Pasquale Buscemi, dopo aver conseguito il dottorato in teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana della Pontificia Università Lateranense, successivamente ha conseguito la laurea in filosofia presso la II Università di Roma. Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania e altri Istituti di Scienze Religiose.
Pubblicazione realizzata con il contributo della Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali, Ambientali e Pubblica Istruzione
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PASQUALE BUSCEMI
PASQUALE BUSCEMI
UN VESCOVO IN DIALOGO CON UN VESCOVO IN DIALOGO CON LA SUA CHIESA: MARIO STURZO E LE SUE LETTERE PASTORALI
Mario Sturzo, figura importante di vescovo, teologo, filosofo e maestro di spiritualità del cattolicesimo siciliano contemporaneo, ebbe il culto inesauribile della ricerca attenta, ma orientata all’apostolato. Non perse mai di vista il fine primo ed ultimo del suo operare instancabile: educare l’uomo alla globalità della sua domanda culturale, spirituale, sociale e politica, fino alla conquista del fine supremo Dio, in un itinerario di esperienza interiore di fede, aperto alle sollecitazioni ed alle esigenze del suo tempo. Promosse un dialogo pacato con il mondo moderno e si prodigò perché i cristiani della sua diocesi fossero in grado di annunciare il Vangelo e testimoniarlo nella società per realizzare il Regno di Dio. Le lettere pastorali, oggetto di questa pubblicazione, sono viste dall’Autore come un invito pressante alla santità, a ritornare a Cristo e mettersi al suo seguito, a ricercare Dio per la via dell’interiorità, del vivere bene, dell’ordine morale della vita che dà alla persona la rettitudine del ragionamento in modo da aspirare alla comunione piena con Dio, attraverso la preghiera, i sacramenti e un amore operoso.
LA SUA CHIESA: MARIO STURZO E LE SUE LETTERE PASTORALI
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS 21
DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS Pubblicazioni dello Studio Teologico S. Paolo – Catania L’Editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze per quelle immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte. www.studiosanpaolo.it www.giunti.it © 2008 Giunti Progetti Educativi S.r.l., Firenze © 2008 Studio Teologico S. Paolo, Catania Prima edizione: novembre 2008 Ristampa 6 5 4 3 2 1 0
Anno 2012 2011 2010 2009 2008
Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. – Stabilimento di Prato
PASQUALE BUSCEMI
UN VESCOVO IN DIALOGO CON LA SUA CHIESA: MARIO STURZO E LE SUE LETTERE PASTORALI
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
PREMESSA
L’amore e la fedeltà alla nostra Chiesa locale ed alla sua ricca storia, impreziosita da personalità di grande levatura culturale, teologica e sociale, ci hanno condotti a questa ricerca, coinvolgendoci personalmente nell’indagine e permettendoci di apprezzare e valorizzare quanto lo Spirito ha operato nel tempo in tale comunità cristiana. Al centro della nostra attenzione stanno le lettere pastorali di mons. Mario Sturzo, vescovo della diocesi di Piazza Armerina, di cui intendiamo evidenziare alcuni temi in riferimento alla vita cristiana e alla sua dimensione morale. Il nome “Sturzo” richiama immediatamente don Luigi, il grande statista siciliano, fondatore del Partito Popolare Italiano. Meno noto è il fratello mons. Mario, di cui siamo interessati in questo studio. Attualmente è conosciuto solamente nell’ambiente dove visse e dove per circa un quarantennio svolse il suo ministero episcopale, dove è vivo il suo ricordo presso coloro che ebbero modo di avvicinarlo e di ascoltarlo per i più diversi motivi. Nel corso della nostra indagine, più volte abbiamo avuto la possibilità di conoscere persone che sono state particolarmente vicine al vescovo; a loro abbiamo chiesto informazioni e notizie sul loro maestro e pastore, definito unanimemente “dotto e santo” e abbiamo potuto verificare quanto di lui si dice e si comincia a scrivere. Mons. Mario Sturzo è una grande personalità poliedrica dei nostri tempi, che brilla nella storia della Chiesa dell’ultimo secolo; filosofo, teologo, letterato, poeta, critico d’arte d’intelligenza non comune, ma soprattutto grande pastore, sublime figura d’asceta e luce vivissima di pietà e di zelo per la Chiesa a lui affidata. Poco conosciuti sono i suoi scritti, numerosi per mole e vari per argomento, di cui parecchi sono stati trascurati, altri poco valorizzati, altri ancora abbandonati. Quando mons. Sturzo morì, il 12 novembre 1941, furono ampie e corali le voci di cordoglio e di consenso per la spiccata personalità e l’opera multiforme del grande vescovo; la sua scomparsa fu avvertita da molti come una grave perdita per tutto l’episcopato ed il clero italiano, come anche per “l’Italia colta”1. 1
In memoria di mons. Mario Sturzo vescovo di Piazza Armerina, Palermo 1941, 20.
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Nessuno, credente o non, può sottovalutare la figura di questo vescovo, che, per doti e carattere, sovrasta di gran lunga i suoi contemporanei, segnando la storia ecclesiale e socio-culturale della prima metà di questo secolo. Mons. Sturzo fu infatti una personalità multiforme che ebbe il culto inesauribile della ricerca attenta, ma orientata all’apostolato; ad essa consacrò il meglio di sé, con impegno instancabile; lettore attento in un’epoca in cui cominciavano ad emergere diversi fermenti teologici, culturali e sociali che avrebbero conseguito il loro massimo sviluppo negli anni immediatamente seguenti. In questo agone culturale non perse mai di vista il fine primo ed ultimo del suo operare instancabile: educare l’uomo alla globalità della sua domanda culturale, spirituale, sociale e politica, fino alla conquista del fine supremo, Dio, in un itinerario di esperienza interiore di fede, sempre attento alle sollecitazioni ed alle esigenze dei tempi. Queste caratteristiche essenziali fanno di Mario Sturzo un pastore ed un teologo ancora attuale, anche se oggi alcuni punti della sua dottrina possono apparire sfuocati, alcuni suggerimenti meno attuali; tuttavia queste note tipiche hanno suscitato in noi l’interesse per lo studio di alcuni temi dal contenuto morale. Nella scelta di questo argomento è stata per noi altresì determinante la conoscenza di alcuni discepoli del vescovo che ci hanno offerto la possibilità di avere una cognizione profonda del pensiero del loro maestro, fino a farcene innamorare. Il taglio della ricerca è coerente con il nostro obiettivo che consiste nel sottolineare alcuni aspetti morali presenti nelle lettere pastorali. Nella necessità di operare delle scelte precise, siamo consapevoli che altri temi e argomenti sono rimasti esclusi dalla linea metodologica adottata, l’unica, comunque, in grado di offrire al nostro lavoro la necessaria organicità. Pertanto abbiamo posto al centro della nostra attenzione i seguenti temi: l’educazione vista nelle sue ragioni supreme; la conversione; la vita in Dio e ciò che comporta per l’uomo; la preghiera e la sua importanza nella vita del cristiano. Ad ognuna di queste tematiche abbiamo dediUn suo contemporaneo, mons. Iacono, vescovo di Caltanissetta, tessendo l’elogio funebre, lo definì: «elettissimo ingegno e grande anima aperta al culto della verità ed educata al movimento sociale; […] portò in questa sua diocesi un tesoro di belle energie, di ardenti propositi e di sante iniziative… Ebbe una passione predominante per lo studio delle discipline più ardue e più proficue nell’arringo delle esigenze vitali della Chiesa […] al fine di trovare adatti mezzi di elevazione spirituale nella svolta dei nostri tempi»: G. IACONO, Elogio funebre, in In memoria di mons. Mario Sturzo, cit., 12-13.
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cato un capitolo del lavoro; con uno introduttivo che ci consente di avere una panoramica storica, ecclesiale, teologica e culturale del tempo in cui visse e operò il vescovo di Piazza Armerina. Dall’indagine condotta possiamo affermare che il nostro lavoro, al riguardo, gode di essere il primo su questo argomento specifico, in quanto finora diversi hanno studiato la filosofia di Mario Sturzo, ma sono in pochi quelli che hanno preso in esame la sua riflessione teologica e in particolare gli aspetti morali presenti nelle sue opere pastorali, per cui la nostra indagine vuole essere un contributo in tal senso, un contributo forse modesto, ma certamente utile perché sana una lacuna non più ammissibile. Conseguentemente nel nostro lavoro non possiamo avvalerci di altre fonti o studi in materia, se non degli scritti dello stesso autore, per cui molte volte abbiamo preferito far parlare il nostro vescovo, citandolo abbondantemente. Oltre alla scarsezza di bibliografia in materia, questo studio non si presenta completo e conseguentemente non può avere la pretesa dell’esaustività. Queste obiezioni, tuttavia non ci hanno scoraggiato e disarmato di fronte all’idea di cimentarci sul problema in questione, per cui viene aperta la strada ad una ricerca e ad uno studio ulteriori nella vasta problematica del pensiero sturziano.
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CAPITOLO I MARIO STURZO: PASTORE, FILOSOFO E MAESTRO
Questo capitolo si propone di chiarire il contesto storico, socio-culturale ed ecclesiale del nostro autore necessario per intendere le motivazioni specifiche che lo spingono ad agire e a scrivere in un determinato modo, come anche per ambientarne l’attività in quello scorcio di secolo che è la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, un periodo molto ricco di fermenti teologici, culturali e scientifici, ma carico di nuovi problemi sociali ed economici che cominciavano già a farsi presenti in modo evidente in quel nuovo corso della storia. Per quanto concerne l’utilizzo delle fonti abbiamo preferito far parlare il nostro vescovo, come anche i vescovi siciliani contemporanei i quali spesso nelle loro lettere pastorali, elaborate singolarmente o come Conferenza Episcopale Siciliana, denunciano la situazione, definita dagli stessi “dolorosa e preoccupante” e i mali gravissimi del tempo, proponendo rimedi proporzionati e invitando ad un ritorno al Vangelo, alla fede della Chiesa e ad una fattiva collaborazione per cambiare la società1. Per presentare il pensiero filosofico del Nostro ci siamo serviti di studi e ricerche recenti e particolarmente qualificati, come anche di elementi da noi ricavati dalle sue opere. La biografia è stata divisa in due momenti ben precisi: una parte è dedicata al periodo della formazione e delle prime attività con un semplice riferimento all’ambiente familiare; un’altra parte focalizza la figura del pastore e del vescovo con le annesse attività. La trattazione di questa parte introduttiva ha lo scopo di permetterci di entrare nella tematica vera e propria, e darci una chiave di lettura e una prospettiva ermeneutica adeguate alla sua retta comprensione.
1 Cfr. CONFERENZA EPISCOPALE SICILIANA, Lettera dell’Episcopato Siculo dopo la Conferenza tenutasi in Catania nella Villa di S. Saverio dal 16 al 21 aprile 1934, Palermo 1935, 19-20.
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1. LA FAMIGLIA, STURZO
LA SCELTA VOCAZIONALE E LE PRIME ATTIVITÀ DI
MARIO
Mario nacque il 1 novembre 1861 a Caltagirone, importante centro dell’interno della Sicilia, in provincia di Catania, ad economia agricola ed artigianale, ricco di tradizioni civili e religiose; ai tempi di Sturzo contava circa 100.000 abitanti e venti parrocchie. Egli era il secondogenito di sei figli della famiglia Sturzo-Boscarelli dei baroni d’Altobrando, che apparteneva alla piccola nobiltà terriera. Il padre Felice era un notabile cattolico della città, un uomo di fede che godeva di un certo prestigio tra il popolo, anche per il suo attaccamento alla causa papale: impegnato politicamente, promosse opere cattoliche di base. La madre Caterina, era una donna molto pia e distinta, educata in casa, nella gelosa clausura delle pareti domestiche, tipica delle ragazze siciliane di buona famiglia del tempo. La madre influì in maniera determinante nell’orientamento vocazionale di tutti i suoi figli2. Il Nostro così descriveva i suoi genitori al fratello Luigi che era esule per motivi politici: «Quando penso a lui (al padre) lo penso nel suo povero studio a tavolino, con l’Imitazione in mano, intento a meditare. Uomo quanto mai abnegato: sceglieva sempre le cose più umili per sé. Ascoltava la messa al Purgatorio o al Coretto, in ginocchio, sempre. Nei suoi dolori non fiatava mai».
E della madre afferma: «Fu una speciale grazia del Signore per noi, caro fratello, nascere da donna così santa, essere formato ai suoi esempi santissimi»3.
Aveva il genio dell’educazione, il genio della formazione. Tutto in lei era caratteristico, incisivo, formativo. Nel suo spirito c’erano veri trattati di 2 Cfr. M. PENNISI, Fede e impegno politico in Luigi Sturzo. L’influsso della concezione religiosa nelle prime attività politico-sociali del prete di Caltagirone, Roma 1982, 19-22. 3 G. DE ROSA, Sturzo, Torino 1977, 2-3. Il prof. De Rosa è uno studioso della figura e delle varie attività di don Luigi. Ha curato la pubblicazione di diverse opere su Sturzo ultima tra tutte il Carteggio fra i due fratelli Sturzo che raccoglie 2120 fra lettere e cartoline postali.
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morale, di ascetica e anche d’arte. Le sue massime uscivano più dai suoi occhi che dalla sua bocca, e trovavano la via del cuore. Io profittai più alla sua scuola che a quella dei maestri, in tutto. Nessun libro mi parlò mai della vocazione come me ne parlò la mamma che forse pochi libri del genere aveva visti4. Dei sei figli della famiglia Sturzo due divennero sacerdoti e una abbracciò l’Ordine delle figlie della Carità. Molto conosciuto è il fratello don Luigi, di dieci anni più piccolo di Mario: fondatore del Partito Popolare Italiano e tenace assertore del nuovo progetto politico e sociale dei cattolici, dal 1924 al 1946 fu esule a causa del regime fascista, di cui fu implacabile oppositore. Scrisse parecchie opere di filosofia, di politica, di sociologia e di letteratura e morì a Roma l’8 agosto del 1959. La famiglia era inserita nella vita civile e religiosa della città, aveva aderenze presso le migliori famiglie calatine e presso gli ecclesiastici più in vista del mondo cattolico siciliano che cominciavano ad avvertire l’esigenza di superare l’angustia di una testimonianza cristiana esclusivamente personale. Mario Sturzo maturò in questo tipo di ambiente; durante la fanciullezza visse in un clima economicamente sicuro, culturalmente raffinato, caratterizzato da interessi storico-letterari e religiosi e aperto ai problemi della vita politica locale e a quelli di un movimento cattolico intransigente, che proprio in quegli anni incominciava a definirsi con le celebrazioni dei primi Congressi Cattolici Nazionali5. Sappiamo poco della sua infanzia. Fece i suoi primi studi a Caltagirone, dove germogliò la prima vocazione al sacerdozio. C’è da supporre che subito dopo le scuole elementari, cioè intorno al 1866-1867, sia entrato nel Seminario di Noto per intraprendere gli studi liceali e poi quelli teologici.
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Lettera, 5.1.1925, in G. DE ROSA (cur.), Carteggio, I, Roma 1985, 58-59. Mons. Mario compone diverse poesie che raccoglie in un volume, ne dedica due ai genitori: una al padre e una alla madre mettendo in risalto la personalità forte dei genitori che, da buoni educatori, hanno saputo trasmettere i valori più alti ai loro figli: M. STURZO, Mia madre; Le preghiere di mio padre, in Il mio canto, Trani 1932, 111, 115. 5 Cfr. M. PENNISI, Fede e impegno politico in Luigi Sturzo, cit., 23-25. In una poesia, Mario Sturzo, descrive la sua infanzia, dedicata allo studio, ai giochi semplici, guidato dall’occhio vigile e attento della madre: Il mio canto, 102.
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Intorno ai 20 anni, dopo una permanenza di 12-13 anni, lasciò il Seminario di Noto per una “trepida reverenza”, stimandosi indegno della dignità sacerdotale e interrompendo così il corso di teologia (siamo verso il 1881-1882). Fuori del Seminario non smise le abitudini ivi contratte e non tralasciò le opere caritative. Tra il 1881 e il 1887 frequentò l’Università di Catania, iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza; proseguì gli studi in quella di Roma, dove si laureò in Legge. Non abbiamo elementi per stabilire gli anni di permanenza a Roma, dove però venne a contatto con la cultura immanentista e laicista del tempo. A 26 anni, cioè nel 1887, sentendo rinascere la giovanile vocazione, rientrò nel Seminario di Caltagirone, da poco riaperto, e il 21 settembre 1889 fu ordinato sacerdote da mons. Saverio Gerbino, vescovo della diocesi calatina. Divenuto sacerdote, insegnò in Seminario diverse discipline: lettere, musica sacra, sacra eloquenza, teologia morale e diritto canonico; durante il periodo dell’insegnamento ebbe come alunno il fratello Luigi6. Assieme al fratello Luigi si prodigò per il rinnovamento dell’arte oratoria sacra; infatti la predicazione era decaduta in puro formalismo e in forbiti giochi di parole. Per questo motivo nel 1893 fondò a Caltagirone l’Accademia di Eloquenza7. La preoccupazione dei due sacerdoti Sturzo non era meramente formale: essa era dettata dall’ansia di rinnovare la predicazione e di rendere più essenziale e attraente il messaggio cristiano per il popolo8. Don Mario non tralasciò mai di guidare le opere di carità, i circoli di azione cattolica, le opere missionarie. Fu redattore e collaboratore de La Croce di Costantino, un giornale locale fondato dal fratello Luigi nel 1897, che costituì la guida del movimento cattolico calatino di quegli anni; in queste pagine ferveva l’ideale della democrazia cristiana.
6 Cfr. S. LATORA, Un Maestro di pedagogia religiosa: il vescovo Mario Sturzo. L’educazione nella famiglia cristiana, in ID. (cur.), La famiglia e la scuola, Roma 1983, 196198. Il prof. Latora è un appassionato studioso della filosofia di Mario Sturzo; è uno dei primi che ha messo in risalto le opere del vescovo di Piazza Armerina. Per quanto riguarda la biografia su mons. Mario, vd. G. DE ROSA, Sturzo, cit., 7. 7 Cfr. M. PENNISI, Fede e impegno politico in Luigi Sturzo, cit., 43-44; P. STELLA, Il vescovo Sturzo. Epistolario spirituale e note bibliografiche, Catania 1977, 23. 8 Cfr. F. MALGERI, Profilo biografico di Luigi Sturzo, Roma 1975, 11.
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Per diversi anni in Seminario fu prefetto degli studi; dal 1890 al 1891 ne fu rettore; fu poi vicario generale della diocesi, non sappiamo con precisione per quanto tempo, molto probabilmente negli anni che vanno dal 1892 alla sua elezione a vescovo, cioè al 1903. Quando era già conosciuto come vivace sacerdote e fascinoso oratore sacro, nella primavera del 1903, all’età di 42 anni, fu eletto dal grande Leone XIII, vescovo di Piazza Armerina e consacrato il 19.07.1903 nella cattedrale di Catania, per le mani del cardinale Francica Nava. Fu l’ultimo vescovo creato da Leone XIII. Resse la diocesi di Piazza Armerina per 38 anni, cioè fino alla morte, avvenuta il 12.11.19419.
2. MARIO STURZO PASTORE E VESCOVO A Piazza Armerina comincia la seconda fase della vita di mons. Sturzo. La diocesi di Piazza Armerina abbraccia dodici comuni di due province dell’entroterra della parte orientale della Sicilia: Enna e Caltanissetta. Nel periodo dell’episcopato di mons. Sturzo doveva contare circa 250.000 abitanti con una quarantina di parrocchie e un numero elevato di sacerdoti e di comunità religiose. Le origini della diocesi sono recenti: è stata eretta il 05.07.1817 da papa Pio VII e Sturzo ne fu il settimo vescovo. Una diocesi non tanto vasta, perché i centri che la compongono sono popolari, tutti a economia agricolo-artigianale10. In questa sede la situazione sociale e spirituale doveva essere molto difficile. Ancora giovane e pieno d’entusiasmo, il nuovo vescovo cominciò a combattere gli abusi, mirando a riorganizzare la diocesi. Il suo primo intervento fu per il Seminario, che venne chiuso per qualche anno, cioè dal 1904 al 1907 circa. Al disagio economico dell’ambiente sociale si dovevano evidentemente aggiungere gravi carenze culturali. Si trattava di rinnovare per ricostruire la società civile e le strutture ecclesiali, ed occorreva operare in profondità11. 9
Cfr. S. LATORA, Un Maestro di pedagogia religiosa: il vescovo Mario Sturzo, cit.,
198-199. 10
Cfr. V. ROMANO, Piazza Armerina, in Enciclopedia Cattolica, 9, 1952, 1337-1338; G. GIULIANO (cur.), La diocesi di Piazza Armerina. Note di religione, storia, arte e folklore, Caltagirone 1967. 11 Cfr. F. BATTAGLIA, Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo, Ravenna 1973, 21.
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Mons. Sturzo diede strutture solide al Seminario, finalizzate alla formazione di un nuovo tipo di sacerdote, maestro di vita spirituale, di santità, ma attento ai problemi del tempo. Costante preoccupazione durante tutto il suo episcopato fu la formazione dei sacerdoti: «O sacerdoti interi, o lasciare ogni desiderio di sacerdozio. Sacerdoti per metà no. Quella è la via della dannazione»12;
per cui seguiva personalmente la formazione dei giovani seminaristi, si intratteneva con loro in amabili conversazioni, insegnava loro la filosofia e la teologia. Per gli studenti scrisse due volumi di letteratura e curava le dispense delle sue lezioni di filosofia che vennero poi stampate; il suo ultimo gesto fu per il Seminario, nominatolo suo erede universale. Sull’esempio del vescovo s. Carlo e ispirandosi alle sue costituzioni fonda, nel 1918, gli Oblati di Maria, un gruppo di giovani sacerdoti disposti ad andare dovunque lo richiedesse il bisogno della diocesi e legati al vescovo col voto di ubbidienza. Ebbe un largo seguito di sacerdoti e di seguaci che costituivano una scuola di forte e intensa spiritualità13. Da alcune espressioni presenti nelle pastorali ci sembra che così possa riassumersi lo stato d’animo patetico del Nostro, ma anche la sua ansia di pastore che ha presente tutti i problemi dei suoi diocesani: «La domanda angosciosa che anima il mio lavoro episcopale è sempre una: come dare le ali a chi si contenta semplicemente di correre? Come dare la volontà e la voluttà di correre a chi si contenta semplicemente di camminare? Come dare la volontà di progresso alle anime intristite…? Come dare la volontà di penitenza alle anime che giacciono nel peccato senza più avvertire i gemiti dell’anima dolorante? Come dare la volontà di volerci udire a coloro che, perduta la grazia col peccato e la fede coll’errore, respingono la nostra parola e ci voltano le spalle?»14. Non abbiamo potuto stabilire con certezza il periodo in cui il Seminario rimase chiuso, perché non siamo riusciti a trovare documenti per verificare quanto abbiamo potuto accertare da fonti orali e da testimonianze di persone che si trovarono nel Seminario qualche anno dopo la riapertura; certamente esso era nella sua piena attività quando venne ispezionato da mons. Cecchini, nel 1911: cfr. P. STELLA, Il vescovo Sturzo, cit., 27. 12 La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 111. 13 Cfr. S. LATORA, Un Maestro di pedagogia religiosa: il vescovo Mario Sturzo, cit., 201-202. 14 Il mistero della conversione, 133.
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In un’altra pastorale, mentre risponde alle accuse che gli rivolgevano, precisa quale è il suo obiettivo di pastore: «Me l’hanno detto più volte che io voglio fare della mia diocesi un convento di certosini. Io invece prego vivamente il Signore, affinché ne faccia un giardino di santità lieta e gioiosa. Però non posso falsificare la storia né dissimulare i misteri reconditi della sposa di Gesù Cristo: la Chiesa. La Chiesa è l’opposto del mondo, coloro che sono la porzione di Gesù Cristo crocifiggono la loro carne con i vizi e le concupiscenze»15.
Nella II lettera pastorale (11.11.1904), e quindi all’inizio dell’episcopato, mons. Mario così scrive: «Il vescovo è padre di tutti, dei buoni e dei traviati, egli ad ogni istante deve poter rivolgere a tutti la parola di padre, come ad ogni istante qualunque prodigo deve poter trovare nel vescovo il padre»16.
Nella I lettera pastorale del 01.11.1903 che è il programma del suo ministero episcopale, così interpreta il suo nuovo compito: «Dovere del nostro episcopato: consacrare le nostre povere forze al bene della diocesi. Per voi abbiamo palpiti di padre e fratello e ci appartenete già in modo così intimo»17.
Mons. Sturzo non si limita solamente a prendere coscienza della sua missione episcopale, non esprime solo il desiderio di voler e dover essere al servizio della sua diocesi, e non avverte soltanto la responsabilità: a queste considerazioni affianca un indefesso lavoro pastorale orientato alle componenti ecclesiali nelle loro diverse e molteplici dimensioni. Ebbe grande cura della diocesi, come dimostrano le numerose lettere pastorali che sono oggetto del nostro studio, per mezzo delle quali trasfuse la sua ricchezza spirituale per formare e dirigere i suoi diocesani. Visitò molte volte i paesi della diocesi, si rese conto personalmente dei loro vari problemi e vi tenne quaresimali; quelle catechesi sono rima15 16 17
La vocazione, 279. Lettera pastorale del 1904, 2. I Lettera pastorale del 1903, 3.
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ste famose ed ancora oggi ricordate dalle persone da noi contattate, perché egli, maestro del dire, inchiodava l’attenzione dell’uditorio. Era ascoltatissimo sia quando parlava delle cose più elementari del nostro Credo, sia quando la sua mente spaziava nelle dottrine dei grandi santi come Agostino, Tommaso D’Aquino, Francesco di Sales, Teresa d’Avila. Specialmente nei primi due decenni del suo ministero, cioè fino a quando la salute glielo permise, andò tra la sua gente; e si recò tra gli operai e gli zolfatari di Valguarnera e Riesi18. Tenne quattro Sinodi diocesani per dettare norme aggiornate e precise che rivelano l’occhio vigile del pastore sempre attento a sovvenire ai bisogni della sua diocesi, e per programmare la pastorale. Di essi purtroppo non siamo riusciti a reperire gli atti, né a conoscerne le date; solamente del quarto siamo maggiormente informati: si tenne a Piazza Armerina il 18.10.1928. Dedicò un’attenzione particolare anche alla famiglia, dalla quale deve partire la rigenerazione della Chiesa e della società; per questo organizzò il bollettino mensile intitolato L’Angelo della Famiglia edito dal 1938 al 1941. In questo bollettino si può notare la sua dottrina, la sua competenza, ma anche la sollecitudine educativa. Il vescovo non poteva essere presente in tutti i luoghi e avvicinare tutte le famiglie della diocesi per fare catechesi e trasmettere la sua parola, ricorre alle lettere pastorali e al bollettino diocesano per chiamare attorno a sé i suoi diocesani. Così egli descrive questa esperienza pastorale: «Molti ormai leggete “L’Angelo della Famiglia” ed io affretto coi palpiti del mio cuore il giorno che lo leggerete tutti. Frattanto io, chiamandovi attorno a me e spingendo me in mezzo a voi, vengo a parlarvi di ciò che il Signore mi ha messo nel cuore»19.
Segue con sollecitudine l’insegnamento del catechismo, non come apprendimento di nozioni e formule, ma come avvio alla pratica della vita cristiana rivolto a tutti; per interessare sempre più l’ambiente istituisce congressi catechistici parrocchiali e diocesani. È attento ai circoli cattolici, agli oratori, alle scuole, dove non fa mai mancare la sua dotta parola. 18 19
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Cfr. P. STELLA, Il vescovo Sturzo, cit., 32. Il santo raccoglimento, 221.
Nel 1931 organizza il I Congresso diocesano di Azione Cattolica: il sarà nel 1933. Si susseguono congressi eucaristici e catechistici fino al grande Congresso sulla Parrocchialità che si svolge ad Enna nell’ottobre del 1937: esso getta le basi di nuove organizzazioni ed è un momento di verifica della vita ecclesiale diocesana20. È consapevole della necessità di una “pastorale della parrocchia” perché come un popolo che ha smarrito il senso della famiglia decade, così si intristisce la vita cristiana quando il popolo perde il senso della parrocchialità21.
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3. LA SITUAZIONE STORICO-SOCIALE-ECCLESIALE E CULTURALE Il periodo storico in cui visse mons. Mario Sturzo, l’ultimo quarantennio dell’Ottocento e il primo del Novecento, è ricco di avvenimenti di straordinaria importanza e di movimenti culturali, sociali, religiosi che hanno segnato il cammino della storia contemporanea, determinando un passaggio epocale considerevole. Mario Sturzo, prima da sacerdote e poi da vescovo, si trovò ad operare in un momento storico della Chiesa dell’Isola abbastanza travagliato: paure sociali, arretratezza e ignoranza erano assai diffuse. Così egli descrive una delle piaghe del tempo: «Per effetto dell’egoismo spesso il sacerdozio è considerato come una professione simile alle altre, o come mezzo di accumulare ricchezze o onori. Guasti dovevano giungere gli animi al sacerdozio concepito così turpemente. Dovevano corrompersi ancora di più una volta giunti. Il male rifluì nella stessa società»22.
Nel periodo di mons. Mario il clero era rassegnato e nostalgicamente legato al passato, diffidente verso il presente e passivamente adagiato nelle 20
Cfr. G. FEDERICO, Il vescovo Sturzo, Caltanissetta 1960, 28. Mons. Federico è stato alunno, segretario e collaboratore di mons. Mario. Nel suo saggio, a carattere divulgativo, fa conoscere la ricca e poliedrica personalità di Mario Sturzo, il suo pensiero e la sua attività. 21 Cfr. Lettere alla diocesi, 01.09.1937, in Primo Congresso della Parrocchialità tenuto in Enna nell’ottobre del 1937, Torino 1937, 2. 22 Il seminario, 7-9.
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forme tradizionali di apostolato vuote di contenuto evangelico, lontano da una incidenza concreta sul vissuto pratico del popolo. Egli critica un modo di fare pastorale al negativo, ancorata ad una morale di divieti e di doveri in base alle prescrizioni di canoni ecclesiastici e sollecita una pastorale costruttiva tendente a formare positivamente i fedeli, educandoli al discernimento morale; critica una pastorale elitaria, diretta solamente ai pochi che frequentano23. D’altronde questi anni sono travagliati da grandi avvenimenti nazionali ed internazionali, che hanno delle ripercussioni sulla vita della Chiesa. La tensione tra Santa Sede e Governo italiano si inasprisce sempre più durante i pontificati di Pio X e Benedetto XV: le relazioni si fanno meno tese, il dissidio da ambedue le parti diventa più sfumato. Il cambiamento è dovuto a un complesso di fattori, fra cui deve essere sottolineato il timore che incute alle due parti contendenti il forte progresso del socialismo. Il periodo leonino è caratterizzato da un forte incremento dell’anticlericalismo, dovuto non solo alla questione romana, ma alla diffusione del positivismo che presenta la scienza incompatibile con la fede24. Due fenomeni complementari caratterizzano la vita tecnico-economico-sociale di questo periodo. Da una parte assistiamo a un immenso progresso tecnico, industriale, commerciale con innumerevoli ripercussioni psicologiche e sociali. L’uomo ha vinto in larga misura la natura, ha superato le distanze, ha rotto molti vincoli materiali. D’altra parte questo fortissimo incremento solo dopo parecchi decenni ha portato un aumento di benessere generale ed una elevazione di vita di tutte le classi. La ricchezza si concentra nelle mani di pochi, che hanno in mano i destini del mondo. I proletari sono quasi sempre oppressi dalla miseria e degradati dal lavoro svolto in condizioni disumane25. Ancora fanciullo, mons. Sturzo visse in un contesto sociale segnato dalla polemica anticlericale, subito dopo la presa di Roma del 20.09.1870; il padre Felice, che era assessore comunale, dovette dimettersi a causa del suo attaccamento alla causa papale e per non essere coinvolto in quella campagna anticlericale26. 23
Cfr. ibid., 29-31. Cfr. G. MARTINA, Storia della Chiesa. Da Lutero ai nostri giorni. L’età contemporanea, IV, Brescia 2001, 13. 25 Ibid., 29. 26 Cfr. P. STELLA, Il vescovo Sturzo, cit., 15. 24
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È evidente che l’unità d’Italia creava problemi non solo ai cattolici impegnati politicamente, ma era un momento di crisi generale: bisognava creare l’unità politica, sociale ed economica del nuovo stato, poiché venivano a cozzare situazioni storiche, condizioni economiche e culturali completamente differenti. C’è un profondo divario fra Nord e Sud del Paese; per il Nord si sviluppa sempre più il processo di industrializzazione e di ammodernamento; il Sud viene quasi abbandonato a se stesso. In questo contesto di abbandono e di arretratezza economica e culturale, sorgono nuovi fenomeni sociali, che formeranno una nuova mentalità e creeranno problemi notevoli anche alla pastorale della Chiesa: nasce la mafia. Alla fine del 1800 e all’inizio di questo secolo inizia la massiccia emigrazione dai paesi del Meridione verso l’America. I vescovi del Meridione erano portati ad attribuire tutti i mali delle loro diocesi — un certo movimento di decristianizzazione, il rilassamento dei costumi e il sorgere di nuovi ceti intellettuali contrari alla Chiesa — alla rivoluzione liberale e al nuovo stato italiano. Queste deficienze si manifestavano però su un corpo ecclesiale già indebolito dai mali tradizionali e secolari della Chiesa meridionale; esse furono messe in evidenza ed acuite dalla rivoluzione liberale. Il pontificato di Leone XIII tuttavia è ricco di nuovi fermenti: si delinea la nuova realtà del laicato cattolico, emerge una immagine nuova del cristiano, impegnato in campo politico e sociale, mentre prima la sua azione era esclusivamente connessa con la vita dell’altare. Cambia anche il volto della Chiesa: dalla parrocchia beneficiale, imbottita di pie unioni e confraternite, si passa a quella sociale, dinamica, attivista, alla parrocchia-partito più attrezzata ideologicamente e culturalmente per la concorrenza con il socialismo, più esposta nella lotta delle masse. In Sicilia il processo di trasformazione di mentalità del clero e della funzione della parrocchia è accelerato dal moto dei fasci siciliani del 1866 e dalla crisi agraria. A causa di questo fenomeno sociale, la Chiesa esce dal suo isolamento e si delineano nuove condizioni d’intervento nella società27. Mario Sturzo, assieme al fratello Luigi, vive in prima persona questi fermenti ecclesiali, sociali e politici; è uno di quelli che favorisce il rinnovamento. Il popolarismo, fondato nel 1918 dal fratello Luigi, era un par27
Cfr. G. DE ROSA, Sturzo, 19-39.
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tito che aveva dato coscienza ad una massa di esclusi dal processo di unificazione capitalistica del Paese: proponeva una riforma nel campo sociale e politico che avesse radici morali e religiose. Questa è la situazione in cui si venne a trovare mons. Sturzo subito dopo la sua elezione a vescovo. Da vescovo, nel 1915-18, affronta il primo conflitto mondiale, con le conseguenze che esso arreca anche alla vita ecclesiale, oltre che a quella nazionale; esso comporta problemi economici e morali nuovi e gravi. Il suo episcopato deve ancora superare un’altra prova difficile: è il periodo del fascismo che inizia ufficialmente con la marcia su Roma (28.10.1922) e che sfocia nel secondo conflitto mondiale (10.06.1940). Mentre la questione romana si avviava gradualmente ad una soluzione, altri problemi invece si andavano acuendo rimettendo in discussione il problema dei rapporti tra Chiesa e mondo moderno e finendo nuovamente per accentuare ancora il dissidio tra il pensiero contemporaneo e l’atteggiamento della gerarchia. L’aspirazione a una riforma della Chiesa era sempre presente in questo periodo. In diversi prelati, aperti e sensibili ai segni dei tempi, riaffioravano alcuni motivi riformistici, tipici del cattolicesimo liberale italiano: il primato della coscienza, la conciliazione tra autorità e libertà, l’autonomia della scienza, la liberazione da strutture ecclesiastiche superflue, il rinnovamento del culto, il disimpegno dalla politica. Davanti alla crisi del positivismo e a un rinnovato interesse per i problemi religiosi, sacerdoti intelligenti e zelanti avvertivano che il vuoto di molti anni poteva essere colmato solo da un cattolicesimo meno legato a schemi tradizionali. Accanto a questo generico riformismo si delineava un’altra esigenza, quella di un programma e un’azione sociale più netta, che superasse i confini ristretti entro cui Leone XIII aveva costretto la Democrazia Cristiana designata nell’Enciclica Graves de communi (1901) come «benefica azione cristiana a favore del popolo». Uomini portati allo studio avvertivano le gravi lacune che la cultura ecclesiastica italiana e straniera, alla fine dell’Ottocento presentava negli studi positivi. In filosofia si abusava facilmente del metodo d’autorità, i pensatori moderni erano poco conosciuti, il senso storico piuttosto limitato. In teologia l’indirizzo speculativo aveva la prevalenza assoluta. In genere la questione romana e l’intransigenza diffusa negli ambienti cattolici rendevano diffidenti per tutto quello che giungeva da ambienti non strettamente legati a Roma. Proprio in quegli anni gli studi positivi, storici e biblici, avevano fatto grandi progressi, soprattutto per opera di studiosi tedeschi in maggioranza protestanti
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e razionalisti, e sembravano mettere in discussione molti dati tradizionali della dottrina cattolica28. Era urgente l’esigenza di approfondire i problemi e di tener conto dei nuovi dati, accogliendo ciò che vi era di valido. In filosofia moderna le tendenze risalgono a Kant, che aveva concluso la sua speculazione affermando che la ragione, chiusa nei fenomeni, non può cogliere tutta la realtà, soltanto attraverso un’altra fonte di conoscenza è possibile fondare la certezza dell’esistenza di Dio. Kant aveva trovato questa via nel volere morale, nell’imperativo categorico: si salvava così la religione, ma riducendola ad una pura morale e privandola di ogni rivelazione trascendente. Erano diffuse negli ambienti cattolici all’inizio del secolo un senso di disagio, un’ansia di aggiornamento: si passava dal generico riformismo a un movimento sociale, a un’esigenza di rinnovamento degli studi, per finire a un tentativo di dare nuove basi a tutto il cristianesimo. Questa tendenza apriva la via al soggettivismo, svalutava il carattere soprannaturale del cattolicesimo, lo svuotava della sua essenza. Purtroppo la Curia romana non seppe distinguere i vari aspetti e condannò in blocco le istanze della base29. I modernisti tendevano a relativizzare il momento intellettuale delle formule della fede e del dogma, tendendo a fare della religione e della fede semplicemente l’espressione delle proprie esperienze interiori. Si rinunzia facilmente al fatto che nella fede cristiana costituisce qualcosa di esterno a noi stessi, l’accettazione di una rivelazione obiettiva, estrinseca, di un Dio trascendente. Ragione e fede non sono soltanto distinte, ma separate, dato che si giunge alla fede con un atto irrazionale, un’adesione cieca. In conclusione la Chiesa deve essere completamente rinnovata, ma dall’interno, non come i protestanti, separandosi da essa30. I drastici interventi di Pio X stroncarono rapidamente le tendenze razionalistiche e immanentistiche che minacciavano il carattere soprannaturale del cattolicesimo. La pesante atmosfera di sospetto che gravò sui cattolici nella seconda parte del pontificato di Pio X, dal 1907 al 1914, il complesso delle misure restrittive prese in quegli anni fino ad impedire agli studenti di teologia di leggere qualsiasi periodico, il timore per qualsiasi novità, la prevalenza assoluta delle condanne negative sulle iniziative per lo sviluppo degli studi biblici e storici, costituirono l’ultima tappa di quel pro28 29 30
Cfr. G. MARTINA, op. cit., 81-83. Cfr. ibid., 84-85. Cfr. ibid., 85-87.
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cesso di allontanamento della Chiesa dal mondo moderno. Diverse furono le conseguenze gravi della reazione antimodernistica come: il ritardo degli studi ecclesiastici, la mancanza di un’autentica cultura cattolica nel mondo laico, una certa chiusura e intolleranza dei cattolici più fedeli al Magistero ecclesiastico verso gli aspetti positivi della società contemporanea31. Questo difficile periodo ebbe delle ripercussioni negative e dolorose anche per la Chiesa e per quanti, all’interno di essa, lottavano per l’affermazione dei valori fondamentali dell’uomo; tra questi abbiamo i due fratelli Sturzo. Le loro attività, che andavano in direzioni diverse anche se il progetto era unico, furono messe alla prova: a Luigi fu imposta l’interruzione della politica attiva e l’esilio; nel 1931 mons. Mario fu invitato ad interrompere gli studi filosofici. È vero che la censura delle idee di mons. Mario venne dal S. Uffizio, però possiamo chiederci, così come ha fatto Battaglia nel suo saggio32, fino a che punto non influirono i risentimenti o almeno le riserve politiche conseguenti all’azione e al pensiero del fratello Luigi. Dalla documentazione offertaci da De Rosa nella sua opera33, notiamo che, dopo l’avvento del fascismo al potere, il vescovo di Piazza Armerina fu indicato nelle relazioni del Prefetto di Caltanissetta come un nemico del fascismo e si giunse anche a chiedere il suo trasferimento di sede, mentre negli anni precedenti di lui si dava un giudizio molto positivo. Queste comunque sono supposizioni, perché niente fa pensare a un qualche possibile collegamento. Per conoscere ancora meglio quale era la situazione in cui visse e operò il vescovo di Piazza Armerina, possiamo fare riferimento ai documenti di due Conferenze Episcopali siciliane, che si tennero rispettivamente nel ’34 e nel ’37. Certamente anche negli anni precedenti ci saranno state delle conferenze episcopali, ma di esse non conosciamo le date né il contenuto. Dal materiale che possediamo, abbiamo la possibilità di esaminare il fosco quadro della situazione storico-sociale ed ecclesiale tracciato dai vescovi. Sono descrizioni generali e generiche, che non esaminano le cause, ma dipingono solamente le situazioni.
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Cfr. ibid., 101-102. Cfr. F. BATTAGLIA, Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo, cit., 21-22. Cfr. G. DE ROSA, Carteggio, I, Prefazione, XXIII-XXIV.
I vescovi siciliani, tra cui il nostro autore, riuniti in conferenza nell’aprile del 1934, così affermano: «Uno dei più gravi disordini della società di oggi è l’ignoranza pressoché generale in fatto di religione, le tenebre si sono addensate nelle coscienze e si è fatta notte profonda nelle anime»34.
Sempre nella stessa lettera i vescovi richiamano l’attenzione sulla grave questione della santificazione della festa: «La situazione è dolorosa e preoccupante. Il riposo festivo non è osservato, la S. Messa è negletta e la Parola di Dio è enormemente trascurata. Purtroppo cessando la santificazione della festa si va a finire nel più abbietto paganesimo»35.
Nella stessa lettera vengono denunciati gli abusi del culto, il quale è considerato dalla gente come un rituale solamente esteriore, non legato alla fede e alla vita e talvolta deviante. I vescovi descrivono così la religiosità popolare del tempo: «Nelle nostre Chiese ci sono tanti abusi; nessuna dignità delle sacre funzioni, negletto il canto sacro. Riproviamo le processioni che non sono pubblici attestati di fede e di religiosità»36.
E aggiungono: «stiamo vivendo un’ora della storia fra le più oscure. Perdura nel mondo la grave crisi economica, con la triste conseguenza di disoccupazione, disagi, miserie e sofferenze. Tutti hanno il dovere di aiutare i propri fratelli bisognosi»37.
I vescovi, qui, si riferiscono alle conseguenze della grave crisi economica del 1929. 34 35 36 37
CONFERENZA EPISCOPALE SICILIANA, Lettera dell’Episcopato Siculo, cit., 7-8. Ibid., 19-20. Ibid., 21-28. Ibid., 21-34.
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Ed ancora: «Assistiamo ad una rinascita del paganesimo nel modo peggiore dell’antico. Esso implica il volontario ripudio della verità conosciuta, il disprezzo dell’opera redentrice di Cristo, l’apostasia, l’odio e la persecuzione feroce verso la Chiesa, l’abolizione di qualsiasi religione, la negazione dell’esistenza di Dio e di qualsiasi principio etico, anche d’ordine puramente naturale; il decadimento morale e la perversione dei costumi col contorno di ogni delitto, è una conseguenza necessaria di tutto ciò. Dobbiamo pensare che per circa 60 anni la scristianizzazione è stata compita in mezzo a noi con diaboliche arti. Segno non dubbio di questa triste realtà è la moda invereconda, la mania di divertimenti che non conosce ritegno, la licenza del tratto nelle relazioni, la immorale fuga delle figliole colla connivenza dei genitori. Tiriamo un velo sulla ignominiosa diffusione di un vizio nefando: delitto obbrobrioso che inaridisce la sorgente della vita nelle famiglie rendendo il sacramento del matrimonio causa di perdizione»38.
Nella Conferenza del 1937 i vescovi siciliani continuano a denunciare i fenomeni dell’aborto e della denatalità, provocati dalla stanchezza di vivere e dal rifiuto di trasmettere la vita, conseguenze del benessere. L’istituzione del matrimonio è disprezzata, sottoposta alla mutabilità di regolamento della cosiddetta cultura moderna che propone di viziare l’atto naturale per evitare la prole. Uno solo è il pretesto: l’egoismo39. Questa atmosfera di paganesimo si diffonde maggiormente e lavora nelle profondità delle coscienze per mezzo del teatro, del cinematografo, della stampa che avvelenano le coscienze e pervertono un po’ alla volta così gravemente il senso morale che il male non è più nemmeno avvertito, né sono più sentiti i rimorsi della coscienza40. I vescovi, nella conferenza del 1937, sono preoccupati per l’avanzare del bolscevismo che distrugge ogni ordine religioso, sociale e familiare. «Noi siamo spettatori del cozzo decisivo di due concezioni inconciliabili della vita: la concezione naturalistico-materiale e quella soprannaturale-spirituale dei destini dell’uomo. L’esaltazione violenta dei valori della materia con l’annientamento dei valori dello spirito, determina la degenerazione 38
Ibid., 35-37. Cfr. CONFERENZA EPISCOPALE SICILIANA, Pro aris et focis. Per la difesa dell’altare e del focolare, studiare il catechismo, Palermo 1937, 21-23. 40 Cfr. CONFERENZA EPISCOPALE SICILIANA, Lettera dell’Episcopato Siculo, cit., 35-37. 39
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dell’uomo nel più orrido mostro. L’insano movimento che mette a soqquadro le nazioni è provocato e diretto dal Comunismo che è materialista e ateo, nega tutti i valori e gli interessi dello spirito, eccita ed esalta gli istinti più bassi, distrugge la famiglia; nella società i singoli hanno la funzione di produttori e consumatori della ricchezza, si può comprendere quale possa essere la moralità pubblica e privata. Per la morale, dicono che deve essere subordinata all’interesse del proletariato e all’esigenza della lotta di classe. L’unico vero ostacolo all’opera del Comunismo è la pratica coerente della vita cristiana. La dottrina sociale della Chiesa deve essere richiamata alla memoria, predicata e diffusa a tutti»41.
Sono mali gravissimi che domandano rimedi proporzionati. Per i prelati siciliani, uno dei fattori di rinnovazione religiosa e sociale è l’istruzione, affinché la vita riacquisti l’originaria purezza. «In ordine alla vita morale e religiosa del tempo nostro, ciascuno di noi ha il dovere di vivere come il Signore vuole che vivano i cristiani, sia per provvedere alla salute delle anime nostre, sia per cooperare alla riforma della società»42.
Fin dall’inizio del suo episcopato, mons. Mario ha chiaro il quadro della situazione e identifica pure la causa spirituale dello stato di decadenza: la mancanza di una seria educazione interiore43. Egli traccia anche un programma di intervento: «È necessario che la Chiesa scenda nel campo sociale ed aiuti la società ad uscire dai mali cagionati dal liberalismo e la premunisca contro quelli che arreca il socialismo, proponendo un sistema che risolva, conforme le esigenze della civiltà e del progresso di oggi, la questione sociale ed anche conforme allo spirito del Vangelo; ed il sistema che oggi la Chiesa propone è la Democrazia Cristiana intesa come attuazione sociale del cristianesimo»44. 41
CONFERENZA EPISCOPALE SICILIANA, Pro aris et focis, cit., 1-20. Queste pagine che condannano il Comunismo sono state scritte dopo la pubblicazione dell’enciclica di Pio XI, Divini Redemptoris (19.3.1937), dove si condanna «il comunismo bolscevico ed ateo, che mira a capovolgere l’ordinamento sociale e a scalzare gli stessi fondamenti della civiltà cristiana»: AAS 4 (1937) 65-106. 42 La pastorale collettiva degli Arcivescovi e Vescovi della Sicilia dopo le Conferenze dell’aprile 1934 per la quaresima del 1935, Asti 1935, 5-13. 43 Cfr. Liberazione, 3. 44 I lettera pastorale, 21-23.
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Ancora il vescovo così scrive: la nostra attività vuole essere molteplice oggi: demolire tutte la congerie degli errori, dei falsi sistemi che impediscono l’attuazione sociale del cristianesimo; ricostruire l’edificio del bene socialmente, come uno dei mezzi per richiamare al bene gli individui. Desolante assai è l’ora presente. È l’ambiente sociale corrotto che corrompe. Quando avremo fondato delle associazioni e avremo aiutato il popolo a sorgere dalla miseria che l’opprime; quando l’avremo fatto nostro e noi ci saremo fatti suoi salvatori; allora, dopo trattati gli interessi del corpo, ci sarà agevole trattare gli interessi dell’anima. Creeremo nelle nostre associazioni un ambiente nuovo, pieno di fede, di pietà, di Gesù45.
4. MARIO STURZO FILOSOFO Il rinnovamento ecclesiale, morale, sociale e pedagogico che Mario Sturzo auspicava necessitava di una chiarezza d’idee e di una solida preparazione teoretica perché, come affermavano i vescovi siciliani nel 1937, le esplosioni di tutti i movimenti collettivi tendenti al sovvertimento dell’ordine religioso, etico, sociale sono state precedute e preparate da sistematica e persistente diffusione di nuove idee, sicché prima che nel campo dei fatti, le rivoluzioni sono già maturate nel campo del pensiero. Quelle empie dottrine non avrebbero fatto presa nell’animo dei popoli, se la verità della fede e della sana filosofia non si fossero prima offuscate e poi spente nelle varie classi del popolo46. Mons. Mario sviluppò il suo pensiero teoretico-filosofico in quattro opere fondamentali: 1. Il problema della conoscenza. Lezioni di filosofia per i licei secondo i nuovi programmi; 2. Il Neo-Sintetismo come contributo alla soluzione del problema della conoscenza; 3. Problemi di filosofia dell’educazione; 4. Il pensiero dell’avvenire47. 45
lettera pastorale, 26-28. Cfr. CONFERENZA EPISCOPALE SICILIANA, Pro aris et focis, cit., 26. 47 Cfr. Il problema della conoscenza. Lezioni di filosofia per i licei secondo i nuovi programmi, Roma 1925; Il Neo sintetismo come contributo alla soluzione del problema della conoscenza, Trani 1928; Problemi di filosofia dell’educazione, Trani 1929; Il pensiero dell’avvenire, Trani 1930. 46
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A cominciare dal 1915 collaborò alla Rivista di filosofia neoscolastica e dal 1927 al 1930 alla Rivista di autoformazione da lui fondata, dove affronta diversi problemi come quelli: gnoseologico, storico, scientifico, pedagogico, estetico48. Egli pensava di introdursi nella scuola, come campo di formazione e di rinnovamento della società; in quanto educatore voleva dare luce di verità al pensiero minacciato dalle nuove correnti filosofiche e convinzioni profonde alla vita umana. La critica a tutto il pensiero moderno mirava esclusivamente a mettere la cultura al servizio di Dio e della Chiesa, come mezzo di apostolato. Non dimenticò né trascurò l’esperienza romana quando ebbe il suo primo impatto con la cultura laicista e immanentista del tempo, per cui si dedicò allo studio, perché avvertiva la necessità di animare cristianamente la cultura e gli ambienti in cui operava. Ma perché un vescovo filosofo? Si chiede mons. Federico nel suo opuscolo. La risposta è chiara: il pensiero dev’essere condotto anch’esso a Dio, dev’essere risanato e “soprannaturalizzato”. Inoltre la filosofia, oltre ad essere necessaria per la sistemazione scientifica della teologia, è necessaria per la vita49. Mario Sturzo concepiva la filosofia come disciplina che conduce alla fede, orientata alla vita concreta. È evidente che la sua ricerca filosofica è sulla linea di una filosofia cristiana, di una “filosofia nella fede”, che nasce dalla fede, che accoglie in modo critico il ritorno a s. Tommaso e non disdegna di colloquiare con lo “storicismo” di Benedetto Croce; questa disciplina filosofica tendeva a convertire pur usando strumenti propri che sono quelli logici e razionali50. Cosa intendeva Croce quando parlava di “storia” e di “storicismo”? Per Croce la storia corrisponde all’attuazione dello spirito e abbraccia l’intera realtà: tutto si risolve nella storia e viene eliminato ogni residuo trascendente. Per questo la filosofia crociana è detta “storicismo assoluto”. D’altro lato, poiché tutta la realtà è data dalla storia, ogni conoscenza è conoscenza della storia e quindi storiografia51. 48
Cfr. S. LATORA, Un Maestro di pedagogia religiosa: il vescovo Mario Sturzo, cit.,
204-205. 49 50
Cfr. G. FEDERICO, Il vescovo Sturzo, cit., 33-34. Cfr. S. LATORA, Un Maestro di pedagogia religiosa: il vescovo Mario Sturzo, cit.,
206-207. 51 Cfr. A. DOLCI – L. PIANA, Da Talete all’esistenzialismo. Storia della Filosofia ad uso dei Licei classici, III, Milano 1986, 245-250.
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Per il vescovo siciliano, Dio ha dato all’uomo la ragione e la grazia per poter conseguire il bene supremo della vita; a chi cerca il vero teoreticamente e praticamente Egli non negherà il dono della fede52. Convinto di ciò, Mario Sturzo ritiene che la via da seguirsi sia quella dell’autoformazione a cui dedica una rivista apposita. Egli pensa che l’autoformazione sia fondamentale nella vita di ogni uomo e si identifichi con Benedetto Croce (1866-1952) era l’autorità indiscussa in campo filosofico, il maestro dell’idealismo italiano. Era molto seguito nelle università. Visse per lungo tempo a Napoli dove lavorò indefessamente in qualità di studioso e di scrittore rivolgendo la sua attenzione alla storia (Materialismo ed economia marxista; Teoria e storia della storiografia), all’estetica (Estetica come scienza della espressione linguistica generale; Breviario di estetica), alla letteratura (La letteratura della Nuova Italia; La Poesia di Dante; Poesia e non poesia) e alla filosofia (La filosofia di Giovanbattista Vico; Saggio su Hegel; Etica e politica). Mons. Sturzo curò l’amicizia con il Croce e amava confrontarsi con lui, perché sperava in una sua possibile conversione. Lo storicismo di cui parla Mario Sturzo non è come quello assoluto di Croce, bensì quello umanistico alla Vico. Per lo storicismo la realtà è storia (cioè svolgimento, razionalità e necessità) e ogni conoscenza è storica. Questa affermazione è di chiara matrice hegeliana, tradotta in Italia dal pensiero crociano. Secondo questa accezione c’è coincidenza tra finito ed infinito nella storia, tra mondo e Dio, per cui la storia va intesa come la stessa realizzazione di Dio e la realtà di Dio quindi si esaurisce nella storia, che è la sola conoscenza possibile. Mario Sturzo nella sua riflessione parla di “storicismo” che va inteso bene e distinto da quello crociano. Egli ricorre al termine “storicismo” e al concetto di “storicizzazione” per intendere non tanto una legge-teoria, che mira a collocare la storia come assoluto nel processo conoscitivo umano, ma piuttosto il ricevere dell’azione da parte della storia, per inserirsi in essa e qui farsi uomo, uomo del suo tempo e del suo ambiente. Quindi parlare di storicismo assoluto hegeliano o crociano nei confronti della riflessione sturziana è del tutto improprio, perché tale concetto non consente sbocchi trascendenti, i quali anche se non sono storicizzabili, tuttavia interpellano l’uomo e lo conducono sui sentieri dell’al di là della storia: cfr. S.G. ZAVATTIERI, Filosofia e sapienza cristiana nella riflessione di Mario Sturzo, Firenze 1988, 139-140. Mario è convinto che la storiografia moderna ha superato l’errore di quella medievale, che spiegava la storia con la teologia, tuttavia essa è caduta in altro errore perché ha negato Dio trascendente e personale, e ha posto in sua vece il divino nell’umano. Questo errore, secondo Mario, non si superava tornando alla teologia, ma ponendo il divino rivelato mistero come elemento si, ma non risolvibile. Mario ammetteva la coerenza dell’idealismo, che escludeva la pensabilità del trascendente, ma aggiungeva che il trascendente era credibile per fede, non conoscibile per ragionamento né risolvibile in storia; per questo motivo inventò il concetto di “soprastoria” che è la spia della estrema difficoltà del vescovo di accettare lo storicismo crociano: egli pensava che fosse sufficiente mettere a fianco di esso la cosiddetta “soprastoria” per risolvere ogni dubbio: cfr. G. DE ROSA (cur.), Carteggio, I, Prefazione, XIX. 52 Cfr. La vita in Dio, 77-79.
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il culto della verità, presentando due aspetti: l’uno prevalentemente logico, l’altro prevalentemente morale. Il primo riguarda il conoscere, il secondo l’uso delle conoscenze. Ai fini di una impostazione del problema della vita tutto questo è della massima importanza e mons. Sturzo, nella sua rivista, parla di problemi del conoscere e del volere, tenendo sempre presente la sintesi educativa dell’uomo. Perciò, mentre vuole disciplinare la ricerca e renderla scientifica, innesta questa filosofia sull’educazione, sulla formazione dell’uomo che deve agire secondo il suo fine53. L’educazione mira alla vita interiore in Dio nei suoi influssi personali e sociali. Questa vita anima tutte le azioni, regola e domina tutte le tendenze, coordina tutti i fini, santifica tutte le conquiste della mente e tutti gli effetti della volontà e dispone al conseguimento del fine supremo che è Dio54. Il problema della conoscenza di Dio si dice singolare, perché Dio è trascendente, nel senso che dall’uomo non è intuibile e tuttavia, non sorpassa la nostra capacità ragionativa. L’uomo arriva alla conoscenza di Dio per una singolarissima opposizione di termini e rapporti, cioè per la dialettica delle idee; quando Egli è conosciuto, si arriva al possesso pratico di Lui per via etica. La singolarità di tale processo risiede tutta nella opposizione tra contingente e assoluto55. Dio, che si conosce per la mente, compose in armonia le facoltà dell’uomo in modo da rendere agevole a tutti il conseguimento dell’ultimo fine che è la salvezza. Quindi lo studio è una via per trovare la verità56. Sturzo è consapevole che gli increduli accusano i cristiani di irrazionalità nella fede e li deridono come se questi, per credere, rinunciassero alla ragione; certo, se così fosse, la fede sarebbe un non senso57. La verità che abita nell’uomo è quella del suo primo principio, della sua origine, dell’ultimo fine del vero essere: è Dio, verità per la quale l’uomo può essere buono ed aspirare a più alta bontà, aver pace e sperare 53
Cfr. S. LATORA, Un Maestro di pedagogia religiosa: il vescovo Mario Sturzo, cit.,
206-207. 54 55 56 57
Cfr. G. FEDERICO, Il vescovo Sturzo, cit., 34-35. Cfr. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio. Prefazione, IX-XII. Cfr. ibid., X-XIX. Cfr. La vita in Dio, 79.
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la felicità. Dio è il principio dell’uomo, il quale per Dio comprende se stesso, il mondo e la realtà58. Se l’uomo cerca Dio stando fuori di sé, non lo troverà mai; ma se scende nelle profondità del suo essere, trova Dio sia in sé che fuori di sé, perché di Lui parleranno non solo i cieli, ma tutti gli esseri59. La filosofia è la conoscenza delle somme ragioni del conoscere delle cose e delle cose che non si conoscono per percezione, ma per ragionamento: è la scienza delle idee. Tra le idee e la Rivelazione c’è buona armonia, perché senza di esse l’uomo non intenderebbe la Parola di Dio né quella degli uomini. In rapporto alla fede c’è nell’uomo una doppia virtù conoscitiva: quella della ragione — fondamento senza il quale non sarebbe possibile la fede — e la virtù della grazia, che è una luce che si comunica alla ragione, per la quale la virtù conoscitiva umana viene elevata di tono e di grado, viene soprannaturalizzata. La natura e la grazia, nella economia della Redenzione, non sono due cose separate60. L’uomo, perché pensante, ha l’indomabile bisogno di conoscere l’origine delle cose e il loro fine. La fede è necessaria, ma non esclude un qualche lavoro della ragione, perché è atto razionale e non ossequio cieco61. Mons. Mario, desideroso di una nuova armonia tra pensiero tomistico e pensiero moderno, tentò un avvicinamento e una integrazione tra la neoscolastica e il pensiero crociano in nome dello storicismo. Due punti gli stavano a cuore: l’affermata supremazia del trascendente religioso e la rivendicazione di un ruolo centrale dell’individuo, secondo le istanze della fede cristiana. Per il resto, era fautore della più ampia e pur serena discussione, alla ricerca della verità. Solo l’individuo è il termine del processo spirituale, per cui è necessario fare attenzione all’autoformazione, ciò nel duplice scopo morale e intellettuale, perché l’individuo non pensa del tutto bene, se non è formato moralmente, né vuole del tutto bene, se non è formato intellettualmente62. L’uomo non è mai un isolato; la conoscenza che di lui si ha, come la conoscenza che egli ha, comportano un aspetto sociale, dal quale è impos58 59 60 61 62
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Cfr. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 5-7. Cfr. ibid., 34. Cfr. ibid., 65-66; 74. Cfr. La vita in Dio, 26-30. Cfr. F. BATTAGLIA, Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo, cit., 12-13.
sibile prescindere in uno storicismo che voglia essere adeguato alla natura delle cose e degli uomini. In questa prospettiva la conoscenza è una laboriosa conquista che dal piano individuale si allarga a quello sociale, all’insegna della storia. La storia è la sintesi attiva del pensare e dell’agire degli uomini che implica l’idea di progresso. Il che vuol dire che non è possibile che ci sia “la” filosofia ma è necessario che ci sia “una” filosofia63. Dunque la filosofia come conoscenza è processo sempre in fieri: non è possibile che un uomo o una società di uomini costruiscano sintesi filosofiche che contengano tutta la verità possibile, tali da non lasciare più nulla da scoprire a chi viene dopo; per giungere a tanto l’uomo dovrebbe essere onniveggente, cioè dovrebbe essere come Dio64. Questo modo di concepire la filosofia è in aperto contrasto con la concezione tipica dell’ambiente ecclesiastico che sosteneva la presenza di una filosofia da accreditare sulle altre. Con lo sviluppo degli argomenti a favore dello storicismo ciò viene smentito dal nostro autore65. La coscienza cattolica possiede un patrimonio di verità statiche, ma ha anche un patrimonio di verità dinamiche; le prime le vengono dalla Rivelazione e sono soprarazionali, le seconde dalla ragione e sono semplicemente razionali66. Lo storicismo tocca anche la delicatissima materia etica. Mons. Sturzo non rifiuta gli alti principi che regolano nel cristianesimo la sfera morale, ma certamente il giudizio morale tiene conto delle circostanze e si profila nelle condizioni storiche in cui si definisce. Giudicando della schiavitù, per esempio, come dottrina e come fatto, non possiamo ignorare l’ambiente in cui la teoria viene espressa, la società che ne pratica l’istituto67. Se è vero che l’uomo è un essere relativo, limitato, la sua conoscenza è relativa e limitata. Né è da vedere in ciò la via aperta allo scetticismo, che non sarebbe una conoscenza logica. L’uomo normale non cade nello scetticismo perché sa che l’ignoranza si supera con l’esperienza, la riflessione, lo studio e che allo stesso modo si supera il dubbio e si perviene alla verità. E benché l’uomo sappia che alla scienza assoluta non giungerà mai, non per questo si sconforta o smette di cercare. Quando l’uomo riflette sulla sua 63 64 65 66 67
Cfr. ibid., 17-19. Cfr. Rivista di autoformazione 2 (1927) 60. Cfr. F. BATTAGLIA, Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo, cit., 17-19. Cfr. Rivista di autoformazione 1 (1927) 108. Cfr. F. BATTAGLIA, Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo, cit., 19.
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condizione, conclude tranquillamente che se non può tutto quello che vorrebbe, molte cose può e di questo dev’essere pago, perché volere l’impossibile sarebbe sciocchezza68. Se di verità statiche si vuole parlare, si devono ammettere assolutamente in Dio, e in questo modo si trovano soltanto nei dogmi della Rivelazione, che contiene anche verità che si possono conoscere naturalmente. In rapporto a Dio e in rapporto alla nostra fede, sia le verità rivelate che quelle comprensibili con la ragione umana, sono statiche, ma in rapporto all’umano conoscere, quelle ad esso relative sono dinamiche. I dogmi sono statici perché non sono acquisizioni o elaborazioni della ragione. L’uomo li crede perché rivelati dalla Parola di Dio; né per questo fa un atto contrario alla ragione, perché li accetta come tali sull’autorità di Colui che non inganna, essendo Verità indefettibile. Però i dogmi, in quanto soprarazionali, non sono filosofici, bensì il dinamismo filosofico non nuoce allo staticismo teologico, perché non riguarda l’aspetto di Rivelazione, ma quello di ragionamento69. Mons. Sturzo, a conferma di queste sue asserzioni, riporta esempi di scolastici ragguardevoli che hanno sostenuto una teoria diversa da quella aristotelica-tomistica in gnoseologia, dando prova evidente che la scolastica non gode della supposta definitività.
5. IL NEO SINTETISMO Nel pensiero e negli scritti del nostro vescovo, viene continuamente operata una sintesi, ancora oggi di grande attualità, tra filosofia, teologia e mistica. Mario Sturzo si distingue dagli altri filosofi neoscolastici per un atteggiamento proprio verso la filosofia moderna, di cui intende apprezzare e utilizzare ciò che è sua conquista. Il sistema filosofico elaborato, da lui stesso denominato “Neo-sintetismo”, pone quale problema centrale e prioritario di ogni speculazione quello gnoseologico o del procedimento conoscitivo, problema fondamentale della filosofia e propedeutico di tutti gli altri70. 68 69 70
69-74.
