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Salvo Millesoli

CITTÀ APERTA

Euro 15,00 (i.i.)

Il dovere della speranza

DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS

La ricorrenza del cinquantesimo anniversario della morte del Servo di Dio Don Luigi Sturzo, avvenuta a Roma l’8 agosto del 1959, ha registrato in tutto il Paese una serie di iniziative, religiose e culturali, atte a commemorare la figura del sacerdote-statista siciliano, favorendo, nel contempo, anche un nuovo approfondimento circa il confronto tra l’ambito della fede e quello dell’impegno del credente a favore della “città degli uomini”. In questo contesto tematico trova spazio il saggio commemorativo di Salvo Millesoli, il quale, dando voce allo stesso Sturzo, cerca di superare l’apparente difficoltà che vede l’incompatibilità, aprioristica, tra la dimensione della fede e quella della politica in senso stretto, ribadendo come la fede debba essere rintracciabile in ogni ambito della vita del cristiano, diventandone l’anima ispiratrice, e, comunque, mai ridotta a puro atto intimistico, senza alcuna relazione con il resto della realtà esistenziale. Per il cristiano, e questo è il cuore del pensiero di Don Sturzo, la vita con le sue dinamiche non è un fatto privato, e la sua fede deve avere un necessario ed immediato riflesso nella società umana. Così le virtù cristiane, la fede, la speranza e soprattutto la carità, non potranno essere vissute arginate dentro la struttura della storia umana, ma dovranno incidere su di essa fino a trasformarla. In questo senso allora si potrà parlare di “dimensione politica” della fede, capace di donare Speranza, al singolo individuo come all’intera società, realizzando concretamente il progetto umano. L’autore ricostruisce, alla luce del pensiero sturziano, un originale itinerario concettuale, che, descrivendo un vero e proprio percorso ascetico, parte dalla ricomprensione-riconciliazione del cristiano con il mondo e con la storia, fino a raggiungere il suo fine ultimo, che è la Beatitudine.

Salvo Millesoli Il dovere della speranza

Salvo Millesoli, presbitero della Diocesi di Caltagirone, insegna Teologia Spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania e in diversi Istituti di Scienze Religiose della Sicilia. Studioso del pensiero sturziano e membro, in qualità di perito, della Commissione storica istituita dalla Diocesi di Roma per il processo di beatificazione del sacerdote calatino. Tra i suoi scritti sul tema da segnalare il saggio: Don Sturzo. La carità politica (Milano 2002).

Don Sturzo e la dimensione politica della vita cristiana

CITTÀ APERTA

Studio Teologico S. Paolo / Catania


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Documenti e Studi di Synaxis 24


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Salvo Millesoli

IL DOVERE DELLA SPERANZA Don Sturzo e la dimensione politica della vita cristiana

CittĂ Aperta Edizioni

Studio Teologico S. Paolo / Catania


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© copyright 2010 Città Aperta Edizioni s.r.l. 94018 Troina (En) - Via Conte Ruggero, 73 Tel. 0935.653530 - Fax 0935.650234 Copertina di Rinaldo Cutini In copertina: Luigi Sturzo, foto d’epoca Finito di stampare nel giugno 2010 dal Villaggio Cristo Redentore s.r.l. 94018 Troina (En) Tel. 0935.657813 - Fax 0935.653438


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Sommario

Premessa

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Scheda biografica essenziale

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Introduzione

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Capitolo I Vita cristiana e impegno politico

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1. Premessa 2. La visione storicistica di Sturzo 3. La vocazione “mondana” del cristiano

Capitolo II Chiamati alla santità 1. Ricomprendere la santità cristiana 2. Sturzo e il cammino di perfezione 3. Aspetti essenziali della perfezione 4. Mistica e santità

Capitolo III Contemplativus in actione 1. Una santità sociale 2. Influenza del cristianesimo sulla società 3. Una spiritualità incarnata 4. Il fine unificante della storia 5. L’universalismo 6. La dimensione trascendente della storia

Capitolo IV Ascesi politica e apostolato 1. La via ascetica del “distacco” dal mondo 2. Ascesi della vita politica

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3. L’apostolato dei laici 4. Fine moralizzatore dell’apostolato sociale 5. Giustizia, amore e politica

Capitolo V Presenza di Cristo nell’azione sociale 1. Una spiritualità d’incarnazione 2. Requisiti del politico cristiano 3. Adeguata formazione delle coscienze e riarmo morale

Capitolo VI Le beatitudini del servizio 1. Approdo ad una mistica dell’impegno 2. La via delle beatitudini

Capitolo VII Apostoli e testimoni di Dio nel mondo 1. L’apostolato dei laici 2. Unione con dio nell’apostolato

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129 129 135

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Conclusione La vera vita conduce alla visione di Dio

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Sintesi storiografica

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Bibliografia essenziale

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Ai miei genitori


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«Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata, e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude.»

Rm 5,3-5

«La redenzione, la salvezza, ci è offerta, nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale possiamo affrontare il nostro presente».

Spe Salvi, 1

«Ho avuto sempre fiducia e quindi speranza nell’avvenire; un avvenire prossimo o remoto, che si realizzi me vivente o quando le mie ossa riposeranno in un cimitero, non importa; perché ho sentito la vita politica come un dovere e il dovere dice speranza.»

L. Sturzo


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Premessa

Uno dei luoghi comuni, oggi ancora molto diffuso, che sarebbe conveniente sfatare definitivamente, è quello che la religione, non escluso il cristianesimo, debba occuparsi solo della dimensione spirituale e trascendente della vita umana, evitando accuratamente di invadere la dimensione immanente che si realizza nella storia e nella concretezza delle vicende mondane. Questo tipo di concezione, coltivata per secoli, ha progressivamente portato il credente ad un certo disimpegno per il servizio alla cosa pubblica, escludendo l’aspetto sociale dalle ansie dell’evangelizzazione, rendendo così, molto spesso, la comunità credente passiva davanti alle sfide del secolo. È vero che negli ultimi decenni c’è stato un crescendo di interesse da parte del mondo religioso per gli argomenti sociali, e che col Vaticano II la Chiesa ha, in maniera chiara e decisa, ribadito la doverosa assunzione di responsabilità che il cristiano deve compiere nei confronti dei problemi del mondo, ma nell’atteggiamento concreto che i fedeli hanno nei confronti di tale impegno resta sempre un alone di diffidenza e di sospetto. Per questa ragione oggi, forse più che mai, bisognerebbe recuperare una visione più serena nei confronti dell’impegno del cristiano nel mondo, ben sapendo che l’annuncio del Vangelo non può mai essere ridotto ad un messaggio disincarnato dalla storia concreta in cui l’uomo vive. La Buona Novella di Cristo, infatti, non crea solo un vuoto orizzonte religio11


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so, ma porta in sé la necessità di un’incarnazione immediata nell’oggi della storia dove viene proclamato. Già la comunità neotestamentaria si sentì chiamata ad incarnare nel concreto della storia le esigenze di quella Verità di cui era depositaria e annunciatrice, comunicando il Vangelo sia con la predicazione, sia compiendo, volta per volta, scelte concrete molto spesso pagate col sangue. Così dall’epoca dei martiri, dei monaci e dei confessori della fede, all’epoca delle Encicliche sociali, la Chiesa non ha mai smesso di generare testimoni che rendessero attuale, e perciò sempre credibile, il messaggio di Cristo. Scopo di questo lavoro è quello di accostarsi ad uno di questi testimoni, i quali, da autentici maestri di vita, hanno delineato nuovi percorsi di pensiero e, in particolare per quanto ci riguarda, che hanno svolto un’opera concreta, non solo a favore della Chiesa, ma anche nei confronti dell’intera società, rielaborando il criterio di servizio all’uomo e alla società, non escluso il campo della politica, a partire dalle esigenze della fede. Queste pagine vogliono essere un tributo al genio intellettuale e alla profonda spiritualità del Servo di Dio don Luigi Sturzo, ricordandolo a cinquant’anni dalla sua scomparsa, avvenuta a Roma l’8 agosto del 1959, convinti che la conoscenza della vita e del pensiero del sacerdote-statista si rende oggi più che mai necessaria per indirizzare e illuminare tanti credenti che, sebbene con molta cautela, e molto spesso con un pizzico di diffidenza, tentano di addentrarsi nei meandri della vita politica e dell’impegno sociale, senza perdere di vista la meta finale della Beatitudine promessa da Dio ai suoi servi fedeli. Uno studio, che metta insieme le categorie di perfezione cristiana e di impegno politico, potrebbe contribuire così, in qualche modo, a dirimere alcune questioni di principio legate ad una sorta di incompatibilità aprioristica tra i due aspetti, trovando nella figura di don Sturzo un elemento di sintesi, presentandolo come uno che ha vissuto il proprio impegno sentendolo “come un dovere”, il dovere di donare speranza all’uomo e all’intera società. Una vera e propria missione, allora, che induce non pochi all’idea di cominciare a definire don Sturzo un autentico Apostolo della politica, ridefinendo la sua vita, il suo pensiero e la sua opera sociale all’interno della categoria di santità, suscitando, insieme ai plausi e alle numerose attestazioni di compiacimento, anche un vespaio di polemiche. 12


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Molte perplessità, infatti, in tal senso sono emerse quando il 3 maggio del 2002 presso la sede del Tribunale Ecclesiastico del Vicariato di Roma è stato introdotto il processo di Beatificazione per don Sturzo. È vero che anch’egli stava per essere relegato nel mondo dei miti e delle leggende, avendo perso, forse, quella forza coinvolgente che lo distinse per tutta la sua vita, ma tra il riportare in auge un personaggio della sua valenza e l’avvio di un processo di Beatificazione di strada ne corre, e, se non se ne conoscono bene i presupposti o comprendendo a fondo le ragioni, si potrebbe dare vita ad una serie di interventi critici, e molto spesso inappropriati, sull’argomento. Le pagine di questo modesto lavoro, che considero un omaggio ad un mio confratello illustre, possano contribuire ad una conoscenza più profonda delle ragioni della fede del prete di Caltagirone, ragioni che lo rendono portatore di speranza nel mondo della politica, per contribuire, col suo pensiero innovativo e l’opera generosa, all’edificazione della civiltà dell’amore. L’Autore

Caltagirone, 8 agosto 2009 50° Anniversario della morte del Servo di Dio don Luigi Sturzo

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Scheda biografica essenziale1

1871 Luigi Sturzo nasce a Caltagirone il 26 novembre, quinto figlio, assieme alla gemella Emanuela, di Felice, barone di Altobrando, e di Caterina Boscarelli. 1883 Comincia la sua formazione presso il seminario di Acireale. 1886 Si trasferisce, per motivi di salute, nel seminario di Noto. 1894 Completata la formazione il 19 maggio del 1894 fu ordinato sacerdote nella chiesa del Santissimo Salvatore dal vescovo di Caltagirone Mons. Saverio Gerbino. Viene inviato a Roma per continuare i suoi studi presso l’Università Gregoriana. 1895 Il Sabato santo, durante la benedizione delle case in un quartiere popola1 Questa scheda biografica, integrata e aggiornata, è tratta dal libro di S. MILLESOLI, Don Sturzo. La carità politica, Milano 2002.

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re al centro di Roma, commosso dalla grande miseria che vi regnava, inizia la sua svolta verso l’impegno sociale. Torna a Caltagirone, e dopo aver preso i contatti con la letteratura sociale e le iniziative contemporanee, fonda, nella parrocchia di S. Giorgio, il primo comitato parrocchiale e una sezione operaia. 1897 Consegue la laurea all’Università Gregoriana e torna a Caltagirone, e tra le tante iniziative ricordiamo l’istituzione di una Cassa Rurale dedicata a San Giacomo e una mutua cooperativa. Il 7 marzo dello stesso anno fonda anche il giornale di orientamento politico-sociale “La Croce di Costantino”. 1900 Periodo di maturazione del pensiero sturziano. Cominciano le lezioni presso il seminario diocesano, e una produzione di articoli e conferenze circa la ricezione e l’attuazione della “Rerum Novarum”. 1904 Ottenuto il permesso della Santa Sede viene nominato Commissario prefettizio, e un anno dopo anche Pro-Sindaco della città, cariche che conserverà per quindici anni fino al 1920. 1906 Pubblica “Sintesi sociali”, dove raccoglie gli scritti giovanili e comincia una campagna per l’abolizione del “Non expedit”. 1915 Già membro del consiglio provinciale di Catania, viene eletto vicepresidente dell’Associazione nazionale dei Comuni italiani. Inoltre viene chiamato da Benedetto XV come segretario della giunta direttiva d’Azione Cattolica. 1918 Preannuncia in un discorso a Milano la nascita di un nuovo partito, raduna un gruppo di amici per gettarne le basi. Viene formata una Costituente per l’elaborazione del programma. 16


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1919 Il 18 gennaio da una stanza dell’albergo di S. Chiara a Roma lancia l’appello “A tutti gli uomini liberi e forti”, con il quale viene fondato il Partito Popolare Italiano. 1920 A Bologna il 14 giugno viene celebrato il primo congresso. Qui Sturzo ribadisce il carattere laico e aconfessionale del partito. 1923 Il 25 giugno appare sul “Corriere d’Italia” un articolo a firma di mons. Enrico Pucci nel quale si invita Sturzo a non creare difficoltà alla Santa Sede. Il 20 luglio lascia la carica di segretario politico del partito. 1924 Il 25 ottobre, dopo aver subito minacce di morte, viene invitato, per precauzione, dal Segretario di Stato, card. Pietro Gasparri, a lasciare l’Italia. 1924-1946 Periodo dell’esilio che lo porterà da Parigi a Londra e infine negli Stati Uniti. 1935 A Londra pubblica “La società sua natura e leggi” per precisare le leggi sociologiche naturali “di una società umana, ch’è stata chiamata a un fine soprannaturale”. 1938-1939 Pubblica “Politica e morale”, e il saggio “Chiesa e Stato” nel quale studia da un punto di vista storico “il rapporto fra la società a fini terreni e quella a fini soprannaturali”. 1940 Il 22 settembre lascia Londra a causa di disagi provocati dai bombardamenti. Giunge a New York il 3 ottobre. Inizia il periodo dell’esilio americano, nel corso del quale Sturzo si dedica a una intensa attività pubblicistica a favore soprattutto dell’Italia. 17


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1943 Pubblica “La Vera Vita: sociologia del soprannaturale”, quale studio delle leggi sociologiche e delle esperienze storiche nel piano spirituale della grazia. 1946 Finita la guerra, il 27 agosto lascia l’America per far rientro in Italia. Giunge a Napoli il 5 settembre. Si trasferisce a Roma presso la casa generalizia delle Suore Canossiane. Non entra a far parte della DC, pur mantenedo buoni rapporti con il partito. 1950 Pubblica “Del metodo sociologico”, ultimo lavoro sulla sociologia. 1952 Il 17 dicembre il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi lo nomina senatore a vita. Sturzo aderisce al gruppo misto. 1953 Pubblica “Coscienza e politica”, a completamento dell’altra opera, “Politica e morale”, pubblicata nel 1938. 1959 Muore a Roma il 18 agosto e viene sepolto nella cripta di S. Lorenzo al Verano. Il 3 luglio 1962 la salma viene traslata e tumulata nella chiesa del SS. Salvatore in Caltagirone. 2001 Il 10 dicembre il cardinale Camillo Ruini, vicario della diocesi di Roma, emette l’editto per iniziare la raccolta di informazioni circa la vita e le virtù di don Luigi Sturzo. 2002 Il 3 maggio presso la sede del Tribunale Ecclesiastico del Vicariato di Roma è stato introdotto il processo di Beatificazione per don Luigi Sturzo.

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Introduzione

«La comunità dei discepoli infatti è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre ed hanno ricevuto un messaggio di Salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia»

(Gaudium et Spes, 1)

Tutta la società, nella sua concretezza e nelle sue più svariate espressioni ed articolazioni, è la vigna nella quale il Signore invita a lavorare i suoi discepoli. Così, il cristiano, chiamato ad operare nella storia con i doni e i compiti che gli sono propri, deve poter espletare il suo mandato missionario in ogni situazione ed ambito di vita, tanto da non esserci alcun ambiente sociale nel quale al cristiano non venga chiesto di essere sale e luce (cfr. Mt 20, 1-7; 5, 13-16). La verità del Vangelo chiede di essere testimoniata nei luoghi in cui uomini e donne vivono, soffrono, gioiscono e muoiono. Chiede di essere sostenuta in famiglia, come nel mondo della scuola e in quello del lavoro; chiede di essere solido fondamento nell’economia, come nella politica, nell’amministrazione della giustizia, come nell’uso dei beni naturali e ambientali; diventa la forza interiore per chi si dedica al servizio degli altri nel mondo dell’assistenza e dell’attenzione alle antiche e nuove povertà, come in quello della sanità; e questo vale anche per chi lavora nel mondo della cultura, come in quello della comunicazione sociale; nello sport, come nel tempo libero, e in ogni altro ambiente dove si svolge la vita degli individui1. È questo il contesto più immediato e quotidiano nel quale si è chiamati a vivere e a comunicare la fede, e in tale contesto, c’è un urgente bisogno 1

Cfr. Presenza evangelica nella comunità degli uomini, 2.

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di uomini nuovi, di cristiani veri, di persone, cioè, capaci di dare la vita e, che con la sola forza del Vangelo e la loro testimonianza, cerchino di «convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l’attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l’ambiente concreto loro propri»2. Questa conversione della società ha visto nei secoli passati diverse figure di uomini impegnati a tal fine, con quella capacità di condizionare l’evolversi della storia attraverso pensieri innovativi e azioni coraggiose, diventando l’anima di vere e proprie rivoluzioni culturali. Una di queste figure, che ha operato una svolta importante nell’atteggiamento dei cristiani nei confronti dell’impegno sociale e politico in Italia tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, è certamente don Luigi Sturzo. Attraverso la rilettura di alcuni testi sturziani, si è cercato di ricomprendere il concetto di perfezione cristiana accostandolo a quello di impegno politico, ribadendo che, nella visione del nostro autore, tra i due non c’è incompatibilità, ma, anzi, un profondo rapporto di reciprocità. Infatti, esaminando la vita cristiana di don Sturzo, intesa come vita teologale, con una particolare attenzione alla virtù della Speranza, di cui si sente foriero, ci si accorge come, per il nostro, quello dell’impegno a favore della società degli uomini, non può essere considerato ai margini dei doveri religiosi del cristiano, quanto invece deve comprendersi sempre di più come una vera e propria dimensione della stessa vita cristiana, che trova nell’esperienza umana concreta il luogo della sua espressione più autentica. Il magistero ecclesiale recente, e questo fa di don Sturzo un autentico profeta, sottolinea questa necessaria complementarietà tra la dimensione religiosa e quella etica nell’unica vita cristiana, superando, ormai definitivamente, quella sorta di imbarazzo che limitava gli ambiti della vita cristiana a quelli prettamente religiosi: «Ma la verità cristiana non è una teoria astratta. È anzitutto la persona vivente del Signore Gesù (cfr. Gv 14,6), che vive risorto in mezzo ai suoi (cfr. Mt 18, 20; Lc 24, 13-35). Può quindi essere accolta, compresa e comunicata solo all’interno di un’esperienza umana integrale, personale e comunitaria, concreta e pratica, nella quale la consapevolezza della verità trovi riscontro nell’autenticità della vita»3. 2 3

Evangelii Nuntiandi, 18. Evangelizzazione e testimonianza della carità, 9.

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Così, un serio approfondimento del rapporto fede-politica, o più specificatamente tra vita cristiana e vita sociale, diventa oggi quanto mai fondamentale in quel processo, tanto auspicato da don Sturzo, di ricomprensione religiosa del nostro tempo, in quanto l’impegno sociale e politico del cristiano appare in questo momento in qualche modo indebolito e, molto spesso, fonte di confusione e di imbarazzo perché si mostra debole o addirittura mancante di quel presupposto ideale che dovrebbe animarlo, cioè la Speranza, speranza nell’avvento di quel Regno la cui edificazione è affidata all’impegno storico del cristiano. Uno dei problemi che tale edificazione incontra oggi, più che in altri periodi storici, è legato alla costatazione del fatto che la nostra non si possa più definire una società cristiana. Nonostante permangano non pochi segni di una civiltà – come quella italiana ed europea, al di là di ogni negazione più o meno istituzionale – che affonda le proprie radici nel Vangelo di Cristo e nella tradizione cristiana, dobbiamo prendere atto del fatto che «la cultura europea dà l’impressione di una apostasia silenziosa da parte dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse»4. A partire da questi presupposti comprendiamo come in questa nostra società quanto mai difficile e arduo non solo diventare cristiani, ma anche essere cristiani e vivere da cristiani. La stessa testimonianza della Chiesa è messa in crisi. Ci si trova di fronte a sfide in qualche modo inedite e nel contempo particolarmente pregne di responsabilità. In questo nuovo contesto il cristiano si trova a dover scegliere quale atteggiamento assumere in rapporto a quella necessaria ricaduta etica della sua fede. Così, dire, o meglio ri-dire il Vangelo, oggi si presenta come un’impresa talmente faticosa e difficile da sembrare, a volte, quasi impossibile, visto che la cultura dominante non solo non favorisce, addirittura molto spesso ostacola, l’annuncio della Buona Novella e il suo radicamento nel cuore degli uomini e, di conseguenza, dell’intera società. Quella attuale, infatti, è una cultura interiormente segnata da fattori che contribuiscono a sciogliere il plurisecolare e tradizionale rapporto di integrazione, se non di identificazione, tra cristianesimo e società. Per questo motivo la Chiesa, insistendo negli ultimi decenni sulla necessità di una Nuova Evangelizzazione, non manca di ribadire che per la fede cristiana, che trae la sua intrinseca regola di vita dalla Rivelazione, non può 4

Ecclesia in Europa, 9.

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esistere dimensione religiosa che non sia contemporaneamente dimensione sociale, per cui non può definirsi una vera spiritualità cristiana quella che non abbia in sé una naturale e, nel frattempo assolutamente necessaria, rilevanza etica. Per i cristiani di tutti i tempi vige sempre la formula morale dell’agere sequitur esse, secondo la quale tanto il singolo credente quanto l’intera comunità cristiana, sono chiamati a rendere visibili, nel concreto delle proprie scelte e delle proprie azioni, le istanze di bene di cui sono annunciatori e portatori. In tal senso l’esortazione dei vescovi italiani, appena citata, insiste circa la necessità di coniugare l’evangelizzazione con la testimonianza della fede e l’esercizio della carità concreta: «Nella situazione odierna, e in stretto rapporto con l’impegno della nuova evangelizzazione, anche la testimonianza della carità va pensata in grande e articolata nelle sue molteplici e correlate dimensioni. L’intera comunità ecclesiale, nella distinzione dei suoi ruoli e dei suoi compiti, è chiamata a esserne soggetto e ogni cristiano deve sentirsi in essa personalmente impegnato. Occorre imparare a incarnare in gesti concreti, nei rapporti da persona a persona come nella progettualità sociale, politica ed economica e nello sforzo di rendere più giuste e più umane le strutture, quella carità che lo Spirito di Cristo ha riversato nel nostro cuore. La testimonianza della carità avrà di mira non solo il bisogno materiale e il benessere temporale, ma la persona globale e, attraverso l’impegno concreto del servizio, saprà dischiudere la strada per scoprire l’amore infinito di Dio Padre. L’impegno sociale deve coniugare carità e giustizia. Il vangelo della carità impegna a diffondere e incarnare la dottrina sociale della Chiesa, che è parte integrante della sua missione evangelizzatrice e del suo insegnamento morale (cfr. SRS 41). Dobbiamo avere sicura coscienza che il vangelo è il più potente e radicale agente di trasformazione e di liberazione della storia, non in contraddizione, ma proprio grazie alla dimensione spirituale e trascendente in cui è radicato e verso cui orienta[...]»5.

5 Evangelizzazione e testimonianza della carità, 37. In questo documento i vescovi non mancano però di sottolineare come solo la Carità autenticamente vissuta dai cristiani può portare all’edificazione di un mondo fondato sulla giustizia e il vero bene: «È quindi importante realizzare un genuino rapporto fra carità e giustizia nell’impegno sociale del cristiano, superando pigrizie e preconcetti che, anche da opposte sponde, introducono fra queste una fallace alternativa. Occorre rinnovare il forte richiamo del concilio perché “siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia” e “non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia” (AA 8). Ed è altrettanto necessario ricordare, sulla base dell’universale esperienza umana, “che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all’annientamento di se stessi, se non si consente a quella forza più profonda, che è l’amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni” (DM 12). In realtà, la ca-

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Davanti a questa sfida epocale il cristiano, può assumere diversi atteggiamenti, variabili col variare della concezione di fondo che l’accompagna. Di queste visioni diverse se ne possono individuare almeno due fondamentali, rappresentative di scelte contrapposte e forse estreme, ma che rivelano, nell’esperienza concreta, una certa preferenziale via di realizzazione. Un primo comportamento è quello che potremmo definire, col fondatore dell’Opus Dei, della schizofrenia cristiana in quanto si assiste ad una separazione tra la fede professata con la bocca, celebrata nel culto della comunità cristiana, in qualche modo vissuta all’interno di quei meccanismi infraecclesiali che fanno parte della cosiddetta pastorale, e la vita sociale, condotta in tutti quegli ambiti che caratterizzano i normali rapporti sociali dell’individuo, a partire da quelli più intimi, quali la famiglia, il lavoro o lo studio, fino ad arrivare a quelli più complessi che si realizzano nei rapporti economici, sociali e politici: «Non ci può essere una doppia vita, non possiamo essere come degli schizofrenici, se vogliamo essere cristiani: vi è una sola vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che deve essere – nell’anima e nel corpo – santa e piena di Dio: questo Dio invisibile, lo troviamo nelle cose più visibili e materiali. Non vi è altra strada: o sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai. Per questo vi posso dire che la nostra epoca ha bisogno di restituire alla materia e alle situazioni che sembrano più comuni il loro nobile senso originale, e metterle al servizio del Regno di Dio, spiritualizzandole, facendole diventare mezzo ed occasione del nostro incontro continuo con Gesù Cristo»6.

Un secondo atteggiamento è quello che potremmo chiamare gnostico, caratterizzato cioè da una energica opposizione ad una società intesa come assolutamente corrotta, quindi, assolutamente non conciliabile con la fede. Di qui la tendenza a desiderare, illudendosi di poterla costruire, una rità autentica contiene in sé l’esigenza della giustizia: si traduce pertanto in un’appassionata difesa dei diritti di ciascuno. Ma non si limita a questo, perché è chiamata a vivificare la giustizia, immettendo un’impronta di gratuità e di rapporto interpersonale nelle varie relazioni tutelate dal diritto. Il burocratismo, l’anonimato, il legalismo sono pericoli che insidiano le nostre società: spesso ci si dimentica che sono delle persone coloro ai quali si rivolgono i molteplici servizi sociali. Di più, la carità sa individuare e dare risposta ai bisogni sempre nuovi che la rapida evoluzione della società fa emergere. Con questa sua opera preveniente e profetica la carità si impegna – sia sollecitando le coscienze, sia usufruendo degli strumenti politici e istituzionali a ciò destinati – a far sì che i bisogni, quando siano autentici e quando la materia e la situazione lo consentano, siano riconosciuti come diritti e siano tutelati dall’organizzazione sociale». Ibid., 38. 6 J.M. ESCRIVÁ, Colloqui, 5ª, Ares 1987, n. 114.

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società diversa e separata dal male mondano, nella quale i cristiani possono vivere la loro fede senza essere disturbati e aggrediti dalla cultura dominante7. La stessa cosa può accadere anche da parte della società nei confronti dei cristiani e della Chiesa: nel segno della rivendicazione di quella laicità spesso decaduta in una forma di indebita strumentalizzazione. Anche in questo caso sono almeno due i rischi che si corrono nell’attuazione di queste posizioni. Innanzitutto si assiste ad una certa esasperazione delle posizioni nel confronto tra tesi laiche e tesi cattoliche, con conseguenze evidenti di atteggiamenti falsificanti e, spesso, alquanto equivoci, volutamente coltivati nel dibattito culturale. Così facendo, la giusta e doverosa laicità si trasforma forse in un laicismo più o meno palese, che favorisce un clima di chiusura, o addirittura di ostilità, verso il pensiero cristiano e dei cristiani stessi, che trova nell’avversione alla Chiesa il suo punto di forza8. Nel secondo caso, contrapposto al primo, la società civile, intesa nelle sue istituzioni, cerca di compiacere la Chiesa e i cristiani, per poter agevolmente raggiungere i propri fini mondani, cercando di creare un sistema di scambio basato sul classico do ut des, dove il sostegno dei cristiani verrebbe ricompensato con la condiscendenza in quelle tematiche che interessano in maniera particolare il pensiero cristiano e la linea di giudizio portata avanti dalla Chiesa. 7 Don Giussani definisce questo atteggiamento addirittura un delitto: «La separazione del cielo dalla terra è il delitto che ha reso il senso religioso o, meglio, il sentimento religioso, vago, astratto, come una nube che corre nel cielo e presto si svaga, si fiacca e scompare, mentre la terra resta dominata – volenti o nolenti – ultimamente come fu con Adamo e Eva, dall’orgoglio, dall’imposizione di sé, dalla violenza». L. GIUSSANI, Il rischio educativo, Milano 2005, 22. 8 In un articolo di Ernesto Galli della Loggia, apparso su Corriere della Sera il 15 gennaio 2008, in occasione delle contestazioni rivolte alla visita del Papa all’Università di Roma, troviamo sinteticamente espressa questa posizione definita dal titolo stesso laicismo obbligatorio: «C’è l’idea che in una democrazia che vuole essere tale la religione debba essere esclusa da qualsiasi spazio pubblico; che esistono orientamenti culturali e ideali – e quelli religiosi sarebbero i primi tra questi – i quali sono radicalmente incompatibili vuoi con la società democratica e con il suo ethos pubblico, vuoi più in generale con una moderna visione del mondo. E che quindi nell’università possa trovare posto e avere corso esclusivamente quello che si autodefinisce compiaciutamente il “libero pensiero”. Idea inquietante che mette inevitabilmente capo a una sorta di obbligatorio laicismo di Stato, di pubblica preferenza sociale accordata all’irreligiosità: tutta roba in cui l’autentica tradizione liberale si è sempre ben guardata dal riconoscersi, ravvisandovi giustamente una più che probabile anticamera del dispotismo».

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È chiaro che in entrambe le situazioni alla Chiesa e ai cristiani spetta il compito di mantenere alto il valore dell’integrità, liberandosi, se è necessario, di tutti quei vincoli che impediscono la schietta e audace professione della fede, e l’annuncio autentico del Vangelo. E in questa prospettiva riecheggiano le parole dell’Apostolo Pietro che invita i credenti a sostenere il confronto con il mondo trovandosi sempre “pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3, 15), chiamati a rinnovarsi e ad assumere il volto di una presenza e di una testimonianza sempre più decise, convinte, mature, cariche di quell’elemento fondamentale per la vita cristiana che è la Speranza. Dare ragione della speranza, è, allora, uno dei doveri del cristiano che don Sturzo sente di dover mettere a fondamento della sua missione di credente e di sacerdote. Tutto l’impegno di una vita, compreso quello prettamente politico, è espressione della speranza che porta dentro e che è chiamato a vivere e testimoniare con tutta la passione che gli è propria. Questa convinzione è testimoniata da un articolo pubblicato il giorno prima della sua dipartita, quasi come pensiero di congedo da questo mondo, congedo che esprime la sua intima convinzione e che chiede a tutti coloro che in qualche modo si rifaranno a lui, di compiere un vero atto di speranza: «Ho avuto sempre fiducia (e quindi speranza) nell’avvenire; un avvenire prossimo o remoto, che si realizzi me vivente o quando le mie ossa riposeranno in un cimitero, non importa; perché ho sentito la vita politica come un dovere e il dovere dice speranza. Io credo nella provvidenza divina. Sono certo che la mia voce, anche se spenta, rimarrà ammonitrice per la moralità e per la libertà nella vita politica: una voce contro lo statalismo, contro la demagogia, contro il marxismo. Spero che i cattolici riprendano coraggio, senza bisogno di mutuare dai socialisti idee sociali ed etiche delle quali questi ultimi ignorano il valore, senza bisogno di cercare a sinistra alleati infidi né a destra collaboratori malevoli; ma curando di essere se stessi, affrontando le difficoltà che la vita stessa impone e soprattutto correggendo certi errori del recente passato che ne hanno alterato la linea»9.

Un invito al coraggio, il coraggio di stare nel mondo da cristiani, senza lasciarsi deviare da nuove proposte e nuovi modelli di valore, carichi solo della speranza del Vangelo. D’altro canto, don Sturzo sa bene come lo 9

LUIGI STURZO, Il Giornale d’Italia 7 agosto 1959.

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stesso Gesù invita i cristiani ad esserci nel mondo, e ad esserci con delle caratteristiche ben precise, come sale e come luce: “Voi siete il sale della terra... Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13-14). Davanti a questi concetti comprendiamo di dover fare i conti con affermazioni che definiscono l’identità stessa della Chiesa e dei cristiani. Essere sale della terra e luce del mondo è il preciso compito che ci è affidato. È un dovere grave e irrinunciabile, perché sono chiamate in causa da un lato la novità assoluta della fede cristiana con la sua verità per il mondo e per la stessa società, dall’altro lato la responsabilità dei cristiani considerati quali strumenti di salvezza per l’uomo e per il mondo. In questo modo, la testimonianza della fede si fa generatrice di altra fede di luogo in luogo e di generazione in generazione. Sono le stesse immagini usate da Gesù a indicarci come va vissuto il comando di essere sale della terra e luce del mondo. Ci dicono come la Chiesa e i cristiani possono e devono vivere il loro essere missionari nella società, in tutti i luoghi e le relazioni in cui si articola e si svolge la vita dell’uomo. Il sale dà sapore quando viene messo nel cibo e si scioglie. Ma deve essere nella giusta quantità, altrimenti o lascia il cibo insipido o lo rende troppo salato. La luce illumina davvero quando si diparte dalla fonte che la promana e raggiunge la realtà, entrando in essa con una diffusione che avvolge, rischiara, ne mette in risalto le linee e i colori. Sale e luce sono immagini che dicono la necessità di superare ogni separazione ed estraneità e di dare vita a una sorta di immersione o, meglio, di compenetrazione. È questa la condizione indispensabile per vivere, da parte della Chiesa e dei cristiani, la loro nativa vocazione missionaria nella società. Così, sull’esempio di Gesù, è e deve essere per la Chiesa. Alla luce della fede, il rapporto tra Chiesa e società, tra Chiesa e mondo, è all’insegna di una mutua collaborazione e compenetrazione. Ce lo ricorda il Concilio Vaticano II: «La Chiesa, procedendo dall’amore dell’eterno Padre, fondata nel tempo dal Cristo Redentore, radunata nello Spirito Santo, ha una finalità di salvezza ed escatologica, che non può essere raggiunta pienamente se non nel mondo futuro. Essa, poi, è già presente qui sulla terra, ed è composta da uomini, i quali appunto sono membri della città terrena, chiamati a formare già nella storia dell’umanità la famiglia dei figli di Dio, che deve crescere costantemente fino all’avvento del Signore. Unita in vista dei beni celesti e da essi arricchita, tale fa-

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miglia fu da Cristo “costituita e ordinata come società in questo mondo”, e fornita di “convenienti mezzi di unione visibile e sociale”. Perciò la Chiesa, che è insieme “società visibile e comunità spirituale”, cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio. Tale compenetrazione di città terrena e città celeste non può certo essere percepita se non con la fede»10.

Così può e deve essere per tutti suoi discepoli, che il Signore Gesù, tornando al Padre, non ha voluto togliere dal mondo, ma ha lasciato nel mondo (cfr. Gv 17, 15). Li ha lasciati perché restassero dentro la società degli uomini, condividendo con tutti gli altri le stesse esperienze e la stessa vita, ma senza perdere il loro sapore e la loro capacità di diffondere luce. Non è lecito, quindi, fuggire dal mondo. Sono la stessa fede cristiana e la sequela di Gesù a ributtare i cristiani nel mondo e ad esigere che rimangano dentro ogni piega della storia e della società per portarvi il sapore e la luce di Cristo. Bisognerebbe, allora, meditare con grande serietà queste parole del Concilio, che in maniera straordinaria riescono a sintetizzare quell’ansia di cambiamento e quella lungimiranza di prospettive che don Sturzo decenni prima aveva profeticamente auspicato: «Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che cerchiamo quella futura, pensano di poter per questo trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno... Il distacco, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo [...] Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna»11.

Tutti i cristiani, allora, congiunti a Cristo e inseriti nella Chiesa, sono sì immersi in tutti gli ambiti della società, ma lo sono e lo devono essere secondo la loro propria originalità e identità: da cristiani, come cittadini del mondo, fedeli al Vangelo, guidati dalla coscienza cristiana (cfr. GS, 76). È questo il loro modo di essere nel mondo a servizio del Regno di Dio, diventandone l’anima secondo quello spirito che traspare da una delle più antiche e belle pagine della tradizione cristiana: 10 11

Gaudium et Spes, 40. Ibid., 43.

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«I cristiani sono nel mondo quello che è l’anima nel corpo. L’anima si trova in tutte le membra del corpo e anche i cristiani sono sparsi nelle città del mondo. L’anima abita nel corpo, ma non proviene dal corpo. Anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo [...]. Sebbene ne sia odiata, l’anima ama la carne e le sue membra; così anche i cristiani amano coloro che li odiano. L’anima è rinchiusa nel corpo, ma essa a sua volta sorregge il corpo. Anche i cristiani sono trattenuti nel mondo come in una prigione, ma sono essi che sorreggono il mondo»12.

Animandola dal di dentro, i cristiani sono allora chiamati ad essere davvero sale e luce nella società! Non possono non esserlo, a meno di tradire la propria identità. Infatti osserva san Giovanni Crisostomo: «[...] se sarai cristiano, questo non potrà non avvenire... fa parte della natura stessa del cristiano... Non può la luce di un cristiano restare nascosta; non può restare nascosta una fiaccola così splendente»13. L’approfondimento proposto in queste pagine, oltre a voler essere un tentativo di risposta alle questioni ultimamente sollevate circa l’opportunità di elevare agli onori degli altari uomini che hanno vissuto il loro impegno nel vivo delle attività sociali e politiche, è sollecitato anche da una proficua lettura di alcuni pensieri del sacerdote calatino, che pur essendo impegnato nell’esercizio di cariche istituzionali non ha mai perso di vista l’orizzonte ultimo della sua vita, cristiana e sacerdotale, come si evince da queste poche righe tratte dal denso carteggio col fratello Vescovo: «Carissimo fratello grazie degli auguri. La tua del 14 mi ha fatto tanto bene. Sì, vorrei essere santo, ma la via è lunga e io vedo che non progredisco e chissà se non vado indietro. Tu preghi per me, e te ne sono grato assai; nella comunione delle preghiere vi è un conforto reciproco per una più intensa vita spirituale»14.

La vita spirituale più intensa e il desiderio di essere santo sono motivo sufficiente per dare a questo uomo uno spessore degno di curiosità e meritevole di essere ricordato, anche se, e ne sono profondamente convinto, commemorare qualcuno non è certamente ricordare la vita e l’opera di una persona che non c’è più. La commemorazione implica, infatti, nel suo

12

A Diogneto, VI, 1-7, Roma 1989³, 357. G. CRISOSTOMO, Omelie sugli Atti degli Apostoli, 20, 4. 14 MARIO E LUIGI STURZO, Carteggio, III (1932-1934), a cura di G. De Rosa, Roma 1985, 202. 13

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significato più profondo, una sua certa implicanza anche per il presente, perché come non passano le parole eterne del Vangelo, non passano neppure le persone che di esse si sono nutrite e ad esse si sono ispirate nelle scelte importanti come nella conduzione ordinaria della propria vita. Nel nostro caso ricordare don Luigi Sturzo significa, oggi, fare memoria dei doni e delle grazie che Dio ha elargito alla vita del sacerdote siciliano, e ricordarne gli insegnamenti, perché possano ancora spronare ed aiutare la nostra società ad incarnare nel servizio alla cosa pubblica i valori sempre attuali del Vangelo. Così, partendo dal principio dell’imprescindibile vocazione mondana del cristiano e riconciliandola con l’ideale di una vita autenticamente cristiana, e in ultima istanza con il concetto stesso di santità, lasciando parlare l’autore, questo semplice lavoro tenterà di ricostruire le linee di un percorso ascetico originale, che partendo da una nuova visione del mondo e della storia, cercherà di raggiungere quella che don Sturzo definisce una vera e propria unione mistica.

