme, una custodia della presenza di chi ci appare inghiottito dall’Assenza. Dedicare a quei morti, in maniera collettiva ma non generica, in ogni chiesa, o in altri spazi pubblici , una celebrazione che sia il loro funerale, aperto a tutti coloro che vorranno donare loro l’impareggiabile tributo della memoria, nel rispetto della distanza anche tra credenti e non credenti, potrebbe essere il primo segno di quella Comunione che – se è mancata almeno sacramentalmente nel primo tempo della pandemia – non smette di interpellarci come esigenza di relazione profonda tra noi viventi e il Vivente, tra ciascuno di noi e la vita, anche nel suo volto più doloroso. Perché le lacrime, pure sgorgando, possano essere finalmente pacificate, e non diventino gelo, non diventino pietra.
34 Sulla necessità di questa condivisione della sofferenza, anche in una prospettiva “laica”, si vedano le bellissime pagine di A. PRETE, Compassione. Storia di un sentimento, Torino 2013.
SYNAXIS XXXVIII/2 - 2020 (143-165)
STORIA E MODELLI DI BIOPOLITICA II PARTE
SALVATORE RINDONE*
2. MODELLO TARDO-MODERNO E TECNO-CAPITALISTA
L’esempio biopolitico nazista non è stato l’unico dell’epoca moderna. Dopo la seconda guerra mondiale, si è imposto un altro modello di biopolitica capitalista, diverso da quello che Foucault ha chiamato «statalizzazione del biologico»1 e che si compie in buona parte con i moderni mezzi di comunicazione e con l’ausilio degli apparati tecnici di controllo della rete. Nel modello tardo-moderno di biopolitica, che andiamo a presentare in questa seconda parte della nostra indagine, assistiamo ad un’accelerazione della subordinazione dei corpi e al controllo delle popolazioni tale da favorire gli Stati e le multinazionali. Foucault aveva già evidenziato la connessione tra biopotere e capitalismo laddove i mezzi di comunicazione sono asserviti all’economia di mercato e dove la politica diventa amministrazione2. Le * Docente di Storia della Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 M. FOUCAULT, Bisogna difendere la società, Milano 2009, 206. 2 Afferma Natoli nel suo saggio: «I media, come non mai, sono oggi epidemici e di qui una facile sollecitazione del desiderio e una altrettanto facile manipolazione delle rabbie sociali. Il piacere e la paura: da un lato un libertinismo senza legge – provocazione a un edonismo di massa –; dall’altro l’alimentazione della paura – specie a seguito delle crisi – che induce a comportamenti difensivi e reattivi. Spesso motivati in re da effettive condizioni di disagio. La politica si è fatta amministrazione; le politiche sono di “breve corso” e in taluni casi danno luogo a effetti entropici (operazioni speculative, bolle finanziare). Di qui una scomposizione della società, se è vero – come diceva Hume – che un’unghia della propria mano interessa più del crollo del mondo. Ciò vale in particolare per l’Occidente capitalistico già, di suo, privo di fini e mosso dagli individualismi» (Il fine della politica. Dalla «teologia del regno» al «governo della contingenza», Torino 2019, 98-99).
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pubblicità, ad esempio, non sono soltanto vetrine di prodotti di consumo ma, anzitutto, si pongono come strumento di controllo del mercato liberale, strumenti di creazione di bisogni indotti, garanzie di merci che fanno andare avanti la macchina capitalista. La biopolitica, in questo caso, si attua concretamente nella realtà attraverso quelle “istituzioni” (dalla famiglia alla scuola) che educano a un certo uso del denaro e a una precisa idea di benessere per lo più diffusa nel mondo occidentale3. Afferma per questo Galimberti che «la tanto contestata espressione di Machiavelli: “il fine giustifica i mezzi”, nell’età della tecnica non ha più alcun senso, non perché si è pervenuti a un più alto grado di moralità, ma perché nessun fine più giustifica i mezzi, dal momento che solo i mezzi giustificano i fini»4. È proprio tale «irrazionalità dei mezzi»5 che ha contribuito alla sospensione delle democrazie durante la proclamazione dello «stato di eccezione» nei diversi periodi storici, tra cui l’emergenza sanitaria planetaria legata alla diffusione del COVID-19. 2.1. «Stato di eccezione»: da Foucault ad Agamben
Dopo l’analisi di Foucault degli anni ’60, la biopolitica degli stati neo-liberali, tardo-moderni e tecno-capitalisti è certamente cam3 «Se lo sviluppo dei grandi apparati di Stato, come istituzioni di potere, ha assicurato il mantenimento dei rapporti di produzione, i rudimenti di anatomo – e di bio-politica, inventati nel XVIII secolo come tecniche di potere presenti a tutti i livelli del corpo sociale ed usati da istituzioni molto diverse (la famiglia come l’esercito, la scuola o la polizia, la medicina individuale o l’amministrazione delle collettività), hanno agito a livello dei processi economici, del loro sviluppo, delle forze che vi sono all’opera e li sostengono; hanno operato anche come fattori di segregazione e di gerarchizzazione sociale, agendo sulle forze rispettive degli uni e degli altri, garantendo rapporti di dominazione ed effetti di egemonia; l’adeguarsi dell’accumulazione degli uomini a quella del capitale, l’articolazione della crescita dei gruppi umani con l’espansione delle forze produttive e la ripartizione differenziale del profitto, sono stati resi possibili in parte dall’esercizio del bio-potere, nelle sue forme e con i suoi procedimenti svariati. L’investimento del corpo vivente, la sua valorizzazione e la gestione distributiva delle sue forze sono stati in quel momento indispensabili» (M. FOUCAULT, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Milano 201317, ebook, cap. V). 4 U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano 1999, 682. 5 Con questo termine intendiamo riferirci anche alla produzione «irrazionale» della merce la quale viene prodotta non tanto per il consumo ma per garantire che la macchina industriale ed economica funzioni. L’«irrazionalità dei mezzi» è propria dei sistemi tardo-capitalisti che finiscono per perdere lo scopo della loro produzione.
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biata. La biopolitica ha rafforzato la sua logica economica ed utilitaristica mediante l’utilizzo dei mezzi di comunicazione che ha usato per agire e controllare il corpo-sociale. Infatti, il neo-capitalismo ha continuato a creare modelli di vita, favorire costumi, instillare modi di pensare e di trattare i consumatori come meri clienti da soddisfare, puntando unicamente all’incremento del PIL nazionale oppure al guadagno personale. Affermava già Foucault: «Questo bio-potere è stato, senza dubbio, uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo; questo non ha potuto consolidarsi che a prezzo dell’inserimento controllato dei corpi nell’apparato di produzione, e grazie ad un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici. Ma ha richiesto di più; gli è stata necessaria la crescita degli uni e degli altri, il loro rafforzamento così come la loro utilizzabilità e la loro docilità gli sono stati necessari metodi di potere suscettibili di maggiorare le forze, le attitudini, la vita in generale, senza pertanto renderle più difficili da assoggettare»6.
Se il modello medievale era stato messo in crisi dalle visioni moderne circa l’individuo e l’eticità dello Stato proposte da Kant, prima, e da Hegel, poi, ora la biopolitica imposta dai mezzi di comunicazione sembra non conoscere nessuna crisi. Essa, infatti, è capace di controllare le masse senza farsi notare, senza creare cioè eccessivo disturbo, anzi lasciando che le persone possano fidarsi poco alla volta, fino a non poter fare a meno di quegli stessi mezzi (televisione, smartphone, personal computer, ecc.). Già Foucault aveva mostrato in che modo il biopotere nella modernità abbia preso il “corpo” nella sua interezza, cioè nel suo interno e nel suo stesso formarsi sicché «l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente»7. Questo accade quando ci si rivolge alla medicina e alla strumentazione tecnologica per allungare la vita o renderla migliore nei casi di malattia cronica (ad esempio protesi di braccia o di mani mioelettriche, pacemaker, microinfusore insulinico, ecc.). La società tecnocratica degli ultimi vent’anni, cioè da quando Internet è diventato non più un mezzo per comunicare ma la comu6 7
M. FOUCAULT, La volontà di sapere, cit., cap. V. L. c.
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nicazione stessa (mediante le piattaforme social ad esempio), ha rivelato la sua forza nella conoscenza e nel controllo dei cosiddetti dati sensibili. L’antica agorà greca, cioè la piazza e i diversi luoghi d’incontro della comunità, è stata sempre più soppiantata dallo spazio virtuale, prima quello televisivo, poi quello telematico. Questo “spazio” è diventato sempre più capillare e accessibile a tutti gli strati sociali, ma ha anche potenziato il potere di controllo sulle persone. Chi ha saputo tracciare meglio il profilo di questo nuovo modello tardo-moderno di biopolitica tecno-capitalista è senz’altro Giorgio Agamben nella sua opera monumentale Homo sacer8. Agamben prosegue l’analisi sulla biopolitica moderna iniziata da Foucault e da Benjamin mostrando in che modo l’ingresso della nozione classica di zoé (vita) nella sfera della pólis moderna e delle moderne ideologie abbia consentito la politicizzazione della «nuda vita» in modo tematicamente del tutto nuovo rispetto al mondo antico9 e moderno-liberale. Tuttavia, il passo della ricerca compiuta da Agamben è ben più lungo rispetto a quello dei suoi maestri; l’intento del filosofo italiano, infatti, è stato quello di indagare il punto d’incrocio «nascosto» fra il modello giuridico-istituzionale antico e il modello biopolitico moderno. Afferma Agamben: «La tesi foucaultiana dovrà, allora, essere corretta o, quanto meno, integrata, nel senso che ciò che caratterizza la politica moderna non è tanto l’inclusione della zoé nella polis, in sé antichissima, né semplicemente il fatto che la vita come tale divenga un oggetto eminente dei calcoli e delle previsioni del potere statale; decisivo è, piuttosto il fatto che, di pari passo al processo per cui l’eccezione diventa ovunque la regola, lo spazio della nuda vita, situato in origine 8 La riflessione filosofica di Agamben si apre con il volume del 1995 che porta il titolo di Homo sacer e prosegue nelle opere successive che ricordiamo nell’ordine sistematico dato dallo stesso autore: Stato di eccezione (II.1, 2003), Stasis (II.2, 2015), Il sacramento del linguaggio (II.3, 2008), Il regno e la gloria (II.4, 2007), Opus Dei (II.5, 2012) e nelle successive opere: Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone III, 1998), Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita (IV.1, 2011), L’uso dei corpi (IV.2, 2014). 9 Agamben definisce «nuda vita» come «la vita uccidibile e insacrificabile dell’homo sacer, la cui funzione essenziale nella politica moderna abbiamo inteso rivendicare» (Homo sacer, Torino 1995, cit., 11-12. La «nuda vita» è il prodotto della sovranità che decide sulla vita degli altri, «non la semplice vita naturale, ma la vita esposta alla morte (la nuda vita o vita sacra) è l’elemento politico originario» (ibid., 98); e ancora: «Né bíos politico né zoé naturale, la vita sacra è la zona di indistinzione in cui, implicandosi ed escludendosi l’un l’altro, essi si costituiscono a vicenda» (ibid., 101).
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al margine dell’ordinamento, viene progressivamente a coincidere con lo spazio politico, e esclusione e inclusione, esterno e interno, bíos e zoé, diritto e fatto entrano in una zona di irriducibile indistinzione»10.
L’indagine di Agamben sullo «stato di eccezione» pone la biopolitica in una condizione nuova: la «nuda vita» in tale stato diventa, infatti, «il soggetto e l’oggetto dell’ordinamento politico e dei suoi conflitti, il luogo unico tanto dell’organizzazione del potere statale che dell’emancipazione da esso»11. Agamben riprende più recentemente la definizione filosofica di «sovranità» e di «eccezione» cogliendo alcune importanti novità rispetto agli studi compiuti da Schmitt e da Foucault: «Il problema della sovranità si riduceva allora a identificare chi, all’interno dell’ordinamento, fosse investito di certi poteri, senza che la soglia stessa dell’ordinamento fosse mai posta in questione. Oggi, in un momento in cui le grandi strutture statali sono entrate in un processo di dissoluzione e l’emergenza, come Benjamin aveva presagito, è diventata la regola, il tempo è maturo per porre da capo in una nuova prospettiva il problema dei limiti e della struttura originaria della statualità»12.
