Documenti e studi 26 b

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Capitolo V

Ermeneutica dei formulari di messa nei propri locali

1. Il formulario “In festo translationis S. Agathae v. m.” del Proprium Sanctorum di Felice Regano (anno 1854) Il Messale di mons. Regano, per la celebrazione del 17 agosto, propone un formulario che presenta due orazioni di nuova composizione e una secreta tratta da GrH 129-So (“Suscipe, Domine, munera”). In questo paragrafo, quindi, esamineremo solo la colletta e la post communionem, rinviando, per la secreta, al capitolo quarto nel quale è stata già analizzata. 1.1. Oratio: “Domine Jesu Christe rex Virginum…” (17 agosto)1 1.1.1. Il testo e la sua traduzione «Domine Jesu Christe Rex virginum, et castitatis amator, qui corpus B. Agathae Virginis, et Martyris tuae ab omni pollutione separasti; concede quesumus, ut sicut idem in ejus translatione veneramur: ita et corpus humilitatis nostrae ab omni inquinamento mundatum in tuo, quem expectamus adventu corpori claritatis tuae facias configurari. Qui vivis…». «O Signore Gesù Cristo, re delle vergini, e amante della castità, tu che preservasti il corpo della beata Agata, vergine e martire tua, da ogni macchia; concedi che come veneriamo questo corpo nella festa della traslazione, così fa che, 1

MSEC, 27-Co.

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nel giorno della tua venuta — che aspettiamo — il corpo della nostra miseria, libero da ogni macchia, sia reso conforme al corpo della tua gloria».

1.1.2. Identità storica e tradizione del testo Il testo sembra essere stato composto, da uno sconosciuto autore, esclusivamente per ricordare il ritorno delle sacre reliquie da Costantinopoli a Catania. Si tratta quindi di un testo composto per la festa della “traslazione delle reliquie” della martire che, a partire dal 1126, si è sempre celebrata il 17 agosto. G. Consoli sostiene che la messa e l’Ufficio per questa festa furono composti dal vescovo Maurizio e che nel “volume degli Uffizi della Chiesa catanese”, accanto ai testi dell’Ufficio, si può trovare anche il formulario della messa2. La logica ed una verifica sulle fonti smentisce, come era ovvio, questa notizia poiché il volume in questione è solo un libro per l’Ufficio divino che contiene solo testi ad esso destinati, e non testi per la messa. Allo stato attuale della ricerca, quindi, non possiamo stabilire la data di composizione di questo formulario che noi abbiamo potuto reperire nella fonte ottocentesca già citata. 1.1.3. Identità letteraria L’orazione ha assunto come fonti primarie due passi biblici: Phil 3,21: «qui reformabit corpus humilitatis nostræ, configuratum corpori claritatis suæ, secundum operationem, qua etiam possit subjicere sibi omnia». 2 Cor 7,1: «mundemus nos ab omni inquinamento carnis et spiritus».

Fonti materiali dirette non ce ne sono; possiamo trovare solo delle allusioni in: GeV 797-Co: «Deus, castitatis amator et continenciae conseruator, supplicacionem nostram benignus exaudi et hanc famulam tuam propicius intuere; et quae pro timore tuo continenciae pudiciciam uouit, tuo auxilio conseruetur, ut sexagisemum fructum continenciae uitam aeternam te largiente percipiat».

2

CONSOLI, Sant’Agata vergine e martire catanese, 86-88.

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MR1570, Alie orationes pro opportunitate Sacerdotis ante celebrationem et comunionem dicendes. Oratio sancti Ambrosii: «Rex virginum, amator castitatis et integritatis, Deus…»3. PASSIO AGATHAE: «qui corpus meum a pollutione separasti»4. Beda Uenerabilis: «Non enim solum ut panem sanctum accipere possint pueri si mundi sunt a muliere perquirit sed ab omni pollutione quae mortalibus accidere solet si sint mundi scrutatur specialiter de muliebris contagio copulae quasi ceteris maiore perquirens»5.

A livello sintattico l’orazione è molto articolata e presenta un solo periodo con sette proposizioni: la principale (Domine Jesu Christe Rex virginum, et castitatis amator… concede), una subordinata relativa (qui corpus B. Agathae Virginis, et Martyris tuae ab omni pollutione separasti), un’incidentale (quesumus), una subordinata modale (sicut idem in ejus translatione veneramur), una subordinata sostantiva (ut…ita…facias), un’altra subordinata relativa (quem expectamus) e, infine, una subordinata oggettiva (et corpus humilitatis nostrae ab omni inquinamento mundatum in tuo… adventu corpori claritatis tuae… configurari). Per quanto riguarda il genere letterario rileviamo che si tratta di una colletta che presenta i temi teologici della celebrazione in forma di orazione e con gli elementi essenziali della preghiera di domanda, ossia un’invocazione iniziale accompagnata da un ampliamento e una petizione che, mediante due citazioni bibliche, precisa il contenuto di ciò che si chiede. La struttura del testo, al di là della sua ampiezza, è molto semplice e rispecchia i canoni classici dell’eucologia romana: Invocazione: Domine Jesu Christe Rex virginum, et castitatis amator Ampliamento: qui corpus B. Agathae Virginis, et Martyris tuae ab omni pollutione separasti Petizione: concede quesumus, ut sicut idem in ejus translatione veneramur…

3

MR1570, 78*. Passio, III, 12. 5 BEDA UENERABILIS, In primam partem Samuhelis libri IV. Nomina locorum, 3, 21,5, ed. D. Hurst (CCL 119), Turnhout 1962, 195. 4

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L’orazione, poi, è anche ben costruita dal punto di vista stilistico poiché presenta un chiasmo:

Il chiasmo dà origine ad un parallelismo concentrico:

Nell’orazione, inoltre, si nota anche un parallelismo antitetico:

Da notare, in fine, che il testo è modulato secondo le leggi del cursus: / ˇ ˇ / ˇ ˇ «Domine Jesu Christe Rex Virginum, tardus / ˇ ˇ / ˇ et castitatis amator

planus

/ ˇ ˇ / ˇ qui corpus B. Agathae Virginis et Martyris tuae

planus

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/ ˇ ˇ ˇ / ˇ ab omni pollutione separasti

trispondaicus / ˇ ˇ ˇ / ˇ concede quesumus,ut sicut idem in ejus Traslatione veneramur trispondaicus /ˇˇ / ˇˇ ita et corpus humilitatis nostrae tardus / ˇ ˇ / ˇ ab omni inquinamento mundatum planus / ˇ ˇ / ˇ in tuo quem expectamus adventu planus / ˇ ˇ /ˇ corpori claritatis tuae facias configurari planus 1.1.4. Fondamenti teologici Dal punto di vista teologico, l’orazione presenta un esplicito riferimento cristologico espresso dall’invocazione iniziale che utilizza alcuni attributi cristologici (Domine, Jesu Christe, Rex) che rimandano tutti al mistero pasquale di Cristo morto e risorto. Questo mistero si attualizza nelle membra che a Lui sono configurate e diventa la sorgente della santità, frutto della partecipazione a tale mistero che, nel caso concreto di questa orazione dedicata a sant’Agata, si specifica non solo come vocazione al martyrium e alla castitas, ma anche come vocazione alla risurrezione di un corpo glorificato dalla presenza di Dio. Questo esplicito riferimento a Cristo, comunque, rimanda in maniera indiretta agli altri due fondamenti della santità. Il fondamento teologico emerge dalla considerazione che il mistero pasquale di Cristo non è altro che la rivelazione del mistero salvifico del Padre nel quale ogni uomo partecipa alla vita stessa di Dio. Il fondamento pneumatologico, invece, emerge come al solito dai frutti che l’azione dello Spirito Santo ha prodotto nella vita della santa celebrata dall’orazione e nella vita dei fedeli che ne fanno memoria. Nel caso specifico, il primo aspetto è espresso dalla vocazione alla verginità e dal sintagma che esprime in maniera più diretta l’azione dello Spirito nella vita di Agata (ab omni pollutione separasti). Il secondo aspetto è espresso dalla petizione: concede… ita et corpus humilitatis nostrae ab omni inquinamento mundatum in tuo, quem expectamus adventu corpori claritatis tuae facias configurari. 303


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Anche il fondamento ecclesiologico non è esplicito, ma si può senz’altro riscontrare nell’ecclesia orans che si esprime come soggetto dei verbi della petizione e nell’uso del pronome possessivo plurale “nostrae”. Il fondamento escatologico, invece, è esplicitato dalle due citazioni bibliche alle quali fa riferimento la petizione. Chiedendo di poter presentare il misero corpo6 nel giorno della sua venuta, libero da ogni macchia e 6 Il termine corpus in senso generale significa corpo umano; in termini filosofici, invece, indica il corpo come realtà opposta all’anima, la materia, la sostanza, la realtà, la persona, l’individuo, l’essere. In determinati contesti indica un insieme materiale (corpo di una lettera o di un testo). Può indicare anche un insieme costituito (Stato, Nazione, corporazioni di mestieri=ordo). In ambito biblico, invece, notiamo che l’AT non ha nessun vocabolo corrispondente a “corpo”. Il termine più vicino è quello di “carne” (basar), tradotto nel greco dei LXX sîma oppure s£rx. Di conseguenza la Bibbia non offre un’antropologia sistematica, ma presenta l’uomo come un tutto unitario distinguendo, tuttavia, in esso tre dimensioni: quella carnale (basar), quella vitale (nefesh) e quella spirituale (ruah). Nella Scrittura, i termini basar/sarx (=corpo, carne) esprimono l’aspetto materiale della persona considerata come sostanza percettibile e tangibile. Nefesh/psyche (=anima), invece, esprimono l’aspetto vitale della persona, l’essere vivente, centro della personalità: è l’Io, la soggettività, sede dell’attività emotiva e affettiva; è ciò che risulta quando il “basar” è animato dalla “ruah”. Ruah/psyche (=spirito), in fine, è lo Spirito di Dio presente nell’uomo. Se la “nefesh” è la vitalità, la “ruah” è l’energia che la produce; possiamo inoltre dire che la “ruah” è l’immagine di Dio che si comunica all’uomo. Sia l’anima (psyche) che lo spirito (ruah) concernono la vita più intima dell’uomo e rispettivamente i suoi due aspetti, quello naturale e quello soprannaturale. Nell’AT, comunque, il corpo dell’uomo reca l’impronta dell’azione di Dio (Gen 1-2); solo nei libri sapienziali è contrapposto all’anima (Sap 9,15) e se ne accentua la caducità (Prov 5,11). Il NT riprende la visione propria dell’AT ed usa il termine sîma per descrivere la natura biologica dell’uomo (Matth 6,25). Paolo, invece, con il termine s£rx connota la dimensione dell’uomo incline a cercare la propria autonomia intellettuale, morale, religiosa, sessuale in contrapposizione alle esigenze spirituali (Rom 7,18 ss.); con il termine sîma, invece, connota la persona nella sua totalità psicofisica temporalmente situata (1 Cor 5,3). Da queste poche note sull’antropologia biblica è possibile notare come la Scrittura è lontana dal dualismo ellenistico che considera l’uomo come un microcosmo in cui l’anima sarebbe la parte spirituale e il corpo sarebbe la parte materiale. La Bibbia, quindi, ha una concezione profondamente monistica che vede l’uomo in tutti i suoi molteplici aspetti, ma in dimensione unitaria dove il corpo non è una parte dell’uomo, ma l’esplicitazione esterna e visibile di tutto se stesso. Inoltre, dalla Scrittura emerge chiaramente il valore “sacro” del corpo. Questa visione è già chiara nel racconto della Creazione (Gen 1-2), ma essa risalta soprattutto nell’Incarnazione. Del resto la cosa più originale della nostra fede non è il fatto che Dio abbia creato il mondo o le cose, ma che Lui stesso si è fatto corpo, ha preso carne. A ciò si aggiunge che, con la risurrezione di Cristo, il corpo è chiamato a partecipare alla gloria eterna. In questa prospettiva si inquadrano anche altri usi che la tradizione cristiana fa del termine “corpo”, indicando con esso il corpo mistico di Cristo, la Chiesa, il corpo di Cristo, ossia l’Eucaristia, oppure il corpo di un santo custodito in un santuario. Nell’Eucaristia i cristiani comunicano al corpo di Gesù e diventano suo “corpo mistico”. Il corpo dei fedeli “eucaristizzato”, poi, dopo la morte, viene seminato nella terra in attesa della risurrezione finale (GS 14). Sarà la concezione sacrale del corpo, basata sull’Incarnazione e Risurrezione di Cristo, a fondare inizialmente il culto delle reliquie che poi, in età medievale, degenererà in abusi veri e propri che hanno fatto perdere di vista il valore autentico di questi segni: Cfr. BLAISE, Dictionnaire la-

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trasfigurato a somiglianza del tuo corpo glorioso, il soggetto dell’orazione esprime la speranza escatologica che anima ogni percorso di santità. 1.1.5. Dimensioni liturgiche L’invocazione e l’ampliamento dell’orazione mettono in evidenza la dimensione anamnetica di questa formula eucologica che, mentre fa memoria di quanto Cristo ha realizzato nel corpo di Agata, ora oggetto di venerazione, diventa nello stesso tempo, rendimento di grazie e stimolo all’imitazione7. La petizione, invece, mette in evidenza la dimensione epicletica che si riscontra nella richiesta dei frutti della celebrazione, ossia il desiderio di poter presentare, nel giorno della sua venuta, il misero corpo umano libero da ogni macchia e trasfigurato a somiglianza del suo corpo glorioso. La dimensione dossologica è presente nella conclusione della formula che, essendo rivolta al Figlio, usa la formula “Quis vivis…” che ci permette di ricordare che l’azione di Cristo non è mai slegata dalle altre persone della Trinità Santissima, alla quale va ogni onore e gloria. La koinonia, naturalmente, si trova espressa nel fondamento ecclesiologico dove il “noi ecclesiale” mette in evidenza che la preghiera liturgica, anche quando viene proclamata dal solo celebrante, è sempre un evento di comunità e ciò che si chiede è sempre espresso al plurale perché orientato al bene della Chiesa tutta.

tin-français, 225; X. L. DUFOUR, «Corpo», in DTB, 178-181; ID., «Carne», in DTB, 126-132; ID., «Anima», in DTB, 51-56; R. CAVEDO, «Corporeità», in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, edd. P. Rossano- G. F. Ravasi-A. Girlanda, Cinisello Balsamo1988, 308-321; E. SCHWEIZER, «sîma», in DENT, 2, 1535-1544; A. SAND, «s£rx», in DENT, 2, 1300-1309; J. GUILLET, «Spirito», in DTB, 1087-1090. 7 In una religione dove si parla di “risurrezione”, il corpo ha una sua ragion d’essere e i corpi dei santi restano un segno tangibile e operante del passaggio terreno connesso al loro percorso spirituale. In generale per la storia della santità si può dire che il corpo è la realtà fisica in cui si iscrive il percorso spirituale. Il corpo del santo vivo è già un corpo santo, il cui potere si conserva, anzi si accresce dopo la morte, nei suoi resti mortali, nella certezza che essi siano pignora della doppia presenza del santo in cielo, presso Dio, e in terra come garanzia di protezione soprannaturale: cfr. F. SCORZA BARCELLONA, «Le origini», 5660; A. LOMBATTI, Il culto delle reliquie. Storia, leggende, devozione, Milano 2007, 55-115; F. SBARDELLA, Antropologia delle reliquie. Un caso storico, Brescia 2007, 139-166.

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1.2. Post communionem: “Praesta, quaesumus…”8 1.2.1. Il testo e la sua traduzione «Praesta, quaesumus, Omnipotens Deus, ut per haec sancta, quae sumpsimus, translationem Beatae Agathae Virginis, et Martyris tuae recolentes, eadem intercedente, veniam consequamur, et pacem. Per Dominum…». «Concedi, Dio Onnipotente, che per le cose sante che abbiamo ricevuto, celebrando la traslazione della tua beata Agata vergine e martire, per sua intercessione, possiamo ottenere il perdono e la pace».

1.2.2. Identità storica, tradizione e identità letteraria del testo Il testo, ad eccezione della citazione iniziale, è originale ed è stato composto da qualche autore anonimo in un periodo che sconosciamo. Il compositore, tuttavia, utilizza espressioni e parole che fanno parte del linguaggio dell’eucologia classica. L’orazione in questione non presenta fonti primarie esplicite. Si trovano, invece, allusioni in alcune espressioni di brani patristici o liturgici: FULGENTIUS EPISCOPUS: «Et quia adhuc peccatorum mole depressus mereri non potui, hoc deprecor, ut assiduis supplicationibus pro nobis dominum exorare digneris, ut quolibet ordine uel tempore delictorum nostrorum ueniam consequamur»9. AUGUSTINUS HIPPONENSIS: «cum enim loqueretur de pace euangelica, ubi dominus, ait, pacem meam do uobis: quia lex, inquit, umbra erat futurorum bonorum, idcirco per hanc praefiguratam significantiam docuit nos in hoc terreni et morticini corporis habitaculo mundos esse non posse, nisi per ablutionem coelestis misericordiae emundationem consequamur, post demutationem resurrectionis terreni corporis nostri effecta gloriosiore natura»10. HIERONYMUS: « unde et apostolus dicit: gratia salui facti estis per fidem et hoc non ex uobis, sed ex dei dono, et omnes epistulae eius in salutationis principio non prius pacem habent et sic gratiam, sed ante gratiam et sic pacem, ut donatis nobis peccatis nostris pacem domini consequamur»11. 8

MSEC, 28-Pc. FULGENTIUS EPISCOPUS, Epistula 9, 3, ed. J. Fraipont (CCL 91), Turnhout 1968, 278. 10 AUGUSTINUS HIPPONENSIS, Contra Iulianum, 2, 26, ed. J. P. Migne (PL 44), Paris 1865, 691. 11 HIERONYMUS, Epistula 140, 5, ed. I. Hilberg (CSEL 56), Wien- Leipzig 21996, 274. 9

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GeV 1529-Pc: «Praesta, domine, quaesumus, ut per haec sancta que sumpsimus, desimulatis lacerationibus inproborum eadem gubernante quae recta sunt cautius exequamur: per dominum nostrum Iesum Christum». Ve 496-Pc: «Exaudi, deus, orationem nostram; et tua sancta, quae sumpsimus, non ad iudicium nobis prouenire patiaris, sed ad remedium propitiationis inmensae». Gell 2736-Pc: «Pręsta domine quesumus ut per hęc sancta que sumsimus, dissimulatis lacerationibus inproborum, ęadem te gubernante que recta sunt cautius exsequamur». Sp 1362-Pc: «Praesta domine quaesumus ut per haec sancta quae sumpsimus, dissimulatis lacerationibus improborum, eadem te gubernante, quae recta sunt cautius exsequamur».

Per quanto riguarda la composizione formale l’orazione in esame è composta da un solo periodo con sei proposizioni: una principale (Praesta…Omnipotens Deus….), un’incidentale (quaesumus), una subordinata sostantiva (ut per haec sancta veniam consequamur, et pacem), una subordinata relativa (quae sumpsimus), una suborinata temporale espressa con il participio presente (translationem Beatae Agathae Virginis, et Martyris tuae recolentes) e un ablativo assoluto con valore causale (eadem intercedente). È, inoltre, un testo che rispetta il genere letterario delle post communionem. Il protocollo iniziale, infatti, si apre con un’invocazione accompagnata da un ampliamento in cui è inserito il richiamo alla comunione già compiuta (per haec sancta, quae sumpsimus) e poi fa la petizione. L’orazione, quindi, ha due parti, la prima delle quali esprime, in termini di preghiera, quanto è avvenuto, cioè la recezione dei doni eucaristici che diventa motivo della petizione, e la seconda, in termini temporali e causali, indica il momento e il mezzo con cui si fa la petizione. Lo sguardo, perciò, si rivolge alla celebrazione compiuta, come motivo di domanda, e si proietta subito nel futuro. L’orazione presenta una struttura molto semplice: Invocazione: Omnipotens Deus. Petizione: praesta, quaesumus ut per haec sancta, quae sumpsimus veniam consequamur, et pacem. Ampliamento: traslationem Beatae Agathae Virginis, et Martyris tuae recolentes, eadem intercedente. 307


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A livello stilistico possiamo notare che la formula in questione presenta il seguente cursus: / ˇ ˇ /ˇ «Praesta, quaesumus, Omnipotens Deus planus / ˇ ˇ / ˇ ˇ ut per haec Sancta, quae sumpsimus tardus / ˇ ˇ / ˇ ˇ translationem Beatae Agathae Virginis tardus / ˇ ˇ / ˇ et Martyris tuae recolentes, eadem intercedente planus / ˇ ˇ / ˇ veniam consequamur, et pacem planus 1.2.3. Fondamenti teologici In questa orazione i fondamenti teocentrico, cristologico e pneumatologico sono insiti nella struttura della formula che è in sintonia con il genere letterario a cui appartiene: è, innanzitutto, preghiera di domanda indirizzata direttamente al Padre invocato con l’appellativo Omnipotens Deus; a Lui ci si rivolge chiedendo veniam12 e pacem nella consapevolez12

Il termine veniam sembra derivare dalla radice ven comune a tutte le lingue indoeuropee, con il significato di “desiderare”. Dalla stessa radice deriva Venus, che indica ciò che è desiderabile, la bellezza, la grazia, la seduzione, l’amore, la personificazione della bellezza e dell’amore fisico. Dalla radice ven proviene pure il verbo veneror il cui significato originario è “indirizzare una domanda, chiedere una grazia o un favore agli dei”. Ad ogni modo, pare che venia abbia significato all’inizio favore, grazia, e in modo derivato il perdono per una mancanza ottenuto in seguito ad una richiesta. Nella Vulgata questo termine non è molto usato, e per lo più sta ad indicare il perdono di Dio al peccato dell’uomo (Gen 4,13; Sap 12,11). Per ottenere il perdono di Dio è possibile offrire sacrifici di espiazione che, presso Dio, hanno valore di preghiera di intercessione (Num 15,28). Talvolta il termine può indicare la comprensione che il figlio deve avere verso il padre vecchio e indebolito nella mente (Eccli 3,25), oppure il permesso di uscire che il marito saggio deve negare alla donna di facili costumi (Eccli 25,34). Insomma, mentre per la latinità pagana venia era la remissione della pena dovuta ed era considerata una debolezza di animi pusillanimi, presso gli scrittori cristiani venia è il perdono di Dio, il quale nella sua misericordia coraggiosa e onnipotente giustifica i peccatori che, rispondendo alla sua iniziativa e alla sua grazia, tornano a Lui e manifestano il loro pentimento con la penitenza e il perdono delle offese ricevute. Esso però viene concesso soltanto nella Chiesa e mediante la Chiesa, la quale non può agire di propria autorità, ma unicamente in nome e in dipendenza di Cristo che è morto per i peccatori ed ha affidato a lei il ministero della riconciliazione. Diversamente che nella lingua classica esso, quindi, si riferisce anzitutto alla colpa e solo secondariamente alla pena per essa dovuta. Perdonando, infatti, Dio rimette l’offesa che l’uomo gli ha arrecato allontanandosi da Lui, lo giustifica e gli permette non solo di sfuggire alle conseguenze temporali ed eterne della colpa, ma lo rende anche partecipe dei suoi beni e della

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za che con il peccato l’uomo, non solo provoca la collera divina, ma perde anche l’orientamento della propria vita. Il perdono, perciò, presuppone la conversione che è dono di Dio. Anzi lo stesso fatto di desiderare e di chiedere perdono è ispirazione della misericordia onnipotente di Dio. Tale preghiera commuove il cuore del Padre, così che i peccatori divengono oggetto del suo perdono e degni della sua consolazione (pacem13). sua gioia rinnovando con lui la sua alleanza conclusa con tutto il popolo santo nel sangue di Cristo. Rispetto ad indulgentia, che contiene un riferimento esplicito alla longanimità di Dio, in venia l’accento è posto sul perdono concesso e, in corrispondenza con l’etimologia del termine, sul desiderio di coloro che ne sono l’oggetto. Tale desiderio si manifesta nella preghiera e nella penitenza. Rispetto al termine indulgentia, quindi, che sottolinea la bontà di Dio nel perdonare, nel termine venia l’accento è posto sull’atto stesso del perdono, sul desiderio che in tale perdono hanno i peccatori e sulle persone alle quali il perdono viene concesso; queste hanno in sé qualcosa capace di attirare lo sguardo benevolo di Dio. Questo qualcosa può essere l’intercessione dei santi, la preghiera dei peccatori e il loro desiderio di conversione, oppure il fatto che i fedeli offrono il sacrificio di riconciliazione o hanno ricevuto il sacramento di Dio. Come si vede, si tratta sempre di doni della grazia di Dio, perché nell’uomo non c’è nulla che possa attirare lo sguardo benevolo di Dio, se non ciò che egli stesso vi pone: cfr. A. ERNOUT- A. MEILLET, «Venia», in Dictionnaire étimologique del langue latine, Paris 41959, 719; P. SORCI, L’Eucaristia per la remissione dei peccati. Ricerca nel Sacramentario veronense (Cultura cristiana 5), Palermo 1979, 180-183. 13 Pax è un termine che ha una vasta gamma di significati. In generale, pace, tranquillità, armonia, cioè assenza di divisioni e discordie; può significare anche fine, cessazione. In ambito biblico, la parola ebraica shalom non indica soltanto il “patto” che permette una vita tranquilla, né “il tempo della pace” in opposizione al “tempo della guerra”, ma indica anche il benessere dell’esistenza quotidiana, lo stato dell’uomo che vive in armonia con la natura, con se stesso e con Dio. In concreto shalom è: benedizione, riposo, benessere, salvezza, vita. Il concetto di pace, poi, coincide con quello di felicità e di vittoria su qualche nemico. Pace, infine, può essere anche ciò che è bene in opposizione a ciò che è male. Tutti questi beni materiali e spirituali, insomma, sono compresi nel termine shalom. Il concetto ha subito una certa evoluzione: concepita dapprima come una felicità terrena, la pace man mano appare come un bene sempre più spirituale, a motivo della sua fonte celeste. In questo senso la pace è concepita come dono di Dio (Isa 45,7; Ps 35,27). L’uomo ottiene questo dono divino mediante la preghiera fiduciosa, ma anche mediante un’attività di giustizia tesa ad eliminare ogni occasione di turbamento della pace. Nella predicazione profetica la pace si libera delle limitazioni terrene e delle sue contraffazioni peccaminose, diventando un elemento essenziale della predicazione escatologica (Os 2,20; Am 9,13; Isa 32,15-20; Zac 9,6-9 s). Nella riflessione sapienziale, invece, la pace consiste nella beatitudine e nella pienezza dei beni. Nel NT il significato più ricorrente del termine pax, traduzione latina del greco e„r»nh, è quello che fa riferimento alla pace messianica, la pace donata da Dio all’uomo mediante il Vangelo e per mezzo del “Mediatore”, Gesù Cristo che ha realizzato la riconciliazione tra Dio e l’uomo (Io 14, 27; Phil 4, 7; Act 10, 36; Eph 6, 15; Rom 5, 1; Col 3, 15; 1 Cor 1, 3). In questo senso la pace è il dono messianico per eccellenza; è la caratteristica principale del Regno di Dio dove non può entrare chi non si fa costruttore di pace (Matth 13,41; 16,19). La speranza dei profeti e dei sapienti diventa realtà concessa in Gesù Cristo perché il peccato è vinto in Lui e per mezzo di Lui; ma finché il peccato non è morto in ogni uomo, finché il Signore non sarà venuto nell’ultimo giorno, la pace rimane un bene futuro (Iac 3,18; Isa 32,17). Tale è il messaggio proclamato dal NT, da Luca a Giovanni, passando attraverso Paolo (Marc 5,34; Io 14,27; 16,33; 20, 19. 21. 26; Rom 3,17; 5, 10

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Non c’è una forma diretta per rivolgersi a Cristo, ma permane in sottofondo l’idea generale del sacrificio che si è offerto a Dio insieme con Cristo nello Spirito. Il perdono viene concesso in nome di Cristo che è morto per i peccatori; se si partecipa all’Eucaristia con le dovute disposizioni, essa diventa il memoriale di Cristo che sulla croce offrì se stesso per i peccatori ed ora non cessa di intercedere per loro presso il Padre. Inoltre la conversione stessa è opera dello Spirito che suscita nel cuore del peccatore il desiderio ardente di un modo nuovo di sentire e di operare modellato sulla giustizia di Dio dalla quale il peccatore si era allontanato. La preghiera che proviene dallo Spirito è un’invocazione umile ma fiduciosa, che sa di non avere alcun diritto al perdono, ma di poter contare soltanto sulla misericordia di Dio il cui cuore è più grande di tutti i nostri peccati. In linea poi con la struttura propria del genere post communionem, il fondamento ecclesiologico non è introdotto da termini espliciti che rimandano al concetto dell’ecclesia, ma, in parte, è messo in evidenza nell’uso plurale dei verbi che hanno sempre come soggetto il “noi ecclesiale” della comunità celebrante, destinataria dei doni invocati attraverso l’intercessione della santa di cui si sta facendo memoria. Dal testo emerge una lucida coscienza della situazione di peccato in cui si dibatte la comunità cristiana sulla terra formata da uomini fragili che continuamente cadono sotto il peso della tentazione e offendono Dio; essa ha incessante bisogno di impetrare il perdono. Scopo ultimo del perdono è che la Chiesa, liberata dal peccato, possa servire Dio e, oltre ad essere destinataria del perdono, possa apparire come luogo dove il perdono s’impetra e si ottiene. Il fondamento escatologico, invece, è esplicito nell’espressione «veniam consequamur, et pacem». La circostanza in cui avviene questo incontro con la martire nell’Eucaristia, quindi, possiede anche una certa s; 8,6; Gal 5,22; 1 Cor 14,33). Come l’ebraico shalom nell’AT, e il greco e„r»nh, la parola pax negli scritti cristiani ha spesso un contenuto profondamente religioso. Nella nostra orazione la petizione della pace è accompagnata dalla petizione del perdono perché il perdono dei peccati è un requisito indispensabile per la pace con Dio. Sebbene la parola sia impiegata come un cliché nelle orazioni o anche quando essa corrisponde al senso profano di “assenza di guerra”, il contesto delle preghiere ci rimanda sempre al senso religioso. Nelle orazioni, poi, per pace si intende anche la concordia cristiana, a volte messa in relazione con la caritas; qualche altra volta ricorre in un senso specificamente escatologico o come effetto dell’azione sacramentale: cfr. BLAISE, Dictionnaire latin-français, 602; ELLEBRACHT, Remarks on the vocabulary, 47; X. L. DUFOUR, «Pace», in DTB, 721-728; V. HALSER, «e„r»nh», in DENT, 1, 1049-1056.

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tensione escatologica: ricordando l’evento della traslazione delle reliquie, la comunità è proiettata, non solo verso la riconciliazione con la Chiesa pellegrinante, ma anche verso la pace dell’incontro pieno e finale con Dio. Il perdono che giustifica è quindi un dono di Dio che deve crescere e svilupparsi con la collaborazione dei fedeli e sarà pieno solo nella vita eterna. La partecipazione all’Eucaristia permette di raggiungere il perdono pieno di Dio che è comunione completa e definitiva, perché crea nei fedeli le basi per una conversione continua e progressiva, e insieme dona il pegno di esso. 1.2.4. Dimensioni liturgiche La nostra orazione presenta una chiara dimensione anamnetica nella parte iniziale della petizione che, richiamando l’esperienza cultuale dell’incontro con la martire nella ricorrenza della traslazione delle sue reliquie (translationem Beatae Agathae Virginis, et Martyris tuae recolentes) e il dono delle haec Sancta, quae sumpsimus, esprime il bisogno di perdono e di pace che solo Dio può dare così come ha fatto lungo la storia della salvezza. La prima osservazione di carattere liturgico che si può fare è data dal fatto che, prima che il sostegno della loro intercessione, i santi, con la ricorrenza di una festa a loro dedicata, danno alla Chiesa pellegrina l’occasione per radunarsi intorno all’altare per celebrare le grandi opere di Dio. L’espressione haec sancta14, inoltre, è una formula arcaica e piena di rispetto per indicare i doni ricevuti nella comunione, ossia i segni sacra14 Sanctus può essere un sostantivo maschile con il significato di santo; può essere anche un sostantivo neutro con il significato di cosa santa, tempio o santuario; può essere, in fine, un aggettivo che indica una qualità della divinità, degli uomini o delle cose. Nella tradizione biblica la santità è una peculiarità di Dio. Dio è il Santo per eccellenza; tutto il resto (persone, luoghi, avvenimenti, riti, libri o cose) è santo nella misura in cui viene messo in relazione alla santità divina. Anche nel NT troviamo questo termine. San Paolo usa frequentemente il greco §gioj/sanctus per designare le prime comunità cristiane (Rom 1,7); usa il medesimo aggettivo per parlare della Chiesa di Corinto (1 Cor 1,2) e definisce “santi” gli amici di Efeso e i fratelli di Colossi (Eph 1,1; 2,19; Col 1,2). Con l’uso di questa terminologia sembra chiaro che Paolo voglia esprimere un concetto che avvicina la vita dei primi cristiani alla sacralità di Gesù e vuole collegare il loro lavoro a quello del Maestro. La prima lettera di Pietro è, probabilmente, una delle più esplicite in questo senso (1 Pt 1,15-16). Santo, quindi, è colui che merita tale appellativo anche per come conduce la propria vita. Interessante è l’uso che la liturgia fa del neutro plurale del termine con il significato di cose sante, carne consacrata, alimento santificato, perché offerto a Dio. Quest’uso del termine è biblico. Nel libro del Levitico, infatti, le vittime, una volta offerte, sono definite “sante” in quanto ormai divenute possesso di Dio e perciò, in un certo senso, parteci-

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mentali del corpo e del sangue di Cristo. Tale espressione, unita al verbo sumere, ricorda il carattere o la natura di queste realtà che sono destinate ad essere cibo, nutrimento. “Prendere le cose sante”, quindi, è un’originale e significativa formula per dire “fare la comunione”, poiché contiene contemporaneamente un riferimento sacrificale e conviviale. Il fedele prende un cibo santo, santificato e santificante e attinge alla realtà del sacrificio. Questa azione cultuale dell’incontro con Dio attraverso la martire, allora, ha il suo centro propulsore nell’Eucaristia dalla quale anche la santa ha attinto forza. I doni ricevuti in memoria di Agata sono destinati ad esprimere la lode e il ringraziamento per quanto Dio ha operato nella sua vita e passione. E ciò, mentre per la santa costituisce un onore e una glorificazione, per i fedeli è un segno che testimonia la loro volontà di ristabilire la comunione con Dio. Ciò che fa la gloria di Agata è certamente la passione affrontata per Cristo; ma anche la celebrazione dell’Eucaristia fa parte della sua gloria. Il fatto che i fedeli, nella sua memoria, rendono grazie a Dio per quanto Egli ha operato nella sua vita per mezzo di Cristo, e cantano le sue gesta nella comunità riunita, è per lei un onore e accresce la sua gloria sulla terra. L’Eucaristia, allora, è sacrificio di lode con cui la Chiesa esalta il braccio potente di Dio, ma è pure sacrificio di espiazione con il quale la Chiesa implora perdono e pace. Essa è contemporaneamente sacrificio di lode e sacrificio di placazione, che rende la Chiesa degna del perdono di Dio, la trasforma interiormente ponendola in atteggiamento di rendimento di grazie. La dimensione epicletica è espressa nei frutti della celebrazione, alla quale si partecipa mediante la comunione eucaristica; frutti dovuti all’azione dello Spirito. Questi frutti sono innanzitutto il perdono e la pace. La coscienza del peccato, infatti, provoca nella Chiesa un comprensibile timore nell’accostarsi a Dio. Perciò essa, nell’occasione data dalla memoria pi della sua trascendenza (Lev 10,17-18). Vi si può vedere anche un riflesso della parola del Signore: «Nolite dare sanctum canibus» (Matth 7,6). Nella nostra orazione è chiaro che l’espressione haec Sancta, non si riferisce più ai doni offerti per la celebrazione eucaristica, ma al sacramento eucaristico, alle Sacre Specie. Il termine Sancta, quindi, mentre richiama l’origine e la qualità del cibo eucaristico, serve a ricordarne anche l’effetto e a provocare un atteggiamento di profonda riverenza e di adesione interiore: cfr. BLAISE, Dictionnaire latin-français, 737; J. DE VAULX, «Santo», in DTB, 1024-1031; X. L. DUFOUR, «Santo», in DNT, 474-475.

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della martire, offrendo a Dio il sacrificio di lode e di espiazione per onorare la potenza di Dio manifestatasi nella sua passione e per implorare il perdono per i propri peccati, ricorre all’intercessione di Agata, perché lei, che ha trionfato definitivamente sul peccato e sull’umana debolezza, avvalori le preghiere della comunità e raccomandi i suoi doni. L’Eucaristia, quindi, è il sacramento della salvezza intesa nel senso più forte, cioè della redenzione (ueniam). Partecipando all’Eucaristia nei fedeli si opera un passaggio dalla condizione di peccato alla pace con Dio e con la Chiesa tutta, mettendo il credente riconciliato in perenne atteggiamento di rendimento di grazie e a servizio di Dio. Il servizio al quale il perdono di Dio abilita, poi, trova la sua espressione più significativa nella celebrazione liturgica fatta dalla comunità riunita. I fedeli hanno parte al perdono divino in quanto sono membri del popolo di Dio e in comunione di fede e di carità con esso possono ricevere i doni salvifici. Appunto per questo spesso si ricorre all’intercessione dei santi, membri del popolo di Dio che hanno già conseguito la vittoria pasquale e per la loro familiarità con Dio possono intervenire presso di Lui a favore dei fratelli ancora in lotta contro il peccato. Il sacrificio, allora, non è soltanto il mezzo con il quale la comunità implora il perdono ma anche lo strumento attraverso il quale Dio lo comunica. Questa iniziativa dello Spirito, naturalmente, non annulla il nostro impegno, ma ci spinge a far si che “quelle cose che assumiamo” (sumere è un termine tratto dal linguaggio conviviale) ci giovino per accogliere il dono della salvezza per cui, alla manducazione visibile dei segni sacramentali, deve far seguito il raggiungimento degli effetti invisibili che, nella nostra orazione, vengono espressi con una frase generica: «veniam consequamur, et pacem». La dimensione dossologica è espressa in maniera esplicita nella conclusione dell’orazione. Tutto quello che la formula dice si realizza in un “dinamismo dossologico” nel quale, mentre eleviamo a Dio la nostra preghiera di lode per eccellenza, da Lui discendono i frutti della redenzione, ossia quel perdono e quella pace che l’uomo spera. Questa stessa dimensione dossologica è espressa in maniera implicita nel fatto che il sacrificio che la Chiesa offre a Dio, è il sacrificio di espiazione e di lode, cioè quello stesso compiuto da Cristo per glorificare il Padre e giustificare i peccatori. Offrirlo significa consegnarsi a Cristo nelle mani del Padre, affidandosi con Lui al suo amore e alla sua parola, mettendosi al seguito di Cri313


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sto per percorrere la nuova via da lui aperta e condurre la vita nuova da lui iniziata e comunicata a quanti lo seguono. La Koinonia, anche in questo caso, è legata all’aspetto ecclesiologico. L’orazione, infatti, vuole esprimere i sentimenti e le attese di tutta la comunità riunita attorno all’altare. La dimensione simbolica in questo testo è espressa dal linguaggio. Non è nominato il corpo e il sangue di Cristo, ma l’attenzione è rivolta prevalentemente al segno sensibile, anziché alla realtà invisibile, agli effetti e alla qualità del cibo eucaristico, anziché al contenuto oggettivo presente nel segno. 1.3. Le antifone 1.3.1. I testi e le fonti TESTO Introitus: «Custodivit me Angelus ejus, et hic euntem, et ibi commorantem, et inde huc revertentem; sed revocavit me vobis gaudentem in victoria sua, in evasione mea, in liberatione vestra».

TRADUZIONE «Mi ha custodito il suo angelo, e uscendo da qua, e dimorando laggiù, e qui ritornando; ma mi ha ricondotta a voi gioiosa nella sua vittoria, nella mia fuga (icolumità), nella liberazione vostra».

TESTO

TRADUZIONE

Graduale: «Cum audisset venisse Jacob filium sororis suae cucurrit obviam ei; complexusque eum, et in oscula ruens duxit in domum suam. Auditis autem causis itineris respondit: Os meum es, et caro mea. Alleluija, alleluja».

«Quando udì che era venuto Giacobbe il figlio di sua sorella gli corse incontro; lo abbracciò, e baciandolo lo condusse a casa sua. Sentite poi le cause del suo viaggio rispose: sei mio osso, e mia carne. Alleluia, alleluia».

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FONTI

Judith 13, 20

FONTI

Gen 29, 13-14


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TESTO

TRADUZIONE

Offertorium: «Dum specularetur adventum ejus vidit a longe, et illico agnovit venientem filium suum, currensque nuntiavit viro suo, dicens: Ecce venit filius tuus».

«Mentre scrutava vide da lontano il suo ritorno, e subito riconobbe suo figlio che veniva, e correndo lo annunziò a suo marito, dicendo: Ecco viene tuo figlio».

TESTO

TRADUZIONE

Communio: «Tu gloria Jerusalem, tu laetitia Israel, tu honorificentia populi nostri».

«Tu gloria di Gerusalemme, tu letizia di Israele, tu onore del nostro popolo».

FONTI

Tob 11,6

FONTI

Judith 15, 10

1.3.2. I temi Le antifone di questa messa sottolineano due tematiche: la tematica del ritorno di una persona cara nella propria città e tra la propria gente15 e l’accostamento Giuditta-Agata. Questo accostamento nasce dal fatto che la ricorrenza del 17 agosto è dedicata sia al ritorno delle reliquie della martire a Catania, sia al patrocinio di Agata nei confronti della città. La figura biblica più significativa dal punto di vista patriottico che si poteva accostare ad Agata, invocata da Catania come fondamento della protezione e della libertà della sua patria, non poteva essere altro che Giuditta, proprio per ciò che questa figura rappresenta nella storia d’Israele. Il libro di Giuditta16 è un racconto edificante, sapienziale e popolare, dove la precisione degli elementi storici è subordinata al messaggio che si vuole trasmettere. Giuditta, il cui nome significa “la giudea”17 quasi a personificare l’intero popolo giudaico o la giudea per eccellenza, è una figu15

Cfr. Gen 29,13-14; Tob 11,6. Cfr. G. PRIERO, Giuditta (La Sacra Bibbia. Vecchio Testamento 8), Torino-Roma 1959, 1-34; G. F. RAVASI, «Giuditta», in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 1988, 710-713; J. VÍLCHEZ LÍNDEZ, Tobia e Giuditta, Roma 2004, 181-197; D. SCAIOLA, Rut, Giuditta, Ester, Padova 2006, 55-60. 17 Cfr. VÍLCHEZ LÍNDEZ, Tobia e Giuditta, 267. 16

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ra edificante sul piano patriottico e su quello della virtù femminile18. Infatti, la vita di Giuditta è tutta orientata alla salvezza del suo popolo, della sua terra e della città. In questo senso questa figura femminile della Bibbia viene considerata come “madre della patria ebraica”. La sua stessa città di provenienza porta un nome emblematico “Betulia”19, allusivo a Betel (casa di Dio) o forse anche “vergine”, un titolo spesso attribuito ad Israele. Giocando su questi due possibili significati del nome della città di provenienza dell’eroina possiamo affermare che Giuditta è chiamata a difendere la “verginità”, cioè l’integrità della casa di Dio e della terra promessa. Lo scopo ultimo di tutta il racconto che ha come protagonista questa donna giovane, bella e coraggiosa è l’esaltazione della protezione che il Signore riserva agli oppressi, attraverso l’opera di una persona “debole” ed “ultima” come era considerata in Oriente una donna e soprattutto una vedova. Dietro questa figura, comunque, si erge Dio e in essa si concentrano tutte le aspettative nazionalistiche. Dal punto di vista umano, poi, Giuditta viene tratteggiata come una figura di donna bella, libera, ricca che rimprovera lo scarso coraggio degli uomini della sua comunità; essa esce fuori dagli schemi tradizionali che, in una società patriarcale subordina la donna all’uomo, e addirittura vince sul maschio con le tradizionali armi della seduzione e dell’inganno. Giuditta, comunque, non affronta un’impresa umanamente assurda confidando solo in se stessa o nelle sue virtù, ma si affida alla preghiera. In questo modo, allo splendore dell’aspetto, unisce l’intelligenza e la fede; si fa cioè strumento del Signore che la porta a valorizzare tutti i suoi doni, soprattutto la bellezza vista come vocazione, come rinvio e appello ad un’alta misura, quella dell’infinita bellezza di Dio a cui tutto deve essere orientato. In questo percorso, quindi, la bellezza può essere una via singolare della grazia. Di fatti, alla fine del libro, Giuditta guida l’azione di grazie del suo popolo che si reca a Gerusalemme. Il suo cantico è un Magnificat che celebra le meraviglie di Dio che abbatte i superbi e innalza gli umili. Per questi motivi la liturgia ha coniato un’antifona che accosta Giuditta a Maria o, come nel nostro caso, a donne che per la loro forte testimonianza sono diventate eroine e vanto del18 19

Cfr. VÍLCHEZ LÍNDEZ, Tobia e Giuditta, 187-188. Cfr. RAVASI, «Giuditta», 711.

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la loro patria: «Tu gloria Jerusalem, tu laetitia Israel, tu honorificentia populi nostri». 1.4. Le letture Libri Regum III, 8,1-620 Lc 4, 14- 21. Entrambe le letture ruotano attorno ad un tema che sembra unificarle: la presenza di Dio in mezzo all’assemblea significa protezione, difesa, sicurezza. Questa presenza è garantita dal segno del tempio e dell’arca dell’alleanza (prima lettura) oppure dalla presenza di Gesù che “ritorna” nella sua città (Vangelo), dove, nella sinagoga, comincia ad annunziare il Vangelo, la buona notizia per i poveri, per i prigionieri, per i ciechi, per gli oppressi, una vera consolazione per tutti21. Con l’avvento di Gesù inizia un “anno di grazia”, un “giubileo”, un anno santo nel quale tutti sono liberati dalla schiavitù e dall’oppressione. Gesù, così, diventa segno di consolazione e della presenza di Dio che torna a parlare in mezzo al suo popolo. Con il discorso di Gesù a Nazareth, Luca intende introdurre e illuminare tutto il ministero pubblico di Gesù. Cita Isaia 61,1-2 che contiene in sintesi i grandi temi che caratterizzano il suo Vangelo e quelli a lui più cari: lo Spirito Santo, l’unzione messianica, la liberazione escatologica, la gioia messianica, l’intervento divino a favore dei poveri e degli oppressi, la proclamazione dell’anno di grazia; insomma si compie la Scrittura. Viene proposta al lettore la necessità di “camminare” insieme con Cristo imitandolo sulla via della conformità alla volontà del Padre. La collocazione di queste due pericopi nel contesto liturgico della celebrazione della traslazione delle reliquie di sant’Agata vuole sottolineare un messaggio preciso: il corpo di ogni battezzato è tempio dello Spirito Santo, realtà consacrata in cui viene ad abitare Dio stesso. Se questo è vero per ogni cristiano, lo è ancor di più per le membra più eccellenti del corpo di Cristo, ossia per coloro che sono stati strumenti particolari dello 20

Il brano corrisponde a 1 Re 8,1-6 dell’edizione italiana della CEI. Cfr. O. DA SPINETOLI, Luca, Assisi 21986, 177-187; J. ERNST, Il Vangelo secondo Luca, Vago di Lavagno 32000, 227-233; R. J. KARRIS, «Il Vangelo secondo Luca», in NGCB, 898900; F. BOVON, Vangelo di Luca (Commentario Paideia. Nuvo Testamento III/1), Brescia 2005, 242-255. 21

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Spirito e segno visibile della santità di Dio che si è manifestata nella loro vita. Tra questi spiccano in maniera particolare i martiri considerati fin dall’antichità “presenza di Cristo”: «Christus in martyre est», diceva Tertulliano22. Il corpo del santo, quindi, è in un certo senso un segno della presenza di Dio e venerando la santità di quel corpo si venera la santità di Dio. In questo contesto si inserisce anche la memoria del ritorno delle reliquie di Agata nella sua città, un evento interpretato dal compositore del formulario, come un segno di rinnovata benevolenza divina attraverso il ritorno delle spoglie mortali della martire, riaccolte nella sua patria in un clima di giubilo simile a quello che c’era il giorno della dedicazione del tempio di Gerusalemme quando l’arca dell’alleanza venne accuratamente sistemata al suo posto nella cella del tempio e come segno che continua ad assicurare la presenza di Dio che significa protezione, difesa e sicurezza23.

2. Il formulario “In commemoratio Patrocinii S. Agathae” del Proprium Missarum di mons. Guido Luigi Bentivoglio (anno 1962) 2.1. Oratio: “Suscipe, Domine, precibus beatae…”24 2.1.1. Il testo e la sua traduzione «Suscipe, Domine, precibus beatae Virginis Agathae, huius populi sacrificia et vota: ut, dum beneficia tua, intercessionibus eius obtenta, anniversaria solemnitate concelebrat; de tantae Martyris protectione pergaudeat. Per Dominum…». «Accetta, o Signore, per l’intercessione della beata vergine Agata, il sacrificio e le preghiere di questo popolo: affinchè, mentre ricorda con questa annuale ricorrenza i benefici da te ricevuti per sua intercessione, possa ancora più godere per il patrocinio di così insigne martire. Per il nostro Signore…».

2.1.2. Identità storica, tradizione e identità letteraria del testo Il testo è di nuova composizione; non si hanno, infatti, antecedenti né nei Sacramentari antichi, né nei “Propri diocesani” precedenti al libro li22

Cfr. TERTULLIANUS, De Pudicitia, 22, 6, ed. E. Dekkers (CCL 2), Turnhout 1954, 1329. Cfr. J. T. WALSH-C. T. BEGG, «1-2 Re», in NGCB, 218. 24 PMAC, 20-Co. 23

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turgico in cui l’orazione è inserita. Il compositore, tuttavia, fa uso di termini biblici (sacrificia, vota, beneficia) e ricorre anche a delle allusioni patristiche: AUGUSTINUS HIPPONENSIS: «et cognitus erit dominus aegyptiis, et timebunt aegyptii dominum in illo die et facient sacrificia et uota promittent domino et reddent»25. AUGUSTINUS HIPPONENSIS: «et quando mihi sufficiat tempus commemorandi omnia magna erga nos beneficia tua in illo tempore praesertim ad alia maiora properanti?»26.

Il testo in esame è l’orazione colletta del formulario proprio della messa della traslazione delle reliquie di sant’Agata proposto dal Proprium Missarum Archidioecesis Catanensis, edito da mons. Bentivoglio. In sintonia con il genere letterario a cui appartiene, introduce alla celebrazione del giorno richiamando il motivo che porta la comunità cristiana locale a riunirsi in quella circostanza. La formula è composta da un solo periodo con quattro proposizioni: la principale (Suscipe precibus beatae Virginis Agathae, huius populi sacrificia et vota), una subordinata finale (ut de tantae Martyris protectione pergaudeat), una subordinata temporale (dum beneficia tua… anniversaria solemnitate concelebrat) e una subordinata relativa con il participio perfetto (intercessionibus eius obtenta). La principale si identifica con la petizione; è seguita da due subordinate, delle quali, la finale esprime il fine della petizione, la temporale esprime la circostanza e la modalità per raggiungere il fine. La petizione, includendo al suo interno anche il concetto di intercessione della martire, chiede al Signore di accettare il sacrificio eucaristico e le preghiere del popolo che, riunito in assemblea per la circostanza messa in evidenza dall’ampliamento, sta celebrando quella liturgia. La finale, invece, esprime la tensione verso una gioia più grande alla quale si può giungere mediante il patrocinio della santa.

25 AUGUSTINUS HIPPONENSIS, Ad catholicos de secta Donatistarum, 16,41, ed. M. Petschenig (CSEL 52), Wien-Leipzig 1909, 286. 26 AUGUSTINUS HIPPONENSIS, Confessionum libri tredecim, 9, 4, ed. L. Verheijen (CCL 27), Turnhout 1981, 136-137.

