CITTÀ APERTA
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Antonio Pennisi
DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS
Il volume è uno studio sulla visione del presbitero in don Primo Mazzolari. La sua insigne testimonianza si colloca in un’epoca che, stendendosi tra due momenti critici, modernismo e pre-concilio, pone l’esigenza di un nuovo rapporto tra Chiesa, società e cultura. La sua originale riflessione costituisce un tentativo di colmare il vistoso limite che, a riguardo del ministero ordinato, la Chiesa eredita dal concilio di Trento: la mancata armonizzazione della dimensione cultuale (prospettiva dionisiaca) con la dimensione pastorale (prospettiva agostiniana). Nel legame forte tra il carattere testimoniale della fede e la funzione pastorale, tra la fede e l’impegno, il vangelo e la storia il presente studio coglie in maniera originale l’eredità spirituale del pensiero di Mazzolari. Il lavoro è suddiviso in quattro parti: la biografia di don Mazzolari, la sua coscienza sacerdotale di fronte alla storia, la concezione di presbitero, l’armonizzazione tra la vita spirituale e l’impegno pastorale del presbitero. Il procedimento ermeneutico e l’elaborazione sistematica della proposta di Mazzolari orientano la ricerca scientifica a ripensare l’identità presbiterale a partire dal cuore, luogo umano dove entrano in correlazione i desideri veri e autentici e il fascino della presenza vivente del Cristo, a riconsiderare la missione come quell’azione pastorale che indica all’uomo contemporaneo il Vangelo come segno e garanzia del compimento della felicità alla quale mira ogni atto umano.
Antonio Pennisi Vita spirituale e ministero pastorale in don Primo Mazzolari
Antonio Pennisi (Catania, 1975) è presbitero della diocesi di Acireale. Ha conseguito la Licenza in Teologia dommatica (indirizzo ecclesiologico) presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia “S. Giovanni Evangelista” nel 2002 e il dottorato nella stessa Facoltà nel 2009. È docente di Teologia Pastorale allo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
L’armonizzazione tra la vita spirituale e il ministero pastorale del presbitero in don Primo Mazzolari
CITTÀ APERTA
Studio Teologico S.Paolo/Catania
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Documenti e Studi di Synaxis 27
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Antonio Pennisi
Vita spirituale e ministero pastorale del presbitero in don Primo Mazzolari
CittĂ Aperta Edizioni
Studio Teologico S. Paolo / Catania
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Visto di approvazione a norma degli Statuti della Facoltà Teologica di Sicilia Palermo 10/10/2010 INA SIVIGLIA ROSARIO LA DELFA PIETRO SORCI GIUSEPPE TRAPANI Ordinario del luogo MONS. PIO VITTORIO VIGO Arcivescovo Vescovo di Acireale 3/11/2010 Il Preside DON ROSARIO LA DELFA 15/10/2010
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Abbreviazioni e sigle
Argine
P. MAZZOLARI, Tra l’argine e il bosco, Bologna, 1980.
Avventura
ID., La più bella avventura. Sulla traccia del «prodigo», Bologna 19989.
Carità
ID., La carità del Papa. Pio XII e la ricostruzione dell’Italia (1943-1953), Milano 1991.
Chiodi
ID., Dietro la croce e il segno dei chiodi, Bologna 19832, 97-230.
Compagno
ID., Il Compagno Cristo, Bologna 1981.
Confesso
ID., Perché non mi confesso? in P. MAZZOLARI, Perché non mi confesso? La Samaritana. Zaccheo, Bologna 1986, 7-41.
Croce
ID., Dietro la croce e il segno dei chiodi, Bologna 19832, 7-95.
Diario I
ID., Diario I (1905-1915), a cura di A. Bergamaschi, Bologna 1997.
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Diario II
ID., Diario II (1916-1926), a cura di A. Bergamaschi, Bologna 1999.
Diario III/A
ID., Diario III/A (1927-1933), a cura di A. Bergamaschi, Bologna 2000.
Diario III/B
ID., Diario III/B (1934-1937), a cura di A. Bergamaschi, Bologna 2000.
Diario IV
ID., Diario IV (1938-25 aprile 1945), a cura di A. Bergamaschi, Bologna 2006.
Impegno
ID., Impegno con Cristo, Bologna 19793.
Istanze
ID., Impegni cristiani, istanze comuniste, in Il coraggio del confronto e del dialogo, a cura di P. Piazza, Bologna 1979.
Lettera
ID., Lettera sulla parrocchia. Invito alla discussione, Bologna 19793.
Lontani
ID., I Lontani. Motivi di apostolato avventuroso, Bologna 19814.
Morire
ID., I preti sanno morire, Bologna 1984.
Nessuno
ID., L’uomo di nessuno, in P. MAZZOLARI, La pieve sull’argine e l’uomo di nessuno, Bologna 1978, 277347.
Obbedientissimo
ID., Obbedientissimo in Cristo. Lettere al vescovo (1917-1959), Cinisello Balsamo 19962.
Papa
ID., Anch’io voglio bene al papa, Bologna 19783.
Parrocchia
ID., La Parrocchia, Vicenza 1963.
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Parroco
ID., Il mio parroco. Confidenze di un povero prete di campagna, Bologna 1980.
Pieve
ID., La pieve sull’argine, in P. MAZZOLARI, La pieve sull’argine e l’uomo di nessuno, Bologna 1978, 35-275.
Povero
ID., La via crucis del povero, Bologna 1983.
Prova
ID., Il coraggio del «confronto» e del «dialogo», a cura di P. Piazza, Bologna 1979.
Preti
ID., Preti così, a cura di P. Piazza, Bologna 1983.
Rivoluzione
ID., Rivoluzione cristiana, Vicenza 1970.
Samaritana
ID., La Samaritana, in P. MAZZOLARI, Perché non mi confesso? La Samaritana. Zaccheo, Bologna 1986, 43121.
Samaritano
ID., Il Samaritano. Elevazioni per gli uomini del nostro tempo, Bologna 19912.
Tempo
ID., Tempo di credere, Bologna 19914.
Uccidere
ID., Tu non uccidere, Vicenza 1985.
Vita
ID., Quasi una vita. Lettere a Guido Astori (19081958), a cura di G. Astori, Vicenza 1974.
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Introduzione
Don Primo Mazzolari non è un teologo né un sistematico. È piuttosto un testimone del Vangelo. Ci parla attraverso la sua esperienza e gli scritti per lo più occasionati nel servizio del ministero pastorale. Entrambi diventano fonte per la riflessione teologica. Vi si evince come, attraverso il travaglio della sua coscienza sacerdotale, sia stato un uomo che ha totalmente strutturato il proprio universo spirituale alla luce di una condivisione, ormai a tutti chiara, della propria vita con quella di Cristo; ciò lo ha posto nella libertà necessaria di cogliere, nella capacità di riconoscere e nella volontà di servire l’opera del Vangelo negli altri. La sua personale testimonianza, legata anche ad una ricca produzione di opere rilevanti nell’alveo della tradizione spirituale e culturale cristiana, sembra tuttora influire sul piano dell’esperienza teologale del credente, nella prospettiva di schiudergli la possibilità dell’esperienza religiosa del Risorto. Il tipo di riflessione teologica che ne conseguirebbe, e al quale desidero dedicarmi in questo lavoro, si innesta proprio qui, nel tentativo di cogliere lo stretto legame tra il carattere testimoniale della fede e la sua funzione pastorale, tra la vita spirituale e il ministero pastorale, tra fede e impegno, tra vangelo e storia. In particolare, l’obiettivo dell’indagine è volto a cogliere l’originalità del pensiero di Mazzolari nell’armonizzazione di due dimensioni considerate generalmente, al suo tempo, parallele: la vita interiore del presbitero e il suo impegno ministeriale1. Egli è stato, forse, l’unico in Ita1 Questo libro ripresenta integralmente una tesi di dottorato in S. Teologia che ha come titolo originale: L'Armonizzazione tra la vita spirituale e il ministero pastorale del presbitero in don Primo Mazzolari.
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lia e fra i pochi nel panorama internazionale, ad aver contribuito concretamente a indicare l’unità tra l’esercizio dell’attività pastorale e la vita spirituale del sacerdote. Don Primo denuncia nel presbitero una dicotomia tra fede e impegno. Infatti, nel periodo in cui visse, difficile era la situazione del sacerdote, che sentiva in se stesso una spaccatura tra azione e contemplazione ed avvertiva come difficoltoso il realizzare un’unità di vita tra i compiti di tutti i giorni. Nella Chiesa la fede era vissuta da molti come rifugio nel privato, spiritualità fuori dalla storia. Una figura di coscienza così intesa e trasmessa dai pastori della Chiesa, in un periodo storico di profonde trasformazioni sociali, ha contribuito a costruire l’immagine di un cristianesimo estraneo alla contemporaneità, distante dalle delicate condizioni umane di povertà e chiuso a riccio su di sé. Recuperare la dimensione sociale dell’impegno nel mondo significa per Mazzolari offrire agli uomini del proprio tempo la corretta immagine di Dio e della Chiesa. L’apporto di Mazzolari sta nell’aver individuato nella coscienza del presbitero il luogo dove poter compiere quella sutura nella vita della Chiesa tra spiritualità e professione della fede e, attraverso la Chiesa, l’indice di un’offerta di spiritualità per il mondo. Questa saldatura dipende dalla capacità che l’ufficio pastorale possiede di alimentare e sostenere quella voluptas animi, la facoltà desiderante, che alberga in ogni cuore umano. Quel diletto interiore, sorgente ultima dell’equilibrio della persona, nella misura in cui si concretizza nell’ideale di vita “oggettivo” del presbitero, unisce la dimensione spirituale a quella pastorale e dà senso alla identità e missione della Chiesa e alle istanze del mondo stesso. A tal proposito Mazzolari, in una omelia della Messa di Natale del 1933, afferma: «Noi non cerchiamo qualche cosa; noi cerchiamo qualcuno. Abbiamo bisogno di qualcuno. La nostra sofferenza disperata incontrandosi con quella di Gesù, diviene una sofferenza consolata»2. Egli sembra affermare di non credere tanto in un’astratta verità rivelata, ma in Gesù Cristo che ha preso su di sé la sofferenza dell’umanità. Proprio perché il sacerdote deve tendere all’imitazione di Cristo, il servizio agli uomini del proprio tempo (concretamente incontrati nei parrocchiani di “dentro” e di “fuori”) è la via principale per rendere Cristo presente nel tempo. È, dunque, importante interpretare la figura di Mazzolari all’interno del contesto di appartenenza. La riflessione dogmatica non può prescindere dalla rilettura della biografia e del retroterra culturale, teologico, filosofico e spirituale che hanno fatto maturare la riflessione di don Primo. Per questo, nel primo capitolo del presente studio, la nostra indagine 2
Diario III, 690.
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scientifica si prefigge di riscrivere il percorso della vita di Mazzolari per evidenziare la formazione della sua coscienza sacerdotale, grazie alla quale egli affronta le responsabilità del proprio ministero e si propone come formatore di coscienze. In esso intendiamo ricostruire le fasi salienti del suo cammino sacerdotale, il suo modo di vivere, comprendere e affrontare le responsabilità. Tale testimonianza pone le basi per analizzare il rapporto e individuare lo stretto legame che esiste tra il carattere della sua fede e la sua funzione pastorale, tra la vita spirituale e il ministero pastorale, tra fede e impegno. Nel secondo capitolo la ricerca mostra come il ministero sacerdotale di don Primo Mazzolari costantemente s’intreccia col momento storico dell’Italia e della Chiesa italiana (la Prima guerra mondiale, il Fascismo, la Seconda guerra mondiale, la Resistenza, il Dopoguerra) e come vada maturando lo sviluppo della sua coscienza presbiterale oltre i confini istituzionali della Chiesa, nel senso di una missione verso il mondo. Nel terzo capitolo il nostro lavoro analizza la figura di prete vissuta, pensata e proposta nelle opere di Mazzolari. Innanzitutto si dimostra che la formazione sacerdotale di Mazzolari è la risultante di una confluenza di due modelli: il modello di san Carlo e il modello sacerdotale della scuola francese. In secondo luogo, data la frammentarietà del pensiero mazzolariano, si cerca di dare una sistemazione concettuale a partire dall’elaborazione teologica che Mazzolari fa della sua intensa e travagliata esperienza sacerdotale. Il costante riferimento alle opere evangeliche dà la chiave di lettura per cogliere l’evoluzione del pensiero mazzolariano sul prete. Si individuano in tre pagine evangeliche, tolte dal testo di Luca e ricorrenti nelle sue opere, i tre passaggi chiave nella visione del prete in Mazzolari: la parabola del prodigo (Lc 15, 11-32), quella del Samaritano (Lc 10, 3037), il racconto dei due discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35). A partire da queste tre pagine bibliche, da lui amate e predilette, si raggruppano e si esaminano le opere di don Primo cercando di estrarre, dalla sua teologia narrativa, l’identità e la missione del presbitero. Infine ci si sofferma su alcuni aspetti della figura del prete, delineata nel disegno di fondo, per precisarne i contorni, esplicitandone componenti e connessioni che possono sfuggire ad uno sguardo d’insieme. Nel quarto capitolo la nostra ricerca vuole mostrare come nella visione sacerdotale di don Mazzolari il ministero pastorale e la vita spirituale del prete sono in simbiosi, in armonia senza alcuna contrapposizione. Prima di tutto vogliamo presentare l’originalità della sua spiritualità, che si espri-
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me non al di fuori, ma all’interno della storia nella donazione completa di sé ai fratelli; in secondo luogo, rileggiamo il pensiero di don Primo rapportandolo ad alcune emergenze rilevate da K. Rahner che troviamo presenti nella riflessione mazzolariana sull’impegno di fede. La fede proposta dal presbitero deve assumere una “forma” particolare con dei requisiti fondamentali e irrinunciabili se non vuole rimanere avulsa dalla concretezza della storia e se vuole essere accolta come proposta ragionevole e affidabile dall’uomo moderno. In terzo luogo, la nostra indagine si sofferma sulla tensione teologica che esiste nel ministero sacerdotale tra la dimensione cristologica e la dimensione ecclesiologica, mettendo in evidenza il tentativo di riconciliazione tentata dal nostro autore che vede nel cuore, la sede dove entrambe le dimensioni ben si armonizzano. Successivamente la ricerca sviluppa il tema del cuore come cifra interpretativa della formazione spirituale sacerdotale e l’importanza della maturità umana, che fa da cerniera tra le dimensioni costituenti della realtà presbiterale. Il confronto tra il pensiero di don Mazzolari sulla formazione del cuore nel presbitero e la riflessione teologica sulla devozione al S. Cuore di K. Rahner (proposto in quello stesso periodo storico), mostra come l’identità sacerdotale si fonda su Cristo. Egli è l’unità operativa spirituale che armonizza l'azione e la contemplazione nel cuore dei presbiteri. Il presente studio affronta, poi, la sfida che il pensiero mazzolariano pone in ambito formativo all’attuale preparazione sacerdotale e ai presbiteri della nostra generazione e mostra l’attualità della riflessione di don Primo che, pur collocandosi in un altro contesto sociale e culturale, appare ancora oggi significativa perché indica alla Chiesa la missione di ripartire a servizio dell’uomo, della sua dignità e della sua inviolabilità. Infine, dopo aver parlato dell’obiettivo di questo studio e aver indicato, per sommi capi, lo sviluppo tematico della ricerca, è importante soffermarci sul metodo che abbiamo adottato in questa indagine scientifica complessa per dare sistematicità teologica al pensiero di Mazzolari. Il campo d’indagine scelto, innanzitutto, è circoscritto a quella serie di libri e opuscoli che costituiscono il corpus fondamentale dell’intera produzione letteraria di don Primo. Sebbene l’analisi di tali testi non escluda del tutto il più vasto orizzonte del repertorio bibliografico mazzolariano, tuttavia i frequenti accenni alle pagine dei Diari, ai Carteggi e alle stesse pagine di Adesso sono suggeriti, di volta in volta, dall’esigenza di sottolineare l’importanza che rivestono determinate problematiche nella prospettiva della visione sacerdotale delineata dal parroco di Bozzolo. La particolare attenzione prestata ai libri e agli opuscoli mazzolariani trova ulte-
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riore conferma nel fatto che essi vengono interpretati nel quadro del contesto storico cui appartengono, alla luce della situazione ecclesiale che riflettono e a partire dalle “disavventure” editoriali che hanno conosciuto. In secondo luogo, abbiamo adottato un lavoro di contestualizzazione per offrire un’analisi storica dei principali eventi sociali ed ecclesiali accaduti nella prima metà del ’900. Il travaglio storico coinvolge e influenza la Chiesa, che vive nel mondo per suscitare l’adesione piena ed esplicita al Vangelo. Ricevendo da Cristo la missione di abbracciare il mondo intero e di giudicarlo, la Chiesa rimane, però, in costante riferimento di ascolto del mondo stesso. I presbiteri, che hanno il compito di guidare l’opera di edificazione del Corpo mistico, devono lasciarsi stimolare, scuotere, interrogare dalle mutevoli situazioni storiche per dar vita a forme sempre nuove di guida pastorale. Mazzolari reinterpreta la figura del ministro, la riplasma continuamente in concreto. In relazione a un contesto che lo interroga, riscrive la spiritualità diocesana presbiterale. Manda in crisi l’immagine clericale, imparentata con logiche di potere, per ridare significato al ruolo del sacerdote all’interno della Chiesa. La spiritualità presbiterale di Mazzolari, dunque, si caratterizza per il recupero della dimensione storica. Per mettere in evidenza ciò abbiamo compiuto la scelta di partire dalla storia e dal confronto che don Primo intreccia con essa. In terzo luogo, per dare sistematicità alle idee teologiche, l’impostazione globale della ricerca risente del metodo del suo pensiero, di cui abbiamo dovuto tener conto per non violare il suo stile e la sua logica e, nello stesso tempo, per mostrare la sua validità in campo dogmatico. La riflessione mazzolariana segue un percorso induttivo di tipo empirico, che parte dalla forza dell’intuizione più che dalla speculazione intellettuale. Questo metodo si caratterizza per un continuo sforzo di riflessione sul dato storico che, passando al vaglio critico dei suoi occhi e del suo cuore, diventa l’occasione per immettere nel tempo il Verbo. Avendo percepito il Vangelo come verità per l’uomo e, quindi, avendo coniugato fedeltà al Vangelo con fedeltà all’uomo, Mazzolari rilegge gli eventi storici come possibilità di riconoscere e servire l’opera del Vangelo negli altri. Egli, in altre parole, parte dalla storia, non per rimanere, con la speculazione intellettuale, nel mondo astratto delle idee, ma per proporre all’uomo, in quanto essere spirituale e libero, la sua testimonianza cristiana vissuta e pensata. Il suo metodo conferma ancora di più l’obiettivo finale di questa tesi cioè la dimostrazione dello stretto legame tra la spiritualità intesa come carattere testimoniale della fede e la funzione pastorale nel presbitero. Ricordiamo, infine, che lo studio che qui proponiamo è circoscritto
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dentro un confine ben delimitato: si esamina un testimone, un profeta e non un teologo. Si avverte che una elaborazione teorica e una ripresa critica delle categorie filosofiche e teologiche in lui presenti possano portare la riflessione oltre questi ambiti; ne siamo consapevoli. Il nostro intento è di indagare il pensiero di Mazzolari sotto due aspetti: quello degli scritti e quello delle decisioni storiche, così come ci sono stati consegnati dai racconti autobiografici o dalle narrazioni di testimoni. Infatti, anche gli atteggiamenti, le prese di posizione, le scelte di vita “parlano”; mostrano lo stile di approccio alla realtà. Oggetto d’indagine diventa così il suo modo di agire che manifesta, ancor prima delle idee, la concordanza della dimensione spirituale con quella pastorale.
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Capitolo I
La vicenda umana, presbiterale e culturale: L’“apostolato avventuroso” di don Primo Mazzolari
1. Introduzione In questo primo capitolo intendiamo soffermarci sulla vicenda biografica di don Primo, elencando le sue opere principali, per mettere in evidenza la formazione della sua coscienza sacerdotale1. Questa prima tappa del nostro percorso ci permette di ricostruire le fasi salienti del suo cammino sacerdotale, il suo modo di vivere, comprendere e affrontare le 1
Per trattare della vita di don Primo Mazzolari mi sono avvalso di alcuni testi che reputo fondamentali per una conoscenza perfetta che non sia superficiale o generica. La vita di don Primo presenta complessità di situazioni e di vicende: due guerre mondiali, il periodo fascista, la ricostruzione e il periodo ecclesiale che ha preceduto il Concilio Vaticano II, solo per citare gli avvenimenti storici più imponenti. È per questo che ho ritenuto indispensabile affidarmi, oltre agli scritti dell’autore stesso sulla sua vita, anche ad alcuni libri che descrivevano solamente la vita di don Primo, scartandone altri che la riportavano come premessa per una trattazione su un aspetto del pensiero o su un’opera particolare. Utilissimo e molto documentato è il testo di Carlo Bellò, grande amico di Mazzolari, che raccoglie anche parecchi documenti epistolari: C. BELLÒ, Primo Mazzolari. Biografia e documenti, Brescia 1978. Un altro testo, di grande impatto emotivo, è la vita che la sorella di don Primo, Giuseppina, ha scritto poco dopo la sua morte. In esso si coglie la freschezza di un rapporto vivo con Mazzolari; Giuseppina, infatti, ha sempre accompagnato il fratello durante la sua vita sacerdotale. Seppure redatto con uno stile semplice, questo libro ci dona quadri ed episodi di vita vissuti in prima persona: sono presenti anche gustosi aneddoti che in un testo accademico difficilmente potremmo trovare: G. MAZZOLARI, Mio fratello don Primo, Bozzolo 1990. Non va dimenticato anche un breve testo di Arturo Chiodi che ripercorre tutta la vita di don Primo documentandola con alcune citazioni dagli scritti mazzolariani. Quest’opera ha il pregio di mostrare chiarezza e sintesi: A. CHIODI, Primo Mazzolari. Un testimone “in Cristo” con l’anima del profeta, Milano 1998.
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responsabilità del ministero sacerdotale. Tale testimonianza pone le basi per studiare, successivamente, il rapporto tra il carattere testimoniale della sua fede e la sua funzione pastorale, tra la vita spirituale e il ministero pastorale, tra fede e impegno e individuarne lo stretto legame che esiste tra queste dimensioni.
2. L’infanzia Ernesto Primo Mazzolari nasce il 13 gennaio 1890 nella piccola frazione del Boschetto, a pochi chilometri da Cremona. I Mazzolari, il papà Luigi, la mamma Grazia, coltivano quelle terre immerse nella pianura lombarda, tra gli argini dell’Oglio e del grande fiume Po. Il nucleo familiare è numeroso: Primo (il nome Ernesto viene subito dimenticato), il fratello Peppino e le sorelle Colombina, Pierina e Giuseppina (arrivata nel 1906). Il terreno è scarsamente produttivo, così, nel 1900 la famiglia si trasferisce in un podere più vasto a Verolanuova, in provincia di Brescia. Don Primo ricorderà sempre questi primi dieci anni al Boschetto con affetto e nostalgia.
3. La formazione in Seminario La vocazione sacerdotale si manifesta ben presto. Entra in seminario a Cremona nel 1902 e ne uscirà sacerdote nel 1912. In questi lunghi anni di seminario matura non solo la sua vocazione sacerdotale, ma anche la sua sensibilità e profondità di pensiero. Di questo travaglio spirituale e intellettuale sono testimoni le pagine del diario che inizia a scrivere a partire dagli anni del ginnasio superiore. Vi si nota la grande quantità di libri e di articoli letti, commentati e analizzati con uno spirito critico che sempre più si andava affinando. È il periodo della formazione culturale e spirituale. Legge tantissimo: da Fogazzaro a Rosmini, da Gratry a Laberthonnière, da Manzoni a Hugo, da Bossuet a D’Annunzio, da Dante a Blondel, da Newman a Pascal, da Dostoevskij a Tyrrel, passando per Leopardi, Bonomelli, Montalembert, Chateaubriand, Cartesio, Tasso, Peguy, Pirandello, Tolstoj, Bernanos e molti altri. Il diario è pieno di recensioni, commenti, sintesi che egli appunta dopo ogni lettu-
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ra. Non si accontenta delle materie di studio. La sua cultura non si limita al solo panorama cattolico italiano, ma spazia anche nell’ambito europeo. Lo sguardo interessato va soprattutto all’ambiente culturale francese. Il cattolicesimo d’oltralpe gli appare più vivace e in grado di aprirgli orizzonti nuovi. Tutto ciò è agevolato dalla conoscenza della lingua francese. Non è una cultura fine a se stessa, quella di don Primo. In Mazzolari c’è il desiderio di conoscere il suo tempo, di scrutarlo con simpatia. Egli acquisisce una griglia di pensiero capace di fargli cogliere i passaggi epocali, di pesare il valore di tanta cultura cattolica, di procurargli le competenze necessarie a sapersi muovere nei diversi generi letterari: i suoi innumerevoli scritti ne daranno conferma. Egli matura anche l’attenzione ai lontani, al mondo culturale che si sviluppa al di fuori della Chiesa stessa. Lo anima la passione apostolica. Approfondisce così anche la teologia, con personale accoglienza e interpretazione: la neoscolastica, di impostazione apologetica, appresa a scuola, non lo soddisfa e preferisce riporre la sua attenzione ai Padri della Chiesa2, alle opere di autori modernisti come Tyrrel3, alla filosofia cristiana di A. Rosmini4, alla teologia dell’immanenza di M. Blondel5, agli scritti sul dogma e sulla coscienza di H. Newman6 e a quelli sul rapporto tra fede e ragione e sulla conoscenza di Dio di P. Gratry7. Tutte tematiche e posizioni dibattute in quel periodo tra la scuola protestante liberale e quella apologetica cattolica. In quegli anni in Italia: Romolo Murri cerca di ridare vigore al cristianesimo sociale e finisce per incorrere nella sospensione a divinis da parte della S. Inquisizione; i cattolici muovono i primi passi in campo politico dopo il non expedit; l’enciclica Pascendi di Pio X (1907) condanna apertamente il modernismo; Fogazzaro è messo all’Indice dei libri proibiti. Tutti questi eventi sono descritti e commentati dal giovane Mazzolari nel suo diario. In esso troviamo anche critiche e condanne sulle chiusure della gerarchia romana e il suo dispiacere per quello che sembra essere «un de2
Cfr. Diario I, 371-374. In queste pagine sono riportati i testi più significativi dei padri che Mazzolari incontra sul tema delle povertà e della carità ai poveri. 3 Cfr. ibid., 606.608.611.619.705. Di Tyrrel e del movimento modernista Mazzolari apprezza il tentativo di conciliare le verità del cristianesimo con le esigenze della modernità. 4 Cfr. ibid., 411.441. 5 Cfr. ibid., 452-454. 6 Cfr. ibid., 613.675. 7 Cfr. ibid., 439.458.
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creto della S. Inquisizione»8. Mazzolari rimarrà fondamentalmente influenzato dal pensiero e dalla testimonianza dei cosiddetti “preti sociali”, i quali, avendo accolto l’invito della Rerum Novarum di Leone XIII di uscire dalle sagrestie, avevano maturato la convinzione dell’urgenza di un nuovo rapporto con la società che pareva allontanarsi sempre di più da Cristo e dalla Chiesa. Murri, i fratelli Sturzo e tanti altri costituiscono un’intera generazione di preti che si caratterizzavano per il forte impegno di riconciliare la società con Cristo e, dopo gli anatemi di Pio IX, la Chiesa con il mondo moderno, reagendo al tentativo di ridurre la Chiesa stessa nell’ambito del privato e i cattolici in sagrestia9. Attraverso la fondazione delle casse rurali, del movimento democratico cristiano, del partito della “Lega democratica nazionale” e l’ingresso dei primi deputati cattolici nel parlamento italiano (1904), questi preti, che agivano in campo sociale, avevano l’intenzione di formare delle vere e proprie coscienze cristiane mature. Il giovane chierico, dunque, segue con interesse ogni passo di questo movimento sociale che prova a fare da raccordo tra il mondo moderno e la Chiesa. L’adesione alla democrazia gli appare come la possibilità per la Chiesa di stabilire un legame nuovo con il popolo. Mazzolari, che aveva origini contadine, segue con favore l’opera di Miglioli, animatore cremonese delle rivendicazioni contadine che sfoceranno nelle leghe bianche, e guarda con speranza all’intraprendenza di Murri10. Lo scontro tra le leghe bianche e le leghe rosse nelle campagne cremonesi desta particolare interesse nel suo animo. Il diario racconta di un discorso sul «patto colonico»11, segno di una competenza acquisita in materia fin dal 191212. 8
Ibid., 222. Cfr. C. NARO, Modelli del ministero presbiterale in Sicilia, in F. ARMETTA – M. NARO (curr.), In Charitate Pax. Studi in onore del cardinale De Giorgi, Palermo 1999, 874-875. Per un’analisi complessiva del fenomeno dei preti sociali cfr. L. TREZZI, Preti “sociali”: il quadro italiano ed europeo, in C. NARO (cur.), Preti sociali e pastori d’anime, Caltanissetta-Roma 1994, 25-70. 10 Murri attira su di sé le simpatie del seminarista Mazzolari, almeno fino alla sospensione a divinis: incarna un cristianesimo sociale e militante che vive un rapporto dialettico con l’istituzione ecclesiale pur di rivendicare l’autonomia politica dei cattolici: cfr. Diario I, 173. 11 Si tratta di accordi stipulati tra contadini e padroni, una sorta di contratto firmato grazie alla mediazione dei delegati della Lega. Cfr. E. FONTANA, Segnali e messaggi dal passato. Lineamenti di una storia del movimento cattolico cremonese, Cremona 1989, 58. Questo ideale di compartecipazione alla conduzione dell’azienda agricola sarà ripreso e quasi idealizzato da Mazzolari nel romanzo autobiografico La Pieve sull’argine. 12 Cfr. Diario I, 497. 9
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Altrettanto movimentato sul versante sociale era l’ambiente cattolico francese, vera e propria fucina di idee d’avanguardia, che il giovane Primo osservava con grande attenzione e passione. Gli abbés démocrates portavano avanti un forte impegno sociale. Charles de Foucauld (18581916) proponeva una spiritualità dell’incarnazione che si manifestava nella condivisione totale della vita dei più poveri e, soprattutto, avanzava un nuovo modello missionario di prete, in sostituzione della figura sacrale come semplice addetto al culto. In Francia nasceva, infatti, anche l’esperienza dei preti operai: un modo completamente nuovo di vivere nel mondo. Gli anni della formazione di Mazzolari si caratterizzano anche per il fatto che sulla Chiesa europea soffia il vento modernista. La crisi modernista inaugura una stagione di paure e di chiusure. Se il tentativo di dialogare col mondo aveva portato al superamento di un rapporto conflittuale tra Chiesa e società, il timore di cadere negli errori del modernismo provoca un ritorno al primato della disciplina all’interno delle relazioni ecclesiali. Pio X con le encicliche Pieni l’animo (1906) e Pascendi (1907) sembra preoccupato del venir meno dell’obbedienza alla gerarchia. La severa sottomissione a Roma conduce a un livellamento della formazione al sacerdozio: criterio per l’ordinazione nei seminari è quello dell’arrendevole obbedienza, che rischiava di alimentare il servilismo. Si vogliono formare pastori disciplinati, preti temprati al sacrificio e alla rinuncia, ma carenti sul piano intellettuale e propositivo13. L’accentramento romano toglie autonomia alle Chiese particolari. Così la Pascendi finisce per fare da spartiacque tra due modi di vivere il ministero ordinato: dopo il 1907 si assiste a un atteggiamento più remissivo da parte del clero e anche dedito più alla cura d’anime che ai problemi sociali e politici. L’accento è posto sulla dimensione spirituale. Il rischio che corre il ministero sacerdotale è quello di vivere uno spiritualismo disincarnato, perché vengono a mancare quelle caratteristiche di responsabilità di fronte alla storia e di impegno sociale che avevano contraddistinto i sacerdoti della generazione precedente, formatisi nel periodo della rinascita del movimento cattolico italiano. Ne scaturisce una paura nei confronti della novità,
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Cfr. M. GUASCO, Cultura e sapere nella formazione dei chierici, in A. MELLONI – G. LA BELLA (curr.), L’Alterità concezioni ed esperienze nel Cristianesimo contemporaneo, Bologna 1995, 265-284.
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l’incertezza di fronte ai trapassi storici: tutti atteggiamenti che porteranno conseguenze disastrose con l’avvento del regime fascista. Mazzolari appartiene alla generazione di mezzo. Nel 1907 è ancora in seminario, ma ormai la sua formazione e i suoi interessi sono avviati. La preoccupazione per le sorti del popolo italiano assume un forte spessore sociale. Certamente un contributo essenziale in questa direzione gli è offerto dalla presenza in diocesi del vescovo Bonomelli, grande interprete di un cristianesimo sociale. Mons. Bonomelli, vescovo di Cremona dal 1871, mostrava per la formazione dei suoi sacerdoti una cura speciale, insistendo perché il seminario fosse un luogo aperto al confronto con i tempi14. Il modello di prete che egli ha in mente guarda alle esigenze dei tempi più che alla fedeltà esteriore. Le linee guida del pensiero di Bonomelli le ricaviamo da queste sue parole: «Io dichiaro che metto ogni studio nell’educare i miei chierici in modo da formare in loro soprattutto il carattere, il sentimento del dovere, della propria dignità di uomo e di sacerdote, d’ispirare un grande amore alla sincerità, alla franchezza, alla scioltezza, allo spirito di sacrificio […], e nei miei chierici e sacerdoti giovani trovo quella docilità aperta, quella confidenza e quel disinteresse che forse non trovano altri vescovi nei loro seminari ed io stesso non trovo nei preti vecchi, educati nel vecchio sistema autoritario, più col timore e la repressione, che con l’amore e la persuasione: quel vecchio sistema ha formato molte anime timide, grette e ha ingenerato l’ipocrisia»15.
Il modello educativo bonomelliano mette al centro la libertà della persona e la relazione umana. L’intenzione del vescovo è quella di formare preti all’altezza delle sfide della modernità. Alla Chiesa non servono, a suo giudizio, adesioni di facciata, sempre minacciate dall’ipocrisia. La vo14 Bonomelli inserisce nel curriculum seminaristico anche insegnamenti di economia politica, archeologia, arte sacra, igiene, lingua francese e tedesca, disegno e una cattedra di studi danteschi. Per favorire lo studio, inoltre, dota il seminario di una ricca biblioteca, dei gabinetti di fisica e scienze naturali, un osservatorio astronomico, uno spazio per la musica e la palestra. Sulla fondazione del seminario bonomelliano in rapporto alla formazione di Mazzolari si veda A. FOGLIA, Il seminario di Cremona e la formazione seminaristica di Primo Mazzolari, in M. GUASCO – S. RASELLO (curr.), Mazzolari e la spiritualità del prete diocesano, Brescia 2004, 35-43. 15 Le parole sono contenute nel Memoriale del 1906, inviato al prefetto della Sacra Congregazione del concilio, card. Vincenzo Vannutelli, per difendersi dalle accuse del visitatore apostolico Rinaldo Rousset che aveva raccolto pettegolezzi infamanti sul conto del vescovo di Cremona e sulla diffusione di idee moderniste nel seminario: G. GALLINA, Il problema religioso nel risorgimento e il pensiero di Geremia Bonomelli, Roma 1974, 518.
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cazione si vive all’interno di un tessuto di relazioni serene, dove i superiori sono «padri amorosi dei chierici»16. Il metodo educativo del vescovo incarna uno stile di grande liberalità e di fiducia verso le persone. Primario diventa il tema della libertà di coscienza: l’annuncio della verità cristiana è offerto gratuitamente alla libertà della persona e chiede adesione di coscienza da parte dell’uomo. Non tollera costrizioni. Qui troviamo la continuità con il pensiero mazzolariano che ha come fondamenti i seguenti temi: la libertà della Chiesa, la testimonianza di povertà, il dialogo con i lontani, la comprensione pastorale, le aperture ecumeniche17, la formazione delle coscienze, l’autonomia dei laici18. Un altro aspetto su cui Bonomelli influenza Mazzolari è la questione sociale, che per il vescovo è questione morale e religiosa. Bonomelli afferma che la rigenerazione del tessuto sociale può avvenire soltanto rinvigorendo la carità cristiana, la giustizia, l’elevazione del costume. È necessario dare importanza all’interiorità della persona umana; per questo bisogna dare risposte ai gravi problemi che tormentano la gente attraverso scelte pastorali finalizzate alla realizzazione delle strutture di carità19. Il suo cristianesimo è un cristianesimo che si incarna, in grado di leggere i segni dei tempi20. Quella che impartisce Mons. Bonomelli a Mazzolari è una formazione ad hoc in un periodo di grandi trasformazioni sociali che vedrà ben presto nelle campagne cremonesi la diffusione del socialismo e la nascita delle leghe bianche ad opera di Guido Miglioli21. 16
ID., Il vescovo Geremia Bonomelli e la diocesi di Cremona, in A. CAPRIOLI – A. RI– L. VACCARO (curr.), Diocesi di Cremona, Brescia 1998, 346. 17 Cfr. Diario I, 341-343. 18 Cfr. C. BELLÒ, Geremia Bonomelli, Brescia 1961, 154. 19 Bonomelli sostiene i più poveri favorendo la nascita di organizzazioni umanitarie; mostra interesse per le fasce deboli della società; promuove l’introduzione di diritti considerati fondamentali per i lavoratori: un posto di lavoro, la giusta pensione, lo sciopero, il riposo festivo, l’abitazione familiare, la tutela delle donne. Fiore all’occhiello della sua intraprendenza rimane comunque la fondazione dell’opera di assistenza degli operai emigrati in Europa e nel Levante (che avviene nel 1900). Compito dell’ “Opera Bonomelliana” è di assistere gli operai italiani all’estero attraverso degli “ospizi”, che il vescovo visita personalmente o inviando sacerdoti diocesani. 20 Cfr. B. BIGNAMI, Mazzolari e il travaglio della coscienza. Una testimonianza biografica, Bologna 2007, 98-109. 21 La figura di Bonomelli fu per Mazzolari uno stimolo continuo all’apertura verso temi dell’epoca scottanti: ecumenismo, conferenza di Edimburgo del 1910, separazione Stato-Chiesa, solo per citarne alcuni. Questo sarà un aspetto importante per il resto della vita di don Primo che vedrà in Bonomelli il “suo” vescovo, pur mantenendo una forte autonomia intellettuale. MOLDI
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Le giornate da seminarista scorrono, per Mazzolari, tra momenti di serenità e di sconforto, segni di un’anima inquieta che emergeva. Si affacciano di volta in volta la ricerca di un vero amico22, le nostalgie di casa23, la gioia per la battuta di caccia durante l’estate24, le consolazioni dello studio25, il desiderio di condividere la passione di Cristo26, la rabbia per una vita comunitaria gretta e senza respiro27, la contemplazione della notte in cui vede, come in uno specchio, il proprio animo28. Il giovane Primo manifesta una complessa interiorità; ne è prova questo scritto del 29 marzo del 1907: «La mia anima appartiene a quella schiera di anime nervose, impressionabili, generose, amanti, che si sacrificano interamente a una idea, ma che nella vita vera e reale non godono mai un’intera felicità, perché danno più di quello che ricevono. E piango»29.
L’anima sofferente del giovane seminarista, le sue inquietudini, si evolvono in una grave crisi vocazionale che lo spinge a pensare di uscire dal seminario. La sua simpatia per alcuni temi modernisti30, gli causa alcune difficoltà e aspre critiche da parte del rettore Guarneri, che acutizzano la sofferenza e la sua crisi. Da essa ne esce rafforzato grazie a un colloquio con il padre barnabita Pietro Gazzola31, il quale gli dice: 22
Cfr. Diario I, 31. Cfr. ibid., 48.188. 24 Cfr. ibid., 101. 25 Cfr. ibid., 114. 26 Cfr. ibid., 140. 27 Cfr. ibid., 162. 28 Cfr. ibid., 175. 29 Cfr. Diario I, 162. 30 Erano gli anni della Pascendi e del Lamentabili (1907), della condanna a Romolo Murri e Fogazzaro: dove più forti si facevano le voci di rinnovamento, più acuti e severi rispondevano gli interventi della S. Sede. 31 P. Pietro Gazzola, barnabita, nato nel 1856 a Perino (PC), compie i suoi studi presso il seminario di Bedonia (PC), ambiente aperto al rosminianesimo, e presso il collegio Alberoni di Piacenza, culla del neotomismo, prima di approdare nella Congregazione dei barnabiti. Gli anni più intensi e fecondi della sua attività sono quelli trascorsi come parroco di Sant’Alessandro a Milano, dove dimostra grandi qualità come pastore, predicatore, esegeta, guida spirituale nonché come studioso delle lingue mediorientali antiche. La sua parrocchia diventa punto di riferimento per l’élite culturale e religiosa della città. Cultore del Rosmini, si prodiga per la diffusione delle idee rosminiane, provocando le reazioni del cattolicesimo più intransigente, rappresentato dall’ Osservatore cattolico di Albertario. Per le sue idee e per le sue simpatie moderniste è stato allontanato da Milano nel 1908. Il vescovo di Cremona, Bonomelli, lo accoglie e gli affida il compito di confessore straordinario 23
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«La tua vita sarà una croce. Soffrirai come pochi soffrono…come soffrono le anime che amano e vivono per la giustizia e per la verità, che in nome della giustizia e della verità vengono combattute dai fratelli […] preparati a questi dolori, preparati a sostenerli cristianamente, preparati ora, in questo continuo sacrificio che è il seminario […] credi la verità e non spaventarti delle formule fredde e insufficienti destinate a passare […] và, và pure avanti che il Signore ti chiama e ti vuole per questa via»32.
Mai parole furono più profetiche, Mazzolari rincuorato da questa manifestazione di affetto riprende il cammino che lo porterà all’ordinazione sacerdotale. Gazzola fu il P. Spirituale negli ultimi anni della sua formazione seminaristica. Due aspetti di P. Gazzola hanno influenzato la coscienza sacerdotale di Mazzolari: la visione del cristianesimo come esperienza e la centralità della formazione. Per P. Gazzola il cristianesimo non si presenta come una verità astratta, ma come esperienza. La verità non è concepita come ricerca intellettuale, ma risiede nella persona di Gesù Cristo. Da questo scaturisce un desiderio di rinnovamento della Chiesa che non può essere revisione dottrinale, teologica o filosofica, ma, al contrario, vita cristiana, modo di incarnare la fede, rapporti con e nella società. La verità, più che possesso da sbandierare o difendere apologeticamente, è esperienza e condivisione di vita, di salvezza e di grazia. La riscoperta del vangelo diventa conversione a Cristo, testimonianza di vita, santità vissuta. Afferma P. Gazzola, a tal proposito: «nella disgrazia ho da benedire Iddio. Io spero contro la speranza e mi confermo nel pensiero che Cristianesimo è innanzi tutto una vita, non una teologia»33. Così il giovane seminarista cremonese ricorda dei chierici. Dopo qualche anno è allontanato d’autorità anche da Cremona e muore a Livorno il 3 novembre del 1915. Cfr. M. ANGELERI, Rosminianesimo a Milano. Il caso di Padre Gazzola, Milano 2001. 32 Diario I, 281. 33 ANONIMO, Paterno Spirito. Pensieri, Perino (PC) 1997, XXXIII. Si tratta di una raccolta di pensieri di P. Gazzola editi fuori commercio nel 1918 e ristampati nel 1997 in occasione di un convegno nazionale sul padre barnabita. L’opuscolo raccoglie pensieri e riflessioni senza riferire né il contesto e né l’occasione in cui sono stati pronunciati o scritti. Questo limite non vieta però di constatare la ripetizione di alcuni temi e comunque consente di avvicinarci con una certa fedeltà al suo pensiero. La lunga prefazione, uscita anonima, è in realtà di Pietro Stoppani. Cfr. B. PERAZZOLI, «Pietro Gazzola (1856-1915)» in Rivista rosminiana di filosofia e cultura 75 (1981) 35-36; cfr. C. MARCORA, Documenti su P. Gazzola, Bologna 1970.
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le parole di P. Gazzola il giorno dell’abbraccio misericordioso, quando il P. Barnabita lo accoglie e lo illumina sulla sua crisi vocazionale: «preparati a questi dolori, inevitabili quando si ha un’anima che sente le voci più delicate, i bisogni più intimi della coscienza umana, preparati a sostenerli cristianamente, preparati ora in questo continuo sacrificio che è il seminario, con una vita intima, una vita mistica e credi la verità e non spaventarti delle formule fredde e insufficienti destinate a passare: esse non devono impedirti d’arrivare fino alla verità la quale ti dee essere luce, vita e sostegno. Ama e il tuo amore sia puro e grande come il cielo: cerca il bene sempre nella gioia e nel dolore, nella luce e nelle tenebre»34.
In secondo luogo Mazzolari ricorda il padre barnabita come un grande formatore di coscienze. Il giovane sacerdote cremonese, in occasione della morte di P. Gazzola, scrive un articolo per L’Azione, dove mette in evidenza la straordinarietà del maestro e la capacità di scrivere «parole divine negli animi»35. E ancora troviamo nel diario di don Primo uno scritto, «in Memoria di P.P.G.», in cui si legge: «egli è un uomo che ha operato sugli spiriti non attraverso i libri ma con la parola viva, con il consiglio, con quella direzione spirituale di cui egli possedeva in segreto»36. Dunque, la figura di Gazzola rimane scolpita nella mente di Mazzolari come formatore di coscienze. Mazzolari, nelle pagine del suo diario, mostra di conoscere un libretto edito fuori commercio, dal titolo Natale 1908, che raccoglie omelie e meditazioni religiose di P. Gazzola, fatto stampare dai fedeli della ex parrocchia di Sant’Alessandro di Milano. In esso il padre barnabita afferma che: «non sappiamo conciliare la credenza antica con la cultura moderna; la religione, in quanto è una luce intellettuale, non brilla più nella nostra mente se non attraverso una nube»37. Una conseguenza di questo disagio intellettuale è che «la religione, ridotta a mero sistema di pratiche esteriori, a poco a poco perde tutte le attrattive per la coscienza»38. E quando la fede diventa un susseguirsi di atti esteriori senza convinzione interiore, perde il centro: la relazione con Cristo. Tutto così finisce per pesare. Per Gazzola il ruolo del prete davanti ai disagi della fede è quello di farsi guida, fratello, compagno di strada che condi34
Diario I, 295. Ibid., 736. 36 Ibid., 732. 37 P. GAZZOLA, Natale 1908, Milano 1909, 14. 38 Ibid., 15. 35
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vide la difficoltà. Il sacerdote deve essere uno che ha la consapevolezza della fatica di credere: «un uomo che dica: fratello, il dubbio che provi l’ho sperimentato anch’io; l’oscurità che si presenta a te s’è presentata anche a me; il disagio intellettuale che ti travaglia, ha travagliato anche me; la strada che batti, l’ho percorsa anch’io e ancora la percorro: sono tuo compagno»39.
Questo è lo stile del formatore di coscienze: quello di chi si mette in ascolto. La comprensione con cui si accoglie l’altro, specie se lontano, rivela la misericordia di Dio. È a questo livello che possiamo parlare del contributo che Gazzola dà a don Primo Mazzolari: i due condividono l’amore alla Chiesa nonostante le sofferenze subite, convinti che il rinnovamento della comunità ecclesiale parte dalla conversione interiore e da una libera adesione a Cristo. Il traguardo del sacerdozio giunge così a termine di un travagliato cammino. Viene ordinato suddiacono il 23 marzo 1912, diacono il 1 giugno, sacerdote il 25 agosto dal vescovo ausiliare di Brescia, mons. Giacinto Gaggia, nella chiesa di Verolanuova, col consenso di mons. Bonomelli.
4. I primi anni di ministero sacerdotale Una sola frase viene riportata sul suo diario quel giorno solenne di ordinazione: «Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Christi»40. Subito cominciano le prime esperienze pastorali. La prima nomina è quella di curato a Spinadesco. Poi viene inviato a Boschetto, la parrocchia natale e successivamente, nell’ottobre del 1913, in seminario come professore di ginnasio. Nell’estate del 1914 accetta di andare ad Aborn, in Svizzera, per assistere gli emigrati italiani rimpatriati dalla Germania nella colonia di fondazione del vescovo Bonomelli. In Svizzera, il 3 agosto 1914, riceve la notizia della morte di Bonomelli, il vescovo che considerava come un padre. Il nuovo vescovo di Cremona è mons. Giovanni Cazzani, con il quale don Primo avrà un singolare rapporto dialettico di confronto e scontro. 39 40
Ibid., 17-18. Ibid., 352.
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Il 24 maggio del 1915 l’Italia dichiara guerra all’Austria. Da qualche anno don Primo osserva con interesse le accese discussioni dell’ambiente cattolico, diviso tra neutralisti ed interventisti. Egli aveva stretto amicizia con Eligio Cacciaguerra, direttore della rivista L’Azione di Cesena e fondatore della Lega democratica nazionale41. Il gruppo cesenate della Lega si era staccato da Murri perché aveva respinto ogni velleità di riforma religiosa da compiersi all’esterno della Chiesa cattolica. Più tardi toccherà a Cacciaguerra rilanciare la Lega attraverso il congresso di Firenze del 1911. Nel 1912 fu fondata la rivista ufficiale della Lega: L’Azione. Riguardo alla guerra, il giornale aveva assunto una posizione interventista: la Lega aveva scelto l’interventismo come compimento del Risorgimento per un’Europa basata sulla autodecisione dei popoli. Mazzolari si trova politicamente vicino a Eligio Cacciaguerra e comincia a collaborare con la sua rivista: vi scrive dal 1914 al 1917. Egli condivide soprattutto la stretta relazione tra cristianesimo e democrazia, la libertà del credente da ogni tentazione dirigista, l’anima popolare del movimento cattolico. Mediante questo approdo nella prima Democrazia Cristiana il giovane sacerdote cremonese entra nel dialogo tra le coscienze cristiane circa le grandi questioni che si affacciano alla storia: anche lui si schiera a favore degli interventisti. Preso dal forte desiderio di dimostrare fedeltà alla patria, di essere all’altezza dei doveri del momento storico, di confutare le forti accuse del mondo laico che pensava la Chiesa ancora infedele allo Stato, nel settembre del 1915 Mazzolari decide di arruolarsi nell’esercito italiano42. Egli partirà con una profonda convinzione interventista, ma tornerà dall’atroce esperienza, il suo “secondo seminario”, cambiato, e inizierà il suo cammino spirituale che lo porterà a condannare e rifiutare radicalmente ogni forma di guerra43. Dopo la disfatta di Caporetto, chiede di es41
È la prima idea del partito autonomo dei democratici cristiani. Essi chiedono l’autonomia di azione per i cattolici impegnati in politica e la necessità di una valorizzazione della democrazia. Cfr. C. GIOVANNINI, Lega Democratica Nazionale, in F. TRANIELLO – G. CAMPANINI (curr.), Dizionario storico del movimento cattolico in Italia (1860-1980), II, Casale Monferrato 1981, 304-309. 42 Cfr. Diario I, 724ss. 43 Il documento di questo suo pensiero sarà scritto non firmato nel 1955, Tu non uccidere, negli ultimi anni della vita, ma si può dire che già nella dura esperienza della Prima Guerra Mondiale, Mazzolari riceve un duro colpo alla sua concezione interventista. È importante ricordare che in questa guerra perderà il fratello Peppino (1915).
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sere nominato cappellano militare. Lo diventerà nel 1918, presso le truppe italiane in Francia, sulla linea del fronte con la Germania. Il 12 febbraio del 1920 parte per l’Alta Slesia, ma il 23 luglio dello stesso anno gli giunge il congedo. Anche l’esperienza del dopoguerra, il fatto, cioè, di vedere anche solo le conseguenze della guerra, porta in Mazzolari un cambiamento di prospettiva nei confronti del conflitto armato. In questi anni si consuma la vicenda di Annibale Carletti44, sacerdote, cappellano militare, distintosi per valore: nel 1919 giunge al culmine la sua crisi vocazionale che lo spinge ad abbandonare il sacerdozio. Inutili sono state le lettere di incoraggiamento che Mazzolari scrive a lui e al vescovo perché non trascuri la cura pastorale di quell’anima. Purtroppo, forse anche ad opera di ambienti laici poco onesti, Annibale Carletti si stacca dal sacerdozio e dagli ambienti clericali, creando grande sofferenza in don Primo, che in lui vede incarnata la figura del prodigo, che narrerà in una delle sue opere più significative, La più bella avventura.
5. Il ministero a Cicognara e i problemi con il fascismo Dopo la parentesi come cappellano militare, ancora scosso per la vicenda Carletti, Mazzolari chiede di essere rimosso dall’insegnamento, che considerava un comodo ripiego, per dedicarsi all’attività pastorale in una parrocchia. Il 30 ottobre 1920 inizia il ministero nella parrocchia della SS. Trinità a Bozzolo. Viene accettato con freddezza dalla gente, ma in poco tempo, grazie anche ad iniziative originali, conquista l’affetto dei parrocchiani. Don Primo organizza, in canonica, scuole serali di agricoltura e di formazione civile per i contadini, raccoglie testi per una biblioteca specifica, abolisce, cosa a quei tempi scandalosa, le tariffe per i servizi religiosi, aggiunge alcune feste paraliturgiche di notevole effetto popolare come la festa del grano e dell’uva, intesse rapporti con i socialisti del luogo, che rappresentano la maggioranza della popolazione. Queste iniziative, soprattutto i rapporti con i socialisti, creano il sospetto della gerarchia e gli causano qualche monito alla prudenza. Ma don Primo è preoccupato di fare da ponte tra il Vangelo e l’uomo, tra la Parola di Dio e il 44
La vicenda di Carletti è narrata anche nel romanzo autobiografico La pieve sull’argine: in esso si sviluppa la storia di don Lorenzo Ferretti, pseudonimo di Annibale Carletti, vista dagli occhi del suo grande amico don Stefano Bolli, cioè Mazzolari.
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presente: guai se il prete dimentica di essere la voce di Dio che prepara le strade della salvezza. Mazzolari pian piano fa intravedere, con la sua testimonianza di vita e il suo pensiero, l’unità tra ministero pastorale e vita spirituale: la seconda fa leva e trova stimolo nel primo: «non c’è altra via: o buon pastore o mercenario. Ancora una volta il Vangelo ci prende al cuore e ci obbliga a scegliere, sempre che si sia onesti e si abbia l’anima in agonia ad ogni richiamo della sua voce»45. Forse, proprio a causa della sua eccessiva sperimentazione e dei richiami ricevuti, viene trasferito da Bozzolo a Cicognara dove si reca il 1 gennaio 1922. A Cicognara, don Primo vive il periodo più isolato della sua vita, solcato da un sentimento di esilio. Tuttavia, l’esperienza in questo piccolo paese darà grosse soddisfazioni a Mazzolari. La popolazione è tutt’altro che attaccata alla Chiesa e questo creerà in lui la necessità di diventare il “parroco dei lontani”46, secondo un’espressione tanto cara, che spesso ritorna nei suoi scritti e nel suo pensiero. A Cicognara, don Primo organizza la colonia fluviale per ragazzi, tiene nel 1930 alcune catechesi alla sua gente prendendo spunto dal libro Pinocchio, intanto coltiva le intuizioni per i suoi scritti futuri. A Cicognara, ha modo di scontrarsi ufficialmente con il potere fascista che in quegli anni andava paurosamente aumentando. Mazzolari manifesta sempre la sua opposizione a questo nuovo movimento, almeno sul piano morale e religioso e questo gli causa il sospetto e le minacce dei fascisti del luogo. Dopo la marcia su Roma (28 ottobre 1922) il controllo sull’operato del parroco si fa più pressante; a questo si aggiunge la dolorosa consapevolezza che la Chiesa sta rinunciando ad avere una voce di critica, schiacciata e sottomessa com’è dal potere del fascio. Sono sintomatici alcuni avvenimenti di quegli anni che mostrano come Mazzolari osasse schierarsi contro un modo di agire comune anche al clero. Dopo l’attentato sventato a Mussolini, si organizzano pubbliche manifestazioni, anche religiose, di ringraziamento, e Mazzolari si rifiuta di cantare il Te Deum su imposizione dei fascisti. È il primo atto esplicito di opposizione che gli causa una denuncia al Procuratore di Mantova, poi insabbiata grazie al vescovo Cazzani. Lo stesso avvenimento l’anno successivo: dopo uno scampa45
Impegno, 87. Il termine “lontani” è sempre stato molto caro a don Primo che ne farà addirittura il titolo di una sua opera: I Lontani. 46
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to attentato a Mussolini si organizza il canto di ringraziamento e Mazzolari, nell’omelia, non fa alcun riferimento esplicito al fatto, riservandosi un congruo spazio di libertà intellettuale in un ambiente a lui ostile. Si apre il 1929, l’anno della Conciliazione e del Concordato, Mazzolari dissente da un’alleanza con il potere politico, e soprattutto con “quel” potere politico. Così, si astiene dal voto politico del plebiscito, rispondendo a un preciso dettame della sua coscienza: «Se io in coscienza sento una ripugnanza morale invincibile contro il regime, come mi devo comportare nella circostanza della votazione? Se voto contro o mi astengo disobbedisco a un comando dei vescovi dell’Azione Cattolica, emanazione diretta di essi; se voto favorevolmente vado contro la mia coscienza»47.
E in una lettera al vescovo Cazzani giustifica la sua decisione di astenersi dal voto: «ho creduto di seguire un dettame chiaro e preciso della mia coscienza e di interpretare un pensiero di dignità e di libertà che nella Chiesa è sacro ed eterno»48. Solamente nel 1930, il conflitto con la Chiesa si fa aspro, con la questione dei “giovani fascisti” e il conseguente scioglimento delle associazioni cattoliche. Pio XI interviene con l’enciclica Non abbiamo bisogno (29 giugno 1931). Le tensioni si placano e si avvia l’era della “seconda conciliazione”. Ma per don Primo non c’è conciliazione, tant’è che il 2 agosto del 1931 viene preparato un attentato alla sua vita, come ci racconta nel suo Diario49. Nel maggio del 1932, il vescovo gli assegna una nuova parrocchia: Bozzolo. Don Primo accetta a condizione che le due parrocchie, S. Pietro e SS. Trinità, in cui era divisa la cittadina, si riunificassero sotto un unico parroco.
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Diario II, 391-392. Lettera al vescovo di Cremona: ibid., 289. 49 Così in ibid., 484, Mazzolari ci narra l’avvenimento: «Non era ancora mezzanotte: dormivo da mezz’ora si e no, quando dei colpi violentissimi, picchiati sul cancello di ferro del cortile, mi svegliano di soprassalto. I colpi si ripetono […] ci sarà un malato che ha bisogno. Mi vesto in fretta e corro alla finestra, dopo aver avuto la precauzione di spegnere la luce. Apro i vetri e spalanco le imposte, facendo l’atto di sporgermi per chiamare il sagrista. Tre colpi di rivoltella, sparati rabbiosamente l’uno dopo l’altro, mi salutano. Fo appena tempo a ritirarmi. Due ombre fuggono in bicicletta, scantonando sull’angolo del fornaio. Lontano, una brigata di non so chi cantava le solite canzoni di minaccia, infiorandole di ingiurie e volgarità contro il Papa, l’A.C., il parroco». 48
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6. L’arrivo a Bozzolo: l’inizio di una lunga stagione di vita L’ingresso rituale a Bozzolo avviene domenica 10 luglio 1932. Nei parrocchiani domina la curiosità di vedere come loro parroco un personaggio ormai famoso come predicatore, libero e coraggioso, ma anche scomodo. Nello studio della canonica, sempre colmo di carte e libri, come testimoniano alcune foto d’epoca, vedrà la luce la quasi totalità delle sue opere che solcano gli anni più drammatici della storia italiana, dal trionfo fascista alla seconda guerra mondiale, dalla Resistenza al dopoguerra, anni in cui emerge per chiarezza e coerenza di intenti l’opera di Mazzolari come sacerdote, scrittore e predicatore. A Bozzolo giungono tutti i riflessi e le reazioni di questa sua attività, dalle minacce fasciste, alle intimazioni e punizioni dei superiori ecclesiastici, alle voci di sostegno di tanti amici e di tanti “lontani”. Sempre in questo paese del mantovano giungono i principali esponenti della resistenza per programmare la ricostruzione del dopoguerra. Le sperimentazioni liturgiche che don Primo ha compiuto a Cicognara sono trasferite anche a Bozzolo. Per Mazzolari la parrocchia deve essere un centro a cui tutti possono rivolgersi con serenità e fiducia, la chiesa deve essere decorosa ma non pomposa, carica di inutili orpelli. Egli toglie alle funzioni liturgiche ogni senso di stanchezza, arricchendole di vera devozione popolare e giusta partecipazione. Don Primo riesce a focalizzare l’attenzione sulla Parola, e l’omelia diventava il momento per coinvolgere la gente in un cammino di elevazione spirituale. Memorabili sono le sue omelie tenute in solennità particolari, giunte fino a noi grazie a rudimentali registrazioni, esse ci danno l’idea del tono con cui egli parlava alla sua gente. Ecco come un suo caro amico, Carlo Bellò, ce lo descrive: «[…] un dire ora clamante ora sommesso, un confidare che diventa ammaestramento, un parlare insieme con un’unica voce cordiale, un diluire gli argomenti sulla traccia evangelica per spargere briciole di verità. E la sua voce si placa nel discorso familiare, sale a toni più alti nei momenti di passione e vibra con il ritmo dell’anima; indi si raccoglie in preghiera, s’accende in denuncia, si flette in emozione e risuona di moniti»50. 50 C. BELLÒ, Don Primo Mazzolari, Bozzolo 1995, 160. A cura di P. Trionfini sono stati pubblicati anche le omelie e i discorsi che don Primo ha fatto in momenti particolari dell’anno liturgico o in circostanze particolari (missioni o conferenze) cfr. P. MAZZOLARI, Discorsi, a cura di P. Trionfini, Bologna 2006.
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A Bozzolo oltre l’attività di predicatore, che lo accompagnerà per tutta la vita, don Primo inizia a conoscere la sua gente e in modo speciale i più poveri, facendosi povero come loro, portando sulle sue spalle anche le loro miserie. Egli vede la parrocchia come un focolare che non conosce assenze, come casa aperta a tutti, innanzi tutto ai poveri, alla povera gente, ai contadini, ai lontani. Vuole una Chiesa senza orpelli superflui, sgombra da devozionali tradizioni esauste, dove il sacerdote che ha scelto come simbolo la Croce e come compagno il Cristo, possa portare sulle spalle il peso delle angosce e delle sofferenze di tutti, disposto senza ricompensa, a pagare personalmente la propria fedeltà alla vocazione. Non mancano neppure i primi screzi con l’autorità fascista, che si manifestano già dopo soli quattro mesi dal suo arrivo. Il 4 novembre era abitudine celebrare l’anniversario della vittoria con discorsi trionfalistici e anche il pulpito della chiesa era uno dei luoghi deputati a questo. Mazzolari fa un discorso in cui si ricordano i morti della Grande Guerra evitando ogni accenno all’ostentazione fascista. Questo suscita polemiche e denunce che giungono fino al Ministero dell’Interno e da lì alla segreteria di Stato Vaticana. Successivamente, don Primo si presenta al pulpito mostrando palesemente un testo scritto, che significava rinuncia alla sua abituale improvvisazione ma non alla sua libertà e legge un discorso simile al precedente.
7. L’esordio della stagione letteraria: “La più bella avventura” Nell’aprile del 1934 esce la prima opera letteraria di Mazzolari con il titolo La più bella avventura. Sulla Traccia del prodigo. 7.1. Il contenuto dell’opera Mazzolari prende in esame la parabola del Figliol Prodigo51 e ne sviluppa il tema con argomentazioni e con uno stile sicuramente inusitati per quei tempi. La parabola del figliol prodigo è il cuore della predicazione, ma ancor più della sua sensibilità52. Diversi aspetti si intersecano nel libro: 51 52
Lc 15, 11-32. «C’è dentro tutto il mio cuore» confessa all’amico don Astori (Vita, 148).
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la formazione di Mazzolari che, a differenza della generazione precedente dei preti detti “leoniani”, non si è autosvuotata, ma ha mantenuto vivo l’impulso, lo stimolo all’apostolato nell’ambito sociale e politico a servizio dell’uomo; l’esperienza di vita pastorale; il dialogo con i lontani; la memoria del trattamento riservato dalla Chiesa all’amico Annibale Carletti; la predicazione infaticabile delle missioni al popolo; la sofferenza per l’allontanamento di molti poveri dal Vangelo per abbracciare l’ideologia comunista; gli interessi personali verso l’ecumenismo. Fatto sta che il quadro è dipinto con originalità. Il figlio maggiore non è meno colpevole e distante del minore: si può essere lontani dal padre anche stando in casa. Paradossalmente don Primo scardina gli schemi usuali di ragionamento perché l’essere «dentro» o «fuori» casa non dipendono da una posizione fisica ma da una conversione interiore vissuta. La più bella avventura è proprio la conversione. E coinvolge tutti: chi vive nella Chiesa e chi se ne allontana, chi è vicino e chi preferisce prendere le distanze. Mazzolari si schiera con il Prodigo della parabola, associando ad esso tutti i lontani che dalla casa, cioè la Chiesa, sono usciti. Egli non giustifica l’allontanamento ma ne comprende l’animo profondo, l’ansia di verità, di giustizia, spesso inappagata. Egli vede, critica e mette in luce gli egoismi di chi sta nella casa, non si nasconde i torti del figlio minore che si allontana, ma non dimentica neppure quelli del figlio maggiore che nella casa resta. Egli usa un linguaggio simbolico, tipico della parabola: i lontani, quelli “di fuori”, contrapposti ai vicini, quelli “di dentro”, ma sottolinea come anche i vicini, i cosiddetti buoni cattolici, hanno le loro gravi mancanze, e, forse, tanti lontani non sarebbero così lontani se i cattolici non si fossero comportati come il figlio maggiore della parabola. Così dice in un passo significativo: «Certe durezze [sta parlando del figlio maggiore, ndr], certe intrattabilità da guardiani gelosi e poco intelligenti, certe intransigenze di metodo, certe amplificazioni “dubbiose” presentate come “necessarie”, non servono la “verità”»53. 53 Avventura, 80. A tal proposito è interessante, ai fini del nostro discorso, conoscere ciò che Mazzolari afferma nel Diario II, 76: «non vi sono che due modi di considerare la Chiesa: 1) o come una istituzione immutabile dominante i tempi e gli avvenimenti; cercante un appoggio nei governi quando essi sono forti e opprimendoli se sono deboli; imponendo una verità monopolizzata da essa, o da qualunque dei suoi dottori; negando ogni valore a una scienza non controllata da essa, e sdegnandola; aspirando al dominio non tanto per i suoi meriti che per le sue ricchezze, e in conseguenza isolandosi dal rimanente della nazio-
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Questa tensione, presente nella parabola, nel mondo e nella Chiesa, per don Primo si risolve nell’incontro con il Padre, anche se, per lui, la parabola non si conclude: il prodigo è ancora in cammino, ancora alla ricerca, stavolta non di una verità vaga, ma di una verità che si è fatta amore crocifisso, di un Padre che sempre attende il ritorno dei figli, anche dei più lontani. Il culmine di questo cammino consiste nell’abbraccio benedicente e misericordioso con Dio, dopo aver attraversato il travaglio della conversione. Nel sostenere l’importanza della santità, egli afferma la necessità che il realizzatore, il santo manifesti il volto di Cristo, come cittadino e uomo, sulla pubblica piazza (più che all’ombra delle sacrestie), in mezzo alla folla (invece di fuggirla), amando, parlando e comprendendo il linguaggio delle persone, rimanendo con loro come lievito nella pasta54. Questo significa che anche il prete deve avere passione, amore e dedizione verso l’uomo e la sua realtà, spendendo la sua vita perché l’umanità, nella quale Cristo si è incarnato, possa andare incontro al Padre di Misericordia. 7.2. La ricezione dell’opera Subito dopo la pubblicazione, giungono a don Primo parecchie voci di approvazione. Va notato come tante persone, sia di chiesa, preti e vescovi, sia lontane dagli ambienti ecclesiali, hanno espresso un vivo interesse per La più bella avventura. Tuttavia, già si ricordava, il tema trattato, quello dei lontani, e un linguaggio senza mezzi termini, causano la condanna del s. Uffizio. Il 5 febbraio 1935 viene emanato un decreto in cui si ordina il ritiro del libro dalla vendita e si infligge un ammonimento all’autore. Al ne per formare un corpo a parte, vivendone al di sopra e fuori, quantunque per essa; 2) o come un insieme di dottrine, basate su qualche domma fondamentale, suscettibile d’adattarsi ad ogni ambiente ed a ogni epoca; non domandano allo stato che il diritto comune e la libertà: non associandosi a nessuna politica, per la ragione che essa non vi ha nulla a che vedere; accettando la scienza e pronta a rispondere ai suoi attacchi, senza temerli, non vedendo nelle ricchezze che un mezzo di azione per la sua propaganda e non un mezzo di despotismo e di godimento; incorporandosi alla nazione e prendendo parte a tutti i suoi dibattiti sociali; diminuendo il formalismo nella misura del possibile, unificandosi in uno stesso spirito di tolleranza e di bene da fare; e infine aspirando a legittimare la sua esistenza con i servigi sociali che risultano dalla sua azione e dal suo insegnamento». Questa immagine di Chiesa sarà prospettata sull’Adesso da Mazzolari. Crediamo siano le idee muriane depurate da ogni integrismo. 54 Ibid., 183.
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vescovo Cazzani è affidato il compito di sorvegliare sulla predicazione di Mazzolari55. Dovranno passare parecchi anni perché i temi affrontati e il linguaggio usato vengano riscoperti e utilizzati diffusamente, ma questo avverrà solo dopo il Concilio Vaticano II.
8. Opere e problematiche prima della guerra In quegli anni, nonostante l’amarezza per la condanna dell’autorità ecclesiastica, Mazzolari non rinuncia a scrivere, anche su temi scottanti e particolarmente delicati. Con La lettera sulla parrocchia del 1937, egli affronta il problema del laicato, proponendo una visione lungimirante e profetica sul ruolo dei laici nella vita sociale e della parrocchia. L’obiettivo di Mazzolari è di riaffermare i diritti e i doveri della laicità dei fedeli, denunciando, di contro, i pericoli della clericalizzazione e del laicato cattolico. Don Primo argomenta a favore dell’autonomia dei laici e parla dei compiti e delle responsabilità del laicato cattolico. Denuncia tre limiti della parrocchia: un insufficiente slancio missionario, che non le consente di portare il messaggio evangelico all’incrocio della strada ordinaria dei parrocchiani d’oggi; un eccesso di falso spiritualismo, che chiama soprannaturalismo disumanizzato; la sostanziale carenza di laicità che si assume nell’atteggiamento di distacco nei confronti della società. Egli afferma, inoltre, che dalla parrocchia devono transitare «le grandi correnti del vivere moderno, non dico senza controllo, ma senza pagare pedaggi umilianti e immeritati»56. È interessante, a tal proposito, ciò che G. Campanini afferma sul termine parrocchia. Mazzolari, sostiene lo studioso, quando parla di parrocchia in realtà si riferisce alla Chiesa, pertanto la lettera sulla parrocchia è in realtà la lettera sulla Chiesa57. Questo scritto 55
La prima opera di don Primo ha suscitato numerose polemiche, oltre a gesti di approvazione. Per uno sguardo più approfondito sulle vicende relative al libro cfr. F. MOLINARI, La più bella avventura e le sue disavventure 50 anni dopo, Bozzolo 1985. 56 Lettera, 41. In questo discorso — che Mazzolari riprenderà, aggiornandolo e completandolo, nel 1957, con il volume La parrocchia — si prefigura già tutto lo schema 13 del Vaticano II. 57 Cfr. P. MAZZOLARI, Per una Chiesa in stato di missione. Scritti sulla parrocchia, a cura di G. Campanini, Fossano 1999, 87. Campanini sostiene che Mazzolari preferisce parlare di “parrocchia” piuttosto che di Chiesa perché dopo le disavventure de La più bella avventura e le reazioni negative suscitate dagli altri scritti, porre apertamente ed esplicitamente il
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mazzolariano si colloca, dunque, a pieno titolo nel solco di quel riformismo religioso al quale si è fatto in precedenza riferimento e le cui radici possono essere identificate in quella impostazione “sociale” che don Primo ha attinto dalla sua formazione seminaristica, dalla sua personale preparazione intellettuale e da Mons. Bonomelli, dalla militanza nel partito della Democrazia cristiana, dalla costante attenzione ai fermenti innovatori della cultura e della stessa pastorale francese, da Péguy a Maritain, da Mounier a Suhard. Nello stesso periodo, con un articolo intitolato I cattolici italiani e il comunismo58, tratta il tema alquanto spinoso della questione comunista. In un clima in cui la gerarchia ecclesiastica metteva a tacere una generazione di preti, quella formata negli anni che vanno da Leone XIII alla Pascendi, che portava avanti l’ideale sacerdotale democratico cristiano e che aveva come obiettivo quello di favorire una maggiore corrispondenza tra la prassi pastorale e l’ideale sacerdotale, questo scritto di don Primo fu interpretato come una vera e propria provocazione. Tutto era concentrato ormai sulla formazione spirituale e la fuga dal mondo, sulla acquisizione di un’ascesi che rendesse facili il sacrificio e la rinuncia. Il prete doveva necessariamente astenersi da ogni presa di posizione che lo trasformasse in uomo di parte, doveva occuparsi solo dell’annuncio religioso, senza lasciar trasparire qualche sua preferenza politica. In questo evidente cambiamento di prospettive è chiaro che Mazzolari, formato all’attivismo sociale, imbevuto delle idee diffuse dalla prima Democrazia cristiana, diventa oggetto di scherno e di minaccia da parte delle autorità fasciste. A tal proposito Farinacci il 4 aprile 1937 invita il prefetto di Mantova a prendere provvedimenti contro questo prete notoriamente antifascista59. Un passo del sopracitato articolo ci dà l’idea di come il sacerdote cremonese affronta la “questione comunista”: problema del rinnovamento della Chiesa sarebbe apparso, oltre che rischioso, presuntuoso e, alla fine, controproducente. Il testo di Mazzolari invita alla discussione, ma questo invito non ha avuto alcun eco e questo mostra evidentemente la sproporzione tra la passione riformatrice di Mazzolari e il clima generale che caratterizzava la Chiesa e soprattutto le gerarchie ecclesiastiche, di allora. 58 Pubblicato contemporaneamente su Il nuovo cittadino di Genova, L’eco di Bergamo, Vita cattolica di Cremona, il 5 marzo 1937. 59 Cfr. R. FARINACCI, Regime fascista del 4 aprile 1937: «A Bozzolo è parroco un certo don Mazzolari, di cui è noto tutto l’atteggiamento antifascista. Egli, che era rimasto in prudente silenzio, si è in questi giorni risvegliato, e invia a questo o a quel giornale cattolico la
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«i cattolici devono essere capaci di superare spiritualmente il comunismo, il quale si vince vincendo in giustizia e in carità le cause che ne favoriscono il fatale sviluppo…occorre che il pensiero cattolico riesamini dottrina, prassi e sentimento comunista, con libertà ed audacia apostolica…la nostra risposta, sia di fronte al comunismo come al razzismo, come al capitalismo, non sarà persuasiva che il giorno in cui avremo incominciato a rifare una Città che Dio possa benedire ed abitare. A un mondo che muore di fame, di miseria, di pesantezza, d’odio, che gli egoismi più feroci divorano, le parole non bastano. Occorre che qualcuno esca e pianti la tenda dell’amore accanto a quella dell’odio, dichiarandosi contro apertamente a tutte le ferocità dell’ora, ovunque si trovino, sotto qualunque nome si celino, in uno sforzo di santità sociale che restituisca un’anima a questo nostro povero mondo, che l’ha perduta»60.
