La parrocchia nella diocesi di catania prima e dopo il concilio di trento (monografia)

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DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS 32 Ricerche per la storia delle diocesi di Sicilia 9


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In copertina: Giacinto Platania, Catania. Eruzione dell’Etna 1669. Affresco nella sacrestia della cattedrale, particolare. © copyright 2017 Studio Teologico S. Paolo 95126 Catania - viale O. da Pordenone, 24 tel. +39 095.73.35.048 − 095.33.33.31 − 095.33.31.46 tel. e fax +39 095.22.27.75 Finito di stampare nel mese di Aprile 2017 da Grafiser s.r.l. 94018 Troina (En) Tel. 0935 657813 - Fax 0935 653438 www.grafiser.eu


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ADOLFO LONGHITANO

LA PARROCCHIA NELLA DIOCESI DI CATANIA Prima e dopo il concilio di Trento

Seconda edizione riveduta e accresciuta

Studio Teologico S. Paolo – Catania Edizioni Grafiser – Troina 2017


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PRESENTAZIONE

Scorrendo i nomi dei vescovi miei predecessori, che si sono succeduti alla guida della Chiesa di Catania, mi sorge spontanea alla mente l’immagine di una comunità viva, che annunzia da secoli la “buona notizia” della salvezza con una propria identità, rimasta ben distinta nel tempo, nonostante i continui mutamenti della storia. Questa sensazione prende forma quando cerco di approfondire il modello di azione pastorale svolta dai singoli vescovi, come risposta alle concrete esigenze della società. Le condizioni sociali, economiche e culturali obbligano a formulare determinati progetti e ad assumere precisi atteggiamenti, che incidono nella modalità dell’annunzio del messaggio evangelico e contribuiscono a formare l’identità di una Chiesa. In questo contesto va individuata e approfondita l’identità della Chiesa di Catania. All’inizio del mio ministero pastorale in diocesi, un misto di curiosità e di interesse mi aveva spinto a leggere il volume di mons. Adolfo Longhitano, edito nel 1977, nel quale veniva presa in esame la particolare organizzazione della cura delle anime nella diocesi di Catania, che aveva indotto il vescovo a considerarsi allo stesso tempo unico parroco di tutta la diocesi. Il tema trattato dall’Autore riguardava un particolare aspetto dell’ordinamento diocesano, ma mi sono reso conto che, data la natura dell’argomento e l’ampiezza del suo sviluppo, era stata scritta una storia della diocesi. Mons. Longhitano dopo la pubblicazione di quel volume aveva continuato le sue ricerche, includendo altri aspetti della vita e delle istituzioni diocesane e cittadine. Quando perciò mi ha comunicato che era sua intenzione pubblicare una seconda edizione della sua prima opera, l’ho incoraggiato a portare a compimento il suo progetto, certo che ci avrebbe offerto altri elementi per definire l’identità della nostra Chiesa e comprendere il tipo di azione svolta in una società così vivace e variegata come quella di Catania. Oggi sono lieto di presentare la seconda edizione del volume, che non è una semplice ristampa del precedente, ma un suo totale rifacimento, visto che l’Autore ha deciso di considerarlo come un quadro generale nel quale far confluire gli studi e le ricerche compiute nel corso dei successivi decenni. 5


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Leggendo le pagine di questo volume, è possibile comprendere alcuni snodi storici che hanno contrassegnato l’azione pastorale dei vescovi e la presenza della Chiesa nella società catanese. Se la comunità cristiana di oggi si pone in continuità con quella dei secoli passati, la sua storia diventa una grande maestra in grado di dare preziosi insegnamenti per il presente e per il futuro. Mons. Longhitano ha già pubblicato tre ampi volumi: Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania: I e II, 1595 – 1890, Giunti, Firenze 2009; III, 1904 – 1937, Grafiser Troina, 2015. Essi accompagnano egregiamente la presente pubblicazione. Le decennali ricerche dell’Autore mettono a disposizione degli studiosi una ricca miniera di contributi che si rivelano utili già nel presente. Lo saranno certamente anche nel futuro, perché potranno fornire stimolo e suggerimenti per ulteriori approfondimenti circa la storia e la vita della comunità ecclesiale, ed anche civile, catanese. Per questo sono particolarmente lieto ed onorato di poter rinnovare al carissimo mons. Longhitano cordiali sentimenti di apprezzamento e di gratitudine. Catania, 5 febbraio 2017 † Salvatore Gristina Arcivescovo

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PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Ritengo doveroso spiegare ai lettori i motivi che mi hanno indotto a pubblicare la seconda edizione di un’opera che quando apparve, nel 1977, sembrava avere esaurito una ricerca. Il corredo di documentazione storica poteva indurre a credere che l’arco di tempo prefisso — «prima e dopo il concilio di Trento» — fosse stato coperto interamente. Partendo da queste premesse, il volume potrebbe essere considerato la semplice ristampa di un’opera non più reperibile nelle librerie. Nella prima edizione mi ero proposto di delineare la storia della parrocchia nella diocesi di Catania, ma in realtà descrivevo a grandi linee l’ordinamento di una diocesi dalla sua rifondazione in epoca normanna fino alla prima metà del secolo scorso. Nella ricerca avevo privilegiato alcuni punti nodali della storia ecclesiastica di Catania: il periodo normanno, il concilio di Trento, le difficoltà incontrate per attuare le sue norme e quelle del Codice di diritto canonico promulgato nel 1917. Nei decenni successivi ho avuto la possibilità di integrare la mia indagine estendendo la ricerca ad altri fondi documentari, ad alcuni periodi intermedi dell’arco di tempo preso in esame e ad altri personaggi, che nella prima edizione di quest’opera apparivano solamente abbozzati. Inoltre ho avuto l’opportunità di mettere a confronto la situazione della diocesi di Catania con quella di altre diocesi della Sicilia. Nel progettare questa seconda edizione, mi sono prefisso di riportare all’interno dello schema d’origine gli studi e gli approfondimenti fatti nel corso di questi decenni, per dare una visione più ricca della storia diocesana e per facilitare il reperimento di saggi fatti in circostanze diverse e pubblicati in monografie, riviste, atti di convegni, scritti in onore o in memoria, ecc. La concretizzazione di questo progetto spiega il frequente riferimento ai miei scritti, che non può essere giudicato come fastidiosa tendenza autoreferenziale, ma come semplice indicazione di piste di ricerca per chi vuole approfondire temi particolari, che all’interno di quest’opera potevano essere solamente accennati. 7


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Il volume ha conservato l’impianto originale, la trattazione dei diversi temi è stata rivista e rielaborata con l’ampliamento dell’introduzione e l’aggiunta di due capitoli, la bibliografia è stata aggiornata. Ho tenuto conto dei suggerimenti e dei rilievi che nel corso degli anni mi hanno fatto maestri ed amici, ai quali va un grato ricordo: Gabriele De Rosa, Antonio Cestaro, Salvatore Fodale, Giuseppe Giarrizzo, Horst Enzensberger, Antonio García y García... A buon diritto posso considerare questo volume come il punto di arrivo di un lungo cammino iniziato quasi per caso negli anni giovanili e portato avanti con passione per il resto della mia vita. A. L.

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PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Sono stato spinto ad iniziare questo studio dalla singolare organizzazione esistente nella diocesi di Catania fino al 1926: il vescovo amava fregiarsi del titolo di «unico parroco della diocesi» e considerava i sacerdoti in cura d’anime come suoi vicari cooperatori. Se questa situazione anomala è riuscita a sopravvivere fino ai nostri tempi, nonostante le norme del concilio di Trento, gli interventi della s. Sede e la promulgazione del Codice di diritto canonico, devono esistere delle particolari condizioni ambientali e culturali meritevoli di essere studiate attentamente. La ricerca ha dimostrato la sua validità soprattutto nello studio dei documenti del periodo tridentino. Nel momento in cui la Chiesa ebbe l’occasione di una radicale riforma, in Sicilia si trovò dinanzi una struttura così rigida e così solida da non riuscire neppure a scalfire. Da ciò la convinzione che lo studio superava l’interesse ristretto del canonista e dello studioso di storia degli istituti giuridici della Chiesa, per diventare una riflessione sulla Chiesa stessa, sul peso che esercitano determinate strutture nella sua vita e nella sua missione. In ogni caso dava la possibilità di conoscere, attraverso una documentazione inedita, un periodo poco noto di storia della Chiesa siciliana. Non mi risulta infatti che siano stati pubblicati altri studi sulla riforma tridentina in Sicilia. Perciò, tra l’altro, non è stato possibile fare confronti con la situazione delle altre diocesi siciliane*. Ringrazio gli amici: p. Giovanni Messina archivista della Curia per l’aiuto nella ricerca e nell’interpretazione dei documenti, il prof. Vito Librando dell’Università di Catania per i consigli e gli aiuti, lo scultore Domenico Girbino per la parte grafica, il geometra Armando De Leo per la cartina di Catania. A. L. * L’archivio della curia e l’archivio capitolare di Catania sono attualmente in corso di riordinamento. Alcuni volumi hanno la numerazione manuale, altri quella meccanica. Quando c’era abbiamo preferito quella meccanica. Nella curia di Catania fino al 1582 il nuovo anno inizia col 25 marzo, ab incarnatione Domini, secondo lo stile fiorentino. L’indizione in uso in Sicilia è quella greca o costantinopolitana, che inizia il 1° settembre. I Tutt’Atti iniziano da questo giorno del mese e chiudono con il 31 agosto.

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SIGLE E ABBREVIAZIONI

{...} = Lacuna nel documento { } = Integrazione del testo ACC = Archivio del Capitolo Cattedrale, Catania Arch. Concist., Acta Camerarii = ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Archivio Concistoriale, Acta Camerarii Arch. Concist., Acta Misc. = ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Archivio Concistoriale, Acta Miscellanea Arm. XXXVII = ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Armadio XXXVII Arm. XLII = ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Armadio XLII ASA = Archivio del Seminario Arcivescovile, Catania ASD = Archivio Storico Diocesano, Catania ASP = Archivio di Stato, Palermo ASV = Archivio Segreto Vaticano ASSO = Archivio Storico per la Sicilia Orientale, periodico della Società di Storia Patria della Sicilia Orientale, Catania dal 1904 BE = Il Bollettino Ecclesiastico dell’Archidiocesi di Catania, dal 1895 CIC = Codex Iuris Canonici Conc. Oec. Decr. = Conciliorum oecumenicorum decreta, Bologna 1991 Congr. Concilio, Libri Litter. = ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Congregazione del Concilio, Libri Litterarum Congr. Concilio, Positiones = ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Congregazione del Concilio, Positiones DBI = Dizionario Biografico degli Italiani, Roma dal 1960 DDC = Dictionnaire de droit canonique, 7 vol., Paris 1935-1965 DIP = Dizionario degli Istituti di Perfezione, 10 vol., Roma 1974-2003 EC = Enciclopedia cattolica, 12 voll., Città del Vaticano {1949-1954} Episcopati = ARCHIVIO STORICO DIOCESANO, CATANIA, Episcopati. GB = ARCHIVIO DEL CAPITOLO CATTEDRALE, CATANIA, Giuliana Basile Libri Decret. =ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Congregazione del Concilio, Libri Decretorum MAD = ARCHIVIO STORICO DIOCESANO, CATANIA, Miscellanea atti diversi 11


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Mss A 21 = BIBLIOTECA CIVICA, CATANIA, Manoscritto A 21 NDI = Novissimo Digesto Italiano, 20 voll., Torino 1968-1975 Necrologium = ARCHIVIO DELLA COLLEGIATA SANTA MARIA DELL’ELEMOSINA, CATANIA, Necrologium. Hic adnotantur nomina... defunctorum huius insignis Regiae Basilicae Collegiatae Note = ARCHIVIO STORICO DIOCESANO, CATANIA, Note Prìncipi = ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Segreteria di Stato, Prìncipi Prot. Regno = ARCHIVIO DI STATO, PALERMO, Protonotaro del Regno Real Cancelleria = ARCHIVIO DI STATO, PALERMO, Real Cancelleria Reg. Lat. = ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Registri Lateranensi Reg. Vat. = ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Registri Vaticani Relazioni, I-II = Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1595-1890), a cura di A. Longhitano, Firenze-Catania 2009 Relazioni, III = Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (19041937), a cura di A. Longhitano, Troina-Catania 2015 Sec. Brev. Reg. = ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Segreteria dei Brevi, Registra Segr. Stato, Napoli = ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Segreteria di Stato, Napoli Trib. Real Patr. = ARCHIVIO DI STATO, PALERMO, Tribunal del Real Patrimonio TA = ARCHIVIO STORICO DIOCESANO, CATANIA, Tutt’Atti TAV = ARCHIVIO STORICO DIOCESANO, CATANIA, Tutt’Atti in corso di visita Visite = ARCHIVIO STORICO DIOCESANO, CATANIA, Visite pastorali Volume di lettere = ARCHIVIO DEL CAPITOLO CATTEDRALE, CATANIA, Volume di lettere per la lite del maestro cappellano col maestro delle cerimonie.

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INTRODUZIONE

LA DIOCESI DI CATANIA PRIMA DEL CONCILIO DI TRENTO

1. L’analisi delle condizioni socio-politiche e religiose in cui si trovava la Sicilia nella prima metà del secolo XVI, deve fare un necessario riferimento all’occupazione normanna del sec. XI e alla successiva strutturazione del Regnum Siciliae. Nonostante il tempo trascorso, il quadro generale nel quale operavano le forze sociali e le stesse strutture politiche ed ecclesiastiche, era rimasto sostanzialmente invariato. La dominazione araba nella Sicilia aveva quasi completamente cancellato le tracce delle precedenti istituzioni1. I normanni si trovarono nella necessità di strutturare quasi ex novo uno stato dal punto di vista politico e religioso2. 1 Per la Sicilia non è possibile ripercorrere a ritroso la storia della rete parrocchiale delle campagne e delle città, fino a giungere al modello che si affermò dopo la diffusione del cristianesimo nelle regioni meridionali dell’Italia o al centro Nord. In Sicilia due parentesi significative, quella bizantina (sec. VIII) e quella islamica (sec. IX), hanno interrotto il collegamento con l’organizzazione cristiana delle origini. Questa particolare situazione neppure permette di affrontare in modo unitario la trattazione dell’ordinamento della cura d’anime nei territori del Regnum Siciliae normanno-svevo. Per l’ordinamento delle comunità cristiane nelle diverse regioni italiane si vedano soprattutto: G. FORCHIELLI, Scritti di storia del Diritto Ecclesiastico, Bologna 1991, volume che riunisce in edizione anastatica i saggi del noto storico sul tema; Le istituzioni ecclesiastiche della «Societas christiana» nei secoli XI-XII. Diocesi, pievi e parrocchie. Atti della sesta Settimana internazionale di studio, Milano 17 settembre 1974, Milano 1977; Pievi e parrocchie in Italia nel Basso Medioevo (sec. XIII-XV). Atti del VI Convegno di Storia della Chiesa in Italia, Firenze, 21-25 settembre 1981, 2 voll., Roma 1984 e l’ampia bibliografia citata in questi volumi. 2 Michele Amari fa notare più volte che i normanni non cambiarono radicalmente l’organizzazione e le strutture della Sicilia, ma si servirono spesso di quelle esistenti. Questa osservazione può essere accettata solo per certi aspetti tecnici e particolari. È fuori discussione che l’organizzazione generale dello Stato, sia politica che religiosa, fu innovata secondo i criteri dei vincitori (M. AMARI, Storia dei musulmani di Sicilia, a cura di C. A. Nallino, Catania 1933; cfr. sull’argomento: I. LA LUMIA, Storie siciliane, a cura di F. Giunta, I, Palermo 1969, 162-170). Le riforme nella struttura del regno di Sicilia apportate da Federico II e da Carlo d’Angiò, più che cambia-

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Introduzione

Si trattò di una ristrutturazione fatta secondo i princìpi e la convenienza dei vincitori3. La popolazione era quanto mai varia: arabi, greci, latini, normanni... Ruggero d’Altavilla adottò il principio di mantenere per ognuno di questi gruppi le leggi, i costumi, la religione, e alcune strutture minime ad esse collegate. Perciò entrarono a far parte della vita e della cultura siciliana gli elementi più vari e più disparati4. Una forte e intelligente autorità centrale riuscì a creare un difficile equilibrio fra le diverse forze sociali che costituivano la realtà siciliana. I normanni, pur operando in epoca e nell’ambiente feudale, dimostrarono di conoscere le debolezze di questo sistema. Le modifiche da loro apportate ai princìpi tradizionali del feudalesimo, consentirono la formazione di una solida struttura politica5. re l’ordinamento stabilito dai normanni, lo svilupparono rispondendo a particolari situazioni storiche e secondo concezioni soggettive. La mentalità stessa del tempo esigeva dai nuovi re e sovrani di confermare con giuramento gli statuti e i privilegi delle città e dei baroni. 3 F. CHALANDON, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, II, Paris 1907, 494-495; E. PONTIERI, «Prefazione» a C. MALATERRA, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, in Rerum italicarum scriptores, Bologna 1928, VI; S. TRAMONTANA, La monarchia normanna e sveva, Torino 1986, 96-102. 4 R. GREGORIO, Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino ai presenti, a cura di A. Saitta, I, Palermo 1972, 292-294; I. LA LUMIA, Storie siciliane, cit., I, 154-157; F. CHALANDON, Histoire, cit., II, 709-710. 5 «Troviamo... nella contea di Sicilia caratteristiche feudali molto simili a quelle rinvenibili nei territori continentali occupati da normanni. Tuttavia la stessa contea presenta in campo feudale altri elementi che esclusivamente le appartengono e che servono a distinguerla in maniera decisa dall’Italia meridionale... In Sicilia il collegamento fra il conte e i baroni era più stretto: e se è vero che le fonti attestano per lo più concessioni di pieni poteri da parte del primo, ciò tuttavia non esclude, che il conte stesso avesse la potestà di riservarsi alcune competenze. Il che sta a dimostrare come i vassalli dipendessero e fossero controllati dal conte» (M. CARAVALE, Il regno normanno di Sicilia, Milano 1966, 294-297). Per la confluenza di modelli giuridici franco-normanni, romano-bizantini e arabi nell’ordinamento dato alla Sicilia dal conte Ruggero e per il particolare rapporto che si stabilì fra la Sicilia e le regioni continentali del Regnum normanno-svevo si vedano anche C. D. FONSECA, L’organizzazione ecclesiastica dell’Italia normanna tra l’XI e il XII secolo: i nuovi assetti istituzionali, in Le istituzioni ecclesiastiche della «Societas christiana», cit., 327356; G. CATALANO, Sistemi giuridici del «Regnum Siciliae», in Chiesa diritto e ordinamento della «Societas christiana» nei secoli XI e XII. Atti della nona Settimana internazionale di studio. Mendola, 28 agosto – 2 settembre 1983, Milano 1986, 298-310.

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Introduzione

1.1. Il modello di riferimento per organizzare le terre conquistate fu quello della cristianità o della respublica christiana6, che l’Europa si era dato dopo il crollo dell’impero romano e la formazione dei regni barbarici. Anche l’ordinamento delle diocesi siciliane, ripristinato dopo circa tre secoli di dominazione islamica, si ispirò al modello della cristianità. Le circostanze della conquista, il modello giuridico scelto dai conquistatori, le situazioni storiche in cui fu portata a termine la loro opera spiegano la particolare configurazione della cristianità siciliana, che da sempre ha richiamato l’attenzione degli storici per alcune sue peculiarità che hanno pochi riscontri nelle altre regioni europee7. La campagna, che nell’arco di un trentennio riportò la Sicilia dentro i confini dell’Europa cristiana e occidentale, si svolse in uno dei momenti più critici della cristianità medievale. Gregorio VII fu eletto nel 1073, quando i normanni avevano già conquistato diverse città della Sicilia. Due anni dopo fu reso pubblico il Dictatus papae e nel 1077 Gregorio VII accolse Enrico IV penitente nel castello di Ca6 Questo modello ideale, più che una realtà politica o geografica, può ritenersi caratterizzato dai seguenti princìpi: a) alleanza del potere temporale con lo spirituale che comportava la sovrapposizione dei due ordinamenti, il mutuo sostegno, lo scambio dei ruoli e la perdita per ognuno di essi della propria identità; b) accoglienza — anche se in modo strumentale ai propri interessi — della visione cristiana di Dio creatore e ordinatore dell’universo e di una concezione unitaria e gerarchica della legge, che parte dalla lex aeterna per giungere fino alle norme positive e consuetudinarie; c) concezione dell’autorità umana come riflesso dell’autorità divina, premessa per l’affermazione e lo sviluppo della teocrazia e dell’assolutismo regio; d) traduzione in norme giuridiche dei valori etici del cristianesimo ritenuti utili a garantire e rafforzare la propria conservazione; e) affermazione di una religione civile di matrice cristiana a discapito della pratica della fede, che suppone la libera e personale adesione al messaggio evangelico (A. LONGHITANO, Istituzioni di cristianità a Catania nel ’400, in Synaxis 24 [2006] 112-125). 7 E. CASPAR, Die Gründungusurkunden der sicilischen Bistümer und Kirchenpolitik Graf Roger I (1082-1098), ristampato in appendice a Roger II (1101-1154) und die Gründung der normannisch-sicilischen Monarchie, Innsbruck 1904. La traduzione italiana di questo volume, pubblicata da Laterza nel 1999, non riporta questa appendice. E. JORDAN, La politique ecclésiastique de Roger Ier et les origines de la légation sicilienne, in Le Moyen âge, série II, 24 (1922) 237-273; 25 (1923) 32-65; F. CHALANDON, Histoire, cit., I, 341-347; S. TRAMONTANA, La Sicilia dall’insediamento normanno al Vespro (1061-1282), in Storia della Sicilia, diretta da R. Romeo, III, Napoli 1980, 177-304; Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna, a cura di G. Zito, Torino 1995.

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Introduzione

nossa. Sette anni più tardi l’imperatore, per vendicare l’umiliazione di Canossa, occupò Roma e costrinse Gregorio VII a rifugiarsi al Castel Sant’Angelo. Per la sua liberazione fu necessario l’intervento di Roberto il Guiscardo, che accorse per mantenere gli impegni assunti con l’investitura ricevuta da Nicolò II nel 10598. 1.2. Lo storico che legge la narrazione della conquista del conte Ruggero all’interno delle alterne vicende della lotta per le investiture fra il papa e l’imperatore, ha l’impressione di trovarsi in un mondo diverso. I normanni iniziarono la conquista della Sicilia mentre portavano a compimento l’occupazione delle regioni dell’Italia meridionale soggette all’impero di Bisanzio. Dalla Calabria sbarcarono nel 1061 sulla costa ionica e sulla costa tirrenica di Messina. Dopo aver occupato la città, si spinsero verso l’interno e le altre città poste sulle due sponde. Catania fu conquistata nell’estate del 1071 in quattro giorni. Roberto e Ruggero in precedenza avevano stretto alleanza con l’emiro di Catania Ibn-at-Tumnah (secondo le fonti normanne, Betumen o Valtumine) che voleva vendicarsi degli altri emiri rivali (1061)9. Probabilmente Ruggero si presentò come amico ed alleato al successore di Ibn-at-Tumnah, che era già morto, e non fece molta fatica ad occupare la città10.

8 A. FLICHE, La riforma gregoriana e la riconquista cristiana (1057-1123), in Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche e V. Martin, trad. it., VIII, Torino 1972, 30-31, 219; S. TRAMONTANA, La monarchia, cit., 77-83. 9 G. MALATERRA, De rebus gestis, cit., lib. II, cap. IV, 30; AMATO DI MONTECASSINO, Storia dei normanni, in Fonti per la storia d’Italia, Roma 1935, lib. V, cap. VIII, 229-230. I due storici normanni raccontano l’episodio con alcune varianti (M. AMARI, Storia dei musulmani, cit., III, 64). 10 Così viene descritta la conquista di Catania da Amato di Montecassino: «Lo duc avoit a governar lo exercit; et li conte Rogier s’en va a la cité de Catainne; et à li quatre jor la cité se rendi. Et incontinent comanda que soit faite la rocche, et comanda que soit faite l’eglise a l’onor de saint Gregoire. Et misit en la roche xl. homes qui la guardassent et refrenassent la male volenté de cil de la cité» (AMATO DI MONTECASSINO, Storia de’ normanni, cit., lib. VI, cap. XIV, 276). Il Malaterra non accenna alla conquista di Catania. Dal suo racconto si dovrebbe dedurre che Ruggero l’abbia considerata come sua da quando l’emiro gli si era sottomesso. L’Amari ritiene che lo storico normanno abbia voluto passare sotto silenzio questo episodio che non poteva essere considerato molto onorifico per il conte (M. AMARI, Storia dei musulmani, cit., III, 118-119).

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Introduzione

La facilità della conquista avrebbe forse dato un corso diverso agli avvenimenti successivi, se nel 1081 Catania non si fosse ribellata. Approfittando dell’assenza di Ruggero, chiamò l’emiro di Siracusa Ibn-el-Werd (Benavert). La città fu riconquistata da Giordano, figlio del conte; e questa ribellione avrà un peso determinante nel suo definitivo riordinamento politico-religioso11. Dopo la conquista di Catania i normanni proseguirono la loro campagna occupando Palermo (1071), Taormina (1079), Agrigento, Siracusa e Castrogiovanni (1086). Man mano che si completava la conquista della Sicilia, il conte Ruggero incominciò a ricostituire l’ordinamento diocesano. Senza aspettare un mandato del papa e senza chiedere alcuna autorizzazione, nel 1082 creò la diocesi di Troina e nominò il primo vescovo latino Roberto12. Gregorio VII, preoccupato per l’intraprendenza del conte, non mancò di richiamarlo e gli fece sapere che non avrebbe accettato in futuro il ripetersi di iniziative di quel genere13. Ma il papa sapeva bene di non poter assumere un atteggiamento eccessivamente rigido nei confronti di chi meritava ogni riguardo per aver restituito alla cristianità e alla giurisdizione romana una regione strategica nel Mediterraneo. In una bolla del 1082 il pontefice elogiò la nuova condizione della Sicilia e la figura del suo liberatore traendo spunto dalle espressioni rivolte a Cristo redentore nella liturgia della veglia pasquale: «Felix terra, quae tantum et talem habere Comitem, per quem ecclesiasticum viget nomen et... recuperat dignitatem»14. 2. Il progetto del conte Ruggero di ripristinare l’ordinamento religioso nei territori conquistati fu condizionato dalla situazione in cui si trovava la Sicilia: la maggioranza della popolazione era islamica, i cristiani superstiti erano di rito greco, soggetti al patriarcato di Costantinopoli. Se i normanni volevano integrare la Sicilia nell’Occi11 G. MALATERRA, De rebus gestis, cit., lib. III, cap. XXX, 75-76; M. AMARI, Storia dei musulmani, cit., III, 164-166. La ripartizione delle terre e la loro configurazione giuridica spesso era strettamente legata alle condizioni della conquista o a particolari situazioni locali (S. TRAMONTANA, La monarchia, cit., 94-102). 12 G. MALATERRA, De rebus gestis, cit., lib. III, cap. XIX, 68-69. 13 S. FODALE, Fondazioni e rifondazioni episcopali da Ruggero I a Guglielmo II, in Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna, cit., 51-61: 54. 14 Vedi la nota 1 in G. MALATERRA, De rebus gestis, cit., 69.

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dente cristiano non potevano servirsi del clero locale carente e inadeguato; pertanto ritennero necessario rivolgersi agli ordini monastici latini fiorenti in Europa. La presenza più rilevante fu quella dei benedettini, ai quali fecero seguito gli agostiniani e i cistercensi15. I normanni, quando decisero di ripristinare l’ordinamento diocesano, affidarono agli ordini monastici anche alcune diocesi16. Questa situazione conferì all’ordinamento ecclesiastico della Sicilia un profilo particolare, che Cosimo Damiano Fonseca definisce “carismatico”17. In altre parole: in Sicilia i normanni ripristinarono le circoscrizioni diocesane, ma istituirono allo stesso tempo una rete monastica parallela, esente dalla giurisdizione vescovile. Il compito di provvedere alle strutture per la cura delle anime fu affidato ai responsabili dei monasteri e a i vescovi, perché la ricostituzione della rete parrocchiale nelle campagne e nelle città non rientrava nei progetti dei conquistatori. Da questa scelta derivano alcune conseguenze di particolare rilievo per il nostro tema: a) i normanni si mostrarono molto generosi nel donare alle diocesi e agli istituti monastici un consistente patrimonio immobiliare, ma non si preoccuparono di costituire i benefici parrocchiali; pertanto la cura delle anime era concepita come una funzione accessoria, affidata ai vescovi, ai capitoli delle cattedrali e agli ordini religiosi; b) le condizioni poste dai normanni nella costituzione del patrimonio delle diocesi non avrebbe permesso ai vescovi il suo frazionamento; perciò per l’erezione dei benefici parrocchiali sarebbe stato necessario far ricorso ad altre fonti di reddito. 2.1. A distanza di venti anni dalla conquista di Catania, il conte Ruggero diede inizio al progetto per la sua restaurazione religiosa.

15 L’elenco e la storia delle istituzioni monastiche latine nella Sicilia normanna si trovano in L. T. WHITE, Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, trad. it., Catania 1984. Nell’ordinamento religioso attuato dai normanni assume un particolare rilievo anche la rete dei monasteri basiliani di rito greco, presenti soprattutto nel val Demone, che saranno sottoposti alla giurisdizione dell’archimandrita del Santissimo Salvatore di Messina: M. SCADUTO, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale. Rinascita e decadenza (sec. XI-XIV), Roma 1982. 16 Nella Sicilia normanna furono affidate agli ordini monastici latini le diocesi di Catania (1092), Lipari-Patti e Cefalù (1131), Monreale (1182). 17 C. D. FONSECA, Introduzione alle Relazioni regionali sul Mezzogiorno d’Italia, in Pievi e parrocchie in Italia nel Basso Medioevo (sec. XIII-XV), cit., II, 1061-1063.

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Sulle condizioni del cristianesimo nella città e nei centri abitati del suo distretto, in mancanza di dati sicuri, è possibile fare solo congetture. Contrariamente a quanto lasciano intendere gli storici catanesi del secolo XVII, nella città di Catania non si può ipotizzare la permanenza del culto cristiano in generale e del culto a s. Agata in particolare18. In centosettant’anni di dominazione islamica quasi certamente erano scomparse le strutture ecclesiastiche. Si può ritenere che esistesse un certo numero di cristiani, che professavano individualmente la propria fede, senza il favore delle pubbliche istituzioni e senza l’aiuto dell’organizzazione ecclesiastica. Se nelle zone agricole e montane del Val Demone o del Val di Noto i normanni trovarono una certa presenza di cristiani, nelle città — dove solitamente risiedevano gli emiri e avevano sede gli organi amministrativi e giudiziari — il loro numero doveva essere poco consistente. A conferma di queste considerazioni basti rilevare il silenzio assoluto delle fonti arabe e normanne sull’antica cattedrale di Catania. Se, come sembra ormai certo, non possiamo identificarla con la chiesa di Sant’Agata la Vetere19, è probabile che al tempo della conquista normanna non esistesse più o non fosse più agibile. Infatti il conte Ruggero, subito dopo la rifondazione della diocesi, dispose la costruzione di una nuova cattedrale con funzione anche di difesa, che fu aperta al culto nel 109420. 2.2. Il compito principale della restaurazione religiosa della città di Catania e del territorio di pertinenza, sottratto alla dominazione islamica, fu affidato ai benedettini21. Nel piano di Ruggero c’era la fondazione di una potente abbazia a Catania, come punto sicuro di 18

U. RIZZITANO, La conquista musulmana, in Storia della Sicilia, diretta da R. Romeo, cit., III, 97-176: 168-171. 19 Le antiche cattedrali erano intitolate a Gesù Cristo o a Maria, non ai santi; inoltre sorgevano al centro della città, non a ridosso delle mura o addirittura fuori le mura (S. ROMEO, Sant’Agata V. M. e il suo culto, Catania 1922, 181-187). 20 V. M. AMICO, Catana illustrata, sive sacra et civilis urbis Catanae historia a prima eiusdem origine in praesens usque deducta ac per annales digesta, II, Catanae 1741, 20; C. SIGNORELLO, La nuova «casa di Dio» per la rifondata Chiesa di Catania, in La cattedrale di Catania, Catania 2009, 17-111. 21 La preparazione e la scelta di questi religiosi rientra nella politica del conte Ruggero e del fratello Roberto. Essi conoscevano la grande influenza che a quel tempo esercitavano in campo religioso e politico, le potenti abbazie benedettine dell’Italia meridionale e volevano nello stesso tempo circondarsi di gente amica e fidata. Per-

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appoggio per la sua politica, in una zona popolata prevalentemente da saraceni, che già avevano tentato la rivolta22. La scelta cadde sul normanno Angerio, abate di Sant’Eufemia in Calabria. Lo stesso Ruggero andò a prelevarlo e, nonostante la riluttanza sua e dei monaci, lo trasferì a Catania. Sicuro della scelta, riunì nella sua persona l’ufficio di abate dell’abbazia di Sant’Agata, di signore feudale della città e di vescovo della diocesi di Catania23. La ricostituzione delle diocesi in Sicilia venne concordata da Ruggero e da Urbano II — eletto al soglio pontificio nel 1088 — in un incontro avvenuto a Troina, subito dopo l’elezione del papa. Il conte ormai aveva conquistato quasi tutta la Sicilia; senza porsi tanti problemi aveva dato inizio a restaurare le strutture religiose. Urbano II giudicò necessario incontrarsi con lui per non lasciargli completamente l’iniziativa e dare una forma di legalità al suo operato24. Si trattò di un’intesa verbale, solo successivamente formalizzata in accordi ciò con l’abate Roberto di Grandmesnil avevano fondato l’abbazia di Sant’Eufemia in Calabria. Essa diventò in un primo momento centro di raccolta di benedettini normanni, per essere adoperata successivamente come centro di irradiazione nella restaurazione religiosa della Sicilia e della Calabria. Non si trattava solamente di riportare la fede cristiana, era anche necessario rompere i legami con l’Oriente e la cultura bizantina per ristabilirli con Roma e l’Occidente (F. CHALANDON, Histoire, cit., II, 589-593; L. T. WHITE, Il monachesimo latino, cit., 163-181; G. SPINELLI, Il monachesimo benedettino nella Sicilia orientale nella prima età normanna, in Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna, cit., 155-173). 22 E. CASPAR, Die Grüdungsurkunden, cit., 615; E. JORDAN, La politique ecclésiastique, cit., 24 (1922) 250. 23 G. MALATERRA, De rebus gestis, cit., lib. IV, cap. VII, 89-90. Il Malaterra, che dedicò il suo libro ad Angerio, così conclude: «Sicque solemniter episcopatum concedens, quod nulli espiscoporum fecisse cognoscitur, totam urbem sedi suae cum omnibus appendicis suis sub chirographo et testibus haereditaliter possidendam assignavit. Porro ille ecclesiam minus cultam, utpote a faucibus incredulae gentis erutam suscipiens, Marthae juris studiis primo studiosus inhaerens, brevi, ecclesiam omnibus necessariis provehens, ad Mariae vices cum Martha exequendas transit: monachorum turbam non modicam sibi coadunans, districtae regulae iugo, verbo et exemplo subesse, ut fidelis pastor coëgit» (cfr. anche M. AMARI, Storia dei musulmani, cit., III, 180). 24 L’incontro tra Urbano II e il conte Ruggero è descritto dal Malaterra nel libro IV, cap. XIII. Secondo lo storico normanno il papa volle incontrarsi con il conte Ruggero solo per informarlo di una proposta d’accordo con l’imperatore Alessio di Costantinopoli, sull’uso del pane azzimo o fermentato fra greci e latini. Tuttavia gli storici moderni sono d’accordo nel ritenere che Urbano II fu spinto da motivi diversi

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scritti per determinare i poteri riconosciuti dal papa ai sovrani normanni sugli affari ecclesiastici nei loro regni25. 2.3. La diocesi di Catania fu ricostituita dopo questo incontro. L’organizzazione politico-religiosa della città e della diocesi risulta da tre documenti: uno di Urbano II e due di Ruggero26. Il conte in un documento del 9 dicembre 1091, ind. XV, costituì Angerio — già preconizzato abate dell’abbazia Sant’Agata di Catania — signore feudale della città, conferendogli dei poteri che non hanno riscontro con quelli concessi agli altri vescovi della Sicilia in quel periodo. Il conte e che si incontrò con Ruggero soprattutto per concordare con lui l’ordinamento ecclesiastico in Sicilia (cfr. M. AMARI, Storia dei musulmani, cit., III, 195; E. CASPAR, Die Grüdungsurkunden, cit., 611). Il Pontieri, facendo suo il pensiero del Caspar, fa notare a proposito dell’atteggiamento assunto da Urbano II nei confronti di Ruggero e del gesto significativo con cui lo costituirà suo legato: «Con esso il pontefice veniva pubblicamente a testimoniare i meriti e le benemerenze del conte verso la fede di Cristo e verso la sua Chiesa; ma, nello stesso tempo, era steso un velo su parecchi atti di giurisdizione ecclesiastica che il conte, all’apice della sua potenza, aveva compiuto di suo arbitrio, senza appunto preoccuparsi della santa Sede, come nel caso della provvista delle sedi vescovili della Sicilia» (E. PONTIERI, «Prefazione», cit., VIII). 25 Il più importante di questi accordi fra la s. Sede e i normanni è certamente il “concordato” stipulato fra Adriano IV e il re Guglielmo I (1156). L’intesa si prefigge di disciplinare la prassi seguita dal conte Ruggero e dai suoi successori nell’elezione dei vescovi e l’autorità esercitata sulle Chiese di Sicilia (F. SCADUTO, Stato e Chiesa nelle due Sicilie, a cura di A. C. Jemolo, Palermo 1969, I, 160; M. CARAVALE, Il regno normanno, cit., 52-54). 26 Esula dal nostro studio entrare nel merito dell’autenticità e della data dei tre documenti. Non crediamo che si possa dubitare di una loro «sincerità sostanziale», nonostante le critiche più o meno fondate degli studiosi (R. STARRABBA, Contributo allo studio della diplomatica siciliana dei tempi normanni: diplomi di fondazione delle chiese episcopali di Sicilia, 1082-1093, in Archivio Storico Siciliano, N.S., 17 (1893) 30-135; E. CASPAR, Die Grüdungsurkunden, cit.; L. R. MÉNAGER, Notes critiques sur quelques diplomes normands de l’Archivio Capitolare di Catania, in Bullettino dell’Archivio Paleografico Italiano, N.S., II-III [1956-1957], p. II, 145-174). Il Ménager accetta come autentici solo la bolla di Urbano II e il primo documento di Ruggero (Summus itaque Romanae...); però ritiene che anche questi siano stati “ricostruiti” dopo il terremoto del 1169. In ogni caso, autentici, “ricostruiti”, o falsi che siano, a noi interessa sottolineare l’incidenza che hanno avuto nello svolgimento storico successivo, che è fuor di dubbio. Più complessa la questione della data. Non essendo possibile riferire le diverse opinioni, rimandiamo agli studi specifici: G. SCALIA, La bolla di Urbano II del 1091 per la restaurazione dell’episcopato di Catania, in BE 58 (1954) 237243; ID., La bolla di Urbano II del 9 marzo 1091 e i documenti sincroni del conte Ruggero I, in BE 58 (1954) 305-308; ID., Il valore storico del documento pergamenaceo, n. 1

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gli diede il territorio della città di Catania e del castello di Aci con i saraceni che vi si trovavano al momento della conquista, e l’esercizio della giurisdizione civile e penale27. Angerio fu inviato a Roma per ricevere la consacrazione di abate28 e in questa circostanza Urbano II emanò la bolla sottoscritta ad Anagni il 9 marzo 1092, ind. XIV29, nella quale, dopo aver elogiato il conte Ruggero per la sua provvidenziale opera, confermava l’erezione dell’abbazia di Sant’Agata annessa alla cattedrale e stabiliva che l’abate sarebbe stato nello stesso tempo vescovo della città. L’annessione dell’abbazia alla cattedrale comportava anche un’altra coincidenza: il capitolo dei canonici sarebbe stato costituito dai monaci dell’abbazia. Alla bolla di Urbano II fa riscontro il secondo documento di Ruggero del 26 aprile 1092, ind. XV30, che stabiliva i confini della diocesi. Essa avrebbe compreso i territori di Aci, Paternò, Motta Sant’Anastasia, Centuripe, Castrogiovanni, fino al fiume Salso, che la divideva dalla diocesi di Agrigento, e fino ai confini della città di Troina. del Conte Ruggero I (Archivio Capitolare) sincrono della Bolla di Urbano II, in BE 59 (1955) 21-25; ID., Nuove considerazioni storiche e paleografie sui documenti dell’Archivio Capitolare di Catania per il ristabilimento della sede vescovile nel 1091, in ASSO 57 (1961) 5-53; L. R. MÉNAGER, Notes, cit., 154; P. COLLURA, La polemica sui diplomi normanni dell’archivio capitolare di Catania, in ASSO 54-55 (1959) 131-139. Tra le diverse opinioni sul problema della datazione di questi documenti, preferiamo seguire H. ENZENSBERGER, Fondazione o «rifondazione»? Alcune osservazioni sulla politica ecclesiastica del conte Ruggero, in Storia e società in Sicilia. L’età normanna, cit., 21-49, accettando i rilievi fatti alla prima edizione di questo volume. 27 Vedi doc. n. 1 in appendice. Il documento fu redatto probabilmente in Calabria, quando Ruggero si recò a prelevare Angerio; infatti tra i testimoni troviamo gli arcivescovi di Taranto e di Cosenza e l’abate Guglielmo di Sant’Eufemia (L. T. WHITE, Il monachesimo latino, cit., 164-165). Un simile privilegio era stato concesso dai normanni all’arcivescovo di Bari nel 1086 e al vescovo di Minori nel 1091 (M. CARAVALE, Il regno normanno, cit., 291). Successivamente, nel 1145, Ruggero II conferirà al vescovo di Cefalù la giurisdizione civile e penale. Tuttavia si riserverà la cognizione dei reati più gravi (l. c., 298). Sull’argomento cfr. anche: R. GREGORIO, Considerazioni, cit., I, 122-127; H. NIESE, Il vescovado di Catania e gli Hohenstaufen in Sicilia, in ASSO 12 (1915) 74-104. 28 L. T. WHITE, Il monachesimo latino, cit., 166. 29 Vedi doc. n. 2 in appendice. 30 Vedi doc. n. 3 in appendice. Il documento non fa un elenco completo dei centri abitati della diocesi, ma solo di quelli che servono a distinguere un certo territorio.

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Con successiva donazione del conte Ruggero, formalizzata nei confini territoriali da Ruggero II nel 1124, la giurisdizione feudale dell’abate-vescovo fu estesa alla città di Mascali, un territorio che per la giurisdizione ecclesiastica era soggetto al vescovo di Messina31. Nel primo documento, del 9 dicembre 1091, ind. XV, c’è un particolare di rilievo non sottolineato abbastanza dagli storici, ma indicativo per determinare i rapporti fra il vescovo e il conte sui beni del monastero o della mensa vescovile. Ruggero, dopo la conquista della Sicilia, non si dimostrò propenso a dare i feudi in assoluto. La terra era concessa sotto condizioni e in custodia. A lui e ai suoi successori spettava il “dominio eminente” nella qualità di “sovrano”32. Anche con Angerio si comportò allo stesso modo. Infatti nel documento con cui lo costituì signore feudale di Catania, Ruggero stabilì che simbolicamente i monaci offrissero a lui e ai suoi successori un pane e una misura di vino, ogni volta che avessero visitato il monastero33. Si trattò di un gesto simbolico con il quale l’abate-vescovo-signore e i monaci, al

31 R. PIRRI, Sicilia sacra... Editio tertia emendata et continuatione aucta, cura et studio... D. Antonini Mongitore... accessere addictiones... auctore D. Vito Maria Amico..., Panormi 17333, 525-526; I. B. DE GROSSIS, Catana sacra sive de episcopis catanensibus..., Catanae 1654, 68; L. T. WHITE, Il monachesimo latino, cit., 171-172; S. FRESTA, La Contea di Mascali, Giarre 19992. La città nel sec. XII era al centro dell’industria dei cantieri navali; da Mascali partiva, oltre al legname dei boschi dell’Etna, la pece, necessaria all’armamento e alla manutenzione del naviglio (I. PERI, Uomini, città e campagne in Sicilia dall’XI al XII secolo, Bari 1978, 17-18). I beni dell’abbazia di Sant’Agata e del vescovo di Catania si accrebbero notevolmente con altre cospicue donazioni. Una raccolta completa dei relativi documenti si trova nel volume: Collectanea nonnullorum privilegiorum et aliorum spectantium ad Ecclesiam Catanensem eiusque ministros..., Catanae 1682 et iterum 1792. 32 Scrive a tal proposito lo Chalandon: «On a voulu que le comte de Sicile ait fait aux chrétiens qu’il trouva établis dans l’île, des concessions a titre gracieux. Cette opinion ne repose sur aucun texte, et les passages de Malaterra invoqués pour la soutenir me paraissent ne lui fournir aucun appui. L’idée de concession sans obligation de service me paraît trop contraire aux idées et aux moeurs des Normands pour pouvoir être admise» (F. CHALANDON, Histoire, cit., II, 494-495; M. AMARI, Storia dei musulmani, cit., III, 306). Sulla trattazione del tema riguardante il dominio eminente cfr. C. G. MOR, Dominio eminente, in NDI, VI, 210-213. 33 Vedi doc. n. 1 in appendice.

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di là delle forme giuridiche, riconoscevano la sovranità del conte e i suoi diritti sui beni che aveva concesso come dote all’abbazia34. 2.4. L’ordinamento ecclesiastico siciliano, stabilito dal conte Ruggero nel periodo della conquista e comprendente le diocesi di Troina/Messina, Catania, Palermo, Siracusa, Agrigento, Mazara, fu continuato da Ruggero II nel 1131 con l’erezione delle diocesi di Cefalù e di Lipari-Patti, staccate dal territorio di Messina. Allo stesso tempo creò le due circoscrizioni metropolitane di Messina e Palermo; alla prima assegnò come suffraganee Catania, Cefalù e Lipari-Patti; alla seconda le rimanenti diocesi35. L’ultimo intervento del periodo normanno si ebbe nel 1182, quando papa Lucio III, attuando il disegno di re Guglielmo II, eresse l’arcidiocesi di Monreale. Alla nuova circoscrizione metropolitana in tempi diversi furono assegnate come suffraganee le diocesi di Catania e di Siracusa36. 3. Tenendo presente questa situazione, non è difficile individuare le sovrapposizioni e le commistioni fra i diversi ordinamenti e le rispettive autorità, che contraddistinguono il modello della respublica christiana attuato dai normanni in Sicilia e in modo particolare a Catania. I sovrani normanni potevano esercitare su Angerio e i suoi suc-

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Il De Grossis, seguito dal Ferrara, nel dono del pane e del vino che Ruggero pretende da Angerio e dai suoi successori, ritiene di vedere un censo (I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 50; F. FERRARA, Storia di Catania, sino alla fine del secolo XVIII, Catania 1829, 37). Più che cercare una figura giuridica, dobbiamo scorgere in questo gesto simbolico il riconoscimento dell’autorità e del dominio che il feudatario intende mantenere sui beni che dà in uso ai suoi vassalli (R. GREGORIO, Considerazioni, cit., I, 78; 111-114). 35 R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., II, 773-776; E. CASPAR, Ruggero II e la fondazione della monarchia normanna di Sicilia, trad. it., Bari 1999; 94.96; S. FODALE, Fondazioni e rifondazioni episcopali, cit., 59-60; A. SIDOTI – R. MAGISTRI, La diocesi di Patti, II, Patti 2007; B. SCALISI, Patti, in Storia delle Chiese di Sicilia, a cura di G. Zito, Città del Vaticano 2009, 665-685. 36 R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 451-460; S. FODALE, Fondazioni e rifondazioni episcopali, cit., 59-60; G. SCHIRÒ, Monreale, in Storia delle Chiese di Sicilia, cit., 527548. Catania non accettò di essere sede suffraganea di Monreale e nel sec. XVI avviò a Roma un processo per rivendicare il titolo di sede metropolitana, che asseriva di avere fin dall’antichità. Dopo diverse istanze, il 4 maggio 1607, il tribunale della Rota rigettò definitivamente la tesi sostenuta dai catanesi. Gli argomenti addotti nel processo sono esposti da I. B. DE GROSSIS, Catanense decachordum, sive novissima sacra Catanen. Ecclesiae notitia..., Catanae 1642-1647, I, 86-102.

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cessori un’autorità diversificata: come sovrani potevano esigere dal vescovo-signore la sottomissione e la fedeltà; come restauratori della fede cristiana nella Sicilia esercitavano di fatto il diritto di scegliere i vescovi, erigere chiese e monasteri, intervenire perciò più o meno direttamente nel governo della Chiesa; sui beni ecclesiastici avrebbero fatto valere il loro “dominio eminente”, in quanto si trattava di beni immobili da loro stessi donati a certe condizioni. Questa somma di diritti che i re di Sicilia avevano sulle Chiese saranno indicati successivamente con l’espressone: «diritto di regio patronato», che acquista un significato più ampio di quello che ha normalmente nell’uso comune37. Tuttavia, per comprendere pienamente il quadro dei rapporti che si vennero a creare fra Ruggero e le Chiese di Sicilia, bisogna 37 L’uso dell’espressione «ius regii patronatus» non sembra risalga ai tempi del Regnum Siciliae dei normanni e degli svevi. Tuttavia i diritti che in essa vengono compresi venivano esercitati dal conte Ruggero e dai suoi successori. Abbiamo già accennato nella nota 25 al problema dell’elezione dei vescovi e alla provvista dei benefici. L’argomento viene trattato e documentato da F. SCADUTO, Stato e Chiesa, cit., I, 216-244. Sui diritti che i re normanni e i loro successori esercitavano sopra i beni ecclesiastici abbiamo diversi interventi legislativi. Nelle Constitutiones Regni Siciliae di Federco II viene riportata una legge di Ruggero II che impone ai vescovi e agli abati «quod quicunque de regalibus nostris magnum vel parvum quid tenent, nullo modo, nullo ingenio possit ad nostra regalia pertinens alienare, donare vel vendere, in totum vel in partem minuere, unde jura nostra regalia minuantur...» (J. L. A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Constitutiones Regni Siciliae, lib. III, tit. I, in Historia diplomatica Friderici Secundi, Parisiis 1854, v. IV, pars I, 119). La stessa disposizione viene ripresa da Federico II (ibid., lib. III, tit. V, 122). Guglielmo II limita la giurisdizione dei prelati, dei baroni, dei feudatari in genere, privandoli del potere di esigere imposte straordinarie (ibid., lib. III, tit. XX, 132). Federico II afferma esplicitamente: «Quia omnes ecclesias regni nostri et specialiter ipsas quae pastoribus carent, in manu et protectione nostra habemus...» (ibid., lib. III, tit. XXXI, 140). Nel sec. XV l’espressione è ormai di uso comune. Nei Capitula Regni Siciliae la troviamo adoperata in una richiesta presentata a Ferdinando II (1481), in cui si invoca il suo intervento per far cessare l’abuso di dare in commenda le rendite delle chiese. Fra l’altro si afferma: «...Ea propter... non permicta de caetero quilli mancare, et veniri in perditioni in quillo Regno maxime per la praeminentia ad Vostra gloriosissima, et alta Signoria, che teni lo ius patronatus in quilli, et pagandosi li ditti pensioni, le Ecclesiae libere fundati da li proavi de Vostra Maestà de immortale memoria su posti in perpetua servituti...» (Capitula Regni Siciliae, quae ad hodiernum diem lata sunt, edita cura eiusdem Regni deputatorum, Panormi 1741, cap. III, I, 516; cfr. anche il cap. VIII dei Capitoli di Carlo II, v. II, 11). Sull’argomento cfr. anche G. FALLICO, Due compilazioni sul Regio Patronato di Sicilia nell’Archivo Histórico Nacional di Madrid, in ASSO 67 (1971) 249-259.

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tener conto del privilegio della cosiddetta Apostolica Legazia, concessogli dal papa Urbano II nel 1098 con la bolla Quia propter prudentiam tuam. Era il riconoscimento alla persona del conte del ruolo esercitato durante la conquista — per ragioni di necessità politica e militare — di arbitro e regolatore della Chiesa locale. La scelta di compromesso del papa e una certa ambiguità del testo, in epoca moderna, offriranno lo spunto per affermare che Ruggero era stato nominato legato papale, ufficio che sarebbe spettato anche ai suoi successori38. 3.1. Non erano meno rilevanti le sovrapposizioni e le commistioni esistenti nell’ordinamento della città e nella diocesi di Catania. La città dipendeva dall’abate-vescovo-signore. L’accentramento in un sola persona di uffici così diversi avrebbe comportato inevitabili interferenze fra le varie giurisdizioni e le relative norme giuridiche. L’abbazia benedettina di Sant’Agata era annessa alla cattedrale e i monaci formavano il capitolo dei canonici. L’ingente patrimonio donato dal conte Ruggero ad Angerio costituiva allo stesso tempo: il demanio della città, la dote della mensa vescovile e delle prebende dei canonici, la fonte per la manutenzione dell’abbazia e della cattedrale. Questa situazione così complessa diede origine a una serie di conflitti che, nei secoli successivi, contrassegneranno la vita civile e religiosa della città e della diocesi. Nei cittadini di Catania si sarebbe manifestata una certa insofferenza verso l’abate-vescovo-signore: all’atteggiamento vigile per evitare che i vescovi non cedessero alla tentazione di considerare propri i beni demaniali, si accompagnava la difesa del libero esercizio degli usi civici e la volontà di sottrarsi al governo del vescovo-signore per ottenere lo statuto di città demaniale. Quan38 Il testo della bolla di Urbano II è riportato da G. MALATERRA, De rebus gestis, cit., lib. IV, cap. XXVIII, 108. Sull’argomento cfr. R. GREGORIO, Considerazioni, cit., I, 146-150; F. SCADUTO, Stato e Chiesa, cit., I, 156-176; E. CASPAR, Die Legatengewalt der normannisch-sicilischen Herscher im 12. Jahrhundert, in Quellen und Forschungen aus it. Archiv. und Bibl. 7 (1904) 189-209; E. JORDAN, La politique ecclésiastique, cit., 25 (1923) 45-61; M. CARAVALE, Il regno normanno, cit., 28-32; S. FODALE, Comes et legatus Siciliae. Sul privilegio di Urbano II e la pretesa Apostolica Legazia dei Normanni di Sicilia, Palermo 1970; ID., L’Apostolica Legazia e altri studi su Stato e Chiesa, Messina 1991; G. CATALANO, Studi sulla Legazia Apostolica di Sicilia, Reggio Calabria 1973; La Legazia Apostolica. Chiesa, potere e società in Sicilia in età medievale e moderna, a cura di S. Vacca, Caltanissetta-Roma 2000.

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do l’ufficio del vescovo non coinciderà più con quello dell’abate si aprirà un altro fronte di conflitti, perché il vescovo sarà indotto ad escludere i monaci dall’amministrazione del patrimonio e a non assolvere gli oneri imposti per le prebende del capitolo e per la manutenzione degli edifici. Infine il clero secolare vedeva nei monaci dell’abbazia un ostacolo insuperabile per accedere alle prebende del capitolo della cattedrale. La condizione privilegiata del vescovo e dei monaci spiega il loro atteggiamento di difesa dei diritti acquisiti, mentre la percezione di essere vittima di una situazione ingiusta era alla base delle iniziative dei cittadini e del clero diocesano per creare condizioni più eque39. 3.2. Era questo il quadro istituzionale all’interno del quale dovevano operare i diversi protagonisti: l’abate-vescovo-signore, i monaci-canonici dell’abbazia-cattedrale, il clero secolare, il popolo nelle sue componenti: aristocrazia, corporazioni di arti e mestieri, mercanti, contadini, ecc. La stessa popolazione aveva una composizione molto varia: al piccolo nucleo dei cristiani superstiti di rito greco si erano aggiunti quelli venuti al seguito dei normanni e gli immigrati che aumentarono sempre più di numero nei decenni successivi fino a tutto il secolo XII. Si ebbe così un mosaico di popolazioni, di lingue e di culture che comprendeva: greci, arabi, ebrei, francesi, tedeschi, lombardi, aleramici, genovesi, pisani, amalfitani... Gli stessi cristiani erano divisi in tre riti: bizantino, arabo e latino. Solo al tempo di Federico II (1194-1250) con la deportazione delle residue popolazioni islamiche dalla Sicilia a Lucera in Puglia si raggiungerà l’unità di religione e di cultura40.

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Per quanto nella bolla di Urbano II si affermi che il vescovo dovrà «monasterium regulariter, et clerum et populum universum canonice regere» (G. SCALIA, La bolla, cit., 237), gli usi monastici avranno necessariamente un’influenza nel governo della diocesi. Ancora più pesante fu l’influenza dell’autorità del vescovo in quanto signore feudale nel governo spirituale del suo popolo. In una lettera inviata dai giurati di Catania a re Alfonso nel 1433, si ricorda la protesta del patriziato di Catania alla decisione del conte Ruggero di sottoporre la città alla giurisdizione dell’abate-vescovo: «...tucti li gentilomini la dishabitaru et habitaru in Lintini et Castrojohanni per non esseri subiecti di chirki rasi...» (M. GAUDIOSO, La questione demaniale in Catania e nei casali del bosco etneo. Il vescovo-barone. Catania 1971, 23). 40 I. PERI, Uomini, città e campagne, cit., 163-168.

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4. L’avvenimento che risultò decisivo per l’attuazione del progetto normanno fu il ritorno a Catania delle reliquie di s. Agata (1126)41. Non rientra nei limiti di questo studio affrontare il problema del valore storico della traslazione delle reliquie e quello connesso della loro autenticità42. Per la nostra trattazione basta constatare che il fatto fu accettato unanimemente dal clero e dalle altre componenti della città. È nota la straordinaria importanza che aveva per una città medievale la presenza delle reliquie del santo patrono43. La chiesa che le custodiva veniva considerata sacra e diventava meta di pellegrinaggi; ma tutta la città partecipava di questa sacralità, cioè di una particolare presenza del divino, che diventava garanzia di grazie e favori straordinari e di protezione dai nemici, dalle malattie e dalle catastrofi. Pertanto le reliquie del santo patrono costituivano un motivo di sicurezza e di aggregazione per la popolazione, davano lo spunto a feste con il contorno di fiere, di spettacoli e di manifestazioni folcloristiche, rendevano possibile la pratica dei pellegrinaggi con il richiamo di folle dalle altre città. Per comprendere il ruolo svolto dalle reliquie di s. Agata nello sviluppo del suo culto e nella formazione cristiana della popolazione di Catania basta leggere la lettera del vescovo Maurizio (il secondo vescovo del periodo normanno) per descrivere l’evento straordinario del loro ritorno nella patria della santa44. Il prelato, dopo aver esposto il racconto del «lodevole furto» delle reliquie fatto a Costantinopoli dai soldati Giliberto e Goselino e delle molteplici difficoltà da loro incontrate per riportarle in Sicilia, descrive il rito solenne del trasfe-

41 A. LONGHITANO, Il culto di S. Agata, in Agata, la santa di Catania, a cura di V. Peri, Bergamo 1996, 67-125. 42 G. SCALIA, La traslazione del corpo di S. Agata e il suo valore storico, in ASSO 22-23 (1928) 38-157; M. M. CAFÀ, Sulla «traslatio» di S. Agata da Costantinopoli, in Synaxis 26 (2008) 139-163. 43 R. GRÉGOIRE, Manuale di agiologia. Introduzione alla letteratura agiografica, Fabriano 1987, 320-334; A. VAUCHEZ, Reliquie, santi e santuari, spazi sacri e vagabondaggio religioso nel medioevo, in Storia dell’Italia religiosa, 1. Antichità e medioevo, a cura dello stesso, Bari 1993, 455-483. 44 Per il testo latino vedi ACC, De traslatione divae Agathae et alia, 1-18. Il volume è anche indicato col nome Libro degli uffici. Una versione del documento è riportata da G. CONSOLI, S. Agata Vergine e Martire catanese, II, Catania 1951, 125-145.

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rimento dal castello di Aci alla cattedrale di Catania e i miracoli straordinari operati per intercessione di s. Agata nella circostanza: «nel giorno stabilito, cioè il 17 agosto, alcuni nostri monaci dal predetto castello le trasportarono onorevolmente. Noi vi andammo incontro, mescolando salutarmente i segni di giubilo con quelli di umiltà, a piedi scalzi e in bianche vesti. A questo insolito e veramente segnalato spettacolo, si adunò gran folla di popolo di ambo i sessi, di ogni condizione, età e religione, cosicché andando e venendo ci impedivano il cammino, e colla loro ressa si pigiavano straordinariamente».

Si noti nel racconto il riferimento a una folla di ogni età, condizione e fede religiosa. Se all’evento straordinario, oltre ai cristiani dei diversi riti, erano presenti anche musulmani ed ebrei, si può comprendere il ruolo avuto dalle reliquie di s. Agata nella realizzazione di quella unità di fede, di cultura e di riti che costituiva il punto d’arrivo del progetto normanno. 5. Nel periodo normanno-svevo era già presente nella città di Catania un patriziato in grado di rivendicare i propri diritti e di ottenere dal vescovo-signore significative concessioni. Nel 1168 il vescovo Giovanni Aiello si sentì obbligato a riconoscere ai cittadini alcuni diritti che definivano e limitavano il suo potere e i suoi beni temporali45. L’anno successivo però un disastroso terremoto distrusse completamente la città. Giovanni Aiello e i canonici perirono nel crollo della cattedrale mentre si celebrava la messa della vigilia di 45 Comprare e vendere liberamente i prodotti di cui erano tenuti a pagargli la decima, pagare la stessa decima in natura e non in denaro, abolire la prassi di cedere i redditi in appalto, permettere la libera vendita di merci importate in città, regolamentare l’approvvigionamento del legame da lavoro, da costruzione e della legna da ardere proveniente dai boschi demaniali, introdurre le misure segnate con il marchio della chiesa di Catania per pesare i commestibili, eliminare alcune gabelle ed evitare di introdurne altre, concedere il libero passaggio sul Simeto a borghesi e cavalieri, forestieri e pellegrini; vietare l’imposizione di servizi a cavallo, ridurre i donativi che i canonici latini e i sacerdoti greci solevano scambiarsi; stabilire il principio che le varie etnie presenti in città (latini, greci, giudei, saraceni) fossero giudicati secondo le proprie leggi (G. FASOLI, Tre secoli di vita cittadina catanese [10921392], in ASSO 50 [1954] 116-145, 121).

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s. Agata46. I superstiti furono costretti ad affrontare problemi ben più gravi del confronto con il vescovo, un tema che si ripropose a distanza di circa trent’anni. Nel 1195 — non ci è dato sapere se la città era già risorta dalle rovine del terremoto — la generale conferma dei privilegi della Chiesa di Catania, concessa dall’imperatore Enrico VI al vescovo Ruggero, provocò violenti tumulti popolari, sedati a fatica con l’intervento del conte Alberto di Spanheim. Due anni più tardi vescovo e patriziato della città si trovarono uniti nella cospirazione contro l’imperatore; ma l’esercito che faceva centro a Catania fu sconfitto e la città incendiata. Il vescovo e i capi della rivolta furono arrestati e deportati in Germania47. In assenza del vescovo, la città sperimentò probabilmente il diretto governo regio e quando Ruggero dopo la morte dell’imperatore fece ritorno a Catania e si ripropose di esercitare gli antichi diritti concessi dai normanni, trovò la ferma opposizione dei cittadini: nel 1201 un complotto ordito da alcuni de melioribus terrae tentò di eliminare definitivamente lo scomodo interlocutore48. La repressione del complotto non scoraggiò i cittadini di Catania, che continuarono l’opposizione al governo del vescovo-signore quando nel 1207 Federico II nominò alla sede di Catania il cancelliere del regno, Gualtiero de Palearia. Questa volta il patriziato cittadino tentò una strada diversa per raggiungere lo scopo: inviò all’imperatore una rilevante somma di denaro per rimuovere il vescovo Gualtiero e concedere lo statuto di città demaniale. Federico, alla cui tendenza accentratrice una tale richiesta non risultava sgradita, non si lasciò sfuggire il momento favorevole: nel 1218 affidò a Gualtiero l’incarico di condurre la flotta siciliana alla conquista di Damietta, che segnò il definitivo allontanamento del vescovo dalla città49. 5.1. Catania ottenne il sospirato passaggio dalla soggezione feudale al controllo regio nel 1239. La costruzione del castello Ursino (dal 1239 al 1250) divenne il segno visibile della sua nuova condizione di città demaniale50. Quando lo stesso sovrano riconobbe i comuni 46

V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., II, 49-50. W. COHN, L’età degli Hohenstaufen in Sicilia, trad. it., Catania 1932, 24-27. 48 G. FASOLI, Tre secoli, cit., 123-125. 49 B. SAITTA, Catania, in Federico II e le città italiane, a cura di P. Toubert e A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, 239. 50 Ibid., 243-245. 47

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come formale corporazione politica e nel 1240 invitò le città ad eleggersi dei rappresentanti al parlamento di Foggia, fra le città demaniali invitate troviamo Catania, Castrogiovanni, e Piazza, cioè i centri abitati più importanti della diocesi51. 5.2. Durante il governo dell’imperatore Carlo I d’Angiò fu riproposto il problema dei diritti concessi dai normanni al vescovo di Catania e abrogati da Federico II. Il papa Clemente IV, nell’offrire il regno di Sicilia a Carlo d’Angiò, aveva posto la condizione di restituire alle Chiese i diritti e i beni revocati da Federico II. Il 10 settembre 1267, a conclusione di un processo celebrato dal cardinale Rodolfo, vescovo di Albano, furono riconosciuti i diritti del vescovo di Catania, e Carlo d’Angiò il 9 agosto 1268 diede ordine che la sentenza fosse eseguita. In realtà l’ordine del re non ebbe applicazione per l’improvviso mutamento delle circostanze che avevano indotto Carlo a cercare un’intesa con il papa. Catania rimase città demaniale e il vescovo non riebbe i diritti che la sentenza di Rodolfo gli aveva riconosciuto52. 6. Al tempo della dominazione angioina nuovi soggetti entrarono a far parte della dialettica sociale ed ecclesiale della diocesi di Catania: gli ordini mendicanti. La loro attività si colloca su un piano diverso rispetto a quella esercitata dagli ordini monastici. Francescani, domenicani, agostiniani, carmelitani, che nei sec. XIII-XIV si insediarono a Catania e nei principali centri abitati della diocesi, alla vocazione per la preghiera e la vita consacrata aggiungevano in diversa misura quella di una testimonianza cristiana più vicina alla cultura, al linguaggio e ai costumi popolari. Nelle abbazie e nei monasteri benedettini il popolo assisteva con ammirazione alle salmodie dei monaci, ma difficilmente vi partecipava con gli stessi sentimenti con cui prendeva

51 V. CORDARO CLARENZA, Osservazioni sopra la storia di Catania cavate dalla storia generale della Sicilia, II, Catania 1833, 63; M. GAUDIOSO, Natura giuridica delle autonomie cittadine del «Regnum Siciliae», Catania 1952, 18; E. PONTIERI, Ricerche sulla crisi della monarchia siciliana nel sec. XIII, Napoli 1958, 299-311. Il nuovo status giuridico di Catania privò i vescovi di gran parte dei diritti feudali che avevano sulla città, ma lasciò immutati quelli che esercitavano sulla città e il territorio di Mascali (S. FRESTA, La Contea di Mascali, cit.). 52 L. SORRENTI, La giustizia del vescovo a Catania (secc. XII-XIII), in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XII-XVI, a cura di G. Zito, Torino 1995, 37-66.

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parte ai riti celebrati dai francescani molto più accessibili alla sua mentalità e al suo linguaggio. La diffusione degli ordini mendicanti e la popolarità che in breve tempo raggiunsero è segno di una risposta valida a una esigenza che né il clero secolare, né gli ordini monastici erano riusciti a percepire53. 6.1. Il primo ordine mendicante che operò a Catania fu quello dei francescani, che giunsero nel 1256, quando il vescovo eletto Oddone Capocci, prima ancora di prendere possesso della sede vescovile, assegnò loro i locali annessi alla chiesa di San Michele Arcangelo, nell’area del castello Ursino, per erigervi il convento. I frati furono costretti ad affrontare una dura opposizione su più fronti. Inizialmente furono i monaci-canonici della cattedrale ad avversare la decisione del vescovo, adducendo come motivo la loro mancata consultazione. Fu poi la volta del re Manfredi, che ordinò la distruzione del convento e della chiesa come rivalsa nei confronti del papa e della fazione guelfa. Dopo l’avvento di Carlo d’Angiò fu il vescovo Angelo Boccamazza a far distruggere il convento dei francescani per far valere la sua giurisdizione civile e penale sulla città, da poco riconfermata dalla sentenza del cardinale Rodolfo. Il ricorso a papa Nicolò III non servì a superare l’opposizione del vescovo e i francescani furono costretti a sistemarsi temporaneamente nella grangia, che i benedettini di San Nicola l’Arena avevano a Catania. Solo dopo il Vespro e l’avvento degli aragonesi, con la mediazione della regina Eleonora, riuscirono a costruire il convento nell’area di quello attuale54. 6.2. Non si può indicare con certezza la data di fondazione del primo convento domenicano a Catania. Gli storici dell’ordine indicano il 1224, come data citata tradizionalmente ma non suffragata da prove, e il 1273 in cui un capitolo dell’ordine decise il trasferimento di un convento dalla città di Piazza a Catania55. Il Pirri, seguito da De Grossis e da Amico, colloca questa fondazione nel 1313, anno in cui il vescovo di 53

A. LONGHITANO, Gli ordini religiosi a Catania nel ’400, in Synaxis 11 (1993)

173-224. 54 F. COSTA, San Francesco all’Immacolata di Catania. Guida storico-artistica, Palermo 2007, 9-12. 55 M. CONIGLIONE, Vita del beato Bernardo Scammacca patrizio catanese dell’ordine dei predicatori, Catania 1926, 14-18; ID., La provincia domenicana di Sicilia. Notizie storiche documentate, Catania 1937, 362.

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Catania Leonardo Fieschi diede il nulla osta perché i domenicani officiassero una chiesa nell’area del castello Ursino e aprissero un loro convento nei locali annessi. Se si escludono queste incertezze cronologiche, il cammino percorso dai domenicani a Catania ha molti punti in comune con quello dei francescani: dallo scontro fra il papa e Federico II (se si dà per certa la fondazione dei domenicani nel 1224) agli ostacoli posti dai benedettini per la fondazione del convento nei pressi del castello Ursino. Dopo non poche traversie dovute al coinvolgimento dei frati nello scontro fra gli aragonesi e Artale II Alagona, l’ordine dei predicatori ottenne di costruire il convento, che sarà quello definitivo, nei locali attigui alla chiesa di Santa Maria la Grande, nella parte occidentale della città, fuori le mura ma vicino all’abitato. La bolla di concessione del papa Bonifacio IX del 16 agosto 56 1404 è particolarmente rilevante per comprendere il rapporto esistente fra un ordine religioso e l’ordinamento ecclesiastico della città di Catania. Si trattava di una chiesa sacramentale con pochi abitanti, che in quel momento era vacante per la morte dell’ultimo titolare Nicola Nicolai. Per poterla concedere ai domenicani era necessario sopprimere l’esercizio della cura d’anime annesso alla chiesa; ma questa difficoltà non era insormontabile. Infatti nella città di Catania, per consuetudine immemorabile, i parrocchiani di ogni chiesa sacramentale non erano obbligati a chiedere i sacramenti alla chiesa di appartenenza, ma potevano rivolgersi liberamente ad altre. Pertanto il capitolo della cattedrale, anche se la sede vescovile era vacante, senza turbare l’ordinamento della cura d’anime della città, poteva dare il proprio assenso alla soppressione di una chiesa sacramentale e alla concessione dell’edificio ai frati predicatori. Questi elementi ci fanno intravedere che nel rapporto religiosi-ordinamento diocesano si era avuta qualche apertura. Il capitolo della cattedrale, costituito da benedettini, non solo non si oppose alla concessione di una chiesa ai domenicani, ma non invocò la sacramentalità della chiesa per mascherare la tradizionale avversione agli ordini mendicanti dietro una motivazione canonicamente valida. 6.3. I carmelitani giunsero in Sicilia intorno al 1238, provenienti dalla Palestina, che avevano dovuto abbandonare dopo l’infelice 56 Il testo integrale della bolla, trascritto dall’Archivio Vaticano, è stato pubblicato da S. FODALE, Documenti del pontificato di Bonifacio IX (1389-1404), Palermo 1983, 258-260.

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esito della terza crociata. Sembra potersi affermare che costruirono il loro convento a Catania nella prima metà del sec. XIV, presso la chiesa di Santa Lucia, che da loro fu dedicata all’Annunziata57. 6.4. Non si hanno molte notizie sulla fondazione del primo convento agostiniano a Catania. Il Pirri si limita ad affermare che fu istituito prima del 145558. Amico scrive che l’attuale chiesa e il convento degli agostiniani furono costruiti nel secolo XIV, nel luogo in cui sorgevano la chiesa di Santa Veneranda e il pubblico edifico di una magistratura cittadina. La loro venuta a Catania fu patrocinata dal patrizio Ferdinando Guerrieri. Lo stesso autore spiega la mancanza di documenti con la peste del 1523, che colpì in modo particolare il convento e indusse a bruciare l’archivio59. Gli storici dell’ordine indicano il 1320 come data di fondazione del convento di Catania60. 6.5. La numerosa presenza di monaci e di frati nell’ordinamento diocesano poneva il problema del loro coordinamento con il vescovo e il clero secolare, soprattutto in rapporto alla cura delle anime. I papi e i concili, con interventi non sempre chiari e coerenti, avevano stabilito il principio generale secondo il quale la cura delle anime era di competenza del clero secolare che la esercitava sotto l’autorità del vescovo, mentre ogni tentativo dei monaci o dei frati di inserirsi in questo specifico ministero era considerato un attentato alla giurisdizione episcopale. Nel complesso sistema di esenzioni degli ordini religiosi dalla giurisdizione episcopale non era facile stabilire la competenza dei diversi soggetti che operavano nello stesso territorio sui fedeli che sottostavano alla giurisdizione del vescovo. Alle difficoltà dell’ordinamento generale bisognava aggiungere nella diocesi di Catania quelle derivanti dalla particolare organizzazione data dai normanni dopo la conquista. In questo contesto vanno collocati i frequenti conflitti di competenza che si verificavano fra il vescovo e il clero regolare da una parte, i benedettini e gli ordini mendicanti dall’altra61.

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C. NICOTRA, Il Carmelo catanese nella storia e nell’arte, Messina 1977, 25-31. R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 578. 59 V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., III, 145. 60 B. RANO, Agostiniani, in DIP, I, Roma 1973, 339. 61 A. LONGHITANO, Conflitti di competenza fra il vescovo di Catania, i benedettini e gli ordini mendicanti nei secoli XV e XVI, in Benedictina 31 (1984) 177-196; 359-386. 58

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7. Un radicale mutamento del quadro socio-politico della città e della diocesi di Catania si ebbe dopo il Vespro (30 marzo 1282), durante la dominazione aragonese62. La cacciata degli angioini e lo sbarco di Pietro III d’Aragona (30 agosto 1282) provocò la frattura del Regnum Siciliae normanno-svevo: da una parte la Sicilia soggetta al re d’Aragona (Regnum Siciliae ultra pharum), dall’altra le regioni dell’Italia continentale soggette agli angioini (Regnum Siciliae citra pharum). Ognuna delle due parti mirava a ricomporre l’unità invadendo la parte avversa. Ebbe inizio in tal modo una lunga guerra combattuta per terra, per mare e sul piano diplomatico. Alla guerra esterna, aperta fra le due parti del Regnum Siciliae, seguì ben presto quella combattuta fra le diverse fazioni del Regnum Siciliae ultra pharum. La Sicilia si divise in due grandi “parzialità”: i latini o locali (Ventimiglia, Lanza, Rosso, Parisi, Montalto, Abate, Calvello) erano capeggiati dai Chiaramonte e dai Palizzi; i catalani o stranieri naturalizzati (Chiabrera, Peralta, Moncada, Calcerando, Lihori) erano capeggiati dagli Alagona. La guerra baronale per decenni insanguinò la Sicilia e distrusse la sua economia, a tutto vantaggio delle altre regioni del Mediterraneo63. Il papa, rivendicando diritti feudali sulla Sicilia ultra pharum, non aveva riconosciuto il nuovo assetto politico del Regnum Siciliae e aveva fatto ricorso alle armi sue proprie della scomunica e dell’interdetto. Sembra che Catania sia stata una delle città preferite per l’insediamento dei catalani. Tuttavia non tutte le componenti della società catanese parteggiavano per i nuovi arrivati. Nel 1296 il papa Bonifacio VIII nominò vescovo di Catania il romano Gentile Orsini, favorevole alla “parzialità” latina; egli con il soste62

A. LONGHITANO, Aragonesi e catalani a Catania (secoli XIII-XV), in «Pastura les meyes ovelles» (Jn 21,16). Miscel-lània d’homenatge al cardenal Lluís Martínez Sistach, Barcelona 2015, 129-146. 63 Sulle guerre baronali che sconvolsero la Sicilia dopo il Vespro, si veda: MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, a cura di A. Giuffrida, Palermo 1980; M. AMARI, La guerra del Vespro siciliano, a cura di F. Giunta, 2 voll., Palermo 1969; F. GIUNTA, Aragonesi e catalani nel Mediterraneo, 2 voll., Palermo 1953, ID., Il Vespro e l’esperienza della «Communitas Siciliae». Il baronaggio e la soluzione catalano-aragonese dalla fine dell’indipendenza al Viceregno spagnolo, in Storia della Sicilia, III, Napoli 1980, 305-407; V. D’ALESSANDRO, Politica e società nella Sicilia aragonese, Palermo 1963; B. SAITTA, Catania medievale, Catania 1996.

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gno di parte della nobiltà catanese, favorì il rientro in città degli angioini (1299). I monaci-canonici del cattedrale, schierati con gli aragonesi, approfittando di una temporanea assenza del vescovo lo destituirono e si impossessarono dei beni della mensa vescovile. Il papa inviò il legato Gerardo de Parma con il mandato di ripristinare l’ordine e di trasformare il capitolo della cattedrale da regolare in secolare. La pace di Caltabellotta del 1302, che pose fine alla guerra fra Roberto d’Angiò e Federico III, riportò la città di Catania nell’orbita degli aragonesi e impedì la secolarizzazione del capitolo della cattedrale64 7.1. Catania divenne di fatto la capitale del regno: la corte, i consiglieri e le famiglie imparentate con il re fissarono la loro residenza a Catania, anche la regia curia dal 1337 al 1377 operò nella città etnea. Uno dei fattori che favorì l’integrazione con la popolazione locale dei re e dei personaggi che gravitavano attorno alla corte fu il culto di s. Agata65. I cronisti e gli storici locali evidenziano come un dato costante la devozione dei sovrani aragonesi per s. Agata. Federico III, che fin dall’adolescenza era stato devoto della Santa, nel 1296 fu proclamato re di Sicilia dal parlamento riunito nella cattedrale di Catania. Nel 1337 mentre si trovava in viaggio, avvertì a Resuttano che le sue condizioni di salute si erano aggravate. Decise di continuare per raggiungere Catania e affidarsi alla protezione di s. Agata, che lo aveva soccorso in molte situazioni difficili. Non riuscì a realizzare questo suo ultimo desiderio, perché morì il 25 giugno prima di arrivare a Catania, nell’ospedale dei cavalieri di San Giovanni Gerosolimitano che sorgeva dopo Paternò66. Il suo corpo fu seppellito nella cattedrale67. S. Agata fu considerata la protettrice del regno, invocata nei momenti di necessità e ringraziata dopo la concessione di grazie e di favori. I cittadini di Catania più volte ottennero particolari privilegi dalla gratitudine dei re per le grazie ricevute dalla santa patrona: Pietro II, successore di Federico, avendo attribuito all’intercessione di

64 G. FASOLI, Tre secoli, cit., 129-130; P. SARDINA, Tra l’Etna e il mare. Vita cittadina e mondo rurale a Catania dal Vespro ai Martini (1282-1410), Messina 1995, 130-135. 65 A. LONGHITANO, Aragonesi e catalani, cit., 132-136. 66 S. FODALE, Federico III d’Aragona, re di Sicilia, in, DBI 45, Roma 1995, 693. 67 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cit., 48.

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s. Agata la nascita dell’atteso erede Ludovico, avvenuta a Catania il 4 febbraio 1338, vigilia della festa della santa patrona, concesse ai cittadini di Catania il privilegio di essere esentati in perpetuo dall’onere di provvedere a proprie spese all’accoglienza del re, dei suoi familiari e del suo seguito68. Lo stesso Ludovico, divenuto re all’età di cinque anni, sotto la reggenza dello zio Giovanni, in un diploma del 15 marzo 1354, consapevole del particolare patrocinio che s. Agata aveva su di lui, in segno di gratitudine per la lealtà e la dedizione dimostrate dai cittadini di Catania verso il re, accordò il privilegio dell’esenzione dal pagare il diritto di trentesima e di sessantesima dovuto ai giudici per lo svolgimento di cause e liti e gli stessi privilegi concessi alle città di Palermo e Messina dai suoi predecessori, in modo che Catania fosse considerata assieme ad esse “terza sorella”69. La cattedrale di Catania fu il punto di riferimento per la celebrazione di battesimi, di matrimoni, di esequie e per la sepoltura dei re e dei personaggi della corte. Sembra che il ruolo di difesa e di protezione attribuito a s. Agata dai re di Sicilia superasse i confini del regno per investire anche l’Aragona e la Catalogna, se si considera che la cappella del palazzo reale di Barcellona è intitolata alla santa di Catania. 7.2. Fra le famiglie aragonesi vicine alla corte spiccava la famiglia Alagona, i cui esponenti ebbero un ruolo di primo piano nelle vicende di questo periodo: Blasco il Giovane70, i figli di quest’ultimo Artale I71 e Manfredi72, Artale II figlio di Manfredi73. Blasco Alagona il Giovane — nipote di Blasco il Vecchio venuto al seguito di Pietro III d’Aragona dopo il Vespro74 — era nato in Sicilia verso la fine del secolo XIII e faceva parte della terza generazione di catalani che guardavano alla Sicilia come alla propria terra. Blasco per la fama del suo nome e per l’abilità guerriera era divenuto il principale referente della nobiltà catalana trapiantata in Sicilia. Si era stabilito a Catania, nel cui territorio e circondario la sua famiglia aveva note68

V. M. AMICO, Catana illustrata, II, cit., 135-137. Ibid., 186-187. 70 F. GIUNTA, Alagona Blasco, il Giovane, in DBI, I, Roma 1960, 558-559. 71 ID., Alagona Artale, ibid., 556-557. 72 ID., Alagona Manfredi, ibid., 559-560. 73 ID., Alagona Artale, ibid., 557. 74 ID., Alagona Blasco il Vecchio, ibid., 557-558. 69

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voli possedimenti75. Catania ufficialmente era una città demaniale, amministrata dagli ufficiali regi, ma di fatto divenne una “signoria” degli Alagona76. Anche nel governo del regno Blasco il Giovane prima e il figlio Artale I poi esercitarono un potere non previsto dall’ordinamento dato dai normanni. Per l’estrema debolezza dell’autorità regia e per le aspre lotte che contrapponevano la “parzialità” latina a quella catalana, si sostituivano al sovrano nella raccolta dei finanziamenti necessari per fare la guerra non già come persone private, ma come tutori della res publica; occupavano le terre e le città regie con il pretesto di sottrarle al potere delle fazioni avverse; nominavano di propria iniziativa i pubblici ufficiali e prendevano le principali decisioni nei momenti difficili77; in assenza del re abitavano al castello Ursino, la reggia di Catania; sulle mura e sulle porte della città avevano fatto incidere o dipingere lo stemma di famiglia (sei palle nere in campo d’argento)78; avevano a propria disposizione un piccolo esercito addestrato e bene armato79. Artale I aveva aperto a Catania una zecca80 e disponeva del diadema regio81. I catanesi si erano a tal punto identificati con gli Alagona che il loro grido di battaglia era 75

La famiglia Alagona, oltre ai numerosi feudi, possedeva un palazzo con una torre superba nei pressi della chiesa Santa Maria della Rotonda (V. M. AMICO, Catana illustrata, II, cit., 253; S. TRAMONTANA, Michele da Piazza e il potere baronale in Sicilia, Messina-Firenze 1963, 302); altre case nei pressi del castello Ursino e molte proprietà nel territorio di Catania, di Aci e di altre città della Sicilia. Si vedano in tal senso gli atti di compravendita di diversi immobili stipulati da Blasco il giovane: L. SCIASCIA, Pergamene siciliane dell’Archivio della Corona d’Aragona (1183-1347), Palermo 1994, 216-218, 289-291 e da Artale I; A. GIUFFRIDA, Il cartulario della famiglia Alagona di Sicilia. Documenti 1337-1386, Palermo 1978, ad indicem. 76 P. SARDINA, Tra l’Etna e il mare, cit., 158-173. 77 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cit., 93-94. 78 A. GIUFFRIDA, Il cartulario, cit., 13-14; I. LA LUMIA, Storie siciliane, cit., I, 153. 79 Michele da Piazza descrive quello di Blasco: «Erant enim continue in civitate Catanie predicte fere mille milites, quibus comes Blascus predictus stipendia tribuebat mense quolibet. Pedites vero exteri, thusci, lombardi ex diversis nationibus in civitate predicta erant in numero copioso, quibus similiter juxta gradum eis tribuebatur pensio, qui vulgariter vocabantur “bricanti”» (MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cit., 97-98). 80 R. SPAHR, Di un denaro inedito battuto nella zecca di Catania durante il regno di Maria d’Aragona (1377-1401), in ASSO 27 (1931) 76-80; P. SARDINA, Tra l’Etna e il mare, cit., 224-227. 81 A. GIUFFRIDA, Il cartulario, cit., 14.

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«Alagona e s. Agata»82. 7.3. Lo scenario descritto era del tutto nuovo e in esso la città era chiamata a trovare un nuovo ruolo, diverso da quello delineato dai normanni. La presenza della corte e della regia curia offriva ai catanesi maggiori possibilità di lavoro, di commercio e di guadagni, ma al tempo stesso veniva a turbare l’equilibrio tradizionale dei poteri nella città. L’autonomia delle magistrature locali, sotto l’immediato controllo dei funzionari regi, risultava inevitabilmente limitata, anche se ai patriziati cittadini veniva data una maggiore possibilità di emergere e di affermarsi nelle strutture centrali del regno. Le dialettiche interne fra i diversi esponenti della società catanese perdevano di vivacità e di interesse venendosi a trovare in un contesto più ampio e più vario. Le stesse autorità ecclesiastiche e le strutture religiose della città nel particolare ordinamento della società siciliana furono obbligate a confrontarsi con la corte e la regia curia. Non sempre i re di Sicilia riuscirono ad ottenere dal papa la nomina delle persone di loro gradimento presentati per la sede di Catania; oltretutto per Roma i legittimi sovrani di Sicilia erano gli angioini, mentre gli aragonesi venivano considerati intrusi. Questa situazione spiega nella cronotassi dei vescovi di Catania la varietà delle specificazioni che si trovano accanto ai nomi di questo periodo storico: vescovi eletti dal capitolo oppure presentati dal re, che non hanno avuto la nomina dal papa; vescovi nominati dal papa che non hanno mai preso possesso della sede, monaci che governavano come vicari nei lunghi periodi di sede vacante o di assenza del vescovo83. Tra i vescovi che hanno una maggiore attinenza al nostro tema possiamo citare il genovese Leonardo Fieschi, nominato da Benedetto XI il 10 gennaio 1304 che, a motivo dei difficili rapporti con i monacicanonici della cattedrale, si fermò per poco tempo a Catania e governò la diocesi per mezzo di vicari. Egli va ricordato per il conflitto sui lavori di restauro della cattedrale. Le sue condizioni fatiscenti non consentivano lo svolgimento delle funzioni. Il vescovo nel 1318 chiese ai catanesi di contribuire al rifacimento del tetto. Si riproponeva il problema delle rendite del patrimonio della mensa vescovile, che 82 83

MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cit., 106. G. ZITO, Catania, in Storia delle Chiese di Sicilia, cit., 395-399.

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avrebbero dovuto coprire anche le spese necessarie per la manutenzione della cattedrale, ma che in quel periodo o non erano sufficienti o erano state destinate ad altri scopi. Solo nella seconda metà del secolo XIV si cercherà di dare una soluzione stabile al problema quando, con un’intesa fra il vescovo, i monaci-canonici e i giurati della città, nel 1372, si istituì l’Opera grande o fabbriceria84. Un’altra figura che merita di essere ricordata tra i vescovi di questo periodo è il benedettino francese Marziale85, nominato da Innocenzo VI nel 1357, che riuscì a ricomporre o attenuare i contrasti interni della società catanese e quelli che contrapponevano la città ai sovrani e al papato. Nei suoi quindici anni di governo riorganizzò gli istituti monastici esistenti in diocesi e favorì l’iniziativa di Artale I Alagona di fondare la certosa Santa Maria di Nuovaluce86, commissionò al senese Giovanni di Bartolo, che operava ad Avignone presso la corte pontificia, il reliquiario a busto di s. Agata87, fece costruire il campanile della cattedrale, si adoperò per la fondazione dell’Opera magna o fabbriceria. La realizzazione di queste opere fa presumere per la città di Catania un certo benessere economico e una certa tranquillità sociale, nonostante l’epidemia di peste nera che dal 1347 al 1351 in Sicilia e in tutta l’Europa aveva provocato la morte di un terzo della popolazione. Gli effetti di questa epidemia si avvertirono nei decenni successivi, durante lo scisma d’Occidente, che iniziò nel 1378 e si concluse nel 1417. Per la Sicilia e per Catania sarà un periodo di svolta sociale e politica. 7.4. Nel 1377 era morto il re Federico IV e gli era succeduta la figlia Maria, sotto la tutela di Artale I Alagona. Questi, nel tentativo di salvare l’esistenza dello Stato siciliano, decise di rendere partecipi al potere i maggiori esponenti del baronaggio. Nacque così il governo dei quattro vicari: Artale Alagona, Guglielmo Peralta, Manfredi III Chiara84 A. LONGHITANO, Pietro Geremia riformatore. La società, le istituzioni e lo «Studium» nella Catania del ’400, in La memoria ritrovata. Pietro Geremia e le carte della storia, a cura di F. Migliorino e L. Giordano, Catania 2006, 201-281: 206-208. 85 G. FASOLI, Tre secoli, cit., 139; P. SARDINA, Tra l’Etna e il mare, cit., 239-243. 86 A. LONGHITANO, Santa Maria di Nuovaluce a Catania. Certosa e abbazia benedettina, Catania 2003. 87 Sant’Agata. Il reliquiario a busto. Contributi interdisciplinari, a cura dell’Ufficio per i beni culturali dell’arcidiocesi di Catania, Catania 2010.

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monte e Francesco II Ventimiglia. Il progetto non ebbe l’effetto desiderato, in quanto il governo restò di fatto in mano di Artale e di Manfredi Chiaramonte88. Mentre in Sicilia c’era questa confusa situazione politica, iniziò lo scisma d’Occidente: l’8 marzo 1378 era stato eletto papa l’italiano Urbano VI, che si insediò a Roma; i cardinali francesi, affermando di essere stati condizionati dal popolo romano nella scelta del nuovo papa, elessero Clemente VII, che si insediò ad Avignone (20 settembre 1378)89. In un primo momento l’inizio dello scisma d’Occidente non diede l’impressione di provocare in Sicilia conseguenze di rilievo: la regina Maria si schierò a favore di Urbano VI e nel 1378 inviò una delegazione a Roma per rendere omaggio al sommo pontefice90. Una prima ripercussione si ebbe a Catania con la rimozione del vescovo Elia91, che si era schierato per il papa di Avignone, Clemente VII. Urbano VI dopo averlo rimosso nominò al suo posto il domenicano messinese Simone Del Pozzo (16 dicembre 1378), una creatura di Artale Alagona, su cui il papa era certo di fare totale affidamento92. Con il trascorrere degli anni la situazione si aggravò. Se prima dello scisma era stato difficile per le autorità religiose rimanere estranee alle lotte baronali, la contemporanea presenza prima di due e poi anche di tre papi rese impossibile ogni forma di neutralità: vescovi, abati, provinciali religiosi e superiori locali furono obbligati a parteggiare per l’una o l’altra fazione che sosteneva la legittimità del papa di Roma o del papa di Avignone, con le conseguenti rappresaglie delle fazioni avverse. Si comprendono, perciò, i processi per tradimento 88

I. LA LUMIA, Storie siciliane, cit., I, 135-179; F. GIUNTA, Aragonesi e catalani, cit., I, 1953, 159-161. 89 Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche e V. Martin, trad. it., XIV/1, Torino 1967, 29-46; Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, trad. it., V/2, Milano 1977, 135-163. 90 E. STINCO, Politica ecclesiastica di Martino I in Sicilia (1392-1409), Palermo 1921, 16-22. 91 P. SARDINA, Tra l’Etna e il mare, cit., 243. 92 S. FODALE, Del Pozzo Simone, in DBI, 38, Roma 1990, 249-251. Simone Del Pozzo, dopo avere insegnato teologia in Provenza, ad Avignone, a Parigi e a Napoli, era tornato in Sicilia ed era entrato nella corte di Federico IV come cappellano e consigliere. Verso il 1369 era stato nominato da Urbano V inquisitore. Dopo il trattato di pace fra la Sicilia e Napoli del 1372 era stata costituita la provincia domenicana di Sicilia e il Del Pozzo era stato nominato primo vicario generale e forse primo ministro provinciale.

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o per scisma contro vescovi o provinciali religiosi, la loro sostituzione e le conseguenti lacerazioni che si vennero a creare nelle diocesi e nelle province religiose per la contemporanea presenza di due vescovi, di due provinciali, di due guardiani o di due parroci. Tutto questo ebbe gravi riflessi anche sul piano della moralità e della disciplina ecclesiastica, perché i diversi papi non si trovavano nelle condizioni di attuare la riforma della Chiesa che avrebbe richiesto una politica di rigore; anzi, per sollecitare l’obbedienza dei vescovi o dei superiori degli ordini religiosi, concedevano con estrema facilità grazie e dispense a scapito dell’osservanza delle leggi e delle costituzioni93. 7.5. In questo clima così confuso, una svolta imprevista fu determinata dagli avvenimenti politici. Artale I Alagona, che esercitava di fatto un’egemonia nel governo della Sicilia, intendeva mantenere una certa distanza dagli aragonesi e perseguire una politica italiana. Formalmente reggeva la Sicilia una regina appena quindicenne e il suo tutore pensò di avviare le trattative con Giangaleazzo Visconti per un matrimonio con la regina Maria. I pretendenti alla mano della regina di Sicilia erano in molti e l’idea di Artale suscitava non poche apprensioni. Nel gennaio del 1379 il conte di Augusta, Guglielmo Raimondo III Moncada, irritato per essere stato escluso dalla divisione del governo dei quattro vicari, approfittando dell’assenza di Artale, con un abile colpo di mano rapì la regina Maria dal castello Ursino di Catania (1379) per offrirla in sposa a Martino, nipote di re Pietro IV d’Aragona. Artale tentò invano di liberarla cingendo d’assedio il castello di Augusta94. Inizialmente Pietro IV pensava di dare in sposa la regina Maria al suo primogenito Giovanni, che avrebbe dovuto succedergli sul trono d’Aragona. Quando l’infante oppose un netto rifiuto, pensò di ripiegare sul nipote, figlio del secondogenito Martino che portava lo stesso nome del padre; ma il preconizzato sposo della regina di Sicilia aveva sei anni ed era necessario attendere che raggiungesse l’età prevista dalla legge per contrarre matrimonio95. Artale I Alagona morì nel febbraio del 138996. La sua uscita di

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G. PISTORIO, Riflessi dello scisma d’Occidente in Sicilia, Catania 1974. I. LA LUMIA, Storie siciliane, cit., I, 141-179; F. GIUNTA, Aragonesi e catalani, cit., I, 154-163; P. SARDINA, Tra l’Etna e il mare, cit., 171-173. 95 P. SARDINA, Maria d’Aragona, regina di Sicilia, in DBI, 70, Roma 2008, 195-198. 94

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scena segnò per il regno di Sicilia un nuovo periodo storico: tramontava definitivamente il progetto di una Sicilia “italiana” e cominciava a realizzarsi il disegno degli aragonesi di integrare nei propri domini una regione ritenuta strategica per il controllo del Mediterraneo. Gli avvenimenti precipitarono quando Urbano VI inviò in Sicilia il nunzio apostolico Nicolò Sommariva, che affidò ai quattro vicari il governo dell’isola, a nome del papa romano e della regina Maria. Il disconoscimento dei diritti di Martino il Giovane, che nel 1391 aveva sposato la regina Maria, indussero il padre, duca di Montblanc, a organizzare una spedizione armata per impadronirsi della Sicilia97. 8. Martino il Vecchio, suo figlio Martino il Giovane e la regina Maria, sbarcarono il 22 marzo 1392 a Favignana. Martino il Giovane si autoproclamò re di Sicilia, ponendosi in aperto contrasto con le clausole del trattato del 1372 fra Federico IV, Giovanna I di Napoli e il papato. Già sin dal pontificato di Urbano VI gli aragonesi si erano rivolti al papa di Avignone per chiedere l’infeudamento della Sicilia e per avere le dispense necessarie al matrimonio di Martino con Maria, che erano consanguinei. Questo loro atteggiamento non era cambiato con lo sbarco in Sicilia98; pertanto sotto i nuovi sovrani il regno di Sicilia passò dall’obbedienza al papa di Roma a quella del papa di Avignone. Due dei quattro vicari superstiti (Ventimiglia e Peralta) si unirono ai Martini. Manfredi Alagona, succeduto al fratello Artale I nell’ufficio di vicario, fu rinchiuso in carcere come elemento pericoloso, sebbene avesse promesso all’ambasciatore aragonese di non ostacolare l’impresa dei Martini99. Rimase all’opposizione Andrea Chiaramonte, che attese gli aragonesi a Palermo. La città fu assediata e il Chiaramonte, costretto alla resa, fu processato e decapitato come traditore (1392). Gli arcivescovi di Palermo e Monreale, che si erano schierati al fianco degli oppositori, furono destituiti. L’opposizione si riunì attorno ai superstiti della famiglia Alagona, in particolare Giacomo, fratello di Artale I, e Artale II, figlio di

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LA LUMIA, Storie siciliane, cit., I, 196; F. GIUNTA, Aragonesi e catalani, cit., I, 175. P. SARDINA, Tra l’Etna e il mare, cit., 174-175; ID., Maria d’Aragona, cit., 196. 99 E. STINCO, Politica ecclesiastica, cit., 17-22. 99 Sembra sia morto in carcere dopo qualche anno (F. GIUNTA, Alagona Manfredi, cit., 559). 97

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Manfredi, succeduto al padre nel governo di Catania e di Aci. Giacomo fu catturato da Martino a Mineo e fatto decapitare. Nell’intenzione dei Martini questi atti di forza dovevano servire a stroncare qualsiasi tentativo di opposizione. In realtà provocarono l’effetto contrario: fu più facile far passare gli aragonesi per scismatici, persecutori e usurpatori violenti100. 8.1. Gli oppositori si riunirono ad Aci e a Catania, dove Artale II trovò il sostegno incondizionato del vescovo, il domenicano Simone Del Pozzo. Una luminaria accolse l’ingresso di Artale in città; Simone Del Pozzo cavalcò al suo fianco assieme ai vescovi di Malta e di Siracusa. Artale, con il sostegno morale e materiale del vescovo, il 28 giugno 1392 tentò l’assalto al castello Ursino, sede del potere regio. La resistenza antiaragonese non riuscì a contrastare i Martini, che occuparono anche Catania. Artale II fuggì e il vescovo fu sottoposto a un processo (12-23 luglio 1392), che per volontà di Martino non si concluse con la sua rimozione101. 8.2. Le ostilità furono riprese nel 1393, dopo un intervento di Bonifacio IX, che incitò i baroni a ribellarsi contro i Martini. Simone Del Pozzo e Artale II accolsero prontamente l’invito e passarono all’azione. Il 7 marzo 1393 Artale entrò a Catania e promosse la ribellione contro il re. La città fu assediata dai Martini per mare e per terra, ma resistette fino al 9 agosto 1393, quando i catanesi si arresero per fame. Artale con uno stratagemma era riuscito a scappare dalla città assediata. Il vescovo Simone, mentre fuggiva travestito da soldato, fu catturato dalle truppe aragonesi e messo in prigione. Martino lo depose da vescovo (11 agosto 1394), motivando la sua decisione con la fondatezza delle imputazioni mosse contro di lui nel processo del 1392102. Il convento dei domenicani fu distrutto. La città di Catania, che per tanto tempo era stata di fatto la capitale del regno, dai Martini fu considerata ribelle e inaffidabile. 9. Il capovolgimento di un sistema di potere, che durava da cir100

F. GIUNTA, Il Vespro e l’esperienza, cit., 192-197. S. FODALE, Scisma ecclesiastico e potere regio in Sicilia, I, Il duca di Montblanc e l’episcopato tra Roma e Avignone (1392-1396), Palermo 1979, 53-54; P. SARDINA, Tra l’Etna e il mare, cit., 176-177. 102 S. FODALE, Scisma ecclesiastico, cit., 75-82; P. SARDINA, Tra l’Etna e il mare, cit., 177-179. 101

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ca un secolo, ebbe ripercussioni su tutta la società catanese e determinò un ricambio della classe dirigente a tutti i livelli, compreso quello ecclesiastico. I Martini, per scoraggiare altri tentativi di destabilizzazione, procedettero con fermezza nel punire i responsabili. I superstiti della famiglia Alagona e le persone a loro vicine furono processate e condannate all’esilio; con i beni loro confiscati furono risarciti coloro che avevano subìto danni nella rivolta. Molti di coloro che rimasero in città furono emarginati e sostituiti con chi dava maggiore affidamento nell’attuazione del nuovo indirizzo politico. Non mancarono i “pentiti”, che dai Martini furono perdonati e reintegrati103. Anche se col trascorrere degli anni l’ordinamento dato dagli aragonesi era destinato a consolidarsi, le drammatiche vicende dei decenni passati avevano acuito il clima di diffidenza, di sospetto e di ostinata difesa dei propri privilegi che caratterizzava la società del tempo. Il vescovo e gli ordini religiosi presenti nella diocesi non si trovarono nelle condizioni di operare super partes per mitigare i contrasti e favorire la pace sociale, perché anche loro furono coinvolti nella lotta delle diverse fazioni e nella difesa di interessi particolari. Il vescovo nei confronti delle magistrature cittadine e dell’aristocrazia si sentì obbligato a seguire con intransigenza la linea dei suoi predecessori di strenua difesa dei diritti feudali concessi dai normanni104. 9.1. Nel 1431, su presentazione di re Alfonso e con il pieno consenso dell’aristocrazia, era stato nominato vescovo di Catania il frate minore conventuale Giovanni Pesce, appartenente a una nobile famiglia di giureconsulti catanesi, che avevano occupato uffici di rilievo nelle magistrature cittadine e nella Regia Gran Corte105. Nella sede vescovile di Catania Giovanni Pesce succedeva al vescovo Giovanni de Podio Nucis, che si era impegnato in una strenua azione di recupero e di difesa del patrimonio e dei diritti della Chiesa. Le rivendica103 P. SARDINA, Classi sociali e resistenza anticatalana a Catania alla fine del secolo, in Mediterraneo Medievale. Scritti in onore di Francesco Giunta, III, Soveria Mannelli 1989, 1119-1169. 104 M. GAUDIOSO, La questione demaniale, cit., 22-31. 105 G. PACE, Giuristi e apparati di curia a Catania nel Quattrocento, in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XII-XVI, a cura di G. Zito, Torino 1995, 67-89; C. BIONDI, Mentalità religiosa e patriziato urbano a Catania. Secoli XIV-XV, Messina, 2001, 185-211. Giovanni Pesce dai suoi contemporanei viene descritto come piccolo di statura (per

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zioni del vescovo spesso avevano il sostegno di re Alfonso106, ma non erano condivise dalle magistrature catanesi, perché riguardavano le residue competenze riconducibili alla giurisdizione feudale, che il vescovo pretendeva di esercitare107. Su un fronte diverso c’era il conflitto aperto dal vescovo con i monaci-canonici della cattedrale. Giovanni Pesce rifiutava di dare il contributo previsto per finanziare l’Opera grande e di partecipare alle spese di consolidamento dell’edificio. Il re Alfonso intervenne per indurre il vescovo ad assumere un atteggiamento più conciliante e a mantener fede ai suoi impegni, ma non sembra esserci riuscito108. Nel 1443 i benedettini decisero di inviare una delegazione al re e al papa per sollecitare un intervento dall’alto. In quel periodo operavano in Sicilia due persone di fiducia di Eugenio IV: il catanese Giovanni de Primis, abate benedettino di San Paoquesto era soprannominato Piscitellus), ma dotato di una vivace intelligenza tendente alla dialettica e di una voce potente che lo faceva apprezzare come predicatore. Un breve profilo di Giovanni Pesce si trova in PH. CAGLIOLA, Almae Siciliensis provinciae ordinis minorum conventualium S. Francisci manifestationes novissimae…, a cura di F. Rotolo, Palermo 1984, 176-177; I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 196-204; R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 547-548. I dati riferiti da questi autori vanno corretti e integrati sulla base degli studi più recenti, che fanno riferimento alla documentazione conservata nell’Archivio Segreto Vaticano (I. TASSI, Un collaboratore dell’opera riformatrice di Eugenio IV: Giovanni de Primis, in Benedictina 2 [1948] 3-26). 106 B. SAITTA, Catania nei documenti dell’Archivio della Corona d’Aragona, in Quaderni Catanesi 8 (1986) 447-526, si vedano in particolare i documenti dell’appendice. 107 I vescovi di Catania rivendicavano in particolare: il giuramento di fedeltà nelle loro mani da parte del patrizio, dei giudici, degli acatapani e dei capisciurta prima di iniziare l’esercizio del loro ufficio; il rispetto della giurisdizione vescovile nei confronti delle persone e dei beni soggetti al vescovo; il rispetto dei diritti della dogana, della statia e della giarretta; la negazione del libero diritto di legnatico nei boschi che costituivano il patrimonio della chiesa di Catania (M. GAUDIOSO, La questione demaniale, cit., 22-25; A. LONGHITANO, Pietro Geremia riformatore, cit., 205). 108 Nella quinta delle supplicaciones inviate al re Alfonso il 9 ottobre 1434, la città di Catania chiedeva che il vescovo fosse sollecitato a pagare le 50 once annue per i lavori di restauro della cattedrale. Il documento si trova in appendice al saggio di M. BELLOMO, Modelli di Università in trasformazione: lo «Studium Siciliae Generale» di Catania tra medioevo ed età moderna, in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XII-XVI, cit., 103-121. La richiesta fu rinnovata nella dodicesima delle supplicaciones inviate a Ferdinando II il Cattolico il 28 giugno 1494, XII ind., segno che il problema, nonostante gli anni trascorsi, non era stato ancora risolto (A. LONGHITANO, Istituzioni di cristianità, cit., 120-121).

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lo fuori le mura di Roma109, e il palermitano Pietro Geremia, vicario per l’osservanza dei domenicani di Sicilia110, più volte incaricato dal papa per riportare la disciplina in diversi monasteri siciliani. I due religiosi, chiamati in causa dai benedettini della cattedrale e verosimilmente dalle magistrature cittadine, non si limitarono al tentativo di risolvere le numerose controversie sorte fra il vescovo e le diverse componenti la società catanese. La loro opera va ricordata soprattutto per l’aiuto offerto nell’attuazione del duplice progetto: a) rilanciare la città dopo il declino provocato dalla sua resistenza ai Martini e dal trasferimento della corte a Palermo; b) riformare il clero provato dai disordini dello scisma d’Occidente. Fra le iniziative più rilevanti di questo duplice progetto c’erano: la fondazione del Siciliae Studium generale, l’istituzione della collegiata Santa Maria dell’Elemosina, l’erezione di una scuola per i chierici. 9.2. La città di Catania nel 1434 aveva ottenuto il placet del re Alfonso per la fondazione di uno Studium generale111, ma nell’ordinamento della respublica christiana si era affermata la prassi che richiedeva per questa erezione l’intervento delle due autorità, quella

109 Su questo personaggio, che svolse un ruolo di rilievo nelle vicende siciliane di questo periodo si vedano: I. TASSI, Un collaboratore, cit.; S. FODALE, De Primis Giovanni, in DBI, 39, Roma 1991, 89-91. Non sappiamo se Giovanni de Primis in quegli anni svolgesse il suo mandato in Sicilia personalmente o tramite suoi collaboratori. Il religioso il 26 aprile 1444 era stato nominato visitatore, riformatore e correttore nel regno di Sicilia con la potestà di legato a latere, per rimediare i gravi abusi introdotti nell’ambiente ecclesiastico (ASV, Reg. Vat. 376, fol. 95v-96v). 110 Sulla figura di Pietro Geremia si vedano: R. P. MORTIER, Histoire des maitres généraux de l’ordre des frères prêcheurs, IV, Paris 1909, 157-158; A. M. CONIGLIONE, Pietro Geremia O. P. Santo, apostolo, scrittore, inauguratore della R. Università catanese, Catania 1952; A. SILLI, Geremia Pietro, in Bibliotheca Sanctorum, VI, Roma 1965, 212-215; A. BARILARO, Pietro Geremia. Importante documento su gli anni giovanili, Palermo 1992; C. DOLLO, Cultura del Quattrocento in Sicilia. Alle origini del «Siculorum Gymnasium», in Rinascimento 39 (1999) 227-292; S. GIORDANO, Geremia Pietro, in DBI, 53, Roma 1999, 407-410; V. ROMANO, Il domenicano palermitano Pietro Geremia (1399-1452) nello sviluppo della cultura europea del XV secolo, Palermo 2002. 111 M. CATALANO, L’Università di Catania nel Rinascimento (1434-1600), in Storia dell’Università di Catania dalle origini ai giorni nostri, Catania 1934, 1-98: 8-11; M. BELLOMO, Modelli di Università, cit., 104-105; A. LONGHITANO, Pietro Geremia, cit., 211-214.

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regia e quella pontificia112. Il placet di Alfonso non aveva ricevuto la conferma di Eugenio IV a causa delle forti tensioni sorte fra i due. La loro riconciliazione, che si concretizzò nel trattato di Terracina del 14 giugno 1443, fece capire ai catanesi che erano maturati i tempi per chiedere al papa l’erezione dello Studium. Una delegazione si recò da Eugenio IV; di essa facevano parte il benedettino catanese Giovanni de Primis, abate di San Paolo fuori le mura113, e quasi certamente il domenicano Pietro Geremia114. La bolla di erezione del Siciliae Studium generale porta la data del 18 aprile 1444115. Giovanni de Primis si recò a Napoli per avere la conferma di Alfonso (28 maggio)116. Il 29 settembre la bolla fu trasmessa dall’abate di S. Paolo ai giurati di Catania tramite Pietro Geremia e Pietro Speciale117. Il documento ebbe l’exequatur a Palermo dal viceré Lopez Ximen d’Urrea il 25 ottobre118. La formale erezione dello Studium concludeva il difficile cammino che le diverse componenti della società catanese avevano iniziato dieci anni prima. Avuta in mano la bolla di Eugenio IV, l’approvazione regia e l’esecuzione del viceré, sembrava che tutte le difficoltà fossero state superare e si potesse procedere alla solenne inaugurazione del primo anno accademico. Ma da alcuni documenti si deduce che restavano da superare ostacoli interni alla città. La difficoltà principale era costituita dal finanziamento dello Studium. La città di 112 I. CECCHETTI – P. PASCHINI, Università, in Enciclopedia cattolica, XII, Città del Vaticano 1954, 857-864. 113 I. TASSI, Un collaboratore, cit., 3-26; S. FODALE, De Primis Giovanni, cit. 114 M. A. CONIGLIONE, Pietro Geremia, cit., 130-132. Risulta priva di fondamento l’ipotesi avanzata da V. Casagrandi su un presunto atteggiamento contrario di Pietro Geremia all’istituzione dello Studio dettato da sentimenti campanilistici: egli che era palermitano non avrebbe visto di buon occhio che un istituto di così grande rilevanza fosse concesso a Catania (V. CASAGRANDI, Di taluni fondatori e primi lettori del «Siculorum Gymnasium», in ASSO 26 [1930] 216-226). 115 ASV, Reg. Vat., 376, 101r-103r. La sua trascrizione si trova in M. CATALANO, L’Università di Catania, cit., 13-16 e in G. NICOLOSI GRASSI – A. LONGHITANO, Catania e la sua Università nei secoli XV-XVII. Il codice «Studiorum constitutiones ac privilegia» del Capitolo cattedrale, Roma 20022, 79-80. 116 Ibid., 80-81. 117 R. SABBADINI, Storia documentata della R. Università di Catania, Catania 1898, doc. n. 56, p. 66. 118 G. NICOLOSI GRASSI – A. LONGHITANO, Catania e la sua Università, cit., 81-82.

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Catania con le sue sole forze non avrebbe potuto farsi carico di quest’onere. Può anche essere ritenuta verosimile l’ipotesi che non ci sia stata unanimità di vedute nel credere che la sola fondazione dello Studium fosse sufficiente per il rilancio della città. Questo potrebbe spiegare la decisione del re di finanziare un’altra iniziativa: la costruzione del molo, cioè di un porto artificiale per consentire un facile attracco alle navi. Alfonso, il 1° giugno 1945, in una lettera indirizzata al vescovo e alle magistrature cittadine, manifestava la sua volontà di destinare la somma di 3.000 scudi per finanziare le due opere119. La decisione del re non era gradita al vescovo, perché implicava per la mensa vescovile la perdita della quota assegnata dai normanni sugli introiti della dogana120. Non sembra sia stato il solo a manifestare il proprio dissenso. Alfonso, il 20 luglio successivo, in un’altra lettera121 ribadiva la sua decisione e invitava tutti a dare la propria collaborazione per il bene comune. L’invito del re non ottenne l’effetto sperato, perché il viceré in una lettera del 30 agosto122 rimproverava la città di Catania per non essersi impegnata a rendere operativo lo Studio e formulava precise accuse verso coloro che si erano dimostrati negligenti o avevano frapposto ostacoli. Il vescovo, quando si 119 Il re, per aiutare i catanesi a superare tentennamenti e contrasti, indicava anche i motivi che lo avevano indotto a prendere questa decisione: da quando la corte e la regia curia avevano lasciato Catania, la città si era impoverita e aveva perduto molto del suo prestigio; il re voleva in un certo senso ricompensarla, tenendo conto anche del clima salubre, della fertilità del suo terreno e della generosità dimostrata dai cittadini nei confronti dei sovrani. I benefìci di queste opere sarebbero andati anche alla regia curia e a tutto il regno, perché sarebbe stato più facile e meno dispendioso preparare i professionisti e i funzionari degli uffici pubblici e perché la costruzione del molo avrebbe comportato maggiori introiti per tutti. (Statuta et privilegia almae Universitatis Catanae, a cura di G. Nicolosi Grassi – A. Longhitano, Catania 2016, I/26). 120 Per i diritti che il vescovo di Catania vantava sul mare e sul porto di Catania vedi il saggio di G. ZITO, Chiesa di Catania «Signora del mare» e marinai devoti, in Il porto di Catania. Storia e prospettive, a cura di A. Coco – E. Iachello, Siracusa 2003, 45-47. 121 Statuta et privilegia, cit., I/27. 122 «…perceperimus noviter non sine displicentia quod vos seu aliqui vestrum in et circa execucionem premissorum non tantum tepidi estis et negligentes, verum etiam impedimentum apponitis et perturbationem, de quo si sic est merito cogimur admirari…» (R. SABBADINI, Storia documentata, cit., doc. n. 62, p. 68).

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rese conto che la volontà di Alfonso non poteva essere messa in discussione, decise di ignorare l’avvenimento per evitare che la sua partecipazione venisse interpretata come rinunzia alle sue competenze. Questo spiega il silenzio delle fonti sulla sua persona nelle diverse fasi di attuazione del progetto e la sua assenza alla solenne inaugurazione dello Studio. Il Siciliae Studium generale fu inaugurato il 18 ottobre 1445123. A presiedere la celebrazione eucaristica e a tenere la prolusione fu invitato il domenicano Pietro Geremia124. Lo storico Matteo Coniglione scrive che il vescovo — naturale cancelliere dello Studio — era assente e Pietro Geremia lo supplì125. In realtà, sfogliando i registri dell’archivio storico diocesano, risulta che Giovanni Pesce dall’ottobre del 1443 al 19 agosto 1446 fu regolarmente a Catania, firmando gli atti di curia126. Forse avrà trovato un pretesto per assentarsi nei giorni dell’inaugurazione, onde evitare che la sua presenza in episcopio rendesse troppo manifesto il suo dissenso. Dai documenti dei mesi successivi risulta chiara la sua posizione: non accettava il fatto compiuto e scrisse ad Alfonso per lamentare la violazione dei diritti della Chiesa di Catania da parte delle magistrature cittadine. Il re, che dà l’impressione di non seguire una chiara linea di azione, il 9 giugno 1446 indirizzò alle autorità di Catania un documento di richiamo: la concessione allo Studium di 1.500 ducati dai dazi di diritto regio sulle merci che uscivano dal porto di Catania non comportava per il vescovo la perdita dei suoi diritti127. Neppure le magistrature catanesi volevano rassegnarsi e replicarono scrivendo al re e al papa128. Il vescovo

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M. A. CONIGLIONE, Pietro Geremia, cit., 134. Il testo fu pubblicato nel volume Sanctuarium sive sermones de sanctis, edito a Brescia nel 1502 dai fratelli domenicani Benedetto e Giovanni Britannico (ibid., 134, 193). È riportato in appendice al saggio di C. DOLLO, Cultura del Quattrocento, cit., 278-292. 125 M. A. CONIGLIONE, Pietro Geremia, cit., 133. 126 TA 1443-1446. 127 I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 207. Il documento si riferisce a Giovanni Pesce e non a Giovanni de Primo. 128 Ad Alfonso chiedevano: voglia «declarari oy providiri et comandari alu Rev.du Episcopu di Catania…» che non dia «molestia et perturbationi né dimandari dirictu alcunu per raxuni di dohana ali foristeri per li extractioni chi si farrano di li 124

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fu invitato da entrambi a non ostacolare le due iniziative di rilancio della città129. Celebrata l’inaugurazione dello Studium, iniziarono i corsi di laurea: diritto civile e canonico, teologia, medicina, che comprendeva anche i corsi di filosofia130. I soggetti responsabili della vita dello Studium erano diversi: il viceré, la città, il vescovo nel ruolo di cancelliere, i collegi dei dottori. Negli statuti dello Studium di Bologna, che avrebbero dovuto servire da modello per quello di Catania, erano indicate le competenze dei diversi soggetti responsabili; ma questo non impedì il sorgere di conflitti131. 9.3. La seconda iniziativa attuata con la mediazione di Giovanni de Primis e Pietro Geremia fu l’istituzione della collegiata Santa Maria dell’Elemosina132. La bolla di Eugenio IV porta la data del 31 maggio 1446133. Nel testo si legge che il papa decise l’erezione della collegiata «motu proprio, non ad alicuius nobis super hoc oblatae petitionis instantiam sed de mera nostra liberalitate». Si tratta di espres-

tracti ad opus di lu Studiu et Molu….» (R. SABBADINI, Storia documentata, cit., doc. n. 70, p. 70-71). I giurati, scrivendo al papa, lo informarono dell’atteggiamento assunto dal vescovo e, avuta la sua risposta, la citarono in una seconda lettera al re: «Etiam hora noviter lu Sanctu patri li hagi scriptu unu brevi exhortandulu chi si digia intramectiri et aiutari et favuriri lu dictu Studiu, lu quali esti grandi honuri et gloria non solum di quilla chitati ma etiam utilitati di tuctu lu regno et comuni beneficiu» (l. c.). 129 Ibid., doc. n. 71, p. 71. 130 I corsi di laurea avviati dopo l’inaugurazione dello Studium, con i nomi dei lettori che avrebbero dovuto tenerli, sono indicati nella lettera inviata dal viceré ai giurati il 30 agosto 1445 (ibid., doc. n. 62, p. 68). 131 G. SCALIA, Il vescovo cancelliere nello Studio di Catania e la sua funzione sino alla riforma del Colonna, in ASSO 30 (1934) 181-234; R. SORICE, Una controversia universitaria nello Studio catanese alla fine del sec. XVI, in Rivista Internazionale di Diritto Comune 6 (1995) 251-279; A. LONGHITANO, Il vescovo Vincenzo Cutelli (1577-1589) cancelliere dello «Studium», in Siculorum Gymnasium 93 (1997) 461507; G. NICOLOSI GRASSI – A. LONGHITANO, Catania e la sua Università, cit. 11-15). 132 A. LONGHITANO, Oligarchie familiari ed ecclesiastiche nella controversia parrocchiale di Catania (secc. XV-XVI), in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XII-XVI, a cura di G. Zito, Torino 1995, 293-322. 133 Il testo della bolla si trova in Reg. Vat. 378, 99r-101r; è anche riportato, con diversi errori di trascrizione, da I. B. DE GROSSIS, Catanense Decachordum, I, Catanae 1642, 108-112; V. M. AMICO, Catana illustrata, II, cit., 317-325; V. MESSINA, Monografia della regia insigne parrocchiale chiesa collegiata di Catania, Catania 1898, 26-37.

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sioni che indicano la procedura canonica seguita dal papa. Eugenio IV aveva certamente ricevuto una formale richiesta, con un progetto di massima per il reperimento dei fondi necessari a costituire le prebende, e i nomi dei primi canonici. Tuttavia, per dare maggior forza giuridica alla sua decisione e per non sentirsi obbligato a chiedere il parere del vescovo e del capitolo della cattedrale, fondò la collegiata motu proprio, come se fosse stato egli stesso a prendere l’iniziativa. La domanda che qui ci poniamo riguarda il soggetto o i soggetti che avanzarono la richiesta e collaborarono per l’effettiva realizzazione del progetto. È probabile che per la circostanza si sia formata un’intesa fra alcuni gruppi egemoni cittadini, con l’esclusione di coloro che dall’erezione potevano avere un danno. Promotore principale dell’iniziativa era il clero secolare, certamente non nella sua totalità ma nella componente aristocratica, quella che avrebbe potuto aspirare ad ottenere le prebende; perciò dietro il clero c’era certamente parte dell’aristocrazia cittadina. Sembra da escludere che in tutta la vicenda siano stati coinvolti il vescovo, che in quel periodo era in conflitto con la città, e i monaci-canonici della cattedrale. Nella bolla di erezione troviamo elencati i tre fini che Eugenio IV era convinto di conseguire con il nuovo capitolo: un incremento del culto divino, un maggior prestigio per la città e una grande consolazione per il clero secolare e il popolo cristiano. Possiamo considerare il primo come il fine specifico che, secondo l’opinione dei canonisti, giustifica l’erezione di una collegiata134. Tuttavia il culto divino veniva qui inteso prevalentemente come ritualità esteriore e solenne, che si presume un capitolo possa assicurare recitando ogni giorno il breviario, celebrando la messa detta conventuale, assicurando una maggiore presenza nella celebrazione dei sacramenti. A partire da questa stessa concezione della religiosità e del culto, si comprende l’altro fine che la fondazione della collegiata intendeva raggiungere: il maggior prestigio per la città. Questo prestigio, però, deve essere inteso non solamente dal punto di vista esteriore, come possibilità di schierare nelle manifestazioni religiose, oltre i monaci del capitolo cattedrale, anche i canonici della collegiata con le loro insegne. Nell’ottica perseguita dal sistema beneficiale, le 134 F. L. FERRARIS, Collegium, in Prompta bibliotheca canonica, iuridica, moralis, theologica, necnon ascetica, polemica, rubricistica, historica..., II, Migne, Lutetiae Parisiorum 1858, 705-720: 711.