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Capitolo I

Vita cristiana e impegno politico

«Tutte queste realtà, la natura, per esempio, il prossimo, gli impegni sociali e politici, il lavoro, la vita famigliare, la vita sacramentale, secondo gradi differenti sono vestigia dell’essere di Dio, manifestazione della sua volontà, effetti del suo agire. Ogni cosa, di conseguenza contiene Dio e può diventare una via per andare a lui».

1. Premessa La sintesi sturziana tra la vita cristiana e l’impegno sociale e politico può essere compresa solamente all’interno di una più ampia problematica di natura morale. Il rapporto tra la vita di fede e l’impegno pubblico del cristiano, infatti, costituisce da sempre una questione aperta, la quale, nonostante abbia avuto nel corso della storia diversi tentativi di soluzione, resta pur sempre problematica e fonte di continue controversie. Solo con la maturazione del pensiero ecclesiale avutasi con il Concilio Vaticano II, celebrato qualche anno dopo la morte di don Sturzo, si è giunti ad una chiarificazione della questione. I Padri conciliari, superando definitivamente le paure e le difficoltà del passato, non hanno timore di porre un imperativo etico: «Tutti i cristiani devono prendere coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica. Coloro che sono o possono diventare idonei per l’esercizio dell’arte politica, si preparino e si preoccupino di esercitarla senza badare al proprio interesse e al vantaggio materiale. Agiscano con sincerità e saggezza contro l’ingiustizia e l’oppressione, il dominio arbitrario e l’intolleranza di un solo uomo o d’un solo partito politico; si prodighino con sincerità ed equità al servizio di tutti, anzi con l’amore e la fortezza richiesti dalla vita politica»1. 1

Gaudium et Spes, 75.

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Questa è solo una delle tante pagine che hanno reso il Vaticano II un autentico balzo in avanti nella visione del mondo e della società da parte della Chiesa, e specialmente su ciò che riguarda il dovere dell’impegno nell’ordine temporale da parte dei cristiani, rivelandosi come una delle sue svolte più importanti. Queste parole sembrano sintetizzare gli auspici e le speranze profeticamente sostenute da don Sturzo nel suo percorso di vita sociale. Ogni cristiano, si ribadisce infatti, è chiamato a prendere coscienza della propria speciale vocazione, quella cioè di fermentare il mondo con il buon lievito degli insegnamenti di Cristo così da “essere d’esempio, sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune”2. Il pensiero di don Sturzo e il Concilio, percorrono certamente la stessa strada di ricerca e di elaborazione teorica di risposte da fornire alle ansie della storia della società cristiana giunta ad una svolta importante a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Cosicché sia la sua progettazione teoricopolitica sia la visione offerta dal lavoro conciliare sono da leggersi certamente come legittime e mature conclusioni di una riflessione avviata in maniera sistematica a partire dall’Enciclica di Leone XIII Rerum Novarum (1891), cui hanno fatto seguito numerosi altri interventi magisteriali di ogni tipo, sul rapporto della Chiesa con la società e le problematiche ad essa connesse, politica, lavoro, economia, solidarietà e ogni tipo di servizio a favore dell’uomo, dando origine ad un corpus dottrinale all’interno del più ampio campo della dottrina cattolica, conosciuto come Dottrina Sociale della Chiesa3. Una solida base dottrinale si è resa necessaria perché la Chiesa è cosciente del fatto che non può fare a meno di fornire risposte concrete alla società che cambia, ricevendo continuamente, nel corso della storia, sollecitazioni da parte della società e, d’altronde lo stesso Vangelo che essa an2

L.c. GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, 1. L’intenso itinerario di riflessione che costituisce il corpo della “Dottrina Sociale della Chiesa” ha dato impulso a sempre nuovi approfondimenti, a dibattiti e interventi notevoli e numerosi che vengono presentati in diverse opere analitiche e sistematiche; per un approfondimento del tema ci si può rifare a: cfr. Il magistero sociale della Chiesa. Principi e nuovi contenuti, Milano 1989; M. SCHENU, La Dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppo, Brescia 1977. Un’opera che sintetizza tutto il percorso magisteriale è certamente: PONTIFICIO CONSIGLIO GIUSTIZIA E PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Città del Vaticano 2005. 3

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nunzia è interpellato di continuo dal mondo che ne richiede una sempre nuova capacità di incarnazione sociale. Così si dà vita ad una sollecitudine della Chiesa per il vangelo della società, ad una dottrina, appunto, che scaturisce dal necessario incontro del messaggio evangelico con i problemi sempre nuovi che emergono dalla vita della società umana4. Chiesa, Vangelo e società costituiscono così un inseparabile trinomio che detta la necessaria via per la missione d’annuncio e di santificazione che i cristiani sono chiamati ad assumere responsabilmente nell’oggi della storia. Tutto questo ha certamente una sua densità e profondità teologica, che deve sempre legittimare il diritto-dovere che la Chiesa ha di intervenire con la sua dottrina e il suo magistero nella vita della società. Diritto datole dalla esplicita missione ricevuta da Cristo, missione atta a realizzare la salvezza di ogni uomo, e dovere scaturente dall’imperativo morale di operare sempre a favore della salvezza integrale dell’individuo5. Da tutto ciò comprendiamo come la logica che unifica i due ambiti, fede e impegno socio-politico, è costituita dal richiamo forte e chiaro, all’incidenza che la fede cristiana riesce ad avere nella prassi della società umana. A differenza dello spiritualismo disincarnato, per il quale la fede si astrae dal mondo presente e si confina in altre realtà, questa linea esprime tutta la carica del genuino impegno che la fede genera nel cristiano e nei cristiani6. Questa linea di pensiero si evolve in una vera e propria Teologia politica, la quale, sulla scia della visione tomista, afferma a ragione che l’uomo non ha due distinte finalità ultime, una naturale e una soprannaturale, ma un unico fine ultimo, quello per cui è stato creato e redento. In questa prospettiva la storia, allora, diventa non solo il campo dell’espressione della vocazione nativa e salvifica dell’uomo, ma l’orizzonte pressoché unico e totalizzante in cui essa si svolge. Si tratterebbe perciò di sviluppare una comprensione approfondita e motivata della fede (una teologia) in cui l’attenzione alla realtà sociale e politica, e quindi l’impegno per la 4 Cfr. Libertatis coscientia, Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede su libertà cristiana e liberazione, del 22 marzo 1986. 5 Il tema della salvezza integrale, che troviamo anche nel contesto del pensiero sturziano, è alla base della riflessione sociale di tanti autori legati alla Dottrina sociale della Chiesa. Una chiara esposizione la troviamo certamente in J. HOFFNER, La dottrina sociale cristiana, Roma 1979. 6 Cfr. H.U. VON BALTHASAR, L’impegno del cristiano nel mondo, Milano 1971.

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costruzione della società degli uomini nella storia sia costantemente presente non come accidentale o accessoria, ma come dimensione costitutiva della fede stessa, senza, tuttavia, diventare mai orizzonte determinante o centro di prospettiva globale7. Questa capacità sintetica richiede una costante attenzione a non creare squilibri che portino da un lato ad un orientamento che fonda il singolo con l’intera società, finendo per parlare solo ed esclusivamente di riscatto sociale (vedi teologia della liberazione), dall’altro al pericolo dell’astrattismo, che invece isola il singolo dalla società, e determina una privatizzazione della dottrina e dell’impegno. La Chiesa, ci ricorda Giovanni Paolo II: «deve farsi il buon samaritano dell’uomo d’oggi e deve saper individuare i semina verbi per coltivarli e portarli a maturazione. [...] La Chiesa è chiamata a dare un’anima alla società moderna...E quest’anima la Chiesa deve infonderla non dal di sopra e dal di fuori, ma passando dal di dentro, facendosi prossima all’uomo. Si impone, quindi, la presenza attiva e la partecipazione intensa alla vita dell’uomo»8.

“Buon samaritano all’uomo di oggi”, “scopritore e coltivatore dei semina verbi”, “dare un’anima al mondo”, queste espressioni usate in Sollicitudo Rei Socialis sono cariche di intensità e di significato, ma nello stesso tempo si aprono ad alcune problematiche legate all’idea del rapporto tra il cristiano e il mondo, e quindi tra la vita cristiana, in ordine alla perfezione evangelica e il servizio al mondo, e in ultima istanza alla conciliabilità tra perfezione cristiana, come vocazione fondamentale e universale, e impegno concreto nella storia a favore del mondo, o per meglio dire un vero e proprio impegno politico.

7

Cfr. J.B. METZ, Sulla teologia del mondo, Brescia 1973. GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione ai partecipanti al VI simposio dei Vescovi europei, Roma 1985. 8

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2. La visione storicistica di Sturzo 2.1. La storia luogo dell’incarnazione Date le premesse, bisogna addentrarsi un momento nell’approfondimento del concetto di storia, la realtà concreta, secondo il pensiero di don Sturzo, dove l’impegno della fede del cristiano si deve incarnare e realizzare. Nell’opera La Vera Vita. Sociologia del Soprannaturale9 egli afferma come questo necessario sguardo del cristiano sul mondo e sulla storia deve essere fondato sul Mistero dell’Incarnazione, e che per tale ragione, la storia non ci si presenta più come estranea ma è diventata quel luogo nel quale divino e umano s’incontrano, senza che l’uno annienti l’altro. Nelle concezioni immanentistiche della società e della storia, la persona, priva di ogni idea di trascendenza personale e collettiva, priva in pratica della dimensione religiosa, non ha più posto, con le sue iniziative autonome, la sua libertà di azione e di pensiero, le sue idee e attività, né si scorge più il valore etico-religioso operare nel fondo della coscienza individuale, riflessa a sua volta nella coscienza collettiva, così che la società tutta venga superata per il continuo ampliamento di finalità contingenti verso una finalità superiore. Per questo, osserva don Sturzo, il sentimento religioso rinasce sempre, non solo come bisogno intimo di ciascuno di noi, ma come aspirazione collettiva, come salda base di vita sociale, orientamento di pensiero, bisogno d’infinito, senso oscuro ma reale della coscienza collettiva, che mai sembra aver perduto o possa perdere il contatto con il divino: «Ogni particolare storia è come inabissata nell’universale e [...] ogni caso profano rivela il suo rapporto religioso. Il fatto vero è che la storia, qualunque essa sia, in qualsiasi punto dei secoli venga presa, nell’antichità o nella modernità, non importa in quale luogo, in Europa o in Africa, ci riporta al problema fondamentale dell’umanità vivente e itinerante in rapporto al suo finalismo di unificazione. La storia c’impedisce di guardare l’uomo come un singolo individuo nella solitudine della sua anima, e di guardar Dio come termine singolare di ciascuno, al di fuori della comunione solidale degli uomini fra di loro e con Dio. La storia è la sorte della comunità vivente nei secoli che si fa presente a ciascuno di noi per quella piccola o grande finestra che si apre su di essa nella coscienza di ciascuno. Tale presenza non è di un transitorio che si perde o si è 9

L. STURZO, La Vera Vita. Sociologia del Soprannaturale, Bologna 19602.

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perduto nel nulla, ma di un permanente che sentiamo vivo in ciascuno di noi. [...] Sono forse lo spazio e il tempo in cui ci proiettiamo vivendo, pensando, agendo, quelli che ci unificano? Di là dallo spazio e dal tempo ci appella ancora una totalità comprensiva e trascendentale che ci fa sentire il posto finito in cui siamo e l’infinito cui aspiriamo»10.

Per don Sturzo, lo abbiamo già accennato, il fulcro del cammino della storia umana verso l’unificazione finale è l’Incarnazione del Verbo. La storia stessa testimonia che l’umanità ha subito un’inserzione del divino, “che il processo umano si è soprannaturalizzato”11. Ciò non priva il processo storico della sua componente di libertà, perché Dio, pur essendo verità e amore che si rivela e attrae, rispetta le nostre capacità e la nostra libera adesione alla sua verità, così che la parola rivelatrice diviene in noi attività umana libera: l’uomo sia che vi aderisca, sia che non vi aderisca, continua ad operare come uomo12: «Questa [realizzazione storica] è basata sopra la libertà divina di presentare i suoi doni agli uomini nel doppio ordine interiore-spirituale ed esteriore-storico, e sopra la libertà umana di accettare e realizzare nei fatti i doni divini. Il contatto fra l’uomo e Dio è un contatto di libertà, se mancasse la libertà non ci sarebbe né la ricerca della verità, né la congiunzione per amore, non ci sarebbe vita. Una forza deterministica, fatale, che si esercitasse su di noi, non sarebbe un contatto di spirito fra noi e la divinità. È perciò che l’intima vita di grazia di ciascuno di noi, pur essendo iniziativa e intervento di Dio, è libera, è nelle nostre mani, e possiamo aderirvi amando o rifiutarla odiando. Per lo stesso principio, la storia è nostra attività libera, è realizzazione umana, pur essendo iniziativa e intervento di Dio; essa rappresenta le alternative di accettazione e di repulsione del divino che viene a noi e che abita in noi»13.

La storia, pur divinizzata dalla presenza del Divino, non privata, tuttavia, della sua capacità di libera autodeterminazione, la quale conferisce al singolo individuo, come all’intera società, la capacità di compiere scelte libere che dicono l’accettazione o meno di un proprio coinvolgimento con Dio. 10

Ibid., 173-174. Ibid., 175. 12 «Questo duplice aspetto di libertà che cerca e di verità-amore che attrae ci dà l’ultimo significato dell’unione della natura col soprannaturale nel loro continuo e misterioso contatto cominciato nell’Eden, sublimato sul Calvario»: ibid., 183. 13 Ibid., 189. 11

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2.2. Una storia illuminata dal soprannaturale Dunque la trasformazione operata dalla grazia, per la quale siamo resi partecipi della natura divina, non ci impedisce di operare al modo umano e di tendere con gli altri a realizzare il bene, che da una parte corrisponde alla nostra natura ragionevole e allo stesso tempo è misteriosamente sopra-razionale. D’altra parte «quel che del soprannaturale è dato a noi, pur divenendo vita dell’uomo e allo stesso tempo uno dei fattori essenziali del processo storico, rimane per sua natura soprannaturale, divino»14. In tal modo divino e umano si uniscono e cooperano insieme senza confondersi né essere separati; il divino s’inserisce nella storia e ne diviene fattore del processo, senza per questo alterare la libertà umana nella sua opzione fra il bene e il male, condizione necessaria alla sua partecipazione al divino. Per il nostro, trovare un centro storico, che dia un orientamento nella ricerca della verità, è una necessità dello spirito; ci vuole qualcosa che si sia realizzato nella vita, che si sia incarnato nel senso più alto della parola. Senza questo centro, la storia si riduce a mera successione di fatti, e di date: «Quando il Verbo si è fatto carne, la luce divina si è manifestata agli uomini che stavano nelle tenebre, si è sentito il canto angelico: “Gloria a Dio nei luoghi altissimi e pace in terra agli uomini di buona volontà” (Lc 2,14). Quel messaggio di gloria e di pace rendeva il doppio senso di verità che si rivela e che è gloria, e di bontà che si attua e che è pace. La storia non può essere che fra questi due poli, altrimenti resta priva di significato. [...] Non si dà una storia senza manifestazione di verità che si realizzi e senza impulso d’amore che si comunichi, senza elevare l’uomo dalla sfera del razionale al mistero divino e senza riportare nella vita umana la parola divina e storicizzarla. [...] L’incarnazione ne è il culmine: un segno misterioso dell’infinito nel circoscritto, un punto d’orientazione del transitorio verso l’assoluto, una rivelazione storica che fa convergere ad essa il passato e l’avvenire e che rimane sempre presente nel processo umano. Tutte le aspirazioni degne dell’uomo vi si realizzano e tutto quel che del divino è comunicabile all’uomo diviene storia»15.

14 15

Ibid., 177. Ibid., 184-185.

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Tutta la storia umana è, allora, storia dell’Incarnazione, che ha coinvolto nella sua preparazione quanti sono vissuti prima del cristianesimo, e che coinvolge quanti, pur non credendo in Dio, aspirano sinceramente a una riforma e a una redenzione; essi non sono solo potenzialmente redenti, ma anche testimoni della necessità di un intervento divino che realizzi nell’umanità la verità fatta carne, sì che gli uomini ne vedano la gloria uguale a quella dell’Unigenito del Padre16. Comprendere questo significato della storia è molto difficile, perché il suo carattere trascendentale si percepisce poco in ogni singolo avvenimento, sfugge ai dati particolari del processo, e diviene una rivelazione a distanza solo per i pochi che vi meditano con sufficiente preparazione. Tutto il lavoro di ogni singolo uomo, piccolo o grande, dal punto di vista della sua materialità, è destinato alla distruzione, come i corpi; solo l’anima che dà vita può rivelare in sé la bellezza eterna; solo per essa, grazie alla memoria e alla meditazione, il passato può riprendere nella coscienza la sua virtù rivelatrice e continuare nel presente la funzione che ebbe nella realtà temporale: «Per ottenere tale continuità spirituale noi stessi abbiamo bisogno di essere iniziati a una penetrazione sicura del presente in cui viviamo, e nel quale tutto il passato storico si riconcentra ed esiste come nel suo frutto (nulla del bene passato va perduto della sua realtà) e domandare al presente i titoli della sua essenza, il significato del suo esistere e dire che ci sveli la sua faccia misteriosa. La risposta, se è intera, non può essere che illuminativa di tutta la storia, che a suo modo ci parla del Verbo eterno. Nel dire ciò non intendiamo confondere un mistero di fede con la realtà naturale, ma solo cercar di mettere in luce la sintesi umano-divina che è la storia dell’uomo sulla terra»17.

L’Incarnazione è, quindi, al centro della storia oggettivamente, anche se molti ancora non lo sanno o non lo apprezzano, perché coloro che tendono verso i valori che l’Incarnazione rappresenta si avvicinano anche inconsciamente a tale centro e ne assimilano ciò che sono capaci di apprendere. Questo processo storico si muove per un cammino chiaro e allo stesso tempo misterioso, con leggi naturali e soprannaturali, con movimenti al-

16 17

Cfr. ibid., 184. Ibid., 186-187.

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terni di attrazione e repulsione, per motivi liberi ed eccitamenti compulsori; tutto il complesso storico parla insieme dell’umano e del divino18. Conoscere i tempi e i momenti della storia a venire non è dato agli uomini, neppure a quanti pensano che la nostra attività sia legata solo a un ciclo terreno, maturata e sviluppata con forze immanenti, senza alcuna trascendenza. I tempi e i momenti del processo storico dipendono da una Provvidenza che non è umana. All’uomo spetta il dovere di collaborarvi liberamente testimoniando la verità, ciascuno nella misura in cui vi è arrivato o può arrivare, poiché tutti siamo chiamati alla luce, anche se non bisogna dimenticare mai che per i cristiani, però, la verità è Cristo, Verbo incarnato, realizzazione delle promesse divine e delle speranze dell’umanità, centro della creazione di tutti gli esseri e della storia umana19. La partecipazione del divino all’uomo risente del fatto che egli porta in sé tutte le miserie e le compiacenze mondane; ciò nonostante, nella misura in cui con la sua libertà e responsabilità l’uomo si distacca dal mondo, procede all’infinito nel processo di perfezione. Nella misura in cui siamo imperfetti, noi, la società, la realtà storica, tendiamo a mondanizzare il soprannaturale, riducendolo a un elemento utile o dannoso, lo accettiamo come pura razionalità o lo rigettiamo come irrazionale, mescolandolo sempre agli interessi terreni ed egoistici. La storia è questa dialettica del bene e del male, sebbene dal male si sviluppi sempre il bene: «L’attività benefica è una purificazione continua di questo fondo fangoso che è la realtà mondana; riesce ad essere anche una catarsi collettiva, e come anelito di giustizia e di amore, in mezzo alle ingiustizie e agli odii; come bisogno di misticità per evadere dalle costrizioni sociali che si oppongono agli ideali più nobili; come visione del contingente che perisce per un trascendente che sopravvive. Il soprannaturale inserito nella storia, diviene forza perenne e immanente per superare la mondanizzazione e per orientare l’uomo verso più alti destini»20.

18

Cfr. ibid., 191. Cfr. ibid., 198. 20 Ibid., 178. 19

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2.3. Una storia unificata dalla solidarietà Nel progressivo realizzarsi storico dell’Incarnazione, la Chiesa, corpo mistico di Cristo, ha portato un dualismo fondamentalmente indistruttibile, salutare e fecondo di forze e di valori spirituali, che ha dato alla storia dell’umanità un altro stampo, carattere e significato. Tra questi valori eccelle quello della solidarietà tra gli uomini, necessaria conseguenza del principio di fratellanza universale e del comando della Carità impartito da Cristo ai suoi discepoli. Questa visione di fondo che la Chiesa crede e diffonde, dice il legame spirituale d’amore che unisce gli uomini a Dio, e necessariamente gli uomini tra di loro. Questa verità ha sprigionato una dialettica storica che tende a superare, pur con tanta fatica, ogni dualità nella realizzazione di una forma di solidarietà che va oltre le classi, le nazioni e le razze, trasformando la coscienza degli individui e della società, e influendo così intensamente anche nel processo storico21. Una sorta di fratellanza universale, dice don Sturzo, si può perseguire anche con la forza del potere o della ragione; ma questi sistemi hanno sempre fallito anche quando sono stati tentati nel nome dell’universalismo cristiano. Infatti, sostiene, la fratellanza universale è un’idea filosofica vaga, che non può valere contro l’irrompere delle passioni egoistiche; solo nel cristianesimo tale idea si può concretizzare in vita vissuta, nel continuo combattimento contro noi stessi, e in una realizzazione difficile, lenta e costante allo stesso tempo. I numerosi istituti di beneficenza di ispirazione laica, che non passano dalla materialità alla spiritualità, non possono impedire l’ingigantirsi di odio che ricchezze e povertà producono tra le classi e le nazioni. La beneficenza laica: «aiuta il simile perché simile, benché il laicismo non arrivi a trovare nell’uomo la similitudine di Dio, ma solo un essere che ha dei diritti uguali agli altri. È perciò che esso è impotente a contrastare gli egoismi che solo una religione di sacrificio come il Cristianesimo può arrivare a mortificare. L’universalismo di fratellanza, o meglio l’amore del prossimo esteso a tutti, non può realizzarsi se non per quel tanto che si mortifica (e non si esalta) l’egoismo delle persone, delle classi e dei popoli»22. 21 22

Cfr. ibid., 199-201. Ibid., 205.

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La morale cristiana è universale nei suoi principi e nelle sue applicazioni generali, perché interpreta la legge naturale nella sua più corretta formulazione, e soprattutto perché basa ogni azione sul precetto di amore di Dio e amore del prossimo uniti insieme; ma il cristianesimo è efficace, nella trasformazione e unificazione morale, anzitutto perché è una religione predicata agli uomini, affinché vi aderiscano liberamente e volontariamente. In questa libertà interiore coincidono e si completano l’atto morale e l’atto religioso, infatti, ogni morale esterna o imposta e ogni religione puramente formalistica, non potrebbero mai pervenire all’interiorità umana e darvi il senso dell’universalità. Chi potrà favorire lo spirito di amore, di fratellanza e di solidarietà che deve trionfare non è la sola cultura, né la potenza terrena, né la scienza, né il benessere materiale esteso a tutti, né l’abilità umana. Solo i principi e le dottrine del cristianesimo, conclude don Sturzo, con la Chiesa come organizzazione positiva, il contributo delle chiese dissidenti e perfino delle altre religioni, per quel che contengono di verità e di amore, potranno fecondare e rendere efficaci gli sforzi umani verso un avvenire migliore, fino al compimento della tendenza unificatrice verso Dio, nella quale naturale e soprannaturale saranno finalmente in congiunzione perfetta23.

3. La vocazione “mondana” del cristiano 3.1. “Siete nel mondo” Alla luce di questa visione storicistica comprendiamo come per Sturzo il cammino che la Chiesa ha fatto nella direzione di un impegno sempre più specifico nella storia a favore della società, non è stato certamente facile, e la sua riflessione sull’argomento cerca di giungere alla maturazione di un criterio di necessaria conciliazione tra Vangelo da annunziare e mondo degli uomini da salvare, uomini presi nella loro naturale condizione di socialità. Don Sturzo non si limita a definire il semplice accostamento storico del cristiano alla politica, ma ne intravede anche quella possibilità, valida per ogni credente, di trovare nella via dell’impegno sociale, la strada per 23

Cfr. ibid., 217.

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raggiungere la propria perfezione, perché non può dimenticare di essere nel mondo. Si entra così nell’ambito di un’altra grande controversia ideologica, che a torto, ha, in qualche modo, reso inconciliabili i concetti di santità e di politica. Da ciò che emerge dai suoi diversi scritti, e dalle scelte concrete della sua vita, don Sturzo ci induce ad avviare un processo di ricomprensione della stessa idea di santità cristiana. Partendo dalla constatazione che il concetto di santità ancora legato ad una serie di caratteristiche e di precomprensioni che rendono difficile, e in molti casi addirittura paradossale, il suo accostamento al concetto di politica, quello che facilmente si è portati a pensare è quale tipo di rapporto la politica può avere con la santità, e cioè, come fa una persona che per scelta di vita o perché ricopre un ufficio particolare è chiamato a vivere immerso nel mondo con le sue regole e la sue contraddizioni, a rimanere immune anche dagli aspetti peggiori e molto spesso negativi, e certamente poco santi? Il comune senso di tale problematica spinge a considerare come si possa conciliare l’attività politica, fatta molto spesso di compromessi e di lotta per il potere, con i presupposti alti di una santità di vita. Esaminando questa difficoltà di comprensione si possono individuare almeno quattro aspetti negativi che possono caratterizzare un atteggiamento di rifiuto dell’impegno per il mondo da parte del cristiano: 1) la tentazione di riproporre una visione dualista del mondo, valorizzando la pratica prettamente spirituale della fede e degenerando nel disprezzo della sua incarnazione sociale; 2) la facile contrapposizione che si può creare tra umano e divino nella vita dell’uomo, quando questi crede di dover cedere la propria realizzazione umana alla presenza incombente di Dio, mentre, invece, dovrebbe lasciare semplicemente che questi la illumini di nuovo dandole un più profondo significato, come insegna San Giovanni della Croce24; 3) la possibilità di cadere in un ascetismo esagerato, che molto spesso può diventare anche inumano25; 24

Cfr. G. DELLA CROCE, Salita al monte Carmelo, VIII, 123. La facilità con cui si può incorrere in pratiche religiose, o presunte tali, che nulla spesso hanno di cristiano e di umano, ha portato diverse volte i pensatori cristiani a criticare certe forme ascetiche poco umane. Rahner qualche decennio fa si fece promotore di una riscoperta della ascesi cristiana contro una visione di essa ormai obsoleta, rivendicando la 25

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4) la facile interpretazione della vita cristiana come opera individuale ed elitaria, dove per essere perfetti e raggiungere la santità bisogna staccarsi da tutto e da tutti. Il nostro tentativo in queste pagine è quello di definire, servendoci delle intuizioni di don Sturzo, il necessario e doveroso rapporto che deve esserci tra la dimensione spirituale della vita del cristiano che si realizza nella ricerca di Dio, nell’annuncio del Vangelo, nella vita di grazia e nel suo percorso di santificazione, e la dimensione temporale, cioè con quell’ambito esistenziale, che lo pone a stretto contatto con il mondo, che lo fa protagonista e costruttore della stessa storia, secondo il paradigma dell’Incarnazione, come abbiamo già cercato di comprendere nel paragrafo precedente. Il rapporto tra le due dimensioni va analizzato sulla scia di una lenta evoluzione che nel corso degli ultimi secoli ha visto allontanare progressivamente l’idea di un cristianesimo relegato nell’ambito del puramente spirituale da quella rivendicazione di competenza che lo pone invece a servizio dell’uomo definito nella sua interezza di spirito e di corpo. L’esperienza bimillenaria della Chiesa ci insegna che l’esclusiva esaltazione di uno solo dei due elementi rispetto all’altro porta ad una visione distorta della realtà che dà luogo, il più delle volte, ad atteggiamenti contraddittori, o addirittura a vere e proprie espressioni di un cristianesimo poco autentico. Uno di questi atteggiamenti pericolosi è certamente individuabile in quell’intimismo disincarnato che conosciamo come motivo ricorrente nella storia della Chiesa, e che ancora oggi è molto diffuso e, in alcuni casi, ben radicato nella convinzione che la religione debba occuparsi esclusivamente dell’ambito soprannaturale, lasciando alla dialettica delle capacità umane le cose che invece appartengono a questo mondo. Questa impostazione applicata fino in fondo, porta il cristiano ad un lento ma inesorabile disimpegno per le cose del mondo, argomentando, in maniera impropria e decisamente errata, che il Cristo non si sia mai interessato di problemi sociali o addirittura di politica, anzi, che egli abbia perfino sviato il discorso, nel suo dialogo con Ponzio Pilato, su di un piano esclusivamente trascendente: “il mio Regno non è di questo mondo” (Gv 18,36). necessità di una trasformazione strutturale dell’ascesi, K. RAHNER, Spiritualità antica e attuale, in Scritti di Teologia, VII (1969), 20-23.

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Secondo questa prospettiva la missione del Salvatore può essere definita e compresa solo in chiave escatologica, dove lo scarso interesse per le cose del mondo è il risultato della tensione dell’uomo verso la venuta finale del Cristo e il compimento definitivo del suo progetto salvifico26. 3.2. “Ma non siete del mondo” Questa prospettiva, certamente alienante, risulta essere ben diversa da una genuina tensione escatologica del cristiano. Essa forse nasconde una sorta di paura della necessaria coerenza che la testimonianza cristiana richiede, così come viene sottolineato dal Magistero: “E’ da vincere la paura dell’impotenza di fronte ai fenomeni negativi e disumanizzanti. Ci si deve sottrarre all’insidia dell’estraneazione”27. Questa convinzione sembra fare eco ad un noto passaggio della già citata lettera A Diogneto, dove l’autore con molta semplicità presenta i cristiani come coloro che: “né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini [...] partecipano a tutto come cittadini”28. L’esasperazione della visione escatologica, allora, è pericolosa perché in essa è svuotato il mistero stesso dell’Incarnazione, e di conseguenza si naturalizza il rapporto dell’uomo con Dio e con esso viene oscurato il senso della storia e della realtà. Per la fede cristiana non ci può essere dimensione religiosa che non sia, contemporaneamente e sostanzialmente, dimensione etica, che coinvolga la sfera religiosa nelle dinamiche dell’esistenza sia personali come sociali. Al pericolo dell’intimismo religioso disincarnato dal fluire della storia e dagli eventi che riguardano l’uomo e la società, si oppone un altro fronte estremo di valutazione del rapporto fede-realtà mondana: il pericolo della secolarizzazione. Di secolarizzazione si è parlato e scritto così tanto che il significato stesso del termine non appare più chiaro come una volta, ma ha assunto, strada facendo, significati diversi che lo hanno reso anche un po’ ambiguo. In gioco, infatti, anche in questo caso, c’è il rapporto tra natura e grazia, tra il naturale e il soprannaturale, tra il mondo creaturale e la storia salvi26

Cfr. K. RAHNER, Cristianesimo esemplare, in Nuovi saggi, II, Roma 1968, 357-389. Evangelizzare il sociale, 22. 28 A Diogneto, cit., 356. 27

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fica, rapporto che in alcuni momenti ha visto l’assorbimento totale da parte della realtà soprannaturale di tutte le strutture e dinamiche umane e terrene, e che in altri momenti, e questo è il caso della secolarizzazione, vede invece necessaria una separazione netta tra i due ambiti, e in alcuni casi addirittura la negazione o soppressione della realtà trascendente, che si esprime nella sua affermazione ultima che è la morte di Dio29. La realtà della secolarizzazione è segnata in maniera visibile da una fuga dei cristiani verso realtà che permettono loro di esplicare in maniera sempre più profonda il loro desiderio di esprimersi concretamente a favore del mondo in cui vivono. È vero, come ci ricorda Evangelii Nuntiandi, che la salvezza e il messaggio cristiano non si identificano in nessun caso con l’impegno politico, ma è altrettanto vero che “il mondo vasto della politica, della realtà sociale, dell’economia, della cultura, della vita internazionale, ecc.”, è uno degli ambiti che costituiscono maggiore preoccupazione e che richiedono maggiori sforzi da parte dell’azione cristiana. La fede cristiana, in altre parole, è chiamata a far fronte alla secolarizzazione riprendendo il suo ruolo propulsivo e orientatore della città degli uomini. Il cristianesimo deve rifiutare quella separazione nociva per cui nel campo dell’impegno socio-politico tutto sarebbe delegato alle scelte soggettive dei singoli, e che non abbia relazione alcuna con l’impegno dottrinale e collettivo della comunità dei credenti. L’impegno della Chiesa e dei cristiani deve essere considerato, allora, una risposta positiva all’appello che Dio e la storia continuamente gli rivolgono, dove non si può delegare ad altre istituzioni tale risposta ma bisogna assumersene responsabilmente e coraggiosamente l’impegno. Possiamo concludere, con il nostro, che ogni cristiano, allora, è chiamato ad incarnare la sua esperienza di fede, così da essere un uomo immerso nell’ordine temporale, operante nella storia (essere nel mondo), ma nello stesso tempo teso verso l’eterno e aperto verso l’assoluto di Dio (non essendo del mondo), e così facendo potrà esprimere pienamente la sua vita soprannaturale, concretizzando nel vissuto storico la sua fondamentale chiamata alla santità30. 29

Cfr. S. ACQUAVIVA, L’eclissi del sacro nella società industriale, Milano 1961. Cfr. M. PENNISI, Fede e impegno politico in Luigi Sturzo. L’influsso della concezione religiosa nella prima attività politico-sociale del prete di Caltagirone, Roma 1982. 30

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Capitolo II

Chiamati alla santità

«Si capisce, ora, come l’azione stessa possa essere un mezzo di santificazione e di unione a Dio. La finalità essenziale della vita spirituale consiste nel cercare e nel trovare Dio all’interno della vita concreta, attraverso il contatto con le diverse realtà».

1. Ricomprendere la santità cristiana 1.1. Universale chiamata alla santità Chiarita la legittimità di una vocazione mondana del cristiano, ci chiediamo, adesso, se forse non è il caso di riparlare ed in qualche modo ricomprendere, il concetto di santità cristiana, dove l’ascesi alienante e la fuga mundi unite all’idea portante di taumaturgo o di stimmatizzato, molto diffusa tra la nostra gente, non può e non deve più esaurirne il significato, e ribadire come esso non solo non è in contraddizione, ma anzi è imprescindibile dal concetto di impegno a favore degli uomini, quindi anche da quello di un sano e proficuo impegno politico1. La santità, cristianamente intesa, lega insieme l’idea di esperienza religiosa al carattere di eccezionalità del vissuto. Nel santo, natura e soprannatura si incontrano, e a lui, in forza di questa convergenza, viene riconosciuto il potere di mediazione con il divino, e gli altri poteri connessi con l’idea di soprannaturalità.

1 Cfr. F. ULRICH, L’essenza di una santità cristiana, in Communio 5 (1972) 13-28. Per un approfondimento sull’aromento della santità ci si può rifare a La santità cristiana, Roma 1980; Modelli di santità, in Concilium 15 (1979).

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Per comprendere bene il concetto dobbiamo partire necessariamente dalla fondamentale chiamata alla perfezione che il Signore rivolge a tutti coloro che credono in lui e che Sturzo richiama più volte nelle sue argomentazioni: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt. 5,48). Con questa esortazione Gesù definisce il punto finale dell’esperienza cristiana che porta l’uomo, fragile e limitato per sua natura, ad un lento perfezionamento della sua condizione creaturale fino a giungere ad una sorta di fusione con l’essere stesso di Dio creatore. Così nasce il concetto di “santità cristiana”, esperienza d’incontro tra Dio che dona se stesso e l’uomo che risponde generosamente al dono e si apre ad esso per diventarne in qualche modo parte egli stesso2. Proprio perché dono libero di Dio la santità non costituisce il privilegio di un tipo di soggetto in particolare o di una categoria di persone, ricorda don Sturzo, anzi, come in seguito dirà il Concilio: “tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità”3. Così il dono di grazia che è ricevuto da ogni cristiano col Battesimo, dove l’uomo viene consacrato a Dio e ne diviene dimora, è offerto a tutti e da parte di ognuno va custodito e portato a perfezione con una condotta di vita adeguata. Proponendo, con una riflessione che prenderà tutto il cap. V della Costituzione Lumen Gentium, il concetto di universale vocazione alla santità, il Concilio si apre ad un orizzonte visuale molto più ampio rispetto al passato, ribadendo che la santità non si realizza solo con una vita di speciale consacrazione, ma è un dono offerto a tutti. L’idea espressa dal Concilio non costituisce una semplice esortazione morale, bensì, come la rilegge Giovanni Paolo II nella Cristifideles Laici, “un’insopprimibile esigenza del mistero della Chiesa: essa è una vigna scelta, per mezzo della quale i tralci vivono e crescono con la stessa linfa santa e santificante del Cristo”4. 2 «Un essere che è vita, che è movimento, giunge alla sua perfezione quando arriva al suo termine, al suo fine; trattandosi della vita cristiana, della vita spirituale, questo fine è Dio. Dunque la perfezione della vita spirituale deve consistere nell’unione con Dio»: E. ANCILI, Santità cristiana, in S. DE FIORES E T. GOFFI (curr.), Nuovo Dizionario di Spiritualità, Cinisello Balsamo 1985. 3 Lumen Gentium, 40. 4 Cristifideles Laici, 16.

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I Cristiani sono, dunque, chiamati da Dio, vocati, ad una relazione personale con lui. La parola vocazione implica un riferimento alla persona che chiama, e in questo caso a Dio. Egli chiama i suoi figli alla sua “ammirabile luce” (1Cor 1, 9). Così la vocazione cristiana è quella di partecipare alla comunione d’amore trinitario. Tale chiamata mette tutti i fedeli in relazione vicendevole all’interno della comunità dei credenti, della Chiesa, per questo essa non si può realizzare in maniera individualistica, ma richiede la capacità di relazionarsi con gli altri uomini e con il mondo. La vocazione cristiana esige dal credente l’essere nel mondo e il santificarsi nel mondo, come ricorda sempre l’Esortazione apostolica: “La vocazione alla sanità comporta il loro inserimento nelle realtà temporali”5. Se è certo che l’uomo è innegabilmente chiamato alla santità, non è affatto chiaro se questa sia possibile per ogni stato e condizione di vita. Il termine tutti usato dalla Costituzione conciliare può far sorgere, infatti, delle perplessità. Ogni stato di vita, ogni tipo di lavoro o di esperienza sono sempre adeguati al raggiungimento di tale perfezione? Si può essere santi e vivere da santi occupandosi anche di quegli aspetti della vita sociale che di fatto sono soggetti alle inclinazioni, spesso negative, della natura umana? E nel nostro caso, è possibile mantenersi fedeli a Cristo e al suo Vangelo occupandosi di politica, cioè di quella parte della vita sociale che è comunemente vista come qualcosa di facilmente corruttibile? In ultima istanza, è possibile ad un cristiano che sceglie di vivere la sua dimensione storica nel vivo di un impegno sociale e politico raggiungere la vetta ambita della santità? Può un politico aspirare alla santità? Riconosceranno mai, sia la Chiesa istituzionale, sia il senso comune del popolo cristiano, una tale proposta di santità? Il problema viene sollevato in quanto si possono correre dei rischi nell’accostare imprudentemente la santità con la politica, o dare senza precauzioni il titolo di santo ad un esponente del mondo politico. Questa difficoltà la riscontriamo nell’istruire il processo di Beatificazione di don Sturzo, perché, forse, si teme di correre il rischio di canonizzare insieme alla persona anche il suo pensiero politico, creando così una sorta di politica santa.

5

L.c.