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La struttura della formula è di tipo classico: Invocazione: Domine. Petizione: Suscipe precibus beatae Virginis Agathae, huius populi sacrificia et vota. Ampliamento: dum beneficia tua, intercessionibus eius obtenta, anniversaria solemnitate concelebrat Fine: ut de tantae Martyris protectione pergaudeat. Dal punto di vista stilistico, nella formula in questione possiamo notare una progressione (celebrare/pergaudere) e il seguente cursus: / ˇ ˇ / ˇ ˇ Suscipe, Domine, precibus beatae Virginis Agathae tardus / ˇ ˇ / ˇ huius populi sacrificia et vota planus /ˇˇ /ˇ ut, dum beneficia tua planus /ˇ ˇ / ˇ intercessionibus eius obtenta planus / ˇ ˇ / ˇ ˇ anniversaria solemnitate concelebrat tardus / ˇ ˇ / ˇ ˇ de tantae Martyris protectione pergaudeat tardus 2.1.3. Fondamenti teologici In questa brevissima orazione l’attribuzione generica Domine esplicita il fondamento teocentrico poiché, attraverso la modalità della supplica, esprime il destinatario dell’invocazione utilizzando un attributo che, nel suo significato più importante, richiama in maniera globale la relazione santificante di Dio nei confronti dell’uomo e la sua azione santificante nei confronti delle cose, caratterizzandolo come Dio Salvatore. Nel nostro contesto l’utilizzo del verbo suscipere, riferito a sacrificia27 e vota, sottolinea in maniera evidente quest’azione santificante di Dio nei 27 Sacrificium è una di quelle parole che hanno un senso liturgico tecnico e fa parte di quel gruppo di termini che designano i “doni offerti” o l’atto di offrire. Nell’AT possiamo definire genericamente sacrificio qualsiasi offerta, animale o vegetale, presentata a Dio sull’altare e sottratta all’uso profano. In genere avveniva che il fedele imponeva le mani sui doni accettati dal sacerdote a significare che, offrendo quel dono, egli offriva se stesso. Il significato esatto del rito sacrificale è difficile da precisare. Tuttavia si può dire che, il credente, in tal modo, voleva colmare la distanza che il peccato ha scavato tra lui e Dio, espri-

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confronti dell’uomo che presenta al suo Signore il sacrificio della lode e le preghiere. Inoltre la semplice espressione precibus beatae virginis Agathae, mentre esplicita la condizione di beatitudine di Agata e la sua partecipazione alla vita divina, dono e frutto della libera iniziativa di Dio, nello stesso tempo mette in evidenza uno degli attributi di questa santità, la “verginità” appunto, e associa la preghiera della martire a quella del popolo. mendo simbolicamente questo pensiero attraverso un’offerta e avvicinandosi a Dio per la mediazione del sangue versato sull’altare che gli permetteva di ristabilire un contatto. Grazie all’Alleanza simbolicamente rinnovata, viene di nuovo ritrovata la comunione. Il rito sacrificale viene falsato quando è separato dal suo significato e diventa formalismo. Dio accetta i sacrifici e i doni soltanto se l’uomo li offre con cuore capace di sacrificare, nella fede, ciò che ha di più caro. I profeti non condannano il sacrificio in quanto tale, ma le sue contraffazioni. Essi, di conseguenza, insistono con forza sul primato dello spirito e sull’importanza del sacrificio interiore. In questo senso i profeti anticipavano la rivelazione del NT sull’essenza del sacrificio. Anche nel NT, quindi, il sacrificio ha un ruolo importante. Gesù riprende l’idea profetica del primato dello spirito sul rito (Matth 5,23 s; Marc 12,33). Egli non ha condannato il sacrificio, ma con i suoi richiami, ha preparato gli spiriti a comprendere il senso del suo sacrificio. Tra i due Testamenti c’è, perciò, continuità e superamento: la continuità si manifesta con l’applicazione alla morte di Cristo del vocabolario sacrificale dell’AT; il superamento con l’originalità assoluta dell’offerta di Gesù. Egli stesso è la vittima pasquale; ma poiché gli antichi sacrifici erano impotenti a ottenere il perdono definitivo, Egli ha compiuto per sempre il sacrificio perfetto, offrendosi una volta per tutte in un’oblazione unica per la nostra santificazione (Hebr 7,27; 9,12; 10,1). La morte di Gesù ha così un carattere sacrificale: essa procura la remissione dei peccati, consacra l’Alleanza definitiva e la nascita di un popolo nuovo, assicura la redenzione. L’Eucaristia, destinata a rendere presente in memoriam, nella cornice di un pasto, l’unica oblazione della croce, collega il nuovo rito dei cristiani agli antichi sacrifici di comunione. Così l’offerta di Gesù, nella sua realtà cruenta e nella sua espressione sacramentale, ricapitola l’economia dell’AT. La Chiesa, riflettendo sul sacrificio di Cristo, sviluppa ulteriormente questa idea. Gesù diventa la nostra Pasqua, l’Agnello immolato che inaugura nel suo sangue la nuova Alleanza, realizza l’espiazione dei peccati e la riconciliazione tra Dio e gli uomini (1 Cor 5,7; Io 19,36; 1 Pt 1,19; Apoc 5,6; 1 Cor 11,25; Rom 3,24; 2 Cor 5,19 ss; Col 2,14). Rispetto ai banchetti sacri di Israele, l’Eucaristia porta una differenza: i cristiani non partecipano più soltanto a “cose sante”, ma comunicano con il corpo e il sangue di Cristo, principio di vita eterna (Io 6,53-58). Questa partecipazione significa e produce l’unione dei fedeli in un solo corpo (1 Cor 10,17). Nelle orazioni si possono distinguere almeno quattro diversi, sebbene relativi, significati per questa parola importantissima. In primo luogo può indicare l’Eucaristia intesa come il rinnovamento dell’unico sacrificio di Cristo che diede significato ai sacrifici dell’antica Alleanza. In questo senso l’Eucaristia è considerata anche come fonte del martirio in quanto è il sacrificio di Cristo stesso. In secondo luogo questo vocabolo può indicare i “doni” portati dal fedele all’altare nel rito di offertorio. Il nostro termine, tuttavia, può avere anche un terzo significato. Dal momento che l’Eucaristia perpetua l’unico redentivo sacrificio del Calvario, quando sacrificium sta per Eucaristia, può avere una connotazione sacramentale. In fine, sacrificia può riferirsi concretamente alle Sacre Specie. Possiamo, allora, dire che «sacrificium è la parola propria dei misteri antichi». Essa designa l’Eucaristia nell’insieme; può riferirsi ai “doni” portati dal fedele. In senso spirituale, infine, il termine può indicare il sacrificio spirituale. Nel contesto della nostra orazione indica la messa: cfr. ELLEBRACHT, Remarks on the vocabulary, 77-80; BLAISE, Dictionnaire latin-français, 731; C. HAURET, «Sacrificio», in DTB, 1006-1013.

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Il fondamento cristologico e pneumatologico non sono espressi con termini espliciti, ma sono presenti nella struttura, nello spirito dell’orazione, nella formula di conclusione e negli effetti che si sperano ottenere mediante la preghiera di domanda. Il fondamento ecclesiologico, invece, è contenuto nel termine populus soggetto che compie l’azione di offrire sacrificia e vota28, ricorda i benefici di Dio e gioisce del patrocinio di Agata, anch’essa unita a questo popolo con la sua preghiera. 2.1.4. Dimensioni liturgiche L’anniversaria solemnitate è l’occasione per ricordare i beneficia di Dio. In questo modo e mediante l’utilizzo della forma verbale suscipe, il cui soggetto è Dio, l’orazione esprime la dimensione anamnetica del suo contenuto. Inoltre il riferimento esplicito agli attributi della santità di Agata (verginità e martirio), richiama il rendimento di grazie a Dio per ciò che ha operato nel martirio e nella verginità di questa donna, segno della partecipazione piena al mistero pasquale di Cristo, mistero di croce e di risurrezione. La dimensione epicletica è contenuta nella discreta azione dello Spirito Santo che infonde, nel popolo che celebra l’Eucarestia in questa memoria dedicata alla santa, la fiducia di essere esauditi grazie al suo patrocinio, per il quale si sente protetto da qualsiasi male. Più esplicita è la Koinonia che si esprime nella petizione e nell’ampliamento, intessendo un parallelismo tra la preghiera di Agata, rappresentante della comunità celeste, e la preghiera della Chiesa pellegrinante: la certezza che Dio gradisce la preghiera di Agata, spinge la comunità a farsi forte del suo patrocinio per implorarlo, affinché accolga benevolmente anche l’offerta del suo sacrificio eucaristico. L’orazione, così,

28

Uotum, a partire dal IV secolo, fu considerato uno dei sinonimi di “preghiera”. È così che ricorre anche nelle orazioni. La lingua della liturgia mai è astratta e i termini usati per la preghiera non fanno eccezione a questo principio generale. Il modo in cui questo termine è usato nel contesto di celebrazioni in onore di martiri attesta questa concretezza data dal fatto che votum/a indica le preghiere che costituiscono la celebrazione che è qui ed ora in atto. Il termine, comunque, ha tante sfumature e il significato da dargli dipende dal contesto: cfr. ELLEBRACHT, Remarks on the vocabulary, 121-122; BLAISE, Dictionnaire latin-français, 860.

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vuole esprimere i sentimenti e le attese di tutta la comunità riunita attorno all’altare. I termini sacrificia e vota, inoltre, con i loro significati evocativi esprimono la dimensione simbolica poiché, dalla concretezza dell’atto di culto che in quel momento è espresso con la partecipazione all’Eucaristia, rinviano alla dimensione del sacrificio spirituale e del dono della vita del credente. 2.2. Secreta: “Accepta sit tibi, Domine, nostrae devotionis oblatio…”29 2.2.1. Il testo e la sua traduzione «Accepta sit tibi, Domine, nostrae devotionis oblatio: et urbem beatae Agathae Virginis et Martyris tuae sanguine madentem, una cum grege suo, benigna caritate conserva. Per dominum»….». «Ti sia gradita, o Signore, l’offerta della nostra devozione: e conserva con benigna carità la città bagnata dal sangue della beata Agata vergine e martire, insieme con il suo gregge. Per il nostro Signore…»

2.2.2. Identità storica, tradizione e identità letteraria del testo Il testo è di nuova composizione, ma utilizza termini o espressioni che provengono da allusioni bibliche (oblatio, sanguine, grex, caritate, conserva), da testi patristici o degli antichi Sacramentari: GREGORIUS MAGNUS: «Sollemnis quippe hostia fuit de inconparabili eloquio singularis oblatio deuotionis»30. GeV 111-Se e 241-Se: «Accepta tibi sit, domine, nostrae deuotionis oblatio, quae et ieiunium nostrum te operante sanctificet et indulgentiam nobis tuae consolationis obteneat». Pa 143-Se: «Accepta tibi sit, domine, nostrae devotionis oblatio, quae et ieiunium nostrum te operante sanctificet, et indulgentiam nobis tuae consolationis obtineat».

29

PMAC, 21-Se. GREGORIUS MAGNUS, In librum primum Regum expositionum libri VI, 1, 48, ed. P. Verbraken (CCL 144), 81. 30

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Gell 308-Se: «Accepta tibi sit, domine, nostrę deuotionis oblatio, que et ieiunium nostrum te operante, sanctificet, et indulgentiam nobis tuę consolationis obteniat». Sg 281-Se: «Accepta tibi sit domine nostrae deuotionis oblatio, quę et ieiunium nostrum te operante sanctificet et indulgentiam nobis tuę consolationis obtineat».

Si tratta di un’orazione sopra le offerte. L’orazione esprime il suo contenuto con un solo periodo formato da tre proposizioni: la principale (Accepta sit tibi nostrae devotionis oblatio), una coordinata alla principale (et urbem… una cum grege suo, benigna caritate conserva) ed una subordinata relativa espressa con il participio congiunto (beatae Agathae Virginis et Martyris tuae sanguine madentem). La formula, così, si presenta con gli elementi essenziali: un’invocazione e una petizione. Si offre al Signore l’oblatio devotionis, chiedendogli di conservare la città bagnata dal sangue di Agata, la quale viene considerata nel suo rapporto di unità con il gregge di cui essa stessa ha fatto parte. Il testo si chiude con la dossologia finale. L’orazione presenta una struttura molto semplice: Invocazione: Domine Petizione: Accepta sit tibi nostrae devotionis oblatio: et urbem beatae Agathae… Dal punto di vista stilistico è possibile riscontrare il seguente cursus: / ˇ ˇ /ˇˇ Accepta sit tibi, Domine, nostrae devotionis oblatio tardus / ˇ ˇ ˇ / ˇ et urbem beatae Agathae Virginis et Martyris tuae sanguine madentem traspondaicus / ˇ ˇ / ˇ una cum grege suo, benigna caritate conserva

planus

2.2.3. Fondamenti teologici La forma attributiva generica Domine richiama il fondamento teocentrico. Dio, fonte di ogni santificazione, è il destinatario della devotionis 324


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oblatio31, la quale deve essere santificata affinché ci venga restituita come principio efficace per la nostra salvezza, ossia per la nostra santificazione. Non sono esplicitati il fondamento cristologico e quello pneumatologico, ma sono due aspetti senz’altro presenti perché l’oblatio non è un sacrificio a sé, ma viene offerta come segno del sacrificio di Cristo che, nello Spirito, viene presentata al cospetto di Dio perché l’ accetti. L’aspetto cristologico, quindi, traspare nella dinamica della mediazione del Figlio nell’ambito dell’opus salvificum, mentre l’azione santificatrice dello Spirito viene messa in evidenza dagli effetti della sua presenza: il conservare l’unità di Agata con il suo gregge mediante la carità. 31 Oblatio, derivando dall’antico latino offerre, oblatio, in greco prosfor£, fu presto usato in connessione con la celebrazione eucaristica. Come termine regolare per indicare l’Eucaristia, esso rimane in uso almeno fino al VI secolo. All’interno delle preghiere questo termine qualche volta assume un senso molto concreto. In primo luogo, esso ricorre solo nelle secrete. Questo fatto dà l’impressione che oblatio si riferisca specialmente alle “offerte” portate dal fedele, in maniera particolare dal momento in cui, nei Sacramentari di tipo gregoriano, la secreta fu chiamata “oratio super oblata”. Questa impressione è fortificata dall’uso di oblatio al plurale e con verbi che fanno riferimento all’azione di Dio: assume, suscipe, respice. È interessante notare che oblatio è usato con altri termini al genitivo. La nostra orazione ne è un esempio (nostrae devotionis oblatio). Questo fatto enfatizza in oblatio l’idea verbale. Due conclusioni seguono a questa constatazione: la prima è che il genitivo è usato probabilmente con un tocco di stile per aggiungere alle preghiere una certa abbondanza solenne di pleonasma; la seconda riguarda il fatto che in oblatio l’elemento verbale era sentito fortemente. Questa seconda asserzione è provata ulteriormente dal fatto che un verbo che vuole dire “offrire”(offerre, deferre, o immolare), nei tre più antichi Sacramentari, è raramente usato con oblatio. Il termine oblatio, inoltre, indica l’azione rituale, e come tale ha un carattere marcatamente sacramentale; questo avviene non solo quando è usato al singolare, ma anche quando è usato al plurale. Esso è spesso detto sacra oblatio; oblatio salutaris; mystica oblatio ed è anche considerato come produttore di effetti soprannaturali. All’interno delle orazioni la parola oblatio è uno dei primi termini assunti per indicare la “celebrazione” dell’Eucaristia. Qualche volta, in fine, intende l’attuale “portare dei doni” da parte del fedele facendo leva sul significato tecnico del relativo verbo offerre. Nell’insieme, comunque questo verbo non ha dei significati così restrittivi. Esso è usato con munus, con sacrificium, con oblatio, tutti termini che hanno un contenuto marcatamente rituale e questo fatto manifesta che offerre esprime il contenuto essenziale dell’Eucaristia. Il participio perfetto passivo oblata è un’espressione favorita nelle orazioni, soprattutto in compagnia di munera, tanto che l’espressione “munera oblata” divenne ben presto un’espressione tecnica per indicare “l’offerta del fedele”. Deuotio è, invece, uno di quei termini che esprimono l’adorazione, la lode e la venerazione. In questo senso devotio esprime il sentimento più profondo di colui che “si vota”, che “si dona” all’amore di Dio o alla venerazione dei suoi santi. Può indicare anche il sentimento di pentimento oppure gli atti con i quali si esprimono l’adorazione e la venerazione. In base al contesto, quindi, il termine si può tradurre in vari modi: attaccamento, sollecitudine; devozione, fervore, carità, amore di, pietà religiosa; venerazione, voto, consacrazione a delle feste religiose: cfr. ELLEBRACHT, Remarks on the vocabulary, 80-82; BLAISE, Dictionnaire latin-français, 266. 564.

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Il fondamento ecclesiologico è esplicito nell’uso del termine grex32, chiaro riferimento alla Chiesa pellegrinante; è, invece, implicito nell’uso del pronome possessivo plurale “nostrae”. Il fondamento ecclesiologico, così come è espresso dalla nostra formula, sottolinea anche il fondamento escatologico dell’orazione che si può individuare in quella tensione all’unità tra il gregge in cammino e la santa che è già giunta alla meta. 2.2.4. Dimensioni liturgiche La dimensione anamnetica, nell’orazione in esame, si riscontra nel ricordo del martirio di Agata, del cui sangue è stata bagnata la città che ora ne fa memoria. Questo riferimento al sangue ci rimanda alla partecipazione di Agata al mistero pasquale di Cristo, per il quale la giovane fanciulla ha dato la vita. Tutto ciò si traduce in un atteggiamento di rendimento di grazie a Dio per quanto Dio ha operato nella santa ed è sottointeso nello spirito dell’orazione. La dimensione epicletica si riscontra nell’atteggiamento di fondo dell’orazione che, mentre chiede al Signore di gradire l’oblatio, segno del culto spirituale della comunità, chiede anche il dono della comunione tra la Chiesa terrena e quella celeste. La dimensione dossologica, invece, è visibile nella conclusione della formula che mette in evidenza la prospettiva trinitaria della preghiera cristiana. La Koinonia, in fine, si manifesta nel fondamento ecclesiale dell’orazione che presenta, come soggetto dell’azione liturgica in corso, la comunità celebrante vista come un corpo ecclesiale che si esprime nel pronome possessivo plurale: “nostrae”.

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L’immagine del popolo come gregge è comune in tutto l’Oriente, ma in Israele reca chiaramente connotazioni religiose. La stessa immagine si trova anche nel NT dove è applicata sia ai giudei che ai pagani (1 Pt 2,25). Nei testi neotestamentari si usa il termine grex per tradurre il termine greco po…mnh, che oltre al significato comune di gregge, in qualche caso indica il gruppo prepasquale dei discepoli nel senso di popolo escatologico di Dio (Matth 26,31). In Giovanni non si trova il termine ™kklhs…a; di conseguenza po…mnh è sinonimo della comunità postpasquale. Che po…mnion ed ™kklhs…a — nel senso della comunità postpasquale composta da giudei e greci — siano identici, lo dimostra anche il discorso di congedo lucano di Paolo a Mileto (Act 20,17-38): cfr. H. GOLDSTEIN, «po…mnh», in DENT, 2, 1036-1037.

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2.3. Post Communionem: “Deus, qui pro beata Agatha…”33 2.3.1. Il testo e la sua traduzione «Deus, qui pro beata Agatha Virgine et Martyre omnipotentiam tuam nobis manifestare non desinis: quaesumus; ut per haec sancta, quae sumpsimus, obsequium nostri grati animi benignus aspicias, et perpetuo in cordibus nostris ignem tuae dilectionis accendas. Per Dominum…». «O Dio, che non lasci di manifestare a noi la tua onnipotenza per la beata Agata vergine e martire: ti preghiamo, per il sacramento cui abbiamo partecipato, riguarda benigno l’ossequio del nostro animo grato, e accendi per sempre nei nostri cuori il fuoco del tuo amore. Per il nostro…».

2.3.2. Identità storica, tradizione e identità letteraria del testo Anche questa orazione è di nuova composizione e non ha antecedenti in libri liturgici precedenti al Proprio in cui essa è inserita. Molti termini della formula, presi singolarmente appaiono nella Scrittura, nei Padri o nei testi liturgici, ma nessun testo contiene sintagmi uguali a quelli della nostra orazione. Qualche allusione la troviamo nei seguenti brani: Col 1,13:«qui eripuit nos de potestate tenebrarum et transtulit in regnum Filii dilectionis suae». 2 Tim 1,7: «non enim dedit nobis Deus spiritum timoris sed virtutis et dilectionis et sobrietatis». AUGUSTINUS HIPPONENSIS: «sicut enim post diluuium superba impietas hominum turrim contra dominum aedificauit excelsam, quando per linguas diuersas diuidi meruit genus humanum, ut unaquaeque gens lingua propria loqueretur, ne ab aliis intelligeretur: sic humilis fidelium pietas earum linguarum diuersitatem ecclesiae contulit unitati; ut quod discordia dissipauerat, colligeret charitas, et humani generis tanquam unius corporis membra dispersa ad unum caput christum compaginata redigerentur, et in sancti corporis unitatem dilectionis igne conflarentur»34. BEDA UENERABILIS: «Apte de eisdem lignis sethim quae albae spinae similia et esse incorruptibilia diximus utrumque altare fieri praecipitur quia nimirum una est fidei non fictae firmitas qua omnium corda electorum praemuniri atque ad suscipiendum ignem dilectionis et offerenda deo uirtutum libamina debent 33 34

PMAC, 21-Pc. AUGUSTINUS HIPPONENSIS, Sermo 271, ed. J. P. Migne (PL 38), Paris 1865, 1245.

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praeparari quia omnibus generaliter pusillis cum maioribus loquitur apostolus dicens, mundemus nos ab omni inquinamento carnis et spiritus perficientes sanctificationem in timore dei, quod est aliis uerbis dicere, praecidamus et auferamus a nobis spineta uitiorum et punctionum aculeos titillantium quos terra cordis nostri siue corporis ex peccato primae praeuaricationis nobis germinare consueuit et quasi quadam bipenni sedulae castigationis incidentes excolamus strenue interiorem simul et exteriorem hominem nostrum qui dignus fiat accepto sancti spiritus igne hostiam uirtutum in conspectu sui conditoris offerre»35.

Questo testo è la post communionem del formulario di messa che il Proprium Missarum Archidioecesis Catanensis di mons. Bentivoglio propone per la festa del 17 agosto. Ha una struttura semplice, composta da un unico periodo con cinque proposizioni: la principale (Deus… quaesumus), una subordinata relativa (qui pro beata Agatha Virgine et Martyre omnipotentiam tuam nobis manifestare non desinis), una subordinata finale (ut per haec sancta… obsequium nostri grati animi benignus aspicias), un’altra subordinata relativa (quae sumpsimus) ed una coordinata alla subordinata finale (et perpetuo in cordibus nostris ignem tuae dilectionis accendas). L’orazione, così, presenta due parti: la prima è data dalla proposizione relativa iniziale che amplifica l’invocazione esaltando l’onnipotenza di Dio; la seconda esprime la petizione articolata in una serie di proposizioni che esprimono due richieste e il mezzo come arrivarci: il gradimento dell’ossequio dell’animo grato di coloro che hanno ricevuto l’Eucaristia e l’accensione nei loro cuori del fuoco del suo amore. La struttura del testo è quadripartita: Invocazione: Deus Ampliamento: qui pro beata Agatha Virgine et Martyre omnipotentiam tuam nobis manifestare non desinis Petizione: quaesumus Fine: ut per haec sancta, quae sumpsimus, obsequium nostri grati animi benignus aspicias, et perpetuo in cordibus nostris ignem tuae dilectionis accendas. Dal punto di vista stilistico possiamo notare una progressione (aspicias/accendas) e il seguente cursus:

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BEDA UENERABILIS, De tabernaculo et uasis eius ac uestibus sacerdotum libri III, 3, ed. D. Hurst (CCL 119A), Turnhout, 1969, 126.

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/ ˇ ˇ / ˇ ˇ «Deus, qui pro beata Agatha Virgine

tardus /ˇ ˇ /ˇ ˇ et Martyre omnipotentiam tuam nobis manifestare non desinis tardus / ˇ ˇ / ˇ ˇ quaesumus; ut per haec sancta, quae sumpsimus tardus / ˇ ˇ / ˇ ˇ obsequium nostri grati animi benignus aspicias tardus /ˇ ˇ ˇ / ˇ et perpetuo in cordibus nostris ignem tuae dilectionis accendas trispondaicus 2.3.3. Fondamenti teologici In questa semplice orazione l’invocazione iniziale Deus esprime il fondamento teocentrico presentando Dio, non solo come il termine della presente preghiera, ma anche come colui che prende l’iniziativa di manifestare alla comunità celebrante la sua onnipotenza non solo per mezzo di quanto Lui stesso ha operato nella giovane martire, causa del rendimento di grazie nella ricorrenza che si sta celebrando, ma anche come sorgente del fuoco di amore che è l’oggetto della petizione. L’orazione si presenta povera di riferimenti diretti al fondamento cristologico. Tuttavia, anche questa prospettiva la possiamo rintracciare in vari punti del testo: nella formula conclusiva, nel riferimento all’esperienza del martirio e della verginità di Agata che rimandano al mistero pasquale di Cristo compiuto nella vita della santa, ma anche nelle implicazioni cristologiche che si possono individuare nell’esegesi dei termini cor, ignis e dilectio36.

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In ambito biblico il termine cor non è legato solo alla vita affettiva, ma ha un significato più largo. Cuore è ciò che si trova all’interno, nell’intimo dell’uomo (sentimenti, ricordi, pensieri, ragionamenti, progetti). L’ebreo parla di cuore là dove noi diremmo memoria, spirito o coscienza. Il cuore, quindi, designa tutta la personalità cosciente, intelligente e libera dell’uomo. La Bibbia spesso denuncia la doppiezza del cuore (Eccli 27,24; Ps 28,3 s.), ma questa si rivela una soluzione illusoria perché non si può ingannare Dio come si inganna l’uomo: l’uomo guarda l’apparenza, Dio, invece, guarda al cuore. Nella storia, quindi, Israele ha sempre più compreso che una religione esteriore non può bastare. Per trovare Dio occorre cercarlo con tutto il cuore, vivendo una profonda docilità alla sua legge (Deut 4,29). Il disegno di Dio, allora, è quello di creare nell’uomo un cuore nuovo. Da qui nasce

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Il fondamento pneumatologico, invece, è più esplicito, in quanto lo Spirito non viene menzionato solo nella conclusione, ma anche nell’espres-

la promessa di una nuova epoca contrassegnata da un rinnovamento interiore che Dio stesso opererà. Gli Israeliti non saranno più ribelli perché Dio, stabilendo con essi una nuova Alleanza, porrà la sua legge in fondo al loro essere e la scriverà nel loro cuore (Ier 31,33). Meglio ancora: Dio darà loro un altro cuore, così sarà assicurata tra Dio e il suo popolo un’unione definitiva (Ier 32,39; Ez 36,25 s.). Questa promessa è stata adempiuta da Gesù Cristo; ormai la fede in Lui risorto, adesione del cuore, procura il rinnovamento interiore. Nei cuori dei credenti è versato uno Spirito nuovo e con lui l’amore di Dio (Gal 4,6; Rom 5,5). Questa è la nuova Alleanza, fondata sul sacrificio di Cristo: Gesù in persona viene dentro ai suoi per farli vivere (Io 6,56 s.). Il segno del fuoco nella Scrittura compare spesso nel contesto delle relazioni di Dio con il suo popolo. Esso ha solo valore di segno che bisogna superare per trovare Dio che non si identifica con esso (Ex 3,2 s; 19,18; Deut 4,12; 4 Re 2,11; Eccli 48,1). Nell’AT il fuoco rappresenta anche il castigo dei tempi escatologici. Nel NT, il fuoco conserva il suo valore escatologico tradizionale (Matth 3,10-11; 5,22; 13,40), ma la realtà religiosa che esso significa si attua già nel tempo della Chiesa. Il termine fuoco, tuttavia, nel NT viene utilizzato soprattutto in riferimento allo Spirito Santo. Gesù ha inaugurato una nuova epoca, un’epoca di fuoco inaugurata con la sua morte in croce. La Chiesa ormai vive di questo fuoco che infiamma il mondo grazie al sacrificio di Cristo. Il fuoco ora simboleggia lo Spirito, è la carità stessa di Dio che ha la missione di trasformare coloro che devono diffondere in tutte le nazioni lo stesso linguaggio dell’amore. La vita cristiana è quindi sotto il segno del fuoco cultuale, non più quello del Sinai, ma di quello che consuma l’olocausto delle nostre vite in un culto accetto a Dio (Hebr 12,18. 29). Per coloro che hanno accolto il fuoco dello Spirito, la distanza tra l’uomo e Dio è superata da Dio stesso, che si è interiorizzato nell’uomo. Dilectio è un termine che significa affetto, amore, amicizia. Di fatto la parola amore designa tante cose diverse (carnali, spirituali, passionali, leggere). Nella Scrittura l’amore è il culmine della rivelazione divina; esso ha come sorgente l’amore eterno del Padre e del Figlio (Io 17, 24.26), che è pure l’amore dello Spirito (2 Cor 13,13), in breve l’amore eterno della Trinità. Prima di giungere a questo culmine, l’uomo è chiamato a purificare le concezioni puramente umane che si fa dell’amore al fine di accogliere il mistero dell’amore divino. Dio ha preso l’iniziativa in un dialogo d’amore con gli uomini e in nome di questo amore li impegna insegnando loro ad amarsi gli uni gli altri. L’amore tra Dio e gli uomini nell’AT si è rivelato attraverso una serie di fatti: iniziative divine che chiama l’uomo all’amicizia con Lui e rifiuti da parte del destinatario di questo amore; sofferenza dell’amore rigettato e perdono che si fa misericordia perché l’amore è più forte del peccato e ricrea un cuore nuovo capace di amare. L’amore di Dio per il suo popolo è gratuito, ma esige in coloro che l’accolgono una scelta radicale. Ma esso non è possibile se Dio in persona non viene a circoncidere il cuore d’Israele e renderlo capace di amare. Nel NT, poi, l’amore divino si esprime in un fatto unico: Gesù viene a vivere come Dio e come uomo il dramma del dialogo d’amore tra Dio e l’uomo. In Cristo l’amore del Padre si esprime in modo insuperabile; la nuova Alleanza è realizzata, e sono concluse le nozze eterne dello sposo con l’umanità. Questo amore domanda reciprocità e vi si obbedisce attraverso Gesù (Matth 10,40; Io 8,42; 14,21-24); esso si rivela pienamente sulla croce dove Egli dona tutto al Padre senza riserva e tutto agli uomini senza eccezione. Per accedere a questo amore occorre il dono dello Spirito che crea nell’uomo un cuore nuovo: cfr. BLAISE, Dictionnaire latinfrançais, 223. 273. 401-402; J. DE VAULX-A. VANHOYE, «cuore», in DTB, 205-208; B. RENAUD-X. L. DUFOUR, «Fuoco», in DTB, 378-384.

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sione ignem tuae dilectionis, sintagma che, usando l’immagine del fuoco, rimanda certamente all’azione dello Spirito Santo, che è Spirito di amore. Il fondamento ecclesiologico è espresso in una duplice maniera: da una parte, la comunità celebrante è la destinataria dell’azione di Dio che si manifesta come Onnipotente, dall’altra è il soggetto del verbo della petizione; si esprime anche nell’uso del pronome possessivo “nostris”. Il fondamento escatologico è rintracciabile nell’uso dell’aggettivo perpetuo, che nel suo significato, proietta l’attenzione verso l’eternità. 2.3.4. Dimensioni liturgiche L’espressione «qui pro beata Agatha Virgine et Martyre omnipotentiam tuam nobis manifestare non desinis», esprime la dimensione anamnetica della formula in esame poiché fornisce il motivo del rendimento di grazie della ricorrenza che si celebra, ricordando in primo luogo che, nel celebrare l’Eucaristia in onore dei santi, la Chiesa sperimenta come, in essi, si celebra l’onnipotenza e l’amore di Dio che si è manifestata per quello che ha operato in loro, chiamandoli a partecipare al mistero pasquale di Cristo rivissuto nella loro carne. Il contenuto del testo, inoltre, mette in evidenza un’esplicita dimensione epicletica rintracciabile nel fondamento pneumatologico della formula che attribuisce all’azione dello Spirito Santo l’ obsequium nostri grati animi e l’accensione dell’ignem tuae dilectionis. La dimensione dossologica è limitata alla conclusione. La Koinonia, invece, si manifesta nel fondamento ecclesiologico che presenta una comunità celebrante cosciente di essere destinataria della rivelazione dell’amore di Dio e desiderosa di alimentare il fuoco di questo amore. Riscontriamo, infine, la dimensione simbolica nell’espressione ignem tuae dilectionis.

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2.4. Le antifone 2.4.1. I testi e le loro fonti TESTO

TRADUZIONE

Introitus «In te speraverunt patres nostri: speraverunt et meritis beatae Agathae liberasti eos: Ad te clamaverunt, et salvi facti sunt: in te speraverunt et non sunt confusi».

«In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu, per i meriti della beata Agata, li liberasti: a te gridarono e furono salvi, in te sperarono e non furono delusi».

TESTO

TRADUZIONE

Graduale «Laudate, caeli, et exsulta, terra, iubilate, montes, laudem. V. Quia consolatus est Dominus populum suum. Alleluia, alleluia. V. Sit Dominus, Deus noster, nobiscum, sicut fuit cum patribus nostris, non derelinquens nos, neque proiciens. Alleluia».

«Cieli cantate, esulta o terra, monti erompete in canti di gioia. V. Perché il Signore ha consolato il suo popolo. Alleluia, alleluia. V. Il Signore, Dio nostro, sia sempre con noi, come fu con i nostri padri, non ci abbandoni, né ci rigetti»

TESTO

TRADUZIONE

FONTI

Tractus37: «Dilexisti iustitiam et odisti iniquitatem: propterea unxit te Deus, Deus tuus, oleo laetitiae prae consortibus tuis. V. Specie tua et pulchritudine

«Hai amato la giustizia e odiato il peccato: per questo Dio ti ha unto, il tuo Dio, con olio di letizia a preferenza delle tue compagne. V. Nello

Ps 44, 8. 5. + 3 Reg 8, 57

37

FONTI

Cfr. Ps 21, 5-6

FONTI

Isa 49, 13+ 3 Reg 8, 57

Nelle messe votive dopo la Septuagesima, al posto dell’alleluia.

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TESTO

TRADUZIONE

tua intende, prospere procede, et regna. V. Sit Dominus, Deus noster…».

splendore della tua bellezza alza il capo, avanza con fiducia, regna sovrana. V. Il Signore, Dio nostro, sia sempre con noi…».

TESTO

TRADUZIONE

Offertorium «Memor sit Dominus omnis sacrificii tui: et holocaustum tuum pingue fiat».

«Ricordi il Signore i tuoi sacrifici, e gli siano graditi i tuoi olocausti».

TESTO

TRADUZIONE

Ad Comm.: «Signa et mirabilia fecit apud me Deus excelsus: Altissimo benedixi, et viventem in sempiternum laudavi et glorificavi».

«Prodigi e meraviglie ha fatto verso di me l’Altissimo: lo benedissi, lodandolo e glorificandolo perché vive in eterno».

FONTI

FONTI

Ps 19, 4

FONTI

Dan 3,99; 4,31

2.4.2. I temi Le antifone di questo formulario di messa presentano una forte componente anamnetica che spinge l’assemblea celebrante a ricordare e a rendere grazie per i prodigi e le meraviglie operate dal Signore nel sacrificio e nell’olocausto che la martire ha consumato con il dono della sua vita, per le sue virtù e per ciò che i padri hanno vissuto, ossia l’esperienza della salvezza, della libertà e della consolazione che si è mutata in atteggiamenti di fiducia e di gioia che hanno dato luogo alla prospettiva dossologica di questi testi espressa nella lode e nella glorificazione dell’Altissimo. 333


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2.5. Le letture Iudt 13, 17-18. 20 Io 17, 1. 11-15 Il tema dominante che accomuna le due pericopi di questo formulario di messa e li riaccorda a tutti gli altri elementi eucologici dello stesso formulario, è il tema della protezione e della custodia divina. La prima lettura propone la figura di Giuditta che invita il popolo a dare lode al Signore e rende la sua testimonianza circa il modo in cui Dio non abbandona coloro che sperano in Lui e li custodisce38. Attraverso le parole di Giuditta il popolo ha aperto gli occhi alla realtà nuova che l’eroina ha inaugurato con la sua impresa; ha scoperto anche, oltre ai fatti, l’azione invisibile di Dio che continua a proteggerlo. La prima reazione del popolo, infatti, è di stupore che poi ha generato ammirazione, meraviglia e senso religioso. Giuditta chiede al popolo di lodare Dio che, per mezzo di lei, ha manifestato la sua bontà e misericordia verso Israele. La preghiera di lode e di azione di grazie è la più spontanea di fronte ad un beneficio. Il popolo di Betulia innalza la sua voce al Signore e lo ringrazia di averlo liberato dai suoi nemici, simboleggiati da Oloferne. Così come egli, orgoglioso e prepotente, è caduto nelle mani di una donna che aveva riposto la sua fiducia in Dio, allo stesso modo cadranno in futuro, e saranno annientati, quelli che confidano nelle loro sole forze e si dimenticano di Dio. La risposta di Ozia a Giuditta, in forma di inno, aggiunge a quella del popolo nel v. 17 la sfumatura particolare della benedizione a Giuditta e quella più ampia a Dio, Signore della creazione. Ozia augura che il Signore ricolmi Giuditta delle sue benedizioni, più di qualsiasi donna sulla faccia della terra perché essa è stata un dono, una benedizione, la più grande che sia discesa dal cielo. Ozia, poi, eleva il suo pensiero al futuro e osa profetizzare che Dio mai abbandonerà il suo popolo. Allo stesso tema fa riferimento la pericope evangelica tratta da quella parte della preghiera sacerdotale di Gesù39 in cui egli prega per i suoi di38

Cfr. VÍLCHEZ LÍNDEZ , Tobia e Giuditta, 335-341. Cfr. R. SCHNACKENBURG, Il vangelo di Giovanni (Commentario teologico del Nuovo Testamento 4/3), Brescia 1981, 271-273; 287-295; X. L. DUFOUR, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, Cinisello Balsamo 1995, 372-386; J. MATEOS-J. BARRETO, Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Assisi 31995, 674-677. 39

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scepoli affinché siano preservati dal maligno (vv. 9-15); è quella parte della preghiera volta a propiziare la benevolenza del Padre verso i suoi apostoli, che continueranno la sua missione di salvezza in mezzo agli uomini. Il successo degli apostoli è lo stesso successo di Cristo, poiché la loro missione è la sua stessa missione. Pregando per gli apostoli, Cristo continua a pregare per se stesso e per la sua gloria. Per loro Gesù domanda al Padre prima di tutto «l’unità» fra di loro dopo la sua dipartita da questo mondo e quando potranno nascere invidie, contese, interpretazioni diverse del suo messaggio di salvezza o perfino scissioni. È quanto Egli dice al v. 11: «Et jam non sum in mundo, et hi in mundo sunt, et ego ad te venio. Pater sancte, serva eos in nomine tuo, quos dedisti mihi: ut sint unum, sicut et nos». Gesù è consapevole che nella sua assenza da loro, i discepoli avrebbero corso maggiori rischi a motivo dell’ostilità contro il suo Vangelo: già lui presente con loro: «…mundus eos odio habuit, quia non sunt de mundo, sicut et ego non sum de mundo » (v. 14). Proprio per questo Gesù intensifica la sua preghiera al Padre, perché abbiano la forza di resistere al male: «Non rogo ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo. De mundo non sunt, sicut et ego non sum de mundo» (vv. 15-16). In sottofondo appare la figura sinistra di Satana che insidierà la missione degli apostoli, come ha fatto già con il loro Maestro. È chiaro il motivo della scelta di queste pericopi nel contesto della celebrazione per la traslazione delle reliquie: Agata, come Giuditta, ha fatto esperienza di come Dio non l’ha abbandonata in mano al nemico, ma l’ha custodita sperimentando anche le parole di Gesù, il quale l’ha sostenuta contro il maligno dandole la forza di resistere al male nel momento della prova. Ed ora, con la sacra presenza del suo corpo, che è stato abitato da Cristo e dal suo Spirito, assicura ancora protezione a coloro che la invocano.

3. I formulari del Proprio regionale Siciliano 3.1. Messa del 5 febbraio I testi che oggi il Messale regionale Siciliano propone per la festa del 5 febbraio, sostanzialmente sono la traduzione di quelli del Sacramentario gregoriano ad eccezione dell’antifona alla comunione. Per questo 335


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motivo ci limiteremo solo a riportarli, rinviando per l’ermeneutica al capitolo dedicato al formulario gregoriano.

Ant. d’ingresso:

Prefazio:

«Il Signore riempia di gaudio noi che oggi festeggiamo la beata Agata vergine e martire; della sua gloriosa passione godono gli Angeli e lodano con noi il Figlio di Dio».

«È veramete cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno. Ai tuoi fedeli tu dai di superare le sofferenze e la morte per il Cristo; e tra le palme dei martiri esultanti hai coronato di passione e di vittoria la vergine Agata beatissima: né atterrita da minacce, né piegata da tormenti, ella vinse ogni assalto del maligno fedele sempre a te, Signore Dio. A te inneggiano i cieli gli Angeli e i Santi in esultanza. Al loro canto concedi che si uniscano le nostre voci nell’inno di lode: Santo…»..

Colletta:

Ant. alla comunione:

«Padre che tra i segni della tua onnipotenza concedi alla debolezza umana la vittoria del martirio nella solennità (festa) della beata Agata, vergine e martire, donaci, sul suo esempio, di perseverare fedelmente nel nostro cammino verso di te».

«Chi perde la propria vita per me la salverà. Così dice il Signore»40.

Sulle offerte:

Dopo la comunione:

«Accetta, Padre santo, i doni che ti presentiamo nella solennità (nella festa) della beata Agata, vergine e martire, e per sua intercessione liberaci da ogni male».

«vergine e martire lo Spirito Santo ci fortifichi nella professione di fede del tuo amore».

40

Cfr. Lc 9,24.

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Il Lezionario41, invece, propone letture diverse dai precedenti libri liturgici diocesani: — Prima lettura: Sir 51, 1-12. — Sal 30 con il ritornello: «Alle tue mani, Signore, affido la mia vita». — Seconda lettura: Eb 11, 2. 32b-12,2. — Canto al Vangelo: «La parola della croce è stoltezza per quelli che non credono, ma per noi è potenza di Dio»42. — Vangelo: Lc 9, 23-26. Nello schema delle letture proposto dal Lezionario regionale è possibile notare che come prima lettura si riprende una pericope tradizionale che abbiamo già commentato a proposito delle letture per la memoria di sant’Agata nei Lezionari della terza fase abbinati ai Gelasiani dell’VIII secolo. Il salmo 3043, da parte sua, fa eco alla prima lettura con un’invocazione di salvezza, di aiuto, di liberazione dalla trappola del maligno. Il salmista, perseguitato dai suoi nemici, invoca con grande fiducia l’aiuto da parte di Dio che già altre volte è venuto in suo soccorso. La sua presente situazione è veramente compassionevole; il dolore consuma il suo corpo e la sua anima; deriso dai nemici, dimenticato dagli amici, il salmista avverte attorno a sé la congiura di coloro che lo cercano a morte. Sua unica speranza è il Signore, dal quale invoca e attende la salvezza per sé e la giusta punizione per i nemici. Queste parole del salmo esprimono anche un atto di completo abbandono e di affidamento a Dio. L’ultima parte del salmo è un inno alla bontà di Dio che ha ascoltato la supplica del salmista ed è corso in suo aiuto, prendendolo sotto la sua personale protezione. Per questo egli esorta i buoni ad amare il Signore che protegge i suoi fedeli e punisce i superbi. Dalla bontà di Dio quanti sperano in Lui attingono forza e coraggio. Gesù recitò il v. 6 di questo salmo prima di morire sulla croce44 e ritroviamo il medesimo versetto sulla bocca del primo martire, santo Stefano45. Partendo da questo versetto, il salmo è stato riferito dalla Chiesa alla passione di Cristo e in esso è stata ritrovata un’affermazione della sua costante fiducia nel Padre. 41

Lezionario per le celebrazioni dei Santi di Sicilia, Città del Vaticano 1981, 23-26. Cfr. 1 Cor 1,18. 43 Cfr. R. SPIRITO, I Sami preghiera di Cristo e della Chiesa, Torino-Leumann 51987, 202-205. 44 Cfr. Luca 23,46. 45 Cfr. Act 7,59. 42

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La seconda lettura, invece, mette in evidenza come l’esempio dei santi, uccisi per la fede, induce a guardare a Cristo crocifisso, autore e perfezionatore della fede, e conferma i cristiani nella travagliata fedeltà. Il brano evangelico46, infine, invita a riflettere sulle condizioni che Gesù pone a chi decide di essere suo discepolo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»47. Gesù non è il Messia del trionfo e della potenza. Infatti, non ha liberato Israele dal dominio romano e non gli ha assicurato la gloria politica. Come autentico Servo del Signore, ha realizzato la sua missione di Messia nella solidarietà, nel servizio, nell’umiliazione della morte. E’ un Messia al di fuori di ogni schema e di ogni clamore, che non si riesce a “capire” con quella logica del successo e del potere usata spesso dal mondo come criterio di verifica dei propri progetti ed azioni. Venuto per compiere la volontà del Padre, Gesù rimane fedele ad essa fino in fondo e realizza così la sua missione di salvezza per quanti credono in Lui e lo amano, non a parole, ma concretamente. L’amore è la condizione per seguirlo, mentre il sacrificio verifica l’autenticità di quell’amore48. Commentiamo alcune espressioni del brano. «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (v. 23). Queste parole esprimono la radicalità di una scelta che non ammette indugi e ripensamenti. È un’esigenza dura, che ha impressionato gli stessi discepoli e, nel corso dei secoli, ha trattenuto molti uomini e donne dal seguire Cristo. Ma proprio questa radicalità ha anche prodotto frutti mirabili di santità e di martirio, che hanno confortato nel tempo il cammino della Chiesa. Oggi ancora questa parola suona scandalo e follia49. Eppure è con essa che ci si deve confrontare, perché la via tracciata da Dio per il suo Figlio è la stessa che deve percorrere il discepolo deciso a porsi alla sua sequela. Non ci sono due strade, ma una soltanto: quella percorsa dal Maestro. Al discepolo non è consentito di inventarne un’altra. Gesù cammina davanti ai suoi e domanda a ciascuno di fare quanto Lui stesso ha fatto. In altre parole, Gesù domanda di scegliere coraggio46

Cfr. J. RADERMAKERS-P. BOSSUYT, Lettura pastorale del Vangelo di Luca, Bologna 1994, 288-290. 47 Luca 9,23. 48 Cfr. SD 17-18. 49 Cfr. 1 Cor 1, 22-25.

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samente la sua stessa via; di sceglierla anzitutto “nel cuore”, perché l’avere questa o quella situazione esterna non dipende da noi. Da noi dipende la volontà di essere, in quanto è possibile, obbedienti come Lui al Padre e pronti ad accettare fino in fondo il progetto che Egli ha per ciascuno. «Rinneghi se stesso». Rinnegare se stessi significa rinunciare al proprio progetto, spesso limitato e meschino, per accogliere quello di Dio: ecco il cammino della conversione, indispensabile per l’esistenza cristiana, che ha portato l’apostolo Paolo ad affermare: «non vivo più io, ma Cristo vive in me»50. Gesù non chiede di rinunciare a vivere, ma di accogliere una novità e una pienezza di vita che solo Lui può dare. L’uomo ha radicata nel profondo del suo essere la tendenza a “pensare a se stesso”, a mettere la propria persona al centro degli interessi e a porsi come misura di tutto. Chi va dietro a Cristo rifiuta, invece, questo ripiegamento su di sé, non valuta le cose in base al proprio tornaconto e considera la vita vissuta in termini di dono e gratuità, non di conquista e di possesso. La vita vera, infatti, si esprime nel dono di sé: un’esistenza libera, in comunione con Dio e con i fratelli51. «Prenda la sua croce e mi segua». Come la croce può ridursi ad oggetto ornamentale, così “portare la croce” può diventare un modo di dire. Nell’insegnamento di Gesù quest’espressione non mette, però, in primo piano la mortificazione e la rinuncia. Non si riferisce primariamente al dovere di sopportare con pazienza le piccole o grandi tribolazioni quotidiane; né, ancor meno, intende essere un’esaltazione del dolore come mezzo per piacere a Dio. Il cristiano non ricerca la sofferenza per se stessa, ma l’amore. E la croce accolta diviene il segno dell’amore e del dono totale. Portarla dietro a Cristo vuol dire unirsi a Lui nell’offrire la prova massima dell’amore. Non si può parlare di croce senza considerare l’amore di Dio per noi. Con l’invito seguimi, Gesù ripete ai suoi discepoli non solo di prenderlo come modello, ma anche di condividere la sua stessa vita e le sue stesse scelte, spendendo insieme a Lui la propria vita per amore di Dio e dei fratelli. Così Cristo apre davanti a noi la “via della vita”, che è purtroppo costantemente minacciata dalla “via della morte”. Il peccato è questa via 50 51

Gal 2,20. Cfr. GS 24.

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che separa l’uomo da Dio e dal prossimo, provocando divisione e minando dall’interno la società. La “via della vita”, che riprende e rinnova gli atteggiamenti di Gesù, è la via della croce, ossia quella via che conduce ad affidarsi a Lui e al suo disegno salvifico, a credere che Lui sia morto per manifestare l’amore di Dio per ogni uomo; è la via della felicità di seguire Cristo fino in fondo, nelle circostanze spesso drammatiche del vivere quotidiano; è la via che non teme insuccessi, difficoltà, emarginazioni, solitudini, perché riempie il cuore dell’uomo della presenza di Gesù; è la via della pace, del dominio di sé, della gioia profonda del cuore. 3.2. Il formulario del 17 agosto Il Calendario liturgico regionale, e di conseguenza il Messale, considera la ricorrenza del 17 agosto come memoria facoltativa per la sola città di Catania e per il formulario di messa corrispondente rinvia al 5 febbraio ad eccezione dell’antifona d’ingresso e della colletta. 3.2.1. I testi e le loro fonti TESTO

FONTI

Ant. d’ingresso: «Non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione».

TESTO

Sal 15,10

FONTI

Colletta: «O Dio, che hai conservato alla venerazione dei fedeli il corpo della beata Agata, vergine e martire, concedici, nel ricordo della sua traslazione, di crescere come tempio vivo dello Spirito per risorgere con Cristo a vita nuova. Egli è Dio…».

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1 Cor 3,16: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?». 1 Cor 6,19: «O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?».


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TESTO

FONTI Rm 6, 4: «Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova».

3.2.2. La colletta 3.2.2.1. Fondamenti teologici In questa semplice orazione l’invocazione iniziale Deus esprime il fondamento teocentrico presentando Dio, non solo come il termine della presente preghiera, ma anche come colui che ha preso l’iniziativa di conservare il corpo santificato della martire come segno della sua presenza, della sua benevolenza e della sua protezione. L’orazione, inoltre, presenta Dio come la sorgente dei doni di grazia espressi dalla petizione: il dono dello Spirito e la vita nuova. L’orazione esplicita il fondamento cristologico in vari punti del testo: nel riferimento all’esperienza del martirio e della verginità di Agata che rimandano al mistero pasquale di Cristo compiuto nella vita della santa; nel riferimento alla risurrezione dei corpi con Cristo e alla vita nuova in Lui52; in fine, nella formula conclusiva cristologica. Il fondamento pneumatologico è esplicito nell’immagine del corpo paragonato al tempio53 vivo dello Spirito. 52 Il concetto di “novità di vita” è l’essenza della cristianità; una delle convinzioni più profonde dei primi cristiani, infatti, e fonte del loro entusiasmo, era il fatto che essi avevano ricevuto la “vita nuova” (kainÒthj zwÁ j), un “nuovo spirito” (kainÒthj pneÚ matoj). Questo aspetto “soprannaturale” della vita fu concepito da san Paolo in un senso spirituale e gratuito. Il termine kainÒj venne presto connesso con il battesimo, mezzo di iniziazione a questa vita nuova. Nel latino liturgico novus è poi, quasi sempre, congiunto a parole che fanno riferimento al concetto di “vita nuova”: cfr. ELLEBRACHT, Remarks on the vocabulary, 43-44. 53 Nel contesto della nostra orazione il termine tempio ha un significato traslato e si riferisce alla tematica biblica del corpo inteso come “tempio vivo dello Spirito”. Il termine neotestamentario per indicare il tempio è naÒj. Solo Giovanni e Paolo usano questo termine in senso traslato a proposito dell’uomo e del suo corpo con frequente aggancio all’immagine reale del tempio (1 Cor 3,17a.b.; 2 Cor 6,16 a.b; Eph 2,21; Gv 2,19.21). Il tempio porta il nome della divinità che vi si venera; il corpo dei cristiani, quindi, è tempio dello Spirito Santo e perciò essi non appartengono a se stessi. Nel tempio vi è sempre collo-

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Il fondamento ecclesiologico è espresso dal soggetto dei verbi della petizione che è un noi ecclesiale e dall’immagine tempio, la quale oltre a riferirsi al singolo individuo, può anche riferirsi all’intera comunità. Il fondamento escatologico è rintracciabile nell’uso dell’espressione “vita nuova”. 3.2.2.2. Dimensioni liturgiche Le espressioni che ricordano la circostanza della riunione liturgica e i riferimenti agli attributi della santità di Agata, esprimono la dimensione anamnetica della formula in esame poiché forniscono il motivo del rendimento di grazie dell’assemblea celebrante. cato un simulacro della divinità; esso perciò è considerato abitazione della divinità; alla stessa maniera i cristiani sono il tempio del Dio vivente perché Dio abita in loro mediante lo Spirito (2 Cor 6,16) e il loro corpo è suo dono (1 Cor 3,16; 6,19). Questa concezione del corpo ci rinvia a due possibili considerazioni. Innanzitutto al significato più profondo della corporeità umana nella concezione cristiana: il corpo è tempio dello Spirito Santo perché riscattato dal sangue di Cristo e nutrito dal suo Corpo, e perciò appartenente a Lui. La seconda considerazione riguarda il valore delle reliquie dei santi. La concezione del corpo-tempio dello Spirito Santo basta a giustificare il culto delle reliquie. La grazia che i santi hanno ricevuto è illimitata e le loro reliquie hanno una forza miracolosa conferita dallo Spirito Santo che ha abitato quel corpo. I “resti” dei santi sono un segno della loro continua presenza, della loro preghiera, della loro amicizia e protezione. Quando tocchiamo il corpo di un santo, tocchiamo il tempio dello Spirito Santo; quando tocchiamo un oggetto che apparteneva ad un santo, tocchiamo il monumento della presenza della Grazia e della misericordia di Dio nella vita di quella persona. Le reliquie, quindi, non sono altro che le “memorie”, le cose che ci rimangono della vita del santo; sono le realtà che ci rimandano all’opera della Grazia nella vita del santo. Guardando alle spoglie mortali del santo, quindi, ci si ricorda di tutto il bene che egli ha fatto. Il suo corpo, insieme con l’anima, è stato concretamente immagine di Dio e, nel caso dei martiri, “luogo” in cui Gesù ha manifestato la sua gloriosa passione. Inoltre, le reliquie di coloro che dormono nel Signore ci invitano a guardare anche verso il futuro, a rinnovare la fede nella risurrezione della carne, quando il Signore verrà nella gloria. Le reliquie, allora, sono l’annunzio della nuova creatura che sorgerà in comunione con il Risorto. Nelle reliquie si celebra l’immensa santità di Dio che si riverbera, si rende visibile e fecondante nelle creature che hanno saputo accogliere il mistero di Dio e hanno lasciato che il dono del suo Spirito li modellasse ad immagine della sua unica ed inimitabile santità. Osservando delle reliquie, possiamo constatare che quello che vediamo è un corpo morto, non più animato da quell’alito di vita che Dio creatore infuse nell’uomo fatto di fango. Affacciandoci in tal modo sul mistero della morte, siamo invitati a comprendere che ciò che si vede non è il tutto dell’esistenza. I resti del corpo del santo sono ancora qui, ma non sono solo i resti di un cadavere; infatti, il santo che è vissuto in piena unione con Cristo, vive adesso nella definitiva comunione con il Risorto. Le reliquie, in fine, sono preziosi strumenti di catechesi, segni di un fatto certo, la cui venerazione può aiutare la meditazione sulle sofferenze di Gesù e dei santi che lo hanno imitato. Ricordano e ripropongono, infatti, il valore della croce: cfr. U. BORSE, «naÒj», in DENT, 2, 460-464; J. SARAIVA MARTINS, Omelia per l’ostenzione del corpo di san Pio da Pietralcina del 24.04.08, in http://www.operapadrepio.it/contenuti/gdp/pdf/OmeliaCardinaleMar tins240408, pdf (12.07.08).