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Cfr. Rivista di autoformazione 2 (1927) 62. Cfr. Rivista di autoformazione 1 (1927) 259. Cfr. S. LATORA, Il Neo Sintetismo di Mario Sturzo, in Il Contributo 10 (1986) 4,
Alla base del conoscere si trova l’atto intuitivo, che è l’atto conoscitivo più immediato; egli lo considera come fatto e come termine di un processo, che è prima di tutto unità e perciò sintesi di elementi oggettivi e soggettivi, teoretici e pratici, sensitivi e spirituali. All’atto intuitivo segue poi la conoscenza inquisitiva. Mario Sturzo afferma la sinteticità del conoscere umano. Non è il senso che sente, né l’intelletto che conosce, né la volontà che vuole, ma il soggetto, l’uomo che, in unità sintetica, sente con i sensi, conosce con l’intelletto, vuole con la volontà. La base della conoscenza è un’esperienza simultaneamente sensitiva e classificatoria, affettiva e volitiva, teoretica e pratica. Tale base è chiamata “esperienza”; è una e sintetica perché è esperienza del molteplice ridotto a unità71. Il pensiero sturziano evita le incongruenze scolastiche e si dimostra più vicino al pensiero di s. Tommaso per il quale non sono i sensi che conoscono, ma l’uomo per mezzo dei sensi; il conoscente è l’uomo e non le facoltà sensitive. Tre sono gli aspetti fondamentali del Neo-sintetismo per costruire una filosofia metafisica: 1. L’autotrascendenza. Per Sturzo l’uomo è sintesi, cioè unità attiva e rapportuale di fisiologicità, sensitività e intellettività. Il soggetto, intuendo, trascende la corporalità dell’oggetto, in quanto l’esprime sensitivamente, la stessa cosa vale anche per la sensitività e l’intellettività. L’intuizione resterebbe su un piano fenomenico ed il soggetto non potrebbe trascendere l’oggetto, se l’uomo non fosse capace di autotrascendenza, per questo egli vede nell’oggetto qualcosa del suo interno, che la tradizione filosofica chiama “essenza”, “sostanza”, “natura”. L’autotrascendenza manifesta per via inquisitiva. L’autotrascendenza intuitiva ci dà la nozione di sostanza; quella inquisitiva ci permette di affermare la ragione di sostanza anche per gli esseri spirituali come l’anima e Dio. Dal rapporto di contingenza noi ricaviamo con prontezza, certezza e verità la cognizione del termine non intuito né al presente intuibile, che è l’assoluto. Ma noi trascendiamo la nozione di assoluto come concetto e affermiamo questa nozione come termine, non generico, non specifico, ma individuale. E diciamo: “l’assoluto è Dio”. Qui è la base possibile di una metafisica.
71
Cfr. A. DI LASCIA, Filosofia e Storia in Luigi Sturzo, Roma 1981, 66.
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2. La legge della rapportualità come legge del pensiero. L’uomo è alla ricerca della verità assoluta, mentre è circondato da “processualità” e contingenza. Una ragione di questo fatto paradossale è da ritrovarsi nel rapporto contingente-assoluto. Il pensiero cerca la verità assoluta, perché è legge delle cose la loro dipendenza dall’assoluto. Se si negasse l’assoluto si negherebbe un termine del rapporto delle cose create, e queste resterebbero relative tra loro, ma irrelative nel loro essere primo. L’umanità cerca l’assoluto perché ne dipende; quando non cerca l’assoluto, mostra la tendenza ad “assolutizzare” i fatti contingenti. In questo si rivela la legge fondamentale del pensiero umano: la legge della “rapportualità”, dato che l’irrelativo non solo si dà, ma neanche è pensabile. Pensare vuole dire trovare i rapporti tra le cose. 3. La storicità del pensiero. L’uomo come processualità è un essere essenzialmente storico. La risoluzione di ogni problema attuale dev’essere il risultato di una sintesi storica. Il pensiero moderno, cioè l’idealismo, non distingue Dio dall’uomo e dal mondo, ma nega Dio, l’uomo stesso come vero individuo e tutto il mondo, e pone una realtà unica, che non è né divina né umana, ma è spirito. L’idealismo, come ogni filosofia immanentista, è insostenibile perché contravviene alle tre leggi fondamentali del pensiero che emergono dalla filosofia di Sturzo: • contraddice la legge della rapportualità che esige il soggetto insieme all’oggetto; • contravviene alla legge dell’autotrascendenza con la affermazione contraddittoria dell’assoluta immanenza; • è contro la legge della storicità perché si ferma alla puntuale attualità72.
6. LA SVOLTA DEL 1931, FINE DELL’ATTIVITÀ FILOSOFICA Da quanto detto potremmo avere l’impressione di trovarci di fronte a uno studioso immerso nelle sue riflessioni e poco curante del ministero episcopale e della pastorale diocesana. Dobbiamo subito affermare che chi 72 Cfr. S. LATORA, Il Neo Sintetismo e la sua dialettica nel pensiero dei fratelli mons. Mario e don Luigi, in Synaxis 4 (1986) 257-267.
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pensasse una cosa simile si sbaglierebbe: quando fu richiamato dal S. Uffizio e fu accusato di relativismo, di kantismo, di adesione all’idealismo del Croce e del Gentile, d’allontanamento dalla filosofia perenne di s. Tommaso73, egli accolse in pieno il monito pontificio e l’8.04.1931, durante un solenne pontificale rese pubblica la ritrattazione e la sottomissione, abbandonando quindi la sua attività di studioso per dedicarsi unicamente all’attività pastorale e agli scritti di spiritualità74. 73 Cfr. ID., Un maestro di pedagogia religiosa, cit., 187. Prima dell’increscioso avvenimento, già nel lontano 1906 mons. Mario era stato denunciato alla S. Sede come modernista murrino, con l’accusa di crocianesimo. Come afferma il prof. Latora in un altro articolo, possiamo affermare che il prelato di Piazza Armerina è stato un assiduo studioso di s. Tommaso, soltanto che la sua interpretazione va nel senso di un tomismo essenziale visto alla luce del pensiero moderno, cosa che, oggi, non meraviglia più. Egli segue più che la lettera, lo spirito del dottor Angelico che cerca di capire e di approfondire meglio di tanti che si professano tomisti, è sulla linea del tomismo essenziale, non ripetitivo di formule; cfr. ID., Il Neo-sintetismo e la sua dialettica nel pensiero dei fratelli mons. Mario e don Luigi Sturzo, cit., 248-250. Per comprendere poi il modernismo è necessario rifarsi al contesto culturale filosofico-religioso in cui agirono spinte razionalistiche e positivistiche. Questo fenomeno sorse alla fine dell’800 quando si acuiva il rapporto sempre più difficile tra Chiesa e mondo moderno e riaffioravano qua e là alcune idee riformatrici come: il primato della coscienza, la conciliazione fra libertà e autorità, l’autonomia della scienza, la liberazione da strutture ecclesiastiche superflue, il rinnovamento del culto, il disimpegno dalla politica. Si delineava l’esigenza di un programma e di un’azione sociale più netta. Diverse e più profonde erano le esigenze in campo filosofico e teologico dove la cultura ecclesiastica presentava gravi lacune. Dal generico riformismo si passava ad un movimento sociale, a un’esigenza di rinnovamento degli studi, per finire poi in un tentativo di dare nuove basi a tutto il cristianesimo. Quest’ultima tendenza apriva la via al soggettivismo, svalutava il carattere soprannaturale del cattolicesimo, svuotandolo della sua essenza: il dogma si riduceva ad una verità relativa e contingente alle diverse epoche dell’umano sapere; la religione ad un misticismo sentimentale; la Chiesa veniva considerata non più il Regno di Dio, ma un governo in continua evoluzione. In Italia tale movimento non ebbe larga risonanza se non in un gruppo ristretto di intellettuali, fra cui E. Bonaiuti, S. Jacini, R. Murri. A partire dal 1903 Pio X condannò in blocco tali istanze, intervenendo in modo drastico e inflessibile. Mons. Mario, come già abbiamo avuto modo di esaminare, era ben lontano da queste posizioni così estremiste; cfr. G. MARTINA, La Chiesa nell’età dell’assolutismo, del liberalismo e del totalitarismo, IV, L’età del totalitarismo, Brescia 1987, 62-90. 74 Riportiamo il testo integrale della comunicazione del S. Uffizio così come apparve nell’Osservatore Romano del 19.04.1931: «La Suprema Sacra Congregazione del S. Uffizio comunica: Sua Eccellenza Rev.ma Mons. Mario Sturzo, Vescovo di Piazza Armerina, dietro richiamo della Congregazione del S. Uffizio ha inviato la seguente ritrattazione: “Io sottoscritto intendo di ritrattare, come di fatto ritratto colla seguente, tutto ciò che ho scritto e pubblicato nei libri, nella Rivista di autoformazione e nella rivista La tradizione di Palermo, contro la dottrina cattolica e contro ciò che la S. Sede e i Sommi Pontefici, specialmente negli
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Il colpo fu grave per lui e per la cultura cattolica che si privava di una voce nuova e anticonformista, particolarmente significativa, perché negli anni ’30 non si può dire che la ricerca filosofica nel mondo cattolico brillasse per originalità e che si avesse cura di uscire di trincea per cercare qualche ammodernamento75. Rileggendo i suoi scritti appare molto difficile sostenere che la sua filosofia fosse crociana e relativista. Che abbia adottato forme del linguaggio e della logica crociana per tentare di innestarli nell’albero della scolastica, non significa, ipso facto, che egli fosse un crociano76. Ma per quanti dubbi possano nascere sulla coerenza del suo sistema filosofico, l’avvicinamento alla filosofia di Croce fu dettato dall’ansia di trovare un terreno d’incontro tra la sua filosofia moderna scaturita dal “cogito” cartesiano, e le esigenze e verità del cristiano77. Un articolo polemico con La Civiltà Cattolica78, che aveva sostenuto essere la scolastica la “sola e vera filosofia” chiarisce la posizione di Mario Sturzo: accettare che la scolastica fosse la “sola filosofia che s’accorda in
ultimi tempi, hanno inculcato, raccomandato e comandato per lo studio della Filosofia Scolastica nei Seminari in conformità anche del canone 1366”. Piazza Armerina, 8 aprile 1931 Firmato † Mario Vescovo». Così Mario Sturzo confidava il suo stato d’animo, in quel momento di prova, al suo segretario e discepolo mons. Federico: «Ho considerato sempre la mia attività filosofica come un contributo alla cultura cattolica per rinnovarla ed adattarla ai tempi, conservando però tutto quello che di eterno c’è in essa. Se il S. Padre mi richiama, ciò significa che non è questa la via del mio apostolato; da oggi in poi la valvola della filosofia è chiusa per sempre»: cfr. G. FEDERICO, Mons. Sturzo vescovo e studioso, in In memoria di mons. Mario Sturzo, vescovo di Piazza Armerina, Palermo 1942, 18. 75 Cfr. G. DE ROSA (cur.), Carteggio, I, Prefazione, XVII. 76 Mons. Sturzo studiò il pensiero di Croce non soltanto con diligenza e serietà, ma con appassionata partecipazione per tutte le esigenze più valide in esso contenute. Studiò con l’animo pronto al dialogo che alla polemica. Ne seguì che assimilò il vivo e il meglio del pensiero crociano, poi lo criticò, infine iniziò un serio tentativo di superamento: cfr. A. BRANCAFORTE, Benedetto Croce e Mario Sturzo vescovo di Piazza Armerina, in Vita e pensiero 2 (1968) 158. 77 Cfr. G. DE ROSA (cur.), Carteggio, I, Prefazione, XX. 78 Cfr. La Produzione intellettuale e nuove pubblicazioni in Italia, in Civiltà Cattolica, 1931, II 55-56. L’articolo, scritto dalla redazione critica la nuova scuola filosofica che fa capo al nuovo periodico Rivista di autoformazione; come anche il testo Il pensiero dell’avvenire, perché il contenuto e il linguaggio sembrano più ritratti dall’idealismo crociano e gentiliano che non dalla filosofia scolastica e dalla tomistica. Critica pure la dottrina della conoscenza, come i concetti di filosofia e storia, accusando il nuovo sistema di relativismo.
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tutto coi dati della Rivelazione”, era altro che sostenere che fosse anche “la sola e vera filosofia, cosa che, “per lo meno”, aspettava d’essere provata. Comunque sia, a mons. Sturzo sembrava che un’affermazione del genere non fosse accettabile sul piano del metodo. Ce n’era abbastanza per attirarsi addosso inimicizie e sospetti; s’incominciò a indagare sul “neo-sintetismo” e se ne scoprirono i pericoli. Il vescovo non cercò di eludere lo scontro e nella sua rivista continuò a insistere nella difesa del metodo storico, a polemizzare contro coloro che chiamava “i fossili” e che così descriveva: «chi si serra dentro la cerchia delle sue idee, […] non vede ciò che ferve attorno a lui o, se lo vede, lo vede in funzione delle sue idee»79.
L’abbandono della filosofia lo portò a interessarsi di poesia80. Già prima del 1931 aveva fatto conoscere il suo talento di poeta con le visite e le letture in versi al SS. Sacramento e alla Madonna, dettate durante una malattia agli occhi, che nel sapore spirituale e nella ispirazione stanno in mezzo tra le visite di s. Alfonso e gli Inni sacri del Manzoni81.
79 G. DE ROSA (cur.), Carteggio, I, Prefazione, XXII, XXIV. L’increscioso avvenimento fu segnalato da un centinaio di giornali tra italiani ed esteri. Questo fu un motivo per cui tutto ciò che riguardava Mario Sturzo ricadde in un profondo silenzio: cfr. A. BRANCAFORTE, Benedetto Croce e Mario Sturzo vescovo di Piazza Armerina, cit., 156-157. Un altro motivo per spiegare l’oblio in cui cadde la dottrina del Nostro può essere dato dalla valutazione di tutta una situazione in cui si venne a trovare e che il prof. Brancaforte riporta in questi termini: «Certo bisogna tener conto del fatto che, come studioso, Mario Sturzo, nonostante la sua richiesta e apprezzata collaborazione a vari periodici, nonostante gli studi che furono dedicati, anche all’estero, al suo pensiero, nonostante la sua partecipazione a vari congressi internazionali di filosofia, rimase isolato. Non fu abbastanza clericale per trovare consensi nel cattolicesimo ufficiale, né abbastanza laicista per trovarli altrove. Questa situazione spiega il silenzio di quanti avrebbero avuto il dovere di presentare il suo pensiero; inoltre quando egli si eclissava volontariamente dal mondo della cultura, si può dire che aveva cominciato a raggiungere una certa notorietà e a suscitare l’interesse di parecchi studiosi»: cfr. ID., in Sophia (1966) 175-176. 80 Il vescovo di Piazza Armerina compose 143 sonetti che raccolse in un volume, Il mio Canto. 81 Cfr. G. IACONO, Elogio funebre, in In memoria di mons. Mario Sturzo, vescovo di Piazza Armerina, cit., 213.
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7. L’ATTIVITÀ DEL VESCOVO STURZO DOPO IL 1931 Dopo il richiamo della S. Sede, mons. Mario imposta diversamente la sua attività di fine pensatore e di attento studioso. Non pubblicherà nessuna opera a carattere filosofico, né darà il suo contributo alla Rivista filosofica che seguiva, ma si dedicherà pienamente alla vita pastorale. La filosofia non è più considerata da lui come la pura ricerca delle ragioni universali. Al fratello Luigi che si preoccupa di sapere come sta e come ha saputo accettare quella prova, in una lettera del 06.05.1931, così afferma: «Sto bene, ho l’animo in festa. Né crederai che io esageri. Quel che è avvenuto non ha fatto che spegnere una serie di pensieri in me, per destarne altri in una pace, in un gaudio, in un fervore di cui io stesso non mi saprei rendere conto, se non sapessi che Dio ci ama più di quanto noi amiamo noi stessi»82.
In un’altra lettera al fratello, di qualche giorno anteriore, dopo aver parlato di tempeste climatiche, parla di «un’altra tempestina che io contemplo con occhio sereno e direi quasi gaudente. Non disse Gesù che nelle tribolazioni si deve godere quando si patisce per lui»83.
È chiaro da queste missive che l’increscioso avvenimento è stato accettato con molta serenità da mons. Mario, che pure non prevedeva che si potesse arrivare a quell’amara decisione; in una lettera del 28.04.1931, al fratello Luigi, che lo richiamava perché l’ha tenuto all’oscuro di tutto, così scrive: «Non ero in grado di prevedere. Io, appena consumato l’olocausto (giorno 8 di aprile corrente), ti scrissi (giorno 9) quella cartolina, dove ti annunziavo la cessazione della Rivista, “perché in essa si vedeva non un servizio ma una lotta”. Ed aggiungevo che a ciò mi ero indotto non pel contegno degli amici, ma per qualcosa di più alto e meritevole. Che potevo dirti di più? Sapevo forse io che dopo la congiura del silenzio sarebbe avvenuto quel che è avve82 83
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G. DE ROSA (cur.), Carteggio, II, 471-472. Ibid., 466.
nuto? Pensavo che nemmeno si sarebbe arrivati a ciò. Fui anch’io colto all’impensata. Ma, via, io sono proprio del miglior umore che mai. L’olocausto è fatto. Ora non penso più a quella materia. Penso ad altro […] Sento tanta pace e tanta grazia che quasi arrossisco di me di avere temuto di non reggere alla prova»84.
Dopo il 1931 la sua instancabile penna tuttavia non smise di lavorare: cominciò ad occuparsi di mistica, di preghiera, di vita spirituale, e dei problemi annessi. È chiaro che prima del 1931 aveva trattato ampiamente questi temi, aveva scritto tante altre lettere pastorali, ricche di contenuto spirituale, aveva curato la predicazione e tenuto conferenze e convegni su questi argomenti. Da questo momento però tale attività assume una nuova dimensione; egli spostò l’interesse dalla filosofia alla teologia e alla mistica, e qui riversò il suo genio. In realtà il desiderio di fare filosofia, dopo questi avvenimenti, non si esaurisce, ma si perfeziona sempre più con l’esercizio di vita (ascesi), diventa esperienza del divino nella carità (mistica). Questo accade perché, secondo il Nostro, l’uomo è filosofo per natura, in quanto è ragionevole, conosce razionalmente ed è capace delle visioni universali, poiché il pensiero ha bisogno indomabile di conoscere l’origine delle cose e il loro fine. La fede è necessaria a tutti, ma essa non esclude un qualche lavoro della ragione85. Il desiderio di impostare in modo diverso e sotto una prospettiva nuova la sua attività speculativa è avvalorata dal fatto che la Rivelazione contiene anche verità di ordine razionale o morale. Di queste l’uomo ha nello stesso tempo scienza e fede: scienza perché le conosce per raziocinio umano, fede perché le accetta per l’autorità di Dio rivelante86. Inoltre, egli afferma che l’atto di fede è atto di ragione, illuminato ed elevato da Dio. La ragione precede la fede, perché non solo il credere è atto di ragione, ma lo è anche il conoscere Dio. La fede però mentre perfeziona la cognizione razionale di Dio, ne genera un’altra che è di ordine soprarazionale, è principio della visione che di Dio si avrà nel cielo. Di qui il dovere dello studio che non deve finire col 84 85 86
Ibid., 468. Cfr. La vita in Dio, 26-27, 37. Cfr. ibid., 15.
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piccolo catechismo, ma secondo la possibilità di ciascuno, deve avanzare e completarsi in tutti i modi e con tutti i mezzi consentiti all’umana ragione87. Mario Sturzo sente viva l’ansia di cercare la verità, di studiare e approfondire il mistero di Dio e dell’uomo, perché l’uomo cerca Dio per natura. La spiritualità di Mario Sturzo è pervasa da contenuti facilmente comprensibili ma penetranti, espressi in un linguaggio accessibile a quanti sono desiderosi di pervenire alla perfezione, non appesantito se non di rado, da citazione e da esemplificazioni. Le fonti da cui trae ispirazione per i suoi scritti sono il Vangelo, le lettere paoline, gli scritti di s. Teresa d’Avila e di Giovanni della Croce, ma soprattutto quelli di Francesco di Sales; spunti sufficienti per intraprendere l’itinerario della perfezione88. Nella scelta di molti esempi della vita dei Santi, da Teresa d’Avila a Ignazio di Loyola, da Tommaso Moro a Giuseppe Moscati, Mario Sturzo mostra i contrasti con l’ambiente circostante, le lotte, i tumulti interiori, la resistenza delle prove; per cui egli è nella linea della spiritualità, specialmente seicentesca, dello spogliamento, del morire a se stessi per ritrovare la vera identità alla luce del mistero cristiano, del mettersi «nudo al seguito di Cristo nudo», avendo sempre ben presente che l’essenza della santità è la carità89. Questi temi sono il contenuto centrale degli insegnamenti spirituali di ogni tempo e prevalentemente di coloro che il vescovo Sturzo considera suoi maestri. Nei suoi scritti si colgono tracce evidenti di queste proposte e riflessioni come anche valutazioni e raccomandazioni suggestive che il vescovo dà, come per esempio quelle presenti in una lettera al fratello Luigi, con la quale risponde con una specifica richiesta: «Buoni libri per ritiri spirituali non ne conosco […] Io leggo i Vangeli e s. Paolo e l’Introduzione alla vita devota di s. Francesco di Sales, sempre nuova e bella. Il Teotimo dello stesso autore ha pagine sublimi […] Lessi una sola volta i Soliloqui di s. Agostino. Belli»90.
87
Cfr. ibid., 54-55. Cfr. P. BORZOMATI, La spiritualità del vescovo Sturzo, in C. NARO (cur.), Mario Sturzo, Caltanissetta-Roma 1994, 159-160. 89 Cfr. M. SANTERINI, La riflessione pedagogica del vescovo Sturzo, in C. NARO (cur.), Mario Sturzo, cit., 157. 90 L. STURZO – M. STURZO, Carteggio, I, Roma 1985, 26. 88
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La via imboccata dopo il ’31 è sempre la stessa: additare ai suoi diocesani il mistero della fede, non più con procedimenti scientifici e teoretici, ma con lo studio dei temi della vita spirituale, per condurli a conoscere Dio, così come fanno i santi. Stimola alla ricerca di Dio soprattutto per la voce della coscienza e della Rivelazione: Dio è in noi, noi siamo in Dio. Siamo così legati a Dio che non lo siamo a noi stessi91. Sturzo è consapevole che Dio si trova nell’interno del nostro cuore, cioè in noi; mediante il raccoglimento si dà ascolto alle esigenze della volontà per il bene in cui è da sentire la voce di Dio. Conoscere Dio nel senso pieno della parola non è sapere che Dio è Dio, ma sapere che noi non possiamo prescindere da Lui, che non possiamo vivere bene senza di Lui; che non possiamo conseguire il fine supremo della vita senza compiere in Lui, per Lui e con Lui tutti i doveri della vita92. L’ordine morale della vita che pienamente si attua nell’interiorità della medesima, dà alle menti la rettitudine del ragionamento, non solo circa le verità razionali, ma anche circa le verità rivelate: esso porta alla fede93. La produzione letteraria di Sturzo dopo il 1931 è sotto forma di lettere pastorali dirette al Clero e al popolo della sua diocesi, pubblicate o in opuscoli separati o nel periodico interparrocchiale L’Angelo della Famiglia. Allo studio di tali lettere è specificamente dedicata questa nostra ricerca.
CONCLUSIONE In questo capitolo ci siamo soffermati a considerare la grande e poliedrica personalità di mons. Sturzo, forse prolungandoci più del dovuto; ma ci è sembrato opportuno ricercare e mettere in evidenza questi dati perché sono utili per una migliore comprensione del suo pensiero teologico presente nelle sue pastorali. Abbiamo anche esaminato la situazione storica-sociale ed ecclesiale in cui si trova a vivere ed operare, perché tutta la sua attività di pensatore, teologo e pastore è orientata a rispondere alle istanze fondamentali del suo tempo e delle persone a lui affidate. 91 92 93
Cfr. La Santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 70. Cfr. ibid., 31-38. Cfr. ibid., XXI.
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L’intenzionalità profonda e originaria del suo pensare ed operare è tutta orientata a vivificare, con sintesi mirabili, le vie battute dai santi per conquistare il fine, per ricongiungersi a Dio, sommo Bene e somma Verità, mettendosi sulla via della santità, per avere la certezza della salvezza, per convertirsi dalle creature al Creatore; vuole condurre sé e i suoi diocesani a conoscere e amare Dio come lo conoscono e amano i santi.
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CAPITOLO II L’EDUCAZIONE NELLE SUE RAGIONI SUPREME
1. L’EDUCAZIONE NELLE SUE RAGIONI SUPREME Più volte abbiamo parlato di mons. Sturzo definendolo maestro ed educatore. Tutta la sua attività episcopale è orientata a questo scopo precipuo: educare i suoi diocesani, rinnovare la società e chiamare tutti a collaborare a questo compito così importante. Le sue lettere pastorali sono un mezzo utile per educare i suoi diocesani ai valori essenziali e fondamentali della fede e della morale. Tra i temi trattati da mons. Sturzo quello dell’educazione ci è apparso tra i più cari e fecondi, sviluppato ampiamente sia in campo filosofico che in campo teologico e pastorale. Prima di esaminare il tema nelle pastorali, abbiamo preferito dare qualche accenno della trattazione filosofica dello stesso argomento e ci siamo resi conto che in ambedue le prospettive unica è la posizione di mons. Mario: la vera educazione non è quella pedagogica che si conclude con la prima età, ma quella morale che termina con la stessa vita del soggetto; quindi l’uomo vive in una condizione di educazione permanente che deve rinnovarsi e progredire perennemente, in quanto è un processo orientato alla vita interiore, alla santificazione. Chi in questo cammino educativo non si rinnova continuamente, prima o poi, finisce con l’abbandonare ogni proposito di vera conversione e santificazione, che è la meta a cui tende l’opera educativa. Tale opera, infatti, è orientata alla realizzazione della fondamentale e assoluta vocazione dell’uomo: la sua santificazione per il conseguimento della vita eterna e la visione di Dio.
2. L’EDUCAZIONE SECONDO LA CONCEZIONE FILOSOFICA DI MARIO STURZO In campo filosofico mons. Mario nel 1929 aveva pubblicato un libro: Problemi di filosofia dell’educazione1, dove afferma che l’educazione vera 1
Problemi di filosofia dell’educazione, Trani 1930.
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e propria è funzione di razionalità e libertà; è conoscere quel che uno è, quel che non sarà senza un particolare lavoro di pensiero e di volontà, quel che uno deve essere. Non soltanto avvicina l’uomo all’uomo, sostanziando nell’indeclinabile alterità l’umana rapportualità, ma essa dà senso e sostanza alla vita sociale nelle sue varie forme. La vita e l’educazione sono funzioni che domandano la presenza della società, perché l’uomo non è un essere solitario ed autosufficiente. Però come non è azione esterna all’uomo il nascere, così non lo è l’educazione. Da questa prospettiva chiaramente deduce che i parenti sono i primi educatori, perché danno ai figli la vita e ne favoriscono la crescita; ma, a loro volta, i figli sono educatori di se stessi perché sono uomini e come tali, hanno la potenza dell’autoformazione2. Qui Sturzo distingue una educazione esterna all’uomo donatagli da agenti esterni, quali possono essere i genitori; ed una interna che scaturisce ed è inerente alla natura umana come potenzialità, che chiama “autoeducazione”. L’educazione che l’uomo riceve da agenti esterni, viene fatta propria, attraverso un processo di assimilazione e interiorizzazione. Così la società, nelle sue varie forme, è detentrice di valori permanenti e fondamentali ai quali essa stessa ci educa, però è anche vero che l’educazione si approfondisce nel soggetto; c’è un passaggio, un rifluire dall’esterno verso l’interno, divenendo vita interiore.
3. L’EDUCAZIONE È UN PROCESSO SINTETICO, ORIENTATO RIORE, CHE COINVOLGE EDUCANDO ED EDUCATORE
ALLA VITA INTE-
L’educazione è un programma etico progressivo, il quale coinvolge educando ed educatore. Mons. Mario si preoccupa di non restringere il concetto di educazione limitandolo alla sola azione pedagogica, ma lo allarga il più possibile. L’educazione è un processo costante nell’uomo, essa è tanto più efficace quanto più ha di naturale e meno di artificiale, quanto più risponde alla realtà della vita e meno lavora d’apriorità. «L’educazione non è semplicemente pedagogica, non è limitata a un sol periodo della vita, non è un processo rettilineo e sempre ascendente, ed è 2
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Cfr. ibid., 15-17.
formativa, riformativa, deformativa, e sempre processuale; né è educazione solo quando è cercata di proposito e con metodo […] L’educazione per sé è il processo rapportualistico della vita razionale; è fatto, rifatto e disfatto, […] ed è questo perché la vita è funzione sociale, e perché la ragione di società è ragione di data rapportualità che determina e regola, agevola e ostacola […] il processo della vita degli individui»3.
Il segreto dell’educazione è tutto contenuto nel gioco delle tendenze, dei fini e dei rapporti considerati nella loro realisticità; in modo che l’educando senta tutta la logica della realtà, che è anche forza, e avverta che non è ragionevole contrastarvi o rimanervi indifferenti4. La vita umana è come un gioco di esigenze, di beni mediati ed immediati, prossimi e remoti, agenti nella sfera di un qualche ideale o meno. L’educazione mira a far prevalere il sistema sul frammento, la razionalità sulla pura esigenza, il bene ordinato su quello non ordinato. Essa non crea i valori, ma li mette in evidenza; non li cerca nel campo dell’astrattezza, ma li addita dove essi sono, cioè nel campo della realtà immanente e trascendente. Affinché sia superata la frammentarietà e sia generata e attualizzata la sistematicità, occorre fare in modo che tutta la vita intellettiva e volitiva sia come animata dall’ideale di un dato sistema: ciò si consegue per via della vita interiore5. L’educazione si fa per via di valori inviolabili, assoluti. La vita interiore è la vita in Dio, che deve procedere secondo l’ordine della ragione, dato che Dio non è estraneo al mondo e alla ragione. «L’educazione è certamente processo etico formativo. È processo perché l’uomo è rapportuale; è […] etico, […] razionale, […] formativo, […] perché l’uomo non nasce sciente, ma ignorante, e perché la cognizione delle cose non entra nel suo essere come un tutto preformato e presistemato, cioè, non si produce in lui dagli educatori, ma si elabora da lui sui dati oggettivi che entrano in rapporto con la sua sensibilità, vengano essi dalle cose, vengano dagli uomini, e da lui si sistemano, per virtù propria e immanente, non fuori ma dentro dei rapporti naturali e sociali»6. 3 4 5 6
Ibid., 19. Cfr. ibid., 204. Cfr. ibid., 217-219. Ibid., 235.
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«L’educazione è […] non un farsi puramente autonomo, cioè puramente individuale, che sarebbe irrelativo […] ma è un farsi rapportuale, e come tale un mettersi in buona armonia con tutto ciò che nella società è armonia razionale»7.
La vita interiore consiste nell’interiorizzare sempre meglio ed in modo più voluto e libero, i migliori elementi della vita sociale come storia; è un farsi uomo sempre più ordinato, ricevendo dalla società e dando senza fine. Però il primo e l’ultimo dei rapporti dell’uomo e della società è Dio, perché sia l’uomo che la società non sono assoluti, mentre Dio è nel mondo, lo ha creato, lo regge e lo governa. «La vita interiore è […] la vera vita che anima tutte le azioni, regola e domina tutte le tendenze, coordina tutti i fini, santifica tutti i rapporti temporali, […] tutte le conquiste della mente e tutti gli affetti della volontà e dispone al conseguimento del fine supremo, che non può essere che Dio. Dio è il fine dei fini, perché la ragione di essere di tutte le creature è in Dio. A Dio tutto tende per diverse vie […] l’uomo vi tende per le vie della mente e del cuore, […] perché è il termine adeguato della rapportualità umana»8.
4. EDUCAZIONE, MORALE E RELIGIONE La sintesi suprema è il concetto che considera l’educazione come processo etico, sistematico, finalistico. Il vincolo ultimo che lega l’uomo, lo spinge, lo affina e lo perfeziona, è la religione, anzi la vita mistica come espressione della vita interiore. Alla base della vita interiore cui si adduce l’educazione, da esterna e sociale divenuta intima e profonda, sta l’incontro salvifico con Dio. La religione, pertanto, conclude e perfeziona il processo educativo; la vita interiore non è solo comportamento religioso, ma meditazione nella ricerca e nella messa in atto di essenziali valori ed infine fruizione di Dio. L’educazione divenuta autoeducazione, perfezionata come vita interiore, non è pura teoria, è pratica ed impegno, si rivolge alla mente e alla volontà9. 7 8 9
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Ibid., 244. Ibid., 245. Cfr. ibid., 246.
Abbiamo percorso il faticoso itinerario del processo educativo di mons. Sturzo, esaminato dal punto di vista filosofico. Esso trova all’apice la vita interiore, la quale confluisce, anche nel reperimento di valori atti a dirigere la vita, nella vita mistica, il cui accesso è solo un dono di Dio10.
5. L’EDUCAZIONE NELLE LETTERE PASTORALI Il vescovo di Piazza Armerina non si limita ad esaminare il tema dell’educazione soltanto in chiave filosofica e con il metodo prettamente dialettico. L’argomento è talmente importante ed offre tante possibilità di programmazione pastorale, oltre che stimoli per la vita di fede, che non poteva fare a meno di riprenderlo nelle sue pastorali, poiché l’educazione è finalizzata alla formazione interiore del cristiano, mira alla vita interiore che è vita di fede, di speranza e di amore. L’educazione e ciò che essa comporta lo possiamo definire un tema ricorrente nelle sue pastorali. Fin dalla sua prima pastorale del 01.11.1903, egli ha chiara la funzione dell’ambiente sulla formazione e sull’educazione dei singoli e della società intera. Afferma che «È l’ambiente sociale corrotto che corrompe. Il lavoro dei sacerdoti che non è qual dovrebbe essere, non basta a salvare la società […] Uscite di sagrestia gridava Leone XIII […] come per dire: ma perché guardate un lato solo del cristianesimo, e solo vi affaticate ad un’attuazione parziale di esso? […] Andate in traccia della pecorella smarrita […] scendiamo tutti zelo in mezzo alla turba, raccogliamola in associazioni all’ombra della Croce, rechiamo loro lo spirito di Gesù Cristo […], creeremo nelle nostre associazioni un ambiente nuovo, pieno di fede, di pietà, pieno di Gesù Cristo»11.
Per mezzo di queste forme associative mons. Mario pensa di creare una nuova cultura, educando l’ambiente a valori più alti; propone il programma della Democrazia Cristiana, che non deve restringersi alle sole opere economiche, ma deve mirare alla rigenerazione cristiana degli uomini. 10 11
Cfr. F. BATTAGLIA, Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo, cit., 50-51. I lettera pastorale, 26-27.
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In questo lavoro, la formazione ed educazione delle coscienze deve avere il primo posto, per cui è necessario assegnare una certa preminenza alla cultura non solo religiosa, ma civile e sociale. «C’è bisogno di un lavoro di ricostruzione organico e profondo […] che deve mirare a ricostruire una vita nuova, rispondente ai nuovi bisogni; […] lavoro profondo in quanto non deve restare alla superficie o contentarsi dell’esterna bontà, ma che deve penetrare […] e rinnovellare la coscienza dei popoli […] Si dia mano a tutte quelle opere di organizzazioni […] seguendo in ciò i criteri specifici della Democrazia Cristiana […] Aggiungiamo subito che la formazione delle coscienze deve stare in cima a tutti i pensieri»12.
La preoccupazione di educare l’ambiente sociale ai valori veri, nasce dalla considerazione che Sturzo fa sulla profonda decadenza fisica e civile, causata dalla mancanza di una seria educazione interiore, poiché gli sconvolgimenti sociali e morali sono causati dallo spirito di orgoglio, inteso come emancipazione da Dio. Tale stato d’animo produce un disinteressamento dei valori supremi e del problema della vita, il quale sfocia nella superficialità etica, nell’opacità dello spirito, nell’indebolimento della coscienza. L’educazione interviene per reprimere quelle tendenze e sviluppare germi di bene13. Al tema dell’educazione mons. Sturzo dedica una delle lettere più famose e più lunghe che abbia scritte, composta negli anni ’36-’38: L’educazione nelle sue ragioni supreme14. In questa pastorale afferma che l’educazione non riguarda soltanto coloro che ancora non sono pervenuti alla maturità degli anni; i diretti interessati sono tutti gli uomini di qualunque età e di qualunque grado di maturazione: infatti essa «Non finisce con la fanciullezza, ma dura quanto dura la vita. Dopo i grandi traviamenti, si chiamerà […] rieducazione; quando la vita procede in modo ordinato, si chiamerà perfezionamento; quando, come generalmente avviene, l’uomo bada da sé a correggersi o a progredire, si chiamerà autoeducazione o auto-rieducazione o auto-perfezionamento»15. 12 13 14 15
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Lettera pastorale del 1904, 4-5. Cfr. Liberazione, 34-38. Cfr. L’educazione nelle sue ragioni supreme, Torino 1938. Ibid., 27.
Dopo aver fatto queste precisazioni, Sturzo in un’altra pastorale, La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, paragona l’educazione ad un viaggio che l’uomo intraprende e che consiste nella ricerca della verità, che appaghi la mente, soddisfacendo così le sue esigenze conoscitive, e che renda operosa nel bene la volontà16. Quindi il destinatario dell’attività educativa è l’uomo considerato come persona da formare. È chiaro che il vescovo di Piazza Armerina non vuole svolgere la professione di pedagogo in quanto tale e nemmeno vuole fare dei suoi scritti e delle sue pastorali tanti trattati di pedagogia: l’intenzionalità profonda che anima la sua attività e la sua penna sta nell’esporre le ragioni supreme che devono ispirare e dirigere qualsiasi pedagogia, «Devo parlarvi delle ragioni supreme che animar devono la pedagogia, […] da cui deriva ogni norma di retto vivere in ordine all’eterna salute, le quali sono immutabili proprio perché sono supreme, sono in parte scoperte dalla ragione, soprattutto ci sono insegnate dalla rivelazione e mirano non a qualche forma di educazione, ma alla vita interiore; alla santificazione vera e propria, dove ogni forma di educazione si attua, si eleva, si integra, si perfeziona; perché la vera educazione non è quella che si limita alle visioni della pura ragione in ordine alla pura vita temporale, ma quella che prende tutto l’uomo, […] in ciò che in lui è transitorio ed in ciò che è perenne, in ciò che lo fa uomo onesto ed in ciò che lo fa cristiano santo, risolvendo in santità ogni sua azione, anche […] le più umili e meno spirituali, come son, per esempio, il mangiare e il bere, conforme insegna s. Paolo»17.
6. DEFINIZIONE DELL’EDUCAZIONE A questo punto nasce spontanea una domanda: per il vescovo di Piazza Armerina che cos’è l’educazione? «Nel senso più vero e intero della parola è un ordinare o riordinare le proprie tendenze e un disciplinarle in modo tale che uno si renda disposto a compiere con facilità, prontezza e amore tutti i doveri della vita in ordine
16 17
Cfr. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, Prefazione, XIV. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 3-4.
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al fine intrinseco della stessa vita che, dato il cristianesimo, è di ordine soprannaturale, al quale le sole forze della natura non bastano»18.
Da quanto affermato emerge chiaramente che l’educazione è un’attività umana, una disciplina, che ha una finalità ben precisa: ordinare tutte le tendenze della persona. Nel linguaggio sturziano quando si parla di tendenzialità umana dobbiamo innanzitutto far riferimento alle capacità ontologiche dell’uomo quali la ragione e la volontà, dalle quali derivano il pensiero e il volere che nell’uomo stanno in un rapporto reciproco e si condizionano, formando l’uomo. In questo lavoro di pensiero e di volontà tutto quello che concorre dal di fuori non ha valore, se non è risoluto in interiorità, in adesione di pensiero e di volontà, in azione di se stesso sopra se stesso19. Quest’attività ordinatrice è orientata verso un obiettivo preciso: aiutare l’uomo e renderlo disponibile in modo che possa compiere tutti i doveri della vita in ordine al fine intrinseco della stessa vita, la quale per chi ha fede è di ordine soprannaturale, per cui è necessaria la grazia di Dio. Quindi l’azione educatrice aiuta l’uomo a compiere tutti i doveri della vita in vista del fine ultimo che è di ordine superiore; Dio vi interviene facendosi così come il primo fattore dell’educazione. Chiaramente quando la meta è ardua, si fa ardua anche l’azione educatrice, ma è difficile semplicemente il primo passo. Infatti tale azione può essere provocata da molteplici fattori, che sono le occasioni che la vita di ogni giorno ci offre: una parola, un avvenimento può colpirci e ci obbliga a pensare al fine della vita, così come la lettura del Vangelo, o della vita dei santi, o dei libri di pietà, o anche delle stesse pastorali che il vescovo invia: tutto ciò può essere identificato come il principio di un’educazione, è dischiudere il cuore alla grazia, disporsi ad essa. Quando nell’uomo si destano le ansie del fine della vita, questi non ha pace finché non perviene allo stato di fervore se è una persona trascurata, alla carità se è nel peccato, alla fede se è un miscredente20. Questi stati di vita e questi avvenimenti per molti sono il passo decisivo verso l’educazione. Come già abbiamo visto, l’educazione penetra nel profondo dell’uomo, nella sua interiorità: è un lavoro di pensiero e di volontà. Per natura 18 19 20
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Ibid., 17. Cfr. ibid., 18. Cfr. ibid., 17.
siamo tutti fragili, la volontà è debole quando si tratta del compimento dei propri doveri; Dio, intervenendo con la sua grazia, ci rende idonei a compiere ogni azione ordinata a tutti i doveri; certamente la grazia è solo un aiuto e non fa tutto, perché Dio vuole che facciamo la nostra parte, la quale consiste in una lotta dura contro noi stessi, per corrispondere all’azione educatrice; con un linguaggio paolino possiamo parlare di lotta che consiste nel far morire l’uomo del peccato perché nasca e prosperi l’uomo della grazia che è l’uomo nuovo21.
7. FATTORI CHE CONDIZIONANO L’EDUCAZIONE: L’AMBIENTE Nel lavoro educativo bisogna tener presente l’apporto dell’ambiente che può essere positivo o negativo. Così mons. Sturzo afferma: «L’ambiente è tal fattore, la sua azione ha tale efficacia, che influisce sull’uomo in bene o in male; più o meno, sempre anche quando l’uomo vi contrasta […] Solo deve dirsi che l’uomo può reagire e risolvere in bene l’azione nociva, e in male, anche questo è possibile, l’azione utile, ordinata e santa»22.
Ambiente è la società in cui operiamo, è il mondo degli uomini e delle cose, è l’interno del nostro essere per il quale viviamo; il mondo dei concetti, delle immagini, delle tendenze, delle conoscenze, delle preferenze, dei ricordi di ciascuno, sono le circostanze fisiche e morali dove ciascuno di noi vive. Da queste brevi espressioni possiamo dedurre la duplice accezione del concetto di ambiente: «L’ambiente esterno agisce sull’interno e questo su quello, e tutti e due formano l’unico ambiente veramente efficace, perché ciò che non entra nel nostro spirito, per noi è come se non fosse, e perché noi agiamo sempre in rapporto al modo come il nostro spirito elabora le nostre cognizioni, le nostre tendenze, e tutta l’azione dell’ambiente esterno di noi»23. 21 22 23
Cfr. ibid., 25. Ibid., 35. Ibid., 210-211.
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Considerare l’ambiente vuol dire comprendere quale lavoro dobbiamo fare per ben educare noi stessi o progredire nel bene e per agire rettamente sugli altri al fine della loro educazione24. L’azione dell’ambiente è un fatto di esperienza comune, molto complessa, ed è altresì molto varia la reazione del soggetto, per cui lo studio dell’azione dell’ambiente e della rispettiva reazione dell’individuo è di primaria importanza, perché le ragioni supreme dell’educazione non operano in noi indipendentemente da tali fattori. L’azione dell’ambiente nei confronti della persona ha diversi aspetti; infatti essa può essere subita, ricevuta senza contrasto, cercata di proposito; la reazione della persona può essere anch’essa molteplice: di resistenza a tale azione o di lotta contro di essa. Tuttavia l’individuo, in qualunque ambiente si trovi, ha sempre qualcosa da subire25. Mons. Sturzo esamina le diverse situazioni ambientali in rapporto all’uomo, poiché in ogni ambiente ci sono sempre elementi che prevalgono, caratterizzandolo. Per l’educazione nelle sue ragioni supreme è necessaria la classificazione dei diversi ambienti non solo perché ci permette di conoscere i suoi elementi, ma anche perché ci mette sulla via per arrivare alle ragioni supreme, solo per le quali la varietà dell’azione ambientale può essere dominata, semplificata, valorizzata, resa idonea all’educazione e alla formazione, che con un solo termine chiamiamo santità26.
8. AZIONE AMBIENTALE RICEVUTA SENZA CONTRASTO «Se l’azione subita è quella che si riceve controvoglia, perché non si può evitare, per necessità l’azione ricevuta senza contrasto, deve certamente non cozzare con le disposizioni dell’individuo. Si subisce ciò che non si vuole né si può evitare. Ciò che non si oppone alle disposizioni della volontà, certamente non si subisce»27.
Tante volte l’azione è ricevuta senza contrasto perché l’individuo è indifferente. Si può essere nello stato di indifferenza per diverse ragioni: per ignoranza, per superficialità, per inavvertenza e così via: per esempio, il 24 25 26 27
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Cfr. ibid., 26. Cfr. ibid., 30-31. Cfr. ibid., 34. Ibid., 34.
bambino che viene al mondo è nella più completa ignoranza, riceve l’azione dell’ambiente senza contrasto ed anche senza desiderio. In tutte le forme e in tutti i gradi di ambiente ci sono degli elementi la cui azione è ricevuta senza contrasto e spesso senza la consapevolezza delle conseguenze28. «L’educazione dei primi anni, sia fisica sia morale e religiosa, è come una seconda generazione. Tutta l’azione dell’ambiente fisico e morale determina nel bambino tali acquisizioni e sistemazioni di corpo e di spirito, che per il crescere degli anni o mutare di ambiente non cangiano o cangiano superficialmente; e anche quando sembra che nella esuberanza della giovinezza l’uomo si metta per una via diversa, non si tratta che di quelle crisi che col rassettarsi della individualità, vengono superate, e l’uomo dei primi anni in certo modo rinasce e nella stessa diversità che produce la fusione del nuovo col vecchio, il fondo della prima fisionomia riapparisce immutato»29.
In effetti questa viene definita la seconda generazione dei genitori cristiani, molto più sublime della prima, in quanto è opera di ragione illuminata dalla fede, resa operosa dalla carità; i genitori trasmettono con la loro convivenza familiare, cioè con le parole della vita, le loro tendenze morali30. Ogni uomo ha in sé tutto ciò che Dio creandolo gli imprime di bene, ma possiede anche la colpa di origine con le funeste conseguenze, come pure qualche parte di eredità fisica che influisce anche nello sviluppo psicologico e morale del carattere. A tutto ciò si deve aggiungere l’azione educativa dell’ambiente sociale in cui si vive e che solamente all’età del discernimento il soggetto saprà valutare e giudicare. Così si può riassumere ciò che pensa mons. Sturzo sull’azione educatrice ricevuta senza contrasto durante la prima età: «Intanto prima che si acquisti sufficiente consapevolezza di sé e del dovere, ha luogo la prima educazione […] che è la formazione che resta alla base d’ogni futuro sviluppo e d’ogni futura reazione, la quale è ricevuta senza contrasto […] Quando l’individuo, arrivato agli anni del discernimento, ha la fortuna di proporsi con serietà il problema della sua ultima e suprema destinazione e di studiare se stesso alla luce del suo vero fine e conoscere come fu fatta la sua prima educazione verso tale rapporto, saprà giudicare se si trova sulla buona o sulla mala via, saprà apprezzare l’opera 28 29 30
Cfr. ibid., 35. La vita in Dio, 22. Cfr. La vocazione, 296-298.
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dei suoi nuovi educatori, saprà se e quando e in qual modo dovrà reagire al retaggio che gli toccò in sorte e saprà come risolvere l’azione subita e l’azione ricevuta senza contrasto, in azione voluta, cercata, preferita»31.
9. AZIONE AMBIENTALE CERCATA DI PROPOSITO «Non sempre né in ogni tempo è consentito all’individuo di sottrarsi all’ambiente in cui si trova e inserirsi in altro ambiente. I fanciulli, per esempio, per soffrire che facciano nelle famiglie in cui nacquero, non possono a lor talento passare in altra famiglia […] Tutti però possono reagire all’azione ambientale contraria ai loro ideali, cercando un ambiente favorevole alla loro personalità»32.
Dio sapiente e provvido, creando le anime, imprime ad esse tendenze speciali ordinate a vie della vita e a fini speciali. Ogni persona è una creazione originale di Dio: tutte le persone hanno la stessa natura, ma nell’identità di natura, vicendevole diversità di note individuali. A causa della sua limitatezza creaturale, l’uomo spesso invece di seguire le tendenze ordinate al fine supremo segue le insorgenti. È utile industriarsi per superare queste difficoltà, è necessario essere uomini di vita interiore. «Tutto sta nell’avere penetranti gli occhi della mente […] per intendere l’arduo mistero dell’armonia nella varietà, per intendere in qualche modo il mistero dell’unità armonica nella spesso apparentemente contrastante molteplicità dell’errato […] Intendono bene e attuano l’armonia nelle diversità solamente gli uomini interiori, le coscienze profonde, coloro che seppero soggiogare l’egoismo, cioè gli individui educati […] nell’accordo di natura e di grazia, i quali […] con parola tutta propria del cristianesimo, vengono chiamati Santi»33.
Nel lavoro di educazione ha molta importanza lo studio delle tendenze speciali. Normalmente gli uomini, sin dai primi anni, avvertono i segni della loro vocazione, cioè della scelta del proprio stato di vita; per saperli leggere è necessario saper stare con se stessi, saper scendere ogni 31 32 33
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L’educazione nelle sue ragioni supreme, 36-37. Ibid., 37. Ibid., 38.
giorno nelle profondità del proprio essere, pregare, consultare quelle persone che sanno riconoscerli, in poche parole occorre essere persone di vita interiore. Tutto ciò è importante perché la persona cerca il suo ambiente in base a questo tipo di lettura che saprà fare; le scelte morali saranno compiute alla luce di queste tendenze sociali che andrà di volta in volta scoprendo. «L’individuo cerca il suo ambiente con più o meno forza, secondo che più o meno chiaramente avverte in sé l’arcana voce che gli indica la sua vocazione e la sua via […] Quel che oscura la mente e fa smarrire la via del Cielo e le vie secondarie, cioè la vocazione […] è il peccato […] Bello è nella storia delle vocazioni, vedere con quale ardore l’individuo, appena avverte la voce di natura e di grazia che gli indica lo stato e glielo fa presentire […] desidera l’ambiente propizio […] che non è cosa inerte, non è la materialità delle cose, delle persone, delle circostanze, ma la loro spiritualità […] Si cerca l’ambiente per quel che esso ha di vivo e attivo […] Quando si tratta di scelta dello stato […] l’individuo prende consapevolezza dei propri diritti di essere razionale, di personalità libera; sfida ogni difficoltà, supera ogni disagio, s’erge in se stesso sino ad opporsi alla volontà contraria degli altri»34.
10. I VARI MODI DI RESISTENZA ALL’AZIONE AMBIENTALE L’azione ambientale condiziona la persona in bene o in male, la quale, essendo dotata di intelligenza e di volontà, può opporsi e resistervi. «I modi di resistere all’azione ambientale sono molti e vari, né determinati, né determinabili in termini assoluti. In sé considerati sono più o meno gli stessi; però considerati in noi variano da uomo a uomo […] Ogni individuo, pur avendo la stessa natura, sente, pensa e vuole a modo suo, in rapporto alle sue attitudini, alla sua educazione e alla via per la quale la sua vocazione si attua»35.
La classificazione mira soltanto a destare in noi la convinzione che, in un modo o in un altro, tutti e sempre possiamo resistere all’azione nociva dell’ambiente e ne abbiano il dovere. 34 35
Ibid., 41-42. Ibid., 68-69.
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«Il lavoro di formazione ambientale […] metterà le anime nella situazione di fatto propizia ad accogliere la grazia che il Signore comunica per mezzo dei suoi apostoli»36,
per cui occorre la fede intesa come abbandono a Dio, come vita in Dio, da vivere inseriti nel contesto ecclesiale, poiché Dio dona la sua grazia per mezzo della Chiesa. L’uomo di vita interiore, che si possiede in Dio, resiste sempre vittoriosamente all’azione dell’ambiente che spinge al male; in fondo questa è l’esperienza dei santi, attualizzabile nella vita di tutti; essi risolsero in azione di santificazione ciò che cominciò ad agire come azione di perdizione37. Ogni tentazione infatti è azione dell’ambiente in cui la persona si trova; ora un modo di resistervi è il non badarvi, per cui occorre volgere la propria attenzione ad un’altra cosa, non però in modo superficiale, ma profondamente e con fede38. Così argomenta: «Direte voi: se una cosa che ci attiri più fortemente di quelle a cui si vuole non badare, non si trova, che cosa si fa? Si confida in Dio che non manca mai di aiutare coloro che lo invocano con fede e confidenza»39. Il secondo modo di resistere all’azione dell’ambiente è il sottrarsi allo stesso. Questo è un modo più radicale rispetto al primo perché mira a troncare la stessa radice del male. «Il primo modo è una lotta che non esclude il pericolo di soccombere […], domanda maggior vigore di volontà e di propositi; il secondo modo potrà essere lotta anche più dura e più difficile, ma è decisiva, perché è come un taglio che separa prontamente e durevolmente. Dato il colpo, attuata la separazione, usciti dall’ambiente nocivo o solo pericoloso, tutto è finito […] Occorre però notare che l’anima che vuol procedere con passo sicuro nella via della propria educazione e formazione a santità, deve conoscere e sapere all’uopo praticare, tanto il primo, quanto il secondo modo di resistenza, s’intende […] nel modo che in ciascun individuo si elaborano le cognizioni, i programmi, le tendenze, le volizioni, le azioni. Le anime superficiali non sanno resistere all’azione dell’ambiente col non badarvi, perché sono […] 36 37 38 39
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Il mistero della conversione, 58. Cfr. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 58. Cfr. ibid., 63-66. Ibid., 66.
deboli, […] le quali come le foglie, si muovono col vento che spira, non sanno resistervi col sottrarsi allo stesso ambiente»40.
C’è un terzo modo di resistenza all’azione dell’ambiente: risolvere l’azione nociva in azione benefica. «È certamente meno agevole, anzi più difficile dei precedenti, ma è più efficace, […] il solo che abbia vera efficacia e che renda efficaci gli altri, è il solo pel quale la resistenza è possibile […] che cosa è la risoluzione? […] Riferita questa parola all’azione dell’ambiente, significa far passare dallo stato di nocumento allo stato di bontà»41.
Nel caso dell’offesa, per esempio, l’azione che spinge a vendetta si risolve perdonando. Per esigenza di metodo abbiamo distinto i vari modi di resistenza, che in verità si richiamano a vicenda completandosi e riducendosi ad unità; infatti nel caso del perdonare siamo di fronte ad un processo: chi sente la passione della vendetta non pensa al perdono, ma deve resistervi; per resistervi deve cominciare col distrarsi, non assecondando la passione dell’odio, ma deve badare al dovere opposto che è il perdono. Per far sì che la voce del dovere prevalga su quella della passione, occorre sottrarsi all’ambiente provocatore. Se ciò non è possibile, occorre rifugiarsi nel santuario della coscienza dove la voce del dovere è sempre prevalente, dove c’è la verità che è la visione giusta della natura42. Mons. Sturzo porta come esempio di quanto ha affermato l’esperienza di s. Teresa d’Avila, che nella sua attività riformatrice, la resistenza all’azione dell’ambiente fu per lei vera e propria risoluzione del male in bene43. Infatti anche i santi sono soggetti alle passioni, poiché sono figli di Adamo, però non sono dominati; essi sono tali perché sanno dominare le passioni, risolvendone l’effetto nel suo contrario. Noi non siamo di meno, con la grazia del Signore possiamo evitare il peccato e rendere la nostra volontà dominatrice44. 40 41 42 43 44
Ibid., 69-70. Ibid., 154-155. Cfr. ibid., 156-157. Cfr. ibid., 167. Cfr. ibid., 176.
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11. L’AMBIENTE IN RAPPORTO ALLA VOCAZIONE Sottrarsi all’ambiente per resistere alla sua azione molte volte è soltanto atto di precauzione, ma altre volte è necessità. Quando, per esempio l’azione ambientale può venire superata col non badarvi, per sé non è necessario che uno vi si sottragga passando in altro ambiente. Sempre però è utile, perché è il partito più sicuro, ma non sempre è possibile. Quando invece l’ambiente è così inquinato da non consentire altro modo di resistenza, la fuga è necessaria45. L’aspetto fondamentale di questo dovere riguarda le esigenze della vocazione, la quale ha duplice forma: la prima riguarda quelli che vivono nel mondo e l’altra quelli che si consacrano a Dio. Per mons. Sturzo cosa è la vocazione? È la natura che, sotto l’impulso della grazia, conosce la via e il dovere di mettersi per la medesima. Tutto questo non dipende dal puro arbitrio dell’individuo o solamente dalle disposizioni naturali dello stesso. «Prima di tutto come origine suprema e come atto di Provvidenza ordinari riguardante i singoli individui, dipende da Dio. Perciò si chiama vocazione. È certo una chiamata, è un ordine di Colui che ha il primo e supremo diritto di ordinare le cose della sua creazione come gli piace […] E Dio chiama ciascuno allo stato al quale lo ha destinato e tanto è Egli che ama, che spesse volte destina a stati ai quali le attitudini naturali degli individui erano state giudicate contrarie»46.
La vita cristiana va rianimata o ricostruita in rapporto alla vocazione. Quando si parla di vocazione e di educazione come preparazione ad essa, si deve badare alla stretta connessione che passa fra l’educazione in ordine alla santità e quella in ordine ad uno stato di vita47. «A rigore quella che noi chiamiamo vocazione non è che designazione di via o al più vocazione in senso secondario. La vera vocazione […] in senso proprio è quella di cui parla s. Pietro, che è nello stesso tempo vocazione ed elezione al Cielo […] non è una grazia particolare, ma generale; non 45 46 47
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Ibid., 70. Ibid., 73. Cfr. La vocazione, 235-236.
riguarda solo alcuni uomini, ma tutti gli uomini […] ed è vocazione di natura e di grazia, la quale nella natura si esprime in modo di tendenza finalistica, nella grazia in modo di vera chiamata»48.
Quando s. Tommaso afferma che ciò che vi è di sommamente naturale nell’uomo è che ami il bene, con ciò che indica i criteri sommi della vera educazione, sia quella alla santità come quella a qualsiasi stato. La tendenza al bene sommo, che è l’ordinamento al fine supremo, dà all’uomo sia la scienza dei sommi principi dell’educazione, ma anche le regole che ne devono guidare il lavoro pratico. Tale lavoro in noi consiste nel vincere gli ostacoli che o spengono la carità, o ne elidono i moti, o li ritardano. La parte di educazione che riguarda la vocazione al cielo, cioè alla santità, si riduce ad insegnare all’uomo a domare l’amor proprio. L’uomo deve tendere al totale spegnimento di esso, cioè alla morte mistica, per cui la vera educazione è giungere ad un termine in cui l’uomo viva solo per Dio49. L’educazione in ordine alla vocazione a uno stato di vita è retta dai medesimi principi; per cui essa è l’avviamento razionale e metodico nell’acquisto di tutte le virtù. Quali motivi suggerire perché il soggetto risponda all’opera dell’educatore? L’unico motivo efficace è l’ordinamento di natura e grazia, cioè la vocazione al cielo; tutti gli altri (essere stimati, ottenere posti ed onori, evitare le carceri) sono temporali e perciò relativi. Solo questo motivo è eterno ed assoluto, corrisponde nell’uomo a ciò che è sommamente naturale50. Il mondo offre diversi pericoli a tutti: per cui «Chi resta nel mondo per vocazione, deve, per corrispondere bene alla vocazione, resistere al mondo separandosi dal medesimo […] Può l’uomo nello stesso tempo restare nel mondo e separarsene? Certamente, purché si badi bene al senso nel quale viene presa la parola “mondo”. In un primo senso con la parola mondo noi indichiamo l’universo, dal granellino di sabbia all’uomo; in un secondo senso indichiamo la società umana; in un terzo senso indichiamo la mondanità, l’egoismo, l’esteriorità, la vanità […] Il mondo di cui parliamo, non è un luogo, ma uno spirito, cioè un modo di concepire la vita»51. 48 49 50 51
Ibid., 236; vd. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 83. Cfr. ibid., 237-238. Cfr. ibid., 239-240. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 76; 81.
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Siamo chiamati a resistere all’azione ambientale del mondo contaminato dal peccato e dallo spirito dell’egoismo, sottraendoci al suo influsso malefico e pervertitore; chiaramente qui si tratta non di separazione materiale, bensì spirituale; si tratta pure di separazione materiale, ma non dal mondo inteso come società umana, ma da determinati ambienti particolari come: certi ritrovi, alcune amicizie, certe rappresentazioni teatrali, o certi libri52. Il mondo in cui vive ogni individuo è quello che conosce, giudica, ama, odia, che impregna dei suoi ideali, che coordina e subordina ai suoi fini. Per cui ogni individuo è quale egli è per natura e quale egli si fa, il suo mondo è ciò che elabora a se stesso. Data questa premessa si può affermare che «Mentre l’individuo soggiace all’azione dell’ambiente, è capace di resistervi, mentre ne è dominato, è capace di dominarlo tanto […] da dover dire, che ogni individuo se travia per l’azione dell’ambiente, travia non per necessità di natura, non per colpa dell’ambiente, ma perché non seppe far da padrone in casa sua; travia sempre per propria colpa. Tanto è vero che al Tribunale di Dio non si sarà giudicati per quel che ci venne dal mondo, in quanto ambiente, ma pel modo come noi ci portammo con l’ambiente, pel modo come noi formammo il nostro mondo interiore»53.
Dell’azione dell’ambiente possiamo liberarci sottraendoci, all’azione malefica del nostro essere, che è il vero mondo, possiamo sottrarci in modo spirituale; questo modo ci fu indicato da Gesù Cristo: rinnegare se stessi, prendere la croce e seguirlo. s. Paolo, in Ef 4,17-32, parla di spogliarsi dell’uomo per rivestirsi di Cristo Gesù. Queste parole sono chiare e comprese bene perché sappiamo che dentro ciascuno di noi ci sono due mondi, come due tendenze contrarie e contrastanti: la legge del peccato e quella della ragione e della grazia. «Per resistere alle insidie dell’uomo vecchio, per vincere la legge del peccato che è scritto nelle nostre membra, cioè, per resistere all’azione malefica del nostro mondo o ambiente interno, uno dei modi è sottrarsi […] Noi non dobbiamo uscire propriamente da noi stessi, come non dobbiamo propriamente uscire dal mondo reale, ma […] dal noi malvagio, dal noi figlio del peccato, il quale noi, con una parola che dice tutto, si chiama egoismo»54. 52 53 54
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Cfr. ibid., 77. Ibid., 82-83. Ibid., 86.
Il movente di tutte le azioni è l’amore, con questa differenza: che facciamo il bene se ci muove l’amore ordinato, altrimenti se l’amore è disordinato, cioè egoismo, facciamo il male. Solo quando l’amore è retto, e quindi ordinato, nel nostro essere c’è ordine e santità. L’amore è disordinato perché l’individuo subordina i suoi giudizi e le sue azioni al proprio comodo, vantaggio, o preminenza, contro l’ordine della ragione; contro l’ordine di Dio che è autore della ragione e principio e fine di tutto il creato55. Soffermandoci a parlare delle varie vocazioni, mons. Sturzo fa notare che la vita è diventata così superficiale, esteriore, così vana e leggera da far credere che si sia del tutto smarrita la coscienza del dovere; si è perso il dovere di considerare lo stato di vita come vera vocazione, come ordinamento divino e attuazione della divina volontà. Tutto ciò provoca tanti disordini all’interno delle varie vocazioni56. Parlando della vocazione al matrimonio, egli afferma che i genitori, quali educatori dei figli, hanno il dovere di preparare i figli a considerare la vita non come un piacere, ma come un dovere; devono destare in essi il convincimento di ciò che è veramente la vita e prepararli alla scelta dello stato di vita57. Infatti, la scelta dello stato, come abbiamo già detto, non dipende dal nostro puro arbitrio, ma dalla chiamata di Dio, per cui essa è una ricerca. Dio chiama allo stato al quale ha predisposto l’individuo: la sua voce misteriosamente suona nelle tendenze dell’essere umano verso una data vocazione; queste tendenze spesso vengono sopraffatte e traviate dall’azione nociva dell’ambiente58. Quando si tratta dello stato di vita e di ogni altra scelta è necessario conoscerci; ciò non è possibile se non rinunciamo all’egoismo; dobbiamo conoscerci alla luce della grazia che ci si dà nel raccoglimento, nella preghiera, nella mortificazione, nel saper abitare con noi stessi, nell’elevarci sopra noi stessi per vivere in e per Dio, perché conoscendo il fondo del nostro essere in esso scorgiamo la nostra vocazione. «Quando così viviamo, Dio ci fa sentir la sua voce che comunica la sua volontà; che indica la vocazione a coloro che ancora non hanno abbracciato 55 56 57 58
Cfr. ibid., 85-87. Cfr. ibid., 93. Cfr. ibid., 95. Cfr. ibid., 128-129.
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uno degli stati della vita, che agli altri indica le vie per le quali nella loro vocazione devono procedere e dà le grazie per le quali possono perseverare: Che sia così il buon Dio non solo lo dice con certe voci speciali che vanno oltre le comuni ispirazioni e i consigli, e suonano nel fondo dell’anima in modo più chiaro di come suonano alle nostre orecchie le parole degli uomini»59.
Il cristiano che sceglie il matrimonio, dopo che si è preparato, con la pratica della vita interiore, acquistando padronanza di sé, sentendosi libero dai rapporti esteriori, non soltanto sa resistere all’azione nociva dell’ambiente, con il non badarvi e il sottrarvisi, ma crea a se stesso l’ambiente più appropriato alla vita coniugale cristiana60. Infatti il primo influsso formativo gli sposi devono esercitarlo a vicenda l’uno sull’altro, perché devono cominciare il loro apostolato da santi, né possono trascurare ciascuno l’educazione dell’altro, dato che nella famiglia i genitori sono una profonda unità61. Quando la vita di famiglia comincia nell’intimità d’amore tra genitori e figli, solo allora inizia bene e fa sperare frutti di santità. Nel lavoro di riorganizzazione e santificazione della società il primo posto va dato alla famiglia, per cui «Prepararsi alla maternità e alla paternità sin dai primi anni significa prima di tutto guardare la vita come un dono di Dio, del quale occorrerà a suo tempo rendere strettissimo conto […] guardarla come dovere di religione e servizio del Signore, […] per cui i primi anni sono consacrati all’acquisto della virtù nella solidità dei buoni abiti, nella serietà dei fini da conseguire»62;
quando la madre si è preparata bene agli uffici della maternità avrà profondi gli intuiti di questa missione, intenderà bene che il vero educatore è Dio e che, affinché cooperi all’azione di Dio, ella deve circondare i figli di quell’ambiente di religiosità santa che si trasmette come si fa con l’eredità della carne. L’educazione dei figli per la mamma inizia fin dal momento del concepimento: le madri cristiane offrono a Dio i figli che portano nel grembo, i quali non sentono nulla, eppure proprio in quel tempo si versa nel loro 59 60 61 62
62
Ibid., 148. Cfr. ibid., 125. Cfr. La vocazione, 288-289. La maternità apostolato, 29.
essere tutta l’eredità trasmissibile della vita dei genitori nell’ordine naturale, della loro fede e del loro amore63. La prima scuola in senso più proprio è la famiglia che è il primo agente educativo. «Il Signore che è provvidenza infinita, creò l’uomo capace di autoeducazione; redimendolo con il suo sangue preziosissimo, donò all’anima dell’uomo altri intuiti ed altro potere di divinazione, gli intuiti ed il potere soprannaturali. Però nel cuore della madre aggiunse qualche cosa di speciale: la capacità naturale e quasi istintiva, perfezionata poi dalla grazia, ad intendere ed attuare l’arcano dell’educazione dei figli. Oggi nessuno ignora quanto gran santo sia […] don Bosco […] e nessuno ignora quanta spontanea virtù educativa ebbe la madre di lui»64.