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La storia recente infatti, ci ha mostrato come, anche fuori dal mondo cattolico, diversi movimenti politici e regimi fortemente nazionalisti si sono costruiti i propri santi, e, santificando così la propria politica, l’hanno resa in certo senso assoluta, finendo col demonizzare chiunque o qualunque cosa vi si opponga. Altro problema è dato dalla possibilità di incorrere in una politicizzazione della santità, condizionando, come molto spesso è avvenuto in passato, la libera espressione della fede6. Tra tutti i rischi possibili quello forse più pericoloso per il cristiano, come abbiamo già ribadito, è, però, quello di una perdita d’interesse per la realtà storica del mondo e la fuga verso uno spiritualismo disincarnato. Fuggendo l’ordine temporale come pericoloso per la fede si dà vita ad una spiritualità che non incide sulle realtà storiche e quindi priva di ogni impegno etico. Si dà origine a forme sempre nuove di quietismo, o addirittura ricercando una sorta di soddisfazione personale che assomiglia più ad un edonismo mistico. 1.2. Anche il politico può aspirare alla santità In un’epoca come la nostra, dove la morale, la spiritualità e la stessa pacifica convivenza civile sono messe in crisi da una sorta di annebbiamento dei valori, parlare di santità per un uomo politico può sembrare paradossale e in qualche caso, come abbiamo visto, può essere recepito anche come provocatorio. Se il disagio di una parte dell’opinione pubblica è dovuto al fatto che la possibilità di elevare agli onori degli altari un uomo politico può essere rischioso, e nel caso di don Sturzo qualcuno ha visto il rischio di beatificare insieme a lui anche il suo Partito e le sue odierne ramificazioni, quale speranza ha un uomo di quel calibro di ottenere un riconoscimento pubblico della sua retta e integerrima condotta di vita cristiana? Un’adeguata comprensione del problema deve partire innanzitutto dall’esclusione dell’aprioristica accezione negativa della politica, la cui retta conduzione è legata alla rettitudine del soggetto che la esercita, e in 6 I motivi delle perplessità li sintetizza molto bene un articolo di M. NICOLETTI, L’intreccio tra santità e politica, in Il Margine, 7.

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seguito bisogna ribadire come la grazia santificante propria della vita cristiana non esclude a priori nessun tipo di incarico o ufficio che l’uomo possa assumere nella società. Già San Francesco di Sales, tra i più significativi maestri e teorici della perfezione cristiana, notava come: «la santità è perfettamente conciliabile con ogni sorta di ufficio o di condizione della vita civile, e in mezzo al mondo ciascuno può comportarsi in modo confacente alla salvezza dell’anima, purché si mantenga immune dallo spirito mondano»7.

Troviamo la stessa idea anche nel Magistero di Papa Pio XI che nell’Enciclica Rerum Omnium del 1923 riprende il medesimo concetto: «Nessuno pensi che la perfezione sia riservata ad alcuni rari privilegiati, mentre gli altri potrebbero accontentarsi di un grado minimo di virtù. Comprenda il popolo che una vita santa non è il dono straordinario riservato a poche persone, essa è lo scopo generale e il dovere comune di tutti»8.

Tutti sono chiamati, allora, ad essere cristiani di prima classe, non c’è, infatti, che un’unica santità per tutti, in forza dello stesso identico Battesimo, anche se ciascuno secondo la propria specifica vocazione. La storia della Chiesa ci mostra come in ogni epoca ci siano stati uomini e donne, che pur appartenendo ad ogni categoria sociale e ricoprendo gli uffici più diversi, si siano contraddistinti per l’esercizio della carità, lo zelo e la santità di vita. Tra i santi canonizzati abbiamo, infatti, Re e Regine, nobili e poveri, soldati e pubblici ufficiali, filosofi e analfabeti, e tra di essi non manca neppure qualche uomo di stato e di governo, e proprio parlando di quest’ultima categoria don Sturzo scrive un articolo dove, rispondendo al quesito postogli da un sacerdote circa la possibilità per un politico di aspirare alla santità, egli rivendica la possibilità di giungere alla perfezione cristiana anche facendo della politica: 7 SAN FRANCESCO DI SALES, Filotea, Capitolo III. Il Pensiero del Vescovo di Ginevra è ancora ripreso quando rivolgendosi a Filotea così scrive: «Sarebbe un eresia voler bandire la vita devota dalla compagnia dei soldati, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalla casa delle persone coniugate. E’ vero, Filotea, che la devozione puramente contemplativa, monastica e religiosa, non può essere esercitata in quelle vocazioni. Ma oltre queste tre specie di devozione ve ne sono molte altre, atte a perfezionare coloro che vivono negli stati secolari... Dunque siamo, possiamo e dobbiamo aspirare alla vita perfetta». L.c. 8 PIO XI, Enciclica Rerum Omnium, Roma 1923.

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«A nessuno Dio nega le grazie per essere perfetto cristiano: “siate perfetti come il Padre vostro celeste”. Si può supporre che Dio le neghi agli uomini politici, che come capi, legislatori, amministratori, sono necessari alla società? San Paolo, nell’ingiungere a Timoteo di pregare per tutti gli uomini, scrive di pregare per i re e tutti quelli che stanno in posizione elevata, affinché possano condurre una vita tranquilla e quieta in tutta pietà e dignità; in linguaggio corrente è chiaro che lo scopo è l’ordine pubblico (tranquillità e quiete) e la buona amministrazione (pietà e dignità). Pertanto, se i governanti sono cattivi, a parte il danno che recano alla comunità, è colpa loro, non mai del mancato aiuto di Dio, perché adempiano il loro dovere e si mantengano buoni cristiani. [...] Molti degli uomini politici di quasi due secoli di diffuso regime rappresentativo e libero, hanno dato esempio di probità, correttezza, spirito di sacrificio. È superfluo farne i nomi; avranno avuto i loro difetti e la coscienza loro avrà forse rimproverato quelle deficienze che sono il retaggio di ogni uomo nato nel peccato originale. Ma di molti di costoro, nell’esercizio del loro particolare ufficio e nel generale loro comportamento, si ricordano e la volontà di servire la buona causa e gli esempi di virtù morale e civile. Che avessero potuto fare degli sbagli in politica non si nega; che avessero mancato ai doveri della loro coscienza cristiana non risulta. [...] In conclusione: se il Vangelo afferma essere la via del cielo assai stretta, e perciò impossibile a percorrerla per i superbi e di difficilissimo esito per i ricchi, quegli uomini politici e amministratori pubblici che sono esposti a montare in superbia e a subire le tentazioni di ingiuste locupletazioni, sono per ciò stesso obbligati, se vogliono rimanere buoni cristiani, a stare molto più vigilanti degli altri, ed a pregare Dio che accordi loro con maggiore abbondanza la grazia della competenza e della moralità»9.

Del pensiero di don Sturzo espresso in questo articolo è utile sottolineare tre elementi che riassumono la sua visione del problema e presentano un itinerario di santità valido per tutti: 1) Vocazione certa Dio a nessuno nega la possibilità della perfezione, con l’elargizione delle grazie necessarie, ancora meno agli uomini politici che sono utili alla società; 9

La risposta, indirizzata ad un certo Don Giovanni Rossi, inizialmente appare in parte in La Rocca, 15 febbraio 1957 col titolo: L’uomo politico può essere cristiano integrale?, poi viene pubblicata interamente in Problemi spirituali del nostro tempo, Bologna 1961, 204-206.

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2) Responsabilità personale Non è, quindi, attribuibile a Dio la colpa degli sbagli dell’uomo politico, ma essa è imputabile unicamente alla sua condotta sbagliata; infatti, non è detto che il cristiano che ricopre un ufficio di governo nella società, con l’aiuto appunto della grazia di Dio, non sia in grado di resistere alle tentazioni, di obbedire alle leggi e quindi lavorare a favore del bene comune, come tanti uomini retti della storia ci hanno dimostrato; 3) Maggiore vigilianza Ai politici cristiani è chiesto di essere più vigilanti, proprio perché più esposti al male, e di pregare Dio per una maggiore dose di grazia che faccia crescere in loro soprattutto la moralità dell’azione. Per don Sturzo è possibile, allora, pensare alla santità anche occupandosi di politica, ricordandosi sempre di salvaguardare quegli aspetti fondamentali della vita cristiana, vigilanza e preghiera, in cui si configura il suo cammino di perfezione, e senza i quali non potrà realizzare la propria vocazione soprannaturale.

2. Sturzo e il cammino di perfezione 2.1. La misura alta della vita cristiana Il pensiero di don Sturzo è chiaro, anche il politico può e deve aspirare alla santità, in quanto la sua Fede diventa l’anima di tutta la sua opera all’insegna della Carità, rendendolo portatore di Speranza al mondo intero. Ma quello che non sempre è stato chiaro è il riscontro che si è avuto nella fase applicativa di questa visione. Infatti, se l’accostamento, da parte di diversi autori, del concetto di politica a quello della carità cristiana10, ha suscitato un iniziale apparente senso di contrasto, parlare addirittura di una via di perfezione vivendo la concretezza dell’impegno sociale, rende forse ancor più perplesso chi vede come inconciliabile l’approccio al

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Cfr. S. MILLESOLI, Don Sturzo. La carità politica, Milano 2002.

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tema della politica legato a quelli di spiritualità, di ascetica, e, in ultima analisi, a quelli della santità cristiana11. Ci conforta il fatto che il magistero recente insista su una positiva risoluzione di questo contrasto ideale. Sarà Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte, a porre proprio la santità come prospettiva prioritaria e misura alta per il cammino cristiano della Chiesa nel nuovo millennio, e quindi di ogni uomo e cittadino di buona volontà: «Nell’additare alcune priorità, in primo luogo non esito a dire che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità [...] Additare la santità resta più che mai un’urgenza della pastorale... Se i padri conciliari diedero alla tematica della vocazione universale alla santità tanto risalto, non fu per conferire una sorta di tocco spirituale all’ecclesiologia, ma piuttosto per farne emergere una dinamica intrinseca e qualificante [...] Ricordare la santità, ponendola a fondamento della programmazione pastorale che ci vede impegnati all’inizio del nuovo millennio, potrebbe sembrare, di primo acchito, qualcosa di scarsamente operativo. Si può forse ‘programmare’ la santità? Che cosa può significare questa parola, nella logica di un piano pastorale? In realtà, porre la programmazione pastorale nel segno della santità è una scelta gravida di conseguenze [...] È ora di riproporre a tutti con convinzione questa ‘misura alta’ della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione [...] si esige una vera e propria pedagogia della santità»12.

L’invito ad una “pedagogia della santità” mira a neutralizzare il ristagno della riflessione pastorale nell’oscillazione fra l’ingenuo ottimismo che vede nella nuova ricerca di spiritualità semplicemente delle buone chances per l’evangelizzazione e il problematicismo di chi invoca ad ogni passo le difficoltà indotte dalla società complessa e frammentata. La cultura attuale, e le scelte educative che ne derivano, è vistosamente segnata da questo strabismo: da una parte, di fronte alla perdita di ogni punto di riferimento valoriale, ne invoca la necessità, dall’altra parte censura ogni giudizio di valore; da un lato mostra di rendersi conto che l’istanza di senso che abita il cuore dell’uomo deve essere riempita, dall’altro rifiuta puntigliosamente ogni offerta di senso determinata.

11 Cfr. ID., Santità e politica tra incompatibilità e ricomprensione, in Semina Verbi, Caltagirone 2004, 107-130. 12 Novo millennio ineunte, 30-31.

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Assumere il carattere strategico della proposta della santità significa uscire coscientemente da questo stato di cose: mostrare la santità come pienezza umana reale, effettiva, raccontabile, e non astratta, ideale, ipotetica, è evitare di crogiolarsi tanto nelle spire del problematicismo ad oltranza, quanto nell’inconcludente ripetizione di istanze ideali. La relazione di Sturzo con la santità, al di là del naturale e doveroso rapporto iniziato prima grazie alla cura amorevole e forte della madre, donna Caterina Boscarelli, che lo inizia alla vita spirituale e lo sostiene nelle sue primissime scelte, come egli stesso ricorderà frequentemente nell’epistolario col fratello, trova nel suo spirito di ricerca e nello zelo per l’ascolto e la meditazione della Parola di Dio il sostegno forte che lo accompagnerà per tutta la vita, ascolto favorito: “non tanto per desiderio di conoscere e apprezzare, doti di oratori molto acclamati, quanto per motivi spirituali e per il bisogno di sentire il conforto di autorevole richiamo alle verità eterne”13. Questo atteggiamento devoto e rispettoso è il programma costante che troviamo nello Sturzo sacerdote. I suoi primi discorsi, tenuti in occasione della celebrazione della prima Messa del fratello Mario o di altri chierici del seminario di Noto, esaltano la figura e la missione del sacerdote di Cristo definendo “classe privilegiata” quella dei sacerdoti, classe che “occupa nel mondo il primo grado di dignità”14. Ma lo Sturzo, giovane e zelante predicatore e difensore dell’eccelsa dignità sacerdotale, dopo le varie esperienze non sempre prettamente spirituali, che l’impegno nel mondo gli riserverà, cederà ad un pensiero certamente meno vibrante e colorito, ma sicuramente più maturo, in quanto la verità e la realtà che formano il mistero della Chiesa hanno una caratteristica paradossale: sono perenni e immutabili nella loro sostanza, mentre sono soggetti a mutamenti e aggiornamenti per quanto riguarda la loro espressione contingente. Anche il mistero del rapporto sacerdozio-eucaristia, è stato soggetto a questo tipo di dinamica, tanto che nel corso della storia, di questo legame si è andato sottolineando volta per volta un aspetto diverso. Nella prima 13 L. STURZO, La predicazione. Ricordi e suggerimenti, in La Predicazione, quaderno speciale di Temi di Predicazione, n. 11-12, marzo 1959, 237-238. 14 ARCHIVIO LUIGI STURZO, Il sacerdote, sermone recitato per l’assunzione al sacerdozio di Vincenzo Parlagreco, 2 giugno 1887 nella chiesa madre di Pachino, 2.

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comunità cristiana, come risulta dagli scritti neotestamentari e dei Padri Apostolici, si metteva in luce soprattutto il ruolo di presidenza della Synaxis, e dell’annuncio autorevole della Parola di Dio. La scolastica ha messo l’accento principalmente sull’idea dell’azione in persona Christi, cara a San Tommaso tanto da servire come argomento per riservare la consacrazione eucaristica al sacerdote, poiché egli solo, tra tutti gli uomini, e si riferisce ai laici, ha ricevuto la potestas di agire appunto in persona Christi. In questa prospettiva va riletta la vita sacerdotale di don Sturzo in ordine all’Eucaristia. La consapevolezza del suo ministero e la derivante spiritualità coltivata dal nostro sacerdote, essenzialmente cristocentrica, gli permette di realizzare quello che solo vent’anni più tardi scriverà il Concilio Vaticano II nella Presbyterorum Ordinis: «Nel sacrificio della Messa i presbiteri agiscono in maniera speciale in persona Christi, così essi si offrono ogni giorno totalmente a Dio e, nutrendosi del corpo di Cristo, partecipano dal profondo del cuore della carità di Colui che si dà come cibo ai fedeli»15.

La vicinanza di Cristo, nel ministero sacerdotale, aiuta don Sturzo a non sentire il peso della propria umanità, la fatica di andare avanti nonostante i limiti di tale natura in un campo eccelso come quello del sacro ministero. Tale spiritualità cristocentrica trasse il motivo ispiratore dalla contemplazione del grande mistero della S. Messa. Infatti, nel pensiero di don Sturzo, il sacerdote non solo è utile alla vita degli uomini, ma addirittura è necessario, per quello che è, alter Christus, ma soprattutto per quello che dà in quanto ministro di Dio e dispensatore dei misteri di Dio. In questo parallelismo tra un testo del Vaticano II e il pensiero di don Sturzo mi pare di trovare due versanti della spiritualità del nostro sacerdote direttamente derivanti dall’Eucaristia. Il primo è quello Ascetico, sintetizzato nello sforzo di superare le umane debolezze e praticare le virtù evangeliche. Il secondo è quello Mistico, che consiste nell’offrirsi ogni giorno totalmente a Dio e nel partecipare dal profondo del cuore alla carità del Buon Pastore. Ciò trasforma la vita di un sacerdote in una vita vissuta intorno al rapporto con Cristo, che nell’Eucaristia tocca il suo momento di maggiore intensità. 15

Presbyterorum Ordinis, 13.

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Questo aspetto mistico è un elemento poco conosciuto della personalità di don Luigi, accusato più volte di essere un burocrate privo di spiritualità. Chi esprime queste osservazioni certamente non conosce la profondità dell’animo sacerdotale di quest’uomo. Per don Sturzo, infatti, l’apice della vita dell’uomo è l’unione mistica con Dio, unione che avviene anche grazie all’unione eucaristica, alla Comunione col corpo di Cristo: «Per l’elevazione dell’umanità alla vita soprannaturale o per la vocazione alla salvezza, noi tutti siamo, in potenza, uniti misticamente a Dio; per la comunione della grazia santificante, veniamo uniti abitualmente a Dio in mistica comunione; per gli atti di fede, di speranza e di carità insieme, noi rendiamo attuale tale unione; per mezzo dei doni dello Spirito Santo e dei sacramenti, noi aumentiamo, in un processo percettivo, le grazie e le virtù teologali che ci tengono uniti a Dio [...] Chiamiamo mistica questa unione [...] perché nascosta e oscura alla nostra ragione e all’esperienza comune, ma rivelata per fede, e sperimentata indirettamente nella pratica delle virtù e nel cammino della perfezione»16.

In questo orizzonte, di vera e propria mistica, risulta significativo che tutta la spiritualità venga agganciata all’Eucaristia la quale, essendo fondamento, radice, cardine, centro e vertice dell’azione ministeriale del prete Sturzo, lo è anche per la sua vita personale e per la vita di relazione che fa ruotare sempre attorno al Mistero e sottomettendo tutto alla priorità del rapporto quotidiano col sacrificio di Cristo. Così egli stesso ne parla in un articolo contenuto in una raccolta di saggi pubblicata negli Stati Uniti nel 1945 dal titolo: Spiritual problems of our times, poi tradotto in italiano con Problemi spirituali del nostro tempo: «La vita cristiana è vita sociale, della nostra società con Dio attraverso Cristo e la nostra società fraterna in Dio attraverso Cristo; altrimenti non c’è vita ma disintegrazione spirituale e sociale. Noi dobbiamo modificare le nostre abitudini religiose in modo che i nostri cuori possano essere penetrati dall’idea che la Messa, la Santa Eucaristia, tutta la liturgia sacra, sono il centro della nostra vita e non una scarsa e frettolosa mezz’ora, durante la quale ci si distrae più o meno alla vista delle nuove mode e dei vecchi amici. Quando questa mezz’ora (od ora che sia) è finita, non si pensa più alla Messa fino alla Domenica seguente; ed anche la presenza alla Messa di precetto è probabile che venga considerata quasi più convenzione sociale che obbligo religioso. Nello scrivere questo non intendo dire che tutti i fedeli rimangono estranei nella «comunità religiosa». 16

L. STURZO, La vera vita, cit., 81-82.

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Dico che spesso essi non hanno coscienza che tale comunità esiste e che ogni cosa si incentra in Cristo e nel suo sacrificio, così che tutti noi viviamo non in un isolamento individualistico ma in questa società che unisce insieme Cristo e i cristiani. Il risveglio di questa coscienza attraverso i mezzi di una continua e sempre più approfondita partecipazione alla Messa e alle pubbliche preghiere è il vantaggio che reca il movimento liturgico dei nostri tempi»17.

Perché queste parole non sembrino semplici esortazioni poste agli altri vale la pena ricordare che dalle testimonianze raccolte si evince come fosse lui stesso il primo a metterle in pratica. Riporto qui solo quella di G.B. Migliori apparsa su Studi Cattolici del febbraio del 1972: «Dovunque si trovasse a celebrare, prima del santo sacrificio e del lungo, raccolto, ringraziamento, si asteneva rigorosamente da qualsiasi attenzione che avrebbe potuto distrarlo, fosse pure un rapido sguardo ai giornali. Più volte, avendo tenuto riunione presso di lui, ricorrendo qualche data significativa del suo sacerdozio, prima della seduta, assistemmo alla sacra celebrazione»18.

Ciò che auspica don Sturzo, nell’articolo americano, è ciò che definirà la Costituzione Dogmatica Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II, portando a compimento la riforma liturgica, proponendo la Liturgia Eucaristica come il centro della vita cristiana, che va vissuta con “una partecipazione attiva, consapevole e fruttuosa”19. In questa occasione, come in molte altre, possiamo cogliere l’aspetto profetico, del pensiero sturziano. Don Sturzo dimostra questa sensibilità liturgica perché vive la profondità del mistero che celebra e vorrebbe che tutti ne traessero il maggior frutto possibile. Tutta la vita sacerdotale è contemplazione del mistero che deve essere proposto al popolo di Dio. Perché le cose siano così, c’è una previa condizione: che la Messa non occupi soltanto una breve e sfuggente mezz’ora della giornata del prete ma pervada tutta la sua giornata. Tutta la Messa, col messaggio quotidiano della Parola e la grazia del sacrificio, si deve riversare su tutta la giornata imprimendo la sua grazia e il suo influsso spirituale sui momenti tristi o gioiosi, agitati o riposati, di azione o di contemplazione. 17

ID., Problemi Spirituali del nostro tempo, Bologna 1961, 76. G.B. MIGLIORI, La Messa di Don Luigi Sturzo, in Studi Cattolici, febbraio (1972). 19 Sacrosanctum Concilium, 11. 18

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Per don Sturzo l’esperienza spirituale eucaristica è legata non soltanto alla semplice partecipazione al sacrificio di Cristo, ma anche alla sua presenza viva, una presenza che non va certamente separata dal sacrificio dal quale procede e che viene prolungato attraverso la contemplazione, ma una presenza dal contenuto inesauribile che metta in luce i diversi aspetti del senso eucaristico. In quale misura la devozione eucaristica sia parte dell’anima sacerdotale di don Sturzo, lo si può dedurre da quanto egli ne scrisse, ricordando la famosa sera del 1918 quando venne fondato il Partito Popolare: «Quella sera del dicembre 1918, in cui decidemmo la fondazione del P.P.I., non potrà essere dimenticata da nessuno dei quaranta amici che si erano riuniti.[...] Era mezzanotte quando ci separammo e, spontaneamente senza che alcuno ci avesse invitato, passando davanti alla Chiesa SS. Apostoli, bussammo alla porta; v’era l’adorazione notturna; il frate portinaio era spaventato nel vedere tanta gente, ma fu rassicurato nello scorgere la mia sottana. In quell’ora d’adorazione, io vidi passare dinanzi a me tutta la tragedia della mia vita. Nulla avevo mai domandato, nulla cercato, ero rimasto semplicemente un prete. [...] Accettai allora quella nuova carica di capo del P.P.I. con l’amarezza nel cuore, ma come un apostolato, come un sacrificio»20.

Davanti al SS. Sacramento, nello spirito della preghiera adorante, don Sturzo dà il via all’opera più conosciuta della sua vita, la fondazione del Partito Popolare: una decisione così impegnativa per la sua vita poteva essere presa solo alla luce della volontà di Dio, che si coglie, appunto, nell’intimità della preghiera davanti all’Eucaristia. Da questi riferimenti ci accorgiamo come don Sturzo non perda occasione di ribadire quanto fondamentale sia l’unione con Cristo, l’unione del cristiano, e a maggior ragione del sacerdote, con il Cristo uomo e Dio. Egli commentando il brano evangelico di Giovanni: “Io sono la vite, voi i tralci” con la conseguente considerazione che nessun tralcio può dare frutto se non rimane legato alla vite, riconosce come l’umanità stessa di Cristo e la comunione con lui sono il canale favorito attraverso il quale giunge a noi la vita di Dio, e che nel sacramento dell’Eucaristia si prolunga in maniera davvero privilegiata. Non soltanto perché, come tutti i sacramenti, essa contiene l’energia che scaturisce dal mistero della redenzione, ma perché assicura la presenza stessa dell’umanità glorificata del Redentore. 20

Cit. in A. MESSINEO, L’eredità di Don Luigi Sturzo, in Sociologia 3 (1959) 326-327.

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Don Sturzo sintetizza questa visione in un altro articolo inserito in Problemi spirituali del nostro tempo, dove, passando in rassegna e meditando le varie parti del Canone della Messa, egli fa notare come sia costante il richiamo e l’invocazione per la pace tra gli uomini. In tale contesto sottolinea l’importanza dell’unione dell’uomo al sacrificio di Cristo: «La natura è la premessa necessaria della partecipazione alla vita soprannaturale; ma questa non si attua storicamente senza il concorso di quegli uomini, che debbono rendere testimonianza al Cristo, cioè alla fonte perenne della grazia. Tale testimonianza è partecipazione vivente al sacrificio di Gesù Cristo e per lui e in lui ogni nostra attività si estende al suo corpo mistico»21.

Continua don Sturzo con tono ancora più marcato e deciso: «Tutta la nostra vita o è sacrificio a Dio, in unione a quello di Gesù Cristo, o è nulla; peggio, è il peccato, l’opposizione a tale sacrificio. Quale più grande e più degna missione che quella di far partecipare tutto il mondo a un tale sacrificio, vincendo anche noi e facendo vincere dagli altri il peccato e la morte in unione a Gesù Cristo?»22.

Da queste parole ci accorgiamo come tale adesione personale a Gesù Cristo altro non sia, per il nostro, che la piena attuazione della fede. Si può dire che, in questo senso, l’Eucaristia si presenta come un mezzo pedagogico privilegiato. E se la fede possiede una dimensione essenzialmente personale di adesione a Dio per mezzo della sua Parola, è chiaro che, attuandosi in modo privilegiato nell’incontro eucaristico, presenza del Verbo fatto carne, essa ne riceve un impulso continuo, che si attua in un cammino preciso di santificazione. Infatti, dall’unione con Cristo deriva il desiderio di imitazione. Quando l’imitazione diventa più interiore, nasce un altro desiderio, quello della trasformazione. La presenza sacramentale porta quasi naturalmente alla presenza spirituale nell’amore, e l’amore richiede la somiglianza, e la somiglianza deve raggiungere, in un cammino di perfezione, tutti gli altri ambiti della nostra esistenza: la nostra mente, il nostro cuore, la nostra anima, come ci ricorda l’Apostolo Paolo: “abbiate gli stessi sentimenti che furono 21 22

L. STURZO, Problemi spirituali, cit., 139. L.c.

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in Cristo Gesù” (Fil 2,5). Di questo cammino pefettivo don Sturzo ne delinea le tappe fondamentali in un ideale processo verso la perfezione. 2.2. Il processo perfettivo Tutta la vita spirituale è un tendere alla perfezione; la nostra santità si realizza sempre più intimamente e fruttuosamente, via via che diveniamo somiglianti al Padre (perfetti come il Padre). Durante la vita, questo processo di perfezione conosce uno sviluppo senza fine, perché l’anima è sempre soggetta a imperfezioni, e perché i due principali fattori della perfezione, la grazia e la carità abituali e attuali, possono aumentare nell’anima senza limiti. La perfezione, durante la vita terrena, consiste dunque nel continuo aumento in grazia e in carità di tutte le virtù. Don Sturzo, nella Vera Vita fa un’interessante specificazione sui termini santità e perfezione: «il sommo della perfezione, caratterizzato dall’acquisto ed esercizio delle virtù teologali e morali in grado eroico. [...] Perfezione è corrispondenza alla pienezza di vita, santità e consacrazione a Dio»23. Entrambi i termini, però, non vanno intesi staticamente, bensì come una scala indefinita di elevazione verso Dio, in un continuo sviluppo verso il compimento. Nella vita soprannaturale, santità e perfezione si equivalgono in radice, ma mentre non esiste santità senza una perfezione in grado eroico, esiste una perfezione che non è santità, perché manca di eroicità24. Nel cammino di perfezione, si deve tenere conto di due principi: - tutte le virtù sono mezzi per la conservazione e l’aumento della grazia e della carità; - la tendenza costante verso la perfezione e il desiderio di ottenerla e incrementarla sono impliciti nello sforzo di conservare e aumentare la grazia e la carità. Don Sturzo approfondisce il concetto di perfezione analizzando il più complesso rapporto tra i concetti di ascetica e mistica cristianamente intesi. Egli parte dalla considerazione che dai primi decenni del XX secolo il termine ascetica definiva la pratica della riforma e perfezionamento 23 24

L. STURZO, La vera vita, cit., 83. L.c.

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della vita spirituale con un metodo attivo, basato sulla volontà e sull’osservanza dei precetti cristiani, mentre il termine mistica indicava uno stato superiore di unione, nel quale l’anima, per dono speciale di Dio, si presta alle Sue operazioni misteriose. La base umana e psicologica dell’ascetica cristiana e di quella di natura filosofica o naturalistica è la stessa, per cui si possono conseguire virtù morali quali il controllo di sé, il distacco dai piaceri della carne e dalle ricchezze, la capacità di silenzio ecc., con entrambe le vie; ma, mentre l’ascesi naturalistica arriva solo alla concezione di una perfezione umana, quella cristiana affonda nella vita soprannaturale che è amore di Dio: «Ogni ascetica cristiana, pertanto, o è di sua natura mistica, cioè unitiva con Dio, ovvero non è cristiana; lo sforzo perfettivo o è nell’unione con Dio, cioè mistico, ovvero non è cristiano. Diciamo unitivo e mistico perché o è unito con la carità (grazia attuale e abituale) o è diretto a riacquistare la carità (penitenza), ovvero non ha carattere cristiano»25.

Don Sturzo evidenzia come ogni virtù ricercata per se stessa, senza unione con Dio, sia priva di radice mistica, per cui è certamente virtù morale e acquisita con ascesi, ma è staccata dal centro vitale; in quanto priva di carattere soprannaturale, essa è solo ombra della virtù. Sicché il dominio acquisito su noi stessi grazie alla mera pratica delle virtù rischia di diventare motivo di vanità, di superbia, di autocompiacimento e persino di adorazione di noi stessi, per la fiducia riposta nelle nostre forze. Perciò la perfezione consiste non nella conquista delle virtù come tali, ma nel perfezionamento dell’unione con Dio, per il quale l’acquisire e incrementare le virtù sono mezzi26. Il nostro sottolinea come primo frutto dell’ascetica cristiana sia il distacco dalla colpa e dall’amore alla colpa, dal mondo e dall’amore del mondo, vale a dire da tutto ciò che si oppone a Dio. Per essere cristiano, questo distacco deve avvenire per e con l’amore di Dio; i mezzi ascetici, infatti, hanno valore solo nella misura in cui sono animati dall’amore. Questo primo e fondamentale distacco conduce a poter essere santificati nella verità col Padre per mezzo di Gesù Cristo; essere santificati nella verità in questo senso è un sacrificio. Gesù ha offerto il suo, affinché 25 26

Ibid., 84. Cfr. ibid., 85.

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l’amore con il quale il Padre lo ha amato e Gesù stesso siano in noi (cfr. Gv 17,26). «Ecco la vera perfezione ascetica e l’unione mistica in tutto il suo processo, per arrivare a una specie di unità fra l’uomo e Dio, una consumazione completa»27. Per descrivere il cammino progressivo della perfezione Sturzo adotta lo schema classico del processo perfettivo: quello delle tre vie (purgativa, illuminativa e unitiva), o dei tre gradi (degli incipienti, dei progredienti e dei perfetti). La via purgativa conduce l’anima al distacco da tutto ciò che è peccato, che può condurre al peccato, o che tende ad allontanare da Dio e a lasciarci attaccati a noi stessi e alle creature. La via illuminativa è caratterizzata piuttosto dall’aprirsi alle conoscenze spirituali, ma non per via teoretica o astratta, bensì per via di comprensione, esperienza e attuazione. La via unitiva è l’attualizzazione vivente dell’unione per la grazia abituale: «formando una specie di abitudine dell’unione della mente e della volontà con Dio, una continua presenza di Dio in noi, una contemplazione non interrotta, pur in mezzo ai lavori e alle esigenze della vita esteriore, una volontà sempre più aderente a quella di Dio, da potersi dire che la volontà di Dio è in noi»28.

Nel grado degli incipienti sono compresi sia i peccatori convertiti recentemente a Dio, che portano il residuo di passioni e abitudini del passato (contro le quali devono combattere aspramente); sia i tiepidi, che pur avendo fatto progressi spirituali non fanno sforzi sufficienti per evitare i peccati veniali deliberati o abituali; sia coloro che non si danno la cura di progredire, limitandosi a evitare le colpe gravi. A costoro manca l’idea di perfezione, del dover progredire verso di essa, delle sue esigenze. A questo stadio l’anima è portata al distacco da tutto ciò che è peccato o che può condurre ad esso, o che tende ad allontanare da Dio in quanto si resta attaccati a se stessi, alle creature, alle proprie occupazioni materiali. «Il non peccare è paragonato al ben fare, e Dio non manca di dare il suo aiuto e conforto»29. 27

Ibid., 86. Ibid., 86-87. 29 L.c. 28

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Evitare la colpa e osservare la legge costituisce di per sé l’inizio del processo perfettivo, per mantenere il quale sono indispensabili la preghiera e i sacramenti. Senza di questi sarebbe impossibile vivere una vita soprannaturale iniziale e muoversi verso il grado di perfezione al quale ciascuno è stato predestinato da Dio, per raggiungere il quale Egli ci dà le grazie necessarie alle quali siamo tenuti a corrispondere. Anche qui siamo chiamati ad uno sforzo ascetico: trascurare la voce di Dio, i suoi impulsi, le sue illuminazioni fuorvia dal cammino di perfezione e di salvezza.

3. Aspetti essenziali della perfezione 3.1. La crescita nella preghiera Per don Sturzo il ruolo della preghiera è fondamentale nello sviluppo dell’unione con Dio, poiché non c’è né perfezione ottenuta senza preghiera; né corrispondenza alle grazie divine non corroborata dalla preghiera; né una vita spirituale nella relazione quotidiana d’amore con Dio e col prossimo senza che ne sia acceso il fuoco con la preghiera. Nelle diverse situazioni interiori in cui ci possiamo trovare, la preghiera diventa noia ridotta a formalismo rituale (stato di tiepidezza); sostegno nei dolori proporzionato alla fede; consolazione spirituale nei periodi di conversione e di penitenza. «La preghiera è di fatto un mezzo necessario di vita soprannaturale; e non solo un mezzo, ma addirittura è atto vitale e perenne, così come il respiro e il palpito sono la nostra stessa vita, e la cessazione ne è la morte»30.

Nella misura in cui cresce l’intimità con Dio nella preghiera, si supera lo stadio della preghiera occasionale, o fatta sotto la pressione di avvenimenti dolorosi o di speranze terrene, per aprirsi all’approfondimento intellettivo nella meditazione dei misteri della Redenzione e del nostro destino finale, che sboccia finalmente nella preghiera affettiva. Quest’ultima ci conduce alla preghiera contemplativa, nella quale la comprensione dei divini misteri diventa intuizione amorosa; gli affetti divengono ade-

30

Ibid., 90.

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sione, perché superano lo stadio sensibile; l’intuizione e l’adesione si sviluppano in contemplazione, nella quale scompare il pensiero discorsivo e si arresta il passaggio da un affetto all’altro. La contemplazione diventa così focale, tende a una quiete assorbente. Don Sturzo è convinto che l’orazione, in tutto il percorso spirituale, sia essenziale, fino all’esperienza diretta di Dio. La distinzione tra orazione vocale e mentale è puramente formale, poiché una vera orazione è sempre mentale, un colloquio che diventa comunione; «si dirà vocale in quanto vi predomina la recitazione o il canto, ma se è preghiera, è fatta con la mente e col cuore; è elevazione e colloquio»31. Se la preghiera non è intimità spirituale, non è vita di unione con Dio e sua realizzazione, è vano suono di voce e vaneggiamento di pensieri; ciò vale anche per il Padre nostro, sintesi della vita cristiana. Dunque si può dire che la preghiera compendia la nostra vita spirituale ed è il segno della nostra unione con Dio. Essa è basata su due atti fondamentali intrinseci: la purezza d’intenzione e l’adesione della volontà, che sono il presupposto della preghiera, la preghiera stessa e il suo frutto. Purezza d’intenzione e adesione della volontà a quella di Dio devono essere presupposti in tutti gli atti della giornata, anche solo virtualmente, e vanno rinnovati nel momento del bisogno, così che divengano abito della mente e della volontà, regola di tutti gli atti, richiamo nelle tentazioni, base solida all’ulteriore processo verso l’unione mistica alla quale siamo chiamati. 3.2. La retta intenzione Per retta intenzione don Sturzo intende l’agire esclusivamente al fine della gloria di Dio, dell’unione d’amore con Lui, e, in Lui, dell’amore del prossimo. Si tratta di un’interiorizzazione delle nostre attività, «un trasporto di tutta la vita naturale sul piano della soprannaturalità»; è «la stessa azione realizzata nella sua interiorità spirituale»32. Le espressioni paoline: «Fate tutto per la gloria di Dio» (1Cor 10,31), e «Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore» (Rm 14,8), non alterano le finalità dirette e naturali delle nostre azioni, bensì le com31 32

L.c. Ibid., 91-92.

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prendono e le superano allo stesso tempo. L’intenzione buona non rende buono un atto cattivo, ma rende buono un atto indifferente e aggiunge bontà ad un atto buono; i fini intermedi perseguiti dall’uomo diventano così mezzi rispetto all’ultimo fine. L’intenzione è l’occhio di cui parla Mt 6,22-23: è la visione del fine e l’adesione ad esso. «La retta intenzione non fa altro che rendere attuale ed efficace, in tutte le azioni particolari, il fine supremo dell’uomo che è Dio; in sostanza quell’atto di amore che è il motivo fondamentale della nostra vita»33. L’esercizio della retta intenzione opera un distacco da tutto ciò che devia, ritarda, ostacola il cammino verso il fine ultimo, perché i fini particolari, anche se in sé sono buoni, possono distoglierci e fermarci dal proseguire nella via della perfezione. 3.3. L’adesione alla volontà di Dio Ma non basta la retta intenzione come lume dell’azione e termine della volontà adesiva al fine; occorre che, aderendo alla volontà di Dio, la trasportiamo in noi per realizzarla nella vita, così che essa diventi la nostra stessa volontà. Questa è l’obbedienza completa a Dio, di cui Gesù diede l’esempio (cfr. Fil 2,7-8) e che è al centro del Padre nostro; questa è la base del discepolato e della nuova parentela stabilita da Gesù (cfr. Mc 3,35). Don Sturzo, pertanto, ritiene fondamentale per la vita di unione con Dio conoscere quale sia la sua volontà. Esaminare ciò che piace a Dio deve essere la cura di ciascuno, nella vita personale, nell’intimo della coscienza, nell’attività esterna, per una sempre maggiore conformità ad essa non esteriore e formale, bensì come compenetrazione amorosa che conduca ad una purificazione del cuore, che permette di conoscere Dio come luce di verità anche nell’oscurità di questo mondo, e di sentirlo come attrattiva di amore, come volontà da realizzarsi, applicata personalmente a ciascuno di noi. Una tale adesione alla volontà di Dio produce nell’uomo una catarsi, un passaggio che trasforma purificando, un’uscita da sé per entrare in Dio e vivere nel cerchio della sua volontà. «La sequela di Gesù per la via della croce indica la purificazione progressiva dell’uomo nel distacco da se stesso, dalle sue compiacenze, dall’amor proprio, al quale, purtroppo, si 33

Ibid., 92.

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tende ogni momento anche nella vita spirituale»34. Per questo in Dio, rispetto all’attività libera delle creature intelligenti e agli effetti delle loro libere scelte, si distingue ciò che Egli vuole, che è solo il bene, e ciò che Egli permette, che è la possibilità che noi neghiamo la realizzazione in noi della sua volontà, cercando così il bene nell’errore, nella deviazione. Perché, però, non resti niente che non sia ordinato al bene, Dio trae dal male commesso dalle creature un bene maggiore, sia nell’ordine presente, sia in quello futuro: «La catarsi della nostra volontà purificata si compie [...] nella volontà di Dio realizzata. Essa è in noi conformità e rassegnazione, pazienza e penitenza, unione e amore. Per questo, anche le nostre colpe e umiliazioni spirituali, che noi detestiamo come offesa di Dio e che cerchiamo di non più ripetere, possono essere per noi motivi di bene, in quanto ci spingono a una più attuosa e costante unione alla volontà di Dio»35.

In tal modo maturerà un’attitudine più appropriata verso la volontà di Dio, che non sia la mera rassegnazione davanti alle contrarietà, alle sofferenze, e a tutto ciò che contrasta con i nostri desideri e la nostra volontà, poiché la volontà divina è prima di tutto ordine provvidenziale, economia redentrice, amore universale e particolare verso tutte le creature, partecipazione a noi della vita soprannaturale. La nostra adesione alla volontà di Dio è cooperazione nell’amore, unione attuosa e costante della nostra vita alla sua. 3.4. L’umiltà Aderire alla volontà di Dio non significa per l’anima rinunciare alla propria iniziativa, alla cooperazione, all’attività, ma solo rinunciare all’egocentrismo come motivo di azione o come compiacenza di avere agito. Questo egocentrismo in termini ascetici si chiama superbia; l’adesione alla volontà di Dio è il suo contrapposto: l’umiltà. Sturzo chiarisce bene che il concetto di umiltà non ha niente a che vedere con l’affettazione esterna di modi e di parole; l’umiltà è la consapevolezza di sé fondata sulla verità della propria dignità e del proprio posto 34 35

Ibid., 94. Ibid., 95.