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prebende avrebbero garantito a un certo numero di sacerdoti la sicurezza economica per dedicarsi allo studio, allo svolgimento di attività di grande rilievo ma poco rimunerate, come ad esempio gli uffici di curia. In tal senso la nuova collegiata avrebbe potuto accogliere gli elementi più in vista del clero diocesano e costituire un nuovo centro culturale e religioso per la città135. Alla luce di questi rilievi possiamo comprendere il terzo fine indicato nella bolla: la grande consolazione del clero e del popolo cristiano. Non c’è dubbio che la nuova collegiata veniva a coronare un sogno da tempo accarezzato dalla componente aristocratica del clero secolare; si capisce, pertanto, la soddisfazione manifestata da coloro che ottennero le prebende e da chi nutriva la speranza di averle in futuro. Una gioia analoga non provarono il resto del clero e il popolo cristiano nella sua globalità. Le prebende, infatti, erano state costituite dalle rendite di chiese sacramentali della città e del bosco di Catania e di Aci136. Conseguentemente le primizie o le offerte che i fedeli di queste chiese davano per garantire il regolare esercizio della cura d’anime — un tipo di culto tutt’altro che formale — venivano distolte per assicurare forme di religiosità esteriore e un servizio che non tutto il popolo cristiano era in grado di apprezzare137. Com’era da prevedere, la bolla suscitò il malcontento del capitolo della cattedrale, che riuscì ad avere dalla sua parte le magistrature cittadine. I giurati, dopo aver chiesto una prima volta al viceré di negare l’esecuzione della bolla pontificia, si rivolsero direttamente al re Alfonso, chiedendo di ritirare l’esecuzione già data, perché dal loro punto di vista la nuova istituzione non solo aveva suscitato scanda135 A partire da questa considerazione vanno intesi gli scritti non privi di retorica di I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 8 e di V. MESSINA, Monografia, cit. 136 Dieci di queste chiese sacramentali si trovavano nella città (Santa Caterina, San Tommaso, Santa Maria de Itria, Santa Margherita, Sant’Anna, San Lorenzo, San Martino, San Filippo, Santa Barbara, Santa Maria della Rotonda), nove nei casali (Misterbianco: Santa Maria e San Pietro; Mascalucia: San Nicola; Valverde: Santa Maria; San Giovanni la Punta: San Nicola de Catira; Aci San Filippo: San Filippo de Carcina; Mompileri: Annunziata; Tremestieri: Santa Maria; Trecastagni: San Nicola) (Reg. Vat. 378, cit., fol. 99r-101r). 137 Si tenga per altro presente che le prebende dei canonici garantivano rendite di tutto rispetto: mentre i lettori dell’università, appena istituita, percepivano in media 10 onze di stipendio, la rendita media delle prebende era di 12 onze per ogni canonico (C. DOLLO, Cultura del Quattrocento, cit., 12).

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lo in città e poteva far sorgere conflitti con i benedettini della cattedrale, ma i privilegi concessi al nuovo capitolo non rispettavano la giurisdizione del vescovo e costituivano un pregiudizio al diritto di regio patronato138. I ricorsi non furono presi in considerazione. 9.4. La terza iniziativa riguardava la fondazione di una scuola per i chierici nei locali annessi alla chiesa di Sant’Agata la Vetere139. La bolla fu firmata il 4 aprile 1446140, prima di quella che erigeva la collegiata, ma non sembra sia stata spedita. Come leggiamo nel documento, l’iniziativa intendeva porre rimedio a una situazione dolorosa: nella città e nella diocesi di Catania per la mancanza di chierici e di persone disposte a istruirli si conferivano gli ordini sacri a soggetti ignoranti e analfabeti; da questa loro ignoranza nel celebrare la messa e gli altri atti di culto erano derivati non pochi inconvenienti e il discredito del sacro ministero. Il procedimento da seguire per realizzare questo progetto era alquanto complesso. La nuova istituzione avrebbe dovuto essere finanziata con le rendite del priorato annesso alla chiesa, le quali rendite, secondo il computo fatto da chi aveva predisposto il progetto, ammontavano a cento fiorini d’oro annui. Il priorato, che apparteneva ai monaci della cattedrale, sarebbe stato secolarizzato. Si poneva il problema del suo titolare, il benedettino Federico Farina, che difficilmente avrebbe rinunziato a una così cospicua rendita. Per invogliarlo gli si prospettava una permuta: era vacante l’abbazia benedettina di San Filippo d’Agira; se avesse rinunziato al priorato di Sant’Agata la Vetere, egli avrebbe avuto la dignità di abate e le rendite molto più ricche dell’abbazia di San Filippo. Anche per questa iniziativa dobbiamo interrogarci sui promotori. La bolla non era stata emanata motu proprio, ma in risposta a una domanda: «pro parte dilectorum filiorum iuratorum, consulum ac civium cathaniensium nobis nuper exhibita». I richiedenti costituiscono la componente laica della società catanese: i giurati, cioè le ma138

V. COCO, Collectio monumentorum quae ad tutanda Ecclesiae Catanensis iura eruit ex locis authenticis Vitus Coco eiusdem Ecclesiae canonicus, Palermo 1776, 3-9; V. CORDARO - CLARENZA, Osservazioni, cit., III, 889; A. LONGHITANO, Pietro Geremia, cit. 215. 139 A. LONGHITANO, Eugenio IV e la bolla di fondazione della «Scuola per i chierici» in Sant’Agata la Vetere a Catania, in Synaxis 19 (2001) 137-164. 140 Reg. Vat., 378, fol. 64v-66r.

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gistrature cittadine, i consoli, cioè i rappresentanti delle corporazioni di arti e mestieri141, e i cittadini. Non sono nominati il vescovo, i benedettini dell’abbazia di Sant’Agata e i numerosi istituti religiosi esistenti in città. Non sembra esserci dubbio sul promotore dell’iniziativa. Il domenicano Pietro Geremia, attuando un progetto caro al papa Eugenio IV, ancora una volta si era assunto il compito di colmare il vuoto di potere lasciato dal vescovo. Leggendo il testo della bolla, sembra potersi affermare che Pietro Geremia, nel predisporre il progetto della scuola per i chierici, abbia agito d’intesa con i benedettini di San Nicola l’Arena e di Santa Maria di Nuovaluce142. Nelle intenzioni dei promotori dell’iniziativa, il coinvolgimento dei due monasteri benedettini mirava probabilmente a neutralizzare la prevedibile opposizione dei monaci dell’abbazia di Sant’Agata, che venivano a perdere definitivamente un beneficio di particolare rilievo. Non è facile individuare le cause che determinarono la mancata attuazione dell’iniziativa. L’impulso per l’accantonamento del progetto partì quasi certamente dai monaci della cattedrale. Il benedettino catanese Jayme (o Giacomo) Paternò, che con l’erezione della scuola dei chierici temeva di perdere l’abbazia di San Filippo d’Agira, datagli da Alfonso in amministrazione, in attesa di essere nominato abate con il raggiungimento dell’età canonica, si sarà mosso per tempo interessando direttamente il sovrano. In questa situazione Giovanni de Primis e Pietro Geremia avranno ritenuto più saggio suggerire al papa di

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A queste corporazioni lo stesso re Alfonso il 26 marzo 1445 avevano concesso particolari competenze nell’amministrazione della città: F. MARLETTA, La costituzione e le prime vicende delle maestranze di Catania, in ASSO 1 (1904) 354-358; 2 (1905) 88-103; 224-233. 142 Pietro Geremia e l’abate di San Nicola l’Arena nel 1443 avevano raggiunto una memorabile intesa per la cessione ai domenicani di un’area appartenente alla grangia che l’abbazia benedettina possedeva a Catania, allo scopo di ingrandire il convento Santa Maria la Grande e di farlo passare all’osservanza (M. GAUDIOSO, L’abbazia di S. Nicolò l’Arena di Catania, in ASSO 25 [1929] 199-243: 210, nota; M. A. CONIGLIONE, Pietro Geremia, cit., 127-128). L’antica certosa Santa Maria di Nuovaluce, fondata da Artale Alagona, era stata affidata ai benedettini da Urbano VI, il 13 marzo 1383, durante lo scisma d’Occidente, quando i certosini fecero ritorno alla loro casa madre, che aveva riconosciuto il papa di Avignone: A. LONGHITANO, Santa Maria di Nuovaluce, cit., 31-33.

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evitare uno scontro con il re Alfonso143. La bolla di erezione, regolarmente firmata e registrata, non giunse mai a Catania. 9.5. Il processo a Giovanni Pesce, avviato dal papa in seguito alle denunzie dei giurati e dei benedettini di Sant’Agata e istruito a Catania dai suoi inviati, si concluse con la rimozione del vescovo144. Eugenio IV nel concistoro del 3 febbraio 1447 lo trasferì alla sede titolare di Filippopoli e gli riservò una pensione annua di 200 fiorini145. Il 4 febbraio concesse l’indulgenza ai fedeli che avrebbero visitato la cattedrale di Sant’Agata, partecipato ai lavori di riparazione dei suoi edifici o contribuito con elemosine al suo restauro, segno che era difficile avere dai beni della mensa vescovile il contributo previsto per l’Opera grande. Il 10 febbraio, con un’apposita bolla, dichiarò nulle le alienazioni dei beni ecclesiastici fatte dal vescovo Pesce durante il suo governo episcopale e ordinò che essi fossero restituiti o rimessi all’autorità del nuovo vescovo. La rimozione non fu accettata né dal Pesce, né dagli ambienti della curia di Catania146. Il papa, in attesa che il clima si rasserenasse, nello stesso concistoro, affidò la diocesi in titolo a Giovanni de Primis, che nel 1446 era stato nominato cardinale147. Questi, avendo avuto la diocesi in titolo, non poteva prendere possesso della sede e non pensò di ricevere la consacrazione episcopale. Tuttavia fu rilasciata la consueta bolla di nomina con le relative comunicazioni al capitolo

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ID., Eugenio IV e la bolla di fondazione, cit., 155-156. «…nos hodie prefatum Iohannem ex iustis et rationabilibus causis animum nostrum moventibus ex certa scientia a regimine et administratione dicte ecclesie, cui tunc preerat, realiter amovimus…». Bolla di nomina del vescovo Giovanni de Primis, trascritta in appendice allo studio di I. TASSI, Un collaboratore, cit., 2022. È probabile che nella decisione di rimuovere il vescovo Giovanni Pesce abbia pesato l’atteggiamento conciliarista da lui assunto nel concilio di Basilea e la sua partecipazione alla richiesta di sospendere e deporre lo stesso Eugenio IV. 145 Hierarchia Catholica Medii Aevi, a cura di C. Eubel, II, Monasterii 1914, 215. 146 Nella bolla di nomina del nuovo vescovo si legge: «ipsumque {Iohannem de Piscibus} etiam invitum a vinculo, quo prefate ecclesie tenebatur, de fratrum nostrorum consilio et apostolice postestatis plenitudine absolventes, ad ecclesiam Philippopolensem tunc vacantem auctoritate apostolica transtulimus… nullusque de ipsius ecclesie provisione preter nos hac vice se intromittere potuit sive potest, reservatione et decreto obsistentibus supradictis» (I. TASSI, Un collaboratore, cit., 21). 147 Ibid., 5. 144

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della cattedrale, al clero, al popolo di Catania e al re Alfonso148. In queste condizioni la diocesi continuò ad essere governata dai vicari generali del vescovo rimosso149. Questa soluzione di compromesso non poteva essere gradita ai giurati, che inviarono al re Alfonso, al nuovo papa Nicolò V — succeduto a Eugenio IV il 6 marzo 1447 — e al collegio dei cardinali due ambasciatori: il dottore in diritto canonico Giovanni Massari e il rappresentante delle corporazioni di arti e mestieri Angelo Campochiaro. I due dovevano presentare un memoriale nel quale si illustrava al re Alfonso «la vita detestabili, lu malu et pessimo regimento» dell’ex vescovo, «zoè fratri Iohanni Pixitellu» e si chiedeva di mettere i suoi buoni uffici perché si desse al più presto il possesso canonico della diocesi al nuovo vescovo Giovanni de Primis, verso il quale davano un attestato di stima. Infine chiedevano che il papa intervenisse nella soluzione del problema sul quale si era avuto lo scontro finale con il vescovo Giovanni Pesce: l’utilizzazione dei proventi della dogana per il finanziamento dello Studium150. A conclusione di questa tormentata vicenda Giovanni Pesce, in una lettera spedita da Tivoli il 30 agosto 1447 e indirizzata ai giurati e ai concittadini, tentò una riappacificazione in extremis con la città, cercando di giustificare il suo operato. Egli assicurava che i contrasti non erano stati dettati da malanimo, ma dalla necessità di difendere i diritti della Chiesa151. Dopo aver chiamato Dio come testimone, si augurava il bene dei suoi interlocutori e della città, così come ogni vescovo deve fare. Le avversità incontrate a Catania dovevano essere considerate un segno delle prove che Dio riserva ai suoi servi e a coloro che ama; personalmente non le aveva ritenute frutto di inimicizia da parte di nessuno. Come poteva attestare il capitano, al quale affidava il suo messaggio, augurava che Dio in futuro potesse concede148 Ibid., 9. Due di questi documenti sono conservati nell’antica biblioteca di San Nicola l’Arena (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti nella Biblioteca comunale ai Benedettini. Regesto, Catania 1927, n. 722-723). 149 Il 22 giugno 1448 Onofrio de Flore, vicario generale del vescovo Giovanni Pesce, conferiva la chiesa di Sant’Anna nel territorio di Aci a fra Giovanni Scarfillito, suo consocio come vicario (ACC, Pergamene latine, 84). 150 R. SABBADINI, Storia documentata, cit., doc. n. 74, p. 71-72. 151 Ibid., doc. n. 74, p. 72, nota.

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re ogni bene all’amata città di Catania, di cui tutti erano figli. Il capitano avrebbe riferito sulle condizioni in cui si trovava in quel periodo. Egli per tutto il resto si dichiarava disponibile a venire incontro ai desideri della città. Aveva affidato ad altri la chiesa cattedrale e i suoi beni. Faceva voti che tutti potessero godere buona salute per il servizio di Dio e per l’attuazione del bene pubblico. Giovanni Pesce morì il 2 dicembre 1448 e con la sua scomparsa venne meno ogni residuo ostacolo per conferire il possesso canonico della diocesi a Giovanni de Primis. Fu emanata una seconda bolla di nomina152 e il nuovo vescovo decise di farsi consacrare. È probabile che la consacrazione non sia mai avvenuta a causa della sua prematura e improvvisa morte (22 gennaio 1449)153. 10. Catania, sia pure con qualche difficoltà, era riuscita ad attuare alcune iniziative per il proprio rilancio, servendosi dell’azione di alcuni personaggi super partes, che avevano trovato di volta in volta le opportune convergenze fra le autorità e le categorie di cittadini interessate ai singoli progetti. Sembra che l’attuazione di queste iniziative abbia appagato la coscienza civica. Lo slancio manifestato verso la metà del ’400 man mano si esaurì, anche a motivo delle mutate condizioni sociali e politiche. In seguito all’unificazione della corona di Sicilia con quelle di Aragona e di Castiglia prima e con quelle di Germania e d’Austria dopo, la Sicilia divenne la provincia periferica di un impero, separata dalle regioni continentali italiane: gli organi decisionali risiedevano altrove; era retta da un viceré con compiti più di amministrazione che di governo; le sue risorse servivano per finanziare progetti politici irrilevanti per gli interessi dei siciliani. La nobiltà spagnola occupò man mano feudi, uffici e organi direzionali. L’ordinamento della respublica christiana in generale e quello della Sicilia in particolare riconosceva al potere politico ampi poteri di intervento nella nomina dei vescovi e dei titolari dei principali uffici e benefici ecclesiastici. Questo spiega il prevalere di elementi della nobiltà spagnola anche nell’ordinamento ecclesiastico154: i vescovi

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Hierarchia Catholica, II, cit., 122. I. TASSI, Un collaboratore, cit., 9-10. 154 Esaminando la cronotassi dei vescovi di Catania del ’500 si può costatare l’incidenza degli spagnoli: Diego Ramirez de Guzman, Siviglia, 1500; Giacomo Ra153

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Introduzione

anzitutto, ma anche gli inquisitori, gli arcidiaconi, i vicari generali, i canonici... A volte la nomina a vescovo segnava il coronamento di una carriera iniziata in Spagna; a volte si conferiva un ufficio o un beneficio in Sicilia quale premessa alla nomina vescovile. Guardando il curriculum dei vescovi siciliani del ’500 si può affermare che per molti una tappa intermedia della carriera episcopale era costituita dall’ufficio di inquisitore. Una circostanza che ci induce a riflettere sul modello di vescovo comune in questo periodo155. Se si tiene presente che — soprattutto prima del concilio di Trento — nella nomina dei vescovi e dei titolari dei principali uffici e benefici ecclesiastici prevalevano criteri di natura politica, nepotistica e clientelare, la situazione dell’episcopato siciliano del ’500 non ci appare particolarmente felice: il papa e i cardinali di curia, il re di Spagna e i suoi ministri destinavano i benefici più ricchi ai loro parenti, a persone che volevano ingraziarsi o che dovevano ricompensare. Anche le diocesi spesso venivano assegnate a persone che continuavano a vivere a Roma o in Spagna e si limitavano a riscuotere le rendite delle mense vescovili senza preoccuparsi di osservare l’obbligo della residenza156. Una delle richieste ricorrenti che il parlamento siciliano faceva al re riguardava l’assegnazione ai siciliani dei benefici ecclesiastici di

mirez, spagnolo, 1501; Giacomo Conchilles, Granada, 1509; Gaspare Pou, spagnolo, 1513; Matteo Schiner, svizzero, 1520; Pompeo Colonna, Roma, 1523; Marino Caracciolo, Napoli, 1524; Scipione Caracciolo, Napoli, 1524; Luigi Caracciolo, Napoli, 1530; Nicola Maria Caracciolo, Napoli, 1537; Antonio Faraone, Messina, 1569; Giovanni Orosco de Arzes, spagnolo, 1574, inquisitore in Sicilia; Vincenzo Cutelli, Catania, 1577; Giovanni Corrionero, spagnolo, 1589, inquisitore in Sicilia (A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi diocesani nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite, in Synaxis 19 [2001] 249-279). 155 Sulla sovrapposizioni e i conflitti tra i vescovi e gli inquisitori si veda A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, 336-367. 156 Nel 1532, a dodici anni, il card. Ippolito dei Medici, nipote di Leone X e Clemente VII, era stato nominato amministratore di Monreale. Carlo V aveva ordinato che gli venissero date le rendite del beneficio vescovile fin dalla data di morte del suo predecessore. Nel 1536, all’età di sedici anni, gli successe nello stesso ufficio Alessandro Farnese, nipote di Paolo III (R. PIRRI, Sicilia sacra, I, cit. 470).

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Introduzione

regio patronato157. Alla base di questa petizione c’era il desiderio dell’aristocrazia e del clero di non essere esclusi dai privilegi economici e sociali derivanti dai benefici più redditizi; ma c’era anche il desiderio di essere governati da vescovi che parlavano la stessa lingua, provenivano dalla stessa cultura, risiedevano sul posto e potevano più facilmente comprendere e risolvere i problemi della gente. Se si considera che nel ’500 in Sicilia la lingua del popolo non era il toscano ma il siciliano, è facile immaginare le difficoltà di comunicazione che incontrava un vescovo spagnolo o di altre regioni nell’esercizio del ministero in generale e nella predicazione in particolare. In un ordinamento giuridico fondato sul privilegio, primo dovere di un vescovo nei mutamenti dinastici era quello di ottenere la conferma dei privilegi che la diocesi di Catania aveva ottenuto fin dalla sua rifondazione. Come si è visto, man mano nel corso dei secoli si erano avuti diversi mutamenti dovuti a una ridistribuzione delle competenze fra i soggetti presenti nella società oppure all’incuria delle autorità ecclesiastiche. Non sempre i vescovi erano in grado di discernere fra i mutamenti irreversibili e quelli che potevano essere ancora ricondotti alla condizione di origine. Leggendo i documenti di questo periodo e sfogliando gli scritti degli storici, la situazione di conflitto fra i vescovi e gli altri soggetti presenti nella società del tempo appare abituale. Un atteggiamento di fondo sembra comunque caratterizzare la Chiesa di Catania: un costante riferimento al passato, che rendeva difficile una lettura del presente e ancora di più una progettazione del futuro, coerente con il corso della storia.

157 «Item supplica lu dictu Regnu a vostra Altecza, che perché claramenti si vidi in lu Regnu predictu diminuirisi lu cultu divinu, li Ecclesii et lochi sacri veniri ad ruina, et li introiti et renditi di quilli non si convertiri in reparationi et ornamentu di dicti Ecclesii, ma transportari intra lochi fora di lu dictu Regnu, la qual cosa procedi per concedersi dicti benefici ecclesiastici a persuni exteri di lu dictu Regnu; perché standu absenti li loru Prelati, qui non pascent gregem eis commissum, li Cittati proprio pastore carent et li Ecclesii sù viduati suo antistite, et ut plurimum insurginu multi enormitati et disordini; per tantu lu dictu Regnu supplica vostra Altecza... si digni concediri et providiri che de caetero tutte Prelatie dignitati et beneficii Ecclesiastici di lu dictu Regnu non si possanu né digianu dari, né concediri ad exteri di lu dictu Regnu, sed solum a Siciliani, oriundi tantum di lu dictu Regnu...» (Capitula Regni Siciliae, a cura di F. Testa, I, Panormi 1741, 536).

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CHIESE E CAPPELLANI SACRAMENTALI NELLA DIOCESI DI CATANIA PRIMA DEL CONCILIO DI TRENTO

Nel quadro generale dell’organizzazione ecclesiastica della diocesi, esige un’attenta analisi lo studio delle strutture collegate all’esercizio della cura d’anime. Nell’archivio del capitolo cattedrale e in quello storico diocesano non troviamo elementi che ci consentono di conoscere i criteri seguiti da Angerio e dai suoi successori nel riorganizzare la cura delle anime nella diocesi. Tuttavia da alcuni documenti dei secoli successivi è possibile risalire alle più antiche tradizioni. Il primo periodo è caratterizzato dall’opera di costruzione materiale delle chiese e dei monasteri. Poiché non esisteva un clero capace di assumere la cura spirituale dei fedeli, fu inevitabile un accentramento di responsabilità e di competenze nei monaci dell’abbazia di Sant’Agata e delle altre abbazie e priorati benedettini, sorti man mano nella diocesi. Infatti a quasi tutti questi monasteri fu concesso di avere il battistero, cosa che comportava l’esercizio della cura d’anime per i fedeli che vivevano alle dipendenze del monastero stesso e nei casali contigui. Tra quelli che per il sito o l’importanza avranno una maggiore influenza nella vita della diocesi possiamo notare: — il monastero Santa Maria di Valle Giosafat in Paternò, fondato nel 1092 da Adelasia, moglie del conte Ruggero. Da Angerio ebbe l’esenzione, il diritto delle decime dei saraceni appartenenti alle terre del monastero, il cimitero, e il battistero1. — l’abbazia Santa Maria Latina in San Filippo d’Agira, fondata dal conte Ruggero. Dal vescovo Angerio nel 1095 ebbe l’esenzione dalla giurisdizione vescovile e il diritto di avere il cimitero e il battistero proprio2;

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R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., II, 1177-1178. Ibid., 1246-1248. G. P. SINOPOLI DI GIUNTA, La badia di Santa Maria Latina in Agira, Acireale 1911. L’abate di questa abbazia nei secoli seguenti eserciterà dei diritti particolari sulle chiese sacramentali del comune. 2

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— il monastero San Nicola l’Arena, alle falde dell’Etna, sopra l’attuale comune di Nicolosi, fondato nel 11563; — il monastero Santa Maria di Licodia, fondato nel 1158 ed elevato al titolo di abbazia nel 1205 dal vescovo Ruggero, che accordò il privilegio dell’esenzione dalla giurisdizione episcopale e di battezzare i bambini del casale omonimo4; A questi bisogna aggiungere i monasteri di minore importanza, che in seguito furono abbandonati o aggregati ad altri, e i priorati dipendenti dalle abbazie. In genere serviranno a costituire un nucleo abitato e un centro di vita religiosa, che nel tempo si renderà autonomo5. Solo nei documenti più antichi si trova qualche cenno sull’esistenza di monasteri di rito greco6. La cura delle anime nella città e negli altri centri della diocesi è organizzata in maniera diversa.

1. LA CURA DELLE ANIME NELLA CITTÀ La cattedrale Il documento più antico che accenna alla cura delle anime nella cattedrale è del vescovo Marziale, che il 3 settembre 1367 nomina cappellano sacramentale il sacerdote Pietro de Riera da Catania. Il vescovo nel conferire l’ufficio si ricollega espressamente a un’antica tradizione, che ci fa supporre sia quella originaria introdotta da Angerio, conforme all’uso benedettino7: la cura delle anime spetta al ca-

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R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., II, 1156-1157. Ibid., 1157-1160. 5 Vedi l’elenco dei priorati benedettini dipendenti dall’abbazia di Sant’Agata in I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., 69; G. PISTORIO, Il priorato di San Giacomo e Zafferana Etnea, Catania 1965, 15-16. 6 Bolla del vescovo Roberto all’abate greco Saba con cui concede la chiesa di San Nicola oltre il fiume di Paternò (maggio 1174). ACC, pergamena n. 5. 7 U. BERLIÈRE, L’exercice du ministère paroissial par les moines dans le haut Moyen Age, in Revue Bénedictine (1927) 227-250; L’exercise du ministère paroissial par les moines du XIIe au XVIIie siecle, ibid., (1927) 340-364; L. MATTEI CERASOLI, Il ministero parrocchiale nei monasteri cavensi, in Benedictina 2 (1948) 27-34. 4

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pitolo, ma viene esercitata da due cappellani nominati dal vescovo con il consenso dei capitolari8. Da un altro documento del 1429 si deduce che i cappellani sacramentali non sono inamovibili; esercitano il loro ufficio beneplacito episcopi perdurante9. Ma il 15 luglio 1467, in seguito a una questione che sorge fra i cappellani ed il capitolo per l’esiguità delle rendite loro assegnate, il vescovo Guglielmo Bellomo stipula un accordo. Nel documento conclusivo, firmato dal vescovo e dai capitolari, troviamo descritto più chiaramente il modo con cui si esercita la cura delle anime nella cattedrale e la figura giuridica dei cappellani. Il vescovo, dopo una premessa generale in cui afferma il suo diritto-dovere di provvedere le chiese dei loro rettori, ricorda la condizione in cui si trova la cattedrale di Catania: spetta ai monaci di s. Benedetto, in qualità di canonici, amministrare i sacramenti; tuttavia per antica consuetudine il vescovo e il capitolo hanno nominato due cappellani in aiuto ai monaci. Questi cappellani, che vengono chiamati «quasi parochi» risiedevano nella cattedrale e fino a quel momento avevano lo stipendio di un’oncia l’anno. Nel documento vengono fissati i termini del nuovo accordo tra il vescovo, i monaci e i cappellani: il capitolo ha il diritto di presentare due persone degne, il vescovo si impegna a confermarle e a conferire alcuni benefici per consentire loro migliori condizioni di vita10. Ma a noi interessa soprattutto quella parte del documento che 8

Il documento afferma: «...Cum igitur in nostra majori Cathanensi ecclesia sint ab antiquo constituti duo capellani qui habent christifidelibus sacramenta ecclesiastica ministrare quorum capellanorum una de capellanijs huiusmodi vacare noscitur ad praesens in manibus nostris... nos... te unum de capellanis ipsis de consensu capituli nostri duximus eligendum ac ipsam capellaniam tibi... cum omnibus juribus pertinencijs suis tenore presencium conferimus... et donamus ac de ipsa cum plenitudine juris sui liberaliter providemus... Curam et administracionem ipsius plenariam tibi commictendo. Mandantes nihilomibus et commictentes priori nostrae ecclesiae supradictae quatenus ad requisicionem tuam per possessionem ipsius capellaniae prout moris est te inducat corporalem» (TA 1370-1392, fol. 151r). 9 TA 1420-1437, fol. 215r. Nel 1463 il vescovo Guglielmo Bellomo nel nominare cappellano il sacerdote Giovanni la Ficarra, canonico della collegiata, gli concede la facoltà di farsi sostituire «pro suo lubito» (TA 1457-1470, fol. 139v-140r). 10 «...Quia nobis satis dare sit cathedralem nostram ecclesiam Cathanen. sub vocabulo Sanctae Agathae esse fundatam ac inibi monaci et canonaci nostri et dittae ecclesiae sub regula S.ti Benedicti die noctuque serviunt tam in officiis quam in ministrando populo sacramenta et in eam predecessores nostri unaque cum capitu-

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sottolinea la responsabilità dei monaci e dei cappellani nella situazione particolare in cui si trova la città di Catania: dato che non esistono parrocchie distinte, ma solo alcune chiese sacramentali istituite per la maggiore comodità dei fedeli, nella città la cura delle anime spetta alla cattedrale11. L’affermazione di questo principio sarà stato il punto fermo e indiscutibile dei monaci del capitolo. Il vescovo, che avverte

lo nostro ordinaverunt duos cappellanos qui similiter ministrarent omnia sacramenta ad summum decorem et honorem predittae ecclesiae et sic successive perpetuo tempore instituuntur et ordinantur qui cappellani quasi parochi et nihilominus ab ecclesia nostra preditta soliti sunt consequi et habere actentis serviciis et laboribus necessariis ad eorum officium cappellaniae et maxime hii cappellani qui de presenti resident in dicta ecclesia... qui pro eadem cappellania vix consequuntur unciam unam quolibet anno de redditibus quasi incertis et proventibus. Nos vero inter nos omnes cogitantes supradictis cappellani qui de presenti sunt et pro futuro dante Domino erunt instituti per {re}cessum vel decessum ipsorum habito inter nos diligenti tractatu volumus et ordinamus quod dicti cappellani nostri qui pro tempore sunt et erunt habeant et consequantur infra{scritta} beneficia ex quibus rationabiliter vivere possent quorum beneficiorum collatio et institutio ad nos pleno jure noscitur pertinere quamquam vos domini Prior et monaci ius patronatus eligendi et presentandi habeatis ex redditibus quorum sufficienter et competenter vivere valeant et honorate... et sic presencium tenore ad nostri supplicacionem harum serie concedimus conferimus et donamus ex nunc et pro tunc licenciam et auctoritatem concedentes ut quadocumque vacare contigerit tunc et eo casu premissa sive in persona unius sive in persona duorum illorum per {re}cessum vel decessum eligere valeatis et confirmationem postulare...» (TA 1468-1470, fol. 185r-187r. Altra copia del documento si trova ai fol. 214v-217v dello stesso volume e nel Liber Prioratus dell’archivio del capitolo cattedrale ai fol. 96r-97v). 11 «...Cum ipsa nostra ecclesia in hac nostra civitate curam habeat animarum principaliter et indistincte. In qua civitate nullae sunt parochiae ordinatae nec distinctae sed certae ecclesiae quae sacramenta dant et ministrant inconfuse, sed principaliter ipsa nostra maior ecclesia est illa quae maior est in dicta civitate et sacramenta ministrantur quociens opus est et populus ad illam concursum habet. In qua quidem cappellania una vobiscum alii socii tempore necessitatis presbiteri seculares concurrunt et vocati sunt ad vestri Prioris et monachorum voluntatem...» (TA 1468-1470, fol. 185r-187r). Segue l’elenco dei benefici che vengono annessi all’ufficio dei cappellani, fra i quali si nota la chiesa sacramentale di Sant’Andrea in Paternò. In un’altra copia del documento, che troviamo nello stesso volume di TA ai fol. 214v-217v e nel Liber Prioratus ai fol. 96r-97v, una nota inserita fra le firme e la data impone ai cappellani il giuramento di «fovere et adiuvare tam in dicto quam in facto omnes iurisdictiones capituli et ecclesiae nostrae», con la pena di essere sospesi per un quinquennio dall’ufficio o dal beneficio. L’accordo raggiunto per avere valore perpetuo doveva essere confermato dalla Sede apostolica. Di tale confer-

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la necessità di una riforma, si limita a rendere più funzionale la struttura esistente, assicurando un reddito più elevato ai cappellani. Ma non sogna neppure di risolvere il problema alla radice o di toccare il ricco patrimonio del capitolo. Perciò se il compromesso raggiunto tra monaci e cappellani poteva essere giudicato soddisfacente per tutti, lasciava comunque il problema insoluto. Rimaneva immutata una struttura sorta per rispondere alla situazione transitoria della città di Catania dopo la conquista normanna. Il ricco patrimonio dato da Ruggero doveva assicurare il sostentamento al vescovo per l’esercizio dell’ufficio di pastore della diocesi e ai canonici per l’esercizio della cura delle anime in tutta la città. A distanza di tre secoli ci accorgiamo che i monaci neppure nella cattedrale sono in grado di garantire il servizio pastorale. Affidano ad altri il compito di amministrare i sacramenti, ma tengono per sé i frutti del beneficio. Ai due cappellani sacramentali vengono assegnati come sostentamento alcuni benefici che non hanno alcuna attinenza con la cattedrale12.

La collegiata Santa Maria dell’Elemosina Le circostanze che hanno determinato l’istituzione di questo collegio di canonici sono state esposte nell’introduzione13. Il domenicano Pietro Geremia e il benedettino Giovanni de Primis, collaboratori di papa Eugenio IV nella riforma delle istituzioni e del clero di Catania, attuarono questo progetto per offrire al clero secolare un cama, però, non si trova traccia. Tuttavia è certo che entrò in vigore. Nel 1470, in seguito alla morte del cappellano Antonio de Augusta, il capitolo presentò il sacerdote Gaspare de Tuscano e il vescovo gli diede conferma così come era stato concordato, riservando per sé i frutti dell’annata in cui il beneficio era rimasto vacante. Nel verbale della riunione si nota esplicitamente che si attende la conferma da Roma dell’accordo stabilito nel 1467 (TA 1468-1470, fol. 221rbis; conferma del vescovo ai fol. 238v-239r; fol. 214v-217r). 12 I benefici annessi all’ufficio dei cappellani erano: la chiesa sacramentale Sant’Andrea di Paternò, la chiesa Santa Maria della Scala nel territorio di Aci, la chiesa San Leonardo «extra muros dictae civitatis», il beneficio della chiesa San Marco annessa all’ospedale, il beneficio fondato dal vescovo Marziale in un altare della cattedrale, quattro benefici de requie annessi a quattro altari della cattedrale. 13 Vedi supra 9.3.

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pitolo proprio, visto che quello della cattedrale fin dalla rifondazione della diocesi era costituito dai benedettini dell’abbazia di Sant’Agata. L’erezione del capitolo della collegiata nella chiesa Santa Maria dell’Elemosina (31 marzo 1446) voleva correggere in qualche modo un’anomalia nell’ordinamento della diocesi e dare una risposta alle attese del clero secolare, che non nascondeva il suo malcontento per la presenza dei monaci benedettini nella cattedrale. Si erano avuti anche dei ricorsi al papa per evitare l’eccessivo cumulo di benefici nelle mani dei canonici e la totale preclusione dei sacerdoti diocesani al capitolo e agli uffici ad esso connessi14. Il punto debole di questo progetto era nella scelta di aver costituito le prebende dei ventidue canonici con le rendite di chiese sacramentali della città e del circondario15 Dal punto di vista teorico questa situazione non avrebbe dovuto creare difficoltà all’ordinamento della cura delle anime, perché la bolla sottolineava che nella collegia14 I sacerdoti diocesani lamentavano che i canonici, oltre ad avere i benefici spettanti al capitolo o al monastero, avevano anche molti benefici non curati de requie (Liber Prioratus, fol. 55r-57v). Si trattava di piccoli benefici fondati dai fedeli per suffragare con celebrazione di messe la propria anima o quella dei propri cari. Ognuno di essi era legato a uno dei molti altari di cui era piena la cattedrale, non solo alle pareti, ma presso le colonne o negli angoli. Ogni altare aveva il suo sacerdote beneficiario che era tenuto a celebrarvi la messa o altri riti in giorni determinati. Conseguentemente ogni altare diventava una chiesa a sé, in cui si celebravano funzioni religiose senza alcun ordine. Ma, a parte questa considerazione di carattere pastorale, dal punto di vista economico costituivano una fonte non indifferente di rendita. Eugenio IV, rispondendo alla protesta dei sacerdoti, stabilì che i titolari di questi benefici dovevano essere scelti tra il clero diocesano e dava l’incarico di eseguire il decreto all’abate di Santa Maria di Nuovaluce. L’esecuzione si ebbe sei anni dopo, il 28 maggio 1452. Nel verbale di esecuzione il priore del capitolo esplicitamente dichiarava che i benefici in questione spettavano di diritto al capitolo. Perciò solamente per quella volta potevano essere assegnati al clero diocesano; in seguito avrebbero dovuto essere restituiti ai monaci (Liber Prioratus, fol. 24v). 15 L’unione perpetua di chiese sacramentali alle prebende di un capitolo ha delle analogie con la commenda perpetua. Infatti il beneficio curato non viene conferito ai canonici perché esercitino la cura delle anime, ma ad sustentationem, perché ne percepiscano i frutti. L’ufficio principale che li occupa è il canonicato; la presenza al coro e la distanza dalle chiese sacramentali impedirà loro di esercitare personalmente la cura delle anime. Le Decretali avevano più volte proibito sia la commenda di chiese sacramentali (in VI, lib. I, tit. VI, 14 e 15) sia l’unione di una chiesa a un beneficio (in Clem., lib. III, tit. IV, 2). Ma i glossatori avevano fatto notare: «ista constitutio non comprehendit romanum Pontificem, quia romanus Pontifex non po-

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ta i canonici avevano l’obbligo di assicurare l’amministrazione dei sacramenti16. Un obbligo analogo era sottinteso per le altre chiese annesse alle prebende; tanto più che quelle dei casali costituivano spesso l’unica chiesa nella quale i fedeli potevano ricevere i sacramenti; se i canonici non fossero stati in grado di esercitare personalmente la cura delle anime avrebbero dovuto nominare a proprie spese un sostituto. Tuttavia era lecito prevedere un interminabile contenzioso che coinvolgeva i canonici, i sacerdoti delegati all’amministrazione dei sacramenti e i fedeli. I canonici facevano di tutto per non pagare o per pagare il meno possibile e sceglievano come sostituti i sacerdoti che si contentavano di una somma minore; costoro cercavano di rifarsi sui fedeli, che a loro volta si sentivano strumentalizzati per mantenere in vita un istituto di cui non comprendevano l’utilità. In tal modo la presenza della collegiata diventava l’ostacolo principale per la riforma parrocchiale. La bolla di erezione, oltre a determinare le dignità, i canonici e le prebende, affidava la cura delle anime al prevosto con questa espressione: «in eadem erigenda ecclesia unam praeposituram, cui cura animarum parochianorum pro tempore existentium ipsius Ecclesiae B. M. immineat»17 e accennando alla chiesa la chiama «parochialis»18. L’interpretazione di queste espressioni non suscitò alcun dubbio al tempo dell’erezione. La chiesa restava sacramentale, com’era prima di essere eretta collegiata, e il prevosto doveva essere considerato il suo cappellano. Ma nei secoli successivi, quelle espressioni contenute nella bolla, daranno lo spunto a interminabili discussioni fra i due capitoli, per stabilire se il titolo di parrocchia spettava alla sola cattedrale o doveva essere riconosciuto anche alla collegiata. Nel 1448 — due anni dopo l’erezione della collegiata — il papa test sibi legem imponere... romanus Pontifex potest in perpetuum commendare» (R. LAPRAT, v. Commende, in DDC, III, 1029-1089). Questa osservazione, che scaturisce da una visione molto discutibile della norma giuridica, consentì il perpetuarsi di un uso che avrà gravissime conseguenze per l’organizzazione della cura delle anime. 16 «...animarum cura, quibus illa imminet, nullatenus negligatur, sed ipsorum unitorum debite supportentur onera consueta...» (Reg. Vat. 378, cit., fol. 101r). 17 Ibid. fol. 99r. 18 L. c.

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Nicolò V, accogliendo una richiesta dei canonici, concesse due privilegi che consacrarono definitivamente il nuovo istituto come un centro chiuso di potere, in grado di autorigenerarsi nel tempo senza interventi esterni19: a) quando le prebende fossero rimaste vacanti i canonici superstiti avrebbero potuto optare per quelle più pingui; b) spettava ai canonici cooptare i nuovi membri del capitolo presentando i nominativi al vescovo, che era obbligato a predisporre il decreto di nomina dopo avere accertata la loro idoneità. Si costituiva in tal modo una potente oligarchia ecclesiastica, che si inseriva di forza nel tessuto sociale cittadino, facendo valere il proprio peso ‘politico’ e quello delle famiglie dalle quali i canonici provenivano20.

Le altre chiese sacramentali Nel documento già esaminato del vescovo Guglielmo Bellomo (1467), vengono descritte le condizioni in cui si trovava la città per la cura delle anime: non esistevano parrocchie ordinate e distinte; i sacramenti venivano amministrati principalmente dalla cattedrale e subordinatamente da alcune chiese sacramentali21. In una città che in quel tempo poteva raggiungere i 15.000 abitanti22, troviamo 22 chiese sacramentali, che hanno il fonte battesimale, conservano l’Eucaristia

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Il testo della bolla di Nicolò V è riportato da I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 113-114 e da V. MESSINA, Monografia, cit., 41-43. 20 In forza di questo privilegio le prebende non erano più indissolubilmente unite alle diverse dignità o canonicati, ma potevano essere scelte liberamente dai canonici ogni volta che diventavano vacanti. Il verbale di una riunione del capitolo, tenutasi dopo la morte del cantore Girolamo de Alessandro nel 1580, ci permette di comprendere bene il meccanismo introdotto con la bolla di Nicolò V: a partire dai canonici più anziani ognuno veniva interpellato se voleva optare per le prebende rimaste libere e così fino all’ultima prebenda che veniva assegnata al nuovo canonico, eletto dai capitolari e nominato dal vescovo, dopo un sommario esame della sua idoneità (TA 1580-1581, fol. 242r-243v). 21 TA 1468-1470, fol. 187r. 22 Sulla popolazione di Catania nel secolo XV sono state fatte diverse ipotesi. La Fasoli, accettando i dati riportati da G. Cavallari (La popolazione di Catania attraverso il tempo, Catania 1948), ritiene probabile che nella metà del XV secolo Catania contasse 30.000 abitanti (G. FASOLI, Tre secoli, cit., 133-134). Questa cifra sem-

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e amministrano i sacramenti a chiunque li chieda, senza alcuna distinzione di confini23. Da un documento del 4 maggio 1418 possiamo desumere i motivi che inducevano il vescovo a concedere la cura delle anime a una chiesa. Il sacerdote Giovanni Cazeni nel 1412 aveva avuto in beneficio la chiesa sacramentale di Mascalucia, piccolo casale a pochi chilometri da Catania. La chiesa, però, era povera e il cappellano aveva chiesto di avere in beneficio anche la chiesa Santa Maria dell’Itria di Catania. I vicari capitolari accolgono la domanda e nello stesso tempo concedono la cura delle anime a titolo di sostentamento per il cappellano24. Questa motivazione, addotta dai vicari per l’erezione della chiesa sacramentale, ci consente di spiegare il gran numero di chiese sacramentali esistenti nella città. Bisognava assicurare al clero secobra esagerata, anche se comprende i casali del bosco etneo appartenenti al territorio di Catania. Fondiamo questa nostra affermazione su due documenti dei secoli successivi: nel 1585 il vicario apostolico Matteo Samminiati scrive al suo successore che Catania conta 20.000 abitanti (TA 1585-1586, fol. 49r); dai dati statistici inviati dal vescovo Marcantonio Gussio alla Congregazione del concilio nel 1655, si desume che la sola città in quel periodo contava 12.022 abitanti, esclusi i sacerdoti, i religiosi e le monache (Relazioni, I-II, 296). 23 Le chiese sacramentali di questo periodo sono: San Lorenzo, San Filippo, Santa Maria dell’Itria, Santa Maria Maddalena de Casalenis, Santa Margherita, San Tommaso, Santa Domenica (Visite 1428), San Nicola dell’Oliva (TA 1487-1489, fol. 14r), Santa Maria della Rotonda (ibid., fol. 48v), Santa Barbara de Casalenis (ibid., fol. 110r), San Giovanni de Unico (TA 1492-1495, fol 289r), Sant’Agata la Vetere, San Martino, Santissima Ascensione, Santa Caterina, San Pietro, San Nicola de Trixinis, Santa Barbara de Civita, Santa Anna de Trixinis (Visite 1516), Santa Marina, San Giovanni li Barrilari (TA 1508-1511, fol. 3r), San Marco (ospedale). A queste bisogna aggiungere la collegiata Santa Maria dell’Elemosina e la cattedrale. In diversi casi la cura delle anime non era data stabilmente a una chiesa. Infatti in un certo periodo la stessa chiesa era indicata come curata e in un altro come non curata (cfr. TA 15651566, fol. 280r-v, da cui risulta che la chiesa Santa Barbara de Casalenis è sine cura). 24 «...Prefatam ecclesiam S. Mariam in subsidium vitae tuae, tamen in vitam tuam dumtaxat cum iuribus suis concesserunt possidendi...» (TA 1405-1419, fol. 159v). «Vicarii maioris Cathanien. Ecclesiae honesto presbitero Iohanni Chazeni civi catanensi beneficiali ecclesiae Sanctae Mariae de Ytria positae in eadem civitate Catanien. Vacante siquidem ecclesia prenotata per obitum presbiteri Iuliani de Balistrario ultimi et immediati beneficialis eiusdem et facta tibi benemerito et condigno collacioni de eadem, quae dicta ecclesia non habet curam animarum et posita est in loco ubi concursus gencium magna devocione superest, nobis humiliter supplicasti ut in ea possis ecclesiastica sacramenta ministrare. Nos vero considerantes pe-

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lare il sostentamento e poiché la maggior parte dei beni immobili costituiva la mensa vescovile e le prebende dei monaci-canonici, bisognava ripiegare sulle rendite provenienti dai diritti di stola25.

2. LA CURA DELLE ANIME NEGLI ALTRI CENTRI DELLA DIOCESI Nei diversi centri della diocesi le condizioni variavano secondo i luoghi ed alcune circostanze particolari. Possiamo distinguere: i casali del bosco di Catania che dipendevano dalla città, le terre baronali dipendenti dai signori, le città regie dipendenti direttamente dall’autorità centrale. Nei piccoli centri bastava un solo cappellano sacramentale; nei centri più importanti troviamo o una chiesa con più cappellani o più chiese sacramentali. Ad eccezione dei casali del bosco di Catania, in tutte le città e le terre assieme al cappellano troviamo il vicario o arciprete. Sorge qualche conflitto nei luoghi in cui oltre alla chiesa sacramentale affidata al clero diocesano, c’è un monastero benedettino. I casali del bosco di Catania erano piccoli centri rurali che appartenevano al territorio della città. Alla pari dei casali del bosco di Aci dovevano avere dei confini ben definiti. Lo conferma qualche contestazione per la competenza di sepolture e di amministrazione di sacramenti26. Abbiamo un esempio di come si provvedeva alla cura

ticionem tuam esse racionabilem et presertim devocionem maximam concurrencium devotorum tibi et cappellano tuo pro te et tuo nomine confitendi, baptizandi et cetera ecclesiastica sacramenta prestandi indigentibus et petentibus harum serie, nostro beneplacito perdurante, auctoritatem et licentiam impertimus. Datum Cathaniae die quarto madii, XI ind. {1418}» (ibid., fol. 124r). 25 La facilità con cui si permetteva di erigere il fonte battesimale nelle chiese, può essere rilevata anche dalla concessione fatta dal vescovo Angelo Boccamazza e dai monaci del capitolo cattedrale, il 15 maggio 1282, alle benedettine di Adrano di erigere un monastero a Catania in contrata «pertusi de porto». Assieme al monastero si dà la facoltà di «erigere ecclesiam, et cemeterium et baptisterium». Concessione molto strana per un monastero femminile! (ASA, Archivio del monastero Santa Lucia, Fondatione, traslatione, unioni et altrae, Suor Maria Pollicino, anno 1663, n. 12). 26 Sarà stato necessario stabilire i confini in questi centri per facilitare la riscossione delle primizie e la tassa dovuta sulla sepoltura dei defunti. Le vertenze che

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delle anime in questi piccoli centri, in due documenti del 1388 riguardanti il casale di Pedara. Nel primo documento del 15 giugno 1388, il vescovo Simone Del Pozzo concede il permesso ai fedeli di edificare una chiesa in onore di Maria Vergine, Madre di Dio, che sarà dotata del cimitero e del fonte battesimale. Un beneficiale, che sarà nominato dal vescovo, provvederà alla cura delle anime nel casale. Ai fedeli che contribuiranno all’edificazione della chiesa concede quaranta giorni di indulgenza27. Nel secondo documento del 9 agosto 1388, nomina il beneficiale e riporta il motivo canonico che lo ha indotto ad erigere la chiesa parrocchiale di Pedara: il casale è notevolmente distante da ogni chiesa parrocchiale, perciò sia per richiedere i sacramenti, sia per seppellire i morti, i fedeli devono affrontare gravi danni e pericoli28. Da documenti analoghi dei secoli seguenti, possiamo ritenere che il caso

di tanto in tanto si riscontrano, riguardano infatti questi due argomenti: fedeli che cercavano di esimersi dal pagamento delle primizie, facendo valere diversi domicili, e fedeli che portavano a seppellire altrove i propri defunti. In un reclamo al vescovo G. Bellomo il cappellano di San Filippo de Carcina (Aci San Filippo) si lamentava proprio di questo fatto: «...Su alcuni persuni li quali divinu a la ditta ecclesia per raxuni di primicii et ancora di altri raxuni spectanti a la dicta ecclesia li quali allegano et dichino essiri catanisi et di altri parti chi lu dictu territoriu et di altra parrocha et per quistu non volinu pagari li dicti raxuni...» (TA 1492-1495, fol. 223r). Reclami del genere continueranno anche nel secolo XVI. 27 «...Supradictis devotis viris iam dictae contratae — presentibus et futuris — Pedariae habitatoribus dictam ecclesiam in ipsa contrata de nostra licentia et auctoritate — ex nunc in antea — fundandi, construendi et hedificandi ac eciam dotandi et ornandi, cimiterium et fontem sacri Baptismatis in eadem constituendi ac inde ipsa ecclesia quisque sacramenta ecclesiastica humiliter et devote recipiendi ipsisque tanquam fidelibus per beneficialem ibidem in perpetuum per nos et successores nostros instituendum ministrandi...» (TA 1370-1392, fol. 26r; G. PISTORIO, Pedara, Catania 1969, 15-28 e 143-145). 28 «...Cum itaque honesti et devoti filij nostri nobis in Christo dilecti habitatores Pedariae territorii civitatis cathanensis distantes valde et remoti ab omni parochiali ecclesia propter quod tam in exhibicionibus sacrosantorum ecclesiasticorum sacramentorum, quam in delaccionibus funerum ad sepeliendum, in animarum corporumque suorum dispendium et gravamen, damna plurima pericula et inconveniencia paciebantur, de nostris licentia, auctoritate et conscientia ad evitanda praedicta in praefata centrata Pedana parochialem ecclesiam... fundaverint...» (TA 13701392, fol. 14r; G. PISTORIO, Pedara, cit., 145-146).

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di Pedara sia indicativo del modo con cui si provvedeva alla cura delle anime nei casali del bosco di Catania29 e di Aci30. La città di Piazza nel 1470 aveva quattro chiese sacramentali: la chiesa madre Santa Maria, con quattro cappellani perpetui, le chiese del Padre Santo, San Nicola e San Martino; anche queste con cappellani sacramentali perpetui31. Solo in qualche documento di questo periodo si afferma che i cappellani sono perpetui. Da un documento del 1471 risulta che il vescovo aveva diritto alla metà delle rendite della chiesa madre, che poteva destinare a chi voleva, mentre l’altra metà era distribuita ai quattro cappellani sacramentali32. La città di Castrogiovanni (o Enna), oltre la chiesa madre Santa Maria, aveva dodici chiese sacramentali con territorio proprio33. Tra le città principali sembra la più regolare quanto alla suddivisione delle circoscrizioni territoriali. 29

Le più antiche chiese del bosco di Catania — probabilmente sacramentali — erano quelle di San Nicola de Catira a San Giovanni la Punta, Santa Maria di Tremestieri, San Nicola di Mascalucia, San Giovanni Galermo, che negli anni 13081310 pagavano le decime alla s. Sede (Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Sicilia, a cura di P. Sella, Città del Vaticano 1944, n. 953, 955, 956, 957, p. 74). In un documento del 12 febbraio 1392 risulta sacramentale la chiesa Santa Maria di Mompileri (TA 1370-1392, fol. 47v-49r). Nel 1419 la chiesa di San Giovanni a San Giovanni la Punta aveva il cappellano sacramentale: Catania sacra. Annuario 1972, 208. Nella bolla di erezione della collegiata di Catania (31 marzo 1446) risultano, tra le altre, le chiese San Nicola di Trecastagni, Santa Maria di Misterbianco, San Pietro nell’attuale comune di San Pietro Clarenza (vedi supra, introduzione, 9.4), che probabilmente erano state erette da qualche decennio. 30 Nel bosco di Aci la più antica chiesa sacramentale era quella di Santa Maria, che sorgeva all’interno del castello. La sua esistenza è documentata negli anni 1308-1310 (Rationes decimarum, cit., n. 977, p. 75). Nella bolla di erezione della collegiata di Catania troviamo le chiese sacramentali Santa Maria di Valverde e San Filippo di Carcina ad Aci San Filippo. Queste tre chiese segnano il percorso seguito dalle popolazioni che man mano dal mare si spostarono verso la collina per difendersi dalle incursioni dei pirati e trovare condizioni di vita stabili e sicure nella colonizzazione dei boschi dell’Etna (M. DONATO, Le chiese sacramentali del territorio di Aci nel Cinquecento, in Memorie e Rendiconti, Accademia degli Zelanti e dei Dafnici, Acireale, serie III, 5 [1985] 39-90: 40-41). 31 TA 1470-1474, fol. 37r. 32 Ibid., fol. 39r. 33 San Giovanni, San Biagio, San Giorgio, San Tommaso, San Bartolomeo, San Leonardo, Santa Caterina, San Leone, San Cataldo, San Pietro, San Nicola, Santissima Trinità (Verbali di visite del 1533 e del 1554).

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A San Filippo d’Agira troviamo una situazione particolare dovuta alla presenza dell’abbazia benedettina Santa Maria Latina. Come si può desumere da un documento dell’11 settembre 1487, la città aveva quattro chiese sacramentali con territorio proprio: Santa Maria, Santissimo Salvatore, Santa Margherita, San Pietro34. Su queste parrocchie esercitava particolari diritti l’abbazia benedettina35. L’11 luglio 1537 il visitatore generale, fr. Girolamo Sismundo, stabilì 34

Il sacerdote Antonino de Marturana «unu di li cappellani di la ecclesia di lu Salvaturi », scrive al decano Andrea da Paternò, che in quel periodo governava la diocesi come vicario apostolico, per denunciare un abuso: «...Cum olim la prefata terra per li rev.mi episcopi passati sia stata divisa per quatru parrochi per comodu di li animi di li habitaturi di quilla terra ed essendu la dicta terra cussì divisa per li dicti quatru parrochi la terra prefata è stata et esti a lu presenti ben servita per li cappellani di quelli accidit ki la prefata terra predicta ultra lu circuitu di li mura... su augmentati fora di quilla terra chiamatu “lu baglu” in lu quali baglu su ultra trenta casi habitabili e li habitanti in quillu baglu si li hanu agregatu et unitu li cappellani di una di quilli parrochi sub vocabulo sanctae Margaritae in preiudiciu di li cappellani di li altri parrochi presertim di li cappellani di lu Salvaturi e non pari cosa iusta li dicti suli cappellani di sancta Margarita volirisi agregari a la dicta parrochia primo ki altri parrochi divinu participari in li dicti habitaturi di lu dictu baglu...» (TA 1487-1489, fol. 2r-v). 35 Probabilmente ci troviamo dinanzi a uno dei pochi casi di chiese sacramentali proprie, cioè di proprietà dell’abbazia benedettina Santa Maria Latina. Ciò si desume da una lettera del vicario generale Girolamo La Rosa del 21 dicembre 1494 all’arciprete di San Filippo d’Agira: «...Pro parte venerabilis fratris Nicolai de Bertolino procuratoris generalis monasterii Sancti Philippi de Argirione simo informati chi spectando a lo monasterio predicto tucto lo spirituali et tucti ecclesii eiusdem terrae sancti Philippi et presertim la ordinacioni seu electioni di li cappellani et mutacioni di quilli in ecclesiis et parrochiis predictis ad voluntatem et libertatem ven. abbatis prefati monasterii, comu appari per loru privilegii antiquissimi, et per virtuti di quilli havendo stato lo dicto monasterio in possessione vel quasi spiritualium predictorum et maxime di creari et mutari dicti cappellani a tempore concessionis dictorum privilegiorum et cum utique memoria hominum non extat in contrarium. Noviter volendu lo ven. Priuri di lo monasterio ordinari novo cappellano in la parrocchia di Sancta Margarita eiusdem terrae, su alcuni tanto clerici comu laici di quilla parrocchia li quali oppugnano et obsistino a tali elecioni affirmando lo dicto monasterio seu abbati di quillo non potiri fari tali eleccioni di cappellani nisi cum voluntate ipsorum la quali cosa est expresse contra tenorem privilogiorum predictorum et antiquae possessionis eiusdem monasterii... Essendo cussì digiati moniri vinculo obedienciae et sub pena contenta in dictis privilegiis ac etiam sub pena unciarum decem applicanda cammerae episcopali tam dictos clericos quam laicos non digiano molestari lo cappellano predicto electo per dictum Priorem in ecclesia predicta Sanctae

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che nella chiesa di Sant’Antonino la cura delle anime doveva essere esercitata dai cappellani della chiesa sacramentale del Santissimo Salvatore36. A Regalbuto fino al 1526 esisteva la chiesa sacramentale San Basilio. Nell’aprile di quell’anno, in occasione della visita pastorale, il vescovo autorizzò l’amministrazione dei sacramenti nella chiesa Santa Maria della Croce, come suffraganea della chiesa madre. Nel documento si adducevano i comuni motivi canonici: aumento della popolazione, eccessiva distanza dalla chiesa madre delle nuove abitazioni, comodità dei fedeli37. A Paternò si avevano cinque chiese sacramentali: Santa Maria dell’Alto, Santa Maria delle Grazie, Sant’Andrea, San Nicolò e Santa Maria di Giosafat. Quest’ultima era la chiesa del monastero benedettino omonimo. Pare che avesse territorio proprio, ma non risulta chiaramente dai documenti del tempo38. Tutti gli altri centri abitati avevano una sola chiesa sacramentale39. Quasi certamente i confini ecclesiastici coincidevano con quelli civili.

Margaritae immo permictant eum libere exercere spiritualis tanquam parrochianum servando ad unguem tenorem privilegiorum...» (TA 1492-1495, fol. 244v-245r). La questione sarà ripresa nel 1563 dal vicario generale quando alla chiesa di San Pietro viene concessa la cura d’anime. Se da parte del vicario generale si afferma il pieno diritto di intervenire per il bene delle anime, si manifesta anche la volontà di rispettare i privilegi dell’abbazia: «... debbiano havere tucte quelli raggioni, lucri, emolumenti, proventi, obventioni, autorità, prerogativa, potestà et qualsivoglia altri raggioni le quali la detta abbatia et suoi monaci hanno nelle chiese parrocchiali di quessa città nelle quali però ni sonno in possessione et non altramenti...» (TA 1563-1564, fol. 111v-113r). 36 TA 1540-1541, fol. 69v-70v. 37 TA 1526. 38 Visite 1533. 39 Pietraperzia (Santa Maria), Aidone (San Lorenzo), Barrafranca (Santa Maria), Assoro (San Leone), Calascibetta (San Pietro), Adernò (Santa Maria), Callìcari, poi Biancavilla (Santa Maria), Motta Sant’Anastasia (Sant’Anastasia). Il comune di Centuripe, che viene indicato nella bolla di erezione della diocesi di Catania, nel 1232 fu distrutto da Federico II e i suoi abitanti trasferiti nella nuova città di Augusta (B. SAITTA, Catania, in Federico II e le città italiane, cit., 242). Solo nel secolo XVIII nel vecchio sito sorgerà un nuovo nucleo abitato con la chiesa sacramentale.

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3. RAPPORTO TRA BENEFICIO E UFFICIO NELLA CURA DELLE ANIME Non rientra nei limiti del nostro studio trattare dei beni e delle rendite che costituivano il beneficio delle varie chiese sacramentali; tuttavia riteniamo necessario accennare all’argomento per mettere in evidenza qualcuno dei mali più gravi che affiggevano la cura d’anime nella diocesi di Catania. È ovvio che non tutte le chiese sacramentali si trovavano nelle medesime condizioni. Accanto alla cattedrale e alle chiese dei grandi centri, che avevano cospicue rendite, c’erano le chiese dei piccoli centri i cui cappellani vivevano delle primizie e dei diritti di stola, che i fedeli erano obbligati a dare per avere l’assistenza spirituale40. Però sia che si tratti di rendite consistenti, sia che si tratti di piccoli introiti, si nota il capovolgimento del rapporto fra ufficio e beneficio nella concessione dei benefici e nell’amministrazione delle loro rendite. Si ha l’impressione che il beneficio sia diventato fine a se stesso e abbia perduto il suo carattere funzionale e strumentale nei confronti del40

Se non c’erano rendite di beni immobili i frutti del beneficio non dovevano essere rilevanti. Gli stessi fedeli, che pagavano le primizie, dovevano pagare le tasse richieste dai viceré e dai baroni e le decime di varia natura che spettavano al vescovo. Non mancano le ingiunzioni contro i morosi. Il 3 ottobre 1558 il vicario generale indirizzava una lettera a tutte le autorità di Motta Santa Anastasia perché esortassero i fedeli a pagare le primizie al beneficiale: «...Simo stati informati chi divendo ipso ven. recipiri ogni anno li raxuni di li primicii li quali si solino pagari in formento dali parrocchiani et habitaturi di quissa terra alcuni non considerando chi ditta raxuni di primicii è debbita de jure divino et si devi dari lu meglu furmentu chi si recogli da ipsi parrochiani perché altramenti fachendo sarriano reprobati comu caini... et dunano et offerixino ditta raxuni di primicii di lu più tristo frumento chi recoglino comu è a diri chi dunano li scupaturi di l’aira, et altri o non pagano o dunano lo frumento miscato di più sorti...» (TA 1558-1559, fol. 15r). Un documento del 13 febbraio 1455, riportato in appendice nel volume di V. COCO, Varie dimostrationi dell’innocenti errori onde è sparso il libro che ha per titolo: Risposta alla breve notitia etc., Palermo 1776, ci dà un elenco di tasse per l’amministrazione dei sacramenti. L’originale però non si trova più nell’archivio storico diocesano. Sulle decime che il vescovo esigeva in città e nei casali del bosco di Catania e di Aci cfr. Collectanea nonnullorum privilegiorum, cit.; R. GREGORIO, Considerazioni, cit., I, 114-122; M. GAUDIOSO, La questione demaniale, cit., 11, 91-131. Anche nelle altre città e terre della diocesi egli doveva riscuotere delle decime se in un documento del 1454 il vicario di Paternò, Adernò, Regalbuto, San Filippo d’Agira riceve tra l’altro il mandato di riscuotere «introitus, decimas et primitias quoscunque» (TA 1449-1450, fol. 106v).

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l’ufficio41. Nella città e diocesi di Catania non esisteva il fenomeno delle chiese private che diventavano sacramentali o parrocchiali42. Però questa circostanza non preservava le chiese sacramentali dal fenomeno delle commende, dell’affitto, delle gabelle43. Spesso il titolare del beneficio era un semplice chierico o, se sacerdote, di fatto non amministrava i sacramenti44. Il beneficiale poteva stipulare dinanzi al notaio un regolare contratto di affitto o di gabella con cui cedeva a un altro il diritto sulla chiesa e le rendite, dietro pagamento di una determinata somma. L’altro contraente era un sacerdote oppure erano i «mastri d’opera», cioè gli amministratori laici della chiesa, che avrebbero provveduto ad affidare a un sacerdote il compito di amministrare i sacramenti. Contratti del genere — in uso anche per gli uffici civili45 — rientravano nella prassi normale ed erano riconosciuti e tutelati dall’autorità ecclesiastica. Dalle numerose vertenze sorte fra il 41 Gabriel Le Bras illustrando lo schema giuridico del beneficio ecclesiastico, formulato dai canonisti medievali per attuare la riforma gregoriana, fa notare fra le righe le molteplici “vie di fuga” esistenti per coloro che si prefiggevano fini estranei alle intenzioni del legislatore (G. LE BRAS, Le istituzioni ecclesiastiche della cristianità medievale, in Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche e V. Martin, trad. it., XII/1, Torino 1973, 357-381). 42 Sulle chiese private vedi P. IMBART DE LA TOUR, Les paroisses rurales du IV siècle, Paris 1900, 173-180; L. NANNI, La parrocchia studiata nei documenti lucchesi dei sec. VIII-XIII, Romae 1948; 14-31; R. BIDAGOR, La «iglesia propria» en España, Roma 1933; P. B. KURTSCHEID, Historia iuris canonici, Romae 1951, 276-283; W. M. PLÖCHL, Storia del diritto canonico, trad. it., I, Milano 1963, 376-380. Nella diocesi di Catania notiamo solo qualche traccia di diritti che antichi proprietari esercitavano su alcune chiese sacramentali, fra i quali il diritto di patronato. Ma la nomina del cappellano sacramentale e la piena giurisdizione su di esse spettava al vescovo. Abbiamo già considerato il caso delle parrocchie di San Filippo d’Agira che dipendevano per alcuni aspetti dall’abbazia benedettina Santa Maria Latina. 43 Il 19 agosto 1541 la chiesa sacramentale Santa Marina in Catania viene data in commenda temporanea, come si legge nella nomina del cappellano: «ecclesiam ipsam dedit et dat loco commendae in persona ven. presbiteri Mariani de Trumbetta... usque ad aliud mandatum Rev.mi d.ni episcopi Catanensis vel aliam novam provisionem» (TA 1540-1541, fol. 21v). Come già abbiamo visto, alla chiesa Santa Maria dell’Itria in Catania viene data la cura d’anime per provvedere alle necessità materiali del cappellano (TA 1405-1419, fol. 159v). 44 A Piazza nel 1558 il titolare di una cappellania della chiesa madre è il chierico Gilberto de Asmundo (TA 1558-1559, fol. 121r-v). 45 M. GAUDIOSO, Natura giuridica, cit., 200.

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beneficiale e gli affittuari si può dedurre il criterio seguito da chi di fatto esercitava la cura delle anime: ricavare il maggiore utile possibile, occultare l’ammontare degli introiti ai beneficiali per ridurre la quota stabilita nel contratto o non pagarla affatto. Ma poiché il beneficiale aveva il diritto dalla sua parte, poteva sempre trovare qualcuno disposto ad accettare le condizioni da lui poste al contratto46. Se questa prassi in molti casi era lasciata alla volontà dei beneficiali, per alcune chiese sacramentali del bosco di Catania e del bosco di Aci era obbligatoria. Infatti, come si è visto nell’introduzione, la bolla di Eugenio IV, che aveva istituito il capitolo della collegiata Santa Maria dell’Elemosina in Catania, aveva assegnato come prebenda ai canonici ben diciannove chiese sacramentali. I canonici beneficiali obbligati alla presenza al coro, sarebbero andati nelle chiese del loro benefico solo per riscuotere le rendite. La cura delle anime era esercitata da altri dietro modesto compenso. Da qui le continue liti per la divisione e la riscossione delle rendite47. 46

Il 17 maggio 1558 il vicario generale scrive al vicario di Aci informandolo che «don Johanni di Guarrera, beneficiali di la ecclesia di S. Philippo di Carcina territorii Jaci, è comparso in la curti nostra et havi causato la exequucioni contra Johanni Baptista Cantarella, Jacobo Calì, Nitto Bianco, Bartolomeo Pennisi affittaturi di li introyti et proventi di la ditta ecclesia cossì como appare per atti pubblici in li atti di lo egregio notaro Bernardo Bonafidi, die XII augusti XIV ind. 1556 et die V aprilis XV ind. 1557, in unzi quattro... Eius supplicatione admissa como iusta in virtù di li presenti vi dicimo et comandamo chi debbiati effettive constringiri et fari constringiri alli supraditti debituri cohercitionibus realibus et personalibus et aliis quibus decet...» (TA 1557-1558 fol. 273r). Per le chiese sacramentali del bosco di Catania e di Aci questo genere di interventi da parte del vescovo o del suo vicario sono frequenti anche negli anni successivi (TA 1563-1564, fol. 387v-388r; TA 1564-1565, fol. 109v110r). Il fenomeno, tuttavia, riguarda anche le altre chiese sacramentali della diocesi. Il 17 dicembre 1558 si ordina al vicario di Piazza di intervenire per far rispettare un contratto di affitto di una cappellania della chiesa madre fra il rev. don Aurelio Marraro e il chierico Gilberto de Asmundo. Nonostante fosse stato pattuito un certo prezzo, il beneficiale molestava l’affittuario pretendendo di avere di più (TA 15581559, fol. 121r-v). Un’altra cappellania della stessa chiesa madre di Piazza era stata data in gabella a don Antonino di Milazzo negli anni antecedenti al 1558 (TA 15571558, fol. 312r-313r). 47 Una lettera del 14 luglio 1564 fa obbligo ai cappellani della chiesa San Filippo de Carcina di persuadere i mastri d’opera della chiesa a dare «onze diece infra pagamento della raggione dello affitto et arrendamento di ditta ecclesia affittata et arrendata alli detti mastri d’opera per lo quondam Rev. don Janni di Guirrera tunc

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Nel caso di benefici esigui, per consentire al sacerdote il sostentamento, era necessario raggrupparne diversi. Di conseguenza era impossibile per il cappellano la presenza assidua nelle diverse chiese sacramentali48.

4. CAPPELLANI SACRAMENTALI E ARCIPRETI O VICARI FORANEI Per completare la nostra analisi dobbiamo determinare la figura giuridica dei cappellani sacramentali e dei vicari o arcipreti, che nella diocesi di Catania sembrano avere delle funzioni diverse da quelle previste dal diritto comune. La diversità delle condizioni in cui viene esercitata la cura delle anime rende difficile determinare la ficanonico et possessore di ditta ecclesia et prebenda come vittimo contenersi per li atti di lo nobili notar Vincenzo di Randaczo... die XXX agusti, VI ind., 1563...». Reclama il pagamento il rev. Pietro de Paternò canonico della collegiata di Catania (TA 1563-1564, fol. 387v-388r). Analoga lettera viene indirizzata il 26 gennaio 1565 ai tre cappellani di Valverde perché non pagano al sacerdote Pietro de Gullo, canonico della chiesa collegiata, sei once e tre tarì per l’affitto della chiesa «come appare per virtù di contrattu celebrato in li atti di lo nob. notario Pietro Custarella, die XXIV aprilis, VII ind., 1564» (TA 1564-1665, fol. 109r-1l0v). Nel 1588 i fedeli di Misterbianco faranno pervenire una lettera di protesta alla Congregazione del concilio perché «la lor matrici et parrochiale chiesa si retrova unita alla thesauraria della collegiata di S.ta Maria di Catania, che al presenti possedi Pietro Roccatagliata, opulenti d’altri benefici et patrimonio, quali dopo l’absentia et travagli di mons. {Vincenzo Cutelli} moderno vescovo di Catania et malgoverno di vicari forasteri non ha voluto, né voli dar la congrua portioni di frutti al vicario et cappellano deputato dal vescovo per la cura di tremila animi et administratione di Sacramenti in dicta loro matrici, conformi alla dispositione del sacro conc. Tridentino, anzi violenta issi oratori a vindiri forzatamenti detti frutti con fargli molti mali trattamenti. Perciò issi oratori supplicano li SS. VV. Ill.mi chi per l’amor di Dio si dignino rimediari, chi dicto vicario et cappellano deputato per la cura delli animi et administratione di sacramenti possa riservarisi la mità delli frutti della lor matrici...» (Libri Decret., V, 1587-1589, fol. 214r). 48 È indicativo il caso già riportato del sacerdote Giovanni Cazeni. Aveva ottenuto in beneficio la chiesa sacramentale di Mascalucia; ma poiché risiedeva a Catania, era obbligato a incaricare un altro sacerdote per l’esercizio della cura d’anime. Accorgendosi che il reddito del beneficio non gli consentiva di affrontare queste spese, chiese di avere anche la chiesa di Santa Maria dell’Itria, alla quale fu concessa la cura delle anime per consentire al beneficiale di avere un equo sostentamento (Documenti del 25 marzo, del 4 maggio e del 3 settembre 1418: TA 1405-1419, fol. 124r, 128r, 159v).

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gura giuridica dei cappellani sacramentali. Si è visto che esistevano chiese con più cappellani, che con uguale diritto amministravano i sacramenti; chiese con un cappellano che amministrava i sacramenti senza essere il titolare del beneficio; chiese con cappellano che era il titolare del beneficio e amministrava personalmente i sacramenti. Nel primo caso, anche se fra i cappellani c’era stabilito un ordine di priorità, manca il titolare della cura delle anime, a meno che non si voglia accettare l’ipotesi di un titolo collegiale49. Nel secondo caso abbiamo due responsabili: il titolare del beneficio che riceve le rendite e le primizie o la quota stabilita nel contratto d’affitto ma non amministra i sacramenti né risiede a volte sul posto, e il sacerdote che amministra i sacramenti non in forza di un titolo, ma di un contratto privato. Nel terzo caso, invece, il cappellano sacramentale sembra avvicinarsi maggiormente alla figura del parroco com’è inteso nel diritto post-tridentino. Ma anche quest’ultima categoria di cappellani non sembra che avesse la piena responsabilità della cura delle anime e tutte le facoltà necessarie per esercitarla. In molte cose dipendeva dal vicario o arciprete e dall’arcidiacono50. Al vicario foraneo o arciprete, normalmente non è assegnata una vasta circoscrizione territoriale per l’esercizio

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«Socius in solidum» viene chiamato uno di questi cappellani che esercitava la cura d’anime assieme a un altro (TA 1555-1556, fol. 398v-399r). 50 La promessa di matrimonio e le pubblicazioni erano di competenza dell’arcidiacono, come risulta da un documento di Pio II del 1463, che fa riferimento anche all’uso vigente in altre diocesi della Sicilia: «Pius 2. Ad perpetuam huius rei memoriam. Cunctorum fidelium nobis divina providentia commissorum statui salubriter intendentes circa ea precipue scandalis et dissentionibus opportune occurritur ac ipsorum fidelium animarum saluti et unitati verisimiliter providere partes nostri ministerii favorabiliter adhibemus. Cum itaque pro parte venerabilis fratris nostri Guillelmi Episcopi Cathanensis nobis nuper exhibita peticio continebat in civitate et diocesi Cathanensi quaedam consuetudo immo pocius corruptela hactenus inoleverit quod tempore quo sponsalicie aut matrimonia celebrantur recursus ad quoscunque presbitero habeatur ipsique presbiteri sponsaliciis et matrimoniis huiusmodi secrete et occulte contractis intersint nonnunquam propterea prebetur occasio etiam inter aliquos invicem consanguineitate vel affinate coniunctos in casibus divina lege prohibitis matrimonia huiusmodi contrahendi et exhinde dissensiones et scandala sepius oriuntur. Et sicut eadem petitio subiungebat si facultas interessentie huiusmodi arcidiacono ecclesiae Cathanensi pro tempore existenti quemadmodum Panormitanae, Syracusanae, Aggrigentinae et nonnullarum ecclesiarum insulae Siciliae archi-

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del suo ufficio. Ne troviamo uno per ogni città o terra e uno per i casali del bosco di Aci; vengono esclusi i casali del bosco di Catania che fanno parte del territorio della città51. Non è mai parroco o cappellano sacramentale ed è qualcosa di più di un organo di vigilanza del vescovo o di collegamento con i sacerdoti a lui soggetti. La prima nomina che abbiamo trovato in archivio è firmata dal vicario generale del vescovo Giovanni de Podio Nucis, indirizzata al sacerdote Antonio di Graziano da Paternò il 10 febbraio 142952. In questo documento il vicario o arciprete è chiamato «locum tenentem episcopi» con la facoltà di pronunziare sentenze interlocutorie, di ricevere gli appelli per il tribunale del vescovo e di decidere l’inizio di un processo. Non viene nominato in perpetuo ma «beneplacito episcopi perdurante». Si ha diacono competere dignoscitur concederetur ex hoc publice honestati consuli posset tollerentur quae dissensionum materia ac etiam scandalorum. Quare pro parte eiusdem Episcopi nobis fuit humiliter supplicatum ut supra hiis opportune providere de benignitate apostolica dignaremur. Nos igitur, qui pacem et salutem appetimus singulorum et scandalis atque dissidiis quantum nobis ex alto promittitur obviamus huiusmodi supplicationibus inclinati dilecto filio moderno et qui pro tempore erit ipsius Cathanen. ecclesiae archidiacono sponsaliciis et matrimoniis huismodi quotiens illa in antea celebravi contigerit ad effectum ne contra sanctiones canonicas contrahantur auctoritate apostolica tenore presencium concedimus et pariter indulgemus districtius inhibentes quibusvis aliis eiusdem civitatis et diocesis presbiterio ne de cetero sub excomunicationis pena sponsaliciis et matrimoniis huiusmodi nisi de ipsius archidiaconi licencia interessendo illa auctoritate presumant... Non obstantibus premissis ac constitucionibus et ordinacionibus apostolicis ceterisque contrariis quibuscunque. Nulli ergo etc... nostrae concessionis et inibicionis infringere etc... Si quis etc... Datum Romae apud sanctum Petrum. Anno Incarnationis dominicae millesimo quadragentesimo sexagesimo tertio, septimo nonis aprilis, anno quinto» (Reg. Lat. 586, fol. 283r; cfr. anche: ACC, Volume di lettere per la lite del maestro cappellano col maestro cerimoniere della cattedrale, fol. 141r-142r). 51 Dal Tutt’Atti del 1559-1560 desumiamo questo elenco di vicari per i seguenti centri: San Filippo d’Agira, Castrogiovanni, Calascibetta, Assoro, Aidone, Piazza, Regalbuto, Adernò, Paternò, Barrafranca, Pietraperzia, Motta Sant’Anastasia, Jaci (TA 1559-1560, fol. 46r). 52 «...In dicta terra Paternionis eiusque territorio archipresbiterum officialem et locum tenentem nostrum, beneplacito dicti domini episcopi {et} nostro perdurante constituimus, facimus et creamus dantes vobis licenciam et veram potestatem predictum archipresbiteratus officium cum omnibus dependentiis emergentibus et connexis per totam dictam terram eiusque territorio exercendi... sententias interlocutorias proferendi, appellaciones ad episcopale tribunal et si opus erit admittendi processus... vobis vices nostras plenarie committimus...» (TA 1420-1437, fol. 214r).

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anche qualche esempio di un vicario creato per diversi centri. Il vescovo Guglielmo Bellomo nomina il sacerdote Antonio Cusinu vicario foraneo delle terre di Paternò, Adernò, Regalbuto, San Filippo d’Agira, come ricompensa di «notabilia et fructuosa servitia... diversimode praestata». Le facoltà che gli competono sono descritte nel decreto di nomina53. Il vicario ha la funzione di essere il «vices gerens episcopi» nel senso più ampio che ha questa espressione: nel campo spirituale, amministrativo e giudiziario. Attorno a sé ha una piccola curia con gli ufficiali necessari al suo funzionamento. In genere c’era un notaio o cancelliere, un promotore fiscale o erario, un algozirio o messo, ed altri secondo l’importanza della città54. Ha una procura generale sia per riscuotere, sia per comparire in giudizio. In poche parole: può fare tutto quello che farebbe il vescovo se fosse presente in quelle terre. Il documento non dice nulla sulla durata delle facoltà concesse al vicario, ma c’è da presumere che resti in carica «ad beneplacitum episcopi»55. Dagli altri decreti di nomina si possono ricavare

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«...Creamus, constituimus, facimus et ordinamus itaque et deinceps sic esse debeas predictarum terrarum vicarius illaque omnia et singula facere, exercere ac administrare possis et valeas quae nos ipsi facere possemus et alii vicarii nostri facere possunt, si personaliter in dictis terris interessemus aut interessent; possis et valeas curiam regere et... iustitiam unicuique petenti debite ministrare et ministrari facere... postremo volentes omnino ut iura et emolumenta quaecunque tam spiritualia quam temporalia nobis debita et de cetero debenda... sollicite et curiose exigantur et percipiantur... vos... exactorem et perceptorem omnium et quorumcunque iurium... creamus, facimus, constituimus et ordinamus... et nemo alius esse debeat procurator noster generalis... omnia et singula iura, introitus, decimis et primitiis quoscunque spirituales et temporales nobis debita et debitos ac debenda et debendos percipere, colligere ac petere possis et valeas sine obstaculo quocunque et pro executione et consecutione dictorum iurium nostrorum possis in iudicio comparere, litem contestare et omnia alia merita iudiciaria facere et exercere et demum illa omnia ut supra premissa facere, exercere, petere ac exigere possis et valeas quae nos ipsi facere, petere et exigere possemus si personaliter interessemus in locis predictis...» (TA 14491450, fol. 113v). 54 Il documento che abbiamo citato a proposito della vertenza sui confini delle parrocchie di San Filippo d’Agira è indirizzato al notaio del vicario (TA 1487-1489, fol. 2r-v). 55 Nel primo documento del 1429, già citato, è detto espressamente: «beneplacito dicti domini episcopi et nostro perdurante». L’8 novembre 1513 fu nominato il vicario di Regalbuto «ad nutum episcopi» (Visite 1513, fol. 8r-11r).

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pochi elementi nuovi, trattandosi di formulari identici che accennano in genere all’ufficio del vicario, senza specificarne le competenze. La corrispondenza del vescovo, che riguarda la cura pastorale dei fedeli o la disciplina del clero e delle case religiose esenti, è indirizzata sempre al vicario. È lui il responsabile dell’attività pastorale, risponde di tutto ciò che succede nell’ambito della sua circoscrizione, assume informazioni che trasmette subito al vescovo, in caso di disordini castiga i colpevoli, rinchiude in carcere in attesa di giudizio... Quando il vescovo muore e ogni volta che comunque la sede resta vacante, il primo atto che compie il vicario capitolare o il nuovo vescovo è quello di rinnovare le facoltà ai vicari foranei, venuti ipso facto a cessare56. Da queste funzioni che il vicario esercita deriva la sua particolare dignità, una specie di primato che ha nei confronti degli altri sacerdoti del luogo57. Mettendo a confronto la figura dei cappellani sacramentali con quella dei vicari, ci chiediamo chi sia il titolare della cura d’anime nelle città, nelle terre e nei casali della diocesi. Il cappellano che esercita la cura d’anime, anche se è il titolare del beneficio non sembra esercitarla nomine proprio e in forza della nomina ricevuta. La sua responsabilità e l’ambito della sua azione sono molto limitati dal vicario e dall’arcidiacono: si direbbe un esecutore materiale alle dipendenze altrui. Data la scissione operata fra ufficio e beneficio, la nomina più che conferirgli le facoltà necessarie per esercitare la cura d’anime, gli concede il diritto a percepire i redditi del beneficio. Le facoltà sembrano derivare dalla volontà autonoma del vescovo58. Ma neppure il vicario può essere considerato il titolare della cura, non essendo a lui 56

TA 1568-1569, fol. 268v. Da notare un’espressione usata nel 1561 dagli amministratori apostolici nominati dopo la cattura del vescovo Nicola Maria Caracciolo da parte del pirata Dragut, nel rinnovare le nomine ai vicari: «vicarium sive subadministratorem in spiritualibus in terra praedicta» (TA 1561-1562, fol. 4v). 57 Nelle ordinationes rilasciate nel 1553 dal vicario generale Guglielmo Ansalone nella città di Castrogiovanni, si ha, tra le altre, questa norma che fissa l’ordine di precedenza nelle processioni: «per primo loco dijano andari quattro cappellani di la majuri ecclesia more solito cioè uno a la banda dextra et l’altro alla sinistra di lo rev.mo di detta città» (TAV 1553, fol. 79r). 58 Questa osservazione risulta evidente nel caso in cui il titolare di un beneficio curato è incapace o inabile ad esercitare la cura. Intanto la nomina gli conferisce il diritto di percepire il reddito del beneficio; potrà amministrare i sacramenti in un

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affidata una determinata parrocchia o chiesa sacramentale e non avendo alcun dovere di amministrare i sacramenti. Il suo ufficio è quello di rendere presente il vescovo in un luogo determinato con la sua autorità, la sua responsabilità, la sua iniziativa. Ci troviamo, così, dinanzi a delle figure poco definite che si spiegano solo a partire dalla tipica struttura centralizzata che ha la Chiesa in questo periodo e che trova varie applicazioni secondo le circostanze particolari dei diversi luoghi. Nella diocesi di Catania questa struttura acquista particolare rilievo per le funzioni straordinarie, i privilegi, i beni dati al vescovo dai conquistatori normanni e dalle circostanze in cui venne a trovarsi dopo la parentesi della dominazione musulmana. Il vescovo appare come l’unico responsabile della pastorale diocesana, oltre che del governo della diocesi. Gli uffici dei suoi collaboratori sembrano privi di autonomia e di contenuto. A questa osservazione generale bisogna aggiungere che i princìpi giuridici della parrocchia, i parroci e l’organizzazione della cura d’anime in genere, dopo la confusione del periodo feudale, proprio in questo secolo incominciavano a trovare una sistemazione organica. Non possiamo pensare alla parrocchia come a un istituto giuridico ben definito, che trova un’applicazione uniforme nei diversi luoghi. Anche fra regioni vicine troviamo spesso delle situazioni così diverse, da rendere difficile la configurazione unitaria dei princìpi costitutivi della parrocchia e di tutti gli uffici collegati all’esercizio della cura

secondo momento se diventa capace e se il vescovo lo ritiene idoneo, oppure dovrà ricorrere all’aiuto di un sacerdote abilitato. Questa “abilitazione” ad amministrare i sacramenti nelle chiese curate veniva data dal vescovo o dal vicario ai sacerdoti, indipendentemente da un titolo. Nel 1556 il vescovo in una lettera al vicario della città di Castrogiovanni estende a tutte le chiese sacramentali le facoltà che l’anno precedente aveva dato al sacerdote Vincenzo de Muratore, di amministrare i sacramenti nella parrocchia San Tommaso (TA 1555-1556, fol. 251r-v). Il documento già citato in cui il vicario generale interviene per far pagare ai mastri d’opera di San Filippo de Carcina la somma dovuta al canonico della collegiata di Catania, si chiude con la minaccia di una pena ai cappellani: saranno sospesi dall’amministrazione dei sacramenti per la Chiesa di San Filippo e per tutte le altre chiese della diocesi se non metteranno i loro buoni uffici nei confronti dei mastri d’opera (TA 1563-1564, fol. 387v388r).

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d’anime59. Lo stesso concilio di Trento, più che dare in materia una dottrina organica e definita, si limitò ad emanare alcune norme e direttive ritenute urgenti per eliminare gli abusi più gravi. I vescovi in59

Non sono mancati i tentativi degli storici delle istituzioni ecclesiastiche di elaborare una storia della parrocchia come istituto giuridico, che comprende le diverse situazioni nazionali e regionali in un determinato periodo storico (W. M. PLÖCHL, Storia del diritto canonico, cit., II, 152-159; G. LE BRAS, Le istituzioni ecclesiastiche, cit., 533-558; J. GAUDEMET, Le gouvernament de l’église, cit., 216-320; V. BO, Storia della parrocchia, 4 voll., Roma 1988-1992). Assumono un significato diverso gli studi circoscritti a una diocesi, a un luogo particolare, a un determinato periodo storico. Per tutto il problema si veda A. LONGHITANO, La parrocchia fra storia, teologia e diritto, in La parrocchia e le sue strutture, a cura dello stesso, Bologna 1987, 5-27. 60 Le norme che riguardano le parrocchie e i parroci sono varie. Le più importanti riguardano i seguenti casi: a) luoghi in cui non esistono parrocchie; b) luoghi in cui queste sono insufficienti per la distanza o il numero dei fedeli; e) città in cui esistono le parrocchie, ma senza confini, in modo che il loro rettore non ha un popolo determinato; d) benefici curati annessi alle cattedrali, collegiate, monasteri... Per il primo caso il canone del concilio è chiaro e obbligatorio per tutti: «...{I vescovi} avranno ugualmente cura che nelle città e nelle campagne dove non esistono chiese parrocchiali siano create al più presto» (sess. XXIV, de ref., c. 13, Conc. Oec. Decr., 768). Per il secondo caso si stabilisce un indirizzo, la cui attuazione e lasciata però alla decisione del vescovo: «...In quelle chiese, poi, nelle quali per la distanza dei luoghi o la difficoltà del percorso, i parrocchiani non possono recarsi a ricevere i sacramenti o ad assistere ai divini uffici se non con grave incomodo, i vescovi potranno erigere nuove parrocchie, malgrado l’opposizione dei parroci...» (sess. XXI, de ref., c. 4, Conc. Oec. Decr., 729-730). Anche per il terzo caso il canone sembra dare una indicazione, che i vescovi devono tener presente e, se credono opportuno secondo le circostanze, attuarla. In caso contrario possono provvedere nel modo che credono più utile: «...Anche in quelle città o territori dove le chiese parrocchiali non hanno confini ben definiti, né i loro rettori un proprio popolo da governare, ma amministrano indistintamente i sacramenti a chi li chiede, il santo sinodo comanda ai vescovi, perché sia più certa la salvezza delle anime loro affidate, di dividere il popolo in parrocchie vere e proprie e di assegnare a ciascuna un proprio parroco stabile, che possa conoscere i propri parrocchiani e dal quale soltanto ricevano lecitamente i sacramenti. Altrimenti provvedano in modo migliore, secondo le esigenze locali» (sess. XXIV, de ref., c. 13, Conc. Oec. Decr., 768). Proibisce per il futuro l’annessione di benefici curati a collegi, monasteri, ecc... (sess. XXIV, de ref., c. 13, Conc. Oec. Decr., 767-768). Per quelli esistenti prescrive: «I benefici ecclesiastici con cura d’anime, uniti o annessi in perpetuo alle cattedrali, alle collegiate o ad altre chiese o a monasteri, a benefici, collegi o luoghi pii di qualsiasi tipo, saranno visitati ogni anno dagli ordinari locali; essi provvederanno con sollecitudine a nominare vicari idonei, anche perpetui (a meno che agli stessi ordinari non sembri opportuno procedere in altro modo per il buon governo delle chiese), i quali esercitino in modo

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contreranno non poche difficoltà ad attuare concretamente questi princìpi, che saranno comunque determinanti per avviare man mano la riforma60.

lodevole la cura delle anime... Non potranno essere invocati, per quanto precede, appelli, privilegi, esenzioni, anche con intervento dei giudici e loro divieti» (sess. VII, de ref., c. 7, Conc. Oec. Decr., 688). Anche questa norma sembra dare un indirizzo, lasciando alla prudenza dei vescovi la decisione sulla opportunità di applicarla. Da notare, però, la forza che il concilio dà alla disposizione, prevedendo le difficoltà che è destinata ad incontrare. Tra le altre norme che riguardano le parrocchie è necessario notare anche quelle riguardanti: la incompatibilità di più benefici curati concessi allo stesso individuo (sess. VII, de ref., c. 2, 4, 5, ibid, 687), l’obbligo della residenza (sess. VI, de ref., c. 1, 2, ibid., 681-682; sess. XIV, de ref., c. 4, ibid., 715; sess. XXIII, de ref., c. 1, ibid., 744-746); i doveri dei parroci, l’esame sulla loro idoneità (sess. XXIV, de ref., c. 18, ibid., 770-772)...

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IL VESCOVO NICOLA MARIA CARACCIOLO E IL SUO PIANO DI RIFORMA

1. LA SUA NOMINA Se si legge la cronologia dei vescovi di Catania dal 1524 al 1568 si ha l’impressione che la diocesi fosse divenuta un feudo privato della famiglia napoletana dei Caracciolo1. Il 18 gennaio 1524 veniva nominato Marino Ascanio Caracciolo, un personaggio di primo piano nelle vicende politiche italiane ed europee a cavallo fra i due secoli: protetto e segretario del card. Ascanio Sforza, dopo aver fatto esperienza nella corte pontificia durante il pontificato di Alessandro VI, ricevette importanti incarichi diplomatici da Giulio II, Leone X (assieme a Girolamo Aleandro fu incaricato della pubblicazione in Germania della bolla Exurge Domine che condannava Lutero), Adriano VI e Clemente VII, apprezzato consigliere e collaboratore dell’imperatore Carlo V, che gli affidò il governo del ducato di Milano; nel 1535 fu anche creato cardinale da Paolo III2. La nomina a vescovo di Catania, nelle intenzioni di Carlo V che lo presentò e di Clemente VII che firmò la bolla, voleva essere una ricompensa per le delicate mansioni affidategli, ma non doveva costituire la fine della sua brillante carriera ecclesiastica. Infatti con il conferimento della sede vescovile gli fu riconosciuto il cosiddetto diritto

1 Hierarchia catholica, III, a cura di C. Eubel, Monasterii 1923, 159. Si tratta del ramo dei Caracciolo Rossi e in particolare dei discendenti di Domizio Caracciolo: Marino — il primogenito di undici figli — apre la lista dei vescovi napoletani di questo periodo, seguono: Scipione, altro figlio di Domizio, Luigi, nipote di quest’ultimo (non conosciamo il nome del padre), Nicola Maria, altro nipote di Domizio, figlio di Giovanni Battista, che succedette al fratello card. Marino nella contea di Gallarate (V. SPRETI, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, II, Milano 1936, 302-303). 2 Hierarchia catholica, cit., 24; G. DE CARO, Caracciolo Marino Ascanio, in DBI, 19, Roma 1976, 414-425; H. JEDIN, Il Concilio di Trento, trad. it., I, Brescia 1973, 349-351.

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Il vescovo Nicola Maria Caracciolo e il suo piano di riforma

di accesso e di recesso, cioè di presentare al governo della diocesi una persona di sua fiducia e di subentrarle in caso di sede vacante. Marino Caracciolo non vide mai la diocesi di Catania; in forza del diritto conferitogli, presentò come vescovo il fratello Scipione Caracciolo e quando questi morì (1529) riprese il governo della diocesi, per presentare, nel 1530, il nipote Luigi Caracciolo. Anche quest’ultimo ebbe un breve governo e morì nel 1536; ancora una volta subentrò il card. Marino, che presentò il giovanissimo nipote Nicola Maria, nato nel 1512 dal fratello Giovanni Battista e da Beatrice Gambacorta3. L’ultimo dei Caracciolo fu nominato il 6 gennaio 1537 e prese possesso canonico della diocesi per procuratore il 25 marzo 1537, all’età di ventiquattro anni, con il titolo di amministratore, non avendo raggiunto l’età canonica dei ventisette per essere consacrato vescovo4. L’11 novembre 1540 fece il suo ingresso a Catania5. Le condizioni in cui si trovava la diocesi non erano le migliori. Da quasi un secolo i vescovi si erano succeduti a breve distanza l’uno dall’altro. Nella maggior parte dei casi non erano venuti in sede o vi si erano fermati per breve tempo. Perciò non solo era mancata una qualche forma di azione pastorale, ma non si era provvisto neppure al conferimento della cresima e degli ordini sacri6. La giovane età del Caracciolo, la nomina ottenuta secondo la prassi del nepotismo, non avrebbero fatto prevedere la sua eccezio-

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R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 552-555; D. CACCAMO, Caracciolo Nicola Maria, in DBI, 19, Roma 1976, 433-435. 4 I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 253; cfr. Note 1540-1541, fol. 55v-56r. 5 Note 1540-1541, fol. 16r-v. La Cronaca siciliana del secolo XVI riporta la narrazione «di la intrata di lu signuri episcopo di Catania lo reverendissimo signuri don Cola Maria Carachiulu di Napoli». L’ingresso avvenne «die iovis in hora vicesima secunda dicti diei vel circa... Intrao per la porta di Yachi, non tamen vestito pontificalimenti nec mitrato, ad causa chi non era facto preiuri nec sacrato» (Cronaca siciliana del secolo XVI, a cura di V. Epifanio e A. Gulli, Palermo 1902, 153). 6 Considerato che il Caracciolo non aveva ancora ricevuto la consacrazione episcopale, venne a Catania in compagnia del vescovo di Ischia Agostino Pastineo, che si fermò in diocesi per qualche tempo «ut serviciis ministerii episcopalibus vacaret... verbum Dei publice predicando, cresimando, monasteria et ecclesias visitando, sacrosque generales ordines ministrando et alia quoque plurima pia opera et commoda civibus dictae civitatis elargiendo in servitium omnipotentis Dei et prefati rev.mi domini episcopi et populi animarum» (Note 1540-1541, fol. 53v-54r).

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nale personalità e capacità di governo, che dimostrò in quasi trent’anni di permanenza a Catania. Il noto storico catanese Giovanni Battista De Grossis nel 1654, a meno di un secolo dalla sua morte, constatando la sua fama e le sue opere, espresse su di lui un giudizio che potrebbe sembrare esagerato: «immaturo quanto agli anni, ma esperto nonostante la sua giovane età, al punto che nel suo caso si può benissmo citare il detto: era giovane per gli anni, ma vecchio per la sua immensa saggezza»7. Riteniamo, invece, che sostanzialmente si tratti di un giudizio obiettivo e abbastanza fondato. Il Caracciolo, rompendo la tradizione dei suoi predecessori, non si limitò a governare da lontano per mezzo di procuratori e a riscuotere le laute rendite della mensa vescovile. Per trent’anni visse a Catania, dimostrando di essere un uomo di fede, aperto e sensibile e di avere buone capacità di governo. Non sempre la sua azione fu coronata da successo. In alcuni casi furono i successori e raccoglierne i frutti. Ma la sua figura nel complesso merita il giudizio positivo espresso dal De Grossis. Ebbe la stima dei papi e dei re. Carlo V lo nominò giudice della corte imperiale e dei tribunali della Sicilia8, gli confermò la giurisdizione civile sul casale di Mascali e gli concesse quella penale: il cosiddetto privilegio meri et mixti imperii9. La stima dell’imperatore e la 7 «Aetate quidem immaturus, sed muneri supra aetatem idoneus, ut ei perbelle illud conveniat, iuventus quidem camputabatur in annis, sed erat senectus mentis immensa» I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 253. Anche l’altro storico V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., 393-394, scrive: «Ipse interim gregis forma factus ex animo, moribus incorruptis, virtutum omnium sese exemplar exhibuit, dignosque sene actus in juvenili aetate edidit». Più semplice, ma di maggior valore, perché scritto da un suo contemporaneo, il giudizio che dà l’autore della Cronaca siciliana, il notaio catanese Antonio Merlino: «Fu homo virtusissimo et mai fichi nixuno scandalo di cosa nixuna, grandissimo elemosinario et di vita approbata» (p. 153). 8 R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 554; I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 259; V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., 293; F. FERRARA, Storia di Catania, cit., 140; V. CORDARO CLARENZA, Osservazioni, cit., III, 48 e 111-113. 9 In un documento del 1558 il Caracciolo fa la storia dei diritti che i vescovi di Catania avevano sul territorio e sul casale di Mascali come signori feudali. Dopo essersi ricollegato direttamente alla donazione fatta dal conte Ruggero e dal re Ruggero, afferma: «...Constat et apparet ac etiam ex antiquissima pacifica et continuata possessione vel quasi in qua ditti predecessores prelati nostri ac nos semper fuimus et sumus cognitionis causarum civilium ac civilis iurisdictionis in ditto casali et territorio Mascalarum... Immo etiam a pluribus annis citra et de presenti ex gratia et privilegio speciali

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sua personale capacità gli procurerà il 28 febbraio 1556 l’elezione a primo deputato pro rebus Siciliae peragendis e nel 1558 l’incarico di presiedere il Regno in assenza del viceré Giovanni la Cerda10.

2. NICOLA MARIA CARACCIOLO TRA LUTERANESIMO ED EVANGELISMO La personalità del vescovo Nicola Maria Caracciolo assume una particolare rilevanza nelle travagliate vicende di questo periodo, perché viene indicato da alcuni storici come appartenente al circolo napoletano di Juan Valdés e come filoluterano11. Questi giudizi sulla matrice culturale e religiosa del nostro vescovo si fondano sulle accuse rivoltegli da Giovan Francesco Alois12, il 7 marzo 1564, nel processo che

Imperatoris Regis D.ni Nostri in eodem territorio Mascalarum nos iurisdictionem criminalem ac merum et mixtum imperium habuimus, habemus et possidemus... 8 maggio 1558» (TA 1557-1558, fol. 273v-275r). Nel volume di Tutt’Atti del 1558-1559 troviamo il decreto con cui il Caracciolo, signore di Mascali, nomina il capitano di giustizia: «...Cum ad nos pertineat ac spectet electio et creatio capitanei dittae terrae seu casalis et territorii Mascalarum cum iurisdictione et cognitione omnium et singularum causarum criminalium virtute privilegii gratiae et facultatis meri et mixti imperii nobis ad vitam nostram per felicem memoriam quondam Imperatoris Caroli quinti...». La concessione di Carlo V è all’origine del titolo di conte, di cui si fregeranno i vescovi di Catania fino al secolo XX, anche se in Sicilia la feudalità era stata abolita fin dal 1812 (TA 1558-1559, fol. 410r-411r; M. GAUDIOSO., La questione demaniale, cit., 133-155; S. FRESTA, La Contea di Mascali, cit.; S. CATALANO, Mascali: feudalità e demanialità, in La Contea di Mascali. Un lungo cammino per la riscoperta, Giarre 1996, 29-52). 10 R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 254; I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 260; G. E. DI BLASI, Storia cronologica de’ viceré, luogotenenti e presidenti del Regno di Sicilia, Palermo 1974, II, 114; D. CACCAMO, Caracciolo Nicola Maria, cit. 11 C. A. GARUFI, Contributo alla storia dell’Inquisizione in Sicilia nei secoli XVI e XVII. Documenti degli archivi di Spagna, in Archivio Storico Siciliano N.S. 38 (1913) 264-329: 329; S. CAPONETTO, Origini e caratteri della Riforma in Sicilia, in Rinascimento 7 (1956) 2, 219-341: 236; BENEDETTO DA MANTOVA, Il beneficio di Cristo. Con le versioni del secolo XVI, documenti e testimonianze, a cura di S. Caponetto, Firenze-Chicago 1972, 483-498; C. GINZBURG, Due note sul profetismo cinquecentesco, in Rivista Storica Italiana 78 (1966) 184-227; T. BOZZA, Marco Antonio Flaminio e «Il beneficio di Cristo», Roma 1966; ID., La Riforma cattolica e «Il beneficio di Cristo», Roma 1972; V. VINAY, La Riforma protestante, Brescia 1970, 329-330; D. CACCAMO, Caracciolo Nicola Maria, cit. 12 M. ROSA, Alois Gian Francesco, in DBI, 2, Roma 1960, 515-516.

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si concluse con la condanna al rogo dell’imputato. Questi affermò che prima del 1547, assieme a un suo amico luterano, si era recato a far visita al vescovo di Catania Nicola Maria Caracciolo. Il prelato, conversando su alcuni temi biblici, aveva dichiarato di condividere le posizioni luterane e aveva mostrato loro una copia dei Sermoni di fra Bernardino Ochino, del Beneficio di Cristo e di alcuni scritti di Valdés che possedeva; i due avevano anche letto alcune pagine di questi autori in sua presenza13. Assieme al vescovo di Catania l’imputato aveva accusato come simpatizzanti dei riformatori: gli arcivescovi di Otranto e di Reggio; i vescovi di Cava, d’Isola, di Caiazzo, di Nola, di Penne e di Policastro. Il viceré di Napoli, avuti in mano gli atti del processo, si era affrettato ad informare il re Filippo II; ma poiché si trattava di fatti avvenuti molti anni prima e si sospettò che l’imputato avesse fatto tutti quei nomi per propria discolpa, non fu preso alcun provvedimento14. Il giudizio di simpatizzante della dottrina di Lutero, formulato nei confronti del vescovo Caracciolo sembra derivare dall’uso non sempre univoco di alcuni concetti storiografici di uso comune: “evangelismo”, “riforma cattolica”, “controriforma” e dalla prospettiva non sempre metodologicamente corretta dalla quale sono considerati i fatti di questo periodo storico15. 13 «...De la deposición de Juan Francisco de Aloys, por otro nombre Caserta, se sacan las confesiones siguientes. Dél, que está en numero tres {Obispo de Catanea}, dice que poco ántes de los rumores de Nápoles, le fué a visitar, juntamente con otro compañero suyo, Luterano, y, hablando de la cosas de la Scriptura, se les declarò que tenia y creia las opiniones Luteranas, y le mostró que tenia en su poter los Sermones de fray Bernardino de Sena, y El beneficio de Cristo, y otros scriptos de mano del Valdesio herejiarca, en los cuales libros leyeron alguna partes allí en su presencia» (Lettera di Pedro Afán de Rivera, duca di Alcalà e viceré di Napoli, a Filippo II di Spagna, in BENEDETTO DA MANTOVA, Il beneficio di Cristo, cit., 457). 14 M. ROSA, Alois Gian Francesco, cit. 15 Se a prima vista potrebbe sembrare relativamente semplice l’uso di determinati concetti storiografici, a ben riflettere si deve riconoscere che la loro formulazione obbedisce alla scelta di un preciso metodo storico. Scrivendo su questo tema Delio Cantimori aveva già sottolineato che era inevitabile per lo storico di formulare e adoperare determinati concetti storiografici; essi, tuttavia, sono semplici strumenti di lavoro, che non vanno formulati arbitrariamente, ma neppure possono essere frutto di precomprensioni filosofiche e teologiche (D. CANTIMORI, Riforma cattolica, in Studi di storia, II, Torino 1976, 537-553). In particolare dietro i concetti di “riforma cattolica” o di “controriforma” non possiamo trovare una concezione apo-

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Possiamo considerare convergenti i due concetti di “evangelismo” e di “riforma cattolica”: indicano quel movimento della prima metà del secolo XVI, che si prefiggeva la riforma della Chiesa dall’interno con il ritorno allo spirito del Vangelo16. Non si trattava di un movimento omogeneo, ben definito dal punto di vista dottrinale, costituito da persone provenienti da esperienze culturali e spirituali analoghe. I diversi gruppi che lo formavano, per quanto cercassero di mantenersi in contatto fra di loro e si servissero di metodi, criteri e valutazioni comuni, costituivano «un intricato groviglio di itinerari religiosi individuali apparentemente contraddittori»17. All’interno di un movimento molto vario, avevano una fisionomia più definita i diversi circoli che si ispiravano alla dottrina o alla prassi di determinati personaggi. Fra i più noti c’era quello che si riuniva attorno a Juan Valdés, uno spagnolo che operò a Napoli dal 1535 al 154118. Sulle radici dottrinali dei valdesiani si hanno fra gli storici logetica della storia, che pretende dimostrare la presenza di una corrente di riforma nella Chiesa da contrapporre alla riforma avviata da Lutero, oppure l’inconsistenza dei tentativi di riforma della Chiesa di fronte all’azione risoluta dei protestanti. Si tratta semplicemente di configurare fatti e personaggi di un determinato periodo storico, e di adoperare con coerenza e senza forzature i concetti formulati. Per il problema metodologico vedi anche: D. CANTIMORI, Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, Bari 1960, 17-26; G. ALBERIGO, Dinamiche religiose del Cinquecento italiano tra Riforma, Riforma cattolica, Controriforma, in Cristianesimo nella storia 6 (1985) 543-560; G. MICCOLI, La storia religiosa, in Storia d’Italia, II/1, Einaudi, Torino 1974, 429-1079: 431-447. 16 Il concetto storiografico di “evangelismo” è stato creato da P. Imbart de la Tour per designare le tendenze riformistiche francesi. H. Jedin lo ha applicato alle correnti parallele italiane (E. M. JUNG, Evangelismo, in Enciclopedia cattolica, V, Città del Vaticano 1950, 886-887). Il concetto di “riforma cattolica” fu formulato dallo storico protestante W. Maurenbrecher, divulgato dal Pastor e approfondito da H. Jedin, che lo considera equivalente ad “evangelismo” (H. JEDIN, Riforma cattolica o controriforma?, trad. it., Brescia 19743, 7-33) e comunemente accettato nel linguaggio storiografico (D. CANTIMORI, Riforma cattolica, cit.; G. ALBERIGO, Dinamiche religiose, cit.,). 17 A. ROTONDÒ, I movimenti ereticali nell’Europa del Cinquecento, in Rivista Storica Italiana 78 (1966) 103-139: 134. 18 V. VINAY, La Riforma protestante, cit., 319-332; D. CANTIMORI, Il circolo di Juan Valdés e gli altri gruppi evangelici, in Umanesimo e religione nel Rinascimento, Torino 1975, 193-203; M. FIRPO, Tra alumbrados e “spirituali”. Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ’500 italiano, Firenze 1990; S. CAPONETTO, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino 1992, 81-94.

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valutazioni diverse, spiegabili con la caratteristica di fondo di persone che rifiutavano precise etichette teologiche e dottrinali. Il mistico spagnolo «partiva dal presupposto che, essendo la “riforma interiore”, la “riforma degli uomini”, quella che più contava, si potesse vivere anche sotto la legge (indifferente per loro come ogni legge) della Chiesa di Roma, seguendone i precetti e i comandamenti per non scandalizzare i deboli, e propagando la vera dottrina, finché riformati tutti gli uomini si sarebbe avuta anche la riforma della Chiesa»19.

Il movimento, che rimase circoscritto a un gruppo di persone di alta cultura e di alta posizione nella società laica ed ecclesiastica, fu conosciuto da un più vasto pubblico attraverso la predicazione del cappuccino Bernardino Ochino e Il beneficio di Cristo, un piccolo trattato spirituale scritto nel monastero San Nicola l’Arena di Nicolosi (Catania) intorno al 1537 dal benedettino mantovano Benedetto Fontanini — meglio conosciuto come Benedetto da Mantova — e rivisto dal punto di vista letterario da Marcantonio Flaminio20. La stessa valutazione di questo volumetto non trova concordi gli storici: per alcuni è un’opera in cui si manifestano con chiarezza i tratti dell’evangelismo italiano, pertanto non può essere considerata manifestamente eterodossa21; per altri, che vi hanno scoperto infiltrazioni calviniste e luterane, deve essere ritenuta una volgarizzazione delle principali tesi dei riformatori protestanti22. Ha fatto notare giusta-

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D. CANTIMORI, La Riforma in Italia, cit., 188. S. CAPONETTO, Benedetto da Mantova, in DBI, 8, Roma 1966, 437-441. Vedi l’edizione critica dell’opera, curata da S. Caponetto: BENEDETTO DA MANTOVA, Il beneficio di Cristo, cit. 21 H. JEDIN, Il concilio di Trento, cit., 411; G. MICCOLI, La storia religiosa, cit., 1012. 22 Già fin dal 1544 il domenicano Ambrogio Catarino aveva pubblicato un «Compendio d’errori et inganni luterani contenuti in un libretto senza nome d’autore intitolato “Trattato utilissimo del Benefizio di Cristo crucifisso”» (lo scritto si trova in BENEDETTO DA MANTOVA, Il beneficio di Cristo, cit., 347-422); questo scritto determinò la condanna dell’Inquisizione con l’ordine di sequestro e di distruzione dell’opera. La condanna fu determinante per far ritenere il trattato uno scritto lutera20

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mente G. Miccoli che questa scoperta, per quanto importante, non cambia la natura dell’opera: «spiega e chiarisce meglio le varie componenti e suggestioni che entrano in gioco in quegli ambienti, e quindi anche nella sua composizione, ma non muta la sostanza della loro linea politica e operativa: perché l’attingere da parte loro agli scritti dei riformatori corrispondeva al loro giudizio su quelle dottrine, ma non spostava la loro volontà politica di operare all’interno della comunione romana»23.

È difficile collocare il vescovo Nicola Maria Caracciolo in un quadro così complesso e variegato. Se si fa riferimento alla sola testimonianza di Francesco Alois, non si può in alcun modo sostenere che il nostro vescovo «nutrisse simpatie “luterane” e tenesse rapporti con elementi valdesiani»24. Teoricamente egli avrebbe potuto conoscere il Valdés a Napoli nel periodo antecedente alla sua nomina; infatti quando nel 1537 il Caracciolo, all’età di venticinque anni, fu preposto alla diocesi di Catania, il mistico spagnolo da due anni viveva e operava a Napoli; ma si tratta di una semplice ipotesi che attende conferma. Molto più correttamente possiamo ritenere che il nostro vescovo avesse fatto proprio lo spirito della riforma cattolica e seguisse con interesse gli scritti di quelle persone che auspicavano un rinnovamento della Chiesa a partire dalla conversione interiore delle persone, fra i quali il Beneficio di Cristo e gli scritti del Valdés. I tratti caratteristici dell’evangelismo possono essere facilmente riscontrati nel suo progetto di riforma e dall’analisi dell costituzioni sinodali del 156525.

no. In tempi a noi più vicini altri autori hanno condiviso questo giudizio, perché hanno trovato trascritte nell’opera pagine di Lutero e di Calvino (G. MIEGGE, Ispirazione protestante del Beneficio di Cristo, in L’Appello 7 [1942] 132-137; T. BOZZA, Il Beneficio di Cristo, Roma 1976; V. VINAY, La Riforma protestante, cit., 326-330). 23 G. MICCOLI, La storia religiosa, cit., 1012. 24 D. CACCAMO, Caracciolo Nicola Maria, cit., 434. 25 Vedi infra.

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3. I RAPPORTI DEL CARACCIOLO CON LA CITTADINANZA E LE AUTORITÀ LOCALI

Si è visto nell’introduzione che il rapporto del vescovo con le autorità locali assumeva a Catania un significato particolare26. I molti problemi già risolti dopo annose controversie e i tanti altri da risolvere avevano creato un clima di tensione, che di tanto in tanto dava luogo a inevitabili scontri e a battaglie giudiziarie. Erano trascorsi ormai diversi secoli dall’ordinamento dato dai normanni alla città. Dopo le ribellioni e le contese del primo periodo, Catania era riuscita ad ottenere lo stato di città demaniale o regia. Il problema, però, non si poteva dire risolto. Infatti il vescovo esigeva che le magistrature cittadine gli prestassero giuramento, continuava a percepire tasse e gabelle di 26 Dai volumi di Tutt’Atti del tempo desumiamo le autorità civiche di Catania nel periodo che interessa il nostro studio: 1) «Capitaneus» (capitano di giustizia): nominato dal viceré come suo vicegerente per l’amministrazione della giustizia civile e penale e con il compito di mantenere l’ordine pubblico; 2) «Patricius»: come tutti gli altri ufficiali era eletto dai cittadini con il sistema del bussolo. Era l’antico baiulo; presiedeva il corpo dei giurati. Insieme a loro era il responsabile dell’amministrazione della città, come l’attuale sindaco; 3) «Magister operae magnae»: rappresentante civile nella fabbriceria della cattedrale; 4) «Iudex»; 5) «Iudex appellationis»; 6) «Magister notarius d.ni Patricii»; 7) «Iudex idiota» (erano in due): giudicavano le cause minori; 8) «Thesaurarius»; 9) «Magnifici iurati» (erano in sei): eletti dai cittadini, assieme al «Patricius» amministravano la città; 10) «Magister munditiae»: incaricato per la nettezza urbana; 11) «Reformatores studii» (erano in tre): vigilavano sul buon andamento dello Studium; 12) «Mastru de l’opera pichiula»: rappresentante dell’opera piccola o sacrestia, che provvedeva alle spese di culto della cattedrale; 13) «Mastru nutaru di bancu»; 14) «Acatapani»: guardie annonarie e di vigilanza (erano in sei: due nobili, due «honorati», due «di gratia»; 15) «li statuti» (erano in quattro); 16) «li capixurta» (erano in quattro): «capiguardia»; tutti i cittadini erano tenuti a fare la guardia notturna o surta; oltre questi quattro ce n’era un altro «di gratia» (TA 1530-1531, fol. 1r). In questo elenco non si fa cenno ad altri organismi ed uffici esistenti per l’amministrazione della città. Fra questi bisogna ricordare il «consiglio generale», composto dalle autorità e dai rappresentanti dei militi, dei capi famiglia, dei «consules artium» (rappresentati delle corporazioni di arti e mestieri), dei mercanti... Si riuniva per decidere sui problemi più importanti della città e per scegliere venti nobili, che a loro volta dovevano nominare i responsabili dell’amministrazione cittadina (Capitula Regni Siciliae, cit., 495-497). Per il problema molto complesso dell’ordinamento civico delle città siciliane e di Catania cfr.: R. GREGORIO, Considerazioni, cit., II, 346-368; III, 39-70; V. CORDARO CLARENZA, Osservazioni, cit., II, l54-164; III, 134-149; M. GAUDIOSO, Natura giuridica, cit.

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natura feudale e amministrava tutti i beni demaniali. Come fa giustamente notare il Gaudioso, Catania si trovava nella condizione di una città demaniale senza demanio27. Si capisce pertanto l’atteggiamento che si assumeva da una parte e dall’altra: il vescovo si sentiva defraudato dei suoi diritti; se non poteva rivendicare quel che gli era stato sottratto, cercava di difendere quel che gli rimaneva; i cittadini di Catania ritenevano di avere ottenuto ancora poco ed erano molto attenti a non cedere i diritti acquisiti e a guadagnarne altri28. Ma non bisogna trascurare il contesto poco chiaro della respublica christiana, in cui si istauravano i rapporti fra autorità civili e religiose. Se le autorità cittadine erano gelose della loro autonomia e temevano le ingerenze dell’autorità ecclesiastica, anche il vescovo doveva guardarsi continuamente dalle ingerenze del viceré e di coloro che in suo nome reggevano la città. Dati i larghi poteri di cui legittimamente disponevano, erano in grado di intervenire anche negli affari interni della Chiesa29. Tenendo presente questa situazione, non è difficile notare i sentimenti che si nascondono dietro le espressioni di rispetto reciproco, che non mancano mai nei documenti del tempo. Naturalmente nello sviluppo degli avvenimenti erano determinanti il carattere e la mentalità del vescovo e delle autorità cittadine: un atteggiamento duro e intransigente poteva far precipitare la situazione. Ogni volta che un nuovo vescovo prendeva possesso della diocesi, c’era un periodo di prudente attesa, in cui le parti studiavano il reciproco atteggiamento che intendevano assumere. Poi incominciavano le schermaglie e

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M. GAUDIOSO, La questione demaniale, cit., 12-14. V. CORDARO CLARENZA, Osservazioni, cit., III, 80-84. 29 Non dimostrano di avere l’obiettività necessaria a uno storico coloro che si fermano a considerare solo gli sconfinamenti nella giurisdizione di una parte o dell’altra, senza inquadrare i fatti nel contesto generale del tempo. È facile sottolineare le ingerenze ecclesiastiche; ma non bisogna dimenticare il fenomeno inverso. Nel capitolo precedente abbiamo evidenziato l’opposizione dei giurati all’erezione della collegiata e il tentativo di impedire l’esecuzione della bolla pontificia da parte del viceré. Noteremo nel capitolo seguente da una parte l’iniziativa del viceré di erigere le parrocchie a Catania e dall’altra il rifiuto delle autorità cittadine sia all’iniziativa del viceré, sia a quella del Caracciolo. 28

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le controversie, perché era inevitabile che ognuno difendesse la propria posizione. Come primo atto d’obbligo il vescovo chiedeva al re la conferma dei privilegi che avevano goduto i suoi predecessori. I più discussi riguardavano: — la giurisdizione civile e penale che il vescovo aveva sui familiari e dipendenti. In forza di questo privilegio nessuno poteva citare in giudizio presso i tribunali ordinari gli officiali, i procuratori, i familiari, i domestici e i fattori del vescovo. Anche i beni e i luoghi di proprietà del vescovo godevano di una forma di immunità, perciò erano sottratti alla giurisdizione delle autorità cittadine30; — il permesso per i propri familiari e dipendenti di portare le armi31; — il giudizio di primo e secondo grado sulle cause civili e penali riguardanti i suoi dipendenti32; — la giurisdizione civile e penale del vescovo sul casale di Mascali33;

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Le diverse conferme di questo privilegio possono essere riscontrate nel volume: Collectanea nonnullorum privilegiorum, cit., 35-37, 41-42, 43-44, 47, 49-50, 5051, 53-54, 64-67, 85-86. Ogni anno venivano presentati in un elenco «li officiali et persuni exempti domestici et familiari et commensali et officiali di lo Rev.mo Signor Episcopo di Catania et li gabelloti di la maiuri ecclesia et so episcopatu li quali exercitano gubernano et exigono per cunto et parti di sua Signoria Rev.ma et di la maiuri ecclesia et tucti li gabelli, gubernano li cosi di dicta maiuri ecclesia et so episcopato li quali di nocti et di iorno senza prohibitioni ponno et divino portare li armi et in chivili et in criminali non ponno né divino esseri convenuti per altro iudichi chi di sua Rev.ma Signoria et soi magnifichi recturi et officiali» (TA 1531-1532, fol. 159v160v). Segue un elenco di circa settanta nomi di persone con l’indicazione dell’ufficio che ricoprono. Negli anni successivi l’elenco è di diversa natura; riguarda circa ventidue persone «per conto della esemptioni di monstri et guardii etc... oltra li officiali domestici di sua Signoria Rev.ma» (TA 1560-1561, fol. 312r-312v). 31 Questo privilegio appare per la prima volta esplicitamente al tempo dei sovrani Carlo e Giovanna il 3 luglio 1526 (Collectanea nonnullorum privilegiorum, cit., 68-69; I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 254-258). 32 Una sentenza del tribunale della Regia Monarchia del 7 luglio 1524 aveva riconosciuto al vescovo di Catania il diritto di giudicare anche in seconda istanza (Collectanea nonnullorum privilegiorum, cit., 68; I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 256-258). 33 Vedi nota n. 9. 34 Collectanea nonnullorum privilegiorum, cit., 90-91.