La vera educazione è finalizzata al compimento del bene, per cui è necessario mettersi nelle condizioni che rendano ciò possibile e agevole. Ci impedisce a fare il bene la tentazione al male; il demonio e il mondo tentano da fuori, la concupiscenza da dentro: questi formano l’ambiente nocivo che condiziona la nostra vocazione ed elezione alla vita eterna la quale è la ragione, il fondamento e la norma della vocazione a uno stato nel mondo, sia laico che religioso65. «Essendo certo che Dio chiama in vari modi e in diverso tempo, essendo vero che la voce del Signore spesso è sopraffatta dal tumulto delle passioni e dall’azione dell’ambiente esterno, essendo vero che l’uomo deve essere certo che lo stato a cui aspira è quello che vuole Dio e non quello che vorremmo noi spinti dal nostro egoismo, e finalmente, essendo vero che non basta conoscere lo stato che Dio ci destina, ma occorre vivere nel medesimo modo che la sua natura richiede, […] ne viene per conseguenza necessaria ed inevitabile che sin dai più teneri anni l’uomo, come dice s. Pietro, deve per mezzo delle buone opere rendere certa la sua vocazione ed elezione al Cielo, cioè […] deve resistere all’azione nociva dell’ambiente interno ed esterno, senza di che invano spererà di operare il bene ed evitare il male, di conoscere lo stato a cui Dio lo chiama e di vivere nel medesimo secondo che la sua natura richiede»66. 63 64 65 66
Cfr. ibid., 31; 35. Ibid., 35. Cfr. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 130. Ibid., 131.
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Nello stato religioso la lotta contro l’ambiente nocivo assume un aspetto speciale, perché implica una speciale perfezione di vita, una lotta più forte e diuturna contro l’egoismo, che è la prima sorgente della mondanità e del male. È anche vero che questa resistenza è il primo dovere della vita di tutti, non solo dei religiosi, perché alla vita eterna si giunge per via di abnegazione e della croce e perché la nota caratteristica di tutte le vocazioni è la santità67. La vita interiore che, come afferma Agostino, è un saper scendere nelle profondità del proprio essere dove risiede la verità che è Dio ed è l’essenza della vita cristiana, oltre che la condizione indispensabile della santità, essa, per tutti, è un dovere ed è l’unico mezzo per sottrarsi efficacemente all’azione ambientale. In questo l’educazione ci è di grande aiuto perché favorisce la discesa del soggetto nelle profondità del proprio essere, il raccoglimento in se stessi in modo tale che l’errore della mente cessi di tiranneggiare la volontà e questa senta chiaramente la voce della coscienza che la spinge al bene, almeno a quella parte elementare ed essenziale dell’ordine etico, la cui visione non è mai smarrita dall’uomo; infatti «Appena l’uomo, dando ascolto alla voce della coscienza, si mette per la via del bene tutto il suo essere si riordina o tende a riordinarsi […] L’uomo che cerca la verità senza badare alla moralità delle sue azioni, senza far ordine nella sua volontà, […] che cerca la verità e non cerca la bontà; […] che opera male e cerca la verità, si mette in condizione di non poter dominare il corso del suo pensiero, e di essere dominato dal medesimo»68.
12. LE CONDIZIONI NECESSARIE PER FORMARE L’AMBIENTE PROPIZIO A questo punto si impone alla nostra riflessione un interrogativo fondamentale: che cosa dobbiamo fare per agire sempre secondo la volontà di Dio? Innanzitutto resistere all’azione nociva dell’ambiente: in seguito è necessario
67 68
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Cfr. ibid., 132-133. Cfr. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, Prefazione, XIX-XX.
«Formare a noi stessi, ciascuno secondo le esigenze della nostra vocazione, […] l’ambiente più propizio, che diventi per noi come un castello munito, come […] parla s. Teresa d’Avila, contro le cui mura si infrangono i colpi di tutti i nostri nemici, entro al quale non vi è […] che luce di verità che dissipa le tenebre dell’errore e dell’ignoranza, delle passioni, del peccato e amore di vero bene che anima a tutte le buone opere […], ecco la grande impresa che metterà al sicuro la nostra salvazione, perché renderà la nostra coscienza sensibile, perspicace, intuitiva, forte per vedere il bene da fare e il male da evitare»69.
Da quanto abbiamo detto possiamo affermare che la vera educazione consiste nel rendere la coscienza attiva e sensibile. L’ambiente che dobbiamo formare a noi stessi per trovare nella nostra coscienza (che è la voce della verità, sulla quale poggia tutto l’edificio della vita morale, della religione e della santificazione) l’eco della Parola di Dio, la luce della sua volontà, deve essere un ambiente di soli valori, con la esclusione di ogni disvalore. Il primo di tutti i valori, il vero, l’unico, è Dio. «Quando Dio regna nell’anima che lo ama, tutti i disvalori sono cacciati via, e vi sono accolti i veri valori […] tutto quello che possediamo, amiamo, conosciamo, tutto quello che diciamo, facciamo, a cui aspiriamo, diventano veri valori, perché abitando Dio nell’anima che lo ama, tutto il nostro mondo viene purificato da Dio […] tutto il nostro amore viene dall’amore di Dio elevato, trasumanato, santificato. Il nostro ambiente dev’essere il regno di Dio. È tale quando è l’ambiente del vero amore»70.
Il nostro ambiente interno è ordinato quando in esso vi regna Dio, che è amore e consente a noi il pieno dominio di noi stessi, quando noi siamo re e vi regniamo. È chiaro che il suo regno è quello della sua volontà e l’uomo, purché voglia, può fare tutto il bene che vuole ed evitare il male, per cui ha bisogno di avere favorevole a sé l’ambiente. Il segreto per formare un tale ambiente sta nell’amare Dio in modo totale, senza compromessi, né intermittenze; quando l’amore di Dio avrà purificato il nostro spirito, consumato tutto il nostro egoismo e ci avrà distaccati dai beni caduchi, per noi l’ambiente non sarà più un pericolo, né 69 70
L’educazione nelle sue ragioni supreme, 211-212. Ibid., 213.
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gli elementi viziosi e nocivi dell’ambiente avranno presa sui nostri affetti; mentre tutto il bene e il male che ci circonda, coopererà al nostro bene e al nostro meglio71. L’ambiente è formato dalle persone e dalle cose con le quali uno ha rapporti; l’uomo non è concepibile al di fuori di esso, per cui lo studio dell’ambiente corrisponde allo studio dell’umana relatività. «Se l’uomo è relativo […] sopra di lui deve esservi l’Assoluto, il Creatore, Dio. Se Dio non ci fosse, non ci sarebbe né l’uomo né il mondo, perché dal puro non nasce nulla. Dunque tra gli elementi che formano l’umano ambiente, c’è anche Dio, anzi, prima di tutto, c’è Dio»72.
13. LA RELATIVITÀ DELL’UOMO IN ORDINE ALL’AZIONE EDUCATIVA Un altro fattore da tenere presente nell’attività educatrice è quello della relatività umana di cui sopra abbiamo accennato; infatti essa è la dipendenza che le cose hanno tra loro e di ciascuna di tutte da Dio; assoluto è Dio, relativo tutto ciò che non è Dio, per cui la relatività è limitatezza, dipendenza73. «Parlando della volontà noi diciamo che l’uomo perché è limitato, non può fare tutto quello che vorrebbe, e perché è dipendente, quello che può fare non può farlo che dentro certi dati rapporti»74.
Per cui, con le espressioni di Sturzo, possiamo dire: «L’uomo può agire su se stesso serrando le vie dello spirito ai rapporti disordinati e aprendole ai rapporti ordinati […] per cui per un verso, siamo in balia dei rapporti; per un altro i rapporti sono in nostra balia. Noi però possiamo dominare efficacemente i rapporti in modo da evitare sempre il male e far sempre il bene, solo quando custodiamo con diligenza i rapporti col nostro buon Dio […] che ci ricolma con le sue grazie e ci dà la forza di passare sempre dal potere al volere, dal volere al fare e al compire»75. 71 72 73 74 75
66
Cfr. ibid., 218. Ibid., 221. Cfr. ibid., 234. Ibid., 235. Ibid., 247.
Lo studio della relatività mira a farci meglio comprendere che il volere non è un comando puro e semplice, ma una conquista che si raggiunge con l’educazione. Noi possiamo volere nella cerchia dei rapporti attuali: questi li possiamo rendere tali quando lo desideriamo, perché possiamo unirci a Dio e vivere della sua grazia. Quindi la storia della relatività umana è quella dell’educazione considerata nelle sue ragioni supreme76. La legge della relatività, come dipendenza assoluta da Dio, è la via da percorrere per arrivare alla conoscenza di Dio ed a quella dell’uomo e della realtà, quindi il suo contributo è prezioso per l’opera educativa della persona. Sotto l’aspetto morale-religioso la relatività come dipendenza comporta rapporti che prendono la natura di doveri; infatti abbiamo doveri perché siamo relativi, sono doveri verso gli altri, verso noi stessi e verso Dio: tutti si risolvono in un solo dovere, cioè vivere bene i nostri rapporti con Dio77.
14. LE RAGIONI SUPREME DELL’EDUCAZIONE Dopo aver esaminato attentamente il concetto di educazione ed i fattori che ne condizionano o agevolano tale azione, chiediamoci come deve essere l’educazione, i rapporti che ci sono con quella tecnica e specifica, con la morale e con la religione e domandiamoci pure quali sono le ragioni supreme che regolano, orientano e definiscono la vera educazione. Abbiamo già detto che l’educazione è «l’arte di svolgere e disciplinare le facoltà del conoscere e del volere in modo che l’uomo possa sempre pensare ed agire rettamente, armonicamente, progressivamente come richiedono la sua natura e i suoi fini»78.
L’educazione corrisponde quindi alla conoscenza della natura dell’uomo e dei suoi fini, di ciò che in lui è vizioso, disordinato e di ciò che è virtuoso e ordinato; corrisponde alla conoscenza del fine ultimo dell’uomo, dei fini prossimi e di quelli remoti. 76 77 78
Cfr. ibid., 247. Cfr. ibid., 284. Ibid., 286.
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Qualcuno potrebbe parlare di educazione indipendente dal fine ultimo, o dalla religione, o dalla morale; secondo mons. Sturzo «Chi parla di educazione indipendente, mostra o grande ignoranza o grande superficialità […] perché nella misura in cui l’educazione prescinde da Dio, fine ultimo, perde di efficacia, soprattutto in quello che è l’essenziale di ogni educazione: la disciplina e l’ordine della parte migliore della vita che è il pieno dominio di se stessi in vista dei fini della vita»79.
L’uomo educato è quello che in tutte le sue azioni ha per suprema norma il compimento integrale dei suoi doveri. Dobbiamo ricordare che per mons. Sturzo dovere corrisponde ad agire sempre secondo i dettami della ragione; per chi ha fede significa agire conformemente alla volontà di Dio che si manifesta nella rivelazione; la volontà di Dio è in perfetta sintonia con la ragione, tra le due non può esserci contraddizione, poiché Dio non può rivelare qualcosa che sia contraria alla ragione. Quando nell’educazione ci si limita ad un dato campo della vita e non si inizia da Dio per finire in Dio, non sarà mai possibile arrivare a quella pienezza di bontà morale che caratterizza i santi, i quali sono gli uomini veramente educati80. Nell’opera educatrice è necessario avere l’umiltà senza la quale «è follia sperare vero dominio di sé e vera educazione»; chi sbaglia, pecca sempre per una qualche passione non saputa dominare, per difetto di buona educazione, o per negligenza a perseverare nella buona educazione, che è come dire che o non conosce Dio o non vi bada e non vive in Lui81.
15. L’EDUCAZIONE E LA MORALE Per mons. Sturzo «la morale è l’ordine razionale e finalistico delle azioni umane. Dire che è l’ordine razionale poteva bastare, perché le azioni umane sono per natura finalistiche. Se tali non fossero, ci sarebbero nel mondo azioni senza perché. Ora senza […] un fine, nessuno opera nel mondo […] pure io vi ho aggiunta 79 80 81
68
Ibid., 288-289. Cfr. ibid., 290. Cfr. ibid., 291.
la parola “finalistico”, perché reputo necessario che la finalisticità di tutte le azioni umane non sia dimenticata […] mentre parlo dell’educazione e della morale. L’ordine è l’armonia richiesta dalla natura dei rapporti»82.
Il fine a cui sono ordinati tutti i fini è quello supremo, ultimo, per cui il vero ordine delle azioni umane è l’armonia delle medesime con l’ultimo fine per sé, con i fini intermedi per l’ultimo fine. Se non ci fosse questa connessione oggettiva, naturale, essenziale con l’ultimo fine, tutte le azioni sarebbero moralmente buone, perché tutte le azioni sono fatte sempre e necessariamente per un qualche fine. Per esempio, l’elemosina è buona in sé, perché è atto d’amore fraterno; ma se è fatta per la vanità di apparire misericordiosi, perde la sua bontà e diventa viziosa. Quando è atto d’amore fraterno, l’elemosina è sempre buona, perché è considerata in armonia con il fine ultimo, cioè con l’ordine essenziale delle azioni umane. «Chi però fa l’elemosina per la vanità d’apparire benefico, ci badi o no, toglie la sua azione dall’armonia col fine ultimo, e la pone in rapporto con cosa che al fine ultimo si oppone, la quale cosa è la vanità. I teologi direbbero che fa un’azione materialmente buona, ma formalmente viziosa»83.
Se confrontiamo la definizione della morale con quella dell’educazione, si intuiscono subito i rapporti reciproci che ci sono. La morale è l’ordine razionale delle azioni in astratto e in universale; l’educazione è l’arte di agire secondo quest’ordine, l’arte di attuare l’ordine morale in concreto e in particolare nella vita dei singoli84. «La morale è tutto l’ordine in tutti i gradi della sua perfezione, in tutte le difficoltà che occorre affrontare e superare nella sua attuazione; l’educazione è l’arte di svolgere e disciplinare le facoltà del conoscere e del volere in modo che l’individuo conosca bene l’ordine morale, voglia attuarlo con volontà forte ed intera, sappia così volere e così voglia con diligenza, costanza, ordine e progressività sino alle più alte vette della perfezione morale»85. 82 83 84 85
Ibid., 291-292. Ibid., 293. Cfr. ibid., 293. Ibid., 294.
69
Non è possibile concepire la morale come una cosa a sé stante da poter consentire all’uomo la scelta tra una vita morale e una vita estranea del tutto ad ogni moralità, perché nel mondo non ci sono azioni indifferenti, anzi tutte le azioni umane, dalle più piccole alle più grandi, dalle più umili alle più sublimi, se non sono buone, sono male. Così appare evidente l’importanza dell’educazione e il dovere di acquistare l’arte del ben vivere, che si presenta come uno dei primi e più essenziali doveri della vita.
16. L’EDUCAZIONE ETICA E QUELLA TECNICA I fini della vita sono tanti e non tutti ordinati allo stesso modo e grado al fine ultimo, per cui è possibile distinguere tra educazione etica e quella tecnica e speciale; molti purtroppo prescindono le due cose, che invece si distinguono. «Chi prescinde non nega, ma solo non bada. Che ciò sia possibile non è cosa che si possa negare, perché nell’educazione tecnica e speciale molti di fatto prescindono dall’aspetto morale e solo badano all’aspetto specifico delle forme speciali di educazione. E poiché […] azioni indifferenti non ce ne sono, così viene spontanea la domanda se nell’educazione tecnica e speciale prescindere dalla morale sia o no male»86.
Chiediamoci innanzitutto: cosa è l’educazione tecnica? Essa riguarda tutte le attività della vita in quanto tali; riguarda i mestieri, le arti, le lettere, la scienza, la politica, cioè tutta la vita in rapporto ai fini temporali della medesima. «L’uomo […] non nasce onnisciente, […] ma ignorante nel senso più pieno della parola; […] dovrà necessariamente lavorare per conoscere, […] con ordine, […] per agire secondo le regole […] L’educazione, dunque, è necessaria per tutti i fini della vita senza esclusione d’alcuno. Solo è da dire che buona parte di educazione si fa spontaneamente col semplice vivere in compagnia di coloro che sanno ed operano. Dirà qualcuno […] che per apprendere bene una qualche arte, come per esempio, quella di coltivare la terra, 86
70
Ibid., 295.
non è necessario di occuparsi di morale, e basterà che di questa se ne tratti quando si fa l’educazione etica»87.
Non è possibile separare la morale dalle arti e dai mestieri ed a ogni altra attività umana; è assurdo avere, per esempio, un contadino esperto, ma senza scrupoli, al quale manca l’educazione morale o avere un medico bravo, ma privo della bontà88. «Siccome la morale non è separabile da nessuna delle attività della vita, non è estranea a nessuno dei fini della stessa vita, così nessuna forma di educazione ordinata a puri fini temporali può essere fatta fuori della morale senza scapito, non solo dell’educazione morale propriamente detta, ma di tutte le forme inferiori di educazione […] per cui l’educazione morale propriamente detta deve precedere ogni altra forma, […] deve ad essa accompagnarsi e deve seguirla […] Uscire dalla morale sarebbe uscire dai rapporti essenziali dell’essere razionale, […] che legano l’anima a Dio, che sono i primi e più essenziali di tutti i rapporti da cui derivano e a cui sono ordinati tutti gli altri. Sarebbe separarsi da Dio in modo assoluto e tornare nel nulla […] Ora sì che si comprende bene come l’educazione morale propriamente detta deve precedere ogni altra forma di educazione, animarla di sé, seguirla. Se ciò non avviene, si ha il pervertimento dell’uomo, qualunque sia la cultura e la perizia che egli possa conseguire nella pura tecnica dell’educazione relativa»89.
Tutte le azioni della vita sono azioni morali, saranno moralmente buone se fatte secondo l’ordine della ragione, dei fini prossimi e, soprattutto, del fine ultimo. Inoltre l’educazione morale oltre a non essere separabile da nessuna forma di educazione speciale, dà a tutte le altre forme di educazione l’ultima perfezione; quando è piena e porta alla vera santità, dà anche una certa efficacia, un fascino che giova non solo ai fini morali della vita, ma anche a quelli tecnici, scientifici, letterari90. Il vescovo di Piazza Armerina vuole parlare proprio dell’educazione morale, la quale non è la pedagogica che finisce con la prima età, ma quella morale che termina con la vita, che deve rinnovarsi perennemente e progredire. Chi in questo cammino non si rinnova, prima o poi, abbandonerà ogni 87 88 89 90
Ibid., 295. Cfr. ibid., 296. Ibid., 298- 299. Cfr. ibid., 300.
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proposito di vera santificazione. Sottolineando l’importanza e la necessità di questa educazione rispetto a quella speciale, tecnica, professionale, a mo’ di esempio, si rifà all’esperienza di un medico napoletano, il dottor Giuseppe Moscati che brillò di luce sovrumana tanto nel tirocinio degli studi, quanto nell’esercizio della professione, fu studente modello, medico, professore famoso, perché concepì l’educazione come morale; la morale come l’ordine razionale finalistico di tutte le azioni e i doveri della vita come un sol dovere, quello d’amar Dio e di servirlo e di salvar l’anima propria cooperando quanto più possibile alla salvezza degli altri91. Alla fine di queste considerazioni con mons. Sturzo possiamo dire che: «Quelli che credono che per far bene l’educazione speciale e tecnica non sia necessario badare all’educazione morale propriamente detta, mostrano di non conoscere o di non ricordare questo universale ordinamento delle nostre azioni al fine ultimo»92.
17. LA MORALE E LA RELIGIONE Analizziamo adesso il rapporto che intercorre tra morale e religione. La morale, a rigore non può che essere una; ed una è certamente in astratto; ed è l’ordine razionale e finalistico delle azioni umane93. «Tutte le azioni umane che sono fatte secondo l’ordine della retta ragione e secondo l’ordine morale del fine supremo, […] sono moralmente buone, sono morali. E tutte le azioni che sono fatte fuori di quest’ordine razionale e in opposizione […] a questo fine […] sono moralmente male, sono immorali […] Le divergenze cominciano quando dai principi si passa alle singole azioni, quando si tratta di sapere se un’azione in concreto è fatta secondo detto ordine o fuori del medesimo, […] perché non tutti hanno lo stesso ingegno e non tutti giudicano con la serenità»94.
91
Cfr. ibid., 320. Ibid., 326. 93 Lo stesso concetto è espresso in altre pastorali. Vd. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 85. 94 L’educazione nelle sue ragioni supreme, 334. 92
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Per mons. Mario, infatti, ci sono divergenze nei giudizi morali, perché ci sono errori nel processo del ragionamento per il quale si arriva a tali giudizi, perché l’uomo è relativo e le passioni turbano la ragione. La morale regola i diritti e i doveri dell’uomo anche nella società; infatti tutte le società hanno la loro morale, che in astratto è una, poiché tutti gli uomini hanno la stessa natura e quindi gli stessi doveri, ma in concreto diventa molteplice e dà luogo ai vari codici morali che sono tutti relativi, perché procedono dall’uomo. «Gli uomini non vivono separati gli uni dagli altri, ma uniti. La loro unione si chiama società […] Gli usi, i costumi, la lingua, la religione, le leggi distinguono tra loro le società e le caratterizzano. Il principale elemento che regge la società umana è la morale […] che regola i diritti e […] i doveri. Dove il vincolo e l’ordine morale potesse mancare, la convivenza umana non sarebbe possibile, perché segnerebbe l’arbitrio che è disordine […] Tutte le società umane hanno dunque la morale, in fondo hanno la stessa morale, perché la morale, in teoria, non è che una […] Però non in tutte le società si passa dalla teoria alla pratica, dall’astratto al concreto, dal generale al particolare con l’identico ragionamento, perché esse sono nella loro collettività, quel che sono gli individui nella loro individualità […] Ed ecco che la morale, restando una in astratto, diventa molteplice in concreto e dà luogo alle morali […] sorge spontanea la domanda se le morali debbano tutte considerarsi come deficienti, ovvero, se tra tutte se ne possa trovare una che abbia tutti i caratteri della vera morale […] tutta ordinata, giusta, santa senza mescolanza di errori e di dubbi»95.
In questa lunga citazione mons. Mario parla dell’importanza della morale per la vita del singolo e della collettività, spiega la motivazione che porta ad aver un pluralismo di codici morali, pur facendo riferimento alla morale che in astratto è una. Per quanto riguarda la questione se fra le tante morali ce ne sia una vera, per il vescovo di Piazza Armerina, essa esiste ed è quella cattolica, perché è Dio che viene incontro all’incapacità umana con la Rivelazione, con il magistero infallibile della Chiesa, con quello autorevole dei dottori e dei teologi; per queste vie si è formato un codice dove con le norme morali puramente naturali se ne trovano altre, di ordine superiore, che sono soprannaturali. Questa morale, inseparabile dalle verità di fede, immune da errori genera la vera educazione96. 95 96
Ibid., 335. Cfr. ibid., 336.
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Qualcuno potrebbe subito parlare di eteronomia, in quanto Dio, per mezzo della Rivelazione, comunica norme che la ragione da sé non può scoprire. Mons. Sturzo avverte questa difficoltà e così risponde: «Una parte della Rivelazione non è manifestazione di cose ignote alla ragione umana, ma sanzione divina di ciò che la ragione umana conosce. Le principali, le fondamentali norme […] l’uomo le ha sempre conosciute. Pure Dio vi volle aggiungere il suggello della sua autorità per darvi una maggiore certezza […] solidità e stabilità […] perché queste norme reggono tutto l’edificio dell’umana società, e illuminano tutto il cammino che deve percorrere l’umanità per arrivare a salvazione. C’è poi nella Rivelazione una parte che sorpassa le visioni della ragione, non però in modo assoluto, ma relativo, nel senso che, pure essendo in qualche modo intravvedute dalla ragione, umanamente non attinge le ultime determinazioni e non entra nei codici morali umani […] La più importante di queste rivelazione […] fu l’indissolubilità del matrimonio e la sua elevazione […] alla dignità di sacramento […] Che la morale sia una, è legge di natura, perché è l’ordine pratico della stessa natura considerata in sé, fuori d’ogni determinazione storica. Che i codici morali siano molti è effetto della relatività e fragilità umana. Che tra tanti codici morali contaminati da errori ci sia un codice […] il cristiano cattolico, puro in tutte le sue parti, a tutela del quale veglia un potere dotato di infallibilità, è cosa superiore alla natura. C’è pure un particolarissimo intervento della Divinità […] La conclusione è chiara: la vera educazione […] che nessuno può trascurare senza danno, senza pericolo di dannazione, va fatta secondo il vero codice morale […] immune da errore […] completo in tutte le sue parti in quanto contiene e le norme precettive e le […] esortative, che è la morale cattolica, e va fatta in seno alla Chiesa Cattolica»97.
Per il nostro prelato i teologi definiscono la religione come il compimento delle relazioni tra Dio e l’uomo98. Se questa definizione dovesse essere presa alla lettera, la religione sarebbe una parte della morale; «S. Giacomo nella sua epistola afferma: Questa è la religione pura e immacolata al cospetto di Dio e Padre: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo (Gc 1,26). La quale defini97
Ibid., 336-339. Cfr. ibid., 336. Lo stesso tema è presente in altre pastorali, come: La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 84-86. 98
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zione non solo non esclude la parte che riguarda direttamente ed esplicitamente Dio, ma la presuppone, sicché la parola di questo Apostolo deve intendersi così, che non basta compire i doveri verso Dio, ma occorre anche compire tutti gli altri doveri e compirli come atti di religione»99.
Ecco perché la religione in teoria è il complesso di tutti i doveri, considerati e praticati come doveri verso Dio in modo tale che se si dovessero prescindere da Dio, questi perderebbero la ragione di doveri. Nessuno dubita che ogni uomo ha rapporti con se stesso e con gli altri uomini, e, prima di tutto, ha rapporti con Dio che è il Creatore, il supremo Signore, ed è suprema Provvidenza. L’individuo che ama se stesso per legge di natura, ha il dovere di amarsi in modo ordinato; la stessa cosa vale quando ama gli altri. «Finalmente gli uomini pel fatto di essere creature di Dio, di aver in Dio il primo principio e l’ultimo fine per una più profonda ed essenziale legge di natura son così ordinati a Dio, ad amare Dio, ad onorarlo, a servirlo, che non avranno pace sino a che non pervengono a Dio con l’amore e con le opere in questa vita, e in Cielo col possesso che è cognizione piena e amore pieno quanto è possibile a creatura limitata […] Dalla forza di questa realtà concreta e storica, il bisogno di classificare i doveri in doveri verso Dio, verso noi stessi, verso gli altri uomini. Di qui anche il bisogno di distinguere la morale dalla religione. Passando da questa che è analisi, alla sintesi, la cosa muta aspetto. Non c’è dovere verso noi e verso gli altri che non sia anche dovere verso Dio, per la semplice ed essenziale ragione che tutte le cose […] son di Dio, sua creazione, espressione del suo amore, e per ciò tutte le cose devono essere amate per Dio. La morale è […] l’ordine razionale e finalistico delle azioni umane. Ma l’uomo è da Dio, da Dio la sua mente e il suo cuore, da Dio perciò l’ordine della sua ragione e della sua volontà […] Ne viene per conseguenza che la morale è la religione e la religione è morale, e tutte e due sono una sola cosa: il complesso delle relazioni tra Dio e gli uomini o meglio il complesso degli umani doveri o, più filosoficamente: l’ordine razionale e finalistico delle umane azioni»100.
Quanto abbiamo affermato sopra ci induce a concludere che il valore della fede è essenziale, perché orienta tutte le scelte dell’uomo che è portato a considerare ogni dovere come se fosse un solo dovere: quello verso Dio. 99 100
Ibid., 340. Ibid., 341-343.
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Anche per la religione possiamo affermare quanto è stato detto per la morale: essa è una e ha forme molteplici di espressione a causa della relatività umana. Quando però la religione viene determinata dallo stesso Dio per mezzo della Rivelazione, questa sola avrà in sé tutta la verità e tutta la moralità101. Possiamo concludere dicendo che la Rivelazione ha un ruolo fondamentale per la veridicità sia della morale come della religione, perché vi reca nuovi contributi, per cui occorre completare la definizione di morale, già data precedentemente: «Perché le parole “ordine razionale” […] limitano la definizione nel campo puramente razionale e non comprendono la Rivelazione dei dommi e la parte positiva e rivelata della religione. Infatti nella religione cattolica, oltre ai dommi circa i misteri, ci sono i sacramenti, c’è la grazia, l’elevazione al soprannaturale, le quali cose sorpassano l’ordine razionale […] Allora non occorre che completare la definizione, dicendo che la morale cattolica e la religione cattolica, che sono una cosa sola con rispetti diversi, e sono la sola vera morale, e la sola vera religione, sono l’ordine razionale, soprarazionale e finalistico delle azioni umane»102.
L’ordine soprarazionale non è contrario alla ragione, ma ne è superiore nel senso che sorpassa la natura della ragione umana e, quanto ai misteri, la capacità di piena comprensione, per cui la religione è necessaria alla vera educazione quanto la morale. «La morale e la religione non sono separabili né sono due cose diverse tranne che nel modo di considerarle […] La vera educazione non è possibile che nella vera morale e nella religione […] né a salvazione si arriva se non per questa sola via»103.
18. IL DOVERE: MOTIVAZIONE FONDAMENTALE PER L’EDUCAZIONE Dopo questa lunga analisi dobbiamo cercare le ragioni supreme dell’educazione, perché nessun lavoro di educazione, di auto-educazione o 101 102 103
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Cfr. ibid., 343. Ibid., 344. Ibid., 345.
rieducazione attinge il suo fine in modo adeguato se non è animato da queste ragioni. Abbiamo già visto che le ragioni inferiori come per esempio: sottrarsi all’azione nociva dell’ambiente, formarsi quello propizio; curare la propria professionalità, e così via, nell’educazione hanno la loro importanza, ma limitatamente, sono parziali, danno un lavoro di analisi, devono muovere e tendere alle ragioni supreme104. Mons. Sturzo distingue le ragioni supreme da quelle inferiori nell’azione educatrice subordinando le ultime alle prime, poiché queste danno senso e valore alle altre. Precisa meglio quali sono le condizioni di una pedagogia valida, la quale domanda l’opera e il contributo di un educatore, anche se ognuno deve fare la sua parte, restando vero e certo il fatto che il vero educatore è lo stesso educando, in quanto: «L’educazione è opera della volontà illuminata dalla ragione […], chi muove la volontà a volere l’educazione? Dall’esterno? Nessuno. Certo la muove Dio, […] quanto e come vuole. Ma Dio non è esterno a noi […] è in noi e noi siamo in Dio. Però nemmeno qui dobbiamo tacere che Dio, per regola, domanda la nostra cooperazione, vuole che noi muoviamo noi stessi a volere e ad agire, pure essendo vero che Egli ci muove»105.
L’uomo e l’ambiente influiscono sulla volontà dell’uomo nel senso che fanno entrare per le vie della conoscenza, gli elementi di cui la volontà ha bisogno per volere; ma se essa non li accoglie e non li fa suoi, questi restano inefficaci. Ma cosa sono le ragioni supreme dell’educazione? Sono i supremi principi della stessa, cioè quei principi cui in ultimo l’educazione deriva. Abbiamo già visto che le ragioni prossime, anche se sono specifiche, non bastano alla vera educazione. La vera educazione è quella morale; quella tecnica è manchevole se, nello stesso tempo, non è fatta come educazione morale. Da quanto affermato, possiamo dedurre che la vera educazione va fatta in seno alla religione, come educazione religiosa. Dove vanno cercati questi principi?
104 105
Cfr. ibid., 158. Ibid., 159.
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«Le ragioni supreme dell’educazione, che comprende in sé tutte le forme di educazione, […] noi le cercheremo e troveremo nella morale e nella religione»106. «La morale è l’ordine efficace delle azioni umane, solo quando è considerata come dovere. La vera morale non è l’ordine del quale uno possa esimersi senza conseguenze funeste e irreparabili, ma è l’ordine che ci prende da tutte le parti, che ci lega per tutti i versi, che, pure lasciandoci liberi, ci impone di usare rettamente della nostra libertà. Se noi abusiamo della nostra libertà, ci condanniamo da noi stessi al castigo eterno prima ancora che ci condanni Dio. Noi siamo liberi e nello stesso tempo non siamo liberi. Il vincolo che lega la nostra libertà non è fisico […] è morale, è il dovere. Noi sventuratamente possiamo fare il male; però non dobbiamo fare il male e dobbiamo fare il bene. Sacra certamente da sé è la parola dovere […] però questa ragione suprema, questo supremo principio dell’educazione non è veramente efficace che quando è considerato e attuato non solo come principio morale, ma anche […] religioso»107. 106
Ibid., 348. Ibid., 348-349. In queste pagine mons. Sturzo parla abbondantemente del dovere, inteso come principio morale, ma anche religioso; in questa esposizione possiamo notare qualche affinità con quanto afferma E. Kant nella sua Critica della ragion pratica, quando parla dell’imperativo categorico che è il dovere assoluto dell’uomo su cui si fonda la sua morale razionale, che è appunto una morale del dovere. Il riferimento alla filosofia morale kantiana è solo apparente, terminologico; infatti quest’ultima è soltanto una filosofia ideale, formale, cioè non contenutistica; mentre mons. Sturzo non ammette sintesi a priori e il suo Neo-sintetismo vuole salvaguardare i valori del realismo e quelli della storicità. La legge morale kantiana è autonoma, non è determinata da un qualsiasi motivo estraneo all’uomo compreso pure lo stesso comando divino, mentre il dovere per mons. Sturzo ha un riferimento esplicito all’autorità di Dio rivelante: cfr. S. LATORA, Il Neo Sintetismo e la sua dialettica nel pensiero dei fratelli mons. Mario e don Luigi Sturzo, cit., 249-250. Per quanto riguarda l’imperativo categorico e la legge morale kantiani, brevemente presentiamo questi concetti: E. Kant (1724-1804) concepiva la morale come necessaria e universale, la quale per avere una validità oggettiva e universale, deve risolversi in una forma a priori, ossia in una legge assolutamente incondizionata che denomina, appunto, imperativo categorico. Quest’ultimo è un comando inesorabile, categorico, perché la legge morale non può essere subordinata ad alcuna condizione o ipotesi, ma deve valere incondizionatamente. Inoltre deve prescindere da ogni inclinazione personale che potrebbe fargli perdere la sua universalità. La morale kantiana si può ridurre alla formula «il dovere per il dovere», ossia avere sempre il dovere come scopo delle nostre azioni. L’imperativo categorico in Kant ha tre formulazioni: 107
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Il dovere, considerato come suprema ragione, come supremo principio dell’educazione, è efficace quando è considerato e attuato non solo come principio morale, ma anche religioso, perché chi non bada alla ragione religiosa dei suoi doveri, nemmeno bada a quella morale. È questo il motivo per cui parecchi vivono come se Dio non ci fosse e si fa il male con tanta leggerezza108. Il concetto del dovere verso Dio che ingloba in sé, sia il dovere verso se stessi come quello verso gli altri uomini, rende ordinata interiormente la coscienza, esteriormente ordinate le opere come sua espressione; il dovere quindi aiuta a vivere tutta la vita per Dio, fa fare i primi passi nella via della santità109. Possiamo affermare che «Il dovere considerato in sé è il grande principio dell’educazione vera, […] considerato sotto il rispetto morale anima tutta la morale; considerato sotto il rispetto religioso anima tutta la religione; considerato sotto l’unico rispetto morale-religioso, versa su tutta la religione tutta la luce della morale e sulla morale tutta la luce della religione. Nella morale noi badiamo di più all’ordine, nella religione all’elevazione e consacrazione di quest’ordine; nella visione sintetica noi non vediamo che l’ordine elevato e consacrato. Sono questi due principi, i soli principi supremi della educazione […] Analizzando il dovere, troviamo che è dovere religioso […] Esso è animato dalle virtù della religione e della giustizia, perché tutto quello che siamo ed abbiamo viene da Dio e a lui appartiene. Il dovere che è ordine, […] religione […] giustizia, quando è ben compreso, […] agisce nell’anima non solo come legame, ma anche come esigenza e come forza. L’uomo allora non discute più, non cerca scuse, non tentenna, non dice che gli si domanda troppo nemmeno quando è in gioco la stessa vita; […] vuole quel che ha il dovere di volere, vuole ed opera sempre bene, […] sempre verso il meglio, • agisci in modo che tu possa volere che la massima della tua azione valga come legge universale; • agisci in modo da trattare l’umanità in te e negli altri sempre come fine e mai come mezzo; • agisci in modo che la tua volontà possa essere considerata come istituente una legislazione universale. La legge morale in Kant si esprime fondamentalmente nell’imperativo categorico «tu devi»: esso implica e presuppone la libertà. Per l’approfondimento di questo tema: A. DOLCI – L. PIANA, Da Talete all’esistenzialismo, cit., II, 240-289. 108 Cfr. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 348. 109 Cfr. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 82.
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[…] verso la perfezione […]; il dovere […] è animato anche dal dono della pietà […] che è il carattere speciale che assume l’amore»110.
Secondo mons. Sturzo quando viviamo da buoni cristiani e facciamo la nostra educazione alla luce del dovere, quando sotto l’influsso di questo principio cerchiamo rimedio ai mali causati da una educazione difettosa, noi dalle virtù teologali e morali e dagli altri doni veniamo resi idonei a fare il lavoro della nostra e altrui educazione, a farlo con maggiore facilità, anzi con desiderio, come si fanno le cose che più piacciono111. Le ragioni supreme dell’educazione conducono ad una sola pedagogia, quella vera che porta alla salvezza. «Se prima la nostra educazione che è la nostra santificazione ci sembrava ardua e difficile, ora alla luce delle sue ragioni supreme, ci sembra facile, amabile e desiderabile […] Il dovere prima ci appariva come peso opprimente, ora no, perché vediamo che è non solo morale, ma anche religione, non solo vincolo, ma anche amore […] Noi dobbiamo, perché siamo creature e […] Dio è il nostro fine […] perché se non arriveremo a Dio, andremo all’inferno; dobbiamo perché il dovere è ordine, armonia, pace, ed è il bene dei beni, senza del quale la vita è troppo molesta e triste […] Dicendo: dobbiamo, ci chiudiamo la via ai miseri compromessi della colpa, ci persuadiamo che non c’è che una sola via che mena al premio, la via diritta, la via del dovere»112.
CONCLUSIONE Possiamo affermare che, per mons. Sturzo, l’educazione vera è un processo che si inserisce nella dimensione finalistica della vita; essa è tutta orientata alla santificazione dell’uomo, per cui abbraccia tutto l’arco dell’esistenza umana. Infatti, la via della propria educazione e della propria formazione è quella della santità che è il supremo dei doveri, a cui è legato ogni bene; tale via ha i suoi sacrifici e le sue rinunzie, ma quando si è in Dio tutto diventa possibile e realizzabile.
110 111 112
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L’educazione nelle sue ragioni supreme, 351-353. Cfr. ibid., 353. Ibid., 354-355.
L’educazione mira a far agire l’uomo secondo il suo ultimo fine ed è tutta orientata alla vita interiore, che è vita in Dio, nei suoi influssi personali e sociali. Questa vita anima tutte le azioni, regola e domina tutte le tendenze della mente e tutti gli effetti della volontà, dispone al raggiungimento della visione e della unione in Dio, che è il fine supremo dell’uomo. Essa inoltre non si inserisce come cosa fatta, senza la partecipazione e l’elaborazione del soggetto; infatti l’opera degli educatori regola e abbrevia il processo dell’educazione, che si attua nel soggetto per virtù della sua stessa natura. Ci sono fattori che condizionano in positivo ed in negativo l’educazione; i condizionamenti negativi possono essere respinti, controllati, risolti diversamente e in vari modi. Quindi l’educazione è la disciplina che orienta e regola le facoltà umane, in modo tale che l’uomo possa pensare e agire rettamente. Le ragioni supreme dell’educazione vanno cercate, e di fatto si trovano, nella morale e nella religione; il supremo principio di tale attività è il dovere, inteso come dovere morale e religioso.
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CAPITOLO III LA CONVERSIONE
1. LA CONVERSIONE Da giovane sacerdote e poi da vescovo, Mario Sturzo, si prodigò a formare un nuovo modello di sacerdote. Si impegnò a rinnovare l’attività catechetica e omiletica del suo tempo per rendere più essenziale, attraente e comprensibile il messaggio evangelico per il popolo, in vista di un rinnovamento interiore dell’uomo, che lo avrebbe portato a rigettare il peccato e a mettersi sulla via della santità, della vita in Dio, attraverso la preghiera, la penitenza e la carità operosa: cioè in uno stato di continua e perenne conversione. L’uomo ha in sé il dovere di attuare l’opera redentrice di Cristo, ciò sgorga dalla sua realtà di creatura razionale che non può non riconoscere il supremo dominio di Dio e non scegliere il bene proprio e degli altri senza colpa; d’altra parte abbiamo lo stato dell’umanità, ferita dal peccato e incline alla colpa: date queste condizioni dell’umanità di non fruire dell’opera di Gesù Cristo, è evidente il bisogno di un ministero che avesse continuato l’opera della Redenzione, cioè che avesse avuto la funzione speciale di invitare l’umanità alla conversione e di far derivare su di essa i suoi tesori1. Il prelato di Piazza Armerina delinea quindi un nuovo tipo di presbitero che ha una forte incidenza nella vita cristiana della società e dei singoli, grazie al suo ministero speciale, ma anche alla sua parola ed al suo esempio, per cui ogni pastore è precursore come Giovanni Battista, in 1 Cfr. Il Seminario, 14-15. Sturzo in questa lettera delinea una teologia del ministero ordinato, dove emerge il concreto ruolo del presbitero all’interno della Chiesa; questo è chiamato a collaborare all’opera di Redenzione del cristiano, deve essere santo, quindi un vero convertito per far suo il programma del Cristo. Il suo compito è esteso anche alla società, per cui il suo ministero è apostolato del tempo concreto in cui vive, della storia reale alla quale infondere lo spirito di Cristo. La missione del presbitero è talmente in relazione alla vita e al pensiero di una società, che la sua corruzione causa il pervertimento della stessa società, del pensiero umano in quanto etico, per cui la sua attività, come la sua parola e la sua vita sono importanti per la conversione degli altri. Cfr. R. LA DELFA, Linee ecclesiologiche nel pensiero di mons. Mario Sturzo, in C. NARO (cur.), Mario Sturzo. Un vescovo a confronto con la modernità, Caltanissetta-Roma 1994, 169-199.
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quanto è ministro di quella Parola che schiude le vie del cuore alla fede e, per la fede, alla carità. Mons. Mario nelle sue pastorali tratta spesso dell’importanza della Parola proclamata che fa muovere i primi passi nel cammino della conversione. Si preoccupa di presentare anche un nuovo modello di cristianesimo: «Ascoltate con fede e umiltà questa Parola e vedrete con quanta efficacia il buon Dio la farà agire sulle anime vostre. Ai giusti e ai peccatori essa è rivolta: ai primi perché progrediscano nel bene […]; ai secondi perché si convertano […] Ascoltate non tanto con le orecchie del corpo, quanto con quelle dello spirito; ascoltate e avrete la vita della grazia. Ci sono dei cristiani che in questo lavoro restano alla superficie; ci sono cristiani di nome e non di fatto […] Pregano, prendono i sacramenti, vanno a predica, ma come per uso, attaccati più alla forma che alla sostanza; […] il cristianesimo è interiorità […] perché è vita e non vuota formalità»2.
L’ascolto della Parola favorisce la configurazione di un nuovo cristiano, che è innanzitutto un uomo di vita interiore, che esce dall’isolamento individualista e dalla sola dimensione liturgico-cultuale della fede per convertirsi ad un cristianesimo che è vita, attività, testimonianza. Il tema della conversione, che sarà oggetto di questo capitolo, ispira il pensiero, l’attività e l’opera di Mario Sturzo; è un argomento a lui caro e ricorrente nelle sue lettere pastorali. Nella sua esperienza spesse volte manifesta il desiderio di annunciare a tutti la misericordia di Dio, invitando al pentimento, al ritorno a Dio, al cambiamento di vita: cioè alla conversione. Vorrebbe fare come il Buon Pastore, percorrere tutta la diocesi, passare per tutte le case e le vie ripetendo a tutti l’invito di Cristo alla conversione ed alla penitenza. Così si esprime: «Tornate anime smarrite; tornate cuori traviati, al buon Gesù che vi aspetta a braccia aperte per darvi col bacio della pace il perdono e la grazia. Voi soffrite […] portate troppo pesante fardello […] anche quando vi date l’illusione non dico di esser felici, ma di godere nel male. Ci sono nella diocesi cristiani che vivono abitualmente nel male; che sanno di vivere nel male e che forse desiderano uscirne, ma non sanno risolversi. E ci sono di quelli 2
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La via della salute, 12.
che non solo non badano alla voce ammonitrice del rimorso, ma chiudono le orecchie […] alla voce del vescovo, del parroco o dell’amico»3.
Per quanto riguarda il suo ministero, non ha paura della stanchezza e non teme di diventare importuno, perché si tratta di annunciare la Parola della salvezza. Quando è già avanti negli anni, avverte con consapevolezza questo suo dovere e si rammarica di non poterlo adempiere a causa della sua età e della sua salute cagionevole, per cui si serve delle lettere pastorali, chiedendo a tutti una maggiore e qualificata collaborazione per quanto concerne questa missione specifica4. Nei primi anni della sua attività aveva meditato a lungo sul problema psicologico della conversione in diversi suoi scritti, come: Le voyage du centurion di Ernesto Psichari, La conversione di Leone Tolstoi. Ovvero patologia di una conversione, La conquista del fine, Ricerche psicologiche, Intorno al culto, Appunti di psicologia delle conversioni 5. Quello che il vescovo siciliano elabora per quanto riguarda la conversione è soggetto ad una maturazione ed evoluzione: infatti il problema della conversione nelle pastorali è guardato sotto l’aspetto soprannaturale; è studio dell’azione salvifica di Dio, che è di tipo soprannaturale, che vince la realtà naturale dell’uomo; mentre il primo periodo della sua riflessione era caratterizzato dallo studio dell’aspetto naturale e delle leggi psicologiche della conversione, vista come naturale esigenza di liberazione dell’uomo, di ricerca del vero senso della vita e della sua originaria identità, per poi pervenire alla dimensione soprannaturale. 3 La pecorella smarrita, 1-2. In questa pastorale è importante quello che Sturzo afferma sul ruolo dei battezzati per quanto riguarda la missione della Chiesa: invitare gli uomini alla conversione, a penitenza, al ritorno a Cristo e alla sua Chiesa. Con la presente pastorale Sturzo invita tutti a farsi cooperatori del ministero episcopale e quindi annunciatori della Parola che salva: è un vero apostolato che porterà alla fede e alla vita ecclesiale tante persone. 4 Cfr. ibid., 3. 5 Intorno al culto, Appunti di psicologia delle conversioni, Piazza Armerina 1915; La conversione di Leone Tolstoi. Ovvero patologia di una conversione, in La Scuola Cattolica, Monza 1916; Le Voyage du Centurion d’Ernesto Psichari, in Vita e Pensiero, Milano 1916; La conquista del fine, Ricerche psicologiche, Roma 1916. Queste sono le opere che noi possediamo dove il vescovo siciliano studia la conversione dal punto di vista psicologico, ma ci sono tante altre opere che ci mancano di cui conosciamo solamente i titoli, come: Resurrezione, La conversione di Gerolamo Ragusa Moleti e altre.
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In una delle sue ultime pastorali, Il mistero della conversione, di cui rimandiamo ai paragrafi seguenti per quanto concerne la presentazione ed il contenuto, ripiglia il tema, parla non di psicologia della conversione ma di mistero: ed è tale se si considera come fatto divino, cioè come azione di Dio che agisce misteriosamente, nascostamente, ma realmente ed efficacemente nella vita degli uomini. Nel corso di questo capitolo, come abbiamo già fatto precedentemente, prima di esaminare il tema nelle pastorali, fermeremo la nostra attenzione sulla prospettiva psicologica e filosofica dello stesso argomento, esaminando il dramma e l’evoluzione di una conversione, quella di Leone Tolstoi. Lo studio del tema, secondo la metodologia e la prospettiva prefissaci, ci porterà a domandarci cosa è conversione secondo il pensiero sturziano; ci aiuterà ad identificare il valore della fede ed il ruolo del ministero ecclesiale nel cammino di conversione.
2. LA CONVERSIONE NEGLI SCRITTI FILOSOFICI Per un approccio chiaro al tema della conversione nella sua dimensione psicologica e filosofica, ci serviamo di uno scritto del vescovo siciliano: La conversione di Leone Tolstoi. Ovvero la patologia di una conversione 6, dove esamina il problema della conversione come fatto psicologico, naturale, che ha come sbocco la dimensione soprannaturale. Definisce la conversione del Tolstoi come un caso patologico, perché quando questi fu preso dalla preoccupazione del fine della vita, se per poco si piegò alla fede, presto ne scorse le deficienze, si spinse oltre, smarrendosi talmente nelle sue ricerche, da non pervenire né ad una soluzione soprannaturale, né a quella naturale coerente. «Il Tolstoi conobbe la ragione della fede, la deficienza della ragione, ma non l’essenza della fede, né che fra ragione e fede non vi può essere antinomia»7.
6 La conversione di Leone Tolstoi. Ovvero la patologia di una conversione, in: La Scuola Cattolica, novembre-dicembre 1916, Monza 1916. In questo articolo Sturzo descrive in modo affascinante l’esperienza del Tolstoi, la sua crisi esistenziale e il suo cammino faticoso e drammatico nella ricerca della verità. 7 Ibid., 6.
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Il contrasto gli riusciva penoso e non seppe far altro che mettere a tacere la ragione, per trovare una relativa tranquillità. Questo è il lato tipico e nello stesso tempo patologico della conversione del Tolstoi: «Vede che la ragione dei singoli non giunge a scoprire nella sua interezza i misteri del fine, vede che la funzione integratrice compete alla fede, e tuttavia non perviene nemmeno ad una chiesa, e resta come sospeso tra due deficienze»8.
In questa coerenza l’occhio esperto trova l’espressione di una legge naturale, quella del fine della vita, che è talmente forte nell’uomo che si manifesta in mille modi, sollecitandolo alla ricerca. Chi ben osserva scorge questa legge in modo diffuso nella svalutazione spontanea del bene che si possiede, nel bisogno indomabile di nuovi beni e quindi nel desiderio del più e del meglio. A questo proposito cita l’esperienza di s. Agostino e riporta le famose parole con cui il vescovo di Ippona apre le sue Confessioni, le quali esprimono la sua inquietudine ed il desiderio di ricercare la verità; queste sono voci presenti nell’uomo. «Quando, per un fatto qualsiasi, l’uomo presta orecchio a queste voci, la legge di natura si precisa e nasce il moto decisivo della ricerca del fine»9.
La conversione del Tolstoi è significativa, poiché insegna a meglio conoscere le deficienze dell’essere umano, quando nella ricerca finalistica del perché della vita, rimane solo in compagnia di sé; serve a meglio apprezzare gli appelli della natura che possono divenire imperiosi; infine è utile per meglio valutare l’importanza delle conversioni complete. La celebrità del nome della persona interessata, cioè del Tolstoi, gioverà molto a richiamare l’attenzione dei meno disposti a questo problema, che secondo il vescovo siciliano, oggi è molto trascurato dagli uomini10. Potrebbe nascere un’obiezione: qualcuno potrebbe dire che, poiché nella conversione entra come fattore essenziale la grazia, ogni ricerca a carattere psicologico sarà almeno deficiente. La risposta di mons. Mario a 8 9 10
Ibid., 6. Ibid., 6. Cfr. ibid., 7.
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questa difficoltà sollevata da lui stesso, è puntuale e precisa: la ricerca che l’uomo conduce è utile e necessaria, perché la grazia, pur pervenendo, accompagnando ed elevando l’atto umano, tuttavia domanda sempre e necessariamente l’umana cooperazione. «Studiare quindi le leggi che governano la psiche umana, è già di per sé studiare, nelle deficienze umane, le leggi dell’azione, e nelle umane deficienze, le leggi della cooperazione, tra le quali importantissima quella della preghiera»11.
3. CONSIDERAZIONI SULLA PATOLOGIA DELLA CONVERSIONE DEL TOLSTOI Come già abbiamo visto, il Tolstoi ebbe delle preoccupazioni finalistiche: cercò il perfezionamento individuale, poi quello collettivo, il progresso. Ad un certo punto la logica dell’essere gli suggerisce che quei fini erano provvisori, limitati, difettosi; infatti quelle soluzioni non davano alla vita un senso conveniente. Cercare il valore ed il fine della vita è legge dell’umanità, infatti tutti cercano il perché delle cose; potranno essere diverse le vie per pervenirvi, ma il problema resta uno solo: Tolstoi dopo indagini e studi oggettivi e soggettivi perviene alla conclusione che il senso della vita non può essere dato soltanto dalla stessa, in quanto è contingente, relativa; essa, invece, appella delle relazioni non contingenti. Così il presule di Piazza Armerina si esprime: «Ogni uomo, di qualunque razza o civiltà, tende alla pienezza, alla perennità della vita, vi tende perché ha l’idea di assoluto»12;
quest’idea non è solamente logica, soggettiva, perché promana dalla stessa essenza dell’essere umano, dai rapporti di relativo ed assoluto, di effetto e causa. Questo è il valore del processo di Tolstoi, espresso in modo sperimentale, più che filosofico, più passionale che scientifico. È un processo non solamente soggettivo, ma induttivo, storico, universale; il germe di esso è in tutti gli uomini, tuttavia si svolge in modo diverso. 11 12
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Ibid., 27. Ibid., 28.
«La vita può smarrire se stessa, perché contingente; ma può ripossedersi perché intelligente e finalistica. Da qui il fenomeno della conversione»13.
L’uomo, si chiami Tolstoi o Agostino, ha smarrito la via diritta; questa, per Mario Sturzo, è la triste storia della fragilità umana. Chi crede al finito, infatti, non si preoccupa dell’infinito; ciò vuol dire che nella gerarchia delle finalità umane molti uomini si attengono ai fini prossimi, a quelli relativi, cercano i piaceri, gli onori, le ricchezze, cioè tutto quello che è futile; conseguentemente, sentiranno a volte lo scontento e la vacuità della vita, ma non arriveranno alle serene visioni della ragione, anzi si impegneranno a vincere tale stato d’animo, intensificando l’attività finalistica relativa; ma ci sarà un momento in cui il relativo viene meno, proprio perché tale14. Questi uomini che si attengono ai fini prossimi, relativi, trascurando quelli veri, ultimi, nel colmo della felicità e degli onori, sentiranno l’inadeguatezza dei primi ed avvertiranno il bisogno di un po’ di luce; proveranno lo scontento, l’insoddisfazione ed il vuoto esistenziale. Quando queste preoccupazioni prevalgono, l’uomo non è più tranquillo ed è come dominato da una forza misteriosa. Sta proprio in questo stato il dramma della conversione, che ha caratteri propri, profondamente diverso da ogni altro dramma umano. Coinvolge tutto l’essere, il quale è alla ricerca della ragione piena della vita, che spieghi tutti gli altri perché, tutte le altre relazioni. Da qui l’acerbità speciale della lotta, la irrinunziabilità delle ricerche, quella specie di necessità che gli individui provano nel cercare, nel trovare, pure ignorando il perché e l’epilogo del dramma, o lottando per non pervenire ad una soluzione sospettata, intravveduta ed odiata15. «La tipicità di questo fenomeno non brilla di minor luce nell’epilogo del dramma. I dubbi si dissipano, l’ultimo perché si comprende, la vita si riordina e si possiede, la gioia e la pace, che non dà nessun’altra conquista contingente, pervade l’essere fino alle più riposte profondità. Se non fosse una legge dell’umanità, tutto ciò non sarebbe possibile. L’intelligenza che ignora, la volontà che non appetisce, non potrebbero essere spinte a cercare, a volere l’ignoto e il non desiderato, se nell’essere non ci fosse l’appetito,
13 14 15
Ibid., 28-29. Cfr. ibid., 29. Cfr. ibid., 30.
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l’inclinazione, la ragione che apprende l’infinito, se non ci fosse la legge della correlazione e del moto»16.
L’intelletto spesso cerca molte cose che non sono o che non si presentano come veri valori; la volontà desidera le chimere: chiaramente queste cose non giovano a spiegare i misteri della vita o a rendere migliori. La scienza delle conversioni gioverà per penetrare i misteri della stessa vita; in effetti l’uomo ha sempre posseduto quanto è necessario per sapere che la conversione è una logica finalistica e non un fatto storico senza valore. Se mancata la colpa e gli aiuti esterni, l’individuo fa quanto può e custodisce le conquiste della sua mente, conformandovi le opere, soggettivamente entra nell’armonia finalistica, è un vero convertito17. In questo caso è evidente che la conversione è un appello della natura verso i fini della vita, il quale talvolta supera la stessa resistenza dell’individuo. Quando l’uomo vi risponde con il riordinamento etico delle opere, che sono la funzione finalistica per eccellenza, segue il suo corso più o meno sinuoso, complesso, fino al termine ultimo che è uno solo, poiché la vita che è essenzialmente identica in tutti gli uomini, non può avere che lo stesso fine e lo stesso perché18. Gli interessi di Mario Sturzo per le tematiche psicologiche ruotano attorno allo studio e all’analisi sistematica dei dinamismi interiori, attraverso i quali l’uomo si determina nella elaborazione delle sue convinzioni intorno ai fini della vita e procede poi verso la conquista del fine. È senza dubbio presente ampiamente la tematica teologica, caratterizzata da un finalismo naturale che postula Dio come giustificazione e verifica ultima di tutto il processo umano, ma lo sforzo di restare il più possibile sul piano della fenomenologia antropologica è parimenti attento. C’è in lui quell’attenzione pastorale mai disgiunta dal suo lavoro di ricerca intellettuale che lo fa muovere sapientemente sui confini sfumati fra natura e soprannatura. Vuole mostrare i sentieri attraverso cui l’uomo nella pienezza e complessità psicologica, sociale e culturale, può accedere all’esperienza soprannaturale come a meta propria e quasi necessaria del suo cammino esperienziale19. 16
Ibid., 30. Cfr. ibid., 30. 18 Cfr. La conversione di Leone Tolstoi, 30. 19 Cfr. S.G. ZAVATTIERI, Filosofia e sapienza cristiana nella riflessione di Mario Sturzo, cit., 68-71. 17
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4. IL MISTERO DELLA CONVERSIONE In una delle sue ultime pastorali, il vescovo di Piazza Armerina non parla più di conversione come bisogno naturale dell’uomo tutto proteso alla ricerca dei fini della vita, come fenomeno legato alla natura razionale e finalistica dell’essere umano. Il titolo della pastorale pubblicata qualche mese prima della sua scomparsa, cioè il 25.01.1941, indirizza in un senso completamente diverso la nostra attenzione: non parla più di psicologia, di patologia o di dramma della conversione, ma di mistero: la pastorale porta questo titolo: Il mistero della conversione 20. In questa lettera Sturzo oltre alla definizione teologica di conversione, porta a mo’ di esempio la parola e l’esperienza di tanti convertiti. Nel pensiero sturziano abbiamo una gradualità e un passaggio da una dimensione all’altra. Su questo argomento scrisse molto, ma nella sua mente c’era un solo progetto culturale: dimostrare e illuminare da angolature diverse la processualità finalistica della vita, attraverso la sintesi di tutto ciò che è insegnato dalla rivelazione, dalla teologia, dalla filosofia e dalla storia. A questo punto domandiamoci che cosa intende il vescovo di Piazza Armerina quando parla di conversione: «La conversione è l’inizio dell’attuarsi del processo di finalisticità e tendenzialità, il considerare il proprio stato di disordine spirituale e di opposizione a Dio, il detestarlo, il vincerlo con il pentimento e la confessione. Questo appunto indica l’in se reversus del Vangelo dove è la luce della divina rivelazione»21.
Quindi la conversione è legata al processo umano: l’uomo per natura tende a Dio, è fatto per Dio, il suo ultimo fine e la sua ragione d’essere è la
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Cfr. Il mistero della conversione, in: Alla scuola di Gesù, 123-168. Il mistero della conversione, 150. Mons. Sturzo, in questa pastorale come nelle altre, non si sofferma a parlare della dimensione sacramentale della conversione, cioè non parla mai esplicitamente del sacramento della penitenza. Solo di sfuggita sfiora questo tema; dalle poche battute qui presenti possiamo affermare che il processo di finalisticità dell’uomo trova il suo ultimo compimento e la sua più alta realizzazione nel sacramento della penitenza, perché permette di vincere e detestare il peccato, di essere liberati dalle sue catene per aderire e vivere purificati e liberi in Dio. 21
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vita in Dio. Tutto ciò è mistero di Dio, è sua azione, perché è lui che ha creato l’uomo con questa tendenza per cui la conversione è mistero. La conversione prende forma quando si attua questo processo di finalisticità e tendenzialità naturale dell’uomo; alla luce di esso emerge, come esigenza spontanea, la verifica del proprio stato di vita; di conseguenza abbiamo la detestazione del disordine spirituale, cioè dello stato di peccato che è di opposizione a Dio e che va superato con il pentimento e con la confessione. Quindi questo processo umano tende all’unione con Dio ed esige il rifiuto netto di tutto ciò che intralcia tale cammino: innanzitutto comporta la detestazione del peccato e la vittoria su di esso grazie a quei momenti importanti, quali il pentimento e la confessione sacramentale, che costituiscono le tappe portanti della conversione. La processualità e il finalismo conducono il cristiano ad individuare i fattori che gli impediscono di sprigionare le sue potenzialità soprannaturali che sono mortificate dal peccato. Il fenomeno delle conversioni è questo dinamismo spirituale storicizzato che è teologico, psicologico, filosofico, ascetico22. Il Vangelo, in Lc 15,17, indica l’inizio della conversione del figliol prodigo con le parole: in se reversus; come mezzo di conversione insegna ai peccatori il ritorno in sé, perché Dio lo troviamo nelle profondità più riposte di noi stessi. Affinché si vada dalla conversione verso la santità, bisogna a mano a mano scendere nelle ultime profondità dove abita Dio23. La conversione consiste in questo cammino di discesa verso le profondità del proprio essere; in quest’opera siamo guidati da Dio: ecco perché parliamo di mistero della conversione, perché in essa è presente l’azione di Dio, dato che il fondo dell’anima nostra è chiuso per noi se Dio non ce lo dischiude.
22 Cfr. S.G. ZAVATTIERI, Filosofia e sapienza cristiana nella riflessione di Mario Sturzo, cit., 74-75. 23 Cfr. Per la vita interiore, Prefazione, X. È interessante ciò che mons. Sturzo afferma quando descrive l’azione salvifica di Dio sui singoli uomini. La conversione, come anche il cammino verso la santità, sono opera esclusiva di Dio, perché se Lui non si manifesta e non prende l’uomo per mano, accompagnandolo fin nelle sue più riposte profondità e non gli insegna la via per arrivare alla piena comunione con Lui, le sue industrie saranno limitate e sempre inadeguate. Ecco perché parla di mistero della conversione; l’intervento di Dio richiede la collaborazione dell’uomo, che non è nello stato di pura passività, in quanto è lui che deve scendere dentro di sé, però accompagnato e guidato dallo stesso Dio.
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«È un campo riservato a Dio solamente, se Egli per sua misericordia non ce ne segna le vie e non ce ne consente l’accesso. Noi con le nostre forze naturali, aiutati dalle grazie comuni, possiamo fare i primi passi, […] il meglio dell’anima nostra è vietato a noi sino a che noi abbiamo qualche resto di attacco alle cose create e a noi stessi, sino a che la nostra purificazione non ha assunto il carattere vero e proprio di morte mistica; sino a che noi non siamo morti del tutto a noi stessi, sino a che non ci siamo gettati senza riserve tra le braccia della volontà divina. Ma anche quando avrete fatto ciò, se Dio non ci prende per mano, non ci insegna la via, non ci dà la sua luce, non ci dà la grazia che egli dà a chi vuole e che nessuno può mai per propria industria meritare, giù non si arriva; e perciò non si arriva alla piena unione con Dio che è la santità piena e la pregustazione del Paradiso»24.
Per mons. Mario in quest’opera il nostro peggior nemico è l’egoismo che è menzogna; infatti secondo s. Agostino «per conoscere bene noi stessi occorre sorpassare le sfere dell’egoismo e pervenire nel cielo della verità»25.
Per questo motivo la Scrittura ai peccatori che si vogliono convertire dice di rientrare in se stessi. Questo viaggio interiore che l’uomo intraprende corrisponde a trovare il vero se stessi e Dio che vi abita; significa pensare un po’ seriamente alla propria realtà con volontà pratica, cioè con le disposizioni ad agire in conformità alla verità che si scopre; è necessariamente, per logica di pensiero, pensare al perché e ai fini della vita26. «Pensar ciò distogliendosi da ogni altro pensiero e cura, è necessariamente pensare a Dio, perché cercar la ragione della vita importa cercar il principio della medesima e il suo fine. Quando il problema della propria destinazione e di Dio è studiato […] nel libro scritto da Dio che è il nostro spirito, non è possibile che l’uomo si perda nella molteplicità delle opinioni o delle teorie, 24
Ibid., Prefazione, XI-XII. Sulla semplicità, 75. 26 Cfr. Il santo raccoglimento, 222-223. In queste pagine il concetto di conversione non riguarda solamente lo stato di vita interiore o la condizione morale del singolo, ma è anche usato per indicare il passaggio da una eresia o dalla miscredenza alla fede. Nel corso di questa pastorale racconta di due conversioni, quella del conte Schouvaloff e di Luigi Bertrand, i quali, grazie ad un istante di raccoglimento e di riflessione, si convertirono dall’eresia e dalla miscredenza. 25
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perché il cuore, liberato per un po’ dagli impedimenti che vengono dall’egoismo, va spontaneamente e con lo slancio della finalisticità, verso Dio»27.
Quando questi due elementi che sono la conoscenza di sé e quella di Dio, si incontrano, scocca l’ora di Dio che è il tempo della conversione. «L’ora di Dio è l’oggi, l’istante presente dell’oggi, perché Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva»28.
In noi non c’è la capacità di scendere fino in fondo in noi stessi, abbiamo bisogno di Dio; ciò significa che per trovare il vero noi stessi, dobbiamo prima trovare Dio e viceversa. Cercarsi in Dio vuol dire considerare il proprio essere tanto manchevole e miserabile alla luce delle perfezioni divine; vediamo così cosa è il nostro egoismo e che il vero bene non è in noi, ma in Dio, e che senza di Lui non possiamo nulla29. Possiamo affermare che il cammino di conversione porta in sé due momenti privilegiati che sono distinguibili solo nell’analisi, ma che in realtà sono coincidenti: il primo consiste nella capacità di smascherare se stessi e principalmente l’egoismo, causa di tutti i mali; il secondo consiste nel ritrovare il vero se stessi e nel trovare Dio. In questo cammino la guida ci è data dallo stesso Signore che ci prende per mano accompagnandoci fino alle nostre più intime profondità, ecco perché la conversione è un mistero: azione dell’uomo e di Dio. Per mons. Mario, la vita è intesa come una continua lotta: ciascuno è spronato a combattere contro la propria e l’altrui stoltezza, che ci fa amare la vanità e la menzogna e ci porta a dimenticare l’essenziale. Stoltezza è amare disordinatamente i beni terreni; menzogna è riporre nei piaceri presenti la felicità; follia è il peccato; insipienza imperdonabile è il non cercare subito il perdono dopo la caduta e il non entrare in quello stato di conversione, che poi è la via che porta veramente alla salvezza. Questo stato di cose è imperdonabile, perché l’uomo è dotato di ragione e in quanto tale può e deve liberarsi lottando in vista dell’acquisizione della vera sapienza; quest’ultima non è un’entità astratta, avulsa completamente dalla vita, ma è innanzitutto l’agire umano conforme sempre ai 27 28 29
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Ibid., 223. Il mistero della conversione, 153. Cfr. Sulla semplicità, 75.
dettami della ragione e all’ordine della grazia per arrivare a quella trasformazione che quasi divinizza l’uomo e la sua vita, cioè la santità30. Il battezzato, convinto della necessità e del dovere della perfezione, non soltanto la desidera, ma prenderà gli altri mezzi per conseguirla, intraprendendo il cammino della conversione. Questa tensione si avverte in modo indeterminato nell’indomabile desiderio del meglio che non cessa di pulsare nella volontà31. Questo tendere «Indica la legge arcana della nostra volontà che, prima che noi ce ne rendiamo conto, ci spinge verso il meglio, […] verso il perfettissimo, verso Dio […] Ci sarà mai giorno in cui il nostro cuore non dica: Voglio? Che non dica: Questo non m’appaga, e cercherò di meglio? Ci sarà giorno che il nostro cuore trovi quaggiù la felicità che senza tregua desidera? Questa è legge universale della quale con accento si caldo parla s. Agostino. Dunque anche i cristiani mediocri, anche gli intristiti, anche i peccatori, in fondo tendono alla perfezione»32.