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nella creazione, ma nell’infinita distanza della creatura dal Creatore e nella solidarietà fraterna con tutti gli uomini, senza credersi migliore o superiore a nessuno. Verità e carità sono correlativi nell’umiltà; la loro sintesi esprime la volontà di Dio, che è verità e carità. L’orgoglio, al contrario, è menzogna ed egoismo. In ogni colpa è implicita o esplicita una preferenza di noi stessi a Dio e agli altri. «La colpa è un atto di superbia che contiene in sé la menzogna e l’egoismo; è triplice negazione sia della verità, sia della carità, sia della sottomissione alla volontà di Dio»36. 3.5. L’obbedienza Come si può verificare e maturare la propria obbedienza a Dio? Essa si esprime in quella dovuta agli uomini, la quale deve essere, però, ben intesa. Secondo don Sturzo, che visse fino in fondo l’obbedienza, «Il rapporto sociale tra inferiore e superiore, tra figlio e padre, tra scolaro e maestro, non è che spirituale: è il rapporto nostro con Dio che si estende alle relazioni umane; è la nostra soggezione a Dio che ci fa soggetti agli altri in quel che è ordine e volontà divina»37. Secondo le parole di Gesù in Mt 23, 9-10: «E non chiamate nessuno Padre sulla terra, perché uno solo è il vostro padre, quello del cielo. E non fatevi chiamare maestri perché uno solo è il vostro maestro, il Cristo», la subordinazione ad un altro uomo ha un valore spirituale solo in quanto è subordinazione a Dio; Gesù a sua volta fa sempre e dice solo ciò che vuole il Padre (cfr. Gv 8,28-29), così che la comunione tra il Padre e il Figlio si prolunga in un certo qual modo nei rapporti umani basati sulla verità e la carità. L’adesione agli uomini come tali, invece, è menzogna, superbia; pone la creatura al di sopra del Creatore, generando disordine. Obbedienza cieca, dunque, non significa che la persona non deve interrogarsi in nome di chi parla l’autorità, qual è lo spirito che la anima e l’oggetto che viene imposto: ciò significherebbe privare la persona della sua coscienza. Per questo, chi si pone queste domande non pecca di superbia. 36 37

Ibid., 96. Ibid., 97.

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Don Sturzo osserva che il problema fondamentale dell’obbedienza a un essere umano risiede nel fatto che il rapporto di autorità e obbedienza, in ambito familiare, civile o religioso, è concepito «fuori dei limiti di un ordine morale e di un rapporto soprannaturale, fuori di un costante e unico riferimento all’autorità che facendo coesistere due ordini (il naturale e il soprannaturale) vuole che l’uno e l’altro siano in noi realizzati. Staccando l’autorità umana dal rapporto di responsabilità verso Dio, si alterano ambedue questi ordini, e si produce l’irresponsabilità e spesso l’immoralità del comando, l’adulazione e la pusillanimità nell’ubbidienza. Tutti i rapporti umani della vita personale e collettiva, debbono essere sostanziati dall’adesione alla volontà di Dio, come autorità universale, come verità indefettibile, come carità infinita»38.

3.6. L’abbandono a Dio Sturzo si sofferma quindi sul perfezionamento dell’adesione a Dio, abbandonandosi al Suo volere nell’attimo presente, con fede, speranza e carità. L’abbandono a Dio è un esercizio ascetico di virtù, grazie al quale si può arrivare allo stato di abbandono, nel quale l’anima dipende in modo continuo dallo Spirito Santo e dalla grazia, in modo tale che essa non cerca più di occuparsi di Dio da se stessa, bensì sta davanti a Lui in una disposizione semplice, pronta a soddisfare attimo per attimo ciò che Egli vuole o non vuole. «L’esercizio di abbandono è un’ascesi, una purificazione: lo stato di abbandono ne è il frutto, la pacificazione mistica. Noi dobbiamo superare quel che la temporalità ci porta di turbamenti, di ansie e di dissipazioni per una serenità extratemporale: il presente spirituale assorbito in Dio»39.

Per fede, dunque, crediamo che ciò che ci accade ad ogni momento per l’ordine di Dio, è ciò che c’è di più santo, di meglio e di più divino per noi, perché la divina volontà è la vita dell’anima. «Il nostro dovere presente, il sempre presente, quel che è per noi vita, deve essere trasportato da noi a Dio: non è più il presente di noi a noi stessi, ma il pre38 39

Ibid., 98. Ibid., 99.

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sente di Dio a noi stessi, anzi la presenza di Dio in noi [...]. È la realtà soprannaturale che viene a trasformare la nostra vita quotidiana di miserie, sofferenze, aspirazioni, desideri, attività; nell’attesa di Dio in noi, in uno stato di abbandono ineffabile e completo»40.

Questa disposizione d’animo non è passività che fa cessare ogni iniziativa (sarebbe errore e inganno), ma ricettività, docilità alla voce di Dio, che «trasforma la nostra iniziativa come non più nostra ma di Dio, e la nostra azione non più dipendente dalla nostra volontà ma da quella di Dio»41. L’anima diventa così come Elia, attenta al tocco delicato di Dio per capire in ogni momento come deve concretizzare la sua obbedienza, mentre la grazia rende i fatti insignificanti del quotidiano partecipi della vita divina, come l’influsso dell’anima dona la vita agli atomi del corpo, che senza di esso muoiono42. Sturzo continua spiegando che: «Per arrivare allo stato di vero abbandono in Dio occorre passare per la fase della disintegrazione di noi stessi. Noi pensiamo a noi più che non lo diciamo e non lo vorremmo: come portiamo noi stessi in tutta la vita, così è in noi naturalmente vivo il senso della propria persona, del proprio pensiero e volere, della propria attività e soddisfazione; c’insegue da per tutto, fino nel santuario, nelle ore di meditazione, nei momenti più sacri di dedizione e sacrificio per gli altri e per Dio. Nella stessa preghiera noi spesso parliamo troppo e parliamo di noi stessi, ascoltiamo noi stessi anche quando tentiamo di ascoltare Dio. [...] La disintegrazione dall’egoismo potrà ottenersi con l’esercizio di abbandono in Dio. Allora nulla ci turberà del mondo esterno che reputeremo sia per noi quel che Dio ha voluto; nulla ci attrarrà che non sia Dio stesso; ogni cosa, ogni avvenimento sarà per noi immagine, tocco, rivelazione di Dio. Dimenticheremo il mondo intorno a noi, i nostri pensieri e desideri, le volontà e aspirazioni, per vivere quel che Dio mette in noi di pensieri, desideri, volontà, aspirazioni. L’avvenire? è Dio che lo fa; quando arriva, è Dio che lo vuole. La morte? venga come e quando Dio permetterà. Il purgatorio? il premio? accettati e voluti nella volontà divina. Per l’abbandono in Dio non si riguarda il premio in sé per nostra soddisfazione, ma come adesione incondizionata, completa, totale alla volontà di Dio, alla trasformazione in Lui, in cui tutto è compreso, tutto è annegato, nella fede pura e nel puro amore»43.

40

L.c. Ibid., 100. 42 L.c. 43 Ibid., 100-101. 41

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3.7. Il senso corretto di passività Gli autori di spiritualità, per caratterizzare lo stato di abbandono in Dio, ne parlano come di uno stato passivo dello spirito, per il quale si lascia a Dio l’iniziativa. Questo concetto, per don Sturzo, deve essere ben compreso. È vero che senza Dio e senza la grazia di Cristo non possiamo far nulla, così come è vero che l’iniziativa della nostra santificazione è di Dio e non nostra, ma la santificazione è anche nostra come rispondenza di amore, volontà di servire, di obbedire, di seguire. Anche se il nostro agire dipende sempre dalla grazia, tutto ciò può dirsi nostra attività; «pur essendo in Dio e per Dio, è anche nostro volere, nostro sforzo, nostra cooperazione»44. Nello sforzo di purificazione da tutte le bassezze che affliggono l’anima si possono applicare due metodi, secondo i bisogni e lo stadio raggiunto nella perfezione. Il primo è attivo, ascetico, e conduce al distacco da noi stessi e dal mondo con la conversione e la pratica delle virtù; l’altro, che completa il primo, si addice all’anima che ormai ha le facoltà più docili e obbedienti a ciò che la volontà chiede, perciò si sottomette più facilmente al volere e ai precetti di Dio, ed ha sviluppate meglio quelle qualità passive, che sono anch’esse in certo modo un agire. Il prevalere degli stati detti passivi dà il carattere principale alla fase di vita superiore, detta mistica in senso stretto, che si realizza nella contemplazione, a cui tende come alla sua esigenza interna. Attività e passività sono sempre presenti nel cammino dell’anima verso la perfezione, ma nella vita interiore attiva prevale la prima, nella contemplativa la seconda, in qualunque stato di vita essa sia chiamata a percorrere la strada dell’unione mistica. Per il nostro sacerdote questa passività ineffabile non sottrae l’uomo dal compiere le sue attività, ma lo distacca da esse, elevandolo e via via conducendolo alla contemplazione; il distacco, infatti, è dono di Dio non perseguibile con i nostri sforzi: lo riceviamo da Lui se siamo disposti ad accogliere con docilità, fiducia e abbandono la Sua azione misteriosa nel processo contemplativo. Generalmente il processo del distacco comincia ad operarsi in noi quando, attraverso le avversità e i dolori della vita, si comprende che l’appello alla croce è da Dio: quest’accettazione fa frutti44

Ibid., 101.

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ficare per la vita soprannaturale, invece di portare alla morte spirituale. L’azione diretta di Dio, accolta in uno stato di completo abbandono, conduce al vero distacco da sé e dal mondo. 3.8. L’orazione e le notti oscure Nell’estrema densità del suo scrivere, don Sturzo sintetizza il processo di sviluppo dell’orazione fino ai vertici dell’unione con Dio. Nel passaggio dal grado degli incipienti a quello di proficienti, Dio suole intervenire per purificarci dalla nostra sensibilità spirituale con il privarci delle consolazioni della preghiera. È la notte dei sensi, provata da ognuno secondo ciò ciò che Dio stesso permette, perché Egli non tenta mai al di là delle possibilità umane. La notte dei sensi è la privazione di quelle dolcezze e attrattive spirituali, che hanno sede nella sensibilità naturale: affetti, conforto nelle pene, trasporti di amore, soavità. Al loro posto vengono periodi di aridità e di sconforto, il senso del vuoto, il timore dell’avvenire, i tormenti della nostra miseria, agitazione, ecc. Dio ci toglie dalla soddisfazione delle attrattive spirituali, che potrebbero essere cercate per se stesse e come godimenti, e potrebbero eccitare in noi sentimenti di vanità, compiacimento ed egoismo. La vita di preghiera diventa difficile, e le azioni esterne fatte senza riferimento esplicito a motivi spirituali. Dio sembra essersi allontanato. Lunga o breve, questa notte tormentosa è una prova di distacco che prepara ad una contemplazione più pura dei misteri divini, a un contatto con Dio meno interessato, a una vita di amore più elevata. Alla prima notte oscura segue l’orazione contemplativa, acquisita con le pratiche ascetiche dell’esercizio della presenza di Dio, di distacco da sé e dal mondo, di abbandono a Lui in umiltà e confidenza. È un’orazione calma, che fa pregustare un periodo di quiete in sviluppo, nella quale si guarda alle cose soprannaturali con affetto riposante, senza che la mente vi ragioni attorno, senza eccitazione di affetti tumultuanti, senza riscaldamento di fantasia. L’orazione contemplativa è definita: «elevazione della mente a Dio per semplice intuito di affetti ardenti»45, senza ancora arrivare a sentirlo in sé e ad averne contatti misteriosi e reali. 45

Ibid., 105.

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«La vera contemplazione di cui parlano i mistici è quella infusa, per uno speciale dono di Dio, per il quale l’anima arriva ad avere l’intuito immediato delle verità divine e l’esperienza in forma certa, benché oscura, della presenza di Dio»46.

È un privilegio che può dirsi una pregustazione della visione beatifica, di cui la grazia santificante è il seme, un saggio temporaneo e oscuro. Se Dio lo vuole, a questo stadio sopraggiunge la seconda notte, la notte dello spirito, nella quale Dio si dona ed elabora la nostra perfezione: «L’anima pur sentendolo presente, non solo ne ha dolcezza, ma ne ha una pena senza limiti, un fuoco ardente e purificante come se fosse purgatorio. La volontà protesa in Dio, sente di amarlo; l’intelletto ne intuisce la presenza, ma tutta l’anima ne soffre in aridità, sconforto, desolazione»47

e ciò per la durata che Dio stabilisce, anche per lunghi anni. Nella contemplazione infusa si distinguono tre gradi, secondo il modo dell’esperienza di Dio: la contemplazione di quiete (unione imperfetta), l’unione perfetta (sia semplice che estatica, in modo transeunte), l’unione trasformante, nella quale l’unione o esperienza di Dio è permanente. In quest’ultima fase l’anima acquista coscienza della sua partecipazione alla natura divina, con certezza della presenza e intimità di Dio, anche se con una conoscenza oscura. Queste anime privilegiate sperimentano il proprio annichilimento, ossia la cessazione del pensiero del proprio io, il riferimento della loro vita soprannaturale alla propria personalità, l’inabissarsi in Dio. In tutto ciò, il mondo di relazioni terreno è ritrovato in modo diverso, cioè in Dio, così che l’anima mistica riversa sui fratelli e persino sul creato la fiamma di amore di cui brucia, divenendo anche a sua insaputa un «faro per molti che strisciano come vermi sulla terra senza ali per volare»48. L’esperienza mistica non spoglia della personalità, né toglie dall’ambiente storico, così ogni anima mistica risente del luogo e del tempo in cui è vissuta, e conserva le disposizioni personali del suo spirito nella grazia speciale della quale Dio la privilegia. In nessuna tappa della vita ascetica e mistica un cristiano può restare estraneo alla Persona di Gesù, Figlio di Dio fatto uomo. In realtà Gesù non 46

Ibid., 106. Ibid., 107. 48 Ibid., 107. 47

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è estraneo neppure alla vita mistica di chi non lo ha conosciuto: il popolo d’Israele, prima della sua venuta, lo aspettò, lo profetò, partecipò alla grazia santificante che egli doveva meritare per tutti; mentre i non cristiani «senza saperlo sono del corpo mistico invisibile di Cristo, così nell’esperienza oscura di Dio hanno l’esperienza della salvezza e del Salvatore; e senza presumere che essi abbiamo una rivelazione personale dei misteri della Trinità e dell’Incarnazione, se sono veramente in contatto mistico con Dio, ne hanno quel tocco ineffabile, nel quale il mistero non svelato né rivelato, può essere presentito in un’ineffabile oscurità»49.

In ogni caso non c’è autentica esperienza mistica se l’espressione suprema dell’unione trasformante non è di amore, bensì di unione o fusione solamente intellettiva, così che si sfoci nel panteismo. «La propria miseria, il proprio nulla è tanto più profondamente sentito dal mistico quanto più alto è il grado a cui egli è arrivato nell’unione trasformante. L’annichilimento di sé e del creato in Dio non fa Dio di sé e del creato, ma potrebbe dirsi che elimina ogni senso della realtà relativa e comunicata, per inabissarsi nella realtà increata e assoluta»50.

4. Mistica e santità Don Sturzo conclude questa riflessione sulla perfezione cristiana distinguendo tra il mistico, giunto al più alto grado di contemplazione infusa, e il santo, giunto invece al più alto grado di perfezione. La santità non richiede i doni mistici in senso stretto, cioè il privilegio della contemplazione infusa con le altre grazie straordinarie che possono esserle allegate. Visioni, estasi, miracoli non sono necessari né al più alto grado mistico, né alla perfezione della santità: sono doni elargiti da Dio come motivi per credere, aiuti a sperare, spinte ad amare. La storia della fede cristiana mostra santi senza doni mistici (o per lo meno senza doni riconosciuti, per esempio i martiri), e mistici che pure non arrivarono al grado eroico della perfezione (o almeno essa non è stata riconosciuta). 49 50

Ibid., 109. L.c.

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Dio solo sa a quale grado di grazia e di gloria ci ha predestinati; Egli vuole tutti puri e perfetti davanti a Sé, e non dona la Sua visione beatifica senza la completa purificazione da ogni macchia, eventualmente da completare nel purgatorio dopo la morte. La perfezione consiste, allora, nel pieno sviluppo della fede, della speranza e dell’amore al quale Dio ci ha predestinati, che nel cielo corrisponderà ad un diverso grado di gloria, secondo la Sua volontà e i meriti acquisiti in terra. Lì la partecipazione alla natura divina di tutti coloro che il Padre diede al Figlio e che il Figlio salvò per i suoi meriti, nella verità e nella carità, giungerà a pienezza: «Questa verità vedranno e di questa carità vivranno in eterno, in una unione sempre più intima e crescente, di chiarezza in chiarezza, mentre l’inno trionfale canta in eterno la gloria infinita di Dio»51.

51

Ibid., 111.

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Capitolo III

Contemplativus in actione

«Perché io mi occupo di politica? Perché trovo che a mezzo di essa potrò portare del bene agli altri e realizzare per quanto è possibile un benessere terreno che deve servire a meglio attuare il benessere spirituale delle anime. Gesù non si occupava forse del benessere terreno quando sanava gli infermi, risuscitava i morti e sfamava le turbe nel deserto?»

1. Una santità sociale La riflessione portata avanti da don Sturzo circa la conciliazione necessaria tra il concetto di santità, inteso come il raggiungimento dell’unione mistica con Dio, e il concetto di impegno politico, possiamo definirla certamente profetica perché comincia a prendere forma oltre sessant’anni prima delle conclusioni a cui giunge il Vaticano II, e nasce dalla percezione di un’urgenza per la sua vita e il suo stesso ministero, di dover dare il proprio specifico contributo all’annuncio del Vangelo, di cui è diventato annunciatore, attraverso il dialogo col mondo, cercando di favorire una interpretazione cristiana della storia e orientando in maniera innovativa l’azione pastorale della Chiesa del suo tempo1. Don Sturzo impegna se stesso nel cercare di illuminare le molte iniziative dell’ordine temporale con i sani principi del Vangelo che è chiamato ad annunciare, per assicurare un orientamento cristiano alle strutture culturali, sociali, economiche e politiche, che, subendo all’inizio del secolo scorso rapide e profonde trasformazioni, mettevano a serio rischio il futuro stesso di una società cosiddetta cristiana2. 1

Cfr. A. DI GIOVANNI, Attualità di Luigi Sturzo, Milano 1987. Il concetto espresso è sintesi di una riflessione profonda di don Sturzo, che egli più volte ribadisce nei suoi articoli o nei suoi discorsi, e che trova corpo in una sua opera che 2

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Il vero obiettivo dell’impegno di Sturzo non è certamente quello di intrattenersi tra le fila e le beghe del tessuto politico, di per se molto travagliato in quel preciso periodo storico, ma suo intento principale è stato sempre quello di promuovere un vero progresso sociale, il quale, per garantire effettivamente il bene comune di tutti gli uomini, richiede un’adeguata educazione delle coscienze dei soggetti interessati e una conseguente organizzazione di strutture che sostengano sul piano pratico questa visione d’insieme. Così egli avverte come urgente e decisiva l’irrinunciabile presenza evangelizzatrice della Chiesa e dei cattolici nel complesso mondo delle realtà temporali che condizionano inesorabilmente il destino dell’umanità intera, presenza che deve far valere i presupposti della fede nella salvaguardia dei valori fondamentali dell’umana società3. Dall’appello “ai liberi e forti” con cui Sturzo il 18 gennaio del 1919 fonda il Partito Popolare, si evince come il vero impegno che deve guidare gli aderenti del nuovo partito, è proprio all’insegna di un “programma morale, sociale e politico, patrimonio delle genti cristiane”. Dal punto di vista esclusivamente religioso il programma dettato da don Sturzo mira proprio alla salvaguardia dei valori principali della società cristiana tra i quali in primo piano mette quello della famiglia, ribadendo come va difesa ad ogni costo “l’integrità della famiglia contro tutte le forme di dissoluzione e di corrompimento”. Questa prospettiva però non deve portare all’errata conclusione che Sturzo abbia cercato mai di qualificare la sua azione su basi esclusivamente religiose, o che abbia fatto del suo partito un prolungamento dell’azione della Chiesa, egli non perde occasione di ribadire l’aconfessionalità del Partito Popolare, che pur ispirandosi ai saldi principi del cristianesimo non può mai essere confuso con esso, col suo bagaglio d’insegnamenti, e in definitiva con la sua fede4.

ne delinea le caratteristiche essenziali: L. STURZO, Moralizzare la vita pubblica, Napoli 1958. 3 Un’idea portante del pensiero politico di Sturzo è proprio quella della formazione di coscienze capaci di promuovere l’azione politica in maniera cristiana e di formulare progetti che vedano la partecipazione diretta dei cattolici nella vita politica del paese. Già egli ne scrisse in un articolo pubblicato su La Croce di Costantino con lo pseudonimo di Crociato, dal titolo Formiamo le coscienze, del 13 luglio 1902. 4 Un approfondimento è necessario per capire il rapporto dialettico che nel pensiero di Sturzo si ha tra la fede e un impegno politico per sua natura laico: cfr. B. SORGE, Il popolarismo sturziano tra laicità e ispirazione cristiana, in Rassegna di Teologia 30 (1989) 5-21.

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Egli è convinto, infatti, che la fede non genera, ma partecipa, fa da substrato, alla generazione di ideologie e progetti politici, e che il cristiano deve parteciparvi in una maniera critica, in quanto se da un lato esorcizza il pericolo di un’idolatria del potere, di qualsiasi colore esso sia, dall’altra deve garantire quell’andare oltre la natura e la storia stessa, che qualifica il cristianesimo. Ad un certo punto della sua vita, che egli stesso fa coincidere con la Pasqua del 1895, don Sturzo avverte in tutta la sua pesantezza l’insoddisfazione di uno stile di vita e di un’impostazione religiosa che non affrontavano né risolvevano i problemi più urgenti della società del suo tempo. Egli avverte una sorta di vocazione all’impegno sociale, e comincia un serio lavoro interiore, dove alla preghiera e alla contemplazione del mistero della Redenzione operata da Cristo aggiunge gradualmente opere di carità e di solidarietà con un trasporto che lo porterà ad un vero e proprio “impegno secolare”, inteso sempre da lui come servizio per lo sviluppo della persona umana nella sua totalità, e che ha come fine ultimo la gloria di Dio5. Proprio su questi principi si specifica e differenzia l’impegno sociale di don Sturzo e di tutti coloro che si ispirano ai valori cristiani, impegno che ha come presupposto il monito paolino: “non conformatevi alla mentalità di questo secolo” (Rm 12,2), e che continua in un dialogo col mondo che non diventerà mai svendita della singolarità cristiana, ma che si identifica sempre più con una più stretta imitazione di Cristo, imitazione che va perseguita in un mondo in cui la tensione tra l’essere cristiani e l’essere uomini è sempre più forte, cioè negli ambienti ostili alla fede, ateistici e secolarizzati, ostili allo sviluppo pieno dell’uomo, in un epoca in cui molti uomini erano relegati in situazioni di miseria e di sfruttamento. Anticipando, in qualche maniera, le idee fondamentali del Magistero contemporaneo6, don Sturzo ama sottolineare come l’insegnamento sociale del cristianesimo debba essere considerato parte integrante e inscindibile della concezione cristiana della stessa vita. Infatti, tutto l’agire umano si trova sotto l’ambito dell’ordine morale: l’arte, la scienza, la tec-

5

Cfr. S. MILLESOLI, Don Sturzo. La carità politica, cit., 137-140. Cfr. Idee che possiamo trovare espresse in maniera particolare l’Enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII. 6

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nica, la politica e la stessa economia, come ambiti di un’unica vita sociale che va gestita secondo un’etica ben precisa. Non va dimenticato, infatti, che l’insegnamento cristiano, anche in materia sociale, non si prefigge la realizzazione di un Paradiso in terra, bensì quell’ordine sociale che permette all’uomo di adempiere la volontà di Dio e di condurre una vita autenticamente cristiana. Tale vita non è solo questione di dottrina, ma concretamente si realizza nella vita in Cristo, cioè nella sequela del Maestro, nella trasformazione in lui. Di conseguenza, sostiene don Sturzo, l’oggetto fondamentale di tutto l’insegnamento sociale è qualcosa di più che la conoscenza e l’attuazione di principi e di norme, ma consiste essenzialmente nella decisione di seguire Cristo, di identificarsi con lui, attraverso la lenta e faticosa ascesi della santificazione personale. Nella prospettiva di questo percorso ascetico possono essere compresi il pensiero e la stessa vita di don Sturzo. Come abbiamo visto, egli è stato un uomo, un sacerdote, sempre orientato verso l’attuazione di una vita interiore autentica che lo aiutasse ad approfondire la sua identità, con le sue inquietudini, insoddisfazioni e angosce, con la ricerca continua di un senso da dare ai propri giorni e ai fatti di un mondo che stava vivendo una svolta epocale. Per queste ragioni egli può essere definito contemplativus in actione. Sembra calzare perfettamente per lui questa definizione che il prof. Truhlar, annovera tra le sei antinomie della vita spirituale7. Questo concetto esprime l’atteggiamento di un uomo che assetato di perfezione si pone continuamente in atteggiamento di elevazione spirituale per raggiungere traguardi eccelsi attraverso l’opera concreta della carità. La formulazione di questa idea mette insieme due elementi diversi e carichi ambedue di forte tensione e significato: contemplazione e azione. Di contemplazione si parla ogni volta che l’uomo si pone davanti al mistero di Dio e ricerca in esso il significato profondo delle cose, il senso dell’esistenza e la corretta interpretazione della storia. È proprio in questa ricerca continua di senso, di autenticità, di vitalità e profondità della vita che nasce la vita spirituale.

7

C.V. TRUHLAR, Antinomie vitae spiritualis, Roma 1961, 129-157.

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Le esperienze che ne conseguono, invece, come incarnazione nella storia di quelle esigenze frutto della contemplazione, costituiscono quel piano di azione dove il credente contribuisce alla crescita dell’umana società8. Sembra opportuno, a questo punto, esaminare secondo l’analisi che ne fa don Sturzo, il rapporto necessario che intercorre tra il cristianesimo e il mondo.

2. Influenza del cristianesimo sulla società Il rapporto dialogico del cristianesimo con il mondo ha vissuto diverse stagioni e seguíto differenti metodi di attuazione. Per il sociologo Sturzo, però, come scrive in un articolo dal titolo I cristiani nel mondo di oggi9, sono essenzialmente due le strade percorse dalla fede cristiana per affermarsi nel mondo: 1) la via informativa, che riguarda essenzialmente il singolo individuo credente, e le dinamiche personali e intime della fede; 2) la via creativa, che si riferisce, invece, alla comunità dei credenti colti nel loro aspetto sociale. La via informativa è quella propria dell’annuncio evangelico, e si realizza ogni volta che lo spirito della dottrina di Cristo, informando il carattere dell’individuo, lo plasma secondo le disposizioni proprie dell’etica cristiana, e, amalgamandolo con il dato del proprium tradizionale e storico, lo induce alle quelle consequenziali scelte concrete e valutazioni critiche che ne segneranno il resto della vita. La via creativa, invece, consiste in una sorta di ricaduta sociale dell’informazione cristiana, creando, appunto, intorno alle scelte operate dalla fede, una rete di nuovi rapporti interpersonali che tendono a maturare in attività concrete e molto spesso si traducono nella realizzazione di strutture sociali impregnate di un soprannaturale spirito evangelico: «Gli orientamenti individuali e gli aspetti sociali si modificano secondo le epoche e l’ambiente nazionale, le tradizioni locali e gli eventi storici; ma i due aspetti, l’individuale e il sociale, e il loro mutuo riflettersi e ripercuotersi, anche

8 9

Cfr. C.A. BERNARD, Contemplazione, azione mistica, Roma 1971. In L. STURZO, Problemi spirituali, cit., 70-84.

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nel campo della religione soprannaturale (che è il cristianesimo) non cambiano mai»10.

L’informazione cristiana del mondo dà origine ad una serie di mutamenti che coinvolgono le strutture stesse della società umana, a partire dalla sua cellula fondamentale, la famiglia. Don Sturzo rievocando il concetto evangelico dell’essere “nel mondo ma non del mondo”11, ribadisce la capacità che il cristianesimo ha avuto nell’affermare la novità soprannaturale del Regno di Dio realizzando una nuova idea di famiglia, dove l’unico Padre, Dio, si relaziona con innumerevoli figli che intrecciano tra di loro relazioni nuove sulla base di una comunanza di fede e di amore. Così facendo, Gesù Cristo, non solo fonda la sua Chiesa, intesa come la famiglia dei figli di Dio, ma, addirittura, pone le condizioni per una revisione profonda dei rapporti interni alla stessa famiglia umana. Questo nuovo modo di intendere i rapporti intra-famigliari è codificato in qualche modo dai consigli circa la morale domestica che troviamo in diversi brani dell’epistolario paolino, e in maniera particolarmente esplicita nella Lettera agli Efesini12, dove la descrizione delle norme comportamentali è preceduta dall’esortazione ad una comunione spirituale fondata sulla preghiera e sul rendimento di grazie: «San Paolo, nell’esporre i precetti morali concernenti la vita domestica, nell’additare i doveri fra marito e moglie, fra genitori e figli, fra padroni e servi, accentuò questo spirito di comunione che è descritto in modo assai commovente nei versetti 19-20 del capitolo 5 dell’epistola agli Efesini: [...] ma siate ripieni dello Spirito Santo, trattenendovi con Salmi, inni e canti spirituali, cantando e salmodiando di cuore al Signore, rendendo sempre grazie per tutto nel nome del Signor nostro Gesù Cristo, a Dio Padre»13.

Partendo dalla rifondazione dei rapporti intimi della famiglia, il cristianesimo incide progressivamente anche su tutti gli altri rapporti socia-

10

Ibid., 70. Cfr. Gv 15, 19. 12 Cfr. Ef 5,21-6,4. 13 L. STURZO, Problemi spirituali, cit., 70. 11

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li. Il cristianesimo, infatti, è portatore di un messaggio universale, almeno per tre differenti motivi: - innanzitutto perché diretto ad ogni persona e ad ogni cultura (da qui il concetto di cattolicità); - in secondo luogo perché riconosce l’uguaglianza fondamentale di tutti gli esseri umani, senza differenza di razza o di status sociale; - infine, ed è motivo fondante di ogni attività, perché prende le mosse da un preciso comando, quello dell’amore, che è l’unico capace di costituire legami forti e durevoli: Caritas Christi urget! Questi principi, secondo il nostro prete sociologo, soggiacciono al vero itinerario di sviluppo di una società internazionale che lavori per l’attuazione di un bene comune universale, guidata e sorretta da strutture pubbliche di potere che ne garantiscano l’efficacia e la correttezza, come sintetizzerà magnificamente Giovanni XXIII nell’Enciclia Pacem in Terris: «Il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni; di Poteri pubblici, cioè, che siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale»14.

A questo punto un dato emerge con chiarezza, non si possono affrontare i problemi dell’individuo, come quelli dell’intera società umana, con strumenti che prescindano dalla concezione di un’autorità fondata sui principi di giustizia, di rispetto della dignità umana e, in ultima istanza, sul fondamento di un’autentica carità. In ordine al suo rapporto con il mondo questo è il dovere principale del cristianesimo. Esso deve far si che la carità possa essere presente e penetrare in tutti i rapporti umani, giacché l’uomo è immagine di Dio, e Dio è amore. Perciò la carità, e in concreto la carità sociale, costituisce la più forte energia motrice e l’indispensabile elemento unitivo della stessa società: «poiché l’azione umana e l’azione sociale in particolare partecipano al mistero pasquale di Cristo, alla sua stessa vita – essendo azione compiuta in Cristo, con Cristo e per Cristo – la dottrina sociale ha la sua legge normativa nella Carità»15.

14 15

GIOVANNI XXIII, Lett. enc. Pacem in Terris, 1963, 45. M. TOSO, Dottrina sociale oggi, Torino 1996, 96.

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La mancanza di tale amore, con l’atteggiamento egoistico che ne consegue, rende vano qualunque tentativo di rendere più umana la stessa società, incappando in quella che J. Ratzinger chiama devastazione dei cuori, che si attua quando l’uomo riconosce come valore solo ciò che è legato ai beni materiali, costringendo il proprio desiderio di donazione a forme di edonismo o di effimere soddisfazioni16. Vale la pena, allora, ricordare con don Sturzo, che va rivalutato l’amore, nella sua estensione sociale, per renderlo la norma costante e suprema dell’agire, comprendendo che l’esercizio di tutte le altre virtù, soprattutto nel loro aspetto sociale, è animato dalla carità, vincolo di perfezione, sorgente e termine di tutta la pratica cristiana. È il cristianesimo che deve informare il mondo di questa necessità di trasfigurazione nell’amore. La missione affidata alla Chiesa e ai cristiani, è quella di condurre l’uomo, di ogni tempo e di ogni luogo, ad essere nuova creatura, la cui origine e struttura sono non solo, mondane e naturali, ma sono chiamate ad essere anche pienamente soprannaturali. In ordine alla carità, allora, natura e soprannatura devono essere in perfetta sintonia, infatti, chi pensasse di vivere la virtù soprannaturale della carità, senza vivere il suo corrispondente fondamento naturale, che include i doveri della giustizia, ingannerebbe se stesso, poiché virtù della carità è amare il prossimo come Dio stesso lo ama, nella verità e nella giustizia. Per don Sturzo, è necessario che i cristiani apportino alla vita sociale l’elemento vivificatore dei principi evangelici, rispettando l’autonomia delle realtà terrene, la quale costituisce anch’essa un principio evangelico: “Date a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”. Da qui la necessità, per il cristiano, di vivere il personale impegno di autenticità e di perfezione. Ogni cristiano è chiamato ad essere un uomo nuovo, perché solo così può dare origine ad un ordine nuovo per la società. Cercare di impegnarsi per il cambiamento della società, senza l’impegno costante per il cambiamento di sé stessi rischia di rappresentare il costante miraggio dell’umanità. Un nuovo ordine sociale, realisticamente inteso, richiede di rinnovare insieme alle competenze tecniche e scientifiche, senza dubbio necessarie, anche la formazione sul piano morale e l’applicazione all’impegno per la crescita spirituale. La società, la sua struttura di governo, la politica, si nu16

Cfr. J. RATZINGER, Svolta per l’Europa?, Cinisello Balsamo 1992, 144-145.

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trono delle scelte e degli interventi, buoni o cattivi, dei propri membri. Conseguentemente, la corretta applicazione per il miglioramento dell’ordine sociale, arricchisce la persona stessa che vi contribuisce.

3. Una spiritualità incarnata Don Sturzo è convinto che esistono alcuni principi che devono guidare un’autentica spiritualità incarnata nel vissuto storico di un mondo che cambia continuamente. Tra le diverse componenti di questo confronto della fede con la storia, tre elementi andrebbero costantemente monitorati: 1) la capacità del cristiano di contribuire col proprio specifico messaggio all’evoluzione del mondo, valutando e rivalutando costantemente la sua forza d’incisione nella realtà temporale; 2) la capacità di un’autocritica che lo porti a non smarrirsi nei meandri della storia e dell’evoluzione sociale, smarrendo così anche la sua fedeltà al messaggio ricevuto; 3) riuscire ad amalgamarsi col mondo senza perdersi, avere il coraggio e la capacità di calarsi dentro la realtà del mondo. È sempre Giovanni XXIII nell’Enciclica Mater et Magistra, sui “recenti sviluppi della questione sociale alla luce della dottrina cristiana”, del 1961, a porre in luce una verità centrale della rivelazione cristiana, e cioè che con l’avvento di Gesù Cristo il Regno di Dio è entrato in questo mondo, che l’eterno si è inserito nel tempo: «Il cristianesimo unisce contemporaneamente il cielo e la terra, abbraccia l’uomo nella sua totalità: anima e corpo, intelligenza e volontà; lo conduce dalle realtà mutevoli di questo mondo al mondo dell’eternità. Là egli gode finalmente della gioia e della pace eterna»17.

Cristo non è solo il Capo della Chiesa, ma è anche il Signore del mondo, di questo mondo, è colui al quale “è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Cfr. Col 1,15). La storia del mondo, per i cristiani, è inserita, allora, nella storia della salvezza, e, nella sua ambiguità, nel contrasto tra il bene e il male, tra giustizia e ingiustizia, può facilitare o ostacolare la conquista della salvezza, 17

Mater et Magistra, 3.

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così come viene ribadito da Pio XI nell’Enciclica Quadragesimo Anno: «(Il disordine economico, politico, sociale) rende difficile per un numero grandissimo di uomini la conquista dell’unica realtà necessaria, la salvezza eterna»18. Per questo la Chiesa non si interessa solo dei beni eterni, ma anche del benessere dell’uomo nelle diverse sfere della cultura, compresa quella sociale, come viene richiesto dai tempi19. La Chiesa, in altre parole, non può lasciarsi chiudere dalle mura del tempio, perché la fede non è questione privata, ma pubblica, perché non si può separare la religione dalla vita, non si può contrapporre la Chiesa e il mondo; anzi la Chiesa è voluta da Dio per servire il mondo, perché sempre più in esso si sviluppi il Regno di Dio. Il cristiano, come cittadino di due mondi, quello terreno e quello celeste, deve agire tenendo presente le caratteristiche della religione, che è storica, biblica, esistenziale. Questa proprietà della religione si è sviluppata nel corso dei secoli, e partendo dal primitivo germe evangelico si è giunti fino ai recenti chiarimenti sulla dottrina sociale della Chiesa. Don Sturzo è convinto assertore della profonda incidenza del cristianesimo nella storia, come abbiamo visto, ed individua il centro focale di una corretta comprensione delle dinamiche intrinseche nel rapporto tra il singolo e la comunità: «L’attività umana è insieme individuale e raggruppata; i due fattori dell’individualità e della comunità si intrecciano sì che difficilmente si distinguono e mai si disincagliano. Sembra che solo l’attività individuale sia libera e tanto più libera quanto più si stacca dall’attività in comune. Si tratta di un errore di visuale»20.

Questa idea coincide con quel substrato ideologico che darà vita a tutta l’ecclesiologia post-conciliare, notando come in questo intrecciarsi tra la storia del singolo e della società si ritrova l’orientamento di tutto il Magistero e da esso prende il via anche la riflessione di un grande attuatore della nuova ecclesiologia, Giovanni Paolo II, che così si esprime: «In senso più ampio si può dire che tutto il cosmo creato è soggetto al tempo, ha quindi una sua storia. In modo particolare hanno una loro storia gli esseri viventi... La storicità dell’uomo si esprime nella capacità che gli è propria di og18

Quadragesimo Anno, 129. Questo pensiero è ben articolato in Mater et Magistra, 4. 20 L. STURZO, La vera vita, cit., 161. 19

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gettivare la storia. L’uomo non è semplicemente soggetto al corso degli eventi, non si limita ad agire e a comportarsi in un certo modo come singolo e come appartenente ad un gruppo, ma ha anche la capacità di riflettere sulla propria storia e di oggettivarla e raccontarla nel suo concatenato dipanarsi. Una simile capacità hanno le singole famiglie umane, così come le società umane e, in particolare, le nazioni. Queste poi analogamente ai singoli individui, sono dotate di memoria storica»21.

Il pensiero di don Sturzo, però si articola sempre di più e prende forma con nuovi accostamenti ideali. Uno di questi è quello che dà vita al rapporto tra coscienza individuale e coscienza collettiva, confluendo nella cosiddetta personalità sociale. «Quel che sta alla base è la coscienza individuale la quale, riflessa tra i membri del gruppo come pensiero e azione, forma la coscienza collettiva e per essa la personalità sociale. La storia così può essere riguardata come proiezione processuale di tale coscienza-personalità»22.

Nella realtà odierna assistiamo ad una scissione a livello di coscienza individuale e collettiva, vi è uno scollamento tra la morale, i valori e la persona relativizzando tutto. Senza la formazione di sane coscienze individuali, che ne sarà di quella collettiva?