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Il contenuto del testo, inoltre, mette in evidenza un’esplicita dimensione epicletica rintracciabile negli effetti che si vogliono ottenere dalla celebrazione: crescere come tempio vivo dello Spirito e risorgere con Cristo a vita nuova. La dimensione dossologica è limitata alla conclusione. Riscontriamo, infine, la dimensione simbolica nell’uso traslato dei termini tempio e vita.

4. Le sequenze medievali 4.l. La sequenza e la sua forma letterario-musicale Abbiamo inserito i testi e le riflessioni sulle sequenze in questo capitolo perché queste composizioni si trovano in fonti locali di diverse aree geografiche. Trattandosi quindi di espressioni locali ci è sembrato più giusto collocarli in questo capitolo interamente dedicato a questo tipo di testi. In questa parte del presente studio, inoltre, non faremo una trattazione storico-critica delle sequenze dedicate a sant’Agata, così come abbiamo fatto con gli altri testi liturgici, perché non era nelle nostre possibilità affrontare una tale impresa. Ci siamo limitati ad un’illustrazione del genere letterario-musicale e ad una loro collocazione nel rispettivo tempo di composizione ed uso, con l’intento di offrire una panoramica di questi testi che hanno alimentato la devozione verso la martire là dove sono stati utilizzati. La sequenza54 è una composizione liturgico-musicale che si è cominciata a sviluppare a principio del IX secolo, in epoca carolingia, e raggiunge il suo apice nel XII-XIII secolo. Il termine sequentia appare per la prima volta nel Liber Officialis di Amalario, il quale scrive: «Haec jubilatio quam cantores sequentiam vocant»55. Essa consiste nell’elaborazione dei lunghi e difficili melismi dello Jubilus alleluiatico come seguito ed appen54

Cfr. RIGHETTI, Manuale di Storia liturgica, III, 291-292; La sequenza medievale. Atti del Convegno internazionale di Milano 7- 8 aprile 1984, ed. A. Ziino (Quaderni di S. Maurizio 3), Lucca 1992; A. BERGAMINI, Le sequenze nella liturgia della Parola dei principali tempi e solennità dell’anno liturgico, Cinisello Balsamo 2004, 5-11; G. BAROFFIO, «La tradizione dei tropi e delle sequenze: bilancio di alcune esplorazioni in Italia», Rivista internazionale di musica sacra 25 (2004) 11-114. 55 AMALARIUS METENTIS, Liber Officialis, III, 16, 3, in Amalarii opera liturgica omnia, II, ed. J. M. Hannsens (Studi e testi 139), Città del Vaticano 1948, 304.

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dice del canto dell’Alleluia. Gli “alleluia” gregoriani, infatti, erano canti melismatici dove ad ogni sillaba del testo corrispondevano molte note che rendevano difficile tenere a mente la melodia. Per aiutare i cantori, quindi, vennero inventati questi testi nei quali ad ogni sillaba del testo corrispondeva una nota della vecchia melodia. In origine, insomma, la sequenza era un artificio per facilitare la memorizzazione di una melodia melismatica attraverso l’aggiunta di un testo sillabico; essa presenta una simmetria binaria di serie sillabiche, determinata dal canto, e sciolta da rapporti con la versificazione tradizionale perché inizialmente era una composizione senza leggi ritmiche di quantità e di accento. La sequenza, quindi, trasforma un canto melismatico in un canto sillabico e il testo che la originava fu chiamato prosa, la quale era costituita da frasi libere e ricche di assonanze organizzate in coppie strofiche dove la ripetizione melodica facilitava la memoria. Si estese poi in ambito letterario quando prese piede l’idea di sostituire ai vocalizzi un supporto verbale di senso coerente con l’occasione festiva, capace di far meditare nel canto il mistero della festa celebrata. La forma classica, affermatasi nel IX secolo, sarà praticamente il principale modello per tutte le composizioni posteriori. Nella sua strutturazione definitiva la sequenza risulta costituita da una serie di strofe che, a coppia (copulae), presentano il medesimo impianto sillabico-metrico e la stessa melodia (aa bb cc dd oppure a bb cc dd…z). A differenza dell’inno che possiede uno schema unico e uniforme, cui si coniuga una melodia sempre uguale, iterabile indefinitivamente secondo il numero delle strofe, la sequenza muta schema ad ogni coppia, presentando idee musicali nuove, sino alla fine56. In Italia, a patire dal X secolo, sono prodotte numerose composizioni locali che presentano peculiarità sul piano linguistico e melodico. La proliferazione della sequenza fu larghissima poiché ogni Chiesa, per ogni festa, possedeva il suo repertorio. 4.2. L’uso liturgico della sequenza La sequenza, come gli inni dell’Ufficio divino, introduce nella liturgia un elemento poetico extrabiblico. Nel medioevo questa forma di pre56

Cfr. G. ROPA, «I testi liturgici», in Lo spazio letterario del medioevo, 1. Il medioevo latino, I/2, Roma 1993, 405-406.

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ghiera cantata, ha assunto un notevole sviluppo divenendo un momento significativo della prima parte della messa (la liturgia della Parola). Il popolo prediligeva questo genere di testi per la forma semplice, spigliata e sillabica delle loro melodie. Tale forma, infatti, si prestava facilmente al canto comunitario durante la celebrazione e anche fuori la liturgia. La Chiesa romana, tuttavia, fino al XIII secolo si mostrò restia ad ammettere le sequenze nell’uso strettamente liturgico. Si preferiva eseguirle in momenti di intrattenimento a carattere sacro. Nella messa romana, quindi, le prime sequenze compaiono piuttosto tardivamente. Il Missale secundum consuetudinem Curiae romanae (XIII sec.) ne introduce alcune e così anche il MR 1474. Successivamente le varie riforme liturgiche, da quella tridentina a quella del Vaticano II, le hanno ridotte per il fatto che questo tipo di testi non avevano carattere biblico e anche per l’eccessiva ampiezza che essi avevano assunto a danno dell’attenzione alla Parola di Dio. 4.3. Le sequenze agatine I testi di sequenze dedicate a sant’Agata che si possono reperire nei repertori pubblicati nella collana Analecta Hymnica sono spesso composizioni per uso locale, contenute in manoscritti che vanno dall’XI al XVI secolo. Essi, in genere, riflettono la sensibilità spirituale e la creatività poetico-musicale di una determinata comunità ecclesiale o monastica e manifestano il complesso intreccio tra modelli colti e tradizioni popolari con l’intento di formulare testi capaci di veicolare dei messaggi catechetici. Per la comprensione delle sequenze in onore di sant’Agata è indispensabile fare riferimento alla Passio poiché tutte esprimono in versi le vicende del martirio della vergine. 4.3.1. Le sequenze dell’XI secolo Il testo che stiamo per prendere in esame appartiene all’area ravennate57 e ci è stato tramandato in due manoscritti: un Graduale manoscritto Ravennatense dell’XI secolo, Codice OIN 7 dell’Archivio Capitolare 57 Per un maggiore approfondimento delle caratteristiche delle composizioni di quest’area si veda: G. VECCHI, «Lirica liturgica ravennate. Tropi e sequenze della Chiesa di Ravenna», Studi romagnoli 3 (1952) 69-74; G. CATTIN, «sequenze nell’area ravennate. Abbozzo di analisi testuale», in La sequenza medievale, 45-57.

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di Modena e da un Graduale manoscritto di incerta origine del 1071, entrambi recensiti in Analecta Hymnica58. TESTO

TRADUZIONE

1. Eia, organica cantica,

Orsù, inni pieni di armonia,

2a. Harmonica cuncta genera, hydraulica musica

Tutti quanti i generi di accordi, musica d’organo

2b. Dulcisona clangant Alleluia per aeona tempora

Dolci parole facciano risuonare Alleluia in eterno (per i tempi eterni)

3a. Nostra phalanx parvula simul atque iubilans, dic Alleluia in hac diecula

La nostra piccola schiera insieme giubilante, dica Alleluia in questa breve giornata

3b. In qua sancta Agatha spernens cuncta terrea laeta superna captavit praemia

In cui sant’Agata sprezzando tutte le cose terrene lieta ottenne i premi celesti.

4a. Gaudeat nunc et virginea sacra turma, clarissima, serta gestans duplicata florida,

Gioisca adesso anche la sacra schiera delle vergini, splendidissima, portando una duplice corona di fiori,

4b. Cui sociata Agatha, virgo alma, cyanea atque crocea corona rutilat.

Unita alla quale Agata, vergine beata, risplende di una corona azzurra e gialla.

5a. Ergo sancta nos Agatha prece sua custodiat, Quo calcantes Universa rurica

Dunque sant’Agata ci custodisca con la sua preghiera, affinchè calpestando tutto ciò che appartiene alla terra

5b. Ad aeternam transferamur patriam, In qua sancta sine fine regnat [cum] sapientia.

Andiamo verso la patria eterna, dove la santa per sempre regna con sapienza.

58

Sequentia de sancta Agatha, in Liturgische Prosen des Mittelalters, edd. C. Blume − G. M. Dreves (AH 37), Leipzing 1901, 97-98.

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Questa sequenza ha uno schema tripartito: inizia con un’introduzione che invita ad una gioia motivata dal giorno festivo in onore di Agata (vv. 1-3a). Questo giubilo si esprime verbalmente chiamando in causa strumenti musicali e coro, spingendo alla lode divina e inneggiando con l’Alleluia, canto pasquale per eccellenza. Segue la parte in cui si ricorda, con vaghe allusioni, il martirio della santa e si mette in evidenza il tema del premio celeste simboleggiato dall’ingresso di Agata nella schiera delle vergini recanti una duplice corona di fiori. Agata si distingue dalle altre per il capo cinto da una corona azzurra e gialla (vv. 3b-4b). Interessante è la simbologia dei colori menzionati per identificare la corona di cui Agata risplende: l’azzurro è il colore del cielo e dell’immortalità59; «è il più immateriale dei colori, attira l’uomo verso l’infinito e risveglia in lui il desiderio della purezza e una sete di soprannaturale»60. Il giallo, soprattutto in oriente, è simbolo del sole, dell’oro e della saggezza; è il colore dell’illuminazione, della redenzione, della fertilità e della regalità. In tutte le religioni è associato alla luce e alla parola61. Con questa immagine, quindi, l’autore della sequenza vuole sottolineare la condizione beata della martire: è in cielo per la vita eterna e partecipa della redenzione di Cristo come vergine sposa del re. Il testo si conclude con la preghiera di intercessione affinché, imitando la santa nelle sue virtù e nella sua forza, si possa giungere a condividere il suo stesso destino di gloria. Indirettamente il testo rivela Dio come Salvatore e Redentore, destinatario dell’acclamazione pasquale per eccellenza che sgorga dalla gratitudine per quanto Lui ha realizzato in Cristo Gesù nell’opera della redenzione. Di quest’opera fa parte anche la partecipazione degli uomini alle sue sofferenze e alla gloria celeste. È chiaro che il soggetto di questa lode giubilante è la comunità in festa riunita in un giorno caro a quella particolare comunità celebrante. La seconda sequenza che prendiamo in considerazione per il periodo in esame è propria dell’area Vercellese62 ed è tramandata dal Codice ma59 Cfr. E. BATTAGLIA-F. RAMPAZZO, Il colore “sacramento della bellezza”. La dimensione estetica nella celebrazione liturgica, Padova 2003, 106. 60 L. BARTOLI, La chiave per la comprensione del simbolismo e dei segni nel sacro, Trieste 1986, 300. 61 Cfr. S. FANTETTI, «giallo», in Il Dizionario dei colori, Bologna 2001, 75; BATTAGLIARAMPAZZO, Il colore “sacramento della bellezza, 107. 62 Per un maggior approfondimento delle caratteristiche musicali delle composizioni di

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noscritto 161 dell’Archivio Capitolare di Vercelli, recensito in Analecta Hymnica63. TESTO

TRADUZIONE

1. Omnis chorus

Tutto il coro

2a. Ecclesiae praeclara festa celebret Agathae

Della chiesa con spendida festa celebri per Agata

2b. Atque eius laudes modulo dulcinoso proclamet,

e le sue lodi con dolce melodia proclami,

3a. Quae sustinens mundi tormenta penetravit caeli sidera.

Ella superando i tormenti del mondo penetrò le stelle celesti

3b. Namque propter opprobria nunc in caelesti splendet patria.

E infatti per gli obbrobri ora splende nella patria del cielo.

4a. Ad huius festum Agathae sanctorum chorus iubilat hodie magno tonanti Domino, qui rex est aeternae gloriae.

Per la festa di Agata il coro dei santi innalza oggi canti di gioia in onore del grande Signore tonante, che è re di etrna gloria.

4b. Ergo omnes voce alta nos personemus acriter canticum atque insimul organa melodia dulcissima.

Quindi tutti noi ad alta voce facciamo risuonare forte un cantico e insieme l’organo con dolcissima melodia.

5a. Deo dicata Agatha non fuit solum ingenua, sed ex spectabili prosapia.

A Dio consacrata Agata non fu soltanto libera, ma di nobile discendenza

FONTI

Passio, II e III

Passio, I, 2. Passio, I, 4.

quest’area si veda: S. CARUSO, Le sequenze dei codici 146, 161 e 162 dell’Archivio Capitolare di Vercelli, Cremona 1995. [Tesi, dattiloscritta]. 63 Sequentia de sancta Agatha, in Liturgische Prosen des Mittelalters, edd. C. Blume − G. M. Dreves (AH 44), Leipzing 1904, 28-29.

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TESTO

TRADUZIONE

FONTI

5b. Praeceptis Dei subdita, ornamenta reliquit insignia, ac petiit caelestia.

Sottomessa ai precetti di Dio, abbandonò gli onori del rango , e cercò quelli del cielo.

Passio, I, 4.

6a. Nam Christi sequens vestigia obtulit illi se hostia, cuius persensit merita.

Infatti seguendo le orme di Cristo si offrì come vittima a lui, del quale percepì i meriti.

Passio, III, 12.

6b. Per eius unde obsequia claruere miracula occupato Quintiano Morte turpissima.

Onde per il suo compiacimento furono manifesti i miracoli quando Quinziano era impegnato nella turpissima morte.

7a. Post anni vero circulum, Aetneus mons cum emittebat incendium, pars ex illo (magna fugiens) paganorum ad Agathae veniens sepulcrum,

Dopo in vero nel giro di un anno, quando il monte Etna eruttava lava, una gran parte degli abitanti dei villaggi fuggendo da quello giungendo al sepolcro di Agata,

7b. Ad civitatem Catanensium ignis pervenit minime, periculum velamine opposito illud, unde erat opertum.

Il fuoco non raggiunse affatto la città dei catanesi, essendo stato posto davanti a quel pericolo il velo, con cui era coperto.

8a. Christo reddamus Gratias, Qui haec fecit miracula,

Rendiamo grazie a Cristo, che operò questi miracoli,

8b. Qui est corona martyrum sanctarum quoque virginum.

Egli è la corona delle martiri sante e vergini.

Passio, III, 12. 14.

Passio, III, 15.

Passio, III, 15.

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TESTO

TRADUZIONE

9a. Sit tota iubilatio Patri et eius filio Flaminique paraclito,

sia tutto il grido di gioia per il Padre e suo Figlio e lo Spirito Paraclito

9b. Qui regit et caelestia… per infinita saecula.

che regge il regno dei cieli … per l’eternità.

FONTI

Il testo ha una struttura tripartita: un’introduzione che invita la comunità ecclesiale a celebrare la festa in onore di Agata con un corale canto che proclami, con dolci melodie, le lodi in onore della santa, la quale merita questo tributo perché ha guadagnato la gloria celeste superando le prove del martirio (vv. 1-4b). Questo giubilo viene espresso verbalmente chiamando in causa gli elementi di una celebrazione festiva: il coro della Chiesa e quello dei santi, il suono dell’organo. Segue la narrazione della Passio con citazioni degli episodi più significativi del racconto (vv. 5a-7b). Si chiude con una preghiera che parte dal rendimento di grazie a Cristo “corona dei martiri e delle vergini” e giunge ad una dossologia trinitaria. Dal punto di vista teologico, questo testo, appare più elaborato rispetto al precedente testo coevo. Viene presentata una certa immagine di Dio: è il “Signore tuonante”, “re della gloria” che manifesta la sua potenza attraverso i miracoli, ma soprattutto mediante la su paternità. Più volte viene nominato esplicitamente Cristo visto come modello da seguire camminando sulle sue orme e offrendosi a Lui come vittima, al fine di percepire i suoi meriti. Egli è il destinatario dell’azione di grazie che anima tutta la composizione e della dossologia finale. Anche lo Spirito Santo viene nominato esplicitamente nella dossologia finale nella quale è chiamato “Paraclito”. Alla stessa maniera, è esplicita la menzione della Chiesa nella sua duplice dimensione: terrestre e celeste. In questo testo, quindi, sono evidenti le dimensioni celebrative: la dimensione anamnetica, espressa nella coscienza di celebrare Dio per quanto ha operato in Agata; quella epicletica che ci fa cogliere l’azione dello Spirito nel modo di imitare Cristo messo in atto dalla martire nell’offrirsi come vittima, e quella dossologico-ecclesiale che evidenzia il soggetto di questa preghiera di glorificazione (la Chiesa) e il destinatario (la SS. Trinità). 350


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4.3.2. Le sequenze dal XII al XIV secolo La prima sequenza che prendiamo in considerazione per il periodo in esame riguarda la memoria della Traslazione delle reliquie di sant’Agata da Costantinopoli a Catania. Essendo questa una memoria conosciuta solo in Sicilia e celebrata in modo particolare a Catania, la sequenza che vi si riferisce deve senz’altro essere una produzione locale. Infatti, il testo recepito da Analecta Hymnica64 è tratto da un Troparius ms. Catanense del XII secolo, Codice Matritensis s. n., proveniente dalla “Collectio Barbieri”. TESTO

TRADUZIONE

1a. Eia, fratres, personemus Regi regum cantica

Orsù, fratelli, facciamo risuonare inni per il re dei re

1b. Imitantes melodia superos armonica.

Imitando i celesti con melodia armoniosa.

2a. Hac in die martyris sunt Agathae sollemnia,

In questo giorno ricorre la solennità della martire Agata,

2b. Liberari prece cuius creditur haec patria.

Dalla cui preghiera si crede che questa patria sia liberata.

3a. Nostra cuius festum iure Percolit ecclesia

La nostra Chiesa giustamente onora la sua solennità

3b. Sublimata pro ipsius corporis praesentia.

Resa sublime per la presenza del suo stesso corpo.

4a. Lugens illam te fateris amisse, Graecia,

In lacrime, Grecia, dici di aver perduto

4b. Quam se gaudet assecutam Trinacris provincia.

quella che la provincia di Sicilia gioisce per aver ottenuto.

5a. Nostrum fuit, quod habemus; Cur ex istis invidia?

Fu nostro, ciò che abbiamo; perché c’è invidia da parte di questi?

FONTI

Passio, III, 13

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Sequentia in Translatione S. Agathae, Liturgische Prosen des Mittelalters, edd. C. Blume − G. M. Dreves (AH 42), Leipzing 1903, 147-148.

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TESTO

TRADUZIONE

5b. Tu furaris omnes sanctos, Sed non inde perfida.

Tu sei sei appropriata di tutti i santi, ma non per questo perfida.

6a. Tuque gaude speciali Gaudio, Catania,

E tu Catania rallegrati di gioia speciale,

6b. Gaudiique tui melos temperet modestia.

E la modestia moderi il canto della tua gioia.

7a. Absit luxus et, quae mundum Vorat, avaritia;

Sia lontano il lusso e l’avarizia, che divora il mondo;

7b. Iam abunde regnat in his satanae malitia.

GiĂ abbondantemente regna in esse la malizia di satana.

8a. Absint fastus, qui seductos Pertrahunt ad vitia,

Siano lontani i fasti, che trascinano i sedotti ai vizi,

8b. Et salvatrix Christo dante nobis assit gratia.

E salvatrice con il beneplacito di Cristo la grazia sia con noi.

9a. Qua docente nostrae carni mens exsistat domina

Con il tuo insegnamento la mente si mostri padrona della nostra carne

9b. Et iuvante premat eius fortiter molimina.

E con il tuo aiuto sopprima con forza le sue provocazioni.

10a. Pax tranquillet et conectat parilis concordia

La pace rassereni e uguale concordia unisca

10b. Sic astantis et ovantis populi praecordia.

cosĂŹ i cuori del popolo presente ed esultante.

11a. Virgo nitens atque potens imperatrix, Agatha,

Vergine splendente e potente sovrana, Agata,

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FONTI


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TESTO

TRADUZIONE

11b. Cuius nomen penetravit orbis huius climata,

Il cui nome attraversò le regioni di questo mondo,

12a. Ora sponsum, tuis facta servulis propitia,

prega lo sposo , fatta propizia ai tuoi piccoli servi,

12b. Det ut nobis, quibus gaudes, adipisci gaudia.

Che conceda a noi dei quali gioisci, di ottenere le gioie.

FONTI

L’impianto di questa sequenza sembra essere di origine popolare. Essa ha una struttura tripartita: comincia con un’introduzione che, al solito, invita a fare festa nella cornice solenne del giorno in cui la città del martirio di Agata riebbe il privilegio di custodire nuovamente il corpo della santa, trafugato dai bizantini ottantasei anni prima del suo ritorno a Catania avvenuto nel 1126 (vv. 1a-3b). Segue il ricordo dell’evento celebrato che sta alla base della gioia di questo giorno di festa: il rinnovato possesso delle reliquie, la presenza delle quali, rende più sublime la città di Catania. Emerge qui lo spirito dell’uomo medievale per il quale, la presenza delle reliquie dei santi significava prestigio e protezione per la città che le custodiva. Tuttavia, a motivare la gioia popolare espressa con inni e canti ci sta un altro fatto: la rivincita di Catania su Costantinopoli per il fatto di essersi riappropriata di ciò che era suo e le era stato tolto (vv. 4a-6b). Il testo si chiude con una lunghissima preghiera che contiene auspici di carattere ascetico-morale e la richiesta dell’intercessione della santa per la gioia eterna. All’interno di questa cornice sono svolti i temi contenuti nel testo. C’è una sola allusione alla Passio relativa al motivo della protezione sulla città che i catanesi hanno sempre affidato alla patrona (vv. 2b e 8b). Il riferimento è alle parole finali della frase della tavoletta angelica: “mentem sanctam, spontaneum, honorem Deo, et patriae liberationem”. Gran parte del testo, poi, è riservato a considerazioni di carattere morale a scopo edificante che invitano ad allontanare i vizi, il lusso, l’avarizia, la malizia di satana, i desideri della carne e le sue provocazioni. 353


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Dal punto di vista teologico si trova un esplicito riferimento a Cristo “re dei re”, al quale è attribuito il merito di aver donato Agata come salvatrice del popolo a lei affidato. Inoltre, nel soggetto che esegue questo canto, c’è un esplicito riferimento alla dimensione ecclesiale: “nostra ecclesia”, sembra un chiaro riferimento alla Chiesa particolare di Catania. Un altro testo da prendere in considerazione è la sequenza “De Sancta Agatha” che troviamo nel manoscritto Victorianum, Codice Parisiensis 14872 (sec. XVI), recepito da Analecta Hymnica65. Probabilmente l’autore di questa sequenza è il priore Goffredo di San Vittore (†1194)66, ultimo esponente della scuola di San Vittore, scuola filosofica, teologica e di diritto, fondata nel 1108 da Guglielmo di Champeaux nell’abbazia di San Vittore presso Parigi. I vittorini furono canonici regolari che si dedicarono prevalentemente al culto liturgico, alla meditazione, allo studio della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa. I priori più famosi di San Vittore furono Ugo, Riccardo, Gualtiero e Goffredo. Se l’autore di questo testo è Goffredo di San Vittore, la sua datazione deve essere fissata per la fine del XII secolo-inizi del XIII secolo. Noi, comunque, abbiamo ricevuto il testo da un Codice del XVI secolo. TESTO

TRADUZIONE

1a. Christo laudes concinamus Nos, qui sanctae celebramus Agathae sollemnia;

A Cristo facciamo risuonare insieme le lodi, noi, che celebriamo di sant’Agata la solennità;

1b. Virgo clara stirpe nata, Mundo placens, Deo grata Per morum insignia.

Vergine nata da illustre stirpe, approvata dal mondo, cara a Dio per i tratti singolari dei buoni costumi,

2a. Florens vultus honestate Et sermonis venustate Placuit hominibus;

il volto spendente di decoro ed eleganza di eloquio piacque agli uomini;

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FONTI

Passio, I, 2.

Sequentia de sancta Agatha, in Liturgische Prosen des Mittelalters, edd. C. Blume − G. M. Dreves (AH 44), Leipzing 1904, 30-31. 66 Cfr. C. BLUME, Liturgische Prosen des Mittelalters, 31.

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TESTO

TRADUZIONE

FONTI

2b. Sed plus Christo complaceret Atque bonis praepolleret, Studuit operibus.

Ma desiderò vivamente compiacere di più Cristo e distinguersi nelle buone azioni.

3a. Huius fama redolebat Et in cunctis recurrebat Saeculorum finibus. Quintianus, servus pecuniae, Totus studens idolatriae Suis tribunalibus

La fama di questa veniva fuori e alla fine di ogni secolo ritornava. Quinziano schiavo del denaro, dedicandosi anima e corpo ai suoi tribunali di idolatria

Passio, I, 2.

3b. Illam iubet praesentari, Ut diversis consummari, Possit cruciatibus; Sed prius inflectere Tentat et seducere Mentem malis artibus.

Ordina che quella sia portata al suo cospetto, perchè possa essere annientata con varie torture; ma prima tenta di piegare e sedurre la mente con arti perverse.

Passio, I, 3.

4a. Illam ergo deludendam, Sed a vero dimovendam Tradit Aphrodisiae,

La affida dunque ad Afrodisia perchè la inganni, ma la allontani dalla verità,

Passio, I, 3 – 4.

4b. Sed nec Christum abnegare, Nec consentit violare Iura pudicitiae.

ma non consente nè a rinnegare Cristo né a violare le leggi del pudore.

5a. Eius quippe mens fundata Et in Christo solidata Verbis nescit cedere

Giacchè la mente salda e consolidata in Cristo non sa cedere alle parole

Passio, I, 3.

5b. Tunc immitis Quintianus Diros parat cruciatus Ac educit carcere.

Allora lo spietato Quinziano prepara atroci supplizi e la fa uscire dal carcere.

Passio, II, 7.

6a. Nec terrores nec tormenta Expavescit insueta Anhelans martyrium

Né gli spaventi, nè le torture insolite terrorizzano aspirando al martirio.

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TESTO

TRADUZIONE

FONTI

6b. Per promissa, per terrores Non nutavit in errores Pertingens ad bravium.

Per le promesse, per gli spaventi non vacillò negli inganni per ottenere gloria.

Passio, I, 3.

7a. Huius verba tamquam umbra, Velut ventus, velut unda, Nec tamen inflectitur

Le parole di questo come ombra, come vento, come onda, né tuttavia si piega

Passio, I, 3.

7b. Mentem habens roboratam Supra petram solidatam Nec alluvione teritur.

Avendo la mente rafforzata sopra una consolidata pietra né viene logorata dall’alluvione.

Passio, I, 3.

8a. Sursum fixam mentem tenens Nec a Christo est recedens, Perstat in constantia;

Tenendo la mente fissa in alto e non allontananosi da Cristo persevera nella fermezza;

8b. At profanus Quintianus Est turbatus ut insanus Prae cordis insania.

Ma il pagano Quinziano è turbato come un folle per il furore del cuore.

9a. O impie ac crudelis, Cur sic manes infidelis? Ambas mammas amputari Tuo damno praecepisti

O empio e crudele, perché persisti così miscredenza? Ordinasti a tuo danno che entrambe le mammelle fossero amputate.

Passio, II, 8.

9b. Cur sic manes inhumanus, In feminam infers manus, Cum tu parvus esses natus, Quod in matre suxisti?

Perché così persisti nella disumanità, porti le mani contro una donna, pur essendo tu nato piccolo. Che cosa hai succhiato nella madre?

Passio, II, 8.

10a. Christum mones abnegare Atque diis sacrificare, Quos colit gentilitas

Inciti a rinnegare Cristo e a sacrificare agli dei, che onorano i gentili

Passio, II, 7.

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TESTO

TRADUZIONE

FONTI

10b. Virgo deos respuit, Nec illam deterruit Poenarum acerbitas.

La vergine respinse gli dei, né la scoraggiò l’asprezza delle pene.

Passio, I, 5.

11a. In catasta sublevatur, Et mamilla cruciatur Amputanda penitus;

Sul letto di tortura viene sollevata, e tormentata nella mammella da amputare del tutto;

Passio, II, 8.

11b. Sed perstat immobilis Puella praenobilis, Roborata caelitus.

Ma resta ferma e irremovibile l’eccellente fanciulla, resa forte dal cielo.

12a. Iubet illam mox recludi Et ieiunam diu trudi Sub arta custodia;

Ordina che quella venga subito reclusa e che sia lasciata a lungo digiuna sotto stretta sorveglianza;

Passio, II, 8.

12b. Sed hanc Petrus visitavit Et mamillas restauravit Visus nocte media.

Ma Pietro andò a visitarla e apparso a mezzanotte risanò le mammelle.

Passio, II, 9.

13a. Medicamen et solamen Christus illae dat ancillae Praesens in periculis,

cura e conforto Cristo presente nei pericoli da a quella fanciulla,

Passio, II, 9.

13b. Sed insanus Quintianus Necdum cedit atque credit Tot visis miraculis.

Ma il folle Quinziano non ancora cede e crede a tanti miracoli visti.

Passio, III, 11.

14a. Testas atque prunas dari Iubet ac mox volutari Super istis et cremari Nuda carne virginem.

Ordina che si apprestino cocci e carboni accesi e subito su questi si faccia rigirare ed ardere la vergine nella nuda carne (nuda nella carne).

Passio, III, 12.

357


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TESTO

TRADUZIONE

14b. O quam dire cruciatur, Dum hinc testis laniatur, Inde flammis ustulatur, Pium spargens sanguinem!

O quanto atrocemente vieni torturata, mentre poi dai cocci sei lacerata, quindi dalle fiamme bruciata, spargendo il virtuoso sangue!

15a. Non intrabit quippe lucem, Nisi Christum sequi ducem Et post eum ferre crucem Totis optet viribus.

Non entrerai perciò nella luce, se non segui Cristo come guida e dietro a lui desidera ardentemente di portare la croce con tutte le forze.

15b. Virgo, bene tu certasti Et agonem consummasti, Esto tandem, quod rogasti, Cum sanctis spiritibus.

Vergine, tu hai lottato bene ed hai terminato l’agone, sii finalmente, come hai chiesto, insieme ai santi spiriti.

16a. Gratulantes tuae laudi, Virgo sancta, nos exaudi Et in malis constitutos Huius vitae redde tutos Per tua suffragia.

Lieti per la tua lode, vergine santa, esaudisci e rendi sicuri noi collocati nei mali di questa vita per tua intercessione.

16b. Tu, qui flammas exurentes Aetnae montis et crepantes Globos ignis repressisti, Fac nos coram Christo sisti Post mundi naufragia.

Tu, che trattenesti le fiamme brucianti del monte Etna e i crepitanti massi di fuoco, fa che noi ci presentiamo davanti a Cristo dopo il naufragio del mondo.

FONTI

Passio, III, 12

Passio, III, 12

Passio, III, 15.

Analizzando questa sequenza ci si accorge subito che essa ha uno schema tripartito: comincia con una breve introduzione di lode a Cristo e di elogi alla martire (vv. 1a - 2b). Segue una lunghissima parte che non è altro che una versificazione della Passio, per tutto il testo citata nei suoi episodi più salienti (vv. 3a - 14b). Si conclude con una preghiera, nella quale si chiede l’intercessione della santa per la vita presente e per quella futura. 358


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L’intento del canto, comunque, è duplice: da un lato è quello di lodare Cristo nella solennità di sant’Agata esprimendo la gioia della comunità in quel giorno solenne per la forza che Lui ha concesso alla vergine nel martirio; dall’altro vuole edificare i fedeli spingendoli all’emulazione della forza e delle virtù eroiche della martire. Dal punto di vista teologico notiamo che il testo fa esplicito riferimento a Cristo come modello e autore della santità di Agata ed è pure presente, nell’ultima strofa, una dimensione escatologica, espressa dall’auspicio di ritrovarsi davanti a Cristo giudice “dopo il naufragio del mondo”. Da notare, inoltre, che il v. 6a è simile ad un passaggio del prefazio proprio della messa di sant’Agata: «Quae nec nimis territa, nec suppliciis superata…». Un altro testo appartenente al periodo in questione proviene dal Graduale ms. Aquisgranense dell’anno 1330, Codice XIV dell’Archivio Capitolare di Aquisgrana. Anche questo è stato recensito da Analecta hymnica67. TESTO

TRADUZIONE

1a. Gloriosae Virginis Agathae festum Celebremus;

Della gloriosa vergine Agata celebriamo la festa;

1b. Salvatorem, Victricem qui fortem fecit, Collaudemus.

Il Salvatore, che rese forte la vincitrice, lodiamo insieme.

2a. Haec aetate viridis Quinctiani praesidis Forti mente

Questa giovane di età alla ostinata mente del governatore Quinziano

2b. Restitit in acie Pro corona gloriae Non marcente.

Resistette nel combattimento per la corona di gloria che non appassisce.

3a. Nihil, ait, totius Nostra fide, verius Christicola;

Niente, dice la cristiana, di più grande, di più vero della nostra fede;

FONTI

Passio, I, 4 – 6.

67

Sequentia de sancta Agatha, in Liturgische Prosen des Mittelalters, edd. C. Blume − G. M. Dreves (AH 42), Leipzing 1903, 145.

359


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TESTO

TRADUZIONE

FONTI

3b. Deum unum astruo, Deos falsos respuo et idola.

Esalto un solo Dio, respingo i falsi dei e gli idoli.

Passio, I, 4 – 6.

4a. Pornae septem filiae Matris Euphodrysiae Turpes vere

Le sette figlie veramente turpi di Afrodisia madre meretrice

Passio, I, 3.

4b. Hanc mollire virginem Propter pulchritudinem Accessere.

Parteciparono a far cedere questa vergine per la bellezza.

Passio, I, 4.

5a. Non terretur vulnere Nec mollitur munere, Torquetur in ubere, Stridet igne

Non è spaventata dalle ferite, nè addolcita dai doni, e torturata nella mammella, stride per il fuoco.

Passio, II, 8.

5b. His medendis artubus Praesto est sanctus Petrus Verbo curans vulnera Quam benigne.

Per medicare questi arti è presente S. Pietro che cura con la parola le ferite molto benevolmente.

Passio, II, 9 – 10.

6a. Virgo laetissima, Sis nobis optima Tutrix corporis et animae;

O vergine assai lieta, sii per noi ottima custode del corpo e dell’anima;

6b. Tu nobis obtine Tuo precamine Ab omni mundum cor crimine.

Ottieni per noi con la tua preghiera un cuore puro da ogni colpa.

Il testo ha una struttura molto semplice. In apertura troviamo la lode gioiosa al Salvatore nel giorno festivo della beata Agata e gli elogi alla santa per la sua fortezza (vv. 1a-2b). Segue la versificazione della Passio (vv. 3a - 5b). Cantando le sofferenze che la martire ha subito si vuole fare memoria di come questa fanciulla è stata chiamata a partecipare all’opera della salvezza in una coerente testimonianza fino all’effusione del sangue. Le ultime due strofe sono una preghiera di supplica alla martire affinché sia “custode dell’anima e del corpo” e ottenga, con la sua preghiera di intercessione, un “cuore puro” (vv. 6a - 6b). 360


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È curioso il fatto che la Passio dice che le figlie di Afrodisia erano nove, mentre questo testo dice che erano sette. Forse il testo fa riferimento ad una fonte diversa da quella del Mombrizio? Dal punto di vista teologico, questa sequenza, appare assai povera, limitandosi ad un solo esplicito accenno strettamente teologico nei termini “Salvatore” e “Unico Dio”. Per il resto sono presenti i temi della letteratura apologetica: il rifiuto degli dei, esposizione della dottrina della fede, intento pedagogico. Tutto questo è espresso attraverso un linguaggio popolare e attraverso il potente linguaggio della musica e del canto. Il XIV secolo è particolarmente ricco di manoscritti che riportano sequenze. Ne troviamo ancora una in onore di sant’Agata, nel Missale ms. Voraviense del secolo XIV, Codice Voraviensis 35 della biblioteca della canonia di Vorau, città austriaca. Il testo è stato recepito da Analecta Hymnica68.

TESTO

TRADUZIONE

1a. Voto pari gratulemur Agathaeque veneremur Mira gesta, ut tenemur, Immani de victoria

Ringraziamo con conveniente preghiera e di Agata veneriamo le mirabili gesta, affinchè siamo rapiti, dalla straordinaria vittoria

1b. Pompas mundi renuisti Vesanas, vires subisti, Virgo, tyrannum sprevisti Caelesti utens gloria.

Gli insani fasti del mondo hai ricusato, hai subito violenze, vergine, hai disprezzato il tiranno per godere (godendo) la gloria celeste

2a. Martyr, florem castitatis Speculumque honestatis Deo non vovisti gratis, Sed ob frugem virtutis.

Martire, fiore di castità e specchio di onestà, non ti sei consacrata a Dio gratuitamente, ma per il frutto della virtù.

FONTI

Passio, I-II

68

Sequentia de sancta Agatha, in Liturgische Prosen des Mittelalters, edd. C. Blume − G. M. Dreves (AH 44), Leipzing 1904, 29.

361


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TESTO

TRADUZIONE

2b. Sponsa sponsum elegisti, A quo exordium sumpsisti, Cuius regnum introisti Opem ferens salutis.

Sposa hai scelto lo sposo, da cui hai preso origine, nel cui regno sei entrata portando la potenza della salvezza.

3a. Ut ditati tua prece, Purgati peccati faece, Tyranni exempti nece Fruamur pollicitis,

Come arricchiti dalla tua preghiera, mondati dall’impurità del peccato, liberati dalla morte del tiranno rallegriamoci delle promesse,

3b. Te precamur, ut sis prona, Ne serpentis stringat zona, Beatorum, tu corona, Nos adiunge gaudiis.

Ti preghiamo, di essere benigna, affinchè la cintura del serpente non stringa, tu corona, uniscici alle gioie dei beati.

FONTI

Questa sequenza, rispetto alle altre coeve, presenta pochi riferimenti alla Passio e più tematiche di carattere teologico e pedagogico-morali. Comincia con un verso introduttivo di ringraziamento a Dio. Fanno seguito dei versi di elogio alla martire Agata della quale si lodano le virtù, si cantano le mirabili gesta e la sua vittoria (vv. 3a − 5b). Il testo, poi, converge nella preghiera che richiede l’intercessione della santa per ottenere la libertà dal peccato, la gioia di contemplare le promesse di Dio e di godere della comunione dei santi. Un’altra testimonianza della straordinaria proliferazione di sequenze agatine nel medioevo la troviamo in un Graduale ms. di Parma del XIVXV secolo, Codice s. n. conservato nell’Archivio Capitolare di Parma e recepito da Analecta Hymnica69.

69

Sequentia de sancta Agatha, in Liturgische Prosen des Mittelalters, edd. C. Blume − G. M. Dreves (AH 37), Leipzing 1901, 98.

362


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TESTO

TRADUZIONE

FONTI

1a. Ave, virgo, dedicata Summo regi, desponsata Et coniuncta foedere;

Ave, Vergine, consacrata al sommo re, promessa e legata da un patto;

1b. Gloriosa claruisti, Sicut stella splenduisti, Velut sol in aethere.

Gloriosa brillasti, come una stella splendesti, come il sole nel cielo.

2a. Adfuerunt te scrutantes, Defecerunt promittentes, Sunt confusi nequiter.

Si recarono a te investigatori, vennero meno promettendo, sono confusi in modo indegno.

Passio, I, 3 – 4.

2b. Torsiones et flagella, Ignem et ferrum, puella, Superasti fortiter.

Tormenti e flegelli, fuoco e ferro, fanciulla, superasti coraggiosamente.

Passio, II, 7 – 8.

3a. Hic advenit Simon Petrus, Curat angelorum coetus Condiditque virginem.

Qui giunge Simon Pietro, la schiera degli angeli cura e mette in salvo la vergine.

Passio, II, 9 – 10.

3b. Agatha nobilitatis, Esto nostra advocatrix Ad supernum iudicem,

Agata di nobile sentire, sii la nostra consolatrice (avvocata) presso il giudice supremo

4a. Ut ab igne vitiorum Et poena damnatorum Possim evadere.

Possa io scampare alla fiamma dei vizi e alla condanna dei dannati.

4b. Sancta sponsa digna Christi, Quae tot signis claruisti, Fac nos caelum scandere.

Santa sposa degna di Cristo, che ti sei distinta per numerose prove, fa che noi saliamo in cielo.

Passio, I, 2.

Anche lo schema di questa sequenza è quello tipico di questo specifico genere letterario: un’introduzione con un saluto alla vergine Agata e con gli elogi delle sue virtù (vv. 1a - 1b). L’iniziale momento di giubilo diventa subito memoria della sua vicenda, tratteggiata con allusioni ad alcuni episodi della Passio (vv. 2a – 3a). 363


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Si conclude con tre strofe di supplica nelle quali si chiedono rispettivamente l’intercessione della santa, la vittoria sui vizi, la salvezza dalla dannazione, la vita eterna (3b – 4b). 4.3.3. Le sequenze dal XV al XVI secolo Del XV secolo è la sequenza agatina contenuta nel Graduale ms. Sanctense70 che è senza signatura, ma è stato registrato da Analecta Hymnica71. TESTO

TRADUZIONE

1a. Exultamus, gaudeamus concordi laetitia

Esultiamo, rallegriamoci unanimi nella gioia

1b. Victor sponsus collaudetur in sponsae victoria.

Lo sposo vincitore viene esaltato nella vittoria della sposa.

2a. Cujus cruce nova luce mundi nitet climata,

Per la cui croce di nuova luce rispendono del mondo le regioni,

2b. Cujus dono de maligno triumphavit Agatha.

Per il cui dono sul maligno Agata riportò il trionfo.

3a. Aevo recens, vultu decens Nitet pudicitia,

Giovane di età, bella d’aspetto, spicca per pudore,

3b. Expers sordis et immunis ab omni spurcitia.

Priva di sozzura e libera da ogni indegnità.

4a. O quam beata, Cui fuit in agone virtus Christi socia.

O quanto beata tu, a cui nell’agone fu compagna la virtù di Cristo.

4b. Per quam triumphans ad coelorum sublimatur excelsa fastigia.

Per la quale trionfante vieni elevata ai sommi onori dei cieli.

FONTI

Passio, I, 3 - 4

Passio, I, 6.

70 Xanten è una città del Nord Reno-Vestfalia, in Germania: cfr. J. G. GRAESSE, Orbis Latinus online, in htt://www.columbia.edu/acis/ets/Graesse/orblatxy.html (31.01.2008). 71 Sequentia de sancta Agatha, in Liturgische Prosen des Mittelalters, edd. G. M. Dreves (AH 9), Leipzing 1890, 90-91.

364


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TESTO

TRADUZIONE

FONTI

5a. Erat in ejus animo stabilis constantia,

Era nel suo animo una salda fermezza,

5b. Et adversa sufferebat multa patientia.

E con molta pazienza sopportava le avversità.

6a. Furit in ejus corpore Iudicis insania

Inperversa sul suo corpo la follia del giudice

Passio, II, 7 – 8; III, 12.

6b. Tamen in tormentis levatur Christi clementia.

Tuttavia nei tormenti è confortata dalla bontà di Cristo.

Passio, II, 9 – 10.

7a. Deos spernit et eorum Ridet et sacrificia, Saevitia impiorum Mente calcat non soluta.

Disprezza gli dei e di essi deride anche i sacrfici, la crudeltà degli empi la oltraggia, ma la sua volontà non si infrange.

Passio, I, 5.

7b. Mammam tradit in tormentis, Dat maxillam et alapis Et corporis spernens poenas, Fide vincit omnes una.

Consegna la mammella nei tormenti, porge la mascella anche agli schiaffi e disprezzando le sofferenze del corpo, con la sola fede vince tutti.

Passio, I, 5; Questio, II, 8.

8a. O beata quam ad portum Tam ad lucis ducit partum Christus in custodia,

O beata come ad un porto così Cristo proteggendoti ti conduce all’origine (fonte) della luce,

8b. Carcer micat nova luce Et curatur Christo duce In Petri praesentia.

Il carcere risplende di nuova luce e vieni curata con la guida di Cristo alla presenza di Pietro.

9a. Dum oraret nec in vanum, Ecce quidam profert manum Ad ejus praesidia,

Mentre pregava e non invano ecco uno tende la mano a difenderla,

Passio, II, 10.

365


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TESTO

TRADUZIONE

9b. Statim salus datur grata, Cedunt umbrae luce data, Mentem mutant gaudia.

subito viene concessa la salvezza desiderata, spariscono le ombre alla luce donata, le gioie cambiano la disposizione d’animo.

10b. Ex ipsius tumba manat Sanitatis copia,

Dalla sua stessa tomba emana abbondanza di guarigioni,

10b. Quae furentes rogos sedat Per ejus suffragia.

Che spegne i violenti roghi per sua intercessione.

11a. Nos qui sumus in hac calle, Lacrimarum in convalle Perpessi naufragia,

noi che siamo su questa terra in una valle di lacrime sopportando coraggiosamente le disgrazie,

11b. Gloriosa sponsa Christi, Quae jam sponso placuisti, Duc ad pacis gaudia.

Gloriosa sposa di Cristo, che già fosti gradita allo sposo, conduci alle gioie della pace.

12a. Ipsa nobis mansionem Impetres a Domino Prece pie,

Tu stessa ottieni per noi dal Signore onorevolmente con la preghiera, la dimora,

12b. Ad quam ducas omes pie Post mortis excidium Vitae, via.

Via della vita alla quale tu conduci tutti benignamente dopo l’annientamento della morte.

13a. Tuum festum celebrantes Gaudeant per saecula,

Celebrando la tua solennità si rallegrino nei secoli,

13b. Ut coronet eos Christus Post vitae curicula.

Affinchè Cristo li coroni dopo gli affanni della vita.

14. Amen dicant omnia.

Ogni cosa dica amen.

366

FONTI

Passio, III, 15.


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Questa sequenza presenta una struttura divisa in tre parti: un’introduzione che presenta il tema della gioia motivata dalla vittoria di Cristo che si manifesta nella vittoria della martire sposa (1a-2b); la parte centrale, che occupa la maggior parte del testo, contiene delle strofe liberamente ispirate alla Passio intercalate da strofe di elogio alla martire e da strofe che fanno una lettura simbolica di certi particolari del racconto; la terza ed ultima parte è una preghiera dove si chiede l’intercessione di Agata per ottenere pace, la dimora eterna, il premio eterno e di trovare la via della vita. Un’altra sequenza di questo periodo è contenuta nell’Orazionale e Sequenziario Campense del 1462, Codice Darmstadien 521, anch’essa recensita in Analecta Hymnica72: TESTO

TRADUZIONE

FONTI

1a. Propugnans in stadio, Agatha, cum gaudio Mammas das pro superis;

Lottando nello stadio, Agata, con gioia offri le mammelle per Dio (per gli dei del cielo);

Passio, II, 8.

1b. Fortis plus quam femina, Virgo, vincis agmina Ministrorum sceleris.

Forte più di quanto sia una donna, vergine, vinci le schiere degli esecutori del crimine.

Passio, II, 8.

2a. Tu costanter immania Pertulisti supplicia Pro Christo, sponso gloriae; Sic, rosa patientiae, Palmam ferens victoriae Transisti ad caelestia,

Tu con fermezza hai sopportato inumani supplizi per Cristo, sposo di gloria; così, corona di pazienza, portando la palma della vittoria sei andata in cielo,

Passio, II, 8.

2b. Ubi sponsa consortia, Amplexus et solacia Obtines nunc in requie. …………………… …………………… ……………………

Dove come sposa partecipazione, abbracci e conforto ora ottieni nel riposo…….

72

Sequentia de sancta Agatha, in Liturgische Prosen des Mittelalters, edd. C. Blume − G. M. Dreves (AH 42), Leipzing 1903, 146.

367


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TESTO

TRADUZIONE

3a. O tu, virgo tam beata, Multis signis decorata, Mihi sis propitia;

O tu, vergine tanto beata, ornata di molti segni, siimi propizia;

3b. Aufer iras et dolores, Mentes fove, forma mores Pietatis gratia.

Allontana le ire e i dolori, sostieni gli animi, forma le menti per la dedizione.

4a. Piae matris pia proles, Hic purgatum, quando voles, Transfer me ad supera.

Pia figlia di madre pia, quando vorrai, portami ormai purificato in cielo.

4b. Eius sancta pia prece Tu me de secunda nece, Pie Iesu, libera.

Per la sua santa devota preghiera tu, o pio Gesù, liberami da una seconda morte.

FONTI

Questa sequenza ha uno schema diverso dalle altre. Lo stesso editore nota che nonostante la sua collocazione nel manoscritto sotto la dicitura sequenze, resta il dubbio se sia o meno una preghiera in rime73. Non presenta, infatti, un’introduzione, ma comincia ex abrupto con una descrizione allusiva del martirio di Agata (vv. 1a- 2a). Segue la preghiera, nella quale, per intercessione della santa vengono chiesti doni che riguardano la sfera morale e la salvezza eterna. Chiudiamo lo studio delle sequenze agatine con due sequenze dell’area Ravennate appartenenti al XVI secolo. La prima la troviamo nel Sequenziario ms. del 1585-87, registrata da Analecta Hymnica74: TESTO

TRADUZIONE

1a. Christo laudes concinamus Nos, qui sanctae celebramus Agathae sollemnia.

A Cristo facciamo risuonare insieme le lodi noi, che di sant’Agata celebriamo la solennità.

73

FONTI

Cfr. C. BLUME, Liturgische Prosen des Mittelalters (AH 42), 147. Sequentia de sancta Agatha, in Liturgische Prosen des Mittelalters, edd. C. Blume − G. M. Dreves (AH 42), Leipzing 1903, 146. 74

368


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TESTO

TRADUZIONE

FONTI

1b. Virgo clara stirpe nata, Mundo placens, Deo grata Per morum insignia.

Vergine nata da illustre stirpe, approvata dal mondo, cara a Dio per i tratti singolari dei buoni costumi.

2a. Florens hortus honestate Et sermonis venustate Placuit hominibus;

giardino fiorente di onestà ed eleganza di eloquio piacque agli uomini;

2b. Sed plus Christo complacere Atque bonis praepollere Studuit operibus.

Ma desiderò vivamente compiacere di più Cristo e distinguersi nelle buone azioni.

3a. Huius fama redolebat Et in cunctis recurrebat Saeculorum finibus.

La fama di questa veniva fuori e alla fine di ogni secolo ritornava.

3b. Quintianus, servus pecuniae, Totus studes idolatriae, Suis tribunalibus.

Quinziano, schiavo del denaro, ti dedichi anima e corpo all’idolatria, ai suoi tribunali.

Passio, I, 2.

4a. Illam iubet praesentari, Ut diversis consummari Possit cruciatibus

Ordina che quella sia portata al suo cospetto, perché possa essere annientata con diverse torture

Passio, I, 2.7.

4b. Hanc conatur inflectere, Tentat quoque seducere Mentem malis artibus.

Cerca di piegare questa, tenta anche di sedurre la mente con arti perverse.

Passio, I, 3.

5a. Illam ergo deludendam Et a vero dimovendam Tradit Aphrodisiae;

La affida allora ad Afrodisia perché la inganni ed allontani dalla verità;

Passio, I, 3.

5b. Christianam abnegare Nec consentit violare Iura pudicitiae.

e non consente che la cristiana rifiuti di violare le leggi del pudore.

6a. Eius quippe mens fundata Et in Christo solidata Verbis nescit cedere.

Giacchè la mente salda e consolidata in Cristo non sa cedere alle parole.

Passio, I, 2.

Passio, I, 3 – 4.

Passio, I, 3.

369


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TESTO

TRADUZIONE

FONTI

6b. Tunc immitis Quintianus, Velut fera inhumanus Educit e carcere

Allora lo spietato Quinziano, come una belva, disumano la fa condurre fuori dal carcere.