Come già abbiamo avuto modo di affermare, noi non potremmo nulla senza l’azione di Cristo in noi, senza l’incorporazione a lui e il vivere in lui. Quando si realizza questa unione, fatta dalla fede, dalla carità e dalla grazia, diveniamo fattori attivi dell’opera della santificazione con il conseguente obbligo di cooperare a tale azione33. L’incorporazione al Cristo e il vivere in lui non si realizzano se noi diveniamo centri a noi stessi, cioè quando non moriamo all’uomo vecchio, l’uomo dell’egoismo e non viviamo all’uomo nuovo, che pensa, vuole, opera in Gesù Cristo34. La conversione coincide anche con questa forma di educazione che porta il singolo a liberarsi dal peccato, fino a raggiungere la perfetta maturità cristiana, che coincide con il massimo grado di santità; il processo di conversione va dallo spogliamento dell’uomo vecchio fino allo stato di santità e all’acquisizione dell’umiltà che è virtù
30 31 32 33 34
Cfr. Il mistero della conversione, 129. Cfr. La preghiera che assicura il Paradiso, 75-76. Ibid., 76. Cfr. La vocazione, 250. Cfr. Ibid., 253.
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«Veramente mistica, […] divina, è la morte del nostro amor proprio, del nostro egoismo, cioè, di quel vizio di cuore che è principio di ogni peccato, che tende a indurire il nostro povero cuore e ottenebrare la nostra povera mente, e ci fa mettere noi stessi al posto di Dio […] L’amor proprio non combattuto mena all’autoadorazione. L’uomo allora nel mondo non vede più che se stesso, e a se stesso subordina ogni rapporto col prossimo, ogni altro amore […] Questo dev’essere il nostro principale affare: vincere noi stessi e ogni giorno renderci più forti e procedere di bene in meglio»35.
Se questa è la conversione e se la vocazione dell’uomo è raggiungere la santità, la vera scienza della vita non è la filosofia o le scienze naturali, ma la mistica, perché considera tutte le attività, sia teoriche che pratiche, intellettuali e morali, come ordinate all’ultimo termine che è la vita eterna36. «Comunemente si crede che la mistica sia la scienza di pochi eletti […] Questo grande errore deriva dal non saper guardare come unità la mistica e l’ascetica […] la morale e la religione; e finalmente dal non considerare che la sola filosofia non basta a svelarci la vera essenza, il vero valore, il vero fine della vita»37.
Secondo il pensiero sturziano, filosofia, storia, teologia, Scrittura, sono elementi convergenti, perché la vera scienza della vita non è analisi, ma sintesi, ed essa è la mistica. Ora la finalisticità e la processualità dell’esperienza umana cominciano con la stessa vita. Secondo l’insegnamento 35
L’apostolato dell’umiltà, 394-395. Cfr. Il mistero della conversione, 135. Nella conversione abbiamo l’intervento di Dio che favorisce la tendenza naturale presente nell’uomo di ricercare la pace vera e di amare il vero bene; ma nell’uomo c’è pure la presenza di altri fattori che si oppongono a questo suo dinamismo interiore, frenando o addirittura annullando l’azione di Dio. Questo stato di conflittualità è provocato dal peccato. Secondo la teologia agostiniana, alla quale spesso mons. Sturzo si riferisce, il peccato ci fa dimenticare Dio creatore convertendoci all’amore per le creature. Per evitarlo e per fare il bene occorre abituarsi ad acquistare il pieno dominio della propria persona nella sua interezza e nelle sue varie e molteplici dimensioni. Per cui la conversione è vista come una lotta aspra, diuturna, che consiste nello sradicamento del peccato da sé, nello svuotarsi di tutto ciò che non è Dio e non è di Dio. Queste sono tutte definizioni che spiegano il concetto paolino dello spogliarsi dell’uomo vecchio e del rivestirsi del nuovo. L’uomo deve togliere tutti gli ostacoli che impediscono la ricezione e lo sviluppo dei doni dello Spirito Santo, con l’acquisto delle virtù morali; vd. Il santo raccoglimento, 285-286; La via del santo amore, 180-189. 37 Ibid., 134. 36
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del dottor Angelico, ciò che nella vita è massimamente naturale è che l’uomo ami il bene e principalmente il bene divino. Effetto di tutto ciò è che lo stesso cerchi Dio con forte e profonda spontaneità da non vivere di Lui se altri fattori non impedissero a questa tendenza di amore e di ricerca di sprigionarsi e progredire. La spontaneità naturale solo allora farà sì che l’uomo indirizzi tutti gli affetti della mente a Dio, quando avrà vinto in sé il peccato che si oppone a tale processualità38. Per natura e per grazia questo processo si avvia con la stessa vita cristiana, e se non ci fossero forze contrarie, si svolgerebbe fino alla più alta perfezione. Mons. Sturzo parla della processualità e finalisticità della vita che si avvia verso la sua meta per natura e per grazia, perché con il cristianesimo non possiamo parlare più di semplice natura, in quanto l’elevazione soprannaturale è di ordine generale e riguarda tutta l’umanità39.
5. FENOMENOLOGIA DELLA CONVERSIONE Dalla definizione teologica di conversione e dalla descrizione di questo processo finalistico-tendenziale, che è umano, ma al quale è interessato anche Dio, che interviene con la sua azione salvifica, passiamo ora a valutare la sua descrizione fenomenologia, tenendo presente, cioè, l’esperienza di tanti convertiti. Gli scritti di Sturzo sono ricchi di esemplificazioni tratte dall’agiografia tradizionale o da esperienze vissute di coloro che hanno attraversato il confine della conversione e sono pervenuti alla scoperta di Dio ed alla comunione piena con Lui. I santi vengono presentati come modelli reali per cogliere dal vero le tappe successive del cammino della conversione, il dinamismo spirituale, che è psicologico, filosofico ed ascetico. La presentazione della fenomenologia della conversione acquista così i contorni impegnativi e complessi di un criterio di lettura dell’esperienza umana, in cui convergono, si integrano, si intersecano diversi elementi, che secondo la visione sintetica del vescovo di Piazza Armerina, formano un tutt’uno non riducibile, di eticità, di riflessione filosofica, di psicologia, di socialità e di ascesi. Gli studi sul fenomeno delle conversioni vanno letti e compresi 38 39
Cfr. ibid., 135. Cfr. ibid., 135.
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non come curiosità culturali episodiche, ma come veri momenti di ricerca sperimentale nel progetto di comprensione del dato psicologico che partecipa del dinamismo finalistico-processuale umano, che è impegno di ricerca del bene e del vero assoluti40. Mons. Sturzo porta diversi esempi al riguardo, per rendere anche più chiaro ed agevole il suo ragionamento; infatti nel corso delle sue pastorali più volte consiglia la lettura di vite dei santi, non soltanto per metterne in risalto il cammino di fede percorso da questi eroi pervenuti alla meta della vita, che è la visione di Dio, ma anche perché «Sono miniere inesauribili e danno materiale efficacissimo e opportunissimo nei vari casi […] e particolarmente per la formazione di ambiente vibrante di vita e di situazioni di fatto splendenti di particolare luce. Leggendo le vite dei santi si direbbe che Dio non solo abbondi di interventi straordinari, ma quasi si trastulli nei medesimi […] si direbbe che il loro ambiente è più sovrumano che umano, che il vero attore di tutti quei drammi è più Dio che l’uomo»41.
Come già abbiamo avuto modo di vedere parlando della conversione di Tolstoi, il vescovo siciliano aveva affermato che la scienza delle conversioni è utile per penetrare meglio nei misteri della vita; insegna meglio a conoscere le deficienze dell’essere umano, quando rimane solo nella ricerca dei perché della vita42. È evidente che in questa fase della sua riflessione, cioè nel passaggio dallo studio della conversione come semplice atto umano e psicologico a quello della conversione, vista come azione salvifica di Dio che impegna la vita dell’uomo, lo studio della storia delle conversioni non mette in luce solamente la necessità dell’essere umano di ricercare il senso della vita, ma fa risaltare principalmente l’intervento di Dio in questo cammino. Il vescovo di Piazza Armerina afferma che non si può parlare di una scienza delle conversioni vera e propria, ma di uno studio descrittivo storico-biografico delle medesime, in modo tale da conoscere per quali vie date persone sono andate dalla colpa al pentimento, cioè sono entrate nello stato di conversione. Questo studio è molto prezioso perché dà al lavoro di 40
Cfr. S.G. ZAVATTIERI, Filosofia e sapienza cristiana nella riflessione di Mario Sturzo, cit., 74-76. 41 Il mistero della conversione, 157-158. 42 Cfr. La conversione di Leone Tolstoi. Ovvero patologia di una conversione, 5; 30.
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formazione dell’ambiente e delle situazioni di fatto l’ultima mano, mettendo in risalto alcune cose: il rapporto che corre tra il momento della grazia e quello della corrispondenza umana; infatti quando questi due momenti si incontrano abbiamo il cosiddetto momento di Dio43. Nel racconto delle conversioni è importante mettere in luce il fatto provvidenziale dell’intervento straordinario di Dio, che corrisponde all’illustrazione dello stesso mistero della conversione; da questa analisi si può ricavare un insegnamento che corrisponde ad una grande verità evangelica: Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Un’altra cosa da mettere in risalto nello studio delle descrizioni di conversioni è la fedeltà di Dio alla sua Parola ed al suo disegno salvifico: «nonostante che qualche volta l’uomo non corrisponda con fedeltà a tali grazie straordinarie, non per questo Dio muta l’ordine della sua provvidenza o mette limite all’esuberante effusione della sua infinita carità»44.
Mons. Mario è un appassionato lettore di s. Agostino, un innamorato del suo pensiero e della sua esperienza di filosofo e di pastore, quindi non poteva, quando descrive la fenomenologia della conversione, trascurare di parlare del vescovo di Ippona, esempio preclaro di conversione e di quello che il Signore fa nella vita dei singoli per la loro conversione e salvezza. Agostino era tenuto lontano da Dio dalle cose create, amate in modo disordinato; l’esperienza gli fece conoscere e cercare Dio che si trova in noi, e che pur essendo in noi, non viene trovato fin quando non rientriamo nelle profondità del nostro cuore: questo rientrare in se stessi è il momento culminante della conversione. Il dentro ed il fuori di cui stiamo parlando corrisponde allo stato della coscienza, secondo che è l’ordine della ragione e della grazia o che ne è fuori di esso. L’in se reversus del figliol prodigo riceve qui la sua profonda formulazione sperimentale e si risolve nel dramma angoscioso che travagliò l’anima di Agostino45. Il vescovo di Ippona nelle sue due celebri opere il De Civitate Dei e Le Confessioni, celebra la misericordia infinita del Signore: nella prima opera in ordine a tutta l’umanità, nella seconda in ordine alle singole persone. 43 44 45
Cfr. Il mistero della conversione, 156. Ibid., 157. Cfr. ibid., 150-151.
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Il De Civitate Dei è l’intuito del genio che traccia le linee della filosofia della storia, ossia il disegno divino che si attua nel processo della libera attività umana. Il soggetto che anima Le Confessioni è Agostino, traviato, peccatore, sordo alla voce della madre e della grazia; mentre nell’altra opera il soggetto è l’umanità. Si potrebbe anche dire che nel De Civitate Dei ci sia la storia del figliol prodigo come rappresentante dell’umanità e che ne Le Confessioni ci sia la stessa storia del figliol prodigo come rappresentante dei singoli traviati; in effetti è la storia dello stesso autore, nella quale possiamo intravedere quella di tutti i peccatori che giungono a conversione46. Diverse volte nel corso delle pastorali, il presule di Piazza Armerina invita a leggere le opere di Agostino, con un’attenzione particolare, che manifesta questo amore per il Santo vescovo e la preziosità del suo pensiero in vista del cammino di fede e di un efficace apostolato; così infatti si esprime: «Leggiamo (le opere di Agostino) con umiltà, fede ed amore, con l’occhio alla storia della lunga catena di colpe e alla storia delle sovrabbondanti misericordie del Signore […] Adoriamo gli arcani della Provvidenza e nello stesso tempo procuriamo di vedere nella storia di Agostino, più o meno, la storia di tutti i traviati che ebbero l’avventura di pervenire a conversione»47.
Dalla lettura attenta di queste opere, che sono autobiografiche, in quanto raccontano l’esperienza del vescovo di Ippona, si intuisce con chiarezza ed evidenza il mistero della conversione in quanto opera di Dio e dell’uomo. Come più volte abbiamo visto, Dio rivolge ai peccatori l’invito a rientrare in se stessi, perché la conversione è effetto del raccoglimento; a sua volta l’uomo si converte, cambia vita, persevera nel bene e si santifica quando cerca Dio nel suo cuore. Al primo rientrare in sé l’uomo trova Dio che è verità per la quale può essere buono ed aspirare a più alta bontà, aver pace e sperare la felicità; comprende anche se stesso, autopossedendosi e dominando i suoi istinti, conosce pure il mondo e la realtà che lo circonda48. Per mons. Mario nella storia delle conversioni, quando il suo svolgimento è lungo e complesso, ci sono anche delle incoerenze e delle incor46 47 48
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Cfr. ibid., 163-166. Ibid., 165. Cfr. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 4-6.
rispondenze da parte dell’uomo che non devono fare una brutta impressione o addirittura scandalizzarci, anzi da loro possiamo trarre profitto nell’apostolato per destare nei fratelli che vivono nel peccato il desiderio di corrispondere subito alla grazia, altrimenti si mette in pericolo la salvezza. Bisogna pur consentire alle persone lontane da Dio, che vivono nel peccato, che non sempre né a tutti è possibile la conversione integrale senza superare determinate difficoltà o impedimenti. La luce della grazia e la volontà del pentimento sono due fattori che prescindono da ogni circostanza di tempo e di luogo, per cui appena l’uomo rientrato in se stesso, sente il dovere della conversione, deve senza ritardo rispondere a tale esigenza49. Verità fondamentale nella Chiesa cattolica è che Dio non nega la sua grazia a chi, in ordine alla salvezza, fa quanto è nelle sue possibilità fare. Mentre non è sempre in potere dell’uomo liberarsi subito dall’ombra dell’errore, poiché non sempre ha coscienza vera dell’errore; tuttavia è sempre in suo potere vivere secondo i dettami della sua coscienza50. Studiando le storie delle conversioni si trovano categorie di persone di convertiti i quali seguirono una certa normalità di processo nella loro conversione; il prelato porta come esempio di questa nuova tipologia di conversione quella di Enrico Newman, il quale prima della sua conversione definitiva visse, non solo da uomo onesto, ma quasi da cattolico e da mistico; nella sua vita la bontà, la volontà del bene e del meglio si manifestarono con tanta luce, tanto che dai suoi contemporanei era guardato con ammirazione. L’interiorità cui attendeva con diligenza, fa presupporre una purezza di coscienza e di condotta irreprensibile; a quindici anni pervenne all’idea che ciò che conta nella vita è il rapporto dell’anima con Dio, è il vivere bene questi rapporti; così possiamo affermare che la vita moralmente ordinata o che moralmente si riordina, è la vita che si mette nelle migliori condizioni e più sicure di pronta ed efficace conversione51. È evidente, con quest’ultimo esempio, che mons. Sturzo sta presentando una nuova tipologia di conversione. Prima ha parlato della conversione come cambiamento di vita in senso morale, cioè come passaggio dalla situazione di peccato e di lontananza da Dio, allo stato di grazia, di amicizia e di comunione con Lui, quale meta e termine del processo di tenden49
Cfr. Il mistero della conversione, 158-159. Mons. Sturzo non nega le difficoltà che si possono incontrare nel cammino di conversione dovute a tanti e svariati fattori. 50 Cfr. ibid., 160. 51 Cfr. ibid., 160.162.
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zialità e finalisticità dell’uomo. Con il caso del Cardinal Newman siamo di fronte alla conversione, intesa come cambiamento, passaggio dallo stato dell’errore, dell’eresia, alla verità della fede cattolica. Per il vescovo siciliano l’eresia è «Il preporre il sofisma della mente alla fede nella parola divina; orgoglio che quasi mai si scompagna da sensualità; come la religione di Gesù Cristo è, per essenza, umiltà e santità nella più completa rinunzia d’ogni movimento di egoismo e nella più implacabile lotta contro le ribellanti passioni»52,
per cui la conversione dall’eresia comporta comunque l’acquisizione di questi atteggiamenti morali che caratterizzano la religione di Cristo Gesù.
6. LA DIMENSIONE DELLA FEDE NELLA CONVERSIONE In 2Pt 1,10-11, l’Apostolo invita ad avere una sollecitudine tutta particolare per la propria vocazione ultima, poiché le seduzioni del male sono tali e tante che senza una speciale vigilanza, una costanza forte e uno sforzo continuo della volontà, le opere non saranno buone da rendere sicura e certa la salvezza. Poiché Dio ci vuole tutti salvi, vuole che questa sublime vocazione venga resa certa da ciascuno tendendo così alla pienezza di vita che è la santità. Tutto ciò presuppone come condizione indispensabile, la possibilità reale di entrare nello stato di conversione53. In questo processo finalistico dell’uomo verso Dio la sola luce della ragione non è sufficiente, occorre quella della fede, perché la bontà solamente naturale non potrà mai farci pervenire alla visione stessa di Dio che è il fine dell’umanità elevata al soprannaturale, è necessaria anche la grazia e la luce delle virtù teologali. La conversione, perché si inizi, è necessario che sia sostenuta e corroborata dalla fede che è la visione arcana dei misteri della vita eterna e, secondo l’insegnamento di s. Tommaso, è un inizio in noi della stessa vita. La fede è possedere già la vita eterna senza vederne ancora l’essenza; è un credere con la certezza che viene dalla stessa autorità di Dio rivelante e non dalla luce della ragione; si tratta della fede viva per la carità. 52 53
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Ibid., 162. Cfr. L’arcano della perseveranza, 110; 116.
«Però sopra questa visione che è il credere, che ha il suo valore nel possedere già un inizio di vita eterna in noi, ce n’è un’altra la quale è un accrescimento di luce così notevole che dà alla fede quasi il valore del vedere vero e proprio. Ciò avviene quando la fede, approfondendosi, diventa spirito di fede; quando la carità, purificandosi, diventa ardore di carità. Gesù Cristo […] formalmente promise a coloro che l’amano una cognizione più intima di sé. Ego manifestabo ei meipsum»54.
Dio si manifesta con chiarezza a quanti lo amano, cioè a quelli che hanno il cuore puro e sono liberi da tutti gli inquinamenti del peccato; sono coloro che si trovano in uno stato di conversione, cioè in quel processo che si desta in tutti i cristiani con la fede e che esige una risposta. «Toglie ogni dubbio la parola della beatitudine: Beati mundo corde. Ivi è detto senza figura: Ipsi Deum videbunt»55.
Da quanto detto possiamo dedurre che la conversione è il processo condotto avanti da Dio che esige la risposta dell’uomo, in vista della propria santificazione; esso non è fatto solamente da Dio, né è portato avanti tutto e solamente dall’uomo, ma l’uomo liberandosi dal peccato si perde nel divino per lasciare comparire e agire l’uomo nuovo, o meglio Gesù Cristo che misteriosamente opera in lui56. Cosi mons. Sturzo descrive questo cammino di conversione: «Questo […] è il processo […] che si desta in tutti i cristiani con la grazia della fede, si svolge in tutti i cristiani che a questa grazia corrispondono, […] per virtù di spontaneità finalistica a misura che l’uomo si va purgando degli impedimenti che vi oppone l’egoismo umano, s’intende sotto l’influsso e l’azione della grazia»57.
Alla corrispondenza dell’uomo circa l’azione liberante e santificante della grazia fa riscontro il cammino di conversione che si svolge nel cristiano in modo spontaneo ma finalizzato alla santificazione propria. In que54 55 56 57
Il mistero della conversione, 137-138. Ibid., 138. Cfr. ibid., 139-142. Ibid., 139.
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sto processo finalistico verso la santificazione e la salvezza è determinante l’azione di Dio e la corrispondenza dell’uomo; quando si verificano queste condizioni, ci troviamo di fronte al mistero della conversione, inizia nel cristiano il processo di cui abbiamo parlato che si svolge spontaneamente ed è finalizzato alla santità. Come c’è un processo finalistico e tendenziale determinato circa la santificazione, così lo stesso processo c’è circa la conversione. In effetti i due processi finalistico-tendenziali non sono che due aspetti e due momenti dell’unico e solo processo che si inizia con il rimuovere gli ostacoli di opposizione alle tendenze umane elevate dalla grazia e si compie con la graduale liberazione dagli stessi, che ritardano i moti della carità58. Tra i due momenti dello stesso processo, che sono finalistici e tendenziali, c’è una differenza: «Mentre il processo che va dalla grazia alle più alte vette della santità ha tappe e gradi dei quali ormai nessun teologo o mistico più può dubitare, il processo che va dalla colpa alla grazia non ha che un solo grado, […] non domanda che un solo atto, il pentimento […] l’unico stadio da raggiungere dal traviato perché si converta, è il ritorno in se stesso, l’accogliere l’invito che il Signore fa nella Scrittura: Redite, praevaricatores, ad cor!»59.
Alla grazia della conversione è necessario corrispondere senza ritardo, perché lo stato di colpa è l’unica cosa veramente intollerabile, approfittando così dell’ora della salvezza offertaci da Dio che è l’istante presente, dato che Dio non vuole la morte del peccatore, ma la sua conversione. «S. Gregorio esorta poi i peccatori ad uscire subito dallo stato di colpa perché, non solo non c’è un’ora di Dio da aspettare, ma perché, permanendo nell’anima, il peccato quasi meccanicamente spinge ad altri peccati […] L’esperienza circa questo punto non dà che visioni retrospettive di rimpianto, come quella ormai celebre di Agostino: “Tardi ti amai, bellezza tanto antica e tanto nova; tardi ti amai. E dire che tu eri meco, ed io, sciagurato, non ero con te […]”. La parola mecum eras danno l’ultimo tocco al senso
58
Cfr. ibid., 152-154. Conversione e santità sono due dimensioni che vanno insieme. Rinnegare il peccato, convertirsi a Dio, vuol dire intraprendere il cammino della santità nella piena unione con Dio. 59 Ibid., 152-153.
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specifico della parola del rimpianto, perché riconoscono l’attualità perenne della volontà salvifica del Signore»60.
La storia dell’umanità dimostra una tendenza universale e costante: l’egoismo. Sotto l’influsso di questa legge la società invece di svolgersi come una grande famiglia, prende la figura di strati sovrapposti; la restaurazione consiste nell’opporvi la legge dell’amore proclamata da Cristo. Quindi la conversione dei primi cristiani ai nuovi valori morali e religiosi della fede cristiana ha favorito il cambiamento radicale della società e l’abolizione di tutti quei valori che la caratterizzavano, ossia ha favorito la conversione della stessa società. Infatti essi si muovevano da incogniti in una società caratterizzata dall’egoismo e con la loro testimonianza stabilivano il contrasto più vivo tra il bene e il male e irrompevano da veri apostoli, ad annunziare la nuova morale e la nuova religione61. «Che se nei secoli posteriori a Gesù Cristo la umana società si è andata a mano a mano ricostituendo sotto forme più rispondenti al suo fine, ciò è avvenuto perché lo spirito del cristianesimo, a malgrado della scienza atea e della politica utilitaria, ha penetrato nelle leggi e le ha […] trasformate»62.
7. I MEZZI CHE FAVORISCONO LA CONVERSIONE Questo processo di finalisticità e tendenzialità di natura e di grazia, che è la conversione, orientato tutto alla santificazione della persona, incontra diversi impedimenti nel suo svolgimento ordinario, tanto che se non ci fossero, il cammino di conversione sarebbe sempre spontaneo e progressivo.
60
Ibid., 154. Cfr. I Lettera pastorale, 4-5. È interessante notare, come per mons. Sturzo, la conversione abbia anche delle ripercussioni nella società; infatti il peccato non è soltanto rottura di amicizia con Dio; poiché gli uomini sono uniti fra loro da uno stretto rapporto soprannaturale, esso ha delle conseguenze negative sulla vita comunitaria, la quale ne subisce un danno. Per la stessa legge, la conversione di uno, la vita in Dio del singolo, che è santità, porta beneficio a tutti. A conferma di ciò fa riferimento all’esempio dei primi cristiani che si convertivano dal paganesimo al cristianesimo; in pochi hanno rivoluzionato i sistemi sociali del loro tempo, trasformando radicalmente la società. 62 Ibid., 6-7. 61
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Gli intralci provengono tutti dall’egoismo; tuttavia possediamo i mezzi per vincerlo e per spegnerlo: l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera, la penitenza e la vita interiore63. Dall’ascolto della Parola di Dio si trae sempre una nuova forza per lottare contro il peccato, per acquistare quelle virtù morali utili per il cammino di conversione e per raggiungere la santità; infatti la Parola per chi crede e l’ama, a chi cerca e vi medita, è luce che illumina e purifica64. Infatti mons. Sturzo afferma che «Senza conoscenza della Rivelazione la fede resterebbe inattiva. La Rivelazione è Dio che si comunica come verità; è il complesso delle verità che bisogna conoscere, alle quali bisogna credere per agire rettamente in ordine alla eterna salute. Il mezzo stabilito da Gesù Cristo col quale si comunica alle anime la Rivelazione […] animata dalla grazia che dà la fede a chi ne è privo, dispone al pentimento chi è nel peccato, accresce la forza di agire bene in chi possiede la carità, è la predicazione»65,
per cui dalla Parola udita con fede si genera la conversione e la santificazione, perché essa è comunque efficace. Per vivere da buoni cristiani e salvarsi non basta conoscere la Parola di Dio con scienza umana, ma con quella divina; per mons. Mario occorre considerarla come fede e come messaggio autentico di Dio, affidato alla sua Chiesa, la quale ha il compito di custodire integro il deposito della Rivelazione66. La preghiera, in quanto mezzo che favorisce la conversione, consiste nel trovare Dio, unirsi a Lui e vivere di Lui. Inoltre in ordine alla liberazione dal peccato, dove sta l’essenza della conversione, quando ha debiti requisiti ottiene sempre l’effetto senza ritardo. Due fatti evangelici che si riferiscono a questo mistero ne sono la conferma: la parabola del perdono paterno al prodigo ed il perdono immediato di Cristo al buon ladrone67. Nell’ambito della preghiera c’è la meditazione che è un esercizio ordinato alla propria santificazione; è un lavorare per spogliarsi della vecchia condizione, liberandosi del peccato, per vestirsi dell’uomo nuovo, 63 64 65 66 67
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Cfr. Il mistero della conversione, 147-148. Cfr. La pastorale collettiva degli Arcivescovi e Vescovi della Sicilia, 49-50. Ibid., 42-43. Cfr. ibid., 43-48. Cfr. Il mistero della conversione, 156.
adornandosi di tutte quelle virtù essenziali. L’uomo con questo esercizio agisce su di sé per operare una profonda trasformazione; i valori si capovolgono, per cui la conversione produce questi effetti e nello stesso tempo orienta alla vita interiore. «Tutti i vizi devono essere domati, all’acquisto di tutte le virtù si deve tendere perché il termine a cui è diretta la meditazione è la santificazione […] L’uomo con questo metodo agisce […] fortemente, decisamente, inesorabilmente su se stesso alla luce delle eterne verità […] per operare in sé una profonda trasformazione […] cioè per cessare di essere carnale e diventare spirituale»68.
Altro mezzo importante che favorisce la conversione è la penitenza, che consiste nel trovare il nemico ed armarsi contro di lui; essa offre all’uomo la possibilità di non abbandonare mai la lotta, dato che questo nemico dell’uomo, che è il peccato, non muore mai del tutto69. Fra tutti questi mezzi speciali offertici dal Signore, quello più efficace ed accessibile a tutti è il raccoglimento, la vita interiore; come già abbiamo esaminato, secondo il pensiero sturziano, la conversione è effetto del raccoglimento perché «La cognizione di Dio che genera la conversione, non è quella che sfiora la mente, ma quella che scende nel cuore e lo riempie di sé. L’uomo si converte, persevera nel bene, si santifica quando cerca Dio nel cuore. Dio è nel cielo […] in tutte le cose, alle quali dà l’essere, l’agire e il durare […] è nelle anime, anche nelle peccatrici […] come luce di verità che rende possibile la conversione, come attrattiva di amore che la rende agevole, come inquietudine e rimorso che impedisce l’ultimo oscuramento del male, l’assoluto oblio del fine, il posarsi definitivamente nel peccato […] L’uomo smarrisce la cognizione di Dio o la rende inefficace in ordine al retto vivere e alla vita eterna, quando si allontana da se stesso, quando smarrisce le vie della sua interiorità. Ecco perché Dio dice ai peccatori: Redite, praevaricatores, ad cor»70.
68 69 70
Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, 71-72; vd. 121. Cfr. Il mistero della conversione, 147-148. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 4-5.
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In questa prospettiva la santità consiste nel vivere di Cristo, trovando la pienezza dell’unione con Lui; la conversione corrisponde alla ricerca dello stesso Cristo. La figura di Pietro che più volte rinnega il Maestro è la rappresentazione chiara di ciascun uomo che, peccando, si estranea da sé, poiché il peccato è come uscir da se stessi per andare lontano71. Pietro che sente nel suo cuore lo sguardo del Cristo ed esce fuori del luogo dell’occasione piangendo amaramente, rappresenta l’uomo, che dopo il traviamento, ritorna in sé: questo è un esempio chiaro di conversione. La storia del figliol prodigo elaborata nell’intimità della carità di Cristo, rappresenta la storia di tutti i traviamenti; in queste narrazioni abbiamo la Parola di Dio che ci insegna quali sono le vie della conversione, qual è il suo processo ed a che cosa è orientato, ma nello stesso tempo mette in risalto i mezzi da adoperare per realizzarlo, così come abbiamo visto in questo paragrafo72.
8. IL MINISTERO DELLA CHIESA NEL CAMMINO DELLA CONVERSIONE Le pastorali così come sono state concepite da mons. Mario, non sono puramente dottrinali, tanto meno puramente teoriche, hanno mire tutte pratiche e se hanno cenni di dottrina e di teorie, li hanno non per se stessi, ma per la pratica. Ora esaminiamo qual è il ministero della Chiesa nel cammino di conversione che i singoli intraprendono. Dobbiamo subito affermare che, per il presule, Dio ci lasciò un rimedio infallibile contro lo stato di peccato: chi prega e persevera nella preghiera, traducendo nelle opere quanto domanda in essa, certamente si converte e si salva. Chi non avendo la fede o la forza e il coraggio di vivere in grazia, comincia a domandare la fede, la grazia e allo stesso modo e con le stesse disposizioni persevera, certamente si convertirà, rendendo certa la sua salvezza73. Le difficoltà nascono quando si tratta di ottenere la conversione degli altri. Il ministero della Chiesa è prezioso in queste circostanze e tutti coloro che per una ragione o per un’altra si adoperano per la salute degli altri sono 71 72 73
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Cfr. Il mistero della conversione, 148. Cfr. ibid., 149. Cfr. ibid., 124.
come l’infermiere che si presenta all’ammalato con lo specifico, affinché lo prenda e guarisca74. Il ministero della Chiesa riguardo al cammino della conversione consiste nell’adoperarsi per la salvezza delle persone, confidando sempre e illimitatamente, non nelle sue capacità, ma nella misericordia del Signore e nelle fondamentali tendenze verso l’ultimo fine che Dio pose così profondamente nell’uomo. Dio ha donato la sua vita per la conversione e la salvezza degli uomini, tale salvezza viene trasmessa dalla Chiesa alle generazioni seguenti, divenendo così essa stessa strumento di salvezza nel tempo; tuttavia Dio vuole che la carità cristiana non cessi mai di confidare nel lavoro di conversione delle persone75. Mons. Sturzo, mentre da una parte paragona l’apostolato dei cristiani circa la conversione al compito dell’infermiere d’altra parte considera pure il caso in cui il peccatore rifiuta l’azione di colui che si adopera per la sua salvezza. «Opponga rifiuti decisi l’ammalato, mostri di non tollerare le insistenze dell’infermiere; l’infermiere ha carità […] non risparmierà suppliche e pianti sinchè non avrà espugnata la fortezza di quella volontà ribelle […] Dio vuole che la carità cristiana e soprattutto quella sacerdotale non cessi mai di confidare nel lavoro di conversione delle anime, non cessi mai di sperare contro ogni speranza»76.
Alla luce di queste affermazioni tutti abbiamo una specifica responsabilità: cooperare alla proclamazione della Parola di Dio, che è sempre efficace in vista della propria e dell’altrui conversione. Questo è un compito che nasce in noi in quanto siamo Chiesa e tuttavia esige da parte dell’interessato uno stato di purificazione che si ha ravvivando la fede e intensificando le opere di carità e la preghiera. La missione di essere cooperatori di Dio e della Chiesa ci porta ad avere una particolare pietà verso il popolo traviato che diventa commozione, ansia, dolore. In questi casi è necessario confidare 74
Cfr. ibid., 125. L’azione principale nella conversione è di Dio, la collaborazione umana è in funzione di tale azione; ecco perché nell’apostolato della conversione degli altri l’attenzione e la speranza vanno posti nel progetto salvifico di Dio, nella sua volontà che desidera la vita degli uomini e offre a tutti la salvezza. La storia della Chiesa e la vita dei santi sono per noi un conforto e ci orientano in questa direzione. 75 Cfr. ibid., 125. 76 Ibid., 125.
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in Dio senza pensare quali parole dire ai fratelli traviati, né quale industria adoperare: sarà il Signore a farsi presente e a suggerire le modalità77. Questo compito di annunciare a tutti la conversione e la penitenza incombe sulla Chiesa e quindi su ogni battezzato. Mons. Sturzo invita in modo accorato la sua diocesi a condividere questo ministero che aiuterà gli altri a rientrare in se stessi e a ritrovare o incontrarsi con Dio, ma permetterà a quanti si adoperano a ciò di godere della salvezza, conformemente a quanto insegna s. Agostino quando afferma che chi procura la salvezza di un’anima mette al sicuro la propria. Il far propria la missione della Chiesa e il parteciparvi responsabilmente, amando la persona da convertire, fino a soffrire per la sua vita, sarà anche l’occasione per pervenire alla santità; come esempio porta quello di s. Agostino e della mamma s. Monica, la quale «Mentre impetrava al suo Agostino la conversione con il pianto, meritava per quello stesso pianto a se stessa la grazia della propria santificazione […] L’apostolato di lei che doveva rimanere come esempio in tutti i secoli della Chiesa […] cominciò proprio perché essa amava Agostino, non solo come figlio, ma come anima da salvare78.
In questo apostolato così importante sono necessarie due cose: confidare totalmente in Dio e riservare tutta la diffidenza verso le nostre capacità, dato che noi senza di lui non possiamo nulla; per cui il nostro ministero è soltanto strumentale nelle mani di Dio79. Mons. Sturzo definisce l’importanza di questo ministero, non solo per la Chiesa, ma anche per i singoli: esso è prezioso in vista del cammino di conversione dell’uomo. Come abbiamo avuto la possibilità di notare tale compito è affidato a tutti i battezzati, i quali rendono presente la carità stessa di Cristo, proclamando l’unica parola che salva e invita alla penitenza, al ritorno a Dio e alla fede. Afferma pure che chi annunzia la conversione deve essere un uomo convertito, con un conseguente stato di vita e di agire morale corrispondenti. Da queste brevi battute possiamo scorgere un’immagine di Chiesa tutta ministeriale, dove ognuno dei suoi membri ha il dovere di proclamare 77 78 79
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Cfr. La pecorella smarrita, 3-5. Ibid., 4-5. Cfr. ibid., 5-6.
la Parola, esercitando il munus profetico della vita cristiana; si delinea una concezione di Chiesa santa, ma composta da peccatori; santa e insieme bisognosa di purificazione, per cui essa stessa incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento prima di annunciarla e proporla agli altri80. La Chiesa così è in continua conversione, sia perché l’annuncia, ma anche perché la esige dai suoi membri; essa non solo porta avanti questo compito, in quanto inviata dal suo Signore, ma anche perché attenta ai bisogni del popolo; ha una preoccupazione tutta particolare verso i peccatori, che la porta a commuoversi e a rattristarsi, stimolandola sempre più a continuare nella sua missione, cooperando alla conversione degli altri con la carità, l’esempio e la preghiera, affidandosi totalmente al Signore per quanto riguarda le modalità per lo svolgimento di tale apostolato. Mons. Sturzo sente il peso dell’apostolato della conversione e della santificazione; è necessario badare non alla possibilità dell’umana incorrispondenza alla volontà salvifica di Dio, altrimenti l’apostolato perderebbe tutto il suo vigore e verrebbe meno; esso deve invece mirare unicamente ed esclusivamente alla generale capacità dell’uomo, alla sua tendenzialità finalistica verso il vero bene e alla disposizione alla corrispondenza, tenendo soprattutto presente l’infinita misericordia di Dio e la sua volontà salvifica illimitata ed universale81. Secondo il vescovo di Piazza Armerina nello svolgimento di questo ministero l’attenzione dev’essere rivolta al mistero di amore di Dio che vuole tutti salvi, piuttosto che alla reazione del soggetto da convertire. Gesù Cristo nell’attuare la volontà salvifica del Padre, con il suo sacrificio sulla croce, non tenne conto della incorrispondenza dell’uomo: nel Cenacolo disse che il calice che porgeva ai discepoli conteneva il suo sangue che versava per tutti, «perché voleva che fosse efficace senza limitazioni, pur sapendo che per tanti e tanti sarebbe rimasto inefficace per incorrispondenza»82.
Non è possibile neanche trascurare il dinamismo finalistico-processuale umano, che è impegno di ricerca intrinseco del bene assoluto e del fine ultimo, il quale è inerente alle condizioni della natura umana ed è l’ini80 81 82
Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, 8. Cfr. Il mistero della conversione, 126. Ibid., 126.
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zio di quel cammino che porta l’uomo a Dio; quest’ansia finalistica, universale avvertita sempre e da chiunque, è vanificata solamente dal disordine psichico, dalla disarmonia interiore: cioè dal peccato. Se guardiamo attentamente la storia della Chiesa, ci accorgiamo subito che i santi non hanno mai lavorato invano alla conversione dei peccatori, appunto perché essi erano animati da una profonda fede nella misericordia di Dio e nel suo progetto di salvezza e confidavano pure nella fedele corrispondenza dell’uomo83. Nella preparazione all’apostolato, ci si deve adoperare e inoltre bisogna lavorare per la formazione dell’ambiente propizio; esso, per il presule, costituisce, tanto per ragioni naturali che soprannaturali, quella che certi filosofi chiamano situazione di fatto, non come un antecedente in cui si trova tutta la ragione di una data determinazione della volontà, ma come ciò che precede e che con gli altri fattori storici e psicologici, concorre a disporre l’uomo verso una determinazione piuttosto che un’altra, ciò non in modo deterministico, ma libero84. La teoria della situazione si deve considerare nel suo valore strettamente psicologico, tenendo presente come l’uomo, pur non essendo libero, nella società in generale si muove secondo che l’ambiente è animato da queste o da quelle correnti di idee, di giudizi e di valutazioni tradizionali85. Il vescovo di Piazza Armerina mira ad ottenere un duplice fine: che sia dato all’attività pastorale un contenuto concreto, consistente, profondamente cristiano, solidamente storico; esso deve mirare non ai singoli ma alla collettività, a tutta la diocesi, per cui tale apostolato ha questo fine tanto in 83
Cfr. ibid., 127. Cfr. ibid., 128. 85 Cfr. ibid., 128. Nella pastorale L’educazione nelle sue ragioni supreme, 210-212, Sturzo aveva parlato abbondantemente dell’azione dell’ambiente e della sua importanza circa l’educazione dei singoli; lo stesso concetto viene usato per indicare quanto sia necessario fare riferimento all’ambiente se si vuole fare bene l’apostolato in vista della conversione. Lo studio dell’ambiente e la conseguente attività dell’uomo per formarsi una situazione ambientale favorevole alla conversione sono di primaria importanza, poiché creiamo la situazione di fatto che determina, liberamente, la volontà della persona circa le decisioni morali da intraprendere: infatti come l’ambiente malvagio condiziona negativamente le scelte dell’uomo, così come quello sano favorirà le scelte morali valide e la conversione degli interessati. Il cristiano per agire sempre secondo la volontà di Dio, per prima cosa deve resistere alla azione nociva dell’ambiente, poi formare se stesso secondo l’esigenza della propria vocazione: ciò renderà la coscienza sensibile al bene, intuitiva per vedere il bene da fare e il male da evitare, forte per resistere alle sue tentazioni. 84
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ordine alla santificazione delle persone e alla loro cultura, quanto in ordine alla conversione delle persone peccatrici o incredule. Questa finalità mira a creare nella diocesi l’ambiente solidamente cristiano che fa da situazione di fatto la quale, unita all’azione della grazia, produce i salutari effetti del risanamento di date collettività cristiane e l’elevazione generale del tono di vita della loro fede86. Il secondo fine a cui mira mons. Sturzo consiste nel dare all’apostolato, dalla conversione di chi non crede all’ultima elevazione mistica di chi ama, le situazioni di fatto che rendono agevole il lavoro verso tutti. Tale lavoro di formazione ambientale metterà le persone nella condizione propizia ad accogliere la grazia che il Signore comunica per mezzo dei suoi apostoli, quindi per mezzo della Chiesa, a misura che questo lavoro di apostolato collettivo sarà efficace e profondo e a misura che renderà la vita di quelli che si consacrano all’apostolato più coerente e più armonica tra il lavorare per la propria e l’altrui conversione e santificazione87. L’attività della Chiesa e quindi l’apostolato di ciascun cristiano, per mons. Sturzo, deve essere apostolato di luce e di calore, cioè apostolato mosso dalla fede e dall’amore e nello stesso tempo strumentale. Da noi abbiamo solamente la miseria e il nostro egoismo, però per la fede e per l’amore possediamo la potenza di Gesù Cristo, che parla per mezzo della bocca di chi lo annuncia, insegna per mezzo della parola di chi lo proclama. Così diventa chiaro quello che si afferma quando si dice che il nostro apostolato è strumentale; ed è tale quando la nostra abnegazione sarà costante, profonda e in continuo progresso, totale, e quando la nostra unione con Gesù è così stretta, la fede così viva e la carità così grande da meritare tali effusioni di grazie per mezzo del nostro apostolato, il quale ha assicurata la vera fecondità, l’efficacia e quella forza sovrumana che vince la resistenza umana e conquista anche le volontà più ribelli88. Quando l’apostolato della Chiesa ha queste caratteristiche ed è esercitato come opera strumentale in funzione del Cristo, allora si è creato l’ambiente e le situazioni di fatto di ordine soprannaturali, cioè si dà la possibilità alle persone bisognose di conversione di essere nelle migliori condizioni per accogliere in modo corrispondente la Parola di Dio, che invita alla conversione, alla salvezza e che genera santità89. 86 87 88 89
Cfr. ibid., 132. Cfr. ibid., 133. Cfr. ibid., 144. Cfr. ibid., 145.
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«Tutto questo s’intende benissimo, di tutto questo ci parla la storia della Chiesa, ci parlano le vite dei santi, ci parla la nostra esperienza. La conclusione di tutto questo è che, se noi vogliamo essere veri apostoli, dobbiamo essere veri mistici, dobbiamo aspirare agli alti gradi della mistica, dobbiamo farci santi»90.
Il presule di Piazza Armerina è convinto di non proporre cose eccezionali o di particolare straordinarietà, tanto da sgomentare i suoi diocesani. È consapevole di annunciare la grande misericordia di Dio che Gesù Cristo donò al mondo con la Redenzione. Per cui la vita cristiana è, e deve essere, santità; i cristiani, appunto perché tali, devono essere santi: diverse potranno essere le vite, le vocazioni, le modalità; ma unica è la sostanza e il progetto. La santità importa l’attuazione fedele dell’insegnamento di Gesù Cristo contenuto in quelle tre parole: abnegazione, croce, sequela. In queste tre parole si può racchiudere il cammino della conversione della Chiesa e di ogni suo singolo appartenente. È un itinerario che impegna l’uomo, coinvolgendolo pienamente in tutte le sue molteplici dimensioni e attività: «Niente orpelli, niente mezze misure, niente concessioni all’egoismo; crocefissione occorre, […] dell’uomo vecchio; perseveranza occorre nel cammino sino alle vette della santità che Gesù Cristo simboleggiò nel Calvario e nella Croce»91.
Concludendo possiamo dire che l’apostolato della Chiesa nasce dal suo stato di santità, esige santità per provocare la conversione degli altri.
CONCLUSIONE Secondo mons. Sturzo il peccatore, ma anche ciascun cristiano, è chiamato a lottare sempre per liberarsi dal residuo male, conseguenza del peccato originale; deve semplicemente, ma anche seriamente, prendere una decisione ed affermare: «desidero la conversione» e troverà in sé il 90 91
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Ibid., 145. L.c.
mezzo per poterlo fare. Questo mezzo è il giudizio della mente, aiutato dalla grazia di Colui che vuole non la morte, ma la conversione dei peccatori. È necessario abbandonare la considerazione che si fa sullo stato di affettività verso quei beni che sono vietati, mentre occorre riflettere sulla condizione di uomo, cioè di creatura dipendente dal Creatore, di viatore che cammina verso l’eternità. Alla luce di questa riflessione la decisione di intraprendere il cammino di conversione diventerà un comando tanto forte ed efficace da far vincere non solo quell’amore disordinato che lo legava al peccato, ma l’amore alla stessa vita; tutto ciò l’uomo lo può fare perché Dio gli ha dato la ragione e non negherà la sua grazia92. «Un amore si vince con un altro amore; l’amore disordinato con l’amore ordinato, l’amore delle cose temporali con l’amore dei beni eterni. L’uomo può darsi l’amore che vuole […] Se nel giudizio della mente lascia entrare la caligine delle passioni, egli vuole in un modo; se fa entrare […] la luce della fede vuole in un altro modo. Dato un amore, è dato il corteggio degli affetti corrispondenti»93.
Alla luce di questa riflessione, diventa una necessità per l’uomo intraprendere il cammino di conversione, il dare via libera al dinamismo spirituale umano che è finalistico e che conduce all’esperienza conoscitiva e contemplativa di Dio. Il mistero della conversione si riduce allora nel rientrare in se stessi, ascoltare Dio che parla, lì incontrarsi con il verso noi ed anche con Dio; consiste nello svestirsi dell’uomo esteriore, vecchio, deforme per il peccato, che cerca la felicità nell’amore disordinato delle creature, per dare spazio e vita all’uomo interiore, l’uomo nuovo, il quale ama innanzitutto Dio e ama le creature in e per Dio94. Da questo tipo di conoscenza esperienziale, intima ed essenziale, inizia la conversione nella sua variegata e molteplice dimensione: come attività demolitrice di tutto ciò che è male, peccato, non senso, in quanto allontana da Dio; poi come attività costruttrice, con i mezzi che Dio mette a 92 93 94
Cfr. Suggerimenti sul modo di dare l’orazione, 199. Ibid., 200. Cfr. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 90.
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disposizione, in modo da arrivare alla comunione piena e totale con Lui, sommo bene e sommo vero, nelle più alte sfere della santità. Chiaramente tale cammino di conversione è un mistero, opera di Dio che ci ha creati e ci vuole per sé, ma è anche opera dell’uomo perché risponde alle attrattive di amore di Dio. Questa esperienza tuttavia non deprime né mortifica la personalità umana, anzi la sublima, perché l’uomo si spoglia di sé per rivestirsi di Dio, non rinunzia ai beni caduchi e alla propria volontà senza farsi ricco dei beni imperituri e senza sostituire alla propria volontà manchevole, quella di Dio; l’umanità viene divinizzata e l’uomo viene reso “cristiforme”.
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CAPITOLO IV LA VERA CONOSCENZA DI DIO
1. LA VERA CONOSCENZA DI DIO Il tema che tratteremo in questo capitolo è una delle costanti nel pensiero di mons. Sturzo, in quanto filosofo, ma anche teologo. L’uomo, poiché è dotato di intelligenza e di volontà, è la creatura più nobile tra tutte le altre, ma ha in sé un desiderio inestinguibile e irresistibile di conoscere, che è paragonabile alla sete che lo stesso continuamente prova dopo essersi dissetato. Desiderio di conoscere se stesso, scoprire il fine della sua vita, il suo principio, il senso del suo esistere nella quotidianità, con i suoi aspetti positivi, ma anche con i lati negativi, quali la sofferenza, il dolore, la morte. L’uomo nasce filosofo, è filosofo per natura e come tale è alla ricerca perenne di sé e principalmente di ciò che spiega la sua esistenza: Dio, sommo e vero bene1; «la sua filosofia è la prima esigenza del suo essere, […] che lo spinge a rendersi conto dell’origine delle cose»2.
Il problema gnoseologico è essenziale ai fini dell’impostazione del problema della vita; la conoscenza di Dio è un problema singolare, nel senso che supera di gran lunga le capacità intellettive e intuitive della conoscenza dell’uomo; tuttavia Dio non è del tutto trascendente, perché non sorpassa la nostra capacità raziocinante; infatti se così non fosse, l’uomo non potrebbe dire nulla di Dio, né potrebbe conoscerlo, tuttavia egli arriva alla conoscenza di Dio. «La cognizione per fede non è un atto estraneo e contrario alla ragione. Se fosse estraneo non sarebbe cognizione; se fosse contrario sarebbe irrazionalità»3. 1 2 3
Cfr. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 65-66. Ibid., 21. Ibid., 17.
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Mons. Sturzo approfondisce molto il rapporto fede e conoscenza umana; la prima implica sempre una sproporzione tra il sapere di chi rivela e la capacità conoscitiva di colui a cui la rivelazione è diretta. Per il vescovo di Piazza Armerina si tratta di una sproporzione non di quantità, ma di qualità, di natura. La fede riguarda verità che l’uomo non può in nessun modo conoscere per via di percezione o di ragionamento. È anche vero che la Rivelazione contiene verità di ordine razionale o morale, di cui l’uomo ha contemporaneamente scienza e fede; tuttavia la fede vi reca un elemento nuovo, superiore e trascendente di cui la ragione è priva: la certezza assoluta che deriva non dalla ragione, ma da Dio che è l’assoluto4. Mons. Federico, riassumendo il pensiero sturziano su questo argomento, presente in diverse lettere, di cui una sintesi completa è nella pastorale La vita in Dio 5, afferma che per Sturzo Dio si conosce per una singolarissima opposizione di termini e di rapporti che non riguarda Dio. Una delle prime idee derivate per cui si inizia il processo della conoscenza di Dio è l’idea di proporzione, associata a quelle di principio e di conoscenza: ogni cosa che esiste ha un suo principio proporzionato; ogni effetto, e più in generale ogni fatto, ha una conoscenza proporzionata. Quando l’uomo arriva per via di riflessione all’idea di proporzione, vengono fuori anche l’idea di non principio e di assolutezza. Le idee di non principio, assolutezza, attualità, semplicità, domandano le idee di eternità, onnipotenza, onnipresenza, infinitezza, intelligenza, individualità e unicità6. La singolarità del processo della conoscenza di Dio risiede tutta nell’opposizione tra contingente e assoluto; conosciuta la contingenza del mondo, è conosciuta la sua relatività; questa conoscenza presuppone l’assoluto, cioè Dio. L’idea di contingenza è legata a quella di assoluto, l’idea di principio a quella di non principio, l’idea di tempo all’idea di eternità e l’idea di processo a quella di attualità pura. Questi non sono legami di pensiero in quanto puramente logico, ma di conoscenze reali per la logicità del pensiero7. Dio non si conosce solamente per via razionale; lo studio è una delle vie privilegiate per cercare e trovare la verità, ma non la sola; un’altra via 4
Cfr. ibid., 14-15. Cfr. La vita in Dio, 21-62. 6 Cfr. G. FEDERICO, Il vescovo Sturzo, cit., 37-38. L’autore in questo opuscoletto biografico su mons. Sturzo offre una sintesi del pensiero del suo maestro; in esso dedica un lungo paragrafo all’argomento che è oggetto di questo capitolo. 7 Cfr. ibid., 39-42. 5
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che è altrettanto privilegiata per arrivare a Dio consiste nel viaggio del nostro essere interiore. Così mons. Sturzo scrive ai suoi diocesani: «Lo studio che io indico come necessario e agevole a tutti è quello del catechismo e della storia sacra. Ogni altro studio trae la sua importanza dalle condizioni individuali dello spirito e dalle speciali circostanze della storia […] Tutti hanno bisogno sempre della vita interiore […] chi studia bene l’itinerario di questo tipico viaggio, crederà ad ogni passo di scoprire un nuovo mondo, avrà le più gradevoli sorprese, e, soprattutto, si convincerà che è negligenza imperdonabile non mettersi con tutta l’anima a studiare cosa tanto bella e interessante […] e necessaria»8.
Evidentemente non valorizza né condanna lo studio, che resta sempre una possibilità di pervenire alla verità, ma non è la vera via, che invece rimane la via interiore, accessibile a tutti. Questa ultima occasione, è presentata dal vescovo di Piazza Armerina, come cosa utile e necessaria. «Sicché per pervenire alla cognizione chiara e all’amore determinato di Dio, non occorre, come vorrebbero certi filosofi, fare il viaggio dell’altro mondo […]solamente occorre fare il viaggio del nostro essere interiore»9.
Abbiamo già avuto modo di constatare che la conversione conduce il singolo a rientrare in se stesso, a incontrarsi con sé e con Dio, il quale risiede nelle nostre più intime profondità. La conoscenza è un elemento fondamentale dell’identità umana; si direbbe che l’uomo sia nato, più per imparare che per scoprire o creare. Conoscere non è ricevere la conoscenza come cosa bella e fatta, che entra dall’esterno, ma è produrla10. Conoscere è un’attività faticosa per l’uomo, simile al viaggio che intraprende per spostarsi da un luogo all’altro; inoltre è un cammino lento e progressivo, che passa da verità a verità fino a pervenire alla conoscenza piena della verità: Dio.
8 9 10
La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, Prefazione, XIV-XV. Ibid., XVI. Cfr. La vita in Dio, 66-67.
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Per mons. Sturzo in questo cammino verso la comprensione della verità è necessario badare alla propria moralità; infatti «L’uomo che cerca la verità e non cerca la bontà; l’uomo che opera male e cerca la verità, si mette in condizione di non poter determinare il corso del suo pensiero, e d’essere dominato dal medesimo […] L’ordine morale della vita che pienamente non si attua che nella interiorità della medesima, dà alla mente la rettitudine del ragionamento non solo circa le verità razionali, ma anche circa le verità rivelate; l’ordine morale della vita dunque mena alla fede»11.
Quindi una vita moralmente retta conduce l’uomo, itinerante e ricercatore alla comprensione vera di Dio, della realtà umana e di ogni altra verità. Il vescovo di Piazza Armerina studia e offre ai suoi fedeli le diverse possibilità per giungere alla conoscenza di Dio. C’è un tipo di conoscenza che il soggetto riceve quando osserva attentamente la realtà creata. L’uomo nasce in un contesto sociale e familiare ben preciso; qui spesse volte, quasi ingenuamente e inconsapevolmente, riceve una conoscenza di Dio che dev’essere approfondita e maturata; anche la sua vita razionale e investigativa è una possibilità offerta all’uomo per conoscere Dio. Altre vie percorribili dall’essere umano per pervenire ad una conoscenza di Dio sono date dalla filosofia e dalla fede, che è conoscenza fondata sull’autorità di Lui che si rivela ed anche quando si manifesta all’anima. Conosciuto Dio, il resto va da sé, perché ciò corrisponde a conoscere noi stessi, la nostra origine da Lui, il nostro fine in Lui. Conoscere Dio corrisponde a conoscere l’uomo come viaggiatore, diretto verso l’eternità12. 11
La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, Prefazione, XIX-XXI. Cfr. ibid., IX. Appartengono a questa pastorale le definizioni originali che mons. Sturzo dà riguardo all’uomo; lo definisce come un «essere itinerante», tutto proteso verso la piena realizzazione di sé, verso l’eternità, caratterizzato da questa forte tensione finalisticoprocessuale che troverà il compimento nella dimensione escatologica. Nel corso di questa lettera offre un itinerario per raggiungere la meta del pellegrinaggio umano; è la santità come cammino per arrivare a Dio. In questo itinerario si trova ciò che l’uomo desidera e giudica irraggiungibile, cioè la possibilità di avere di Dio una conoscenza che sia immediata, sperimentale, simile a quella che lo stesso ha delle cose create ed anche superiore per immediatezza e certezza. 12
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2. LA CONOSCENZA DI DIO PER VIA DELLA CREAZIONE Per mons. Mario la conoscenza del mondo precede quella di Dio, perché Dio non l’ha visto mai nessuno, né è possibile vederlo nelle condizioni della vita presente, ma si perviene alla sua conoscenza per mezzo del ragionamento, come già abbiamo avuto modo di affermare. Egli così afferma: «Prima conosciamo il mondo, perché […] si vede con gli occhi, si percepisce con tutti gli altri sensi. E siccome presto ci accorgiamo che il mondo è relativo; così per virtù ragionante, […] presto conosciamo che esiste l’assoluto […] cioè gli uomini conoscono Dio, perché […] si fece manifesto […] per mezzo delle cose create, le quali […] ben comprese ci fanno in certo modo vedere le cose invisibili, la sempiterna virtù di Dio e la stessa divinità»13.
Usando queste espressioni, fa riferimento esplicito a s. Paolo che parlando dell’azione creatrice di Dio afferma che è una sua prima rivelazione all’umanità, per cui gli uomini potevano riconoscere e contemplare le perfezioni divine invisibili attraverso le sue opere e così poter dare gloria a Dio14. Appena l’uomo arriva alla conoscenza di Dio, ritornato col pensiero alle cose visibili di questo mondo, non certo facilmente, ma dopo attenta riflessione, scopre che il mondo non ha potuto avere altra origine che per via di creazione. Egli perviene al concetto di creazione con molta difficoltà; per cui si rende necessario precisarlo e soprattutto superare la nozione volgare di causalità. Nel mondo, infatti, non ci sono solamente cause che producono effetti analoghi alla loro stessa natura, ma ci sono altre attività che possono, 13
La vita in Dio, 32-33. Rm 1,20-22: «Infatti dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, purché pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili». 14
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in senso volgare, chiamarsi cause, ma che agiscono in modo più alto e diverso; un esempio a tale proposito ci è dato dall’uomo che inventa la macchina, questi è causa della macchina, ma la natura della macchina è diversa da quella dell’uomo15; «nelle cose che l’uomo crea col suo pensiero, non c’è veramente il pensiero, ma c’è come la sua orma […] il suo vestigio, che non si scopre coi sensi, ma con lo stesso pensiero»16.
Il pensiero dell’uomo è un miracolo di natura, come la chiave che schiude i segreti della stessa natura, che investe di sé tutte le cose che l’uomo intuisce ed arriva alla scoperta di ciò che sfugge ai sensi. Il pensiero, però, per scoprire, creare ed agire ha bisogno di una realtà esistente perché ad esso manca la potenza di produrre dal nulla le cose che crea e solamente allora l’uomo sarebbe creatore in senso vero e proprio, se potesse produrre i suoi lavori con un semplice cenno del suo pensiero. Diversamente, di Dio possiamo affermare che non crea il mondo né da una materia preesistente, né per emanazione del proprio essere: cioè Dio non è una causa simile alle altre che agiscono nel mondo. «Se di causa si vuole parlare, trattando di Dio, occorre concepire la causalità divina in modo molto più elevato e molto più spirituale»17.
Quando Dio ha voluto creare il mondo, al di fuori di Sé non esisteva nulla; la sua parola fu il cenno del suo pensiero; infatti Dio non pensa come fa l’uomo, perché quest’ultimo per pensare ha bisogno che qualcosa esista. «e fa pensiero dopo pensiero, perchè non è eterno, ma temporale, non simultaneo, ma successivo»18.
L’uomo crea perchè pensa, ma non manipolando il suo pensiero e mettendolo tale e quale nelle cose. Il suo pensiero, come atto del suo spirito, è inseparabile da esso ed è incomunicabile, perché crea le cose, 15 16 17 18
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Cfr. La vita in Dio, 33-35. Ibid., 37. Ibid., 37. Ibid., 38.
restando pensiero dell’uomo, non trasmissibile, ponendo nelle cose solamente la sua orma, perchè se fosse comunicabile, l’uomo non creerebbe poemi o macchine, ma genererebbe un altro se stesso19. Dio crea nel senso più proprio della parola, producendo le cose non da una materia preesistente, non dal proprio essere, ma dal nulla; Egli crea per un atto del suo pensiero. La creazione dal nulla è una conoscenza assolutamente certa, perché è certo che il mondo esiste e che non è un Dio e che esistendo il mondo relativo, esiste Dio assoluto; ed è pure certo che il mondo non potendo nascere dal nulla senza l’intervento di Dio fu creato dallo stesso Dio e dal nulla. Creare dal nulla è un atto di onnipotenza e quindi è proprio di Dio. «Per pensare che facciamo non arriviamo a comprenderlo, però comprendiamo benissimo che è un atto di onnipotenza, giacché solo Colui che tutto può, poté fare ciò che, superando tutte le potenze limitate, rivela una potenza illimitata»20.
La conoscenza della contingenza del mondo ci ha condotti a quella di Dio come assoluto, eterno e avente tutte le perfezioni. La via per arrivare alla conoscenza dell’esistenza di Dio, della sua assolutezza, infinitezza, eternità, onnipotenza da cui si desume pure la sua pura attualità è proprio questa. A questo punto possiamo dire che la lettura fenomenologica della realtà è una via privilegiata per arrivare a Dio quale creatore e signore di tutto il creato. Mons. Sturzo si sofferma a parlare molto del concetto di contingente, come chiave di lettura per pervenire alla conoscenza di Dio per via filosofica. La contingenza del mondo ci conduce alla conoscenza di Dio come assoluto; essa indica pure principio; prima che il mondo fosse creato non c’era; per cui la temporalità del mondo ci porta alla conoscenza dell’eternità di Dio. «Affermare l’eternità di Dio, è affermare che Dio non deriva da altro essere; […] che […] ha in se stesso la ragione del suo essere […] ha tutte le perfe-
19 20
Cfr. ibid., 38-39. Ibid., 39.
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zioni […] Con ciò abbiamo affermato che Dio è onnipotente, perché se non fosse tale, gli mancherebbe una perfezione, e non sarebbe Dio»21.
Il concetto di contingenza del mondo e la sua conoscenza sono utili anche per arrivare a quello di creazione dal nulla, in quanto, prima che il mondo esistesse c’era solamente Dio, il quale per la costruzione del mondo non aveva a sua disposizione nessun altro elemento, per cui fu creato dal nulla22. Nelle creazioni dell’uomo, diverse da quelle di Dio, troviamo viva l’orma del suo pensiero, tanto da giudicare con certezza che esse non nacquero da cause analoghe alle medesime, ma per l’attività del pensiero umano. Analogamente considerando le cose create, benché in esse non scopriamo alcun elemento che sia divinità, vi possiamo trovare l’orma della divinità, tanto che ciò ha fatto dire ai filosofi che nel mondo troviamo la somiglianza, scopriamo l’esistenza e la natura di Dio23. Se questo lo possiamo affermare di tutta la creazione, a maggior ragione lo possiamo applicare per una creatura, che è la più nobile di tutto il creato: l’uomo; dalla Rivelazione sappiamo che questi fu fatto ad immagine di Dio, per cui almeno l’uomo deve avere una qualche somiglianza con Dio. «I Padri […] dicono che si tratta di somiglianza morale, nel senso che l’uomo non è come tutti gli altri esseri che o non sentono o, sentendo, non pensano, ma è pensante e volente, cioè conoscente, e quindi in certo modo, benché infinitamente diverso, paragonabile a Dio»24.
Tuttavia, nel mondo conosciamo l’infinitamente diverso da Dio e in esso soltanto vi scorgiamo quasi l’orma del suo pensiero; così come scopriamo l’orma del pensiero umano nelle sue creazioni. Tra le due letture possibili che possiamo fare c’è una notevole differenza: le creazioni dell’uomo ci rivelano il loro autore quasi in modo immediato perché conosciamo l’uomo; la creazione di Dio non ci fa conoscere il suo autore con la stessa immediatezza, perché non conosciamo a priori 21 22 23 24
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Ibid., 40. Cfr. ibid., 40. Cfr. ibid., 41-42. Ibid., 43-44.