Mazzolari non si fa intimorire e continua la sua opera di scrittore pubblicando nel 1938, dopo lunghi travagli per l’imprimatur, Il Samaritano, con il sottotitolo Elevazioni per gli uomini del nostro tempo. Egli vi indica la sua posizione sulla questione sociale proponendo un cristianesimo sociale, in cui viene affermata la centralità della nozione di “prossimo”. Commentando la parabola del Samaritano, Mazzolari biasima la tentazione della chiusura dei cristiani ed esalta la nuova prospettiva assunta da Gesù sul concetto di prossimo: «il prossimo è colui che vuole essere mio prossimo, che si mette in istato di esserlo»61. Mazzolari afferma che la Chiesa è chiamata a vivere la nota ecclesiale della cattolicità come apertura universale. In altri termini don Primo ribadisce la vocazione temporale del cristiano che, come il Cristo, è chiamato a farsi lievito che fa fermentare la pasta, incarnando le direttive della Chiesa universale in originali ed efficaci realizzazioni concrete. Emerge sempre più chiaramente la vita spirituale del presbitero che, facendosi illuminare dalla luce della parola evangelica, si lascia interpellare, stimolare, muovere dall’amore per l’uomo immerso nei suoi drammi. Il sacerdote cremonese è consapevole che non c’è fissità nell’ordine sociale e che la coscienza non può abdicare dal contribuire per la soluzione dei problemi del tempo. Mazzolari è costantemente preoccupato dell’impegno nel mondo, delle decisioni concrete, della condivisione con i poveri. Nel 1933, in un raccontarsi che ha i tratti del testamento anticipato, scrive: sua prosa demagogica e disfattista. Che aspetta il Prefetto di Mantova a farlo prendere per il cravattino e a spedirlo in qualche isola?». 60 Diario III/B, 387. 61 Samaritano, 139.
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«appartengo a una generazione di sacerdoti che per primi avevano capito la necessità di distaccarsi da una preparazione di lamento e di condanna, come la generazione dal ’70 in poi. Il ministero stavamo per capirlo in maniera realistica, soprattutto lo spirito di sacrificio che esso richiede. […] Eravamo la prima generazione attrezzata alla lotta sul campo della libertà. La guerra ci aveva aiutato, dandoci la sensazione più reale dello stato d’animo del popolo rispetto alla religione. Siamo tornati con questa disposizione di lavoro che fu stroncata dagli avvenimenti, dalla volontà di resa dei nostri, i quali non si erano ancora adattati a vivere combattendo. […] I preti della mia generazione sono forse gli unici che nel momento presente vivono in agonia e sentono come pochi l’assenza della Chiesa dalle grandi questioni umane»62.
Nello stesso anno (1938) vengono pubblicate altre due opere: Tra l’argine e il bosco e I lontani. La prima è una raccolta di novelle. Sono racconti autobiografici dell’autore, che rivive l’esperienza pastorale di Spinadesco, di Cicognara e, in parte, di Bozzolo. La seconda, che ha come sottotitolo Motivi di apostolato avventuroso, manifesta la costante attenzione, sollecitudine e apertura per coloro che vivono “fuori della Casa”: «Io non ho occhio né per le distanze né per le durezze: ho bisogno di andargli [al lontano] incontro, anche se di mezzo c’è il deserto. Non lo guarirò, ma lo amo»63. Don Primo afferma che la Chiesa è affetta da una carenza d’incarnazione64: questa si riscontra nella sua impossibilità di essere presente in mezzo ai lontani, per l’indebolimento della spinta apostolica-missionaria negli ambienti più refrattari all’incontro col Vangelo. Don Primo, vero rappresentante del movimento sociale cristiano, richiama la Chiesa al dovere di immettersi nelle realtà terrestri per arrivare all’individuo senza isolarlo dal suo ambiente sociale. Bisogna far leva su questo per giungere a quello e, nel contempo, servirsi dell’individuo per aumentare la responsabilità cristiana dell’ambiente sociale65. 62
Diario III/A, 631-632 (corsivi dell’autore). Lontani, 21. 64 Vd. Lettera, 37: «la parrocchia (la Chiesa, n.d.a.) declina per mancanza di comunione con la vita, ossia per difetto d’incarnazione». Vedi anche Lontani, 61-62. 65 Cfr. ibid., 44. Il movimento sociale cristiano nasce come prima reazione all’interpellanze che la filosofia storicista o “storicismo” e le sue conseguenze nella odierna cultura pongono alla teologia cattolica. Lo storicismo, dall’ideale fortemente intramondano, operazionista di autosviluppo e di autocreazione, specialmente nella sua formula marxista del materialismo storico e dialettico, concentra l’attenzione dell’uomo sull’operare storico diretto alla creazione dei valori terrestri di ogni sorta e al miglioramento delle condizioni generali economiche, sociali, culturali, politiche. Il pensiero cristiano viene accusato di nutrire di fatto un concetto di salvezza puramente spirituale (idealista) e individuale (intimisti63
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Il tema dei poveri, sempre presente nei suoi testi e nelle sue meditazioni, è affrontato nel 1939 con La via crucis del povero: la questione del povero è una questione di giustizia sociale, di rapporti vissuti strumentalmente e d’indifferenza condivisa a livello ecclesiale. La modalità con cui il tema è posto è soprattutto quella della denuncia. A monte vi sono il contatto con la realtà quotidiana di classi sociali costrette dalla disperazione a rifugiarsi nel comunismo, l’esperienza della povertà umana durante le guerre, il bisogno di offrire una prospettiva di speranza ai ceti meno abbienti. Lo scandalo dell’allontanamento dei poveri dalla Chiesa è segno di uno strappo che, per essere ricucito, chiede un supplemento di testimonianza e di giustizia66. Il povero rappresenta il criterio oggettivo di responsabilità della coscienza del cristiano. L’azione pastorale della Chiesa deve spingere i cristiani a non fare di sé il centro dell’azione, ma a mettere al primo posto l’oggettiva necessità del povero. Il cammino pastorale deve portare tutti i cristiani a: condividere la povertà degli ultimi, entrando nel loro mondo come Cristo che si è fatto povero per solidarizzare con la povertà umana; tenere gli occhi puntati sui poveri, prendendo sul serio gli appelli che provengono dalla loro condizione; dare la parola ai poveri; dare risposte di carità ai poveri, facendo di se stessi un’offerta67.
9. La seconda guerra mondiale e la Resistenza 9.1. Le opere dei primi anni della guerra Il 10 giugno 1940 anche l’Italia entra in guerra. Don Primo vive questo momento con profondo dolore e angoscia per la Chiesa e per il suo paeco) con un disprezzo dualistico delle cose del mondo e con la proposizione dell’ideale della fuga mundi nonché della contemplazione delle cose ultraterrene ed eterne; con la conseguenza pratica non solo di non fomentare le energie necessarie all’azione per gli sviluppi e i miglioramenti economici, sociali e politici, ma anche di non combattere le situazioni ingiuste e le oppressioni che nella storia sono sempre presenti. Anzi, addirittura, la teologia cattolica è incolpata di essere sul piano pratico, e di fatto, il sostegno del potere oppressore costituito, alienando dai loro compiti storico terrestri gli oppressi, e di tranquillizzare la coscienza degli oppressori con l’assicurare a poche spese la loro situazione quaggiù e la gloria eterna lassù: cfr. C. VAGAGGINI, Storia della salvezza, in G. BARBAGLIO – S. DIANICH (curr.), Nuovo Dizionario di Teologia, Cinisello Balsamo 1988, 1514-1536: 1526-1527. 66 Cfr. Morire, 77; cfr. Obbedientissimo, 212-214. 67 Cfr. Povero, 18.
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se. Egli aveva già sperimentato la crudezza della guerra e i danni che essa porta al fisico come al morale delle persone e delle istituzioni68. Nell’autunno del 1940 finisce di scrivere l’opera Tempo di credere, prendendo come guida il racconto dei discepoli di Emmaus. In questo scritto traspare un’immagine forte di Dio: Gesù Cristo è colui che si fa vicino all’uomo, che gli si accosta per condividerne il cammino. Percorrere le strade della storia umana è lo stile che Dio ha rivelato in Cristo: la salvezza passa da questa kenosi. Come Cristo anche i cristiani sono chiamati a condividere le situazioni di bisogno. Partire dal bisogno degli altri è condizione per non chiudersi in difesa dei propri beni e delle proprie certezze. La condivisione delle situazioni di bisogno e la gratuità del proprio interessarsi restituiscono anche il diritto di parola: «Davanti al presepio, come nella taverna di Emmaus, è qualcuno solo chi ha niente. Gli può soltanto parlare uno che ha niente. Se uno fa gli affari su quelli che muoiono in trincea o in mare, non ha diritto di parlare. Se uno non ha cuore per chi ha perduto la casa, la patria, la chiesa […] non ha diritto di parlare. Se uno non ha fame e sete di giustizia per tutti i depredati, per tutti gli oppressi, non ha diritto di parlare. Io non ho diritto di parlare. Il mio benessere mi oltraggia: il mio egoismo mi schiaffeggia: la mia comodità mi diminuisce fino a togliermi ogni diritto di parola»69.
Don Primo interrogandosi come cristiano, sacerdote e intellettuale sul senso della storia e sul rapporto fra Vangelo e storia, afferma: «il vangelo non ha una soluzione, è una soluzione, la quale non esce bella e pronta dalle pagine del libro divino né dalle esperienze e dall’insegnamento della chiesa, ma diviene, di volta in volta, la soluzione, man mano che, come fermento gettato nella pasta, lo spirito del vangelo solleva e piega la realtà verso le sue conclusioni salutari».
Sostenendo, quindi, che non esistono dicotomie tra realtà materiale e spirituale, tra storia e vangelo, tra Chiesa e società, ribadisce che:
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Scrive Mazzolari: «sto passando i giorni più tristi della mia vita, su un dolore che mi prende nell’intimo della mia vocazione sacerdotale […] ormai il vaso è traboccante e gli occhi non hanno più lacrime […] lo spirito ha perduto un’altra battaglia e la Chiesa si trova sulla soglia di una novità che le domanderà di incominciare da capo. Non mi muovo né scrivo […] mi sembra di essermi staccato da tutto, pure soffrendo di tutto. Ho ripreso a lavorare per domani: per oggi non so cosa pensare né perché parlare»: Diario IV, 298. 69 Tempo, 159-160.
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«ogni villaggio offre un po’ del tuo regno…non c’è una antichiesa nelle cose: c’è soltanto nel mio cuore […] nessuna gioia è antireligiosa, nessuna conquista dell’intelligenza è antispirituale […] il mondo attende una nuova Pentecoste: quel giorno avremo di nuovo una cristianità in piedi di fronte ad una civiltà prona davanti a tutti gli idoli»70.
I fascisti, comprendendo la forza dirompente di quelle parole, bloccano il libro, ma l’editore Gatti di Brescia, grande amico di don Primo, stampa il libro in segreto e lo diffonde clandestinamente. Tra il 1941 e il 1943 Mazzolari pubblica alcuni articoli e due volumi: Anch’io voglio bene al papa (1942) e Impegno con Cristo (1943). Nell’opera Anch’io voglio bene al papa fa il tentativo di rileggere l’umanità della figura del pontefice, uomo che porta i dolori degli uomini sull’esempio di Gesù. L’Impegno con Cristo costituisce il documento simbolo della Resistenza: è l’invito a vivere la fede come impegno disinteressato per il bene dell’uomo. Risale a quegli anni anche il libro La rivoluzione cristiana, scritto nel 1943, ma pubblicato solo dopo la morte. In questa opera Mazzolari, accusando la Chiesa di una spiritualità disincarnata e antistorica, chiede ad essa di stare accanto all’uomo e di portare l’amore e la passione cristiana 70
Ibid., 44. A pagina 33 Mazzolari constata che della religione cristiana se ne parla in termini di: «”Oppio del popolo: fermento di rinuncia e di viltà: religione degl’imbecilli e degli schiavi” — si legge ogni dì nei fogli di propaganda che il bolscevismo ateo può scambiare coi neo-pagani. Le accuse si ripetono senza varianti e s’accordano sopra ogni divergenza ideologica». E tra le pagine 48-50, don Primo afferma che: «il laicismo verrà superato, se la chiesa riuscirà a riportare il laicato verso una teologia viva, o, meglio, se la nostra teologia riuscirà a interessare il pensiero laico […] anche in fatto di cultura teologica, la chiesa è fuori causa; la responsabilità è dei cattolici se, in Italia e fuori, il pensiero teologico, specialmente nella seconda metà dell’ottocento, fu poverissimo […] invece di un lavoro di rielaborazione cattolica delle nuove correnti di pensiero e di vita, abbiamo da parte dei teologi, anche eminenti, un irrigidimento su posizioni di difesa, e una penosa confusione tra ciò che è caduco nella teologia e ciò che vi è di eterno. La storia della teologia del 700 e dell’800 non è che una serie di dichiarazioni negative: antigiansenismo, antirivoluzionarismo, antiliberalismo, antimaterialismo, antipositivismo, antisocialismo, antimodernismo, ecc. Il prender posizione contro l’errore è necessario: ma dev’essere integrato da uno sforzo di ricostruzione…non furono i laici che abbandonarono gli studi teologici, fu piuttosto la teologia ad estraniarsi dalla loro vita, divenendo quasi cosa morta […] c’è chi parla di un lavoro di traduzione in termini di saper moderno della teologia; c’è chi domanda uno sforzo più completo: ripensare in funzione di cultura moderna le verità religiose così da darci una teologia, che pur inserita sul tronco tradizionale, ce ne faccia sentire la perenne vitalità. Son due i lavori, a mio parere, che vanno condotti di pari passo. Il primo ci ridarebbe i tesori incalcolabili della tradizione teologica; il secondo, il vero interiore approfondimento della verità religiosa, la capacità di conquista sul mondo moderno e l’avviamento all’unità spirituale della cultura moderna, così dispersa e confusa».
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in ogni ambito del suo vissuto storico dalla politica all’economia. Don Primo si chiede a quali condizioni un cristiano può esercitare l’autorità politica all’indomani del ventennio fascista e del conflitto mondiale. I requisiti fondamentali sono: l’animo libero dalla ricerca d’interessi personali; la dedizione assoluta al bene comune che si verifica nel dono di sé e nel servizio; la coerenza con la fede; il senso del possibile e del concreto, dovendo, il cristiano, dar conto dell’ambiente e del tempo in cui è chiamato a operare; l’interdipendenza tra la propria salvezza e quella degli altri. Rivoluzione cristiana rappresenta il tentativo di illuminare le coscienze nei campi dell’economia, del lavoro, della produzione, della proprietà e dell’uso dei beni materiali. Secondo questa visione “rivoluzionaria”, può essere solamente il prete l’uomo che si occupa delle realtà spirituali? Se il prete è chiamato ad essere in marcia con la plebs sancta del Cristo, può dimenticare i bisogni, le necessità, le esigenze dei fratelli? Il prete deve aiutare a educare a un profondo e delicato senso di responsabilità sociale se vuole essere non “rimorchiato” o “sopportato”, ma conforto e guida del popolo che gli è stato affidato dal Cristo e dalla Chiesa71. Non viene meno neppure l’attività di Mazzolari come predicatore e conferenziere a parecchi convegni cattolici. Nel 1941, a Firenze, dopo il suo intervento a un convegno, organizzato da Giorgio La Pira, deve eclissarsi per il pericolo imminente di arresto da parte dei fascisti. Altre conferenze e convegni che vedono la sua presenza autorevole sono quelli della FUCI a Bologna, Parma, Torino, Padova e Assisi. 9.2. L’esperienza del movimento guelfo In questi due anni s’intensificano gli incontri clandestini con gli oppositori del regime fascista, soprattutto con i cospiratori milanesi. L’antifascismo di Mazzolari prende ora una dimensione non solo etica, ma anche pratica e concreta. Egli entra a far parte del movimento guelfo. Questo movimento subisce in questi anni un’evoluzione: la prima fase è una generica opposizione al Fascismo e una restaurazione religiosa dello stato, fondato sull’idea evangelica di Cristo Re; il secondo momento è 71 Cfr. Rivoluzione, 20 e 92. Il titolo di quest’opera fa riflettere: don Primo non rimane indifferente dinanzi al dilagare della mentalità comunista. Si pone in atteggiamento di dialogo e di confronto con la nuova ideologia e ripropone il messaggio evangelico secondo un linguaggio e uno stile nuovo che sia capace di far riscoprire la novità perenne di Cristo.
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una vera e propria cospirazione, con diffusione di volantini e incontri segreti; la terza fase, alla quale Mazzolari partecipa attivamente, inizia nel 1938 quando i cospiratori incaricano Pietro Malvestiti di stendere una bozza del loro programma politico in antitesi col fascismo. Mazzolari, proprio con Malvestiti, ha una fitta corrispondenza, che ci rivela quanto la vicenda lo avesse coinvolto. Egli, per la chiarezza delle sue idee, diventa subito un punto di riferimento nelle decisioni del movimento, tanto che nella primavera del 1942, nella canonica di Bozzolo, convince Malvestiti ad accettare per il futuro partito dei cattolici la denominazione, già accolta da Alcide De Gasperi, di “Partito della Democrazia Cristiana”. Va ricordato che il movimento pubblica anche un documento chiamato Manifesto del Partito Guelfo (circa un milione di copie), nel quale si enunciano i dieci punti fondamentali che saranno poi ripresi nella costituzione della DC, al termine della guerra. 9.3. L’armistizio, i partigiani di Bozzolo e la clandestinità Il fascismo, nell’estate del 1943, è allo sbando e Mazzolari si preoccupa di organizzare attivamente i cristiani in zone e comitati. In una lettera all’amico Astori del 3 agosto 1943 confida: «Qui comincio a gettare i ponti per la ripresa cristiana»72. Questo suo lavoro, ormai alla luce del sole, non era esente da rischi tanto che sempre ad Astori, a fine agosto, confessa: «[Parlando del suo lavoro a Mantova e a Cremona] Ma non mi perdo d’animo, a costo di vedermi domani contro il muro sotto un plotone di S.S. Mi preparo alla morte»73. Dopo l’armistizio, l’8 settembre 1943, l’Italia del Nord viene rapidamente occupata dai nazisti. Mazzolari organizza la resistenza partigiana anche a Bozzolo. Il gruppo, capeggiato da due giovani, Sergio Arini e Pompeo Accorsi, inizia subito a collaborare con gli alleati, nascondendo uomini e mezzi, tentando di disporre una pista di lancio per paracadutisti e materiale bellico. L’11 febbraio 1944 don Primo viene arrestato, ma l’accusa a suo carico non viene provata e può essere scagionato. Il 29 luglio vengono arrestati i due giovani e ancora una volta don Primo, che celebrerà la messa domenicale sotto sorveglianza, viene fermato e poi rila72 73
Vita, 200: lettera di don Primo datata il 3 agosto 1943. Ibid., 206: lettera del 30 agosto 1943.
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sciato. Il 31 agosto viene avvertito fortunosamente che è stato spiccato contro di lui un mandato di cattura. Mazzolari comincia così la sua vita clandestina, proprio nello stesso giorno in cui Sergio Arini e Pompeo Accorsi vengono uccisi dai tedeschi a Verona. Trova scampo nascondendosi a Gambara, dove rimarrà forzatamente dal 1° settembre al 31 dicembre 1944. Dal 1° gennaio 1945 sposta la sua dimora a Bozzolo in una stanzetta isolata nel campanile. In questi mesi di solitudine, protrattasi fino al 25 aprile, don Primo scrive moltissimi testi: da ricordare il Diario di una primavera, pubblicato postumo, Il Vangelo del Reduce, poi pubblicato con il titolo di Il compagno Cristo, e Della Fede, della Tolleranza.
10. Il periodo post-bellico La cronaca degli anni successivi alla guerra è molto intensa e ricca di spunti. Uno dei temi mazzolariani più caratteristici degli anni della ricostruzione, è quello della parrocchia, non più vista come la comunità che ruota attorno al campanile, ma come una comunità ben più allargata. A prova di ciò sta la sua ininterrotta attività di predicatore anche fuori dai confini della parrocchia di Bozzolo. È il momento in cui, «dati i suoi precedenti di credibilità politica, da ogni parte lo si invita a parlare sulle piazze e nei teatri […], ora che è necessario esporsi coraggiosamente»74. Il testo emblematico di questo periodo è Il compagno Cristo, che ha come suggestivo e chiarificatore sottotitolo Il vangelo del Reduce; in esso Mazzolari offre a chi torna a casa una proposta di immediato rinnovamento. La vigilanza vaticana, nonostante il suo successo come predicatore non si attenua, infatti, anche per questo testo si è svolta un’accurata e minuziosa censura ecclesiastica. Tutta la sua opera s’incentra sull’impegno e sulla ricostruzione morale e politica del paese. Alcuni suoi scritti, come Impegni cristiani e istanze comuniste e La resistenza dei cristiani, sono articoli di poche pagine, ma portano in sé una grande forza di rinnovamento. In alcuni suoi contributi al settimanale Democrazia75, condanna l’equazione cristianesimo e qualunquismo e si fa portavoce dell’idea che la Co74 75
Obbedientissimo, 176. Mazzolari spinto da Pietro Malvestiti, scrive su Democrazia, settimanale della
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stituzione deve essere cristiana, dichiarando apertamente la sua simpatia per la Democrazia Cristiana. La voce profetica di Mazzolari non si limita, però, a esprimere consensi; entra anche nella questione riguardante il comunismo e la sua incompatibilità con la democrazia. Egli sottolinea come l’ideologia comunista sia l’espressione di un malessere mai ascoltato dalla classe dirigente e che ora emerge con tutta la sua forza; infatti, sia per il cristianesimo sia per il comunismo, sono fondamentali l’anelito alla giustizia e l’esigenza di porre fine alle ingiustizie del mondo presente. La differenza sostanziale tra cristianesimo e comunismo sta nel diverso modo di leggere la vita e l’uomo. Mazzolari paventa il rischio che per rigettare un’ideologia, per quanto sbagliata, si rigettino anche le masse che la seguono76. Queste idee, condannate dal s. Uffizio, costano a don Primo una settimana di esercizi spirituali, il ritiro dell’opuscolo Impegni cristiani e un ammonimento ufficiale77. Dopo la vittoria elettorale della Democrazia Cristiana nel 1948, Mazzolari diventa la voce critica dell’Italia cattolica in politica, egli ricorda, con scritti e articoli, che il 18 aprile non è un punto di arrivo, ma di partenza.
11. “Adesso” La settimana di Natale del 1948 Mazzolari realizza quello che è stato un suo sogno, la fondazione di un giornale. Carlo Bellò spiega così il motivo che sta all’origine del giornale di Mazzolari Adesso: «Non mi pare dunque che si possa situare la fondazione di Adesso all’estuario di un remoto malessere spirituale. Mazzolari era naturalmente incline all’opposizione, della quale ebbe una specie di genio. È probabile che il composito successo elettorale della Democrazia Cristiana il 18 aprile 1948 abbia potenziato la coscienza di costituirsi promotore di una corrente ecclesiale di avanguardia»78.
lombarda, dal 1945 al 1948. Esso rappresenta il contributo più organico dato all’impegno della ricostruzione. 76 Cfr. Istanze, 10. 77 La pena emessa dal S. Uffizio il 9 marzo 1946, viene recapitata al vescovo di Cremona il 6 aprile e poi comunicata a don Primo il 17 aprile. 78 C. BELLÒ, Primo Mazzolari. Biografia e documenti, cit., 134.
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La testata di Adesso sarà accompagnata dal versetto evangelico di Luca: «adesso chi non ha una spada venda il mantello e ne comperi una»79. L’esperienza di Adesso è stata una delle più significative per Mazzolari. In questo giornale ha potuto esprimere il suo parere sulla situazione politica, non limitandosi a una semplice critica, ma prendendo posizioni difficili e cristianamente impegnate. Già l’avverbio che fa da titolo, Adesso, indica l’urgenza del formare le coscienze, missione dalla quale don Primo non si è mai voluto sottrarre. Infatti, egli è convinto che la strada di un vero rinnovamento ecclesiale passi attraverso la formazione di coscienze adulte. L’intera vicenda di Adesso si gioca sulla scommessa di ridare respiro al cattolicesimo italiano investendo sull’educazione a vivere la testimonianza cristiana nelle attività temporali. È in ballo la libera e consapevole responsabilità personale del credente in Cristo. Il problema si pone, secondo l’autore, perché non è del tutto chiara «la coscienza di ciò che è la Chiesa nel mondo, se potenza o presenza, se deve dominare e tutto prendere in mano, o fermentare, illuminare, richiamare e resistere a ogni travolgimento del male e dell’errore, senza appoggi temporali»80. La domanda conclusiva esplicita ulteriormente il concetto: la redenzione è meglio rappresentata dal Crocifisso o dal “Cristo-console” sul trono e con lo scettro in mano, come nella statua posta all’ingresso dell’Università Cattolica di Milano? Dunque, è più evangelica una Chiesa che serve o che afferma se stessa agli occhi del mondo? Adesso non si schiera con qualche partito o movimento, ma tende piuttosto a un’elevazione spirituale che deve incarnarsi nella politica, e così disdegna allo stesso modo il comunismo come certe negligenze della Democrazia Cristiana; in uno dei primi articoli è lo stesso Mazzolari che ne spiega la posizione: «non a destra né a sinistra, non al centro, ma in alto»81, e ancora pochi numeri dopo: «contro la moderazione come accidia»82. Le tematiche che nel corso dei numeri quindicinali si dipanano, possono essere così riassunte: «Fin dall’inizio sono presenti su Adesso le tematiche che il mondo cattolico scoprirà nei decenni successivi: la vocazione al servizio, l’attenzione ai segni dei 79
Lc 22,36. P. MAZZOLARI, Il campo di Dio e il campo dell’uomo, in Adesso 8 (1956) 20, 4-5. 81 ID., Non al centro, non a destra, non a sinistra, ma in alto, in Adesso 2 (1949) 10, 1. 82 ID., Tra moderazione e accidia, in Adesso 5 (1949) 15, 2. 80
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tempi, la Chiesa dei poveri, il pluralismo, la denuncia di ogni forma di paternalismo, il ripudio di un certo gusto borghese di fare argine contro tutto ciò che insidia il proprio star bene, lo svuotamento del tentativo manicheo di fare della Chiesa un blocco spaziale»83.
Queste tematiche hanno in sé anche una grossa carica profetica che non esita a creare assensi e dissapori. Se una parte moderata teme la forza propulsiva di questi articoli, esistono non poche persone che riconoscono in Mazzolari la voce critica del primo dopoguerra italiano. Anche lo stile, spesso aggressivo, crea qualche problema. Più volte, nei dibattiti ospitati su Adesso, Mazzolari interviene con commenti e articoli molto critici sull’una e sull’altra posizione. Tuttavia, penso, sia opportuno sottolineare che queste critiche non erano mosse da un semplice desiderio di polemica, ma volevano essere uno stimolo per portare la riflessione a valori più elevati. In una lettera a Malvestiti, Mazzolari spiega l’intento di alcuni scritti che possono apparire notevolmente duri: «Sul mio Adesso stampo a volte parole dure, che costì non possono piacere: ma tu sai la loro provenienza, e quale passione le suggerisca, e il bene che porto sempre alla missione e agli uomini stessi della DC. Soltanto parlandoci con fraterna schiettezza e superando noi stessi potremo salvare il Paese, che la Provvidenza ha messo nelle nostre braccia. I pericoli sono tanti, ma i più brutti li portiamo in noi. Bisogna guarire se vogliamo essere degni della missione»84.
Come per tanti altri suoi scritti, anche Adesso ha suscitato attenzione presso l’autorità ecclesiastica. Il linguaggio schietto di Mazzolari, fondatore e vera guida di Adesso, non è mai piaciuto all’autorità che più di una volta ne ha contestato frasi e articoli. La stessa apertura al dialogo e la netta presa di posizione verso ideologie sempre combattute dalla S. Sede causano la chiusura del giornale, dopo il suo trasferimento a Milano, il 15 marzo 1951. Critiche e osservazioni giungono da parecchi vescovi che vedono in Adesso un pericoloso elemento destabilizzatore della certezza cattolica85. 83
A. BERGAMASCHI, Mazzolari fra storia e vangelo, Verona 1987, 85. C. BELLÒ, Primo Mazzolari, biografia e documenti, cit., 142. Il testo si riferisce a uno scontro che era avvenuto tra Malvestiti e Vaggi su una questione politica che interessò il governo De Gasperi in quegli anni. Mazzolari aveva ospitato il dibattito sulle pagine di Adesso prendendo una seria posizione per favorire i più poveri. 85 La questione della sospensione dell’Adesso e di tutte le sue disavventure con l’auto84
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I vescovi di Milano, Genova, Cremona e Parma ricevono le note negative di uno che è stato un grande collaboratore di don Primo come amministratore del giornale, padre Placido da Pavullo86, il quale solo in seguito ritratterà come menzognere le notizie fatte arrivare ai vescovi. Non sono state solo queste vicende a esporre a cattiva fama il giornale di Mazzolari; le autorità, si è detto, controllavano ogni numero e ne rilevavano tanti aspetti pericolosi; ecco perché Adesso viene sospeso e don Primo ammonito severamente.
12. La pieve sull’argine Durante la pausa di Adesso, Mazzolari pubblica il libro autobiografico intitolato La pieve sull’argine, seguendo lo stile delle novelle Tra l’argine e il bosco. Il suo tentativo è di trovare un senso logico spirituale a tutto quello che ha vissuto. Il racconto è, insieme, confessione e invenzione, ma per capirlo integralmente bisogna pensare al frangente doloroso in cui è stato scritto: la condanna del S. Uffizio. Questo spiega i paesaggi desolati, il senso di tristezza in ogni pagina, i desideri di un cuore tormentato e pur sempre fedele alla sua missione. Lo scopo di trovare un senso spirituale a un’esigenza messa duramente alla prova, don Primo lo trova in una vita pienamente sacerdotale, seppur colma di malinconia e tristezza. Ne La pieve sull’argine si narrano, infatti, le vicende di un cappellano militare, don Stefano Bolli87 che torna dalla prima guerra mondiale. Il racconto è sempre costellato da una profonda meditazione sul senso delle scelte, sul senso di una vocazione a volte incomprensibile ma che chiede che le si resti fedele. È anche un romanzo autobiografico perché in esso troviamo parecchi rità ecclesiastica è stata affrontata in maniera attenta in uno studio di Aldo Bergamaschi: A. BERGAMASCHI, Mazzolari e lo «scandalo» di Adesso, Torino 1967. 86 La vicenda di Padre Placido è piuttosto complessa: accortosi di un ammanco nel bilancio di Adesso, accusa Mazzolari, il quale si difende dimostrando invece la colpevolezza del religioso. Egli, forse spinto dall’invidia e dalla voglia di vendicarsi, scrive lettere calunniose a parecchi vescovi sul rapporto stretto Mazzolari-Adesso. Solo in seguito ammetterà che le notizie che aveva fornite erano solo menzogne, causate dalla sua ira. 87 Stefano Bolli è uno dei pseudonimi più utilizzati da Mazzolari. Bolli è il cognome della madre. Più volte, infatti, Mazzolari si troverà costretto a utilizzare questo nome per sfuggire alla censura ecclesiastica.
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episodi della vita del giovane don Primo, che ci aiutano a capire la fede profonda che sempre lo ha animato.
13. Ripresa di “Adesso” Il 15 novembre 1951, quasi a sorpresa, Adesso riprende le pubblicazioni. Stavolta sotto l’intestazione non troviamo più il versetto lucano, ma le parole: «…adesso e nell’ora della nostra morte». Ci si chiedeva se il giornale potesse essere ancora quello di prima, e ben presto ci si accorse che non aveva assolutamente perso il mordente. Lo stesso Mazzolari scrive e partecipa attivamente con saggi, articoli di spiritualità e testi anonimi presentati con pseudonimi. L’autorità ecclesiastica non rinuncia a essere critica nei confronti del giornale e il vescovo Cazzani scrive a Mazzolari chiedendo di esplicitare il suo rapporto con Adesso. Mazzolari, in una lettera del 31 gennaio 1951, risponde così: «Io sono un collaboratore di Adesso, poco importa se il più osservato. Il giornale mi apre largamente le sue pagine, ma io rispondo solo di quanto scrivo, sia che porti o non porti il mio nome»88.
In realtà il rapporto di Mazzolari con Adesso è sempre stato vivo, tanto che da più parti si chiamava il “suo” giornale. La stessa autorità lo vede come il direttore effettivo, e poco importa se il suo ruolo era di semplice redattore; egli dà ad Adesso la sua viva paternità spirituale. Giuridicamente, Mazzolari non è mai stato né direttore né proprietario, e questa è stata una delle poche scelte calcolate e avvedute della sua vita, ciò, infatti, gli ha evitato un coinvolgimento giuridico che gli avrebbe potuto causare non pochi danni. Il 26 agosto 1952 muore il vescovo di Cremona, mons. Cazzani, per lunghi anni vescovo di don Primo. Nonostante il suo lavoro di censore e integerrimo osservante delle leggi, mons. Cazzani ha sempre visto con un occhio di riguardo le idee e gli scritti di Mazzolari. Non è paragonabile a un genio creativo come il predecessore, Geremia Bonomelli, ma ha saputo vigilare sull’ortodossia con l’osservanza della disciplina canonica. Gli succede Mons. Danio Bolognini. 88
C. BELLÒ, Primo Mazzolari, biografia e documenti, cit., 160.
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14. Nuovi interventi del s. Uffizio 14.1. Il contesto politico e il nuovo “Adesso” Il nuovo Adesso non perde occasione per stigmatizzare episodi o atteggiamenti di eccessiva rilassatezza, soprattutto in ambito politico. Le vicende italiane dei primi anni ’50 vedono la caduta del governo De Gasperi, il progressivo ridursi del consenso popolare verso la DC, i brevi governi di Pella (duramente criticato su Adesso) e di Fanfani e il ritorno al centrismo con il governo Scelba (1954). Mazzolari non tace neanche in questo periodo e, nonostante le proibizioni del S. Uffizio, concede un’intervista sul rapporto cristianesimo-comunismo che appare nel giugno del 1954 sul Nuovo Corriere di Firenze e poi, l’1 luglio 1954, su Adesso. Il peso dell’articolo è notevole e grande è lo scalpore che suscita. Viene pubblicato anche sull’Unità, che sottolinea il coraggio e la singolarità del messaggio mazzolariano. Il contenuto dell’articolo riprende un suo scritto del 1937, rafforzato ora dalle vicende successive. Brevemente si può riassumere così: don Primo valuta positivamente il peso umano del comunismo, affermandone, però, la difficile coesistenza col cristianesimo, l’unica ideologia capace di completarne la finitezza umana89. 14.2. L’intervento del s. Uffizio Il S. Uffizio interviene prontamente e nel 1954 condanna Mazzolari a quella che sarà per lui la pena più dura: gli viene vietata la predicazione fuori dalla parrocchia di Bozzolo. Grazie all’intercessione del vescovo Bolognini la pena gli verrà alleggerita, estendendo il permesso di predicare in tutta la diocesi. Nonostante lo sconto, Mazzolari vive questa prova con uno spirito di grande rassegnazione e tristezza: si sente colpito dalla Chiesa che ritiene di avere servito con fedeltà e amore. Accetta con obbedienza questa sentenza, come dimostra in più di una lettera agli amici90. Nel 1955 esce anonimo il libro del suo impegno contro la guerra: Tu non uccidere. Vi tratta delle ragioni spirituali, storiche, religiose che im89
Cfr. P. MAZZOLARI, Dialogo tra cattolici e comunisti, in Adesso 7 (1954) 20, 10. Questo periodo di silenzio è compensato da una fitta corrispondenza epistolare con i suoi più amici. Va ricordato, come esempio, l’epistolario con don Guido Astori. 90
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pongono il rifiuto evangelico della guerra in assoluto, a costo della vita. Nel febbraio del 1958, il libro, ancora anonimo, viene fatto ritirare dal S. Uffizio.
15. L’ultimo periodo e la morte Dopo gli ultimi dissapori con il S. Uffizio, datati 1956, Mazzolari trova una fonte di consolazione nell’invito, fattogli dall’arcivescovo di Milano mons. Montini, a collaborare alle missioni popolari. Dal 14 al 28 novembre 1957, Mazzolari parla ogni sera ai fedeli, e, in modo particolare, agli studenti, ai professionisti e ai carcerati91. In questi mesi don Primo viene coinvolto in un’iniziativa che avrà esito nelle sue ultime settimane di vita. Un piccolo gruppo di sacerdoti della bassa padana, ricordando i 300 preti uccisi nel periodo della Resistenza, promuove la costruzione di un monumento per il clero-vittima nei pressi di una parrocchia emiliana. Essi chiedono a Mazzolari di affiancare l’iniziativa con uno scritto. Nel giro di un mese, don Primo prepara un opuscolo dal titolo I preti sanno morire, un’opera di poche pagine, sullo schema della Via Crucis, dedicato ai sacerdoti che hanno saputo dare la vita per testimoniare il perdono e la concordia. Per questo bel documento, Mazzolari viene inserito nel “Comitato clero italiano vittima”, ed è questo Comitato che chiede udienza al nuovo Pontefice, Giovanni XXIII. Mazzolari ha così occasione di incontrare Papa Roncalli, che quando era Patriarca di Venezia più volte gli aveva dimostrato affetto e stima. Qualcuno, però, nei palazzi romani ha da ridire sulla presenza davanti al papa di un prete più volte punito. Queste voci giungono a Giovanni XXIII, il quale dice al suo segretario mons. Loris Capovilla: «No, don Primo è un buon sacerdote, deve venire»92. La cronaca di quel giorno ce la fornisce lo stesso don Primo che annoterà, sulla sua agenda: 91 Per maggiori particolari sulla grande Missione di Milano e la partecipazione di Mazzolari, vd. A. CHIODI, Don Primo Mazzolari e la missione di Milano 1957: una predicazione di frontiera, in Terra ambrosiana 4 (1987) 49 ss. 92 L. CAPOVILLA, Mazzolari protagonista e interprete della Chiesa del nostro secolo, in Impegno 1 (1995) 49.
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«Entriamo nel cortile di S. Damaso a mezzogiorno, saliamo. L’attesa dura fin verso le 12.35. Poi viene il papa nella sala del Tronetto. Mi parla con una benevolenza particolare: “Sono sei anni che non ci vediamo, caro don Mazzolari”. Poi viene fuori la famosa frase segnata da tutti: “Tromba dello Spirito Santo in terra mantovana”, poi la Colombina93, la mia parrocchia, i malati ecc. trenta minuti dura l’udienza. Ero alla sua destra. Ha precisato il suo pensiero con una semplicità e incidenza non comuni […] a chiusura un accenno alla situazione attuale: “A volte, vedendo andar male certe cose, verrebbe voglia di fare un passo. Ma il Papa ha i suoi limiti e in certi casi non può che pregare e soffrire”. Esco contento. Ho dimenticato tutto»94.
Ricomincia la vita ordinaria con una speranza e una gioia in più; ma la stanchezza si fa sentire anche nel lavoro ordinario. Il 5 aprile 1959, domenica in Albis, alla messa cantata, è colpito da apoplessia alla balaustra della sua chiesa parrocchiale di Bozzolo, proprio all’inizio dell’omelia. Portato nella clinica S. Camillo a Cremona, spira il 12 aprile 1959 senza riprendere conoscenza. I funerali sono imponenti per partecipazione e commozione popolare. Si respira nel clero accorso, soprattutto nel vescovo, un certo imbarazzo. Alcuni amici bozzolesi di don Primo, poco dopo la sua morte, si costituiscono in un Comitato per lo studio e la pubblicazione di tutti quei testi che non avevano potuto vedere la luce. Il Comitato si è poi negli anni trasformato in Fondazione Mazzolari, con sede a Bozzolo, e ancora pubblica regolarmente studi e scritti di don Primo.
*** La ricerca sulle vicende biografiche e sulle opere di Mazzolari, svolta in questo primo capitolo, ci ha presentato un personaggio appartenente a una generazione singolare di preti. Tale generazione sta nel mezzo di due compagini: quella formatasi in seminario negli anni di Leone XIII, con margini di libertà, di studio, di ricerca ancora ampi e quella formatasi dopo l’enciclica Pascendi di Pio X, in un clima di sospetti, di sorveglianza esasperata e, in non rari casi, di condanne. Determinante è la configurazione storica del nostro personaggio, il quale, entrato in seminario negli 93 94
Colombina Mazzolari era la sorella di don Primo in quel tempo gravemente malata. A. CHIODI, Primo Mazzolari, un testimone “in Cristo” con l’anima del profeta, cit., 89.
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anni di Leone XIII, ha iniziato gli studi teologici proprio nel tempo della Pascendi e ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale negli anni più difficili della reazione. La presenza del grande vescovo Bonomelli, la frequentazione del padre barnabita Gazzola, gli studi giovanili hanno inciso in modo fondamentale sulla formazione di Mazzolari. Don Primo, nonostante l’imperativo di Pio X di ritornare nelle sacrestie durante il burrascoso periodo modernista, porterà impressi nella sua coscienza sacerdotale la mentalità e lo stile del modello del prete sociale, cioè a dire l’ansia tipicamente “leoniana” del confronto e dell’incontro col mondo moderno. Quest’incontro deve essere preparato tramite la rivoluzione cristiana che trova nell’incarnazione di Cristo il suo fondamento teologico: il modo con cui Gesù fa la rivoluzione è quello di incarnarsi nella storia. La Chiesa continua quest’opera, che, per don Primo, non può consistere semplicemente nel radunare intorno a sé molte persone che condividono lo stesso ideale, ma deve piuttosto essere fermento perché l’umanità sperimenti la giustizia e l’amore. Se niente di ciò che è umano è al di fuori di Cristo, compito della rivoluzione cristiana è di rendere l’uomo consapevole della sua dignità e della sua vocazione. Il sacerdote non deve occuparsi esclusivamente dell’ambito sacramentale e spirituale formativo (secondo le direttive del magistero di Pio X, fatte proprie successivamente da altri pontefici), ma deve avere come suo proprium l’impegno che mette in relazione contemplazione e azione, fede e storia, mistica e politica. Don Primo denuncia nel presbitero una dicotomia tra fede e impegno. Molti nella Chiesa vivono la fede è vissuta come rifugio nel privato, spiritualità fuori dalla storia. Una figura di coscienza così intesa, e trasmessa dai pastori della Chiesa in un periodo storico di profonde trasformazioni sociali, ha costruito l’immagine di un cristianesimo estraneo alla contemporaneità, distante dalle delicate condizioni umane di povertà e chiuso a riccio su di sé. Recuperare la dimensione dell’impegno nel mondo significa per Mazzolari offrire la corretta immagine di Dio e dare agli uomini del proprio tempo la possibilità di capire l’importanza della fede cristiana nella crescita globale della società contemporanea. Perdere il senso del rapporto tra vangelo e storia significherebbe tagliare fuori la fede da ogni ambito umano e privare il cristianesimo della sua capacità d’incidenza e di trasformazione della realtà. Il prete, in quanto educatore della fede, deve possedere in sé questo profondo raccordo tra vita spirituale e impegno pastorale per formare coscienze cristiane ben equilibrate.
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Capitolo II
Lo sviluppo della coscienza presbiterale in Mazzolari nella Chiesa e nella società italiana del suo tempo
1. Introduzione Dopo aver visto la travagliata vicenda biografica di Mazzolari e aver analizzato la sua complessa e articolata formazione sacerdotale improntata sul confronto e sull’incontro col mondo moderno, in questo secondo capitolo si vuol mostrare come e quanto il ministero presbiterale dell’autore in considerazione sia legato alla storia della Chiesa e della società italiana del tempo e come tale storia contribuisca all’evoluzione della sua coscienza presbiterale.
2. La Chiesa italiana di fronte alla prima guerra mondiale Il Conclave che si aprì alla morte di Pio X, il 31 agosto 1914, vide lo scontro tra i fautori della severa politica antimodernista dello scomparso pontefice, e quanti auspicavano una linea distensiva. I primi puntavano sul benedettino card. Serafini, già assessore del S. Ufficio, e come tale coinvolto in molti provvedimenti repressivi; gli altri vedevano con favore Giacomo Della Chiesa, un diplomatico formatosi alla scuola del Card. Rampolla, segretario di Stato di Leone XIII, poi passato, nel 1907, al governo della diocesi di Bologna. Prevalse rapidamente, con il minimo dei voti richiesti, due terzi dei votanti, Giacomo Della Chiesa, che prese il no-
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me di Benedetto XV. Tre compiti fondamentali s’imponevano al nuovo pontefice: la composizione della querelle fra integristi e cattolici più aperti; un’opera di pace volta a evitare l’allargamento della guerra, ad affrettarne la soluzione, ad alleviarne i dolori; la composizione della questione romana. L’azione del nuovo pontefice non si presentava per niente facile perché non solo non era agevole arrestare la macchina politico-militare, entrata ormai nel suo fatale gioco, ma anche perché l’opinione pubblica non era disposta a un esame sereno dei fatti, ed anche i cattolici non sfuggivano a questa tentazione, anzi erano portati a confondere religione e politica. Certamente non mancava chi reagiva contro il nazionalismo e l’imperialismo, ma cercava nello stesso tempo di conservare la fedeltà allo Stato1. In Italia il panorama del mondo cattolico allo scoppio della prima guerra mondiale appare assai variegato nelle sue posizioni. La divisione tra neutralisti e interventisti apre un dibattito che necessariamente finisce per confrontarsi con gli ambienti culturali laici della società. Almeno tre sono gli atteggiamenti riscontrabili: quello di chi sposa un interventismo democratico, come la Lega Democratica cristiana; quello anti-interventista, diffuso nell’area contadina e ben rappresentato dal movimento del cremonese Guido Miglioli; quello di chi cerca una mediazione tra la posizione neutrale di Benedetto XV e l’esigenza di essere cittadini leali con la patria e quindi disposti a compiere il proprio dovere fino in fondo in caso di guerra2. Tra i vescovi italiani, occorre distinguere tre gruppi. La tendenza filo nazionalista, scarsa nelle regioni settentrionali che si rifà agli orientamenti emersi nella guerra di Libia, si allinea in sostanza alla propaganda interventista, sottolineando l’ideale di una patria più grande e più forte e la necessità di raggiungere i confini cosiddetti “naturali”. I vescovi pacifisti restano in minoranza: sono presenti in Toscana, in Piemonte e nei dintorni di Roma. La maggioranza accetta il fatto compiuto e collabora con le autorità per la buona riuscita della lotta, ma soprattutto si prodiga a sollievo dei combattenti e delle loro famiglie. In questo contesto generale emerge la grandezza di Benedetto XV, pronto a sfidare ogni impopolarità per assolvere la sua missione di pace. 1
Cfr. G. MARTINA, Storia della Chiesa: da Lutero ai nostri giorni. L’età contemporanea, 1995, 137-138. 2 Cfr. B. BIGNAMI, Mazzolari e il travaglio di una coscienza, cit., 171.
IV, Brescia
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La sua condotta si svolge su tre vie complementari: 1) condanna senza riserve del ricorso alle armi (cioè della guerra)3, come mezzo necessario per risolvere questioni pendenti, per rivendicare i propri diritti, per affermare la propria sicurezza, e, insieme, vigile attenzione perché i cattolici, laici, clero, vescovi, si tenessero lontani dalla forte tentazione del nazionalismo, da un amore esclusivo, indiscriminato per il proprio paese, in contrasto con la carità e l’universalismo cristiano; 2) tutto l’aiuto possibile alle vittime della guerra (feriti, prigionieri, profughi, famiglie prive del loro capo); sforzo costante per impedire l’estendersi del conflitto (in particolare l’intervento italiano), per affrettare il ritorno alla pace, mediante proposte concrete. La prima guerra mondiale fu il prodotto delle contraddizioni fra le diverse potenze imperialistiche. L’imperialismo era nato negli anni Settanta dell’Ottocento come politica espansionistica coloniale, segnata dal crescente potere del ceto militare, dallo stretto rapporto fra esercito, industria e Stato, dalla fine del liberismo e dall’affermazione del protezionismo. All’inizio del Novecento, alla competizione coloniale in Africa, Asia e America si aggiunge quella in Europa: l’accentuarsi dei contrasti fra i diversi imperi economici e politici e il dilagare del militarismo e del nazionalismo sfociano nella guerra del 1914-1918. L’esito dell’imperialismo è la “guerra totale”, le cui conseguenze si fanno sentire in tutto il mondo. E tuttavia la guerra non risolve le contraddizioni; crea invece una situazione d’instabilità, di crisi economica, sociale e demografica, che agevola, negli anni successivi alla sua conclusione, il trionfo dei regimi autoritari di massa: il Fascismo prima, il Nazismo poi4. 3
La posizione di ferma condanna della guerra da parte di Benedetto XV, consapevole del proprio ruolo di ago della bilancia e preoccupato per le sorti del continente europeo, si rivela nei discorsi, lettere, allocuzioni ed encicliche di quegli anni. La guerra è definita «orrenda carneficina che disonora l’Europa» (25 maggio 1915), «inutile strage» (1 agosto 1917), «la più fosca tragedia della follia umana» (4 dicembre 1916). Cfr. G. MARTINA, Storia della Chiesa, cit., 140-141. Va sottolineato che il papa interpreta il conflitto come il fallimento della cultura liberale, laica ed anticlericale. Nell’Enciclica Ad beatissimi mette in relazione la guerra con l’abbandono da parte della società della sapienza cristiana. Si evidenzia così una prospettiva di pensiero che sogna il ritorno di una società cristiana, messa in crisi dalla modernità. Cfr. J-D. DURAND, L’Italia, in J.M. MAYEUR – C. PIETRI – A. VAUCHEZ – M. VENARD (curr.), Storia del cristianesimo. Religione-Politica-Cultura, XII, Roma 1997, 356-357. 4 Cfr. R. LUPERINI – P. CATALDI – L. MARCHIANI (curr.), La scrittura e l’interpretazione. Storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea. Dal naturalismo alle avanguardie (1861-1925), V/II, Firenze 1997, 916.
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La società, in cui la Chiesa vive, è attraversata dal motivo del cambiamento, della rivoluzione, del superamento dei padri, della distruzione del vecchio. Questo motivo agisce in modo diverso sia in campo politico (dai comunisti agli anarcosindacalisti, dai futuristi ai fascisti) che in campo artistico (dall’Espressionismo al Surrealismo). Esso deriva dai cambiamenti strutturali in corso, e cioè dai processi di industrializzazione e di modernizzazione che fanno sentire come rapidamente superata e anacronistica ogni conquista e acquisizione anche recente. Esso agisce tanto profondamente da produrre un’adesione irrazionale alla guerra sentita spesso come momento di purificazione e di sacrificio collettivo, necessario per realizzare la trasformazione politica, economica e sociale di un popolo. La guerra stessa agì nell’immaginario collettivo. La denominazione di “Grande guerra” implica già la coscienza di un mutamento rispetto ai precedenti conflitti. Ora la guerra tende a divenire “totale”, a interessare un gran numero di nazioni non solo europee, a investire ogni campo, a estendersi alla popolazione civile, a essere combattuta anche sul terreno dell’economia e dell’alimentazione, della propaganda e delle comunicazioni di massa. Inoltre essa si svolge ormai con le armi della tecnologia, con il telefono, la radio, gli aerei, gli autocarri per il trasporto rapido delle truppe. Perde ogni carattere eroico e individuale, e diventa guerra di masse anonime e spersonalizzate, mandate al macello in offensive frontali nel primo periodo e costrette a vivere per mesi nel fango delle trincee in tutta la fase centrale. La delusione degli intellettuali, che vi parteciparono come ufficiali e che vi avevano cercato un motivo di riscatto e di rivincita personale, fu cocente. In guerra ritrovavano la stessa vita anonima e di massa che la modernità aveva fatto loro conoscere nelle città. Reagirono in vari modi: ora incoraggiando il nazionalismo più acceso e retorico e tentando di fare rivivere le gesta eroiche degli antichi capitani di ventura (D’Annunzio), ora vivendo l’esperienza della fratellanza al fronte con gli altri soldati (Ungaretti), ora vedendo nell’utilità della strage la riprova dell’assurdità della vita (il poeta vociano Rebora), ora svolgendo un compito nel servizio “P” (Propaganda) volto a persuadere i soldati alla resistenza e all’obbedienza, magari attraverso la promessa di compensi sociali (la terra ai contadini) nel dopoguerra. Ma la guerra, purtroppo, si manifestò come il trionfo della massificazione e della burocrazia poiché
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ogni aspetto della vita civile e sociale era ormai dominato dalle esigenze amministrative5. La partecipazione alla prima guerra mondiale è uno dei nodi cruciali dell’esperienza giovanile mazzolariana. Con i gruppi della Lega Democratica Cristiana6, il sacerdote condivise un interventismo democratico che si contrapponeva, come a una viltà, alle istanze neutraliste e interpretava la guerra come superamento delle ingiustizie, riscatto nazionale di fronte al dominio degli Imperi Centrali e possibilità di realizzare una nuova civiltà aperta ai valori cristiani. Le pagine del diario testimoniano acerba opposizione all’atteggiamento attendista tenuto in un primo momento da Giolitti e critiche “all’opera neutralista del Vaticano”; lo statista e la Curia vaticana venivano accusati di curare esclusivamente i propri interessi temporali. È un interventismo, quello di Mazzolari, che, a differenza dell’interventismo nazionalista, denota un amore di patria profondo, ma non idolatrico, proclama l’incapacità “di qualunque odio verso il nemico” e appare teso a restaurare una superiore giustizia. Don Primo, propugnatore convinto dell’interventismo, inventa una formula audace ed efficace per diffondere la necessità della guerra: «l’Evangelo che come carità condanna la guerra, come giustizia condanna l’ingiustizia»7. A tal proposito, sulle pagine del Diario del 13 maggio 1915, troviamo una precisa annotazione: «Giorni di angosciosa vigilia. Ho nell’anima il dolore di un’età e lo spasimo di una vergogna che deve pesare sulla coscienza di ogni italiano come un’infamia 5
Cfr. ibid., 944-945. La più organica frequentazione culturale di Mazzolari in quegli anni (1914-1917) fù con Eligio Cacciaguerra e il gruppo di Cesena. Non sappiamo in quale particolare circostanza Mazzolari li abbia conosciuti. E. Cacciaguerra attirò l’attenzione del giovane Mazzolari forse perché nel congresso di Imola (1919) avvertì il pericolo che Murri trascinasse la Lega democratica — costituita a Bologna nel 1905 — fuori strada e con una dichiarazione famosa si staccò dal partito, si fece capo dei secessionisti e diede vita all’Azione che a partire dal 25 febbraio 1912 passò a Cesena sotto il suo diretto controllo. La prova dell’incardinamento ideologico di Primo Mazzolari nel solco iniziato dall’Azione cacciaguerriana l’abbiamo nella lettera pubblicata sul numero del 9 novembre 1913: cfr. Diario I, 694695; inoltre vd. C. BELLÒ, Primo Mazzolari. Biografia e documenti, Brescia 1978, 38-48. 7 Diario I, 718 nota 20. Per Mazzolari l’unica cosa veramente “cattolica” al mondo è la giustizia, non importa se per il momento negata da una nazione o da un’altra, affermata fino alla morte. Egli cerca disperatamente una formula che coinvolga il vangelo e la trova in questa affermazione citata nel testo. E tuttavia resta un sofisma, finché a muoversi guerra sono i cristiani. Al fondo di tutti i ragionamenti resta cioè questa antinomia: la guerra va condannata in nome della dottrina dell’amore e promossa in nome della giustizia. 6
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perpetua. I vili di ogni partito, gli stranieri di fuori e di dentro che si raccolgono sull’uomo nefasto che risponde al nome di Giovanni Giolitti stanno per consumare il tradimento d’Italia»8.
Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in guerra e ai primi di settembre Mazzolari viene richiamato e arruolato. Questa informazione si può ricavare da una lettera del fratello Peppino scritta dalla zona di guerra, il 24 agosto 1915: «Sento che coi primi di settembre torni di nuovo alla visita…sono certo che in questi momenti ti faranno idoneo […] mi dispiace; ma sono lieto che tu ti senta — come mi dici — orgoglioso di appartenere all’esercito e di compiere il tuo dovere»9.
E lo stesso Mazzolari, in una lettera scritta a Eligio Cacciaguerra il 14 ottobre 1915 e pubblicata sull’’Azione’ del 7 novembre 1915, afferma: «Ho una buona notizia sarò soldato. Questa volta la patria non mi ha rifiutato e ne sono orgoglioso come di un privilegio. Te l’ho scritto che mi sentivo umiliato e che avevo rossore della mia giovinezza guardando il mio far nulla nel sacrificio di tanti […] Disegni in mente non ne ho per ora: farò il soldato […] la nuova vita diviene per me un dovere e un apostolato»10.
Mazzolari si schiera con l’interventismo democratico perché la guerra gli sembra il passaggio “obbligato” per ristabilire la giustizia, purificare gli animi e mostrare, da cattolico, un attaccamento sincero e leale alla patria. La sua coscienza sacerdotale guarda al conflitto come al male minore. Egli interpreta la guerra come modo presente del cristianesimo di essere nella storia: il neutralismo rappresenterebbe una fuga dalla realtà, un rifiuto del sacrificio per il bene del popolo. Egli è animato dalla preoccupazione di non vedere di nuovo il mondo cattolico tagliato fuori dalla storia: 8
Ibid., 712. Ibid., 715. 10 Ibid., 722. In questa lettera, più avanti, si denota un fortissimo senso del gruppo della Lega democratica cristiana: «Se puoi scrivermi parlami della nostra famiglia. Nell’isolamento che diviene ogni giorno più largo, con la conoscenza di uomini e di sistemi, mi è inestimabile conforto ricoverarmi nella comunione della nostra casa che spunta appena, ma dalla roccia. Quando torneremo — se non torneremo altri più degni lavoreranno per noi — riprenderemo l’opera nostra con fede e alacrità migliore. Ma bisogna che “tutto l’edificio ben composto cresca in tempio santo nel Signore, nel quale ancor noi siamo insieme edificati per essere un abitacolo di Dio, in ispirito”». 9
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«il definitivo distacco dalla tradizione temporalista e clericale mostra la sua concretezza nella disponibilità incondizionata a lavorare per costruire un’Europa dei popoli e combattere la cultura del privilegio, dell’imperialismo e dell’ingiustizia. Dietro l’interventismo sta l’ideale giovanile di un rinnovamento ecclesiale e culturale, in una logica di collaborazione con lo Stato»11.
In questo contesto storico e politico, la riflessione di Mazzolari sul sacerdozio ministeriale comincia a subire una evoluzione. Dagli elementi della spiritualità sacerdotale, appresi durante la formazione in seminario e durante il periodo del suo insegnamento nel ginnasio dello stesso seminario, don Primo passa man mano a una specifica spiritualità del prete diocesano. Nel marzo del 1913, pochi mesi dopo la sua ordinazione sacerdotale, scrive: «Sacerdos alter Christus! […] Il sacerdote è un altro Cristo! Egli tornando al cielo ci ha lasciato la sua Chiesa e nella Chiesa l’eterno suo sacerdozio che ne rappresenta l’autorità, simbolo visibile di unità, custode e dispensiere dei suoi tesori spirituali di grazia e verità. […] Rappresentanti di Gesù Cristo, continuatori dell’opera sua, membra elette del mistico corpo della sua sposa la Chiesa, custodi e dispensieri dei suoi favori, è doveroso ch’essi riproducano anche nella vita loro personale l’immagine di Gesù»12.
Per il giovane Mazzolari, come si è appena visto, Cristo è l’immagine che deve essere imitata dai sacerdoti, i quali, soprattutto in vista dell’affermazione della Chiesa sul mondo, si devono distinguere e separare dal popolo. La concezione del ministero presbiterale, inteso fino ad ora come vita prevalentemente spirituale, comincia ben presto ad apparire inadeguata; inizia, perciò, un processo d’inserzione della vita spirituale presbiterale nella vita pastorale secondo la logica dell’Incarnazione. Questo passaggio inizia a verificarsi già durante gli anni della guerra in cui, come si è visto, il giovane don Primo è alla ricerca di una più stretta coerenza «tra il pensiero e l’azione, tra il desiderio e la volontà»:13 la mancanza di equilibrio rende discontinua la sua vita spirituale e inconcludenti le sue giornate, ravvivate a sbalzi solamente dalla fiamma della pietà. 11
B. BIGNAMI, Mazzolari e il travaglio di una coscienza, cit., 179. Diario I, 512. 13 Diario II, 70. 12
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Mentre si prepara a raggiungere il reparto al quale è stato destinato, don Primo riceve, il 24 novembre del 1915, la notizia della morte del fratello Peppino sul Sabotino a S. Floriano. Sul diario le parole del dolore: «Peppino muore per la patria. Sabotino ore 9 ½ […] Dio!»14. A dicembre è a Genova, soldato semplice nella quarta Compagnia Sanità. Passati i tre mesi di addestramento, viene destinato all’Ospedale militare di Cremona15. Per la Pasqua del 1916 scrive all’amico Guido Astori, Cappellano degli alpini in Carnia: «la mia mente, Guido, si confonde e non vede più. È troppo il mistero, troppo! Ma noi non odiamo il tuo cuore, il cuore dei tuoi bravi alpini non conosce l’odio […] quando cesserà questa crocifissione del Cristo? Quando diventeremo uomini? Quasi dispero…No, bestemmio: è impossibile che tanto martirio sia vano»16.
Ma nonostante cominci a farsi strada in lui il desiderio di condanna della guerra, di condanna di ogni forma di violenza, non si trae in disparte. La guerra infuria e tanti, tantissimi giovani stanno combattendo e soffrendo. Lui deve essere, sarà al loro fianco. Soffrirà con loro. Dividerà con loro la paura, l’angoscia, l’orrore, la speranza. Dopo Caporetto (24 ottobre 1918) Mazzolari ripete da Cremona la domanda di nomina a cappellano militare17: lo diverrà soltanto il 26 aprile del 1918, con destinazione presso il raggruppamento dei soldati italiani impegnati in Francia sulla li14 Diario I, 736. Con una lettera del 3 dicembre, da Verolanuova, Mazzolari annuncia a Cacciaguerra la morte del fratello. La lettera verrà pubblicata sull’Azione del 26 dicembre 1915, alla pagina 2, sotto «La voce dei nostri soldati». Essa dice: «Eligio, il 24 novembre, dinnanzi a G […] insieme al suo tenente colonnello e al suo capitano è morto il mio Peppino, l’unico mio fratello. Ventidue anni! Il mio sangue migliore per la patria! Le cose più care son quelle che costano di più. Era un angelo ed è morto martire. Ora è con Eugenio [Vaina] e con gli amici in Cielo. Io sono forte, ma lo strazio della mia famiglia, del mio papà di cui era l’unico sostegno, della mia mamma che non ha più lacrime, delle mie sorelle che l’adoravano, mi indebolisce. Aiuta con la preghiera i miei cari. Io sarò forte nel Signore. Lunedì parto anch’io. Nel dolore più tuo. D.P.»: L.c. 15 In seguito a una raccomandazione del rettore del seminario — pregato da mamma Grazia — presso il vescovo castrense: vd. A. BERGAMASCHI, Presenza di Mazzolari. Un contestatore per tutte le stagioni, Bologna 1986, 82. 16 Vita, 30. 17 Mazzolari si offre «per qualche servizio mobilitato, onde meglio adempiere, ora così grave, tutto il mio dovere verso la patria»: A. BERGAMASCHI, Presenza di Mazzolari, cit., 82. Egli non è soddisfatto. Il non essere in prima linea su un campo di battaglia, il non essere in continuo pericolo, il non dividere i pericoli e le sofferenze con i soldati, lo fanno sentire come un imboscato: cfr. P. MAZZOLARI, Quando la patria chiama. Don Mazzolari, Bozzolo, la guerra, a cura di M.T. Balestreri, Bozzolo 1998, 17.
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nea del fronte con la Germania. Vi rimane anche dopo la fine della guerra. Nel dicembre 1918 è a S. Quintino, il 19 gennaio 1919 parte da Ribecourt per tornare in Italia. Dalla Francia a Fossalta di Piave. Qui apre una “casa del soldato” e riprende i contatti con il gruppo degli amici di “L’Azione”. Visita la tomba di Peppino nel piccolo cimitero di S. Floriano, nei pressi di Oslavia, prima di raggiungere, in settembre, un battaglione di alpini accantonati a Tolmino con l’incarico di raccogliere le salme e sistemare i cimiteri di guerra della regione. Dopo una sosta di un mese a Verona18, il 12 febbraio 1920 parte per Cosel, in Alta Slesia, con il grado di tenente cappellano del 135° Fanteria, aggregato alle truppe italiane incaricate di vigilare sul regolare svolgimento dei plebisciti per l’annessione alla Polonia o alla Germania. Qui accoglie il Nunzio Apostolico Achille Ratti (il futuro Pio XI) in visita ai reparti italiani, il 23 luglio 1920. Il primo settembre don Primo è a casa: «sto qui qualche giorno per riposarmi — scrive al suo Vescovo — poi ritorno in diocesi»19. Mazzolari ed altri giovani sacerdoti erano arrivati all’interventismo «per questo segreto e generoso motivo più che per le ragioni di piazza. Avevano bisogno di camminare e non si chiedevano dove certe strade potessero condurre. Era un guadagno muoversi, marciare contro qualche cosa che impediva di muoversi. Intendevano pulire il terreno da ogni equivoco per arrivare al vangelo più speditamente»20.
Avevano aderito al conflitto spinti dal bisogno di cambiare, ma ritornano dalla guerra con un forte travaglio umano e spirituale e una profonda crisi di coscienza: la guerra per loro era diventata occasione per una più generale riflessione sul significato della vita e della fede. Ma ciò che appare linearmente costruito nella mente, però, Mazzolari ritiene di non 18
Cfr. Diario II, 210. Ibid., 280. Mazzolari in questa lettera rivolta al Vescovo fa trapelare quale fosse il problema che lo inquietava: la scelta del lavoro sacerdotale. Scrive a Mons. Cazzani, vescovo di Cremona, dicendo: «d’altro non saprei cosa chiederLe fuorché un poco di lavoro, qualunque lavoro di ministero e la Sua paterna assistenza. Ho qui però un desiderio e non sarei sincero se Glielo tacessi. Prima della guerra insegnavo un po’ di lettere nelle prime scuole del ginnasio. Cinque anni senza studio, le nuove occupazioni e altre cose mi hanno disamorato da un insegnamento per il quale non ebbi mai molta inclinazione. Dopo questa dichiarazione prendo in mano la mia volontà e ne faccio offerta a Dio perché mi prenda come sono e faccia di me, povero sacerdote, uno strumento della Sua misericordia». 20 Pieve, 39. 19
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riuscire a viverlo nella esistenza quotidiana, tanto da rischiare il fallimento della sua vocazione sacerdotale21. Anche la sofferenza provata davanti all’indegnità mostrata in guerra da alcuni cappellani militari appare a Mazzolari un’esperienza che, «se avremo la capacità di sentirla, ci deve lasciare un’angoscia buona»22, vale a dire la misura della propria piccolezza di fronte all’ideale del ministero sacerdotale. Per «evitare una decadenza ancor più grande» bisogna «accettare pienamente, liberamente, ogni soffio di bontà, di verità, dilatandoci lo spirito in ogni contatto, rafforzandolo in ogni attività, temendo una cosa sola, la menzogna di una vita che non si vive»23. La reazione alle meschinità di certi ambienti ecclesiastici è “l’angoscia buona” che suscita le forze per avviare una seria riforma della Chiesa. Il timore di avere perso Dio è il segno della presenza divina nell’uomo in ricerca. Mazzolari afferma con impeto: «Cristo è in noi: Egli cerca se medesimo in noi che lo cerchiamo. Un po’ della sua vita palpita ancora nella nostra inquietudine. Non lasciamo spegnere questa tremolante scintilla»24. Di fronte al dramma della guerra, le gerarchie ecclesiastiche — che avevano esortato ad aderire alla retorica nazionalista — si dimostrano insensibili e incapaci25. Mazzolari così descrive, nel La Pieve sull’argine, 21 «E tutto questo la mia mente vede con discreta lucidezza e ne parlo e ne scrivo frequentemente, dimenticandomi che, se non mi adopero, scrivo e dico la mia condanna e che un giorno il Signore adopererà me stesso per rimproverarmi»: Diario II, 71. 22 Ibid., 75. 23 Ibid., 84. 24 Ibid., 85-86. 25 Rivolgendosi in modo particolare ai vescovi, in un articolo sulla rivista d’avanguardia «Fede e Vita» del 15 febbraio 1919, diretta da Ugo Janni, Mazzolari prendendo le difese del prete reduce di guerra sostiene che: «autorità non ne ho, né me l’arrogo: ma poiché è giusto che qualcuno pensi a questi giovani che dalla milizia tornano alle proprie cure, ecco ve li addito. Ma, si dirà, c’è l’autorità ecclesiastica che pensa e provvede per essi. È recente un documento della Concistoriale che riguarda appunto i sacerdoti che tornano […] sono sedici articoli, ove di discorre di irregolarità, di dispense, di cautele, di esercizi spirituali […] mi guardo bene dal sollevare una critica. Nulla di più utile che un po’ di riposo e di silenzio per raccogliere lo spirito e guarirlo. Ma – permettete – tutto qui? Basta questo spolveramento […] per rinsaldare degli spiriti su cui, in maniera singolarissima è passata la guerra? […] li avete seguiti questi giovani? […] li conoscete? […] si conosce il tipo, il quale è la deformazione dell’idea. Il tipo lo fabbricano i seminari». Dopo avere descritto le esperienze del prete soldato e il suo contatto con l’uomo, osserva: «e a tali uomini, voi dite: orsù, tornate alle tranquille occupazioni di ieri […] in un primo momento vi seguiranno, ma poi saranno presi da una inquietudine che voi chiamate il male del mondo e sarà vero per qualcuno, ma per molti […] è l’inquietudine dell’apostolato […] gli dissero che là c’era il male, la menzogna, il fallace godimento […] trovò queste brutte cose, ma accanto…scorse inesplorate sorgenti di bene […] sete di verità […] aspirazioni nobilissime […]
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l’incontro che l’amico sacerdote Annibale Carletti (nel romanzo don Lorenzo Ferretti, n.d.a.), profondamente in crisi, ha con il vescovo: «quando arrivò, l’accoglienza dei suoi fu glaciale. Il vescovo gli osservò che non portava la tonsura e che aveva una divisa troppo elegante per un prete. Gliel’avevano data nuova in sostituzione di quella lasciata a brandelli sulle lavine della Vallarsa. Quasi nessuno gli fu largo di cuore: parole contate, complimenti forzati e uno stargli lontano che l’agghiacciava»26. se ne andrà solo, se non l’accompagnate. Egli sa che Cristo non può relegarsi lontano dalla vita e dal soffrire di tanti uomini, che dove è la tempesta delle idee, delle passioni, della libertà, dove si matura l’umanità di oggi e dove si prepara quella di domani, l’apostolo non può mancare. Uomini che vi chiamate con il dolce nome di “padri” […] dategli piuttosto un po’ di fede […] capitelo, cercate di intravedere attraverso le oscurità, le incertezze, le rovine anche, le aurore della Chiesa di domani…non comandategli l’ozio di una giornata vuota: egli è un’anima di libertà e di fatica». L’articolo è firmato A.A. e porta la data del 21 novembre 1918. Si rileggano le prime cinquanta pagine del romanzo La Pieve sull’argine e si ritroverà questo dramma, del prete reduce, nella figura di don Lorenzo: A. BERGAMASCHI, Presenza di Mazzolari, cit., 89-90 e cfr. anche Diario II, 162-165. 26 Pieve, 48. In luglio 1919, mentre don Carletti si trovava a Levico in grave crisi spirituale dopo il ritorno da Roma, dove era stato convocato dal vescovo castrense, don Primo lo raggiunse ed ebbe con lui un patetico colloquio (riportato nel romanzo Pieve, 37-53). Qualche tempo dopo scriveva al vescovo di Cremona, mons. Cazzani: «Eccellenza, Le scrivo di Carletti […] Egli meriterebbe un più valido patrocinatore, il quale a sua volta non avesse bisogno di commendatizie; ma l’amicizia lunga ed immutata ed il dovere di una sincerità senza limiti quando si vuole spassionatamente il bene mi danno la forza di prendere in mano la causa che sta a cuore a V.E. non meno che a me. Quando mi incontrai con lui, egli tornava da Roma, chiamatovi dal vescovo castrense, il quale volle interrogarlo sulle dicerie che da Cremona erano giunte fino lassù. Mi permetta, Eccellenza, di dirle subito che è ben deplorevole il trattamento che in parecchi nostri ambienti si usa verso dei giovani i quali come Carletti lavorarono e soffrirono con tale nobiltà da imporsi al rispetto e all’ammirazione di tutti, conservando nel tempo stesso un’integrità morale e uno spirito cristiano che parecchi denigratori dovrebbero invidiare. […]. Ma, oltre che al suo carattere di fiamma e alle circostanze eccezionali di cui a mente fredda è ben diverso giudicare, non hanno la loro parte in causa l’abbandono in cui fu lasciato fin da principio, la diffidenza e la malcelata ostilità di poi, come se l’aver meritato della patria fosse una colpa o un motivo di sospetto in un sacerdote? […]. E si pretendeva che, osteggiato dai confratelli, preso da difficoltà di ogni genere, in un ambiente e con mansioni delicatissime, con più l’imperto dell’età e dell’indole e la travolgente forza della fama, si pretendeva che egli mantenesse l’equilibrio di un uomo maturo. Eccellenza mi perdoni: io preferisco certe generose stoltezze pedanti, che ruminate vacuità degli uomini che godono fama di saggi. Ebbene, nonostante la calunnia, nonostante le tentazioni squisitissime cui cristianamente resistette, egli ritorna, no, rimane perché la fede, perché la sua vita non l’hanno fatto indegno, in quattro anni di guerra, di un apostolo che mai un istante obliò. Con quanta maggiore effusione gli avrei buttato le braccia al collo se m’avesse soccorso la certezza che tra noi egli troverà quel largo fraterno comprendimento, di cui tutti si ha bisogno, in special modo chi esce da certe prove! […] Tale press’a poco mi sembra la condizione di Carletti, la cui mente non sa tradurre convenientemente un sentimento religioso ottimo per fede, sincerità, rettitudine, sacrificio. […] Eccellenza, mi rivolgo a Lei che ha per ufficio nella Chiesa una missione paterna. Allarghi il cuore senza timore […]. La mitighi la sua bontà. Facendolo io stesso, dovrei soffocare un impeto irresistibile di sincerità che forse è un poco stoltezza. Ma Dio non
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Don Stefano Bolli (lo pseudonimo di don Mazzolari nel romanzo La pieve sull’argine) incalza la Chiesa per le sue responsabilità nel conflitto, per aver legittimato, con le teorie della guerra giusta e con la sua storia fatta di interessi temporali e di battaglie, l’impegno dei cattolici nel conflitto. Afferma don Bolli: «Se invece di dirci che ci sono guerre giuste e guerre ingiuste i nostri teologi ci avessero insegnato che non si deve ammazzare per nessuna ragione, che la strage è inutile sempre, e ci avessero formati ad una opposizione cristiana chiara, precisa e audace, invece di partire per il fronte saremmo discesi sulle piazze. E noi, in buona fede, abbiamo creduto che bisognava finirla una buona volta coi prepotenti d’ogni risma, e siamo partiti come per una crociata. Perché a noi non importava né Trento né Trieste, né questa né quella revisione di confini; a noi importava fare il punto, chiudere una sedicente civiltà cristiana e preparare una svolta umana nella storia»27.