L’indagine di Agamben sullo Stato tardo moderno che «vive solo dell’eccezione» giunge all’indagine sul dogma della «sacertà della vita», definita quest’ultima come «l’impunità della sua uccisione e il divieto di sacrificio»13, dove appare decisivo che «questa vita sacra abbia fin dall’inizio un carattere eminentemente politico ed esibisca un legame essenziale col terreno su cui si fonda il potere sovrano»14. La tesi del filosofo italiano è triplice. La prima riguarda il fatto che l’origine contrattuale del potere statuale si fonda sulla nozione di «appartenenza» (sia essa popolare, nazionale, religiosa), sicché «lo stato di eccezione» pone il limite tra esterno e interno, l’esclusione e G. AGAMBEN, Homo Sacer, cit., 12. L. c. 12 Ibid., 15-16. Agamben fa riferimento all’affermazione di Benjamin: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato d’eccezione” in cui viviamo è la regola»; W. BENJAMIN, Sul concetto di storia, Torino 1997, 33. 13 Ibid., 81. 14 Ibid., 112. 10 11
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l’inclusione. La seconda tesi riguarda la natura della politica occidentale, la quale «rende vano ogni tentativo di fondare nei diritti del cittadino le libertà politiche»15. Afferma il filosofo, infatti, che «la prestazione fondamentale del potere sovrano è la produzione della nuda vita come elemento politico originale e come soglia di articolazione fra natura e cultura, zoé e bíos»16. L’ultima tesi riguarda la nozione di «campo» quale paradigma biopolitico dell’occidente: i campi di concentramento nazisti, i gulag siberiani, persino la prigione di Guantanamo e i campi profughi per rifugiati in Europa costituiscono il nuovo paradigma dove poter confinare legittimamente la «nuda vita», rendendola sempre disponibile a chi governa, senza per questo trasgredire formalmente la legge17. Il «campo» è diventato il vero paradigma biopolitico che obbliga anche le scienze umane, la sociologia, l’urbanistica, l’architettura a pensare e ad organizzare lo spazio pubblico delle città a partire dal concetto di «nuda vita», esattamente come faceva la biopolitica dei grandi stati totalitari del Novecento laddove regnava uno «stato di eccezione» perenne18. Agamben dedica un intero saggio allo «stato di eccezione»19 dove spiega l’origine storico-politico del termine e in che modo la sospensione della legge sia legittimata dall’ordine giuridico. Mentre in passato gli stati nazionali erano abituati a considerare lo «stato di eccezione» solo una misura straordinaria e provvisoria di governo, oggi esso è diventato il modello sociale e politico di riferimento. Il paradigma di «eccezione» possiede un’applicazione diversa per ogni stato: in Italia, ad esempio, consiste nella promulgazione dei cosiddetti «decreti governativi di urgenza» («decreti-legge» o DPCM), in Inghilterra nelle martial law, in Francia nell’état d’urgence e negli USA nella militaryorder inaugurato dal governo Bush nel novembre 2001, all’indomani dell’attentato alle Twin Towers.
Ibid., 202. L. c. 17 Cfr. l. c. e ss. 18 Cfr. ibid., 203. 19 G. AGAMBEN, Stato di eccezione, Homo Sacer, 11.1, Torino 2003, ebook. 15 16
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Agamben fa notare, inoltre, che il sistema giuridico dell’Occidente si presenta come la struttura doppia di elementi eterogenei quali la potestas (governo) e l’auctoritas (regno). Al primo corrisponde il governo normativo e giuridico in senso stretto, mentre al secondo un governo anomico e metagiuridico. Spiega meglio Agamben: «L’elemento normativo ha bisogno di quello anomico per potersi applicare, ma, d’altra parte, l’auctoritas può affermarsi solo in una relazione di validazione o di sospensione della potestas.In quanto risulta dalla dialettica fra questi due elementi in certa misura antagonistici, ma funzionalmente connessi, l’antica dimora del diritto è fragile e, nella sua tensione verso il mantenimento del proprio ordine, sempre già in atto di rovinare e corrompersi. Lo stato di eccezione è il dispositivo che deve, in ultima istanza, articolare e tenere insieme i due aspetti della macchina giuridico-politica, istituendo una soglia di indecidibilità fra anomia e nomos, fra vita e diritto, fra auctoritas e potestas»20.
Nella Roma repubblicana i due elementi erano sì correlati (nella distinzione tra senato e imperatore), ma concettualmente e temporalmente distinte; lo stesso accade nell’Europa medievale laddove il potere spirituale era distinto da quello temporale. In epoca moderna, invece, le due forze si sono confuse e, in alcuni casi, sono coincise in una sola persona, come nelle dittature dove il «regno» coincide col «governo». Egli fa di tale eccezionalità la regola di potere e trasforma di conseguenza questo modello giuridico-politico in una macchina letale. Afferma Agamben: «Lo stato di eccezione, in quanto figura della necessità, si presenta quindi – accanto alla rivoluzione e all’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale – come un provvedimento “illegale”, ma perfettamente «giuridico e costituzionale», che si concreta nella produzione di nuove norme (o di un nuovo ordine giuridico)»21.
Lo «stato di eccezione» tende a configurarsi così come una sorta di «terra di nessuno» fra il diritto pubblico e il fatto politico, fra l’ordine giuridico e la «nuda vita», una «zona di anomia» che separa la 20 21
Ibid., 6.9. Ibid., 1.10.
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norma dalla sua applicazione, affinché l’una giustifichi l’esistenza reale dell’altra. Nello «stato di eccezione» chi regna (il popolo) non ha più nessun potere mentre chi governa (capo di Stato o Presidente) li possiede tutti: «In verità, lo stato di eccezione non è né esterno né interno all’ordinamento giuridico e il problema della sua definizione concerne appunto una soglia, ο una zona di indifferenza, in cui dentro e fuori non si escludono, ma s’indeterminano. La sospensione della norma non significa la sua abolizione e la zona di anomia che essa instaura non è (o, almeno, pretende di non essere) senza relazione con l’ordine giuridico»22.
Questa ambivalenza specifica consente una maggiore confusione con la regola, con le istituzioni e con gli equilibri delle costituzioni democratiche le quali non possono più funzionare; il confine fra democrazia e assolutismo sparisce, violenza e diritto si legano tra loro. Agamben non intende sollevare tale problema solo per rispondere ad una lacuna normativa delle costituzioni degli Stati democratici, che dev’essere comunque integrata dal giudice, ma il nostro filosofo intende presentare lo «stato di eccezione» quale frattura essenziale che si situa fra «la posizione della norma e la sua applicazione»23 ed è propria del mondo tardo-moderno tecno-capitalista. Nello «stato di eccezione» si assiste al paradosso secondo cui lo «stato di diritto» si rende possibile come zona in cui l’applicazione dei diritti è sospesa mentre la legge come tale rimane in vigore24.Tale Ibid., 1.8. Ibid., 1.11. Afferma il filosofo alla fine del suo saggio: «Se è vero che l’articolazione fra vita e diritto, anomia e nomos prodotta dallo stato di eccezione è efficace, ma fittizia, non si può, tuttavia, trarre da ciò la conseguenza che, al di là o al di qua dei dispositivi giuridici, si dia da qualche parte un accesso immediato a ciò di cui essi rappresentano la frattura e, insieme, l’impossibile composizione. Non vi sono, prima, la vita come dato biologico naturale e l’anomia come stato di natura e, poi, la loro implicazione nel diritto attraverso lo stato di eccezione. Al contrario, la stessa possibilità di distinguere vita e diritto, anomia enomos coincide con la loro articolazione nella macchina biopolitica. La nuda vita è un prodotto della macchina e non qualcosa che preesiste ad essa, così come il diritto non ha alcuna assise nella natura o nella mente divina. Vita e diritto, anomia e nomos, auctoritas e potestas risultano dalla frattura di qualcosa a cui non abbiamo altro accesso che attraverso la finzione della loro articolazione e il paziente lavoro che, smascherando questa finzione, separa ciò che si era preteso di unire. Ma il disincanto non restituisce l’incantato al suo stato originario: secondo il principio per cui la purezza non è mai nell’origine, esso gli dà soltanto la possibilità di accedere a una nuova condizione» (ibid., 6.11). 22 23 24
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modello richiede per la sua attuazione il passaggio dallo «stato di diritto», proprio della modernità-liberale, alla «stato di eccezione», quest’ultima intesa non più come «caso limite» del primo ma come unica forma di governo possibile. Tra le esperienze di «stato di eccezione» Agamben elenca le dittature del recente passato ma anche quelle del nuovo Millennio che riguardano gli Stati nazionali che hanno subito attentati terroristici in USA e in Europa a partire dagli anni Duemila. 2.2. «Stato di eccezione» e immunità in Roberto Esposito
Accanto alla riflessione di Agamben sullo «stato di eccezione», dobbiamo porre anche la questione della sicurezza e della salute pubblica che, in modo sempre più incalzante, sta prendendo piede nella nostra epoca. A tal proposito, il filosofo Roberto Esposito propone la sua riflessione sul problema dell’immunità evidenziando la difficoltà di far coincidere il principio di «sicurezza immunitaria» con quello di comunità. Infatti, una delle principali questioni sollevate dalle recenti epidemie mondiali (dall’Ebola alla Sars al COVID-19) è come poter difendere l’organismo sociale senza rischiare, per ciò stesso, di indebolirlo, esattamente come accade nel sistema immunitario di un corpo umano. In che modo, cioè, l’alzarsi della soglia di sensibilità degli agenti aggressori rende il corpo sociale più debole? Come la protezione immunitaria può diventare, a volte, il motivo stesso della malattia? Il punto cieco a cui sembra pervenire lo sviluppo del modello tardo-moderno di biopolitica è quello della «sindrome auto protettiva» la quale «non soltanto finisce per relegare sullo sfondo ogni altro interesse […] ma produce l’effetto opposto rispetto a quello desiderato»25. Infatti, anziché adeguare la protezione all’effettivo livello del rischio, accade di aumentare la percezione del rischio al crescente bisogno di protezione,«facendo così della stessa protezione uno dei maggiori rischi»26. Il risultato è perciò stesso paradossale. Nel nuovo 25
R. ESPOSITO, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino 2002, ebook, 1.8.
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modello di comunità, il bisogno di garantire la massima “sicurezza pubblica”, contro ogni possibile contaminazione, annienta l’idea stessa di comunità e «al rischio sempre più diffuso del comune risponde la difesa sempre più serrata dell’immune»27. Si chiede, quindi, il filosofo: «se la comunità costituisce lo sfondo di senso rispetto al quale solamente l’immunità assume rilievo, come si determina la loro relazione?». Se con il nazismo la questione dell’immunità consisteva nella purezza del sangue e della razza, oggi si assiste ad un’immunizzazione della comunità in forza del “mito” della salute pubblica, dell’eccessivo igienismo e della purità del corpo-sociale. Questa continua impresa di immunizzazione del “comune” ha prodotto di fatto quella che Natoli chiama una «convalescenza generalizzata»28 secondo la quale il corpo sociale è pensato sempre in astratto come un corpo malato e in concreto come un organismo da difendere; in entrambi i casi, però, il soggetto è de-soggettivizzato. Dinanzi alla presunta opposizione tra immunità e comunità come poter scegliere tra la condizione di salute e il rimando più originario ed impegnativo della communitas? Come uscire da questa sorta di cortocircuito dello «stato immunitario»? Il dilemma posto da Esposito ha aperto nuovi spiragli di riflessione: la biopolitica degli Stati ipertrofici, nonostante siano più attenti a garantire i propri apparati di sicurezza, sono sempre meno pronti a prendere le difese di coloro che la politica definisce l’«immigrato» e lo «straniero» perché possibili untori di malattie oppure perché «fuori legge». La conclusione a cui arriva Esposito è una sorta di dialettica che mette insieme e combina l’immune col comune in una sorta di necessaria e pacifica contaminazione che egli chiama «immunità comune». Gli esempi di corpi che attuano questa soluzione sono illustrati da Esposito nel suo testo. Tra tutti, quello più significativo, è il caso del feto accolto nel corpo «estraneo» della madre. In questo caso il meccanismo d’immunità lavora su un doppio fronte, da una parte il sistema immunitario è rivolto al controllo del feto, dall’altra parte il corpo controlla se stesso. In questo modo, afferma Esposito: 26
L. c. Ibid., 1.2. 28 S. NATOLI, Il fine della politica, cit., 105. 27
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«immunizzando dall’altro, esso immunizza anche da sé. S’immunizza da un eccesso di immunizzazione […] Ma il dato ancora più significativo è che la loro produzione – necessaria ad impedire il riconoscimento dell’estraneità del feto e dunque il suo rigetto – dipende da un certo grado di estraneità genetica del padre: nel senso che se questi risulta troppo affine alla madre, essi non si generano con la relativa conseguenza abortiva»29.
Ogni corpo si trova sempre esposto ad una sorta di necessaria contaminazione che diventa, però, anche la condizione della propria immunizzazione. Questo caso mostra la possibilità di combinare insieme immunità, contaminazione e comunità. Afferma Esposito in un altro passaggio del suo testo: «Nulla è più intrinsecamente votato alla comunicazione del sistema immunitario. La sua qualità non è misurata dalla capacità di protezione rispetto ad un agente estraneo, ma dalla complessità della risposta che esso gli sollecita: ogni elemento differenziale assorbito dall’esterno non fa che allargare ed arricchire la gamma delle sue potenzialità interne. Al di là delle varie formulazioni teoretiche, antropologiche o letterarie, questa è forse l’unica – certamente la prima – esperienza dell’estraneo non soltanto nei confronti, ma nella costituzione stessa, del proprio. Alla sua base non vi è la rammemorazione di un incontaminato principio genetico, ma la sperimentazione della propria originaria alterazione. Prima di ogni altra trasformazione, ogni corpo è già esposto alla necessità della propria esposizione. È la condizione comune di ogni immune: la percezione senza fine della propria finitezza»30.