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— l’esenzione dai dazi e dalle gabelle per i prodotti delle sue proprietà34. Su tutti questi privilegi le discussioni e i contrasti erano frequenti. Dopo la conferma avuta dall’imperatore Carlo V, erano passati pochi mesi e il Caracciolo fu costretto a scrivere al viceré per lamentare che il capitano della città non intendeva riconoscere eccezioni alla sua giurisdizione35. Nel 1539 si pose in discussione presso il tribunale della Regia Monarchia la competenza del vescovo nel giudicare in appello le cause riguardanti i suoi dipendenti36. Nel 1558 il Caracciolo deve lamentarsi con i giurati di Catania perché pretendono di esigere le gabelle sul territorio di Mascali, violando la sua giurisdizione37. Nel 1559 si ebbero delle controversie con i capitani di Paternò e di Aci a proposito della giurisdizione che il vescovo esercitava, tramite i membri delle curie locali, sui concubini e gli adulteri sorpresi in 35

I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 258. L. c.; Collectanea nonnullorum privilegiorum, cit., 89. 37 Nel documento dell’8 maggio 1558, che in parte abbiamo già citato, il Caracciolo difende con energia i suoi diritti contro le usurpazioni dei giurati di Catania: «...Ditti tenimenti et territorii Mascalarum penitus separati a territorio Catanen. ut supra liquidissime continet et apparet... et nemo alius unquam in ditto territorio Mascalarum maxime iuratorum et aliorum officialium ditte civitatis Cathaniae iurisdictionem civilem predittam aut causarum civilium habet, exercuit aut habet...» (TA 1557-1558, fol. 273r-275r). Nel documento si accenna a un precedente ricorso fatto al viceré nel 1505 (cfr. Collectanea nonnullorum privilegiorum, cit., 59-60) e ad altre violazioni fatte dai giurati negli anni precedenti. Sembra che le magistrature cittadine considerassero la signoria feudale di Mascali una loro pertinenza, come strettamente connessa a quella di Catania, perciò dipendente non più dal vescovo feudatario, ma dalla città demaniale. 38 Il capitano di giustizia don Lixandro de Moncata aveva rinchiuso in carcere l’erario della curia locale, in seguito ai disordini che erano seguiti al tentativo di arrestare alcuni adulteri sorpresi in flagrante. Il capitano sosteneva che l’erario non aveva il diritto di farsi aiutare da estranei, ma in caso di necessità doveva ricorrere al suo aiuto. Il vicario generale, al contrario, vide in ciò una violazione della libertà ecclesiastica: «...Lo officio di erario preditto sempri si ha fatto et exercitato in tali et simili casi chi si piglia in sua compagnia tutti quilli genti chi li sonno bisogno et pare ad ipso, per andare con la debita et conveniente cautela per non succedere alcun scandalo oj danno, et la iuriditione del detto Ill. et Rev.mo è amplissima di poter fare questo et di più. Ni ha parso conveniente per questa dire al V. S. chi sapendo lo amore et amicitia chi è intra lo ill. Signor Conte di Adernò, et lo detto ill. et rev.mo mons. di Catania, che sempre si hanno trattato et trattano da veri fratelli, et sua Si36

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flagrante38. Nel 1560 non avrà gravi conseguenze un episodio analogo a quello che circa due secoli dopo avrebbe provocato l’annosa controversia liparitana39. In tutti questi casi il vescovo di Catania finiva per avere ragione perché, se era necessario, faceva intervenire il viceré a confermare i privilegi dei suoi predecessori. Però la frequenza di questi riconoscimenti dimostra chiaramente che il problema rimaneva aperto e che le autorità civili di Catania e degli altri centri non intendevano riconoscere ed accettare questa situazione, che poneva limiti alla loro autorità40.

4. IL SUO PIANO DI RIFORMA Leggendo la corrispondenza e gli atti relativi al governo pastorale del Caracciolo, si avverte subito che la sua azione non si limita a risolvere le difficoltà immediate, ma segue un piano articolato, che possiamo riassumere in due punti: conversione delle persone, riforma delle strutture. Sono due aspetti che egli affronta in modo coordinato e unitario, seguendo l’indirizzo dell’evangelismo italiano. Nella sua

gnoria Rev.ma ha observato et rispettato come ha rispetto alla iurisditione et tutte le altre cose dell’ill. Signor Conte, et parimente il detto ill. Signor Conte ha sempri osservato la iuriditione di Sua Signoria Rev.ma...» (TA 1559-1560, fol. 201r-v e 235v). Altre due questioni analoghe si ebbero nello stesso anno ad Aci (TA 1559-1560, fol. 215v-216r) e a Paternò. Quest’ultimo episodio meriterebbe di essere approfondito, perché interessa non solo la giurisdizione del vescovo e quella del conte di Adernò, ma perché nella questione si inserisce pure l’abate di Santa Maria di Licodia; però ci porterebbe troppo lontano dal nostro argomento. 39 Il giurato Giovanni Battista de Bonaiuto aveva fatto rinchiudere in carcere un domestico del vescovo che portava del vino in episcopio, perciò era esente da qualsiasi controllo e dal pagamento di gabelle. Il vescovo in una lettera di protesta scrive: «...Voi poco havendo rispetto alla degnità episcopali et alla immunità et libertà ecclesiastica de fatto nescitur qua de causa et quo colore senza rispetto alcuno a noi et della detta libertà et immunità ecclesiastica et nulliter, indebite et minus iuste facestivo carcerare lo ditto bordonaro et gettare per terra et spandere lo detto vino in grave danno, preiudicio, interesse et lesione di raggione della detta ecclesiastica immunità et libertà et in diminutione et dispregio della dignitate nostra episcopale...» (TA 1560-1561, fol. 235v-236r). La lettera si chiude con la perentoria minaccia di scomunica se non avesse liberato il domestico e risarcito il danno. 40 I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 254-257.

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azione si dimostra consapevole che non serve rinnovare le strutture se non c’è la conversione della persona e che la persona normalmente è facilitata dalle strutture della Chiesa nel suo incontro con Dio. Naturalmente questo discorso va collocato nelle condizioni del tempo. Perciò l’analisi del primo punto richiede una breve indagine sulla religiosità e la vita cristiana dei fedeli e le condizioni del clero. Il secondo punto si concretizza nella riforma delle parrocchie e dei parroci, nella secolarizzazione del capitolo della cattedrale, nell’abolizione dell’arcidiaconato, nella promulgazione di una normativa facile per tradurre in modo accessibile a tutti i decreti del concilio di Trento.

La religiosità e la vita cristiana dei fedeli Se facciamo riferimento esclusivamente ai documenti della curia, dobbiamo affermare che fra i numerosi problemi che il Caracciolo si trovò ad affrontare nel suo piano di riforma, non sembra ci sia stato quello di combattere l’eresia luterana. Le ricerche e gli studi pubblicati fino ad oggi su questo argomento si sono trovati di fronte a degli elementi poco chiari, che lasciano qualche perplessità sulla diffusione della Riforma nella diocesi di Catania41. Sotto l’influenza dei cenacoli napoletani, dei mercanti e di alcuni religiosi provenienti dal continente, anche in Sicilia si diffusero i princìpi dei riformatori. Però, mentre a Palermo, Messina, Noto, Siracusa, Vizzini... troviamo gruppi consistenti di seguaci delle nuove

41 V. LA MANTIA, Origine e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, in Rivista Storica Italiana 3 (1886) 481-598; ID., L’Inquisizione in Sicilia. Serie dei rilasciati al braccio secolare (1487-1732). Documenti su l’abolizione dell’Inquisizione (1782), Palermo 1904; C. A. GARUFI, Contributo, cit.; S. CAPONETTO, Origini e caratteri, cit.; V. VINAY, La Riforma protestante, cit. Questo autore, trattando della diffusione della Riforma in Sicilia (p. 319-332), afferma che si diffuse anche a Catania. Però egli intende riferirsi all’attuale circoscrizione della provincia di Catania, che comprende i comuni di Vizzini, Militello, Randazzo... Se teniamo presenti i confini che aveva la diocesi nel sec. XVI, dobbiamo affermare che la documentazione esistente non ci dà molti elementi per affermare che la diocesi di Catania sia stata particolarmente influenzata dalla Riforma (cfr. S. CAPONETTO, Origine e caratteri, cit.).

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dottrine, nella città e diocesi di Catania si ha solamente qualche caso isolato e sporadico. I documenti rinvenuti nell’archivio della curia, che possono avere qualche attinenza con l’argomento, sono quattro e riguardano: — l’arcidiacono Leotta Buglio (secondo altri Aliotta Puglio, Pollione, Bulleone), privato di numerosi benefici perché ritenuto eretico. Da notare che questo personaggio non era originario della 42 Leotta Buglio era figlio del barone di Burgio Giovanni Antonio Buglio, originario di Mineo. Aveva avuto un numero rilevante di benefici, per i meriti del padre, che era stato nunzio di Adriano VI in Ungheria e consigliere di fiducia di Clemente VII. Il Garufi riporta queste due notizie: «In lu actu di la fede facto per dicto S. Officio a li chinco de lo misi di jugnetto (1551) proximo passato fu riconciliato per heretico Don Aliotta Puglu decano de la ecclesia di la nobili cità de Messina et archidiacono de li episcopati di Siracusa e de Catania, et soi beni foro confiscati et applicati a li ecclesie donde aveva tenuto beneficii...» (C. A. GARUFI, Contributo, cit., [1915] 324-325). «Palermo 5 luglio 1551... Reconciliados al gremio de la Yglesia... Mineo. Don Aliota Puglu deàn de Mesina Arcidia{cono} de Cathania y Siracusa, lutherano degradado verbaliter» (C. A. GARUFI, Contributo, cit., [1913] 292). Nell’archivio della curia abbiamo trovato la trascrizione della bolla pontificia del 25 luglio 1551, che conferisce al chierico Ercole Tombesio i benefici tolti a Leotta Buglio. Il documento dice testualmente: «...Ex eo quod iniquitatis filius Liotta Pigiolus natus baronis de Burgio illos obtinentes in crimen heresis incidit et illis apostolica auctoritate merito privatus existit...» (TA 1551-1552, fol. 16v-18r). Da questa bolla risulta che era nello stesso tempo: arcidiacono a Catania e Siracusa, tesoriere della collegiata di Catania; aveva una prebenda canonicale a Palermo e inoltre aveva in beneficio le chiese: Annunziata di Aci Aquilia, San Filippo de Carcina, San Giovanni a Sortino, Sant’Agrippina e San Pietro a Mineo. Troviamo un altro riferimento alla sua condanna in una lettera del Caracciolo al vicario di Paternò del 25 ottobre 1555: «Ven. vir. Perché come voi dovete sapere per ordini nostro seu di nostro vicario è stata impedita la quarta parti di li renditi di la maiuri ecclesia di quissa terra per lo beneficio di ditta ecclesia, si come per lettera et sequestro si conteni, et attento che monsignor Rev.mo di Patti ha fatto certa parti alla ditta ecclesia in suo servitio di la condenna facta a don Liotta Pullione, simo stati pregati di sua signoria Rev.ma chi ni contentassimo havere alcuna considerazione sopra ditto sequestro et parendomi iusta la domanda per la ragione preditta, in virtù di la presenti vi si ordina et comanda che per quisto anno presenti tantum non molestireti né farreti molestare al cappellano di detta ecclesia di li soi renditi, né di dicta quarta parti sequestrata... Cataniae, die XXV octobris, XIV ind., 1555» (TA 1555-1556, fol. 61v). Di Leotta de Bulleone, come personaggio illustre, scrive il Pirri nella Notitia Ecclesiae Siracusanae e riporta la bolla con cui gli vengono conferiti questi benefici all’età di dodici anni. Non accenna però al suo passaggio all’eresia (R. PIRRI, Sicilia sacra, cit, I, 653-654). Leotta Buglio, in realtà, più che luterano sembra sia stato un simpatizzante di Juan Valdés, quindi un

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diocesi di Catania e quasi certamente non vi aveva mai risieduto stabilmente42; — l’art. 101 delle costituzioni sinodali, promulgate dal Caracciolo nel 1565, che prescrive: se «alcuni predicaturi di qualsivogla gradu... seminassero false doctrine o qualche errore di heresia, che con ogni diligentia debiano referire et notificare a noi o a nostro vicario...»43; — il caso del domenicano fr. Nicola Gullotta; predicando la quaresima ad Aidone aveva sostenuto che il matrimonio, contrariamente a quanto afferma il concilio di Trento, si può sciogliere per l’adulterio di uno dei due coniugi44; — una lettera del vescovo Antonio Faraone, successore del Caracciolo, indirizzata, al tribunale dell’Inquisizione, in data 26 giugno 1569. Il tribunale aveva chiesto la sua presenza a Palermo per definire i processi riguardanti alcune persone della diocesi di Catania sospette di eresia. Ma il vescovo non dimostrò di dare molta importanza al fatto e rispose che era molto occupato e non poteva recarsi a Palermo45. Più numerosi i dati che si desumono da altre fonti. Abbiamo già accennato a uno dei protagonisti dell’evangelismo italiano, dom Benedetto da Mantova, autore della fortunata e nota opera Il beneficio di Cristo. Il volumetto, pubblicato anonimo nel 1543 a Venezia, fu

cattolico che, avendo fatto proprie le istanze dell’evangelismo, auspicava la riforma della Chiesa a partire dall’interno. Probabilmente fu processato e condannato non per motivi religiosi, ma per il suo atteggiamento critico verso il S. Uffizio (S. CAPONETTO, Buglio Leotta, in DBI, 11, Roma 1972, 19-20). 43 A. LONGHITANO, Le costituzioni sinodali del vescovo di Catania Nicola Maria Caracciolo (1565), in Synaxis 12 (1994) 167-215: 191. 44 TA 1565-1566, fol. 67v. 45 «...In questa matina mi è stata data la lettera delle SS. VV. Rev.me del XV del presente, per la quale mi richiedono che o per me o per il mio vicario generale voglia intervenire insieme con le Signorie loro RR.me alla determinazione di alcuni processi {che} vertino in quillo santo ufficio tra il magnifico e rev.do promotore et advocato fiscale di detto Santo Officio attore di una parte et alcune persone di questa diocese di Catania sospette et accusate de heresia et apostasia, conventi dell’altra parte. Et perché tanto io quanto anco il mio vicario generale ni ritroviamo molto occupati in cose che non si ponno al presente pretermittere... dono alle SS. VV. Rev.me tutta la mia auctorità et potestà et omnimoda giurisdittione di potere per me determinare li decti processi...» (TA 1568-1569, fol. 333r-v).

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scritto nel monastero di San Nicola l’Arena fra il 1541-1542. Dom Benedetto quasi certamente ebbe fra i suoi discepoli il confratello Giorgio Riolo da San Pietro {Clarenza}, meglio conosciuto come Giorgio Siculo, che morirà impiccato come eretico a Ferrara nel 155146. Non sappiamo quale influenza abbiano esercitato questi due benedettini nel monastero e nell’ambiente circostante. Scorrendo le liste dei processati e dei rilasciati al braccio secolare, pubblicate dal La Mantia e dal Garufi, troviamo solamente cinque o sei nomi di persone provenienti dalla diocesi di Catania, condannate per l’eresia luterana47. Questo numero così esiguo può essere spiegato con il solenne autodafé celebrato a Catania il 13 marzo 1569, un anno dopo la morte del Caracciolo, alla presenza dell’inquisitore generale e delle autorità cittadine. Si può pensare che il tribunale dell’Inquisizione, invece di condannare gli eretici di Catania nei vari autodafé che si celebravano periodicamente a Palermo, abbia voluto riunirli in un unico processo, per dare un monito al popolo catanese e offrirgli la possibilità di assistere a uno “spettacolo edificante”. In questa circostanza furono condannati sessantasette eretici dei quali quindici non comparvero sul palco «por justos respectos». I giudici riservavano questa procedura di riguardo «nei confronti di pochissimi inquisiti appartenenti al ceto nobiliare, a quello mercantile o all’alta e media officialità, sottratti in tal modo all’infamia della parte46

S. CAPONETTO, La Riforma, cit., 284-287. «Catania. D. Romano Guesli, luterano» (V. LA MANTIA, L’inquisizione in Sicilia. Serie, cit., 33, n. 420). (1556) «Adernò: Fray Fabio de Padua, lutherano» (C. A. GARUFI, Contributo, cit., [1913] 299). (1547) «Palermo alias Cathania. Felipo de Micheli, doctor in utroque jure, abjurò de vehementi por ciertas propositiones lutheranas» (ivi, 283; [1915] 326). (1569) «Ambrosio de Robles, natural de Ubeda sergento mayor de Catania» (ivi, [1913] 310-311). A questi bisogna aggiungere Liotta Buglio, di cui abbiamo già parlato, per l’ufficio di arcidiacono che svolgeva o faceva svolgere nella diocesi di Catania. Filippo De Michele, dottore in utroque iure sembra fosse cittadino di Catania e non di Palermo. Nella costituzione del 15 marzo 1555, XIV ind., con cui il Caracciolo erige a Catania le chiese sacramentali e ne descrive i confini, come punto di riferimento del territorio della collegiata Santa Maria dell’Elemosina sono indicate fra l’altro le case «quae fuerunt quondam magnifici Philippi de Michaele utriusque iuris doctoris et modo magnifici Alexandri de Bonaiuto» (TA 15551556, fol. 207v). 48 V. SCIUTI RUSSI, Eresia e trasgressione nella Sicilia spagnola, in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XII-XVI, cit., 245-271: 263-264. 47

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cipazione all’auto de fe»48. Però — fatto strano per gli usi dell’Inquisizione — il giorno dopo, tutti i condannati ebbero la grazia in seguito alla mediazione dei giurati49. Disponendo di questi dati, sorge qualche perplessità sulla diffusione della Riforma a Catania. Per spiegare in modo convincente questa situazione così diversa da quella delle altre diocesi e città, sono state formulate alcune ipotesi: — il popolo di Catania per carattere e per tradizione teneva molto alla propria autonomia nei confronti dell’autorità ecclesiastica. In passato era stato suddito del vescovo-signore e sapeva che, favorendo l’Inquisizione, avrebbe consentito alla giurisdizione ecclesiastica di interferire ancora una volta nella vita cittadina. Questa mentalità spiegherebbe, tra l’altro, il perdono ottenuto dai giurati per i sessantasette condannati nell’autodafé del 156950. Ma questa osservazione, che può essere condivisa in linea di principio, non sembra potersi utilizzare per il nostro caso se diamo una scorsa alle liste dei rilasciati al braccio secolare e se conosciamo la prassi del tribunale dell’Inquisizione. Infatti se negli elenchi dei processati si trovano pochi luterani provenienti da Catania, negli anni 1520-1540 sono numerosi gli ebrei; perciò non si spiegherebbe questa collaborazione data per alcuni e negata per gli altri. Il perdono ottenuto dai giurati si potrebbe spiegare con i soliti maneggi politici, di cui non era immune il tribunale dell’Inquisizione; tanto più che nell’autodafé celebrato nel 1569 49

Lo spettacolo viene narrato con la consueta precisione e ricchezza di particolari nella Cronaca siciliana del secolo XVI, cit., 225-226: «...In primis fu facto uno catafalco in lu chiano di la mater ecclesia in frontespicio di lu campanaro ...multo auto cum vinti quatro scaluni, et in summitate dicti pontis fu facto lu ponti undi stava lo signuri inquisituri cum sua seia... et in pedi dicto ponti chi era uno ponti, undi stavano li carcerati et penitenti cum li mitruni di carta depinti, et alcuni cum bucugli et certi cofini di pagla inanti li pecti...». Il Franchina precisa che i rei sospetti erano cinquantadue e altri quindici «per giusti riflessi nel catafalco non fece comparire» (A. FRANCHINA, Breve rapporto del tribunale della SS. Inquisizione di Sicilia, Palermo 1744, 50). Sulla data di questo avvenimento si è fatta una inutile questione. Epifanio e Gulli, che curarono la pubblicazione della Cronaca siciliana, non hanno badato che l’indizione inizia il 1° settembre e l’anno il 25 marzo successivo. Perciò il cronista scrive bene: XVI ianuarii XII indictionis 1568 e XIII di marcio anni predicti XII indictionis 1568. Però se vogliamo leggere questa data con il computo moderno, che fa iniziare l’anno il 1° gennaio, il fatto risulterà accaduto il 13 marzo 1569. 50 S. CAPONETTO, Origini e caratteri, cit., 263-264.

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erano implicate persone di rilievo e l’inquisitore sarà stato persuaso a non andare oltre lo “spettacolo”. — La presenza dello Studium Siciliae generale aveva creato una mentalità più aperta ai problemi del tempo, che non portava a facili allarmismi. Gli stessi atteggiamenti di simpatia per le novità, che altrove provocavano scandali e denunzie, non saranno stati considerati così gravi e pericolosi da giustificare l’intervento dell’Inquisizione. Il rilievo non è privo di fondamento, ma deve tener conto della reale incidenza dello Studium nella vita e nella mentalità dei cittadini. La maggior parte degli studenti era iscritta ai corsi di diritto e di medicina, la teologia era frequentata dal clero secolare e regolare51. A onor del vero bisogna tenere presente che le adesioni alla Riforma protestante furono determinate anche da «un clima di latente antispagnolismo e dagli atteggiamenti critici verso le istituzioni ecclesiastiche e politiche, oltre ad insofferenze nei confronti della rilassatezza morale di un clero ignorante e corrotto»52; pertanto le simpatie verso i riformatori potevano trovare adepti anche fra i giuristi. Ma questa stessa ipotesi ha bisogno di necessari riscontri per essere considerata circostanza concreta che ha caratterizzato una diversa mentalità nei cittadini di Catania, rispetto a quelli delle altre città siciliane. — Si potrebbe pensare a una certa accondiscendenza da parte delle autorità ecclesiastiche di quel periodo. Questa ipotesi è stata formulata da coloro che, avendo collocato il vescovo Nicola Maria Caracciolo fra i simpatizzanti delle dottrine luterane, lo hanno considerato un protettore degli eretici. La fondatezza di questa ipotesi dipende dalla valutazione che si dà alla testimonianza di Giovan Francesco Alois sul Caracciolo. Le sue affermazioni non solo apparvero sospette alle autorità del tempo, ma di per sé potrebbero collocare il nostro vescovo tra i seguaci dell’evangelismo non fra i luterani. In ogni caso non era possibile che un vescovo neutralizzasse il tribunale dell’Inquisizione che aveva giurisdizione propria.

51 M. CATALANO, L’istruzione pubblica in Sicilia nel Rinascimento, Catania 1911, 56; S. DI LORENZO, Laureati e baccellieri dell’Università di Catania. Il fondo «Tutt’Atti» dell’Archivio Storico Diocesano (1449-1571), Firenze – Catania 2005. 52 V. SCIUTI RUSSI, Eresia e trasgressione, cit., 248.

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Riconoscendo non del tutto prive di fondamento queste ipotesi, riteniamo di poter concludere che la Riforma ebbe una certa diffusione anche a Catania. Tuttavia i pochi elementi di cui disponiamo non ci permettono di valutare la sua reale incidenza nella vita sociale e religiosa della città e della diocesi. In ogni caso, anche se si ebbe una iniziale presenza dei riformatori, l’opera repressiva dell’Inquisizione indusse i più coraggiosi ad emigrare e gli altri a uniformarsi all’ambiente. Perciò la religiosità che riscontriamo nella diocesi di Catania non sembra stimolata dalla presenza di fermenti nuovi. Per individuare i suoi tratti caratteristici dobbiamo rifarci al modello comune alle città di questo periodo storico e alle condizioni socio-politiche in cui si trova la Sicilia. Fin dai tempi dei normanni si era instaurata una forma di confessionismo da parte dei re di Sicilia, dovuto al modello della respublica christiana. Però, mentre all’inizio si era avuta una grande tolleranza per i seguaci delle altre religioni (soprattutto, musulmani ed ebrei), nei secoli seguenti si era instaurata una rigida chiusura, resa più impenetrabile dall’Inquisizione. Gli aspetti religiosi e politici della realtà sociale siciliana si erano ormai così integrati fra loro, da non consentire più una distinzione fra l’ambito della competenza specifica dello Stato e quello della Chiesa. Un peso determinante nel sorgere e nel perpetuarsi di questa situazione ebbe certamente il privilegio dell’Apostolica Legazia53. Se da una parte questo regime offriva evidenti vantaggi per il consolidamento delle istituzioni politiche ed ecclesiastiche, dall’altra non favorì un approfondimento interiore della fede e un suo rinnovamento. La religiosità siciliana, al pari di quella delle altre regioni meridionali, era caratterizzata da una mescolanza di elementi magici e di ritualismo esteriore e formale54, favorita dall’ignoranza del clero e dei 53

F. SCADUTO, Stato e Chiesa, cit., I, 85-92. La superstición o magia era una delle trasgressioni più frequenti perseguite dall’Inquisizione (V. SCIUTI RUSSI, Eresia e trasgressione, cit., 255-259). Negli elenchi di peccati riservati all’assoluzione del vescovo, che si trovano nei sinodi diocesani, quelli riconducibili alla magia e alla superstizione erano tra i più frequenti (A. LONGHITANO, I peccati riservati nei sinodi siciliani del ’500, in Synaxis 19 [2001] 383-398). Il tema del modello di religiosità dei siciliani in questo periodo è affrontato da S. CUCINOTTA, Popolo e clero in Sicilia nella dialettica socio-religiosa fra Cinque-Seicento, Messina 1986, 259-276. 54

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fedeli55. Si può notare una notevole compenetrazione dell’elemento religioso nella vita individuale e sociale, ma a un livello esteriore e superficiale, che non determinava una visione cristiana della vita e un comportamento coerente alla fede professata. Non era facile per chi era nato e viveva in questo ambiente non essere condizionato da questo modello di religiosità. Perciò non possiamo attenderci che il Caracciolo nel predisporre il suo piano di riforma avesse della religiosità una concezione diversa dal modello proprio dei suoi contemporanei e dello stesso concilio di Trento. Perciò il suo progetto pastorale dava molto spazio all’osservanza esteriore dei precetti, ottenuta con i mezzi ritenuti più idonei e più efficaci in quel tipo di società: la scomunica, le pene pecuniarie, il carcere... La scomunica, per citare un’espressione del concilio di Trento, restava sempre «il nerbo della disciplina ecclesiastica»56. Però, sebbene il concilio ne avesse raccomandato un uso prudente e discreto57, le autorità ecclesiastiche vi facevano ricorso di frequente58. Gli effetti che essa produceva non erano solamente spirituali, ma toccavano anche la vita civile e i beni materiali dei fedeli. I nomi degli scomunicati erano scritti nell’albo, alle porte della chiesa e letti durante la messa parrocchiale59. Ad essi era proibito l’ingresso in chiesa e non potevano essere accostati dai fedeli. In una società che riconosceva come suoi membri solamente i cattolici in piena comunione con la Chiesa,

55 Tra le carenze evidenziate dal memoriale redatto da tre gesuiti nel 1563, per dare concreti suggerimenti di riforma ai padri del concilio di Trento, uno dei punti riguardava proprio l’ignoranza generalizzata del clero e del popolo (M. SCADUTO, La vita religiosa in Sicilia secondo un memoriale inedito del 1563, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia 28 [1974] 563-581: n. 11-12, 21, p. 577, 579). 56 Sess. XXV, de ref., c. 3, Conc. Oec. Decr., 785. 57 «Tuttavia è da usarsi con molta misura e cautela, perché l’esperienza insegna che, se applicata senza la dovuta cautela e per motivi non gravi, è più diprezzata che temuta e porta piuttosto rovina che salvezza» (ibid.). 58 L’eccessivo ricorso alla scomunica era uno dei rilievi fatti nel memoriale redatto da tre gesuiti nel 1563 (M. SCADUTO, La vita religiosa, cit., n. 25, p. 580). 59 Si legge nell’art. 136 delle costituzioni sinodali del Caracciolo: «Li administratori di sacramenti debono publicare li excomunicati in tutti li giorni della domenica in sino a tanto che abbiano obtenuto l’absoluzione» (A. LONGHITANO, Le costituzioni sinodali, cit., 204).

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ciò equivaleva a un completo isolamento60. Si deve a questa efficacia della scomunica, sia sul piano religioso sia sul piano civile, il fatto che essa veniva considerata come il rimedio per tutti i mali e adoperata anche per fini non propriamente religiosi. Nell’attuazione della riforma voluta dal concilio di Trento, quasi tutti i decreti emanati dal vescovo per promuovere la vita cristiana dei fedeli ed eliminare abusi, prevedevano la comminazione della scomunica a coloro che si fossero resi colpevoli di contravvenire alle norme previste: — decreto sull’osservanza del precetto pasquale: ogni confessore doveva avere un registro per annotare i nomi dei penitenti. Il registro doveva essere consegnato alla curia che avrebbe provveduto a controllare i renitenti61. 60 «Qualsiasi scomunicato che dopo le ammonizioni legali non si ravveda, non solo non sarà ammesso ai sacramenti, alla comunione e alla frequentazione dei fedeli, ma se, colpito dalle censure, con animo impenitente vivrà miseramente per un anno in queste condizioni, si potrà anche procedere contro di lui per sospetta eresia» (sess. XXV, de ref., c. 3, Conc. Oec. Decr., 786). Leggiamo nella conclusione di un editto promulgato a Piazza nel 1562 contro coloro che non adempiono il precetto pasquale: «...Proferisce la sententia della excommunicatione prohibendoli lo ingresso della ecclesia et la partecipazione delli fedeli, commandandoli che come membri putridi et maledicti si vogliano appartare dalli fedeli et boni christiani» (TAV 1562, 4 ottobre 1562; carte non numerate). In un editto contro i concubinari leggiamo ancora: «...Comandamo a tutti et singoli fedeli tanto clerici come laici che non vogliano, né debbiano conversare, né praticare con li detti scomunicati, anci li debbiano del miglior modo che li piacerà etiam secretamente revelare a noi o al nostro rev.do vicario generale» (TA 1566-1567, fol. 257r-258r). 61 «Si ordina et comanda ad ogni fidel cristiano citatino o habitatore de la clarissima città di Catania e del suo territorio tanto masculo como femina, di etati di deci anni in suso... chi vogla et deja nella quanagesima prossima con ogni debbita devocione, reverencia, contricione et humilitate confessarsi di tutti li soy peccati et quilli manifestare ad alcuno di li rev. e ven. confessuri approbati... Altramenti si alcuno di li sopradicti si retrovirà per tutta l’ottava di la ditta Sancta festa di Pasca chi non si haya confessato... sarà incorso nelli peni contenti nelli sacri canoni et si procedirà contro di loro alla executione di li ditti peni... Si ordina et comanda a tutti et singoli sacerdoti preti seculari o altri assignati per confessuri... chi voglano teniri uno quinterno et in quillo discriviri et annotari fidelmenti tutti li nomi e cognomi e li quarteri dove habitano di quelli personi... che essi confessuri... haviranno confessati et absoluti di loro peccati. Et lo ditto quinterno passato lo ottavo jorno di Pasqua di risurettioni... lo debbiano fedelmenti et senza inganno alcuno portari et presentari a ditto rev. vicario...» (TA 1555-1556, fol. 233r-234r). Una disposizione analoga nel 1564 vigeva a Messina e l’inquisitore Bezerra chiese che fosse emanata anche per la dio-

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— decreto per regolare il commercio delle carni e dei latticini durante la quaresima62 — decreto per i medici obbligati a persuadere i malati gravi e i loro parenti a confessarsi. Se avessero continuato a curarli dopo il loro rifiuto sarebbero incorsi nella scomunica63. — decreto sull’obbligo che avevano i parenti dei moribondi a chiamare in tempo utile il sacerdote e il notaio. L’assoluzione dalla scomunica prevista per i contravventori sarebbe stata concessa dopo

cesi di Palermo (C. A. GARUFI, Contributo, cit., [1916] 438-439). Si noti tuttavia la differenza fra la disposizione data a Catania e quella di Messina: il Caracciolo non affida all’Inquisizione il compito di controllare coloro che non osservano il precetto pasquale. Nel memoriale redatto dai tre gesuiti nel 1563 si suggeriva l’introduzione in tutto il regno di Sicilia della prassi di annotare in un registro durante tutta la quaresima coloro che si confessavano, per poter invitare i renitenti ad adempiere il precetto pasquale (M. SCADUTO, La vita religiosa, cit., n. 27, p. 580). 62 «...In quisto tempo di quadragesima non sia bucheri alcuno né altro chi dija né presuma macellari et vendiri carni pubblicamenti a li chanchi; ma per lo bisogno et necessitati occurrenti per li malati dijano vindiri honestamente intro li stancj et casi di ditta buchiria et similmenti non sia nixuno putigaro né altro che dija teniri li furmagi, ricotti, casicavalli et latticini, né carni, né chaurelli et altra specie di carni publicamenti alli finistrali di loro putigi, ma quelli debbiano teniri dintro loru putighi ad talché per lo bisogno et necessitati di li ditti malati si possa vindiri cum quella honestà che conveni sotto pena alli contravenienti di scomunica et di uncia una di applicarsi ad opiri pii ad electioni di Sua {Signoria} R.ma» (Note 1557-1558, fol. 90v). 63 Il documento si rifà a una norma vigente fin dal concilio Lateranense IV (cost. 22, Conc. Oec. Decr., 245-246). Prima viene promulgato per la terra di Aidone e poi esteso a tutta la diocesi: «Perché li infermi della terra di Aidoni che solino essere secondo el tempo con tucto che stiano in periculo della vita non attendino alla salute delle anime loro si ordina et comanda da parti dello Rev. Sig. Vicario Generali di Catania et sua diocesi a tutti et singuli magnifici medichi che allo presente sunno in la dicta terra et quod pro tempore erunt che debbiano persuadere allo infermo seu parenti chi si debbia confessare et si elapsi li tre giorni della infermità ne sarrà confessato alcuno infermo, si ordina a detti magnifici medichi che non lo debbiano piò medicare, né andare ad visitarlo sotto pena di scomunica latae sententiae» (TAV 1562, 5 ottobre 1562; carte non numerate; TA 1566-1567, fol. 290r-v. La norma sarà inserita nelle costituzioni sinodali all’art. 108). Questa disposizione ecclesiastica era stata già riconosciuta come legittima per tutta la Sicilia dalle autorità centrali (Pragmaticarum Regni Siciliae novissima collectio, Panormi 1635, I, tit: LXXIX, prag. 1 e 22 [a. 1553]).

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una congrua pena e il risarcimento del danno subito dagli aventi diritto64. Una forma frequente di scomunica era pronunziata contro ignoti ladri o danneggiatori del patrimonio pubblico e privato o contro coloro che per paura o per omertà non denunziavano i colpevoli65. Ma com’era facile incorrere per un motivo qualsiasi nella scomunica, così era altrettanto agevole ottenerne l’assoluzione. Ogni anno a Pasqua tutti i confessori abilitati avevano la facoltà di assolvere dalle censure più comuni66. Per quelle più gravi si poteva far ricorso alle in-

64 «...Con somma avertentia et diligentissima cura li sacratissimi legislatori attesero con ogni loro potere a favorire alle ultime voluntati et in tanto volsero che si mandassero alla debita essequutione, et inviolabilmente si observassero, che chiamorno l’ultima volontà meritamente legge, et per l’observantia di quella molti et sacri canoni et leggi civili favorabili et penali secondo la qualità deli tempi sono stati con optimo giudicio fatti et ordinati acciò l’homo sapendo di certo che di quando nell’ultimi giorni suoi dispone omninamente et senza fallo ni sequirà l’effettu con maggior quiete et contentezza dell’animo suo venga a provedere all’anima, et anco alli beni che da Dio benedetto li sono stati donati... Molti per occuparsi detti beni soccedendo essi ab intestato, scordati della propria lor salute con inganno et serpentina fraude a tempo che li parenti loro sono infermi, et timendo il repentino giudicio di Dio, domandano confessore et anco il notaro... impediscono con diversi loro figmenti et malitie che in casa et in camera dell’infermi non vadano né li siano chiamati sacerdoti per confessarse né notarij et testimoni per disponere secondo a detti infermi piacesse della substantia temporale... Et perciò volendo noi a quella impietà obviare, et con li rimedij ecclesiastici provedere alli scandali et damni che ponno soccedere... primo, secundo, tertio et peremptorie mandamus, chi sotto pena di scomunica nessuna persona... per sé quanto per mezzo di altri impedire né fare impedire che nelle case, cammere, luochi et stantie dell’infermi entrino sacerdoti confessori... et anco notarij et testimoni... Dalla quale sententia di scommunica per conto alcuno si possano absolvere se primo non haveranno debitamente etiam alli parti lesi et interessati satisfatto...» (TA 1566-1567, fol. 295r-v). 65 I volumi di Tutt’Atti sono pieni di queste scomuniche, che a volte dietro il linguaggio sempre uguale dell’ufficiale di curia, nascondono la piccola o grande tragedia del povero contadino a cui ignoti ladri o nemici hanno bruciato le messi, tagliato gli alberi o rubato gli animali e che spera nella scomunica per scoprire i colpevoli ed essere risarcito del danno. Basta per tutte qualche esempio: «Excomunicatio in forma directa ven. capellanis parrochialis ecclesiae Monasterii Albi da parti di Antonino la Privitera contra cui li havissi amaczato una vacca a la chiusa di lu carriteri et contra cui li havissi robbatu occultato et occupato dui arati et altri stigli di massaria...» (TA 1559-1560, fol. 109r). 66 TA 1564-1565, fol. 189r-191r.

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numerevoli bolle di assoluzione, pagando una determinata somma. Non solo le chiese e gli ordini religiosi, ma anche i laici potevano chiedere e ottenere queste bolle67. Oltre le scomuniche, le pene più frequenti erano quelle pecuniarie68. La minaccia di multe, assieme ai saluti, chiudevano quasi sempre le lettere inviate ai vicari delle città e delle terre, anche quando si trattava di disposizioni ordinarie. Sembra che si trattasse di una formula d’uso a cui era abituato chi scriveva e chi riceveva la lettera, senza che ciò costituisse un’offesa o una mancanza di fiducia da parte del vescovo verso i suoi collaboratori: «Et cossi esequirete sotto pena di unci quinquanginta di applicarsi alla camera episcopali»69; «cauti a contrario sub pena unciarum quinquaginta cammerae episcopali applicanda»70. Il carcere vescovile era riservato ai casi che rientravano nella competenza del foro ecclesiastico: tutte le mancanze dei sacerdoti, dei frati e delle monache erano punibili col carcere: dai reati più gra-

67 La più nota fra tutte era la bolla Crociata, promulgata periodicamente. Il suo uso era frequente nella diocesi di Catania. Ma ce ne erano altre. Il 30 marzo 1558 in una lettera al vicario di Regalbuto il Caracciolo si sofferma a dare spiegazioni sull’utilità di far ricorso a una bolla di indulgenze della chiesa di San Sebastiano fuori le mura in Roma, compatibile anche con il giubileo concesso in quel periodo per la pace: «...Exhortireti lo populo chi essendo le indulgencie di sancto Sebastiano salutari et molto utili delli animi voglano et divino piglare ditte sante bolle perché né lo jubileo impedisce le bolle, né le bolle impediscono lo jubileo ma tutti doi si ponno et deveno fare per utilità della anima...» (TA 1557-1558, fol. 232r-v). Le conseguenze negative dell’eccessiva facilità con cui si concedevano anche ai laici le bolle di assoluzione sono descritte nel memoriale redatto dai tre gesuiti nel 1563 per presentarlo al concilio di Trento (M. SCADUTO, La vita religiosa, cit., n. 24, p. 580). 68 Per l’osservanza del riposo festivo un editto del 1565 stabilisce: «...Li giorni di dommenichi et festi comandate si debbiano da ogni uno guardare et observare con ogni veneratione, et nessuno in detti giorni debbia né presuma operare, né fare nessuna spezie di servizzo, né vendere cosa alcuna, né tenere le boteche aperte ma chuse et serrate per sino a tanto che sarrà sonata la campana de la messa grande de la maggior ecclesia. Sotto pena di tarì setti et grana deci pro quolibet contraveniente di applicarse all’hospitale della città o terra dove si contravenirà...» (TA 1565-1566, fol. 288r-v). 69 Lettera al vicario di Aci (TA 1560-1561, fol. 181r-v). 70 Lettera al vicario di Piazza (TA 1557-1558, fol. 51v).

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vi alla negligenza nell’adempiere il proprio servizio71. Ai laici veniva inflitto il carcere per i delitti contro il buon costume o contro la famiglia. In questi casi prima del carcere venivano inflitte pene severe72. Questa rapida scorsa alle sanzioni previste in alcuni decreti per l’applicazione della riforma tridentina, ci consente di far rilevare gli aspetti più discutibili della religiosità di quel tempo. Non si deve credere, però, che il problema si esaurisca in queste osservazioni: né la religiosità dei fedeli, né la riforma che il Caracciolo intendeva attuare nella diocesi, possono essere prese in esame con la sola analisi delle pene canoniche. La comminazione di scomuniche e di sanzioni, per quanto sia indicativa di una certa mentalità, nella maggior parte dei casi, rimaneva solamente un atto formale. La frequenza alle funzioni religiose, anche se non sempre era fondata su una fede profonda e personale, era molto elevata. Perciò per la maggioranza le scomuniche e le pene non erano determinanti per la pratica religiosa. Del resto se negli editti o nei richiami non mancava mai la sanzione finale, questa, 71

All’abbadessa del monastero dell’Annunziata di Paternò viene ordinato di «...carcerare alli cippi... sor Agatucza Zumbo, sor Pelagia et la detta Della Guerra...» colpevoli di essere uscite dalla clausura, senza permesso, anzi sottraendo le chiavi all’abbadessa che dormiva (TA 1563-1564, fol. 287v). Nelle norme emanate a Regalbuto dal vicario generale durante la visita pastorale si legge: «...Li missi si debbiano diri per ordini cioè la missa di l’alba appressu li missi di li benefici secundo l’ordini dato et di poi la missa di terza si debbia diri ad hura competenti ben vista al Rev. archipresti et lo jacuno chi servi hebdomadario non si debbiano partiri per fino a che si finixino, sutta pena di carceri ben vista a ditto Rev. archipresti pro prima vice, di poi jorni XV di carceri...» (TAV 1553, fol. 75r). Per il carcere ecclesiastico in Sicilia cfr. F. SCADUTO, Stato e Chiesa, cit., I, 296-302. 72 Nei confronti dei concubini si legge in una lettera al vicario di Barrafranca: «...Sotto pena della frusta inremisibiliter non vogliano né debbiano ad invicem praticare et conversare» (TA 1563-1564, fol. 226v). In una lettera al vicario di Piazza troviamo il castigo riservato abitualmente alle mezzane: «...Preditta Honofria de Pulice mitrata circumducatur per civitatem Placiae per loca et vias solita et consueta et super nudo dorso fustigetur citra tamen effusione sanguinis et fustigata ut supra espellatur a ditta civitate Placiae et a diocesi catanensi...» (TA 1563-1564, fol. 190v-191v; cfr. anche: TA 1559-1560, fol. 360r-361r; TA 1564-1565, fol. 144r-v). La stessa concessione di dispense per il matrimonio fra consanguinei, o dopo la fuga, prevedeva una penitenza umiliante, che avrebbe dovuto servire da esempio e da freno. Gli sposi dovevano «stare in ginocchione in terra, scapellati et discoperti, senza manto cum una intorcia allumata in mano, dentro la matre ecclesia un giorno di dominica per insino a tanto chi sarrà finita la messa cantata...» (TA 1565-1566, fol.-214v-215r).

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dinanzi ai motivi che si adducevano per convincere all’osservanza della legge, sembra avere un valore secondario73. In molti casi il ricorso alle pene, dopo inutili tentativi di persuasione, era attuato attraverso un linguaggio che si sforzava di essere conciliante e paterno74. Proprio perché il Caracciolo sapeva molto bene che una vita cristiana nasce dalla fede e questa ha origine dall’ascolto, come punto principale della sua riforma si prefigge l’istruzione religiosa dei fedeli e la qualificazione del clero. Sul finire del 1555 il Caracciolo inviò una lettera circolare ai vicari della diocesi per invitarli a tenere il catechismo nelle chiese sacramentali. La lettera era accompagnata da una disposizione del viceré che invitava i giurati delle città a dare il proprio appoggio all’iniziativa del vescovo75. Per la città di Catania, che mancava di chiese sacramentali con territorio proprio, in una costituzione dell’8 aprile 1556 stabilì i confini di quattordici chiese sacramentali nelle quali avrebbe73

Nell’editto sull’osservanza del riposo festivo, prima di chiudere con la pena pecuniaria, il vescovo si sforza di persuadere adducendo motivi che giustificano il provvedimento: «Perché li giorni sollemni et festivi si devono con ogni veneratione guardare et osservare et ogni fidel christiano in detti giorni deve attendere a contemplare, venerare et fare orationi a Dio nostro Signore et perciò si deve abstinere da ogni opera servile acciò per quella non sia rimosso et abastratto dalla contemplatione et veneratione del suo creatore et redemptore...» (TA 1565-1566, fol. 288r-v). 74 Leggiamo nell’editto contro i concubinari del 1566: «...Di tempo in tempo... oltre ad averli con affetioni paterna ammonito, non si è mancato di dare il debito castigo... come il medico diligente, lo quale non potendo con la suavità dell’unguenti curare le vecchie piagghe, applica al fine lo ferro et lo fuoco, per lo debito del nostro ufficio, a tanto male provedere usando anco in ciò la solita pietà... ammonimo et requirimo...» (TA 1566-1567, fol. 257r-258r). 75 «...Pertanto havemo ordinato chi dicti figlioli di età di sei anni sino alli XII inclusive debbiano ogni dominica et ogni jorno di festa comandata esseri conducti et minati ciaschiduno alla sua ecclesia parrochiali et in quella imparare la decta doctrina cristiana et per maestri loro a questo effectu saranno li curati o cappellani di decti ecclesi parrochiali... vi si tramectino alcuni librecti stampati di la dicta doctrina cristiana acciochè sappiano in chi li habiano da instruyre...» (TA 1555-1556, fol. 240r241r). Non si è trovato nessun esemplare di questi catechismi stampati di cui si parla nella lettera. Un bando del viceré emanato a Catania il 4 novembre 1556, rafforza il decreto del Caracciolo, obbligando i genitori a mandare i figli alla dottrina cristiana (M. CATALANO, La fondazione e le prime vicende del collegio dei gesuiti in Catania [1556-1579], in ASSO 14 [1917] 150). Il tema generale è affrontato da L. LA ROSA, Storia della catechesi in Sicilia, Lamezia Terme 1986.

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ro dovuto recarsi i bambini per il catechismo. Affidò l’incarico dell’insegnamento ai gesuiti del collegio dell’Ascensione, che egli stesso aveva fatto venire a Catania76. Per l’istruzione degli adulti, secondo la mentalità del tempo, dispose una forma di catechesi festiva che consisteva nella lettura e spiegazione di «casi di coscienza». Si trattava di casi concreti desunti dalla vita quotidiana, che per una soluzione o risposta esigevano l’approfondimento di un punto particolare della dottrina cristiana. Inoltre si adoperò perché nella messa «grande» della domenica venisse spiegato il Vangelo e diede le disposizioni perché ad essa partecipasse il maggior numero possibile dei fedeli77. Da una maggiore conoscenza dei princìpi religiosi e morali, il vesco-

76 TA 1555-1556, fol. 246r-248v. Abbiamo una conferma del buon esito di queste iniziative in una lettera del gesuita p. Antonio Vinck a s. Ignazio il 23 aprile 1556: «...Avanti la partenza del Rev.mo vescovo di questa città per Roma, si diedi ordine di insignare la dottrina christiana alli figlioli in questa cità in 14 chiese, et la domenica si commensò cum molta satisfactione et contetza delli citatini di questa cità» (M. CATALANO, La fondazione, cit., 13 [1916] 74). 77 «Perochè lo Ill.mo et Rev.mo monsignor vescovo di Catania como bono et vigilanti pasturi ha provisto per la saluti di li animi et beneficio publico che in quista maiuri ecclesia di Catania si leggano casi di conscientia et incominzirà cum lo ajuto del Signore dominica proxima futura chi saranno li novi del presenti misi al hora chi sarà dicto vespiri... Per tanto si exorta ...a tucti et singuli fideli cristiani utriusque sexus laici chi debbiano andari ad intendiri ditti casi di conscientia...» (TA 1557-1558, fol. 173r). Per assicurare la spiegazione del Vangelo obbligatoria nelle parrocchie, secondo le norme del concilio di Trento (sess. XXIV, de ref., c. 4, Conc. Oec. Decr., 763), insiste sulla frequenza dei fedeli alle chiese sacramentali e proibisce la celebrazione in oratori di confraternite durante o prima della messa parrocchiale: «Essendo obbligo del popolo di andare ciascuno a la matre ecclesia parrochiale nelle domeniche et giorni ad udir la messa et peccando gravimente colui che lascia il proprio parroco per andare in altra parte poiché in questi giorni il parocho è non meno obligato d’esprimere al populo l’evangelio, li festi, e li jeiunij comandati de la sancta chiesa, del populo di andare ad ascoltare queste cose dala bocca del suo patre spirituale... Pertanto ordina et comanda a tutti cappellani di confratrij et alli rettori et procuratori di quelli che non debbiano celebrare né fare celebrare messa in loro confratrij fin a tanto che non sia celebrata la principal messa nella matrice ecclesia parrocchiale...» (TAV 1565, fol. 323r-v). A Paternò avevano chiesto una dispensa da questa norma, per poter celebrare negli oratori fin dall’alba e venire incontro alle esigenze dei fedeli. Il vescovo concede la dispensa, invitando tuttavia ad esortare i fedeli a non disertare costantemente la chiesa madre, sotto pena di ritirare il permesso dato (TA 1566-1567, fol. 246v-247r).

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vo sperava nella fedele osservanza dei doveri di ognuno: il precetto festivo, il precetto pasquale, la moralità della famiglia... 78. Sempre in tema di religiosità vanno sottolineati alcuni interventi per sradicare superstizioni79 e abusi80.

Il clero In stretto rapporto con il tipo di religiosità sopra descritto stava il livello culturale, sociale e spirituale non molto elevato del clero, specialmente nei centri più lontani dalla città81. I sacerdoti che potevano accedere all’università per frequentare i corsi umani78

Sulla forma del matrimonio cfr. TA 1564-1565, fol. 260v-261r. A. LONGHITALe costituzioni, cit., art. 143. Per il pagamento delle primizie: TA 1564-1565, fol. 260v-261r. 79 «...Si ha ritrovato in questa terra di Petraperzia introducto per arti diabolica che passando di questa vita alcona persona si per sorte fosse di sera et si havesse a seppellire la matina sequenti, mettino al collo del defunto..: certa tovaglia oy altra cosa con dire che l’anima di quella persona per quella notte va et veni da Roma oy di altra parte. Et di poi usano un’altra inventione veramente diabolica et piena di superstitione che dovendo fare orationi et pregar Idio nostro Signore per l’anima di quella persona defunta per tre giorni continui o piò mettino li vesti o altre robbe di quella persona defunta sopra una sedia oy altro loco et di poi li vano a torno disendo Kirie eleison o altre palore...» (TAV 1562, 11 ottobre 1562; carte non numerate). 80 Un editto del 10 novembre 1560 proibisce l’ingresso in chiesa delle prefiche «che con vesti lugubri... fanno molti strepiti et gridati piangendo et facendo gesti piò tosto conveniente a gente infideli che a christiani in quillo giorno che è stato dedicato a far orationi particulari per li defunti» (TA 1560-1561, fol. 69v; cfr. M. CATALANO, La fondazione, cit., [1917] 149-150). Nel 1565 viene rinnovata la proibizione per un abuso analogo riscontrato a Paternò: «Mala consuetudine seu corruptela che si usa in questa terra ne lo seppellire de li defuncti che li parenti e donne visituse vanno appresso il defunto et arrivati all’ecclesia nella quale si hanno da reposare quelle ossa in luoco di orationi et di pregare Dio glorioso per l’anima dili defuncti piangeno et gridano fortimenti disturbando l’officio divino...» (TA 1565-1566, fol. 415r-v). Rimandiamo a V. CORDARO CLARENZA, Osservazioni, cit., III, 119-120 per un cenno ad altri abusi che il Caracciolo eliminò con la sua opera di riforma. 81 Sulle condizioni del clero in questo periodo storico si vedano: X. TOSCANI, Il reclutamento del clero (secoli XVI-XIX), in La Chiesa e il potere politico, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Storia d’Italia, Annali 9, Torino 1986, 573-628; M. ROSA, La Chiesa meridionale nell’età della Controriforma, ibid., 291-345; R. BIZZOCCHI, Clero e Chiesa nella società italiana alla fine del medio evo, in Clero e società nell’Italia moNO,

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stici e di teologia erano certamente una minoranza; appartenevano all’aristocrazia ed erano già preconizzati a ricoprire i posti di responsabilità nella diocesi e ad avere i benefici più redditizi. Gli altri, cioè la maggioranza, avevano delle semplici nozioni rituali per celebrare la messa e amministrare i sacramenti, più qualche cognizione superficiale di morale per risolvere i casi concreti. La loro preparazione veniva curata dai parroci nelle sacrestie. Quando il vescovo notificava che avrebbe tenuto una sacra ordinazione, prima di celebrare il rito si procedeva a un esame sommario dei candidati. Agli ordini minori si poteva essere ammessi anche nella prima adolescenza82. Chi veniva ordinato sacerdote per celebrare la messa e per confessare aveva bisogno di un altro esame e di un permesso speciale: i sacerdoti che potevano confessare erano pochi e non tutti celebravano la messa. In molti casi l’accesso agli ordini serviva solo per acquistare un beneficio. Nei periodi di maggior disordine, quando soprattutto il vescovo non risiedeva in diocesi e gli ordini sacri venivano conferiti da vescovi forestieri, era più facile essere ammessi all’ordinazione, anche se non si avevano le qualità richieste83.

derna, a cura di M. Rosa, Bari 1992, 3-44; G. GRECO, Fra disciplina e sacerdozio: il clero secolare nella società italiana dal Cinquecento al Seicento, ibid., 45-113. Per le condizioni del clero in Sicilia e a Catania si vedano: M. CATALANO, La fondazione, cit., (1917) 145-146; G. BATURI, Il clero nei sinodi siciliani del ’500, in Synaxis 19 (2001) 355-382. 82 Il concilio di Trento stabilisce: anche se uno ha già ricevuto la tonsura o gli ordini minori, non può ottenere un beneficio se non ha compiuto i quattordici anni (sess. XXIII, de ref., c. 6, Conc. Oec. Decr., 747). Da ciò si può dedurre che era normale ricevere gli ordini minori prima dei quattordici anni. Anche nella diocesi di Catania troviamo questa prassi. In una norma disciplinare sulla tonsura si dice: «...Li constituti in minoribus si passano li quindici anni della età loro la debbiano portare similmente come i diaconi et subdiaconi et di quindici anni a basso un puoco più picola di li predicti...» (TA 1563-1564, fol. 307v). 83 Negli atti della visita pastorale del 1565 a San Filippo d’Agira troviamo trascritte le bolle rilasciate dal tribunale dell’Inquisizione a dieci sacerdoti, con cui vengono assolti dalle censure per simonia. In esse leggiamo con diverse varianti espressioni simili a queste: «Ante legitimam aetatem simoniace et pecunia mediante, ad sacros ordines et ad presbiteratum promotum fuisti, et in illis te immiscendo et celebrando absque tui superioris licentia... non tamen in contemptu clavium sed ductus ignorantia iuris...» (TAV 1565, fol. 293r-305v).

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Venendo a Catania il Caracciolo trovò il clero delle zone interne in condizioni critiche dal punto di vista culturale. Possiamo rilevarlo da alcuni documenti che testimoniano anche le sue iniziative per colmare qualche lacuna. Nel 1555 per l’istruzione del clero di Castrogiovanni fu necessario far venire da fuori dei sacerdoti, dato che «in dicta cità non chi essiri previti litterati et di licteratura... per amaistrare et insignari dicto clero et legiri li casi di conscientia et epistoli di lo apostolo Paulo et altri exercitii spirituali»84. Nel 1562 in una lettera indirizzata al vicario di San Filippo d’Agira, il vicario generale espose le sue impressioni dopo gli esami del clero: «...Avemo ritrovato in multi pochi ritrovarsi habilità di poter confessare et ancorché per debito saria stato bisogno livarli tutti di potere confessare nondimeno havendo rispetto alla moltitudine di li genti di quessa cità havemo electo li manco mali et meno inhabili li quali primo studiando farsi periti perché tenino docelità...»85. Abbiamo voluto citare solo questi documenti riguardanti due dei centri più importanti della diocesi. Se a Castrogiovanni non si trovavano «previti litterati» capaci di istruire i confratelli e a San Filippo d’Agira non c’erano sacerdoti idonei alla confessione, è facile immaginare il grado di preparazione del clero nei comuni minori. Per l’istruzione del clero della città e dei casali del bosco di Catania e di Aci si affidò ai padri gesuiti86; a loro diede anche l’incarico di esaminare i candidati agli ordini sacri. Negli altri centri avviò corsi di istruzione e suggerì iniziative pratiche da attuare sul posto. Fra le 84

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1555, fol. 174v. 1562, 2 novembre 1562; carte non numerate. 86 «...Per lo desiderio che tiene lo illustre et rev.mo Monsignor nostro che li cappellani delle ecclesie parrocchiale habbiano almeno alcuna sufficentia di poter reggere una parrochia ha commesso al rev.do padre Domenico Blundo della Compagnia di Jesu nel collegio della Santissima Ascensione di questa città di Catania che debbia instruere li cappellani di le ecclesie parrocchiale del territorio di Catania et della terra et territorio di Jaci et per tanto vi dicimo et comandamo che facto il giorno della Circumcisione vi conferiate in questa città et nello collegio et ecclesia della santissima Ascensione al detto rev.do padre Domenico, il quale vi dirà et istruirà in molte cose pertinente al servitio di Dio et officio nostro et da poi in ogni quindeci giorni vi debbiate conferire al detto padre Domenico perché sempre vi ammaestrirà de cose che voi ni havete piacere et ni resterete edificati molto et appoco appoco con la gratia del Signore imparerete molte cose...» (TA 1566-1567, fol. 154r-v).

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quali va sottolineato l’obbligo di leggere le lettere di s. Paolo, che avrebbe dovuto offrire ai sacerdoti la possibilità di riscoprire la sacra Scrittura. Il 18 agosto 1565 a tutti i sacerdoti della diocesi furono inviati alcuni temi ritenuti fondamentali sui quali successivamente sarebbero stati sottoposti ad esame87. Strettamente legato alla mancanza di formazione culturale e spirituale c’era il problema della condotta morale del clero. Dai numerosi interventi del vescovo su questo argomento, c’è da ritenere che il livello morale e spirituale dei sacerdoti non fosse superiore a 87 «Capita circa quae debet fieri examen quoad sacerdotes et parochos curam animarum habentes. 1um. De sacramentis in communi et universali; qui istitutor ipsorum, quae constituunt sacramentum et quis effectus sacramentorum in communi. Casus: an sacramenta ipsa eque bene possint tradi a malis sicut a bonis ministris, cum dicat beatus pater Augustinus iustos oportet esse ministros per quos quis baptizatur. 2um. Quando fuerunt instituta a Christo Domino sacramenta ipsa; videlicet: sacramentum baptismi, confirmationis et cetera alia. Casus: an sacerdos dum confert sacramentum et profert verba non bene sed corrupte aut falsa latinitate impediatur virtus sacramenti in suscipiente ipsorum. 3um. Quid sit in particulari unumquodque sacramentum; videlicet: quid baptisma, confirmatio et quae materia quaeve forma uniuscuiusque sacramenti, quive ipsorum minister. Casus: an sacramenta ipsa postquam semel fuerunt data liceat iterare ea. 4um. Qui sint effectus uniuscuiusque sacramenti in particulari; videlicet: quid conferat ipsis suscipientibus. Casus: an ficte accedente ad baptismi fontem recipiant sacramentum et eius effectum vel si postquam cessavit fictio debeat reiterari sacramentum baptismi in eo qui baptizatus est. 5um. Quot sunt partes christianae poenitentiae et quae unaqueque illarum sit et ex quibus integratur contritio et satisfacio et quae differentia inter attritionem et contritionem et quis effectus contrictionis. Casus: an confessio absque contritione facta sit sufficiens et valeat aut alias teneatur confiteri peccata sua. Itaque si quis perfecte et integre confiteatur peccata sua tamen non disponit se abstinere ab aliquo mortali, quaeritur si valeat confessio vel teneatur alias confiteri. 6um. Quotuplex est confessio et quare ipsi penitenti imponitur salutaris penitentia post datam absolutionem. Casus: an sufficiat sola contritio volentis sacramentum altaris suscipere. Casus: an coitus in actu coniugali et matrimoniali impediat a communione sacramenti altaris. Casus: an debeat negari eucharistia illis qui de crimine habeantur suspecti, vel illis de quibus notum est esse in peccato mortali. Casus: an actus matrimonialis sit peccatum, aut actus coniugalis non causa reddendi debitum nec prolis procreandae, sed satiandae libidinis sit peccatum mortale. Casus: an absque peccato et superstitione possit fieri ieiunium in dominico die. Casus: an ieiunia possint redimi et commutari ac in aliud bonum compensari. Casus: an clericus si invadatur liceat ipsi occidere suum invasorem. Casus: an clericus irregularis efficiatur si armis utatur bellando». (TAV 1565, fol. 164r-165r). In base all’esito di questo esame il Caracciolo rimuoverà diversi cappellani sacramentali perché «illitterati et imperiti» (TAV 1565, fol. 186r-v; 187r-v).

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quello degli altri fedeli88. Il rilievo che ricorre con maggiore frequenza nei documenti è il concubinato e il malcostume. In molti casi c’è da supporre che ci sia stata una certa connivenza da parte dei fedeli: sarebbe impossibile spiegare altrimenti come mai in un piccolo centro si scopra che un sacerdote ha una propria famiglia, solo quando il vescovo promulga l’editto contro i concubini89. A parte i singoli casi, che è inutile enumerare, in qualche centro si ebbero delle serie difficoltà, quando alcuni sacerdoti vennero messi in carcere sotto l’accusa di concubinato e nel periodo pasquale non rimase nessuno per confessare e amministrare i sacramenti90. Oltre al concubinato non erano rare accuse di risse con ferimenti, truffe, qualche tentato omicidio, brigantaggio e in genere comportamento riprovevole e scandaloso91.

88 In considerazione del comportamento scandaloso di alcuni membri del clero, il tribunale dell’Inquisizione estese la propria competenza ai casi più gravi, sovrapponendosi a quella dei vescovi (V. SCIUTI RUSSI, Eresia e trasgressione, cit., 253-259). 89 TA 1563-1564, fol. 74v. Da notare che l’osservanza del celibato non può essere scelta come criterio pravalente per un giudizio sulla moralità del clero. Oltre al modello della tradizione occidentale, ripreso dal concilio di Trento, nella mentalità dei popoli meridionali era ancora presente il costume antichissimo greco-bizantino. Inoltre bisogna tener conto anche della difficile ricezione delle norme tridentine in molte aree del meridione (G. DE ROSA, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Bari 1978, 202-203). 90 «A lettera del rev.do predicatore et delli m.ci giurati della terra di Aydone, simo stati informati che per la prosequutione et carceratione di alcuni preti di ditta terra c’è gran mancamento di confessori talché nessuno in detta terra si porrà confessare in questa quadragesima et festa di Pascha...» (TA 1565-1566, fol. 316v-317r). Il vescovo propone di mandare altri sacerdoti da un paese vicino. Il predicatore interviene in favore del clero locale e il vescovo incarica il vicario di Piazza ad assumere altre informazioni: «...Quando detti preti si dovessero sospendere dall’amministrazione di sacramenti, vi dicimo che li vogliate ligare solamente a plegeria et lassarle administrare li sacramenti al populo di quessa terra in questa quadragesima et festa di Pascha...» (TA 1565-1566, fol. 323v-324v). Ma le nuove informazioni non sono favorevoli ai sacerdoti: «...Constando per le informationi contra detti preti di cosi cossì enormi et dishonesti come vi habbiamo scritto li vogliate suspendere dell’amministrazione di sacramenti... et per lo bisogno di quesso populo ascolterà le confessioni di fedeli lo Rev. p. predicatore di detta terra... et lo patre priore o doi o tre altri fratri del convento del Carmino di detta terra...» (TA 1565-1566, fol. 326v-327v). 91 Lettera al vicario di Regalbuto perché assuma informazioni sul sacerdote Vincenzo Grassia che «sta ingarzato publicamente con una donna con la quali havi fatto tri figli et continuamente iocha a li carti... teni la sua casa per barattaria e va a

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Gli stessi collaboratori del vescovo, che nelle città e nelle terre occupano posti di responsabilità per la vigilanza e l’amministrazione della giustizia, dimostrano a volte di non essere migliori di coloro che devono vigilare e punire92. In questi casi il vescovo interveniva con fermezza, facendo ricorso ai mezzi che aveva a disposizione non escluso il carcere.

Le parrocchie e i parroci Secondo i canoni del concilio di Trento e le esigenze della diocesi, uno dei punti fondamentali della riforma doveva avere per oggetto le parrocchie e i parroci. Questa riforma comprendeva diversi problemi: la determinazione dei confini delle chiese sacramentali, l’erezione di parrocchie autonome con parroco perpetuo, l’obbligo dei parroci alla residenza, l’idoneità e la preparazione dei sacerdoti ad esercitare la cura d’anime. Poiché il problema delle parrocchie autonome e delle chiese sacramentali con territorio distinto sarà trattato ampiamente nei prossimi capitoli, diamo qualche cenno sugli altri punti della riforma. Il concilio aveva dato le prime disposizioni sulla riforma dei parroci nella VII sessione (1547) e il Caracciolo si dimostrò molto solla notte con contra clavi et apri le porte di li donni di abeni...» (TA 1559-1560, fol. 76r). Al vicario di Paternò si chiedono notizie sul sacerdote Giacomo Lo Nigro che «...li misi passati una sera di sabato intrao una casa di una donna di mala fama... item... è solito ...iocare a carti et dadi intro putighi... item ...è solito negociare, fare mercantia, accattato et venduto formenti, orgi et altri cosi prohibiti imprentato di massaro ad mercanti et ad usura venduto piò di lo preczo et receputo ad manco di lo preczo della jornata oy di altro modo facto usura... item... essendo stati amazati li soru di Paulo Asmesto... esso... era stato quello che haveva stato autore et fautore et quello che havia dato lo modo et manigio a quelle far amaczare» (TA 1559-1560, fol. 276r). Abbiamo riferito solamente qualche caso a titolo di esempio fra i tanti di cui sono pieni i registri di quegli anni. 92 L’arcidiacono di Adernò, avendo trovato due che vivevano in concubinato, chiuse l’uomo in carcere e portò a casa sua la donna come concubina (TA 1561-1562, fol. 301v). L’erario della curia di San Filippo d’Agira ferì alla testa con una bastonata il sacerdote Blasi Di Marco (TA 1565-1566, fol. 289r-290r). Il vicario di Adernò è accusato di aver fatto assaltare con schioppettate il frate domenicano Giovanni Toscano con l’intento di ucciderlo (TA 1559-1560, fol. 359r-v).

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lecito nell’attuarle. Nella visita pastorale del 1555 a Castrogiovanni, costatando che il titolare della parrocchia San Tommaso era impedito ad esercitare la cura delle anime, rese stabili i due cappellani sostituti e riconobbe loro il diritto di percepire tutte le rendite della chiesa93. Ma il suo desiderio di attuare la riforma prima ancora che il concilio sia chiuso e i suoi decreti formalmente promulgati, incontrava spesso l’opposizione del clero e dei fedeli. Nella visita pastorale del 1560, il Caracciolo dispose di nominare otto cappellani aggiunti perpetui per aiutare i cappellani titolari della chiesa madre di Castrogiovanni. Gli amministratori e i cappellani si opposero e minacciarono di far ricorso al tribunale della Regia Monarchia. Il Caracciolo, pur tenendo fermo sul numero dei cappellani aggiunti, cedette sulla loro inamovibilità, ma disse chiaramente ai suoi interlocutori che le minaccie del ricorso ai procedimenti giudiziari non lo avrebbero fermato nella sua opera di riforma: «...In quel che importa lo servitio di Dio et il beneficio delle chiese commesse al governamento poco curamo che altri si ni dispiaccia et chi ni mova lite...»94. Dopo la promulgazione del concilio di Trento l’azione del Caracciolo divenne più incisiva e molte resistenze vennero meno. I provvedimenti più frequenti riguardavano la residenza, la buona condotta e la preparazione culturale dei parroci e dei cappellani sacramentali95. Il problema più importante che aveva in animo di risolvere

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1555, fol. 169r. 1560-1561, fol. 26r-28r. 95 Nella visita pastorale del 1565 a Castrogiovanni prese una serie di provvedimenti per assicurare la cura delle anime in alcune parrocchie i cui parroci non risiedevano nella città, si dimostravano inabili o si comportavano poco bene. Sostituì il cappellano della chiesa sacramentale San Biagio, sacerdote Blandano de Vermiglio «ob eius longam absentiam et non residentiam in ditta ecclesia ac ob ipsius contumatiam...» (TAV 1565, fol. 177v; vedi fol. 148v). Al cappellano della chiesa sacramentale San Leone, sacerdote Antonio Marasa, impose un coadiutore per averlo trovato «illitteratum et imperitum prout nobis constitit relatione et testimonio Rev. p. magistri Christophori Neapolitani nostri theologi qui illum diligenter examinavit» (TAV 1565, fol. 186r-v); assegnò al coadiutore le rendite e le primizie con l’obbligo di dare un’oncia e diciotto tarì come sostentamento al titolare. Altro provvedimento analogo per il sacerdote Matteo de Altamagna, cappellano di San Giorgio (TAV 1565, fol. 187r-v). L’imposizione di un coadiutore a uno dei cappellani della chiesa madre è così motivata: «invenimus ven. dominum Gasparem Sfalanga... irregularem et val-

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riguardava la riforma dei cappellani sacramentali, cioè la nomina di parroci perpetui. Dopo il 1564 in tutti i decreti di nomina dei cappellani sacramentali, troviamo questa espressione o altra analoga: «Usque ad aliam provisionem de rectore ipsius cappellaniae, iuxta formam et determinationem eiusdem Sacri Concilii Tridentini faciendam»96. Nei documenti degli ultimi anni manifesta più chiaramente il suo progetto. Nella costituzione del 25 settembre 1565 con cui erige le parrocchie a Piazza, cita esplicitamente la norma del concilio: «...Distinguano il populo in certe et proprie parrocchie assignando a ciascuna il suo perpetuo peculiare rettore et parrocchiano...»97 In una lettera al vicario di Castrogiovanni, in seguito ad alcuni disordini avvenuti per la sostituzione di un cappellano della chiesa madre, scrive: «...Restamo molto meravigliati che voi non ci dastivo la possessione di detta cappellania senza intendere le pretensioni delle persone seculari... tanto piò lo devestivo fare perché non avemo dato quella cappellania al detto don Vincenzo in titulo perpetuo, ma in comenda et perfino che prevederimo secondo lo ordine et determinationi del Sacro Concilio Tridentino»98.

Da questa distinzione e dalla citazione della norma del concilio di Trento possiamo capire il suo pensiero e il punto principale della riforma che intendeva attuare per i cappellani sacramentali. Il Caracciolo, tenendo presenti le disposizioni del concilio, riteneva che nella de intemperantem et propterea inhabilem in administratione sacramentorum» (TAV 1565, fol. 195v). Analogo provvedimento per il secondo cappellano della chiesa madre e per quello di San Bartolomeo inabili per vecchiaia (TAV 1565, fol. 196v-197v). Abbiamo citato gli interventi del Caracciolo nella sola città di Castrogiovanni. Userà gli stessi criteri anche per gli altri centri abitati. 96 TA 1564-1565, fol. 212r-v, 213v-214r, 228r; TAV 1565, fol. 177v, 186r, 187r; TA 1565-1566, fol. 115r-v; 181v-182v. L’espressione che riscontriamo nei decreti di nomina di questo periodo si riferisce alla norma del concilio di Trento: « il vescovo, appena saputo della vacanza della chiesa, dovrà nominarvi, se sarà necessario, un vicario idoneo, stabilendo a suo giudizio un’adeguata assegnazione di parte dei frutti, per far fronte agli oneri della stessa, fino alla nomina del rettore» (sess. XXIV, de ref., c. 18, Conc. Oec. Decr., 770). 97 TAV 1565, fol. 268r. 98 TA 1564-1565, fol. 246r-v.

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diocesi di Catania fino a quel momento le chiese sacramentali non fossero state date «in titolo», ma «in commenda»99. Perciò, partendo da questa concezione, anche nei centri in cui c’era un solo parroco che esercitava personalmente la cura delle anime, non si aveva il titolare della chiesa, ma un semplice amministratore temporaneo. Su questa concezione del Caracciolo ci sembra necessaria qualche precisazione. Possiamo prendere atto dei princìpi che intendeva seguire per il futuro nella nomina dei parroci. Incontrando non poche difficoltà a nominare parroci perpetui, trovava opportuno far ricorso alla distinzione fra titolo e commenda. Avrebbe dato la parrocchia in titolo quando avesse avuto a disposizione soggetti idonei e preparati, in grado di assumere in pieno la responsabilità della cura d’anime. In attesa di superare questi ostacoli, conferiva la parrocchia in commenda temporanea. Però non possiamo servirci di questi princìpi per giudicare la situazione già esistente nella diocesi di Catania prima ancora del Caracciolo. In altre parole non possiamo affermare che in diocesi fino a quel momento tutte le chiese sacramentali fossero state date in commenda e non in titolo. Nessun documento può confermare questa tesi. Di fatto in molti casi le chiese sacramentali venivano affidate a un sacerdote che stabilmente vi esercitava la cura d’anime, con i limiti e i condizionamenti già descritti; solitamente i vescovi non ponevano riserve e questi sacerdoti potevano essere considerati i titolari delle chiese sacramentali. Però anche lo stesso piano del Caracciolo di fatto non fu attuato. La morte gli impedì di raccogliere i frutti del suo lavoro e altre circostanze non permisero ai suoi successori di continuare la sua opera di riforma. Rimase, invece, l’uso di affidare le parrocchie in commenda, in attesa di nominare il parroco perpetuo, secondo le disposizioni 99

Le due espressioni vengono qui usate nel loro significato originario. Conferire una chiesa in titolo equivaleva a conferire stabilmente una chiesa a un sacerdote o al momento dell’ordinazione o successivamente. Il concilio di Calcedonia (can. 6) aveva proibito le ordinazioni assolute, cioè senza titolo, per favorire la stabilità del clero e la sua disponibilità ai bisogni della chiesa. Conferire una chiesa in commenda significava originariamente affidare una chiesa temporaneamente a un sacerdote in attesa di darla in titolo. Da ciò il carattere essenzialmente provvisorio della commenda. Il commendatario è un sostituto, un procuratore, che ha ricevuto la chiesa in deposito; ma non il titolare (R. NAZ, Titre d’ordination, in DDC, VII, 12781288; R. LAPRAT, Commende, cit., 1030).

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del concilio di Trento. Da questa premessa e dall’evoluzione del diritto canonico si sarebbe dedotto nel secolo seguente che nella diocesi di Catania, l’unico parroco era il vescovo.

Le costituzioni sinodali Nell’attuazione del piano di riforma del Caracciolo avevano un posto di rilievo le costituzioni sinodali promulgate fin dal 1539 e aggiornate successivamente dopo il concilio di Trento. Di queste prime costituzioni non abbiamo il testo; se ne ha notizia in una circolare dell’8 febbraio 1539 inviata a tutti i cappellani sacramentali della diocesi100. Furono confermate dalla s. Sede il 30 luglio 1544 e promulgate nello stesso periodo101. Di quelle promulgate nel 1565, si conserva nell’archivio del capitolo della cattedrale un testo incompleto, trascritto dal canonico Vito Coco nella sua miscellanea. L’originale è conservato nell’archivio della chiesa madre di Castrogiovanni102. Le costituzioni sinodali di Nicola Maria Caracciolo assumono una particolare rilevanza sia perché ci danno gli elementi necessari per ricostruire il profilo spirituale e teologico di un esponente dell’evangelismo italiano, sia perché ci permettono di individuare e ap100

1539-1540, fol. 105-106r. I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 260. Nel volume di Tutt’Atti del 15441545 non viene riportata la conferma delle costituzioni. Il volume successivo non si trova in archivio. Nel 1547 il vicario generale Guglielmo Monsecato prendendo possesso dell’ufficio si prefigge principalmente il compito: «Edicione sinodalium et constitutionum hattenus per rev.um dominum episcopum predictum confirmacione et exequutione cum effectu providere ut a quibuslibet obnoxiis observentur...» (TA 1546-1547, fol. 184v-185r). Di queste prime costituzioni sinodali non troviamo alcun cenno in F. G. SAVAGNONE, Concili e sinodi di Sicilia, Palermo 1910. 102 La copia a noi pervenuta inizia dall’art. 82; manca la parte che riguarda il clero e la cura delle anime. Alcuni degli articoli mancanti si possono desumere da qualche richiesta di interpretazione nella corrispondenza del periodo successivo alla promulgazione: articoli 8, 14, 54, 62, 64 (TA 1565-1566, fol. 56r-58r). Contrariamente a quanto scrivono V. M. Amico e F. G. Savagnone, le seconde costituzioni sinodali del Caracciolo non furono pubblicate nel 1564, ma nel 1565 (V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., 411; F. G. SAVAGNONE, Concili e sinodi, cit., 140-141). Il testo delle costituzioni, anche se incompleto, è stato pubblicato nel 1994: A. LONGHITANO, Le costituzioni sinodali, cit. 101

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profondire le direttrici sulle quali si muove uno dei padri conciliari per attuare i decreti tridentini. Trattandosi di un documento molto ricco di suggestioni, ci limitiamo solamente a indicare qualche spunto per la sua utilizzazione storiografica. Non è di poco conto far notare che le costituzioni sono scritte in lingua volgare103 e con un linguaggio fresco e allo stesso tempo efficace, che difficilmente troviamo nei testi normativi. Il vescovo sa che il primo requisito per l’osservanza delle norme è la loro comprensione; ma, conoscendo il modesto livello culturale del clero e l’ignoranza del popolo, sa che solamente usando la lingua volgare può sperare che il suo discorso venga recepito104. Una delle caratteristiche, che risalta a una prima lettura delle costituzioni, è la familiarità del suo estensore con la sacra Scrittura, che cita non come sfoggio di erudizione, ma come frutto di abituale meditazione. Le sue parole sono spesso una continua parafrasi di brani scritturistici che, oltre a contenere le autorevoli indicazioni della parola di Dio, manifestano la sua fede personale e la sua ricca interiorità, secondo il modello caro alla devotio moderna105. Dal punto di vista teologico egli non si allontana dalle scelte del concilio. Accetta la dottrina dei sacramenti che operano la grazia, tuttavia sottolinea che nel battesimo «per la fede del merito di Christo renasce un morto homo purgato da ogni machia» (art. 86); «la santificationi del sacramento non si procede né dal ministro, né da quella aqua alimentari absoluta ma da la parola dela Santissima Trinità» 103 Nella classica trattazione di BENEDETTO XIV, De synodo dioecesana, scritta nel 1758 che riporta però la dottrina tradizionale, non troviamo alcuna indicazione su un eventuale obbligo di usare la lingua latina nella stesura delle costituzioni (lib. VI, 1-2, in Benedicti XIV... operum editio novissima..., XI, Prati 1844, 149-151); tuttavia esse solitamente erano scritte in latino. Nei sinodi siciliani del Cinquecento troviamo scritte in lingua volgare solo le formule del catechismo che i parroci dovevano insegnare ai fedeli. 104 A conferma dell’ipotesi di una precisa scelta del vescovo nell’uso della lingua volgare, c’è la nota che leggiamo alla fine del documento: «Lette et publicate... in pulpito Castri Ioannis matricis ecclesiae» (fol. 23r); ma perché le norme promulgate nel sinodo potessero essere portate a conoscenza di tutti i fedeli dei diversi centri della diocesi, era necessario che fossero scritte in lingua volgare. 105 Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche e V. Martin, trad. it., XIV/3, Torino 1976, 1145-1183.

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(art. 88). Perciò esorta il sacerdote che amministra i sacramenti a suscitare la fede in coloro che li ricevono perché «credendo et intendendo il divino misterio del Sacramento vegnino ad partecipar dela gratia di Christo Salvator nostro» (art. 85). Nella confessione è la Chiesa che assolve dai peccati «per virtù dela parola et de li clavi lassati da Christo», tuttavia non manca di sottolineare che «è absoluto il penitente che si confida nella divina misericordia di soi peccati» (art. 95). Il matrimonio è «stato istituito da Iddio, partorito dal costato di Christo in croce e da lui confirmato. In quel sacramento... si conferisse lo Spirito Santo et una certa divina gratia con quali lo homo ama la sua mogle di vivo amore casto, et la donna all’incontro il suo marito et lo reverixi come suo capo» (art. 98).

Secondo le categorie care all’evangelismo non manca il richiamo al «modo che se faceva nella primitiva ecclesia» (art. 94); non omette di raccomandare ad ogni sacerdote di essere «fedele nel dispensare il Evangelio di Christo, insegnando al popolo che Christo essere venuto in carne manifestando la divina gratia a tutti li homini..., ammaestrar el popolo che Christo ha dato se stesso per noi per recoperarci da ogni iniquità, elegendosi un popolo amatore di boni operi» (art. 81);

è cosciente che il popolo spesso è portato ad equivocare fra fede e superstizione, perciò esorta: «Et per livari li superstitioni et alcune devotioni di persone ignoranti, ordinamo chi li amministratori si forzino a questi ignoranti farli capaci del vero, demostrandoci come devono confidare al solo Iddio et tutti così indrizare in Dio» (cap. 117).

La secolarizzazione del capitolo della cattedrale L’abbazia benedettina Sant’Agata, annessa alla cattedrale, se dopo la sua fondazione aveva avuto qualche momento di notorietà, nel 126


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sec. XVI era decaduta del tutto106. I monaci erano tali solo di nome, perché non avevano emesso una regolare professione religiosa107 e di fatto non osservavano nessuno dei doveri che il loro stato comportava: «la vita religiosa era completamente abolita; non vi era né vita né mensa comune, vigeva la proprietà privata, ogni monaco disponeva dei frutti del proprio ufficio e beneficio, aveva animali da cavalcatura a propria disposizione, non vigeva la clausura. Questo “modo di vivere” non era altro che un aggregato di persone dimoranti più o meno sotto un medesimo tetto»108.

Nicola Maria Caracciolo conosceva certamente il problema per il quale in passato non erano mancati interventi di rilievo: il 25 gennaio 1507 il benedettino Giovanni Paternò, già priore dell’abbazia, arcivescovo di Palermo e presidente del regno di Sicilia, aveva invitato la sua antica comunità all’osservanza religiosa, alla fedeltà nell’esercizio del culto divino e al servizio nella cattedrale109. Nel 1511, su richiesta del priore Benedetto Asmari, il papa Giulio II aveva proibito ai monaci di allevare nelle proprie camere cani, animali destinati alla caccia e di ospitare banditi110. Nel 1535 il suo fratello e predecessore Luigi Caracciolo si era adoperato inutilmente per ripristinare fra i monaci la vita comune111. Poiché l’inefficienza dei monaci rendeva difficile assicurare l’esercizio del culto nella cattedrale e l’assistenza religiosa ai fedeli, il nostro vescovo pensò di secolarizzare il capitolo. Nel 1554 istituì una commissione composta da tre teologi da lui scelti e da tre avvocati nominati dai monaci per stabilire se la loro condotta di vita poteva dirsi conforme alle regole dell’ordine di s. Benedetto. Dopo diversi 106

Sul tema si veda G. MESSINA, L’archivio del capitolo cattedrale e le ultime vicende dell’abbazia di Sant’Agata, in Sinaxis 6 (1988) 243-269. 107 I monaci non erano professi «ad normam iuris et secundum regulam sancti Benedicti», ma «iuxta modum vivendi in cathedralem ecclesiam cathaniensem» (ibid., 245). 108 L. c. 109 G. MESSINA, L’archivio del capitolo, cit., 245-247. 110 Ibid., 247 111 Ibid., 248.

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incontri, la commissione diede una risposta negativa al quesito112. Nel 1557 il Caracciolo interessò al caso sia il viceré, sia il regio visitatore Giacomo Arnedo113 e decise di avviare l’iter della secolarizzazione del capitolo della cattedrale114. I monaci, quando si resero conto che il vescovo era determinato a raggiungere il suo scopo, il 12 gennaio 1558, in un’assemblea decisero all’unanimità di chiedere: «che si supplichi sua Santità che si degni di dispensare et conchediri chi li reverendi monaci di dicta cathedrali chiesa di Catania, li quali al presenti sono in numero di tredici comprehense li quattro dignitati, possano mutari ditto loro habito et vita regulari in abbito et vita di canonici seculari con retenere tanto li reverendo priore, decano, cantore et thesaurario li loro dignitati et priorati, quanto li reverendi monaci come al presente et chi si accresca numero di essi canonici et capitulo per via di eleccione nel modo et tempo infrascripto sin al numero di vinti otto, cioè di quattro dignità et dodici canonici, li quali siano et si chiamano primarij et altri dodici secundarij, li quali tucti facciano il capitulo di detta chiesa et possano et debbiano portar li vesti et insegne canonicali conformi alli altri canonichi seculari de chiese seculari, di chiese cathedrali ben visti al reverendissimo signor episcopo»115.

Con la firma della domanda di secolarizzazione da parte dei monaci sembrava che il principale ostacolo fosse venuto meno; ma una serie di avvenimenti di diversa natura impedirono l’esecuzione del progetto: nel 1561 la prigionia del Caracciolo a Tripoli da parte

112 Della commissione facevano parte i teologi: Vincenzo Senese, Antonio Vinck, Sancio Navarro e gli avvocati: Francesco Barbuto, Giovanni Filippo Gullo e Giovanni Tommaso Costantino (ibid., 250-251). 113 In una lettera del 1557 leggiamo: «...Circa vero servicium ipsius ecclesiae Catanen. et circa status Rev. monacorum et capituli ipsius vel mutacionem status Regularis aut expettabitur responsio consultationis transmissae ill.mi et ecc.mi Domini huius regni Proregis, aut negocium ipsum conferetur et trattabitur cum multum Spett.le et Rev.do D.no visitatore regiae et catholicae maiestatis et providebitur secundum Dei omnipotentis servicium...» (TA 1557-1558, fol. 189r). 114 G. MESSINA, L’archivio del capitolo, cit., 248-251. 115 TA 1557-1558, fol. 195r-v.

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del ras Dragut e la sua successiva liberazione, nel 1563 la ripresa del concilio di Trento al quale il vescovo fu invitato a partecipare, nel 1565 il ricorso dei monaci al re di Spagna per modificare i termini dell’accordo raggiunto. Il fascicolo inviato alla Congregazione concistoriale per la «reductio ecclesiae de regularitate ad saecularitatem» porta la data del 1564116. Il caso fu esaminato da una commissione di cardinali, che diede parere favorevole. Pio IV il 17 aprile 1565 firmò la bolla di secolarizzazione, ma la sua spedizione fu sospesa117. Il 9 dicembre di quello stesso anno morì Pio IV; il 9 gennaio 1568, a poco più di due anni di distanza, morì anche il vescovo Nicola Maria Caracciolo. La bolla che decretò la secolarizzazione del capitolo della cattedrale di Catania fu integrata e firmata il 10 febbraio 1568 da Pio V ed eseguita sotto il governo del successore del Caracciolo, il vescovo Antonio Faraone118. Nel documento definitivo fu introdotta una variante di compromesso rispetto al testo firmato da Pio IV: i benedettini superstiti avrebbero continuato a far parte del nuovo capitolo da religiosi. Si istituiva in tal modo un capitolo che non era né monastico, né secolare. Ai monaci si dava la possibilità di morire da religiosi, anche se in vita non avevano dimostrato alcun interesse per osservare gli impegni monastici. Il re di Spagna Filippo II, facendo valere il diritto di patronato sulle Chiese di Sicilia, aveva imposto questa soluzione119.

La soppressione dell’arcidiaconato Un’altra memorabile controversia il Caracciolo sostenne presso la Congregazione del concilio per la soppressione dell’arcidiaco116

G. MESSINA, L’archivio del capitolo, cit., 255. Gli storici spiegano questa scelta con il timore di un conflitto tra i monaci e il vescovo (V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., 411-412). Dalla variante contenuta nella bolla definitiva di Pio V, rispetto a quella firmata dal suo predecessore, è facile dedurre che l’esecuzione del provvedimento fu fermata da un intervento del re di Spagna. 118 La bolla In eminenti è conservata nell’Archivio del capitolo cattedrale; è stata trascritta integralmente da I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., II, 53-61. 119 G. MESSINA, L’archivio del capitolo, cit., 257-258. 117

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nato. L’ufficio dell’arcidiacono nel secolo XIII aveva raggiunto in Occidente l’apice della sua potenza. Dall’iniziale posizione di vicario e collaboratore del vescovo, l’arcidiacono era diventato man mano un vero e proprio prelato con giurisdizione ordinaria e stabile, che inevitabilmente lo pose in contrasto con la stessa autorità del vescovo. La sua competenza era diversa nelle singole diocesi e più che dal diritto comune, proveniva dalle consuetudini locali. Nel periodo tridentino era ormai dovunque in decadenza, ma conservava ancora in modo molto vario e giuridicamente poco definito privilegi e competenze proprie. Se in teoria era ancora la prima autorità dopo il vescovo, in realtà la sua giurisdizione era stata in gran parte assorbita dall’ufficio del vicario generale120. Nella diocesi di Catania l’arcidiacono aveva i seguenti compiti: esaminare gli ordinandi, dare il nulla osta per gli sponsali e le pubblicazioni («banna»), chiamare in giudizio e punire i trasgressori del precetto sul riposo festivo, le meretrici contumaci, i colpevoli di adulterio semplice. L’arcidiacono aveva giurisdizione ordinaria che nelle diverse città, terre e casali della diocesi, esercitava tramite delegati121.

120 Sull’argomento vedi l’ampio studio di A. AMANIEU, v. Archidiacre, in DDC, 948-1004, che fa riferimento soprattutto alla situazione francese; vedi inoltre B. KURTSCHEID, Historia iuris canonici, cit., 164-168; 263-267; M. PETRONCELLI, v. Arcidiacono, in NDI, I, 934. 121 La figura giuridica dell’arcidiaconato e la giurisdizione che l’arcidiacono esercitava nella diocesi di Catania si desumono dalla documentazione esistente. In epoca normanna, nella ricostituzione della diocesi, all’arcidiacono era stata assegnata una prebenda. Dovremmo, perciò, concludere che l’arcidiaconato era esercitato da uno dei monaci-canonici della cattedrale. Sembra però che fin dall’inizio fosse concesso ad elementi estranei al capitolo, come si deduce da un convenzione stipulata dinanzi al re Ruggero II fra l’arcidiacono del tempo Magistrum Aschetillum da una parte e i monaci Anselmum de Rode, Raynaldum Pictaviensem et Willelmum de Calatanisset dall’altra, inviati dal vescovo eletto Suanus [= Ivanus] (C. A. GARUFI, I documenti inediti dell’epoca normanna in Sicilia, Palermo 1899, 53-54). Nei secoli XV e XVI l’arcidiaconato non aveva più alcun riferimento al capitolo della cattedrale. Non si fa cenno a prebende o benefici da conferire all’arcidiacono. Spesso l’ufficio viene affidato a un semplice chierico (cfr. Reg. Lat., n. 586, fol. 283r, cit.; Arcidiaconato: copia di una convenzione del 22 gennaio 1529 fra il vescovo Scipione Caracciolo e l’arcidiacono Tommaso Gurreri; nomina di un delegato del 29 agosto 1547; tutta la documentazione del periodo post tridentino, durante la controversia per la soppressione dell’ufficio). Anche gli storici siciliani hanno trattato questo argomento

I,

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A questo ufficio non era annesso alcun beneficio; ma gli introiti che provenivano dalle multe e dalle pene pecuniarie contro i trasgressori erano notevoli122. Perciò è facile immaginare le controversie originate dai conflitti di competenza fra l’arcidiacono e i suoi delegati da una parte, il vescovo e i suoi vicari dall’altra. L’arcidiacono dava l’impressione di battersi per il rispetto delle istituzioni ecclesiastiche, ma i motivi dei suoi interventi erano ben altri. Nel volume di Tutt’Atti del 1559-1560 troviamo una lunga corrispondenza tra il vicario generale e il vicario di Castrogiovanni per definire una di queste controversie. Il tono delle lettere, i rimedi che vengono indicati per reprimere gli abusi, mostrano una certa tensione che fa presagire la soppressione dell’ufficio. Un elenco molto dettagliato indica i casi in cui l’arcidiacono dove intervenire e con criteri restrittivi stabilisce la sua competenza123. Nonostante l’intervento del vicario generale, i disordini a Castrogiovanni continuarono. Nei documenti si accenna a estorsioni, abusi di potere, ecc... finché troviamo la citazione in giudizio dell’arcidiacono Ettore Pitruso da parte del promotore fiscale124. Frattanto a questa controversia sulla competenza dell’arcidiacono di Castrogiovanni se ne aggiunse un’altra. L’arcidiacono di Catania, il chierico Bartolomeo Statella, da cui dipendevano gli arcidiaconi della diocesi, avendo chiesto la laicizzazione, rinunziò all’ufficio. Al suo posto su-

(cfr.: R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 555: I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 65-67, che erroneamente considera l’arcidiaconato una dignità del capitolo; G. L. BARBIERI, Beneficia ecclesiastica, a cura di I. Peri, Palermo 1963, II, 122, che lo ritiene un beneficio di regio patronato). 122 In una supplica che l’arcidiacono rivolge al vescovo il 7 novembre 1567, XI ind., si afferma che la pena imposta per coloro che venivano sorpresi in concubinato era di once quattordici, delle quali cinque andavano all’arcidiacono (Suppliche 15661569, fol. 32r-v). Da ciò è facile dedurre l’ammontare di tutte le rendite che provenivano dall’esercizio di questo ufficio. Nel 1571 il vescovo A. Faraone, per sopprimere l’ufficio dell’arcidiaconato e consentire all’arcidiacono un onesto sostentamento, offrirà un beneficio che rendeva ogni anno sessanta once. Ma l’arcidiacono rifiutò perché l’ufficio doveva essere per lui più rimunerativo (cfr. Suppliche 1574-1578, fol. 109r-v). 123 TA 1559-1560, fol. 491r-493v. 124 TA 1559-1560, fol. 495v; 496r-497v; 502r-503r; TA 1560-1561, fol. 288r; TA 1561-1562, fol. 83r.

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bentrò abusivamente Sigismondo Rebiba125. Scoperta l’irregolarità della sua nomina, la s. Sede avocò a sé il diritto di conferire l’ufficio e il 23 febbraio 1561 lo diede al chierico bolognese Antonio Guidalotto, che pare lo avesse avuto in precedenza. Questi prese regolare possesso dell’ufficio il 12 novembre 1561126. Ma Sigismondo Rebiba assieme ad Ettore Pitruso continuavano ad esercitare l’ufficio dell’arcidiaconato; diffidati, fecero ricorso al tribunale delle Regia Monarchica. Il giudice ordinò di soprassedere in attesa del giudizio, che fu favorevole al Guidalotto127. Anche se cambiarono le persone, non sembra che siano mutati i criteri seguiti nell’esercizio dell’ufficio. Il Caracciolo, dopo la promulgazione dei decreti del concilio, in base alle norme restrittive in esso contenute128, chiese alla s. Sede la soppressione dell’arcidiaconato, sospendendo nel frattempo le facoltà agli arcidiaconi129. La risposta della Congregazione del concilio si ebbe il 9 agosto 1566. L’arcidiaconato veniva soppresso, però bisognava provvedere al sostentamento dell’arcidiacono. Nel documento si fanno due proposte: dare un beneficio o una rendita equivalente a quella che gli proveniva dall’esercizio del suo ufficio, oppure permettere che continui ad esercitare la giurisdizione fino a quando non si fosse provveduto al suo sostentamento. Nello stesso tempo furono 125

1561-1562, fol. 73r. Bolla di nomina in Reg. Lat. 1873, fol. 205r. Nell’archivio storico diocesano (Arcidiaconato) si conservano alcuni documenti riguardanti una controversia del 1529 contro l’arcidiacono Antonio Guidalotto. Per il possesso del Guidalotto cfr. TA 1561-1562, fol. 100v-102r. 127 TA 1561-1562, fol. 336r-337r; 354v-355v. 128 Il concilio aveva prescritto: «Anche gli arcidiaconi, che sono detti gli occhi del vescovo, in tutte le chiese, dov’è possibile, dovranno essere maestri in teologia, o dottori licenziati in diritto canonico» (sess. XXIV, de ref., c. 12, Conc. Oec. Decr., 766). «Le cause matrimoniali e criminali non saranno lasciate al giudizio del decano, dell’arcidiacono o di altri di rango inferiore, anche se sono in visita canonica, ma saranno riservate soltanto all’esame e alla giurisdizione del vescovo, anche se tra il vescovo e il decano o l’arcidiacono o altri inferiori sia pendente una controversia, in qualsiasi istanza, relativa alla trattazione di queste cose» (ibid. c. 20, Conc. Oec. Decr., 772). Con queste prescrizioni il concilio obbligava a scegliere i titolari di questo ufficio fra persone più qualificate e sottraeva alla competenza dell’arcidiacono la maggior parte delle cause. Da sottolineare l’urgenza con cui il concilio vuole che si attui questa riforma. 129 Riferito in TA 1566-1567, fol. 153v-154r. 126

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TA


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date al vescovo le facoltà necessarie per reprimere con severità gli abusi che gli arcidiaconi avevano commesso in passato o avrebbero commesso in futuro130. Il Caracciolo scelse la seconda proposta: preferì ridare la giurisdizione all’arcidiacono in carica, in attesa di conferirgli un beneficio131. La controversia a questo punto poteva essere ritenuta definitivamente risolta, ma ebbe ancora un seguito.

130 «Rev.me domine, lectis litteris amplitudinis tuae ab ill.mis Cardinalibus Congregationis sacri Concilii, visis etiam et consideratis rebus omnibus et cognitis diligenter rationibus quas huc misisti de ea controversia quam habes cum archidiacono cathanensi, causa denique tota discussa et explicata est atque [= relataque] ad Beatissimum D.num Nostrum. Sua Sanctitas de sententia etiam ipsorum cardinalium Congregationis sacri Concilii ita decrevit ut, amplitudo tua ipsi archidiacono vel det beneficium ecclesiasticum aut aliud quod vero redditui archidiaconatus equivalens sit vel ad eum proxime accedat, vel permittat exercere iurisdictionem archidiaconatus quemadmodum antea exercuit. Sed ea conditione ut cum ei provisum fuerit vel ipsius cessione vel morte vacaverit, archidiaconus in perpetuum postea sublatus esse intelligatur. Interea vero in ipsa iurisdictione archidiaconatus, si vel archidiaconus vel eius ministri quidque iniuste vel perperam egerint, amplitudo tua severe in eos anima dicertat [= animadvertat]. Qua de re, ipsius SS.mi D.ni Nostri nomine, his litteris moneo amplitudineni tuam cui Deum benignum et propitium precor. Romae, V idus augusti MDLXVI. Rev.mae amplitudinis tuae uti frater cardinalis Alexandrinus (TA 1566-1567, fol. 144r-vbis). Il testo di questo rescritto è riportato da R. Pirri (Sicilia sacra, cit., I, 555) e da V. M. Amico (Catana illustrata, cit., II, 412-413), ma è pieno di errori che a volte rendono incomprensibile il pensiero della Congregazione. Il De Grossis lo riporta con maggiore fedeltà (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 65-67). 131 Il 31 dicembre 1566 il vicario generale Vincenzo Senese inviò al vicario di Castrogiovanni questa lettera, che il 4 gennaio successivo fece pervenire a tutti i vicari della diocesi: «Venerabili vir in Christo dilette. Per altre lettere della nostra corte, date a X di ottobre, VIII ind., 1564, vi fu ordinato che havessimo di inhibire li substituti seu ministri del rev.do archidiacono, che non administrassero l’officio dell’archidiaconato in quessa città per li respetti in dette lettere contenti a li quali ni riferimo. Per la presente vi ordinamo et comandamo, per che lo detto archidiacono è stato da noi restituito nella possessione et essercitio del detto officio, che voi ancora debbiate lassare li supra decti suoi substituti et ministri oj altro per ipso substituendi in quessa città, nello detto officio di archidiaconato et administrare lo detto officio cossì come administravano et lo essercivano havanti la detta inhibitione non obstante le sopradette precalendate lettere della nostra corte et portandosi bene et rettamente nello essercitio dello detto officio, come credemo che farranno, voliamo che vi siano raccomandati et li habbiati ogni respetto et le cose premisse essequirete con effetto per quanto la gratia di monsignor rev.mo tenete chara prohibendo qualsivoglia altra che facesse officio di archidiacono in quessa città eccetto li substituti dello

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La soluzione proposta dalla Congregazione del concilio non era un capolavoro di chiarezza. Poteva essere considerata un onorevole compromesso per consentire al Guidalotto di sopravvivere; in realtà non affrontava il problema più spinoso della giurisdizione dell’arcidiacono. Il vescovo, appellandosi al concilio, poteva sostenere che il Guidalotto non aveva più la competenza sulle cause matrimoniali e penali. L’arcidiacono, invece, appellandosi al rescritto della Congregazione, poteva affermare che la sua giurisdizione era rimasta immutata. Il Guidalotto non sembra che brillasse per intelligenza. Al di là delle espressioni poco chiare adoperate dalla Congregazione, doveva cogliere lo spirito del rescritto e assumere un atteggiamento più conciliante. Egli, invece, lo ritenne una vittoria e incominciò a dimostrarsi arrogante con il vescovo Antonio Faraone, successore del Caracciolo. Pretese di imporgli delle condizioni e ricominciò a sostenere l’autonomia della sua giurisdizione nei confronti di quella del vescovo132. detto rev.do archidiacono principale. Cauti a contrario sub pena unciarum quinquaginta cammerae episcopali applicanda. Datum Cataniae, die ultimo decembris, X ind., 1566. Vincentius Senensis, vicarius generalis Cataniae» (TA 1566r-1567r, fol. 146v; fol. 153v-154r). 132 «Multo Ill. et Rev.mo Antonio Faraone, vescovo di Catania. Il grande interesso che pate nelli proprii allimenti il Rev. d. Antonio Guidalotti archidiacono di Catania sopra li emolumenti seu proventi di pene de la giuridittione di detto archidiacono per il procedere che fa V. S. Rev.ma et suoi vicari, lo sforcza a farli intendere qualmente per indiretto esso viene in tutto privo di detti proventi in diversi modi. Il primo per voler V.S. Rev.ma persistere che la giurisdittione predetta sia a la episcopali cumulativa e non privativa, dove ha loco la privatione [= preventione], non obstante che in Roma fosse allegato che ciò non poteva essere, havendo V.S. Rev.ma l’appellatione delle cause conosciute dal prefato archidiacono. Il che dimostra li tribunali essere diversi. Secondo: per havere V. S. Rev.ma prohibito al detto Rev.do che non debbia creare se non uno substituto, volendo esso exercitare l’officio et dua in caso che non lo voglia exercere, limitatione insolita et preiudiciali et maggiormenti havendo V. S. Rev.ma triplicato li suoi esecutorii, li quali, con la pretensione predetta di prevenzione, occupare talmente la iuridittione di detto Revido et non solo contra li adulteri, ma ancora contra li violatori delli santi giorni festivi, ripartendosi per li piazzi et timorizando ognuno di carcere, si aprivano le botteghe; officio multo preiudiciale all’archidiacono exponenti per essere sua la exequutione et le peni delli bandi. Tertio: havendo V. S. Rev.ma per publico editto di scomunica che fra un certo tempo ognuno debbia denunciare li adulteri et concubinati a V. S. Rev.ma o vero al suo vicario generale senza fari punto mentione di detto archidiacono, in tal cause iu-

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Il Faraone, il 18 gennaio 1571, XV ind., dopo la secolarizzazione del capitolo della cattedrale, si dichiarò disposto a conferire al Guidalotto un beneficio e decretò la cessazione dell’arcidiaconato secondo il mandato del papa133. Ma il Guidalotto non accettò. Il 5 marzo 1575, IV dice competente, per il che senza dubbio li sono stati et saranno denunciati la maggior parte di detti adulteri, li quali V. S. Rev.ma fa pigliare dalli suoi tanti officiali etiam nelli piazze, talché al detto Rev.do resta il suo archidiaconato inutile contra la santa intentione et provisione di sua Santità et delli Ill.mi et Rev.mi Cardinali della Congregatione sopra le cose del Concilio Tridentino, che fu di preservare la giurisditione al detto archidiacono sua vita tantum acciochè delli proventi et peni di quella si potesse alimentare et sustentare. Quarto: che V. S. Rev.ma il più delle volti avanti che si pigliano le debite informationi delli capti in fraganti per li officiali di detto archidiacuno, con simplici querela comanda che si sopraseda in causa, volendo essa vedere le scritture providendole per quello che tocca a lei prima che detto archidiacuno, tenendo li substituti tanto timorizati et deiettati, che non si retrova chi voglia exercere detto archidiaconato. Quinto: che li vicari pretendino indistintamente dare la licentia che si venda et si facci servitio li giorni festivi contra la forma del’antiquissimi bandi di detto archidiaconato et la laudabile consuetudine di detto archidiaconato allegando che cossì dispone il Jus commune; per li quali infiniti preiudicii esso Rev.do exponenti humilmente supplica V. S. Rev.ma che cossì come ella ciò tutto fa con catolica et caritativa intentione verso li suoi populi, così ancho lo voglia havere riguardo all’indemnità di detto Rev.do exponenti, acciò si possi substentare così come quale lo ha havuto sua Beatitudine et questo con preservarlo dalli sudetti preiudicii o vero sia servita donarli equivalente recompensa, sì come comanda sua Santità et prontamente volendo esso andar a Roma, et quando V. S. Rev.ma non havesse comodità, si contenta detto Rev.do exponente che ella li dia tanta pensione et la terza parte manco di quanto le valeva il detto archidiaconato, per non haver occasione di reclamarsi per conto delli predetti allimenti contra V. S. Rev.ma, della quale si retrova tanto devoto servitore et ita supplicat ut Altissimus... Cataniae die XXI martii, XII ind., 1569» (Suppliche 1569-1574, fol. 43r-44v). La lettera non ebbe una risposta soddisfacente e il Guidalotto il 10 maggio ne inviò al vescovo una seconda. Le sue argomentazioni si prestavano a una risposta puntigliosa e pungente che non si fece aspettare (Suppliche 1569-1574, fol. 59r-63r). 133 «18 ianuarii, XV ind., 1571... Ill.mus et Rev.mus in Christo Pater et d.nus, Dominus Antonius Faraonius, Dei et Apostolicae Sedis gratia Catanien. Episcopus. Stante quod ecclesia cathedralis est reducta ad statum canonicorum secularium et est providendum de aliquibus personis ecclesiasticis ad canonicatus dittae ecclesiae, est prontus et promptissimus conferre unum ex canonicatibus predittis et ab hodie prefato Rev.do D. Antonio Guidalotto et promptum et prae manibus tenet canonicatum ipsum conferendum ipsi de Guidalotto hodie et quandocunque ipsi de Guidalotto placuerit, ad effectum ut dittus archidiaconatus extinguatur prout ab hodie extingui voluit et quidem habeatur pro extincto iuxta mandatum sanctissimi domini nostri Papae. Unde, etc.» (Note 1571-1572, 18 gennaio 1571, carte non numerate).

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ind., lo troviamo in carcere per non essersi attenuto alle norme del vescovo nell’esercizio della sua giurisdizione134. Dopo la morte del Faraone, ottenne dal vicario capitolare di essere dimesso dal carcere. Dalle espressioni adoperate nella sua lettera, sembra ben disposto ad accettare i limiti imposti dal concilio alla sua giurisdizione135. Probabilmente la soppressione dell’arcidiaconato sarà avvenuta con la morte del Guidalotto. Il 25 aprile 1589, il vicario generale del nuovo vescovo Giovanni Corrionero, nel rinnovare le facoltà agli ufficiali di curia, include nell’elenco anche l’arcidiacono, ma non ne indica il nome136.

5. LA PARENTESI DELLA PRIGIONIA Nell’estate del 1561 accadde un fatto nuovo che fermò l’attività e l’opera di riforma del Caracciolo per quasi un anno: la sua cattura e prigionia da parte del famigerato pirata rais di Tripoli Dragut. Il fatto per quel sapore di romanzo d’avventura, è riferito da tutti gli scrittori di storia catanese. Ma anche i più attenti ed apprezzati, nel riferire le date e le circostanze della cattura e del riscatto, incorrono in evidenti inesattezze ed errori, che avrebbero potuto evitare, anche senza consultare i documenti d’archivio137. Solo la Cronaca Siciliana 134 «Cataniae, die VI marcii, IV ind., 1575. ...Nihilominus dictis prohibitionibus oretenus et aliis rationibus significatis per predictos vicarium generalem et Rizzari, temere ausus est velle promulgare quaedam edicta quae sapiunt meram iurisdictionem ordinariam in contemptu suae Rev.mae dominationis et per illum non stetit quominus promulgaretur nisi per spectabiles dominos iuratos contra iurisdictionem suae Rev.mae et rey publicae murmur et scandala...» (Suppliche 1574-1578, fol. 109r-v). 135 «Catanae, die ultimo marcii, IV ind., 1576. Ex parte spectabilium et Rev.orum dominorum de capitulo maioris ecclesiae catanensis sede vacante, congregati capitulariter, fuit provisum quod exerceat officium iuxta formam decreti Ill.orum et Rev.orum dominorum Cardinalium, salvis semper iuribus Ill.mi. et Rev.mi d.ni Episcopi cataniensis et rev.di capituli ecclesiae cataniensis» (Suppliche 1574-1578, fol. 112r-v). 136 «...Omnes singuli algozirii, custodes, ianuarii di la Decima, Jacis, porti Saracini, dohanerius, necnon spect. d. Jo. Paternò rettor et rev.dus arcidiaconus magnae episcopalis curiae sint et intelligantur confirmare...» (Note 1588-1589, fol. 144r). 137 Il primo a riferire l’episodio è Rocco Pirri: il Caracciolo sarebbe stato catturato il 24 luglio 1559 mentre rientrava dal concilio di Trento con il vescovo di Maiorca

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del sec. XVI, sconosciuta agli storici dei secoli XVII-XIX, narra l’avvenimento con la consueta precisione e ricchezza di particolari138. Il 14 giugno 1561 il Caracciolo era partito da Catania per recarsi a Roma, chiamato da Pio IV139. Nel suo viaggio lo accompagnava suo nipote e l’avvocato fiscale del regno di Sicilia Giovanni Battista Seminara, che si recava in Spagna dal re Filippo II. Giunti a Messina, invece di imbarcarsi su navi armate prese da loro stessi in noleggio, decisero di recarsi a Napoli con le galere del regno, quattro delle quali erano piuttosto malandate140. Si imbarcarono la sera del 24 giugno e partirono per Napoli il mattino seguente. Giunti alle isole Eolie, precisamente a Salina, vennero loro incontro dieci galere del rais Dragut, bene armate e decise a dar battaglia alle navi siciliane. La vittoria fu dei «turchi», che, portando con sé i prigioneri e il bottino, si diressero verso Tripoli dove giunsero dopo nove giorni e cioè il 4 luglio.

Ludovico Osorio (R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 554). G. B. De Grossis, invece, corregge la data riferita dal Pirri e ne indica una più vicina al vero (14 giugno 1561), ma non bada che il concilio di Trento era stato sospeso nel 1552 e riconvocato da Pio IV per la Pasqua del 1561; in realtà, però, si riunì solo nel gennaio del 1562 (I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 261). Anche gli altri storici seguono più o meno i dati riferiti dal Pirri e dal De Grossis (V. M AMICO, Catana illustrata, cit., 409; F. FERRARA, Storia di Catania, cit., 140). Solo il Di Blasi avverte l’errore e intuisce la versione esatta, fondandosi sulle date di sospensione e di riapertura del concilio di Trento. Però, non avendo fra mano i documenti d’archivio, fa una confusione di date, fissando la cattura del Caracciolo per l’ottobre del 1561 (G. E. DI BLASI, Storia cronologica, cit., II, 126). 138 Cronaca siciliana del secolo XVI, cit., 219-221. Il racconto della cattura del vescovo di Catania si trova anche in BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA, Urbinate Latino: avvisi di Roma, 1039, 287r-v. 139 «Venerabilis frater salutem et Apostolicam benedictionem. Nonnullis de causis te ad Apostolorum limina cupimus venire. Itaque hortamur fraternitatem tuam ut, compositis ecclesiae tuae rebus, ad Nos libenter admodum visuros veniat quam maturrime sine incommodo valetudinis suae poterit. Datum Romae apud Sanctum petrum sub annulo Piscatoris, die XXI maii 1561, Pontificatus Nostri anno secundo» (ASV, Arm. XLIV, 11, fol. 74v). Il papa, avuta notizia della sua cattura, scrisse una serie di lettere al viceré Giovanni de la Cerda, al capitolo della cattedrale e al clero di Catania, ai napoletani Ascanio e Carlo Caracciolo (fratelli o nipoti del nostro vescovo) per manifestare il suo disappunto e per attivare le iniziative del riscatto (ASV, Arm. XLII, 15, 416r-417r; 418r; 419r-420r). 140 La Cronaca siciliana parla di nove galere, ma dai documenti dell’Archivio storico diocesano e della Biblioteca Apostolica Vaticana, risulta, invece, che si trattava di sette.

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La notizia da Messina giunse subito a Catania, perché un lettera circolare del 2 luglio informò i vicari della cattura del vescovo: «...Haverete inteso l’infelice nova della perdita delle sette galere {che} si partirono de Messina per andar in Napole le quali furono prese da nove vasselli de infedeli sopra li quali fu preso mons. Rev.mo nostro con lo Sr. Hectore suo nipote et tucti li servitore...»141.

Queste notizie sono confermate da un testimone oculare, membro dell’equipaggio, che in quella circostanza fu fatto schiavo: «...In lo misi di jugno di dicto anno {IV indict.} ritrovandosi supra li setti galeri chi alhura prisi Dorgut Rais chi erano partuti di Missina et andavano versu Napoli et foru prisi in l’isuli di Lipari...»142.

Giunta la notizia della cattura, il primo problema da risolvere era quello del governo della diocesi. Tra i monaci del capitolo della cattedrale si profilarono due tesi: 1) la sede era vacante, perciò era necessario nominare un vicario capitolare; 2) il vescovo era ancora vivo, anche se impedito, perciò non si poteva parlare di sede vacante: bisognava riconoscere l’autorità del vicario generale Guglielmo Ansalone e di tutti gli altri collaboratori del vescovo. La maggioranza si pronunziò per la prima tesi. Ovviamente il problema non era di natura giuridica. Ai monaci interessava sbarazzarsi del vicario generale e inserirsi anche per poco nel governo della diocesi per fare i propri interessi. Nella prima riunione il priore e vicario generale si trovò solo a sostenere che la diocesi non era vacante ed era contro la legge nominare i vicari capitolari143. Una volta scartata questa tesi, prima si passò all’elezione dei nuovi ufficiali di curia e dei giudici, poi si stabi-

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1560-1561, fol. 393r-v. Informationes, Catania 1565. 143 Secondo la decisione presa si stabilì: «...Fiant et eligant duo vicarii et sint duo ex dittis m.cis et rev.dis monacis et canonicis dittae majoris Catanensis ecclesiae pro qualibet edemoda vicissim successive... de edomada in edomada...» (TA 15601561, fol. 402v-404r). 142

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lì il turno dei monaci che dovevano ricoprire l’ufficio di vicari capitolari. Nei posti di maggiore responsabilità le persone nominate dal vescovo furono sostituite con altre più gradite al capitolo144. Il governo dei vicari capitolari durò circa due mesi145. Alla fine di agosto giunse la nomina pontificia di due amministratori apostolici: Guglielmo Ansalone, ex vicario generale, e Vincenzo Senese, ex giudice, le due persone di fiducia del Caracciolo rimosse dai loro uffici dal capitolo dopo la notizia della sua cattura. La bolla porta la data del 27 luglio 1561 e fu eseguita dal viceré il 26 agosto dello stesso anno146. Compito principale dei due amministratori era di cercare la somma necessaria per il riscatto del vescovo. Furono nominati dei vicari con l’incarico di raccogliere le offerte147. Il viceré diede il permesso di «...locari et ingabellati tutti et singuli feudi, tenuti, boschi, dohani, gabelle et altri et qualsivoglia beni et predij di ditto episcopato per 144 Fra i primi due monaci che avrebbero dovuto governare nella prima settimana come vicari capitolari, c’era in un primo tempo l’ex vicario generale e priore Guglielmo Ansalone. Ma il suo governo durò pochi giorni. Dato l’atteggiamento assunto nei confronti degli altri monaci, che si manifestò soprattutto quando decisero di iniziare una visita pastorale, fu deposto. Il verbale della riunione con poche parole annunzia l’ordine del giorno: «...Livari uno di li rev.di vicarij electi pro ipso Rev.do Capitulo videlicet a lo Rev.do S. d.no Guillelmo di Ansaluni prioris pro aliquibus respectibus et causis quas hic esprimere minime curarunt absque aliqua nota infamiae...» (TA 1560-1561, fol. 407r). 145 In questo breve periodo i monaci del capitolo, oltre alla rimozione delle persone poco gradite, si affrettarono ad accaparrarsi i benefici vacanti e a concedere senza scrupoli permessi per accedere agli ordini sacri. Mentre erano di turno i vicari capitolari Ippolito de Aversa e Giacomo la Marchisana fu conferito il priorato della chiesa di Adrano al monaco Michele Rizzari (TA 1560-1561, fol. 414v), il quale a sua volta, quando giunse il suo turno, ricambiò la cortesia conferendo il priorato di San Gregorio di Piazza al monaco Giacomo la Marchisana (ibid., fol. 426r). Gli amministratori apostolici subito dopo la nomina si affrettarono ad inviare una lettera circolare a tutti i vicari della diocesi per revocare le facoltà di accedere agli ordini sacri, concesse dai vicari capitolari (TA 1561-1562, fol. 5v). Nel luglio del 1562 due sacerdoti di Castrogiovanni reclameranno perché fossero loro restituite otto once richieste in sovrappiù per la visita della diocesi dal monaco Girolamo de Monsecato e dai giudici eletti dai vicari capitolari (TA 1561-1562, fol. 409v). 146 TA 1561-1562, fol. 207r-209v. 147 Ibid., fol. 39v-40v.

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anni tre... vendiri et alinari et anticipato tempore consequitari et haviri lo prezo... di tutti et singoli introiti, frutti et proventi di ditto episcopato»148.

Il riscatto chiesto dal rais Dragut era di 10.000 scudi149, una somma elevata, se si considera che per averla fu necessario mettere insieme: il ricavato di tre anni di gabelle di tutte le proprietà e rendite del vescovado e le offerte raccolte in tutta la diocesi150. Il denaro raccolto, debitamente assicurato, fu mandato a Tripoli con il galeone «Sant’Antonio» dell’armatore genovese Vincenzo Costa151, che giunse a destinazione nel Natale del 1561. Un particolare serve a farci conoscere meglio la carità del Caracciolo. Ordinariamente soleva erogare diverse somme di denaro per i poveri e gli istituti religiosi. In particolare si era impegnato a dare ogni anno la cifra non indifferente di ventiquattro once per il collegio della Compagnia di Gesù e altre ventiquattro per gli orfani. Dopo la cattura, con le difficoltà incontrate per raccogliere la somma del riscatto, gli amministratori si chiesero se bisognava pagare anche per quell’anno i consueti sussidi. Il viceré nel dare il permesso riferì agli amministratori che il vescovo in alcune lettere scritte ai suoi agenti aveva espresso la sua volontà di non sospendere il pagamento di quelle somme152.

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Ibid., fol. 44r-46r. L’autore della Cronaca Siciliana si era prefisso di indicare la cifra del riscatto, ma non riuscì a conoscerla e nel manoscritto lasciò lo spazio in bianco. Nel documento della Biblioteca Apostolica Vaticana si legge: «Di Roma li 26 detto {luglio 1561}.... Il Vescovo di Catanea pagherà il riscatto 10.000 scudi et Sua Santità ha mandato in Regno brevi che si possino riscuotere sussidii caritativi et altre cose simile per riscattare li prigioni» (Urbinate Latino, cit., 289r). 150 Gli storici catanesi aggiungono un particolare non riportato dai documenti consultati nell’archivio della curia, né dalla Cronaca siciliana: il Caracciolo si impegnò con giuramento a dare un’altra somma nel caso che in futuro fosse stato eletto papa (I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 261; V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., 409; G. E. DI BLASI, Storia cronologica, cit., 195). 151 TA 1561-1562, fol. 46r-v. 152 TA 1561-1562, fol. 47r-v; cfr. R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 554; V. M. AMICO, Catana illustrata. cit., 409. 149

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Pagato il riscatto, il Caracciolo fu liberato e giunse a Sciacca il 24 aprile 1562153. Prima di rientrare in diocesi fu obbligato ad osservare la quarantena prescritta per evitare il pericolo di diffondere eventuali malattie contagiose. L’ingresso in diocesi avvenne il 1° luglio. Il Caracciolo fu accolto «cum grandi alligricsa et compagnia, chi tucta la cita fichi festa et la sira si fichi la luminaria»154. Dopo l’accoglienza festosa un editto del 6 luglio ordinò una processione di ringraziamento, che il giorno 8 succesivo doveva partire dalla cattedrale e chiudersi alla chiesa Santa Maria delle Grazie alla Civita155. Il 9 luglio fu esposta s. Agata sull’altare della sua cappella e il vescovo, dopo aver celebrato la messa, pose sulla porta della custodia come ex voto la catena con cui era stato incatenato durante la prigionia. Fra le lettere di felicitazione per il suo rientro in diocesi troviamo quella di Pio IV, che lo invitava a riposarsi per riprendere le forze156. Seguendo questa esortazione, il Caracciolo si fermò a Catania 153

Erroneamente gli storici catanesi lo fanno sbarcare a Messina (I. B. De GROSSIS, Catana sacra, cit., 261; V. M AMICO, Catana illustrata, cit., 409). Il primo documento da lui sottoscritto è la nomina del provicario generale, scritta a Caltabellotta il 30 aprile 1562, dopo pochi giorni dal suo arrivo in Sicilia. Leggiamo in essa «...Per la grazia di Dio siamo arrivati in Regno... et perché non ni ritrovamo il nostro solito sigillo per haverse perso con noi e con tucte li altre robbe, bastirà la nostra subscriptione» (TA 1561-1562, fol. 307r). Durante la sua prigionia sembra che il vescovo sia stato lasciato libero di muoversi per la città. Frutto del suo soggiorno a Tripoli è un documento Discorso dell’essere di Tripoli, indirizzato probabilmente al viceré duca di Medinaceli, nel quale il Caracciolo descriveva la personalità del corsaro Dragut, la situazione in cui viveva la popolazione di Tripoli, le sue fortificazioni e dava i suggerimenti sul modo migliore per attaccare e liberare la città (ASV, Fondo Borghese, serie I, 596, 85r-89v). Su quest’ultimo documento vedi J. FRAIKIN, Un piano di attacco di Tripoli nel 1562, in Rivista d’Italia 15 (1912) 123-128. 154 Cronaca siciliana, cit., 221. 155 Note 1561-1562, fol. 127v. 156 «Venerabilis frater salutem et Apostolicam benedictionem. Sicut dolorem magnum ceperamus ex illo acerbo casu fraternitatis tuae, ita magna affecti sumus laetitia, cum audivimus, te a praedonibus redemptum, ad ecclesiam tuam, Deo adiuvante, incolumen revertisse, quo quidem optatissimo nuncio ad Nos allato, praeterire noluimus, quin tibi pro nostro eximio erga te amore gratulamur, benedicentes, et grates debitas agentes Domino, qui te ex tanta aerumna eripuit ac liberavit. Qua vero scimus egere fraternitatem tuam quietem post tam graves quos perpessus es animi corporisque labores, idcirco permittimus tibi, et hortamur ut ne te istinc commoreas, sed et reficias te, et ecclesiam tuam praesentia tua consoleris» (Arm. XLIV, Lettera n. 265, fol. 244r).

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fino al mese di giugno del 1563. In una seconda lettera del 1° dicembre 1562 il papa lo aveva invitato a recarsi a Trento per prendere parte al concilio157. Nel giugno del 1563 il Caraccilo partì per Trento per partecipare al concilio158. Lo troviamo presente dalla sessione XXIII (15 luglio 1563)159 sino alla fine. Si possono notare alcuni suoi interventi nella sessione XXIV160 e nella sessione XXV161.