La guerra ha fatto emergere non soltanto la crisi di numerosi preti, che non sono riusciti a reggere l’urto di quella tragica esperienza (come l’amico di don Mazzolari: don Annibale Carletti), ma anche la crisi dell’ideale sacerdotale, così come designato dal magistero. Il sacerdote tornato dalla guerra, dopo un primo momento di riposo, è assalito dall’inquietudine maturata durante il conflitto quando «nel suo cuore incandescente (le pietre si fondevano sotto il cannone) dovettero confluire le confidenze più tenere, i segreti più reconditi, le ambasce più nere, lo spasimo, l’angoscia, le lacerazioni di una umanità, vicina, ora, con la quale egli viveva, agiva, soffriva, si confondeva […]: molti per la prima volta vedevano l’uomo»28.
Per questo motivo il cappellano tornato dal fronte sente crescere dentro di sé «l’inquietudine di apostolo. Il piccolo mondo spirituale di ieri si serve talvolta pure della bocca degli stolti? Anche se l’ho demeritato del tutto con questo scritto, mi voglia, Eccellenza, benedire e perdonare. In Cristo sempre obbediente e devoto»: Obbedientissimo, 45-47. 27 Pieve, 66. Mazzolari, sempre nel suo romanzo La Pieve sull’argine, riporta la critica asprissima di don Lorenzo (Annibale Carletti): «la Chiesa esce male dalla guerra. Non ha capito né i diritti dei popoli, né le voci di ingiustizia per cui abbiamo combattuto e sofferto. Ancora una volta ha perduto un’occasione di prendere l’anima delle masse. Ma avrebbe dovuto rinunciare ai suoi fini particolari in contrasto con l’universalità della sua missione. La Chiesa, invece, ha troppa paura di ciò che si muove fuori dalle sue regole; ha paura soprattutto di perdere la direzione della storia, l’unica cosa che conti per chi ha la missione di salvare il mondo»: ibid., 47. 28 Diario II, 163.
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non basta al sacerdote che ritorna dalla guerra. Chi vede una volta soltanto il campo che sta oltre la minuscola cinta non lo può scordare: è il campo dell’apostolo»29. Quella che è «la vera crisi del sacerdote, e che fu il suo buon odore in guerra e dopo […]. Quello svegliarsi dinnanzi a esperienze comuni»30 non sembra interessare nessuno, soprattutto tra coloro che hanno maggiori responsabilità nella Chiesa. Eppure, per Mazzolari, si tratta di un passo necessario che «questo giovane che la guerra ci ha restituito stanco, irriconoscibile» ha già compiuto31. Mazzolari vive intensamente tali contraddizioni e tenta, quasi con disperazione, di trovare un filo cui aggrappare la propria vita spirituale. Nell’aprile 1920, durante gli ultimi mesi di permanenza nell’alta Slesia al seguito del contingente militare italiano, annota nel Diario come una «strana malinconia» lo abbia preso, forse il «segno della trascuratezza spirituale, cui vado, da qualche tempo, abbandonandomi»32. Ritornare alle radici della propria vocazione sacerdotale e trovare nuovi elementi per sostenerla sono i rimedi ritenuti necessari per superare quella stanchezza interiore: tornare indietro per andare avanti, questo sembra proporre Mazzolari di fronte al proprio travaglio personale che riflette la crisi di un’intera generazione di preti. Don Mazzolari si sforza di contemplare: 29
Ibid., 164. Ibid., 240. 31 «Se ne andrà solo, se non lo accompagnate; inerme se non gli prestate almeno il bastone del pellegrinaggio; debole se non gli porgete la mano; mesto, se non gli sorridete benedicendolo. Ma andrà; è fatale che egli vada. Egli sa che Cristo non può relegarsi lontano dalla vita e dal soffrire di tanti uomini: che dove è la tempesta delle idee, delle passioni, della libertà, dove si matura l’umanità di oggi e dove si prepara quella di domani, l’apostolo non può mancare»: ibid., 164. 32 Ibid., 268. Mazzolari non è l’unico a vivere questo difficile travaglio. In quegli anni stava scoppiando all’interno della Chiesa un vero e proprio “caso” del prete reduce. La Santa Sede, tramite la Congregazione Concistoriale, per far fronte al problema della crisi di vocazione degli ecclesiastici militari aveva pubblicato il 25 ottobre del 1918 il decreto De clericis et militia redeuntibus, stabilendo le norme di riammissione dei reduci nei loro incarichi diocesani: verifica delle condizioni spirituali, presentazione di un “testimoniale” degli uffici castrensi e un corso di esercizi spirituali. Particolare risalto aveva avuto, nel contesto italiano, l’abbandono del ministero da parte di don Annibale Carletti, amico e condiocesano di don Primo Mazzolari, pluridecorato in guerra ma incompreso presso i suoi superiori. La diffidenza generale dell’autorità ecclesiastica non aiutava di certo il reinserimento di chi aveva vissuto in prima persona le drammatiche vicende belliche. Cfr. R. MOROZZO DELLA ROCCA, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (19151919), Roma 1980, 162-172. Il dato riportato circa lo stato di crisi presbiterale è significativo: 350 sacerdoti soldati sono sospesi a divinis con le motivazioni le più disparate. I provvedimenti disciplinari arrivano dopo anni di abbandono e isolamento dei chierici militari da parte delle autorità ecclesiastiche locali. 30
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«quello che fu il mistero, ora gioioso più spesso doloroso, della nostra iniziazione sacerdotale, manifestantesi nella irrequietudine dell’animo, nelle inesplicabili tristezze, nelle rivolte della intelligenza e nell’adesione piena del sentimento […]. La mia fede nasce lì e lì vive in quel primo nostro innamoramento […] in cui Cristo con il suo Vangelo è tutto e dove tutte le rimanenti cose, sia che armonizzino o no, sono ben poco»33.
Queste considerazioni, scritte nella lettera inviata molto probabilmente ad Annibale Carletti nella primavera del 1920, lo portano a costatare: «gli anni di guerra, che per me durano, mi hanno confermato la fede in Cristo. Mi sento più saldo oggi di cinque anni fa e nell’oscuramento di ogni idea e di ogni passione buona, l’unica luce ch’io scorga tuttora accesa è Cristo». Il passaggio attraverso l’esperienza della guerra ha confermato don Primo nella fede che, sfrondata, spogliata di ingombranti orpelli, ridotta all’essenziale, quasi scarnificata, si concentra su Cristo: le «uniche braccia ancora aperte per un divino conforto sono quelle di Cristo in Croce»34 e sulla strada di quell’incontro Mazzolari intende camminare. Egli, in altri termini, ha raggiunto il suo equilibrio personale sacerdotale perché risalendo alla sua coscienza ha scoperto, come lui stesso afferma, che: «La mia fede nasce lì e lì vive in quel primo nostro innamoramento […] in cui Cristo con il suo Vangelo è tutto e dove tutte le rimanenti cose, sia che armonizzino o no, sono ben poco»35. Egli trova in Cristo e nel Vangelo, che per lui coincide con l’ufficio pastorale, la forza di attrazione che alimenta e sostiene quella voluptas animi che alberga in ogni cuore umano. Il servizio pastorale, in Mazzolari, ha una capacità di attrazione, un ascendente tale da far scaturire in lui “l’inquietudine dell’apostolo”. La guerra è stata, per lui, l’occasione per scoprire l’uomo nella sua realtà più profonda e per fare spazio dentro di sé all’altro che rimane tale senza confusione. La prospettiva del ministero sacerdotale in Mazzolari assumerà, pian piano, questa prerogativa fondamentale: quella di trovare nella propria esperienza di fede la capacità dell’apertura, dell’accoglienza, verificando quindi, in misura ancora maggiore di quella possibile in un sistema chiuso (quale la Chiesa del tempo in cui vive), la capacità della verità cristiana di illuminare il mondo, di orientarlo verso la pienezza, di stabilire la pace. 33
Diario II, 242 (15 aprile 1920). Ibid., 242. 35 L.c. 34
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L’orientamento di Mazzolari, dunque, rivela una sua originalità: il contatto quotidiano con i soldati raffina in lui una sensibilità nei confronti degli ultimi e dei poveri, al contrario di molti che sono spinti a sacralizzare i valori patriottici per cui hanno rischiato la vita, trovando successivamente nel nazionalismo fascista quasi un naturale punto di approdo. L’azione caritativa e l’esigenza della testimonianza sostengono l’apostolato di don Primo: lo stile è quello di chi si lascia interrogare dalla vita in modo costruttivo maturando ulteriormente la propria vocazione. La crisi da don Primo è affrontata non passivamente ma secondo l’inquietudine propria del suo temperamento. Quella che per la gerarchia rappresenta una questione puramente disciplinare e di fedeltà morale, per il sacerdote cremonese è un problema di coscienza: la guerra non lascia nulla come prima. Cambia lo sguardo sulla realtà, il modo di rapportarsi con l’umanità, la comprensione della stessa guerra, il senso del riferimento al Vangelo: «Il piccolo mondo spirituale di ieri non basta al sacerdote che ritorna dalla guerra. Chi vede una volta soltanto il campo che sta oltre la minuscola cinta non lo può scordare: è il campo dell’apostolo. Gli dissero che di là c’era il male, la menzogna, il fallace godimento, la morte. Egli trovò queste brutte cose; ma accanto al male scorse inesplose sorgenti di bene, accanto alla menzogna una sete, una sete di verità, accanto alle insane passioni delle aspirazioni nobilissime, nella morte degli indelebili segni di una vita che doveva essere di Dio, e in ogni uomo un fratello, e in ogni fratello Cristo […] (l’apostolo-reduce) sa che Cristo non può relegarsi lontano dalla vita e dal soffrire di tanti uomini che dove è la tempesta delle idee, delle passioni, della libertà, dove si matura l’umanità di oggi e dove si prepara quella di domani, l’apostolo non può mancare»36.
Innamorato di Cristo e appassionato alla causa dell’uomo, in continuo riferimento al Vangelo e nella costante attenzione all’uomo, Mazzolari vive e propone la visione di un sacerdozio ministeriale che supera la divisione, la dicotomia tra la vita spirituale e il ministero pastorale perché opera una “sutura” interiore alla coscienza del sacerdote: il servizio pastorale, che per Mazzolari è quello del prete tridentino in cura d’anime37, non è una realtà alternativa alla dimensione spirituale e umana del prete, ma na36
Diario II, 163-164. Mazzolari si colloca nel contesto teologico ed ecclesiale dell’epoca, ossia dentro un fondamentale modello tridentino. Il parroco, nella descrizione tridentina del prete, è invitato, oltre che a conoscere le proprie pecore e a offrire per esse il sacrificio, anche a pascerle con la predicazione della parola divina, l’amministrazione dei sacramenti e l’esempio di ogni opera buona e ad avere cura paterna per i poveri e per gli altri bisognosi: cfr. 37
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sce, si alimenta, adempie e concretizza in quel desiderio esistenziale, quel diletto interiore che è la sorgente ultima dell’equilibrio del presbitero.
3. La Chiesa italiana e il Fascismo Mentre in Francia Pio XI si mostrava inflessibile contro un movimento totalitario quale l’Actione Française e in Messico appoggiava e incitava alla resistenza contro il laicismo anticlericale, in Italia assumeva un atteggiamento di cauto ottimismo nei confronti del Fascismo, che prometteva di riaprire un dialogo serio e costruttivo con la Chiesa italiana e si presentava come la salvaguardia dell’ordine costituito38. Dopo la clamorosa manifestazione di forza nelle elezioni del 1919 e 1921, il Partito Popolare, diretto da don Luigi Sturzo, indebolito dalla mancanza di coesione interna, sempre più isolato dal Vaticano (per Pio XI il Partito Popolare costituiva un grosso ostacolo alla soluzione, ormai presumibilmente matura, della Questione Romana), costretto a non formare un governo insieme con i socialisti, fu praticamente privato della possibilità di un’opposizione efficace. Dal canto suo Mussolini sentiva che, per l’ascesa al potere il vero avversario politico era il Partito Popolare. Perciò da una parte cercava in ogni modo di svuotare la funzione rappresentativa da esso svolta agli occhi dell’elettorato cattolico, dall’altra si presentava come l’uomo capace di risolvere i problemi allora aperti, secondo quanto affermava pubblicamente al congresso fascista del 7 novembre 1921, in cui egli prometteva: «piena libertà alla Chiesa cattolica nell’esercizio del suo ministero spirituale; soluzione del dissidio con la Santa Sede»39. Il succedersi degli avvenimenti confermò l’abilità politica di Mussolini che non perdeva occasione per screditare la funzione del Partito Popolare e, contemporaneamente, associare alla propria causa gli interessi temporali e storici della Chiesa. Egli parlava al mondo cattolico, collocandosi all’interno degli interes-
S. XERES, Il prete e la sua missione nella visione di don Mazzolari, in M. GUASCO – S. RASELLO (curr.), Mazzolari e la spiritualità del prete diocesano, Brescia 2004, 102. 38 Cfr. G. MARTINA, Storia della Chiesa, cit., 158. 39 G. PENCO, Storia della Chiesa in Italia. Dal Concilio di Trento ai nostri giorni, II, Milano 1978, 515.
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si delle gerarchie ecclesiastiche, sfruttandone il loro risentimento antiprogressista40. Così nel 1923 la S. Sede persuase il segretario del Partito Popolare, don Sturzo, a dimettersi dalla sua carica e, alla fine del 1924, gli “consigliò” di lasciare l’Italia, considerando il suo allontanamento un sacrificio necessario per la pace religiosa del Paese41. Il 9 novembre del 1926 il prefetto di Roma decretava lo scioglimento del Partito Popolare e De Gasperi, segretario del Partito, veniva arrestato e incarcerato. Il Fascismo si presentava come un regime che, pur tra le intemperanze dei singoli, intendeva garantire il rispetto delle tradizioni religiose nella loro specifica forma cattolica. Nonostante la sua carica di violenza e una concezione della vita inconciliabile con il Cristianesimo, il Fascismo tentò ben presto di blandire la Chiesa attenuando i residui dell’anticlericalesimo, ostentando un certo ossequio formale alle manifestazioni religiose, assumendo un atteggiamento profondamente diverso dal vecchio regime liberale. Nel discorso alla Camera del 21 giugno 1921 Mussolini riconosce la missione universale di Roma come centro della cristianità. Ma era una mossa ben congegnata per ridurre la religione ad instrumentum regni. Appena salito al potere, il Fascismo cercò di assumere un atteggiamento di ossequio verso la Chiesa, riportando il crocifisso nelle scuole, assicurando il risarcimento alle chiese danneggiate dalla guerra, riconoscendo ufficialmente la fondazione dell’Universalità Cattolica. Nel 1923, con decreto del 1 ottobre, lo studio della religione veniva reso obbligatorio per le scuole elementari, quale “fondamento e coronamento” dell’insegnamento in esse impartito. Per arrivare alla Conciliazione tra Stato e Chiesa e, quindi, alla risoluzione della Questione romana, si lavorò segretamente per due anni e mezzo (5 agosto 1926 –10 febbraio 1929), anche se non con continuità. Le due parti, già all’apertura delle pretrattative ufficiose, avevano discusso le loro richieste minime ed avevano raggiunto un accordo sui punti sostanziali: anche la condizione di Mussolini, che la Santa Sede riconoscesse come definitiva la composizione della questione romana accettando così il 1870, era stata accolta dal Papa. A sua volta l’Italia aveva ricono40 41
Ibid., 515. Cfr. G. MARTINA, Storia della Chiesa, cit., 159.
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sciuto al Vaticano assoluta sovranità, anche se l’importante denominazione di “stato” fu concessa soltanto il 22 gennaio 1929. L’Italia aveva ammesso in sostanza i suoi debiti nei confronti della Santa Sede42. Ma molti ostacoli dovettero essere prima superati. Per due volte, all’inizio del 1927 e nell’aprile del 1928, in seguito alle pretese monopolistiche del Fascismo sull’educazione giovanile (si chiedeva chiaramente lo scioglimento di ogni organizzazione di educazione fisica, morale e spirituale dei giovani che non facesse capo all’opera Balilla), il papa, che in segno di buona volontà, e per evitare il peggio aveva già soppresso di sua iniziativa gli Esploratori, si vide costretto a interrompere le trattative, affidate, in rappresentanza della S. Sede, al Pacelli. Mussolini dovette arrendersi e modificare il senso e la portata della sua pretesa43. Le ultime difficoltà e i moltissimi problemi di dettaglio furono composti nel gennaio e nel febbraio del 1929. Riguardo alle questioni relative alla scuola, l’Italia aveva contrapposto (22 febbraio 1927) un proprio programma di minima a un programma di massima vaticano (abbozzo di Concordato del 5 dicembre 1926). Il compromesso conclusivo portò certamente a una conferma molto solenne dei principi della Chiesa, ma anche a conseguenze molto limitate. In realtà non ci si era accordati sulla sostanza. In modo analogo, anche se più favorevole al Vaticano, si raggiunse un accordo di massima sul diritto matrimoniale; ma quando il ministro della giustizia italiano affermò che, con l’assunzione da parte dell’Italia delle norme di diritto canonico in materia matrimoniale, il diritto civile italiano sarebbe stato capovolto (sovvertimento delle norme), il papa, il 20 gennaio, dichiarò che qualunque concessione sulla sostanza di questo punto sarebbe stata impensabile e avrebbe affossato lo stesso processo di Conciliazione. Del resto le concessioni accordate a Mussolini qualche giorno prima (14 gennaio) e, cioè, la riduzione da 2 a 1,75 miliardi di lire della somma con cui lo Stato italiano intendeva risarcire il Vaticano e più favorevoli condizioni di pagamento, gli consentivano un atteggiamento estremamente deciso, che alla fine si dimostrò vincente44.
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Cfr. K. REPGEN, La politica estera dei papi nel periodo delle guerre mondiali, in H. JE(cur.), La Chiesa nel ventesimo secolo (1914-1975), X/1, Milano 1980, 52-64: 57. 43 Cfr. G. MARTINA, Storia della Chiesa, cit., 159-160. 44 Cfr. K. REPGEN, La politica estera dei papi nel periodo delle guerre mondiali, cit., 57-
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I Patti Lateranensi, firmati l’11 febbraio 1929 alle ore 12 nel Palazzo del Laterano «da Sua Eminenza […] il signor Cardinale Pietro Gasparri […] e Sua Eccellenza il Signor Cavaliere Benito Mussolini»45, sono costituiti da un Trattato e un Concordato. Il Trattato riconosce il nuovo stato della Città del Vaticano e dichiara conclusa la questione romana. Inoltre, afferma che la Religione cattolica è l’unica religione dello Stato italiano; stabilisce speciali prerogative giuridiche per organi e persone attinenti al supremo governo della Chiesa; accorda alle sentenze ecclesiastiche l’efficacia giuridica anche per lo Stato italiano; garantisce alla S. Sede il diritto di legazione attiva e passiva, la libertà nei conclavi e nei concili; liquida il credito della S. Sede verso l’Italia mediante il versamento di un miliardo in titoli di stato e di 750 milioni di lire in contanti. Il Concordato assicura alla Chiesa il libero esercizio del potere spirituale, del culto, della giurisdizione ecclesiastica, accordando agli ecclesiastici speciali privilegi (esonero dalla leva militare e speciale trattamento penale) e un certo appoggio giuridico ai vescovi nei confronti degli ecclesiastici da loro dipendenti (lo stato s’impegna a impedire agli ecclesiastici scomunicati di assumere o conservare insegnamenti o uffici o impegni pubblici). Inoltre il Concordato riordina a favore della Chiesa la questione della proprietà ecclesiastica, il sostentamento del clero e riconosce personalità giuridica alle associazioni religiose, con o senza voti; dichiara la libera nomina dei vescovi previa comunicazione dei nomi allo stato; riconosce gli effetti civili del matrimonio religioso e delle sentenze di nullità emesse dai tribunali ecclesiastici; estende alle scuole secondarie l’insegnamento della religione cattolica; limita l’attività dell’azione cattolica e degli ecclesiastici nel campo politico46. Il Fascismo, tuttavia, non poteva rinnegare la propria natura violenta e aggressiva, che si manifestava anche in offese, a livello locale, a persone ed istituzioni. Il 23 agosto del 1923 i fascisti uccidevano il sacerdote don Giovanni Minzoni, arciprete di Argenta (Emilia), assai stimato nel campo delle iniziative pastorali, in seguito alle sue proteste per l’uccisione di un capolega comunista47. Motivo di scontro con il Regime fu anche la ri-
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Cfr. G. MARTINA, Storia della Chiesa, cit., 161. Cfr. Ibid., 161-162. 47 Cfr. L. BEDESCHI, Don Minzoni, il prete ucciso dai fascisti, Milano 1973; cfr. L. LOTTI, Don Minzoni, in Studi romagnoli, 19 (1968) 185-194. 46
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chiesta di alcuni ecclesiastici di celebrare Messe al campo non solo per il 28 ottobre, ma anche per il 4 novembre del 1923. La posizione assunta dai cattolici nei confronti del Fascismo fu assai varia, andando da un netto rifiuto della corrente più a sinistra o di quegli elementi che avevano militato nel partito Popolare a un’adesione incondizionata di uomini appartenenti all’Unione Nazionale. Di fatto, uno scontro totale tra Chiesa italiana e Fascismo non si verificò mai, dato anche che nei due campi esisteva una pluralità di aspetti e di elementi interessati al mantenimento di una reciproca collaborazione o almeno di convivenza. Ma le tensioni furono frequenti e anche gravi. Ne ricordiamo, in particolare, due: la prima, risalente al 1931, causata dalle minacce contro l’Azione cattolica e, la seconda, del periodo 1938-39, generata dalle prime applicazioni delle leggi razziali che, a prescindere da altri aspetti, violavano uno dei punti del concordato. Con l’enciclica Non abbiamo bisogno del 29 giugno 1931, Pio XI esprimeva la gratitudine alla gerarchia e al clero per la solidarietà mostrata in quei mesi, confutava le accuse lanciate dalla stampa e criticava la concezione totalitaria dello Stato, ribadendo i diritti naturali della famiglia e quelli soprannaturali della Chiesa sull’educazione. Non si trattava di una condanna diretta del Fascismo, ma erano chiaramente indicati come incompatibili con la dottrina cattolica alcuni capisaldi del sistema dittatoriale. Le due parti, il Vaticano e il Regime fascista, stettero a guardarsi e a controllarsi vicendevolmente. La linea vaticana fu quella della prudenza. Mediante una serie di compromessi si giunse all’accordo, che salvava l’esistenza dei circoli di Azione cattolica, sia pure limitandone l’attività al campo puramente religioso e rinunziando a una direzione centralizzata a carattere nazionale48. Si continuò a collaborare, nonostante una reciproca diffidenza. Durante la guerra colonizzatrice dell’Abissinia (1935-1936) e la guerra di Spagna (1936-1939) l’episcopato italiano fu largamente coinvolto nell’entusiasmo che, in misura molto forte, si era diffuso nel popolo italiano. Il regime si presentava come antesignano della religione cattolica rispettivamente nei confronti di popoli primitivi e del comunismo bolscevico. Ma la S. Sede si mantenne più distaccata e, in quegli anni, il pontefice Pio XI stigmatizzò come ingiusta una guerra di conquista. 48
Cfr. G. MARTINA, Storia della Chiesa, cit., 168; cfr. K. REPGEN, La politica estera dei papi nel periodo delle guerre mondiali, cit., 62-64; cfr. G. PENCO, Storia della Chiesa in Italia, cit., 531-533.
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Ancor prima della marcia su Roma (28 ottobre 1922) Mazzolari manifestò la sua opposizione al Fascismo. L’avversione a questo regime nasceva dal fatto che il Fascismo, traendo le sue basi ideologiche dal nazionalismo, si faceva portatore di una volontà di potenza e di uno stile di violenza, che un credente non poteva non rifiutare. Mazzolari si dimostrò non disponibile a cedimenti sul piano etico e religioso. Per lui, più importanti non erano gli “interessi” della Chiesa, ma il rispetto dell’uomo: non vi era da attendersi alcun beneficio per la fede là dove erano calpestati i diritti della persona49. Proprio per questo i fascisti avvertirono che la posizione di Mazzolari, non disponibile ad alcun cedimento, si sarebbe fatta irriducibile, e misero in atto le loro minacce: «la diffidiamo a voler immediatamente cessare la sua propaganda corruttiva e diffamatoria fra coloro che, pur essendo cristiani devoti sono anche italiani di sentimento, in danno del fascismo e dell’Italia. Al contrario saremo costretti ad agire prontamente con mezzi molto persuasivi ed efficaci»50.
Scrivendo ad Astori, un mese dopo la marcia su Roma, Mazzolari manifestava l’intima sofferenza per gli eventi contemporanei: «Degli avvenimenti ti dico solo che ho un’amarezza invincibile in fondo al cuore. Noi cristiani siamo stati sconfitti. Il paganesimo ritorna e ci fa la carezza e pochi ne sentono vergogna. Se non fossi cristiano mi farei carbonaro per ridare alla patria la libertà; così prego e soffro nella certezza che lo Spirito Santo ritroverà presto le sue vie d’amore»51.
Da quel momento la vigilanza fascista sul suo operato divenne più pesante: nello stesso tempo egli dovette costatare l’involuzione spirituale di una “cristianità dimissionaria”. Nel gennaio del 1925, dopo che alcuni suoi parrocchiani erano stati bastonati dagli squadroni fascisti, scrisse all’amica De Biani: «lei immagina cosa ho sofferto e cosa soffra tutt’ora, anche per comprimere la rivolta che nell’animo spaventosamente mi ribolle contro le ingiustizie infami 49
Cfr. G. CAMPANINI, Don Primo Mazzolari fra religione e politica, Bologna 1989, 8-9. Diario II, 363 nota 14. Mazzolari rispose indirettamente, protestando presso le autorità del direttorio di Viadana per le imprese punitive di fascisti compiute nel territorio della sua parrocchia: cfr. C. BELLÒ, Primo Mazzolari. Biografia e documenti, cit., 65. 51 Diario II. 50
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di quest’ora di tenebre. Non è che non senta la pietà anche verso coloro che sono degli incoscienti esecutori di ordini malvagi […] ma io mi chiedo se proprio nessuno deve alzare la voce di condanna, se il sacerdote, che è il protettore nato degli oppressi, può star pago di soffrire interiormente e di pregare. Il dubbio, per conto mio, io l’ho risolto: io sento il dovere di dichiararmi apertamente a favore degli oppressi e di mettere la mia povera vita per loro»52.
Aggiunse, poi, di «tremare per Donati e per gli altri amici nostri più bravi»53, mostrando di seguire con attenzione l’opera di opposizione al regime che il coraggioso direttore de “Il Popolo” conduceva, abbandonato come il Partito Popolare dalle gerarchie cattoliche e presto costretto a lasciare l’Italia (insieme a Sturzo e a Francesco Luigi Ferrari)54. Nel giugno del 1924, dopo la notizia dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, Mazzolari appuntava sul suo Diario: «forse il martirio di Matteotti non basta ancora a colmare il baratro scavato da una rivoluzione che sarebbe una farsa se non avesse dei bagliori tragici […] il socialismo imbestialiva le masse: costoro rendono belve anche i più miti»55. Mazzolari, dunque, visse in questi anni un drammatico dissidio tra indignazione e costrizione, tra desiderio di resistere apertamente alla nascente dittatura e obbligati silenzi. L’esito di tale disposizione interiore fu una predicazione e una impostazione pastorale che lo fecero identificare ben presto dai pubblici poteri come un sacerdote pericoloso, dotato di autonomia di pensiero e di azione inusuale e non tollerabile. Le sue posizioni e il suo stile, evidenziati sia a Cicognara che a Bozzolo (dove sarà parroco dal 1932 fino alla morte), gli guadagnarono reiterate minacce, intimidazioni e numerose inchieste. Mazzolari mise in atto le strategie di opposizione che gli apparvero possibili in quegli anni, attraverso gesti e discorsi apparentemente neutrali e che denotavano invece cultura e valori assai diversi da quelli dominanti. Fu il caso di un discorso del 12 luglio 1925, tenuto in occasione della benedizione della bandiera della Sezione 52
Diario II, 491. L.c. 54 Fin dal 16 novembre 1922 il sacerdote cremonese denunciava in un articolo apparso su “Democrazia Cristiana”, il mensile bolognese della residua pattuglia dei democratici autonomi, l’accordo dei popolari milanesi con i fascisti, che rifletteva una prima collaborazione a livello nazionale del partito sturziano con il ministero Mussolini: cfr. M. MARAVIGNA, Primo Mazzolari nella storia del novecento, Roma 2000, 24; cfr. Obbedientissimo, 56-58. 55 Diario II, 496. 53
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combattenti di Cogozzo. In quella manifestazione don Primo denunciò miti e concetti fascisti come «l’esaltazione pagana della guerra» e lo «spirito settario e partigiano, il quale pretende di monopolizzare, di restringere a pochi, a una classe eletta, l’onore e il dovere di essere italiani»56. Parole che costituivano una sorta di pedagogia religiosa e civile che ebbe i suoi risultati, se è vero, com’è vero, che Mazzolari venne individuato ben presto come «uno dei maggiori ostacoli nella zona per la fascistizzazione della popolazione»57. Nella parrocchia di Cicognara (e poi successivamente in quella di Bozzolo), dunque, le cose andarono diversamente da come, per la collusione tra gerarchia cattolica e fascismo, avvenne nel resto d’Italia. E «anche se la personale oasi di libertà era un lembo insignificante di spiaggia, egli non volle compromissioni»58. Ma sentiva con estrema amarezza gli accomodamenti dei confratelli al crescere del regime. Gli episodi più salienti si riferiscono ai tre falliti attentati al capo del governo, duce del partito nazionale fascista, cui si vollero far corrispondere tre pubblici Te Deum di ringraziamento a Dio per lo scampato pericolo. Mazzolari seguì tiepidamente le disposizioni ecclesiastiche, cantando i Te Deum contro ogni forma di violenza l’8 novembre 1925, il 12 aprile del 1926 e il 4 novembre del 1926. Uno scontro avvenne in occasione del primo attentato, quando i gerarchi pretesero una funzione a “carattere religioso politico” «perché loro non volevano confondersi con la solita gente che frequenta la chiesa alla domenica»59. Nonostante le minacce, Mazzolari rispose che non poteva accettare le loro ragioni. L’adunata fu indetta lunedì 9 novembre su iniziativa del fascio locale. Quando i capi avvertirono il parroco che tutti erano in Chiesa, questi si mosse per congedarli e parlò per cinque minuti, concludendo con la recita del Padre nostro. Tale atteggiamento fece parte di una denuncia per antifascismo e fu argomento di un interrogato-
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Diario II, 502. Obbedientissimo, 64. Successivamente anche i discorsi in occasione del 4 novembre suscitarono le ire delle autorità fasciste. 58 C. BELLÒ, Primo Mazzolari. Biografia e documenti, cit., 66. 59 Diario II, 538. Il diario di don Primo Mazzolari riferisce minuziosamente la vicenda accaduta. Questa cronaca fu poi trascritta in una lettera che Mazzolari indirizzerà al suo vescovo in data 11 novembre 1925 per avere un giudizio sulla condotta tenuta: vd. Obbedientissimo, 58-63. 57
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rio presso la prefettura di Mantova l’1 febbraio 1926, che si concluse senza danno60. Le occasioni per evidenziare le proprie opinioni non mancarono, neppure quando si diffuse la notizia della Conciliazione, che provocò gaudiose speranze nel mondo ecclesiastico, favorevolmente sorpreso dall’evento di pacificazione. Ad Astori, che gli aveva espresso con ingenuità la sua felicità, Mazzolari confidò senza riserve di non poter condividere la sua gioia per l’accordo con un regime che aveva già dimostrato di essere assolutista e reazionario: «[…] io non posso dimenticare le lezioni della storia: dai poteri assolutisti e reazionari la Chiesa non ha mai guadagnato che umiliazioni, restrizioni di libertà e…corresponsabilità tremende davanti ai popoli stanchi e avviliti. Se questo nel passato, tanto più oggi, con l’istinto di libertà che abbiamo tutti nel sangue, con una popolazione che non è cristiana e quindi incapace di sostenere una novità di tanta importanza (parlo del Concordato), con di fronte un regime di spirito anticristiano […]»61.
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È il primo aperto contrasto tra il parroco e gli scherani fascisti. Del fatto vengono investiti il Prefetto, il Regio Procuratore e il Ministro dell’Interno. Si apre un’inchiesta. Don Primo viene convocato e interrogato negli uffici della Procura di Mantova. Il buon senso del procuratore di Mantova, sensibile alle reazioni popolari e il deciso intervento del Vescovo di Cremona, mons. Giovanni Cazzani, in difesa del “suo” sacerdote, portano all’archiviazione del procedimento: per i documenti di accusa cfr. S. ALBERTINI, Don Primo Mazzolari e il fascismo 1921-1943, Mantova 1988, 79ss.; per la difesa del Vescovo Cazzani cfr. Obbedientissimo, 65-66. Sui due successivi Te Deum cfr. Diario II, 558-559 e 598-599. 61 Vita, 113-114. Nel diario Mazzolari espresse il suo parere sul Concordato e la soluzione della Questione romana, egli scrisse: «il risolvimento della Questione romana mi ha dato commozione e piacere, più per il passato che per il domani: più per lo spirito che la Chiesa vi ha dimostrato che per il giovamento che ne verrà alla Chiesa. Guardando al mondo delle anime e non a quello della politica, avevo l’impressione che il problema, oggi, non era più né angoscioso e né impediente. La libertà della Chiesa non è provvidenzialmente legata a nessuna garanzia di trattati e territori: essa è nelle anime, che lo Spirito può rendere e rende invincibili quando è l’ora, contro qualsiasi strapotere umano […] davanti al Concordato, come uomo che pensa, non come cristiano che crede e obbedisce, mi trovo perplesso e […] spaventato. A me fa paura ogni ingerenza dello Stato nella Chiesa, anche se compensata da favori eccezionali, che la coscienza non abbastanza religiosa del popolo, né capisce, né giustifica, né sostiene: mi fa paura ogni confusione dello spirituale e del temporale, perché conosco troppo bene la nostra acquiescenza e l’invadenza degli altri. I quali, non bisogna dimenticarlo, sono un regime anticristiano, senza libertà per nessuno, malvoluti dalla maggioranza. Dalle tirannie la Chiesa non ebbe mai incremento, ma insidiosi e fatali favori. Senza le libertà fondamentali anche la Chiesa non può né vivere né prosperare, per quanto posto le facciano. Ho il presentimento che un’odiosa antipatia sta per riversarsi sulla Chiesa, molto più che noi, preti e vescovi, non siamo per tante ragioni all’altezza dell’ora, cioè capaci di portare una persecuzione, che invece di colpire “palpa e blandisce”»: Diario III/A, 261-262.
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Successivamente, sempre all’amico cremonese Astori, scrisse: «l’animo del nostro (mons. Bonomelli) si alzerebbe sdegnato più e con più buon diritto che non sappiamo farlo noi piccoli uomini. Ho l’animo angosciato, senza voglia di dire né di scrivere. Sto delle ore lungo il Po, incapace d’altro se non di sognare dietro l’acque e la primavera. Dove sboccheremo? È fatale: “ci sposeremo” anche senza volerci bene, sapendo che non ci vogliamo bene, per separarci quanto prima. Mandami, se l’hai, la pastorale del 190562, quella della libertà. Voglio vedere la vera faccia di lui, il domani fatale e provvidenziale»63.
Il 13 giugno 1929 Mazzolari inviò un’altra lettera all’amico sacerdote, nella quale sostenne: «cosa penso? Più niente, fuorchè Ludit Deus in orbe terrarum. La vera politica, per nostra fortuna si fa lassù, non da noi piccoli mortali, che più ci crediamo facitori di storia più diventiamo ridicoli. Il Papa: sta bene […] ma quello sterminato gregge prelatizio o meno che ha belato arcadicamente per tanti mesi verso l’idolo non ha trovato un accento di deplorazione. Lasciamelo dire, anche se è una bestemmia contro la […] carità (non però contro la verità): siamo una masnada di eunuchi. Per questo lui ci schiaffeggia e ci tratta da pretoriani […] da cucina. E la platea […] ride»64.
Ed ancora, il 12 luglio del 1929, in un’ulteriore lettera allo stesso amico, affermò: «l’idillio è un sogno: la giornata della Chiesa è un calvario. Presto ci cacceranno da ogni dove come cani tignosi, come numero di varietà già frusto. Almeno avessimo per quel giorno vicino — tanto vicino! — le nostre povere chiese monde di servo encomio e di codardo oltraggio»65.
Mazzolari fu fortemente a disagio dinanzi all’accordo che la Chiesa raggiunse con il Fascismo: la sua critica si dispiegò con libertà, egli colse l’asservimento della Chiesa al regime, la oggettiva “solidarietà” con un mondo che «è negativo dei veri valori cristiani, quando non ne è l’antite62
È certamente la pastorale del 1906 (non del 1905) La Chiesa e i tempi nuovi. Bonomelli vi prospettava la possibilità di una separazione della Chiesa dallo Stato. La pastorale fu ripubblicata, in copia fototipica, da Feltrinelli, nel 1955. 63 Vita, 114-115. 64 Ibid., 116. 65 Ibid., 117. Questi accenni vanno letti seguendo da vicino la storia dei patti lateranensi, le diverse interpretazioni date da Mussolini e da Pio XI, il ritardo della ratifica dovuto ad incertezze diplomatiche e infine il perfezionamento giuridico delle trattative.
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si più ripugnante» e giudicò fallaci e rovinosi i benefici che aveva ottenuto in cambio, come il benessere economico e l’insegnamento della religione nelle scuole secondarie, ritenuti “privilegi” di cui la Chiesa non aveva assolutamente bisogno66. Il sacerdote mostrò di condividere il timore, ampiamente diffuso negli ambienti dell’antifascismo cattolico, che l’accordo tra Chiesa e Fascismo avrebbe provocato in futuro un’ondata di anticlericalismo inarrestabile67. Egli sostenne anche che: «senza le libertà fondamentali anche la Chiesa non può né vivere né prosperare, per quanto posto le facciano»68. È la consapevolezza di chi ha compreso che l’istituzione ecclesiastica non può limitarsi a garantire esclusivamente le posizioni cattoliche, non può rivendicare una libertà solo per sé, nella convinzione — cara alla Chiesa di Pio XI — che non esistono valori autentici «fuori dal chiuso ambito della Chiesa cattolica, dei cattolici, delle istituzioni, delle associazioni, dei gruppi soggetti direttamente al pontificato e alla gerarchia»69. Un nuovo scontro con il Fascismo si verificò nel marzo del 1929, in occasione delle pseudo-elezioni politiche (“il plebiscito”): Mazzolari rifiutò di trasformare — come gli era stato chiesto — il suo ministero in uno “strumento di galoppinaggio elettorale”: «Se io in coscienza sento la ripugnanza morale invincibile contro il regime, come mi devo comportare nella circostanza della votazione? Se voto contro o mi astengo disobbedisco a un comando dei vescovi e dell’Azione Cattolica, emanazione diretta di essi; se voto favorevolmente vado contro la mia coscienza»70.
Mazzolari scelse la coscienza: «ho creduto di seguire un dettame chiaro e preciso della mia coscienza e di interpretare un pensiero di dignità e di libertà che nella Chiesa è sacro ed eterno»71. Ancora una volta il con66
Cfr. Diario III/A, 257. Cfr. ibid., 258. 68 Ibid., 262. 69 G. MICCOLI, Chiesa e società in Italia, cit., 1524. 70 Diario III/A, 266. 71 Ibid., 268. Mazzolari invia una lettera a mons. Cazzani, vescovo di Cremona, il 25 marzo del 1929, nella quale motiva lo scontro con le autorità fasciste e la diserzione del voto: «Eccellenza, vengo a lei con fiducia filiale e più che la cronaca le metto davanti il mio animo. Sabato sera vennero da me il comm. Dott. Cantoni, ex sindaco di Viadana, il Seniore della Milizia, rag. Cav. Zangelmi, il dott. Contini segretario del Fascio di Viadana, per suggerirmi di parlare ai miei uomini durante la funzione domenicale oppure in canonica dopo un invito fatto in Chiesa, onde invitarli a votare per il Governo. Risposi che né in casa mia, 67
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senso e la fermezza del vescovo Cazzani evitarono al parroco “ribelle” la severa “vendetta” e i provvedimenti restrittivi chiesti dai fascisti. Tra il 1930 e il 1931, il conflitto tra concezione cristiana e “mistica” fascista sembrò diventare inevitabile. Si aprì l’aspra controversia tra la Santa Sede e il regime a proposito del divieto posto ai “giovani fascisti”, inquadrati obbligatoriamente nelle varie articolazioni delle organizzazioni statali, di iscriversi e di partecipare all’attività dell’Azione Cattolica: il che significò lo scioglimento dell’associazione e la chiusura di tutte le sedi diocesane e parrocchiali. La polemica assunse toni e iniziative vessatorie, così che il papa protestò, riassumendo le sue conclusioni nell’enciclica Non abbiamo bisogno. Ma la sua presa di posizione non riuscì a evitare lo smantellamento — preceduto da una campagna di violenze intiminé tanto meno in Chiesa, al posto del Vangelo, potevo permettermi un fervorino elettorale. Il mio ministero è e vuol rimanere “fuori e sovra la politica”. Mi fu opposto che tutti gli altri sacerdoti si comportavano in ben altra maniera. Risposi che io non giudicavo nessuno: che la mia coscienza mi impediva d’interpretare nel senso indicatomi il mio dovere di parroco nell’ora presente, trasformando il mio ministero in uno strumento di galoppinaggio elettorale: che del resto, se essi trovavano nel mio diportamento qualche cosa in contrasto coi miei precisi doveri sacerdotali, lo facessero noto ai miei Superiori, davanti ai quali volentieri rispondo e pago di persona. “Ma allora lei non è contento della Conciliazione?”. “Se non ne godessi non sarei figlio di Mons. Bonomelli” fu la mia risposta. Dal Seniore cav. Zangelmi mi fu quasi rimproverato di accogliere in Chiesa i disertori. Risposi che la Chiesa e il sacerdote per essa apre le braccia a tutti, ai traviati con preferenza sull’esempio di Cristo. Che se non credessi di tornare utile in qualche maniera anche alla loro restaurazione civile con la mia opera di accostamento, non sacerdote ma contadino avrei preferito essere chè almeno vedrei ad ogni primavera rinnovellarsi la vita. “Ma quando c’erano i popolari…”. “Nel 1921, a Bozzolo, risposi, per la stessa ragione che metto avanti oggi, ho respinto fermamente la tessera del partito offertami da un amico”. Il colloquio durato non più di dieci minuti fu serrato ma corretto e cavalleresco. Io ero calmo e cortese, ma fermo su ciò che nella mia coscienza è dovere preciso. Passo alla cronaca della giornata elettorale. Era mia intenzione di presentarmi per compiere secondo coscienza il mio dovere di cittadino. Disgraziatamente nella sezione di qui fu un insulto impudente e inintelligente, non dico alla libertà, che è un mito, ma alla giustizia e alla dignità umana, tutto il paese mi è testimone. Io che ero stato invitato la sera prima a farmi mallevadore con la mia autorità di parroco a tanta sopraffazione, ho stimato doveroso astenermene. Se Cristo mi ha messo sulle mie indegne spalle una stola, non è forse perché essa nelle ore tristi divenga il ponte tra un popolo avvilito e un sacerdote minacciato? Quello che ieri sera fu detto pubblicamente da alcuni alti esponenti del Fascismo viadanese contro il parroco di Cicognara non vale ripeterlo. Lo potranno ripetere i miei parrocchiani che ne fremevano. Eccellenza, agendo in tal modo ho creduto di seguire un dettame chiaro e deciso della mia coscienza e di interpretare un pensiero di dignità e di libertà che nella Chiesa è sacro ed eterno. Se Ella però crede che invece ho contravvenuto ai doveri disciplinari dell’ora, esorbitando dalla mia funzione per coscienza male intonata, La scongiuro umilmente di dirmelo con franchezza. Nel qual caso, mi farò dovere di rimettere nelle Sue mani il mio ufficio di parroco, poiché io non voglio né posso, per nessuna ragione al mondo, né contrastare con la disciplina della mia Chiesa, né venire a patti con la mia coscienza di uomo e di sacerdote».
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datorie — delle istituzioni giovanili cattoliche a partire dal 14 luglio. Nel settembre, con un discutibile compromesso, il conflitto rientrò e si parlò di “seconda conciliazione”. Scrisse Mazzolari, riferendosi a tale avvenimento: «Giornata infausta. Non mi vergogno di dire che, leggendo il comunicato della riconciliazione, ho pianto come un fanciullo». In quel documento «non c’è nulla vivo, fuorché l’insincerità vicendevole, condita da una paura ancor essa vicendevole»72. Nel pieno della controversia si attentò, a Cicognara, alla vita di Mazzolari. È il 2 agosto 1931: «Non era ancora mezzanotte: dormivo da mezz’ora sì e no, quando dei colpi violentissimi, picchiati sul cancello di ferro del cortile, mi svegliano di soprassalto. I colpi si ripetono […] ci sarà un malato che ha bisogno. Mi vesto in fretta e corro alla finestra, dopo aver avuto la precauzione di spegnere la luce. Apro i vetri e spalanco le imposte, facendo l’atto di sporgermi per chiamare il sacrista. Tre colpi di rivoltella, sparati rabbiosamente l’un dietro l’altro mi salutano. Fo appena a tempo a ritirarmi. Due ombre fuggono in bicicletta, scantonando sull’angolo del fornaio. Lontano, una brigata di non so chi cantava le solite canzoni di minaccia, infiorandole di ingiurie e volgarità contro il Papa, l’A.C., il parroco»73. 72
Diario III/A, 495-496. In una lettera all’amico Astori, Mazzolari espresse le sue reazioni circa l’enciclica del Papa: «Ti confesso che ho ammirato la prontezza e la nobiltà delle decisioni della nostra ‘Roma’, altre volte così tarda e così poco decisa a muoversi. Di certe parole poi del papa sono particolarmente fiero, come uomo e come cristiano. Come sempre accade, tutto finisce in ‘religione’, la quale proprio quando gli uomini sembrano aver esaurito ogni resistenza umana di fronte al male, prende in mano le cause della libertà e della giustizia, elevandole sopra ogni strettezza di parte e d’interessi privati, dando al conflitto la sua giusta vibrazione spirituale. Oggi, davanti agli onesti di ogni strada, la Chiesa ha fatto un guadagno inestimabile, mentre gli uomini di essa si sono in parte levati il torto di non aver difeso a suo tempo la libertà di tutti, per accomodarsi alla bell’è meglio nella nuova situazione. In parte dico, perché il rimanente, la Provvidenza, che ci vuole tanto, tanto bene ce lo farà scontare nella persecuzione che io stimo fatale e provvidenziale. Il Papa ha guardato in faccia questa prospettiva senza tremare. Mi piace, sai, questa maschia commozione, ove tristezza, nobiltà e fermezza s’intrecciano; e la contrappongo volentieri alla durezza brutale degli altri e al femmineo scoramento di parecchi dei nostri, i quali non fanno che piagnucolare in pubblico e in privato […] in questo momento rientro nei ranghi, anzi un passo indietro piuttosto che uno avanti. L’obbedienza e la fedeltà sono i problemi dell’ora. La parola è ai Pastori o meglio a Cristo, che ha preso in mano direttamente il timone della sua barca e la conduce là dove neppure gli uomini vorrebbero»: Vita, 141-142. 73 Diario III/A, 507. Scrivendo all’amico Astori il 5 agosto 1931, Mazzolari fa capire che l’intimidazione può essere riferita con la convulsa situazione politico religiosa dopo il conflitto per l’Azione Cattolica senza stretto rapporto con recenti questioni personali: «qualcuno forse si domanderà se ho commesso qualche imprudenza recente, e ha ragione di chiederselo. A te posso dire che ho vergogna di questi due mesi che ho passati […] dormendo. Un “dormire” — tu lo immagini — che mi ha fatto male al cuore e alla testa: l’uni-
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Si arrivò intanto, dopo l’urto, a una certa distensione generale, che Mazzolari considerò come un cedimento: «Per darci un po’ d’illusione di attività si continua nel solito lavoro asfissiante e ingombrante dell’Azione Cattolica, che non corrisponde a nessun requisito di serietà e di fecondità religiosa e civile»74. Un’analisi del primo decennio fascista manifesta in Mazzolari una coscienza critica. Egli non tiene solo un atteggiamento di opposizione frontale, ma soprattutto di fermento. Don Primo è persuaso che «il tempo delle mezze coscienze religiose è passato, il tono dell’ambiente è così basso che per resistere occorrono dei toni alti, sicuri»75. Quella di don Primo non è una resistenza preconcetta o un antifascismo superficiale. Il totalitarismo fascista, che ha come scopo esclusivo il potere, si adopera per strumentalizzare e assoggettare la Chiesa al suo obiettivo e si attribuisce il diritto esclusivo di educare le coscienze. Don Primo si oppone resistendo a ogni tentativo di manipolazione delle coscienze: «l’amore è tutto fuorché cieco. C’è chi vede per non fare, per giustificarsi di non fare. Il prete deve vedere per far meglio e di più»76. Aver cura del proprio sguardo, fare del Vangelo il criterio di verifica del proprio agire, avere a cuore le persone povere che in un clima di generale ignoranza sono facilmente strumentalizzabili: è questo lo stile del prete per Mazzolari. Egli, dunque, esalta il primato della coscienza. Nel contesto dell’Italia di quegli anni Mazzolari rimane in una posizione sostanzialmente isolata nel generale conformismo del cattolicesimo italiano77. Tanto che nel 1929 arriva a chiedersi: «è proprio possibile che in un’Italia di 40 milioni di uomini, vi sia poi tal unanimità di pensiero e tale concordia nell’opera da non riscontrarsi neppur un dissidente che osi esprimere a mezza voce il suo parere? O questo è un miracolo inaudito, mai raggiunto in nessun tempo e luogo neppure dalla religione o è un sintomo inquietante di ciò che può distruggere il timore di colui che è forte nel patrimonio sacro e intangibile della coscienza»78. ca cosa buona che potevo mettere sulla bilancia della grande sofferenza comune»: Vita, 143. Si veda anche la lettera di Mazzolari al vescovo Cazzani in Obbedientissimo, 80-83. 74 Diario III/A, 534. 75 Diario II, 425. 76 Ibid., 475. 77 Cfr. G. MICCOLI, Chiesa, partito cattolico e società civile (1945-1975), in G. MICCOLI (cur.), Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Casale Monferrato 1985, 373. 78 Diario III/A, 283.
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Per il sacerdote cremonese, ispirato dal modello del prete “sociale” e influenzato dall’interventismo democratico e soprattutto dal riformismo religioso della Lega democratica nazionale di Cacciaguerra e Donati, il problema politico e il problema religioso si saldano intimamente. Fra impegno politico e impegno religioso vi deve essere stretta connessione. Per Mazzolari non si tratta, ovviamente, di predicare ritorni clericali ed integralistici, ma di mettere in guardia contro il rischio di trasferire all’interno della coscienza sacerdotale e della sua stessa esistenza quella distinzione di piani, nella quale si esprime una bipolarità tra la dimensione spirituale e la dimensione pastorale, che non può, che non dovrebbe diventare mai separazione o, peggio ancora, contrapposizione79. Mazzolari chiede alla gerarchia e a tutta la Chiesa il passaggio da una riflessione spiritualistica a una franca accettazione dell’impegno nel temporale. In questa prospettiva di un cristianesimo incarnazionista si situa l’attenzione di don Primo verso le realtà terrestri. La Chiesa, in altri termini, non può non essere attenta alla concretezza della storia del mondo moderno e deve avere al suo centro il servizio all’uomo. E l’uomo oggi «non lo si incontra più da solo, ma in una trama sociale sempre più complessa e dalla quale non si può né sarebbe bene staccarlo. Il nostro apostolato, quindi, più che a individui, è posto davanti a istituzioni, nelle quali l’individuo è legato per il suo stesso benessere materiale e morale»80.
Nella prospettiva mazzolariana, dunque, emerge la consapevolezza che il rinnovamento della Chiesa è condizione essenziale per lo stesso rinnovamento della società civile. La Chiesa ha il dovere di rinnovarsi nelle strutture istituzionali, nella prassi pastorale, nella stessa teologia, senza che sia intaccato il patrimonio della tradizione. La posizione di don Primo si caratterizza per la precoce intuizione della necessità di un profondo ripensamento del rapporto tra Chiesa e mondo, volto a colmare il fossato venutosi a determinare con la modernità. A differenza dei preti sociali e di tutta la generazione di sacerdoti degli anni venti e trenta, che, privati da Pio X e da Pio XI dello “sbocco” apostolico nel sociale e nel politico, furono costretti a ripiegare in un ministero pastorale più propriamente sacramentale-catechistico e, quindi, in un 79 80
Cfr. G. CAMPANINI, Don Primo Mazzolari tra religione e politica, cit., 56-57. Lontani, 63.
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ambito spiritualistico-devozionale81, don Primo non volle assolutamente rinunziare al rapporto con il mondo contemporaneo. La conoscenza approfondita della realtà, soprattutto di quella dell’Italia settentrionale, la concreta prassi pastorale, la diffidenza nei confronti di certi facili entusiasmi post-concordatari e del mito dell’Italia (ridivenuta) cattolica fanno di Mazzolari un lucido analista della crisi imminente. Negli scritti degli anni ’30 (La più bella avventura, Lettera alla parrocchia, I lontani) appare la centralità del tema dei lontani, del tutto insolita nel panorama della Chiesa italiana di quegli anni. La gerarchia, che sembrava appagarsi di un ritrovato cristianesimo “ufficiale”, spesso di facciata, non è stata pronta a cogliere, nel fenomeno del Fascismo, gli aspetti di modernizzazione e, insieme, di secolarizzazione82. Mazzolari condivide con gli osservatori più attenti della realtà europea — a partire dall’amato Maritain di Umanesimo integrale, manifesto della “nuova cristianità” e insieme atto di morte della “vecchia cristianità” — la convinzione che una lunga stagione della religione cristiana si fosse ormai conclusa e che l’Italia non poteva più essere considerata un “paese cattolico”, nonostante la benevola protezione accordata alla Chiesa da un regime, come quello fascista, di cui molti cattolici stentavano a cogliere la strutturale ambiguità e della cui utilizzazione strumentale della fede non si aveva adeguata consapevolezza83. 81
Cfr. C. NARO, Modelli del ministero presbiterale in Sicilia, 868-886: 884. G. Battelli, a tal proposito, afferma che il clero nella prima metà del novecento, non tenendo conto dei vari aspetti ideologici, economici e di costume proposti dalla vita moderna, si rapporta con la società italiana, una società in processo di secolarizzazione, affermando il principio che la religione cattolica e i suoi ministri erano i veri e unici portatori di salvezza per una società che si riteneva altrimenti destinata ad un ineluttabile destino negativo: cfr. G. BATTELLI, Clero secolare e società italiana tra decennio napoleonico e primo novecento. Alcune ipotesi di rilettura, in M. ROSA (cur.), Clero e società nell’Italia contemporanea, Bari 1992, 97-123: 123. 82 Cfr. G. CAMPANINI, Religione, tempi moderni, “lontani”: un progetto di nuova evangelizzazione, in Impegno 17 (2006) 1, 23-34. 83 Nell’inverno del 1942-1943 Emmanuel Mounier, confinato nel paesino di Dieulefit, nel Sud della Francia, stendeva le appassionate pagine de L’affrontement chrétien nelle quali denunciava le compromissioni del cristianesimo con il mondo borghese e sosteneva la necessità di impostare in termini radicalmente nuovi il rapporto fra Chiesa e mondo (E. MOUNIER, Oeuvres, Paris 1961-63). Fra il 1943 e il 1944 Dietrich Bonhoeffer, rinchiuso nelle carceri naziste e in attesa della morte, scriveva un insieme di riflessioni personali e di lettere, solo molti anni dopo pubblicate, in cui, evocando il dramma della Germania, ammoniva: «andiamo incontro a un’epoca completamente non religiosa; gli uomini, così come sono, non possono più essere religiosi…gli uomini diventeranno realmente non religiosi in maniera radicale»: D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, a cura di I. Mancini, Milano 19694, 213 (è citata la lettera del 20 aprile 1944).
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Mazzolari fissa in tre ragioni la diagnosi del distacco dell’uomo moderno dalla Chiesa: 1) la chiusura della comunità cristiana in se stessa: di fronte all’indifferenza, o all’aperta ostilità, del mondo che la circonda, la Chiesa si trasforma in fortilizio; 2) l’eccesso della fiducia nell’organizzazione: denuncia una sorta di attivismo separatista che enfatizza la dimensione esteriore della Chiesa a danno del messaggio salvifico e finisce per allontanare coloro che non si riconoscono nell’uno o nell’altro modulo organizzativo; 3) un certo temporalismo ecclesiastico insufficientemente rispettoso della sana e legittima laicità: Mazzolari intravede nella società del suo tempo il rischio dell’inquinamento del temporale sullo spirituale, sino alla subordinazione dello spirituale e del religioso a fini temporali. Partendo da un’immagine di Dio diversa da quelle adottate nella sua epoca84, Mazzolari muove dalla premessa che Dio non abbandona, non può abbandonare, il mondo al suo destino: conseguentemente, ipotizzare un definitivo e irreversibile allontanamento degli uomini dalla fede cristiana gli appare come una mancanza di fede. Nonostante tutto, egli avverte il Cristo muoversi nel nostro mondo; ma non sempre questo umile e segreto dinamismo è percepito dagli uomini, e dunque occorre educarsi a scorgere nella storia, al di là delle apparenze, i segni della presenza di Dio. Don Primo afferma che un nuovo rapporto tra Chiesa e mondo presuppone, innanzitutto, la necessaria riforma della Chiesa. Occorre fare della comunità cristiana una casa accogliente, un luogo di fraternità e di gioia, non un riparo chiuso e asfittico, nel quale non si può fare festa85. Accanto al cambiamento del cuore e della mentalità dei credenti (a maggior ragione del clero n.d.a.), il tema dell’impegno cristiano per il cambiamento delle istituzioni e per la promozione di una nuova cultura che abbia a fondamento l’uomo è indispensabile. La Chiesa, confrontandosi seriamente con gli aspetti positivi della modernità, deve abbandonare un «apostolato eminentemente conservatore»86, deve supera84
G. Battelli afferma che, nella prima metà del novecento, era affermata un tipo di predicazione che, avendo come oggetto la presentazione di un Dio vendicativo, punitivo che faceva finire tragicamente i peccatori, scaturiva da una tipica e diffusa pastorale della paura: cfr. G. BATTELLI, Clero secolare e società italiana, cit., 120. 85 È questo un tema ricorrente nell’opera Mazzolariana, a partire dalla rilettura della parabola del Figliol prodigo: cfr. Avventura, 68ss. Perché la Chiesa possa incontrare i “lontani” è necessario uscire dalle proprie sicurezze per andare incontro agli uomini: «il mondo […] sente il bisogno di Qualcuno. Se nessuno gli va incontro, se nessuno gli va avanti, sbaglierà ancora strada»: ibid., 79. 86 I lontani, 41.
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re «un cristianesimo di emigrati, tagliato fuori dalla vita e dalla realtà quotidiana…un cristianesimo senza audacia, senza presa sul reale, disprezzato dal nostro mondo pagano»87, deve farsi prossima per l’altro, deve farsi compagna di strada degli uomini del proprio tempo. Quindi, in definitiva, Mazzolari spinge per un rinnovamento ecclesiale nei modi e nello stile. Qui si può parlare, senza forzature, di storicità della spiritualità. L’uomo spirituale, infatti, è colui che, vivendo in comunione con Cristo nello Spirito, rimodella il ruolo che incarna all’interno della propria vocazione. Don Primo è sacerdote, insegnante, cappellano militare, prete in parrocchia, predicatore, scrittore e oratore. L’orizzonte del suo impegno si dilata dalla parrocchia al vasto mondo della cultura e della società italiana. La spiritualità presbiterale di Mazzolari suppone così una coscienza che sa recuperare la sua dimensione storica. Il paradigma dell’Incarnazione si realizza in una conversione continua: la biografia personale è sempre e nuovamente interpretata dalle condizioni storiche e dagli appelli che le altre persone rivolgono alla sua coscienza. Il luogo dove il prete vive la sua vita spirituale non è, allora, il mondo astratto delle idee, ma quello della realtà concreta. Don Primo, come avremo successivamente ancora modo di approfondire, risulta essere uno dei pochi, nella sua epoca, che si pone l’obiettivo di suturare l’ideale di vita del prete con la dimensione pastorale.
4. La Chiesa italiana di fronte alla seconda guerra mondiale Alla fine degli anni trenta, di fronte all’alleanza italo-tedesca e successivamente all’intervento in guerra dell’Italia, cominciò a maturare, nella complessa e articolata realtà del cattolicesimo italiano, una progressiva presa di distanza dal regime fascista, che, pur non manifestandosi in forme di dissenso aperto, evidenziò un atteggiamento di profonda sfiducia. Si trattò di un processo che favorì, via via che la guerra conobbe i suoi momenti più drammatici, un distacco dal regime e una presa di coscienza che si nutrì anche alla luce del messaggio evangelico e della parola della Chiesa e del clero. La guerra, come ha sottolineato Francesco Traniello, 87
Ibid., 65-66.
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può essere interpretata come: «momento schiettamente genetico di una mutazione del mondo cattolico, verificatasi a livello quasi molecolare di esperienze e di opzioni, assommate, tuttavia, a fenomeni collettivi di non secondaria portata»88. L’ampio e variegato quadro del cattolicesimo militante, con la sua stampa, le sue associazioni, i suoi circoli, i suoi centri culturali e le sue personalità, all’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia offrì, comunque, posizioni e giudizi divergenti. L’organizzazione di massa del laicato cattolico, l’Azione Cattolica, si mosse con un atteggiamento estremamente prudente. Cercò di restare in ambito prevalentemente religioso, con il motto “pregare e operare”, ma usò anche attenzione a non apparire al di fuori ed estranea all’impegno e allo sforzo del paese in guerra. Una sorta di patriottismo “più civico che nazionalistico”89. Questo orientamento era diffuso particolarmente nel ramo degli Uomini cattolici e della Gioventù cattolica. Un ruolo significativo nel contesto dell’associazionismo cattolico venne esercitato dai due movimenti intellettuali dell’Azione Cattolica, la FUCI e il Movimento dei laureati, che avevano in mons. Montini il loro nume tutelare. Il compito di questi due movimenti, fu quello di garantire soprattutto: «un’alternativa culturale alla disaffezione del mondo cattolico dal regime», divenendo espressione «di una sensibilità ecclesiale minoritaria che trova però spazio in un momento di passaggio da un clima concordatario con il Fascismo verso una identificazione diversa della presenza della Chiesa nella società civile»90. Queste posizioni, che sottolineavano la composita fisionomia del cattolicesimo italiano, nei suoi diversi ambienti e orientamenti culturali e politici, riflettevano anche la più ampia realtà della società italiana di quegli anni. Le reazioni e gli atteggiamenti dei cattolici furono solo in piccola parte peculiari alla loro appartenenza alla comunità ecclesiale, riflettendo, in gran parte i sentimenti e gli stati d’animo dell’intera società civile, dell’opinione pubblica, delle varie classi sociali, degli ambienti intellettuali, che si ispiravano a diverse e a volte lontane radici culturali e ideali. 88
F. TRANIELLO, Città dell’uomo. Cattolici, partito e Stato nella storia d’Italia, Bologna 1990, 170. 89 Così lo ha definito Renato Moro: cfr. R. MORO, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bologna 1979, 86; cfr. M. CASELLA, L’Azione cattolica alla caduta del fascismo, Roma 1984, 21-22. 90 A. RICCARDI, Roma città sacra? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Milano 1979, 203.