La tesi di Esposito sull’immunità rimanda all’idea di un «corpo sociale puro» che lo «stato di eccezione» vorrebbe idealmente raggiungere mediante l’utilizzo di tecniche mediche sempre più sofisticate, l’attuazione di sistemi di sicurezza e di controllo sempre più pervasivi e norme governative sempre più stringenti. Tuttavia, l’idea di un «corpo sociale puro» porta con sé l’utopia della «città perfettamente governata» già descritta da Foucault in Sorvegliare e punire la quale richiede «un potere estensivo che preme in modo distinto su tutti i corpi individuali»31. R. ESPOSITO, Immunitas, cit. L. c. 31 M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino 2013, ebook, cap. III. 29 30
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2.3. Scienza e politica: la biocyber-politica
Un’altra questione importante è quella che riguarda il rapporto tra scienze e politica, vale a dire il modo con cui le scienze nel prossimo futuro potrebbero assumere il pieno controllo della gestione dei corpi, rendendo inutile, se non addirittura dannoso, ogni esercizio pubblico di governo. È questo lo scenario disegnato dallo storico e visionario Yuval Noah Harari nel suo saggio Homo Deus. L’opera dello studioso israeliano divenuto ormai una sorta di best-seller mondiale porta il sottotitolo A brief history of tomorrow (2015). Harari narra gli effetti futuri della sempre maggior relazione tra biotecnologie, ingegneria biomedica e ingegnerizzazione di esseri non organici. La scambio di dati tra queste discipline scientifiche mediante algoritmi matematici costituiranno la frontiera della scienza dei prossimi decenni, quando cioè «il sistema globale di elaborazione dati diventerà onnisciente e onnipotente, allora la connessione al sistema diventerà la fonte di ogni significato»32. Il neo-materialismo scientifico di Harari codifica sentimenti e stati emotivi in algoritmi complessi che potranno essere modificati o manipolati. Secondo le sue previsioni, nessuno farà più caso al fatto che il progresso scientifico potrà ledere il libero arbitrio di ogni individuo perché nessuno vorrà rinunciare ad aumentare le proprie abilità fisiche e prestazioni mentali, proprio grazie allo scambio di dati e al loro continuo aggiornamento. Il datismo o la «religione dei dati» codifica anche i nostri processi bio-psichici attraverso sequenze e serie numeriche complesse sicché non ci sarà più bisogno di scegliere dato che ci si troverà ormai in un flusso di dati più grande di noi33. Dal momento in cui questo nuovo e avanzato «sistema dei dati» conoscerà l’uomo meglio di quanto egli conosca sé stesso, gli individui potranno abbandonare i propri giudizi psicologici e affidarsi ai dati raccolti dai database. È possibile, afferma Harari, che tutto ciò migliorerà la vita delle persone34 perché esse non si sentiranno affatto privati della propria liY.N. HARARI, Homo Deus. Breve storia del futuro, Milano 2017, 587-588. Cfr. ibid., 588. 34 Ibid., 517. 32 33
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bertà, anzi saranno finalmente liberi di non dover più decidere. Sebbene ci sentiamo ancora ben lontani dalle previsioni di Harari, non dobbiamo dimenticare che abbiamo già assistito da qualche anno alla compravendita di enormi flussi di dati e di informazioni da parte dei giganti della comunicazione della Silicon Valley. Google, Facebook, Apple, hanno un fatturato di miliardi di dollari l’anno perché qualunque imprenditore che desideri investire e avere successo non può fare a meno di conoscere i dati dei consumatori che registrano gusti e trend dei suoi eventuali clienti. Questo sistema si è imposto prepotentemente anche nel mondo della politica. L’elezione americana del 2016 ha mostrato il potere biopolitico socio-politico dei mezzi di comunicazione. I giornali di tutto il mondo hanno attribuito la vittoria di Donald Trump al contributo che i “giganti” delle comunicazioni hanno dato grazie alla diffusione di fake news sull’avversario Hillary Clinton. La diffusione dei big data (dati di milioni di account registrati sulle piattaforme social) ha creato scandali e aperto processi giudiziari milionari nei confronti di Facebook e di Cambridge Analytica35. L’esempio delle elezioni americane, ma anche la campagna referendaria britannica a favore della Brexit, mostrano il volto della biopolitica tardo-moderna. Questo modello non si gioca più né strettamente in politica né in economia ma nel web che gestisce milioni di account di utenti delle più disparate piattaforme, nelle app contenute nei nostri smartphone e nei Like/Dislike con cui, «attraverso i social media, i cittadini globali si esprimono sugli argomenti più svariati e negli ambiti più disparati»36. La «nuda vita» di cui parla Agamben si è trasposta negli account e nella vita digitale condotta da milioni di utenti nel mondo. Ecco perché la nuova biocyber-politica si gioca oggi su due temi fondamentali: sicurezza e privacy. 35 Sulle dinamiche che hanno innescato lo scandalo Facebook-Cambridge Analytica consigliamo i seguenti giornali online:https://www.theguardian.com/news/2018/mar/18/what-is-cambridge-analytica-firm-at-centre-of-facebook-data-breach; https://financecue.it/cambridge-analytica-riassunto-delloscandalo/9334/. 36 D. GENTILI, Crisi come arte di governo, Macerata 2018, 7. Continua più avanti Gentili: «Pertanto, deve configurarsi uno stato d’eccezione o d’emergenza perché ci siano le condizioni per un giudizio finale e risolutore; è infatti soltanto nella crisi che tale giudizio diventa “politico”, cioè soltanto quando il governo politico in carica non è più in grado di per sé di conservare il potere» (ibid., 8).
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L’evento dell’11 settembre aveva già cambiato la vita di milioni di uomini sulla Terra (dal controllo agli aeroporti alla registrazione dei dati personali) e, da allora, abbiamo sperimentato in che modo una maggiore libertà comporti anche una minore privacy e come una maggiore privacy registri una minore sicurezza. Il cane si morde la coda e l’uomo occidentale si è trovato spesso a spezzare il circolo vizioso preferendo la sicurezza alla privacy. Privacy e sicurezza sono diventati i due saperi della biocyber-politica mediante i quali gli Stati capitalisti esercitano i loro poteri, a volte in modo indiscriminato ma pur sempre legittimato. 3. BIOPOLITICA DELLO STATO EMERGENZIALE: IL CASO DEL COVID-19
In seguito agli attentati terroristici negli USA del settembre 2001, il governo Bush ha dichiarato nel novembre di quell’anno guerra al terrorismo. Oggi quella guerra non solo non è ancora finita, ma sembra si sia spostata in Europa dove ha acquisito nuove strategie di combattimento e armi di battaglia più sofisticate. Le continue crisi finanziarie, le recessioni economiche degli Stati, gli attacchi informatici da parte di hacker, il furto dei dati rappresentano il nuovo modo di «entrare in lotta» dopo la fine delle grandi guerre del secolo scorso. Anche la democrazia è entrata in crisi e la dichiarazione continua di «stato di eccezione» da parte degli Stati è il sintomo più evidente. Tale «stato di eccezione» è stato dichiarato dal governo francese dopo gli attentati di Parigi del novembre 2015. Per molti studiosi questo «stato di assedio» continuo e ininterrotto rappresenta di fatto la fine dello «stato di diritto», laddove in nome della sicurezza pubblica il governo è autorizzato e legittimato ad assumere pieni poteri di governo e di controllo. Questa esperienza, già ravvisata da Schmitt e teorizzata meglio da Agamben37, rende possibile l’esistenza di uno stato sovrano all’interno della democrazia, anzi quale garanzia stessa della stessa. Tuttavia, la portata politica e sociale dello stato emergenziale 37 Per conoscere il pensiero politico di Carl Schmitt vedi l’importante saggio di C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna 1996.
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è stata enorme negli ultimi vent’anni38. L’attacco terroristico alle Torri Gemelle nel 2001, la successione di attentati in Europa dal 2005 al 2015 hanno portato spesso i governi a legittimare l’uso dei «pieni poteri» bypassando il parlamento oppure il confronto pubblico. La pandemia del 2020 ha mostrato ancora una volta l’uso di questo meccanismo di governo politico, ma non solo. Il dilagare del COVID-19 nei Paesi europei e negli USA ha mostrato il tallone di Achille del sistema tecno-capitalista quando, in nome della sicurezza e della salute pubblica di una nazione, lo scambio di informazioni ha messo in pericolo la privacy e, in alcuni casi, leso la libertà di milioni di cittadini. Su sicurezza e privacy si è giocata ancora una volta la politica di molti Stati. Dinanzi ad una situazione drammatica e di emergenza come quella pandemica, la democrazia è stata sospesa in nome della sicurezza pubblica. In questo modo, milioni di cittadini sono rimasti confinati nelle loro case per settimane o per mesi sperimentando sia il prezzo della loro sicurezza sia quello della loro libertà, avvertendo la sospensione di qualche diritto e un’ulteriore violazione della loro privacy attraverso il controllo capillare degli infetti, lo spostamento dei cittadini tracciati mediante continue registrazioni e prenotazioni prima dell’accesso nei luoghi pubblici e le app che controllano gli spostamenti degli utenti.
38 La distinzione tra lo «stato di emergenza» e lo «stato di eccezione» è molto importante per comprendere il caso del COVID-19 che stiamo analizzando. Infatti, mentre lo «stato di emergenza» possiede una natura «conservativa», nel senso che all’emergenza si ricorre per rientrare quanto prima alla normalità, cioè alla situazione precedente e presuppone perciò la stabilità di un sistema previo, lo «stato di eccezione» possiede, per così dire, una natura «innovativa» e mira al disfacimento del vecchio sistema per introdurne uno nuovo. Seguendo l’intuizione di Agamben, però, ci sembra di poter sostenere che, nel caso della pandemia causata dal coronavirus, tra i due «stati» non vi è stata più alcuna differenza. Lo «stato di emergenza», dovuto alla diffusione del virus e all’iniziale impreparazione dei presidi sanitari, ha causato lo «stato di eccezione» senza che alcuno parlasse più di un «ritorno alla normalità». L’emergenza ha provocato l’eccezione e l’eccezione è divenuta la normalità sicché, potremmo pure dire, l’emergenza non è più stata un’eccezione. Afferma Agamben in un articolo online pubblicato il 30 luglio 2020 sul suo sito dal titolo Stato di eccezione e stato di emergenza: «sono stati sospesi e violati diritti e garanzie costituzionali che non erano mai stati messi in questione, neppure durante le due guerre mondiali e il fascismo; e che non si tratti di una situazione temporanea è affermato con forza dagli stessi governanti, che non si stancano di ripetere che il virus non solo non è scomparso, ma può riapparire a ogni momento» (cfr. https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-stato-di-eccezione-e-stato-di-emergenza). Vedi anche l’interessantissimo articolo di Andrea Monti su https://formiche.net/2020/07/statodi-emergenza-conte/.
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Che tipo di biopolitica si è attuata ai tempi del coronavirus? In cosa è consistito lo Stato d’eccezione durante la pandemia? La pandemia del 2020 ha coinvolto buona parte del globo terrestre. Gli Stati che ne sono stati colpiti da Oriente a Occidente hanno attuato la strategia della quarantena e del lockdown per tutta la popolazione con modalità per lo più simili. La politica in quei mesi ha visto “saltare” i protocolli, violare i patti di stabilità e i vari accordi tra gli Stati39. Negli stati democratici i parlamenti non sono mai stati così coesi dato che i presidenti delle diverse Camere non hanno più consultato gli altri esponenti politici e le decisioni più importanti venivano prese dai singoli o dai pochi politici rimasti nel palazzo di Governo. L’eccezione di chi governa non ha previsto la maggioranza né il consenso di chi è governato, anzi ha trovato forza nell’opinione pubblica e nel politically correct. Si è venuto a creare un vero e proprio stato-emergenziale in “assetto di guerra” dove si doveva decidere chi curare e chi no a causa del sovraffollamento dei reparti di terapia intensiva (vedi il caso dell’ospedale di Bergamo in Italia40). In alcuni casi l’intero sistema sanitario è saltato a causa della mancata assicurazione sanitaria (vedi l’esempio tragico degli USA), mentre alcuni grandi Paesi come l’India, in stato di maggiore allerta per il gran numero della popolazione, ha dovuto applicare la legge marziale. Nei Paesi più democratici come quelli europei la costituzione è stata “legittimamente violata” e l’economia liberale è stata messa in crisi senza che nessuno potesse dire e fare nulla perché era in gioco la sicurezza e la salute di tutti. Questi elementi ci fanno riflettere e ci permettono di sostenere che il caso pandemico del COVID-19 ha innescato un fattore nuovo e importante di biopolitica. In Italia, Agamben aveva iniziato a sollevare le perplessità sulla militarizzazione delle aree nei quali risultava positiva almeno una persona e la rapida estensione dello «stato di eccezione» in tutto il
39 Altri effetti sono stati anche il fatto che i media e i giornali hanno improvvisamente smesso di parlare dei migranti, è stata distolta l’attenzione dalla guerra in Medio Oriente, ecc. 40 Cfr. https://www.agi.it/politica/news/2020-03-09/coronavirus-ospedali-cure-priorit-pazienti7387467/.