6. LA PUBBLICAZIONE DEI DECRETI DEL CONCILIO DI TRENTO Abbiamo costatato che il Caracciolo non attese la fine del concilio per attuare il suo piano di riforma. Ma la promulgazione dei decreti gli avrebbe consentito il riferimento a una normativa precisa e vincolante per affrontare i problemi più difficili e superare la resistenza dell’ambiente. Di ritorno da Trento il suo primo pensiero fu quello di portare a conoscenza dei sacerdoti e dei fedeli i decreti del concilio per essere in grado di iniziarne l’attuazione. Il decreto di Filippo II, che eseguiva il concilio negli stati del suo dominio, porta la data del 17 luglio 1564162. Ma per aver vigore in Sicilia doveva essere 157

Ibid., 285v-286r. Nell’Archivio Vaticano, con la data del 5 giugno 1563, troviamo il salvacondotto e l’esenzione dai dazi e dalle dogane per «cinque some di diverse robbe che dal ostensor della presente si conducono a Trento al sacrosanto Concilio per comodità et uso del rev.do mons. Nicolò Maria Caracciolo vescovo di Catania» (Arm. XXIX, t. 215, 49v). 159 Conc. 125, fol. 340r. 160 Ibid., fol. 573r, 388v. 161 Ibid., fol. 417v; H. JEDIN, Il concilio di Trento, cit., IV/2, 249, 264, 266, 268. Questo autore scrive che il Caracciolo «due anni prima era stato aggredito e derubato di 10.000 scudi» (p. 264, n. 13). In realtà questa ingente somma costituisce il riscatto pagato dalla diocesi al pirata Dragut per la liberazione del vescovo, come si è visto nel paragrafo precedente. Nel primo periodo del concilio la presenza del Caracciolo si nota in particolare nella sessione XV: il 25 gennaio cantò la messa (cfr. P. SARPI, Istoria del Concilio Tridentino, a cura di R. Pecchioli, Firenze 1966, I, 462) e lesse due decreti «con voce così bassa... che anche da vicino solo difficilmente lo si poteva udire» (H. JEDIN, Il concilio di Trento, cit., III, 530) e alla sessione XVI, in cui sottoscrisse il decreto di sospensione del concilio (Conc. 123, fol. 206v, 207r, 214r, 215r, 216r, 218r, 218v, 219r). 162 Nel decreto reale leggiamo: «Haviendo nos su Sanctidad embrando los de158

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eseguito anche dal viceré, che in quel periodo risiedeva a Messina con la corte. Il Caracciolo non voleva attendere inutilmente l’espletamento di tutte queste formalità e scrisse al vescovo di Messina per avere notizie ufficiose. Il vescovo con una lettera del 27 agosto 1564, lo informò di avere parlato con il viceré e di aver avuto il permesso di divulgare i decreti del concilio; per la loro attuazione si poteva contare sull’aiuto del braccio secolare163. Avuta questa notizia, il Caracciolo si affrettò ad inviare a tutti vicari della diocesi i decreti del concilio per la pubblicazione e ad iniziarne l’attuazione. Il 10 ottobre 1564 inviava già un’altra circolare per richiamare i sacerdoti all’obbligo di celebrare il matrimonio secondo la forma stabilita dal concilio di Trento164. cretos del dicho sancto Concilio impressos en forma autentica Nos como catolico Rey y obediente y veritadero hijo di la Yglesia quiriendo satisfazer y corresponder ala obligacion quae tenemos... havemos acceptado y recibido y acceptamos y recebimos el sacro sancto concilio y queremos que e nel dicho nostro Reyno sea quartado, complido, y executando y que para la execution y complimiento y para conservation y defensa delo e nel ordenando se preste nostra ayuda y favor interponendo a ello nostra auctoridad y braço Real quanto sara necessario y conveniente... Madrid XVII de julo 1564. Yo El Rey...». Il decreto fu presentato al viceré a Messina il 14 dicembre 1564 (TA 1564-1565, fol. 209v-211v; cfr. anche Pragmaticarum Regni Siciliae, tom. III, p. 64, tit. VIII, pram. 6). Tuttavia se il re di Spagna ufficialmente accettò il concilio di Trento, scrisse segretamente ai viceré di non eseguire i canoni contrari ai diritti reali (F. SCADUTO, Stato e Chiesa, cit., I, 51). 163 TA 1564-1565, fol. 10r-v. 164 «...Li giorni passati per nostre lettere et instructioni vi ordinamo che facessivo publicare li decreti del Sacro Concilio Tridentino et credimo che l’abbiate fatto et vi mandarne un summario dello decreto del contrahere matrimonio et di altri decreti supra il matrimonio et simo informati che in alcune parti della diocese non si fanno li matrimoni conforme a quello summario seu decreto che vi mandamo; pertanto vi dicimo et comandamo che nelli matrimoni contrahendi voglate et debbiate usare et far usare tutte quelle sollemnitati che per detto summario si contenino ad unguem, non lassando cosa alcuna facendovi chiamare tutto lo clero et sacerdoti alli quali di nostro ordine comanderete che di qua innanci non vogliano sollenizare matrimonio alcuno sutta pena di scomunica di lata sententia, si non secondo lo ordine di detto decreto...» (TA 1564-1565, fol. 32v-33v). Da una lettera del 3 gennaio successivo al vicario di Assoro siamo informati di una forma popolare di celebrare le nozze, che il Caracciolo riprova: «...Intendiamo ancora come in quessa terra sono alcuni che volendo contrahere matrimonio si donano tra li parenti la parola et li parenti di lo cito basano la cita seu sposa et quelli della cita basano lo cito seu sponso, vi dicimo che non mancati di fare intendere al popolo che debbono contrahere secondo la disposizione del Sacro Concilio Tridentino...» (TA 1564-1565, fol. 93v-95r).

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A questa lettera fecero seguito man mano altri richiami, in parte già esaminati, per la riforma della cura d’anime, la disciplina del clero, l’impegno di una maggiore vita cristiana. L’8 aprile 1565 fu indetta una visita pastorale che risultò determinante per l’attuazione della riforma tridentina165. Il decreto di Filippo II fu eseguito per la Sicilia dal viceré Giovanni de La Cerda il 4 dicembre 1564166.

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1564-1565, fol. 219r. 1564-1565, fol. 209v-211v.


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III

ISTITUZIONE DELLE CHIESE SACRAMENTALI CON TERRITORIO PROPRIO NELLA CITTÀ DI CATANIA E OPPOSIZIONE DELLE AUTORITÀ CIVILI

Il concilio di Trento fu sospeso il 28 aprile 1552. Nel decreto di sospensione vengono esortati i prìncipi cristiani e i prelati ad osservare e far osservare nei loro territori e nelle loro chiese tutte e singole le norme già emanate1. La determinazione dei confini parrocchiali non era stata formalmente trattata, ma si era accennato più volte al tema della parrocchia. Dalle discussioni, perciò, il Caracciolo si era reso conto dell’orientamento che si intendeva assumere su questo argomento2. Ritornando in diocesi, sapeva che la strutturazione delle chiese sacramentali era fondamentale per attuare il suo piano di riforma. Un’azione pastorale organica ed efficiente poteva essere attuata eliminando il disordine nella cura delle anime, che si aveva soprattutto a Catania e nei centri maggiori, il problema si presentava difficile per 1 «...Il santo sinodo esorta tutti i prìncipi cristiani e tutti i prelati, perché osservino e facciano osservare rispettivamente nei loro regni e nei loro domini e chiese, per quanto spetta a loro, tutte e singole le prescrizioni finora stabilite e disposte da questo santo concilio ecumenico» (sess. XVI, Conc. Oec. Decr., 722). 2 Nessuno degli storici catanesi ha trattato la vertenza fra il vescovo e le autorità cittadine per l’erezione delle parrocchie. Vito Amico accennò solamente ad «aliquot constitutiones urbis nostrae privilegiis repugnantes», senza specificarne l’oggetto (V. M AMICO, Catana illustrata, cit., 393). Vito Coco pubblicò il testo della costituzione del 15 marzo 1556 e il decreto del 10 giugno 1561 (V. COCO, Collectio monumentarum, cit.). Gli altri documenti non sono stati mai pubblicati. Il Ferrara accenna al problema in due righe: «L’anno 1554 (?) ritornato dal concilio di Trento volle istituire nella città alcune parrocchie; il senato (?) gli fece riflettere che il parroco di Catania è uno solo, il vescovo, ed egli ne lasciò l’idea» (F. FERRARA, Storia di Catania, cit., 140). Non sappiamo se lo storico fa riferimento alla prima intenzione del vescovo di erigere le parrocchie (24 marzo 1555) oppure al decreto di erezione delle chiese sacramentali (15 marzo 1556). In ogni caso l’opposizione venne dai giurati, non dal senato, perché i giurati di Catania avrebbero avuto il titolo di senatori nella prima metà del secolo successivo.

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diversi motivi. C’era da cambiare una tradizione secolare, che sembrava avesse resistito altre volte ad analoghi tentativi3. Si toccavano gli interessi di molti, che facilmente avrebbero fatto causa comune per impedire l’attuazione di questa iniziativa. L’istituzione di parrocchie autonome, con le rigide norme allora vigenti sulla ricezione dei sacramenti, avrebbe limitato notevolmente la libertà e poteva essere considerata come uno strumento di controllo e non come un aiuto concreto alla vita cristiana dei fedeli. C’era infine da provvedere al sostantamento dei parroci. Ma la prima iniziativa di erigere le parrocchie autonome nella città di Catania fu presa direttamente dal viceré Giovanni de Vega, prima della sospensione del concilio di Trento e del ritorno in diocesi del Caracciolo. Il viceré, in una lettera del 2 marzo 1553, aveva chiesto al consiglio generale della città che esprimesse il suo parere per l’attuazione di questo progetto. Non sembra che il consiglio abbia preso molto a cuore l’iniziativa del viceré, se si decise ad esaminare la sua proposta dopo oltre due anni: il 19 novembre 1554. In un volume di lettere per una lite sorta fra il cappellano della cattedrale e il maestro delle cerimonie, si conserva una copia del verbale di questa riunione, tratta a suo tempo dagli Atti dei giurati della città di Catania4. Alla riunione sono presenti i sei giurati e gli altri membri del consiglio. Non risulta che vi prenda parte il patrizio5. Relatore della proposta è Giovanni Paternò «unus ex spectabilibus dominicis iuratis», che comincia subito comunicando l’ordine del giorno: «La chiamata di lo Ill.mo et Ecc.mo Sig. viceré come quillo che invigila al beneficio di quista città, mi ha ordinato si havesse congregato consiglio supra la istitutioni di li Parroxi»6. I membri del consiglio sono chiamati ad esprimere il loro parere. Se sono d’accordo sarà necessario eleggere una commissione di sei per3 Inguiterra la Valli nel suo intervento, che esamineremo nelle pagine seguenti, riferisce: «Et per multu che si ha ja tentatu per l’anni passati, et mai si potti otteniri...» (Volume di lettere, fol. 151r; cfr. Note 1555-1556, fol. 156v e 159v). 4 Volume di lettere, fol. 145r-151r. 5 In quell’anno il patrizio era Giovanni Paternò del fu Girolamo, da non confondere con il giurato Giovanni Paternò che fa da relatore nella proposta del viceré (cfr. F. M. E. VILLABIANCA, Della Sicilia nobile, Palermo 1759, parte III, lib. III, 303). 6 Volume di lettere, fol. 145r-146r.

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sone «li quali... habiano potestà di ordinare lu modu et la forma di li institucioni di ditti Parroxi et maxime circa lu modu di substinirsi li curati di ditti Parroxi»7. Per risolvere il problema del sostentamento dei parroci, si propongono due soluzioni: «dar un tanto per casa lu anno, levando via quillo hogi si paga per raggione di li Sacramenti et Sepulturi, oy puro confirmare la consuetudini observata supra detta paga quando fussi bastanti a la substentazione di ditti curati»8. Il relatore prosegue enumerando i vantaggi che si spera raggiungere dall’erezione delle parrocchie: «Si terrà quaderno dove si annotiranno quelli che si battezano, et li compari et li commare, et per tal via si scamparà il grande errore della cognatione spirituale. Si saperà per via del detto quaderno, si serrà alcuno che contraga matrimonio contra lo statuto della Santa Ecclesia cossì di affinitati come de consanguineitati. Si saperanno per questa via quelli che sono disponsati in matrimonio e chi vivono di cristiani nel Santo matrimonio. Si potranno con facilità havere tutti li Sacramenti necessari perlochè si eviteranno grandissimi periculi tanto nel morire senza battesimo quanto senza confessione e senza communione e molto più senza la extrema unzione. Si saperanno di ligiero per via de lo curato, quelli che nel tempo della quadragesima, et della Pascha hanno preso il Santo Sacramento della Penitentia et della comunione, et con quelli che non li recipiranno si procederà con la corretione fraterna et con altri remedii spirituali per reducerli alla via delli boni cristiani. Si saperà il proprio curato, et per sua mano si recepirà in articulo mortis lo Sacramento della SS.ma comunione conforme alli Sacri Canoni, et altri Sacramenti. Sarranno senza difficultate alcuna sepelliti li poveri defunti almeno nella loro ecclesia Parrochiale. Sarranno molte Ecclesie le quale sarranno deputate alle ditte Parrochie de quelle le quale hogi si retrovano in ditta città quasi rovinate, reparate et beneficate et adornate, frequentandose per la receptione di detti Sacramenti, per la spirituale emulatione delli boni cristiani. Sarrà per tal mezzo più honorato et venerato lo Santissimo Sacramento tanto dentro ditta Ecclesia, quanto de palij et di cerei et lanterni quando si andirà a portare la comunione alli infermi. Sar7 8

Ibid., fol. 146r. L. c.

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rà più facile a questo modo il sapersi lo numero de li veri poveri, et ciascuno sarrà più legieramente ajutato dalli boni cristiani de la propria Parrochia, et ne nasceranno altri beni assai, che al presente non occurreno»9.

Alla relazione segue il voto: la maggioranza si dimostra contraria alla proposta. I motivi di questa opposizione vengono esposti da Inguiterra la Valli «uno di li magnifici S.ri eletti»: «Perché questa citati chiù d’anni milli et ultra che sta in servitio di Dio in la libertati et observantia, chi non teni Parroxa, et per multu chi si ha ja tentato per l’anni passati, et mai si potti otteniri, per tal causa è di pariri chi si staja cussì comu si ha statu, e chi non si faczanu eletti, e poi mai si ottinni a causa chi non è stato utili, né profitto, né si remetta ad nixuno si non starisi comu si ha statu sempri in la nostra antiqua libertati»10.

Naturalmente il Caracciolo fu informato dell’esito di questa votazione; ma nonostante tutto, alcuni mesi più tardi — probabilmente il 24 marzo 1555 — annunziò come prossima l’erezione delle parrocchie nella città. La notizia era contenuta nell’editto che ogni anno prima della pasqua pubblicava l’elenco dei confessori abilitati per il precetto pasquale. Il Caracciolo comunicava che con l’anno successi-

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Ibid., fol. 147r-150r. Ibid., fol. 150r-151r. La risposta di Inguiterra la Valli, che a nome della maggioranza respinge la proposta del viceré, viene riportata da M. CATALANO, La fondazione, cit., (1917) 156, come esempio di coraggio e di autonomia delle autorità cittadine nei confronti del viceré e indirettamente nei confronti del vescovo: «non sembra un grido di protesta contro l’invadenza del potere religioso nelle faccende civili, aiutata e favorita dal potere politico?». Questa conclusione ci sembra incomprensibile perché capovolge i termini del problema. In questo caso non è il vescovo che invade la giurisdizione civile, ma il viceré che entra nel merito di problemi strettamente ecclesiastici. Ma con questi rilievi si finisce per leggere il passato con le categorie giuridiche del presente. Nella respublica christiana le competenze delle due autorità non erano chiaramente definite ed entrambe, quando lo ritenevano utile, si sostenevano a vicenda. Il concilio di Trento aveva chiesto l’aiuto ai prìncipi cristiani per l’attuazione dei suoi decreti. Il vicerè probabilmente prese l’iniziativa su invito del vescovo di Catania. 10

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vo non ci sarebbe stato più bisogno di pubblicare un editto analogo, perché ognuno avrebbe dovuto confessarsi nella propria parrocchia11. La notizia non sarà giunta improvvisa alle autorità cittadine che il 1° aprile, a distanza di pochi giorni dall’editto, indirizzarono una nota ufficiale di opposizione al progetto del vescovo12. I firmatari del documento sono: il sindaco13 Masi lo Inguanti, il procuratore della città Guglielmo Mundio e i consoli, cioè i rappresentanti delle corporazioni di arti e mestieri. Tutti a nome della cittadinanza si dichiarano lesi nei propri diritti e appellano al tribunale della Regia Monarchia. L’argomento principale su cui fondano la propria opposizione è quello della consuetudine ab immemorabili: «dicta cità per tempo immemorabili fu et è stata et a lo presenti è in libertati di mai non haviri avuto parrochij... ma solamenti si havi stato et sta cum la majuri 11

Non abbiamo il testo del decreto perché manca il volume di Tutt’Atti del 1554-1555, XIII ind. La notizia si desume dalla prima nota di appello del sindaco, del procuratore e dei consoli. Però è possibile stabilire la data, perché ogni anno la tabula confessorum veniva pubblicata nella quarta domenica di quaresima e nel 1554, XIII ind. questa coincideva con l’ultimo giorno dell’anno: il 24 marzo, che secondo il computo moderno diventa 24 marzo 1555, perché in quel periodo, in Sicilia, l’anno iniziava il 25 marzo, «ab incarnatione Domini», secondo lo stile fiorentino. 12 Il documento è riportato integralmente nella seconda nota di appello del 20 marzo 1556 (nel documento originale 20 marzo 1555, XIV ind), inviata al vescovo in duplice esemplare. Perciò anche di esso si hanno due copie nel volume di Note del 1555-1556 ai fol.156v-159r, 159v-160v. Riportiamo qui il brano iniziale del documento con i nomi degli esponenti: «Ill.mo et Rev.mo Signuri, lo magnifico Masi lo Inguanti sindico di la clarissima cità di Catania necnon et li nobili Guglielmo Mundio procuratori di ditta cità et li honorabili: mastro Francisco Paglaro, mastro Manfrè Paglaro, mastro Antonino Caserta, mastro Barnaba Granata, mastro Joanni Guspi, mastro Joanni Mazo, mastro Antonino di Oro, Mastro Joanni Jansano, mastro Joanni lo Porto, mastro Theri di Rocco, mastro Ximuni Tudisco, mastro Antonino Vinchiguerra, mastro Marino di Cathania, mastro Nicola Cundurella, mastro Antonino Archifeli, mastro Joanni Greco, cunsuli di ditta cità nomine totius civitatis reverenter exponino ad V. S. Ill.ma et Rev.ma per modum ut infra...». 13 Nel sec. XVI con il termine “sindaco” non si intendeva il primo responsabile dell’amministrazione civica, ma il rappresentante della città nelle controversie giuridiche o il revisore della gestione civica quando cessava il mandato degli amministratori (V. CORDARO CLARENZA, Osservazioni, cit., III, 138-140; M. GAUDIOSO, Natura giuridica, cit., 18, 48, 100; Capitula Regni Siciliae, cit., I, 214, 338-339).

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ecclesia cathedrali et V. S. Rev.ma comu capu et pasturi»14. Le circoscrizioni parrocchiali non sono di diritto divino ma positivo; infatti sono state introdotte da papa Dionisio: il diritto divino prevede solo la circoscrizione diocesana. La città di Catania non ha mai attuato questa innovazione del diritto positivo e quindi «per la consuetudini in contrario... la dicta distinzioni et divisioni di dicto Papa Dionisio è derogata et abolita quanto a la dicta cità et non pò esseri constricta ad observari si non quello chi sempri havi observato»15. Supposto che questa consuetudine di diritto divino possa essere abrogata, il vescovo dovrebbe prima chiedere il consenso ai fedeli «stanti chi essendo constituiti dicti parrochij si veniano... come parrocchiani ad obbligari ad multi cosi quali li sacri canoni hanno introducti»16. Poiché manca tale consenso da parte dei fedeli, la costituzione di parrocchie a Catania deve ritenersi ingiusta ed arbitraria. Per difendere i propri diritti il sindaco, il procuratore e i consoli, a nome della cittadinanza appellano al viceré. Se ciò non bastasse sono disposti ad appellare anche al papa17. Il documento, il 1° aprile 1555, fu consegnato al vescovo, che in una nota, segnata in calce respinse l’appello18. Per tutto l’anno 1555, XIII ind. non vi fu nessuna novità e il giudice del tribunale della Regia Monarchia dichiarò deserta la causa, perché nessuno aveva avuto interesse a proseguirla. Ma il 15 marzo 1556, quarta domenica di quaresima, a un anno di distanza dal primo annunzio, il vescovo pubblicò la costituzione con cui assegnava i confini a quattordici chiese sacramentali della città. Il documento inizia con la descrizione delle condizioni in cui si svolgeva la cura delle anime a Catania: nella visita pastorale della città aveva costatato l’esistenza di molte chiese sacramentali; tuttavia nessuna di esse poteva essere ritenuta parrocchia. Questa dispersione nell’esercizio della cura delle anime, provocata dalla mancanza di confini, impediva al vescovo di attuare la parte più impegnativa del suo ministero, con grave pericolo per le anime dei fedeli. Infatti dalla

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Note 1555-1556, fol 156v e 160r. Ibid., fol. 157r e 160r. 16 L. c. 17 Ibid., fol. 156v e 160v. 15

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mancanza di confini sicuri e di parroci determinanti non poteva sorgere l’obbligo di amministrare i sacramenti; perciò si potevano avere delle gravi omissioni nei casi di necessità, soprattutto riguardo al battesimo dei bambini e all’assistenza ai moribondi. Non volendo più essere responsabile dinanzi a Dio di questi mali, per obbedire alle norme della Chiesa, aveva deciso di assegnare i confini alle chiese sacramentali e di scegliere alcuni sacerdoti per coadiuvarlo in modo ordinato e responsabile nella cura delle anime. Avrebbe potuto creare delle parrocchie autonome, però preferì istituire delle semplici chiese sacramentali dipendenti dalla cattedrale, che restava l’unica parrocchia della città. Ognuno rimaneva libero di ricevere i sacramenti o nella propria chiesa sacramentale o nella cattedrale. Era libera anche la scelta della chiesa per le esequie e la sepoltura. Con la istituzione delle chiese sacramentali non voleva che il popolo venisse gravato da nuove tasse: ognuno avrebbe continuato a dare ai sacerdoti quel che aveva dato per il passato. Con la promulgazione della costituzione nessuno avrebbe potuto essere ammesso a ricevere i sacramenti al di fuori della propria chiesa sacramentale senza incorrere nella scomunica maggiore e nella multa di cinquanta once19. Da tutto il contesto del documento appare chiara l’intenzione del vescovo di aggirare gli ostacoli posti dalle autorità cittadine nel documento di appello: si chiedeva di voler restare sotto la giurisdizione del vescovo come unico parroco della città e invece di creare le parrocchie istituisce le chiese sacramentali; si voleva essere liberi nel richiedere i sacramenti e dà facoltà di scegliere fra la cattedrale e la propria chiesa sacramentale; si temevano nuovi oneri finanziari sul popolo e afferma espressamente che tutto continuerà come prima. Il Caracciolo con queste concessioni spera di superare la resistenza manifestata dalle magistrature cittadine e chiude il documento con una paterna esortazione: esortiamo tutti i fedeli con affetto paterno in Cristo ad accettare ed eseguire con gioia e serenità questa nostra costituzione per il bene delle loro anime20. Dopo pochi giorni dal decreto di erezione delle

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«...Quo vero ad ecclesias parochiales distinctas sive distinguendas, quatenus appellatio non est admittenda illam non admittit» (l. c.). 19 Vedi doc. n. 4 in appendice. 20 L. c.

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chiese sacramentali, — il 20 marzo 1556 — furono presentate al vescovo due note distinte: una da parte del sindaco e del procuratore, l’altra da parte dei consoli. I due documenti contengono un nuovo appello al tribunale della Regia Monarchia21. In questo secondo appello vengono ripetuti con monotonia gli stessi argomenti esposti in antecedenza. In più si contesta al vescovo la legittimità del suo intervento, visto che c’era già un appello in corso22. Confutando gli argomenti addotti dal vescovo nella sua costituzione, si nega l’utilità delle parrocchie per il bene delle anime: il pericolo che i bambini muoiano senza battesimo o che i moribondi restino senza gli ultimi sacramenti è minore se i fedeli sono liberi di chiamare i sacerdoti che preferiscono23. Per tranquillizzare la coscienza del vescovo si ricorda l’esempio dei suoi predecessori: «In dicta cità su stati tanti Rev.mi S.ri episcopi predecessuri di V. S. Rev.ma ...li quali su stati di santissima vita et di optima conscientia et maxime lu gloriuso sancto Lio24 et nihilominus mai privaro dicta cità di dicta liberitati, ymmo stanti la contradicioni di li gitatini

21 Note 1555-1556, fol. 157v-159r e 160v-162r. Anche di questo documento riportiamo solo il brano iniziale con i nomi dei consoli: «Ill.mo et Rev.mo Signuri, da parti di li honorabili: maestro Antonio di Francisco, maestro Benedicto di Saragusa, mastro Jacopo Licandro, mastro Micheli Licandro, mastro Andria di Pino, mastro Vincenzo la Placa, mastro Salvo di Saragusa, mastro Petro Pistuni, mastro Petro di Alberto, mastro Antonino Farello, mastro Antonino Nuchilla, mastro Francisco Bertuchio, mastro Antonino Lagumina, mastro Berto Pidalachi, mastro Dominico Tumasello, mastro Petro di Milazo, mastro Bartolo lo Judichi, mastro Angilo Romano, mastro Antonino Muntialbano, mastro Martino Stancainplano, mastro Gilormo di Bulano, mastro Antonino Longo, mastro Joanni di Facio alias Tauso, mastro Sebastiano Scrofano, mastro Battista Catalano, mastro Cataldo Pittignano, Mariano di Clarenza, Angelo Vurzi, Francesco Mazuni, Loysi Jurdano, Petro di Charasto, Adorno Cauzarano, Petro di Nicoxia, Joanni di Guarrera, Bartolo Testa, alias novi tarì, Cola Rigano, Cola Custarella minuri, Petro lo Castro, Andria Muntialbano et Battista Juvino, cunsuli di la prefata cità di Catania... a vostra signuria si exponi...». 22 «Stante dicta appellacione nil poterat innovari nec actentari... iam erant ligati manus dominationis vestrae Rev.mae» (ibid., fol. 157v-158r e 161r). 23 «...In locis ubi sunt parochiae multi fuerunt mortui sine sacramentis... quod non evenisset, si in dictis locis fuisset similis libertas in qua stetit sepedicta civitas et eius cives» (ibid., fol. 158r e 161v). 24 S. Leone II taumaturgo, vescovo di Catania nella seconda metà del sec. VIII (cfr. R. PIRRI, Sicilia sacra, cit. I, 518; I. B. De GROSSIS, Catana sacra, cit., 26-35).

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non si hanno mai distinto parochii... et tamen su stati morti in optima conscientia et dicto gloriuso sancto Lio in santità»25.

Il Caracciolo aveva preparato la sua costituzione tenendo presente le difficoltà del sindaco, dei procuratori e dei consoli, perciò ha la risposta pronta26. Il precedente appello al tribunale della Regia Monarchia deve essere considerato chiuso, dato che il giudice ha dichiarato deserta la causa. Non spetta ai fedeli dare istruzioni al vescovo, ma in quel che riguarda la cura delle anime devono ascoltare e obbedire. Pur essendo nelle sue facoltà erigere le parrocchie, per venire incontro ai loro desideri, aveva eretto semplicemente delle chiese sacramentali, lasciando la cattedrale come unica parrocchia. Non aveva voluto che il suo provvedimento imponesse ai fedeli nuovi oneri finanziari. Se il sindaco, il procuratore e i consoli non hanno notato questo, bisogna dedurre che non hanno letto bene il documento; perciò li invita a rileggere attentamente la sua costituzione. Per questi motivi respinge il loro appello come illegittimo e fondato su argomenti inconsistenti27. 25

Note 1555-1556, fol. 158r-v e 161v. Ibid., fol. 159r e 162v. 27 «...Ex quo asserta appellacio per dictos supplicantes interiecta die primo aprilis XIII ind. 1555, fuit servatis servandis per iudicem appellationis declarata deserta nec exinde ad regiam monarchiam fuit introductum processus, nec obtentae litterae de presentatione processus cum clausula de citanda parte in forma et sic causa illa sopita est. Item ex quo non pertinet ad oves gregis docere pastorem sed illum in his maxime quae ad curam pertinet animarum debent audire ac ei oboedire, item quia cum posset ipse pastor in hanc civitatem parrochiales ecclesias introducere et distinguere cemeteria ad instar aliarum sequendo instituta sacrorum canonum et maxime Dionisii per supplicantes allegati nec tamen parrochias aut parrochiales ecclesias introduxit nec cemeteria divisit, sed remanente cathedrali ecclesia pro parochia universali, prout hactenus fuit et est, tantummodo sacramentales alias fecit, vel potius instauravit, in quibus coadiutores et cooperatores sibi sacerdotes assumpisit, nec tamen propter id novum onus aliquod civibus imposuit, nec solutionem aliquam novam induxit, sed in ea laudabili consuetudine circa solutionem alicuius iuris, in quo erat civitas reliquit liberas etiam sepulturas fore decernendo, et tantummodo sacramentorum administracionem pro cuiusque sacramentalis ecclesiae habitacionibus domiciliis et limitibus distinctis dictis cooperatoribus, ne cura populi et animarum et administracio sacramentorum remaneret confusa, divisit atque assignavit, nullo enim pacto sine periculo animae pastoris cura animarum populi confusa tolerari potest, ideo ad suam constitucionem eosdem exponentes remisit et remittit, 26

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Anche questa volta la risposta non tardò a venire e la polemica si fece sempre più vivace28. Il sindaco, il procuratore e i consoli, confutando l’argomentazione del vescovo a difesa della sua costituzione, riaffermavano la legittimità del loro appello. La distinzione fra chiese sacramentali e parrocchie si dimostrava speciosa: il termine “parrocchia” sia in greco che il latino significa “divisione”, cioè un distretto ben definito in cui vive una parte del popolo. Chiamare questo distretto con il nome di parrocchia o di chiesa sacramentale era una pura questione verbale. Il vescovo affermava che i fedeli non avrebbero dovuto temere nuovi oneri da questa innovazione; ma con l’entrata in vigore della costituzione, i fedeli potrebbero essere costretti ad osservare tutto ciò che il diritto prevedeva per i parrocchiani. In conclusione i rappresentanti della città respingevano la costituzione e rinnovavano l’appello29.

praetermittendo quae in supplicatione non vera narrantur, ut dictam constitucionem bene legant et intelligant et appellationem modo per ipsos interiectam tanquam illegitimam et frivolam non admisit nec admittet, nisi si et quatenus de iure est admittenda» (ibid., fol. 159r e 162v). Sebbene il Caracciolo avesse respinto l’appello, tuttavia fu costretto a sospendere l’entrata in vigore della costituzione per tutto il mese di aprile: «24 marcii XIV ind. 1555 [= 24 marcii 1556]. Ill.mus et Rev.mus D. Episcopus Catanen. ex certis causis suum animum digne movementibus mandavit et mandat quod in supradicta constitutione apponatur littera P [= Providebitur] per totum mensem aprilis proxime sequentis ita quod elapso dicto tempore dicta constitutio suus sorciatur effectus...» (TA 1555-1556, fol. 209v). 28 MAD, fol. 474r-476v. 29 «...Ne responsio dominationis vestrae Rev.e sub silencio pertranseat... dicti exponentes negando narrata prout narrantur iterum dixerunt et dicunt quod dicta eorum appellacio fuit et est legitime interposta et interiecta et ex causis legitimis prout ex facie narratorum in dicta supplicatione clare colligitur et apparet... Dicti exponentes bene legerunt dictam assertam constitutionem melius illam intellexerunt... idcirco iterum et de novo dixerunt et dicunt quod... distinctio dictarum ecclesiarum per limites divisarum aliud non importat de iure nisi constitutio ecclesiarum parrochialium quam quidem parrochia grece et latine idem est quod particione... parrochia est locus in quo degit populus alicuius civitatis deputatus certis limitibus constitutus et ita deffinitur hoc nova parrochia per doctores “comònitas” et dicere quod dictae ecclesiae divisae per modum ut in dicta asserta constitutione d. v. Rev.e continetur non dicantur parrochiales sed sacramentales est ascondere civitatem supra montem positam et facere differenciam verbalem quoad formam iuris... Nec similiter obstat... quod per constitucio{nem} dictarum assertarum parrochialium non fuit inductum novum honus nec nova solutio quam quidem licet aliquid non sit expres-

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La nota giunse al vescovo il 1° aprile 1556. L’11 dello stesso mese in un’altra lettera i consoli pregarono il Caracciolo di accettare il pagamento di una somma come contributo per le spese che avrebbe dovuto affrontare in tribunale30. Il vescovo, dato che avevva respinto la legittimità dell’appello, rifiutò la somma. Di fronte al fermo atteggiamento assunto dai rappresentanti della città, al Caracciolo non restava che attendere lo sviluppo degli avvenimenti e il 12 aprile fece apporre un’altra nota alla sua costituzione, con la quale sospendeva la sua entrata in vigore fino a tempo indeterminato31. L’appello seguì il suo corso normale. Il 15 giugno 1556 le autorità cittadine scrissero una lettera al viceré per sollecitare una richiesta fatta precedentemente: assegnare un giudice ecclesiastico al processo riguardante l’erezione delle chiese sacramentali a Catania32. Il 17 dello stesso mese fu inviata da Messina una lettera da parte del giudice ecclesiastico sacerdote Giovanni Perez de Herrera a cui era stata affidata la causa. In essa si chiedeva che fossero trasmessi tutti gli atti e i documenti riguardanti la costituzione delle chiese sacramentali e che si provvedesse a citare l’economo e il procuratore del vescovo33. Il 3 luglio furono spediti i documenti e si assicurò che si era già proceduto alla citazione del procuratore generale del vescovo Giacomo Celano e dell’economo Antonio Pitrolo34. A un anno di distanza dall’inizio della causa, una nota del 9 agosto 1557, ci informa che le parti si erano trovate d’accordo nel chiedere una proroga di un anno, visto che il termine previsto dalla legge stava per scadere. Durante questo periodo di tempo si auspicava che la verità potesse essere conosciuta con più chiarezza da entrambe le parti per giungere a una pacifica soluzione della controversatum in dicta asserta constitutione... nihilominus si dictae assertae ecclesiae parrochiales remanerent prout non debent, stante amplissima iustitia dictae civitatis, d. v. Rev. exinde cogere posset cives dictae civitatis ad solvendum et ad implendum omnia ad quae ex forma iuris sunt obligati parrochiani...» (ibid., fol. 475r-476r). 30 MAD, fol. 481r-482r. 31 «Lictera P. stet et stare debeat etiam post lapsum tempus supra dicti mensis aprilis ad beneplacitum tamen ipius Ill.mi et Rev.mi domini...» (TA 1555-1556, fol. 209v). 32 ASP, Atti Tribunale R. Monarchia, v. 8, anni 1555-1557. 33 ASP, Atti Tribunale R. Monarchia, v. 9, anni 1557-1559. Il documento è anche riportato in MAD, fol. 461r. 34 MAD, fol. 462v.

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sia o almeno per addurre le prove necessarie secondo i princìpi dell’equità e della giustizia35. Nell’aderire alla richiesta dei rappresentanti della città, il Caracciolo volle manifestare i sentimenti che lo animavano. Egli come vescovo sapeva di essere il padre spirituale della città e tutto quello che riguardava la cura delle anime doveva essere trattato con umiltà e dolcezza. Era giusto che i fedeli avessero il tempo necessario per capire l’oggetto della questione e rendersi conto del proprio vero bene36. La documentazione riguardante il processo si chiude con questa nota del 9 agosto 1557. Non conosciamo l’iter seguito dall’appello e in che modo si chiuse la vertenza. Nel maggio del 1558 la causa era ancora sub iudice. In una lettera scritta al vicario di Piazza il 4 maggio 1558, il Caracciolo sembra deciso ad attuare comunque la sua costituzione. Se non avrà una sentenza favorevole dal tribunale si rivolgerà direttamente al papa37. Ma nel 1561 si ha l’impressione che il Caracciolo abbia definitivamente rinunziato ad attuare il suo progetto per evitare discussioni e malumori con le autorità e la cittadinanza. Riprese il discorso su questo argomento in un editto del 10 giugno 156138. La mancata attuazione del suo progetto di riforma non poteva lasciarlo tranquillo in coscienza. Il maligno che semina zizzania era riuscito a convincere alcuni a ritenere la sua costituzione non come una grazia celeste, ma come un tentativo di togliere loro la libertà e gravarli di nuovi oneri. Vantando una libertà che è della carne ma non dello spirito, avevano portato la questione al tribunale della Regia Monarchia. Ognuno era rimasto nella sua pretesa libertà, ma il problema della cura delle anime non era stato risolto. Mancando un rapporto di diritto-dovere fra i sacerdoti e il popolo, diversi morivano

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Note 1556-1557, fol. 164r-v. «Ill.mus et Rev.us dominus annuens cum sit pater spiritualis dictae universitatis videat quod ea quae pertinent ad salutem animarum debent cum omni modestia et suavitate trattari et spacium populo concedi infra quod proprii beneficii et rei de qua agitur capacior possit fieri, demum cum filiis volens omnia benigne agi, dictis et aliis iustis et racionabilibus causis motus ad... prorogattionem... devenit» (l. c.). 37 «...In lo costituiri delli parrochii con la distincioni si haverà di procedere in questa città per via di iusticcia o per ordinacioni di la Santità sua...» (TA 1557-1558, fol. 258r). 38 TA 1560-1561, fol. 367v-369r. 36

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senza sacramenti. Si sarebbe potuto verificare il caso che alcuni sacerdoti, chiamati al letto dei moribondi, non avendo spirito di carità cristiana o rapporti di amicizia con i fedeli interessati, si dimostrassero poco solleciti. Il vescovo non poteva permettere che si verificassero questi gravi episodi, proprio perché avvertiva la responsabilità che aveva dinanzi a Dio. Perciò, in attesa del ravvedimento del popolo, stabiliva di nominare sei cappellani amovibili ad nutum e di assegnarne due per ognuna delle tre chiese sacramentali: Santa Maria dell’Elemosina, Santa Maria dell’Itria, San Nicola l’Oliva. Assicurava loro uno stipendio dagli introiti della mensa vescovile, obbligandoli ad amministrare gratuitamente i sacramenti a chiunque li chiedava, soprattutto se si trattava del battesimo e dell’assistenza ai moribondi nelle ore notturne o incomode. Concludeva esortando i fedeli a trarre profitto da questa nuova facilitazione. Il vescovo aveva fatto il suo dovere39. Con questa soluzione transitoria si chiuse il tentativo di attuare

39 «...Noverint universi huius clarissimae civitatis et alii christifideles quod cum alias in visitatione civitatis eiusdem fuerit per nos supra exhibitione et administratione sacramentorum debite et sufficienter provisum, quosdam venerabiles sacerdotes in coadiutores nostros assumendo, illosque diversis in ipsius civitatis sacramentalibus ecclesiis pro totius populi maiori commoditate constituendo et ad tollendam quandam confusionem et ad certitudinem totius gregis nobis ex alto commissi facilius cuiusque conscientiarum habendam... sator zizaniae et humani generis inimicus nescimus quo pacto quibusdam persuasit ut doni celestis gratiam non agnoscentes putarent sibi per eandem constitutionem ad quandam eis precludendam libertatem viam aperiri, et eos ad persolvendam novi oneris pensionem paulatim induci; qua propter se mirum in modum gravari putantes ad quandam potius carnis quam spiritus libertatem iactantes, ab ea ad sacram regiam monarchiam provocarunt. Hinc factum est ut (cum quisque voluerit in sua quam diximus libertate permanere, et nulla sit inter sacerdotes et populum reciproca obligatio) nonnulli sine sacramentis ecclesiae (quod valde dolendum est) decedant. Accersiti enim quandoque presbiteri quos nulla obligatio urget, si vel christiana charitas vel terrena amicitia non movet, diversas causando occasiones maxime si tempore noctis id accidat dum vel ire negant vel alias differunt. Infelices infirmi, maxime qui se nimis ad ultimum terminum arctarunt vel repentinis morbis oppressi, etiam sine penitentiae sacramento sepius expirant; cui maximo malo volentes nos dum populus iste resipiscat, pro viribus providere ut saltem in civitate praedicta non desint sacerdotes qui ad subministrationem baptismatis et penitentiae sacramenta tam nocturnis quam diurnis temporibus ex obligationis debito teneantur, sex cum suis ministris ex omni numero deligimus satis ad id muneris obeundi idoneos ad nostrum tamen beneplacitum et nutum amo-

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la riforma parrocchiale nella città di Catania da parte del Caracciolo. La costituzione del 15 marzo 1556, non entrò mai in vigore. In occasione della quaresima si continuò a pubblicare un elenco di chiese e di confessori presso i quali i fedeli avrebbero dovuto soddisfare il precetto della confessione40. Questo elenco di chiese non coincide mai con quello delle chiese sacramentali istituite nel 1556. Fin qui la ricostruzione dei fatti attraverso i documenti giunti fino a noi. Ma non sempre i documenti ufficiali manifestano i veri motivi che hanno determinato alcuni fatti nella storia. Perciò in questa, come in altre complesse vicende nelle quali sono in gioco interessi molteplici, bisogna sforzarsi di leggere fra le righe per un giudizio complessivo che si avvicini il più possibile alla verità. Naturalmente non si tratta di sapere da quale parte fosse il torto o la ragione. Interessa, invece, conoscere il gioco delle varie forze sociali e degli interessi che il Caracciolo determinò con il suo progetto di riforma. Gli argomenti addotti dalle autorità cittadine per opporsi all’erezione delle parrocchie si riducono sostanzialmente a due: la perdita della libertà e il timore di essere sottoposti a nuovi oneri. Non credo che per il patrizio, i giurati e i consoli l’obbligo di confessarsi e comunicarsi a pasqua nella propria chiesa sacramentale o nella cattedrale fosse particolarmente gravoso e costituisse un limite alla propria libertà, anche perché essendo liberi di confessarsi e comunicarsi tutto l’anno nella

vibiles, quorum duos apud collegiatam sanctae Mariae de Eleemosina, duos apud sanctae Mariae de Itria {ecclesiam}, alios vero duos apud sancti Nicolai de Oliva ecclesiam cohabitare iussimus tamquam in locis opportunioribus civitatis eiusdem ut quoties fuerint vel pro audiendis infirmorum vel in carceribus existentium confessionibus, vel pro parvulis baptizandis vocati presto esse possint ac debeant; et ut commodius sacerdotes praedicti sustentari valeant mercedem quandam de fructibus nostrae mensae episcopalis eisdem per nos... persolvendam annuatim sive singulis mensibus iussimus assignari: ita tamen ut ea tantum contenti nil amplius inde occasione dictae administrationis seu laboris audeant a pauperibus aut exigere aut etiam sponte oblatum recipere... Sciat igitur unusquisque sibi ac suis super sacramentis praedictis per nos fuisse debite provisum hisque utatur ut decet ne in extremo iudicii tremendo die apud iustum iudicem excusationem non habet...» (TA 1560-1561, fol. 367v-369r). 40 TA 1557-1558, fol. 224r-v; TA 1558-1559, fol. 279v-280v; TA 1560-1561, fol. 243r-244r; TA 1563-1564 fol. 240r-241r; TA 1564-1565, fol. 189r-191r; TA 1565-1566, fol. 324v-325v; TA 1566-1567, fol. 268v-269r.

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chiesa e con i sacerdoti che preferivano, il vincolo al precetto pasquale posto dal vescovo nella sua costituzione poteva assumere un significato formale. Il discorso, invece, va posto in termini diversi. Il rapporto fra il vescovo e le autorità cittadine a Catania era alquanto teso e l’equilibrio, che si cercava di raggiungere, molto instabile. C’era perciò in tutti una diffidenza di fondo e la paura che un qualsiasi fatto nuovo potesse aggravare la situazione. L’istituzione delle parrocchie veniva respinta non tanto per le conseguenze che avrebbe provocato immediatamente, quanto per i rischi futuri che la mentalità suscettibile e litigiosa di quel tempo ingrandiva a dismisura. È indicativa, in tal senso, l’affermazione contenuta nell’ultima risposta inviata dai rappresentanti della città il 1° aprile 1556: anche se in quel momento il vescovo si dimostrava longanime e tollerante, una volta stabilita una determinata struttura, nessuno avrebbe potuto evitare che le relative norme giuridiche fossero applicate fino in fondo e senza eccezione41. Ma riteniamo che anche questo motivo servisse a nascondere altri interessi dei quali nessuno avrebbe osato parlare apertamente. Dovevano essere in molti a sentirsi danneggiati dall’istituzione delle parrocchie: i rettori delle chiese sacramentali soppresse, i religiosi e i rettori delle altre chiese, che da un aumento di giurisdizione e di importanza delle chiese sacramentali avrebbero avuto una minore affluenza di fedeli e una diminuzione di introiti42. Infine non va trascurata la reazione dei monaci-canonici della cattedrale: non potevano vedere di buon occhio un decentramento della cura delle anime a loro danno43. Come si può costatare, il fronte degli oppositori era molto vasto e in casi del genere una coalizione di tutti diventa inevitabile. Se si pensa che nella società del tempo erano

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«D. V. Rev.ma exinde cogere posset cives dictae civitatis ad solvendum et ad implendum omnia ad quam ex forma iuris sunt obligati parrochiani» (MAD, fol. 476r). 42 Un accenno alle chiese dei religiosi si trova nella seconda nota di appello, quando i rappresentanti della città fanno notare: «Semper... usque ad praesens receperunt sacramenta libere in quacumque ecclesia conventuali dictae civitatis» (Note 1555-1556, fol. 158r e 161v). 43 La presenza dei canonici nell’opposizione al vescovo si può arguire dal desiderio più volte manifestato negli appelli di restare «cum la majuri ecclesia cathedrali come unica parrocchia della città» (ibid., fol. 157r e 160r; MAD, fol. 474r).

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sempre poche famiglie ad avere il controllo dei principali posti di governo, un’intesa fra le diverse autorità non doveva essere difficile44. Gli storici catanesi, nel dare un giudizio su questa controversia, parlano di «zelo eccessivo» del Caracciolo nel voler attuare a qualsiasi costo la riforma45. Non sappiamo fino a che punto questa osservazione possa considerarsi fondata. Noi che conosciamo lo sviluppo degli avvenimenti, potremmo osservare che il Caracciolo avrebbe fatto meglio ad attendere la fine del concilio di Trento e la definitiva promulgazione delle norme di riforma. Tuttavia questa riflessione non solo ha il torto di fondarsi sul «senno di poi», ma non tiene conto che il concilio si era chiuso con poche speranze di essere portato a termine46. Gli stessi padri conciliari nell’ammonizione finale del decreto di sospensione esortavano i prìncipi e i prelati ad attuare i decreti e le norme emanate fino a quel momento47. Né si può dire che abbiano avuto maggior fortuna i successori del Caracciolo, che potevano far riferimento alle norme del concilio di Trento, divenute leggi operanti. In conclusione possiamo affermare che la struttura socio-politica della Sicilia difficilmente consentiva in quel periodo un tentativo di riforma. Data la stretta connessione esistente fra l’elemento religioso e l’elemento politico, ogni riforma nell’uno o nell’altro campo era destinata a fallire. La conclusione che sembrava più saggia ed opportuna era quella di lasciare inalterato lo status quo.

44

Un caso analogo avvenne per l’erezione della collegiata Santa Maria dell’Elemosina nel 1446. Gli ostacoli all’esecuzione della bolla in apparenza furono posti dalle autorità cittadine, mentre in realtà era il capitolo della cattedrale che operava dietro le quinte (V. MESSINA, Monografia, cit., 34). 45 V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., II, 393. 46 «...sembrava che, finalmente, una luce illuminasse gli eventi e che la cristianità, prima sconfitta e travagliata, cominciasse ad alzare il capo. Quand'ecco improvvisamente sorgere tali tumulti e scoppiare tali guerre, per la scaltrezza del nemico del genere umano, da costringere il concilio a fermarsi e interrompere, con suo grave disappunto, il suo corso, e da togliere ogni speranza di qualsiasi ulteriore progresso in questo tempo» (sess. XVI, Conc. Oec. Decr., 722); cfr. P. SARPI, Istoria, cit., 465-475. 47 Cfr. nota n. 1.

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IV

LA RIFORMA PARROCCHIALE NEGLI ALTRI CENTRI DELLA DIOCESI DI CATANIA

1. ISTITUZIONE

DELLE CHIESE SACRAMENTALI CON TERRITORIO PRO-

PRIO NELLA CITTÀ DI

PIAZZA

Un problema simile a quello di Catania esisteva nella città di Piazza. La cura delle anime per i fedeli di tutta la città veniva esercitata dai cappellani della chiesa madre e di altre tre chiese sacramentali senza alcuna distinzione di confini territoriali. La soluzione che il Caracciolo adottò per Catania venne estesa nello stesso tempo a Piazza. Il 24 marzo 1556, a distanza di nove giorni dalla costituzione delle chiese sacramentali di Catania, il vescovo incaricò il vicario di Piazza di procedere alla divisione del territorio della città: «Perché per lo servicio di nostro Signore Dio, beneficio et salute delle anime di quessa città de li quali noi tenemo la cura, havemo deliberato partire quessa città et populo al meglo modo che si può et assignare alle ecclesie sacramentale per ciaschiduna il suo populo, sì come habiamo facto in questa città; pertanto noi confidando di la idoneatà et sufficientia vostra vi ordinamo chi aggiontamente vogliati partire ditta città in tanti quarteri li quali si partiranno et assigniranno a quissi ecclesii chi ministrano li sacramenti et diligentamenti debbiati considerari la commodità de li casi più vicini di ditti ecclesii sacramentali che si potessero assignare distintamente; tutto reddigendo in scriptis, scrivendo et denotando como e si potia dari dicto quarteri alla ecclesia maggiore et di tal loco in tal loco videlicet alla ecclesia di lo Spirito Santo {= Patre Sancto?} et cussì discrivendo delli altri; et facto questo et redacto in scriptura cum quilla diligentia chi conveni et in voi speramo di tucto ni donireti particulare aviso cum tramictireti la copia di dicto ripartimento»1.

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TA

1555-1556, fol. 231v.

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Dopo alcuni giorni il Caracciolo ha già in mano la descrizione dei confini. Rispondendo al vicario, lo elogia per la sua sollecitudine e gli raccomanda vivamente di badare che i bambini frequentino l’insegnamento della dottrina cristiana nella chiesa del proprio quartiere2. Questa raccomandazione non è fatta a caso. Egli teme che la sua iniziativa incontri a Piazza le stesse difficoltà incontrate a Catania. Perciò vuole esplorare gli animi dei fedeli e delle autorità: la distinzione dei quartieri in un primo momento servirà per l’insegnamento della dottrina cristiana; se non incontra difficoltà diventerà operante anche per l’amministrazione dei sacramenti. Le previsioni non sono infondate; le autorità di Piazza non vogliono essere da meno di quelle di Catania. L’8 aprile 1556, appena i giurati hanno notizia dell’incarico dato al vicario della città, indirizzano al vescovo una lettera di opposizione3. Il Caracciolo, in risposta, fa notare che la divisione «è stata facta solamenti ad effetto di assignarsi acciaschiduna delli ecclesii deputati li soi quarteri per li figloli et altri alli quali si havi di insignare la doctrina cristiana per sapere ogni uno a quali ecclesia havirà di convenire et per evitarse la confusione»4. Pur rassicurando gli animi dei giurati, il vescovo affronta il problema della distinzione delle parrocchie a cui vuole arrivare. Si dice ben disposto a prendere in considerazione i desideri da loro manifestati, ma nello stesso tempo fa presente il grave dovere che ha dinanzi a Dio di provvedere al bene delle anime: «Magnifici in Christo filii dilecti, havemo ricivuta la littera vostra di octo del presente et per quella et anchora a bocca dal magnifico Bernardino Turricella commissionato, avimo il tucto inteso et respondimo che in quanto alla riparticione facta di quessa città di comandamento nostro li jorni proximi passati è stata facta solamenti ad effecto di assignarsi acciascheduna delli ecclesii deputati li soi quarteri per li figloli et altri alli quali si havi di insignare la doctrina cristiana per sapere ogni uno a quali ecclesia havirà di convenire et per evitarse la confusione; in quanto a quello chi ni 2

1555-1556, fol. 256r. La lettera non è riportata nel volume di Tutt’Atti. I dati sono desunti dalla risposta del vescovo (TA 1555-1556, fol. 254r). 4 L. c. 3

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prevenite in dire delle parrocchie, rispondemo che noi sempri havemo tenuto grandi rispectu et particulare amore a quessa città di Piazza in genere et ancho in specie a molti gentil homini et altri persuni di quella et cossì teneremo per lo avvenire con fermo proposito di compiacerli in tucto quello chi potremo purché si possa fare salva la consciencia nostra. Ma dove ci havessimo a mettere della consciencia non pensamo di compiacere né a quella, né ad altra città, né a persona del mundo et per questo ni doveti tenere per certo che si potrò lassari la città con saldezza di mia conscienza in quello stato che si retrova lo farò più chi volenteri; ma si altramenti sarò costretto di fare per la saluti mia et di li populi, io non potrò manchare al debbito mio del che li S. V. et essa città son certo chi sempri resterà satisfacta et cossì in questo como in altro cum la prefata condicione mi offero per lo beneficio et utili di essa città et ancho particulare delli S. V.»5.

La questione non venne più affrontata direttamente; le difficoltà incontrate dal vescovo a Catania non consigliavano in quel momento di suscitare altre polemiche. Ma il Caracciolo non abbandonò l’idea di far valere anche per l’amministrazione dei sacramenti i confini stabiliti per l’istruzione religiosa ai bambini. Il 2 ottobre 1557 in una lettera al vicario di Piazza, il vicario generale Pietro Cuzolario lamenta che «alcuni ven. cappellani di quissi vostri ecclesii sacramentali seu parochiali quandu su chiamati ad confessari et ministrari li altri sacramenti su renitenti ad andarichi»6. Ricorda loro l’obbligo che hanno come cappellani sacramentali e invita il vicario a richiamarli al dovere «poi che loru tenino ditti ecclesii in carrico oy vero voglano renuntiare ditti ecclesii per darisi ad altri presti»7. Ma i cappellani fanno osservare che obbligarli ad amministrare i sacramenti a tutti i fedeli della città «fora un piso quasi insuppurtabili chi quello che ha carrico di alcuna di li ditti ecclesii sacramentali serviri a tutti et per quisto non si ha conveniencia»8. Il vicario generale si aspettava questa difficoltà e suggerisce la soluzione più ragionevole:

5

L. c. TA 1557-1558, fol. 51v. 7 L. c. 8 TA 1557-1558, fol. 60r. 6

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«...Considerati li cosi premissi iusti et rationabili havimo provisto... chi cossì facciati intendiri a ditti ven. cappellani che debbiano ministrari dicti sacramenti a quilli chi interessaranno alli quarteri loro limitati iuxta la limitacioni altra volta fatta per lo R. d. Vincentio di Cagno et d. Antonio Trigona...»9.

Ma questa iniziativa del vicario generale non è in sintonia con il pensiero del Caracciolo: fino a quando non si risolve la vertenza aperta a Catania dalle autorità cittadine non intende forzare i tempi. Perciò in una lettera al vicario di Piazza del 4 maggio 1558 dà ordine di non tener conto dei provvedimenti presi dal Cuzolario e di attendere lo sviluppo della situazione: «...Et poi chi in lo costituiri delli parrochii con la distincioni si havirà di procedere in questa città per via di iusticcia o per ordinacioni di la Santità sua, cossì come si exequirà in questa città, cossì si farà per la città di Piazza et fra questo non volimo si innovi cosa alcuna, ma si stia con quello servimento libero in lo ministrari di li sacramenti predicti como per lo passato si è facto per finché sarrà provisto ut supra»10.

Nel 1562, in occasione della visita pastorale, si accenna ancora indirettamente al problema fino a quel momento insoluto: «Perché in questa città di Piazza non sono parrocchie distincte, non si può havere la vera et piena notitia di quelli li quali si confessano et communicano almeno una volta l’anno secondo la forma et dispositione delli sacri canoni...»11.

L’accenno vuole solo far costatare i disordini provenienti dalla mancanza di un territorio proprio per le chiese sacramentali. La decisione di risolvere definitivamente il problema viene presa nel 1565. I decreti del concilio di Trento sono stati già pubblica-

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L. c. TA 1557-1558, fol. 258r. 11 TAV 1562, 4 ottobre 1562. 10

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ti e sono entrati in vigore. Il Caracciolo può ormai appellarsi a una norma giuridica superiore. La costituzione per la distinzione delle chiese sacramentali e per la divisione della cura d’anime nella città di Piazza porta la data del 25 settembre 1565 e fu pubblicata durante la visita pastorale della città: «Havendo noi per satisfare al’obligo del pastorale officio nostro visitata la città di Piazza et tutte le ecclesie che in essa si ritrovano, habiamo retrovato che solamente in sancta Maria, in San Martino, in Sancto Nicola et in lo Patri Sancto sonno fonti battismali et si amministrano sacramenti. Ma perché questa ministratione di sacramenti non è distincta ma confusamente ciascuno delli rettori et cappellani di questi chiese li ministrano per tutta la città senza haver populo proprio per questa cagione havendo noi cercato conto dali rettori et cappellani di coloro che non si sono battezati, che non si sono confessati et communicati et che senza prendere li sacramenti de la sancta matre chiesa si sono morti non habbiamo potuto haverlo, assignando et allegando ditti rettori et cappellani che non hanno obligo particulare di descrivere le anime della città et che per non haver populo assignato che gli è impossibile et che non sonno tenuti a far questa descritione et a rendire universal conto delle anime di essa città, onde per evitare il danno et il disordine che da questa confusione di ministerio procede poiché non senza gran dolore dell’animo nostro habbiamo inteso che de tutto il numero de li anime che in questa città si retrovano a pena se ne sono confessati et communicati la terza parte, che molti poveri figlioli si sonno morti senza baptesmo, che alcuni son parti{ti} da questa vita senza prendere li sacramenti della Chiesa et ancorché molte volte è successo che alcuni deli detti rectori et cappellani sia stato richiesto di andare a confessare et a communicare alcuno infermo et che si sia scusato di non poterci et volerci andare con dire che non è obligato dondi poi ni è nato murmuro et lamentatione del popolo, acciò che li detti rectori et capellani non si possano più excusare et che il popolo non habbia più causa di lamentarse et perché a la salute delle anime a noi commesse non venga detrimento per nostra negligenza, ni è parso di non differire più lungo tempo a dar rimedio a tanto manifesto et aperto periculo in quanto le anime di questa città si retrovano, il sangue delli quali nel giorno del judicio Dio benedetto ricercherà dalli mani nostri. On-

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de per fare quella provisione che conviene intorno alla necessità presente et per renderci conformi con li decreti del sacrosanto concilio Tridentino lo qual vuole che in quelle città dove l’ecclesie parrocchiale non hanno certa distintione di confini et chi li rettori di quelli non hanno populo proprio che governino, ma confusamente amministrano li sacramenti, li vescovi per magior securtà della salute dell’anime a loro commesse distinguano il populo in certe et proprie parrocchie assignando a ciascuno il suo perpetuo peculiare rettore et parrochiano, il quale habbia da conoscere quelle et dal quale solo habiano da pigliare et ricevere li sacramenti o vero provedano con qualche modo più utile secondo la qualità del loco ricerca et questo medesmo habbino pensiero ancora et curino di farsi subito nelli lochi et nelle città dove non sono ecclesie parrocchiali, havemo distincta et partita la città in quattro quarteri et ordinamo che per causa et occasione della predetta distinctione il populo non habbia di pagare nissuna nova pensione o ragione a li rettori et cappellani delle infrascritte ecclesie né anco sia gravato di alcuna nova gravezza per ragione di sepoltura et esequii funerali quando alcuno non si volesse seppellire in l’ecclesia parrocchiale, ma si in detta città si retrova per questo introdutta alcuna laudabile consuetudine volemo che quella perpetuamente si osservi et per la presente ordinamo et comandamo a li rettori et cappellani de le infrascritte ecclesie in virtù della sancta obedientia et sotto pena di excommunicatione e di onci cinquanta di applicarse ad arbitrio nostro, che poi della publicatione della presente, che si farà per affixione in le porte de le infrascritte ecclesie parrocchiale per qualsivoglia altro modo, nissuno di loro presuma ne le predette ecclesie amministrare sacramenti ad alcuno homo o donna della detta città né quelle admettere a ricevere li detti sacramenti senza nostra licentia o del nostro vicario generale, exceptuate quelle persone le quale conoscerà che hanno loro domicilio et habitatione dentro li confini et limiti della sua ecclesia parochiale, ale quale persone perpetuamente ordinamo che ali preditti rettori et cappellani et loro successori che saranno ne li ditti ecclesii parochiali siano obligati amministrare li sacramenti et haver cura dell’anime loro ammonendo ancora et con affetione paterna in Christo exhortando a tucti singoli fideli tanto homini quanto donne de la detta città che con bone animo et leta fronte vogliano accettare et exequire questa nostra costitutione et frequentare a la ecclesia parrochiale assignata et deputata ad esso et a la sua casa et famiglia per pigliare li sacramenti la forma della

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quale distincione limitatione et assignatione è del modo seguente videlicet: Lo quarteri seu parti toccanti a la maiuri ecclesia deli quali divino haviri cura, darici li sacramenti incomenza di la porta nominata: la porta di la scattiola, venendo in la strata chiamata la carrera sequendo per la corbisaria et nexendo alla chiaza publica et calando per lo chiano di baruni et sequendo per li casi li quali si chiamavano di lo prothomedico per la parti ditta inverso lo castello et sequendo di ditto castello per la vanella seu per la strata di li quondam Marco Ioanfranco et don Antonino Trigona et sequendo per la cantonera di lo porticato novo chi ha fatto lo magnifico Ioanfranco di Assara et tagliando la strata mastra et sequendo la strata infrontespitio di ditta cantunera nexi diritto a li chiappi achianando per la strata predetta di li chiappi et iungendo alla ecclesia di la Misericordia nexi a lo mundiczaro et sequiri verso san Francesco et calando fora li mura et sequendo circum circa per fino a ditta porta di la scattiola di lo modo supra scritto si intendi tutta la parti dextra esseri di la maiuri ecclesia. Item incominciando di la supradetta porta di la scattiola et nexendo di la strata di la carrera et sequendo per la ditta corvisaria et nexendo a la piazza et venendo in lo plano di baruni et sequendo per li dicti casi di lo protomedico et chianando inverso li canali et sequendo fora di li mura et arrivando circum circa a la ditta porta di la scattiola, tutta la parti a la manu sinistra a resta et divindi haberi cura li cappellani di la ecclesia di lo Patri Sancto. Item incominciando di lo castello cioè di la cantunera di la strata preditta di li quondam Marco Ioanfranco et don Antonino Trigona et sequendo sutta li fenestri di la sala di lo magnifico Hieronimo Trigona et tirando verso la cantonera preditta di lo ditto magnifico Ioanfrancisco di Assara et calando in la strata maestra et iungendo a la cantunera di lo magnifico Alexandro Sant’Angilo tira a la strata insino a la strata rutta inanti chi si arriva ala ecclesia di sancta Dominica et sequendo suso verso sancto Nicolao insino a la prima vanella stretta quali veni a manu dritta et chianando a la porta di lo Catalano et achianando verso lo castello et venendo in la supraditta cantunera di li ditti quondam di Trigona la ditta parti per la manu sinistra tocca ala ecclesia et cappellani di sancto Nicola.

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Item incomenzando di la cantunera infrontespitio di la cantunera di lo cortiglio di ditto Assara et sequendo per fino a la strata di ditti chiappi et achianando persina a la ecclesia di la matrici et nexendo fora a lu mundizaro circum circa li casi et calando per li ultimi casi in sancto Martino et andando verso sancta Domenica per la parti suttana et arrivando in la vanella preditta stricta et nexendo in la strata chi veni di sancto Nicola per fino a la strata rutta et sequendo ditta strata rutta per fino a la cantunera di lo ditto magnifico Alexandro Sanct’Angelo et sequendo in la strata mastra seu publica plaza et achianando suso per fino a la preditta cantunera chi è in frontespitio di la ditta cantunera di lo cortiglio di lo ditto di Assara tutta la parti di la manu sinistra resta per la ecclesia et cappellano di Sancto Martino»12.

La costituzione del vescovo, affissata alle porte delle quattro chiese parrocchiali, non sembra abbia causato sul momento malumori o dissensi. Nel successivo mese di aprile il vicario domandò qualche chiarimento sull’obbligo che avevano i fedeli di richiedere i sacramenti al proprio parroco. Il vescovo risponde: «...In quanto al ricevere di li sacramenti, exceptuata la confessione, volimo che ogni uno li piglia nella ecclesia parrochiale della sua parrochia tantum et non in altra parte. Et quanto a li denuntiationi et beneditioni di li matrimonii vi dicimo che si facciano et debbiano fare nella ecclesia parrocchiale de la donna quando il marito fosse di un’altra parrochia...»13.

Ma avvicinandosi l’obbligo del precetto pasquale, si incominciano a notare le prime opposizioni alla costituzione, che obbligava i fedeli a ricevere la comunione nella propria chiesa sacramentale. Qualcuno incominciò a chiedere la dispensa di poter ricevere la comunione nella chiesa madre, invece della propria chiesa sacramentale. Il vescovo diede il permesso: «...portando però la polisa de la licentia de lo prete parrochiano della sua propria parrochia, quello possa pigliare et communecarse nella detta chiesa parrochiale di S.ta Maria

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12

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TA

1565, fol. 267r-269v. 1565-1566, fol. 370r-371r.


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nonostante la sopradetta nostra costitutione...»14. Anche se la dispensa fu concessa, i malumori dei fedeli aumentarono. Sia il vicario che uno dei giurati, venuti a posta a Catania per informare il vescovo, chiesero che si consentisse a tutti di comunicarsi nella chiesa madre senza il permesso del proprio parroco, dato che «il populo per conto che non vuole parrochie et che vuole stare nela libertà di comunicarse alla matre ecclesia o duove li piace» e dato il pericolo «in che si sono retrovati et si retrovano li preti perché lo populo dice che alcuni preti sono stati causa di dette parrochie»15. Il vescovo era convinto che se avesse ceduto per quel primo anno, difficilmente avrebbe potuto sperare di mantenere in vigore la sua costituzione. Perciò non accolse la proposta: «...Vi respondimo che ni duole assai di questa opinione et pertinacia che tiene il populo che giudicano essere per disgratia loro et per disgratia nostra di non saper conoscere li beneficii di nostro Signor Iesu Christo et la buona mente del prelato che con tanto studio attende a levar li abusi, et introdurre le ordinationi già fatte per lo Sacro Concilio a rimedio et a salute delle anime loro... siamo risoluti non potere salva conscientia mutarli né suspenderli... ben saria che li magnifici giurati ed altri gentil homini et personi de intelletto et timorosi di Dio per meglior partito pigliassero di ubedire essi et persuadere al populo minuto che ubedessero alli mandati della sancta chiesa...»16.

I giurati mandarono un loro rappresentante a trattare con il vescovo e pare che abbiano fatto capire di essere disposti a ricorrere al tribunale della Regia Monarchia per difendere i loro diritti. Il Caracciolo, pur non nascondendo il suo dispiacere per l’atteggiamento assunto dai fedeli e dai giurati, non si dimostrò preoccupato di affrontare un altro giudizio al tribunale della Regia Monarchia. Sapeva infatti di poter far valere le disposizioni del concilio:

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Ibid., fol. 372r. Ibid., fol. 376r. 16 Ibid., fol. 376v-377r. 15

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«...Se alcuna pretensione hanno in contrario di poi comparire o innanzi di noi o innanci de la regia monarchia a dimandare loro giustitia che quantunque habbia circa sei mesi oi otto che in detta città furno tali ordine publicati et affixati, et che le parrochie per detto tempo vi sono stati introdutte et che sia elapso il termino dela appellatione, niente di meno noi non guardando tanto per suttile al passare de li termini non mancheriamo di farli complimento di giustitia, acciochè restassero etiam per quella via disangannati...»17.

Di un’altra minaccia il Caracciolo sembra preoccupato: pare che i fedeli avessero deciso di disobbedire in massa alla costituzione per non pregiudicare i loro diritti. Perciò egli scrive al vicario di convincere il popolo del contrario «...Exhorterete et pregareti da nostra parte tanto li magnifici giurati, quanto li altri del populo che vogliano contentarsi di quello che per noi è stato ordinato a beneficio delle anime loro et non volemo che mai si intenda essere generato preiudicio alle loro raggioni perché si comunichino nelle parrochie assignate oi vero nella ecclesia parrochiale di Sancta Maria con la licentia del loro parrochiano... Ma se loro staranno pertinaci noi ci protestiamo con Dio benedetto et col mondo tutto che non saremo per concedere niuna di queste gratie et da benigno patre faremo che ne conoscano per severissimo giudice...»18.

La lettera del Caracciolo non servì a cambiare gli animi. Un altro giurato fu mandato a Catania per informare il vescovo dello sviluppo degli avvenimenti: «...È comparso il magnifico signore Ioanne Francisco Criximanno uno de li magnifici signori giurati della detta città con lettere etiam delli magnifici signori giurati suoi collegge in sua credenza, et ne ha fatto intendere chel populo di detta città ancora persiste in mal contentezza et non quiete et che molti homini et donne della detta città non si sono communicati, né pensano forse communicarsi 17 18

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Ibid., fol. 377r. Ibid., fol. 377r-v.


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in questa festa di Pascha per dubio di non generarsi prejuditio a certe pretense raggioni che allegano et altri per altri rispetti supplicandoni che volessimo sopra questo casu far consideratione et non lassar quella città in tanta confusione et mal contentezza...»19.

Dinanzi al pericolo di un’astensione in massa dalla comunione pasquale, il Caracciolo è costretto ad assumere un atteggiamento più conciliante. Non potendo sospendere del tutto la sua costituzione, per non cedere alle pressioni dei fedeli, cerca la via del compromesso: «...Acciochè nessuno di detta città habbia o legitima o colorata causa et occasione di ritirarsi del detto Sant.mo Sacramento della comunione in questa festività di Pascha et di non satisfare al precetto della sancta Chiesa, havimo previsto et vi offitii nostri provedemo che, in quanto al detto sacramento di comunione tantum, siano suspese tutte le censure di excomuniche et etiam pene pecuniarie in detta nostra constitutione apposte contra li presti parrochiali, che detto sacramento di communione dassero et ministrassero ad altre persone che a quelle che li sono state nella loro chiesa parrochiale per la detta nostra constitutione assignati, la quale suspensione di censure et pene duri per tutta la festa della S.ma Trinità prossima da venire et non ultra...»20.

Per raggiungere lo scopo che si prefiggeva con l’erezione delle parrocchie, in cambio della sua concessione vuole che il vicario e i sacerdoti con l’aiuto dei giurati facciano un elenco di tutti i fedeli della città, notando separatamente quelli che sono in età inferiore agli undici anni e quelli che sono in età superiore: «...Et similmente farete che tutti quelli che in questa festa di Pascha si sarranno communicati et di qua innanci si communicharanno infra il detto termino si debbiano diligentemente descrivere et annotare per li rettori et cappellani dell’ecclesie dove si haveranno communicari et communicaranno...»21. 19

Ibid., fol. 382r. Ibid., fol. 382r-v. 21 Ibid., fol. 382v. 20

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Passata la Pasqua, pare che il problema sia stato trattato con più calma fra il vescovo e i giurati. In una lettera del 27 maggio 1566 il Caracciolo informa il vicario di Piazza che, aderendo al desiderio dei giurati, ha sospeso fino a tutto il mese di settembre la sua costituzione sulle parrocchie: «...Tutto si è fatto per molti buoni et degni rispetti et perché il populo a poco a poco et con dolcezza impari et si alletti a conoscere li frutti che dal pastore se li proponino per la salute delle anime, et che a quelli gustare si indica...»22. Se con questa sospensione i cappellani non saranno più obbligati ex officio ad amministrare i sacramenti ai fedeli della loro circoscrizione, «non può mancarvi l’obligo della carità cristiana et de la professione sacerdotale...»23. La questione delle parrocchie sarà riesaminata ex novo per giungere a una soluzione che sia da tutti accettata. Prima che scadesse il termine fissato, il Caracciolo ebbe diversi incontri con i rappresentanti dei giurati e si stabilirono «alcuni capitoli del modo et forma che si deve constituire la cura delle anime»24. I giurati assieme al vicario della città avrebbero studiato il modo di attuare gli accordi raggiunti. Per dare il tempo necessario al perfezionamento dell’accordo, si prorogò la sospensione della costituzione fino a tutto il mese di dicembre. Ma saranno necessarie altre due proroghe: una «per tutto l’ultimo giorno di Carnivale» (11 febbraio)25 e l’altra per il 15 marzo26. Sembra che il ritardo nella soluzione definitiva della questione, oltre alla mancanza di buona volontà da parte dei giurati, sia stata determinata dalla necessità di attendere la conferma dalla cor22

Ibid., fol. 442r. L. c. 24 TA 1566-1567, fol. 32v. 25 Pare che questa proroga sia stata causata dal cambio dei giurati con i quali si era trattata la questione e raggiunto un certo accordo; infatti il vescovo parla di «magnifici giurati che sono novamente intrati in officio sopra il mandar del sindaco per fare le debite cautele sopra quel che si era trattato con li loro predecessori et ambasciatori de la detta città...» (TA 1566-1567, fol. 152v-153v). La proroga concessa spontaneamente dal vescovo, doveva essere l’ultima: «...che si infra questo tempo non compliranno quanto deveno sopra dello negotio, noi ne renderemo inexorabili et inflexibili ad ogni altra loro petitione, perché non volemo portar più longo tempo sopra le spalle un tanto peso et scrupolo di conscientia, ma essequirete et farete essequire quanto vi è stato commesso et ordinato...» (l. c.). 26 Ibid., fol. 218v-219r. 23

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te di Palermo. Quasi alla scadenza il vescovo sollecita ancora una volta una risposta, minacciando di attuare definitivamente la sua costituzione se non si rispetterà il termine stabilito27. Dopo tante trattative, il 27 marzo si perfeziona l’accordo tra il vescovo e i giurati per riorganizzare la cura delle anime nella città di Piazza, secondo le direttive del concilio di Trento. La serie dei documenti riportati nel volume di Tutt’Atti del 1566-1567 contiene: 1) i capitoli già preparati in antecedenza dal vescovo e dal rappresentante dei giurati; 2) la ratifica del consiglio dei giurati; 3) la conferma del viceré di Sicilia; 4) la delega al rappresentante del consiglio dei giurati di Piazza per ratificare l’accordo col vescovo. Gli accordi raggiunti denotano chiaramente il compromesso. Le difficoltà incontrate e il pericolo di un allontanamento dei fedeli dalla pratica religiosa, avranno consigliato al Caracciolo di accettare qualsiasi soluzione capace di salvare la sua autorità e la sua coscienza. È bene tenere presente questa osservazione, per capire tutti i punti di un accordo che appare strano e artificioso. Il documento inizia con un riferimento alle norme del concilio di Trento e con la costatazione che nella città di Piazza non ci sono state mai chiese parrocchiali distinte e si sono incontrate difficoltà per fare accettare la loro istituzione. Per risolvere le questioni sorte dopo la decisione dell’anno precedente, si è giunti alle seguenti conclusioni: — «...La matre chiesa di detta cità sia unica et universal ecclesia parrochiale di tutta la detta cità alla quale matre chiesa tutto il populo et ciaschiduno di quello possa liberamente concorrere per l’amministratione di sacramenti...»28. Nella chiesa madre la cura delle anime è affidata a quattro cappellani. — «...Per comodo di detta cità et suo populo si constituisceno per ecclesie coaggiutrici dipendenti... la chiesa di San Martino et la chiesa del Padre Santo... per lo modo seguenti cioè che la detta cità si divida in tre ...parti o quarteri...»29.

27

Ibid., fol. 273v-274r. Ibid., fol. 305v. 29 L. c. 30 «Metateri» erano detti i sacerdoti che avevano in affitto una cappellania. Vengono tuttora chiamati con questo termine i mezzadri. 28

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— «...Il populo et persone li quali habitano et pro tempore habitaranno nel quarteri della matre chiesa et suo compreso debbiano stare sotto la cura delli quattro cappellani... et suoi quattro metateri30 et debbia il detto popolo del detto quarteri pigliare et ricevere li sacramenti et tutti altri offitii ecclesiastici della detta matre chiesa, et non di altri sacerdoti, né in altra chiesa senza expressa licentia di uno delli detti quattro cappellani lo quale sarà pro tempore hebdomadario...»31. Così pure i fedeli appartenenti alle altre due circoscrizioni. — Se i fedeli del quartiere di San Martino vogliono ricevere i sacramenti nella chiesa madre, possono riceverli solo dal penultimo cappellano o dal suo sostituto. Se poi vogliono riceverli nella terza chiesa sacramentale del Padre Santo, devono ottenere il permesso dal cappellano di San Martino e dal terzo cappellano della chiesa madre32. — Se i fedeli del quartiere Padre Santo vogliono ricevere i sacramenti nella chiesa madre, devono richiederli al quarto cappellano. Se vogliono andare alla chiesa di San Martino devono avere il permesso dal proprio cappellano e dal quarto cappellano della chiesa madre33. — «...La cura delle anime del quartieri della ecclesia di Sancto Martino sia et debbia essere dello penultimo cappellano della detta matre chiesa... et ancho del cappellano seu beneficiato della chiesa predetta di San Martino e del suo aggiunto...»34. E così pure per la chiesa del Padre Santo la cura delle anime spetta all’ultimo cappellano della chiesa madre e al cappellano della stessa chiesa. — «...Si debbiano nella matre chiesa fare tre libri in uno delli quali si annotiranno le anime del quarteri della matre chiesa, in l’altro le anime del quarteri di San Martino, et nel terzo libro le anime del quarteri del Patre Sancto...»35. Anche nelle altre due chiese si dovrà tenere un registro per annotare i fedeli della propria circoscrizione. — Si dovranno nominare quattro cappellani aggiunti: due per aiutare rispettivamente il penultimo e l’ultimo cappellano della chie-

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1566-1567, fol. 306r. Ibid., fol. 307r. 33 Ibid., fol. 306v. 34 Ibid., fol. 307r. 35 L. c. 32

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TA


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sa madre; due per aiutare rispettivamente i cappellani delle altre due chiese sacramentali36. — A questi quattro cappellani la città si impegna a pagare una rendita annua di venti once, oltre gli incerti di stola che loro spettano per l’amministrazione dei sacramenti37. — La confessione e la sepoltura rimane libera38. — I fedeli sono obbligati a ricevere la comunione nella propria chiesa sacramentale o nella chiesa madre, nel modo sopra descritto, solo nel periodo pasquale39. — Il vescovo, dentro un anno, deve impegnarsi a far confermare dalla s. Sede l’accordo raggiunto: «...Mancando alcuna de li cosi premissi la cità predetta remagna in suo pristino iure et statu accussì como mai li presenti capituli fussiru stati facti...»40. Volendo esprimere un giudizio complessivo su tutta la questione, bisogna fare diverse osservazioni. La costituzione del Caracciolo, pubblicata nel 1565, vuole attuare quattro parrocchie autonome e assegnare ad ognuna un parroco perpetuo. Il beneficio principale che vuol conseguire dall’attuazione delle norme tridentine sembra debba essere un più facile controllo di coloro che a Pasqua osservano il precetto della confessione e della comunione. In tal senso interpreta la norma del concilio: «il santo sinodo comanda ai vescovi... di dividere il popolo in parrocchie vere e proprie e di assegnare a ciascuna un proprio parroco stabile, che possa conoscere i propri parrocchiani e dal quale soltanto ricevano lecitamente i sacramenti»41. Se è questo lo scopo principale della riforma a cui si sente gravemente obbligato in coscienza, è ovvio che non può cedere su questo punto. D’altra parte, per i fedeli, l’obbligo di ricevere la comunione pasquale nella propria chiesa parrocchiale, costituisce l’aspetto negativo, che li porta a rifiutare la costituzione del Caracciolo. Per mettere d’accordo i due diversi punti di vista, si fece ricorso a un complesso di norme artificiose e

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Ibid., fol. 307r-v. Ibid., fol. 307v. 38 Ibid., fol. 308v. 39 L. c. 40 L. c. 41 Sess. XXIV, de ref., c. 13 (Conc. Oec. Decr., 768). 37

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incomprensibili, che certamente non fecero onore né ai giurati, né al vescovo. Il Caracciolo cedette sulle parrocchie autonome, attuando solo due chiese sacramentali succursali della chiesa madre. Nel nuovo accordo non si parlò più di parroci perpetui, anzi venne accettato l’uso delle cappellanie date in affitto. In cambio ottenne l’assenso a un illusorio controllo di coloro che osservavano il precetto pasquale e il sostentamento di quattro cappellani coadiutori a spese della città. Nonostante l’impegno del Caracciolo per raggiungere un accordo ed attuare una riforma che gli stava tanto a cuore, in pratica, sembra che tutto sia stato inutile. La sua morte, avvenuta nel gennaio successivo, o qualche altra causa a noi sconosciuta impedì di ottenere la conferma dalla s. Sede dell’accordo raggiunto ed anche per la città di Piazza fu impossibile attuare la riforma delle parrocchie.

2. LA

RIFORMA PARROCCHIALE A

CASTROGIOVANNI

EA

SAN FILIPPO

D’AGIRA

La città di Castrogiovanni aveva già delle chiese sacramentali con territorio proprio e non poneva al Caracciolo gli stessi problemi di Catania e di Piazza, c’era anzi la difficoltà del loro numero eccessivo in rapporto alla popolazione e alle possibilità di assicurare il sostentamento ai parroci. Nella visita pastorale del 1565 il Caracciolo decise di sopprimerne quattro: San Nicola, San Pietro, Santissima Trinità e Santa Caterina42. Ai cappellani delle chiese sacramentali soppresse assegnò 42 «Ex parte nobilis erarii et promotoris fiscalis magnae episcopalis curiae catanensis degentis in hac civitate Castri Ioannis in discursu visitationis, Rev.mae D. V. exponitur et supplicatur ut infra. Cum sit quod in dicta civitate repperiantur quatuor ecclesiae parrochiales videlicet: ecclesia Sancti Nicolai, ecclesia Sanctae Catherinae, ecclesia Sancti Petri et ecclesia Sanct.mae Trinitatis quae sunt pauperrimae quia pauci sunt parochiani et pauperes ex quorum primitiis cappellani dittarum ecclesiarum nullatenus vivere aut substentari possunt, itaque necesse est eis aliunde querere victum et propeterea non possunt bene servire ecclesiis predittis sicut pro animarum cura et salute requiritur prout de his ex testibus receptis in dicta episcopali curia degentis super liquidissime constat et apparet, propterea stante supra ditta causa supplicavit et supplicat R. d. Vestram quatenus dignetur mandare quod predittae ecclesiae parrochiales perpetuo uniantur et subiiciantur aliis ecclesiis

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una rendita per il sostentamento e per assicurare la messa festiva nelle rispettive chiese43. A San Filippo d’Agira il centro abitato si era notevolmente esteso e i cappellani della parrocchia Santa Margherita non erano più in grado di venire incontro alle esigenze dei fedeli. Perciò assieme ai giurati chiesero la cura d’anime per la chiesa di San Pietro. Nella richiesta presentata al vescovo, la nuova chiesa sacramentale avrebbe dovuto avere dei cappellani propri, ma rimanere alle dipendenze della parrocchia Santa Margherita44.

parochialibus dittae civitatis Rev.mae D. V. bene visis prout comodius et utilius pro cura et salute animarum esse videbitur iuxta formam sacrorum canonum et decretorum concilii Tridentini... Facta relatione preditta fuit per suam Ill.am et Rev.am Dominationem provisum et ita providet quod ecclesia parochialis Sancti Petri uniatur et subiiciatur ecclesiae parochiali Sancti Blasii, reservatis presbitero Guillelmo Lo Turcho tamquam parocho dittae ecclesiae Sancti Petri tarenis sex reditus eiusdem ecclesiae et aliis duodecim qui proveniunt ex legato pro celebranda missa in eadem ecclesia S.ti Petri. Dividatur parrochia sancti Nicolai et pars una eiusdem parrochiae uniatur ecclesiae parochiali sancti Ioannis, altera vero uniatur ecclesiae parrochiali sancti Cathaldi. Dividatur parrochia sanctissimae Trinitatis et pars uniatur ecclesiae parrochiali sancti Leonardi, altera vero uniatur ecclesiae parrochiali sancti Bartholomei, reservata tamen presbitero Mathaeo Furnaya tamquam parrocho dittae ecclesiae Trinitatis uncia una pro celebranda missa singulis hebdomadis in eadem ecclesia. Ecclesia parrochialis sanctae Catherinae uniatur et subiiciatur ecclesiae parrochiali sancti Georgi et provideatur de coadiutore presbitero Matheo de Altamagna propter eius inhabilitatem. Cui coadiutori applicentur omnes reditus proventus et emolumenta, reservatis tamen ditto presbitero de Altamagna tanquam parocho duobus untiis. Dummodo qualibet hebdomada celebret missam in ecclesia divae Catherinae» (TAV 1565, fol. 173v-174v). 43 L. c. 44 «Venerabiles D.ni... cappellani parrochiae sanctae Margaritae, civitatis sancti Philippi de Argirone presentes tenoris praesentis notae. Ex quo plebs sive populus parrochiae ecclesiae sanctae Margaritae predittae, dante Domino in tantum accreverit una cum ampliatione domorum et habitatorum quia propter distantiam et longitudinem in itinere stante maxime incommoditate viarum et quia aliquando propter respectos predittos pueri sive infantes non baptizati aut sine confessione aut sine viatico, aut sine extrema uncione decedunt etsi aliqui sacerdotes servirent ecclesiam sancti Petri, de membris dittae parrochiae aut alteri ecclesiae in qua detineretur fons battismatis una cum crismate et oleo sancto ac etiam extrema unctione maximum inde servitium onnipotenti Deo et populi commodum una cum saluti animarum pervenirent, propterea omnes prefati ven. cappellani et communerii contenti fuerunt et sunt quod Ill.mus et Rev.mus dominus Episcopus Catanensis vel eius in

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L’iniziativa non doveva far prevedere difficoltà se la richiesta era stata avanzata dal clero locale e dai giurati. Ma questa volta l’opposizione venne dal priore dell’abbazia benedettina Santa Maria Latina, che aveva dei diritti particolari su tutte le chiese della terra. I monaci fecero «iniunctione penale alli sacerdoti communeri di detta ecclesia di Sancta Margarita che non portino né ministrino li sacramenti in detta ecclesia di Sancto Petro»45. Il gesto fece meraviglia al vescovo, che lo interpretò come una indebita ingerenza del priore nella sua giurisdizione sul clero. Tanto più che l’abbazia era ormai da tempo decaduta ed era in mano a un abate commendatario46. Ma l’assicurazione del vicario generale di non voler recare alcun pregiudizio ai diritti dell’abbazia, fu sufficiente per superare l’opposizione: «...La mente dell’Ill.e et Rev.mo Mons.r di Catania et nostra fu di obviare alli danni, scandali et prejudicio delle anime della parrocchia et provedere che non se li mancasse la debita administratione delli sacramenti, però senza preiudicio et interesse della detta abbatia et suo rev.do abbate et monaci vi dicimo et comandamo expresse, che la detta abbatia et suoi abbati, priore et monaci habbiano et debbiano habere in dicta ecclesia di sancto Petro la offerta o representatione (come dicono della offerta nello giorno della festività di sancto Petro et ancho le candele solite darsi ogni anno a detta abbatia) cossì come ni sonno in possessione e sonno stati per il passato et di più che debbiano havere tucte quelli raggioni, lucri, emolumenti, proventi, obventioni, autorità, prerogativa, potestà et qualsivoglia altri raggioni le quali la detta abbatia et suoi monaci hanno nelle ecclesie parrocchiali di quessa città...»47. spiritualibus Rev. dominus Vicarius generalis ponant et costituant et cuilibet eorum ponat et costituat in ditta ecclesia beati Petri, vel alia ut supra vel constitui e poni faciat sive mandaret fontem battismatis et inibi conserventur sanctum crisma, oleoum sanctum et extrema unctio ac etiam corpus D.ni Nostri Jesu Christi pro commoditate infirmorum, dummodo eidem ecclesiae serviant propriis communeriis et non tamen communia ecclesiae beatae Margaritae et sit semper membrum unitum annexum et incorporatum dictae ecclesiae beatae Margaritae quemadmodum est ecclesia beati Antonini in parrochia SS.mi Salvatoris et non aliter» (TAV 1562, 30 ottobre 1562). Il documento è stato aggiunto posteriormente nel registro. 45 TA 1563-1564, fol. 85r-86r. 46 G. P. SINOPOLI DI GIUNTA, La badia, cit., 53. 47 TA 1563-1564, fol. 111v-113r.

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3. LE COMUNÌE NEI CENTRI MINORI: PATERNÒ, ASSORO, REGALBUTO La cura delle anime nei vari centri della diocesi non poneva sempre gli stessi problemi. Abbiamo esaminato il caso delle città che esigevano un decentramento delle strutture ecclesiastiche, perché l’azione pastorale raggiungesse tutti i fedeli, anche quelli dei quartieri periferici. Da questa situazione nasce il tentativo di erigere le parrocchie a Catania e a Piazza. Ma c’erano anche i centri minori, dove si avvertiva l’esigenza opposta: accentrare il più possibile per evitare inutili dispersioni di forze. Da questa esigenza hanno origine due iniziative: ridurre le parrocchie esistenti, organizzare il clero per assicurare un servizio continuo ed efficace. Il numero dei sacerdoti generalmente era molto elevato in rapporto alla popolazione; ma la loro attività era frammentaria e poco incisiva, sia perché erano poco preparati, sia perché erano disorganizzati e abbandonati alla propria iniziativa individuale48. Per impegnarli attivamente nel ministero pastorale, assicurare a tutti un equo sostentamento ed eliminare la piaga delle cappellanie date in affitto, il Caracciolo istituì o potenziò le comunìe49. Si trattava di una istituzione di diritto particolare, che riuniva in corporazione i sacerdoti di un determinato luogo. Ai membri della comunìa veniva affidata in solidum la cura delle anime ed era assicurato il sostentamento dalle distribuzioni provenienti da un patrimonio, costituito come «massa comune» da beni e offerte di natura diversa50. 48

R. BIZZOCCHI, Clero e Chiesa, cit., G. GRECO, Fra disciplina e sacerdozio, cit. Il termine “communia” era già in uso nel latino ecclesiastico del sec. XII con il significato di «bona quae in commune possidentur a canonicis ecclesiae alicuius cathedralis; vel quidquid ex iisdem bonis ac proventibus in commune iisdem distribuitur» come è documentato in C. DU CANGE, Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, Frankfurt {Main} 1710, I, 1234. Con lo stesso termine si incominciò a indicare anche l’insieme delle persone, titolari della proprietà comune dei beni, che avevano diritto alla distribuzione. 50 Questi collegi di sacerdoti hanno delle analogie con i capitoli, ma si distinguono per delle caratteristiche proprie: la comunìa è essenzialmente un ente morale collegiale, cioè una corporazione con una «massa comune» per le distribuzioni; mentre il capitolo è un ente morale collegiale che comprende le prebende, cioè fondazioni o enti morali con una certa autonomia. Nella comunìa la cura d’anime di solito è affidata collegialmente a tutti i suoi membri. Nei capitoli invece, la cura d’ani49

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Come si può notare, si trattava di una istituzione, che si prefiggeva di risolvere allo stesso tempo il problema del sostentamento del clero e quello dell’organizzazione della cura d’anime. Altre istituzioni di diritto particolare con qualche analogia fra di esse, erano le chiese ricettizie diffuse nel regno di Napoli51 e le chiese patrimoniali presenti in alcune diocesi della Spagna52. Le tre istituzioni convergevano su un punto: ai sacerdoti nati in un determinato luogo, che esercitavano la cura delle anime, era assicurato il sostentamento. C’erano però delle differenze, perché nelle chiese patrimoniali la cura delle anime era esercitata individualmente, mentre nelle chiese ricettizie e nelle comunìe era esercitata collegialmente. Un’altra diversità bisogna evidenziare fra le chiese ricettizie e le comunìe: il patrimonio delle chiese ricettizie era costituito da terreni agricoli, quello delle comunìe da legati di messe, dalle primizie, da censi... Se i partecipanti delle chiese ricettizie volevano percepire i frutti dai terreni del loro patrimonio, dovevano impegnarsi nella loro coltivazione. Si comprendono pertanto le particolari problematiche del clero ricettizio e le figure del prete-massaro o del prete-cafone, descritte da Gabriele De Rosa e dalla sua scuola53. Questo discorso però non riguardava il clero delle comunìe. Pertanto se le chiese ricettizie e le comunìe dal punto di vime collegiale non è un elemento essenziale; i capitolari possono avere una diversa responsabilità secondo gli uffici che comportano le prebende. 51 {G. CASELLI}, Le chiese ricettizie, in Il Diritto Ecclesiastico 1 (1890-1891) 575589; 2 (1891-1892) 209-223; G. CORAZZINI, La parrocchia nel diritto italiano. Storia, legislazione, dottrina giurisprudenza, Torino 1900, 368-381; F. SCADUTO, Ricettizie, in NDI, VI, Torino 1939, 638-645; D. VENDITTI, Delle chiese ricettizie nel passato e nel presente, Rovigo 1946; F. ROMITA, Le chiese ricettizie nel diritto canonico e civile dalle origini ai nostri giorni, Roma 1947; R. BACCARI, Le chiese ricettizie, Milano 1948. 52 H. GONZALEZ, Dilucidum ac perutile glossema seu commentatio ad regulam octavam Cancellariae de reservatione mensium et alternativa episcoporum, Romae 1611, 247-260; A. BETHENCOURT MASSIEU, Pilonaje o Patrimonialidad de los beneficios curados en Canarias, in Almogaren. Revista del Centro Teologico de Las Palmas (1992) 2, 157-176; A. GARCÍA Y GARCÍA, Beneficios y clérigos patrimoniales en Castilla, in Studi in onore di Gaetano Catalano, Soveria Mannelli 1998, 721-738. 53 G. DE ROSA, Chiesa e religione popolare, cit., 56-72; ID., Vescovi popolo e magia nel Sud, cit., 36-38, 163, 321; La società religiosa nell’età moderna. Atti del Convegno di studi di Storia sociale e religiosa, Capaccio-Paestum, 18-21 maggio 1972, Napoli 1973; La parrocchia nel Mezzogiorno dal medioevo all’età moderna. Atti del I Incontro seminariale di Maratea [17-18 maggio 1977], Napoli 1980.

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sta formale sembrano coincidere, quando si considera la loro struttura e il loro vissuto sono diverse. Nei decreti del concilio di Trento si trova un cenno alla chiese patrimoniali e alle chiese ricettizie: i vescovi erano obbligati a nominare sempre un vicario idoneo «quando per morte o per rinunzia... una chiesa parrocchiale si renderà vacante, anche se è amministrata da una o più persone; anche nelle chiese dette patrimoniali o ricettizie...»54. Poiché si trattava di istituzioni pressoché sconosciute dai canonisti, quando si cercò di approfondire la loro natura e la loro configurazione si fece una certa confusione. L’accostamento delle chiese ricettizie alle chiese patrimoniali fatto dal concilio di Trento indusse a ritenere che fossero realtà simili, indicate con nomi diversi55; una seconda assimilazione fu fatta tra chiese ricettizie e comunìe56. Inoltre, considerato che le chiese patrimoniali erano presenti in Spagna mentre le chiese ricettizie si erano sviluppate nelle regioni italiane soggette al dominio spagnolo, si giunse alla conclusione che si trattava di un istituto giuridico nato in Spagna e diffuso nelle regioni dell’Italia meridionale57, non tenendo presente che le prime chiese ricettizie del regno di Napoli sono documentate nei secoli XII-XIII58, mentre la dominazione spagnola ebbe inizio nel secolo XV e si consolidò nei secoli successivi. In realtà si tratta di istituzioni diverse, che attuavano in vario modo — secondo circostanze e consuetudini locali — alcuni princìpi già affermati dal diritto universale59: — la necessità di provvedere al sostentamento dei sacerdoti addetti alla cura d’anime60; 54

Sess. XXIV, de ref. c. 18, Conc. Oec. Decr., 770. F. ROMITA, Le chiese ricettizie, cit., 23-24. 56 N. COVIELLO, Manuale di diritto ecclesiastico, a cura di V. Del Giudice, II, Roma 1922, 200. 57 F. ROMITA, Le chiese ricettizie, cit., 23-29; R. BACCARI, Le chiese ricettizie, cit., 11-12; P. G. CARON, Comunie o chiese ricettizie, in NDI, III, 852-854. 58 G. DE ROSA, Chiesa e religione popolare, cit., 22; ID., Vescovi popolo e magia nel Sud, Napoli 19832, 177; M. ROSA, Religione e società nel Mezzogiorno tra Cinque e Seicento, Bari 1976, 151-153. 59 A. GARCÍA Y GARCÍA, Beneficios y clérigos patrimoniales, cit., 724-725. 60 Le linee di sviluppo del patrimonio ecclesiastico, necessario alla Chiesa per svolgere la sua missione, sono tratteggiate da W.M. PLÖCHL, Storia del diritto canonico, I, Milano 1963; 97-101; 267-285; II, 383-440. 55

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— la scelta preferenziale dei sacerdoti del luogo nella nomina dei responsabili, per una più efficace azione pastorale fondata sulla reciproca conoscenza tra pastori d’anime e fedeli61; — la necessità di coinvolgere il più possibile il clero di un centro abitato nell’attività pastorale, per distoglierlo da occupazioni non consone al proprio stato62; — la concessione di particolari privilegi, in segno di gratitudine, a coloro che avevano edificato una chiesa o costituito un patrimonio ecclesiastico63. In Italia l’individuazione della natura delle chiese ricettizie e delle comunìe non è stata facilitata dall’approccio prevalentemente giuridico al problema, dall’indirizzo giurisdizionalista affermatosi nella dottrina e nella giurisprudenza a partire dal ’700 nei due regni di Napoli e di Sicilia, e dalle leggi eversive promulgate dallo Stato italiano nel 186764. Il legislatore, per attuare la riforma sulla base di una sua particolare visione dei rapporti Stato-Chiesa, incluse in un unico schema diversi istituti giuridici, non senza evidenti incongruenze e forzature65.

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Nel Decreto di Graziano sono recepiti testi di Celestino I del 428 (D. 61, c. 13), di s. Leone Magno del 446 (D. 63, c. 19), di s. Gregorio Magno del 602 (D. 61, c. 19). 62 Concilio Niceno II, c. 10 (Conc. Oec. Decr., 146-147), Concilio Lateranense III, c. 12-14 (ibid., 218), Concilio di Vienne, 8 (ibid., 364-365). 63 Si vedano alcuni testi recepiti nel Decreto di Graziano: C. 16, q. 7, c. 28, 30, 32; G. GRECO, I giuspatronati nell’età moderna, in La Chiesa e il potere politico, cit., 531-572. 64 D. GATTA, Dissertazione delli benefici patrimoniali e delle chiese ricettizie (Reali dispacci nelli quali si contengono le Sovrane Determinazioni de’ Punti Generali, o che servono di norma ad altri simili casi, nel Regno di Napoli, 1a parte: che riguarda lo Ecclesiastico, I, tit. XXVIII, n. 7, § 1-187, 133, 138-141, Napoli 1773); V. GIACONA, Comunie, in Il Digesto Italiano, VII, parte III, Torino 1896-1899, 734-739; F. SCADUTO, Ricettizie, cit.; P. G. CARON, Comunie o chiese ricettizie, cit.; V. DE VITIIS, Chiese ricettizie e organizzazione ecclesiastica nel Regno delle Due Sicilie dal concordato del 1818 all’Unità, in Per la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno d’Italia, a cura di G. Galasso e C. Russo, Napoli 1982, 349-481. 65 Francesco Scaduto non aveva mancato di evidenziare le contraddizioni esistenti nella legislazione dei secoli XVIII-XIX, dovute «a motivi politici» (F. SCADUTO, Ricettizie, cit., 639) e una certa confusione nell’uso della terminologia: «Ora tutte queste espressioni (ricettizie, comunie, cappellanie corali, chiese patrimoniali, sacre distribuzioni) sono forse sinonime? Se sì, il legislatore ne avrebbe adoperate almeno tre per indicare un medesimo istituto, superficialità ermeneuticamente in generale non ammissibile» (ibid., 641).

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Prendendo in esame le trattazioni degli studiosi di diritto ecclesiastico è facile riscontrare una certa ambiguità di fondo, dovuta sia alla mancanza di ricerche storiche documentate sulla natura e i fini dei singoli istituti, sia alla necessità di limitarsi a commentare il diritto vigente. Una rassegna delle conclusioni alle quali pervengono gli autori deve tenere conto di queste considerazioni66. Nella diocesi di Catania la comunìa si configurava come corporazione e come ente ecclesiastico. Non si hanno esempi di comunìe non curate o di patronato laicale. Il Caracciolo vide in questo istituto uno strumento validissimo per attuare la riforma del clero e della cura d’anime e se ne servì largamente. Il caso più rilevante, per il modo e le circostanze in cui fu attuato e per la documentazione che possediamo, è quello di Paternò. Il Caracciolo decise di sopprimere le chiese sacramentali esistenti67 e di costituire una comunìa nella chiesa madre, alla quale affidare la cura d’anime di tutto il centro abitato. I membri della comunìa avrebbero esercitato la cura d’anime a turno, secondo le indicazioni contenute nello statuto, e avrebbero ricevuto una quota dal patrimonio costituito dalle rendite delle chiese sacramentali soppresse, riunite in «massa comune». Come possiamo leggere in una lettera al vicario di Paternò del 20 novembre 1559, il problema era stato posto dal clero locale e dal vescovo: «Come sapete, essendo noi nella visita in quessa terra, per lo bisogno di servimento {che} era nella maiore ecclesia, a preghi cossì 66

Non tutti gli autori sono d’accordo sulla natura delle chiese ricettizie: per alcuni sono fondazioni, per altri corporazioni; alcuni le ritengono enti laicali, che diventano successivamente ecclesiastici, altri, invece le considerano fin dall’origine enti ecclesiastici. La tipologia delle chiese ricettizie è varia: curate, non curate; di libera collazione, di giuspatronato laicale; familiari, civiche; numerate, non numerate... (F. SCADUTO, Ricettizie, cit.; C. CALISSE, Diritto ecclesiastico, Firenze 1902, 186-187; R. BACCARI, Le chiese ricettizie, cit.). Lo storico non può limitarsi all’analisi della norma giuridica, perché i contenuti dello schema formale, che possono essere ritenuti irrilevanti dal legislatore, spesso offrono particolari spunti di riflessione e di analisi per lo studio della società nel suo insieme. 67 Le chiese sacramentali a Paternò erano cinque: Santa Maria dell’Alto; Santa Maria delle Grazie, Sant’Andrea, San Nicola e Santa Maria di Giosafat. Quest’ultima, poiché era annessa al monastero benedettino, rimase esclusa dal provvedimento del Caracciolo (TA 1564-1565, fol. 44r; 259v-260r).

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vostri come di molti del clero et ancora di molti di quessa terra, restamo contenti consentir si dovesse quessa ecclesia redducere in comunia...»68.

Però la soluzione del problema era subordinata all’accettazione del beneficiale della chiesa madre, sacerdote Giuseppe Stracuzio, che tra l’altro, non risiedeva a Paternò, ma nella diocesi di Patti. Il concilio di Trento non si era ancora chiuso e il vescovo non poteva far riferimento a nessuna norma per rimuovere il beneficiale di autorità, visto che non risiedeva nella parrocchia. Era perciò necessario giungere a un accordo. Il vicario di Paternò, su incarico del vescovo, si era recato a Patti per incontrarsi con il sacerdote Stracuzio. L’incontro pare che sia stato infruttuoso. Nonostante questa difficoltà si erano già preparati con il provisore del vescovo «li atti et cauteli necessari per ditta comunia»69. Ma il vicario foraneo non si era più interessato del problema e le trattative non erano andate avanti. Perciò il vescovo aggiunse una nota di rimprovero in calce alla sua lettera: «...Bisogna esser più amorevole delle cose della chesia che voi non sete e sel fosse harresti usata maggior diligentia in dar fine a questo negocio, essendo a beneficio universale»70. Il documento che costituisce la comunìa porta la data del 24 novembre 1559 e in esso troviamo i motivi che spinsero il Caracciolo a fare questa scelta. Nell’ultima visita pastorale aveva notato le condizioni di abbandono in cui si trovava la chiesa madre dal punto di vista materiale e spirituale. La cura delle anime era affidata a un solo sacerdote, ma questi, forse perché forestiero o forse perché le rendite del beneficio erano modeste, era vissuto sempre lontano dalla sua chiesa; perciò il servizio che veniva prestato in essa era quasi nullo. La soluzione che il vescovo ritenne più opportuna per eliminare questi inconvenienti fu quella di erigere nella chiesa una comunìa. Tutti i sacerdoti di Paternò sarebbero stati chiamati al servizio di Dio nella chiesa madre, recitando le ore canoniche, celebrando le messe, amministrando i sacramenti e ricevendo una quota dal patrimonio della co-

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1559-1560, fol. 105r-v. L. c. 70 L. c. 69

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munìa. Da questa diversa impostazione della cura delle anime si sperava in un incremento del culto divino e in non pochi benefici per le anime della terra di Paternò. Spinto da queste considerazioni, il vescovo eresse formalmente la comunìa nella chiesa madre è affidò a tutti e singoli i sacerdoti la cura delle anime del centro abitato71. 71 «XXIIII novembris. Constitutio in communiam. Cum Ill. et Rev.mus d.nus Dominus Nicolaus Maria Dei et Apostolicae Sedis gratia episcopus catanensis lapsis proximis diebus ecclesiam matricem terrae sive oppidi Paternionis eius dioecesis, s. Mariae de Alto nuncupatam, cui cura imminet animarum, visitare eandem ecclesiam, tam in suis strutturis et fabrica quam in aliis ornamentis divino cultui mancipari solitis, reperiit destructam esse et quasi poenitus desolatam, et quod oppido est referendum quod animarum cura parochianorum inibi pro tempore existentium negligi magnopere videtur, nam in huismodi ecclesia unus est rettor, et qui in presentiarum reperitur tum quia est alienigena, tum etiam quia propter tenuitatem forte reddituum temporalium ipsius ecclesiae, cum ibi ex illis redditibus vivere non valeat, ab ecclesia preditta semper abfuit et abest, adeoque stantibus predittis et etiam quia servitium quod eidem ecclesiae prestatur aut nullum, aut quasi nullum absque dubio dici meretur, ecclesiae prefatae quodcumque aliud vile nomen quam nomen ecclesiae competere videatur, et si ditta ecclesia in communiam prout et aliae nonnullae in ditta dioecesi Catanien, esse videntur, erigeretur et constitueretur et pro servitio ecclesia prefatae inibi omnes sacerdotes terrae et oppidi praeditti Paternionis comuniter instituerentur, qui inibi Deo servirent horas recitando canonicas, missas celebrando et alia sacramenta populo ministrando ex hoc divini cultus inibi incrementum non modicum, nec non praefatae terrae et oppidi decus et honor succederent, clerusque saecularis ac utriusque sexus populus terrae sive oppidi eiusdem plurimam animarum suarum consolationem et gaudia in domino sentirent, aliaque plura bona et utilia ad multorum animarum salutem procul dubio provenirent, prefatus Ill. et Rev.mus dominus Episcopus volens prout ad suum spettat officium super praemissis debite providere auctoritate ordinaria et pontificali qua fungitur omnibusque aliis melioribus modo, via, iure causa et forma quibus melius et efficacius de jure potuit et debuit ac potest et debet, eamdem ecclesiam sanctae Mariae de Alto in comuniam erexit, constituit et ordinavit, prout erigit, constituit et ordinat, in eaque et pro servitio eius et pro cura animarum in ditta terra et oppido pro tempore habitantium omnes sacerdotes terrae et oppidi praeditti instituit, quibus omnibus et singulis curam animarum praedittarum commisit et committit, cum perceptione omnium et singulorum jurium proventium et obventionum ecclesiae praedittae, estinguendo amodo titulum singularem ecclesiae praefatae. Et si forte in presentiarum vacat, vel cum vacaverit sive per cessum, sive per decessum moderni rettoris huiusmodi ecclesia tunc minime vacare censeatur, sed sit et reputetur collata et incorporata comuniae praedittae, iuraque, proventus, obventiones, oblationes, bonaque temporalia, sive redditus temporales ipsius ecclesiae cum absolute et libere eius fuerint, aequaliter inter sacerdotes communerios qui inibi actu servient distribuantur et dividantur. Itaque huiusmodi ecclesiam in communiam ut supra erettam reputari et haberi,

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L’entrata in vigore della costituzione era subordinata all’approvazione della s. Sede ed alla rimozione o rinunzia del beneficiale. Una lettera di Pio IV al Caracciolo del 16 luglio 1564, ci informa che la costituzione della comunìa di Paternò fu ratificata da Paolo IV e che il beneficiale sacerdote Giuseppe Stracuzio, avendo ottenuto una pensione annua, presentò le dimissioni72. Fra tutte le comunìe erette o ristrutturate dal Caracciolo in questo periodo, quella di Paternò costituisce un caso a sé. Nelle altre terre esistevano condizioni diverse e furono attuate con diverse modalità. In alcuni casi troviamo una sola comunìa nell’unica chiesa sacramentale esistente: Assoro73, Adernò74, Calascibetta75, In altri casi troviamo tante comunìe quante sono le chiese sacramentali: San Filippo d’Agira76, Regalbuto...77. Tutte le comunìe avevano un loro statuto dove erano contenute le norme per l’ammissione e la dimissione dei sacerdoti e dei chierici, per la divisione dei compiti fra i vari membri, per la distribuzione delle rendite e delle offerte. Fra i diversi statuti riportiamo quello della comunìa di Paternò perché il più completo e il più caratteristico:

ac omnia alia praemissa inviolabiliter observari mandavit et mandat, reservatis nihilominus super praemissis et praemissorum quolibet auctoritate, consensu et confirmatione sanctae Sedis Apostolicae et Summi Pontificis quatenus opus est et non aliter, alias, nec alio modo. Unde». (TA 1559-1560, fol. 118v-119v). Il Caracciolo in questo documento non tratta esplicitamente della soppressione delle altre chiese sacramentali; lo fa capire indirettamente quando affida alla comunìa tutte le anime della terra di Paternò. Ma in una lettera del 1603 si afferma chiaramente: «...La decta città nello tempo della felici memoria del Rev.mo episcopo Cola Maria Carachiolo era divisa in più parrochi, li quali per la sua povertà non potendo subsistere et dicto quondam Rev.mo di Carachiolo come delegato apostolico per virtù del sacro concilio tridentino, sessione 21, cap. 5, de reformatione, distrussi li decti parrochi et di quelli ni fechi unioni alla matrice et volsi che si servissi in comunìa et fechi un collegio di sacerdoti, alla quale comunìa fu aggregato poi per lo pontifice Pio quarto un beneficio simplici...» (TA 1602-1603, fol. 321v-322r). 72 Visite 1565-1566, Paternò. 73 TA 1558-1559, fol. 36v; TA 1559-1560, fol. 90v; TA 1565-1566, fol. 547r-v. 74 TA 1558-1559, fol. 15v-16r. 75 TA 1566-1567, fol. 46v-47v. 76 TA 1559-1560, fol. 63r-64r; TAV 1562, 30 ottobre 1562; TA 1564-1565, fol. 15v-17r. 77 TA 1565-1566, fol. 70v-82r; 386r.

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«...Et primo statuimo et ordinamo chi li sacerdoti communeri debbiano celebrare quotidianamente due misse, una dell’alba et l’altra ad hora di tertia, celebrando di doi in doi per semana gradatim et per circolo, li quali doi sacerdoti hebdomadari, che sarranno secondo lo tempo, habbiano il peso et cura, di uno cioè quello che dice o dirà la missa dell’alba communicare alli infermi et l’altro che dirà la missa di tertia confesare per la loro hebdomada, et così di grado in grado ut supra. Et quanto all’altri sacramenti si debbiano ministrare da tutti li communeri secondo la opportunità et exigentia del tempo et in tempo di necessità che commodamente non si ritrovassero li doi hebdomadarii o alcuno di loro o fossero legittimamenti impediti debbiano li altri communeri et cappellani et ciaschedun di loro essendo chiamati, andare a ministrare detti sacramenti della confessione et communione sotto pena a quello che contravenirà a qualsivoglia dele cose premisse di otto giorni di carcere et di perdere la rata di li fructi, obventioni et emolumenti che li potessero competere di detta ecclesia et communia per lo tempo chi servirà. Item statuimo et ordinamo che lo hebdomadario sacerdote che celebrirà a tertia debbia cantare la messa et quello che havera celebrato all’alba debbia cantare l’evangelio et pronuntiare le feste nel giorno della dommenica (ut moris), sotto pena a chi contravenirà in lo prossimo capitolo contenta. Item statuimo et ordinamo che in casu che li communeri fossero chiamati a seppellire qualcuno defuncto o defuncta con la croce della matrice ecclesia tantum, debbiano, per servarsi il decoro, intervenire et convenire al detto sepellire et exequi doi hebdomadari presenti et li prossimi immediate passati et futuri vicini alli presenti et volendo li presenti parenti de li defuncti o altri che facessero sepellire il defuncto o defuncta altre croci, oltra di quella della maggiore ecclesia, debbiano convenire allo detto esequie non sulamente li sacerdoti communeri predetti, ma anco li sacerdoti preteriti et futuri debdomadarii che fossero più vicini alli supradetti et in casu che alcuni o alcuno contravenessero o contravenesse si intenda ipso facto essere incorso nella pena di perdere le candele che per tal causa se li doveriano et quelli siano applicati et si donino a quelli che converranno al detto esequie et ultra di tarì uno pro quolibet, cessante tamen impedimento legitimo.

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Item ordinamo et statuimo che si debbia mantenere quella devota et laudabile osservantia di cantarse la messa il sabbato et anco la compieta alli quali debbiano convenire tutti li communeri eccetto che non fossero legitimmente impediti sotto pena di tre giorni di carcere et di perdere la rata di li fructi et distributioni che li toccheranno per li detti tre giorni. Item statuimo et ordinamo che tutti li communeri debbiano nelle domeniche et feste del anno le quali feste si declareranno {...} convenire in detta ecclesia allo cantare della messa grande et vespere cessante tamen legitimo impedimento sotto pena di perdere li destributioni seu rata di li fructi et obventioni ut supra per li giorni che mancheranno et carcere ad arbitrio del vicario nostro in detta terra. Item statuimo et ordinamo che li sacerdoti et clerici communeri et qualsivoglia altri sacerdoti et clerici che fossero fuora della communia, convenendosi insieme in la detta ecclesia et in qualsivoglia altra ecclesia per dire, recitare o cantare li officii divini tanto di messa quanto di altri offitii, intrando nel choro debbiano fare reverentia al altissimo Sacramento del corpo di nostro Signore et allo altare maggiore et da poi salutare con riverentia et modestia il vicario et clero che saranno nel choro et ciaschiduno debbia sedere in detto choro nel luoco et stallo che li conviene secondo lo loco della loro promotione et debbiano stare decentemente et con silentio, né debbiano se non per occurrenza legitima parlare tra loro, né con altri tanto ecclesiastici quanto seculari, né debbiano dire offitio privatamente, dicendosi offitio nel choro, né debbiano stare voltati al populo et {...} hor questo hor quello, ma debbiano {stare} con l’aspetto all’altare, né possano partirse dal choro senza licentia del vicario et in sua absentia del suo substituto o del infrascripto hebdomadario et andando a cantare allo ligio, debbano fare reverentia nel mezo del choro al santissimo sacramento dell’altare et finito il cantare debbiano iterum fare la simile reverentia inchinandosi al santissimo Sacramento et poi redurse al loro proprio luoco sotto pena alli contravenienti pro qualibet vice et qualibet premissarum di tarì uno di applicarsi alla luminaria del santissimo corpo di Christo et di carcere inremisibilter ad arbitrio del sudetto vicario.

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Item statuimo et ordinamo che li sacerdoti et clerici communeri et obligati al servitio della ecclesia debbiano {partecipare} alli offitii divini dal principio di modo che al sonar della campana ognuno debbia andare all’ecclesia per ritrovarsi pronto al principio cessante tamen legitimo impedimento del quale debbiano far fede al nostro vicario in detta terra in tanto che senza licentia del signor vicario nessuno si possa excusare di non venire al detto divino offitio ut supra et ogn’uno debbia stare nel choro celebrandose li divini officii con la superlitia et nelle vespere et compieti con li breviari per non si pigliare alcun {...} nel salmoggiare {...} di esso offitio, sotto pena pro quolibet contraveniente di perdere la rata di li fructi et distributione ut in precedentibus capitulis continetur. Item statuimo che havendosi di celebrare li offitii divini et havendosi sonato come si costuma, non si possa né si debbia incomintiare l’offitio né messa cantata senza la presentia del nostro vicario in detta terra, eccetto che da poi di haverse aspettato per un termine honesto et competente non fosse venuto o non potesse venire, exhortando il detto vicario che debbia sempre convenire al’hore debite et non potendo che lo debbia fare intendere alli communeri acciò non si habbia a dar causa di murmuratione et mancando il vicario o il suo substituto in casu di absentia della terra, debbia essere capo del choro et governare et ordinare quel tanto che fosse bisogno lo hebdomadario della messa di tertia, eccettuato ne li cantare della messa tantum per lo detto hebdomadario havere a celebrare nell’altare, et in detto cantare di messa sia la detta cura allo hebdomadario della messa dell’alba quando esso non canta l’evangelio, et cantando l’evangelio la detta cura del maggiore che si retrova nel choro sotto pena alli contravenienti di tarì sei pro quolibet applicandi alla sacristia della detta ecclesia. Item statuimo et ordinamo che tutti li sacerdoti et clerici che si retroveranno pro tempore in choro debbiano quando si canta la gloria et credo nella messa stare in piedi con la testa discoperta et similmente quando si canta lo cantico benedictus, magnificat et nunc dimittis et finalmente quando lo vicario sta in piede con la berretta levata et in ginocchioni debbiano ancora li communeri havere l’occhio al vicario et fare come farà quello et non si debbiano spogliare le superliccie fin tanto che serrà finito l’offitio, sotto pena di carcere ad arbitrio del detto vicario.

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Item statuimo et ordinamo in casu che li hebdomadarii per qualche causa non potessero celebrare personalmente possano servire per un altro sacerdote et mancando di servire per sé o per altro siano ipso facto incorsi nella pena di tarì uno pro qualibet vice applicando a quello che supplerà il detto mancamento et di otto giorni di carcere et infra ad arbitrium del vicario nostro predetto. Item statuimo et ordinamo che li clerici di quessa terra et comunia debbiano servire per hebdomada et mancando detti di servire la sua hebdomada sia incorso nella pena di carcere ut supra in precedenti capitulo et ultra secondo la qualità dell’eccesso. Item quando per occurrentia {si dovrà te}nere capitulo, ordinamo che il vicario di detta terra debbia proponere il negotio del quale si ha di tractare et dare il parere suo et ogni uno debbia stare in silentio mentre il vicario propone et parla et da poi debbiano respondere di grado in grado tucti li communeri di uno in uno secondo lo loco de la loro promotione et mentre uno dice il parere suo li altri stiano ad ascoltare acciò non si causi disturbo et murmuro sotto pena alli contravvenienti di carcere ad arbitrio del detto nostro vicario. Ancorché fare oratione a Dio glorioso per le anime dei defunti sia cosa laudabile et assai buona non di meno, per servarsi il dechoro che conviene, statuimo et ordinamo che nessuno sacerdote hebdomadario nello seppellire et offitio che si fa nell’esequie delli defuncti debbia cantare il detto offitio le tre salmi et tre letioni o vero un notturno pro defunctis eccetto che non fossero presenti almeno sei de li communeri acciochè si possa dire il notturno più devotamente et con maggior decoro et convenientia, sotto pena alli contravvenienti pro qualibet vice di unci 6 da applicarse alla sacristia di detta ecclesia. Item ordinamo in casu che alcuno ottenesse da noi o dal nostro vicario generale licentia di stare fuora della comunia non possa quello di nuovo entrare nella comunia che prima non sia accettato per li communeri congregati capitularmente o per la maggior parte di loro et de nostra aut vicarii nostri generalis licentia in scriptis obtenta, sotto pena alli contravenienti di carcere al nostro arbitrio et quello che serrà stato ricevuto non di lo modo predetto non sia

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né si debbia intendere di essere ricevuto né tenuto per communeri anci sia suspeso, come nunc pro tunc et e contra lo suspendimo dall’offitio et ministratione di tutti sacramenti, nella quale pena di carcere volimo che incorrano tanto quelli che li ricevessero quanto lo ricevuto... Datum Cataniae XII martii, VIIII ind., 1565»78.

Fra le riforme di struttura attuate dal Caracciolo nella diocesi di Catania, quella delle comunìe sembra la più riuscita e la più valida per i risultati positivi che ottenne nella formazione del clero e nella cura delle anime. Ma l’incremento dato a questi collegi presbiterali segna una svolta decisiva nell’evoluzione degli elementi che caratterizzano l’istituto parrocchiale a Catania. Sostanzialmente troviamo due tipi diversi di parrocchie o chiese sacramentali: 1) quelle della città, che avrebbero dovuto essere affidate a una persona singola: il parroco perpetuo previsto dalle norme tridentine; 2) quelle delle terre, che vengono affidate a un collegio di presbiteri. Mentre il primo fu attuato solo in parte per le notevoli difficoltà che incontrò, il secondo fu accolto con favore e trovò una larga attuazione nella diocesi.

78 TA 1565-1566, fol. 281v-285r. Alcune parole del documento risultano illeggibili perché l’inchiostro ha corroso la carta del registro. Lo statuto della comunìa di Assoro che conosciamo è più breve e non dà una normativa completa; si limita a disciplinare solo alcuni abusi (ibid.,, fol. 547r-v).

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V

LA RIFORMA DELLA CURA DELLE ANIME E I SUCCESSORI DEL CARACCIOLO

1. EVOLUZIONE DEI PRINCÌPI GIURIDICI SULLA PARROCCHIA E I PARROCI DOPO IL CONCILIO DI TRENTO Nicola Maria Caracciolo morì il 9 gennaio 15681, proprio nel periodo in cui aveva posto le premesse per la riforma. Toccò al successore Antonio Faraone, nominato il 9 febbraio 1569, continuare l’opera iniziata dal Caracciolo e in alcuni casi raccoglierne i frutti: la secolarizzazione del capitolo della cattedrale, l’erezione del seminario... La continuità del governo è dovuta in gran parte alla riconferma del canonico Vincenzo Senese nell’ufficio di vicario generale. Il Senese era stato uno dei collaboratori più preparati ed attivi del Caracciolo; laureato in teologia e diritto canonico, aveva ricoperto uffici di responsabilità fino alla nomina di amministratore apostolico assieme a Guglielmo Ansalone, durante la prigionia del Caracciolo e a quella di vicario generale nel 15662. Questa continuità si manifestò anche nel proposito di attuare la riforma parrocchiale. Nei decreti di nomina dei cappellani sacramentali si legge ancora la formula consueta o altra analoga: «nedum de rettore sive cappellano secundum sacrosanti concilii Tridentini decretorum formam provisio facta non fuerit»3. 1

«Notandum est qualiter in anno XIe indictionis 1567 de mense ianuarii die vero nono dicti mensis ad hura di dui uri di nocti, in la dicta cità di Cathania fu mortu et defuncto lu dicto reverendissimo et illustrissimo signuri episcopo, nomine Cola Maria Carachiulu» (manoscritto della Cronaca Siciliana del sec. XVI, fol. 174v, Biblioteca Civica di Catania). V. Epifanio e A. Gulli hanno letto male il testo originale e nell’edizione da loro curata hanno scritto: in anno XIe indictionis 1561 (Cronaca Siciliana del sec. XVI, cit., 153). Cfr. pure I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 263. Rocco Pirri erroneamente scrive che morì die XV maii, XI ind. 1567 (R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 555). Da notare che l’anno 1568, secondo il computo vigente a Catania, sarebbe entrato il 25 marzo successivo. 2 TA 1565-1566, fol. 538v-541v; I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 264. 3 TA 1569-1570, fol. 320r-v; TA 1579-1580, fol. 51r-v; TAV 1573, 15 settembre 1573; carte non numerate.