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Non va, comunque, dimenticato che furono soprattutto i comportamenti religiosi, a preoccupare le autorità fasciste, riscontrandovi posizioni pacifiste, tendenti a deprimere lo spirito di resistenza del paese e la volontà dei combattenti. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia non furono infrequenti gli interventi della censura per eliminare tutte quelle pubblicazioni di carattere religioso ove vi fossero riferimenti al conflitto giudicati non intonati alle esigenze del particolare momento vissuto dal paese. Non va dimenticato che in questi anni difficili, la preghiera divenne segno di conforto per milioni di uomini e di donne, rappresentò un sostegno morale ma anche una forza di resistenza, sia pure silenziosa e passiva, nell’attesa di una “pace con giustizia”, secondo una formula ricorrente nel linguaggio del clero e dei cattolici. Il ruolo della Chiesa e del clero apparve quindi significativo nel quadro della vita italiana durante la seconda guerra mondiale. La predicazione e la parola del clero raramente si posero in posizioni apertamente ostili alle autorità politiche. Tuttavia, dall’attenta lettura dell’omiletica del clero italiano negli anni della guerra si coglie una serie di precisi e ricorrenti richiami: il valore prioritario della fede religiosa di fronte a tutti gli altri aspetti della vita; il costante richiamo alla divinità come unica àncora di salvezza per l’umanità; una più o meno marcata svalutazione delle ideologie e delle organizzazioni politiche; il rifiuto della propaganda bellica basata sull’odio, in contrasto con i valori della fraternità e dell’amore; il richiamo costante alla parola del Papa e al suo ruolo di guida unica e sicura per tutta l’umanità. Nonostante queste posizioni apparissero chiuse all’interno di confini strettamente religiosi, con non poche intonazioni che potremmo definire integralistiche, la parola della Chiesa contribuì non poco a guidare molti italiani a rivedere e correggere convinzioni, a cogliere, alla luce del messaggio evangelico, i valori più solidi della convivenza civile, dalla difesa della persona umana alla giustizia sociale, al bene comune, al rispetto del diritto91. 91 A tal proposito afferma G. Penco: «Non v’è dubbio che, con lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’ingresso dell’Italia nel conflitto, le condizioni della Chiesa nel nostro Paese vennero a trovarsi in una posizione tutta particolare. Da una parte, infatti, venivano aumentando sempre più le distanze nei confronti dei regimi totalitari, dall’altra la Chiesa stessa andava acquistando delle funzioni di intervento e di interesse per la difesa dei diritti umani che, specialmente nella seconda fase del conflitto, dopo il crollo del regime fascista e la generale incertezza delle istituzioni politiche, in molti casi avrebbero assunto i caratteri di una vera e propria supplenza nei confronti del pubblico potere. Sotto questo aspetto il compito della Chiesa si presentò, nella seconda guerra mondiale, in forme mol-
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Insomma, la Chiesa svolse un ruolo non marginale nel graduale processo di maturazione di grandi masse disilluse. L’idea di una pace basata sul diritto e la giustizia, fu ben presente soprattutto nei messaggi di Pio XII, in particolare nel radiomessaggio natalizio del 1942, nel quale troviamo il riferimento ad un ordine non “forzato e fittizio”, ma basato sul «ritorno di larghi e influenti ceti alla retta concezione sociale». In queste indicazioni per un “nuovo ordine” cristiano, si coglie il rifiuto del totalitarismo e la riaffermazione del valore della persona umana, che deve essere partecipe degli ordinamenti, dell’attività legislativa ed esecutiva, del pensiero sociale, delle attese e delle speranze degli uomini. Pio XII rifiutò anche l’idea della politica estranea alle istanze etiche e religiose e all’«eterna fonte della sua dignità: Dio». Scopo «identico, sacro, obbligatorio» di ogni società e di ogni ordinamento era lo «sviluppo dei valori personali dell’uomo quale immagine di Dio», al quale era possibile arrivare respingendo «pericolose teorie e prassi infauste alla comunità e alla sua coesione, le quali traggono la loro origine e diffusione da una serie di postulati erronei», che Pio XII indicò nel «positivismo giuridico», nella concezione che «rivendica a particolari nazioni o stirpi o classi l’istinto giuridico quale ultimo imperativo e inappellabile norma» ed infine nelle teorie che considerano lo Stato «entità assoluta e suprema, esente da controllo e da critica, anche quando i suoi postulati teorici e pratici sboccano e urtano nell’aperta negazione di dati essenziali della coscienza umana e cristiana». Il Papa rivendicò, inoltre, il diritto dell’uomo all’uso dei beni della terra, come «fondamento naturale per vivere» e il rifiuto di «una dipendenza e servitù economica» dell’operaio, «inconciliabile con i suoi diritti di persona»92. to più impegnative di quelle che essa aveva dovuto assumere nella prima guerra mondiale, anche per la particolare crudezza delle operazioni belliche, condotte sullo stesso territorio nazionale, e per il largo convincimento in esse di intere popolazioni. Si potrebbe affermare che, sotto la pressione degli eventi e quasi in corrispondenza con la generale evoluzione che stava verificandosi in campo ecclesiologico, la Chiesa in Italia durante la seconda guerra mondiale ha operato non sovrapponendosi agli organismi e alle istituzioni o ponendosi al loro fianco, ma si è trovata nella necessità di agire all’interno di tutto un movimento storico di cui essa stessa ritornava ad essere parte determinante, responsabile di quanto avveniva per ciò che rientrava nella sua missione»: G. PENCO, Storia della Chiesa in Italia, cit., 534. 92 PIO XII, Discorsi per la comunità internazionale (1939-1956), Roma 1957, 67-85. Nel radiomessaggio del Natale del 1942, Pio XII riassunse in cinque punti, il suo programma di rigenerazione cristiana della società: dignità e diritti della persona umana; difesa dell’unità sociale e particolarmente della famiglia; dignità e prerogative del lavoro; reintegrazione
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I cattolici italiani trovavano, quindi, nelle parole di Pio XII non trascurabili indicazioni in vista del futuro assetto politico-sociale del paese, in una prospettiva chiaramente democratica, come emerse dal radiomessaggio natalizio del 1944. Affermò il Papa che «se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l’attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che alfine di evitare per l’avvenire il ripetersi di una simile catastrofe», occorreva «creare nel popolo stesso efficaci garanzie». Il sistema democratico offriva al cittadino — secondo il pensiero papale — «la coscienza della sua personalità, dei suoi doveri e dei suoi diritti della propria libertà congiunta col rispetto della libertà e della dignità altrui»93. Pio XII superò con questo messaggio molte riserve e diffidenze che a lungo avevano frenato un’accettazione piena da parte della Chiesa dei sistemi politici democratici nati con le rivoluzioni liberali. Sul piano dottrinale la Chiesa appariva ancora ferma all’enciclica Libertas di Leone XIII (20 giugno 1880), ove si affermava che la Chiesa non riprovava nessuna delle varie forme di governo, purché adatte a creare il bene dei cittadini. Il documento di Pio XII, invece, va inteso come un’accettazione piena dei sistemi democratici, giudicati lo strumento più idoneo per tutelare i diritti della persona. Questo orientamento emerse chiaramente anche da altri documenti. Nel dicembre del 1943, mons. Tardini indirizzava a Myron Taylor, rappresentante del presidente degli Stati Uniti in Vaticano, un messaggio sulla situazione italiana sostenendo l’esigenza inderogabile di un ritorno alla democrazia94. Tardini, inoltre, affermava la necessità di una completa estirdell’ordinamento giuridico; concezione dello Stato secondo lo spirito cristiano. Richiamò, infine, gli uomini ad un fermo impegno di rigenerazione cristiana della società in nome delle vittime della guerra; invitò ad una crociata per un ideale sociale, umano e cristiano e per una nuova e nobile società, invitò ad alzare il nuovo labaro della rigenerazione morale, a dichiarare lotta alle tenebre della defezione a Dio, alla freddezza della discordia fraterna, invitò alla lotta in nome di una umanità gravemente inferma e da sanare, in nome della coscienza cristianamente elevata. Per il pontefice, gli uomini di Stato dovevano favorire questa nuova prospettiva di ordine interno e internazionale, dovevano aprire le porte alla Chiesa, spianarle il cammino, cooperare con essa, col suo zelo e col suo amore, per risanare le ferite della guerra. Ha sottolineato Guido Gonella che Pio XII si poneva l’obiettivo di una sorta di Res Publica Christiana, ad una comunità di popoli uniti dal vincolo della legge evangelica (foederati christiana lege nationibus), di fronte alla quale la Chiesa doveva porsi come maestra e guida: Cfr. G. GONELLA, Presupposti di un ordine internazionale. Note ai messaggi di S.S. Pio XII, Città del Vaticano 1942, 316-321. 93 PIO XII, Discorsi per la comunità internazionale, cit., 135. 94 Scriveva Tardini a Taylor: «solo questa [la democrazia] consente sufficienti garanzie per il controllo dell’azione governativa; abitua il popolo all’autodisciplina; rende possibile
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pazione del Fascismo dalla vita pubblica, auspicava un governo civile e non militare, affidato ad un personaggio di capacità ed esperienza, proposto dai più autorevoli esponenti dei vari partiti. Ma tra il 1943 e il 1945, al di là degli orientamenti e delle indicazioni che provenivano dai vertici della gerarchia ecclesiatica, i cattolici italiani ebbero modo di misurarsi anche con l’esperienza della Resistenza e della guerra di liberazione. Si trattò di un impegno sorretto da motivazioni diverse: religiose, etiche, politiche, ideologiche, destinate comunque a favorire, in un’ampia area di mondo cattolico, una presa di coscienza ed anche una maturazione politica e democratica. Alla base della scelta compiuta dalla grande maggioranza dei cattolici, che affrontarono, in diverse forme, la lotta al Fascismo e al Nazismo tra il 1943 e il 1945, troviamo, innanzitutto, una rivolta morale, che nasceva in coscienze cristiane ferite dall’ingiustizie, dalle sopraffazioni, dalle persecuzioni, dagli eccidi, dall’emergere di una barbarie senza umanità e senza carità. Una scelta, quindi, che non si alimentò esclusivamente di motivazioni ideologiche o politiche, ma fu soprattutto il risultato di una riflessione che condusse giovani, lavoratori, intellettuali e sacerdoti a farsi protagonisti di una rivolta morale alla luce del messaggio evangelico95. Si trattava di una scelta vissuta con una profonda carica spirituale che nutrì le coscienze di uomini e di donne che seppero dare al loro sacrificio, nell’asprezza di una tragica vicenda, un segno cristiano e un empito evangelico. Non può, quindi, sorprendere il fatto che molti di questi uomini avrebbero desiderato un coinvolgimento totale della Chiesa, a tutti i livelli, a sostegno di una causa giudicata giusta e coerente con la propria fede. Non va neanche trascurato il fatto che, durante i lunghi mesi dell’occupazione nazista il ruolo della Chiesa si segnalò anche nella difesa e proai migliori elementi, non importa da quali classi sociali provengano, di entrare nella vita pubblica; comprende tutte le forze vive e vitali del paese; e può gradatamente invitare il popolo italiano all’uso della moderazione nelle rivalità politiche, cosicché la concordia generale del paese non sia da queste danneggiate»: E. DI NOLFO, Vaticano e Stati Uniti (19391952). Dalle carte di Myron Taylor, Milano 1978, 279. 95 Ezio Franceschini, uno dei personaggi più significativi della Resistenza, scrisse che con quella esperienza, finalmente i cattolici avevano «imparato a combattere — non più inermi — l’illegalità e l’ingiustizia; a battersi senza odiare, ad amare, pur uccidendo per ristabilire la legge e la giustizia, l’avversario ingiusto». E individuava, in quella vicenda carica di rovine, di morte, di eroismi e di sacrifici, «uomini che hanno amato, più che la vita, la libertà e la giustizia. E che hanno saputo, anche dando la morte, restare nella carità»: E. FRANCESCHINI, Uomini liberi. Scritti sulla resistenza, a cura di F. Minuto Peri, Casale Monferrato 1993, 12.
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tezione degli ebrei e dei perseguitati politici, senza distinzioni di partito e di ideologie. Coloro che bussarono alle porte dei conventi, dei seminari, delle chiese, degli asili, degli ospedali, trovarono aiuto. A Roma, durante l’occupazione nazista queste porte vennero aperte soprattutto al Seminario Lombardo, all’Abbazia di San Paolo, al Seminario Lateranense, al Collegio Urbano di Propaganda Fide. Vi trovarono rifugio, assieme a uomini politici come Nenni e De Gasperi, migliaia di antifascisti, comunisti, ebrei, ex prigionieri, sbandati in cerca di una protezione, profughi e sfollati. A Milano il card. Schuster diede incarico alle conferenze di S. Vincenzo di svolgere quest’opera di soccorso. Nella stessa diocesi si distinsero gli ex esploratori cattolici, guidati da don Aurelio Giussani, che costituirono il gruppo “Aquile randagie”, con l’obiettivo di aiutare gli ebrei ad attraversare il confine con la Svizzera, e l’“Organizzazione soccorsi cattolici agli antifascisti ricercati”. A Firenze grazie anche all’interessamento del Card. Dalla Costa i conventi domenicani di San Marco e di Santa Maria Novella divennero luoghi di accoglienza e di rifugio. Si può dire che ogni diocesi assolse questo compito con grande coraggio, pagando anche le conseguenze di questa generosità. Va, infine, ricordato che l’episcopato e il clero italiano svolsero, tra il 1944 e il 1945, anche un delicato ruolo di mediazione politica, divenendo, in moltissimi casi, come il card. Schuster a Milano, arbitri e garanti di quella fase che vide la ritirata dei tedeschi e l’assunzione del controllo del territorio da parte dei CLN e dei comandi alleati, senza ulteriore spargimento di sangue. Si trattò di un importante ruolo diplomatico che veniva ad aggiungersi alla funzione pastorale, religiosa e civile che la Chiesa italiana aveva svolto negli anni della guerra96. In questo contesto ecclesiale visse don Mazzolari che, anzitutto, criticò la Chiesa di essere assente dalle grandi questioni umane. La sua intera esistenza di sacerdote può essere riletta come un tentativo di rispondere a questa assenza, di sperimentare e indicare con la sua parola e con la sua attività le strade e le forme di una presenza cristiana efficace nella società degli uomini97. Fu per questo che, dalla fine degli anni ’30, don Primo 96
Cfr. F. MALGERI, La Chiesa e la società italiana tra guerra e dopoguerra (1940-1959), in G. CAMPANINI – M. TRUFFELLI (curr.), Mazzolari e «Adesso», cinquant’anni dopo, Brescia 2000, 31-38. 97 Scrisse a tal riguardo Mazzolari: «I preti della mia generazione sono forse gli unici che nel momento presente vivono in agonia e sentono come pochi sentono l’assenza della Chiesa dalle grandi questioni umane. Chi ha questa agonia, non può certo accontentarsi di di-
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partecipò al movimento neoguelfo di opposizione al Fascismo — confluito successivamente nella Democrazia cristiana — animato da Piero Malvestiti, con il quale serbò amicizia e collaborazione anche negli anni di “Adesso”. Lo studio di don Primo diventa il luogo dove si elaborano progetti, idee, appelli destinati alla “ricostruzione cristiana”, una volta riacquistata la libertà. Mazzolari è consapevole dell’urgere dei tempi, di vivere una stagione storica particolarissima, della crisi in atto e di una società da ricostruire non solo nelle sue istituzioni, ma anche nei suoi valori di fondo. All’entrata in guerra dell’Italia, che avvenne il 10 giugno del 1940, Mazzolari reagì con sconforto e, scrivendo alla De Biani, affermò: «Sto passando i giorni più tristi della mia vita, su un dolore che mi prende nell’intimo della mia vocazione sacerdotale […] ormai il vaso è traboccante e gli occhi non hanno più lacrime […] lo spirito ha perduto un’altra battaglia e la Chiesa si trova sulla soglia di una novità che le domanderà di incominciare da capo. Non mi muovo né scrivo […] mi sembra di essermi staccato da tutto, pur soffrendo di tutto. Ho ripreso a lavorare per domani: per oggi non so cosa pensare né perché parlare»98.
In verità don Primo non smise di scrivere anche per l’“oggi”. In autunno, infatti, finì un nuovo libro: Tempo di credere. Lo dedicò «alla legione chiarazioni di rispetto simili a quelle pronunciate da Hitler all’apertura del Parlamento dittatoriale tedesco, le quali bastarono a far cessare dall’opposizione il clero tedesco, almeno l’episcopato. Come ci si può adagiare nella promessa verbale di un rispetto esteriore, quando si vede assalito il patrimonio di ogni libertà e di ogni giustizia umana?»: Diario III/A, 631. 98 Diario IV, 298-299. Mussolini, schierato a fianco dell’alleato germanico, gettava l’Italia nel gorgo del conflitto. Come tutti i Comuni della Penisola, anche Bozzolo era coinvolto nella tragedia e don Primo, per quanto contrario alla guerra, non si sentiva a posto restando defilato al dramma comune. In questo particolare stato d’animo chiedeva al suo vescovo di venir mobilitato: «Eccellenza, leggo sui giornali di oggi che l’Ordinario militare vi richiede nove sacerdoti per l’ufficio di cappellano in guerra. Ho cinquant’anni, ma sto bene come se ne avessi trenta. Odio la guerra, ma ho trecento ragazzi in guerra e altri stanno per partire. Bozzolo non ha bisogno di me. Chi resta ha meno bisogno di chi parte. Anche il domani della Chiesa cammina con coloro che vanno a soffrire e a morire. Eccellenza, disponete pure di me, se ne avete bisogno, con tranquilla coscienza. Non c’è nulla di avventato né di avventuroso nella mia decisione. Mi vergognerei di venirvi davanti con un bel gesto, reso facile e ridicolo dall’età. Siamo tutti stanchi di bei gesti. Quando i nostri ragazzi muoiono con tanta semplicità, sarebbe odioso e sacrilego farsi avanti per farsi avanti. Dio vede con quale fatica e con quale interiore sincerità di cuore alzo la mano. Se la cosa non può andare, io chiuderò l’offerta nel silenzio del mio povero cuore e Voi, Eccellenza, in quello del Vostro paterno compatimento. Beneditemi. Vostro Sac. Primo Mazzolari». La domanda restava disattesa, forse il vescovo stesso non aveva ritenuto opportuno nemmeno inoltrarla: Obbedientissimo, 135-136.
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degli smarriti sempre più vicina al mio povero cuore, sempre più vicina al cuore dei cuori»99. In questo libro il filo conduttore è il testo di Luca, esattamente il capitolo 24, dove si racconta del viaggio dei discepoli di Emmaus ai quali si affianca Cristo come compagno di cammino. «Il nome del libro — precisa Mazzolari — è nato dal camminare scoperto (cristiano) sotto ogni tempo, in cerca di un respiro per non soffocare, di un punto fermo per non lasciarmi portare via, di un porto per rifugiarvi, più che la mia, l’anima di coloro che il Signore mi da»100.
Tutta l’opera ha come tema la fede. Don Primo sostiene un legame indissolubile tra la fede e l’impegno nel mondo. Il commento all’episodio evangelico di Emmaus permette di definire l’uomo di fede come un «pellegrino dell’assoluto»101. La fede è viaggio pellegrinante in un rapporto che non è mai dato una volta per tutte come definitivo, perché il modo di incarnare il Vangelo è sempre da riscrivere. Resta stabile, invece, il presentarsi di Gesù nello spezzare il pane. Per riconoscere il Cristo nel pane della comunione occorre la memoria della passione. La fede, infatti, è un vedere sostenuto dalla memoria. Essa «è conservata nel cenacolo, ma vive, si manifesta, opera e conquista fuori del cenacolo»102. In altri termini, dalla comunione vissuta e sperimentata dentro la fede nasce la possibilità di vedere il volto di Cristo nella vita ordinaria. La relazione ha bisogno della storia come campo di verifica dell’autentica fede: «Il Cristo che vediamo lungo le strade e i campi, nelle officine, negli ospedali e nelle prigioni, ha un volto che non combacia esattamente con le descrizioni di una certa teologia concettualista che si tiene sdegnosamente distaccata dal reale»103.
Per riconoscere Gesù sulle strade dell’umanità è necessaria una memoria teologica, proveniente da una frequentazione assidua della Parola e della persona di Cristo. 99
Tempo, 6. Ibid., 16. 101 L.c. 102 Ibid., 188. 103 Ibid., 189. 100
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I fascisti non tardarono ad accorgersi del senso “dirompente” di quelle pagine. Il “cammino” del libro venne, così, bloccato fin dalla prima revisione della censura politica, nel novembre del 1940. Nel febbraio del ’41, da Roma, il Ministero della cultura popolare fece sapere che non ci sono speranze: il testo è in contrasto “con lo spirito del tempo”. Il 5 marzo lo stesso Ministero ne ordinò il sequestro in tipografia. Nel frattempo, però, l’editore Gatti di Brescia, d’accordo con lo stampatore, fece legare il volume e fece scomparire dalla tipografia le copie poste sotto sequestro. La prima edizione di Tempo di credere, verrà, così, diffusa, con l’aiuto di alcuni amici, clandestinamente e senza imprimatur. Il discorso di Mazzolari è sempre allusivo: «Chi sta male, io che sto male, tutti noi che stiamo male […] gridiamo. La mia preghiera, oggi, non può che essere un grido. Ognuno sente di essere solo: ognuno è costretto a gridare solo: e così il grido diventa un urlo»104.
Egli così continua: «Ho l’orrore di quello che accade in questi giorni, ma non posso guardare indietro: ho l’orrore di quello che sta per accadere…»; si è fatto, negli ultimi tempi, «troppa apologetica» e «molta poca teologia»; ci si muove verso un nuovo paganesimo «ma nessuno è perfettamente tranquillo se sente che Cristo gli è contro»105. Tra il 1941 e il 1943, il relativo “silenzio” di Mazzolari fu rotto, significativamente, tre volte: dapprima con due articoli pubblicati su “L’Italia” di Milano il 16 e il 17 ottobre 1941106; poi con i volumi Anch’io voglio bene al Papa (1942) e Impegno con Cristo (1943). 104
Ibid., 90. Mazzolari sostiene che: «Il vangelo non ha una soluzione, è una soluzione, la quale non esce bella e pronta dalle pagine del libro divino né dalle esperienze o dall’insegnamento della Chiesa, ma diviene, di volta in volta, la soluzione, man mano che, come fermento gettato nella pasta, lo spirito del vangelo solleva e piega la realtà verso le sue conclusioni salutari». Emmaus è un piccolo villaggio: «ma ogni villaggio mi offre un pò del regno […] non c’è una antichiesa nelle cose: c’è soltanto nel mio cuore […] nessuna gioia è antireligiosa, nessuna conquista dell’intelligenza è antispirituale…il mondo attende una nuova Pentecoste: quel giorno avremo di nuovo una cristianità in piedi di fronte ad una civiltà prona a tutti gli idoli»: ibid., 145. 106 I due articoli pubblicati su “L’Italia” vengono presentati con un identico occhiello, “Lineamenti spirituali della nuova intelligenza cattolica”, e con i titoli: “I nostri torti di ieri”, “I nostri doveri di domani”. Il primo, dunque, contiene un severo esame di coscienza su «quanto abbiamo fatto di non conforme al nostro spirito […], su quanto abbiamo a fare senza opporvisi […], su quanto non abbiamo fatto e non abbiamo aiutato a fare secondo il vangelo». La conclusione: «Non siamo stati capaci di assumere più umanità, cioè tutto il patrimonio umano minacciato da dottrine e da ideologie che si staccavano paurosamente 105
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Non venne meno, in questo periodo, la presenza di Mazzolari “predicatore” e “conferenziere”. Memorabili, soprattutto, le frequenti partecipazioni a convegni di intellettuali e scrittori, ai congressi degli universitari cattolici della FUCI a Bologna, Parma, Torino, Padova, Roma, Assisi e Camaldoli. A Firenze, nel gennaio del 1942, i suoi interventi alla “settimana di cultura religiosa” organizzata da Giorgio La Pira, vennero bruscamente interrotti dalla minaccia dell’arresto. Non si tollerarono la sua condanna di ogni spirito bellicista e l’aperta invocazione alla pace cristiana. Mazzolari dovette lasciare di nascosto Firenze e tornare in fretta al suo rifugio parrocchiale. Si intensificarono in questi due anni anche i contatti e gli incontri clandestini con gli oppositori del regime fascista, innanzitutto con i cospiratori milanesi. L’antifascismo di Mazzolari assunse, oltre a quella essenzialmente religiosa e morale, anche una connotazione politica. Nella primavera del 1942 nella canonica di Bozzolo, in una nottata di discussione, don Primo convince Piero Malvestiti ad accettare, per il futuro partito “di cattolici”, la denominazione già accolta da Alcide De Gasperi di “Partito della Democrazia Cristiana”107. dall’umano». Il secondo articolo, “sui doveri di domani”, è una sorta di proclama circa la predisposizione di spirito, gli obiettivi e gli impegni dei cristiani in vista di un “cammino” nuovo da percorrere “con passo e libertà rivoluzionaria”: «non vedete come finiscono, davanti alle prime difficoltà, i nostri troppi interiorismi manifatturati, e un certo soprannaturalismo disincarnato e accomodante? La materia ci ha sgominati prima ancora della battaglia». La conclusione: «viene l’ora — questa è l’ora! — in cui la spiritualità richiede qualche cosa di più alto e d’insostituibile: fide firmavit sanguine. La vera fisionomia del volto di Cristo è quella della Croce. Il volto spirituale dell’“intelligenza” cattolica non può essere diverso». L’impressione suscitata dai due articoli (di cui la censura fascista, questa volta, non ha avvertito la carica di contestazione) è tale da indurre Mazzolari a riprodurli, con leggere varianti, un anno e mezzo dopo, nel volume Impegno con Cristo. Per il testo integrale dei due articoli cfr. Documenti: 169 articoli pubblicati sul quotidiano L’Italia di Milano (I Quaderni della Fondazione 8-9), Bozzolo 1993, 116 ss. 107 Cfr. C. BELLÒ, Primo Mazzolari, cit., 93-121. Nel movimento guelfo, cui partecipava Mazzolari, si devono distinguere tre fondamentali momenti di sviluppo. Nella prima fase (1922-26) venne proposto ed elaborato un generico programma di opposizione al fascismo, ordito su motivi di fedeltà a Cristo Re, come insegna di avversione alla dittatura. L’autore precipuo Piero Malvestiti, propagandista di A.C. ed ex combattente, ne fu inventore e banditore originale e forse solitario. La seconda fase della vera e propria cospirazione (1928-1933) condusse a lui alcuni solidali, specialmente lombardi, alla ricerca di una individuazione politica fuori dall’azione cattolica e dal partito popolare per una testimonianza responsabile. Scontenti dei patti lateranensi, aderivano alle proposte sociali della Quadragesimo anno; diffusero alcuni volantini inneggianti all’unica sovranità di Cristo di cui intendevano promuovere l’avvento terreno; entrando in collusione con analoghi movimenti clandestini giellisti e socialisti, vennero individuati dalla polizia, arrestati e condannati con sentenza del tribunale speciale (1934). Trascorso qualche anno, convinti di una op-
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È anche di questo periodo un testo che ha una storia particolarmente singolare e significativa. Verso la fine del 1941, a poco più di un anno dall’entrata in guerra dell’Italia, un giovane ufficiale d’aviazione che conosceva bene don Primo per averne ascoltato le parole a un convegno della FUCI, gli scriveva per esprimergli un giudizio: «come può un cattolico assolvere un impegno militare destinato a provocare la morte di tanti innocenti? Che cosa pensare di una Chiesa disposta a tollerare la strage? Come comportarsi rispetto all’ordine e alla disciplina militare?». Mazzolari cominciò a stendere la risposta. Ma tali e tanto importanti risultarono le considerazioni stimolate dalla lettera del giovane ufficiale che, invece di una semplice lettera, compose un vero e proprio “trattato” sui limiti del dovere, sul primato della coscienza, sulla legittimità dell’obiezione e, a condizione date, della disobbedienza e della rivolta. La stesura definitiva occupava quarantacinque cartelle dattiloscritte, che vennero riprodotte in una quindicina di copie, distribuite a pochissimi amici e rimaste, poi, tra i materiali “riservati” di Mazzolari. Le vicende del conflitto impedirono di far giungere quelle pagine al vero destinatario. Al giovane aviatore Mazzolari, riguardo alla coscienza cristiana, risponde che essa «non può abdicare interamente nelle mani di nessuna creatura, fosse il più grande degli uomini o il più santo». Per un cristiano, «il far morire è il colmo dell’atrocità». Mazzolari, affrontando il discorso sul tema dell’obiezione di coscienza, afferma che va considerata come: «un tentativo di difesa primordiale della ripugnanza cristiana al mestiere di uccidere». Bisogna riconoscere il «dovere della disobbedienza contro gli abusi dell’autorità […] il bene è lo spazio vitale del dovere. Ove comincia l’errore, o l’iniquità, cessa la santità del dovere con la sua obbligatorietà e incomincia un altro dovere: disobbedire all’uomo per rimaner fedeli a Dio […] come cristiano — incalzava Mazzolari — quando disobbedisco per ordine morale, obbedisco; quando mi rivolto ricostruisco»108.
posizione permanente al fascismo, ripresero le fila nel 1938 e in occasione della guerra i nuovi cospiratori incaricarono Malvestiti di preparare una bozza programmatica, che rivelasse la loro autenticità politica nella previsione di una alternativa al fascismo. Di questa terza e conclusiva fase fu partecipe appunto Mazzolari. Da quel poco di date e di riferimenti che abbiamo potuto raccogliere dicono che Mazzolari non solo si impegnava nel movimento guelfo d’azione, ma che avviò altri all’avventura: cfr. ibid., 117. 108 L. BEDESCHI, La Chiesa, il fascismo, la guerra, Firenze 19662, 73 ss.
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In sostanza, la Risposta ad un aviatore costituisce un inno alla coscienza come centro delle decisioni del cristiano109. Nel 1943 Mazzolari pubblica Impegno con Cristo. La pubblicazione raccoglie alcune meditazioni sul cristianesimo nella storia. La fedeltà a Cristo si concretizza in un impegno responsabile. Il cristiano non fugge né si rifugia in nicchie di comodo, ma dilata gli orizzonti delle proprie appartenenze, diventa lievito, vive la sua fede come impegno di amore verso gli altri. La categoria della testimonianza riassume bene il rapporto della coscienza cristiana col mondo. Per non abdicare dalle proprie responsabilità, il discepolo di Cristo fa sentire la sua voce in tempo di guerra, opta per l’obiezione di coscienza, promuove un cristianesimo che è liberazione dell’uomo non solo in senso interiore, ma anche dalle ingiustizie sociali. Il 7 dicembre 1943, il S. Uffizio scrive al Vescovo di Cremona perché ammonisca don Mazzolari a non scrivere su questioni analoghe a quelle trattate nel suo libro Impegno con Cristo, giudicato erroneo se non nella sostanza, almeno nella forma110. Il 25 luglio 1943 la caduta del Fascismo concede un temporaneo respiro. Si esce allo scoperto. Mazzolari diviene naturalmente il punto di riferimento dei giovani nel compito di orientare ed organizzare le subitanee rudimentali espressioni politiche dei cattolici nella prospettiva di una libertà a lungo sperata. Anche i rapporti con gli amici di Milano e di Roma divengono, per qualche tempo, più sicuri111. Ma il respiro è breve, perché 109
Cfr. B. BIGNAMI, Mazzolari e il travaglio della coscienza, cit., 213. Riportiamo il decreto inviato a mons. Cazzani dal S. Uffizio: «Dal palazzo del S. Offizio, 15 dicembre 1943. Eccellenza Rev.ma, come è noto a Vostra Eccellenza Reverendissima, questa Suprema S. Congregazione, con decreto di feria IV, 30 gennaio 1935, dovette ammonire il sac. Primo Mazzolari di codesta diocesi per il suo libro La più bella Avventura, e incaricare V.E. di vigilare la sua predicazione. Ora è stata richiamata l’attenzione del S. Offizio su un altro libro del Mazzolari, intitolato Impegno con Cristo, il quale è stato giudicato meritevole di censura; se non nella sostanza, almeno per la forma, dato che gli argomenti da lui toccati esigono grande prudenza per evitare che il risultato non sia contrario alle intenzioni. Pertanto gli Em.mi Padri di questa S. Congregazione nella feria III, 7 dicembre 1943, hanno deciso che V.E. ammonisca di nuovo il sac. Primo Mazzolari di trattare con maggiore prudenza certi argomenti, o meglio ancora, data la sua mentalità, di non scrivere su questioni analoghe a quelle trattate nel suo libro Impegno con Cristo. Perché V.E. possa ancora meglio regolarsi nella sua paterna assistenza e direzione di detto sacerdote, Le comunico, in foglio a parte, riservatamente, un giudizio dato da persona ben qualificata sull’attività e sulla predicazione del Mazzolari. Mentre le comunico questo decreto per la sua esecuzione, colgo volentieri l’occasione per rassegnarmi con sensi di distinta stima dell’Eccellenza Vostra Rev.ma devotissimo Francesco Card. Marchetti Selvaggiani, segretario»: Obbedientissimo, 173. 111 Gli eventi del 25 luglio 1943, che segnarono la caduta del regime fascista in Italia, 110
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l’8 settembre l’Italia, non ancora liberata, ricade sotto il tallone tedesco. Bozzolo diventa sede di reparti della “Guardia repubblicana” e di “Brigate nere” fasciste. Mazzolari viene indotto dagli amici ad allontanarsi. Dal 14 settembre, per alcune settimane viene ospitato dai parenti di Verolanuova e da confratelli del cremonese, riuscendo a rendersi irreperibile112. Riprende l’azione clandestina, intensificando i contatti con i giovani resistenti della plaga. Con i cospiratori mantovani s’impegna nell’organizzazione di un sistema di rapporti con gli alleati mediante una radio clandestina e “lanci” di materiale e uomini con il paracadute. Non perde i contatti con i dirigenti del movimento cattolico milanese e riesce ad animare un foglio ciclostilato dal titolo “Noi giovani” destinato alla formazione di quadri ed ai collegamenti con i diversi gruppi. Ma, all’improvviso e per la prima volta, l’11 febbraio del 1944 è arrestato e portato a Cremona. Dopo l’interrogatorio, condotto dagli scagnozzi di Farinacci, quasi miracolosamente viene rilasciato. Il 31 luglio arriva, però, il secondo arresto nel corso di una retata in cui vengono catturati dai tedeschi anche altri sacerdoti e i due giovani bozzolesi Sergio Arini e Pompeo Accorsi. A Mantova sostiene bene l’interrogatorio e viene rilasciato “per ragioni di ministero”, con la garanzia scritta del vescovo di Cremona che non si sarebbe allontanato dalla parrocchia. Il 31 agosto viene avvertito fortunosamente da un addetto al comando tedesco di Mantova, che è stato spiccato contro di lui un mandato di cattura. Un’ora dopo Mazzolari comincia la sua avventura clandestina. Lo stesso giorno, 31 agosto, Sergio Arini e Pompeo Accorsi vengono trucidati dai tedeschi sugli spalti del forte San Leonardo di Verona. Mazzolari si rifugia da un amico sacerdote di Gambara e vi rimane quattro mesi. Dal gennaio 1945 torna nascostamente a Bozzolo. Mentre tutti lo ritenevano ancora lontano, si rinchiude in una stanzetta appartata della stessa canonica, addossata al campanile: vi si entrava da una porticina nascosta da un armadio. Riconclusero la fase cospirativa di Mazzolari. Il giorno dopo usciva il manifesto guelfo (un milione di copie) mentre si invitavano gli aderenti a confluire nella Democrazia cristiana. Il manifesto guelfo venne tenuto in alta considerazione dallo stesso De Gasperi nella stesura delle Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana come testimonia Spataro. I democratici cristiani si organizzavano attivamente, nell’estate 1943, in zone e comitati. Mazzolari partecipò con ardimento anche a questa fase di ricostruzione politica come si raccoglie da alcuni cenni di una lettera ad Astori e da una lettera a Malvestiti: cfr. C. BELLÒ, Primo Mazzolari, cit., 118; cfr. P. TRIONFINI, Piero Malvestiti e don Mazzolari dal movimento guelfo d’azione ad «Adesso», in Impegno 1 (2004) 1, 96-122. 112 Cfr. Obbedientissimo, 171-172.
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mane segregato fino al 25 aprile. Dal marzo, ogni giorno, affida a un quadernetto le sue impressioni: saranno pubblicate soltanto dopo due anni dalla sua morte, con il titolo Diario di una primavera. Sulla pagina di diario che porta la data del 25 aprile 1945, Mazzolari scrive: «Mi chiamano. La finestra rimane socchiusa anche se l’uscio si apre. La liberazione non sempre è la libertà sognata»113. La Resistenza viene vissuta da don Primo con due modalità complementari: assistenza e lotta. A livello assistenziale la sua opera è diretta a soccorrere le famiglie dei militari, a mantenere contatti epistolari con i giovani soldati di Bozzolo, ad assistere i fuggiaschi e i prigionieri, a ospitare e salvare ebrei ricercati. È un servizio di supplenza istituzionale, esercitato in quegli anni in modo capillare dal clero, che si collocava «nell’area di confine fra istituzioni, religiosità e progetto politico»114. Non si tratta di un atteggiamento attendista o di equidistanza tra le parti in conflitto, bensì di carità cristiana vissuta fino a una scelta di campo115. Sono riflessioni che Mazzolari va maturando negli anni della guerra, tanto che C. Bellò parla di «crescita mistica»,116 riscontrabile in questo periodo attorno ai temi del povero, della speranza, dell’agonia permanente di Cristo e del cristiano sul Calvario. La guerra scava nel profondo e mette in luce l’essenziale dell’agire credente. Mazzolari s’impegna soprattutto nella lotta partigiana. Come si è visto prima, egli si espone personalmente fin dalla prima ora. All’annuncio dell’armistizio, la sera dell’8 settembre, in Chiesa invita pubblicamente i 113 Diario di una primavera, 83. Per la cronaca vedi lo stesso Mazzolari in Diario IV, 627630; cfr. A. CHIODI, Primo Mazzolari, cit., 57-69. 114 C. PAVONE, Una guerra civile, Torino 2000, 76; cfr. G. PENCO, Storia della Chiesa in Italia, II, cit., 538-545; cfr. G. MARTINA, Storia della Chiesa. Da Lutero ai nostri giorni, IV, cit., 219-247. G. Miccoli stigmatizza la contraddizione vaticana tra il richiamo ai doveri della carità nel corso della guerra e la mancanza di coraggio nel denunciare apertamente chi si era reso responsabile di crimini contro l’umanità. Vi si riscontra un pericolo di astrattezza e di irrealismo che permettono «il persistere di equivoci e di atteggiamenti compromissori»: G. MICCOLI, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Milano 2000, 413. 115 Quando nel 1956 viene invitato da mons. Baldelli a ricordare la mano benefica di Pio XII nella Roma segnata dalla guerra, Mazzolari inserisce l’attività assistenziale della Chiesa all’interno del dinamismo caritativo della vita cristiana. Non è eroismo, ma il mondo di vivere concreto la fede. Il volume La carità del Papa è un inno alla carità, celebrata come miracolo della moltiplicazione dei pani che si rinnova. Al centro stanno le esigenze dei poveri: l’amore «guarda unicamente a chi soffre, senza chiedersi perché soffre o chi lo fa soffrire»: Carità, 145. 116 Si veda tutto il capitolo intitolato «Tempo di credere», riguardante la seconda guerra mondiale, in C. BELLÒ, Primo Mazzolari, cit, 93-121.
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tedeschi a «ripassare le Alpi», pena la ribellione degli italiani. Prende corpo la Brigata Mantovana Fiamme Verdi: il movimento ribelle ha i suoi capi nei giovani Arini e Accorsi, ma in ultima analisi il riferimento è proprio Mazzolari. L’organizzazione clandestina assume una struttura militare, appoggiata o comunque tacitamente permessa dal parroco di Bozzolo117. La Resistenza, per Mazzolari, è solidarietà nella lotta per la liberazione e, insieme, occasione per costruire la rivoluzione cristiana. La lotta resistenziale coinvolge un movimento di massa intorno a valori cristianamente condivisi: giustizia, libertà, democrazia, redenzione dell’uomo dalle sopraffazioni razziste. Mazzolari se ne fa interprete: la disobbedienza per ordine morale è il modo autentico per costruire il bene comune. La sua scelta resistenziale non è, dunque, motivata da scelte politiche o ideologiche, come avveniva per i comunisti, ma è il frutto di una rivolta della coscienza ferita «dalle ingiustizie, dalle sopraffazioni, dalle persecuzioni, dagli eccidi, dall’emergere di una barbarie senza umanità e senza carità»118. Per don Primo la resistenza scaturisce dalla fedeltà alla coscienza cristiana. Essa costringe la teologia a ripensare e a rifondare il rapporto tra fede e politica, tra fede e società, tra fede ed economia. Mazzolari afferma la necessità della coscienza cristiana e sacerdotale di vivere la resistenza: «L’uomo libero e consapevole è sempre un “resistente”, qualunque siano i tempi e i regimi. Ci son sempre cose che non possono essere accolte dal galantuomo: c’è sempre una tentazione dell’ambiente e del tempo, che ci minaccia in quello che abbiamo di veramente nostro e di più prezioso. Chi tira i remi in barca perché c’è bonaccia in aria, non sa o dimentica che in ogni momento la nostra coscienza morale e cristiana è posta davanti a delle scelte. La scelta crea l’esistenza»119.
Ancora una volta, mediante il travaglio della sua vita, Mazzolari ci mostra l’importanza della fermentazione del lievito cristiano nella storia, l’influenza del piano spirituale su quello materiale, il recupero della dimensione storica nella spiritualità presbiterale e, dunque, la continuità tra vita spirituale e servizio pastorale. Il ministero pastorale si configura così non come il frutto di uno strapotere clericale sulla società, né come il punto conclusivo dell’irrealizzabile progetto del regno di Dio sulla ter117
Cfr. P. MAZZOLARI, Quando la patria chiama, cit., 156-158. F. MALGERI, La Chiesa e la società italiana tra guerra e dopoguerra, cit., 36. 119 P. MAZZOLARI, Ho paura delle mie parole, a cura di D. Bettoni, Bologna 2000, 170. 118
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ra o di una civiltà cristiana di segno integralistico120, ma come impegno per la costruzione di una città terrena aperta a tutti i valori dell’uomo e nella quale la coscienza religiosa si pone essa stessa a servizio della crescita della coscienza civile, di coloro che sono “dentro” e di coloro che sono, o si ritengono, “fuori” della chiesa121. Questa concezione di ministero pastorale che incarna la spiritualità presbiterale è la caratteristica originale di don Primo. Indicando nel distacco tra “religione preghiera-culto” e “religione fede-vita” il segno distintivo di «una cristianità senza mordente e senza audacia, senza presa sul reale»122, Mazzolari avverte che: «una religione che non intacchi la realtà e non fermenti sotto i passi del credente, che contempli e non faccia la storia, cessa di essere un problema per diventare un capitolo della storia delle religioni, che, come ognuno sa, è il cimitero delle religioni…prima di provare che il Cristianesimo è vero nell’ordine logico, si deve provare che è vivo nell’ordine dei fatti. Esso diventa un problema dottrinale dopo che l’ho sentito come un problema di vita. Se non mi risponde più sul piano della storia, è tempo perduto l’affanno che mi prendo per dimostrarne la convergenza e la razionalità sul piano della filosofia, della teologia e della critica storica. La pretesa non è nuova né illogica né offensiva per nessuno. L’avrebbero sofferta gli stessi cristiani dei tempi migliori, se non avessero trovato, nella propria fede, il carisma vitale della storia»123. 120
Egli, come si è visto non appartiene alla generazione di preti formati dopo la Pascendi, generalmente chiusi al confronto col mondo e più impegnati alla riconquista cristiana della società. Se infatti per la maggioranza del clero la promozione della democrazia e l’interesse per la politica rivestivano un valore strumentale, non così per il parroco di Bozzolo. Era diffusa infatti tra i preti l’idea che la gestione della res publica fosse un mezzo utile per portare le anime a Dio e che la politica dovesse essere al servizio della ricostruzione della società cristiana. La riprova la si ha con l’avvento del regime fascista: il Partito Popolare di Sturzo viene considerato un ostacolo al raggiungimento della conciliazione tra la Chiesa e lo Stato. Qualsiasi politica è ritenuta accettabile purché in grado di coniugare Roma cristiana e Roma fascista vd. B. BIGNAMI, Mazzolari e il travaglio della coscienza, cit., 91-92. 121 Mazzolari, quindi, rifiuta una visione strumentale della politica e della libertà. Le vede come valori in sé che meritano di essere difesi e promossi senza tradire il bene comune del popolo italiano. «Dove sono in gioco i grandi problemi della libertà evangelica e della giustizia e della carità, non ci si può trincerare in un’atmosfera di soprannaturalismo»: Diario III/A, 461. Ha presente il pericolo di una ricerca di posizioni di privilegio, di contrattazione col fascismo per ottenere favori in cambio di una qualche limitazione della verità. Anche nel secondo dopo guerra don Primo difende la democrazia e la libertà come ricchezze del popolo che le ha conquistate attraverso il sangue della Resistenza. La politica non è tanto al servizio dell’evangelizzazione, ma dell’uomo e della convivenza civile cfr. G. CAMPANINI, Don Primo Mazzolari tra religione e politica, cit., 55-57; ID., Per una Chiesa in stato di missione, cit., 88-91. 122 Prova, 242-243. 123 Impegno, 119. Cfr. G. SIGISMONDI, La Chiesa un focolare che non conosce assenze. studio del pensiero ecclesiologico di don Primo Mazzolari, Assisi 20032, 219-239.
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5. Il nuovo ordine cristiano di Pio XII Il disegno pastorale di Pio XII in vista della ricostruzione morale e civile del dopoguerra appare animato, principalmente, dalla esigenza di un recupero dei valori cristiani, di un ritorno a Cristo, al Vangelo, ai valori tradizionali della fede interpretati come l’unica strada che può riportare ordine e giustizia nella società e nei rapporti internazionali. È l’idea del nuovo ordine cristiano, che aveva animato i suoi messaggi durante la guerra e che è presente, nelle parole e negli atti, anche negli anni che dal dopoguerra arrivano fino alla sua morte, seppure stemperata negli ultimi anni del Pontificato. Insomma, i valori cristiani dovevano costituire il tessuto connettivo della società, essere punto di riferimento per gli uomini di governo e per i cittadini, nelle professioni, nelle arti, nel lavoro, nell’economia. Una visione che trovava le sue radici nella crisi degli ultimi anni Trenta, quando, agli occhi della Chiesa e del Papa, l’Europa da cristiana si era fatta pagana ed era precipitata nella tragedia della guerra. Pio XII esce, quindi, dalla seconda guerra mondiale con la convinzione, sempre più profonda, dell’imprescindibile necessità del ritorno dell’uomo ai valori del cristianesimo, per ritrovare l’ancoraggio sicuro, il punto di riferimento costante della sua azione e dei suoi comportamenti, non soltanto religiosi, ma civili, sociali, politici. Una visione pastorale nella quale si accentua più il carattere religioso che politico. Nel giudizio corrente su Pio XII si è creata e consolidata l’immagine di un Papa politico (oltre che diplomatico), un Papa che interferisce pesantemente e condiziona la vita pubblica, soprattutto in Italia. Questo giudizio, che ha comunque la sua validità, va tuttavia in parte corretto, nel senso che quegli interventi erano principalmente dettati da preoccupazioni di carattere religioso124. Pio XII riteneva diritto della Chiesa intervenire, guidare, offrire indicazioni alle forze politiche, soprattutto se queste dicevano di ispirarsi ai valori cristiani. In sostanza, per il Papa, la politica dei cattolici doveva essere, prima di tutto, al servizio della Chiesa e dei suoi disegni di recupero cristiano della società. I cattolici impegnati sul piano politico o sociale dovevano assecondare le indicazioni della Chiesa. Intervenendo al Sacro collegio del 2 novembre 1954, Pio XII condanna «il modo di pensare di alcuni laici cattolici, anche di coloro che rivestono alte cariche» e 124
Cfr. F. MALGERI, La Chiesa e la società italiana tra guerra e dopoguerra, cit., 38-39.
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quanti volevano «tener lontana la Chiesa da tutte le iniziative e le questioni che riguardano la vera realtà della vita, come dicono, perché estranea alla sua competenza». E aggiunge «il potere della Chiesa non si limita all’ambito delle questioni strettamente religiose, come dicono, ma cade sotto la sua autorità l’intero oggetto, istruzione, interpretazione, applicazione della legge naturale, in quanto riguarda il suo aspetto morale»125.
Pio XII incontrò una sola volta don Mazzolari nell’ottobre del 1941 in un’udienza generale insieme a una settantina di scrittori; in tale occasione, descritta in un articolo su “L’Italia” di Milano dell’11 ottobre, don Primo si limitò a chiedere al Papa di benedire i suoi 450 soldati bozzolesi126. Ma il Papa certamente conosceva il parroco di Bozzolo; nel 1935, infatti, quale membro della Commissione cardinalizia del S. Uffizio, aveva preso in esame La più bella avventura, che venne poi censurata; ne avrà condiviso le motivazioni? Nel 1942, ricorrendo il 25° di episcopato di Papa Pacelli, don Mazzolari pubblicò presso l’editore Gatti di Brescia, il già ricordato, Anch’io voglio bene al Papa. Il libro fu inviato personalmente a Pio XII, tramite un conoscente che aveva accesso alla Casa Pontificia; il Papa lo lesse e non lo gradì, lo disse a mons. Montini e lo incaricò di farlo presente al Vescovo di Cremona. Non era piaciuto il modo troppo umano con cui si parlava del Papa127. Nel 1943 don Mazzolari pubblicò presso le Edizioni Salesiane di Pisa Impegno con Cristo, e il 7 dicembre di quell’anno il S. Ufficio giudicò il libro meritevole di censura, se non nella sostanza, almeno 125
Pio XII, Intervento al Sacro collegio, 2/11/1954, in Acta Apostolicae Sedis (1954) 46, 671-675. Cfr. S. DIANICH, L’Ecclesiologia in Italia dal Vaticano I al Vaticano II, in F. TRANIELLO – G. CAMPANINI (curr.), Dizionario storico del Movimento cattolico in Italia (18601980), I/1, Torino 1981, 174: «per il Papa l’autonomia di azione nel temporale era concepita in maniera assai ristretta, perché egli vedeva operante l’autorità della Chiesa nell’interpretazione e nell’applicazione della legge naturale e ne derivava un concetto della disciplina ecclesiastica molto rigoroso, sì da giustificare il suo reiterato e rigoroso imperativo dell’unità politica ed elettorale dei cattolici in Italia». 126 Cfr. Documenti: 169 articoli pubblicati sul quotidiano L’Italia di Milano (I Quaderni della Fondazione 8-9), cit., 75. 127 Cfr. Obbedientissimo, 146-147. A pag. 147 Bedeschi afferma che don Primo, avvertito di ciò, mandava a dire all’editore (7 settembre): «se il mio è linguaggio non sopportabile se ne accorgeranno fra qualche mese i cortigiani, quando non più un figlio devoto ma una violenza scatenata chiederà ad ognuno conto del proprio operare. Continuo a lavorare per il domani e non ho mai avuto tanta fiducia».
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nella forma, e chiese al Vescovo di Cremona di ammonire di nuovo il parroco di Bozzolo perché trattasse con maggiore prudenza certi argomenti o, meglio ancora, data la sua mentalità, non scrivesse su questioni analoghe a quelle trattate nel libro128. Certamente il Papa non era all’oscuro della delicata posizione del sacerdote cremonese. Dopo i tragici avvenimenti bellici che avevano portato alla caduta del Fascismo e che lo avevano costretto a vivere per otto mesi in clandestinità nella canonica di Gambara (Brescia) e nella sua residenza a Bozzolo, don Primo, venuta la Liberazione, intensifica freneticamente la sua attività, rivolgendola soprattutto all’orientamento dei giovani nella costruzione della nuova democrazia. Tuttavia, il 9 marzo 1946 il S. Ufficio gli decretò l’ammonizione per la pubblicazione, edita dalla DC mantovana, dell’opuscolo Impegni cristiani – istanze comuniste, con l’ordine di ritirare lo scritto dal commercio e di obbligare l’autore a cinque giorni di esercizi spirituali senza poter celebrare la S. Messa129. Ma nel decreto comunicato al Vescovo di Cremona non venivano indicati i punti dottrinali controversi. Nel 1949 iniziò la pubblicazione del quindicinale “Adesso” che, per l’audacia delle sue analisi sociali, politiche ed ecclesiali, gli procurò nuovi richiami e ulteriori censure da parte del S. Ufficio, fino alla punizione di non poter predicare fuori dalla sua parrocchia, nel giugno 1954130. Nonostante il comportamento non sempre docile di don Mazzolari, riguardo però ad argomenti sociali e non attinenti alla verità della fede, nel febbraio del 1956 mons. Baldelli, presidente della Pontificia Opera di Assistenza, gli chiese di scrivere un libro sulla carità svolta da Pio XII in Italia durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra; il motivo era offerto dall’80° compleanno del Papa. Don Primo accettò volentieri l’invito e si recò a Roma per alcune settimane, rimanendovi dal martedì al venerdì, presso la sede della P.O.A. a consultare l’enorme materiale riguardante l’argomento, coadiuvato in ciò da un giovane prete calabrese don Giovanni Marra131. Il 16 novembre di quell’anno don Primo scrisse nel suo diario: «Mons. Baldelli trova il lavoro troppo mazzola128
Cfr. ibid., 173. Cfr. ibid., 190-191: afferma Bedeschi che la condanna s’indovinava facilmente nell’atteggiamento piuttosto irenico verso il comunismo e nella critica al perbenismo borghese (cfr. 190). 130 Cfr. ibid., 248-249. 131 Cfr. Carità, 23-28. 129
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riano, ma è contento»132. Dopo alcuni mesi di andata e ritorno del dattiloscritto da Bozzolo a Roma per la revisione, l’8 maggio del 1957 l’annuncio: «da mons. Baldelli una buona lettera sul mio lavoro, che viene accettato»133, e il 5 giugno da Roma la notizia: «La pubblicazione avverrà quanto prima»134. E invece, dovettero passare trentatrè anni, e non fu data nessuna spiegazione. Il dattiloscritto originale presso l’Archivio della P.O.A. è scomparso. Per comprendere la diversità di pensiero tra Pio XII e Don Mazzolari è indispensabile riferirsi al panorama ecclesiologico dell’epoca. Don Primo non è estraneo all’intensificarsi del dibattito teologico-pastorale sviluppatosi negli anni che precedono la pubblicazione Mystici Corporis, avvenuta nel 1943135. Questa enciclica di Pio XII se da un lato segna la linea di partenza dell’itinerario che ha reso possibile, «in epoca conciliare e post-conciliare, una integrazione delle ecclesiologie del Corpo mistico con l’ecclesiologia del Popolo di Dio»136, dall’altro costituisce il punto di arrivo di un’intensa riflessione sul mistero della Chiesa, le cui linee di fondo, benché seguano il solco tracciato dalla prima Assise ecumenica vaticana, aprono la strada «a nuove idee ecclesiologiche e, soprattutto, a nuovi impulsi di rinnovamento ecclesiale»137. Il cammino compiuto «sotto il segno dell’ecclesiologia proposta nella costituzione dogmatica Pastor Aeternus, del 18 luglio del 1870»138, copre l’intero periodo che intercorre tra la fine del Concilio Vaticano I e la conclusione della prima guerra mondiale. Lungo questo ampio arco di tempo si afferma una prospettiva ecclesiologica di indirizzo orizzontale, che ruota attorno al concetto di autorità gerarchica e alla nozione di società perfetta139. 132
Ibid., 27. Ibid. 134 Vita, 234. 135 Cfr. A. ANTON, Lo sviluppo della dottrina sulla Chiesa nella teologia dal Vaticano I al Vaticano II, in L’ecclesiologia dal Vaticano I al Vaticano, II, Brescia 1973, 27-86; ID., El Misterio de la Iglesia. Evolucion historica de las ideas eclesiologicas, in «De la apologetica de la Iglesia-sociedad a la teologia de la Iglesia-misterio en el Vaticano II y en el posconcilio», II, Madrid-Toledo 1987, 321-562. 136 A. ANTON, Lo sviluppo della dottrina sulla Chiesa, cit., 38. 137 Ibid., 37. 138 L.c. 139 Cfr. S. DIANICH, L’Ecclesiologia in Italia dal Vaticano I al Vaticano II, cit., 162-180. A p. 164, Dianich fa una affermazione interessante: «Tutta l’ecclesiologia scolastica di questo 133
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La linea tracciata dal Vaticano I viene ripresa nei manuali di teologia, il cui trattato di riferimento De Ecclesiae riserva ampio spazio alle questioni relative all’autorità infallibile del successore di Pietro e a quelle concernenti il primato romano. La stessa vita ecclesiale, collocandosi sulla lunghezza d’onda dell’Assemblea conciliare, presenta un forte carattere gerarchico, che accentua notevolmente la contrapposizione «tra pastori e fedeli, la Chiesa docente e Chiesa discente, infallibilità in docendo e infallibilità in credendo»140. Intorno al 1920, in coincidenza con la fine del primo conflitto bellico, «si verifica nella storia dello sviluppo della dottrina sulla Chiesa un risveglio di forze rinnovatrici tanto nel campo teologico dell’ecclesiologia quanto nel campo liturgico-sacramentale e pastorale della vita della Chiesa»141.
Il delinearsi di una prospettiva ecclesiologica nuova e l’affermarsi di una diversa coscienza ecclesiale — caratterizzate entrambe dal progressivo superamento della nozione estrinsecista, giuridica e apologetica di societas perfecta — vedono chiaramente confermata la legge «del mutuo influsso e scambio di elementi tra la dottrina teologica sulla Chiesa e la sua realizzazione storica»142. Il rinnovamento ecclesiale ed ecclesiologico registrato nel ventennio che precede la pubblicazione della Mystici corporis — dovuto essenzialmente alla riscoperta della dimensione soprannaturale del mistero della Chiesa — riceve un forte influsso grazie al risveglio del senso comunitario dell’immagine dottrinale e reale della Chiesa. «Nella ricerca di questo nuovo senso di comunità sorge nella Chiesa tra i teologi e nel seno stesso della comunità credente una forte reazione contro la nozione sociologica e giuridica della Chiesa come società perfetta»143 .
periodo eredita dalla tradizione post-tridentina la preoccupazione per la struttura sociale della Chiesa e dal Vaticano I la cura di costruire tutta l’immagine della Chiesa intorno al Papa, principio dell’autorità e dell’unità ed ultima garanzia della sua autenticità». 140 Ibid., 58. 141 Ibid., 62. 142 Ibid., 64. Un’immagine teologica rinnovata della Chiesa comunica spontaneamente nuovi impulsi e suggerisce nuove manifestazioni di vita ecclesiale e, nello stesso tempo, un’immagine reale della Chiesa provoca un rinnovamento della dottrina teologica sulla Chiesa. 143 Ibid., 65.
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Mazzolari matura il suo pensiero in questo contesto di sviluppo così effervescente e offre un contributo di indubbio valore alla maturazione di una diversa sensibilità ecclesiale e di una nuova mentalità ecclesiologica. Innanzitutto risulta originale, rispetto alla teologia tradizionale dell’epoca, il modo di definire la persona e il ministero del papa, evidenziato nelle pagine del libro Anch’io voglio bene al Papa. In esso Mazzolari, distinguendo nella persona del Papa la dimensione simbolica da quella umana, si preoccupa di definire l’incrocio fra la zona teologica e quella individuale del sommo pontefice. Per questo tratteggia analiticamente il volto umano della figura di Pietro, deplorando, innanzitutto, un linguaggio retorico, fervoroso, aulico che dimentica il lato umano del ministero petrino. Il papa, a giudizio di don Primo è “pietra”, scelta da Dio per essere fondamento della sua Chiesa, ma è anche “cuore” che ha bisogno della grazia per poter battere e amare con il cuore di Cristo. Nell’opera La carità del Papa, Mazzolari traccia un profilo del Papa a partire dalla prospettiva della carità che egli ha esercitato durante la seconda guerra mondiale. Don Primo si sofferma sull’unicità della relazione che lega il Romano Pontefice a Cristo e a Pietro: essa rivela, da un lato, il precipuo carattere simbolico del ministero petrino e , dall’altro l’assoluta originalità del servizio apostolico del Santo Padre. In quanto vicario di Cristo il Papa è vincolo sensibile e, nello stesso tempo, simbolo vivente dell’unità e della cattolicità della Chiesa: egli serve l’unità della Chiesa ed esprime una cattolicità «che abbraccia tutti coloro che non vogliono rinunciare a vivere da uomini»144. In qualità di successore di Pietro, don Primo mette in risalto l’aspetto simbolico e la dimensione universale della paternità del Romano Pontefice: «il papa è presente nel mondo non con spirito di competizione o di parte, non per chiedere o sopraffare, ma con purezza di cuore e universale paternità, con disinteresse completo e carità illimitata»145. Inoltre, nel riconoscere il carattere indefettibile della parola del Papa, don Primo sostiene che ogni successore di Pietro quanto più diventa testimone credibile della verità rivelata tanto più ne diviene custode autentico: «il deposito che il papa ha ricevuto in custodia non verrà meno, perché egli non può nulla contro la verità, essendo stato munito contro ogni defettibilità: ma c’è 144 145
Papa, 43. Ibid., 42.
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qualcosa ch’egli deve mettere a servizio della verità e che può mancare tanto a lui come all’ultimo dei cristiani. Ci sono fedeltà passive e quasi assenti che fanno pensare al servo che mette il talento sotto terra col pretesto di meglio custodirlo. Ci sono fedeltà operose e innamorate che rendono testimonianza alla verità. Il pontefice è per ufficio e per divina garanzia, custode della verità: ma se vuol essere forma del gregge commessogli deve divenire, come ogni cristiano e meglio d’ogni cristiano, un testimone, perché la Chiesa è la roccaforte della verità e la casa della testimonianza»146.
L’autorevolezza della parola e della voce del Papa non esime nessuno dall’obbligo di tradurne in linguaggio corrente le varie articolazioni e di concretizzare o incarnare le verità da lui espresse. La Chiesa deve tradurre, concretizzare e pregare per il primo dei suoi figli. Il Papa, infatti, afferma Mazzolari percorre «una strada che assomiglia a una pista del deserto»147, perché «dove più alta è la vetta, c’è più deserto: dove più grande la responsabilità, c’è il deserto: dove c’è più attesa, c’è più deserto; dove c’è più cuore, c’è più deserto; dove c’è più Dio, c’è più deserto»148. «Pietra e cuore, padre e figliolo»149: in questo modo Mazzolari mette a fuoco i lineamenti umani del Papa, evidenziando che «la fragilità dell’uomo, posto da Dio a governare la sua Chiesa, è dell’uomo in quanto uomo e nel rapporto con la sua vocazione, la quale lo espone a maggiori prove»150. In secondo luogo, Mazzolari, animato da una spiccata sensibilità ecclesiale e da una mentalità aperta al rinnovamento teologico del tempo, riassume, con la sua persona e con le sue opere, il difficile passaggio della Chiesa italiana dalla cultura della cristianità alla cultura della diaspora: non è un caso che, tramontate le illusioni degli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, don Primo sia stato fra i primi, con netto anticipo sullo stesso Dossetti, a comprendere l’improponibilità culturale e operativa del ritorno alla civiltà cristiana. Egli si pone in atteggiamento di rifiuto di ogni clericalismo, giuridismo e trionfalismo della Chiesa. Se il clericalismo tende a ridurre il laicato a una condizione di passività e a fare dell’apostolato una semplice appendice, Mazzolari af146
Ibid., 89. Ibid., 94. 148 Ibid., 72. 149 Ibid., 50. 150 Ibid., 87. 147
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ferma l’indispensabilità dell’azione laicale e l’autonomia dei laici che devono operare l’inserzione dello spirituale nel temporale con metodi propri (anche in ambito politico). Se la Chiesa concepisce l’autorità sul modello della giurisdizione propria dello Stato civile e amplifica grandemente il posto della legge e delle pene, giuricizzando anche i poteri di insegnamento e di santificazione, Mazzolari facendosi fedele interprete della fede della comunità credente, attenzionando tutte le voci, tutte le necessità e tutti gli autentici valori dell’uomo, recupera il vero volto della Chiesa definendola “la Casa del Padre”, “la famiglia dei figli di Dio”, che vive nella logica del servizio e nello spirito della fraternità e sulla quale si fonda l’esercizio di ogni prerogativa o funzione gerarchica. Se la Chiesa si presenta drammaticamente schierata come un esercito in battaglia contro Satana e i poteri del male, Mazzolari dimostra che della Chiesa «siamo tutti fuori e tutti dentro» e che «un po’ di Chiesa è dovunque e che un po’ di mondo è dovunque»151. La visione del rapporto Chiesamondo, in don Primo, appare particolarmente attenta alla concretezza della storia e caratterizzata da una forte attenzione all’uomo. Egli critica soprattutto la posizione autoreferenziale della Chiesa cattolica, la quale, preoccupata di garantire la sua identità e i suoi privilegi, non si accorge delle domande dei tempi e specialmente della crisi che attraversa l’uomo contemporaneo. Mazzolari sostiene che la Chiesa recupererà la sua identità e la sua missionarietà se avrà riattivato la sua capacità di servizio all’uomo. Per questo egli è consapevole che la strada del rinnovamento della società passa in qualche misura dalla riforma della Chiesa. Il linguaggio troppo “umano” adottato per parlare del Papa e del suo ministero petrino, il metodo e lo stile usati per definire la Chiesa e il suo rapporto con la modernità sono stati, probabilmente, i motivi dell’incomprensione tra Mazzolari e Pio XII: l’uno antenna sensibile che, captando i segnali tangibili di una società radicalmente mutata, chiede un cambiamento del modo di apparire della Chiesa e di conseguenza del ministero sacerdotale, l’altro propugnatore del ritorno a una società cristianizzata che conserva i valori e i riferimenti propri della societas christiana.
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Avventura, 32.
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6. La Chiesa italiana negli anni cinquanta La linea pastorale di Pio XII, tesa al recupero cristiano della società, trovò efficaci esecutori non solo nell’Azione Cattolica e nella sua mobilitazione promossa e guidata da Luigi Gedda attraverso i Comitati civici; alla fine degli anni Quaranta e all’inizio degli anni Cinquanta, infatti, un gesuita come Riccardo Lombardi apparve uno dei più fedeli interpreti della linea pacelliana. A leggere i suoi scritti e i suoi discorsi c’è da restare sorpresi per il vigore e la sicurezza che emanano. Una sicurezza che lasciò perplesso Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro successore di Pio XII, che nel 1955 aveva seguito a Torreglia gli esercizi spirituali del padre gesuita e ne aveva colto, come annotava nel suo diario, il carattere “fervoroso sino all’esaltazione”, l’entusiasmo “impressionante” e avanzava alcune riserve «circa apprezzamenti d’ordine storico e di visione unilaterale dello stato del mondo moderno». Padre Lombardi intendeva dare l’annunzio di un’età nuova, “l’età di Gesù”; voleva «rendere consapevole di questa situazione storica la nostra generazione e invitarla a corrispondere al grandioso piano provvidenziale»152. Affermava il Padre Lombardi che: «in concreto occorre diciamo veramente la parola, una vera Crociata, la Crociata del secolo XX. Il nome è preso da quelle spedizioni religiose e guerriere, che in altri tempi si proposero di liberare il sepolcro di Cristo dagli infedeli. Ebbene, oggi va compiuta altrettanto, con una spedizione immensa, ancor più numerosa, ancor più religiosa e ancora più guerriera, quantunque senza armi materiali: invadere tutta la terra dove sono troppi sepolcri di Cristo — uomini con la vita di Cristo spenta in cuore — e liberarli, farli rinascere in Gesù, ingrossare man mano le file e conquistare l’intera umanità alla gioia, umana e divina»153.
Questa crociata del XX secolo, condotta con tanto vigore da Padre Lombardi, è stata interpretata, con un certo schematismo, in funzione essenzialmente anticomunista e con forti accentuazioni conservatrici e reazionarie. In realtà, l’anticomunismo che emerge dai discorsi di Padre Lombardi, non scaturisce dall’atteggiamento di gran parte del mondo cattolico, caratterizzato, in quegli anni, oltre che dal rifiuto del materialismo e dell’ateismo, giudicati elementi cardine dell’ideologia marxista, anche 152 153
GIOVANNI XIII, Il Giornale dell’anima e altri scritti di pietà, Roma 1965, 342. R. LOMBARDI, Per un mondo nuovo, Roma 1951, 697-698.
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dal clima stesso della guerra fredda e della realtà del comunismo dei paesi a democrazia popolare, ove la persecuzione alla Chiesa e alle gerarchie ecclesiastiche aveva assunto aspetti drammatici. Il senso di questa crociata appare, per molti aspetti, più religioso che politico, animato spesso da una sorta di populismo evangelico, che si richiamava con forza alle istanze cristiane della giustizia sociale. Ma il problema non è tanto quello di dimostrare se questa linea della Chiesa facesse o no il gioco di una visione moderata o frenante della vita sociale e politica, quanto quello di considerare gli strumenti che la Chiesa utilizza e soprattutto la sua capacità di lettura della realtà socio-economica nella quale doveva muoversi in questi anni. La Chiesa appare troppo spesso impegnata in un’eccezionale mobilitazione per costruire il “mondo nuovo” e il “mondo migliore”, manifestando, però, scarse capacità di cogliere non solo il difficile e complesso equilibrio che caratterizza la società italiana sul piano politico-sociale, ma anche le profonde trasformazioni che stavano cambiando il volto e la geografia del nostro paese. Quella crociata, accompagnata dall’immagine trionfalistica della Chiesa e del Papa, pur nel generoso sforzo di riportare la società italiana sotto la guida del Vangelo, immunizzandola dai veleni delle ideologie ateiste, dalla immoralità dilagante, dagli egoismi e dallo spirito di sopraffazione, viveva una palese contraddizione, in quanto sembrava non cogliere quel processo di trasformazione economica e sociale degli anni Cinquanta, che sarebbe stato la reale premessa di un graduale processo di secolarizzazione di portata mai conosciuta prima nella storia religiosa del nostro Paese. In sostanza, il recupero dell’uomo che aveva spento Cristo nel suo cuore non poteva ignorare forme di apostolato capaci di cogliere il nuovo contesto, a volte drammatico, che il Paese viveva. Ci troviamo negli anni che segnano il passaggio da una economia prevalentemente rurale e artigianale verso uno sviluppo del settore industriale e terziario che nel giro di pochi anni avrebbe ribaltato non solo il tradizionale equilibrio sociale del Paese, ma avrebbe inciso sui comportamenti, sulla mentalità, sul costume, insomma sul modo di vivere degli italiani. Gli anni di Pio XII non segnano ancora la maturazione di questo processo, ma ne indicano chiaramente i sintomi e i primi risultati. Stava lentamente scomparendo un’Italia fino ad allora legata ai ritmi e ai modelli delle società rurali, con i suoi valori e le sue istanze, il risparmio, la morigeratezza dei costumi, la famiglia e la fede, che erano poi i pilastri ai
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quali anche la Chiesa si richiamava e sui quali intendeva fondare il suo progetto di rinascita cristiana. Questi valori si stemperano, cominciano ad essere inquinati dai miti del benessere tipici delle grandi società capitalistico-industriali. La cinematografia e la televisione s’incaricano di far conoscere anche agli italiani quei miti e quei modelli, nei loro aspetti più allettanti e nei loro simboli più efficaci ed ammalianti. Ci troviamo di fronte all’immagine di una società apparentemente felice che nasconde, però, segni di contraddizioni profonde, di depressione e di povertà. Indubbiamente la Chiesa e, in particolare, la parrocchia italiana subiscono i gravi contraccolpi di questo processo. Si pensi ai riflessi del crescente fenomeno dell’urbanesimo, che impoverisce le parrocchie rurali, antico fulcro di vita sociale e religiosa, punto di riferimento costante del mondo contadino. Lo sradicamento di migliaia e migliaia di anime provocò il lento spegnersi di tradizioni e di vincoli che avevano rappresentato il tessuto connettivo della religiosità in Italia. Se l’immigrazione nei grandi centri industriali determina, in molti casi, l’attenuarsi e lo spegnersi della fede dei padri, la causa andava ricercata non tanto nell’antica idea della sociologia cristiana ottocentesca che vedeva nella fabbrica e nella città il luogo dell’empietà e della perdizione, quanto nella scarsa capacità della Chiesa di quegli anni ad affrontare con gli strumenti religiosi più opportuni la rivoluzione industriale italiana degli anni Cinquanta, forse la sola vera rivoluzione industriale conosciuta dal nostro Paese. Non sempre sembra capace di cogliere i drammi e le crisi individuali e collettive dell’uomo di questi anni. I pericoli che minacciavano la fede non sempre erano legati soltanto alla morale individuale, al costume e alla moda. Né va dimenticato che gran parte del clero italiano confuse troppo spesso i successi elettorali della DC come successo della fede, come la necessaria premessa per frenare il processo della secolarizzazione. Non va, quindi, sottaciuta — pur non sottovalutando gli elementi positivi dell’azione della Chiesa negli anni Cinquanta — la difficoltà che la Chiesa italiana incontra nell’impatto con la nuova realtà economico-sociale. Le istanze tradizionali, basate su un rigido e intransigente rigore, si scontrano con i miti della emergente società dei consumi, che troverà il suo sbocco nel boom economico degli anni Sessanta. Non si può dimenticare però che proprio in questi anni nello scontro tra un rigido rigore morale della linea pacelliana e i miti e i comportamenti dell’emergente società dei consumi, nell’impatto con problemi nuo-
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vi e inattesi ai quali la stessa Chiesa italiana forse si trovava impreparata, una parte non trascurabile della Chiesa italiana e della stessa Azione Cattolica coglie la nuova situazione che si va delineando. Nella fase declinante del pontificato di Pio XII, una parte del mondo cattolico e dell’AC comincia a interrogarsi, ad avvertire il disagio, a tentare di adeguarsi alla nuova realtà sociale, a rivendicare anche la laicità della politica di fronte all’impegno religioso, a superare lo spirito di crociata. Si tratta di segni, di sintomi, che matureranno più tardi, ma di cui possiamo cogliere la presenza anche all’interno della Chiesa di Pio XII, e che sono un annuncio, sia pur timido, della grande svolta del Concilio Vaticano II. In questa parte di Chiesa che cerca di interpretare i segni dei tempi si può annoverare certamente don Mazzolari. «Il sapere senza bontà, il potere senza servizio, la ricchezza senza carità sono forze distruttrici»154: ecco il senso profetico delle parole di Mazzolari. L’arido e astratto intellettualismo, la prevaricazione dell’uomo sull’uomo, lo spirito borghese sono, in negativo, gli essenziali punti di riferimento di Mazzolari; così come, in positivo, la sua lezione è riconducibile alle grandi categorie della cultura come impegno per l’uomo, della politica come servizio, della proprietà come responsabilità. Il problema centrale di Mazzolari, riguardo alla teologia delle realtà terrestri, non è quello della distinzione dello spirituale dal temporale, ma piuttosto quello dell’inserzione dello spirituale nel temporale, in nome di quella categoria dell’incarnazione che è la chiave di lettura per la comprensione del pensiero mazzolariano. Il dogma dell’incarnazione è la premessa di una sana laicità che libera la Chiesa dal clericalismo (definito da don Primo come: «la confusione e la subordinazione dello spirituale e del religioso a fini temporali»155 ), consente ai cristiani di agire nella storia senza remore e senza bardature, e soprattutto senza prestarsi alla ricorrente accusa di operare nel temporale con un secondo fine156. Occor154 ID., Segni dei tempi, a cura di R. Colla, Vicenza 1975, 84. Il volume prende una serie di scritti apparsi fra il 1939 e il 1943 sull’omonima rivista veronese, diretta da Paolo Bonatelli (ne dà notizia, in mancanza di una preliminare nota critica, il risvolto di copertina della citata pubblicazione). 155 Lettera, 27. 156 Rifiuto del laicismo e del clericalismo significa, per Mazzolari, opposizione ad ogni tentativo di emarginare la religione dalla città per farne “una città che non è la città di Dio”, ma insieme di costruirla a principio fondativo della città terrena. «Quella degli uni è una pietra senz’anima, quella degli altri è un’anima senza pietra», osserva Mazzolari a pro-
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re, afferma Mazzolari, costruire una città che sia insieme autenticamente laica e autenticamente religiosa, pietra sorretta da un’anima ed anima sorretta da una pietra. Da qui, all’interno della Chiesa prima ancora che nell’impegno dei credenti nella società civile, l’esigenza di una profonda e diffusa purificazione della struttura e della prassi pastorale ecclesiale, con la duplice denunzia dell’«attivismo separatista»157 e del «soprannaturalismo disumanizzato»158, riconducibili entrambi a quello che è chiamato «difetto di incarnazione»159. Mazzolari sostiene che «il laicismo può essere superato soltanto da un audace laicato cattolico, al quale spetta, come compito principale ed urgente»160, rifondare una vita cristiana incarnata nella realtà e presentata in tutti i suoi valori. All’interno di questa teologia delle realtà terrestri si colloca l’ecclesiologia tipica di Mazzolari: un’ecclesiologia del lontano161, antitrionfalistica162, attenta alla concretezza della storia e avente al suo centro il servizio all’uomo. Mazzolari vuole che la Chiesa e, in particolare, il sacerdote si adoperino alla liberazione di tutto l’uomo, diventino luogo d’incontro tra posito di queste opposte tentazioni: ibid., 28. Cfr. G. CAMPANINI, Don Primo Mazzolari fra religione e politica, cit., 46-55. 157 Lettera, 32. 158 Ibid., 37. 159 Ibid., 40. 160 Ibid., 48. In questo testo, a nostro avviso assai importante, Mazzolari parla quasi sempre di “parrocchia” e di “parrocchiani”, per rimanere fedele all’ambito ristretto che si era prefissato (e forse per non incappare in censure ecclesiastiche), ma quasi sempre occorre leggere rispettivamente “Chiesa” e “cristiani”. Vedi per approfondimenti sia G. CAMPANINI, Don Primo Mazzolari fra religione e politica, cit., 48-49 e anche P. MAZZOLARI, Per una Chiesa un stato di missione, cit., 78-91. 161 L’attenzione e il rispetto per i “lontani” sono un tema ricorrente in tutta l’opera di Mazzolari, già a partire dalla sua tipica lettura della parabola del Figliol prodigo: vedi I lontani e anche ID., Il coraggio del «confronto» e del «dialogo», a cura di P. Piazza, Bologna 1979, che riporta fra l’altro un importante scritto del 1937, «I cattolici italiani e il comunismo». Il rapporto con il comunismo è impostato, in Mazzolari, su questo tema dell’attenzione ai “lontani” e sull’esigenza del superamento delle cause storiche che hanno determinato una frattura fra chiesa e mondo operaio. 162 Come si è visto di particolare significato è l’opera Anch’io voglio bene al Papa, il cui significato critico nei confronti di taluni eccessi devozionistici e di talune fastosità mondane non poteva sfuggire agli ambienti curiali, che in effetti disposero il ritiro dell’opera. «Per voler bene al Papa — scriveva fra l’altro Mazzolari celandosi dietro la figura del “parrocchiano intelligente e franco” — non è necessario rompere i confini e dimenticare ch’Egli è pure un uomo»: Papa, 20. Tipica anche l’assimilazione al Cristo sofferente nelle pagine su La via crucis del Papa, 97: qui la missione del pontefice appare del tutto spoglia di ogni residuo trionfalistico; eppure, lamenta Mazzolari, «quanta vanità intorno a un uomo crocifisso».