Passio, II, 7.

7a. In catasta sublevatur, Et mamilla cruciatur Amputanda penitus.

Su un letto di tortura viene sollevata e tormentata nella mammella da amputare del tutto.

Passio, II, 7 – 8.

7b. Sed perstat immobilis Puella praenobilis, Roborata caelitus

Ma resta ferma e irremovibile l’eccellente fanciulla, resa forte dal cielo.

8a. Testas atque prunas dari Iubet statim, volutari Super istas, hinc cremari Nuda carne virginem.

Ordina subito che si apprestino cocci e carboni accesi, che su questi si faccia rigirare, quindi si faccia ardere la vergine nella nuda carne.

8b. O quam dire cruciatur, Dum hinc testis laniatur, inde flammis ustulatur pium spargens sanguinem.

O quanto atrocemente viene torturata, mentre poi dai cocci è lacerata, quindi dalle fiamme bruciata spargendo il virtuoso sangue.

9a. Gratulantes tuae laudi, Virgo sancta, nos exaudi Et in malis constituto Huius vitae redde tutos Per tua suffragia.

Lieti per la tua lode, vergine santa, esaudisci e rendi sicuri noi collocati nei mali di questa vita per tua intercessione.

9b. Tu, quae flammas exurantes Aetnae montis et crepantes Globos ignis repressisti, Fac nos coram Deo sisti Post mundi naufragia.

Tu, che trattenesti le fiamme brucianti del monte Etna e i crepitanti massi di fuoco, fa che noi ci poresentiamo davanti a Dio dopo il naufragio del mondo.

370

Passio, III, 12.

Passio, III, 15.


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Questa sequenza l’abbiamo commentata tra quelle del XIII secolo per via del possibile autore, anche se si trova in manoscritti del XVI secolo. Lo schema è quello classico delle sequenze: un’introduzione che intona l’inno di lode a Cristo nel giorno della memoria di sant’Agata (v. 1a); segue una versificazione della Passio (vv. 1b-8b.9b); infine la preghiera che chiede l’intervento della santa per le necessità di questa vita e per ottenere la vita eterna. Resta un’ultima sequenza che troviamo in un Sequenziario ms. Ravennatense del 1585-1587, Codice Classensis 360 (139. 5. S), in un Missale Ruthenense75 del 1540 e nel Missale Parisiense del 1585. Anche questo testo è stato pubblicato da Analecta Hymnica76: TESTO

TRADUZIONE

1a. Virgo fortis Stirpis ingenuae, Minas mortis Et poenas strenue Tolerasti.

Vergine forte, di stirpe libera, le minacce di morte e le sofferenze con risolutezza sopportasti.

1b. Nefas sortis Fraudisque nocuae Et cohortis Turpis et fatuae Superasti.

L’empietà del destino e della perfidia nociva e della coorte turpe ed insensata superasti.

2a. Inconcussa Cunctis terroribus Dei iussa Complens operibus Inveneris

Sei trovata irremovibile dinanzi a tutti gli spaventi portando a compimento la volontà (voleri, ordini) di Dio

2b. Post percussa Servorum ictibus Et excussa Lignorum fascibus Stabiliris.

Dopo percossa dai colpi dei servi e spogliata su fasci di legna vieni collocata.

FONTI

Passio, I, 2.4.

Passio, I, 3 – 4.

Passio, I, 7.

Passio, III, 12.

75

Ruthenensis pagus era un’antica provincia del sud della Francia che si chiamava Rouergue; corrisponde all’attuale dipartimento dell’Aveyron ed era abitata originariamente dalla tribù gallica dei Ruteni: cfr. GRAESSE, Orbis Latinus online, in htt://www.columbia. edu/acis/ets/Graesse/orblatr.htlm#Ruthenicus (31.01.2008). 76 Sequentia de sancta Agatha, in Liturgische Prosen des Mittelalters, edd. C. Blume − G. M. Dreves (AH 44), Leipzing 1904, 29-30.

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TESTO

TRADUZIONE

3a. Adusturam Corporis pateris Et torturam In mammis teneris;Gens miratur,

la bruciatura del corpo sopporti e la tortura nelle tenere mammelle; la gente si meraviglia per

3b. Senis curam In antro carceris, Sepulturam Dignam in ceteris Veneratur.

la guarigine del seno nell’antro del carcere, del resto venera la degna sepoltura.

4a. Deprecetur Agatha Dominum, Ut purgetur A labe criminum Praesens chorus,

Agata supplica il Signore, perché sia purificato dalla rovina dei misfatti il presente coro,

4b. Detestetur Sordes peccaminum, Ut salvetur Purus post terminum Et decorus.

Maledici le sozzure dei peccati, affinchè sia salvato puro e decoroso dopo la morte.

FONTI

Passio, II, 8.

Passio, II, 9.

Lo schema di questa sequenza è molto semplice: dopo un’invocazione della martire, subito viene messa in versi la sua Passio con i riferimenti ai fatti più salienti del racconto (1a-3b); si conclude con la preghiera che chiede l’intercessione della santa per una degna condotta morale e per la salvezza eterna.

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Capitolo VI

Il modello di santità femminile di Agata: aspetti teologico-liturgici

1. L’ideale della santità di Agata nell’eucologia dei formulari eucaristici 1.1. Considerazioni generali Dopo aver analizzato i dati che emergono dall’eucologia eucaristica è possibile proporre alcune considerazioni sintetiche utili a introdurre la terza parte di questo lavoro. La ricchezza delle intuizioni teologico-liturgiche della seconda parte del nostro lavoro è qui presupposta. Non si tratta di ritornare ancora una volta su di esse, ma di organizzarle al fine di cogliere l’essenziale in una sintesi che muove dalla consapevolezza di non essere esaustivi. Nell’analisi delle orazioni dei “formulari propri” della messa di sant’Agata contenuti nei Sacramentari romani e anche nei Propri regionali o diocesani è emerso un ideale di santità femminile diverso da quello che possiamo riscontrare nei testi liturgici composti per l’Ufficio divino o nella Passio dove prevale un ideale di santità fortemente influenzato o da motivi popolari o da motivi regionalistici. Nei testi per la messa, invece, prevale un ideale che possiamo definire “pasquale”. Nei formulari agatini romani, per esempio, ciò che colpisce è la loro estrema sobrietà che non significa povertà1, ma una certa “genericità” 1

Testi “comuni” e “niente di speciale”, li ha definiti A. Heinz, in un suo intervento su

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che, a mio avviso, esprime la più pura teologia del martirio ritraendola in quella essenzialità immune da quei connotati epici della Passio. La preghiera della comunità non è mai indirizzata alla santa, ma direttamente a Dio. La santa è nominata nel contesto del mistero della salvezza operato da Cristo. Si può dunque supporre che i testi per la messa siano rimasti sempre ancorati alla più genuina tradizione romana, proponendo contenuti che, nella loro sobrietà ed essenzialità, collocano il culto dei martiri nell’alveo del mysterium salutis e gli conferiscono una connotazione teologica che pone in evidenza il legame profondo che c’è tra il culto dei santi e il mistero pasquale. Questo mistero è stato la sorgente della santità del martire. La stessa passione del martire è vista come il rinnovarsi dell’unica passione di Cristo, della sua morte, della sua resurrezione. È anzi Cristo stesso che ha sofferto nella persona dei suoi testimoni. La memoria del martire si fonde così al memoriale, la celebrazione del sacrificio di Cristo nella liturgia eucaristica. Il culto liturgico dei santi, quindi, trae origine dal mistero pasquale e ad esso orienta. Esso è celebrazione di tale mistero attualizzato soprattutto in quelle membra che, in maniera eminente ed intima, sono a Cristo configurate; è anche celebrazione del mistero della Chiesa, Corpo di Cristo che, attraverso i suoi gloriosi testimoni, addita quella via di santificazione che si realizza nell’essere attratti dal Padre, conformati al Cristo e trasfigurati dallo Spirito Santo. Di conseguenza, seguendo questa linea teologica, anche le orazioni composte per la celebrazione eucaristica del dies natalis di sant’Agata riprendono, in maniera più o meno esplicita, la matrice trinitaria, la connotazione teologico-pasquale, il profilo cristologico-ecclesiale e la dinamica escatologica, elementi tanto auspicati dalla Sacrosanctum Concilium2 e si allontanano dall’espressione popolare del culto della martire che privilegia un’idealità diversa della santità di Agata presentandola ora come “protettrice” e “salvatrice” della città da difendere dalle calamità naturali (terremoti ed eruzioni dell’Etna), ora come salvatrice dell’anima dei suoi concittadini e devoti da difendere dal fuoco del peccato, dei vizi e delle passioni, oppure come protettrice dell’onestà e della dignità delAgiografia e tradizioni culturali in Sicilia: cfr. A. HEINZ, «Agata, Lucia ed Euplo nella tradizione liturgica medievale», in Euplo e Lucia, 167-168. 2 Cfr. SC 102-104.

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la donna incarnando l’ideale di redenzione della bellezza e del pudore femminile3. Nella prospettiva teologico-liturgica, la memoria liturgica della nostra martire è anche celebrazione della grazia di Dio che si è manifestata nella sua efficacia storica attraverso la concreta testimonianza di quella particolare figura celebrata in quel particolare giorno. Per questo motivo, prima di affrontare uno studio ermeneutico di un formulario di messa, composto in onore di un santo, è sempre utile tratteggiarne storicamente la figura e l’originalità al fine di cogliere il modo concreto in cui quella particolare figura ha fatto proprio lo spirito di Cristo e del suo Vangelo, incarnandolo nel suo tempo, nella sua personalità e nella sua condizione di vita. Naturalmente questo tipo di lavoro risulta più facile per i santi di cui si hanno notizie storiche certe e attendibili; risulta meno facile, invece, per quei santi, come nel caso nostro, sui quali si hanno poche notizie storiche. In questi casi i testi eucologici composti per la celebrazione eucaristica preferiscono caratterizzare il santo con attributi che, pur essendo generici, ne trasmettono un’immagine sicuramente spoglia dei colori della fantasia popolare, ma certamente portatrice di un messaggio sempre attuale espresso con l’uso di termini, più o meno tecnici, che imprimono nella lex orandi quegli aspetti della lex credendi che stanno alla base della visione teologica ed esistenziale del culto liturgico dei santi; quegli aspetti che fanno intravedere in loro il volto di Cristo e della Chiesa additando in essi dei possibili modelli da imitare nel processo personale di santificazione. 1.2. Presentazione sintetica dei riferimenti eucologici ad Agata Tenendo presente questa introduzione e i dati emersi dall’analisi dei testi eucologici relativi ad Agata, riteniamo opportuno a questo punto fornire una tavola riassuntiva sui temi emergenti dalle orazioni, dalle quali fare emergere quei tratti più significativi della figura di Agata che ci saranno poi utili nella riflessione teologica che sarà finalizzata a mettere in evidenza l’attuale validità del messaggio di un’antica martire così come può emergere dalla liturgia. 3

Cfr. V. CASAGRANDI, «S. Agata e l’ideale del suo martirio», ASSO 23-24 (1927-1928) 1-37.

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Potenza di Dio nella debolezza umana — Deus qui inter cetera potentiae tuae miracula…: GrH 128-Co; …in utroque sexu fidelium cunctis aetatibus contulisti: Sp 1538. Debolezza di Agata — sexu fragili: GrH 128-Co. Vittoria e meriti di Agata — uictoria martirii: GrH 128-Co. — merito castitatis: GeV 832-C; GrH 131-Al.or.

Attributi di Agata — beatae Agathae martyris: GeV 832Co; 833-So/ GrH 129-So; 130-Pc; 131Al.or; 132-Al.or; 133-Al.or; MSEC, 27Co; PMAC, 21-Se; 21-Pc; MPCS, 74Co. — martyrae Agathae: GeV 834-Pc. — uirginem: Sp 1538; MSEC, 27-Co; PMAC, 20-Co; 21-Pc; MPCS, 74-Co. Intercessione di Agata — indulgentiam …inploret: GeV 832Co; GrH 131-Al.or. — adsit intercessio: GeV 833-So. — interuencionibus eius: GeV 834-Pc; PMAC, 20-Co. — per eius exempla: GrH 128-Co. — cuius patrocinio: GrH 129-So. — intercedente: GrH 130-Pc. — beatae Agathe martiris tuae precibus: GrH 133-Al.or. — precibus beatae virginis Agathae: PMAC, 20-Co

2. I temi emergenti dall’eucologia eucaristica 2.1. La santità di Agata frutto dell’azione di Dio Il primo attributo che i testi eucologici riconoscono ad Agata è quello di “beata”, termine più antico per indicare la realtà della santità. In riferimento alla beatitudine/santità, lo schema riportato sopra, ha messo in evidenza come la prima caratteristica che emerge dai formulari eucaristici è l’attenzione che la liturgia pone all’azione di Dio, fonte della santità. Quest’azione, in concreto si manifesta in due luoghi: innanzitutto nella vicenda di Agata dove la vittoria del martirio è vista come uno dei segni della potenza di Dio e come il frutto della sua condiscendenza4. È stata la potenza divina ad animare il cuore della martire facendo sì che la sua offerta sacrificale manifestasse e facesse risplendere la grandezza di Dio. In 4

Cfr. GrH 128-Co: «Deus qui inter cetera potentiae tuae miracula, etiam in sexu fragili uictoriam martyrii contulisti…».

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GrH 128, inoltre, la concezione tradizionale della debolezza della donna diventa motivo per esaltare la potenza di Dio che è superiore ad ogni limite umano. Il secondo luogo in cui si manifesta quest’azione di Dio, fonte della santità, è la vita di coloro che, celebrando l’Eucaristia in memoria della martire, per opera della grazia di Dio vengono da Lui allietati e resi partecipi della sua stessa gioia e della gioia dei santi5; la vita di quelli che, per intercessione di Agata, vengono da Dio giustificati6 o confermati nella sua protezione e fedeltà7. A costoro il Signore, per intercessione della martire, concede indulgenza8 e clemenza9. Bastano questi pochi esempi per mostrare come un’idea che soggiace ai testi della messa è quella di presentare il martirio e la santità di ogni tempo come dono di Dio e opera della sua grazia. Riprenderemo questo tema nel paragrafo seguente per organizzare sistematicamente la riflessione su di esso. 2.2. Agata beata martire e testimone delle meraviglie di Dio Nelle orazioni e nel prefazio si trovano riferimenti all’hodie, memoria del dies natalis, e al motivo per cui si sta celebrando che, essenzialmente, è il ringraziamento a Dio per ciò che ha operato in Agata rendendola capace del martirio per la confessione del suo nome e ammirevole agli occhi degli uomini che a lei guardano come a modello. La frequenza del termine “martyr”, quindi, mette in evidenza che il martirio è uno degli elementi caratterizzanti della santità di Agata. Infatti, nelle formule eucologiche esaminate il termine martyr riferito ad Agata lo troviamo quasi sempre affiancato a beata, usato come sinonimo di sancta, termine che indica la realtà di pienezza della beatitudine eterna. Questi sono i due attributi di Agata più usati nell’eucologia del Gelasia5

Cfr. GrH 132-Al.or: «Deus qui nos annua beatae Agathae martyris tuae sollemnitate laetificas…». 6 Cfr. GrH 129-So: «…cuis nos scimus patrocinio liberari». 7 Cfr. GrH 130-Pc: «…intercedente beata Agathe martyre tua sempiterna protectione confirment» 8 Cfr. GeV 832-Co; GrH 131-Al.or.: «Indulgenciam nobis, domine, beata agathe inploret…» 9 Cfr. GrH 133-Al.or.: «Beatae agathe martyris tuae Domine praecibus confidentes, quaesumus clementiam tuam…»

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no, del Gregoriano e anche dei Propri locali siciliani. Si tratta di due vocaboli che si completano a vicenda perché, se il martirio cruento realizza la pienezza della santità, la forma più alta della santità è data proprio dal martirio, modalità suprema di conformazione a Cristo e preludio alla beatitudine eterna. C’è, quindi, continuità tra la realizzazione storica della santità e la felicità eterna, perché la vita donata per Cristo è in se stessa felicità e certezza d’ingresso nel Regno di Dio. Il tema del martirio, tuttavia, in queste orazioni rimane tema generale senza nessuna annotazione circa le circostanze e le modalità di questo così come esso è narrato nella Passio. Esso rappresenta il momento in cui Dio ha manifestato nella santa la sua grandezza10 e la martire ha reso la sua confessio del mistero pasquale partecipandovi intimamente. La confessio, quindi, si esprime nella passio e, di riflesso, nella pacientia11 con la quale si esprime il coraggio e la fermezza della martire associata all’esperienza di Cristo. Si accenna qui alla visione teologica del martirio come testimonianza di amore. Il Concilio Vaticano II raccoglierà questa dimensione del martirio quando dirà: «Cum Iesus, Dei Filius, caritatem suam manifestaverit, animam suam pro nobis ponendo, nemo maiorem habet dilectionem, quam qui animam suam pro Eo et fratribus suis ponit (cf. 1Io 3,16; Io 15,13). Ad hoc ergo maximum amoris testimonium reddendum coram omnibus, praesertim persecutoribus, aliqui christiani iam a primo tempore vocati sunt et semper vocabuntur. Martyrium igitur, quo discipulus Magistro pro mundi salute mortem libere accipienti assimilatur, Eique in effusione sanguinis conformatur, ab Ecclesia eximium donum supremaque probatio caritatis aestimatur»12.

L’esperienza di Agata, poi, è paragonata ad una lotta che si conclude con la vittoria13 di questa gloriosa combattente che ha vinto in forza della sua fede incrollabile anch’essa manifestazione della gloria di Dio, il quale avendo posseduto la martire ha fatto brillare in lei la sua gloria nel momento della sua massima testimonianza di fedeltà a Cristo. Il martirio è un trionfo che ha come corona e premio la partecipazione al Regno celeste e segna il passaggio dalla vita umana mortale, alla vita di 10

Cfr. GrH128-Co. Cfr. Sp 1538. 12 LG 42. 13 Cfr. GrH 128-Co. 11

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Dio eterna, e quindi non è sconfitta, non è segno di debolezza ma vittoria ed espressione della forza che viene da Dio. Vi è qui una reminiscenza di quella “concezione agonistica” del martirio che ha caratterizzato i primi secoli della vita della Chiesa e ne ha fatto una lotta per il trionfo della fede cristiana14. La Chiesa, quindi, riflettendo sulla sua santità, afferma che il martire non è uno dei tipi della santità, ma il prototipo presente in ogni realizzazione della santità cristiana poiché l’aspetto caratterizzante della vita del cristiano è l’amore fino alla morte. La capacità di amore che la martire ha testimoniato, essendo ricordata nel giorno dedicato alla sua memoria, diviene stimolo e modello per i fedeli riuniti in assemblea per la celebrazione eucaristica nella quale chiedono di seguire i suoi esempi per giungere anch’essi alla santità15. In questo modo, la celebrazione eucaristica permette non solo l’incontro con la martire, ma anche con la stessa esperienza di amore che l’ha animata. La celebrazione liturgica diventa così principio di imitazione in modo tale che l’esperienza del martirio si trasferisca oggi nella comunità celebrante. In altre parole, nell’Evento per eccellenza che è il sacrificio di Cristo si è resi anche partecipi dell’evento-martirio celebrato nella memoria della martire. 2.3. Agata vergine Nella tradizione cristiana particolare attenzione è stata riservata alle donne vergini che hanno testimoniato nel martirio la propria esperienza di fede. Nei formulari per la messa di sant’Agata, questo tema è accennato in alcuni testi mediante il semplice uso del sostantivo “Virgo”16 o facendo accenno alla “castitas”17. In questi testi la tematica che viene sviluppata è quella del parallelismo tra la consacrazione totale a Dio nella verginità e la forza nel testimoniare Cristo Gesù mediante il martirio. Il riferimento 14

Cfr. DI CAPUA, «La concezione agonistica del martirio nei primi secoli», 232-238. Cfr. GrH 128-Co: «…concede propitius ut cuius natalicia colimus, per eius ad te exempla gradiamur»; GrH 132 Al.or.: «..da ut quam veneramur officio, etiam piae conversationis sequamur». 16 Cfr. Sp 1538; MSC, 27-Co; 28-Se; 28-Pc; PMAC, 20-Co; 21-Se; 21-Pc. 17 Cfr. GeV 832-Co; GrH131-Al.or: «…merito castitatis». 15

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alla verginità, comunque, è solo accennato e poco sviluppato, probabilmente perché il martirio, compimento della stessa verginità, è segno di totale partecipazione al mistero pasquale di Cristo dal quale scaturisce la sicura beatitudine eterna. Tuttavia, questi brevi accenni alla verginità rimasti nei testi eucologici, insieme ai riferimenti al martirio, sono tracce di quella indelebile esperienza di santità che Agata fu chiamata a vivere nel contesto storico in cui si consumò la sua vicenda e ha colpito la sensibilità della Chiesa. Frutto di una libera scelta vocazionale che, secondo la tradizione, Agata aveva fatto preferendo ad uno sposo umano lo Sposo divino, la sua lotta per difendere la sua verginità divenne l’occasione per riaffermare la dignità della donna in un contesto sociale pagano dove il rispetto per la dignità della donna e il pudore femminile erano poco stimati. Perciò, la testimonianza verginale di Agata, suggellata dal martirio, significava da un lato la protesta e la reazione ad una concezione della vita materialista che fa del sesso un idolo; dall’altro la redenzione della bellezza o della purezza della donna e la redenzione del sesso. Tutto ciò che di buono c’è in Agata è opera di Dio, il quale dimostra ancor più la sua potenza attraverso la debolezza umana di una donna. Di fatti, nei testi eucologici per l’Eucaristia Dio emerge come soggetto che premia Agata, non solo per il martirio, ma anche per il merito di quest’altra testimonianza data nella scelta della verginità che viene ad impreziosire ulteriormente la testimonianza del martirio. Tutto ciò, naturalmente, risente dell’antica concezione teologica sulla donna diffusa ancora al tempo in cui furono composte le orazioni. Secondo questa mentalità la donna, nella sua dimensione naturale, non sembra possedere niente di positivo, anzi la sua fragilità concorre ad allontanarla da Dio. Ma questa dimensione è riequilibrata dalla dimensione cristiana della grazia di Dio che, nella debolezza della donna, fa risaltare la propria potenza. Si innalza, così, la lode a Dio per le meraviglie che ha operato in Agata perché, più grande è la debolezza e l’incapacità umana, più grande è il trionfo della potenza di Dio che opera in e attraverso questa debolezza18. In questo modo, il cristiano, è aiutato dalla santa a realizzare la propria missione e nello stesso tempo viene illuminato dalla sua realtà di martire 18

Cfr. 2 Cor 12,9.

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consacrata a Dio, con la conseguenza della duplice vittoria propria della vergine-martire. La vergine-martire, infatti, è martire due volte e perciò riceve il premio a doppio titolo: martire nella morte, ma anche martire per la sua vita offerta al Signore. Questa vittoria si ottiene attraverso la resistenza agli assalti del maligno, origine di ogni persecuzione e causa di ogni martirio19. 2.4. Agata modello di vita cristiana e sorella solidale Tra i formulari agatini del Gelasiano e quelli del Gregoriano c’è una certa armonia di intenti: ambedue vogliono rilevare la forza di intercessione di Agata martire che diviene esempio e modello per il cristiano. I temi dell’esemplarità e dell’intercessione sono sfaccettature di un tema più vasto che prende in considerazione il ruolo dei santi nella vita della Chiesa. La venerazione dei santi si colloca nell’ambito del mistero della Chiesa ed è una manifestazione interna della comunione ecclesiale che trascende in Cristo le barriere del tempo e della morte. Il luogo proprio in cui si esplica primariamente il culto dei santi è la comunità cristiana, e prima di tutto la comunità locale in cui quel santo fu storicamente inserito e che, secondo la più antica tradizione, fa memoria dei suoi fratelli santi soprattutto nel contesto della celebrazione eucaristica. Celebrando il memoriale di Cristo, la comunità cristiana partecipa al sacrificio per diventare essa stessa un’offerta gradita a Dio. I santi, infatti, e in modo particolare i martiri, sono coloro che in modo più evidente, più totale, più fedele, hanno corrisposto all’azione dello Spirito Santo che li ha assimilati a Cristo e sono l’espressione più qualificata della Chiesa. In questo contesto il rapporto dei credenti con i santi non si configura soltanto secondo le categorie del ricordo e della memoria, ma anche secondo quelle della presenza e della comunione. I santi, infatti, non sono soltanto figure del passato; sono, invece, persone vive, anche se la loro vita presente non è più nell’ordine terreno, ma è una vita presso Dio. Di conseguenza alla base di un equilibrato culto dei santi si trova la coscien19 Cfr. A. DONGHI, «La memoria dei santi nel messale romano», in Il messale romano del Vaticano II. Orazionale e lezionario, II, ed. F. dell’Oro (Quaderni di Rivista Liturgica, ns. 7), Leumann 1981, 221.

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za della loro solidarietà e della loro comunione con i membri della Chiesa pellegrinante. Una solidarietà che parte dalla comune condizione umana, diventa comunione in Cristo, in forza della stessa fede e dello stesso battesimo che hanno fatto di loro e dei fedeli ancora in vita le membra dello stesso corpo di Cristo; una solidarietà che permane anche dopo la morte diventando ammirazione da parte dei membri della Chiesa pellegrinante e intercessione per essa da parte loro. In questa prospettiva, la beata martyr Agata, grazie al martirio, accesso diretto alla beatitudine, vive la felicità eterna e perciò è in grado di intercedere a favore degli uomini. Il sintagma beata martyr indica contemporaneamente la sua realtà storico-esistenziale e quella eterna indissolubilmente congiunte; tutti i sintagmi che, invece, fanno riferimento all’intercessione indicano la funzione eterna di Agata rispetto agli uomini. Ella, come tutti i santi, è al cospetto di Dio in atteggiamento orante di lode e di supplica per l’assemblea radunata per il culto. Per l’intercessione di Agata, nell’offerta dei divini misteri, si implorano i beni salvifici e soprattutto indulgentiam, clementiam, veniam20, ossia la misericordia che identifica l’amore di Dio, indica la sua compassione, la pietà che Egli mostra nei confronti degli uomini e che cancella e supplisce alla loro debolezza. Da questa debolezza si chiede di essere liberati21 per intercessione della martire. Emerge spesso la consapevolezza che la Chiesa è fatta di fragili creature il cui equilibrio è spezzato quando esse si allontanano dalla giustizia di Dio. Sempre essa è tenuta ad invocare il perdono divino, ma deve soprattutto domandarlo al momento di offrire a Dio i doni del sacrificio. Perciò la comunità radunata per il culto ricorre spesso all’intercessione dei santi, delle sue membra gloriose che hanno raggiunto già la meta del comune cammino. L’assemblea celebrante ricorda a Dio quanto Egli ha operato — proprio in forza della loro partecipazione all’Eucaristia — nella vita dei santi o nella loro passione; gli rende grazie e interpone la loro preghiera perché Dio non abbandoni nel peccato la sua Chiesa pellegrinante. In questo tipo di petizioni è evidente l’influenza della visione della vita dell’uomo medievale che, impastato di filosofia neoplatonica mediata 20 21

Cfr. GeV 832-Co; GrH 131-Al.or; GrH 133-Al.or. Cfr. GrH 129-So: «…patrocinio liberari».

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da sant’Agostino, dà molto spazio alla concezione negativa dell’uomo indebolito dal peccato e bisognoso di salvezza che potrà giungere alla creatura per grazia di Dio, ma anche mediante un itinerario spirituale che, attraverso l’impegno dell’uomo, tende ad eliminare ciò che disturba questo cammino22. Tale impegno non è un fatto privato e individuale, ma coinvolge la Chiesa tutta. Il ricorso all’intercessione dei santi, allora, manifesta l’unità della Chiesa celeste e terrena, santa e peccatrice, e insieme è un gesto di umiltà da parte dei fedeli che sanno di non poter confidare nei propri meriti e nelle proprie forze, ma solo nella grazia di Dio e nell’aiuto dei fratelli da Lui amati, nei quali già risplende luminosa la potenza della grazia e del perdono di Dio. Il perdono viene implorato particolarmente nella celebrazione dell’Eucaristia dove il ricorso alla loro intercessione rende il sacrificio della Chiesa degno di essere accolto benevolmente da Dio, in quanto segno di sincera conversione. L’assemblea radunata annua sollemnitate23, inoltre, percepisce come il dies natalis della martire sia innanzitutto un giorno di gioia24 e sia il tempo privilegiato per chiedere che, oltre ad onorare Agata con il sacro rito25, se ne possa seguire l’esempio di una pia condotta di cui Agata è modello26. 2.5. Agata donna resa forte dall’Eucaristia Celebrare il memoriale di Cristo nella memoria di Agata, è il modo concreto di rendere grazie a Dio perché la sua grazia e la sua salvezza si sono manifestate in questa nostra sorella. Nella celebrazione, il martirio di ieri è oggi segno sicuro dell’accoglienza dei doni eucaristici27. E come il Signore ha accolto la testimonianza della martire, così ora accoglie benevolmente l’offerta del sacrificio eucaristico che la comunità celebrante offre. Certamente per Agata l’Eucaristia28 (mysteria) è stata quella realtà che le ha trasmesso quella forza d’animo che l’ ha resa capace di soppor22 G. LAFONT, Storia teologica della Chiesa. Itinerario e forme teologiche della teologia, Cinisello Balsamo 1997, 89-90. 23 Cfr. GrH 132-Al.or. 24 Cfr. GrH 132-Al.or: «Deus qui nos…laetificas…» 25 Cfr. GrH 132-Al.or.: «(Deus)…da ut quam veneramur offfico…». 26 Cfr. GrH 132-Al.or.: «…etiam piae conversationis sequamur». 27 Cfr. GrH 129-So: « suscipe munera…in sollemnitate…»; GrH 130-Pc: «sempiterna protectione confirment… ». 28 Cfr. GrH 130-Pc.

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tare e superare i supplizi e di affrontare il martirio a difesa della propria fede; allo stesso modo, la ricchezza di questa realtà gustata e vissuta nel giorno memoriale del suo martirio, è, per il credente che guarda a lei, un momento di più forte adesione a Cristo in vista di una piena realizzazione della salvezza e di una vera testimonianza. L’Eucaristia così diventa fonte di coraggio anche per il cristiano che celebra il culto, il quale, come il martire, è nella situazione di dover lottare e per questo ha bisogno di sostegno. L’Eucaristia, dunque, è il momento in cui il credente rinnova il suo impegno a portare frutti di santità ed implora a questo scopo l’aiuto di Dio facendo appello all’intercessione dei santi. 2.6. Agata segno di speranza escatologica L’esperienza cultuale dell’incontro con la martire Agata nell’Eucaristia, manifesta anche una forte tensione escatologica, tipica di ogni esperienza liturgica. Attraverso il colere natalicia29, in alcune orazioni, si viene proiettati esplicitamente verso l’incontro pieno e finale in Dio insieme ad Agata, della quale si celebra la passio30 e della quale si chiede intercessione anche da questo punto di vista. Ciò è espresso sinteticamente in quei sintagmi dove la dinamicità dell’oggi è tutta tesa verso la partecipazione al dono della salvezza31. Celebrando il memoriale di Cristo nella memoria della martire esprimiamo la speranza di essere partecipi della sua medesima sorte con Cristo e grazie a Cristo. Anche questo aspetto è fortemente sottolineato dall’uomo medievale che, influenzato dal pensiero agostiniano, ha una visione in un certo senso “mistica” della vita poiché orienta l’uomo verso la visione divina e l’unione con Dio tracciando un percorso spirituale che tende a questo fine32. Le coordinate essenziali di questo cammino sono prima di tutto la salvezza che porta a considerare la vita umana nella prospettiva del suo esito eterno. Peccato e grazia, inoltre, avranno un posto considerevole in 29

Cfr. GrH 128-Co. Cfr. GrH 128-Co; GrH 133-Al.or. 31 Cfr. GeV 833-So: «…ut nostrae salutis proficiant»; GeV 834-Pc: «…confidimus nobis ad perpetuam uitam profutura»; GrH 128-Co: «…per eius ad te gradiamur, aeterna remedia»; GrH 133-Al.or.: «…ut per ea quae sumpsimus aeterna remedia capiamus». 32 Cfr. LAFONT, Storia teologica della Chiesa, 90. 30

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questa spiritualità, ma c’è anche una visione positiva della salvezza che consiste nella visione di Dio, nella vita eterna o nella beatitudine. Un’altra coordinata è quella delle mediazioni, senza le quali l’accesso alla salvezza non sarebbe possibile. A questo livello si colloca il discorso della mediazione della Chiesa e dei santi. La remissione dei peccati, principio primo della salvezza, ha bisogno della mediazione ecclesiale, ma anche dell’intercessione dei santi che si sono distinti per rettitudine di vita33. 2.7. Agata e Catania Nei testi per la celebrazione eucaristica, il legame di Agata con Catania emerge nei formulari propri per la memoria della traslazione delle reliquie. Quest’aspetto qui e là accennato dalle orazioni34, è particolarmente sottolineato dalle antifone che propongono ora il tema del ritorno di una persona cara nella propria patria e tra la propria gente35, ora il ricordo dei prodigi e delle meraviglie operate dal Signore per intercessione di Agata che ha manifestato il suo potere protettivo nei confronti dei suoi concittadini36. Questo potere protettivo Agata lo ha acquistato per i meriti della suo martirio e della sua verginità, ossia per quelle esperienze che l’hanno associata a Cristo. Anche la scelta delle letture va in questa direzione: come in Israele la presenza di Dio e la sua protezione sono garantiti dal segno del Tempio e dall’arca dell’Alleanza prima e dalla presenza di Gesù che ritorna nella sua città37, così il corpo di Agata è considerato, in un certo senso, un segno della presenza e della protezione di Dio che ha abitato quel corpo santo. L’accostamento di Agata alla figura biblica di Giuditta, invece, la fa emergere come “eroina” che dal cielo continua a protegge la città nella quale è custodito il suo corpo38. 33

Cfr. LAFONT, Storia teologica della Chiesa, 87-88. Cfr. PMAC, 20-Co: «…dum beneficia tua, intercessionibus eius obtenta, anniversaria solemnitate concelebrat; de tantae Martyris protectione pergaudeat»; PMAC, 21-Se: «…urbem beatae Agathae Virginis et Martyris tuae sanguine madentem, una cum grege suo, benigna caritate conserva»; 35 Cfr. MSEC, 27-Intr.; 28-Grad.; 28-Off. 36 Cfr. PMAC, 20-Intr.; 21-Grad.; 21-Off.; 21-ad Comm. 37 Cfr. MSEC, 27-28. 38 Cfr. PMAC, 20-21. 34

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3. Il significato teologico-liturgico degli attributi dell’ideale di santità di Agata e la loro attualità I testi per la messa di sant’Agata che abbiamo analizzato nei capitoli precedenti si caratterizzano proprio per il fatto che, tratteggiando solo a grandi linee la figura di Agata, lanciano un “modello aperto” di santità, imitabile nella sua sostanza anche nell’oggi. Da qui deriva l’esigenza di far emergere l’attualità di questo modello attraverso la riflessione teologica che scaturisce da un’attenta considerazione degli elementi teologici che emergono dagli attributi più ricorrenti con i quali è tratteggiato l’ideale di santità di questa donna nei testi liturgici, i quali, letti nel contesto liturgico-celebrativo in cui sono stati concepiti, in esso trovano una chiave di lettura ermeneutica che ci permetterà di interpretarli: questa chiave è appunto il mistero pasquale. Partendo da questo centro ci siamo sforzati di rileggere in prospettiva teologico-liturgica il significato di quegli attributi che nei testi liturgici caratterizzano in modo essenziale la perenne esemplarità di questa figura di santità femminile che, pur essendo antica, può essere ancora additata all’uomo di oggi come un possibile modello da imitare nel cammino verso la santità. Tralasceremo, di conseguenza, tutti quegli aspetti legati alla devozione popolare, in quanto sposterebbero la nostra attenzione su altri aspetti che ci allontanerebbero dalla nostra prospettiva. Senza avere la pretesa di fare un esaustivo trattato teologico su santità, martirio e verginità, abbiamo, quindi, riflettuto su questi tre attributi alla luce della riflessione teologica odierna, dei principi dottrinali del Vaticano II e di alcuni elementi di teologia liturgica. 3.1. La beatitudine/santità 3.1.1. La santità come dono di grazia e impegno dell’uomo: la dimensione teandrica L’importanza che nei testi eucologici agatini si è data al rilievo dell’iniziativa santificante di Dio e alla sua chiamata per grazia ci ha spinto a prendere in considerazione, come primo aspetto di una riflessione sui fondamenti teologici della santità, il fatto che essa, in tutte le sue forme, è dono di grazia. Per accennare a questa particolare prospettiva39 della 39

Cfr. Santità cristiana: dono di Dio e impegno dell’uomo, ed. E. Ancilli, Roma 1980.

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riflessione sistematica sui temi emersi dalle orazioni esaminate, potrebbe essere di grande aiuto una citazione di Pascal: «A fare di un uomo un santo, deve essere la grazia, e chi ne dubita non sa che cosa sia essere santo ed essere uomo»40. I santi, quindi, «traducono il divino nell’umano, l’eterno nel tempo»41; di conseguenza, un discorso sulla santità cristiana è possibile solo nel contesto del mistero del “Dio Santo”: Dio è l’unico santo e fonte della santità, l’unico che rende santi quelli che condividono la sua vita per godere della sua intimità, per compiere i suoi disegni, per entrare nell’ambito vitale del suo Regno. Possiamo perciò apporre l’aggettivo “santo” ad una determinata realtà solo nella misura in cui essa sta in rapporto con Dio, deriva da Lui, gli appartiene, è totalmente a Lui relazionata. Ogni teologia della santità deve pertanto prendere le mosse dalla dottrina su Dio. Chi domanda che cos’è la santità, in fondo, domanda chi è Dio. In tal modo la questione diventa difficile perché Dio è il mistero assoluto. Tuttavia, nell’intelligenza teologica, il mistero non è qualcosa di totalmente nascosto, bensì un qualcosa in sé inaccessibile portato vicino a noi. Secondo la concezione cristiana, il mistero di Dio è stato dischiuso nella rivelazione42. Qui il mistero del suo essere e quindi anche il mistero della sua santità diventa visibile come amore. In sostanza, l’amore appare come l’essenza della santità. Il suo luogo originario è la Trinità immanente, ed esso è diventato sperimentabile attraverso l’azione economica di questa. Questa prospettiva proietta la santità in una dimensione trinitaria, secondo la quale la santità è appannaggio di Dio e del suo Figlio, Gesù Cristo, «il solo Santo, il solo Signore»43 e frutto dello Spirito. Infatti, la lettera agli Ebrei presenta Cristo come «Colui che santifica» e che chiama fratelli «coloro che sono santificati da lui»44. Quando il fedele, figlio di Dio, partecipa già in pienezza della vita di Dio nel Regno dei cieli, allora è «simile a lui», è santo per la sua comunione di vita con l’unico santo45. In questo modo anche la santità entra nell’orizzonte dell’esperienza dell’uomo e diventa via alla conoscenza di Dio. Essa si realizza storicamen40

B. PASCAL, Pensieri, 654, edd. A. Bussola-R. Tapella, Milano 2000, 383. J. RATZINGER, «Una compagnia sempre reformanda», in http://www. Ratzinger.it/modules.php?name=news&file=article&sid=82 (13.11.2008). 42 Cfr. W. BEINERT, Il culto dei santi oggi, Cinisello Balsamo 1985, 58. 43 Cfr. Act 3,14; 4,27-30. 44 Cfr. Hebr 2,10-11. 45 Cfr. Io 3,2. 41

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te e brilla nell’amore creaturale. Pertanto ovunque in un uomo troviamo santità, essa ci guida a Dio. La santità cristiana, allora, «consiste nell’unione con Cristo, Verbo incarnato e nostro redentore, unico mediatore fra Dio e gli uomini, fonte di ogni grazia e santificazione»46. Lo Spirito Santo, poi, è Dono in persona: è l’evento eterno del donarsi reciproco tra Padre e Figlio. Nella potenza dello Spirito Santo, Cristo è battezzato perché diventi dono totale di se stesso. Egli si riconosce dono del Padre fatto agli uomini peccatori, affinché, grazie alla sua solidarietà redentrice, fossero liberati dalla perdizione e potessero comunicare con la sua grazia santificatrice. Il Figlio, allora, diventa sorgente di santificazione, rivelatore della giustizia “salvante” di Dio. Essendo il «Santo di Dio» in persona, il Figlio santifica (consacra) se stesso, perché siano santificati anche i suoi discepoli. Nello stesso Spirito-Dono, Cristo riconosce gli uomini come donati a Lui dal Padre. La grazia dello Spirito Santo, dunque, è liberante, sanante e santificante, perché inserisce l’uomo nella vita di Cristo che, unto dallo stesso Spirito è consacrato e si consacra affinché anche i suoi discepoli siano consacrati47. Così il concetto si santità si avvicina a quello di “sacrificio”: dono di sé per i fratelli, per i peccatori. Gesù è l’adoratore perfetto “in Spirito e verità” e la santificazione di coloro che appartengono a Lui significa un nuovo modo di essere partecipi dell’amore-dono del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. Ne deriva anche un nuovo modo di agire: come Gesù manifesta il Padre compiendo le sue opere, così anche i suoi discepoli manifesteranno il Figlio al mondo facendo le stesse opere nello stesso Spirito. Sta qui l’impegno dell’uomo a collaborare al dono ricevuto: in Cristo e santificato da Cristo, il cristiano sarà partecipe della sua missione sanante, liberante e santificante. Battezzandoli nel fuoco del suo amore e nello Spirito Santo, Cristo introduce i suoi discepoli nel suo mistero pasquale e li santifica, perché anche loro partecipino con Lui all’evento “spirituale” come dono capace di ridonarli con lui alla gloria del Padre e nel servizio dei fratelli.

46 47

P. MOLINARI, «Santo», in NDS, 1370. Cfr. Io 17,17-19.

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Il fatto di essere santificati dallo Spirito, quindi, ci porta innanzitutto a considerare la santità come frutto dello Spirito Santo; essa, infatti, non è frutto dello sforzo umano di cui vantarsi, ma “dono” che spinge ad attribuire tutto il bene alla sua sorgente. In altre parole, possiamo dire che la santità, è il dono di Dio al suo popolo48, il dono di Cristo alla sua Chiesa e a ciascuno dei suoi membri49 perché «siano di lode al Creatore e Redentore»50. Santificati e quindi resi partecipi dell’amore e della missione di Cristo, i discepoli faranno tutto a lode di Dio. Vista da questa prospettiva la santità risulta essere, innanzitutto, vocazione dall’alto che non si riduce ad una mera imitazione di Cristo, come quella in forza della quale un artista cerca di riprodurre i lineamenti del modello, ma, afferrati dallo Spirito di Cristo e partecipi della stessa vita e missione di Lui, i discepoli possono dire con l’Apostolo: «Vivo autem, jam non ego: vivit vero in me Christus. Quod autem nunc vivo in carne: in fide vivo Filii Dei, qui dilexit me, et tradidit semetipsum pro me. Non abjicio gratiam Dei. Si enim per legem justitia, ergo gratis Christus mortuus est»51. I santi invitano coloro che guardano ad essi a vivere autenticamente la comune vocazione alla santità e a riconoscere con memoria grata i doni di Dio. Questo aspetto della santità è stato recepito dal Vaticano II52 là dove si afferma che non solo la Chiesa in sé è santa, ma che, al contempo, tutti i suoi membri sono chiamati alla santità53. Di conseguenza «la santità non è più considerata in un’ottica ascetico-morale, in quanto legata ad uno stato di vita nella Chiesa, ma come dimensione di tutta la Chiesa, santificata da Cristo e abitata dallo Spirito Santo»54. Da ciò si evince che la santità è, ad un tempo un dono che ogni cristiano riceve nel battesimo ed una vocazione sempre esigente. Questo dono della santità dato da Cristo a tutti i battezzati deve essere da essi mantenuto, perfezionato55 e personalizzato.

48

Cfr. Ex 19,5-6. Cfr. 1 Pt 2,9. 50 Cfr. LG 31. 51 Cfr. Gal 2,20-21. 52 Cfr. P. MOLINARI, «La vocazione di tutti i cristiani alla santità. Un importante tema conciliare», Civiltà Cattolica 115 (1964) 542-550. 53 Cfr. LG 39. 54 M. TORCIVIA, «Santità e martyria nel Vaticano II», Synaxis 23 (2005) 9. 55 Cfr. LG 40. 49

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La dimensione vocazionale della santità assume una certa rilevanza teologica che lascia emergere la necessità di una santità incarnata, ancorata cioè alla vicenda esistenziale propria di ciascun fedele: «L’identikit del santo, cioè, non deve essere valido per tutti indistintamente: più dell’icona o del cliché della santità esiste il santo, con una fisionomia propria della vita che è sua propria ed inconfondibile. Non che sia impossibile ritrovare elementi comuni nella vita dei santi, ma l’invito che possiamo raccogliere dal Vaticano II consiste nel sottolineare la necessità di disegnare i tratti della santità di ciascuno, secondo i lineamenti del proprio volto. La santità, in una parola, non può essere cercata nella fuga dal mondo, intendendo con questo il rifiuto della propria storia, ma, al contrario, essa va vissuta proprio lì dentro nella consapevolezza che come l’offerta della comunione trinitaria, così anche la risposta accogliente dell’uomo passa attraverso la storia»56.

Da qui la necessità di considerare la dimensione storica dei santi. Tutti i santi hanno avuto in comune la vocazione a manifestare l’amore e la bontà di Dio, ma l’attuazione di questa vocazione varia da una figura all’altra. Di fronte alla storia personale di ciascuno cadono tutti gli stereotipi e i cliché. Tali differenze, inoltre, non riguardano solo la loro personalità storica, ma anche il ruolo che essi svolgono nell’attuazione storica della santità. 3.1.2. La santità cristiana come «sequela Christi» nello Spirito: la dimensione cristologica e pneumatologica Cristo è il Santo57 di Dio e in quanto tale è il Santo in misura perfetta. Egli è pienamente uomo e pienamente Dio e in Lui il creatore e la creatura si incontrano senza dissolversi l’uno nell’altro. In Lui, perciò, l’amore di Dio riceve una risposta perfetta e la creazione viene consacrata. Tale consacrazione della creazione dimostra come la santità sia e rimanga sì sempre relazionale e partecipativa, ma anche come la relazione con Dio e la partecipazione alla santità di Dio diventi una qualità dell’uomo. Gesù Cristo, quindi, diventa la misura e la base di ogni santità terrena. Questa o porta i tratti della sua santità o non esiste; essa diventa pienamente

56

C. ZUCCARO, «Santità», in Dizionario di Teologia, edd. G. Barbaglio-G. Goff-S. Dianich, Cinisello Balsamo 2002, 1467-1468. 57 Marc 1,24.

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quel che deve essere solo e sempre là dove accoglie e concretizza consapevolmente tale fisionomia58. La santità umana è perciò sequela di Cristo e testimonianza di Cristo59. La sequela, infatti, è la categoria evangelica nella quale si compendia la vita del discepolo. In questa prospettiva l’insegnamento di Gesù sulla santità si concentra nell’ideale della perfezione morale, che il discepolo deve perseguire per conformarsi alla santità stessa di Dio: «Estote ergo vos perfecti, sicut et Pater vester cælestis perfectus est»60. Il fondamento della morale cristiana è seguire Cristo61. Di conseguenza, la morale di Gesù è una morale esigente che svincola l’uomo da ogni asservimento sacrale e da ogni potere terreno ed invita a recuperare il senso profondo della santità, insistendo sulla giustizia e sulla perfezione, per conformare l’uomo alla santità stessa di Dio, che consiste essenzialmente nella sua bontà e nella sua misericordia. Essenzialmente questa sequela si presenta come: «…movimento di risposta ad un appello che richiede un distacco da sé per poter raggiungere la promessa inscritta nell’appello stesso. Essa è un “esodo”, alla cui origine c’è una chiamata imperativa di Gesù a cui è associata una promessa, raggiungibile esclusivamente attraverso la sequela stessa…Tuttavia colui che chiama e ciò a cui egli chiama non sono realtà distinte: la sequela significa camminare con Gesù e in ciò consiste sia la forma dell’esistenza del discepolo, sia la promessa stessa. L’esodo che Gesù richiede ai suoi …è un esodo verso Gesù stesso: è lui la promessa che però non sta semplicemente davanti al discepolo, come la terra promessa, ma è contemporaneamente presente accanto al discepolo»62.

Un aspetto essenziale della sequela, un suo presupposto necessario è il fatto che lo stare con Gesù è il suo contenuto e la forma; alla sua luce debbono essere valutate anche le richieste di distacco che Lui formula a più riprese e che Egli pone come condizione per seguirlo. Gesù esige dai discepoli il distacco da tutto, chiedendo loro di rinnegare se stessi e prendere la propria croce, accogliendo la fatica e il disagio del viaggio, il senso di inutilità e le frustrazioni, l’incomprensione e le opposizioni. Un tale “si” al distacco da sé non è, ovviamente, inserito in un progetto di umano 58

Cfr. BEINERT, Il culto dei santi oggi, 62-63. Cfr. BEINERT, Il culto dei santi oggi, 64. 60 Matth 5, 48. 61 Cfr. VS 19. 62 S. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello (Etica teologica 43), Bologna 2007, 340. 59

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perfezionamento ma è il “si” continuamente detto al Padre che, mediante lo Spirito, attira verso il Cristo nel suo dono pasquale63. Questo tipo di sequela è possibile ed attuabile solo a partire dalla Pasqua di Cristo e si configura come libera disponibilità al mistero pasquale nella sua pienezza, in cui la sofferenza è sempre in funzione dell’amore64. In questa prospettiva il santo testimonia il modello perfetto di vita in Cristo che ha come fondamento e come condizione primaria la rinuncia a tutto quanto rappresenti un ostacolo al servizio di Dio per unirsi a Lui attraverso l’esercizio della carità. Possiamo allora dire che la dottrina di Gesù sulla santità si risolve nel comandamento dell’amore; anzi possiamo dire che è un modo concreto di riscrivere questo comandamento. Di conseguenza, la santità cristiana, ossia l’aspirazione profonda dell’uomo all’incontro e alla comunione con Dio, passa attraverso la sequela Christi nella quale appare chiara contemporaneamente la vocazione alla quale Dio chiama l’essere umano, ma anche la risposta perfetta che esso deve offrire all’iniziativa divina. Benché percepita come valore etico, che implica lo sforzo dell’uomo di conformarsi alle esigenze del messaggio evangelico proclamato da Cristo, il concetto di santità, espresso in questi termini, conserva la valenza di dono, espressione della benevolenza misericordiosa di Dio che vuole comunicare la sua amicizia e la sua vita al credente. Il sommo amore di Dio verso l’umanità peccatrice, inoltre, si manifesta nell’oblazione volontaria di Gesù sulla croce. Dal fianco squarciato di Cristo scaturisce lo Spirito Santo, la sorgente inesauribile della vera santità, che genera una nuova comunità e rende partecipi i discepoli al flusso beatificante della vita trinitaria, resa immanente in ogni credente. In questo modo il santo, nella misura in cui segue Cristo e testimonia la sua piena fedeltà alla volontà di Dio, incarna un modello che attualizza e rende viva ed efficace la presenza di Cristo stesso nel mondo. Il cristiano, allora, per raggiungere la vera santità deve impegnarsi a tradurre nella sua vita la sequela Christi, incentrata sul comandamento dell’amore. Le radici cristologiche della santità umana fanno, quindi, dell’individuo santo l’esegesi di Gesù, il commento vivo del Vangelo.

63 64

Cfr. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 341. Cfr. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 343.