Dio. Per cui coloro che affermano di arrivare a Dio per via della somiglianza delle cose create da Lui, non dicono una cosa vera, perché tra il mondo e Dio la differenza è infinita25. Per giungere alla conoscenza dell’infinito occorre prendere le mosse dalla considerazione della contingenza e relatività del mondo, che impone il concetto di principio, come anche della lettura attenta della realtà creata26. Conosciamo Dio e ne parliamo, tuttavia tale conoscenza è incommensurabilmente lontana dalla sua realtà infinita. Più di Dio pensiamo, più scopriamo che è infinitamente diverso da come lo pensiamo, più ci sentiamo smarriti nella sua infinita grandezza e nelle sue perfezioni, più cresce l’ammirazione e il bisogno di avere di Lui migliore conoscenza. Possiamo affermare che la conoscenza di Dio attraverso la lettura del suo operato nel creato, è una via che conduce l’uomo alla conoscenza del mistero, ma siamo di fronte sempre ad una conoscenza inadeguata dello stesso Dio27. Nell’uomo c’è un processo tendenziale-finalistico, che è naturale, tutto proteso alla conoscenza di Dio, scaturisce dalla sua stessa realtà, poiché egli è dotato di intelligenza e quindi capace di conoscere la realtà creata che lo circonda; si rende conto che le cose create cominciano e finiscono, nascono e muoiono. Egli, riflettendo e pensando, si accorge che il mondo è immensamente grande, bello; si rende subito conto che si trova davanti ad un sistema perfettamente armonico ed ordinato. Questo approccio diretto, a carattere esperienziale, con la realtà genera un tipo di conoscenza che è inconfutabile ed anche evidente, desta nello stesso uomo sentimenti di ammirazione, stupore, meraviglia. Accanto a queste sensazioni, nell’uomo sorgono in modo sempre naturale e spontaneo, interrogativi profondi, fondamentali, inquietanti, perché esigono una risposta e mettono in movimento la sua capacità razioci25
Cfr. ibid., 44. Cfr. ibid., 45. 27 Cfr. ibid., 45-46. La conoscenza che l’uomo può avere di Dio, qualunque sia il metodo seguito, sarà sempre inadeguata, perché Dio è il totalmente altro ed il suo mistero è infinitamente profondo e grande, per cui l’uomo, con le sole sue capacità, non sarà mai in grado di comprenderlo; per arrivare ad una conoscenza adeguata di Dio, dovrebbe avere le stesse qualità divine, ciò è assurdo e impossibile. La conoscenza piena di Dio l’uomo la possiederà nella dimensione escatologica della vita. Il vescovo di Piazza Armerina parla spesso della vita di beatitudine che si avrà in cielo. 26
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nante. Tutto questo dinamismo interiore conduce l’uomo a ricercare l’autore delle meraviglie del creato, poiché non possono essere frutto del caso; se altri non lo possono aiutare in questa ricerca, egli stesso deduce che la creazione è opera di un essere molto più perfetto, molto più bello, molto più sapiente e potente degli uomini ritenuti sapientissimi e potentissimi28. L’uomo è così portato a fare tutto un ragionamento induttivo: dallo studio e dall’analisi del dato creaturale perviene al suo autore e può anche affermare che questi gli deve essere certamente superiore, in quanto si accorge che egli non può tutto, anzi tutto nel mondo lo limita; si rende conto che non tutti gli uomini sono giusti; scopre la presenza delle malattie come fattore limitativo delle sue attività e, finalmente, si accorge che la morte in lui annulla ogni cosa, compreso il suo essere29. L’uomo è come se salisse, per queste ed altre ragioni, di pensiero in pensiero, fino a quello ultimo di un essere il quale, come ha fatto il mondo e se ne prende cura, così si preoccupa ed ha pietà di chi è debole, infermo, angariato, perseguitato, oppresso. Alla luce di queste considerazioni nasce spontanea la preghiera di lode, quella invocatrice e propiziatrice. Per questa via e per altre simili l’uomo perviene alla prima conoscenza di Dio, la quale «Se ha un immenso valore, perché risolve il primo e più interessante dei problemi della vita, non è ancora la cognizione chiara e distinta, ma semplicemente un abbozzo, va soggetta a molte deformazioni, come avvenne nell’antichità, prima che Gesù Cristo recasse la luce della Rivelazione, la peggiore delle quali deformazioni fu l’ammettere molti dei»30.
Questo tipo di conoscenza non è impossibile all’uomo, al quale non gli si chiede di scavalcare la realtà presente, per inoltrarsi in un’altra di gran lunga superiore alla precedente; è sufficiente che rientri in se stesso. La contingenza della realtà, ma soprattutto quella umana, lo condurrà alla conoscenza di Dio. «Questa è […] la via dell’intelletto […] la più agevole […] la più universale. Non è però la sola perché i nostri rapporti con Dio non sono […] di pura logica mentale, ma sono rapporti più complessi, più pieni, più essenziali […] 28 29 30
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Cfr. ibid., 23-25. Cfr. ibid., 24-25. Ibid., 25.
Tutta la natura ci parla di Dio […] con un linguaggio così caratteristico che è impossibile non intenderlo, è solo possibile fraintenderlo […] Il Dio che si scopre badando solo al linguaggio della natura, è un Dio esteriore, o al più, […] che tocca l’interno dell’uomo solo come cosa da temere o da propiziare a fini egoistici. Questo fraintendimento si evita solo quando col linguaggio della natura si bada al linguaggio del nostro essere più profondo, alle parole che scaturiscono dalle profondità più riposte dell’anima»31.
3. LA
CONOSCENZA DI
DIO
RICEVUTA DALL’AMBIENTE E DALLA NATURA
UMANA
Abbiamo visto la conoscenza di Dio per via di creazione; continuiamo a presentare altre possibili opportunità offerte all’uomo per conoscere Dio; a questo punto è necessario fare diverse distinzioni; noi abbiamo una conoscenza di Dio che l’individuo riceve dallo stesso ambiente in cui è inserito. Nelle famiglie cristiane la prima conoscenza di Dio viene suggerita dagli stessi parenti quando per esempio, al bambino che comincia a mostrare di comprendere, si fanno giungere le manine, piegare le ginocchia e gli si mormora dolcemente il nome di Dio. Il bambino riceve tante espressioni come cose vive di tutta l’esperienza di fede e di amore che scorge nella persona dei genitori; egli avverte l’influsso benefico di queste parole per la fede che ha ricevuto con il battesimo. Sente tutto questo che quasi corrisponde a una generazione a nuova vita32. «L’educazione dei primi anni, sia fisica, sia morale e religiosa, è come una seconda generazione […] tutta l’azione dell’ambiente fisico e morale determina nel bambino tali acquisizioni e sistemazioni di corpo e spirito»33
le quali, anche se l’ambiente muta o se gli anni passano non cambieranno più o muteranno soltanto in modo superficiale. 31
La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 26-27. Cfr. La vita in Dio, 21-23. Mons. Sturzo parla abbondantemente, in quasi tutte le sue pastorali, dell’educazione religiosa e morale dei fanciulli da parte dei parenti; questo tema è dominante in: L’educazione nelle sue ragioni supreme; La maternità apostolato; La vocazione. 33 Ibid., 22. 32
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«Si suol dire che i genitori trasmettono col sangue anche le loro tendenze morali ordinate o anche disordinate […] le trasmettono col fatto della convivenza familiare […] o se vogliamo parlare in modo più preciso, con le parole della vita»34.
La natura umana è dotata di una tendenzialità finalistica. Mons. Mario afferma che ciò che è naturale nell’uomo è la tendenza ad amare il bene. Ora un legame che è in lui naturale e primario è quello che l’unisce ai genitori; infatti «Il bambino che apre gli occhi alla luce di questa vita, nascendo sente, prima ancor che si desti la ragione, questa tendenza e questo legame […] Di Dio bisogna parlare ai bambini sin dai loro primissimi giorni […] Appena la loro sensibilità si eleverà di tono e lascerà scendere nel cuore qualche lampo di intelligenza, le prime nozioni di Dio si imprimeranno nello stesso cuore con tanta soavità e forza»35.
Il bambino fin dalla sua nascita, quando ancora con la sua mente non è capace di pensare a realtà così alte e spirituali, sente parlare di Dio e ha una prima conoscenza del mistero divino, che gli viene trasmessa dalle parole, ma principalmente dall’esempio e dalla vita dei genitori e quindi dall’ambiente familiare, come anche dalla società, dato che ogni individuo nasce, cresce ed è inserito in un contesto sociale. Accanto a questa conoscenza iniziale di Dio che si riceve, quasi inconsapevolmente, ma sempre in modo determinato, dall’ambiente familiare e dalla società, abbiamo un’altra maniera di conoscere Dio: la conoscenza naturale che è la base per la fede nello stesso Dio, dato che la fede è atto di ragione, anche quando il suo contenuto è il mistero. Ammettiamo il caso in cui il bambino nasce e cresce in un ambiente familiare e sociale completamente indifferente al fenomeno religioso e quindi non riceve nessuna istruzione sul mistero di Dio; ugualmente questi potrà pervenire alla comprensione di Dio. La prima conoscenza di Dio viene acquistata per lavorio della ragione, per una legge del pensiero che è fondamentale. Questo modo di conoscere Dio è un procedimento naturale e spontaneo nell’uomo36. 34 35 36
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La vocazione, 298. Ibid., 297. Cfr. La vita in Dio, 23.
Per mons. Sturzo se l’uomo può per qualche tempo ignorare Dio, non può ignorare che è una coscienza che giudica del bene e del male delle proprie e altrui azioni. I primi contatti con la propria coscienza corrispondono ai primi rapporti con Dio, perché questi abita in essa e parla per suo mezzo tanto che le voci più profonde della medesima sono la stessa voce di Dio che si rivela. L’uomo non può rimanere tutta la vita nell’ignoranza di Dio, perchè non può rimanere estraneo alla sua coscienza o indifferente quando in lui si desta l’ansia della prima origine delle cose e di se stesso, del suo fine; in quest’ansia è la prima rivelazione che Dio fa di sé all’uomo. Ascoltare queste prime esigenze personali, interiori, corrisponde a fare attenzione ai primi elementi e ai presupposti che conducono l’uomo ad avere una comprensione possibile di Dio. Interrogarsi sui fini e sulla realtà dell’uomo, come anche ascoltare la voce della coscienza, sono aspetti che mettono in movimento il soggetto e lo avviano alla conoscenza di Dio37. Dio ha creato l’uomo e ha posto in armonia le sue facoltà, tanto da rendergli agevole il conseguimento dell’ultimo fine che è la salvezza; ciò significa che ha messo la via che porta alla conoscenza di Dio non fuori, ma nello stesso uomo. Gli rese possibile una conoscenza della somma verità così chiara e certa da non fare desiderare maggiore certezza; soltanto volle che questa certezza crescesse con la corrispondenza dell’uomo e che la conseguisse non come diritto o merito, ma come il maggior dono di Dio. Nello spirito dell’uomo, che è l’interno del suo essere, ci sono gli elementi di natura e Dio vi pone quelli di grazia, per mezzo dei quali in lui si attua un processo che è uno svolgimento, un cammino della mente, una elevazione del cuore che conduce alla conoscenza di Dio, a quella di sé e al raggiungimento della pienezza di vita, alla salvezza38. Questo processo corrisponde a quanto mons. Sturzo definisce «itinerario», «viaggio», poiché è un passaggio da verità a verità, fino ad una conoscenza della verità che faccia paga pienamente la mente e renda pienamente operosa nel bene la volontà; in questo viaggio la guida è tenuta da Dio. Egli afferma chiaramente non solo la presenza di Dio in questo cammino, ma anche la sua azione determinante:
37 38
Cfr. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, Prefazione, X-XI. Cfr. ibid., XII-XIV.
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«Subito aggiungo a conforto di tutti, […] che in questo singolare viaggio noi non siamo soli, perché con noi c’è lo stesso Dio che ci guida e sorregge e non ci abbandona mai, e ci incita sempre ad andare avanti, e quando noi stoltamente prendiamo la via del male, tra gli altri mezzi, si serve del rimorso della nostra coscienza per richiamarci sulla via del bene»39.
Il vivere secondo i dettami della coscienza, corrisponde al viaggio di cui parla il vescovo di Piazza Armerina, ed è anche il primo passo, che provoca tutti gli altri, verso la conoscenza di Dio. «Fatto però questo primo passo, gli altri vengono come conseguenza logica […] come esigenza dello stesso essere, perché l’uomo è fatto per Dio, tende a Dio, non può avere pace e felicità che in Dio»40.
Per pervenire alla conoscenza chiara di Dio e per fare esperienza della sua realtà, diventa condizione indispensabile intraprendere il viaggio del nostro essere interiore; dobbiamo precisare un concetto fondamentale in questo discorso: la conoscenza di Dio è possibile perché Dio ce ne rende partecipi e perché Egli è in noi; se non fosse nella nostra mente e nel nostro cuore, ogni speranza di conoscerlo e di amarlo sarebbe vana41. «Noi non conosceremmo Dio, se non l’avessimo conosciuto prima di conoscerlo, non l’ameremmo, se non l’avessimo amato prima di amarlo. Noi, dicono gli scolastici, conosciamo Dio conoscendo la verità, amiamo Dio amando il bene, perché Dio è la prima verità e il primo bene; solo è da aggiungere […] che questa prima cognizione è oscura, questo primo amore indeterminato: Sicché […] occorre fare il viaggio del mondo del nostro essere interiore»42.
Il procedimento di cui stiamo parlando, definito da mons. Sturzo «itinerario verso Dio», non sempre sortisce l’effetto sperato circa i singoli individui: sempre lo ottiene, invece, circa la società: infatti se ci sono persone che non hanno una conoscenza reale, essenziale e minima di Dio, non c’è popolo 39 40 41 42
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Ibid., XIV. Ibid., XII. Cfr. ibid., XV. Ibid., XV-XVI.
e nazione privi del tutto di questa conoscenza, forse in modo distorto, incompleto, inadeguato, ma è sempre una essenziale conoscenza di Dio43. Questo viaggio del proprio essere interiore conduce la persona ad ascoltarsi, a saper leggere e studiare le sue ansie di conoscenza e di volontà: abbiamo così un altro tipo di conoscenza di Dio44. Il presule di Piazza Armerina parla abbondantemente della dimensione interiore dell’uomo come possibile via per giungere a Dio. Tutto ciò corrisponde a quanto ha insegnato il grande filosofo e teologo Agostino, che per giungere a Dio più che dell’argomento della contingenza, si serve di quello delle leggi dello spirito umano; «egli dice all’uomo che cerca la verità: non uscir da te, ma rientra nel fondo del tuo essere perché ivi abita la verità»45.
Chiediamoci pure come l’uomo giunge alla conoscenza della verità e quali sono i presupposti che lo conducono a pervenire a questo dato. Per mons. Sturzo, noi conosciamo il procedimento che ci conduce alla conoscenza, il quale ci parla di Dio, perché in esso c’è un elemento che sorpassa la pura capacità della mente: questo elemento è la nota caratteristica della verità. A superare noi stessi, a trascenderci, ci spinge la stessa attività conoscitiva, ci stimola la verità che è nostra, ma è superiore a noi; che deriva dall’attività della nostra mente, ma nello stesso tempo la domina. Possiamo affermare che la verità che è frutto della nostra attività conoscitiva, cioè non proviene dalle nostre idee, pone in noi due termini: quello della nostra contingenza che è dipendenza e temporalità e quello della assolutezza che non è nostro, ma è in noi, non come attributo del nostro essere, ma come cognizione che domanda ulteriore conoscenza, che corrisponde alla conoscenza di una verità che non sia pura idea, ma realtà, personalità: questa entità è Dio46. 43
Cfr. La vita in Dio, 23. Cfr. ibid. 45 Ibid., 28. 46 Cfr. ibid., 31-32. In questa lettera, come in tante altre, il vescovo di Piazza Armerina propone la vita interiore come via per arrivare ad una conoscenza di Dio e a quella di noi stessi. È un innamorato lettore di s. Agostino, per cui suggerisce la prova psicologica: Dio va cercato dentro di sé, per cui è necessario scendere nelle profondità più riposte dell’essere, guidati sempre dallo stesso Dio; soltanto così incontriamo Dio; questa è anche la conditio sine qua non per incontrarlo anche fuori di noi. 44
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L’esame del processo conoscitivo, che è una caratteristica propria della realtà umana, è un’altra possibilità offerta all’uomo per pervenire alla conoscenza della verità oggettiva e reale di Dio. Per seguire questo itinerario e per essere certi di pervenire alla verità, è necessaria una condizione: saper rientrare in se stessi e far attenzione a certe voci che appartengono alle profondità dell’essere benché non derivino da lui; queste rivelano la relatività della creatura umana, la sua temporalità e limitatezza ontologica: caratteristiche proprie dell’uomo che esigono l’esistenza di un essere che sia di segno totalmente opposto, con il quale egli possa rapportarsi47. «Noi possiamo intendere il muto linguaggio dei cieli, […] la parola della Scrittura solo quando intendiamo la parola profonda del nostro essere […] L’uomo che si raccoglie in se stesso […] trova Dio, lo trova bensì nel pensiero, ma sopra del pensiero […] lo trova fuori di tutto ciò che è spazio […] come cognizione, come verità […] come esigenza che non fallisce al suo termine»48.
4. LA CONOSCENZA DI DIO PER VIA FILOSOFICA La conoscenza di Dio nasce con l’uomo, poiché appena comincia a riflettere sulla realtà creata, scoprendone la contingenza, direttamente è portato a scoprire l’Assoluto. Alla cognizione di ciò che non cade sotto i nostri sensi, come sono lo spirito e Dio, si arriva per via di ragionamento; infatti per il presule di Piazza Armerina «[…] il ragionare è la prerogativa più bella della mente umana. Però, siccome l’uomo è un essere limitato, così il suo ragionamento non è immune dall’errore»49. Per mons. Sturzo, le voci della coscienza non appartengono al soggetto, anche se sono in lui, ma sono la voce stessa di Dio; esse fanno conoscere la relatività dell’esser umano, che rimanda, di conseguenza alla verità, all’assoluto: Dio. Quanto viene affermato in questa lettera a proposito della coscienza e della sua funzione nella vita morale del singolo sembra anticipare quanto verrà affermato dalla dottrina conciliare del Vaticano II e specificatamente Gaudium et Spes 16: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale deve invece obbedire […] La coscienza è il nucleo segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nella intimità propria […]». 47 Cfr. ibid., 33. 48 Ibid., 36. 49 La vita in Dio, 49.
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La verità che appaga pienamente le ansie del nostro spirito è certamente Dio; «Quando arriviamo alla cognizione di Dio, tutto si fa chiaro attorno a noi […] Prima è la cognizione di Dio, poi la negazione; la cognizione di Dio è una scoperta a cui arriva naturalmente il pensiero, è ordine, la negazione di Dio è un errore a cui si arriva per ragionamento vizioso»50.
Per mons. Sturzo è importante arrivare alla conoscenza di Dio, perché implicitamente comporta la comprensione della realtà. Nell’ordine delle idee che l’uomo si forma, prima viene la conoscenza di Dio, alla quale perviene grazie al processo tendenziale-finalistico, poi c’è la sua negazione, che corrisponde ad un errore commesso dal soggetto pensante, in quanto ontologicamente limitato. Per pervenire alla conoscenza di Dio è necessario avere un atteggiamento caratteristico che è l’umiltà; questa è come una via che conduce a Dio perché porta alla verità, mentre l’orgoglio, che è l’atteggiamento opposto, la fa smarrire. Coloro che negano Dio si reputano essi stessi tanti dei, perché sono orgogliosi. Lo studio di per sé non porta alla negazione di Dio, ma alla sua conoscenza; quando è fatto male, con l’orgoglio nel cuore, potrebbe condurre alla negazione di Dio51. Per mons. Mario è una sventura accontentarsi di una conoscenza superficiale di Dio e non curarsi di renderla più profonda e completa. È un dovere per l’uomo conoscere Dio e crescere sempre più in questa dimensione; infatti non si stanca mai di studiare se stesso ed il mondo, perché questi hanno misteri che non si finirà mai di scoprire e di penetrare fino in fondo; a maggior ragione quanto detto vale per Dio: «È un dovere più alto, perché è la ragione di tutti gli altri doveri, non stancarci mai di studiare Dio, che è il principio e il fine di tutte le cose, e sopra tutte le cose, è il nostro primo principio e il nostro ultimo fine. Colui che dà senso al mondo e a noi stessi, che solo ci può fare beati nel tempo […] e felici […] nell’eternità»52.
50 51 52
Ibid., 50-51. Cfr. ibid., 51-52. Ibid., 53.
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Mons. Sturzo ha una visione positiva ed ottimistica della capacità speculativa dell’uomo: è un elemento naturale posto da Dio per pervenire al dato della fede e quindi per scrutare il mistero di Dio. La prima conoscenza di Dio, acquistata per virtù del buon senso, è molto imperfetta, però è la base di quella meno imperfetta, che il presule chiama «filosofica». Più imperfetta l’una, meno imperfetta l’altra e nessuna perfetta nel senso pieno della parola, dato che l’uomo è limitato per natura e si trova di fronte ad un essere, Dio, che non ha limiti; l’uomo relativo in rapporto a Dio che è assoluto; l’uomo imperfetto e dall’altra parte Dio che è perfettissimo. Per avere una conoscenza adeguata alla realtà che si vuole conoscere e nello stesso tempo se si vuole che sia perfetta, occorrerebbe avere tutte le perfezioni divine, cioè si dovrebbe essere tanti dei53. L’uomo, poiché è dotato di intelligenza, ha l’indomabile bisogno, che è anche un dovere, di conoscere l’origine delle cose ed il loro fine, per cui non può rassegnarsi di fronte alla grandezza del mistero, ma è spinto sempre ad investigare e ad andare oltre nella comprensione. «E benché non tutti gli uomini siano in grado di studiare filosoficamente questo che è il problema dei problemi, tutti sono in grado di comprendere almeno la parte essenziale dei ragionamenti filosofici circa Dio»54.
In ciò l’individuo è aiutato dalla fede, che è necessaria tanto all’ignorante, quanto al sapiente: tuttavia questa non esclude un qualche lavoro da parte della ragione, anzi lo domanda poiché la fede è atto razionale, è un dono che, per il vescovo potrebbe perdersi se non lo si custodisce con l’istruzione55. Ma come si arriva alla conoscenza di Dio per via di ragionamento filosofico? Secondo mons. Mario l’uomo da sé si rende conto di una grande verità: dal nulla non si ricava nulla e se qualche cosa avviene ci dev’essere qualcosa che l’ha prodotta. Così si esprime: «La scoperta che dal nulla non nasce nulla è una delle prime e vi si arriva molto presto, anche negli anni dell’infanzia […] Guardando, per esempio la terra, il mare, il sole, le stelle, nasce spontaneo il pensiero che non si fecero 53 54 55
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Cfr. ibid., 26. Ibid., 27. Cfr. ibid..
da sé, e che invece dovette farle un altro che esisteva prima che il mondo fosse […] chi lo fece? Ecco la domanda che gli uomini naturalmente si fanno; alla quale, se altri non risponde, risponde il loro pensiero, che dice che dovette farle un essere molto più perfetto, molto più bello, molto più potente e sapiente degli uomini»56.
A questo punto possiamo affermare che, data l’esistenza di un solo essere relativo, è data con la più sicura certezza l’esistenza dell’assoluto, cioè Dio57. Noi parliamo di «assoluto» e di «relativo», cerchiamo ora di precisare i concetti che stanno alla base di questo ragionamento, alla luce stessa del pensiero sturziano. Il relativo è l’essere che per esistere e durare ha bisogno di altri esseri, non basta a se stesso; dato che l’uomo non è autosufficiente e per esistere e durare nel tempo ha bisogno di una causa, quindi possiamo affermare che è relativo. L’assoluto è l’essere che non ha bisogno di nessuno, perché basta a se stesso: solamente un essere possiede queste condizioni: Dio. Inoltre quando diciamo «assoluto», parliamo di un soggetto che non dipende da nessuno né per vivere ed essere felice, né per esistere; con ciò indirettamente affermiamo che l’assoluto è eterno, perfettissimo, infinito, che tutto ha in sé e da sé, da essere infinitamente felice, fonte di felicità e di ogni bene. Se esiste il relativo, deve necessariamente e certamente esistere l’assoluto; conseguentemente giacché esiste il mondo certamente esiste Dio; mentre se esiste l’assoluto, cioè Dio, non è necessario che esista il mondo, poiché è relativo58. «Però, esistendo il relativo, come di fatto esiste, è certo che esiste l’assoluto. Il che significa che esistendo il relativo che come temporaneo ebbe principio, certamente esiste l’assoluto come eterno, cioè senza principio. L’esistenza del mondo dunque mena alla scoperta di un essere che è stato sempre e ci sarà sempre, anche se il mondo cessasse di esistere»59.
56 57 58 59
Ibid., 24-25. Cfr. ibid., 28-29. Cfr. ibid., 29-30. Ibid., 31.
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Mons. Sturzo propone la dimostrazione filosofica dell’esistenza di Dio, usando i concetti di assoluto, contingente, temporaneo, eterno, perfetto, imperfetto. Il mondo, essendo relativo, ha avuto principio: se ha avuto principio ci è stato chi lo ha fatto, dato che prima che fosse fatto non esisteva. Quindi ammesso il relativo, è certo che esiste l’assoluto. Così non affermiamo che esistendo il mondo, si deve necessariamente supporre l’esistenza di Dio, perché non si tratta di una conoscenza ipotetica, ma certa, nel modo più fermo e sicuro; per cui possiamo dire che esistendo il mondo, che è un dato oggettivo, evidente ed inconfutabile, esiste Dio certamente, con l’esclusione di ogni dubbio60. I filosofi che non accettano Dio, non negano ogni idea del divino, ma solamente il Dio personale e trascendente; proprio perché il ragionamento fatto precedentemente è di una evidenza lapalissiana, per cui il concetto di relatività presuppone l’altro di assolutezza, ecco perché le varie menti che speculano non negano ogni idea del divino, ma solamente il Dio personale e nello stesso tempo trascendente, così come emerge dalla Rivelazione cristiana. La vera filosofia, la vera teologia che formano la vera sapienza riconoscono in Dio la personalità e la trascendenza, cioè l’essere vero e proprio, anzi la pienezza dell’essere, che è assolutezza, infinitezza, eternità, l’essere a sé, principio di ogni essere creato, il quale ha tutte le perfezioni ed al quale, per creazione, deriva ogni altra perfezione, il soggetto che trascende e sorpassa infinitamente ogni essere creato61. Il mondo di Dio, che poi è Dio stesso, è del tutto diverso dal nostro, perché Dio è Dio e noi siamo le creature. Per mons. Mario, Benedetto Croce, come anche altri filosofi, pensano che tale mondo all’uomo sia inconoscibile, perché «la diversità assoluta sarebbe assoluta irrelatività. Benedetto Croce conchiude dicendo che un tale mondo, se ci fosse, ci sarebbe del tutto ignoto, anzi sarebbe del tutto inconoscibile, e per noi sarebbe come se non ci fosse»62. 60
Cfr. ibid., 31. Cfr. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 264. Per mons. Sturzo, la legge della relatività, intesa come assoluta dipendenza da Dio, resta la via maestra per poter iniziare il discorso su Dio dal punto di vista razionale; è un argomento valido per poter anche dialogare con quanti negano Dio e la possibilità della sua conoscenza, anche se va capito e interpretato bene. 62 Ibid., 264. 61
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Questo ragionamento, per il presule di Piazza Armerina, è viziato, perché porta insito un errore: credere che la totale diversità comporti per l’uomo assoluta incapacità di conoscenza. Tutto questo potrebbe essere vero se l’uomo non fosse relativo, cioè se il suo essere non dipendesse da Dio63. La dipendenza assoluta è la grande legge del creato in quanto opera di Dio; dopo i puri spiriti, soltanto l’uomo ha questa conoscenza e di essa vive; per vivere bene deve saper agire sull’azione dei rapporti che lo legano alle cose create, e progredire in quei rapporti che lo legano a Dio: il primo passo da compiere in questi ultimi consiste proprio nella conoscenza di Dio. Mons. Mario si chiede: «Se nessuno ci parlasse di Dio, che cosa faremmo per uscire dalla nostra ignoranza? E se ci si dicesse solamente che Dio non c’è, che quelli che a Dio credono sono dei poveri illusi, come vinceremmo il nostro errore? E se uno si convincesse […] per via di ragionamento che Dio non c’è, in che modo e per quale via tornerebbe alla verità? I modi e le vie sono tutti contenuti nella gran legge della nostra assoluta dipendenza da Dio, che è l’aspetto più interessante e più bello della legge della relatività»64.
Rifacendoci a questa legge, di cui parla il presule, dobbiamo affermare che ha mille modalità diverse di attuazione: per il soggetto si concretizza nel modo più a lui conveniente, la cui scienza spesso gli sfugge, non però l’azione provvidenziale di Dio. S. Agostino inizia le sue Confessioni con il ricordare che l’ultimo fine dell’uomo è Dio ed aggiunge che questo fine importa una tendenza fondamentale, essenziale, necessaria a Dio, di maniera che il cuore dell’uomo non può avere pace fino a quando non perviene a Dio. La facoltà di conoscenza certamente non è il cuore, ma la mente, anche quando si tratta della conoscenza di Dio. Però, nell’itinerario della mente in Dio, il cuore ha una funzione tutta speciale, proprio perché l’uomo, secondo sempre la visione sintetica ed unitaria di mons. Sturzo, è unità di sentimenti, di ragione, di volontà e di sensitività65. Chi non conosce Dio, non ha cognizione di Lui e non può far esperienza del suo amore; avrà l’amore delle creature, che non basta da solo a far felici, anzi dà soltanto delusioni e dolori. 63 64 65
Cfr. ibid., 265. Ibid., 266. Cfr. ibid., 267.
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L’esperienza di ogni giorno ci conferma che la vita aliena da Dio può essere caratterizzata da ore ed anche da giorni di piacere, ma non ci sarà mai la pace e presto il dolore farà sentire la sua ferrea ed inesorabile legge. Per il presule è conseguenza e legge del dolore far rientrare l’uomo in se stesso; quando ciò avviene e nella misura in cui accade, l’uomo se non trova subito la via che lo porta o lo riporta a Dio, certamente troverà i preliminari del suo orientamento verso Dio66. «La legge della relatività come dipendenza assoluta che è la dipendenza da Dio, è la via da percorrere per arrivare alla cognizione del buon Dio che ci fece per sé, per arrivare al suo amore, per crescere nella fede e nell’amore sino alla santità vera e propria»67.
Tuttavia questa legge spesso quando non è recepita bene sortisce l’effetto contrario, cioè ci allontana da Dio. L’uomo è così misero e cieco che spesso si smarrisce nelle vie di questa relatività e non sa che cosa fare per mettersi sulla via giusta e andare o tornare a Dio68. Con quest’ultimo punto sfioriamo uno degli argomenti preferiti da mons. Mario, che corrisponde a una delle tante modalità per conoscere Dio: la conoscenza per via psicologica; l’autore a cui si ispira quando tratta questo argomento è Agostino.
5. LA CONOSCENZA DI DIO PER MEZZO DELLA FEDE Dalla Rivelazione sappiamo che Gesù Cristo vuole rendere capace l’uomo dell’infinito, mettendolo in condizione di proporzione con esso. Accresce con la fede le forze dell’intelletto e con la carità quelle del cuore; se l’uomo in quanto limitato si trova di fronte al mistero, tuttavia è consapevole di non essere di fronte all’assurdo, il mistero per lui diventa argomento di nuovo apprendimento. C’è un nesso inscindibile fra la scienza dell’infinito, di cui è reso capace l’uomo, e l’amore verso l’infinito69. 66 67 68 69
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Cfr. ibid., 267-268. Ibid., 270. Cfr. ibid., 270-271. Cfr. I lettera pastorale, 13.
La conoscenza per fede, di cui ora vogliamo parlare, si collega strettamente a quanto abbiamo affermato precedentemente, poiché essa «Non è un atto estraneo o contrario alla ragione. Se fosse estraneo non sarebbe cognizione; se fosse contrario sarebbe irrazionalità. La cognizione per fede è un modo di conoscere e i modi di conoscere son parecchi. Si conosce in modo immediato e mediato, intuitivo e discorsivo, analitico e sintetico, attualistico e storico, con le sole facoltà e con le facoltà aiutate da strumenti, per via di parole e di cenni, per esperienza e per autorità»70.
La conoscenza per fede è il modo certamente più privilegiato, più certo e più sicuro perché si fonda sull’autorità di Dio che si rivela: il presule di Piazza Armerina così si esprime: «Nella cognizione per l’altrui sapere […] entra come fattore indispensabile la confidenza nell’altrui onestà […] il conoscere per via di comunicazione è un fatto sociale, pel quale non basta avere i tempi e l’intelletto, ma occorre avere fiducia, né questo è possibile o ragionevole se colui a cui si presta fede non è onesto. Uno dei fattori che animano alla fiducia è l’amore reciproco. Più si ama sapendo d’essere riamati, più si è sicuri che colui che ci ama non c’inganna»71.
Questo dinamismo scatta nella conoscenza del bambino quando gli viene trasmessa dalla mamma; infatti questi crede più alle parole della mamma che non alla propria esperienza. Questo è il caso più tipico della conoscenza per autorità, in quanto l’adesione del bambino alla madre è la più naturale, la più spontanea ed immediata. Tutto ciò che è comunemente affermato per quanto riguarda questo caso, si realizza a maggior ragione nei nostri rapporti con Dio il quale si autorivela, perché i rapporti con Dio sono molto più intimi, naturali ed 70
La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 17. In ordine alla conoscenza l’uomo non ha altro mezzo di certezza non assoluta che la ragione, per cui in campo conoscitivo essa è un’autorità. Il processo della conoscenza è stato concepito e voluto da Dio, per cui non può entrare in contrasto con il dato rivelato, perché sia la Rivelazione come la ragione sono opera dello stesso autore: Dio, il quale mise in perfetta armonia queste due realtà. Tra le righe emerge sempre la visione sintetica che caratterizza il pensiero di mons. Sturzo. 71 Ibid., 18.
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immediati di quelli con i genitori e perché sono rapporti di origine e di dipendenza, di conoscenza e d’amore72. Evidentemente quando mons. Sturzo parla di conoscenza di Dio per fede, per autorità dello stesso Dio che si autocomunica, non vuole escludere l’aspetto razionale della conoscenza. Da queste brevi battute emerge chiaramente la concessione positiva che il nostro vescovo ha della razionalità umana e dei contributi che può offrire quest’ultimo aspetto ad una fede che diventi sempre più matura, dato che essa non esclude, ma presuppone i contributi razionali; Dio con la fede accresce le capacità intellettive umane. «Il miscredente rigetta la fede in nome della ragione […] è sicuro da non temere che un più serio, sereno, paziente uso del ragionamento non lo meni a conclusioni diverse o anche contrarie […] Quelli che passano dall’incredulità alla fede, forse che fanno questo trapasso in nome di altro principio che non sia la ragione? Dio che dà all’uomo la Rivelazione, che è l’oggetto della fede, forse pretende che l’uomo la riceva per via d’altra facoltà che non sia la ragione?»73.
L’uomo che considera con cuore retto e con mente serena l’insufficienza della pura filosofia a scoprire in una volta tutta la verità, a scoprirla senza errori e senza progressività, dalla logica del suo pensiero è condotto a cercare sempre più in alto; queste considerazioni e queste ricerche condotte con gli atteggiamenti particolari di cui abbiamo parlato, conducono infallibilmente a Dio, poiché l’uomo nei suoi ragionamenti può errare in quanto non è la somma razionalità, ma è relativo, limitato ed ha una conoscenza progressiva e graduale della verità. Se così non fosse non ci sarebbero diverse filosofie e tutti gli uomini direbbero la stessa cosa e perverrebbero alle stesse verità. Una filosofia immune da errori c’è, poiché Dio è venuto in aiuto della ragione umana, donando la Rivelazione. Questo tipo di filosofia esiste per diversi motivi: «C’è per la ragione, perché la filosofia è opera della ragione […] c’è per la fede che eleva la ragione, compie le sue scoperte e vi aggiunge altre verità 72 73
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Cfr. ibid., 18-19. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 8.
alle quali la pura ragione non potrà mai pervenire, perché sono d’ordine superiore; delle quali ha bisogno perché sono necessarie al conseguimento del fine supremo»74.
Per il presule di Piazza Armerina alla fede non perviene solo la mente, o solo il cuore, ma l’uomo come unità di mente e di cuore. Nei suoi scritti riaffiora sempre la concezione sintetica dell’uomo e del suo processo gnoseologico. L’uomo giunge alla fede per la sua attività di pensiero e di affetto, ma anche per quella virtù particolare che si suole chiamare intuizione, senza tacere che vi perviene soprattutto per la grazia del Signore e che senza di questa ogni sforzo e ogni industria umana sarebbero vani. «Dunque mente, cuore, spontaneità sintetica e finalistica che fa quasi da intuizione nell’atmosfera della grazia che prepara, accompagna e segue […]»75,
tutto ciò conduce alla fede che è una possibile occasione offerta per conoscere Dio. Nessuno può determinare praticamente o teoreticamente il processo che nei singoli si attua per pervenire alla conoscenza di Dio per fede, perché questo processo può variare (e difatti varia) da uomo a uomo. Come abbiamo visto quando abbiamo esaminato il tema della conversione, il processo conoscitivo, che provoca come sua conseguenza la conversione, può prendere le mosse dalla mente o dal cuore, da ragioni ben ponderate o da quella dalle quali non si arriva a scoprire la natura, da ragioni serie, o da quelle che apparentemente non mostrano vera serietà e forza76. La conoscenza che possiamo avere di Dio in questo mondo è progressiva e sempre inadeguata; essa va da quella razionale, la più oscura, nella quale sono possibili errori e traviamenti, alla conoscenza per fede, di cui stiamo trattando in questo paragrafo, «che reca alla prima la luce della Rivelazione e della grazia, determinazioni a cui mente umana non può da sola pervenire, la certezza che esclude ogni dubbio e impedisce ogni errore e ogni deviazione»77, 74 75 76 77
Ibid., 9. Ibid., 12. Cfr. ibid., 12. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 102.
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perché si fonda sull’autorità di Dio che si autocomunica, il quale non può ingannare l’uomo, né può errare. Parlando della conoscenza di Dio per la fede, dobbiamo subito precisare che essa ha i suoi gradi: infatti va dall’adesione fredda della mente, a quella amorosa del cuore; dal puro atto del credere al fatto dello sperimentare. «L’uomo che ha fede […] che opera per mezzo della carità […] non ha solamente la fede […] ha soprattutto l’amore […] che non è un palpito ozioso del cuore; l’amore è attivo per natura: la sua attività sono le opere»78.
In quest’ultima dimensione ha inizio quel fenomeno tipico che distingue la vita del vero credente da quella di ogni altro uomo: l’esperienza del divino. La manifestazione che Cristo fa di sé alla persona comincia dall’esperienza del divino più tenue e quasi impercettibile, per arrivare a una percezione di Dio che i mistici chiamano «esperienza di Dio» e che corrisponde alla conoscenza sperimentale di Lui. «L’anima a cui Dio concede l’esperienza mistica di se stesso, si sente come toccata da Dio, sente se stessa come se toccasse veramente Dio, si sente in Dio come spugna immersa nell’immensità del mare […] e soprattutto sente che Dio le dà tali gioie, tali forze, tale sete di rinunzie, tale volontà di amore e di sacrificio, tale chiarezza di cognizione di quel che sperimenta e di quel che Dio vuole da lei, che anche volendo dubitare della realtà del fatto, non potrebbe»79.
Questo tipo di conoscenza di Dio è quella vera, di cui parleremo più approfonditamente nel paragrafo seguente; essa non ammette dubbi né errori, è opera di Dio perché preparata dalla sua grazia; tuttavia è raggiunta da pochi, anche se a tutti è offerta la possibilità. Per l’individuo questa è un’esperienza trasformante, in quanto la persona dal mondo umano viene elevata a quello divino80. La vita di fede ha certamente in sé le sue leggi e si nutre di fede ma anche di opere buone; quando essa è vissuta bene, la migliore conoscenza di Dio si acquista per le sue vie. 78 79 80
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Ibid., 103. Ibid., 103-104. Cfr. ibid., 104.
Gesù Cristo non venne ad annullare la ragione, sebbene a perfezionarla, poiché se l’avesse fatto avrebbe annullato lo stesso uomo, in quanto è la ragione una sua dimensione essenziale. La fede è un dono divino fatto all’uomo, il quale resta tale anche dopo che ha ricevuto questo immenso beneficio. L’atto di fede è anche atto di ragione, illuminato ed elevato da Dio, per cui si crede a Dio sulla sua Parola, perché la ragione ha le prove razionali che Dio ha parlato81. Mons. Mario ci tiene a sottolineare l’importanza della ragione, la quale precede la fede, perchè il credere è atto di ragione come lo è anche il conoscere Dio. Nasce subito un interrogativo: la fede quali apporti nuovi e specifici dà alla conoscenza razionale di Dio? Essa mentre perfeziona la conoscenza razionale di Dio, ne genera un’altra che è di ordine soprarazionale ed è principio della visione che di Dio si avrà nella dimensione escatologica, che è la vita della beatitudine eterna. Alla luce di queste considerazioni nasce subito il dovere di studiare, che non si può esaurire con la conoscenza soltanto del catechismo, ma secondo la possibilità di ciascuno deve avanzare e completarsi in tutti i modi e con tutti i mezzi consentiti alla ragione umana82. Secondo questa prospettiva la conoscenza di Dio per via della fede dà un contributo notevole a quella razionale, perchè la eleva e nello stesso tempo sortisce un effetto considerevole nell’uomo: approfondire continuamente il suo contenuto, per giungere ad una vera conoscenza; ecco perché il vescovo invita ad andare oltre lo studio di quelli che sono gli strumenti essenziali per l’educazione e la formazione del cristiano, quale può essere il catechismo. Per il pensiero sturziano il mondo è limitato perché materia e anche il pensiero umano ha questa caratteristica, perché non è onnisciente e il suo sapere è un perenne superare la sua ignoranza. L’uomo per conoscere senza 81 Cfr. La vita in Dio, 54-55. La conoscenza che di Dio si ha per mezzo della fede, secondo il pensiero sturziano, completa, esplicita e perfeziona quella che dello stesso Dio si ha per via di ragionamento; alla quale conferisce nuovi apporti. Inoltre la conoscenza di Dio per fede è una anticipazione di quella perfetta che si avrà in Cielo. 82 Cfr. ibid., 55.
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deficienze ed errori cosa egli sia, quale sia la ragione vera della sua vita, la sua origine, il suo vero fine, oltre che della provvidenza divina ordinaria, che è espressa dalla capacità investigativa dell’uomo, ha bisogno di qualcosa di speciale, che corrisponde a ciò che noi chiamiamo «Rivelazione», la quale ci trasporta nel campo della fede, avendo Dio voluto così83. Dio conosce molto bene i bisogni dell’uomo e sa che senza un suo particolare intervento, molte delle verità di ordine razionale che sono necessarie per vivere in modo moralmente retto, la ragione umana pur essendo capace di scoprirle, o non le scopre che in parte o le scopre miste ad errori. La ragione umana può arrivare alla conoscenza che Dio è ed è uno solo; eppure lungo i secoli che precedettero il cristianesimo questa verità di primissimo ordine fu conosciuta con la mescolanza di molti errori. Porta un esempio che gli viene offerto dalla stessa narrazione evangelica; Gesù Cristo disse che dava un comandamento nuovo, l’amore reciproco; fece una rivelazione e diede un insegnamento; ciò che rivela è tale non perché inconoscibile, ma rifacendo in se stessi il suo ragionamento si trova che gli uomini avendo la stessa natura, vivendo nella stessa società con gli stessi diritti e doveri, dovendo tutti cooperare alla pace e all’armonia dei rapporti di vita sociale, essendo in quanto uomini tutti uguali, avevano il dovere di amarsi a vicenda come fratelli, perché senza quest’amore nel mondo non ci sarebbe pace, armonia di rapporti e benessere84. Alla luce di queste rivelazioni gli uomini compresero che il precetto dell’amore è la cosa più giusta e santa della vita, moralmente accettabile, infatti non è estraneo alla realtà umana, né imposto dall’esterno, ma deriva dalla legge della stessa vita ed è una formulazione di quella regola aurea che suona così: «non si deve fare agli altri, quello che non si vuole che gli altri facciano a noi». Ed è giusto che sia così; una riprova di quanto detto ci è data dal fatto che gli uomini compresero subito il valore e l’importanza di questo precetto, perché in loro c’erano gli elementi fondamentali di queste verità; infatti come avrebbero potuto recepire questa verità se gli elementi della medesima non fossero stati nella mente di ciascuno di loro? Gesù in effetti pronunciava una verità nuovissima, ma tuttavia diceva cose che ognuno possedeva in certo modo, benché non sapesse di possederle85. 83 84 85
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Cfr. ibid., 63-66. Cfr. ibid., 67-70. Cfr. ibid., 70.
Questo ragionamento non svaluta il dato rivelato, sia perchè mons. Sturzo distingue le verità razionali rivelate da quelle soprarazionali rivelate ed applica il suo ragionamento alle prime e non alle seconde, per le quali è necessaria la Rivelazione divina per avere una minima comprensione; sia perché questo suo ragionamento è utile per rispondere a quanti, riferendosi all’aspetto morale di ciò che comporta la Rivelazione, parlano di eteronomia, perché secondo questi ultimi sarebbero norme divine che vengono imposte all’uomo dall’esterno. Il vescovo di Piazza Armerina parlando proprio della morale fa luce su una difficoltà che potrebbe nascere in qualcuno che si chiede come in essa possa entrarci la Rivelazione, perché «se Dio per le vie della Rivelazione comunica norme che la ragione da sé non può scoprire, queste norme non saranno secondo l’ordine della ragione umana, e perciò non entreranno nella morale»86.
Questa difficoltà sollevata dai suoi ipotetici interlocutori gli offre la possibilità di precisare meglio il concetto di verità e di norme morali rivelate. «Una parte della Rivelazione non è manifestazione di cose ignote alla ragione umana, ma sanzione divina di ciò che la ragione conosce […] C’è poi nella Rivelazione una parte che sorpassa le visioni della ragione, non però in modo assoluto, ma relativo, nel senso che, pur essendo in qualche modo intravveduta dalla ragione umana, […] non attinge le ultime determinazioni e non entra nei codici morali umani»87.
Mons. Sturzo con questo suo discorso logico e lineare vuole combattere questa tesi affermando che alcune verità essenziali erano già presenti nell’uomo. Se così non fosse, quando Cristo ha rivelato, per esempio, la legge dell’amore, gli uomini non l’avrebbero percepita; l’umanità comprese chiaramente la Rivelazione di Cristo circa queste verità, perché la mente ha fatto un ragionamento analogo a quello di Cristo88.
86 87 88
L’educazione nelle sue ragioni supreme, 336. Ibid., 337. Cfr. La vita in Dio, 71.
145
Quello che diciamo di questo aspetto della legge dell’amore, lo affermiamo di tutte le verità d’ordine razionale rivelateci e insegnateci da Cristo, distinguendole nettamente da quelle soprarazionali. Tuttavia crediamo a queste stesse verità non soltanto per ragionamento, ma anche per fede, cioè ce ne persuadiamo e le riconosciamo vere, perché il ragionamento lo rifacciamo noi; nello stesso tempo le crediamo, perché ce le ha dette Gesù Cristo, e in quanto Dio non può ingannare, né errare. «Le crediamo sulla sua autorità, non per virtù di natura, ma per un dono superiore, che egli ha infuso nella nostra mente, che è una capacità, un abito, una luce sovrumana, che chiamiamo fede, dunque crediamo per fede»89.
Cosa intende mons. Mario con il termine «fede»? Chiarifica molto utilmente questo concetto. È fede umana credere qualcosa, non per rigore di ragionamento, che arrivi alla certezza filosofica, ma per autorità umana, come il caso del medico che prescrive la medicina all’ammalato. «Questa è la fede umana, che più propriamente dovrebbe esser chiamata fiducia, o presunzione di verità, la quale lascia sempre intera la possibilità del contrario […] Altra cosa è la fede divina, ed essa sola merita il sacro nome di fede, la quale è fede, non perché sia fiducia o presunzione, ma perché è certezza che deve escludere l’ombra del dubbio»90.
A questo punto dobbiamo aggiungere una precisazione molto importante: la verità detta da Dio, contenuta nella Rivelazione va creduta senza riserve, senza condizioni e limitazioni, non freddamente, ma con amore e gratitudine, perché non solo è ordinata alla pratica e quindi è un bene, ma è finalizzata alla conoscenza stessa di Dio, è un avviamento al suo possesso finale, in quanto somma verità e sommo bene91. L’apprendere che le conquiste della propria mente sono garantite dalla parola di Colui che è il creatore della medesima, il sapere che hanno
89 90 91
146
Ibid., 72. Ibid., 73. Cfr. ibid., 74.
la certezza e sono verità senza mescolanza di errori, è una cosa molto positiva, è il maggior bene che si possa desiderare, «perché il maggior bene della nostra esistenza è la nostra mente, per la quale, conoscendo, ci leviamo sopra tutti gli esseri del mondo, dominiamo il mondo e reggiamo noi stessi, conosciamo noi stessi e il mondo […] e Dio»92.
La Rivelazione divina che dà l’oggetto della fede o la sua sostanza, pur se non mira a risolvere a nostro vantaggio problemi puramente speculativi o di puro interesse naturale e temporale, ha lo scopo di rendere certi e sicuri i nostri rapporti con Dio in ordine alla salvezza e quindi alla vita eterna. Ecco perché la Rivelazione mentre inizia dalle verità d’ordine razionale, circa le quali l’errore, l’incertezza sarebbero di nocumento alla conquista dell’ultimo fine, essa termina con le verità d’ordine soprarazionale «che hanno la vera ragione di Rivelazione, perché l’uomo non le potrebbe mai scoprire da sé, e che secondo gli arcani di Dio, son necessarie al conseguimento del fine ultimo»93.
Dobbiamo ricordare che finora non si sta parlando delle verità soprannaturali, ma di quelle rivelate e che, secondo il pensiero sturziano, possono essere scoperte dall’uomo; sono verità d’ordine morale (come la legge dell’amore), ma anche d’ordine speculativo, quali: l’esistenza del mondo, la sua origine per creazione, la spiritualità e immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio e via dicendo. Come abbiamo già detto, a queste verità possiamo arrivarci per via di ragionamento filosofico, ma possiamo avere qualche timore di esserci ingannati; nessuno può esser certo in modo assoluto di aver fatto bene il suo ragionamento. Quando però una considerazione intellettiva è preceduta o seguita dalla fede, la cosa cambia aspetto, perchè si ha la certezza, la tranquillità della mente, la pace del cuore94. Parlando adesso della verità soprannaturali, la mente da sé non arriverà mai a scoprire i misteri divini, come, per esempio, quello della Santis92 93 94
Ibid., 76. Ibid., 77. Cfr. ibid., 74-75.
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sima Trinità o della presenza divina nell’Eucarestia; incontra difficoltà per la loro giusta comprensione, anche quando Dio stesso glieli rivela. Ora noi, circa le verità d’ordine razionale, le crediamo perché facciamo un ragionamento analogo, ma trattandosi di verità di ordine soprarazionale, non siamo capaci di fare qualche ragionamento che ce li faccia comprendere, perché sono verità che superano le possibilità di comprensione della ragione, quindi non possiamo applicare la metodologia seguita nel procedimento ordinato alla conoscenza delle verità razionali95. Il mistero vero e proprio non è il semplicemente ignoto, ma l’ignoto inconoscibile ed incomprensibile; «Dio con la Rivelazione provvede alla conoscenza dei misteri, senza che però […] faccia superare a noi l’ostacolo della loro incomprensibilità»96.
Quindi la Rivelazione è un atto divino, orientato alla conoscenza dell’uomo, il quale riguardo al mistero di Dio è incapace di comprenderlo; tuttavia tale mistero resta sempre inconoscibile ed incomprensibile, perché di gran lunga più grande e superiore alle stesse possibilità umane. Anche se tra le verità soprarazionali e la capacità di comprensione dell’uomo c’è assoluta sproporzione, tuttavia le crediamo, perché sono rivelate da Dio, cioè sulla sua autorità, ma soprattutto perché Egli merita la nostra fede, anzi ne ha assoluto diritto, in quanto è Dio; parla una lingua che comprendiamo sino ad un certo punto, è proprio il punto che conosciamo che rende possibile la fede, mentre l’autorità di Dio rivelante, la rende pienamente razionale, per cui possiamo affermare che anche queste verità di ordine superiore non sono irrazionali ed assurde. Quelli che attaccano la fede in nome della ragione, senza saperlo, combattono la stessa ragione97. La fede è la parola del Maestro, la quale si accomoda così all’intelligenza limitata dell’uomo, che spesso non sembra diversa dalla parola umana. Dio parlando all’uomo non adopera il linguaggio divino, perché non sarebbe mai compreso, ma adopera quello umano, per venire incontro all’uomo. La conoscenza di Dio, che dà il vero significato ed il vero valore a quella del mondo e dell’uomo, si fa più sicura, più completa, in modo tale 95 96 97
148
Cfr. ibid., 77-78. Ibid., 78. Cfr. ibid., 81-82.
che queste sue caratteristiche si riversano anche sulle altre, almeno per ciò che riguarda il destino futuro dello stesso uomo98. È chiaro che ancora siamo davanti ad una conoscenza inadeguata di Dio, perché Dio resta sempre mistero all’uomo, altrimenti non sarebbe più tale; se l’uomo riuscisse a comprendere la parola rivelata da Dio, così come comprende quella umana, evidentemente non crederebbe di trovarsi al cospetto di Dio. «Il mistero […] benché per un verso sembra tenebre, per un altro è luce, perché ci fa meglio comprendere che noi non siamo divinità o emanazione della divinità»99.
Ecco perché la conoscenza di Dio è sempre inadeguata; altrimenti per non essere tale l’uomo dovrebbe avere la stessa natura divina. Alla luce di queste considerazioni possiamo dire che non appena il pensiero di Dio si fa vivo e forte, nell’uomo nasce spontaneo il bisogno di nutrirsi di Lui, di progredire nella conoscenza sua fino a vivere per e di Lui. La fede in tanto è diversa da tutte le altre conoscenze, in quanto si fonda sull’autorità di Dio rivelante; è atto razionale e soprarazionale insieme, è la maniera più efficace di conoscere e di comunicare con Dio100. Questo tipo di conoscenza ha delle conseguenze notevoli sulla vita e sulle scelte morali del singolo individuo; infatti conoscere Dio in questo modo significa essere pieni del suo pensiero, aver pieno di Dio il cuore, perché non è una conoscenza soltanto intellettiva; tutto questo però in modo radicato e fondato nello stesso uomo, tanto che nessuna attrattiva di beni disordinati lo può penetrare e ogni tentazione si infrange contro questa volontà così profonda e forte, perché illuminata dal pensiero stesso di Dio101. «Questa cognizione e questo amore […] questa saldezza di volontà nei proponimenti di bene verso Dio per grazia, viene dall’uomo per cooperazione alla grazia»102.
98 99 100 101 102
Cfr. ibid., 82-83. Ibid., 83. Cfr. ibid., 112-113. Cfr. Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, 222. Ibid., 222.
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È un puro dono di Dio; il mistero divino lo si percepisce con l’intelletto reso a ciò idoneo dalla grazia, infatti Dio stesso vi si comunica in modo arcano; per cui questa conoscenza porta l’uomo a morire a se stesso per vivere soltanto di ciò che ha conosciuto; in questo caso la conoscenza di Dio influenza la vita morale del singolo, l’analisi più seria del problema del vivere e del suo agire responsabile103.
6. IN COSA CONSISTE LA VERA CONOSCENZA DI DIO Conoscere Dio non è ammetterne soltanto l’esistenza, ma è molto di più. Intanto si deve affermare che la conoscenza di Dio è graduale, in quanto la capacità di comprensione dell’uomo è lenta e progressiva, perché passa da verità a verità; essa provoca delle ripercussioni nel singolo, infatti nasce dalla fede, ma esige che essa sia adesione amorosa e confidente a Dio, uniente, purificante, trasformante, che dirà basta, quando dalla perfetta conformità alla volontà di Dio, alla sua Parola, avrà condotto l’uomo alla perfetta unione con Lui nella visione beatifica104. Quindi la vera conoscenza di Dio è quella che coinvolge tutte le facoltà dell’uomo, provocando in lui una donazione piena e totale a Dio ed un amore assoluto, come risposta a quello divino. «La cognizione è funzione intellettiva, come è funzione volitiva l’amore. Però, siccome l’uomo è unità, così né il conoscere è del tutto fuori dell’affettività, né il volere è del tutto fuori della intellettività. E bisogna aggiungere che la cognizione è tanto più perfetta ed efficace, quanto più vi concorre di affettività»105.
Questi tipo di conoscenza è di gran lunga superiore degli altri, anche se resta sempre una conoscenza inadeguata di Dio, dato che l’uomo non possiede le stesse caratteristiche divine. La vera conoscenza di Dio è per prima cosa la conoscenza della sua esistenza, non come entità astratta, ma come persona concreta, vera e reale, che agisce nella storia; poi è la conoscenza dei suoi attributi veri, come già 103 104 105
150
Cfr. ibid., 146-147. Cfr. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 261. Ibid., 275.
abbiamo avuto modo di constatare, quando abbiamo parlato di una sua prima conoscenza che nasce nell’uomo quando legge attentamente la realtà creata e la sua relatività106. Innanzitutto essa è semplice atto della mente, poi diventa atto della mente e della volontà, per cui invita a seguire la vocazione fondamentale dell’uomo, la santità, mettendo questi sulla via della medesima diventando così una garanzia della salvezza e della felicità escatologica; è la conoscenza che riempie di sé tutta la mente ed il cuore, cioè è la piena attuazione del comandamento della legge divina: «Amerai il tuo Dio con tutta la tua mente, il tuo cuore e le tue forze ed amerai il tuo prossimo come te stesso»107.
Il primo passo in questo processo è sentire il bisogno di conoscenza, che non ci può venire dal puro ragionamento, «non è la vera cognizione di Dio […] quella del filosofo che per via di dotto ragionamento scopre non solo che Dio esiste, ma che è eterno, infinito ed infinitamente sapiente, giusto e buono»108
occorre che vi intervenga il cuore, perché non si compie che nell’amore, dato che coinvolge l’uomo in tutte le sue dimensioni molteplici. L’ultima risposta al senso della vita, alla sete d’infinito che sale dal cuore dell’uomo non si trova nella ristrettezza della pura razionalità, ma proviene dal dono della grazia divina; la carità teologale infusa dallo Spirito Santo mette la persona credente in comunione di vita con il Signore. «Chi non ama Dio, è in rapporto con Lui, non con tutto l’essere, ma solo con una parte di esso»109.
La vera conoscenza non soltanto prende l’uomo nella sua interezza, ma ha bisogno di qualche altra cosa ancora per essere vera, perché la sua mente ed il suo cuore, anche se giungono a presentire il mistero, non perverranno mai a conoscerlo: occorre la Rivelazione e la ragione. 106 107 108 109
Cfr. ibid., 275. L.c. Ibid., 279. L.c.
151
È utile ancora una volta precisare che tra Rivelazione e ragione non c’è antinomia, né può esserci contrasto, perché questi sono i primi fattori della vera conoscenza di Dio, cui occorre che si aggiunga oltre al lavoro della mente, anche quello del cuore e alla luce della Rivelazione faccia seguito quella della grazia; a tal proposito possiamo dire che l’uomo ha il cuore e Dio gli dona la grazia110. Prendiamo un uomo che custodendo la grazia, ama Dio con la mente nella fede, con il cuore ed una vita moralmente ordinata, con le buone opere nella carità ed aspetta di arrivare a Dio nella speranza, chiediamoci se un tale uomo conosce Dio veramente. Possiamo rispondere positivamente per un verso, per un altro, nel modo più vero e più pieno, ancora non lo conosce111. La spiegazione di quanto affermato, mons. Sturzo la prende dall’esperienza di s. Agostino. Il vescovo di Ippona narra di sé nelle sue opere che cercava Dio, ma non lo trovava; infatti invece di cercarlo nell’interno del suo essere, lo cercava fuori, invece di cercarlo nella preghiera e nel raccoglimento, lo cercava nella dissipazione e nel peccato. Se fosse stato attento lettore della realtà, le cose create lo avrebbero dovuto portare a Dio, quale creatore, perché noi e tutte le cose create siamo in Dio. Il che significa che s. Agostino si fermava in modo disordinato alle relazioni immediate e trascurava di mettersi sulla via della relazione fondamentale ed essenziale, la quale mette ordine alle altre relazioni e conduce l’uomo alla conoscenza e all’amore di Dio. «Con altre parole vi dico quel che ci insegna a prezzo di tanti dolori s. Agostino, cioè, che è la vita veramente onesta quella che mena a Dio, mentre il peccato allontana da Dio, fa perdere Dio nella vita presente e nella futura»112.
L’inizio del processo che porta alla vera conoscenza di Dio consiste proprio in questa dimensione morale della vita dell’uomo; di contro, l’unico impedimento per una conoscenza iniziale e vera di Dio è il peccato e tutto ciò che è suo effetto. Questa è l’aspetto negativo che contiene in sé quello positivo; la vita morale buona ed onesta, la coscienza pura certamente portano alla conoscenza vera di Dio, alla totale unione con lui. 110 111 112
152
Cfr. l.c. Cfr. ibid., 279-280. Ibid., 280.
Ma ciò che è necessario è il far attenzione alla propria dimensione interiore, curandola in tutto, facendo in modo di ascoltare la sua voce che è come il luogo dove Dio fa risuonare la sua Parola; il presupposto fondamentale per una vera conoscenza di Dio consiste nell’essere uomini di vita interiore, protesi verso la santità. Il prelato di Piazza Armerina non manca di portare la parola sia della Scrittura, come anche dei Padri per avvalorare quanto ha chiaramente espresso. «Dice s. Giovanni Cristostomo che per la pratica del bene si va certamente a Dio […] Meglio dice il Vangelo: Beati quelli che hanno puro il cuore, perché vedranno Dio […] Si va a Dio a misura che il cuore si purifica»113,
per cui una vita moralmente buona, che nel pensiero di Sturzo coincide anche con lo stato di santità, conduce la persona, aiutata pure dal dato rivelato e dalle proprie capacità intellettive, alla vera conoscenza di Dio e del suo mistero. Per mons. Mario, Gesù Cristo ha affermato di rivelarsi alle persone che lo amano: «et ego manifestabo ei meipsum» (Gv 14,21). Questa speciale manifestazione e rivelazione presuppone dunque l’amore; ciò vuol dire che Gesù Cristo concede a quanti credono in Lui e lo amano, una più chiara conoscenza di Dio e del mistero dell’Incarnazione. È una rivelazione che presuppone l’amore, inteso come atteggiamento interiore dell’uomo, ma anche come stile di vita conforme a quella di Cristo, cioè come vita morale orientata alla conformazione piena a quella di Cristo. «Questa cognizione fa crescere la fede e l’amore; la fede diventata più profonda, l’amore diventato più puro e più saldo, fanno crescere la cognizione. Dio lo disse a s. Agostino, quando gli si rivela come verità […] Gli disse: Tu ti trasformerai in me, come a dire, tu ti trasumanerai, tu in certo modo sarai deificato […] Quando ti sarai santificato e a misura che ti sarai santificato: Tu mutaberis in me»114.
Quindi la conoscenza di cui stiamo adesso parlando aumenta la fede e l’amore ed ha come suo apice la santità, intesa come vita d’amore; infatti 113 114
Ibid., 281. Ibid., 282-283.
153
la santità è vita di amore; questo è tale quando è puro, cioè quando non c’è nulla che vi si opponga e quindi non solo non c’è il peccato che spegne l’amore, ma nemmeno l’attaccamento al proprio essere ed alle creature, cioè l’egoismo, che impedisce il crescere dell’amore e tiene la persona più unita a se stessa che a Dio115. Quando ciò accade abbiamo l’esperienza mistica di Dio che è il punto di arrivo del cammino di conoscenza dell’uomo e quindi corrisponde alla vera conoscenza di Dio. La conoscenza vera non soltanto implica una vita moralmente onesta, ma essa è anche conformità di volere a quello di Dio e quindi è santità, infatti l’uomo santo non vuole se non ciò che vuole Dio; ogni cosa che a questa dimensione si opponga o la affievolisca, è odiata, evitata, condannata. In ciò la legge della relatività si mostra nella sua piena luce, perchè la persona vive bene la sua dipendenza da Dio soltanto quando con tutte le forze vive in Dio, con e per Lui, per cui possiamo affermare che la vera conoscenza di Dio coincide con la vita in Dio, è la santità116. Per crescere in questo tipo di conoscenza, che è quella vera, dobbiamo raccoglierci in noi stessi, nell’onestà delle opere, cioè in una vita moralmente retta, ascoltando quel che ci dice Dio che abita in noi. «Dio è verità […] è bontà […] La verità e la bontà in Dio […] sono una sola cosa […] che si esprime con una sola parola: santità. Dio è la santità per essenza […] è quello che fa sante tutte le anime; a Dio non si arriva che per via della santità; la santità è rettitudine di opere, è amore operoso»117,
per cui la vera conoscenza corrisponde alla santità, in quanto vita di Dio partecipata agli uomini e ad essa vi si arriva attraverso la vita interiore. Questo grado sommo di conoscenza di Dio come e perché lo si può perdere? La risposta è implicita a ciò che nel corso di questo capitolo abbiamo affermato: l’uomo smarrisce la vera conoscenza di Dio o la rende inefficace in ordine al retto vivere, cioè alla vita moralmente retta, ed in ordine alla salvezza, quando si allontana da se stesso, quando smarrisce le vie della sua interiorità, cioè con il peccato, quando non vive più in Dio118. 115 116 117 118
154
Cfr. ibid., 283. Cfr. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 82. L.c. Cfr. ibid., 76-77.
«Il libro della Sapienza comincia col dire che bisogna cercar Dio con cuore semplice; che bisogna aver sentimenti retti riguardo a Lui, alla sua provvidenza, giustizia, sapienza, potenza […] Perché trova Dio chi nol tenta; perché Dio si mostra a quelli che hanno fede in Lui […] I pensieri malvagi separano da Dio […] perché la sapienza non entra in un’anima malevola né abita in un corpo schiavo del peccato»119.
Queste sono le caratteristiche che devono accompagnare colui che ricerca una vera conoscenza di Dio, perché determinati stati di vita ne impediscono l’accesso. L’uomo inoltre possiede le due grandi facoltà naturali, quella intellettiva e quella volitiva, che lo portano a cercare sempre il vero e il bene. Ci sono peccati che principalmente riguardano l’intelletto, come, per esempio, la superbia, la quale oscura la mente impedendole nel suo processo di ricerca di pervenire a Dio o fa in modo che nel processo di azione si allontani da Lui. Così pure ci sono peccati che riguardano principalmente la volontà come, per esempio, la malevolenza. Questi peccati privano la persona della sapienza, che è la virtù che ordina a Dio tutte le azioni, conferendole il gusto del divino, che corrisponde a quell’esperienza che dà un senso nuovo alla conoscenza di Dio. Chi vuole cercare e conoscere Dio deve osservare alcune condizioni indispensabili: avere un cuore semplice; l’umiltà che è rettitudine, perché è conoscere la nostra limitatezza e la nostra assoluta dipendenza da Dio; lo stato di grazia, perché una volontà schiava del peccato non gusta Dio, non permette che vi entri la sapienza e quindi non si può avere conoscenza vera, né amore che perfezioni tale conoscenza120.
CONCLUSIONE Nell’uomo c’è qualcosa che suscita le ansie della ricerca di Dio, anche quando nessuno gliene ha mai parlato. Questa è una sensazione provata da tutti, è un’ansia che ha dimensione universale, perché l’uomo è razionale ed in quanto tale riflette sui fini della sua esistenza e della realtà circostante; anche se è tale, tuttavia l’uomo 119 120
Ibid., 39. Cfr. ibid., 39-40.
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non è onnisciente, anzi ignorante; consapevole di ciò, sente il bisogno di conoscere ed approfondire la sua pur sempre limitata conoscenza. L’uomo è caratterizzato dal dinamismo finalistico-processuale, che è impegno di ricerca e di conoscenza intrinseca del bene assoluto e del fine ultimo: ciò è il presupposto necessario per la vera conoscenza di Dio, la quale si inserisce pienamente in questa prospettiva. La conoscenza nell’uomo è progressiva ed ha diverse fasi: va dalla conoscenza per via di ragionamento, che è quella del perché, presente già nel bambino, oscura, dove è possibile avere errori, a quella per mezzo della realtà creata, per arrivare alla conoscenza per fede, la quale alle prime dona la luce della Rivelazione e della grazia e determinazioni precise, cui la mente umana non può pervenire da sola; conferisce quella certezza che esclude ogni dubbio ed impedisce ogni errore e deviazione. È vero che questo cammino verso la conoscenza di Dio è graduale e nello stesso tempo ascendente, perché dal meno si passa al più, da una conoscenza oscura, imperfetta, ad un’altra sempre meno oscura ed imperfetta: tuttavia siamo sempre nell’ambito di una conoscenza di Dio inadeguata, in quanto Dio resta sempre il totalmente altro. La Rivelazione e la grazia sono una garanzia per la conoscenza di Dio, perché forniscono certezze che all’uomo è impossibile avere, in quanto limitato. La vera conoscenza di Dio, quella che genera la conversione, non sfiora la mente, ma scende nel cuore e lo riempie di sé, permettendo all’uomo di fare esperienza reale di Dio; per pervenire a questo tipo di conoscenza occorre rientrare in se stessi. La sana filosofia ci insegna che a Dio ci porta la contingenza della realtà e principalmente quella dello stesso uomo: questa è la via dell’intelletto, della ragione ragionante; non è la sola, perché i nostri rapporti con Dio non sono di pura logica mentale, ma sono più complessi, più essenziali, più pratici che teoretici, perché riguardano tutto il nostro essere e sono orientati al possesso pieno di Dio121. Per conoscere Dio l’uomo deve cercare non stando fuori di sé, così non lo troverà mai, ma scendere nelle profondità più riposte del suo essere, lì troverà Dio; Egli lo si conosce tramite questa via, perché abita in lui e in lui si rivela, per cui la vita interiore è la via privilegiata per conoscere veramente Dio.