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Cristo e gli uomini. La spiritualità presbiterale che Mazzolari inaugura si fonda sul servizio pastorale ai fratelli, senza il quale la fede cristiana risulterebbe incomprensibile e rischierebbe di ridursi a vuote pratiche di pietà e di legittimazione di qualsiasi potere sembri garantire i privilegi dell’istituzione ecclesiastica. Quella di don Primo è una spiritualità sacerdotale che va intesa in un duplice significato: da una parte deve formarsi e crescere attraverso il continuo confronto con la realtà umana, sociale e politica del tempo e, dall’altra, deve divenire donazione completa di sé ai fratelli, guardando al «divino esemplare» che «ha tratto a sé gli uomini dall’alto della croce»163.
*** In questo capitolo gli obiettivi sono stati, da un lato, quello di far vedere la maturazione della coscienza presbiterale di don Primo Mazzolari e, dall’altro, come il suo ministero sacerdotale sia maturato intrecciandosi costantemente col momento storico dell’Italia e della Chiesa italiana: la Prima guerra mondiale, il Fascismo, la Seconda guerra mondiale, la Resistenza, il Dopoguerra. Se la vita cristiana, nella fattispecie sacerdotale, è un perdersi come Cristo, ciò non comporta una fuga dal mondo, dalla storia. Don Mazzolari condivide la vita dei soldati in guerra (prima guerra mondiale); esprime il rifiuto di ogni diserzione dalla propria vocazione, stando nella vita con tutti e due i piedi e vivendo facendosi carico dei problemi. Mazzolari non accetta l’involuzione spiritualista di una cristianità dimissionaria, soprattutto davanti alle arroganze del potere: per questo rimane una delle poche voci critiche all’interno del panorama cattolico italiano, durante l’ascesi del fascismo. Mazzolari si lascia interrogare dalla vita in modo costruttivo maturando ulteriormente la sua vocazione. L’esperienza della guerra al fronte gli si presenta totalmente diversa da quella immaginata a tavolino o studiata nei manuali di teologia. L’esperienza del dolore e della sofferenza gli cambia lo sguardo, il modo di rapportarsi con l’umanità, la comprensione 163
Diario II, 408. Precisa Mazzolari: «I sacerdoti guardino il loro divino esemplare e non dimentichino che le umiliazioni senza luminosità sono quelle soltanto che noi compiamo staccandoci dalla bontà, dalla Carità che il nostro ministero comprende e crea»: l.c.
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della guerra, il senso del riferimento al vangelo. La coscienza sacerdotale, continuamente esposta agli stimoli provenienti dalla storia e segnata dalla sua esperienza bellica, porta don Primo a passare dall’interventismo al pacifismo. Per Mazzolari non esiste più una guerra “giusta” e il ministero del sacerdote, in prima istanza, deve giocarsi sulla considerazione del valore della testimonianza incarnata nella non violenza, nella resistenza attiva al male e nell’affermazione del primato della coscienza. Durante la seconda guerra mondiale Mazzolari si propone di ricostruire le basi per un futuro nuovo della società. Per tale motivo s’impegnerà nella formazione delle future classi politiche della Democrazia cristiana e nella lotta della Resistenza. Per don Primo la Resistenza scaturisce dalla fedeltà alla coscienza cristiana. Essa costringe la teologia a ripensare e a rifondare il rapporto tra fede e politica, tra fede e società, tra fede ed economia. Egli non appartiene alla generazione dei sacerdoti formati dopo la Pascendi, generalmente chiusi al confronto con il mondo e più impegnati alla riconquista cristiana della società, ma fa suo lo stile e il metodo di confronto e di dialogo portato avanti dai preti sociali. Infatti, per lui l’impegno religioso va di pari passo con quello sociale. La “cura d’anime” non può accettare il silenzio davanti alle ingiustizie e ai problemi della gente. La spiritualità del prete fa i conti, dunque, con la concretezza del volto dell’altro. L’impegno cristiano nel mondo diventa, quindi, la caratteristica originale di don Primo. Per lui la politica non è tanto al servizio dell’evangelizzazione, ma dell’uomo e della convivenza civile. Per questo egli rifiuta la visione strumentale della politica e della libertà portata avanti dalla gerarchia italiana (il nuovo ordine cristiano di Pio XII) e sarà per questo che, nel secondo dopo guerra, difenderà la democrazia e la libertà come ricchezze del popolo italiano che le ha conquistate attraverso il sangue della resistenza. Tra il rigido rigore morale della linea pacelliana e i miti e i comportamenti dell’emergente società dei consumi, si fa avanti anche il pensiero di don Primo che propugna l’inserzione dello spirituale nel temporale, in nome della categoria dell’incarnazione. Mazzolari vuole che la Chiesa e, in particolare, il sacerdote continuino l’opera dell’incarnazione del Cristo nel mondo, si adoperino alla liberazione di tutto l’uomo, diventando, così, luogo d’incontro tra Cristo e gli uomini.
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Per don Primo la spiritualità cristiana si radica nel mistero dell’incarnazione, che ha portato Cristo a condividere la natura umana. Pertanto rompe con l’immagine sacerdotale monolitica e astratta della tradizione. Il suo essere prete è dato da una configurazione storica della comunità ecclesiale e dei rapporti che la costituiscono. Giustamente si può parlare, senza forzature, di storicità della spiritualità. La spiritualità presbiterale di don Mazzolari recupera la dimensione storica come un elemento costitutivo. Nella visione di don Primo, il prete, che vede Cristo e il Vangelo nelle sembianze dell’umanità, trova nel servizio all’uomo e alla sua storia la forza di attrazione che alimenta e sostiene quella voluptas animi che alberga nel suo cuore. Il servizio pastorale, che si qualifica come un impegno responsabile nella realtà concreta e dinamica della storia, nella misura in cui ha nel cuore del sacerdote una capacità di attrazione, un ascendente forte, crea armonia, unità tra la dimensione pastorale e quella spirituale. La prospettiva del ministero sacerdotale in Mazzolari assumerà, pian piano, questa prerogativa fondamentale: quella di trovare nella propria esperienza di fede la capacità dell’apertura, dell’accoglienza, verificando quindi, in misura ancora maggiore di quella possibile in un sistema chiuso (quale la Chiesa degli anni cinquanta), la capacità della verità cristiana di illuminare il mondo, di orientarlo verso la pienezza, di stabilire la pace.
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Capitolo III
La figura di prete vissuta, pensata e proposta nelle opere di Mazzolari
1. Introduzione Un imprescindibile passo del nostro studio comporta l’analisi della figura del sacerdote nelle opere di don Primo. Si evince immediatamente come la formazione sacerdotale di Mazzolari sia la risultante di una confluenza di due modelli: il modello di san Carlo e il modello sacerdotale della Scuola francese. Questi due modelli si contrappongono a certe correnti presenti da tempo nel territorio, come per esempio quella di derivazione giansenista. Tenendo conto dell’occasionale elaborazione teologica che Mazzolari fa della sua intensa e travagliata esperienza sacerdotale, si cercherà nel corso della nostra indagine scientifica di recuperare quell’unitarietà che difficilmente offre la frammentarietà del suo pensiero. Il costante riferimento alle opere evangeliche dà la chiave di lettura per coglierne l’evoluzione sulla figura del prete. Si individuano in tre pagine evangeliche, tolte dal testo di Luca, i tre passaggi chiave per esplicitare il suo pensiero: la parabola del Prodigo (Lc 15, 11-32), quella del Samaritano (Lc 10, 30-37), il racconto dei due discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35). A partire da queste tre pagine bibliche, da lui amate e predilette, si raggrupperanno e si esamineranno le opere di don Primo nell’intento di evidenziare dalla sua teologia spirituale, l’identità e la missione del presbitero. Infine ci si soffermerà su alcuni aspetti particolari della figura del prete, che possono sfuggire ad uno sguardo d’insieme.
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2. Una felice convergenza Il magistero romano, i manuali e i catechismi, ai tempi di don Primo, presentavano unanimemente la classica teologia del sacerdozio, elaborata dal concilio di Trento e delineata a partire dai riferimenti cristologici1. Infatti, secondo la teologia della Controriforma, il punto di partenza è la nozione di carattere, che consacra e conforma a Cristo; di qui si diramano una direzione ontologica, indicata come partecipazione al sacerdozio di Cristo, e una direzione ministeriale, espressa in formule come agere in persona Christi, nomine Christi e simili. In questa prospettiva, l’elemento specifico del sacerdozio rimane quello cultuale e la persona del ministro continua ad essere connotata dalla visione sacrale espressa con la formula sacerdos alter Christus e con termini che indicano un ruolo di mediazione. Secondo il Magistero pontificio il compito principale del sacerdote consiste nell’esercizio del potere sacrificale-sacramentale, l’unico derivato direttamente dall’Ordine: esso è il compito «precipuo» e «massimo»2; è la «potestas proprie sacerdotalis»3, tanto che i sacerdoti sono mi-
1 Vd. E. CASTELLUCCI, Il Ministero ordinato, Brescia 2002, 187-207; cfr.: G. RAMBALDI, “Alter Christus”, “in persona Christi”, “personam Christi gerere”. Note sull’uso di tali e simili espressioni nel Magistero da Pio XI al Vaticano II e il loro riferimento al carattere, in J. ESQUERDA BIFET (cur.), Teologia del sacerdozio, XIX, Burgos 1973, 211-264; G. MOIOLI, Scritti sul prete, Milano 1990, 13-56; S. XERES, Il prete di una volta: per una storia del modello tridentino, in Rivista del clero italiano 5 (2003) 341-355. I documenti del magistero romano ai quali si fa riferimento sono, in ordine cronologico: LEONE XIII, Lett. apost. Apostolicae Curae, 01.09.1986, in Acta Santae Sedis (= ASS) 29 (1896/97) 193-203; PIO X, Es. apost. Haerent animo, 04.08.1908, in ASS 41 (1908) 557-577; BENEDETTO XV, Lett. enc. Humani generis, 15.06.1917, in Acta Apostolicae Sedis (= AAS) 9 (1917) 305-317; ID., Lett. Saepe nobis, 30.11.1921, in AAS 13 (1921) 554-559; PIO XI, Lett. enc. Miserentissimus Redemptor, 08.05. 1928, in AAS 20 (1928) 165-178; ID., Lett. enc. Ad catholici sacerdotii fastigium, 20.12.1935, in AAS 28 (1936) 5-53; PIO XII, Lett. enc. Mediator Dei, 20.11.1947, in AAS 39 (1947) 521-595; ID., Es. apost. Menti Nostrae, 23.09.1950, in AAS 42 (1950) 657-702; ID., Discorso Si Diligis, 31.05.1954, in AAS 46 (1954) 313-317; ID., Discorso Magnificate Dominum, 02.11.1954, in AAS 48 (1956) 666-677; ID., Discorso Vous nous avez, 22.09.1956, in AAS 48 (1956) 711-725; GIOVANNI XXIII, Lett. enc. Sacerdotii nostri primordia, 01.08.1959, in AAS 51 (1959) 545-579. I manuali teologici, di cui si fa riferimento, sono quelli più importanti e diffusi dell’epoca: H. NOLDIN – A. SCHMITT, De sacramentis, Oeniponte 192718, 460-505 e E. CARRETTI, Lezioni di Sacra Teologia tratte dalla Summa theologica di S. Tomaso. I Sacramenti. I Novissimi, Bologna 1926. La sezione sull’Ordine sacro va dal n. 129 al n. 144, corrispondenti alle pagine 215-238. 2 Cfr. LEONE XIII, Lett. apost. Apostolicae Curae, cit., 199; PIO X, Es. apost. Haerent animo, cit., 562; cfr. PIO XI, Lett. enc. Ad catholici sacerdotii fastigium, cit., 9. 3 PIO XII, Lett. Enc. Mediator Dei, cit., 537.
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nistri di Cristo soprattutto (praesertim) per celebrare l’eucaristia4, per sacrificare5. Gli altri compiti (annuncio della Parola di Dio, guida pastorale, confessioni, cura degli infermi e consolazione dei malati) per i documenti pontifici restano secondari perché al di fuori degli effetti sacramentali: si passa dal piano sacramentale a quello pastorale. Questa teologia tradizionale del sacerdozio, nella formazione di Primo Mazzolari, è arricchita dalla confluenza di due modelli che fanno riferimento a san Carlo Borromeo e alla scuola francese del Seicento. Il modello di san Carlo insiste sulla funzione pastorale del prete diocesano che ha come scopo “la salvezza delle anime”. I modi in cui si esprime questa spiritualità sono caratteristici della riforma post-tridentina: la cura delle anime suppone la centralità della predicazione, l’accompagnamento nel cammino d’iniziazione cristiana, la celebrazione dei sacramenti e la residenza del sacerdote tra la gente presso cui è inviato. Anche la stretta collaborazione col vescovo si situa in quest’orizzonte. Il prete è visto perciò come pastore e servo della comunità e, insieme, come uomo di Dio. Confluiscono chiaramente nel modello di san Carlo Borromeo sia la figura agostiniana del pastore che presiede la comunità, sia quella dionisiana della separazione dal mondo e della gerarchia ecclesiastica quale imitazione della gerarchia del cielo. Quella del prete è una sublime missione che richiede una santità personale, ma necessita anche di un rapporto stretto col gregge che gli è affidato. La nota della “diocesanità” del prete si configura come stabile dedizione a una Chiesa particolare e trova piena attuazione nella carità del pastore6. In Mazzolari troviamo incarnato tale modello. Da Parroco vive i drammi della sua gente, non si sottrae alle responsabilità di stare in mezzo al popolo di Dio a cui è mandato, anche quando subentrano incomprensioni. E tuttavia questa cura pastorale convive con un’affermazione della vita sacerdotale come ideale, una sorta di sacralità derivante dal sacramento e dal legame con Cristo. Sia gli scritti giovanili del diario7 sia i corsi di 4
ID., Es. apost. Menti Nostrae, cit., 667. ID., Disc. Magnificate Dominum, cit., 667. 6 Cfr. B. BIGNAMI, Mazzolari e il travaglio della coscienza. Una testimonianza biografica, cit., 78-79 e anche M. GUASCO, Seminari e clero nel Novecento, cit., 5-18 e dello stesso ID., la formazione del clero: i seminari, in G. CHITTOLINI – G. MICCOLI (curr.), Storia d’Italia. La Chiesa e il potere politico del medioevo all’età contemporanea (annali 9), Torino 1986, 629-715. 7 Ad esempio si vedano le seguenti pagine: Diario I, 31-33.43-51.75-76.103,143-144.193196.210-214.276.301.321.333.374-377.445.518. 5
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esercizi spirituali predicati ai seminaristi e ai sacerdoti presentano chiaramente questa visione: strada obbligata per il sacerdote è la santità8. Un esempio tra i tanti è il saluto che don Primo fa ai parrocchiani di Cicognara nel 1932, al momento del trasferimento a Bozzolo: «L’ideale del sacerdote — altro Cristo — è il più alto: perciò il primo incontro col prete è una delusione. […] (Il sacerdote) avverte e vive in una sofferenza, che gli uomini troppo di rado intravedono, il dramma intimo della propria indegnità. […] Ogni prete ha lo strazio di dovere quasi sempre predicare delle parole che sono più in alto, se non in aperto contrasto con la sua vita. Ogni volta che noi predichiamo il vangelo, condanniamo noi stessi. […] Voi trovate una ragione per inalberarvi contro il prete che non è l’evangelo vivente: io vi troverei un motivo d’inchinarmi come davanti a un segno misterioso ma sublime, di una grandezza incomparabile»9.
Vi è poi il modello sacerdotale della Scuola francese che era diventato il punto di forza della formazione nei seminari a partire dal XVII secolo. E non solo in Francia. Gli iniziatori della scuola portano il nome di Pierre de Bérulle, Charles de Condren, Jean-Jacques Olier e Jean Eudes. Al di là delle differenze dei singoli, emerge un modello di prete fortemente cristocentrico. Il sacerdote è alter Christus. Vive il ministero come sacrificio di sé sull’esempio del Verbo incarnato che ha donato la propria vita per la salvezza dell’umanità. Al centro della sua vita spirituale c’è la consacrazione a Cristo. In Lui il sacerdote è un mistico, un contemplativo. I temi cristologici della meditazione oratoriana sul ministero s’incentrano sull’eucaristia e sulla guida delle anime. L’eucaristia è estensione dell’incarnazione: la celebrazione della Messa è sacrificio che coinvolge pienamente la vita del prete. Solo la totalità del sacrificio di sé introduce il prete nel mistero pasquale di passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo. Tuttavia, la santificazione personale del sacerdote conformato a Cristo servo e obbediente al Padre fino alla morte di croce, non fa cadere questa spiritualità in una sorta d’individualismo pietistico. Il ministero sacerdotale è, infatti, al servizio della Chiesa. Di fronte alla comunità il presbitero vive l’offerta di sé. Il sacerdozio si colloca come servizio al popolo di Dio. Il prete non cerca per sé onori né cariche, ma testimonia con la propria vita la fedeltà di Dio all’uomo. La sua stessa esistenza è sacrificio per 8 9
Cfr. Preti, 30. Parroco, 16-17.
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il bene delle persone che gli sono affidate. Il prete non è un funzionario, disponibile a ore, ma il pastore d’anime che si annienta per l’apostolato10. L’immagine è ben presente in don Primo Mazzolari. Una vignetta apparsa su Adesso sintetizza questo modello di spiritualità sacerdotale: un prete, solo e grondante di sudore per la fatica, tira una carretta in salita. Un cane lo consola, mentre sullo sfondo la massa delle persone preferisce la strada in discesa su un camioncino. La carretta è piena di pesi: disoccupati, AC, comunismo, miseria, socialismo, DC, apatia benestante, incomprensioni, formulari e circolari. La vignetta commenta un articolo di Mazzolari intitolato «Il tiratutti»11. Il prete porta sulle sue spalle la croce, che «è fatta di ogni cosa e di ogni creatura». Cristo, il Maestro, si è fatto carico dei peccati dell’umanità, ha abbracciato la croce in toto. Il sacerdote sceglie di percorrere lo stesso cammino in salita, facendosi sacrificio e portando i pesi della comunità e della storia. Come si è avuto modo di vedere nei capitoli precedenti, questo allargamento di prospettiva rappresenta una caratteristica originale della spiritualità mazzolariana: il servizio del prete non è solo alla Chiesa, attraverso la parrocchia, ma anche alla società in cui vive. La spiritualità del sacrificio è, dunque, parte integrante della formazione sacerdotale di Mazzolari. Non si capirebbe la sua figura sacerdotale se si prescindesse da questa connotazione di sofferenza, solitudine, dedizione incondizionata, offerta della vita. Ciò che il prete vive nella quotidianità non è altro che l’esperienza del morire a se stesso in obbedienza alla volontà di Dio. Cristo è non solo il modello, ma soprattutto la presenza che permette al sacerdote di testimoniare nella storia il primato di Dio. Mazzolari in tal senso afferma: «la misura di una vocazione è la croce, che viene sempre in ultimo e la compie. […] Morire con Cristo è grazia; morire come Cristo è dilatazione del mistero della salvezza “sino agli estremi confini della terra”. Chi muore come Cristo è veramente alter Christus. Non si comprende perché sia piaciuto a lui di farsi continuare da ciò che vi è al mondo di più debole, un povero prete, che sa soltanto il catechismo»12.
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Cfr. B. SECONDIN, Storia della spiritualità moderna. Prima parte (Seicento e Settecento), Roma 2002, 70-98; cfr. G. MOIOLI, Scritti sul prete, cit., 57-63; cfr. R. DEVILLE, La scuola francese di spiritualità, Cinisello Balsamo 1990, 134-135. 11 P. MAZZOLARI, Il tiratutti, in Adesso 2 (1950) 4, 4-5. 12 Morire, 94.
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Queste correnti formative appena considerate si scontravano talvolta con altre prospettive educative, come per esempio quella di derivazione giansenista da tempo presente sul territorio cremonese13. In terra lombarda l’influsso del giansenismo permane in alcune diocesi grazie al fermento apportato dalla Facoltà Teologica di Pavia dove insegnano i maggiori esponenti giansenisti italiani: P. Tamburini, G. Zola, V. Palmieri14. A Cremona trova un seguito particolare, dal momento che tra il 1786 e il 1791 una cinquantina di chierici dei corsi teologici frequenta la scuola di Pavia15. Si assiste così, tra la fine del Settecento e per buona parte del secolo successivo, a una ridiscussione della teologia del ministero ordinato. Emergono deviazioni dottrinali pericolose che lasceranno il segno fino al periodo modernista: «una spiritualizzazione del ministero, con il rischio di perdere la propria autonomia di fronte allo Stato; l’episcopalismo e il conciliarismo, il parrocchismo; la rivisitazione di un certo richerismo, cioè la dottrina secondo la quale dalla comunità dei fedeli deriva ai pastori la potestà del ministero»16.
Il servizio è la cifra interpretativa del ministero presbiterale: la ripresa della tradizione agostiniana è portata alle estreme conseguenze. Il prete è servo di Cristo, ministro della Parola e dei sacramenti, pastore tra i suoi fedeli. Il ministero ordinato si presenta così con una connotazione eminentemente spirituale, quasi in opposizione a una visione politica del sacerdote diffusasi in epoca moderna, in risposta alla Riforma protestante e alla Rivoluzione francese. L’autorità nella Chiesa è concepita unicamente come servizio. È affermata, infine, l’unità tra il sacerdozio dei fedeli e il sacerdozio ministeriale. 13 Riguardo a questo terzo modello si fa riferimento a B. BIGNAMI, Mazzolari e il travaglio della coscienza, cit., 81-83. 14 Occorre ricordare che il 1786, anno della convocazione del sinodo di Pistoia per volontà del vescovo Scipione ‘de Ricci, è data che fa da spartiacque nella storia del giansenismo italiano. È il momento culminante della diffusione delle idee gianseniste, ma anche l’inizio della decadenza e la fine di quel particolare progetto di riforma della Chiesa. 15 Cfr. G. GALLINA, Il Vicariato Tosi (1867-1871) e la crisi del clero cremonese: i preti “retrivi”, preti “liberali” e preti “apostati”, in A. CAPRIOLI – A. RIMOLDI – L. VACCARO (curr.), Storia religiosa della Lombardia. Diocesi di Cremona, Brescia 1998, 289-308. 16 G. PEREGO, Un ministero tutto spirituale. La teologia del ministero ordinato nel Giansenismo lombardo tra illuminismo e liberalismo (1755-1855), Roma-Milano 1997, 215. Lo studio di Perego mette bene in evidenza i legami tra il giansenismo lombardo e le idee moderniste circa il ministero presbiterale.
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Ciò che a noi interessa ribadire, in questo contesto, è la lontananza di Mazzolari da questo filone di pensiero di derivazione giansenista e, dunque, l’estraneità della sua coscienza dalle dimensioni proposte da questa corrente di spiritualità.
3. La Trama evangelica La difficoltà di dare un’organica sistemazione concettuale al disegno mazzolariano invita a ricercare un’unità più profonda e più caratteristica alla sua riflessione, quella cui può essere ricondotta la stessa frammentarietà di un pensiero peraltro fortemente caratterizzato da un elemento fondamentale: il costante riferimento evangelico. È alquanto utile cogliere l’indicazione di C. Bellò che sostiene del sacerdote cremonese: «Le sue opere non escono quasi mai da un vasto disegno; ma crescono per stratificazioni successive. Molti sono temi evangelici […] così che il vangelo rimane sempre sull’orizzonte a saldare in unità»17. Si possono individuare in tre pagine del vangelo, tolte dal testo di Luca e ricorrenti nelle opere di Mazzolari, i tre passaggi chiave del percorso di approfondimento della spiritualità presbiterale: la parabola del Prodigo (Lc 15,11-32), quella del Samaritano (Lc 10,30-37), il racconto dei due discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)18. Questo percorso di maturazione appare realizzarsi più per dinamica interna della riflessione che per maturazione distesa nel tempo. Per questo si può trovare fin dall’inizio traccia dell’atteggiamento più evoluto. Le fasi del pensiero di don Primo, che si stanno per esporre, infatti, costituiscono aspetti diversi di un’unica e coerente meditazione e indicano un itinerario spirituale a un tempo autobiografico e di coscienza riflessa.
17 C. BELLÒ, Guida alla lettura di Mazzolari, Roma 1985, 16; vd. S. XERES, Il prete e la sua missione nella visione di Don Mazzolari, in M. GUASCO – S. NASELLO (curr.), Mazzolari e la spiritualità del prete diocesano, Brescia 2004, 63-110. 18 Si può notare, come tutti questi brani evangelici siano ambientati sulla strada, dove Cristo incontra uomini e donne.
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3.1. “Il Prodigo ovvero l’attesa” 3.1.1. “La più bella avventura” La parabola del Prodigo costituisce la base della prima grande riflessione di Mazzolari sulla Chiesa e su coloro che la costituiscono. Parafrasando la parabola lucana, don Primo parla della Chiesa (la casa) e di chi vi abita (i figli) e in primo luogo di chi ne ha la responsabilità: i pastori della Chiesa. I Pastori, che secondo Mazzolari, dovrebbero riflettere il volto misericordioso e paterno di Dio, che dovrebbero rendere il cuore della Chiesa più grande, aperto a tutti, che dovrebbero lavorare per far sì che la Chiesa diventi «un focolare che non conosce assenze»19, molto spesso assumono lo stesso atteggiamento del figlio maggiore del racconto lucano. In loro si riscontrano talvolta: una avvilente e colpevole passività20, una inerzia spirituale21, l’atteggiamento di chi vuol sostituire il figlio perduto con qualche devozione complimentosa senza preoccuparsi di ricondurre a casa chi se ne è allontanato22, la mancanza di passione apostolica che con slancio spinge a ripercorrere le strade tracciate da coloro che sono andati ad abitare in un paese lontano23. Don Primo accusa la gerarchia ecclesiastica, e quindi la classe sacerdotale, di essersi persa nello spirito della casta che rivendica il trattamento di riguardo e i primi posti (è la chiara allusione del rapporto tra la Chiesa e il fascismo)24, di essersi chiusa nella torre d’avorio del suo fariseismo25, di essersi sostituita ai diritti di Dio, di mettersi a guisa di esattore tra la verità e le anime26. L’atteggiamento grave del clero, per Mazzolari, consiste nella sua condotta separatista: «di qua, noi; di là gli altri; i nostri, i loro […]; gli amici, i nemici […]; i buoni, i cattivi»27. Sviluppando in termini ecclesiologici il discorso sul compito dei pastori, Mazzolari afferma che «il mondo di oggi ha bisogno di vedere Gesù
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Avventura, 181. Cfr. ibid., 57. 21 Cfr. ibid., 58. 22 Cfr. ibid., 58-62. 23 Cfr. ibid., 62-67. 24 Cfr. ibid., 71. 25 Cfr. ibid., 68. 26 Cfr. ibid., 81. 27 Cfr. ibid., 92. 20
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Cristo in un tipo di santità che viva e operi nel suo cuore stesso»28. Per questo egli domanda in modo particolare alla gerarchia una adeguata riforma della Chiesa perché, rinnovandosi, mostri al mondo il volto misericordioso e il cuore paterno e compassionevole di Dio che in essa dimorano. In tal modo il prodigo, il lontano, riscoprendo nella Chiesa il luogo dell’Amore e della Verità, può convincersi del bisogno che di essa si ha e può intraprendere la strada del ritorno. Don Mazzolari, costatando la lontananza del mondo da Dio, crede che migliorando lo strumento di mediazione, ossia la Chiesa, si faciliti il ritorno dell’uomo-prodigo a Dio. In questa prima fase egli pensa la missione del prete in vista di un possibile “ritorno”, per il quale occorre soprattutto affinare l’atteggiamento dell’attesa, così da favorire il riaccostamento dei lontani, anziché rafforzarne la distanza: si tratta sostanzialmente di trovare strade, ossia metodiche pastorali, nuove. In altri termini dinanzi alla constatazione del tragico allontanamento dell’uomo contemporaneo dalla Casa della salvezza, si delinea l’atteggiamento della Chiesa (e del prete) come quello dell’attesa operosa per affrettarne il ritorno. Questa prima tappa della visione mazzolariana del sacerdozio coincide con il modello di prete sociale, partecipe e protagonista delle lotte sociali ed anche politiche, che deve adoperarsi in una pastorale di riconquista per ricondurre la società a Cristo. Ma mentre il modello del prete sociale si poneva sul piano della prassi pastorale, assumendo nuove modalità nel confronto aperto con i mutamenti politici e sociali della società contemporanea, e non interferiva su quello della spiritualità, che rimaneva fedelmente ancorata al dato dogmatico tridentino, invece, nella visione di Mazzolari, il piano pastorale e quello spirituale sono ricuciti da una rilettura teologica del ministero sacerdotale che concepisce il prete come tramite, il meno invadente possibile, tra i due chiamati all’incontro: Cristo e l’uomo, il Vangelo e la vita. È quello che si vedrà prossimamente nel corso di questo terzo capitolo. 3.1.2. “I Lontani” Il tema dell’attesa operosa del prodigo-umanità è ripreso anche nella successiva pubblicazione de I Lontani (1938). È un’opera che si ricollega dichiaratamente alla precedente, come dimostrano gli “Antefatti” pubbli28
Ibid., 182.
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cati in apertura al volumetto e il dibattito sviluppatosi sul settimanale diocesano di Cremona La vita Cattolica in merito all’identità dei lontani29. Di fronte all’obiezione che i lontani del nostro tempo sono diversi dal prodigo, in quanto si tratta di «coscienze individuali sulle quali non s’incide alcun rimorso per un bene perduto che non sanno» e che «il mondo dei lontani è refrattario, indifferente; non crede e, quel ch’è peggio, non si occupa di credere»30, Mazzolari si riaggancia alla parabola soprattutto per identificare l’atteggiamento di chi è in attesa e al lavoro per il loro ritorno: «a te il prodigo mostra il suo benestare di lontano immemore: a me le sue piaghe e la nostalgia disperata della Casa […] Non lo guarirò ma lo amo. Il miracolo non è la guarigione, è l’amore […] Importa solo — anche se con diverso accento — pregare, lavorare, soffrire, perché il Cristo riappaia su tanti volti cari devastati dalla lontananza e dall’esilio»31.
Nell’opera I Lontani la lontananza è definita come assenza di Qualcuno, uno stato d’animo descritto come «la scettica inconsistenza di chi sente di non aver più la fede di ieri, che sa di non aver ancora trovato, che dubita di trovare»32. Al sacerdote è chiesto di avere nei riguardi dei lontani quella «predilezione appresa dal cuore stesso del vangelo»33 e, senza impelagarsi nelle teorie o dottrine sull’incredulità di certi manuali, al pastore d’anime spetta il compito di «scendere per arrivare al singolo, al concreto, al diverso, poiché la ricchezza è minerale portato fuori dalla miniera, liberato dalla ganga, levigato, ecc.»34. Il sacerdote deve 29
Il 28/01/1938 apparve sul settimanale diocesano di Cremona La Vita Cattolica una lettera aperta a don Primo Mazzolari a firma di un “prete di campagna”. L’autore è don Florio Mondelli, parroco di S. Savino, nel suburbio di Cremona, prete-scrittore aperto e vivace. 30 Lontani, 14-15. 31 Ibid., 21-22. Vedi anche la lettera di don Primo all’amico sacerdote don Guido Astori, del 30 gennaio 1938, dove si può cogliere lo spirito di Mazzolari e il suo punto di vista in merito ai “lontani”, diverso da quello di molti confratelli: «c’è tanta pena e tanto scoramento nell’animo del “prete di campagna” — dice riferendosi a quelli — e un’incomprensione tragica del momento […]. Anche se la mia fosse un’illusione — non è, non è — me la tengo volentieri»: Vita, 180. 32 Lontani, 35. 33 Ibid., 37. A p. 42 don Primo afferma che il sacerdote deve prendersi cura dei lontani: «più che un’occupazione accidentale essa deve essere una preoccupazione costante del nostro animo: più che un gesto o una parola, una disposizione permanente del cuore, una passione che ci tormenti e ci sospinga, che inondi ogni profondità interiore e ne colori i pensieri e gli affetti, orientando ogni nostra attività». 34 Ibid., 38.
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concentrarsi, dunque, più che sulle cause della lontananza, sulla disposizione interiore che è il vero movente. Il prete, quindi, chiamato a recuperare un nuovo rapporto con quanti non si riconoscono più nella comunità ecclesiale, deve innanzitutto acquisire una maggiore conoscenza e una più diretta esperienza del mondo moderno, e non solo sotto il profilo dottrinale; successivamente, dato che la lontananza riguarda la disposizione interiore che «sbaglia o nei riguardi dell’oggetto o nei modi di raggiungerlo»35, deve muoversi all’incontro con i lontani a partire dall’atteggiamento di “empatia”. «Il lontano non lo si incontra più da solo, ma in una trama sociale sempre più complessa e dalla quale non si può né sarebbe bene staccarlo. Il nostro apostolato quindi, più che a individui, è posto davanti a istituzioni, nelle quali l’individuo è legato per il suo stesso benessere materiale e morale»36.
Tenendo conto di ciò e considerato che «il lontano non torna solo: si porta dietro il suo mondo»37, il sacerdote, superando l’oggettiva sproporzione che si è venuta a determinare tra l’impegno per “i vicini”, e cioè l’ordinaria cura pastorale, e l’attenzione ai “lontani”, deve operare una vera e propria conversione della pastorale attraverso l’acquisizione di una nuova metodologia che, facendo leva sull’individuo, giunga al suo ambiente sociale. Attraverso l’individuo, il pastore, coadiuvato da un valido apostolato laico, è chiamato ad aumentare la responsabilità cristiana dell’ambiente sociale. Per don Primo il prete deve togliere gli ostacoli che la Chiesa ha dentro e adoperarsi «in tutti i modi per divenire ponte e porta, come Gesù»38. In altri termini il suo compito è quello di porre il lontano davanti al problema cristiano per «farglielo vivo e pressante sotto gli occhi così da costringerlo a riesaminare le sue posizioni e la fragilità dei suoi appoggi»39. Il sacerdote deve diventare l’uomo dell’ascolto. La sua preoccupazione deve essere quella di non escludere nessuno dalla cura pastorale, di far sentire la vicinanza e la prossimità di Cristo a ogni uomo. Nella disponibi-
35
Ibid., 39. Ibid., 52. 37 L.c. 38 L.c. 39 Ibid., 52-53. 36
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lità a «lasciar parlare e far parlare»40 deve aprire una breccia per un dialogo autentico. L’ascolto, infatti, predispone ad accogliere quella verità e quei valori che appartengono all’esperienza dell’altro e che possono accrescere il proprio mondo. Bisogna far sedere il fratello nella mensa della verità. Quando c’è il sospetto che si vogliano strumentalizzare le sue parole o che si miri a costringerlo nelle proprie conclusioni, l’esito è l’umiliazione e la costruzione di barricate. La psicologia del dialogo, invece, secondo l’analisi di Mazzolari, non deve far dimenticare che ogni persona, quando si ascolta mentre espone il proprio pensiero, ne comprende le debolezze, «il suono poco armonioso»41. Nel dialogo è essenziale anche la demitizzazione del proprio io. Il sacerdote non domanda all’altro «di vivere la morale dettata dalla fede», se egli non crede; piuttosto lo aiuta «a camminare con la luce che ha, cioè a fare la verità di cui è in possesso»42. Ritorna, dunque, il tema dell’attesa del prodigo. La riforma della Chiesa è necessaria per fare della comunità cristiana una casa accogliente, un luogo di dialogo, di fraternità e di gioia, non un riparo chiuso e asfittico, nel quale non si può fare festa. Bisogna uscire dalle proprie tranquille sicurezze per andare incontro agli uomini: «Il mondo […] sente il bisogno di Qualcuno. Se nessuno gli va incontro, se nessuno gli va avanti, sbaglierà ancora strada»43. 3.1.3. “Lettera sulla Parrocchia” Questa lettera, che si propone come un invito alla discussione, è firmata da “un laico di Azione cattolica”e nasce nel clima degli anni trenta, epoca in cui si era stabilito un difficile rapporto tra Mazzolari e la gerarchia ecclesiastica a causa de La più bella Avventura. La Chiesa, condizionata dal Concordato e preoccupata di evitare una rottura con il regime fascista, era ben lungi dal cogliere le proposte riformiste di Mazzolari. Nel comporre quest’opera, sembrò, quindi, prudente a Mazzolari adottare un linguaggio allusivo, cifrato e far uso di uno pseudonimo. Il tema di fondo è quello del rinnovamento della Chiesa. Il termine parrocchia per Mazzolari si riferisce alla Chiesa44. Quando parla dei par40
Ibid., 49, cfr. anche 50-51. Ibid., 51. 42 Ibid., 54. 43 Avventura, 79. 44 Cfr. P. MAZZOLARI, La Chiesa in stato di missione, cit., 86-88. Un’attenta lettura del 41
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roci indica, in realtà, tutta la gerarchia ecclesiastica che ha il compito della guida della Chiesa. Don Primo, riprendendo la diagnosi delle ragioni del distacco dell’uomo dalla Chiesa, propone alla gerarchia un vero e proprio progetto di rinnovamento. Egli individua almeno tre importanti linee riformatrici. La prima è quella della fuoriuscita dal regime di cristianità, chiaramente evidenziata dal nuovo rapporto che Mazzolari vorrebbe instaurare fra la Chiesa e la società civile. Il parroco di Bozzolo sostiene la necessità del riconoscimento della giusta autonomia della società civile e della legittima laicità delle istituzioni politiche. Egli rifiuta “i mezzi ricchi” di un cattolicesimo compatto, organizzato, dotato di potenti strutture, protetto e sostenuto dallo Stato. Indica in modo chiaro la via della nuova evangelizzazione fondata essenzialmente sul primato accordato alla coscienza religiosa e ai mezzi poveri, con la conseguente fondamentale fine del regime di cristianità. Il sacerdote, per don Primo, è colui che si occupa della formazione della coscienza. Egli deve salvaguardare il primato della coscienza senza strumentalizzare la politica e la libertà neppure per “fini religiosi”; deve formare le coscienze cristiane non al privilegio di sé, ma all’offerta della propria vita in Cristo, all’attenzione all’altro, al povero, all’ultimo; coscienze radicate nel mistero della croce di Cristo, che sappiano vivere nella storia in libera e consapevole responsabilità. La seconda struttura portante di questo disegno riformatore è il passaggio da un atteggiamento di difesa dell’esistente ad una coraggiosa iniziativa missionaria, che sappia abbandonare le antiche sicurezze per misurarsi lucidamente con i rischi che inevitabilmente deriveranno alla Chiesa dal suo addentrarsi in un mondo per certi aspetti sconosciuto e ostile; nella convinzione che da questo mutamento di prospettiva dovrà necessariamente prendere le mosse un rinnovato slancio missionario. Il passaggio da una Chiesa chiusa in se stessa ad una Chiesa che “esce dalle trincee” — per riprendere una terminologia militaresca frequente in testo rivela che, infatti, il termine “chiesa” si alterna a quello di “parrocchia” e a poco a poco quasi ne prende il posto, rivelando l’intenzione profonda dell’autore. Si vedano, a titolo di esempio, i seguenti passi: «nella Chiesa devono trovare accoglienza tutte le voci del proprio tempo» (Lettera, 44); vi sono «cuori profondi che vivono con pura passione questa grande era cristiana […] dentro ai margini della Chiesa» (ibid., 48); «è provvidenziale che certi compiti sociali non siano più direttamente affidati alla Chiesa» (ibid., 30); «la Chiesa vuole e sollecita in tutti i modi la partecipazione dei laici alla vita attiva dell’apostolato» (ibid., 32); occorre «togliere la Chiesa dal suo isolamento» (ibid., 41).
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Mazzolari — appare, sotto questo punto di vista, determinante. I pastori (e, dunque, i sacerdoti) devono passare da un atteggiamento di ripiegamento su se stessi e sulla loro comunità spirituale a un atteggiamento di apertura, di dialogo, di confronto con il mondo, anche se esso spesso è ostile o indifferente. La sfida posta al presbitero è quella del fare spazio dentro di sé all’altro che rimane tale, senza confusione. La sfida posta alla Chiesa consiste nel comprendere come la verità della propria fede non venga relativizzata, ma provocata ad acquisire maggiore profondità. La comunione della Chiesa, allora, è volta all’apertura agli altri e non ad una chiusura in difesa e senza condanne. Una terza prospettiva di azione indicata da Mazzolari è il riconoscimento franco e la valorizzazione piena del ruolo e della funzione del laicato, in particolare di quello dell’Azione Cattolica; di un laicato che appariva a Mazzolari, nel 1937, irretito nelle trame di un neo-clericalismo e tendente a fare dei laici, secondo un’espressione che sarebbe stata adottata soltanto molto più tardi, una sorta di “clero di riserva”45. La stessa vivace polemica con gli stili ed i moduli organizzativi dell’Azione Cattolica del suo tempo nasce in Mazzolari dalla sofferenza provata nel constatare le carenze sul piano della laicità di quell’associazionismo che avrebbe dovuto rappresentare il luogo tipico della valorizzazione del laicato nella Chiesa. I Pastori (i sacerdoti) hanno il compito di illuminare con l’insegnamento della Chiesa le coscienze dei laici e di lasciarle libere sul modo di inserire i valori spirituali appresi nella realtà temporale. Il sacerdote deve opporsi alla strumentalizzazione del laico da parte dell’autorità gerarchica perché altrimenti si perderebbe di vista la ricerca del bene comune come senso proprio della politica. Il sacerdote, rispettando l’autonomia dei fedeli, li aiuta nella formazione di coscienze laicali mature, in grado di dare delle risposte evangeliche nel difficile momento storico e di vivere, perciò, pienamente nel proprio tempo. In tal modo la laicità contribuisce a correggere ogni concezione autoritaria della fede, intesa in senso clericale e dottrinale, quasi che la verità vada cercata al di fuori della testimonianza resa ad essa dalla pratica credente. La fede ha bisogno 45
Cfr. G. POGGI, Il clero di riserva, Milano 1963. Per una ripresa del tema in: M. MARZANO, Il cattolico e il suo doppio – Organizzazioni religiose e Democrazia cristiana nell’Italia del dopoguerra, Milano 1996. Quest’ultima ricerca, pur segnata da alcune forzature, mostra la sostanziale esattezza dei rilievi mossi da Mazzolari all’Azione Cattolica degli anni di Pio XI e Pio XII, soprattutto sotto il profilo della limitata autonomia rispetto alle gerarchie ecclesiastiche.
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di assumere una forma diversa dal conformismo ecclesiastico per rivestire la struttura della testimonianza. La strada di un vero rinnovamento ecclesiale passa attraverso la formazione di coscienze laicali adulte. La laicità diventa, perciò, condizione necessaria per dare una credibilità al cristianesimo nella modernità. Nella Lettera si constata, infine, una lontananza del mondo da Dio alla quale deve trovare rimedio il miglioramento dello strumento di mediazione, che è la Chiesa. Si veda, ad esempio, questo passo: «è certo che proprio costoro di fuori hanno bisogno della Chiesa: che il loro ritorno non può avere l’andatura e il significato che di solito diamo ai ritorni: che il dare a chi crede non avere bisogno è impresa ardua e che quindi ogni paternalismo, con tono pastorale, dispregiativo o amaro, allontana invece d’accostare»46.
Si sottolinea ancora una volta l’importanza di un metodo adeguato, ma l’accento è posto comunque sulla necessità del “ritorno”. 3.2. Il Samaritano ovvero l’incontro 3.2.1. “Il Samaritano” Questa seconda parabola di San Luca è oggetto di commento nella seconda opera più importante di don Primo, Il Samaritano, del 1938, che ha un evidente carattere riflessivo spirituale. Se nel commento al “Prodigo” si rilevava la dimensione dell’attesa, qui affiora chiaramente quella dell’incontro operato dal prete nei confronti dell’uomo, nella prospettiva dell’incarnazione e della redenzione. Anzi, il sacerdote stesso, nella sintesi di Umanità e di Grazia che lo caratterizza, è il primo frutto di questo incontro di redenzione: «il sacerdote del Nuovo [Testamento] benché non sia del mondo, benché sia scelto di mezzo al mondo, è “nel mondo” […] Gesù non volle snaturarlo, né sradicarlo dall’ambiente: l’ha voluto uomo, e tale lo conserva nell’elevazione della Grazia»47.
Il sacerdote, ne Il Samaritano, diventa uno strumento d’incontro tra Dio e l’uomo: 46 47
Lettera, 33. Samaritano, 53-54.
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«il sacerdote non può essere un separato: non comprenderebbe più ciò che avviene nel cuore dell’uomo e ciò che costa vivere la fede nel mondo […] L’apostolato che conquista bisogna farlo cuore a cuore, di porta in porta come uno di loro. Compagno, fratello»48.
La denuncia che don Mazzolari rivolge al mondo cattolico è di pensare l’interiorità della persona in termini individualistici, rischiando di dimenticare le proprie responsabilità sociali. I rischi dello spiritualismo o dell’interiorismo rappresentano una fuga nel privato e un venir meno della dimensione fondamentale della persona umana: l’esistere in relazione. Il sacerdote, che si sente legato alle sorti dell’umanità (rappresentata nella parabola dall’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico), è corresponsabile della salvezza altrui. Il suo chinarsi è un gesto «materno»49 e richiama l’incarnazione di Cristo, il chinarsi del Figlio di Dio sull’umanità fino a farsi uomo. Il sacerdote è chiamato a interessarsi di tutto l’uomo e a condividere le sorti del sofferente. Don Primo, nei comportamenti del sacerdote e del levita della parabola, rilegge la dicotomia tra la vita spirituale e il ministero pastorale dei sacerdoti. La fede che si chiude in difesa, sposando logiche di appartenenza a una classe, una casta, una nazione, una categoria, una razza o una religione, ha come scopo non la carità ma «il proprio benestare»50. Il presbitero, ad immagine del samaritano, è chiamato ad abbracciare «la croce per tutti, perché ama tutti, e nell’amore si è sentito solidale con ognuno di noi»51. Il sacerdote e il levita guardano ma non vedono. Il guardare «con pregiudizio è peggio di non vedere»52. Perciò, il modo e la direzione con cui si guarda dicono l’interiorità del prete. Il passar oltre è uscire dall’umano, essere «fuori dalla realtà: fuori dalla vita»53. 3.2.2. “Anch’io voglio bene al Papa” Nell’opera Anch’io voglio bene al Papa, scritta in onore di Papa Pio XII, c’è una ripresa interessante della concezione del ministero sacerdota48
Ibid., 54. Ibid., 96. 50 Cfr. ibid., 58-59. 51 Ibid., 68. 52 Ibid., 71. 53 Ibid., 72. 49
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le come punto d’incontro tra la Grazia e l’uomo, che si realizza innanzitutto nella persona stessa del ministro. Pur trattando della figura del Papa, attraverso la simbologia “della pietra/Pietro”, don Primo traccia delle linee teologiche sul sacerdozio54: «la Chiesa è già nell’umanità di Pietro che la grazia scalpella, intride, disegna, scolpisce; la pietra è l’umanità di ogni tempo, nella quale il Cristo vivente, paziente e irresistibile costruttore, prepara la cattedrale dello Spirito. Tutto in Simone, figlio di Giovanni, è diventato pietra, ma non tutto è permeato dallo Spirito; tutta la Chiesa, nei suoi fondamenti, il papa e i vescovi, è pietra, ma non tutto è subito trasformato dalla Grazia. Qualcosa dell’umano può restare, senza luce, anche perché gli uomini riconoscano che solo Cristo è via, verità e vita»55.
Nella persona del papa, così come nella persona del sacerdote, non tutto è subito trasformato in grazia: don Primo tiene a precisare che «Cristo non ha saldato soltanto una roccia in Simone», ma «ha preso in mano il suo cuore e lo ha reso incandescente»: «il cuore di Pietro è il cuore che si butta in avanti, che non si risparmia, non pesa, non calcola: il cuore di cui ha bisogno il Signore per la sua Chiesa […]. Cristo glielo prende, lo accende della sua carità e lo inserisce nella pietra, ve lo crocifigge sopra. La Chiesa è in queste due realtà: cuore e pietra. Chi separa l’una dall’altra, commette un orribile sacrilegio. Nessuno potrà togliere alla Chiesa la fermezza del testimoniare la verità, perché nessuno potrà togliere dal cuore l’amore […]. Il cuore di Pietro può anche, per un momento, cessare di battere: qualche cosa del suo umano può offuscarsi: non per questo l’amore vien meno. Il cuore della Chiesa batte col cuore di Pietro, ama col cuore di Cristo. Nel cuore di Pio XII batte il cuore di Pietro, ama il cuore di Cristo»56.
Nella coscienza del sacerdote nasce l’incontro dinamico tra la dimensione spirituale (la grazia) e la dimensione pastorale (umanità): un incontro bilaterale, che è un continuo dare e ricevere. I lineamenti umani della figura del sacerdote messi a fuoco da don Mazzolari rivelano «la fragilità dell’uomo posto da Dio a governare la sua Chiesa»57 e diventano segni essenziali ed efficaci attraverso cui l’amore di Dio viene trasmesso dal cuore/pietra del prete al cuore/pietra della comunità cristiana. Il sacerdo54
Cfr. Papa, 23. Ibid., 27. 56 Ibid., 28-29. 57 Ibid., 87. 55
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te, dunque, diventa lo strumento dell’incontro tra Dio e l’uomo, tra la ricchezza offerta dall’Uno e la domanda di povertà dell’altro. Significative sono queste parole: «io sono di continuo a scuola dalla mia gente e sul loro cuore rileggo le pagine troppo fredde dei miei manuali teologici»58. 3.2.3. “Impegno con Cristo” L’opera Impegno con Cristo fu scritta nel 1943. Le domande a cui intende rispondere questo testo sono: il cristianesimo ha esaurito o no la sua funzione storica? Il cristianesimo, prima ancora che curvarsi sulle prove dottrinali della sua efficacia, è capace anzitutto di mostrarsi vivo nell’ordine dei fatti? Don Primo lancia l’appello a reimpostare su basi nuove il rapporto con “i lontani” e con “i poveri”. L’urgenza è quella di ricercare una fede che addenti la realtà di oggi, di testimoniare Cristo specialmente nella vita sociale e di essere, come cristiani, presenti dappertutto e sempre fedeli a se stessi cioè al Cristo che vive in loro59. Al sacerdote, così come a tutta la gerarchia, viene chiesto di incominciare dall’ultimo, di prendere il passo di chi non crede60, di convertirsi tralasciando i propri schemi o le proprie visioni del mondo per accogliere e confrontarsi con la civiltà61. Il sacerdote deve accettare il rischio di perdersi per mantenersi fedele all’impegno di salvezza, deve compromettersi con Cristo e compromettere Cristo. Il sacerdote non può limitarsi ad attendere il ritorno del prodigo, ma deve partire per andargli incontro col desiderio di trovarlo. E siccome l’uomo di oggi è saldato in un ingranaggio sociale sempre più complesso, il sacerdote deve essere capace di inserire il fermento evangelico nella massa62. La salvezza non può essere ridotta al problema di una sola dimensione, l’anima, ma partendo dall’interno deve arrivare ovunque e dappertutto63. Pertanto, se è vero che alla Chiesa è stato dato il compito di custodire la Parola, è altrettanto vero che: «lo slancio della Parola, la ricerca della sua opportunità e il suo esperimento rischioso» sono affidati al prete e a ogni cristiano. La Chiesa non 58
Ibid., 53. Cfr. Impegno, 14. 60 Cfr. ibid., 16. 61 Cfr. ibid., 20-21. 62 Cfr. ibid., 44-45.50.55. 63 Cfr. ibid., 128-129. 59
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è uno stato maggiore «per cui neanche un plotone può muoversi se prima non gli giunga l’ordine scritto di movimento. Ci si muove dietro comando, si spara dietro comando, ci si ritira dietro comando»64; per questo il sacerdote (così come ogni cristiano) deve portare tutto il vangelo in tutta la vita ascoltando il richiamo della propria responsabilità: deve parlare, ascoltare, soffrire e testimoniare secondo la voce della sua coscienza. «Niuno è docile e obbediente quanto lui: niuno ama la chiesa come egli l’ama. Appunto perché l’ama più del proprio interesse e della propria tranquillità, si getta allo sbaraglio di una lotta senza quartiere contro le forze del male, cercando di far lievitare ogni forza di bene che incontra lungo la sua strada. Egli può anche errare, e sbaglierà certamente, poiché l’azione è sempre piena di sorprese e di pericoli: ma appena la chiesa, maternamente, lo richiama, egli rientra nell’obbedienza e nella disciplina della famiglia spirituale per la quale soffre, combatte e spera»65.
Il sacerdote deve rinnovare l’interiore struttura della spiritualità «con un volto più conforme al volto di Cristo e un impegno più saldo e reale»66; deve diventare il rivoluzionario della carità, non deve «vergognarsi di provare pietà, di chiedere per chi ha fame, di difendere la causa dell’oppresso davanti a chiunque: non deve aver paura di sporcarsi se gli cammina accanto, se gli dà la mano, se discende nel suo tugurio»67;
e ancora: «dovete passare di là: togliere la barricata degli egoismi di classe, confondervi con chi lavora, farvi popolo, massa, prendere in mano la loro giornata, la loro fatica, la loro disperazione. Dovete capirli e amarli, non soltanto quando muoiono per un vostro interesse minacciato o per un ideale comune, ma sempre, anche quando i vostri interessi ingiustificati devono cedere di fronte alle loro giuste domande»68.
Il prete, dunque, diventa strumento dell’incontro di Dio con l’uomo nella misura in cui s’impegna a portare Dio nel mondo con una carità e
64
Ibid., 133. Ibid., 134. 66 Ibid., 146. 67 Ibid., 166. 68 Ibid., 169. 65
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una dedizione senza limiti e nella misura in cui s’impegna a riconoscerLo presente nel mondo stando accanto agli ultimi: «così si accennano i ritorni del Cristo in questo nostro povero mondo: un Cristo concreto, il fratello che lavora con noi, che si fa cemento armato con noi, che muore con noi, sul cantiere o sotto una raffica di mitraglia»69.
3.3. Emmaus ovvero l’accompagnamento discreto 3.3.1. “Tra l’argine e il bosco” Tra l’argine e il bosco è una raccolta di novelle scritte nel 1938, attraverso cui Don Primo parla della Chiesa. Egli la descrive con l’immagine della casa abitata dalla famiglia dei figli di Dio, dove vi è il pane della gioia, della pace e della fraternità e dove si ritrovano i fratelli, bisognosi di semplicità, di familiarità, di reciproca partecipazione alla vita dell’altro, senza distanze né lontananze70. A capo di questa famiglia dei figli di Dio c’è il sacerdote-parroco che rappresenta l’immagine del cuore del Padre. La bontà, la benevolenza, l’amore inquieto, alla ricerca e in attesa: ecco le espressioni che descrivono i movimenti di questo cuore sacerdotale che batte per amore della sua gente. Il ministero sacerdotale, come ci viene presentato in questi racconti, sembra racchiuso propriamente tra il segno dell’attesa (secondo l’atteggiamento sottolineato nella parabola del figliol prodigo) e quello dell’accompagnamento all’incontro diretto con Cristo. All’inizio del volume, narrando della Prima Messa nella nuova parrocchia, don Primo, nel sottolineare il dramma dei lontani, propone un ministero di fervente attesa: «al vangelo, quando si voltò, non c’erano più di venti persone. Parlò a quei pochi, col cuore di là, verso la grande Chiesa dei lontani. La messa, che è il cuore del Padre fatto carne, non è l’agonia delle assenze? La sua vocazione veniva così segnata nella sua povera anima di sacerdote, in quel mattino di Circoncisione, nel deserto della sua Chiesa. Sarebbe stato il parroco dei lontani. Qualche cosa incominciava. L’attesa. “E mentre egli era ancora lontano, suo padre lo vide e fu mosso a compassione, e corse…” (Lc 15, 20)»71. 69
Ibid., 177. Cfr. Argine, 83-93. 71 Ibid., 41-42. 70
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L’ultimo racconto si conclude con l’invito all’accoglienza e all’incontro dell’altro sulla scia di quanto ha fatto il Pellegrino: «l’accoglienza che va al cuore, che conquista, bisogna farla qui, accanto a noi, povera gente, dove lavoriamo, ove abbiamo casa campo e cimitero: porta a porta, fianco a fianco, come uno di noi, compagno, fratello, padre. Non ha fatto così anche Gesù? A Emmaus non si è fermato coi due discepoli?»72.
Il Pellegrino altri non è che il Cristo Crocifisso vivente, sul cui cuore aperto senza confini deve modellarsi il cuore del sacerdote: «il cuore più largo, il cuore crocifisso che abbraccia tutti, perdona tutti, il cuore che vuole bene a tutti»73. 3.3.2. “La Via crucis del povero” Nel 1938 esce il terzo testo di riflessione spirituale, La via Crucis del povero. Il tema di quest’opera è chiaramente il povero. Questi non è chi è misero o indigente di beni, non è uno che appartiene ad una classe sociale, ma il povero è l’umanità. Don Primo afferma che Gesù si è fatto povero per essere compagno, per condividere la povertà di tutti gli uomini. Facendosi povero, Cristo ci ha arricchito con il suo amore, di cui gli uomini sono privi. Il prete, anch’egli povero uomo, se non di più, ha il compito, secondo Mazzolari, di portare via dal cuore dell’uomo il peccato, che crea le disuguaglianze e il male. Egli deve predicare ai ricchi e ai poveri: «ai ricchi che fanno del possedere il mammona, ai poveri che misconoscono la loro grande dignità per il solo fatto che non ha una contropartita immediata»74. Ma il prete non è ascoltato né dagli uni né dagli altri e così: «tra questi due fronti, che il peccato ha innalzato e che il peccato tiene in piedi, ci sta crocifisso, il sacerdote: crocifisso tra due ladroni, uno buono l’altro un po’ meno, ma ladroni entrambi»75. La sua vera missione è quella di essere una sbarra che ha il cuore «e il colpo, venga da destra o da sinistra lui lo riceve nel cuore, e non può ricambiarlo, neanche lamentarsi. Oscilla soltanto, ed è per grande carità: ma gli altri 72
Ibid., 186. Ibid., 184. 74 Povero, 50. 75 Ibid., 51. 73
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dicono che parteggia perché se viene colpito a destra oscilla verso sinistra e viceversa. E così perde anche l’onore»76.
La concezione del sacerdote, a partire da quest’opera, subisce un’ulteriore evoluzione: egli assume il ruolo di chi accompagna con discrezione l’uomo all’incontro con Cristo. Il sacerdote deve farsi vicino, deve farsi prossimo all’uomo povero dell’amore di Dio, deve diventare sbarra; il suo povero ministero deve essere un appello, una introduzione, una preparazione ad un incontro più grande: l’incontro con il Povero. 3.3.3. “Tempo di credere” L’immagine del prete come accompagnatore discreto si fa più forte nell’opera Tempo di credere, composta da don Primo nel 1941. Mazzolari afferma con chiarezza che: «molti dei nostri contemporanei sono in questa disposizione, divenuta in parecchi pressoché tranquilla. Infatti, né discutono di religione, né vi si levano contro, come quando il cristianesimo era un presente. E mentre un così radicale rovesciamento di posizioni sta affermandosi, una piccola apologetica mantiene le difese frontali, non immaginando neanche come sia divenuta inafferrabile e irraggiungibile una generazione che non sente più il Cristo come il Vivente […] Far vedere vuol dire riportare vicino, rimettere a fuoco il vangelo, farlo diventare problema»77.
Commentando in maniera originale l’episodio biblico dei discepoli di Emmaus, definisce il prete come un «pellegrino dell’assoluto»78. La fede è viaggio pellegrinante in un rapporto che non è mai dato in modo definitivo. Infatti, il modo di incarnare il vangelo è sempre da riscrivere. Perciò, don Primo si rende conto che l’evangelizzazione, il suscitare la fede in Cristo nel cuore dell’altro, non è questione di metodi, quanto di persona: la persona dell’apostolo che lascia presto il posto alla persona stessa di Cristo. In questo modo all’immagine del lontano che ritorna verso la Casa, si sostituisce, come in una continua dissolvenza, la figura di Colui che gli va incontro, solo discretamente introdotto da un altro, anche lui pellegrino, il quale, favorito l’incontro, si fa in disparte. Si ridimensiona, dunque, la figura stessa del pastore, chiamato a seguire, più che a guidare: 76
Ibid., 52. Tempo, 68. 78 Ibid., 16. 77
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«sono anch’io “un pellegrino dell’assoluto” e, senza mettermi contro, cerco più in alto e più oltre le cose, senza rinunziare a niente: più in alto e più oltre gli avvenimenti, pur riconoscendoli buoni compagni di viaggio […] Se mi apparto non sono un cristiano; se non soffro insieme a tutti, non sono un cristiano; se non vivo la storia che passa, non sono un cristiano […] Per un apostolo camminare vuol dire seguire i destini delle anime: essere pastore»79.
Il sacerdote diventa per l’umanità “la memoria teologica”, “la memoria della passione”80 che, con il ministero pastorale, rinvia continuamente al Vangelo perché gli occhi di ogni uomo si aprano al volto di Cristo. La proposta che il presbitero fa ai suoi contemporanei non è più quella di ricercare nella Casa (la Chiesa) la soluzione ai problemi del proprio tempo (rivendicando ad essa tale capacità), bensì di lasciare spazio a Cristo dentro quegli stessi problemi. Non sono dunque i lontani che devono ritornare, ma Cristo che deve potersi riavvicinare a loro: «il vangelo non ha una soluzione, è una soluzione, la quale non esce bella e pronta dalle pagine del libro divino né dalle esperienze o dall’insegnamento della Chiesa, ma diviene, di volta in volta, la soluzione, man mano che, come fermento gettato nella pasta, lo spirito del vangelo solleva e piega la realtà verso le sue conclusioni salutari. Quali siano queste conclusioni, quali aspetti prenderà un mondo fermentato dal vangelo, nessuno lo può sapere in precedenza […] Quello che importa è di forzare il Signore a entrare nella fabbrica, nella classe, nello Stato, nella scuola, in una testa, in un cuore […] Se uno ha fede nel fermento evangelico, deve lasciarlo operare senza porgli limiti o condizioni di sorta. Guai se mi preoccupo in precedenza di salvare questo o quell’interesse, questa o quella costituzione, questa o quella civiltà! […] Forse è provvidenziale quest’opera di spaventosa impotenza perché ci persuadiamo che è necessario abbandonare ogni questione di metodo, di forma, di organizzazione, per riprendere l’unico gesto e l’unico lavoro che urge, quello del seminatore che esce a seminare dappertutto, lungo la strada, nei luoghi rocciosi, sulle spine, nella buona terra. Perché il primo dovere dell’ora è seminare; l’unico dovere, seminare»81.
Quella del prete, dunque, non è un ruolo da svolgere, ma l’identità di una persona chiamata e trasformata. Egli è coinvolto con tutto se stesso nel mistero della chiamata. Ciò avviene attraverso un’identificazione con Cristo, di cui Mazzolari sottolinea con particolare forza l’elemento dinamico, quello, cioè, riferito alla vita del prete, oltre che alla sua persona. Il 79
Ibid., 16.41. Cfr. ibid., 188. 81 Ibid., 149.151. 80
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suo itinerario lo condurrà, pertanto, inesorabilmente, come Cristo alla croce. Se è così, la sua relazione con Cristo e con gli altri ha bisogno della storia come campo di verifica dell’autentica fede: «Il Cristo che vediamo lungo le strade e i campi, nelle officine, negli ospedali e nelle prigioni, ha un volto che non combacia esattamente con le descrizioni di una certa teologia concettualistica che si tiene sdegnosamente distaccata dal reale»82.
Ancora una volta osserviamo nel presbitero il superamento della divisione tra la fede e la vita, tra la vita in Cristo e la storia. Se tra le due realtà ci fosse discrepanza la fede non avrebbe più incidenza sulla vita del mondo e l’umanità avrebbe ragione di allontanarsi totalmente dalla religione. 3.3.4. “Dietro la croce” e il “Segno dei chiodi” Le opere Dietro la croce del 1942 e il Segno dei chiodi del 1954 contengono delle meditazioni sulla Pasqua. Si può dire che per lo più si equivalgono nei contenuti, anche se il Segno dei chiodi, in una redazione successiva, contiene qualche riflessione in più. In esse don Primo parla dell’avventura dell’Amore, caratterizzata dalla progressiva discesa di Gesù nel mondo fino a raggiungere il punto più basso, il Calvario. In realtà il Calvario, per il sacerdote cremonese, è il «punto più alto» della vita terrena del Signore83. A giudizio di Mazzolari «cielo e terra si congiungono sulla montagna del Dio Crocifisso»84, sulla cui sommità Cristo porta a compimento la sua incredibile avventura che scioglie eternamente le braccia dell’infinita misericordia divina85. Riconoscendo nella Croce di Gesù il «parametro» che indica l’intensità dell’amore di Dio per tutti gli uomini, don Primo considera il «legno della croce» come «l’unità di misura» dell’amore fraterno86, anzi come «il primo, infrangibile anello della fraternità»87. Cristo ha legato le braccia di Dio all’umanità per tutta l’eternità, e il suo sangue ha lavato tutti gli uo82
Ibid., 189. Cfr. Croce, 56-59. 84 Ibid., 62. 85 Cfr. ibid., 60-63. 86 Cfr. ibid., 68-70. 87 Ibid., 62. 83
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mini: «nel sangue c’è “la preziosità” dell’amore di Colui che si offre, ed è l’amore che fa “il prezzo del sangue” e che salva»88. Il Crocifisso ormai abita nel cuore di tutti, e in tutti resta impresso il segno dei chiodi «anche in colui che grida “toglilo! Toglilo!»89, Mazzolari prende le distanze da qualsiasi interpretazione riduttiva del Sacrificio compiuto da Cristo sulla croce e denuncia in modo esplicito la linea di coloro che si accostano al mistero della croce in modo intellettualistico, senza obbligarsi a uno sforzo di adeguazione interiore90. A questo proposito rileva che quanti hanno «dimestichezza con la ragione e le sue architetture» si limitano a commemorare l’evento pasquale in maniera ritualistica. «Questo raccorciamento della pasqua prova la nostra incapacità di abbracciare il mistero pasquale nella sua meravigliosa ampiezza»91, la quale, superando il fatto stesso della vittoria di Cristo sulla morte, coincide con «il Mistero di Vita nascosto (absconditus) nella Risurrezione»92. Il sacerdote non ha a che fare con un concetto, ma con un «qualcosa non solo di reale, ma di vivente, perché la verità è Dio, il Vivente». E davanti a tale evento non può rimanere inerte, né tanto meno fuggire, ma lui per primo deve lasciarsi coinvolgere diventando con il Cristo crocifisso «uomo di dolore, uomo di offerta»93. Nella misura in cui si lascia travolgere dal Cristo, il prete diventa una nuova manifestazione della vita del Risorto94. Infatti, «se la passione che fu non è la passione che continua, ossia la “novità”, non interessa a nessuno […] Forse per questo motivo i lontani si muovono a fatica anche in questa pasqua»95. Compito del sacerdote è quello di riprendere Cristo, Vita dei secoli avvenire, nelle mani e nel cuore e offrirlo audacemente al mondo96. Fare la pasqua, fare eucarestia per il prete è scendere per portare Cristo «sulle piazze, lungo le strade, negli ospedali, nelle prigioni, ovunque è fame, dolore, oppressione, martirio. Ogni lagrima è sua [di Cristo], ogni umiliazione è 88
Chiodi, 167. Croce, 69. 90 Cfr. ibid., 87. 91 Ibid., 86. 92 Ibid., 88. 93 Ibid., 72. 94 Cfr. ibid., 89. 95 Ibid., 87.90 e cfr. Chiodi, 215-218. 96 Cfr. Croce, 95. 89
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sua, sua ogni tristezza come ogni agonia. Egli ha fame e sete: è malato, ignudo, senza casa, prigioniero, oppresso, schiavo: è il dolore che fu, che è nell’ora e nei secoli: è l’Uomo del dolore, il crocifisso di ogni ora»97.
Ritorna in questo testo la visione del prete che deve accompagnare con sobrietà e con rispetto l’uomo al Cristo. Egli deve assumere sempre più i lineamenti di Cristo, anzi deve perdersi, morire in Cristo crocifisso e come Crocifisso deve tenere le braccia spalancate ed il cuore aperto98 all’umanità e servirla nella giustizia, nella fedeltà, nella pace e nell’amore. 3.3.5. “La Samaritana” Nel 1944 viene pubblicato il commento di Mazzolari all’episodio biblico di S. Giovanni 4, 1-42, dal titolo La Samaritana. Don Primo prende in esame la sete della donna affermando che la sete «è una condizione che può portare verso le strade del regno dei cieli, vale a dire dispone alla ricerca di un’acqua “che scaturisce in vita eterna”»99. Mentre ribadisce che è il Signore la vera acqua che disseta, mette in evidenza il modo esemplare e delicato dell’azione di Dio svolta nella vita e nel cuore delle persone. Ricordando che anche il sacerdote appartiene alla condizione d’infermità in quanto facente parte dell’umanità100, don Primo afferma che: «nel sacerdote c’è il ministro di Dio e c’è l’uomo. Si deve tenere conto dell’uomo anche nei momenti più alti della sua funzione sacerdotale»101. Essendo fragile e povero come gli altri uomini, il sacerdote «non può dare la fede: può prenderci per mano e portarci da Colui che solo ce la può dare e avviare il colloquio. Non bisogna mai camminare davanti a Dio, né dimenticare che la maturità dei cuori e delle intelligenze all’assenso delle verità di fede è un mistero che va rispettato, come vanno rispettati tutti i misteri di Dio. Quante volte, per voler dare o più presto o di più, abbiamo pregiudicato una sicura accoglienza in tempore opportuno […] La testimonianza dispone alla fede: ma la fede rimane un fatto misterioso, personale, ove qualche cosa di nostro ha bisogno di vedere, di ascoltare, di toccare»102. 97
Ibid., 51. Cfr. Chiodi, 192. 99 Samaritana, 88. 100 Cfr. ibid., 99. 101 Ibid., 100. 102 Ibid., 116-117.119. 98
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Egli deve, dunque, mantenersi in un profondo e paziente senso di rispetto dinanzi all’agire di Dio nelle anime. 3.3.6. “Il compagno Cristo” Nel 1945 Mazzolari compone un’opera dal titolo Il compagno Cristo rivolta al reduce che torna dalla guerra o dalla prigionia. In essa si evidenzia l’invito a superare la diffidenza (da leggere come lontananza) verso Cristo, causata da possibili e distorte mediazioni, per aprirsi ad un ascolto diretto del Salvatore. Il prete, sarà semplicemente compagno discreto di quell’incontro: «permettete che vi stia da presso mentre leggete il vangelo? Che vi segni, col dito, la pagina, la parola? […] Faccio la parte di Giovanni Battista: lo vedo passare e vi dico: “Eccolo”. Seguitelo per la strada. Gesù, voltandosi, vi domanda: “chi cercate?”. Voi gli dite: “Maestro dove stai?”. Ed egli vi risponde: “venite e vedete”. Per andare da lui non occorre che vi vestiate a festa, né che facciate il segno della croce […] Egli viene dove volete, dove vi piace, avendo preso dimora con voi: in casa vostra, nella fabbrica, all’osteria, in piazza. Ovunque andiate, egli vi segue: vi ha anzi preceduto. Egli occupa ogni cosa nostra e ogni nostra abitazione da quando si è fatto uomo per stare con noi […] Se siete seduti, vi siede accanto; se camminate, è pellegrino; se lavorate, operaio, se piangete, lo vedete piangere. Prima di parlarci nell’intimo, cerca se qualcuno è disposto a leggere per lui le parole che un giorno ha rivolto a tutti e che sono raccolte in un libro che si chiama il vangelo, cioè il libro delle buone notizie di Gesù agli uomini […] Non è un mestiere facile leggere per lui, ripetere le sue parole. Ho paura di tradirle […] Ma so che, dopo, lui vi parlerà e ciò che io non ho saputo dirvi, egli ve lo dirà in maniera sicura, autorevole e dolcissima. Ciò che importa adesso è che vi prepariate ad ascoltare lui, quando nel segreto della vostra coscienza, egli stesso prenderà la parola»103.