4. Il fine unificante della storia Questo legame tra individuale e sociale si basa sul principio che l’attività dell’uomo è un continuo evolversi per la conquista di un bene sempre maggiore. Ciò che avviene a livello spirituale nella vita del credente, si può in un certo senso trasmettere nel suo vivere sociale: «Il futuro è visto come migliore del presente: il presente è manchevole, insufficiente; è sentito e risentito come spinta a fare»23. Nella persona umana vivente c’è un dinamismo essenziale che lo sostiene, ma esso è un andare, ci si può chiedere, verso quale meta? Don Sturzo individua un fine ben preciso: 21

GIOVANNI PAOLO II, Memoria e identità, Milano 2005, 93. L. STURZO, La vera vita, cit., 162. 23 Ibid., 164. 22

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«Fini parziali verso fini più generali, voluti e imposti di volta in volta, orientano l’attività collettiva. [...] Le asperità le inclemenze della natura, i contrasti tra i gruppi vicini, l’orgoglio dei ricchi, lo scontento dei poveri, la sete di dominio o di sapere, sono quelli che alimentano lo spirito di conquista: ma al fondo è un benessere maggiore, visto di volta in volta come necessità e grandezza, esigenza di vita, quello che spinge alla conquista. È questa una legge sociologica che informa di sé l’andamento della piccola e della grande storia. Ma nel piccolo come nel grande, in ogni campo e sfera, l’attività collettiva o diviene conquistatrice o cade. La conquista come finalismo di azione, dà vitalità e unificazione alla personalità collettiva»24.

La conquista non è un’espressione violenta, ma è quel fine che consiste nella ricerca e attuazione del bene comune, fine che in una sola parola è riconducibile alla carità: «Ed ecco il filo della storia: l’attività del gruppo, diretta verso il proprio benessere si protende al futuro; si forma allora un finalismo che interessando tutti si presenta sotto l’aspetto di conquista»25.

In tutto questo si nota l’importanza delle relazioni tra le persone stesse che hanno una coscienza in relazione con quella degli altri: «La sintesi del passato e del futuro nel presente è fatta, prima di ogni azione, nella coscienza della personalità di gruppo. Non diamo al gruppo una coscienza propria, distinta da quella dei singoli uomini, ma la stessa nostra coscienza individuale nella reciproca interpretazione e riflessione della coscienza degli altri, pone in rilievo il valore di personalità di gruppo»26.

Nella situazione odierna, in cui regna una incomunicabilità forte, dove si vivono grandi contraddizioni nel campo della comunicazione, risultano quanto mai attuali, questi concetti appena espressi e messi a confronto. Per don Sturzo, la sua concezione non sfocia né nell’individualismo, il quale sostiene che la coscienza è in reciproca interpretazione, né nel collettivismo, non dando al gruppo una coscienza propria. Nel contesto storico attuale questo profondo equilibrio sembra saltato, in quanto nessuno vuole prendersi responsabilità quindi non si agisce con libertà nemmeno nel manifestare il proprio credo religioso che com24

Ibid., 165. L.c. 26 L.c. 25

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porta difendere i valori cristiani quali la famiglia, il lavoro, la coscienza cristiana che non è contraria all’uomo ma, sostiene il nostro sacerdote, lo illumina per essere più uomo: «onde sono coloro che hanno sviluppato il senso di appartenenza al gruppo e della sua ragion d’essere e di agire, si può dire che ne vivono e ne rappresentano la personalità, e veramente agiscono nella storia e fanno la storia. Ma essi non sono isolati, come si pensano spesso gli eroi e i santi; essi sono tali perché hanno il contatto di coscienza e di vita con tutti gli altri che appartengano al loro gruppo e che come tali partecipano più intensamente alla sua vita storica»27.

Dalla visione individuata nell’opera sturziana, è sorprendente come esista una certa corrispondenza fra questi due uomini del nostro tempo don Sturzo e Giovanni Paolo II. Qui viene esposto il concetto di Cultura e di nazione secondo Sturzo: «Una polis, una res pubblica, una nazione è formata, ha la sua personalità politica, la coscienza civica, la sua storia. È allora che, ripiegandosi sul passato, trova o rivive i miti della sua origine, le profezie della sua grandezza, la missione per il suo avvenire [...] Non c’è popolo che arrivato a formarsi una propria personalità, non la protenda all’indefinito, in una concezione insieme umana e religiosa»28.

Anche se con sfaccettature diverse si denota dal brano del testo Memoria e identità che segue, una linea di base comune, che evidenzia la centralità della persona in relazione: «La cultura è un modo specifico dell’esistere e dell’essere dell’uomo [...]. La cultura è il mezzo per cui l’uomo diventa più uomo: “è” di più [...]. La nazione in effetti la grande comunità degli uomini che sono uniti mediante vari legami, ma soprattutto mediante la cultura. È proprio per questo essa è la grande educatrice degli uomini perché nella comunità possano “essere di più”. La nazione è questa comunità la cui storia oltrepassa quella del singolo individuo e della singola famiglia. [...] Io sono figlio di una nazione che ha vissuto le più grandi esperienze della Storia, che i suoi vicini hanno condannato a morte a più riprese, ma che è sopravvissuta e che è rimasta sempre la stessa. Essa ha conservato la sua identità e ha salvaguardato, nonostante le spartizioni e le occupazioni straniere, la sua sovranità nazionale, non appoggiandosi sulle risorse della for27 28

Ibid., 166. Ibid., 167.

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za fisica, ma unicamente sulla sua cultura. [...] Esiste una sovranità fondamentale della società che si manifesta nella cultura della nazione. Si tratta della sovranità per la quale, nello stesso tempo, l’uomo è supremamente sovrano»29.

Continua don Sturzo: «La Polonia lo stesso, nonostante sia stata divisa e soggetta a tre stati stranieri per un secolo e mezzo. Anche se l’una e l’altre non fossero state ricostruite in stato politico dopo la prima guerra mondiale, avrebbero lo stesso la loro coscienza di personalità collettiva, unificata nel finalismo costante di vivere la propria indipendenza e libertà. Questo è il caso di tutti i popoli oppressi e delle minoranze soggette che hanno propria cultura e religione ed hanno avuto nel passato una loro storia che li ha differenziati dagli altri, data la loro individualità e fatta affiorare una coscienza propria»30.

Le attese di pace e di giustizia del nostro tempo a volte vengono usate come pretesto per generare violenza, ad opera o di fanatici religiosi, o delle nazioni. Questa violenza gratuita provoca svariate reazioni ogni qual volta viene diretta contro la dignità della persona e non verso le vere cause di un vivere sociale che non è più adeguato, se non vi è la logica dell’accoglienza, la ricerca del bene comune, compiti primari, questi, della politica.

5. L’universalismo Oggi la comunità umana sta vivendo un processo che prende il nome di globalizzazione, il quale realizzandosi soprattutto a livello economico, tralascia di fatto, il sub-strato culturale e religioso. L’universalismo proposto da don Sturzo, che non ha niente a che fare con la globalizzazione, è principalmente cristiano, come si evince dal brano seguente: «L’universalismo di umanità non poteva essere concepito e affermato che attraverso una religione universalizzante. Nel monoteismo ebraico il Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe è Dio unico e universale, ma il popolo ebreo

29 30

GIOVANNI PAOLO II, Memoria e identità, cit., 106. L. STURZO, La vera vita, cit., 168.

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ne è il popolo eletto, onde l’idea universale si contrae nel particolarismo nazionale. Venuto Cristo, l’universalismo religioso si estende a tutta l’umanità, che diventa potenzialmente il popolo di Dio. La coscienza universalistica non può essere che religiosa e cristiana. Negandola, si cade nel particolarismo della religione dei popoli, degli stati, delle razze»31.

Sembra opportuno dopo questa citazione, confrontare cosa viene presentato nella costituzione dogmatica Lumen Gentium: «Cristo è luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura illuminare tutti gli uomini alla luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale»32.

Un altro brano del testo La Vera vita, sembra anticipare la Lumen Gentium: «Nonostante che l’umanità non sia ancora unificata nel cristianesimo, si può cercare in essa un comune orientamento di unificazione: troviamo nella coscienza dei popoli una legge naturale come espressione della razionalità applicata all’azione e allo stesso tempo una tradizione fondamentale della rivelazione divina primitiva legata a una decadenza umana misteriosa»33.

Giovanni Paolo II, negli ultimi anni prima della morte, si è molto impegnato nella difesa delle radici cristiane dell’Europa, e specialmente in un intervento ben preciso, che si trova nell’Esortazione post-sinodale Ecclesia in Europa: «la storia del continente Europeo è contraddistinta dall’influsso vivificante del Vangelo. “Se volgiamo lo sguardo ai secoli passati, non possiamo non rendere razie al Signore perché il Cristianesimo è stato nel nostro continente un fattore primario di unità tra popoli e culture e di promozione integrale dell’uomo e dei suoi diritti”.[...] Più che come luogo geografico, essa è qualificabile come “un concetto prevalentemente culturale e storico, che caratterizza come una

31

L. STURZO, La vera vita, cit., 170. Lumen Gentium, 284. 33 L. STURZO, La vera vita, cit., 171. 32

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realtà nata come continente grazie anche alla forza unificante del cristianesimo, il quale ha saputo integrare popoli e culture diverse ed è intimamente legato all’intera cultura europea»34.

Alla concezione cristiana di universalismo, si oppone una concezione del tutto laica e totalmente atea, di costruzione di un universalismo senza Dio. Diversi hanno tentato in questa opera, ma mai nessuno vi è riuscito. Si è creduto e si crede ancora che in vari campi possa sostituirsi al fondamento etico-religioso, una coscienza laica. Alcuni esempi sono: il positivismo, l’idealismo hegeliano, il marxismo35. Tutto ciò si è concretizzato nella prima metà del novecento e la storia testimonia la grande violenza disumana che si è scatenata. Per sottolineare quanto sia attuale questo pensiero, sembra opportuno citare un brano dell’enciclica Redemptor hominis: «Già fin dalla prima metà di questo secolo, nel periodo in cui si stavano sviluppando vari totalitarismi di stato, i quali, come è noto, portarono l’orribile catastrofe bellica, la Chiesa aveva chiaramente delineato la sua posizione di fronte a questi regimi, che apparentemente agivano per un bene superiore, qual è il bene dello stato. In realtà quei regimi avevano coartato i diritti dei cittadini»36.

La conseguenza logica pratica di tali tentativi non poteva essere che la concezione immanentista della storia, privata di ogni idea di trascendenza personale e collettiva, spirituale e processuale37: «Il fatto vero è che la storia, qualunque essa sia, in qualsiasi punto dei secoli venga presa, nell’antichità o nella modernità, non importa in quale luogo, in Europa o in Africa, ci riporta al problema fondamentale dell’umanità vivente e itinerante in rapporto al suo finalismo di unificazione. La storia ci impedisce di guardare l’uomo come un singolo individuo nella solitudine della sua anima, e di guardar Dio come termine singolare di ciascuno al di fuori della comunione solidale degli uomini fra di loro e con Dio»38.

34

Ecclesia in Europa, 108. Cfr. L. STURZO, La vera vita, cit., 171. 36 Redemptor hominis, 69. 37 L. STURZO, La vera vita, cit., 173. 38 Ibid., 173-174. 35

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A questo punto è importante ribadire la missione della Chiesa nell’oggi, come viene così affermato nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa: «La Salvezza che per l’iniziativa di Dio Padre, è offerta in Gesù Cristo ed è attualizzata e diffusa per opera dello Spirito Santo, è salvezza per tutti gli uomini e di tutto l’uomo: è salvezza universale ed integrale. Riguarda la persona umana in ogni sua dimensione: personale e sociale, spirituale e corporea, storica e trascendente. Essa comincia realizzarsi già nella storia, perché ciò che è creato è buono e voluto da Dio e perché il Figlio di Dio si è fatto uno di noi»39.

6. La dimensione trascendente della storia Per comprendere ancor meglio il concetto di universalismo è necessario notare come in questa tendenza universalizzante, una dimensione imprescindibile sia l’idea di trascendenza della storia: «L’affermazione che la storia è testimonio del soprannaturale o meglio che il processo umano si è soprannaturalizzato, incontra difficoltà su due piani distinti: quello dell’immanenza della storia e quello della sua mondanità. Sono esse vere difficoltà? La storia è immanente perché è umana e resta nel campo dell’umano del processo che diciamo di razionalità, e in quanto tale essa rivela la natura essenziale dell’uomo. Quel che a prima vista può sembrare strano è l’affermazione che il divino si storicizzi, cioè divenga anch’esso immanente nella storia, si processualizzi, accetti le leggi della realtà umana. [...]. Lo studioso non credente tenterà di dare a tali fatti un’origine umana, ricorrendo ad ipotesi naturaliste, positiviste o idealiste. Se non arriverà a negare Dio, ne negherà ogni sua attività nella storia, confinandolo in un cielo inaccessibile, distaccandolo dall’uomo, che non avrà comunicazione con lui»40.

Notiamo qui come la sottolineatura dell’azione del soprannaturale che interviene nella storia, come fondamento metafisico e spirituale. Il Concilio Vaticano II ha indicato come essenziale nel cammino della Chiesa lo scorgere, attraverso una sapiente lettura dei segni dei tempi, l’azione di Dio nella storia. 39 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E sociale della Chiesa, Città del Vaticano 2004, 21. 40 L. STURZO, La vera vita, cit., 175-176.

DELLA

PACE, Compendio della Dottrina

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Afferma don Sturzo: «Il soprannaturale inserito nella storia, diviene forza perenne e immanente per superare la mondanizzazione e per orientare l’uomo verso più alti destini»41. Dalla Redemptor hominis giunge una prospettiva che si avvicina a quella di Sturzo: «Se Cristo “si è unito in certo modo a ogni uomo” la Chiesa, penetrando nell’intimo di questo mistero, nel suo ricco e universale linguaggio, vive anche più profondamente la propria natura e missione»42. Oggi, in un contesto in cui la società vuole fondarsi senza Dio, è necessario annunziare con più convinzione, la Verità. Questa risulta chiaramente esposta nel pensiero di Sturzo, che trova conferma nel Magistero della Chiesa. Il punto primario, che in questo breve excursus sul termine storia è stato affrontato, è proprio quest’ultimo: la trascendenza della storia. Questo pensiero trova eco anche nel pensiero di Dietrich Bonhoeffer, un altro grande protagonista del pensiero cristiano del Novecento: «L’uomo è chiamato a condividere soffrendo la sofferenza di Dio in rapporto al mondo senza Dio. Deve perciò vivere effettivamente nel mondo senza Dio, e non deve tentare di occultare, di trasfigurare religiosamente, in qualche modo, tale esser senza Dio del mondo»43.

Nell’ora della prova, Bonhoeffer, continua a vivere da cristiano inserito nella storia, ed offre la sua stessa vita per unirsi alla sofferenza che Dio ha per l’uomo che si allontana da Lui. In questo uomo si possono notare le caratteristiche di ciò che intende Sturzo nei riguardi della storia, e come li vive il cristiano vero.

41

Ibid., 178. Redemptor hominis, 74. 43 D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Cinisello Balsamo 19962, 441. 42

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Capitolo IV

Ascesi politica e apostolato

«Per i cristiani il distacco dal mondo è un dovere spirituale; il distacco materiale è solo per chi ne ha la speciale vocazione, ma il distacco spirituale è doveroso per tutti»

1. La via ascetica del “distacco” dal mondo Il cammino di perfezione legato alla costituzione di un nuovo ordine sociale, deve fare i conti con il persistere del male nel contesto mondano dove il cristiano di trova ad operare. Don Sturzo asserisce che il cristiano non è chiamato a lasciare il mondo, ma semplicemente ad evitare il contatto con il male. Egli auspica una sorta di rottura col mondo, per trovare nella comunanza di fede e di amore tra i credenti l’appagamento del proprio bisogno interiore di comunione: «San Paolo ammoniva il fedele “a non associarsi con l’immorale”, ma egli notava di intendere con questo non che noi dovessimo lasciare il mondo, ma piuttosto di evitare il contatto con il male. Le Epistole e gli Atti degli Apostoli mettono in evidenza come carattere del cristianesimo la necessità di romperla col mondo, con la famiglia, con gli interessi terreni, per dare il primo posto alla nuova fede (e con la fede, alla pratica della virtù). Di qui scaturisce il bisogno di creare una comunione costante, visibile, fraterna, terrena e spirituale, tra i fedeli viventi nelle stesse comunità»1.

Da San Paolo don Sturzo mutua l’esigenza impellente di una sottomissione ad una sorta di disciplina dell’ascetismo cristiano, atta a purificare l’uomo e l’intera comunità cristiana da una pericolosa mondanità. Ovvia1

L. STURZO, Problemi spirituali, cit., 71.

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mente non manca di fare un distinguo opportuno circa la radicalità del distacco dal mondo, necessaria solo a chi, per speciale vocazione, è chiamato ad un distacco materiale. Per il resto dei cristiani, il distacco dal mondo è da intendersi come un dovere spirituale: «Per i cristiani il distacco dal mondo è un dovere spirituale; il distacco materiale è solo per chi ne ha la speciale vocazione, ma il distacco spirituale è doveroso per tutti. Può darsi che ci sia chi vivendo lontano dal mondo ne conservi lo spirito; ma chi vive nel mondo ha bisogno di speciali precauzioni per seguire quello che san Paolo indica con il metodo cristiano per la perfezione: “Questo io dico, o fratelli: il tempo è breve resta che anche quelli che hanno moglie siano come non l’avessero; e quei che piangono come non avessero motivo di pianto; e quelli che sono allegri, come non lo fossero; e quelli che comprano come se non dovessero conservare gli acquisti fatti; e quelli che usano di questo mondo come quelli che non ne usano; poiché passa la figura del mondo attuale. (1Cor 7,29-31)»2.

Una delle più importanti preoccupazioni della Chiesa lungo la storia, è stata quella di adoperarsi per salvaguardare la salute morale dei cristiani, insieme alla custodia della dottrina e delle tradizioni. Molto spesso, però, si pensa erroneamente che i mali da cui ci si deve difendere sono più presenti in alcuni contesti piuttosto che in altri, si demonizza, per esempio la metropoli industrializzata a differenza del piccolo e incontaminato villaggio rurale, cedendo all’erronea visione di un ritorno alla pura natura, priva di ogni forma di coercizione, tipica dell’enciclopedismo francese e in particolare dell’utopistica concezione di Rousseau. Contrastando questa visione naturista, la quale è lesiva della visione soprannaturale che spegne nel cuore dell’uomo ogni desiderio di ricerca del divino, inaridendone l’anima, don Sturzo non perde tempo a dirimere questo pensiero in nome di una verità che ci appartiene profondamente, quella cioè della nostra naturale propensione al male: «La vita felice degli antichi villaggi, dei gruppi famigliari intorno ai monasteri alpini, le case dei pescatori sulle rive dei fiumi, appartengono al passato lontano, più o meno idealizzato, perché non sono mai mancate tempeste inaspettate, guerre, epidemie, invasioni, persecuzioni politiche o religiose a turbare la pace idillica di questi centri e a far si che gli uomini facessero esperienza e si dolessero dei mali portati nel mondo dall’odio, dall’ira, dall’avarizia e dalla lussuria. Questi mali si incontrano in un grado più alto e ad un maggior livello di sviluppo nei centri urbani, nelle grandi metropoli, nelle comunità formatesi co2

L.c.

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me risultato di un subitaneo concentrarsi di industrie, siano queste le miniere d’oro della California o le imprese cinematografiche di Hollywood. Ma non inganniamo noi stessi; questi mali sono dovunque perché sono in noi stessi»3.

Uno di questi inevitabili mali è stata certamente la progressiva opera di secolarizzazione della società tradizionalmente cristiana, problema che don Sturzo analizza in maniera dettagliata cercando di definirne i contorni e le diverse ricadute sulle diverse culture presenti nella vecchia Europa.

2. Ascesi della vita politica Della necessità di ritornare ad una vita spirituale più autentica se ne è parlato continuamente nel corso della storia della Chiesa ed è venuta ultimamente alla ribalta quando Giovanni Paolo II, nella già citata Lettera Apostolica per la conclusione del Grande Giubileo dell’anno 2000, Novo Millennio Ineunte, ha ribadito l’urgenza di ripartire dai concetti fondamentali della nostra fede: un ritorno a Cristo, attraverso la contemplazione del suo volto, un ritorno alla preghiera e una riscoperta della santità. Le conclusioni a cui arriva don Sturzo, che trovano oggi nelle richieste del Papa una conferma e una nuova sollecitazione, non sono altro che la formulazione di una certezza: anche per chi si occupa di politica è necessaria una vita ascetica, costituendo così una sorta di ascesi della vita politica. La parola ascesi forse fa un po’ paura perché automaticamente legata a norme di vita rigide e ad esempi di santità austeri e poco invitanti. Ma anche in questo caso basta chiarire i concetti per addolcirne la visione. Che cosa significa ascesi? Ed è possibile all’uomo politico assumerne le regole e viverne le tappe conciliandole col suo tenore di vita? Se con la parola ascesi si intende “l’insieme degli sforzi e delle operazioni mediante i quali l’uomo vuole progredire nella vita morale e spirituale”4, bisogna subito ribadire come sia necessario, allora, rivedere i presupposti che rendono spirituale una vita. 3

L.c. C.A. BERNARD, Ascesi, in S. DE FIORES E T. GOFFI (curr.), Nuovo Dizionario di Spiritualità, cit., 65-66. 4

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La vita spirituale è prima di tutto l’azione dello Spirito che rende persone nuove, è l’essere resi partecipi della morte e resurrezione del Cristo così da divenire risorti con il Risorto. Questa azione trasformante operata dallo Spirito richiede la cooperazione del credente. Ma se è lo Spirito che rende spirituali tocca però all’uomo armonizzare il proprio comportamento sul carisma ricevuto e creare un’atmosfera pubblica corrispondente e in armonia con esso. Questo apporto personale dell’uomo, che determina l’ascesi, è variabile e suscettibile di cambiamenti legati al passare del tempo e allo scorrere della storia5. Il mutare della prassi ascetica deve essere valutato non tanto come un decadimento dei precedenti modelli, come ad esempio le forme penitenziali primitive e medioevali, ma come una nuova forma di vita ascetica secondo la quale si esige un corretto uso dei mezzi secolari. Il cristiano non deve lasciare i beni legittimi del mondo, e tutti quegli strumenti che lo aiutano nell’autodeterminazione della propria vita. Al contrario questa nuova ascetica esige che il credente usi dei beni del mondo per la santificazione del mondo stesso6. Un’altra componente di questa ascesi è la ricerca della perfezione umana delle varie attività alle quali l’uomo si applica. Si pensi all’ esigenza di mortificazione necessaria che proviene da un allenamento continuo al senso di responsabilità e di fedeltà al dovere, allo spirito d’iniziativa, all’impegno e all’ardore nel portare avanti le proprie crociate di giustizia a favore del mondo e soprattutto degli ultimi. Ciò dà origine ad una nuova forma di spiritualità che non si configura nella rinuncia ai beni legittimi del mondo, ma richiede invece un inserimento nel mondo per santificarlo dall’interno delle sue strutture, contribuendo così anche al suo positivo sviluppo. Osserva a tal proposito Von Balthasar: «Il cristianesimo non si presenta mai come un’unità e una realtà sostanziale a se stante, la quale dovrebbe affermarsi soltanto accidentalmente inserendosi, di volta in volta, nelle mutate condizioni del mondo e dei tempi; ma nel suo “in sé” esso dipende necessariamente dal mondo, allo scopo di acquistare il suo ve-

5 Il tema dell’ascesi è fondamentale nella comprensione della spiritualità cristiana, ma dovendolo trattare in poche righe si rimanda per una migliore comprensione ad un uno studio più approfondito sul tema: E. ANCILI (cur.), Ascesi cristiana, Roma 1977. 6 Cfr. La Penitenza: Dottrina-Storia-Catechesi, Torino 1968.

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ro “per sé” al servizio dei fratelli [...] Nessuno è cristiano a priori; tali si diventa soltanto dimostrandosi cristiani nell’ambito del mondo, nei confronti del prossimo. Io sono cristiano soltanto quando tramite me il cristianesimo si presenta credibile al mondo»7.

Tutta l’evangelizzazione, allora, è soggetta ad un certo criterio di credibilità insito nella capacità che il cristiano ha di mediare l’efficacia dell’annuncio evangelico attraverso opere concrete a favore del mondo. D’altro canto, però, il gettarsi a capofitto nell’operosità evangelica non deve mai far dimenticare come la vita cristiana non può prescindere dalla prospettiva trascendente-escatologica che rappresenta anche una parte essenziale della sua natura. Il cristiano è sempre in questo mondo ma deve sempre ricordare di non essere di questo mondo. Così la sua vita deve essere contrassegnata prima di ogni altra cosa da un’impostazione radicalmente trascendente il mondo e distaccata da esso: l’impostazione della croce, la sequela di Cristo nel superamento del mondo8. Il Vangelo non impone al cristiano l’obbligo di schierarsi pro o contro il mondo, in senso umanistico, agnostico o nel senso della concezione dualistica gnostico-manichea, ma sempre e soltanto, nel Vangelo, l’accoglienza del mondo o il suo rifiuto sono visti e intesi nella prospettiva strettamente religiosa-escatologica dell’irrompere della grazia nel mondo. E il cristiano deve adoperarsi perché la dimensione contemplativa si unisca a quella operativa, come afferma Bonhoeffer: «il nostro essere cristiani si riduce oggi a due cose: pregare e operare tra gli uomini secondo giustizia»9. Nella Vera Vita don Sturzo affronta il tema del necessario raccordo della contemplazione con l’azione, determinando quell’orizzonte dove la visione di una realtà trascendente (Dio) che irrompe nella storia dell’uomo e del mondo per arricchirla dei suoi presupposti e delle sue facoltà, diventa fondamento per un ordine nuovo non più fondato sulle mere capacità umane, ma sulle più solide basi delle facoltà divine, rendendola appunto vera vita: 7

H.U. VON BALTHASAR, Punti fermi, Milano 1972, 317. Cfr. G. THILS, Aggiornamento della spiritualità cristiana?, in Santità e vita nel mondo, Milano 1968, 241-285. 9 D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, cit., 237-238. 8

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«La vera vita è quella completa per ogni lato, che corrisponde a tutte le nostre aspirazioni più profonde e forma la più alta sintesi delle nostre potenzialità e attività. Vera vita è quella dello spirito, nel suo più alto stadio, dove solo può operarsi la pacificazione delle intime discordanze e contraddizioni e dove ogni bisogno e dolore trova soddisfazione, conforto, superamento. Tale vita è la soprannaturale, alla quale siamo stati predestinati da Dio, non per esigenza di natura, ma per dono di benevolenza; dono che ci eleva e nobilita, ci chiama al consorzio con Dio e ci fa inabissare nel suo mistero. La vita soprannaturale non è per l’uomo una mera aggiunzione o una sovrapposizione accidentale alla sua vita di natura, è una vera trasformazione dell’esistenza ed attività umana. La nostra vita di animale ragionevole, pur rimanendo alla superficie quella che è, con tutte le sue miserie, acquista un altro principio interiore al di sopra delle sue forze; da questo è unificata, ricevendo stampo di soprannaturalità”10.

Per Sturzo, dunque, “vera vita è quella dello spirito”, in cui la naturale fragilità dell’uomo è trasformata in una vita soprannaturale che eleva e nobilita la sua esistenza. Questo nuovo stato di vita va non solo ricercato, ma una volta raggiunto bisogna custodirlo e alimentarlo. Don Sturzo si accostò alle povertà sociali in obbedienza al dettato evangelico che tutto ciò che si fa al più piccolo, povero, emarginato, diseredato, lo si fa a Cristo stesso, ritenendo impossibile che senza la carica religiosa dell’imitazione di Cristo certe opere sociali possano essere portate a compimento. Egli si convince sempre più che non sempre è facile parlare di Dio ai poveri quando restano insoluti i problemi più seri della loro esistenza materiale. Questa visione unita ad una rinnovata consapevolezza della sua missione provoca in don Sturzo una sempre più ardente sete di concretezza. Uomo in mezzo agli altri uomini del suo tempo, egli è pure sollecitato a concentrare la sua attenzione su sé stesso; uomo in contatto continuo con la società in cui vive si accorge che è crescente il numero di coloro che non pongono la dovuta attenzione al messaggio evangelico che il cristianesimo annuncia. Quel messaggio rischia di passare inascoltato se non dà qualche risposta agli interrogativi più urgenti della loro vita e se non porta un contributo alla soluzione dei problemi più gravi della società. Don Sturzo percepisce l’urgenza di un impegno concreto perché si rende conto che non basta che un messaggio sia valido in se stesso perché sia automaticamente accolto: occorre che se ne scopra la validità. Lo stesso vale per il cristia10

L. STURZO, La vera vita, cit., 3.

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nesimo. Non basta che il messaggio di Cristo venga proposto in termini chiari, in formule perfette sintetizzate con il lavorio intellettuale di tanti secoli. È indispensabile che il Vangelo di Cristo eserciti sempre rinnovato fascino sugli uomini, e questo è possibile quando la sua predicazione è accompagnata da gesti concreti di carità e solidarietà che ne esprimono il cuore. Questa rappresenta una forte sfida per la Chiesa in ogni tempo, e lo è stata senza dubbio nel periodo in cui Sturzo ha vissuto e operato. Il sacerdote calatino nel delineare, e nel far affermare, questa nuova esigenza di evangelizzazione unita alla concretezza dell’azione fa notare come siano grandi le responsabilità di tutti i credenti nel portare avanti tali principi, come risulti impellente un rinnovato impegno del mondo cattolico a favore della società intera, non escludendo a priori anche un impegno concreto nell’azione politica. Cerchiamo ora di comprendere come sia compatibile l’impegno istituzionale a favore della polis con le esigenze della vita spirituale di un sacerdote, e in ultima analisi con le esigenze della santità cristiana stessa. Se partiamo dalla considerazione, già analizzata, che la perfezione cristiana consiste nella pienezza dell’amore di Dio che irrompendo, per la grazia battesimale, nella vita dell’uomo porta la sua naturale limitatezza ad un progressivo perfezionamento, notiamo come la risposta a questo amore che si dona può essere diversa in intensità e vastità. Così possiamo distinguere un amore per Dio di grado ordinario, e un tipo di risposta d’amore di grado straordinario che possiamo anche definire totalitario. Quest’ultimo ha come sua condizione la rinunzia ad ogni cosa che potrebbe limitare la disponibilità del cuore verso Dio per riservarne a lui tutto il possesso. Per questo motivo Dio non comanda a nessuno tale amore, né propone a tutti le condizioni che lo determinano, ma lo propone solo a coloro che fa oggetto di speciale vocazione11. Vocazione che senz’altro ha ricevuto il nostro sacerdote, il quale in quanto tale, riceve da Dio l’invito ad una risposta d’amore straordinaria, totalitaria, che lo cattura totalmente e lo proietta in una forma di ascesi particolarissima dove l’amore indefesso per Dio si esplicita con l’amore incondizionato per gli uomini12. 11 Cfr. C.A. BERNARD, La crescita spirituale, Roma 1992; ID., La vita spirituale del sacerdote, in Rivista del clero italiano 52 (1987) 5-7. 12 Cfr. S. MILLESOLI, Don Sturzo. La carità politica, cit., 120-121.

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Di questo don Sturzo è convinto e non può fare a meno di esprimerlo quando sempre nella vera vita così scrive: «Qui è il punto centrale: Dio è amore. Egli è Amore sostanziale, noi partecipiamo di tale amore; egli è Amore assoluto, noi viviamo di tale amore. Il vero amore di noi stessi e del prossimo si risolve, si perfeziona, si inabissa nell’amore di Dio. Se noi crediamo di amare noi e gli altri come noi, pur facendo astrazione dell’amor di Dio, ovvero senza alcun rapporto con Dio, o peggio, negandone qualsiasi riferimento, il nostro non sarà più vero amore; mancherà l’essenza dell’amore. Questo, per sua natura, tende a divenire assoluto; perciò stesso tende a Dio, si trasforma in Dio, ha pace solo in Dio. Quando manca Dio, si cerca l’amore assoluto in noi stessi, e in un terzo che ci completa. Ma qualsiasi tentativo è caduco»13.

Per l’uomo di fede, allora, essere cristiano comporta immediatamente una particolare apertura verso l’altro, apertura che è essenzialmente concentrata nel comando dell’amore. Le opere di carità, di soccorso ai poveri, ai malati, agli orfani, la beneficenza, sono sempre stati presenti nella vita della Chiesa. La riflessione nuova che matura nella coscienza di Sturzo, soprattutto con le pressioni ideologiche provenienti dall’avvento socialista, è che forse questa visione della carità è stata intesa in maniera riduttiva, e ridotta molto spesso a mera elemosina. La Chiesa, senza ombra di dubbio, ama e soccorre i poveri e gli oppressi, ma troppo spesso essi continuano a rimanere tali. Ricorda don Sturzo che durante la benedizione delle case nella già menzionata esperienza pasquale, si rese conto che la miseria e la fame erano problemi che non potevano risolversi con “quattro gocce di acqua benedetta”. Una carità che tamponi la fame e attenui i frutti dell’ingiustizia, ma lasci sopravvivere le cause che portano ad esse, è un’azione inefficace che non mira al vero e sostanziale bene del prossimo. Proprio per una realizzazione più storica e perciò più vera, del comandamento dell’amore del prossimo, nasce nel cuore di don Sturzo l’idea di un’azione politica fondata sui valori e presupposti del cristianesimo. Per il nostro sacerdote l’amore al prossimo deve diventare un amore storico, cioè deve trasformarsi in un impegno atto ad ottenere la globale mutazione delle strutture politiche ed economiche del nostro mondo in favore dei più poveri. Finché ci saranno strutture politiche di sfruttamen13

L. STURZO; La vera vita, cit., 79.

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to dell’uomo sull’uomo, finché permarranno profonde ingiustizie nella distribuzione della ricchezza, chi si vorrà adoperare per le opere di carità e vorrà realizzare l’amore al prossimo si dovrà sentire impegnato anche politicamente, cioè pronto anche ad agire sulle strutture per ribadire i valori fondamentali e così poter cambiare la situazione14. Nel pensiero sturziano viene superata una concezione della carità ridotta a semplice elemosina, per far prevalere una visione che metta l’accento sulla persona e sulla sua disponibilità a servire e donarsi per il bene comune, e nello stesso tempo si sottolinea come la carità non si esprime solo a livello interpersonale, un uomo verso un altro uomo, ma anche a livello sociale. Nel primo caso la carità ci rapporta a un soggetto nella sua individualità personale, nella seconda invece ad una comunità di persone socialmente costituite15. Parliamo così di una carità sociale che ci fa amare il bene comune, cioè ci fa ricercare non il bene del singolo ma di tutti, non una parte di bene ma tutto il bene per la persona e per la società, e di essa ci mette al servizio. Servizio che viene collegato all’amore di Dio per l’uomo, modello di ogni amore, in un momento storico in cui, come è stato ricordato, è indispensabile esprimere la carità in termini credibili, come occasione per annunciare nella vita concreta della società l’amore di Dio. Don Sturzo così ribadisce il bene della sana politica e, difendendola dagli attacchi di chi la giudica cosa poco meritevole, la definisce addirittura come “un atto d’amore per la collettività”: «È vero che molti oggi, anche cristianelli annacquati, posano a fieri censori di coloro che si occupano di vita pubblica; e definiscono la politica una sentina di mali, un elemento di corruzione, uno scatenamento di passioni; e quindi da starne lontani; costoro confondono il metodo cattivo con quella che invece è doverosa partecipazione del cittadino alla vita del proprio Paese. Invece la politica è per sé un bene: il far politica è, in genere, un atto d’amore per la collettività; tante volte può essere anche un dovere per il cittadino. Il fare buona o cattiva politica, dal punto di vista soggettivo di colui che la fa, dipende dalla rettitudine dell’intenzione, della bontà dei fini da raggiungere e dai mezzi onesti che si impiegano all’uopo. Il successo e il vantaggio reale possono anche man14

Cfr. S. PANUNZIO, Lo spiritualismo storico di Luigi Sturzo, Palermo 1962. Ulteriori considerazioni possono essere fatte sul tema della “carità sociale”, che sono state raccolte negli atti della Prima Cattedra sturziana: Cfr. A. PALAZZO, Amore sociale, uguaglianza e libertà nella politica del diritto sturziana, in Individuo e società nel pensiero di Luigi Sturzo, Roma 1983, 24-37. 15

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care, ma la sostanza etica della bontà di una tale politica rimane. Così ragionano i cristiani di ogni tempo e di ogni Paese. E con questo spirito, l’amore del prossimo in politica deve stare di casa, e non deve essere escluso come un estraneo: né mandato via facendolo saltare dalla finestra, come un intruso»16.

Il servizio, fatto di sollecitudine per l’uomo, diventa così non solo credibile, ma addirittura affascinante anche per chi è lontano dai presupposti della fede sebbene ne condivida i valori fondamentali. Per Sturzo, si può e si deve parlare di un reale e cordiale amore al mondo espresso da Cristo e dal cristiano con l’amore a quei valori che soggiacciono alla visione del mondo stesso in ordine alla salvezza: la vita, la famiglia, la natura e il suo rispetto, la cultura pluriforme ecc., capendo che non c’è nel Vangelo opposizione alcuna verso di essi, ma il cristiano che ha conosciuto la persona e il messaggio di Cristo non può vedere i valori del mondo in se stessi, senza riferimento a Lui. Per questo si impone al cristiano un equilibrio difficile da realizzare, fra un distacco radicale dal mondo e un impegno reale per il mondo e i suoi valori. Un equilibrio che non potrà mai fare dell’ascesi un valore assoluto per negare il mondo, e, d’altra parte, non potrà mai assolutizzare il mondo, il lavoro, la cultura ecc., a discapito della fede. Non ci sarà mai una rottura completa col mondo da parte della visione cristiana. Il no del cristiano al mondo deve essere sempre accompagnato anche da un sì d’apertura ad esso. Questa è la concretizzazione della tensione escatologica del cristiano che si realizza nel già e non ancora. Per questo la posizione cristiana non è facile, corre sempre il rischio di corrompersi o in un ottimismo divenuto mondano (secolarismo), o in un pessimismo che rifugge dal mondo (ascetismo). Conservare questo equilibrio è compito fondamentale comune a ciascuna forma di spiritualità cristiana17.

16 17

L. STURZO, La vera vita, cit., 247. L.c.

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3. L’apostolato dei laici Chiarito che ogni cristiano non vive in un isolamento individualistico, ma partecipa di una realtà societaria che unisce ciascuno al Cristo e agli altri, bisogna fare i conti anche con le altre esigenze dell’essere cristiani. I doveri scaturenti dalla fede in Cristo si concretizzano nell’unico concetto di apostolato a cui tutti sono chiamati a partecipare secondo il proprio stato e le proprie possibilità. La gerarchia ecclesiastica, e in particolare il Papa e i Vescovi, esercitano l’autorità dell’apostolato, tutti gli altri cooperano con i pastori come autentici cooperatori di Cristo. Nei tempi moderni, aggiunge Sturzo, questa cooperazione è chiamata Azione Cattolica. Essa nasce in un momento storico particolarmente delicato in aiuto della Chiesa gerarchica per far fronte all’avanzare di una cultura sempre più desacralizzata, e si propone: «come movimento diretto all’educazione religiosa della gioventù; come lotta per la scuola libera, allora monopolizzata e secolarizzata dallo stato; come appoggio al movimento operaio cristiano; per promuovere e sviluppare la buona stampa, libri e periodici. Era questo, pertanto, uno dei mezzi per affrancare la comunità cristiana dall’influenza di movimenti scristianizzatori della società»18.

Nascono, così, i cattolici attivi, i cattolici militanti, pronti a cimentarsi in un apostolato di “recupero” del mondo ai valori cristiani. Essi pertanto: “avrebbero eccitato in loro lo spirito di apostolato per riguadagnare a Cristo il mondo moderno, il mondo che si stava allontanando da lui fino al punto dell’aperta rivolta e dell’apostasia collettiva”19. Per don Luigi di fondamentale importanza nell’azione cattolica è proprio questo spirito di apostolato. Infatti: «Quando un tale spirito manca, le opere sono promosse in nome di questa azione o svaniscono presto o sono compiute senz’anima, degenerando nella routine di una burocrazia stipendiata. Una tale azione, sebbene materialmente possa aver successo, riesce a poco in un senso veramente cristiano. Alcuni non si rendono conto di questa sterilità, perché essi confondono il successo materiale ed esterno con lo sviluppo spirituale ed interiore» 20. 18

Ibid., 77. L.c. 20 Ibid., 78. 19

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Egli tenta così una sorta di descrizione dello spirito apostolico che deve animare l’azione dei cristiani: «Lo spirito di apostolato è delle cose che non si vedono: è un fatto di fede e di amore; ha solo Dio come suo fine, partecipa dello spirito di sacrificio. Ma l’apostolato non esiste come cosa individuale: Gesù inviò i suoi discepoli a coppie, gli apostoli furono dodici ed ogni apostolo aveva con sé un gruppo di attivi seguaci, uomini e donne. La comunità apostolica abbracciava tutti e tutti erano apostoli: i genitori nella famiglia, i compagni nella scuola o nel gioco, gli uomini di lettere, gli scrittori, gli studenti nelle loro accademie. Quanti schiavi o servi convertirono i loro padroni e fecero cristiane le famiglie patrizie! Questo spirito che fa di ogni cristiano un apostolo è più largamente diffuso quando la fede è perseguitata; ma è necessario in ogni tempo. Le moderne associazioni di azione cattolica, mentre ammaestrano tecnicamente i loro membri nell’esercizio dell’apostolato per determinati fini, creano questa comunione spirituale che è necessaria perché ogni fedele divenga un apostolo»21.