121
156
Cfr. ibid., 26.
Se a Dio si arrivasse per lavoro dell’intelletto, la maggiore parte degli uomini resterebbe nella più desolante ignoranza. «Ma Agostino […] nella prima pagina delle sue Confessioni dice la parola che deve animare tutta la sua sublime dottrina del processo che mena non alla conoscenza di Dio, puramente teoretica, che pura resterebbe sterile, ma alla conoscenza pratica che investe tutto l’uomo per santificarlo e questa parola è la seguente ed è nota a tutti: Signore tu ci hai fatti per te, ed il nostro cuore non ha pace se non si posa in te»122.
La ricerca di Dio non è come le ricerche che si fanno per pura esigenza conoscitiva; infatti conoscere Dio non è sapere che Dio è Dio, ma sapere che l’uomo non può prescindere da lui, che non può vivere bene senza di Lui, che non può conseguire il fine supremo della vita, senza compiere, per e con Lui tutti i doveri della vita123.
122 123
Ibid., 38. Cfr. ibid., 38.
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CAPITOLO V LA VITA IN DIO E CIÒ CHE ESSA COMPORTA NELL’UOMO
1. LA VITA IN DIO E CIÒ CHE ESSA COMPORTA NELL’UOMO Per mezzo delle sue pastorali, mons. Sturzo voleva far conoscere Dio ai suoi fedeli, non con procedimenti scientifici e teoretici, ma studiando e vivificando le vie battute dai santi, per arrivare alla meta: vivere in Dio, ricongiungersi a Lui, fonte prima e causa principale dell’uomo; evitando del tutto il peccato ed agendo conformemente ai doni divini ricevuti. Che tutto ciò sia possibile nella realtà umana, ce lo conferma l’esperienza di tanti uomini che noi chiamiamo santi; questi amano e conoscono Dio; vivono la loro esperienza umana ed esistenziale in Lui, per cui tutto ciò che sono, lo sono in Dio, le scelte morali che di volta in volta compiono, come anche tutto quello che operano, lo fanno in, per, con Dio. La vita dei santi è vita in Dio, i cui doveri, intesi come conformazione alla volontà di Dio, realizzazione della propria vocazione, sono vissuti come un sol dovere: quello per Dio. Quando abbiamo studiato il pensiero sturziano circa l’educazione, ci siamo resi conto che essa, vista nelle sue ragioni supreme, è tutta orientata ad ordinare e disciplinare le tendenze dell’uomo, in modo tale che il singolo che si giova di tale azione, sia reso disposto a compiere con facilità, amore e prontezza tutti i doveri della vita e particolarmente quelli del proprio stato, in ordine al suo fine intrinseco, che consiste nel concepire e vivere la vita in Dio, fino al grado più alto che è la santità, intesa come amore totale ed assoluto verso Dio ed amore di Dio che si riversa gratuitamente ed abbondantemente sull’uomo. La stessa conversione è un atto fondamentale per l’uomo, che è chiamato e stimolato da Dio a vivere come creatura nuova e quindi a morire al peccato ed a mettersi sulla via della sequela di Cristo, che è la via della santità, della vita in Dio: questo ultimo aspetto è l’oggetto del seguente capitolo. Anche la conoscenza di Dio, nasce da quell’ansia presente nell’uomo di ricercare il perché, il fine e l’origine della propria vita e lo stesso Dio come proprio creatore e salvatore; essa non è semplice speculazione umana; ma consiste nel saper che non possiamo fare a meno di Dio.
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Avere la conoscenza vera e piena di Dio corrisponde a scoprire che l’essere umano è stato creato per Lui e vive bene quando vive in Lui. Chi studia attentamente il fenomeno umano si accorge che l’uomo è determinato dal dinamismo finalistico-processuale che lo conduce verso il soprannaturale; la vita aspira ad una dimensione piena e completa in tutte le sue forme; ciò corrisponde a quello che mons. Sturzo individua con la espressione: «vita in Dio». Chi sa leggere con attenzione queste costanti antropologiche è portato a ripetere le stesse espressioni di s. Agostino, che sintetizzano l’esperienza dell’uomo in cammino verso Dio: «Signore ci hai fatti per te, […] per arrivare a te e vivere eternamente con te; […] il nostro cuore è inquieto fino a quando non riposa in te»1.
La vita in Dio, si può definire come vita d’amore; infatti chi accetta l’amore di Dio e corrisponde a tale amore e nella misura che per amore di Dio si spoglia dell’egoismo, gusta e vive in Dio. Essa consiste in una perenne ascesa verso Dio per le vie dell’amore che unisce sempre di più, a tal punto che l’uomo viene quasi divinizzato. Nel corso di questo capitolo esamineremo cosa è la vita in Dio, secondo il pensiero sturziano, come è partecipata all’uomo, quali sono gli elementi che la caratterizzano, le sue conseguenze nella coscienza dell’uomo e i mezzi che la alimentano.
2. SIGNIFICATO E VALORE DELLA VITA IN DIO La riflessione sulla conoscenza di Dio porta con sé una verità fondamentale: Dio è creatore e noi siamo sue creature; quindi non siamo nostri, non ci apparteniamo, ma siamo di Dio, sua proprietà. Saremmo nostri se fossimo autosufficienti, se per vivere, durare nel tempo, prosperare, essere felici, non avessimo bisogno degli altri uomini, né degli altri elementi della natura, se non avessimo bisogno di ogni altra realtà e non fossimo figli di nessun padre e non contassimo gli anni della nostra vita, in quanto sarebbe l’eternità2. 1 2
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AGOSTINO, Le confessioni, I, 1, Torino 1953. Cfr. La vita in Dio, 86.
Da ciò siamo condotti a scoprire ed identificare il legame ontologico, stretto, esistenziale che c’è tra Dio e l’uomo. Tutte le creature durano naturalmente nel loro essere per l’azione conservatrice di Dio; inoltre gli uomini partecipano in modo più elevato di questa azione divina, tanto da poter dire con le parole di Paolo, che vivono in Dio3. Ora «vivono veramente in Dio coloro che a Dio rivolgono il loro pensiero amoroso e riconoscente e ne traggono il nutrimento delle loro opere, cioè, che così vivono in Dio, da poter dire che vivono di Dio»4.
La legge della relatività, mostra chiaramente che l’uomo vive bene la sua dipendenza da Dio solamente quando vive in, con e per Dio. Quando ciò si verifica non è più l’uomo che vive la sua vita soprannaturale, invece in lui vive lo stesso Dio, cioè c’è il mistero dell’inabitazione divina, avviene la divinizzazione dello stesso essere umano il quale, tuttavia, non cessa di essere totalmente diverso da Dio, perché non perde la sua identità5. «Che la vita umana si debba concepire come attività non separata da Dio, non indipendente da Lui, e che i nostri rapporti con Dio non si possono limitare ai soli atti di culto, non è solamente una legge del cristianesimo, ma anche […] di natura; […] che ci è nota non solo per la Rivelazione, ma anche per la ragione; […] È una legge fondamentale, universale, essenziale, una di quelle leggi che si attuano per tutto e sempre e che solo possono essere non già ignorate, ma negate per degenerazione di pensiero»6.
L’uomo dipende in tutto da Dio e non può fare a meno di Lui che è continuamente presente nella sua vita; l’azione divina non si limita ai soli atti soprannaturali, al solo campo della grazia, ma abbraccia tutta la vita, tanto che i cristiani hanno questa consapevolezza: «Sanno che noi viviamo, ci muoviamo, siamo in Dio […] come insegnò s. Paolo, […] non sanno che senza di Dio non possiamo fare nulla […] come insegnò lo stesso Gesù Cristo […] che quel che dà la capacità di 3 4 5 6
Cfr. Gal 2,20. La vita in Dio, 91. Cfr. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 203. Il giorno del Signore, 8.
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volere e fare, cominciare e compire è Dio, […] che sotto l’aspetto naturale, Dio interviene con la sua azione di concorso, cioè, in modo naturale, mentre sotto l’aspetto soprannaturale della vita, interviene con la sua azione di grazia, cioè, in modo soprannaturale»7.
Mangiare, bere, lavorare, pregare, fare ogni altra azione sono atti di religione, perché abbiamo il dovere di farli nell’ordine stabilito da Dio, per i fini voluti da Lui per cui, in questo tipo di concezione antropologica, la religione diventa totalizzante, infatti i rapporti con Dio non si possono limitare solamente agli atti di culto, perché non sono formule vuote, ma sono la stessa vita. «Dio poteva non creare l’uomo, ma, creandolo, non poteva crearlo fuori di quest’ordine, perché non poteva crearlo indipendente da sé. Il quale ordine è tanto inerente alla ragione, è tanto essenziale che non fu ignorato dai pagani […] Ai cristiani Dio ne ha dato il comando […] è un atto di paterno amore, è come una riconsacrazione della natura, una dichiarazione, una conferma, un dono della grazia»8.
L’uomo mostra di conoscersi poco e male quando crede che senza un continuo riferirsi a Dio, che non è di tipo spirituale o solamente intellettivo, ma esistenziale, può vivere bene. Perché ciò sia possibile è necessario avere la fede, la carità, ma soprattutto che i suoi rapporti con Dio diventino vita della sua stessa vita9. Perché l’uomo pervenga a queste riflessioni è necessaria la Rivelazione divina, la quale mette in risalto lo stretto legame esistenziale presente tra Dio e lui. Il mondo pagano era consapevole di questa grande verità, cioè che tutto è da Dio e di Dio e che senza di Lui non c’è né l’essere, né il durare, né il prosperare; non seppe che la vita in Dio consiste nell’attuare nell’uomo la santità stessa di Dio, che è la vita in Dio, quanto più gli è possibile; non comprese che la santità di Dio in lui si attua per mezzo della ragione, la quale è come un raggio della divinità che splende e si realizza operando in conformità con i suoi giudizi. 7 8 9
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Ibid., 10. Ibid., 13. Cfr. ibid., 14.
Quindi la ragione ha un ruolo importante nella vita dell’uomo, orientata finalisticamente a vivere in Dio; infatti, anche se non perviene alla conoscenza di Dio per la fede, tuttavia una vita retta, cioè moralmente onesta, che opera secondo i dettami della ragione, conduce a vivere in Dio10. Questa è una legge insita nel suo cuore dell’uomo che non può venir meno, soltanto occorre rientrare in se stesso con cuore retto, cioè essere uomo interiore11. Ai pagani, in verità, mancava la cognizione di Dio, per cui posero in Dio gli istinti disordinati dell’uomo e credettero di attuare in loro la vita di Dio, attuando quel che in Dio essi avevano posto. Soltanto con la predicazione del Vangelo si fece un po’ di chiarezza per quanto riguarda la conoscenza di Dio e il rapporto inscindibile ed esistenziale con Lui. Con la testimonianza corrente dei primi cristiani, il mondo pagano, che non aveva ancora un’adeguata conoscenza della vita in Dio, comprese che era avvenuta nel mondo una profonda rinnovazione, grazie ad una particolare manifestazione divina: infatti la vita, le opere e soprattutto il martirio affrontato con gioia dai cristiani furono compresi come elementi espressivi della vita in Dio, e diedero maggiore efficacia alla predicazione stessa del Vangelo12. Chiediamoci adesso qual è il rapporto tra la vita in Dio e quella naturale dell’uomo. Il presule parla di una morte nella vita e di una vita nella stessa vita: infatti «Nessuno mai esisterà indipendentemente da Dio. Indipendentemente da Dio non c’è la morte, ma il nulla. Per chi non vive di Dio, benché in realtà viva, è morto […] Questa è la morte nella vita. Chi invece vive in Dio e di Dio, non solo ha la vita di natura, ma anche la vita di grazia, cioè ha la vita nella stessa vita»13.
Alla luce di queste considerazioni possiamo affermare che, per mons. Mario, la vita vissuta in unione intima e profonda con Dio dà un tono qualitativamente diverso alla vita naturale, tanto che non vivere di Dio e con 10 11 12 13
Cfr. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 44. Cfr. ibid., 43-45. Cfr. La vita in Dio, 89-90. La vita in Dio, 91.
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Dio corrisponde al permanere in una situazione spirituale di morte nella stessa vita naturale, per cui anche se l’uomo fisicamente vive, svolge pienamente ed attivamente tutte le sue funzioni fisico-biologiche, tuttavia a lui manca la dimensione più importante che qualifica tutte le altre, la vita in Dio, per cui si può considerare morto. La vita in intima unione con Dio, che è la vita di grazia, corrisponde alla pienezza di vita dell’uomo, «alla vita nella stessa vita», secondo l’espressione sturziana. Gesù Cristo espresse chiaramente questo concetto quando affermò che venne «affinché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Per mons. Mario se il Signore afferma che è venuto per dare la vita, vuol dire che gli uomini, pur essendo vivi, non avevano la vita di cui parla Gesù. Anche s. Paolo, in 2Cor 5,17, spiegando questo grande mistero afferma che chiunque è in Gesù Cristo è una nuova creatura, perché il vecchio uomo dell’ignoranza, dell’errore, della colpa, che è la morte nella vita, è passato e tutto è stato rifatto nuovamente, per cui la vita in Dio corrisponde alla vita nuova donataci da Cristo. Del mistero della nuova creazione, parla abbondantemente il Nuovo Testamento. Tutto questo è il vetera transierunt affermato chiaramente da s. Paolo, Dio, purificando, rigenera con la sua grazia; corrisponde anche al nova facio omnia del libro dell’Apocalisse e l’ecce facta sunt omnia nova della 2 Corinzi, dove non soltanto si annunzia una promessa, ma si constata un fatto, che è la presenza vera e reale della nuova creazione come misteriosa partecipazione all’uomo della stessa natura divina, infatti la 2Pt 1,4 insegna proprio questo quando afferma esplicitamente che Dio creò l’uomo divinae consortes naturae14. Possiamo affermare che, secondo mons. Sturzo, l’uomo per avere la vita umana nella sua pienezza è necessario che abbia non solo la vita fisica, ma anche quella di grazia; di quest’ultima non ne può fare a meno, perché è indispensabile per vivere da uomo, cioè da creatura chiamata a rapportarsi continuamente con Dio. Avere la vita di grazia, vuol dire avere una vita qualitativamente diversa, infatti la grazia inerisce alla realtà umana, tanto da formare una sola cosa con essa, con la conseguenza di elevare fino al grado della divinizza14
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Cfr. ibid., 92-93; per le citazioni bibliche: cfr. 2Cor 5,17; Ap 21,5.
zione la stessa condizione umana; per cui possedere la vita di grazia, corrisponde a vivere la vita umana nella sua pienezza, dato che l’uomo fu fatto per vivere sempre in Dio. Abbiamo abbondantemente parlato della vita in Dio così come la intende mons. Mario, ma ora esaminiamo attentamente in che cosa consiste: «vivere in Dio vuol dire far che Dio regni in noi»15. Vivere in Dio corrisponde non soltanto a riconoscere Dio come creatore, principio e fine del proprio essere, ma è qualche cosa che va oltre la dimensione intellettuale, equivale a ricevere la vita di Dio, come dono partecipato all’uomo; infatti è misteriosa partecipazione all’uomo della sua stessa realtà e natura16. La vita in Dio è comunione piena dell’uomo con Dio, in modo tale che Dio possa regnare in lui, vi possa avere la sua dimora: questo stato di vita mons. Mario lo definisce mistero della inabitazione divina, processo di divinizzazione, di trasumanazione. Quando si verificano queste condizioni, l’uomo vive in se stesso, come creatura nuova, trasformata, resa cristiforme e divinizzata, pur non cessando di essere creatura e non identificandosi mai con Dio che rimane sempre il totalmente altro. «Vivere in noi vuol dire portarci con noi stessi come Dio vuole che ci portiamo […] come re, perché re veramente ci ha fatti, re del regno delle anime nostre»17.
Quando accadono queste condizioni in modo tale che l’essere umano possa sentirsi e vivere in Dio? «Noi viviamo in Dio veramente quando la nostra fede è profonda, il nostro amore ardente, purificante, separante, trasformante, consumante, la nostra orazione assidua, la nostra mortificazione totale»18.
Da queste brevi espressioni possiamo dedurre che la vita in Dio è caratterizzata dalla presenza incisiva della fede, della preghiera e dell’amore 15 16 17 18
Ibid., 224. Cfr. La vita in Dio, 92-93. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 224. L. c.
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vero che trasforma rendendo attivi ed operosi. Questo tipo di vita è quella vera che è possibile realizzare perché viviamo in noi. Chiediamoci adesso: cosa è la vita in noi e quando viviamo in noi? Quando abbiamo coscienza dei nostri rapporti supremi ed essenziali ed operiamo nell’ordine dei medesimi: questi sono i rapporti che ci legano a Dio in modo esistenziale. La vita in Dio ha delle conseguenze nelle scelte morali della persona e presuppone la fede e l’amore; infatti vive in Dio chi è ricco di questi due elementi, tanto da compiere tutti i suoi doveri diligentemente, prontamente, costantemente ed amorosamente. Tutto ciò significa che la fede viva e l’amore profondo rendono così forti le attrattive del bene, che la persona quasi non sente più gli stimoli che la spingono al male. La luce del Verbo illumina pienamente l’uomo, quando Dio abita in lui, che per questa inabitazione ed illuminazione, l’uomo è portato a volere solamente il bene e ad evitare il male con tutte le sue forze. «Proprio perché la vera luce è vera forza. È vera forza perché purifica e perché accende e fa divampare l’amore […] La fede purifica […] perché è la luce soprannaturale che ci fa conoscere, con la certezza che viene dall’autorità di Dio, le supreme verità […] La purificazione si compie dall’amore. L’anima più crede, più si distacca dalla vanità e dalla menzogna, più crede, più ama la verità, più ama Dio»19.
Questo significa vivere in Dio e in noi; Dio regna nell’uomo per la luce e per la verità, perché è la vera luce e l’assoluta verità. Per il vescovo siciliano, la persona quando perviene alla purificazione, che corrisponde allo stato di conversione, giunge conseguentemente a quello di illuminazione della santità, che è la più stretta unione con Dio consentita alla vita presente: allora essa regna veramente, perché ha la vera scienza del bene per pienamente volerlo e del male per pienamente evitarlo20. Il volere è intero e forte quando sono superati tutti gli influssi di rapporti contrastanti e la volontà si muove per motivi eterni, quando si vive per, con ed in Dio; quando si perviene a questo stadio, si è nella santità, perché qui è il massimo di forza ed interezza alla quale la creatura umana possa pervenire21. 19 20 21
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Ibid., 226. Cfr. ibid., 224-226. Cfr. ibid., 248.
Possiamo levarci sopra noi stessi, perché possiamo giungere a Dio e vivere in Lui in perfetta conformità alla sua volontà, che poi equivale alla espressione più alta della santità; ma quando, corrispondendo con fedeltà vera alla grazia, Dio ci offre la possibilità dell’unione perfetta con Lui, noi mentre per un verso ci leviamo sopra di noi, per un altro scendiamo nelle più riposte profondità del nostro essere, cioè entriamo nel nostro vero noi, nel suo dominio pieno. Quando siamo arrivati a vivere davvero in Dio, in perfetta conformità alla sua volontà, allora vogliamo ciò che vuole Dio, siamo la nuova creatura di cui parla Paolo22.
3. LA PARTECIPAZIONE DELL’UOMO ALLA VITA IN DIO Secondo il pensiero sturziano l’uomo partecipa alla vita in Dio; «Noi, ci pensiamo o no, lo crediamo e lo neghiamo, lo vogliamo o non lo vogliamo, viviamo in Dio»23.
Questo è un mistero fondamentale della fede, che la Rivelazione ci dà la possibilità di conoscere; At 17,28 così afferma: «in Lui infatti viviamo e ci muoviamo ed esistiamo». La vita divina partecipata agli uomini richiede un atteggiamento fondamentale dell’uomo che è la corrispondenza. La vita naturale non ci darà la possibilità della salvezza, perché questa vita l’abbiamo in comune con tutti gli altri esseri animati ed inanimati ed anche perché questa condizione è ciò che è stato voluto, creato e donato all’uomo da parte di Dio; a questi non è stata richiesta nessuna forma di intervento personale. Gli altri esseri ricevono da Dio l’essere e il durare, ma sono incapaci di avere atteggiamenti di risposta verso ciò che opera Dio; solamente gli uomini hanno questa capacità. «Noi non siamo pietre o piante o animali bruti, i quali essendo privi di senso e di conoscenza intellettiva, non sono capaci che di ricevere da Dio l’essere e il durare e l’armonia dell’uno e dell’altro, senza nulla da parte loro, come riconoscenza e amore, poter dare a Dio in contraccambio. Solamente noi tra 22
Cfr. ibid., 256; per le citazioni bibliche: cfr. Ef 4,20-25; Col 3,9-10; Rm 13,14;
Ef 2,15. 23
Ibid., 93.
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le creature di questo mondo visibile […] siamo capaci di conoscenza vera e di corrispondenza di pensieri e di affetti; […] di dare a Dio qualche cosa del nostro. Or proprio in questa corrispondenza di pensieri e di affetti, consiste il vivere in Dio, per Dio, di Dio, che è la nuova creazione fatta da Gesù Cristo, e noi ne siamo capaci, perché Gesù Cristo ce ne ha dato la capacità con la grazia»24.
La vita in Dio consiste in questo tipo di corrispondenza e di partecipazione dell’uomo all’opera divina, che equivale alla nuova creazione operata da Dio stesso ed offerta agli uomini tramite l’opera redentrice di Gesù Cristo, per mezzo del quale gli uomini sono resi capaci, perché la grazia che il Salvatore conferisce è un validissimo aiuto alla incapacità umana. Senza la grazia ci sarebbe soltanto la ragione con le sole sue forze: l’uomo potrebbe dare a Dio una corrispondenza puramente naturale, che, dato l’ordinamento divino, da sé non basterebbe a schiudere la via verso la salvezza, ma soltanto potrebbe, come avviene per i pagani, disporre l’uomo a conseguire la fede e la grazia, da cui deriva la nuova vita. La fede e la grazia sono doni divini, offerti agli uomini, perché siano in grado di vivere non più solamente secondo la pura natura, ma secondo la natura rigenerata, purificata, resa cosa nuova, come nuova creazione. «Noi viviamo di Dio come il fiore vive del sole, schiudendo il suo calice ai raggi della luce. Or il calice del nostro essere, che dalla S. Scrittura è anche paragonato al fiore, è appunto il nostro pensiero, per cui conosciamo, e, conoscendo, comunichiamo con Dio; […] come esseri spirituali cui conoscendo amiamo, giacché non c’è amore che non si attui per la conoscenza. La quale conoscenza solo allora suscita l’amore e con l’amore le opere e con le opere la santificazione, quando non è come le indagini scientifiche che mirano solamente al vero, ma come le ansie della vita, che cercano il vero pel bene, […] per amarlo, per possederlo»25;
un possesso orientato alla vita concreta, in modo tale che l’uomo possa vivere come è suo dovere e compiere tutte quelle scelte morali inerenti al proprio stato. Possiamo dire che la vita in Dio, come partecipazione della vita stessa di Dio all’uomo, dato che è un dono, esige un determinato atteggia24 25
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Ibid., 93-94. Ibid., 94.
mento nell’uomo, cioè domanda la fedele corrispondenza da parte di colui che ne ha il beneficio. Questa disposizione quando è viva e reale, è una garanzia e quindi si può essere certi che l’uomo vive in quella condizione ideale ed indispensabile per pervenire alla salvezza. La vita che Dio partecipa non aliena dai doveri della realtà quotidiana, anzi rende l’uomo più consapevole; né i doveri della vita presente sono contrari ai suoi rapporti con Dio, «Ma sono anch’essi attuazione di questi rapporti, quando sono osservati, perché così la ragione ci suggerisce, essendo anche da Dio l’ordine della vita presente, anzi volendo Dio che noi l’amiamo in sé, perché egli è il nostro Dio, e nelle creature, perché sono le creature di Dio, ed in tutti gli atti della nostra vita, perché è la vita che ha fatto Dio, […] che ci conserva e governa, in cui […] è presente, del cui ordine è glorificato»26.
Chi vive dimentico di Dio non potrà compiere bene tutti i suoi doveri, perché dove non c’è il pensiero di Dio e dove non si fa esperienza della sua realtà che è l’amore, si vive nell’egoismo e conseguentemente ci si trova in quella situazione di morte nella stessa vita, di cui abbiamo già dato qualche accenno. Quello che noi non possiamo fare con le sole nostre forze, lo fa in e per noi Dio, soltanto che desidera la nostra cooperazione, la nostra corrispondenza. Dio opera instancabilmente a nostro favore fino ad attirarci a sé in modo irresistibile, cioè fino alla follia, che è la santità vera27. La vita interiore, come vita in Dio, non sempre è capita bene o considerata nei suoi vari aspetti; uno degli errori più funesti al retto vivere, anche considerato nel suo aspetto sociale, è credere che essa sia come un tutto a se stante, estrinseco alla stessa vita. Tale errore si risolve in un concetto puramente razionalistico della vita, tanto da concepirla indipendentemente da Dio e, peggio, concepire Dio come la stessa vita28. «Intanto è bene avvertire che l’uomo non ha propriamente due vite, l’una interiore, esteriore l’altra, perché la persona non è dualità, ma unità. Le due vite sono aspetti dell’unica vita e due modi di considerare la vita»29, 26 27 28 29
La vita in Dio, 95. Cfr. La via della salute, 12-14. Cfr. ibid., 25-26. Ibid., 29-30.
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per cui l’uomo vive una sola vita con due dimensioni essenziali diverse, tanto che la vita dell’uomo non può che essere vita interiore: questa è una qualità necessaria non soltanto in vista del conseguimento del fine ultimo, che è la salvezza, ma anche per la vita morale, perché orienta le scelte morali che i singoli sono chiamati a compiere. La vita di Dio all’uomo è partecipata gradualmente; infatti è un cammino che ha come termine ultimo il vivere pienamente in Lui, per cui la vita di preparazione al possesso pieno di Dio, va dal primo atto di ragione, per mezzo del quale l’uomo acquista la prima conoscenza di Dio, che è razionale, al primo atto di fede, che è l’inizio della conoscenza di Dio, di carattere diverso rispetto alla precedente, in quanto quest’ultimo è soprarazionale. Questa vita di preparazione alla unione piena con Dio non coinvolge solo la capacità conoscitiva della vita umana, ma anche l’aspetto affettivo, per cui dal primo atto d’amore sotto l’influsso della grazia, che corrisponde al primo atto di vita soprannaturale, si va verso l’ultimo atto d’amore, che chiude la vita presente, formata contemporaneamente, in una dimensione sintetica, di natura e di grazia; si passa dal possesso di Dio per conoscenza, a quello per l’amore; dal nutrirsi di Dio con il pensiero caratterizzato dall’amore, al nutrirsi di Gesù Cristo, Uomo-Dio, attraverso la vita sacramentale della Chiesa. Questo cammino verso la comunione piena con Dio, che è il raggiungimento della vita in Dio, è un itinerario graduale ma progressivo, perché si passa dal meno al più, è un nascere, un crescere, un perfezionarsi, un vivere di Dio, un morire in Lui, per vivere in Lui eternamente30. Ancora una volta dobbiamo affermare che la vita in Dio è un dono partecipato all’uomo, il quale in ordine alla grazia, non potrebbe nulla senza l’azione di Gesù Cristo, senza l’incorporazione a Lui e il vivere in Lui. Quando possiede questa unione, che è opera di Dio, compiuta per mezzo della fede, della carità, della grazia, l’uomo diventa fattore attivo nell’opera della sua santificazione; avverte l’obbligo di cooperare all’azione di Gesù Cristo, in modo tale che si viene a creare questa dinamica: Cristo opera in lui e l’uomo accoglie la sua azione trasformante e vi collabora31. Noi tutti siamo limitati rispetto a Dio, il quale nella vita soprannaturale opera un miracolo grande: l’incorporazione a Cristo che è, per la fede,
30 31
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Cfr. ibid., 114. Cfr. La vocazione, 250.
l’inizio della vita eterna, per la carità è l’animazione di questo inizio, per la vita liturgica, al cui apice sta l’Eucarestia, è il suo perfezionamento. «Di maniera che quando noi viviamo in grazia e osserviamo tutti i nostri doveri in ordine al soprannaturale, veramente in noi vive la vita soprannaturale, Gesù Cristo; la quale vita ha gradi, il supremo dei quali è l’apice della santità. Ma dall’infimo al massimo grado, quello che vive in noi e che al cospetto del Padre, Dio d’infinita grandezza, ci dà il vero merito, vuol dire il merito di valore infinito, è Gesù Cristo. E perciò possiamo dire […] che Dio non premia che la vita di Gesù Cristo in noi»32.
La vita in Dio e la nostra incorporazione al mistero di Gesù Cristo vengono ostacolati dal peccato, dall’egoismo. «La vita cristiana è la via della carità […] ed è vita soprannaturale; l’egoismo e l’amore disordinato di noi stessi che ci fa seguire le esigenze del piacere in opposizione all’osservanza dei doveri. È la vita in cui l’uomo si chiude in se stesso e si fa centro a se stesso, quasi come se fosse un Dio, in opposizione al vero ordine, che è l’ordine della carità»33.
Gesù Cristo non vive in noi e noi in Lui quando si realizza questa situazione, ma quando ci cerchiamo in Lui e moriamo all’uomo vecchio, quello dell’egoismo, per vivere al nuovo che pensa, vuole, ed opera in Gesù Cristo, cioè quando non siamo noi che viviamo, ma Cristo vive in noi. Questa fondamentale verità Cristo la illustrò nella similitudine della vita e del tralcio, secondo la descrizione di Gv 15,1-1134. Ora Dio chiama tutti a vivere la propria vita in Lui; questa corrisponde ad una vocazione che ha una dimensione universale, cioè è comune a tutti gli uomini, non dipende da noi, non ha ragione di scelta, né vi si può rinunciare o mancare di corrispondere, senza mettere in pericolo il proprio destino. Questa vocazione, che corrisponde al vivere in Dio, è la ragione della vita e della stessa creazione; infatti tutto il creato è soggetto a Dio ed è a Lui ordinato. Ogni essere che esiste sulla terra è stato creato da Dio e realmente vive perché Dio con la sua azione conservatrice gli permette di esistere e 32 33 34
Ibid., 251. Ibid., 252-253. Cfr. ibid., 253.
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quindi vive in Dio. Le modalità di questo rapportarsi con Lui tra le realtà create sono diverse; infatti per gli uomini che hanno la ragione, la dipendenza è più elevata e perfetta: è di ordine morale35. «L’uomo deve vivere in Dio e per Dio, e per ciò deve vivere ordinatamente, evitare il male, fare il bene. Questo è il suo supremo dovere nel quale si risolvono tutti gli altri; e questa dev’essere la sua vita, e per questa via […] deve arrivare al fine della stessa vita che è, né può essere altro, che lo stesso Dio […] Poteva Dio darci altra destinazione fuori di sé? Poteva bensì darci per ultimo fine un possesso di sé immediato e meno perfetto, ma non poteva darci altro fine perché non poteva separarci da sé […] E noi tanto meglio viviamo quanto più abbiamo consapevolezza amorosa di questa felice dipendenza da Dio, di questa beata condizione della nostra vita che è vita, perché in ogni istante riceve l’azione vivificatrice del nostro amoroso Creatore»36.
La vita umana è un’arcana partecipazione della stessa vita di Dio, non in modo panteistico, ma in senso di essenziale dipendenza. Sicché la nostra vera vita non siamo noi, ma Dio che senza essere noi, vive in noi e noi in Lui. Raggiungiamo la pienezza della nostra vita solamente quando Dio vive in noi. Tuttavia questa vita, che è opera esclusiva di Dio, orientata ad un compimento sempre più perfetto e totale, che è iniziato su questa terra, ma che avrà il suo coronamento nella dimensione escatologica, cioè nella vita eterna. La vita in Dio nell’uomo ha questa dinamica reale, è in continua tensione; così afferma mons. Sturzo: «Noi avremo raggiunto la pienezza della nostra vita solamente quando Dio nel cielo vivrà in noi e noi in Lui in quel modo che, come dice s. Paolo, lingua umana non può dire, e che conosceremo, quanto a creatura è possibile, allorché la luce della divina sapienza ci si rivelerà nella gloria del Paradiso»37.
35 36 37
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Cfr. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 57-58; 83-84. Ibid., 84. L.c.
4. L’ELEMENTO FONDAMENTALE DELLA VITA IN DIO: LA SANTITÀ La vita in Dio ha come elemento essenziale e caratterizzante la santità. Chiediamoci pure: cosa intende mons. Sturzo quando, continuamente nelle sue lettere, parla di santità? A questo tema dedica la pastorale: La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, pubblicata nel 1935. Il concetto di santità ricorre insistentemente nelle sue pastorali; «Dio è la santità per essenza; […] è quello che fa sante le anime; a Dio non si arriva che per via della santità; che è rettitudine di opere, è amore operoso […] Ma la santità non è nelle pure opere esteriori […] è interiorità, ordine della coscienza che si manifesta nell’ordine delle opere, […] quando ha Dio per principio e per fine, quando tutte le opere sono fatte come compimento di un unico dovere: quello verso Dio»38.
In questa prospettiva la santità corrisponde alla realtà stessa nella vita dell’uomo quando è presente, ed è l’elemento principale della vita in Dio. Chi comincia a rendere ordinata interiormente la coscienza ed esteriormente ordinate le opere come sua espressione, comincia a vivere per Dio, fa i primi passi sulla via della santità: ecco quali sono le condizioni necessarie per pervenire allo stato della santità, che corrisponde a vivere in Dio. Innanzitutto è indispensabile un continuo ascolto di Dio che parla al nostro cuore, perché le varie attività umane devono avere come principio e come fine Dio stesso; poi diventa pure necessario un ordinamento morale della stessa vita umana, che si esprime in diversi modi39. La santità non è una nuova natura che si aggiunge o sostituisce quella umana, così come non è soltanto sforzo dell’uomo, o sua conquista, anche se precedentemente abbiamo affermato che presuppone l’ordinamento della vita morale dell’uomo. Dio interviene nella realtà dell’uomo e per mezzo della sua grazia gli conferisce questa nuova condizione esistenziale. «Gesù Cristo non venne per annullare la natura e creare una nuova umanità, ma […] per redimere l’umanità decaduta per l’originaria colpa […] l’azione divina nella Chiesa non è un puro surrogato alla umana attività, non è una sostituzione, ma una collaborazione […] Tale azione non modifica la 38 39
La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 82. Cfr. ibid., 81-82.
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natura umana […] è un intervento intrinseco alla natura […] Allo stesso modo la grazia è un intervento divino che dà all’uomo la santità non come una nuova natura, ma come un concorso soprannaturale che dà alla natura nuove forze […] per le quali l’uomo è reso capace di santificarsi. Dio santifica l’uomo come primo principio di santificazione; l’uomo, corrispondendo alla grazia, santifica se stesso come secondo principio; allo stesso modo che fa il bene ed evita il male come natura»40.
Troviamo una certa analogia tra il cammino di conversione e quello della santità, sia perché il primo ha quale sua naturale meta e sbocco la santità e quindi ambedue sono in un reciproco rapporto, ma anche perché come la conversione è opera di Dio che chiama l’uomo a cambiare vita, così la santità è dono che scaturisce dal mistero di Dio ed esige anche la corrispondenza umana. «Studiare la santità è studiare la più sublime e […] efficace manifestazione di Dio […] Qui non ci sono voci negative, ma solo positive […] Sono umane perché sono le azioni del santo che è uomo; sono tali perché l’uomo si è disposto con un lavoro generoso e diuturno di purificazione. Ma non sono solo umane, né son tutte dell’uomo; e sono divine perché comportano un particolare intervento della divinità, perché son frutto della grazia che è divina […] Sono dunque umane e divine, immanenti e trascendenti, presuppongono necessariamente due fattori, due autori: Dio e l’uomo»41.
Nel cammino della santità dunque si fa esperienza di Dio e della sua azione, nel senso che l’uomo sente in sé la sua presenza e si rende conto che non è più il soggetto che agisce, ma in lui opera e vive Dio. Ecco perché la santità è uno degli elementi più importanti e fondamentali della vita in Dio; il soggetto certamente rimane quello che è, non perde la sua identità di uomo. Lo stato di santità comporta quello della purificazione etica, è cioè perfezione e vita di puro amore elevata ai gradi più alti dello spogliamento di sé, fino ad arrivare al grado sommo dell’amore, con il solo palpito per Dio, che non esclude l’amore fraterno, anzi lo esige e perfeziona. L’essenza della santità è la totalità dell’ordine morale e religioso nella pienezza della sua esterna manifestazione che sono le opere42. 40 41 42
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Ibid., 90-91. Ibid., 99-100. Cfr. ibid., 98-99.
Come abbiamo già affermato, con la santità si fa esperienza di Dio: la persona umana si sente toccata da Dio e sente se stessa come se toccasse veramente Dio, avverte che è immersa in Dio. Queste espressioni sono tipiche del vocabolario sturziano; evidentemente sono usate per indicare l’intimo rapporto che si viene a creare tra Dio e l’uomo nello stato di santità: una comunione piena che non esclude la differente identità; anche se l’uomo vive in Dio, non è un altro Dio, ma resta sempre uomo che vive la stessa vita che Dio gli partecipa. Per mezzo della fede che si concretizza nelle opere e della carità che è una virtù attiva ed operante, nello stato di santità, la persona viene elevata dal mondo dell’umano a quello del divino, in essa inizia il processo graduale di trasumanazione, divinizzazione, che si compirà definitivamente nella realtà futura43. Per comprendere e studiare la santità è necessario mettersi per le sue vie, come fatto mistico nelle sue manifestazioni storiche, così si perviene pure alla conoscenza e all’unione con Dio. La ricerca di Dio va fatta attraverso l’ascolto di tutte le voci che ci parlano di Lui, ci spingono verso di Lui per la via della santità. In questo processo di attenta lettura della realtà e di introspezione di sé, l’uomo trova non solo Dio, ma anche se stesso, per trovarvi Dio44. Come più volte abbiamo detto parlando della conoscenza di Dio, l’uomo trova se stesso quando conosce la sua origine ed il suo fine, cioè quando conosce Dio: questa è una conoscenza piena quando ordina la sua vita a Dio, per cui possiamo dire che la vera conoscenza di sé l’uomo la trova solamente in Dio; il suo vero dominio, che conduce ad una vita morale ordinata, l’uomo lo possiede in Dio; così come la propria santificazione non può né iniziarla né attuarla che in, per e con Dio. «Questo di cui parlo […] è quasi mistero […] che si illumina di luce meridiana per chi rientrando in se stesso, ivi cerca, ivi trova Dio, perché ivi trova anche se stesso. Tutto il mistero della conversione, della santificazione, della salvazione è contenuto in quelle parole che Dio nelle Scritture rivolge ai peccatori: “Redite praevaricatores ad cor”, che significano: Cercatemi in voi stessi»45.
43 44 45
Cfr. ibid., 103-105. Cfr. ibid., 108-109. Ibid., 108-109.
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L’atteggiamento opposto che contrasta e vanifica la vita in Dio, che è la vita di santità, è il peccato: chi pecca non vive in Dio e neanche con se stesso, anzi si estrania sia da Dio che da sé. Tuttavia, poiché l’uomo dipende da Dio, sa per ragione, ma principalmente per fede, che è e vive sempre in Dio, anche quando per sua disavventura commette il peccato, perché Dio con la sua grazia lo libera da questo stato di morte; infatti il peccato non può condizionare o intralciare il disegno salvifico di Dio e la sua volontà di conferire all’uomo, così com’è, la sua stessa vita46. Ogni volta che ci lasciamo condurre dal nostro egoismo siamo o fuori di noi o alla superficie del nostro essere; mentre siamo in noi quando volgiamo la mente ed il cuore a ciò che è ordinato all’eternità. Ecco perché la vita interiore è vita essenziale, nel senso che è quella che si svolge in rapporto a ciò che è veramente essenziale e che corrisponde alla sua piena attuazione e integrazione nel conseguimento del vero fine che è Dio. Tutto questo ha delle implicanze positive nei rapporti con noi stessi e con gli altri: infatti «con l’attenuarsi di questa intimità si attenua anche l’amore e prende il suo posto l’egoismo. Di qui ogni disordine, ogni peccato e tutti i mali che fanno misera la vita»47.
Quando si realizzano queste condizioni, siamo veramente e pienamente uomini, perché l’umanità esiste nella sua pienezza solamente quando viviamo in unione di spirito, di fede, di amore con Dio48. Secondo il pensiero di mons. Sturzo, la santità che è un elemento molto importante della vita in Dio, è un dono di Dio e corrisponde ad una sua chiamata, che interpella l’uomo nella sua realtà; quando gli uomini rispondono generosamente all’invito che Cristo rivolge, allora si mettono sicuramente per la via della santità vera, in essa progrediscono ed arrivano fino alle più alte cime. Non si bada più alle difficoltà del cammino, alle ripugnanze della natura, alle fatiche dell’ascesa, perché si è sicuri che è lo Spirito Santo, con l’efficacia dei suoi doni, che conduce e guida l’uomo49. 46 Cfr. L’educazione nelle sue ragioni supreme, 225; vd. La pastorale collettiva degli Arcivescovi e Vescovi di Sicilia, 34. 47 La pastorale collettiva degli Arcivescovi e Vescovi di Sicilia, 73-75. 48 Cfr. ibid., 76-77. 49 Cfr. L’ottava beatitudine, 139.
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5. CONSEGUENZA DELLA VITA IN DIO NELLA COSCIENZA Gli uomini sono chiamati da Dio a vivere in e per Lui; non si può vivere in Dio senza vivere in se stessi; Dio infatti lo troviamo in noi; tutto ciò corrisponde alla vita interiore, che è l’essenza della vita cristiana, condizione indispensabile della santità, quale elemento fondamentale della vita in Dio e supremo dovere di tutti i cristiani. Così afferma mons. Mario «Dove troviamo Dio se non in noi stessi, nell’interno del nostro essere, nella parte più profonda del nostro spirito? Il Regno di Dio è dentro di voi, non fuori, dice il Vangelo […] Ma che cosa è il Regno di Dio, se non è lo stesso Dio in quanto regna in noi? E come regna in noi se non è nell’interno del nostro essere? Ma se noi stiamo fuor di casa con la vita superficiale ed esteriore, che cosa sappiamo di ciò che avviene dentro la nostra casa che è il nostro interno? Dio è in noi, anche quando siamo fuori di noi»50.
Ed ancora: «La vita interiore è necessaria pel conseguimento del fine ultimo, perché genera la santità spirituale che è condizione necessaria per entrare dove solo la sanità spirituale ha luogo. Ma è anche necessaria perché la vita terrena scorra ordinata, nel compimento dei doveri inerenti alla medesima. La sanità spirituale è religione, ma è anche moralità. È religione considerata in rapporto a Dio. Ma anche in questo rapporto è moralità, perché la moralità è l’ordine di tutti i rapporti […] Ma la sanità spirituale anche nei rapporti con gli altri uomini, è insieme religione e moralità. È religione perché l’ordine terreno è tale per Dio e in ordine a Dio […] ed è moralità perché è l’ordine dei rapporti umani in quanto umani, in quanto questi […] devono svolgersi nel compimento dei reciproci doveri, dal quale compimento fedele e costante scaturisce il vero benessere della società, la vera libertà, la civiltà vera»51.
Quindi la vita dell’uomo vissuta come vita in Dio non aliena dai doveri della stessa, come alcuni credono52. 50
Ibid., 133-134. Ibid., 30-31. 52 È evidente che mons. Sturzo, quando usa queste espressioni critica e combatte la posizione di alcune correnti filosofiche come: l’idealismo, il materialismo, il positivismo che in quel tempo si facevano sentire in modo determinante. Queste definivano la religione come fatto alienante per l’uomo perché fa dimenticare i doveri della vita presente, proiettando 51
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Per il vescovo siciliano, la vita in Dio ha delle notevoli ripercussioni nell’esperienza dell’uomo, infatti essa «Non solo non impedisce i doveri umani della vita, ma dà ai medesimi quell’ordine, quella purezza, quell’intensità di amore, quella forza di generosità e di sacrificio, quel profumo di bontà e quell’ardore di affratellamento, che li rende veramente umani»53.
Quindi la vita in Dio non soltanto non distoglie dagli impegni di ogni giorno e dalle responsabilità che la vita comporta, ma dà un valore completamente nuovo, conferisce loro quella pienezza di senso e di significato che altrimenti non potrebbero avere. Quando viviamo in Dio, Egli stesso ci fa sentire la sua voce che comunica la sua volontà; per cui per vivere bene in Dio è necessario ascoltare quello che ci dice, ora per mezzo della sua Parola rivelata, ora per mezzo della sua Chiesa, ma anche della nostra vita, della coscienza come luogo dove risuona la voce di Dio in noi. Ecco perché è necessario per vivere in Dio essere persone di vita interiore54. Saper vivere così in Dio vuol dire essere immersi in Dio, sempre: tutto ciò costituisce il principio generatore ed animatore di una vita saggia, ricca di bene, lieta. Anche in questo caso l’espressione «essere immersi in Dio» viene usata per indicare l’intimità di rapporti che si creano tra uomo e Dio. È ben lungi dalla riflessione sturziana il pensare che tali espressioni facciano riferimento alla dottrina orientaleggiante, come, per esempio, quella del Nirvana, per la quale l’anima si perde in Dio, nel senso che fa l’uomo e i suoi bisogni esistenziali in quella eterna. Sarebbe interessante approfondire questo tema confrontandolo con la posizione sturziana, ma è chiaro che ci porterebbe un po’ lontano dal nostro obiettivo. Per mons. Sturzo i doveri della vita presente non ci alienano e non sono contrari ai nostri rapporti con Dio, perché sono attuazione di questi ultimi, in quanto l’ordine della realtà è stato voluto da Dio; per cui la distinzione tra religione e morale è possibile solamente nell’analisi, ma nella visione sintetica, che Sturzo propone, sono due aspetti dell’unica realtà e diventano coincidenti, in base al concetto di dovere. La morale è il sistema dei doveri, perché l’uomo è relativo ed ha rapporti che lo legano ad altri esseri razionali; prima di questi rapporti e in modo più intrinseco ha rapporti che lo legano a Dio (religione), ha doveri verso se stesso e verso gli altri (morale). Vedi La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 86-87. Per quanto riguarda la posizione delle diverse correnti filosofiche che Sturzo combatte, vedi N. ABBAGNANO, Storia della filosofia, III, Torino 1974. 53 La vita in Dio, 95. 54 Cfr. ibid., 148.
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parte dello spirito divino. mons. Mario usando queste espressioni non manca mai di puntualizzare bene la totale differenza che c’è fra Dio e l’uomo, anche quando si arriva a queste vette alte di intimità. «Dio è amore che dà amore, luce che accende luce, forza che genera forza, bene che santifica e fa lieti. Vivere di Dio nella più fedele corrispondenza è vivere di amore, nella luce, nella forza, nel bene, nella letizia dell’amore, nella pienezza dell’amore trasumanante che si diffonde intorno e genera amore e letizia»55,
per cui quando c’è la vita in Dio, all’uomo vengono partecipati gli elementi che caratterizzano la realtà divina. La vita umana, come vita in Dio, ha bisogno di un continuo rapportarsi e confrontarsi con Lui, quale sua sorgente; tutto ciò è necessario per orientare anche le scelte morali. Dio stesso viene incontro a questo bisogno dell’uomo, manifestandosi per mezzo della coscienza; «Il buon Dio […] ci parla per mezzo della coscienza. Egli, prima di scrivere la sua santa legge, che è la manifestazione fondamentale della sua volontà […] sulle tavole di pietra, prima di annunziarla al mondo per mezzo dei Profeti e del suo santissimo Figliolo Gesù Cristo, ne scrisse i punti più essenziali nelle nostre coscienze. Dice s. Paolo che gli uomini non sono mai privi della conoscenza della legge del Signore, perché son legge a se stessi […] s. Paolo dice ciò perché sa che il buon Dio crea così le anime, che esse recano in se stesse un raggio della sapienza di Lui, cioè, perché la loro ragione è capace di conoscere da se stessa i doveri essenziali della vita, come se leggesse in se stessa la santa parola di Dio»56;
per cui la ragione, in sintonia con la coscienza, giudica in ordine alle azioni da farsi e alla colpevolezza delle azioni da evitarsi57. A questo punto del nostro argomento, secondo il pensiero sturziano, possiamo affermare che credere e obbedire alla coscienza corrisponde a credere ed obbedire a Dio che ivi parla e si manifesta. Fra Dio e la coscienza non ci può essere dissenso; compiere tutto questo significa liberare l’uomo dalle tenebre, purificarlo, rimetterlo nella sua originaria lucidità. 55 56 57
Ibid., 185. Ibid., 201. Cfr. l.c.
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«Tra la parola della legge scritta nella coscienza e la parola data per Rivelazione […] non ci dev’essere disaccordo, perché l’una e l’altra procedono dallo stesso Dio, sono la sua verità. Qualunque sia lo stato della coscienza, quando parla Dio, l’uomo deve credere ed obbedire. Se la coscienza dissente, […] si inganna. Quando parla Dio […] è anche certo che ogni dissenso della nostra mente, […] della nostra coscienza non può essere che ignoranza o passione […] Quando però parla l’uomo […] è possibile avere la stessa certezza? La stessa certezza si può avere quando l’uomo che parla è il Papa e parla da Papa»58.
Mons. Mario con queste espressioni sta parlando della coscienza come luogo dove risuona la voce di Dio, che è in sintonia perfetta con la Parola e la volontà di Dio; ma è chiaro che non esclude il caso in cui la coscienza possa ingannarsi per diversi e svariati motivi, che lui sintetizza con i termini ignoranza e passione e che noi diremmo perché non è infallibile. Tuttavia essa ci è stata donata come luogo dove Dio ha scritto la sua legge e dove risuona la voce della verità: ecco perché contro la voce di essa non si deve mai agire. Tuttavia quando mons. Sturzo parla di coscienza, non si riferisce alla pura luce della ragione59. Rivolgendosi a dei cristiani, vuole parlare della coscienza illuminata dalla Rivelazione, corroborata dalla grazia, purificata dalla fede, la quale agisce nella Chiesa; essa mira a far conoscere ai cristiani la volontà di Dio, della quale il supremo maestro è Gesù Cristo, che ad essa si rivela specialmente quando è unita a Lui per mezzo della carità60. Affinché l’uomo possa essere veramente forte contro le seduzioni del male, libero dal servaggio delle passioni, deve sempre agire secondo coscienza, secondo i dettami della retta ragione, nella cognizione della legge di Dio e dei doveri che ne derivano61. La presenza della coscienza in noi è intesa come luogo dove possiamo ascoltare la Parola nella sua essenza, confrontarci con essa; tutto questo permette di parlare di presenza di Dio in noi, di inabitazione divina nell’uomo, anche se occorre fare le dovute distinzioni fra queste due realtà così diverse.
58 59 60 61
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Ibid., 201-202. Cfr. ibid., 207. Cfr. ibid., 207-208. Cfr. ibid., 244.
«Dio è certamente sopra di noi […] Ciò nonostante è in noi e noi siamo in Dio. E Dio, solo Dio, è talmente in noi, da poter dire che noi siamo più di Dio che nostri […] Il vero noi è la nostra ragione e la nostra volontà, e Dio vuole che noi non muoviamo un solo passo, senza essere noi, senza essere in noi, senza agire come se fossimo solamente noi a giudicare del bene e del male, a praticare il bene, a evitare il male. Quando diciamo che l’ultima parola deve dirla la coscienza, noi non ci separiamo da Dio, non ci mettiamo fuori o sopra l’ordine della sua legge, ma meglio che mai, ci uniamo a Dio e osserviamo la sua legge. Sicché l’ultima parola che attribuiamo alla coscienza […] è tutta pervasa della divina legge, della divina grazia, del divino amore, tutta unita alla divina volontà; è bensì la parola della coscienza, ma è la parola di Dio che Dio comunica per mezzo della coscienza»62.
Fin qui, come abbiamo detto precedentemente, mons. Mario sta parlando della coscienza illuminata dalla fede e dalla Rivelazione, la quale riceve certezze da Dio che si autorivela, ma per gli uomini che non hanno la fede, il ruolo della coscienza a che cosa si riduce e quali apporti può dare? Ai pagani manca la luce della Rivelazione, come anche il Magistero della Chiesa, però nessuno è mai privo della parola della coscienza. Se l’uomo sa essere fedele al dettato della coscienza, certamente non perirà, cioè si salverà, perché in esso troverà la parola della legge, la Parola di Dio63. È necessario che gli uomini facciano quanto loro è possibile e innanzitutto occorre formare a se stessi l’ambiente più propizio e ciò metterà al sicuro la loro salvezza, poiché renderà la coscienza sensibile, perspicace, intuitiva, forte. In tale ambiente, deve regnare Dio, che è il primo, vero ed as62
Ibid., 209. Cfr. ibid., 209-210. Per quanto riguarda la concezione della coscienza e della sua funzione, come già altrove abbiamo constatato, mons. Sturzo anticipa le grandi acquisizioni e formulazioni conciliari. Vedi Gaudium et Spes, 16: parla della dignità della coscienza, intesa come nucleo segreto dell’uomo, luogo dove risuona la legge di Dio, che invita a fare il bene e ad evitare il male, come voce che l’uomo ha in sé e che va seguita, in base alla quale poi sarà giudicato. Vedi pure Dignitatis Humanae, 3: il testo è molto vicino alle concezioni di Sturzo; il Concilio, parlando della libertà religiosa, afferma che «l’uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua coscienza, che egli è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività, per arrivare a Dio, suo fine. Non lo si deve costringere ad agire contro la sua coscienza. Ma non si deve neppure impedirgli di operare in conformità ad essa»; lo stesso documento al n. 11, parlando del modo di agire di Cristo e degli apostoli, ritorna sul tema della fedeltà alla propria coscienza: «Con vigore annunziavano a tutti il disegno di Dio salvatore […] nello stesso tempo però avevano riguardo per i deboli anche se erano nell’errore, mostrando in tal modo come ognuno di noi renderà conto di sé a Dio e sia tenuto […] ad obbedire soltanto alla sua coscienza». 63
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soluto valore; alla luce di ciò i disvalori che sono in essa presenti non hanno più ragion d’esistere, per cui vanno allontanati; mentre tutti gli altri valori che compongono il mondo umano vengono purificati e riordinati: anche l’amore verso Dio viene trasumanato, elevato, santificato, per cui diventa amore che non gli nega nulla, per il quale Dio regna veramente nel cuore64. In questo ambiente è importante e fondamentale la scelta della fede. Quando la persona è piena della luce che viene da Dio, l’unico suo interesse resta soltanto Dio; in Lui risolve tutti i dubbi, supera tutti i tentennamenti, vince tutte le difficoltà, trova tutti i compensi. In Dio e per Dio trova se stesso, si possiede, si domina, non discute più tra il bene e il male, una sola cosa le preme: vivere per, con ed in Lui, aspettando il giorno del suo pieno possesso, del Regno eterno65. La vita in Dio quali conseguenze comporta per le scelte morali che siamo chiamati a compiere? Questo è un interrogativo molto importante, la cui risposta ci aiuterà a comprendere la valenza della vita in Dio per quanto concerne l’agire morale umano; infatti non possiamo operare in modo moralmente retto, se il pensiero che anima le nostre attività e le nostre opere, non è pieno della convinzione che non siamo nostri, non ci apparteniamo, ma siamo di Dio sotto ogni aspetto66. Come insegna l’apostolo Paolo siamo di Dio; questa appartenenza la mostriamo in qualunque cosa facciamo, anche quando compiamo le cose più umili e più naturalmente elementari, come il mangiare e il bere, lo stesso vivere e lo stesso morire, così come insegna Col 3,17: «E tutto quello che fate in parole ed in opere, tutto si compie nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di Lui grazie a Dio Padre».
Qualcuno potrebbe muovere delle obiezioni: «Si dirà: dunque non operiamo rettamente, ogni volta che facendo qualche cosa, non pensiamo a Dio? Se così fosse la vita ordinata non sarebbe possibile, perché non è possibile aver Dio nel pensiero così costantemente, da non se ne distrarre un sol momento. Certo non è così né noi abbiamo parlato del64 65 66
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Cfr. ibid., 209-214. Cfr. ibid., 219. Cfr. La vita in Dio, 86.
l’attualità costante del pensiero di Dio […] sebbene della convinzione, che non dev’essere superficiale, ma profonda, che noi siamo di Dio»67.
Questa convinzione possibilissima e tanto preziosa per la vita e le scelte morali dei singoli, corrisponde al primo dei nostri doveri; alla conoscenza di ciò l’umanità vi pervenne ben presto e con l’immediatezza di tutto ciò che è spontaneo, perché nasce dall’attività fondamentale della ragione che chiamiamo buon senso. A causa della mancanza della luce della Rivelazione, nei secoli che precedettero il cristianesimo, la ragione umana traviò riguardo l’uso della conoscenza che noi abbiamo tutto da Dio e a Lui tutto va riferito68. Il mondo pagano credeva che niente avvenisse nella natura e nell’uomo, che non fosse prodotto o favorito da una qualche divinità; inconsapevolmente affermava che nel mondo nulla è di se stesso e tutte le cose, dalle piccole alle grandi, dalle inanimate alle animate, dalle irrazionali alle razionali, dalle materiali o sensitive alle spirituali, tutte senza eccezioni, sono di Dio e provengono da Lui; esistono, agiscono, durano, prosperano per Dio e la sua azione69. Ma chiediamoci esplicitamente quali sono le conseguenze della vita in Dio per l’uomo. Il primo e principale effetto della vita in Dio è l’esclusione di ogni peccato e la decisa e risoluta rinunzia di esso, inteso come negatività e opposizione alla vera vita nella sua realtà piena. Un altro effetto conseguente al primo e ad esso collegato è l’acquisizione delle virtù che rendono qualitativamente diversa la vita del soggetto. La maggior parte dei peccati e delle mancanze che si commettono deriva dal non stare quanto si conviene alla presenza di Dio, cioè dal non vivere la propria vita in Dio, attraverso il perfezionamento e l’esercizio del raccoglimento, che conduce alla vera vita interiore. La vita spirituale, cioè quella secondo lo Spirito, importa tante rinunzie e tanti dolori, come la vita del peccato: con la differenza che i dolori del peccato precipitano l’uomo nella morte, mentre quelli della virtù e della santità si risolvono in gioia e generano la pace, assicurano il premio e fanno gustare la felicità della vita eterna70. 67 68 69 70
Ibid., 86-87. Cfr. ibid., 87. Cfr. ibid., 87-88. Cfr. Il santo raccoglimento, 241; 288.
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La vita in Dio comporta delle scelte morali specifiche, che nascono dalla opzione fondamentale, la quale consiste nel voler vivere la propria vita in Dio: l’uomo è chiamato a spogliarsi dell’amor proprio, puramente umano, a far morire l’uomo vecchio, secondo il linguaggio paolino, in vista di una ricerca e di un godimento di Dio, a rivestirsi di Dio, a cristificarsi. «Noi questo arduo lavoro di spogliamento e di rinunzie, con le sole forze naturali, aiutate dalle grazie ordinarie, non possiamo spingerlo oltre i primi gradi della vita interiore. Lo spogliamento totale non è in nostro potere, perché supera le forze ordinarie della natura. Se però noi ci mettiamo […] sulla via del Santo Amore […] il meglio lo farà lo stesso amore […] con l’amore di Dio entra nell’anima tutta la ricchezza soprannaturale delle virtù e il principio di tutte le forze per compiere tutti i doveri; […] l’amore di Dio […] ci spoglia di ciò che deve perire come l’affetto della colpa; ci riveste di ciò che fa la ricchezza della nostra vita spirituale»71.
La vita cristiana, che è vita in Dio, è la stessa vita umana elevata ad un ordine superiore: quello soprannaturale. Elevando la natura umana, Dio non l’ha condannata, bensì l’ha perfezionata ed arricchita di attività superiori, rendendola capace di vivere la dimensione divina. Spogliarsi degli affetti puramente umani non è uno spogliamento, ma un trapasso dal meno al più, è un vivere la stessa vita umana in modo sovrumano72. La vita in Dio esige quindi uno stato di purificazione, di scollamento di tutto ciò che non è Dio, richiede, conseguentemente, lo stato di perfezione che è l’unione di amore con Dio, che fa dare a Dio tutto l’amore senza riserve o condizioni, e fa vivere di Lui e degli altri beni creati in e per Lui. Quando questa unione arriva alla sua ultima perfezione, dai grandi mistici, è chiamata matrimonio spirituale o unione trasformante, perché comporta un mutamento profondo e radicale della vita umana interessata, fino a raggiungere la perfetta unione con Dio73. Per mons. Sturzo la vita in Dio è vita d’unione e di intima comunione con Lui, fino al punto di vivere la vita naturale e di agire esclusivamente per Dio; essa ha delle ripercussioni notevoli nella dimensione morale e nelle scelte che l’uomo, in quanto tale, è chiamato a compiere, che vanno in due direzioni ben precise: spogliamento dell’uomo vecchio, quello segnato dal 71 72 73
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La via del Santo Amore, 182-183. Cfr. ibid., 182-183. Cfr. La preghiera che assicura il Paradiso, 64.
peccato, per far nascere l’uomo nuovo, in modo tale che si sviluppi e cresca fino a raggiungere la stessa altezza di Cristo Gesù, il vero uomo nuovo, al punto di cristificarsi e configurarsi pienamente a Lui, vivendo ed agendo solamente per Dio. La vita in Dio comporta questo cambiamento ontologico nell’uomo e nella sua vita morale ed ha delle conseguenze nella sua coscienza, la quale è resa sensibile e più attenta alla Parola che Dio le comunica, divenendo luogo dove risuona la voce di Dio.
6. I MEZZI CHE ALIMENTANO LA VITA IN DIO Parlando del mistero della conversione abbiamo già avuto modo di riflettere sui mezzi che favoriscono il cammino di ritorno a Dio e lo rendono possibile per ciascuno; sono ausili che Dio mette a disposizione dell’uomo perché questi ne usufruisca a suo vantaggio, secondo la logica di amore di Dio stesso. Questi mezzi sono la penitenza, la carità operosa, la preghiera, i sacramenti e la Parola di Dio. È evidente che per vivere pienamente in Dio questi strumenti sono necessari, anche perché favoriscono lo sviluppo adeguato della vita in Dio, così come gli elementi materiali sono utili per la vita fisica e ne favoriscono la crescita e lo svolgimento. La penitenza serve per dominare la parte istintiva e, quindi, negativa, dell’uomo, provocando la morte dell’uomo vecchio, del peccato, dell’egoismo, perché combatte l’amor proprio, causa di tutti i mali umani e principalmente causa dello spegnimento della fede e della vita che Dio ha posto in noi. Il nemico principale dell’uomo è l’egoismo, il quale impedisce il cammino di conversione diretto verso Dio, che corrisponde allo svolgimento della sua tendenzialità finalistica, ostacola la comunione di vita che c’è fra Dio e l’uomo, oscurandone la conoscenza vera del mistero di Dio74. Secondo il pensiero sturziano la penitenza ha questi obiettivi: è in funzione della vita in Dio, è strumentale rispetto alla santità, infatti la penitenza consiste nel «trovar il nemico, armarsi contro di lui, non abbandonar la lotta mai […] La 74
Cfr. Il mistero della conversione, 147-148.
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santità è amore; i mezzi per arrivarci sono i mezzi che liberano l’amore dagli impedimenti che gli vengono dal nostro egoismo»75.
La penitenza è in funzione della santità, cioè della vita in Dio, che è vita di amore, poiché riscatta l’amore da tutto ciò che lo mortifica. La carità operosa è un altro mezzo che Dio mette a nostra disposizione per alimentare la sua vita in noi. Dio è amore e si manifesta non solo a coloro che vivono secondo una rettitudine morale, conformemente ai dettami della coscienza illuminata dalla Rivelazione, ma principalmente si fa conoscere da coloro che vivono nell’amore76. Questo amore conduce a vedere Dio in ogni cosa, specialmente nell’uomo e a compiere tutti i doveri della vita come il solo dovere verso Dio; porta a vivere totalmente in Dio, perché è totalizzante ed esclusivo, stimola ad agire unicamente per Dio, ad amare le cose nell’amore di Dio; per cui possiamo dire che non è astratto, ma concreto: è carità operosa che trasforma tutto ed ingloba ogni cosa nella sua sfera77. Un altro mezzo che Dio ci offre per curare e far progredire la vita sua in noi è la preghiera, di cui parleremo diffusamente nel prossimo capitolo; adesso ci limitiamo a dare semplicemente qualche accenno breve per comprendere come la vita in Dio esiga la presenza della dimensione orante nell’uomo per progredire sempre più. La preghiera è elevazione della mente e della persona tutta a Dio; essa permette l’unione piena con Lui, ne favorisce l’instaurarsi di rapporti amichevoli, per cui diventa l’esercizio che ci unisce a Dio per vivere di, con e per Lui78. La preghiera, come la meditazione, è un parlare con Dio, non con la bocca, ma con il pensiero che possiede e vuole rendere come visibile e concreto il suo possesso; è un parlare amoroso con Dio, cercato come verità e come bontà. «L’uomo medita perché ama. Chi non ama, dice s. Giovanni, resta nella morte […] (1Gv 3,14) […] e chi resta nella morte, che è la morte nella vita, pur vivendo della natura, non vive la vita della grazia, e, pur comunicando con Dio col pensiero che conosce, non vi comunica col pensiero che ama, 75 76 77 78
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Ibid., 148. Cfr. La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 82. Cfr. ibid., 86-87. Cfr. La preghiera che assicura il Paradiso, 92.
e, sotto questo rispetto, resta come lontano da Dio. Ama l’uomo che medita, perché è l’amore che lo mette alla presenza di Dio»79.