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Troviamo un formulario diverso nel decreto di nomina del cappellano della chiesa madre di Pietraperzia il 26 luglio 15694. Ma il suo contenuto di per sé non è nuovo; già il Caracciolo aveva fatto ricorso al concetto di commenda temporanea per determinare la figura dei cappellani sacramentali. Per la prima volta però troviamo inseriti esplicitamente in un decreto di nomina questi concetti: la parrocchia viene data in commenda temporanea, a un vicario, in attesa di essere affidata in titolo a un parroco perpetuo, secondo le norme stabilite dal concilio di Trento. Un elemento nuovo nello sviluppo della figura giuridica dei cappellani sacramentali ci viene dato da una lettera del 28 giugno 1570, indirizzata al vicario di Pietraperzia. Una signora, prima di morire, aveva affidato al sacerdote Cesare Monteleone la somma di venti once, per l’acquisto di un calice. Pare che il sacerdote non avesse eseguito le ultime volontà della donatrice e sia stato necessario l’intervento della curia per recuperare la somma. Nel comunicare al vicario foraneo l’esito della vertenza, il vicario generale così scrive: «...Lo ven. don Cesare Monteleone habitatore di quessa città ha delegato et cesso alla ecclesia matrice di quessa città, e per essa a noi, stante che per fin al presente non è stato provisto di rettore a la detta ecclesia secondo la dispositione del sacro concilio Tridentino, le onze venti li quali consignò ad esso don Cesare la quondam Filippa Ferriolo...»5.

Il ragionamento del vicario generale è semplice: dato che la chiesa madre di Pietraperzia non è stata data in titolo secondo le norme del concilio, ma in commenda temporanea, il responsabile della cura e dell’amministrazione è il vescovo. Troviamo così affermato il principio che diventerà comune a partire da questo periodo: fino a 4 «...Vicarium ecclesiae predittae iuxta dicti Sacri Concilii disposicionem facimus, constituimus, creamus pariter et deputamus, ecclesiamque predittam ut supra vacantem cum omnibus et singulis iuribus et pertinentiis suis tibique usque ad aliam provisionem de rettore ecclesiae hiusmodi per nos iuxta formam et determinacionem eiusdem Sacri Concilii Tridentini faciendam commendamus et in commendam temporalem ut supra tradimus...» (TA 1568-1569, fol. 408r-v). 5 TA 1569-1570, fol 420r-v.

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quando non sarà attuata la riforma parrocchiale voluta dal concilio, che prevede la determinazione dei confini delle chiese sacramentali e la nomina dei parroci perpetui, unico parroco della diocesi è il vescovo. Ma questa opinione, sorta per rispondere a una situazione transitoria, nei luoghi in cui non si volle o non fu possibile attuare la riforma tridentina, diventò il principio fondamentale per spiegare e giustificare l’organizzazione pastorale esistente; ciò avvenne soprattutto quando si costatarono i notevoli vantaggi di natura disciplinare ed economica che da essa derivavano. Le norme del concilio di Trento sulla riforma delle parrocchie e dei parroci, a volte imposero degli obblighi precisi e inderogabili6, ma a volte, pur facendo capire chiaramente qual era la direttiva da preferire, lasciarono ai vescovi la possibilità di scegliere altre soluzioni che ritenevano più opportune7 e al sorgere delle prime difficoltà molti preferirono evitare innovazioni. Di conseguenza la situazione, che per il concilio doveva costituire la regola, divenne l’eccezione e quella che si sperava fosse l’eccezione, divenne la regola. C’era solamente da determinare giuridicamente l’antica organizzazione pastorale rimasta invariata, alla luce della nuova normativa stabilita dal concilio. Anche questa difficoltà fu superata facendo ricorso ai concetti tradizionali di “titolo”8, “commenda”9, “vicario”10 e alla distinzione fra 6 «Dove non esistono chiese parrocchiali siano create al più presto. E ciò, nonostante qualsiasi privilegio e consuetudine contraria, anche immemorabili» (sess. XXIV, de ref., c. 13, Conc. Oec. Decr., 768). 7 «Anche in quelle città o territori dove le chiese parrocchiali non hanno confini ben definiti, né i loro rettori un proprio popolo da governare, ma amministrano indistintamente i sacramenti a chi li chiede, il santo sinodo comanda ai vescovi, perché sia più certa la salvezza delle anime loro affidate, di dividere il popolo in parrocchie vere e proprie e di assegnare a ciascuna un proprio parroco stabile, che possa conoscere i propri parrocchiani e dal quale soltanto ricevano lecitamente i sacramenti. Altrimenti provvedano in modo migliore, secondo le esigenze locali» (l. c.). 8 «Originariamente il titulus indicava l’ufficio sacro connesso ad una determinata chiesa, alla quale si era stabilmente vincolati nell’atto stesso dell’ordinazione (intitulatio): quest’ultima costituiva la situazione legittimante sulla cui base sorgeva il diritto di partecipare ai proventi destinati al sostentamento dei chierici» (A. VITALE, Ordine sacro, in NDI, XII, 172-175; cfr. R. NAZ, Titre d’ordination, cit.). Da ciò si deduce il principio dell’unicità e della stabilità. Che un chierico potesse avere un solo titolo risulta da diversi testi fra i quali qualcuno citato da Graziano: «Omnino autem duobus aliquem titulari non liceat, sed unusquisque in qua titulatus, in ea tantum ca-

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“cura abituale” e “cura attuale” delle anime11. Posto il principio che la determinazione dei confini era un elemento essenziale alla parrocchia, nei casi in cui non fu attuata alcuna distinzione territoriale o personale, o non si ritenne valida quella esistente, non si poteva sostenere che ci fossero delle parrocchie. In pratica la circoscrizione parrocchiale veniva a coincidere con quella diocesana e il vescovo doveva essere considerato unico parroco della diocesi. Se la perpetuità della nomina era ritenuta necessaria alla figura giuridica di parroco, i cappellani sacramentali amovibiles ad nutum episcopi non potevano essere considerati parroci. L’unico parroco era il vescovo, che aveva la diocesi-parrocchia in titolo e la cura abituale delle anime; i cappelnonicus habeatur» (parte I, dist. 70, cap. 2) e dalle Decretali: «Quum non ignores, quod una ecclesia unius debeat esse sacerdotis mirabile gerimus et indignum, si uni personae locum in pluribus ecclesiis velis concedere» (Decr. Gregorii IX, lib. III, tit. 5, cap. 15). La stabilità non viene esplicitamente prescritta in modo assoluto, ma viene presupposta dai testi più antichi (Conc. di Calcedonia, c. 10; Conc. Lat. IV, c. 29; Decr. Greg. IX, lib. III, tit. 5). 9 La commenda, nel suo significato originario, era la consegna temporanea di un beneficio a una persona perché lo amministrasse: «Illius ecclesiae non est prelatus, sed potius procurator, et qui commendavit potest revocare quando vult. Nam commendare nihil aliud est quam deponere» (Glossa al Decreto, parte II, causa 21, q. 1, e. 2; cfr. R. LAPRAT, Commende, cit.). 10 «Rector principalis per temporalem vicarium deserviendo, per seipsum deservire et curam exercere censetur: cum ille iure suo hoc faciat; secus autem est in perpetuo, qui nomine et iure suo curam exercet et pro illo iure agere et defendere se potest, cum beneficium proprium dicitur habere» (Glossa in Ex. Io. XXII, tit. III, cap. 1). Ma nell’uso del termine “vicario” sembra che in questo periodo si cada in un equivoco di fondo. Il concilio di Trento prescrive: «Il vescovo, appena saputo della vacanza della chiesa, dovrà nominarvi, se sarà necessario, un vicario idoneo, stabilendo a suo giudizio un’adeguata assegnazione di parte dei frutti, per far fronte agli oneri della stessa, fino alla nomina del rettore» (sess. XXIV, de ref., c. 18, Conc. Oec. Decr., 770). Però mentre in questo testo il termine “vicario” viene inteso come vices gerens parochi, nella concezione suesposta assume il significato di vices gerens episcopi. 11 «Actualis cura illa est, quam quis actualiter, idest actu per se gerere tenetur in populum ex necessitate, officii ratione parochialis vel beneficii curati in quo est canonice intitulatus et istitutus. Habitualis vero ab actuali distincta illa dicitur quae penes aliquem ratione alcuius beneficii in fieri est, sed non in facto quia executionem potestatis non habet, vel defectu tituli spiritualis per unionem accessorie factam extincti, aut quia parochiani recesserunt... vel quia ex privilegio, seu consuetudine levatus fuit onere exercendi actu» (A. BARBOSA, Pastoralis solicitudinis, sive de officio et potestate parochi tripartita descriptio, Venetiis 1641, 14).

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lani curati ricevevano le chiese sacramentali in commenda temporanea ed esercitavano la cura attuale come vicari del vescovo. Non si può negare a questa concezione una sua logica e una sua coerenza; ma nessuno oggi si sentirebbe di sostenere che esprima e traduca lo spirito della legge e che abbia contribuito ad attuare la riforma voluta dal concilio di Trento. C’è chi la giudica un comodo espediente per aggirare la norma tridentina sulla perpetuità dei parroci. Accettando la distinzione fra cura abituale e cura attuale, si poteva sempre sostenere che la parrocchia aveva nel vescovo il suo parroco perpetuo12. Questa tesi, quale che sia la conclusione a cui ognuno può pervenire, a partire dalla fine del sec. XVI, fu riconosciuta legittima e valida dalla giurisprudenza rotale. Fu invocata soprattutto dai vescovi spagnoli per avere il diritto alle decime parrocchiali, come parroci di tutta la diocesi13. Una volta accettata dalla giurisprudenza rotale, i ca-

12 Gli elementi costitutivi della parrocchia furono determinati negli anni successivi al concilio di Trento dalla giurisprudenza e dalla dottrina. In una sentenza rotale coram Lauretano del 20 maggio 1577 vengono così riassunti: «potestas fori penitentialis et illius exercitium per rectorem nomine proprio, locus certis finibus constitutus in quo degit populus cui per unicum proprium curatum sacramenta administrantur» (massima citata dalla sentenza rotale Salernitana parochorum del 1° giugno 1611; Sacrae Romanae Rotae Decisiones coram R. P. D. A. Ludovisio..., Romae 1622). Agli elementi descritti in questa sentenza si aggiunse ben presto quello della perpetuità del parroco: «Beneficium curatum stricte sumptum, illud esse quod habet parochiam sive territorium ad eius curam assignatum certis limitibus, auctoritate superioris distinctum et terminatum, in quo degit populus illi ecclesiae addictus, a certo perpetuo in ea constituto rectore sacramenta sumpturus» (G. A. MASSOBRIO, Praxis habendi concursum ad vacantes parochiales ecclesias..., Romae 1626, 27). Facendo riferimento a questi elementi costitutivi si fa la distinzione fra parrocchie verae et propriae e parrocchie impropriae et abusivae e si conclude: «In iis dioecesibus in quibus parochiae non sunt distinctae, cathedralis est unica totius dioecesis parochia ac consequenter parochia universalis, cuius rector est ipse episcopus» (F. A. RECLUSIUS, Tractatus de re parochiali..., Romae 1773, parte I, 35). A proposito della distinzione fra cura abituale e cura attuale delle anime scrive Claeys Bouuaert: «Bien auparavant, des diocèses d’Espagne et d’Italie avaient tourné la règle par un expédient assez étrange: l’évéque était censé conserver la cure habituelle dans tout son diocèse et déléguer la cure actuelle a des vicarii amovibiles ad nutum» (F. CLAEYS BOUUAERT, Cure [l’office curiale et l’inamovibilité], in DDC, IV, 894-896). 13 Leggiamo in una sentenza Civitaten. decimarum del 6 febbraio 1589: «Multa sunt loca, quae non sunt intra limites alicuius parochiae... et ea quidem dicuntur esse in parochia episcopi, cuius tota dioecesis parochia appellatur et ad eum decimae

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nonisti più autorevoli dei secoli seguenti non ebbero alcun dubbio sulla sua validità14. Solo molto più tardi la perpetuità non fu ritenuta essenziale alla nozione di parroco e non si ebbe più alcuna difficoltà eorum locorum pertinere intelliguntur» (Decisiones Rotae Romanae Francisci Card. Mantica..., Romae 1618, 82). In un’altra sentenza del 29 marzo 1591 Calaguritana reductionis si afferma: «In diocesi Calaguritana sunt multae ecclesiae parochiales, quarum tamen cura non est penes aliquem curatum in dictis ecclesiis intitulatum sed penes rev. Episcopum qui solet deputare beneficiatos in dictis ecclesiis existentes ad administrationem curae animarum» (G. A. MASSOBRIO, Praxis, cit., 44); cfr. pure: Palentina decimarum, coram Zarate del 14 maggio 1655 (Sacrae Rotae Romanae decisionum recentiorum, pars XII, Venetiis 1693, 22-24), Hispalen. decimarum, coram Taia del 2 marzo 1676 (Sacrae Rotae Romanae decisionum recentiorum, partis XVII, tomus II, Venetiis 1697, 303-305), Toletana decimarum, coram Boulermont del 15 gennaio 1677 (Sacrae Rotae Romanae decisionum recentiorum, partis XIX, tomus II, Venetiis 1703, 77-82). 14 «Iuxta fere generalem Hispaniae consuetudinem... non adsunt parochiae distinctae, nullusque parochus proprius in titulum, unde propterea tota Dioecesis, seu Ecclesia Cathedralis dicitur unica parochia, cuius Rector seu Parochus universalis est Episcopus, qui in singulis locis, vel ecclesiis curam exercet et sacramenta administrat per clericos ab eo ad nutum amovibiles deputari solitos...» (I. B. DE LUCA, Theatrum veritatis et iustitiae, Venetiis 1698, lib. XIV, pars III, 2). È interessante leggere il brano che A. Barbosa aggiunse all’ultima edizione della sua opera Pastoralis solicitudinis, per uniformarsi alla giurisprudenza rotale: «In illa vero dioecesi ubi nullus adest rector in quacumque ecclesia et Episcopus solet alicui ex illis committere exercitium curae animarum, non tamen ex hoc dicebatur beneficium curatum, sed solus Episcopus est rector omnium parochialium totius dioecesis et apud eum tantum manet cura animarum... Et tunc huismodi beneficiati non possunt percepire decimas eidem ecclesiae parochiali debitas, cum solus pertineat ad Episcopum, qui est verus rector et universalis parochus et habet curam animarum» (A. BARBOSA, Pastoralis solicitudinis, sive de officio et potestate parochi, Lugduni 1781, 8). Però da parte dei canonisti lo stesso principio trova diverse applicazioni e la casistica si moltiplica all’infinito. Da notare la posizione del Leurenius, che distingue fra le diocesi in cui non si hanno parrocchie distinte, secondo l’uso spagnolo, e le diocesi in cui esistono le parrocchie. Mentre nel primo caso «tota dioecesis dicitur unica parochia, cuius rector seu parochus universalis est episcopus, qui in singulis locis vel ecclesiis curam exercet per clericos ad nutum amovibiles, qui et propterea parochi non sunt, nec dicuntur», nel secondo caso «Episcopus dici non potest rector seu parochus totius dioecesis... sic enim obtineret plura curata contra iuris dispositionem... ex illa namque partitione erectus est novus titulus, novumque et proprium ius ab omni alio titulo et iure seiunctum pro sacerdote, qui illius curam particularem subiturus est» (P. LEURENIUS, Forum Beneficiale, Coloniae 1742, 36; cfr. anche: I. B. PITTONI, Constitutiones Pontificiae et Romanarum Congregationum decisiones ad parochos utriusque cleri spectantes, Venetiis 1737).

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a riconoscere che i cappellani amovibiles ad nutum erano parroci a tutti gli effetti15. Ma questa nuova tesi giunse quando già quasi dovunque i cappellani erano stati sostituiti dai parroci perpetui.

2. IL VESCOVO VINCENZO CUTELLI, LA CURA DELLE ANIME NELLA CITCATANIA E LO SCONTRO CON LE OLIGARCHIE CITTADINE

TÀ DI

L’ 11 settembre 1577, a distanza di oltre un anno dalla morte del vescovo Giovanni Orosco de Arzes16, Gregorio XIII, su presentazione del re di Spagna Filippo II, nominò per la sede di Catania Vincenzo Cutelli, un giovane di 35 anni, esponente di una famiglia che era riuscita a crearsi un certo spazio nel governo della città. La sua candidatura era stata avanzata dagli ambienti della corte, dove il giovane sacerdote aveva avuto modo di farsi conoscere come cappellano e confessore della regina17. La scelta del Cutelli non risultò gradi15 Nel secolo successivo D. Bouix, un canonista acuto e di diversa sensibilità, con un ragionamento serrato demolì la nozione di parrocchia fatta dalla giurisprudenza e dalla dottrina, criticandone il metodo e i contenuti: l’essenza della parrocchia non può essere stabilita con il ricorso al diritto naturale o al vangelo, ma desunta solo dal diritto positivo (leggi, loro interpretazione, consuetudine); non si può far riferimento al solo concilio di Trento che dà indicazioni contraddittorie e non sempre obbliganti; le affermazioni della giurisprudenza e dei canonisti a volte sono gratuite. La nozione di parrocchia va stabilita dai seguenti elementi: l’obbligo di procurare il bene delle anime mediante la predicazione della parola di Dio e l’amministrazione dei sacramenti, questo ufficio deve essere esercitato da un sacerdote in nome proprio, in una determinata parte della diocesi e in modo obbligatorio, il popolo determinato deve avere il diritto-dovere di ricevere dal parroco i sacramenti. Sulla base di questi elementi il Bouix concludeva: non può essere vero parroco chi esercita la cura abituale delle anime, al contrario lo è chi esercita la cura attuale, purché la eserciti in nome proprio e obbligatoriamente; i cosiddetti vicari sono veri parroci perché di fatto, a dispetto del nome, esercitano la cura delle anime in nome proprio e obbligatoriamente; non si richiede l’unicità e la perpetuità del parroco, anche se è più opportuno che in parrocchia ci sia un solo parroco; l’amovibilità dei vicari è proibita solo se è a discrezione dei parroci, non se è riservata ai vescovi (D. BOUIX, Tractatus de parocho ..., Parisiis 1880, 167-176). 16 Il vescovo Giovanni Orosco de Arzes morì il 28 marzo 1576 (I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 267-268). 17 Sulla figura del vescovo Vincenzo Cutelli si vedano: R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 555-556; V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., 420-424; F. FERRARA, Storia di Ca-

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ta a parte dell’aristocrazia cittadina, che avrebbe preferito Nicola Stizzia, un altro catanese, già proposto nel 1572 dai giurati come successore del vescovo Antonio Faraone. Questo atteggiamento di rifiuto e la tensione creatasi fra il nuovo vescovo e Nicola Stizzia costituiscono lo sfondo di tutta l’intricata vicenda dell’episcopato Cutelli18. Il nuovo vescovo da catanese conosceva bene i problemi della città e non aveva bisogno di un periodo di osservazione per predisporre un piano di azione. Egli fu nominato l’11 settembre 157719, ricevette la consacrazione dal card. Antonio Santorio nella basilica di

tania, cit., 146-148 e il moderno profilo di G. FALLICO, Cutelli Vincenzo, in DBI, 31, Roma 1985, 533-534. Secondo quanto scrive il De Grossis, il Cutelli inizialmente si era ritirato nel romitorio «la Mecca» di Catania, per condurre vita contemplativa; ma accettando le sollecitazioni dei familiari, che lo volevano indirizzare alla vita pubblica, in un secondo momento decise di recarsi alla corte di Spagna. Nella discessoria del 1569 firmata dal vescovo Antonio Faraone il diacono Vincenzo Cutelli risulta laureato in teologia, arti e in utroque iure (I.B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 268). Tuttavia nella documentazione citata dal De Grossis sembra esserci qualche imprecisione. Infatti il Cutelli conseguì la laurea in utroque iure a Roma il 15 agosto 1570, con una tesi di diritto canonico «de filiis presbiterorum» e una di diritto civile «de tutoribus» (E. LIBRINO, Siciliani allo Studio di Roma dal XVI al XVIII secolo, in Archivio Storico per la Sicilia 1 [1935] 175-240: 193). Probabilmente il Cutelli, dopo aver conseguito la laurea in teologia a Catania, prima si recò a Roma per completare gli studi, poi proseguì per la corte di Madrid. Nel viaggio verso la Spagna il giovane fu catturato dai corsari e privato di tutti i suoi averi. 18 È lo stesso Cutelli che, in una lettera del 1581, per difendersi dalle accuse delle magistrature cittadine, afferma di essere vittima di un complotto ordito da persone contrarie alla sua famiglia, che in quel momento occupavano posti di responsabilità negli uffici della corte e nel governo della città: «E havendo per maggior mia disgratia socesso all’offitii della monarchia et altri regii e della città alcune persone della mia propria patria ch’oltre l’interesse le vien’a toccare sonno stati da molti anni contrarii alla mia famiglia, han fatto congiura di volermi tanto più perseguire e travagliare d’ogni parte e spogliare la povera chiesa di tutto questo poco che le resta a rispetto del maggior che tenea» (Prìncipi, 34, fol. 191r-v). Le accuse sono rivolte anzitutto a Nicola Stizzia, che in quel momento era giudice del tribunale della Regia Monarchia. Copia della lettera con cui i giurati chiedevano che fosse nominato vescovo si trova in Mss A 21, ultimo documento del manoscritto. 19 Sec. Brev., 106, fol. 140r-141r. La nomina episcopale fu condizionata da un’altra disavventura, che il Cutelli ebbe nel viaggio dalla Spagna in Italia: in un naufragio andò perduta con tutti i suoi bagagli la lettera di presentazione del re al papa; pertanto il giovane prelato, oltre ad essere rimasto privo di risorse (per le sue necessità immediate fu costretto a chiedere un prestito di 10.000 scudi ai propri parenti),

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San Bartolomeo all’isola Tiberina il 29 dello stesso mese, prese possesso canonico tramite procuratore l’8 o il 9 luglio 157820, ma entrò di fatto in città il 25 novembre 157921. Sembra che il nuovo vescovo non abbia passato in ozio il periodo di oltre un anno intercorso fra il possesso canonico e l’ingresso in città. Da alcuni documenti presentati alla s. Sede o alla regia curia possiamo dedurre che, dopo la consacrazione, si sia fermato a Roma e poi si sia recato a Palermo per cercare gli appoggi necessari all’attuazione di un vasto piano di azione pastorale, mirante a recuperare il patrimonio ecclesiastico usurpato dall’aristocrazia e dalle magistrature cittadine, a ripristinare gli antichi privilegi giurisdizionali concessi al vescovo di Catania dai normanni, ad estirpare gli abusi nella vita religiosa della città22. Una delle sue

dovette attendere che giungesse da Madrid un’altra lettera di presentazione perché la s. Sede formalizzasse la sua nomina. Facendo appello al servizio prestato alla corte, alle sue personali disavventure e alle precarie condizioni in cui si trovavano l’episcopio e la cattedrale di Catania il Cutelli più volte chiese aiuto al re, che gli concesse diversi contributi (Real Cancelleria 452, fol. 280r-281r; 453, 448v-449r; 460, 579v580r; Prot. Regno, 358, fol. 84v-85v; Trib. Real Patr., 652, fol. 207r-208v; 669, 354r-v; 671, 44r-47r, 674, 379r-v; 678, 50v-54r; 683, 42r-v). 20 Il De Grossis indica la data del 9 luglio, ma dalla documentazione conservata presso l’Archivio di Stato di Palermo sembra più attendibile la data dell’8 luglio. Il possesso canonico avvenne prima che la corte di Palermo desse l’esecutoria per la bolla di nomina. Pertanto da parte delle autorità locali in un primo momento fu riconosciuta al nuovo vescovo solamente la giurisdizione quoad spiritualia (Trib. Real Patr., 678, fol. 51v-52r). 21 TA 1579-1580, fol. 39v-40r. Il Cutelli ebbe come suo primo collaboratore il can. Pietro de Aversa UID, con il quale doveva avere un rapporto di stima e di amicizia (lo troviamo fra i testimoni della sua laurea a Roma nel 1570). Il canonico di fatto governò la diocesi da solo come vicario capitolare dal 1576 al 1577 e come vicario generale dal 1578 al 1579. Tuttavia c’è da presumere che il Cutelli, durante il periodo iniziale di assenza dalla diocesi, abbia mantenuto con il suo vicario una regolare corrispondenza, per informarlo delle sue scelte e del piano pastorale che aveva iniziato ad attuare. 22 Il Cutelli così riassume l’aspetto “politico” del suo programma di governo nella lettera alla Congregazione del concilio del 1581: «Con tutto che tempo fa questa povera chiesa, che nostro Signore mi ha dato in cura, fu spogliata della grandezza e ricchezza delle quali la dotò il conte Ruggiere di gloriosa memoria, nondimeno le restavano alcune cose di qualità e particolarmente il primo e secondo giuditio, le doane, gabelle, estrationi, ius pascendi, piscandi, venandi e tutt’altre regalie della città di Catania e suoi casali e marine, che son quaranta miglia di termine, la città di

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principali preoccupazioni riguardava il riordino della cura delle anime; ma per attuare questo progetto era necessario richiamare al proprio dovere i canonici di Santa Maria dell’Elemosina e ridurre al minimo le anomalie derivanti dalla presenza della collegiata. In seguito alla soppressione dell’abbazia di Sant’Agata, la situazione era cambiata, perché il capitolo della cattedrale era passato al clero secolare e la collegiata incominciava a perdere il suo prestigio: era considerata una tappa intermedia per approdare alle prebende più prestigiose del capitolo della cattedrale23. Inoltre durante il periodo di sede vacante — un tempo propizio per chiedere alla s. Sede grazie e privilegi fuori dell’ordinario — alcuni canonici della collegiata avevano ottenuto anche le prebende di canonici della cattedrale24. In tal modo si era verificata una situazione paradossale: una stessa persona possedeva tre diversi benefici, che comportavano l’obbligo della presenza in tre luoghi distinti: la chiesa sacramentale annessa alla prebenda, il capitolo della collegiata, il capitolo della cattedrale. Un’altra circostanza aggravava la situazione già tanto difficile. Come si è visto, il vescovo Nicola Caracciolo nel 1561, a conclusione della vertenza con le magistrature cittadine sulla erezione delle chiese sacramentali, per tranquillizzare la sua coscienza ed assicurare ai fedeli la possibilità di trovare sempre un sacerdote disponibile all’amministrazione dei sacramenti, aveva deciso di nominare sei capMascale e tutto il suo stato ch’importa otto milia scudi di rendita, la proprietà e duana della terra di Aci e suoi casali e quasi tutti gli altri predii rustici et urbani di Catania e Mascale e suoi casale, la giuridittione civile e criminale di queste sue cose e persone e l’uffitio di cancelliere del Studio, concesso da papa Eugenio Quarto di felice memoria, la giuriditione civile e criminale a relegatione infra delli scholari, la potestà di crear notari et infine altre prehemenentie et authorità; quali pensando io, come naturale della città, potei alquanto rimediar et avantagiare, par che per mia disgratia o medesma raggione d’esser naturale ne venghino più dannificate, travagliate, perseguite e calunniate la chiesa e prelato e ministri» (Prìncipi, 34, fol. 191r-v). 23 Scorrendo il necrologio della collegiata di Catania è frequente la nota del passaggio dei canonici dalla collegiata alla cattedrale: Sciacca Giovanni Battista (1588.12.22), D’Alessandro Girolamo jr. (1603.06.24), Guglielmino Vincenzo (1615.05.10), Marchesana Vincenzo (1629.04.23), Raimondo Vincenzo (1637.09.17), Branciforte Luigi (1651.03.29)... (Necrologium). 24 È uno dei rilievi che fa il vescovo Cutelli nella lettera alla Congregazione del concilio, che esamineremo fra breve (Congr. Concilio, Positiones, 16, fol. 261r262v: 261r).

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pellani da destinare in tre chiese sacramentali della città, fra le quali la collegiata Santa Maria dell’Elemosina. A questi sacerdoti il vescovo aveva assegnato uno stipendio dagli introiti della mensa vescovile, ma esigeva che amministrassero gratuitamente i sacramenti ai fedeli25. Questa prassi era stata mantenuta dai successori del Caracciolo, Antonio Faraone e Giovanni Orosco. Ma la presenza dei sei cappellani sacramentali, voluti dal vescovo Caracciolo e remunerati con le rendite della mensa vescovile, costituiva un alibi per i canonici della collegiata, che non si sentivano più responsabili della cura delle anime nella loro chiesa e ritenevano di non essere più obbligati a mantenere a proprie spese i sostituti nelle chiese sacramentali della città annesse alle loro prebende. Per eliminare anche il fondamento giuridico di eventuali controversie i canonici tentavano di introdurre la consuetudine contraria e cercavano di convincere i fedeli che le chiese sacramentali non erano strutture di servizio per il bene comune, ma un peso insopportabile che coartava la libertà26. Il vescovo Cutelli pose il problema alla Congregazione del concilio mentre si trovava a Roma, subito dopo la sua consacrazione e prima del suo formale ingresso in diocesi. In una lettera senza data, ma scritta prima del 28 dicembre 1577, espose dettagliatamente la situazione27. La risposta della Congregazione è contenuta in un appun25

Vedi supra, cap. III. Congr. Concilio, Positiones, 18, fol. 55r-65v: 62r. 27 «Il Vescovo di Catania espone alle SS. VV. ill.me qualmente nella detta città vi è una chiesa collegiale nella quale vi sono tre dignità et diecinove canonicati con sue prebende erecte di chiese parrochiali, in maniera che quasi tucti tengono cura dell’anime di molti popoli rustici assai bisognosi d’esser istructi; oltre a ciò è stato antico e lodevol costume nella dicta collegiale non solamente nelle domeniche e giorni festivi, ma ancho nelli feriali celebrarsi messa sollemne et vespro et alle volte compieta a hore commode alli popoli {che} vi frequentano, di maniera che per la disposictione de’ sacri canoni et Concilio Tridentino et per la consuetudine e manera del servitio sono obligati a personal residentia o nella parrochiale o almeno collegiale. Nella passata sede vacante di Catania alcuni de’ sudecti canonici et degnità collegiali esposero a Sua Santità che le lor degnità e canonicati erano benefici seu officii semplici e senza cura et si potevano servir per substituto et impetrorno da Sua Santità alcuni canonicati alhora vacanti nella chiesa cathedrale della sudetta città di Catania, nella quale per commodità de’ popoli s’hano di celebrare li divini officii a hore competenti che sono le medesime che si devono celebrari nella collegiale, in maniera che li sudecti canonici in due chiese conseguiscono due prebende et non servi26

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to scritto in margine alla lettera: il vescovo è invitato a verificare se rispondevano al vero le motivazioni addotte dai canonici della collegiata nella richiesta volta ad ottenere anche le prebende del capitolo cattedrale e a chiarire meglio le sue affermazioni sulla lamentata violazione dell’obbligo della residenza. Comunque la Congregazione avrebbe preso una decisione dopo aver valutato le tesi del vescovo e del capitolo28. La lettera del vescovo alla Congregazione contribuì ad innescare uno dei conflitti più accesi fra il vescovo e la città. Il Cutelli si mostrò deciso nell’attuare il suo progetto di riforma a partire proprio dal problema della cura delle anime. Per togliere ai canonici della collegiata un facile alibi e richiamarli al loro dovere di provvedere personalmente o mediante un delegato all’amministrazione dei sacramenti nella chiese annesse al loro beneficio, dispose la revoca dei sei cappellani sacramentali istituiti dal vescovo Caracciolo e cercò di eliminare gli abusi più rilevanti introdotti negli ultimi anni. Allo stesso tempo, con un editto del dicembre 1579, richiamò tutti i cappellani sa-

no si non a l’una over a niuna, quando faccino residenza alla parrocchiale. Oltraciò li canonici della cattedrale usano continuamente almucie et habito diverso di quelli della collegiale in maniera che, cosa molto difforme, vedersi in un medesimo giorno variar d’un habito a l’altro, sì come fanno spesso; più oltra questi tali oltra molti benefici semplici tengono duo canonicati et una parrochiale et al preposito della collegiale una degnità, duo canonicati et forse due parrochiali unite alle prebende delle quali se ne potriano provedere altri poveri sacerdoti virtuosi e letterati che meglio serviriano le chiese. Desideroso dunque esso Vescovo d’evitarsi tanti inconvenienti e di far meglio servire le sudecte chiese et della sicurità della sua conscientia et di quella de’ suoi sudditi supplica le SS. VV. Ill.me siano servite ordinarli quello c’ha di far intorno a ciò e parendoli che li sudecti canonici non possano ritener ambodoi li canonicati over la degnità nella collegiale e canonicato nella cattedrale ma che siano obligati lasciar l’uno quale vorranno; star servite ordinar che cossì esso supplicante lo debbia far eseguire acciò più facilmente et senza lite né contradictione si possa presto effectuare» (Congr. Concilio, Positiones, 16, fol. 261r-v). 28 Ibid., fol. 262v. Nel 1581 il capitolo della collegiata risultava così composto: Vincenzo Senese, prevosto, Girolamo de Alessandro, cantore, Pietro Roccatagliata, tesoriere, Diodoro Nepita, Raimondo Ansalone, Girolamo Campisano, Gregorio Taranti, Blandano de Balsamo, Antonino Mundo, Lorenzo Insinga, Erasmo de Fatio, Sebastiano Zappulla, Vincenzo Ansalono, Gioacchino la Valle, Pietro de Basilio, Michele Graziano, Alessandro Marletta, Vincenzo Guglielmino, Tommaso de Procita, Pietro Gullo (TA 1580-1581, fol. 242r-243v).

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cramentali all’obbligo di insegnare il catechismo ai bambini nel pomeriggio delle domeniche29. I canonici della collegiata, dinanzi all’atteggiamento deciso del vescovo, non rimasero a guardare; ma nella controversia che ne seguì non incontrarono difficoltà a trovare alleati fra le diverse oligarchie cittadine. Il piano di azione del Cutelli prevedeva una serie di interventi particolarmente delicati che coinvolgevano allo stesso tempo l’aristocrazia, le magistrature cittadine, gli ordini religiosi. Il 25 gennaio 1579 il Cutelli emanò una scomunica «contra quelli li quali usurpano et opprimeno le iurisdicione et libertà ecclesiastica et occultano et occupano et appropriano a sé li beni, renditi, predii, censi, emolumenti, proventi et obventioni et frutti delle chiese, vescovadi, monasterii, hospitali et altri lochi pii» e invitava i fedeli che fossero al corrente di queste violazioni di denunciare i colpevoli30. Dietro questa denunzia c’era soprattutto l’annoso problema del ricco patrimonio della Chiesa di Catania, che un tempo costituiva il demanio della città e che le autorità cittadine facevano di tutto per riavere31; ma c’era più in generale il fenomeno ricorrente dell’usurpazione dei beni ecclesiastici da parte delle diverse categorie di cittadini. 29 TA 1579-1580, fol. 50r-v. L’editto è rinnovato il 10 dicembre 1581 e all’insegnamento della dottrina cristiana sono chiamati «tutti e singoli rev.di beneficiati seu domadari della cathedrali ecclesia et alli rev.di canonaci della colleggiata chi sonno estra numero di 12 canonaci e tre dignità obligati ad intervenire in ecclesia colleggiata alli huri canonaci» (TA 1582, fol. 128v-129r). 30 TA 1580-1581, fol. 288r-289v. 31 L’oggetto della contesa più animata, che contrappose il Cutelli alle magistrature cittadine, riguardava il possesso del fondo del Pantano, la cui proprietà era rivendicata dalla città. Il tribunale della Regia Monarchia, presieduto da Nicola Stizzia — rivale del Cutelli — il 5 aprile 1582 riconobbe fondata la tesi dei giurati (M. GAUDIOSO, La questione demaniale, cit., 39). Il Cutelli più volte si era rivolto al viceré Marc’Antonio Colonna sostenendo di essere vittima di un complotto e facendo notare che Nicola Stizzia non poteva trattare la causa in quanto giudice sospetto (Real Cancelleria, 471, fol. 102r-103v; Prot. Regno, 383, fol. 53r-54v). Allo stesso tempo non aveva mancato di rispondere alle schermaglie dello Stizzia rimproverandogli l’inosservanza dell’obbligo della residenza, derivante dall’ufficio di canonico tesoriere della cattedrale (monitorio dell’8 luglio 1581, TA 1580-1581, fol. 258v-259v). Se si tiene presente che l’assenza dello Stizzia dal coro era giustificata dal suo ufficio di giudice del tribunale della Regia Monarchia, l’avvertimento del Cutelli sembra avere il significato di una rivalsa nei suoi confronti per l’atteggiamento ostile che gli aveva sempre dimostrato.

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L’offensiva aperta dal Cutelli ebbe come immediata conseguenza l’atteggiamento ostile delle autorità locali che cercarono di ostacolare l’azione del vescovo e di infastidire i suoi ufficiali. Il Cutelli si rivolse per aiuto al viceré, che per certi aspetti sembra schierato dalla sua parte32. In una lettera del 25 maggio 1579 Marc’Antonio Colonna scrisse al secreto della città per rimproverare l’ostilità dimostrata verso il vescovo: «Il rev.mo monsignore di quessa città di Cathania per un memoriale ne ha informato che per la suspicione che tenete in tutti negocii di esso exponente non cessate in tutti occasioni monstrarci la voluntà vostra et animo che tenete maltractando et vexando li ministri, famigliari, gabelloti et inquilini di esso exponente»33.

La lettera non pare abbia sortito l’effetto sperato e il viceré scrisse una seconda volta il 7 novembre ribadendo la sua volontà34. Un altro provvedimento, emanato dal Cutelli fin dai primi mesi del suo ingresso in diocesi, contribuì a suscitare non pochi malumori nel clero. In occasione della festa della candelora, delle ceneri e della domenica delle palme, per la centralità che doveva avere la cattedrale nei confronti delle altre chiese, dispose che tutti dovessero recarsi nella cattedrale a partecipare alle funzioni celebrate dal vescovo, proibendo che analoghi riti venissero celebrati nelle altre chiese35.

32 Il viceré Marc’Antonio Colonna sosteneva il Cutelli nella sua azione di difesa del patrimonio della Chiesa (che era di regio patronato) e non sembrava condividere l’ostilità manifestata dalle autorità locali contro il vescovo. I giurati, da parte loro, notando che non potevano contare sull’appoggio della corte, preferivano rivolgersi alle autorità ecclesiastiche. Solo nella controversia sorta a proposito dei lavori di restauro del coro della cattedrale — per i quali la regia corte aveva approvato il progetto redatto da un certo cavaliere Tiburzio Spanocchi (Trib. Real Patr., 679, fol. 78r-v) — il viceré fece proprio il punto di vista dei giurati: ordinò al Cutelli di riportare al loro posto — in conformità al progetto approvato — i sedili riservati alle autorità cittadine, che erano stati spostati dal vescovo fuori dall’abside (G. FALLICO, Cutelli Vincenzo, cit., 533). Probabilmente Marc’Antonio Colonna incominciò a prendere le distanze dal vescovo, quando questi finì per coinvolgere nel conflitto tutte le componenti della città. 33 TA 1579-1580, fol. 31r-32r. 34 L. c. 35 TA 1579-1580, fol. 65r-67v; TA 1580-1581, fol. 146v-148v.

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Per la domenica 13 novembre 1580 il vescovo aveva deciso di dare inizio alla visita pastorale e, come di consueto, aveva convocato clero e fedeli in cattedrale. Perché ci fosse una partecipazione piena e responsabile aveva ritenuto opportuno prescrivere che tutte le altre chiese della città rimanessero chiuse; ma i benedettini di San Nicola l’Arena, non gradendo il provvedimento, manifestarono il proposito di celebrare regolarmente le messe secondo l’orario consueto. Poiché si trattava di religiosi esenti dalla giurisdizione del vescovo, il Cutelli non poteva colpirli direttamente con pene canoniche; per aggirare l’ostacolo emanò un editto nel quale proibiva a tutti i fedeli di recarsi nella chiesa del monastero, sotto pena di scomunica e di quattro once da devolvere ad opere pie36. Si inseriscono in queste schermaglie fra il Cutelli e la città due controversie riguardanti la giurisdizione del vescovo sullo Studium37, che determinarono la definitiva frattura fra il vescovo e le diverse componenti della città. Le magistrature cittadine a conclusione di un aspro confronto con il vescovo, in una lettera alla Congregazione del concilio, il 12 settembre 1581, dopo una circostanziata esposizione degli ultimi avvenimenti, avanzarono il sospetto che il vescovo fosse uscito di senno e chiesero l’intervento della suprema autorità ecclesiastica38. Il prefetto della Congregazione in calce alla lettera scrisse la nota: «Si faccia un breve al vescovo, ma paternamente e senza asprezza», tuttavia il richiamo, per quanto benevolo, fu un segnale per il Cutelli dell’estensione del conflitto. All’inizio dell’anno successivo il vescovo doveva recarsi a Roma per la visita ad limina; nel tentativo di bilanciare le accuse rivoltegli dalle magistrature catanesi, promosse una serie di interventi a suo favore presso la Congregazione del concilio da parte del capitolo della cattedrale e dei cappellani e giurati delle principali città della diocesi. In otto lettere quasi identiche — segno evidente di un’unica regia — si enumeravano alla Congregazione i meriti del vescovo che, dopo tanti anni di abbandono in cui si trovava la diocesi di Catania, aveva iniziato una lodevole opera di rinnovamento e di riforma. Le calunnie diffuse sul

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1580-1581, fol. 72r-v. Sul tema si veda: A. LONGHITANO, Oligarchie familiari, cit., 302-303; ID., Il vescovo Vincenzo Cutelli, cit. 38 Prìncipi, 34, fol. 77r-79v. TA

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suo conto dovevano essere considerate solamente il frutto di lotte familiari e la reazione ai suoi interventi per difendere la giurisdizione e i beni ecclesiastici39. Probabilmente il viaggio a Roma servì al Cutelli per convincere la suprema autorità ecclesiastica della bontà del suo progetto, se il papa Gregorio XIII non prese alcun provvedimento nei suoi confronti. Ma al suo ritorno in diocesi i rapporti con la città non migliorarono. Il vescovo era deciso ad attuare il suo piano pastorale e le oligarchie cittadine continuarono la loro dura opposizione. Com’era già avvenuto per il Caracciolo, ufficialmente erano i giurati a firmare le lettere e i ricorsi, ma dietro di loro c’erano tutti i gruppi egemoni della città. Non è un caso che il dossier con le minute di un secondo ricorso (15 settembre 1582) e di un memoriale con le accuse inviate a Roma contro il Cutelli si trovi nella biblioteca dell’ex monastero di San Nicola40; segno che i benedettini, già fin dai primi anni del loro trasferimento a Catania, si ponevano come contraltare dell’episcopio e punto di riferimento degli oppositori al vescovo. Tuttavia se vent’anni prima la discussione si era mantenuta sul piano giuridico e i giurati avevano scelto come interlocutore il tribunale della Regia Monarchia, ora si era scesi sul piano personale: rivolgendosi direttamente alla s. Sede si voleva dimostrare che il Cutelli per il suo carattere e per il suo comportamento non era idoneo a fare il vescovo e si chiedeva senza mezzi termini la sua destituzione. A fondamento della richiesta si inviò a Roma un documento con un elenco di ventisette capi d’accusa: asseriti soprusi, arbitrii e sopraffazioni, dei quali il vescovo si sarebbe macchiato fin dall’inizio del suo governo41. Nella lettera di accompagnamento del memoriale i giurati, ribadendo la loro accuse, chiesero alla suprema autorità ecclesiastica di verificare la veridicità delle loro affermazioni e di prendere gli opportuni provvedimenti: 39 Lettera del capitolo cattedrale dell’8 febbraio 1582 (ibid., 32, fol. 32r), dei cappellani di Calascibetta e dei cappellani di Paternò del 9 febbraio (ibid., fol. 77r, 81r), dei cappellani Castrogiovanni del 10 febbraio (ibid., fol. 114r), dei giurati di San Filippo d’Agira dell’11 febbraio (ibid., fol. 31r), dei giurati di Paternò del 16 febbraio (ibid., fol. 80r), dei giurati di Castrogiovanni del 19 febbraio (ibid., fol. 113r), dei giurati di Piazza del 20 febbraio (ibid., fol. 41r). 40 Mss A 21, cit. 41 L. c.

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«ben desideramo final rimedio sopra questo infelice grege, che tanto ha patito dal suo pastore, che non possiamo senza compassione et gran danno universal del popolo lasciar di richiamarne contro di lui appresso Sua Santità»42.

In mezzo a questa infuocata polemica, il Cutelli non aveva perso di vista la riforma del capitolo della collegiata. Egli considerava sovrabbondante il numero dei canonici, che era superiore a quello della cattedrale; tanto più che l’esiguità di alcune prebende diventava per i canonici un facile pretesto per assentarsi dal coro. D’accordo con il capitolo della cattedrale, aveva progettato di ridurre i canonici da 19 a 12 e di accrescere con le prebende soppresse quelle che rimanevano, per assicurare ai canonici una maggiore tranquillità economica ed esigere da loro l’esatto adempimento dei loro doveri. Il progetto non piacque alla Congregazione del concilio: in una lettera del 24 agosto 1582 gli rispose che non rientrava nelle sue competenze sopprimere le prebende di un capitolo; era invece suo dovere esigere che tutti i canonici, quali che fossero i redditi delle loro prebende e le consuetudini invalse, osservassero l’obbligo della presenza al coro43. Per eliminare gli abusi lamentati gli veniva ricordata la norma del concilio di Trento di prelevare la terza parte di tutti redditi per trasformarla in distribuzioni quotidiane e incentivare l’osservanza degli obblighi corali44. Strettamente legato a questo problema c’era quello della responsabilità dei canonici nella cura delle anime. Verso la fine del 1582, il Cutelli inviò una seconda lettera per avere il sostegno della Congregazione nell’attuazione di una riforma che gli stava particolarmente a cuore. Alla lettera erano accluse le copie delle bolle di Eugenio IV e di Nicolò V45. Il Cutelli ripropose i punti salienti della questione: 1) «la città di Catania tenea già le parrocchie, com’appare per le collationi e visitationi et altre scripture dell’archivio vescovale»; 2) quando Eugenio IV con la sua bolla eresse una chiesa sacramentale in

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Mss A 21, cit., primo documento del dossier, fol. 1v. Congr. Concilio, Libri Litter., 1581-1583, fol. 133r-134r. 44 Sess. XXI, de ref., c. 3, Conc. Oec. Decr., 729. 45 Congr. Concilio, Positiones, 18, cit., fol. 55r-65v. 43

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collegiata e permise che alle prebende dei canonici fossero unite diverse chiese sacramentali, stabilì che si dovesse continuare ad esercitare la cura delle anime sia nella collegiata sia nelle chiese annesse alle prebende; 3) nel corso degli anni, mentre i vescovi erano assenti o mentre la sede era vacante, il prevosto e i canonici non avevano più amministrato i sacramenti in queste chiese e avevano convinto i fedeli che le parrocchie erano un «giogo insupportabile, onde si resta tutta la città senza la debita cura et administratione di sacramenti, et succedono ogni giorno grandissimi scandali e pericoli e s’introduce consuetudine di viver in libertà»; 4) ma quando il vescovo si decise di ripristinare le parrocchie, «conforme al sacro concilio Tridentino, esso preposito e prebendati, giuntamente con li nobili della città, contradicono con l’immemorabile corruttela et altri diversi subterfugi e perseguitano al vescovo et suoi ministri e familiari con diverse calunnie»; 5) il vescovo chiede alla Congregazione che voglia suggerire le iniziative ritenute opportune per attuare le norme emanate dal concilio di Trento46. Il documento è rilevante perché ci permette di comprendere il peso che la riforma della cura delle anime ebbe nella controversia del vescovo con la città. È lo stesso Cutelli che denunzia la collusione “canonici della collegiata – nobili della città” e il ricorso all’arma della calunnia per far fallire il suo progetto di riforma. Si noti che il Cutelli a fianco del prevosto e dei canonici pone solamente i nobili della città, considerandoli come il soggetto principale in grado di condizionare tutti gli altri gruppi egemoni: da quelli che svolgevano compiti istituzionali (le magistrature cittadine) a quelli che erano in grado di condizionare comunque la vita della città con la propria influenza (lo Studium, le istituzioni e gli ordini religiosi). Il prefetto o il segretario della Congregazione, scrivendo di proprio pugno gli appunti per la risposta da inviare al vescovo47, si limitò a indicare le norme del concilio di Trento che si riferivano all’argomento: se è provata l’annessione delle chiese alle prebende della collegiata, come si asserisce citando la bolla di Eugenio IV, sembra

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Ibid., fol. 62r. L. c. La risposta ufficiale si trova in Congr. Concilio, Libri Litter., 1581-1583, fol. 169v-170r. 47

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che si debba far riferimento al c. 7 della sessione VII48; se l’annessione non c’è mai stata e i sacramenti sono amministrati senza alcuna distinzione di confini e di parrocchie, la norma da osservare è quella del c. 13 della XXIV sessione49; se infine si incontrano difficoltà ad amministrare i sacramenti si può ricorrere al c. 4 della sessione XXI50. Intanto le accuse mosse nel memoriale inviato dai giurati esigevano una verifica e suggerivano l’opportunità di allontanare per qualche tempo il vescovo dalla sede vescovile. Il Cutelli fu chiamato a Roma51 e gli fu affidato l’incarico di visitatore apostolico delle diocesi di Viterbo e Tuscania52. Il governo della Chiesa di Catania fu affidato ad interim al sacerdote lucchese Matteo Samminiati, che iniziò il 48

«I benefici ecclesiastici con cura d’anime, uniti e annessi in perpetuo alle cattedrali, alle collegiate... saranno visitati ogni anno dagli ordinari locali; essi provvederanno con sollecitudine a nominare vicari idonei, anche perpetui...» (Conc. Oec, Decr., 688). 49 «...Anche in quelle città o territori dove le chiese parrocchiali non hanno confini ben definiti, né i loro rettori un proprio popolo da governare, ma amministrano indistintamente i sacramenti a chi li chiede, il santo sinodo comanda ai vescovi, perché sia più certa la salvezza delle anime loro affidate, di dividere il popolo in parrocchie vere e proprie e di assegnare a ciascuna un proprio parroco stabile, che possa conoscere i propri parrocchiani e dal quale soltanto ricevano lecitamente i sacramenti. Altrimenti provvedano in modo migliore, secondo le esigenze locali... E ciò, nonostante qualsiasi privilegio e consuetudine contraria, anche immemorabile» (ibid., 768). 50 «In tutte le chiese parrocchiali o che hanno fonte battesimale, nelle quali il popolo è talmente numeroso, che un solo rettore non basta per l’amministrazione dei sacramenti della chiesa e per il culto divino, i vescovi, anche come delegati della Sede apostolica, costringano i rettori o gli altri responsabili ad associarsi in questo ufficio tanti sacerdoti, quanti sono sufficienti per amministrare i sacramenti e compiere il servizio divino. In quelle chiese, poi, nelle quali per la distanza dei luoghi o la difficoltà del percorso, i parrocchiani non possono recarsi a ricevere i sacramenti o ad assistere ai divini uffici se non grave incomodo, i vescovi potranno erigere nuove parrocchie, malgrado l’opposizione dei parroci...» (ibid., 729-730). 51 Il De Grossis e il Pirri, pur avendo consultato i documenti d’archivio, nel ricostruire questi avvenimenti riferiscono qualche notizia inesatta; scrivono che fu il papa Sisto V a chiamare il Cutelli a Roma nel 1583; ma Sisto V fu eletto nel 1585; inoltre il Pirri prima scrive che il Cutelli fu rinchiuso nella Torre nuova, poi riferisce che occupò il tempo del suo soggiorno a Roma nella compilazione di una cronologia dei vescovi catanesi (I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 270; R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 556). In realtà il Cutelli fu chiamato a Roma per essere interrogato in un processo informativo sul suo operato, non per essere recluso. 52 La nomina porta la data del 26 aprile 1583 (Sec. Brev., Reg., 56, fol. 341v).

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suo ministero l’8 luglio 158353. Nello stesso tempo si avviò un processo presso la speciale commissione di nove cardinali prevista dalle norme canoniche54. Il 13 dicembre 1584 i giurati, con atto rogato dal notaio Vincenzo Fazio, elessero come procuratori nella causa contro il vescovo due chierici siciliani residenti a Roma: Matteo Catalano ed Erasmo Siracusa55. Nella parte iniziale del documento si riassumono le accuse contenute nel memoriale inviato negli anni precedenti. Fra queste non poteva mancare quella riguardante la decisione di rimuovere i sei cappellani sacramentali, che amministravano i sacramenti in tre chiese della città con uno stipendio della mensa vescovile56. In seguito a questi avvenimenti, nella diocesi di Catania si creò una situazione confusa. Il Samminiati negli atti della curia si qualificava «vicarius generalis locumtenens» e in un biglietto della Segreteria dei brevi per la sua nomina a protonotario apostolico viene chiamato “vicario”57. Probabilmente, per una forma di rispetto verso il Cutelli, si era evitata la nomina di un amministratore apostolico sede plena. Tuttavia la formula prescelta non era priva di ambiguità: la corte di Palermo, facendo notare che il vicario generale poteva essere nominato solamente dal vescovo residenziale, aveva preteso il consenso del Cutelli per dare l’esecutoria alla bolla pontificia58; il vescovo, da parte sua, non essendo stato privato della sua giurisdizione, considerò il Samminiati un intruso e continuò a governare la diocesi da Roma attivando una fitta corrispondenza con i vicari foranei59. 53

Ibid., fol. 416r. Testimonianza del canonico Nicola Maria Lentini Sambasili. Di questa speciale commissione si fa cenno nei documenti che riferiscono l’esito finale della vicenda Cutelli (Arch. Concist., Acta Camerarii, 12, fol. 110v). 55 Arm. XXXVII, 15, fol. 385r-387v. 56 «...dum ipse rev.mus episcopus solvere detrettet salaria consueta cappellanis qui huiusmodi curam sustinebant aliaque enormiora dicat et faciat, de quibus iam Sedes Apostolica est informata...» (ibid., fol. 385r-v). 57 Sec. Brev. 56, fol. 416r. 58 I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 270. Non è difficile ipotizzare un intervento del Cutelli presso la corte di Palermo per ostacolare la nomina del vicario, che poneva un limite al suo governo pastorale e poteva costituire l’avvio di ulteriori provvedimenti a suo carico. 59 ASD, Lettere Mons. Cutelli. Dal 1° settembre 1583 al 6 aprile 1584 il Cutelli inviò venticinque lettere da Ronciglione e da Roma per dare suggerimenti e indicazioni pastorali sulla catechesi, sul precetto pasquale, sui casi di coscienza per il clero... 54

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Non sembra che il processo romano contro il Cutelli si sia concluso con una condanna; probabilmente la speciale commissione dei cardinali si limitò a delle raccomandazioni verbali, ottenendo in cambio la promessa di riprendere in mano la situazione con l’aiuto del vicario nominato dalla s. Sede60. Nel 1585 il vescovo rientrò in diocesi; ma non riuscì a controllare il risentimento che si era accumulato nel suo animo nei due anni trascorsi a Roma. Come primo gesto cacciò dall’episcopio il Samminiati e le persone del seguito, obbligandoli a prendere in affitto una casa privata. In questa abitazione trovarono rifugio alcune persone che temevano ritorsioni dal vescovo e, a salvaguardia della propria incolumità, pensarono bene di chiedere aiuto a una compagnia di soldati spagnoli residenti a Catania61. Al culmine di un periodo di forti tensioni il Cutelli, rivestito degli abiti pontificali, scomunicò il vicario Matteo Samminiati62. Questi fu rimosso dal suo ufficio, ma il nostro vescovo fu richiamato a Roma e sottoposto a un nuovo processo63.

60 Questa conclusione è sottintesa nelle espressioni adoperate dal papa per riferire in concistoro la condanna definitiva del Cutelli (Arch. Concist., Acta Camerarii, 12, fol. 110v; Arch. Concist., Acta Misc., 14, fol. 161v). 61 Nella testimonianza del canonico Lentini e Sambasili leggiamo: «...da poi che venne il detto ill.mo episcopo il detto signor di Samminiati fu cacchiato dal palazzo episcopale e fu forzato alloghar casa di fora et ha tenuto dui casi: una dello spett. don Micheli Statella, che si alloghava unci ventiquattro l’anno, dove stetti per spazio di doi mesi, et l’altra del spett. signor Rosario Provinzali, dove stetti fino alla partita del ill.mo episcopo per Roma... Lu ill.mo signor di Samminiati, nel tempo che havia li differentii con il detto ill.mo episcopo stando in detta casa di detto di Provinzali, ultra li servitori soliti, tenia ancora genti armati con scopetti per difension sua; li quali né di giorno né di notti si partiano della sua casa; anczi di piò per alcuni giorni, quando il pericolo era maggiore ci facia stari alcuni soldati spagnoli di una compagnia, che a quel tempo era in Catania; et di più multi iaconi et sacerdoti persecuti dal vescovo, per timore di non essere carcerati et travagliati dal vescovo senza causa, stavano a dispesi di detto ill. signore di Samminiati»» (l. c.). 62 «...cum pluviali et mitria excommunicaverat vicarium apostolicum, qui tunc curam seu episcopatum gerebat... (Arch. Concist., Acta Camerarii 12, fol. 110v; Arch. Concist., Acta Misc., 14, fol. 161v). 63 Nel frattempo il governo della diocesi fu affidato negli anni a diversi vicari apostolici: lo spagnolo Michele Xiquot, il vescovo di Capri Francesco Liparolo, Fabrizio Mandosio (I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 270) e il sacerdote umbro Annibale Muzio (Arm. XLII, 47, fol. 152r-153r).

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Il gesto teatrale del Cutelli si spiega — per dirla col Ferrara — non solo con il suo «carattere sulfureo»64, ma anche con le scelte pastorali fatte dal Samminiati. In poche parole: il vicario, facendo proprio il punto di vista dell’aristocrazia e del clero catanese, si era mosso nella direzione opposta a quella seguita dal Cutelli in uno dei punti nodali del suo programma pastorale: la riforma parrocchiale. Il vescovo voleva che nella cattedrale fossero i canonici ad assumersi personalmente la responsabilità della cura delle anime e nelle chiese sacramentali annesse alle prebende dei canonici della collegiata fossero questi ultimi ad assicurare a proprie spese il servizio pastorale. Per raggiungere questo scopo non aveva più pagato lo stipendio ai sei cappellani istituiti dal Caracciolo. Il vicario, ritenendo dannoso per i fedeli il progetto del Cutelli, aveva ripreso la prassi precedente. Queste affermazioni trovano conferma nelle istruzioni lasciate dal Samminiati al suo successore Michele Xiquot; anche se il vicario vuol far credere che le scelte del vescovo fossero motivate dal desiderio di risparmiare le somme degli stipendi ai cappellani: «...nelle chiese chiamate sacramentali si tenevano cappellani che apena sapevano leggere; li quali, per esserli stato levato dal vescovo il salario solito, pretendevano di non essere obligati senza pagamento d’administrari li sacramenti; onde molti poveri infermi erano deffraudati delli frutti et consolationi spirituali. Al quale inconveniente si è remediato havendo deputati cappellani idonei con obligo di administrare tutti li sacramenti gratis, di visitare gli infermi et di far tutte le cose appartinenti all’offitio di curato; li quali ogni giorno di festa insegnavano la dottrina christiana, facendo chiamare dalli figli del seminario con la campanella tutti li figli ad ascolatarla; et doppo la venuta del vescovo le cose sonno tornate come prima perché non li sono stati pagati li salarii promessi... Nella chiesa catedrale, alla quale appartiene la cura di tutta la cità, li altri vescovi passati hanno usato di tener due cappellani per la cura, che fossero obligate a ministrare tutti li sacramenti con salario di diece scudi l’anno per uno; li quali, non havendo a loro offitio che questo, complivano al debito con molta carità. Il vescovo presente, per non pagare il salario, ha permesso che li sacramenti siano administrati da sacerdoti, li quali

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F. FERRARA, Storia di Catania, cit., 146.


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per la loro ignoranza non erano approbati alla confessione; onde nascevano spesso molti inconvenienti che, occorrendo all’infermo quando si comunicava recordarsi di qualche pecato oblito, il sacerdote non poteva absolverlo. Al quale inconveniente ho tentato di remediare deputando nella catedrale alla administratione delli sacramenti due sacerdoti approbati per la confessione; ma perché non hanno salario non attendono all’offitio con quella assiduità che conviene; però si prega V. S. che in questa parte ancora apri gli ochi perché si tratta della salute delle anime...»65.

Durante la sua seconda permanenza a Roma il Cutelli non si rassegnò ad attendere l’esito del processo. Tramite i suoi familiari o i collaboratori che gli erano rimasti fedeli cercò di adoperarsi presso la regia corte di Palermo per avere un appoggio in suo favore66 e fece di tutto per mantenere vivo il desiderio di un suo ritorno in diocesi; ma le sue attese furono vane. Il papa Sisto V in persona, il 16 gennaio 1589, riferì in concistoro l’esito del processo: il Cutelli in due distinti procedimenti era stato accusato di gravi reati, lo stesso papa, mentre era cardinale, aveva fatto parte della commissione dei nove, che aveva trattato per la prima volta il suo caso. Si era cercato in tutti i modi di convincere l’accusato a desistere dal suo comportamento e a presentare le dimissioni, onde evitare una condanna. Poiché il vescovo era rimasto fermo nel suo punto di vista, era parso inevitabile privarlo della sede vescovile e ordinare che venisse rinchiuso in un mona-

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TA 1585-1586, fol. 46r-55v: 47v. Nel documento (10 ottobre 1585) il Samminiati non riesce a dissimulare il proprio risentimento per l’affronto subito dal Cutelli e per la rimozione decisa dalla Congregazione; descrive a fosche tinte la situazione in cui aveva trovato la diocesi all’inizio del suo mandato e mette in evidenza i provvedimenti presi nel tentativo di ovviare ai tanti mali riscontrati. 66 Il vicario apostolico Francesco Liparolo nel 1587, in una lettera a Sisto V, lamentava l’azione di disturbo svolta dal Cutelli presso la regia corte di Palermo (Segr. Stato, Napoli, 14, fol. 284r-287v). Nel 1588 i giurati di Paternò e i cappellani di San Filippo d’Agira, dopo avere elogiato lo zelo del Cutelli e descritto le tristi condizioni in cui si trovava la diocesi, sollecitarono il ritorno del vescovo (Prìncipi, 45, fol. 15r-v, 49r-51v). Sembra però che la stessa corte, prima della formale conclusione del processo, ritenesse perduta la causa del Cutelli e lo considerasse decaduto dal suo ufficio se nel 1587 presentò come suo successore l’inquisitore Giovanni Corrionero (G. FALLICO, Cutelli Vincenzo, cit., 534).

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stero67. Morì a Roma il 28 giugno 1597, all’età di 55 anni, e fu sepolto nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte68. L’attuazione della riforma della cura delle anime, prevista nel progetto pastorale del Cutelli, ancora una volta fu rinviata a tempi migliori.

3. EREZIONE DELLE CHIESE SACRAMENTALI NEI CENTRI ABITATI DELLE PENDICI DELL’ETNA

Problemi di diversa natura poneva la cura delle anime nei centri abitati sorti alle pendici dell’Etna, che possono essere distinti in tre diverse tipologie: a) i casali del bosco di Catania, che inizialmente erano parte integrante del territorio della città, ma negli anni 1641-1645 divennero terre baronali; b) i casali del feudo di Paternò; c) i centri abitati sorti nel bosco di Aci, che da una iniziale condizione di unità furono divisi in due o più circoscrizioni amministrative, con la conseguente configurazione giuridica di terra demaniale o feudo baronale. I vescovi fecero ricorso allo stesso modello usato per il territorio della città di Catania. L’erezione di una chiesa sacramentale avveniva quando si aveva un nucleo consistente di abitazioni e un numero di abitanti sufficiente a garantire il sostentamento del cappellano con il pagamento delle primizie o la costituzione di rendite stabili. Nelle tre circoscrizioni il territorio delle chiese sacramentali più antiche fu smembrato man mano per erigere chiese sacramentali filiali. Inizialmente la responsabilità della cura d’anime e il diritto alle primizie restavano al 67 «Dixit ob diversa crimina ipsum privasse Vincentium Cultellum episcopum Catanien. episcopatu ac declarasse eum in monasterium detrudendum fore; quae crimina Sanctitas sua retulit esse quia diruerat palatium episcopale ut cementia venderet; quia tectum ecclesiae erat apertum ita quod ecclesia et pluvia et vento offendebatur; quia cum pluviali et mitria excommunicaverat vicarium apostolicum, qui tunc cura seu episcopatum gerebat; ex quo facto cum esset suspensus nihilominus nulla obtenta assolutione duobus annis continuis celebravit et sic irregularis effectus fuit, aliaque et graviora crimina reluit adesse in processu, ob quae omnia ac etiam quia infensus erat toto populo Cathanien. iudicavit ipsum episcopatum privandum ac in monasterio detrudendum» (Arch. Concist., Acta Camerarii 12, fol. 110v; Arch. Concist., Acta Misc., 14, fol. 161v). 68 I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 270-271; Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, III, cit., 159.

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cappellano della chiesa principale, fino a quando la chiesa filiale non otteneva la piena autonomia. Poiché le antiche chiese sacramentali del bosco di Catania e di Aci costituivano le prebende dei canonici della collegiata, era necessario il consenso dei titolari delle prebende per erigere le nuove chiese sacramentali. Se inizialmente i canonici si opposero, man mano si resero conto che la moltiplicazione dei centri di culto abilitati alla cura delle anime era conveniente anche per loro, perché determinava un aumento delle rendite del loro beneficio. Nel bosco di Catania, nella seconda metà del ’500, furono erette le chiese sacramentali: Santa Maria dell’Itria di Viagrande69, Santa Maria degli Ammalati a Camporotondo70, Sant’Antonio di Padova a Plache71 (poi Gravina), Santa Maria del Rosario a Trappeto72. Nella prima metà del ’600 furono erette le chiese sacramentali: Santa Maria degli Ammalati a San Gregorio73, San Biagio a Viscalori74, Sant’Agata nei nuclei abitati che formarono il casale di Sant’Agata li Battiati75. 69 Nel 1571 la cura delle anime di questo casale veniva svolta temporaneamente nella chiesa di S. Biagio di Viscalori, in attesa che venisse trasferita «ad ecclesiam inferiorem, quae de novo fabricatur sub titulo S.tae Mariae de Itria di la Viagrandi» (Visite 1571-1573, 8 ottobre 1571). Il primo battesimo che risulta nei registri parrocchiali di questa chiesa è del 29 gennaio 1588 (29 gennaio 1587, XV ind.). 70 La chiesa Santa Maria degli Ammalati, attorno alla quale sorgeva il primo nucleo delle abitazioni di questo casale, divenne sacramentale nel 1574. Catania sacra 1972, cit., 181. Nella ricostruzione dopo l’eruzione del 1669 la chiesa sacramentale fu intitolata a Sant’Antonio abate. 71 La chiesa di Sant’Antonio da Padova divenne sacramentale il 13 febbraio 1579 con decreto del vescovo Vincenzo Cutelli, che smembrava il territorio della chiesa sacramentale San Nicola di Mascalucia (TA 1579-1580, fol. 80r-v). 72 La chiesa divenne sacramentale quando il casale raggiunse una certa consistenza per la popolazione di Catania, che vi aveva trovato rifugio dopo la peste alla fine del ’500: Catania sacra 1972, cit., 209. 73 Il casale di San Gregorio sorgeva nel territorio della città di Catania che confinava con la terra di Aci. Sin dalla fine del ’500 la cura delle anime nella chiesa del casale era esercitata dai sacerdoti della chiesa sacramentale di Valverde. La sua autonomia fu riconosciuta con decreto del 5 dicembre 1620 (ibid., 210). 74 La chiesa sacramentale fu eretta il 28 agosto 1635 (ibid., 220-221). 75 In seguito a un accordo tra gli abitanti e il dottore in utroque iure Lorenzo d’Arcangelo, che cedette la chiesa di sua proprietà con gli edifici annessi e il terreno per il cimitero, il vescovo eresse la chiesa sacramentale nei quartieri «Valenti, Vattiati e Murabiti» del territorio di Tremestieri (A. LONGHITANO, Sant’Agata li Battiati. All’origine della parrocchia e del comune, in Synaxis 18 [2000] 163-227).

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Il 29 maggio 1753 fu eretta la chiesa sacramentale Santa Maria della Provvidenza di Zafferana con decreto del vescovo Pietro Galletti, che smembrava il territorio della chiesa di Trecastagni76. A queste chiese sacramentali, sorte nel territorio di Catania, bisogna aggiungere quelle erette nel dominio feudale del principe di Paternò: chiesa della contrada Stella di Malpasso77, Spirito Santo di Nicolosi78, Santissimo Crocifisso a Santa Maria di Licodia79. Nel bosco di Aci si ha una situazione più articolata, in considerazione dello sviluppo dei centri abitati e dell’incremento demografico che nel ’500 e nel ’600 si ebbe nel territorio80: a) dall’antica chiesa sacramentale di San Filippo di Carcina, per successive divisioni del territorio, furono istituite le seguenti chiese sacramentali: Santa Maria Annunziata ad Aquilia nuova (poi Acireale) nel 1558, con decreto del vescovo Nicola Maria Caracciolo; Santa Lucia a Cubisìa (poi Aci Santa Lucia) nel 1571 e Santa Maria del Car-

76

A. PATANÈ, Pagine della “Zafarana”. Origine e vicende varie del comune di Zafferana Etnea (1753-1860), Acireale 1998, 24-26. 77 Nel 1571 fu eretta la chiesa sacramentale «in contrata di Malpassu alias delle Stelle», l’attuale quartiere di Borrello, come succursale della chiesa di Mompileri, «non preiudicando alla premitia et alle ragioni chi si deveno alla chiesa di Mompileri le quale volemo che siano illesi et illibati» (Visite 1571-1573). Nello stesso territorio di Malpasso è indicata la chiesa di S. Maria del Rosario, che non è sacramentale. Nel verbale della visita pastorale sono elencate le seguenti “contrade”, che avevano chiese non sacramentali: Nicolosi, S. Antonio, Grifo, Rapisardi. Il casale di Malpasso nel 1636 sarà elevato al rango di “terra”, con una certa autonomia amministrativa (G. SAVASTA, Memorie storiche della città di Paternò, Catania 1905, 225-226). Questi e altri casali della zona saranno distutti nell’eruzione del 1669 e in alcuni casi ricostruiti in luoghi e con criteri diversi (A. LONGHITANO, Profughi e città nuove dopo l’eruzione del 1669, in ASSO 86 [1990] 89-116). 78 Il casale di Nicolosi ecclesiasticamente faceva parte della chiesa sacramentale di Mompileri. La chiesa dello Spirito Santo divenne sacramentale il 3 agosto 1601 per decreto del vicario generale Giovanni Battista Paternò (Catania sacra 1972, cit., 194). 79 L’abate del monastero aveva avuto la facoltà di amministrare i sacramenti nel 1205 (vedi supra, cap. 1). La chiesa sacramentale nel centro abitato sorto attorno al monastero fu eretta il 31 gennaio 1754 dal vescovo Pietro Galletti (Catania sacra 1972, cit., 212). 80 Il progressivo sviluppo dell’ordinamento della cura delle anime nel bosco di Aci è preso in esame da M. DONATO, Le chiese sacramentali, cit.

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mine a Patanei (poi Aciplatani) nel 1571, con decreto del vescovo Antonio Faraone; San Costantino a Scarpi (poi Acicatena) nel 158681, San Giacomo nel 1606, Santa Maria della Consolazione nel 1625. Dalla chiesa Santa Maria Annunziata di Aquilia nuova, per suddivisione del suo territorio, nel 1571 furono erette le chiese sacramentali: Santa Caterina a Cavallari, Santa Maria dei Miracoli a Musumeci, San Michele a Gambini. b) Dalla chiesa sacramentale Santa Maria di Valverde, per successive divisioni del suo territorio, furono erette le chiese sacramentali: Sant’Antonio di Casalotto (poi Aci Sant’Antonio) nel 1566, Santa Maria della Consolazione ad Aci Bonaccorsi nel 158282, Santa Maria Ammalati a San Gregorio nel 1616. c) La cura delle anime, che anticamente veniva esercitata nella chiesa sacramentale interna al castello di Aci, nel 1582 fu trasferita nella chiesa di San Mauro, nel centro abitato attiguo al castello.

81 Nel 1597, con decreto del vescovo Giovanni Domenico Rebiba, la cura delle anime fu trasferita nella nuova chiesa Santa Maria della Catena. 82 Nel 1588 la cura delle anime fu trasferita nella chiesa Santa Maria delle Grazie e nel 1589 in Santa Maria dell’Indirizzo.

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VI

IL PROGRESSIVO ESAURIMENTO DELLA SPINTA RIFORMATRICE TRIDENTINA

1. IL

RINVIO SINE DIE DELLA RIFORMA E L’INTERVENTO DELLA

CON-

GREGAZIONE DEL CONCILIO

Il successore del Cutelli, lo spagnolo Giovanni Corrionero, il 18 settembre 1589, illustrando al papa lo stato pietoso in cui aveva trovato la diocesi dopo il lungo periodo di assenza del vescovo, scriveva: la maggior parte del clero è ignorante, arrogante, poco interessata a svolgere i propri compiti. Nella città non esistono parrocchie e i cittadini non vogliono neppure sentir pronunziare il loro nome. Avendo saputo che in passato erano esistite cinque chiese sacramentali per l’amministrazione dei sacramenti, le ho ripristinate a proprie spese1. In tal modo i canonici della collegiata, appoggiandosi alle altre oligarchie cittadine, riuscirono ancora una volta ad allontanare il pericolo di vedere diminuite le loro prebende e di essere obbligati ad assumersi la responsabilità della cura delle anime imposta loro dalla bolla di Eugenio IV2. Nel 1589 iniziarono le relazioni, che i vescovi ogni tre anni dovevano presentare alla s. Sede in occasione della visita ad limina3. De1

Segr. Stato, Napoli, 14, fol. 292r-v. Il De Grossis, scrivendo il profilo del Cutelli dopo circa cinquant’anni dalla sua morte, non sembra avere dubbi nell’addossare all’aristocrazia la responsabilità delle accuse calunniose mosse contro il vescovo, ed usa parole molto forti verso i figli che avevano osato rivoltarsi contro il padre e i cittadini che avevano diffamato un loro stesso concittadino. Nella parte conclusiva del suo profilo fa capire che le maledizioni del vescovo avevano sortito il loro effetto: i suoi calunniatori morirono prematuramente e di morte violenta o si ridussero nella miseria. Forse in quanto canonico della collegiata, per l’amore che egli aveva verso la chiesa nella quale egli stesso prestava servizio, non sospettò o non volle rendere manifesto che fra i responsabili delle traversie del vescovo Cutelli c’erano anche i suoi confratelli (I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 270-271). 3 Sisto V nel 1585 aveva stabilito che tutti i vescovi, recandosi ogni tre anni a Roma per venerare le tombe degli apostoli e per rinnovare la propria obbedienza al 2

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scrivendo lo stato della diocesi, i vescovi affrontano esplicitamente il problema della riforma parrocchiale e la Congregazione del concilio nelle sue osservazioni non può fare a meno di manifestare il suo pensiero. Perciò attraverso questa documentazione è possibile costatare: da una parte l’inerzia dei vescovi, che ben presto accantonarono l’idea di creare parrocchie autonome e parroci perpetui, dall’altra l’acquiescenza della Congregazione, che di per sé era stata istituita per interpretare in modo autentico i decreti e le norme del concilio di Trento e per promuoverne l’attuazione. Nella prima relazione del 1589, redatta dal beneficiale Giovanni Caudullo, delegato del vescovo, si legge che nella città c’era una sola parrocchia, insufficiente per il numero degli abitanti. La cura delle anime veniva esercitata da cappellani nella cattedrale ed in alcune chiese sacramentali4. La Congregazione del concilio in risposta alla seconda relazione del 1592, fa solamente notare che sarebbe suo desiderio affidare la cura delle anime nella cattedrale a una persona determinata5. Questa nota della Congregazione non trova immediata attuazione6. Nella relazione del 1596 il vescovo Giovanni Domenico Rebiba, descrivendo l’esercizio della cura d’anime nei vari centri della diocesi, fa notare che in quasi tutte le chiese manca un parroco determinato; la cura viene esercitata collegialmente da più sacerdoti7. papa, dovevano presentare una relazione scritta sullo stato della propria diocesi, con particolare riferimento all’attuazione della riforma tridentina. La Congregazione del concilio, dopo aver esaminato la relazione, inviava al vescovo le sue osservazioni. Sulla valenza teologica e giuridica di questa norma e sulla utilizzazione storiografica dei documenti redatti e presentati a Roma dai vescovi si veda Relazioni, I-II, 9-14. 4 «Nella suddetta città {di Catania}, con gli introiti del suo patrimonio, {il vescovo} nominò 5 cappellani per amministrare i sacramenti ai fedeli in altrettante chiese sacramentali e per insegnare ai fanciulli il catechismo, considerato che la città è grande e ha una sola parrocchia, del tutto insufficiente a svolgere queste mansioni» (Relazioni, I-II, 59). 5 «...Nella lettera si scriva: piace alla Congregazione che nella cattedrale la cura delle anime, se è possibile, sia affidata ad una persona determinata» (Libri Decret., liber VII, 1591-1593, fol. 72r; Relazioni, I-II, 60). 6 Solo nel 1616 sarà istituito nella cattedrale l’ufficio del maestro cappellano a cui spetterà amministrare i sacramenti assieme a quattro sacerdoti (TA 1615-1616, fol. 498r-499r). 7 «La cura delle anime di tutta la città e dei suoi abitanti spetta al capitolo, che la esercita tramite i vicari incaricati nelle diverse chiese, chiamate sacramentali,

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Non conosciamo la risposta della Congregazione, ma il vescovo nelle costituzioni sinodali prescrive: «...Li chiesi parrochiali li quali stanno in comunia per haver un capo ha ordinato che si diano in titulo ad una persona la quale dovesse havere la cura delle anime...»8. Se questa disposizione fosse stata attuata, probabilmente si sarebbe risolto il problema dei parroci perpetui. Ma di fatto le cose non cambiarono. Troviamo un’esplicita dispensa da questa norma per la comunìa di Paternò9. Un’altra circostanza di rilievo, per capire l’atteggiamento assunto dalla Congregazione del concilio verso la riforma parrocchiale, si ha con l’erezione della collegiata di Piazza. Nel 1602 due fedeli benestanti, Marco e Lauriella Trigona, pensarono di costituire con le loro proprietà i benefici necessari all’erezione di una collegiata nella chiesa madre. Poiché tale erezione interessava pure l’esercizio della cura d’anime, una delle condizioni poste dal clero e dai fedeli fu quella di restare liberi nel chiedere i sacramenti a qualsiasi cappellano delle chiese sacramentali della città. La Congregazione del concilio rispose affermativamente: alle quattro dignità del capitolo spetta la

perché in esse si amministrano i sacramenti nei diversi quartieri della città, secondo le esigenze del popolo e degli abitanti; in essa non c’è altra chiesa parrocchiale» (Relazioni, I-II, 67). Nella stessa relazione si afferma degli altri centri della diocesi: «Nella circoscrizione diocesana c’è la città di Piazza, con circa 6.000 nuclei familiari, nella quale sorge una chiesa madre in cui servono circa 100 sacerdoti, dei quali 4 sono chiamati cappellani maggiori, e altre chiese parrocchiali... La città di Enna ha circa 7.000 nuclei familiari; c’è la chiesa madre intitolata a s. Martino { = s. Maria}, in cui prestano servizio circa 100 sacerdoti, dei quali 6 o 8 sono chiamati cappellani maggiori. Ci sono inoltre 10 o 12 chiese parrocchiali... La popolosa città di Agira, comunemente chiamata San Filippo, ha circa 5.000 nuclei familiari. In essa non c’è la chiesa madre ma solamente 6 chiese parrocchiali; in ognuna di esse prestano servizio 10 cappellani amovibili a discrezione del vescovo; non c’è un parroco a cui competa in modo specifico la cura delle anime.... La città di Calascibetta ha 3.000 nuclei familiari, una chiesa madre con 15 sacerdoti, 2 chiese parrocchiali... La città di Paternò, con circa 2.000 nuclei familiari, ha la chiesa madre con 15 sacerdoti... Nella circoscrizione diocesana ci sono inoltre le terre di Adernò, Regalbuto, Assoro, Aidone, Biancavilla, Motta e circa 30 villaggi che sorgono attorno e vicino le mura di Catania, chiamati comunemente “le vigne di Catania”. Spetta al vescovo nominare in questi luoghi i cappellani sacramentali» (ibid., 68-69). 8 TA 1602-1603, fol. 321v. 9 Ibid. fol. 321v-322v.

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cura d’anime della città; ma i fedeli resteranno nella libertà che hanno avuto per il passato, di chiedere i sacramenti alla chiesa che preferiscono10. Perciò anche nel momento in cui si verificò una circostanza favorevole, che avrebbe potuto consentire l’attuazione della riforma, si preferì mantenere immutata la situazione esistente. Nella relazione del vescovo Bonaventura Secusio, presentata nel 1612, troviamo per la prima volta affermato in modo esplicito il principio che nella città e in quasi tutta la diocesi di Catania la cura delle anime risiede nel vescovo, che la esercita per mezzo di vicari e cappellani amovibili ad nutum11.

2. IL PERFEZIONAMENTO DEL MODELLO ESISTENTE A partire da questo principio si incominciò a delineare in modo unitario l’organizzazione pastorale della diocesi nel sinodo indetto dal vescovo Giovanni Torres de Osorio nel 162212. Negli anni precedenti si erano avute delle semplici costituzioni sinodali manoscritte, che si limitavano a dare in poche pagine le norme essenziali per l’azione pastorale e la vita cristiana dei fedeli. Questo sinodo, proprio perché pubblicato a stampa, può trattare con mag10 «Congregatio Concilii censuit, annuente tamen SS.mo D. N., debere expediri; additis tamen in actis ubi scilicet fit mentio quod obtinentes illas quatuor dignitates habeant curam animarum populi et administrationem sacramentorum cum illa libertate qua de presenti cura exercetur; exprimatur dicta libertas, quae est ut liceat cuilibet adire pro receptione sacramentorum etiam alias provinciales ecclesias in dicto oppido existentes...» (Libri Decret., liber X, 1601-1607, fol. 50v). Per l’erezione della collegiata di Piazza cfr. R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 585-586. Il testo della bolla di erezione è riportato nelle Visite del 1669, III (Piazza), in esso si legge: «...Salva tamen libertate cum qua dicta cura tunc exercebatur quae quidem libertas ea est ut liceat cuilibet ex incolis predictis pro receptione dictorum sacramentorum et alias sacramentales ecclesias eiusdem oppidi adire circa quas nihil prorsus duxit innovandum...». 11 «La cura delle anime della città e di quasi tutta la diocesi spetta al vescovo, che la esercita tramite i vicari e i cappellani amovibili a sua discrezione, nominati a questo scopo in alcune chiese, chiamate sacramentali, che sorgono nella città e nei diversi centri abitati secondo la necessità del popolo e degli abitanti» (Relazioni, I-II, 85). 12 Catanensis Ecclesia synodus dioecesana ab illustrissimo et reverendissimo Domino Don Joanne De Torres Ossorio Episcopo Catanensi celebrata, Militelli V.N. 1623.

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giore ampiezza i temi che interessano la fede, il culto, l’amministrazione dei sacramenti, la disciplina... Tuttavia non ha quella rigorosa impronta giuridica nell’organizzazione pastorale della diocesi, che sarà caratteristica del sinodo successivo di Michelangelo Bonadies. Si scrive indifferentemente di parrocchie e di chiese sacramentali13. Si danno le norme concrete che devono osservare i pastori d’anime, ma non si ritiene rilevante determinare i criteri per distinguere i casi in cui si ha una parrocchia e i casi in cui si ha una semplice chiesa sacramentale. Per la città di Catania si afferma esplicitamente che esiste una sola parrocchia nella cattedrale; vi sono pure delle chiese sacramentali istituite per la maggiore comodità dei fedeli. Nel periodo pasquale ognuno può soddisfare l’obbligo del precetto nella chiesa del proprio quartiere o nella cattedrale. Le stesse norme devono valere anche per la città di Piazza. Si può ritenere, pertanto, che esistesse nell’uno e nell’altro caso una certa delimitazione di confini14. Un posto di rilievo ha la figura del vicario foraneo, a cui viene dedicato il primo capitolo della parte quarta: è il vices gerens episcopi nei diversi centri della diocesi; ha il compito di vigilare sulla fede, il culto, la disciplina ecclesiastica dei fedeli e dei sacerdoti; nelle cause penali assume le informazioni da trasmettere al vescovo; presiede una piccola curia locale i cui officiali sono nominati dal vescovo15. Sulla stessa linea si colloca l’azione del vescovo Ottavio Branciforte (1637-1646). Nella lunga e minuziosa relazione inviata alla Congregazione del concilio nel 1640, descrive gli inconvenienti riscontrati al suo ingresso in diocesi nella cura delle anime e i provve13

«Doceat Parochus sive sacramentalis ecclesiae Praefectus die dominico praecedente...» (Catanensis Ecclesiae synodus, cit., p. 39, n. 11). «Sacra demum uniuscuiusque parochialis aut sacramentalis ecclesiae suppellex his saltem rebus constare debet...» (p. 32, n. 85). 14 «In urbe vero, ubi unica tantum est parochia, quae est Cathedralis Ecclesia, et ceterae, quae sacramentales appellantur, ad maiorem populi commoditatem distintae sunt, quilibet in Paschate vel in ipsa Cathedrali Ecclesia, vel in ea Sacramentali, quae in illa regione, seu quarterio, quod vocant, ubi habitant, communicet. Reliquis anni temporibus et quod ad reliqua sacramenta servetur consuetudo, quae hactenus servata est. Quod, idem Platiae servavi praecipimus» (Catanensis Ecclesiae synodus, cit., p. 50-51, n. 32). 15 Catanensis Ecclesiae synodus, cit., 173-183.

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dimenti adottati per la riforma16: assicura ai cappellani sacramentali un onesto sostentamento17; proibisce ai cappellani di farsi sostituire abitualmente nel loro ufficio18; come stimolo al loro impegno, promette di nominare canonici della cattedrale i più meritevoli19; interviene per precisare i confini delle chiese sacramentali della città

16 «L’amministrazione del battesimo, dell’Eucaristia, dell’estrema unzione sia nella cattedrale, che è l’unica parrocchia, sia nelle altre chiese sacramentali che coadiuvano la cattedrale, non è gratuita, ma è fatta dietro un determinato compenso. Per il battesimo di una bambino si pagano tre carlini, per la comunione agli ammalati, cinque, per l’estrema unzione, sette; tutto questo è contrario alle prescrizioni dei canoni e alle disposizioni dei concili. Nessuno dei presenti sottovalutava i pericoli e gli inconvenienti derivanti da questa prassi (chi sarebbe stato così cieco da non accorgersene?): le cose sante che devono essere trattate santamente e date gratuitamente, come gratuitamente sono state ricevute, sono trattate in modo indegno ed offensivo. Ci troviamo di fronte ad un fatto vergognoso per questa città, per questa chiesa e per questo clero: in conseguenza di ciò spesso sono pignorate alle famiglie povere le suppellettili necessarie ed il sacerdote si trasforma in uno strozzino, a cui diventa lecito togliere al povero che supplica la veste o il materasso; in conseguenza di ciò non pochi muoiono senza viatico ed estrema unzione. In questa controversia i sacerdoti lamentavano da parte loro l’esiguità degli introiti: ricevevano non più di dieci once, che raramente giungevano per intero nelle loro mani; infatti il cappellano o il curato scelto dal superiore non amministrava personalmente i sacramenti, ma spesso si faceva sostituire da altri senza corrispondere alcun compenso... A questi inconvenienti bisognava anche aggiungere che nessun quartiere della città era assegnato ad una chiesa da cui ricevere i sacramenti; ai fedeli era lecito andare ora in questa, ora in quella chiesa» (Relazioni, I-II, 148-149). 17 «Abbiamo ritenuto che fosse nostro compito principale ovviare a questi inconvenienti, eliminando le cause che potessero dare ai cappellani o ai curati l’occasione di sbagliare o di giustificare l’errore. La somma di dieci once assegnata ad ogni chiesa sacramentale come rendita è stata raddoppiata con i proventi derivanti dai benefici della mensa vescovile, così come è stato stabilito nell’atto di unione» (ibid., 149). 18 «Ai singoli curati o cappellani, già nominati o da nominare in futuro, proibiamo di farsi sostituire stabilmente da altri per evitare che sia loro consentito di condurre una vita oziosa e di scaricare sugli altri ogni responsabilità. Per quanto è possibile devono pascere e custodire personalmente le pecore che abbiamo loro affidato» (ibid., 150). 19 «Perché svolgano con maggiore impegno questo ministero promettiamo di ricordarci del loro lavoro, del loro zelo, della loro integrità di vita quando si renderà vacante qualche canonicato maggiore o qualche secondariato; per noi sarà motivo di gioia conferire uffici ed onori ecclesiastici come stimolo o come premio al buon comportamento» (l. c.).

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di Catania20; dispone che i sacramenti siano amministrati gratuitamente21. Spetta al vescovo Michelangelo Bonadies il merito di aver perfezionato l’organizzazione pastorale della diocesi con criteri giuridici più precisi. Il suo sinodo, celebrato nel 1668, resterà in vigore fino alla promulgazione del Codice di diritto canonico del 191722. Per la prima volta si fa una distinzione fra parroci e cappellani sacramentali amovibili. Partecipano al sinodo come parroci: i due rettori della chiesa Santa Maria di Castrogiovanni e quelli delle chiese: San Giovanni, San Bartolomeo, San Biagio, San Leone, San Pietro, San Leonardo della stessa città, gli arcipreti-parroci di Aidone, Pietraper20 «1. Alla chiesa cattedrale, alla chiesa di San Tommaso ed ai rispettivi curati affidiamo il quartiere della Civita e parte del quartiere del castello Ursino e cioè dalla curia del senato fino alla porta delle Decime inclusa, con l’aggiunta: dei monasteri di Santa Chiara e della Santissima Trinità e delle isole di Santa Maria dell’Indirizzo e dello stesso castello Ursino; dalla piazza delle Erbe e dalla chiesa di San Filippo fino alla cattedrale. 2. Alla chiesa collegiata ed al suo curato spetta il quartiere della Fiera. 3. La chiesa di Santa Maria della Dàgala e il suo curato avranno in cura il quartiere di Sant’Agata la Vetere. 4. Alla chiesa di Santa Maria dell’Itria e al suo curato si assegna il quartiere di Santa Margherita. 5. Alla chiesa di Santa Marina ed al sacerdote che vi amministra i sacramenti è affidato il quartiere della Santissima Trinità. 6. Alla chiesa di San Filippo e al suo cappellano spetta quel che resta del quartiere del castello Ursino e tutto il quartiere della porta di Mezzo» (l. c.). Il documento più che determinare in modo chiaro e certo i confini delle chiese sacramentali, si limita a dare delle indicazioni approssimative, facendo riferimento solo ai quartieri. Tra l’altro non sembra che si trattasse di un fatto nuovo, perché anche il sinodo del vescovo Torres accenna ai quartieri dipendenti dalle diverse chiese sacramentali (Catanensis Ecclesiae synodus, cit., 50-51). 21 «Prescriviamo, comandiamo e ordiniamo che nessun sacerdote che svolga stabilmente o per supplenza il ministero di amministrare i sacramenti, per nessun motivo, in nessuno modo e da nessuno accetti un qualsiasi compenso, sotto pena di scomunica e di altre sanzioni che infliggeremo secondo la gravità del peccato e della trasgressione» (Relazioni, I-II, 150). 22 Decreta in principe dioecesana synodo, quam illustrissimus et Reverendissimus Dominus Fr. D. Michael Angelus Bonadies Episcopus Catanensis, Comes Mascalarum, Regius Consiliarius, Almi Studii Cancellarius et ex Generalis totius Ord. S. Francisci, celebravit Catanae die 12 et 13 maii 1668. Praesulatus sui anno tertio. Ad cultum divinum promovendum et mores praesertim ecclesiasticorum reformandos, iuxta sacrosantum Concilii Tridentini, Summorum Pontificum et novissimam Sacrarum Congregationum normam, Catanae 1668. 23 Non abbiamo trovato in archivio i decreti di erezione di tutte queste parrocchie.

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zia23, Trecastagni24, il parroco Animarum Sancti Purgatorii di Leonforte25. I parroci hanno giurisdizione ordinaria e perpetua, gli altri

24 La chiesa sacramentale di Trecastagni era stata eretta in parrocchia dallo stesso Michelangelo Bonadies il 15 novembre 1667, su richiesta delle autorità civili del comune. È l’unico caso di parrocchia autonoma eretta nei casali del bosco etneo. Nel decreto di erezione leggiamo: «...Cum in visitatione praedicta, dictus Ill.mus et Rev.mus Dominus invenisset cives et habitatores dictae terrae fuisse et esse in numero quasi quinque mille et quod dicta matrix ecclesia, sub titulo S.ti Nicolai, non est ecclesia formaliter et realiter parrochialis, quoniam in ea non reperitur electus et constitutus parrochus et archipresbiter perpetuus et peculiaris cum distincto populo, qui curam haberet de dicta ecclesia matrici et de administratione sacramentorum, quandoquidem per cappellanos designatos usquemodo parrochialia sacramenta administrata sunt; propterea idem Ill.mus et Rev.mus Dominus pro maiori Dei Gloria divinique cultus augmento, deliberavit dictam matricem ecclesiam dictae terrae sollemniter erigere in parrochialem ecclesiam et in ea nominare et erigere parochum archipresbiterum perpetuum et peculiarem, qui dictam ecclesiam regere debuisset, ac etiam cum omni cura et diligentia, potuisset incumbere ad sacramentorum administrationem pro salute animarum populorum et civium terrae predictae, cum assignatione dicto parrocho et archipresbitero facienda nonnullorum reddituum ecclesiae predictae per eum applicandorum in nonnullis rebus, per dictum Ill.mum et Rev.mum D.num inferius designandis pro servitio dictae matricis ecclesiae; tanto magis quia super hoc fuit dictus Ill.mus et rev. D.nus supplicatus multoties, tam per Ill.em Principem dictae terrae, quam per capitaneum et iuratos illius, nec non etiam et per clerum terrae predictae, ut patet per diversas litteras missivas serio dicto Ill.mo Domino missas... Hinc est quod hodie... actenta dispositione sacrorum canonum et Sacri Concilii Tridentini et precipue in cap. decimo tertio, sessione vigesima quarta, de reformatione sponte tenore presentis supradictam matricem ecclesiam dictae terrae Trium Castanearum sub titulo et invocatione Sancti Nicolai erexit et erigit, ac fecit et facit in parrochialem ecclesiam... cui ecclesiae parochiali noviter erectae prefatus Ill.mus D.nus Episcopus catanensis pro se et suis ut supra in perpetuum assignavit et assignat pro suo restricto et parrochia totum circuitum dictae terrae Trium Castanearum et pro parrochianis omnes incolas et habitantes in ea et non aliter nec alio modo. Ulterius dictus Ill.mus et Rev.mus D.nus Catanensis Episcopus nominibus quibus supra virtute presentis in dicta matrici et parrochiali ecclesia per eum per modum ut supra erecta erexit et erigit ac fecit et facit perpetuum parochum et archipresbiterum per dictum Ill.um et Rev.um D.num eiusque successores in perpetuum eligendum et nominandum, qui parocus et archipresbiter semper et omni futuro tempore curam et regimen habeat et habere debeat de dicta ecclesia ac de administratione sacramentorum cum omni exquisita diligentia et sollecitudine prout ad bonum et optimum parochum et archipresbiterum spectat et pertinet et prout et quemadmodum alii parochi aliarum parochialium ecclesiarum dictae catanensis diecesis tenentur et obligati sunt...» (TA 1667-1668, copia inserita nel 1818 ai fol. 147r-148v). Come parroco fu nominato il

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sono invece dei semplici coadiutori e quindi hanno una giurisdizione delegata e limitata ad tempus26. Nei comuni in cui per antica consuetudine non esiste un parroco con giurisdizione ordinaria, la cura delle anime spetta al vescovo, che nomina come suo vice parroco il vicario foraneo, sempre amovibile ad nutum episcopi27. Da questi princìpi seguono le norme per il precetto pasquale, la celebrazione dei matrimoni, l’amministrazione dei sacramenti. Si può adempiere il precetto pasquale nella propria chiesa parrocchiale; nelle città, come Catania e Piazza, in cui esiste una sola parrocchia, ognuno può sce-

vicario foraneo sacerdote Onofrio Rapisarda. Nel decreto di nomina è descritto il beneficio da cui il parroco doveva desumere le rendite per il suo sostentamento. «In primis tutte le primitive [= primizie] che a detta matrice ecclesia competiscono. Item onze quattro, tarì quattordici, grana nove e piccoli tre ogni anno di alcuni censi perpetui dovuti per diverse persone alla detta matrice chiesa in virtù delli suoi contratti et scripture. Item onze cinque e tarì diecidotto di alcune altre rendite dovute per diverse persone alla suddetta matrice chiesa pure in virtù delli suoi contratti e scripture. Item onze cinque dell’elemosina della cascietta un anno per l’altro...» (ibid.). Le rendite vengono assegnate al parroco che deve provvedere all’organista, al quaresimalista, alla celebrazione della festa di San Nicola, a mantenere due cappellani nominati dal parroco e confermati dal vescovo. Vengono pure concesse al parroco tutte le altre rendite che in futuro la chiesa potrà avere. Il parroco non deve ingerirsi nelle compagnie, confraternite e congregazioni se non ex speciali commissione del vescovo, né imporre nuovi oneri ai fedeli (l. c.; sul tema si veda A. BARBAGALLO, Tres Castaneae, Catania 2009, 220-221). 25 Il parroco di Leonforte era stato nominato dal predecessore del Bonadies, cardinale Camillo Astalli il 20 novembre 1662 (Visite, 1665). 26 «Et primo quidem praenotandum est in nostra diecesi paucos esse parochos quibus ex officio competat in suas oves iurisdictio ordinaria, reliqui enim fere omnes sunt coadiutores parochi et animarum curati ad nostrum nutum amovibiles, seu, ut aiunt, cappellani sacramentales, quorum iurisdictio a nobis est eis delegata et ad tempus ex nostro beneplacito limitata» (Decreta, cit., sess. III, decr. 21, n. 2, p. 272). 27 «In iis civitatibus et oppidis in quibus nullus ex antiqua consuetudine existit cum sua ordinaria iurisdictione parochus, sed merus et ad nutum amovibilis coadiutor, seu cappellanus, ipsos vicarios in primis ibidem vice parochos esse declaramus... semper tamen... ad nostrum beneplacitum mutandos» (Decreta, cit., sess. IV, decr. 34, n. 4, p. 406). A questa precisa distinzione teorica seguirà un’altrettanto precisa normativa per evitare confusione di linguaggio. Negli atti della visita della chiesa sacramentale di Viscalori nel 1669 troviamo scritto: «Il cappellano non si possi scrivere Parroco se non cappellano della detta chiesa sacramentale, conforme l’istruzione con lettere della nostra gran corte vescovile, sotto pena di privazione et altre a nostro arbitrio» (Visite 1669).

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gliere fra la chiesa parrocchiale e la chiesa sacramentale del proprio quartiere28. Per il matrimonio: prima di iniziare le pubblicazioni è necessario ottenere la facoltà dal vicario generale a Catania e dal vicario foraneo negli altri centri29. Per ricevere il consenso, il parroco ha giurisdizione ordinaria; può delegare altri sacerdoti che hanno il permesso di amministrare i sacramenti. I cappellani delle chiese sacramentali non possono assistere al matrimonio senza la facoltà esplicita data in scritto dal vicario generale o dal vicario foraneo30. Per la città di Catania le pubblicazioni vengono eseguite solo in cattedrale: il magister cappellanus ha il compito di ottenere la licenza dal vescovo o dal vicario generale per i cappellani delle chiese sacramentali31. Per il battesimo è competente il parroco o cappellano sacramentale proprio di ogni fedele. Per riceverlo da altri occorre il permesso del

28 «Declaramus... non adimpleri praeceptum nisi tunc temporis in sua quisque parochiali ecclesia, vel, ubi unica est parochia, ut est Catanae, Platiae etc., in illa matrice vel in ea sacramentali, intra cuius fines degit, communicaverit» (Decreta, cit., sess. I, decr. 5, n. 43, p. 79). 29 «Si in urbe catanensi degunt sponsi, ad denunciationes non progrediatur cappellanus, seu curatus priusquam nostram vel vicarii generalis, in dioecesi vero vicarii loci, ad id expresse facultatem in scriptis habeat, quae in archivio eiusdem ecclesiae perpetuo conservetur» (Decreta, cit., sess. I, decr. 9, n. 15, p. 170). 30 «Nulli sacerdoti parochus assistendi matrimonio licentiam concedat, nisi ei, cui administrare sacramenta per nos licet; cappellani vero qui in hac urbe Catanensi ad sacramenta fidelibus impertienda in nostris ecclesiis sacramentalibus destinati sunt, nec ipsi sine nostra aut vicarii generalis facultate in scriptis data, cuiquam matrimonio assistere possunt, et multo minus hanc eandem curam, neque pro una tantum vice, alteri sacerdoti propria auctoritate demandare valeant» (Decreta, cit., sess. I, decr. 9, n. 32, p. 174). «Cappellani vero curatis, qui in pagis, seu Catanae adiacentibus villis degunt atque in reliquis nostrae dioecesis civitatibus et terris hanc assistendi matrimoniis facultatem ita concedimus, ut mutuum consensum nequeant accipere, sine vicarii foranei licentia... quod si contrarium fecerint, et matrimonia irrita esse ob defectum assistentiae legitimi parochi declaramus et ipsos suspensos» (Decreta, cit., sess. I, decr. 9, n. 33, p. 175). 31 «Ad ipsum {magistrum cappellanum} principaliter, ut hactenus consuetum est, pertinere constituimus matrimonia Catanae contrahendi licentiam in scriptis a nobis, vel a vicario generali obtinere et factarum denunciationum fidem facere per se, vel factam examinare et subscribere; has autem denunciationes, non alibi sine nostra vel vicarii generalis facultate publicet, quam in ecclesia cathedrali, eoque missae tempore, quo frequentior populus adest (Decreta, cit., sess. III, decr. 19, n. 104, p. 257).

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vicario foraneo32. Qualche imprecisione nella terminologia usata — causa di interminabili controversie nei secoli seguenti — riguarda il prevosto della collegiata di Catania. In alcune espressioni viene considerato parroco, in altre invece si afferma che il vescovo è unico parroco della città33. Bisogna concludere che si trattava di una semplice somiglianza ad honorem, senza giurisdizione ordinaria34. I princìpi esposti nel sinodo sono riferiti nelle relazioni alla Congregazione del concilio. La Congregazione, in risposta alla relazione del 1671, chiede solamente al vescovo che precisi meglio se i cappellani ai quali è affidata la cura delle anime sono perpetui o amovibili35. Nella relazione 1679 il Bonadies scrive che le chiese dei comuni vicini alla città hanno cappellani amovibili, mentre in tutta la diocesi si hanno quattordici parroci36. Questo chiarimento sembra soddi-

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«...Nec aliis quibus suis, qui ad suam parochiam non spectant hoc sacramentum {baptismatis} ministrent sine licentia vicarii, nisi forte periculum aliud expectare non patiantur» (Decreta, cit., sess. I, decr. 3, n. 10, p. 50). 33 Nel sinodo si legge: «...Praepositus, cui est tamquam vero parocho cura animarum adnexa...» (Decreta, cit., sess. III, decr. 19, n. 2, p. 265); e più oltre: «Praeposito vehementer commendatum volumus, quod parochorum proprium est... atque constitutiones omnes, institutionesque pro parochis datas in primis observare» (Decreta, cit., sess. III, decr. 20, n. 17, p. 268). Ma era stato già affermato che nella città di Catania c’era una sola parrocchia (Decreta, cit., sess. I, decr. 5, n. 43, p. 79). Anche la relazione alla Congregazione del concilio del 1668 afferma: «La chiesa cattedrale ha altre 5 chiese coadiutrici per l’amministrazione di tutti i sacramenti, ad eccezione della facoltà di ricevere il mutuo consenso del sacramento del matrimonio, facoltà che per consuetudine immemorabile è concessa solamente dal vescovo in quanto unico parroco delle anime o da coloro ai quali egli stesso ne dà mandato» (Relazioni, I-II, 322). Nel numero delle cinque chiese coadiutrici non è compresa la collegiata, che viene menzionata a parte. 34 Questa conclusione è anche suggerita dai decreti del sinodo riguardanti le quattro dignità della collegiata di Piazza. Anche per esse si dice: «Tamquam veros parochos» (Decreta, cit., sess. III, decr. 20, n. 25, p. 271); però vigono per la città le norme previste per i luoghi in cui non si hanno veri parroci. 35 «...Per quanto riguarda la cura delle anime che in diversi casali è esercitata da cappellani deputati dall’Eccellenza tua, considerato che non hai specificato se questi cappellani sono perpetui o amovibili, gli Eminentissimi Padri hanno pensato di chiederti in risposta alla tua relazione di chiarire meglio la loro natura e di informarli più accuratamente sul mandato che hanno ricevuto» (Relazioni, I-II, 339). 36 «La diocesi di Catania, oltre alla cattedrale e a 3 collegiate, ha 40 chiese madri. Chiese sacramentali servite da cappellani amovibili 32. Parroci o rettori 14, men-

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sfare la Congregazione, che per circa cento anni non farà più alcuna osservazione sull’organizzazione pastorale della diocesi. L’11 gennaio 1693 un violento terremoto distrusse interamente Catania ed altre città della Sicilia orientale37. Dopo la ricostruzione il vescovo Andrea Riggio riorganizzò la cura pastorale sempre sullo stesso principio: la cattedrale unica parrocchia, sei chiese sacramentali nel centro cittadino (Sant’Andrea, Santa Maria dell’Elemosina o Collegiata, San Biagio, San Filippo, San Giacomo o Santa Marina, Santa Maria dell’Itria) e una nel suburbio (Sant’Agata al Borgo)38. Man mano che la città riprese vita e incominciò ad estendersi, i vescovi si limitarono ad aumentare il numero delle chiese sacramentali39.

tre le altre chiese sono rette da cappellani amovibili» (Relazioni, I-II, 353). Non riusciamo a determinare quali parroci intendesse includere il vescovo in questo numero, dato che i parroci presenti al sinodo erano dieci. Forse avrà incluso qualche rappresentante delle collegiate. 37 R. PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, 566-567; V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., II, 508-514; F. FERRARA, Storia di Catania, cit., 208-217. 38 In un editto del 20 gennaio 1702, il vescovo Andrea Riggio fissa i nuovi confini della cattedrale e delle chiese sacramentali e stabilisce che nella cattedrale si possono amministrare i sacramenti ai fedeli di tutta la città, nelle chiese sacramentali solo a coloro che vivono nel territorio loro assegnato, ad eccezione del sacramento della penitenza (Miscellanea chiese sacramentali, I). Nella relazione alla Congregazione del concilio del 1712, il vescovo, dopo aver descritto le difficoltà incontrate per ricostruire le chiese, riafferma il principio su cui si fonda la cura delle anime: «La chiesa cattedrale ha 5 altre chiese sacramentali coadiutrici, da me edificate in forma più ampia ed elegante dopo il terremoto del 1693. I loro cappellani possono amministrare tutti i sacramenti, ma non ricevere il mutuo consenso degli sposi nel matrimonio. Questa facoltà, per consuetudine immemorabile, è concessa dal vescovo in quanto unico parroco o da altre persone alle quali egli stesso dà questo potere. Queste chiese sacramentali sono: Sant’Andrea Apostolo, San Biagio, San Filippo Apostolo, Santa Marina e Santa Maria dell’Itria con gli stipendi elargiti dal vescovo ai sacerdoti cappellani che vi prestano servizio» (Relazioni, I-II, 464). 39 Il vescovo Pietro Galletti istituì altre tre chiese sacramentali: Santa Maria della Concordia (1733), Santa Maria delle Grazie a Cìfali (1749), Santi Angeli Custodi (1751) (Miscellanea chiese sacramentali, I; Relazioni, I-II, 541, 564).

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3. DALLA

CURA INDIVIDUALE ALLA CURA COLLEGIALE DELLE ANIME:

LA TRASFORMAZIONE DELLE COMUNÌE IN COLLEGIATE E IL NUOVO ORIENTAMENTO DELLA

CONGREGAZIONE DEL CONCILIO

Un’evoluzione nell’esercizio della cura delle anime si ebbe nella diocesi di Catania a partire dal secolo XVII: le comunìe esistenti si trasformarono man mano in collegiate. Il fenomeno incominciò a manifestarsi con la prassi introdotta dai sacerdoti di una comunìa di recitare in coro l’ufficio divino e di indossare le “insegne”, cioè le vesti proprie dei canonici. I vescovi inizialmente contrastarono in modo deciso questa tendenza40; ma nel tempo, dalla proibizione passarono alla tolleranza, fino a quando non presero loro stessi l’iniziativa di erigere le collegiate nelle chiese madri dei principali centri abitati41.

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È emblematico in tal senso il caso della comunìa costituita nella chiesa madre di Acireale dal vescovo di Catania Antonio Faraone nel 1571: un collegio di otto sacerdoti, che doveva esercitare la cura delle anime nella chiesa madre e in alcune chiese filiali della città (M. DONATO, Le chiese sacramentali, cit., 54). Al loro sostentamento e alle spese necessarie per le chiese sacramentali provvedeva la città con gli introiti derivanti dalla gabella del pane. All’inizio del secolo XVII si nota la tendenza, specie durante i periodi di sede vacante, a creare le condizioni per costituire una collegiata: si cercava di accrescere il numero dei membri della comunìa e di ottenere le insegne proprie delle collegiate. Il vescovo Camillo Astalli, nella seconda metà del secolo XVII, durante la prima visita pastorale, fu costretto ad annullare alcune disposizioni date in precedenza dal vicario capitolare e il vescovo Michelangelo Bonadies proibì ai membri della comunia di firmarsi «unus ex collegio curatorum insignitorum» o con altre espressioni analoghe, visto che non erano curati ma semplici cappellani amovibili e non erano membri di una collegiata, la cui erezione spettava alla s. Sede (A. LONGHITANO, La visita pastorale del vescovo Michelangelo Bonadies ad Aci Aquilia nel 1666, in Memorie e rendiconti, Accademia degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale, serie II, 6 [1986] 367-423: 394-395). 41 Inizialmente i vescovi riconobbero che l’erezione di una collegiata era riservata alla s. Sede. In un secondo momento ritennero che fosse un loro diritto. Probabilmente avranno fatto propria la tesi di alcuni canonisti che riconoscevano ai vescovi questa facoltà. La maggior parte era di parere contrario e a tal proposito si citava un motu proprio di Clemente VIII del 1592, che riservava alla Sede Apostolica questa potestà (V. PETRA, Commentaria ad constitutiones apostolicas seu bullas singulas Romanorum Pontificum in Bullario Romano contentas secundum collectionem Cherubini, III, Romae 1708, 69; F. L. FERRARIS, Prompta bibliotheca, cit., Collegium, 710-711). Nel 1691 la Congregazione del concilio dichiarò che non poteva essere ritenuta valida l’erezione della collegiata nella chiesa di Sant’Antonio di Padova ad

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Da questa evoluzione derivò una nuova concezione del culto e dell’esercizio della cura d’anime. La comunìa era stata istituita per incrementare il culto e per rendere più efficiente il servizio pastorale ai fedeli. Inizialmente si pensava che al culto divino la maggiore solennità venisse data dalla regolarità e dalla efficienza del servizio, garantito da un collegio di sacerdoti; gli statuti come impegno accessorio potevano prescrivere la recita dei vespri e della compieta nei sabati e nei giorni festivi42. Facendo proprio il modello dei canonici della cattedrale e delle collegiate, si ebbe un capovolgimento delle finalità della comunìa: la principale occupazione diventava la celebrazione di un culto divino, inteso come atto solenne, fastoso ed esteriore, a detrimento della cura delle anime. Sarebbe interessante stabilire quale impegno mettessero i canonici nella catechesi, nell’amministrazione dei sacramenti, in particolare della confessione, quale contatto reale avessero con le anime; facilmente lasciavano questi compiti al clero inferiore. Inoltre la distinzione gerarchica dei membri di un capitolo in beneficiali, canonici e dignità, con la relativa differenza di competenze e di retribuzione, fece aumentare il tasso di litigiosità fra il clero: c’erano problemi di “insegne”, di privilegi veri o presunti da rivendicare o difendere, di precedenza, di distribuzione delle quote dovute alla presenza in coro. In breve il termine “canonico” divenne sinonimo di sacerdote litigioso, geloso dei propri diritti, poco incline all’obbedienza verso il vescovo. La contemporanea presenza in una chiesa fra i pochi “eletti” e i molti “esclusi” evidenziava le disuguaglianze e diventava fonte di recriminazioni e di liti. Da tenere presente che la trasformazione delle comunìe in collegiate non comportò variazioni rilevanti di natura patrimoniale; le rendite alle quali attingere per assicurare le quote ai canonici derivavano per lo più da legati di messe e dai cosiddetti “frutti di stola”43. Agira, per difetto di competenza del vescovo (Codicis iuris canonici fontes, V, Typis Polyglottis Vaticanis 1951, 417). 42 Negli statuti della comunia di Paternò troviamo la norma: «si debbia mantenere quella devota et laudabile osservantia di cantarse la messa il sabbato e anco la compieta alli quali debbiano convenire tutti li communeri...» (vedi supra, cap. IV/3). 43 R. MANDUCA, Clero e benefici nella diocesi di Catania fra Seicento e Settecento, in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XVII-XIX, a cura di G. Zito, Torino 1995, 135-194: 166-169.

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Le conseguenze di questa svolta nella vita della Chiesa non passarono inosservate alle autorità civili e ai vescovi più aperti ai problemi del tempo. I borboni, nel 1759 e nel 1776, proibirono ai vescovi l’erezione di nuove collegiate senza aver ottenuto il reale assenso44. Nel 1762 il vescovo Salvatore Ventimiglia nella sua relazione, descrivendo le tristi condizioni in cui aveva trovato la diocesi, fa un elenco delle cause che, a suo giudizio, avevano provocato i mali da lui notati. In primo luogo indica il gran numero di collegiate. Dopo l’erezione della collegiata di Piazza (1602), tutte le comunìe esistenti si trasformarono gradualmente in collegiate. Il vescovo Ventimiglia ne trova ventitré45. In alcune di esse la cura delle anime non era affidata a una delle dignità, ma collegialmente a tutti i canonici; perciò se in teoria si avevano diciotto o venti parroci, in realtà non ce n’era nessuno46. Come causa di disordini egli indica un altro fatto: la mancata creazione di parroci perpetui:

44 La norma del 1759 riguardava le bolle provenienti da Roma; quella del 1776 i decreti emessi dai vescovi (A. GALLO, Codice ecclesiastico sicolo..., lib. III, Palermo 1851, dipl. 71, 135-136; dipl. 76, 140-141). 45 Le ventitré collegiate erano così distribuite: Catania: Santa Maria della Elemosina, eretta da Eugenio IV nel 1446; Piazza: Santa Maria, eretta da Clemente VII nel 1602, Santissimo Crocifisso, eretta dal vescovo Andrea Riggio nel 1703; Castrogiovanni: Santa Maria, eretta dal vescovo Riggio; San Filippo d’Agira: San Filippo, Sant’Antonio, Santissimo Salvatore, Santa Maria Maggiore, erette dal vescovo Francesco Antonio Carafa nel 1689; Assoro: San Leone, eretta dal vescovo Michelangelo Bonadies nel 1684; Calascibetta: San Pietro; Aidone: San Lorenzo, eretta dal vescovo Pietro Galletti nel 1751; Centuripe: Immacolata Concezione di Maria, eretta dal vescovo Pietro Galletti; Paternò: Santa Maria dell’Alto, eretta dal vescovo Bonadies nel 1670; Adernò: Santa Maria, eretta dal vescovo Carafa nel 1690; Biancavilla: Santa Maria dell’Elemosina, eretta dal vescovo Galletti nel 1754; Belpasso: Immacolata Concezione di Maria, eretta dal vescovo Riggio nel 1700; Nicolosi: Spirito Santo, eretta dal vescovo Galletti; Trecastagni: San Nicola, eretta dal vescovo Galletti; Acireale: Santissima Annunziata, eretta dal vescovo Carafa nel 1691; Aci Catena, Aci San Filippo, Aci Santa Lucia, erette dal vescovo Galletti (Relazioni, I-II, 630-633). 46 Il Ventimiglia riferisce come tipico il caso della collegiata di Biancavilla: «Sempre ad iniziativa dello stesso Galletti sorse un capitolo a Biancavilla nel 1754, con lo stesso numero di dignità e con l’aggiunta di 12 canonici e 6 mansionari. Ma, fatto grave e contrario alle norme, affidò a tutti i canonici la cura delle anime; ne segue che questa piccola chiesa ha 18 parroci di nome e nessuno di fatto» (Relazioni, I-II, 632).

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«In tutti gli altri centri abitati della diocesi la cura delle anime è esercitata da vicari amovibili a discrezione del vescovo, che è ritenuto unico parroco di tutta la diocesi. Infatti, ad eccezione di Enna, né Catania, né Piazza, né altri comuni hanno parroci perpetui, ma semplici cappellani incaricati di amministrare i sacramenti. Per un antico errore le autorità civili della città di Catania si convinsero che i diritti parrocchiali contrastavano con la libertà dei cittadini. A ciò si deve se, in passato, i vescovi hanno tentato inutilmente di istituire i parroci perpetui; oggi questa speranza si è perduta del tutto»47.

Dietro i rilievi che il vescovo faceva nella sua relazione c’era la concezione propria del cattolicesimo illuminato, di cui il Ventimiglia era uno degli esponenti di punta48. Egli, secondo le indicazioni del concilio di Trento, mirava ad erigere le parrocchie autonome e, secondo le istanze del cattolicesimo illuminato che privilegiava la responsabilità del singolo, si riproponeva la cura individuale nei luoghi in cui era stata introdotta la cura collegiale delle anime. L’occasione favorevole si presentò al Ventimiglia nel 1769, quando decise un intervento riformatore nella chiesa madre di Regalbuto. Come si è visto, in questa città fin dal periodo antecedente al concilio di Trento esisteva una comunìa49. Il vescovo durante la visita pastorale si era reso conto che la cura delle anime non veniva esercitata con quella vigilanza, diligenza e dignità che l’ampiezza della città e l’istruzione dei cittadini esigevano. Gli stessi fedeli in pubbliche assemblee avevano chiesto al vescovo la nomina di un parroco. Il Ventimiglia, accogliendo volentieri questa richiesta, soppresse la comunìa e la cura collegiale per nominare un arciprete, come unico responsabile della cura delle anime in tutto il centro abitato e sei cappellani, che prestassero la loro opera sotto l’autorità dell’arciprete. La motivazione, che il vescovo addusse nel decreto per giustificare la sua scelta, può essere riassunta in una semplice considerazione: la cu-

47

Ibid., 633. La sua matrice culturale e il suo progetto pastorale sono approfonditi in Relazioni, I-II, 571-625. 49 Vedi supra, cap. 4. 48

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ra collegiale non permetteva di individuare con certezza il responsabile; perciò per eliminare i mali riscontrati era necessario procedere alla nomina di un solo parroco o arciprete, che il vescovo — in caso di inadempienza —avrebbe potuto sostituire o al quale avrebbe comunque potuto chiedere conto50. La soluzione attuata per la comunìa di Regalbuto avrebbe potuto essere estesa a tutte le chiese nelle quali era stata introdotta la cura collegiale delle anime. Il Ventimiglia si rendeva conto che questo suo progetto non era di facile attuazione, soprattutto se si tenevano presenti i diritti acquisiti e le difficoltà incontrate dai suoi predecessori; perciò nella sua relazione aveva chiesto il sostegno della s. Sede, che non arrivò. Ai tanti mali descritti dal vescovo, la Congregazione non indicò un preciso rimedio. Per le difficoltà provenienti dalla mancanza di un titolare responsabile della cura d’anime nelle collegiate, suggeriva solamente: «la riflessione che si fa Mons. Vescovo sopra l’abuso che corre in alcuni luoghi della sua diocesi, dove la molteplicità dei canonici produce la molteplicità dei curati tamquam aequam omnes curam animarum habentes, potrebbe aver luogo, quando si verificasse che tutti eodem tempore esercitassero egualmente la cura, laddove se la cosa succedesse per turno, non ripugna che tutti i canonici abbiano la cura abituale, purché da ciascuno si eserciti nei suoi dati

50 «Cum non sine animi Nostri moerore in visitatione venerabilis ecclesiae S. Viti civitatis Regalbuti, huius nostrae Catanen. dioecesis, inspexerimus integram animarum curam in dicta ecclesia fundata minime fuisse administrata ea diligentia, labore ac vigilantia quam ad illius ecclesiae dignitas, civitatis amplitudo et populorum instructio postulabat, quam ob causam eiusdem civitatis incolae, eternae salutis studio commoti, publicis ad id indictis comitiis parochum sibi idoneum postularunt, a quo imposterum vias Domini docerentur et divinis pascerentur alimoniis. Nos, quibus id muneris precipue a Domino commissum est, ut nostro gregi vel per nos ipsos vel Nobis absentibus per idoneos ministros de spiritualibus pascuis consulamus, animadevertentes nunquam posse illius ecclesiae detrimenta reparari, nec tot malis opportune mederi donec cura animarum penes diversos promiscue residens a nemine iis quibus decet curis certa ac ferenda ratione posse administrari, eidem ecclesiae idoneum parochum preficere decrevimus, qui morum probitate, litterarum peritia, divini verbi praedicatione et assidua sacramentorum administratione, fidelium illorum gregi forma factus ex animo, ipsum tandem ad Christum Dominum pastorem universalem animarum reducere incolumen valeat...» (Note, 1768-1769, fol. 42r-45r: 42r-v).

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tempi. Sarebbe dunque necessario che Monsignor Vescovo spiegasse meglio il caso proposto, oppure volendo procedere a qualche sollecito rimedio, conviene che si adatti a quelle condizioni, che al Jus canonico non si oppongano. Se dunque la cura abituale fosse addetta ai canonici e l’attuale si esercitasse da ciascheduno per turno, quando anche questo pregiudicasse al buon servizio dei parrochiani, potrebbe Monsignor Vescovo trattarne l’accomodamento con lo stesso capitolo e determinare qualche innovazione de consensu capituli. Che se poi l’affare fosse diversamente introdotto, cosicché l’attuale cura istessa eodem tempore da ognuno de’ canonici egualmente si amministrasse, allora e in questo solo caso potrà Mons. Vescovo provvedere secondo quello che crederà più opportuno»51.