Due fondamentali elementi emergono da questa concezione di spirito di apostolato. Una riguarda le finalità stesse dell’apostolato, l’altra riguarda la sua intima esigenza di comunione, rivelandone il necessario aspetto sociale. Circa le finalità è chiaro che l’orizzonte è quello di Dio, quello delle cose che non si vedono, l’orizzonte delle realtà ultra terrene che compongono il destino ultimo di ogni uomo: «secondo l’affermazione di San Paolo, – le cose che si vedono son temporanee, e quelle che non si vedono eterne – (2Cor 4,18)»22. Così ogni cristiano è chiamato a dirigersi, e a dirigere la realtà in cui si trova inserito, verso questa prospettiva escatologica. Il genitore in seno alla famiglia, docenti e studenti in seno alla scuola, e i subalterni nei confronti dei loro superiori. Circa la comunione necessaria per operare in spirito apostolico, Sturzo ne asserisce la necessità perché ogni fedele possa divenire un autentico apostolo. Infatti l’associare più persone per un determinato fine opera una sorta di potenziamento delle capacità della singola persona, in ordine, sia alla formazione morale e spirituale, sia alla difesa vicendevole dagli attacchi esterni della corruzione e del vizio: «Il concetto basilare è quello di associare i laici insieme, dando loro salda e sincera formazione spirituale, 21 22

L.c. L.c.

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perché così è possibile creare ambienti vivi nei quali non possono allignare l’indifferenza religiosa e l’abito del vizio, dai quali è invasa la società»23. Come esempi concreti don Sturzo presenta alcune associazioni di laici che operavano in quell’epoca e che hanno contribuito in modo notevole alla diffusione dello spirito di apostolato laico tra i cristiani, soprattutto in quei paesi dove la secolarizzazione e l’indifferenza religiosa costituivano un problema non indifferente. Tra queste vengono menzionati il “Jocism” in Belgio e il “Grail” in Olanda, Inghilterra e America. Organizzazioni fondate su un medesimo principio: «In un periodo come l’attuale, in cui i vincoli della famiglia e della comunità locale sono arrivati al punto di essere quasi inesistenti, in cui i contatti tra i giovani di ambo i sessi cominciano dalla scuola, è necessario circondarli con un’atmosfera nuova e sana, creare le forme corrispondenti di attività educativa e vincoli sociali volontari ma efficaci. Gli scopi e le attività di queste associazioni, mirano ad infondere nei giovani un attivo spirito cristiano, comunicativo e generoso»24.

Queste esperienze atte a formare le giovani generazioni non erano nuove in Italia, ricorda Sturzo, perché fin dal 1867, od opera del conte Mario Fani, operava la “Gioventù cattolica italiana”, che con il motto: “preghiera, azione e sacrificio”, fu capace di penetrare, attraverso la costituzione di circoli, all’interno della realtà sociale di diverse città e di numerosi centri rurali dell’intera Nazione, divenendo fucina di santi. Ma tra tutte le opere sorte con la medesima finalità, degna di particolare nota è certamente l’esperienza delle Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli, fondate da Federico Ozanam a Parigi oltre un secolo prima. Il ricordo che Don Sturzo fa di questa esperienza, molto diffusa in tutta la Chiesa, è in chiave decisamente negativa, perché viene sottolineata la perdita dell’orizzonte iniziale, individuato dal fondatore nella necessità di una solida formazione, da parte di un gran numero di queste società vincenziane: «Vorrei sbagliare, ma mi sembra che i 3/4 di queste società abbiano perduto di vista l’alto proposito educativo del fondatore, mantenendo solo l’intento pratico del soccorso agli ammalati e ai poveri. Ozanam fondò queste associazioni tra gli studenti universitari di Parigi, e più tardi in Italia, e le chiamò “conferen23 24

Ibid., 79. Ibid., 80.

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ze”, poiché il loro proposito era di conferire insieme, con lo scopo di ridestare attraverso la carità lo spirito della fede cristiana nei giovani studenti. Nel metterli a contatto con le miserie ed i mali delle classi povere, egli mirava a preservarli dalle tentazioni contro la fede e i buoni costumi»25.

Nelle conferenze, la carità era la scuola dei valori a cui bisognava educare i giovani. Una educazione puramente scolastica, sottolinea don Sturzo, priva i giovani di quella necessaria esperienza che fa toccare con mano le reali esigenze della società, e non permette loro di sperimentare l’amore soprannaturale. Ozanam mirava ad un’opera di educazione dei giovani, utilizzando un metodo inusuale, ma molto efficace riguardo ai risultati: «La sua era un’opera di educazione attraverso la carità, che adattava in forma moderna l’antica consuetudine per cui gli studenti e i figli dell’aristocrazia andavano negli ospedali pubblici a portare aiuto ai malati. La sua importanza risiede nel rendere possibile fin dalla fanciullezza l’addestramento (altrimenti difficile) all’amore e alla pratica della carità e nel procurarne le occasioni: inoltre approfondisce le simpatie umane e l’amore soprannaturale; inculca il dovere di fare il bene; prepara i giovani ad essere utili agli altri anche spiritualmente e a superare l’egoismo e l’individualismo religioso facendo vivere la religione in forma associata, in libere comunità e a fini determinati, animati dallo spirito di apostolato»26.

4. Fine moralizzatore dell’apostolato sociale Tra le tante iniziative che hanno attirato l’entusiasmo e la fattiva collaborazione di tanti giovani all’Azione Cattolica spicca senza dubbio quella conosciuta come azione sociale. Ma, per don Sturzo, ogni forma di associazione e o di libera iniziativa in campo sociale non deve mai perdere di vista il fondamentale compito di dare il proprio contributo alla moralizzazione di ogni ambiente secondo lo spirito cristiano. In questo consiste il principale dovere del cittadino cristiano nei confronti della società.

25 26

L.c. Ibid., 81.

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Per questo motivo, e don Sturzo su questo non ha dubbi, non solo il cristiano ha il dovere di occuparsi della gestione della società, dal punto di vista politico, ma un’eventuale passività o esclusione da essa corrisponderebbe ad una collaborazione alla corruzione della stessa vita sociale: «Anche nella vita pubblica è necessario creare o ricreare l’atmosfera della moralità cristiana, e questo non può essere fatto che dai veri cristiani. Se questi, invece di cooperare, si tengono in disparte per paura della “politica” (quante volte nella mia vita ho sentito pronunciare questa parola con un senso di disgusto, non so se per ignoranza, fariseismo, egoismo, pigrizia o peggio), allora partecipano direttamente o indirettamente alla corruzione della vita pubblica, mancano negativamente o positivamente al loro dovere di carità e, in certi casi, anche di giustizia»27.

La cura della società perché non si perda è allora un dovere di carità per il cristiano, non è solo il dovere dei “pastori” nei confronti del loro gregge, ma il dovere che ogni credente ha nei confronti del prossimo, dovere che si esercita nella forma della correzione fraterna. Questo è un dovere di apostolato fraterno, dove Gesù chiede che il fratello corregga il fratello per amor mio. Così si forma una società veramente cristiana, indirizzata verso il superiore ordine soprannaturale, fondata sulla comunione con Dio e con i fratelli e condotta sulla via della carità, dove i due elementi, individuo e società, diventano l’uno per l’altra strumento di salvezza e di rinnovamento interiore: «Ciò che è necessario è la comunione con Dio, attraverso Cristo, in verità e in amore, e reciprocamente tra gli uomini. Non esiste altra via per fare il bene per sé stessi e per gli altri. La via è seguita da Cristo, che non viene a distruggere la natura umana ma a rafforzarla e ad elevarla all’ordine soprannaturale. Ed è nella natura umana che l’uomo acquista tutto nella società e per la società. La società è fondamentalmente un bene, ma può diventare un male se è penetrata dallo spirito del male. Solo se animata dallo spirito di Cristo la società può divenire un mezzo salutare per l’individuo, proprio come l’individuo animato dallo spirito di Cristo può rinnovare la società»28.

Dalle premesse fondamentali del pensiero sturziano ne consegue che nel processo d’incarnazione destinato a condurre il cosmo all’unificazio-

27 28

L. STURZO, Problemi spirituali, cit., 82. Ibid., 84.

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ne finale e quindi alla santità, la vita spirituale, interiore, di relazione con Dio, è indissolubile da quella morale, di scelta operativa del bene, a favore proprio e altrui. Il sacerdote calatino porta alle estreme conseguenze questo principio, sostenendo, teorizzandola, ma soprattutto vivendola, la necessità che questa interpretazione della realtà e dell’esistenza si concretizzi nella partecipazione attiva alla vita sociale, civile e politica, contro ogni possibile comprensione disincarnata della fede cristiana. Infatti, lo sviluppo pieno della vita umana, che nel pensiero di don Sturzo è quella soprannaturale, coinvolge l’uomo nella sua interezza, così che la vita soprannaturale, dello spirito, non può non esprimersi e manifestarsi in quella naturale, sociale e politica. Don Sturzo l’ha affermato fin dal principio: la vita soprannaturale non annulla né sminuisce quella naturale, bensì la porta alla perfezione. A proposito dell’autentico spirito cristiano vissuto in politica, è importante precisare il pensiero di don Sturzo; per queste riflessioni mi servirò per lo più degli Articoli a carattere spirituale (1935-1943), riportati in appendice a La Vera Vita, che offrono degli spunti importanti a questo riguardo. Dal valore della libertà umana, quale lo abbiamo indicato sopra, si può comprendere quanto grande sia la responsabilità tanto dei singoli quanto delle comunità. Nella storia quale processo verso la realizzazione soprannaturale, «ognuno di noi ha la sua piccola o grande responsabilità di quel che avviene, se non altro una responsabilità di colpe morali davanti a Dio, e di omissioni davanti agli uomini»29. I singoli e la società hanno il compito di far camminare la storia di tutto e di tutti verso la vera vita, la pienezza soprannaturale. Se questo principio vale per ogni uomo, tanto più vale per il cristiano. Discepolo di un Dio incarnato e crocifisso per amore, il cristiano non può esimersi dal trasporre nella vita sociale gli insegnamenti che Cristo impartisce non solo con le parole, ma anche con il suo stesso esempio di vita. Per cui l’impegno sociale, civile, e persino politico, con tutto lo scatenamento delle passioni che esso comporta, non va visto come un male in 29 Ibid., 320. Don Sturzo sta parlando dello scoppio appena avvenuto della II guerra mondiale: si noti il peso attribuito alla responsabilità di ciascun uomo, compreso se stesso, anche in quest’evento.

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se stesso, poiché il metodo cattivo non va confuso «con quella che è invece doverosa partecipazione del cittadino alla vita del proprio paese»30: «La politica è per sé un bene: il far della politica è, in genere, un atto di amore per la collettività; tante volte può essere anche un dovere del cittadino. Il fare una buona o cattiva politica, dal punto di vista soggettivo di colui che la fa, dipende dalla rettitudine dell’intenzione, dalla bontà dei fini da raggiungere e dai mezzi onesti che si impiegano all’uopo. Il successo e il vantaggio reale possono anche mancare, ma la sostanza etica della bontà di una tale politica rimane»31.

Nell’uomo, spirito, anima e corpo sono un tutt’uno, perciò lo spirito cristiano deve animare la persona nella sua interezza, fino alle conseguenze ultime di impegnarla socialmente e politicamente; dunque è un dovere “dare efficacia politica alla nostra etica cristiana”32. E ancora: «Nei regimi di libertà il cattolico non può restar isolato od estraneo alla vita dello stato moderno. Quest’ultimo s’è attribuito funzioni culturali e morali che prima non aveva: ha riunito in sé tutte le forze sociali ed ha assoggettato tutto al suo dominio. Disinteressandosi, il cattolico assumerebbe gravi responsabilità davanti a Dio e al prossimo, lascerebbe la cosa pubblica nelle mani di coloro che o non sono cattolici o non sentono l’imperativo della morale cristiana. Unendosi ad altri il cattolico non può, senza collaborare al male, accettare programmi antireligiosi, né metodi immorali, né fini esclusivamente materiali»33.

Dalle ultime parole di don Sturzo comprendiamo che, nello svolgere il loro dovere di cittadini, i cristiani dovranno essere animati da una coscienza retta, che rifugge il male, e positivamente dai valori che il Cristo Maestro ha insegnato come fondamentali ai suoi discepoli: «Il cristianesimo non sopprime la vita; la corregge, la eleva, la perfeziona. Si può essere di diverso partito, di diverso sentire, anche sostenere le proprie tesi sul terreno politico o economico, e pure amarsi cristianamente. Perché l’amore è anzitutto giustizia ed equità, è anche eguaglianza, è anche libertà, è rispetto degli altrui diritti, è esercizio del proprio dovere, è tolleranza, è sacrificio. Tutto ciò è la sintesi etica della vita sociale, è la forza morale della propria abnegazione, è l’affermazione dell’interesse generale sugli interessi particolari»34. 30

Cfr. ibid., 247. L.c. 32 Ibid., 248. 33 L. STURZO, Politica e Morale, Bologna 1972, 114. 34 L. STURZO, La vera vita, cit., 248-249. 31

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Con questa sintesi dei valori cristiani, don Sturzo ci apre alle ultime considerazioni sulle linee guida della via ascetica dell’impegno del cristiano nel mondo.

5. Giustizia, amore e politica Il traguardo ultimo dell’unificazione cosmica e in particolare dell’unione mistica nella conoscenza e nell’amore di Dio esige di essere perseguito a livello politico attraverso l’introduzione della carità come legge; se l’amore non fosse destinato a divenire legge di vita per gli uomini, si cadrebbe nell’assurdo che Gesù Cristo «avrebbe così voluto la riforma dell’individuo, senza portare la sua efficacia in quell’ambiente sociale in cui l’individuo esplica la sua attività, e fuori del quale l’individuo non può esistere»35. Secondo don Sturzo, giustizia e carità (nel senso largo e vero di amore del prossimo) nella vita pubblica non sono antitetiche, come se la carità fosse da relegarsi nelle scelte private, mentre la vita pubblica fosse fondata sulla giustizia la quale fosse da ritenersi estranea all’amore: «La giustizia, anche se resa ai nemici, è in fondo un atto d’amore del prossimo. La vita pubblica ha per base la giustizia; senza di essa, non si regge nessuno stato e nessuna organizzazione politico-morale. Ma se la giustizia non è concepita come amore del prossimo, e non è completata dallo stesso sentimento di amore, anch’essa non è né vera né intimamente giustizia, nel senso morale e cristiano della parola»36.

Nel pensiero di don Sturzo l’amore del prossimo nella forma della giustizia-carità e tutti i valori fondamentali, dovrebbero costituire il centro attorno al quale organizzare lo stato, così che la legge dichiari illegittimo un comportamento opposto ad un valore, e per la sua stessa illegittimità quell’atto venga dichiarato immorale e perseguito dalla legge fino alla sua completa estinzione dalla pratica e dal sentire comune. Don Sturzo osserva che il processo di concretizzazione sociale dei valori morali, attraverso il loro riconoscimento e la loro tutela giuridica, anche 35 36

Ibid., 247. Ibid., 265.

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se lento, è, però, inesorabile. Un esempio è quello della schiavitù: essa è stata tollerata a lungo dopo la predicazione del Vangelo, ma a poco a poco si sono introdotti sistemi giuridici che l’hanno attenuata, ridotta, fino a che è stata giuridicamente abolita. Oggi è ritenuta immorale e non necessaria37. Certamente questo progresso, se pur lento, ha sortito i suoi effetti; lo attestano l’abolizione della schiavitù, come abbiamo detto, della giustizia privata (la vendetta), del matrimonio poligamico e, don Sturzo ne è certo, che gradualmente, questo avverrà anche per la guerra: «A qualcuno sembrerà ardito discutere così sul fatto della guerra; ciò risponde semplicemente a un principio di evoluzione della morale sociale che non è mai stato smentito. È tutta la vita del cristianesimo che attesta questo sforzo, anzitutto di svegliare sentimenti rispondenti alle idee, poi di creare istituti giuridici o giuridico-religiosi, e infine di proclamare la legge come un fatto non soltanto etico e soggettivo ma come un legame sociale obiettivo. [...] Tutta la lotta della chiesa contro il duello, con le varie fasi di tolleranza civile e di scomunica ecclesiastica, poi la creazione di istituti giuridici e di tribunali, mostra quale evoluzione si può ottenere nello spirito pubblico quanto agli usi e costumi, e sistemi inveterati e tradizionali»38.

Per raggiungere questi obiettivi non basta una morale naturale, senza l’anima del cristianesimo; chi ha fatto questo tentativo, nella storia non ha portato che allo sviluppo di nuove e più profonde divisioni: «L’errore è di concepire la natura come assoluta in sé e indipendente dal suo Autore; l’uomo come perfettibile da sé al di fuori dei suoi rapporti con Dio; la società come un’entità fine a se stessa, senza ulteriore finalità né nell’uomo individuo né in Dio. Così le idee umanitarie in apparenza altruistiche si sono trasformate nelle più aspre concezioni egoistiche. Occorre integrare tutta la vita umana con la religione, cioè dare tanto alla vita individuale che ai rapporti sociali il valore che deriva dalla nostra comunione con Dio, che è amore. Impossibile concepire un vero amore del prossimo che non sia implicitamente amore di Dio. Bisogna arrivare alla sorgente dell’Amore per poter veramente comprendere il nostro dovere di amare non solo gli individui ma i gruppi sociali. [...] Dio come padre, come autore della natura individuale e sociale dell’uomo, come principio di ogni giustizia e di ogni diritto, Dio amore incoato, che ci chiama al suo amore, ci appella alla fraternità della sua figliolanza. La fratellanza umana è un dono di Dio, come è un suo dono l’essere sue creature nell’ordine naturale e suoi figli nell’ordine soprannaturale. Questo dono ci dà dei doveri: il

37 38

Cfr. ibid., 253. Ibid., 254.

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non odiare non è solo un sentimento, né solo un atto di volontà individuale verso altri individui, è un dovere di sacrificio sociale, verso l’amore santificato da Dio, che fruttifica opere di amore»39.

Il principio morale della giustizia e dell’amore del prossimo per don Sturzo deve essere fatto valere anche come base del diritto internazionale40. Ciò che vale sul piano individuale, infatti, vale anche sul piano sociale e politico: non esistono due morali41. Senza una profonda concezione cristiana applicata alla vita sociale-politica, gli uomini finiscono per organizzarsi in uno stato autorizzando anche la violenza come legge e la forza come valore (come avvenuto, per esempio, durante il nazismo, il fascismo, la rivoluzione bolscevica). Perciò si deve combattere non solo l’egoismo individuale, ma anche quello collettivo «Oggi si ricompone la società, si ricostruisce la ricchezza, si riassettano gli stati, si riprende la vita; ma soffia gelido lo spirito di egoismo, e infuocato lo spirito di rivolta. La guerra armata dei popoli ha acuita la guerra economica e politica. [...] Ma la responsabilità va ai dirigenti della vita dei popoli che hanno monopolizzato scuola, famiglia, vita pubblica e privata: questi ora, per pura reazione, invocano non la legge cristiana dell’amore ma la chiesa, considerata come potente organismo, perché essa protegga i loro interessi; ma la chiesa ripete anzitutto il precetto del Vangelo: amatevi gli uni gli altri! [...] Non l’odio, ma l’amore; non la violenza, ma la giustizia; non la guerra civile o militare, ma la pace. Tutto ciò non è solamente un principio di etica individuale, è per necessità uno sviluppo sociale e politico. La sua realizzazione non si poggia su semplice paternalismo di governi e di classi dirigenti; deve essere cooperazione cosciente anche della classe lavoratrice»42.

La via ascetica dell’impegno del cristiano nel mondo, perciò, passa attraverso il compimento dell’unica vera rivoluzione: quella spirituale. «Non esiste vera rivoluzione se non basata sui due principi di carità e di giustizia, poiché sviluppo o regresso (connaturale per noi attraverso il peccato) sono dovuti alla prevalenza dell’egoismo e della ingiustizia. Questi sono la causa prima dei nostri peccati e delle nostre passioni, nella nostra vita personale e nella vita sociale. Nella vita sociale essi diventano fatti collettivi, come la schiavitù, la poligamia, la guerra, [...], l’oppressione razziale, la violazione dei diritti delle mino39

Ibid., 276-277. Cfr. ibid., 271. 41 Ibid., 272-273. 42 Ibid., 246. 40

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ranze razziali, religiose o politiche, lo sfruttamento economico del lavoro umano. In una parola, la violazione sistematica e costante della personalità umana»43.

La vera rivoluzione è sempre ispirata dai principi cristiani di giustizia e di carità; comincia con una negazione spirituale del male e un’affermazione spirituale del bene. Nella pratica ciò procede lentamente, ma è una costruzione sicura, un edificio con profonde fondamenta e perciò stabile. Questa rivoluzione non è sanguinosa perché non è suscitata da passioni, da desideri di violenza e di tirannia. «Non desideriamo uomini passionali ed eccitabili, bensì uomini di convinzione, uomini capaci di reprimere gli impulsi egoistici nella propria sfera individuale, per poterli richiamare nella sfera sociale»44. I risultati dell’impegno cristiano sembrano non vedersi, perché «il male è sempre più visibile del bene, perché il male è materializzato, mentre il bene è spiritualizzato. Il male rappresenta il mondo con il suo orgoglio, che è molto visibile. Il bene è fondato su sentimenti di umiltà, i quali cercano di nascondersi»45. Don Sturzo si oppone ad ogni accentramento statalistico, che faccia dello stato un dio, “padrone delle anime e dei corpi”46, e ad ogni concezione di partito politico che faccia dei suoi fini il suo dio (la nazione per i nazionalisti, la razza per i nazisti ecc.). Per questo il Partito Popolare da lui fondato voleva costituire uno stato nel quale il valore fondamentale fosse la libertà, e che per questo riconoscesse i limiti della sua stessa attività, rispettando i nuclei e gli organismi naturali: la famiglia, le classi, i comuni, la personalità individuale, e incoraggiasse le iniziative private47.

43

Ibid., 303. Ibid., 305. 45 L.c. 46 L. STURZO, Politica, cit., 114. 47 Cfr. ibid., 100-101. 44

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Capitolo V

Presenza di Cristo nell’azione sociale

«Ciò che è necessario è la comunione con Dio, attraverso Cristo, in verità e amore, reciprocamente tra gli uomini. Non esiste altra via per far il bene per se stessi e per gli altri. La vita è seguita da Cristo, che non viene a distruggere la natura umana ma a rafforzarla e ad elevarla all’ordine soprannaturale»

1. Una spiritualità d’incarnazione In risposta alle urgenze del tempo presente, don Sturzo ritiene che l’unico rimedio alla progressiva secolarizzazione della società sia quello di restituire la comunità cristiana alla grande tradizione spirituale del cristianesimo. Un ritorno addirittura alla tradizione dei primi secoli, è una necessità impellente ed universale1. In quest’ottica egli saluta con favore quelle innovazioni che il movimento liturgico all’inizio del novecento sta progressivamente introducendo nella prassi pastorale delle comunità cristiane, definendola addirittura come una sorta di rinascita spirituale. Questo processo è importante soprattutto perché focalizza l’idea di una liturgia che interessa non tanto il singolo, ma l’intera comunità cristiana, come legame di una vera e propria società di uomini a Gesù Cristo e tra di loro: «C’è molto cammino da percorrere prima di poter creare il sentimento della comunità liturgica, cioè quella partecipazione collettiva alla vita sacra che non solo lega ciascuno di noi a Gesù Cristo come compartecipanti al suo corpo mistico e come comunicanti del suo corpo sacramentale, ma che anche ci unisce in

1

Cfr. L. STURZO, Problemi spirituali, cit., 71-75.

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quanto viviamo insieme la reciproca vita fraterna nell’atto della comune partecipazione al rito liturgico»2.

Sottolinea ancora don Sturzo che lo stesso termine Chiesa (Ecclesia), pur riferendosi per estensione al corpo mistico del Cristo, tuttavia richiama principalmente l’idea di una assemblea, dove al sacerdote celebrante corrisponde una vera e propria realtà sociale costituita dai fedeli in comunione tra di loro. E anche quando il sacerdote celebra con la sola assistenza di un fedele, forma con esso una vera relazione sociale nell’atto di offrire il Santo Sacrificio. È in questa comunione al sacrificio del Cristo che risiede il nucleo fondamentale della comunità cristiana, dove al Suo sacrificio si unisce anche quello di ogni credente che partecipa alla celebrazione. Allora non c’è differenza tra vita cristiana e vita sociale, perché nell’atto più alto del culto cristiano, l’Eucaristia, il singolare si fonde e sparisce nel collettivo della comunità celebrante: «La vita cristiana è vita sociale, della nostra società con Dio attraverso Cristo e della nostra società fraterna in Dio attraverso Cristo; altrimenti non c’è vita ma disintegrazione spirituale e sociale»3. Non tutti, però, hanno la viva coscienza di essere parte di una comunità concreta, per cui don Sturzo giunge alla conclusione che: «il risveglio di questa coscienza attraverso i mezzi di una continua e sempre più approfondita partecipazione alla messa e alle pubbliche preghiere è il vantaggio che reca il movimento liturgico dei nostri tempi»4. Dalla partecipazione alla Messa e agli altri atti di culto il cristiano trae la consapevolezza di un dover agire a favore del prossimo, rendendo presente lo stesso Cristo, celebrato nella liturgia e amato nei fratelli: «In tutto ciò che si desidera e si fa per amore del prossimo Cristo è presente. Né potrebbe essere altrimenti, dato che il vero amore del prossimo è atto di amore di Dio. “Se ci amiamo l’un l’altro, Dio abita in noi, e la carità di Lui in noi è perfetta” scrive san Giovanni nella sua prima epistola»5.

2

Ibid., 75. Ibid., 76. 4 L.c. 5 Ibid., 179. 3

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Il problema adesso è verificare il “se” e il “come” si verifica questa presenza nel concreto dell’azione sociale del cristiano. Il rimando per don Sturzo è facile. Le norme e i diversi fattori che determinano l’agire sociale del cristiano hanno avuto da parte della Chiesa, e dei diversi Papi, un orientamento ben preciso, e a quello bisogna rifarsi. Proprio per non incorrere negli eccessi già evidenziati, ed evitare in ogni modo di creare un rapporto di cieca dipendenza della politica dalla fede religiosa don Sturzo evidenzia alcuni aspetti che dovranno sempre caratterizzare l’agire politico del cristiano: - la trascendenza, che pone l’idea di uomo e di mondo come non gestibile unicamente dai criteri terreni, e non incamerabile nell’alveo delle semplici leggi sociali; - il personalismo, sottolineando che l’ordine politico è al servizio della persona, e non viceversa, esso deve rispettare la libertà individuale, suscitare le responsabilità, le iniziative, le scelte culturali e spirituali; - il servizio, inteso come retto esercizio del potere, che per i cristiani viene dato unicamente dall’alto, che fa anche della politica uno strumento di carità; - l’universalismo, che se pur nel rispetto delle diversità intrinseche, apre la visuale del potere a servizio di tutto l’uomo, ma anche di tutti gli uomini; - la moralità, che deve essere la norma basilare di ogni azione nel rispetto delle esigenze etiche evangeliche6. Così l’ascesi sociale che Sturzo ha vissuto e che ogni uomo politico cristiano è chiamato a perseguire è quella che porta il credente, in forza della vita spirituale che deriva dall’inabitazione trinitaria, a partecipare attivamente alla molteplice e variegata azione sociale, economica, legislativa, con quella carità che lo Spirito riversa nel cuore dei credenti, e che senza la quale il servizio offerto perde il suo valore positivo e si svuota di significato dando spazio alle più basse inclinazioni dell’uomo: «La missione del cattolico in ogni attività umana, politica, economica, scientifica, artistica, tecnica, è tutta impregnata di ideali superiori, perché in tutto ci si riflette il divino. Se questo senso del divino manca, tutto si deturpa: la politica 6 Cfr. L. STURZO, Politica e teologia Morale, in Popolo e Libertà del 29 ottobre 1938, 34; inoltre si può approfondire il pensiero etico di Sturzo attraverso la sua opera Moralizzare la vita pubblica, cit.

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diviene mezzo di arricchimento, l’economia arriva al furto e alla truffa, la scienza si applica ai forni di Dachau, la filosofia al materialismo e al marxismo»7.

Dunque il cristiano rende presente l’azione di Cristo operante nella storia in una maniera evidente e tangibile, tenendo conto che è necessario far maturare alcune consapevolezze e programmare e attuare alcuni interventi. Tutto avviene secondo un preciso criterio che possiamo riassumere e presentare con una semplice scaletta.

2. Requisiti del politico cristiano Per quanto affermato fino a questo punto possiamo concludere che per don Sturzo il buon politico cristiano deve: - cercare sempre di perseguire il bene comune, come bene non solo di tutto l’uomo ma anche di tutti gli uomini, non avendo come finalità il semplice bisogno materiale dell’uomo, ma il bene globale della persona; - riuscire a mantenere un genuino rapporto tra carità e giustizia, in modo che non si offra mai come dono di carità ciò che è dovuto a titolo di giustizia; - far rilevare sempre quella competenza professionale che renda affidabile la sua opera, e quella trasparenza che favorisce la sua credibilità; - far rispettare l’autonomia, rettamente intesa, della realtà temporale da quella soprannaturale; - ribadire la distinzione degli interventi intrapresi come liberi cittadini seppur mossi dalla propria coscienza cristiana, dalle azioni della Chiesa in quanto tale; - testimoniare i valori evangelici connessi con l’attività politica stessa, quali la libertà, la lealtà, la verità e l’amore; - rinnovarsi e crescere in conformità ai tempi per individuare e saper dare risposte sempre nuove ai bisogni che il rapido mutamento della società fa continuamente emergere8.

7

L. STURZO, Politica di questi anni, V, 383. Cfr. G. DE ROSA, Sturzo, Torino 1977; C. VASALE, Cattolicesimo politico e mondo moderno. Società, politica, religione in Luigi Sturzo, Milano 1988. 8

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Tutto questo è possibile non per pura e semplice intuizione, ma solo se il cristiano che esercita la difficile arte politica si lascia formare e preparare allo scopo potrà dare frutti positivi, il che non significa che sarà immune dagli sbagli, ma questi ripresi ed emendati daranno la possibilità di migliorare il servizio reso. Don Sturzo è convinto di questo e ne parla in questi termini: «Chi pensa che la politica sia un’arte che si apprende senza preparazione, si esercita senza competenza, si attua con furberia. È anche l’opinione diffusa che alla politica non si applichi la morale comune, e si parla spesso di due morali, quella dei rapporti privati, e l’altra (che non sarebbe morale ne moralizzabile) della vita pubblica. La mia esperienza lunga e penosa mi fa concepire la politica come satura di eticità, ispirata all’amore al prossimo, resa nobile dalla finalità del bene comune. Per entrare in tale convinzione, occorre essere educato al senso di responsabilità, avere forte carattere pur con le più gentili maniere, e non cedere mai alle pressioni indebite e alle suadenti lusinghe per essere indotto ad operare contro coscienza.Si sbaglierà, di sicuro, non mai di proposito e ad occhi aperti, ne per volontà perversa e a fini egoistici: l’errare è dell’uomo, il perseverare è del diavolo»9.

Gli effetti della secolarizzazione sono ben chiari per il nostro sacerdote siciliano, in un contesto sociale dove il cristiano si trova sempre più isolato e privo di quegli aiuti legati alla sua capacità di comunicare con gli altri credenti. Il primo e più grave riguarda l’istituto famigliare. La possibilità del divorzio, ove allora era permesso, e la contraccezione sono considerate un vero e proprio colpo di grazia alla famiglia, privandola così di quell’essenziale compito di trasmettere la fede e di educare alle virtù le nuove generazioni. La scuola è l’altra importante vittima del processo di secolarizzazione. Una volta, sostiene don Sturzo, la scuola, che completava l’opera educatrice della famiglia, veicolava insieme alla cultura anche i valori che ad essa soggiacevano, espropriata di questo fondamentale ruolo essa: «si limita al compito tecnico dell’insegnamento, mentre l’educazione della gioventù è presa in mano da associazioni private, integrative e sportive, dove di solito l’idea religiosa non ha cittadinanza e i freni morali si allentano a favore di una specie di euforia naturalista»10. 9

L. STURZO, Politica di questi anni, cit., 383-384. Ibid., 72.

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Altro ambito colpito dal processo secolarizzante è quello della cultura. Materialismo e positivismo sono sempre più accettati a discapito delle idee religiose, e, in tale situazione, la Chiesa non sempre è capace di arginare il progressivo attecchimento delle prospettive agnostiche ed atee che minano la stabilità della società cristiana. Non di meno il mondo del lavoro diventa anch’esso vittima di un certo naturalismo che lo allontana sempre di più dal suo rapporto con le realtà soprannaturali. Allontanamento che si rintraccia amaramente nella sempre più scarsa partecipazione dei cristiani alle attività pastorali della Chiesa, e in maniera particolare alla stessa Eucaristia domenicale, un tempo punto di convergenza di tutta la dinamica pastorale della comunità cristiana. La situazione descritta da Sturzo non è tutta negativa, in quanto al nostro sacerdote non sfuggono quegli esempi di forte spiritualità e di concreta carità. Per questo egli ci tiene a precisare: «Io non voglio dipingere un quadro pessimistico. Non mi riferisco in modo specifico a questo o a quel paese cristiano. Sto solamente indicando le linee generali, mentre riconosco l’esistenza di larghe eccezioni: forze piene di devozione nell’attività spirituale e nello zelo caritatevole sotto forma di grandi congregazioni di uomini e di donne che hanno costruito, in migliaia e migliaia di case di educazione, scuole, collegi ed ospedali, centri di attività apostolica, di risveglio liturgico e di opere di bene. La critica non è rivolta a loro, cui si deve molto di quello che ancora esiste: non è nemmeno questione di critica: ma di analisi delle condizioni esistenti per lo studio dei rimedi opportuni»11.

L’analisi condotta da don Sturzo, non si esaurisce, come vediamo, ad una sterile critica della situazione storica, come spesso avviene per diversi autori a lui contemporanei, ma è concepita come la prima fase di un’opera di ricerca di rimedi opportunamente studiati per ovviare alla crisi in atto. Di tali rimedi il più impellente e necessario è quello di recuperare un genuino percorso di spiritualità, soprattutto per le nuove generazioni.

11

Ibid., 74.

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3. Adeguata formazione delle coscienze e riarmo morale Don Sturzo si chiede il perché di un progressivo allontanamento delle giovani generazioni dalla fede, e soprattutto perché questa fede alcuni addirittura la perdano. Egli fa un’attenta analisi che individua alcuni fattori particolari: «Alcuni la perdono perché seguono i sentieri del piacere carnale e si ribellano alla legge del dovere, e, per giustificarsi, arrivano al punto di negare la vera legge e Colui dal quale è stata scritta nei nostri cuori. Altri la perdono attraverso i libri o nelle scuole, o a causa di compagni e maestri che si insinuano nelle loro menti e li seducono con l’abbaglio di false dottrine. Altri ancora la perdono attraverso il proselitismo politico e l’influenza dei partiti ostili alla chiesa, che pretendono di sostituire agli ideali cristiani gli ideali di una felicità sociale sulla terra»12.

Dunque il sentiero della fede può essere smarrito per almeno tre cause che corrispondono con tre grandi tentazioni con cui ogni uomo, giovane o meno giovane, si trova a combattere. La prima è la tentazione della carne. Per soddisfare i piaceri seducenti della carne ci si libera dai divieti della legge morale, e rinnegando la fede ci si sente più liberi di comportarsi secondo le proprie inclinazioni e passioni. La fede, è chiaro, diventa un ostacolo e un imbarazzante fardello che appesantisce la già difficile situazione di equilibrio dell’uomo. La seconda tentazione è quella del sapere. La via del sapere non sempre è percorsa nel rispetto dei principi della fede e della tradizione. Essa diventa luogo di incontro con altri saperi che influenzano inevitabilmente le giovani coscienze mettendo in crisi la debole e instabile costruzione della fede di molti. La terza tentazione è quella ideologica. La società non segue più un’unica direzione, il tempo del Sacro Romano Impero è ormai molto lontano. Gli uomini e le donne di fede si trovano a fare i conti con la propaganda di chi reputa la religione una perdita di tempo o addirittura “oppio dei popoli”. Il miraggio di paradisi terrestri raggiunti unicamente attraverso la costruzione di società perfette risulta essere più allettante del-

12

L. STURZO, Problemi spirituali, cit., 108.

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la promessa di un Paradiso legato al rispetto di quei principi e quelle regole intrinsecamente legate agli ideali cristiani. Nota ancora don Sturzo come questo sbarazzarsi della fede è rivendicato come conquista di libertà, libertà da catene idealistiche che limitano il raggiungimento della felicità, una felicità che comunque rimane insoddisfatta nonostante le effimere esperienze di libertà: «Comunque avvenga la crisi, la lotta nella coscienza di chi è fuorviato è spesso penosa e lunga. L’educazione cristiana dei suoi primi anni lo influenza e rende più pronunziata la crisi, perché il contrasto tra il passato e il presente è profondo e viene sentito come una prima e grande infelicità, benché egli creda di essere passato dalle catene alla libertà. Infatti è il senso di liberazione che prevale – liberazione dalle catene della legge morale o liberazione dalle catene del dogma – una liberazione che lo porta ad una specie di rapida euforia ma che fa risuonare con più forza i richiami della coscienza [...] L’aspirazione alla felicità che è la compagna inseparabile di tutte le nostre azioni rimane insoddisfatta, anche quando egli crede di aver raggiunto la più completa soddisfazione»13.

Don Sturzo, da conoscitore non solo della mente, ma in quanto sacerdote anche dell’animo e del cuore dell’uomo, è convinto che nonostante il tentativo di sfuggire da essa l’uomo è ricondotto in qualche modo alla legge morale attraverso la coscienza, che lo richiama nell’intimo al rispetto delle regole imparate attraverso l’educazione ricevuta, e lo eleva al di sopra degli altri esseri creati. Perché ciò non avvenga, nota il nostro sacerdote, la modernità cerca di eliminare il famoso “rimorso di coscienza”: «Una delle tendenze più perverse dell’era moderna è lo sforzo di sopprimere il rimorso di coscienza, il concetto cristiano della vita ed infine il concetto di moralità naturale – la legge non scritta – che si sente nell’intimo dell’anima. Se non ci fosse questo profondo sentimento di moralità e di giustizia, l’uomo si troverebbe in una posizione inferiore a quella degli stessi animali»14.

È, allora, in questo processo dinamico tra esterno e interno dell’individuo che consiste il vero progresso umano, e il raggiungimento o meno dell’obiettivo fondamentale di ciascuno, la propria felicità, trova nella di-

13 14

L.c. L.c.

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mensione intima la sua ragione: «La felicità e l’infelicità umana sono create non tanto da cause esterne e sociali quanto da noi stessi nel nostro essere più intimo»15. A questo punto ci si chiede Come porre rimedio al disfacimento della moralità in seno alla società? Possiamo trovare una risposta in un messaggio dell’11 agosto 1957 e affidato da don Sturzo all’On. Ferdinando D’Ambrosio perché lo leggesse all’assemblea del riarmo morale tenutosi alla presenza dei delegati di 49 nazioni a Mackinac Island nel Michigan. In questo testo don Sturzo delinea un percorso che la società civile deve compiere per giungere ad una stabile difesa dei diritti fondamentali dell’umanità. Sono tre le tappe di tale percorso. La prima tappa è il punto di partenza necessario perché si creda e ci si impegni in una missione particolare, cioè la convinzione. Bisogna essere convinti della bontà di una certa azione o di una certa rivoluzione. Per dimostrare questo don Sturzo rimanda ad una battaglia sostenuta da lui negli anni venti a favore dell’abolizione del diritto di guerra, dove è importante essere convinti che in nessun modo la guerra possa essere la via corretta per la risoluzione dei problemi del mondo: «Quando nel 1928 pubblicai in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America il mio libro “La comunità internazionale e il diritto di guerra”16, facendo seguito ad una polemica da me sostenuta in Francia sulle possibilità dell’abolizione del diritto di guerra, mi si oppose che io, sognando un avvenire pacifico, toglievo alla società un diritto fondamentale. Ed io a replicare che come divennero operanti, nei paesi civili, l’abolizione della schiavitù, della servitù della gleba, della poligamia, della faida o giustizia di clan familiare; così dovrà divenire operante l’abolizione della guerra, come diritto fondamentale di ogni singolo stato. Per arrivare a questo punto ci vuole del tempo, certamente; ma, prima di ogni altra cosa, ci vuole la convinzione che l’abolizione del diritto di guerra sia possibile, e sia, quindi, un dovere umano, civile, religioso»17.