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Questo fondamento cristologico della santità è stato posto così anche storicamente. Quando i martiri furono fatti per primi oggetto d’una venerazione particolare nella Chiesa, ciò non avvenne perché essi avevano dato eroicamente la loro vita per Cristo - quest’idea è successiva -, ma perché lo avevano seguito con una fedeltà assoluta, anche al costo della vita65. In questa luce anche il martirio è sequela Christi e lo è in forma eminente perché è testimonianza mediante il dono di sé reso possibile da una radicale accoglienza del mistero pasquale che si concretizza nella sequela vissuta come offerta radicale della vita, come dono supremo di sé da parte di un credente che si è radicalmente e liberamente lasciato attirare dalla croce. In questo contesto, il martirio si qualifica come restituzione del dono di grazia ricevuto e si manifesta, di conseguenza, come una risposta, anzi come la risposta per eccellenza al dono di Cristo. All’offerta di Cristo, che è salvezza, deve corrispondere l’offerta del discepolo che è simultaneamente accoglienza e restituzione. Tutto, poi, converge nella glorificazione del Padre che avviene nello Spirito. Il martirio, dunque, è culmine della sequela Christi e compimento della trasformazione che la vita del discepolo subisce per mezzo della sua partecipazione al mistero pasquale, è la compiuta realizzazione di quell’esodo prima accennato «nel quale l’ “essere-con” diventa “essere come”, la comunione di vita diventa conformità ed imitazione»66. Dio si compiace nei suoi santi perché in essi vede l’immagine del suo Cristo; la santità dell’uomo consiste nella sua perfetta unione con Cristo67, nell’imitazione del suo Signore e nel riprodurre, in se stesso, in modo vivo e significativo, il mistero pasquale di Cristo. Ci rimane da mettere in evidenza la modalità attraverso cui un uomo può diventare testimone santo di Cristo. La risposta è semplice: l’uomo diventa testimone di Cristo entrando in comunione con Lui, comunione che è anzitutto e soprattutto unione vitale e personale con Lui. Tutto questo avviene per mezzo dello Spirito Santo. Come Gesù deve la propria esistenza e la propria missione allo Spirito, così il cristiano vive dello Spirito e nello Spirito, che gli è stato dato come Spirito di Cristo. Lo Spirito è il principio comunicatore dell’amore santificante di Dio e, quin65

BEINERT, Il culto dei santi oggi, 64. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 340. 67 Cfr. LG 50. 66

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di, contemporaneamente colui che opera la trasformazione della creazione santificandola. Questo getta nuova luce sulla natura della santità. Lo Spirito appare come il dono dell’amore, che è Dio e che si comunica intimamente all’uomo come grazia santificante. Egli è “Dio nell’uomo” e in quanto tale motore della sua santità, che si attua come amore. In Lui l’uomo viene unito al Padre mediante Gesù Cristo e la grazia si inserisce in qualsiasi situazione. In questo modo l’uomo, ovunque si apre all’amore dello Spirito, viene inserito nella circolazione del corpo di Cristo e diventa santo. Dato che i doni e le grazie dello Spirito e l’apertura umana alla sua azione sono diversi, diversa è anche la realizzazione della santità sia sul piano oggettivo che su quello oggettivo. Di conseguenza è pensabile anche una “santità eroica”, cioè quella forma in cui l’uomo segnato dalla grazia si rimette senza compromessi allo Spirito di Dio e conforma pienamente la propria volontà a quella divina in Cristo68. Concludendo possiamo dire che la santità cristiana appare come il dono supremo di Dio all’umanità peccatrice, redenta dal sangue di Cristo, santificata dallo Spirito Santo, ma anche il risultato dell’impegno dell’uomo per corrispondere alla sua vocazione cristiana, che gli consente di entrare in comunione con la vita divina. I santi, allora, sono immagini realizzate, ciascuna secondo il proprio disegno, di Colui che è il Primogenito, al quale tutti si devono conformare69. Il mistero pasquale di Cristo, così, risplende nei santi e la perseverante azione redentrice e santificatrice di Cristo rimane convalidata, soprattutto nella liturgia della Chiesa, mediante l’esemplarità della sua multiforme grazia che risplende in essi. Lo Spirito Santo, poi, è l’iconografo interiore della santità o il plasmatore dell’immagine di Cristo nei santi. Celebrando i santi ricordiamo, quindi, anche l’opera incessante dello Spirito Santo. Ogni celebrazione, perciò, si riassume in una glorificazione del Padre, per Cristo nello Spirito Santo, in ogni fratello o sorella giunti alla gloria, segnati dal dono della santità che è il sigillo trinitario, ossia la grazia efficace dell’azione divina nell’uomo.

68 69

BEINERT, Il culto dei santi oggi, 65-67. Cfr. Cfr. Rom 8, 29.

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3.1.3. Il mistero della Chiesa nel culto dei santi: la dimensione ecclesiologica ed escatologica La santità è uno degli attributi della Chiesa, la quale, nonostante il fatto che la realtà effettiva tante volte sembra contraddire questa definizione a causa della sua peccaminosità, resta veramente santa. Il primo ed ultimo fondamento di tale sua qualità è la relazione col Dio Trinitario, fonte di ogni santità. La Chiesa si realizza nella presenza di Dio e nella presenza del Cristo che dona lo Spirito. Questa realtà non è unilaterale, ma è presenza di Dio e dell’uomo in Alleanza; è presenza simultanea, dunque, di due realtà che sembrano escludersi a vicenda, ma che in realtà si attraggono a vicenda. E per questo la Chiesa è un mistero. La Chiesa è precisamente questa comunione di Dio con l’uomo realizzata in Cristo70. Con la sua attività storico-salvifica, Dio santifica concretamente il mondo e l’umanità mediante il suo popolo santo, che in quest’ora storica è la Chiesa di Cristo. La Chiesa è santa perché è lo strumento con cui Dio realizza la propria volontà. Questa qualità le si addice effettivamente e realmente, perché essa è una comunità di persone, che nel battesimo ricevono la giustificazione e così partecipano ai doni santi di Dio (sancta) e diventano la comunione degli uomini santi (sancti)71. In poche parole: la Chiesa è santa perché in essa Dio diventa presente nella storia mediante Cristo nello Spirito. Tutto ciò diviene maggiormente visibile nella liturgia, la quale fa presente il Cristo che si comunica agli uomini. Perciò la presenza del Cristo esige e suppone la presenza degli uomini che partecipano alla liturgia; di uomini ancora mortali, ma anche di coloro che sono già per sempre con lui nella gloria. Nella liturgia tutta la Chiesa si fa presente e si esprime quella koinonia che unisce il cielo e la terra, gli uomini a Dio72. L’unione con i santi e il loro culto, congiunge il credente a Cristo «dal quale, come da fonte e capo, promana ogni grazia» santificatrice; essi sono i suoi amici e coeredi. «Ogni nostra fedele attestazione di amore fatta ai santi, per sua natura tende e termina a Cristo che è la corona di tutti i santi e per Lui a Dio, che è mirabile nei suoi santi e in essi è glorificato»73. 70

Cfr. D. BARSOTTI, Il mistero della Chiesa nella Liturgia, Cinisello Balsamo 22004, 91-

92. 71

BEINERT, Il culto dei santi oggi, 70-71. Cfr. BARSOTTI, Il mistero della Chiesa nella Liturgia, 93. 73 Cfr. LG 50. 72

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Il culto dei santi, allora, trova il suo fondamento nella verità della comunione dei santi. Si tratta di quella comunione viva che esiste, nell’unico Corpo del Signore, tra i pellegrini e coloro che si addormentano nella pace di Cristo e che ora godono eternamente nel Regno glorioso. Di fatti, uno degli aspetti essenziali della Chiesa è la presenza dei san74 ti . Certamente il culto reso dalla comunità ecclesiale ai santi non appartiene alla sostanza della fede, ma ne è un imprescindibile corollario: è Dio l’unico dispensatore di ogni grazia e la fede nell’intercessione dei santi è solo una delle forme della stessa fede in Dio. Lo scopo ultimo del culto dei santi, in fin dei conti, è la nostra personale santificazione: solo in questa prospettiva trova efficacia la loro memoria e la loro celebrazione; essi sono presenti nella liturgia, prima di tutto come nostri modelli e come stimolo all’imitazione delle loro virtù. La LG esprime tale concetto quando afferma che: «In variis vitae generibus et officiis una sanctitas excolitur ab omnibus, qui a Spiritu Dei aguntur, atque voci Patris oboedientes Deumque Patrem in spiritu et veritate adorantes, Christum pauperem, humilem, et crucem baiulantem sequuntur, ut gloriae Eius mereantur esse consortes. Unusquisque vero secundum propria dona et munera per viam fidei vivae, quae spem excitat et per caritatem operatur, incunctanter incedere debet…. Omnes igitur christifideles in vitae suae conditionibus, officiis vel circumstantiis, et per illa omnia, in dies magis sanctificabuntur, si cuncta e manu Patris coelestis cum fide suscipiunt et voluntati divinae cooperantur, caritatem qua Deus dilexit mundum in ipso temporali servitio omnibus manifestando»75.

L’esemplarità dei santi celebrati dalla comunità cristiana è orientata, quindi, all’imitazione, ossia all’unione e conformazione a Cristo. Ma cosa significa imitare un santo del passato nell’oggi? Imitare un santo, come abbiamo visto, non significa copiare sic simpliciter e meccanicamente la sua vita, magari svoltasi in un contesto socioculturale ormai superato, ma cogliere l’originalità e la straordinarietà dell’amore che egli ha avuto per Cristo e incarnarlo nella vita presente. Da qui sorge la necessità di ripensare il ruolo dei santi per la Chiesa di oggi, andando magari oltre il loro tradizionale ruolo didattico-pedagogi-

74 75

Cfr. MOLINARI, «Santo», 1380-1385. LG 41.

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co mettendosi alla ricerca del senso più profondo della loro presenza nella Chiesa e del loro culto. Secondo la dottrina tradizionale i santi sono per il cristiano un modello, un esempio e maestri di vita cristiana che devono, in un certo senso, incitare a praticare le virtù da essi incarnate o, meglio, illustrate dagli agiografi con l’aiuto della loro vita. La vita dei santi è così diventata la scuola della moralità. Questa scuola, però, tante volte non ha avuto successo. Il necessario ancoraggio storico delle figure sante impone qualcosa di più della semplice imitazione. Per comprendere quello che qui si vuole affermare facciamo riferimento a ciò che Paolo VI ha detto nella Marialis cultus in riferimento alla Vergine Maria ma che può valere anche per tutti santi: «Imprimis Virgo Maria semper ab Ecclesia propositi est christifidelium imitationi non plane ob rationem vitae, quam duxit multoque minus ob condiciones sociales-doctrinales, in quibus eadem eius vita sese explicavit, nunc fere ubique obsoletas, sed quia, in ipsius definita vitae condicione, ea totaliter et officii conscia voluntati Dei adhaesit (cf Lc 1, 38)»76.

L’essenza della santità, da questo punto di vista, significa adesione “totale” e “responsabile” alla volontà di Dio che costituisce e si concretizza in maniera diversa in ogni tempo, in ogni luogo e a seconda delle successive condizioni di esistenza. In conseguenza di ciò, i santi possono essere dei modelli solo in misura limitata, però hanno il compito irrinunciabile di essere degli ideali per la Chiesa. Stando a questo modo di considerare l’imitazione dei santi, l’atteggiamento del fedele non deve essere quello di guardare solo a come loro si sono comportati nel loro tempo, ma anche il chiedersi che cosa loro significano per la sequela di Cristo qui ed ora della Chiesa. Solo così essi possono dare delle indicazioni capaci di aiutare il credente di oggi a concretizzare in maniera più precisa e chiara quel profilo cristiano a cui è chiamato. In tal modo essi diventano motori che continuano incessantemente a girare al di là del loro tempo e contribuiscono a proiettare la Chiesa nell’eschaton. L’esemplarità e l’imitazione, inoltre, conducono il cristiano verso quel processo di divinizzazione che esprime la partecipazione dei discepoli al76

MC 35.

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la filiazione divina di Gesù, l’accesso alla vita e alla comunione trinitaria. È nella celebrazione liturgica che il cristiano, sperimentando i dinamismi trinitari della santificazione, partecipa della stessa santità di Dio attraverso un processo di assimilazione alla vita divina mediante la partecipazione al mistero celebrato. La dimensione ecclesiale della santità, poi, ci porta a prendere in considerazione anche la sua dimensione escatologica e la loro presenza nella liturgia per mezzo della loro intercessione. Di fatto nella loro unione con Cristo essi vivono la perfetta carità che non può dividerli dai fedeli ancora in vita, poiché la morte non è più forte dell’amore. Nell’amore essi sono vicini ai fedeli ancora in cammino, li seguono, pregano per loro, ottengono da Dio l’aiuto di poterli un giorno raggiungere nella gloria e di essere uniti con loro già ora in una medesima comunione di amore77. Il culto dei santi ci unisce alla Chiesa celeste ed è testimonianza del nostro destino finale78. Il santo, infatti, è il progetto completo e perfetto dell’uomo, creato secondo la mente del Padre, restaurato dal Figlio, portato alla perfezione dallo Spirito Santo. Questa è la meta alla quale aspira ogni figlio con la creazione tutta, liberata finalmente dalla schiavitù del maligno. Di questo cielo nuovo e di questa terra nuova già godono i santi per la loro incorporazione al Risorto; con il loro esempio e la loro intercessione attirano i credenti ad essi e li conducono, in forza della comunione con loro, nell’unico corpo del Signore. Il santo richiama, quindi, l’indole escatologica della Chiesa. Egli non si limita a tenere uno specchio davanti agli occhi della Chiesa del suo tempo, ma nel risultato della sua vita mette a frutto in maniera permanente per tutta la storia successiva un frammento della realizzazione del Vangelo79. In questo modo il mistero della Chiesa nella liturgia implica un entrare degli uomini viatori nel Regno di Dio, un entrare in questa realtà ultima di una comunione eterna di Dio con gli uomini. Così la Chiesa terrestre è come il misterioso ingresso del mondo visibile nel mondo invisibile; è la misteriosa possibilità per gli uomini di entrare nel mondo divino; 77

BARSOTTI, Il mistero della Chiesa nella Liturgia, 94. Cfr. LG 50-51. 79 Cfr. BEINERT, Il culto dei santi oggi, 77. 78

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è la Pasqua: il passaggio dalla realtà visibile alla realtà invisibile, dalla realtà presente alla realtà futura. Perciò la presenza della Chiesa che si realizza nel mistero liturgico, dopo aver fatto presente Dio, fa presente, anche i santi perché in essi Dio si è comunicato. È questo uno dei tratti caratteristici del cristianesimo: nella liturgia i santi sono sempre associati alla preghiera di coloro che vivono ancora quaggiù. Questa prospettiva, quindi, va oltre tutto ciò che è stato detto sull’intercessione e l’esemplarità dei santi. Nella liturgia, infatti, i santi non sono soltanto degli intercessori, tanto meno solo dei modelli da imitare, ma sono presenti e fanno in modo che il mistero della Chiesa che la liturgia manifesta non è dato solo dall’assemblea visibile, ma attraverso di essa, è tutta la Chiesa che si fa presente. Con Cristo si fanno presenti anche i santi che sono un solo corpo con Lui. È presente Dio che si comunica, ma Cristo non è realmente presente se non è presente con Lui un’umanità, cui Egli si è veramente comunicato80. 3.1.4. La dimensione antropologica Per sua natura l’uomo cerca di avvicinarsi a Dio attraverso mediazioni umane e sempre ha cercato con ansia l’intermediario umano e il modello nella sua relazione con Dio. La fede cristiana ci fa confessare che «unus Deus, unus et mediator Dei et hominum homo Christus Jesus»81. Egli è l’immagine perfetta di Dio e il modello perfetto che dobbiamo imitare. Il culto liturgico dei santi, quindi, quale elemento costitutivo primario ed essenziale, comporta una dimensione esistenziale che consiste nella tendenza da parte dell’uomo di imitare l’ideale di santità da essi incarnato tenendo presente, comunque, che ogni santo, pur essendo imitatore dell’unico modello di santità che è Cristo, è originale, unico ed irripetibile nella sua santità. Imitare i santi, quindi, non significa copiare materialmente la loro vita, cercando di fare esattamente ciò che loro hanno fatto nel particolare contesto storico e culturale in cui essi hanno vissuto; vuol dire, invece, vivere in modo personale e originale la fede cristiana come hanno fatto lo-

80 81

BARSOTTI, Il mistero della Chiesa nella Liturgia, 96-102. 1 Tim 2,5.

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ro, conservando una certa originalità nel modo di vivere la fede nel qui e nell’ora delle concrete circostanze della vita presente. La Chiesa ha sempre presentato ai fedeli quegli esempi di santità, attraenti per la loro intercessione davanti al Padre, stimolanti della vocazione comune di tutti i fedeli alla santità, e li ha adattati alle diverse epoche, culture, mentalità e situazioni, al fine di trovare e proporre modelli accessibili dell’amicizia con Dio, della sequela di Gesù e della docilità dello Spirito. Dimensione antropologica della santità e del culto ai santi, inoltre, significa anche prendere in considerazione il contributo culturale che essi hanno dato. Fin dall’antichità, infatti, le figure dei santi hanno manifestato la vivacità delle Chiese locali alle quali sono appartenuti, testimoniando l’onnipotente presenza del Redentore mediante i frutti della fede, della speranza e della carità di tanti uomini e donne che hanno seguito Cristo nelle varie forme della vocazione cristiana82. Qui emerge l’aspetto antropologico del culto dei santi che offre la contemplazione di tanti volti umani concreti di ogni popolo, lingua e nazione che hanno incarnato nella propria esistenza e nel contesto storico, geografico e culturale il mistero della grazia santificatrice. Partendo da questa considerazione il Concilio Vaticano II chiese che una «accurata investigazione storica, teologica e pastorale»83 suffragasse la proposta del culto dei santi. In questa prospettiva trova luce il primo capitolo della presente ricerca, dove ci siamo sforzati di ricostruire il contesto storico della vicenda di Agata, accorgendoci che la verità storica ricercata per motivi teologici e pastorali porta molti benefici alla presentazione culturale dei santi e fa di loro dei personaggi storicamente significativi, inseriti dentro la vita delle loro Chiese, della società in cui hanno vissuto e del loro tempo. Studiati in questo modo, i santi non interessano più solo la Chiesa e i credenti, ma tutti coloro che si occupano di storia, di cultura, di vita civile, di pedagogia, ecc. In tale maniera, la missione di queste straordinarie figure continua in modo diverso, ma comunque efficace per il bene dell’uomo di oggi. La santità, dunque, tocca anche la cultura perché essi hanno permesso che si creassero dei nuovi modelli culturali e nuovi sviluppi di umanità nel cammino della storia. 82 83

Cfr. TMA 37. Cfr. SC 23.

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Da questo punto di vista, a ragione Giovanni Paolo II diceva che quella dei santi «hereditas est quaedam quae non est dissipanda, eademque est usque grati animi officio committenda atque imitationis renovato proposito demandanda»84. I santi sono come dei fari che hanno indicato agli uomini le possibilità di cui l’essere umano dispone. Per questo sono interessanti anche culturalmente, indipendentemente dall’approccio teologico o religioso con cui li si accosti. 3.1.5. La santità in prospettiva teologico-liturgica Alla luce di alcuni testi fondamentali del Vaticano II, possiamo offrire alcune linee di teologia liturgica che illustrano il senso del culto dei santi nella liturgia della Chiesa e stanno, di conseguenza, anche alla base dei testi eucologici che noi abbiamo studiato. La coscienza della celebrazione del mistero di Cristo nelle feste dei santi c’è sempre stata nella Chiesa; è stata espressa dai testi eucologici antichi ed è stata anche esplicitata dal Vaticano II. Il Concilio, infatti, parlando dell’aspetto escatologico della liturgia, ricorda la venerazione dei santi con testi ispirati al Canone Romano: «…memoriam Sanctorum venerantes partem aliquam et societatem cum iis speramus »85. Un po’ più avanti, lo stesso Concilio, abbozza una teologia di questa celebrazione con le seguenti parole: «Memorias insuper Martyrum aliorumque Sanctorum, qui per multiformem Dei gratiam ad perfectionem provecti, atque aeternam iam adepti salutem, Deo in caelis laudem perfectam decantant ac pro nobis intercedunt, circulo anni inseruit Ecclesia. In Sanctorum enim nataliciis praedicat paschale mysterium in Sanctis cum Christo compassis et conglorificatis, et fidelibus exempla eorum proponit, omnes per Christum ad Patrem trahentia, eorumque meritis Dei beneficia impetrat»86.

La Chiesa, quindi, celebra il mistero di Cristo nell’anno liturgico anche facendo memoria dei santi che hanno vissuto in pienezza la vita cristiana a partire dalla loro incorporazione battesimale al Signore Gesù e sotto la guida dello Spirito. Essi riflettono pure la multiforme grazia di Cristo e la varia ricchezza di aspetti dell’unica santità evangelica. 84

NMI 7. SC 8. 86 SC 104. 85

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In realtà la santità di tutti coloro che la Chiesa commemora nell’anno liturgico è la santità stessa del Padre, di Cristo e della sua Sposa; tale celebrazione è anche una continua esperienza e conferma della storia della salvezza che continua nel tempo attraverso l’efficacia delle parole e delle opere di Dio che hanno acquistato nei santi un’intensità particolare. Questa santità, quindi, appartiene alle mirabili opere che il Signore continua a realizzare nella Chiesa. Infine la LG, parlando dell’indole escatologica della Chiesa pellegrina, ricorda la comunione con i santi che si realizza nella liturgia, la loro intercessione per noi e l’esempio delle loro virtù87. Per una sintetica esposizione sul tema della santità vista in chiave teologico-liturgica, alla luce di alcuni autorevoli contributi sull’argomento88 e di alcune considerazioni personali scaturite dallo studio condotto, puntualizziamo adesso alcuni concetti che riguardano i fondamenti del culto dei santi. Il culto dei santi è una forma di culto a Dio perché con l’onore che il credente tributa ad un santo onora Dio. Principio e fine di ogni atto liturgico è Dio: lui solo è il Santo, cui spettano ogni onore e adorazione, che assumono la forma di amore di Dio, perché l’essenza della sua santità è l’amore89. Amore di Dio e amore del prossimo costituiscono un’unità distinta eppure molto stretta. Essa, tuttavia, è così intima che Dio può rendersi presente direttamente nel prossimo. I cristiani hanno sempre avuto coscienza di questi rapporti. Non esiste confessione cristiana o liturgia cristiana, che nelle sue preghiere non interceda per i vivi e per i defunti. Questo però ha senso solo se, in virtù della comunione della salvezza, gli uomini possono mediare gli uni in favore degli altri davanti a Dio in un modo che non contraddice all’unica mediazione del Cristo. La venerazione dei santi, così, non offende per sua natura l’onore e la venerazione di Dio, ma li aumenta e li perfeziona. Come l’amore tra gli uomini non significa mai in linea di principio una diminuzione dell’amore per Dio, bensì 87

Cfr. LG 50. Cfr. F. ULRICH, «L’essenza di una santità cristiana», Communio 1 (1972) 309-329; MOLINARI, «Santo», 1369-1385; G. MOIOLI, «La santità e il santo cristiano: il problema teologico», La Scuola Cattolica 109 (1981) 353-374; P. BEINERT, Il culto dei santi oggi, Cinisello Balsamo 1985; P. JOUNEL, «Culto dei santi», in DL, 1818-1836; BARSOTTI, Il mistero della Chiesa nella liturgia, 91-102; La Chiesa madre di santi, ed. Movimento ProSanctitate, Roma 2008. 89 BEINERT, Il culto dei santi oggi, 86. 88

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nell’altro si ama necessariamente anche Dio, così l’onore che il credente tributa ai santi non è altro che culto a Dio. Ambedue si compenetrano senza tuttavia essere una cosa sola. Così possiamo distinguere l’adorazione di Dio (latria) dal culto dei santi (dulia), ma non possiamo venerare i santi senza adorare Dio90. La santità dei santi, poi, è la concretizzazione dell’amore di Dio in un determinato individuo. Valgono in questo caso le parole di Agostino: «Ipse enim sine illis Deus est; illi sine illo quid sunt?»91. Per questi motivi il credente non può ignorare la loro presenza e cercare di amare Dio senza di loro: essi sono il frutto della redenzione di Cristo, un modo storico di accesso e di incontro fornitoci dall’unica mediazione del Signore. Dio va cercato là dove vuole farsi trovare. Egli ha santificato i santi per mostrare tutta la concretezza e la realtà della salvezza, che può verificarsi e si verifica sempre e, di fatto, ovunque e in qualsiasi circostanza. Il santo è l’indizio della vicinanza di Dio nel mondo; l’incontro col santo è un invito ad incontrare Dio stesso perché egli non diventa un’istanza intermedia ma un impulso. Il santo non è un modello stereotipico ma una stella polare dell’amore di Dio e del prossimo. Guardare ai santi significa perciò guardare a Cristo che nei santi viene incontro all’uomo e lo guida al Padre. Pertanto l’incontro con Dio avviene legittimamente nell’incontro con i santi; in loro la salvezza si è realmente attuata. Dobbiamo però anche dire che il culto dei santi è importante, ma non necessario alla salvezza: «La recezione della salvezza comporta sicuramente ch’essa venga accolta nella sua forma concreta, cioè nella forma della mediazione per Cristo e in Cristo in seno alla comunità salvifica. Chi pertanto conosce l’azione salvifica di Dio e l’afferma espressamente e diventa quindi cristiano mediante la fede, deve rivolgersi sempre e espressamente a Dio “per Gesù Cristo” e in lui lodarlo, onorarlo e adorarlo. Inoltre deve anche essere in linea di principio aperto ai modi concreti in cui questa salvezza in Cristo prende intercomunicativamente corpo per lui. Non è però possibile prescrivere in partenza alcuna forma concreta in cui tale comunicazione dovrebbe avvenire»92.

Uno dei modi in cui si attua la comunicazione della salvezza è, appunto, la venerazione dei santi, la quale, se bene intesa, è non solo una forma 90

Cfr. LLABRÉS, «Il culto ai santi», 282; BEINERT, Il culto dei santi oggi, 90. AUGUSTINUS HIPPONENSIS, Sermo 128, 3, ed. J. P. Migne (PL 38), Paris 1865, 715. 92 Cfr. BEINERT, Il culto dei santi oggi, 90. 91

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di amore di Dio, ma anche una forma di amore del prossimo e quindi di amore in generale, attraverso cui il credente ottiene la salvezza. Il santo, nella sua qualità di “cristiano riuscito” può dischiudere al credente qui ed ora l’accesso a Gesù. In questo modo si mette in luce quella comunione dei santi, che abbiamo riconosciuto come la condizione della possibilità di ogni culto dei santi. In tale comunione i beati del paradiso hanno un loro posto elevato ma appunto in essa e non accanto o al di sopra di essa. Il momento essenziale è la comunione dei santi, che è partecipazione di tutti i cristiani alla santità di Dio; solo all’interno di questo spazio i beati vivono nella loro specifica comunione con Cristo. 3.2. Il segno del martirio oggi 3.2.1. Il martirio nella riflessione teologica contemporanea La categoria di “martirio” genera spesso ambiguità, fraintendimenti e conflitto di interpretazioni che nascono dalla complessità del termine stesso, ormai entrato nel vocabolario comune ad indicare non solo il martirio cristiano, ma anche tutte quelle situazioni, presenti e passate, nelle quali si verifica il fatto di dare la vita per un ideale religioso, ideologico o patriottico. In questa accezione generica il martirio diventa un fatto universale. Se poi si estende il concetto a tutte quelle situazioni in cui si riscontra una morte ingiusta patita in un contesto di persecuzione, potremmo allargare ulteriormente la definizione di martire includendovi tantissime categorie di persone accomunate dal fatto che sono state uccise a causa della giustizia o di un valore essenziale per la solidarietà interumana. Vista l’indole della nostra ricerca, orientata a mettere in evidenza la perenne attualità del modello martiriale della santità, a noi qui non interessa cogliere tutte le sfumature di questa realtà, ma di precisare lo specifico del martirio cristiano, quel quid che lo differenzia da tutte quelle esperienze che si possono mettere in relazione con questo aspetto della vita cristiana, nella consapevolezza che il martirio è un aspetto che non può essere rimosso dal cristianesimo; anzi possiamo senz’altro dire che il martirio sta al centro del cristianesimo che è nato dal martirio di Cristo narrato dai Vangeli e condensato nelle formule kerigmatiche. Cristo è il martire per eccellenza e in quanto tale è il paradigma del martire; pertan404


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to il suo sacrificio dà senso al martirio di ogni uomo e di ogni tempo. Partendo da questo centro abbiamo cercato di cogliere il “proprium” del martirio cristiano mediante una trattazione genetico-evolutiva tesa a dimostrare come l’accezione di martirio cristiano abbia, nel corso dei secoli, assunto sfumature e tonalità diverse che hanno portato ad una certa estensione del significato teologico del termine che, pur conservando i caratteri tradizionali, ha dovuto prendere in considerazione nuovi approfondimenti tanto sul versante dei soggetti, che su quello del martirio stesso. I primi secoli della vita della Chiesa furono un periodo privilegiato per l’autocomprensione che la Chiesa sperimenta in riferimento al mistero che la abita. In questo periodo, alla luce del paradigma Cristo e delle contingenti situazioni storico-sociali del tempo, fu facile definire la figura del martire. In clima di persecuzione apparve chiaro che la realizzazione della sequela Christi esigeva una testimonianza volontaria di fede e di amore fino all’effusione del sangue sul modello del Maestro93. Un’idea forza che guiderà la spiritualità cristiana dei primi secoli sarà l’imitazione di Cristo crocifisso e appare evidente la tensione a dare testimonianza con la globalità della propria esistenza alla centralità di Cristo e della sua opera redentiva nella vita dell’uomo e nella trama delle vicende della storia. Accostando gli Acta martyrum, si possono certamente notare quegli elementi che caratterizzano la testimonianza a Cristo nei primi secoli: radicamento della propria fede nel Cristo risorto; atteggiamento di libertà del martire che relativizza ogni potere politico; consapevolezza che il martirio è dono di Dio; la morte viene accolta e docilmente sopportata come estrema testimonianza della fede; l’esplicitazione del vero senso del cristianesimo e della sequela Christi vissuta con coerenza radicale; l’ecclesialità del martirio come fatto che mobilita, coinvolge e interpella l’intera comunità cristiana. Dopo la svolta costantiniana, la religione cristiana viene dichiarata lecita, e in breve tempo il cristianesimo acquista una condizione di preminenza; per parecchi secoli, inoltre, la Chiesa, nella sua azione di supplenza, deterrà nelle proprie mani il potere politico. Si assiste, così, alla progressiva perdita dell’identità cristiana a causa dello svuotamento e della «nullificazione della croce di Cristo»94. Tutto questo, in ambito teologico, 93

Cfr. Io 12,26; 13,16. Cfr. U. SARTORIO, «Il segno del martirio oggi. Verso una dilatazione del concetto classico di martirio», Credereoggi 5 (1988) 83. 94

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ha portato ad un certo accantonamento del tema del martirio o ad una sua successiva collocazione marginale in un angolino della teologia dogmatico-fondamentale95. La manualistica teologica preconciliare presentava il martirio come argomento apologetico che, all’interno dei manuali, trovava la sua collocazione nell’ambito del discorso sulla santità della Chiesa, come segno dimostrativo di tale santità; e poiché il martirio è visto come una realtà che trascende le possibilità naturali dell’uomo, tanto da implicare l’intervento di Dio, la Chiesa dei martiri è considerata la vera Chiesa96. La manualistica di teologia morale, invece, era solita trattare del martirio quando trattava la virtù cardinale della “fortezza”97. A partire dal Vaticano II, il dibattito teologico su questo tema è stato ripreso, e si è preso coscienza che le cose, rispetto a prima, si sono complicate perché le molte ambiguità dei contesti dove si inserisce la testimonianza cristiana oggi, ha spinto la teologia a ricercare nuovi criteri, ad intraprendere nuove strade per giustificare una possibile dilatazione del concetto classico di martirio98 in vista di una comprensione più attuale di questa realtà. Ad ogni modo, oggi il concetto teologico di martirio deve tener presenti le mutate morfologie tanto delle forme persecutorie e violente, quanto dell’espressione e della confessione della fede. Per questo motivo, in epoca recente la teologia ha cominciato a sollevare il problema se siano da considerare martiri non solo coloro la cui vita sia stata violentemente soppressa nella singolarità di un unico atto fisico, ma anche quan95

Cfr. K. RAHNER, «Dimensioni del martirio. Per una dilatazione del concetto classico», Concilium 19 (1983) 25. 96 Cfr. SARTORIO, «Il segno del martirio oggi», 85-86. 97 A. M. TRIACCA, «Martirio: significato salvifico-sacramentario della sua “DUNAMISVIRTUS “», Salesianum 35/2 (1973) 247. 98 Ricaviamo il concetto classico di martirio da Benedetto XIV: «Martyrium esse voluntarium mortis perpessionem sive tollerantiam propter fidem Christi vel alium actum in Deum relatum»: BENEDETTO XIV, De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione, l. 3, c.11, in Opera Omnia, III, Prati 1840, 93, n.1. La considerazione del martirio in quest’opera ha un intento propriamente giuridico e consta di quattro elementi: a) il persecutore distinto dal martire; b) la pena, ossia la morte inflitta al martire in modo diretto o derivata in modo indiretto; c) la causa che deve essere necessariamente la fede. Questa causa deve ritrovarsi sia nell’agire del persecutore sotto forma di “odium fidei”, sia nel martire, il quale muore per amore della fede, in testimonianza alla verità divina, non quindi in difesa di una verità qualunque; d) la consapevole e volontaria accettazione del martirio da parte del fedele, senza opporre resistenza, perseverando sino alla fine. Stando a questi principi il concetto tradizionale di martirio sta ad esprimere l’accettazione libera, sofferta, non attivamente perseguita di una morte per la fede o per altra virtù cristiana.

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ti siano stati di fatto portati a questo attraverso un insieme di tecniche di tortura e di oppressione psichica, alcune delle quali erano evidentemente sconosciute nel passato. Si è anche ipotizzato che il martirio non sia solo esclusivamente quello consumato in odium fidei esplicito e diretto, ma anche quello della morte subita in difesa dei principi della fede cristiana99. Tutto il discorso, quindi, può essere orientato in due direzioni. La prima direzione è quella che porta a considerare il martirio come espressione della carità verso Dio e verso il prossimo. Infatti, in una situazione sociale e culturale in cui sempre più difficilmente sarà richiesto al cristiano di rendere conto della propria fede in modo diretto e cruento, e tanto meno di rinnegarla, viene considerato vero cristiano colui che non ha paura di manifestare la sua identità, dichiarando che, a causa di essa, è disposto a testimoniare la signoria di Dio sul mondo e la supremazia della legge dell’amore. Diventa così possibile far rientrare sotto il titolo di martire chi, sulla base di motivazioni profondamente cristiane, offre la propria vita nell’esercizio del suo impegno di carità a favore della causa dell’uomo, la quale in fondo è sempre la causa di Dio100. Cadrebbe così la distinzione tra il morire per amore dell’uomo e il morire per la propria fede in Cristo. Certamente, non è da accogliere acriticamente quell’idea che, sulla base della distinzione tra “martiri per la fede” e “martiri per il Regno di Dio” — intesi come coloro che, pur non appartenendo esplicitamente alla fede cristiana, sacrificano la loro vita per i valori del Regno: verità, giustizia, amore per i poveri — porta a sostenere che a questi anonimi sofferenti della storia, va attribuito a pieno titolo l’appellativo di martiri nel senso cristiano del termine101. La teologia recente e in parte l’insegnamento magisteriale sembrano essere approdati alla convinzione che i perseguitati ingiustamente, anche se all’esterno di un contesto cattolico e persino esplicitamente ecclesiale, sono ugualmente da considerare nella scia del martirio, in forza della loro somiglianza con Cristo. In questa direzione, quindi, richiamando l’inscindibile unità tra fede, verità e giustizia, sono da considerare nell’ottica del

99 Cfr. G. MAZZILLO, «Martirio», in Dizionario di Teologia, edd. G. Barbaglio − G. Bof − S. Dianich, Cinisello Balsamo 2002, 955. 100 Vedi il caso di san Massiliano Kolbe, S. Maria Goretti e di don Pino Puglisi. 101 Cfr. L. BOFF, «Martirio: tentativo di una riflessione sistematica», Concilium 19 (1983) 378.

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martirio anche coloro che hanno subito violenza, a motivo di uno di questi valori teologici di base102. Quando si parla di dilatazione della categoria di martirio, pertanto, bisogna stare attenti perché c’è sempre in agguato il rischio di allargare indiscriminatamente il concetto in questione103. Il consenso sul martirio, allora, è da ricercare, in primo luogo, sul suo riferimento cristologico, che non sempre è esplicito e tematizzato come tale, eppure è ugualmente reale, dato il valore universale dell’incarnazione di Cristo, che, venendo al mondo, si è realmente unito ad ogni uomo104. Ciò significa salvaguardare la centralità di Cristo che vive e soffre in ogni uomo, evitando di portare avanti l’idea di un martirio senza Cristo e favorendo un orientamento nuovo che comprenda la possibilità di un’interpretazione del martirio in chiave moderna, considerandolo attuazione piena di quel processo secondo il quale il discepolo diventa una realtà sola con il Maestro105. Pur rimanendo sempre valido il concetto tradizionale di martirio con il suo riferimento diretto alla fede, si può aggiungere che la realtà del martirio dice qualcosa all’uomo di oggi quando l’evidenza del segno dell’amore sembra primeggiare occupando un posto di rilievo. La seconda direzione è quella che spinge la riflessione a considerare il martirio come habitus permanente della vita cristiana ed esperienza sempre attuale nella Chiesa. La ridefinizione del martirio operata dalla teologia contemporanea, quindi, è senz’altro un punto di partenza utile per mettere in evidenza tutta la portata di questa realtà essenziale della vita della Chiesa, senza la quale si avrebbe un impoverimento della Chiesa stessa. Questo dibattito teologico è stato innescato dalla definizione conciliare di LG 42. R. Fisichella, riflettendo su questo brano, ricava alcune rifles102

Cfr. MAZZILLO, «Martirio», 959. La tradizione cattolica è sostanzialmente concorde nell’escludere dal concetto teologico di martirio quanti non hanno subito il martirio per un atto esterno di violenza esercitata dall’esterno, ma in una lotta deliberatamente cercata; né sono da considerare indiscriminatamente martiri quanti sono mortiri o muoiono ancora in una “guerra di religione”; lo stesso vale per quei casi di distruzione di altre vite umane e anche di se stessi, da parte di soggetti che versano in situazioni pseudo-religiose, sotto plagio psicologico o in un clima di fanatismo che fa arrivare all’autolesinismo e persino al suicidio. Non c’è, quindi, martirio teologicamente inteso se non c’è anche il carattere della innocenza del martire: cfr. MAZZILLO, «Martirio», 960. 104 Cfr. MAZZILLO, «Martirio», 955. 105 Cfr. LG 42. 103

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sioni106. Innanzitutto si può notare che nella definizione conciliare lo specifico del martirio è ravvisato nella testimonianza d’amore offerta dal martire in continuità col dono salvifico che Cristo ha fatto della sua vita; non si parla di morte ma piuttosto della vita che viene consegnata ed offerta; la testimonianza dell’amore, poi, è privilegiata rispetto alla testimonianza della fede; il testo non parla né di professione di fede, né di odium fidei, anche se probabilmente li suppone, ma preferisce orientare verso il segno dell’amore come momento globalizzante e universalizzante l’esperienza del martirio; la testimonianza d’amore viene resa davanti a tutti gli uomini: il testo dice «praesertim persecutoribus» e non «solis persecutoribus». Il Vaticano II, quindi, sembra attribuire notevole rilevanza teologica al martyrium caritatis e aprire la strada ad una possibile integrazione del concetto classico di martirio. Dopo il Concilio, è indispensabile considerare il pensiero dei due maggiori teologi cattolici del Novecento, K. Rahner e H. Urs von Balthasar, i quali cercano di superare le anguste prospettive in cui era stato rilegato il martirio, soprattutto nella sua riduzione a motivo apologetico, per restituire ad esso un respiro e una dimensione nuova secondo una ricentrazione antropologica e teologica. Il primo contributo che prendiamo in considerazione è quello di K. Rahner che dedica al martirio un excursus, considerandolo nel contesto della teologia della morte107 per quel legame che c’è tra martirio e morte, la quale pur non facendo parte dell’originario concetto neotestamentario di martyría, emerge tuttavia in un’evoluzione naturale dello stesso concetto108. Sono toccati quattro momenti essenziali: a) La forza del martirio cristiano come sacramento della santità della Chiesa: «Esiste una morte che ci sveli la sua essenza oscuramente velata, nella quale si possa riconoscere come si muoia di essa? Esiste una morte nella quale appaia 106

Cfr. R. FISICHELLA, «Il martirio come testimonianza: contributi per uma riflessione sulla definizione di martire» in Portare Cristo all’uomo, II. Atti del congresso del ventennio del Concilio Vaticano II (Roma, 18-21 febbraio 1985), ed. Pontificia Universitas Urbaniana, Roma 1985, 747-767. 107 Cfr. K. RAHNER, Sulla teologia della morte. Con una digressione sul martirio (Quaestiones Disputatae 6), Brescia 1965. 108 Cfr. RAHNER, Sulla teologia della morte, 75.

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anche ciò che in essa accade? Se esistesse questa morte cristiana che si manifesta e si svela, essa sarebbe la testimonianza cristiana per eccellenza, poiché l’atto integrante tutta la realtà cristiana della vita che si va compiendo, si mostrerebbe pure qual è, questa morte sarebbe allora la bella morte, se peraltro assoluta bellezza è la coincidenza di verità interiore ed apparenza. Una tale morte sarebbe la bella testimonianza (1 Tm 6,13) per eccellenza. Tale morte dovrebbe venire amata e cercata al di sopra di ogni errore, se l’uomo cerca la vera realtà e la sua apparenza, poiché egli compie e trova quella in questa con la massima perfezione e sicurezza. Questo svelamento della sostanza cristiana della morte esiste: è il martirio del credente»109.

b) La forza del martirio cristiano come sacramento della testimonianza della grazia vittoriosa di Cristo in seno all’esistenza cristiana: «Chiesa e martirio si rendono vicendevolmente testimonianza. Nella testimonianza verbale della chiesa sulla grazia escatologicamente vittoriosa è data la più profonda interpretazione del martirio: esso è veramente ciò che sembra essere: l’atto veramente integrale della fede che vince il mondo, il compimento dell’uomo»110.

c) Il martirio come avvenimento univoco di salvezza: «Il martire cristiano avverte nella morte (e proprio dall’intimo della sua fede per la quale egli muore) non quella cosa alla quale egli eccita l’altro, bensì quella cosa per la quale egli, in virtù di tutta la sua esistenza, è creato»111.

d) L’anelito del martirio: «Se lo Spirito e l’acqua della vita eterna sgorgano dal cuore trafitto del Signore, lo Spirito nella chiesa dipende perennemente dal fatto che nella chiesa ci sono uomini pronti al martirio. E poiché lo Spirito, attraverso la propria forza vittoriosa nella debolezza e nella miserabilità degli uomini, è sollecito che la vile pigrizia degli uomini non lo estingua, esso nutre da parte sua la sollecitudine che in questa chiesa quella morte continui a rinnovarsi come avvenimento fecondo e pieno di grazia, nel quale venga resa la bella testimonianza che l’uomo è colui che crede liberamente e mediante un tale atto di libertà totale della fede, passa dalla grazia all’infinita libertà di Dio»112.

109

RAHNER, Sulla teologia della morte, 88. RAHNER, Sulla teologia della morte, 95. 111 RAHNER, Sulla teologia della morte, 101. 112 RAHNER, Sulla teologia della morte, 108. 110

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Il martirio, in altri termini, è l’apparire di una realtà di grazia e l’afferrabilità di un atto di questa grazia nei confronti dell’uomo113. Esso fa parte della essenza della Chiesa, che celebra il mistero della morte di Cristo non solo nell’Eucaristia, ma anche nel martirio, sacramento della concrocifissione con Cristo, anzi più che sacramento (“sovrasacramento”), nel senso che in esso non può darsi la scissione fra l’azione rituale e l’assimilazione soggettiva della stessa114. Così il martirio si rivela essere l’atto umano per eccellenza e la vittoriosa dimostrazione della grazia di Cristo, che nel martire soffre e vince. Successivamente Rahner riprende il suo pensiero sul martirio in un altro contributo115, nel quale critica il concetto tradizionale di martirio e individua quelle dimensioni che secondo lui devono stare alla base di una dilatazione del concetto classico di martirio. Egli parte dal fatto che la Chiesa esclude dal concetto teologico di martirio una lotta attiva. L’autore, però, si chiede se è possibile riassumere nel solo concetto di martirio «una sopportazione passiva della morte per la fede» ed «una sopportazione della morte nella lotta attiva per la fede»116 quando questi due modi di morire conoscono una vasta affinità e quando tale concetto non negasse la differenza che pur sussiste fra queste due forme di morte. Secondo Rahner è vero che la sopportazione passiva della morte per la fede presenta un particolare riferimento alla morte di Gesù, ma è anche vero che la morte passivamente subita da Gesù è la conseguenza di una battaglia che lui aveva intrapreso contro i rappresentanti del potere reliogioso e politico del tempo: «Gesù è morto perché ha combattuto, e la sua morte non può essere osservata a prescindere dalla vita. Viceversa, “subisce” la morte anche colui che soccombe nella lotta attiva perché si affermino le esigenze delle sue convinzioni cristiane … Nemmeno questa morte viene direttamente cercata come tale, mentre implica un elemento passivo proprio come la morte del martire in senso tradizionale ne implica uno attivo, dato che pure questo martire, con la sua testimonianza attiva e il suo modo di vivere, ha determinato una situazione in cui non si può evitare la morte se non rinnegando la propria fede»117.

113

Cfr. RAHNER, Sulla teologia della morte, 92s. Cfr. RAHNER, Sulla teologia della morte, 94. 115 Cfr. RAHNER, «Dimensioni del martirio», 25-29. 116 Cfr. RAHNER, «Dimensioni del martirio», 26. 117 RAHNER, «Dimensioni del martirio», 27. 114

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Escludendo la possibilità di applicare il concetto di martire a coloro che muoino in guerre di religioni o fondamentalismi vari, l’autore non ricusa di applicare il concetto a figure come Massimiliano Kolbe o come Oscar Romero, ricorrendo alle seguenti motivazioni: «Non possiamo limitarci a delineare questa sopportazione passiva della morte allo stesso modo in cui cerchiamo di dipingere i primi martiri cristiani che muoiono in seguito ad una sentenza del tribunale. Questa sopportazione della morte, passiva ma liberamente accettata, può tradursi anche in modi completamente diversi. I perseguitori dei nostri giorni non offriranno certo ai cristiani la possibilità di testimoniare la fede nel vecchio stile dei primi secoli, né condanneranno a morte con sentenze di tribunale. Eppure anche questa morte, benchè subita in forme più anonime, può essere prevista ed accettata, nelle odierne persecuzioni, come la previdero ed accettarono i martiri di vecchio stile. Anche questa morte può essere la conseguenza di una lotta attiva per l’affermazione della giustizia e di altre realtà e valori cristiani […] In ogni caso le differenze che esistono fra la morte per la fede dopo una lotta attiva e la morte per la fede nella sopportazione passiva sono alquanto labili e troppo difficili da precisare, perché si possano mantenere distinti questi due modi di morire sul piano concettuale: sia nell’uno che nell’altro caso, in definitiva, ci troviamo sempre di fronte ad una morte che espressamente e risolutamente si accetta per le medesime motivazioni cristiane; in entrambi i casi la morte è assunzione della morte di Cristo, un atto supremo di amore e di coraggio che il credente produce rimettendosi alla volontà di Dio, la dimostrazione della più radicale unità che si stabilisce fra atto d’amore e sopportazione del massimo e doloroso coinvolgimento nel rifiuto – incomprensibile ma possente – che gli uomini oppongono al Dio che si rivela. In entrambi i casi la morte ci appare come la manifestazione più piena e manifesta dell’autentica natura del morire cristiano. Anche quando è subita nella lotta per le proprie convinzioni cristiane, la morte suona come testimonianza della fede che poggia su quella risolutezza incondizionata che integra, per grazia di Dio, l’intera esistenza nella morte e che si esprime nella più profonda impotenza, interiore ed esteriore, che l’uomo pazientemente sopporta. Questo vale anche per una morte nel corso della lotta, perché il combattente, proprio come il martire tradizionale, soffre, nell’esperienza del suo fallimento esteriore, la potenza del male e la propria impotenza»118.

L’altro contributo della teologia contemporanea che vale la pena di ricordare è quello di Balthassar nel suo suo saggio “Cordula”119 dove egli addita la contraddizione di molti cristiani contemporanei accusandoli di 118

RAHNER, «Dimensioni del martirio», 27-28. H. U. VON BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», in Gesù e il cristiano, ed. E. Guerriero (Già e non ancora 337), Milano 1998, 175-249. 119

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essersi adattati al mondo e di aver cessato di considerare il cristianesimo come un “caso serio”120, espressione con cui egli indica il criterio di fondo, l’elemento essenziale e distintivo che fa di un cristiano un autentico cristiano. All’inizio del volumetto, dopo aver citato LG 42, Balthasar inizia il suo discorso con il fondamento biblico121 della sua tesi mettendo in evidenza che secondo l’insegnamento che Cristo impartisce ai suoi discepoli dalla croce, lo stato di persecuzione è lo stato normale per la Chiesa nel mondo, e il martirio del cristiano è la sua situazione normale perchè: «…con la decisione assoluta per Cristo dev’essere presa anche la controdecisione, “l’odio per il mondo” . […] la sua “croce” storica è supertemporale ed è la forma di vita per coloro che intendono seguirlo. Chi lo vuole seguire, preferisce Gesù…; ma chi preferisce Gesù, sceglie la croce come il luogo dove il morire è non una eventualità, ma una certezza assoluta»122.

Dopo aver posto il fondamento biblico, Balthasar spiega in che senso il “caso serio” è “forma” di vita normale per la Chiesa e per il cristiano123: «Non nel senso che la Chiesa debba essere continuamente e dovunque perseguitata; ma se lo è per qualche tempo e in determinate regioni, essa dovrebbe subito ricordare che è partecipe di una grazia che le è stata promessa…E non nel senso che ogni singolo cristiano debba subire il martirio cruento, ma nel senso che egli dovrebbe considerare il caso che si presenta come la manifestazione esterna di una realtà interna, della quale egli pure vive»124.

Il martirio, allora, è l’orizzonte della vita cristiana fondata sulla croce di Cristo e comunicata per grazia ai suoi discepoli. Alla luce dell’insegnamento che Paolo ci dà nella 2 Cor 5,14-15, secondo Balthasar, possiamo comprendere che la morte di Cristo “per noi”, è come un “a priori” del 120 BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 177. L’espressione italiana “caso serio” è inadeguata a rendere tutte le risonanze dell’originale “Ernstfall” che indica l’elemento essenziale di una Weltanschauung che coinvolge esistenzialmente con l’impegno assoluto a rispondere ad una percezione nuova della realtà, o ancora il caso di emergenza in cui bisogna giocare il tutto per il tutto: cfr. S. SPINSANTI, «Spiritualità moderna del martirio», in NDS, 913. 121 Cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 179-182. 122 BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 181. 123 Cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 183-186. 124 BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 183.

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comportamento cristiano, che ne è totalmente caratterizzato. Possiamo allora comprendere cosa significa fede e vita di fede: «Significa ringraziare con tutta la vita di essere debitori di tutta la propria esistenza al Gesù storico. Poiché gli sono debitore della mia esistenza, avendo dato la sua esistenza per la mia, il ringraziamento non può essere espresso altrimenti che con tutta l’esistenza. Qui sta la logica del cristianesimo: che non si può dire grazie in modo adeguato se non con tutta la propria esistenza»125.

Perciò, la specificità del martirio cristiano si afferra nel riferimento alla morte in croce di Cristo per noi, la verità che costituisce la misura della fede da cui sgorgano tutte le fonti della grazia: fede, speranza e carità: «Tutto ciò che sono …lo sono a causa di quella morte che mi apre l’accesso al Dio che appaga. Io fiorisco sul sepolcro del Dio che è morto per me, affondo le mie radici nel terreno della sua carne e del suo sangue. Perciò, l’amore che ne traggo nella fede non può essere di natura diversa da quello del sepolto. La fede cristiana è, con ogni possibile urgenza, l’anticipazione dell’offerta della mia vita a Cristo […] Nella concezione cristiana…la morte di Cristo è per noi lo spuntare della gloria divina dell’amore, e concepire se stessi, in base a questa morte, come esistenza di fede, significa dare di sé un’interpretazione che si fonda non sopra un fenomeno terminale e marginale, ma nel centro assoluto della realtà. Ciò esige che l’uomo possa coincidere con questo centro soltanto toccandolo con il suo termine, la propria morte, cercando di comprendere la serietà dell’amore di Dio mediante il proprio caso serio»126.

Secondo Balthasar, qundi, il “proprium” del martirio cristiano è quello di essere testimonianza di un evento assolutamente unico: Cristo che si dona “per me”; ciò costituisce la misura della fede che è, per conseguenza, «l’anticipazione della propria morte come risposta alla morte di Cristo»127. Esistenza di fede significa dunque esistenza nella morte per amore. Non siste, perciò, sulla terra comunione nella fede che non derivi dalla croce. Lo stesso amore cristiano per il prossimo è piuttosto il risultato del sacrificio di Cristo e del cristiano con lui128. La Chiesa stessa nasce sulla croce, trova il suo archetipo nel martirio incruento di Maria, ed è alimentata dall’Eucaristia. In essa è reso presente il momento della nascita della Chiesa, che coincide con il momento 125

BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 184. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 185-186. 127 BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 186. 128 Cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 187-188. 126

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della morte del Signore. La croce di Cristo, quindi, è la “forma archetipa”, la forma in base alla quale la Chiesa è; in questo senso, ogni fede ecclesiale in Cristo non può essere che ordinata ad essa129. Morte e risurrezione non sono che due facce di uno stesso avvenimento di amore. Il mistero della croce, quindi, non è solo mistero di dolore, ma è anche mistero di gloria perché dal sacrificio di Cristo sgorga quell’amore assoluto nel quale il cristiano vive. La croce è l’auto-glorificazione dell’amore di Dio nel mondo. Gloria significa visibilità, la quale implica incarnazione: «Dove il cristianesimo è soltanto interiore e spirituale non può vivere a lungo… Sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento è la visibilità di colui che è essenzialmente invisibile (Gv 1,18; 1 Tm 6,16); l’inaccessibile come tale si crea un’epifania di gloria (Tit 2,13), non per essere dominato dagli uomini, ma per per introdurli nel suo campo. L’esistenza in questo campo si chiama fede –accettazione di essere da Dio in Cristo – e appunto per questo racchiude in sé la speranza della partecipazione alla vita eterna dell’amore, che già si offre nell’apertura stessa del campo»130.