La preghiera che anima la vita in Dio, come anche l’amore, non è puro sentimento, infatti essa termina con i propositi, perché desta, attualizza ed infiamma la capacità di amare e la stessa vita; essa infatti non si esaurisce in sé, ma è ordinata all’amore ed alle opere80. La preghiera ha un segreto: ci rende disposti a meglio comunicare con Dio; ciò significa riconoscere che Egli è tutto e noi siamo nulla; Lui l’essere a sé e noi l’essere che ci dà e conserva; Dio il bene per essenza e noi la bontà per partecipazione. Riconoscere ciò è collocarsi al posto che ci spetta, che non è l’indipendenza da Dio, ma la piena dipendenza, è accettare che la nostra vita è vera quando è vissuta in Dio81. Altri mezzi ancora utili per alimentare, far crescere e maturare la vita in Dio sono i sacramenti e la stessa Parola di Dio. Per mezzo di Gesù Cristo il mistero invisibile è reso sensibile all’uomo: l’immensa distanza del trascendente è superata, ciò specialmente con i sacramenti: infatti con l’Eucarestia avviene una elevazione dell’uomo, un’altra unione del divino con l’umano: si realizza il mistero della umana deificazione, che si compirà definitivamente nella dimensione escatologica, ma che inizia già su questa terra. L’Eucarestia è il memoriale perpetuo del mistero di Cristo Gesù e la perenne mistica rinnovazione di esso e della Redenzione. Per mezzo della Redenzione Dio ristabilì in modo più perfetto i rapporti d’amore con l’umanità, che corrispondono alla attuazione della vita in Dio. La Redenzione non si applica agli uomini una volta per tutte, ma è la vita nuova che si comunica con il battesimo e si mantiene con le opere buone. Per mons. Mario, con l’Eucarestia, la Redenzione si esprime nei simboli del cibo e della bevanda e con essa l’uomo viene quasi mutato in Dio; mancando questo nutrimento ci cagionerebbe lo spegnimento della vita in Dio82.
79 80 81 82
La vita in Dio, 101. Cfr. ibid., 100-103. Cfr. ibid., 106. Cfr. La pastorale collettiva degli Arcivescovi e Vescovi di Sicilia, 15-20.
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L’Eucarestia è simbolo, perché rappresenta quello che sarà la vita eterna, cioè «Il possesso pieno, immediato, svelato e reale, pel quale l’anima è come immersa in Dio […] meglio di come il pesce è immerso nell’immensità dell’oceano; il quale possesso è l’ultima attuazione della deificazione umana»83.
Per cui la vita in Dio, alimentata da questi mezzi è già l’attuarsi nel tempo della realtà futura, escatologica, tanto che l’andare in Cielo non è il passaggio da una realtà ad un’altra del tutto diversa, di altro ordine e natura, ma è una perfezione, un compimento, infatti il Vangelo afferma che il Regno di Dio è in terra, nell’anima dell’uomo, il quale comincia ad essere deificato in terra, perché qui deve vivere in, con e per Dio. La vita in Dio è un’anticipazione di ciò che sarà realtà perfetta nella dimensione escatologica, così l’uomo conosce in modo più determinato e certo che la terra e il Cielo non sono due regni del tutto separati, due mondi reciprocamente diversi, ma che l’uno è per l’altro84. Anche la Parola della rivelazione è divinizzante, cioè trasumanante, per cui l’uomo giunge ad una tale elevazione, per la quale è una nuova creatura85. L’uomo non diventa un vero dio, ciò sarebbe impossibile, ma attraverso l’ascolto della Parola viene rivestito del dono della grazia che è una certa partecipazione della divinità, della sua natura e della sua vita. Ma chiediamoci: che cosa è la Rivelazione di Dio? «È Dio che si comunica come verità; è il complesso delle verità che bisogna conoscere, alle quali bisogna credere per agire rettamente in ordine all’eterna salute»86.
Quindi anche la Parola è in funzione della vita in Dio, perché veicola quelle verità fondamentali che alimentano l’unione dell’uomo con Dio, cioè la vita in Dio, infatti essa è per la santità. Per mons. Sturzo chi accetta la Parola di Dio, l’ama e vi medita assiduamente, essa diventa luce che illumina, fuoco che purifica ed infiamma; 83 84 85 86
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Ibid., 31. Cfr. ibid., 26. Cfr. ibid., 42-43. Ibid., 48-50.
ragion per cui la vita di peccato è oblio della Parola di Dio, incomprensione del suo amore che si manifesta nell’Eucarestia e nella Parola. Inoltre la Parola di Dio è importante per l’agire morale dell’uomo; è il suo nutrimento, meditarla è unirsi a Dio, per cui l’uomo veramente vive in Dio, e, vivendo in Lui, opera in santità. Per mons. Sturzo i due termini estremi della vita cristiana sono: la Parola parlata e quella gustata; il primo è la Scrittura, il secondo è l’Eucarestia. Senza la conoscenza della Rivelazione e la pratica del culto eucaristico, non c’è vera vita cristiana come vita in Dio, vita di grazia, come progressivo avanzamento nella santità. I mezzi di cui abbiamo parlato conferiscono la vita di grazia, che è la vita in Dio. Questa nuova condizione umana non è una cosa avulsa dalla vita concreta, infatti chi vive della parola rivelata e nutre la sua vita con quella di Dio che si rivela all’uomo per mezzo della Parola e dell’Eucarestia, non può non osservare tutti gli altri doveri che conducono alla vita eterna, che corrispondono ai doveri della vita umana come razionale e soprannaturale, tutti ordinati al dovere supremo che è di servire Dio, possedendolo nella fede e nell’amore87.
CONCLUSIONE La vita in Dio è la massima tendenza della natura dell’uomo che cerca con forte e profonda spontaneità Dio e non desidera altri su questa terra che vivere la sua vita in Dio, in comunione piena con Lui. Noi uomini, come anche la realtà creata, siamo, esistiamo e viviamo in Dio; questa vita è partecipata in modo speciale agli uomini; la dipendenza da Dio da parte degli uomini è vissuta bene, quando con tutte le nostre capacità e con tutte le nostre forze viviamo in e per Dio. Quando si verifica ciò non siamo più noi che viviamo la nostra vita, in noi vive lo stesso Dio: l’esperienza di Paolo raccontata in Gal 2,20 ne è una conferma; e mons. Sturzo ne fa un chiaro riferimento. L’uomo, dato che è relativo, non può sottrarsi alla dipendenza di Dio, perché non può viverne senza, infatti al di fuori di Dio c’è il nulla e l’uomo è in Dio ed in Lui ha la ragione del suo essere e la sua vera felicità esisten87
Cfr. ibid., 51.
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ziale. Per cui non può rinunziare a se stesso e alla felicità vera ed eterna nel possesso e nell’unione con Dio, perché non può uscire dalla sua realtà e dalla sua natura che fu creata in questo modo. La vita moralmente ordinata consente all’uomo di mettersi nelle migliori e più sicure condizioni di convertirsi a Dio ogni giorno e di vivere in Dio, per lasciare comparire ed agire l’uomo nuovo, quello trasumanato, o meglio per far vivere Cristo Gesù che opera in lui e vive in lui. Siamo capaci di conoscenza vera, di corrispondenza di pensieri e di affetti e di vivere in e per Dio, perché Gesù Cristo ce ne ha data la capacità per mezzo della sua Rivelazione e della sua grazia. Il vivere in Dio comporta per noi una migliore conoscenza, una più intima comunione e un profondo amore per Dio: tutto ciò suscita le opere e con esse la santificazione.
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CAPITOLO VI VALORE E IMPORTANZA DELLA PREGHIERA NELLA VITA DEL CRISTIANO
1. VALORE E IMPORTANZA DELLA PREGHIERA NELLA VITA DEL CRISTIANO L’uomo avverte in sé la tensione teologica ed escatologica, perché è stato creato per Dio e la sua esperienza ha senso e valore quando è vita in Dio; scorge in sé l’ansia di unirsi a Lui. La vita in Dio si alimenta con la preghiera, che è per l’uomo la prima e principale preoccupazione. La sua essenza consiste nel parlare con Dio non con la bocca, ma con la mente ed il cuore. È mettersi alla sua presenza; guardarlo con l’occhio della fede, sentire la sua bontà, sperare tutto da Lui e avvertire la vacuità della vita. La preghiera inoltre è inerente alla nostra realtà umana: si prega per soprannaturale istinto, infatti non occorre una scienza particolare per saper pregare1. «Ecco perché l’orazione è l’esercizio fondamentale della vita cristiana che deve investire di sé tutti gli altri esercizi, in modo che se si ora bene, si fa bene il resto, e se si fa il resto senza l’orazione, è impossibile che si faccia bene. Ed ecco perché Gesù Cristo inculca tanto l’orazione da dire che bisogna orar sempre, senza posa: oportet sempre orare et non deficere (Lc 18,1), […] Ed è orazione la fede come è orazione l’amore; orazione sono le opere […] tutta la vita liturgica […] tutte le azioni della vita: tutto è orazione quando si comunica con Dio, con l’amore che nasce e vive nel pensiero, quando tutto facciamo per Dio, in tutto cerchiamo Dio […] quando anche non avendo in atto Dio presente, l’abbiamo presente nello stato abituale del nostro spirito, il quale nulla consente a sé, che ripugni alla coscienza, che contrasti coi giudizi normativi della ragione, e tutto fa, a qualunque costo, quando la coscienza ne avverte il dovere, quando la parola dovere suona in fondo al nostro spirito come un comando che non consente tentennamenti»2.
In questo capitolo vedremo cosa è la preghiera per mons. Sturzo, e a che cosa è finalizzata. Esamineremo cosa intende quando la definisce pre1 2
Cfr. La via della salute, 15-18. La vita in Dio, 109; 115.
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ghiera del cuore, le sue diverse forme, la meditazione con il metodo che egli propone e la contemplazione, come dimensione mistica, dove Dio si fa presente e agisce nell’uomo. Un paragrafo valuterà le implicanze della preghiera nella vita del cristiano e quindi nel suo agire morale.
2. LA PREGHIERA Dio, con la Rivelazione, ha fatto conoscere il suo progetto salvifico, che va attuando nel tempo e nella storia; esso consiste nella salvezza offerta a tutti: ragion per cui si può affermare che la salvezza è un dono di Dio, che scaturisce dalla sua realtà essenziale che è l’amore. Tale dono esige anche l’efficace corrispondenza personale dell’uomo, tanto che possiamo dire che la salvezza è anche conquista umana; pur essendo Dio che salva e offre questa salutare possibilità, anche l’uomo salva se stesso, non con le sole sue forze, o per le sue industrie, ma per sua grazia si salva in e per Dio. Se questo è il progetto di Dio, si intuisce con facilità quale sia l’unum necessarium e quanto sia fondamentale per ogni credente; da ciò nasce pure il bisogno di essere solleciti della propria ed anche dell’altrui salvezza. La preghiera è uno dei tanti mezzi che rende l’uomo attento a questo compito fondamentale, infatti permette di destare sempre vive le ansie per una profonda e sincera conversione; essa spinge continuamente verso Dio, originando un dinamismo interiore che porta il soggetto ad uscire dallo stato di peccato per vivere unicamente in Dio. Ma che cos’è la preghiera? Per l’Aquinate, come per tutta la Scolastica, è ascensus intellectus ad 3 Deum . L’atto di elevare la mente a Dio comporta delle conseguenze ed ha diversi significati che ora esaminiamo. «Elevar la mente a Dio è riconoscere Dio come Dio, come primo principio e ultimo fine, Signore del Cielo e della terra, distributore delle grazie, giudice che dà il premio a chi fa il bene ed il castigo a chi fa il male; nell’eternità pienamente felice o pienamente infelice; è riconoscer Dio con la mente 3
192
TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q83, a1, c.
per riconoscerlo anche con il cuore, è dischiudere la mente a Dio per dischiudere […] il cuore; pensare a Lui per agire per Lui; ravvivare la fede per ravvivare la speranza e la carità; credere più fortemente per agire sempre più ordinatamente […], santamente fino ad acquistare l’abito del retto agire e diventar santi nel senso pieno della parola»4.
L’elevar la mente a Dio comporta quindi un riconoscimento esplicito di Dio, una sua accettazione in quanto vera ragion d’essere dello stesso uomo; tutto ciò significa già fare una completa professione di fede che esige un abbandono in Lui e un suo riconoscimento fatto con il cuore. Ecco perché elevar la mente a Dio vuol dire pensare a Lui, con un pensiero che non sia pura e fredda speculazione, ma che sia amoroso, finalizzato all’azione, cioè all’agire per Lui. Quindi l’elevazione della mente a Dio corrisponde anche a ravvivare la fede, la speranza e la carità. Da queste brevi riflessioni, partendo dalla definizione tomista, possiamo dire che «La preghiera è questo quando è orazione […] quando è atto della mente che si eleva a Dio e considera le verità eterne, ma è atto del cuore che si schiude a Dio per dirgli il suo amore e meglio disporsi a dargli il tributo delle sue opere»5.
Seguendo questa prima definizione, potremmo subito pensare che la preghiera sia soltanto uno sforzo dell’uomo per raggiungere Dio e il suo ineffabile mistero, per ravvivare le virtù teologali; dobbiamo subito completare la riflessione secondo il pensiero del vescovo di Piazza Armerina, affermando che la preghiera è un dono di Dio, un mezzo offerto all’uomo per impetrare gli aiuti speciali e straordinari in vista della salvezza; è uno strumento che diventa per noi il principio della cooperazione all’opera salvifica di Dio, dato che Dio stesso ci vuole non passivi, ma «co-protagonisti» nella sua opera a nostro vantaggio. «Il buon Dio, dandoci la grazia della preghiera, mette appunto nelle nostre mani la salvazione, da poter dire che, pur essendo Egli che ci salva, siamo noi che salviamo noi stessi […] Dio se ci creò senza verun nostro concorso, 4 5
Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, Prefazione, VIII. Ibid., VIII-IX.
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senza il nostro concorso non ci salverà. Il principio della nostra cooperazione Dio, per sua misericordia, lo pose nella preghiera. E noi possiamo affermare con i più grandi dottori che, mentre è vero che nessuno si salva se non prega, è ugualmente vero che nessuno si perde se prega. Né questa dottrina è pura elaborazione d’umano raziocinio e invece è semplice spiegazione della parola rivelata»6.
La preghiera allora si presenta finalizzata a qualcosa di specifico: la santificazione del cristiano, non in modo frammentario, ma metodologico, mirando non alla parte ma al tutto, al termine supremo che è la perfezione. In quanto elevazione della mente a Dio, essa permette di entrare in rapporto e in dialogo con Lui, al quale va il tributo della nostra lode e del nostro amore, in quanto siamo creature sue e da Lui riceviamo ogni principio e ogni fine. La preghiera permette all’uomo di rispondere in modo quasi adeguato alla vocazione che ha ricevuto: quella di essere santo, di vivere in Dio, di essere consorte della natura divina, e cristiforme; l’essenza della santità, per il vescovo siciliano è la carità, alla quale si perviene per mezzo della perfezione; lo stato di perfezione domanda una purezza di vita e una ricchezza di virtù tanto che l’uomo possa aderire a Dio in modo pieno da escludere da sé tutto ciò che non è Dio, da non volere che Dio, quale valore assoluto della propria vita, e agire conformemente a tale opzione fondamentale. La preghiera è il mezzo essenziale per realizzare questo progetto di vita, per cui può definirsi come la scienza della santità, quando permette di entrare in sintonia con Dio e di comunicare con Lui. Questo tipo di scienza è diverso da ogni altro; per acquistarlo bisogna andare alla stessa scuola di Dio; quindi la scuola diventa la stessa preghiera7. La preghiera è importante per i motivi sopra indicati, che sono motivazioni esclusivamente teologiche, nel senso che riguardano Dio e il nostro rapporto con Lui, poiché siamo partiti dalla definizione scolastica. Ma è chiaro che i vantaggi per la vita morale e fisica dell’uomo sono pure notevoli e tutti da considerare attentamente. Intanto già il rapportarsi con Dio attraverso la preghiera, il comunicare con Lui comporta il ritrovare la fonte e il principio primo dell’esistenza; alla luce di Dio e del suo mistero la vita del singolo acquista il suo
6 7
194
La preghiera che assicura il Paradiso, 12. Cfr. Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, 225-227.
vero senso, egli scopre la sua dignità e il suo ruolo di creatura e di figlio di Dio. L’individuo con la preghiera ritrova pienamente se stesso. Abbiamo visto che per mons. Sturzo conoscere Dio significa anche conoscere se stessi, incontrarsi con Lui vuol dire scoprire la propria realtà e la propria natura che è in rapportualità piena con Lui. In questo senso la preghiera, conseguentemente, è il mezzo che permette di restare in noi ed essere amici di noi stessi; è la prima voce che scaturisce dalle profondità dell’essere e ricerca i misteri della vita; nasce dalla coscienza della nostra contingenza e relatività ed è ciò che Dio vuole udire per soccorrerci, giacché questo tipo di coscienza provoca l’atteggiamento di umiltà e di sincera fede. Così si esprime mons. Mario: «La preghiera non è vera preghiera se non è orazione. Poco è che parli il labbro se non parla la mente, se non parla il cuore, l’orazione in se stessa è un levarsi a Dio con la mente […] scendere nelle ultime profondità del nostro essere, dove Dio abita, e trovare Dio in noi e noi in Dio, è propiziare e meritare che ci soccorra in modo più largo, generoso, efficace»8.
Per mezzo della preghiera si entra in rapporto con Dio, l’uomo si innalza fino alla sfera del divino, poiché è elevazione, si scopre come essere relazionale e dipendente da Dio, per cui le scelte morali della vita saranno in rapporto con queste nuove acquisizioni; allora la preghiera e la propria vita interiore sono elementi indispensabili per l’agire morale, hanno una notevolissima influenza sulla vita morale dei singoli. Di questo, tuttavia, parleremo in seguito. La preghiera è utile anche alla vita naturale perché ci dà la capacità di controllo, di autodominio, come anche la possibilità di attingere, come a fonte il coraggio per essere sempre uniti a Dio, fare il bene sempre come scelta morale ed evitare il male. «Pel filosofo che comincia, il primo problema è la cognizione delle cose che lo circondano, cioè la cognizione della natura […] s. Agostino per molti anni aveva ciò domandato alla ragione. Appena convertito, benché ne avesse avuta la soluzione per mezzo della fede, cominciò a domandarla allo stesso Dio. Qui non abbiamo più lo studio fatto sui libri o nelle speculazioni della mente, ma la preghiera, la meditazione. s. Agostino sentiva molto bene che 8
La santità nell’itinerario dell’anima in Dio, 109-110.
195
gli era necessaria altra luce e altra scienza; cominciava a sperimentare che Dio in altro modo si comunicava nello studio, in altro modo nella preghiera […] La vita naturale è come una dispersione di pensieri e di affetti, […] delle energie sensitive, intellettive, e volitive e occorreva essere vigilanti, affinché nessun pensiero e nessun sentimento si allontanasse da Dio. E aveva sperimentato che questa custodia, questa disciplina, questa ricomposizione a unità delle energie del corpo e dello spirito, non si può ottenere che mediante l’orazione, non si può custodire che mediante il raccoglimento»9.
3. LA PREGHIERA È FINALIZZATA ALL’UNIONE L’AMORE: È PREGHIERA DEL CUORE
CON
DIO
E AD ALIMENTARE
La concezione sturziana della preghiera ci permette adesso di esaminare a che cosa è finalizzata e quali obiettivi intende raggiungere. Intanto bisogna dire che, per il vescovo di Piazza Armerina, essa ha gradi diversi, come l’amore, i quali devono rendere le opere sempre più perfette e sante. Quando ha i requisiti essenziali che sono: pregare per il proprio bene, per la vita eterna, con fede e perseveranza, serve a impetrare veramente la vita eterna. Se l’uomo trascura di rendere la sua preghiera, il suo amore, le sue opere sempre più santi e perfetti, corre il pericolo di cadere o ricadere nel peccato e quindi di perdersi. Perché la preghiera assicuri la vita eterna, deve progredire sempre, diventando sempre più pura e più perfetta. Inoltre ha un valore assoluto, in quanto è un mezzo per acquistare, conservare, far crescere l’amore e per rendere con l’amore sante e perfette le opere10. Questa è una delle finalità principali che il vescovo siciliano attribuisce alla preghiera. Adoperiamo il termine «preghiera» in questo contesto per indicare qualsiasi forma di preghiera, o meglio, ciò che in essa è essenziale: elevar la mente a Dio affinché l’anima si unisca a Lui in modo immediato e tratti con Lui cuore a cuore. Chiaramente c’è differenza fra preghiera vocale e quella mentale: sia l’una che l’altra però devono essere preghiera del cuore. Ma che cosa intende mons. Sturzo con questa espressione? La pre9 10
196
Il santo raccoglimento, 267-268; vd. ibid., 268-271. Cfr. ibid., 47.
ghiera va fatta non solo con l’attenzione, ma principalmente con amore, ecco perché parla di «preghiera del cuore». Rifacendosi alla dottrina tomista, afferma che l’amore è godere del bene amato, volere bene all’amato; è contemporaneamente amor di sé e amor dell’amato. La preghiera è questo, sia che adori, sia che domandi, sia che ringrazi, sia che chieda perdono; infatti chi adora riconosce il supremo dominio di Dio sommamente buono e amabile; chi domanda in ogni bene richiesto cerca Dio sommo bene, senza del quale nessun bene è buono; chi ringrazia gli mostra la sua riconoscenza, senza la quale l’amore non è tale; chi chiede perdono, chiede l’amore perduto o contrariato con la colpa. Dobbiamo subito affermare che l’amore non è soltanto un sentimento del cuore; per sapere se un cristiano ama veramente Dio, si deve badare non solo alle sue parole, ma le sue opere ce ne danno la prova. Quindi l’amore di cui parliamo non è una cosa vaga, astratta e non è nemmeno una dimensione solamente spirituale, ma esso ha delle incidenze pratiche sulla vita, poiché si traduce nelle opere. «La preghiera del cuore, cioè […] fatta […] con amore […] è amore […] e che cos’è la preghiera […] quando è preghiera del cuore? È forse, nella sua intima profondità altra cosa che il godere di Dio, che è il supremo Bene, supremamente amato; voler bene a Dio come a Bene supremo al quale è dovuto tutto l’onore, tutta la gloria, tutte le benedizioni? Questa deve essere la preghiera, e questo è quando è vera elevazione della mente in Dio, vera unione intima con Lui, nei rapporti personali più intimi e più profondi»11.
L’amore quando resta una dimensione astratta, non è amore; quando invece si traduce nelle opere, queste assumono le sue sembianze, in quanto sono originate e sono mantenute dall’amore e quindi esse stesse sono amore. Se l’amore viene meno le opere cessano di essere amore e se addirittura gli si oppongono, sono peccato. Quando le opere hanno queste caratteristiche sono le buone opere di cui parla s. Pietro nella sua epistola12, le quali rendono certa la nostra vocazione alla fede e la nostra elezione al Cielo; ma queste sono anche preghiera, perché essendo nell’ordine del-
11 12
Ibid., 49. Cfr. 2Pt 1,10.
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l’amore, sono ordinate a Dio, cioè sono quello che è la preghiera: l’ordine della vita in Dio13. La preghiera ci unisce a Dio in quanto preghiera; l’amore provoca la stessa cosa, perché amore; l’azione ci eleva a Dio in quanto azione: queste sono tre maniere diverse di vivere l’amore. Quando manca l’amore, la preghiera ha l’efficacia di disporre ad esso e se non dovesse produrre questo effetto non è vera preghiera; la stessa cosa si può affermare dell’amore che necessariamente produce la preghiera: infatti non è possibile amare Dio veramente e in modo assoluto e non pregare. Non è possibile agire sempre bene, evitare persino le imperfezioni e non pensare a Dio, non sentire l’amore e non desiderare la preghiera. «La preghiera […] è causa dell’amore perché è elevazione […] Pensare a Dio, meditare intorno a Lui, contemplarlo in viva fede è acquistare la cognizione di Dio o progredire in essa. conoscere Dio, conoscerlo come si fa nell’orazione, ammirarne la bontà e la bellezza e non amarlo […] non è possibile. Se la preghiera non produce questo effetto, non è vera preghiera. Ma è possibile amar Dio, amarlo assai, […] con tutto il cuore, vivere di Lui, operare per Lui, e non fare l’orazione? E quando l’amore è forte, caldo, profondo, attuale, è possibile sentir fastidio della preghiera? No, di certo […] l’uomo che veramente ama, passerebbe tutta la vita in orazione. È poi possibile agir bene, sempre, […] in modo perfetto […] non solo evitando sempre il peccato, ma studiandosi di evitare anche le imperfezioni, e non pensare a Dio, e non sentir l’amore, […] e non sospirare alla orazione, che appaga l’amore e mette così in intima familiarità con Dio? L’orazione è la luce della vita interiore, l’amore, il fuoco, le opere, il moto»14.
Possiamo così affermare che se in un cristiano mancasse del tutto la preghiera, mancherebbero sia la carità come anche le buone opere che ci fanno meritare la vita eterna: ciò si spiega perché la vita cristiana è sempre unità di preghiera, di carità e di buone opere. «Le opere sante non possono mancare mai, quando l’anima prega e possiede la carità, perché sono inerenti l’uno all’altro»15.
13 14 15
198
Cfr. La preghiera che assicura il Paradiso, 46-51. Ibid., 52. Ibid., 53.
L’essenziale della santità, della perfezione, cioè di quei requisiti necessari per conseguire la vita eterna, ossia la salvezza, è la carità in quanto amore che prega e che opera; sintetizzando possiamo affermare che l’essenza della santità è nell’unità delle tre dimensioni sopra accennate: preghiera, amore ed opere16. La preghiera che è amore e che si traduce in opere, assicura la salvezza e consiste nell’amore che ha vinto il suo contrario, cioè il peccato e ogni affetto che non sia per Dio; la carità così diventa la misura della preghiera17. Nella preghiera si deve chiedere l’amor di Dio ed essa non impetrerà la perseveranza fin quando non si mira alla più alta perfezione che consiste nell’unione d’amore con Dio, in modo tale che la comunione sia assoluta e faccia vivere di Dio e degli altri beni creati in e per Lui ed evitare il peccato, in quanto fa perdere la carità. Tale amore per crescere e progredire domanda uno sforzo efficace, totale così come lo domandano la preghiera ed anche le opere18. Nell’unità di queste tre dimensioni: preghiera, amore ed opere, risiede la santità e il vero tendere alla perfezione. Questa triade è così congiunta e le sue componenti sono così essenziali che non mancano mai dove c’è il minimo di vita cristiana19.
4. FORME E MODI DIVERSI DI PREGHIERA Dopo aver esaminato cosa è per mons. Sturzo la preghiera, ora distinguiamo le sue varie forme. Questa operazione è possibile soltanto per motivi di analisi, in realtà non abbiamo diverse preghiere, perché nella sua essenza è una sola, anche se abbiamo una pluralità di forme. L’essenza della preghiera, come già abbiamo esaminato, è l’atto della mente che si leva a Dio e a Lui si unisce amorosamente e con Lui tratta amichevolmente circa la vita eterna. Mons. Mario questi concetti così li esprime:
16 17 18 19
Cfr. ibid., 52-54. Cfr. ibid., 55. Cfr. ibid., 64-65; 83. Cfr. ibid., 79.
199
«L’orazione, o preghiera che dir si voglia è una nella sua essenza, molteplice nelle sue forme […] Non è solo pensiero indagante, né pensiero solamente pensante, e perciò non è filosofia, né scienza, né arte, cioè non è pura speculazione, né pura azione, né pura naturalità. È atto soprannaturale con fini pratici che sono la gloria di Dio, la santificazione della vita, la salvazione […] È atto di pensiero amoroso e di amore illuminato dal pensiero e dalla fede […] Si fa l’orazione per amore o per amar meglio […] È l’esercizio che ci unisce a Dio per vivere di Lui, con Lui, per Lui e per trovare in Lui la vera vita dell’anima, quella vita che è il principio della vita eterna»20.
La preghiera, pur essendo varia nella forma, è sempre confessione di fede in Dio. In quanto elevazione della mente a Dio, quindi suo riconoscimento, non può che essere preghiera di adorazione, cioè atto con cui si riconosce la grandezza di Dio che ha fatto ogni cosa e ha redento l’umanità intera; è atto di adorazione che porta a sentire e a riconoscere il tutto di Dio e il nulla dell’essere umano. Questo corrisponde a un tipo di preghiera già ben delineato21. Quando ci mette davanti a Dio con questo atteggiamento orante ed adorante, esplicitamente diventa anche preghiera di perdono. Alla luce di Dio l’uomo si scopre come essere in relazione, in rapporto con Lui. È chiaro che se Dio è tutto e l’uomo il nulla, un vero abisso separa i due esseri, se non fosse Lui a riempire questo immenso vuoto che impedisce di accostarlo. La preghiera diventa confessione della grandezza di Dio, della sua azione misericordiosa, in quanto Egli tende la mano all’uomo per avvicinarlo a sé, ma è anche confessione della propria limitatezza creaturale, quindi richiesta di perdono e di misericordia, poiché la realtà umana è ferita. L’uomo è ontologicamente povero e incompleto a causa della presenza del peccato, per cui le sue scelte morali sono compromesse, la sua intelligenza e la sua volontà vengono annebbiate e indotte a volere e a fare il male. Così abbiamo un’altra forma di preghiera: quella che invoca il perdono e la misericordia di Dio22. Elevarsi a Dio vuol dire anche ringraziarlo per la sua presenza e per la sua azione creatrice e ricreatrice. Ecco perché la preghiera è lode e ringraziamento: questa è una forma inerente alla stessa sua essenza. 20 21 22
200
La preghiera che assicura il Paradiso, 92-93. Cfr. La via del Santo Amore, 18. Cfr. ibid., 18-19.
L’uomo che con la preghiera sta davanti a Dio non può non dire grazie e lodarlo per il dono della vita, della creazione, della realtà che lo circonda, della fede-speranza-carità, della vera conoscenza che di sé dà all’uomo, della chiamata alla santità, alla vita in Dio. Ringrazia il Signore anche per la preghiera, dato che è un dono di Dio. Questa è la preghiera di ringraziamento e corrisponde ad un’altra forma diversa dalla precedente23. C’è anche la forma di preghiera che domanda, perché Dio è il datore di ogni dono, è il Creatore, è Colui che mantiene nell’essere tutta la realtà, a Lui quindi bisogna chiedere ciò che serve per la salvezza, ma anche ciò che è utile per la vita di ogni giorno. Della preghiera che impetra i beni materiali, avremo la possibilità di parlarne in seguito24. Queste sono le varie forme della preghiera: dalla analisi descrittiva emerge come siano tutte legate tra di loro come anelli di una sola catena, e come l’una forma richiami le altre; infatti dalla preghiera di adorazione si passa a quella di richiesta di perdono, di ringraziamento e di domanda. La preghiera ha molteplici modalità; infatti essa può essere mentale, vocale, reale, secondo che si prega con la mente, con le parole, con le opere. È evidente che queste varie modalità si richiamano anch’esse a vicenda, poiché la forma mentale non consegue il suo fine se non anima la preghiera orale e le opere, né la preghiera orale ha valore, se non è in qualche modo mentale; né le opere sono preghiera se non sono ordinate a Dio25. Si prega non soltanto con la mente, con le opere, con le parole, ma tutta la vita diventa preghiera quando, come afferma s. Tommaso26, l’uomo ordina tutto in Dio; il che significa che tutto ciò che si fa per Dio, per suo amore, per la sua gloria: tutto è preghiera. «Le azioni fatte in Dio e per Dio sono preghiera, non in quanto sono azione, ma in quanto sono fatte in Dio e per Dio, cioè, non per la loro materialità, ma per lo spirito che le anima, e questo spirito è l’atto della mente che le anima attualmente o anche virtualmente, e quest’atto della mente è il pensiero e l’affetto della stessa mente»27.
23 24 25 26 27
Cfr. La vita in Dio, 106. Cfr. Suggerimenti sul modo di fare l’orazione. Prefazione, IX. Cfr. ibid., 92; vd. Suggerimenti sul modo di fare l’orazione. Prefazione, IX. Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q83, a3. Ibid., 95.
201
Inoltre la preghiera è vera quando «In qualunque modo fatta, con qualunque formula espressa […] è la confessione della nostra impotenza, è la confessione dell’onnipotenza di Dio, della nostra miseria e della sua bontà; della nostra indegnità e della sua misericordia; quando è confessione della sua divinità e della sua umanità, del suo diritto ad una soddisfazione di infinito valore a Lui data dal suo santissimo figliolo fatto uomo per noi e per noi morto sulla croce; quando sale al suo divino cospetto avvalorata dai meriti di Gesù Cristo; quando è Gesù Cristo che l’accoglie nel suo santissimo cuore e come sua preghiera la presenta al Padre. Il che vuol dire che i requisiti della preghiera veramente efficace […] si incentrano nella confessione del nostro nulla e della mediazione salvifica del Verbo di Dio fatto uomo»28.
In questo brano mons. Sturzo focalizza molto bene le caratteristiche essenziali della preghiera: essa, a prescindere dalla diversità delle forme e modalità in cui può essere catalogata, si identifica come tale quando contemporaneamente esprime la confessione della nullità dell’uomo e l’azione mediatrice del Verbo incarnato. Inoltre è vera quando è rivolta a Dio Padre nel nome di Gesù Cristo, cioè quando è preghiera cristologica in quanto fa riferimento essenzialmente alla persona e alla mediazione salvifica del Verbo fatto uomo.
5. LA PREGHIERA DI IMPETRAZIONE: SUE CARATTERISTICHE Abbiamo già parlato delle diverse forme di preghiera che mons. Sturzo nelle sue lettere esamina attentamente e consiglia ai suoi diocesani. Alla preghiera di impetrazione dedica un’attenzione particolare, sia per illustrare quello che bisogna innanzitutto chiedere, come e con quali atteggiamenti morali chiederlo, e poi per indicare anche le motivazioni perché una tale preghiera non viene esaudita dal Signore. Si pone un interrogativo: se la preghiera che domanda ottiene sempre, perché molti che pregano, continuano a vivere nel peccato o in esso vi ricadono? Come si spiega ciò? È chiaro che non ogni preghiera impetra;
28
202
La devozione alla Madonna Santissima, 4.
«e se voi cristiani, tiepidi e intristiti, non arrivate ad uscir dal vostro male, anzi quasi nemmeno ci pensate, dovete credere che la vostra sia appunto la preghiera che non impetra»29;
infatti la preghiera fatta male, cioè da persone che vivono nel peccato o sono indifferenti per quanto riguarda la fede, o fatta senza costanza o solo superficialmente, o per beni che non giovano alla propria salvezza, non ha efficacia. Per cui, perché la preghiera impetri, è necessario che chi prega abbia determinate disposizioni e la sua preghiera abbia pure caratteristiche precise30. Per questo argomento mons. Sturzo si rifà alla dottrina di s. Tommaso d’Aquino31. Tante volte nella preghiera si chiedono determinati beni temporali, che non si posseggono senza mettere in pericolo la propria salvezza, come per esempio: la bellezza, la ricchezza, l’ingegno, la forza, la prosperità. È necessario saperli usare come insegna s. Paolo in 1Cor. 7, 29-31, cioè come se non si possedessero, perché tutto ciò che non è per l’eternità, passa; e se è di ostacolo alla perseveranza, diventa mezzo di dannazione32. È evidente che per mons. Sturzo i beni materiali non sono valori negativi, in quanto sono stati creati e voluti da Dio e ci porterebbero a conoscere e amare il loro autore se noi fossimo esenti dal peccato e se non fossimo sedotti con facilità dal nostro egoismo. «Perciò Gesù Cristo non disse di spregiare le cose create, di condannarle, di maledirle come vanità, e solo disse che bisogna cercarle subordinatamente al regno di Dio che, come insegna s. Paolo, è giustizia e pace e gaudio nello Spirito Santo (Rm 14,17), e cioè, che è la santità che mena alla vita eterna dove sono i veri beni»33.
S. Tommaso insegna34 che chi prega per sé e domanda cose necessarie alla salvezza, con perseveranza e pietà ottiene sempre quello che domanda. Chi prega per gli altri fa una cosa buona, tanto che si raccomanda 29 30 31 32 33 34
La preghiera che assicura il Paradiso, 14. Cfr. ibid., 15. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q83, a15, c. Cfr. La preghiera che assicura il Paradiso, 16. Ibid., 24. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q83, a15, 3.
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la preghiera reciproca come mezzo di salvezza; però non ha la promessa di essere esaudita come quando l’uomo prega per la sua perseveranza, poiché manca la cooperazione dell’interessato, che si esprime appunto con la preghiera. Possiamo dire che la preghiera, perché possa essere con certezza esaudita, necessita della cooperazione ai disegni divini da parte dell’orante. Ma chiediamoci allora: quale deve essere l’oggetto della preghiera di impetrazione? La preghiera per sé è fatta per domandare cose necessarie alla salvezza, perché solo per queste il Signore ha impegnato la sua parola. Il vescovo siciliano, rifacendosi alla dottrina del dottor Angelico, specifica quali sono le caratteristiche che devono accompagnare questo tipo di preghiera: la pietà, la perseveranza e la spontaneità. Pregare con pietà vuol dire pregare con quell’atteggiamento di filiale confidenza e intimità, con il quale si parla al padre. La preghiera espressa con perseveranza è fatta con costanza, non come orazione formale, ma sempre come raccoglimento e santità di opere; una preghiera, cioè che si trasforma in vita, per cui l’uomo prega sempre quando ordina a Dio tutta la sua vita35. L’altro carattere che deve qualificare la preghiera è la spontaneità; il termine della preghiera è l’effusione del cuore ed essa è tanto più avvincente, quanto più è spontanea; un esempio di preghiera spontanea ci è dato dal racconto evangelico del figliol prodigo in Lc 15,11-32. Tale preghiera scaturisce dall’anima quando si mette di fronte a Dio come bisognosa di qualcosa. La spontaneità è come la freschezza della preghiera, ma è anche la sua convenienza, in quanto espressione immediata dello stato d’animo in cui si trova in quel momento. È una qualità che non deve mai mancare, qualunque sia la forma di preghiera a cui si è pervenuti36.
6. LA PREGHIERA RIVOLTA AL SIGNORE PER IMPETRARE GRAZIE TEMPORALI La preghiera di impetrazione domanda innanzitutto ciò che è necessario per la propria e altrui salvezza: sono aiuti speciali che il Signore con35 36
204
Cfr. ibid., 19. Cfr. Orazione e adorazione, 202-204.
cede per conservare la fede, la speranza e l’amore e per pervenire con certezza alla salvezza, alla perfetta vita in Dio. Noi però non soltanto siamo chiamati all’unione con Dio, ma essendo uomini concreti, con determinati bisogni materiali, fisici, siamo e viviamo nel mondo ed anche se siamo uomini di vita interiore, abbiamo bisogno dei beni materiali di questo mondo, che non appartengono a noi, né possiamo averli da noi, ma dal loro autore e creatore. Così si giustifica e si rende necessaria la forma di preghiera finalizzata ad impetrare grazie temporali, che è per mons. Sturzo: «Domanda determinata, richiesta di dati favori […] delle grazie e di aiuti di cui l’uomo sente il bisogno, la quale non è ordinata a far conoscere a Dio cosa che Egli potesse ignorare, perché Dio nulla ignora, né destare in Lui la volontà di dare quelle grazie all’uomo, perché Dio non cessa un istante di avere quella volontà, […] mentre è rivolta a Dio, come atto a Lui dovuto dalla creatura bisognosa di tutto, è rivolta dall’orante a se stesso, non come un’autopreghiera, ma come mezzo, pel quale egli senta meglio, più intensamente, più profondamente, più umilmente che ha bisogno di quegli aiuti, di quei favori, di quelle grazie che non gli possono venire che da Dio»37.
Secondo il pensiero sturziano questa forma di preghiera non va fatta per ricordare a Dio quello che a noi uomini può essere utile per la vita e che Lui deve donare, ma è un mezzo che esprime l’assoluta e necessaria dipendenza dell’uomo da Dio, fonte prima di ogni dono; per cui serve perché mette nella giusta posizione l’uomo nei confronti di Dio, aiutandolo a fargli vivere la sua dimensione creaturale. Un’altra motivazione ancora porta a giustificare questa forma di preghiera: quando domandiamo beni materiali, adempiamo ad un comandamento del Signore che nel «Padre nostro» ci insegnò a domandare non solo i beni che riguardano la vita eterna, ma anche quelli che si riferiscono alla vita presente, sempre secondo l’ordine della Provvidenza, cioè secondo quell’ordine che subordina tali beni a quelli essenziali e indispensabili che sono quelli eterni, i quali sono i soli che hanno valore; in riferimento ad essi i beni materiali assumono la loro importanza. Moltissime volte questa preghiera si riduce a domandare soltanto i beni materiali e manca di spiritualità. La prima condizione perché questa preghiera sia fatta secondo la 37
La vita in Dio, 105.
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volontà di Dio ed impetri, è farla per il dovere che ne abbiamo, cioè non soltanto per impetrare il bene che speriamo, ma per dare gloria a Dio. Il fine di ogni preghiera, infatti, è il riconoscimento del supremo dominio di Dio su tutte le cose e l’assoluta dipendenza delle cose e dell’uomo da Dio. Per cui la preghiera che domanda ha questa fondamentale caratteristica: confessione della grandezza assoluta di Dio, della relatività del creato e dell’uomo che dipendono e vivono in Dio; cioè tale preghiera mette al giusto posto Dio e l’uomo; infatti i beni temporali sono subordinati, cioè hanno valore in riferimento a quelli eterni; quando sono voluti fuori di questa subordinazione non sono beni, valori, ma sono mali. Ecco perché questa forma di preghiera deve avere il carattere della subordinazione; tante volte non viene esaudita perché manca questa caratteristica38. La preghiera con queste caratteristiche fa nascere nell’uomo l’esigenza di un atteggiamento morale fondamentale che è l’umiltà; qui sta anche il segreto della santità: l’umiltà ci fa riconoscere il nostro nulla e ci accompagna verso il tutto che è Dio. Come già abbiamo visto, possiamo dire che è necessario pregare per chiedere i beni della terra: questa preghiera fatta con umiltà ha il carattere della cooperazione, perché pregando uniamo la nostra opera a quella di Dio. Inoltre la dottrina di s. Tommaso afferma che Dio dispose che molti beni gli uomini l’avessero per mezzo della preghiera: «noi pregando uniamo la nostra opera a quella di Dio, come se Dio avesse bisogno della medesima per far quel che Egli fa, benché, essendo infinito, non dipende da nessuno e di nessuno ha bisogno»39.
Questo tipo di preghiera provoca un’altra disposizione morale, che corrisponde ad una tappa del cammino dell’orante: la rassegnazione. Questo atteggiamento ci porta a ringraziare Dio sia quando veniamo ascoltati, sia quando non lo siamo, perché sappiamo che la sua volontà è santissima e sapientissima e che agisce sempre per il bene dell’uomo. La rassegnazione provoca non soltanto la lode a Dio, ma dà tanta pace. Infatti la preghiera non consiste nel voler dire a Dio come deve fare o quello che deve donarci, non è imposizione della nostra volontà e dei 38 39
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Cfr. La preghiera che assicura il Paradiso, 19-20; 23. Ibid., 22.
nostri bisogni, ma secondo la definizione di s. Tommaso, è elevazione della mente in Dio ed amorosa adesione alla sua volontà e, come abbiamo già detto, impetra sempre, anche se non sempre ottiene i beni richiesti40. Il fine della preghiera è l’elevazione a Dio, l’aderire alla sua volontà; mancando questi obiettivi, come anche gli atteggiamenti fondamentali descritti precedentemente, e non conoscendo i segreti della santità, si vengono a formare quelle situazioni di fatto in cui tanti cristiani «Chiedono a Dio grazie e mostrano di pregare con grande fede e molto fervore, però quella che prevale in loro non è proprio la fede né quel che sembra fervore, è sempre ardore di carità. In fondo alle loro anime si nasconde spesso l’amor proprio che è l’opposto del vero e puro amor di Dio»41.
Quando la preghiera non viene esaudita, parecchi dicono che hanno perso la fede; per mons. Mario, in realtà questo modo di ragionare indica che la fede questi non l’hanno avuta neanche quando pregavano: «Una signora, per non aver ottenuto grazia nell’infermità del suo bambino, perdette la fede. Questo è il colmo dell’ignoranza e della perversità dell’umano egoismo. Perdere la fede per non essere stati esauditi forse significa non aver avuto la vera fede nemmeno quando le labbra formulavano preghiere»42.
La preghiera rasserena e purifica il nostro cuore, rendendolo più disposto a ricevere i doni di Dio. Chi prega in modo conveniente, non è più in se stesso, ma in Dio, non conta più sulle sue forze, ma sull’onnipotenza di Dio. Quando la preghiera è tale, Dio riversa abbondantemente sull’uomo la sua luce. I cristiani a volte si ribellano perché non sono stati esauditi; alla base di questo modo di agire di Dio ci sono diverse motivazioni che il vescovo siciliano cerca di presentare: la preghiera non è pura, o non è vera unione con Dio e quindi non è mezzo per mettersi in relazione personale con Lui, o alcuni cristiani cercano la grazia secondo l’ordine della Provvidenza, ma nel disordine dell’egoismo43. 40 41 42 43
Cfr. ibid., 26. Ibid., 30. L.c. Cfr. ibid., 31.
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Quando facciamo la preghiera di domanda non soltanto dobbiamo essere discreti nel chiedere tutto ciò che è secondo la volontà di Dio ed in vista della salvezza, sapendo che il resto ci verrà dato in abbondanza, ma anche indifferenti, come i santi i quali chiedono a Dio i beni di questo mondo con discrezione, cioè come cose che non hanno in sé il loro valore, ma in Lui, perché considerate in sé sono vanità, motivo di afflizione e di peccato. Cristo ci insegnò anche il distacco, per cui penseremo e provvederemo all’avvenire ma senza ansie e preoccupazioni, perché se cerchiamo il Regno di Dio e la sua giustizia, dobbiamo essere certi che gli altri beni ci saranno dati in quanto entrano nell’ordine della Provvidenza e sono l’accessorio che si accompagna al principale44. Abbiamo parlato sia di discrezione che di rassegnazione nella preghiera, dobbiamo ora parlare dell’indifferenza che è un altro atteggiamento morale che chi prega deve tener presente. Il vescovo, a proposito dell’indifferenza, così si esprime: «Questa non è insensibilità o freddezza del cuore […] è l’ordine supremo degli affetti, dei desideri e degli atti nell’amor più santo, più puro, più forte, più generoso, più incondizionato che ci fa cercar Dio con tutte le forze e sopra tutte le cose e ogni altro bene secondo che è da Lui voluto, nel modo come è da Lui voluto, e fuori di Lui fa stimare ogni cosa come se non fosse, cioè non fa stimare, desiderare, amare, volere nessun bene»45.
Chi prega in questo modo e la sua preghiera ha queste caratteristiche ed inoltre ha il cuore puro e sereno, cioè ha una vita moralmente retta, qualunque cosa domandi è nelle migliori disposizioni di riceverla: questi sono sia beni spirituali che materiali. Le caratteristiche morali emerse a proposito della preghiera che impetra i beni sono quelle che devono animare e accompagnare qualsiasi forma di preghiera. La preghiera di cui abbiamo parlato, che è di domanda, impetra i beni temporali, ma non esclude quelli eterni, anzi li mette al primo posto, fa domandare i beni temporali come l’accessorio, o come mezzo ordinato da Dio al vero fine che è la salvezza, infatti mons. Sturzo si chiede: 44 45
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Cfr. ibid., 36-37. Ibid., 38.
«Che manca alla preghiera che impetra beni temporali, affinché diventi atta ad impetrare la perseveranza e ad assicurare il Paradiso? A rigore non manca nulla […] mette al primo posto i beni eterni […] Anch’essa rasserena e purifica il nostro cuore, perché ci unisce a Dio immediatamente e ci mette in rapporti personali con Lui. Ciò fa perché, a rigore, non ci sono due preghiere […], ma c’è la sola preghiera che è elevazione della mente a Dio […] che ci unisce a Dio in modo immediato e ci fa parlare cuore a cuore con Lui, come l’amico parla con l’amico e perché così ci eleva e ci unisce a Dio, […] dispone a ricevere le grazie che Dio concede a chi prega»46.
7. LA PREGHIERA TOTALE Nella vita interiore la totalità è l’aspirazione incessante di chi prende sul serio l’affare della salvezza; è il requisito della perfezione, ma lo deve essere anche della conversione, come già abbiamo visto, e quindi della preghiera. La preghiera è totale quando possiede tutti i requisiti che deve avere per essere efficace; quello essenziale e fondamentale consiste nell’elevare la mente a Dio; è lo stato di grazia che corrisponde all’unione con Dio con l’affetto della mente e lo star con Lui come l’amico con l’amico. La preghiera fatta in questo modo diventa la respirazione, l’ossigeno soprannaturale dell’anima. L’elevazione della mente a Dio, secondo Mons. Sturzo, «Così proprio della preghiera e così essenziale, che, se manca, in atto o in virtù, manca la stessa preghiera. Ciononostante, esso, da solo, non dà alla preghiera la totalità. Infatti uno può levare la mente a Dio e avere il peccato nel cuore. Costui prega certamente, ma non totalmente, perché alla sua preghiera manca il requisito dello stato di grazia. Lo stesso si dica di chi prega distrattamente, tiepidamente, in fretta, di chi prega poco, […] di raro e via dicendo»47.
La preghiera, inoltre, è totale quando abbraccia tutte le azioni della vita ed ha tutte le perfezioni che deve avere48. Anche se le forme sono molteplici, la totalità della preghiera riguarda 46 47 48
Ibid., 45. Ibid., 89. Cfr. ibid., 91.
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la sua essenza: elevarsi a Dio. Qualsiasi forma di preghiera può essere totale in questo senso, mentre non è totale perché ha in sé tutte le varie forme. Dato che la preghiera è elevazione della mente a Dio, non è puro atto dell’intelletto, altrimenti sarebbe sterile, né puro atto della volontà, cioè puro amore che senza pensiero sarebbe impossibile. Secondo la visione sintetica di mons. Sturzo, è pensiero amoroso, è amore illuminato dal pensiero e dalla fede. Le due dimensioni della realtà umana sono compresenti nello stesso atto, per cui si prega per amore o per amare meglio; si ama per conoscere meglio; la preghiera è l’esercizio che ci unisce a Dio per vivere di, con, per Lui49. La preghiera totale ottiene delle notevoli influenze sull’uomo, sulla sua volontà, coinvolgendolo integralmente nell’azione della grazia, in modo da collaborare con essa, inoltre lo spinge a prendere una posizione precisa nei confronti di Dio e quindi anche del peccato, provoca la scelta fondamentale. La preghiera è anche continua in atto, o virtù necessaria alla vita del cristiano, non di una continuità fisica, ma morale, la quale si ha quando ordiniamo in Dio tutta la nostra vita50. Possiamo affermare che quella totale è la vera preghiera, dove emerge chiaramente la sua essenza che consiste nell’unione immediata con Dio, nella familiarità dei colloqui con Lui; per cui va notato che spesso dalla preghiera non si riceve il debito profitto perché priva dell’aspetto della totalità51. La preghiera domanda il concorso della parola in quanto l’uomo non è solo spirito, è anche corpo. La parola della bocca è espressione sensibile di quella della mente e fa una sola cosa con questa; tale espressione è necessaria quando comunichiamo con gli uomini, perché questi non conoscono il pensiero degli altri, mentre con Dio non è necessaria in quanto Egli legge nel cuore dell’uomo. Quindi il valore della preghiera non consiste nella importanza dei segni, ma in ciò che questi indicano. Adoperiamo la preghiera vocale perché l’uomo è anche corpo e deve onorare Dio anche con la sua dimensione fisica, poi perché è più agevole, alla portata di tutti, infine perché l’espressione vocale determina e regola meglio il corso dei pensieri. Preghiera vocale e 49 50 51
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Cfr. ibid., 93. Cfr. ibid., 108. Cfr. ibid., 109; 115.
mentale sono due aspetti dello stesso atto, si compiono e si perfezionano a vicenda, formano la preghiera totale52. «Chi vuole davvero santificarsi deve praticare l’una e l’altra: deve nell’orazione mentale non trascurare l’orazione vocale, nell’orazione vocale non trascurare l’attenzione della mente e la rispondenza del cuore. Deve però reputare la prima come la forma completa e perfetta dell’orazione, perché risolve in metodo anche la preghiera vocale; la seconda come la forma meno completa e meno perfetta, perché, anche essendo orazione della mente, non ha la virtù trasumanante dell’orazione mentale propriamente detta»53.
La preghiera mentale mira a due cose: la sistemazione e l’approfondimento; infatti ordina, unifica ed imprime nell’intelletto e nella volontà i nostri doveri soprannaturali; inoltre produce in noi uno stato di speciale disposizione all’ordine, all’unità, alla profondità, uno stato di affettività prevalente, una disposizione speciale della volontà a fare il bene prontamente. Quella vocale produce una formulazione più esplicita, più sensibile dei pensieri e degli affetti. Tuttavia per il vescovo siciliano: «Le due maniere d’orazione fanno l’orazione perfetta, quando vanno congiunte insieme, quando l’orazione vocale si innesta in quella mentale, quando l’orazione mentale genera la vocale, quando tutte e due fanno una sola orazione»54.
Concludendo sulla preghiera totale, che secondo il pensiero di mons. Sturzo è la più completa, possiamo dire con le sue stesse parole: «Tace tutto ciò che è formulazione discorsiva, riflessione, sdoppiamento, molteplicità, analisi e parla solo il silenzio […], cioè parla l’affetto […] il che vuol dire che nell’anima è avvenuta una fortunata semplificazione, che in essa non vi è che un sentimento, che è compunzione e dolore per le colpe commesse, ringraziamento, riconoscenza, propiziazione, offerta, impetrazione e domanda […] è tutto questo virtualmente, perché nulla di ciò l’anima formula in modo esplicito, ed è tutto questo sinteticamente […] come valore, perché il valore dell’orazione non consiste nei segni, ma in ciò 52 53 54
Cfr. Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, 248-252. Ibid., 253. Ibid., 255.
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che i segni indicano, non è nelle parole, ma negli aspetti, non è nel rappresentare a Dio quel che gli dobbiamo, quello di cui abbisogniamo, ma nel presentargli il cuore gravido nella sua compunzione di tutto quello che gli dobbiamo, […] di cui abbisogniamo»55.
8. LA MEDITAZIONE: GLI ATTI PREPARATORI E I SUOI DIVERSI MODI Mons. Sturzo al tema della meditazione dedica una lunga pastorale: Suggerimenti sul modo di fare l’orazione. Volendo trattare questo argomento, seguiremo il piano e le argomentazioni presenti nella pastorale sopracitata. Per mons. Mario la meditazione è preghiera, «perché non è pensiero che si esaurisce in se stesso, ma pensiero ordinato all’amore e alle opere»56;
è un bisogno dell’uomo, un suo atto vitale e, contemporaneamente, è un dono che va chiesto al Signore. È un parlare con Dio con il pensiero che specula e possiede, un comunicare amoroso che serve per amare. Meditare è come nutrirsi di Dio, ristorare in Lui le forze perdute nel cammino della vita, crescere e fortificarsi in Lui57. È atto dell’intelletto, è il raccogliersi in un dato pensiero, di una certa verità e considerarla sotto tutti gli aspetti, approfondirne la conoscenza perché si imprima nella mente tanto da dominare tutti i pensieri e da soprannaturalizzarli58. C’è differenza fra preghiera e meditazione: la meditazione è la considerazione continuata di una data verità, è il persistere in essa; la preghiera è il passaggio da una riflessione ad un’altra; la prima fa scaturire la domanda dalla considerazione; mentre nella preghiera la riflessione si accompagna alla domanda59. Sturzo parla molto dell’importanza e dell’utilità della meditazione; afferma che molti non meditano perché non lo sanno fare; molti non ne 55 56 57 58 59
212
Ibid., 252. La vita in Dio, 103. Cfr. ibid., 100-102. Cfr. Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, 31. Cfr. ibid., 4.
comprendono l’importanza; tuttavia non è sua preoccupazione insegnare come si medita, perché, come ad amare si impara amando, così a meditare si impara meditando. Il maestro della meditazione è Dio e il suo insegnamento non fallisce. Il vescovo vuole semplicemente indicare ciò che serve per la meditazione, ma l’atto in sé del meditare è proprio di qualsiasi uomo60. Nel corso delle sue pastorali parecchie volte si domanda come mai facendo la meditazione, ogni giorno si cade nel peccato. La ragione secondo lui è una sola: la meditazione non viene fatta bene dato che fa evitare il peccato e conduce alla vera santità che è vita di perfezione61. Da questo interrogativo e dalla sua risposta si intuisce il valore della meditazione e l’incidenza che ha nella vita del cristiano. Perché la meditazione sia efficace, deve essere assidua, quotidiana, deve scaturire dalle profondità del nostro cuore, per tornare alle stesse. Per farla bene occorre che i diversi atti che la compongono siano fatti bene; bisogna iniziare innanzitutto dagli atti preparatori. Il primo atto preparatorio è il raccoglimento: che non significa dimenticare i ricordi, le preoccupazioni e gli affetti, cioè non è alienarsi, ma non badarvi, pensando a qualche cosa che attiri a sé tutta l’attenzione della mente e gli affetti del cuore. Quindi il primo passo verso il raccoglimento soprannaturale necessario alla meditazione è l’attenzione volontaria che toglie vigore a tutto ciò che contrasta con la meditazione. Il secondo passo è il volgere tutta l’attenzione e tutti gli affetti a Dio; più pensiamo a una cosa e meno al suo contrario. Il raccoglimento quindi si compone di due momenti: uno negativo e l’altro positivo; cessare di badare alle cose terrene, per fare attenzione con tutte le forze del cuore a Dio62. Con il primo atto preparatorio siamo introdotti al secondo, che consiste nel mettersi alla presenza di Dio. Il vescovo precisa meglio questo concetto: «Non si vuol dire che noi dobbiamo passare dallo stato di assenza a quello di presenza. Noi siamo sempre sotto gli occhi di Dio, perché Dio è infinito, e come tale, è dappertutto. Anzi, meglio, noi viviamo, ci muoviamo, siamo in Dio sempre […] anche quando per nostra sventura, pecchiamo, perché un luogo dove Dio non sia, non esiste, non è concepibile, essendo vero che 60 61 62
Cfr. ibid., 33-35. Cfr. ibid., 3. Cfr. ibid., 5-6.
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tutto quello che esiste, esiste perché Dio lo creò e lo conserva […] Quando l’anima pecca esce, non dalla presenza di Dio, ma dall’ordine; non va dove Dio non è, ma fa quel che Dio non vuole; non si sottrae al governo della Provvidenza, ma all’azione santificante della grazia»63.
Ora noi non badiamo alla presenza di Dio, a causa della fede languida; quindi il modo di mettersi alla presenza di Dio consiste nel ravvivare la fede nella onnipresenza divina. Tutto ciò va fatto senza sforzo, brevemente e con semplicità64. Il terzo atto preparatorio consiste nell’adorazione: «è il riconoscimento dell’assoluta sovranità di Dio e della nostra assoluta dipendenza da Lui»65.
Queste due verità non sono per niente estranee l’una all’altra, poiché dipendiamo da Dio in modo assoluto, tutto il nostro essere è in perenne rapporto con Lui. Questo atto è legato al precedente; infatti se c’è la fede nella presenza di Dio, l’atto di adorazione sarà conseguente, perché in modo logico e necessario porterà a confessare la sua presenza quale infinita bontà, per cui la nostra adorazione non è simile a quella degli schiavi, ma a quella dei figli e degli amici66. Un altro momento preparatorio della meditazione è l’atto di contrizione. È chiaro che questi momenti sono fra loro legati e si richiamano a vicenda; soltanto per motivi di analisi li abbiamo distinti e mons. Sturzo ci tiene a sottolineare questo aspetto unitario nella meditazione. «Gli atti preparatori sono parecchi […] ma non indipendenti l’uno dall’altro, anzi sono come le parti d’un sol tutto; non dipendono dall’umano arbitrio, ma dalla natura stessa della cosa; […] sono un processo nel senso che l’uno scaturisce dall’altro. Si comincia col raccoglimento che è come un chiudersi in sé per non dar retta ai pensieri e sentimenti di terra […] L’uomo necessariamente vive da essere socievole e relativo. Dio e il mondo sono i due poli tra cui si svolge necessariamente la sua vita. Ma l’uomo è fatto in 63 64 65 66
214
Ibid., 7. Cfr. ibid., 7-9. Ibid., 10. Cfr. ibid., 10-12.
modo che quanto più bada all’uno, tanto meno bada all’altro; quanto più si fa carnale, tanto meno si fa spirituale […] Dal raccoglimento dunque l’atto della presenza di Dio […] Ma si può stare alla presenza di Dio come si sta alla presenza degli uomini? […] L’anima che nel raccoglimento vede Dio con l’occhio della fede […] sente Dio presente, si prostra nel suo nulla ad adorarlo»67.
Quindi il raccoglimento ci porta a vedere Dio presente, ad adorarlo e a confessare la sua grandezza e il suo infinito amore; alla luce di questo siamo anche portati a confessare la nostra piccolezza e miseria di fronte alla santità di Dio; siamo indotti a riconoscere il male presente in noi, a detestarlo e a respingerlo, per cui scaturisce l’atto di contrizione68. Il quinto atto è l’invocazione: è la preghiera esplicita e formale per chiedere a Dio la grazia del meditare. Qui non sono necessarie formule, ma è sufficiente chiedere con fede, amore e umiltà tali grazie. «Dopo che l’anima nella preparazione è arrivata all’atto di contrizione, fa come una fermata nella via della meditazione e passa alla invocazione per impetrare da Dio la grazia di far bene la sua meditazione»69.
Per elevarsi a Dio sono necessarie grazie speciali; per mons. Mario la preghiera impetratoria è necessaria alla salute eterna. Per avvalorare questo suo argomento cita la dottrina di diversi santi e dottori della Chiesa, fra cui s. Alfonso, così afferma: «È possibile che l’anima che non fa mai la meditazione, faccia bene le sue preghiere vocali e si salvi? Ma quando si tratta dell’eterna salvezza, è agire da savi non prendere la via più sicura e più certa? Se a ciò avessero badato certi nemici di questo santo, non l’avrebbero accusato di eresia perché, a parer loro, spregiava l’orazione vocale e dava tutta l’importanza alla mentale. Il santo però, lungi dallo spregiare l’orazione vocale, la pregiava tanto che voleva che fosse fatta il meglio possibile, ma anche asseriva […] che la preghiera è necessaria di necessità di mezzo. Poi spiegando se stesso, diceva che l’orazione mentale è necessaria nel senso che è difficile la salvezza del67 68 69
Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, 13-14. Cfr. ibid., 13-15. Ibid., 17.
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l’anima senza la meditazione delle verità eterne, il che può significare che senza la meditazione è difficile far bene la preghiera impetratoria, e non facendo bene questa preghiera, è difficile salvarsi, e trascurando ogni orazione, si va diritto verso la dannazione»70.
Il sesto atto consiste nell’affermazione del fine della meditazione che, per il presule di Piazza Armerina, non può che essere uno: la gloria di Dio e la propria santificazione. Anche quest’atto, in realtà presente fin dall’inizio e in ogni azione dell’uomo, va fatto brevemente e con semplicità71. Con questo ultimo atto si puntualizza la duplice finalità della meditazione: glorificare Dio quale principio primo e fine ultimo dell’uomo e santificarsi che, nel vocabolario del vescovo siciliano, corrisponde a vivere in, con e per Dio. Dopo gli atti preparatori, abbiamo la meditazione vera e propria, il suo primo atto consiste nella rappresentazione sensibile del mistero che si vuole meditare; qualcuno parla di composizione del luogo; ciò è utile per concentrarsi e non divagare con la fantasia; per esempio si vuole meditare il mistero della Croce, allora ci si immagina di essere sul monte Calvario72. Nel corso della pastorale Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, la rappresentazione del mistero da meditare è considerata come primo atto della meditazione, anche se rientra negli atti preparatori, la definisce come un punto a sé della preparazione, ma nello stesso tempo fa parte della meditazione. Reca l’esempio e l’autorità di tanti maestri di spiritualità, come s. Francesco di Sales, s. Teresa d’Avila73. «Concepita la composizione del luogo come atto preparatorio per racchiudere il nostro spirito nel mistero che vogliamo meditare, acciocché non vada scorrendo in qua e là, è concepita come un punto di riferimento […] come un mezzo per evitare le distrazioni e per rimediarvi quando vengono»74.
Dopo la rappresentazione sensibile del mistero che ha questa duplice valenza, si entra nella meditazione vera e propria, che è un atto vitale, un bisogno dell’uomo, il quale comporta delle difficoltà e nello stesso tempo 70 71 72 73 74
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Ibid., 16-18. Cfr. ibid., 22-23. Cfr. ibid., 23-26. Cfr. ibid., 24-25. Ibid., 27.
è un dono da chiedere al Signore. Secondo mons. Sturzo, molti si arrendono di fronte alle difficoltà o non sanno meditare, perché sono freddi riguardo alle cose dell’eternità e rimandano al domani le forti risoluzioni necessarie per vincere la loro tiepidezza: in questi casi è necessario impegnarsi e avere un po’ di coraggio. Per vincere queste difficoltà è necessario pure che la meditazione sia un esercizio pratico dove è coinvolta la persona nelle sue varie dimensioni, poiché per suo mezzo si vive moralmente bene. «La meditazione, per essere possibile e utile, deve essere affettiva, in essa devono agire d’accordo e simultaneamente l’intelletto e la volontà […] in quanto orazione, è esercizio pratico, perché rivolta alla pratica, […] non è per la cognizione, ma per l’azione; non è studio, ma approfondimento delle eterne verità […] è come un inizio d’azione; in essa maturano le buone azioni che il cristiano deve poi fare lungo la giornata […] quando è animata dall’affetto e solo allora, è possibile, […] si vincono le difficoltà e le ripugnanze, solo allora si medita perché si sa meditare, si ama la meditazione perché si prova che solo per suo mezzo si evitano i peccati e si fanno le buone opere»75.
Per superare le difficoltà iniziali consiglia l’utilizzo di libri, precisando tuttavia che la meditazione viene fatta solamente quando la mente rivive ciò che il libro afferma. Il libro è soltanto un sussidio in funzione della meditazione76. Il corpo della preghiera si chiude con gli affetti ed i proponimenti, che in realtà sono presenti negli atti preparatori e nel corso della preghiera77. Questi ultimi sono ordinati all’azione; una delle cause dell’inefficacia della preghiera va cercata nei proponimenti che devono essere saldi, profondi, altrimenti non verranno risoluti in azione78. La preghiera ha anche una sua conclusione, che consiste nel ringraziamento, nell’offerta e nella domanda79. Il ringraziamento è l’espressione esplicita della gratitudine, è un badare a Dio che elargisce i suoi doni; essa si esprime con l’offerta totale 75 76 77 78 79
Ibid., 38. Cfr. ibid., 53. Cfr. ibid., 154. Cfr. ibid., 214. Cfr. ibid., 224.
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della persona; infatti la giornata del cristiano comincia e finisce con l’adorazione ed il ringraziamento80. Al ringraziamento è legato il momento dell’offerta, la quale è inerente alle nostre azioni e consiste nell’amore totale, che corrisponde al vivere in, per e con Dio81. Dopo questi momenti c’è la supplica: senza Dio non possiamo nulla, né in ordine alla vita temporale, né a quella eterna. La preghiera, in quanto elevazione a Dio, ci aiuta a riconoscere l’infinita sovranità di Dio, ad accettarlo come primo principio ed unico distributore di beni e a supplicarlo perché si degni di elargirci le grazie che ci necessitano82.