Se la convinzione è la base giusta di partenza per il riarmo morale, il secondo passo deve consistere nel rendere stabile e universale questa convinzione. Non basta che singoli individui realizzino la bontà di una 15

L.c. La pubblicazione la troviamo nell’Opera Omnia: Prima serie, Secondo volume. 17 L. STURZO, Problemi spirituali, cit., 206. 16

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scelta, essa deve divenire scelta della società intera, ma perché questo avvenga è necessaria la libertà. Quella libertà, dice don Sturzo, che rende l’uomo perfettibile, la libertà fondamentale di poter essere educato al bene, di potersi esercitare nel fare il bene, cosa no sempre possibile in ogni parte del mondo. Tutto questo viene reso da Sturzo attraverso delle immagini semplici ma nello stesso tempo efficaci: «Se il primo passo è quello della convinzione occorre fare il secondo: trovare la base per renderla generale. Questa è data dal principio della libertà dell’uomo che è condiziona la necessaria alla sua perfettibilità. La libertà è la facoltà interiore dell’uomo prima che sociale; ma è anche sociale e senza di essa è impossibile qualunque sviluppo e progresso. L’educazione è la conquista della libertà si fa con l’uso stesso della libertà. Un bambino non apprende a camminare senza camminare; ne apprende a parlare senza parlare; nessuno saprà mai nuotare se non scende nell’acqua e vi si esercita; così è tutta la vita»18.

Questa idea di libertà va colta nel quadro storico in cui viene espressa, dove non tutti i popoli vengono giudicati maturi per la libertà. Il Fascismo, il Comunismo, e poi anche il Nazismo, per restare nel campo ristretto delle esperienze politiche sperimentate direttamente da don Sturzo, lo inducono ad associare l’idea di libertà a quelle di comprensione, come abbiamo già detto, ma soprattutto a quelle di conquista e di difesa. La libertà autentica, allora, non solo va compresa, va anche conquistata e più di ogni altra cosa va difesa: «Quando si afferma non essere un popolo maturo per la libertà, si parte da un dato erroneo, perché si elude la possibilità dell’uso della libertà con l’educazione e l’esercizio; sia pure una libertà conquistata gradualmente, una libertà riaffermata con vigile disciplina; ogni libertà, per essere tale, deve poter essere compresa, conquistata e difesa come libertà»19.

Il terzo passo costituisce il punto centrale di tutto il cammino del riarmo morale, ed è costituito da una verità che diventa conditio sine qua non perché tutto questo percorso regga: la solidarietà umana basata sull’amore reciproco. Infatti, sostiene don Sturzo, se cerchiamo la libertà per tutti i popoli, lo facciamo perché siamo convinti che tutti gli uomini abbiano gli stessi diritti e gli stessi doveri reciproci, soprattutto i doveri di “reci18 19

Ibid., 207. L.c.

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proco amore” e “reciproco aiuto”. Sturzo, allora, non crede che il riarmo morale avvenga solo evitando comportamenti negativi, ma abbia il suo punto forza nel positivo impegno dell’uomo a favore del prossimo. Per fare questo l’uomo ha bisogno di regole che lo limitino nel fare il male, e di regole che lo spronino a fare il bene. Ecco perché Sturzo definisce morale il necessario riarmo della società: «Morale, dal latino mos, vuol dire costume nel senso di comune regola delle buone relazioni umane, che si tramandano di generazione in generazione e formano il modo di vivere della società. Questa vita in società importa limitazioni reciproche e aiuto reciproco, espressi nelle due celebri formule: “Non fare ad altri quel che non vorresti sia fatto a te stesso”; e “fare agli altri quel che vorresti che a te altri faccia”. In sostanza: non fare il male e fare il bene»20.

Un impegno positivo a favore del bene, questa è la visione sturziana del riarmo morale, perché di questo l’uomo e l’intera società umana hanno bisogno. Un bene che ha la sua estrinsecazione nei vari ambiti della vita umana e dei rapporti interpersonali: «Bene spirituale, bene educativo, bene culturale, bene civile, bene politico, bene materiale di soccorso, di beneficenza, mutualità, credito, riabilitazione»21. Questo impegno si sviluppa in due direzioni diverse, certamente quello verso l’universalità: «Evitando il male e facendo il bene, fino alla più grande delle azioni umane e civili, quella di portare tutta l’umanità all’amore universale e di abolire i pericoli della guerra, le tristi conseguenze delle dittature, l’asservimento di popoli oppressi, l’avvilimento di classi reputate inferiori, indesiderabili, intoccabili»22.

Ma soprattutto verso una personale scelta dettata dall’intima convinzione di voler scegliere il bene e combattere il male: «È nostro dovere combattere in noi stessi le passioni che causano gli odi, le lotte, gli egoismi, le violenze, i delitti; e combattere soprattutto la superbia che è la radice di tutte le immoralità»23.

20

Ibid., 208. L.c. 22 L.c. 23 L.c. 21

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Capitolo VI

Le beatitudini del servizio

«Il cammino del cielo parte dall’amore e arriva all’amore; l’amore fa conoscere la realtà e la conoscenza dell’amore aumenta l’amore stesso. Il nostro aiuto affettuoso a quelli che soffrono ci porta a meglio conoscere e amare i nostri fratelli e a vedere in essi l’immagine di Dioe tutto ciò che ci conduce a Dio e per Lui e in Lui alla figliolanza adottiva che Dio ci ha elargita per la sua grazia.»

1. Approdo ad una mistica dell’impegno 1.1. Sturzo uomo del suo tempo Da quanto abbiamo potuto intravedere nel percorso fin qui compiuto, don Sturzo non perde mai la coscienza profonda del suo essere “innanzitutto un sacerdote”1, nella consapevolezza ancor più profonda di essere e rimanere pur sempre un uomo del suo tempo, e ciò lo rende vivamente consapevole della propria dignità 2. Don Sturzo in quanto sacerdote acquista la consapevolezza della sua dignità che tende ad esprimersi ed ad affermarsi nella rivendicazione dei diritti fondamentali della persona: sia quei diritti che hanno riferimento diretto ai valori dello spirito, sia quelli a contenuto polito e sociale, come quelli inerenti la responsabile e attiva partecipazione alla vita delle istituzioni, divenendo anche solo quel segno di contraddizione, che dice la presenza cristiana nel mondo3. 1

Affermazione famosa di V. BACHELET, apparsa in un articolo 9 agosto 1959 su L’eco di Bargamo. 2 Cfr. P. STELLA, Don Sturzo, Caltagirone 1981. 3 Cfr. R. CARMAGNANI, L’etica del “segno di contraddizione”nella filosofia politica di Sturzo e Maritain, in Fede e politica oggi, a cura di R. CARMIGNANI e A. PALAZZO, Milano 1983, 37-54.

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In lui rintracciamo costantemente quella consapevolezza che si fa memoria costante dell’essere membro della stessa famiglia umana, a cui appartengono tutti gli altri uomini: per cui i loro problemi, le loro aspirazioni, le loro speranze, le loro gioie, le loro delusioni, le loro sofferenze non possono non essere in qualche modo anche i suoi problemi e le sue aspirazioni4. Questo modo di porsi davanti alle problematiche mondane genera delle ripercussioni notevoli nelle idee, nelle scelte e soprattutto nel modus vivendi del sacerdote calatino, suscitando in lui una crescente sete di concretezza, e di pienezza nella sua vita di persona e di ministro di Dio. Nella sua formazione culturale religiosa quanto ai contenuti rifugge dalle nozioni astratte, dal sistema teologico; domanda che la Scrittura sia ricollocata al posto d’onore, desidera un ritorno ai Padri della chiesa, perché hanno espresso la verità religiosa vissuta concretamente; accetta la diversità delle discipline a contenuto religioso, a condizione che tutto questo bagaglio di conoscenza porti il sacerdote ad un ministero sempre più incisivo nella vita degli uomini del suo tempo, dando così un contributo fattivo allo sviluppo del mondo intero, e nel tempo stesso far crescere quella dimensione di conoscenza-amore tra il sacerdote e il suo Dio. Nella sua formazione culturale religiosa quanto al metodo davanti a chi svolge la funzione di maestro non è una posizione di passiva ricezione di quanto viene proposto, assume piuttosto una posizione di sana criticità che lo spinge a partecipare attivamente al processo di assimilazione di verità nei vari ordini di conoscenza. Nel suo rapporto con Dio è portato a porre l’accento sull’aspetto dell’unicità della sua vocazione personale, Dio chiama lui, impegna la sua persona in un piano vocazionale ben preciso, che in nessun modo può essere delegato ad altri e per cui bisogna anche pagare di persona. Nei rapporti con l’autorità il suo atteggiamento tende ad essere critico anche quando, sostanzialmente è fiducioso. Esige dai superiori che rendano note, quanto più è possibile, le ragioni che li determinano a prende4 «Con la sua azione diuturna, Sturzo fu e rimane un Maestro di vita, perché ha saputo difendere, anzi potenziare in ogni atto della sua vita politica, il valore morale dell’uomo» (F. DELLA ROCCA, Itinerari sturziani, Napoli 1959, 25).

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re le loro decisioni, perché appaia chiaro che l’obiettivo che perseguono attraverso quelle decisioni è il bene degli altri o dell’intera comunità5. 1.2. Sete di concretezza La consapevolezza della propria dignità di persona si ripercuote in don Sturzo in quanto membro della Chiesa rivestito di una sua specifica missione, accentuando in lui la sete di verità e di concretezza. Uomo tra gli uomini, costantemente aggiornato sulla crescita umana e culturale della società in cui vive, avverte con chiarezza che le persone non pongono attenzione all’annuncio del Messaggio evangelico, se quello stesso messaggio non offre una qualche risposta agli interrogativi che sono alla base della loro esistenza, e se non porta un contributo efficace alla risoluzione dei loro problemi. Giacché non basta che un messaggio sia valido in sé stesso perché sia accolto, occorre che se ne scopra la validità. E don Sturzo impegna tutta la sua vita per ribadire ad una società come la nostra la validità del Vangelo di Gesù Cristo, che ha come fine ultimo la redenzione del genere umano dopo la liberazione e la guarigione dalle sue più profonde catene e piaghe: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore»6.

Uno dei disagi che un sacerdote prova durante il suo ministero è quello di essere convinto della validità del suo annuncio, ma nello stesso tempo acquista coscienza di non trovare il modo corretto di comunicarlo agli altri. Questa sensazione lo porta a sentirsi sempre più come un profeta inascoltato. Don Sturzo prova le stesse sensazioni e si sforza di cambiare il modo con cui le stesse identiche verità del Vangelo possono essere comunicate alla sua generazione.

5 Questi aspetti salienti della personalità e dell’operato di don Sturzo possono essere rintracciati da una lettura attenta della sua vita e del suo pensiero, e soprattutto della sua spiritualità. Cfr. S. MILLESOLI, La Carità politica, cit. 6 Is 61,1-2; cit. in Lc 4 18-19.

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1.3. Esigenza di comunione Il sacerdote Sturzo, soprattutto da giovane, avverte questo stato d’animo e giunge alla conclusione che il miglior modo di comunicare la sua verità è quello di entrare tra le fila di un tessuto storico che richiede più che mai la riproposizione dei valori cristiani per dare una solida base all’impegno sociale e politico. Da qui la sua preoccupazione di essere ed apparire come gli altri, di vivere tra gli altri, con gli altri e come gli altri, di mostrare come i loro problemi sono anche i suoi problemi, le loro aspirazioni anche le sue aspirazioni, i loro obiettivi anche i suoi, e soprattutto quello che è il loro linguaggio è anche il suo linguaggio. Il modello che don Sturzo vuole imitare è il modello Cristo. Infatti non c’è dubbio che sul piano storico nessuno come il Cristo ha condotto gli esseri umani a percepire con chiarezza e profondità la loro dignità di persona, e il suo inserirsi nel processo storico ha inciso su di esso come un fermento che li ha incessantemente sollecitati ad affermare quella dignità e a ricomporre tutti i rapporti interpersonali alla luce di tale dignità7. Don Sturzo, però, non si ferma alla sola conoscenza della sua dignità e di quella degli altri, egli avverte che la coerenza fra il percepire e l’agire diventa un’esigenza della propria dignità. Per cui dal momento in cui si professa una determinata concezione della realtà, soprattutto riguardante l’uomo, da quel momento ci si sente pure impegnati ad agire, perché quella concezione sia tradotta in termini di concretezza. Don Sturzo, come figlio del suo tempo, non può non avvertire l’esigenza di una fondamentale coerenza tra le parole e i fatti, questo soprattutto perché constata che mentre si annuncia la dignità della persona, si osserva il persistere di situazioni in cui moltissimi uomini e donne sono costretti a vivere in condizioni profondamente lesive della loro dignità. Non può restare cieco davanti a ciò e sente la spinta irresistibile ad adoperarsi perché mutino quelle situazioni. Avverte la sua specifica chiamata che è l’esigenza di essere attivamente presente e di partecipare al processo di trasformazione del mondo. 7 Questo pensiero lo troviamo anche sintetizzato molto bene in Dignitatis humanae n. 12: «Il fermento evangelico ha lungamente operato nell’animo degli uomini e ha molto contribuito a far si che essi, con l’andare del tempo, riconoscessero più ampiamente la dignità della propria persona, e maturasse la persuasione che la persona nella società deve restare immune da ogni coercizione umana in materia religiosa».

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Questa stessa coerenza tra il pensare e l’agire è elemento costitutivo dello stesso messaggio evangelico, infatti è lo stesso Signore che parlando del Giudizio finale, rivolgendosi ai giusti lo fa in questi precisi termini: «Venite benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a visitarmi»8.

e alla richiesta del quando, Gesù chiarissimamente risponde: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»9. La necessità di questo intervento diretto e tempestivo a favore dei bisogni dei fratelli è anche ribadito dall’esperienza e dalla dottrina della Chiesa nascente, come testimonia Giacomo nella sua lettera: «Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede, se non ha le opere è morta in se stessa»10.

La forza di questo fondamentale principio del cristianesimo, che è l’amore solidale con le povertà dell’uomo e del mondo, suscita in don Sturzo l’esigenza di partecipare alle molteplici iniziative in cui sente di doversi impegnare nell’intento di trasformare positivamente l’umana società, prendendo le mosse non solo dalla sua riflessione umana, ma soprattutto tale esigenza viene rinvigorita e riaffermata dalla sua stessa missione sacerdotale, giacché il Vangelo che egli è tenuto ad annunciare in virtù della sua stessa missione ministeriale, è un messaggio di verità e di amore, e l’amore muove il cristiano ad agire nella linea indicata dalla luce della verità. Nella dinamica che si instaura tra la sua vita sacerdotale e l’impegno nella società civile vanno evitati due errori. Il primo errore dove si può 8

Mt 25, 34-36.40. L.c. 10 Gc 2, 14-17. 9

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incautamente incorrere consiste nel fatto che si deve annunciare il Vangelo nella sua interezza, e non ci si può limitare esclusivamente all’ambito dei valori umani, per esempio annunciare la libertà degli oppressi senza ricordarsi del comando ricevuto perentoriamente da Cristo di amare tutti, anche i nemici. Ciò snaturerebbe in maniera grave il Vangelo stesso. Un secondo errore da evitare è quello di far coincidere il frutto del proprio ministero con il perseguimento di quei valori umani che sono propri dell’ordine temporale, dimenticandosi di ricercare l’attuazione del bene primario che è la salvezza dell’uomo. 1.4. L’animazione cristiana dell’ordine temporale La Chiesa, per don Sturzo, ha il compito specifico, affidatale da Cristo, di fermentare il mondo con il buon lievito del Vangelo. Tale opera di fermentazione, che Sturzo sintetizza nei due principi: formare le coscienze e moralizzare la vita pubblica11, può essere definita operativamente in tre precisi momenti: istruzione, educazione, azione. Nel primo momento, la Chiesa apre le menti alla conoscenza del pensiero cristiano, così che l’ordine temporale venga a contatto con quelle profonde motivazioni e quei valori che ne svelano la ragion d’essere alla luce del messaggio cristiano. In un secondo momento educa gli animi con metodi appropriati a tradurre il pensiero cristiano attinente l’ordine temporale in termini di concretezza, e informandolo circa i valori e i principi morali. In un terzo momento attraverso i suoi membri presenti e operanti nei vari settori dell’ordine temporale, la Chiesa tende a tradurre nei limiti consentiti dalle diverse situazioni storiche, il proprio annuncio e il proprio pensiero in termini di concretezza, incidendo così sull’ordine temporale, fermentandolo cristianamente. Il campo concreto in cui Sturzo decide di vivere il suo apostolato è dunque quello che noi definiamo ordine temporale. Il suo è un impegno apostolico diretto a contagiare di principi cristiani istituzioni pubbliche e pubblici ruoli istituzionali. 11 Sull’argomento ci si può rifare all’articolo di S. MILLESOLI, Moralizzare la vita pubblica, in Synaxis 25 (2008) 45-58.

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Il modus operandi sturziano si basa su due principi che lo caratterizzeranno sempre: innanzitutto animare cristianamente anche quegli aspetti e quegli ambiti della società che non sono direttamente collegati all’ambito della fede o rivelati dalla stessa; e in secondo luogo mantenere l’azione sociale e politica sganciata dalla diretta responsabilità della gerarchia ecclesiastica. Questi principi derivano dal fatto che l’impegno apostolico di animazione cristiana non si può limitare ad una semplice proposizione di verità rivelate o all’affermazione di principi universali, ma tende costantemente ad applicare quei principi, che restano pur sempre validi, ai casi concreti che la storia va via via proponendo. Ora, i principi e i valori in sé stessi sono universali ed assoluti, mentre la loro applicazione ai casi concreti è sempre, o quasi sempre, contingente e problematica, lascia quindi sempre liberi coloro che intendono eseguirla. Così il compito della Chiesa non sarà quello di pilotare gerarchimante l’opera di apostolato nell’ordine temporale, ma quello di annunciare, ricordare e verificare che tale opera non si allontani mai dalla via diritta che è Cristo12.

2. La via delle beatitudini 2.1. Gli otto gradi della perfezione Sollecitata e sostenuta dagli stessi insegnamenti di Gesù, la Chiesa ha chiaro il cammino da fare per seguire la via che è Cristo. Nel Vangelo troviamo, infatti, una chiara definizione di questo percorso, necessario per la santificazione del discepolo, nel noto Discorso della Montagna. Don Sturzo riconosce nelle Beatitudini evangeliche dettate da Gesù, distinguendole debitamente dai consigli evangelici di castità – povertà – obbedienza, otto aspetti della vita spirituale cristiana, o, meglio ancora, otto gradi di perfezione: «Quante poche persone hanno scoperto le beatitudini contenute nei sublimi insegnamenti di Cristo! Ho anche udito dire che le beatitudini si riferiscono ai consigli; confusione ovvia dei cosiddetti consigli evangelici di povertà, castità e 12

Cfr. Mater et magistra, 3.

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obbedienza, che sono la base dei voti pronunciati dagli appartenenti alle comunità religiose, con le beatitudini che sono la via per la felicità, la vera felicità promessa a tutti i cristiani. Ed è stato proprio Gesù a presentare i suoi precetti ed insegnamenti sotto l’aspetto della vera felicità – in questa vita e dopo la morte – per indurre gli uomini a seguirlo. Esse consistevano in otto aspetti della vita spirituale o in otto frutti della conversione al Signore o in otto gradi di perfezione: le otto beatitudini»13.

Lasciamo che sia don Sturzo a commentare questa pagina fondamentale del Vangelo. «Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi»14.

1) Beati i poveri in spirito «Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli. È questa la prima beatitudine, quella del distacco dalle cose terrene, suggerite dalla parola ricchezza, ma che includono tutte le soddisfazioni della vita, le illecite così come le lecite. Perché l’attaccamento dello spirito alle cose transitorie (anche quelle che non sono male) provoca la perdita dell’interesse per quelle eterne, il desiderio di oggetti che non possono essere posseduti senza indulgere alle debolezze e agli errori, ed infine l’adesione a quello che è illecito. È necessario andare alle radici della questione: non vi è altro mezzo che questo distacco, lo spirito di povertà, che impedisca in noi lo svilupparsi dei sentimenti dell’orgoglio, dell’avarizia, dell’egoismo e che alimenti invece l’altruismo, la mortificazione, l’umiltà»15.

13

L. STURZO, Problemi spirituali, cit., 103. Mt 5, 1-12. 15 Ibid., 104. 14

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2) Beati gli afflitti «Beati coloro che piangono, perché essi saranno consolati. Il dolore è la nostra sorte in questo mondo, non c’è nessuno che possa vantarsi di non avere mai sofferto, fisicamente o spiritualmente. La felicità appartiene a coloro che sopportano il dolore, ed in questa sopportazione trovano conforto. Ogni vero conforto viene da Dio; il conforto che promette Gesù è il conforto della sua parola. Questa parola comprende in se ogni altra legittima consolazione, anche il naturale conforto del passaggio dal dolore e dalle lacrime alla loro cessazione. Nel dolore stesso è contenuto il rimedio della volontà di vincerlo e sopportarlo, ma la consolazione non è il risultato dell’insensibilità o del titanismo orgoglioso, è invece il balsamo della rassegnazione al volere di Dio»16.

3) Beati i miti «Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra. La mansuetudine è quel dono necessario per vivere con gli altri che ci rende capaci di vincere i moti dell’ira, della gelosia, dell’odio e di evitare le conseguenze perniciose ed antisociali che ne derivano; per indicare l’effetto propizio della mansuetudine, Gesù stabiliva per sua ricompensa il possesso del cielo»17.

4) Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché essi saranno saziati. La parola giustizia comprende tutti i bisogni fondamentali dell’uomo nella sua vita di relazione con gli altri: la società degli uomini con Dio (dipendenza filiale), la società degli uomini fra loro. Le loro relazioni devono essere prima di tutto basate sulla giustizia; la giustizia può essere presa come l’insieme di tutte le virtù. L’evangelista chiamava san Giuseppe “giusto”; gli eletti sono chiamati giusti in opposizione ai peccatori. Affinché la giustizia possa essere realizzata in noi stessi e nel mondo, noi dobbiamo avere fame e sete di lei: la giustizia è il regno di Dio per il quale noi preghiamo ogni volta che domandiamo: “venga il tuo regno” – richiamo al regno della giustizia»18.

16

L.c. L.c. 18 Ibid., 104-105. 17

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5) Beati i misericordiosi «Beati i misericordiosi, perché essi troveranno misericordia. La giustizia non basta; è necessaria anche la misericordia nelle nostre relazioni con gli altri, proprio noi domandiamo sempre misericordia a Dio per i nostri peccati ripetendo il Pater Noster: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Come si potrebbe vivere nel mondo sotto il rigore della giustizia se non esistessero anche la misericordia, la comprensione, la pietà, la clemenza – tutto quello che da la testimonianza di un’anima disposta a comprendere e ad aiutare gli altri, dimenticando le loro offese?»19.

6) Beati i puri di cuore «La purezza di cuore è la fonte della purezza del pensiero, dell’azione e della relazioni con gli altri perchè, come insegna Gesù, “dal cuore vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie” La purezza è la fioritura di tutte le virtù indicate nelle precedenti beatitudini – povertà di spirito, umiltà, mitezza, rassegnazione, giustizia e misericordia – virtù che si trovano difficilmente o non si trovano del tutto (oppure solo in apparenza) nell’uomo impuro, il quale, per soddisfare le sue passioni, tratta come cosa vile sè stesso e gli altri e viola le più sacre leggi naturali e cristiane»20.

7) Beati gli operatori di pace «Ecco un altro gradino della scala delle beatitudini, dove stanno i pacifici, chiamati giustamente figli di Dio, proprio come i seminatori del male, i suscitatori di discordia, i provocatori di liti, i promotori di guerre non possono essere chiamati che figli del diavolo. Cosa c’è di più umano, di più caritatevole, di più degno dell’uomo che la pace?»21.

8) Beati i perseguitati per la giustizia «Comunque, ci saranno sempre persecuzioni sulla terra, perché l’ingiustizia è sempre schierata contro la giustizia e la legge morale. Perciò beati quelli che

19

Ibid., 105. L.c. 21 Ibid., 105-106. 20

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soffrono persecuzioni per causa della giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. Coloro che si oppongono all’ingiustizia, coloro che rendono testimonianza alla giustizia e cercano di ristabilirla, saranno beati anche se subiranno persecuzioni. Non solo gli apostoli che Gesù inviò “come agnelli tra i lupi” a predicare il regno di Dio, non solo i loro successori, ma ogni cristiano deve sopportare le persecuzioni per amore della giustizia. Milioni di discepoli di Gesù subirono il martirio nei primi secoli, ed erano di tutte le classi senza eccezione; compresi fanciulli e fanciulle di 15 e 13 anni, come Tarcisio e Venanzio, Lucia e Agnese»22.

Conclude la sua riflessione don Sturzo asserendo come l’unica vera ricompensa per l’uomo che mette in pratica le beatitudini è Dio stesso, dal quale ogni bene scaturisce, e che, solo, può veramente soddisfare la sete di felicità di ogni creatura umana: «A tutti i beati sono promesse le seguenti ricompense: il regno dei cieli, il possesso della terra, il conforto del dolore, la soddisfazione della fame e della sete di giustizia, l’acquisto della grazia, la visione di Dio, il titolo di “figlio di Dio”. Ma queste ricompense sono tutte contenute in Dio, sia in questa vita che nella futura, perché non c’è altra ricompensa che possa soddisfare e completare la nostra felicità tranne Dio stesso»23.

2.2. Attuazione sociale delle beatitudini All’uomo di fede non resta altro, conclude don Sturzo, che percorrere la via tracciata dalle parole di Gesù, anche se ciò non sarà privo di difficoltà: «Anche i fedeli che praticano la vita cristiana sembrano per lo più tenere in grande conto le beatitudini proclamate da Cristo ai suoi seguaci. È vero che molti fedeli fanno un certo sforzo per compiere il loro dovere ed evitare il peccato mortale, ma la tiepidezza spirituale della maggior parte di essi è tale e l’abitudine di pensare e di sentire secondo il mondo è così profondamente radicata, che le beatitudini cristiane sfuggono alla loro visione. Essi non provano il desiderio di metterle in pratica perché sono convinti dell’impossibilità di raggiungere tali altezze»24.

22

Ibid., 106. L.c. 24 L.c. 23

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Da queste parole ci accorgiamo come egli individui due difficoltà principali: - la tiepidezza spirituale, che non fa vincere l’attrattiva del mondo con il suo pensiero incline al peccato; - la convinzione dell’impossibilità di attuazione delle Beatitudini, che fa scoraggiare prima ancora di affrontare il percorso. Per contrastare la prima difficoltà don Sturzo ribadisce che: «Sostanzialmente si tratta di combattere le nostre passioni, di vincere le nostre cattive abitudini, di esercitare noi stessi nell’ascetismo cristiano secondo le nostre forze e di voler ubbidire alle leggi di Dio»25.

Mentre per la seconda scandisce una risposta più articolata: «Per coloro che ritengono le beatitudini una meta irraggiungibile è utile far risaltare il loro aspetto negativo, così che essi possano essere incoraggiati a praticarle, ed essere così gradualmente resi consapevoli del loro pieno significato. Quando si dicono beati i poveri di spirito, si deduce che coloro che sono attaccati alle ricchezze saranno infelici; e quando si dicono beati i mansueti si deduce che gli iracondi non avranno gioia. Così pure ne segue che quelli che non sanno soffrire non saranno confortati, quelli che non hanno fame e sete di giustizia non avranno soddisfazione, i vendicativi non avranno misericordia, gli impuri non vedranno Dio, i suscitatori di discordie non saranno amati come figli di Dio, e quelli che sono ingiusti e perseguitano i difensori della giustizia non parteciperanno al suo Regno. Insomma, i primi sono pure beati in questa vita e in quella futura, mentre i secondi saranno infelici in ambedue le vite se non si pentono e non si correggono»26.

Don Sturzo chiude questa pagina sulle Beatitudine evangeliche ribadendo, a coloro che preferiscono avere una felicità mondana piuttosto che aspettare quella ultraterrena, come la felicità autentica e duratura potrà essere possibile solo praticando la via proposta da Cristo: «Un gran numero di persone, anche battezzate, non sono affatto spaventate dall’infelicità nella vita futura purché possano essere felici in questa. Il loro errore è duplice, perché coloro che mancano della virtù proclamata da Cristo nelle otto beatitudini non saranno felici né in questa vita né nell’altra. Chiunque provoca dolore agli altri per il suo orgoglio o avarizia, o odio, non può dire sé stesso felice, a meno che non menta deliberatamente. Un tale uomo può render 25 26

Ibid., 106-107. Ibid., 107.

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sorde le sue orecchie dandosi interamente agli affari e al piacere, può far tacere il rimorso della coscienza per l’abitudine al male, può chiudere la sua mente alle voci del dovere, negando infine l’esistenza di Dio e della vita futura; ma non può mai aver pace, tranquillità o speranza nel suo spirito; egli non avrà la vera beatitudine di Cristo»27.

27

L.c.

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Capitolo VII

Apostoli e testimoni di Dio nel mondo

«Molti sono i santi, uomini e donne, i quali, pur vivendo come laici, hanno seguito l’esempio degli apostoli, e sono stati veri testimoni della chiesa di Cristo. Molti di loro, anche se non sono ricordati come santi, furono veri “cooperatori nel regno di Dio”»

1. L’apostolato dei laici Le Beatitudini evangeliche danno a don Sturzo il quadro di riferimento del percorso che il discepolo di Gesù deve compiere per giungere alla felicità piena in Dio. Ma perché questo percorso non rischi mai di essere disincarnato è bene legare al dovere della propria santificazione anche il dovere, già analizzato ampiamente, dell’impegno a favore della società degli uomini dove ci si trova inseriti. Per descrivere questo impegno la tradizione cristiana si serve del termine, molto efficace e denso di significato, di apostolato. Per apostolato intendiamo qui, l’insieme di tutte quelle opere e attività atte a favorire l’animazione cristiana delle realtà temporali, soprattutto quelle non direttamente raggiungibili dall’opera ministeriale della Chiesa1. Attraverso l’apostolato, soprattutto quello dei laici, la Chiesa adempie la sua missione salvifica a favore del mondo, missione che il Vaticano II definisce instauratio mundi2, cioè l’impegno della comunità dei credenti affinchè la società temporale si edifichi sull’unico fondamento che è Cristo. 1 Cfr. P. SCABINI, Apostolato, in E. ANCILLI (cur.), Dizionario di Spiritualità dei laici, I, Milano 1981, 35-39. 2 Lumen gentium, 5.48; Apostolicam actuositatem, 5.7; Gaudium et spes, 3.

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Ancor prima delle considerazioni conciliari don Sturzo riflette sulla necessità di ridefinire, secondo le nuove prospettive, e quindi sollecitare tra i fedeli laici il dovere antico e moderno dell’apostolato: «L’apostolato laico ha due aspetti uno permanente che è cominciato con il cristianesimo e durerà quanto dura la chiesa; l’altro variabile secondo le epoche, i paesi, le necessità dei tempi. L’apostolato laico è, perciò, antico di quasi duemila anni, e moderno di cinquanta e più anni»3.

All’apostolato dei laici, ricorda don Sturzo, si deve la prima espansione della Chiesa, in quanto questi sorreggono e molto spesso favoriscono il ministero degli stessi Apostoli: «Quel che è da notare è che Dio stesso ha voluto fin dai primi passi della chiesa promuovere tale cooperazione laica; egli manda Anania da Saulo (Paolo) a ridargli la vista, e Cornelio centurione da Pietro per iniziare l’evangelizzazione dei gentili [...] E così dappertutto troviamo uomini di autorità e schiavi, donne nobili e plebee, aiutare spiritualmente e materialmente gli apostoli e i loro compagni nella diffusione del Vangelo e nella fondazione delle varie comunità cristiane disseminate in tutto l’impero romano»4.

Il coraggio e l’audacia di questi collaboratori nell’edificazione del Regno molto spesso è stato pagato a caro prezzo. Ma la difficoltà e il pericolo non hanno mai scoraggiato questi uomini e queste donne dall’adempiere al loro dovere e alla loro missione: «È da allora che laici, uomini e donne, a migliaia hanno cooperato con la gerarchia ecclesiastica nelle attività spirituali e nelle necessità materiali della chiesa e in ogni ramo dell’apostolato, andando anche incontro al martirio. Molti sacrifici sono fatti in segreto e conosciuti solo da Dio. Quanta generosità, purezza di cuore, coraggio, costanza e dedizione illimitata alla volontà divina!»5.

Per questi coraggiosi testimoni della fede, l’inserimento nel mondo non è stata causa di smarrimento, ma, anzi, sorretti dallo spirito di quelle Beatitudini promesse da Cristo, dedicandosi rettamente alle cose del mondo secondo il loro stato, ne hanno fatto una via di santificazione: 3

L. STURZO, Problemi spirituali, cit., 112. Ibid., 113. 5 L.c. 4

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«Ogni secolo ha avuto legioni di laici che, pur rimanendo nel mondo e dedicandosi alle loro famiglie e alla loro professione, sono tuttavia riusciti ad approfondire la loro spiritualità e a trovare la via della santificazione. Ma questo non significava, né lo poteva, il loro isolamento; c’era invece uno stretto contatto con tutte le miserie e le necessità del loro prossimo, che assistevano con cuore aperto e con la comprensione dell’amore prima che con mezzi materiali»6.

Per il mondo contemporaneo l’impegno santificante di un tale apostolato deve essere attuato secondo nuove prospettive, perché, sottolinea don Sturzo, il mondo nel frattempo è cambiato, e la società, prima molto devota, ora è vittima di un imperante materialismo: «“Apostolato laico” e “Azione Cattolica” sono parole moderne. Ma la realtà espressa da esse esisteva nei secoli passati, come già abbiamo visto, spesso sotto la forma di opere di carità o santificazione per mezzo di associazioni religiose come terziariati e confraternite. La società era allora sinceramente devota, e le lotte allora esistenti avvenivano fra cattolici e chiese dissidenti, mentre la propaganda per il bene, la riforma dei costumi, la pratica dei sacramenti, erano esercitate in una società animata dalla fede. Ma oggi ci troviamo in una società che, pur proclamandosi cristiana (quando lo stesso cristianesimo non viene rinnegato), in gran parte non lo è più. La fede e l’interesse per la fede sono mancanti e molti non sanno cosa significhi essere cristiani. La società è impregnata di materialismo; in molte scuole il cristianesimo viene ripudiato in nome della scienza, mentre altri lo considerano una concezione morale ma non una fede dogmatica»7.

Con questo quadro di riferimento davanti, il sacerdote Sturzo individua una possibile nuova attuazione dell’apostolato dei laici: «Penetrare in questo mondo, specialmente in quello operaio, con la stampa, le opere sociali ed economiche, le iniziative di carità, e portarvi, infine, la parola evangelica, quella che illumina, vivifica, sana, ristora e trasforma, ecco il tipo moderno di apostolato laico»8.

6

Ibid., 113-114. Ibid., 114-115. 8 Ibid., 115. 7

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2. Unione con dio nell’apostolato 2.1. Esempi di santi “laici” Don Sturzo passa ora in rassegna alcuni dei personaggi a lui contemporanei, che da veri apostoli hanno vissuto il loro inserimento e la loro missione nel mondo delle realtà temporali, diventandone sale, luce e lievito. E con un senso di fiero compiacimento ne propone sinteticamente una scheda biografica sottolineandone gli aspetti salienti della loro vita cristiana: «Nella mia lunga attività politica e sociale in Italia, che si estese dal 1894 al 1924, ho incontrato un grandissimo numero di altri virtuosi giovani, studenti, operai e professionisti la cui vita era un esempio di pietà e di dedizione al bene degli altri. Ora, dopo tanti anni di assenza forzata dal mio amato paese, non su quanti altri processi canonici si stanno istruendo nelle varie diocesi d’Italia»9.

2.2. Contardo Ferrini (1859-1902)10 «Contardo Ferrini (1859-1902) sarà forse il primo di una serie che, auguriamocelo, non si spezzerà mai nel futuro. Quelli che lo conobbero lo chiamarono santo fin dalla sua fanciullezza. I suoi compagni di scuola lo soprannominarono san Luigi, con rispetto misto ad una punta di celia. In famiglia, nel collegio, all’università dimostrò cosa è la purezza nel senso più vasto della parola. Fin dai primi anni sentì un’attrazione spirituale verso Dio, verso Gesù Sacramentato; e lo spirito di preghiera durò in lui tutta la vita. E tralasciando di parlare dei suoi studi favoriti, dei doveri adempiuti sia come studente che come insegnante nelle università di Modena, Messina, Pavia e Milano, dei suoi affetti e delle sue relazioni con parenti, amici e dipendenti, si deve dire che egli comunicava agli altri questa sua spiritualità e questa gioia interiore dell’unione con Dio. Senza essere un pedante e senza atteggiarsi a moralista, la sua presenza elevava chi gli era vicino. Egli provava disgusto ma al tempo stesso dolore per gli ambienti pagani, le brigate di giovani licenziosi, le scuole senza Dio. Così quando a Berlino, dove si era recato per completare i suoi studi giuridici (1880-82), ebbe la fortuna di venire a contatto con i giovani cattolici del partito del Centro, comprese quale era il campo di battaglia della sua fede e del suo apostola-

9

Ibid., 125. Sulla figura del Ferrini ci si può rifare a: M. INVERNIZZI, Il Beato Contardo Ferrini – Il rigore della ricerca, il coraggio della fede, Casale Monferrato 2002; C. PELLEGRINI, La vita del Prof. Contardo Ferrini, Torino 1928 (principale biografia del Beato). 10

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to laico. V’erano già alcuni centri di azione cattolica in Milano e Pavia al tempo in cui Ferrini studiava in queste città. Ma allora l’azione cattolica era nelle mani dei così detti intransigenti, dei quali don Albertario, editore dell’Osservatore Cattolico, era il campione al tempo stesso più amato e più odiato. L’ambiente di Contardo Ferrini - famiglia, amici, relazioni di scuola, consiglieri ecclesiastici - era quello dei conciliatoristi, i quali cercavano in quel tempo un accomodamento tra stato e chiesa. C’era in Ferrini una mentalità nazionale molto sviluppata, in un tempo in cui la nuova nazione si trovava ancora al primo stadio del suo sviluppo; ma sopra ogni altra cosa egli era cattolico; e ubbidiente alla disciplina cattolica nella vita politica, permise che il suo nome fosse incluso nella lista cattolica per le elezioni municipali di Milano del 1895, sebbene fosse riluttante e temesse di essere distratto dai suoi studi. Io non ricordo se egli era presente al grande convegno di cattolici tenuto in Milano nel 1897 per celebrare il quindicesimo centenario di sant’Ambrogio. In quel tempo il nuovo arcivescovo, cardinal Ferrari, anch’egli uomo di santa vita, impiegava tutti i suoi sforzi per eliminare i contrasti tra le due frazioni cattoliche che avevano per quasi trent’anni agitato la città di Milano; fu allora che Meda, collega di Ferrini nel consiglio comunale, emerse come il nuovo dirigente che doveva riconciliare i cattolici militanti di Milano. Contardo non era un uomo d’azione, era uomo di studio. Avendo pubblicato più di duecento saggi sul diritto romano divenne ben presto una personalità eminente nella cultura italiana, e vi impresse in modo indelebile la sua impronta personale. In un periodo in cui l’indirizzo scientifico della giurisprudenza era o positivista o storicista alla maniera tedesca, egli fece risaltare i principi etici e i valori «finalistici» del diritto. Desta un profondo rimpianto il fatto che sia morto a soli 43, anni di età, nel colmo delle sue facoltà e della sua attività scientifica; ma il Signore lo trovò maturo e lo chiamò alla ricompensa celeste. Era un santo, dissero all’annuncio della sua morte. E difatti la sua vita ebbe come centro Dio, e la sua unione con Dio non si spezzò mai, ma crebbe,al contrario giorno per giorno nelle profondità della sua anima. Questo era il segreto della sua santità»11.