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Paese considerando le gravi limitazioni della libertà previste41. A quest’ultimo e al più recente articolo sulla lettura manzoniana del «contagio»42 del filosofo italiano aveva risposto con toni duri Flores d’Arcais il quale sosteneva che dinanzi alle «farneticazioni di Agamben» bisognava adeguarsi alle norme della quarantena contro la diffusione del virus. Al grido di «più illuminismo, scienza, ricerca» Flores d’Arcais restituisce al sapere delle scienze il diritto di parola contro «superstizioni, guru e santoni» che diffondono «elucubrazioni oniriche para o post teologiche»43. A queste provocazioni Agamben risponde ricordando che in passato ci sono state epidemie ben più gravi, ma nessuno aveva mai pensato di dichiarare per questo uno stato di emergenza impedendo di muoversi. Se questo è stato possibile, continua Agamben, è perché «gli uomini si sono così abituati a vivere in condizioni di crisi perenne e di perenne emergenza che non sembrano accorgersi che la loro vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica e ha perso ogni dimensione non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva»44. Un ruolo importante è stato svolto dai media e dai giornali i quali hanno «creato il virus» nel senso che hanno trasmesso nelle case dei cittadini un senso diffuso di insicurezza, facendo percepire il pericolo anche laddove non esistevano realmente casi di contagio. Agamben rivela, a nostro avviso giustamente, che «una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera» e sarebbe ingiustificabile, invece, vivere in una società che «ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza»45. Alcuni studiosi hanno posto la questione sul piano politico e morale questa volta contro l’arroganza di Sloterdijk e la «stupidità» di alcuni intellettuali (tra cui lo stesso Agamben). Alain Finkielkraut riG. AGAMBEN, L’invenzione di un’epidemia, in Quodlibet del 26 febbraio 2020. G. AGAMBEN, Contagio, in Quodlibet dell’11 marzo 2020. 43 P. FLORES D’ARCAIS, Filosofia e virus: le farneticazioni di Giorgio Agamben, in Micromega del 16 marzo 2020. 44 G. AGAMBEN, Chiarimenti, in Quodlibet del 17 marzo 2020. 45 L. c. 41 42
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conosce, ad esempio, di trovarsi dinanzi a un evento mai conosciuto prima e per questo imprevedibile che ha permesso ai politici di riguadagnare il primato della politica sull’economia46. In un altro articolo apparso su Le Figaro, riportato poi sulla testata italiano Il Foglio con il titolo Il nichilismo non ha vinto, lo stesso Finkielkraut affermava che il confinamento ha saputo cambiare la natura stessa della solidarietà, passando dall’effusione e dall’apprezzamento degli altri al gesto fraterno della distanza e della barriera, alimentando così un inusuale senso civico. Il fatto che la vita di un anziano vale tanto quella di una persona in pieno possesso delle sue forze, dinanzi ad una logica sempre più utilitarista, significa che «il nichilismo non ha ancora vinto e che restiamo una civiltà». Il discorso di Finkielkraut prende una piega morale che lo porta ad avere qualche timida speranza sul rinnovamento spirituale che potrebbe derivare da questa nuova situazione: «Se l’uomo, con il confinamento, prende coscienza di non essere il solo, forse, quando la macchina ripartirà, conserverà nelle orecchie la bellezza del silenzio. Forse ritroverà anche il gusto di condividere la Terra, il rispetto delle distanze e il senso dell’indisponibile»47. Su questa linea si pone anche il delicato articolo di Francesco Valerio Tommasi che nell’Osservatore romano del 3 aprile 2020 dove spiega che accettare una regola di contenimento non solo è il contrario di un passaggio verso una società autoritaria e repressiva, come pensava Agamben, ma «può essere invece un passo di contestazione di quel totalitarismo della nostra epoca che è la società del consumo». In questo modo, spiega Tommasi nel suo articolo, ci si scopre nuovamente comunità dato che «un confine posto oggi all’individuo, per compassione verso i fragili, è un seme per una società della solidarietà e della cura»48. Una trattazione a parte merita la riflessione della filosofa italiana Donatella Di Cesare la quale evidenzia la complessità dei fenomeni 46 A. FINKIELKRAUT, Franzosische Kontroverse, Die Niederlageder Denker, in Frankfurter Allgemeine dell’1 aprile 2020. 47 A. FINKIELKRAUT, Il nichilismo non ha vinto, in Il Foglio del 6 aprile 2020. 48 F.V, TOMMASI, La libertà come cura, in L’Osservatore Romano del 3 aprile 2020.
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che il sovranismo dello stato d’eccezione è venuto a creare durante la pandemia: una crescente e radicale disparità tra protetti e indifesi, il dominio della bio-tele-tecnologia, il complottismo, la sospensione legittimata delle democrazie, la fobocrazia e il timore dell’altro, l’allarme per ciò che viene da fuori (puntando il dito prima sulla Cina infetta, poi sull’Italia), l’ansia della precarietà, la voglia di essere immuni, la nascita di una democrazia immunitaria o medico-pastorale, la creazione di un cittadino-paziente (nel doppio significato del termine)49. La filosofa colloca insieme gli eventi storici degli ultimi vent’anni come tasselli di un unico grande mosaico che mostrano in che modo l’alba del terzo millennio sia caratterizzata da «un’enorme difficoltà di immaginare il futuro»50. La Di Cesare evidenzia, però, anche il carattere «sovrano» che caratterizza lo stesso virus, non solo per il nome con cui è stato battezzato, ma in forza soprattutto dei paradossi e dei rovesciamenti continui che la pandemia ha azionato fino a far implodere il sistema capitalistico. La democrazia si è come «svuotata» diventando «sempre più formale, sempre meno politica»51, mentre l’Unione Europea si è rivelata «un’assemblea scomposta di comproprietari, un coacervo di nazione che […] si contendono lo spazio per difendere ciascuno i propri interessi»52. La pandemia, infatti, qualunque sia la sua origine, ha saputo paralizzare l’intera civiltà umana, superando barriere e muri patriottici e rivelando all’uomo la sua estrema vulnerabilità. Per la filosofa la pandemia ha mostrato, da una parte, la spietatezza del capitalismo (chi stabilisce il confine tra il cittadino-esposto e il cittadino-paziente?) e, dall’altra, l’eccezione sovrana su cui poggia l’istituzione democratica oggi: «Il diritto sovrano si esercita nel contenere e nell’escludere in un dispositivo complesso e dinamico. Non è un caso che gli Stati si delegittimino recipro-
49 Si tratta di termini che la Di Cesare utilizza nel suo nuovo libro Virus sovrano?, Torino 2020. Vedi soprattutto le pagine 28-45. 50 Ibid., 14; cfr. anche D. DI CESARE, Anche per lo stato d’eccezione la paura è un boomerang, in Il Manifesto dell’1 marzo 2020. 51 ID., Virus sovrano?, cit., 27. 52 Ibid., 50.
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Salvatore Rindone camente. E quel che conta è l’immunità: sovrano è chi protegge dalla conflittualità diffusa lì fuori, chi biocontiene e salvaguarda, in uno scontro memorabile, che domina la narrazione occidentale, tra ambiti progressisti della democratizzazione, dove hanno diritto di abitare gli immuni, e le periferie della barbarie, dove possono essere esposti tutti gli altri. In questo favoloso racconto non si parla della violenza poliziesca che la sovranità post-totalitaria è legittimata a esercitare sugli “altri” e si trascurano anche i pericoli che incombono sugli immuni e i presunti immunizzati»53.
La preoccupazione della filosofa riguarda soprattutto il periodo politico ed economico che si prepara al dopo coronavirus. La nuova dittatura dello stato emergenziale, infatti, ha rafforzato i poteri dei capi di Governo (come nel caso di Trump negli USA), ha attribuito pesi straordinari alle forze dell’ordine, ha militarizzato lo spazio pubblico, ha azionato nuovi apparti di controllo e di repressione. La tecnica con i suoi mezzi di comunicazione e di controllo ha svolto un ruolo importantissimo, rivelando maggiormente quel rapporto ambivalente che da sempre possiede rispetto alle nostre vite: «chi la impiega, viene impiegato, chi ne dispone, viene scalzato»54. Le nostre relazioni sono state mediate da apparati tecnici che sono diventati insostituibili e necessari: lo schermo del personal computer e dello smartphone sono diventati l’unico modo di accesso alla polis e ai suoi diritti fondamentali (diritto allo studio, ad esempio), compreso anche quello della libertà. Per la professoressa romana non possiamo ignorare che la tecnica si è impossessata anche del ruolo della politica laddove questa ha abdicato apertamente alla scienza e dove la polis sembra essere sparita. Contro il timore che l’epidemia possa inaugurare «un’era del sospetto generalizzato, dove ognuno è per l’altro un untore potenziale, una minaccia permanente»55, la studiosa afferma che la svolta epocale a cui la pandemia ha portato gli stati tardo moderni riguarda soprattutto la biopolitica che, in questo tempo, si è potenziata diventando «immunopolitica»56. Ibid., 28. Ibid., 29; cfr. anche D. DI CESARE, Anche per lo stato d’eccezione la paura è un boomerang, in Il Manifesto dell’1 marzo 2020. 55 ID., Virus sovrano?, cit., 49. 56 Ibid., 87. 53 54
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CONCLUSIONI
Dinanzi al nuovo paradigma emergenziale-sicuritario che si è venuto a creare con la pandemia del 2020, lo Stato di diritto può permettersi di imporre soluzioni che sarebbero discutibili in situazioni normali, come la tracciabilità dei movimenti, la presenza indiscreta e capillare dell’esercito, e che in situazioni come quelle di emergenza sanitaria e pubblica appaiono, però, del tutto giustificate, anzi promosse e garantite. Il nuovo paradigma biopolitico che si è venuto a delineare agisce sulla vita dei cittadini in modo indiscriminato, «organizza “spazi”, disciplina “i corpi”: è ovunque e in nessuna parte»57. Viene leso l’ormai “vecchio” diritto alla libertà personale del modello moderno-liberale e si giustifica la sua assenza in nome della “nuova” cara sicurezza dei popoli. Quello che accade nella nuova «immunopolitica», come chiosa la Di Cesare e come sostiene Esposito nel suo saggio del 2002, è l’idea paradossale di proteggere la vita separandola da ciò che la rende tale (la realtà, il contatto con gli altri, la scuola e il lavoro, i teatri, ecc.); in questo modo essa tende a proteggere la vita, sospendendola. Le condizioni storico-sociali sono del tutto nuove e richiedono per questo un margine di tempo necessario affinché si possano analizzare con maggiore efficacia e obiettività. Ciò che è successo in relazione all’emergenza pandemica del COVID-19 solleva nuove questioni di carattere filosofico che qui abbiamo accennato. Le strategie politiche messe in atto dai diversi Stati hanno mostrato la debolezza del modello liberal-democratico, in primis quello dell’Unione Europea. Proprio l’UE si è rivelata incapace di pensare una politica d’insieme e comunitaria che agisca in funzione e a favore di tutti gli Stati dell’Unione. La pandemia ha rivelato il carattere debole dei patti economici ma anche quello forte dei cittadini europei. Pensare in astratto la sua politica economica ha reso l’Europa inadeguata ad affrontare l’epidemia e la conseguente crisi dei mercati. L’impossibile binomio sicurezza-privacy ha portato il mondo capita-
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S. NATOLI, Il fine della politica, cit., 99.
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lista a dover scegliere tra lavorare oppure rischiare di ammalarsi, assicurare la ripresa dei mercati oppure veder crollare le borse. Certamente nessuno potrà mai scegliere veramente tra sentirsi sicuri e sentirsi controllati, si tratta di una scelta dinanzi alla quale nessuno dovrebbe mai trovarsi così come nessuno dovrebbe mai scegliere tra il diritto alla propria libertà e quello alla propria salute. Ciò che emerge alla fine della nostra analisi è l’emergenza di una biopolitica comunitaria che nessuno sa quando finirà: ci sarà mai qualcuno che proclamerà la fine dello stato emergenziale? Quando si tornerà alla «normalità»? Ma cosa è diventata ormai la «normalità»? Questo modello di governo rischia di diventare permanente nella misura in cui diventa l’unico possibile per poter governare, così come sostiene Agamben? Se il tempo della politica è finito, come avverte Natoli, non è finito quello della biotecnopolitica, cioè il tempo della complessità generalizzata e del «governo della contingenza»58. Dobbiamo credere come propone il filosofo siciliano che «solo una logica del virtuale può essere all’altezza della contingenza»?59 Dobbiamo credere che una società ampiamente differenziata bandisca l’idea di un bene comune univocamente definito? È possibile che la politica abbia come compito solo quello di «fronteggiare emergenze» anziché indicare destini in forza del «perpetuo transitare» a cui siamo sottoposti?60 Cosa significa, come afferma ancora Natoli, che il proprium della politica sia «evitare il dolore evitabile»?61 Potrà mai essere questo il suo unico compito possibile? A noi sembra ancora troppo poco. La pandemia ha certamente acuito la consapevolezza che «nessuno si salva da solo»62 perché sulla barca di questo mondo «ci siamo Cfr. ibid., 110-112. Ibid., 113. 60 Cfr. Ibid., 117-118. Afferma Natoli nell’Epilogo del suo saggio: «La politica ha, oggi, avanti a sé, un tempo senza fine. Opera nello spazio di un perpetuo transitare: non può, dunque, avere un éschaton, ma mantiene tuttavia il suo télos:che non è una meta finale da raggiungere, né un fine esterno da perseguire, ma è la ragione immanente ad ogni ente perché esso sia “quello che è”, per il suo esistere. […] compito della politica è e resta quello di garantire la giustizia, moderare i conflitti, mantenere la pace, provvedere al pubblico benessere: infine, permettere a ognuno di perseguire la propria felicità. Se così è, la politica non può non tenere in vista il futuro e, per farlo, deve eleggere fini, avere visioni» (Ibid., 125). 61 S. NATOLI, Il fine della politica, cit., 128. 58 59
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tutti». Il dilemma tra immunità e comunità ha rivelato la sua inconsistenza dato che non esiste alcuna immunità che non sia sempre della comunità e visto che il non-immune deve avere sempre diritto di cittadinanza. La politica non può solo gestire emergenze ma deve tornare a costruire spazi e tempi di relazione, siano essi reali o virtuali. Il vero rischio è, infatti, quello di una «democrazia immunitaria» che fa del «distanziamento sociale» la soluzione contro l’eventuale propagarsi del contagio ma che diventa, anche, il presagio di una democrazia sempre più astratta e insicura.
62 Questo è stato l’invito di papa Francesco nel discorso tenuto in Piazza San Pietro il 27 marzo 2020 in piena pandemia.