Il libro si struttura in un profondo dialogo, che don Primo costruisce attraverso una duplice, intensa, immedesimazione: con la particolare situazione di vita dei suoi “ascoltatori” (i reduci) e di Colui che vuole parlare con loro. Questo discorso culmina nell’incontro diretto tra gli ascoltatori e Gesù, precisamente in un’attualizzazione dell’episodio di Emmaus. Ed è a questo punto che, avendo terminato il proprio compito, la guida discreta (il prete), come tale, si fa da parte: «ho voltato l’ultima pagina del vangelo secondo Matteo, secondo Marco, secondo Luca e secondo Giovanni. Sta per cominciare il vostro. Non son degno 103
Compagno, 20.22.24.
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di ascoltare. Attendo fuori. Quando il Verbo parla segretamente al cuore di uomini che hanno tanto sofferto, chi ha la grazia di credere conta le stelle»104.
Ancora una volta compare con chiarezza la visione di una missione sacerdotale che ha il compito di favorire e introdurre la gente all’incontro intimo, profondo, e totalizzante con Cristo. Tale missione termina dove inizia quest’appuntamento tra Gesù e l’uomo contemporaneo. La figura del prete, in questa fase matura del pensiero mazzolariano, assume una progressiva “marginalizzazione”: si passa, di fatto, da chi aspetta l’altro a chi prepara l’incontro tra l’altro e Cristo e quindi si fa delicatamente da parte per agevolarlo. 3.3.7. “La pieve sull’argine” La pieve sull’argine è un romanzo scritto di getto nel 1951, durante i mesi di obbligata interruzione della rivista Adesso105. Si tratta di un romanzo autobiografico dal quale emerge il travaglio religioso e intellettuale di Mazzolari. Lo stile risente dell’influsso del Bernanos di Diario di un curato di campagna: privilegia lo scavo profondo nell’animo dei personaggi. 104
Ibid., 217. Secondo le autorità ecclesiastiche la rivista di don Mazzolari aveva assunto posizioni preoccupanti. Il motivo di questa preoccupazione da parte delle gerarchie ecclesiastiche consisteva nelle posizioni assunte dalla rivista sin dalla sua fondazione: già nel 1949 Adesso parlava di dialogo tra i cristiani e i comunisti, e ciò proprio mentre Pio XII si considerava in guerra contro quella filosofia politica. Mazzolari formulava una particolare e certo non ortodossa interpretazione della scomunica del Sant’Uffizio: «La Chiesa, condannando il comunismo, ne condanna gli errori, non la parte di vero e di buono che ci può essere nel comunismo. Benché fuori dalla Chiesa, non vuol dire che un comunista non sia capace di vedere e di fare il bene. […] Quindi, se un cattolico rifiutasse di riconoscere ciò che vi è di buono e di vero nel comunismo e ciò che pensano e fanno di buono i comunisti, peccherebbe contro la verità e contro il Decreto del S. Uffizio». Mazzolari auspicava un dialogo costruttivo e la continuazione, anche dopo la scomunica, dei rapporti con i comunisti: «i gruppi d’avanguardia, che sono uno dei tanti segni della perenne vitalità della Chiesa, devono continuare con maggior passione il loro lavoro esplorativo, proprio in quel campo e in quella direzione» (P. MAZZOLARI, Impegni del laicato cattolico dopo la condanna del comunismo ateo, in Adesso 1 [1949] 18, 4-5 ). Del resto don Primo, già nel 1945, si era mostrato comprensivo sulle motivazioni che portavano ampi strati della popolazione ad aderire a quella dottrina politica: «il malcontento, oggi, ha un nome, la novità un volto: comunismo. In questo senso, comunisti lo siamo un po’ tutti: anche coloro che ne hanno paura e ne dicono male. Se vogliamo veramente qualche cosa di diverso di quanto è stato fatto sin qui, è bene che ci disponiamo a fare un po’ di strada con i comunisti» (P. MAZZOLARI, Impegni cristiani istanze comuniste, in Quaderni dell’impegno cristiano 1 [1945] 5). 105
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L’opera narra le vicende di un cappellano militare, don Stefano Bolli, che torna dalla prima guerra mondiale. I vari racconti sono sempre costellati da una profonda meditazione sul senso delle scelte, sul senso di una vocazione a volte incomprensibile, ma che richiede una totale fedeltà. Don Primo riesamina teologicamente il suo ministero sacerdotale come partecipazione al sacrificio di Cristo. Egli, attraverso il racconto, che è insieme confessione e invenzione, compie una rilettura spirituale della sua vita sacerdotale. Per lui il prete è «l’uomo di nessuno»; è colui che conosce e porta i dolori di tutti. Per questo non appartiene neanche a se stesso. La sua salvezza sta nel sopportare la solitudine come l’unico «guadagno davanti a Dio, l’unica protezione davanti agli uomini»107. Per entrare nel cuore degli uomini egli deve soffrire, portare la sua croce. La sua messa continua per tutta la vita, perché il suo corpo si fa ostia spezzata, offerta a Dio e condivisa con i fratelli: «un sacerdote è sacerdote per tutti, anche per coloro che lo calpestano…non possiamo lasciare fuori nessuno: se uno resta fuori, io non sono sacerdote»108 e, ancora, «tu [Bellina], almeno, puoi pretendere che uno ti voglia bene per il bene che gli vuoi; io non posso pretendere niente da nessuno, anche se gli dessi la vita»109. E don Primo ribadisce: «non si vince se non piegandoci. Solo a queste condizioni lo spirito torna a camminare sulle cose e le ricrea»110. La vita del sacerdote è un dramma: «il dramma è di amare senza sentirsi appartenere, solo il ritrovarsi in essi dopo averli amati, come Cristo»111. A sintetizzare il senso della vocazione sacerdotale sono le seguenti parole: 106
«il giorno in cui si accetta un impegno di amore, lo si accetta senza condizioni, nel matrimonio e nel sacerdozio: se no, siamo mercenari, anche se per mercede ci siamo appagati della fredda soddisfazione di essere rimasti con gli occhi incantati in un nostro sogno. C’è una sola maniera di servire l’ideale: perdersi, per salvare chi si perde»112.
106
Stefano Bolli è uno dei pseudonimi più utilizzati da Mazzolari. Bolli è il cognome della madre. Più volte, infatti, Mazzolari si troverà costretto a utilizzare questo nome per sfuggire alla censura ecclesiastica. 107 Pieve, 321. 108 Ibid., 266. 109 Ibid., 268. 110 Ibid., 269. 111 Ibid., 344. 112 Ibid., 101.
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Inoltre, nella riflessione che fa Mazzolari sul sacerdozio, a partire dalla sua vicenda biografica, è fondamentale sottolineare la sutura che egli compie tra la dimensione spirituale e la dimensione pastorale nel cuore del prete. In tutte le opere analizzate, e in modo particolare in questa, è possibile osservare che il prete deve amare con passione l’uomo e il mondo in cui egli vive: nell’uomo e nel mondo si trovano impressi i segni dei chiodi di Cristo e le tracce del suo Vangelo di salvezza. Dall’umanità, che porta i segni della redenzione, don Primo trae la forza di attrazione che alimenta e sostiene quella voluptas animi che alberga in ogni cuore umano. Il servizio pastorale ha, per Mazzolari, una capacità di attrazione, un ascendente tale da far scaturire in lui “l’inquietudine dell’apostolo”. Il mondo non diventa per il prete una realtà da colonizzare, da conquistare, da ricondurre all’influenza di una societas christianorum da cui è già uscito! Ma il prete (e la Chiesa) è chiamato a farsi pellegrino per far sperimentare a ogni uomo l’esperienza nuova, bella, unica e irripetibile dell’amore di Dio che si manifesta in Cristo. Come si avrà modo di vedere più avanti, don Primo pone le basi per una spiritualità sacerdotale nella storia: una spiritualità che dilata, di continuo, il cuore del prete sull’esempio del Padre della parabola; una spiritualità che deve portare i presbiteri a formarsi e crescere attraverso il continuo confronto con la realtà umana, sociale e politica; una spiritualità al servizio degli uomini del proprio tempo per rendere Cristo presente nel tempo. 3.3.8. “La Parrocchia” La Parrocchia è uno scritto del 1957 in cui Don Primo tratta, come dice il titolo, il tema della parrocchia. Egli anzitutto afferma che la parrocchia deve essere a servizio dei poveri. Vi si afferma, poi, che essa costituisce la cellula della Chiesa e che attraversa una grande crisi che la fa essere non più di una memoria, cui è legato un breve ripetersi di riti occasionali, senza o con scarsissima influenza sull’educazione e l’elevazione dell’animo e del costume. Ribadendo che la riforma della parrocchia è urgente, don Primo afferma che essa deve tornare ad essere una casa comune, lo strumento efficiente di una carità senza limiti, come senza limiti sono i bisogni dei parrocchiani, dei vicini che sono pochi, dei lontani, che sono molti113. La chie113
Cfr. Parrocchia, 8.
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sa, per don Mazzolari, incomincia dove qualcuno fa posto, nella sua anima e nella sua casa, ai poveri. Ma come si mette la parrocchia a servizio dei poveri? Citando una lettera pastorale del cardinale Suhard, don Primo ribadisce il grande rischio della Chiesa: quello di camminare fuori della vita umana che si sta sviluppando. Egli fa osservare che la soluzione a questo problema non consiste nel migliorare l’organizzazione o nell’aumentare i mezzi, di cui la Chiesa già in abbondanza dispone, ma nell’acquisizione dello stile del Figlio di Dio: attraverso il mistero dell’incarnazione e della presenza eucaristica dove la briciola diventa Presenza. La Chiesa, e quindi anche il prete, se dimentica la via evangelica e la logica dell’incarnazione, si pone in condizione di confidare nell’uomo e nelle cose fabbricate dalle sue mani, costruendo piuttosto per il tempo che per l’eternità, per un segno che è dell’uomo o del tempo, anche se le insegne sono di un Altro. Mazzolari afferma, dunque, che «la Chiesa è una compagine di anime che fanno comunione: e, nella comunione, la disciplina esterna e i mezzi esterni non hanno un valore assoluto né preminente. Servono, possono servire, ma se superano certi limiti, se soprattutto vengono sopravvalutati e adoperati in concorrenza, finiscono per indisporre quei di casa e quei di fuori»114.
Egli sostiene che la parrocchia sia costituita dal cuore e dalla casa del parroco, dalla chiesa di pietra, dal cuore e dalla casa dei parrocchiani. Per il parroco il beneficio, ossia il patrimonio, più grande consiste nel dono dei poveri, che sono presenza più che immagine del Signore. Mazzolari muove una critica nei confronti dell’educazione che si dà in seminario agli aspiranti al sacerdozio: è un’educazione che fa del figlio di poveri contadini un borghese! Precisa, quindi, che non è ciò che un prete può dare ai poveri che lo mette a servizio dei poveri, ma la maniera con cui egli li sente, parla loro e li tratta. Il pericolo dell’imborghesimento delle parrocchie è grande, ed è evidenziato dalla frequenza di alcune categorie di persone benestanti e dall’assenza dei poveri che non si sentono più a casa loro. Per don Primo il povero deve avere il primo posto nel cuore di un prete; la canonica deve trasformarsi nella casa dei poveri, «non dei poveri di passaggio, che di114
Ibid., 52-53.
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sturbano poco, ma dei poveri del paese, che non sono di nessuno se non sono del parroco»115. Mazzolari afferma che anche la chiesa di pietra è a servizio dei poveri. Infatti, per lui, parrocchia e parroco sono due fatti di amicizia e d’intimità, più che di grazia, o di cultura, o di bellezza. Solo l’amicizia riposa, dà confidenza e stabilisce l’uguaglianza. Il problema dell’apostolato parrocchiale non consiste unicamente nel costruire la domus Dei, ma nel renderla Domus plebis: non ci può essere, perciò, divario grande tra la casa del povero (la chiesa) e la casa dei poveri. Don Primo rileva che molti preti, impregnati di materialismo, si sono gettati in attività più edili che spirituali e costata in ciò una “insufficienza spirituale”116; perciò mette in guardia da una mentalità tecnico organizzativa, per non dire meccanica e materialista, che rappresenta il vero pericolo della parrocchia e ha come conseguenza il rilassamento del clero o la sua dissipazione. Il prete, infatti, non trova più il tempo di pregare, studiare e di badare alla vera cura delle anime. Mazzolari, afferma poi, che il primo servizio del prete ai poveri è quello di non vergognarsi di stare con loro davanti al Padre comune, per vergognarsi insieme di non volersi bene abbastanza e cancellare certe disuguaglianze: «quando la messa domenicale ci raccogliesse in questo modo, quando ci fosse l’unisono tra la miseria dichiarata e la miseria coperta, e coperta male, non ci sarebbe bisogno di molte prediche e di molti congressi, e la chiesa diventerebbe la casa della povera famiglia umana, che si ritrova dopo le sue dispersioni e i suoi trascorsi per specchiarsi nel Cristo povero, così vicino e così vero da non poterne rifiutare l’agonia»117.
Per don Primo il prete si sente veramente padre la domenica perché tutta la famiglia si riunisce. Il colloquio domenicale tra il prete e la sua comunità si prepara durante la settimana con il povero che ha bisogno del
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Ibid., 56. Con toni provocatori Mazzolari afferma: «il mea culpa non va battuto soltanto nelle povere canoniche, ma anche nelle curie e nei vescovadi, nelle redazioni di certi fogli informativi e formativi del clero, sui petti tranquilli di parecchi relatori dei corsi d’aggiornamento…, i quali hanno sospinto gli umili a credere in una “pietra” assai diversa dalla “Pietra” su cui è fondata la Chiesa»: ibid., 60. 117 Ibid., 63. 116
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saluto, il bambino di una carezza, la mamma di un conforto… se non si prepara così, aggiunge Mazzolari, la gente non capisce un sacerdote che, invece di distaccarsi soltanto ab homine iniquo et doloso, si è distaccato dall’uomo che fatica, tribola e soffre. Come si può notare, anche in quest’opera don Primo non parla più di metodi, ma di una carità che dalla parrocchia (Chiesa) deve espandersi verso tutti, senza considerare la prospettiva di possibili ritorni. 3.3.9. “I preti sanno morire” I preti sanno morire è un’opera scritta da Mazzolari nei primi mesi del ’58 su richiesta del Comitato onoranze nazionali clero italiano vittima, costituito a Reggio Emilia in ricordo dei sacerdoti uccisi negli “anni della caligine”. Nel ripercorrere la via crucis dei circa trecento preti italiani che subirono il martirio nel corso del secondo conflitto mondiale, don Primo accosta la figura del sacerdote all’immagine del Crocifisso, sviluppando un interessante parallelismo tra la strada tracciata «dall’Uomo dei dolori» e quella seguita «dall’uomo di nessuno»118. Nel mettere la figura del prete sotto «l’ombra della Croce», egli avverte la necessità di «velare il crocifisso», allo scopo di rendere meno «umiliante il confronto»119, pur ammettendo che «nella chiamata sacerdotale non solo c’è posto per il martirio, ma ne costituisce la sostanza»120. Sebbene ogni presbitero sia «sempre memento di cose più grandi di lui»121, Mazzolari rileva che «quando il sacerdote non ha più nulla di suo, quando tutto gli viene tolto ed è deriso e sputacchiato, l’ostensorio comincia a splendere in perfetta somiglianza»122. Dopo aver chiarito che nella vita di un sacerdote «la morte è una presenza quotidiana», aggiunge che «per un sacerdote la sua morte è la morte di croce […] la misura di una vocazione è la croce, che viene sempre in ultimo e la compie. Il tutto è compiuto è vero e persuade quando viene detto dall’alto di una croce, prima di reclinare il capo. Sembra miglior sorte morire nel proprio letto, confortati dalla pietà dei nostri parrocchiani. Ma non è la maniera di morire, è il morire che è atroce. Morire con Cristo è grazia; morire come Cristo è dilatazione del mistero della sal118
Morire, 24. Ibid., 82. 120 Ibid., 70. 121 Ibid., 83. 122 Ibid., 83. 119
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vezza sino agli estremi confini della terra. Chi muore come Cristo è veramente alter Christus»123.
Il prete, nella misura in cui si conforma al mistero pasquale di Cristo crocifisso e fa splendere in sé la potenza di Dio, favorisce l’incontro con l’uomo. Anche qui si assiste alla progressiva marginalizzazione della figura del sacerdote che rimanda sempre più a Cristo perché sia lui a penetrare il cuore dell’altro. Ciò sembra far pensare a un ripensamento ecclesiologico di tutta una generazione che passerà lentamente da una visione orientata al recupero dell’altro alla riscoperta e al riconoscimento della possibilità di un incontro autonomo, solo introdotto e non più completamente mediato, tra Dio e il mondo. Non più il ritorno ad una civiltà cristiana, configurata in una sintesi definita e strutturata, ma il confronto vivo (e imprevedibile nei suoi esiti) tra il fermento evangelico e un’umanità adulta e responsabile124. 3.4. I tratti essenziali della figura del sacerdote Dopo aver messo in luce le coordinate teologiche nelle quali si colloca la trama evangelica di fondo sulla quale si distende, è bene tracciare, in sintesi, i tratti essenziali della figura di prete. Quello del prete non è un ruolo da svolgere, ma l’identità di una persona chiamata e trasformata. Il sacerdote è quindi coinvolto con tutto se stesso, con la sua stessa persona e la sua vita, nel mistero della chiamata. Prima ancora di essere ministro di salvezza, il presbitero realizza il primo frutto dell’incontro redentore tra Dio e i fratelli: «il papa è un chiamato; il vescovo un chiamato, il sacerdote un chiamato. Ci ha scelto lui e ci ha scelto noi, come siamo»125. Ciò avviene attraverso un’assimilazione, una conformazione a Cristo, di cui don Primo evidenzia con particolare rilevanza l’elemento dinamico. Il prete si configura a Cristo non solo con la sua persona, ma con tutta la sua vicenda. Il suo cammino lo porterà, inesorabilmente, come Cristo, alla Croce: 123
Ibid., 93-94. Cfr. S. XERES, Il prete e la sua missione nella visione di don Mazzolari, cit., 89. 125 Battaglia, 12. 124
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«oggi, dopo 25 anni, incomincia la Messa: un povero prete stanco che ogni mattina si distende sulla croce fino a quando i suoi poveri piedi, le sue povere braccia, il suo povero volto, il suo povero cuore […] saranno i piedi, le braccia, il volto, il cuore di Cristo»126
e ancora: «ogni sforzo per staccare il prete dalla croce è un attentato contro la sua missione. Ci penserà il Signore a staccarlo un giorno»127. Il sacerdote si fa tramite di Cristo all’uomo; si sottolinea la sublimità della sua vocazione e, nello stesso tempo, lo sproporzionato confronto con i propri limiti, funzionali comunque a una più nitida proclamazione della sovrana gratuità di Dio in Cristo: «noi sacerdoti siamo l’informe parabola di Cristo-Verità, lo “scandalo” che continua […] Perché? Non lo so. So ch’Egli ha voluto così; perché la verità è verità nonostante la parola in cui s’incarna: perché l’uomo non conta […] Nella mia penuria ho una grande gioia: — Voi non dovete credere in me. Io passo, sono una voce[ …] la Pasqua è Gesù»128. «Chiunque ci guardi e come ci guardi, ha sempre dei motivi per trovarci indegni. Dico di più: deve trovarci indegni, altrimenti Cristo sarebbe un ideale umano, un povero ideale, se una creatura lo potesse contenere ed esaurire. Con la nostra statura da piccoli uomini facciamo da prospettiva all’infinito»129.
Questo significa, di nuovo, un elemento dinamico, cioè il continuo farsi tramiti (dunque servi, e servi inutili, i meno invadenti possibili) tra i due chiamati all’incontro: Cristo e l’uomo, il Vangelo e la vita. È fondamentale sottolineare come Mazzolari viva questa dimensione, del tutto in linea con il modello teologico di prete in circolazione nel suo tempo, con un’intensità e originalità tutta sua. Egli vive questo continuo farsi tramite tra Cristo e l’uomo con un’intensità vitale, fortemente sofferta, unitamente ad un’intelligente penetrazione del senso profondo di tale compito. Così egli richiamava il compito sacerdotale all’amico don Guido Astori nell’accompagnamento alla nuova parrocchia di Casalbuttano: 126
Diario III/B, 452. Argine, 179. 128 Croce, 142-143. 129 Battaglia, 12-13. Nell’opera tra l’argine e il bosco Mazzolari afferma: «il sacerdote è una povera creatura, posta a far da ponte tra le sponde di due mondi, troppo in basso per quello dell’eternità, troppo in alto per quello del tempo»: Argine, 177. 127
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«“Conosci tu il Vangelo” — chiede il parroco di un libro del Mickiewicz130, “e tu — gli risponde il parrocchiano — conosci tu il dolore?”. L’intelligenza della carità e del dolore è rimasta l’unica intelligenza amabile […] La tua traduzione, don Guido, è chiara e persuasiva come le traduzioni di un tempo, quando ci preparavi agli esami. Sono sicuro che Casalbuttano capirà questo tuo volgare fatto sul volgare eterno del Vangelo»131.
In ogni pagina degli scritti di Mazzolari si evidenzia tale continua mediazione tra il Vangelo e la vita. Da questo nucleo intenso e profondo scaturisce la relativizzazione del ministero sacerdotale, che è una rilettura, in chiave evangelica, di quella figura mediatrice che la teologia tradizionale preferiva impiegare sul registro dell’autorità e della superiorità. Poiché è di Cristo che il sacerdote è innanzitutto ministro, cioè servo (e servo inutile), egli si trova continuamente superato e anche preceduto da Uno che procede per vie sue, direttamente incontro all’uomo: «allontanandosi, [Cristo] mi costringe a cercarlo: cercando, mi accorgo che egli è diverso e che ci vuole una casa più spaziosa se voglio ospitarlo “in vita” […] E lui si perde anche per togliermi l’illusione che m’appartenga per diritto, che me lo sia guadagnato con la mia fedeltà. Tutto, in religione, si possiede per carità: per carità del Signore e delle creature […] E se voglio fare disposizione dei fratelli. L’apostolato, alla fine della giornata, si raccoglie nel gesto sacerdotale che riporta all’altare il ciborio vuoto […] Egli si “toglie” a me per darsi a un altro, non perché non abbia a sufficienza per la mia gioia e per la gioia dell’altro, ma per provare se veramente sono capace di amarlo per quello che dà all’altro, più che a me […] Io non ho, se gli altri non hanno. Solo chi ha la carità, possiede Cristo»132.
Il disegno complessivo del sacerdote, delineato dagli scritti mazzolariani, è chiaro ed essenziale. Nel parlare della missione e del compito che svolge il sacerdote si può utilizzare il termine di ministerialità, ossia un servizio reso a Cristo servo di ogni uomo. È di estremo interesse rilevare come Mazzolari raggiunga per via di esperienza riflessa, di affinamento 130
A. Mickiewicz (1798-1855) è ritenuto il maggior poeta polacco. Cattolico, fu ispiratore di ideali di religiosità e di patriottismo. Patriota egli stesso, partecipò anche alla I guerra di indipendenza italiana, alla guida di una legione di connazionali. Su di lui T. Gallarati Scotti tenne una conferenza a Milano, poi pubblicata: A. MICKIEWICZ, Conferenza di Tommaso Gallarati Scotti tenuta al circolo filologico di Milano, Milano 1915. 131 Diario III/B, 16. 132 Tempo, 55-56.
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spirituale, e proprio a partire dal modello tridentino, quel ridimensionamento della figura del prete che va nella direzione di un ministero tutto svolto a favore del popolo di Dio. Un ministero, secondo Mazzolari, che deve raggiungere non soltanto quelli di dentro, ma soprattutto quelli che non sentono più la Chiesa come loro Casa e che non sanno di appartenere al popolo che Cristo si è acquistato col suo sangue. Don Primo rilegge alla luce della fede gli avvenimenti contemporanei e, viceversa, interroga il Vangelo a partire dalla concreta situazione non soltanto di singole persone, ma di un’intera collettività. Facendo del ministero pastorale, svolto come servizio a Cristo e alla plebs sancta, il centro catalizzatore del suo essere sacerdote, don Primo supera ogni divisione che si frappone fra l’ambito della spiritualità sacerdotale e la pastorale. 3.5. Aspetti particolari A questo punto è bene focalizzare alcuni particolari della figura del sacerdote, appena delineata nel disegno di fondo, per precisarne i contorni, esplicitandone componenti e connessioni che possono sfuggire ad uno sguardo d’insieme. 3.5.1. Il Servizio della Parola Il primo ed essenziale elemento che caratterizza la matura ed originale concezione presbiterale di Mazzolari è il servizio alla Parola. La Parola di Dio, infatti, è al cuore delle opere mazzolariane e costituisce l’intento fondamentale del suo stesso lavoro letterario133. Mazzolari fu in modo particolare un ministro della Parola. Nella figura autobiografica di don Stefano Bolli del romanzo incompleto L’uomo di nessuno, egli si tratteggia come un sacerdote sul cui tavolo di lavoro «i fogli si ammucchiavano di giorno in giorno […] Quello era divenuto una nuova maniera, il nuovo lavoro o strumento della sua vocazione apostolica»134. Si può notare come qui sia formulato il profondo, totale coinvolgimento della persona nella vocazione sacerdotale: non si può farsi tramiti del133 «Fu un divoratore di libri ma in definitiva conobbe un solo libro, il Vangelo […] Finì per scrivere un unico libro: il commento al Vangelo per gli uomini del suo tempo […] Scrivere per lui era evangelizzare»: U. VIVARELLI, Il vangelo secondo don Primo, in Momenti 2 (1967) 5, 22-23. 134 Nessuno, 334.
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la Parola senza esserne prima attraversati e impregnati. È nella predicazione che appare chiaramente se il prete privilegia l’esteriorità dell’azione o l’intensità dell’annuncio, se sia impegnato in una ricerca di quella Verità che annuncia o ne soffochi la vitalità in una fredda (per quanto corretta) ripetizione di contenuti dottrinali: «in genere il sacerdote-predicatore non vuole fare nessuno sforzo interiore, raccoglie, elenca e crede così di poter assolvere al dovere di annunciatore del Vangelo [La conseguenza è] la disistima, la stanchezza, la nausea della predicazione parrocchiale […] La predicazione, che è parola impersonale, deve diventare personalissima. Ognuno predichi come può e predicherà come deve […] una parola semplice, chiara, persuasa è sempre bene accolta, dai colti e dagli incolti. Tale predicazione domanda molta riflessione e preparazione […] un lavoro continuo di assorbimento, di osservazione, di chiarificazione. Far diventare viva la parola vuol dire averla viva per sé e per quello che è negli altri»135.
Dall’altra parte, si manifesta fortemente la dimensione del servizio, inscindibile dalla precedente: la Parola deve passare necessariamente attraverso l’annunciatore, ma non essere sequestrata da lui, e neppure ridotta a suo servizio: «quando predico alla mia povera gente sono il ripetitore della parola di un altro: devo ripetere quel che Gesù ha detto: non il mio Vangelo, ma il Vangelo di Gesù. Una delle tentazioni più forti di un parroco alla messa domenicale è di leggere, invece del Vangelo secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni, il Vangelo “secondo il parroco”. Non perché non ci debba mettere nel Vangelo la mia anima, ma perché, con la scusa del Vangelo, io non posso presentarmi alla mia gente, che è la plebs sancta, con i miei diritti…di sfogo, di rivolta, di rampogna […] Il Vangelo, prima di predicarlo, bisogna farlo passare attraverso la nostra povertà […] e la nostra voce avrebbe un tono diverso»136.
Di qui la sofferenza che il sacerdote — se consapevole del compito a cui è chiamato — “avverte e vive”: «Il dramma intimo della propria indegnità […] ogni prete ha lo strazio di dovere quasi sempre predicare delle parole che sono più in alto, se non proprio in aperto contrasto, con la sua vita. Ogni volta che noi predichiamo il Vangelo, condanniamo noi stessi. Esistenza tragica e sublime, quella di un uomo che è costretto a condannare continuamente se stesso!»137. 135
Diario II, 419-420. P. MAZZOLARI, La mia messa domenicale, in Adesso 11 (1959) 8, 1. 137 Parroco, 17. 136
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Alquanto eloquenti, su questo tema, sono gli appunti inediti che Carlo Bellò ci ha fatto conoscere sulla preparazione dell’omelia138. Comprendono una mirabile sintesi — frutto evidente dell’esperienza — tra Grazia e impegno, tra contemplazione, studio e azione: «come si prepara la parola di Dio? […] Come per ogni altra azione della Grazia, il concorso dell’uomo consiste nel non opporle ostacolo. Il che per chi conosce le inclinazioni dello spirito è tutt’altro che un concorso passivo […] L’azione che ne risulta è divina ed umana insieme, e il divino ha l’aspetto dell’umano che si comunica e si incarna per agire. È il mistero dell’Incarnazione che continua in maniera mistica […] Essa porta maggiore frutto quanto più completamente si salda dentro di noi, alla nostra vera persona, in quanto cioè diviene cosa nostra, purché noi siamo divenuti cosa di Dio […] La verità religiosa non si può tramandare in maniera paleografica. Il Signore è l’Iddio dei viventi e non dei morti […] Chi considera così il ministero della predicazione scorge facilmente i mezzi della preparazione ad essa. I quali sono compresi nel piano generale di vita cristiana e sacerdotale in un continuo sforzo di bontà, di studio, di meditazione, preghiera e d’esperienza. Anche di esperienza, perché senza la conoscenza dell’animo dei fratelli cui devesi comunicare la parola, la nostra opera è deficiente. Esperienza vuol dire carità. Chi ha l’animo nella carità trova la via dei cuori»139.
Per Mazzolari l’omelia deve essere fatta sulla Parola di Dio e non su altro: «Aprite il vangelo a qualunque pagina: ogni parola vi presenterà lo spunto per una predica, se saprete parlare con la vostra anima. Spiegate voi il vangelo, non con “i predicabili” che si scrivono con troppa abbondanza»140.
Il prete deve assumersi l’impegno di studiare: «se un prete non studia, non sta in piedi»141. Lo studio ha funzione pastorale, «non per sé, ma per le anime»142, e diventa ancora più necessario se si costata la povertà del
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Insegnamento che, come sempre, riflette innanzitutto l’esperienza vissuta in prima persona da don Primo, come ci testimonia l’amico don Astori: «La sua fu una predicazione profondamente sincera, sentita, sofferta: parlava a sé oltre che agli altri […] Una parola sofferta, la sua, concreta, ardente, con profondo senso religioso e un efficacissimo richiamo alla parola rivelata»: G. ASTORI, Il mio amico don Primo, Vincenza 1971, 73-78. 139 C. BELLÒ, Primo Mazzolari, cit., 88-89. 140 Preti, 82. 141 Diario III/A, 401. 142 Preti, 19.
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mondo culturale cattolico («una povertà atroce»143) e l’«infantilismo culturale del clero italiano»144. Mazzolari, a partire dalla sua esperienza di travaglio e di ricerca personale, attraverso la sua profonda e intensa interpretazione spirituale della figura del prete, considera la persona stessa del sacerdote tramite della Parola che qualifica in maniera peculiare il senso essenziale del ministero presbiterale: quello del servizio a Cristo e all’uomo e all’incontro dell’uno con l’altro. L’originalità e la peculiarità del pensiero mazzolariano consistono nel considerare lo studio e la meditazione della Parola come realtà della vita spirituale non separate dalla missione apostolica, ma come la luce, l’alimento e la forza del ministero pastorale del sacerdote. Il ministro deve lasciarsi attraversare, interrogare, scuotere, illuminare e alimentare dalla Parola di Dio. Nella misura in cui la Parola diventa efficace per la sua vita, lo diventerà anche per i fratelli e per le sorelle a cui egli si rivolge. Inoltre il sacerdote deve conoscere bene se stesso: deve fare i conti con il suo mondo interiore. La vita pastorale del prete sarà fondamentalmente determinata dalla sua formazione umana e spirituale. Più il cuore del prete sarà riconciliato con Dio, con se stesso e più sarà elemento di riconciliazione, di pace e di unità tra il gregge di Cristo. Mazzolari insegna al presbitero di oggi a considerare in sinergia la dimensione spirituale e la dimensione pastorale per un maggior servizio a Cristo e all’uomo. 3.5.2. Il culto della Vita Per Mazzolari l’Eucaristia è l’«atto riassuntivo della dignità e funzione sacerdotale»145. La forte dimensione d’incarnazione e di redenzione che caratterizza la sua personale tensione spirituale, lo porta a descrivere e a vivere la Messa soprattutto quale mistero d’incontro e di redenzione della vita umana, in tutte le dimensioni, comprese quelle più materiali, come il lavoro o il cibo, e la presenza e l’azione di Cristo. Così afferma don Primo parlando a dei preti di Savona: «Il pane e il vino che tengo in mano in questo momento sono il frutto della terra lavorata dal mio popo143
Diario III/A, 153. Ibid., 145 e cfr. ibid., 323: «la coltura ecclesiastica italiana dopo il risveglio acerbo e disarmonico dei primi del nostro secolo, quando nei seminari e nei conventi […] passò un soffio di primavera, è decaduta enormemente». 145 Diario, 173. 144
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lo: la sua fatica che sta per essere riposta in un misterioso incontro con il Signore»146. La S. Messa deve, di conseguenza, ridondare in un più largo dono di vita che coinvolga tutti gli uomini che Cristo fa suoi nell’atto della sua Presenza nel mondo: la fractio panis deve aprire ad una fractio cordis147 che superi ogni barriera («se uno solo degli uomini resta fuori dal nostro cuore, la Comunione non è piena»148), così che chi partecipa alla Mensa eucaristica «si alzi per continuare nel mondo quella Carità che è il fermento celeste del pane del Mistero»149. Così il Cristo incontrato nella presenza eucaristica «ricrea» lo sguardo del prete per condurlo a «vedere Gesù dappertutto»150. La celebrazione dell’Eucaristia, nella quale si rinnova il sacrificio di Cristo per la salvezza di tutti gli uomini, è anche «la crocifissione del Cristo continua nei fratelli»151. Nell’Eucaristia vi è «il Cristo fatto umanità»152. Questo implica il coinvolgimento totale del prete nella celebrazione eucaristica: «la nostra Pasqua è il Cristo crocifisso. E la pasqua egli la fa lo stesso. Scende sulle piazze, lungo le strade, negli ospedali, nelle prigioni, ovunque è fame, dolore, oppressione, martirio. Ogni lagrima è sua, ogni umiliazione è sua, sua ogni tristezza come ogni agonia. Egli ha fame e sete: è malato, ignudo, senza casa, prigioniero, oppresso, schiavo: è il dolore che fu, che è nell’ora e nei secoli: è l’Uomo del dolore, il crocifisso di ogni ora. Nessuno può impedirgli di soffrire con chi soffre e di morire con chi muore»153.
Questo significa che il presbitero non deve limitarsi a una celebrazione rituale del sacrificio di Cristo, ma deve fare in modo che questo sacri-
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P. MAZZOLARI, La mia messa domenicale, cit., 9. «Questo povero cuore non si abitua mai […] Bisogna romperlo sempre; la fractio cordis come preludio e compimento insieme»: Quasi, 91. 148 Croce, 40. 149 Ibid., 26. Don Primo sta commentando l’episodio della lavanda dei piedi che, nel Vangelo di Giovanni, occupa il posto che ha nei Sinottici il racconto di istituzione dell’Eucaristia. 150 «Celebro la messa ogni mattina per ricrearmi lo sguardo e “vedere” Gesù dappertutto»: Povero, 18. 151 Croce, 95. 152 Ibid., 29. 153 Ibid., 51. 147
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ficio si prolunghi dall’altare alla strada perché il Cristo incontri l’uomo, soprattutto se è nella sofferenza o nell’indigenza totale. 3.5.3. Una missione senza confini Pur sentendo così fortemente la responsabilità ministeriale nel fare da tramite alla Parola e alla grazia di Dio nei confronti dell’uomo, anzi proprio per questo, il prete non può rinchiudersi entro il ristretto ambito dichiaratamente ecclesiale. Quel Dio, di cui il sacerdote si fa interprete, infatti, è all’azione ben prima e in un raggio più ampio di quello dell’istituzione ecclesiastica. Chi vi è dentro — il sacerdote in primo luogo — non può starvi, quindi, come un funzionario diligente, tanto meno come un rassegnato o, al contrario, come uno che vive in uno stato d’inquietudine per la ristrettezza delle prospettive disegnate alla sua stessa missione da chi l’ha costituito apostolo: «le più belle pagine della Chiesa furono scritte dalle anime inquiete. Coloro che trovano tutto a posto, che non avvertono nessuna stonatura, che placidamente si svegliano, mangiano, ruminano, s’addormentano, saranno degli ottimi funzionari e dei subordinati esemplari, mai degli apostoli»154.
Così la constatazione della lontananza dell’uomo contemporaneo dalla Chiesa e dalla fede provoca in Mazzolari un cammino di maturazione che, passando dal periodo dell’attesa (Perché sono lontani? Perché si sono allontanati?), porta alla identificazione della missione con l’accompagnamento discreto: da contingenza storica particolare, tale lontananza viene assunta e riscoperta come prospettiva permanente della missione cristiana. 3.5.4. Nella concretezza del tempo presente Mazzolari rimarca, dunque, l’attenzione al momento presente, all’«adesso», ossia alla concreta situazione dell’uomo che vive collocato in un contesto storico preciso, il «nostro tempo», da amare «così com’è»155. Le sue riflessioni e i suoi scritti, come si è potuto vedere in precedenza, sono, infatti, costantemente intrecciati al momento storico del Paese: 154
Avventura, 117. Don Primo lo raccomandava ai seminaristi di Cremona, durante gli esercizi spirituali del 1937: «Amiamo il nostro tempo così come è! […] Finiamola, dunque, di scagliarci contro il nostro tempo!»: Preti, 51. 155
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la Prima guerra mondiale, il Fascismo, la Seconda guerra mondiale, la Resistenza, il Dopoguerra. Mazzolari stesso considera la sua partecipazione attiva, con i comizi tenuti in varie piazze d’Italia nei primi anni dopo la Liberazione, come ministero della predicazione: «ho condotto tre campagne elettorali, non come galoppino di un partito, ma come sacerdote, fino a buttarmi via salute e corpo, e sono rimasto con i debiti delle auto non pagate dagli stessi comitati che mi richiedevano con urgenza disperata»156. Entro questa categoria pastorale occorre perciò interpretare il suo impegno politico157. In Mazzolari si riscontra l’intento di rileggere alla luce della fede gli avvenimenti contemporanei e, viceversa, di interrogare il Vangelo a partire dalla concreta situazione non soltanto di singole persone, ma di un’intera collettività. L’essere attenti al presente significa anche avere il coraggio, la «santa audacia»158, di cercare nuove vie per l’apostolato, superando la paura di cambiare che è sempre un buon pretesto per la propria comodità: «è più facile convertire un peccatore che far cambiare metodo a uno buono»159. 3.5.5. Il prete come parroco Don Primo identifica la figura del presbitero fondamentalmente con il ministero parrocchiale. A partire da questa identità di base è possibile mettere in evidenza come egli, al vaglio dell’esperienza parrocchiale, rilegga, purifichi e delinei la figura del prete. Innanzitutto mediante un intenso travaglio esistenziale e spirituale, don Primo dilata la prospettiva della “cura delle anime”, mettendo al centro del suo ministero pastorale la persona in quanto tale. Egli faceva i conti chiaramente con una società ormai in buona parte collocata al di fuori dei tradizionali confini parrocchiali. 156 P. MAZZOLARI, Obbedientissimo a Cristo, cit., 204; cfr. U. VIVARELLI, Il vangelo, cit., 17: «me lo ricordo la sera del 16 aprile in piazza Sordello, a Mantova, dinanzi a una marea di gente gridò: “da vent’anni sto collezionando i titoli più contraddittori. Ora sono fascista, ora antifascista; ora capitalista ora proletario; sono clericale e anticlericale; comunista e anticomunista. Mettetevi d’accordo una buona volta. Io sono soltanto un prete di Cristo e della Chiesa». 157 Cfr. G. CAMPANINI, Don Primo Mazzolari fra religione e politica, cit.; cfr. anche C. BELLÒ, Primo Mazzolari, cit., 124. 158 Preti, 105. 159 Ibid., 103.
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Ed è proprio nella parrocchia che don Primo attinge una grande maturazione interiore. Come detto, dalla constatazione della lontananza delle persone dalla Chiesa, passa all’osservazione dell’insufficienza dello strumento-struttura a disposizione (la parrocchia), fino al recupero della dimensione spirituale/ cristologica della missione sacerdotale che comprende e illumina la stessa dimensione parrocchiale. Nella prima tappa del cammino di maturazione spirituale di Mazzolari, il prete è il «solitario del presbiterio», che è chiamato ad attendere, anche se di domenica ritrova la propria paternità in mezzo alla sua famiglia radunata160. Nella seconda tappa di questo cammino, il parroco è come una sorta di efficiente “assistente sociale”. Nella terza e culminante tappa del cammino interiore di Mazzolari, il sacerdote è la ripresentazione del Cristo, anche e soprattutto nel suo essere sconfitto. La parrocchia, da frontiera ultima e desolata che sperimenta l’abbandono, è considerata come luogo del contatto diretto tra la via quotidiana e la presenza di Cristo, il quale, già frequentatore di strade marginali, si colloca anche in questa periferia desolata, mediante la testimonianza di un povero curato di campagna. Questi, scavando e ricercando il vero significato del suo ministero sacerdotale, supera l’efficienza assistenziale, e ritrova il significato della sua ragion d’essere nel Cristo crocifisso che dà continuamente la vita per tutti sulla croce: «per fare il parroco di campagna ci vuole non un funzionario, ma un apostolo doppiato di poeta […] Bisogna nascere poeti e sapersi serbar tali per non disdegnare la cura d’anime in campagna […] Se non ci fosse il prete in paese! […] Il cuore più largo, il cuore crocifisso che abbraccia tutti, perdona a tutti, il cuore che vuole bene a tutti!»161.
La parrocchia diventa, quindi, l’ambito tipico, dove più chiaramente di ogni altro luogo può esprimersi quest’incontro di redenzione e dove può esprimersi quest’identificazione a Cristo e la mediazione della salvezza realizzata nella persona del ministro ordinato. In una recensione al libro di Bernanos, Diario di un parroco di campagna, Mazzolari scrive:
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«Alla domenica mi sento veramente padre, non sono più il solitario nel presbiterio. Il Signore, la domenica, mi dà una famiglia»: P. MAZZOLARI, La mia messa parrocchiale, cit., 8. 161 Argine, 182.184.
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«posto alla confluenza di due mondi, flagellato da due realtà, che di rado si ricompongono nella strettezza d’una povera persona, il prete è quasi sempre un Cristo in tentazione e in agonia. Il laico Bernanos ha capito il prete meglio di tanti preti letterati. Il suo “parroco” è così vero, così vivo, così umano e pur così sprofondato nel soprannaturale. […] Ma ci vuol dentro anche un cuore che sappia tutte le pietà umane e divine, e che abbia l’esperienza del dolore, che è poi la scienza del Cristo Crocifisso […] “Tutto è grazia” son le sue ultime parole. Anche il morire, perché anche il morire può diventare un atto d’amore […] Una vita mancata com’è mancata ogni vita di prete, com’è mancata quella di Colui che muore sul Calvario. Per un’anima che gli si apre, mille che gli resistono in un’ostinazione invincibile. Eppure, chiudendo il libro delle sue confidenze, ognuno avverte che la Chiesa affidò proprio a questo povero prete, la cui preghiera è una maniera di piangere, la missione divina di ritrovare le sorgenti della gioia. Cristo prima di giudicarlo “ha condiviso e assunto” la sua povera vita»162.
Ci si deve rapportare, dunque, alle persone. Ad esse non si devono innanzitutto proporre attività e iniziative, quanto offrire un cordiale e rispettoso aiuto a trasformare l’esistenza quotidiana in vita di fede163. Ciò che conta, per il prete, è il contatto tra Cristo e gli uomini, che può naturalmente realizzarsi nella dimensione della parrocchia proprio in quanto luogo di incontro. La parrocchia è, dunque, indispensabile anche al di fuori dei suoi ristretti confini. Questo spiega perché don Primo, nel definire il parroco, recuperi la dimensione missionaria del presbitero, vocato alla salvezza universale inseparabile dall’identità stessa della Chiesa. Attraverso la sua concreta esperienza di parroco, Mazzolari acquisisce, dunque, un’acuta consapevolezza del senso profondo dell’identità presbiterale. Per questa via egli può ritrovare quella visione spirituale di Chiesa, che intuiva come più vera, ma che solo il Concilio Vaticano II, in un rinnovato contesto ecclesiologico, potrà sviluppare, elaborare e concepire.
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Diario III/B, 325.328. Cfr. Diario II, 384: «io non credo nell’organizzazione, credo nell’apostolato, credo nello spirito che si fa parola ed esempio in mezzo al popolo. Il Signore, chiamandoci, non ci ha detto di radunare una truppa, ma di destare le anime, non ci ha detto di conquistare la terra, ma di aprire in qualche cuore la speranza del regno, di dare una consolazione a chi piange, una gioia a chi muore». 163
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*** In questo terzo capitolo l’indagine è stata condotta sulle opere di don Primo Mazzolari per ricavare l’immagine del sacerdozio ministeriale nel suo pensiero. Prima di svolgere questo processo di ricerca, si è ritenuto opportuno analizzare la prospettiva di fondo dentro cui si muove Mazzolari: la tradizionale teologia del tempo che considera il sacerdote come mediatore tra cielo e terra, tra Dio e gli uomini. Questa immagine, trasmessa universalmente dal magistero cattolico, nel periodo in cui Mazzolari si prepara al ministero, si arricchisce del contributo di due modelli compresenti nella spiritualità del clero diocesano lombardo: quello di San Carlo Borromeo e quello della scuola francese del Seicento. Si è potuto, poi, rilevare successivamente un percorso di approfondimento della spiritualità negli scritti del sacerdote cremonese. L’evoluzione va di pari passo con la riflessione sulla missione del prete. Se, infatti, nel commento alla parabola del prodigo (1934), all’allontanamento della salvezza corrisponde una Chiesa che attende, nello scritto sul samaritano (1937) tema centrale è l’incontro dell’uomo in una logica d’incarnazione e redenzione. Nell’episodio di Emmaus, in tempo di credere (1941), infine, il ruolo del prete si concretizza nell’accompagnamento discreto all’incontro con Cristo. Non più un attendere paziente, ma un farsi vicino, pellegrino tra i pellegrini, viandante tra i viandanti. Questa evoluzione sembra, insomma, disegnare una progressiva “marginalizzazione” della figura del prete: si passa, infatti, da chi aspetta l’altro a chi prepara l’incontro tra l’altro e Cristo (e pertanto si fa discretamente da parte per favorirlo). Viene fuori dalle opere mazzolariane una visione di prete caratterizzata da una spiritualità sacerdotale incarnata nella storia, che lo porta, da un lato, al continuo confronto con la realtà umana, sociale e politica del tempo, dall’altro, alla totale donazione di sé agli altri. Questa concezione può essere qualificata con la caratteristica di una ministerialità concepita come servizio reso a Cristo, Servo di ogni uomo. In questa figura di prete il ministero appare indirizzato tutto a favore del popolo di Dio. I tratti essenziali che, in ultima analisi, caratterizzano la fisionomia del prete sono: il servizio alla Parola, il culto della Vita, una missione senza
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confini nella concretezza del tempo presente, il prete come parroco. Mazzolari, dopo un lungo travaglio interiore di ricerca sul senso della sua vocazione sacerdotale, scopre che il prete ha impresso in sé il mistero pasquale del Cristo crocifisso, morto e risorto, ed egli diventa alter Christus nella misura in cui accoglie in sé l’esperienza della sofferenza di Cristo, la partecipazione alla sua offerta di vita, il mistero della croce, la rinuncia al proprio tornaconto, la condivisione della condizione del povero, il cammino dietro Gesù Cristo fino al Calvario, il sacrificio della propria vita per il bene dell’altro, il pagare di persona per testimoniare l’amore di Dio per l’umanità, la cura di ogni uomo, la fedeltà alla Chiesa. Il destino del sacerdote, alter Christus, è indissolubilmente legato a quello di Cristo. Per cui il prete scopre di non appartenersi più, ma di essere uno strumento di amore per tutti.
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Capitolo IV
L’armonizzazione tra il ministero pastorale e la vita spirituale: l’originalità della proposta di Mazzolari
1. Introduzione In questo quarto capitolo la nostra ricerca vuole dimostrare che, nella visione sacerdotale di don Mazzolari, il ministero pastorale e la vita spirituale del prete sono in simbiosi, in armonia senza alcuna contrapposizione. Innanzitutto vogliamo mostrare l’originalità della spiritualità proposta dal nostro autore, una spiritualità che si esprime non al di fuori, ma all’interno della storia nella donazione completa di sé ai fratelli. Per don Primo, in secondo luogo, la fede proposta dal presbitero, nella misura in cui assume una forma particolare che la ancora alla concretezza della storia, può essere accolta come proposta ragionevole e affidabile dall’uomo moderno. La nostra indagine si sofferma, poi, sulla tensione teologica che esiste nel ministero sacerdotale tra la dimensione cristologica e la dimensione ecclesiologica, per mettere in evidenza il tentativo di riconciliazione tentato dal nostro autore che vede nel cuore, la sede dove entrambe le dimensioni ben si armonizzano. Successivamente la ricerca sviluppa il tema del cuore come cifra interpretativa della formazione spirituale sacerdotale. A tal riguardo ho ritenuto opportuno fare un confronto ermeneutico tra Mazzolari e un teologo a lui contemporaneo, K. Rahner. Dal confronto emerge che Cristo è la sorgente di unità tra la vita spirituale e l’impegno pastorale nel cuore del presbitero. In conclusione desidero indicare la sfida che il pensiero mazzolariano pone in ambito formativo ai can-
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didati al presbiterato e ai sacerdoti della nostra generazione per rilevarne l’attualità e la consistenza.
2. Un’originale spiritualità L’esperienza sacerdotale, che propone don Primo, si presenta come un cammino spirituale travagliato dal desiderio della ricerca di Dio; un itinerario in cui il sacerdote scopre di non appartenersi più, un percorso attraverso cui prende progressivamente consapevolezza di essere in Cristo Crocifisso uomo di tutti e di nessuno. Il prete, come il Padre della Più bella avventura e degli altri scritti, deve essere capace di tenere lo sguardo sui grandi orizzonti, resistendo anche con sofferenza, anche pagando di persona, alla tentazione e al rischio continuo di chiudersi negli angusti spazi della «immancabile corte di gente corta, che ingombra ogni parrocchia e fa siepe attorno al parroco»1. Il prete, come il Padre, ama con semplicità, familiarità, sentendosi partecipe della vita degli altri, senza sopportare distanze né lontananze: «non accettare tutto, ma tutto comprendere; non tutto approvare, ma tutto perdonare; non tutto adottare, ma cercare in ogni cosa la scintilla di verità che vi si trova imprigionata: non respingere un’idea né una buona volontà per quanto falsa e debole. Amare le anime come Gesù Cristo le ha amate, sino alla sofferenza, sino alla morte»2.
Come la casa del Padre (de La più bella avventura) è l’immagine della Chiesa, così il prete, nella Chiesa, è l’immagine del Padre. Egli, in un primo momento, attende; poi, si mette in ricerca, e in ultima analisi accompagna discretamente il prodigo/umanità mettendosi discretamente da parte per favorire l’abbraccio misericordioso e tenerissimo con il Padre. Tutto questo comporta ascolto, discernimento, comprensione, un’azione di raccordo volta a riconoscere gli anticipi divini delle anime non ancora arrivate alla pienezza della luce3. Il sacerdote, configurato a Cristo sommo ed eterno sacerdote, impara sempre più a guardare al mondo dal punto di vista di Cristo, a leggerlo 1
Lettera, 42. Parroco, 33. 3 Cfr. ibid., 84. 2
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con la chiarezza del Vangelo. Il mondo, allora, non solo non va demonizzato, ma, con ottica evangelica, diventa un’Incarnazione di Gesù povero «verso cui dobbiamo piegarci con più appassionato e devoto cuore»4. È questa l’esperienza ecclesiale di Mazzolari sacerdote che, per parlare della sua vicenda sacerdotale, usa il linguaggio della narrazione più che quello della trattazione dottrinale: «la sua è una riflessione che nasce da una coscienza che si lascia interrogare dalle esigenze di una vita cristiana che non sopporta di trasformarsi in ideologia»5. Don Primo afferma, dunque, che il prete, con il suo ministero pastorale, è chiamato a manifestare la paternità divina. Nella Chiesa, casa del Padre, «paternità che tutto abbraccia»6, «necessaria continuazione della sua perpetua immanente azione tra gli uomini»7, il prete ha il compito di rappresentare la paternità di Dio. È alquanto interessante elaborare teologicamente questo pensiero. La spiritualità dell’ordine sacro, fino al Concilio Vaticano II, vede il sacerdote come alter Christus, un riferimento chiaramente cristologico. Infatti, secondo la teologia della controriforma, il punto di partenza è la nozione di carattere, che consacra e conforma a Cristo, sommo ed eterno sacerdote. Il fatto che Mazzolari colga nel ministero del presbitero la figura del Padre non contraddice la radice cristologica del dettato teologico sul sacerdozio, poiché nella sua umanità Cristo è figura del Padre8. All’interno della comunità ecclesiale il sacerdote è chiamato ad assumere le sembianze di Dio Padre. Da ciò risulta evidente l’esigenza di uscire dall’univoca spiegazione cristomonista del ministero, partendo dall’assunzione della categoria della paternità di Dio, in relazione al disegno salvifico della Trinità. Sarà questa intuizione che gli permetterà di proporre una vera e profonda riforma nella Chiesa volta a rivedere l’impostazione gerarchica del ministero in termini di servizio al popolo di Dio più che in termini di autorità e di potere. La proclamazione della paternità di Dio, annunciata e realizzata da Cristo, è posta da Mazzolari come contestazione di ogni assolutismo e riserva critica contro ogni idolatria del potere e dell’autorità. Ciò appare chiaro alla luce delle 4
Ibid., 79. P. BIGNAMI, Il prete secondo don Mazzolari: dentro il ministero con tutto il cuore, in Impegno 17 (2006) 1, 37. 6 Ibid., 40. 7 Ibid., 46. 8 Cfr. Gv 14, 9. 5
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affermazioni che don Primo adopera nell’opera La più bella avventura, dove si auspica che la Chiesa smetta di essere una cittadella arroccata su se stessa e impari a essere un focolare domestico che non conosce assenze: «per allargare, se mai, la dimora che poco avveduti fratelli hanno reso angusta, affinché tutti gli uomini vi trovino posto e si riscaldino»9. Don Primo rileva, poi, che il Padre è presente nella Chiesa, dove, seppure avvolto dal mistero della sua assoluta trascendenza, nulla è fuori della sua paternità, nulla fuori del suo abbraccio, ma tutto gli appartiene. Questa concezione gli offre la possibilità di porre la base per la fondazione teologica della vita spirituale: la spiegazione dell’interiorità di Dio all’uomo, come vera radice di tutto lo sviluppo di ricerca, di studio, di contemplazione, che è sempre un crescere vitale in Colui nel quale già siamo e ci muoviamo10. In Mazzolari non ha senso di parlare di quelli di dentro o quelli di fuori, bensì di coloro che hanno fatto esperienza della grazia di Dio e di coloro che ancora non l’hanno fatto. Pertanto il sacerdote, immagine del Padre misericordioso, dovrà aiutare i credenti a fare della loro vita cristiana l’espressione vera e autentica dell’alleanza di Dio attraverso un giusto e corretto equilibrio spirituale tra l’azione di Dio e la risposta della fede. Nei confronti dei non credenti il sacerdote è chiamato a fare scoprire la vita come un progetto, un’avventura dell’amore infinito di Dio per l’uomo: «quando i figlioli avranno capito il Padre e avranno la vita del Padre in se stessi, la sofferenza, ch’è dentro e fuori la casa del Padre, cesserà»11. S’intuisce, da quanto abbiamo esposto finora, l’accostamento di Mazzolari al pensiero teologico del cardinale Newman. Il teologo inglese, letto e studiato con passione da don Primo, tesse un elogio della coscienza e della libertà non come arbitrio assoluto dell’uomo, ma come luogo in cui si scopre l’identità umana di persona in dialogo con Dio. Alla base vi è una precisa antropologia: l’ascolto della coscienza unifica la vita, il pensiero e l’opera dell’uomo, ponendoli in relazione con Dio. La coscienza, prima di essere legge, è testimone di Dio e il consenso della coscienza deve essere pratico, non teorico. Si tratta di un consenso che non ha la struttura dell’adesione a verità, ma della libera relazione a Dio12. Questa suprema au9
Avventura, 48. Cfr. At 17,28. 11 Avventura, 41. 12 Cfr. J.H. NEWMAN, La coscienza, Milano 1999, 89. Cfr. anche ID., Lettera al Duca di 10
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torità, che è la coscienza, necessita del sacerdote, in quanto autorità ecclesiastica che la prepara, la dispone e la educa a vivere il legame imprescindibile con Cristo. Il sacerdote, dunque, deve proporre all’uomo un serio cammino di fede mettendo la sua coscienza «in una perfetta risonanza con se medesima» per giungere alla sua «necessità di compimento, la Fede»13. Se è vero che la Chiesa è l’immagine della casa del Padre, è anche vero che la Chiesa, in Cristo Gesù Incarnato, supera i confini del suo divenire storico e si pone al servizio dell’abbraccio misericordioso del Padre. Godendo di un particolarissimo legame con il Verbo di Dio fatto uomo, la Chiesa è anche presente laddove c’è l’evento dell’abbraccio paterno. Infatti, sostenendo che «in ognuno di noi, anche in colui che grida “toglilo, toglilo”, c’è il segno di croce, presagio e conferma di quella del Calvario»14, e ribadendo che la lontananza è un essere distante dal proprio cuore (dove appunto abita Dio in Cristo Gesù incarnato), Mazzolari afferma che quando l’uomo prodigo decide di aprirsi all’amore di Dio, di fronte al bisogno che lo induce alla fame di senso e della vera vita, scatta l’abbraccio del Padre e, di nascosto, si realizza la casa del Padre, la Chiesa. Se, dunque, è vero che il prete in Cristo è l’immagine del Padre, la missione del sacerdote, in definitiva, consiste in questo perdersi per l’umanità, nel dare la propria vita agli altri, perché Cristo, amore crocifisso del Padre, possa essere riconosciuto presente nel cuore dell’uomo, nel suo lavoro, in tutti gli ambiti e le attività materiali e possa essere accolto, amato nel volto dei fratelli: «è la pasqua se con Cristo vengono tutti i suoi. Se uno solo resta fuori, anche l’ultimo, anche il nemico, Egli non entra a far pasqua con noi. Non è l’ostia, ma l’umanità, che è nell’ostia — l’agonia, la passione, la crocifissione del Cristo continua nei fratelli — che ci tiene lontani dalla pasqua. Teniamolo pure lontano: diciamogli pure che non c’è posto. La pasqua Egli la fa lo stesso. Scende sulle piazze, nelle strade, negli ospedali, nelle prigioni, sui campi di battaglia, ovunque è fame, dolore, martirio. Nessuno può impedirgli di soffrire con chi soffre. Se noi vogliamo, possiamo negargli la nostra pasqua: ma la sua pasqua fu e sarà sempre, perché egli è l’Immolato di ogni ora e il fermento necessario per ogni migliore domani»15. Norfolk, Milano 1999, 217 e anche cfr. F. MACERI, La formazione della coscienza del credente. Una proposta educativa alla luce dei Parochial and Plain Sermons di John Henry Newman, Roma-Brescia 2001. 13 Diario I, 676-677. 14 Croce, 69. 15 Ibid., 95.
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Il prete, portando in sé l’immagine cristologica del Padre, vive in sé il dramma della sproporzione tra la trascendenza del suo ministero, che esige l’essere tutto per tutti come Cristo, e l’immanenza della sua persona, povera come lo è ogni creatura umana. Egli è «una povera creatura posta a far da ponte tra le sponde di due mondi, troppo in basso per quello dell’eternità, troppo in alto per quello del tempo»16. Questo dramma si riflette nel fatto che egli è chiamato ad «amare senza sentirsi appartenere»17, senza potersi «abbandonare interamente a nessuna creatura»18. Il prete, come il Padre rivelato da Cristo, è «la congiuntura dolorante di ciò che è ancora separato»19, è «una sbarra che ha il cuore, e il colpo, venga da destra o da sinistra lui lo riceve nel cuore, e non può ricambiarlo, neanche lamentarsi»20. Come ad Emmaus i discepoli prendono consapevolezza di avere incontrato il Signore Gesù quando Egli si sottrae al loro sguardo mentre spezza il pane per loro, così nella vita il popolo di Dio prende consapevolezza di avere incontrato il Signore nella persona del sacerdote quando avverte chiaramente che «le lagrime, le umiliazioni, le derisioni, le piaghe, il calvario del suo prete come quello di Cristo, gli appartengono in pieno; è roba sua, è la sua redenzione. Adesso il parroco muore — Inclinato capite. Prima nessuno s’accorgeva ch’egli ci fosse, se non per dirne male. Ora, tutti sentono che è morto qualcuno»21.
La passio Christi diventa passio discipuli22. Il destino del sacerdote è legato a quello del Maestro. La via crucis è il cammino vero di chi sceglie di amare fino alla fine, senza risparmiarsi. La logica è quella evangelica del perdersi per ritrovarsi. L’amore vero è di chi dona la vita, non di chi egoisticamente si chiude in sé. Donarsi a tutti indistintamente è la condi-
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Argine, 177-178. Nessuno, 341. 18 Prova, 229. 19 Ibid., 232. 20 Povero, 42. 21 Parroco, 26. 22 Cfr. Morire, 94: «…la misura di una vocazione è la croce, che viene sempre in ultimo e la compie. Il tutto è compiuto è vero e persuade quando viene detto dall’alto di una croce, prima di reclinare il capo. Sembra miglior sorte morire nel proprio letto, confortati dalla pietà dei nostri parrocchiani. Ma non è la maniera di morire, è il morire che è atroce. Morire con Cristo è grazia; morire come Cristo è dilatazione del mistero della salvezza sino agli estremi confini della terra. Chi muore come Cristo è veramente alter Christus». 17
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zione per vivere il ministero e per annunciare concretamente la salvezza di Cristo. «Adesso è morto: non resta che portarlo al cimitero. No, oggi c’è qualche cosa di nuovo intorno a questo morto: c’è il Signore, proprio oggi, ha dato una famiglia al solitario, e un padre a questo povero popolo che non ha nessuno che gli vuole veramente bene»23.
Per il sacerdote cremonese il prete è, quindi, «l’uomo di tutti e di nessuno»24. Questa espressione non è semplicemente una frase ad effetto. Non si tratta semplicemente di giustificare il celibato ecclesiastico con una frase che potrebbe condurci a luoghi comuni. Il concetto di don Primo si riallaccia al discorso del prete, che è chiamato alla conformazione piena con Cristo crocifisso. Il sacrificio del Cristo deve trovare continuazione e compimento nella vita di donazione del prete. Questi è un alter Christus nella misura in cui il sacrificio della vita è perpetuato con amore per il popolo che gli è affidato. In altri termini il pensiero di Mazzolari rimanda alla categoria teologica della Kenosi, cioè alla teologia della croce. Cristo è l’amore onnipotente che rinuncia a esercitare la sua onnipotenza per rispettare lo spazio della libertà umana. L’amore e la libertà convivono e si richiamano a vicenda. Nella croce di Cristo, Dio Padre «ha le braccia legate per l’eternità»25; lascia che la libertà si spinga fino al punto di mettere a morte l’unigenito Figlio. Paradossalmente, in Cristo, lo spazio aperto dalla rinuncia diventa luogo della rivelazione dell’amore. Nel morire di Cristo vi è «una carità senza limiti»26. La drammaticità del fallimento e della sofferenza è da mettere in conto nella vita del prete che deve sempre optare tra l’amore e l’egoismo, tra l’emarginare socialmente l’altro e il perdersi per lui, tra lo sfruttamento e il fare di se stessi un dono, tra l’arbitrarietà e il farsi responsabile. Il prete è un dono, come Cristo, che non appartiene né a se stesso né agli altri perché appartiene al Padre. L’essere per tutti e per nessuno rimanda, pertanto, all’antropologia teologica e si colloca, esattamente, nell’ambito della risposta libera e fedele che l’uomo è chiamato a dare a Dio in Cristo Gesù. La riflessione teologica ci conduce, così, a riflettere sulla responsabilità del prete che, 23
Parroco, 26. Prova, 229. 25 Croce, 63. 26 Ibid., 81. 24
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pur essendo custode e garante della fede del fratello, non può avanzare pretese e diritti sul gregge che gli è stato affidato da Colui che è il Pastore supremo. Neanche l’affetto o l’amore del fratello può essere richiesto dall’uomo di Dio, che è chiamato ad essere, nella grazia di Cristo, l’icona dell’Uomo morto crocifisso per la salvezza di tutti. L’essere di tutti e di nessuno non rappresenta una fuga del prete nel privato e il venir meno della dimensione fondamentale della persona umana che è l’esistere in relazione; diventa, anzi, la sfida a far convivere nella gratuità e nella fedeltà la relazionalità e la responsabilità. Per don Primo, che porta impressa nella sua coscienza sacerdotale la mentalità e lo stile del modello del prete sociale cioè a dire l’ansia tipicamente “leoniana” del confronto e dell’incontro col mondo moderno, se il ministero è un perdersi come Cristo, ciò non comporta una fuga dalla storia: «Tutta la vita del cristiano è un allontanarsi e un restituirsi. Siamo dei redenti, sapete: non de’ preservati. La nostra è una vita militante. Nel calendario di un soldato ci sono vittorie e sconfitte»27. «Militante» per lui esprime il rifiuto di ogni diserzione dalla propria vocazione, il rimanere nella vita con tutto se stessi, caricandosi dei problemi, senza delegare a nessuno le proprie responsabilità. Per lui l’impegno religioso va di pari passo con quello sociale. La «cura d’anime» non può accettare il silenzio davanti alle ingiustizie e ai problemi della gente. Il prete non sta davanti al mistero della croce, ma dentro. Pertanto la spiritualità presbiterale deve fare i conti con la concretezza del volto dell’altro. Lo sguardo del prete non è quello dell’estraneo, ma quello del fratello, disposto a condividere e a dare la vita. Dove c’è l’uomo, il sacerdote non può mancare! Alla luce di questo modo di interpretare il ministero sacerdotale è possibile rileggere la storia di don Primo e in particolare alcune esperienze e scelte significative: ad esempio, la partecipazione, in forme diverse, alle due guerre mondiali; l’opposizione alla dittatura fascista; il sostegno alla resistenza partigiana; i comizi elettorali in favore della DC, prima e dopo il 1948; l’opera di formazione all’impegno socio-politico; il dialogo con i partigiani della pace nel secondo dopo guerra; il dialogo col comunismo. Anche l’attività saggistica risente di tutti gli avvenimenti che si succedono nell’Italia del suo tempo: le pubblicazioni nascono dentro particolari situazioni. Per il sacerdote Mazzolari è fondamentale il senso della con27
Primavera, 112.
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cretezza, l’amore per l’uomo immerso nei suoi drammi, il bisogno di incarnarsi, la responsabilità di non abdicare dal contribuire per la soluzione dei problemi del tempo. Mazzolari crea, allora, un’armonia tra vita spirituale e ministero pastorale: soltanto unendo preghiera e salita «dei calvari del popolo di Dio», studio e servizio dei poveri, si nutre «la vita dell’anima»28. Egli intreccia la sua fede in Dio e il servizio al popolo in un’unità che trova forza nella sequela di Cristo. Entrare in sintonia con il popolo e trovare gli argomenti, le parole, l’intonazione in grado di conciliare Dio e popolo, patria e vangelo, costituiscono il compito del sacerdote, che attraverso il compimento del suo ministero nutre e alimenta la sua spiritualità. In altri termini è nell’esercizio del ministero pastorale che i sacerdoti approfondiscono la loro vita spirituale. Il nodo centrale della spiritualità tracciata dal sacerdote cremonese è costituito dall’affermazione che, senza il servizio ai fratelli, la fede cristiana è incomprensibile e rischia di ridursi a vuote pratiche di pietà e di legittimare qualsiasi potere sembri garantire i privilegi dell’istituzione ecclesiastica. L’originalità della proposta di Mazzolari è quella di una spiritualità presbiterale nella storia. Da una parte, la spiritualità del sacerdote deve formarsi, crescere e alimentarsi attraverso il continuo riferimento alla realtà umana, sociale e politica del tempo senza atteggiamenti di condanna e di conquista dall’altra, deve realizzarsi, più compiutamente, nella dedizione fedele e incondizionata ai fratelli. La vicenda umana di Mazzolari può essere letta come il tentativo di una ascesi (intesa come cammino di avvicinamento a Dio) compiuta nella donazione di sé agli altri nella periferia di una diocesi italiana, un dare senza pretendere, che è il «momento drammatico e più alto della vita di carità»29. L’avventura umana di Mazzolari indica decisamente che l’efficacia del ministero è condizionata dall’autenticità e dalla fedeltà con cui lo si vive e, viceversa, dall’affermazione concreta che ciò che si fa in quanto presbiteri impegnati nella storia a servizio del popolo di Dio è parte integrante della loro vita spirituale: vivendo pienamente il ministero pastorale ci si realizza come uomini spirituali. 28 Diario III/B, 14. Qui troviamo scritta anche la seguente espressione: «il sapere rettamente è una buona cosa, sapere vitalmente è migliore, e dove non c’è vita anche l’esattezza conta ben poco, poiché la religione è vita e il sapere religioso non è fine a se stesso ma mezzo per accrescere e ritrovare la vita dell’anima». 29 Diario III/A, 635.
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Si passa, in tal modo, dalla distinzione dei piani sacramentale e pastorale, propugnata e attuata dal magistero ecclesiastico fino alle soglie del Concilio Vaticano II, all’unità dei due piani proposta da Mazzolari e da chi, come lui, ha avuto la viva e vera consapevolezza di essere chiamato a dare ragione dell’importanza della funzione storica del cristianesimo30. Questo passaggio è decisamente aiutato dalla sua visione trinitaria del ministero e della spiritualità presbiterale.
3. La “forma” della fede come compito della spiritualità del presbitero Nel suo saggio Il sacerdote e la fede, oggi31 K. Rahner sostiene che la fede deve necessariamente svilupparsi nella storia per esprimere e attuare continuamente la sua antica essenza in una forma sempre nuova. Se la fede vuole sopravvivere deve essere strutturata come fraternità non pretenziosa, deve fare i conti con la situazione fondamentale di pericolo, deve caratterizzarsi per la sua semplicità radicale e deve mettere al primo posto la trascendenza di Dio. Cogliamo in Mazzolari, e nella sua riflessione, similmente a Rahner, la convinzione che oggi al credente non basta aver fede ma una “forma” di fede a lui adeguata. Egli si era accorto che sempre di più in Italia la fede stesse diventando ghetto, ansiosa di conservarsi, corrucciata e risentita, presuntuosa di saper sempre tutto, bigotta, roba da circolo di piccoli borghesi32. Ma se la fede non fosse realizzata in questa nuova forma, il cristiano non avrebbe il coraggio di abbandonare quegli appoggi politici e quei privilegi, una volta validi, che ora sarebbero senza significato perché inefficaci. Se la fede non assumesse una nuova forma, essa si riallaccerebbe a quella mentalità del tempo passato condannata a scomparire (civiltà cristiana), cancellerebbe dalla coscienza i dati che appartengono alla men30 Osserva C. Bellò: «Il prete, che “vede” le sembianze di Cristo agonizzante nell’atto sacrificale, le scopre anche nel suo mistico corpo, che sono tutti i fedeli. Egli porta con sé l’angoscia di Cristo»: C. BELLÒ, Don Primo Mazzolari, cit., 33. 31 K. RAHNER, Il sacerdote e la fede, oggi, Brescia 19902 [I edizione: Zürich 1965]. 32 Rimando al capitolo sulla critica al fratello maggiore della parabola lucana fatta nell’ Avventura, 57-102.
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talità di un’epoca nuova. In questo caso la fede sarebbe in serio pericolo perché diverrebbe inaccettabile e inefficace nella sua testimonianza. A tal proposito afferma don Primo: «assai pochi riescono a discernere la parola di vita che c’è dietro ogni proibizione morale: anzi, molti, confrontando la nostra nuda negazione con lo splendore non soltanto effimero di parecchie costruzioni umane, di pensiero e di attività, finiscono per giudicare la religione un elemento unicamente mortificante e quindi se ne sbarazzano alla prima occasione come di un impedimento»33.