Regolare la propria esistenza su fede, speranza e carità significa vivere secondo il caso serio. Soltanto una simile esistenza è testimonianza per la verità, della quale il cristiano vive. A questo punto Balthasar pone una domanda: «Che cosa è divenuta oggi questa testimonianza?»131. A questa domanda risponde nei capitoli successivi dove egli per far comprendere le vie che vengono tentate dai cristiani nel corso della loro testimonianza, parte da ciò che il mondo moderno contrappone quale concezione generale del pensiero cristiano. Nel secondo capitolo del suo libretto, Balthasar guarda con preoccupazione a quelle derive della cultura moderna che impediscono di accogliere l’importanza del “caso serio”132, completando, poi, il discorso nel 129

Cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 192. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 199. 131 BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 199. 132 Qui l’autore delinea in alcune tesi i presupposti speculativi della cultura moderna. Alla base della demitizzazione e della riduzione antropologica della cristologia ci sta la tensione kantiana, e poi idealista di Hegel, fra la finitezza della ragione e l’assolutezza della libertà che registra come suo esito la perdita del mistero dell’immanenza nel mondo del Dio trascendente il mondo. Tutto questo viene recepito teologicamente da quelle correnti teologiche che tentano di presentare un cristianesimo moderno, il cui programma è quello di riscrivere in toto la modalità di espressione del mistero: cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 201-208. 130

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terzo capitolo, dove l’autore guarda, invece, alle derive e ai riduzionismi che affliggono la teologia e il cristianesimo moderni, anch’essi all’origine di un deprezzamento o di una scomparsa del “caso serio”133. Nell’ultimo capitolo di Cordula, Balthasar, tira le conclusioni del suo discorso. La risposta cristiana alla cultura moderna e ai tentativi di presentare un “cristianesimo moderno” non può essere quella che cede al compromesso e ad una rassegnata resa al mondo, ma deve essere quella che commisura tutto al “caso serio”. Diversamente, lo svuotamento della “serietà” del caso posto dalla croce e dalla risurrezione di Cristo provocherebbe la perdita dell’identità cristiana: insieme alla perdita del martirio i cristiani perderebbero anche la legittima fierezza del nome cristiano, preferendo l’anonimato. Secondo Balthassar, quindi, l’aggiornamento della Chiesa non dovrebbe mirare alla definitiva evacuazione del martirio dalla vita spirituale del cristiano, bensì a un martirio reso quasi ovvio, manifestazione esterna di una realtà interna, della quale il cristiano vive134. «Chi è il cristiano?»135, chiede l’autore all’inizio di quest’ultimo capitolo. A questa domanda risponde con bellissime pagine sul ruolo della gioia come atteggiamento che caratterizza il dono che i cristiano fa di se stesso ai fratelli; la gioia proviene dallo Spirito Santo: «gioia nella inermità, un’inermità senza preoccupazione, nella quale diviene visibile una misteriosa superiorità»136. Ogni sofferenza, anche la più oscura notte di croce, è sempre avvolta da una gioia, forse non sentita, ma affermata e conosciuta dalla fede. Ciò che importa è l’inermità: «Se si domanda qual è il risultato ultimo dell’ultimo concilio (e il risultato dipende anche da noi), esso dovrebbe essere il seguente. Lo abbiamo già detto: 133

È la critica alla demitizzazione e alla riduzione antropologica della cristologia che renderebbero non chiaro il motivo per cui il cristiano dovrebbe essere disposto a morire. In secondo luogo c’è la critica al “cristianesimo anonimo” di Rahnher. I pericoli che Balthasar ravvisa nel sistema rahneriano sono costituiti dall’appiattimento del comando dell’amore di Dio su quello dell’amore del prossimo, con la conseguente tendenziale scomparsa del martirio per amore di Cristo; dalla riduzione della cristologia in funzione dell’antropologia derivante dalla riduzione della persona di Cristo a caso dell’autoattuazione della persona umana; dalla riduzione dei misteri della soteriologia nella dottrina dell’incarnazione, con il conseguente oblio dell’economia trinitaria nell’evento della croce e con l’esplicita mancanza di una theologia crucis: cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 209-235. 134 Cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 183. 135 Cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 237. 136 Cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 238.

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esposizione inerme della Chiesa al mondo. Demolizione dei bastioni; i baluardi spianati in valli. E ciò senza alcun nascosto pensiero di un nuovo trionfalismo, dopo che l’antico è divenuto impraticabile. Non pensare che, quando i cavalli di battaglia della Santa Inquisizione, del Santo Uffizio, sono stati eliminati, si possa entrare nella celeste Gerusalemme cavalcando il mite asino dell’evoluzione tra lo sventolare delle palme. Inermità nei confronti del mondo è soprattutto rinuncia ad un sistema assicurativo, che tra natura e soprannatura domini con uno sguardo metafisico generale dall’atomo fino al giorno omega, poiché è assolutamente certo che in un simile sistema la soprannatura diventerà una funzione della natura»137.

In questo senso possiamo dire che «le morte dà forma alla vita»138 e che il mandato affidato ai cristiani è quello di testimoniare, se è necessario con la morte, che l’amore è superiore alla morte ed è vita eterna. Dei cristiani Balthasar dice: «Essi non ricercano la morte, pur conoscendo il martirio. Vivono in un posto qualsiasi tra il primo (martire) e il secondo (di Loyola) Ignazio. Il primo va con gioia verso la morte, e tutto ciò che conosciamo di lui parla di una involontaria e tuttavia amatissima corsa alla morte… Il secondo…non è prigioniero, e non è in suo potere cercare la morte là dove Dio ha bisogno di lui vivo e attivo. Il senso letterale, con cui il primo ha inteso la chiamata alla morte, è divenuto per il secondo l’esigenza di riempire ogni momento dell’esistenza con il pieno impegno della vita. Ciò che soprattutto importa non è la morte fisica, ma il dono quotidiano della propria vita per il Signore e i fratelli […] Martirio significa testimonianza. Sia che avvenga una sola volta e in modo definitivo con la perdita della vita corporale, sia che avvenga una sola volta e in modo definitivo con l’offerta di tutta l’esistenza nel voto di vivere secondo i consigli di Gesù, sia infine che avvenga una sola volta e in modo definitivo nella morte assieme a Gesù nel battesimo, ma in modo che questa morte e questa risurrezione per un’altra vita indefettibile siano veramente vissute (Rm 6,12 s.): tutto ciò non ha molta importanza. La divisione dei doni di vita, quando l’uomo è docile, è fatta da Dio. Ma in qualsiasi condizione cristiana viva, il fedele vive sempre in base alla morte e alla risurrezione, perché tutta l’esistenza del cristiano è il tentativo di una risposta di ringraziamento “nella fede al Figlio di Dio, che mi amò e diede se stesso per me” (Gal 2,20)»139.

Quello di Balthasar, quindi, è un modo di opporsi alla dissoluzione di coloro che pensano che ormai può bastare una fede analogica, in una Parola intesa in senso analogico, per la quale vale la pena morire soltanto in 137

BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 239. Cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 238. 139 BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 240. 138

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modo analogico140. Il “caso serio”, invece, è la croce di Cristo: la capacità di fondarsi sulla sua morte e dunque su una sequela fino alla morte, fino al martirio. Il martirio di Cristo e del discepolo, allora, viene offerto come criterio che si oppone ad ogni «tentativo di ridurre la religione ad un’etica, l’amore di Dio e l’amore personale per Cristo a un amore per il prossimo»141. L’autore contesta, perciò, la pretesa di un certo “neo-cattolicesimo” che tende ad affiancare, se non ancora ad opporre, agli antichi martiri della Chiesa i cosiddetti “nuovi martiri per il regno”. Tali sarebbero tutti coloro che non muoiono esplicitamente né per Cristo né per suo amore, ma combattendo per i valori della giustizia, per i processi di liberazione, per la costruzione di una nuova società o per la pace. In questo contesto anche il concetto di “persecuzione” cambia di segno e si confonde con quello generale di oppressione che, a diverso titolo, l’uomo esercita sull’uomo. In definitiva, pur rispettando chi soffre e muore per ideali di verità e di giustizia, lautore ritiene che l’avvenimento della persecuzione e del martirio cristiano visto in questo modo vengono svuotati di senso. Volendo fare ora una valutazione del pensiero di questi due autori possiamo dire che nella riflessione di Rahner si nota una insufficiente considerazione cristologica della morte, nel senso che nella morte libera e credente del fedele non pare emergere con sufficienza il nesso fra il morire liberamente accettato dal martire e il dono salvifico di Cristo, che rende possibile un tale morire, una morte configurata come martirio. Balthasar, dal canto suo, criticando il pensiero ranheriano riporta al centro della riflessione la croce di Cristo e il pro nobis implicato nell’evento pasquale che gli permette di delineare la specificità cristiana del martirio che a noi sarà utile ai fini di una lettura teologico-liturgica di questa realtà. Nuoce d’altra parte alla riflessione di Balthasar una trattazione del martirio in un contesto polemico, che non riesce a valutare la tesi del “cristianesimo anonimo” neppure come criterio per un’analisi antropologica più dettagliata, orientata a dischiudere tutte le potenzialità presenti nel concetto. Al di là di questi rischi, comunque, le riflessioni dei due autori sono state di primaria importanza per avanzare nell’intelligenza teologica del martirio e nel tentativo di esplorarne le inesauribili ricchezze142. 140

Cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 214-219. Cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 246 142 Cfr. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 35-36. 141

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Ad ogni modo, dopo gli impulsi del Vaticano II e dei contributi dei due grandi teologi, nella riflessione teologica recente143, è sbocciato l’interesse per il martirio, il cui sforzo è stato tutto teso a ripensare in chiave moderna e in termini attuali il tema evitando anacronistici ritorni ai modelli eroici passati. L’epoca in cui viviamo, infatti, non è più stagione di eroi. La vita di un santo, oggi, non può essere considerata esaltazione della grandezza umana, bensì esaltazione del Dio dell’Alleanza; in quanto tale essa non è adatta a celebrare la grandezza dell’uomo, ma piuttosto ad annunciare la fedeltà di Dio; una vita vissuta santamente non può servire per la propria glorificazione, né per qualsiasi forma di trionfalismo e autocompiacimento144. Personalmente credo che si possano individuare due vie di uscita. La prima riguarda una considerazione del martirio basata sull’esperienza personale della salvezza145. Da questo punto di vista, si può asserire che per la teologia cristiana recente sembra vada profilandosi come martire colui che consuma la sua immedesimazione a Cristo fino al dono della sua vita, intendendo per dono qualcosa di più della consacrazione 143

Citiamo in questa nota i contributi che sono stati utili per la nostra ricerca: P. MOLIsanti e il loro culto (Collectanea Spiritualia 9), Roma 1962; ID., «Martire», in NDS, 903-913; K. RAHNER, «Interprétation théologique du témoignage», in La testimonianza, ed. E. Castelli, Padova 1972, 173-187; ID., «Dimensioni del martirio. Per una dilatazione del concetto classico», Concilium 39 (2003) 21-34; A KUBIŚ, La théologie du martyre au Vingtième siècle, Roma 1968; J. MOLTMANN, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Brescia 1973; B. GHERARDINI, «Il martirio nella moderna prospettiva teologica», Divinitas 26 (1982) 19-35; L. BOFF, «Martirio: Tentativo di una riflessione sistematica», Concilium 19 (1983) 372-382; R. FISICHELLA, «Il martirio come testimonianza: contributi per una riflessione sulla definizione di martire», in Portare Cristo all’uomo, II. Atti del Congresso del ventennio dal Concilio Vaticano II (Roma, 18-21 febbraio 1985), ed. Pontificia Università Urbaniana (Studia Urbaniana 23), Roma 1985, 747767; ID., «Martiri per il nostro tempo. Per una teologia del martirio», Ho Theológos 11 (1993) 325-341; A. M. SICARI, «”Soffrire e morire con…” ovvero la gioia nella persecuzione», Communio 92 (1987) 20-31; A. CAPPELLETTI − M. CAPRIOLI, «Martire», in Dizionario enciclopedico di spiritualità, 2, edd. E. Ancilli-Pontificio Istituto di Spiritualità del Teresianum, Roma 1990, 1518-1525; B. MAGGIONI, «Il martirio, rivelazione di Dio», Rivista del clero italiano 75 (1994) 738-748; L. VON SCHEFFCZYK, «La professione di fede: confessio e martyrium», Communio 143 (1995) 24-34; Martirio e vita cristiana. Prospettive teologiche attuali. Atti del seminario di studio (S. Cataldo, 14 settembre 1996), ed. M. Naro, Caltanissetta-Roma 1997; M. CROCIATA, «Martirio ed esperienza cristiana nella riflessione cattolica contemporanea», in Martirio e vita cristiana, 29-94; P. MARTINELLI, La testimonianza. Verità di Dio e libertà dell’uomo, Milano 2002; G. MAZZILLO, «Martirio», in Dizionario di Teologia, edd. G. Barbaglio − G. Goff − S. Dianich, Cinisello Balsamo 2002, 953-964; S. ZAMBONI, «Martirio e vita morale», Rivista di Teologia Morale 37 (2005) 53-70; ID., Chiamati a seguire l’Agnello (Etica teologica 43), Bologna 2007; D. D’ALESSIO, «Il linguaggio teologico della testimonianza. La testimonianza tra immediatezza e mediazione», Scuola Cattolica 134 (2006) 281-296. 144 Cfr. SPINSANTI, «Spiritualità moderna del martirio», 914. 145 Cfr. BALTHASAR, «Cordula ovverosia il caso serio», 185. NARI, I

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della propria esistenza ad una particolare considerazione vocazionale, ma intendendo anche, qualcosa di meno dell’effusione del sangue in quanto tale. In ogni caso martirio significa mettere al di sopra della propria vita, fino ad offrirla realmente, ciò che è espressione del volere di Dio, della sua santità e della sua solidarietà, sia che ciò sia ricosciuto come tale, sia che abbia un’equivalenza esistenziale in termini di donazione e sacrificio di se stessi, anche quando il dono di sé non fosse esplicitamente tematizzato in questi termini146. La seconda via d’uscita riguarda una considerazione del martirio che punti al valore kerigmatico147 che esso possiede ancora oggi: è realtà che annuncia un mondo nuovo futuro, eppure già sostanzialmente presente; quel mondo iniziato con la incarnazione di Gesù, realizzato con la sua morte e risurrezione e al quale hanno contribuito anche coloro che l’hanno seguito nell’effusione del sangue. In questo nuovo ordine di cose, il discepolo soffre come il Maestro, o meglio ancora, soffre con il Maestro perché si trova nella sua stessa situazione escatologica. Infatti lo stesso Gesù inserisce la persecuzione dei discepoli e la possibilità del martirio nel quadro tradizionale dell’escatologia. In questo sfondo escatologico il martirio cristiano è intimamente legato a quello di Gesù. Questa ostilità, che termina in atti di violenza contro gli assertori della verità evangelica, è in se stessa una rivelazione di quello che è l’uomo di fronte a Gesù. D’altra parte la testimonianza resa pubblicamente dai discepoli di Gesù rivela anche la presenza dello Spirito Santo in loro. Perciò, il significato specifico di martitio si spiega con la situazione escatologica, che fa di esso non soltanto un atto di accusa contro i persecutori, ma anche la rivelazione di una realtà nuova. La Chiesa, quindi, si trova sempre in questa situazione escatologica che fu iniziata da Gesù e che terminerà con l’arrivo del Figlio dell’Uomo, accompagnato dai martiri al Giudizio. Tutto questo ci spinge contemporaneamente alle origini della predicazione del Regno di Dio fatta da Gesù: le “beatitudini”; tra queste è compreso il martirio che diventa segno del Regno di Dio se vissuto nella logica stessa delle beatitudini. Il suo contenuto è una felicità che ha l’attesa come sua dimensione essenziale, in quanto partecipa della tensione tra il “già” e il “non ancora” che è propria del Regno di Dio. 146 147

MAZZILLO, «Martirio», 955. Cfr. SPINSANTI, «Spiritualità moderna del martirio», 916-917.

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Coloro che sono dichiarati “beati” nel discorso della montagna non lo sono in forza della loro situazione, bensì in seguito alla volontà di Dio di riservar loro il Regno. La beatitudine in situazione di tribolazione, quindi, ha un effetto kerigmatico: annunzia e mostra che è possibile un mondo diverso, anche se questo costa sacrifici. I martiri protestano contro una situazione in cui domina il male e sanno vedere che non solo gli oppressi, ma anche gli opprressori sono vittime di esso. Così facendo, essi anticipano un rovesciamento radicale della condizione umana e annunciano la fedeltà di Dio di fronte e contro un mondo in cui l’ingiustizia è trionfante. In ogni caso affiora una delle caratteristiche della Chiesa, l’ecclesia martyrum, che non è un suo dato accidentale, ma sostanziale148. Tenere il martirio davanti agli occhi significa per la Chiesa d’oggi assumere l’atteggiamento giusto di fronte al mondo: né quello della resa accomodante, né quello della provocazione autocompiaciuta. Se la Chiesa è popolo delle beatitudini, è in definitiva anche popolo dei perseguitati. Di conseguenza, non si può appartenere alla Chiesa senza aver parte anche alla Passione di Gesù. È chiaro che nella Chiesa non tutti possono diventare martiri, perché il martirio è solo uno dei carismi presenti in essa, ma tutti devono seguire il Signore nella Passione. Non è una analogia fortuita, se i santi che sono passati per le sofferenze, vengono paragonati ai martiri. Nel suo discorso missionario149 Gesù stesso mise accanto ai martiri coloro che prendono la loro croce e lo seguono. A nostro avviso, per ridefinire oggi la figura del martire e per dare un volto al martirio contemporaneo, sarebbe riduttivo servirsi unicamente di categorie giuridiche che, si dimostrerebbero limitate nel momento in cui si è chiamati ad interpretare la complessità delle circostanze in cui oggi si manifesta la testimonianza cristiana. Occorre, quindi, tenere sempre una posizione di equilibrio, mettendo in conto che, in base alle complesse circostanze che si vengono a creare in certi cotesti storici e socio-cultrali, il martirio può tradursi anche in modi completamente diversi, ma che, comunque, devono essere tutti accomunati dal costante riferimento a Cristo e dalla volontà di dare una testimonianza di fede e d’amore in continuità col dono salvifico che Cristo ha fatto della sua vita. In linea con il “proprium” del martirio cristiano, individuato nella costante parte148

Cfr. E. PETERSON, «Martirio e martire», in Enciclopedia Cattolica, 8, ed. Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico, Roma 1952, 234-235. 149 Cfr. Matth 10,38.

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cipazione al mistero pasquale di Cristo, la definizione di martirio può dunque essere integrata e arricchita anche da quelle espressioni di solidarietà e coinvolgimento con la causa umana, dettate dalla fede e in difesa di valori umani e cristiani; esse rappresentano il modo concreto di attuare la carità verso Dio e verso il prossimo. Le considerazioni fatte in questo paragrafo offrono il contesco entro cui si colloca la riflessione teologico-liturgica sul martirio dei paragrafi successivi. Le linee teologiche emerse dal linguaggio utilizzato dai testi eucologici agatini faranno da guida al nostro percorso. È emerso che questo linguaggio, pur appartenendo ad un’epoca in cui i criteri per definire il martirio sono quelli tradizionali che evidenziano una testimonianza data a Cristo, nella Chiesa, di fronte al mondo, contiene anche degli elementi utili a declinare in modo attuale il concetto di martirio allo scopo di far emergere come questa realtà non è un dato accidentale nella vita della Chiesa, ma sostanziale che genera un modello di santità sempre attuale e proponibile. Certo, in alcune epoche vi sono stati più martiri che in altre, ma affermare che vi sono stati momenti della storia privi di martiri, è negare l’esistenza della Chiesa in quel tempo: così come ogni generazione ha i suoi profeti, ogni generazione deve avere i suoi martiri, i quali, accanto ad un messaggio valido per la situazione contingente in cui essi hanno vissuto la loro vicenda, portano pure un messaggio valido per gli uomini di tutti i tempi. Questo messaggio è dato dal linguaggio dell’amore che si dona e si offre traducendosi in azioni concrete e comportamenti mediante i quali il cristiano si immerge nella storia e, affermando in modo esplicito la sua identità, orienta il mondo e la realtà a Cristo, rendendo testimonianza all’amore e portando con Cristo la croce del mondo. 3.2.2. Il martirio come testimonianza suprema della croce gloriosa e dono di grazia L’attributo più frequente che i testi eucologici attribuiscono ad Agata è quello di “martire”, un termine che nella sua semplicità evoca tante risonanze teologiche: tra queste il rapporto che questo termine ha con il fatto della testimonianza. Su questo rapporto si è scritto molto150 con il 150 Cfr. M. PRAT-P. GRELOT, «Testimonianza», in DTB, 1141-1145; R. KOCH, «Testimonianza», in Dizionario di Teologia Biblica, edd. J. B. Bauer-L. Ballarini, Brescia 1965, 14341451; N. BROX, «Testimonianza», in Dizionario Teologico, 3, edd. H. Fries-G. Riva, Brescia 3 1977, 492-502; FISICHELLA, «Il martirio come testimonianza», 747-767.

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conseguente risultato della dimostrazione della correlazione esistente tra martirio e testimonianza, voce dalla quale il termine “martirio” direttamente dipende, fino ad esserne, almeno originariamente, un’equivalenza linguistica più che un sinonimo. La parola greca martyría, dalla quale deriva, significa in effetti “testimonianza”. Il martirio, infatti, è pensato, fin dagli inizi151, mediante la categoria della “testimonianza”; anzi la nozione di “testimonianza”, più fondamentale e originaria, include quella di “martirio”152. Lo dimostra l’etimologia del termine “martys” (=testimone) che attesta come «il concetto di testimonianza nasce propriamente in ambito giuridico quale elemento determinante in un processo dove un testimone è chiamato a deporre su un fatto visto o sentito, in modo che, in base alla sua testimonianza, si possa giungere ad un giudizio equo, sancito mediante una sentenza»153. Tuttavia, mentre il lemma “martyría” ha assunto un insieme di significati più generici154, la parola “martys”, che inizialmente non designa la testimonianza specifica dell’effusione del sangue, man mano ha assunto un significato più specifico. Nella terminologia teologica, infatti, lo stesso termine — già fin dal II-III secolo — designa una persona che ha dato testimonianza per Cristo e per la sua dottrina con il sacrificio della vita. In 151

Cfr. L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, Bologna 1968; J. JANSSENS , «Il martirio: grazia di Dio e testimonianza di amore obbediente», Rassegna di teologia 24 (1983) 494503; ID., «Il cristiano di fronte al martirio imminente. Testimonianza e dottrina della Chiesa antica», Gregorianum 66 (1985) 405-427; C. NOCE, Il martirio. Testimonianza e spiritualità nei primi secoli, Roma 1987; T. BAUMEISTER, La teologia del martirio nella Chiesa antica (Traditio cristiana 7), Torino 1995; M. SUSINI, Il martirio cristiano esperienza di incontro con Cristo. Testimonianze dei primi tre secoli, Bologna 2002. 152 La fusione tra la testimonianza in genere e ciò che successivamente sarà chiamato martirio avviene già nei Vangeli. In riferimento alla missione di Gesù, il significato della testimonianza abbraccia l’attestazione veritiera sulla identità di lui, come, ad esempio la rende il Battista (Cfr. Io 1,8.19; 3,26), l’attestazione dello stesso Gesù in riferimento al suo particolare rapporto con il Padre , e a quello del Padre verso di lui. Anche il Padre infatti attesta di averlo realmente invitato (Cfr. Io 3,33; 5,31-32; 8,18; Act 2,22) perché egli stesso renda testimonianza alla verità (Cfr. Io 18,37). Gli Apostoli renderanno testimonianza, a loro volta, consapevoli di attestare la missione, la passione e la risurrezione del Maestro, indicandolo come il Cristo (Act 1,22; 3,15; 4,33; 5,32; 8,25; 10,39; 13,31; 23,11; 26,22). È una testimonianza che si presenta fin dall’inizio con un prezzo molto alto, che oltre alle incomprensioni e persecuzioni può arrivare anche a chiedere il dono della vita. Il senso della testimonianza fino al dono di sé, poi, sembra essere sullo sfondo delle consegne date dal Maestro nell’atto di lasciare fisicamente i suoi (Act 1,7-8): cfr. MAZZILLO, «Martirio», 960-961. 153 ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 289. 154 Inizialmente la martiría designava un amore senza riserve per Cristo che spingeva a dare pubblica testionianza per lui; solo successivamente la radicalità di questo amore è stata mediata attraverso l’effusione del sangue.

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poco tempo, quindi, il termine “martys” ha acquistato un significato tecnico e specifico che si è poi evoluto nel concetto classico di martirio che, come abbiamo già visto, sostanzialmente si muove in un ambito giuridico, contesto in cui un testimone è tanto più credibile, quanto più è distaccato dai fatti su cui rende testimonianza. Nella riflessione teologica contemporanea, invece, ci si muove in un ambito diverso da quello giuridico con la proposta di una concezione di testimonianza totalmente opposta a quella che riscontriamo in ambito giuridico. Il concetto teologico di testimonianza che ne viene fuori prevede il coinvolgimento del soggetto. Questa dimensione è già chiara nel NT dove il termine “martys” ricorre nel senso ordinario di “testimone”155, ma designa soprattutto un tipo particolare di testimoni e cioè gli Apostoli che possono testimoniare, per esperienza propria, della vita, della morte e, specialmente, della risurrezione di Gesù. Gli Apostoli sono dunque i testimoni autorizzati e, per così dire, ufficiali della missione e della risurrezione di Cristo, senza che il termine stesso implichi che abbiano dato testimonianza a Cristo con il sacrificio della loro vita. In alcuni testi, tuttavia, il termine “martys” viene usato per designare delle persone che effettivamente hanno testimoniato per Cristo con il sacrificio della loro vita156. Ad ogni modo, il NT non fornisce alcun esempio in cui il termine “martys” venga usato nel significato che ebbe poi a partire dal II-III secolo157. Nonostante i vari tentativi di spiegare come, in tempo relativamente breve, la parola “martys” abbia acquistato esclusivamente il significato tecnico di “martire”, il problema terminologico rimane alquanto enigmatico. Una chiarificazione nei riguardi del significato del termine “martire” viene apportata con l’andare del tempo e diviene comune nel IV secolo: essa consiste nella distinzione tra coloro che avevano sofferto per la loro fede (confessio fidei) e quelli che avevano sacrificato la vita per essa. Soltanto questi ultimi vengono designati con il termine “martire”158. Stando al significato originario del termine “martys” sopra accennato, la testimonianza cristiana non può avere per oggetto una verità astratta, una certa idea su Dio e nemmeno propriamente un certo evento, ma una Persona: Cristo Gesù morto e risorto. La teologia del martirio, quindi, è 155

Cfr. Marc 14,63; Act 6,13. Cfr. Act 22,20; Apoc 2,13. 157 Cfr. MOLINARI, «Martire», 903. 158 Cfr. MOLINARI, «Martire», 904. 156

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interamente fondata sulla morte di Cristo e sul suo significato. Cristo è il prototipo dei martiri159, è il servo di Jahvé annunciato da Isaia che deve soffrire per giustificare moltitudini160, che è venuto per dare la sua vita in riscatto per molti161. La salvezza del mondo si è compiuta attraverso la sofferenza e la morte del “testimone” del Padre162. All’origine della testimonianza cristiana sta, allora, un’altra testimonianza, quella resa da Gesù nel mistero pasquale nel quale risplende la sua “martyría” che diventa inizio e compimento di altre testimonianze suscitate e sostenute dall’esempio del Maestro che, nello Spirito, ha offerto al Padre la sua vita sulla croce e nello stesso Spirito è stato risuscitato. Fulcro di questa testimonianza è il mistero della croce dove si delineano nitidamente l’abisso inesauribile del Dio-Amore, la dignità filiale dell’Unigenito e la figura compiuta del dono: il Padre dona contemporaneamente il calice della passione e la gloria della risurrezione; il Figlio è colui che accoglie entrambi, dando la sua vita per poi riprenderla di nuovo163, in totale obbedienza; lo Spirito Santo è il dono stesso, dato dal Padre per la vita del Figlio, e in lui del mondo, accolto e ridonato dal Figlio. Sulla croce Cristo consumò il sacrificio dell’amore affinchè gli uomini avessero la vita164. La croce, dunque, «non solo rivela la misura dell’amore, il permanente paradigma a cui tutto l’agire cristiano deve venire continuamente commisurata, ma anche la forma di un’esistenza filiale»165 nella quale i credenti diventano figli nel Figlio. Il Figlio, così, testimonia una “communio” che implica il dono di una partecipazione ad essa166. Proprio perché la morte salvifica di Cristo sulla croce è di una importanza così fondamentale si commprende agevolmente perché vi sono sempre stati i martiri e perché ve ne saranno sempre. Cristo stesso ha esortato ripetutamente i fedeli a prendere la loro croce e a seguirlo nella via regale della sua passione167. Il concetto biblico di testimonianza, perciò, implica non solo un’attestazione, ma anche un appello a dei de159

Cfr. Phil 2,6-8. Cfr. Isa 52,13-15; 53. 161 Cfr. Matth 20,28. 162 Cfr. Matth 16,21; 26,54.56; Luca 17,25; 22,37; 24,7.26.44. 163 Cfr. Io 10,17. 164 Cfr. Io 10,10. 165 ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 309-312. 166 Cfr. 1 Io 1,3. 167 Cfr. Matth 10,38-39; Io 12, 24-26. 160

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stinatari; un appello a testimoniare un messaggio che è pasquale, cristologico, trinitario e lo si deve fare in modo assoluto, costi quel che costi. Questo appello affonda le sue radici nel battesimo nel quale i fedeli sono stati iniziati alla vita cristiana nella morte di Gesù168. La comprensione di ciò che questo inserimento in Cristo comporta rende evidente che tutti i cristiani, in virtù del loro battesimo, devono essere sempre pronti a morire per Cristo e che l’essere a Lui associati nella donazione di sé fino alla morte, è il modo più nobile di seguirlo169. In questo percorso il discepolo di Cristo fa l’esperienza dello stesso odio immotivato che il mondo ha avuto per il maestro, ma nello stesso tempo fa l’esperinza di come la sua testimonianza e quella del Figlio sono accomunati dallo stesso Spirito che le anima170. La testimonianza peculiare del martirio si compie nella morte; anzi il martirio non è altro che la partecipazione al mistero della morte di Cristo e in ciò differisce da ogni altra morte che l’uomo possa ricevere. Esso si realizza quaggiù sulla terra come testimonianza al mondo, come vittoria sul maligno: il peccato del mondo lo infligge ed il martirio è in sé atto che lo ripara. Tutto il peccato del mondo continua a dar la morte a Cristo e in lui a tutti coloro che gli sono uniti171. I concetti di morte e di testimonianza sono, quindi, coessenziali al concetto di martirio: il martire offre al mondo la sua testimonianza mediante la libera accoglienza della morte vissuta come atto di assoluta libertà che ha come oggetto referenziale un’altra morte, unica ed irripetibile: la morte del Figlio unigenito appunto. In altri termini, perché la morte del discepolo sia al servizio della testimonianza occorre che essa esprima più compiutamente il suo “proprium” che consiste nel vivere nella morte stessa il mistero della croce di Cristo172. In questo modo il martire testimonia non soltanto la libertà che ha raggiunto nella morte e il massimo grado possibile dell’affidamento a Dio, ma anche la forma cristologicotrinitaria di tale morte che gli permette di testimoniare come si può mo-

168

Cfr. Rom 6,3s. Cfr. MOLINARI, «Martire», 907. 170 ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 293. 171 Cfr. RAHNER, «Interprétation théologique du témoignage», 181. 172 Cfr. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 298-299. 169

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rire in e come Cristo, secondo la specifica modalità del suo affidamento al Padre e del suo dono incondizionato agli uomini173. La morte del martire è il punto finale di una dedizione e il sigillo di un’appartenenza accolta e fatta conoscere fino al compimento: essa è morte nella croce gloriosa che assomiglia alla morte di Cristo, le cui componenti sono contemporaneamente l’ obbedienza e l’offerta: egli, da una parte si fa obbediente fino alla morte174, dall’altra si dà liberamente alla morte175. È questa morte che permette ai credenti, attratti dal mistero della croce, di andare verso il Padre, poiché li assume nel suo stesso dinamismo di amore. Per questi motivi il martirio è stimato dalla Chiesa come «eximium donum supremaque probatio caritatis»176. La realtà più profonda del martirio, dunque, è quella di essere “dono insigne” e “suprema prova di carità”; di conseguenza il martirio e la vocazione ad esso non sono frutto di uno sforzo e deliberazione umana, bensì la risposta ad una iniziativa e chiamata di Dio che, invitando a tale testimonianza di amore, plasma l’essere del chiamato conferendogli la capacità di vivere tale disposizione d’amore. In virtù dell’unione che Cristo, per grazia, stabilisce con i martiri, rendendoli partecipi della sua vita e quindi della sua carità, è Cristo stesso che, mediante il suo Spirito, parla ed agisce in loro177. Per questo motivo non mancheranno mai le persecuzioni nella Chiesa; in esse è la vita di Cristo che continua nella Chiesa. Il martirio, poi, è reso possibile innanzitutto dalla grazia del Signore, la cui potenza si manifesta pienamente nella debolezza178, e ciò spiega il coraggio e la perseveranza sovraumani manifestati da tanti martiri. Il fatto che il martirio è un dono e una grazia di Dio non significa però che la personalità umana del martire e la sua più preziosa prerogativa, la libertà, vengono soppresse o diminuite dalla grazia stessa. Al contrario la possibilità della libertà umana e dell’amore spontaneo vengono arricchite e nobilitate in modo eminente dalla grazia: è proprio nel martirio che la persona umana attua, sotto l’impulso della grazia, la sua più autentica 173

Cfr. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 293-294. Cfr. Phil 2, 8. 175 Cfr. Io 10,18. 176 LG 42. 177 Cfr. Matth 10,19-20. 178 Cfr. 2 Cor 12,9. 174

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possibilità di libertà e di amore, in quanto, in un atto unico ed irrevocabile, dona a Dio tutta la sua esistenza terrena e, in un atto supremo di fede, speranza e carità, si abbandona radicalmente e totalmente nelle mani del suo Creatore e Redentore179. Il significato della croce, allora, non deve però essere semplicemente contemplato, ma postula una dinamica di “attrazione”, affinchè nei discepoli risplendano gli stessi tratti del crocifisso-risorto. Il martire è testimone appunto perché riproduce, nella peculiarità della sua vicenda, i lineamenti dell’amore rivelato nella croce. In questo senso la croce struttura radicalmente l’esistenza del credente e quella del martire in particolare. Così l’esistenza del discepolo sarà cruciforme nella sua radice e nelle sue manifestazioni. Il martirio, insomma, è al culmine di un processo di attrazione e di configurazione alla “dynamis” della croce, il cui dono filiale-sacrificale informa la vita del fedele, che è chiamato ad assumerla con il “si” della sua libertà nella sua vicenda esistenziale, seguendo il crocifisso a cui è intimamente unito fino al dono totale180. 3.2.3. La dimensione trinitaria del martirio Dall’analisi teologica di ciascuna delle orazioni dei formulari agatini è emersa la dimensione trinitaria di questi testi. Trattandosi di testi inseriti nel contesto di una celebrazione liturgica in onore di una martire, in una riflessione teologico-liturgica, diviene quasi naturale porre in relazione questa dimensione trinitaria con la realtà stessa del martirio. Dire dimensione trinitaria del martirio significa evidenziare il modo in cui le Tre Persone Divine interagiscono con il martire. In questa prospettiva possiamo notare innanzitutto l’opera di Dio Padre, il quale prende l’iniziativa di chiamare la persona interessata a prendere parte al suo amore e di suscitare, in virtù dello Spirito Santo, la vocazione al martirio come chiamata a configurarsi al modello di ogni martirio che è Gesù Cristo in croce. La realtà di fede, quindi, sta a dire che il martire è attratto da una vocazione divina. La stessa fedeltà che il martire esplica nella risposta a Dio è fedeltà alla vocazione al martirio, che si riduce a vocazione alla santità. Dio Padre, nel martirio, chiama alla matu179 180

Cfr. MOLINARI, «Martire», 908. Cfr. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 304-319.

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razione della santità fino a che una persona giunga alla pienezza del Cristo181, ad essere cioè sua immagine, attuando più pienamente l’immagine di Dio nell’uomo. Per fare questo, Dio Padre si impossessa del martire pur lasciandolo nella sua originalità e libertà personale. Di conseguenza Egli si dona tutto nella sua interpellanza ed esige d’essere ricambiato. Egli ancora sarà presente nell’azione martiriale per guidarla fino in fondo. Per questo esige che il martire risponda con donazione totale in correlazione alla infinita donazione di Dio. Così, l’uomo che si muove verso il Padre per mezzo della configurazione a Cristo nello Spirito, è pronto a sacrificare se stesso. Con questo non si vuole dire che Dio Padre abbia bisogno di ulteriori sacrifici, oltre a quello di Cristo, ma si vuole sottolineare che, essendo il martirio una “grazia” speciale, non lo si può disgiungere dall’iniziativa di Dio-Padre che, nella scelta di una determinata persona al martirio, cela una chiamata di predilezione a fungere da testimone e da mediatore sulla scia di Cristo e in subordinazione a Cristo unico e supremo Mediatore. L’altra dimensione che si può mettere in evidenza in una considerazione del martirio in chiave trinitaria è la dimensione cristologica. Come Cristo, anzi in Lui, i martiri danno la propria vita per gli altri. Ciò fa del martirio non un fatto a sé, ma un evento salvifico, cioè non un fatto isolato, ma un fatto situato in una storia, la storia della salvezza appunto. Il centro di questa storia è Cristo. Il martirio, essendo una risposta data all’iniziativa di Dio in forza e nella potenza dello Spirito Santo per conformare il martire a Cristo in croce, fa sì che Dio entri nella vita dell’uomo e lo spinga con Cristo, per Cristo e in Cristo alla reale conformità e contemporaneità con la sua morte e risurrezione che costituisce l’evento centrale della storia della salvezza. La dimensione cristologica del martirio, poi, si verifica a diversi livelli. Innanzitutto sul piano analogico-ontologico182. Da questo punto di vista si può rilevare che Gesù Cristo è l’icona del Padre183; Egli è pure l’immagine che il martire vuole imitare. Il martire diventa icona del Figlio, perché Cristo è presente in lui fino al punto che il martire patisce e muore con Cristo, completando nella sua carne ciò che manca ai suoi patimenti, af181

Cfr. Eph 4,13. Cfr. TRIACCA, « Martirio: il significato salvifico-sacramentario», 266-268. 183 Cfr. Col 1,15. 182

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finchè la vita di Gesù si manifesti nella sua carne mortale. Il martire realizza questa realtà in modo pieno fino al punto che viene costituito “figlio nel Figlio”184 perché riconosciuto tale dal Padre come proclamò e glorificò il suo Unigenito nel momento della morte. In questo modo il martire realizza l’assimilazione a Cristo, è costituito “nuova creatura”185 e “coerede”186 con Lui. In secondo luogo la dimensione cristologica del martirio si manifesta sul piano etico187 dove si può sperimentare come il martire, nell’imitazione di Cristo, si conforma in sentimenti, in atteggiamenti ed azioni al totale abbandono alla volontà di Dio Padre per amore di Cristo in vista della sequela. Il fondamentale atteggiamento ontologico presente in questo piano etico dell’imitazione di Cristo è seguire la fedeltà inconcussa al Padre che lo rende obbediente fino alla morte. In altri termini: il donare la propria vita per testimoniare la fede è un conformarsi a Cristo, imitandolo. Questo mettersi totalmente alla sequela di Cristo diventa, non solo un’imitazione del suo comportamento, ma contiene in sé un’attitudine morale. Gesù Cristo, allora, è a nuovo titolo il modello a cui si rapporta il martire. A fondamento di questa realtà c’è il fatto di una presa di possesso con cui Cristo afferra la vita del martire per inserirla nella sua. La terza dimensione teologica del martirio considerato in chiave trinitaria è la dimensione pneumatologica. Ciò è vero innanzitutto sul piano analogico-ontologico188 nel senso che lo Spirito Santo opera nel martire e lo spinge a dire il suo “sì” a Dio Padre. Con il martirio la “christificatio in Spiritu” giunge ad un alto livello di intensità fino al punto che il martire è configurato a Cristo in croce. È lo stesso Spirito Santo che, con attrattiva d’amore e di unione, unge come testimone ed intercessore il martire. È il dono dello Spirito che spinge i cristiani ad approfondire la comunione tra loro e ad essere più decisamente orientati al Padre in Cristo. A questo dono dello Spirito deve corrispondere una risposta di donazione di sé che è anch’essa dono dello dello Spirito che agisce nel martire perché cooperi ecclesialmente e personalmente alla edificazione del Corpo di Cristo. Personalmente perché il martire, nel bagno della sua morte viene immer184

Cfr. 1 Io 3,1; Gal 4,5-6; Rom 8,30; 2 Pt 1,4; Eph 1,5; 5,8; Hebr 6,4; 10,32. Cfr. Gal 6,15. 186 Cfr. Gal 4,6ss; Rom 8,27. 187 Cfr. TRIACCA, « Martirio: il significato salvifico-sacramentario», 268-269. 188 Cfr. TRIACCA, « Martirio: il significato salvifico-sacramentario», 280. 185

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so nella morte di Cristo per risorgere con Lui a vita nuova. Ecclesialmente perché il martire è testimone della vitalità della Chiesa. Al moto discendente del Padre verso il chiamato al martirio e alla elargizione del suo dono che prende la sfumatura di uno speciale carisma, corrisponde la risposta ascensionale del candidato al martirio la cui vita diventa un olocausto perfetto che, in un aspetto verticale, viene accettato da Dio per la salvezza del mondo che si concretizza anche nel martire. Nello Spirito Santo, quindi, attraverso una speciale configurazione all’umanità sofferente di Cristo rivissuta nelle membra tormentate del martire, l’umanità tutta ha accesso al Padre. In altri termini: il dono dello Spirito è presente perché il martire contrasti la “fragilità della carne”; infatti lo Spirito Santo dato al martire dice slancio, movimento, energia per realizzare e dispiegare nella sua potenza la chiamata di Dio. Tutto ciò ha anche delle ripercussioni sul piano orizzontale nel senso che, l’evento-martirio fa sì che il martire si apra agli altri, alla Chiesa con mansioni specifiche, tra cui spiccano quelle della testimonianza e dell’esempio. In secondo luogo l’azione dello Spirito Santo nel martirio si può cogliere anche sul piano etico189 dove l’evento-martirio, sotto l’influsso dello stesso Spirito, diviene proclama ed annuncio. Ciò si verifica sia nell’ordine della rappresentazione, sia nell’ordine dell’operazione. Nell’ordine della rappresentazione l’evento-martirio informa, reca un messaggio: il martire “avverte” che esiste qualcosa di più valevole rispetto alla vita terrena e che Dio ha qualcosa da farci pervenire. Nell’ordine dell’operazione, invece, il martirio invita ad accettare e ad entrare nell’ordine delle idee che proviene dal martire stesso. In questo senso si comprende come “martire chiama martire”, perché in questo ordine di cose si stabilisce tra il martire e chi entra in sintonia con lui, una comunione di intenti, fino a realizzare concretamente ed efficacemente la stessa realtà. Emerge così, ancora una volta, l’intimo nesso tra martirio e Spirito Santo. Il martirio, perciò, lo si può definire un evento pneumatologico nel senso che lo Spirito non sarebbe solamente l’autore della donazione martiriale, ma anche il dono ricevuto, accettato e più profondamente posseduo dal soggetto.

189

TRIACCA, « Martirio: il significato salvifico-sacramentario», 280-282.

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3.2.4. La dimensione ecclesiale del martirio I testi eucologici agatini spesso contengono una chiara dimensione ecclesiale che, considerata all’interno del contesto celebrativo in onore di una martire, ci permette di riflettere anche sul rapporto tra questa dimensione e il martirio e abbiamo potuto constatare che questa è anche una delle dimensioni portanti della visione teologica di esso. Per fare una riflessione sistematica su questo aspetto dobbiamo muovere da un duplice fondamento: da una parte la teologia del corpo mistico e della carità teologale, dall’altro la teologia del mistero pasquale. La teologia del corpo mistico e quella della carità teologale190 fanno comprendere la dimensione ecclesiale del martirio per il fatto che esso è concepito come atto buono compiuto da un membro del corpo mistico che torna a beneficio di questo, perché atto supremo di carità. Il martirio, infatti, è l’atto privilegiato nel quale Cristo rivive la sua salutare passione e la sua morte per la Chiesa nelle membra del suo corpo. Le sofferenze del martire sono dunque, in un certo senso, le sofferenze di Cristo stesso sostenute da lui non già nella sua natura umana, ipostaticamente assunta dalla persona del Verbo, ma nelle persone umane che sono state incorporate nella sua umanità e vivono della sua vita. In questo senso il martire completa nella sua carne, più di qualunque altro fedele, quello che manca ai patimenti di Cristo191 e così facendo coopera eminentemente con l’opera salvifica del nostro redentore. Ciò non vuol dire, ovviamente, che il martirio aggiunga qualcosa ai meriti di Cristo, che sono per la loro natura infiniti; ma il fatto stesso che il martire viene così intimamente conformato a Cristo, contribuisce alla maggiore santificazione di tutto il popolo di Dio e favorisce l’applicazione dei meriti del Redentore. A tal proposito scriveva Pio XII: «Quamvis enim Servator noster per acerbos cruciatus acerbamque mortem infinitum prorsus gratiarum thesaurum Ecclesiae suae meruerit, harum tamen gratiarum munera, ex providentis Dei consilio, nobis per partes dumtaxat impertiuntur; earumque maior silio, nobis per partes dumtaxat impertiuntur; earumque maior vel minor ubertas haud parum a nostris quoque pendet recte factis, quibus eiusmodi caelestium donorum imber, sponte a Deo datus, super hominum attrahatur animos»192. 190

Cfr. MOLINARI, «Martire», 910-911. Cfr. Col 1,24. 192 PIUS XII, Ep. enc. Mystici Corporis (29.06.1943), in AAS 35 (1943) 245. 191

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L’altro fondamento è il legame del martirio con il mistero pasquale di Cristo. Il tempo della Chiesa, infatti, è il tempo in cui si deve manifestare la perenne attualità del mistero pasquale. Il martirio, secondo questo dinamismo, diventa una manifestazione, nello spazio della Chiesa della potenza del mistero pasquale e appartiene alla Chiesa come sua nota essenziale193; appartine a tutta la Chiesa anche se poi essa, di fatto, lo soffre in alcuni suoi membri soltanto, e i suoi fedeli, se non lo soffrono tutti nella loro carne, lo vivono nel loro spirito. Tutto ciò fa di Cristo e della Chiesa una cosa sola poiché, per dirlo con il pensiero di papa Giovanni Paolo II, nella grande schiera di santi e di martiri: «…sanctitas plus quam umquam facies illa visa est quae Ecclesiae mysterium aptius patefacit. Cum conspicue sine verbis nuntiet, vivum Christi vultum ipsa prae se fert»194.

Ma si può citare anche un passo della LG: «In vita eorum qui, humanitatis nostrae consortes, ad imaginem tamen Christi perfectius transformantur (cf. 2Cor 3,18), Deus praesentiam vultumque suum hominibus vivide manifestat. In eis Ipse nos alloquitur, signumque nobis praebet Regni sui(158), ad quod tantam habentes impositam nubem testium (cf. Hebr 12, 1), talemque contestationem veritatis Evangelii, potenter attrahimur»195.

Il martire ama la Chiesa in Cristo e morendo ne edifica la struttura, nel senso che la sua azione di testimonianza, diventa “segno particolare” della lotta che la Chiesa deve sostenere nel mondo per contrastarlo in tutto quanto vi è di ostilità a Cristo. In questo contesto ecclesiale i martiri sono testimoni dell’unico e vero martire, che in essi vince il mondo. Emerge la visione del martire come “segno credibile”. Il martire, inoltre, mediante il suo atto offre la vita per Cristo e per i fratelli; l’identificarsi di Cristo con i suoi fratelli rende impossibile dissociare la relazione del martire con Cristo, che egli confessa, da quella con la Chiesa, nella quale e per la quale egli confessa. Il Capo non è mai separato dal suo corpo e ogni volta che un membro del corpo soffre ingiusta193

Ritorna quella visione del martirio messa a punto dalla teologia contemporanea: cfr. par. 3.2.1. del presente capitolo. 194 NMI 7. 195 LG 50.

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mente è il Capo stesso a soffrire con lui. Vi è, quindi, una solidarietà di Cristo con i martiri nel senso che il martire è testimone del volto vivo di Cristo, in quanto questi è profondamente solidale con i suoi. Aspetto ecclesiale significa altresì che il martire non è mai solo nella sua testimonianza. Questo non solo per il suo legame a Cristo, ma anche perché nel martire è in qualche modo tutta la Chiesa che soffre e si offre. Il singolo è chiamato a rispondere liberamente della sua vita dinanzi alla richiesta d’amore del Signore, ma non può farlo se non è sostenuto dalla compagine ecclesiale e quando un fedele riceve la grazia del martirio, lo fa sempre, più o meno esplicitamente, a nome dell’intera Chiesa e sostenuto dalla fede dell’intera Chiesa. Il martire edifica dunque la Chiesa, ma la Chiesa, reciprocamente, sostiene e incoraggia i suoi figli ad offrirsi per Cristo. La Chiesa, inoltre, non è solo il contesto vitale nel quale il martirio prova le condizioni proprie per svilupparsi, né è solo beneficiaria della testimonianza suprema e dell’intercessione del martire, ma è anche criterio oggettivo della verità del martirio. Non ci può essere martirio “praeter ecclesiam”; non basta morire per il nome di Cristo se non si muore anche in seno all’unità della Chiesa. Alla luce di tutto ciò possiamo anche dire che il martirio ha una dimensione ecclesiale nel fatto che esso costituisce una delle vocazioni, non l’unica, sebbene la più eccellente, nell’ambito della Chiesa. In questo senso il martirio diventa allora non solo epifania del mistero pasquale, ma anche, epifania della risposta d’amore della Chiesa all’appello del Risorto a seguirlo dove egli è. «Questo carattere epifanico del martirio diventa un servizio non solo al mondo, il qual viene messo a contatto vivo con il mistero pasquale, ma anche alla Chiesa e ritorna a vantaggio di tutti perché è dono di testimonianza per tutta la Chiesa e di partecipazione agli altri dello stesso mistero pasquale, permettendo ai fratelli di intensificare il loro legame con la croce per completare nella loro carne ciò che manca ai patimenti di Cristo (Cfr. Col 1, 24)»196.

Ma che cosa significa dare la vita per i fratelli? Morire per i fratelli vuol dire morire lasciando loro il dono di una testimonianza, attestante che il legame essenziale della vita è quello con Dio e indicante una vita altra. In virtù della loro suprema testimonianza i martiri sono più effica196

Cfr. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 355.

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ci di qualsiasi altro testimone e il loro sangue diventa una semente197 da cui sorge la Chiesa e mediante cui si rinnova la sua giovinezza. Il martirio è dunque vero e proprio servizio reso alla comunità mediante l’intercessione e la testimonianza, che comprende perfino l’amore e la preghiera per i nemici. All’interno della sua funzione ecclesiale, così, il martirio acquista anche il valore di segno perchè essi diventano mediatori di vita e generano alla vita autentica testimoniando che l’altra vita è da preferirsi a questa vita. 3.2.5. Martirio ed eschaton Un’altra dimensione che spesso è emersa nell’analisi teologico-liturgica dei testi eucologici agatini è quella escatologica. Considerando anche in questo caso il contesto dei formulari che contengono queste orazioni, possiamo mettere in relazione questa dimensione con il martirio, facendo emergere il legame tra martirio ed eschaton. Il martirio è un segno escatologico in quanto attesta in modo particolarmente convincente che i seguaci di Cristo crocifisso e gloriosamente risorto non hanno quaggiù una città stabile, ma cercano e devono cercare quella futura198. Il martire nel suo atto supremo raggiunge quella fine dei tempi venuta per tutta la Chiesa199 e che egli manifesta al mondo come tempo definitivo, escatologico. In altri termini: il martire per grazia corrisponde alla chiamata ad essere testimone del Risorto e a dare visibilità storica all’ephapax del mistero pasquale. In tal senso il martirio è sacramento dell’eschaton. La storia si sviluppa in accadimenti speso contraddittori e oscuri, ma c’è sempre un nucleo di luce che soggiace ad essi. L’Apocalisse esprime tutto questo affermando che l’Agnello è il sovrano della vicenda cosmica, il solo degno di aprire i sigilli del rotolo della storia, perché egli ne è il senso nascosto e sostanziale200. La sua vittoria scatena una battaglia contro di lui feroce, aggressiva ed assurda. Da questo paradossale stato di cose, ne consegue che i martiri sono testimoni dell’escaton in modo drammatico, poiché anch’essi combattono 197

Cfr. TERTULLIANUS, Apologeticum, 50,13, ed. E. Dekkers (CCL 1), Turnhout 1954,

171. 198

Cfr. Hebr 13,14. Cfr. LG 48. 200 Cfr. Apoc 5,6. 199

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la stessa battaglia, sostenuti solo dalla consolante certezza della vittoria dell’Agnello. Nel martirio essi subiscono un’apparente sconfitta, ma in realtà manifestano quella vittoria che è già avvenuta e si manifesta nelle pieghe della storia. I martiri sono epifania di questa vittoria e hanno avuto il ruolo di togliere il velo a ciò che è nascosto venedo a contatto con il punto più profondo del mistero pasquale. Essi possono irradiare sul mondo lo slendore di questo mistero, comunicando una potenza che attrae e sono chiamati ad essere segni di un tale mistero che essi testimoniano in un’esperienza cruciforme vissuta in una sequela che diventa irrevocabile dono della vita201. In questa prospettiva, spesso emerge l’unità tra liturgia e vittoria. Solo se si intravede la vittoria di Cristo, coloro che sono stati resi vittoriosi con lui possono intonare la liturgia di lode e di adorazione intonando un canto nuovo perché inaudito, definitivo ed escatologico. Il regno di sacerdoti è creato, infatti, dal Cristo nel suo mistero pasquale che rende i fedeli “santificati” per mezzo del battesimo nella sua morte e solo coloro che hanno reso testimonianza possono celebrare il suo culto. 3.2.6. Il martirio come epifania del mistero pasquale Nella nostra analisi dei testi eucologici abbiamo spesso messo in rilievo come tra il mistero pasquale del Cristo e il martirio intercorra un essenziale vincolo in quanto il martire si configura in modo plastico, vero, vivo ed intimo al mistero della passione-morte di Gesù ed è reso più prossimo a completare il mistero pasquale nella gloria. Nella nostra analisi, inoltre, abbiamo constatato che tutta la vicenda di Agata — la sua breve esistenza, la sua intensa vita cristiana, la coraggiosa testimonianza data a Cristo, il suo martirio e la sua glorificazione — trova fondamento, giustificazione e spiegazione nel mistero pasquale di Cristo. Anche in questa vicenda, quindi, possiamo constatare come il martirio cristiano — umile testimonianza del discepolo ad uno che per lui si è donato fino alla fine, risposta di amore di chi si è sentito chiamare a percorrere la stessa via del Maestro, “si” riconoscente al mistero della croce — è in sintesi “epifania del mistero pasquale”202 ed uno dei «luoghi della rivelazione di Dio»203. La dimensione pasquale del martirio si manifesta nel fatto che 201

ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 353-354. Cfr. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 350. 203 Cfr. MAGGIONI, «Il martirio, rivelazione di Dio», 738-748. 202

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questa esperienza dimostra a tutti gli uomini la forza vittoriosa di Cristo che ha superato la morte e l’eminente potenza del suo Spirito che anima e sostiene il suo corpo mistico, la Chiesa, nella lotta contro le potenze delle tenebre e del male. Il martire, perciò, testimonia e manifesta il mistero pasquale che, in qualche modo, si riproduce e si ripresenta quando egli, mediante il suo atto di testimonianza, fa volgere lo sguardo dell’osservatore verso la sorgente della testimonianza. La testimonianza del martire, allora, è in un certo senso “mistagogica” in quanto non attira su di sé, ma sul Cristo crocifisso, morto e risorto204. La testimonianza del martirio, poi, è epifania del mistero pasquale anche perché inserisce nella dinamica di attrazione che tale mistero esercita sui credenti nei quali tende a riprodurre gli stessi tratti del Cristo pasquale. Tale dinamica è costituita da alcuni presupposti che qualificano in senso cristiano il martirio. Il primo presupposto è dato dal fatto che il martirio non va cercato, ma va accettato se si verificano le condizioni nelle quali è l’unico modo di rimanere fedeli al Signore dandogli testimonianza. Il secondo presupposto è in un certo senso legato al primo e si esplica nella necessità della elezione: perché si dia testimonianza è necessaria quella previa “vocazione” precedentemente accennata; essa trasformerà la testimonianza del martire in epifania della croce, in dono gratuito ed immeritato. Nella prospettiva della croce il martirio diventa la prova più sicura dell’amore del discepolo verso Dio e questo lo rende l’ideale più alto cui tende la vita cristiana per compiere in pienezza l’esperienza della sequela del Maestro. Questo aspetto cruciforme della morte, inoltre, costituisce l’essenza del martirio cristiano quale testimonianza del morire in e con Cristo. Entro questi limiti va pure compreso il “desiderio del martirio” che corrisponderebbe alla forma crucis che il mistero pasquale imprime nella vita del discepolo. Questo “desiderio” non significa amare la morte in quanto tale poiché il martirio è sempre una questione di vita, che assume la morte a testimonianza di una “vita altra”. Si tratta, dunque, sempre di un desiderio di unione con Cristo, raggiunto mediante il dono della vita205. Nella prospettiva pasquale, così, il martirio diventa vittoria dell’innocente, di colui che non reagisce alla violenza con la violenza, ma che scon204 205

Cfr. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 351. Cfr. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 302-303.