SYNAXIS XXXVIII/2 - 2020 (167-188)
L’ANNUNCIO DEL VANGELO NEL MONDO CONTEMPORANEO PER IL TRAMITE DEGLI STUDI ECCLESIASTICI UNA LETTURA DELLA COSTITUZIONE APOSTOLICA VERITATIS GAUDIUM
GIANLUCA BELFIORE*
Gli studi ecclesiastici «non sono solo chiamati a offrire luoghi e percorsi di formazione qualificata dei presbiteri, delle persone di vita consacrata e dei laici impegnati, ma costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo e che si nutre dei doni della Sapienza e della Scienza di cui lo Spirito Santo arricchisce in varie forme tutto il Popolo di Dio: dal sensus fidei fidelium al magistero dei Pastori, dal carisma dei profeti a quello dei dottori e dei teologi»1.
1. CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Non ci si aspetti da questo contributo un esame partito delle disposizioni di Veritatis gaudium2 e delle sue Ordinationes3. Ciò è stato * Officiale della Segreteria di Stato. 1 Dal Proemio di Veritatis gaudium. 2 FRANCISCUS, Constitutio apostolica de Universitatibus et Facultatibus ecclesiasticis: Veritatis gaudium, in L’Osservatore romano, CLVIII (2018), 14 settembre, inserto speciale, 2-13. D’ora in poi VG. 3 Congregazione per l’Educazione cattolica (degli Istituti di studi), Norme applicative della Congregazione per l’Educazione Cattolica per la fedele esecuzione della Costituzione apostolica Veritatis gaudium, in L’Osservatore romano CLVIII (2018), 14 settembre, inserto speciale, 14-19.
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già fatto con grande perizia dal prof. Bruno Esposito ai cui pregevoli lavori non possiamo che rinviare4. Qui, senza ricostruire tutta la storia normativa concernente il peculiare aspetto del Munus docendi Ecclesiae di cui ci occupiamo5, tenteremo di indicare lo spirito della riforma degli Studi universitari che s’incanala nel solco di quel «radicale cambio di paradigma»6 che viene incoraggiato da papa Francesco. Egli è assertore del fatto che «quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca»7, che «ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale»8. Ciò nasce come risposta alla considerazione che «oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede –specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata»9. Perché come scrisse papa Benedetto XVI, nel 2012, indicendo l’Anno della Fede: «mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti
4 B. ESPOSITO, La nuova Costituzione apostolica circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche e le annesse norme applicative, in Folia Theologica et Canonica 21 (2018) 161-210; ID., Presentación y comentario de la Constitución Veritatis gaudium y de las Ordinationes anejas, sobre las Universidades y Facultades eclesiásticas, in Ius Canonicum 58 (2018) 813-956. 5 Tale ricostruzione è stata già magistralmente fatta dallo stesso B. ESPOSITO, Università e Facoltà ecclesiastiche: un secolo di normative da parte della Santa Sede (1917-2017), in Monitor Ecclesiasticus 132 (2017) 635-700 e, in lingua francese, P. CURBELIÉ, De Sapientia christiana (1979) a Veritatis gaudium (2017), in Educatio Catholica 4 (2018) 2, 13-44. Per una trattazione generale sul Munus docendi, si vedano: C.J. ERRÁZURIC M., La parola di Dio quale bene giuridico ecclesiale. Il munus docendi della Chiesa, Roma 2012; J.A. FUENTES, La función de enseñar en el Derecho de la Iglesia, Pamplona 2017; R. CALLEJO DE PAZ, La función de enseñar en el Derecho y en la vida de la Iglesia, Madrid 2013. 6 VG 3. 7 FRANCESCO, Discorso: Alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi (21 dicembre 2019), in http://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/december/documents/papa-francesco_20191221_curia-romana.html (16 maggio 2020). 8 FRANCISCUS, Epistola enciclica de communi domo colenda: Laudato si’, in AAS, CVII (2015) 9, 114, 847-945. D’ora in poi LS. 9 FRANCESCO, Discorso: Alla Curia Romana, cit. (21 dicembre 2019).
L’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo
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della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone»10. In tale mutata situazione, sottolinea papa Francesco nel celebre discorso alla Curia Romana sopra richiamato, «siamo sollecitati a leggere i segni dei tempi con gli occhi della fede, affinché la direzione di questo cambiamento risvegli nuove e vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi»11. La volontà di leggere i segni dei tempi e di dotarsi di strumenti intellettuali per poterli interpretare e darvi una lettura sapienziale alla luce dell’unificante evento della Rivelazione, ha portato il Romano Pontefice a promulgare la Costituzione Apostolica che commentiamo. Si badi che, a livello normativo, la riforma non travolge il previgente impianto degli studi con cui, piuttosto, è in continuità12 e, addirittura, il proemio di SCh viene integralmente riportato in appendice al documento; ciò che muta – come si vedrà – è l’approccio che si ha con gli studi ecclesiastici e, più in genere, con la dimensione culturale. Tale approccio, di cui tratteremo, attenendo ai principi informanti la materia, non si sostanzia in immediate e sostanziali novazioni normative di dettaglio, ma, piuttosto, induce processi che generino – nel tempo – nuovi dinamismi che cambieranno il modo di fare teologia13. In dottrina è stato evidenziato che fra SCh e VG, cambiando la prospettiva, il contesto interpretativo della norma, cambia la norma stessa: 10 BENEDICTUS XVI, Litterae apostolicae Motu proprio datae quibus annus fidei incohatur: Porta fidei, in AAS, CIII (2011) 11, 2, 723-734. Testo orig.: «Cum actis temporibus agnosci potuerit una quaedam cultus conformatio, quae late reciperetur, quod fidei praecepta eiusque contenta bona attinebat, hodie in magnis societatis partibus non ita videtur, fide funditus in discrimine versante, quod complures personas attigit». 11 FRANCESCO, Discorso: Alla Curia Romana, cit. (21 dicembre 2019). 12 Le modifiche, infatti, rispetto a Sapientia christiana (IOANNES PAULUS II, Const. ap. de studiorum Universitatibus et Facultatibus ecclesiasticis: Sapientia christiana, in AAS, LXXI [1979], 469-499) – d’ora in poi, SCh, non sono particolarmente numerose (cfr. B. ESPOSITO, La nuova Costituzione, cit., 208). 13 È, in altri termini, un’applicazione del principio secondo cui “il tempo è superiore allo spazio”, di cui in: FRANCISCUS, Adhortatio apostolica: Evangelii gaudium, in AAS, CV (2013), 223, 1019-1137. D’ora in poi EG.
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Gianluca Belfiore «se SCh insiste sulla missione evangelizzatrice, cui è funzionale anche l’inculturazione promossa tramite gli studi, e sulla fedeltà alla tradizione “da sempre autenticamente interpretata dal magistero”, VG insiste sulla riforma della Chiesa in vista di un rinnovato annuncio del Vangelo (non si tratta cioè di come farsi capire da altri, ma di come ripensare la Chiesa perché l’atto evangelizzatore sia efficace) e sulla necessità di ricercare questo rinnovamento attingendo ai contesti culturali di oggi, in dialogo con tutti i saperi (non si tratta cioè di “applicare” il Vangelo ad un contesto, ma di comprendere la realtà sempre nuova alla luce del Vangelo e di attingere dal contesto nuove interpretazioni del Vangelo stesso)»14.
È un rinnovamento che, come è stato segnalato, ha bisogno «di “discernimento, di purificazione e di riforma” (EG 30) che si realizza in dialogo con la storia e con il presente15. Non solamente con la storia, perché condurrebbe a dare risposte a partire da un tradizionalismo avulso dalla realtà. Neppure solo con il presente, perché diventerebbe una riflessione senza radici»16. È un tassello del più ampio disegno di riforma della Chiesa in chiave missionaria17 ben rappresentato da papa Francesco al n. 27 dell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di ‘uscita’ e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai vescovi dell’Oceania, “ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale”»18.
14 S. SEGOLONI RUTA, Veritatis gaudium: Quale teologia per quale Chiesa?, in Convivium Assisiense 21 (2019) 1, 11. 15 È stato scritto che «Bisogna ritornare al paradigma ecclesiale in cui l’approfondimento della fede è stimolato dall’autentico e vivo dibattito culturale contemporaneo e, a sua volta, lo stimola» (L. SPEZIA, Alcune considerazioni sullo studio della Filosofia in ambito ecclesiale, a partire dalla Costituzione apostolica Veritatis gaudium, in Convivium Assisiense 21 (2019) 1, 94. 16 P. DI LUCCIO - J.L. NARVAJA, «Veritatis gaudium» e rinnovamento degli studi ecclesiastici, in La Civiltà cattolica 170 (2019) 2, 4053, 272. 17 Cfr. A. SPADARO - C.M. GALLI (curr.), La riforma e le riforme nella Chiesa, Brescia 2016.
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2. ALLA RICERCA DI UN…“SOTTOTITOLO”
Non si può entrare nel vivo della trattazione della Costituzione apostolica di papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche senza prima passare, anche materialmente, dalle prime due parole del documento che ne caratterizzano il contenuto e l’approccio: Veritatis gaudium. L’espressione di sapore agostiniano e tomistico insieme richiama la triplice gioia dello studioso: quella di ricercare la verità, quella di scoprirla e quella di comunicarla19. Il termine gaudium insieme a laetitia sono ricorrenti nei più rilevanti atti magisteriali del Romano Pontefice – basti pensare alle sole Esortazioni apostoliche Evangelii gaudium, Amoris laetitia20, Gaudete et exsultate21 – e riteniamo siano ricollegabili alla Costituzione pastorale del Concilio ecumenico Vaticano II Gaudium et spes22. Il papa, infatti, sin dal titolo dei suoi atti, vuole rimarcare che il suo Pontificato è nello spirito del Concilio cui vuol dare attuazione con ogni sua azione pastorale e di governo. Pensiamo anche che, se è d’uopo trovare un fil rouge con il precedente magistero papale, la prima parola, ossia Veritatis, possa ricollegarsi alla Enciclica di Giovanni Paolo II Veritatis splendor23. Se la Costituzione conciliare concerne la Chiesa nel mondo contemporaneo e l’Enciclica appena richiamata riguarda alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa, potremmo sottotitolare la VG: “sugli studi ecclesiastici nel mondo contemporaneo”. EG 27. AUGUSTINUS HIPPONENSIS, Confessiones, X, XXIII, 33, in PL 32, 793-794: «Beata quippe vita est gaudium de veritate. Hoc est enim gaudium de te, qui veritas es, Deus illuminatio mea, salus faciei meae, Deus meus»; THOMAS AQUINAS, De Malo, IX, 1: «Est enim homini naturale quod appetat cognitionem veritatis». 20 FRANCISCUS, Adhortatio apostolica post-synodalis: Amoris laetitia, in AAS, CVIII (2016), 311446. 21 FRANCISCUS, Adhortatio apostolica de vocatione ad sanctitatem in mundo huius temporis: Gaudete et exsultate, in http://www.vatican.va/content/francesco/la/apost_exhortations/documents/papafrancesco_esortazione-ap_20180319_gaudete-et-exsultate.html (17 maggio 2020). 22 CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Constitutio pastoralis de Ecclesia in mundo huius temporis: Gaudium et spes, in AAS, LVIII (1966), 1025-1120. D’ora in poi GS. 23 IOANNES PAULUS II, Litterae encyclicae de quibusdam quaestionibus fundamentalibus doctrinae moralis Ecclesiae: Veritatis Splendor, in AAS, LXXXV (1993), 1133-1228. 18 19
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L’operazione di connessione concettuale24, ancorché possa apparire azzardata, è giustificata dal Proemio stesso della VG che richiama sia il Protovangelo di Giovanni, come anche fa anche VS, sia esplicitamente GS, esprimendo la necessità e l’urgenza della riforma degli studi «tenendo conto […] dello sviluppo nell’ambito degli studi accademici registrato in questi ultimi decenni come pure del mutato contesto socio-culturale a livello planetario, nonché di quanto raccomandato a livello internazionale in attuazione delle varie iniziative, cui la Santa Sede ha aderito»25 ed inoltre affermando: «l’occasione è propizia per procedere con ponderata e profetica determinazione alla promozione, a tutti i livelli, di un rilancio degli studi ecclesiastici nel contesto della nuova tappa della missione della Chiesa, marcata dalla testimonianza della gioia che scaturisce dall’incontro con Gesù e dall’annuncio del suo Vangelo, che ho programmaticamente proposto a tutto il Popolo di Dio nella Evangelii gaudium»26. Se in VS papa Giovanni Paolo II trattava di quella verità «che illumina l’intelligenza e informa la libertà dell’uomo, che in tal modo viene guidato a conoscere e ad amare il Signore»27, in VG la gioia della verità «esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio»28. Entrambi i documenti, dunque, identificano la verità in Gesù Cristo e la ricerca della stessa come quel moto interiore perfettamente descritto dal Doctor gratiae: «fecisti nos ad te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te»29. Pare opportuno rammentare, altresì, che il termine “verità” è centrale in tutta la normativa codiciale concernente il Munus docendi Ecclesiae, nella quale la Chiesa viene costituita custode del deposito 24 Gli anglofoni utilizzerebbero il pregnante termine merging, ai canonisti particolarmente noto nell’ambito della tematica concernente la soppressione/fusione di Parrocchie, la cui normativa è in parte originariamente in inglese. Cfr. CONGREGATION FOR THE CLERGY, Letter and the Procedural Guidelines for the Modification of Parishes, the Closure or Relegation of Churches to Profane but not Sordid Use, and the Alienation of the same (Prot. No. 20131348), in The Jurist 73 (2013) 211-219. 25 VG 1. 26 L. c. 27 VS, Introduzione. 28 VG 1. 29 AUGUSTINUS, Confessiones, 1, 1, in PL 32, 661.