Sul problema dei parroci perpetui la Congregazione non diede alcuna risposta. Quell’appoggio che il Ventimiglia chiese e non ottenne, fu dato invece al suo successore Corrado Maria Deodato de Moncada52, senza che questi lo avesse chiesto o desiderato. Nella risposta alla sua relazione del 1779 la Congregazione esortava il vescovo a nominare parroci stabili al posto dei cappellani amovibili53. Il vescovo nella successiva relazione non tenne conto della nota della Congregazione, che gli fu ripetuta nel 1785: «Gli ingiungeva... che si fissassero perpetui alcuni parroci che erano amovibili»54. Tre anni dopo, nella successiva relazione, il Deodato espose le difficoltà che gli avevano impedito di nominare i parroci perpetui: 51

Relazioni, I-II, 645-646. La sua matrice culturale e il suo progetto pastorale sono approfonditi in Relazioni, I-II, 657-685. 53 «Per quanto attiene ai parroci, che definisci amovibili ad nutum, la s. Congregazione desidera che diventino stabili perché la anime ne abbiano un maggior profitto» (Relazioni, I-II, 697). 54 «Sed quoniam in responso quo tuae postremae relationi datum est, tria ab Amplitudine Tua optaverunt E.mi PP. in eam venerunt mentem ut putent eorum epistolam, ad te datam fuisse disperditam aut quoquommodo ad tuas non pervenisse manus» (ibid., 1135). La minuta preparata in italiano era di tenore diverso: «Rispondendosi il vescovo di Catania alla relazione del passato triennio e niente affatto riferendo di nuovo, sembra che manchi al suo debito per due parti. Prima perché quantunque non vi sia alcuna cosa di nuovo nello stato materiale, è impossibile che non 52

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«...È difficile istituire la prebenda del canonico teologo e del penitenziere e ancor più difficile nominare parroci perpetui secondo le indicazioni del concilio di Trento; mancano infatti le rendite necessarie a queste fondazioni e le stesse leggi di questo regno proibiscono di chiedere il pagamento dei cosiddetti “frutti di stola”»55.

Nell’archivio della Congregazione del concilio troviamo due risposte: una, in minuta, molto forte che non venne mai spedita al vescovo: «Parmi dunque necessario risvegliarlo nei suoi doveri pastorali dolcemente giacché il far il vescovo non è la cosa più comoda, come dice s. Giovanni Crisostomo»56. La risposta che giunse al vescovo è molto più blanda57. Nell’intervallo fra questa e la relazione successiva si ebbe un provvedimento del re Ferdinando I, che consentiva di aumentare a tredici le chiese sacramentali di Catania e concedeva alla mensa vescovile un contributo annuale di seicento once per il sostentamento dei cappellani58. Il vescovo eresse le nuove chiese sacramentali come

ve ne sia riguardo allo stato formale. Secondariamente perché dovea dar sfogo di due o tre cose ingiuntegli dalla s. Congregazione nell’ultima risposta. Gl’ingiungeva la convocazione del sinodo; che si fissassero perpetui alcuni parrochi che erano amovibili. Si crede pertanto che gli si debba rispondere con tutta urbanità, che la s. Congregazione loda la sua puntualità, ma che la trova mancante nel suo sostanziale per i detti motivi» (ibid., 698-699). 55 Ibid., 700-701. 56 Ibid., 701. 57 «Deinde te etiam atque etiam hortamur, ut in episcopali onere ferendo tuam expromas animi fortitudine, quae hoc clarius splendescit, quo maiora praesenti aetate obiiciuntur impedimento, ad quae tollenda vel emollienda necesse est ut conversa perpetuo sint studia episcoporum... Quod pertinet ad... parochorum institutionem, qui debent esse perpetui, erectionem satis huic rei consultum est a concilio Tridentino cui etiam accedit, quam Benedictus XIII edidit pro universae Italiae episcopis constitutio» (ibid., 1137). Il documento si riferisce alla costituzione di Benedetto XIII Pastoralis officii del 19 maggio 1725, che non riguarda la riforma parrocchiale, ma l’obbligo di erigere le prebende del teologo e del penitenziere nelle cattedrali (Codicis iuris canonici fontes, a cura di P. Gasparri, Roma 1947, I, n. 290, p. 624628). L’obbligo di attuare la riforma parrocchiale voluta dal concilio di Trento, viene richiamato, invece, da Benedetto XIV nella costituzione Ad militantes Ecclesiae del 30 marzo 1742 (ibid., n. 326, p. 723-733). 58 TA 1794-1795, fol. 163r-164v.

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temporanee e amovibili e si riservò il diritto di variarle o trasferirle se, a suo giudizio, le circostanze lo avessero richiesto59. Il Deodato nella relazione del 1793 non mancò di sottolineare il suo intervento presso il re Ferdinando per aumentare le chiese sacramentali della città60. La Congregazione nella risposta a questa e alla relazione del 1803 si limitò ad esprimere solo dei voti e delle esortazioni generiche61. Tornò ad insistere nel 1844 con il vescovo Felice Regano e addusse l’esempio della diocesi di Gallipoli, che alcuni anni prima aveva attuato la riforma parrocchiale62. Il Regano nel 1856 fece osservare:

59 Le tre chiese sacramentali erette dal Deodato sono: San Berillo nel quartiere detto «di Loreto», Santa Maria della Consolazione nel quartiere di Sant’Agata le Sciare, Sant’Euplio nel quartiere di Ognina. Il decreto porta la data del 7 luglio 1796 e inizia facendo riferimento al terremoto del 1693 e alla successiva riorganizzazione pastorale della città. Il vescovo intende seguire gli stessi princìpi dei suoi predecessori, secondo le norme del concilio di Trento «mandantes quod ubi necessitas postulet per parochum filiales erigantur ecclesiae et super eiusdem parochi redditibus eis id quod convenit subministrentur, nos tanquam unicus totius urbis parochus, cui animarum cura spectat et pertinet, recursum habuimus ad serenissimum dominum nostrum regem Ferdinandum... qui benigne annuens nostrae petitioni eius regium diploma exaravit... Idcirco in exequutione dicti regii diplomatis... tres alias sacramentales filiales ecclesias in hac praedicta urbe Catanae eiusque territorio ad instar dictarum aliarum decem supra expressatarum erigi iussimus et mandamus prout erigimus amovibiles tamen et ad nostrum beneplacitum solum si temporis circumstantiae nostro iudicio postulabunt variandae et transferendae...» (Note 1795-1798, fol. 29r-30v). Le tredici chiese sacramentali che risultano da questo documento sono: Santa Maria dell’Elemosina, Sant’Agata al Borgo, San Filippo, San Tommaso (già Sant’Andrea), San Biagio, Santa Marina (già San Giacomo), Santa Maria dell’Itria, Santa Maria della Mercede (già Santa Maria della Concordia), Santi Angeli Custodi, Santa Maria delle Grazie a Cìfali, San Berillo, Santa Maria della Consolazione, Sant’Euplio. 60 Relazioni, I-II, 703. 61 «Optassent iidem certo scire, an praebendae canonicorum Theologi et Poenitentiarii in cattedrali tua ecclesia fuerint constitutae, an praeterea perpetuitati parochorum alicubi prospexeris de quo re admonuerunt superioribus litteris quamquam ex tua sapientia et religione coniecturam faciant, neutrum a te fuisse neglectum» (ibid., 1144). 62 «Supervacaneum porro E.mi Patres existimarunt te pastorali studio incensum hortavi ut ius percipiendi decimas vindicandum cures, nec dubitant, quia cappellani ad nutum quibus animarum curam committis, gravissimi muneris partibus naviter ac studiose fungantur. Illud vero quam maxime S. haec Congregatio velit diligentius scilicet inquiras, num opportunae rationes praesto sint ut parochis, qui ad

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«...Ora devo dare una risposta al suggerimento di nominare parroci perpetui coloro che esercitano la cura delle anime. Tutto questo è certamente conforme alle norme canoniche e alle prescrizioni delle autorità ecclesiastiche. Tuttavia bisognerà vedere se ci sarà qualcuno disposto a partecipare al concorso e a vincerlo per guadagnare quattro o cinque once di rendita come congruo sostentamento. A volte sono costretto a far ricorso alle esortazioni e ai consigli per affidare questo ministero ai sacerdoti più preparati, che accettano solo perché spinti dall’amore per il prossimo e non dalla speranza di acquisire una rendita, per altro necessaria alla loro esistenza. In queste condizioni obbligarli a celebrare la messa per il popolo credo sia alieno da ogni forma di equità. Si tenga per altro presente che nella diocesi di Catania non esistono parroci; unico parroco di tutta la diocesi è il vescovo, a cui compete l’obbligo di celebrare la messa per i suoi fedeli. Per questi e per altri motivi analoghi i miei predecessori hanno preferito lasciare immutata la situazione esistente»63.

A questa osservazione la Congregazione del concilio non seppe cosa rispondere e si affidò al buon senso del vescovo64. È opportuno fermarci ad analizzare la nuova situazione che si venne a creare con il diverso atteggiamento assunto dalla Congregazione del concilio nella questione parrocchiale della diocesi di Catania. In passato Roma si era limitata a chiedere ai vescovi di descrivere le condizioni in cui si esercitava la cura delle anime. Quando il vescovo Ventimiglia chiese il sostegno per frenare il proliferare delle collegiate, ripristinare la cura individuale delle anime e nominare i parroci perpetui secondo le indicazioni del concilio di Trento, la Congregazione del concilio non nascose la sua perplessità e, trincerando-

nutum amovibiles in praesens existunt perpetuos parochos sufficias quemadmodum alii sacri antistites cum laude prestiterunt, quippe quia huiusmodi methodus magis consona est praescritionibus tridentinae synodi... uti videre est in Gallipolitana» (ibid., 1153). Per l’intervento della Congregazione del concilio nella riforma parrocchiale della diocesi di Gallipoli cfr.: Thesaurus Resolutionum S. Congregationis Concilii, Romae 1841, tom. CI, 270. 63 Relazioni, I-II, 756-757. 64 «De dioecesi in parochiis dividenda, si nulla datur id efficiendi via, tu videris quippe qui loci reique circumstantias coram inspicis» (ibid., 1165).

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si dietro una serie di distinzioni formali, lasciò che fosse il vescovo a prendere una decisione. L’invito insistente ad attuare la riforma fu fatto invece ai successori del Ventimiglia. Il vescovo Corrado Maria Deodato de Moncada, che proveniva da una matrice culturale più tradizionale e aveva preso le distanze dai cattolici illuminati, non poteva far proprio il progetto del suo predecessore65; pertanto giustificò il suo rifiuto ad attuare la riforma adducendo motivazioni di natura politica ed economica. Anche il vescovo Felice Regano seguì questa stessa linea di azione. Ci chiediamo se le motivazioni addotte erano fondate o se invece servivano da copertura per nasconderne altre. Le condizioni in cui si trovava la città e la diocesi, nella seconda metà del secolo XVIII, erano diverse da quelle del secolo XVI; ma la struttura politica e religiosa era rimasta quasi identica. Perciò non si può affermare che era facile accogliere l’invito della Congregazione e attuare la riforma parrocchiale. Escludiamo, tuttavia, che le difficoltà fossero solamente di natura economica. Bisognava superare difficoltà psicologiche e fondare le riforme su solide basi culturali e teologiche. Nel secolo XVI, per il vescovo Nicola Maria Caracciolo, che aveva partecipato al concilio di Trento, istituire le parrocchie autonome e nominare i parroci perpetui costituiva il raggiungimento dell’obiettivo principale della sua azione di riforma; era perciò un motivo di soddisfazione sul piano psicologico e la logica conclusione della spinta riformatrice voluta dal concilio di Trento. Nel secolo XVIII la situazione si era capovolta. Il concilio di Trento era ormai un ricordo lontano, l’organizzazione pastorale, che si fondava sul principio del vescovo unico parroco della diocesi, era stata ritenuta valida dalla giurisprudenza rotale e dalla dottrina. Sul piano pratico questa situazione si dimostrava più vantaggiosa; tra l’altro consentiva di evitare i contrasti e le opposizioni che sarebbero derivati da un tentativo di riforma. Perciò per i vescovi essere considerati parroci di tutta la diocesi, era un motivo di prestigio e un punto indiscutibile dell’organizzazione diocesana. Il vescovo Ventimiglia era riuscito a mettersi fuo-

65 A. LONGHITANO, Dal modello illuminato del vescovo Ventimiglia (17571771) alla normalizzazione ecclesiastica del vescovo Deodato (1773-1813), in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XVII-XIX, cit., 41-58.

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ri dal coro fondandosi sulla concezione riformatrice dei cattolici illuminati. Per i suoi successori non poteva essere sufficiente una semplice lettera della Congregazione del concilio per cambiare di punto in bianco una mentalità ed entrare in un ordine di idee completamente diverso. Tra l’altro, proprio in quel periodo, si erano avute interminabili polemiche fra il capitolo della cattedrale e quello della collegiata su questo argomento. I canonici della collegiata cercavano in tutti i modi di dimostrare che il prevosto era un vero parroco e la chiesa era parrocchia a tutti gli effetti; mentre i canonici della cattedrale sostenevano che in città esisteva una sola parrocchia e il vescovo era unico parroco66. In questa polemica il vescovo Deodato aveva sostenuto i canonici della cattedrale. In un editto del 29 ottobre 1786 espone tutta una serie di argomentazioni per riaffermare in modo definitivo i diritti della cattedrale: «Si è stimato sempre nella nostra Chiesa cristiana pericoloso il traviare il cammino segnateci dai nostri maggori... È legge fondamen-

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V. COCO, Varie dimostrazioni dell’innocenti errori, cit. Il capitolo della cattedrale si appellava alla situazione esistente ab immemorabili e alla costituzione di Nicola Maria Caracciolo del 1555. Il capitolo della collegiata fondava la propria tesi sulla bolla di Eugenio IV, nella quale la chiesa Santa Maria dell’Elemosina viene chiamata parochialis. Recentemente si è voluto attribuire al conte Ruggero l’organizzazione della diocesi di Catania sulla base del principio che il vescovo è unico parroco. Come argomento probativo si adduce il documento con cui il conte Ruggero dona Catania ad Angerio (Summus itaque romanae sedis...), dove si legge tra l’altro: «De parochia vero huius abbatiae et sedis episcopalis sunt haec...». Da questa espressione si dovrebbe dedurre che a Catania i confini della diocesi coincidevano con quelli della parrocchia e che il vescovo era unico parroco. Meraviglia che questa tesi sia stata accolta da G. Scalia, che scrive: «Ed ecco il documento del conte che stabilisce... i confini dove si estenderà la giurisdizione episcopale conferita dal pontefice ad Angerio insieme con quella parrocchiale e ai suoi successori... La parrocchialità unica per tutta la diocesi, stabilita dal diploma del conte Ruggero, ha avuto vigore quasi fino ai nostri tempi, nonostante la sapienza del concilio di Trento, il quale non trovò applicazione per questo caso fra noi, per eccezione» (G. SCALIA, Il valore storico del documento pergamenaceo, cit., 22 e 25). Per provare la fragilità di questi argomenti, basta dare una lettura ai diplomi normanni e pontifici del tempo o cercare il significato del termine parochia in un dizionario latino. Sarà facile costatare che fino al secolo XIII parochia poteva indicare: territorium et districtus episcopi, districtus ecclesiae presbiteri, territorium, districtus e veniva adoperato con significati diversi (cfr. C. DU CANGE, Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, cit., III, 190).

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tale della nostra chiesa di Catania, che la cattedrale sia l’unica parrocchia di tutta la città e il vescovo l’unico suo parroco e tutte le altre chiese dove si amministrano i sagramenti parrochiali siano filiali, dipendenti, ausiliarie... Verità ella è questa che è più chiara del sole»67.

Nel 1811, in seguito a un’ordinanza del re, che riconosceva la validità degli sponsali solo se fatti con l’intervento del parroco e di un pubblico regio notaro, il vescovo diede la potestà parrocchiale «a nostro beneplacito però ed amovibile ad ogni nostro cenno, eziandio senz’alcuna cagione, tanto in Catania, quanto in tutti i luoghi della nostra diocesi a tutti e singoli sacerdoti che siano addetti a qualunque chiesa per amministrare i sacramenti parrocchiali... Ma diamo però... la predetta potestà ristretta per l’unico effetto d’intervenire solamente agli sponsali, in cui gli sposi che dimorano nei recinti delle rispettive chiese sacramentali a cui sono addetti i mentovati sacerdoti, si promettono vicendevole matrimonio futuro...»68.

Proprio durante gli anni del governo pastorale del vescovo Deodato fu riaperto il caso dell’organizzazione della cura d’anime a Regalbuto. Dopo la decisione presa dal Ventimiglia nel 1769 di sopprimere la comunìa e di nominare l’arciprete, nel 1776 i sacerdoti già membri della comunìa chiesero al Tribunale della Monarchia che venisse dichiarata nulla la nomina dell’arciprete e fossero reintegrati nei loro diritti. Il giudice, il 15 aprile, emanò una sentenza interlocutoria con la quale ordinava la decadenza dell’arciprete e il ripristino della comunìa69. Sebbene non si trattasse di un provvedimento defini67

Editti 1781-1792, fol. 51r-54r. Editti 1809-1816, fol. 5v-6v. In seguito a questo editto, il prevosto della collegiata si affretterà ad esibire un nuovo memoriale per dimostrare ancora una volta i diritti parrocchiali della propria chiesa. Ma il vescovo, in una nota del 10 aprile 1811, respinge le argomentazioni, dichiarandole prive di fondamento (Miscellanea collegiata). 69 ARCHIVIO DELLA CHIESA MADRE, REGALBUTO, Scritture della chiesa madre, II, fol. 306r-307v. 68

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tivo, la sentenza fu resa esecutiva due giorni dopo, con il possesso canonico ai nuovi responsabili della cura delle anime70. Non disponiamo della documentazione completa per seguire lo sviluppo di questo caso. Sembra certo che i giudici non abbiano confermato nella sentenza definitiva il ripristino della comunìa, perché la città di Regalbuto negli anni successivi fu governata dall’arciprete nominato dal Ventimiglia71. Tuttavia sarebbe interessante riuscire a stabilire il ruolo avuto dal vescovo Deodato in questa vertenza. Se i sacerdoti che costituivano la comunìa di Regalbuto non presentarono il loro ricorso nel 1769, subito dopo il provvedimento preso dal Ventimiglia, ma nel 1776, durante il governo del Deodato, potremmo avanzare l’ipotesi che gli interessati o siano stati consigliati dal vescovo nel corso della sua prima visita pastorale a rivolgersi all’autorità superiore, o abbiano preso atto di un cambiamento di indirizzo pastorale, che avrebbe potuto facilitare la loro richiesta. Mettendo a confronto gli editti del vescovo Deodato e la corrispondenza avuta con la Congregazione del concilio, non è difficile comprendere quale fosse il suo pensiero sulla riforma parrocchiale nella città e nella diocesi di Catania. Questo cambiamento nella mentalità dei vescovi ci consente di valutare diversamente un’altra difficoltà, che in passato aveva impedito di attuare la riforma parrocchiale: la stretta interdipendenza fra la Chiesa e lo Stato, che condizionava le strutture di entrambi gli ordinamenti. Non sappiamo se le autorità cittadine di Catania nel secolo XVIII fossero disposte ad assumere lo stesso atteggiamento assunto dai loro predecessori nel secolo XVI, a proposito dell’erezione delle parrocchie e della nomina dei parroci perpetui. Ma è certo che non erano disposti i vescovi a ripetere i tentativi del Caracciolo. Perciò non riteniamo esagerato affermare che alle molteplici difficoltà di natura storica, politica o economica, che rendevano difficile l’attuazione della riforma parrocchiale, bisognava aggiungere la mancanza della volontà politica da parte dei vescovi: l’opposizione delle autorità civili era diventato un facile pretesto per mantenere immutata una struttura che si dimostrava molto vantaggiosa. 70

Ibid., XI, 402r-v. Nei registri di battesimo degli anni successivi fino al 1790 il sac. Giuseppe Grasso si definisce: «Archipresbyter et unicus parochus huius civitatis Regalbuti». 71

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Una conferma della validità di questa affermazione proviene dagli atti e dai decreti del regio visitatore Giovanni Angelo De Ciocchis, che visitò la Sicilia negli anni 1741-1743. Visitando la città di Catania, ordinò al vescovo di scegliere per concorso i cappellani curati della cattedrale e delle chiese sacramentali e di ritenerli come inamovibili72. Questa disposizione, provenendo da un regio visitatore, dava al vescovo la garanzia dell’appoggio incondizionato delle autorità politiche centrali. Ma la disposizione del regio visitatore non ebbe un successo maggiore degli interventi della Congregazione del concilio: i cappellani continuarono ad essere nominati senza concorso e ad essere considerati amovibili ad nutum episcopi. Non possiamo esimerci dall’analizzare la fondatezza della difficoltà addotta dal vescovo Deodato per giustificarsi con la Congregazione del concilio: la mancanza di fondi per costituire i benefici parrocchiali. La situazione economica della diocesi di Catania era assai complessa e varia. Le condizioni delle diverse chiese sacramentali non erano uguali. Possiamo distinguere tre zone diverse: la città, il bosco di Catania e di Aci, le città e le terre baronali della zona occidentale. La città e i casali del bosco, che fino alla metà del secolo

72 «Hinc Ill.mus et Rev.mus D.nus Visitator Generalis... decrevit quod capellanos curatos cathedralis et ecclesiarum sacramentalium Episcopus per concursum eligat, electos vero amovere non alioquin possit, quam ex rationabili causa servatisque de iure servandis... Quod idem capellani curati ecclesiarum sacramentalium missam quotidianam conventualem celebrare in ipsis ecclesiis teneantur. Dominicis vero, festisque diebus concionari praeterea sermone vernaculo ad populum post Evangelium» (G. A. DE CIOCCHIS, Sacra Regiae visitationis per Siciliam a Caroli III Regis iussu acta decretaque omnia, III, Panormi 1836, 34-35). La mancanza di volontà politica nella nomina di parroci perpetui viene confermata dalla relazione sullo stato della diocesi di Catania presentata al regio visitatore Francesco Testa, vescovo di Siracusa nel 1752. In essa si legge: «Essendo il vescovo di questa città unico parroco e non potendo trovarsi presente né in essa, né in tutta la diocesi, come l’anima tutta in tutte le parti del corpo, si vale primieramente per l’amministrazione de’ sacramenti in Catania di dieci cappellani curati un tempo ad nutum amovibili, oggi però perpetui coll’obligo di eligersi a concorso, giusta il Decreto dell’Ill.mo Monsig.r Ciocchis» (BIBLIOTECA DEL SEMINARIO, MONREALE, Raccolta di lettere pastorali diverse, editti ed omelie di Mons. Testa, ms. n. 39, p. 28). Questa affermazione è chiaramente falsa. Il vescovo di Catania Pietro Galletti non aveva reso perpetui i vicari amovibili. Però non voleva un richiamo da parte del regio visitatore e preferì fargli credere di aver eseguito l’ordine ricevuto dal De Ciocchis.

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Il progressivo esaurimento della spinta riformatrice tridentina XVII facevano parte del territorio di Catania, erano condizionati economicamente dalla mensa vescovile. Le fonti tradizionali delle rendite ecclesiastiche erano state destinate al sostentamento del vescovo e del capitolo della cattedrale. La mensa, oltre ad avere un consistente patrimonio immobiliare, riscuoteva le decime sui prodotti della terra, del mare, dell’industria e del commercio di tutto il territorio della città e in parte anche dei casali del bosco di Aci73. Per le chiese sacramentali del bosco di Catania e di Aci c’era un altro condizionamento economico da parte del capitolo della collegiata di Catania: le loro rendite costituivano le prebende dei canonici74. Meno complessa la situazione delle città e delle terre baronali site nella parte occidentale della diocesi. Infatti le poche parrocchie con parroco perpetuo esistenti in diocesi, si trovavano in questa zona. Da questi rilievi si deve concludere che le difficoltà di natura economica non andavano sottovalutate, ma escludiamo che rendessero impossibile la riforma parrocchiale. Quale che fosse la situazione in cui si trovavano le chiese sacramentali della città e degli altri centri, è fuor di dubbio che i loro cappellani avevano delle rendite per vivere onestamente. Perciò, se ci fosse stata la buona volontà, non sarebbe stato impossibile trovare il modo di servirsi di queste rendite per creare i benefici parrocchiali. Se le rendite fossero state ritenute insufficienti, avrebbero potuto essere integrate con l’unione di altri benefici minori o, per la città di Catania, con sovvenzioni della mensa vescovile; il suo ricco patrimonio era stato costituito dai Normanni per servire anche

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Nella relazione della visita ad limina del 1730 troviamo l’elenco degli introiti e degli esiti della mensa vescovile. Fra gli introiti troviamo le seguenti voci che riguardano il bosco etneo: le decime sul mosto, sui lini e sulle tovaglie, i proventi delle gabelle sul farinato, della neve, delle castagne, dell’erbagina, dei pascoli e terragi; la dogana di Trecastagni e di Aci (Relazioni, I-II, 532-536). Un elenco più dettagliato si trova in G. A. DE CIOCCHIS, Sacra Regiae, cit., 37-118. Per tutto il problema si veda R. MANDUCA, Clero e benefici, cit., 139-147. 74 Da notare che i condizionamenti all’esercizio della cura delle anime, determinati dalla bolla di erezione della collegiata Santa Maria dell’Elemosina, cessarono verso la metà del ’600. Il Messina nella sua opera scrive: «Due secoli dopo, la cura delle chiese parrocchiali della città e del contado cessò nei nostri capitolari, sia per la vendita dei casali o villaggi del bosco di Catania e del bosco di Aci, ordinata da Filippo IV nel 1650; sia per non eternare i lunghi e dispendiosi litigi, onde il capitolo era attaccato dai vescovi del tempo» (V. MESSINA, Monografia, cit., 39).

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a questo scopo75, sebbene nel tempo fosse stato gravato di pensioni e tributi di vario genere. Ma più di ogni tardiva considerazione, può confermare la fondatezza della nostra tesi, l’erezione della parrocchia con parroco perpetuo della chiesa sacramentale di Trecastagni, da parte del vescovo Michelangelo Bonadies il 15 novembre 1667. Si trattava di un comune del bosco etneo, che aveva già fatto parte del territorio di Catania e che perciò risentiva come gli altri del condizionamento economico della mensa vescovile e del capitolo della collegiata. L’iniziativa presa dal feudatario e il consenso dato dal vescovo permisero l’erezione della parrocchia autonoma, secondo le indicazioni del concilio di Trento. L’intesa tra le due autorità, la civile e la religiosa, rese più facile la soluzione dei problemi connessi. Se il vescovo si fosse opposto, appellandosi a motivazioni di varia natura, non si sarebbe attuata la riforma prevista.

4. PARTICOLARI VANTAGGI CONSEGUITI DALL’ORGANIZZAZIONE PASTORALE DELLA DIOCESI DI CATANIA DOPO LA SOPPRESSIONE DEI BENI ECCLESIASTICI DEL

1866-1867

Le profonde trasformazioni socio-politiche dei secoli XVIII e fecero avvertire la loro influenza anche in Sicilia. Proprio in questi due secoli si assiste al lento ma progressivo sgretolamento delle strutture politiche e religiose che avevano caratterizzato la società siXIX

75 Un altro decreto del regio visitatore De Ciocchis riguardava proprio questo punto: «Porro quum episcopus decimas exigat, quae a Comite Rogerio non fuerint episcopalibus Siciliae mensis adscriptae, {praeter} quam cum onere ministrandi ex iis congrua capellanis curatis stipendia, D.nus Visitator advertens, quanta nihilominus in urbe Catanae idem capellani curati ecclesiarum sacramentalium laborent inopia, nec non prae oculis habens ingenta animorum mala, summumque rerum sacrarum dedecus, quae ex eadem inopia deflet oborta, sanctae memoriae, episcopus Riggio in publico instrumento anni 1709 per acta notarii Francisci Pugliese, praesenti decreto, perpetuo valituro taxavit redditum uniuscuiusque ecclesiae sacramentalis in uncis quatraginta, comprehensis stolae proventibus, etiam incertis... Demptis hinc actualibus redditibus singularum ecclesiarum sacramentalium atque quicquid aliunde habet, D.nus visitator decrevit, quod reliquum usque ad summam praedictam unciarum 40 ministrentur quotannis dictis ecclesiis ab episcopo ex decimis suae mensae» (G. A. DE CIOCCHIS, Sacra Regiae, cit., 35).

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ciliana76. Nelle relazioni dei vescovi alla Congregazione del concilio diventano più frequenti i richiami alla nequitia temporum, che rende più difficile il governo della diocesi e i rapporti con i fedeli. Una delle conseguenze immediate di queste trasformazioni fu la perdita di molti diritti e privilegi di cui il vescovo aveva goduto nei secoli precedenti. Vennero meno anche gli introiti della mensa vescovile per la cessazione di diverse fonti di reddito77. Gli avvenimenti che segnano il punto estremo di questa evoluzione sono due: l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia nel 1860, che tra l’altro portò alla soppressione della Legazia Apostolica, e le leggi del 1866-1867 con cui furono soppressi molti benefìci ecclesiastici e istituti religiosi. Per le strutture della Chiesa fu un vero e proprio sconvolgimento. La nuova situazione creatasi dopo questi avvenimenti avrebbe dovuto consentire l’attuazione della riforma parrocchiale. Infatti erano venuti a mancare i principali condizionamenti che nel corso dei secoli l’avevano ostacolata. Ma alcune circostanze particolari ritardarono ancora per un secolo la soluzione del problema. È da notare, anzitutto, che la circoscrizione territoriale della diocesi era stata più che dimezzata. A conclusione del riordino delle diocesi siciliane, avvenuto nella prima metà dell’ ’800, molti centri abitati furono inclusi nel territorio delle nuove diocesi: nel 1816 fu eretta la diocesi di Caltagirone e nella sua circoscrizione, in tempi diversi, furono inclusi i comuni di Mirabella e Ramacca; tra il 1817 e il 1844 tutta la zona occidentale detta «le montagne» passò alle nuove diocesi di Piazza {Armerina}78 e Nicosia79; nel 1844 i centri abitati, che un tempo costituivano la terra e il bosco di Aci, furono inclusi nel territorio del76 Qualche indicazione su questo periodo si può trovare in F. SCADUTO, Stato e Chiesa, cit., I, 106-155. 77 Dal 1841 erano cessate del tutto le decimae dominicales et sacramentales dovute al vescovo come parroco della città: «Il diritto di percepire le decime dominicali e sacramentali, a torto ritenuto un abuso, di recente è stato abrogato» (Relazioni, I-II, 743; cfr. F. SCADUTO, Stato e Chiesa, cit., I, 73-74). 78 La diocesi di Piazza fu eretta nel 1817. Nella circoscrizione della nuova diocesi furono inclusi i comuni di Aidone, Barrafranca, Enna, Piazza {Armerina}, Pietraperzia, Valguarnera, Villarosa, già appartenenti alla diocesi di Catania. 79 La diocesi di Nicosia fu eretta nel 1817. Nella sua circoscrizione furono inclusi i comuni di Agira, Assoro, Catenanuova, Centuripe, Leonforte, Regalbuto, Nissoria, già appartenenti alla diocesi di Catania.

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la diocesi di Acireale80. Dopo questi smembramenti il numero delle parrocchie autonome scomparve quasi del tutto e fu più facile affermare e dimostrare che il vescovo doveva essere considerato l’unico parroco della diocesi. Le motivazioni che indussero i vescovi di questo periodo a mantenere immutata l’organizzazione pastorale della diocesi erano diverse da quelle addotte nei secoli precedenti. Non c’era più il timore di inimicarsi le autorità civili o il desiderio di mantenere in vita un antico privilegio per un maggior prestigio del vescovo. Le ragioni più gravi si riducevano sostanzialmente a tre: a) una maggiore autorità del vescovo sui sacerdoti in un periodo di disordini e di confusione anche all’interno della Chiesa; b) una maggiore autonomia della Chiesa nei confronti dello Stato; c) la possibilità di salvare il patrimonio ecclesiastico dopo le leggi eversive del 1866-1867. Fa riferimento al primo motivo l’arcivescovo Giuseppe Benedetto Dusmet nella relazione alla Congregazione del concilio del 1869, quando giunse a sostenere la convenienza di abolire le parrocchie di dubbia istituzione e di rendere amovibili i parroci perpetui, per dare ai vescovi una maggiore autorità sul clero: «Va notato che in questa arcidiocesi, se si eccettua il comune di Bronte da poco incluso nella sua circoscrizione, che ha una chiesa parrocchiale (per la cui provvista si bandisce il concorso secondo le indicazioni del Concilio di Trento, sess. 24, de ref., c. 13 e la costituzione di Benedetto XIV, Cum illud), in nessun altro luogo c’è un vero e proprio parroco. Tuttavia molti — soprattutto le dignità di alcune collegiate — pur non avendo il diritto di rilasciare il contrahatur, si fregiano di un titolo privo di contenuto. A tal proposito, poiché si hanno non poche liti promosse contro l’Ordinario, la cui autorità è rappresentata nei diversi luoghi dai vicari foranei, considerati vice parroci amovibili a discrezione del vescovo, sarebbe auspicabile abolire le parrocchie di dubbia istituzione, oppure trasformare in 80

Acireale, Aci Bonaccorsi, Acicastello, Acicatena, Aci Sant’Antonio, Valverde. Come corrispettivo di onore per i territori ceduti alle nuove diocesi, Catania nel 1844 fu elevata a sede arcivescovile. Con il riordinamento dei confini territoriali, seguito all’erezione della diocesi di Acireale, furono annessi a Catania i comuni di Bronte e di Maletto. Poiché provenivano da altre diocesi, in essi erano regolarmente costituiti dei parroci perpetui. Fino al 1919 costituirono le uniche eccezioni al principio : «episcopus unicus parochus civitatis et dioecesis».

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amovibili i loro parroci o almeno aumentare il numero dei motivi per i quali questi sacerdoti possono essere privati a buon diritto delle loro chiese, o ancora stabilire una procedura meno rigida perché si possa giungere alla privazione, fatta salva la giustizia»81.

La Congregazione nella risposta riconobbe che il problema sollevato dal Dusmet era molto grave, ma non ritenne opportuno dare il suo appoggio per l’attuazione di un progetto che suscitava perplessità. Si limitò a rimandare il problema a tempi migliori82. Il Dusmet nella relazione del 1873 accenna ai benefici che sperava di ottenere nei rapporti con le autorità civili: «Ritengo opportuno esporre ancora una volta a questa S. Congregazione quanto ho scritto nel capitolo VII della precedente relazione a proposito dei vicari foranei, i quali, non essendoci ab immemorabili veri parroci, da molti secoli nelle singole città minori dell’attuale circoscrizione di questa diocesi (non è il caso che mi occupi delle chiese erette in tempi più recenti e aggregate alle nuove diocesi), esercitano la cura delle anime come vice parroci amovibili a discrezione del vescovo. Infatti ho potuto sperimentare i mirabili effetti e i grandi benefici derivanti alla diocesi sul piano spirituale e temporale, soprattutto in questi nostri tempi, da questa sua speciale e antichissima costituzione. Infatti qui non si dà il pretesto al governo civile di immischiarsi nella elezione e nel possesso dei parroci e al cosiddetto economato è tolta l’occasione di intromettersi nell’amministrazione delle parrocchie vacanti; inoltre dai preposti alla cura delle anime si presta una maggiore obbedienza all’Ordinario e così molto più facilmente si mantiene nelle città l’ordine e la disciplina»83. 81 Relazioni, I-II, 788. Le condizioni della diocesi in questo periodo e l’azione dell’arcivescovo Giuseppe Benedetto Dusmet sono descritte e documentate da T. LECCISOTTI, Il Cardinale Dusmet, Catania 1962 e da G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Acireale 1987. 82 «Quae de parochis istius dioecesis refers, gravissimi momenti visa sunt, nec quidquam circa illa in praesens E.mi Patres statuendum esse censent; sed cum laetiora Ecclesiae tempora effulgerint, tum plenam poteris de illarum natura, conditione, reditibus, aliisque ad rem facientibus, notitiam S. Congregationi exhibere, ut ipsa, quae in Domino magis expedire iudicaverit, seria et accurata deliberatione, praehabito animi tui voto, et auditis omnibus iis quorum interest, decernat» (Relazioni, I-II, 1181). 83 Relazioni, I-II, 801.

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Ma il principale vantaggio, che l’arcivescovo seppe trarre dalla sua condizione di unico parroco della diocesi, fu di natura patrimoniale. Le leggi del 7 luglio 1866 e del 15 agosto 1867, dalla soppressione dei beni ecclesiastici escludevano i benefici curati. Partendo dal principio che nella diocesi di Catania la cura delle anime spettava al vescovo ed al capitolo della cattedrale e veniva esercitata nelle varie chiese da vicari amovibili ad nutum episcopi, fu possibile evitare la soppressione dei beni della mensa vescovile, della mensa capitolare e di quelli di altre chiese e collegiate, dimostrando che si trattava di benifici curati. La vertenza con il demanio fu lunga e dispendiosa, ma i giudici, in primo, in secondo grado e alla cassazione, diedero ragione all’arcivescovo84. Se la mancata attuazione della riforma parrocchiale fosse dipesa unicamente dalla convenienza di lasciare all’arcivescovo una maggiore autorità nei confronti del clero, si poteva sperare nel miglioramento delle condizioni dei tempi. Era questa l’idea della Congregazione del concilio nelle risposte alle relazioni del Dusmet: considerati i notevoli benefici derivanti dall’organizzazione pastorale vigente nella diocesi, non era opportuno per il momento apportare innovazioni85. Ma quel «momento» doveva durare ancora a lungo. L’erezione delle parrocchie con parroci perpetui risultava strettamente con84 La documentazione relativa si trova nell’Archivio Storico Diocesano sotto la voce: Difesa Chiese. Una prima vertenza ebbe come oggetto i beni della mensa capitolare; i tribunali civili riconobbero validi gli argomenti addotti e diedero ragione all’arcivescovo: «Così il Tribunale di Catania con sentenza del 17 dicembre 1868; così la Corte di Appello di Catania con sentenza del 21 luglio 1869; così la Corte di Cassazione di Palermo il 21 giugno 1870 rigettando la domanda del cav. Camillo Laioli reggente la Direzione del Demanio» (Memoria dei canonici Fazio, Maugeri e Puleo al vescovo Patanè, in data 15 febbraio 1931, Episcopato Patanè, Parrocchialità unica). Una seconda vertenza ebbe come oggetto i beni della mensa vescovile: «Con una prima decisione (1872, agosto 15) si ottenne che il terzo della mensa fosse dichiarato beneficio parrocchiale, e come tale esente dalla tassa del trenta per cento e dalla conversione. Successivamente (1873, agosto 2), fu fissata la quota curata dovuta all’arcivescovo. In un terzo tempo (1874, marzo 3), venne ordinato al demanio di restituire i canoni dovuti all’arcivescovo. Queste sentenze furono convalidate dalla Cassazione, la quale segnò la vittoria definitiva, quando nel 1878 rigettò il ricorso del demanio, condannandolo alle spese» (T. LECCISOTTI, Il Cardinale Dusmet, cit., 222). Analoga alla situazione di Catania era quella delle diocesi di Patti e di Cefalù (G. CORAZZINI, La parrocchia nel diritto italiano, cit., 355-356). 85 «Si modus quo animarum cura istic instituta est, magnas hisce praesertim temporibus ecclesiae utilitates affert, nihil interim immutandum est. Si quid vero ab

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nessa con i vantaggi economici conseguiti dopo la soppressione dei beni ecclesiastici 86. Era quindi impensabile rinunziare a una situazione privilegiata, dopo gli sforzi sostenuti per dimostrarne la validità e la legittimità. Un rilevo, tutt’altro che secondario, è opportuno fare in margine a questa vicenda. L’enfatizzazione data alla vittoria, ottenuta dal vescovo Dusmet nei tre gradi di giudizio presso i tribunali dello Stato, determinò anche una certa confusione di linguaggio fra il piano giuridico-formale e il piano concreto-pastorale. Negli anni in cui il movimento cattolico in Italia era monopolizzato dall’Opera dei congressi, che si faceva forte della sua capillare organizzazione nei comitati parrocchiali, fu facile accusare il vescovo Dusmet di carente sensibilità sociale ed ecclesiale per essersi rifiutato di accogliere in diocesi l’associazione di punta dell’integralismo cattolico e attribuire di conseguenza alla mancanza di parrocchie il modesto sviluppo delle iniziative sociali promosse dall’Opera dei congressi. Non sono mancati coloro che hanno attribuito all’anomala organizzazione della cura delle anime esistente nella diocesi di Catania, la mancata formazione del “senso della parrocchia” nel clero e nei fedeli87. Onde evitare che alcune affermazioni inesatte — dovute a foga polemica o a disinformazione — possano dal luogo ad equivoci, è bene far notare che l’anomalia esistente nell’ordinamento della cura delle anime nella diocesi di Catania riguardava prevalentemente l’aspetto giuridico-formale, non quello concreto-pastorale. Nelle chiese sacramentali esistenti nella città e nei vari centri abitati della diocesi c’erano sacerdoti che di fatto esercitavano stabilmente la cura delle anime, svolgendo tutte le attività dei parroci. La differenza principale consisteva nella natura della loro potestà: invece di essere propria, ecclesiasticis legibus abnorme videatur, opportuno tempore huic S. C. deferre poteris» (Relazioni, I-II, 1187). 86 Dopo le sentenze favorevoli sui beni della mensa vescovile, se ne erano avute altre sui beni delle collegiate di Catania e dei comuni, facendo sempre valere lo stesso principio. Nella relazione del 1873 il Dusmet scriveva alla s. Congregazione del concilio: «Riottenuta gran parte dei beni delle collegiate di Catania, Paternò, Adrano, Belpasso, Nicolosi e Trecastagni, sottratti del governo civili in seguito all’ingiusta occupazione demaniale, mi sono adoperato con tutte le mie forze a ricostituire i loro capitoli e in gran parte ho già portato a compimento questo lavoro...» (ibid., 801). 87 Relazioni, I-II, 781-785.

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strettamente derivante dall’ufficio ricevuto, era vicaria, cioè esercitata in nome del vescovo. Una seconda differenza riguardava la durata del loro mandato: non erano perpetui, ma amovibili a discrezione del vescovo. In realtà si trattava di una differenza più teorica che pratica, perché di fatto i cappellani svolgevano stabilmente e in modo autonomo il loro mandato; il vescovo non aveva alcun interesse a interferire nell’esercizio del loro ministero o a spostarli da una chiesa all’altra per dimostrare che era l’unico parroco della città e della diocesi. Quando nel secolo successivo si attuerà la riforma della cura delle anime, per quanto attiene alle antiche chiese sacramentali trasformate in parrocchie, i fedeli non noteranno alcun cambiamento concreto, perché gli stessi sacerdoti che prima si chiamavano cappellani sacramentali diventeranno parroci e continueranno a svolgere le stesse attività di prima. In città l’unica novità percepibile concretamente riguarderà l’archivio parrocchiale. Quando la cattedrale era l’unica parrocchia, i cappellani sacramentali dovevano portare i registri nell’unico archivio parrocchiale, che si trovava nella curia. Dopo la riforma, i registri saranno conservati nell’ufficio delle nuove parrocchie e per i fedeli non sarà più necessario recarsi in curia per chiedere un certificato. Diverso era il caso delle parrocchie erette ex novo in rettorie che mai in passato avevano avuto la cura delle anime: ai fedeli veniva data la possibilità di formare una nuova comunità cristiana nel loro stesso quartiere, senza la necessità di scomodi spostamenti per i servizi religiosi. La mancanza di “senso della parrocchia” — sempre che ci sia stato — riguardava l’ordinamento ecclesiastico siciliano e deve essere spiegato con le scelte fatte dai normanni dopo la parentesi islamica: l’esercizio della cura delle anime non era monocentrico, cioè non aveva come punto di riferimento il vescovo e la parrocchia; ma era policentrico, perché attribuito a una pluralità di soggetti: la stessa autorità politica, le grandi abbazie monastiche, gli ordini religiosi, le confraternite, i terzi ordini, ecc. In queste condizioni, il modello di parrocchia delineato dal Concilio di Trento non poteva essere sviluppato pienamente88.

88 Sul tema si veda anche: A. LONGHITANO, Evoluzione sociale e giuridica delle parrocchie, in La Chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, a cura di F. Flores D’Arcais, Caltanissetta-Roma 1994, 405-482.

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VII

EREZIONE DELLE PARROCCHIE NEI COMUNI E NELLA CITTÀ

1. IL VESCOVO GIUSEPPE FRANCICA NAVA E LA RIFORMA DELLA CURA DELLE ANIME NEI COMUNI

La promulgazione del Codice di diritto canonico del 1917 trova ancora il vescovo di Catania unico parroco della città e della diocesi. Il sinodo diocesano, celebrato nel 1918, quando descrive l’organizzazione della cura delle anime parte da questo principio: solo il vescovo ha le facoltà ordinarie che il codice riconosce ai parroci; i cappellani sacramentali della città e i vicari foranei dei comuni collaborano con il vescovo nella cura delle anime come vicarii cooperatori1. Il discorso appare più chiaro nelle norme sull’assistenza ai matrimoni2. Tuttavia nello stesso sinodo erano previste le norme da osservare nei casi in cui ci fossero stati dei veri parroci3. Ciò dimostra che, nelle intenzioni del card. Giuseppe Francica Nava, il principio del vescovo unico parroco non doveva durare ancora per molto. Del resto, le norme stabilite dal legislatore nel codice erano chiare e nessun vescovo poteva appellarsi a situazioni di privilegio o a condizioni storiche irreformabili per eludere il principio cardine sul quale si fondava l’ordinamento della cura 1 Synodus Dioecesana Catanensis ab Em.mo ac R.mo Iosepho Card. Francica Nava Archiepiscopo celebrata anno MCMXVIII, Catanae 1918, art. 573-574, p. 110. 2 «Iure communi illa tantum matrimonia sunt valida quae contrahuntur coram parocho vel loci ordinario, vel sacerdoti ab alterutro delegato» (Synodus, cit., art. 223, p. 48). «Pro nostra tamen Archidioecesi, in qua fere unicus est Parochus, qui est Archiepiscopus, haec statuimus: a) Nemini, qui vere et certe paroeciali jure non gaudet, liceat Matrimoniis assistere absque facultate sibi data a Nobis vel a Nostro Generali Vicario vel, extra urbem, a Vicario Foraneo; et si secus fiat, irrita habeantur huiusmodi Matrimonia; b) Verum hoc Nostro Decreto eamdem facultatem, quotannis scripto renovandam, habitualiter concedimus omnibus et singulis Cappellanis Curatis salvo jure exclusivo Parochorum ubi hi canonice instituti existunt, et dummodo eam in proprio dumtaxat territorio exerceant» (Synodus, cit., art. 224, p. 48). 3 Vedi nota precedente.

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delle anime: l’obbligo di dividere il territorio diocesano in parrocchie (can. 216 § 1) e di affidarle stabilmente (can. 454) a una persona fisica, non a una persona morale (can. 452). Il vescovo Francica Nava per attuare la riforma voluta dal legislatore doveva superare non poche difficoltà, a partire dalle sue convinzioni personali. È interessante studiare le varie tappe del percorso seguito dal vescovo di Catania4. Nei primi anni del suo ministero pastorale, le convinzioni personali del vescovo Francica Nava sulla riforma delle parrocchie erano in continuità con quelle del suo predecessore. Nella relazione ad limina del 1904 scriveva: «Questo singolare ordinamento delle parrocchie, che è in vigore da secoli, ha certamente degli aspetti positivi, soprattutto ai nostri tempi, ma comporta anche alcuni inconvenienti. Sarebbe molto arduo cambiare questa situazione e, nelle difficili condizioni in cui ci troviamo, si potrebbero temere conseguenze peggiori»5.

Nelle relazioni del 1908 e del 1916 ripeteva sostanzialmente lo stesso discorso, giustificando la mancata riforma cone la scelta di un male minore quando ci si trova dinanzi a una necessità6. Il problema parrocchiale non riguardava solo la diocesi di Catania7; l’argomento era stato discusso nelle conferenze episcopali dei vescovi di Sicilia8, che dal 1906 furono presiedute dal card. Giuseppe Francica Nava. I vescovi si rendevano conto che l’erezione delle parrocchie non obbediva soltanto ad esigenze di natura organizzativa, ma 4

Per un profilo del vescovo Giuseppe Francica Nava si veda: Relazioni, III,

33-126. 5 Ibid., rel. 1904, § 7, 133. Un rilievo analogo era stato fatto dal vescovo Dusmet nella sua relazione del 1873: Relazioni, I-II, 771-772. 6 Relazioni, III, rel. 1908, § 7, 160, rel. 1916, cap. 7, n. 63, p. 206. 7 L’ordinamento della cura delle anime nelle diocesi di Sicilia di questo periodo e analizzato nel nostro studio: A. LONGHITANO, Evoluzione sociale e giuridica, cit., 405-482. 8 Nella conferenza tenuta a Palermo nel gennaio del 1908 si era stabilito il «Riordinamento delle parrocchie» ed era stata istituita una commissione formata dai vescovi Luigi Bignami di Siracusa, Mario Sturzo di Piazza Armerina e Giovanni Battista Arista di Acireale (Atti delle conferenze dell’episcopato siciliano: 1891-1916, Catania, 1916, 34).

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poteva assicurare una presenza più incisiva e più diffusa del clero nella società e contribuire a risolvere il problema dell’occupazione e del sostentamento dei sacerdoti. Gli ostacoli maggiori per attuare questo progetto provenivano dalla difficoltà di reperire i fondi per costituire il beneficio, richiesto dalle norme canoniche, e per costruire le case canoniche. Le proposte avanzate nella conferenza episcopale nel 19109 di creare in diocesi un fondo destinato a questo scopo, evitando spese superflue o introducendo nuove tasse, si rivelarono inadeguate e nel 1919 cominciò a farsi strada l’idea di chiedere l’aiuto dello Stato10. Intanto nel 1916 i vescovi siciliani avevano deciso di celebrare un concilio plenario per adeguare tutto il sistema ecclesiastico siciliano al nuovo codice che stava per essere promulgato. Il concilio si riunì nel 192011. Nel contesto di questi avvenimenti: la decisione di celebrare il concilio plenario del 1916, la promulgazione del codice nel 1917, il sinodo diocesano del 1918, il vescovo di Catania decise ad avviare la riforma parrocchiale in tre fasi successive: a) il passaggio dalla cura collegiale alla cura individuale delle anime nelle collegiate dei comuni più popolati; b) l’erezione delle parrocchie e la nomina dei parroci perpetui nei comuni minori; c) l’analogo procedimento per il territorio della città di Catania. Francica Nava riuscì ad attuare le prime due fasi del progetto; lasciò ai suoi successori il compito di attuare la terza fase.

Riforma della cura delle anime nelle collegiate dei comuni più popolati La procedura ritenuta più idonea fu quella di fare una passo alla volta, onde evitare di mettere insieme problematiche diverse e di favorire facili coalizioni fra i canonici delle diverse collegiate.

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Nella conferenza tenuta a Tindari nel 1910 si affrontò il tema della «erezione delle parrocchie». Nel verbale conclusivo di legge: «Si è constatato in massima il bisogno dell’erezione di nuove parrocchie. Si sono anche constatate le gravissime difficoltà che vi si frappongono e quindi l’assemblea più che prendere deliberazioni, ha accennato alcuni mezzi fra i quali si segnalano i più pratici...» (ibid., 39). 10 F. M., STABILE, La Chiesa nella società siciliana, Caltanissetta-Roma 1992, 144-145. 11 Concilium plenarium siculum Panormi 1920 habitum Caietano cardinali De Lai episcopo Sabinensi Summi Pontificis Benedicti XV legato a latere praeside, Romae 1921.

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Si iniziò con il popoloso centro di Adrano, dove la cura delle anime era esercitata nella chiesa madre da una collegiata, eretta dal vescovo Francesco Carafa il 1° febbraio 1690. Dal 30 agosto 1917, con la morte di don Salvatore Petronio Russo, era rimasto vacante l’ufficio del prevosto, prima dignità del capitolo. La nomina del successore offriva al vescovo l’opportunità di risolvere il problema secondo le prescrizioni del Codice di diritto canonico, che era stato promulgato nella pentecoste di quello stesso anno (27 maggio) e che sarebbe entrato in vigore nella pentecoste dell’anno successivo (19 maggio 1918). Non fu facile per il vescovo trovare la soluzione che gli permettesse di raggiungere lo scopo voluto (passare dalla cura collegiale alla cura personale delle anime), tenendo conto allo stesso tempo di elementi diversi e contrastanti: rispettare il dato storico, non sconfessare le tesi sostenute dal suo predecessore dinanzi ai tribunali civili per salvare dalle leggi eversive il patrimonio delle collegiate, salvaguardare i diritti della collegiata strenuamente sostenuti dai capitolari. Nel decreto finale del 1° maggio 191912, con cui erige formalmente la parrocchia Maria SS. Assunta, si nota l’abilità del vescovo nel trovare un dignitoso compromesso che gli permise di ottenere il consenso dei canonici13. A conclusione delle premesse dottrinali, troviamo formulate le norme per disciplinare l’esercizio della cura delle anime nella chiesa madre di Adrano: a) il prevosto pro tempore doveva essere considerato parroco a tutti gli effetti, a norma del can. 451 § 1 CIC; b) egli sarebbe stato scelto per concorso e nominato dalla s. Sede, secondo le indicazioni del can. 396 § 1; c) un vicario scelto dal prevosto e nominato dal vescovo lo avrebbe supplito in caso di impedimento o di assenza; ove la parrocchia fosse diventata vacante, sarebbe stato compito del vescovo nominare il vicario economo, a norma del can. 472, 1°; d) i diritti-doveri del prevosto-parroco erano quelli previsti dal codice; e) la catechesi che il canonico teologo del capitolo doveva fare per statuto ai fedeli doveva tenersi in orari diversi da quella spettante al parroco. Una situazione analoga si aveva nel comune di Paternò, dove nel 1559 il vescovo Nicola Maria Caracciolo aveva affidato a una co12 13

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1907-1919, p. 345-352. Ibid., p. 350-351. TA


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munìa la cura delle anime di tutto il centro abitato14. Nel 1670 il vescovo Michelangelo Bonadies aveva trasformato in collegiata questa comunìa e aveva affidato la cura delle anime alle tre dignità del capitolo: prevosto, cantore e tesoriere. Il vescovo Francica Nava, prima di promulgare il formale decreto di erezione della parrocchia Santa Maria dell’Alto, chiese al capitolo di fargli conoscere il parere sul suo progetto: erezione formale della parrocchia; conferimento della cura delle anime a un solo parroco, secondo le norme del codice; nomina dei vicari cooperatori; indicazioni sulla quota parte da assegnare al parroco ed ai vicari per il loro sostentamento15. Nel verbale della riunione del capitolo (29 giugno 1919) si legge: «Il rev.mo Capitolo accetta da una parte le proposte dell’Em.mo Arcivescovo relative alla parrocchia e dall’altra si è occupata della quota parte da attribuire al parroco ed ai vicari cooperatori e sembra di essere riuscito a soddisfare ai voleri dell’Em.mo Arcivescovo, a cui presenterà analogo specchietto dei vari introiti parrocchiali. Il Capitolo però, come è sollecito a portare la sua doverosa adesione alle nuove direzioni, per le quali viene privato di tre parroci nella persona delle altre tre dignità, cioè Cantore, Tesoriere e Decano, si rivolge a S. Eminenza l’Arcivescovo, perché vengano integralmente rispettati tutti gli altri diritti e prerogative capitolari, e fra questi specialmente l’amministrazione di beni della chiesa, che è stata sempre nelle mani di esso capitolo e deve continuare nello stesso modo senza lesione od innovazione di sorta. Di guisa che il parroco entri a far parte dell’amministrazione dei suddetti beni, in quanto Preposito ed insieme alle altre Dignità, giusta la bolla di fondazione del Bonadies e la consuetudine più che bicentenaria»16.

Il decreto, che porta la data del 10 luglio 191917, ricalca quello di Adrano. La cura delle anime era affidata al prevosto-parroco da sce-

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Vedi supra, cap. IV/3. TA 1907-1919, p. 362-365. 16 Ibid., p. 364. 17 Ibid., p. 358-362. 15

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gliere mediante concorso. Erano soggetti alla sua giurisdizione quattro vicari cooperatori, che avrebbero svolto il loro ministero in altrettante chiese sacramentali site nel territorio comunale. I rapporti fra parroco e capitolo sarebbero stati regolati dalle norme del codice e dalle particolari disposizioni del vescovo. Più difficile appariva la soluzione per il comune di Biancavilla, dove la cura delle anime dal vescovo Pietro Galletti, con il decreto di erezione della collegiata del 26 settembre 1746, era stata affidata a tutto il capitolo. Il vescovo Francica Nava, prima di redigere il formale decreto di erezione della parrocchia e nominare il parroco a norma del codice di diritto canonico, chiese il parere ai canonici. Il capitolo si riunì il 12 giugno 1920 e tutti espressero singolarmente il proprio parere, che fu verbalizzato: su dodici canonici solo tre si dissero favorevoli al progetto del vescovo18; gli altri assunsero un atteggiamento diversificato: dal rifiuto più o meno netto19, alla proposta di chiedere alla s. Sede di affidare la cura abituale al capitolo e la cura attuale a un vicario, secondo le norme previste dal codice20, al proposito di esaminare attentamente il caso e verificare se esistessero gli estremi per promuovere un processo in difesa dei propri diritti presso i tribunali ecclesiastici21. Il vescovo, avuto il parere, il 20 agosto 1920 emise il decreto22, nel quale si erigeva formalmente la parrocchia Santa Maria dell’Elemosina nel comune di Biancavilla e la cura delle anime veniva affidata al prevosto pro tempore, alle stesse condizioni indicate nel decreto di Adrano. I canonici, convinti che il vescovo avesse conculcato un loro preciso diritto, presentarono ricorso alla Congregazione del concilio, che, dopo tre anni (il 20 dicembre 1923), fece conoscere la sua decisione: il decreto del vescovo Francica Nava veniva confermato in tutte le sue parti; la collegiata di Biancavilla non aveva soggettività giu18

Danno il proprio assenso: il prevosto Piccione, il tesoriere Portale, il canonico Caselli (Episcopato Nava, carpetta 19, Biancavilla). 19 Si dichiarano contrari: il cantore Verzì, i canonici Bucolo e Randazzo. Dissentono comunque, anche se non intendono contrapporsi al vescovo, i canonici Lanaia Castelli e Lanaia Leocata (l. c.). 20 Il canonico Gioco (l. c.). 21 È la proposta del decano Distefano e del can. Salomone (l. c). 22 TA 1920-1954, p. 39-42.

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ridica, perché non era stata mai eretta a norma del diritto canonico; infatti l’erezione di un capitolo poteva essere fatta solo dalla s. Sede e il decreto del vescovo Galletti del 1746 doveva essere considerato privo di ogni rilevanza23. La risposta della Congregazione, per molti aspetti sorprendente24, spianò al vescovo Francica Nava la strada per completare senza opposizioni la sua riforma. Gli altri capitoli dei comuni minori — se pure avessero voluto far valere i propri diritti — trovandosi nelle stesse condizioni della collegiata di Biancavilla, erano privi di soggettività giuridica, perciò incapaci di levare la propria voce in difesa della prassi seguita per il passato.

Erezione delle parrocchie nei centri abitati minori Risolto il difficile problema posto dall’esistenza delle collegiate nei comuni più popolati, Francica Nava poteva procedere all’erezione delle parrocchie nei centri abitati minori. I vescovi di Sicilia, come si è visto, nel 1906 avevano elaborato un piano per repire i fondi necessari alla costituzione dei benefici; ma nel 1919 si erano resi conto che solo l’intervento dello Stato avrebbe potuto dare una soluzione al problema. Nella prima metà del ’900 era cambiato il rapporto dei cattolici verso la società e lo Stato italiano. Dall’atteggiamento di rifiuto e di difesa, che avevano caratterizzato gli anni successivi all’unità, subentrò man mano la volontà di avviare un dialogo, di non polarizzare l’attenzione sulla questione romana, di partecipare alle lotte sociali e politiche25. Due avvenimenti in particolare 23

Episcopato Nava, carpetta 19, Biancavilla. I vescovi nelle relazioni ad limina, descrivendo lo stato della diocesi, avevano compilato l’elenco delle collegiate esistenti con le indicazioni dei vescovi che le avevano istituite. Lo stesso vescovo Salvatore Ventimiglia aveva posto chiaramente il problema alla Congregazione, indicando nel proliferare delle collegiate un abuso da eliminare o correggere. La Congregazione non aveva mai chiesto nei suoi rilievi se i vescovi avevano ricevuto la necessaria autorizzazione prima di istituirle (vedi supra, cap. VI/3). 25 Lo scioglimento dell’Opera dei congressi segnò la fine dell’intransigentismo e del temporalismo e l’inizio dell’impegno politico dei cattolici che, dopo alcuni incerti tentativi di sostegno ai moderati, si attuò nel partito popolare (F. FONZI, I 24

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diedero ai cattolici la possibilità di scoprire il sentimento nazionale: l’impresa libica e la grande guerra. L’impegno e la lealtà dimostrati dai laici e dal clero durante la grande guerra finirono per rompere il clima di ostilità che aveva caratterizzato gli anni successivi all’unità e alla presa di Roma26. La presenza dei cattolici al parlamento consentirà una maggiore attenzione ai problemi delle congrue e delle parrocchie. Nel 1921 e nel 1922, in seguito alle trattative condotte dalla Federazione nazionale del clero, il governo italiano con due distinti decreti aveva disposto l’aumento del supplemento di congrua per i parroci27. Nel 1922, dopo la marcia su Roma, Mussolini riceveva l’incarico di formare il nuovo governo (31 ottobre). Il partito fascista, per riuscire nel difficile impegno assunto, sapeva che doveva ingraziarsi le autorità ecclesiastiche, avviando a concreta soluzione alcuni problemi che stavano molto a cuore ai cattolici: l’insegnamento religioso nelle scuole e la concessione di un supplemento per la congrua sussistenza dei parroci. A questo punto le autorità ecclesiastiche si chiesero se non era preferibile avviare un rapporto di collaborazione con il partito fascista, rompendo ogni legame con il partito popolare. Questa idea cominciò a concretizzarsi nel gennaio 1923, quando furono avviati i primi contatti per risolvere la questione romana. Ai sacerdoti fu proibito di occuparsi di politica e il segretario di Stato, card. Pietro Gasparri, consigliò don Luigi Sturzo di lasciare l’Italia28. Nella nuova situazione creatasi in Italia, il vescovo Francica Nava intravide la possibilità di portare a termine la riforma dell’ordinamento della cura d’anime. Il 27 novembre 1923 avviò la procedura stabilita dalle leggi civili per ottenere il riconoscimento delle parrocchie che intendeva erigere nei comuni della diocesi, passaggio indispensabile per avere il supplemento di congrua. Il 21 giugno 1926 con un so-

cattolici e la società italiana dopo l’unità, Roma 19773; G. DE ROSA, Il movimento cattolico in Italia. Dalla restaurazione all’età giolittiana, Bari 1976, 253-326). 26 Ibid., 327-388; F. RENDA, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, II, Palermo 1985, 305-351. 27 F. M. STABILE, La Chiesa nella società siciliana, cit., 140-147. 28 Relazioni, III, 98-101.

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lo decreto eresse 25 parrocchie29 e 23 vicarie curate30 In questo decreto affermava che l’erezione delle parrocchie era stata ostacolata dalla mancanze di rendite e di case canoniche. Si era superato il primo ostacolo con l’intervento del governo italiano, che aveva stabilito di dare il proprio contributo per costituire la dote alle singole parrocchie. A conferma di questa asserzione sono citati puntigliosamente alcuni passaggi formali: la richiesta inviata dal vescovo a Roma il 27 novembre 1923, la sua accettazione da parte del ministero competente in data 12 dicembre 1923, la comunicazione del 17 dicembre 1923, pervenuta tramite la Procura generale della Corte d’appello di Catania31.

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Nel decreto risultano nell’ordine le seguenti parrocchie: 1) Belpasso, Immacolata; 2) Belpasso, Sant’Antonio; 3) Belpasso, Santa Maria della Guardia a Borrello; 4) Camporotondo Etneo, Sant’Antonio Abate; 5) Gravina di Catania, Sant’Antonio di Padova; 6) Maletto, Sacri Cuori di Gesù e Maria; 7) Mascalucia, Santa Maria della Consolazione; 8) Misterbianco, Santa Maria delle Grazie; 9) Motta Sant’Anastasia, Santa Maria del Rosario; 10) Santa Maria di Licodia, Santissimo Crocifisso; 11) Sant’Agata li Battiati, Maria Santissima Annunziata; 12) San Gregorio, Santa Maria degli Ammalati; 13) San Giovanni la Punta, San Giovanni Battista; 14) San Giovanni la Punta, San Rocco a Trappeto; 15) San Pietro Clarenza, Santa Caterina V. M.; 16) Tremestieri Etneo, Santa Maria della Pace; 17) Viagrande, Santa Maria dell’Idria; 18) Viagrande, San Biagio a Viscalori; 19) Zafferana Etnea, Santa Maria della Provvidenza; 20) Zafferana Etnea, Santa Maria del Rosario a Fleri; 21) Zaffereana Etnea, Santa Maria del Carmelo a Bongiardo; 22) Zafferana Etnea, San Giuseppe a Pisano; 23) Paternò, Santa Maria del Carmelo a Ragalna; 24) Pedara, Santa Caterina V. M.; 25) Nicolosi, Spirito Santo (Tutt’Atti 1920-1954, p. 130-143; BE 31 [1927] 82-83). 30 Le vicarie curate riguardano i seguenti comuni: 1) San Giovanni la Punta, chiesa madre; 2) Zafferana Etnea, chiesa madre; 3) Pedara, chiesa madre; 4) Pedara, Sant’Antonio; 5) Trecastagni, Santa Caterina; 6) Nicolosi, Spirito Santo; 7) Nicolosi, Santa Maria delle Grazie; 8) Paternò, Santa Margherita; 9) Paternò, Anime del Purgatorio; 10) Paternò, San Michele Arcangelo; 11) Paternò, Santissimo Salvatore; 12) Paternò, Santa Barbara; 13) Paternò, Maria Santissima Annunziata; 14) Adrano, chiesa madre; 15) Adrano, San Filippo apostolo; 16) Adrano, San Pietro; 17) Adrano, Santa Lucia; 18) Adrano, San Leonardo; 19) Adrano, San Giuseppe; 20) Biancavilla, chiesa madre; 21) Biancavilla, Maria Santissima Annunziata; 22) Biancavilla, Santa Maria dell’Idria; 23) Tremestieri Etneo, Santa Maria delle Grazie a Piano. Non sembra che tutte queste vicarie abbiano ottenuto il riconoscimento civile e il supplemento di congrua. 31 Nella riforma dell’ordinamento parrocchiale hanno avuto una particolare incidenza le norme emanate dallo Stato. Il decreto canonico di erezione di una parrocchia o di una vicaria curata a volte veniva redatto o modificato tenendo conto delle condizioni stabilite dalle leggi dello Stato per ottenere il riconoscimento civile e il supplemento di congrua. In alcuni casi le parrocchie risultano erette ab immemo-

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Nel 1927 il complesso iter di questo provvedimento è illustrato da una nota del Bollettino Ecclesiastico: «Con l’aiuto che ha offerto il presente Governo dell’aumento della congrua alle parrocchie che non avessero avuto la dote sufficiente al mantenimento del rispettivo parroco, l’eminentissimo Cardinale ha già potuto erigere canonicamente 25 nuove parrocchie della nostra Diocesi, smembrandole dalla quasi unica parrocchia formata da tutta la Diocesi, di cui egli stesso era unico parroco... Al qual decreto non si è data ancora esecuzione, perché si è aspettato il riconoscimento civile del R. Governo. Questo è già un fatto compiuto, e si attende la firma del Sovrano al detto riconoscimento, che non tarderà molto»32.

In sostanza, se si tiene presente che per il diritto canonico la parrocchia era un beneficio, cioè un patrimonio in grado di produrre un reddito per il sostentamento del parroco, per erigere una parrocchia era necessario disporre della dote richiesta dal beneficio; pertanto il problema più che giuridico era patrimoniale. L’operazione, moltiplicata per il numero delle parrocchie da erigere in tutto il territorio diocesano, esigeva la disponibilità di un notevole patrimonio, costituito da beni mobili o immobili. Questo progetto, che inizialmente sembrava di impossibile realizzazione, divenne fattibile perché il governo italiano dispose il pagamento del “supplemento di congrua”. In altre parole: nei casi in cui il reddito prodotto dal patrimonio era insufficiente alla “congrua sussistenza” del sacerdote, il governo si impegnava a integrarlo versando ai parroci un supplemento. Pertanto anche la rendita modesta di un beneficio poteva essere considerata sufficiente per erigere una parrocchia, perché lo Stato con la sua integrazione avrebbe assicurato il sostentamento del parroco33. rabili, perché una norma civile prevedeva uno status privilegiato per quelle chiese nelle quali la cura delle anime era stata esercitata prima di una certa data e a certe condizioni. Si vedano ad es. le parrocchie: Santissima Trinità di Bronte, Maria Santissima Annunziata a Mascalucia Massannunziata, San Giovanni Battista a San Giovanni Galermo, San Nicola di Bari a Trecastagni. 32 BE 31 (1927) 82-83. 33 Non fu solo il vescovo di Catania ad erigere un numero rilevante di parrocchie, quando le circostanze favorevoli lo hanno permesso: a Messina nel 1921 furo-

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Il vescovo Francica Nava morì il 7 dicembre 1928, pochi mesi prima della stipula dei Patti lateranensi fra la s. Sede e l’Italia. Il suo successore, il coadiutore Emilio Ferrais, governò la diocesi per poco più di un anno, perché morì il 30 gennaio 193034. Il compito di portare a termine la riforma parrocchiale nella città di Catania toccò al vescovo Carmelo Patané, nominato il 7 luglio 1930.

2. IL VESCOVO CARMELO PATANÈ ERIGE LE PRIME PARROCCHIE AUTONOME NELLA CITTÀ

Il nuovo vescovo35 sapeva bene che tra i primi problemi da risolvere, iniziando il suo governo pastorale a Catania, c’era quello di portare a termine la riforma dell’ordinamento parrocchiale. L’attuazione del suo progetto appariva facilitata dalla stipula del concordato del 1929 e dalle norme di attuazione promulgate subito dopo. Dalla minuta di un documento, firmato da due curati della città e conservato nella cancelleria arcivescovile36, siamo informati che dopo la morte di Francica Nava, durante il periodo di sede vacante, si era pensato di indirizzare a Roma un memoriale per descrivere la situazione di disagio che c’era in città per la mancata erezione delle parrocchie autonome. Ma «un delicato senso di eccessiva prudenza ed un illimitato rispetto verso il defunto cardinale Francica Nava, ha impedito al collegio dei curati della città di far giungere la loro voce fino alle competenti Sacre Congregazioni». Il progetto che era stato accantonato nel 1929 fu riproposto nel 1930, durante l’altro periodo di sede vacante dopo la morte di Emilio Ferrais. Non sappiamo se il memoriale, che porta la data del 15 marzo 1930, fu spedito a Roma37. no erette trentanove parrocchie nel suburbio e diciotto nei comuni; ad Acireale, nello stesso anno, il vescovo ne eresse diciotto nella città e nelle frazioni e ventisei nei comuni; a Caltanissetta, nel 1924, si attuò un’analoga ristrutturazione delle parrocchie (A. LONGHITANO, Evoluzione sociale e giuridica, cit., 456-457). 34 Relazioni, III, 101-109. 35 Per un profilo del vescovo Carmelo Patanè, si veda: Relazioni, III, 297-345. 36 Firmano il documento il sac. Ferdinando Aiello, curato del Crocifisso della Buona Morte e il sac. Francesco Mascali, curato di Sant’Agata al Borgo. 37 Nell’archivio della Congregazione del concilio non si è trovato.

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Il documento testimonia in ogni caso il desiderio diffuso tra il clero di vedere realizzata una riforma che si trascinava ormai da molti anni. Il vescovo Patanè, per venire incontro a questa esigenza, a distanza di appena due mesi dal suo ingresso, il 15 dicembre 1930, decise di avviare il problema a soluzione. Una nota del Bollettino Ecclesiastico ci informa che era fermo proposito dell’eccellentissimo pastore «fondare nella città di Catania, come si era fatto per la Diocesi, le parrocchie, secondo le norme del Concilio Tridentino. A tal fine nominava un Comitato di cinque membri per studiare i problemi che si riferiscono alla fondazione delle parrocchie, alla sistemazione del territorio, e alle questioni giuridiche che potranno sorgere rispetto alla Mensa Capitolare e Vescovile. Con il 15 dicembre diviene la data storica memoranda, che segna la fine d’un organamento irregolare unico nel mondo, che era divenuto quasi mostruoso in questo rapido e vertiginoso progresso della città di Catania, la quale raggiunge una popolazione di quasi trecento mila anime e che se Dio vorrà, potrà essere il principio di un rinnovellamento religioso e spirituale del nostro popolo»38.

Nel numero successivo la notizia viene ripresa e approfondita. La «Commissione delle parrocchie» aveva invitato mons. Giovanni Musumeci, vicario generale di Siracusa e concittadino del vescovo Patanè, — considerato un esperto di problemi giuridici, nei due versanti canonico e civile — per studiare il problema. «Egli è stato ospite di Sua Eccellenza ed ha avuto frequenti colloqui con lui, con il rev. mons. Salvatore Fazio Vicario Generale e con altri membri della Commissione. La sua grande esperienza, la sua già provata perizia in siffatti affari, la sua vasta conoscenza delle leggi e del diritto canonico hanno dato grande luce nel noto problema e non dubitiamo che l’opera sua potrà essere preziosa nell’assestamento giuridico delle parrocchie della città»39.

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34 (1930) 113. Ibid., 35 (1931) 8-9. BE


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Erezione delle parrocchie nei comuni e nella città

La commissione delle parrocchie avviò subito i suoi lavori e il 15 febbraio 1931 presentò al vescovo Patanè una memoria40 nella quale si faceva un’accurata analisi del problema e si formulavano giudizi sereni sulle vertenze giudiziarie fra il capitolo e il demanio, avviate e concluse durante il governo pastorale del vescovo Giuseppe Benedetto Dusmet. Anzitutto si indicava il motivo che aveva impedito fino a quel momento la piena attuazione della riforma parrocchiale: «I criteri di questa limitazione avevano per base gli stessi interessi finanziari delle Mense arcivescovile e capitolare, come se l’erezione delle parrocchie venisse a menomare il placido possesso dei beni appartenenti all’Arcivescovo ed ai Canonici della Cattedrale»41.

Pur riconoscendo che il timore non era infondato, gli autori del documento affermavano che non c’era più motivo di preoccupazione: il 14 agosto 1917 con una transazione tra l’arcivescovo e il Fondo per il Culto si era proceduto all’assetto patrimoniale dei beni della mensa vescovile; di questi, due terzi costituivano la prebenda del vescovo, un terzo la quota curata spettante al vescovo come parroco della città. Il documento concludeva: «È chiaro dunque che l’erezione delle parrocchie non può coinvolgere la prebenda arcivescovile»42. Per la mensa capitolare il pericolo era ancora più remoto. Il documento contestava anzitutto la validità della tesi sostenuta dinanzi ai tribunali civili: «Che il Capitolo sia stato canonicamente eretto in beneficio parrocchiale, né si può né si deve sostenere. I titoli prodotti dagli amministratori dell’epoca, RR. Canonici Chiarenza e Guglielmini, non provano realmente l’assunto, benché essi siano riusciti con i medesimi a provare dinanzi ai Tribunali civili ciò che volevano»43.

Tuttavia, dopo sessant’anni dalla sentenza della Cassazione, il 40 Il documento era firmato dal priore della cattedrale Salvatore Fazio, dall’arcidiacono Giovanni Maugeri e dal penitenziere Giovanni Battista Puleo (Memoria dei canonici, cit.). 41 Ibid., fol. 1r. 42 L. c. 43 Ibid., fol. 1v.

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capitolo non poteva più temere di perdere i diritti acquisiti perché godeva «d’una prescrizione due volte trentennale»44. Per evitare anche il pericolo più lontano di perdere i diritti già acquisiti, si proponeva di limitare alla sola cattedrale il diritto che aveva il capitolo ad esercitare la cura delle anime. In tal caso, però, sarebbe stato necessario che «il capitolo fosse nominato parrocchiale con canonica erezione, riconoscendone nel decreto tutti i diritti, non esclusi quelli provenienti dalle leggi civili finoggi posseduti»45. Nel documento si accennava pure alla posizione che il capitolo aveva assunto in passato sulla soluzione del problema parrocchiale: «I Canonici della Cattedrale non hanno voluto opporsi all’erezione delle parrocchie in Città per sistema, come fu detto, o per non venire diminuiti dal titolo di Comparroci, ma con avvedutezza massima, temendo di essere disturbati nel placido possesso dell’ex feudo Santa Venera»46.

La chiara esposizione del problema da parte della commissione avrebbe dovuto dare un nuovo impulso alla sua soluzione, che si trascinò invece per oltre un decennio. Il vescovo Patanè nella sua relazione ad limina del 1937 scrive: «Da due anni ho istituito una commissione perché anche nella città siano nominati veri parroci e si accresca il numero delle parrocchie; ma alla soluzione di questo problema si oppongono molte difficoltà, soprattutto quella della congrua»47.

Gli anni trascorsi erano sei e non due. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale la soluzione del problema parrocchiale a Catania non poteva essere considerato prioritario. Solo dopo la sua conclusione, quando le leggi dello Stato stabilirono condizioni diverse per quantificare il capitale richiesto per la base di congrua, fu possibi-

44

Ibid., fol. 2v. Ibid., fol. 3r. 46 Ibid., fol. 2v. 47 Relazioni, III, rel. 1937, cap. 1, n. 3/f, p. 348. 45

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le avviare a soluzione il problema. Il 29 giugno 1944 il vescovo Patanè firmò il decreto di erezione della prima parrocchia autonoma in uno dei quartieri periferici di Catania: Santa Lucia in Ognina48. L’arcivescovo Patanè nel decreto di erezione si ricollegava alla riforma attuata dal suo predecessore cardinale Francica Nava nei comuni e proseguiva: per il maggior bene delle anime, tenendo conto del numero elevato degli abitanti, che aumenta sempre di più, riteniamo che sia giunto il tempo di creare e istituire le parrocchie distinte49. Sembra strano che si fosse accorto del notevole aumento della popolazione, solo quando la città aveva raggiunto i 250.000 abitanti. In tal modo si ponevano le premesse per avviare a soluzione la secolare questione delle parrocchie nella diocesi di Catania che, con l’attuazione della norma prevista dal can. 216 CIC, si collocava entro limiti del diritto comune.

3. SVILUPPO DELL’ORGANIZZAZIONE PARROCCHIALE L’erezione della prima parrocchia nella città di Catania indusse molti sacerdoti delle periferie o del centro storico a verificare se nella chiesa in cui svolgevano il ministero esistevano le condizioni per erigere una parrocchia autonoma. Le chiese nelle quali era possibile erigere una parrocchia appartenevano a due tipologie diverse: c’erano le antiche chiese sacramentali, per le quali era scontata la trasformazione in parrocchie autonome; c’erano le rettorie del centro storico o delle periferie nelle quali mai era stata esercitata la cura delle anime; per queste ultime l’erezione di una parrocchia autonoma esigeva l’esistenza dei requisiti previsti dalle norme canoniche: un numero consistente di fedeli privi dell’assistenza religiosa, le strutture materiali (la chiesa con i locali annessi e la casa canonica), il beneficio per il sostentamento del parroco. La costituzione del beneficio, che in passato rappresentava l’ostacolo principale per erigere una parrocchia, in seguito alle nuove leggi dello Stato non poneva difficoltà insormontabili. La chiesa esistente non era stata costruita per le esigenze della cura delle anime; perciò in molti casi era angusta e pri48 49

1920-1954, n. 1259, p. 264. L. c. TA

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va dei locali necessari per le attività parrocchiali. Anche se molti parroci furono costretti a svolgere il ministero in condizioni precarie, le nuove parrocchie erette divennero comunque un punto di riferimento obbligato e in molti casi l’unico centro di aggregazione per gli abitanti del quartiere. Dall’esame dei decreti di erezione delle parrocchie, che con ritmo regolare furono emanati nei decenni successivi50, si ha l’impressione che la riforma parrocchiale non sia stata attuata sulla base di un complessivo piano unitario. Il rilievo vale soprattutto per il centro storico della città, non per i quartieri che man mano sorgevano nelle periferie come conseguenza dell’urbanesimo. I motivi addotti nei decreti per giustificare l’erezione di una parrocchia erano quelli indicati dalle norme canoniche; ma al di là delle formule giuridiche, che si ripetevano in modo automatico, sarebbe stato quanto mai opportuno verificare la loro reale consistenza. I problemi che si ponevano non erano di facile soluzione, perché le chiese esistenti, per le quali si chiedeva il decreto di erezione in parrocchia, non sempre sorgevano al centro di un quartiere e a una certa distanza delle altre. Inoltre l’iniziativa a volte era presa da un sacerdote che mirava a “qualificare” la chiesa di cui era rettore e ad assicurarsi un campo di attività pastorale senza preoccuparsi eccessivamente del necessario coordinamento con le altre parrocchie del quartiere. L’autorità diocesana avrebbe dovuto intervenire per scoraggiare alcune iniziative o per consigliare ai sacerdoti scelte diverse. L’impressione prevalente, considerando la mappa delle circoscrizioni parrocchiali erette man mano dopo il 1944, è che nell’erezione delle parrocchie abbia avuto un certo peso l’iniziativa personale dei sacerdoti e la preoccupazione delle autorità diocesane di assicurare al clero un campo di azione per svolgere il ministero e garantirsi la sussistenza. Quando nei decenni successivi incominciò a manifestarsi la crisi delle vocazioni e il progressivo invecchiamento del clero, divenne sempre più difficile assicurare un parroco per tutte le parrocchie erette in precedenza e fu inevitabi50

Nel decennio 1940-1949 furono erette 27 parrocchie in città di Catania e nel suburbio, 13 nei comuni; nel decennio 1950-1959, 20 nella città e suburbio, 15 nei comuni; nel decennio 1960-1969, 9 nella città e suburbio, 11 nei comuni. Un ritmo analogo si nota nelle altre diocesi della Sicilia (A. LONGHITANO, Evoluzione sociale e giuridica, cit., 481).

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le predisporre un piano per bilanciare il numero delle parrocchie alle reali esigenze dei fedeli e al numero dei sacerdoti disponibili, soprattutto nel centro storico della città. Questi rilievi valgono anche per le parrocchie degli altri centri abitati della diocesi. In passato, anche nei comuni più popolati, la cura delle anime era stata esercitata con un criterio unitario: un solo responsabile (il vicario del vescovo), aiutato dai cappellani sacramentali. In alcuni centri abitati erano state istituite le comunìe, trasformate dopo in collegiate. Con l’erezione delle parrocchie autonome era venuto meno il principio che indicava nel vescovo il titolare della cura delle anime di tutta la diocesi e nei vicari i suoi delegati. Ogni parroco divenne il titolare della cura delle anime nella propria parrocchia e con la moltiplicazione delle parrocchie si crearono tanti titolari autonomi, nei confronti dei quali il vicario del vescovo non esercitava più la stessa autorità di prima. Inoltre per i nuovi parroci non fu facile convincere i fedeli che abitavano nella circoscrizione della parrocchia ad abbandonare la chiesa madre per frequentare la parrocchia di appartenenza. Questa situazione determinò nuove forme di conflittualità fra il clero e la rottura dell’unità pastorale che in passato aveva nella chiesa madre dei comuni il centro propulsore e il punto di riferimento.

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CONCLUSIONE

1. L’organizzazione pastorale della diocesi di Catania, così come risulta dai documenti esaminati in questo studio, non è il frutto di un’evoluzione, che parte dalle origini cristiane per adeguarsi man mano alle condizioni storico-sociali dei secoli seguenti. In Sicilia, contrariamente a quanto avvenne nelle diocesi dell’Italia settentrionale, l’invasione musulmana provocò una frattura col passato. I normanni, nel rifondare le diocesi e nel riorganizzare le Chiese di Sicilia, fecero esplicito riferimento alla situazione esistente prima della dominazione islamica; ma si trattava di un richiamo puramente ideale. In realtà l’organizzazione ecclesiastica fu ristabilita quasi ex novo con delle caratteristiche proprie: a) l’interdipendenza dei due elementi, politico e religioso, propria del modello della res publica christiana; b) la centralizzazione dei poteri e delle proprietà terriere nelle mani del sovrano e di poche persone fidate, secondo la concezione della feudalità propria dei normanni. Nella diocesi di Catania queste caratteristiche erano più rilevanti, perché i poteri civili ed ecclesiastici furono riuniti nella persona dell’abate benedettino di Sant’Agata, che era allo stesso tempo vescovo della diocesi, signore della città, e amministratore delle proprietà della mensa e del demanio. Nonostante le varie dominazioni succedutesi nei secoli seguenti, l’organizzazione stabilita dai normanni non subì mutamenti di rilievo, perché né l’autorità politica né l’autorità ecclesiastica volevano perdere i diritti e i privilegi conseguiti. L’interesse maggiore doveva averlo la Chiesa; infatti non mancarono i vescovi riformatori; ma i più non gradivano i cambiamenti e non avvertivano che il prezzo pagato per le munifiche donazioni dei conquistatori normanni era troppo elevato. 2. Il problema dell’organizzazione parrocchiale è un aspetto particolare del tema più vasto delle strutture giuridiche della Chiesa. Il concetto di struttura giuridica, soprattutto nella Chiesa, dovrebbe indicare una realtà dinamica e funzionale, capace di adeguarsi alla natura e ai fini della realtà sociale. Il concilio di Trento, nel piano generale di riforma, aveva avvertito la necessità di riorganizzare la cura delle anime. Istituire le parrocchie, cambiare le chiese sacramentali fi273


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liali in parrocchie autonome e i cappellani curati amovibili in parroci perpetui non doveva essere considerata una semplice questione formale. Il concilio aveva capito che solo attraverso il decentramento dell’organizzazione diocesana e la creazione di veri responsabili nella cura delle anime, si potevano porre le premesse per un’azione pastorale più penetrante e continua. Ma comportando questa riforma diversi cambiamenti di rilievo, nei luoghi in cui la Chiesa si trovò condizionata da particolari situazioni ambientali, agli sforzi iniziali subentrò una rassegnata accettazione dello status quo. 3. Le difficoltà che in Sicilia — e particolarmente a Catania — resero difficile la riforma della cura d’anime voluta dal concilio di Trento furono diverse; ma avevano tutte una matrice comune: il condizionamento della Chiesa da parte di una struttura socio-politica che rendeva difficili i cambiamenti. Erigere le parrocchie significava smembrare e sopprimere i vecchi benefici per crearne dei nuovi. Ma questa riforma chiamava in causa i beni delle mense vescovili, dei capitoli, di chiese ed enti ecclesiastici, soggetti al patronato regio. Coloro che si sentivano molestati nel pacifico possesso dei loro beni potevano fare facilmente causa comune e contare sull’appoggio dell’autorità politica centrale. Il diritto di patronato e il privilegio della Legazia Apostolica davano ai re la possibilità di intervenire per impedire che venisse turbato l’equilibrio esistente. Tuttavia la volontà di mantenere immutata una situazione per certi aspetti conveniente non fu in grado di fermare il corso della storia: le difficoltà ritardarono, ma non impedirono che la struttura creata dai normanni si sfaldasse man mano fino a crollare del tutto. Con notevole ritardo, non senza difficoltà e compromessi, i vescovi riuscirono ad attuare l’organizzazione della cura delle anime voluta dalle norme canoniche. 4. Superate con l’aiuto del governo le difficoltà di natura patrimoniale, che avevano costituito l’ostacolo principale per attuare la riforma, sembra che in molti casi l’erezione di nuove parrocchie sia avvenuta non all’interno di un progetto generale, ma in forza di decisioni prese caso per caso, allo scopo di risolvere problemi personali o locali, che non sempre rispondevano alle reali esigenze di un comune o di un quartiere. In tal modo la creazione di nuove parrocchie, invece di favorire l’impulso ad un’azione pastorale più ordinata e incisiva, in alcuni casi determinò situazioni di conflitto e forme di esasperato campanilismo, con la conseguente frattura di quell’unità pastorale 274


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che aveva caratterizzato i secoli precedenti. La crisi delle vocazioni sacerdotali, che cominciò a manifestare i suoi effetti negli ultimi decenni del secolo scorso, rese evidenti i limiti della riforma parrocchiale attuata negli anni precedenti e determinò un’inversione di tendenza: accorpare le parrocchie dei centri storici e dei comuni minori per assicurare la presenza di un parroco. 5. L’analisi dell’organizzazione della cura d’anime nella diocesi di Catania, che prese il via con la rifondazione normanna del secolo XI, ci ha permesso di individuare un percorso non sempre lineare da parte dei vescovi. Tuttavia, come suole accadere nei processi di longue durée, è il susseguirsi degli avvenimenti ad offrirci una chiave di lettura, che solitamente il fatto in sé rende difficile. I numerosi documenti presi in esame, se costituiscono una garanzia sulla fondatezza delle conclusioni alle quali siamo pervenuti, offrono al lettore la possibilità di una continua verifica. Con lo stesso spirito con cui ho iniziato questa ricerca negli anni giovanili, oggi la porto a termine, ampliando il mio contributo alla comprensione di una realtà così ricca e complessa come quella della Chiesa di Catania.

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APPENDICE I DOCUMENTI

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1091, dicembre 9. Ruggero, conte di Sicilia e di Calabria, dopo aver fondato a Catania l’abbazia di Sant’Agata e avere scelto come abate Angerio, a lui e ai suoi successori dona — assieme alla moglie Adelasia e ai figli Goffredo e Giordano — la città e tutte le proprietà che essa aveva in passato; allo stesso tempo dona il castello di Aci con le sue pertinenze; dona anche i saraceni che vivevano nella città di Catania e nel castello di Aci e quelli che erano scappati in altre località della Sicilia all’arrivo dei normanni; dichiara l’abbazia esente e libera; accoglie la proposta dell’abate — in segno di gratitudine per tanta liberalità — di ricevere un pane e una misura di vino ogni volta che egli e i suoi successori visiteranno l’abbazia; all’abate e ai suoi successori concede la stessa autorità di giudicare, che hanno i re e i principi, assieme alle consuetudini terrene; Ruggero, dopo aver sottoposto all’approvazione di papa Urbano II la sua costituzione, ne ottiene la conferma con la benedizione per chi la osserva e la scomunica e la maledizione per chi la trasgredisce o cerca di abolirla. ACC, Pergamene, 4.

In nomine Sancte et individue Trinitatis. Sciant omnes mei successores atque alii Christi fideles, qui hoc privilegium nostrum quandoque viderint, quod ego Rogerius comes siciliae atque calabriae pro anima mea, et pro anima patris mei et matris meae, et pro animabus omnium propinquorum meorum, deo inspirante, constitui abbatiam temporibus meis cum uxore mea Adelasia et cum filiis meis Goiffredo videlicet et Iordano in civitate cathanensium, ad honorem Domini nostri Iesu Christi et Sanctae Mariae matris eius atque semper virginis et Sanctae Agathae virginis et martiris ibique secundum dei gratiam cum uxore mea et cum filiis meis et cum aliis fidelibus meis abbatem elegi nomine Angerium et huic abbati et omnibus successoribus eius dedimus ego et uxor mea Adelixa et filii mei Goiffredus videlicet et Iordanus totam ipsam civitatem cathanensium cum omnibus pertinentiis suis et cum omnibus possessio279


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Appendice I

nibus suis et cum omnibus hereditatibus suis quas ipsa civitas tunc temporis habebat vel olim habuerat secundum suam nobilitatem in terra et in mari et in silvis et in montibus et in planis locis et in aquis dulcibus et in lacis videlicet ut abbas et monachi huius monasterii ita haberent prefatam civitatem cum omnibus pertinentiis suis sicut sarraceni eandem civitatem cum omnibus pertinentiis suis tenebant quando normanni primum transierunt in siciliam. Similiter dedimus prefato abbati et omnibus successoribus eius quoddam castellum nomine iacium cum omnibus pertinentiis suis. Et etiam concessi ego Rogerius comes abbati ut ipse omnes illos sarracenos accipiat per totam siciliam qui sarraceni tunc temporis erant in civitate cathanensium quando normanni primum transierunt in siciliam. Insuper omnes illos sarracenos dedi prefato monasterio qui nati fuerant in quolibe loco siciliae de illis sarrace nis qui tunc temporis erant in civitate cathanensium et in castello iacio quando normanni primum transierunt in sicilia et pro timore normannorum inde ad alias partes fugerunt. Preterea notum sit omnibus successoribus meis quod ego Rogerius comes cum uxore mea et cum filiis meis talem libertatem dedi prefato monasterio ut abbas et monachi huius monasterii nemini unquam servirent de rebus monasterii vel de possessionibus nisi deo et sanctis eius; data tamen tanta libertate rogavit me abbas prefati monasterii ut ego aliquid servicii de monasterio ad meum opus et ad opus heredum meorum retinerem; ego vero adquiescens peticioni eius concessi atque constitui cum abate ut abbas et monachi unum panem et unam iustam vini mihi darent per consuetudinem et non amplius quotiescumque venirem ad prefatum monasterium et hoc similiter facerent omnibus successoribus meis post mortem meam et non amplius. Insuper concessi ego Rogerius comes cum uxore mea et cum filiis meis Abbati prefati monasterii et omnibus successoribus eius omnia illa iudicia terrena in tota terra monasterii quae solent pertinere ad reges et ad principes terrenos et omnes consuetudines terrenas; concessi similiter abbati et omnibus successoribus eius in tota terra monasterii et in portibus et in littoribus maris et hoc concessi ego Rogerius comes cum uxore mea et cum filiis meis huic monasterio ut habeat in perpetuum omnes illas possessiones terrenas quae sibi ad invicem datae fuerint a nostris hominibus in sicilia vel in calabria sive sint illae possessiones in villanis, sive in terrenis hereditatibus. His vero omnibus ordinatis per me et per meam uxorem et per meos filios 280


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Appendice I

Goiffredum videlicet et per filium meum iordanum, rogavi ego Rogerius comes suppliciter dominum papam urbanum secundum, qui tunc temporis regebat romanam ecclesiam, ut ipse pro dei caritate hanc nostram constitucionem tam bene factam laudaret atque in perpetuum confirmaret et corroboraret. Dictus vero papa caritative acquiescens meae peticioni laudavit hanc nostram donacionem et hanc nostram constitucionem atque in perpetuum benedicendo confirmavit et omnes illos homines excommunicavit atque maledixit et ab omni sacro ordine dei separavit, qui hanc nostram donacionem vel constitucionem tam bene factam unquam violarent vel destruerent vel aliquid inde subtraherent vel monachos ibi deo servientes iniuste perturbarent, nisi pro tali praesumptione deo dignos fructus poenitenciae redderent et abbati et monachis huius monasterii inde congruam emendacionem facerent. Illos autem omnes homines benedixit et de omnibus suis oracionibus participes esse fecit, qui hanc nostram eleemosinam custodirent atque conservarent et monachis ibi deo servientibus aliquid beneficii tribuerent. Si quis igitur tempus scriptionis huius nostri privilegii cognoscere voluerit, sciat hoc nostrum privilegium scriptum anno dominicae incarnationis millesimo nonagesimo secundo, indictione quinta decem, quinto idus decembris, tempore domini urbani papae secundi; domino Rogerio duce apuliae calabriam atque Siciliam regente, in Francia philippo regnante, in teutonica terra Henrico, in graecia alexio. Et ecce testes huius nostrae donacionis et constitucionis Ego Albertus dei gratia tarentinus archiepiscopus interfui + Et ego Rodulfus archiepiscopus cosenciae interfui Et ego Guillelmus abbas cenobii s. Euphemiae similiter interfui Et ego Geroldus cappellanus domini Rogerii comitis similiter Et ego Goiffredus filius Domini Rogerij Comitis similiter Et ego Iordanus filius similiter Et ego Guillelmus de altavilla similiter Et ego Robertus borrellus similiter Et ego Goisbertus de Luceio similiter Et ego Petrus de Moretaneo similiter Signum domini Rogerij Comitis. Signum uxoris eius.

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1092, marzo 9, Anagni. Papa Urbano II, considerando l’opera provvidenziale del conte Ruggero che, dopo aver restituito la Sicilia al potere dei cristiani, ha costruito a Catania un’abbazia contigua alla chiesa madre di Sant’Agata, decide di ripristinare la cattedra episcopale che la città aveva fin dall’antichità e nomina come vescovo l’abate Angerio, stabilendo il principio che in futuro l’abate eletto dai monaci sarà allo stesso tempo il vescovo della diocesi. ACC, Pergamene, 1.

Urbanus episcopus servus servorum Dei dilecto fratri Ansgerio Cathaniensi episcopo et abbati eiusque successoribus canonice constituendi in perpetuum. Sicut beatissimi patris et doctoris elegantissimi Gregorii primi scriptis veridicis edocemur constat Catheniensem ubi beata Agathe et orta et passa est civitatem episcopalis dignitatis antiquitus gloria claruisse. Capta autem a Saracaenorum populis Siciliae insula et illic et per alias universae provinciae civitates et episcopalis gloria periit et christianae fidei dignitas interivit. Post annos vero fere quadrincentos divina populum suum respiciente clementia per strenuissimum comitem Rogerium christianorum iuri eadem est insula restituta. Porro idem egregius comes Romanae ecclesiae devotissimus filius ubique urbium antiquae dignitatis anhelans pro tempore gloriam reformare, beatae Agathes matrem ecclesiam cathanae sitam monasterium fore disposuit, quatinus illic fratres dei servitiis insistentes pro ipsius salute pro uxoris defunctae, et militum animabus qui eandem terram christianorum ditioni suo sanguine reparaverant Onnipotentis Domini misericordiam implorarent. Nos itaque tanti viri devotionem prout dignum est approbantes monasterium quidem illic perpetuo permanere praesentis paginae auctoritate sancimus. Sed enim quia ut praediximus episcopali quondam praerogativa catheniensium civitas illustris agnoscitur, adicimus, et praesenti decreto statuimus, ut nostro quoque tempore ad eandem praerogativam redeat, et quicum283


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Appendice I

que in praedicta ecclesia a monachis electus fuerit in abbatem, idem populo quoque praeesse debeat in antistitem. Porro et civitas universa et quaeque circa vel civitates vel villae vel oppida quae praefatus comes eidem monasterio et beato Petro apostolorum principi obtulit, vel oblaturus est, et quicquid ad catheniensem ecclesiam ex antiquo iure pertinuisse poterit comperire tam in diocesi quam in possessionibus in abbatis et episcopi iurisdicione ex integro semper existant. Idemque abbas et episcopus et monasterium regulariter, et clerum et populum universum canonice regere domino opitulante procuret. Te itaque primum post tanta tempera catheniensis urbis antistitem nostris tamquam Beati Petri manibus consecratum praesentis privilegii auctoritate donantes tuis quoque successoribus decretum hoc ratum perpetuo permanere decernimus ut semper a romano pontifice consecrentur semper et monachis in abbatem et populo praesenti in antistitem. Denique ut haec perpetuo firma integra et illibata consistant karissimo filio nostro Rogerio comiti christianae fĂŹdei propugnatori eiusque uxori et filiis et militibus pro quorum redemptione catheniensem urbem cum tota diocesi sua beato Petro apostolorum principi suo labore restitutam obtulit dei et apostolorum eius gratiam et benedictionem et peccatorum absolutionem ex apostolicae auctoritatis quam indigni gerimus vice benivolentiaque donamus, quatinus et in praesenti eorum triumphi, eorum acta magnifica, dona oblationesque vigeant, et in futuro praemia aeternae beatitudinis inveniant. Siquis autem quod absit his nostris apostolicis constitutionibus pertinaciter obviam ire temptaverit, secundo tertiove commonitus si non satisfactione congrua emendaverit, noverit se omnipotentis dei et sanctorum apostolorum indignatione graviter puniendum, et sedi apostolicae quam contempsit, anathemate confodiendum. Conservantibus autem haec pax a deo et misericordia praesentibus et futuris saeculis conservetur. Amen Amen Amen. Bene valete. [nel sigillo] + Benedictus Deus et Pater Domini Nostri Iesu Christi. Amen. Sanctus Petrus Sanctus Paulus. Urbanus PP. II. Datum Anagnie VII idus martii Indictione XIIII. Per manus Iohannis sanctae romanae ecclesiae diaconi cardinalis. Anno dominicae incarnationis MXCI. Pontificatus vero domini Urbani secundi papae quarto. 284


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1092, aprile 26. Il conte Ruggero, seguendo le esortazioni di papa Urbano II, ha portato a termine la conquista della Sicilia, sottraendola al dominio dei saraceni e, per ripristinare la fede cristiana, ha costruito chiese e ha collocato i vescovi nella sedi episcopali, dando ad ognuno i mezzi necessari per svolgere la propria missione, secondo l’indirizzo ricevuto dal pontefice; nella città di Catania ha scelto come abate e come vescovo il priore di Sant’Eufemia, di nome Angerio, al quale dona la città come sede dell’abazia e del vescovado con i seguenti confini: Iaci, Paternò, Adernò, Sant’Anastasia, Iudica, Centorbe, Castrogiovanni con tutto il territorio fino al fiume Salso, nella parte che scorre tra Castrogiovanni e la diocesi di Agrigento, e fino ai confini della città di Troina. ACC, Pergamene, 2.

In nomine Sanctae et individuae Trinitatis. Summus itaque romanae sedis pontifex Urbanus videlicet secundus, verus dei cultor et universalis pastor universalis ecclesiae, mihi Rogerio calabriae comiti atque totius siciliae ore suo sanctissimo et reverendo precepit precipiens, utpote pater spiritualis, me filium suum, licet in multis peccantem, sanctissime rogavit quoniam ego, filius sanctae matris ecclesiae, ipsam eandem matrem meam, boni filii secutus legitimam et laudabilem consuetudinem, pietatis manibus enutrirem et dulciter proveherem fines suos magnifice ampliarem propagines et palmites vivos et spirituales in ea studio vigili dilatarem. Cuius ergo sanctis et exequendis ego, Rogerius calabriae comes et siciliae, obsecundans imperatibus et catholicis institutis, sicut deo praeeunte in curribus suae virtutis et propugnatore, terra siciliae, terra sarracenorum habitaculum nequiciae et infidelitatis, sepulcrum quoque nostri generis et sanguinis ferro vindicandum mihi diversis in temporibus subiecta fuit. Simili quoque modo in diversis temporum permutationibus ad honorem dei ad magnificundum et exaltandum nomen suum et pro anima patris et matris meae et fratris mei Roberti guiscardi, pro mea quoque et omnium parentum meorum per di285


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Appendice I

versa Siciliae loca idonea ecclesias aedificavi iussu summi pontificis apostolicae sedis. Et episcopos ibidem collocavi ipso eodem romanae sedis viro apostolico et laudante et concedente et ipsos episcopos consecrante. Unicuique autem ecclesiae et episcopo parochiam suam dedi et dicavi ut unusquisque de suis sufficiens beneficiis alterius parochiam incrustare non presumeret. Inter quas etiam iam dispositas ecclesias quia dei virtus et eius magnificentia totam subiugavi Siciliam aliam disposui et edificavi etiam collaudante apostolico viro et consecrante ad titulum huius ecclesiae in cathanensium citate existentis quemdam sanctae eufemiae priorem catholicum et honestum in abbatem et episcopum vocatum ansgerium. Cui Urbano secundo concedente qui hunc sacravit dono cathaniam civitatem ut sedes sit abbatiae et episcopatus. De parochia vero huius abbatiae et sedis episcopalis sunt haec: Iachium cum omnibus pertinentiis suis. Paternon cum omnibus suis pertinentiis. Adernon cum omnibus suis pertinentiis. Sancta Anastasia cum omnibus suis pertinentiis. Judich cum omnibus suis pertinentiis. Centorba cum omnibus suis pertinentiis. Castrum Iohannis cum omnibus suis pertinentiis, videlicet cum tota terra illa quae pertinet ad castrum iohannis usque ad flumen salsum quod currit inter castrum iohannis et agrigentinam civitatem, et usque ad fines traginensis civitatis et ex aliis partibus ubique sicut dividitur a pertinentiis aliorum castellorum vel civitatum. Istud vero privilegium factum est VI kal. maii indic. XV anno dominicae incarnationis MXCI luna XV et ecce testes huius privilegii. Ego comes Rogerius feci signum istud +. Signum ego Adelixa comitis uxor signum hoc +. Et ego Iofridus comitis filius hoc +. Signum Iordani filii comitis. Signum Maugeri filii comitis +. Signum Guillelmi de Altavilla +. Signum Roberti Borrelli +. Signum Ioannis Baptista de Luciaco +. Signum Bastardi +. Signum Petri de Moritong +. Signum Roberti Bonnel +.

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1556, marzo 15, Catania. Il vescovo Nicola Maria Caracciolo, avendo notato nel corso della visita pastorale che nella città di Catania esiste la sola parrocchia della cattedrale e molte chiese sacramentali, nelle quali si amministrano i sacramenti ai fedeli senza distinzione di confini territoriali, per il bene delle anime e per adempiere uno dei suoi principali doveri, decide di stabilire i confini di quattordici chiese sacramentali succursali della cattedrale per fissare con chiarezza i diritti e i doveri dei cappellani responsabili e dei fedeli affidati alle loro cure; ogni fedele è libero di chiedere i sacramenti o alla cattedrale, che rimane l’unica parrocchia della città, o alla propria chiesa sacramentale. ASD, Tutt’Atti

1555-1556, fol. 206r-209v.

Constitucio Ill.mi et Rev.mi D.ni D. Nicolai Mariae Dei et Apostolicae sedis gratia episcopi Catanensis supra distinctione ecclesiarum sacramentalium et particione curae animarum populi dittae civitatis edita in anno salutis 1555, ind. XIV. Nicolaus Maria Dei et apostolicae sedis gratia episcopus Catanensis. «Pasce oves meas»: divini atque humani iuris despositione, pars illa pastoralis officii, quae circa sacramentorum administrationem versatur, non ultima inter alias nec negligenda videtur atque ita ut ex ea potissimum episcopis qui pervigili cura gregibus super intendant nomen inditum sit. Quamobrem cum in visitacione nostrae cathedralis ac aliarum huius clarissimae civitatis Cathaniae ecclesiarum quam plures in eis comperissemus fontes baptismales nec tamen ipsarum aliquam (praeter cathedralem) invenerimus parrochialem, sive cui esset annexa animarum cura aut administratio (fol. 206v) sacramentorum, non potuimus non graviter dolere quandoquidem aperte cognovimus, cum nulla esset partitio curae nec plebis distinctio vel partem maximam officii nostri, multarum cum dispendio animarum expediri non posse vel saltem ita confundi ut nullo modo possit de ea supremo iudici ratio aliqua reddi, cum sanguis eorum de manibus nostris requiretur. Quis enim non videt sepius evenire potuisse ut aliqui 287


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Appendice I

infantes sine baptismate vel alii sine aliorum aliquo decesserint sacramento, cum nullius presbiteri in tam numerosa populo ed ea administranda (praeter Episcopi) fuerit obligatio? Omittimus cetera mala ne longiores proposito simus. Quare statim huic malo occurrendum et nostrae conscientiae consulendum duximus, districte enim huius rei vel contemptus vel negligentia subiacet ultroni. Itaque sanctorum patrum vestigiis inhaerentes ac sacrorum canonum instituta secuti, graves, honestos, providos ac Deum timentes sacerdotes delegimus quos in nostros coadiutores et cooperatores assumpsimus cumque illis (ut monemur) celestia haec mandata atque onera nostra partiti, per eosdem id exequi vel facile posse speramus, quod soli assequi nullo modo confidimus. Atque ut commodius haec possint et sine confusione (quae maxime in his vitanda est) trattari, populo pro cuiusque habitacionibus sacramentales ecclesias suis limitibus circumscriptas assignamus. Ita tamen ut cuique liberum sit vel in sua sacramentali vel in nostra cathedrali (quae unice est parochia) recipere sacramenta. Cavimus praeterea (fol. 207r) ut nihil novae pensionis occasione praedittorum populus ipse solvat, nec, novum ius aliquod sacerdotibus ipsis pendat, nec ut aliquo novo onere gravetur etiam ratione sepulturae, si in sacramentali noluerit quis sepelliri aut funeris vel exsequiarum. Sed si qua laudabilis pro huiusmodi est hactenus introducta consuetudo illam tantummodo perpetuo volumus observari; nimis enim grave esset ut quis suis divino militaret stipendiis aut si penitus alligaretur os bovi trituranti. Id igitur omne statuentes mandamus eisdem per presentes, in virtute sanctae obedientiae ac sub excommunicacionis maioris poena et unciarum quinquaginta pro arbitrio nostro applicandarum, praecipimus ut post ipsam publicationem per affissionem in valvis cathedralis ecclesiae sive alio quovis modo faciendam, nemo eorum audeat aut praesumat in ipsis sacramentalibus ecclesiis aliquem huius civitatis virum sive mulierem ad sacramenta recipienda admittere vel quomodolibet eisdem illa absque nostra aut nostri in spiritualibus generalis vicarii expressa licencia ministrare, illis dumtaxat exceptis qui intra limites suae sacramentalis noverit habere domicilia quibus ad curam animarum atque ad ipsorum sacramentorum administracionem eosdem atque ipsorum sacramentalibus ecclesiis successores obligatos fore perpetuo decernimus. Monentes insuper atque paterno affectu in Christo hortantes omnes et singulos ipsius civitatis (fol. 288


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Appendice I

207v) utriusque sexus fideles ut aequo animo atque hilari fronte hanc nostram constitucionem ad eorum salutem factam suscipiant et exequantur et quisque libenter ad sacramentalem sibi et eius domui assignatam ac deputatam pro sacramentis recipiendis confugiat atque frequentet eandem. Huiusce autem partitionis limitationis et assignationis forma est quae sequitur: Ab ecclesia et loco beatae Mariae Magdalenae inclusive eundo directo itinere usque ad ecclesiam sanctae Ursulae quod est ex parte dextra versus orientem, ecclesiae beati Thomae apostoli deputamus. Ab ecclesia beatae Mariae de Longena et domibus supra eam existentibus eundo versus forum campanilis veteris et descendendo per viam ante publicos carceres usque ad bancam notarii Antonii Gintilis et inde usque ad monasterium santissimae Trinitatis, tantum quod intra et extra predictos fines est, beati Martini basilicae assignamus. Ab ecclesia predicta sanctissimae Trinitatis eundo directe usque ad domos spett. d.ni Nicolai de Statella et domini Corradi de in Crapera inclusive, quod est ex utroque latere viae praedictae usque ad domos inclusive quae fuerunt quondam magnifici Philippi de Michaele utriusque iuris doctoris et modo magnifici Alexandri de Bonaiuto, et capiendo iter quod dirigit ad domos nobilium heredum quondam Antonini de Lacciolina et exeundo ad viam quae ducit ad portam Jaccii, descendendo usque ad plateam magnam et ascendendo ad apothecam heredum quondam magnifici Laurentii de Dio utriusque iuris doctoris et inde ad domos magnifici Simonis de Buglio et ex ea eundo per viam quae est post (fol. 208r) conventum sancti Francisci seraphici usque ad apotecam magnifici Luce de {...} et inde directo itinere gradiendo usque ad menia civitatis quae sunt prope ecclesiam sanctae Agathae veteris, totum id quod modo predicto circumscribitur et includitur, ecclesiae Collegiatae Beatae Mariae de Eleemosinae deputatum esse volumus. A porta Jacis cum eo quod de foris extra civitatem habitatur descendendo usque ad viam quae ducit ad domos spett. don Caroli de Juenio, transeundo et secus dictas domos et eundo usque ad viam quae est post ecclesiam sanctae Mariae de Portu Salvo et inde usque ad domos magnifici Ioannis Simonis de Sigona inclusive totum circumfinatum ex parte sinistra, beatae Annae ecclesiae ascriptum esse decernimus. A domibus heredum quondam magnifici Ioannis de Alessio inclusive eundo per eandem met viam usque ad forum qui dicitur di li 289


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Appendice I

Trixini et descendendo usque ad apothecam magistri Thomae de Milana et inde eundo post domos magnificorum heredum quondam Antonini de Stitia ac notarii Antonini de Murabito usque ad domos Rev.di domini Ioannis de Guirrera inclusive, quod modo premisso terminatum est, ecclesiae beatae Barbarae de civita tribuimus. A meniis civitatis iuxta ecclesiam santae Agathae veteris ex parte orientis descendendo per viam directam usque ad viam post monasterium sancti Benedicti et inde usque ad apothecam aromatarii quae est in frontispitio ecclesiae sancti Augustini et inde ascendendo ad ecclesiam sanctae Barbarae et procedendo per viam ante domos spectabilis domini Laurentii de Juenio et domini Scipionis Statella usque ad portam quam di lo Re dicunt, quod dictis finibus circumscribitur, basilicae predittae beatae Agathae veteris assignamus (fol. 208v). A dicta porta di lo Re nuncupata procedendo per eandem viam de qua in precedenti capitulo et exeundo ad viam ante ecclesiam predictam beatae Barbarae, et directo itinere eundo usque ad ecclesiam beatae Mariae de li Angeli exclusive et inde directe usque ad menia civitatis, predictis finibus circumdatum, ecclesiae beatae Mariae de Itria deputatum relinquimus. A dictis meniis civitatis per eandem viam reddeundo usque ad viam quae est ante ecclesiam predictam beatae Barbarae per quam descendatur ad viam quae est ante ecclesiam divi Augustini, et ascendatur directe usque ad ecclesiam sive oratorium di lo Tindaro, limitatum ut supra, ecclesiae beatae Margaritae concedimus. A predicto oratorio de lo Tindaro descendendo per illam met viam usque ad ecclesiam beati Augustini et descendendo ad domos magnifici Henrici de Bonaiuto et ascendendo usque ad domos magnifici Iaymi de Platamono et inde egrediendo ad viam sive cursum sanctorum Cosmae et Damiani et procedendo usque ad ecclesiam sive oratorium beati Ioannis Baptistae et domos circa ipsum oratorium inclusive, ecclesiae beati Nicolai de Oliva deputatum esse censemus. Ab ecclesia sanctorum Cosmae et Damiani descendendo usque ad apothecam Ioannis Antonii li Nuci aromatarii inclusive et inde eundo usque ad ecclesiam beati Eupli et menia civitatis, predictis terminis descriptum, ecclesiae beatae Marinae conferimus. Ab ecclesia sancti Eupli exclusive descendendo per eandem viam usque ad dictam apothecam (fol. 209r) Ioannis Antonii li Nuci et eundo ad viam quae ducit ad domos predictas magnifici Iaymi de 290


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Appendice I

Platamono inclusive et procedendo retro dictas domos et descendendo usque ad domunculam Franci la Scaletta et ultra procedendo ad domos quondam magnifici Manfridi de Lanza et, ad domos magnifici Raymundi Ramundecti utrisque iuris doctoris inclusive et adscendendo per viam strictam sub volta domorum magnifici Antonini de Paternione quondam Therii et egrediendo ad viam quae ducit ad ecclesiam beati Petri, cum domo in frontispitio dictae viae et voltae inclusive, ecclesiae beati Petri predictae pro assignato haberi dicimus. A dictis domibus magnifici Antonini de Paternione per eandem viam angustam descendendo ad viam quae ducit ad forum sancti Philippi usque ad apothecam quondam Bernardi de Alessi, in qua in presentiarum stat nob. Franciscus de Paula aromatarius et inde eundo directe ad domos magnifici Petri de Paternione inclusive et inde usque ad castrum Ursinum inclusive, quod ita terminatum est, ecclesiae beati Laurentii deputamus. A castro Ursino exclusive descendendo per eandem viam usque ad ecclesiam sancti Philippi, et inde descendendo ad domos spect. domini Antonii Statella inclusive et a via post dictas domos eundo directe usque ad theatrum seu coliseum ante ecclesiam sancti Augustini et inde descendendo per viam quae est inter monasterium sancti Benedicti (fol. 209v) et domos spett. d.ni Vincentii de Gravina et procedendo per viam ante ecclesiam sancti Francisci usque ad domos nob. Mathei Grassi et inde ad viam quae ducit allo piano di l’herba usque ad portam di li canali inclusive, totum ut supra limitatum et circumscriptum, ecclesiae beati Philippi assignatum esse declaramus. A dicta porta di li canali eundo per eandem di lo piano di l’herba usque ad apothecam novam nob. Ioannis de Iudice aromatarii inclusive et inde ascendendo ad viam quae ducit ad ecclesiam beati Francisci, et proficiscendo ad viam quae ducit post seu retro dictum conventum et exeundo ad forum Lunare et descendendo ad apothecam nob. Vincentii Milanensis inclusive et inde ad plateam magnam et usque ad portam di li canali, quod predictis terminis circumdatur, ecclesiae beatae Catharinae deputatum esse proferimus. Datum Cataniae in episcopali palatio, die XV mensis martii, XIV ind., 1555. Nicolaus Maria, Episcopus Catanensis. Nemo audeat hanc paginam amovere, lacerare, amoveri vel lacerari facere sub pena excommunicationis latae sententiae.

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I CONFINI DELLE CHIESE SACRAMENTALI DI CATANIA NELLA COSTITUZIONE DEL 1556

Una delle maggiori difficoltà che si presenta a chi studia la storia di Catania nel periodo anteriore al 1693, è la topografia della città. L’eruzione dell’Etna del 1669 e il disastroso terremoto del 1693 modificarono notevolmente il suo aspetto urbanistico. Poiché fino ad oggi manca su questo argomento uno studio sicuro ed esauriente, quando si vuole stabilire l’ubicazione di vie, piazze, edifici pubblici e privati, non resta che affidarsi all’intuito, utilizzando le indicazioni che si trovano sparse nei documenti e negli autori di quel periodo. Dovendo affrontare il tema delle circoscrizioni sacramentali della città di Catania nel secolo XVI, non potevo ignorare questo problema. Ma nello stesso tempo dovevo costatare che la sua trattazione andava oltre i limiti del tema prescelto. Da queste considerazioni è nata l’idea di dare in appendice qualche indicazione di massima per un primo orientamento nel difficile problema della topografica di Catania nel secolo XVI. Sullo sviluppo planimetrico della pianta di Pierre Mortier1, che riproduce quella più antica pubblicata nell’opera: G. BRAUN – F. HOGENBERG, Civitates Orbis Terrarum, V, apud Godefridum Kempensem, Coloniae Agrippinae 1575, tav. 692, ho fissato i quartieri, le

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P. MORTIER, Nouveau theatre d’Italie, ou Description exacte de ses villes, palais, eglises, etc. et les cartes geographiques de toutes ses provinces... sur les desseins de feu monsieur Jean Blaeu, Amsterdam 1704. 2 Non è sicura la data in cui fu eseguita questa pianta. La presenza delle mura e delle fortificazioni realizzate per ordine del viceré Giovanni de Vega ci riporta a un periodo successivo al 1552. Si può accettare l’ipotesi formulata dal Catalano: la pianta «è inserita tra le Civitates orbis terrarum, Coloniae Agrippinae 1575, v, tav. 69, di cui ho consultato l’esemplare posseduto dalla biblioteca universitaria di Bologna. Fu ripubblicata a colori nell’edizione del 1593, ma non in quella del 1582. La pianta, che più propriamente deve essere chiamata veduta panoramica, fu eseguita fra il 1554, data citata nella notizia illustrativa latina “Nuper anno salutis MDLIIII”, e il 1559 in cui ebbe luogo l’allargamento della piazza di Sant’Agata» (M. CATALANO, L’Università di Catania, cit., 20, nota 1). Anche il Libertini ritiene valida questa ipotesi (G. LIBERTINI, Una pagina oscura della storia di Catania, in ASSO 50 [1954] 21).

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Appendice II

vie, le chiese e gli edifici più noti3, servendomi delle notizie desunte dai documenti consultati, dagli autori del tempo e da studi analoghi fatti in epoca più recente4. Proprio perché questa appendice vuole aiutare il lettore del volume ad orientarsi nella descrizione dei confini delle chiese sacramentali di Catania, mi sono servito come documento base della costitutio di Nicola Maria Caracciolo del 15 marzo 15565. Sarebbe stato più facile portare a termine questo lavoro se nel 3 È utile sottolineare che la pianta di Catania pubblicata in questa appendice non può essere considerata come una moderna planimetria della città. L’originale da cui è stata tratta, come tutte le piante di quel tempo, è pseudo prospettica, cioè in veduta obliqua, fatta con i criteri dei topografi rinascimentali. Il passaggio a una pianta planimetrica non elimina i limiti dell’originale, anzi li evidenzia maggiormente. Perciò le distanze e le proporzioni sono approssimative. 4 Fra gli scrittori catanesi vissuti prima del 1693 ho preferito far riferimento soprattutto all’autore della Cronaca siciliana del secolo XVI (probabilmente il notaio Antonio Merlino), a Giovanni Battista De Grossis e a Francesco Privitera. La prima opera, proprio perché scritta nel periodo di cui ci occupiamo, ci dà alcune interessanti notizie sulla topografia della città e su alcuni avvenimenti di rilievo per il tema della nostra ricerca. L’opera che ritengo di maggior valore, limitatamente alle notizie desunte dagli archivi e alle testimonianze personali dell’autore, è: I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit. L’autore per le sue pazienti ricerche d’archivio è in grado di correggere e completare le notizie sulla città riferite da Rocco Pirri. Di diversa natura il volumetto di F. PRIVITERA, Annuario Catanese, Catania 1690. Generalmente l’autore non fa che copiare il De Grossis e spesso copia anche male; il suo metodo di lavoro lascia molto a desiderare. Tuttavia le sue notizie sono preziose quando riferisce circostanze o fatti di cui è testimone. In epoca a noi più vicina, il tema della topografia di Catania prima del terremoto è stato affrontato nel volume: G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, Catania 1952. Quest’opera è una fonte preziosa di notizie attinte da documenti che sono andati distrutti (gli Atti dei Giurati) o smarriti (la maggior parte delle Visite vescovili citate non si trovano più nell’Archivio storico diocesano). Tuttavia l’impostazione e il metodo da lui seguiti nel mettere insieme il copioso materiale raccolto, lasciano alquanto perplessi. Fra le carte di Catania, che fanno riferimento alla sua topografia anteriore al terremoto, ho tenuto presenti: la prima pianta topografica della città di Catania fatta con criteri moderni nel 1834 (o 1832) da Stefano Ittar; la carta pubblicata in appendice al volume: A. HOLM, Catania antica, tradotta da G. Libertini, Catania 1925; la carta delle mura di Catania pubblicata assieme al saggio: R. PENNISI, Le mura di Catania e le loro fortificazioni nel 1621, in ASSO 25 (1929) 109-136. Le notizie storiche delle note volutamente sono state limitate all’essenziale. Ci sono lacune e incertezze; ma non ho fatto ricerche sistematiche ed esaurienti negli archivi cittadini: mi sono limitato a utilizzare il materiale di cui disponevo. 5 Vedi doc. 4 in appendice.

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documento si facesse riferimento a edifici pubblici e se si indicassero i nomi delle strade e dei quartieri. Abbondano, invece, i riferimenti alle case private e questo non è stato di aiuto. Leggendo il documento del Caracciolo è facile stabilire il criterio seguito: si parte dalla piazza Grande o di Sant’Agata per descrivere i confini delle chiese sacramentali della zona orientale e settentrionale; si continua poi con quelle della zona occidentale e meridionale.