2.3. Giuseppe Toniolo (1846-1918)12 «Mentre Ferrini durante la sua vita fu poco noto alla maggior parte dei cattolici italiani fuori di Lombardia, il prof. Giuseppe Toniolo (1846-1918) fu invece molto conosciuto ed amato, e lasciò dietro di sè un’impronta indelebile. Più giovane di Ferrini di circa tredici anni, visse fino al 1918, attraverso gli anni del liberalismo, del socialismo e della democrazia cristiana, fino al termine della

11

Ibid., 116-118. Utile approfondimento sulla figura lo studio di A. ARDIGÒ, Toniolo: il primato della riforma sociale, Bologna, 1978. 12

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prima grande guerra, nel pieno ardore della sua inesausta attività. Toniolo, come economista e sociologo, ha una notevole posizione sua personale; fu inoltre uno dei primi a sostenere nel campo degli studi economici il concetto etico di società. Sfortunatamente le sue opere o sono troppo tecniche per un vasto pubblico di lettori o sono legate a pubblicazioni del suo periodo. Toniolo fu, più che il capo, l’apostolo della democrazia cristiana. Era presidente dell’unione popolare tra i cattolici italiani (una specie di Volksverein trapiantato in Italia dopo lo sciogliment dell’opera dei congressi awenuto per ordine di Pio X). La sua influenza tra i cattolici, nel campo culturale ed in quello sociale, era enorme. Tutti coloro che ebbero il privilegio di trovarsi a stretto contatto con Toniolo nella conversazione, nelle riunioni, nello scambio di idee con lui, la moglie ed i figli (una famiglia veramente cristiana), non ne dimenticheranno mai la purezza di vita, la fede attiva, il carattere fermo, la calma di fronte alle più grandi prove della vita, l’attività piena di ispirazione per il successo di ogni causa buona e la pietà profonda e priva di ostentazione. Ogni cosa in lui rifletteva una profonda vita spirituale: anche le sue lezioni di economia, pur così dense di conoscenze tecniche, mantengono sempre il senso della proporzione tra il materiale e lo spirituale, così da mettere in evidenza quel valore spirituale che è la forza intima dei fatti materiali e la molla del loro sviluppo storico. La sua tesi principale era che la civiltà o è cristiana o non è, e che il suo procedere, complicato ma inarrestabile, è diretto verso una libertà non individualistica e priva di limiti, ma realizzabile solo socialmente. È consolante leggere dopo quarantadue anni questa famosa affermazione che causò tanto rumore in Italia durante la sua vita: “I cattolici, d’accordo con la vera sociologia, chiedono la libertà come la sostanza ed il lievito della futura democrazia”. In quei giorni l’Italia non era ancora un paese a pieno regime democratico (il suffragio universale fu concesso nel 1912), e non tutti i cattolici erano entusiasti dell’idea di libertà da molti confusa con il “liberalismo”. Ora che si tratta la causa della beatificazione di Toniolo, leggere i suoi volumi e le sue lettere e studiare i suoi discorsi, lontani come sono adesso dalle lotte di quel periodo così acceso, tornerebbe utile a molti che, a mezzo secolo di distanza, rinnovano le stesse dispute dando loro solo una diversa apparenza. Ma, soprattutto, si può trovare nel pensiero di Toniolo quell’alimento spirituale che nutre la mente con la presenza di Dio anche quando si occupa dei problemi terreni e degli scopi pratici di questa vita transeunte»13.

2.4. Giuseppe Moscati (1880-1927)14 «Volgiamoci ora all’Italia meridionale. Troviamo qui un altro professore universitario, un medico, Giuseppe Moscati, nato nel 1880 a Benevento, dove suo

13 14

Ibid., 118-120. Tra le recenti pubblicazione sul Moscati ci si può rifare a: P. BERGAMINI, Laico cioè

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padre era presidente del tribunale. Come Ferrini e Toniolo, anche Giuseppe Moscati frequentò le scuole pubbliche e l’università, dove prevaleva l’educazione laica, erano allora di moda positivismo e materialismo e faceva la sua prima apparizione il neo-hegelismo del Croce. Ma, come gli altri due, anch’egli apparteneva ad una famiglia che lo educò religiosamente. Egli appartenne all’associazione della gioventù cattolica italiana in un periodo di fervore ed attività senza precedenti. Nominato medico nell’ospedale degli incurabili di Napoli, egli era, come una delle suore era solita dire, il “santo dei malati” più che il loro medico. La sua carriera, sia come scienziato che come professionista, fu nondimeno delle più brillanti. Egli definiva le sua vita come “un’ascensione verso Dio sulla scala della scienza”. Grande era l’influenza che esercitava sui discepoli, riportando studenti e malati alla fede e alla pratica della vita cristiana. Rinunciando al matrimonio, fece voto di castità, e pur rimanendo nel mondo visse puro come un angelo. Moscati tenne lezioni di chimica fisiologica nell’università di Napoli, fu membro di parecchie accademie straniere e prese parte a molti congressi scientifici internazionali. Durante la prima guerra mondiale ebbe un’importante posizione nell’esercito. Fu chiamato in cielo all’età di quarantasette anni, ancora nel pieno fervore della sua attività. Il 12 aprile 1927 andò in chiesa, servì la messa e ricevette la santa comunione, come era sua abitudine quotidiana. Sulla via del ritorno incontrò una signora che conosceva e le disse: “Venga a tener compagnia a mia sorella perchè io stanotte vi lascerò”. E quella notte stessa fu trovato morto, seduto nella sua poltrona, con le braccia incrociate sul petto. Il suo funerale fu un trionfo. Anche del Moscati come del Toniolo sono in corso i processi canonici»15.

2.5. Ludovico Necchi (1876-1930)16 «Quasi coetaneo di Moscati era Ludovico Necchi, nato a Milano nel 1876 e morto l’11 gennaio 1930, anch’egli medico e professore universitario (insegnava biologia). Pure Necchi prestò la sua opera nei servizi sanitari durante la prima guerra mondiale, lavorò negli ospedali, fu come un padre per i poveri e i malati ed esercitò un grande ascendente sui suoi discepoli. Io feci conoscenza con Vico Necchi nel 1900 in Roma, in occasione di un congresso democratico cristiano al quale era intervenuto come delegato di Milano. Sebbene appena ventiquattrenne sembrava un uomo maturo e venne chiamato a presiedere l’assemblea. Egli divenne uno dei più animosi e convinti propagandisti della democrazia cristiana, fronteggiando nelle pubbliche riunioni e nei comizi le cristiano. San Giuseppe Moscati medico, Torino 2003; F. OCCHETTA, Giuseppe Moscati. Esempio di santità laica, Torino 2009. 15 Ibid., 120-121. 16 Utile per un approfondimento: F. OLGIATI, Vico Necchi. Un maestro di fede e di vita, Milano 1952.

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folle con una calma ed una serenità straordinaria. Quando si ebbe la crisi della democrazia cristiana Necchi rimase con l’ala che era fedele alle direttive del Papa, e più tardi, quando si costituì l’“organizzazione dell’unione popolare”, Necchi ne fu prima vicepresidente, poi presidente, dirigendo per tre anni il lavoro dell’azione cattolica nella penisola. Nella vita pubblica fu membro del consiglio comunale di Milano, iscritto al partito popolare e candidato alle elezioni politiche del 1918 e del 1921. Ma soprattutto egli dedicò la sua attività allo studio ed all’università cattolica, che stava per essere fondata proprio allora, con il concorso anche di Necchi; il quale fondò pure, più di trent’anni fa, insieme a padre Agostino Gemelli ed a monsignor Francesco Olgiati, la Rivista di Filosofia Neoscolastica. Come Toniolo, Necchi aveva moglie e figli, e nella famiglia espirava la stessa atmosfera di bontà, umiltà ed amore che gli era propria. La sua vita esteriore, anche quella di uomo di scienza e d’azione, era una proiezione della sua vita interiore così intensa e piena di misticismo ed in cui, alla fiamma dell’amore di Dio, i timori e le lotte si trasformavano in fiducia e tranquillità. Dovette sopportare parecchie oscure ore di angoscia, ma chiuse la sua vita in pace. Il processo di canonizzazione di Vico Necchi è ora sotto gli auspici dell’università cattolica di Milano»17.

2.6. Bartolo Longo (1841-1926)18 «Volgendoci di nuovo al sud, troviamo un altro laico morto in odore di santità, Bartolo Longo. Con lui lasciamo le aule universitarie, il movimento politico della democrazia cristiana e quello dell’azione cattolica per trovarci in un santuario, ambiente che sembra più adatto ad un santo. Vicino alle rovine dell’antica Pompei sorge la casa della Nostra Signora del Rosario, che si eleva sui verdi frutteti suburbani, sulle pianure e le valli alle falde del Vesuvio. Il nome di Bartolo Longo è legato indissolubilmente a quel santuario. Longo era nato nel 1841 a Lariano in Puglia dove cominciò la sua carriera giuridica, e passò i primi anni della maturità lontano dalla religione. La sua conversione fu sincera e completa ed il richiamo speciale da lui provato lo fece dedicare alle opere di carità, dapprima nella sua regione nativa, poi in Napoli dove sposò la contessa Fusco, donna profondamente religiosa che gli fu compagna devota e fedele. Egli ebbe occasione di visitare per la prima volta Pompei a causa degli interessi della moglie che vi possedeva un fondo. Longo cominciò ad insegnare il catechismo ai contadini di quel villaggio, ed appese un quadro della Nostra Signora del Rosario nella vecchia e rustica cappella della valle di Pompei. Poco a poco questa piccola chiesa divenne un centro di devozione al quale conveniva17

Ibid., 121-122. Per un approfondimento della figura del Beato: N. TAMBURRO, Pompei fondata da Bartolo Longo, Pompei 1987. 18

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no in gran numero i pellegrini dai dintorni di Napoli. Con offerte raccolte da ogni parte del mondo Longo costruì una grande chiesa che più tardi ebbe il privilegio del titolo di basilica, e vi eresse vicino parecchie istituzioni di carità per gli orfani ed i fanciulli dei convitti, come scuole, fattorie ed asili dotati di attrezzatura moderna, dirigendo C prendendosi cura personalmente di ognuno di essi, non eccettuata la città che stava sorgendo. Ma ciò non ostante il suo sacrificio personale era incompreso e perseguitato. Anche le autorità ecclesiastiche per un certo periodo di tempo non gli furono favorevoli, ed il papa gli ordinò di affidare la chiesa alle cure dei padri domenicani. Fu anche accusato dagli anticlericali e dai modernisti di fomentare la superstizione, solo perchè da ogni parte del mondo arrivavano le notizie di grazie ottenute tramite l’invocazione della Nostra Signora di Pompei. Ma rimase sempre calmo, fiducioso, sereno, anche nei momenti più difficili della sua vita. lo ebbi occasione di fargli visita durante uno di questi momenti critici: egli mi aprì il suo cuore come solo può fare un uomo di eccezionale virtù. Non dimenticherò mai la sua vigortjsa figura, raccolta in fervorosa preghiera. Le tempeste sono passate; ed il nome di Pompei è oggi legato alle glorie della carità cristiana. Bartolo Longo morì in pace all’età di ottantacinque anni, nel 1926. Toniolo, Moscati e Necchi (non so se anche Ferrini) furono tra quelli che visitarono il santuario e pregarono davanti all’altare della Beata Vergine»19.

2.7. Piergiorgio Frassati (1859-1902)20 «Volgiamo ora la nostra attenzione ad un gruppo di giovani, operai e studenti. Il più noto di questo gruppo di giovani è Pier GiorgioFrassati, lo studente moderno, l’ultimo dei molti che ho avutoil privilegio di incontrare ed amare. Feci conoscenza con luinell’aprile del 1923 a Torino, durante il noto congresso del partito popolare in cui, al teatro Scribe, tremila delegati dichiararono di formare un fronte unico in difesa della libertà contro il fascismò trionfante. Pier Giorgio era lì, nell’avanguardia di questi giovani, ardente di entusiasmo. Figlio del senatore Frassati (proprietario del giornale liberal-democratico di Torino La Stampa ed ambasciatore italiano a Berlino), egli non seguiva il liberalismo del padre ma gli ideali della democrazia cristiana. Non era entrato nella vita politica per soddisfare un’ambizione terrena: era un giovane di fede profonda, C la fede era la sua vera vita. Tutta la sua attività nella gioventù di azione cattolica, nella società di san Vincenzo de’ Paoli, nel partito popolare ed anche nell’alpinismo (poichè anche Frassati amava l’alpinismo come Contardo Ferrini), era il risultato della sua fede intensa e della sua religione operante. Tempe19

Ibid., 122-123. Utile per approfondire questa figura molto apprezzata nel mondo giovanile cattolico: C. CASALEGNO, Pier Giorgio Frassati, Cantalupa (TO) 2005; L. FRASSATI, Mio fratello Pier Giorgio. La fede, Milano 2004. 20

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ramento pieno di vita e di iniziativa, sentiva acutamente tutta la gioia di vivere sia nel corpo che nello spirito; il suo motto era “vita nella gioia”. Sarebbe un errore pensare che egli ottenesse la sua felicità senza sforzo, mentre invece il raggiungerla era £rutto dell’esercizio della sua volontà. Sconcertante come appare agli occhi moderni, arrivò al punto di rinunciare alla fanciulla che avrebbe voluto sposare, per deferenza alla volontà dei genitori. Giovane brillante, prossimo a laurearsi in ingegneria, Pier Giorgio Frassati aveva davanti a sè un promettente avvenire quando un acuto attacco di poliomielite lo portò prematuramente alla tomba dopo una malattia di soli tre giorni. Aveva appena ventiquattro anni. Egli era solito dire che il giorno della morte sarebbe stato il più bello della sua vita, e quando venne la chiamata rispose con la stessa accettazione gioiosa della volontà di Dio che aveva caratterizzato la sua vita. Da allora una folla di giovani e di studenti si reca al cimitero di Pollone per pregare sulla sua tomba. Don Coiazzi. uri apostolo della gioventù italiana, ha riunito i tratti salienti della sua breve vita, e la sua biografia è già apparsa in tutte le lingue. Dal 1924 ad oggi il contatto spirituale tra la gioventù italiana e Pier Giorgio Frassati è stato sempre vivo ed ininterrotto»21.

Don Sturzo ama proporre richiami a figure insigni, e in questo caso figure di santi laici impegnati, perché convinto che un prezioso frutto della devozione ai santi, o coloro che sono ritenuti tali anche senza essere canonizzati, è l’imitazione. Essi diventano per gli uomini esempi di quella necessaria unione con Dio, non contrapposta all’impegno nel mondo, la quale costituisce la vera santità cristiana. Sturzo non esita a richiamare l’attenzione di coloro che lo seguono, attraverso i suoi articoli o gli scritti che va producendo, su figure esemplari che possano in qualche modo suscitare imitatori nel popolo di Dio. Un richiamo, il loro, al dovere di condurre una vita cristiana ogni giorno più perfetta. Gli esempi qui proposti da don Sturzo, in maniera particolare, devono essere un conforto e in qualche maniera debbono infonderci entusiasmo nel camminare sulla via delle Beatitudini senza perdere mai il contatto con la realtà storica e contingente in cui ci troviamo inseriti.

21

Ibid., 124-125.

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Conclusione

La vera vita conduce alla visione di Dio

«La visione è un comletamento e perfezionamento della grazia, in quanto l’anima, purificata da ogni scoria di peccato e fatta capace di vedere Dio faccia a faccia, è ammessa a questo atto beatificante»

Il racconto, seppur breve, dell’esperienza di alcuni tra i più noti testimoni dell’apostolato sociale in Italia al tempo di don Sturzo, ci invita adesso, traendo le nostre conclusioni, a sollevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo della nostra esperienza di fede, cioè la stessa visione di Dio. Don Sturzo nella Vera Vita organizza il percorso discorsivo verso la pienezza dell’esperienza cristiana ritenendo che tutti gli uomini, anzi meglio tutti gli esseri intelligenti, sono potenzialmente votati alla partecipazione della gloria divina che si realizza certamente nell’intimo rapporto anima-Dio, rapporto che raggiungerà la sua completezza nell’unione definitiva tra la creatura e il Creatore, ma al tempo stesso si schiude e si espande attraverso la carità verso gli altri, che si realizza in tanti modi, non escluso l’impegno sociale e politico. Perché questo cammino verso la Gloria possa proseguire, sostiene don Sturzo, occorre crescere nella formazione della coscienza, la quale, in quanto sacrario nel quale l’uomo incontra Dio e sente risuonare l’appello a compiere il bene e a fuggire il male1, costituisce il luogo in cui l’uomo esercita la sua libertà scegliendo a favore o contro la sua dimensione soprannaturale e la conseguente unione con Dio. Poiché l’uomo è creatura allo stesso tempo individuale e sociale, le sue attività, comprese le colpe personali, hanno effetti sociali. Nell’intreccio 1

Cfr. Gaudium et spes, 16.

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complesso costituito dall’attività dei singoli nell’interferenza delle attività di tutti che è la società, le buone e le cattive tendenze di tutti e di ciascuno si estrinsecano e si consolidano, così che in ogni realtà sociale troviamo insieme le impronte del bene e del male. L’orgoglio soffia dentro l’attività buona svolta dagli uomini per perseguire il proprio fine, tentando di distruggere ciò che vi è di bene attraverso lo spirito di ribellione all’ordine finalistico della creazione. La superbia dei singoli passa così nella realtà sociale e vi si concretizza; perciò la scelta individuale per il bene o per il male, per Dio o contro Dio, esercita la sua influenza su tutti gli esseri, che sono legati tra loro da una comunione misteriosa. «Ecco come la nuova società umano-divina s’instaura: Dio è il centro di origine e di finalità, di natura e di grazia, di via e di termine. Gli esseri puramente spirituali, quali gli ordini angelici, e tutti gli uomini, di prima e dopo Cristo, sono chiamati a partecipare a questa società; anche gli esseri intelligenti disseminati nel cosmo sono, in ipotesi, appellati alla conoscenza e all’amore di Dio. Fra tutti costoro, passati presenti e futuri, è costituita una società reale e ideale allo stesso tempo. La società è fra l’anima e Dio; Dio il padre e tutti gli esseri intelligenti i figli, chiamati a una partecipazione intima di benessere e di vita. Tale partecipazione di bene non può rimanere chiusa nell’anima di ciascuno, si espande nella carità verso gli altri, come un fiume di bontà che irriga gli argini dove passa e fertilizza i terreni che bagna. La società nostra è con Dio e con i fratelli ed è una società effettiva e produttrice di bene. La società naturale coesiste allo stesso tempo con la società soprannaturale, la conoscenza e l’amore naturale sono nobilitati e rivalutati soprannaturalmente. In uno stesso amore abbracciamo tutti, anche gli angeli del cielo, gli uomini che furono o che saranno, gli altri esseri intelligenti che noi non conosciamo né abbiamo ragione di conoscere, ma che pensiamo esistenti nei mondi celesti. Tutti siamo stati, siamo o saremo itineranti dal mondo creato verso un’infinità increata, Dio, che ci si darà siccome è: tutti, come si muovono i cieli, ci muoviamo verso il nostro termine»2.

Il cammino ascetico di purificazione dei desideri in vista dell’unificazione finale, non implica affatto che l’uomo debba astenersi dall’usare delle realtà di questo mondo, bensì necessita il recupero della consapevolezza che esse non costituiscono la Verità permanente e immanente di cui nutrire la propria conoscenza e il proprio amore3. Chi supera la parvenza mondana è partecipe del regno di Dio, come rivelano le Beatitudini, la cui formazione visibile sulla terra è la chiesa, la quale dunque, pur parte2 3

Ibid., 236-237. Cfr. ibid., 157-158.

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cipando della commistione ineluttabile tra bene e male, tra grazia e peccato, che crescono insieme fino al giudizio, ha un ruolo fondamentale nel cammino ascetico verso l’unione mistica con Dio e la ricapitolazione universale in Cristo. Da tutto quanto abbiamo detto, si comprende il valore straordinario attribuito da don Sturzo alla libertà umana, vera artefice della storia: quanto più la coscienza del bene e del male è accompagnata da una volontà forte, tanto più l’uomo è capace non solo di scelte veramente libere, al di là di ogni condizionamento, ma anche di trasformare i condizionamenti in altrettanti mezzi al servizio della realizzazione del fine ultimo. «Il bene e il male, il mondo e il regno di Dio comprendono tutta l’attività umana sulla terra, in un continuo processo, che noi chiamiamo storia. [...] L’attività umana è quella che fa la storia [...] libera nelle sue vie, nelle sue scelte [...] Quanto più libera e forte è la volontà ad agire tanto più il condizionamento cessa di essere legame ed ostacolo e diviene mezzo e coefficiente di realizzazione. Tutto ciò che non è iniziativa individuale può considerarsi come condizionamento»4.

Nella realizzazione progressiva dell’incarnazione nella storia, ogni acquisizione parziale del bene è frutto di fatica, di sforzi, di insuccessi, di superamento di crisi e difficoltà; per questo ogni conquista deve essere necessariamente mantenuta e accresciuta, in un progresso senza fine. Qui si esercita un altro esercizio ascetico fondamentale di vigilanza, di costanza e di perseveranza. «I beni conquistati, essendo insufficienti per se stessi, appellano altri beni da realizzare. La conquista del benessere è sempre parziale, mai totale; è precaria, mai definitiva: da difendersi rinnovandola, accrescendola, restaurandola; in una parola, rivivendo il bene conquistato perché se ne assicuri l’esistenza, la continuità e lo sviluppo. Ed ecco il filo della storia: l’attività del gruppo, diretta verso il proprio benessere, si protende al futuro»5.

In quest’unione indissolubile che lega il singolo a tutte le creature intelligenti, «la sfera della personalità umana arriva, pertanto, ad ampliarsi per cicli immensi che noi chiamiamo civiltà, superando i singoli popoli, le 4 5

Ibid., 161. Ibid., 165.

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lingue particolari, le divisioni geografiche e politiche e persino gli oceani»6. Si forma e sviluppa così una coscienza collettiva, la quale, in ogni epoca e civiltà, non può essere fatta che sotto il segno della verità, appresa e realizzata nella misura e nell’aspetto che risponde allo stato culturale di ogni popolo e al ciclo di civiltà al quale appartiene7. Punto centrale di unificazione della coscienza è la sua orientazione religiosa, nella quale convergono sapere, filosofia e arte, organizzazione civile e politica, elevazione morale, ricerca della verità. Qui coincidono la giustificazione intima della propria esistenza, la valutazione morale dei propri atti, ogni finalismo dell’attività umana. Il nostro pensiero sintetico conclusivo è che l’impegno ascetico del cristiano nel mondo, secondo don Sturzo, coincide con lo svuotamento di sé, dei propri interessi, a livello individuale e collettivo, per aprirsi all’amore e alla giustizia-amore. La realizzazione di questo svuotamento dai propri interessi richiede sia fatica e pazienza con se stessi, sia fatica nel sopportare e pazienza nell’attendere gli altri. Il sacerdote Sturzo sostiene che l’uomo dovrebbe avere la stessa pazienza di Dio, perché, volendo sempre trovare un rimedio immediato a un male presente o che sente arrivare, finisce col simpatizzare naturalmente con i colpi di forza, mentre sdegna e disprezza con lo stesso vigore l’organizzazione, l’educazione, la persuasione sul terreno civile e politico, perché sono mezzi scadenza anche molto lunga; il colpo di forza, invece, quando riesce, dà l’impressione del successo e della sicurezza8. Come asceta, don Sturzo ha imparato dalla sua esperienza che occorre avere sempre fiducia nella bontà che è al fondo dello spirito umano, altrimenti i dolori, le lotte, le sconfitte, l’ingratitudine ecc., rendono l’animo amaro a se stesso e inutile agli altri, e il pensiero diventa sterile. Ha imparato inoltre che la tolleranza, cioè il rispetto della personalità altrui, consente di vedere con maggiore serenità e obiettività la posizione per la quale si combatte, così da frenare l’eccesso delle passioni e da vedere meglio i propri errori, rendendo più facile l’opera di elevazione morale e di correzione fraterna9. E infine, che fermarsi alla ragione, all’intellettuali6

Ibid., 169. Cfr. ibid., 169-170. 8 Ibid., 104. 9 Cfr. ibid., 257. 7

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smo, nella vita allontana dalla comprensione altrui; occorre lasciare spazio all’onda mistica che circonda lo spirito umano, come inconscio richiamo a elevazioni e esperienze religiose, che neutralizza l’avidità degli affari e gli stimoli della cupidigia. Lì l’intelletto, che ha cercato la verità senza averla trovata, trova il riposo10. Questo misticismo è l’unione dei sentimenti spirituali con il Vero eterno, che è Dio. È utopistico il pensiero di Sturzo? Riesce difficile dirlo. È vero che sradicare il peccato che risiede nel cuore di tutti gli uomini è un’impresa fuori delle nostre forze; è vero che esistono vere e proprie strutture sociali di peccato; è vero che il grano e la zizzania devono crescere insieme, e che i poveri li avremo sempre con noi. Nello stesso tempo, però, siamo chiamati a lavorare e a combattere per la realizzazione del Regno di Dio. Il sogno di un progetto politico a carattere morale e spirituale è pensabile? Forse. A noi uomini spetta impegnare tutta la nostra libertà e responsabilità, ricordando però che il regno di Gesù non è di questo mondo, e che la vera vita è un dono di Dio: «La vera vita è amore: naturale e soprannaturale, umano e divino, sulla terra e nel cielo, in una funzione ineffabile nella quale noi pur assorbiti in Dio non perderemo la nostra personale, ma la trasformeremo. Dio ci divinizza così che senza farci perdere la coscienza di essere uomini, ci fa sentire che siamo suoi figli, partecipi alla sua natura, beatificati dalla sua visione»11.

10 11

L.c. Ibid., 241.

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Sintesi storiografica

Per tracciare una sintetica storiografia della figura di Don Sturzo e avere una guida autorevole per un approfondimento bibliografico, ci rifacciamo alla rassegna che lo storico Gabriele De Rosa pone alla fine del suo volume dal titolo Luigi Sturzo1, il quale ha raggruppato la bibliografia sturziana in 5 diverse categorie riguardanti momenti particolari della sua vita, o aspetti salienti della sua personalità:

1. Il Movimento Cattolico In questa sezione viene fornita una ragguardevole bibliografia per l’approfondimento della storia del movimento che ha costituito il substrato ideologico del movimento sturziano. Non si può prescindere, secondo De Rosa, dalla conoscenza di questo capitolo della storia, per comprendere pienamente la portata delle novità sturziane. Sono tre le fasi della storiografia del Movimento cattolico: a) la prima mirò a precisare e interpretare i caratteri e il ruolo del Mo1 G. DE ROSA, Luigi Sturzo, Torino 1977, 483-505. Gabriele De Rosa, fu uno degli amici che accompagnarono don Sturzo nell’ultima parte della sua vita. Egli fin dal maggio del 1954 si recava quasi settimanalmente a casa del sacerdote per raccogliere i suoi ricordi. Da segnalare, per quanto riguarda la bibliografia, anche un’altra pubblicazione: F. D’AMBROSIO, Bibliografia sturziana, Napoli 1961.

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vimento rispetto ai due fatti più significativi sull’argomento, il processo di unificazione d’Italia e il non expedit. Significativo sull’argomento è certamente lo studio di P. ALATRI, Appunti per una storia del movimento cattolico in Italia, in Società 2 (1949) 244-2632. b) La seconda fase è caratterizzata da un ampliamento e rafforzamento delle fonti, dati dalla possibilità di consultare le carte dell’Opera dei Congressi. In questa fase vanno ricordati certamente l’opera di A. GAMBASIN, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma 1958; e la rielaborazione che il De Rosa ha compiuto della sua storia dell’Azione Cattolica3: G. DE ROSA, Storia del movimento cattolico in Italia, vol. 1: Dalla Restaurazione all’età giolittiana, vol. 2,: Il partito popolare italiano, Bari 1966. c) La terza fase, quella in atto, si può definire socio-strutturale, perché se da un lato tenta di mettere in luce il rapporto tra il movimento cattolico e le diverse correnti economiche e politiche della storia attuale, dall’altro si cerca di rileggere la storia del movimento in rapporto ai grossi fatti della vita economica, sociale, politica e religiosa del paese. Certamente sono essenziali gli Atti del Convegno di Venezia del settembre del 1974: Il movimento cattolico e la società italiana in cento anni di storia, Roma 1976; e la rassegna critica pubblicata in Storia del cattolicesimo, della Chiesa, del movimento cattolico italiano, in Quaderni storici 2 (1974) 559-643.

2. Vita e opere di Luigi Sturzo Il De Rosa fa notare come nonostante Don Sturzo abbia già vissuto i momenti più significativi della sua vita, dall’impegno politico in Sicilia alla fondazione del Partito Popolare, dall’opposizione antifascista all’esilio, tuttavia solo nel secondo dopoguerra la sua vita è entrata a far parte del 2 Due lavori di notevole interesse, sull’argomento, sono: G.CANDELORO, Il movimento cattolico italiano, Roma 1953; e F. FONZI, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Roma 1953. 3 L’opera del De Rosa sull’Azione Cattolica era già stata pubblicata qualche anno prima in questa forma: G. DE ROSA, L’Azione Cattolica, vol. 1: Storia politica dal 1974 al 1904, vol. 2: Storia politica dal 1905 al 1919, Bari 1953-1954.

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dibattito storiografico contemporaneo4. Lo storico raccoglie e propone svariate biografie e profili del sacerdote-statista, tra le quali spiccano due autorevoli studi: F. DELLA ROCCA, Itinerari sturziani, Napoli 1959, e Luigi Sturzo, saggi e testimonianze, Roma 1960. La prima biografia fondata sugli scitti inediti provenienti dall’Archivio Luigi Sturzo di Roma è quella di F. PIVA – F. MALGERI, La vita di Don Luigi Sturzo, Roma 1972. Questo lavoro apre una nuova collana diretta dal De Rosa che ha anche pubblicato diversi scritti inediti, conservati nell’Archivio (L. STURZO, Scritti inediti, 3 voll., Roma 1974-1976). Il resto delle indicazioni bibliografiche può essere distinto seguendo i vari contributi che sono arrivati in relazione ai diversi periodi o aspetti della vita di Sturzo: a) la prima formazione culturale e politica5; b) le prime battaglie e lotte contadine6; c) il meridionalismo sturziano7; d) il ruolo di Sturzo nel movimento cattolico8; e) la battaglia municipalista e regionalista, e l’attività di Sturzo come amministratore locale9.

4

Nel primo dopoguerra la personalità e l’azione politica e sociale di Sturzo avevano già richiamato l’attenzione di studiosi contemporanei.Non mancano perciò articoli o studi sul sacerdote-politico.Da segnalare certamente: P. GOBETTI, Don Sturzo, in La Rivoluzione Liberale, 2-9 luglio 1922; e A. CANALETTI GAUDENTI, Don Sturzo, Palermo 1922. Esiste anche uno studio molto critico nei confronti di Don Sturzo e del suo partito, che vale la pena di consultare per una conoscenza critica della reazione cattolica all’opera sturziana: F. FANELLI, Don Sturzo e il P.P.I., Città di Castello 1924. 5 Ci si può rifare a Luigi Caruso che racconta i primi anni della vita di Sturzo e si firma con uno pseudonimo: CALATINUS, Luigi Sturzo nelle reminescenze di un suo discepolo, Napoli 1959; CALATINUS, Il sacerdote statista e i germani Sturzo-Boscarelli, Caltagirone 1960. 6 Degno di nota su questo aspetto è l’articolo: F. MALGERI, Caratteri dell’azione sociale di Luigi Sturzo in Sicilia alla fine dell’Ottocento, in Archivio per la storia del movimento cattolico in Italia 2 (1971) 5-20. Altre due opere che vale la pena conoscere sono senza dubbio: Luigi Sturzo nella storia d’Italia, 2 voll., Roma 1974; M. PENNISI, Fede e impegno politico in Luigi Sturzo. L’influsso della concezione religiosa nella prima attività politico-sociale del prete di Caltagirone, Roma 1982. 7 Cfr. F. RIZZO, Luigi Sturzo e la questione meridionale, Roma 1957; G. TRIMARCHI, La formazione del pensiero meridionalista di Luigi Sturzo, Brescia 1965. 8 Cfr. G. DE ROSA, La crisi dello stato liberale in Italia, Roma 1964². 9 Cfr. L. GIOVENCO, L’autonomia locale vivificatrice della funzionalità e del senso dello Stato nel pensiero di L.Sturzo, Milano 1967; G. GIARRIZZO, Luigi Sturzo amministratore locale, in Luigi Sturzo nella storia d’Italia, I vol., op.cit., 349-402.

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3. Luigi Sturzo e il Partito Popolare Italiano In questa parte vengono citati decine di libri sull’argomento che ha portato don Sturzo ai vertici della fama politica internazionale10. Qui vale la pena ricordare i tre volumi di don Sturzo: L. STURZO, Il Partito Popolare Italiano, 3 voll., Bologna 1956-1957. Si tratta di una raccolta di scritti e discorsi di Sturzo dal 1919 al 1926, tra i quali: - Dall’idea al fatto; - Riforma statale e indirizzi politici; - Popolarismo e fascismo; - Pensiero antifascista; - Libertà in Italia.

4. L’esilio e le ultime battaglie La sezione riguarda il periodo che Sturzo passa fuori dall’Italia durante il ventennio fascista. Sono due momenti: l’esilio londinese (1924-1940) e quello statunitense (1940-1946). Questo è il periodo di massima intensità intellettuale per Sturzo11. Infatti, in questi anni vedono la luce i capolavori della sua produzione letteraria, poi pubblicata nell’Opera Omnia, a cura dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma. L’intera opera è costituita da tre serie: a) Le opere (dodici pubblicazioni dal 1954 al 1971); b) Saggi, discorsi, articoli (tredici pubblicazioni dal 1954 al 1974); c) Scritti vari (cinque pubblicazioni dal 1954 al 1972).

10 Come riferimento tener presente: G. DE ROSSI, Il P.P.I. dalle origini al congresso di Napoli, Roma 1920; G. DE ROSA, L’esperienza politica dei cattolici e i tempi nuovi della cristianità, in I cattolici italiani nei tempi nuovi della cristianità, Roma 1967; Saggi sul Partito Popolare Italiano, Roma 1969. 11 Cfr. su questo periodo: G. SALVEMINI, L’Italia vista dall’America, a cura di E. Tagliacozzo, Milano 1969.

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5. Il pensiero sociale e politico. La spiritualità Gli studi su questi aspetti, che sono fondamentali per un approccio alla sua figura, costituiscono la maggior parte della produzione su Luigi Sturzo. Si può fornire solo qualche riferimento per ulteriori approfondimenti sui temi specifici: G. NIRCHIO, Il Pensiero Sociale di Sturzo, Palermo 1964; A. CARRÀ, Fondamenti sociali e azione politica in Luigi Sturzo, Catania 1972; F. COSTA, La spiritualità di don Sturzo, in Luigi Sturzo: saggi e testimonianze, cit., 227-239; A. GAMBASIN, Spiritualità e politica in Luigi Sturzo, in ibid., 243-27012. A questi testi si può aggiungere il recente saggio di S. MILLESOLI, Don Sturzo. La Carità politica, Milano 2002.

12 I riferimenti bibliografici non pretendono di essere esaustivi vista la mole degli scritti su Sturzo o sui vari aspetti della sua opera o della sua vita. Quello che emerge da questo quadro è senz’altro il dato di un interesse sempre maggiore che la storiografia italiana ha avuto per questa figura che ha caratterizzato fortemente il delicato momento politico che tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo secolo ha interessato anche la Chiesa nella sua dimensione sociale. Cfr. Luigi Sturzo nella storia d’Italia. Atti del convegno internazionale di studi promosso dall’Assemblea Regionale Siciliana, 2 voll., Roma 1974.

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Bibliografia essenziale

1. Dal piano dell’Opera Omnia (pubblicata a cura dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma) L. STURZO – M. STURZO, Carteggio, a cura di G. De Rosa, 3 voll., Roma 1985. L. STURZO, La Croce di Costantino: primi scritti politici e pagine inedite sull’Azione cattolica e sulle autonomie comunali, a cura di G. De Rosa, Roma 1958. ID., Politica e morale (1938) – Coscienza e Politica (1953), Bologna 1972 ID., Scritti inediti, vol. 1, a cura di F. Piva, Roma 1974. ID., Scritti inediti, vol. 2, a cura di F. Rizzi, Roma 1975. ID., Scritti inediti, vol. 3, a cura di F. Malgeri, Roma 1976. ID., La società: sua natura e leggi, Bologna 1960. ID., Problemi spirituali del nostro tempo, Bologna 1961. ID., Chiesa e stato, Bologna 1959. ID., La Vera Vita, sociologia del soprannaturale, Bologna 1960. ID., Del metodo sociologico (1950) – Studi e polemiche di sociologia (1933-1958), Bologna 1970. ID., Moralizzare la vita pubblica, Napoli 1958. ID., Scritti religiosi e morali, Soveria Mannelli 2006

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2. Articoli pubblicati sul periodico La croce di Costantino13 CR., L’amore al Papa, 4 aprile 1897, 1. CR., La nostra insegna,16 maggio 1897, 2. LC., Crisi ministeriale, 19 dicembre 1897, 4. CR., La “Cultura sociale”, 6 febbraio 1898, 3. CR., Un altro passo nel movimento cattolico nazionale, 15 maggio 1898, 2. L.S., A Giuseppe Montemagno speranza dell’azione cattolica per la sua unzione sacerdotale, 5 giugno 1898, 1-2. ZV., Don Albertario,3 luglio 1898, 3. CR., Coscienza religiosa e coscienza politica,7 ottobre 1900, 1-2. CR., Formiamo le coscienze,13 luglio 1902, 1. CR., Leone XIII e l’educazione e cultura del clero, 21 dicembre 1902, 1. CR., L’anticlericalismo a Catania,3 maggio 1903, 3. CR., Il socialismo alle nostre porte, 21 giugno 1903, 1. L.S., Da Bologna a Noto, 6 dicembre 1903, 1-2. CR., Per la libertà e indipendenza del Sommo Pontefice, 26 giugno 1904, 1. L.S., Verso la vita politica, 8 gennaio 1905, 1. LC., Fortis in Sicilia, 14-15 novembre 1905, 1. CR., Conferenza episcopale a Palermo, 21 gennaio 1906, 1. L.S., È la politica cosa sporca?, in Il Popolo, 15 ottobre 1991.

13 Luigi Sturzo firma con due pseudonimi gli articoli pubblicati sul giornale La Croce di Costantino: IL CROCIATO (CR.), LO ZUAVO (ZV.), IL LOICO (LC.), oppure semplicemente con L.S. (Luigi Sturzo).

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3. Bibliografia di riferimento Luigi Sturzo: saggi e testimonianze, in Civitas 11 (1960)14. Luigi Sturzo nella storia d’Italia. Atti del convegno internazionale di studi promosso dall’Assemblea Regionale Siciliana, 2 voll., Roma 1974. Individuo e società nel pensiero di Luigi Sturzo, Atti del primo corso della Cattedra Sturziana, Roma 1983. Dibattito sulla teologia politica, Brescia 1971. Una nuova teologia politica, Assisi 1971. Fede e politica oggi, Milano 1988. G. BIANCHI (cur.), Dio in pubblico: il dibattito su fede e politica in Italia, Brescia 1978. M. GOZZINI (cur.), Matrice cristiana: un’alternativa, Firenze 1976. Il problema politico dei cattolici, Roma 1975. Coscienza cristiana e impegno politico, Verona 1971. E. COLOM (cur.), Dottrina sociale e testimonianza cristiana, Città del Vaticano 1999. N. VALENTINI (cur.), Una spiritualità per il tempo presente, Bologna 2002. S. ACQUAVIVA, L’eclissi del sacro nella società industriale, Milano 1961. A. ALESSI, Meditazioni sul pensiero politico di Padre Gioacchino Ventura, Roma 1970. N. ADDAMIANO, Chiesa e Stato, Roma 1969. N. ANTONETTI, Sturzo e i popolari, Brescia 1988. V. BACHELET, Prima di tutto fu un sacerdote, in Sociologia 3 (1959) 339-341. E. BALDUCCI, Fede e scelta politica, Milano 1977. F. BATTAGLIA, Cinque saggi intorno alla sociologia, Roma 1969. F. BIOT, Teologia del fatto politico, Roma 1974.

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Numero speciale della rivista Civitas dedicata interamente alla figura di Sturzo.

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Pseudonimo del Can. Luigi Caruso, allievo di Don Sturzo al seminario di Caltagirone.

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