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della fede perché essa «Spiritu Sancto assistente, veritatem revelatam sancte custodiret, intimius perscrutaretur, fideliter annuntiaret atque exponeret»30. Quella stessa verità che «in iis, quae Deum eiusque Ecclesiam respiciunt» tutti gli uomini «quaerere tenentur eamque cognitam amplectendi ac servandi obligatione vi legis divinae adstringuntur et iure gaudent»31. È proprio questa verità e la necessità del suo approfondimento e della sua diffusione che forma il nucleo della norma missionis: «andate dunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho ordinato» (Mt 28,19-20a). Ed altrove: «andate per tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15). Questi passi legano in maniera inestrinsecabile la Parola di Dio, il depositum Revelationis, con la missione stessa della Chiesa che nell’Euntes docete e nel Praedicate Evangelium trova il suo centro d’irradiazione. In tal senso, ci sembra significativo il legame che è stato individuato fra l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI e SCh e che ravvede nell’esigenza evangelizzatrice la spinta a definire il ruolo delle Università e Facoltà ecclesiastiche nella Chiesa e nel mondo, alla luce del rapporto tra Vangelo e cultura, tra Vangelo e culture32. Allo stesso modo oggi possiamo cogliere con chiarezza il legame fra EG e VG: al centro c’è sempre il Vangelo che genera, per chi lo annuncia e per chi ne riceve l’annuncio, la gioia della Verità che salva, Gesù Cristo nostro Signore. In EG, come si accennava sopra, tanto è esposto in maniera programmatica, qui lo si declina nello specifico del servizio ecclesiale reso dalle Università e Facoltà ecclesiastiche. Potremmo, dunque, affermare – giocando ancora sui sottotitoli dei documenti – che VG riguarda “l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo per il tramite degli studi ecclesiastici”. Can. 747 CIC. Can. 748 CIC. 32 Cfr. V. ZANI, Principali novità normative della Costituzione apostolica Veritatis gaudium. Excursus dal Concilio ad oggi, in Educatio Catholica 4 (2018) 2, 72. 30 31
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3. GLI STUDI ECCLESIASTICI: UN SERVIZIO ALLA MISSIONE
Gli studi ecclesiastici, nel pensiero del papa, vanno ripensati e rilanciati, al fine di trasformarsi da conduttori di dottrina a laboratori di strumenti intellettuali in grado di proporsi come paradigmi d’azione e di pensiero, utili all’annuncio in un mondo contrassegnato dal pluralismo etico-religioso33. Francesco, insomma, vuole imprimere agli studi ecclesiastici «quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa “in uscita”»34. In tal senso, dinnanzi al corrente «cambiamento d’epoca, segnalato da una complessiva “crisi antropologica” e “socio-ambientale” nella quale riscontriamo ogni giorno di più “sintomi di un punto di rottura, a causa della grande velocità dei cambiamenti e del degrado, che si manifestano tanto in catastrofi naturali regionali quanto in crisi sociali o anche finanziarie”»35, il Sommo Pontefice offre quattro «criteri di fondo per un rinnovamento e un rilancio del contributo degli studi ecclesiastici a una Chiesa in uscita missionaria»36: 1. quello della contemplazione e della introduzione spirituale, intellettuale ed esistenziale nel cuore del kerygma; 2. dialogo a tutto campo, promotore della cultura dell’incontro; 3. inter- e trans-disciplinarità esercitate con sapienza e creatività nella luce della Rivelazione; 4. “fare rete” tra le diverse istituzioni che coltivano e promuovono gli studi ecclesiastici, ma anche con le istituzioni accademiche laiche e con quelle che si ispirano alle diverse tradizioni culturali e religiose, dando vita a centri specializzati di ricerca finalizzati a studiare i problemi di portata epocale che investono oggi l’umanità, giungendo a proporre opportune e realistiche piste di risoluzione.
Cfr. VG 5. VG 3. 35 L. c. 36 VG 4. 33 34
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4. INNOVAZIONE NELLA CONTINUITÀ
Come sopra si accennava, la riforma in commento non ha da intendersi come una rivoluzione di rottura con il passato. Lo stesso papa, infatti, più volte richiama SCh che definisce «il frutto maturo della grande opera di riforma degli studi ecclesiastici messa in movimento dal Concilio Vaticano II», ma si vuol porre anche in continuità con il magistero sociale che richiama e che indica quale dimensione applicativa necessaria dell’evangelizzazione. Anche il Codice lega fedelmente queste due dimensioni nel richiamato can. 747 che, se al primo paragrafo tratta del dovere e diritto nativo della Chiesa di annunziare ed esporre fedelmente la verità rivelata, al secondo paragrafo dispone che «Ecclesiae competit semper et ubique principia moralia etiam de ordine sociali annuntiare, necnon iudicium ferre de quibuslibet rebus humanis, quatenus personae humanae iura fundamentalia aut animarum salus id exigant». Se, «“l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo per il tramite degli studi ecclesiastici” rimanesse sul piano meramente intellettuale e non si aprisse a quella “mistica del noi” (cfr. EG 87, 272) che si fa lievito di quella fraternità universale “che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono” (EG 92)»37, sarebbe una speculazione autoreferenziale e ultimamente sterile. Gli studi, nel pensiero del papa, devono abitare la frontiera e spingersi alle periferie: «la teologia e la cultura d’ispirazione cristiana sono state all’altezza della loro missione quando hanno saputo vivere rischiosamente e con fedeltà sulla frontiera»38. Questo aspetto lo aveva già sottolineato in occasione del centenario della fondazione dell’Università Cattolica Argentina:
37 38
VG 4 a). VG 5.
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Gianluca Belfiore «Las preguntas de nuestro pueblo, sus angustiar, sus peleas, sus sueños, sus luchas, sus preocupaciones poseen valor hermenéutico que no podemos ignorar si queremos tomar en serio el principio de encarnación. Sus preguntas nos ayudan a preguntarnos, sus cuestionamientos nos cuestionan. Todo esto nos ayuda a profundizar en el misterio de la Palabra de Dios, Palabra que exige y pide dialogar, entrar en comunicación. De ahí que no podemos ignorar a nuestra gente a la hora de realizar teología. Nuestro Dios ha elegido este camino. Él se ha encarnado en este mundo, atravesado por conflictos, injusticias, violencias; atravesado por esperanzas y sueños. Por lo que, no nos queda otro lugar para buscarlo que este mundo concreto, esta Argentina concreta, en sus calles, en sus barrios, en su gente. Ahí Él ya está salvando»39.
In quella stessa circostanza, il papa sottolineava tre caratteristiche del teologo, che verranno variamente sviluppate in VG: è un figlio del suo popolo (sa di essere “innestato” in una coscienza ecclesiale e s’immerge in quelle acque); è un credente (sa di non poter vivere senza l’oggetto/soggetto del suo amore e consacra la sua vita per poterlo condividere con i suoi fratelli); è un profeta (mantiene vivi la coscienza del passato e l’invito che viene dal futuro). 5. CON LA MENTE ABIERTA Y DE RODILLAS
A conclusione del videomessaggio appena richiamato, il papa diceva: «[…] hay una sola forma de hacer teología: de rodillas. No es solamente un acto piadoso de oración para luego pensar la teología. Se trata de una realidad 39 FRANCISCO, Videomensaje: Al congreso internacional de teología organizado por la Pontificia Universidad Católica Argentina (1-3 settembre 2015), in http://w2.vatican.va/content/francesco/es/ messages/pont-messages/2015/documents/papa-francesco_20150903_videomessaggio-teologia-buenos-aires.html (17 maggio 2020). Tr. it.: «Le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi c’interrogano. Tutto ciò ci aiuta ad approfondire il mistero della Parola di Dio, Parola che esige e chiede che si dialoghi, che si entri in comunione. Non possiamo quindi ignorare la nostra gente al momento di fare teologia. Il Nostro Dio ha scelto questo cammino. Egli si è incarnato in questo mondo, attraversato da conflitti, ingiustizie, violenze; attraversato da speranze e sogni. Pertanto, non ci resta altro luogo dove cercarlo che questo mondo concreto, questa Argentina concreta, nelle sue strade, nei suoi quartieri, nella sua gente. Lì Egli sta già salvando».
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dinámica entre pensamiento y oración. Una teología de rodillas es animarse a pensar rezando y rezar pensando. Entraña un juego, entre el pasado y el presente, entre el presente y el futuro. Entre el ya y el todavía no. Es una reciprocidad entre la Pascua y tantas vidas no realizadas que se preguntan: dónde está Dios?»40.
Questo approccio del papa trova svolgimento in VG, ove si propone uno studio teologico dalla dimensione, insieme, realistica e mistica: «lo si fa con la mente aperta e in ginocchio». Da una parte, infatti, il teologo deve essere profondamente radicato in Dio, dall’altra deve avere «la capacità di concepire, disegnare e realizzare, sistemi di rappresentazione della religione cristiana capace di entrare in profondità in sistemi culturali diversi»41. L’espressione balthasariana42 “teologia in ginocchio” vuole coniugare teologia e spiritualità, una teologia che non si esaurisce nella disputa accademica43, ma che mi riguarda, mi tocca e m’interroga. Scriveva p. Bergoglio nel 1982: «La nostra teologia dev’essere devota, se vuol essere fondante e se intende lasciarsi fondare dal Signore. Una devozione che non proviene da riflessioni o ricerche previe, ma che è, per così dire, l’ermeneutica fondamentale della nostra teologia e del nostro insegnamento. È vita. Quando, nella nostra esistenza quotidiana, sentiamo la presenza di Dio, non ci rimane altro che dire: “Dio è qui”. E quando c’è Dio, la prima cosa da fare è mettersi in ginocchio. Poi viene l’intelletto umano ad approfondire e a spiegare come Dio sia li. È la fides quaerens intellectum, o sono le storie che ci vengono raccontate dei santi che studiavano la teologia in ginocchio»44.
40 L. c. Tr. it.: «[…] c’è un solo modo di fare teologia: in ginocchio. Non è solamente un atto pietoso di preghiera per poi pensare la teologia. Si tratta di una realtà dinamica tra pensiero e preghiera. Una teologia in ginocchio è osare pensare pregando e pregare pensando. Comporta un gioco, tra il passato e il presente, tra il presente e il futuro. Tra il già e il non ancora. È una reciprocità tra la Pasqua e tante vite non realizzate che si domandano: Dov’è Dio?». 41 VG, Proemio, 5. 42 H.U. VON BALTHASAR, Teologia e Santità, in Verbum caro (Saggi teologici, I), Brescia 1968, 228, (tit. orig. Verbum caro, Skizzen zur Theologie, I, Einsiedeln 1960). 43 Dalla quale metteva in guardia BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano-Città del Vaticano 2012, 123. 44 J.M. BERGOGLIO, Il Signore, nostro fondamento, in La Civiltà Cattolica 164 (2013) 2, 3908, 115.
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La dimensione contemplativa è quel rapporto con Colui del quale le “Scienze sacre”45 si occupano, è quella relazione intima e spirituale con la Verità fatta persona, in assenza della quale non può esservi né ricerca, né trasmissione della Verità, secondo quella espressione dell’Aquinate Contemplari et contemplata aliis tradere46. Secondo quanto preghiamo nella Liturgia delle Ore, tuttavia, di questa Verità noi non possiamo mai dirci proprietari ma, per quanto essa ci abiti in quanto battezzati, ci supera, supera la nostra facoltà di comprenderla perché attiene a Dio e, dunque, sfugge alle nostre categorie che soltanto in via analogica ce ne fanno scorgere una certa misura. Per questo motivo preghiamo dicendo «da omnibus, qui veritatem investigant, ut eam quaerendo inveniant, et inveniendo semper requirant»47; perché il Signore ci dia quella “mente aperta” di chi non si sente proprietario della Verità e, dunque, chiuso ad ogni dialogo, ad ogni confronto. Colui il quale riflette sulla Fede, nel tempo attuale, deve piuttosto caratterizzarsi per uno spirito di “dialogo a tutto campo” con una società che, per quanto secolarizzata, offre spunti di approfondimento che non possono arrestarsi sul muro di un’apologetica arroccata su dati che si presumono acquisiti ed indiscutibili, ma devono muoversi su ponti le cui campate si edificano sulla considerazione che “la realtà è più importante dell’idea”48. Queste, per VG, sono le caratteristiche del «buon teologo e filosofo, il quale ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo, secondo quella legge che san Vincenzo di Lérins descrive così: “annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate” (Commonitorium primum, 23: PL 50, 668)»49. Nel videomessaggio sopra richiamato, il papa com45 Si utilizza tale locuzione, pur comprendendo che la stessa sia destinata ad essere superata alla luce della consapevolezza che ogni ambito della scienza andrebbe considerato sacro alla luce del fatto che l’intelligenza che muove la ricerca procede dal dono che Dio ci ha fatto e, inoltre, per il fatto che l’Incarnazione e la Redenzione hanno reso sacro l’uomo, nella misura della partecipazione di Cristo alla umana natura. 46 Cfr. B. ESPOSITO, La nuova Costituzione, cit., 165. 47 Liturgia horarum, Preces ad Vesperas feriae secundae hebdomadae tertiae. 48 EG 231-233. 49 VG 3.
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mentava l’espressione in questi termini: «una de las principales tareas del teólogo es discernir, reflexionar: qué significa ser cristiano hoy? ‘en el aquí y ahora’; Cómo ese río de los orígenes logra regar hoy estas tierras y hacerse visible y vivible?»50. La Chiesa missionaria, infatti, questa Chiesa in uscita, deve avere la capacità di entrare in dialogo col mondo verso il quale esce, non potendosi mantenere asserragliata in un più o meno comodo e consolidato fortino. In tal senso, è stato affermato che «la teologia è a servizio della Chiesa nel suo porgersi verso il mondo»51. 6. UN DIALOGO A TUTTO CAMPO, IN TUTTI I CAMPI, UNIFICATO IN CRISTO
Il dialogo di cui il Documento parla si ripercuote in una ordinaria prassi degli studi che s’ispira alla transdisciplinarità: «è senz’altro positiva e promettente l’odierna riscoperta del principio dell’interdisciplinarità: non tanto nella sua forma “debole” di semplice multidisciplinarità, come approccio che favorisce una migliore comprensione da più punti di vista di un oggetto di studio; quanto piuttosto nella sua forma “forte” di transdisciplinarità, come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio»52.