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figge totalmente il male che contro di lui si accanisce con il perdono. Nessuna ragione umana, nessuna convenienza estrinseca giustifica questo atto, se non la logica di un amore puro. Amore che si fa creativo, nel senso che istituisce un legame del tutto nuovo tra la vittima e il carnefice: un legame sottratto alla logica della vendetta e posto in essere invece da questo atto puro, divino che crea una novità in una relazione nella quale al carnefice è resa disponibile l’accoglienza incondizionata, il perdono. Questa creatività del perdono è la fecondità della croce, la trasformazione dei legami di morte in relazioni vitali206. Questo duplice presupposto si declina necessariamente in modi e gradi diversi, poiché coinvolge le singole personalità dei testimoni, gli accadimenti concreti delle loro vicende, il contesto storico ed ecclesiale. Questo rende la testimonianza non solo sempre diversa, ma anche intrinsecamente difettosa rispetto la “martyría” di Gesù da cui deriva. Il terzo presupposto che fa del martirio un’epifania del mistero pasquale è quello della persecuzione che è la paradossale occasione perrenne di rendere testimonianza e rende il martirio una prospettiva sempre aperta per la Chiesa di Cristo. Il quarto ed ultimo presupposto è la “parresia”, ossia la prontezza e la disponibilità a dare testimonianza in un contesto di persecuzione nella consapevolezza che la salvezza è data solo dal nome di Gesù. La morte dei martiri e la morte di Gesù non sono che un solo atto di redenzione; sono la vittoria continua di Cristo sulle potenze del male. Il martirio, continuando la morte di Cristo, diviene così come il segno continuo della redenzione, la prova che questa redenzione è atto presente che opera con divina efficacia l’unità dei fedeli con Cristo. Tutti questi presupposti in definitiva si radicano nel presupposto originario del mistero pasquale epifanicamente consegnato alla Chiesa dove la fragile testimonianza del martire diventa manifestazione della “dynamis” della risurrezione, presenza nel tempo della gloria dell’eterno207. La prospettiva pasquale del martirio ci porta a fare anche delle considerazioni di carattere teologico-liturgico. Il martirio, dunque, riletto secondo le tre dimensioni dell’anamnesis, epiclesis e methéxis, appare come dono dello Spirito per una cristificazione del fedele che vuole condivide206 207

Cfr. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 327. Cfr. ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 351-352.

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re con il Maestro la sua stessa sorte. Non esiste, infatti, attuazione del mistero della salvezza, né possibilità di partecipazione ad esso, senza un impegno personale nella vita quotidiana nella Chiesa e nel mondo. In questo senso tutta la vita cristiana non è altro che la logica conseguenza del contatto personale con il mistero celebrato. Il martirio, quindi, è realtà anamnetica del sacrificio che Cristo sulla croce ha offerto al Padre per la Chiesa e partecipato ai fedeli che hanno risposta al suo appello. Il dono che Gesù fa di sé al Padre e, in forza dello Spirito, alla Chiesa si ripete in modo anamnetico anche quando si fa la memoria di un cristiano che nel martirio ha partecipato a questo sacrificio. Con la celebrazione liturgica si ha l’anamnesi del mistero della croce che diviene presente nel ricordo del martire che nel martirio si è identificato a Cristo crocifisso. Il martirio è, dunque, comunione con Cristo nell’atto stesso della sua morte e risurrezione, nella sua Pasqua. Si capisce così quella formulazione conciliare secondo la quale nei martiri la Chiesa proclama il mistero pasquale di Cristo e nel loro giorno natalizio continua a proclamare le stesse meraviglie di Cristo che si prolungano nei suoi servi208. Nella celebrazione liturgica di un martire, allora, si ricorda il mistero dell’assimilazione del martire-testimone alla Pasqua di Cristo. Ciò concretamente significa attestare che il martire ha seguito le orme di Cristo e per suo amore ha versato il suo sangue; che il martire ha comunicato alla passione di Cristo e ha proclamato con la parola e con il sangue la propria fede pasquale. Il martirio, poi, è anche epiclesis per il fatto che è frutto dello Spirito Santo. È Lui che nella Chiesa e nei cristiani muove, sprona, attiva ed attua l’unione con Cristo209 e sprona i fedeli al fine ultimo di ottenere l’incorruttibile corona di gloria. Il martirio, in fine, è anche methéxis perché il credente mediante il battesimo viene inserito nella Chiesa, corpo di Cristo; essa è chiamata a rendergli testimonianza con il sangue per la salvezza del mondo. Ad ognuno pertanto si impone l’imitazione di Cristo, la sequela sulla via dolorosa, per essere conformato alla sua sorte di dolore, di morte e di gloria. Gesù stesso sottolinea la grandezza dell’amore eroico dei martiri quando insegna ai suoi discepoli che è necessario che il chicco di grano muoia per ot208 209

Cfr. SC 104. Cfr. LG 40.

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tenere frutto210; e che un servo non può essere più grande del suo padrone211; e chi vuole essere suo discepolo di deve prendere ogni giorno la sua croce e seguirlo212. Il libro dell’Apocalisse in modo particolare esalta le gesta di coloro che si sono posti sulle orme del “Testimone fedele e verace”, dando la loro testimonianza con il versamento del sangue213. Essi furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che avevano resa214. Proprio perché il martirio è il più grande atto di amore, esso costituisce la via più nobile alla santità; in esso si esprime la più perfetta conformità a Cristo, si consegue la piena comunione con la vita e la santità di Dio e si viene trasformati nell’immagine del Maestro. La dimensione liturgica, inoltre, ci dice che il mistero pasquale è contemporaneo ad ogni uomo nei sacramenti della Chiesa, nei quali si radica la possibilità di comunicare realmente alla stessa croce del Salvatore. Nel battesimo, infatti, i fedeli sono battezzati nella morte di Cristo, vengono sepolti insieme a Lui per poter camminare in una vita nuova e partecipano alla risurrezione di Lui: la croce viene impressa quale “forma” nella vita del battezzato, reso, così, in questa stessa croce, figlio amabile del Padre, perché immagine compiuta dell’Unigenito. Ciò che viene donato in germe nel battesimo è rafforzato dalla confermazione ed è chiamato a compiersi nel sacramento dell’Eucaristia che è dono per eccellenza alla Chiesa. 3.2.7. Martirio ed Eucaristia Il martirio cristiano da sempre è stato pensato in rapporto all’Eucaristia. Per affrontare questo legame distiguiamo tre livelli. Il primo livello è quello analogico-ontologico215. Infatti, nell’Eucaristia incontriamo Cristo nello stato di vittima che si offre totalmente al Padre. Il martire, da parte sua, dà valore al suo sacrificio accettandolo con Cristo, in Cristo e per Cristo. Così il martirio va interpretato quale riproduzione nella propria carne dell’offerta di Cristo che si perpetua nel sacrificio eucaristico e dunque come piena accoglienza di tale dono. 210

Cfr. Io 12,24. Cfr. Io 13, 16. 212 Cfr. Io 9, 23. 213 Cfr. Apoc 2, 13; 7, 9; 11, 3 ss; 20, 4. 214 Cfr. Apoc 7, 9. 215 Cfr. TRIACCA, « Martirio: il significato salvifico-sacramentario», 284-285. 211

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L’Eucaristia dunque, memoriale del sacrificio di Gesù, non viene celebrato come offerta di Lui solo: con Gesù sacerdote-vittima anche la Chiesa offre e si offre; perciò anche il sacrificio della Chiesa è martirio. L’offerta del Figlio al Padre è comunicata e donata nell’Eucaristia, in cui si perpetua il sacrificio della croce. Sotto i segni del pane e del vino, Cristo è presente come dono massimo, offerta continuamente attuale, in cui, comunicando al corpo e al sangue di Cristo, si diventa una cosa sola con Lui alla stessa maniera dei martiri. Il martire, allora, si configura a Cristo in croce, vittima oblativamente presente nell’Eucaristia. Anticamente, infatti, si celebrava il sacrificio eucaristico sulla tomba dei martiri per significare l’unità del martire con Gesù. Quest’uso, quindi, non era legato solo a motivazioni di ordine pratico, ma ad una precisa visione teologica secondo la quale ciò che viene donato in germe nel battesimo è chiamato a compiersi nell’Eucaristia, dono per eccellenza in cui si perpetua il sacrificio della croce. Prendere parte alla presenza sacrificale di Cristo nell’Eucaristia è, per conseguenza, vertice dell’assimilazione a Cristo, in cui si realizza una unione di intensità massima tra il Figlio e colui che ne porta l’immagine, cosicché nell’Eucaristia è iscritta la verità perenne del disceopolo, cioè il suo essere introdotto, con Cristo e in Cristo, in quel movimento di grata accoglienza del dono del Padre e di obbediente offerta a Lui. In questa dinamica la persona divina a cui ci si offre nel martirio è Dio Padre, nello Spirito. Colui che riceve questo dono viene assimilato alla croce gloriosa e partecipa sacramentalmente all’offerta di Cristo. Come Cristo, analogamente anche il martire si offre direttamente a Dio, quale mediatoresacerdote per l’umanità, perché essa, con Cristo, in Cristo e per Cristo, possa giungere a Dio Padre. Martirio ed Eucaristia sono strettamente uniti e oggettivamente indissociabili anche perché solo la totalità e l’immediatezza della presenza di Cristo nell’offerta di se stesso mediante l’Eucaristia può oggettivamente fondare la radicalità del dono che il cristiano è chiamato a fare della sua vita nel martirio. Così la partecipazione al mistero pasquale, nel supremo dono di sé, si configura non come prestazione di virtù propria, ma come culto in “Spirito e verità”216. In questa dinamica il mistero della croce, quale rivelazione dell’amore trinitario, quale offerta filiale dell’Unigeni216

Cfr. Io 4,24.

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to, donandosi in piena disponibilità eucaristica, coinvolge l’uomo nel movimento di donazione. È il senso dell’offerta a cui chiama Paolo: «obsecro itaque vos fratres per misericordiam Dei ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem sanctam Deo placentem rationabile obsequium vestrum…»217. Il dono di sé è dunque sacrificio, non come autonoma iniziativa cultuale dell’uomo, ma come corrispondente accoglienza dell’unico sacrificio compiuto una volta per sempre218. È questo l’aspetto “sacrificale” o “eucaristico” del martirio, nel senso che esso si inserisce per grazia nel dinamismo dell’unico sacrificio del Cristo, che si fa presente nel sacrificio eucaristico, dove ci viene comunicata la donazione totale del Figlio. Ciò significa che il martirio non è certo un celebrare il sacramento dell’Eucaristia, ma è celebrare la più alta portata salvifica dell’Eucaristia, in unione con Cristo; significa, inoltre, che il piano della salvezza non si esaurisce solo nell’ordine sacramentario, ma si può realizzare anche in modo extrasacramentario come avviene nel caso di coloro che, non essendo ancora battezzati, vengono incorporati a Cristo e alla Chiesa con il martirio-battesimo di sangue. Si può notare, allora, la connessione tra l’Eucaristia e la chiamata del martire ad effondere il suo sangue. In questo legame l’Eucaristia ricevuta diventa in qualche modo Eucaristia compiuta, dono fatto proprio nella carne del fedele. Così il martirio si rivela quale frutto dell’Eucaristia; esso è l’atto di corrispondenza del martire al dono germinato dall’albero eucaristico che si traduce nel lasciarsi assumere nella fecondità dell’offerta pasquale del Figlio219. Sotto questo aspetto ogni cristiano è essenzilamente un martire che deve vivere la morte stessa di Cristo insita nella propria fede. La morte non tronca la vita dell’uomo, anzi la realizza pienamente; la morte non è soltanto il passaggio alla vita vera, ma è l’atto supremo in cui si consuma l’amore. Da questo punto di vista la carità dei primi cristiani non si distingue dalla carità dei cristiani di oggi anche se il vero santo, il perfetto cristiano, colui che realizza fino in fondo il mistero della sua incorporazione a Cristo è il martire. La carità che vive nel cuore dei santi dà a loro un desiderio infuocato di martirio, ma Dio sceglie chi vuole, quando vuole e co217

Rom 12,1. Cfr. Hebr 7,27. 219 ZAMBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, 315-326. 218

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me vuole perché il martirio è grazia che appartiene a tutta la Chiesa più e prima che ai singoli fedeli. Il rapporto tra Eucaristia e martirio ha anche delle ripercussioni sul piano mistico220 per il fatto che l’Eucaritia dice comunione con Dio e comunione dei cristiani fra loro in Cristo. Il martirio, da parte sua, eleva i rapporti di comunione con Cristo e con i fratelli in Cristo in modo così splendente e chiaro che si può asserire essere presente nel martire una funzione di comunione fraterna che supera ogni forma di “agape”. Sul piano ecclesiale, invece, possiamo notare come l’Eucaristia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa, ma resta tuttavia vero che nella vita della Chiesa essa ha in sé la massima efficacia per fare degli uomini dei fratelli uniti in Cristo e in comunione fra di loro come figli dello stesso Padre. Ora sappiamo che l’Eucaristia, riunendo un’assemblea sacerdotale, profetica e regale, rivela visibilmente la struttura della Chiesa-mistero che raduna membra disperse in unità. Vale così un antico assioma secondo cui «la Chiesa fa l’Eucaristia e l’ Eucaristia fa la Chiesa». Altrettanto si deve riconoscere al sangue dei martiri che diventa elemento generatore di altri membri della Chiesa. Nella storia, infatti, si è verificato che ad ogni ondata di martiri si verifica un rifiorire della Chiesa. Con l’Eucaristia perciò il martire ripropone concretamente la propria irrevocabile donazione a Dio, nell’intimo anelito e quasi immediato contatto con quella futura realtà escatologica, previa gloria di cui l’Eucaristia è già pegno e di cui il martire anticipa il mistero. 3.3. Il segno della verginità oggi 3.3.1. Aspetti storici Per contestualizzare e mettere in rilievo la portata del terzo attributo del modello di santità femminile di Agata — la verginità appunto — è bene richiamare a grandi linee alcuni aspetti storici221 della progressiva 220

TRIACCA, « Martirio: il significato salvifico-sacramentario», 285. Citiamo alcuni contributi che ci sono stati utili nella stesura di questa ricostruzione storica: V. NOÈ, «Matrimonio e verginità nella liturgia», in Matrimonio e verginità: saggi di teologia, ed. C. Colombo (Hidelphonsiana 3), Venegono Inferiore 1963, 421-442; J. GRIBOMONT, «Professione», in Dizionario degli istituti di perfezione, 7, edd. G. Pelliccia − C. Rocca, Roma 1983, 884-938; V. GROSSI, «La verginità negli scritti dei Padri» in Il celibato per il Regno, edd. B. Proietti − A. M. Triacca (Studi dell’Istituto di Teologia della Vita Religiosa “Claretianum”), Milano 1977, 134-140; B. PROIETTI, «La scelta celibataria», in Il celibato per il Re221

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comprensione di questa realtà al fine di cogliere la concezione della verginità al tempo di Agata, gli sviluppi che questa virtù ha avuto poi nella storia e il senso dell’attuale proposta di verginità che ancora oggi è viva nella Chiesa come una possibile e precisa scelta vocazionale in ordine alla comune chiamata alla santità. La verginità scelta per il Regno dei cieli appartiene al patrimonio della Chiesa fin dalle origini della sua storia. Il fatto in sé non può essere messo in dubbio, ma è altrettanto vero che molto presto si è sentito il desiderio di elaborare, attorno a questo valore, un annuncio salvifico che lo esplicasse. Con una certa genericità potremmo indicare, come tappe fondamentali dello sviluppo del nostro tema alcuni periodi storici. Come prima tappa prendiamo in considerazione lo sviluppo neotestamentario del tema222. Potrebbero essere molti i passi neotestamentari riferentesi ad una volontà di Gesù circa la verginità, ma a noi interessa cogliere innanzitutto la prospettiva entro cui Gesù ha posto il tema della verginità. In particolare, facciamo riferimento al brano di Matteo 19,3-12. L’interpretazione tradizionale di questo passo ha colto in esso non solo l’approvazione da parte del Cristo della verginità per il Regno, ma anche la dichiarazione di una sua particolare dignità e preminenza nel contesto della vita ecclesiale. L’esegesi più recente, invece, ha cercato di penetrare il significato più profondo del testo vedendo in esso una esplicita affermazione del valore religioso della scelta verginale, che sottolinea da una parte che il fatto che essa non è una realtà per tutti e dall’altra la necessità che essa scaturisca da una «comprensione donata carismaticamente dallo Spirito»223. Anzi si è convinti che solo alla luce della vita verginale di gno, 49-74; E. BIANCHI, «Celibato e verginità», in NDS, 176-190; C. TIBILETTI − L. ODROBIA«Vergine-verginità-velatio», in NDPAC, 2, 5561-5568; Storia della Spiritualità, III A. La Spiritualità dei Padri (II-IV secolo): martirio-verginità-gnosi cristiana, edd. L. Bouyer − L. Dattrino, Bologna 1984, 116-117; A. M. SICARI, Matrimonio verginità nella Rivelazione: L’uomo di fronte alla Gelosia di Dio (Già e non ancora 227), Milano 21992, 23-50. 222 Cfr. F. FESTORAZZI, «Matrimonio e verginità nella Bibbia», in Matrimonio e Verginità: saggi di teologia, 51-158; G. G. GAMBA, «La “eunuchia” per il Regno dei cieli. Annotazioni in margine a Matteo 19,10-12», Salesianum 42 (1980) 243-287; U. VANNI, «Questi seguono l’Agnello dovunque vada», Parola Spirito e Vita 2 (1980) 171-192; ID., «La verginità, ideale della comunità cristiana», Parola Spirito e Vita 12 (1985) 115-127; R. FABRIS, «Gli eunuchi per il regno dei cieli», Parola Spirito e Vita 12 (1985) 128-165; T. VETRALLI, «I vergini seguono l’Agnello», Parola Spirito e Vita 12 (1985) 186-201; L. DE LORENZI, «Verginità», in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 1988, 1639-1654; MAJORANO, «Verginità consacrata», in Nuovo Dizionario di Teologia Morale, edd. F. Compagnoni − G. Piana − S. Privitera, Cinisello Balsamo 1990,1428-1429. 223 MAJORANO, «Verginità consacrata», 1428. NA,

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Cristo è possibile cogliere tutta la densità di questa pericope. Le parole di Gesù si pongono nella prospettiva del Regno. È una prospettiva realizzativa che pone i discepoli in un rapporto con il Maestro stesso. Sarà di fatti Lui il Regno di cui parla e che annunzia, e che la primitiva comunità cristiana incontra vivo nella Chiesa stessa. Alla luce di ciò, possiamo dire che l’eunochia per il Regno è un dono-scelta, attuata e attuabile in vista del Regno, ma grazie all’ esempio di Gesù e alla sua presenza. Si instaura tra Gesù-Regno e colui che volontariamente si fa eunuco un rapporto, un patto, una vera e propria alleanza, fondata nell’amore. Il “già” e “non ancora” del Regno, il “già” del compimento della Pasqua di Cristo, e il “non ancora” della sua Chiesa sposa-pellegrina, dice consapevolezza dell’opera dello Spirito Santo. Esso suscita il dono, dà la forza e la capacità per corrisponderne nella vita, rendendo colui che fa questa scelta una pressante presenza-testimonianza d’amore che addita all’essenziale, a Dio, a Cristo Signore, al Regno. Addita al fine e lo testimonia già compiuto nel presente del mondo224. Un ulteriore arricchimento lo possiamo trovare in Paolo225, del quale prendiamo in considerazione il bano più rappresentativo del suo pensiero sulla verginità226. Da questa pericope si evince che la proposta della verginità non è un “precetto”, ma un “consiglio” in vista delle esigenze del Regno. Paolo, quindi, parlando della verginità, la presenta come una scelta da preferire e ne sottolinea il rapporto pasquale con Cristo, motivo e fine per una tale scelta. Nell’ordine pratico, poi, questo stato di vita risparmia quelle preoccupazioni che impedirebbero la totale dedizione al Regno e dà, invece, quelle preoccupazioni per il Signore. Predomina, quindi, la preoccupazione della disponibilità al servizio apostolico, che la scelta verginale permette di vivere con una totalità e una radicalità impossibili a chi è immerso nelle responsabilità familiari, ma non manca un’angolatura sponsale data dal fatto che anche la scelta verginale pretende di adempiere sempre all’amore. Guidate dai testi neotestamentari che parlano di situazioni concrete relative alla verginità227 nelle comunità apostoliche si sviluppa una prima 224

Cfr. M. BADALAMENTI, Vocati all’amore: note teologiche sulla verginità, Palermo 1999, 82-84. 225 Cfr. 1 Cor 7; 2 Cor 11,2; Eph 5, 22-33. 226 Cfr. 1 Cor 7. 227 Cfr. 1 Cor 7; Act 21,9.

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considerazione di questo stato di vita. Alcuni scritti dei padri apostolici ci informano di comunità paoline e giovannee in cui fiorisce la vita verginale228. All’inizio abbiamo un impegno tacito di verginità che la comunità cristiana riconosce, avalla, e propugna. Tutto ciò mostra che l’insegnamento di Gesù sulla verginità è stato accolto nelle comunità apostoliche e subapostoliche, nelle quali la scelta della vita verginale, con motivazioni cristologiche, ascetiche ed escatologiche è un dato di fatto, oggetto di attenzione da parte dei pastori, i quali, da una parte mettono in guardia i fedeli da possibili deviazioni e pericoli in questa materia229, dall’altra, spesso, cominciarono ad avere la preoccupazione di difendere e proporre l’assoluta novità e lo splendore del carisma verginale rispetto al matrimonio230. L’epoca dei padri è particolarmente importante nella storia della verginità cristiana; in quell’epoca l’ideale della verginità conosce una straordinaria fioritura. Per una maggior compensione dello sviluppo dottrinale del tema della verginità nell’epoca dei padri, bisogna distinguere due periodi. Il primo è quello che va dal II secolo fino al Concilio di Nicea (325) ed è considerato il priodo in cui si pongono le effettive basi per la comprensione della verginità231. È il momento in cui sorge uno stile di vita cristiana dove uomini e donne vivono la loro vita in modo radicale, pur non indossando abiti specifici, non facendo vita in comune e non emettondo una professione esplicita di verginità. Insomma, comincia progressivamente a maturare uno stile di vita cristiano diverso dal matrimonio e ci si orienta ad una duplice possibilità vocazionale: o verginità o matrimonio232; ma ancora ci troviamo di fronte ad una visione della verginità che esclude una sequela del Signore che muove da sentimenti di opposizione al matrimonio, anche se si riscontra già un’incipiente mentalità che evidenzia nella verginità una superiorità rispetto al matrimonio. Questo è il periodo in cui, nell’Occidente latino, il comportamento della donna cri228

Cfr. CLEMENTE ROMANO, Prima lettera ai Corinzi, 38,2, in Letteratura cristiana antica. Antologia di testi, I. Dalle origini al III secolo, edd. M. Simonetti-E. Prinzivalli, Casale Monferrato 1996, 71; IGNAZIO D’ANTIOCHIA, Ad Polycarpum, 5,2, ed. Th. Camelot (SCh 10), Paris 1958, 174-177; POLICARPO DI SMIRNE, Ad Philippenses, 5,3, ed. Th. Camelot (SCh 10), Paris 1958, 210. 229 Cfr. I. M. CALABUIG- R. BARBIERI, «Verginità consacrata nella Chiesa», in DL, 2054. 230 Cfr. G. OGGIONI, «Matrimonio e verginità presso i Padri», in Matrimonio e verginità: saggi di teologia, 167-170. 231 Cfr. OGGIONI, «Matrimonio e verginità presso i Padri», 171- 189; BADALEMENTI, Vocati all’amore, 90-97; CALABUIG-BARBIERI, «Verginità consacrata nella Chiesa», 2054-2056. 232 Cfr. BADALEMENTI, Vocati all’amore, 119-120.

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stiana, specie se consacrata a Dio, fu oggetto di riflessione per Tertulliano e Cipriano e la letteratura esaltante la vita verginale e casta si arricchisce di alcuni trattati “De virginitate”233. Bisogna, tuttavia, tenere presente che questa letteratura pare più interessata a dare una normativa per scegliere la castità, che non ad esortare alla verginità234. Da questa letteratura, comunque, risulta che la verginità acquista pogressivamente importanza nella vita della Chiesa tanto da essere ben presto posta immediatamente dopo il martirio. Nell’attività pastorale i vescovi cominciano a dare molto risalto all’ordine delle vergini e nelle esortazioni alle vergini ricorre frequentemente l’ammonimento a non ricercare un abbigliamento accurato e frivolo, a non usare cosmetici e tutto ciò che possa attirare l’attenzione degli uomini. Nel III secolo, poi, la vergine era generalmente “velata” per significare l’unione mistica contratta con Cristo; si vede che l’idea dell’unione sponsale con il Signore era già viva. Non sappiamo, però, se in questo periodo la “velatio”, cioè l’atto manifestativo della professione verginale, avvenisse durante una speciale liturgia, come sarà constatabile per la metà del IV secolo. Infatti non ci sono documenti che nel III secolo possono sufficientemente dimostrare che la promessa di verginità fosse un voto solenne ed impegnativodi fronte alla comunità. Il IV secolo, a livello di elaborazione teologica, rappresenta per la verginità l’epoca d’oro235. Nasce la grande letteratura patristica al riguardo che avrà i suoi epigoni veso la metà del V secolo. Quasi tutti i Padri della Chiesa dedicano al tema almeno una pagina e la vergine, da questo momento in poi, diventa il tipo più rappresentativo della santità ecclesiale. I vergini vengono posti al primo posto della scala di perfezione per due motivi: in primo luogo perché, cessate le persecuzioni, il martirio andava scomparendo e la verginità prendeva il suo posto perché considerata “martyrium sine cruore”236 per il suo carattere di rinuncia continua, di 233

Cfr. TERTULLIANUS, De exhortatione castitatis, ed. A. kroymann (CCL 2), Turnhout 1954, 1013-1035; ID., De virginibus velandis, ed. E. Dekkers (CCL 2), Turnhout 1954, 12091226; CYPRIANUS, De habitu virginum, ed. W. Hartel (CSEL 3/1), Wien 1868, 185-205; METHODIUS, Symposium, ed. G. N. Bonwetsch (GCS 27), Leipzig 1917. 234 Cfr. F. E. CONSOLINO, «Modelli di santità femminile nelle più antiche passioni romane», Augustinianum 24 (1984) 85. 235 Cfr. GROSSI, «La verginità negli scritti dei Padri», 134-140; TIBILETTI, «Vergine-verginità-velatio», 116-117 236 Cfr. CONSOLINO, «Modelli di santità femminile nelle più antiche passioni romane», 85.

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sforzo attento e vigilante, di martirio nella carne e nello spirito che si prolunga nel tempo; in secondo luogo perché ancora circolava un certo pensiero encratico237 che costringerà i pastori a ribadire l’ortodossia. Nasceva così, da parte di vescovi santi ed ortodossi, l’accorato appello, che diviene riflessione sistematica, a prendere nella giusta considerazione una scelta come quella della verginità per il Regno dei cieli con tutto quello che essa comportava. Sempre nel IV secolo emergerà l’aspetto giuridico e si ebbe nella Chiesa una struttura riguardante la consacrazione di uomini e donne al Signore espressa con un particolare rito liturgico238 e, tra il IV e il V secolo, i riferimenti letterari relativi ad una celebrazione della verginità diventano riferimenti eucologici239. Prima del IV secolo, quindi, l’emissione del propositum virginitatis non comportava alcuna particolare celebrazione liturgica. Solamente più in là si arriverà alla professione di verginità che assume forma istituzionale alla luce del propositum che si esprimerà con la vestizione o velatio240. Nella patristica prenicena, inoltre, sono già presenti i temi principali della dottrina sulla verginità: il tema sponsale che diverrà caratteristico della teologia sulla verginità241; il rapporto tra la Chiesa e la vergine; il valore della verginità come anticipazione della vita futura; l’aspetto sacramentale della verginità, ossia come mezzo di partecipazione e di assimilazione all’umanità verginale di Cristo o come simbolo e tipo dell’unione Cristo-Chiesa242. Risalgono a questo periodo i primi confronti tra matrimonio e verginità consacrata che si risolvono quasi sempre con la stessa affermazione: il primo è “bonum” ma il secondo è “melius”243. Il secondo periodo abbraccia i secoli V-VII ed è caratterizzato dal fatto che l’interesse per il tema della verginità si intensifica e si dilata. Au237 L’encratismo è quell’atteggiamento di rifiuto e di condanna radicale delle nozze e della procreazione: cfr. BADALEMENTI, Vocati all’amore, 89. 238 Cfr. NOÈ, «Matrimonio e verginità nella liturgia», 431-442; GRIBOMONT, «Professione», 884-938; CALABUIG-BARBERI, «Vita consacrata nella Chiesa», 2059. 239 Cfr. Storia della Spiritualità, III/A, 75-120. 240 Cfr. R. METZ, La consécration des virges dans l’Église romaine. Étude d’histoire de la liturgie, Paris 1954, 41-93; P. VISENTIN, «Genesi e sviluppo storico-culturale della consacrazione verginale», RL 69 (1962) 457-471; S. MAGGIOLINI, Sessualità umana e vocazione cristiana. Traccia di meditazione teologica sulla liturgia del matrimonio e della verginità, Brescia 1972, 23-34. 241 Per una rassegna dei termini usati nell’epoca prenicena: cfr. R. METZ, La consécration des vierges dans l’église romaine. Etude d’histoire de la liturgie, Paris 1954, 48-60. 242 Cfr. OGGIONI, «Matrimonio e verginità presso i Padri», 209. 243 Cfr. OGGIONI, «Matrimonio e verginità presso i Padri», 178-181.

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menta il numero delle vergini consacrate e la riflessione teologica sulla verginità cristiana raggiunge il culmine244. Dai secoli VII-VIII, avviene un passaggio importante ed è quello che porta la vergine dentro il monastero; passaggio non indifferente che porterà, lungo i secoli, a considerare vergine consacrate soltanto le “moniales”. Al servizio ecclesiale, subentra il servizio monastico; alla sequela Christi vissuta senza paticolari strutture nella propria abitazione si sostituisce una forma di sequela minutamente programmata dalla regola, rispondente alle necessità della vita comune. Il medioevo non offre nuovi elementi di rilievo per la riflessione sulla verginità e fino al Concilio di Trento sostanzialmente si pone in continuità con la ricchezza spirituale e teologica che l’età patristica ha evidenziato245. Nel secolo XVI, invece, ad opera della riforma protestante, si assiste ad una violenta svalutazione della verginità. Ad essa reagisce con la definizione solenne del Concilio di Trento che ribadiva la tradizione cattolica sulla superiorità della verginità consacrata rispetto al matrimonio246. Il pensiero del Concilio di Trento ha avuto grande influsso nella riflessione teologica post-tridentina ed è stato poi ripreso, senza apportare nuovi argomenti, da Pio XII nell’enciclica Sacra virginitas247. Al Concilio Vaticano II la Chiesa ha riproposto, con opportune sfumature e aggiornamenti, la dottrina tradizionale e con essa ribadisce la superiorità della verginità sul matrimonio. Pur senza farne oggetto di una trattazione specifica, il Concilio ha parlato della verginità cristiana in vari documenti248. Dall’insieme dei testi si evince che la tematica della verginità è quasi sempre legata alla formazione sacerdotale, al ministero della vita presbiterale oppure al rinnovamento della vita religiosa. 244

Per l’Occidente ci limitiamo a citare i tre più grandi dottori: cfr. AMBROSIUS MEDIOvirginibus, ed. M. Salvati (Corona Patrum Salesiana, Series latina 6), Torino 1955, 15-163; ID., De virginitate, ed. M. Salvati (Corona Patrum Salesiana, Series latina 6), 169-297; ID., De institutione virginis, ed. M. Salvati (Corona Patrum Salesiana, Series latina 6), 303-397; ID., Exhortatio virginitatis, ed. M. Salvati (Corona Patrum Salesiana, Series latina 6), 403-499; HIERONYMUS, Adversus Heluidium de Mariae uirginitate perpetua, ed. J. P. Migne (PL 23), Paris 1883, 193-216; ID., Adversus Iouinianum, ed. J. P. Migne (PL 23), Paris 1883, 221-352; ID., Epistula 22, ed. I. Hilberg (CSEL 54), Wien-Lipzig 21996, 143-211; ID., Epistula 49, ed. I. Hilberg (CSEL 54), Wien-Lipzig 21996, 350-387; ID., Epistula 130, ed. I. Hilberg (CSEL 56), Wien 21996, 175-281; AUGUSTINUS HIPPONENSIS, De sancta virginitate, ed. I. Zycha (CSEL 41), Prag-Wien- Lipzig 1900, 233-302. 245 Cfr. CALABUIG-BARBERI, «Vita consacrata nella Chiesa», 2060-2063. 246 Cfr. CONCILIUM TRIDENTINUM, sessio 24 (11.11.1563), Decretum De sacramento matrimonii, can. 10, in DS 1810. 247 PIUS XII, Litt. enc. Sacra virginitas (16.5.1954), in AAS 46 (1954) 161-191. 248 Cfr. LG V-VI; PC 12, OT 10, PO 16. LANENSIS, De

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Un respiro più ampio sembra avere il capitolo V della LG che ai nn. 39-41 afferma che la santità nella Chiesa è frutto della santità di Dio che in Cristo, il solo Santo, si rivela e si fa conoscere. Sull’esempio di Cristo tutti i battezzati, ripieni dello Spirito, santo e vivificatore, sono chiamati alla santità; questa non è identica per tutti, visto che, in forza dei doni-carismi ricevuti, si manifesta nella Chiesa nella multiforme ricchezza dei vari generi di vita. La carità è la via della santità che si specifica in molteplici mezzi. Innanzitutto l’espressione massima della carità stessa, ossia il martirio e poi la verginità. Assimilandoli allo stesso fine, appunto la carità, il testo conciliare si esprime in questo modo: «Sanctitas Ecclesiae item speciali modo fovetur multiplicibus consiliis, quae Dominus in Evangelio discipulis suis observanda proponit. Inter quae eminet pretiosum gratiae divinae donum, quod a Patre quibusdam datur (cf. Mt 19, 11; 1Cor 7, 7), ut in virginitate vel coelibatu facilius indiviso corde (cf. 1Cor 7, 32-34) Deo soli se devoveant. Haec perfecta propter Regnum coelorum continentia semper in honore praecipuo ab Ecclesia habita est, tamquam signum et stimulus caritatis, ac quidam peculiaris fons spiritualis foecunditatis in mundo»249.

È evidente che siamo in un’affermazione che non può essere sganciata dal suo contesto relativo alla specificità del vivere la carità, per esprimere la santità della vita. Ciò immette la verginità nel cuore della vita cristiana, come particolare impegno esistenziale «dato dal Padre ad alcuni» e come «eccellenza» in riferimento agli altri consigli del Vangelo e ciò perché immediatamente assimilabile alla vita terrena di Cristo, come già i dettami sul martirio avevano ribadito. Inoltre la verginità è presentata come «dono» prezioso della grazia concesso ad alcuni , perché più facilmente, con cuore indiviso, si consacrino a Dio solo. Nel Capitolo VI della LG si parla della castità in relazione diretta ai consigli evangelici: «Consilia evangelica castitatis Deo dicatae, paupertatis et oboedientiae, utpote in verbis et exemplis Domini fundata et ab Apostolis et Patribus Ecclesiaeque doctoribus et pastoribus commendata, sunt donum divinum, quod Ecclesia a Domino suo accepit et gratia Eius semper conservat…»250; poi aggiunge: « Per vota aut alia sacra ligamina, votis propria sua ratione assimilata, quibus christifidelis ad tria praedicta consilia evangelica se obligat, Deo summe dilecto totaliter mancipatur, ita ut ipse ad Dei servitium Eiusque honorem novo et peculiari titulo refe249 250

LG 42. LG 43.

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ratur. Per baptismum quidem mortuus est peccato, et Deo sacratus; ut autem gratiae baptismalis uberiorem fructum percipere queat, consiliorum evangelicorum professione in Ecclesia liberari intendit ab impedimentis, quae ipsum a caritatis fervore et divini cultus perfectione retrahere possent, et divino obsequio intimius consecratur.. Tanto autem perfectior erit consecratio, quo per firmiora et stabiìiora vincula magis repraesentatur Christus cum sponsa Ecclesia indissolubili vinculo coniunctus»251.

I testi di LG sono le parole più autorevoli che il Concilio ci ha lasciato sul nostro tema. In sintesi, allora, possiamo dire che il Vaticano II, richiamandosi ai Padri, inquadra il mistero della verginità nell’ambito del rapporto tra Cristo e la Chiesa, la quale a sua volta imita l’atteggiamento della Vergine Maria252 e ne prolunga la donazione; come Cristo e la Chiesa sono ambedue vergini, sposi, indissolubilmente uniti dal vincolo dell’amore e della reciproca fedeltà, fecondi di innumerevoli figli generati dallo Spirito, così la Vergine attua in sé, sul piano del segno e dell’idivisibilità del cuore, il rapporto verginale-sponsale fecondo della Chiesa con Cristo253. Emerge, comunque, una costante: parlare di verginità è riconoscere un dono da accogliere e donare; questo dono configura a Cristo la persona alla quale il dono viene elargito. È proprio la logica del dono che può configurare un impegno così arduo come quello verginale quale dono da parte di Dio (dono ricevuto) e dono da parte dell’uomo (vita donata). Agente e garante del dono non è la mera fisicità o volontà umana, ma la carità che assimila ogni sforzo dell’uomo e ogni manifestazione di Dio; carità che fa emergere l’agente principale e costantemente sottinteso: lo Spirito Santo, Colui cioè che configura il carisma della verginità nella logica di Dio e dell’uomo. Nella logica di Dio perché ci presenta la vita di Gesù che, grazie ai suoi esempi e alle sue parole, si pone come attestazione di amore/carità vissuta in vista del Padre; nella logica dell’uomo che, destinato al servizio di Dio, tramite la professione dei consigli evangelici e l’impegno di castità consacrata, viene “consacrato” ad una testimonianza d’amore che diviene profezia in atto, per la Chiesa e per il mondo254. Dopo il Vaticano II, il tema della verginità è stato più volte ripreso in interventi magisteriali di alcuni pontefici. Ricordiamo un’ enciclica di Pao251

LG 44. Cfr. LG 64. 253 Cfr. CALABUIG-BARBIERI, «Verginità consacrata nella Chiesa», 2066. 254 Cfr. BADALAMENTI, Vocati all’amore, 171-172. 252

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lo VI255 e i diversi contributi di Giovanni Paolo II256 che convergono nell’esortazione postsinodale sulla “Vita Consacrata”257, documento che conclude il cammino sugli stati di vita che, affondando le loro radici nella fertile terra dei documenti magisteriali dell’ultimo scorcio del XX secolo e protesi verso il nuovo millennio, si sono ulteriormente sviluppati e specificati nella loro comprensione teologica. Si è avuto, quindi, un ripensamento teologico258 teso a ricollocare questo carisma all’interno del do255

Cfr. PAULUS VI, Litt. enc. Sacerdotalis Caelibatus (24.06.1967), in AAS 59 (1967) 657-

697. 256

Cfr. FC 16; CFL 52; PDV 29; 50. JOANNES PAULUS II, Adhort. apost. Vita Consecrata (25.03.1996), in AAS 88 (1996) 377-486. 258 Senza alcuna pretesa di completezza segnaliamo in questa nota alcuni studi che possano aiutare a cogliere il ripensamento teologico del tema della verginità, presentando quanto a noi stessi è risultato di particolare utilità. Si veda: Matrimonio e verginità: saggi di teologia; M. THURIAN, Matrimonio e celibato, Brescia 1965; K. RAHNER, «Per una teologia della rinuncia», in Saggi di Spiritualità, trad. it. V. Gambi − C. Danna (Biblioteca di cultura religiosa/ Seconda serie 67), Roma 21969, 79-96; E. SCHILLEBEECKX, Il celibato nel ministero ecclesiastico, Roma 1968; L. M. WEBER, Matrimonio, sessualità, verginità (Quaestiones disputatae), Brescia 1968; H. U. VON BALTHASSAR, Il tutto nel frammento. Aspetti di teologia della storia, trad. it. E. Guerriero (Già e non ancora 189), Milano 21990, 266-273; A. DEL MONTE, Il senso della verginità cristiana. Riflessioni per un ritiro, Torino 1973; Matrimonio e verginità: l’amore cristiano e le sue forme celebrative, ed. G. Barbaglio (Nuova collana liturgica 7), Milano 1976; E. FERASIN, «Matrimonio e verginità: il confronto degli stati di vita nella riflessione storico-teologica della Chiesa», in Realtà e valori del sacramento del matrimonio. Atti del Convegno di aggiornamento della Facoltà di Teologia dell’Università Pontificia Salesiana (Roma, 1-4 novembre 1975), edd. A. M. Triacca − G. Pianazzi (Biblioteca di scienze religiose 15), Roma 1976, 235-275; A. D’AGNINO, Il cantico della fede e dell’inevidenza o della stoltezza e della follia, Cinisello Balsamo 51977; BIANCHI, «Celibato e verginità», 176-195; M. AUGÉ, «Rassegna bibliografica sulla verginità consacrata (19661976), Claretianum 19 (1979) 97-125; A. CUVA, «Recente letteratura spirituale-liturgica sulla verginità consacrata», EL 95 (1981) 478-505; J. AUBRY, La verginità è amore, Torino 1982; D. TETTAMANZI, La verginità per il regno: dalle catechesi di Giovanni Paolo II, Milano 1982; I. TERZI, Le due corone. Verginità e martirio, Bergamo 1984; P. MOLINARI − P. GUMPEL, «La dottrina della costituzione dogmatica “Lumen Gentium” sulla vita consacrata», Vita Consacrata 21 (1985) 1-137; G. BIFFI, Il celibato. Proposta evangelica, Casale Monferrato 1988; P. G. CABRA, Con tutto il cuore. Meditazioni sul celibato e la verginità, Brescia 9 1988; SICARI, Matrimonio e verginità nella Rivelazione; M. DA CRISPIERO, Teologia della sessualità: approfondimenti sui temi del matrimonio e della verginità (Claustrum 16), Bologna 1994; R. CANTALAMESSA, Verginità, Milano 41996; A. DONGHI, Il dono della verginità. Meditazioni, Milano 1997; BADALEMENTI, Vocati all’amore; La reciprocità verginità-matrimonio, profezia di comunione nella Chiesa Sposa. Atti del Seminario di Studi organizzato dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia, U.S.M.I, C.I.S.M. Sassone 1999, ed. R. Bonetti (Matrimonio, familglia e pastorale 3), Siena 2000; CALABUIG − R. BARBIERI, «Verginità consacrata nella Chiesa», 2053- 2070; Matrimonio e verginità. Teologia e celebrazione per una pienezza di vita in Cristo, edd. M. Sodi − F. Attard (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 39), Città del Vaticano 2005. 257

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no radicale dell’Alleanza offerta da Dio al suo popolo; quel dono che ha fatto della storia umana una storia di salvezza. Questo ripensamento ha portato ad una dilatazione del concetto classico di verginità259, dove sono emersi come elementi fondanti quelli cristologici, quelli ecclesiologici e quelli escatologici. Si tratta di quegli stessi elementi che anche noi abbiamo riscontrato nei testi eucologici agatini proponendoci un ideale teologico-liturgico della verginità legata al mistero pasquale e come fatto rivelativo, strumento di annuncio: il mondo passa insieme con la sua scena, il tempo si è fatto breve ed allora nell’imminenza del Regno di Dio che viene si può vivere questa evangelica follia della verginità, così vicina al Mysterium crucis260. 3.3.2. L’urgenza di una riproposta La verginità evoca una realtà sempre meno compresa tanto nella società odierna quanto a volte anche nella Chiesa. Oggi come ai tempi di Cristo, la verginità per il Regno dei cieli resta sovente un luogo di scandalo e suscita reazioni che vanno dall’incredulità circa questa possibilità al disprezzo. L’incomprensione trova uno dei suoi fattori nella poca conoscenza di questo valore evangelico o nell’improprietà del linguaggio a volte usato per descriverla. Se da una parte la riflessione biblica e quella storico-teologica permettono di coglierne più in profondità il significato per l’intera comunità ecclesiale, sottolineando il suo valore per il Regno, dall’altra complessi fattori culturali e socio-religiosi urgono sempre più a che la verginità venga riproposta in prospettive e con un linguaggio più rispondenti alla sensibi259

Leggendo la bibliografia riportata nella nota precedente risultano interessanti le ricerche svolte nell’ambito della comunità di Taizè da Max Thurian, mentre in campo cattolico emergono gli approfondimenti di K. Rahner, E. Schillebeeckx e H. U. Balthassar. Le posizioni sono diverse e vanno da una sottolineatura troppo marcata dell’aspetto soggettivo della scelta verginale e del suo valore (Thurian), a un altrettanto marcata sottolineatura del suo rimando violento alla trascendenza (Rahner), ad una sua riduzione nell’ambito dei significati umanamente intellegibili (Schillebeeckx), a una ricentratura cristologica ed ecclesiologica del tema (Balthassar). In genere sono tutti d’accordo in un’attenzione teologica ad evitare alcune motivazioni ed alcune formulazioni: l’elemento concorrenzaantitesi tra l’amore a Dio e l’amore all’uomo; l’appropriazione alla verginità del valore di totalità dell’amore; l’appropriazione alla verginità del concetto di perfezione; l’escatologismo come evasione della tensione verso l’incarnazione; la purezza rituale di origine ascetico-sacrale; l’elemento dell’immediatezza del rapporto con Dio che non tenga conto della necessaria mediazione che l’altro uomo e il mondo hanno per l’uomo; in genere le sottolineature ascetiche in contrasto con quelle carismatiche. 260 Cfr. VC 23.

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lità contemporanea impregnata di cultura/culto del corpo, di erotismo e di acquisita consapevolezza sociale dell’importanza della sessualità nello sviluppo e in tutte le espressioni veramente personali dell’uomo. In un contesto culturale che crea difficoltà per la comprensione e per l’effettiva fedeltà alla scelta verginale261, in ambito teologico, è stato necessario un certo ripensamento di fondo per una ricomprensione di questo valore della radicalità evangelica. Ne è derivato il bisogno di evidenziare l’aspetto carismatico e profetico della verginità per coglierne il fondamentale valore di segno, carico di tutta la densità del mistero di Cristo incarnato e risorto, e di ricollocare questo dono/carisma all’interno del dono radicale dell’Alleanza offerta da Dio che ha fatto della storia umana una storia di salvezza. Alla luce del mistero pasquale gli stessi interrogativi e le stesse difficoltà finiscono con l’aprirci a nuove possibilità e la verginità viene ricompresa nella stessa prospettiva teologica che spesso propongono i testi eucologici che utilizzano i vocaboli “virginitas-castitas” nel contesto della celebrazione liturgica, nella quale l’ideale della verginità viene inserito nella cornice della celebrazione del mistero pasquale assumendo quel significato teologico-liturgico che abbiamo cercato di mettere in evidenza nei successivi paragrafi. 3.3.3. La verginità come vocazione all’amore L’aspetto teologico che abbiamo evidenziato nel commento a ciascuna orazione dei formulari agatini, ha messo in evidenza che la santità è vocazione che poi si specifica in ideali e forme concrete di vita che esprimono aspetti diversi dell’unica santità di Dio. Storicamente la santità si è concretizzata anche nell’ideale della verginità intesa come vocazione che pone il cristiano che vi risponde in uno “stato carismatico”. È uno di quei modi per vivere l’unica vocazione battesimale di salvezza e santità, che ha nel Padre la sua fonte, in Cristo e nello Spirito il suo fondamento e nel dono dell’amore la sua espressione concreta. In essa si realizza la salvezza e la santità attraverso l’esercizio dell’amore nella donazione per gli altri262. In questo senso la verginità per 261

Cfr. MAJORANO, «Verginità consacrata», 1427. Cfr. GeV 832-Co, dove l’amore per gli altri diventa, per la vergine, compito di implorazione di perdono per i fratelli che nella sua “castitas”, associata al martirio, vedono un merito per ottenere da Dio quanto richiesto. Si veda anche: MSEC-Pc; PMAC-Co/-Se/-Pc. 262

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il Regno è uno dei modi (non l’unico) di realizzare l’unica vocazione cristiana che trova nell’amore il suo centro e la sua spinta dinamica. Infatti, la capacità di amare che Dio ha posto nel cuore dell’uomo, come riflesso del suo essere intimo, è il segno dell’appartenenza a lui. In questa prospettiva si può inquadrare anche il discorso della verginità nella quale risplende pure la luce di Dio. Essa è un carisma che Dio dona a chi vuole e nessuno può avventurarsi per questa via se Dio stesso non l’abbia chiamato perché, se nella verginità dell’uomo non risplende la luce di una elezione divina, non può essere più il segno dell’immortalità e non può più essere partecipazione dell’uomo alla vita divina. La verginità, allora, è il “sì” pronunciato in obbedienza ad un appello che non viene dalla carne, ma dal Signore; è contemporaneamente frutto di una iniziativa divina e di una libera determinazione del chiamato. Nella verginità cristiana opera dunque la grazia perché essa non è segno di solitudine o di sterilità naturale, ma è segno di amore. In questa prospettiva ogni cristiano è vergine nella misura in cui vive la pienezza della sua vocazione, restando fedele a Cristo nella via dove Cristo stesso lo ha chiamato. In Cristo, Dio chiama con una parola creatrice ed efficace, inizia un dialogo con il credente dove il “sì” umano diventa carisma e ministero e dove l’uomo non prende un impegno con l’uomo, ma è lo Spirito stesso che interviene e prende un impegno con il celibe senza più tirarsi indietro, senza più pentirsi della vocazione accordata e delle promesse. Così la verginità per il Regno diventa un fatto, un’alleanza tra Dio ed il credente e Dio inizia un’opera impegnandosi lui stesso a portarla a termine. All’uomo non resta dunque altro che l’amore vissuto ogni giorno custodendo con vigilanza questo dono. Vista così la verginità, come ogni altro dono, suscita il rendimento di grazie a Dio che si traduce poi in concreta esistenza: all’Amore che chiama si può rispondere solo con l’amore che liberamente si dona. 3.3.4. La dimensione trinitaria Dal fondamento teologico possiamo ricavare la dimensione trinitaria del carisma della verginità per il Regno che, in questa prospettiva, è da intendere come il riflesso dell’amore infinito che lega le tre persone divine nella profondità misteriosa della vita trinitaria263: il Padre ne è la 263

Cfr. VC 21.