Per don Primo il Vangelo è «tutto fuorché una parola negativa: è vita, fuoco, fermento, passione divina»34. Il problema pastorale di fondamentale importanza è, dunque, quello di dare forma e struttura alla fede da proporre oggi. Don Primo è cosciente che, se non si dà soluzione a questa questione, la fede sarà destinata al suo tramonto35. Il presbitero che, a differenza degli altri uomini, ha la missione e la possibilità, l’incarico e la grazia di vivere veramente in quell’oggi dal quale nascerà il futuro, deve farsi carico di questa problematica e trovare nel suo impegno pastorale una risposta. È proprio questa la sfida rivolta al sacerdote: corredare la fede di una struttura che la renda attuale e credibile per l’uomo d’oggi36. A questo proposito, se si fa riferimento alla lezione di Rahner, è facile rilevare, nello svolgimento del pensiero mazzolariano sull’impegno di fede per il cristiano, alcune emergenze evidenziate dal teologo tedesco: 1) vivere la fede inserendosi nel proprio tempo e nel clima spirituale di esso; 2) accettare la propria situazione di pericolo; 3) far sì che la fede cristiana diventi concreta, di fatti e non di parole, incarnata nelle miserie dell’uomo, rivolta ai lontani e ai peccatori; 4) trasmettere il vero volto di Dio.
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Avventura, 60. L.c. 35 «Una religione che non intacchi la realtà e non fermenti sotto i passi del credente, che contempli e non faccia la storia, cessa di essere un problema per diventare un capitolo della storia delle religioni, che, come ognuno sa, è il cimitero delle religioni»: Impegno, 119. 36 Si veda infatti l’opera Impegno dove l’autore affronta l’interrogativo cruciale: il cristianesimo ha esaurito o no la sua funzione storica? Mazzolari lancia l’appello a reimpostare su basi nuove il rapporto con i “lontani” e con i “poveri”. Per don Primo vi è l’urgenza di ricercare una fede che «addenta la realtà di oggi» (Diario III/B, 239), di testimoniare Cristo «nella vita, specialmente nella vita sociale» e di ribadire che il cristiano doveva essere «presente dappertutto, libero dappertutto e sempre fedele a se stesso cioè al Cristo che è in lui» (ibid., 239). 34
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Riguardo alla prima emergenza, il sacerdote, nell’attuazione della propria fede, deve incontrare l’altro come fratello, come compagno, come accompagnatore discreto dell’uomo verso Dio. Il sacerdote deve considerare compagno, amico, ogni uomo d’oggi, perfino colui che pensa di non credere e colui che, di fatto, non crede. Questa relazione appartiene anzitutto all’esame della fede stessa, e particolarmente all’essenza di fede del sacerdote. A tal proposito afferma K. Rahner: «La fede cristiana, lo si sappia o no, ha una relazione essenziale alla Chiesa, alla ‘moltitudine dei fedeli’. Essa è essenzialmente l’ascolto del messaggio con cui Dio stesso, pur continuando a chiamare ognuno singolarmente, si rivolge alla totalità delle creature spirituali, prepara e fonda il regno e l’unità del genere umano, dà testimonianza di sé al singolo e per mezzo di alcuni comunica il messaggio ad altri. La fede presuppone una comunità, e al tempo stesso la fonda. Il coraggio della fede viene sempre infuso in un avvenimento pentecostale, nei quali molti sono insieme riuniti. Inoltre comporta un avere sempre fiducia nell’esperienza degli altri, un essere convinti dallo Spirito che opera in altri, e uno sperimentare in sé lo Spirito, che è dato ad ognuno per gli altri»37.
Questo tratto della fede, per don Primo, deve divenire una caratteristica della forma della fede odierna. Bisogna considerare il fratello nella sua concretezza, come vivente qui e nel momento in cui lo incontriamo, come il prossimo in quanto tale. Il sacerdote deve avere la consapevolezza di avere una fede come gli altri, con il cumulo di difficoltà, di rischi, di oscurità, di tentazioni, ma con l’impegno di migliorare che hanno gli altri. Tutto ciò è “fede”. Don Primo riassume questo concetto affermando: «chi dice di veder meglio non sempre è davanti, non sempre è il più operoso servitore, non sempre il più fedele. Siamo malati con chi è malato: forti coi forti: sapienti coi sapienti: pellegrini coi pellegrini: cercatori con quelli che non hanno fede o credono di non averla. La vera gerarchia, insegnataci dal vangelo, incomincia dall’ultimo. Una fede che prende il passo di chi non crede, non è qualcosa di perduto o di diminuito»38.
Egli, dunque, esorta il sacerdote a far propria una fede fraterna, umile, capace di porlo nelle fila di coloro che credono tra le difficoltà e le tentazioni. Se, infatti, il prete sa essere uomo di oggi, e se nella fede non fugge 37 38
K. RAHNER, Il sacerdote e la fede, oggi, cit., 16-17. Impegno, 16.
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da sé per una falsa angoscia, allora la sua fede non può rinnegare l’odierna situazione terrena. Quest’ultima deve entrare nella forma della fede, purificarla, metterla alla prova, renderla umile e discreta, pronta ed adatta ad una nuova situazione specifica. La fede proposta dal presbitero deve essere tale che neppure il cosiddetto incredulo possa negare che il credente è un uomo come lui, un uomo d’oggi, sulle cui labbra il termine “Dio” non viene con facilità e non ha un significato immediatamente chiaro; un uomo che non presume di aver compreso tale mistero, un uomo modesto, freddamente scettico, come lo è lui stesso, e che crede non malgrado ciò, ma proprio per ciò. Dinanzi all’incredulo la fede del sacerdote deve apparire come fede fraterna. Le parole di don Primo, a tal riguardo, sono alquanto chiare: «ogni sforzo per toglierlo dagli uomini, diminuisce il sacerdote e gli impedisce di agire relegandolo in una solitudine che non è quella del profeta né dell’apostolo. Il sacerdote non può essere un separato: non comprenderebbe più ciò che avviene nel cuore dell’uomo e ciò che costa vivere la fede nel mondo. Troppi hanno paura delle perdite e degli smarrimenti, e cintano e sprangano, dimenticando che è perduto per la grazia e per la vita non soltanto il prodigo, ma anche il maggiore, il quale, se conosce la legge, non conosce il dolore. “Conosci tu il vangelo?”. “E tu conosci il dolore?”. L’apostolato che conquista, bisogna farlo cuore a cuore, di porta in porta, come uno di loro: compagno, fratello»39.
E ancora il nostro autore ribadisce che: «se si stacca dall’umano [il sacerdote], è obbligato a ricascarci per le cose comuni, così che spesso si assiste al poco edificante spettacolo d’una vita sacerdotale a due piani, inattuabile in un senso, biasimevole dall’altro, dove si confonde senza dignità e senza ragione. Così gli uomini camminano indisturbati a loro modo, senza curarsi se c’è una maniera di vivere migliore, perché quelli, che dovrebbero e potrebbero camminare in maniera migliore, non camminano affatto […] la religione non insegna a cambiar strada, ma a camminare bene l’unica strada»40.
Don Primo, partendo da questa convinzione, affronta il complesso discorso sulla “riforma della Chiesa” richiamando l’attenzione sull’esigenza di superare una concezione ecclesiologica prevalentemente giuridica che, a partire dalla categoria di “società perfetta”, riduce la Chiesa alla 39 40
Samaritano, 54. Ibid., 55.
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stregua di una “città munita”, preoccupata di difendere i propri confini piuttosto che di estendere la sua maternità41. Interessante a tal proposito è quanto afferma nell’opera Il Samaritano: «Ogni comunità tende per inerzia a chiudersi, diventando un hortus conclusus. Il mondo cristiano non è immune da siffatta tentazione, che lo porta a confondersi col Regno di Dio come se fosse ormai attuato quaggiù e a credersi, farisaicamente, l’unica accolta di brava gente. Preso da questa orgogliosa sicurezza, il cristiano, invece di sentirsi spinto verso un’ardente inquietudine di conquista, tende a separarsi maggiormente dal resto del mondo, a staccarsi dalla storia degli uomini come il puro si stacca dall’impuro»42.
Se i ministri della Chiesa propongono il messaggio cristiano con un tono clericale di superiorità, il tono di chi sa proprio tutto, e per il quale ogni nuova domanda è in fondo un turbamento di evidenze da lungo acquisite e mantenute o un’appartenenza al campo delle scienze senza alcun interesse per la religione, allora tale annuncio perde l’autentica forza di convinzione. «Forse siamo tuttora tentati [aggiunge Mazzolari] di proteggere il cristiano contro il proprio mondo sociale creandogli intorno un ambiente artificiale, in cui egli possa rifugiarsi e vivere cristianamente nella devota atmosfera d’un gruppo ben chiuso, perpetuando l’esistenza d’un cristianesimo d’emigrati, tagliato fuori dalla vita e dalla sua realtà quotidiana, che è fatta di classi, di professioni, ecc., un cristianesimo disumanato, senz’audacia, senza presa sul reale, disprezzato dall’attuale mondo pagano»43.
41 Cfr. A. BERGAMASCHI, Mazzolari fra Storia e Vangelo, cit., 56-58; cfr. ID., Primo Mazzolari: una voce terapeutica, cit., 27-29; cfr. ID., Presenza di Mazzolari. Un contestatore per tutte le stagioni, cit., 168-169; cfr. C. BELLÒ, Primo Mazzolari. Biografia e documenti, cit., 73-90; cfr. F. MOLINARI, Don Mazzolari, un contestatore per tutte le stagioni obbedientissimo, in Settimana 22 (1987) 7, 13; cfr. R. LA VALLE, La contestazione ubbidiente di don Mazzolari, in Il Regno Documentazione 14 (1969) 181, 213-217. 42 Samaritano, 145. 43 Ibid., 153. Don Primo, in un articolo pubblicato il 16 ottobre del 1941 su L’Italia dal titolo Lineamenti spirituali della nuova “intelligenza” cattolica. I nostri torti, scriveva: «Ci è mancata spesso la comprensione e la passione del nostro tempo, cioè il senso dell’Incarnazione: la comprensione e la passione del nostro ministero laico o sacerdotale, confondendo il servizio col privilegio, la Via Crucis con la carriera; sostituendo lo star bene dei cristiani e del clero con lo star bene della Chiesa, svuotando la croce del consummatum est che ne compendia l’offerta; l’audacia legata alla Fede e alla passione che essa accende»: Documenti: 169 articoli pubblicati sul quotidiano L’Italia di Milano (I Quaderni della Fondazione 8-9), Bozzolo 1993, 116.
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La seconda emergenza, presente nella concezione di Mazzolari, è l’accettazione della propria situazione di pericolo. Mazzolari, e altri come lui, prendono atto che il presbitero è sempre più immerso in una città scristianizzata. La rinnovata visione del ministero presbiterale, stimolata dalla consapevolezza della secolarizzazione, è bene espressa dal titolo della famosa lettera pastorale che il card. E. Suhard, contemporaneo di don Primo, dettò nella Quaresima del 1949: Il prete nella società. In essa si legge tra l’altro: «Esiste una lunga, spessa muraglia, che separa in due campi la Chiesa e la società umana. Il primo compito sacerdotale dei nostri giorni è di prendere coscienza di questo fatto e guardare il mondo in faccia…il prete d’oggi si chiede: di fronte a questo orizzonte che il fumo delle officine oscura, di fronte a queste università e questi laboratori nei quali nascono tanti problemi e tante scoperte, che devo fare?»44. Di fronte a queste istanze, «il dolore, l’angoscia dei preti di oggi è di sentire che il ‘paese reale’ vive e si costruisce senza di loro e che essi vi sono estranei. Quando si esaminano, prendono coscienza che l’essenziale del loro ministero è consacrato al gregge dei fedeli. Ma con questa differenza, che la proporzione si è rovesciata: è alle pecore perdute che occorreva andare ma, di fatto, sono le pecore che restano quelle che occupano gran parte delle loro giornate»45.
La chiave di lettura della biografia di don Primo è ravvisabile in questo porsi continuamente davanti alla situazione della fede in pericolo, che lo spinge ad un’attenta riflessione e, come si è visto, all’azione. Ne risulta, perciò, un ministero presbiterale incarnato sotto varie forme: sacerdote in cura d’anime, confessore, predicatore, scrittore, studioso, educatore, oratore socio-politico. Per custodire la fede, sostiene il parroco di Bozzolo, non è più possibile il mantenimento della tattica dei tempi passati, nei quali dominava un clima spirituale di omogeneità e sicurezza nella fede. La fede oggi presuppone una maturità umana, attenzione continua ai criteri che sostengono e motivano la scelta. Bisogna rientrare, come il figliol prodigo della parabola di Lc 15, 11-32, in se stessi, accettare veramente la propria fragilità e porsi di fronte al vuoto che minaccia di distruggere la propria vita, facendo ciò in maniera più radicale che non gli scettici più radicali, e in maniera più spregiudicata che non i più rigidi positivisti. In 44 45
E. SUHARD, Le prêtre dans la Cité, Paris 1949, 40. Ibid., 41-42.
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questo modo, oltre a confessare veramente la situazione di pericolo della nostra fede, si guadagna anche (e anzitutto!) terreno sul quale può fondarsi la fede nell’unica forma oggi realmente possibile. Solo dinanzi a questa situazione limite, che porta a interrogarsi radicalmente sul senso della fede, l’uomo capisce totalmente e chiaramente che egli e il mondo non sono Dio e non hanno da se stessi alcun fulgore divino, da poter godere tranquillamente e beatamente. «Solo così l’uomo comprende che Dio è Dio, mistero incomprensibile, dinanzi al quale bisogna arrendersi radicalmente. Qui ha inizio e si conclude il cristianesimo, certo comprendendo nello stesso tempo che tale mistero è l’avvicinarsi di Dio che perdona e comunica se stesso»46.
A questo punto è bene rileggere le stesse parole di don Primo che, nella critica del figliol prodigo, afferma: «a meno che si accetti di rimanere nella chiesa alla maniera del maggiore, cioè passivamente e inconsapevolmente, è inevitabile che il prendere cognizione e interesse sia accompagnato da una crisi, vale a dire da un riesame personale che ci mette direttamente di fronte alla realtà della casa e di chi vive nella casa. Non c’è verace adesione alla chiesa, la quale si possa sottrarre al momento critico. Ogni autorità, pur quella di Dio, finisce per essere discussa davanti alla coscienza individuale. Per essere vera, non è necessaria che venga accettata da me o da chicchessia. È necessario che venga accettata da me per avere su di me la sua piena efficacia. L’uomo non fa la religione ma, accettandola o rifiutandola rispetto a se stesso, in certo qual modo la fa. Nell’insoddisfazione, nella sua non adesione all’ordine della casa, mentre si estranea da essa, il prodigo pone il primo atto di uno sforzo veramente religioso che, attraverso varie e dolorosissime vicende, ve lo ricondurrà come figlio devoto e innamorato. Adesso l’insoddisfazione gli fa perdere la casa; più tardi ve lo riporta e in maniera che il ritorno diventa un progresso inestimabile sul rimanere in un modo qualsiasi»47.
La terza caratteristica, individuata tra le argomentazioni di don Primo sulla visione della fede, consiste nel far sì che la fede cristiana diventi con46
K. RAHNER, Il sacerdote e la fede oggi, cit., 33. Avventura, 118. Nella seconda parte dell’articolo pubblicato su L’Italia il 17 ottobre del 1941 dal titolo Lineamenti spirituali della nuova “intelligenza” cattolica, I nostri doveri di domani, don Primo, tra l’altro, ribadisce: «le frecce che indicano le strade buone non bastano più. Bisogna far ridiventare problema il Vangelo e la Chiesa attraverso la esperienza dell’allontanamento, illuminata con ogni audacia apostolica»: Documenti: 169 articoli pubblicati sul quotidiano L’Italia di Milano (I Quaderni della Fondazione 8-9), Bozzolo 1993, 118. 47
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creta, di fatti e non di parole, incarnata nelle miserie dell’uomo, rivolta ai lontani e ai peccatori. La fede vissuta è ponte verso Dio, ma può essere vero anche il contrario. Non è difficile, infatti, trovare nei cattolici una parte di responsabilità nell’allontanamento di molte persone dalla fede. I “lontani” sono al centro dell’ attenzione di Mazzolari proprio perché egli vi vede implicata la fede vissuta dei credenti48. La vita del discepolo di Cristo deve essere ponte e porta verso Dio; diversamente rappresenterebbe un tradimento difficilmente rimediabile: «Assai difficilmente si riesce a convertire una generazione che abbia visto coi propri occhi un’incarnazione inadeguata o falsa dell’idea divina»49. Don Primo è convinto che l’abbandono della casa del Padre da parte dei poveri, del mondo operaio, delle persone semplici sia stato causato da un cristianesimo strabico, con gli occhi rivolti a Dio, ma incapace di fare memoria della condizione di indigenza del fratello: «Da quello che io stesso ho potuto vedere e vedo coi miei occhi, poiché l’esodo è durato fino a poco tempo fa se pur non dura tuttora, direi che i poveri si sono ritrovati fuori senza volerlo. Si è raccorciata la carità dei fratelli benestanti, ed essi si son trovati alla deriva: e, senza volerlo, furono costretti a pensare che la Chiesa stessa non avesse braccia sufficienti per proteggerli e portarli e nutrirli. Chi non vede il fratello oscura necessariamente il volto del Padre. Questo è il grande peccato, quello che genera l’esilio e la disperazione, e costruisce “un paese lontano”, ove “dopo aver speso tutto, si è presi ancor più dal bisogno”»50.
Il parroco di Bozzolo denuncia, quindi, una dicotomia tra fede e impegno sociale. La fede è vissuta da molti sacerdoti e laici come rifugio nel privato, spiritualità fuori dalla storia. Una fede così intesa, in un periodo storico di profonde trasformazioni sociali, ha costruito l’immagine di un cristianesimo estraneo alla contemporaneità, distante dalle delicate condizioni umane di povertà e chiuso a riccio su di sé. Recuperare la dimensione sociale dell’impegno nel mondo significa per Mazzolari offrire agli uomini del proprio tempo la giusta testimonianza di fede: «la forza della nostra rivoluzione, il suo mordente, non è nella negazione o nell’antitesi, ma in un “di più”, in una pienezza nei confronti delle giustizie di que48
Cfr. I Lontani, 52. Il Samaritano, 81; vd. anche Avventura, 157. 50 P. MAZZOLARI, Mondo cattolico e mondo operaio, in Adesso 5 (1953) 1, 7. 49
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sta o quella ideologia, di questa o di quella umana passione. Sulle strade della giustizia e dell’amore, un cristiano che non sia un “di più” è un perduto»51.
Ed ancora: «Bisogna arrivare all’individuo senza isolarlo dal suo ambiente sociale: far leva su di questo per giungere a quello e, nel contempo, servirsi dell’individuo per aumentare la responsabilità cristiana dell’ambiente sociale. In altre parole, si tratta di conquistare un uomo che ci viene incontro saldato in un complesso d’istituzioni che danno alla sua umanità una nuova dimensione, la quale diventa materia e campo della grazia»52.
Mazzolari, inoltre, affrontando il tema dei poveri sostiene che non si può mai eliminare la povertà nel suo senso profondo, perché non si può proibire a nessuno di essere uomo e «basta essere uomo per essere un pover’uomo»53. Occorre, dunque, abituarsi a guardare in profondità, e a cogliere in tutte le sue dimensioni il problema della povertà, esorcizzando quel bisogno di non vedere i poveri, che è insito tanto negli uomini quanto nelle istituzioni. «Chi ha poca carità [nota Mazzolari] vede pochi poveri; chi ha molta carità vede molti poveri; chi non ha nessuna carità vede nessuno»54. E quelli che non hanno questa carità sono cristiani mediocri, che nella Chiesa sono legione numerosa e rumorosa. «Non basta ai poveri la mia omelia domenicale sulla povertà [osserva ancora, polemicamente] per sentirsi rassicurati nel loro mestiere di poveri. Essi hanno il diritto di chiedermi che significato prendono giorno per giorno le mie insuperabili certezze mistiche: quanto vale la mia carità soprannaturale come lievito di giustizia fra gli uomini». Ed ancora: «sta bene che noi cattolici mettiamo in guardia il mondo da ogni materialismo. Gridiamolo pure forte, ma insieme osiamo confessare che certo materialismo ha corso perché qualcuno s’è dimenticato di sentire “tutto il Vangelo in tutta la vita”»55.
51
Rivoluzione, 40. Samaritano, 153. 53 Povero, 31. 54 Ibid., 36. 55 Ibid., 27. 52
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In questo senso «ogni rivoluzione sociale che vuole essere vera redenzione parte e si ritrova in quest’abbraccio, dove i poveri hanno la faccia di Cristo»56. Occorre dunque un profondo rinnovamento delle coscienze e delle strutture57, una nuova Pasqua nella quale vi sia posto anche per il povero e che segni il definitivo trionfo dell’amore sull’odio: «Se tu pensi unicamente a una palingenesi sociale, a un capovolgimento delle odierne strutture economiche e politiche [ammonisce Mazzolari] se sogni una nuova terra emergente da un lavacro di sangue, se vuoi “pesare” la pasqua e commutarla in cibo e bevanda in forza di quell’equità che trova nella legge il suo equilibrio e nella buona volontà dell’uomo il suo fondamento, non riuscirai a capire la realtà spirituale della pasqua del povero»58.
Non basta, dunque, una modificazione dei rapporti di potere, ma è necessaria una profonda trasformazione anche delle coscienze, quella che da lì a pochi anni Mazzolari chiamerà “rivoluzione cristiana”59. Egli indica nella restituzione della parola ai poveri il motivo e l’obiettivo fondamentali di tale rivoluzione, “la rivoluzione delle beatitudini”, l’unica possibile per il cristiano. Sebbene si tratti di un fatto prevalentemente spirituale, don Primo osserva che la rivoluzione cristiana, favorendo lo sviluppo di un processo di redenzione integrale, promuove anche la giustizia economica che precede quasi sempre la giustizia spirituale60. La quarta caratteristica delle idee di Mazzolari sulla fede è quella di comunicare il vero volto di Dio. Una spiritualità sganciata dalla storia danneggia la fede perché presenta l’immagine di un Dio che si disinteressa della vita dell’uomo. La separazione tra vita spirituale e impegno pasto56
Ibid., 23. Cfr. ibid., 45. Cfr. G. CAMPANINI, Don Primo Mazzolari fra religione e politica, cit., 32. 58 Vd. articolo dal titolo Prendere sul serio i poveri, pubblicato su il Nuovo Cittadino, il 12 febbraio del 1949: Documenti: 67 articoli in collaborazione col quotidiano cattolico «II Nuovo Cittadino» di Genova (I Quaderni della Fondazione 6), Bozzolo 1991. 59 Cfr. G. CAMPANINI, Don Primo Mazzolari fra religione e politica, cit., 33. Nell’articolo dal titolo Col passo e il cuore del povero, pubblicato su L’Italia, il 13 agosto del 1953, don Primo scriveva: «Il capovolgimento, o la rivoluzione cristiana, o la metànoia o la palingenesi sociale che deve preparare una nuova giornata del regno di Dio su questa terra, non consiste nel raggiungere i poveri, ma nel farci poveri coi poveri e nel far camminare ogni cosa, compresa la politica, col cuore e col passo del Povero»: Documenti: 169 articoli pubblicati sul quotidiano L’Italia di Milano (I Quaderni della Fondazione 8-9), Bozzolo 1993, 228. 60 Cfr. Rivoluzione, 85-86. Cfr. anche G. SIGISMONDI, La Chiesa: «un focolare che non conosce assenze», cit., 175-194. 57
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rale, tra fede e ambito sociale culmina nella privatizzazione del rapporto con Dio: «Con il solo fatto di esprimere contemporaneamente una professione di fede, chi vive questa dicotomia interiore afferma che il Dio nel quale crede non è interessato alla vita del suo vicino: per Dio la vita della città è irrilevante»61. Dio appare così non compromesso con la vita umana e il rapporto con lui sembra riguardare unicamente la sfera intimo-individuale della persona. L’analisi coglie nel segno perché legge nell’aumento della presenza dei lontani una responsabilità dei credenti, prigionieri della rassegnazione e incapaci di una proposta convincente a livello sociale e politico. Perciò bisogna consegnare all’uomo contemporaneo la giusta immagine di Dio, facendogli conoscere innanzitutto che “la più bella avventura” è la vita cristiana, intesa come conversione all’amore di Dio. La casa del Padre, narrata nella parabola di Lc 15, 11-32, più che un luogo è il cuore stesso del Padre. «Niente è fuori della paternità di Dio»62 che si manifesta per entrambi i figli: per chi è lontano di casa e per chi vi è rimasto. L’avventura dei figli consiste nel recuperare la vera immagine del Padre. L’uomo si mostra distante da Dio quando comincia a sospettare dell’amore di Lui, quando il calcolo sulla quantità di doni prevale sulla consapevolezza della qualità. «L’amore non conosce staccionata: varca ogni siepe, valica ogni montagna»63, tanto che il figlio che si allontana si porta dietro l’amore sofferente del Padre. Più lunga è la distanza, più grande sembra essere la misericordia di Dio64. In secondo luogo, il parroco di Bozzolo vuol far prendere coscienza che Gesù Cristo è colui che si fa vicino all’uo61 G. ANGELINI, La fede, altrove? Lo spiritualismo, un’insidia per il cattolicesimo oggi, in Rivista del Clero italiano 85 (2004) 97. 62 Avventura, 40. 63 Ibid., 39. 64 Ne L’Italia del 9 gennaio 1938, con un articolo intitolato Incontro al Prodigo (postille ad un editoriale), don Primo affermava: «in nessuna ora della storia gli uomini ebbero un accento così sperduto e disperato. La voce del prodigo, fatta umanità e storia, è ripercorsa da una porta che non può essere un limite, ma una soglia. Non è soltanto la voce dell’uomo che non trova il benessere, ma quella dell’uomo che non trova il suo Dio. L’eco quindi viene dall’eternità. È un’uscita disperata verso Cristo più che un ritorno…noi parliamo di ritorni, ma la parola che non è neanche nella Parabola e neanche nella sua conclusione, non è capita dal nostro mondo che ridiviene subitamente ribelle all’idea di un ritorno che suoni rinnegamento delle conquiste dello spirito moderno […] le strade tante l’approdo uno solo, la Chiesa la quale, come il cuore del Padre, è spalancata in fondo ad ogni strada, poiché l’amore è sempre davanti. Essa non chiede rinunce impossibili, domanda soltanto l’accettazione incondizionata della Verità che la Casa custodisce e che rappresentano la salvezza»: Documenti: 169 articoli pubblicati sul quotidiano L’Italia di Milano (I Quaderni della Fondazione 8-9), Bozzolo 1993, 59.
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mo: «ci viene vicino dove siamo, come siamo; prende il nostro momento nel tempo, il nostro volto, il nostro soffrire, il nostro destino mortale»65. Lo stile che Dio ha rivelato in Cristo è quello di percorrere le strade della storia: «[Gesù] sta con noi veramente, perché è come noi, con volto, maniera, lavoro, pena, linguaggio nostro. Sulla mia strada c’è un Cristo che ha la mia faccia, le mie debolezze, le mie rivolte, i miei gusti»66. Dio è colui che per esprimere la sua vicinanza all’uomo si è fatto povero. Cristo è povero nei poveri67. Egli è l’affamato, l’assetato, lo straniero, il denudato, il malato, il detenuto. Non riconoscerlo presente nel povero è autentica eresia cristologica68. In terzo luogo, Mazzolari presenta Gesù come colui che rinuncia alla sua onnipotenza per rispettare lo spazio della libertà umana. È il punto culminante della kenosi perché amore e libertà convivono e si richiamano a vicenda. Nella croce di Cristo, Dio Padre «ha le braccia legate per l’eternità»69. Lascia che la libertà umana si spinga fino al punto di mettere a morte l’Unigenito Figlio. Paradossalmente, in Gesù Cristo lo spazio aperto dalla rinuncia diventa luogo di rivelazione dell’amore. Nel morire di Cristo vi è «una carità senza limiti»70. Infine Mazzolari presenta alla riflessione dell’uomo d’oggi Gesù Cristo come liberatore dell’uomo. La relazione con Dio in Gesù Cristo appare come un evento liberante per il cuore dell’uomo. Don Primo mette in evidenza alcune paure da cui l’uomo può liberarsi se tiene vivo il rapporto con Dio: la paura di Dio stesso, il fatalismo e la rassegnazione passiva, la paura della morte, l’oppressione umana, la chiusura in se stessi, le piccole ansie umane e la schiavitù delle cose, la passione sbagliata del bene, i facili e pericolosi entusiasmi. Gesù vuole i suoi discepoli operai e non semplici contemplatori della volontà di Dio71: «il cristiano può essere tutto, fuorché un attendista. La sua preghiera è il proemio dell’azione»72. Cristo insegna a vigilare sui propri egoismi e sulle soppressioni di 65
Tempo, 60. Ibid., 61. In Confesso, 197, Mazzolari afferma che: «non v’è problema umano, evento, gioia umana, dolore che non sia problema di Cristo, evento, gioia, dolore, speranza di Cristo. Con lui la speranza è riapparsa nel mondo e posta alle sorgenti stesse di ogni umana disperazione». 67 Cfr. Povero, 17. Vd. Diario III/A, 579 e anche Compagno, 119-120. 68 Cfr. P. MAZZOLARI, Discorsi, cit., 535-543. 69 Croce, 63. 70 Croce, 81. 71 Cfr. Compagno, 91. 72 Ibid., 94. 66
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cui ciascuno si rende protagonista73. Il vangelo mette in guardia dall’insidia di presumere di possedere il «monopolio del bene, dell’onesta e di qualunque virtù umana e civile»74. Lo stile di Gesù, servo del Padre, aiuta «a smantellare dentro di noi la cittadella del desiderio di sopraffare gli altri e di divenir grandi ai loro danni»75. La Parola evangelica libera dalla tentazione della vendetta, condannata, perciò, alla sterilità e all’impossibilità di innescare la catena di odio76. Nella relazione con Cristo l’uomo non è mai un perduto: c’è sempre spazio per la fiducia e la speranza. Gesù rende liberi77. Poter credere oggi effettivamente è un onere e insieme una grazia particolare per ogni cristiano, specialmente per chi nel servizio agli uomini nella Chiesa deve proclamare il messaggio di questa fede. Per questo la fede, a cui il prete deve formare, deve essere connotata, secondo Mazzolari, da quattro caratteristiche: vivere una fede fraterna; fare i conti con la situazione fondamentale di pericolo; impegnarsi cristianamente nel mondo; far conoscere al mondo il vero volto di Dio. Dare alla fede una forma, secondo queste quattro caratteristiche, significa avvicinare la fede al cuore dell’uomo moderno, favorire una vera e autentica accoglienza del messaggio cristiano, eliminare ogni discrepanza tra fede e storia, spiritualità e impegno nel mondo. In altre parole strutturare la fede con questi aspetti significa affermare che la grazia, comunicataci da Dio e accolta dall’uomo con la fede, non è fuori dalla realtà umana.
4. La coesione della linea ecclesiologica della missione con la linea cristologica della consacrazione Finora si è potuto notare come, per don Primo, l’impegno cristiano nel mondo sia una caratteristica originale della fede. Per lui la vita cristiana non comporta una fuga dalla storia, ma un coinvolgimento, una responsabilità che si colloca all’interno delle attività umane.
73
Cfr. ibid., 105-110. Ibid., 123. 75 Ibid., 134. 76 Cfr. ibid., 151-156. 77 Cfr. B. BIGNAMI, Mazzolari e il travaglio della coscienza, cit., 336-338. 74
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Dato che Cristo, incarnandosi, ha segnato della sua presenza ogni cuore umano, di tutto ciò di cui si occupa l’uomo deve occuparsi il cristiano. Per don Primo nulla rimane al di fuori della fede, nulla si colloca al di fuori della religione, nulla può spogliarsi dell’impronta creatrice e redentrice di Dio. Dio è la meta verso cui ogni uomo è incamminato. Ogni attività umana, ogni agire umano porta impresso in sé il bisogno, la necessità, il desiderio di Dio, benché espressi in forme culturali differenti. La Chiesa è posta nella storia non per contrapporsi all’uomo e alle sue attività. Nell’interpretazione di Mazzolari la Chiesa è il prolungamento di Cristo, è Gesù peregrinante sulla terra, è il fuoco che accende tutto, la paternità che tutto abbraccia78. Essa è il Corpo di Cristo che opera quasi come un Sacramento79. La Chiesa, come Casa del Padre, abbraccia tutto il mondo: «tutti apparteniamo alla sua maternità, perché apparteniamo all’amore di Cristo. Egli è venuto per tutti, è morto per tutti; non importa se non tutti lo ricevono»80. In Cristo la Chiesa partecipa della trascendenza e dell’immanenza di Dio: è presente ovunque perché dappertutto si trova l’amore di Dio, ma si configura storicamente come una famiglia diffusa su tutta la terra dove la grazia di Dio s’incontra con la buona volontà degli uomini. Configurato a Cristo, il sacerdote è segno della trascendenza di Dio e del suo Amore gratuito e incondizionato per il mondo (dimensione cristologica del prete); ma, conformato alla famiglia ecclesiale, egli è, nello stesso tempo, segno della risposta concreta, libera e fedele dell’uomo alla chiamata di Dio (dimensione ecclesiologica del prete). Il prete racchiude in sé una duplice dimensione: è segno dell’offerta della grazia sovrana di Dio alla Chiesa e al mondo intero; ma è anche segno della risposta effettiva dell’uomo alla comunione con Dio. In quanto tale, il sacerdote è, contemporaneamente, immagine del Padre e del figlio. Egli, pertanto, vive in sé il dramma del dover rappresentare Qualcuno superiore a sé, ma nello stesso tempo, ha bisogno di redenzione e di salvezza come ogni membro della Chiesa. Egli vive tra Cristo, partecipando della sua “capitanità” rispetto alla comunità ecclesiale, e la Chiesa, condividendo il suo rapporto sponsale con Cristo senza però identificarsi a lui. Il prete è posto nella continua tensione tra il porsi di fronte alla comunità come segno 78
Cfr. Avventura, 39-40. Cfr. ibid., 44. 80 Ibid., 40. 79
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di Cristo ed essere nella comunità come uno dei membri (incaricati). In questo scarto dialettico si ritrova, quindi, tra il già e il non ancora. In quanto configurato a Cristo, è «sempre il memento di cose più grandi di lui»81, in quanto appartenente alla comunità ecclesiale è «l’informe parabola di Cristo-verità, lo scandalo che continua»82. Il prete, nella sintesi di umanità e grazia, è il primo frutto di questo incontro di redenzione; nello stesso tempo, come la Chiesa, è un segno della redenzione operata da Cristo, uno strumento che deve indicare, accompagnare, sostenere il cammino dell’uomo che cerca Dio. Quando, come a Emmaus, i discepoli riconoscono il Signore Gesù, il sacerdote, in quanto accompagnatore discreto, rispettando l’azione profonda e discreta di Dio nella vita e nel cuore delle persone, si fa da parte, sparisce, per lasciare il posto alla persona stessa di Cristo. Nel suo cuore, il prete deve superare ogni forma di divisione tra sacro e profano, tra Chiesa e mondo, tra la dimensione cristologica della consacrazione e quella ecclesiologica della missione. Questi dissidi non sono delle realtà spaziali, ma interiori e spirituali. Il prete deve lasciarsi riconciliare il cuore dal Padre per superare questi ostacoli che sono frutto del peccato. Deve farsi raggiungere nella sua lontananza dall’Amore di Dio, deve forzare il Signore a entrare nella sua testa, nel suo cuore83. Egli deve continuamente rientrare nel suo cuore, come il figliol prodigo della parabola di Luca, e lì è chiamato a mettersi in ascolto del desiderio della sua anima e a incamminarsi verso il Padre per sperimentare la potenza della sua misericordia. Il cammino spirituale del sacerdote è un processo di conversione, di riconciliazione, di sutura tra il fermento evangelico e la propria umanità. In questo don Mazzolari è influenzato dalla cultura francese, che in quegli anni ricercava le condizioni e i mezzi attraverso i quali il cattolicesimo avrebbe potuto avviare, sul piano personale e su quello sociale, l’accordo tra le verità rivelate dal Vangelo e insegnate dalla Chiesa e le necessità della vita contemporanea. Afferma, a tal proposito, don Primo: «il Maritain […] e con lui una schiera di bei nomi, Daniele Rops, Emanuele Mounier, Piero Enrico Simon non è gente che si volta indietro. Hanno la voca81
Morire, 84. Croce, 93. 83 Cfr. Tempo, 149. 82
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zione di portar fuori il Cristo, di tracciare le linee delle possibili ricostruzioni cristiane nel mondo moderno, di provare ancora una volta socialmente il cristianesimo […] In Francia, i cattolici si battono allo scoperto: dietro, non hanno nessuna trincea e nessun fortilizio. Da sinistra e da destra, dall’alto e dal basso vengono i colpi, senza tregua né misura. Riconosciamolo fraternamente: è truppa eroica, anche se non spara dietro comando. E badate: non perde terreno, tiene fermo saldamente contro tutti, piuttosto avanza, non retrocede. Bravi soldati e ancor più bravi condottieri, tanto religiosi che laici»84.
Ma egli operava nel nostro paese non un’acritica trascrizione del messaggio della cultura francese degli anni ’30, «bensì una originale e autonoma assimilazione dei fermenti critici in essa contenuti»85. «L’uomo dello spirito [prosegue Mazzolari], che non vuole sporcarsi le mani con la realtà, è impotente: lo spiritualismo disincarnato ha sortito devastanti conseguenze di inettitudine sulle coscienze dei cristiani. Così anche l’uomo della materia è impotente, perché finisce schiavo della tecnica alla quale crede di potersi affidare ciecamente. Spiritualismo e materialismo sono presupposti disumani. L’uomo integrale, invece, ricordandosi della legge evangelica del grano di senapa e del lievito o il metodo dell’incarnazione, si alimenta dall’alto e dal basso e deve segnare l’incontro e l’armonia delle esigenze dello spirito e delle necessità della materia»86.
Nella visione mazzolariana, il prete, che vede Cristo e il Vangelo nelle sembianze dell’umanità, deve trovare nel servizio all’uomo e alla sua storia la forza di attrazione che alimenta e sostiene quella voluptas animi che alberga nel suo cuore. Il servizio pastorale, che si qualifica come impegno responsabile di fermentazione evangelica della realtà, nella misura in cui ha nel cuore del sacerdote una capacità di attrazione, un ascendente forte, crea armonia, unità tra la dimensione pastorale e quella spirituale. Di conseguenza la consacrazione a Cristo del ministro sarà finalizzata alla missione a favore della Comunità ecclesiale ad intra e ad extra. Quando parliamo di voluptas animi, usiamo una espressione di S. Agostino, tratta dal trattato 26 su Giovanni, a commento del versetto: «nessuno può venire a me se non lo attira il Padre»:
84
Diario III/B, 417. G. CAMPANINI, Don Primo Mazzolari fra religione e politica, cit., 20. 86 Diario III/B, 429. 85
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«Si dà una voluttà del cuore per la quale è dolce il pane celeste. Anzi se fu possibile ad un poeta affermare che “ognuno è tratto dalla sua voluttà”, non quindi dalla necessità ma dalla voluttà, non dall’obbligo ma dal godimento, con quanto maggior forza noi dobbiamo dire che è attirato verso Cristo quell’uomo che trova il suo godimento nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, cioè in tutto ciò che è Cristo? Oppure dovremmo dire che i sensi corporei hanno le loro voluttà e l’anima ne sia privata?»87.
Questo concetto del “diletto del cuore”, di cui parla S. Agostino, ci aiuta a comprendere come Mazzolari abbia fatto del ministero pastorale la passione della sua vita. Considerando il ministero come una missione, egli si è sforzato di indicare nel servizio pastorale l’ideale di vita del sacerdote. Ne sono evidente dimostrazione sia gli scritti sia la sua vita, da cui egli fa trapelare spesso il convincimento che l’ufficio pastorale possiede la capacità di alimentare, sostenere e sorreggere quella delizia del cuore che ogni uomo possiede dentro di sé. In altri termini, don Primo trova la delizia, la forza di attrazione sulla sua volontà, la passione nella missione che svolge nel e per il mondo. Missione che porta avanti nell’attenzione alla realtà storica, a ciò che avviene, e nel tentativo di interpretare ciò che avviene alla luce della fede. Questo concetto ci permette così di esprimere la nuova prospettiva presbiterale che egli fa maturare all’interno della visione tradizionale. Il continuo riferimento evangelico e la costante attenzione all’uomo trovano nel cuore del prete sintesi, coinvolgimento, dono. La peculiarità di questa impostazione prefigura e prepara alla riflessione conciliare. Le nuove prospettive portate avanti da don Primo saranno accolte dai padri del Concilio che, nell’acquisizione della nuova visione ecclesiologica della comunione e della missione, indicheranno nella carità pastorale la nota caratteristica della spiritualità ministeriale. Essa sarà considerata come la via specifica di santità del ministero ordinato. Pertanto possiamo affermare che la missione sacerdotale di don Primo, pervasa dalla passione per l’uomo e in modo particolare per i lontani, può essere ancora oggi una nota caratteristica della formazione dei seminaristi, della missione del sacerdote e dell’intera comunità cristiana. In una società sempre più complessa e secolarizzata, come quella italiana del Novecento, don Primo sente l’esigenza di rielaborare la figura del presbitero. Essere presbitero non è svolgere un ruolo di privilegio o 87 SANT’AGOSTINO, Commento al Vangelo e alla prima epistola di San Giovanni, (Collana Nuova Biblioteca Agostiniana) XXIV/1, Roma 19852, 599.
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di supremazia, ma è essere a servizio sempre di più e sempre meglio della dignità dell’altro. Vivere l’esperienza presbiterale non significa vivere in una casta, in una setta che ha i suoi valori e i suoi criteri di valutazione comunitaristici, ma equivale a riconoscere la presenza dello Spirito Santo che opera anche fuori dai confini visibili della Chiesa cattolica. L’esperienza sacerdotale di Mazzolari, vissuta con passione e rielaborata con intelligenza nei suoi scritti, mostra l’immagine di un presbitero che non ha paura di fare spazio dentro di sé all’altro; che sa riconoscere, alla luce del vangelo, la presenza di Dio nelle realtà del mondo e sa farsene interprete; che è chiamato a essere, nell’umile e rispettoso dispiegarsi del suo ministero, garanzia di unità, segno di pace e di accoglimento vicendevole non solo all’interno della famiglia ecclesiale, ma soprattutto fuori, dove vaga il “prodigo” in ricerca del senso della propria esistenza. Il prete, allora, è un uomo che, come il prodigo, dopo essere ritornato alla casa del Padre e aver sperimentato il suo amore, esce nuovamente, ma questa volta non per allontanarsi dal cuore del Padre, ma per avvicinarlo e offrirlo a ogni uomo che è in ricerca dell’Assoluto. Il prete non è un uomo arrivato alla meta, ma una persona in ricerca, che con la fede cerca di analizzare, rielaborare e interpretare la storia per cogliere i segni dei tempi, le nuove sensibilità umane, i semi della speranza. Il cuore è ciò che contraddistingue l’originalità del prete mazzolariano. Esso cerca di allargarsi di continuo sull’esempio del Padre della Parabola: per la sua gente, di cui conosce e condivide le fatiche, la povertà, la semplicità di vita; per la sua terra; per la Chiesa; per gli amici88. Il cuore del prete è vulnerabile perché rifiuta di lasciarsi rinsecchire dalla chiusura, non rinuncia ad amare, a condividere, a interrogarsi, ad essere libero; è di tutti e di nessuno: è «per tutti, anche per coloro che lo rifiutano e lo calpestano»89. Il prete, però, è anche l’uomo di nessuno: «il parroco è sempre solo, ma tutti gli pesano sul cuore, tutti gli parlano»90; non ha il suo gruppo, non ha i suoi, perché i suoi sono tutti, e non può mai mettersi con gli uni contro gli altri, né può mai rendere esclusivo il suo amore91. 88
Cfr. P. BIGNARDI, Il prete secondo don Mazzolari: dentro il ministero, con tutto il cuore, cit., 35-41. 89 Pieve, 68. 90 Argine, 66. 91 Cfr. P. BIGNARDI, Il prete secondo don Mazzolari: dentro il ministero, con tutto il cuore, cit., 38.
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Il prete vive in sé la passione del Padre per i suoi figli. Nel suo cuore ci sono come due parrocchie: una «specie di doppio orizzonte della parrocchia-Chiesa: quello in cui entrano i fedeli che predicano Cristo nella saggezza, nella fede, nell’innocenza e nell’afflizione; e l’altro in cui Cristo è solo un abbozzo, la parrocchia dei lontani, scoperta da don Primo con una devozione e con un’esultanza che tradisce la predilezione»92.
Il cuore del prete è un cuore povero arricchito dalla misericordia di Dio. È un cuore che vuole essere povero come Cristo e povero come la sua gente. Da povero, tra i poveri, il sacerdote vuol loro bene perché ha stima di loro, rispetto e compassione per la loro fatica, partecipazione alla loro ricerca di riscatto e di dignità. La povertà intrinseca dell’uomo, che si scopre carente nel suo “essere”, diventa la via principale che il prete deve percorrere se vuole essere testimone della ricchezza dell’amore di Dio. E come il cuore del Padre si frantuma, si spezza per il dolore dell’abbandono, così il dramma del fallimento e della sofferenza sono da mettere in conto nella vita del prete: «la misura di una vocazione è la croce, che viene sempre in ultimo e la compie. Il tutto è compiuto è vero e persuade quando viene detto dall’alto di una croce, prima di reclinare il capo. Sembra miglior sorte morire nel proprio letto, confortati dalla pietà dei nostri parrocchiani. Ma non è la maniera di morire, è il morire che è atroce. Morire con Cristo è grazia; morire come Cristo è dilatazione del mistero della salvezza sino agli estremi confini della terra. Chi muore come Cristo è veramente alter Christus»93.
Il senso della vocazione presbiterale consiste, dunque, nella ripresentazione del servizio di Cristo. Il prete che parte dalla consuetudine con Cristo, che familiarizza con Cristo, che beve al calice di Cristo con tutte le valenze del suo martirio, che, insomma, si configura totalmente al cuore di Cristo, sarà capace, con lo svuotamento di sé, di introdurre l’uomo nella casa della credibilità perduta. Il sacerdote, con la sua esistenza spesa per gli altri nel dono gratuito di sé, deve diventare il luogo teologico, dove 92
C. BELLÒ, La teologia ecclesiale di don Primo Mazzolari, in Studi cattolici 10 (1961)
93
Morire, 94.
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«prima di provare che il cristianesimo è vero nell’ordine logico, si deve provare che è vivo nell’ordine dei fatti. Esso diventa un problema dottrinale dopo che l’ho sentito come un problema di vita»94.
Giustamente, scrive Mazzolari pochi anni dopo la sua ordinazione sacerdotale: «il sacerdote è un problema importante: è il primo che ci viene incontro sulla via della riforma della Chiesa»95. Ci si accorge, allora, che don Primo non pone in contrapposizione la linea ecclesiologica della missione con quella cristologica della consacrazione, ma le colloca sullo stesso piano: nel cuore del presbitero. Indicando il cuore, come il punto di intersezione di entrambe le linee o, più precisamente, il principio interiore capace di unificare le due prospettive, Mazzolari rilegge in termini più dinamici sia il concetto di sacerdozio, classicamente inteso in senso cultuale, sia la stessa categoria di Alter Christus, tradizionalmente applicata ai presbiteri, che risulta inadatta a definire la “differenza innegabile” tra il sacerdozio di Cristo e quello ministeriale96.
5. Il cuore del prete: la cifra sintetica della formazione spirituale del presbitero Il cuore del prete è la cifra sintetica della formazione spirituale del presbitero. Quando parliamo del cuore nel pensiero di Mazzolari trattiamo della dimensione più intima dell’uomo, di quella sfera interiore, dove l’uomo decide liberamente di sé ed è capace di aprirsi alla conoscenza della verità. Don Primo sa bene che l’uomo è sempre esposto, da una parte, alla libera assunzione del dono che è Dio, il quale si dona a lui in Cristo, dall’altra, alla responsabile assunzione di un orientamento dimentico di Dio o a lui ribelle97. Mediante l’incarnazione di Dio in Cristo, la pater94
Impegno, 119. Diario II, 158. 96 Cfr. G. SIGISMONDI, La Chiesa un focolare che non conosce assenze, cit., 130-131. 97 Cfr. Diario I, 676-677. Scrive il nostro autore, a tal proposito, in Della Tolleranza, 132: «La mia coscienza come non fa diventar vera una verità accettandola, così non la distrugge negandola; però ha questo tremendo potere, che non può esserle stato concesso da Dio: per entrare in me, per farsi mia verità, ci vuole il mio libero assenso». E Giulio Vaggi, laico formatosi alla scuola di don Mazzolari e direttore di Adesso dal 1950 al 1959, sintetizza co95
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nità di Dio si è estesa a tutta l’umanità, per cui niente è più fuori dal suo amore. Con l’incarnazione Dio è entrato nel cuore dell’umanità e da lì interpella ogni uomo con il richiamo del suo amore. La più bella avventura per l’uomo consiste nell’aprirsi a Dio, nel decidersi per lui con la libera risposta della fede e nel concretizzare e documentare la fede attraverso l’impegno cristiano verso Dio e verso l’uomo. L’esistenza dell’uomo è, dunque, costantemente aperta alla possibilità della salvezza in Cristo e alla minaccia continua di totale perdizione. Per don Primo l’uomo è povero e, quindi, bisognoso della grazia e di una continua conversione. Dato che il prete è un uomo scelto tra gli uomini, è necessario lavorare sulla povertà del suo cuore affinché contribuisca, con la sua libertà, a liberare la libertà degli altri. Nella misura in cui il prete ripresenta Gesù Cristo in un tipo di santità che vive ed opera nel cuore stesso dell’umanità98, può porsi come dono attraverso cui passa la grazia di Dio che libera l’uomo alla sua più autentica libertà. Il prete, dunque, nella formazione spirituale, deve tener conto della povertà intrinseca dell’uomo per educarlo costantemente ad aprirsi al Vangelo e alla storia dell’uomo. La formazione del prete è continuamente in tensione tra l’approfondimento della relazione gratuita con Cristo e l’attenzione costante all’altro, al povero, all’ultimo99. In tal modo Mazzolari recupera due categorie sintetiche dell’antropologia teologica che sono fondamentali per l’educazione del cuore del prete: l’appartenenza a Dio e la storicità. Il progetto formativo al sacerdozio deve necessariamente tenere presente l’aspetto dell’appartenenza a Dio. Tutto deve essere indirizzato a preparare il cuore del presbitero per il ministero della paternità spirituale: la preghiera, lo studio, la disciplina e la comunità del seminario devono essere finalizzati a formare una coscienza disposta non al privilegio di sé, ma all’offerta della propria vita. sì la concezione di coscienza del maestro: «Per don Primo la coscienza non è fonte autonoma di norme di comportamento, ma filtro alla luce del Vangelo, indispensabile e insostituibile, uno strumento necessario, un punto obbligato attraverso il quale i valori devono passare per entrare nella vita di ciascuno. Senza questo itinerario soggettivo a livello appunto di coscienza individuale, l’adeguarsi a principi morali non è neppure vita morale, ma solo conformismo interiore che sarebbe saltato alla prima difficile occasione»: G. VAGGI, Don Primo Mazzolari e «Adesso». Memorie in forma di lettera, in G. CAMPANINI – M. TRUFFELLI (curr.), Mazzolari e «Adesso». Cinquant’anni dopo, Brescia 2000, 318. 98 Avventura, 182. 99 Diario IV, 139-145.
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«Nel momento della preghiera voi dovete portare nel vostro cuore tutte le anime, unendovi già spiritualmente a quelle che Dio vi darà […]. Se guardate le ore della vostra preparazione, la vostra scuola, i vostri libri in funzione di cura di anime, voi supererete gli scogli di una conoscenza, di un sapere personale… studiare non per sé ma per le anime! […]. La giornata, domani, non la farò io, ma la necessità del mio popolo…così io ora accetto la regola per allenarmi a quella spontaneità di servire, che ha sbocco nell’amore. La vita di comunità è pesante. Lo stare insieme diventa in certi momenti, insopportabile. È arduo amarsi! Ciò, perché la nostra vita non la guardiamo in quella luce di carità sacerdotale […] in funzione di cura d’anime. Vedete nei compagni le anime che incontreremo domani»100.
Per don Primo, non ci possono essere altre soddisfazioni, nella vita del prete, se non quella dell’apostolato; al prete non servono i soldi, un buon nome o una condizione sociale agiata, ma l’avere i cuori della sua gente: «[…] Il prete non è la prebenda: il prete è le anime. Lo star bene secondo voi, è quello che ci fa proprio star male. Che importa aver tutto se ci mancano i cuori?»101. L’unica operazione e preoccupazione del sacerdote, quindi, è la missione di mediare l’amore di Dio per conquistare le anime, non per sé, ma per Cristo. La spiritualità presbiterale di Mazzolari suppone un cuore che sappia recuperare la dimensione della storia. Il cuore sacerdotale, infatti, deve essere un cuore dilatato alla misura del cuore di Dio Padre. E come, nella parabola lucana, il Padre esce da casa per andare incontro al figlio, così il prete, che porta in sé i segni della paternità di Dio, mediante il suo apostolato, deve portare l’amore di Dio in prossimità dei cuori degli uomini perché tutti possano imbattersi nell’abbraccio tenero e avvolgente di Dio. Se la Chiesa deve essere sempre più l’immagine di Dio Padre che vuole fare sperimentare ai suoi figli il suo abbraccio benedicente, il sacerdote ha il grande compito di costruire nella Chiesa un cuore. Egli, largo d’affetto ed attento in tenerezza, ha la missione di presentare la paternità di Dio Padre e di riannodare l’uomo al Padre102. Mazzolari propone con passione e con tenacia un rovesciamento di prospettiva: da “difensiva” in “offensiva”. Egli ribadisce che bisogna assumere uno stile diverso nella teologia e nella pastorale: aprirsi all’incontro con l’uomo, ai suoi bisogni e alle sue sofferenze: 100
Preti, 18-21. Parroco, 120. 102 Cfr. G. LUPO, Mazzolari oggi, Torino 1996, 125-126. 101
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«non dovete credermi estraneo a tutto quello che voi soffrite, a quella che è la vostra tribolazione, a quello che spesso è anche il motivo della vostra rivolta contro la vita, contro la condizione di vita in cui siete costretti a vivere. Credete che io non conosca le vostre pene e che non soffra con voi e per voi? Credete che nel mio povero cuore di uomo non ci siano le stesse tristezze che voi provate, lo stesso lamento sulle mie labbra, e qualche volta, forse anche più di voi, delle rivolte uguali e superiori?»103.
Mazzolari tenta di superare la dicotomia tra sacro e profano proponendo la condivisione dello spazio “profano” entro lo spazio “sacro”. L’attenzione alle realtà terrestri, l’impegno cristiano dinanzi alla questione sociale, l’inquietudine cristiana liberante sono le caratteristiche ecclesiologiche del prete nella visione teologica di Mazzolari. Don Primo non si limita a mostrare la missione come l’attività fondamentale del sacerdote, ma elabora, nella sua vita e negli scritti, il modo concreto per realizzarla. Sintetizzando, si potrebbe affermare che l’anima del prete, nel pensiero di Mazzolari, è la missione evangelizzatrice. Non esistono altri modi, per annunciare la Verità, che amare le persone alle quali si porta l’annuncio. Quest’amore, la carità, è finalizzato ad aprire i cuori alla ricezione del messaggio di salvezza, ecco sintetizzato l’anelito spirituale e pastorale che deve animare ogni prete. Il sacerdote è chiamato ad amare, in modo privilegiato, coloro che più sono bisognosi del messaggio evangelico. Per questo, deve stare vicino alla sua gente: «Per camminare bisogna uscire di casa e di chiesa, se il popolo non ci viene più; e occuparsi e preoccuparsi anche di quei bisogni che pur non essendo spirituali, sono bisogni umani e, come possono perdere l’uomo, lo possono salvare»104. È necessario che il prete stia vicino alla sua gente, anche nei bisogni concreti, materiali; non bisogna aver paura del mondo, perché l’amore è portatore di una realtà ben più grande. «Non capisco perché si debba aver paura di rileggere il decalogo nella luce del comandamento della carità: non capisco perché si debba tanto paventare le innovazioni nel mondo della ricchezza, quando siamo custodi di una realtà spirituale, che può affrontare ogni rivoluzione senza essere vinta in profondità e umanità»105.
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P. MAZZOLARI, Discorsi, cit., 26. Preti, 155. 105 Samaritano, 39. 104
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La vicinanza, fisica e spirituale, è il requisito essenziale per l’opera di apostolato, per mostrare la carità del prete: «L’apostolato che conquista, bisogna farlo cuore a cuore, di porta in porta, come uno di loro: compagno, fratello»106. La predilezione del prete va ai poveri, ai lontani, agli emarginati, proprio perché il sacerdote ha, come unico maestro, Cristo. «Chi vuol far arrivare alle menti disorientate e stanche del nostro tempo — omne caput languidum — la verità religiosa, deve seguire il metodo di Gesù. Se ci manteniamo orgogliosamente chiusi nella nostra mentalità filosofica e teologica, non riusciremo mai “a prendere terra” nei lontani»107.
Se il primo posto va dato ai poveri perché, in essi, Gesù si manifesta in maniera maggiore, il cuore del prete deve essere, però, universale, aperto a tutti. «Nel cuore di un prete, come in quello di Gesù, non vi sono scompartimenti di 1°, 2°, 3° classe, ma larghezza di povertà per tutti. […] Essi [i poveri] sono la faccia del Signore in mezzo a noi: il quale un giorno non ci chiederà se avremo fatto delle fastose funzioni, se gareggiato nell’abbellire strade e davanzali al passaggio delle processioni, ma come l’avremo onorato nei poveri»108.
Centrale, è, dunque, l’attenzione non alle coreografie, ma all’uomo: di questa carità deve essere pieno il cuore del prete. Per Mazzolari il problema dei lontani, insieme con quello dei poveri e degli emarginati della società, rappresenta il primo interesse della sua carità. È utile ripetere una frase che rappresenta il motto della sua dedizione alle persone più lontane: «Come parroco non conosco che dei cristiani, e nella mia chiesa c’è posto per tutti. E se ho una predilezione — non mi vergogno di confessarla — è per i lontani»109. In queste espressioni è concentrata tutta l’anima pastorale della carità che vibra in don Primo sacerdote e che egli cerca di trasmettere a coloro che lo ascoltano. Per raggiungere tutti, bisogna uscire per calarsi nella società in cui si vive, con i pregi e le contraddizioni che essa porta con sé. Solo così sarà possibile scoprire le potenzialità nascoste e farle emergere. «Non voglia106
Ibid., 54. Ibid., 17. 108 Il mio parroco, 50. 109 La pieve sull’argine, 159. 107
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mo mai essere dei Laudatores temporis acti: mai voltarci indietro! Ma voler bene al nostro tempo: essere felici di lavorare nel nostro tempo che ha delle possibilità meravigliose»110. Questa visione del mondo si carica di speranza nel momento in cui si accetta la sfida, si assume l’impegno di lavorare in essa. Questo porta il prete ad allargare il cuore anche a chi fa più difficoltà nel seguire il Vangelo; don Primo avverte che bisogna essere aperti e comprensivi anche a ciò che non è del tutto corretto; non per faciloneria o per mancanza di coraggio, ma per essere più vicini alla gente: «Occorre tenere gli occhi aperti sulla vita e sulle difficoltà della propria gente, sulla maniera di pensare della propria gente, anche se non è sempre una maniera ortodossa. Non tapparsi inorriditi le orecchie, se dice degli spropositi»111. Questo atteggiamento di apertura, che spesso ha dato scandalo al tempo di don Primo, si concretizza nell’attenzione alle difficoltà del popolo, un’attenzione che vede e comprende i problemi e, se non può risolverli, li capisce e li scusa. Esso è chiamato da don Primo paterno, cioè accogliente, comprensivo, che lascia trapelare l’amore del pastore112. Il cuore del prete deve essere aperto alla ricerca continua della Verità: «Siamo dei viandanti: chi ci indicherà la strada? In questi tempi agitati, confusi ed avidi, chi ci illuminerà? Il nostro primo bisogno è di sapere “chi siamo, per dove siamo incamminati, che cosa dobbiamo fare e cercare: quanto valgono gli oggetti che abbiamo tra mano: gli scopi che ci vengono proposti: le idee che si cerca far prevalere intorno a noi e su noi»113.
Nel periodo in cui vive don Primo emerge forte la dialettica tra Chiesa e mondo e la Chiesa pretende di essere l’unico punto di riferimento sicuro e stabile di fronte a una società in costante mutamento. A tal proposito don Primo afferma: 110
Ibid., 191. Ibid., 46. 112 È un atteggiamento concreto, che si fonda su gesti e modi affabili e concilianti. Un esempio di questo ci viene fornito dallo stesso Mazzolari sul problema dei contadini che, dopo aver lavorato tanto, si addormentano in chiesa durante l’omelia; parecchi preti si infuriavano, ma don Primo, ai seminaristi, consiglia di lasciare stare, di avere un atteggiamento paterno di comprensione: «Sappiamo essere paterni con questa gente affranta, che ha case disastrose, che deve strangolarsi per vivere, e viene in chiesa con la vita rotta! […] sappiamo essere paterni e compatire! Almeno il prete li capisca! […] lasciamoli dormire! […] chi dorme in chiesa va proprio in paradiso!»: ibid., 63. 113 Avventura, 76. 111
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«certe durezze, certe intrattabilità da guardiani gelosi e poco intelligenti, certe intransigenze di metodo, certe amplificazioni dubbiose presentate come necessarie, non servono la verità […] la verità non ha bisogno di aggettivi, perché la verità non ha padroni. Il mio e il tuo non le confanno: sono intonachi che non resistono alla prima intemperie, incrostazioni sacrileghe. La verità non è un campo che può essere cintato a beneficio esclusivo di qualcuno o di un gruppo, una colonia da sfruttare…non ci guadagniamo né facciamo guadagnare nessuno identificandoci con la verità. Se ci terremo umilmente in disparte, riuscirà meno costoso a chi cerca il discernimento tra i titoli della verità e i torti di chi la professa»114.
Non si può mai ritenere conclusa la ricerca. Don Primo insegna che la ricerca è la condizione dell’esistenza. La comunità dei fedeli fa parte del dinamismo sociale e, dunque, anch’essa è figlia di questa società che cambia. Il pensiero di don Primo nasce non a tavolino, ma dalla sua esperienza storica, dall’elaborazione e dall’interpretazione dinamica della realtà alla luce della fede e della sua vocazione sacerdotale. Pertanto la sua è una riflessione teologica di stampo narrativo: attraverso la narrazione egli veicola ad un ambito teologico la sua dinamica e complessa esperienza di fede. Ne deriva l’esigenza di una formazione presbiterale legata alla storia e non al di sopra di essa. Don Primo è uno dei pochi pionieri in Italia di una nuova concezione teologica presbiterale che segna il passaggio da una cultura prevalentemente fissista, intollerante, tendente a combattere l’avversario, a una cultura pluralista, che cerca di cogliere e di interpretare le novità col dialogo e col confronto, che si considera elemento di un mosaico sempre più vasto di quanto ognuno è in grado di cogliere115. A tal riguardo egli scrive: «perché dev’essere tacciato di liberalismo o di peggio, chi cerca davanti a un estraneo non i punti di divergenza, ma quelli comuni? Perché devono essere sospettati coloro che invece di fermarsi a salvaguardare la piccola comunità di Gerusalemme s’avventurano verso i gentili? […] comprendere vuol dire gettare dei ponti sufficienti, dalla nostra riva di credenti, a quelli di fuori. Per noi che ragioniamo dall’interno della nostra dottrina e quasi mai ci siamo provati a rappresentarci una maniera diversa di pensare, anche le più piccole prove ci sembrano capaci di convincerlo, dimenticando che esse valgono, perché noi già 114
Ibid., 80-81. Cfr. B. BIGNAMI, Mazzolari e il travaglio della coscienza, cit., 410-414; cfr. M. GUASCO, Cultura e sapere nella formazione dei chierici, in A. MELLONI – G. LA BELLA (curr.), L’alterità concezioni ed esperienze nel Cristianesimo contemporaneo, Bologna 1995, 265284. 115
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siamo dei convinti. È un raddoppiamento di verità per chi già possiede. La difficoltà consiste nell’aprire degli occhi chiusi o, piuttosto, nel far cambiare la direzione di uno sguardo. Comprendere è riconoscere gli anticipi divini delle anime non ancora arrivate alla pienezza della luce […] l’anima cattolica è per missione su questa strada di restaurazione di ogni cosa vera, di ogni cosa bella, di ogni cosa amabile nel Cristo»116.
Don Mazzolari, come altri in Italia, comincia a percepire che la società non è più cristiana, o forse non è mai stata mai veramente cristianizzata. Non basta più il cambiamento delle strategie pastorali per far rinascere una domanda religiosa che in certe categorie va scomparendo, ma bisogna cambiare nel modo di essere; è necessario ripensare la cultura e la formazione del clero che è costretto, ogni giorno, a confrontarsi non più con una società statica bensì radicalmente dinamica117. La centralità del cuore come cifra sintetica della formazione presbiterale, infine, dà la possibilità di poter sottolineare l’estrema importanza della formazione umana del sacerdote. Il carattere di fondo, che trasmette don Primo, è soprattutto la capacità di stare dentro il ministero sacerdotale con tutto il cuore, come espressione di intensa e profonda umanità. La qualità umana nella vita di un prete è oggi, dunque, uno dei tratti più intensamente e significativamente missionari. Il prete, più è realizzato come uomo, e come uomo adulto, più saprà testimoniare un Vangelo che è amore e misericordia. L’esperienza sacerdotale di don Primo diventa, allora, una evidente sfida posta all’esperienza personale di ogni presbitero: trovare nella propria esperienza di fede la capacità dell’apertura, dell’accoglienza, di garanzia di unità ad intra e ad extra, dell’impegno costante e profondo nel mondo testimoniando la fondamentale funzione storica del cristianesimo in ogni ambito della realtà umana.
116
Ibid., 83-85. Si veda La Parrocchia in cui appare abbastanza chiara l’analisi presentata da don Primo a tal riguardo. Cfr. M. GUASCO, Evoluzione dei modelli di prete nella storia recente, in Synaxis 25 (2007) 7-23. Proprio negli anni cinquanta del XX secolo, il presbitero prende atto che è sempre più immerso in una società scristianizzata. Questa presa di coscienza è bene espressa, come già visto, in quegli anni, dal vescovo di Parigi, il Card. E. Suhard, nella lettera pastorale Il prete nella società del 1949: E. SUHARD, Le Prête dans la Cité, cit., 40-41. 117
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5.1. Il rapporto tra la formazione del cuore del prete in Mazzolari e la devozione al S. Cuore La devozione del S. Cuore in Italia fu rilanciata nel 1917 dall’“Apostolato della preghiera” ad opera della Compagnia di Gesù118. Ma dopo la seconda guerra mondiale la parabola sembrava aver raggiunto il suo vertice. All’iniziale entusiasmo era subentrata una certa stanchezza, una opposizione passiva, anzi persino attiva in alcuni strati del clero e del laicato. Ad un’umanità, passata attraverso il fuoco divoratore di due guerre mondiali, che doveva affrontare decisive lotte sociali, economiche e politiche, e duri scontri culturali, la figura di Cristo, nelle immagini del S. Cuore, non diceva quasi nulla, perché appariva sentimentale, malinconica e implorante conforto. Priva di senso appariva la richiesta di conforto da parte del Cuore di Cristo, perché Egli è ora nella gloria e quindi immune da qualsiasi tipo di sofferenza. Anche Mazzolari sembra seguire queste critiche alla devozione del S. Cuore. Infatti, nell’opera La più bella avventura, alludendo implicitamente a tale pratica, sostiene che: «Confesso che non capisco certi discorsi dolenti e compassionevoli, certi dolciastri inviti alla riparazione ove Gesù è rappresentato come un deluso e un vinto, reclamante un poco di consolazione a un gruppo di devoti, che assomigliano a degli scampati da un naufragio. Come identificare questo Cristo vinto e prostrato col Cristo della pasqua, il Cristo che vince la morte, comanda alla tempesta, scende tra le folle, afferma la durata della sua parola oltre il passare dei cieli e della terra; che ha per missione di chiamare tutti gli uomini intorno alla sua croce, che vuole salvarci tutti? Leggendo certe preghiere, vien da pensare che la redenzione sia una battaglia perduta e che ci si sia ripiegati in una devozione angusta per salvare qualche cosa. È naturale che una religione così deformata non sia né amabile, né sensibile, specialmente da parte dei giovani, i quali vogliono verità dure e compiti ardui»119.
E, subito dopo, aggiunge: 118
Cfr. K. RAHNER, Teologia del cuore di Cristo, Roma 2003, 13-15. Questo testo, curato da A. Marranzini, raccoglie diversi saggi: Ecco quel Cuore e Il significato perenne dell’umanità di Cristo nel nostro rapporto con Dio risalenti al 1953; Alcune tesi per una teologia della devozione al Cuore di Gesù del 1954; Le tre caratteristiche della spiritualità ignaziana del 1955; Dalla molteplicità all’unità del 1958; Teologia del Simbolo del 1959; UnitàAmore-Mistero del 1962. 119 Avventura, 179-180.
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«Il mondo di oggi ha bisogno di vedere Gesù Cristo in un tipo di santità che viva e operi nel suo cuore stesso […] a un mondo che muore di fame, di miseria, di pesantezza; che gli egoismi più feroci divorano, le parole non bastano. Occorre che qualcuno esca e pianti la tenda dell’amore accanto a quella dell’odio, dichiarandosi contro, apertamente, a tutte le ferocità dell’ora, ovunque si trovino, sotto qualunque nome si celino; in uno sforzo di santità sociale che restituisca un’anima a questo nostro mondo che l’ha perduta»120.
È chiaro, nel pensiero del sacerdote cremonese, che Gesù vuole i suoi discepoli operai e non semplici contemplatori della volontà di Dio121: «il cristiano può essere tutto, fuorché un attendista. La sua preghiera è il proemio dell’azione»122. Apparentemente, dunque, don Primo si pone in contrasto con la pratica devozionale del S. Cuore poiché il progetto che intende perseguire è la formazione di una nuova mentalità missionaria ecclesiale: una Chiesa che si ponga tutta in stato di missione. Il cuore dei sacerdoti e degli aspiranti deve essere formato, educato tenendo conto di questa prospettiva missionaria in modo tale da «diventare la religione, il Cristianesimo, la Chiesa un problema attuale, vivo inquietante, insostituibile»123. Come abbiamo visto, per don Primo, la devozione al S. Cuore sembra un culto che finisce per togliere lo slancio missionario della Chiesa. A questo punto ci sembra utile fare un confronto ermeneutico tra il pensiero di don Primo e quello del teologo K. Rahner, suo contemporaneo, anche lui interessato al tema del cuore di Cristo. Rahner sostiene che questa santa devozione va intesa in modo corretto e, precisando il valore della riparazione, ne dimostra la validità per la spiritualità sacerdotale. La spiegazione di K. Rahner ci fa capire che il messaggio, veicolato da questa pietà, non si distanzia dall’immagine di Dio che Mazzolari possiede. Rahner, individuando nel cuore il centro originario dell’esistenza umana, afferma che il Cuore incarnato di Gesù, nel quale ha preso la nostra umanità creata e finita, è l’unico centro di mediazione senza il quale è impossibile accedere a Dio:
120
Ibid., 182. Cfr. Compagno, 91. 122 Ibid., 94. 123 P. MAZZOLARI, Il problema dell’iniziativa e dell’intervento pastorale, in Adesso 18 (1958) 4. 121
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«Si giunge a Dio solo e sempre attraverso il centro mediatore dell’Umanità di Cristo […] Si può essere cristiani senza aver mai sentito una parola umana sul Cuore di Gesù. Ma non si può essere cristiani senza attraversare costantemente, nel movimento del nostro spirito suscitato dallo Spirito Santo, l’Umanità di Cristo e il centro unificatore, che chiamiamo Cuore»124.
E, ancora: «è l’amore divino del Verbo stesso che s’incarna nell’amore umano di Cristo, in questo si rende presente storicamente nel mondo peccatore e vi esercita chiaramente la sua missione redentrice, garantendoci con tale pegno che la prima e l’ultima parola di Dio nel mondo non è la sua giusta ira ma il suo amore»125.