L’approccio del “pensiero aperto”, nell’ottica del Documento, è tutt’altro che debole e relativista, ponendosi piuttosto come strumento a servizio di una società bisognosa – anche se talora inconsapevolmente – dell’annuncio di salvezza che: «è chiamato a esibire tutta la sua efficacia non solo all’interno del sistema degli studi ecclesiastici: garantendogli coesione insieme a flessibilità, organicità insieme a dinamicità; ma anche in rapporto al frammentato e non di rado disintegrato panorama odierno degli studi universitari e al pluralismo incerto, conflittuale o relativistico, delle convinzioni e delle opzioni culturali»53. FRANCISCO, Videomensaje, cit. R. PICCINELLI, Contemplazione e [...] introduzione spirituale, intellettuale ed esistenziale nel cuore del kerygma, in Convivium Assisiense 21 (2019) 1, 41. 52 VG 4 c). 50 51
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Gli studi ecclesiastici, dunque, secondo questo modello che la Costituzione promuove, si pongono quale strumento di evangelizzazione e di riconduzione all’unità dei saperi in Cristo54. Tale posizione non è affatto nuova nell’ambito della riflessione ecclesiale55, l’hanno, fra gli altri, teorizzata Tommaso d’Aquino, John Henry Newmann, Bernard Lonergan e che trova anche dei riferimenti nella Sacra Scrittura56. Infatti, in Cristo «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3), che non significa «misconoscere la specificità epistemologica di ogni indagine disciplinare, ma piuttosto identificare il punto in cui la complessità dell’esperienza storica dell’uomo può essere unificata. Gesù Cristo è infatti l’Alfa e l’Omega di tutta la creazione; egli non si ‘aggiunge’ all’ordine creato, ma ne è il principio eccedente, poiché “tutte le cose sono create per mezzo di lui ed in vista di lui” (Col 1,16)»57. Il magistero di Giovanni Paolo II ha spesso avuto modo di affrontare la tematica definendone la crucialità: «Fin dall’inizio del pontificato, è stato mio impegno scambiare queste idee e sentimenti con i miei collaboratori più stretti, che sono i cardinali, con la Congregazione per l’educazione cattolica, come pure con le donne e gli uomini di cultura di tutto il mondo. Infatti, il dialogo della Chiesa con le culture del nostro tempo è quel settore vitale, in cui “si gioca il destino della Chiesa e del mondo in questa fine del secolo XX” (Ai cardinali, 10 novembre 1979). Non c’è che una cultura: quella dell’uomo, dall’uomo e per l’uomo. E la Chiesa, esperta in umanità, secondo il giudizio formulato dal mio predecessore Paolo VI all’ONU, grazie alle sue Università cattoliche e al loro patrimonio umanistico e scientifico, esplora i misteri dell’uomo e del mondo, rischiarandoli alla luce che le dona la rivelazione»58.
53
L. c. Cfr. B. FORTE, L’unità dei saperi. Per una sintesi interdisciplinare tra teologia, filosofia e diritto, in B. FORTE - M.J. ARROBA CONDE (curr.), L’unità dei saperi. teologia, filosofia, diritto, Città del Vaticano 2018, 7-22. 55 Cfr. M. LLUCH, La unidad de los saberes en la historia de la Iglesia, in J. ARANGUREN - J.J. BOROBIA - M. LLUCH (curr.), Fe y razón, Pamplona 1999, 47-70. 56 B. FORTE, L’unità dei saperi, cit., 8-9. 57 A. BOZZOLO, Trasformazione missionaria e rinnovamento degli studi nel proemio di Veritatis gaudium, in Salesianum 81 (2019) 65. 58 IOANNES PAULUS II, Constitutio apostolica: Ex corde Ecclesiae, in AAS, LXXXII (1990), 3, 14751509. Per una ricostruzione del pensiero di papa Giovanni Paolo II sull’Università, si veda: G. TANZEL54
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Questa posizione pare potersi ricollegare al principio espresso da papa Francesco in EG secondo cui “il tutto è superiore alla parte”59: «Il Vangelo è lievito che fermenta tutta la massa e città che brilla sull’alto del monte illuminando tutti i popoli. Il Vangelo possiede un criterio di totalità che gli è intrinseco: non cessa di essere Buona Notizia finché non è annunciato a tutti, finché non feconda e risana tutte le dimensioni dell’uomo, e finché non unisce tutti gli uomini nella mensa del Regno»60.
Sedere a mensa con le altre scienze, “fare rete”, trovarsi in costante contatto con centri accademici non afferenti alla stretta cerchia del mondo ecclesiastico consente una evangelizzazione che passa dall’ascolto tramite le altrui percezioni di ciò che oggi agita il cuore dell’uomo e apre la via ad una comunicazione nuova della Parola che salva. Nuova per codice comunicativo, un codice scientifico che si costruisce giorno per giorno, stando accanto nel comune campo della conoscenza, nuova per occasione d’evangelizzazione che si dà ogni qual volta una scienza ha da misurarsi col limite proprio dell’umana conoscenza. Sia consentito fare un esempio, con tutti i rischi di banalizzazione che ciò comporta. Nel tempo attuale abbiamo assistito alla vicenda pandemica che caratterizzerà il nostro modo di vivere e pensare. Dal punto di vista dell’approccio della scienza al fenomeno, può certamente condividersi che ciò dovrebbe segnare una rinnovata presa di consapevolezza del limite delle scienze sperimentali e delle tecniche e, al contempo, della dimensione creaturale dell’uomo. Per dirla con parole di papa Francesco, l’esplosione del virus segna il fallimento dell’“antropocentrismo moderno” che: «ha finito per collocare la ragione tecnica al di sopra della realtà, perché questo essere umano “non sente più la natura né come norma valida, né come
LA-NITTI, Passione per la verità e responsabilità del sapere. Un’idea di università nel magistero di Giovanni Paolo II, Casale Monferrato 1998. Per uno studio sull’Università nel magistero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, si veda: Í. MARTÍNEZ-ECHEVARRÍA, La relacion de la Iglesia con la Universidad en los discursos de Juan Pablo II y Benedicto XVI: una nueva aproximacion juridica, Roma 2010. 59 60
EG 235-237. EG 237.
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Gianluca Belfiore vivente rifugio. La vede senza ipotesi, obiettivamente, come spazio e materia in cui realizzare un’opera nella quale gettarsi tutto, e non importa che cosa ne risulterà” (R. GUARDINI, Das Ende der Neuzeit, 63 [ed. it.: La fine dell’epoca moderna], 57-58). In tal modo, si sminuisce il valore intrinseco del mondo. Ma se l’essere umano non riscopre il suo vero posto, non comprende in maniera adeguata sé stesso e finisce per contraddire la propria realtà. “Non solo la terra è stata data da Dio all’uomo, che deve usarla rispettando l’intenzione originaria di bene, secondo la quale gli è stata donata; ma l’uomo è donato a sé stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato dotato” (Ioannes Paulus II, Ep. enc. Centesimus annus [1 maggio 1991], in AAS 83 [1991], 38, 841)»61.
L’accreditamento del sapere teologico presso i luoghi del sapere laico avrebbe consentito di aprire sul punto una qualificata discussione «entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio»62 che non può certamente situarsi a livello di boutades giornalistiche63, né limitarsi alla scelta delle migliori modalità organizzative dell’e-learning. Ci sono, invero, alcuni settori nei quali, anche nel momento attuale, si è manifestato il consolidato e riconosciuto apporto delle scienze ecclesiastiche64, ma non può certamente dirsi che ciò caratterizzi l’ordinaria vita delle Università e Facoltà ecclesiastiche. Il papa imprime uno sforzo di evangelizzazione ulteriore che spinga il teologo all’ordinario, costante e quotidiano confronto con scienziati e luoghi che non s’inquadrano nella cittadella fortificata LS 115. VG 4 c). 63 Con cui variamente, ma senza alcun metodo e rigore scientifico, si sono registrate opinioni contrastanti sul fatto che la pandemia sia o meno un castigo di Dio. Affermazioni che, non avendo alcun carattere di scientificità, sono votate all’irrilevanza, non domani ma oggi stesso. 64 Oltre alla consolidata esperienza dell’Institutum Utriusque Iuris della Pontificia Università Lateranense che – facendo seguito ad una millenaria tradizione ecclesiale – mette insieme il Diritto canonico e il Diritto civile (cfr. M.J. ARROBA CONDE, Institutum Utriusque Iuris. Una formazione giuridica all’insegna della sintesi interdisciplinare, in B. FORTE - M.J. ARROBA CONDE (curr.), L’unità dei saperi, cit., 23-37), ci si riferisce ai vari forum attivatisi fra i cultori del Diritto – ecclesiale e non – circa le limitazioni cui la libertà di culto è soggetta in tempo di pandemia. Essendo questa una materia mixta per sua stessa essenza, l’interazione fra giuristi di varia provenienza è risultata automatica. In tal senso, si vedano i numerosissimi contributi in https://www.olir.it/dossier/emergenza-coronavirus-e-liberta-di-religione/ (16 maggio 2020) e l’ebook P. CONSORTI (cur.), Law, Religion and covid-19 emergency, Pisa 2020, https://diresomnet.files.wordpress.com/2020/05/law-religion-and-covid-19-emergency_diresompapers-1-2.pdf (16 maggio 2020). 61 62
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ove la “scienza sacra” si condanna all’autoreferenzialità, all’autocompiacimento e, dunque, all’irrilevanza65. In tal senso, condividiamo l’espressione di chi ha segnalato l’urgenza di superare «ogni forma di dualismo tra sacro e profano – e quindi anche tra scienze teologiche e scienze profane –, ricostruendo progressivamente la sintesi tra teologia e vita»66. La Costituzione spinge fuori dai loro abituali ambienti le Università e Facoltà ecclesiastiche. Questi luoghi, divenuti nel tempo non più abituali per le scienze teologiche, sono quelli originari delle Università, nate, come ci ha ricordato il papa Giovanni Paolo II, ex corde Ecclesiae, come spazi consacrati alla ricerca, all’insegnamento e alla formazione degli studenti, liberamente riuniti con i loro maestri nel medesimo amore del sapere67. Questo “sconfinamento” dai confini che ci siamo nel tempo disegnati, consente quel dialogo a tutto campo che anima il nuovo sforzo evangelizzatore ben descritto da papa Francesco in EG 133: «Dal momento che non è sufficiente la preoccupazione dell’evangelizzatore di giungere ad ogni persona, e il Vangelo si annuncia anche alle culture nel loro insieme, la teologia – non solo la teologia pastorale – in dialogo con altre scienze ed esperienze umane, riveste una notevole importanza per pensare come far giungere la proposta del Vangelo alla varietà dei contesti culturali e dei destinatari. La Chiesa, impegnata nell’evangelizzazione, apprezza e incoraggia il carisma dei teologi e il loro sforzo nell’investigazione teologica, che promuove il dialogo con il mondo della cultura e della scienza. Faccio appello ai teologi affinché compiano questo servizio come parte della missione salvifica della Chiesa. Ma è necessario che, per tale scopo, abbiano a cuore la finalità evangelizzatrice della Chiesa e della stessa teologia e non si accontentino di una teologia da tavolino».
È stato condivisibilmente affermato che è proprio la peculiarità del sapere teologico a comportare una naturale inclinazione verso gli altri campi del sapere con cui “fare rete”: «Il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre» (VG 3). D. PAOLETTI, Vivere come Chiesa la “mistica del noi” per una teologia fatta insieme (VG 4), in Convivium Assisiense 21 (2019) 1, 61. 67 IOANNES PAULUS II, Constitutio apostolica: Ex corde Ecclesiae, cit. 65 66
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Gianluca Belfiore «Di fronte a una cultura sempre più parcellizzata e specializzata, la peculiarità delle discipline insegnate nelle Facoltà ecclesiastiche è tale per cui non si tratta di saperi riducibili a un mero bagaglio di dati tecnici e funzionali, a semplici competenze da acquisire da parte di futuri esperti in determinati settori del mondo del lavoro»68.
La formazione nella quale si misurano gli Studi teologici non è una semplice trasmissione di nozioni, ma implica la considerazione della persona nella sua totalità: «Il sapere teologico ha una particolare vocazione ad essere sapere integrale, nel senso di quel tutto che è il dialogo eterno tra il Creatore e la creatura. È un sapere che, offrendosi come senso ultimo può diventare pro-vocazione, memoria, istanza critica e alfabetizzazione capace di arricchire la comunità scientifica offrendo un metodo che, rispettando lo statuto epistemologico delle differenti discipline, aiuti a non perdere di vista la necessità di una visione integrale della persona e delle comunità nelle quali questa esprime la propria socialità»69.