1. SAN TOMMASO Partendo dalla cattedrale e muovendo verso Est e Nord, si incontra la parte meridionale del quartiere della Civita6, che viene affidata alla chiesa di San Tommaso7. I limiti di questa chiesa sacramentale risultano ben definiti perché da tre lati (Sud, Est, Nord) sono segnati dalle mura della città8 e dal 6 Il quartiere della Civita era molto più ampio di quello attuale. Dagli Atti dei Giurati del 1496 risulta diviso in due parti: la prima partiva «di la biviratura achianando per la placza San Martino, Santo Nicola la Trixini, fino a la porta di Jachi e di la turri di Johanni Micheli vinendo per la ecclesia di Porto Salvo, San Johanni li Freri, Sancta Ursula fino a lo campanaro vecchio». La seconda: «Di lo dicto campanaro et Sancta Ursula versu la dicta civita» (Atti dei Giurati, v. 38, p. 414, del 22 febbraio 1493, citati da G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 105). 7 La chiesa di San Tommaso era anticamente una sinagoga ebraica che dal vescovo Roberto era stata trasformata in tempio cristiano e dedicata al vescovo e martire inglese San Tommaso di Canterbury. Era diventata sacramentale nel 1401 (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 105-106). Nel 1446 fu annessa alle prebende del capitolo della collegiata (ASV, Reg. Vat. 378, fol. 99v). Sorgeva nell’attuale piazza San Tommaso. Dopo il terremoto del 1693 fu riedificata nello stesso sito e dedicata a San Tommaso Apostolo e Santa Maria di Porto Salvo (G. RASÀ NAPOLI, Guida breve e illustrazione delle chiese di Catania, Catania 1900, 303). Fu distrutta nell’ultima guerra. 8 Proprio in quegli anni, il viceré Giovanni de Vega aveva ordinato la fortificazione della città con nuovi criteri, per far fronte al pericolo delle continue scorrerie dei turchi. Quasi certamente nel 1556 il primo tratto di mura e di bastioni era stato portato a termine. La prima pietra era stata posta il 30 novembre 1542: «Et exinde, volendosi incomencsari a mettiri la prima petra di lo primo bastiuni, si ordinao che si incomincsassi di Portu Puntuni per essiri loco di la marina... La matina sequenti, chi fu lo primu di dechembro prime indictionis 1542, si incomencsao ordinatamenti la dicta fabrica et lu dicto primo bastiuni in lo dicto loco di Portu Puntuni nominato lo Salvaturi in nomine Jesu Christi» (Cronaca siciliana, cit., 159-160). Nel 1552 fu-

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quarto (Ovest) sono determinati da due chiese di cui si può facilmente fissare l’ubicazione: Santa Maria Maddalena e Sant’Orsola. La prima, stando alla testimonianza di un atto del notaio Nicola de Guirrerio del 1478, sorgeva retro tribonas ecclesiae cathedralis9. La seconda nel sito attuale10. Il tratto delle mura, che segnano i confini di questa chiesa sacramentale comprende: la porta del Porticello11, il porto Saraceno12, il barono ripresi i lavori dalla parte del castello Ursino per completare il lato Est prospiciente il mare e il lato Sud (ibid., 187). Per la descrizione delle mura, dei bastioni e delle porte della città cfr.: R. PENNISI, Le mura, cit., A. HOLM, Catania antica, cit., 8081; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 11-61. 9 GB, I, fol. 40v. La chiesa della Maddalena dava il nome anche all’orto in cui sorgeva l’abbazia dei benedettini annessa alla cattedrale. Al tempo del Privitera la chiesa era in rovina (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 168). 10 Non conosciamo l’anno di fondazione del monastero Sant’Orsola. Il De Grossis scrive di aver trovato la notizia più antica negli atti del notaio Antonio Covello il 17 luglio 1416 (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 175). Il Privitera, invece, seguito dal Policastro dà come data di fondazione quella che per il De Grossis era una semplice menzione in un atto notarile (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 220; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 122). Come ci informano i documenti del tempo, il monastero e la chiesa erano costruiti a ridosso delle mura delle città: «Magnificus et Rev.dus dominus Vincentius Senensis... dixit comu in lo monasterio di li moniali di Sancta Ursula di questa cità di Catania in lo quarteri di la civita e per la parti di la tramontana coniuncto cum li mura di la cita di Catania et supra li dicti mura ha aperturi li quali dunano una intro lo dormitorio et altri in la ecclesia et da li dicti mura per la dicta apertura di lo dicto dormitorio si pò nexiri et andari supra dicti mura» (Monastero Sant’Orsola; processo di estinzione 1556). Data la situazione in cui il monastero si trovava, il vescovo Nicola Maria Caracciolo nel 1558 si decise a chiuderlo: «Per visitationem factam diversorum monasteriorum dictae civitatis ac etiam dicti monasterii Sanctae Ursulae animum induxerit propter inopiam ac paupertatem dicti monasterii necnon indispositionis loci predicti et maxime quia est exedificatum et coniunctum moeniis civitatis et in eo non potest sine maximo periculo honestatis commorari propter concursum quod fit singulis noctibus militum propter continuas custodias civitatis tempore estivo timore infidelium hostium...» (l. c.). La chiesa e i locali del monastero nel 1572 furono dati alla confraternita dei morti (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 181). 11 La porta veniva chiamata anche: «del porto Saraceno» o «del Vega» perché poneva in comunicazione la città col porticello o porto Saraceno e in memoria del viceré che aveva ordinato la fortificazione della città (R. PENNISI, Le mura, cit., 121). 12 Per il De Grossis il porto Saraceno che si trovava dinanzi alle mura della città non era il porto principale di Catania, ma solo un piccolo rifugio per le imbarcazioni. Il porto vero e proprio era quello naturale di «Lognina» distrutto dall’eruzione del 1408 (o del 1381?). Il re Alfonso ordinò la costruzione di un molo artificia-

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stione Piccolo o di Don Perruccio13, il bastione Grande, del Salvatore o di porto Pontone14, la porta di Ferro15 o Pontonia, il bastione San Giuliano16.

le, ma il progetto non fu eseguito per la sua morte. L’idea fu realizzata dal re Filippo III nel 1600, ma una forte mareggiata lo distrusse. Il De Grossis conclude: «Portus iste, cuius innuebamus ruinas, alius sane illo est, qui urbis littori adhaerens exiguam praebet navibus stationem, Portus Sarraceni nomine praenotatus Fazzello siculis exterisque scriptoribus notissimus. Ille enim “Lognina” appellatur, hic “Sarracenus” dicitur e sarraceni cuiusdam statua in littore illo prostrata nomen istud indeptus» (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 227). La tesi sostenuta dal De Grossis sembra però che non sia condivisa dagli storici più recenti. Scrive il Casagrandi: «Quel seno di mare entro cui sboccava l’Amenano (all’Indirizzo) dall’epoca araba in poi fu detto porto Saraceno, non per distinguerlo, come potrebbe parere, da altro porto che non v’era, ma perché furono gli Arabi i primi a dargli un qualche assetto di porto per il rifugio delle loro vele in arrivo dall’Africa e dagli altri porti della Sicilia» (V. CASAGRANDI, Nuove ricerche sulla fondazione e sulla onomastica del castello Ursino di Catania nelle epoche romana, araba, normanna, in ASSO 1 [1904] 5-6). Per la storia del porto di Catania vedi: Il porto di Catania. Storia e prospettive, cit. 13 «Forse così denominato in onore di Don Perrucchio di Jueni {Gioeni} cavaliere catanese che prese parte onorevole alla impresa di Tunisi con Carlo V» (R. PENNISI, Le mura, cit., 122). 14 «Così chiamato dalla località in cui fu costruito e cioè: “spuntuni” o “punti di xara”, dalla grande roccia lavica, ora rasa al suolo, che sorgeva sulla spiaggia in quei dintorni e sulla quale roccia fu fabbricata l’antica chiesa del SS. Salvatore. Il baluardo infatti fu chiamato: bastione del Salvatore o di porto pontone o bastione grande perché il più vasto fra quelli che sorgevano sul fronte a mare» (R. PENNISI, Le mura, cit., 122). 15 «Era così chiamata perché sotto la copertura di ferro celava una delle celebri porte di legno, conquistate dall’imperatore Carlo V in Africa e qui trasportate» (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 21-22). 16 Il bastione prendeva il nome dal vicino monastero di San Giuliano (R. PENNISI, Le mura, cit., 123; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 22, 127).

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Nella circoscrizione di questa chiesa sacramentale troviamo: le chiese: Santa Maria Maddalena, Santa Domenica alla Civita17, Santa Maria delle Grazie18, il Salvatore19, San Giacomo20; i monasteri: San

17 La chiesa bizantina dedicata a Santa Domenica, detta anche «di li Greci», dava il nome a un quartiere della Civita (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti nella Biblioteca comunale ai Benedettini. Regesto, Catania 1927, n. 166 [1325] p. 103), che era contiguo a quello di San Placido. Dalle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 risulta che la chiesa pagava le decime alla s. Sede (n. 936, p. 73). 18 Nella pianta di Catania pubblicata da G. Braun e F. Hogenberg leggiamo: «Sancta Maria la gratia domus paterna B. Agathae». Non conosciamo il fondamento di questa notizia. Secondo un’altra tradizione, la casa paterna di s. Agata sorgeva accanto al monastero di San Placido (F. FICHERA, La casa dei Platamone e l’attiguo quartiere di Catania medioevale, in ASSO 4 [1907] 499-511). La chiesa chiamata «la Graziella» doveva essere molto frequentata se nel 1562, per il rientro di Nicola Maria Caracciolo dalla prigionia, si chiuse in essa la processione di ringraziamento che partì dalla cattedrale (Note 1561-1562, 6 luglio 1562; Cronaca siciliana, cit., 221). L’unica memoria che oggi resta di questa chiesa è la via Graziella, che dall’attuale via Dusmet raggiunge via Vadalà nel quartiere della Civita. 19 L’antica chiesa bizantina del Salvatore, intus civitatem, esiste ancora all’interno del palazzo Bonaiuto. È descritta da G. Agnello e P. Gazzola (G. AGNELLO, La basilichetta tricora del Salvatore a Catania, in Rivista di Archeologia cristiana 13-14 [1947] 147-148; P. GAZZOLA, I monumenti della Sicilia Orientale e la nuova R. Sopraintendenza di Catania nel primo biennio di sua istituzione, in ASSO 37 [1941] 1-28; cfr. pure: F. PRIVITERA, Annuario, cit., 224; G. LIBERTINI, Catania nell’età bizantina, in ASSO 28 [1932], 255). 20 La chiesa di San Giacomo al porto Saraceno sorgeva sopra il baluardo del porto (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 16). Di essa troviamo notizia nelle Visite del 1540.

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Placido21 , San Giuliano22, Sant’Orsola23; le contrade: Imbascio24, piano Jacobo o di Giacomo25, la Grazia26.

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Il monastero di San Placido fu fondato nel 1400 dai coniugi Ximene e Paola di Lerida (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 174). Sorgeva accanto alla casa dei Platamone, come ha potuto costatare Filadelfo Fichera in seguito agli scavi fatti nel 1907 (F. FICHERA, La casa dei Platamone, cit.). Dopo il terremoto del 1693 fu fra i cinque monasteri benedettini femminili che il vescovo Andrea Riggio fece ricostruire: San Giuliano, San Placido, San Benedetto, Santissima Trinità, Sant’Agata (V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., II, 515). 22 Sembra trattarsi del più antico dei monasteri femminili di Catania. Secondo gli storici catanesi dovrebbe essere quello stesso che era stato fondato da s. Gregorio Magno a Santa Sofia. Prima del 1212 fu trasferito dentro le mura della città (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 172-173; cfr.: A. HOLM, Catania antica, cit., 69; G. LIBERTINI, Catania nell’età bizantina, cit., 258). Sorgeva nella chiesa prima detta di Santa Venera nel quartiere della Civita (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 150), dove oggi si trova la chiesa di San Gaetano alla marina (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 127-128). Non sappiamo su quali basi il Catalano affermi che il monastero San Giuliano nel 1555 si trovava vicino al monastero San Benedetto (M. CATALANO, La fondazione, cit., [1916] 65). Dopo il terremoto del 1693 fu ricostruito nell’attuale via Crociferi (G. RASÀ NAPOLI, Guida breve, cit., 223-227). 23 Vedi nota n. 10. 24 La contrada Imbascio si trovava fra il porto Saraceno e la chiesa di San Tommaso. Leggiamo negli atti del notaio A. Covello del 1490: «Contrata di lo Imbascio seu Portus Saracini» (GB, I, fol. 2r) e in un decreto rilevato dall’archivio della curia negli anni 1496-1512: «Contrata de l’Imbascio seu portus Saraceni, seu S.ti Thomae» (GB, I, fol. 46r). 25 Si accenna alla contrada «piano Jacobo» in un diploma del 1372 (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 585, p. 272). Probabilmente non aveva nessun riferimento alla vicina chiesa di San Giacomo. Questa contrada spesso viene indicata assieme a quella contigua «la Grazia», che prendeva il nome dalla chiesa Santa Maria delle Grazie (notaio Guglielmo Santacroce, 1500: «Plani Jacobo seu Gratiae», in GB, I, fol. 27v; notaio Tabusio, 1529, in GB, I, fol. 28r). Un interessante documento del secolo XV ci consente di orientarci nella topografia di questo quartiere e di quelli limitrofi. Dovrebbe trattarsi di un’ordinanza che delimita la zona franca nei dodici giorni di fiera della festa di s. Agata. Non conosciamo la data esatta del documento, che è stato trascritto in un volume dell’Archivio del capitolo della cattedrale nel secolo XVIII: «Li lochi deputati et ordinati per la franchezza sono in questo capitolo distin-

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2. SAN MARTINO La circoscrizione della chiesa San Martino27 abbracciava un quartiere posto nella zona centrale della città, che può essere delimitato con una certa approssimazione. Come punti di riferimento per stabilire i confini di questa chiesa sacramentale vengono indicati: la chiesa Santa Maria di Ognina, intus civitatem, la piazza del Campanile Vecchio, la via che passava davanti le pubbliche carceri, l’ufficio del notaio Antonio Gentile, il monastero della Santissima Trinità. Sappiamo che la chiesa di San Martino sorgeva nella platea Magna «innanzi alla loggia senatoria», nel luogo in cui nel 1614 fu edifitamente annotati. Item la predicta libertati oy franchezza, oy esencione che è a lu tempo di la fera di madonna Sant’Agata, la quali franchezza si osserva infra iorni dodici ut supra, est ordinata in questo modo videlicet per le rughe, vanelle e placze de la ditta maior ecclesia per la porta di Theodora et recto tramite fino a porto Saracino e per fino la ecclesia di Sancto Tommasi apostolo per la via di la ecclesia di Santa Dominica di li Greci e va per li casi di Giovanni Roccu e di li casi di mastru Filippello Pinicheri e va addirittura per la via di Santa Venera fina a li casi di Sicchioto e di mastru Guglielmo di Ansaluni fisicu oy appresso di la posterna di Castrogiovanni et deinde va per la ruga d’innanti di lu loco di Santo Giovanni Gerosolimitano et per la vanella oy traversa stritta appressu li casi di Giovanni di lu Retturi e trasi a la piazza di li fornaci oy furno appresso di la ecclesia di Santa Maria di la Elemosina e trasi appressu li casi di lu nobili Astasio di Taranto per infina a la dicta ecclesia di Santa Maria di la Elemosina e per tutto lo chiano di la fiera di la simana zoè di lo lunedì e perfina a lu fundaco di li Taranti che ci stanu che stanno in canto li Giudei et per la Malfitania e va sutta la volta di la ecclesia di madonna Santa Catarina davanti lu fundacu di lu nobili Guglielmo Pisci e di li Judei Barbari ey lu fundaco di casi di la Scaletta per la via di la doana di la farina di la predicta maior ecclesia di Catania e va per la via di la Curviseria grandi fina a lu fundacu di Calvinu et a la porta di lu macellu oy bucciria maiuri sulamenti e passa tornando in la detta cittade per la posterna di la biviratura grandi et ancora per la porta di la fontana di li canali e va per la retta via di li chianellari a la maior ecclesia di Catania intra e fora e non in altra parti» (ACC, Rettore del bosco e suoi privilegi e dogana e suoi diritti). 26 La contrada prendeva nome dalla chiesa Santa Maria delle Grazie: «Contrata plani Jacobo seu Gratiae» (notaio Santacroce, 1500, GB, I, fol. 27v); «contrata Gratiae seu plani Jacobi» (notaio Vito Tabusio, 1529, GB, I, fol. 28r). 27 Sull’origine di questa chiesa gli storici non ci danno molte notizie. Il dato più antico rimonta agli anni 1308-1310 e ci è dato dalle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 939, p. 73). Possiamo accettare l’ipotesi del Policastro sull’origine normanna di questa chiesa, ma non perché in essa nel 1555 si trovava un messale gallicano (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 106).

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cato il seminario dei chierici28 (da non confondere con quello edificato dopo il terremoto del 1693)29: possiamo collocarla al limite Ovest dell’attuale municipio30 , ma spostata in avanti di circa quattro metri31. Le carceri si affacciavano sulla stessa piazza lungo la via che con28 Il seminario dalla data della sua fondazione (1572) era stato alloggiato alla meglio nella canonica del vescovado. Il vescovo Bonaventura Secusio per edificare una sede più dignitosa, trasferì la compagnia dei Bianchi dalla chiesa di San Martino, che sorgeva sulla piazza Grande, nella vicina chiesa di Santa Caterina (l’attuale San Martino ai Bianchi) e nella sua area edificò il nuovo seminario: «Nell’anno 1610 sotto li 17 di dicembre 9a indizione per l’atti di not. Larenzo di Xacca havendo risoluto Monsignor Patriarca fra Bonaventura Secusio arcivescovo prima di Messina e poi vescovo di questa predetta città di fabricar la casa del seminario nella chiesa di San Martino per esser vicina alla cattedrale e nel piano di essa permutò la chiesa parrocchiale di Santa Caterina vergine e martire con detta chiesa di San Martino, quale era della compagnia dei Bianchi» (ASA, La fondazione del Seminario di Catania, I, fol. XVv-XVIr; cfr.: I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 181; G. POLICASTRO, Il Seminario Arcivescovile di Catania, in ASSO 44 [1948] 53-85; M. GAUDIOSO, Origini e vicende del Palazzo Senatorio, in Catania, rivista del comune 1952, 6; l’articolo, in parte rifatto e ampliato, è stato pubblicato in ASSO 71 [1975] 287-324). 29 Dopo il terremoto, per dare una diversa sistemazione urbanistica alla piazza Grande e alle vie adiacenti, fu necessario utilizzare gran parte dell’antica area in cui sorgeva il seminario: «Don Giuseppe Lanza duca di Camastra gentilhomo di camera di Sua Maestà... allargando strade et dilatando il piano di Sant’Agata, restrinse il sito del rovinato seminario a tal segno che non fu più bastante per la nova reedificatione, onde vendutosi quel sito ad Gio. Paternò e Valle et a quello toltole dal senato per luogo più accertato al palazzo senatorio... et il seminario si accommodò sopra la cortina della porta dei canali» (La fondazione, cit., fol. XXIv). Il nuovo edificio sorse su parte dell’area in cui prima del terremoto aveva avuto sede il vescovado: «L’istesso Ill. Duca di Camastra stimò per magnificenza della città di segnare un famoso stradone dalla nuova porta di Jaci alla marina terminandola con una porta di città chiamandola strada Uzeda e perciò divise il palazzo vescovile in due parti talmente che l’una non poteva più congiungersi con l’altra per la larghezza di canne otto di strada e la lasciò prima di partirsi da questa città già perfetta. Conoscendo dunque Mons. Ill.mo vescovo l’unione difficile a pratticarsi alle continue istanze delli Signori deputati della casa del seminario, si compiacque divenire alla concessione del detto pezzo di vescovado che da levante termina con la strada suddetta nomata Lanza, da ponente con la fonte nomata delli canali, da tramontana con il piano della cattedrale e da mezzogiorno con le cortine della città» (La fondazione, cit., fol. XXIIr). 30 Il Policastro erroneamente colloca la chiesa di San Martino «ove si scaricano le acque dei sette canali» (G. POLICASTRO, Il seminario, cit., 65, nota 2). Dal documento citato alla nota 29 risulta evidente che sorgeva nel sito dell’attuale municipio (cfr.: M. GAUDIOSO, Origini e vicende, cit., in ASSO 71 [1975] 302). 31 V. CASAGRANDI, La piazza Maggiore di Catania medioevale, in ASSO 2 (1905) 305.

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duceva alla piazza del Campanile Vecchio32 e al porto. Se identifichiamo la chiesa di Santa Maria di Ognina con l’attuale Ogninella33 e teniamo presente che il monastero della Santissima Trinità34 sorgeva 32 Due documenti del tempo ci permettono di dare delle indicazioni precise su questa zona della città. La Cronaca siciliana descrive così il percorso seguito dal corteo delle autorità per i funerali dell’imperatore Carlo V nel 1559: «Et essendo uscito fora di la porta mayore dicto monsignore uscio de lo episcopato undi stava sua excellentia {il viceré}, ...ficiro la strata di li Panneri et andaro per lo chiano di la Fera et usciro a la strata mayuri chi si veni di la porta di Yachi et vinniro a la strata dritta verso dicta matri ecclesia intrando di la porta di lo campanaro veccho verso la strata di lu porto» (Cronaca siciliana, cit., 213-214). In una lettera che il vescovo Nicola Maria Caracciolo il 6 marzo 1560, IV ind. indirizzò al giurato Giovanni Battista Bonaiuto per rimproverarlo di non aver rispettato la giurisdizione ecclesiastica, troviamo altri elementi utili: «Essendo voi spectabile Io. Baptista de Bonayuto innanci li carceri pubblici di questa cità di Catania, Cola Mauceri bordonaro portava due salme di vino sopra certe bestie allo nostro episcopato... et vedendo voi il detto bordonaro che venia dalla strata di li potighi di lo campanaro verso lo piano di Santa Agata e di lo nostro episcopato vi partistivo e andastivo ad il detto bordonaro, lo quale bordonaro essendo in frontispitio di li ditti carceri in menso lu piano predetto voi andastivo et lo incontrastivo...» (TA 1560-1561, fol. 235v-236r). Le pubbliche carceri non furono costruite nel 1559, dopo che «foro roinate li stancii chi erano inanti dicta mayuri ecclesia per tramontana» (Cronaca siciliana, cit., 215-216), come sembra sostenere il Gaudioso (Origini e vicende, cit., in ASSO 71 [1975] 295-296). Esse esistevano nel 1556 come si può dedurre dalla descrizione dei confini della chiesa sacramentale di San Martino nella costitutio del Caracciolo (vedi doc. n. 4 in Appendice). 33 Per determinare il sito in cui sorgeva la chiesa Santa Maria di Lognina o Santa Maria la Nova abbiamo delle testimonianze contrastanti. Leggiamo in un documento del 1425: «...Ad ecclesiam sub vocabulo Sanctae Mariae la Nova posita in contrata portus de Saracino olim fundata per quondam iudicem Burgium de Usina et quondam dominam Comitissam eius uxorem...» (TA 1420-1431, fol. 118v). Ma in un atto del notaio Gallego del 1626 si tratta della vendita, che donna Eleonora Gioeni fa a Don Francesco Gioeni, di un tenimento di case grandi in più corpi e officine con due palazzi congiunti e cappella annessa e collaterale a dette case e col diritto di patronato su detta cappella. Nel documento si legge: «In quarterio civitae et contrata Sanctae Ursulae seu Sanctae Mariae olim de l’Ogninella» (ACHIVIO DI STATO CATANIA, sezione Archivio Gioeni, V, fasc. 1). Si può avanzare l’ipotesi che le due chiese, prima distinte e poste in luoghi diversi, siano state successivamente riunite in una sola. Dalla costitutio del Caracciolo sembra più logico collocare la chiesa «Santa Maria de Longena» nel sito dell’attuale Ogninella. Al porto Saraceno sarebbe fuori mano per la chiesa sacramentale San Martino e verrebbe a mancare nella descrizione dei confini un punto di riferimento per il lato di Nord-Est. Troviamo la chiesa Santa Maria la Nova nelle Visite del 1428. 34 Il monastero della Santissima Trinità era stato fondato nel 1349 da Cesaria de Augusta nel quartiere San Martino o, come precisa il Privitera, «nel contorno del-

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sulla via principale, vicino la piazza della Fiera, possiamo così delimitare i confini di questa chiesa sacramentale: a Est la via che dalla chiesa di Santa Maria di Ognina si congiunge con la piazza del Campanile Vecchio; a Sud: la via che da questa piazza raggiunge la piazza Grande, passando davanti alle carceri; a Ovest: «la strata mayuri chi si veni di la porta di Yachi» o «Luminaria»35; a Nord: la via che congiunge il monastero della Santissima Trinità con quella della chiesa Santa Maria di Ognina. Nella sua circoscrizione troviamo: le chiese: Santa Maria di Ognina, San Giovanni de Unico36; il monastero della Santissima Trinità; il Siciliae Studium generale o università37; le carceri; le contrade: la Fera lunare» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 214). Da un atto del 1621 del notaio Arcidiacono sappiamo che i gesuiti comprarono la Casa degli Orfani «pro construendo novo collegio in via Luminaria» (GB, I, fol. 18v); poiché si tratta delle case che erano appartenute già al monastero della Santissima Trinità (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 166 e 174), è facile dedurre che il monastero e la chiesa della Santissima Trinità sorgevano sulla via Luminaria, vicino piazza della Fiera. Del resto anche altri documenti confermano questa conclusione. Leggiamo negli atti del notaio de Amellina del 1450: «In contrata S.ti Joannis lo Fleri seu Trinitatis» (GB, I, fol. 10r); e in quelli del notaio Merlino del 1545: «In contrata Trinitatis seu Collegiatae» (GB, I, fol. 8v). 35 La via principale, che dalla piazza Grande raggiungeva la porta di Aci, in un atto del notaio Arcidiacono del 1621 viene chiamata «Luminaria» (GB, I, fol. 18v) dalla processione con l’offerta della cera, che tutta la città il 3 febbraio faceva alla Patrona in segno di omaggio e di devozione. Contrariamente a quanto potrebbe suggerire il più comune significato del termine, la processione veniva chiamata «della Luminaria» non perché i ceri accesi dei partecipanti offrivano uno spettacolo suggestivo di luce in onore di s. Agata; infatti la processione si faceva in pieno giorno e i ceri votivi erano rigorosamente spenti. Il termine invece si richiamava alla tassa che nel medioevo ogni maestro immatricolato e ogni garzone versava annualmente alla propria corporazione per il mantenimento del collegio e per l’illuminazione della chiesa o dell’altare del patrono. Non sappiamo a quale epoca risalga questo toponimo (cfr.: G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 137-138; M. GAUDIOSO, Origini e vicende, cit., in ASSO 298; 316-317). 36 Quest’antica chiesa era stata fondata nel palazzo della famiglia de Unico nella contrada San Martino. Non abbiamo notizie più precise per la sua ubicazione (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 110). Dai Tutt’Atti degli anni 1492-1495 risulta sacramentale (TA 1402-1495, fol. 72r). 37 Lo Studio generale fin dalla sua fondazione (1444) non aveva avuto una sede propria e stabile. Nel 1556 si trovava certamente nella piazza Grande «in alcuni magazzini (“putighi”) cedutigli in affitto dalla cattedrale e che, in seguito, nel 1559, essendo stata ordinata dal duca di Medinaceli la demolizione di quei magazzini per

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Campanile Vecchio38, Pozzo Bianco39, San Cristoforo40, parte della Malfitania41. rendere più ampia la piazza Maggiore, ebbe inizio per esso un periodo di vita randagia e di continue fatiche per ottenere una sede stabile e definitiva»: G. ALBERGO, Sulle diverse sedi dello Studio catanese (dai nuovi documenti dei secc. XVI e XVII), in ASSO 42-43 (1946-1947) 151-155; M. CATALANO, L’Università di Catania, cit., 20-23. Nella Cronaca siciliana leggiamo : «Notandum est etiam comu per decoru di la mayuri ecclesia di ipsa cita et la chiacsa...foro roinati li stancii che erano inanti dicta mayuri ecclesia per tramontana, in li quali stancii si teniano li studii di ipsa cita » (Cronaca siciliana, cit., 215-216). M. Gaudioso (Origini e vicende, cit., in ASSO 71 [1975] 295-296) ritiene che le case demolite si trovassero sul «lato di tramontana della piazza (edifici con fronte a mezzogiorno)». Siamo dell’avviso che le case in questione sorgessero a tramontana della cattedrale, ma con il fronte a occidente e facevano parte di tutto un plesso di edifici con botteghe di proprietà della cattedrale, che continuavano sulla via del porto, detta appunto «strata di li potighi». Come abbiamo fatto notare (vedi nota n. 32), le carceri non furono edificate sull’area degli edifici distrutti, ma esistevano già nel 1556 nelle case Bonaiuto e vi resteranno probabilmente fino al terremoto del 1693, come si deduce dal documento degli anni 1653-1659 pubblicato dal Casagrandi nel 1905 (V. CASAGRANDI, La Piazza Maggiore, cit.). Perciò preferiamo fissare l’ubicazione dello Studio a destra della cattedrale con il fronte a occidente. 38 La piazza e la contrada prendevano il nome dal campanile vecchio della cattedrale, che sorgeva dietro l’attuale cappella del Crocifisso, in luogo separato dall’edificio della cattedrale. Leggiamo in un documento tratto dal Basile dai decreti della curia degli anni 1451-1472: «Contrata Campanilis Veteris retro tribonas Cathedralis» (GB, I, fol. 46r; cfr. nota n. 37). Questo campanile era crollato nel terremoto del 1169 e il vescovo Simone del Pozzo nel 1388 ne aveva innalzato uno nuovo a fianco della cattedrale, sul lato Nord, all’altezza in cui oggi si trova la cappella di San Giorgio (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 69; cfr. M. GAUDIOSO, Origine e vicende, cit., in ASSO 316). Fu proprio questo secondo campanile che, nel terremoto del 1693, crollando verso il mare, provocò il crollo del corpo centrale della cattedrale, lasciando intatte le absidi e il prospetto principale (La cattedrale di Catania, cit., 59). 39 Della contrada «Putei Albi seu Nigri» troviamo notizia in un diploma del 1351 (A. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 438, p. 210). Negli atti del notaio G. Santacroce del 1504 troviamo che questa contrada era vicina a quella di Sant’Orsola: «Contrata Putei Albi seu S.tae Ursulae» (GB, I, fol. 27r). Secondo il Policastro confinava con l’attuale via Santa Maria del Rosario (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 108). 40 Non sappiamo se il nome di questa contrada avesse riferimento a una chiesa dedicata a San Cristoforo a noi sconosciuta. Di essa ci danno notizia gli atti del notaio Antonio Trupia del 1573: «Contrata S.ti Cristophori seu ecclesiae SS.mae Trinitatis et ecclesiae S.ti Martini» (GB, I, fol. 82v) e del 1576: «Contrata S.ti Cristophori seu S.ti Martini» (GB, I, fol. 77v). 41 La contrada Malfitania prendeva certamente il nome da una colonia di amalfitani che vi avevano posto la sede delle loro attività commerciali. Era ubicata

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3. SANTA MARIA DELL’ELEMOSINA (COLLEGIATA) Il territorio assegnato alla collegiata Santa Maria dell’Elemosina è uno dei più vasti e abbraccia i quartieri delle famiglie nobili e benestanti. Proprio per questo la maggior parte dei punti di riferimento per i confini di questa chiesa sacramentale sono costituiti da case private, sulla ubicazione delle quali non sappiamo nulla. Tuttavia dagli elementi noti e dai confini delle chiese vicine, possiamo formarci un’idea del territorio assegnato a questa chiesa. Conosciamo già l’ubicazione della chiesa della Santissima Trinità. La linea di confine partiva da questa chiesa e si dirigeva a Nord; pur abbracciando alcuni isolati che sorgevano sia a destra che a sinistra della «strata mayuri», ripiegava subito a Ovest per lasciare spazio alla chiesa sacramentale Santa Barbara de Civita e discendeva a Sud lungo la via principale fino alla piazza Grande; imboccava poi ad Ovest la via dietro la chiesa di San Francesco per risalire a Nord fino alle mura della città, vicino Sant’Agata la Vetere. In questa circoscrizione parrocchiale si trovavano le chiese: San 42

tra la piazza della Fiera, la piazza Grande e la chiesa di Santa Caterina (Rettore del bosco, cit.). Di essa troviamo menzione nel regesto di diplomi pubblicato da C. Ardizzone (I diplomi esistenti, cit., n. 313 [1343], p. 161; n. 334 [345], p. 171; n. 399 [1348], p. 195; n. 560 [1365], p. 262). In un documento del 1546 leggiamo: «In contrata Judaicae inferioris seu Malphitaniae» (GB, I, fol. 56r; cfr. G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 66 e nota 8 a p. 97; G. FASOLI, Tre secoli, cit., 120). 42 Diverse le ipotesi per spiegare l’origine di questa chiesa. Il titolo Santa Maria dell’Elemosina, cioè della Misericordia, comune a molte chiese dell’Oriente, ci potrebbe far pensare al periodo bizantino. Il Romeo, basandosi sugli atti leggendari di s. Leone II il Taumaturgo, avanza l’ipotesi che in origine fosse la cattedrale di Catania intitolata a Santa Maria (S. ROMEO, S. Agata V. M. e il suo culto, Catania 1922, 185-187). Ma si tratta di un’ipotesi che ha bisogno di prove più consistenti per essere sostenuta. La documentazione più antica che abbiamo su questa chiesa risale al 1226; ne fanno menzione gli atti del processo per la reintegrazione del vescovo e della cattedrale nei loro diritti al tempo di Carlo I, conservati nell’Archivio del capitolo cattedrale (cfr.: Catania sacra 1972, annuario diocesano, 99-100). La troviamo ancora nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 935, p. 73) e in un diploma del 1348 (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 393, p. 193). Abbiamo già riferito della sua erezione a collegiata nel 1446. Da tenere presente che prima del 1693 la chiesa era rivolta dalla parte di ponente, come si può costatare nella pianta del Mortier.

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Nicola ai Triscini43, Santa Maria di Nuovaluce44; l’ospedale San Marco45 sulla piazza della Fiera46; la piazza di li Fornaci47, parte della contrada Malfitania.

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La chiesa sorgeva nell’attuale piazza San Nicolella all’angolo delle attuali vie Manzoni e Biscari. Il De Grossis afferma che era stata fondata nel 1342 da Giovanni de Carissima (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 153). Non sappiamo se debba riferirsi a questa chiesa la notizia che troviamo nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 sulla chiesa S. Nicolai de Crissian (n. 934, p. 73). Troviamo menzione di essa nelle Visite del 1428 e del 1540, nelle quali si afferma che era sacramentale. Dava il nome a una contrada, come troviamo negli atti del notaio A. Covello del 1495: «Contrata S.tae Annae seu S.ti Nicolicchiae» (GB, II, fol. 59v). 44 La chiesa in origine era denominata «Sancta Maria Novelucis seu Medietatis Augusti» ed era annessa alla grangia che l’abbazia Santa Maria di Nuovaluce possedeva all’interno della città. Inizialmente questo complesso sorgeva nelle contrade Sant’Agostino e Rotonda, dove Artale Alagona, fondatore della certosa, possedeva numerosi immobili (A. LONGHITANO, Santa Maria di Nuovaluce, cit., 29-30). Infatti da un atto del notaio A. Covello del 1487 apprendiamo che la contrada «S.tae Mariae Medii Augusti» era contigua a quella di Sant’Agostino (GB, I, fol. 51v). In un documento del 1533 leggiamo: «S. Mariae Novelucis, seu di li Martiri, seu Medietatis Augusti intus civitatem prope domum Alvari di Paternò in contrata S.tae Mariae Elemosinae» (TA 1533-1534, fol. 36r). Probabilmente nel ’500 la grangia e la chiesa dal quartiere della Rotonda furono trasferite nel quartiere di Santa Maria dell’Elemosina e precisamente nella chiesa «di li Martiri». Il Policastro sostiene che quest’ultima chiesa si trovava nei dintorni della casa di Don Antonio Paternò Castello, barone di Mandrerascate, oggi palazzo Sangiuliano; ma non indica la fonte da cui ha attinto questa notizia (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 109). 45 Della chiesa di San Marco troviamo menzione nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 900, p. 72). L’annesso ospedale era stato costruito dalle autorità cittadine fra il 1372 e il 1391 nel foro Lunare (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 165; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 144). Dalle Visite del 1540 risulta che la chiesa era sacramentale: si amministrava il battesimo ai bambini esposti e gli ultimi sacramenti ai moribondi. 46 Piazza della Fiera «di lo lunedì» o foro Lunare sorgeva nell’area dell’attuale università e della piazza omonima. Assieme alla vicina piazza dell’Erba, piazza San Filippo costituiva il centro commerciale della città. In tutta la zona circostante avevano trovato posto non solo i negozi dei commercianti, ma anche le botteghe degli artigiani che davano il nome alle vie e alle contrade: gli argentieri, i panneri, i corvisieri, i chianellari, i cinturari... (Rettore del bosco, cit.) 47 Il documento che stabilisce la zona franca per la fiera di s. Agata, indica la «piazza di li Fornaci oy furno appresso di la ecclesia di Santa Maria di la Elemosina». Non sappiamo da quale lato si trovasse questa piazza (Rettore del bosco, cit.).

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4. SANT’ANNA AI TRISCINI La piazza «de li Triscini» o «della Triscini»48 si trovava alla confluenza fra la via che proveniva dalla porta di Aci a quella che dalla porta del Re si incontrava con la «strata mayuri» o della Luminaria. Dava il nome a un quartiere che doveva essere molto vivace. La chiesa di Sant’Anna49 sorgeva nel luogo dell’attuale chiesa di San Michele ai minoriti in via Etnea. La sua circoscrizione territoriale abbracciava la zona a Nord-Est della città sia dentro che fuori le mura. Solo in parte possiamo determinare i suoi confini: a Nord e ad Est le mura della città che dalla porta di Aci50 raggiungevano il quartiere circostante al monastero Santa Maria di Porto Salvo, subito dopo il ba48 Nella descrizione dei confini della chiesa sacramentale Santa Barbara della Civita troviamo scritto: «Usque ad forum qui dicitur di li Trixini» (TA 1555-1556, fol. 208r; cfr. doc. n. 4 in Appendice I, fol. 208r). La Cronaca siciliana (p. 208) e F. PRIVITERA, Annuario, cit., 231 scrivono invece: «La Triscini». Il toponimo, di probabile origine greca, indicava il luogo scelto prevalentemente dai barbieri per esercitare la loro attività. La piazza dei Triscini nella ricostruzione della città dopo il terremoto fu assorbita dalla via Stesicorea o Etnea e dagli edifici ad essa adiacenti. Possiamo fissare la sua ubicazione nell’area dei «Quattro Canti» e dell’incrocio delle attuali vie Di Sangiuliano e Manzoni. 49 Sconosciamo l’origine di questa chiesa, che nel 1446 venne annessa alle prebende della collegiata come sacramentale (doc. cit., fol. 99v). Nel 1555, in seguito ai lavori per la fortificazione della città, fu necessario distruggere la chiesa di San Michele, che sorgeva fuori le mura. La confraternita omonima dei disciplinanti fu trasferita nella chiesa di Sant’Anna, che da allora prese il nome di San Michele. Nel 1628 fu affidata ai minoriti (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 183; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 231). Probabilmente per un errore di stampa il Policastro sembra confonderla con la vicina chiesa San Nicola dei Triscini (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 111-112). 50 La porta di Aci era fra le più importanti della città, perché serviva alle comunicazioni con Messina e i casali del bosco di Catania e di Aci. Veniva anche chiamata «Stesicorea», perché vicino si credeva ci fosse il sepolcro di Stesicoro, o «di Sant’Anna de Trixinis». Si apriva nelle mura settentrionali, nel luogo in cui fino al secolo scorso si trovava il cinema Olimpia, oggi l’edificio con i numeri civici 56-59 della piazza Stesicoro (R. PENNISI, Le mura, cit., 126; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 23 e 25). Dopo l’eruzione dell’Etna del 1669 i terreni sciarosi di proprietà della mensa vescovile, che si trovavano oltre le mura, dal vescovo Michelangelo Bonadies furono concessi alla città per costruire i nuovi quartieri del Borgo di Sant’Agata e di Cìfali, destinati ad accogliere i profughi dei centri abitati del bosco etneo, distrutti dalla lava (A. LONGHITANO, Profughi e città nuove, cit., 91-95).

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stione di San Michele51; a Sud e ad Ovest i confini non precisati delle chiese sacramentali Santa Barbara della Civita e Santa Maria dell’Elemosina; inoltre la via che dalla piazza dei Triscini raggiungeva il tratto di mura fra la porta di Aci e il bastione di Sant’Agata la Vetere. Nella circoscrizione di questa chiesa troviamo: le chiese: San Nicola de Puellis52, Sant’Ippolito53, San Biagio intus civitatem54, Sant’Agnese55; il monastero benedettino femminile Santa Maria di Porto 51

Il bastione prendeva il nome da un’antica chiesa posta fuori le mura e dedicata all’arcangelo San Michele (cfr. la nota n. 49). Dalle Visite del 1428 risulta che apparteneva a una confraternita «de disciplina mulierum». Nel 1446 fu annessa alle prebende della collegiata (doc. cit., fol. 99v). Nel 1555 la chiesa fu distrutta e il titolo fu trasferito nella chiesa di Sant’Anna (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 183; R. PENNISI, Le mura, cit., 125). 52 Nelle Visite del 1540 troviamo notizia di questa chiesa fondata all’inizio del secolo XV dentro il cortile della casa del magnifico Pietro Intrigliolo, nella contrada «Sant’Anna li Triscini» (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 204). 53 Anche della chiesa di Sant’Ippolito troviamo notizia nelle Visite del 1540. Dava il nome a una contrada. Dagli elementi che ci danno gli atti notarili del tempo possiamo ritenere che sorgesse nell’area dell’attuale salita San Camillo ed era limitrofa alle contrade Pendinello e San Demetrio (atti del notaio G. de Grifo del 1468: «Contrata Pendinelli seu S.ti Hippolythi», GB, I, fol. 35v; atti del notaio A. Covello del 1490: «Contrata S.ti Demitrii seu S.ti Hippolythi», GB, I, fol. 2r; atti del notaio V. de Tabusio del 1523: «Contrata S.ti Hippolyti seu S.tae Mariae de Dagala», GB, II, fol. 82v). 54 Di un’antica chiesa dedicata a San Biagio ci danno notizia le Rationes Decimarum degli anni 1308-1310, cit., n. 931, p. 72. Nelle Visite del 1540 viene chiamata «S.ti Blasii de Trixinis». Sorgeva dentro le mura e dava il nome a una contrada nel quartiere più ampio dei Triscini (notaio V. Tabusio, 1528: «Contrata S.ti Blasii seu Trixinis», GB, I, fol. 28r; notaio Trupia, 1556: «Contrata Trixinis seu S.ti Blasii», GB, I, fol. 98r). Questa chiesa non deve essere confusa, come fa il Policastro, con quella di Sant’Agata alla Fornace che era fuori le mura (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 152). Di entrambe il De Grossis scrive in modo distinto: la chiesa di San Biagio era stata fondata con le elemosine dei fedeli; nel 1459 risultava retta da cappellani e nel 1637 divenne sacramentale (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 105); la chiesa della Calcara di Santa Agata fu data dal vescovo ad Orazio Tornabene «viro Patritio» nel 1589 e al tempo del De Grossis era sede della confraternita dei cocchieri (ibid., 3940). Solo dopo il terremoto il vescovo Andrea Riggio trasferì la chiesa di San Biagio in quella di Sant’Agata alla Fornace (Catania sacra 1913, annuario diocesano, 27). 55 Il Policastro scrive (Catania prima del 1693, cit., 179) che la chiesa si trovava fuori le mura; in un documento del 1367 sembra invece che sorgesse nella contrada di Sant’Anna e da esse venisse denominata una contrada confinante «contrata ecclesiae Sanctae Agnetis» (M. L. GANGEMI, Il tabulario del monastero San Benedetto di Catania [1299-1633], Palermo 1999, 276-277).

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Salvo56; l’Anfiteatro57; le contrade: Pendinello58, della Posterna di San Michele59, di Porta Savarino60.

5. SANTA BARBARA ALLA CIVITA Non sappiamo dove fosse ubicata questa chiesa61; la sua stessa 56 Il monastero Santa Maria di Porto Salvo o della Salute sorgeva nella piazza Sigona (la piazza Manganelli di oggi) (M. GAUDIOSO, Origine e vicende, cit., in ASSO 317). Era stato fondato da Ilaria Mingrino nel 1464, che aveva dato a questo fine le proprie case. Nel 1554 vi era stato annesso il monastero della Santissima Trinità (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 175; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 191). Dopo il terremoto fu soppresso e le monache superstiti trasferite negli altri monasteri (V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., II, 515). 57 L’Anfiteatro costruito in epoca romana si estendeva fino all’attuale via Penninello, alla chiesa di San Biagio, al palazzo del vecchio tribunale, alla via Etnea. Ai tempi di Teodorico era in tale stato di abbandono che i catanesi furono autorizzati a servirsi delle pietre cadute dall’edificio per costruire le mura della città. Anche il conte Ruggero se ne servì per edificare la cattedrale. Poiché si trovava a ridosso delle mura esterne, nel secolo XVI i giurati fecero abbattere le parti più elevate del monumento per evitare che in caso di guerra facilitassero ai nemici l’ingresso in città (I. B. De GROSSIS, Catanense, cit., II, 6-11; A. HOLM, Catania antica, cit., 37-42; F. FICHERA, Scavi dell’anfiteatro di Catania, in ASSO 1 [1904] 119-121; ID., Per l’anfiteatro di Catania, ASSO 2 [1905] 66-72; G. LIBERTINI, La topografia di Catania antica e le scoperte dell’ultime cinquantennio, in ASSO 19 [1922] 62). 58 La contrada Pendinello era contigua a quella di Sant’Ippolito, come si è già detto parlando dell’ubicazione di questa chiesa (cfr. nota n. 53). In questa contrada si trovava il cortile «de la Gurna», come ci informa un atto del notaio Trupia del 1563: «In cortile de la Gurna seu de lo Pendinello» (GB, I, fol. 94v). 59 Vicino la chiesa di San Michele si apriva una «posterna» che dava il nome a una contrada: «In contrada Trixinis seu S.tae Annae seu posternae S.ti Michaelis» (notaio Santacroce, 1503, GB, I, fol. 27r; Cronaca siciliana, cit., 19). Non sappiamo se la «posterna» rimase quando fu costruito il bastione. Al tempo del De Grossis esisteva ancora la contrada: «In regione illa, cui “la posterna di San Michele” adhuc nomen est» (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 183). 60 Un’altra «posterna» molto antica, che prendeva il nome dalle case di Savarino de Onorato, si apriva nel tratto di mura compreso fra il bastione San Michele e quello di San Giuliano; dava il nome a una contrada (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 22 e 108). La «posterna» si trovava vicino la chiesa di San Michele, come si legge in un documento del 1428: «Ecclesia S.ti Michaelis posita extra moenia iuxta portam de Savarino» (TA 1420-1442, fol. 168r). 61 La chiesa di Santa Barbara alla Civita sorgeva probabilmente a Est di San

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circoscrizione territoriale ha pochi elementi noti per essere ben determinata. Solo approssimativamente possiamo delimitarla per esclusione, dopo aver descritto i confini delle chiese sacramentali vicine. Alla chiesa di Santa Barbara viene affidata una zona centrale della città, che partendo dalla piazza dei Triscini dovrebbe incunearsi nel territorio assegnato alle chiese di Sant’Anna e di San Tommaso a Nord-Est; della collegiata e di San Martino a Sud-Ovest. Pobabilmente ricadevano nella sua circoscrizione: l’ospedale San Giovanni li Freri o di Gerusalemme62, la contrada Sicchioto63.

6. SANT’AGATA LA VETERE Esaurita la descrizione della parte orientale della città, la costitutio del Caracciolo passa alla parte occidentale, iniziando da Nord

Nicola dei Triscini, nella zona delimitata attualmente dalle vie Etnea, Di Sangiuliano e Mancini. Per la sua ubicazione abbiamo diversi riferimenti nei documenti del tempo. In un atto del notaio A. Covello del 1497 troviamo: «Contrata Trixinis seu S.tae Barbarae de Civita» (GB, II, fol. 47v) e in un atto del notaio A. Trupia del 1572 si legge:« Contrata S.ti Nicolai de Trixinis seu ecclesiae S.tae Barbarae de Civita» (GB, I, fol. 73v). Da altri documenti citati dal Policastro si desume che la contrada Santa Barbara confinava a Sud-Est con quella di San Giovanni li Freri (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 113). Troviamo menzione di questa chiesa nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 933, p. 73), nella bolla di erezione della collegiata (doc. cit., fol. 100r) e nelle Visite del 1540, dove risulta già sacramentale. Nel 1570 era «quasi destructa» (Visite), ciò spiega il silenzio su di essa degli storici del secolo XVII. 62 La chiesa di San Giovanni li Freri sembra sia stata fondata in epoca bizantina. Dopo la conquista normanna vi fu annesso l’ospedale dell’ordine di Gerusalemme o di Malta (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 187-188). Il Privitera afferma che sorgeva «nel contorno detto delli 7 cantoneri» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 111). La sua ubicazione non crea problemi se si tiene conto della finestra gotica scoperta nell’attuale via Cestai nel 1894, appartenente di sicuro alla chiesa o all’ospedale (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 113-122). 63 La contrada Sicchioto era limitrofa a quella di San Giovanni li Freri, come si può dedurre da una cedola di censi del 1554: «Contrata di lo Sicchioto seu S.ti Ioannis lo Fleri» (GB, I, fol. 56v) e dal documento che determina la zona franca della fiera di s. Agata (Rettore del bosco, cit.).

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con la chiesa di Sant’Agata la Vetere64, che sorgeva sul bastione detto del Santo Carcere65 o di Sant’Agata la Vetere. La linea di confine viene segnata a Nord dal bastione del Santo Carcere e dalle mura annesse; a Est dalla via diritta66 che dalle mura della città scende fino al monastero San Benedetto; a Sud dalla via che piega ad occidente per raggiungere il negozio di un aromatario o droghiere, posto di fronte alla chiesa di Sant’Agostino67; a Ovest dalla via che si dirige verso Nord sino alla chiesa di Santa Barbara de Casalenis (l’attuale Immacolata ai Minoritelli) per raggiungere un’altra volta le mura della città vicino la porta del Re68. 64

Non conosciamo la data di fondazione della chiesa di Sant’Agata la Vetere, che la tradizione indica come l’antica cattedrale di Catania, fondata da s. Everio e riedificata successivamente da s. Leone II, detto il Taumaturgo. Secondo altri, però, l’antica cattedrale era intitolata a Santa Maria e viene identificata con le chiese: Santa Maria dell’Elemosina (S. ROMEO, Sant’Agata, cit., 186-187), Santa Maria la Grande (M. GAUDIOSO, L’abbazia di San Nicolò l’Arena, cit., 207-208, nota 3), Santa Maria la Grotta o di Betlem (V. CASAGRANDI, La Grotta di S. Maria di Betlem in S. Gaetano alla Grotta, in Il Popolo di Sicilia, 1° agosto 1931). Il De Grossis parla di una iscrizione in greco, visibile ancora ai suoi tempi, che nel tetto della chiesa indicava l’anno della costruzione: 778 (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 34). Dopo la costruzione della nuova cattedrale e l’erezione dell’annessa abbazia benedettina da parte del conte Ruggero, Sant’Agata detta «la Vetere» divenne un priorato da essa dipendente (ibid., p. 72). Continuò ad essere chiesa sacramentale. 65 Sullo stesso bastione, accanto alla chiesa di Sant’Agata la Vetere, sorgeva un’edicola costruita sul luogo in cui si dice ci sia stato il carcere della santa. Al piano superiore di quest’edicola sorgeva un oratorio dedicato a San Pietro, costruito nel secolo XI, in memoria della sua apparizione a s. Agata prima della sua morte. Sempre sulla stessa area, sorgeva pure un oratorio dedicato a San Berillo (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 35; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 216; S. ROMEO, Sant’Agata, cit., 204-209; F. FICHERA, Il carcere di Sant’Agata e l’edicola di San Pietro in Catania, in ASSO 27 [1931] 3-13). 66 Il De Grossis chiama «via Nova» questa strada (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 173). Non sappiamo a quale epoca risalga questo toponimo. 67 Questa via viene presa come punto di riferimento per stabilire i confini delle chiese sacramentali di Sant’Agata la Vetere, Santa Margherita, San Nicola dell’Oliva e San Filippo. Bisogna tener presente che la chiesa di Sant’Agostino prima del terremoto era rivolta verso il Teatro Greco. Infatti leggiamo nella descrizione dei confini della chiesa sacramentale San Filippo: «Eundo directe usque ad theatrum seu coliseum ante ecclesiam sancti Augustini» (TA 1555-1556, fol. 209r; cfr. doc. n. 4 in Appendice I, fol. 209r). 68 Veniva chiamata anche «porta di Sant’Agata la Vetere» (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 290 [1341], p. 151) o «Aquilonare» (R. PENNISI, Le mura, cit., 126; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 29).

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Come si può costatare dalla cartina, si tratta di una circoscrizione molto ampia69 e ben definita, che comprende: le chiese: Carcere di Sant’Agata, San Pietro e San Berillo70, San Costantino71, Santa Maria della Dàgala72, San Demetrio73, Santa Maria della Rotonda74, Santis69 Non sappiamo perché il Policastro affermi: «L’estensione della parrocchia di Sant’Agata la Vetera secondo i confini stabiliti da Mons. Caracciolo, non era affatto molto grande: le rimanenti parrocchie le somigliavano tutte specialmente quelle che si trovavano molto più a monte, situate l’una accanto all’altra: Santa Maria dell’Itria e Santa Margherita» (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 170). 70 Vedi nota n. 65. 71 Troviamo la chiesa di San Costantino nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 932, p. 73) e fra le chiese annesse ai benefici della collegiata (doc. cit., fol. 100r). L’antica chiesa, chiamata anche dei Santi Elena e Costantino era ubicata nello stesso luogo di quella attuale e dava il nome a una contrada (atti del notaio Trupia del 1564: «Contrata SS. Elenae et Costantini», GB, I, fol. 74r). Il Privitera ricorda l’esistenza della chiesa San Costantino il vecchio, che sorgeva «nel contorno del monastero di San Nicolò dell’Arena, dov’è il conservatorio delle Verginelle orbate de loro parenti» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 224). 72 Il De Grossis, informandoci che la chiesa Santa Maria della Dàgala o Dàchala era stata fondata nel 1409 da Suor Tomasina de Marsiglia, scrive di non conoscere il significato di questo nome, che ritiene di origine araba (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 182). Il Privitera sostiene «che prima fu decta della Misericordia o della Scala e poi per qualche infetta palude d’acqua fu detta della Dagala, contro Pirro qual disse Dagala esser nome greco, che significa “catena”» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 170). Ma probabilmente il termine “dagala”, di sicura origine araba (= ingresso), deve essere inteso nel significato che ha nella regione etnea: «Isola di terreno coltivato, circondata da correnti di lava deserta» (F. GIUFFRIDA, I termini dialettali della Sicilia, in ASSO 53 [1957] 62) e dovrebbe indicare un quadro o un’icone della Madonna rimasta isolata in mezzo alle lave dell’Etna. La chiesa dava il nome a una contrada (atti del notaio de Tabusio del 1523: «Contrata S.ti Ippolyti seu S.tae Mariae de Dagala», GB, II, fol. 82v). Era ubicata nel luogo dell’attuale San Camillo (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 157). 73 Abbiamo poche notizie sull’antica chiesa di San Demetrio il cui nome potrebbe riportarci all’epoca bizantina (G. LIBERTINI, Catania nell’età bizantina, cit., 255). Probabilmente sorgeva sul lato sinistro dell’attuale via Crociferi (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 153). Dava il nome a una contrada che si incontra di frequente negli atti notarili (notaio Trupia, 1565 e 1570: «Contrata Ascensionis seu S.ti Dimitri», GB, I, fol. 79v e 103v). 74 La chiesa Santa Maria della Rotonda è fra le più antiche della città. Più che un pantheon greco o romano trasformato in chiesa cristiana e consacrata da s. Pietro o s. Berillo, come affermano gli storici del secolo XVII (I. B. De GROSSIS, Catanense, cit., I, 184; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 100), sarà stato un antico edificio termale romano

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sima Ascensione75; i monasteri San Benedetto76 e delle clarisse con la chiesa del Santo Sepolcro77; le contrade Montevergine con la torre di Don Lorenzo Gioeni78 e Granatelli79. adattato a tempio cristiano (A. HOLM, Catania antica, cit., 33-35; S. ROMEO, Sant’Agata, cit., 182). Di essa troviamo menzione nelle Rationes Decimarum degli anni 13081310 (n. 947, p. 73). Nel 1446 fu annessa alle prebende della collegiata; sia nella bolla (doc. cit., fol. 100r), sia nelle Visite del 1540 viene indicata come sacramentale. 75 La chiesa della Santissima Ascensione fu fondata, ai tempi del vescovo Marziale (1355-1376), dal giudice della magna regia curia Bartolomeo Altavilla, della quale si riservò il diritto di patronato. In seguito l’Altavilla trasformò la sua abitazione, situata accanto alla chiesa, in ospedale e nel suo testamento del 24 agosto 1396 trasferì all’ospedale il diritto di patronato sulla chiesa. Il 19 gennaio 1446 l’ospedale dell’Ascensione fu riunito all’ospedale San Marco con una bolla di Eugenio IV (M. CATALANO, La fondazione, cit., [1916] 61-63; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 165166). Dalle Visite del 1540 risulta che la chiesa era sacramentale. Il 9 febbraio 1556, in seguito agli accordi fra i giurati, il vescovo Nicola Maria Caracciolo e la Compagnia di Gesù, la chiesa e i locali annessi furono ceduti dai rettori dell’ospedale ai gesuiti, che vi fondarono la loro prima casa di Catania (M. CATALANO, La fondazione, cit., [1916] 56-62; I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 164-166). Chiesa e collegio erano ubicati nel luogo in cui dopo il terremoto del 1693 fu edificata la chiesa di San Francesco Borgia e il nuovo collegio dei gesuiti (M. CATALANO, La fondazione, cit., [1916] 64-65). 76 Il monastero San Benedetto era stato fondato nel 1334; ma solo nel 1355, dopo diversi trasferimenti, aveva occupato definitivamente il sito attuale. Nel recinto del monastero si trovava un’antica chiesa, dedicata a Santo Stefano protomartire, di origine bizantina G. LIBERTINI, Catania nell’età bizantina, cit., 255). Di essa troviamo menzione nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 949, p. 73; cfr. I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 173-174; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 153-154). 77 Se dobbiamo credere agli storici catanesi del secolo XVII, fin dal 1220 le clarisse erano venute a Catania e avevano fondato un monastero «detto di Santa Maria delle Vergini situato nel luoco poco discosto sotto l’eccelsa torre di Don Lorenzo, anco vociferato nelle pubbliche et antiche scritture con vari nomi: della Torre del Vescovo, delli Quartarari o del Molino del vento. Nel qual sito era la chiesola del SS. Sepolcro» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 136; cfr. I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit, I, 176-177). 78 La contrada Montevergine, stando alla notizia riportata nella nota precedente, deve il nome al monastero delle clarisse Santa Maria delle Vergini, edificato nel 1220 (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 176-177). Era dominata dall’alta torre di Don Lorenzo Gioeni, il cui nome si incontra di frequente nei documenti e nelle cronache del tempo (Cronaca siciliana, cit., 136). La torre sorgeva quasi di fronte all’attuale chiesa dei Minoritelli (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 183-184), all’angolo dell’attuale via Santa Maddalena (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 184). 79 La contrada Granatelli confinava con quella di San Demetrio ad Ovest e con quella dei Triscini a Est, come possiamo dedurre da due atti notarili del tempo:

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7. SANTA MARIA DELL’ITRIA Con la circoscrizione della chiesa sacramentale Santa Maria dell’Itria80 entriamo nei quartieri più poveri della città detti «Casalini». Una zona che abbracciava quasi tutta la parte occidentale di Catania81. I confini di Santa Maria dell’Itria vengono così delimitati: a Nord- Ovest le mura della città (la porta del Re, il bastione del Vescovo con una posterna82, il tratto che va quasi fino al bastione dell’Arcora o del Tindaro); a Est dalla via che scende dalla porta del Re, fino alla chiesa di Santa Barbara de Casalenis; a Sud dalla via che da questa chiesa raggiunge la chiesa di Santa Maria degli Angeli e le mura della città.

«Contrata S.ti Demetri seu Granatellorum» (notaio G. Santacroce, 1503, GB, I, fol. 27r); «contrata Trixinis seu Granatelli» (notaio Trupia, 1580-1581, GB, I, fol. 103v). 80 Il culto della Madonna dell’Odigitria ci richiama all’epoca e alla cultura bizantina. Questa chiesa è molto antica. Il De Grossis scrive che la sua fondazione è anteriore al 1281 (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 105). Di essa troviamo menzione nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 945, p. 73). Il 4 maggio 1418 ebbe la cura delle anime (TA 1405-1419, fol. 124r; Visite 1428). Nel 1446 fu annessa alle prebende della collegiata (doc. cit., fol. 99v). 81 Con il nome di “Casalini” veniva chiamata un’ampia zona della città che comprendeva le chiese: Santa Maria Maddalena de Casalenis, Santa Barbara de Casalenis, Santa Margherita de Casalenis, Santa Maria del Soccorso de Casalenis, Sant’Anna de Casalenis, San Giacomo de Casalenis, San Giovanni de Casalenis... 82 Il bastione prendeva il nome da una torre chiamata «del Vescovo» perché donata dai giurati al catanese Don Antonio de Vulpone, vescovo di Malta del 1375 (HIERARCHIA CATHOLICA, I, 340), in riconoscenza dei servizi resi alla città (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 32). I resti della torre sono ancora visibili nella via omonima. Dopo la peste del 1576 il bastione verrà chiamato «degli Infetti», perché servì da lazzaretto ai contagiati dal morbo R. PENNISI, Le mura, cit., 127). In questo tratto delle mura si apriva una posterna, denominata in un documento del 1419 «Posterna seu Grangia episcopi Melivetani», che dava il nome anche a una contrada (M. L. GANGEMI, Il tabulario del monastero, cit., 389).

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Nella sua circoscrizione troviamo: le chiese: Santa Maria la Cava83, Santa Maria dei Miracoli o dei Malati84, San Barnaba85; le contrade: Mulino a vento86, dei Quartarari87, Pozzo Cancellieri88.

83 La chiesa Santa Maria la Cava era stata eretta prima del 1483 (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 185). «Situata dentro e sopra la porta Regia, luogo prima detto “Molino del vento” o “Botte dell’acqua”... Essendo la nostra santa Imagine in una conetta che mirava verso l’aquilone, la rivoltarono all’oriente nel eretione della chiesa che mira il mezzo giorno» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 193-194). La chiesa dava ancora il nome a una contrada: «Molendini de lo vento seu S.tae Mariae de Cava» (Decreto per il convento dei domenicani negli atti della curia degli anni 14961512, GB, I, fol. 48v). 84 Per il De Grossis la chiesa «de Miraculis sive de Infirmis» fu eretta il 16 maggio 1436 da donna Clara Russo (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 183). Il Privitera sostiene invece che «fu antichissima, ma diruta, reedificata nel anno citato dalla nobile D. Clara Russo sotto il titolo della B. Vergine dell’Infermi, per li miracoli ivi operati dalla SS. Vergine» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 184). Dava il nome a una contrada: «S.tae Mariae Magdalenae de Casalenis seu S.tae Mariae di li Malati» (atti del notaio A. Covello del 1499, GB, II, fol. 58r). Fino all’inizio del secolo scorso sorgeva nell’attuale piazza dei Miracoli (G. RASÀ NAPOLI, Guida breve, cit., 261). 85 Non siamo in grado di determinare l’esatta ubicazione della chiesa di San Barnaba. Nei documenti del tempo si legge: «Contrata S.ti Barnabae seu Turris Episcopi conf. cum moenis civitatis» (notaio Sangiorgi, 1549, in G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 200, nota 62). Era stata fondata nel 1391 come sede di una confraternita di disciplinanti (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 185). Non sappiamo perché il Policastro chiami s. Barnaba «apostolo della città di Catania» (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 183). 86 La contrada «Molendino del vento» era a ridosso delle mura della città. Leggiamo infatti in un atto del notaio Paolo Cosentino degli anni 1516-1520: «Concessio loci in contrata Molendini de Vento prope moenia» (GB, I, fol. 32r). 87 Di questa contrada scrive il Privitera per localizzare il monastero delle Clarisse Santa Maria di Montevergine (vedi nota n. 77). Non sappiamo quale fosse la sua esatta ubicazione. 88 Della contrada «Putei Cancellarii» troviamo menzione in un diploma del 1347 (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 354, p. 179). Un documento del 1604 la pone nel quartiere Santa Maria dell’Itria: «Contrata putei Cancellarii seu S.tae Mariae de Ytria» (GB, I, fol. 60v). Il Policastro da un documento notarile desume un altro riferimento: «era contigua alla contrada San Barnaba» (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 190).

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8. SANTA MARGHERITA Non siamo in grado di stabilire con esattezza l’ubicazione della chiesa di Santa Margherita89, che doveva essere vicina a quella di San Barnaba. La sua circoscrizione risulta al contrario ben definita: a Nord è delimitata dalla via che dalle mura della città si dirige verso la chiesa di Santa Barbara de Casalenis; a Est dalla via che da questa chiesa discende fino alla chiesa di Sant’Agostino; a Sud dalla via che da quest’incrocio va fino alla chiesa del Tindaro o alle mura della città; a Ovest dalle mura della città che comprendono il bastione dell’Arcora o del Tindaro90. Nei confini di questa chiesa sacramentale sorgevano probabilmente: le chiese: Santa Maria Maddalena de Casalenis91, Santa Bar89

La sua fondazione è anteriore al 1277, anno in cui il vescovo Angelo Boccamazza la diede alle monache del monastero Santa Lucia (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 185). Di essa troviamo menzione in un diploma del 1324 (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 165, p. 102). Nelle Visite del 1428 è detta «parrochialis». Nel 1446 fu annessa alle prebende della collegiata (doc. cit., fol. 99v). Il De Grossis scrive che veniva chiamata anche «chiesa di Tutti i Santi» o «dei Santi Crispino e Crispiniano», perché successivamente ospitò le confraternite omonime. Non sappiamo a quale epoca si riferisce questa affermazione. Succedeva di frequente che una chiesa cambiasse temporaneamente o definitivamente titolo per essere sede di una confraternita, la cui chiesa veniva a mancare per vetustà o per altri motivi. Nel 1446 la chiesa di Tutti i Santi era distinta dalla chiesa di Santa Margherita, perché entrambe vengono enumerate distintamente nella bolla di erezione della collegiata (doc. cit., fol. 99v). 90 La contrada «Arcorum» e il bastione dell’Arcora prendevano la denominazione dagli archi dell’antico acquedotto romano, i cui resti si potevano ancora ammirare fuori le mura della città (R. PENNISI, Le mura, cit., 128). Nel 1556 per ordine del viceré Giovanni de Vega, trentatré di essi furono demoliti per adibire il materiale alla costruzione delle mura (A. HOLM, Catania antica, cit., 66-67). Troviamo la contrada «Arcorum» in un diploma del 1353 (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 462, p. 220 e nella Cronaca siciliana, cit., 43 e 162). Il bastione veniva chiamato anche «del Tindaro» o «del Tonnaro», perché accanto ad esso sorgeva la chiesa della Madonna del Tindari. Per l’antico acquedotto che portava l’acqua alla città da Santa Maria di Licodia cfr.: I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., II, 25-27; A. HOLM, Catania antica, cit., 66-67; S. LAGONA, L’acquedotto romano di Catania, in Cronache 3 (1964) 69-86. 91 Santa Maria Maddalena de Casalenis era stata edificata nel 1370 dalla devota Giovanna Dionisio in una sua proprietà di fronte alla chiesa dei Miracoli (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 190-191). Nelle Visite del 1428 viene chiamata «parrochialis».

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bara de Casalenis e San Cataldo92, Santa Maria degli Angeli93, Santa Maria del Tindaro94, Santa Maria della Stella95; le contrade: Cipriana o Parco96, Pozzo Cali97, Pozzo di Naticanigra98.

92 La chiesa di Santa Barbara sorgeva «sotto l’altissima torre detta di Don Lorenzo» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 184). Nel piano inferiore si trovava la chiesa di San Cataldo. Entrambe dovevano essere molto antiche. Della prima troviamo menzione nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 946, p. 73). La seconda era in origine una pubblica piscina trasformata successivamente in chiesa; esisteva già nel 1429 (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 183-184; I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., II, 26). 93 La chiesa Santa Maria degli Angeli era stata fondata nel 1471 (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 190). Di essa troviamo menzione nelle Visite del 1540. 94 La chiesa aveva come titolo Santa Maria della Presentazione; ma nel 1306 vi fu portato un quadro della Madonna di Tindari e comunemente fu chiamata «del Tindaro» (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 184). Nelle Visite del 1428 leggiamo: «De disciplina hominum intra muros». Da un atto del notaio A. Covello del 1464 sappiamo che era «posita supra la porta di l’Arcora» (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 199) e in un documento del 1468 leggiamo: «Ecclesia sive cappella sub vocabulo B. M. di lu Tindaro prope moenia civitatis Cathaniae» (TA 1467-1471, fol. 157v). 95 Abbiamo poche notizie della chiesa Santa Maria della Stella, che dava il nome a una contrada nel quartiere della Cipriana o del Parco (notaio Trupia, 1572: «Contrata S.tae Mariae de la Stella seu Ciprianae vel Parchi», GB, I, fol. 73v; notaio Trupia, 1564: «Contrata S.tae Maria de la Stella seu di lu Parchiu», GB, I, fol. 74r). 96 La contrada del Parco o della Cipriana occupava tutta la spianata della parte più alta della città che andava dal bastione del Tindaro al bastione del Vescovo: «Era adibita alle esercitazioni e alle mostre delle milizie cittadine e spagnole» (M. GAUDIOSO, L’abbazia di San Nicolò l’Arena, cit., 231, nota 3). Data la sua estensione, i documenti e gli atti dei notai per indicare con più esattezza gli immobili, fanno riferimento di volta in volta a uno dei tanti toponimi che contrassegnavano i diversi quartieri della contrada: «In contrata S.tae Luciae seu de lo Parchio» (14961512, GB, I, fol. 47r); «in contrata S.tae Mariae de la Stella seu di lu Parchiu» (notaio Trupia, 1564, GB, I, fol. 74); «in contrata S.tae Mariae de la Stella seu Ciprianae vel Parchi» (notaio Trupia, 1572, GB, I, fol. 73v). Quando questa contrada sarà scelta per la costruzione del nuovo monastero San Nicola l’Arena, i monaci acquisteranno gli immobili per assicurarsi l’area necessaria (M. GAUDIOSO, L’abbazia di San Nicolò l’Arena, cit., 213). 97 Negli atti del notaio Arcidiacono del 1618 la contrada «Putei de Calì» viene indicata come contigua a quella della Cipriana (GB, I, fol. 24r). Il Policastro afferma che questa contrada si chiamava pure «Pozzo di Marcellino» (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 191). Ma si trattava di un’altra ad essa vicina. 98 Un atto del notaio Trupia del 1551 ci dà notizia della «contrata S.tae Margharithae seu Putei di Naticanigra» (GB, I, fol. 115r).

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La circoscrizione di questa chiesa sacramentale sarà in gran parte occupata dal monastero San Nicola l’Arena, la cui costruzione ebbe inizio nel 155899.

9. SAN NICOLA DELL’OLIVA La chiesa San Nicola dell’Oliva100 sorgeva nel sito dell’attuale Santissima Trinità. La linea di confine della sua circoscrizione parte a Nord dalle mura della città (oratorio del Tindaro) e va fino alla via di Sant’Agostino; a Est e a Sud da questa stessa via che, dopo aver toccato alcune case private, raggiunge il corso dei Santi Cosma e Damia99 Quando si decise l’erezione a Catania del monastero San Nicola l’Arena, fu scelta in un primo momento l’area che sorgeva «in contrata SS. Cosmae et Damiani et S. Joannis lo Palumbaro» (GB, I, fol. 71v). A tal fine erano state acquistate dai rispettivi rettori e confraternite le due chiese con il permesso del vescovo Nicola Maria Caracciolo (Note 1557-1558, fol. 7v-8r). Ma quando si passò all’esecuzione del progetto «venit ingenierius missus a prorege et quia erat fortilitium urbis in dicta contrata SS. Cosmae etc., fuit facta procuratio ad comparendum coram vicerege pro eligendo loca di lo Parchio et de la Cipriana cum domibus et locis circumcirca» (GB, I, fol. 71v). Dopo il terremoto del 1693 il monastero fu ricostruito in un primo momento nel quartiere Montevergine (V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., II, 515), ma «agnoscentes postmodum Rev.mus P. Abbas et Rev.di monaci ipsius ven. monasterii situm predictum in quo edificatum fuit post terremotum predictum ven. monasterium fuisse nimis angustum et pro nonnullis aliis causis et condignis respectibus eque animum digne moventibus quamobrem deliberaverunt monasterium predictum iterum riedificare et construere prout ad praesens reperitur riedificatum et censtructum in antiquiori situ ubi erat ante terremotus» (ASD, San Nicola l’Arena: vertenza col monastero della SS. Trinità, 1737-1740; M. GAUDIOSO, L’abbazia di San Nicolò l’Arena, cit., 236-238). I locali di Montevergine nel 1769 furono ceduti al Conservatorio delle Vergini mendicanti (TA 1769-1770, fol. 279v). 100 Gli storici catanesi non ci forniscono dati sull’origine della chiesa San Nicola dell’Oliva, che dovrebbe essere molto antica. La troviamo nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 944, p. 73). Nel 1446 è annessa alle prebende della collegiata (doc. cit., fol. 99v). Dalle Visite del 1540 risulta avere la cura delle anime. Annessa a questa chiesa si trovava la Casa degli orfani fondata dal viceré Giovanni de Vega nel 1550. Nel 1566 alcune monache del soppresso monastero della Santissima Trinità cedettero alla Casa degli orfani il vecchio monastero, che sorgeva sulla via Luminaria e si trasferirono nella chiesa San Nicola dell’Oliva e nei locali annessi. Da allora la chiesa fu chiamata della Santissima Trinità (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 176; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 214).

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no e le mura della città all’altezza dell’oratorio di San Giovanni Battista; a Ovest il tratto delle mura che dal bastione San Giovanni101, va fino alla porta dell’Arcora102. Dentro i suoi confini troviamo le chiese: Santi Cosma e Damiano con l’annessa cappella della Consolazione103, San Giovanni Battista lu Palummaru104, Sant’Agostino con l’annesso convento105, Santa 101 Il baluardo prese il nome della vicina chiesa di San Giovanni Battista lu Palummaru; era uno dei pochi che era stato portato a compimento nell’opera di fortificazione della città (R. PENNISI, Le mura, cit., 128). 102 Questa porta non doveva essere fra le più importanti; non la troviamo infatti nella pianta del Mortier e nelle altre carte più recenti che danno delle indicazioni sulla topografia della città prima del 1693. Ma di essa ci danno notizia gli Atti dei Giurati del 1493 (M. GAUDIOSO, La comunità ebraica di Catania nei secoli XIV e XV, Catania 1974, 24-25) e altri documenti dei secoli seguenti: atti del notaio Vincenzo Pennise del 1593: «Contrata Januae Judaicae» (GB, II, fol. 153v); atti del notaio Arcidiacono del 1621: accordo fra il senato e il monastero di San Nicola l’Arena «circa clavem portae aperiendae del Arcora pro fabrica monasterii» (GB, I, fol. 21v). In alcuni documenti del ’300 leggiamo che la porta veniva denominata anche «di Paternò» e la contrada «Santa Lucia e Porta di Paternò» (M. L. GANGEMI, Il tabulario del monastero, cit., 119-122). 103 Nei documenti antichi troviamo due chiese dedicate ai Santi Cosma e Damiano: una fuori le mura, sede di una confraternita di disciplinanti (Visite 1428), l’altra dentro le mura alla quale era annessa una cappella dedicata a «Santa Maria de Consolatione» (TA 1527-1528, fol. 57v-58r). Sull’origine di quest’ultima il Privitera, seguito dal Policastro, ci forniscono una data poco attendibile: 1557 (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 208; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 205). Meraviglia che il Policastro l’abbia accettata, sia pure con riserva, senza badare che la chiesa doveva essere anteriore al 1556, se è citata nella costitutio del Caracciolo. Quasi certamente sorgeva nel sito attuale o poco distante, perché nei documenti la contrada veniva chiamata: «S.ti Joannis Palumbarii seu SS. Cosmae et Damiani» (GB, I, fol. 57r; Note 1557-1558, fol. 7v-8r). 104 La chiesa San Giovanni Battista di lu Palummaru sorgeva sul bastione che da essa prendeva il nome; è ben visibile nella stampa del Mortier con il suo alto campanile in cui nidificavano le colombe (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 206-207). Non conosciamo l’anno della sua fondazione. Nel 1543 vi fu istituita la confraternita detta «degli Honorati o degli Azoli» con il compito di assistere i condannati a morte (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 181; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 203). 105 Sulla venuta degli agostiniani a Catania vedi supra Introduzione, 6.4. Negli storici catanesi troviamo notizie contrastanti. Il De Grossis afferma: «vetustior coenobii huius primordia designans notitia in annum 1384 consignatur, quo item tempore fr. Joannes Crisafi priore agebat» (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 156). Il Privitera crede che si tratti dell’anno di fondazione (F. PRIVITERA, Annuario, cit.,

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Maria Maggiore106; il monastero Santa Lucia107; le contrade: Giudecca Suprana108, Pozzo d’Ugolino109.

10. SANTA MARINA La chiesa di Santa Marina110 sorgeva di fronte alla chiesa di San 161-162) e in questa svista è seguito dal Policastro (Catania prima del 1693, cit., 177). Che abbia ragione il De Grossis lo dimostra il regesto dei diplomi pubblicato da C. Ardizzone (I diplomi esistenti, cit., n. 188, p. 111; n. 307, p. 158-159), dove si accenna a una chiesa dedicata a Sant’Agostino negli anni 1328 e 1342. 106 Non siamo in grado di stabilire l’ubicazione di questa chiesa, edificata all’inizio del secolo XV da una confraternita «de disciplina mulierum» (Visite 1428). In un documento del 1415 si legge: «Ecclesia Sanctae Mariae Maioris prope monasterium S.tae Luciae» (TA 1405-1419, fol. 79r). Nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 troviamo una chiesa con lo stesso titolo (n. 926, p. 72). Non sappiamo se le due chiese devono essere identificate. Non era raro il caso che una confraternita possedesse due chiese, una dentro e una fuori le mura o che costruisse una nuova chiesa riprendendo un vecchio titolo. 107 Il monastero benedettino femminile Santa Lucia era stato fondato da Adelasia nel 1158 in Adrano. Ma fin dal 1277 le monache avevano ottenuto dal vescovo Angelo Boccamazza la chiesa di Santa Margherita come punto di riferimento per la città di Catania (vedi nota n. 89). Nel 1282 dallo stesso vescovo ottennero di costruire un monastero a Catania in contrata «Pertusi de portu» (ASA, Monastero Santa Lucia, Fondatione, traslatione, unioni et altrae, Suor Maria Pollicino, 1663, n. 12). Non sappiamo se si riferisce a questo monastero la testimonianza di un diploma del 1324 (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 165, p. 102). Il De Grossis parla di un trasferimento delle monache a Catania «prope templum D. Mariae de Tindaro» solo nel 1410; il monastero fu ricavato dai locali del fondaco «del Corvo» (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 174-175). 108 M. Gaudioso (La comunità ebraica, cit., 21-34) da un’espressione di un documento del 1404 sostiene che la Giudecca Superiore da «Santa Marina a munti» abbracciava i quartieri a Nord-Ovest della città compresi fra il bastione del Vescovo, il bastione del Tindaro e quelli di San Giovanni e di Sant’Euplio. Non sappiamo se in realtà la Giudecca Superiore avesse un’estensione così ampia. È certo che il punto di espansione degli ebrei nella città era stato il quartiere di Santa Marina, nelle cui vicinanze sorgeva la sinagoga grande (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 207-211). Anche dopo l’espulsione degli Ebrei dalla Sicilia (1492) nell’uso comune si conservarono i vecchi toponimi: «Judeca suprana, porta Judaicae, Judeca de jusu...». 109 La contrada veniva chiamata «Putei de Ugolino, Putei de Gulino» (atti del notaio Girolamo Colle del 1500, GB, I, fol. 39v) e si trovava nell’area dell’attuale via Pozzo Molino (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 205 e 211). 110 Gli storici catanesi non ci dicono nulla sull’origine di questa chiesa. La tro-

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Nicola dell’Oliva111, al centro del quartiere che segnava il limite fra la «Judeca de susu» e la «Judeca de jusu». Abbiamo pochi punti di riferimento per determinare la sua circoscrizione. La linea di confine partiva dalla chiesa dei Santi Cosma e Damiano, toccava il negozio di un aromatario per congiungersi alle mura della città presso la chiesa e il bastione di Sant’Euplio112. La sua circoscrizione comprendeva: le chiese di Sant’Euplio113

viamo nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 943, p. 73). Dalle Visite del 1540 risulta che era sacramentale. Il De Grossis afferma che la chiesa di Santa Marina deve essere identificata con quella di Sant’Anna dei Casalini (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 104-105). Ma questo può essere vero solo se riferito ai tempi a lui vicini. La chiesa di Sant’Anna dei Casalini o dei Carri sorgeva più a Sud ed era ancora aperta al culto nel 1515 (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 212). Tuttavia le contrade alle quali le due chiese davano il nome erano contigue. Leggiamo infatti in un atto del notaio A. Covello del 1489: «Contrata S.tae Marinae seu S.tae Annae de li Carri» (GB, I, fol. 1r; II, fol. 42v). 111 F. PRIVITERA, Annuario, cit., 214; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 211-212). 112 Il baluardo prendeva il nome dalla chiesa di Sant’Euplio; non sappiamo se era quella che sorgeva fuori le mura o se invece era quella che si trovava sulle mura, quasi a ridosso dello stesso baluardo (vedi nota n. 113). 113 Dai documenti antichi risulta l’esistenza di due chiese dedicata a Sant’Euplio, nel linguaggio popolare storpiato in Sant’Opulo: una fuori le mura della città, l’altra sul bastione omonimo. La prima è molto più antica e di essa abbiamo diverse testimonianze. La troviamo nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 945, p. 73) e in un diploma del 1392, con cui il re Martino I concede al monastero Santa Maria di Nuovaluce alcuni immobili: «vineam unam aliam cum viridario dictam Sanctu Opulu in dicto territorio Cathaniensi prope ecclesiam eiusdem sancti Opuli via publica mediante» (G. L. BARBIERI, Beneficia Ecclesiastica, cit., I, 183). In un altro documento del 1506 troviamo elementi più precisi per stabilire la sua ubicazione: «clausura posita in contrata di lu muru ruttu secus ecclesiam Sancti Opuli extra menia ex parte occidentis ortum dicti benefici, ex parte orientis viam publicam et altri confini» (ASD, Benefici: Burgio de Usina). La seconda chiesa, invece, originariamente era dedicata a San Giovanni Evangelista e comunemente veniva chiamata San Giovanni alla Giudecca. Nel 1486 cambiò il titolo in quello di Sant’Euplio. Leggiamo in un documento del 1497: «Ecclesia Sancti Johannis Evangelistae nominata ad presens “Sanctu Opulu d’intra” sita et posita in contrada Judaicae superioris» (TA 1497-1499, fol. 17v; cfr.: I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 183; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 184; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 213).

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e San Calogero114; il monastero benedettino femminile Santa Maria del Soccorso115.

11. SAN PIETRO La chiesa di San Pietro116 deve essere identificata con l’attuale Santa Maria dell’Aiuto e si trovava a ridosso delle mura della città. Non è possibile determinare i suoi confini perché gli unici punti di riferimento sono costituiti da case private. Nella sua circoscrizione sorgevano le chiese: Santa Maria della Misericordia117, San Giovanni Battista118, San Giacomo de Casale114 Non sappiamo nulla sulla chiesa di San Calogero, che dava il nome a una contrada, come leggiamo in un atto del notaio G. Colle del 1500: «In contrata S.ti Caloyeri seu Sanctae Mariae de Succursus» (GB, I, fol. 39v). Nel 1553 era aperta al culto e fu nominato come rettore il sacerdote Blandano de Jurlando (TA 1553-1554, fol. 70r). 115 Non conosciamo l’anno di fondazione della chiesa e del monastero Santa Maria del Soccorso, che in seguito sarà soppresso dal vescovo Giovanni Domenico Rebiba. Nel 1598 le clarisse del monastero di San Girolamo si trasferirono dalla contrada Judicello nei locali di questo monastero, che da allora sarà chiamato San Girolamo (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 178; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 225-226). Sorgeva vicino la chiesa di Santa Marina, tra l’attuale cortile San Girolamo e la chiesa Santa Maria della Palma (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 189). Leggiamo in un atto del notaio Trupia del 1555: «Contrata S.tae Mariae Succursus de Casalenis» (GB, I, fol. 97r) e in un atto del notaio G. Colle del 1500: «In contrata S.ti Caloyeri seu S.tae Mariae Succursus»; il Basile aggiunge tra parentesi: «Ad praesens monasteri S.ti Hieronimi» (GB, I, fol. 39v). 116 Dell’antica chiesa di San Pietro troviamo notizia nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 942, p. 73) e nella bolla di erezione del capitolo della collegiata del 1446 (doc. cit., fol. 99v). Dalle Visite del 1540 siamo informati che era una chiesa sacramentale. «L’anno 1641 a 3 di novembre detta chiesa fu decorata con l’immagine di N. Signora dell’Agiuto, trasportata dalla parte di fuori nella strada publica dove per la frequenza de miracoli alla pietosa devotione de confluenti fu condotta in detta chiesa con solennità... essendo anco io presente da figliolo» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 160). 117 La fondazione della chiesa Santa Maria della Misericordia è anteriore al 1458 (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 182). Era contigua alla chiesa di San Pietro (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 215). 118 Non sappiamo quando fu fondata la chiesa di San Giovanni Battista che sorgeva al piano della Misericordia, cioè nell’attuale via San Giovanni. Nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 troviamo una chiesa intitolata a San Giovanni

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nis119, Sant’Anna de Casalenis120, Santa Maria la Raccomandata121, San Pantaleone e San Benedetto lo Vecchio122; la contrada piano dei Carri123. Battista de Casalenis n. 932, p. 73), potrebbe essere questa o l’altra detta San Giovanni Lu Palummaru. Nel 1640 la confraternita degli Onorati, che era stata fondata nel 1543 nella chiesa di San Giovanni Battista lu Palummaru, si trasferì in questa chiesa «per esser la prima fuori del habitato e in questa più frequentata la devotione del santo precursore da fratelli e populi» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 204). Da correggere G. Policastro (Catania prima del 1693, cit., 217) quando riferisce la data di questo trasferimento. La chiesa fu ricostruita dopo il terremoto del 1693 (G. RASÀ NAPOLI, Guida breve, cit., 242-245) e fino all’ultima guerra era ancora aperta al culto. 119 Della chiesa San Giacomo de Casalenis fanno menzione le Visite del 1540. Anch’essa sorgeva nel piano della Misericordia (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 212). Dopo il terremoto fu riedificata; le sue strutture esterne sono ancora visibili accanto all’attuale chiesa di Santa Maria dell’Aiuto; ma è adibita ad altri usi. 120 Abbiamo già fatto cenno di questa chiesa nella nota n. 110 parlando di Santa Marina. 121 Il monastero benedettino femminile con l’annessa chiesa dedicata a Santa Maria della Raccomandata o di Valverde era stato fondato nel 1382 da Federico Spampinato «su l’antiche fabriche di un palazzo reale, nel contorno sopra al monastero della Santissima Trinità» e soppresso nel 1537 dal vescovo Nicola Maria Caracciolo (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 161). Leggiamo in un atto del notaio A. Covello del 1497: «Contrata Sanctae Annae seu Sanctae Mariae Recomendatae» (GB, II, fol. 50r). Perciò questa chiesa dovrebbe rientrare nei confini della chiesa sacramentale San Pietro più che in quella di Santa Marina. 122 Secondo G. Policastro (Catania prima del 1693, cit., 214-215) una cappella gentilizia dedicata a San Pantaleone sorgeva dentro il cortile delle case Platamone. Era stata fondata da Alemanna Russo moglie di Giacomo Camuglia. Ma poiché non indica la fonte da cui ha attinto questa notizia, né l’anno a cui si riferisce, non sappiamo se si tratta della stessa chiesa che risulta dalle Visite del 1540 e che dava il nome a una contrada. Leggiamo in un atto del notaio Trupia del 1592: «Contrata S.tae Marinae seu S.ti Pantaleonis» (GB, I, fol. 81r). Detta chiesa sorgeva certamente nell’attuale cortile San Pantaleone, vicino ai ruderi dell’antico foro della città romana (A. HOLM, Catania antica, cit., 48-49). Il Libertini dal tipico nome bizantino di questo santo, avanza l’ipotesi di un’antica chiesa risalente a quel periodo (G. LIBERTINI, Catania nell’età bizantina, cit., 255). Sull’ubicazione della chiesa San Benedetto lo Vecchio abbiamo notizie contrastanti. Secondo il De Grossis e il Privitera sorgeva fuori le mura della città, vicino la porta del Re (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 154; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 157). Ma ne troviamo un’altra con lo stesso titolo al piano dei Carri (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 111) e dava il nome a una contrada: «Contrata S.ti Benedicti Veteris seu Plani Curruum» (notaio G. Santacroce, 1503, GB, I, fol. 27r). Quasi certamente si tratta di due chiese distinte con lo stesso titolo: una dentro e l’altra fuori le mura; caso non raro in quel tempo, come abbiamo costatato per altre chiese. 123 Possiamo ubicare la contrada piano dei Carri dinanzi alla chiesa di San

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12. SAN LORENZO La chiesa di San Lorenzo124 sorgeva nel luogo in cui oggi si trova la chiesa di Santa Chiara, con la facciata rivolta verso l’attuale via Castello Ursino. Anche per la sua circoscrizione dobbiamo ripetere quanto abbiamo detto per la precedente chiesa sacramentale: la maggior parte dei punti di riferimento sono costituiti da case private; solo da due lati abbiamo degli elementi noti che ci permettono di determinare così i confini: a Sud-Est la linea che va dalla piazza San Filippo al castello Pietro, che perciò veniva chiamata anche San Pietro dei Carri. Non condividiamo l’opinione del Policastro che l’identifica con la strada di Santa Marina, perché in un documento della curia trova l’espressione «piano delli Carri seu strada di Santa Marina» (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 212 e 227, nota 10). È evidente l’equivoco in cui cade: ritiene che il seu indichi sempre identificazione fra due contrade. (L’equivoco è ancor più evidente quando, in un’altra parte del suo volume, giunse a identificare la porta di Aci con la «posterna» San Michele: ibid., p. 25). Nella maggior parte dei casi il seu serve solo a precisare meglio con un altro toponimo l’ubicazione di un immobile: il primo indica una contrada più grande o più nota, il secondo un quartiere di essa o una contrada vicina. Infatti per la contrada piano dei Carri nei documenti del tempo troviamo diverse suddivisioni: «Plani Carruum seu Sanctae Mariae Misericordiae» (notaio G. Santacroce, 1503, GB, I, fol. 27r); «plani Carruum seu Spiritus Santelli» (notaio Trupia, 1549, GB, I, fol. 105r). Qualche volta la troviamo come specificazione di altre contrade: «Contrata Sanctae Marinae seu Sanctae Annae di li Carri» (notaio A. Covello, 1489, GB, I, fol. 1r). 124 G. Policastro (Catania prima del 1693, cit., 217), riferendo un dato desunto dalle Visite del 1555, afferma che la chiesa di San Lorenzo (non si sa perché lo chiama protomartire) fu fondata nel 1101. Di essa troviamo menzione nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 951, p. 74) e nelle Visite del 1428, dalle quali risulta che era sacramentale. Nel 1446 fu annessa alle prebende della collegiata (doc. cit., fol. 99v). Nel 1563 vi fu annesso il monastero delle clarisse e da allora la chiesa prese il nome di Santa Chiara. La contrada conserverà ancora per qualche tempo il nome di San Lorenzo: «Contrata S.ti Laurentii seu S.tae Clarae» (1595, GB, I, fol. 59r). 125 La porta della Decima, fra le più antiche della città, era contigua all’attuale chiesa di San Giuseppe al Transito. Costituiva per Catania un punto nevralgico di comunicazione per il traffico proveniente dalla piana e dal mezzogiorno della Sicilia. Era così chiamata perché vi erano annessi i magazzini della decima del vescovo. Anticamente veniva chiamata anche porta della Naumachia, perché dava l’accesso al luogo in cui si svolgevano delle finte guerre marittime per l’esercizio dei giovani (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 110; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 38). 126 I due bastioni costituivano la difesa esterna del castello Ursino, che diventa-

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Ursino; a sud-Ovest: le mura della città, che comprendono la porta della Decima125 e i bastioni San Giorgio e Santa Croce126. Nella circoscrizione di questa chiesa sacramentale sono comprese: le chiese: San Sebastiano127 e Spirito Santo128; il castello Ursino129; la contrada Pozzo de l’Albani130. va in tal modo una piccola cittadella dentro la quale il presidio poteva tentare le ultime difese ad oltranza. Il bastione di San Giorgio prendeva il nome dal santo a cui era dedicata la cappella del castello (V. CASAGRANDI, Nuove ricerche, cit.; ID., Il castello Ursino di Catania nel sec. XVII, in ASSO 2 [1905] 203-215; R. PENNISI, Le mura, 114-115). 127 Secondo il De Grossis la chiesa di San Sebastiano sorse nel luogo in cui i domenicani avevano costruito nel 1313 il loro primo convento, vicino al castello Ursino; convento che re Martino I fece distruggere perché di pregiudizio al castello (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 134-135). Il Privitera afferma che la chiesa fu edificata assieme al convento e fu risparmiata dalla distruzione. Ma sembra che faccia una grande confusione nel trascrivere le notizie desunte dal De Grossis (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 169). In un atto del notaio Nicola Covello del 1515 leggiamo: «In contrata Castri Ursini seu S.ti Sebastiani» (GB, I, fol. 52r). 128 La chiesa dello Spirito Santo, «intus civitatem» o Spirito Santello era stata eretta nel 1402 da Elisabetta la Ripa (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 169). Per stabilire la sua ubicazione dobbiamo coordinare diversi elementi che troviamo nei documenti e negli storici. Il Privitera afferma che sorgeva «nel contorno della Porta Media» e vicino all’Amenano, perché nel 1598 le Clarisse del monastero San Girolamo, che avevano il monastero «nel contorno della chiesa detta dello Spiritusantello» furono costrette a trasferirsi altrove «per l’intemperie causate dall’acqua di Judicello» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 225). Però in un atto del notaio Trupia del 1549 leggiamo: «Contrata plani Curruum seu Spiritus Santelli» (GB, I, fol. 105r). Perciò probabilmente la chiesa sorgeva a Sud del Teatro, vicino la chiesa di San Lorenzo. Al tempo in cui scriveva il Privitera, la chiesa aveva bisogno dell’«acconcio del tetto diruto per la celebratione della S. Messa» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 169). 129 Il castello Ursino fu edificato per ordine di Federico II dal praepositus aedificiorum Riccardo da Lentini nel 1239, nel piano generale di difesa del regno di Sicilia (V. CASAGRANDI, La fondazione del castello Ursino di Catania [1239-1240], in ASSO 4 [1907] 109-115; ID., Il castello Ursino, cit.). Per spiegare il suo nome sono state fatte diverse ipotesi più o meno fondate (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 139-140; V. CASAGRANDI, Nuove ricerche sulla fondazione, cit.). Ma resta ancora oscuro (W. COHN, L’età degli Hohenstaufen in Sicilia, a cura di G. Libertini, Catania 1932, 234). 130 La contrada Pozzo de l’Albani si trova a Sud della Porta di Mezzo e ad Est di San Pantaleone. Leggiamo infatti in un atto del notaio A. Covello del 1489: «Contrata Putei Albani seu Januae de Medio» (GB, I, fol. 2r) e in un altro dello stesso notaio del 1498: «Contrata Putei de l’Albani secus hortum S.ti Pantaleonis ex meridie» (GB, II, fol. 56v). Il Privitera per indicare il luogo in cui fu fondato il monastero San Benedetto nel 1334 scrive: «Nelli contorni tra le chiese della B. Vergine della Raccomandata e San Pantaleone nel sito detto il Pozzo dell’Albani» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 155).

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13. SAN FILIPPO La chiesa di San Filippo131 sorgeva vicino alla piazza omonima. La sua circoscrizione, assieme a quella delle altre chiese sacramentali vicine alla piazza Grande, abbracciava gran parte del quartiere in cui avevano sede le attività commerciali e artigianali132. Possiamo determinare così i suoi confini: ad Ovest la via che dal castello Ursino raggiungeva la stessa chiesa di San Filippo, il Teatro e la via del convento di Sant’Agostino; a Nord la via che scendeva fino al monastero di San Benedetto (l’attuale via Teatro Greco); a Est la via che fra il monastero San Benedetto e le case di Vincenzo Gravina133, scendeva davanti la chiesa di San Francesco, il piano dell’Erba134 e la porta dei Canali; a Sud le mura della città dal bastione Santa Croce. Nella sua circoscrizione si trovavano: il Teatro (detto impropriamente greco135) e l’Odèon136; le contrade: Porta della Conzaria137, 131 Il De Grossis come notizia più antica sulla chiesa dell’apostolo San Filippo ci dà quella della bolla di erezione della collegiata (doc. cit., fol. 99v), nella quale è annessa alle prebende dei canonici (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 104). Ma di essa troviamo menzione nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 932, p. 73) e nelle Visite del 1428, dalle quali risulta che era una chiesa parrochialis. La chiesa fu ricostruita dopo il terremoto del 1693 dal vescovo Andrea Riggio; esisteva ancora all’inizio del secolo scorso sull’attuale via Auteri, nel sito in cui è stata costruita una scuola elementare (G. RASÀ NAPOLI, Guida breve, cit., 98-100). 132 Lo stesso De Grossis ci informa che da questa chiesa prendeva nome il vicino mercato alimentare: «a cuius nomine denominationem sortitur eduliorum, quod illi conterminat emporium» (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 104). Il mercato è rimasto ancora oggi, anche se limitato al quartiere contiguo, che ha conservato il nome antico di «Piscaria» (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 109 [1304], p. 79-80; n. 343 [1346], p. 175). 133 Il palazzo Gravina, uno dei più grandi e ricchi di Catania, sorgeva nell’attuale piazza San Francesco. Più volte aveva ospitato i viceré ed altre autorità del regno (Cronaca siciliana, cit., 185). 134 Il piano dell’Erba era la sede del mercato ortofrutticolo e sorgeva nella zona compresa fra l’attuale piazza Mazzini e la piazza San Francesco. Su questa piazza nel 1341 era stata edificata la curia del capitano di giustizia (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 290 [1341], p. 151-152; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 219). 135 Il Teatro è di origine romana. Si ha notizia dell’esistenza di un teatro greco a Catania nel secolo V a. C. (G. LIBERTINI, La topografia di Catania antica, cit., 53-68), ma di esso non si è trovata traccia. Può anche darsi che il Teatro romano sia stato edificato sulle rovine del Teatro greco. Fino al tempo dei normanni l’edificio doveva essere

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l’Astrachello138, Chianellari139, Macello inferiore140, Malcucinato141, Bordelli142, Piscaria143, Gammazita144, Cinturari145, Judicello146, la parte

ben conservato. Il conte Ruggero tolse le colonne e il rivestimento marmoreo e se ne servì nella costruzione della cattedrale. Nelle absidi superstiti sono ancora visibili i conci di pietra lavica con i segni di un precedente uso. Sugli avanzi del teatro si costruirono man mano delle case private, che solo recentemente sono state distrutte per riportare alla luce quel che resta del monumento. Volgarmente il Teatro veniva chiamato anche «Colosseo» o «Goliseo» (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., II, 12-14; A. HOLM, Catania antica, cit., 42-45). 136 Vicino al Teatro maggiore e unito ad esso dalla parte occidentale se ne trova un altro più piccolo: l’Odèon. «Non di rado si trovano nelle città greche e romane due teatri vicini l’uno all’altro; perché quello più piccolo meritasse il nome di Odèo doveva essere ricoperto, il che può essere avvenuto nell’edificio catanese. Come il Teatro, anch’esso si apriva verso Sud ed oggi non ne resta che la cavea» (A. HOLM, Catania antica, cit., 45; cfr. I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., II, 12-14). 137 Contrariamente a quanto leggiamo in una nota dell’articolo di Rosario Pennisi (Le mura, cit., 121), la porta della Conzaria non deve essere confusa con la cortina delli Consari di cui scrive l’ing. Lucadello nella sua relazione del 1621. Questa si trovava accanto alla porta dei Canali, vicino alla darsena del porto Saraceno, mentre la prima deve essere collocata sotto il bastione Santa Croce, come del resto si può dedurre dal documento del secolo XV Rettore del bosco, cit., e dalla Cronaca siciliana, cit., 187: «Si incomencsao la cortina innanti la porta di la vuchiria seu di la concsaria chi pigliava di lu bastiuni sucta lu castellu» (cfr. anche G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 39-40 e la documentazione riportata). La contrada si estendeva al di qua e al di là delle mura. Leggiamo in un atto del notaio A. Covello del 1489: «Venditio medietatis tenimenti domorum... in contrata Portae Conciariae secus moenia ex parte meridie» (GB, II, fol. 44v) e in un altro dello stesso notaio del 1489: «Concessio apotecae in contrata Conciariae prope portam Conciariae extra moenia» (GB, II, fol. 45r). 138 Questa contrada ci ricorda la presenza di un piccolo terrazzo molto noto nel quartiere; sorgeva nell’ambito di porta della Conzaria. Leggiamo in un atto del notaio G. Santacroce del 1492: «Contrata Astrachelli seu Portae Conciarii» (GB, I, fol. 26v). 139 Questo toponimo indicava diversi quartieri della città, anche se non molto distanti fra loro. Il primo si trovava vicino la porta della Conzaria. Leggiamo infatti in un atto del notaio Trupia del 1574: «Contrata di li Chianellari seu porta della Conzaria» (GB, I, fol. 71v). Il secondo doveva trovarsi vicino alla porta dei Canali, come si può dedurre dal documento del secolo XV che abbiamo già riportato: «La porta di lu macellu oy buccina maiuri sulamenti e passa chianando in la ditta cittade per la posterna di la biviratura grandi et ancora per la porta di la fontana di li canali e va per la retta via di li chianillari e la maior ecclesia...» (Rettore del bosco, cit.). 140 Allontanandosi dalla porta della Conzaria e inoltrandosi verso la città si incontrava dopo la contrada dei Chianellari quella del Macello inferiore. Leggiamo

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centrale delle contrade Giudecca inferiore147 e Porta di Mezzo148, Porticatello149, Grotte di Sant’Agostino, di San Pantaleone e di Sant’Agrippina150, lo Stritto151. in un atto del notaio Santacroce del 1501: «Concessio apotecae in Macello inferiore seu Planellariorum» (GB, I, fol. 27v). 141 La contrada Malcucinato era ubicata fra la chiesa San Filippo, la Piscaria e il Macello. Di esse troviamo menzione in alcuni diplomi del 1348 e del 1360 (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 395, p. 194 e n. 403, p. 197). Leggiamo in un documento tratto dall’archivio della curia degli anni 1496-1512: «Contrata S.ti Philippi seu Malcoquinati (GB, I, fol. 46v) e in un atto del notaio Trupia del 1561: «Contrata Malcoquinati seu Piscariae» (GB, I, fol. 69r; cfr. G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 39 e 218; M. GAUDIOSO, La comunità ebraica, cit., 26). 142 Fra la contrada Malcucinato, la piazza dell’Erba e la Piscaria c’era l’altra contrada detta «dei Bordelli» o «Postriboli» come si può riscontrare in alcuni diplomi del 1304 e del 1360 (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 109, p. 79, n. 533, p. 250). È probabile che il meretricio venisse esercitato in qualcuna delle tante taverne del quartiere. «Nella seconda metà del quattrocento il lupanare di Catania era in rovina e le meretrici non abitavano in luogo appartato, sibbene in diversi punti della città, sicché per decorationem et magna utilitati et commodo di questa, si vide la necessità di edificare il postribolo... Fu per questo che, invocando il decoro della città, un tal magnificus Antonius Di Varresio catanese, chiese al Senato {cioè ai giurati} della città la concessione del privilegio di costruire un postribolo, nel quale e non in altro, dovesse essere esercitato il meretricio mediante il pagamento della pigione. E i Giurati ben volentieri concessero il 21 aprile 1487 il privilegio, che il 31 dello stesso mese fu confermato dal viceré» (M. CATALANO, Di alcuni documenti inediti riguardanti la storia del mal costume in Sicilia, in ASSO 1 [1904] 342). 143 Abbiamo già fatto cenno di questa contrada nelle note n. 131 e 139. 144 Per il Pennisi è di evidente origine bizantina (ma è probabile che sia arabo) il nome «Gammazita » con cui si indicava un tratto della cortina vicino la porta dei Canali e una fonte d’acqua posta sotto le mura, che nel 1620 sarà raccolta e sistemata da Don Francesco Lanario duca di Carpignano (R. PENNISI, Le mura, cit., 120; F. MARLETTA, La vita e la cultura catanese ai tempi di Don Francesco Lanario [sec. XVIII], in ASSO 27 [1931] 228-240). Con questo nome si indicava anche una contrada: «In contrata Gemmae citae» (1559, GB, I, fol. 57r). 145 La contrada era contigua a quella di Gammazita, come si deduce da un atto del notaio A. Covello del 1491: «In contrata di li Centurari seu Gemme citae» (GB, II, fol. 78r). 146 Judicello era chiamato il fiume Amenano perché correva allo scoperto nel cuore della Giudecca inferiore. D’estate era fonte di pestilenze che più volte decimarono la comunità ebraica (M. GAUDIOSO, La questione demaniale, cit., 18). Confinava ad Ovest con la contrada Porta di Mezzo, come si deduce da diversi documenti: «Contrata Portae de Medio seu Judicelli» (notaio Santacroce, 1499-1509, GB, I, fol. 27r); «contrata Judicelli seu Januae de Medio» (1496-1512, GB, I, fol. 46v).

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14. SANTA CATERINA La chiesa di Santa Caterina152 era ubicata nel luogo in cui oggi sorge la chiesa di San Martino ai Bianchi, a fianco del cosiddetto arco di Marcello153, crollato con il terremoto del 1693.

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Il nucleo centrale della Giudecca inferiore era costituito dalla sinagoga piccola che sorgeva vicino al piano dell’Erba, molto probabilmente all’incrocio fra l’attuale vicolo degli Angeli e via Sant’Anna, presso l’Amenano o Judicello (M. GAUDIOSO, La comunità ebraica, cit., 27). La contrada della Giudecca inferiore era molto estesa: andava dalla chiesa di Santa Marina, alla porta di Mezzo, alla piazza Grande, alla piazza della Fiera, alla Malfitania... (M. GAUDIOSO, La questione demaniale, cit., 19-21; ID., La comunità ebraica, cit., 26-27). Leggiamo in molti atti notarili del tempo: «Contrata Judaicae inferioris seu verius Malfitaniae» (notaio A. Covello, 1492, GB, II, fol. 72r); «in contrata Judaicae inferioris seu in platea Magna» (14961512, GB, I, fol. 47v); «in contrata Porticatelli seu Judaicae inferioris» (notaio A. Covello 1498, GB, II, fol. 55r); «contrata Judaicae inferioris in frontespitio fori lunaris» (Note 1555, 23 maggio, in GB, I, fol. 56v). 148 Secondo gli antichi storici catanesi la contrada Porta di Mezzo ricordava una triste pagina della vita di Catania medioevale. Federico II nel 1232 aveva ordinato la distruzione della città e il massacro dei cittadini. Ma in seguito a un intervento prodigioso, revocò quest’ordine. Volle però che i catanesi passassero sotto un simbolico giogo formato da due spade appese a una porta costruita in mezzo alla città, nel vicolo stretto del quartiere in cui sarebbe stato edificato il convento e la chiesa di Sant’Agostino. In memoria della grazia concessa dall’imperatore, i catanesi edificarono sul luogo un’edicola dedicata alla Madonna delle Grazie (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., II, 47-61; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 140). Ma l’episodio sembra tutt’altro che storico (V. CASAGRANDI, La fondazione del castello Ursino, cit., 109-115). La contrada era molto estesa; perciò nei documenti troviamo diverse specificazioni: «Contrata Putei Albani seu Januae de Medio» (notaio A. Covello, 1489, GB, I, fol. 2r); «contrata Portae de Medio seu Judicelli» (notaio Santacroce, 1499-1509, GB, I, fol. 27r); «contrata Januae de Medio seu S.ti Augustini» (1496-1512, GB, I, fol. 48r). 149 Non siamo in grado di stabilire l’ubicazione di questa contrada che viene indicata come una specificazione della Giudecca inferiore: «Contrata Porticatelli seu Judaicae inferioris» (notaio A. Covello, 1498, GB, I, fol. 3r; 1498, GB, II, fol. 55r). 150 «Grotte» erano chiamati i ruderi del Teatro e di antiche costruzioni romane che si trovavano nella zona compresa fra la chiesa di San Francesco, di Sant’Agostino e di San Pantaleone (A. HOLM, Catania antica, cit., 48; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 177). Leggiamo in un atto del notaio A. Covello (1496): «Contrata S.ti Francisci seu cryptarum S.tae Agrippinae» (GB, II, fol. 54r). La contrada probabilmente prendeva il nome dall’antica chiesa di Sant’Agrippina edificata da Euprezia ai tempi di Costantino, di cui parla il Libertini (G. LIBERTINI, La topografia di Catania antica, cit., 67).

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I suoi confini erano determinati a Sud e ad Ovest dalla linea che partendo dalla porta dai Canali, raggiungeva la piazza dell’Erba; a Nord dalla via che dopo il convento di San Francesco si dirigeva verso la piazza della Fiera; ad Est dalla via che da questa piazza raggiungeva la piazza Grande e la porta dei Canali. Rientrano nella sua circoscrizione: le chiese: San Francesco con l’annesso convento154, San Giovanni li Barrilari155, Santa Maria di Lo151

La contrada «di lo Stricto» era una specificazione della Porta di Mezzo; quasi certamente il nome le proveniva dal vicolo stretto in cui era stato collocato il giogo di cui alla nota n. 148. Leggiamo in un atto del notaio Trupia del 1563: «Contrata S.ti Augustini seu di lo Stricto» (GB, I, fol. 94v). 152 La chiesa di Santa Caterina era stata consacrata dal vescovo Maurizio il 18 agosto 1126, come si attestava in una lapide esistente ancora al tempo del De Grossis (Catanense, cit., I, 181). Di questa chiesa fanno menzione le Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 (n. 490, p. 3) e la bolla di erezione della collegiata (doc. cit., fol. 99v). Dalle Visite del 1540 risulta già sacramentale. Nel 1610 quando la chiesa di San Martino per l’edificazione del seminario fu distrutta, la confraternita dei Bianchi ebbe in cambio la chiesa di Santa Caterina come sede: «Purnondimanco l’arciconfraternita, memore delle sue primitive riunioni sotto il patrocinio di San Martino, ne celebra la festa annualmente e la chiesa ne ha preso il nome» (Capitoli dell’Arciconfraternita dei Bianchi, Catania 1854, 4). 153 L’arco che la tradizione diceva fosse stato eretto da Marcello dopo la conquista di Siracusa, è descritto dal De Grossis (Catanense, cit., II, 23-24). Gli autori moderni sono di parere diverso (A. HOLM, Catania antica, cit., 52). 154 Sulla venuta dei frati minori conventuali a Catania vedi supra Introduzione, 6.1. Il primo convento fu edificato nel 1256 accanto alla chiesa di San Michele Arcangelo nell’area del castello Ursino. In seguito ai disordini che travagliarono in quel periodo la Sicilia, il re Manfredi ordinò loro di allontanarsi per essere troppo vicini al castello e i francescani si trasferirono nella grangia dei benedettini di San Nicola l’Arena, posta fuori le mura della città. Ma i benedettini non potevano rinunziare per lungo tempo alla loro grangia e i francescani ottennero di fare ritorno nel primo convento del castello Ursino. Il convento fu edificato nel sito attuale nel 1274 (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 144-149; F. COSTA, San Francesco all’Immacolata di Catania, cit., 9-12.). Della chiesa di San Francesco si fa menzione in un diploma del 1342 (C. ARDIZZONE, I diplomi citati, cit., n. 307, 158-159). 155 La chiesa di San Giovanni Evangelista detta «delli Barrilari» deve essere distinta dall’altra che poi fu chiamata Sant’Euplio. Infatti la prima sorgeva nella contrada San Filippo, come leggiamo in un documento del 1508: «Ecclesia curata sub vocabulo S. Johannis li Varrilari sita et posita in civitate Cataniae in contrata S.ti Philippi erecta et fundata per illos magnificos di li Traversi» (TA 1508-1511, fol. 3r). La seconda sorgeva nel quartiere San Pietro li Carri. Lo stesso De Grossis scrive delle due chiese in modo distinto. Per la sua ubicazione c’è qualche difficoltà. Il Gaudioso

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rito156; la Loggia dei giurati157 e la porta dei Canali158; le contrade: l’Astraco159, Catinazzari160, Caudarari161, Corvisieri162.

la colloca al posto della chiesa Madonna della Lettera, che prima dell’ultima guerra fa sorgeva nella via omonima, ad angolo con l’attuale via Vittorio Emanuele. A sostegno di questa tesi si ha un documento del notaio Francaviglia del 1416 in cui si legge: «Contrata Judicelli seu Sanati Johannis de Barrilaris» e la testimonianza del De Grossis e del Privitera che identificano questa chiesa con quella che più tardi sarà chiamata Santi Apostoli Simone e Giuda e diventerà la sede della confraternita Madonna della Lettera (M. GAUDIOSO, La comunità ebraica, cit., 30-31, nota 13; I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 169; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 158). 156 La chiesa dedicata alla Madonna di Loreto sorgeva al posto dell’attuale San Giuseppe al Duomo. Si sconosce la sua origine. Il De Grossis seguito dal Privitera afferma di trovarla nella bolla di erezione della collegiata, annessa alle prebende dei canonici; ma nella copia che si trova nell’Archivio Vaticano non c’è alcun cenno di questa chiesa (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 184; F. PRIVITERA, Annuario, cit., 188). 157 Il palazzo civico, detto comunemente Loggia dei Giurati, di forma quadrata, sorgeva al centro della piazza Grande. I lavori per la sua ricostruzione erano finiti nel 1508. Nel lato di tramontana su di una loggetta era stato collocato l’elefante di pietra che oggi si trova al centro della piazza (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., II, 6164; F. PRIVITERA , Annuario, cit., 194-196; G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit., 95-96; M. GAUDIOSO, Origini e vicende, cit.). 158 La porta era chiamata «dei Canali» perché aveva all’interno un abbeveratoio con sette canali (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 13-14). Si trova ancora oggi un po’ ad Ovest della porta Uzeda, nel cuore dell’attuale «Piscaria» 159 Sulla contrata l’Astraco, che prendeva il nome da qualche terrazzo particolarmente noto, abbiamo una testimonianza del notaio A. Covello: «Contrata S.tae Catharinae seu Astrachi» 1493, GB, II, fol. 52v; 1493, GB, I, fol. 2v; cfr. G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit.,144). 160 Contrata S.tae Catharinae seu di li Catinazzari (atto del notaio Trupia del 1573, GB, I, fol. 83r). 161 Sulla contrada «de li Caudarari» abbiamo due testimonianze tardive e contrastanti. In un atto del notaio Arcidiacono del 1616 leggiamo: «Contrata S.tae Catharinae seu di li Caudarari» (GB, I, fol. 18v). G. Policastro (Catania prima del 1693, cit., 113) fa riferimento a un atto del notaio Lanzerotto del 1584, che cita una contrada «delli Caudarari» vicina all’ospedale San Giovanni li Freri. 162 La contrada in cui operavano i calzolai veniva denominata «Corbisaria grandi»; partendo dalla piazza Grande, continuava verso la chiesa Santa Maria dell’Elemosina e toccava probabilmente anche le circoscrizioni delle chiese sacramentali San Martino e della collegiata (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, cit.,66). Non sappiamo se aveva attinenza a questa contrada la «Posterna de Corbisaria», cioè la piccola porta che si apriva sulle mura della città, alla quale fa riferimento un documento del 1351 (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 438, p. 210).

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15. CHIESE E CONVENTI POSTI FUORI LE MURA DELLA CITTÀ Nella costitutio del Caracciolo solo per la chiesa sacramentale Santa Anna dei Triscini si accenna alle abitazioni che si trovavano fuori le mura della città, oltre la porta di Aci. Probabilmente si intendeva far riferimento alle case che sorgevano lungo la strada della Concordia e vicino al convento di San Domenico. Forse era solamente questa la zona più sicura per vivere fuori le mura. Volendo completare le indicazioni per un orientamento di massima nella topografia di Catania nel secolo XVI, diamo qualche cenno sui conventi e chiese principali che sorgevano al di fuori della cinta muraria. Iniziando da Est e proseguendo verso Ovest incontriamo: a) la chiesa di San Francesco di Paola con l’annesso convento dei minimi163. Sorgeva nello stesso luogo in cui si trova attualmente. Nel convento, dopo la soppressione degli ordini religiosi del 1866 e la confisca dei beni ecclesiastici, si stabilì una caserma della Guardia di Finanza. b) La chiesa dell’Annunziata con l’annesso convento del Car164 mine . Sorgeva nello stesso sito in cui oggi si trova. Nel piano circo163 «...In anno predicto {1527} vinniro certi frati di l’ordini di Sancto Francisco di Paula, dicto di Jesu Maria in la cita di Catania per hedificari lu conventu di l’ordini predicto... et tandem xendendo circum circa dicta cità eligero lo oratorio di Sancto Honofrio di l’ordine di la disciplina... Et nota qualiter in anno predicto de mense marcii die vero XIX mensis eiusdem lu jornu di lu gloriusu sancto Josep si designao lu locu et ecclesia di Sancto Francisco di Paola in dicto oratorio di Sancto Honofrio et incomencsaro ad murari lu dormitorio et tuctavia si murava, erachi grandi devocioni et visita maxime lu venniri» (Cronaca siciliana, cit., 96-97). Il De Grossis, che afferma di aver consultato l’archivio del convento, indica date diverse. I frati vennero a Catania nel 1523 e fu loro concesso in uso l’oratorio di Sant’Onofrio; nel 1526 con il contributo di Raimondo Cicala fu edificato il convento (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 161-162). 164 Sulla venuta dei carmelitani a Catania vedi supra Introduzione 6.3. Sulla data di fondazione della chiesa e del convento del Carmine G. Policastro (Catania prima del 1693, cit., 23) scrive che la chiesa era stata fondata nel 1004 durante la dominazione saracena; ma si tratta di una notizia priva di fondamento. Gli storici del XVI secolo riportano la tradizione che riconosce la regina Costanza come fondatrice della chiesa e del convento sul finire del secolo XII e agli inizi del secolo XIII (I. B. DE GROSSIS, Catanense, cit., I, 157-158). Ma anche questa notizia non è documentata (Catania sacra 1972, cit., 133-134). G. L. Barbieri, facendo riferimento a una bolla di Paolo II del 1467, scrive che il convento fu fondato da re Martino e completato da

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stante, chiamato «Santa Maria la Grotta» si trovavano le due antiche chiese Santa Maria la Grotta e Santa Maria di Betlem165. c) Santa Maria della Concordia166, che sorgeva nell’attuale incrocio fra la via Sant’Euplio e il viale Regina Margherita. Dava il nome alla strada che dalla porta di Aci conduceva ai casali del bosco etneo. Sancez Roiz de Liori (G. L. BARBIERI, Beneficia ecclesiastica, cit., II, 19). Ma quasi certamente la bolla si rifaceva ai lavori di ampliamento e di restauro fatti eseguire dai re Martino I e II. Della chiesa Santa Maria del Carmelo troviamo menzione in un diploma del 1340 (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 393, p. 193). 165 La tradizione fa risalire queste due chiese ai primi secoli del cristianesimo. Santa Maria di Betlem sarebbe stata fondata dal vescovo s. Everio nel 262. Anche Santa Maria la Grotta rimonterebbe al III secolo. A riprova di questa tesi si indica la presenza di un altare costruito con grandi blocchi di pietra levigata, che si trova nella cripta sotterranea dell’attuale chiesa San Gaetano alle Grotte. Ma si tratta di affermazioni difficilmente documentabili (I. B. DE GROSSIS, Catana sacra, cit., 14; V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., I, 305; S. ROMEO, Sant’Agata, cit., 182-183; A. HOLM, Catania antica, cit., nota del Libertini, p. 22; Catania sacra 1972, cit., 134135). Non tutti ritengono che si tratta di due chiese distinte. Il Casagrandi sostiene che Santa Maria la Grotta e Santa Maria di Betlem siano due nomi diversi per indicare l’antica cattedrale di Catania che custodì per diverso tempo il corpo di s. Agata (V. CASAGRANDI, La Grotta di Santa Maria di Betlem, cit.), non tenendo conto che la città romana non comprendeva la zona in cui sorgeva questa chiesa e che la cattedrale non poteva essere eretta fuori dal centro abitato. L’autore della Cronaca siciliana ci dà qualche elemento valido per risolvere queste incertezze. Raccontando i disordini che si ebbero a Catania nel 1517 al tempo del viceré Ugo de Moncada, descrive lo scontro fra i fuorusciti e il conte di Adernò. «Li innimichi» venendo da Aci, si erano fermati al «convento di la Nunciata» e un gruppo di essi uscì verso «lo chiano di la Virgini di la Gructa». Dopo un breve combattimento in cui il conte di Adernò restò ferito, i fuorusciti tentarono di entrare nella città «vinendo per sina a la ecclesia di santa Maria di Badalecti». Gli autori che curarono l’edizione della Cronaca, poco pratici della topografia di Catania, trascrissero male il nome della chiesa e in una nota confessano: «Non ci è riuscito d’identificare questa località e di trovar memoria della chiesa di S. Maria di Bedalecti» (Cronaca siciliana, cit., 33-34). Ma nel manoscritto originale che si conserva nella Biblioteca Civica di Catania, si legge: «Santa Maria di Bedaleni» e non è difficile notare la storpiatura popolare di «Santa Maria di Betlem». Tenendo conto di questa testimonianza, si può concludere che la chiesa dedicata alla «Virgini di la Gructa» era distinta da quella dedicata a Santa Maria di Betlem. 166 Sappiamo poco sull’origine di questa chiesa. Il Privitera scrive che anticamente era intitolata a San Giovanni Battista e ci riporta una lapide del 1500 in cui il sacerdote Giovanni di Silvestre ricordava ai posteri di aver edificato a sue spese la porta della chiesa. Lo stesso autore afferma di aver visto un quadro del 1200, che dovrebbe testimoniare per l’antichità della chiesa. Non sappiamo fino a che punto sia

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d) Santa Maria degli Angeli e l’annesso convento dei Cappuccini a Cìfali167. e) San Domenico con l’annesso convento nel piano Santa Maria la Grande168. accettabile questa ipotesi (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 198). In un atto del notaio Pietro de Medico del 1446 troviamo che la chiesa della Concordia dava il nome a una contrada che era contigua a quella di San Nicola li Furchi (nella zona dell’attuale San Nicola al Borgo): «Contrata S.ti Nicolai seu S.tae Mariae Concordiae» (GB, I, fol. 12r). Nel 1637 la chiesa fu ceduta ai mercedari e da allora fu chiamata anche Santa Maria della Mercede. Nel 1882, con l’apertura dell’attuale viale Regina Margherita, la chiesa fu distrutta e ricostruita in via Caronda (Catania sacra 1972, cit., 142). Dell’antica chiesa della Concordia è rimasta memoria nella cappella omonima esistente in via Sant’Euplio, costruita tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, a spese dei proprietari del palazzo al quale era annessa l’antica chiesa. 167 I cappuccini erano venuti per la prima volta a Catania nel 1537: «In anno undecime indictionis 1537... in la cita di Catania vinniro certi frati di la observantia et primo ordini di santo Francisco, chiamati scappuccini et happiro uno loco fora di la dieta cita in la turri chiamata di Specsiali chi donao lo magnifico Ingotterra la Valli et incomencsaro a fabricari et costruiri lu conventu de mense marcii anni predicti» (Cronaca siciliana, cit., 143). Lo stesso cronista ci informa che il convento nel 1552 fu distrutto per ordine del viceré Giovanni de Vega nei lavori di fortificazione della città: «per non essiri contrario a la cità et fu noviter edificato in la contrata di Chifili» (p. 144). Il convento con la chiesa Santa Maria degli Angeli esiste ancora (proprietà Scuderi). La chiesa Santa Maria degli Angeli edificata dai cappuccini a Cìfali non deve essere confusa, come fa il Privitera (Annuario, cit., 202), con la grangia benedettina omonima a «li muri antiqui», nel bosco di Catania (G. PISTORIO, Il priorato di San Giacomo, cit., 19-22). Oltre al convento di Cìfali troviamo i cappuccini nella chiesa Santa Maria della Speranza, vicino la porta di Aci. 168 Sulla venuta a Catania dei frati dell’ordine di San Domenico vedi supra Introduzione 6.2. Il primo convento era attiguo alla chiesa di San Sebastiano al castello Ursino. Nel 1396, in seguito alla condanna del vescovo domenicano Simone Del Pozzo da parte di re Martino I, il convento fu distrutto, perché ritenuto pericoloso per la sicurezza del castello Ursino. I domenicani in un primo tempo ebbero le case di Blasco di Alagona, vicino la chiesa di Santa Maria della Rotonda; ma, avendo bisogno di quiete e di tranquillità, si trasferirono verso il 1420 in un dormitorio attiguo alla chiesa di Santa Maria la Grande. Non conosciamo l’origine di questa chiesa, che sorgeva fuori le mura della città; di essa troviamo menzione in un diploma del 1342 (C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti, cit., n. 298, p. 154-155). Nelle Visite del 1428 la chiesa viene già indicata anche con il nome di San Domenico: «S. Mariae la Grandi seu S.ti Dominici». Ottenuta la chiesa, i domenicani avevano bisogno del terreno necessario per costruire il convento. Per l’interessamento di Pietro di Geremia, l’ottennero dai benedettini, che a fianco della chiesa Santa Maria la Grande avevano la grangia del Salvatore. Il contratto fu stipulato il 1° dicembre 1443 dal notaio Gregu-

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f) Santa Maria di Gesù e il convento dei Frati Minori169. g) Santa Maria di Nuovaluce, fondata come certosa sulla collina contigua all’attuale cimitero e divenuta successivamente abbazia benedettina170.

zio (I. B. DE GROSSIS , Catanense, cit., I, 134-136; M. GAUDIOSO, L’abbazia di San Nicolò l’Arena, cit., 210; V. CASAGRANDI, Di taluni fondatori, cit.). 169 La chiesa sotto il titolo di Santa Maria della Pietà era molto antica. Nel 1442 fu affidata ai frati minori francescani, che nel 1465 costruirono il convento. «Nella fondazione l’imposero li sacri nomi di Maria e Giesù in conformità che godevano più conventi dell’osservanza, portata in Sicilia dal B. Matteo di Giorgenti... discepolo del P. Bernardino, quali propalarono il santo nome di Giesù nelli cuori dei fedeli» (F. PRIVITERA, Annuario, cit., 191; Catania sacra 1972, cit., 145). 170 L’iniziativa di erigere una certosa nel 1370 fu presa da Artale Alagona, giustiziere del regno, negli anni in cui egli esercitava il maggior peso politico e poteva essere considerato il signore di Catania. Nel luogo da lui scelto esisteva già la chiesa Santa Maria di Nuovaluce, costruita secondo la tradizione dopo il terremoto del 4 febbraio 1169. I cittadini superstiti erano stati invitati da una voce a cercare rifugio su una collina, in cui apparve una luce. Nel luogo in cui fu rinvenuta un’icona fu costruita una piccola chiesa, che i catanesi visitavano in particolare il sabato e il 15 agosto. I certosini rimasero a Catania appena un decennio, perché nel 1381, a causa della malaria, ma soprattutto a motivo dello scisma d’Occidente, rientrarono in Francia. L’edificio fu affidato ai benedettini, che vi istituirono l’abbazia omonima. L’istituto monastico ben presto manifestò segni di decadenza e nel 1475 fu dato in commenda. Nel secolo XVII ai benedettini subentrarono i carmelitani scalzi e poi gli agostiniani. L’edificio crollò con il terremoto del 1693 e non fu più ricostruito come istituto religioso; i suoi ruderi sono ancora visibili sulla collina contigua al cimitero. Dopo il terremoto gli agostiniani preferirono edificare un nuovo convento e una nuova chiesa, intitolati a Santa Maria di Nuovaluce, all’interno della città di Catania, nell’attuale piazza del Teatro Massimo. Questi stessi edifici furono demoliti nel 1926 e nella loro area fu costruita la sede dell’Intendenza di Finanza (A. LONGHITANO, Santa Maria di Nuovaluce, cit.