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sorgente, il Figlio lo testimonia sino alla fine e lo Spirito lo “riversa” nei cuori dei consacrati264. Dire che verginità significa amare è un’affermazione che ci porta al di là di uno sguardo moraleggiante. Siamo dinanzi ad una grazia da accogliere nello Spirito; siamo nella logica del mistero che non è suffragata dal pensiero di una rinuncia265, ma affonda le sue radici nel mistero stesso di Dio Trinità e stimola ad una risposta totale per Dio e per i fratelli. La contemplazione dell’amore trinitario che nel Cristo crocifisso emana luce sul mondo, fa della persona vergine un uomo o una donna capaci di un amore radicale ed universale. La verginità, quindi, è un valore solo in quanto apre all’amore ed è illuminata dall’amore. Certamente non va dimenticato che l’amore umano si esprime attraverso le mediazioni della realtà corporea, che è una realtà sessuata. La sessualità è quindi nell’intimo stesso dell’uomo ed è al servizio della sua vocazione. Si tratterà di integrare la sessualità in un progetto di vita centrato in un amore oblativo di radicale apertura verso tutti i fratelli. E questo per annunziare, con la vita, che Cristo è prossimo ad ogni uomo, soprattutto di coloro che per gli altri uomini non contano, non hanno valore e sono da emarginare. Lo stile concreto sarà quello di una corporeità progettata ed effettivamente vissuta in prospettiva sacramentale: una corporeità cioè che sia espressione di un incontro di persone nel quale ciò che maggiormente conta è il comunicare agli altri la speranza che è la presenza del Cristo tra gli uomini. Anche la verginità, allora, è un modo di vivere la sessualità nel senso che, se il matrimonio è un segno del mistero nuziale che unisce Cristo alla Chiesa e vi si inserisce attraverso la mediazione dell’unione totale e definitiva di due esseri umani, la verginità invece oltrepassa il segno e raggiunge direttamente il mistero, aderendo a Cristo in una scelta visibilmente radicale. In rapporto al matrimonio la verginità supera in qualche modo lo stato sacramentale per realizzare già sulla terra la vita futura. Nel matrimonio, inoltre, l’uomo vive, attraverso il segno dell’amore umano, la sua unione con Cristo; nella verginità, invece, ogni segno scompare perché consumato dall’amore divino, e l’uomo non vive più che il suo rapporto nuziale con Cristo. Nella verginità già dunque l’uomo ha co264 265

Cfr. Rom 5,5. Cfr. MAJORANO, «Verginità consacrata», 1434.

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me superato la condizione presente: vede Dio non più attraverso segni che glielo rivelano e anche nascondono, che glielo comunicano e anche glielo sottraggono, ma lo possiede nella verità. Non è corretto, dunque, contrapporre la vocazione al matrimonio a quella della verginità perché entrambi, in una prospettiva di complementarietà, si innestano sulla persona di Cristo Vergine-Sposo e sulla nuova dimensione originata dalla necessità della sequela. I celebri testi evangelici sulla verginità266, pertanto, esprimono sì la consegna alla Chiesa di un nuovo carisma, la verginità per il Regno appunto, ma rinnovando dal di dentro anche la concezione della coniugalità per educarla ad appartenere in senso pieno al Regno che si instaura progressivamente in questo mondo; ad appartenere cioè al mistero della verginalità della Chiesa totalmente posseduta dal suo Signore. La ricchezza del mistero dell’unione di Cristo con la sua Sposa è dunque tanto grande, da non poter essere completamente significata né dal matrimonio solo, né dalla verginità sola, ma entrambi sono richiesti. Seguire Gesù Cristo, insomma, vuol dire innanzitutto scoprirsi vergini in tensione tra Dio e la creatura; vuol dire diventare discepoli rinunciando a tutto per essere totalmente appartenenti a Cristo entrando nella sfera della verginità della Chiesa, Sposa immacolata del Signore267. 3.3.5. L’aspetto cristologico della verginità La dimensione trinitaria ha messo in evidenza che la verginità rappresenta una delle storicizzazioni dell’amore di Dio che ha trovato in Cristo la sua assoluta pienezza. Questo amore rivelato in Cristo è, allora, quel fondamento in grado di spiegare la struttura teologica della verginità 268 che in questo contesto si configura come esperienza di amore verginale, non di sterile privazione, e come il permanere storico prolungato della forma globale della verginità di Cristo: esso riguarda sì tutti i cristiani, ma secondo aspetti storicamente diversi della stessa forma. Cristo, allora, non è solo un modello, ma è anche l’origine e il fine di questo tipo di esperienza; è, possiamo dire, il sostegno “sacramentale” di 266

Cfr. Matth 19,10-12; 22,23-33; Luca 18,28-30; 20,27-40; Marc 12,18-27. Cfr. SICARI, Matrimonio verginità nella Rivelazione, 9-13. 268 Cfr. G. MOIOLI, «L’ideale della verginità», in Matrimonio e verginità: saggi di teologia, 509-513; BIANCHI, «Celibato e verginità», 193-194; MAJORANO, Verginità consacrata», 1428; SICARI, Matrimonio e verginità nella Rivelazione, 109-132. 267

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ogni verginità. E poiché Egli è un avvenimento, occorrerà chiedersi che cosa è accaduto all’interno della storia umana quando l’uomo Gesù Cristo si è presentato al mondo come vergine. La riflessione e la contemplazione di questo avvenimento di salvezza va fatta, quindi, prima e a monte di ogni successiva specificazione sugli stati di vita cristiani. Il cuore dell’evento-Cristo è la manifestazione incarnata del comandamento divino dell’amore e l’obbedienza piena dell’uomo a questo stesso comandamento. Totalità dell’amore di Dio per l’uomo, dell’uomo per Dio, dell’uomo per l’uomo. La forma di ogni esperienza umana d’amore, quindi, va ricercata in questo accadimento totalizzante dell’amore perché qui si fonda il radicalismo evangelico come modalità della comprensione e della possibilità di vivere l’amore. La verginità nella vita di Cristo appare come segno e anticipazione di tutta la storia del corpo di Cristo posto sotto il segno dell’amore di Dio; essa anticipa tanti aspetti della sua esistenza e della sua missione: il suo è stato un corpo nato per morire; un corpo al servizio della predicazione; un corpo immolato ed eucaristico; un corpo destinato alla gloria. I discepoli, perciò, hanno una mediazione originale per comprendere la verginità, ossia le scelte vissute da Cristo, le esigenze che egli ha chiesto alla cerchia più stretta dei suoi seguaci e quelle che ha predicato a tutti come condizioni e modi di legarsi alla sua persona e alla vita del Regno. La verginità in Cristo ha voluto dire portare nella carne un segno storicamente sperimentabile dell’apertura totale della sua umanità allo Spirito di Dio che progressivamente lo ha costituito creatura nuova. Con Cristo, quindi, entra nella storia la categoria della verginità, la quale appare come un modo tipico di stare davanti all’amore di Dio. La verginità, quindi, ha in Cristo, nella sua vita e nelle sue opere, il fondamento di ogni espressione che prende corpo nella vita dei consacrati269. Così il significato cristologico è messo in luce dalla verginità vissuta per amore di Cristo, il quale non soltanto lo si segue, non soltanto lo si ubbidisce, ma prima di tutto lo si ama. Proprio per amore di Cristo e in riferimento a Lui, il credente resta vergine come segno della propria disponibilità assoluta a Dio e al suo Regno.

269

Cfr. VC 22; 32.

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3.3.6. La dimensione ecclesiale della verginità La dimensione ecclesiale riscontrata nell’analisi teologica dei testi eucologici in cui Agata è invocata con il titolo di vergine, ci ha indotto a prendere in considerazione anche la dimensione ecclesiale di questo carisma. Possiamo riscontrare tale dimensione nella verginità della Chiesa che è l’altro fondamento teologico della vocazione alla verginità270. La verginità, infatti, è un asse portante della vita ecclesiale perché la legge della radicalità appartiene alla novità del cristianesimo e quindi a tutti gli stati di vita cristiana, anche allo stato matrimoniale. I vergini non sono degli isolati: essi appartengono alla Chiesa nella quale non solo i vergini, ma tutti devono cercare innanzitutto il Regno di Dio. Se i vergini sono nella Chiesa, il loro amore per il Regno non può essere pensato se non come uno stato d’animo che essi condividono con tutta la Chiesa, la quale, anzi, lo genera e lo alimenta anche in loro attraverso i sacramenti. In altre parole: nella Chiesa non c’è posto per due cristianesimi, uno “celeste” o “spirituale” per i vergini; ed uno “terrestre” per coloro che non scelgono la verginità. Tutti seguono Cristo, anche se poi alcuni hanno la grazia per vivere questa loro sequela in una maniera particolare. Questo ci aiuta anche a superare quel problema del rapporto tra matrimonio e verginità tradizionalmente orientato verso una certa superiorità della verginità. La verginità, rispetto al matrimonio, ha a suo vantaggio il fatto che in essa è più evidente la sintonia con il radicalismo evangelico, anche se poi in definitiva si tratta solo di una diversa sintonia. Comunque matrimonio e verginità sono due segni relativi della medesima realtà: ciascuno di essi, dunque, cercherà di dirla come ne è capace, nella consapevolezza che fin quando saremo in una condizione di vita terrestre, noi non riusciremo mai ad esprimere adeguatamente il mistero dell’unione sponsale di Cristo con la Chiesa, ma solo ci sarà concesso di farlo secondo un’approssimazione più o meno grande. Nella Chiesa comunque la verginità, in forza del suo riferimento all’unione della Chiesa con Cristo, acquista un carattere sponsale. La Chiesa è la comunità dei credenti che riceve da Cristo la comunicazione dello Spirito e con esso la partecipazione alla sua corporeità271. La progressiva 270 Cfr. MOIOLI, «L’ideale della verginità», 503-509; BIANCHI, «Celibato e verginità», 193-194; MAJORANO, «Verginità consacrata», 1430; SICARI, Matrimonio e verginità nella Rivelazione, 135-156. 271 Cfr. Rom 8,11.

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vivificazione dei corpi, la vita dello Spirito, l’essere già nuova creatura, appartiene alla coscienza e all’esperienza della Chiesa-vergine. A tal proposito Balthasar scrive che la Chiesa: «…è qualcosa che è connesso con la corporeità di Cristo in maniera misteriosa. Qualcosa che è stato iniziato con la sua Incarnazione, preparato dalla sua predicazione e definitivamente fondato con la sua morte in croce e soprattutto con l’Eucaristia che introduce la sua passione…»272.

Da questa connessione “corporea” tra Cristo e la Chiesa, da questa presenza del suo Spirito nei singoli corpi dei credenti, deriva che ogni cristiano è realmente vergine come Cristo. La verginità, quindi, prima di essere un problema di mancata coniugalità, esprime il potere dello Spirito del Risorto esteso fino alle estreme profondità della corporeità. Verginità, insomma, non vuol dire in primo luogo rinuncia al matrimonio, ma vuol dire che tutto l’essere umano-corporeo è penetrato dallo Spirito e trova in esso la sua consistenza. Il discorso sul corpo vergine della Chiesa è quindi prioritario rispetto a tutti gli altri discorsi sull’aspetto ecclesiale della verginità. La dimensione ecclesiale, poi, emerge anche dalla riflessione sulla dimensione sponsale propria della verginità nei riguardi di Cristo. Per il NT in forma ancora adombrata, e per la Tradizione in forma evoluta e chiarissima, la Chiesa è la Sposa-vergine di Cristo; è contemporaneamente “vergine” e “meretrice”. Da un lato è santificata e purificata, dall’altro è peccatrice e sfigurata. In particolare, la verginità della Chiesa è destinata ad esprimersi totalmente alla fine, quando tutti gli eletti saranno “i vergini che seguono l’Agnello”. La verginità cristiana è riferita a Cristo e alla Chiesa così essenzialmente che soltanto da questo punto di vista può essere compresa nella giusta dimensione: tutta la Chiesa è vergine e ogni cristiano partecipa di questa sua verginità almeno nell’integrità e purezza della sua fede; in questa verginità egli vive la vita in Cristo risorto273. La verginità della fede, propria di ogni cristiano, trova poi nella verginità anche fisica la sua perfezione. Essa fa parte dei consigli evangelici e non è obbligatoria per 272

H. U. VON BALTHASAR, Sponsa Verbi, trad. it. G. Colombi-G. Moretto (Saggi teologici 2), Brescia 31985, 150. 273 Cfr. Rom 6,10.

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tutti, ma per tutti è obbligatorio tendervi, ciascuno nella misura della grazia che Dio gli avrà concesso. Nella verginità l’uomo non si chiude in se stesso isolandosi dai fratelli; partecipando piuttosto alla vita di Cristo egli riacquista l’integrità naturale e in lui traluce lo splendore della vita divina, che è perfetta carità. Da ciò emerge il fatto che la verginità per il Regno è un dono che non è per chi ad esso è chiamato, ma è per la Chiesa e per l’umanità. Non ha in sé la sua finalità, ma la trova nel servizio e nell’annuncio che essa permette di fare. Le linee teologiche appena accennate, tuttavia, mettono in chiaro che la dimensione ecclesiale della verginità non consiste tanto nella maggiore disponibilità per il servizio, ma piuttosto nella realtà della vita stessa del celibe e nella sua condizione di testimone della potenza di Dio che lo rende messaggio vivente ai cristiani. La diakonia, così, è solo una conseguenza ed un adempimento del comandamento dell’amore e non può costituire di conseguenza la motivazione della verginità o il suo fondamento ecclesiale. Questa diakonia, inoltre, si manifesta nella “fecondità” dei vergini in ordine alla vita di Cristo nelle anime, una funzione materna da non mettere in rapporto con la maternità della Chiesa sul piano sacramentale, ma con la sua funzione materna che si realizza sul piano della carità. Vivendo nella carità, infatti, si può dire che l’anima genera Cristo per sé e per gli altri. Ora ci appare, nella sua pienezza, il senso ecclesiale della verginità. Essa è nella Chiesa ed è al servizio della Chiesa nella quale rende possibile un’attuazione sempre più ampia e profonda della sua fecondità. 3.3.7. L’aspetto escatologico ed eucaristico della verginità Il contesto delle orazioni dei formulari agatini è spesso caratterizzato da una dimensione escatologica. La presenza dell’attributo “Virgo” in questi contesti ci porta, di conseguenza, a prendere in considerazione anche la dimensione escatologica della verginità, la quale è intrinsecamente dotata di questa dimensione in quanto essa è segno-anticipo delle realtà ultime e della caducità delle realtà create. La verginità, così, orientando i vergini a comprendere e ad affermare con particolare energia il valore e la realtà della vita eterna, diventa annuncio del Regno che viene e profezia del ritorno di Cristo. In questa prospettiva la verginità è completa ed esclusiva appartenenza a Cristo che realizza, anticipandola, un’esistenza che non è di questo mondo e trova la sua vera identificazione nel461


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le realtà escatologiche274. E perfino nel corpo si manifesta il totalitario proposito di comunione con Cristo: il vergine, consapevole che il corpo appartiene a Cristo, ne fa dono completo a lui, pur non ignorando che sulla terra il matrimonio non sottrarrebbe la sua carne alla proprietà di Cristo. Per questo motivo la verginità non è solo garanzia di un orientamento particolare verso il mistero della vita eterna, ma anche rappresentazione della sua realtà. In altre parole, nella verginità è presente la tensione verso il Regno dei cieli, anticipata in qualche modo nella vita terrena e realizzata compiutamente nell’eschaton275. La verginità, così, sprona a vivere, già fin da ora e in forma visibile, la carità verso Dio e verso il prossimo in quel modo singolare che sarà proprio di tutti alla parusia. La verginità, quindi, raffigura con singolare forza espressiva l’«essere in via» della Chiesa, che pone il cristiano continuamente in tensione verso ciò che egli è realmente secondo le esigenze dialettiche del mistero pasquale. Da una parte il cristiano-vergine sperimenta dolorosamente il “non ancora” tipico di questo periodo storico-salvifico; dall’altra parte sperimenta la realtà escatologica “già” iniziata e la rende visibile, in un’anticipazione mistico-reale della nuzialità celeste della Chiesa276. L’amore del vergine per il Regno si configura allora come un’attesa impaziente dell’immortalità beata. L’imitazione delle virtù dei vergini è il principio per condividere la loro stessa corona di gloria. Vivere in continua tensione verso i beni futuri, comunque, non significa estraniarsi con disprezzo dal mondo, ma camminare con autentico amore e spirito di servizio nelle realtà di questo mondo, per giungere alla realtà della visione nel cielo. La consacrazione e l’offerta che il vergine fa a Dio di tutto se stesso, possiede anche un rapporto inscindibile con l’Eucaristia. Nell’Eucaristia il Signore glorioso che si rende presente nel suo sacrificio, vuole anticipare e annunziare la sua venuta finale e introdurre nel fedele che mangia la sua carne il principio della risurrezione futura277. La vita della risurrezio274

SICARI, Matrimonio verginità nella Rivelazione, 10. Per questa dimensione si possono consultare i seguenti contributi: MOIOLI, «L’ideale della verginità», 497-503; BIANCHI, «Celibato e verginità», 193-194; SICARI, Matrimonio verginità nella Rivelazione, 127-130. 276 Cfr. SICARI, Matrimonio verginità nella Rivelazione, 11-12. 277 Cfr. Io 6,55. 275

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ne è il banchetto nuziale nel quale anche Gesù dà tutto se stesso alla sposa278. In questo senso ogni Eucaristia non è solo la memoria della morte di croce, ma anticipa quella vita celeste che è, nel banchetto messianico, la consumazione perfetta dell’unione nuziale fra l’anima e Cristo. Il banchetto eucaristico, a cui il vergine nutre la sua fede, sostiene l’attesa di quello escatologico di cui è segno e che viene prefigurato nell’immagine evangelica del convito nuziale279. La celebrazione liturgica in onore delle vergini diventa così, per dono di Dio, segno gioioso del paradiso. 3.3.8. La verginità come partecipazione al mistero pasquale Nei testi eucologici agatini l’appellativo di “vergine” è posto spesso in relazione con quello di “martire”. Questo è un dato che deriva dalla Tradizione che, come abbiamo visto nell’excursus storico, ad un certo punto ha cominciato a porre la verginità in relazione al martirio. La letteratura cristiana della fine del II secolo, infatti, insiste nel collocare la verginità subito dopo la testimonianza di sangue propria dei martiri. Man mano poi che cominciò a decrescere l’attualità del martirio, prese più vigore il risalto dato alla verginità come testimonianza della santità della Chiesa: la vergine, così, diventa colei nella quale maggiormente risplende la vittoria della fede sul mondo280. Dal punto di vista teologico-liturgico abbinare il termine martire al termine vergine significa sottolineare due aspetti dello stesso mistero pasquale che si è compiuto nella vita di quella donna che è stata chiamata da Dio alla santità attraverso questa duplice via. Anche oggi si può sottolineare questo profondo legame tra martirio e verginità mettendo in evidenza che l’amore del martire è un amore “casto”. Nella sua donazione totale a Dio, egli ama il Signore nel modo più puro e intenso possibile, con cuore indiviso e come l’unica cosa necessaria. Questa considerazione ci introduce nel mistero di un amore vissuto dal martire e, al tempo stesso, ci fa intuire la recondita bellezza del suo eroismo. Non è per caso che già nei primi secoli della Chiesa si intuì l’esistenza di un intimo legame tra l’amore tipico del martirio e quello verginale, e che l’eccellenza della verginità venne spiegata affermando che essa implica un martirio incruento. 278

Cfr. Luca 22,18-30. Cfr. Matth 25,1-13. 280 Cfr. MAJORANO, «Verginità consacrata», 1430. 279

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Se vogliamo, invece, caratterizzare la particolarità della verginità rispetto al martirio dobbiamo sottolineare la partecipazione dell’uomo alla risurrezione più che alla morte di Gesù e in questa luce essa appare ad una linea di pensiero abbastanza viva e presente nella tradizione della Chiesa che considera la verginità un anticipo “terrestre” della vita risorta281. Il martirio, infatti, anche se non ignora l’aspetto della risurrezione, sottolinea maggiormente la partecipazione alla croce gloriosa; la verginità, invece, rende maggiormente visibile la partecipazione alla risurrezione. In tale prospettiva, i vergini si presentano come coloro che scelgono di porsi fuori dalla maniera comune di comportarsi per assumerne un’altra, quella propria ai figli della risurrezione. Si può non capire, ed è naturale, ma questo fatto non può lasciare indifferenti. Il paganesimo conosceva già forme di verginità, ma la conoscevano come rinunzia, sterilità e sacrificio che la divinità impone come segno di morte. Israele, invece, non conosce la verginità perché, secondo la visione dell’antico popolo di Dio, Egli non vuole la morte, ma la vita. Appunto per questo Israele sconosceva quasi completamente la verginità282. I Padri, invece, vedono nella verginità qualcosa di unico, di singolare, la gemma più preziosa del cristianesimo appunto perché, più di tutte le altre manifestazioni, lo distingue e lo caratterizza. Essi pensavano che il Dio d’Israele per chiedere la verginità ha aspettato che si facesse uomo il Figlio suo, rendendo la verginità unione nuziale con la sua persona; ha aspettato la redenzione, rendendo la verginità segno della risurrezione; ha aspettato il passaggio dalla figura alla verità perché lo stato verginale non fosse più nell’ordine dei segni, ma già realizzazione della vita futura. Rispetto al paganesimo, quindi, la verginità cristiana ha avuto il carattere di trionfo e di gioia attestando che la Chiesa, in questo aspetto, ha dimostrato di non essere di questo mondo, ma di origine celeste. Nella verginità il cristianesimo dimostra che gli uomini, per la partecipazione al mistero di Cristo, hanno ritrovato la via del paradiso perduto. Nella verginità si anticipa la redenzione totale dell’uomo e già si passa dalla terra al cielo283. A differenza del coniugio, l’integrità verginale rende più visibile fin da ora l’immortalità e rende coloro che fanno que281

Cfr. MOIOLI, «L’ideale della verginità», 499. Cfr. MAJORANO, «Verginità consacrata», 1428; DE LORENZI, «Verginità», 1640-1644. 283 Cfr. Luca 20,34-36. 282

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sta scelta segni del mondo futuro, pur vivendo ancora quaggiù, e figli della risurrezione. In altri termini: nella verginità, partecipando fin da ora al mistero della risurrezione, l’uomo nella sua incorruzione presente possiede un saggio dell’immortalità futura; perciò, al di là della morte, egli ha ritrovato la via del ritorno al paradiso perduto e, fatto simile agli angeli, vive la vita stessa di Dio. La verginità vissuta alla luce del mistero pasquale fa sì che chi vive questo valore come una rinunzia o una morte non è vergine perché ciò che distingue la verginità cristiana non è la castità, ma l’amore. L’amore cristiano, inoltre non è puramente spirituale, ma esige il dono totale di sé. Di conseguenza l’amore cristiano è un carisma284: il carisma dei vergini285, la vita di Cristo risorto che si consuma in un atto di amore che è dono totale di sé allo sposo divino. Il vergine, dunque, è segno di una continua esperienza pasquale286 che deve trapiantarsi in coloro che celebrano la sua memoria, impegnandoli in un graduale processo di purificazione dell’uomo vecchio a cui parallelamente corrisponde lo sviluppo dell’uomo nuovo in Cristo287. Nell’impegno all’adesione conformativa a Cristo dell’intera esistenza, il vergine amerà ed attualizzerà l’amore dell’amato, fino alle conseguenze ultime della kenosis che farà della sua vita una vita pasquale. Guardando alla Pasqua di morte e risurrezione guardiamo al compimento dell’amore verginale di Gesù per il Padre e per tutti gli uomini. Lì questo amore raggiunge la sua massima espressione. Nella vita pasquale attuata dal consacrato, l’impegno quotidiano a morire e risorgere con Cristo sarà l’impegno di un amore verginale espresso nelle sue più radicali conseguenze, che porterà il consacrato a fare l’esperienza dell’apostolo: «Vivo autem, jam non ego: vivit vero in me Christus»288. Tutta la portata della dimensione pasquale della verginità è possibile coglierla nel significato teologico-liturgico che il termine virgo assume nel contesto delle formule eucologiche usate per il culto delle vergini289. 284

Cfr. 1 Cor 12,31. Cfr. 1 Cor 7,32-33. 286 Cfr. 1 Cor 5,7. 287 Cfr. Eph 4, 22-24; 2 Cor 5, 17. 288 Gal 2,20. 289 Cfr. A. M. TRIACCA, «Significato teologico-liturgico della verginità», in Matrimonio e verginità. Teologia e celebrazione, 340-345. 285

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Si sa che ogni evento di salvezza è anamnesis del centro e del compendio della historia-mysterium salutis, che è la Pasqua del Signore. L’anamnesi, poi, costituisce l’esecuzione formale, da parte della Chiesa, di ciò che Cristo ha fatto ed insegnato. Tenendo presente quanto la Chiesa ha maturato teologicamente sul nostro tema, possiamo dire che in un contesto liturgico, la verginità è realtà anamnetica dell’amore tra Cristo e la Chiesa e, quindi, dell’unione nuziale tra lo Sposo-Cristo e la Sposa-Chiesa. In effetti, nella persona vergine si rinnova in piccolo quanto si verifica nella Chiesa: in ragione del mistero pasquale la persona vergine è simultaneamente vergine e sposa e lei stessa diventa segno e realtà dell’evento nuziale. Il segno è polivalente perché si rapporta sia a significare determinate realtà del passato salvifico, quale il mistero pasquale, sia ad anticipare quanto si realizzerà in futuro. La realtà del mistero nuziale-sponsale tra Cristo e la Chiesa, accentuazione del mistero pasquale, è essa pure parte della storia della salvezza. In questo senso la verginità diventa anamnesi di alcune tappe di questa storia della salvezza: è segno e anticipazione del mistero pasquale nella sua fase escatologica poiché in essa sono anticipate le nozze eterne tra Cristo e l’umanità; celebra e ripercorre quanto la Trinità ha operato a bene dell’umanità; richiama il primato dell’iniziativa di Dio e l’azione dello Spirito Santo; è ricordo della fedeltà dell’alleanza di Dio con l’umanità. In un contesto liturgico la verginità non è solo anamnesi, ma è anche epíclesis perché è sempre concepita come frutto dello Spirito, come «christificatio in Spiritu» che impegna a donarsi interamente come ha fatto Cristo, per una progressiva cristificazione che apre al dono di sé, nella Chiesa e nella vita di ogni giorno. In questo senso si può parlare di dimensione “cristica” della verginità perché il vergine è associato al Cristo fino a far rifulgere sul suo volto quello di Cristo. La dimensione cristica, poi, è strettamente connessa con la dimensione ecclesiale dove diventa impegno per coloro che appartengono a Cristo e alla Chiesa appunto. Si può dire, allora, che la verginità cristiana è celebrazione dell’opera vivificante dello Spirito. Egli vivifica le persone che nel segno della verginità rafforzano il richiamo a Cristo e alle realtà ultime. La verginità donata ed offerta è celebrazione del permanente dono dello Spirito, accettato per donarsi e consacrarsi totalmente a Dio, a Cristo e alla Chiesa, quindi agli altri290. 290

Cfr. TRIACCA, «Significato teologico-liturgico della verginità», 346-355.

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Non esiste attuazione del mistero della salvezza, né possibilità di compartecipazione ad esso, senza un impegno personale nella vita e nel mondo. In questo senso tutta la vita cristiana non è altro che la logica conseguenza del contatto personale con il mistero291. Tutto ciò, quindi, fa della verginità anche una méthexis oblativa. Questa dimensione è costitutiva della consacrazione verginale e comporta una duplice dimensione. Si tratta di oblazione cultuale che fascia la verginità cristiana di una finalità tipica che è quella di rendere lode al Padre. In altri termini, la vita di consacrazione è fondamentalmente una eulogia che rende il più possibile le condizioni della vita cristiana immediatamente riferibili a Dio Padre, al leiturgos per antonomasia che è Cristo, in virtù dello Spirito. Associate a Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote, le persone che nella storia hanno consacrato la propria verginità hanno fatto di essa un’offerta. Si tratta, poi, anche di oblazione operativo-dinamica. Ciò equivale a dire che la scelta della verginità per il Regno dei cieli investe ogni azione del vergine fino al punto da trasformarsi in verginità diaconale che consiste in un servizio alla stessa verginità, ossia nella fedeltà al dono ricevuto. In questo senso il consacrato fa trasparire meglio la conformità della ecclesia, comunità cultuale, con Cristo e anticipa in un certo modo la lode perennemente osannante dell’eschaton. La fonte della diakonia è lo Spirito Santo, mentre la finalità può essere Dio, Cristo, la Chiesa, il prossimo. Tutto ciò rende feconda la verginità nel senso che, nell’amore per gli altri, alla Chiesa-Sposa di Cristo, non sono imposti limiti né di intensità, né di profondità, ma soltanto di forma. Il vergine, quindi, può e deve amare soltanto in Cristo e per Cristo. La sua fecondità diventa così un partecipare della vitalità irraggiante della vita che è lo stesso Cristo Signore, un partecipare all’amore del Cristo UomoDio per l’umanità292.

291

Cfr. TRIACCA, «Fondamenti liturgico-sacramentali delle forme di “vita di consacrazione”», in Matrimonio e verginità. Teologia e celebrazione, 301. 292 Cfr. TRIACCA, «Significato teologico-liturgico della verginità», 359-363.

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Conclusione generale

San Metodio Siculo, nell’omelia tenuta in occasione di una celebrazione liturgica per il dies natalis di sant’Agata ebbe a dire che questa martire è “antica” (palai£), ma anche “di oggi” (nša)1. Tenendo presente queste parole, nel presente lavoro, si è voluto partire da un’accurata investigazione storica, dalla quale far emergere, non solo i già consolidati argomenti storiografici, ma anche lo spessore della figura e del messaggio di questa giovane martire. Dopo aver compiuto questo passaggio, mediante un’attenta analisi ermeneutica dei testi liturgici che la tradizione romana e i Propri regionali siciliani ci hanno tramandato, abbiamo delineato l’ideale di santità che questa santa di ieri può proporre ancora oggi. Alla fine del percorso fin qui fatto, ci sembra di poter cogliere non solo un ideale di santità da poter imitare nella vita personale, ma anche dei suggerimenti di carattere pastorale sul culto dei santi nelle nostre Chiese locali a partire dalla liturgia. Di conseguenza, se da una parte l’interesse che può suscitare questo tipo di ricerca può apparire limitato ad una ristretta realtà locale, dall’altra il recupero e lo studio delle fonti storico-liturgiche che hanno alimentato e trasmesso il culto di questa martire è pur sempre una modesta operazione di portata culturale o di recupero della memoria. Un lavoro del genere, inoltre, è pur 1

Cfr. MIONI, «L’encomio di S. Agata di Metodio patriarca di Costantinopoli», AB 68 (1950) 76.

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sempre un’occasione per trarre dalle fonti che si accostano qualche spunto che possa aiutare, in maniera particolare la Chiesa catanese, a celebrare e a vivere la festa di sant’Agata in una forma che, oltre ad esprimere l’identità culturale e cristiana di questo popolo, possa essere più armonizzata con la sensibilità ecclesiale odierna. Certamente bisogna partire dalla consapevolezza che certe forme ed espressioni di culto ai santi nascono da una concezione ben diversa dei santi stessi e del significato che si intende tributare loro. Spesso, infatti, i santi vengono visti, ancora oggi, soprattutto sotto un’angolatura meraviglioso-sacrale e sono considerati, riduttivamente, operatori di miracoli e dispensatori di grazie. Questa concezione fa di loro dei personaggi fuori dal mondo e fuori dal tempo, diversi dai comuni mortali, detentori di misteriose forze soprannaturali che essi possono applicare a vantaggio dei loro devoti. In questa prospettiva sono nate e si sono conservate tante leggende prive di fondamento che portano la devozione lontano dallo spirito della liturgia, la quale, invece, colloca i santi su un piano storico-teologico che li rende personaggi ancora vivi nella Chiesa e testimoni attuali del Vangelo. Secondo la concezione meraviglioso-sacrale i santi appartengono al mondo intoccabile del sacro, che sfugge per definizione alla logica della storia umana e ad ogni tentativo di ricerca storico-critica sulla loro vita e le loro opere. In questa visione si preferisce avvolgere i santi di un’atmosfera mistico-sacrale che tende ad estrarli dal piano reale ordinario della vita comune per farne degli esseri superiori dotati di particolari poteri, di cui si può in qualche modo usufruire tramite la propria devozione che si limita ad esprimersi in voti, processioni, candele, offerte, pellegrinaggi e quant’altro. Al di là delle buone intenzioni, è innegabile il rischio di alienazione che questo tipo di religiosità comporta; ed è innegabile la facilità di strumentalizzazione e di sfruttamento culturale-economico da parte dei difensori di queste forme di culto. La stessa pratica sacramentale in questo contesto, pur avendo un suo valore, potrebbe essere compromessa da forti ambiguità. Evidentemente un simile modo di concepire i santi e il loro culto è assai diverso da quello della liturgia e della logica storico-salvifica in cui essa inquadra la venerazione ai santi, la quale, in questo contesto, è inserita nell’ambito dell’anno liturgico e all’interno della prospettiva della centra470


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lità del mistero pasquale di Cristo. In questa direzione, quindi, occorre puntare gli sforzi e le iniziative in campo pastorale usufruendo degli stimoli e delle dimensioni che possono venire dagli aspetti più genuini del culto liturgico di un santo, il quale, se è autentico e genuino, non porta a perdere di vista l’originalità del messaggio cristiano, centrato esclusivamente sul mistero pasquale e sull’accoglienza responsabile della salvezza che ci è data per grazia. In questo modo non si corre il rischio di dimenticare all’atto pratico che «uno solo è Dio, e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti»2. I famosi “motivi pastorali” legati alla religiosità popolare non devono diventare un alibi contro la fatica di una seria catechesi e di una paziente ed impegnata opera di formazione cristiana. Senza entrare in questioni particolari che bisognerebbe esaminare tenendo presente vari fattori storici, culturali, economici e sociali, concludo queste mie riflessioni che pongo al termine del presente lavoro proponendo schematicamente alcune modeste considerazioni che la dimensione liturgica del culto di sant’Agata può suggerire a partire dall’analisi dei testi eucologici presi in esame. La prima indicazione è l’invito a preoccuparsi innanzitutto di predicare e insegnare il messaggio cristiano, nella sua originalità ed essenzialità, riscoprendolo e ripresentandolo attraverso un ascolto sapiente della Parola di Dio che vada al di là delle abitudini mentali, dei costumi e delle tradizioni formatesi lungo i secoli, le quali, pur cariche di valori, spesso hanno bisogno di essere reinterpretate in termini cristiani. La seconda indicazione è quella di ricuperare il senso genuino del culto dei santi riportandolo nello spirito originario di orientamento a Cristo e del suo mistero pasquale3. Il culto dei santi, collocato in quest’orbita, che è il nucleo di tutto il culto cristiano, può dare un significativo contributo alla pastorale dell’anno liturgico. In particolare, guardando ai martiri, si può ricavare con chiarezza il concetto cristiano del vero culto a Dio, che si identifica con la santità della propria vita, animata dalla fede, dalla speranza e dalla carità. Nel caso specifico di sant’Agata ciò significa innanzitutto riscoprire l’ideale della santità di questa donna che risplende per i due meriti che 2 3

1 Tim 2,5. Cfr. SC 102.

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l’hanno resa preziosa agli occhi di Dio e costituiscono, ancora oggi, due tipi di santità perennemente proposti ai cristiani che vivono sulla terra: il martirio e la verginità. In fondo la santità è una sola ed è la partecipazione all’unico mistero di Cristo, ossia l’immergersi in questo mistero sempre presente perché eterno ed è il solo che riempie tutta la storia: per ogni uomo «vivere è Cristo», diceva san Paolo4: vivere cioè la sua morte e la sua risurrezione; da qui nascono i due modelli che caratterizzato l’ideale di santità di Agata: il martirio e la verginità da proporre, oggi, con tutta la ricchezza messa in evidenza nell’ultimo capitolo di questa ricerca. La terza indicazione ci spinge a presentare i santi ben ancorati nel loro contesto storico, senza paura di demitizzarli, e soprattutto per evitare di sovraumanizzarli, eliminando la concretezza del loro inserimento creaturale e terreno in precise circostanze di tempo e di luogo. Questo aspetto contribuirà certamente a ribadire il significato ecclesiale del culto dei santi nella sua triplice configurazione: «In Sanctorum enim nataliciis praedicat paschale mysterium in Sanctis cum Christo compassis et conglorificatis, et fidelibus exempla eorum proponit, omnes per Christum ad Patrem trahentia, eorumque meritis Dei beneficia impetrat»5.

I santi, in questa particolare prospettiva, vanno proposti all’intera comunità cristiana come coloro che hanno saputo vivere in pienezza il mistero pasquale di Cristo e, in tal senso, diventano modelli di vita cristiana e validi intercessori del popolo di Dio. La celebrazione della memoria dei santi, quindi, oggi deve rappresentare la risposta concreta della Chiesa che, chiamata ad annunciare, a realizzare, a celebrare e a vivere la centralità del mistero pasquale di Cristo, esemplifica questo suo compito anche nel culto dei santi che ha il preciso compito di proporre dei testimoni di santità che, con la loro presenza viva e operante nella Chiesa, invitano i devoti alla testimonianza di una vita santa calando nel vissuto gli insegnamenti del santo che si sta celebrando. A tal proposito M. Barba afferma: «Dalla partecipazione liturgica scaturisce per il cristiano la mistica e la spiritualità. Vita mistica, in quanto vissuta come prolungamento del mistero celebrato, e vita spirituale, in quanto vissuta nello Spirito che con la sua epiclesi, con il suo intervento, oltre a trasformare i segni – pane, vino, acqua, olio- in sacramenti, 4 5

Cfr. Phil 1,21. SC 104.

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trasforma anche la vita dei credenti, conformandoli a Cristo, rendendoli partecipi della vita divina, ovvero divinizzandoli…La celebrazione dei santi sollecita, pertanto, il cristiano a una vita mistica, in quanto lo conduce progressivamente a un’autentica esperienza di Dio che scaturisce dalla celebrazione del mistero e ad esso continuamente rimanda»6.

La quarta indicazione è quella di spostare il centro di attenzione dalla santità del meraviglioso e dello straordinario alla santità del quotidiano e dell’ordinario onde evitare il sottile gioco psicologico con cui ci si crea un alibi per sentirsi praticamente dispensati dall’urgenza della nostra personale santificazione. Va ribadito, pertanto, che il vero culto a Dio è quello dato dalla santità della vita; questo culto non è fine a se stesso e limitato alle mura del tempio ma, essendo mosso dallo Spirito, acquista la sua specifica connotazione di culto spirituale e rimanda continuamente alla quotidianità della vita. La quinta indicazione è quella di ricercare uno stile di sobrietà e semplicità nella celebrazione dei santi, evitando, per quanto è possibile, le eccessive manifestazioni di folklore o di fanatismo religioso. Le feste dei santi, prima ancora che occasioni di allegria, dovrebbero essere rimprovero per la nostra mediocrità e sollecitazione all’imitatio Christi. Anche da questo punto di vista i santi hanno molto da insegnarci. I santi non sono mai una conferma dello status quo della Chiesa, ma lo mettono in questione. Essi sono il “no” ad ogni insediamento della Chiesa nel tempo; incarnano il momento riformatore della grazia. Nei santi e con i santi bisogna sempre compiere un passo in avanti nel cammino verso Dio. Così essi impediscono che si costruiscano tende e rendono possibili nuovi modi di sequela di Cristo, modi richiesti qui ed ora. La sesta indicazione riguarda coloro che sono impegnati nella riflessione teologica e suona come un invito a non trascurare il ruolo dei santi nella vita della Chiesa. Il santo è una necessità vitale per la Chiesa perché è la testimonianza incarnata della sua santità, verità che è, appunto, sillabata dai santi con la loro vita. Essi sono la grammatica della dogmatica ecclesiale e dell’argomentazione teologica. Infatti, secondo la dottrina dei principi teologici, una delle fonti di conoscenza della riflessione sulla 6 M. BARBA, «Il martirologio: per fare memoria dei testimoni della santità», in Testimoni del Risorto. Martiri e santi di ieri e di oggi nel Martirologio Romano, Padova 2006, 239240.

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fede è il senso della fede dei cristiani. L’autorità dei santi, quindi, riveste un valore conositivo-teoretico per la teologia. Il Vaticano II ha richiamato questa verità, usando una terminologia contraddistinta dal linguaggio della teologia della santità: «Universitas fidelium, qui unctionem habent a Sancto (cf. 1Io 2,20 et 27), in credendo falli nequit, atque hanc suam peculiarem proprietatem mediante supernaturali sensu fidei totius populi manifestat, cum "ab Episcopis usque ad extremos laicos fideles" universalem suum consensum de rebus fidei et morum exhibet»7.

In fine, resta il suggerimento di cercare contenuti autenticamente cristiani, evangelici, ecclesiali, anche nelle forme più tradizionali di culto ai santi. Questo lavoro richiede la fatica di ripensare le feste locali dei nostri santi, molto spesso incrostate di elementi fuorvianti il significato teologico-religioso, riportandole, se è il caso, al loro alveo originale: nei santi si celebra la santità stessa di Dio. In un secondo momento ci si potrebbe avvalere dell’apporto delle scienze umane che potrebbero magari evidenziare che cosa rappresenti il santo nella mentalità comune della gente di oggi e quale è il meccanismo, per lo più inconscio, che spinge parte del popolo a trascurare il culto dei santi così come lo propone la Chiesa, per appropriarsi di esso in modo magico-sacrale e magari per un atavico bisogno esorcistico. Ma questo aspetto andava oltre l’interesse del nostro studio e andrebbe affrontato da contributi specialistici di carattere sociologico e antropologico.

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DELLA

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Indice

Premessa

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Sigle e abbreviazioni

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Introduzione

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Capitolo I

Il culto di Agata: fonti storiche, letterarie, archeologiche, epigrafico-monumentali e agiografico-liturgiche 1. 2. 3. 4. 5.

La vicenda storica di Agata: fonti e criteri metodologici L’Impero romano nel III secolo e la persecuzione di Decio Le radici cristiane della Sicilia e il cristianesimo nell’isolaal tempo di Agata La dimensione storica della figura di Agata Le fonti letterarie 5.1. Il culto dei martiri e i fenomeni ad esso connessi 5.2. Culto dei martiri e letteratura agiografica 5.3. Le fonti letterarie agatine 5.3.1. La Passio Agathae 5.3.1.1. Le due tradizioni e le tre redazioni 5.3.1.2. La narrazione del martirio 5.3.1.3. Lo schema narrativo e analisi della tipologia agiografica 5.3.1.4. Uso liturgico della Passio Agatae 5.3.2. Le altre fonti letterarie 6. Le fonti epigrafico-monumentali 6.1. L’espressione locale del culto di sant’Agata e la sua memoria nella città di Catania 6.1.1. Il luogo della sepoltura, i primi edifici sacri di Catania e il sarcofago 6.1.2. Le reliquie 6.1.3. Le epigrafi 6.1.4. I luoghi del martirio 6.2. Il culto di sant’Agata a Roma ed in altre regioni

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31 31 34 42 44 47 47 53 59 59 59 66 69 72 73 74 74 75 88 90 93 96


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7. Le espressioni iconografiche 8. Fonti agiografico-liturgiche 8.1. I Calendari 8.2. I Martirologi 8.3. Altri testi liturgici

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Capitolo II

I formulari per la Messa: excursus storico 1. La memoria di sant’Agata nei libri liturgici per la Messa dei secoli VII-XII 1.1. I Sacramentari 1.2. Gli Antifonari 1.3. I Lezionari 1.4. Il nome di Agata nel Canone Romano 2. Dalle tradizioni del XIII secolo al Messale di Pio V 3. La Riforma liturgica Tridentina 4. Il Messale di Paolo VI 5. La memoria di sant’Agata nelle fonti liturgiche siciliane 5.1. Storia della liturgia in Sicilia 5.2. Le fonti siciliane e i Propri della Chiesa catanese 6. L’influsso delle fonti letterarie sulle fonti eucologiche

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Capitolo III

Ermeneutica del formulario gelasiano 1. Orazione: “Indulgenciam nobis…” 1.1. Il testo 1.2. Identità storica del testo 1.3. La tradizione del testo 1.4. Identità letteraria del testo 1.4.1. Fonti 1.4.2. Genere letterario e stilistica 1.5. Fondamenti teologici 1.6. Dimensioni liturgiche 2. Secreta: “Fiant, domine, tua grata…” 2.1. Il testo e la sua traduzione 2.2. Identità storica 2.3. La tradizione 2.4. Identità letteraria 2.4.1. Fonti 2.4.2. Genere letterario e stilistica 2.5. Fondamenti teologici 2.6. Dimensioni liturgiche 3. Post communionem: “Exultamus pariter…” 3.1. Il testo e la sua traduzione 3.2. Identità storica 3.3. La tradizione 3.4. Identità letteraria 3.4.1. Fonti 3.4.2. Genere letterario e stilistica 3.5. Fondamenti teologici 3.6. Dimensioni liturgiche 4. Contesto letterario-liturgico

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155 155 155 156 158 159 159 160 161 168 170 170 171 172 173 173 173 174 177 179 179 179 180 180 180 182 183 184 188


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Capitolo IV

Ermeneutica del formulario gregoriano

195 195 195 195 196 196 196 198 199 202 205 205 205 206 207 207 208 209 210 213 213 213 214 215 215 217 218 219 221 221 221 222 223 223 225 225 226 227 227 227 228 229 229 230 231 234 236 236 237 243 244 244

1. Orazione: “Deus qui inter cetera…” 1.1. Il testo e la sua traduzione 1.2. Identità storica 1.3. La tradizione 1.4. Identità letteraria 1.4.1. Fonti 1.4.2. Genere letterario e stilistica 1.5. Fondamenti teologici 1.6. Dimensioni liturgiche 2. Super oblata: “Suscipe munera Domine…” 2.1. Il testo e la sua traduzione 2.2. Identità storica 2.3. La tradizione 2.4. Identità letteraria 2.4.1. Fonti 2.4.2. Genere letterario e stilistica 2.5. Dimensioni teologiche 2.6. Dimensioni liturgiche 3. Ad Compl.: “Auxilientur nobis domine…” 3.1. Il testo e la sua traduzione 3.2. Identità storica 3.3. La tradizione 3.4. Identità letteraria 3.4.1. Fonti 3.4.2. Genere letterario e stilistica 3.5. Fondamenti teologici 3.6. Dimensioni liturgiche 4. Alia: “Deus qui nos annua…” 4.1. Il testo e la sua traduzione 4.2. Identità storica 4.3. La tradizione 4.4. Identità letteraria 4.4.1. Fonti 4.4.2. Genere letterario e stilistica 4.5. Fondamenti teologici 4.6. Dimensioni liturgiche 5. Alia: “Beatae agathe martyris…” 5.1. Il testo e la sua traduzione 5.2. Identità storica 5.3. La tradizione 5.4. Identità letteraria 5.4.1. Fonti 5.4.2. Genere letterario e stilistica 5.5. Fondamenti teologici 5.6. Dimensioni liturgiche 6. Il Prefazio del Supplemento di B. di Anianne 6.1. Il testo e la sua traduzione 6.2. Identità storica 6.3. La tradizione 6.4. Identità letteraria 6.4.1. Fonti

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6.4.2. Genere letterario e stilistica 6.5. Fondamenti teologici 6.6. Dimensioni liturgiche 7. Le antifone 7.1. Introito: “Gaudeamus…” 7.1.1. Il testo e la traduzione 7.1.2. Identità storica del testo 7.1.3. La tradizione del testo e la sua identità letteraria 7.1.4. Fondamenti teologici 7.1.5. Dimensioni liturgiche 7.2. Graduale: “Adjuvavit eam…” 7.2.1. Il testo e la traduzione 7.2.2. Identità storica del testo 7.2.3. La tradizione del testo e la sua identità letteraria 7.2.4. Fondamenti teologici 7.2.5. Dimensioni liturgiche 7.3. Tratto: “Qui seminant in lacrimis…” 7.3.1. Il testo e la sua traduzione 7.3.2. Identità storica del testo 7.3.3. La tradizione del testo e la sua identità letteraria 7.3.4. Fondamenti teologici 7.3.5. Dimensioni liturgiche 7.4. Offertorio: “Offerentur regi virginis…” 7.4.1. Il testo e la traduzione 7.4.2. Identità storica, tradizione e identità letteraria del testo 7.4.3. Fondamenti teologici 7.4.4. Dimensioni liturgiche 7.5. Ad Communionem: “Qui me dignatus” 7.5.1. Il testo e la sua traduzione 7.5.2. Identità storica del testo 7.5.3. La tradizione del testo e la sua identità letteraria 7.5.4. Fondamenti teologici 7.5.5. Dimensioni liturgiche 8. Contesto letterario-liturgico

247 249 251 255 255 255 255 260 264 267 269 269 270 270 274 277 278 278 278 279 280 282 284 284 284 287 288 289 289 289 290 292 294 294

Capitolo V

Ermeneutica dei formulari di messa nei propri locali 1. Il formulario “In festo translationis S. Agathae v. m.” del Proprium Sanctorum di Felice Regano (anno 1854) 1.1. Oratio: “Domine Jesu Christe rex Virginum…” (17 agosto) 1.1.1. Il testo e la sua traduzione 1.1.2. Identità storica e tradizione del testo 1.1.3. Identità letteraria 1.1.4. Fondamenti teologici 1.1.5. Dimensioni liturgiche 1.2. Post communionem: “Praesta, quaesumus…” 1.2.1. Il testo e la sua traduzione 1.2.2. Identità storica, tradizione e identità letteraria del testo 1.2.3. Fondamenti teologici 1.2.4. Dimensioni liturgiche 1.3. Le antifone 1.3.1. I testi e le fonti 1.3.2. I temi 1.4. Le letture

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299 299 299 299 300 300 303 305 306 306 306 308 311 314 314 315 317


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2. Il formulario “In commemoratio Patrocinii S. Agathae” del Proprium Missarum di mons. Guido Luigi Bentivoglio (anno 1962) 2.1. Oratio: “Suscipe, Domine, precibus beatae…” 2.1.1. Il testo e la sua traduzione 2.1.2. Identità storica, tradizione e identità letteraria del testo 2.1.3. Fondamenti teologici 2.1.4. Dimensioni liturgiche 2.2. Secreta: “Accepta sit tibi, Domine, nostrae devotionis oblatio…” 2.2.1. Il testo e la sua traduzione 2.2.2. Identità storica, tradizione e identità letteraria del testo 2.2.3. Fondamenti teologici 2.2.4. Dimensioni liturgiche 2.3. Post Communionem: “Deus, qui pro beata Agatha…” 2.3.1. Il testo e la sua traduzione 2.3.2. Identità storica, tradizione e identità letteraria del testo 2.3.3. Fondamenti teologici 2.3.4. Dimensioni liturgiche 2.4. Le antifone 2.4.1. I testi e le loro fonti 2.4.2. I temi 2.5. Le letture 3. I formulari del Proprio regionale Siciliano 3.1. Messa del 5 febbraio 3.2. Il formulario del 17 agosto 3.2.1. I testi e le loro fonti 3.2.2. La colletta 3.2.2.1. Fondamenti teologici 3.2.2.2. Dimensioni liturgiche 4. Le sequenze medievali 4.1. La sequenza e la sua forma letterario-musicale 4.2. L’uso liturgico della sequenza 4.3. Le sequenze agatine 4.3.1. Le sequenze dell’XI secolo 4.3.2. Le sequenze dal XII al XIV secolo 4.3.3. Le sequenze dal XV al XVI secolo

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Capitolo VI

Il modello di santità femminile di Agata: aspetti teologico-liturgici

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1. L’ideale della santità di Agata nell’eucologia dei formulari eucaristici 1.1. Considerazioni generali 1.2. Presentazione sintetica dei riferimenti eucologici ad Agata 2. I temi emergenti dall’eucologia eucaristica 2.1. La santità di Agata frutto dell’azione di Dio 2.2. Agata beata martire e testimone delle meraviglie di Dio 2.3. Agata vergine 2.4. Agata modello di vita cristiana e sorella solidale 2.5. Agata donna resa forte dall’Eucaristia 2.6. Agata segno di speranza escatologica 2.7. Agata e Catania 3. Il significato teologico-liturgico degli attributi dell’ideale di santità di Agata e la loro attualità 3.1. La beatitudine/santità 3.1.1. La santità come dono di grazia e impegno dell’uomo: la dimensione teandrica

386 386 386

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3.1.2. La santità cristiana come «sequela Christi» nello Spirito: la dimensione cristologica e pneumatologica 3.1.3. Il mistero della Chiesa nel culto dei santi: la dimensione ecclesiologica ed escatologica 3.1.4. La dimensione antropologica 3.1.5. La santità in prospettiva teologico-liturgica 3.2. l segno del martirio oggi 3.2.1. Il martirio nella riflessione teologica contemporanea 3.2.2. Il martirio come testimonianza suprema della croce gloriosa e dono di grazia 3.2.3. La dimensione trinitaria del martirio 3.2.4. La dimensione ecclesiale del martirio 3.2.5. Martirio ed eschaton 3.2.6. Il martirio come epifania del mistero pasquale 3.2.7. Martirio ed Eucaristia 3.3. Il segno della verginità oggi 3.3.1. Aspetti storici 3.3.2. L’urgenza di una riproposta 3.3.3. La verginità come vocazione all’amore 3.3.4. La dimensione trinitaria 3.3.5. L’aspetto cristologico della verginità 3.3.6. La dimensione ecclesiale della verginità 3.3.7. L’aspetto escatologico ed eucaristico della verginità 3.3.8. La verginità come partecipazione al mistero pasquale

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Conclusione generale

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Bibliografia

475

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