Essa è insieme formazione umana, intellettuale e spirituale o, per dirla con VG 4 a) è «contemplazione e della introduzione spirituale, intellettuale ed esistenziale nel cuore del kerygma»: «Gli studi ecclesiastici non possono limitarsi a trasferire conoscenze, competenze, esperienze, agli uomini e alle donne del nostro tempo, desiderosi di crescere nella loro consapevolezza cristiana, ma devono acquisire l’urgente compito di elaborare strumenti intellettuali in grado di proporsi come paradigmi d’azione e di pensiero, utili all’annuncio in un mondo contrassegnato dal pluralismo etico-religioso. Ciò richiede non solo una profonda consapevolezza teologica, ma la capacità di concepire, disegnare e realizzare, sistemi di rappresentazione della religione cristiana capace di entrare in profondità in sistemi culturali diversi. Tutto questo invoca un innalzamento della qualità della ricerca scientifica e un avanzamento progressivo del livello degli studi teologici e delle scienze collegate»70. 68 R. FERRI, Veritatis gaudium. Estratto dalla prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Istituto teologico di Assisi - 16 novembre 2018, in Convivium Assisiense 21 (2019) 1, 9. Cfr. anche M. MANTOVANI, La filosofia nel proemio di Veritatis gaudium, vent’anni dopo Fides et ratio, in Salesianum 81 (2019) 27-46. 69 R. VINERBA, Il servizio della teologia al bene comune, in Convivium Assisiense 21 (2019) 1, 30. 70 VG 5.
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7. LA SFIDA DELLA QUALITÀ
La sfida della qualità è fondamentale in questa nuova ottica dell’evangelizzazione del sapere. Per trovare opportuno spazio nel campo neutro delle varie discipline del sapere, non può farsi ricorso a legittimazioni gerarchico-sacramentali, ma bisogna accreditarsi per l’autorevolezza del dictum derivante dalla qualificazione del dicens (rectius, del docens e, a cascata, del discens). La qualificazione del corpo docente71 risulta una dimensione fondamentale non soltanto per la qualità dell’offerta formativa dei centri, ma anche per l’abilitazione negli ambienti accademici extraecclesiali. Ciò non passa soltanto dalle varie e, certamente, opportune misure istituzionali volte a vigilare sulla qualità degli studi72, ma anche da alcune virtuose peculiarità proprie degli studi ecclesiastici che, se opportunamente valorizzate, potrebbero comportare una ulteriore qualificazione degli stessi. Fare teologia vive tanto della dimensione contemplativa e orante, di cui prima si diceva, quanto della dimensione comunitaria che fa della fides cogitata, la vera fides, in quanto fides Ecclesiae. Questo non vuol essere un approccio meramente ideale, ma ha anche da tradursi nella concretezza delle relazioni della vita dell’Accademia, tanto che «le istituzioni in cui si studia teologia dovrebbero essere uno spazio relazionale in cui si fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà scaturita dalla fede»73. La richiamata “mistica del noi” dovrebbe essere un punto qualificante degli ambienti accademici teologici: «L’esigenza di “fare teologia insieme” (...) esprime già qualcosa di essenziale della verità al cui servizio si pone la teologia. Non si può pensare, infatti, di servire la verità di un Dio che è Amore, eterna comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e il cui disegno salvifico è quello della comunione 71 Si richiama in tal senso i severissimi moniti di F. TESTAFERRI, Veritatis gaudium 5: considerazioni a margine, in Convivium Assisiense 21 (2019) 1, 101-120. 72 Si pensa, specificamente, alla Congregazione per l’Educazione Cattolica e all’Agenzia della Santa Sede per la Valutazione e la Promozione della Qualità delle Università e Facoltà ecclesiastiche (AVEPRO). 73 S. SEGOLONI RUTA, Veritatis gaudium, cit., 25.
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Gianluca Belfiore degli uomini con Lui e tra loro, facendolo in modo individualistico, particolaristico o, peggio ancora, in una logica competitiva. Quella dei teologi non può che essere una ricerca personale; ma di persone che sono immerse in una comunità teologica la più ampia possibile, di cui fanno realmente parte, coinvolte in legami di solidarietà e anche di amicizia autentica. Questo non è un aspetto accessorio del ministero teologico!»74.
Stessa constatazione è stata fatta nell’ambito dello studio delle discipline giuridiche: «Il rinnovamento passa per assicurare la qualità integrale e l’originalità della ricerca che compie ogni docente e che si propone, secondo i cicli, agli studenti. Oggi come nel Medioevo (tempo della vigenza dell’utrumque ius) la ricerca non può non essere corale, puntualmente condivisa cioè, con quotidiana e fattiva relazione tra i protagonisti. Attualmente detta relazione è facilitata dalle nuove tecnologie, fermo restando il valore e il ruolo dell’incontro personale, insostituibile nei rapporti formativi e scientifici. La condivisione scientifica all’interno dell’istituto è premessa indispensabile per una condivisione aperta ad altre istituzioni di formazione giuridica, dando vita ad un interscambio che, nella storia, ha sempre caratterizzato l’apertura della nostra accademia»75.
Affermare questo, però, non può non implicare anche una serie di risvolti pratici. Una seduzione intramontabile per chi scrive è quella dei Campus universitari, molto diffusi in alcuni Paesi anche europei, o le esperienze di alcuni Ordini religiosi dediti all’insegnamento teologico. Lì la communio vitae, fatta anche delle pratiche più ordinarie e quotidiane (communio mensae et chori), agevola un confronto costante, franco ed informale del pensiero teologico che così non rimane esposto al pericolo di deliranti solipsismi, ma si apre all’experientia et communicatio fidei in caritate76. Scriveva san J. H. Newmann:
74 FRANCESCO, Discorso All’Associazione teologica italiana (29 dicembre 2017), in http://www. vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/december/documents/papa-francesco_20171229_associazione-teologica-italiana.html (16 maggio 2020). 75 M.J. ARROBA CONDE, Institutum Utriusque Iuris, cit., 36. 76 In tal senso, Paoletti addita la positiva e contemporanea esperienza “laboratoriale” dell’Istituto Universitario Sophia di Loppiano e del Centro Aletti di Roma. D. PAOLETTI, Vivere come Chiesa, cit., 66.
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«This I conceive to be the advantage of a seat of universal learning, considered as a place of education: an assemblage of learned men, zealous for their own sciences and rivals of each other, are brought, by familiar intercourse and for the sake of intellectual peace, to adjust together the claims and relations of their respective subjects of investigation. They learn to respect, to consult, to aid each other. Thus is created a pure and clear atmosphere of thought, which the student also breathes, though in his own case he only pursues a few sciences out of the multitude»77.
Il provvidenziale laboratorio culturale che riesce a «unificare esistenzialmente nel lavoro intellettuale due ordini di realtà che troppo spesso si tende ad opporre come se fossero antitetiche: la ricerca della verità e la certezza di conoscere già la fonte della verità»78 e che è considerato “strategico” per la nuova tappa dell’evangelizzazione promossa da papa Francesco79, non potrà mai essere tale se non si investe davvero in questo campo. L’impegno generoso e convergente verso quella coraggiosa rivoluzione nella quale il papa riserva alle Università e Facoltà ecclesiastiche il ruolo di «portare il decisivo contributo del lievito, del sale e della luce del Vangelo di Gesù Cristo e della Tradizione viva della Chiesa sempre aperta a nuovi scenari e a nuove proposte»80 potrà essere possibile solo se la ricerca teologica e culturale viene concretamente rilanciata e l’apporto di chi vi si dedica tutelato e riconosciuto. Scrive con rammarico un commentatore di VG: «Mi rendo conto come sia più facile promuovere iniziative di basso profilo, crogiolarsi nella ripetizione sentimentale delle stesse idee di sempre, affidarsi
77 J.H. NEWMANN, The Idea of a University Defined and Illustrated, London 1886, 95. Trad. it.: A. Bottone, J.H. NEWMAN, L’idea di Università, Roma 2005, 103: «Questo io considero il vantaggio di una sede di sapere universale, considerata come un luogo di istruzione. Un insieme di persone colte, zelanti della propria scienza e tra loro rivali, è condotto dalla familiarità dei loro rapporti e nell’interesse della pace intellettuale a conciliare le pretese e le relazioni tra gli oggetti delle rispettive materie di ricerca. Esse imparano a rispettarsi, a consultarsi, ad aiutarsi. Si crea così un’atmosfera di pensiero pura e chiara, che viene respirata anche dallo studente, sebbene personalmente egli studi solo una tra le tante scienze». 78 IOANNES PAULUS II, Allocutio: Ad Institutum Catholicum Parisiense (1 giugno 1980), in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III, 1 (1980) 1581. 79 Cfr. VG 3. 80 L. c.
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Gianluca Belfiore all’improvvisazione e alla modalità “amatoriale” e così sopire la coscienza o comunque far fronte alle innumerevoli urgenze che popolano la tabella di marcia. Mi rendo conto anche che effettivamente a causa del numero eccessivo di impegni è più facile ‘rabberciare’ la cultura rispetto ad altre attività più concrete e redditizie, ma è in gioco la comunicazione del Vangelo»81.
Confidiamo che, anche in tal senso, possa presto registrarsi un effettivo e significativo cambiamento di marcia che consenta alle Università e Facoltà ecclesiastiche di fare la loro parte in questa «grande sfida culturale, spirituale ed educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione»82.
81 82
F. TESTAFERRI, Veritatis gaudium 5, cit., 106. LS 202.
INDICE 3 Sommario 11 PRESENTAZIONE Salvatore Consoli 27 L’ASCOLTO DELLA PAROLA: DIMENSIONE PNEUMATOLOGICA ED ECCLESIALE Carmelo Raspa 27 29 31 34 38 41
Introduzione Fondamenti Ascolto Comunità Spirito Conclusione
45 QUANDO LA VETUS LATINA SI FA PROSSIMA CASI TESTUALI IN EST 3
Dionisio Candido 45 46 46 46 48 48 49
Introduzione 1. Prossimità attese 1.1 Lezioni condivise solo tra VL e GA 1.1.1. Est 3,2 1.1.2. Est 3,4 1.1.3. Est 3,10 1.1.4. Est 3,12
190
50 51 51 52 53 53 53 54 55 56 56 57 58 60 61
1.2. Tendenza del GA (= VL) a semplificare le lezioni del TM 1.3. Rese libere tra il GA e la VL 1.3.1. Est 3,3 1.3.2. Est 3,4 2. Prossimità inattese 2.1. Lezioni in cui la VL riflette solo il TM 2.1.1. Est 3,2 2.1.2. Est 3,4 2.1.3. Est 3,6 2.2. Lezioni in cui la VL riflette solo l’AT 2.2.1. Est 3,1 2.2.2. Est 3,3 2.2.3. Est 3,8 2.2.4. Est 3,9 Conclusione
63 FINCHÉ C’È MIRYAM, C’È SPERANZA SUGGESTIONI ESEGETICHE SU NM 12,1-16
Carmelo Russo 64 68 75
1. Miryam: simbolo di speranza e madre della fede 2. Miryam e la sua fragile missione generativa 3. La morte di Miryam e la sete del popolo
79 CALENDARI E FESTE DI PELLEGRINAGGIO NEL PENTATEUCO Giuseppe D’Anna 80 82 84 85 87
1.1 Il Calendario liturgico nel Codice dell’Alleanza 1.2 Le haggìm in Es 23,14-17 2.1 Il Calendario liturgico nel Codice deuteronomico 2.2 Le haggìm di Dt 16,1-17 3.1 Il Calendario liturgico nel Codice sacerdotale
191
88 91 93
3.2 Le haggìm in Lv 23 4.1 Dimensione teologica delle feste di pellegrinaggio 4.2 Le feste di pellegrinaggio tra professione di fede, cultura e solidarietà
95 DI NASCOSTO Maurizio Aliotta 96 106
L’uso di Matteo L’uso in Giovanni
115 «MARIA ERA RIMASTA PRESSO IL SEPOLCRO, FUORI, PIANGENDO» (GV 20,11) ESEGESI PATRISTICA IN OCCIDENTE E IN ORIENTE (SECC. IV-VI) Francesco Aleo 115 116 120 120 121 123 123 125 126 127 128 130
Premessa Introduzione: esegesi alessandrina ed esegesi antiochena Lavoro ermeneutico dei Padri su Gv 20,11 Agostino d’Ippona Agostino d’Ippona su Gv 20,11 Gregorio Magno Gregorio Magno su Gv 20,11 Gregorio di Nazianzo Gregorio di Nazianzo su Gv 20,11 Pseudo Macario Egizio Pseudo Macario Egizio su Gv 20,11 Considerazioni conclusive
133 IL CONGEDO NEGATO RIFLESSIONI SULL’ELABORAZIONE DEL DISTACCO TRA VIVI E DEFUNTI DAL MONDO CLASSICO ALL’EMERGENZA COVID-19 Donatella Puliga
192
143 STORIA E MODELLI DI BIOPOLITICA II PARTE
Salvatore Rindone 143 144 151 154 156 163
2. Modello tardo-moderno e tecno-capitalista 2.1. «Stato di eccezione»: da Foucault ad Agamben 2.2. «Stato di eccezione» e immunità in Roberto Esposito 2.3. Scienza e politica: la biocyber-politica 3. Biopolitica dello stato emergenziale: il caso del Covid-19 Conclusioni
167 L’ANNUNCIO DEL VANGELO NEL MONDO CONTEMPORANEO PER IL TRAMITE DEGLI STUDI ECCLESIASTICI UNA LETTURA DELLA COSTITUZIONE APOSTOLICA VERITATIS GAUDIUM Gianluca Belfiore 167 171 174 175 176 179 185
1. Considerazioni preliminari 2. Alla ricerca di un…“ sottotitolo” 3. Gli studi ecclesiastici: un servizio alla missione 4. Innovazione nella continuità 5. Con la mente abierta y de rodillas 6. Un dialogo a tutto campo, in tutti i campi, unificato in Cristo 7. La sfida della qualità
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