9. NECESSITÀ DELLA MEDITAZIONE E SUE FINALITÀ Mons. Sturzo parla molte volte della necessità della meditazione, definendola un dovere, un obbligo che incombe su coloro che vogliono vivere la fede in modo vero e coerente. Queste espressioni ci rimandano all’importanza che la meditazione assume nel pensiero sturziano, ma richiamano pure la sua concezione antropologica, ispirata alla Rivelazione divina e alla tradizione ecclesiale. L’obbligo della meditazione riguarda l’uomo in quanto tale, in quanto ha il dovere di rispondere alla vocazione divina, che è la chiamata alla santità, di industriarsi per rendere certa e sicura questa sua vocazione. I cristiani potranno essere scusati se non seguono un metodo nella meditazione, perché non sono particolarmente preparati e formati, o perché impegnati in altri campi, ma non se trascurano ogni considerazione delle eterne verità. Per il presule siciliano la meditazione è talmente importante che non la si può trascurare senza mettere a rischio la propria salvezza. «Ben è vero che i sacerdoti hanno un particolare dovere di essere santi, perché il sacerdozio li consacra alla santità, e perciò hanno l’obbligo della meditazione […] Ma l’hanno anche perché sono cristiani. L’obbligo della meditazione, come cristiani, non è relativo alle condizioni della vita e ai pericoli della medesima considerati in ciascun individuo; invece è un 80 81 82
218
Cfr. ibid., 228-230. Cfr. ibid., 240. Cfr. ibid., 246-248.
obbligo generale che riguarda l’uomo in quanto uomo, in quanto figlio di Adamo, soggetto alle tentazioni, in quanto ha il dovere di adoperarsi […] a rendere certa la sua vocazione ed elezione»83.
Dopo aver considerato l’importanza della meditazione e aver visto anche il conseguente dovere di praticarla da parte dell’uomo, esaminiamo adesso quali sono gli obiettivi che essa si prefigge. La meditazione ben fatta salva dalla tiepidezza e permette di entrare in quello stato di conversione, senza perdere tempo, poiché è un esercizio ordinato alla propria santificazione, cioè allo spogliamento dell’uomo vecchio per rivestirsi del nuovo, è finalizzata a domare tutti i vizi ed acquistare tutte le virtù. Questo è un lavoro lento, faticoso, ma se è costante, avrà anche le sue gioie. Tra il tempo e l’eternità abbiamo la via ascendente che conduce al cielo: Gesù Cristo; la risoluzione a mettersi per questa via si può prendere in ogni momento della vita, però il coraggio delle rinunzie, la forza di salire senza guardare indietro, la costanza nei propositi, la gioia nella fatica ci vengono dalla meditazione84. La meditazione viene concepita come esercizio progressivo, perché è il mezzo più efficace per progredire nella via della salvezza, per cui è sempre in riferimento diretto con il cammino di maturazione nella fede da parte di colui che l’adopera, tanto che abbiamo diversi tipi di meditazioni che sono come tante tappe graduali, che vanno sempre dal meno perfetto al più perfetto e così via fino a raggiungere la maturità. All’inizio dell’esercizio abbiamo quella intellettiva, che è il ragionare con fini pratici su una data verità perché si imprima nell’anima in modo da generare profonde convinzioni riguardo al soprannaturale. È la base su cui costruire l’edificio della santità; l’anima procede da una considerazione all’altra fino ad arrivare alla visione della verità eterna in tutta la sua unità e nel suo valore, tanto da agire sugli affetti. Abbiamo così la meditazione affettiva: l’anima procede da un affetto all’altro per pervenire a un termine in cui il bene si vede nella sua unità e nel suo valore come sommamente amabile e il male come sommamente detestabile.
83 84
Ibid., 18-20. Cfr. ibid., 71-72; 76-77.
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C’è una differenza tra i due tipi di meditazione: nella prima il ragionamento è il principale elemento e gli affetti la conseguenza; nella seconda gli affetti sono il principale e il ragionamento è il preliminare. La prima è meno perfetta e se è fredda non giova all’azione; la seconda giova sempre85.
10. IL METODO SOGGETTIVO NELLA MEDITAZIONE Oltre ai vari tipi di meditazione, secondo mons. Sturzo ci sono diversi modi di fare la meditazione: partire dalle verità eterne per arrivare all’attualità concreta del soggetto; c’è anche il modo inverso, che noi chiamiamo induttivo, cioè partire dalla propria realtà per arrivare alla verità. Con quest’ultimo modo l’anima si fa tutta presente a se stessa, scende nelle sue più riposte profondità, scruta dove sta l’origine del bene e del male. Seguendo questo modo non è possibile che il soggetto rimanga spettatore indifferente di fronte alla propria situazione esistenziale, al proprio peccato e alla propria infedeltà, perché ha presente il vero stato della sua coscienza. Possiamo affermare che, seguendo questo metodo, il fine della meditazione diventa la riforma della vita del soggetto, la sua santificazione e trasformazione, fino ad arrivare alla deificazione, ad essere cristiforme: è un fine totalizzante, in quanto abbraccia tutta la realtà umana86. Il vescovo di Piazza Armerina preferisce il metodo sintetico a quello analitico, propone quello soggettivo che è «Quel modo di procedere nella meditazione pel quale si prendono le mosse dalla propria anima e la verità eterna si considera in rapporto a un qualche stato reale e personale della stessa […] è un andare da sé alla verità eterna su cui si medita, nel senso che la parte ragionativa della meditazione riguardi la propria anima piuttosto che l’eterna verità»87.
A prescindere dai metodi e mezzi adottati, la meditazione per essere fruttuosa e per avere delle incidenze sulle scelte morali, sulla vita e sulle azioni del soggetto, deve sempre risolversi in visioni personali, concrete, 85 86 87
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Cfr. ibid., 79; 84-88. Cfr. ibid., 54-55. Ibid., 55.
particolari, attuali; quindi il generico deve risolversi in personale e l’oggettivo in soggettivo88. Paolo in Gal 2,20, parla della giustificazione, e ad un certo momento non usa più il plurale, ma il singolare per parlare di sé, affermando che non vive più lui, ma in lui vive Cristo; per mons. Mario in questo modo di parlare c’è un insegnamento; infatti l’Apostolo propone di considerare la Redenzione come avvenuta per sé in particolare, quindi la vita cristiana ha soltanto quei due poli di cui abbiamo già parlato: Dio e la persona singola. Il metodo soggettivo ha delle notevoli implicanze nella vita del soggetto; infatti la meditazione fatta così, rivolta per esempio contro un vizio particolare «È come la guerra a tutta oltranza che solo allora finisce quando il nemico è stato pienamente disfatto, nella quale le parziali sconfitte non disanimano e invece accrescono l’ardore dei combattenti e possono giovare se valgono a far meglio conoscere la forza e la strategia dell’avversario […] e quanto è utile per la vittoria finale»89. «L’anima che ha in sé le risonanze della meditazione, sorge subito dalla colpa e spesso […] con volontà più ferma […] Or proprio da ciò deriva il maggior interesse e la maggior efficacia della meditazione soggettiva, cioè dal fatto che prende l’anima nella concretezza del suo agire di ogni giorno»90
e quindi non rimane isolata in se stessa. La meditazione praticata con metodo soggettivo segna la via più sicura e diretta in ordine alla salvezza, perché fa conoscere la realtà umana in rapporto al suo ultimo fine, imprimendo nel fondo del suo essere le verità fondamentali della fede, essenziali per le scelte morali che ogni persona è chiamata a fare durante la giornata.
88 89 90
Cfr. ibid., 57. Ibid., 64. Ibid., 69.
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11. LA CONTEMPLAZIONE Il vescovo di Piazza Armerina faceva tesoro dei suoi studi particolari sul pensiero dei grandi mistici classici e contemporanei, come s. Agostino, s. Francesco di Sales, s. Giovanni della Croce, s. Teresa d’Avila, il curato d’Ars, s. Francesca Fremiot de Chantal, come anche sulla dottrina di s. Tommaso ed elargiva i frutti di questa sua attività intellettiva e della sua esperienza di mistico nelle sue pastorali. Nelle sue pastorali parla di contemplazione, presentandola come dono di Dio, infatti è mistica, soprannaturale. In questa prospettiva sturziana una cosa è evidente: ogni contemplazione, come del resto anche la stessa meditazione, non potendosi fare senza il soccorso della grazia e senza l’azione dei doni dello Spirito Santo, riveste un grado elementare di infusione. Né è possibile parlare di orazione puramente passiva, poiché, anche nelle dimensioni più alte della sfera mistica, non è possibile aver la completa passività delle facoltà umane sotto l’azione divina della grazia; in essa è soltanto prevalente l’azione divina sugli atti intellettuali e affettivi della persona umana. Si perviene a questo tipo di contemplazione, che possiamo definire «acquisita» per una successiva gradazione, in essa concorrono due principi: Dio e l’uomo. La parte principale tocca a Dio che chiama a questa forma alta di preghiera. La parte dell’uomo è indiretta e negativa, ma ha la sua importanza, perché Dio non opera senza la cooperazione dell’uomo91. Mons. Sturzo parla spesso di contemplazione, definendola preghiera e distinguendola dalla meditazione. Essa ha diverse forme e tuttavia c’è una differenza tra meditazione e contemplazione, anche se ambedue formano la preghiera mentale. Il prelato di Piazza Armerina così afferma: «Nella meditazione prevale il ragionamento. È come cercare l’amore, certo è un esercizio ordinato o all’acquisto della carità nella conversione o a conseguire l’accrescimento della carità […] Mira all’accrescimento della cognizione soprannaturale di Dio e delle eterne verità […] È il grado inferiore dell’orazione. Non è piena di affetti […], ma in prevalenza è intellettiva e discorsiva […] La contemplazione è l’orazione dell’anima, che ha già trovato l’amore, ha progredito in esso, perché si è purificato da ogni attacco 91 Per quanto riguarda questo argomento cfr.: G. LERCARO, Metodi di orazione mentale, Torino 1969; C.A. BERNARD, Teologia spirituale, Roma 1983.
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alle cose create e alla propria volontà, in modo che sta […] alla presenza di Dio […] La meditazione cerca, perciò è faticosa; la contemplazione possiede e gusta, perciò è senza fatica e cagiona grandi consolazioni»92.
Ci sono ancora altre distinzioni da fare: la meditazione è orientata alla santità, la contemplazione è la santità, cioè è l’essere in Dio; a tale stadio si arriva quando si supera quello della meditazione intellettiva ed affettiva93. La contemplazione è una visione semplice della verità che finisce in un movimento affettivo; queste sono o verità di ordine intellettuale o morale94. La vera contemplazione è possibile quando la persona ha superato il ragionamento e la sensibilità e si è elevata alla sfera della verità considerata nella sua semplicità, trascendenza e intellettività95. La contemplazione è un atto dell’intelletto che ha il suo principio e il suo termine nell’amore. È un sentirsi penetrati dalla bontà di Dio e dalle sue cose. Tutto ciò, nell’unità dell’atto, dà alle verità eterne un’efficacia che si risolve in volizione, per cui genera quella nuova creatura di cui parla Paolo, dove le passioni non hanno più dominio, vi regna solo la grazia; essa aiuta il soggetto a diventare cristiforme96. Abbiamo diverse forme di contemplazione: quella ascetica, alla quale si perviene per le vie ordinarie della vita interiore; si è idonei ad essa quando la vita del soggetto si è composta ad unità e in essa regna l’armonia, cioè quando sono stati superati gli ostacoli che si oppongono all’unione con Dio e sono state acquistate le virtù che la consentono e la favoriscono97. Abbiamo poi la contemplazione mistica, che è dono di Dio. Nella prima forma «È ancora l’uomo che agisce […] aiutato dalla grazia; è lui che sceglie il soggetto della sua orazione […] nella seconda l’anima è mossa da un principio superiore, ha coscienza di questo fatto, […] non è libera di far diversamente; […] nella prima pensa a Dio, crede in Dio, l’ama nel mistero della fede, nella seconda sente Dio in uno stadio medio che non è più la sola fede
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Cfr. La preghiera che assicura il Paradiso, 94. Cfr. Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, 91-94. Cfr. ibid., 96-97; vd. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q180, a3, 1. Cfr. ibid., 98. Cfr. ibid., 100-104. Cfr. ibid., 111.
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e non è ancora la gloria; l’anima non vede Dio svelatamente […] ma è così certa della presenza di Dio da poter dire che […] lo sente»98.
La preghiera è l’opera in cui Dio si dà tutto all’anima, nel senso che dà le grazie di cui l’uomo ha bisogno per santificarsi e salvarsi. Il sentir Dio sperimentalmente significa avvertirlo come se l’anima lo toccasse; Dio si percepisce con l’intelletto reso a ciò idoneo da una grazia speciale, per cui l’anima si sente immersa in Dio cioè in intima unione con Lui: è l’esperienza della contemplazione mistica, dove l’uomo è come se fosse in uno stato di passività, di fronte all’azione divina99.
12. LE IMPLICANZE DELLA PREGHIERA NELLA VITA DEL CRISTIANO Seguendo la definizione scolastica di preghiera, mons. Mario afferma che essa permette di rapportarsi con Dio, in quanto elevazione della mente. A questo punto è evidente che essa abbia delle implicanze morali nella vita di colui che prega. L’incontro con Dio è sempre salvifico; da esso l’uomo comprende chiaramente sia il mistero divino come il suo personale mistero. Rapportarsi con Dio esige un particolare stile di vita adeguato e corrispondente a quello di Dio. La preghiera ci permette di incontrare il vero noi, di scoprirne i bisogni e di orientare le proprie scelte morali alla luce delle nuove acquisizioni; la preghiera quindi è ordinata alla riforma della vita o stimola i battezzati a camminare sulla via della perfezione che è la vita in Dio. Il saper pregare, per mons. Sturzo, è sapienza, genera questa virtù e rende sapienti, cioè idonei a fare con agevolezza e perseveranza il bene e ad evitare il male. Da quanto affermato possiamo subito dire che la preghiera non cura solo i rapporti dell’uomo con Dio, ma anche quelli con se stesso, con gli altri, non è qualcosa di astratto, ma ha delle ripercussioni considerevoli nella vita dei cristiani100. I suoi effetti nella vita dell’uomo sono notevoli; ha la virtù di rasserenare e di purificare, in quanto è elevazione a Dio, unione con Lui, tanto che ci distoglie dal nostro amor proprio e dalle cose create101. 98 99 100 101
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Ibid., 124. Cfr. ibid., 146-147. Cfr. Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, 34. Cfr. La preghiera che assicura il Paradiso, 96.
«Dalla preghiera non può scompagnarsi la mortificazione. La mente che si eleva a Dio, […] si schiude agli influssi della divina misericordia […] essa non si versa sull’anima se questa non si distacca da ciò che l’allontana da Dio […] Il peccato è sempre una sostituzione del temporale all’eterno […] è dunque il contrario dell’orazione, perché mentre questa è un elevarsi a Dio con la mente […] col cuore, quello è un voltar le spalle a Dio, un abbassarsi verso i beni caduchi e schiudere la mente ed il cuore all’influsso disordinato e disordinante dei medesimi. Se questo è il peccato, la penitenza ha valore di orazione, perché è un elevarsi a Dio con la mente e con il cuore»102.
Noi siamo fatti per il bene; tale tendenza è tanto intrinseca alla ragione che non vogliamo mai il male, in quanto è un atto illogico. Tuttavia commettiamo il peccato, che non è voluto come tale, ma come bene, in quanto le esigenze immediate dell’uomo prevalgono sul dovere, per cui esso è un atto disordinato della volontà103. Con la preghiera si tempera bene la volontà, per cui possiamo fare quello che è impossibile con le nostre sole forze ed essa diventa strumento di collaborazione all’opera salvifica di Dio verso di noi104. Per suo mezzo si provoca un effetto importantissimo. «Ecco perché dai maestri di vita spirituale, e, prima di tutto dai santi, tanto si raccomanda l’orazione mentale e tanta efficacia vi si attribuisce. Si tratta nientemeno, di far morire l’uomo del peccato, di domare tutte le tendenze disordinate, di vincere ogni attacco alle creature, per far nascere, crescere, prosperare l’uomo e la grazia, il quale dovrà vivere non più carnalmente, ma spiritualmente, non più secondo le pure esigenze della natura, ma secondo le divine esigenze della soprannaturalità»105.
La preghiera dunque genera luce e quando essa è assente si perde il gusto delle cose celesti e si cerca solo le terrestri. Mons. Sturzo descrive abbondantemente questa dimensione completa della preghiera; parlando della meditazione afferma che è ordinata a fini soprannaturali, per cui è orientata ad approfondire e rendere dominanti i pensieri soprannaturali e a togliere vigore a quelli peccaminosi. Per essere tale deve essere affettiva, cioè in essa devono agire simultaneamente e reciprocamente intelletto e volontà. 102 103 104 105
Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, Prefazione, IX-X. Cfr. La preghiera che assicura il Paradiso, 97-98. Cfr. La via della salute, 13-14. La preghiera che assicura il Paradiso, 108.
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In quanto preghiera è esercizio pratico, perché rivolta alla pratica, alla vita di ogni giorno; è molto importante perché in essa maturano le buone azioni che il cristiano fa lungo tutta la sua giornata106. La preghiera provoca tutto ciò, perché nel soggetto origina un mutamento radicale; infatti è orientata alla conversione. Ciò accade quando, sia la preghiera come la meditazione, si svolgono tra due ambiti precisi: Dio e l’anima; quando si perde di vista Dio, il resto non ha più senso e ragion d’essere, la stessa cosa vale quando si perde di vista l’anima. Quello che non si sa fare nella contingenza della vita, si apprende nella preghiera quando è fatta fra questi due poli. In essa Dio va cercato per sé come per sé va cercata la propria santificazione; il primo in senso assoluto e la seconda in rapporto a Dio. Ogni altra cosa entra nella preghiera in quanto giova alla gloria di Dio e alla propria salvezza. Le stesse verità vanno meditate in e per Dio, ed anche in riferimento all’anima. La preghiera è una delle opere più importanti che facciamo in ordine alla vita eterna; per salvarci dobbiamo fare il bene ed evitare il male. Per giungere a questa perfezione è necessario un continuo rinnovamento, cioè la conversione, per cui occorre un lavoro molto profondo che ci porti a frenare le tendenze disordinate e a fecondare i germi di bene presenti in noi. In profondità va solo il lavoro di santificazione quando è preparato dalla meditazione assidua, fatta con metodo soggettivo che è assolutamente concreto, tendente a punti ben determinati della propria vita. Ecco perché la meditazione termina con i propositi107. Mons. Sturzo è favorevole al metodo soggettivo perché, per suo mezzo, l’uomo agisce su di sé per operare una profonda trasformazione, cambiando i suoi giudizi morali e i suoi criteri di azione; nel soggetto succede questo capovolgimento di valori nella misura in cui cresce la sua vita interiore108. La preghiera e la meditazione vanno fatte ogni giorno perché aiutano a riformare i giudizi della mente sul vero valore delle cose, per modificare anche i sentimenti del cuore e a guardare con altro occhio la vita o la storia109. Possiamo affermare che la preghiera non è fine a se stessa, ma è ordinata alle opere:
106 107 108 109
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Cfr. Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, 32-38. Cfr. ibid., 45-46; 52-60. Cfr. ibid., 72. Cfr. ibid., 75.
«nelle opere si deve tendere sempre a maggiore perfezione, perché sono ordinate a Dio che è bene infinito, il quale perciò merita tutto il nostro amore»110.
Quando l’anima ha percorso lo stadio della preghiera si trova nella santità, non è nel vizio, non ha la mente ottenebrata e il cuore freddo, ma in essa tutto tende all’unità, alla semplicità, tutto diventa alta spiritualità e pace111. Ecco quali sono i suoi frutti nella vita dell’uomo, il quale non essendo più nel peccato, in lui tutto diventa vita in Dio, giungendo allo stesso stato di pace. La preghiera prepara l’azione, perché è per l’azione. Non la si può concepire indipendentemente dalla vita cristiana o non coordinata ad essa, altrimenti questa sarà di esito incerto112. La sua incidenza è ancora più forte nella contemplazione mistica dove i rapporti con Dio sono semplificati e l’uomo vuole ciò che Dio le ispira. L’amore di Dio cresce con l’aumentare della sua conoscenza, vive nelle opere e queste, fatte nell’amore, sono amore113. Volendo insistere sul valore della preghiera nella vita del cristiano e su ciò che comporta nel suo agire e nel suo modo di vivere, mons. Mario fa suo il pensiero di s. Francesco di Sales ed afferma che «La meditazione sparge buoni movimenti nella volontà, ossia, nella parte affettiva dell’anima, come sono: l’amor di Dio e del prossimo, il desiderio del Paradiso e della gloria, lo zelo della salute dell’anima, l’imitazione della vita di nostro Signore, la compassione, […] il timore della disgrazia di Dio, del giudizio […] l’odio del peccato, la fiducia nella bontà di Dio»114.
Possiamo affermare che la preghiera è uno dei mezzi più efficaci per disporsi all’azione, per meritare l’accrescimento della carità, per rendere profonde le nostre convinzioni soprannaturali e più fermi i nostri propositi115. 110 111 112 113 114 115
Suggerimenti sul modo di fare l’orazione, 83. Cfr. ibid., 95. Cfr. ibid., 138. Cfr. ibid., 148-149. Ibid., 195. Cfr. ibid., 216.
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Per avere il carattere di intima e amorosa comunicazione con Dio che trasforma l’uomo in creatura nuova, è necessario che la persona ponga Dio al di sopra di tutti i suoi pensieri, al centro dei suoi affetti; in questo modo, se l’uomo vive in Dio, la preghiera ha le sue ripercussioni pratiche116. Parecchi che ignorano il valore della preghiera e i suoi influssi reali nella vita dei cristiani, credono che questo modo di vivere distolga dai doveri sociali ed inaridisca gli stessi affetti umani. Secondo mons. Sturzo, quelli che pensano in questo modo «Non sanno che la vita naturale e la soprannaturale non sono due vite indipendenti […] ma una sola vita […] soprannaturalizzata. Nemmeno coloro che realmente lasciano il mondo […] si separano dalla vita […] La società non vive di sola naturalità […] Se tutti gli uomini fossero anime di orazione, la società umana […] andrebbe in altro modo, il mondo sarebbe il regno della giustizia, dell’amore, della fratellanza, della pace. Per nostra sventura poche sono le anime che vivono d’orazione […] Costoro diventano nei disegni di Dio fattori d’equilibrio, esse danno alla società […] quel che manca»117.
La preghiera diventa esercizio di fede in cui Dio comunica la sua grazia utile al compimento dei doveri della giornata118. Da alcuni la preghiera è considerata quasi una perdita di tempo o un esercizio penoso, o quando la si tralascia per non averne il tempo; a questo punto, bisogna affermare che le persone che pensano ciò, sono cristiani solo di nome. Mons. Sturzo a tal proposito così si esprime: «D’altra parte, quando si considera cosa sia l’orazione, quali effetti produca, come sia ordinata ad animare i nostri rapporti con Dio […] allora si comprende come l’orazione ci ridà accresciuto e moltiplicato per mille il tempo che in essa noi abbiamo impiegato. Non è certo il sol che si ferma al cenno dell’orante, sono invece i nostri rapporti con le creature che si purificano, sono le passioni che si placano, sono i giudizi della mente che si fanno più chiari, sono le decisioni della volontà che si fanno più pronte; soprattutto è l’ordine che si ristabilisce, […] che pone Dio in cima ad ogni nostro pensiero ed […] affetto, […] l’anima al posto che le tocca, sulla via che è la 116 117 118
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Cfr. ibid., 257. La via della salute, 21-22. Cfr. ibid., 43.
retta, verso il fine che è il vero fine, e tutto il resto in savia dipendenza da Dio e dai doveri finalistici dell’anima»119.
Ancora un altro aspetto importante della preghiera che non può essere dimenticato e che mons. Sturzo puntualizza: è la sua dimensione comunitaria: «L’orazione non è solamente una funzione individuale, né la sua efficacia si esaurisce nella santificazione dell’anima che la pratica; l’orazione è anche una funzione sociale, e rifluisce sulla società anche quando l’anima non esercita veruna azione sociale»120.
A tal proposito porta l’esempio dei grandi mistici come Benedetto da Norcia e il movimento del monachesimo, s. Francesco e il francescanesimo, s. Giovanni Bosco e il suo metodo preventivo per il mondo giovanile: «Qui troviamo l’orazione in tutto il suo valore naturale e soprannaturale, in tutta la sua efficacia interna ed esterna, individuale e collettiva […] Un uomo d’orazione, non è un sol uomo, perché non resta chiuso in se stesso, utile solo a se stesso, santo solo per se stesso […] Perciò il mondo ha bisogno di uomini che pregano […] che vivano d’orazione […] per la legge dell’equilibrio e del compenso, […] e soprattutto per la legge dei fini che è quello che anima il progresso e genera le rinnovazioni sociali, naturali e soprannaturali»121.
CONCLUSIONE Nelle pastorali di mons. Sturzo, la preghiera, ha un valore notevole; dobbiamo pure dire che anche nella sua vita ha avuto tanta importanza; egli era un uomo di preghiera. È stato un uomo di azione, impegnato attivamente, come vescovo, nella pastorale diocesana, perché era un uomo di contemplazione. Tutto quello che scrive sulla preghiera e consiglia ai suoi diocesani era sperimen119 120 121
Ibid., 50-51. Ibid., 51. Ibid., 55-56.
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tato personalmente da lui. Una costante riferita dalle persone da noi contattate riguardo alla vita ed attività del vescovo di Piazza Armerina, è proprio quella della preghiera; una prova di tutto ciò ci è data anche dal nostro studio sulle pastorali, in cui il tema della preghiera è uno degli argomenti da lui preferiti, una costante nel suo pensiero. Secondo mons. Sturzo, la preghiera è il dovere principale di ogni cristiano a qualsiasi stato appartenga; è accessibile a tutti ed è necessaria, come la respirazione lo è per la vita fisica. È elevazione della mente a Dio, permette di liberarci dell’uomo carnale, per diventare sempre più cristiformi. Per mezzo della preghiera regoliamo in noi l’ordine delle motivazioni esistenziali, per cui essa favorisce, indirizza ed aiuta a maturare le scelte morali della persona.
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CONCLUSIONE
Siamo già alla fine del nostro lavoro ed ora dobbiamo tirare le conclusioni, che resta la cosa più problematica e difficile, perché si tratta di presentare con poche battute e con espressioni sintetiche quanto è stato affermato abbondantemente nel corso dell’indagine, con il conseguente rischio di essere incompleti e contemporaneamente poco chiari. La molteplicità degli interessi culturali di Mario Sturzo, come anche la svariata mole dei suoi scritti su vari argomenti non devono condizionare il nostro approccio al grande maestro e pastore: non siamo di fronte ad un personaggio dalla penna facile, che scrive perché spinto da velleità smaniosa. È vero che la sua produzione letteraria, che va dalla filosofia, alla teologia, alla poesia e critica letteraria, all’arte, alla mistica e alle opere a carattere pastorale, è molto vasta, tuttavia è espressione e manifestazione di una mente tutta dedita al culto della verità, aperta e attenta alle problematiche socio-culturali del suo tempo, fiduciosa e disponibile a quanto lo Spirito suggeriva. Queste particolari e fondamentali caratteristiche collocano meritatamente Mario Sturzo in uno spazio e in un ruolo non secondario nella vita teologica, ecclesiale e culturale della Sicilia, come anche dell’Italia del primo quarantennio del Novecento, pienamente inserito in quell’agone culturale del suo tempo, ricco di germi di rinnovamento in tutti i campi. Le sue profonde ed originali intuizioni in campo teologico e filosofico ce lo presentano come un antesignano dei tempi moderni per cui ben gli si addice la qualifica di «Vescovo dotto» che ancora oggi parecchi di quelli che lo hanno conosciuto gli attribuiscono. La sua vicissitudine esistenziale è esemplare, non solo perché Sturzo è un uomo particolarmente dotto, culturalmente preparato e dalle profonde intuizioni, ma la ricerca della verità, l’amore personale per lo studio, l’impegno culturale erano finalizzati all’apostolato, al suo ministero episcopale, di maestro nella fede, chiamato ad insegnare la Somma Verità, di pastore che avverte imperiosa dentro di sé l’ansia premurosa di educare i suoi diocesani alla fede e ai valori fondamentali della vita morale. La ricerca culturale e la sua personale sintesi filosofica dovevano offrirgli gli strumenti rinnovati ed adeguati alle nuove situazioni culturali per sostenere un dialogo ed un confronto aperti e fruttuosi con le moderne correnti del pensiero
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umano che minacciavano seriamente la fede e la stessa vita ecclesiale; in questo contesto si inserisce l’intenzione di riscoprire in modo coraggioso un tomismo comprensibile e dinamico; la sua fondamentale preoccupazione consisteva nell’offrire gli elementi principali per la conversione dell’uomo a Dio, ecco perché a questo ambizioso progetto aveva riservato il meglio del suo impegno sottile e l’entusiasmo della sua mente vivacissima ed acutissima. Anche la sua spiccata sensibilità alla problematica sociale nasceva da una profonda considerazione dell’uomo e della sua storia. Il presule di Piazza Armerina sentiva dentro di sé l’ansia di educare alla fede, ai grandi valori morali i suoi cristiani; per questo motivo continuamente visitava i centri della diocesi, per conoscere personalmente, incontrare e parlare al popolo affidato alle sue cure pastorali; avverte la grave responsabilità della salvezza e del bene dei suoi diocesani, per cui invia continuamente le sue lettere pastorali, che sono un invito concreto a restare fedeli alla Parola di Dio, a conoscere e vivere in comunione piena con Dio, a rispondere alla vocazione alla santità, ad essere costruttori di una nuova civiltà contrassegnata dall’esperienza del divino, a trascenderci fino ad arrivare alla trasumanazione, alla divinizzazione, per mezzo della preghiera. Approfittava delle grandi occasioni o dei piccoli avvenimenti liturgici, diocesani, sociali o culturali per far pervenire a tutti, attraverso lo strumento semplice ed immediato della lettera, la sua parola calda, profetica, illuminata e saggia. Da queste pagine frutto del suo impegno intellettuale e pastorale, emerge la figura del pastore asceta e quindi «dotto e santo», così come è definito, il quale si manifesta padrone della scienza spirituale, della vera sapienza, perché per lui la mistica è la vera scienza della vita. In questi scritti spirituali Sturzo riversò preziosi contributi di sapienza umana e cristiana. Il vasto impegno culturale ed ecclesiale del presule di Piazza Armerina converge su un punto focale, perché nella sua mente c’era un solo progetto culturale, un solo disegno ispiratore: dimostrare ed illuminare la processualità finalistica della vita umana, che corrisponde alla ricerca ed individuazione dell’unica cosa veramente importante per l’uomo, il vivere in, per e con Dio, attraverso la sintesi di tutto quello che ci è insegnato dalla Rivelazione, dalla teologia, dalla filosofia e dalla storia. Il più pressante degli imperativi morali di Mario Sturzo consiste nell’educare l’individuo a scoprire la processualità finalistica della sua vita;
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infatti l’educazione che propone è orientata alla vita interiore, in quanto vita di fede, di speranza e di amore, e quindi alla propria santificazione. Quando questo tipo di educazione è assente allora viene compromessa anche la vita sociale e di conseguenza si verificano tutti quegli sconvolgimenti sociali e morali che hanno caratterizzato i tempi moderni. L’educazione, secondo il pensiero sturziano, è un’attività permanente dell’uomo, la quale lo interessa e coinvolge in tutte le sue diverse fasi esistenziali; essa interviene per reprimere tutte le tendenze negative e sviluppare tutte le altre che sono tanti germi di bene; abbraccia l’uomo in tutte le sue varie dimensioni e realtà, risolvendo in santità ogni azione umana. Tuttavia l’azione educatrice è finalizzata al compimento integrale di tutti i doveri della vita, poiché è l’arte che aiuta ad orientare e maturare le facoltà del conoscere e del volere, in modo tale che l’uomo possa agire e pensare sempre rettamente, armonicamente, e progressivamente, così come richiedono la sua natura e i suoi fini. Nell’azione di formazione e di educazione personale parecchi fattori intervengono e condizionano positivamente o anche negativamente il cammino di maturazione; mons. Mario non esita di parlare di dovere, di necessità del singolo a reagire a determinati fattori negativi, perché la persona è invitata a rendere salda e forte la propria vocazione, sia quella universale che è lo stato di santità, che quella particolare del proprio stato di vita personale, per cui l’educazione diventa l’avviamento metodico e razionale finalizzato all’acquisizione di tutte le virtù morali necessarie per raggiungere comunque la santità. L’azione educatrice concepita in questo modo non può mai prescindere da qualsiasi altra realtà; non può essere indipendente dalle finalità ultime verso cui è orientato l’uomo, né lo può essere dalla religione o dalla morale, perché perderebbe la sua efficacia, infatti quando si tiene conto di un determinato settore della vita e non si fa riferimento a Dio, non sarà mai possibile pervenire a quella pienezza di bontà morale che caratterizza i santi, che sono le persone veramente educate. Questo tipo di educazione non può prescindere da quella specifica, professionale, tecnica, perché tutte le azioni della vita sono morali e saranno moralmente buone se fatte secondo l’ordine della ragione e del fine ultimo che è Dio. Mons. Sturzo ricerca le ragioni supreme dell’educazione, le quali si possono trovare nella morale e nella religione; la ragione suprema è il dovere, che consiste nel vivere in tutto per e con Dio; il dovere è conside-
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rato non solo come principio morale, ma anche religioso, in quanto la religione è il complesso di tutti i doveri, considerati e praticati in Dio. L’educazione si inserisce nella dimensione finalistica-processuale della vita umana, orientata alla santificazione della persona, per cui è strettamente legata al cammino di conversione che il cristiano intraprende quando ricerca Dio ed il senso di sé. Per il nostro presule l’uomo per natura tende a Dio, perché è stato creato da Lui per vivere in comunione con Lui, che è il suo ultimo fine e la sua ragion d’essere. Secondo questa prospettiva la conversione è l’attuarsi del processo di tendenzialità finalistica nell’esistenza dell’uomo; è opera di Dio, perché è Lui che ha voluto l’uomo in questo modo ed è Lui che invita la persona umana a rientrare in sé dove Egli abita, per cui è una necessità rientrare in sé per incontrare Dio, ascoltarlo e seguirlo sulla via della santità; tutto questo è anche utile per incontrare se stessi, per conoscere e scoprire la propria realtà esistenziale, infatti quando c’è la conoscenza di sé e di Dio allora si è nelle migliori condizioni per raggiungere la salvezza offerta da Dio. La realizzazione del cammino di conversione provoca la detestazione del peccato, che è opposizione a Dio, e porta alla vita di grazia e all’unione con Lui. Il fenomeno della conversione consiste in questo dinamismo reale orientato a dei fini ben precisi, che è teologico, psicologico, filosofico ed ascetico, porta il singolo a liberarsi dal peccato che intralcia la vita di grazia, fino a raggiungere la perfetta maturità cristiana, che coincide con il massimo grado di santità. Il processo di conversione va dallo spogliamento dell’uomo vecchio, deformato dal peccato, fino a raggiungere lo stato dell’uomo nuovo, trasumanato, divinizzato e reso cristiforme che ama innanzitutto Dio e le creature in e per Dio. Questo cammino è umano e divino: Dio invita l’uomo a ricercare se stesso, creandolo con quest’ansia particolare e nello stesso tempo l’uomo risponde ricercando ed impegnandosi. Questo cammino è personale, ma ha delle notevoli conseguenze all’interno della società umana, infatti la conversione dei primi cristiani ha favorito l’abolizione di tutti quei valori negativi che caratterizzavano le società pagane e che contrastavano il messaggio evangelico e la nuova morale. Ci sono alcuni mezzi che favoriscono questo processo come: l’ascolto della Parola di Dio, la penitenza, la preghiera, la cura della propria vita interiore, oltre che il ministero prezioso della Chiesa, voluto dal Signore quale strumento di salvezza per l’uomo.
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Curare la propria vita interiore, sapendo stare in ascolto di sé e abituandosi a scendere nelle profondità più riposte di sé, è l’occasione favorevole e preziosa per conoscere Dio. In verità l’uomo creato con questo dinamismo spirituale finalistico, dotato delle facoltà dell’intelligenza e della volontà, è naturalmente spinto a conoscere e ad incontrare Dio, in quanto è alla ricerca perenne di sé e principalmente di ciò che spiega la sua esistenza: Dio sommo bene e sommo vero. La conoscenza di Dio non è solo di tipo gnoseologico, ma è essenziale ai fini dell’impostazione del problema della vita, indispensabili per le possibili scelte morali della persona. Dio resta il trascendente, il totalmente altro e l’uomo non avrà mai una conoscenza adeguata di Dio, perché non possiede la stessa natura divina, tuttavia perviene ad una sua conoscenza come determinato nel suo essere. La lettura attenta della realtà creata ci fornisce i dati necessari per conoscere Dio, infatti l’uomo per mezzo della sua relatività e della realtà perviene all’autore e creatore di ogni cosa. A volte la possibilità di conoscere Dio ci viene offerta dall’ambiente stesso in cui ciascuno di noi è inserito; se ciò non dovesse essere possibile è la stessa realtà umana, la capacità razionale dell’uomo, la sua coscienza che giudica del bene e del male, che porta l’uomo a conoscere Dio. Se l’uomo sa ascoltare se stesso e la voce della sua coscienza ha la possibilità di ricevere le prime rivelazioni che Dio gli fa, da cui nasce la conoscenza stessa del mistero divino. Lo stesso processo finalistico-tendenziale umano è tutto orientato alla conoscenza di Dio; una via possibile per conoscere Dio consiste nel viaggio del proprio mondo interiore. Anche la capacità speculativa dell’uomo aiuta a conoscere Dio; ma una conoscenza priva di errori ci viene offerta dalla fede, perché fondata sull’autorità di Dio che si autorivela. Questo tipo di conoscenza non annulla né mortifica quella razionale; Dio con la sua Rivelazione viene incontro all’incapacità umana. La conoscenza di Dio per fede coinvolge l’uomo in quanto unità di mente e di cuore, cioè inscindibile sintesi nell’armoniosa molteplicità delle espressioni del suo esistere e del suo vivere, sintesi che è cammino di incontro verso Colui che è la sola verità della mente e del cuore, Dio. Questa conoscenza diventa esperienza e quindi conoscenza sperimentale di Dio, la quale perfeziona quella razionale, è la più sicura, priva
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di errori, ordinata alla pratica, anticipazione qui sulla terra del possesso finale di Dio che si avrà in Cielo. Inoltre questa conoscenza ha delle ripercussioni notevoli nella vita e nelle scelte morali del singolo, provoca una donazione piena e totale a Dio ed un amore assoluto, diventa conformità a Lui e quindi santità. La conoscenza di Dio intesa in questo senso corrisponde alla scoperta dell’essere umano come dipendente da Dio, il quale vive bene solamente quando è in Dio, quando la sua vita è vita in Dio. L’uomo non può fare a meno di Dio e non può vivere senza di Lui; quando egli vive in Dio, allora in lui vive lo stesso Dio, cioè c’è il mistero dell’inabitazione divina, ossia l’uomo viene trasumanato, pur tuttavia non identificandosi mai con Dio, perché non cessa di essere totalmente diverso e quindi non perde la sua identità umana. Per vivere bene quindi abbiamo bisogno di un continuo riferimento a Dio che non è di tipo spirituale od intellettuale, ma esistenziale, ecco perché è necessaria la fede, la carità, ma soprattutto che i nostri rapporti con Lui diventino nostra realtà. La vita umana è completa ed assume la caratteristica della pienezza quando è vissuta in Dio. Vivere in Dio corrisponde a far sì che Dio diventi il valore assoluto e fondante dell’esperienza del singolo, ma è soprattutto partecipazione che Dio fa all’uomo della sua realtà, per cui l’uomo diventa una creatura nuova. Viviamo in Dio quando la fede è profonda e quando siamo mossi dall’amore; la vita contrassegnata da questi valori essenziali ha delle conseguenze non indifferenti nelle scelte morali della persona, la quale sente forte le attrattive del bene e quasi più non avverte quelle del male. La vita divina partecipata all’uomo esige da questi una corrispondenza di pensieri e di affetti; solo il peccato ne è l’ostacolo più pericoloso. Vivere in Dio significa vivere ordinatamente dal punto di vista morale, evitando il male: ciò corrisponde a fare i primi passi sulla via della santità, dove si fa esperienza di Dio e della sua azione salvifica e santificante. In questa dimensione un ruolo importante è occupato dalla coscienza che per il vescovo siciliano, è il luogo dove Dio fa risuonare la sua voce. Mons. Sturzo consiglia l’utilizzo di alcuni mezzi che Dio mette a nostra disposizione per alimentare e favorire lo sviluppo di questa vita, essi sono: la penitenza, la carità operosa, i sacramenti, la proclamazione della Parola di Dio e la preghiera, in quanto elevazione della mente e della persona a Dio.
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La preghiera favorisce l’unione piena e l’instaurarsi di rapporti amichevoli con Dio. Per questo motivo è l’esercizio fondamentale della vita cristiana, che deve investire di sé qualsiasi altra attività umana, in modo tale che tutta la vita diventi preghiera. In quanto elevazione della mente a Dio, la preghiera diventa confessione, riconoscimento e accettazione di Dio come principio e fine dell’uomo ed è uno strumento che permette la cooperazione e la partecipazione nostra alla sua opera salvifica, per cui essa è finalizzata a dare gloria a Dio ed alla santificazione dell’uomo. L’orante per mezzo della preghiera si scopre un essere relazionale, aperto e dipendente da Dio, ritrova anche se stesso, per cui agirà conformemente alla luce di queste importanti acquisizioni, anche le sue scelte morali saranno adeguate a questa sua nuova identità. Dato che la preghiera è finalizzata all’unione con Dio e ad alimentare l’amore, essa è preghiera del cuore, perché va fatta con amore e per amore ed anima la vita e le opere rendendole opere d’amore. Per il vescovo siciliano ci sono diverse forme e modalità di preghiera, ma l’essenza è una sola e consiste nell’essere un atto soprannaturale con fini pratici che sono: la gloria di Dio, la propria salvezza e santificazione. Oltre a queste finalità, la preghiera serve anche per impetrare; e mons. Sturzo ci tiene a sottolineare che cosa innanzitutto è necessario chiedere: questi sono principalmente i beni spirituali e poi vengono quelli materiali. Questo tipo di preghiera è utile perché manifesta la dipendenza dell’uomo da Dio; il vescovo focalizza pure gli atteggiamenti fondamentali che devono accompagnare l’orante. Tra le varie distinzioni offerte una è veramente preziosa: parla di preghiera totale; è quella che possiede tutti i requisiti per essere efficace, inoltre abbraccia tutte le azioni della vita. Da questa breve esposizione possiamo renderci conto che il tema della preghiera era tanto caro al vescovo siciliano, che è un mistico ed un orante; offre ai suoi fedeli ciò che era frutto della sua esperienza, per cui non cessa di esortare alla vita di preghiera, specialmente alla meditazione, che è un parlar con Dio con il pensiero che specula e possiede, comunicare amoroso che serve per amare e quindi ha considerevoli incidenze nella vita del cristiano. Parla abbondantemente dell’utilità e della necessità della meditazione, come anche delle sue finalità, che sono l’entrare in uno stato di conversione per pervenire alla santità, che è unione di vita con Dio; ne descrive i vari momenti e propone il metodo soggettivo che spinge l’orante
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a considerare il proprio stato di vita per raggiungere la verità che è Dio, in modo tale da segnare la vita dell’interessato e le sue scelte morali. Mons. Mario non si esime dal parlare della contemplazione mistica, presentandola come dono di Dio, come sua visione, dove l’anima vive alla sua presenza. Nella prospettiva sturziana la preghiera ha delle implicanze morali nella vita dell’orante, infatti l’elevarsi a Dio e il rapportarsi con Lui esige un particolare stile di vita adeguato e corrispondente a quello di Dio; inoltre non è fine a se stessa, ma è ordinata alle opere, prepara il cristiano all’impegno e alla testimonianza concreta. Percorrere le molte pagine che scaturivano senza stanchezza, al contrario con tanto entusiasmo e intrise del suo zelo apostolico, dalla penna di Mario Sturzo è motivo di continua edificazione e di commozione. A conclusione del nostro studio emerge chiaramente la nota predominante che caratterizza il pensiero e le diverse attività pastorali del vescovo di Piazza Armerina: rendere accessibile a tutti la conoscenza e l’amor di Dio, sulla via battuta dai santi, conducendo per mano i suoi fratelli e figli nella fede, per questi sentieri pieni di luce, in fondo ai quali si svela Dio, con una certezza ancora più vera di quanto non avvenga per le vie della mente che specula. Vuole aiutare l’uomo a raggiungere la meta alla quale aspira, che corrisponde al compimento del processo finalistico-tendenziale, cioè il ricongiungersi a Dio, sommo Bene e somma Verità, il vivere sempre uniti a Lui, mettendosi in uno stato di santità. Dopo aver esaminato attentamente le sue pastorali e attraverso di queste abbiamo identificato i temi della sua catechesi morale, possiamo affermare che il pensiero di Mario Sturzo è di una modernità e attualità molto evidenti, tanto che può essere definito a ragione un antesignano del rinnovamento teologico e culturale dei nostri tempi. Il suo pensiero per quanto concerne l’educazione, la conversione, la conoscenza e la vita in Dio, la preghiera, può essere prezioso per l’uomo d’oggi, il quale è sempre in cammino verso la meta presentata e descritta dal presule siciliano, cioè la santità. Tante sue idee e tante intuizioni in campo teologico, morale, pastorale e filosofico, che un tempo hanno allarmato e preoccupato diversi, provocando tanto scalpore, come anche tanta sofferenza ed amarezza al grande vescovo, oggi appartengono al patrimonio comune del pensiero teologico della Chiesa e a quello dell’umanità, per cui riteniamo che sarebbe un grave errore trascurare o lasciare nell’oblio tanta ricchezza di pensiero e di profondi inse-
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gnamenti, sostenuti sempre, ed è ciò che vale maggiormente, da una eccezionale e coerente testimonianza di fede, di amore e di fedeltà alla Chiesa.
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– La preghiera che assicura il Paradiso, 3-120. – La perfezione cristiana e le persone del mondo, 199-229. – La vocazione, 231-317. – Il mistero della conversione, 123-168. – La santa umiltà, 319-363. – L’apostolato dell’umiltà, 365-426.
1.2. Altre opere sturziane I Congresso della Parrocchialità tenuto ad Enna nell’ottobre del 1937, Torino 1937. Il mio canto, Trani 1932. Il neo sintetismo come contributo alla soluzione del problema della conoscenza, Trani 1928. Il pensiero dell’avvenire, Trani 1930. Il problema della conoscenza. Lezioni di filosofia per i licei secondo i nuovi programmi, Roma 1925. Intorno al culto. Appunti di psicologia della conversione, Piazza Armerina 1914. L’unità evolutiva del processo della conoscenza, Roma 1924. La conquista del fine. Ricerche psicologiche, Roma 1917. La conversione di Leone Tolstoj. Ovvero la patologia di una conversione, Monza 1916. Le voyage du centurion d’Ernesto Psichari, Milano 1916. Luigi Sturzo – Mario Sturzo. Carteggio, a cura di G. De Rosa,voll. I-IV, Roma 1985. Problemi di filosofia dell’educazione, Trani 1930. Rivista di Autoformazione, Trani 1928 (fasc.1-6). Rivista di Autoformazione, Trani 1929 (fasc.1-6). Rivista di Autoformazione, Trani 1930 (fasc.1-6). Visite e letture, Palermo 1923.
1.3. Lettere pastorali della Conferenza episcopale siciliana Riportiamo qui le lettere che siamo riusciti a rintracciare, per la stesura delle quali mons. Sturzo ha dato il suo contributo.
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CONFERENZA EPISCOPALE SICILIANA, Lettera dell’Episcopato siculo dopo le Conferenze tenutesi in Catania nella villa di S. Saverio dal 16 al 21 aprile 1934, Catania 1935. ID., Lettera dell’Episcopato siculo dopo le Conferenze episcopali dell’aprile 1937: Pro aris et focis. Per la difesa dell’altare e del focolare; studiare e vivere il catechismo, Palermo 1937.
2. OPERE SU MONS. MARIO STURZO ALEO M., Mario Sturzo filosofo, Caltanissetta-Roma 2003. BATTAGLIA F., Croce e i Fratelli Mario e Luigi Sturzo, Ravenna 1973. FEDERICO G., Il vescovo Sturzo, Caltanissetta 1960. In memoria di mons. Mario Sturzo vescovo di Piazza Armerina, Palermo 1942. LATORA S., Mario e Luigi Sturzo. Per una rinascita culturale del Cattolicesimo, Catania 1991. ID. (cur.), Mario e Luigi Sturzo. Itinerari alla santità, Roma 1996. NARO C., Mario Sturzo. Un vescovo a confronto con la modernità. Atti del Convegno di studi (Piazza Armerina 29-30 ottobre 1993), Caltanissetta-Roma 1994. STELLA P., Il vescovo Sturzo. Epistolario spirituale, Catania 1977. ZAVATTIERI S.G., Filosofia e sapienza cristiana nella riflessione di Mario Sturzo, Firenze 1988.
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ID., Il neo sintetismo come possibile rinnovamento della filosofia neo scolastica, in Synaxis 1 (1983) 117-149. ID., Una lettera inedita di don Luigi al fratello mons. Mario Sturzo, vescovo di Piazza Armerina: 9 gennaio 1926, in Synaxis 2 (1984) 129-159. ID., Un dibattito sul principio del neo sintetismo. Corrispondenza tra Agostino Fagotto e mons. Mario Sturzo, in Synaxis 3 (1985) 219-286. ID., Il neo sintetismo e la sua dialettica nel pensiero dei fratelli mons. Mario e don Luigi Sturzo, in Synaxis 4 (1986) 235-268. ID., Il neo sintetismo di Mario Sturzo esposto ed interpretato in un articolo del fratello don Luigi, pubblicato in inglese, in Synaxis 5 (1987) 169-203.
4. OPERE GENERALI Nota preliminare Nella compilazione di questa scheda bibliografica ci siamo attenuti alle opere direttamente o indirettamente consultate e citate, ma strettamente inerenti all’argomento della ricerca. Per gli argomenti di carattere più generale ci siamo limitati per necessità a indicazioni di massima, data la vastità e complessità degli argomenti e della letteratura specifica. L’ordine è alfabetico per autore. ABBAGNANO N., Storia della filosofia, voll. I-III, Torino 1964. AMERIO F., La dottrina della fede. Dogma, morale, spiritualità, Milano 1982. ANCILLI E. (cur.), La preghiera cristiana, Roma 1975. ARDUSSO F., Fede, in: Dizionario Teologico Interdisciplinare, II, Torino 1977, 176-192. AUBERT R., Il mezzo secolo che ha preparato il Vaticano II, in Nuova storia della Chiesa. La Chiesa nel mondo moderno, V/2, Torino 1979, 11-111. ID., La Chiesa cattolica dalla crisi del 1848 alla prima guerra mondiale, in Nuova storia della Chiesa. La Chiesa nella società liberale, V/1, Torino 1977, 21-239. ID., La Chiesa negli Stati moderni e i movimenti sociali (1878-1914), in JEDIN H., Storia della Chiesa, IX, Milano 1975.
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5. ARTICOLI La Civiltà Cattolica, 1931, II. La Civiltà Cattolica, 1941, II. L’Osservatore Romano, 19 aprile 1931.
247
INDICE DEI NOMI Abbagnano N. 178, 244 Agostino (s.) 16, 40, 64, 87, 89, 93, 95, 99, 100, 104, 110, 131, 137, 138, 152, 153, 157, 160, 195, 222, 244 Aleo M. 243 Amerio F. 244 Ancilli E. 244 Angelico (nome) 35, 97, 204 Ardusso F. 244 Aubert R. 244 Baroffio F. 245 Bastianel S. 245 Battaglia F. 13, 22, 30, 31, 47, 243 Bausola A. 245 Benedetto da Norcia (s.) 229 Benedetto XV 18 Bernard C.A. 222, 245 Bertrand L. 93 Boeckle F. 245 Bonaiuti E. 35 Borzomati P. 40 Brancaforte A. 36, 37, 243 Caffarra G. 245 Calatinus vd. Charistia C. 245 Calvez J.Y. 245 Campagnoni F. 245 Campanini G. 247 Charistia C. 245 Chenu M.D. 245 Chiavacci E. 245 Cordovani M. 245 Croce B. 13, 22, 27, 28, 30, 31, 35, 36, 37, 47, 136, 243, 245 Curato d’Ars 222 De Haro Garcia R. 245 De Rosa G. 10, 11, 12, 19, 22, 28, 36, 37, 38, 242, 245 Demmer K. 245 Di Lascia A. 33, 245
Dolci A. 27, 79, 245 Federico G. 17, 27, 29, 36, 118, 243 Francesca Fremito de Chantal (s.) 222 Francesco d’Assisi (s.) 229 Francesco di Sales (s.) 16, 40, 216, 222, 227 Fuchs J. 246 Galli N. 246 Gatti G. 246 Gentile 35 Gerbino S. 12 Giacomo (s.) 74 Giovanni Bosco (s.) 63, 229 Giovanni Cristostomo (s.) 153 Giovanni della Croce (s.) 40, 222 Giuliana G. 246 Goffi T. 246, 247 Gregorio (s.) 104 Guzzetti G.B. 246 Häring B. 246 Hegel 28 Iacono G. 6, 37 Ignazio di Loyola (s.) 40 Jacini S. 35 Jedin H. 244 Kant E. 21, 78, 79, 246 La Delfa R. 83 Lafranconi D. 246 Latora S. 12, 13, 14, 27, 29, 32, 34, 78, 243 Leone XIII 13, 19, 20, 47, 245, 247 Lercaro G. 222, 246 Madinier G. 246 Malgeri F. 12, 246, 247
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Martina G. 18, 21, 35, 246 McDonagh E. 246 Molinaro A. 246 Mongillo D. 246 Monica (s.) 110 Moscati (s.) Giuseppe 40, 72 Murri R. 35 Naro C. 40 Newman E. 101, 102 Paolo (s.) 49, 60, 121, 161, 164, 172, 179, 182, 189, 203, 221 Pattaro G. 247 Pennisi M. 10, 11, 12, 247 Perrin J. 245 Piana G. 246, 247 Piana L. 27, 79, 245 Pio IX 247 Pio VII 13 Pio X 18, 21, 35 Pio XI 25 Piva F. 247 Piva P. 247 Porro C; 247 Privitera S. 247 Pupi A. 247 Ragusa Moleti G. 85 Rosati J.P. 247 Santerini M. 40 Schouvaloff G. 93 Schuller B. 245 Scoppola P. 247 Serenthà L. 247 Spiazzi R. 247 Stella P. 12, 14, 16, 18, 243 Sturzo L. 5, 10, 11, 12, 13, 19, 22, 30, 31, 33, 34, 35, 38, 40, 47, 78, 242, 243, 244, 245, 246, 247 Sturzo M. 5, 6, 7, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 17, 18, 19, 20, 22, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 40, 41, 43, 44, 47, 48, 51, 52, 53, 57, 58, 61, 68, 72, 73, 74, 77, 78, 80, 83, 84,
250
87, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 96, 97, 98, 99, 100, 101, 103, 105, 106, 108, 109, 110, 111, 113, 114, 117, 118, 119, 120, 121, 123, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 136, 137, 138, 139, 140, 143, 145, 146, 152, 153, 159, 160, 163, 164, 165, 172, 173, 176, 177, 178, 179, 180, 181, 187, 188, 189, 191, 195, 196, 199, 202, 203, 205, 207, 212, 214, 215, 217, 218, 220, 221, 222, 224, 225, 226, 227, 228, 229, 230, 231, 232, 233, 238, 236, 237, 242, 243, 244 Talete 27, 79, 245 Teresa d’Avila (s.) 16, 40, 57, 65, 216, 222 Tolstoi L. 85, 86, 87, 88, 89, 90, 98 Tommaso d’Aquino (s.) 16, 27, 33, 35, 59, 102, 192, 201, 203, 206, 207, 222223, 247 Tommaso Moro (s.) 40 Tramontin S. 247 Traniello F. 247 Valori P. 247 Verucci G. 247 Vico G. 28, 245 Villari R. 247 Zavattieri S.G. 28, 90, 92, 98, 243 Zunin G. 247
INDICE
PREMESSA
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CAPITOLO I MARIO STURZO: PASTORE, FILOSOFO E MAESTRO . 1. LA FAMIGLIA, LA SCELTA VOCAZIONALE E LE PRIME ATTIVITÀ DI MARIO STURZO . . 2. MARIO STURZO PASTORE E VESCOVO . 3. LA SITUAZIONE STORICO-SOCIALE-ECCLESIALE E CULTURALE . . . 4. MARIO STURZO FILOSOFO . . . . . 5. IL NEO SINTETISMO . 6. LA SVOLTA DEL 1931, FINE DELL’ATTIVITÀ FILOSOFICA 7. L’ATTIVITÀ DEL VESCOVO STURZO DOPO IL 1931 . . . . . . CONCLUSIONE .
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5
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10 13 17 26 32 34 38 41
CAPITOLO II L’EDUCAZIONE NELLE SUE RAGIONI SUPREME . . . . . . 1. L’EDUCAZIONE NELLE SUE RAGIONI SUPREME 2. L’EDUCAZIONE SECONDO LA CONCEZIONE FILOSOFICA DI MARIO STURZO 3. L’EDUCAZIONE È UN PROCESSO SINTETICO, ORIENTATO ALLA VITA INTERIORE, CHE COINVOLGE EDUCANDO ED EDUCATORE . . . . . . . . 4. EDUCAZIONE, MORALE E RELIGIONE . . . . 5. L’EDUCAZIONE NELLE LETTERE PASTORALI . . . . . . 6. DEFINIZIONE DELL’EDUCAZIONE 7. FATTORI CHE CONDIZIONANO L’EDUCAZIONE: L’AMBIENTE . . . . 8. AZIONE AMBIENTALE RICEVUTA SENZA CONTRASTO . . . . 9. AZIONE AMBIENTALE CERCATA DI PROPOSITO . . . 10. I VARI MODI DI RESISTENZA ALL’AZIONE AMBIENTALE . . . . 11. L’AMBIENTE IN RAPPORTO ALLA VOCAZIONE . . 12. LE CONDIZIONI NECESSARIE PER FORMARE L’AMBIENTE PROPIZIO . 13. LA RELATIVITÀ DELL’UOMO IN ORDINE ALL’AZIONE EDUCATIVA . . . . 14. LE RAGIONI SUPREME DELL’EDUCAZIONE . . . . . 15. L’EDUCAZIONE E LA MORALE . . . . 16. L’EDUCAZIONE ETICA E QUELLA TECNICA 17. LA MORALE E LA RELIGIONE . . . . . . 18. IL DOVERE: MOTIVAZIONE FONDAMENTALE PER L’EDUCAZIONE CONCLUSIONE . . . . . . . .
44 46 47 49 51 52 54 55 58 64 66 67 68 70 72 76 80
CAPITOLO III LA CONVERSIONE . . . . . . . . . . . . . . 1. LA CONVERSIONE . . . . 2. LA CONVERSIONE NEGLI SCRITTI FILOSOFICI . 3. CONSIDERAZIONI SULLA PATOLOGIA DELLA CONVERSIONE DEL TOLSTOI
83 83 86 88
43 43 43
251
4. IL MISTERO DELLA CONVERSIONE . . . . . . . 5. FENOMENOLOGIA DELLA CONVERSIONE . 6. LA DIMENSIONE DELLA FEDE NELLA CONVERSIONE . . . 7. I MEZZI CHE FAVORISCONO LA CONVERSIONE . 8. IL MINISTERO DELLA CHIESA NEL CAMMINO DELLA CONVERSIONE . . . . . . CONCLUSIONE . CAPITOLO IV LA VERA CONOSCENZA DI DIO . . . . . 1. LA VERA CONOSCENZA DI DIO 2. LA CONOSCENZA DI DIO PER VIA DELLA CREAZIONE 3. LA CONOSCENZA DI DIO RICEVUTA DALL’AMBIENTE E DALLA NATURA UMANA . . . 4. LA CONOSCENZA DI DIO PER VIA FILOSOFICA . 5. LA CONOSCENZA DI DIO PER MEZZO DELLA FEDE 6. IN COSA CONSISTE LA VERA CONOSCENZA DI DIO . . . . CONCLUSIONE .
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91 97 102 105 108 114
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117 117 121
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127 132 138 150 155
CAPITOLO V LA VITA IN DIO E CIÒ CHE ESSA COMPORTA NELL’UOMO . . 1. LA VITA IN DIO E CIÒ CHE ESSA COMPORTA NELL’UOMO . . 2. SIGNIFICATO E VALORE DELLA VITA IN DIO . . 3. LA PARTECIPAZIONE DELL’UOMO ALLA VITA IN DIO . 4. L’ELEMENTO FONDAMENTALE DELLA VITA IN DIO: LA SANTITÀ . 5. CONSEGUENZA DELLA VITA IN DIO NELLA COSCIENZA . . 6. I MEZZI CHE ALIMENTANO LA VITA IN DIO . . . . . . . CONCLUSIONE .
. . . . . . . .
159 159 160 167 173 177 185 189
CAPITOLO VI VALORE E IMPORTANZA DELLA PREGHIERA NELLA VITA DEL CRISTIANO . . . . . . 1. VALORE E IMPORTANZA DELLA PREGHIERA NELLA VITA DEL CRISTIANO. . . . . . . . 2. LA PREGHIERA 3. LA PREGHIERA È FINALIZZATA ALL’UNIONE CON DIO E AD ALIMENTARE L’AMORE: È PREGHIERA DEL CUORE . . . . . . 4. FORME E MODI DIVERSI DI PREGHIERA . . 5. LA PREGHIERA DI IMPETRAZIONE: SUE CARATTERISTICHE 6. LA PREGHIERA RIVOLTA AL SIGNORE PER IMPETRARE GRAZIE TEMPORALI . . . . . . 7. LA PREGHIERA TOTALE . 8. LA MEDITAZIONE: GLI ATTI PREPARATORI E I SUOI DIVERSI MODI . . . 9. NECESSITÀ DELLA MEDITAZIONE E SUE FINALITÀ . . . 10. IL METODO SOGGETTIVO NELLA MEDITAZIONE . . . . . . 11. LA CONTEMPLAZIONE . 12. LE IMPLICANZE DELLA PREGHIERA NELLA VITA DEL CRISTIANO . . . . . . . CONCLUSIONE .
252
191 191 192 196 199 202 204 209 212 218 220 222 224 229
CONCLUSIONE
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231
BIBLIOGRAFIA
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INDICE DEI NOMI
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Synaxis «NUMERI MONOGRAFICI» Synaxis XIII/1 - 1995
«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 Synaxis XIV/1 - 1996
«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgico-celebrative S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa
Synaxis XV/2 - 1997
«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale Synaxis XVI/2 - 1998
«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia
C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare Synaxis XVII/1 - 1999
«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione Synaxis XVII/2 - 1999
«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna
G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna Synaxis XVIII/2 - 2000
«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia Synaxis XIX/2 - 2001
«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma
A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli Synaxis XX/2 - 2002
«Chiesa locale e istituti di vita consacrata» F. CONIGLIARO, Il presbiterio: un ministero per la Chiesa locale R. FRATTALLONE, I presbiteri “religiosi” e la pastorale diocesana A. NEGLIA, Il carisma degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica nella Chiesa locale C. TORCIVIA, Partecipazione dei membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica al progetto pastorale diocesano Synaxis XX/3 - 2002
«Per una spiritualità del Vaticano II» P. HÜNERMANN, Esiste una spiritualità del Vaticano II? G. ALBERIGO, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II G. ALBERIGO, Lo spirito e la spiritualità del Vaticano II Synaxis XXIII/1 - 2005
«Dimensioni della ritualità» G. RUGGIERI, Introduzione A. COCO, Riflessioni su storia, struttura e rito nella cultura del secondo Novecento
R. OSCULATI, Rito ed etica. Per una lettura dell’evangelo di Marco B. FRONTERRÉ, Il tema del sacrificio nella prima agiografia martiriale (II-III sec.). Appunti per una storia della morte nel cristianesimo antico A. LONGHITANO, Ritualità e dinamica del potere nella festa di S. Agata a Catania G. ZITO, Ritualità e conflitti sociali nella festa di S. Agata a Catania dopo l’Unità A. GRILLO, La ritualità della penitenza ecclesiale. intrecci e interferenze tra dimensione rituale, giuridica e teologica della esperienza del perdono R.M. MONASTRA, Fede e Bellezza e la confessione romantica A. ROTONDO, Un cuore pensante… balsamo per molte ferite Synaxis XXV/2 - 2007
«Il profilarsi di nuovi modelli di clero in Sicilia» M. GUASCO, Evoluzione dei modelli di prete nella storia recente G. RUGGIERI, Nuovi modelli di clero? Le sfide attuali A. NEGLIA, Il profilarsi di nuovi modelli di clero in Sicilia. Le sfide attuali C. LOREFICE, La forma “cristica” di una figura “a-tipica”: Pino Puglisi
Collane di Synaxis «QUADERNI DI SYNAXIS» AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito) AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190 AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136
AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427 AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240 AA. VV., Magia, superstizione e cristianesimo, Giunti, Firenze 2004, pp. 240 AA. VV., La Bibbia libro di tutti?, Giunti, Firenze 2004, pp. 312 AA. VV., Euplo e Lucia. 304-2004. Agiografia e tradizioni cultuali in Sicilia, Giunti, Firenze 2006, pp. 424 AA. VV., Io sono l’altro degli altri. L’ebraismo e il destino dell’Occidente, Giunti, Firenze 2006, pp. 312 AA. VV., Repraesentatio. Sinodalità ecclesiale e integrazione politica, Giunti, Firenze 2007, pp. 240 AA. VV., Embrioni, cellule e persona: biomedicina, giurisprudenza ed etica a confronto, Giunti, Firenze 2008, pp. 192 AA. VV., Frate Gabriele Maria Allegra tra Cina e Sicilia, Bibbia e spiritualità, Giunti, Firenze 2008, pp. 192
«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS»
G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288. P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158. A. G ANGEMI , I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524. G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418. A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Edizioni Arca, Catania 2003, pp. 1032. G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere, Edizioni Arca, Catania 2004, pp. 240.
F. BRANCATO, La questione della morte nella teologia contemporanea. Teologia e Teologi, Giunti, Firenze 2005, pp. 168. F. BRANCATO, “L’ultima chiamata”. Giovanni Paolo II e la morte, Giunti, Firenze 2006, pp. 240. G. SCHILLACI, Essere come dis-inter-esse. Dalla corporeità alla carità, Giunti, Firenze 2006, pp. 120. L. SARACENO, La vertigine della libertà. L’angoscia in Sören Kierkegaard, Giunti, Firenze 2006, pp. 216. F. CONIGLIARO, Proceduralità e trascendentalità in J. Habermas. Una tensione non-contemporanea e il suo significato antropologico, etico e politico, Giunti, Firenze 2007, pp. 360. A. SAPUPPO, Le cellule staminali e la terapia genica. Aspetti scientifici, antropologici ed etici, Giunti, Firenze 2007, pp 168. A. MINISSALE, Bibbia e dintorni. Saggi esegetici e scritti d’occasione, Giunti, Firenze 2007, pp. 384. F. BRANCATO, Il “De novissimis” dei laici. Le “realtà ultime” e la riflessione dei filosofi italiani contemporanei, Giunti, Firenze 2008, pp. 480. R. SCIBILIA, Il coinvolgimento nel mistero di Cristo fondamento dell’etica cristiana, alla luce di Col 3,1-4, Giunti, Firenze 2008, pp. 264. Sezione della collana: Ricerche per la Storia delle Diocesi di Sicilia S. DI LORENZO, Laureati e Baccellieri dell’Università di Catania. I. Il fondo Tutt’Atti dell’Archivio Storico Diocesano (1449-1570), Giunti, Firenze 2005, pp. 168. A. PLATANIA, La musica sacra a Catania tra Ottocento e Novecento. L’archivio musicale del Seminario arcivescovile di Catania, Giunti, Firenze 2006, pp. 360.