Riguardo alla riparazione, il teologo tedesco chiarisce che è Cristo che si pone davanti al Padre come mediatore; egli ripara con noi il peccato del mondo e noi possiamo partecipare a tale riparazione solo in lui e con lui. Questa riparazione consiste primariamente ed essenzialmente nel rendersi partecipi con fede, ubbidienza e amore alla sorte del Signore e, di conseguenza, alla sorte del suo corpo mistico per la salvezza e il benessere di questo corpo tutt’intero. Quindi riparare, in ultima analisi, significa partecipare realmente con la sua grazia al sacrificio, che il Signore Gesù ha offerto al suo Divin Padre quale nostro eterno e sommo sacerdote nell’amore sacrificale del suo Cuore obbediente sino alla morte126. L’idea di confortare o consolare il Signore, per il professore di Innsbruck, ha bisogno di un’interpretazione accurata sotto l’aspetto dogmatico o religioso-pedagogico. Dichiarando esplicitamente che «una preghiera al “Redentore sofferente” è, dal punto di vista teologico, una preghiera al Cristo che ha sofferto»127, Rahner sostiene che il Capo della Chiesa, Cristo Signore, ha preso parte durante la vita terrena, nella tristezza come nella consolazione, a tutto ciò che gli è accaduto o gli accadrà in tutti i membri del suo corpo attraverso l’intera storia. Pertanto Cristo è veramente consolato dai cristiani quando essi avranno compassione di Lui nel suo Corpo mistico, la Chiesa, che porta a compimento le sofferenze del Signore128. 124
K. RAHNER, Teologia del cuore di Cristo, cit., 55. Ibid., 72. 126 Cfr. ibid., 72-73. 127 Ibid., 76. 128 Cfr. ibid., 79. Il teologo tedesco, successivamente, passa ad analizzare le caratteristiche principali della devozione al S. Cuore. Il primo aspetto di questa pratica religiosa è 125
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Come abbiamo visto, il culto al S. Cuore, in realtà, non deforma la fede, anzi le fa riscoprire la sua origine e il suo fondamento che è Cristo, sorgente inesauribile di amore per gli uomini. Solo se l’uomo attinge alla fonte di quest’amore, può alimentare la sua fede e trovare la forza per l’unità. Sostiene Rahner che: «noi erriamo attraverso la molteplicità […] Noi stessi siamo una pluralità di spirito e di carne, interiorità ed esteriorità, beatitudine e dolore. Non possiamo fermarci in nessun luogo; nulla si lascia nello stesso tempo veramente afferrare e spiegare come l’unico tutto, l’unico importante. Tuttavia aneliamo all’unità […] anche nella dispersiva molteplicità del reale c’è ancora tanta unità, mutuo richiamo, accordo segreto, mutua ricerca di sé […] per entrare nell’unità, durante la nostra esistenza, dobbiamo uscire nella molteplicità. Il dolore della tensione aumenta avvertendo il bisogno di una unità proprio della dimensione religiosa»: ibid., 94-95. L’unità ci è data nel Cuore di Cristo. Questa unità “sovraessenziale” da un lato ci invita a uscire nella nostra molteplicità, di affidarci alla molteplicità dell’esistenza, di accettare veramente e integralmente la realtà singola e piccola, ma dall’altro lato ci esorta a ritornare, a non disperderci, ad avere il coraggio di rientrare, anche se il centro del cuore sembra essere silenzioso e vuoto, morto e soffocante, come la fossa di una tomba silenziosa. Soltanto quando questo centro è anche trafitto e apparentemente pressato in un terribile vuoto, profuso in un inutile amore agli altri, soltanto allora si troverà l’unità che viene da Dio senza proprio merito: «noi sappiamo che la nostra vita deve consistere in questi due esercizi: dobbiamo lasciare sempre l’uno per il bene dell’altro, andare e venire, senza restare fissi in uno. Noi non afferriamo, come l’avessimo conquistata, l’unità di questi due esercizi. Quest’unità è nascosta in Dio, nella sua disposizione, nel suo amore, e può essere accettata soltanto, senza averla penetrata, come il mistero divino della nostra esistenza»: ibid., 98. Il secondo aspetto di questa devozione è l’amore. Afferma il teologo dogmatico che il culto al S. Cuore è la devozione all’amore di Dio, venuto in Gesù Cristo, nostro Signore, crocifisso e risorto. Questa devozione, afferma Rahner, ci dice, innanzitutto, che il Cuore di Cristo è il centro, fondamento e forza unificante di ogni realtà finita e di ogni esistenza. In secondo luogo, nel culto al S. Cuore si contempla un mistero perché per mezzo di essa l’uomo non domina ma è soltanto afferrato e dominato. In terzo luogo, caratteristica di questa devozione è la gioia, ma «per avere questa gioia bisogna amare e abbandonarsi all’imprevedibile avventura dell’amore, avventura che può desiderare soltanto chi guarda al Cuore di Cristo»: ibid., 103. Il terzo aspetto di questa devozione consiste nel mistero. Il Cuore di Cristo è sorgente eternamente fresca e inesauribile, che non svanisce, non si esaurisce e perciò rimane sorprendente e nuova; in breve il cuore è il mistero eternamente giovane. Questo Cuore del Cristo è un mistero che domina e avvolge la nostra vita. È il segno della divinità eterna. Il Cuore di Cristo nell’afferrare e nel venir afferrato è sentito come l’Incomprensibile: ci dice che il fondamento della nostra esistenza è il Mistero. La beatitudine consiste nell’accettare amando con tutte le forze e con tutta la conoscenza il mistero stesso in quanto tale. Il Cuore di Cristo è mistero non solo in sé, ma anche perché dispone liberamente di noi: «la nostra libera autorealizzazione, l’attuazione della nostra vita, l’intima e definitiva decisione della nostra esistenza in forza della nostra libertà, è ancora di nuovo avvolta, sostenuta e determinata dalla libertà di Dio. Questa a noi e al nostro sapere è sottratta, celata nel silenzioso abisso di Dio. In tal modo siamo nascosti proprio là dove siamo veramente noi stessi, nella indeducibile e a nessun altro riservabile decisione della nostra libertà»: ibid., 107. Rahner afferma che esiste: «solo un luogo esistenziale, nel quale l’uomo può lasciar cadere, del tutto e in maniera incondizionata, la sua realtà più personale, cioè la sua salvezza […] questo luogo è Dio, che l’uomo sperimenta come misericordia»: ibid., 108-109. Per entrare in Dio l’uomo deve rimettersi a lui, deve consegnarsi, deve entrare in lui attraverso un atto, cosciente e riflesso, che è la fede. Tuttavia, conclude il teologo tedesco, la fede è possibile soltanto davanti al Cuore trafitto di Gesù, che gli dà il coraggio di credere al suo Amore.
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trasmetterla ai fratelli. Ma proprio questo intende proporre Mazzolari nelle sue opere. Nella Più bella avventura, commentando la parabola di Luca129, egli vuole mostrare che la più bella avventura è la vita cristiana come conversione all’amore di Dio. La casa del Padre, più che un luogo, è il cuore stesso del Padre. «Niente è fuori della paternità di Dio»130 che si manifesta per entrambi i figli: chi è lontano da casa e chi vi è rimasto. L’avventura dei figli consiste nel recuperare questa vera immagine del Padre. L’uomo si mostra distante da lui quando comincia a sospettare dell’amore di Dio, quando il calcolo sulla quantità di doni prevale sulla consapevolezza della qualità. «L’amore non conosce staccionata: varca ogni siepe, valica ogni montagna»131, tanto che il figlio che si allontana si porta dietro l’amore sofferente del Padre. Più lunga è la distanza, più grande sembra essere la misericordia. Il figlio prodigo della parabola lucana, che, attraverso la conversione, si rimette a Dio Padre in quell’atto che chiamiamo fede, porta nell’animo una novità: «la novità fondamentale è la rivelazione del cuore del Padre, così che adesso capisce pienamente il gesto simbolico di un cuore che si denuda in un’agonia di carità senza fine. In quel cuore chiede e soffre il Cristo divenuto, per appropriazione d’amore, ogni uomo: è il cuore di tutta l’umanità che aspetta la redenzione ossia la manifestazione dei figli di Dio»132.
E don Primo, senza entrare in contrasto con quanto sostiene K. Rahner, afferma che: «il prodigo s’inginocchia davanti al cuore del Cristo non per chiudersi in una sterile contemplazione di affettuosità pseudo-mistica, ma per riconoscere ed ascoltare i cuori di tutti gli uomini nel cuore del Cristo Uomo-Dio»133. Rahner afferma che soltanto nel Cuore di Cristo l’uomo comprende Dio e in esso «riesce a capire che cosa egli desidera da noi. Unicamente nell’amore verso Dio siamo in grado di coglierci nell’aspetto in cui siamo stati da lui pensati in un atto d’amore»134. E continua sostenendo che: «questa nostra missione e questa nostra peculiarità cristiana si potranno trovare soltanto nell’amore all’Uomo-Dio, nel qua129
Cfr. Lc 15, 11-32. Avventura, 40. 131 Ibid., 39. 132 Ibid., 181. 133 L.c. 134 K. RAHNER, Teologia del cuore di Cristo, cit., 135. 130
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le riceviamo quell’amore che è per noi latore di nuova esistenza»135. Nella conclusione del teologo tedesco, non dissimile da quella di Mazzolari, si ribadisce: «l’amore sgorgante a fiotti dal Cuore di Cristo è quindi audace, chiaroveggente, affinché la Chiesa non difenda se stessa, ma serva come il suo Signore, che non è venuto per essere servito, ma per servire e donare la sua vita a salvezza di molti. Tale amore non cerca l’onore della Chiesa, ma la salute e la riabilitazione di coloro che trovano la Chiesa. Esso cerca la ragione perché mai siamo così pochi coloro che trovano questa Chiesa, e la cerca innanzitutto e principalmente qui tra noi, non tra quelli che ne sono fuori. Il nostro è un amore missionario, non conservatore e difensivo»136.
Rahner osserva, in altri termini, che la vera missione trova la sua origine in cuori che traboccano dell’amore attinto dal Cuore trafitto e sgorgante di Cristo. Dal canto suo, Mazzolari, dopo aver parlato della prossimità di Dio fino alla kenosi e dopo aver descritto la conversione del prodigo, afferma che inizia per il figlio minore una nuova e più bella avventura: la missione di far conoscere a tutti l’amore di Dio: «ritornare è…capire che bisogna uscire di nuovo. L’avventura del prodigo ha un’altra pagina; oserei dire che la bellezza del dramma cristiano incomincia la dove finisce la parabola, quando il prodigo si sente investito di un compito di corredenzione. Un prodigo che s’accontentasse di essere scampato al naufragio e si sedesse al focolare baloccandosi di piccole cose, giocando all’apostolato, come fa molta brava gente, sarebbe la copia peggiorata dell’infingardo. Ma il prodigo della parabola “entra, esce e trova pastura” (Gv 10,9), poiché egli non può intendere il cuore del Cristo alla maniera di coloro che gli fanno dire: “vedi quanto ti voglio bene? Resta qui!”; mentre il suo parlare è tutt’altro: “vedi, quanto voglio bene a tutti! E tu non vai a dirglielo?»137.
Dunque, Mazzolari e Rahner, con accenti diversi, sono estremamente convinti dell’importanza del primato della Grazia, manifestata da Dio nel cuore sacro di Cristo, e della necessità impellente della missione, intesa come trasmissione dell’amore di Dio verso gli uomini. A tal proposito scrive Rahner:
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L.c. Ibid., 137. 137 Avventura, 181. 136
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«questa onda d’amore [l’amore del Cuore di Cristo] continua sempre ad oscillare tra l’umanità peccatrice e la Chiesa santificata. Sicché, se il nostro amore per la Chiesa vuol essere simile a quello di Cristo, non ci resta che fare come lui. Dobbiamo amare gli uomini: amare veramente i peccatori, i perduti, i pellegrini ancora lontani dalla verità. Siamo tenuti ad amare una Chiesa che deve sempre e continuamente rinnovarsi attingendo a questa umanità. Dobbiamo arrivare ad amare una Chiesa, che non è ancora la santa e immacolata sposa di Cristo senza difetti e senza rughe…nell’aura di quest’amore dobbiamo amare anche noi stessi, peccatori, colpevoli e sempre in atto di dare il buon contributo allo stato servaggio e di peccato in cui la Chiesa si trova»138.
Il pensiero del teologo tedesco sul presbitero, che è chiamato a comprendere la propria essenza guardando al Cuore di Cristo, ci sembra alquanto simile a quello di don Primo Mazzolari. Quest’ultimo, pur partendo dalla ricerca interiore di un’autentica identità presbiterale, arriva a concepire il sacerdote come una ripresentazione del Cristo, anche e soprattutto nel suo essere sconfitto. Sebbene con approcci diversi, don Primo e Rahner affermano che Cristo stesso è l’unità operativa spirituale che armonizza l’azione e la contemplazione nel cuore dei presbiteri. In conclusione ci sembra davvero utile riportare il pensiero di K. Rahner sulle caratteristiche che dovrà possedere il sacerdote di domani. Egli sostiene che il prete di domani dovrà essere non funzionario di una istituzione religiosa, non dovrà avere prestigio sociale, ma dovrà dare prova di personalità spirituale solida. Testimonierà una esperienza del tutto primigenia di fede, di speranza e di amore. Sarà più che mai un uomo carismatico in cui vita e professione coincidono. Sarà capace di sopportare con i fratelli la pesante oscurità della vita. Dedito all’ascolto, attento ad ogni uomo, confidente, libero dal piacere e dal denaro, sarà l’uomo dal cuore trafitto che troverà l’origine e il compimento nella follia della croce, guiderà gli uomini nell’intimo del loro cuore, insegnerà a rivolgersi e a contemplare il cuore di Cristo139. 138
K. RAHNER, Teologia del cuore di Cristo, cit., 136-137. «Questo sacerdote sarà, ancora meno di quanto lo sia oggi, il funzionario di una istituzione religiosa che si impone già con la propria forza sociale. La Chiesa non darà testimonianza per lui, ma cercherà in lui testimonianza. Egli non potrà più usare il proprio ufficio come fonte di prestigio sociale, ma dovrà affermarne la validità ed efficacia dando prova di personalità, spiritualità solida, dimostrando che la sua esperienza di Dio è viva e priva di mediazioni sociali. Non potrà più essere un impiegato che svolge una mansione ecclesiastico-sociologica quasi si trattasse di una professione borghese con obblighi ben delimitati. La sua funzione non gli permetterà alcuna vita privata, una vita che “non interessa a nessuno”. Il prete di domani dovrà essere un uomo che testimonia un’esperienza del 139
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6. L’implicazione della formazione del cuore: la sfida attuale Il messaggio di don Primo, in definitiva, si può sintetizzare così: il prete si deve caratterizzare per la capacità di stare dentro il ministero con tutto il cuore. Immerso nel mondo, è chiamato a farsi “compagno di strada” degli uomini del proprio tempo per trasformare la “lontananza” in “vicinanza”. La sfida attuale sta proprio qui. Il servizio pastorale, nella sua triplice articolazione della predicazione, della presidenza dell’eucaristia e della costruzione dell’unità della comunità, possiede la forza di attrazione capace di alimentare e sostenere quella voluptas animi, quel diletto interiore, che dimora in ogni cuore umano? 140. tutto primigenia di fede, di speranza e di amore […]. La sua professione è un carisma molto più di quanto non sia quella del sapiente o di un poeta. Un carisma che però va rappresentato e vissuto anche in una dimensione ecclesiale-sociale, anzi, se pur in maniere oggi sottoposte a profonde modificazioni, in una dimensione profano-sociale; la sua vita deve essere la sua professione e questa la sua vita […] Sarà un uomo che sopporta, nel pieno senso della parola, la pesante oscurità dell’esistenza insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle. […]. Egli crederà che la vita viene dalla morte, che l’amore, l’altruismo, la parola della croce e la grazia di Dio posseggono energie sufficienti per realizzare l’unica cosa che in fondo importi: che cioè l’uomo accetti con fede e con speranza l’inconcepibilità del proprio essere, poiché in esso regna l’inconcepibilità di Dio, il quale partecipa se stesso come salvezza e come un amore di perdono. Il prete di domani sarà un uomo con una professione quasi ingiustificabile da una visuale profana, perché il suo successo più autentico scomparirà sempre nel mistero di Dio. Non sarà più lo psicoterapeuta vestito con il costume ormai fuori moda del mago. Parlerà sottovoce, non penserà di poter illuminare con dispute patetiche l’oscurità che aggrava sulla vita o di spezzare lo stato di assedio in cui si trova la fede. Con calma lascerà che Dio vinca dove lui personalmente risulta sconfitto, vedrà operare la grazia di Dio anche quando non riuscirà più ad offrirla all’uomo con la propria parola e con il sacramento in forme per l’uomo accettabili. Non misurerà la potenza della sua grazia sul numero di coloro che si accostano al sacramento della penitenza e tuttavia saprà di essere preso dal servizio e dalla missione affidatagli da Dio, anche quando è convinto che la misericordia divina può agire anche senza di lui. Insomma: il sacerdote di domani sarà l’uomo dal cuore trafitto e solo da questa ferita sgorgherà l’efficacia della sua missione. Con il cuore trafitto: da una esistenza che pare senza Dio, dalla follia dell’amore, dall’insuccesso, dall’esperienza della propria miseria e profonda problematicità […]. Sarà l’uomo dal cuore trafitto, perché avrà il compito di ricondurre gli altri al centro più autentico della loro esistenza e cioè nell’intimo del loro cuore. Infatti sarà possibile arrivare sino al centro dell’esistenza, al cuore appunto, solo se lui e gli altri ne accetteranno la ferita dell’incomprensibilità dell’amore, che solo ha saputo vincere attraverso la morte […] Ora se il prete di domani dovrà essere così (e lo è anzi se aderisce alle esigenze della sua chiamata, lo è, nelle dimensioni più profonde per grazia di Dio), se si troverà sempre di fronte ad esigenze che lo impegnano sino alla spasimo e si chiederà dove poter trovare quel che in se stesso non trova, dove cogliere l’esempio al quale poter guardare con semplicità archetipa, allora non potrà fare altro che una cosa: rivolgersi al Signore che serve, alzare gli occhi a colui che fu trafitto e venerare il cuore di Cristo»: ibid., 143-146. 140 Cfr. G. RUGGIERI, Nuovi modelli di clero? Le sfide attuali, in Synaxis 25 (2007) 25-37.
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Fino agli anni ’60 del secolo passato, la Chiesa, nella sua impostazione fortemente istituzionale, riconosceva un effettivo onore al ruolo sociale e culturale del prete. Egli era identificato con “La” Chiesa. Ed anche se doveva affrontare dei notevoli sacrifici (celibato, povertà…), si faceva forte del riconoscimento pubblico che gli veniva attribuito. Ma il decennio successivo al Concilio vide l’estendersi di una crisi di non facile soluzione: una forte contrazione degli ingressi nei seminari e, contemporaneamente, un numero molto alto di defezioni da parte di preti giovani. Si era dinanzi ad una crisi determinata da una serie di fattori. Innanzitutto il problema si poneva da un punto di vista teologico: «la promozione del laicato, i forti cambiamenti nei modelli ecclesiologici sembravano mettere in causa un ruolo da sempre riconosciuto, riducendo l’azione e la presenza del prete in ambiti poco significativi»141. Entrava in crisi la tradizionale immagine del prete, il suo stesso ruolo sociale. Il conseguente calo di prestigio, la collocazione della categoria sacerdotale su un gradino molto più basso di una riconosciuta gerarchia sociale finiva per rendere meno appetibile lo stesso ruolo: le gratificazioni offerte sembravano non compensare più le rinunce richieste. In altri termini, il sacerdozio non era più valutato come il segno di appartenenza a una classe elevata, strumento di accesso a uno status sociale riconosciuto e apprezzato, che conferiva alla persona prestigio a prescindere dai suoi meriti personali. Oggi più che mai, si assiste al dilagare della cultura relativista che esaspera il soggettivismo e l’individualismo e considera la vita cristiana una scelta soggettiva e, quindi, arbitraria e non più la strada della vita. Nella società occidentale, definita fluiforme o modulare, il soggetto cambia continuamente la sua identità e affida l’istanza della verità a ciò che “si prova” e si sperimenta sensibilmente: è così perché “mi piace”. Questa società è priva di certezze e legifera, non a partire dalle istanze etiche, ma da ciò che la scienza mette in cantiere. S’improvvisa continuamente sui ruoli e, quindi, l’identità personale più che un nucleo fisso è una presenza mobile destinata a variare come i soggetti mobili in cui è posta. La postmodernità conosce una sorta di liquefazione dell’identità e delle identità; c’è una vita in cui i legami si sono decomposti lasciando spazio solo al141
M. GUASCO, Evoluzione dei modelli di prete nella storia recente, in Synaxis 25 (2007)
7-23.
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la dimensione soggettiva. Quali sono le conseguenze? Fino a ieri il problema era costruirsi un’identità. Adesso la questione si sposta sul come mantenerla il più a lungo possibile. Ma proprio questo significa guardarsi da un’identità troppo stabile perché è necessario metterla in discussione più volte e rifarsi una nuova identità che si modella sui cambiamenti repentini. Diminuiscono sempre più le scelte definitive e aumentano le scelte momentanee, favorendo le identità molteplici e variabili nel tempo. Viene messa in ombra l’identità personale e favorita l’identità del soggetto che può essere sempre modificata142. Alla crisi del principio dell’irrevocabilità della decisione umana si aggiunge, inoltre, quella del legame intimo tra celibato e missione pastorale con tutte le diverse connotazioni che la contraddistinguono. È chiaro, dunque, che oggi appare opaca proprio questa condizione di maturità piena della decisione. La sfida attuale che don Primo pone, a chi si prepara al presbiterato o a chi vive già nel ministero, consiste proprio nell’armonizzare nel cuore la vita spirituale e l’impegno pastorale. Se nel cuore rimangono distinte queste due dimensioni, la vita del prete diventa concretamente: stress, attivismo, frenesia, vuoto spirituale, stanchezza e rassegnazione. Il prete deve configurarsi a Cristo sommo sacerdote, di cui egli è “vicario”. È Cristo che opera per mezzo del sacerdote. Compito del prete, per don Primo, è quello di operare in modo tale che dal suo agire possa emergere il Signore stesso che sta operando: adesso, in piccoli segni e frammenti, ma un giorno con un regno che si estenderà su tutta la terra. La vita di don Primo è espressione di questo coinvolgimento di Dio e della Chiesa negli eventi storici. La sua è una testimonianza che dà credito alla funzione storica del cristianesimo; ne sono prova la partecipazione, in forme diverse, ai due conflitti mondiali del Novecento, l’opposizione al Fascismo, il sostegno alla Resistenza partigiana, i comizi elettorali in favore della DC, prima e dopo il 1948, l’opera di formazione all’impegno socio-politico, il dialogo con i Partigiani della Pace nel dopoguerra. A questo si aggiunge l’attività pastorale di parroco, prima a Cicognara e poi 142 Cfr. I. SANNA, L’identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica, Brescia 2006. A p. 39 l’autore afferma: «la modernità, tra le sue molteplici conseguenze, ha portato con sé la crisi del soggetto, ha veicolato l’immagine di un io diviso e frammentario. Le relazioni e la possibilità di comunicare si sono moltiplicate enormemente, ma esse si rivelano anche più fragili. La compressione dello spazio e del tempo ha imposto un ripiegamento su ciò che appartiene al presente. Emerge allora la figura di un soggetto debole, costruito su desideri personali, abbandonato a ciò che appartiene al presente».
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a Bozzolo, la predicazione attraverso l’Italia, l’attività di scrittore e oratore: sono manifestazioni della responsabilità che Mazzolari sa di avere nei confronti della Casa del Padre143. Il prete è chiamato a essere, in coscienza, l’immagine del Padre; la sua missione consiste in questo perdersi per l’umanità, nel dare la propria vita agli altri, perché Cristo, amore crocifisso del Padre, possa essere riconosciuto presente nel cuore dell’uomo, nel suo lavoro, in tutti gli ambiti e le attività materiali; possa essere accolto e amato nel volto dei fratelli. Il prete, che vede Cristo e il Vangelo nelle sembianze dell’umanità, deve trovare nel servizio all’uomo e alla sua storia la forza di attrazione che alimenta e sostiene quella voluptas animi che alberga nel suo cuore. Il servizio pastorale, che si qualifica come impegno responsabile di fermentazione evangelica della realtà, nella misura in cui ha nel cuore del sacerdote una capacità di attrazione, un ascendente forte, crea armonia, unità tra la dimensione pastorale e quella spirituale. La sfida attuale è proprio questa: può il desiderio di un uomo, il suo diletto interiore concretizzarsi nell’ideale di vita “oggettivo” che è descritto dall’impegno pastorale del sacerdote? È possibile predicare una Parola che possiede una sua oggettività storica e normativa; santificare, attraverso la prassi liturgica e sacramentale che impone le sue regole della comunione a noi donata per grazia; presiedere a questa comunione, con una funzione riconosciuta positivamente da tutti, per essere di riferimento a tutti? Il diletto interiore di Mazzolari è servire l’uomo, la comunità ecclesiale nella storia con la viva consapevolezza di servire Dio. Il peso del dolore, della obbedienza, della sofferenza, arrecatogli anche da Santa romana Chiesa, è stato possibile portarlo perché egli è sempre stato convinto di dedicarsi al Signore servendolo incondizionatamente nel suo campo, che è la Chiesa. Questa convinzione lo ha sempre tenuto distante dal considerare tale campo di sua proprietà e quindi ha inteso il ministero sacerdotale come servizio, nella pace interiore e nell’ascolto, su mandato di Cristo. Per questo non ha fatto dipendere tutto dall’attività, dal numero esteriore, dalla statistica e dal successo misurabile. Come lo schiavo che 143 Carlo Bellò, in una frase molto bella e sintetica, riassume così la vita e l’operato di Mazzolari: «quello che importa di questa storia è lo stamparsi nell’anima della parabola del prodigo, un’avventura vivente che lo coinvolge»: C. BELLÒ: Primo Mazzolari. Biografia e documenti, cit., 56.
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serve il Padrone, il ministero sacerdotale di don Primo si è svolto all’insegna del rifiuto del successo o del potere, accompagnando il prossimo nella sequela del Signore e nell’edificazione della comunità del Signore. Lettore attento dei segni dei tempi, Mazzolari si è accorto che la città, compagna di tenda della Chiesa per lunghissimo tempo, se n’è andata per i fatti suoi, seguendo logiche sue e programmandosi la vita secondo parametri propri. Le persone per le quali la Chiesa non dice più nulla, neppure sul piano dei comportamenti morali, già allora erano tante. Mazzolari ha costatato che erano scappate da casa e che nessuno si decideva di inseguirle o di andarle a trovare per ricondurle nel grembo domestico della Chiesa. Egli è stato fautore, in Italia, di una nuova mentalità, intesa come attitudine missionaria volta a varcare il tempo più che lo spazio. Dinanzi all’immobilismo pastorale del suo tempo, che paralizzava la Chiesa, a causa di un apparato ancora marcatamente sacrale, Mazzolari esorta a passare da una pastorale di cristianità a una pastorale di missione. Il problema fondamentale delle parrocchie, afferma don Primo, è quello di passare da tende di parcheggio e di protezione per chi da sempre vi è stato dentro, ad accampamenti di speranza e di salvezza per chi da tempo o da sempre ne è stato fuori. In sintesi la Chiesa e il sacerdote, come espressione della paternità di Dio che dimora nella comunità ecclesiale, devono avere come desiderio, come diletto interiore, come ansia pastorale, i lontani di ogni tipo e condizione. Di fronte a una Chiesa ancora troppo ripiegata su se stessa propone con vivacità una Chiesa che trova la sua ragion d’essere, la sua vocazione più autentica e vera, nel curvarsi con slancio sul mondo, accettando da esso l’ordine del giorno per il suo impegno e per le sue discussioni. In quanto segno di Cristo, egli si pone a servizio, con coraggio, a partire dagli ultimi che sono i più lontani: poveri, diseredati, sofferenti, analfabeti, cioè di tutti quelli che rimangono indietro o sono scavalcati dagli altri. Diventa allora evidente la sfida posta all’esperienza personale del presbitero: una grande maturità, una sicurezza interiore che non faccia vagare, da una identità all’altra, il grande amore per l’uomo e la sua storia, in cui si riflette il volto del Dio incarnato che vuole essere accolto, riconosciuto e servito. La cultura occidentale, che ormai rifiuta le radici cristiane perché considerate a lei estranee, che determina la sua nuova identità esclusivamente dalla cultura illuministica, che esclude Dio dalla vita pubblica e dalle
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basi dello stato, che vive decomposta nel pluralismo degli interessi economici e valoriali, che consegna alla scienza il potere demiurgico di produrre natura artificiale manipolando l’uomo come materia, non riesce, però, a fondare la dignità assoluta dell’uomo e, di conseguenza, l’intangibilità umana. La nostra cultura è mancante di un’antropologia della globalizzazione, cioè di un’idea comune della natura dell’uomo144. Questa società fa dipendere tutto dall’economia consumistica, capace solo di produrre senza sosta un mondo da buttare via: «l’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttare via, tratta anche se stessa come un’umanità da buttare via»145. Questo significa, in definitiva, che l’uomo può trattare come oggetto e, dunque, manipolare un altro uomo. Questi diventa un prodotto, un oggetto di indagine e di sperimentazione. Anche se Mazzolari si distanzia di quasi sessant’anni dalla nostra generazione e anche se, come abbiamo visto, diverse sono le condizioni culturali e sociali del nostro tempo rispetto al suo, l’istanza del suo pensiero ha tuttora una grande validità. Mazzolari ci ricorda che la funzione del cristianesimo e della Chiesa di oggi è quella di difendere e promuovere la dignità dell’uomo e l’affermazione dei suoi diritti fondamentali. Il sacerdote, come ministro di Gesù Cristo e della sua Chiesa, deve porsi come sentinella dell’umanità ricordando al mondo la visione dell’uomo creato ad immagine di Dio, redento dal sangue di Cristo e destinato a vivere eternamente con Dio. Il ministero pastorale del presbitero deve contribuire a dare un fondamento molto solido alla concezione dell’eminenza della persona e dell’inviolabilità della sua dignità. Dinanzi alla precarietà di ogni difesa razionale della dignità assoluta dell’uomo, don Primo manifesta con il pensiero e con la vita il vangelo della giustizia, dell’amore e della pace. Il perdersi per amore, la croce portata con dignità, la disponibilità all’altro, rappresentano l’orientamento costante di un pensiero e di un’azione. L’attualità di Mazzolari si manifesta, in questo contesto odierno così relativo e complicato, come chiamata, nei riguardi del presbitero e della Chiesa in generale, a vivere la responsabilità verso l’altro come precedenza su tutto. Il dialogo ostinato di Mazzolari con tutti, in modo speciale con i lontani, coglie in pienezza la ricchezza del suo animo pastorale. Egli esorta la Chiesa e i presbiteri a schierarsi con l’uomo e 144 145
Cfr. I. SANNA, L’identità aperta, cit., 100. Ibid., 102.
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dalla parte dell’uomo, a uscire dalle sacrestie e dalle nicchie del prestigio sociale e del potere, a non isolarsi in una spiritualità disincarnata, a non aver paura della diversità e del confronto. Oggi più che mai la Chiesa (e, di conseguenza il presbitero) è interpellata a mettere in evidenza che il problema dell’uomo è direttamente intrecciato al problema di Dio, che l’origine della questione antropologica è strettamente collegata alla questione teologica. La crisi di Dio, infatti, ha condotto alla crisi dell’uomo. Pertanto la Chiesa oggi si trova nella necessità di difendere l’uomo per difendere Dio, mentre prima difendeva Dio per difendere l’uomo. Ciò che viene messo a rischio dal biocentrismo della cultura radicale e da una mentalità di scienza senza coscienza è proprio l’umanità dell’uomo, quell’essenza, cioè, che non si può ridurre a semplice materiale biologico. La vita umana è diventata un materiale biologico, una materia di ricambio, una riserva di donazione di organi. Se l’uomo è ridotto a un prodotto della biologia, non è più inviolabile e tutti lo possono manipolare. In questo contesto Mazzolari ci insegna che l’attenzione all’uomo diventa esperienza totalizzante che favorisce l’approfondimento della spiritualità. Il ministero pastorale del presbitero, oggi più che mai, deve avere come suo oggetto l’uomo e la sua dignità: nella misura in cui promuoverà una cultura universale della dignità dell’uomo, saprà impostare un corretto rapporto dell’uomo con il soprannaturale e, di conseguenza, saprà alimentare e approfondire la sua spiritualità sacerdotale.
*** Nel lavoro di questo capitolo si è cercato di mostrare come in Mazzolari ben si armonizzino la dimensione spirituale e quella pastorale, caratteristiche fondamentali del ministero presbiterale. Come la casa del Padre è l’immagine della Chiesa, così il prete è l’immagine del Padre. Egli, in un primo momento, attende, poi, successivamente, si mette in ricerca, e in ultima analisi accompagna discretamente il prodigo/umanità mettendosi discretamente da parte per favorire l’abbraccio misericordioso e tenerissimo del Padre. Il prete, immagine del Padre, ha la missione di perdersi per l’umanità, di dare la propria vita agli altri, perché Cristo, amore crocifisso del Padre, possa essere riconosciuto presente nel cuore dell’uomo, nel suo lavoro, in tutti gli ambiti e le attivi-
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tà materiali, possa essere accolto e possa essere amato nel volto dei fratelli. La vita spirituale del prete si nutre e si alimenta, dunque, del ministero pastorale che egli svolge con dedizione e fedeltà. È nell’esercizio del suo ministero pastorale che i sacerdoti approfondiscono la loro vita spirituale. Don Primo sostiene che senza il servizio ai fratelli la spiritualità del sacerdote è incomprensibile e rischia di ridursi a vuote pratiche di pietà e di legittimare qualsiasi potere sembri garantire i privilegi dell’istituzione ecclesiastica. Separare la spiritualità dall’impegno pastorale comporta il pericolo della perdita di pietà per l’uomo, dell’inaridimento della sostanza umana, del compromesso miserabile, del tentativo di soddisfare l’altissimo prezzo richiesto dall’esistenza sacerdotale con una mediocrità a buon mercato. Il compito del prete è quello di trasmettere non solo la fede, ma di dare struttura ad essa perché possa essere testimoniata con credibilità all’uomo moderno. Con l’aiuto della riflessione di Rahner abbiamo individuato emergenze identificabili nella visione di Mazzolari, che potrebbero essere le caratteristiche di quella “forma” della fede costitutiva della missione del sacerdote nel mondo odierno. Dare forma alla fede secondo queste caratteristiche significa avvicinare la fede alla sensibilità dell’uomo moderno, favorirne una vera e autentica accoglienza, eliminare ogni discrepanza tra fede e storia, spiritualità e impegno nel mondo. Nella visione di don Primo, il prete, che vede Cristo e il Vangelo nelle sembianze dell’umanità, deve trovare nel servizio all’uomo e alla sua storia la forza di attrazione che alimenta e sostiene quella voluptas animi che alberga nel suo cuore. Il servizio pastorale, che si qualifica come impegno responsabile di fermentazione evangelica della realtà, nella misura in cui ha nel cuore del sacerdote una capacità di attrazione, un ascendente forte, crea armonia, unità tra l’ambito pastorale e quello spirituale, tra la dimensione cristologica della consacrazione e la dimensione ecclesiologica della missione. Il cuore è ciò che contraddistingue l’originalità del prete mazzolariano. Il cuore è il luogo teologico dove si manifesta il cuore di Dio Padre. E come, nella parabola lucana, il Padre esce di casa per andare incontro al figlio, così il prete, che porta in sé i segni della paternità di Dio, mediante il suo apostolato, deve portare l’amore di Dio in prossimità dei cuori degli uomini perché tutti possano imbattersi nell’abbraccio tenero e avvolgente di Dio. Se la Chiesa deve essere sempre più l’immagine di Dio Pa-
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dre che vuole fare sperimentare ai figli il suo abbraccio benedicente, il sacerdote ha il grande compito di costruire nella Chiesa un cuore. Il sacerdote, largo d’affetto e attento in tenerezza, ha la missione di presentare la paternità di Dio Padre e di riannodare l’uomo al Padre. Dell’importanza della formazione del cuore per il presbitero parla anche K. Rahner in occasione della riflessione sulla devozione al S. Cuore. Il confronto ermeneutico tra Mazzolari e Rahner ci permette di affermare che, sebbene gli approcci di entrambi siano chiaramente diversi, è Cristo la sorgente sgorgante di unità, di amore che sta alla base del ministero sacerdotale ed è la ripresentazione del suo cuore trafitto che armonizza l’azione e la contemplazione, la vita spirituale e l’impegno pastorale nella vita del presbitero. Il cuore diventa la cifra sintetica della formazione presbiterale e attorno alla maturazione di esso ruota una grande sfida per i presbiteri immersi nella complessa società odierna: il desiderio di un uomo, il suo diletto interiore, la sua attrazione interiore possono concretizzarsi nell’ideale di vita “oggettivo” che è descritto dall’impegno pastorale del sacerdote: predicare una Parola che possiede una sua oggettività storica e normativa; santificare, attraverso la prassi liturgica e sacramentale che impone le regole della comunione a noi donata per grazia; presiedere a questa comunione, con una funzione riconosciuta positivamente da tutti, per essere di riferimento a tutti? La centralità del cuore come cifra sintetica della formazione presbiterale, dunque, dà la possibilità di poter sottolineare l’estrema importanza della formazione umana del sacerdote. Il carattere di fondo, che trasmette don Primo, è soprattutto la capacità di stare dentro il ministero sacerdotale con tutto il cuore, come espressione d’intensa e profonda umanità. La qualità umana nella vita di un prete è oggi, dunque, uno dei tratti più intensamente e significativamente missionari. Il prete, più è realizzato come uomo, e come uomo adulto, più saprà testimoniare un Vangelo che è amore e misericordia. La formazione del cuore pone una sfida all’esperienza personale del presbitero: una grande maturità, una sicurezza interiore che non faccia vagare da un’identità all’altra, il grande amore per l’uomo e la sua storia nelle quali si riflette il volto del Dio incarnato che vuole essere accolto, riconosciuto e servito. Ma mentre pone una sfida all’esperienza personale del presbitero, il pensiero di Mazzolari è di grande attualità per la missione che il presbitero stesso è chiamato a svolgere nel mondo contemporaneo. La nostra
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cultura occidentale è attraversata da una profonda crisi dell’uomo, da una crisi antropologica che è incapace di definire un’idea comune della natura dell’uomo. L’origine della questione antropologica è strettamente intrecciata con la questione teologica. La crisi di Dio, infatti, ha condotto alla crisi dell’uomo. Pertanto la chiesa oggi si trova nella necessità di difendere l’uomo per difendere Dio. In questo contesto Mazzolari ci insegna che l’attenzione all’uomo diventa esperienza totalizzante che alimenta e favorisce ancor di più l’approfondimento della spiritualità presbiterale.
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Conclusione
Don Primo Mazzolari è una figura singolare della Chiesa italiana della prima metà del Novecento. Egli, pur non essendo un teologo, ha il merito di aver tracciato alla scuola del Vangelo le linee di una teologia nuova, aperta «al discorso esistenziale e al confronto storico, tendente a riflettere bagliori d’intelligenza e di grazia più che a comporre un organico argomento»1. La forte passione per il Vangelo lo rende un testimone autentico del Vangelo, un fedele interprete della fede della comunità cristiana, un attento ascoltatore di tutte le voci, di tutte le necessità e di tutti gli autentici valori dell’uomo. Egli è un uomo che ha totalmente ordinato il suo mondo interiore a Cristo, ed è stato quindi nella libertà necessaria, nella capacità di riconoscere e nella volontà di servire l’opera del Vangelo negli altri. La riflessione di Mazzolari, cristallizzata nella sua vasta e multiforme opera letteraria, partendo dalla sua intensa esperienza pastorale, illuminata dalle pagine del Vangelo, diventa un’elaborazione originale della sua coscienza sacerdotale che, in virtù della sua forte capacità intui1 U. VIVARELLI, Il Vangelo secondo don Primo, cit., 24. Nella stessa pagina l’autore afferma anche: «Mazzolari non fu teologo nel senso scolastico della parola. Nemmeno il Vangelo fortunatamente è un trattato di teologia. Alla scuola del Vangelo egli però ha tracciato una strada di pensiero e di spiritualità che, con la conferma del Concilio, ormai si impone quale urgente novità. Finalmente la teologia — pur rispettando il rigore dovuto alle implicazioni scientifiche e razionali — sta passando dal manuale e dalla sistematica scolastica al discorso esistenziale e al confronto storico. Era logico che negli ambienti ufficiali della intelligenza cattolica Mazzolari si guadagnasse sempre più l’ostracismo […]. Don Primo ha anticipato quella nuova razza di teologi di cui abbiamo bisogno».
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tiva, è capace di narrare le esperienze spirituali del suo animo fatte di verità essenziali, di originalità stilistiche, ma soprattutto di fede autentica2. Il suo modo profondamente autobiografico di riflettere teologicamente ci permette di cogliere delle istanze davvero importanti per la spiritualità sacerdotale. Il recupero della storicità, del nesso tra la storia e la fede, del rapporto tra la spiritualità e l’impegno pastorale crea una svolta determinante nella vita spirituale del presbitero. Il presente studio ha dimostrato che nella visione di don Primo Mazzolari ben si armonizzano la dimensione spirituale e la dimensione pastorale del sacerdote. La nostra ricerca mostra come, fino alle soglie del Concilio, vi fosse discrepanza tra i due ambiti: quello spirituale e quello pastorale. Difficile era, infatti, la situazione del sacerdote, il quale sentiva in se stesso una lacerazione tra azione e contemplazione ed avvertiva come problematico il realizzare un’unità operativa spirituale dei compiti di tutti i giorni. La fede era vissuta nella Chiesa da molti come rifugio nel privato, spiritualità fuori dalla storia. Il sacerdote era ordinato innanzitutto per l’eucaristia e si relegava il compito dell’essere guida della comunità in un piano secondario. Cosicché si veniva a creare una dicotomia tra l’esercizio sacramentale e l’esercizio pastorale del prete. La tendenza, peraltro auspicata dall’autorità ecclesiastica, riorientava i preti a un ritorno alla prassi pastorale legata all’ambito sacramentale e spirituale-formativo con forte accentuazione devozionale. Don Primo denuncia nel presbitero una dicotomia tra fede e impegno. Egli è stato tra i pochi in assoluto, nel suo tempo, ad aver contribuito a individuare nella coscienza del presbitero il luogo dove poter compiere quella sutura tra la vita spirituale e il ministero pastorale. Questa saldatura dipende dalla capacità che l’ufficio pastorale possiede di alimentare e sostenere quella voluptas animi che alberga in ogni cuore umano. Quel diletto interiore, sorgente ultima dell’equilibrio della persona, nella misura in cui si concretizza nell’ideale di vita “oggettivo” del presbitero, unisce la dimensione spirituale a quella pastorale. In altre parole dal pensiero di don Primo ricaviamo che la coscienza presbiterale deve coniugare vangelo e storia: la relazione con Gesù Cristo offre alla coscienza del prete la condizione ottimale per impegnarsi a servizio degli altri. La situazione concreta chiede sempre di essere illuminata dalla fe2 Cfr. R. DONI , Il creare è un momento di adorazione: l’opera letteraria di don Primo Mazzolari, in Attualità di don Mazzolari, Roma 1981, 167-185.
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de e la storia offre sempre nuove opportunità di incarnazione alla verità cristiana. Grazie a don Primo, possiamo affermare, che il sacerdote non va compreso alla luce di una concezione ritualistica della liturgia, ma sulla base di un servizio di adunanza del popolo di Dio e di annuncio, in un senso quindi essenzialmente “missionario”. Per conseguire il nostro obiettivo, innanzitutto, ci siamo soffermati sulla vicenda biografica di don Primo, vagliando le sue opere principali, per mettere in evidenza la formazione della sua coscienza sacerdotale. Abbiamo analizzato la travagliata vicenda biografica di Mazzolari. Egli fa parte di una generazione singolare di preti. La sua generazione sta nel mezzo tra due compagini: quelle formate in seminario negli anni di Leone XIII, con margini di libertà, di studio, di ricerca ancora ampi e quelle formate dopo l’enciclica “Pascendi” di Pio X, in un clima di sospetti, di sorveglianza esasperata, e in non rari casi di condanne. Determinante risulta essere la configurazione storica del nostro personaggio, il quale è entrato in seminario negli anni di Leone XIII, ha iniziato gli studi teologici proprio nel tempo della Pascendi e ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale negli anni più difficili della reazione. La presenza del grande vescovo Bonomelli, la frequentazione del padre barnabita Gazzola, gli studi giovanili hanno inciso in modo fondamentale sulla sua formazione. Don Primo, nonostante l’imperativo di Pio X di ritornare nelle sacrestie durante il burrascoso periodo modernista, porterà impressa nella sua coscienza sacerdotale la mentalità e lo stile del modello del prete sociale, cioè l’ansia tipicamente “leoniana” del confronto e dell’incontro col mondo moderno. Quest’incontro deve essere preparato tramite la rivoluzione cristiana che trova nell’incarnazione di Cristo il suo fondamento teologico: il modo con cui Gesù fa la rivoluzione è di incarnarsi nella storia. La Chiesa continua quest’opera: non si tratta, per don Primo, semplicemente di radunare intorno a sé molte persone che condividono lo stesso ideale, ma di essere fermento perché l’umanità sperimenti la giustizia e l’amore. Se niente di ciò che è umano è al di fuori di Cristo, compito della rivoluzione cristiana è di rendere l’uomo consapevole della sua dignità e della sua vocazione. Il sacerdote non deve occuparsi esclusivamente dell’ambito sacramentale e spirituale formativo, ma, come suo proprium, impegnarsi per mettere in relazione contemplazione e azione, fede e storia, mistica e politica. Nel secondo capitolo la nostra ricerca ha studiato la maturazione della
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coscienza presbiterale di Mazzolari nella Chiesa e nella società italiana del suo tempo. Se la vita cristiana, nella fattispecie sacerdotale, è un perdersi come Cristo, ciò non comporta una fuga dal mondo, dalla storia. Don Mazzolari condivide la vita dei soldati in guerra (prima guerra mondiale). Egli non accetta l’involuzione spiritualista di una cristianità dimissionaria, soprattutto davanti alle arroganze del potere. Così rimane una delle poche voci critiche all’interno del panorama cattolico italiano, durante l’ascesa del Fascismo. La coscienza sacerdotale, continuamente esposta agli stimoli provenienti dalla storia e segnata dalla sua esperienza bellica, lo porta a passare dall’interventismo al pacifismo. Durante la seconda guerra mondiale egli si propone di ricostruire le basi per un futuro nuovo della società. Per tale motivo s’impegnerà nella formazione delle future classi politiche della Democrazia cristiana e nella partecipazione alla Resistenza. Per don Primo la Resistenza scaturisce dalla fedeltà alla coscienza cristiana. Essa costringe la teologia a ripensare e a rifondare il rapporto tra fede e politica, tra fede e società, tra fede ed economia. L’impegno cristiano nel mondo diventa, quindi, la sua caratteristica originale. Per lui la politica non è tanto al servizio dell’evangelizzazione, ma dell’uomo e della convivenza civile. Per questo egli rifiuta la visione strumentale della politica e della libertà portata avanti dalla gerarchia italiana (il nuovo ordine cristiano di Pio XII). Riflettendo e interpretando la travagliata epoca degli anni cinquanta, la coscienza sacerdotale di don Primo matura e propone, per la risoluzione della crisi in corso, l’inserzione dello spirituale nel temporale, in nome della categoria dell’incarnazione. Mazzolari domanda alla Chiesa e, in particolare, al sacerdote, che continuino il loro impegno cristiano nel mondo adoperandosi alla liberazione di tutto l’uomo e divenendo, così, luogo di incontro tra Cristo e gli uomini. Nel terzo capitolo la nostra indagine ha analizzato, anzitutto, che la formazione sacerdotale di Mazzolari è la risultante di una confluenza di due modelli: il modello di san Carlo e il modello sacerdotale della scuola francese. In un secondo momento ha analizzato la figura del sacerdote nelle opere di don Primo, malgrado esse non presentino una struttura sistematica. Il costante riferimento alle opere evangeliche dà la chiave di lettura per cogliere l’evoluzione del pensiero mazzolariano sul prete. S’individuano in tre pagine evangeliche, tolte dal testo di Luca, i tre passaggi chiave nella visione del prete in Mazzolari: la parabola del Prodigo (Lc 15, 11-32), quella del Samaritano (Lc 10, 30-37), il racconto dei due
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discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35). A partire da queste pagine bibliche, predilette da Mazzolari, si sono raggruppate ed esaminate le opere, cercando di estrarre, dalla sua teologia narrativa, l’identità e la missione del presbitero. Il nostro studio, infine, si è soffermato su alcuni aspetti della figura del prete, per precisarne i contorni, le componenti e le connessioni che possono sfuggire a uno sguardo d’insieme. Nel quarto capitolo la nostra ricerca, scandagliando il pensiero di Mazzolari sulla base delle acquisizioni fatte nei precedenti capitoli, ha cercato di scoprire e dimostrare l’armonizzazione esistente tra il ministero pastorale e la vita spirituale del sacerdote. Don Primo afferma che senza il servizio ai fratelli la spiritualità del sacerdote è incomprensibile e rischia di ridursi a vuote pratiche di pietà e di legittimare qualsiasi potere sembri garantire i privilegi dell’istituzione ecclesiastica. La vita spirituale del prete si nutre e si alimenta, dunque, del ministero pastorale che egli effettua con dedizione e fedeltà. Nell’esercizio del loro ministero pastorale i sacerdoti approfondiscono la loro vita spirituale. L’ambito pastorale rivela e manifesta la spiritualità del presbitero e la traduce in prassi per i fratelli. Nel suo saggio, Il sacerdote e la fede, K. Rahner afferma che il compito del prete è quello di trasmettere non solo la fede, ma di strutturarla perché possa essere testimoniata con credibilità all’uomo moderno. Similmente a Rahner, Mazzolari sostiene che oggi al credente non basta avere la fede, ma la “forma” di fede a lui adeguata. Alcune emergenze rilevate da Rahner, riguardo all’impegno di fede per il cristiano, sono attuali anche nello sviluppo del pensiero mazzolariano. Tali emergenze sono: 1) vivere la fede inserendosi nel proprio tempo e vivendo il clima spirituale di esso; 2) accettare la propria situazione di pericolo davanti alla fede minacciata; 3) far sì che la fede cristiana diventi concreta, di fatti e non di parole, incarnata nelle miserie dell’uomo, rivolta ai lontani e ai peccatori; 4) trasmettere il vero volto di Dio. Dare “forma” alla fede tenendo conto di queste quattro circostanze critiche significa avvicinare la fede alla sensibilità dell’uomo moderno, favorirne una vera e autentica accoglienza, eliminare ogni discrepanza tra fede e storia, spiritualità e impegno nel mondo. Nella visione di don Primo, il prete, che vede Cristo e il Vangelo nelle sembianze dell’umanità, deve trovare nel servizio all’uomo e alla sua storia la forza di attrazione che alimenta e sostiene quella voluptas animi che alberga nel suo cuore. Il servizio pastorale, che si qualifica come im-
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pegno responsabile di fermentazione evangelica della realtà, nella misura in cui ha nel cuore del sacerdote una capacità di attrazione, un ascendente forte, crea armonia, unità tra l’ambito pastorale e quello spirituale, tra la dimensione cristologica della consacrazione e la dimensione ecclesiologica della missione. Il confronto del pensiero mazzolariano con la devozione del S. Cuore, rilanciata dal teologo Rahner, ha messo in evidenza l’immagine di un presbitero che, conformandosi al cuore trafitto d’amore del Cristo, è chiamato a costruire la sua identità nella rispondenza reciproca tra azione e contemplazione. Il cuore caratterizza l’originalità del prete mazzolariano. Il cuore è il luogo teologico dove si manifesta il cuore di Dio Padre. Il prete, che porta in sé i segni della paternità di Dio, mediante il suo apostolato, ha la missione di portare l’amore di Dio in prossimità dei cuori degli uomini perché tutti possano imbattersi nell’abbraccio tenero e avvolgente di Lui. Il cuore diventa la cifra sintetica della formazione presbiterale e attorno alla maturazione di esso ruota una grande sfida per i presbiteri immersi nella complessa società odierna: può il desiderio di un uomo, il suo diletto interiore, la sua attrazione interiore concretizzarsi nell’ideale di vita “oggettivo” che è descritto dall’impegno pastorale del sacerdote? Ma mentre pone una sfida all’esperienza personale del presbitero, il pensiero di Mazzolari è di grande attualità per la missione che il presbitero stesso è chiamato a svolgere nel mondo contemporaneo. La nostra cultura occidentale è attraversata da una profonda crisi dell’uomo, da una crisi antropologica che è incapace di definire un’idea comune della natura dell’uomo. L’origine della questione antropologica è strettamente intrecciata con la questione teologica. La crisi di Dio, infatti, ha condotto alla crisi dell’uomo. Pertanto la chiesa oggi si trova nella necessità di difendere l’uomo per difendere Dio. In questo contesto il messaggio di Mazzolari assume una grande importanza: l’attenzione all’uomo diventa esperienza totalizzante che alimenta e favorisce ancor di più l’approfondimento della spiritualità presbiterale. La nostra riflessione, per ottenere una sistematicità più teologica, è stata svolta con un metodo che ha tenuto presente tre aspetti importanti per la ricerca scientifica: il campo d’indagine; il recupero della componente storica; il percorso induttivo di tipo empirico acquisito dallo stesso Mazzolari.
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Riguardo al campo di indagine scelto: esso è circoscritto a quella serie di libri e opuscoli che costituiscono il corpus fondamentale dell’intera produzione letteraria di don Primo. In seconda istanza, abbiamo adottato un lavoro di contestualizzazione per offrire un’analisi storica dei principali eventi sociali ed ecclesiali accaduti nella prima metà del ’900. La spiritualità presbiterale di Mazzolari si caratterizza per il recupero della dimensione storica. Per mettere in evidenza ciò abbiamo compiuto la scelta di partire dalla storia e dal confronto che don Primo intreccia con essa. In terzo luogo, abbiamo tenuto conto della riflessione mazzolariana che segue un percorso induttivo di tipo empirico. Essa parte dalla forza dell’intuizione più che dalla speculazione intellettuale. Questo pensiero originale si caratterizza per «l’intuizione anticipatrice piuttosto che quello dell’organizzazione sistematica del discorso»3. La meditazione del parroco di Bozzolo è un continuo sforzo di riflessione sugli eventi storici nei quali egli si trova attivamente immerso. Questa introspezione, che si fonda sull’esperienza autobiografica del suo ministero, alla luce del Vangelo e del vaglio critico dei suoi occhi e del suo cuore, diventa l’occasione per scoprire le nuove sensibilità che crescono nel cuore dell’umanità e le nuove vie d’impegno nella storia. L’obiettivo finale è far sperimentare all’uomo la grande novità dell’essere in relazione vitale con Cristo.
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ID., Don Primo Mazzolari: un uomo nella Chiesa, in Humanitas 39 (1984) 448-460.
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Bibliografia
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2. Documenti magisteriali DENZINGER H., Enchiridion Symbolorum, Definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, edizione bilingue a cura di Peter HĂźnermann, Bologna 199537; LEONE XIII, Lett. apost. Apostolicae Curae, 01.09.1986, in Acta Santae Sedis 29 (1896/97) 193-203; PIO X, Es. apost., Haerent animo, 04.08.1908, in Acta Sanctae Sedis 41 (1908) 551-560; BENEDETTO XV, Lett. enc. Humani generis, 15.06.1917, in Acta Apostolicae Sedis 9 (1917) 305-317; ID., Lett. apost. Saepe nobis, 30.11.1921, in Acta Apostolicae Sedis 13 (1921) 554-559; PIO XI, Lett. enc. Miserentissimus Redemptor, 08.05.1928, in Acta Apostolicae Sedis 20 (1928) 165-178; ID., Lett. enc. Ad catholici sacerdotii fastigium, 20.12.1935, in Acta Apostolicae Sedis 28 (1936) 5-53; ID., Lett. enc. Divini Redemptoris promissio, 19.03.1937, in Acta Apostolicae Sedis 29 (1937) 65-106.
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PIO XII, Lett. enc. Mystici Corporis, 29.06.1943, in Acta Apostolicae Sedis 35 (1943) 193-248. ID., Lett. enc. Mediator Dei, 20.11.1947, in Acta Apostolicae Sedis 39 (1947) 521-595; ID., Esort. apost. Menti Nostrae, 23.09.1950, in Acta Apostolicae Sedis 42 (1950) 657-702; ID., Disc. Si Diligis, 31.05.1954, in Acta Apostolicae Sedis 46 (1954) 313-317; ID., Disc. Magnificate Dominum, 02.11.1954, in Acta Apostolicae Sedis 48 (1956) 666-677; ID., Disc. Vous nous avez, 22.09.1956, in Acta Apostolicae Sedis 48 (1956) 711-725; ID., Discorsi per la comunità internazionale (1939-1956), Roma 1957; ID., Intervento al Sacro collegio, 02.11.1954, in Acta Apostolicae Sedis (1954) 46, 671-675; GIOVANNI XXIII, Lett. enc. Sacerdotii nostri primordia, 01.08.1959, in Acta Apostolicae Sedis 51 (1959) 545-579; ID., Cost. apost., Humanae salutis, 25.12.1968, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della S. Sede, I, Bologna 1996, 1-19; CONCILIO VATICANO II, Decr. sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, 21.11.1964, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della S. Sede, I, Bologna 1996, 683; ID., Decr. sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 18.11.1965, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della S. Sede, I, Bologna 1996, 946-1017; ID., Decr. sul ministero e la vita sacerdotale Presbyterorum ordinis,07.12.1965, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della S. Sede, I, Bologna 1996, 1158-1245; ID., Decr. su l’ufficio pastorale dei vescovi nella Chiesa Cristus Dominus, 28.10.1965, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della S. Sede, I, Bologna 1996, 712-779; ID., Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 28.10.1965, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della S. Sede, I, Bologna 1996, 816-857.
3. Opere di Mazzolari 3.1. Opere pubblicate in vita MAZZOLARI P., Perché non mi confesso, Torino 1931; ID., Il mio parroco. Confidenze di un povero prete di campagna, Brescia 1932; ID., La più bella avventura. Sulla traccia del «prodigo», Brescia 1934;
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ID., La più bella avventura. Sulla traccia del «prodigo», Bologna 19989; ID., Lettera sulla parrocchia. Invito alla discussione, Brescia 1937; ID., Lettera sulla parrocchia. Invito alla discussione, Bologna 19793; ID., Il Samaritano. Elevazioni per gli uomini del nostro tempo, Brescia 1938; ID., Il Samaritano. Elevazioni per gli uomini del nostro tempo, Bologna 19912; ID., Tra l’argine e il bosco, Brescia 1938; ID., Tra l’argine e il bosco, Bologna 19802; ID., I lontani. Motivi di apostolato avventuroso, Brescia 1938; ID., I lontani. Motivi di apostolato avventurosi, Bologna 19834; ID., La via crucis del povero, Brescia 1939; ID., Tempo di credere, Brescia 1941; ID., Tempo di credere, Bologna 19914; ID., Anch’io voglio bene al Papa, Brescia 1942; ID., Anch’io voglio bene al Papa, Bologna 19783; ID., Dietro la croce, Pisa 1942; ID., Il segno dei chiodi, Milano 1954; ID., Impegno con Cristo, Pisa 1943; ID., Impegno con Cristo, Bologna 19793; ID., La Samaritana, Alba 1944; ID., Il compagno Cristo, Milano 1945; ID., Il compagno Cristo, Bologna 1981; ID., Impegni cristiani: istanze comuniste, Mantova 1945; ID., S. Antonio Abate, Bozzolo 1945; ID., Cara terra, Pisa 1946; ID., Con Cristo, Milano 1947;
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ID., Accettiamo la battaglia, Milano 1947; ID., La grande prova, Mantova 1949; ID., Al di là delle sbarre c’è il fratello, Cremona 1949; ID., Dietro le sbarre. La parola agli ultimi, Vicenza 1977; ID., Ho visto il Delta, Bologna 1952; ID., Ripresa, Roma 1952; ID., La pieve sull’argine, Milano 1952; ID., Credere nella redenzione, Cremona 1953; ID., La parola che non passa, Vicenza 1954; ID., Tu non uccidere, Vicenza 1955; ID., La parrocchia, Vicenza 1957; ID., I preti sanno morire, Padova 1958.
3.2. Opere pubblicate dopo la morte ID., La parola ai poveri, a cura di R. Colla, Vicenza 1960; ID., Zaccheo, Vicenza 1960; ID., Della tolleranza, Vicenza 1960; ID., Della fede, Vicenza 1961; ID., Diario di una primavera, Brescia 1961; ID., Il Natale, a cura di R. Colla, Vicenza 1963; ID., La Pasqua, a cura di R. Colla, Vicenza 1964; ID., Le tentazioni dello scrittore, a cura di R. Colla, Vicenza 1965; ID., La resistenza dei cristiani, a cura di R. Colla, Vicenza 1965; ID., Cattolici e comunisti, a cura di R. Colla, Vicenza 1966; ID., La Chiesa il Fascismo e la guerra, a cura di L. Bedeschi, Firenze 1966; ID., L’uomo di nessuno, Brescia 1966;
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ID., La pieve sull’argine e L’uomo di nessuno, Bologna 19783; ID., Preti così, a cura di V. Dondeo, Brescia 1966; ID., Preti così, a cura di P. Piazza, Bologna 19803; ID., Chiesa casa del Padre. Nostro fratello Giuda, a cura di R. Colla, Vicenza 1967; ID., Rivoluzione cristiana, a cura di R. Colla, Vicenza 1967; ID., Prediche ai miei parrocchiani, a cura di R. Colla, Vicenza 1967; ID., I giovani e la guerra, a cura di R. Colla, Vicenza 1968; ID., Vedersi morire, a cura di R. Colla, Vicenza 1968; ID., Ricchi e poveri, Vicenza 1971; ID., Lettere a vescovi, a cura di R. Colla, Vicenza 1972;. ID., Non tradiremo i poveri, a cura di R. Colla, Vicenza 1972; ID., Lettere al mio parroco, a cura di R. Colla, Vicenza 1974; ID., Il mio vescovo mons. Bonomelli, a cura di R. Colla, Vicenza 1974; ID., Quasi una vita. Lettere a Guido Astori (1908-1958), a cura di G. Astori, Vicenza 1974; ID., Diario (1905-1926) e Lettere a Vittoria Fabrizi de Biani, a cura di A. Bergamaschi, Bologna 1974; ID., La nostra speranza, a cura di M. Papini, Vicenza 1975; ID., Segni dei tempi, a cura di R. Colla, Vicenza 1975; ID., Uomo dove sei? Uomo dove vai? La ricerca dell’identità, a cura di G. Badini, I, Roma 1976-1977; ID., Ai preti, a cura di R. Colla, Vicenza 1977; ID., Dietro le sbarre. La parola agli ultimi, La Locusta, Vicenza 1977; ID., Discorsi, a cura di P. Piazza, Bologna 1978; ID., Il mistero della salvezza, a cura di R. Colla, Vicenza 1978; ID., Uomo dove sei? Uomo dove vai? La ricerca dell’identità, a cura di G. Badini, II, Roma 1978;
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ID., Il coraggio del «confronto» e del «dialogo», a cura di P. Piazza, Bologna 1979; ID., Quasi una vita. Lettere a Guido Astori (1908-1958), a cura di G. Astori, Bologna 1979; ID., Scritti Critici, a cura di R. Colla, Vicenza 1981; ID., Emmaus, a cura di R. Colla, Vicenza 1981; ID., Il cardinal Ferrari, a cura di R. Colla, Vicenza 1982; ID., Parole ai politici, a cura di R. Colla, Vicenza 1983; ID., Dietro la croce e Il segno dei chiodi, Bologna 1983; ID., Diario/2 (1926-1934), a cura di A. Bergamaschi, Bologna 1984;; ID., Perché non mi confesso? La Samaritana. Zaccheo, Bologna 1986; ID., Un pane per 24 ore. Meditazioni, a cura di M. R. Spingardi, Bologna 1990; ID., Primo Mazzolari un grande protagonista della vicenda umana e religiosa del nostro tempo, a cura di A. Chiodi, Cinisello Balsamo 1990; ID., La carità del papa, Pio XII e la ricostruzione dell’Italia (1943-1953), Cinisello Balsamo 1991. ID., Don Primo «Fratello Ignazio» e Sorella Maria, a cura di P. Piazza, Bozzolo 1991; ID., Lettere alla Signora Maria (Maria Nardi Traldi), a cura di L. Dall’Asta, Bozzolo 1994; ID., Obbedientissimo in Cristo. Lettere al vescovo (1917-1959), Cinisello Balsamo 19962; ID., Quando la patria chiama. Don Mazzolari, Bozzolo, la guerra, a cura di M. T. Balestreri, Bozzolo 1998; ID., Per una Chiesa un stato di missione. Scritti sulla parrocchia, a cura di G. Campanini, Fossano 1999; ID., Ho paura delle mie parole, a cura di D. Bettoni, Bologna 2000; ID., Diario I (1905-1915), a cura di A. Bergamaschi, Bologna 1997; ID., Diario II (1916-1926), a cura di A. Bergamaschi, Bologna 1999; ID., Diario III/A (1927-1933), a cura di A. Bergamaschi, Bologna 2000; ID., Diario III/B (1934-1937), a cura di A. Bergamaschi, Bologna 2000;
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ID., Diario IV (1938-25 aprile 1945), a cura di A. Bergamaschi, Bologna 2006; ID., Il ruolo dei laici nella Chiesa di Dio in quattro lettere dalla canonica, in Impegno 2 (2003), 11-19; ID., Discorsi, a cura di P. Trionfini, Bologna 2006; ID., Scritti sulla pace e sulla guerra, a cura di G. Formigoni e M. De Giuseppe, Bologna 2009.
3.3. Raccolte principali del materiale giornalistico Adesso (1949-1962), 4 voll. (riproduzione fotografica integrale a cura di Dall’Asta L. e Vaggi G.), Bologna 1979; Documenti: 68 articoli in collaborazione col quotidiano cattolico «L ‘Eco di Bergamo» (I Quaderni della Fondazione 4), Bozzolo 1989; Documenti: 80 articoli in collaborazione col settimanale diocesano di Cremona «La Vita Cattolica» (I Quaderni della Fondazione 5), Bozzolo 1990; Documenti: 67 articoli in collaborazione col quotidiano cattolico «II Nuovo Cittadino» di Genova (I Quaderni della Fondazione 6), Bozzolo 1991; Documenti: 169 articoli pubblicati sul quotidiano L’Italia di Milano (I Quaderni della Fondazione 8-9), Bozzolo 1993.
4. Gli Studi Gli studi su don Primo Mazzolari vengono elencati secondo la successione alfabetica degli autori, distinguendo i libri e gli articoli di rivista. Attualità di Mazzolari, Roma 1981; Don Primo Mazzolari, L‘uomo, il cristiano, il prete, Milano 1986; I cent’anni di don Primo Mazzolari (1890-1990), in Palestra del clero 69 (1990) 2; Speciale don Mazzolari, Testimonianze bresciane, in Città e dintorni 4 (1990) 23; CAMPANINI G. – TRUFFELLI M. (curr.), Mazzolari e «Adesso». Cinquant’anni dopo, Brescia 2000; ACERBI A., Osservazioni sulla formula ‘essentia et non gradu tantum’ nella dottrina cattolica sul sacerdozio, in Lateranum 47 (1981) 98-101;
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ALBERTINI S., Ricordando don Primo Mazzolari (a 25 anni dalla morte), in Charitas 58 (1984) 6, 178-182; 211-215; 242-244; 275-278; ID., Don Primo Mazzolari e il Fascismo (1921-1943), Bozzolo 1988; ALLEGRI M., Mazzolari: Tempo di credere, in Aggiornamenti Sociali 31 (1980) 449-464; ANDREOTTI G., L’insegnamento di un prete non politico: la politica concorre a dar veridicità temporale alla verità Cristiana, in Palestra del clero 69 (1990) 101-107; ANGELERI M., Rosminianesimo a Milano. Il caso di Padre Gazzola, Milano 2001; ANONIMO, Paterno Spirito. Pensieri, Perino (PC) 1997; ANTON A., Lo sviluppo della dottrina sulla Chiesa nella teologia dal Vaticano I al Vaticano II, in L’ecclesiologia dal Vaticano I al Vaticano II, Brescia 1973, 27-86; ID., El Misterio de la Iglesia. Evolucion historica de las ideas eclesiologicas, il «De la apologetica de la Iglesia-sociedad a la teologia de la Iglesia-misterio en el Vaticano II y en el posconcilio», Madrid -Toledo 1987. ANTONETTI N., Primo Mazzolari. e il problema del Comunismo: spunti per una ricerca, in Humanitas 2 (1981) 139-165; ID., Primo Mazzolari. e il problema del Comunismo. Spunti per una ricerca, in Humanitas 2 (1981) 14-30; ASSI E., Don Primo Mazzolari. Prete della Chiesa, a cura di E. Fontana, Alessandria 1990; ASTORI G., Il mio amico don Primo Mazzolari, Vicenza 1971; BALLESTRERO A., Il fondamento sacramentale del sacerdozio ministeriale, in La Rivista del clero italiano 61 (1980) 931-935; BARONI C., Una continua tensione verso i lontani, in L’Osservatore Romano 124 (1984) 114, 5; BARRA G., Mazzolari: un profeta obbediente, Torino 1966; BATTELLI G., Clero secolare e società italiana tra decennio napoleonico e primo novecento. Alcune ipotesi di rilettura, in M. ROSA (cur.), Clero e società nell’Italia contemporanea, Bari 1992, 97-123; BEDESCHI L., La Chiesa, il fascismo, la guerra, Firenze 19662; ID., Don Minzoni, il prete ucciso dai fascisti, Milano 1973; ID., L’ultima battaglia di don Mazzolari «Adesso» (1949-1959), Brescia 1990;
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RELLE
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Sommario
Abbreviazioni e sigle
5
Introduzione
9
Capitolo I
La vicenda umana, presbiterale e culturale: L’“apostolato avventuroso” di don Primo Mazzolari 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Introduzione L’infanzia La formazione in Seminario I primi anni di ministero sacerdotale Il ministero a Cicognara e i problemi con il fascismo L’arrivo a Bozzolo: l’inizio di una lunga stagione di vita L’esordio della stagione letteraria: “La più bella avventura” 7.1. Il contenuto dell’opera 7.2. La ricezione dell’opera 8. Opere e problematiche prima della guerra 9. La seconda guerra mondiale e la Resistenza 9.1. Le opere dei primi anni della guerra 9.2. L’esperienza del movimento guelfo 9.3. L’armistizio, i partigiani di Bozzolo e la clandestinità 10. Il periodo post-bellico 11. “Adesso” 12. La pieve sull’argine 13. Ripresa di “Adesso” 14. Nuovi interventi del s. Uffizio 14.1. Il contesto politico e il nuovo “Adesso” 14.2. L’intervento del s. Uffizio 15. L’ultimo periodo e la morte
15 15 16 16 25 27 30 31 31 33 34 38 38 41 42 43 44 47 48 49 49 49 50
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Capitolo II
Lo sviluppo della coscienza presbiterale in Mazzolari nella Chiesa e nella società italiana del suo tempo 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Introduzione La Chiesa italiana di fronte alla prima guerra mondiale La Chiesa italiana e il Fascismo La Chiesa italiana di fronte alla seconda guerra mondiale Il nuovo ordine cristiano di Pio XII La Chiesa italiana negli anni cinquanta
53 53 53 68 85 102 110
Capitolo III
La figura di prete vissuta, pensata e proposta nelle opere di Mazzolari 1. Introduzione 2. Una felice convergenza 3. La Trama evangelica 3.1. “Il Prodigo ovvero l’attesa” 3.1.1. “La più bella avventura” 3.1.2. “I Lontani” 3.1.3. “Lettera sulla Parrocchia” 3.2. Il Samaritano ovvero l’incontro 3.2.1. “Il Samaritano” 3.2.2. “Anch’io voglio bene al Papa” 3.2.3. “Impegno con Cristo” 3.3. Emmaus ovvero l’accompagnamento discreto 3.3.1. “Tra l’argine e il bosco” 3.3.2. “La Via crucis del povero” 3.3.3. “Tempo di credere” 3.3.4. “Dietro la croce” e il “Segno dei chiodi” 3.3.5. “La Samaritana” 3.3.6. “Il compagno Cristo” 3.3.7. “La pieve sull’argine” 3.3.8. “La Parrocchia” 3.3.9. “I preti sanno morire” 3.4. I tratti essenziali della figura del sacerdote 3.5. Aspetti particolari 3.5.1. Il Servizio della Parola 3.5.2. Il culto della Vita 3.5.3. Una missione senza confini 3.5.4. Nella concretezza del tempo presente 3.5.5. Il prete come parroco
119 119 120 125 126 126 127 130 133 133 134 136 138 138 139 140 142 144 145 146 148 151 152 155 155 158 160 160 161
Capitolo IV
L’armonizzazione tra il ministero pastorale e la vita spirituale: l’originalità della proposta di Mazzolari 1. 2. 3. 4.
Introduzione Un’originale spiritualità La “forma” della fede come compito della spiritualità del presbitero La coesione della linea ecclesiologica della missione con la linea cristologica della consacrazione 5. Il cuore del prete: la cifra sintetica della formazione spirituale del presbitero
167 167 168 176 188 195
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5.1. Il rapporto tra la formazione del cuore del prete in Mazzolari e la devozione al S. Cuore 6. L’implicazione della formazione del cuore: la sfida attuale
203 210
Conclusione
221
Bibliografia
229
253