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BIBLIOGRAFIA

FONTI

1) Inedite a) Archivio storico diocesano, Catania Arcidiaconato. Benefici. Chiese sacramentali. Editti. Episcopato Nava. Episcopato Patanè. Informationes. Lettere Mons. Cutelli. Miscellanea atti diversi. Miscellanea chiese sacramentali. Miscellanea Collegiata. Monastero Sant’Orsola. Note. Registrum Litterarum. San Nicola l’Arena. Suppliche. Tutt’Atti. Tutt’Atti in corso di visita. Verbali di visite con inventari.

b) Archivio del Capitolo cattedrale, Catania De traslatione divae Agathae et alia. Giuliana Basile. 339


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Liber Prioratus. Miscellanea del canonico Vito Coco. Pergamene. Rettore del bosco e suoi benefici e dogana e suoi diritti. Volume di lettere per la lite del maestro cappellano col maestro cerimoniere della cattedrale.

c) Archivio della Collegiata Santa Maria dell’Elemosina, Catania Necrologium. Hic adnotantur nomina et cognomina defunctorum huius insignis Regiae Basilicae Collegiatae.

d) Archivio del Seminario Arcivescovile, Catania La fondazione del Seminario di Catania. Monastero Santa Lucia: Fondatione, traslatione, unioni et altrae, Suor Maria Pollicino, anno 1663.

e) Archivio della Chiesa madre, Regalbuto Scritture della chiesa madre.

f) Archivio di Stato, Catania Archivio Gioeni.

g) Archivio di Stato, Palermo Atti Tribunale Regia Monarchia. Protonotaro del Regno. Real Cancelleria. Tribunale del Real Patrimonio.

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h) Archivio Segreto Vaticano Archivio Concistoriale. Acta Camerarii. Archivio Concistoriale. Acta Miscellanea. Armadio XXXVII. Armadio XLII. Armadio XLIV. Concilio 123. Concilio 135. Decreta S. C. Concilii (Libri Decretorum S. C. Concilii). Registri Lateranensi 586. Registri Lateranensi 1873. Registri Vaticani 378. S. Congregatio Concilii. Libri litterarum. S. Congregatio Concilii. Positiones. Segreteria dei Brevi, Registra. Segreteria di Stato, Napoli. Segreteria di Stato, PrĂŹncipi.

i) Biblioteca Apostolica Vaticana Urbinate Latino: avvisi di Roma, 1039.

l) Biblioteca Civica, Catania Manoscritto A 21.

m) Biblioteca del Seminario Arcivescovile, Monreale Raccolta di lettere pastorali diverse, editti ed omelie di Mons. Testa.

2) Edite AMATO

DI

MONTECASSINO, Storia de’ Normanni. Volgarizzazione in 341


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antico francese, a cura di V. De Bartolomeis, in Fonti per la storia d’Italia, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 1935. AMICO V. M., Catana illustrata, sive sacra et civilis urbis Catanae historia a prima eiusdem origine in praesens usque deducta ac per annales digesta, 4 voll., Ex typographia Simonis Trento, Ex typographia Joachim Pulejo, Catanae 1740-1746. ID., Siciliae sacrae libri quarti integra pars secunda reliquas abbatiarum ordinis S. Benedicti quae in Pirro desiderantur notitias complectens, Catanae 17332. ARDIZZONE C., I diplomi esistenti nella Biblioteca comunale ai Benedettini. Regesto, Catania 1927. Atti delle conferenze dell’episcopato siciliano: 1891-1916, Catania 1916. BARBIERI G. L., Beneficia ecclesiastica, a cura di I. Peri, 2 voll., Manfredi, Palermo 1963. BENEDETTO DA MANTOVA, Il beneficio di Cristo, con le versioni del secolo XVI, documenti e testimonianze, a cura di S. Caponetto, Sansoni – The New Berry Library, Firenze – Chicago 1972. Bollettino Ecclesiastico dell’Archidiocesi di Catania, dal 1895. BONADIES M. A., Decreta in principe dioecesana synodo, quam Ill.mus et Rev.mus Dominus Fr. D. Michael Angelus Bonadies Episcopus Catanensis... celebravit Catanae die 12 et 13 maii 1668..., In palatio Episcopali, apud Josephum Bisagni, Catanae 1668. BRAUN G. – HOGENBERG F., Civitates orbis terrarum, V, apud Godefridum Kempensem, Coloniae Agrippinae 1575. CAGLIOLA PH., Almae Siciliensis provinciae ordinis minorum conventualium S. Francisci manifestationes novissimae…, a cura di F. Rotolo, Officina di Studi Medievali, Palermo 1984. Capitoli dell’Arciconfraternita dei Bianchi, Catania 1854. Capitula Regni Siciliae, quae ad hodiernum diem lata sunt, edita cura eiusdem Regni deputatorum, a cura di F. Testa, 2 voll., Excudebat A. Felicella, Panormi 1741.

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COCO V., Collectio monumentorum quae ad tutanda Ecclesiae Catanensis iura eruit ex locis authenticis Vitus Coco eiusdem Ecclesiae canonicus, Ex typ. Caietani Bentivegna, Panormi 1776. Codicis iuris canonici fontes, a cura di P. Gasparri, 9 voll., Romae 1923-1939. Collectanea nonnullorum privilegiorum et aliorum spectantium ad Ecclesiam Catanensem eiusque ministros, ex archiviis publicis desumpta, iussu Ill.mi et Rev.mi D.ni Fr. Michaelis Angeli Bonadies Episcopi Catanensis..., In typographia Bisagni, Catanae 1682 et iterum 1792. Conciliorum oecumenicorum decreta, Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 19733. Concilium plenarium siculum Panormi 1920 habitum Caietano cardinali De Lai episcopo sabinensi Summi Pontificis Benedicti XV legato a latere praeside, Romae 1921. Concilium Tridentinum. Diariorum, actorum, epistolarum, tractatuum nova collectio, 13 voll., Ed. Societas Goerresiana, Herder, Friburgi Brisgoviae 1901-2001. Constitutiones Regni Siciliae, in J. L. A. Huillard BrĂŠholles, Historia diplomatica Friderici Secundi, tomus IV, pars I, Plon, Parisiis 1854. Cronaca siciliana del secolo XVI, ora per la prima volta stampata a cura di V. Epifanio e A. Gulli, dal codice della Biblioteca Comunale di Catania, Stab. Tip. VirzĂŹ, Palermo 1902. CUSA S., I diplomi greci ed arabi di Sicilia pubblicati nel testo originale, 2 voll., Stab. Tip. Lao, Palermo 1868. DE CIOCCHIS J. A., Sacrae regiae visitationis per Siciliam a Caroli III Regi iussu acta decretaque omnia, 3 voll., Ex typis Diarii Literarii, Palermo 1836. DE GROSSIS I. B., Catana sacra, sive de episcopis catanensibus rebusque ab iis praeclare gestis a Christianae Religionis exordio ad nostram usque aetatem..., In aedibus Illustrissimi Senatus, Ex typographia Vincentii Petronii, Catanae 1654. ID., Catanense decachordum, sive novissima sacra Catanen. Ecclesiae

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notitia quae tunc ecclesiasticae, tunc saecularis catanensis politiae status universus scriptorum calamis vel intactus, vel intectus, intente signatur, intentius propugnatur, 2 voll., In aedibus Illustrissimi Senatus, Typis Ioannis Rossi, Catanae 1642-1647. DI LORENZO S., Laureati e baccellieri dell’Università di Catania. Il fondo «Tutt’Atti» dell’Archivio Storico Diocesano (1449-1571), Giunti, Firenze – Studio Teologico San Paolo, Catania 2005. FODALE S., Documenti del pontificato di Bonifacio IX (1389-1404), Ila Palma, Palermo 1983. FRANCHINA A., Breve rapporto del tribunale della SS. Inquisizione di Sicilia, Antonio Epiro, Panormi 1744. FRANCICA NAVA J., Synodus dioecesana catanensis ab Em.mo ac Rev.mo Josepho Francica Nava archiepiscopo celebrata anno MCMXVII, Catanae 1818. GALLO A., Codice ecclesiastico sicolo contenente le costituzioni, i capitoli del Regno, le sanzioni, le prammatiche, i reali dispacci, le leggi, i decreti, i reali rescritti ed altri documenti relativi alle materie del diritto ecclesiastico sicolo, dalla fondazione della monarchia siciliana sino a’ nostri giorni, 3 voll., Palermo 1846-1852. GANGEMI M. L., Il tabulario del monastero San Benedetto di Catania, Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo 1999. GARUFI C. A., Contributo alla storia dell’Inquisizione in Sicilia nei secoli XVI e XVII. Documenti degli archivi di Spagna, in Archivio Storico Siciliano, N. S., 38 (1913) 264-329; 39 (1914) 350-377; 40 (1915) 304-389; 41 (1916) 389-465; 42 (1917) 50-118; 43 (1920) 47-125. ID., I documenti inediti dell’epoca normanna in Sicilia, in Documenti per servire alla Storia di Sicilia, I serie, Diplomatica, vol. XVIII, Reber, Palermo 1899. GIUFFRIDA A., Il cartulario della famiglia Alagona di Sicilia. Documenti 1337-1386, Ila Palma, Palermo 1978. HUILLARD BRÉHOLLES A., Historia diplomatica Friderici Secundi, 7 voll., Parisiis 1852-1861.

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JAFFÉ PH., Regesta pontificum romanorum ab condita ecclesia ad annum post Christum natum 1196. Editionem secundam correctam et auctam... curaverunt S. Löwenfeld, F. Kaltenbrunner, P. Ewald, 2 voll., Veit et Comp., Lipsiae 1885-1888. LA MANTIA V., L’Inquisizione in Sicilia. Serie dei rilasciati al braccio secolare (1487-1732). Documenti su l’abolizione dell’Inquisizione (1782), Palermo 1904. Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania, a cura di A. Longhitano, I-II, Giunti, Firenze – Studio Teologico San Paolo, Catania 2009; III, Edizioni Grafiser, Troina – Studio Teologico San Paolo, Catania 2015. LONGHITANO A., Le costituzioni sinodali del vescovo di Catania Nicola Maria Caracciolo (1565), in Synaxis 12 (1994) 167-215. MALATERRA G., De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi fratris eius, a cura di E. Pontieri, in L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, V, Zanichelli, Bologna 1928. MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, a cura di A. Giuffrida, Palermo 1980. MORTIER P., Nouveau theatre d’Italie, ou Description exacte de ses villes, palais, eglises, etc. et les cartes geographiques de toutes ses provinces... sur les desseins de feu monsieur Jean Blaeu, Amsterdam 1704. NICOLOSI GRASSI G. – LONGHITANO A., Catania e la sua Università nei secoli XV-XVII. Il codice «Studiorum constitutiones ac privilegia» del Capitolo cattedrale, Roma 20022. PIRRI R., Sicilia sacra... Editio tertia emendata et continuatione aucta, cura et studio S.T.D. D. Antonini Mongitore ...accessere additiones et notitiae abbatiarum ordinis sancti Benedicti, Cisterciensium et aliae quae desiderabantur auctore P. D. Vito Maria Amico..., 2 voll., Apud haeredes Petri Coppulae, Panormi 17333. SCIASCIA L., Pergamene siciliane dell’Archivio della Corona d’Aragona (1183-1347), Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo 1994. Pragmaticarum Regni Siciliae novissima collectio, Apud Decium Cyrillum, Panormi 1635, I, tit. LXXIX, prag. 1 e 22 (a. 1553).

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Pragmaticarum Regni Siciliae novissima collectio quas jussu Ferdinandi III Borboni nunc primum ad fidem authenticorum exemplarium in regiis tabulariis existentium recensuit Franciscus Paulus De Blasi et Angelo I. C. Panormitanus, 2 voll., Ex Regia Typographia, Panormi 1791-1793. Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Sicilia, a cura di P. Sella, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1944. Reali dispacci nelli quali si contengono le Sovrane Determinazioni de’ Punti Generali, o che servono di norma ad altri simili casi, nel Regno di Napoli, 1a parte: che riguarda lo Ecclesiastico, a cura di D. Gatta, I, tit. XXVIII, n. 7, § 1-187, 133, 138-141, Napoli 1773. SABBADINI R., Storia documentata della R. Università di Catania, Galatola, Catania 1898. SARPI P., Istoria del Concilio Tridentino, a cura di R. Pecchioli, 2 voll., Sansoni, Firenze 1966. SAVAGNONE F. G., Concili e sinodi di Sicilia, Palermo 1910. SCADUTO M., La vita religiosa in Sicilia secondo un memoriale inedito del 1563, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia 28 (1974) 563-581. Statuta et privilegia almae Universitatis Catanae, a cura di G. Nicolosi Grassi – A. Longhitano, Catania 2016. Thesaurus Resolutionum S. Congregationis Concilii, tom. CI, Romae 1841. TORRES OSSORIO J., Catanensis ecclesiae synodus dioecesana ab Illustrissimo et Reverendissimo Domino don Joanne De Torres Ossorio Episcopo celebrata, Typis Joannis Rossij et Francisci Fettoni, Militelli V. N. 1623. VILLABIANCA F. M. E., Della Sicilia nobile, 5 voll., Stamperia dei Santi Apostoli, Palermo 1754-1759.

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GIURISPRUDENZA Decisiones Rotae Romanae Francisci card. Mantica, a Germano Mantica... in lucem editae, Typis R. Camerae Apostolicae, Romae 1618. PITTONI J. B., Constitutiones pontificiae et romanarum Congregationum decisiones ad parochos utriusque cleri spectantes, Leonardus Pittonus, Venetiis 1737. Sacrae Rotae Romanae decisiones coram R. P. D. Alexandro Ludovisio, nunc Sanctissimo Domino Nostro Gregorio XV, Typis R. Camerae Apostolicae, Romae 1622. Sacrae Rotae Romanae decisionum recentiorum, pars XII, Apud Paulum Balleonium, Venetiis 1697. Sacrae Rotae Romanae decisionum recentiorum, partis XVIII, tomus II, Apud Paulum Balleonium, Venetiis 1697. Sacrae Rotae Romanae decisionum recentiorum, partis XIX, tomus II, Apud Paulum Balleonium, Venetiis 1703. Thesaurus resolutionum Sacrae Congregationis Concilii, tomus V., H. Mainardi, Urbini 1740; tomus CI, Ex typis R. Camerae Apostolicae, Romae 1841.

STUDI

1) Dizionari, enciclopedie, opere generali, repertori Bibliotheca Sanctorum, a cura dell’Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, 16 voll., Città Nuova Editrice, Roma 1961-2013. Dictionnaire de Droit Canonique, a cura di R. Naz, 7 voll., Letouzey et Ané, Paris 1935-1965. Digesto Italiano, 23 voll., UTET, Torino 1880-1884.

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Dizionario Biografico degli Italiani, 84 voll., Treccani, Roma 1960-2015. Dizionario degli Istituti di Perfezione, diretto da G. Pelliccia – G. Rocca, 10 voll., Edizioni Paoline, Roma 1974-2003. DU CANGE C., Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, 3 tom., Frankfurt {Main} 1710. Enciclopedia cattolica, 12 voll., Città del Vaticano {1949-1954}. FERRARIS L., Prompta bibliotheca canonica, iuridica, moralis, theologica, necnon ascetica, polemica, rubricistica, historica..., 8 voll, Migne, Lutetiae Parisiorum 1858. Hierarchia Catholica, a cura di G. Van Gulik, C. Eubel, P. Gauchat, R. Ritzler – P. Sefrin, Z. Pieta, 9 voll., Patavii 1960-2002. Novissimo Digesto Italiano, 20 voll., UTET, Torino 1968-1975. Nuovo Digesto Italiano, 12 voll., UTET, Torino 1937-1940. SPRETI V., Enciclopedia storico-nobiliare italiana, 10 voll., Milano 1928-1936. Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche e V. Martin, trad. it., 26 voll., 1973-2006.

SAIE, Torino

Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, trad. it., 10 voll., Jaca Book, Milano 1977-1995. Storia della Sicilia, diretta da R. Romeo, 10. voll., Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1979-1981. Storia delle Chiese di Sicilia, a cura di G. Zito, Città del Vaticano 2009.

2) Storia e diritto AGNELLO G., La basilichetta tricora del Salvatore a Catania, in Rivista di Archeologia Cristiana 13-14 (1947) 147-168.

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XIV...

operum

BERLIÈRE U., L’exercice du ministère paroissial par les moines dans le haut Moyen Age, in Revue Bénedictine, (1927) 227-250; L’exercise du ministère paroissial par les moines du XIIe au XVIIIe siecle, ibid., (1927) 340-364. BETHENCOURT MASSIEU A., Pilonaje o Patrimonialidad de los beneficios curados en Canarias, in Almogaren. Revista del Centro Teologico de Las Palmas (1992) 2, 157-176.

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urbano a Catania. Secoli

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DBI,

19, Roma 1976, 433-

CAFÀ M., Sulla «traslatio» di S. Agata da Costantinopoli, in Synaxis 26 (2008) 139-163. CALISSE C., Diritto ecclesiastico, Nuova edizione corretta ed ampliata, G. Barbera editore, Firenze 1903. CANTIMORI D., Il circolo di Juan Valdés e gli altri gruppi evangelici, in Umanesimo e religione nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1975, 193-203. ID., Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, Laterza, Bari 1960. ID., Riforma cattolica, in Studi di storia, II, Einaudi, Torino 1976, 537-553. CAPONETTO S., Buglio Leotta, in DBI, 11, Roma 1972, 19-20. ID., Benedetto da Mantova, in DBI, 8, Roma 1966, 437-441.

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ASSO

2 (1905)

ID., Il castello Ursino di Catania nel sec. XVII, in ASSO 2 (1905) 203-215. ID., Nuove ricerche sulla fondazione e sulla onomastica del castello Ursino di Catania nelle epoche romana, araba, normanna, in ASSO 1 (1904) 5-6. {CASELLI G.}, Le chiese ricettizie, in Il Diritto Ecclesiastico 1 (18901891) 575-589; 2 (1891-1892) 209-223. CASPAR E., Die Legatengewalt der normannisch-sicilischen Herrscher im 12. Jahrhundert, in Quellen und Forschungen aus italianischen Archiven und Biblioteken 7 (1904) 189-209. ID., Roger II (1101-1154) und die Gründung der normannisch-sicilischen Monarchie, Verlang der Wegner schen Universitats-Buchhandlug. Appendice: Die Grüdungsurkunden der sicilischen Bistümer und die Kirchenpolitik Graf Roger I (1082-1098), Innsbruck 1904. La traduzione italiana di questo volume, curata da Laterza nel 1999, non riporta l’appendice. CATALANO G., Studi sulla Legazia Apostolica di Sicilia, Parallelo, Reggio Calabria 1973.

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CATALANO M., Di taluni documenti inediti riguardanti la storia del mal costume in Sicilia, in ASSO 1 (1904) 341-354. ID., La fondazione e le prime vicende del collegio dei gesuiti in Catania (1556-1574), in ASSO 13 (1916) 34-80; 14 (1917) 145-186. ID., L’istruzione pubblica in Sicilia nel Rinascimento, Giannotta, Catania 1911. ID., L’Università di Catania nel Rinascimento (1434-1600), in Storia dell’Università di Catania dalle origini ai giorni nostri, Catania 1934. CATALANO S., Mascali: feudalità e demanialità, in La Contea di Mascali. Un lungo cammino per la riscoperta, Ed. Storia patria e cultura, Giarre 1996, 29-52. Catania sacra 1913. Stato del clero e delle opere religiose della città e della diocesi, Catania 1913. Catania sacra. Annuario diocesano 1972, a cura di G. Messina nella parte storica, Catania 1972. CAVALLARI G., La popolazione di Catania attraverso il tempo, Ufficio Statistica del comune, Catania 1948. CECCHETTI I. – PASCHINI P., Università, in Enciclopedia cattolica, XII, cit., 857-864. CHALANDON F., Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, 2 voll., Librairie A. Picard et fils, Paris 1907. Chiesa diritto e ordinamento della «Societas christiana» nei secoli XI e della nona Settimana interenazionale di studio. Mendola, 28 agosto – 2 settembre 1983, Vita e Pensiero, Milano 1986.

XII. Atti

Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna, I; I secoli XII-XVI, II; I secoli XVII-XIX, III, a cura di G. Zito, SEI, Torino 1995. CLAEYS BOUUAERT DDC, IV, 894-896.

E., Cure (l’office curiale et l’inamovibilité), in

Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Laterza, Bari 1992.

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INDICE ANALITICO: LUOGHI E COSE NOTEVOLI* Abate (famiglia), 35 Aci, 22, 44, 57, 98-99, 111, 136, 247, 285286, 335 — Bosco di Aci, 53, 70, 72, 75, 77, 80, 117, 216-218, 246-247, 249, 309 — Territorio di Aci, 38, 57, 65, 77, 80, 107, 202, 217 ACI AQUILIA (vedi Acireale) ACI BONACCORSI, 219, 250 — Chiesa madre: Santa Maria dell’Indirizzo, 219 — Chiese – Santa Maria della Consolazione, 219 – Santa Maria delle Grazie, 219 ACICASTELLO, 219, 250 — Castello di Aci, 22, 29, 72, 219, 279-280 — Chiese – San Mauro, 219 – Santa Maria, 72, 219 ACICATENA, 219, 235, 250 — Chiesa madre: Santa Maria della Catena, 219 – Collegiata, 235 — Chiese: – San Costantino delli Scarpi, 219 – Santa Lucia a Cubisia, 218 – – Collegiata, 235 – Santa Maria della Consolazione, 219 — Frazioni o quartieri – San Filippo di Carcina, 53, 71-72, 77, 83, 101, 218, 235

– – Collegiata, 235 ACIPLATANI (vedi Acireale) ACIREALE (già Aci Aquilia), 101, 218, 233, 235, 250, 256, 265 — Chiesa madre: Annunziata, 101, 218, 233 – Comunìa, poi collegiata, 233, 235 — Diocesi, 250, 256, 265 — Frazioni o quartieri – Aciplatani o Aci Patanei: Santa Maria del Carmine, 219 – Cavallari: Santa Caterina, 219 – Gambini: San Michele Arcangelo, 219 – Musumeci: Santa Maria dei Miracoli, 219 – San Giacomo, 219 – Santa Maria della Scala, 65 ACI SAN FILIPPO o San Filippo di Carcina (vedi Acicatena) ACI SANT’ANTONIO, 219, 250 — Sant’Antonio a Casalotto, 219 Adelasia (moglie del conte Ruggero), 61, 279, 286, 322 ADERNÒ (o Adrano), 74-75, 80-81, 9899, 103, 120, 139, 223, 285-286, 335 — Chiesa madre: Santa Maria, 74, 139 – Comunìa poi collegiata, 186, 235, 253, 258 – Erezione parrocchia, 258 – Erezione vicaria curata, 263

* Sono stati scritti in maiuscoletto i nomi dei comuni che nei secoli XVI-XIX appartenevano alla diocesi di Catania. Il toponimo «Catania» è stato inserito con un criterio qualitativo e non quantitativo.

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli — Chiese – San Filippo Apostolo – – Erezione vicaria curata, 263 – San Giuseppe – – Erezione vicaria curata, 263 – San Leonardo – – Erezione vicaria curata, 263 – San Pietro – – Erezione vicaria curata, 263 – Santa Lucia – – Erezione vicaria curata, 263 — Conte di Adernò, 98, 99, 335 — Conventi, monasteri..., femminili – Santa Lucia (benedettine), 70, 322 ADRANO (vedi Adernò) Adriano IV (papa), 21 Adriano VI (papa), 87, 101 Afán de Riviera Pedro (viceré di Napoli), 91 Africa, 299 AGIRA (vedi San Filippo d’Agira) Agrigento, 17, 22, 24, 79, 285-286 AIDONE, 74, 80, 102, 109, 119, 223, 227, 235, 249 — San Lorenzo, 74 – Collegiata, 235 — Conventi, monasteri..., maschili – del Carmine, 119 Aiello Ferdinando (sacerdote), 265 Aiello Giovanni (vescovo), 29 Alagona (famiglia), 35, 37-39, 43-45 Alagona Artale I, 37-38, 40-43, 55, 308, 337 Alagona Artale II, 33, 37, 43-44 Alagona Blasco, il Giovane, 37-38, 336 Alagona Blasco, il Vecchio, 37 Alagona Giacomo, 43-44 Alagona Manfredi, 37, 43-44 Alberto di Spanheim, 30 Alberto (vescovo di Taranto), 281 Aleandro Girolamo (cardinale), 87 Aleramici, 27 Alessandro VI (papa), 87 Alessio di Costantinopoli, 20

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Alfonso il Magnanimo, 27, 45, 46-50, 53, 55-57, 298 Alois (de) Juan Francisco, 90-91, 94, 105 Altamagna (de) Matteo (sacerdote), 121, 177 Altavilla Bartolomeo (giudice della regia curia), 315 Amalfitani, 27, 306 Anagni, 22, 283-284 Andrea da Paternò (monaco), 73 Angerio (abate, vescovo), 20-24, 26, 61-62, 243, 279, 283, 285 Angioini, 35-36, 39 Ansalone Guglielmo (vicario generale), 82, 138-139, 193 Ansalone Raimondo (canonico), 204 Ansalone Vincenzo (canonico), 204 Anselmo di Rodi (monaco), 130 Arabi, 27 Aragona, 35, 37, 42, 58 Aragonesi, 32-33, 35-37, 39, 42-45 Archifel Antonino (console), 149 Arcidiacono (ufficio e soppressione), 79, 82, 101, 103, 120, 129-136, 267 Arista Giovanni Battista (vescovo di Acireale), 256 Arnedo Giacomo (regio visitatore), 128 Aschetillum (arcidiacono), 130 Asmari Benedetto (priore di Sant’Agata), 127 Asmesto Paolo, 120 Asmundo (de) Gilberto (chierico), 7677 Assara Ioanfranco, 167 ASSORO, 74, 80, 143, 179, 186, 191, 223, 235, 249 — San Leone, 74 – Comunìa, poi collegiata, 186, 191, 235 Astalli Camillo (vescovo), 229, 233 Augusta, 42, 74 Augusta (de) Antonio (sacerdote), 65 Austria, 58


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli Aversa (de) Pietro (canonico), 201 Avignone, 40-41, 43, 55 Balistrario (de) Giuliano (sacerdote), 69 Balsamo (de) Blandano (canonico), 204 Barbuto Francesco (avvocato), 128 Barcellona — Cappella palazzo reale dedicata a s. Agata, 37 Bari (vescovo di), 22 BARRAFRANCA, 74, 80, 112, 249 — Santa Maria, 74 Basile Giovanni Battista (canonico), 306, 324 Basilea (concilio di), 56 BELPASSO (già MALPASSO), 218 — Chiesa madre: Santa Maria del Rosario, poi Immacolata Concezione di Maria, 218, 235 – Collegiata, 235, 253 – Erezione parrocchia, 263 — Contrade – Grifo, Rapisardi, 218 — Frazioni o quartieri – Santa Maria la Stella, poi Santa Maria della Guardia a Borrello, 218 – – Erezione parrocchia, 263 – Sant’Antonio Abate – – Erezione parrocchia, 263 Bellomo Guglielmo (vescovo), 63, 68, 71, 79 Benavert (vedi Ibn-el-Werd) Benedetto da Mantova o Fontanini (monaco), 93, 102 Benedetto XI (papa), 39 Benedetto XIII (papa), 239 Benedetto XIV (papa), 239 Bertolino (de) Nicola (monaco), 73 Bertuccio Francesco (console), 152 Betumen (vedi Ibn-at- Tumnah) Bezerra Giovanni (inquisitore), 108 BIANCAVILLA (già CALLÌCARI), 74, 223, 260-261, 263 — Chiesa madre: Santa Maria dell’Elemosina, 74

– Collegiata, 235, 260-261 – Erezione parrocchia, 260-261 – Erezione vicaria curata, 263 — Chiese – Maria SS. Annunziata – – Erezione vicaria curata, 263 – Santa Maria dell’Idria – – Erezione vicaria curata, 263 Bianco Nitto, 77 Bignami Luigi (vescovo di Siracusa), 256 Bisanzio (impero di), 16 Blundo Domenico S. J., 117 Boccamazza Angelo (vescovo), 32, 70, 318, 322 Bologna, 51, 295 Bonadies Michelangelo (vescovo), 225, 227-231, 233, 235, 248, 259, 309 — Sinodo diocesano, 225, 227-231 Bonaiuto (de) Alessandro, 103 Bonaiuto (de) Giovanni Battista (giurato), 99, 304 Bonifacio VIII (papa), 35 Bonifacio IX (papa), 33, 44 Branciforte Luigi (canonico), 202 Branciforte Ottavio (vescovo), 225 BRONTE, 250, 264 — Santissima Trinità – Parrocchia, 264 Bucolo Placido (canonico), 260 Buglio Giovanni Antonio, 101 Buglio Leotta (o Aliotta) (chierico), 101, 103 Buglio Simone, 289 Bulano (di) Girolamo (console), 152 Bulleone Leotta (vedi Buglio Leotta) Burgio (barone di), 101 Cagno (di) Vincenzo (sacerdote), 164 Caiazzo (vescovo di), 91 Calabria, 16, 20, 22, 279-281, 285 CALASCIBETTA, 74, 80, 186, 208, 223 — San Pietro, 74, 235 – Comunìa poi collegiata, 186, 235 Calcedonia (concilio di), 123 Calcerando (famiglia), 35

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli Calì Giacomo, 77 CALLÌCARI (vedi Biancavilla) Caltabellotta, 36, 141 Caltagirone, 249 Caltanissetta, 265 Calvello (famiglia), 35 Calvino Giovanni, 94 Camastra (duca di), (vedi Lanza Giuseppe, duca di Camastra) Campisano Girolamo (canonico), 204 Campochiaro Angelo (console), 57 CAMPOROTONDO {ETNEO} — Santa Maria Ammalati, poi Sant’Antonio Abate, 217 – Erezione parrocchia, 263 Camuglia Giacomo, 325 Canossa, 15-16 Cantarella Giovanni Battista, 77 Capocci Oddone (vedi Oddone Capocci) Capri (vescovo di), 213 Caracciolo (famiglia), 87 Caracciolo Ascanio, 137 Caracciolo Carlo, 137 Caracciolo Domizio, 87 Caracciolo Giovanni Battista, 87 Caracciolo Luigi (vescovo), 59, 87-88, 127 Caracciolo Marino (vescovo), 59, 87-88 Caracciolo Nicola Maria (vescovo), 59, 82, 87-191, 193-194, 202-204, 208, 214, 218, 242-243, 245, 258, 287, 296-298, 300, 304, 312, 314315, 320-321, 325, 334 — Aperto all’evangelismo, 90-94, 124 — Catechesi, 113-115 — Partecipa al concilio di Trento e lo attua, 142-144 — Prigionia e riscatto, 128, 136-142 — Progetta la riforma della cura d’anime, 120-124 — Programma pastorale, 99-136 — Riforma della cura d’anime a Catania, 145-160 — Riforma della cura d’anime a Piazza, 161-176

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— Riforma della cura d’anime negli altri centri della diocesi, 176-191 — Sinodo diocesano e costituzioni sinodali, 107, 109, 124-126 Caracciolo Scipione (vescovo), 59, 8788, 130 Carafa Francesco Antonio (vescovo), 235 Carissima (de) Giovanni, 308 Carlo I d’Angiò, 13, 31-32, 307 Carlo V, 59, 87-90, 97-98, 299, 304 Caselli Placido (canonico), 260 Caserta Antonino (console), 149 Castro (lo) Pietro (console), 152 CASTROGIOVANNI (o ENNA), 17, 22, 27, 31, 72, 80, 82-83, 117, 121-122, 131, 133, 139, 176, 208, 223, 227, 285-286 — Chiesa madre: Santa Maria, 72, 121-122, 124-125, 223, 227 – Collegiata, 235 — Chiese – San Bartolomeo, 72, 122, 177, 227 – San Biagio, 72, 121, 177, 227 – San Cataldo, 72, 177 – San Giorgio, 72, 121, 177 – San Giovanni, 72, 177, 227 – San Leonardo, 72, 177, 227 – San Leone, 72, 121, 227 – San Nicola, 72, 176-177 – San Pietro, 72, 176-177, 227 – San Tommaso, 72, 83, 121 – Santa Caterina, 72, 176-177 – Santissima Trinità, 72, 176177 — Cura delle anime, 176-177 – Parroci e parrocchie autonome, 227, 236 Castiglia, 58 Catalano Battista (console), 152 Catalano Matteo (chierico), 212 Catalogna, Catalani, 35, 37 CATANIA — Abitanti, 68-69 — Acquedotto romano, 318


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli — Amenano (o Judicello), 299, 327, 329-331 — Anfiteatro, 311 — Arco di Marcello, 331 — Bosco di Catania, 53, 70, 72, 75, 77, 80, 117, 216-217, 246-247, 309, 335-336 — Carceri, 302-306 — Casa di s. Agata, 300 — Castello Ursino, 30, 32-33, 38, 42, 44, 227, 291, 298, 326-328, 332, 336 — Cattedrale Sant’Agata, 19, 22, 26, 29, 32-33, 36-37, 39-40, 4647, 56, 58, 61-63, 65-69, 75, 114, 127, 141, 146, 158, 201, 227, 298, 306, 311, 313, 329 – Benefici de requie, 65-66 – Campanile vecchio e nuovo, 40, 306 – Capitolo dei canonici (monaci benedettini), 20, 22, 26-27, 29, 32-33, 36, 39-40, 46-47, 5257, 61, 63-66, 70, 124, 126130, 137-138, 159-160, 202 – – Arcidiacono (vedi supra) – – Conflitti con il vescovo, 27, 39, 46, 52 – – Cura delle anime, 62-65, 159, 222, 227, 232 – – Secolarizzazione del capitolo, 36, 100, 126-129, 135, 193 – Capitolo secolarizzato, 136, 202, 222, 243-244, 252, 266-267 – Cappellani sacramentali, 6265, 146, 222, 230, 246 – Opera grande o fabbriceria, 40, 46, 56, 95 – Opera piccola o sagrestia, 95 – Parrocchia unica della città, 67-69, 148-151, 153, 159, 225, 229, 232, 236, 243-244, 252, 287 — Cattedrale Sant’Agata la Vetere, 19, 313

— Cattedrale primitiva o Santa Maria, 19, 307, 313, 335 — Chiese – Annunziata o Carmine (vedi Catania/Conventi, monasteri..., maschili) – Collegiata (vedi Santa Maria dell’Elemosina) – Crocifisso della Buona Morte, 265 – Immacolata Concezione ai Minoritelli, 313, 315 – San Barnaba, 317-318 – San Benedetto (vedi Catania/Conventi, monasteri..., femminili) – San Benedetto lo Vecchio, 325 – San Berillo (al carcere di Sant’Agata), 313-314 – San Biagio ai Triscini, 310 – San Biagio extra muros, 232, 240, 311 – San Calogero, 324 – San Camillo, 314 – San Cataldo, 319 – San Costantino il Vecchio, 314 – San Costantino o dei Santi Elena e Costantino, 314 – San Cristoforo, 306 – San Demetrio, 314 – San Domenico, 336 – San Filippo, 53, 69, 227, 232, 240, 291, 313, 328, 330 – San Francesco Borgia, 315 – San Francesco d’Assisi, 307, 328, 332 – San Francesco di Paola, 334 – San Gaetano alla marina, 301 – San Gaetano alle grotte, 335 – San Giacomo al porto, 300 – San Giacomo de Casalenis, 232, 240, 316, 324-325 – San Giovanni alla Giudecca, 323

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli – San Giovanni Battista al piano della Misericordia, 324325 – San Giovanni Battista lu Palummaru, 290, 325 – San Giovanni de Casalenis, 316, 324-325 – San Giovanni de Unico, 69, 305 – San Giovanni li Barrilari, 332 – San Giovanni li Freri, 297, 312 – San Giuliano (vedi Catania/Conventi, monasteri..., femminili) – San Giuseppe al Duomo, 333 – San Giuseppe al Transito, 326 – San Gregorio, 16 – San Leonardo, 65 – San Lorenzo, 53, 69, 291, 326327 – San Marco (annessa all’ospedale), 65, 308 – San Martino ai Bianchi, 303, 330 – San Martino, 53, 69, 289, 302303, 312, 333 – San Michele ai Minoriti, 309 – San Michele Arcangelo (al castello Ursino), 32, 332 – San Michele, extra muros, 309, 311 – San Nicola al Borgo, 336 – San Nicola de Crissian, 308 – San Nicola de Puellis, 310 – San Nicola de Trixinis, 69, 297, 308-309, 312 – San Nicola dell’Oliva, 69, 157-158, 290, 313, 320, 323 – San Nicola l’Arena (vedi Catania/Conventi, monasteri..., maschili) – San Pantaleone, 325, 327 – San Pietro (al carcere di Sant’Agata), 313-314 – San Pietro dei Carri, 291, 324-326

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– San Placido (vedi Catania/Conventi, monasteri..., femminili) – San Sebastiano, 327, 336 – San Tommaso di Canterbury, 53, 69, 227, 240, 289, 297, 301302, 312 – Sant’Agata al Borgo, 232, 240, 265 – Sant’Agata al carcere, 313314 – Sant’Agata alla fornace, 310 – Sant’Agata la Vetere, 19, 54, 69, 289-290, 307, 312-313 – Sant’Agnese, 310 – Sant’Agostino, 290-291, 313, 318, 321-322, 331 – Sant’Agrippina, 331 – Sant’Andrea, 232, 240 – Sant’Anna de Casalenis o dei Carri, 316, 323, 325 – Sant’Anna de Trixinis, 53, 289, 309-310, 312, 334 – Sant’Euplio (extra moenia), 323 – Sant’Euplio (intra moenia), 323 – Sant’Euplio di Ognina, 240 – Sant’Ippolito, 310 – Sant’Onofrio, 334 – Sant’Opulo (vedi Sant’Euplio) – Sant’Orsola, 289, 297-298, 301 – Santa Barbara de Casalenis, 53, 69, 313, 316, 318-319 – Santa Barbara de Cìvita, 290, 307, 309-312 – Santa Caterina, 53, 69, 291, 302-303, 307, 331-332 – Santa Chiara, 326 – Santa Domenica di li Greci, 69, 300, 302 – Santa Lucia in Ognina, 269 – Santa Lucia, poi Annunziata, 34


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli – Santa Margherita, 53, 69, 227, 290, 313-314, 316, 318, 322 – Santa Maria degli Angeli (a Cìfali), 336 – Santa Maria degli Angeli, 290, 316, 319 – Santa Maria dei Malati (vedi Santa Maria dei Miracoli) – Santa Maria dei Martiri, 308 – Santa Maria dei Miracoli o dei Malati, 317-318 – Santa Maria del Carmelo (vedi Annunziata) – Santa Maria del Soccorso, 316 – Santa Maria del Tindaro (vedi Santa Maria di Tindari) – Santa Maria dell’Aiuto, 324325 – Santa Maria dell’Elemosina (collegiata), 69, 103, 158, 203, 210, 227, 232, 235, 240, 289, 302, 307-308, 310, 312-313, 333 – – Capitolo dei canonici, 47, 51-54, 65-68, 72, 77-78, 83, 96, 101, 160, 202-205, 209211, 214, 217, 221, 227, 231, 235, 243-244, 247-248, 297, 310, 312, 314-316, 318, 320, 324, 326, 328, 332-333 – – Cura delle anime, 67, 157, 202-205, 209-211, 214-215, 221, 227, 231-232, 243 – Santa Maria dell’Indirizzo, 227 – Santa Maria dell’Itria o Idria, 53, 69, 76, 78, 157-158, 227, 232, 240, 290, 314, 316 – Santa Maria della Concordia, 232, 240, 335-336 – Santa Maria della Consolazione, 240, 321 – Santa Maria della Dàgala, 227, 314 – Santa Maria della Lettera, 333

– Santa Maria della Mercede, 240, 336 – Santa Maria della Misericordia, 324 – Santa Maria della Palma, 324 – Santa Maria della Pietà, 337 – Santa Maria della Presentazione (vedi Santa Maria di Tindari) – Santa Maria della Raccomandata o di Valverde, 325, 327 – Santa Maria della Rotonda, 38, 53, 69, 314, 336 – Santa Maria della Scala, 314 – Santa Maria della Speranza, 336 – Santa Maria della Stella, 319 – Santa Maria delle Grazie (Porta di Mezzo), 331 – Santa Maria delle Grazie a Cìfali, 232, 240 – Santa Maria delle Grazie alla Cìvita o Graziella, 141, 300 – Santa Maria di Betlem, 333, 335 – Santa Maria di Gesù, 337 – Santa Maria di Loreto, 332333 – Santa Maria di Mezz’Agosto, 308 – Santa Maria di Nuovaluce (extra civitatem), 337 – Santa Maria di Nuovaluce (intus civitatem), 308, 337 – Santa Maria di Ogninella, 289, 302, 304-305 – Santa Maria di Porto Salvo, 289, 297 – Santa Maria di Tindari, 290, 318-320, 322 – Santa Maria di Valverde (vedi Santa Maria della Raccomandata) – Santa Maria la Cava, 317 – Santa Maria la Grande, 33, 313, 336

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli – Santa Maria la Grotta, 313, 335 – Santa Maria la Nova, 304 – Santa Maria Maddalena de Casalenis, 69, 316, 318 – Santa Maria Maddalena, 289, 298, 300 – Santa Maria Maggiore, 322 – Santa Marina, 69, 76, 227, 232, 240, 290, 322-326, 331 – Santa Venera (alla Cìvita), 301 – Santa Veneranda, poi Sant’Agostino, 34 – Santi Angeli Custodi, 232, 240 – Santi Cosma e Damiano (extra moenia), 321 – Santi Cosma e Damiano, 290321, 323 – Santi Crispino e Crispiniano, 318 – Santi Elena e Costantino (vedi San Costantino) – Santi Simone e Giuda, 333 – Santissima Ascensione, 69, 117, 315 – Santissima Trinità (in via Luminaria), 305-307, 320 – Santissima Trinità (sito attuale), 320 – Santissimo Salvatore (al bastione omonimo), 299 – Santissimo Salvatore, 300 – Santo Sepolcro, 315 – Santo Stefano, 315 – Spirito Santo o Spiritusantello, 327 – Tindaro (vedi Santa Maria di Tindari) – Tutti i Santi, 318 — Città – Aristocrazia, 27, 29-30, 45, 52, 60, 116, 200-201, 205, 210, 214, 221 – Capitale del Regno con gli aragonesi, 36, 49

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– Conflitti con il vescovo, 27, 29-30, 49-51, 199-201, 205209, 211-216 – Conquistata dai normanni, 16-17 – Consoli e corporazioni di arti e mestieri, 27, 55, 95, 149150, 152-155, 158 – Demanio cittadino, 26, 96, 205 – Dominazione islamica, 19-20 – Giurati e altre magistrature, 27, 39-40, 45-51, 53-57, 95-56, 95-96, 98, 104, 113, 145-146, 151, 158, 200-202, 205-208, 210-212, 311, 315-316, 330, 333 – Ordinamento demaniale, 3031, 95-96 – Ordinamento feudale, 20-23, 26, 31, 279-281 – Privilegi concessi dai re aragonesi, 36-37 – Signoria degli Alagona, 38 – Sostegno del papa ai filo angioini, 35-36, 39, 43-44 — Clero secolare, 47, 52-54, 61, 6567, 69-70, 105-107, 113, 115121, 179-201, 221, 261-262 – Conflitti con i benedettini della cattedrale, 27, 52-54, 66-67 — Confraternite – Azoli (degli) (vedi Onorati) – Bianchi (dei), 303, 332 – Cocchieri (dei), 310 – Madonna della Lettera, 333 – Morti (dei), 298 – Onorati (degli) o degli Azoli, 321, 325 – San Barnaba (disciplinanti), 317 – San Michele (disciplinanti), 309-310 – Santa Maria di Tindari (disciplinanti), 319


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli – Santa Maria Maggiore (disciplinanti femminili), 322 – Santi Cosma e Damiano (disciplinanti), 321 – Santi Crispino e Crispiniano, 318 – Tutti i Santi, 318 — Contrade, quartieri – Arcòra, 318 – Argentieri, 308 – Ascensione, 314 – Astrachello, 329 – Àstraco, 333 – Bordelli, 329-330 – Borgo di Sant’Agata, 119 – Botte dell’acqua, 317 – Campanile Vecchio, 297, 306 – Casalini, 316 – Castello Ursino, 227, 327 – Catinazzari, 333 – Caudarari, 333 – Chianellari, 308, 329-330 – Cìfali, 232, 309, 336 – Cinturari, 308, 329 – Cipriana o Parco, 319-320 – Cìvita, 227, 297-298, 300 – Collegiata, 305 – Conzaria, 329 – Corvisieri, 308, 333 – Gammazita, 329-330 – Giudecca inferiore, 302, 307, 330-331 – Giudecca superiore, 322-323 – Granatelli, 315-316 – Grazia, 301-302 – Grotte di San Pantaleone, 330 – Grotte di Sant’Agostino, 330 – Grotte di Sant’Agrippina, 330-331 – Imbascio, 301 – Indirizzo, 299 – Judicello, 324, 329-330, 333 – Loreto, 240 – Macello inferiore, 329-330 – Malcucinato, 329-330

– Malfitania, 302, 306-308, 331 – Montevergine, 315, 320 – Mulino a vento, 315, 317 – Ognina, 240, 269, 298 – Panneri, 308 – Parco (vedi Cipriana) – Pendinello, 310-311 – Pertusi de portu, 322 – Piano dei Carri, 325-326 – Piano di Jacobo o di Giacomo, 301 – Piscaria, 328-330, 333 – Porta della Conzaria, 328-329 – Porta di Mezzo, 227, 327, 330332 – Porta di Paternò, 321 – Porta Savarino, 311 – Porticatello, 330-331 – Posterna San Michele, 311 – Postriboli (vedi Bordelli) – Pozzo Bianco, 306 – Pozzo Cancellieri, 317 – Pozzo d’Ugolino o de Gulino, 322 – Pozzo de l’Albani, 327, 331 – Pozzo di Calì, 319 – Pozzo di Golino (vedi Pozzo d’Ugolino) – Pozzo di Marcellino, 319 – Pozzo di Naticanigra, 319 – Pozzo Nero, 306 – Quartarari, 315, 317 – San Barnaba, 317 – San Benedetto lo Vecchio, 325 – San Biagio ai Triscini, 310 – San Calogero, 324 – San Cristoforo, 306 – San Demetrio, 310, 314-316 – San Filippo, 227, 332 – San Francesco, 331 – San Giovanni li Barrilari, 333 – San Giovanni li Freri, 305, 312 – San Giovanni lu Palummaru, 320-321

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli – San Lorenzo, 326 – San Martino, 304-306 – San Nicola li Furchi, 336 – San Pantaleone, 327 – San Pietro dei Carri, 326, 332 – San Placido, 300 – San Sebastiano, 327 – San Tommaso, 301 – Sant’Agata la Vetere, 227 – Sant’Agata le Sciare, 240 – Sant’Agnese, 310 – Sant’Agostino, 308 – Sant’Anna ai Triscini, 308, 310-311 – Sant’Anna dei Casalini o dei Carri, 323, 325-326 – Sant’Ippolito, 310-311, 314 – Sant’Orsola, 304, 306 – Santa Barbara de Cìvita, 312 – Santa Caterina, 333 – Santa Chiara, 326 – Santa Domenica li Greci, alla Cìvita, 300 – Santa Lucia, 319, 321 – Santa Margherita, 227, 319 – Santa Maria de Dàgala, 310 – Santa Maria dei Malati, 317 – Santa Maria del Soccorso, 324 – Santa Maria dell’Elemosina, 308 – Santa Maria dell’Itria, 227, 317 – Santa Maria della Concordia, 336 – Santa Maria della Grazia (vedi Grazia) – Santa Maria della Misericordia, 326 – Santa Maria della Raccomandata, 325 – Santa Maria della Rotonda, 308 – Santa Maria della Stella, 319 – Santa Maria di Nuovaluce o di Mezz’agosto, 308

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– Santa Maria di Ogninella, 304 – Santa Maria la Cava, 317 – Santa Maria la Dàgala, 310 – Santa Maria Maddalena de Casalenis, 317 – Santa Marina, 322-323 – Santa Nicolella, 308 – Santa Sofìa, 301 – Santi Cosma e Damiano, 320321 – Santi Elena e Costantino, 314 – Santissima Trinità (alla Cìvita), 305-306 – Santissima Trinità (attuale), 227 – Sette Cantonere, 312 – Sicchioto, 312 – Spiritusantello, 326 – Stritto, 330 – Torre del Vescovo, 315-316 – Triscini, 309-312, 315 — Conventi, monasteri, istituti..., femminili – Conservatorio delle vergini, 314, 320 – San Benedetto (benedettine), 290-291, 301, 313, 315, 327-328 – San Girolamo (clarisse), 324, 327 – San Giuliano (benedettine), 299, 301 – San Placido (benedettine), 300-301 – Sant’Agata (benedettine), 301 – Sant’Orsola (benedettine), 298, 301 – Santa Chiara (clarisse), 227, 326 – Santa Lucia (benedettine), 70, 318, 322 – Santa Maria del Soccorso (benedettine), 324 – Santa Maria della Racco-


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli mandata o di Valverde (benedettine), 325 – Santa Maria delle Vergini (clarisse), 315, 317 – Santa Maria di Porto Salvo (benedettine), 309-310 – Santissima Trinità (benedettine), 227, 289, 301-302, 304305, 311, 320, 325 — Conventi, abbazie, monasteri, istituti..., maschili – Annunziata o Carmine (carmelitani), 33-34, 334-335 – Ascensione (collegio dei gesuiti), 114, 140, 315 – – Nuovo collegio in via Luminaria, 305 – Carmine (vedi Annunziata) – Casa degli orfani, 305 – La Mecca (romitorio), 200 – San Domenico o Santa Maria la Grande (domenicani), 32-33, 44, 55, 334, 336 – San Francesco d’Assisi (frati minori conventuali), 32, 289, 332 – San Francesco di Paola (minimi), 334 – San Michele (minoriti), 309 – San Nicola l’Arena (benedettini), 57, 207, 314, 319-321 – San Salvatore (grancia dei benedettini), 32, 55, 332, 336 – Sant’Agata (benedettini), 1923, 26, 33, 39, 46-47, 54, 62-63, 66, 116-119, 202, 273, 279281, 283-284, 298 – Sant’Agata la Vetere (benedettini), 54 – Sant’Agostino (agostiniani), 34, 321, 331 – Santa Maria degli Angeli (cappuccini), 336 – Santa Maria della Mercede (mercedari), 336 – Santa Maria della Speranza

(cappuccini), 336 – Santa Maria di Gesù (frati minori), 337 – Santa Maria di Nuovaluce (certosini, poi benedettini, carmelitani scalzi e agostiniani), 40, 55, 66, 308, 323, 337 — Cura delle anime nella città di Catania, 33, 62-70, 145-160, 202-205, 209-215, 221-222, 229230, 252 – Capitolo della cattedrale e cura delle anime, 62-65 – – Maestro cappellano, 222, 230 – Cappellani sacramentali, 63, 202-203, 222, 226-227 – – Sostentamento, 63, 226, 232, 247-248 – Cattedrale unica parrocchia, 148-151, 153, 159, 222, 225, 254, 287 – Chiese sacramentali filiali, 68-70, 151, 221-222, 225-226, 287 – Commissione per erigere le parrocchie, 266-268 – Controversia per l’erezione delle parrocchie e chiese sacramentali, 145-160, 202-216 – Erezione parrocchie, 265-271 – Vescovo unico parroco della città, 149-151, 243-244 — Curia del capitano di giustizia, 328 — Curia del senato (vedi Loggia dei giurati o senatoria) — Diocesi (vedi infra Catania diocesi) — Ebrei, – Giudecca inferiore, 302, 307, 323, 330-331 – Giudecca superiore, 322-323 – Sinagoga antica, 297 – Sinagoga grande, 322 – Sinagoga piccola, 331

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli — Edifici e luoghi privati – Alessi (de) Bernardo (bottega di), 291 – Alessio (de) Giovanni, 289 – Ansalone Guglielmo (mastro), 302 – Astasio di Taranto, 302 – Bonaiuto (alla Cìvita), 300 – Bonaiuto (carceri), 306 – Bonaiuto (de) Alessandro, 289 – Bonaiuto (de) Enrico, 290 – Buglio (de) Simone, 289 – Dio (de) Lorenzo UID (bottega di), 289 – Gentile Antonino (notaio), 289, 302 – Gioeni (de) Carlo, 289 – Gioeni (de) Lorenzo, 290 – Giudice (de) Giovanni (aromatario), 291 – Grassi Matteo, 291 – Gravina Vincenzo, 291, 328 – Guirrera (de) Giovanni, 290 – Incrapera (de) Corrado, 289 – Lacciolina (de) Antonino, 289 – Lanza (de) Manfredi, 291 – Michele (de) Filippo UID, 289 – Milana (de) Tommaso (bottega di), 290 – Milanese Vincenzo (bottega di), 291 – Murabito (de) Antonino (notaio), 290 – Nuci (li) Giovanni Antonio (bottega di), 290 – Onorato (de) Savarino, 311 – Paternò (de) Antonino, 291 – Paternò Alvaro, 308 – Paternò Castello Antonio di Mandrerascate, 308 – Paternò Pietro, 291 – Paula (de) Francesco (aromatario), 291 – Pinicheri Filippello (mastro), 302

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– Pisci Guglielmo, 302 – Platamone (alla Cìvita), 301 – Platamone (de) Giaime, 290291, 325 – Ramondetta Raimondo UID, 291 – Retturi (di lu) Giovanni, 302 – Rocco Giovanni, 302 – Scaletta (la) Franco, 291 – Sicchioto, 302 – Sigona (de) Giovanni Simone, 289 – Statella (de) Nicola, 289 – Statella Antonio, 291 – Statella Scipione, 290 – Stizzia (de) Antonino, 290 – Unico (de) (famiglia), 305 — Elefante di pietra, 333 — Fondaci – Calvino, 302 – Corvo (del), 322 – Giudei (dei), 302 – Pisci Guglielmo, 302 – Scaletta (di la), 302 – Taranti (di li), 302 — Fontane – Canali (dei), 302-303, 329330, 333 – Gammazita, 330 — Foro romano, 325 — Judicello (vedi Amenano) — Loggia dei giurati o curia del senato, 227, 302, 333 — Mercato ortofrutticolo San Filippo, 328 — Mura, 297-298, 310-311, 313, 316, 318, 320-321, 323, 328-330 – Bastioni – – Arcòra (dell’), del Tonnaro o del Tindaro, 316, 318319, 322 – – Grande, del Salvatore o di Porto Pontone, 297, 299 – – Infetti (degli) (vedi Vescovo) – – Perruccio (di Don) (vedi Piccolo)


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli – – Piccolo o di Don Perruccio, 299 – – Porto Pontone (di) (vedi Grande) – – Salvatore (del) (vedi Grande) – – San Giorgio, 327 – – San Giovanni, 321-322 – – San Giuliano, 299, 311 – – San Michele, 310-311 – – Sant’Agata la Vetere (vedi Santo Carcere) – – Sant’Euplio, 322-323 – – Santa Croce, 327-329 – – Santo Carcere (del) o Sant’Agata la Vetere, 289290, 310, 313 – – Tindaro (del) o del Tonnaro (vedi Arcòra) – – Vescovo (del), poi degli Infetti, 316, 319, 322 – Porte, posterne – – Aci (di), Stesicorea o di Sant’Anna de Trixinis, 88, 126, 289, 297, 303-304, 309-310, 334-336 – – Aquilonare (vedi Re) – – Arcòra (dell’), della Giudecca o di Paternò (posterna), 316, 319, 321 – – Biviratura (di la) Grandi (posterna), 302, 329 – – Bucciria (di la) Grandi (vedi Conzaria) – – Canali (dei), 291, 302-303, 328-330, 332-333 – – Castrogiovanni (posterna di), 302 – – Conzaria (della), del Macello o della Bucciria, 302, 329 – – Decima (della) o della Naumachia, 136, 227, 326-327 – – Ferro (di) o Pontonia, 299 – – Giudecca (della) (vedi Arcòra)

– – Macello (del) (vedi Conzaria) – – Naumachia (della) (vedi Decima) – – Pontonia (vedi Ferro) – – Porticello (del), del Porto Saraceno, del Vega, 298 – – Porto Saraceno (vedi Porticello) – – Re (del), di Sant’Agata la Vetere o Aquilonare, 290, 309, 313, 316, 325 – – San Michele (posterna), 311 – – Sant’Agata la Vetere (vedi Re) – – Sant’Anna dei Triscini (vedi Aci) – – Savarino (posterna di), 311 – – Stesicorea (vedi Aci) – – Teodora (di), 302 – – Uzeda, 333 – – Vega (del) (vedi Porticello) – – Vescovo di Malta (posterna del), 316 – – Vucciria (della) (vedi Conzaria) — Notai – Amellina (de), 305 – Arcidiacono, 305, 319, 321, 333 – Bonafidi Bernardo, 77 – Colle Girolamo, 322, 324 – Cosentino Paolo, 317 – Covello Antonio, 298, 301, 308, 310, 312, 317, 319, 323, 325-327, 329-331, 333 – Covello Nicola, 327 – Custarella Pietro, 78 – Fazio Vincenzo, 212 – Francaviglia, 333 – Gallego, 304 – Gentile Antonio, 289, 302 – Greguzio, 336 – Grifo (del) Gabriele, 310 – Guirrerio (de) Nicola, 298

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli – Medico (de) Pietro, 336 – Merlino Antonio, 89, 296, 305 – Murabito Antonino, 290 – Pennise Vincenzo, 321 – Pugliese Francesco, 248 – Randazzo (de) Vincenzo, 78 – Sangiorgi, 317 – Santacroce Guglielmo, 301302, 306, 311, 316, 325-326, 329-331 – Sciacca (di) Lorenzo, 303 – Tabusio Vito, 302, 310, 314 – Trupia Antonio, 306, 310-311, 314, 316, 319, 324-327, 329330, 332-333 — Odèon, 328-329 — Orto della Maddalena, 298 — Ospedali – Ascensione (dell’), 315 – San Giovanni li Freri o dell’Ordine di Gerusalemme, 302, 312, 333 – San Marco, 65, 308, 315 — Palazzo senatorio (vedi Loggia dei giurati) — Piazze, piani – Campanile (del) Vecchio, 302, 304-305 – Carri (dei), 325 – Erba (dell’), 227, 291, 308, 328, 330-332 – Fiera (della) del lunedì o foro lunare, 227, 291, 302, 304305, 307-308, 331-332 – Fornaci (di li) o Furno, 302, 308 – Grande, de la Mater Ecclesia, Maggiore, di Sant’Agata, 289, 291, 297, 302-307, 328, 331-333 – Jacobo o di Giacomo, 301302 – Lunare (vedi Fiera) – Manganelli, 311 – Mazzini, 328 – Miracoli (dei), 317

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– Misericordia (della), 325 – Quattro Canti, 309 – San Filippo, 291, 308, 326, 328 – San Francesco, 328 – San Martino, 297 – San Tommaso, 297 – Santa Maria la Grande, 336 – Santa Maria la Grotta, 335 – Santo Nicolella, 308 – Sigona, 311 – Stesicoro, 309 – Teatro Massimo, 337 – Triscini (dei), 289-290, 309310, 312 – Università, 308 — Porto, molo, 49, 298-299 – Ògnina, 298-299 – Saraceno, 136, 298-299, 301302, 304, 329 — Scuola per i chierici, 47, 54-56 — Seminario dei chierici, 193, 303, 332 — Studium generale (vedi infra Università) — Teatro greco o Coliseo, 291, 313, 327-329 — Torri – Gioeni don Lorenzo, 315, 319 – Micheli (di) Giovanni, 297 – Speziale (di), 336 – Vescovo (del), 315-316 — Università o Studium generale, 49, 105 – Fondazione e ordinamento, 47-51, 53 – Contrasti con il vescovo Cutelli, 202, 207 – Contrasti con il vescovo Pesce, 49-51 – Sede, 305-306 – Vescovo cancelliere dello Studium, 50-51, 202, 207 — Vescovado, 303-304 — Vescovo – Conflitti con i benedettini della cattedrale, 27, 39, 46


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli – Conflitti con le magistrature cittadine, 27, 29-30, 49-51, 201, 205-216 – Conte di Mascali, 23, 31, 8990, 97-98 – Giurisdizioni molteplici e privilegi, 26, 46, 97-99, 201202, 249, 252, 273 – Mensa vescovile, 26, 36, 3940, 49, 56, 69-70, 157, 203, 247, 249, 266-267, 309 – Parroco unico della città, 149-151, 232, 250, 255 – Signore della città di Catania, 20-23, 29-31, 273 — Vie – Angeli (vicolo degli), 331 – Auteri, 328 – Biscari, 308 – Campanile Vecchio (vedi Carceri) – Carceri (delle), del Campanile Vecchio, del Porto, di li Potighi, 304, 306 – Caronda, 336 – Castello Ursino, 326 – Cestai, 312 – Chianellari (di li), 302 – Concordia (della), 334-335 – Corviseria grandi (di la), 302 – Crociferi, 301 – Dogana di la farina, 302 – Dusmet, 300 – Etnea, Lanza, Stesicorea o Uzeda, 303, 309, 312 – Graziella, 300 – Gurna (la) (cortile), 311 – Lanza (vedi Etnea) – Luminaria (della) o Strata Maiuri, 304-305, 307, 309, 320 – Maiuri (strata) (vedi Luminaria) – Mancini, 312 – Manzoni, 308-309 – Nova, 313 – Panneri (di li), 304

– Penninello, 311 – Porto (del) (vedi Carceri) – Potighi (di li) (vedi Carceri) – Pozzo Molino, 322 – Regina Margherita, 335-336 – San Camillo, 310 – San Giovanni, 324 – San Girolamo (cortile), 324 – San Pantaleone (cortile), 325 – Sangiuliano (di) Antonio, 309, 312 – Sant’Agostino, 320 – Sant’Anna, 331 – Sant’Euplio, 335-336 – Santa Maddalena, 315 – Santa Maria del Rosario, 306 – Santa Marina, 326 – Santa Venera, 302 – Santi Cosma e Damiano, 290, 320 – Stesicorea (vedi Etnea) – Teatro Greco, 328 – Uzeda (vedi Etnea) – Vadalà, 300 – Vittorio Emanuele, 333 Catania diocesi — Rifondazione diocesi e confini, 21-22, 283-284 – Ordinamento dato dai normanni, 21-27 – – Affidata ai benedettini, 18 — Rivendica la sede metropolitana, 24 — Suffraganea prima di Messina, poi di Monreale, 24 Catania (di) Marino (console), 149 Catarino Ambrogio O. P., 93 CATENANUOVA, 249 Caudullo Giovanni (sacerdote), 222 Cauzarano Adorno (console), 152 Cava dei Tirreni (vescovo di), 91 Cazeni Giovanni (sacerdote), 69, 78 Cefalù, 18, 22, 24, 252 Celano Giacomo, 155 CENTURIPE, 22, 74, 235, 249, 285-286 — Immacolata Concezione di Maria, 235

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli – Collegiata, 235 Cesaria de Augusta, 304 Charasto (di) Pietro (console), 152 Chiabrera (famiglia), 35 Chiaramonte (famiglia), 35 Chiaramonte Andrea, 43 Chiaramonte Manfredi III, 41 Chiarenza Carmelo (canonico), 267 Chiese o diocesi di Sicilia — Erezioni normanne, 17, 20-21, 24 – Ordinamento diocesano e monastico, 17-18 – Regio patronato, 25 — Nuove erezioni nel sec. XIX, 249-250 Cicala Raimondo, 334 Clarenza (di) Mariano (console), 152 Clemente IV (papa), 31 Clemente VII (antipapa), 41 Clemente VII (papa), 59, 87, 101, 235 Clemente VIII (papa), 233 Clero regolare — Conflitti di competenza con il vescovo e il clero secolare, 34 — Ordini monastici, al seguito dei normanni, 18-20 — Ordini mendicanti, diffusione in diocesi, 31-34 Clero secolare — Disciplina, 47 — Formazione culturale e spirituale, 115-120 — Ignoranza, 106-107, 221 — Moralità, 118-120, 221 Codice di diritto canonico del 1917, 227, 255, 258 Collegiate e capitoli di canonici nei comuni della diocesi, 235 — Erezione giuridicamente invalida, 233, 260-261 — Istituzioni problematiche, 233, 235 — Nomina del teologo e del penitenziere, 239, 258 — Soppresse dallo Stato italiano, 248-249

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— Vertenza con il Demanio per riavere i beni requisiti, 252-253 Colonna Marc’Antonio (viceré), 205206 Colonna Pompeo (vescovo), 59 Comunìe, 179-181, 223 — Diverse dalle chiese patrimoniali presenti in Spagna, 180182 — Diverse dalle chiese ricettizie presenti nel regno di Napoli, 180-183 — Trasformazione in collegiate, 233-238 Conchilles Giacomo (vescovo), 59 Corrionero Giovanni (vescovo), 59, 136, 215, 221 Cosenza (vescovo di), 22 Costa Vincenzo (armatore), 140 Costantino Giovanni Tommaso (avvocato), 128 Costantino il Grande, 331 Costantinopoli (Bisanzio), 28 Costanza (regina), 334 Crisafi Giovanni (frate), 321 Criximanno Giovanni Francesco (giurato di Piazza), 170 Crociata (bolla), 111 Cundurella Nicola (console), 149 Cura delle anime — Concilio di Trento, 84-85, 181, 193-199, 273-274 — Diritto canonico e giurisprudenza rotale, 84-85, 194-199 — Parrocchia (storia della), 13, 8485 Cura delle anime in Sicilia, 13, 254, 256, 273 — Affidata ai monasteri, ai vescovi, ai capitoli, 18, 254 Cura delle anime nella diocesi, 61-75, 78-85, 221-223 — Arcipreti (vedi Vicari foranei) — Cappellani sacramentali delegati e amovibili, 78-85, 161-176, 224, 227-228, 246-247


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli – Sostentamento, 75-76, 175, 239 — Case canoniche, 257, 263 — Chiese sacramentali filiali, 216219, 242-244 — Cura abituale e cura attuale, 195-197, 237-238 — Cura collegiale: comunìe e collegiate, 179-183, 233-238 — Parrocchie – Aiuto del governo per costituire il beneficio, 264, 267268 – Beneficio, congrua parrocchiale, patrimonio, risorse, 257, 263-264, 268-269 – Erezione parrocchie, 145148, 257-270 – Tentativo fallito di erezione dopo il Concilio di Trento, 145-150 — Parroci, 120-124, 176-178, 238241, 257-265 – Concorso per la nomina, 246 – Invito a nominare parroci perpetui, 121-124, 238-241, 246 – Sostentamento, 257, 261-262 – Vescovo unico parroco della diocesi, 194-196, 224, 250, 255 — Riforma, 120-124, 161-178, 193199, 238-239, 255-271 – Erezione delle parrocchie nei centri abitati extraurbani, 257-265 – Erezione delle parrocchie nella città di Catania, 268271 — Vertenza con il Demanio per riavere i beni requisiti, ritenuti beneficio dell’unica parrocchia esistente in diocesi, 252-253 — Vicari foranei o arcipreti, 79-85, 225, 229-231, 255 Cusinu Antonio (sacerdote), 81

Custarella Cola (console), 152 Cutelli Vincenzo (vescovo), 59, 78, 199-217, 221 Cuzolario Pietro (vicario generale), 163-164 D’Alessandro Girolamo (canonico), 68 D’Alessandro Girolamo, junior, 202, 204 D’Arcangelo Lorenzo, 217 Damietta, 30 De Basilio Pietro (canonico), 204 De Ciocchis Giovanni Angelo (regio visitatore), 246, 248 De Fazio Erasmo (canonico), 204 De Michele Filippo (vedi Michele [de] Filippo) De Primis Giovanni (vescovo), 46-48, 51, 55-58, 65 De Unico (famiglia), 305 Del Pozzo Simone (vescovo), 41, 44, 71, 306, 336 Della Guerra (monaca), 112 Deodato de Moncada Corrado Maria (vescovo), 238, 242-246 Di Alberto Pietro (console), 152 Di Bartolo Giovanni (vedi Giovanni di Bartolo) Di Francesco Antonio (console), 152 Di Marco Blasi (sacerdote), 120 Dionisio (papa), 150 Dionisio Giovanna, 318 Distefano Antonino (canonico), 260 Dragut di Tripoli, 82, 129, 136-137, 140-142 Duca di Montblanc (vedi Martino il Vecchio) Dusmet Giuseppe Benedetto (vescovo), 250-253, 256, 267 Ebrei, 27 — Espulsione dalla Sicilia, 322 Eleonora (regina), 32 Elia (vecovo), 41 ENNA (vedi Castrogiovanni) Enrico IV, 15 Enrico VI, 30

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli Eolie (vedi Lipari) Etna, 23, 62, 72, 216 — Eruzione 1381, 298 — Eruzione 1669, 217-218, 195, 309 Eugenio IV (papa), 46-48, 51-52, 55-57, 65-66, 77, 202, 209-210, 221, 235, 243, 315 Euprezia, 331 Europa, 15 Evangelismo o riforma cattolica, 9094, 99, 102, 105 Fabio da Padova (frate), 103 Facio (di) Giovanni, alias Tauso (console), 162 Faraone Antonio (vescovo), 59, 102, 129, 131, 134-136, 193, 200, 203, 219, 233 Farello Antonino (console), 152 Farina Federico (monaco), 54 Farnese Alessandro, 59 Fascismo, 262 Favignana, 43 Fazio Erasmo (canonico), 204 Fazio Salvatore (vicario generale), 266-267 Federazione Nazionale del Clero, 262 Federico II di Svevia, 13, 25, 27, 30-31, 33, 74, 327, 331 Federico III (re di Sicilia), 36 Federico IV (re di Sicilia), 40-41, 43 Ferdinando I, 239-240 Ferdinando II, 25, 46 Ferrais Emilio (vescovo), 265 Ferrara, 103 Ferriolo Filippa, 194 Ficarra (la) Giovanni (sacerdote), 63 Fieschi Leonardo (vescovo), 33, 39 Filippo II, 91, 129, 137, 143-144, 199 Filippo III, 299 Filippo IV, 247 Filippopoli (vescovo di), 56 Flaminio Marcantonio, 93 FLERI (vedi Zafferana Etnea) Flore (de) Onofrio (vicario generale), 57

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Foggia, 31 Fondo per il culto, 267 Fontanini Benedetto (vedi Benedetto da Mantova) Francesi, 27 Francia, 337, 281 Francica Nava Giuseppe (vescovo), 255-265 — Sinodo diocesano, 255-256 Furnaya Matteo (sacerdote), 177 Gallarate, 87 Galletti Pietro (vescovo), 218, 232, 235, 246, 260-261 Gallipoli, 240 Gambacorta Beatrice, 88 Gasparri Pietro (cardinale), 262 Genovesi, 27 Gerardo de Parma (legato papale), 36 Geremia Pietro O. P., 47-48, 50-51, 55, 65, 336 Germania, 30, 58, 87 Geroldo (sacerdote), 281 Giliberto (soldato), 28 Gioco Salvatore (canonico), 260 Gioeni Eleonora, 304 Gioeni Francesco, 304 Gioeni Perruccio, 299 Giordano (figlio del conte Ruggero), 17, 279, 281, 286 Giorgio Siculo (vedi Riolo Giorgio) Giovanna I di Napoli, 43 Giovanna la Pazza, 97 Giovanni Battista de Luciaco, 286 Giovanni d’Aragona (figlio di Pietro IV), 42 Giovanni d’Aragona, 37 Giovanni de Podio Nucis (vescovo), 45, 80 Giovanni di Bartolo (incisore), 40 Giovanni, cardinale diacono, 284 Giulio II (papa), 127 Goffredo (figlio del conte Ruggero), 279, 281, 286 Goisberto de Luceio, 281 Goselino (soldato), 28 Granada, 59


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli Granata Barnaba (console), 149 Grassia Vincenzo (sacerdote), 109 Grasso Giuseppe (sacerdote), 245 GRAVINA {DI CATANIA} (o Plache) — Sant’Antonio di Padova, 217 – Erezione parrocchia, 263 Graziano (de) Antonio (sacerdote), 80 Graziano Michele (canonico), 204 Greco Giovanni (console), 149 Gregorio VII (papa), 15-17 Gregorio XIII (papa), 199, 208 Gualtiero de Palearia (vescovo), 30 Guarrera (di) Giovanni (canonico), 77 Guerrera (di) Giovanni (console), 152 Guerrieri Ferdinando (patrizio), 34 Guesli Romano, 103 Guglielmini Giuseppe (canonico), 267 Guglielmino Vincenzo (canonico), 202, 204 Guglielmo (abate di Sant’Eufemia), 22, 281 Guglielmo da Caltanissetta (monaco), 130 Guglielmo di Altavilla, 281, 286 Guglielmo I (re di Sicilia), 21 Guglielmo II (re di Sicilia), 24-25 Guidalotto Antonio (arcidiacono), 132-136 Gullo (de) Pietro (canonico), 78, 204 Gullo Giovanni Filippo (avvocato), 128 Gullotta Nicola O. P., 102 Gurreri Tommaso (arcidiacono), 130 Guspi Giovanni (console), 149 Gussio Marcantonio (vescovo), 69 Ibn-at-Tumnah (emiro), 16 Ibn-el-Werd (emiro), 17 Inguanti Masi (sindaco), 149 Innocenzo VI (papa), 40 Inquisizione (tribunale dell’), 93, 102106, 108-109, 116, 119 — Autodafè a Catania, 103-104 Insinga Lorenzo (canonico), 204 Intrigliolo Pietro, 310 Ioanfranco Marco, 167

Ippolito di Aversa (monaco), 139 Ischia (vescovo di), 88 Isola (vescovo di), 91 Ivano (vescovo), 130 Jaci (vedi Aci) Jansano Giovanni (console), 149 Judica, 285-286 Judichi (lo) Bartolo (console), 152 Jurdano Loysi (console), 152 Jurlando (de) Blandano (sacerdote), 324 Juvino Battista (console), 152 La Cerda Giovanni, duca di Medinaceli (viceré), 90, 137, 141, 144, 305 La Rosa Girolamo (vicario generale), 73 La Valli (vedi Valli) Lagumina Antonino (console), 152 Laioli Camillo, 252 Lanaia Castelli Alfio (canonico), 260 Lanaia Leocata Alfio (canonico), 260 Lanario Francesco, duca di Carpignano, 330 Lanza (famiglia), 35 Lanza Giuseppe, duca di Camastra, 303 Lateranense III (concilio), 182 Lateranense IV (concilio), 109 Legazia Apostolica di Sicilia (vedi Regno di Sicilia) Lentini Sambasili Nicola Maria (canonico), 212 Lentini, 27 Leone X (papa), 59, 87 LEONFORTE, 228-229, 249 — Anime del Purgatorio, 228-229 Lerida (di) Paola e Ximene, 301 Licandro Giacomo (console), 152 Licandro Michele (console), 152 Lihori (famiglia), 35 Lipari, 18, 24, 127-128 Liparolo Francesco, 213, 215 Lo Turco Guglielmo (sacerdote), 177 Lombardi, 27 Longo Antonino (console), 152 Lucadello Raffaele (ingegnere), 329

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli Lucera, 27 Lucio III (papa), 24 Ludovico (re di Sicilia), 37 Lutero Martino, 87, 91-92, 94 Madrid, 143, 200-201 Maiorca (vescovo di), 136 Maletto, 250 — Sacri Cuori Gesù e Maria, 263 – Erezione parrocchia, 263 Malgerio (figlio del conte Ruggero), 286 MALPASSO (vedi Belpasso) Malta, 44, 312, 316 Mandosio Fabrizio (vicario apostolico), 213 Manfredi (re), 32, 332 Marasa Antonio (sacerdote), 121 Marcello (console romano), 331-332 Marchesana Vincenzo (canonico), 202 Marchisana (la) Giacomo (monaco), 129 Maria (regina di Sicilia), 40-43 Marletta Alessandro (canonico), 204 Marraro Aurelio (sacerdote), 77 Martino il Giovane (re di Sicilia), 4245, 323, 327, 334-336 Martino il Vecchio (re di Sicilia), 4345, 335 Marturana (de) Antonino (sacerdote), 73 Marziale (vescovo), 40, 62, 65, 315 Mascali (contea di), 23, 31, 89-90, 9798, 202 Mascali Francesco (sacerdote), 265 MASCALUCIA, 53, 69, 72, 78, 263 — Chiesa madre: Santa Maria della Consolazione, 263 – Erezione parrocchia, 263 — Chiese – San Nicola, 53, 69, 72, 78, 217 — Frazione Mompileri, poi Massannunziata, 53, 72, 218 – Maria SS.ma Annunziata, 53, 72 – – Parrocchia, 264 MASSANNUNZIATA (vedi Mascalucia) Massari Giovanni (canonico), 57

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Matteo di Agrigento (beato), 337 Mauceri Cola, 304 Maugeri Giovanni (canonico), 267 Maurizio (vescovo), 28 Mazara, 24 Mazo Giovanni (console), 149 Mazuni Francesco (console), 152 Medici (dei) Ippolito, 59 Medinaceli (duca di) (vedi La Cerda Giovanni, duca di Medinaceli) Mediterraneo, 17, 35, 43 Messina, 16, 23-24, 37, 59, 100-101, 108109, 137-138, 141, 143, 155, 264, 303, 309 — Archimandrita del Santissimo Salvatore, 18 Micheli (de) Filippo UID, 103 Milano, 87 Milazzo (di) Antonino (sacerdote), 77 Milazzo (di) Pietro (console), 152 Militello, 100 Mineo, 44, 101 — San Pietro, 101 — Sant’Agrippina, 101 Mingrino Ilaria, 311 Minori (vescovo di), 22 MIRABELLA, 249 MISTERBIANCO, 53, 72, 78, 110, 263 — Chiesa madre: Santa Maria delle Grazie, 53, 72, 78, 110 – Erezione parrocchia, 263 — Chiese: San Pietro, poi San Pietro Clarenza, 53 MOMPILERI (vedi Mascalucia) Moncada (de) Alessandro (capitano di giustizia), 98 Moncada (de) Ugo (viceré), 335 Moncada (famiglia), 35 Moncada Guglielmo Raimondo III, 42 Monreale, 18, 24, 43, 59 Monsecato (de) Girolamo (monaco), 139 Monsecato Guglielmo (vicario generale), 124 Montalto (famiglia), 35 Monteleone Cesare (sacerdote), 194


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli MOTTA SANT’ANASTASIA, 22, 74-75, 80, 223, 263, 285-286 — Sant’Anastasia, poi Santa Maria del Rosario, 74 – Erezione parrocchia, 263 Mundio Guglielmo, 149 Mundo Antonino (canonico), 204 Muntialbano Andrea (console), 152 Muntialbano Antonino (console), 152 Muratore (de) Vincenzo (sacerdote), 83 Mussolini Benito, 262 Musumeci Giovanni (sacerdote), 266 Muzio Annibale (vicario apostolico), 213 Napoli, 41, 43, 48, 59, 88, 91-92, 94, 137138, 180-182 Napolitano Cristoforo, 121 Nava (vedi Francica Nava) Navarro Sancio (teologo), 128 Nepita Diodoro (canonico), 204 Nicolai Nicola (sacerdote), 33 Nicolò II (papa), 16 Nicolò III (papa), 32 Nicolò V (papa), 57, 68, 209 NICOLOSI, 62, 93, 218, 253, 263 — Chiesa madre: Spirito Santo, 228 – Collegiata, 235, 253 – Erezione parrocchia, 263 – Erezione vicaria curata, 263 — Chiese: Santa Maria delle Grazie – Erezione vicaria curata, 263 — Conventi, monasteri, istituti..., maschili – San Nicola l’Arena, 55, 62, 93, 103, 332 Nicosia (diocesi di), 249 Nicoxia (di ) Pietro (console), 152 Nigro (lo) Giacomo (sacerdote), 120 NISSORIA, 249 Nola (vescovo di), 91 Normanni, 13-22, 24-25, 27, 30-31, 34, 38-39, 45, 49, 83, 95, 201, 247, 254, 273-274, 279-280, 328

Noto, 100 Nuchilla Antonio (console), 152 Ochino Bernardino, 91, 93 Oddone Capocci (vescovo), 32 Opera dei Congressi, 253, 261 Oro (di) Antonino (console), 149 Orosco de Arzes Giovanni (vescovo), 59, 199, 203 Orsini Gentile (vescovo), 35 Osorio Ludovico (vescovo di Maiorca), 137 Otranto (vescovo di), 91 Pagliaro Francesco (console), 149 Pagliaro Manfrè (console), 149 Palearis (de) Gualtiero (vedi Gualtiero de Palearis) Palermo, 17, 24, 37, 43, 47-48, 79, 100103, 109, 127, 173, 201, 212, 215, 252, 256 — Corte viceregia (vedi Regno di Sicilia) Palestina, 33 Palizzi (famiglia), 35 Pantano (fondo del), 205 Paolo II (papa), 334 Paolo III (papa), 59, 87 Paolo IV (papa), 186 Parigi, 41 Parisi (famiglia), 35 Parrocchia (vedi Cura delle anime) Pastineo Agostino (vescovo di Ischia), 88 Patanè Carmelo (vescovo), 265-269 PATERNÒ, 22, 36, 62, 74-75, 80-81, 9899, 101, 114-115, 120, 169, 183-191, 208, 215-216, 218, 223, 234-235, 253, 258-260, 285-286 — Chiesa madre: Santa Maria dell’Alto, 74, 183, 185, 223, 234 – Comunìa, poi collegiata, 183191, 223, 234-235, 253, 258260 – Erezione parrocchia, 258-260 — Chiese – Anime del Purgatorio – – Erezione vicaria curata, 263

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli – Maria SS. Annunziata – – Erezione vicaria curata, 263 – San Michele Arcangelo – – Erezione vicaria curata, 263 – San Nicola, 74, 183 – San Nicola (oltre il fiume), 62 – Santa Barbara – – Erezione vicaria curata, 263 – Santa Margherita, – – Erezione vicaria curata, 263 – Santa Maria delle Grazie, 74, 183 – Santa Maria di Valle Giosafat (vedi Conventi, monasteri..., maschili) – Sant’Andrea, 64-65, 74, 183 – Santissimo Salvatore, – – Erezione vicaria curata, 263 — Conventi, monasteri, istituti..., femminili – Annunziata (benedettine), 112 — Conventi, monasteri, istituti..., maschili – Santa Maria di Valle Giosafat (benedettini), 61, 74, 183 — Frazione Ragalna, – Santa Maria del Carmelo, – – Erezione parrocchia, 273 — Ospedale San Giovanni dell’ordine Gerosolimitano, 36 Paternò (de) Pietro (canonico), 78 Paternò e Valle Giovanni, 303 Paternò Giovanni (giurato), 146 Paternò Giovanni (priore di Sant’Agata), 127 Paternò Giovanni (rettore del bosco), 136 Paternò Giovanni Battista (vicario generale), 218 Paternò Giovanni fu Girolamo (patrizio), 146 Paternò Jayme (monaco), 55 Patti Lateranensi, 262, 265 Patti, 18, 24, 101, 184, 252 PEDARA, 71-72

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— Chiesa madre: Santa Caterina – Erezione parrocchia, 263 – Erezione vicaria curata, 263 — Chiese – Santa Maria, 71 – Sant’Antonio – – Erezione vicaria curata, 263 Pelagia (suor), 112 Penne (vescovo di), 91 Pennisi Bartolomeo, 77 Peralta (famiglia), 35 Peralta Guglielmo, 40, 43 Perez de Herrera Giovanni, (giudice del Tribunale della Monarchia), 155 Pesce Giovanni (vescovo), 45-46, 4952, 55-58 Peste nera, 40 Petronio Russo Salvatore (sacerdote), 258 PIAZZA {Armerina}, 31-32, 72, 76-77, 80, 108, 111-112, 119, 122, 156, 161176, 179, 208, 223, 225, 229, 236 — Canali, 167 — Castello, 167 — Chiesa madre: Santa Maria, 72, 76-77, 165, 167-170, 173-175, 223, 229 – Collegiata, 223-224, 231, 235 — Chiese – Misericordia (della), 167 – Padre Santo, 72, 161, 165, 167, 173-174 – San Francesco, 167 – San Gregorio, 139 – San Martino, 72, 165, 168, 173-174 – San Nicola, 72, 165, 167-168 – Santa Domenica, 167-168 – Santissimo Crocifisso – – Collegiata, 235 — Conventi, istituti maschili – Domenicani, 32 — Cura delle anime, 223-225, 236 – Erezione delle chiese sacramentali e controversia con i giurati, 161-176


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli — Diocesi, 249 — Edifici privati – Assara Ioanfranco, 167-168 – Ioanfranco Marco, 167 – Protomedico (case di lu), 167 – Sant’Angelo Alessandro, 167-168 – Trigona Antonino, 167 – Trigona Girolamo, 167 — Giurati, 162, 169-173, 176 — Mundizzaro, 167-168 — Mura, 167 — Piazze, piani – Chianu di Baruni, 167 — Porte – Catalano (di lu), 167 – Scattiola (di la), 167 — Quartieri, contrade – Chiappi, 167-168 – Corbisaria, 167 — Vie – Carrera, 167 – Maestra (strata) seu publica plaza, 167-168 – Rutta (strata), 167-168 – Stretta (vanella), 167-168 Piccione Vito (canonico), 260 Pidalachi Berto (console), 152 PIETRAPERZIA, 74, 80, 194, 227, 249 — Santa Maria, 74, 194 Pietro di Moretaneo, 281 Pietro di Moritong, 286 Pietro II, 36 Pietro III d’Aragona, 35, 37 Pietro IV d’Aragona, 42 Pino (di) Andrea (console), 152 Pio II (papa), 79 Pio IV (papa), 129, 137, 141, 186 Pio V (papa), 129 Pisani, 27 PISANO ETNEO (vedi Zafferana Etnea) Pistuni Pietro (console), 152 Pitrolo Antonio, 155 Pitruso Ettore (arcidiacono), 131-132 Pittignano Cataldo (console), 152 Placa (la) Vincenzo (console), 152

PLACHE (vedi Gravina) Podio Nucis (de) Giovanni (vedi Giovanni de Podio Nucis) Policastro (vescovo di), 91 Pollione (vedi Buglio) Popolo cristiano — Consenso per l’erezione delle parrocchie, 150, 153, 156 — Errori contro la fede – Eresia luterana (vedi Riforma luterana) — Ignoranza, 106-107 — Istruzione religiosa, 113-115, 162-163 — Pene canoniche e carcere, 107113 — Religiosità e moralità, 106-113 – Concubinato, 98, 108, 113, 119-120, 131 – Superstizioni, 106, 115, 126 Portale Benedetto (canonico), 260 Porto (lo) Giovanni (console), 149 Pou Gaspare (vescovo), 59 Prefiche, 115 Privitera (la) Antonino, 110 Procita (de) Tommaso (canonico), 204 Protestanti (vedi Riforma luterana) Provenza, 41 Provenzale Rosario, 213 Puglia, 27 Puleo Giovanni Battista (canonico), 267 Pulice (de) Onofria, 112 RAGALNA (vedi Paternò, fraz. Ragalna) Raimondo Vincenzo (canonico), 202 Rainaldo Pictaviense (monaco), 130 RAMACCA, 249 Ramirez de Guzman Diego (vescovo), 58 Ramirez Giacomo (vescovo), 58-59 Randazzo Giuseppe (canonico), 260 Randazzo, 100 Rapisarda Onofrio (sacerdote), 229 Rebiba Giovanni Domenico (vescovo), 219, 222-324

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli Rebiba Sigismondo (arcidiacono), 132 REGALBUTO, 74-75, 80-81, 111-112, 119, 186, 223, 236-237, 244-245, 249 — Chiesa madre: San Basilio, 74 – Comunìa, 186, 236-237, 244245 — Chiese – Santa Maria della Croce, 74 – – Comunìa, 186 Regano Felice (vescovo), 240, 242 Reggio Calabria (vescovo di), 91 Regio patronato (vedi Chiese di Sicilia) Regno d’Italia, — Leggi eversive del patrimonio ecclesiastico, 249, 252 — Leggi per il sostentamento dei parroci, 257, 261-264 Regno di Sicilia — Borboni, 235 — Legazia Apostolica e Tribunale della Regia Monarchia, 26, 9798, 106, 121, 132, 149-150, 152153, 156-157, 169-170, 200, 205, 249, 274 — Re di Spagna, 59, 129, 137, 143, 199-201 — Viceré, presidente e Corte viceregia, 48-49, 51, 53, 58, 75, 90, 95-96, 98-99, 113, 127-128, 137, 139-141, 143-144, 146, 148, 150, 155, 173, 200-201, 205-206, 212, 215, 295, 297-298, 304, 318, 320, 328, 330, 335-336 Regnum Siciliae normanno-svevo, 13, 25, 35 — Citra pharum e Ultra pharum, 35 — Diviso tra aragonesi ed angioini, 35 Respublica christiana (vedi Sicilia, ordinamento politico e religioso) Resuttano, 36 Riccardo da Lentini, 327 Riera (de) Pietro (sacerdote), 62 Riforma cattolica (vedi Evangelismo)

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Riforma luterana — Autodafè a Catania, 103-104 — Diffusione in diocesi, 100-106 — Evangelismo e riforma luterana, 90-94 Rigano Cola (console), 152 Riggio Andrea (vescovo), 232, 235, 248, 310, 328 Riolo Giorgio o Giorgio Siculo, 103 Ripa (la) Elisabetta, 327 Rizzari Michele (monaco), 139 Rizzari, 136 Roberto (vescovo), 62, 297 Roberto Borrello, 281, 286 Roberto d’Angiò, 36 Roberto di Grandmesnil, 20 Roberto il Guiscardo, 16, 19, 285 Robles (de) Ambrosio, 103 Roccatagliata Pietro (canonico), 78, 204 Rocco (di) Teri (console), 149 Rodolfo (vescovo di Albano), 31-32 Rodolfo (vescovo di Cosenza), 281 Roma, 16, 20, 22, 24, 39, 41, 43, 59, 65, 93, 104-105, 124-125, 127, 200-201, 203, 207-208, 211-213, 215-216, 221-222, 235, 241, 262-263, 265 — Castel Sant’Angelo, 16 — San Bartolomeo all’isola Tiberina, 201 — San Paolo fuori le mura, 47 — San Sebastiano fuori le mura, 111 — Sant’Andrea delle Fratte, 206 — Torre nuova, 211 Romano Angelo (console), 152 Ronciglione, 212 Rosso (famiglia), 35 Ruggero (vescovo), 30, 62 Ruggero I d’Altavilla (il conte), 14, 1627, 61, 65, 89, 201, 243, 248, 279-281, 283-286, 311, 313, 329 Ruggero II (re di Sicilia), 22-25, 89, 130 Russo Alemanna, 325 Russo Clara, 317 Saba (abate greco), 62


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli Sacramenti, 125, 147, 232 — Amministrazione gratuita, 226 — Battesimo, 147, 230-231 — Confessione o penitenza, 117, 126, 232 – Esami per avere la facoltà, 117 — Eucaristia, comunione, 147, 229-230 — Matrimonio, 112, 143, 147, 230, 232, 244 — Ordine sacro, 117, 130 — Unzione degli infermi, esequie e sepoltura cristiana, 147 Salina (isola di), 137 Salomone Vincenzo (canonico), 260 Salso (fiume), 22, 285-286 Samminiati Matteo (vicario apostolico), 69, 211-215 San Berillo, 314 San Bernardino da Siena, 337 SAN FILIPPO D’AGIRA (o Agira), 54-55, 61, 73, 75-76, 80-81, 116-117, 120, 176-177, 186, 208, 215, 223 — Chiesa madre: San Filippo, 223 – Comunìa poi collegiata, 186, 235 — Chiese – San Pietro, 73-74, 177-178 – Santa Margherita, 73-74, 177178 – Santa Maria Maggiore, 73, 235 – – Comunìa poi collegiata, 186 – San’Antonino, 74, 178 – – Comunìa poi collegiata, 186, 233-235 – Santissimo Salvatore, 73-74, 178 – – Comunìa poi collegiata, 186, 235 — Conventi, monasteri, istituti..., maschili – Abbazia Santa Maria Latina (benedettini), 54-55, 61, 73, 76, 178

— Cura delle anime, 177-178, 223 San Giovanni Crisostomo, 239 SAN GIOVANNI GALERMO — San Giovanni Battista, 72 – – Parrocchia, 264 SAN GIOVANNI LA PUNTA — Chiesa madre: San Giovanni Battista, 72 – Erezione parrocchia, 263 – Erezione vicaria curata, 263 — Chiese – San Nicola de Catìra, 53, 72 — Frazione Trappeto – San Rocco poi Santa Maria del Rosario, 217 – –Erezione parrocchia, 263 SAN GREGORIO, 217, 219, 263 — Santa Maria Ammalati, 217, 219 – Erezione parrocchia, 263 San Gregorio Magno (papa), 182, 283, 301 San Leone Taumaturgo (vescovo), 152-153, 307, 313 San Pietro, 313-314 SAN PIETRO {CLARENZA}, 103 — San Pietro, poi Santa Caterina, 53, 72 – Erezione parrocchia, 263 San Tommaso di Canterbury, 297 Sant’Agata, 141, 279, 283 — Casa di s. Agata a Catania, 300 — Culto in funzione aggregativa, 29 — Devozione dei re aragonesi, 3637 — Fiera franca nella festa, 301302, 308, 312 — Palazzo reale di Barcellona, 37 — Processione della Luminaria, 305 — Reliquiario a busto, 40 — Traslazione delle reliquie, 28 SANT’AGATA LI BATTIATI — Chiesa madre: Maria SS. Annunziata, 217 – Erezione parrocchia, 263 — Chiese

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli – Sant’Agata, 217 — Contrade – Murabiti, Valenti, Vattiati, 217 Santa Maria degli Angeli (a li muri antiqui), 336 SANTA MARIA DI LICODIA — Abbazia, 62, 99 — Acquedotto per Catania, 318 — Santissimo Crocifisso, 218 – Erezione parrocchia, 263 Sancez Roiz de Liori, 335 Sant’Eufemia, 20, 22, 281, 285-286 Sant’Everio (vescovo), 313, 335 Sant’Ignazio di Loyola, 114 Sant’Ufficio (vedi Sede Apostolica/ Congregazione dell’Inquisizione) Santa Venera (feudo di), 268 Santorio Antonio (cardinale), 200 Saraceni, 20, 22, 29, 61, 279, 283, 285286 Savarino Onorato, 311 Scarfillito Giovanni (vicario generale), 57 Schiner Matteo (vescovo), 59 Sciacca Giovanni Battista (canonico), 202 Sciacca, 141 Scicot Michele (vedi Xiquot Michele) Scisma d’Occidente, 40-43, 55, 337 Scrofano Sebastiano (console), 152 Secusio Bonaventura (vescovo), 303 Sede apostolica, Santa Sede, curia romana, 64-65, 124, 132, 175-176, 186, 201, 212-213, 233, 258, 260-261, 265 — Archivio Segreto Vaticano, 142 — Biblioteca Apostolica Vaticana, 140 — Congregazione concistoriale, 129 — Congregazione del concilio, 69, 78, 129, 132-134, 201-204, 207, 209-210, 215, 221-225, 231-233, 237-243, 245-246, 249-253, 260261, 265 — Congregazione dell’inquisizione o Sant’Uffizio, 102

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— Segreteria dei brevi, 212 — Tribunale della Rota, 24 Seminara Giovanni Battista (avvocato fiscale del regno), 137 Seminario (vedi Catania/seminario) Senese Vincenzo (vicario generale), 128, 133, 139, 193, 204, 198 Sfalanga Gaspare (sacerdote), 121 Sforza Ascanio (cardinale), 87 Sicilia, 9, 13-18, 20-21, 23-25, 27-28, 31, 33, 35-43, 46-48, 50, 58-60, 79, 8990, 100, 106, 109, 112, 116, 127, 129, 137, 141-144, 149, 160, 173, 182, 232, 246, 248-249, 256, 261, 270, 273-274, 279-281, 283, 285-286, 299, 305, 322, 326-337, 332, 337 — Conquistata dai normanni, 13, 16-17 – Ordinamento politico e religioso (respublica christiana), 13-26, 47, 58, 96, 106, 148, 160, 274 – Popolazione composita, 14, 17, 27 – Religiosità, 17, 100-115 — Diocesi, affidate agli ordini monastici, 18 — Dominazione islamica, 13 — Dominazione bizantina, 13 — Guerre baronali dopo il Vespro, 35-36, 38-39 Siculorum Gymnasium (vedi Catania/Università) Silvestre (di) Giovanni (sacerdote), 335 Simeto (fiume) — Pedaggio all’abbazia di S. Agata, 29 Siracusa (di) Benedetto (console), 152 Siracusa (di) Salvo (console), 152 Siracusa Erasmo (chierico), 212 Siracusa, 17, 24, 44, 79, 100-101, 246, 256, 266, 342 Sismundo Girolamo (monaco), 73 Sisto V (papa), 211, 215, 221 Siviglia, 58


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Indice analitico: luoghi e cose notevoli Sommariva Nicolò (nunzio apostolico), 43 Sortino — San Giovanni, 101 Spagna, 59, 91, 129, 137, 143, 180-181, 199-200 Spampinato Federico, 325 Spanocchi Tiburzio, 206 Speciale Pietro (figlio del viceré Nicola), 48 Stancaimplano Martino (console), 152 Statella Bartolomeo (arcidiacono), 121 Statella Michele, 213 Stesicoro, 309 Stizzia Nicola (giudice Regia Monarchia), 200, 205 Stracuzio Giuseppe (sacerdote), 184, 186 Sturzo Luigi (sacerdote), 262 Sturzo Mario (vescovo di Piazza Armerina), 256 Svevi, 25 Taormina, 17 Taranti Gregorio (canonico), 204 Taranto (vescovo di), 22 Tedeschi, 27 Teodorico, 311 Terracina, 48 Terremoti — 1169, 4 febbraio, 21, 29-30, 306, 337 — 1693, 11 gennaio, 232, 240, 295297, 301, 303, 306-307, 309-311, 313, 315, 320-321, 325, 328, 331, 337 Testa Bartolo (console), 152 Testa Francesco (regio visitatore), 246 Tindari, 257 Tivoli, 57 Tomasina de Marsiglia (suor), 314 Tombesio Ercole (chierico), 101 Tornabene Orazio, 310 Torres de Osorio Giovanni (vescovo), 224, 227 — Sinodo diocesano, 224, 227 Toscano Giovanni O. P., 120

TRAPPETO (vedi San Giovanni la Punta) Traversi (famiglia), 332 TRECASTAGNI, 53, 72, 218, 228, 235, 247, 253, 263 — Chiesa madre: San Nicola, 53, 72 – Collegiata, 235, 253 – Erezione parrocchia, 228, 248, 264 — Chiese – Santa Caterina – – Erezione vicaria curata, 263 TREMESTIERI ETNEO, 53, 72, 217, 263 — Chiesa madre: Santa Maria della Pace, 53, 72 – Erezione parrocchia, 263 — Frazione Piano – Santa Maria delle Grazie – – Erezione vicaria curata, 263 Trento (concilio di), 13, 59, 61, 78, 8485, 100, 102, 107-108, 111-112, 114, 116, 119-122, 124-125, 129-130, 132, 134-137, 142-144, 145-146, 148, 160, 164, 166, 173, 175, 177, 181, 184, 186, 191, 193-197, 199, 203, 209210, 221-222, 228, 236, 239-243, 248, 250, 254, 266, 273-274 — Cura delle anime, 83-85, 164166, 169-170, 173, 175, 177, 181, 193-199, 236, 239-243, 248, 250, 254, 273-274 Tribunale della Regia Monarchia (vedi Regno di Sicilia) Trigona Antonio (sacerdote), 164, 167 Trigona Lauriella e Marco, 223 Tripoli, 128, 136-137, 140-141 Troina, 17, 20, 22, 24, 285 Trumbetta (de) Mariano (sacerdote), 76 Tudisco Simone (console), 149 Tumasello Domenico (console), 152 Tunisi, 299 Turchi, 137, 297 Turricella Bernardino, 162 Tuscania, 211 Tuscano (de) Gaspare (sacerdote), 65 Ubeda, 103

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Indice analitico: luoghi e cose notevoli Ungheria, 101 Università (vedi Catania/Università) Urbano II (papa), 20-22, 26-27, 279, 283-286 Urbano V (papa), 41 Urbano VI (papa), 41, 43, 55 Usina (de) Burgio, 304 Val Dèmone, 18-19 Val di Noto, 19 Valdés Juan, 90-94, 101 VALGUARNERA, 249 Valle (la) Gioacchino (canonico), 204 Valli (la) Inguiterra (giurato), 146-148, 336 Valtumine (vedi Ibn-at-Tumnah) VALVERDE, 53, 72, 78, , 217, 219, 250 — Santa Maria, 53, 72, 78, 217, 219 Varresio (di) Antonio, 330 Vega (de) Giovanni (viceré), 146, 295, 297-298, 318, 320, 336 Venezia, 102 Ventimiglia (famiglia), 35 Ventimiglia Francesco II, 41, 43 Ventimiglia Salvatore (vescovo), 235238, 241-242, 244-245, 261 Vermiglio (de) Blandano (sacerdote), 121 Verzì Luigi (canonico), 260 VIAGRANDE, 217, 263 — Chiesa madre: Santa Maria dell’Itria o Idria, 217 – Erezione parrocchia, 263 — Frazione Viscalori, 229 – San Biagio, 217 – – Erezione parrocchia, 263 Vienne (concilio di), 182 Vigne di Catania, 223 VILLAROSA, 249 Vinciguerra Antonio (console), 149 Vinck Antonio S. J., 114, 128 VISCALORI (vedi Viagrande) Visconti Giangaleazzo, 42 Viterbo, 211 Vizzini, 100 Vulpone (de) Antonino (vescovo di Malta), 316

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Vurzi Angelo (console), 152 Ximen d’Urrea Lopez (viceré), 48 Xiquot Michele (vicario apostolico), 213-214 ZAFFERANA ETNEA, 218, 263 — Chiesa madre: Santa Maria della Provvidenza, 218 – Erezione parrocchia, 263 – Erezione vicaria curata, 263 — Frazioni – Bongiardo, Santa Maria del Carmelo – – Erezione parrocchia, 263 – Fleri, Santa Maria del Rosario – – Erezione parrocchia, 263 – Pisano, San Giuseppe – – Erezione parrocchia, 263 Zappulla Sebastiano (canonico), 204 Zumbo Agata (monaca), 112


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INDICE DEI NOMI DEGLI AUTORI Agnello G., 300, 348 Albergo G., 306, 349 Alberigo G., 92, 349 Amanieu A., 130, 349 Amari M., 13, 16-17, 20-21, 23, 35, 349 Amato di Montecassino, 16, 341 Amico V. M., 19, 23, 30, 34, 37-38, 51, 89, 124, 129, 133, 137, 140-141, 145, 160, 199, 232, 301, 320, 335, 342, 345 Ardizzone C., 57, 300-301, 306-307, 313, 317-318, 322, 328, 330, 332333, 335-336, 342 Baccari R., 180, 183, 349 Barbagallo A., 229, 349 Barbieri G. L., 131, 323, 334-335, 342 Barbosa A., 196, 198, 349 Barilaro A., 47, 349 Baturi G., 116, 349 Bellomo M., 46-47, 349 Benedetto da Mantova, 90-91, 342 Benedetto XIV, 125, 349 Berlière U., 62, 349 Bethencourt Massieu A., 180, 349 Bidagor R., 76, 350 Biondi C., 45, 350 Bizzocchi R., 115, 179, 350 Bo V., 84, 350 Bonadies M. A., 227, 342 Bouix D., 199, 350 Boulermont, 198 Bozza T., 90, 94, 350 Braun G. – Hogenberg F., 300, 342 Caccamo D., 88, 90, 94, 350 Cafà M., 28, 350 Cagliola Ph., 46, 342 Calisse C., 193, 350 Cantimori D., 91-93, 350 Caponetto S., 90, 92-93, 100, 102-104, 350-351 Caravale M., 14, 21-22, 26, 351 Caron P. G., 181-182, 351 Casagrandi V., 48, 299, 303, 306, 313,

327, 331, 335, 337, 351 Caselli G., 180, 351 Caspar E., 15, 20-21, 24, 26, 351 Catalano G., 14, 26, 351 Catalano M., 47-48, 105, 113-116, 148, 195, 301, 306, 315, 330, 352 Catalano S., 90, 352 Catarino A., 93 Cavallari G., 68, 352 Cecchetti I. – Paschini P., 48, 352 Celestino I (papa), 182 Chalandon F., 14-15, 20, 23, 352 Chittolini G., 115, 358 Claeys Bouuaert F., 197, 352 Coco A., 49, 357 Coco V., 54, 75, 145, 343, 353 Cohn W., 30, 343 Collura P., 22, 343 Coniglione M., 32, 47-48, 50, 55, 353 Consoli G., 28, 353 Corazzini G., 180, 252, 353 Cordaro Clarenza V., 31, 54, 89, 95-96, 115, 149, 353 Costa F., 32, 332, 353 Coviello N., 181, 353 Cucinotta S., 106, 353 Cusa S., 343 D’Alessandro V., 35, 353 De Bartolomeis V., 342 De Caro G., 87, 353 De Ciocchis G. A., 246-248, 343 De Grossis I. B., 23-24, 46, 50-51, 53, 62, 68, 88-90, 97-99, 124, 129, 131, 133, 137, 140-141, 152, 193, 199201, 211-213, 216, 221, 296-299, 301, 303, 305, 308-325, 327-329, 331-335, 337, 343 De Luca I. B., 298, 354 De Blasi F. P., 346 De Rosa Gabriele, 119, 180-181, 262, 354 De Vitiis V., 182, 354

395


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Indice dei nomi degli autori Del Giudice V., 181, 353 Di Blasi G. E., 90, 137, 140, 354 Di Lorenzo S., 105, 344 Dollo C., 47, 50, 53, 354 Donato M., 72, 218, 233, 354 Du Cange C., 189, 243, 348 Enzensberger H., 22, 354 Epifanio V. – Gulli A., 88, 193, 343 Eubel C., 87, 348 Ewald P., 345 Fallico G., 25, 200, 206, 215, 354 Fasoli G., 29-30, 36, 40, 68, 307, 354 Ferrara F., 24, 89, 137, 145, 199, 214, 232, 354 Ferraris F. L., 52, 233, 348 Fichera Filadelfo, 300-301, 311, 354355 Fichera Francesco, 313, 355 Firpo M., 92, 355 Fliche A., 16 Fliche A. – Martin V., 16, 41, 76, 125, 348 Flores D’Arcais F., 254, 359 Fodale S., 17, 24, 26, 33, 36, 41, 44, 47, 344, 355 Fonseca C. D., 14, 18, 355 Fonzi F., 261, 356 Forchielli G., 13, 356 Fraikin J., 141, 356 Franchina V., 104, 344 Francica Nava G., 255, 344 Fresta S., 23, 31, 356 Galasso G., 182, 354 Gallo A., 235, 344 Gangemi M. L., 310, 316, 321, 344 Garcia y Garcia A., 180-181, 356 Garufi C. A., 90, 100-101, 103, 109, 130, 344 Gasparri P., 239, 343 Gatta D., 182, 346 Gauchat P., 348 Gaudemet J., 84, 356 Gaudioso M., 27, 31, 45-46, 55, 75-76, 90, 95-96, 149, 205, 303-306, 311, 313, 319-322, 330-333, 337, 356 Gazzola P., 300, 356

396

Giacona V., 182, 356 Ginzburg C., 90, 356 Giordano L., 40, 360 Giordano S., 47 356 Giuffrida A., 35, 38, 344-345 Giuffrida F., 314, 356 Giunta F., 13, 35, 37, 41-44, 356 Gonzalez H., 180, 357 Graziano, 195 Greco G., 116, 179, 357 Grégoire R., 28, 357 Gregorio R., 14, 22, 24, 26, 75, 95, 357 Holm A., 198, 301, 311, 315, 318, 325, 329, 331-332, 335, 357 Huillard-Bréholles J. L. A.,25, 343-344 Iachello E., 49, 357 Imbart de la Tour P., 76, 357 Jedin H., 41, 87, 92-93, 142, 348, 357358 Jaffé Ph., 345 Jordan E., 15, 20, 26, 358 Jung A. M., 92, 358 Kalternbrunner F., 345 Kurtscheid P. B., 76, 130, 358 Lagona S., 318, 358 La Mantia V., 100, 103, 345, 358 La Lumia I., 13-14, 38, 41-43, 358 Laprat R., 67, 123, 196, 359 La Rosa L., 113, 359 Lauretano, 197 Le Bras G., 76, 84 Leccisotti T., 251-252, 359 Löwenfeld S., 345 Leurenius P., 198, 359 Libertini G., 295, 300-301, 311, 314315, 325, 328, 331, 335, 359 Librino E., 200, 359 Longhitano A., 15, 28, 32, 34-36, 40, 4647, 51, 54-55, 59, 84, 102, 106-107, 124, 207, 217-218, 233, 242, 254, 256, 265, 270, 308-309, 337, 345, 359-360 Ludovisi A., 197, 347 Lupi M., 360 Malaterra G., 14, 16-17, 20, 26, 345 Manduca R., 234, 247, 361


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Indice dei nomi degli autori Mantica F., 198, 247 Mantica G., 347 Marletta F., 55, 330, 361 Massobrio G. A., 196-198, 361 Mattei Cerasoli L., 62, 361 Ménager L. R., 21-22, 361 Merlino A., 296 Messina G., 127-129, 361 Messina V., 51, 53, 68, 160, 247, 361 Miccoli G., 92-94, 115, 358, 361 Michele da Piazza, 35-36, 38-39, 345 Miegge G., 94, 361 Migliorino F., 40, 360 Mongitore A., 23, 345 Mor C. G., 23, 361 Mortier P., 295, 307, 321, 345, 361 Mortier R. P., 47, 361 Muratori L. A., 345 Nallino C. A., 13, 349 Nanni L., 76, 361 Nardi L., 361 Naz R., 123, 195, 347, 362 Nicolosi Grassi G. – Longhitano A., 48-49, 51, 345-346 Nicotra C., 34, 362 Niese H., 22, 362 Pace G., 45, 362 Paravicini Bagliani A., 30, 364 Patanè A., 218, 362 Pecchioli R., 142, 346 Pelliccia G. – Rocca G., 348 Penco G., 362 Pennisi R., 296, 298-299, 309-310, 313, 316, 318, 321, 327, 329-330, 362 Peri I, 23, 27, 131, 362 Peri V., 28, 360 Petra V., 233, 362 Petroncelli M., 130, 362 Pieta Z., 348 Pirri R., 23-24, 34, 46, 59, 61-62, 88-90, 131, 133, 137,152, 193, 109, 211, 224, 232, 345 Pistorio G., 42, 62, 71, 336, 362 Pittoni J. B., 198, 347, 328-331, 333, 362-363 Pontieri E., 14, 21, 31, 363

Plöchl W., 76, 84, 181, 362 Policastro G., 296-303, 305-308, 310319, 321-326, 328-331, 333, 362-363 Privitera F., 296, 298, 300-301, 305, 308309, 311-315, 317, 319-321, 323-327, 331, 333, 335-337, 363 Prosperi A., 59, 363 Rano B., 34, 363 Rasà Napoli G., 297, 301, 317, 325, 328, 363 Reclusius F. A., 297, 363 Renda F., 262, 363 Ritzler R. – Sefrin P., 348 Rizzitano U., 19, 363 Romano V., 47, 363 Romeo R., 15, 19, 348 Romeo S., 19, 307, 313, 315, 335, 363 Romita F., 180-181, 363 Rosa M., 90-91, 115-116, 181, 363 Rotolo F., 46, 342 Rotondò A., 92, 363 Russo C., 182, 354 Sabbadini R., 48-49, 51, 57, 346 Saitta A., 14, 357 Saitta B., 30, 35, 46, 74, 364 S. Gregorio Magno, 182 S. Leone Magno, 182 Sardina P., 38, 41-45, 364 Sarpi P., 142, 160, 346 Savagnone F. G., 124, 346 Savasta G., 218, 364 Scaduto F., 21, 25-26, 106, 112, 143, 180, 182-183, 249, 364 Scaduto M., 18, 107, 109, 111, 346, 364 Scalia G., 21-22, 27-28, 51, 243, 364-365 Scalisi B. 24, 365 Schirò G., 24, 365 Sciascia L., 38, 345 Sciuti Russi V., 103, 105-106, 119, 365 Sella P., 72, 346 Sidoti A. – Magistri R., 24, 365 Signorello C., 19, 365 Silli P., 47, 365 Sinopoli di Giunta, 61, 178, 365 Sorice R., 51, 365 Sorrenti L., 31, 365

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Indice dei nomi degli autori Spahr R., 38, 365 Spinelli G., 20, 365 Spreti V., 87, 348 Stabile F. M., 257, 262, 366 Starrabba R., 21, 366 Stinco E., 41, 43, 366 Taia, 198 Tassi I., 46-48, 56, 58, 366 Testa F., 60, 342 Torres Osorio G., 224, 346 Toscani X., 115, 366 Toubert P., 30, 364 Tramontana S., 14-17, 38, 366 Vacca S., 26, 358 Van Gulik G., 348 Vauchez A., 28, 366 Venditti D., 180, 366 Villabianca F. M. E., 146, 346 Vinay V., 90, 92, 94, 100, 366 Vitale A., 195, 366 White L. T., 18, 20, 22-23, 366 Zarate, 198 Zito G., 15, 24, 31, 39, 45, 49, 51, 234, 251, 348, 352, 366

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INDICE PRESENTAZIONE

5

PREFAZIONE

7

SIGLE E ABBREVIAZIONI

11

INTRODUZIONE LA DIOCESI DI CATANIA PRIMA DEL CONCILIO DI TRENTO

13 13

I – CHIESE E CAPPELLANI SACRAMENTALI NELLA DIOCESI DI CATANIA PRIMA DEL CONCILIO DI TRENTO 1. LA CURA DELLE ANIME NELLA CITTÀ: — la cattedrale — la collegiata Santa Maria dell’Elemosina — le altre chiese sacramentali 2. LA CURA DELLE ANIME NEGLI ALTRI CENTRI DELLA DIOCESI 3. RAPPORTO TRA BENEFICIO ED UFFICIO NELLA CURA DELLE ANIME 4. CAPPELLANI SACRAMENTALI E ARCIPRETI O VICARI FORANEI

61 62 62 65 68 70 75 78

II – IL VESCOVO NICOLA MARIA CARACCIOLO E IL SUO PIANO DI RIFORMA 1. LA SUA NOMINA 2. NICOLA MARIA CARACCIOLO TRA LUTERANESIMO ED EVANGELISMO 3. I RAPPORTI DEL CARACCIOLO CON LA CITTADINANZA E LE AUTORITÀ LOCALI

4. IL SUO PIANO DI RIFORMA: — la religiosità e la vita cristiana dei fedeli — il clero — le parrocchie e i parroci — le costituzioni sinodali — la secolarizzazione del capitolo della cattedrale — la soppressione dell’arcidiaconato 5. LA PARENTESI DELLA PRIGIONIA 6. LA PUBBLICAZIONE DEI DECRETI DEL CONCILIO DI TRENTO III – ISTITUZIONE DELLE CHIESE SACRAMENTALI CON TERRITORIO PROPRIO NELLA CITTÀ DI CATANIA E OPPOSIZIONE DELLE AUTORITÀ CIVILI

87 87 90 95 99 100 115 120 124 126 129 136 142

145

399


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IV – LA RIFORMA PARROCCHIALE NEGLI ALTRI CENTRI DELLA DIOCESI DI CATANIA 1. ISTITUZIONE DELLE CHIESE SACRAMENTALI CON TERRITORIO PROPRIO NELLA CITTÀ DI PIAZZA 2. LA RIFORMA PARROCCHIALE A CASTROGIOVANNI E SAN FILIPPO D’AGIRA 3. LE COMUNÌE NEI CENTRI MINORI: PATERNÒ, ASSORO, REGALBUTO V – LA RIFORMA DELLA CURA DELLE ANIME E I SUCCESSORI DEL CARACCIOLO 1. EVOLUZIONE DEI PRINCIPI GIURIDICI SULLA PARROCCHIA E I PARROCI DOPO IL CONCILIO DI TRENTO 2. IL VESCOVO VINCENZO CUTELLI, LA CURA DELLE ANIME NELLA CITTÀ DI CATANIA E LO SCONTRO CON LE OLIGARCHIE CITTADINE 3. EREZIONE DELLE CHIESE SACRAMENTALI NEI CENTRI ABITATI DELLE PENDICI DELL’ETNA VI – IL PROGRESSIVO ESAURIMENTO DELLA SPINTA RIFORMATRICE TRIDENTINA 1. IL RINVIO SINE DIE DELLA RIFORMA E L’INTERVENTO DELLA CONGREGAZIONE DEL CONCILIO 2. IL PERFEZIONAMENTO DEL MODELLO ESISTENTE 3. DALLA CURA INDIVIDUALE ALLA CURA COLLEGIALE DELLE ANIME:

161 161 176 179

193 193 199 216

221 221 224

LA TRASFORMAZIONE DELLE COMUNÌE IN COLLEGIATE E

CONGREGAZIONE DEL CONCILIO 4. PARTICOLARI VANTAGGI CONSEGUITI DALL’ORGANIZZAZIONE PASTORALE DELLA DIOCESI DI CATANIA DOPO LA SOPPRESSIONE DEI BENI ECCLESIASTICI DEL 1866-1867 IL NUOVO ORIENTAMENTO DELLA

233

248

VII – EREZIONE DELLE PARROCCHIE NEI COMUNI E NELLA CITTÀ 255 1. IL VESCOVO GIUSEPPE FRANCICA NAVA E LA RIFORMA 255 DELLA CURA DELLE ANIME NEI COMUNI 2. IL VESCOVO CARMELO PATANÈ ERIGE LE PRIME PARROCCHIE 265 NELLA CITTÀ 3. SVILUPPO DELL’ORGANIZZAZIONE PARROCCHIALE 269 CONCLUSIONE

273

APPENDICE I - DOCUMENTI

277

400


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NELLA COSTITUTIO DEL

APPENDICE II - I CONFINI DELLE CHIESE SACRAMENTALI DI CATANIA 1556

293

BIBLIOGRAFIA

339

INDICE ANALITICO

367

INDICE DEGLI AUTORI

395

401


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